Un bellissimo evento di grande spessore e valenza culturale si è tenuto ieri sera nella suggestiva atmosfera della villa comunale di Nardò. Siamo stati tutti spettatori di una manifestazione che, a giusta ragione, può essere ascritta come vanto e orgoglio della popolazione neretina e salentina. Nell’incanto di giardini lussureggianti e tra il profumo dolcissimo di zagare carezzevoli, tra gli ultimi bagliori di un tramonto che si mostrava anch’esso spettatore affascinato e tardava così a porgere il suo saluto, il Dott. Marcello Gaballo con trascinante eloquio e accattivante simpatia presentava in veste ufficiale, al pubblico accorso numeroso ed interessato, la Fondazione Terra d’Otranto. Anni di intensa e faticosa preparazione sia nella struttura che nelle finalità perseguite hanno visto il Dott. Gaballo, coadiuvato dal Consiglio di Amministrazione, dare finalmente alla luce un riferimento certo e significativo per la Terra d’Otranto, che intende richiamare a raccolta liberamente tutti i liberi pensieri che desiderino contribuire alla crescita e allo sviluppo del territorio salentino. Si rivolge quindi a studiosi, ricercatori, docenti, studenti, appassionati e a quanti insomma non
La chiesa di san Sebastiano in Francavilla Fontana
Chi percorre l’antico borgo di Francavilla Fontana, geloso custode di un ricco patrimonio storico – artistico, che si pone come fedele testimone del florido periodo raggiunto dalla città sotto la signoria degli Imperiali può, ad un primo impatto, non essere particolarmente incuriosito da un edificio di culto come la chiesa di san Sebastiano.
Sobria, anzi sarebbe meglio dire austera nelle sue linee esterne, di certo non suscita quello stupore che invece pervade chi ammira l’imponente facciata della chiesa Matrice, che propone le linee di un barocco, disegnato come un fine merletto, su di una struttura la cui grandezza vuole celebrare la profonda devozione francavillese verso la Madonna. Ma la straordinaria
cupola maiolicata, purtroppo ancora coperta da impalcature, e la grande importanza storica e culturale dell’ex Real Collegio Ferdinandeo[1] lasciano presagire quale significativo luogo fosse. In esso si incrociarono storie di vita religiosa e cittadina, di cultura e di arte, ma anche storie di santità come quelle di san Pompilio Maria Pirrotti e del beato Bartolo Longo.
Purtroppo, ancora oggi, è solo possibile presagire un tale ricco patrimonio
Mi sia permesso di partecipare e diffondere una semplice, piacevole e in certo qual modo dolce immagine, giunta, stamani, a riempire i miei occhi e, insieme, a penetrarmi dentro.
Mi trovavo occasionalmente ad Andrano, un paese vicino al mio, per sbrigare alcune commissioni, quando, percorrendo lentamente in scooter una strada di quel centro abitato, la mia attenzione è stata catalizzata da numerosi piccoli gruppi di persone, stazionanti, uno dopo l’altro senza soluzione di continuità, fuori dagli usci o seduti sui gradini dei terranei.
I loro volti sembravano emanare un’insolita aria di tranquillità, di speciale, ma non assillante, attesa, una volta tanto non si scorgevano in giro furgoncini d’ambulanti o propagandisti porta a porta. Si avvertiva solo una sorta di naturale connubio fra tali espressivi frammenti di popolo e il soffio, altrettanto naturale, dell’aria calda dell’attuale periodo.
Bloccato il motorino, ho chiesto ad un gruppetto: ”Cosa c’è, che sta succedendo a spiegare una così insolita partecipazione di gente?”.
La risposta: “Signore, c’è la sposa, che proprio ora s’appresta a lasciar casa sua lì più avanti e a raggiungere a piedi – con familiari, parenti e amici al seguito – la parrocchia. Noi, vicini di casa, sentiamo il bisogno di onorarla e farle festa”.
Una risposta fra visi sorridenti, quasi che chi la porgeva parlasse a nome e per conto della generalità degli astanti.
Appagato, ho rimesso in moto lo scooter e, passando pian piano davanti alla casa della protagonista dell’evento, ho notato l’arco della porta ornato e infiorato e, intorno, tante eleganti e aggraziate toilette; infine, molti uomini recanti in mano gli “antichi” cartocci, riempiti, verosimilmente, con confetti o riso bene auguranti per la novella coppia.
Per coronare degnamente l’incontro a sorpresa, qualche attimo dopo ho voluto immortalare con un’istantanea il corteo nuziale in movimento.
Non c’è che dire, il mondo va stravolgendosi e capovolgendosi fra mille cambiamenti, eppure determinati “spettacoli”, tradizionali e genuini, a mio parere, non diverranno mai demodé.
Questa sera la Fondazione Terra d’Otranto si presenterà al pubblico
Oggi 29 luglio 2012, alle ore 20.30, a Nardò, nella Villa comunale adiacente al Palazzo di Città, la Fondazione Terra d’Otranto si presenterà al pubblico.
Dopo il saluto del Sindaco della Città di Nardò, che ha patrocinato l’evento, saranno illustrate le iniziative che la Fondazione ha finora intrapreso e quelle che intende perseguire.
L’incontro proseguirà con l’intervento della dott.ssa Ilaria Oliva, docente presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce, che si soffermerà sull’importanza delle fondazioni e sulle ricadute economiche, sociali e culturali sul territorio; il dott. Pier Paolo Tarsi illustrerà i contenuti e le finalità del primo numero della Rivista della Fondazione, “Il delfino e la mezzaluna”; lo scrittore e saggista dott. Antonio Errico tratterà della prima monografia della Fondazione, “Salvatore Napoli Leone (1905-1980). Genio in Terra d’Otranto”, di Gianni Ferraris.
Modera il prof. Salvatore Colazzo (Ordinario dell’Università del Salento).
Nel corso della serata sarà data la possibilità, a quanti lo desiderassero, di aderire alla Fondazione. Tutti gli iscritti avranno diritto a una copia omaggio della rivista, al primo numero della collana “Itineraria”, diretta dal dott. Paolo Giuri, e al volume su Salvatore Napoli Leone.
Tutto comincia con una breve vacanza, può capitare a chiunque che decida di star fuori un giorno, poi gli piace e allunga. E i giorni diventano 4-5.
I tramezzini della partenza hanno lasciato residui … Il pane a cassetta è rimasto scoperto, i pezzettini di formaggio da tavola lasciati nel frigo senza protezione alcuna, i peperoni appena comprati rimasti nello scomparto delle verdure ….
Al ritorno il pane è diventato duro, i piccoli pezzi di formaggio hanno il bordo tagliente, i peperoni si sono ammosciati.
E la sera del ritorno un caro amico ti ha invitato ad una eccellente grigliata alla quale non puoi sottrarti. Ed eccoci, la mattina dopo con questi resti. Rifiuti? Ma nemmeno per sogno!!! Bastano latte, uova e un po’ di fantasia.
Ritaglia e grattugia i bordi del pane mentre la mollica è a bagno nel latte. I formaggi grattugiali per bene e le uova sbattile. Strizza la mollica e uniscila alle uova e poi aggiungi anche il/i formaggi(o) grattugiati/o fino ad ottenere un bell’impasto sodo, aromatizza con una grattata di noce moscata e lascia da parte.
Adesso è arte. Un bel pennello e pittura l’interno dei peperoni privati di picciolo, semi e fili con una salsina fatta di OEVO, sale e polvere di peperoncino ben emulsionati.
Deposita sul fondo del peperone una foglia di basilico e qualcuna di prezzemolo e farcisci con l’impasto. Spolvera la parte superiore del peperone con le briciole delle croste e disponi in una teglia su carta da forno. Fai cuocere per una quarantina di minuti a duecento gradi. Servire tiepidi e appoggiati sulla parte gratinata.
In ragione della capsaicina presente nel peperone e, soprattutto, nella salsina con la quale hai spennellato l’interno del peperone va scelto il vino di
Lu cane te Lecce e llu cane te Bari / Racconti salentini
Lu cane te Lecce e llu cane te Bari (In basso la versione in lingua italiana)
Na fiata ‘nu cane te Lecce se ffruntàu cu ‘nnu cane te Bari. Quistu stringìa ‘n’ossu am bucca. Lu cane te Lecce ‘llora tisse a quiddhu te Bari: «Si’ bonu cu ddici Bari?»
«Bàaari, » e a llu cane te Bari ne catìu l’ossu te ucca. Te pressa quiddhu te Lecce se lu nferràu.
Mo’ lu cane te Bari se sentìu pijàre pe’ ffessa. «Mo’ fazzu cu ddica Lecce,» pensàu ṭra de iddhu «e ccusì l’ossu me lu nferru ntorna iu.»
«E ttie si’ bonu cu ddici Lecce?»
«Léeecce!» Ma l’ossu allu cane te Lecce ne rrimase sṭrittu sṭrittu inṭru lli tienti e llu cane te Bari rimase cu ‘nnu parmu te nasu.
TRADUZIONE IN ITALIANO
Il cane di Lecce e il cane di Bari
Una volta un cane di Lecce si incontrò con un cane di Bari. Questo stringeva un
Il triste destino di un gioco e di un cultivar: la stàccia
Che il gioco delle bocce sia antichissimo lo testimoniano alcuni reperti archeologici consistenti in rudimentali sfere di pietra, i cui esemplari più datati risalgono al 7° millennio a. C.
La difficoltà di trovare in natura pietre di forma sufficientemente sferica e l’ingegnosità dei ragazzi di un tempo consentono di avanzare l’ipotesi che il gioco della staccia sia, se non l’antenato di quello delle bocce o dei birilli, almeno un suo adattamento.
Il gioco prendeva il nome dallo strumento principale, la staccia appunto, che era una pietra piatta di cui ogni giocatore disponeva. Una pietra a forma di parallelepipedo detta pisùlu1 venica posta verticalmente a circa 10 m. di distanza: essa fungeva da birillo o, se preferite, da pallino, e sulla sua sommità veniva collocata la posta in gioco, che poteva essere una pila di figurine o di tappi di bibite o di bottoni o, più raramente, per motivi che ormai solo chi ha molti anni può immaginare, di monete. I giocatori lanciavano a turno la loro staccia con l’intento di colpire il parallelepipedo. Si vinceva la parte della posta crollata che si trovava vicino alla propria staccia ad una distanza che non doveva superare il palmo.
Ma, qual è l’etimologia di stàccia? Lascio parlare il Rohlfs. Al lemma stàccia1 (pag. 693)2 leggo “Cfr. il calabrese stàccia=piccola pietra da giuoco, dal francese estache=fermaglio? V. stacca2 , stàcchia.”.
Al lemma stacca2nella stessa pagina: “Identico al provenzale estaca, spagnolo estaca=marca di pagamento, antico italiano stacca=fermaglio, fibbia, d’origine germanica: stakka=stecca; v. tàccia, stàcchia.”.
Al lemma stàcchia: “v. stacca2, stàccia1”.
Al lemma tàccia (pag. 728): “Chiodetto con testa larga, bulletta [cfr. il calabrese taccia id., dallo spagnolo tacha id.].”
Proprio quest’ultimo lemma, secondo me, spiega le perplessità manifestate dallo studioso col punto interrogativo contenuto nel trattamento di staccia1, perplessità giustificata dall’imponente slittamento semantico che gli altri lemmi considerati presentano. Oltretutto, se staccia fosse collegato al francese estache avremmo avuto, secondo me, stàscia come pòscia=tasca da poche (è più naturale che la voce dialettale ricalchi la pronuncia e non la grafia della voce straniera da cui dovesse essere derivata).
E allora? mi sembra di sentirmi chiedere da chi fin qui mi ha seguito. Non è già tanto che io sia riuscito, forse, a comprendere il significato di quel punto interrogativo di un grande studioso e, mi auguro, a comunicare chiaramente la mia deduzione? Non è sufficiente notare, anche per quanto riguarda lo slittamento semantico (da pietra a fermaglio) da me prima definito imponente, che, in fondo, anche una pietra sovrapposta ad un oggetto lo mantiene fermo? Resta l’amaro in bocca, ma se non è riuscito il Rohlfs…
Ma l’amaro in bocca aumenta se penso che l’arancia staccia, così detta per la sua forma schiacciata, è il frutto di un cultivar della Basilicata (tipico di Tursi e di Montalbano ionico) quasi sicuramente introdotto dagli Arabi, che ora, per la dura legge di un mercato idiota e di consumatori altrettanto stupidi, è in via di estinzione, preceduto nella sua scomparsa (a costo di sembrare passatista e nostalgico dubito che pure questo sia stato un vantaggio…) dal gioco a cui, quasi certamente, deve il nome.
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1 Pisùlu era anche la pietra che segnava un confine o fungeva da paracarro. La voce (che sopravvive nel neogreco pezùli=blocco di pietra, è da considerarsi un diminutivo del classico peza=caviglia, piede, estremità, bordo, a sua volta da pus=piede)
2 Staccia2, peraltro considerata dubbia, significa trappola per uccelli.
Ricordi: la muta di Andrano e il venditore di fortuna
In determinati momenti – per mera sorte umana, non personale ma comune – mi capita di sentirmi fiaccato, nel fisico e nella mente, dai continui gemiti, provenienti da ogni dove e a tutte le ore, attinenti alla difficile e triste congiuntura economico – finanziaria.
E, però, resisto, nient’affatto domo, nonostante che i calendari alle mie spalle siano ben più voluminosi del divenire che mi resta da percorrere.
Cosicché, di tanto in tanto, passo d’istinto a puntare lo sguardo verso l’orizzonte, palcoscenico naturale che, crisi o non crisi, rimane comunque dischiuso e disponibile, una meta per esercizi e obiettivi, sul piano della positività, i più svariati, che solo a individuarli ed elaborarli si rivelano salutari. E, sembrerà incredibile, questo moto in avanti parte dal richiamo del passato, da immagini antiche e compiti lontani.
Al riguardo, so bene che, in giro, v’è chi non è indulgente con il mondo dei ricordi. Io, invece, uso, da sempre, praticare un intenso culto della materia: piccoli o importanti, li rievoco continuamente, intessendo finanche dialoghi con loro, per poi, di volta in volta, serbarli preziosamente in una sorta di tabernacolo espressamente riservato.
Con ciò, mi sento, in certo qual modo, titolare di un privilegio e, all’indirizzo degli scettici non praticanti – credo che il pensiero cada proprio a puntino, nel corrente periodo di penuria di risorse – mi limito appena a osservare che i ricordi rappresentano, evidentemente non solo per me, l’unico bene di cui si può venire in possesso e disporre, assolutamente senza alcun costo.
° ° °
Restando sul tema dei ricordi, in rapporto alla mia classe anagrafica, è fondamentale, indicativo e caro l’intervallo intorno al 1950.
A tal epoca, sono difatti riconducibili i tasselli più saldi, reggenti, cioè, cornici di fatti, volti, voci, suoni e sensazioni che hanno lasciato tracce profonde e incancellabili.
A portata di mano e intorno, si aveva poco o niente, allora, vigevano condizioni esistenziali generalmente spartane e risicate, fra i bisogni avevano voce e contavano esclusivamente quelli essenziali, in seno alle comunità, specie nei piccoli paesi, si vendeva e si comprava ben poco, se non addirittura nulla.
Un ambulante, proveniente da un paese vicino a cavallo di una sgangherata bicicletta, proponeva alla gente di ritirare “capiddri e pezze”, ossia i ciuffetti di lunghi capelli frutto della auto pettinatura delle donne che, con pazienza e costanza, erano custoditi dietro qualche sassolino dei muretti a secco attigui alle abitazioni, oppure stoffette o parti minute e scartate di tessuti o indumenti di lana (prodotti che, attraverso intermediari, erano poi conferiti a fabbricanti di parrucche o ai cenciaioli della zona di Prato), offrendo, in contropartita, qualcosa a scelta fra pettini, pettinini, aghi, spagnolette di cotone, fermacapelli.
Un altro, a cassetta di un calesse, con l’annuncio “Ci tenemurga, a canciamu cu lusapone”, offriva di barattare i fondi inutilizzabili dell’olio di oliva consumato in casa con qualche pezzo di sapone da bucato (vengono a mente due marche, Asborno e Scala, forse nel frattempo cessate).
Nicola, che, di mestiere principale, faceva il venditore di noccioline, anch’egli servendosi di una bicicletta con due grosse gerle appese al manubrio, annunciandosi con la formula “Ove, ci tene l’ove”, acquistava dalle famiglie del paese le uova che avanzavano rispetto al consumo, considerato di lusso, durante i pasti domestici.
Estranea a qualsivoglia approccio o atto commerciale, si materializzava, ogni tanto, in Marittima una figura di donna di mezz’età, vestita alla buona, originaria della vicina località di Andrano, dove occupava una misera stanza, dall’aspetto che, adesso, fa venire in mente S. Teresa di Calcutta.
Ella girava per le vie, sfiorando con discrezione un uscio dopo l’altro, per chiedere l’elemosina, sparute lire o unicamente qualche avanzo di cibi e, per la verità, nessuno, quantunque per suo conto povero, si tirava indietro.
La donna, forestiera, era conosciuta dall’intera cittadinanza non con un nome di battesimo, ma semplicemente come la “muta”, giacché era priva di parola dalla nascita.
Con minore frequenza, ma senza interruzioni, giungeva, infine, al paese, un personaggio, un viandante, speciale e simpatico, per tutti il venditore di fortuna.
La fortuna è aleatoria, va da sé, e, dunque, non si può né comprare né vendere, nemmeno da papa o imperatore che sia. Eppure, c’è stato un tempo felice, diciamo il mio primo tempo marittimese, in cui la fortuna si vendeva per la strada e ognuno aveva agio di acquistarla.
Costava appena cinque lire, era racchiusa nel cassettino di una gabbietta, con dentro un pappagallino verde ammaestrato, portata a tracolla, sulla pancia, da uno stravagante vagabondo.
A contatto del Signore della fortuna, si formava presto il capannello, gente d’ogni età e condizione; per sole cinque lire, il futuro non aveva più misteri e si rivelava miracolosamente scritto su un bigliettino colorato che il pappagallo, diligentemente, sceglieva col becco fra i tanti in bell’ordine, dal cassettino della gabbia.
Ricordi e fortuna: fanno anch’essi parte della vita.
Con Michele Saponaro cinquant’anni dopo (Congedo editore), vengono pubblicati gli Atti del Convegno Internazionale di Studi tenutosi a San Cesario di Lecce e Lecce il 25 e 26 marzo 2010, per le cure di Antonio Lucio Giannone. Questo volume costituisce il punto d’arrivo di una intensa attività di ricerche sulla figura e le opere di questo importante letterato figlio della nostra terra salentina, brillantemente condotte da alcuni studiosi pugliesi fra i quali, in primis il professor Giannone, ordinario di Letteratura Italiana Contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Lecce, al quale va ascritto il merito di aver dato l’imprimatur a questo fiorire di studi sulla figura del letterato sancesarino.
Michele Saponaro (San Cesario 1885-Milano 1959), conosciuto anche con lo pseudonimo di “Libero Ausonio”, autore di numerosi romanzi, raccolte di novelle e biografie di uomini illustri , collaborava come giornalista con le più importanti testate nazionali, quali “Il Corriere della Sera”, “La Stampa”, “Il Giornale d’Italia”, ecc. Dopo la sua morte, però, nessuno più si interessò di lui, ad eccezione di Michele Tondo che, nel 1983, curò una ristampa del suo romanzo “Adolescenza” (Congedo Editore) e, a partire dal 2000, del già citato Giannone, con una serie di iniziative e scritti che sarebbe qui troppo lungo riportare. L’ultima pubblicazione degna di nota era stata “Uno scrittore e la sua terra. Omaggio a Michele Saponaro” (Manni Editore), a cura di A.L. Giannone, un agile opuscolo, voluto dal Comune di San Cesario, nel 2008. Già allora,
Appunti e considerazioni sulle torri costiere del territorio brindisino
Sin da piccolo percorrendo la litoranea in prossimità di Giancola notando una grande costruzione mi son sempre chiesto (come credo abbiano fatto in molti) cosa rappresentasse e a quale periodo storico appartenesse. Successivamente da adolescente approfittando delle splendide giornate di settembre più volte mi sono seduto ai piedi della costruzione per cercare di capirne il senso ma soprattutto di godere dello splendido panorama che il promontorio su cui essa è posta offre, magari immaginando storici avvenimenti risalenti ai tempi in cui la misteriosa e solitaria costruzione dominava il mare incontrastata. Quanti di voi raggiungendo i piani superiori dell’incustodita costruzione in località punta penne (zona meglio conosciuta come granchio rosso) hanno potuto sperimentare la posizione strategica protesa sul mare? Pochi invece sanno dell’esistenza di un’altra torre resa quasi inaccessibile da sentieri non facilmente identificabili e poco praticabili… torre Mattarelle, per non parlare poi di torre Cavallo (nell’omonima zona) usata come bersaglio di prova per armi da fuoco e quindi andata persa per sempre.
Tutte queste costruzioni fungevano da primi baluardi di un sistema difensivo e di avvistamento costiero, fatto erigere nella seconda meta del XVI secolo (1559-1571) dal vicerè Parafan di Ribeira Duca di Acalà, per ordine di Carlo V, per far fronte agli attacchi dei turchi, dei pirati e dei corsari. Queste strutture austere e possenti, testimoni di un clima di paura, avevano anche lo scopo di lanciare un chiaro segnale finalizzato a dissuadere i turchi ormai troppo vicini alle nostre coste. In caso di attacco le segnalazioni venivano fatte con fumo di giorno e fuochi di notte, permettendo così agli abitanti delle masserie, dei castelli e dei borghi di prepararsi a respingere l’incursione.
A presidiare le torri vi era un “capo torriero” e tre guardiani dipendenti che percepivano una retribuzione di 4 il primo e 3 ducati gli altri (come riportato da alcune fonti. La difesa veniva messa in atto grazie alle armi da fuoco in dotazione ovvero: smeriglie (cannoni a palle), archibugi, alabarde. La conferma che in tali torri venissero usate le armi da fuoco (oltre che nelle documenti storici) è confermata dalla forma quadrangolare necessaria per poter posizionare l’artiglieria sui quattro fronti.
Quello che vediamo oggi delle torri è solo una parte. In origine erano più alte ed erano circondate da un cortile chiuso, dal quale poi si accedeva attraverso una porta alle scale che terminavano con una sorta di ponte levatoio (in alcune torri si accedeva attraverso una scala a pioli in legno). Per una maggiore sicurezza fra una torre e l’altra il litorale veniva scandagliato dai cosiddetti “cavallari”, che perlustravano costantemente i lidi. Una volta cessato lo scopo difensivo le torri furono svendute a privati o abbandonate. Il tempo, l’incuria, l’azione erosiva del vento e del mare, l’inciviltà, hanno fatto il resto.
Non molto tempo fa furono iniziati degli interventi di recupero purtroppo interrotti bruscamente da problematiche vicende politiche. Torre Testa (torre delle testa/e di Gallico come viene anche chiamata). Alcuni hanno ritenuto che il nome gallico sia dovuto alla forma di testa di gallo del promontorio su cui è posta, ma in realtà è più probabile che derivi da addico, che nelle lingue nordiche voleva dire bosco, foresta. A differenza di altri torri a mio parere l’importanza di Torre Testa (come quella di Guaceto) era dovuta alla posizione strategica, in quanto era posta alla foce di un fiumiciattolo che rappresentava per i nemici la possibilità di rifornirsi di acqua dolce. Attualmente, dopo secoli di dominio sul mare, la torre è in grave pericolo di crollo. Se non viene effettuato un intervento immediato si rischia che una parte della nostra storia vada per sempre cancellata; inoltre le condizioni in cui essa si trova rappresentano un costante rischio per l’incolumità delle persone. E’ anche necessario un intervento allo scopo di prevenire il degrado paesaggistico del litorale e delle zone circostanti. Infatti è ben noto che oltre ad essere un area protetta di rilievo naturalistico è anche una zona di interesse archeologico. Infatti a poca distanza della torre vi è un sito preistorico (paleolitico superiore) e più avanti ancora ci sono i resti di una fornace romana che produceva anfore che venivano esportate oltremare. Ritengo che sia inutile aggiungere che tali provvedimenti di salvaguardia potrebbero rappresentare un incentivo al turismo nella nostra area. Naturalmente l’intervento non deve limitarsi a Torre Testa ma anche alle restanti torri costiere ed in particolare Torre Mattarelle, ormai ridotta quasi ad un rudere situato fra saline e Cerano (con relativo panorama naturalmente scempiato dalla centrale).
Aveva lavorato di fino lo scalpellino e dalla pietra eran nate due colombe, vicine affiatate confidenti, parlavan fitto fitto tutto il giorno, beccavano frutti di pietra e nella notte intrecciavano il respiro.
Intorno a loro angeli, santi e frutti opulenti, tutti immortalati nella pietra, sempre lì, ad ogni ora di ogni giorno del mondo, presenti.
Le due colombe sognavano il mondo infinito, se lo raffiguravan nei dettagli, progettavan viaggi nei giardini d’Eden di cui doveva esser fatto, giardini in cui maturavan frutti uguali a quelli che eran lì da sempre nella pietra, ne immaginavano l’odore, ne prefiguravan i colori stagione dopo stagione.
Gli angeli lì intorno con la loro immobilità e col silenzio, sembravan confermare i sogni, certo non li contraddicevano. E i passeri che eran lì e poi non c’erano, come i viaggiatori nelle stazioni, accertavano coi loro racconti la presenza dei giardini nel mondo, la ricchezza e la varietà dei frutti, la loro dolcezza, i loro succhi.
Le due colombe eran certe, un giorno avrebbero volato libere nel cielo, avrebber sorvolato i giardini in cui occhieggiavan frutti maturi fra le fronde, avrebber raggiunto le nuvole in cui si nascondevan gli angioli con le piume di vapore per poi rituffarsi nell’azzurro del cielo verso le acque luminose come specchi.
Avrebber conosciuto i luoghi e le genti, di cui da sempre avevan sentito narrare stando immobili in quell’angolo dell’altare. La magnificenza di Dio si sarebbe rivelata ai loro occhi, alle loro ali, in tutti gli odori, nella varietà dei sapori, nella varietà delle forme.
Forse la pioggia avrebbe sciupato le loro piume ma avrebber poi potuto farsi asciugare dal sole. Certo la tempesta un po’ le spaventava, le spaventava il diluvio ma avevan sentito dire di un’arca e di colombe che portavano pace da oltre il nulla delle acque.
No, senz’altro il mondo di fuori era fatto di mirabilie più che di pericoli.
Presto avrebbero volato.
Intanto continuavano a beccare i frutti di pietra come sempre, e a sognare fra le foglie scolpite nell’altare.
Più di tutto le rapiva il desiderio del firmamento nelle notti, non l’avevan mai veduto, chiuse fra arcate di pietra, pur preziose, lontane da vetrate un po’ opache, non avevan mai guardato gli occhi della notte, la brezza non le aveva mai sfiorate.
Sì, i passeri che dormivan fra le fessure dei finestroni, avevan detto a volte di mille luci lontane ma non avevano saputo spiegare. E le parole antiche, che risuonavan fra le panche, parlavano di “lumi infiniti”, parlavano di “luce”, parlavano di un “ricamo di luce” che Dio aveva fatto, originariamente.
Le colombe conoscevan ricami di pietra, preziosi, con foglie e piume cesellate ma il ricamo di luce non l’avevan mai veduto e di figurarselo non erano capaci. Ma il desiderio, sì, le aveva prese.
E aspettavano.
Aspettavan che lo scalpellino desse i due tre colpi necessari a staccare dalla pietra le ali perchè fossero libere di volare.
Aspettavan ogni ora del giorno, ogni giorno del mondo e nelle notti il desiderio era sospeso nel buio e al mattino tornava a riempire il loro cuore di pietra ed era tanto che quasi lo polverizzava.
Venne infine lo scalpellino, le colombe eran pronte al volo, non avevano paura, anelavano al cielo.
Non vibrarono i colpi che le avrebber rese libere, l’uomo lavorò di fino per ridare loro purezza nelle forme. per ridare il colore della pietra e riparò ferite e rafforzò il legame con l’altare.
Insieme alle impurità della pietra, insieme alle croste, furono grattati via i sogni delle tenere colombe.
L’incantesimo continuò a tenerle lì, senza volo, per sempre.
Gallipoli. La festa di S. Cristina compie 145 anni, ma molti di più la devozione popolare
Dopo i patroni ufficiali S. Agata e S. Sebastiano, dopo l’acquisito compatrono S. Fausto, Gallipoli gode anche dell’ausilio di S. Cristina, nostra coprotettrice da quasi un secolo e mezzo. La giovane santa nata a Roma nel 270 fu martirizzata ventenne il 24 luglio 290, imperante Diocleziano, ma a lei si riconduce persino il miracolo dell’Ostia sanguinante che nel 1264, con Bolla papale, diede origine sia alla festività del “Corpus Domini” sia all’edificazione del superbo Duomo della vicina Orvieto che tuttora custodisce la prova visiva del lino insanguinato nel misterioso e sovrannaturale episodio di Bolsena (PG).
Accadde cioè che nella cappella dedicata alla martire sull’isola Bisentina, dinanzi alla pesante lastra di pietra (oggi pannello d’altare), con la quale la giovane fu legata e gettata nel lago per risalirne a galla incolume ed essere infine barbaramente uccisa, si verificò il fatto straordinario del “Corpo Mistico” che sanguinò tra le dita tremanti di uno scettico sacerdote boemo.
Per S. Cristina è nota la devozione del popolo gallipolino. Ne è testimone, nella chiesa di S. Maria della Purità, la leggiadra statua, oggetto di culto e somma venerazione, opera mirabile di “felicissima interpretazione”, commissionata col contributo di devoti. Fu realizzata a grandezza naturale dal cartapestaio leccese Achille De Lucrezi nel biennio 1866-67, peraltro nel rispetto dell’agiografia della giovane martire di Bolsena. La sacra effigie, rispettosa della storica vicenda tratta dal MartirologioRomano di Cesare Baronio (1600), rappresenta la santa legata ad un albero e trafitta dalle frecce, mentre un Angelo le porge la corona di santità e la palma del martirio.
Il bellissimo simulacro, giunto da Lecce la sera del 22 luglio del 1867, fu esposto nella cappella nel largo Canneto ed il giorno successivo (secondo la testimonianza di don Serafino Consiglio, citata da don Sebastiano Verona) fu benedetto in Cattedrale, dopo di che “si fece una gran festa con musica, panegirico e processione” per essere traslato nella chiesa confraternale della Purità, dove tuttora viene amorevolmente custodito per celebrare ogni anno la solennità della santa. Questa statua, nel corso dei suoi 145 anni di storia, ha dovuto subire due interventi di restauro, il primo per un incidente fortuito dovuto a disattenzione (nel 1962 incappò in un filo metallico aereo e si spezzò in due), il secondo di carattere estetico (realizzato dall’aletino Valerio Giorgino).
Il 23 luglio 1868, primo anniversario della fine del colera, che per tutta la cittadinanza fu vissuta come un’autentica liberazione, iniziò canonicamente, giusta la tesi di Albahari, il vero culto con la prima processione ufficiale in onore della santa martire, pressappoco col medesimo rituale liturgico dei nostri giorni, fatta salva la festa civile man mano trasformata in sostanza in fiera paesana e popolare.
Alquanto particolare ed interessante la storia di tale festività. Sin dal 24 ottobre 1865 per istanza presentata dai fedeli e devoti, ma pure dai confratelli della “Purità”, in effetti ci fu la prima cerimonia liturgica per devozione alla martire di Bolsena, allorché, ottenuto, a seguito d’istanza al Comune (29 giugno 1867), persino il possesso della cappella di S. Cristina con l’obbligo di ricostruire l’altare e riattivare il culto, la Confraternita diede ufficialmente avvio alla solenne celebrazione.
La santa in verità è stata da subito riconosciuta come la coprotettrice di Gallipoli a ragione del miracolo secondo cui proprio per sua intercessione cessò la diffusione del colera che coinvolse anche la città nel 1867, mietendo indicibili sofferenze e provocando 167 vittime dal 20 febbraio sino al mese di luglio, lutti che invero colpirono parimenti tutto il meridione d’Italia da Napoli al Salento con migliaia di morti. Alla santa difatti la credenza popolare ha attribuito da subito il miracolo straordinario della fine dell’epidemia che coincise proprio con l’inizio del triduo di funzioni religiose in suo onore. Anzi la leggenda riporta persino che testimone del miracolo fu un cagnolino: pacificamente accovacciato nella cappella si vide uscire di corsa allo scoppio dell’epidemia e poi rientrare quando il pericolo era cessato insieme alle fervide preghiere ed alle invocazioni dei fedeli. E non a caso proprio il cagnolino è effigiato ai piedi del simulacro della santa, anche come emblema di sicura fedeltà e protezione della martire per la città e per i cittadini a lei devoti.
Fu appunto a seguito di quel prodigioso e fausto evento che, alla vigilia della sua festa, nel 1867 giunse da Lecce il bellissimo simulacro del De Lucrezi, il quale, secondo il Verona, ha dotato all’effigie della santa l’espressione tipica di Guido Reni per gli occhi sognanti rivolti in alto. Da quella data ebbero inizio ufficiale i grandiosi ed eccezionali festeggiamenti religiosi che solo dall’anno successivo si arricchirono della prima solenne processione, così come annualmente tuttora avviene in una variopinta e variegata cornice fieristica fantasmagorica, rallegrata non solo da cuccagna a mare, ma pure da bancarelle, luminarie, bande musicali e spettacoli pirotecnici con un folto concorso di pubblico di fedeli, visitatori e turisti, provenienti non solo dalla provincia, felici di partecipare ad un singolare evento tra musiche, odori e sapori per tutto il corso Roma.
La festa gallipolina (23-24-25 luglio) ha oggi al centro delle manifestazioni religiose la processione per mare lungo il periplo delle mura urbiche e per le vie cittadine anche del Borgo, ad iniziare dal Corso Roma attraverso la festosa e allegra galleria che si illumina proprio al passaggio della santa. Nel novero delle costumanze civili è pure da ricordare la gastronomia incentrata su un menu particolare preparato con tubettini al sugo di cernia giusto il giorno della festività, in cui il bagno dei gallipolini veraci si fa in mare, seppure calmo, con meticolosa prudenza, perché, come si tramanda tra le credenze popolari, “Santa Cristina porta la steddha” (a ricordo della morte di un ragazzo, figlio undicenne dei gallipolini Carlo Ricci e Lucia Indelli, annegato nelle acque di Gallipoli il 24 luglio nel 1807).
Dunque di un singolare culto popolare gode dal 1868 S. Cristina, venerata e celebrata nella chiesa di S. Maria della Purità e nella cappella omonima sita sulla banchina-est del seno del Canneto. Tale culto per la santa romana in verità è nato storicamente nella cappella di S. Cristina e si è sviluppato poi definitivamente nella chiesa della Purità dopo essere provvisoriamente transitato per la chiesa del Canneto.
Qui una tela a lei dedicata s’incontra alla terza arcata a sinistra prima della zona del presbiterio al posto dov’era l’altare laterale: raffigura S. Cristina nell’atto del suo martirio, opera forse dei primi del ‘700, attribuibile quindi a scuola giordanesca, ossia dopo che i danni subiti dalla vicina cappella omonima avevano indotto già da tempo a trasferire qui la devozione per la santa.
La presenza di questa antica cappella, letteralmente esposta a tutte le intemperie in un sito del tutto isolato fino ad un secolo e mezzo fa, fuori dalle mura dell’isola abitata, ha un indiscusso significato di fede e pietà popolare. Ma anche il culto per la martire romana immolatasi per difendere il proprio credo, con la solenne festività religiosa e insieme civile la più importante della città, dimostra quanto sia stata sentita negli anni e nei secoli trascorsi la profonda devozione del popolo gallipolino per la giovane e bella santa così intensamente amata.
Non è dato tuttavia sapere quando, dove e come vadano ricercate le ragioni dell’origine di una così speciale venerazione. Probabilmente potrebbe essere d’ausilio a giustificazione la particolare “simpatia” dei gallipolini non solo per la Madonna sotto i suoi vari titoli, ma anche per le giovani sante più familiari, come Agata, Lucia, Cecilia, Teresina, Chiara, in verità non quanto la stessa Cristina a cui è riservata la maggiore festa popolare dell’anno.
La cappella inizialmente sorgeva addirittura sugli scogli, oggi coperti dalla banchina orientale del porto peschereccio. Seppure non perfettamente allineata in parallelo al lato di costa, guarda largo Canneto (oggi piazza A. Moro) al centro di un pittoresco e scenografico angolo della città, dove, nel seno di mare popolato di natanti, si affacciano le mura medievali, la città vecchia, il ponte secentesco, il castello e il rivellino di fronte all’antica fontana e a quello che è oggi il Santuario.
Se dal punto di vista architettonico è irrilevante, ha però segnato, nella precarietà dove è sorta, una testimonianza vivente della profonda devozione popolare gallipolina. Probabilmente potrebbe essere del ‘500, più che del sec. XIII o XIV (come asserisce il can. Francesco D’Elia in un suo scritto del 1899), sebbene non se ne conosca la data precisa di edificazione, ma è attestato che per tutto il XVII sec., abbandonata per inagibilità a causa dei marosi cui era direttamente esposta, è rimasta chiusa al culto.
Le prime notizie ufficiali si riferiscono difatti alla visita pastorale di mons. Pellegro Cybo che nel 1567 la descrive priva del tetto e dell’altare. Fu rimessa immediatamente in sesto nel 1576, ma dopo circa un secolo, nel 1660, mons. Montoya non ne fa cenno e così pure lo stesso mons. Filomarini nel 1715. Da ciò si potrebbe dedurre, con Albahari, che la cappella, “abbandonata, sconsacrata, restaurata e restituita al culto”, più volte sia rimasta chiusa per un indefinito lasso di tempo a ragione dei danni di continuo subiti dalle mareggiate, stante la precarietà del fabbrico edificato proprio sulla scogliera a contatto dei marosi, specie in tempi in cui non esistevano banchine, moli di difesa e frangiflutti.
Nelle more dell’assenza del culto, la venerazione della santa si dovette trasferire nella chiesa del Canneto, presso un nuovo altare a lei dedicato col dipinto raffigurante la santa. Dopo un ulteriore lungo periodo di abbandono e degrado, nel 1865 fu dunque riaperta al culto con conseguente aumento della devozione del popolo gallipolino verso S. Cristina, specie in occasione e a seguito della sua intercessione che, nella credenza popolare, risultò efficace a porre fine al colera che colpì gli abitanti e infuriò sulla città nell’estate del 1867.
Su precisa istanza della Confraternita di S. Maria della Purità il Comune, in virtù del diritto di proprietà riveniente da antichi privilegi al Primiceriato (l’attuale Demanio), le aveva già affidato la cura dell’edificio cagionevole con l’impegno di un canone annuo di L. 21,25 nonché il diritto di tutelare e conservare il culto della martire di Bolsena.
La cappella venne intanto restaurata ed arricchita di una statua in cartapesta in un’edicola lignea sull’altare con la bella effigie della giovane martire ritratta così come ventenne morì il 24 luglio 290, ovvero legata ad un palo e trafitta dalle frecce del suo supplizio. È la medesima rappresentazione iconografica che pure si legge sulla parete di sinistra, in una nicchia dorata che su scala modesta riesce a ritrarre e riprodurre la copia di un prònao, ovvero un tronetto dall’architettura composita di decori, entro cui è collocata un’altra statua della santa, di minori proporzioni, assai più graziosa e famosa, in quanto collegata col noto fatto miracoloso dell’800 e quindi oggetto di devozione. Sono le medesime testimonianze cittadine, invero ben poche, esistenti in altre chiese in cui la santa è sempre raffigurata nella sua giovanile bellezza non senza i segni del martirio e la presenza del cane: fra tutte da menzionare la statua in S. Maria della Purità (De Lucrezi), la tela nel Santuario del Canneto (anonimo) e l’altra in S. Maria degli Angeli (Forcignanò).
Sicché, a fare inizio dal luglio 1868, per eccezionale concessione della Santa Sede alla Confraternita, fu a questa formalizzato il privilegio esclusivo di celebrare ogni anno l’Ufficio sacro in onore della Vergine di Bolsena con solenne e sontuosa processione per l’intera città e persino per mare in partenza dal porto e lungo il litorale sud con la partecipazione di autorità religiose, civili e militari. Dato per scontato il calendario liturgico caratterizzato soprattutto da molteplici celebrazioni eucaristiche, intenso è il tipico programma civile che, preparato da un apposito gruppo di lavoro, per i tre giorni di luglio si svolge sempre con le medesime modalità.
Tutto ciò, a dire il vero, viene col massimo scrupolo organizzato oggi da un Comitato composto da responsabili della Confraternita e dell’Unità pastorale del Centro storico coordinati dal priore Sig. Silvano Solidoro e dal parroco don Piero De Santis.
La politica in questo impegno così serio, qual è l’organizzazione di una festa civile collaterale e parallela a quella religiosa, è assente, anzi è tenuta fuori, perché i politici, spesso politicanti di mestiere, in queste questioni talora sono alquanto improvvidi e maldestri nonché faziosi ed ovviamente litigiosi, se è pur vero che nel passato anche su tale terreno di scontro e discussione ma soprattutto di spartizione del potere sono state registrate crisi amministrative. Purtroppo anche intorno ad un “settore della torta” quale poteva essere il “Comitato per la festa di S. Cristina”! Ma la nostra santa con paziente prudenza sa perdonare, nonostante tutto, anzi vigila e provvede per il bene della sua città e di noi tutti. Ed il cane, accovacciato ai suoi piedi, è sempre lì immobile e silenzioso nel continuare a fare da guardia.
Ndr
Sul culto della santa rimandiamo anche all’articolo di Pietro Barrecchia di alcuni giorni fa:
Un percorso nella tradizione delle antiche rappresentazioni sceniche italiche non letterarie (i fescennini, la satura, il mimo, il pantomimo e le atellane): il caso del cantante e attore salentino Pasquale Quaranta.
di Paolo Rausa
Lo spettatore che partecipa alle rappresentazioni di Pasquale Quaranta è immediatamente coinvolto dalle sue canzoni (la voce), dalla musica (il suono) e da tutto il corpo che si lascia andare a movenze particolari, che sembrano dettate dall’improvvisazione ma in realtà affondano nella tradizione delle rappresentazioni teatrali plebee, popolari, non letterarie.
Non solo, i testi fanno riferimento esplicito a situazioni tipiche degli usi e costumi popolari, per es. la frequentazione del mercato, come luogo del commercio minuto di prodotti locali, e della piazza, l’agorà, intesa come luogo pubblico in cui si discute su tutto, dagli avvenimenti locali a quelli nazionali e oltre.
L’economia di sussistenza trova nel mercato del paese (a chiazza) il luogo naturale ove far confluire i prodotti alimentari frutto del proprio lavoro, esporre i manufatti artigianali o altri beni non di lusso che servono per le necessità quotidiane. Dall’incontro delle necessità vitali della popolazione con l’offerta che qui viene esposta e decantata nasce una prima forma di comunicazione elementare: economia e socialità si fondono in questo evento economico, per lo più settimanale, che assume un ruolo significativo per la comunità del paese/villaggio, simile ai mercatini (o suk) organizzati in varie forme in tutto il bacino mediterraneo.
Chi porta ed espone in bancarelle improvvisate il frutto del suo lavoro per venderlo e riuscire a racimolare un po’ di denaro per far fronte alle spese, si improvvisa agente promozionale e richiama l’attenzione con urla, inviti, battute a doppio senso con effetti esilaranti fin a quando regge il fiato in gola. Si decantano le qualità dei prodotti venduti (è forte u citu…), a cui fanno eco le
Ricamava nei lunghi pomeriggi estivi, sull’uscio della porta di casa.
Lo schienale della sedia rivolto verso la strada, i piedi posati sullo scalino di pietra, lucido e consunto dal calpestio degli anni.
Ciocche di capelli cadevano sulla tela quando lei piegava il collo per controllar da vicino un punto e le facevano da cortina nel riverbero della luce del tramonto; uno sguardo vellutato scivolava allora furtivo, sulla polvere della carreggiata ad inseguire un cigolio di ruote nell’ora del ritorno dalla fatica, cigolio sempre preannunziato da un odor di erbe selvatiche, di fieno.
Quell’ odore le accendeva le voglie, la rendeva un po’ smaniosa in quel suo stare ferma per ore, diventava più piccola dei piccoletti che nella piazzetta vicina giocavano vocianti. Avrebbe volentieri preso due di loro, uno per mano, per correre lungo il sentiero di campagna a inseguire fantasie senza nome, a cogliere more, ad addentare uno o due fichi maturi, a respirare orizzonti lontani… ma non si decideva mai a “spiccare il volo”.
Voleva metter fine a quel ricamo prima della penombra del crepuscolo, prima del ritorno del padre dai campi, così che la sua giornata avesse dato frutto.
Una tovaglia di lino, ricamata a fiori e frutta, con sfumature di colore da pittura, con orli e smerli fini, per banchetti di chissà quali feste o… per la processione del Corpus Domini.
Il ritorno del padre la rendeva più quieta e contenta, le piaceva ascoltare il suo silenzio, il respiro ritmato che piano allontanava la fatica, il sorseggiare lento
Cerchiamo di comprendere qualcosa in più sul faraonico piano Cafari. Si tratta della costruzione di un mega villaggio turistico in località “Cafari” ed adiacente al villaggio turistico “Torre Inserraglio”.
A chiederne autorizzazione sono due società con sede in Napoli.
Dei complessivi 608.719 metri quadri della lottizzazione dei comparti 78 e 79 (come definiti dal PRG di Nardò nella località denominata Cafari) le due società possiedono rispettivamente il 33.9% e il 23.9% che, come si evince, corrispondono al 57,8% del totale, il rimanente 42.2% è parcellizzato fra una miriade di piccoli proprietari. Cosa prevede il piano di cementificazione di un’area salentina adiacente a Porto Selvaggio che riporta alla mente Renata Fonte?
Eccomi di nuovo qui, a Lucugnano, nella Casa di Girolamo Comi. Ho risalito le scale in silenzio nella quiete che avvolgeva ogni cosa. Pareva davvero che tutto dormisse d’ un sonno profondo, troppo profondo: unica nota di vitalità e colore le piante che adornano la balaustra. Nell’ingresso ho ritrovato il padrone di casa. Girolamo era lì, m’aspettava ancora una volta. Quando entro nella sua dimora un brivido dolce m’attraversa e un nuovo mondo mi si svela. E’ come se avessi un muto appuntamento con quel magico luogo dove tutto continua ancora a parlare di lui. Cammino quasi in punta di piedi per non disturbare quella tranquillità che m’affascina. Mi soffermo a sfogliare un suo libro e l’immagine di Girolamo, riflessivo e accorto, che compie lo stesso mio gesto mi sovviene inattesa. Eccolo trattenersi su un passo, pronto a fissare un concetto per poi dare vita ad altre parole, ad altri pensieri, ad altri stupori.
Chissà quante volte nel cuore della notte ha indugiato su quei fogli ora serrati, lasciati nell’oblio più totale! Chissà quante volte tra quelle pagine ha cercato consigli per dipanare dubbi e incertezze! Ora i suoi libri son lì tutti in fila e, sconsolati, aspettano che qualcuno li ritorni a sfogliare, li ritorni ad amare. Nel
Dalle note biografiche di Mario Perrotta sappiamo che è nato nel 1970 a Lecce, dovrà arrivare al 1980 per iniziare a vincere “a chi arriva più in alto”, arrampicandosi sulle impalcature dei palazzi in costruzione raggiungerà il quinto piano, record imbattuto per ben 5 anni. Uno spunto non da poco, stai ancora arrampicando?
Sì, sto ancora arrampicando, poiché quel senso di sfida mi aiuta ancora oggi nel tentare nuove vie (proprio come gli scalatori che cercano di aprire “nuove vie” per scalare lo stesso monte).
In realtà, ho scoperto abbastanza presto che la sfida non era con gli altri ma con me stesso: volevo sapere se ce la potevo fare e, soprattutto, se potevo arrivare a qualcosa rompendo un protocollo o una barriera consolidata nel tempo. La sfida al “questo si fa così da sempre”, al “questo non sei in grado di farlo” è una delle due molle che mi tiene in piedi, quella più infantile, direi. L’altra è l’indignazione civile. E qui non posso che citare Flaubert sul quale sto lavorando in questo momento: “l’indignazione è per me come lo spillone che hanno le bambole nel culo. E’ ciò che le tiene in piedi. Il giorno che dovessi perdere la mia indignazione, cadrei a terra bocconi.”
Poi Lo scientifico a Lecce, quindi Bologna, ingegneria, abbandonata per filosofia (laurea con 110 e lode), e la scuola di teatro pagata lavando auto. Bologna la ricca signora, Bologna “busona” o che altro?
Quando sono partito per l’Università (1988), Bologna era il paese dei balocchi di ogni Lucignolo meridionale, quindi la scelta fu facile. Bologna però, era anche sufficientemente lontana per poter dire che andavo a vivere da solo e che me la dovevo vedere con me stesso, senza contare sulla vicinanza fisica della famiglia. E ancora: era un percorso inconscio sulle orme dell’emigrazione poiché è nel DNA di ogni meridionale l’idea che, lontano da casa, è più facile trovare lavoro. Come una condanna dell’anima che ci portiamo addosso da secoli.
Infine, era anche il desiderio adolescenziale di sprovincializzarmi, un desiderio che mi fece abbandonare anche Bologna (nel 1998) per Roma. E dopo qualche anno romano, capii che, per essere centrato e in pace con me stesso, dovevo tornare a casa. Come ho detto spesso, un ritorno dell’anima non del corpo che, invece, continua a vivere in giro per alberghi ma con le sue origini ben
Libretto d’uso per l’interpretazione di tradizioni popolari, qualche supposizione e… una preghiera!
di Piero Barrecchia
Il popolo di Gallipoli, nel 1867, volle che il primato della tutela delle urbiche mura e dei suoi abitanti, già affidato ad Agata e Sebastiano, fosse condiviso da Cristina di Bolsena, Vergine e Martire. L’esplosione di gratitudine che si ebbe ed ancora tributato, nei giorni del 23, 24 e 25 luglio, fu atto dovuto, per la speciale protezione accordata dal divino all’umano, con segni evidenti. Preghiere e suppliche, nel febbraio 1867, si elevarono a Santa Cristina, al fine di preservare la Città dal colera, che imperversava, in quell’anno, in ogni contrada del Regno Partenopeo. Nel terzo giorno di accorata petizione, la Santa intercesse per la sanità del popolo. Ed il morbo cessò! In quello stesso anno, dalle mani sapienti di Achille De Lucrezis, prese vita la sublime statua, rappresentante la Martire legata ad un tronco di sughero, con viso fiero, carico di pathos ed estatico al contempo, trafitta da due frecce, mentre, un putto incorona la sua eroica virtù e la sua estrema testimonianza. La sua ferrea fedeltà al divino, si volle rappresentare con un cane, assiso ai piedi del simulacro, primo spettatore dell’evento.
L’opera giunse in Gallipoli il 22 luglio 1867. Nulla tralasciarono i gallipolini, che subito amarono quella rappresentazione, riconoscendo lo sguardo protettore dell’eletta compatrona, condividendone lo struggente atteggiamento, immedesimandosi, totalmente, nell’atto incoronante dell’angelo ed adottando, persino, il cane ai piedi della Santa, caratteristico
Le origini di un ospedale a Nardò sono davvero remote e la prima attestazione di un ente così definito è fatta risalire dal compianto sacerdote Emilio Mazzarella al 1343 quando: “il canonico cantore della Cattedrale Matteo (non si conosce il cognome) eresse a sue spese e dotò col suo pingue patrimonio un grande ospedale, dedicato a Sant’Antonio, detto della Misericordia, dentro la città, nel pittagio del Castello”. La cura e l’amministrazione dell’ospedale era stata affidata alle monache di S. Chiara, già presenti in città. Dopo oltre mezzo secolo alcuni cittadini ingerirono nell’amministrazione, riuscendo a togliere alle religiose la gestione dell’organizzazione. Invano esse ed il vescovo si adoperarono per risolvere bonariamente l’accaduto ed allo scopo cercarono di rendere nota la volontà del fondatore espressa in una probabile epigrafe.
Non avendo riottenuto l’affidamento ricorsero al principe di Taranto Raimondo Orsini, governatore di Nardò, il quale, con ordinanza del 10 febbraio 1402, comandò di rimettere le stesse in possesso dell’ospedale, che ressero per circa altri due secoli e mezzo.
Un altro ospedale cittadino era stato eretto quasi contemporaneamente dal nobile Matteo Granafei, con testamento del 12 maggio 1383, rogato dal
La nobilissima famiglia Sambiasi e l’ingente lascito perpetuo a favore dei cittadini di Nardò
La stirpe dei Sambiasi, attestata come Sancto Blasio sin dal sec. XIII, fu tra le più antiche, nobili e benemerite di Nardò. Eccelse per la costruzione di chiese, la fondazione di benefici ecclesiastici, opere pie e caritative, tra cui spicca quella di Pippa Sambiasi, che il 4 ottobre 1433 donò alla chiesa di Nardò i grandi feudi di Fango e Paduli.
Gli ultimi rappresentanti vissero in città fino alla metà del secolo XVIII, per poi estinguersi, sopravvivendo il ramo leccese.
Utile, ai fini di questa occasione che vorrebbe la soppressione dell’ospedale neritino, soffermarsi sulle volontà testamentarie di due fratelli, Fabrizio e Giuseppe Oronzo, dei quali il primo coniugato con la nobile Glorizia de Prezzo ed il secondo chierico.
Il 6 maggio 1741, dopo mature considerazioni, i tre benemeriti testarono di fronte al notaio Nicola Bona di Nardò, lasciando precise disposizioni da rendersi pubbliche dopo la morte del primo di essi. Nel 1742 e nel 1743 morirono Fabrizio e sua moglie, restando Giuseppe Oronzo, che pur avendo soddisfatto le parti essenziali del testamento, il 12 maggio 1744 lo fece aprire dal notaio Felice Massa. Vi si nominava erede universale il vescovo pro tempore di Nardò che, fatto redigere da un notaio l’inventario di tutti i
Un viaggio attraverso le eccellenze artistiche, architettoniche e ambientali del territorio salentino è quello che intende presentare la Fondazione Terra d’Otranto con la pubblicazione della collana “Itineraria”, serie di guide brevi monotematiche dedicate ai principali monumenti del Salento.
Per ogni opuscolo – aggiornato rispetto a contenuti, fonti, bibliografia e iconografia – la collana propone un identico schema: si parte da una breve introduzione storica, volta a contestualizzare l’analisi delle singole opere (delle quali sono sinteticamente delineate le vicende costruttive e artistiche, fino ai più recenti restauri), per poi passare alla visita guidata vera e propria, dove ad essere illustrati sono i singoli elementi costitutivi del monumento, dell’opera o del luogo trattato, quasi fossero tappe virtuali di un itinerario. L’apparato iconografico accompagna costantemente il testo, focalizzando l’attenzione su manufatti, dettagli e decori di particolare pregio, mentre una planimetria dettagliata del monumento consente di seguire agevolmente la guida in loco.
Il primo numero della collana è dedicato alla Cattedrale di Nardò, eccezionale palinsesto architettonico dove si accordano inaspettatamente l’edificio romanico-normanno, i restauri settecenteschi di Ferdinando Sanfelice e gli affreschi eseguiti da Cesare Maccari sul finire dell’Ottocento.
Titolo: Genio in Terra d’Otranto. Salvatore Napoli Leone (1905-1980)
Autore: Gianni Ferraris
Curatore: Marcello Gaballo
Presentazione: Pier Paolo Tarsi
Introduzione: Maurizio Nocera
Digitalizzazione documenti: Stefania Bianco
Impaginazione: Mino Presicce
Editori: Cosimo Lupo Editore, Fondazione Terra d’Otranto
Nardò, Biesse, 2012
Formato A4, 210×297 mm,
pp. 281, con illustrazioni b/n e 50 tavole a colori
1,4 Kg, € 50,00
Codice ISBN: 978-88-6667-010-0
Personaggio finora poco noto nel panorama salentino, Salvatore Napoli Leone di Nardò fu un personaggio eclettico e fortemente operoso nel corso del Novecento, che si interessò di non pochi aspetti economico-strutturali legati allo sviluppo produttivo di Nardò e della Provincia di Lecce.
Numerose le imprese avviate da Salvatore (Totò per gli amici) nel settore manifatturiero, commerciale e pubblicitario; quest’ultimo, peraltro, in tempi assolutamente pioneristici.
Buona parte dell’attività inventiva e industriosa di Napoli Leone è raccolta nelle pagine del presente volume; in esse i lettori troveranno gran parte della storia del Neretino, oltre ad un ampio apparato iconografico che illustra quanto vasto sia stato l’operato di quest’uomo considerato «un vulcano in continua eruzione: chimico, esperto in cemento armato, industriale in più settori: inchiostri, cosmesi, pasticceria, torrefazione caffè (era suo il più noto Gran Bar Pasticceria di Nardò), coni gelati, editorìa, tipografia, bibite, vini e liquori».
Il libro sulla vita e l’opera di Salvatore Napoli Leone si chiude con una serie di giudizi espressi da illustri personaggi italiani – tra i quali D’Annunzio, Marconi, Marinetti – e con un elenco di decorazioni istituzionali, riconoscimenti ufficiali e premiazioni industriali (italiane e internazionali), delle quali il Nostro ha potuto fortunatamente fregiarsi in vita.
I gelati del Salento (dal sorbetto al cono, passando per lo spumone e la banana)
di Massimo Vaglio
Anche nell’arte del gelato i salentini dimostrano di non essere secondi a nessuno. Questo prodotto infatti vanta qui, come in pochi altri luoghi, una tradizione antica e prestigiosa frutto di una intelligente, costante e continua evoluzione. Non a caso, visitando la campagna salentina, capita ancora di incontrare degli strani manufatti costituiti da grotte naturali o da nicchie scavate nel calcare e sovrastanti delle sorta di pozzi a sezione rettangolare; si tratta delle cosiddette “neviere”, freschi depositi ove veniva immagazzinata la neve che cadeva nei mesi invernali. Bisogna ricordare che in un passato non molto remoto nevicava molto più di oggi, d’altronde l’ultima mini glaciazione si è avuta nel XVIII secolo, per cui, niente di strano che ingegnosamente gli antichi salentini si siano organizzati per sfruttare come risorsa ciò che al tempo costituiva una vera calamità.
La neve raccolta e compattata nell’inverno, in estate veniva cavata sotto forma di blocchi a forma di parallelepipedo usando la stessa sperimentata tecnica che si usava per “zoccare” ossia per cavare i conci di “tufo”. La commercializzazione del ghiaccio assumeva lo status di attività di pubblica utilità e i gestori delle neviere, ovvero coloro che le detenevano in appalto e commercializzavano il ghiaccio, oltre ad essere soggetti ad una severa
Si sa che la poesia è opera faticosa e complessa, fedelmente al suo etimo greco, poiein: “fare, costruire”, e ci vuole lavoro di cesello, lento e a volte infruttuoso esercizio, perché al facitore di versi, all’artigiano della parola, si schiuda quella aurorale, epifanica luce della athanatos poiesis, dell’arte immortale. Si sa che “la poesia è poesia quando porta in sé un segreto”, come disse Giuseppe Ungaretti, parlando del suo amato Mallarmè. Ecco perché c’è sempre un punto oscuro, un dubbio, nella poesia vera, una frase o un termine che non riusciamo a capire, una interpretazione, rovello di critici ed esegeti, mai univoca, un qualcosa che sfugge insomma, nel senso nascosto di un verso, chiuso come un mistero che non si disvela, sfuggente, impalpabile come un volo d’ali di un angelo nella notte, come una carezza non data, come una storia solo immaginata. “Il passo della notte” (Lupo editore 2012) è l’ultima raccolta poetica di Elio Ria, attento e attivo operatore culturale, che vive ed opera a Tuglie, dopo “La mia solitudine” (Kimerik Editore) del 2007, “La maledizione del tempo” (Lulu.com, 2008), “Altri versi” (Lupo Editore, 2009) e “Solosette” (Lulu.com) del 2011.
Elio Ria è un uomo modesto e un poeta schivo, appartato. Il campo semantico scelto, come si evince da titolo, l’asse intorno al quale ruota questa sua ultima produzione poetica, è dunque la notte, regno delle forze oscure, dionisiache; la notte, la dea Selene della mitologia greca, che è un tema certo non originale se
Salvatore Napoli Leone, un geniale figlio di Terra D’Otranto
Leggendo il libro curato da Gianni Ferraris, che narra le vicende di un personaggio finora poco noto nel Salento – Salvatore Napoli Leone, di Nardò – uomo di indubbie capacità e inventiva, dati i tempi e le situazioni di partenza, mi sono chiesto da quale substrato economico-sociale provenisse la sua straordinaria vita.
Parto dalla constatazione di considerare tardivo l’avvio del processo produttivo industriale nel Salento leccese, giunto qui in un momento in cui era già avviato il livello di sviluppo in altre aree della penisola italica. L’antica Terra d’Otranto era lontana provincia del regno di Napoli, la cui capitale, appunto Napoli, come molti dati confermano, già a metà Settecento aveva una sia pur modesta realtà produttiva di tipo industriale. Nella stessa epoca, qui da noi vigeva ancora uno status medievale, con tutti i suoi nessi e connessi. Non esisteva la produzione industriale e le classi sociali, fondamentalmente, si riducevano a due: i nobili feudatari e i servi della gleba. Gli stessi artigiani (calzolai, ferrai, panettieri, ecc.), che pure c’erano sia pure in infima minoranza, per lo più erano vecchi ex braccianti che avevano smesso, spesso per malattia, di lavorare la terra, e per non morire di fame, svolgevano quei nuovi lavori. Le attività produttive di base dell’economia salentina ruotavano intorno alla produzione dell’olio, ricavato dal duro lavoro dei frantoiani negli ipogei, olio di cui disponeva soltanto il feudatario come meglio credeva attraverso, ad esempio, l’istituto delle “decime”, cioè la pratica di esigere coercitivamente delle quote parti. Alla fine del processo produttivo era poi lo stesso feudatario ad amministrare il resto dell’economia, la finanza e la giustizia attraverso suoi accoliti.
Alla fine del Settecento, il territorio che noi oggi denominiamo Salento era una landa di arretratezza e povertà generale, tanto che Michelangelo Schipa, Rosario Villari, Michele Galanti e D. Winspeare, storici ed economisti di fama europea, lo hanno descritto come un’area macchiosa, acquitrinosa, malsana e scarsa di attività produttive. Le poche aree agricole, quelle delle pianure parzialmente bonificate, erano coltivate a olivo, cotone, tabacco e, qua e là, ad agli e cipolle. C’era pure la pastorizia con l’annessa attività produttiva dei formaggi, ma questa bastava solo a soddisfare un’infima parte della popolazione. La lana prodotta non era raffinata e a mala pena serviva per confezionare i rudi indumenti dei contadini. A Gallipoli si produceva pure il bisso, una sorta di filo bianchissimo prodotto dai grandi molluschi, all’epoca abbondanti nell’Ionio, e da esso si ricavava la mussolina, una stoffa per mani delicate. Gli stessi storici ed economisti coevi affermano che solo il porto di Gallipoli poteva considerarsi come una situazione produttiva attiva in quanto c’era in esso una grande affluenza di natanti per il trasporto dell’olio, delle botti e parzialmente anche del cotone.
Tutto questo ci fa capire che alla fine del Settecento e per buona parte dell’Ottocento, nella Terra d’Otranto non esistevano attività manifatturiere; il Galati, nella sua Nuova descrizione storica e geografica della Sicilia (Napoli 1788) scrive che le stesse attività ruotanti attorno alla produzione salentina del cotone si riducevano al lavoro svolto dalle donne in ambito unicamente familiare. Aggiunge poi che «in Galatone e Nardò si fabbricavano ancora dalle donne coperte da letto […] con grande finezza e maestria».
Con l’Unità d’Italia (1861) la situazione manifatturiera di Terra d’Otranto non migliorò, anzi, per molti versi, stagnò per non dire che peggiorò, in quanto la calata al Sud dell’impostazione produttiva sabaudo-piemontese soffocò sul nascere quanto di buono da questo punto di vista era già stato avviato. Penso ad esempio all’avvio di una timidissima razionalizzazione delle colture dell’olivo, delle vite, del cotone, del lino, della lana, della canapa, del tabacco e della ceramica, che già avevano registrato un primo aumento delle esportazioni.
A partire dal 1870 si registrò pure un modesto ammodernamento dell’industria olearia che, da ipogea divenne solare, con l’olio che comunque rimase per quattro quinti di tipo lampante. Il primo tentativo di ammodernamento dell’apparato produttivo salentino si registrò nel settore dell’industria vitivinicola, i cui vini, a forte gradazione, cominciarono ad essere esportati al Nord per il taglio di vini leggeri di quelle zone. Comunque, di fatto la situazione di arretratezza rimase fino a quasi subito dopo il secondo dopoguerra (1945) quando, con la generalizzazione della meccanizzazione dell’agricoltura, prima al Nord poi al Sud, anche nel Salento cominciarono a vedersi vecchie e antiquate masserie evolversi in nuove forme di capitalismo agrario con le tipiche figure sociali ad esso collegate. Sarà in particolare con l’industrializzazione della foglia di tabacco che il Salento comincerà a conoscere le prime forme produttive industrializzate.
Si può comprensibilmente dire che a partire dagli anni 1950-70 il Salento comincia ad avere i suoi primi stabili impianti artigianali e industriali, in particolare nei settori che da sempre erano stati trainanti in questo territorio, quelli dell’olivicoltura, viticoltura, tabacchicoltura, ceramica e, ad un certo punto anche quello del montaggio di macchine industriali (macchine rivolgimento terra, ruspe, ecc.).
Ovviamente il nuovo tipo di sviluppo industriale non nacque in un deserto, perché proprio qui, in Terra d’Otranto, a partire e per tutto il Novecento c’è stato chi ha operato in una prospettiva di sviluppo industriale, fra questi, grandi meriti vanno a Salvatore Napoli Leone, di Nardò, personaggio eclettico e fortemente operoso nel corso dell’intero secolo, che si interessò di non pochi aspetti economico-strutturali legati allo sviluppo produttivo.
Leggendo il libro, viene da chiedersi: ma quante imprese ha inventato e avviato Salvatore Napoli Leone a Nardò e nella provincia di Lecce? Tante, soprattutto nel settore manifatturiero, in quello commerciale ed anche, in tempi assolutamente pioneristici, in quello pubblicitario.
Come dice il curatore del libro, Gianni Ferraris, buona parte dell’attività inventiva e industriosa di Napoli Leone la si evince da un vecchio dattiloscritto biografico, scritto dal calabrese Alfredo Pedullà Audino, che probabilmente non ha visto ancora la luce. In esso come pure in molte pagine tratte da un diario manoscritto dallo stesso Napoli Leone, i lettori di questo libro troveranno buona parte della storia del Neretino, in particolare troveranno un ampio apparato iconografico che dimostra quanto vasto sia stato l’operato di questo «uomo che era un vulcano in continua eruzione: chimico, esperto in cemento armato, industriale in più settori: inchiostri, cosmesi, pasticceria, torrefazione caffè (era suo il più noto Gran Bar Pasticceria di Nardò), coni gelati, editoria, tipografia, bibite, vini e liquori». Ma si dice pure che Salvatore Napoli sia stato poeta, scrittore (quando morì, nel 1980, stava scrivendo una sua autobiografia).
Fa impressione sapere che il Nostro abbia iniziato la sua attività di inventore di nuovi brevetti a partire dall’adolescenziale età di 13 anni e non sorprende la sua esibita religiosità e la sua profonda fede nel Cristianesimo, perché il Salento è stata la terra dove grandi e sconvolgenti furono i conflitti interreligiosi. Non dimentichiamo che è nell’antica Terra d’Otranto che si svolse l’unica guerra di aggressione all’Italia per motivi di espansionismo religioso, con gli Ottomani che invasero Otranto nel 1480. Per cui, la religiosità cristiana del Neretino è più che comprensibile.
Di tutti i brevetti e i prodotti (coni per gelati, caffè, liquori, vini, pasticceria, mobili per la scuola, farmacopea antimalarica, tinture, altro ancora) inventati da Salvatore Napoli Leone quello che maggiormente mi stupisce è la costruzione della Fabbrica di inchiostri e crema lucida “Atala”, fondata nel 1920. Si tratta di ben 87 tipi di inchiostri, noti e richiesti in tutta Italia per la loro buona fattura, fra cui il noto “Inchiostro ‘333’ – Tre usi – ‘Leone’”, di cui si interessò anche la rivista nazionale «Il Calligrafo» (v. Appendice quattro e cinque). Il successo del prodotto portò il suo inventore a scrivere una Relazione chimico scientifica sintetica sui prodotti Atala – Gli inchiostri per scrivere. Notizie utili che, a sua volta, fu molto lodata e premiata.
Certo, c’è da aggiungere che per Salvatore (Totò per gli amici) Napoli Leone non tutto e non sempre andò per il verso giusto, e anche per lui ci furono tempi brutti. Ad esempio, duri furono gli anni ’30, anni in cui fu costretto a contenere il suo bollente spirito inventivo e fermare le sue attività per una serie di rovesci economico-finanziari. Fu un tempo non breve quello e nel libro questo lo si comprende bene. Tuttavia Napoli Leone seppe riprendersi e trovare nuovi spunti per il suo operare. Chi oggi, qui nel Salento, per un attimo si mettesse a studiare seriamente la biografia e l’opera industriosa di questo personaggio, troverebbe sicuramente non pochi spunti per avviare una serie di attività che porterebbe questa terra ad un livello di sviluppo sicuramente più consono e più umanamente compatibile.
Con sorpresa e meraviglia osservo le immagini delle cartoline pubblicitarie, le copertine dei suoi libri e i suoi marchi, inseriti dal curatore nell’ampio corpus iconografico. Ad esempio, a p. 21 un’interessante cartolina pubblicitaria dei prodotti ‘Atala’; alle pp. 23 e 24 alcune foto d’archivio della fabbrica d’inchiostri, altre foto riguardanti la stessa fabbrica appaiono pubblicate in altre parti del libro; alle pp. 26-sgg. alcune foto pubblicitarie di astucci per inchiostri con loghi disegnati da Gino Gabrieli, seguono alcune foto di certificati sugli stessi inchiostri, ma molte sono anche le immagini di etichette per vini e sciroppi. Le copertine dei suoi libri: a p. 120, la copertina del libro Cose nosce con una bellissima vignetta (la danza della pizzica pizzica) disegnata con inchiostro ‘Atala’ dall’artista Presicce; alle pp. 186-187, altre riproduzioni di frontespizi di pubblicazioni stampate nella tipografia Leone, tra di esse, interessante quella dei Sonetti Salentini del suo amico e grande rivoluzionario repubblicano neretino Pantaleo Ingusci, il quale firma anche una memoria del Nostro alle pp. 235-237; a p. 187, degna di nota è la testata di un periodico indipendente, «il Leone» che «ruggisce in difesa della giustizia e della libertà» che Salvatore Napoli Leone aveva in mente di editare e che probabilmente non vide mai la luce.
Un altro motivo di interesse in me per questo straordinario imprenditore salentino di Nardò è quello di sapere che egli fu anche grafico, tipografo, editore e studioso di libri (un bibliofilo ante litteram in terra del Salento) e che la sua attività di editore (Casa editrice Leone) consistette essenzialmente nella pubblicazione di libri letterari e scientifici. Tra i libri da lui editati, alcuni censurati dal regime fascista, annoto con meraviglia titoli importanti per lo studio di varie discipline moderne: Gli inchiostri da scrivere (1919); Invenzioni ed inventori (1923); Procedimento di decorazione su velluto a mezzo di trasporto chimico – Brevetto “Neritos” (1926); I profumi e il loro potere psicologico sulla natura umana (1931); Chimica e alchimia (1931); Le percezioni dell’olfatto (1931); La scienza e l’empirismo (1932); Quando come e perché fondai la mia fabbrica di inchiostri “Atala” (1935); La psicologia degli odori e dei colori (1937); La teoria filosofica delle ombre e dei colori (1969). Interessante anche la pubblicazione dei suoi «Quaderni d’arte per gli artigiani». Ne pubblicò tre: I legni parlano (1932); Le pietre dicono (1933); I metalli ci narrano (1934).
Il libro sulla vita e l’opera di Salvatore Napoli Leone si chiude con una serie di giudizi di illustri personaggi italiani, tra i quali G. D’Annunzio, G. Marconi, T. M. Marinetti, al quale segue il lungo elenco delle decorazioni istituzionali, riconoscimenti ufficiali e premiazioni industriali italiane e straniere di cui egli ha fortunatamente goduto in vita. Ma ciò che più di ogni altro aspetto rende grande questo figlio di Nardò è quanto egli stesso pensava di se stesso, un pensiero decisamente contro corrente diremmo oggi, visti i tempi della più ingorda disonestà intellettuale e materiale, a cui si è ridotta la società occidentale contemporanea. Di sé, Salvatore Napoli Leone diceva: «Potevo essere disonesto diverse volte ed arricchirmi e non l’ho fatto. Potevo dominare il mondo. Se avessi avuto buon senso, e non l’ho saputo fare. Ho calcolato la potenza della coscienza che avrei dovuto mettere da parte in ogni atto della mia vita, farla tacere, e sarei diventato quello che sono altri: ricchi, potenti, dominatori. Mentre io sono sempre stato un umile lavoratore che si è arrabattato per vivere e tirare innanzi per avviare sempre più industrie».
Con ciò quanti milioni di anni luce siamo lontani dall’uomo di potere di oggi?
Arrivo a San Cataldo, una torrida serata di luglio, la radio dice che l’Italia ha subito il terzo gol, finirà poco tempo dopo quattro a zero. E’ debacle, nessun corteo di auto festanti, peccato.
Le località di San Cataldo sono due, una leccese, l’altra appartiene a Vernole. Così, a colpo d’occhio, la prima è più bella, pulita, ci sono lampioni nuovi. Lasciamo perdere il degrado della spiaggia libera che sa di “sporco”, non curato, comunque il lungomare, pardon, il water front (come l’hanno battezzato i Perrone boys, inglesizzandolo) è rifatto, sia pure con difficoltà ed errori di misure. Nella parte Vernolese invece arrivi in un mondo altro, diverso.
C’è una sola cosa che spicca, è stata appena rifatta e si nota anche la notte, quasi abbaglia nel suo splendore: la segnaletica orizzontale che delimita i parcheggi (tutti) a pagamento. Per dirla in italiano: le strisce blu. Quelle bianche sono palliducce, anemiche. E badate, in presenza di ben tre auto parcheggiate, il cartello dice che si deve pagare fino alle 24. Certo, c’è un disperato bisogno di soldi, Vernole ha anche messo i famosissimi cartelli: “strada ad alto rischio incidentabilità” per dire (ricordiamo) che ci sono videocamere per fare cassa con le multe.
Mi chiedo come mai la solerzia nel rifare strisce blu non sia stata, almeno in parte, utilizzata per cambiare le lampadine al 50% dei lampioni che sono spenti o intermittenti, neppure fosse Natale. Ahhh Vernole, una ne fa e cento ne pensa…..
Nde cchiamu alla chiazza (ci troviamo in piazza): a significare qualcosa d’importante.
Questa frase apparteneva al nostro modo di vivere la piazza. Sono ormai trascorsi tanti anni e la piazza, oggi, non è più quella di una volta.
Allora su di essa gravitavano le amicizie, le burla, gli scherzi e la voglia di fare. Sì, voglia incessante di fare, di essere protagonisti nella vita sociale e anche politica del nostro paese, pur fra mille contraddizioni, ostacoli e pregiudizi.
Si discuteva pacatamente e animatamente dappertutto, condensando nei ragionamenti anche parolacce e scherni. Il bar Provenzano era il cuore pulsante della Tuglie perbene (?), come un grande circolo cittadino all’aperto, un palco speciale per oratori, politici che disquisivano sui fatti locali e nazionali, con accenni folcloristici che, in qualche caso, si concludevano con una scazzottata. Ma poi tutto ritornava come prima.
I ricordi sono tanti; ovviamente annotati negli anfratti della mia memoria e soggetti quindi all’evanescenza di qualche particolare. Ma non per questo mi voglio sottrarre all’idea di riordinare mnemonicamente qualche episodio inerente la piazza, soltanto per il piacere di ricordare qualcosa di minore che non appartiene alla grandezza della storia ma pur sempre interessante in riferimento alle attività sociali, politiche, di svago e culturale che hanno interessato o reso protagonista la comunità del nostro paese.
Una domenica mattina uscendo di casa per andare in piazza, rimasi sconcertato nel vedere appesa ad un albero in prossimità dell’abitazione di Mario Giuranno, in via Milano, una bandiera rossa fatta a brandelli. Avevo 13 anni nell’anno
Visita alla chiesa della Natività della Vergine di Ruffano (Lecce)
La chiesa della Natività della Beata Maria Vergine di Ruffano rappresenta un inestimabile monumento del barocco salentino.
La sua edificazione, iniziata nel 1706 sul suolo della vecchia chiesa di rito greco e terminata nel 1713, si deve all’impulso religioso delle Confraternite del SS. Rosario e del SS. Sacramento e al contributo corale del popolo. I lavori furono affidati ai mastri martanesi Ignazio e Valerio Margoleo. Nel 1716 fu edificata la sacrestia e nel 1725 la torre dell’orologio sulla porta secondaria comunemente detta “porta dei maschi” (memoria della bizantina divisione tra uomini e donne).
Grande e maestosa architettonicamente, si presenta nella planimetria a croce latina, con la navata centrale su cui si aprono le cappelle dei sei altari.
Dal 1765 al 1776 il pittore ruffanese Saverio Lillo (1734-1796), arricchisce le pareti della chiesa con le Virtù che inquadrano gli altari laterali; la tela ottagonale del transetto che raffigura la Natività di Maria; le grandi tele del presbiterio che raffigurano il Castigo di Core, Eliodoro scacciato dal tempio e la Regina di Saba; S. Antonio e miracolo della mula nel braccio destro del transetto; e Gesù che scaccia i mercanti dal tempio nella
Arriva nei negozi di dischi e nelle librerie, l’ultimo cd di Mino De Santis, “Caminante”, edito da Ululati (2012). Partiamo dalla casa editrice e poi ci occuperemo dell’autore. Un lupo che abbaia alla luna, nell’ultima di copertina del cd, è il marchio inconfondibile della casa editrice Lupo di Copertino. “Ululati” è infatti una nuova etichetta discografica inaugurata con questo cd ed è la nuova avventura nella quale si è imbarcato il poliedrico editore Cosimo Lupo, l’ennesima scommessa sul nostro territorio da parte di questo vulcanico e sorprendente operatore culturale il quale, per non farsi mancare nulla, fa pure l’attore, ovvero interpreta, in un breve cammeo, il ruolo del morto nel video di presentazione del cd, quello di “Lu ccumpagnamentu”, track list dell’album appena uscito.
E veniamo a Mino De Santis, autore di testi e musiche di questo cd, che è il secondo pubblicato dopo “Scarcagnizzu – Vento dal basso” ( Associazione Culturale Fondo Verri, 2011). Un punto di riferimento importante nella sua formazione musicale è stato Fabrizio De Andrè, se è vero che ancora oggi Mino De Santis porta in giro un recital su musiche e testi del grande cantautore genovese. È chiaro che De Santis paghi un tributo importante a De Andrè, così come a certi chansonniers francesi, quali Brassens, Brel, dai quali poi lo stesso De Andrè era stato influenzato nella prima parte della sua carriera musicale. Inevitabile l’accostamento a Paolo Conte, per certe atmosfere fumose che si
(Nerino ha sfruttato l’omofonia presente nel dialetto neretino tra casu=caso e casu=cacio).
Il titolo, tradotto in italiano, suonerebbe c’è nudo e nodo. Da ciò chiunque può arguire che nutu/nudo è figlio del latino nudu(m) e nnutu/nodo del latino nodu(m).
La traduzione italiana dà vita a quel gioco di parola, frequente in enigmistica, basato sul cambio di una vocale. Il gioco nella frase dialettale appare, invece, basato sulla geminazione della consonante iniziale. Si tratta di un fenomeno, questo, molto frequente nel dialetto salentino, talora di matrice puramente espressiva (è proprio il nostro caso), altre volte di natura grammaticale, dovuto, cioè, all’aferesi di una vocale iniziale (‘nnamuràtu<innamorato, ttaccàre<attaccàre, etc. etc.).
Ogni singola voce, poi, replicata volta per volta si presta ad altri giochi di parole:
a) C’è nutu e nnutu (c’è nudo e nudo); c’è in questo nesso la tendenza, in grafia riprodotta, alla pronunzia geminata della n del secondo nutu, cosa abituale dopo la congiunzione e (pasta eppasuli e non pasta e pasuli).
b) C’ènnutu e nnutu (c’è nodo e nodo).
Ho già avuto occasione di dire che la lingua talora è strana..
La stranezza nella frase di oggi sta proprio nel fatto che è andato ad
Qualche giorno passato sul capo di Leuca. La tappa ad Alessano è importante per chi vuole rendere omaggio ad un grande salentino. Vale per credenti ed atei, don Tonino Bello è stato il vescovo dalla parte degli ultimi, ha valenza civile, laica e religiosa, i giusti sono tali per tutti. Ci sono andato, ho salutato, poi sono stato qualche tempo sull’auto all’ombra dei cipressi. Di fronte al cimitero c’è una casa semidiroccata, parzialmente recintata, e ci sono alcuni alberi che offrono uno dei rari spazi ombreggiati sotto il sole impietoso delle 12 di un torrido luglio. Mentre fumo una sigaretta in attesa di andarmene, da un edificio di servizio del cimitero esce un signore con in mano un pesante secchio rosso pieno di calcinacci e con dentro anche un pezzo di un sanitario rotto, mi passa davanti al cofano (al massimo due metri), mi guarda e con disinvolta nonchalance getta quei rifiuti, secchio compreso, nella parte più diroccata della casa, sale sull’auto con il suo collega e se ne va, sulla fiancata della Panda bianca spicca una scritta: “Comune di Alessano, Servizi sociali”. Ah, però, i servizi sociali.
Confesso il mio stupore, mi ha visto benissimo. Evidentemente è un comportamento ritenuto normale. Non avevo fotocamera quel giorno, però passando da Alessano vedo la vigilessa e le spiego il fatto. La risposta è stata puntuale e precisa “noi facciamo campagne contro questi comportamenti, telefono immediatamente e faccio rimuovere l’immondizia”. Il giorno seguente, verso le nove, ripasso da lì, controllo, ed il secchio è ancora lì con tutti i suoi detriti, questa volta la fotocamera è con me.
Tornando sconsolato verso il paese rivedo la Panda bianca, scendo e la fotografo. Qualcuno mi vede, la vigilessa anche. Due ore dopo dal luogo del
Cocomero o anguria? Secondo gli Accademici della
Crusca usando il termine anguria, si incorre nel classico errore di
ipercorrettismo, ovvero si sceglie il termine che suona meglio in
italiano, ignorando, che è proprio quello, il termine dialettale.
Cocomero, viene infatti percepito dai più come termine infantile e
giocoso, e dai puristi della Lingua, persino come come grezzo e
volgare. Viene quindi, più comunemente, per un motivo o per l’altro,
scelto il più serioso e settentrionale, anguria dal Greco tardo angùrion, che vuol dire cetriolo, un ortaggio derivato da una ben
diversa specie botanica.
Superando questa pur doverosa precisazione lessicale, passiamo ad approfondire la conoscenza con questo immancabile frequentatore delle tavole estive.
Appartiene alla famiglia delle Cucurbitacee, specie Cucurbita citrullus, Schrad, originaria dell’Africa Centrale, è una specie annuale a ciclo primaverile estivo, comunemente coltivata per i grossi frutti acquosi. Ha fusto prostrato, sarmentoso con ramificazioni molto lunghe e foglie palmate lobate.
Il frutto, è un peponide di forma sferoidale oppure ovale, più o meno allungata che arriva comunemente a pesare venti chili, con buccia liscia, di colore dal verde chiaro al verde scuro, uniforme, marezzato o striato. La polpa è rossa, zuccherina, con semi appiattiti più o meno grandi, ovali, di colore marrone, grigio, nero o screziato, da qualche
decennio sono state selezionate anche delle varietà a polpa gialla.
Esige un clima temperato caldo, per cui la messa a coltura inizia
generalmente a fine inverno, per anticipare la produzione, la
coltivazione viene iniziata sotto dei piccoli tunnel di film plastico
trasparente, scoprendo le piante solo quando le temperature si saranno
definitivamente mitigate e stabilizzate. Il cocomero predilige terreni
profondi, ma non umidi, sciolti o di medio impasto.
In Italia, essendo ormai state quasi completamente soppiantate le varietà locali (che sopravvivono solo in qualche orto familiare) la coltivazione su vasta scala si effettua con varietà ibride, derivate generalmente da quelle di provenienza americana.
Per quanto riguarda il Salento, la produzione dei cocomeri è stata, come
16 luglio. Festa della Madonna del Carmine. Sacralità e protezione: santi sotto la campana
Il passato è la nostra storia, anche quando il percorso è l’espressione popolare di fede e di culto, eloquente testimonianza di cultura. La memoria storica conserva e ci tramanda preghiere e leggende agiografiche che arricchiscono la letteratura popolare.
Oggi il mio sguardo si è soffermato sulla statua della Madonna del Carmelo, che custodisco gelosamente nella mia dimora. Il manufatto, di qualche lustro fa, ad opera di un ignoto artista leccese, per tradizione passa da Carmela a Carmela… Carmela si chiamava mia suocera, Carmela si chiama mia figlia e….. il miracolo di ospitare un oggetto così prezioso si è tramandato. Un trittico di campane è riposto su un mobile, complemento di un arredamento rustico in un tinello ove abitualmente la mia famiglia soggiorna, come testimonianza di una tradizione sacrale di noi gente del Meridione. Ho scelto quell’inconsueta collocazione col desiderio che chiunque varchi la soglia della mia casa si accorga della sacra presenza. La più grande per dimensioni ospita un’immagine sacra: la Madonna del Carmelo (la parola Carmelo vuol dire giardino fiorito di Dio, ricco di acque e vegetazione). Quando sola in casa mi raggiro per le stanze vuote e silenziose,
OTRANTO RICORDA MARIA CORTI – 19 luglio ore 20,30 Piazza di Porta Terra
di Brizio Montinaro
Il 19 luglio Otranto ricorda la cittadina onoraria Maria Corti nell’ambito della manifestazione Libri in scena.
Su invito del Sindaco di Otranto Luciano Cariddi sarò io stesso ad avere questo onore.
Per tutta la giornata del 19 luglio, in angoli particolarmente suggestivi della bellissima cittadina affacciata su un mare bellissimo dell’Adriatico, si udiranno diffuse da discreti altoparlanti le parole scritte da Maria in L’ora di tutti per celebrare le imprese degli otrantini contro i Turchi nel 1480. Alle 20,30 taceranno ovunque e, come per incanto, nel silenzio della Piazza di Porta Terra, con le prime ombre della sera, la mia voce si leverà a ricordare la figura di Maria Corti e i suoi rapporti letterari con Otranto, poi passerà a leggere LA SIGNORA DI OTRANTO, stupendo racconto sulla funzione storica della Cattedrale. Seguirà la proiezione di un piccolo documentario, non da me premeditato ma realizzato a posteriori dopo una bellissima gita nel Salento a rivedere, con Maria Corti, i luoghi da lei amati e descritti nei suoi romanzi e racconti. MARIA CORTI: VIAGGIO NELLA MEMORIA è il titolo del documentario ricco non certo di qualità tecniche ma di tanto tanto affetto per Maria, amica tenerissima e grande amante del Salento e in particolar modo di Otranto.
Torre Sant’Isidoro e torre Uluzzo sulla costa di Nardò
Le torri di S. Isidoro e Uluzzo come la mitica fenice?
di Armando Polito
È intuitivo (ma non mancano testimonianze letterarie e archeologiche) che fin da tempi antichissimi nelle zone costiere ci fosse un sistema di vigilanza per controllare eventuali attacchi provenienti dal mare. Non è difficile, perciò, immaginare che anche le nostre coste, prima della sistematica operazione voluta nel Regno dal governo spagnolo nel corso del XVI° secolo, ne fossero fornite.
Solo in epoca relativamente recente il progresso tecnologico (non disgiunto da appetiti di natura speculativa…) ha realizzato nuove strutture di servizio ex novo e, pensando alle autostrade, tutto ciò ha comportato l’abbandono dei percorsi viari precedenti.
In passato, invece, quando si era felicemente costretti più ad assecondare la natura che a violentarla, per lo più le vie non erano altro che il rifacimento o l’ammodernamento di antichi percorsi; lo stesso dev’essere successo per il sistema difensivo costiero e non è da escludere che alcune (non tutte) delle nuove torri siano sorte sulle rovine (naturali o indotte) delle antiche, per le quali, evidentemente, felice era stata la scelta del luogo più adatto per le funzioni alle quali dovevano assolvere.
È quanto potrebbe essere successo per le torri di SanIsidoro e di Uluzzo nel territorio di Nardò.
S. ISIDORO
La prima attestazione del toponimo risale al 1443 [Angela Frascadore, Le pergamene del monastero di S. Chiara di Nardò(1292-1508), Società di storia patria per la Puglia, Bari, 1981 pg. 117]: …massariam unam, nominatam Sancti Nicolai Pedi Roghina, que est prope maritimam in Sancto Ysidero… (…una masseria chiamata San Nicola Pedo Roghina, che si trova vicino al mare in Sant’Isidoro…)] e, più avanti nello stesso documento (pg. 120):…usque ad locum qui vocatur Salparea et vadit per massariam Sancti Ysideri, inclusive, usque ad turrim Sancti Ysideri, que est fundata et constructa super territorio dicti pheudi, et deinde currit per viam que dicitur Carbasio, usque ad clausorium olivarum Carbasii, inclusive, et massariam Nicolai Cursari, que fuit Iohannis de Thoma de Neritono…(…fino al luogo che si chiama Sarparea e procede attraverso la masseria di Sant’Isidoro, comprendendola, fino alla torre di Sant’Isidoro che è costruita sul territorio di detto feudo1, e poi corre attraverso la via chiamata Carbasio, fino all’oliveto di Carbasio, comprendendolo, e alla masseria di Nicola Cursaro, che fu di Giovanni Toma di Nardò…).
La seconda attestazione è del 1500 [Centonze-De Lorenzis-Caputo, Visite pastorali in diocesi di Nardò (1452-1501), Congedo editore, Galatina, pg. 206: Item in territorio Neritoni, in loco nominato Sancto Nicola Pedironcha2, chesura una de herbagio cum puteo parietibus clausa, in loco est nominato Sancto Ysidero (Parimenti in territorio di Nardò, in località chiamata San Nicola Pedo Roghina, un luogo recintato a pascolo con pozzo, chiuso da pareti, in località chiamata Sant’Isidoro).
La terza testimonianza è quella lasciataci da Antonio De Ferrariis detto il Galateo, nel suo De situ Iapygiae pubblicato a Basilea nel 15583: Inde divi Isidori Turris Neritonorum emporium… (Successivamente la Torre del divino Isidoro, emporio dei Neritini…).
Sappiamo che la torre attuale è la ricostruzione dalle fondamenta, iniziata intorno al 1622, della vecchia che era entrata in funzione nel 1569; la notizia dell’esistenza di una torre già nel 1443 e la testimonianza del Galateo che ho riportato alla fine (potrebbe per motivi cronologici riferirsi tanto alla torre originaria quanto alla sua prima ricostruzione) fanno pensare che quella attuale costituisca in realtà almeno una seconda ricostruzione. Da notare che il documento riportato è lo stesso in cui si parla in modo che non lascia assolutamente adito a dubbi, circa una possibile confusione con questa torre, di un’altra torre, che io identificherei con quella della quale mi accingo a parlare.
ULÚZZU
La più antica testimonianza dell’esistenza della torre4 potrebbe essere fornita dallo stesso documento del 1443 già preso in esame (Angela Frascadore, op. cit. pg. 118): …item clausorium unum, nominatum de la Torre, in quo ad presens est quedam turris diruta, iuxta clausorium Nicolai Viglante, viam puplicam et alios confines…(…parimenti una zona recintata detta della Torre, nella quale al presente c’è una certa torre diroccata, confinante con la zona recintata di Nicola Viglante, la via pubblica ed altri confini…) e dopo qualche rigo nello stesso documento (op. cit., stessa pagina): …item clausorium unum magnum,nominatum de li Viglanti, ortorum quinquaginta, parum plus vel minus, iuxta clausorium Loysii Viglante, iuxta viam qua itur maritimam et alios confines…(…parimenti una grande zona recintata, chiamata dei Viglanti, più o meno di 50 orti, confinante con la zona recintata di Luigi Viglante, con la via che corre lungo il mare ed altri confini…) e, più avanti, sempre nello stesso documento (op. cit., pg. 120): …item clausorium unum terrarum, situm ut supra, iuxta clausorium nominatum de la Torre et alios confines…(…parimenti una zona recintata di terre, sita come sopra1, confinante con la zona recintata detta della Torre e con altri confini…).
L’attuale torre di Uluzzo, dunque, entrata in funzione nel 1568, potrebbe essere la ricostruzione di una preeesistente già diruta nel 1443.
E non mi meraviglierei più di tanto se nuovi documenti autorizzassero a ipotizzare per le due nostre torri, a ritroso nel tempo (non necessariamente ogni cinquecento anni, come avveniva per la fenice), ascendenze aragonesi, angioine, normanne, bizantine, romane, greche, preistoriche…
Una comunicazione di servizio: un’araba fenice (Uluzzo) probabilmente è condannata a non risorgere più dalle sue ceneri, ma questa è un’altra storia (Pompei insegna)…
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1 Si tratta del feudo di Ignano citato in una parte precedente a quella del documento riportata.
2 Da notare quale deformazione ha assunto il toponimo, in poco più di cinquanta anni, rispetto al precedente SanctiNicolaiPediRoghina.
3 Cito da La Giapigia e vari opuscoli, Lecce, Tipografia Garibaldi, 1867, vol. I, pag. 29.
4 L’attuale struttura risale alla seconda metà del XVI secolo, il nome attuale al 1957; i nomi precedenti erano stati: Del capo delle vedove (1569), Crustimi (1601), Crustamo (1611), Crostomo (1613), Crustano (1648), Cristemo (1657), Crustomo (1777), Cristomo (1800).
Pupiddhi agro-dolce – La scapece – Pupiddhi fritti
di Raffaele Pagano
Nonostante le lodi generose che taluni (uomini e donne) continuano a tributare al pesce surgelato, cioè ai vari prodotti marini della genepesca; benché non manchi la ingorda buona volontà di alcuni pescatori, premurosi di rituffare tale merce nelle acque profumate del mare; sebbene l’abilità dei gastronomi si adoperi in mille modi, nei ristoranti, per gabellare come fresco pesce che di fresco ha solo la parentela col ghiaccio, a me resta inalteratoil gusto dell’autentico pesce fresco, il quale ha un profumo e un sapore che nessun’arte o astuzia riusciranno mai a sostituire.
E notate ch’io non appartengo alla categoria di coloro “quorum Deus venter est”: tutt’altro! Faccio parte della schiera, anche se esigua, di quelli che mangiano per vivere, e che si accontentano anche di un modesto secondo piatto, però saporito, gustoso. Non per nulla ciò che compriamo è frutto del nostro lavoro, sudore della nostra fronte. Eccovi, allora, tre ricette per preparare “li pupiddhi”, termine dialettale del Salento che, se non vado errato, vorrebbe significare “piccoli pesci” (dal latino “pupillus”, diminutivo di “pupulus”).
Essi si pescano di preferenza nel mare Ionio, e particolarmente a Leuca, estremo lembo della penisola Salentina, dal cui Capo, nei giorni di sereno, si possono vedere, sfumati, i monti della Calabria, dell’Albania, l’isola di Corfù, e godere lo spettacolo (a circa 60 m. di altezza) dell’incontro e… dello scontro dell’Adriatico con lo Ionio. E’ per questo, credo, che “li pupiddhi” di Leuca sono i più ricercati: hanno rubato tutti gli aromi a due mari, fondendoli insieme.
Se avete la curiosità di sapere a che ordine di pesci appartengono, vi dirò che sono dell’ordine dei Clupeiformi, uno dei tanti ordini in cui si divide la sottoclasse dei Teleostei, cioè dei pesci con lo scheletro osseo, e che comprendono le forme più semplici e più primitive. Per intenderci meglio, pensate un po’, ma non tanto, alle acciughe o alici, alle sardine, alle “vope” (quelle piccole) che si vendono a Napoli.
“Li pupiddhi” sono pesci duri (differenti, quindi, dalle acciughe), quasi senza squame e lunghi, al massimo, quindici centimetri circa. Gli abitanti di Leuca li acquistano sulla riva, appena i pescatori tirano le reti. E’ bello vedere codesti pesciolini guizzare ancora nella rete e sentirne il profumo speciale, derivante dalle alghe di quel mare e che supera l’amore dei due mari fratelli. Però è più piacevole, per lo stomaco, vederli belli e pronti su una tovaglia profumata di bucato e preparati in questi tre modi.
Immagine tratta da: coquinaria.it
Pupiddhi agro-dolce. Si friggono in abbondante olio d’oliva (ottimo quello pugliese), dopo averli avvoltolati un po’ nella farina, e si cospargono con sale raffinato. Finita l’operazione della frittura, si mette dell’aceto bianco in una casseruola a parte, vi si aggiunge un po’ di zucchero e delle foglioline di menta. In tale preparato si immerge il pesce già fritto e ben scolato e si fa bollire. Indi si tira fuori e si adagia in un piatto, avendo cura di disporlo in bell’ordine; poi si versa sopra l’agro-dolce rimasto, il quale prenderà man mano la sembianza di gelatina. Naturalmente il pesce si serve freddo. Si tratta di una pietanza non molto comune, ma semplice e davvero squisita. Provatela!
Immagine tratta da: www.iltaccoditalia.info › news › società › agosto 2011
La scapece. Siamo sempre con “li pupiddhi. Dopo averli ben fritti e cosparsi di sale, si collocano a strati in un recipiente, preferibilmente di terracotta, come si fa con le acciughe da salare. Ogni strato si cosparge abbondantemente di mollica, mista a zafferano e imbevuta d’aceto bianco. Sull’ultimo strato si mette un po’ di midolla di pane e si adagia un coperchio piuttosto aderente con l’interno del recipiente, con sopra un piccolo peso. Così preparato, il pesce si conserva a lungo ed è ottimo come antipasto. Un tempo, quando nel meridione si facevano delle sfarzose feste religiose, alle quali, spesso, non faceva difetto l’elemento folkloristico, era facile vedere delle tinozze di legno piene di “scapece”, che i vari rivenditori presentavano ai passanti sulle bancherelle, tra luminarie e addobbi capricciosi, e al modulare allettante di cantilene dal sapore orientale.
Altri tempi, naturalmente!
Immagine tratta da: coquinaria.it
Pupiddhi fritti. Se sono freschi di giornata, non li sciupate in olio di semi o roba simile. Procuratevi dell’ottimo olio, possibilmente pugliese, e dopo averli infarinati, immergeteli in esso quando bolle trionfalmente in una capace padella. Quindi cospargeteli di sale raffinato e serviteli caldi, quasi croccanti. Mangiateli così, con pane fresco di grano, e innaffiateli con autentico vino di Puglia, con “mieru” cioè, (dal latino “merum”), che i legittimi figli di Orazio sapevano ben distinguere dal “vinum”. Dovete infatti ricordare, secondo un antico proverbio, che: “il pesce (e specialmente di questo tipo) nasce nell’acqua, muore nell’olio e si seppellisce nel vino”.
Dopo, schiaccerete senza dubbio il più saporito dei sonni e sentirete voglia di fare un viaggio fino a Leuca, dove potrete anche visitare il Santuario di S. Maria de Finibus Terrae e dove incontrerete molti settentrionali che da Milano, ogni anno nell’estate, invadono quello splendido lembo di terra e di mare. Lì potrete comodamente allogarvi nell’albergo “L’Approdo” e nelle pensioni “Minerva” e “Rizieri”. In quest’ultima, che prende il nome da un autentito figlio di Leuca (Rizieri Siciliano), potrete facilmente gustare i più deliziosi “pupiddhi”. Buon viaggio, dunque!
Da “L’APOLLO BONGUSTAIO”, ALMANACCO GASTRONOMICO PER L’ANNO 1970, A CURA DI MARIO DELL’ARCO (Dell’Arco Editore in Roma).
Per la ientulatura, una ventola di lavatrice rottamata
Da un bel pezzo, fa caldo, anzi domina l’afa: del resto, si è in estate.
A dover sopportare il barometro, talvolta oscillante intorno ai quaranta, non sono solamente le persone, ma anche gli animali (che tenerezza suscita il mio certosino, alla continua ricerca di riparo e refrigerio all’ombra!), le piante, gli arbusti, i terreni coltivati e/o coltivabili.
Cosicché, ad esempio, la vegetazione nel minuscolo orto del contadino dilettante che scrive è un autentico specchio di languore, fra nano crescita delle pianticelle, foglie ingiallite quando non del tutto secche, frutti scarsi e/o rattrappiti.
E, tuttavia, in mezzo a una simile ristrettezza agricola da siccità non fronteggiata mediante un’adeguata irrigazione artificiale, si è colta un’immagine imprevedibile, una realtà vivente e operativa, sottoforma di nutrite colonie o processioni di formiche.
L’eccezionalità non sta solo e tanto nella presenza intensa di tal comune genere d’animaletti, quanto nelle dimensioni, nella stazza, d’ogni singolo esemplare: insetti di colore fra il bruno e il rossiccio, vicino a quello delle zolle, ben nutriti, dieci/venti volte più consistenti rispetto ai minuscoli omologhi che, ora, si trovano presenti e sparsi ovunque, nei giardini, in casa, sino ai piani altissimi dei grattacieli.
L’impatto è avvenuto, per di più, con creature apparse in stato di alacre laboriosità, di lena, con, in bocca o fra gli artigli, semi e frammenti di erbe e piante, in qualche caso sproporzionati in confronto alle loro dimensioni, nondimeno agevolmente trascinati, con andatura sicura e regolare, verso tane e ripostigli sotto le già richiamate zolle.
Un occhio certamente deformato da un altro specchio, quello dell’esistenza che corre e scorre in giro con le sue ombre di crisi e pericoli e i ripetuti richiami all’essenziale, alla morigeratezza, ha, come per incanto, lasciato intravedere, idealmente, altre e ben diverse “processioni”, accanto a quelle di formiche nel piccolo e povero orto alla “Marina del Tenente”, lungo la strada che conduce all’Arenosa. Il riferimento è alle missioni che, di questi tempi, va compiendo numerose, a est e a ovest, a nord e a sud del globo, il nostro Presidente del Consiglio Monti, con l’unico o prevalente scopo, si spera ovviamente realizzabile, di seminare, fra i potenti della Terra, fiducia nell’Italia e, in certo senso, negli italiani.
Come dire, per farsi garante dei nostri comportamenti e della nostra volontà e capacità di adeguarci ai mutamenti congiunturali e alle parentesi di ristrettezza.
Si tratta, ovviamente, di un obiettivo arduo e, però affatto, ad ogni modo non completamente, peregrino.
Occorre confidare, come fanno i contadini e gli agricoltori di mestiere e tradizione riguardo agli andamenti climatici e ai raccolti, in tempi favorevoli, meglio se aggiungendo, a sostegno della fiducia, una condotta virtuosa, senza indulgere a dismisura ad abitudini di “spendi e spandi”.
° ° °
Non è difficile, né impossibile, è sufficiente sapere guardarsi in giro, intorno: di esempi positivi, utili e preziosi, ne esistono, eccome.
Un compaesano, classe 1915, quindi quasi centenario, ieri mattina era intento, attingendo a una fontanella pubblica, a riempire d’acqua una capasa, per le occorrenze domestiche. Un’istantanea di alcuni decenni o secoli fa? No, del luglio 2012.
Un altro anziano, Nino, nato nel 1924, pescatore da sempre, l’ho colto stamani, mentre scendevo al porto con mia figlia e la mia nipotina, all’opera, all’interno di una grotta scavata nel tufo, per la preparazione del suo bravo “conzo”, un attrezzo del lavoro a mare che, per il semplice allestimento, richiede alcune ore di paziente fatica, a parte la fase necessaria per la “calata” e poi per il “salpaggio”.
L’amico Luce, più giovane dei predetti con i suoi ottantaquattro anni, ieri, di buon mattino, mi ha riferito di aver passato la notte precedente caricando a trasportando a casa, in più viaggi con il suo motofurgone “Ape”, una ventina di balle di paglia, ricavate dalla recente operazione di trebbiatura: un lavoro, ha tenuto a rilevare, che deve compiersi rigorosamente di notte.
Per le varie attività in campagna del medesimo Luce, un suo familiare dalle mani d’oro, ha realizzato un’aia agricola, fedele riproduzione, salvo le dimensioni più contenute, di quelle classiche e comuni di un tempo.
Il particolare che impreziosisce la nuova opera, conferendole uno speciale valore aggiunto, consiste nell’installazione, a ridosso della circonferenza dello spiazzo, di una ventola, residuo di una lavatrice rottamata, alimentata elettricamente: lo strumento in parola è utilissimo, strategico ai fini di una particolare operazione agricola, la “ientulatura” dei cereali e dei legumi, ovvero la separazione dei chicchi e semi dalla paglia e dalla pula (una volta, il processo avveniva a furia di sollevamenti di pesanti forconi verso l’alto, in direzione di angoli o folate di vento).
Mi ha aggiunto, Luce, che, di buonora, verso le cinque, anche i suoi confinanti, V. e consorte, pensionati ma evidentemente ancora laboriosi, erano già in attività, chini a raccogliere pomodori.
A taluni, le sopra riferite istantanee potranno sembrare insignificanti, semplici inezie; ad ogni modo, per il mio sentire, rappresentano momenti, esempi, atti e spaccati che, per lo meno, conferiscono e ispirano fiducia.
Vita di ieri? Fasi superate? No, tutt’altro, è semplicemente vita.
Anche quella a venire, pur con il rispetto per i cambiamenti, le innovazioni e le rivoluzioni, ha lo stesso nome: si chiama vita.
“Beh, lo hai trovato o no il nome a questo cagnolino?”, mi chiede mia madre.
“Sì ma’, ho deciso di chiamarlo Bullo”.
“Bullo? Ma che nome è Bullo? È almeno un nome per cani?”
“Mamma, cosa significa ‘nome per cani’?”
“Questo nome, Bullo, non l’ho mai sentito!”.
Questo cagnolino è un fifone. Quindi mi è sembrato divertente dargli un nome che dicesse l’esatto opposto. Avrei voluto giustificare il battesimo citando i fondamentali dell’umorismo, quelli spiegati da Pirandello. Il contrasto tra apparire ed essere. Solo che ho avuto paura che mamma, sentendo il nome Pirandello, mi dicesse: “Bello ‘sto Pirandello. Perché non lo chiami così?”.
La discussione è proseguita il giorno dopo.
“Cambia nome a quel povero cagnolino!”
“Perché ma’?”
“Gli hai dato il nome dei delinquenti! Sono quelli del bullismo, no?”
“Sì, mamma. Sono quelli. Come l’hai saputo?”
“L’hanno detto al telegiornale”.
Per un attimo mi ero illuso. Avevo sperato che, incuriosita dal nuovo lemma, avesse consultato un dizionario. Invece era stata la televisione ad arricchire il suo lessico. Attraverso un significato che lei ha subito fatto suo, a modo suo (“il nome dei delinquenti”).
“Parlare dal video è sempre parlare ex cathedra, anche quando c’è un mascheramento di democraticità”, disse Pasolini intervistato da Enzo Biagi. La seriosità è andata a farsi benedire quando, ramazzando in giardino, mi ha confidato:
“Figlio mio, io all’inizio ho pensato al bullo della macchina”.
Ma Porto Cesareo è bella, sempre bella e come tutte le cose belle…
Non v’è bisogno di celebrare luoghi già mille e mille volte celebrati. Diventa ripetitivo, scontato, stucchevole. Alcuni nomi sono di per sé stessi garanzia di visibilio. Colosseo, Circo Massimo, Cappelle Medicee, Anacapri, Venezia e potrei continuare per pagine intere visto che ho il privilegio d’essere italiano.
Penisola d’antica storia, antesignana rappresentazione di una geometria frattale esteticamente estasiante: una penisola di innumerevoli penisole, e penisole più penisole che le altre penisole, tanto penisole da portarsi l’appellativo nel nome.
La mia fortuna non s’esaurisce nell’esser nato in Italia, ma, addirittura, nella penisola salentina, a pochi chilometri dai suoi luoghi più incantevoli. Nato a metà strada tra le albe seducenti del sole che spunta dall’orizzonte sul mare Adriatico e i tramonti fiammeggianti dello stesso sole che si rituffa nelle acque cristalline dello Jonio.
Pochi chilometri dal mare, pochi chilometri un tempo percorsi con il vento in faccia che la bicicletta o il motorino sapevano regalare, oggi lunghissimi da percorrere in automobili roventi e lente come capre zoppe.
Perle di bellezza mozzafiato sulle coste, spesso sventrate e degradate dall’assalto dell’avidità umana che le ha antropizzate in forma violenta e selvaggia.
Uno di questi straordinari gioielli è Porto Cesareo, località sullo Jonio dal nome noto come quelli in premessa. Preda per decenni della speculazione e della cementificazione selvaggia, strozzata dal traffico e da folle immense, spesso luogo di caciara e di odore di patatine fritte e gelati dai nomi improbabili.
Massacrato, abusato, stravolto. Luogo sul quale la cattiveria e l’idiozia si sono accanite con una ferocia inimmaginabile. Procurando danni irreversibili, mortificazioni e necrosi profonde. Locuste fameliche la hanno invasa e depredata instillando il veleno della cupidigia in ogni vena del suo organismo splendido e splendidamente delicato.
Ma Porto Cesareo è bella, sempre bella e come tutte le cose belle riesce a rigenerarsi con la pazienza di chi ha ragione, e fioriscono piccole realtà, ancora non diffusissime ma ormai presenti e profondamente radicate. Ed eccoti l’enoteca che promuove i prodotti del territorio proponendosi e diventando luogo di convergenza culturale di chi non si rassegna alle patitine fritte con ketchup e maionnayse e ai panini con la servola. Ed ecco che nascono le amicizie con luoghi prestigiosi che sanno valorizzare il bello antropizzandolo nel modo giusto, magari anche rimediando a qualche strafalcione da ignoranza. Ed un’Isola che costruisce un ponte e diventa anch’essa penisola diventa il luogo in cui si ritrovano tanti vacanzieri che alla legittima voglia di divertissement e di relax uniscono anche il desiderio del racconto, della piccola pillola culturale che illumina lo spirito oltre che rinfrancar le membra.
E da quell’Isola un altro ponte verso un’altra isola più piccola, e ancora una penisola allora, anch’essa antropizzata da pochi giorni, con gusto, delicatezza e voglia di esserci senza far troppo rumore.
E le idee prendono corpo, le isole/penisole hanno piccoli ponti e tanti pontili, raggiungibili via mare da taxi boat che permettono di lasciare le macchine lontane, vivere la perla dall’interno dell’ostrica e conoscere personaggi come Salvatore che porta il gozzo, passa la vita sul mare e, da solo, vale cento tourist operator che fanno marketing territoriale. “Porto le comitive all’Isola dei Conigli, e quando ci sono i bambini faccio il bagno con loro, poi mi tuffo e trovo sul fondo due o tre conchiglie da regalargli …” mi ha detto con una semplicità disarmante. Consapevole che quei bambini con quelle conchiglie si porteranno Porto Cesareo nel cuore.
Luoghi piccoli quindi, che nascono, luoghi “esclusivi” dice qualcuno e ha ragione, tutto ciò che principia è “esclusivo” ma non significa che sia sotto una cattiva stella, anzi!!! A questo giro le Isole diventate penisole e antropizzate con intelligenza, le enoteche di alta qualità vanno accompagnate, aiutate come va promosso Salvatore e compagnia che snelliscono il traffico cittadino regalando tempo ed emozioni. Che siano esclusivi, ovvero capaci di porre argine e invertire la tendenza rispetto alle invasioni desertificatrici. E che aiutino un turismo consapevole, con meno Porsche Cayenne e similari è più voglia di camminare, a passi lenti sui piccoli ponti.
Un giovane senza soldi e senza esperienza può entrare in possesso di un azienda agricola
A Lecce il 12 luglio 2012 dalle 9 e 30 alle 13 e 30 c’è stata l’OIGA. Come dici? Che cos’è l’OIGA? http://www.oigamipaf.it/ Te lo scrivo subito l’OIGA è un organismo tecnico-politico composto da esperti designati dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, dalle Regioni, dai rappresentanti degli ordini e dei collegi professionali di tecnici agricoli, alimentari e forestali e dalle organizzazioni agricole giovanili rappresentative a livello nazionale.Quello che è accaduto di interessanteSe vuoi comprare un azienda agricola lascia perdere quello che c’è scritto qui e vai in fondo alla pagina. Invece se vuoi sapere ciò che è accaduto di davvero interessante il 12 luglio a Lecce allora continua a leggere qui.Il nuovo modello organizzativo dei Pascali di San Cesario di LecceDa bambino quando volevo una gomma da masticare dovevo andare alla bottega di alimentari di Ronzino Pascali in Via Pistilli a San Cesario di Lecce. Lui, o sua moglie, da un bancone altissimo mi guardavano e mi chiedevano “cosa posso darti bel bambino?”. Preciso che, anche se incredibile a dirsi, anch’io sono stato un bambino e a quella domanda io rispondevo: “una gomma da masticare Las Vegas”. Prendevo dalla tasca dei pantaloncini corti 10 lire e gliele porgevo, mentre lui in cambio mi dava una gomma che, se conteneva un foglietto con due dadi che avevano il numero 6, te ne davano un’altra in regalo. Adesso quella bottega con su scritto ALIMENTARI non c’è più e i figli hanno invece un Market che da lavoro a una decina di persone.L’intervento del Signor StefanelliDopo gli interventi dei tecnici dell’ISMEA, dell’OIGA e di INVITALIA un vecchietto arzillo della età presumibile di oltre 70 anni si agitava e
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