Il fico d’India, è una pianta appartenente alla famiglia delle Cactacee e al genere Opuntia, caratterizzato da una moltitudine di specie, la maggior parte delle quali d’interesse ornamentale. La specie più importante dal punto di vista colturale e alimentare, è l’Opuntia ficus indica Mill., della quale si distinguono diverse cultivar in base alla colorazione della polpa del frutto (cui corrisponde in genere la colorazione della buccia) bianca, gialla, rossa.
Si conoscono, anche se poco diffuse, delle varietà a frutto senza semi (apirene) e la Burbank (Opuntia inermis), caratterizzata dall’assenza di spine. Le cultivar più diffuse nel Salento sono: quella a polpa gialla, molto produttiva; seguita a ruota dalla varietà a polpa rossa e a distanza dalla cultivar a polpa bianca.
La pianta risulta da un aggregazione di articolazioni carnose costituenti le pale o cladodi, queste, in periferia hanno consistenza succulenta e risultano tenere e appiattite, man mano, avvicinandosi alla base, acquisiscono consistenza fibro-legnosa, ingrossano e costituiscono il fusto. Le foglie, sono appena visibili e nascono alla base di varie gemme sparse sulla superficie delle pale. Intorno alle gemme sono disposti gli aculei, o setole, più o meno lunghi e rigidi. Dalle gemme situate sui
Ferma d’un tratto sulle mie gambe incerte ho fissato il cielo delle nuvole: correvano quelle veloci e nel superarmi calpestavano alberi già avviati alle ombre della notte e solcavano mari ancora accesi salutando frettolose la chiazza bianca di una nave in lontananza.
Chissà chi aveva dato inizio a questa gara.
Con l’euforia del traguardo a scolpirne soffice i contorni, gli impavidi cirri si stringevano accanto alla mia strada, una di quelle costruite dagli uomini, piani robusti d’asfalto seminati a cartelli e cemento.
Capivo che per quella frangia di nuvole seguire la pista battuta dal ritmo della mia fatica altro non era che un divertente gioco.
“Siamo di te più leggere, sorella, e nessuna curva rallenterà la nostra corsa, nessuna, e nessun ostacolo spezzerà il nostro passo, nessuno !” dicevano scivolando sulla mia testa al finire di un giorno nato terso.
Le sorti dei contendenti hanno alfine voluto lasciar di stucco il vostro
Verso Finibusterrae su antichi tratturi, tra paesaggi di pietra e ulivi secolari
IN CAMMINO VERSO FINIBUSTERRAE SU ANTICHI TRATTURI
TRA PAESAGGI DI PIETRA E ULIVI SECOLARI
ITINERARI STORICO – ARCHEOLOGICI
LUNGO IL NUOVO TRACCIATO DELLA S.S. 275
di Marco Cavalera
1. Il progetto e la sua storia
Il progetto di ammodernamento della S.S. 275 “Maglie – Santa Maria di Leuca” nasce nel 1994 con l’obiettivo di collegare tra loro le aree industriali del Salento meridionale. L’arteria stradale, presentata dai politici locali come “la più grande opera degli ultimi 20 anni nel Salento”, avrà un costo complessivo di circa 288 milioni di euro. La sua realizzazione vede il consenso di tutta la classe dirigente salentina – imprenditoriale e politica – e, allo stesso tempo, la disapprovazione di una parte di associazioni di volontariato e di liberi cittadini del territorio – riuniti nel Comitato S.S. 275, presieduto da Vito Lisi – che chiedono a viva voce di fermare la strada a quattro corsie fino a Montesano e di adeguare i tracciati viari preesistenti fino a Santa Maria di Leuca.
Il Comitato ha svolto, fin dal 2003, indagini approfondite sull’iter burocratico che ha portato all’approvazione del progetto di ammodernamento della S.S. 275, mettendo in risalto gravi irregolarità procedurali e violazioni di legge.
Dall’atto di diffida e messa in mora, redatto dall’avv. Luigi Paccione e notificato all’ANAS S.p.A., si evince infatti che l’incarico venne affidato, nel 2002, direttamente dall’ANAS al Consorzio per lo Sviluppo Industriale e dei Servizi Reali alle Imprese (SISRI), che a sua volta ha subappaltato lo stesso incarico, senza alcuna gara e in mancanza di procedura ad evidenza pubblica alla Pro.Sal. – Progettazioni Salentine S.r.l., per un importo pari a circa 5 milioni di euro.
Nello specifico, il progetto prevede la realizzazione di una strada, costituita da quattro corsie e da due complanari (una per senso di marcia), larga circa 40 metri. L’arteria viaria sarà realizzata quasi completamente su un terrapieno, con conseguente ed inevitabile cesura della viabilità rurale del territorio, che insiste in buona parte su antichi tracciati medievali.
La superstrada, inoltre, andrebbe inesorabilmente a cancellare la tipicità
Francesco Guarini, pittore barocco di grande prestigio, a Gravina in Puglia
Quando, spesso, mi capita di leggere Gravina in Puglia, accompagnato da una dicitura distintiva come città d’arte, mi trovo sempre a disagio. Perché quell’attribuzione, non originale, ma generica, significa tutto e non significa niente. Non è un motivo d’identità specifico, perché ogni città può esserlo e lo è per le quantità di scrigni e tesori di storia, arte e cultura che possiede, conserva e fa fruire. Ma è ancora di più inutile quando, quella specie di distintivo, non viene neanche utilizzato al massimo. Si da il caso che, il 19 gennaio 1611, in quel di Solofra, nascesse un certo Francesco Guarini, divenuto pittore barocco di grande prestigio, di grande fama e di grande pregio artistico, se è vero, come la maggior parte dei critici d’arte sostiene, che fu un seguace e un allievo del Caravaggio. Costui, giunse a Gravina con gli Orsini essendo loro protetto, proseguendo una florida attività lavorativa per la famiglia e le varie chiese del territorio, diventando una figura determinante per la pittura del Seicento a Gravina.
La quasi totalità dei suoi biografi concorda che la sua morte sia avvenuta nel 1651 a Gravina, il 23 novembre, ad appena quarant’anni, anche se non vi sono, purtroppo, tracce che lo confermino, nel senso che non risulta esserci un monumento funebre, un cenotafio, sia pure una lapide che ne indichi il luogo, anche se non è escluso che le sue spoglie mortali possano trovarsi e riposare nella chiesa di Santa Maria del Suffragio (Purgatorio) a Gravina, cioè nella cappella funeraria degli Orsini, visto che furono loro a chiamarlo in città e ad ospitarlo, riservandogli fastose esequie in occasione della prematura scomparsa. I suoi resti, dunque, potrebbero trovarsi in quel luogo dove, alle spalle dell’altare maggiore, trionfa e troneggia uno dei più riusciti capolavori dell’artista: la Madonna del Suffragio con le anime del purgatorio.
Presso la Fondazione Ettore Pomarici Santomasi, a Gravina in Puglia, vi sono altre due tele: la Madonna col Bambino e la disputa di Gesù con i dottori nel tempio.
Spiace dover ricordare che altre opere, della sua fiorentissima attività, realizzate presso il palazzo ducale degli Orsini, siano andate disperse, nel senso che non si sa dove possono essere state trasferite e allocate. Se formano collezioni d’arte di alcuni privati o sono esposte in gallerie d’arte, sempre di privati cultori e collezionisti, poiché non vi sono tracce o testimonianze di una presenza in alcuni musei nazionali ed internazionali.
Molti capolavori di questo importantissimo e famosissimo pittore si conservano a Solofra, Napoli e Roma, città dove egli visse lavorò. Nella sua Solofra, per ricordare e festeggiare i 400 anni della nascita di don Ciccio Guarini, così come, affettuosamente lo chiamavano i suoi compaesani ed estimatori, è stato indetto l’anno guariniano.
Alla luce di tutto questo e sulla base di non pochi elementi, alcune domande sono d’obbligo. Come mai, qui, invece, a Gravina, i tanti cultori di storia locale, gli esperti di storia e storiografia gravinese hanno trascurato questo evento? Come mai i possessori di queste meravigliose opere d’arte hanno omesso di celebrare il centenario della nascita di un pittore che ha dato molto a questa città? Come mai, quella che si definisce città d’arte, facendo solo ridere di pietà e compassione, ha trascurato di organizzare un evento che ricordasse la figura di questo pittore, gravinese d’adozione?
Perché questa città manca di conoscenza e coscienza dell’appartenenza, perché figlia incestuosa della cultura dell’apparenza esclusiva e depositaria di un soggettivismo e personalistico modo di proporsi ed atteggiarsi a uomini di cultura, senza averne le capacità, l’interesse, l’amore, la dedizione, lo studio, l’approfondimento, la serietà e il rigore scientifico.
Tutto questo, però significa e deve continuare a significare, ma solo per questo, che Gravina è città d’arte, perché coltivare nel proprio nucleo urbano gli ignoranti è anche un arte. L’arte è un valore intimo, non è un valore astratto, è un valore concreto.
Sulla base di queste certezze, mi auguro che qualcuno, al di fuori e al di là di alcune categorie di pseudo culturali, si metta a lavoro e organizzi qualche evento a ricordo di quest’uomo benefattore della nostra città. Riporti alla memoria, ai fasti della gloria l’acuta sensibilità di un artista, di un cultore del bello e del sacro e della famiglia che lo riempì di consensi, stima e fiducia.
Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali
di Mauro Bortone
Le controversie storiche. Una breve rivisitazione dell’episodio ed alcune questioni irrisolte
Per rispondere a questa domanda, si rende necessaria una breve rivisitazione degli episodi storici del 1480. Dopo aver raggiunto il suo massimo splendore nei secoli X-XV, Otranto rimase vittima della conquista di Gedik Ahmed Pascià (o Passà)[2], inviato da Maometto II[3]. I cittadini resistettero all’assedio, dopo aver visto arrivare via mare l’armata turca, composta da 90 galee e 18mila soldati. L’offensiva turca fu martellante: con le bombarde rovesciarono per giorni sulla città centinaia di grosse palle di pietra, «che quando dette palle sparavano, era tanto il terremoto che pareva che il cielo e la terra si volessero abbissare, e le case et ogni edificio per il gran terrore pareva che allora cascassero»[4]. Dopo quindici giorni, all’alba del 12 agosto, l’esercito turco concentra il fuoco su uno dei punti più deboli delle mura, ed aprendo facilmente una breccia, irrompe in città. A contrastarne l’avanzata accorre il capitano Zurlo con il figlio e con altri armati, ma il nemico è superiore e cadono tutti eroicamente, senza poter arrestare l’offensiva dell’orda: «era tanta la calca della gente Turchesca che veniva spinta da dietro dal Bassà e da loro Capitani con bastoni e scimitarre nude per farli entrare per forza e con gridi et urli, che non si posseva più resistere. […] I Cittadini resistendo ritiravansi strada per strada combattendo, talché le strade erano tutte piene d’homini morti così de’ Turchi come de’ Cristiani et il sangue scorreva per le strade come fusse fiume, di modo che correndo i Turchi per la città perseguitando quelli che resistevano e quelli che si ritiravano e fuggivano la furia non trovavano da camminare se non sopra li corpi d’homini morti»[5]. Certamente fu decisivo per l’esito del conflitto il grande divario di forze in campo. Incredibili le crudeltà commesse dagli assalitori sugli otrantini inermi: nel massacro, tutti i maschi con oltre quindici anni vengono uccisi, mentre donne e bambini sono ridotti in schiavitù. Secondo alcune stime (su cui però i dubbi restano consistenti), i morti furono 12.000 (inclusi quelli periti nei combattimenti e sotto i bombardamenti delle grosse artiglierie) e gli schiavi 5.000.
Qualche giorno dopo aver saccheggiato la Cattedrale, i Turchi uccidono sul colle “detto della Minerva” oltre ottocento superstiti. Nella tragica morte di quegli otrantini sono da rintracciare, secondo la versione più largamente diffusa le origini del martirio: stando a questa tesi, l’episodio consumato sul colle della Minerva non fu una semplice selvaggia carneficina, né un massacro per rappresaglia, ma qualcosa di più importante; quegli otrantini, condotti alla presenza del Pascià, furono obbligati ad operare una scelta chiara: l’apostasia o la morte come “infedeli”. La maggioranza degli otrantini scelsero di morire piuttosto che rinnegare la propria fede e furono decapitati con un colpo di scimitarra: il primo a morire fu tal Antonio Pezzulla, un cimatore di panni, che aveva esortato tutti a perseverare nella fede[6], e che, pur decapitato, secondo la tradizione, si levò in piedi col solo busto, senza la testa, restando immobile sino all’esecuzione dell’ultimo dei suoi compagni[7]. Un carnefice turco di nome Berlabei, sempre secondo la stessa tradizione, a quel prodigio si convertì al cristianesimo e venne condannato al supplizio del palo, quello stabilito per i “traditori della fede”[8]. I corpi degli Ottocento rimasero insepolti per circa 13 mesi, sino all’8 settembre 1481, quando il Duca Alfonso d’Aragona entrò nella città (pare, infatti, piuttosto arduo parlare di una vera e propria “liberazione”): le loro reliquie furono condotte all’interno della cattedrale. Il “martirio” del colle, secondo la tradizione cristiana, fu subito un dato “acquisito”, che fece riconoscere quegli uomini come “autentici Martiri di Cristo”. Ma non tutti concordano. Una seconda versione dell’accaduto, facendo leva sulle non poche contraddizioni emerse nel processo, ha a lungo sollevato dubbi in merito alla questione del martirio e un’accesa discussione sulla consistenza storica del dato: questi storici “laici” ritengono irrilevante, infatti, che gli otrantini del 1480 siano morti per una reale professione di fede, preferendo la tesi della “razzia” e della soppressione barbara dei superstiti; del resto, per questi storici, le mire espansionistiche turche non traevano alcun vantaggio da una conversione di massa. Di certo su questa confusione incide e non può ignorarsi quella che, rifacendosi al famoso titolo di un testo del giornalista Marco Travaglio, sarebbe definibile come “la scomparsa dei fatti”: per anni, l’episodio otrantino ha avuto scarsa menzione nei libri scolastici e nei testi storici. E se oggi c’è una sostanziale concordia sulla vicenda, per molto tempo non è stato così. E anche laddove c’era concordanza storica, la questione del martirio o della razzia ha creato comunque divisione.
I problemi, oggi, forse sono da rintracciarsi altrove: innanzitutto nelle oggettive difficoltà di elevare al culto universale della Chiesa uomini uccisi dai Turchi, in un contesto culturale di dialogo ecumenico e di “restrizione identitaria”; d’altro canto, nelle interpretazioni dei fatti del 1480, spesso si tende all’esagerazione opposta, quella, cioè, di una eccessiva retorica identitaria. Ormai va diffondendosi come moda maniacale quella di rileggere la vicenda otrantina sotto la veste di “una difesa epica del cristianesimo”, dentro ad un clima intellettuale dove crescerebbe la “minaccia islamica” e dove starebbero crollando tutti i riferimenti alla matrice cristiana della cultura europea, in un delirio da misticismo intransigente alla Socci o con una deriva fideistica da “atei devoti” alla Ferrara. Non da meno distorta pare, ad onor del vero, la scelta, ridondante di un’enfasi senza legame storico, di propugnare ogni anno a cadenza estiva, il solito riassuntino precotto e scopiazzato sulle vicende del 1480, condendolo con titoli altisonanti contro il nemico che viene da Oriente, come qualche eminente personaggio politico locale fa sempre più spesso. C’è, invece, poco interesse ad approfondire davvero le vicende, le cui interpretazioni non sono più semplicisticamente ridotte alle mire espansionistiche del mondo islamico o all’attacco di civiltà, come puntualmente e retoricamente ribadito anche nei discorsi commemorativi, che si tengono nelle celebrazioni civili dei Martiri otrantini. La vicenda storica, come sempre, è più complessa e determinata dalla convergenza di vari fattori.
Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali
di Mauro Bortone
Il decreto super martyrio
Nello scorso mese di luglio, la Santa Sede, per volontà stessa di Benedetto XVI, ha dato parere favorevole alla santificazione dei Beati Martiri di Otranto, uccisi nell’invasione turca del 1480. L’atto è un formale riconoscimento, da parte della Congregazione per le Cause dei Santi, del martirio degli Ottocento: un primo importante tassello, non ancora decisivo, del lungo percorso verso la canonizzazione. Il processo di proclamazione della Santità avviene, infatti, attraverso due momenti: la constatazione dell’avvenuto martirio e l’accertamento di un miracolo per intercessione di quanti si venerano. Il decreto in questione ravvisa che, nelle vicende storiche del 1480, Antonio Primaldo e Compagni siano da ritenersi a tutti gli effetti martiri, uccisi “in odio alla fede”. Nel gergo ecclesiale, è il decreto super martyrio: martiri si, dunque, ma non ancora santi. E ci sarà ancora da attendere, come la tradizione e la storia stessa insegnano: perché, sebbene nel sentire comune dei più, i martiri otrantini siano da tempo “santi”, le fasi e gli sviluppi storici del lungo processo di canonizzazione dicono tutt’altro, o meglio, raccontano di difficoltà di approdo a questa agognato giudizio a dir poco “croniche”. Il decreto non va sminuito nella sua rilevanza, ma occorre anche ricordare che ad esso si è giunti, dopo un percorso lungo 16 anni. La fase del processo diocesano di canonizzazione dei Martiri, si è, infatti, conclusa nel 1991. Ma l’iter è ancor più lungo e complesso, se si pensa a tutte le fasi processuali che hanno interessato i Beati Antonio Primaldo e Compagni. I martiri otrantini furono definiti tali perché al termine di un processo, aperto nel 1539 e concluso il 14 dicembre 1771, la Chiesa ne aveva autorizzato il culto[1]. Da allora gli Ottocento otrantini, morti nel sacco cittadino del 1480, sono “beati”. Con l’entrata in vigore delle nuove norme, in vista di una possibile canonizzazione, il processo è stato interamente rifatto dalla Chiesa con un’accurata ed approfondita inchiesta storica, che ha confermato il risultato
Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali
di Mauro Bortone
Lo strano caso della congiura dei Pazzi
ed il contesto storico
Seppur tra molti lati oscuri, la vicenda di Otranto, potrebbe essere collegata in qualche modo alla congiura dei Pazzi, architettata contro Lorenzo il Magnifico, signore di Firenze. Dall’agosto del 1471, infatti, era asceso al soglio pontificio, col nome di Sisto IV, Francesco della Rovere. Tra i suoi favoriti c’era il nipote Girolamo Riario: per lui il Papa acquistò la contea di Imola a un passo dal territorio fiorentino;[1] ma tale operazione necessitava di un prestito di trentamila fiorini: i Medici, banchieri di fiducia della Santa Sede, si erano però rifiutati di concederlo. A Roma si trovava un’altra banca in grado di sborsare una cifra del genere: quella dei Pazzi[2]. Ne era a capo Franceschino d’Antonio, grande amico di Girolamo Riario, col quale concepì una congiura che facesse fuori Il Magnifico. Il Papa, dal canto suo, accarezzando l’idea di trasformare Firenze in una signoria per il proprio nipote, impose alla diocesi un nuovo arcivescovo, Francesco Salviati, avverso Magnifico[3]. Il momento scelto per la congiura fu la primavera del 1478: Giuliano, fratello di Lorenzo, fu colpito a morte con i pugnali di Franceschino e Bernardo Bandini. Il Magnifico, però, riuscì a scappare. A Firenze scoppiò la rivolta: l’arcivescovo Salviati fu impiccato alle finestre del palazzo della Signoria, mentre altri congiurati, penetrati nell’edificio, venivano scaraventati giù. Bernardo Bandini riuscì a fuggire: si imbarcò su una grossa galea del re di Napoli, raggiungendo Istanbul, dove aveva amici e parenti. Anche il Magnifico, nella capitale turca, aveva interessi e spie. La polizia del sultano scoprì il Bandini e lo imprigionò. Antonio de’ Medici partì nel luglio ’79 da Firenze con ricchi doni per il sultano e ritornò alla vigilia di Natale con il Bandini. Qualche giorno più tardi, l’assassino di Giuliano de’ Medici pendeva a una finestra del palazzo del Bargello. Da allora, tra la Signoria di Firenze e l’impero ottomano s’instaurarono rapporti cordiali, con scambi di messaggi, ambascerie e doni.
L’altra grande potenza, Venezia, desiderava porre un limite all’influsso degli Aragonesi. Un tacito patto, un anno dopo, permise al sultano di trovare la via spianata per conquistare Otranto[4].
Sulla presa di Otranto, c’è da rimarcare ancora un particolare, spesso sottovalutato nel dibattito odierno: l’atteggiamento del Pascià. Molti storici sostenitori del “movente religioso” dell’assalto islamico fanno derivare le
Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali
di Mauro Bortone
Cattedrale di Otranto, interno
L’alibi del nemico turco ed il gioco del sultano
Facciamo un passo indietro. Nel maggio 1453, si era verificato, per via degli Ottomani e del loro sultano, Maometto II, un avvenimento di portata mondiale: la caduta di Costantinopoli, che aveva posto fine ad una storia ultramillenaria, gettando il mondo cristiano in una prostrazione profonda, solcata da paurosi lampi apocalittici. Numerose profezie, che avevano attraversato tutto il Medioevo e che ora tornavano più drammatiche, associavano la caduta della nuova Roma all’avvento dell’Anticristo e alla fine dei tempi[1]. La guerra dei Cento anni tra Francia e Inghilterra, che ormai languiva allo stato endemico, si chiuse precipitosamente dinanzi al nuovo pericolo; con la “pace di Lodi” del 1454 si aprì il periodo del cosiddetto “equilibrio”, dove emergeva la preoccupazione, non infondata, che i Turchi sbarcassero davvero in Italia.
In questo contesto, la cristianità occidentale si accorse dolorosamente che il “troppo presto liquidato ecumenismo politico”[2] aveva lasciato un vuoto: con un Sacro Romano Impero, ridotto ad una larva germanizzata, la stessa auctoritas del papato risultava dimezzata: “il pontefice non poteva che ambire ad un ruolo quasi simbolico di una qualche (diciamo così) presidenza della “lega” dei principi e dei popoli cristiani d’Europa, riunita per battere il pericolo turco. Fu quanto s’impegnarono a fare, con differente energia, pontefici quali Niccolò V, Callisto III, Pio II, Paolo II, Sisto IV, cercando disperatamente di metter d’accordo le divergenti idee e gli interessi contrastanti della repubblica di San Marco, del re di Napoli, del re d’Ungheria e di altre potenze: perché, intanto, si era capito molto bene che i turchi erano sì un pericolo, ma potevano essere anche uno splendido alibi
Trasformazione di una domus palaciata in pittagio S. Paolo
di Fabio Fiorito
La documentazione iconografica della Nardò medioevale è molto scarsa, ma l’occasione di ripristinare un edificio, analizzando gli elementi costruttivi e documentali, può offrire l’opportunità per meglio comprendere lo sviluppo urbanistico del centro antico.
L’intervento di restauro di una domus ha consentito di mettere in luce le caratteristiche arcate del suo portico (che nel tempo erano state celate per ricavare dei magazzini) e le antiche coperture in legno.
Le succinte annotazioni di cantiere che si propongono dimostrano ancora una volta il valore di ogni piccolo lembo dell’antico tessuto edilizio, purtroppo offeso da azzardati interventi, specie negli anni ’60-’70 dello scorso secolo.
L’interesse turistico che si registra da qualche anno e l’aumentata sensibilità dei cittadini si associa alla tendenza di valorizzare adeguatamente la parte più antica di Nardò, così come quella di molti altri centri del Salento. Spesso si evidenzia però un “congelamento dell’antico” che sfocia in un altrettanto esteso quanto impunito comportamento di elusione di qualunque regola, sia essa giuridica o edilizia.
Ignorando dunque l’antico perimetro urbano, si è concordi nel suo progressivo ampliamento, tanto da considerare tre perimetri di mura: il primo, rapportabile cronologicamente all’XI secolo, con la traccia documentale della fortezza normanna (attuale palazzo Del Prete); il secondo, che avrebbe come limite l’attuale via S. Giovanni; il terzo, individuabile nell’attuale cinta muraria, con le torri cinquecentesche ben evidenziate nella nota cartografia del Blaeu-Mortier (XVII sec).
Il tessuto urbano fra il XV e XVII secolo era composto da costruzioni raggruppabili in un definito numero di tipi[1]: apothecae, cellaria, domus terranea, domus palaciata, domus cum curte, hospicium.
Le apotecae e i cellaria erano rispettivamente i laboratori artigiani ed i magazzini; gli hospicia erano invece la più alta espressione dell’edilizia residenziale, strutture complesse comprendenti unità abitative e produttive insieme.
La domus rappresentava il tipo più comune di abitazione; quella ubicata a piano terra (domus terranea) poteva avere degli “accessori” di pertinenza, tanto da potersi definire cum furno oppure cum curte, puteo, pila, horto[2]. Le singole abitazioni, nel tempo si sono spesso aggregate nella tipologia a corte, con modalità legate alla disponibilità di terreno o ai vincoli familiari ed economici.
Come descritto da Costantini, la domus palaciata rappresentava una sorta di evoluzione della domus terranea. La scala ne era il principale elemento caratterizzante, in quanto presente solo nella domus palaciata, non veniva realizzata con intenti scenografici ma meramente funzionali[3]. Caratteristica della domus palaciata era talvolta anche la presenza di un loggiato su archi e colonne (fig. 1).
A partire dal XV secolo l’abitato neretino fu diviso in quattro pittagi [4], quartieri articolati nelle unità più piccole di vicinio e ramo. Nel pittagio denominato San Paolo – attualmente individuabile con la zona del centro che comprende la chiesa del Carmine, l’Osanna ed una porzione urbana posta a nord di questi monumenti – le mura hanno subito delle modifiche di varia entità. Gli studi mostrano come esso fosse il meno ricco di rilevanti architetture civili, con netta prevalenza di cellaria e di apotecae e quindi abitato in massima parte dalla classe artigiana e commerciante[5].
Il tessuto urbano di Nardò, come molti centri del Salento, mutò in maniera sensibile dal 1550 al 1700, a seguito dell’impatto economico e sociale avuto dalla battaglia di Lepanto (1571). Poi il sisma del 1743 contribuì in maniera quasi radicale a variare l’aspetto (o la struttura) di molti edifici sia pubblici che privati.
* * *
L’abitazione oggetto dell’intervento di restauro occupa in tutta la sua profondità l’isolato di forma allungata posto fra il dismesso convento del Carmine e la fascia edificata sul tracciato delle ultime mura. Affacciata su Via Fanti e su Via Pellettieri, è quindi prospiciente quella che è attualmente chiamata Piazza delle Erbe (fig 1).
Dall’esterno questa domus appare come un unico blocco edilizio che invece si rileva piuttosto articolato dopo aver varcato il portone di ingresso: ci si trova infatti in un cortile con vari ambienti e da esso si accede al piano superiore. Gli elementi formali e i documenti inquadrano questa casa nella tipologia della domus palaciata[6]: la costruzione a piano primo è infatti circondata sui lati ovest e sud da un portico. Si tratta di un elemento che, considerando le attuali residenze nel centro antico, si può ritenere decisamente inconsueto, ma anticamente doveva far parte del paesaggio urbano della città quando, non ancora edificati i palazzi settecenteschi, le domus palaciatae erano certamente più comuni. Nel nostro caso il porticato presenta leggere differenze: più classico nelle proporzioni e nella forma sul lato sud, sul lato ovest si presenta con un muro bucato da finestre che si affacciano su Piazza delle Erbe.
Al piano superiore si ha accesso tramite una scala in pietra che immette nel portico che si svolge attorno alla casa. Oltre le quattro arcate che si aprono sul cortile, un lungo corridoio voltato a botte consente l’accesso a vari ambienti della casa e consente l’affaccio su Piazza delle Erbe attraverso finestre rettangolari di gradevole proporzione.
All’interno la casa ha una pianta rettangolare, divisa in sei vani di forma regolare, in origine coperti con la tradizionali coperture a falda di incannucciato e coppi.
Tale antica copertura era realizzata con una struttura portante in travi di legno, su cui era sistemato l’incannucciato in modo da formare un piano regolare su tutta la superficie delle falde, su cui si posavano i coppi su un impasto formato da terra rossa (bolo)[7] misto a detriti e/o calce[8].
Anche la pavimentazione è oramai quasi ovunque alterata dall’apposizione di moderni mattoni in cemento e scaglie di marmo, ma in alcuni vani resta, sia pur frantumato, l’antico battuto di calce ed inerti.
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La casa di nostro interesse poggia su una costruzione più antica, senz’altro degna di attenzione, con ambienti che sembrano quasi degli ipogei; si percepisce immediatamente la profondità del piano pavimento rispetto al piano basolato di Piazza delle Erbe. Tali vani sono costituiti da stanzoni coperti da una volta a botte che abbraccia la distanza fra la piazza anzidetta e via Fanti con un’unica luce (fig. 3) .
Alcuni di questi spazi sono stati usati sino agli anni ’50 come frantoio e lo confermano le due anguste stanze che recano tracce di comunicazione con il piano superiore: si tratta verosimilmente delle “sciaghe”, una sorta di silos in cui venivano versate dall’alto le olive in attesa della molitura.
Si notano grandi differenze negli elementi costruttivi rispetto al piano superiore: la fattura delle volte appare approssimativa e sono presenti grandi archi di rinforzo realizzati in un’epoca successiva ed imprecisata. Si tratta di archi di forte spessore che presentano al centro un elementi di chiave realizzati in maniera inconsueta, in sostanza delle biattabande[9] costruite con vari elementi accostati e posti alla sommità dell’arco. Esse presentano degli intagli (fig. 4) alle estremità che forse servivano per il posizionamento di travi lignee (fig. 5).
Come accennato la costruzione dal lato di via Pellettieri è in buona parte interrata e sorprende il notevole spessore[10] delle murature che dall’esterno presentano una sensibile inclinazione tanto da far pensare ad un elemento di fortificazione.
Nel periodo compreso fra il 1255 circa ed il 1350[11] circa si hanno diverse integrazioni delle mura urbane.
Si tenga presente che, sino agli anni ’40 del secolo scorso, sul lato prospiciente via Fanti non vi era alcuna apertura, che era invece presente su Piazza delle Erbe. Se la funzione difensiva della costruzione fosse reale, come ipotizzato, vuol dire che si è avuto in questa area un ampliamento delle mura. Il perimetro delle ultime mura è infatti ora ravvisabile con le costruzioni prospicienti Viale Grassi. L’epoca di tale ampliamento si potrebbe collocare in un periodo immediatamente successivo al bombardamento francese del 1528[12].
Ricercando nella citata veduta del Blaeu Mortier la domus di nostro interesse (fig. 6), colpisce la straordinaria similitudine fra il suo prospetto di casa Colopi e quello disegnato dal cartografo nella medesima posizione e come l’isolato sia parallelo alla linea delle mura della Città, oltre al giardino dei Carmelitani.
Di grande aiuto per meglio interpretare l’architettura si è rivelato un rogito di compravendita del 1609 del notaio Tollemeto, in cui Bernardino Tafuri e la sorella Maddalena vendono a Francesco Acquaviva un immobile così descritto: ..tunc deputata pro cellario cum cisterna intus, cum orticello retro e domuncula lamiata ante portam principalem dicti cellarii et cum scala lapidea..[13].
In altro atto del 1570 Giacomo di Giovanni Gaballo permuta con Margherita de Pandi la sua casa palaziata qui ubicata, confinante con horto e convento dei Carmelitani, con giardino e apoteca di Domenico e Giovanni D’Orlando, il giardino dell’abate Domizio Montefuscoli e delle sue sorelle.
Le descrizioni sembrano coincidere con la domus palaciata di nostro interesse, che al momento ci appare fra le poche in cui siano sopravvissuti i caratteri originari (fig.7), per quanto celati dalle trasformazioni susseguitesi nel tempo.
pubblicato su Spicilegia Sallentina n°2
[1] Per meglio chiarire il concetto e limitare i fraintendimenti, è necessario puntualizzare che cosa si intenda per “tipologia” o, più correttamente, per “tipo”, entrambi termini estremamente diffusi e comunemente usati nel linguaggio corrente. La nozione di “tipo” a cui faccio riferimento di seguito è quella correntemente adottata in architettura per descrivere una struttura formale. “Il tipo è di natura concettuale non oggettuale” ed individua, quindi, una famiglia di oggetti che posseggono tutti le stesse condizioni essenziali, senza fare riferimento ad alcuno in particolare (cfr. C. Martì Aris, Le variazioni dell’identità, CLUP 1990 p.19-22).
[8] Questo impasto, quando dosato con sapienza, aveva notevoli doti di impermeabilità e poteva quindi resistere per decenni, sebbene, per la naturale deperibilità del materiale usato, le coperture a incannucciato (cannizzu) fossero comunque soggette a periodiche manutenzioni e rifacimenti.
A casa Colopi, secondo testimonianze dirette, l’ultimo rifacimento della copertura risale al dopoguerra: purtroppo in questa occasione si decise di sostituire parte dei tetti con moderni solai piani.
[9]La piattabanda è un elemento orizzontale, a forma di arco molto ribassato che scarica lateralmente il peso della muratura soprastante. I conci di una piattabanda sono disposti a raggiera come quelli di un arco tuttavia l’estradosso della piattabanda è piatto come quello di un architrave.
Nella piattabanda realizzata in conci di tufo questi hanno di forma trapezoidale. In alcuni casi, al di sotto della piattabanda è presente un architrave in legno, in pratica una “forma persa” usata nella costruzione della piattabanda stessa.
[10] Sul versante di via Fanti, supera i due metri.
[11] G.D. De Pascalis, Nardò,Il centro storico, Nardò 1999, pp.127-130.
Dal periodo “Agrà” di Sante Monachesi all’”informale materico” di Walter Coccetta e al più vicino Adolfo Grassi, passando (fra i nomi più famosi) per Salvatore Fiume, Remo Brindisi, Concetto Pozzati, Renato Guttuso, Giulio Turcato, AntonioTamburro, Ernesto Treccani e lo scultore Pericle Fazzini, in un crocevia di incontri con artisti “minori”. Che sorprendente scoperta si può fare nel piccolo ma ordinato e caratteristico comune di San Michele Salentino, in provincia di Brindisi, 6.000 abitanti, situato nell’area dell’Alto Salento, poco distante da Francavilla Fontana e da San Vito dei Normanni. Una realtà insospettata che accoglie nella pinacoteca intitolata a Salvatore Cavallo, magico luogo d’incontro del paese, che vive principalmente di agricoltura ma che fra le priorità del suo percorso ha inserito la propria crescita culturale.
Il tutto nasce grazie alla volontà e alla generosità del prof. Stefano Cavallo, artista e collezionista, nato a San Michele Salentino nel 1913 e morto a Milano nel 1997, la cui forte tensione espressiva trovò degna realizzazione nella pittura e nella scultura, con molte delle sue opere ospitate in collezioni pubbliche e private in Italia e all’estero. Egli espresse il nobile gesto di
Nel panorama culturale pugliese ci sono delle testimonianze e delle realtà che non si può fare a meno di visitare. Tra i tanti doni naturali che la Puglia possiede, e che ha gratuitamente ricevuto in dono, ci sono quelli costruiti da mani esperte ed umane. Sono immagini sacre, quadri, sculture di santi, reliquiari, paramenti ed arredi sacri. Un corredo enorme che costruisce e ricostruisce la storia della Chiesa pugliese. Che fa da cornice e da sfondo ad una storia scritta, ma non sufficientemente conosciuta. Un bagaglio culturale di enorme spessore, interesse e bellezza attraverso il quale si sono cimentati pittori e artisti di fama mondiale, ripercorrendo in lungo e in largo la sacralità, la spiritualità, la fede della nostra regione.
Questi ricchi contenitori di arte ed espressività, intonati e sintonizzati con le corde del cuore, sono i molteplici musei diocesani sparsi dal nord al sud della Puglia.
Ma in realtà quanti sono? In una prima ricostruzione, fatta alcuni anni fa, dalla Commissione per la cultura della Conferenza episcopale pugliese, e sfociata in una pubblicazione che ha visto la luce circa cinque anni fa, “Guida dei Musei diocesani di Puglia”, essi assomano ad un numero pari a 17. Va detto subito che sono fra i più importanti e i più ricchi per contenuti di oggetti espositivi. A questo elenco vanno aggiunti quelli definiti ecclesiatici, cioè sempre di proprietà della Chiesa, ma più, per quanto riguarda la gestione, di natura privata o privatistica.
Tutti, comunque, in ugual misura, contribuiscono ad integrare il già vasto patrimonio architettonico delle nostre chiese romaniche, gotiche e barocche.
Tutti questi cimeli, uniti indissolubilmente alle storie di ogni singola cattedrale o chiesa locale, sono il miglior viatico, il migliore mezzo per portare la Puglia oltre i suoi limitrofi e lontani confini. Essi svolgono una funzione turistica di indubbio valore, se è vero, come è vero, che la sete del sapere e del conoscere non può non passare attraverso le bellezze che racchiudono il sacro, il divino, il trascendente, il culto, la fede, la tradizione, la specificità di un messaggio autentico e non artefatto, in mezzo al confusionismo moderno o della modernizzazione dissacrante, blasfema ed iconoclasta.
Nell’economia di questi tesori viventi vanno aggiunti i cassetti della memoria spolverata o impolverata degli Archivi. Altre miniere di ricchezza di documenti, di racconti particolari, curiosi, metodici, puntuali dello svolgimento della vita della Chiesa, con gli atti ufficiali dei molteplici vescovi che hanno abitato le sedi episcopali. La vita dei Capitoli cattedrale. Le particolarità raccontate dei vari personaggi storici, che hanno contribuito a scrivere ogni fetta e parte di storia locale. Forse, con l’eccezione e la dovuta distinzione, però, va evidenziato come i musei, per la loro capacità di farsi guardare e ammirare sono mete ambite da molti.
Gli archivi, sono luoghi di studio, riservati a pochi, a cultori, ad appassionati di ricerche, e, quindi, meno esposti ai visitatori occasionali e di passaggio. Ma gli uni e gli altri non differiscono dall’ essere punti centrali d’incontro e di partenza per lo studio di ogni realtà particolare. Gli uni e gli altri insieme per assolvere a quella funzione di supporto propagandistico e promozionale del nostro territorio.
Non potendo elencare tutti i tesori contenuti nelle strutture museali diocesane, quanto meno, ci è sembrato opportuno, riportare, grazie all’ausilio di un recente studio, elaborato attraverso una Tesi di Licenza in Museologia, curata dal giovane Giorgio Gasparre e discussa presso il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, presso la Città del Vaticano, nell’Anno accademico 2004 – 2005, l’elenco aggiornato di tutti i musei che insistono nelle varie diocesi pugliesi.
Provincia di Lecce
Museo Diocesano d’ arte sacra dell’ Arcidiocesi di Lecce: Comune: Lecce- Diocesi: Lecce- Sede: Palazzo del seminario, piazza Duomo- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.
Museo Diocesano di Otranto: Comune: Otranto- Diocesi: Otranto- Sede: palazzo Lopez, piazza della Basilica- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.
Museo Diocesano di Gallipoli: Comune: Gallipoli- Diocesi: Nardò-Gallipoli- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto a pagamento.
Museo Diocesano di Ugento: Comune: Ugento- Diocesi: Ugento- Santa Maria di Leuca- Sede: Palazzo del Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.
Provincia di Brindisi
Museo Diocesano “Giovanni Tarantini”: Comune: Brindisi- Diocesi: Brindisi- Ostuni- Sede: chiostro del Palazzo del Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In allestimento.
Museo Diocesano di Oria: Comune: Oria- Diocesi: Oria- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto a richiesta.
Provincia di Taranto
Museo Diocesano di Taranto: Comune: Taranto- Diocesi: Taranto- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra-Proprietà: diocesano. Prossima apertura.
Museo Diocesano di Castellaneta: Comune: Castellaneta- Diocesi: Castellaneta- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.
Provincia di Bari
Museo Diocesano della Basilica Cattedrale di Bari: Comune: Bari- Diocesi: Bari- Bitonto- Sede: Arcivescovado- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.
Museo Diocesano: Pinacoteca Mons. A. Marena e Lapidario romanico: Comune: Bitonto- Diocesi: Bari- Bitonto- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.
Museo Capitolare della Cattedrale di Gravina di Puglia: Comune: Gravina di Puglia- Diocesi: Altamura- Gravina- Acquaviva delle Fonti- Sede: Seminario Vecchio- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: Capitolo della Cattedrale di Gravina di Puglia- Aperto, offerta libera.
Museo Diocesano della Cattedrale di Altamura: Comune: Altamura- Diocesi: Altamura- Gravina- Acquaviva delle Fonti- Sede: Matronei della Cattedrale- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.
Museo Diocesano di Monopoli: Comune: Monopoli- Diocesi: Conversano- Monopoli- Sede: Ex Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.
Museo Diocesano di Bisceglie: Comune: Bisceglie- Diocesi: Trani- Barletta- Bisceglie- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.
Provincia di Barletta- Andria- Trani
Museo Diocesano di Trani: Comune: Trani- Diocesi: Trani- Barletta- Bisceglie- Sede: piazza Duomo- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso.
Provincia di Foggia
Museo Diocesano di Foggia: Comune: Foggia- Diocesi: Foggia- Bovino- Sede: Chiesa dell’ Annunciata- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.
Museo Diocesano di Bovino: Comune: Bovino- Diocesi: Foggia- Bovino- Sede: Castello di Bovino- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.
Museo Diocesano di San Severo: Comune: San Severo- Diocesi: San Severo- Sede: ambiente ipogeo di via vico freddo- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.
Museo Diocesano di Lucera: Comune: Lucera- Diocesi: Lucera- Troia- Sede: Episcopio- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.
Museo Diocesano del tesoro della Cattedrale di Troia: Comune: Troia- Diocesi: Lucera- Troia- Tipologia: artistico- arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.
Le foto a corredo di questo articolo riprendono alcuni dei beni esposti nel Museo Diocesano di Gallipoli
L’estate è propizia per alzare gli occhi al cielo nella notte, a osservare il firmamento, più che le altre stagioni. Le notti calde che ridonano il respiro dopo il caldo del giorno, agevolano l’incontro con gli astri, perduti nelle lontananze celesti, smarriti dai nostri orizzonti circoscritti, dimenticati nella smania del vivere, o forse mai conosciuti.
In certe notti, baciate dalla brezza di terra, in luoghi abbandonati alla grazia del buio che avvolge e illumina intorno, può avvenire di perdersi fra le stelle.
Se non si ha fretta, se un po’ di umiltà ci assiste, pian piano prende forma la mappa celeste, il firmamento ci prende per mano e noi, ritornati bambini, ci inoltriamo nelle profondità dell’universo a rincorrere una stella che ammicca lassù…e così, di stella in stella, come gli avi di un tempo, tracciamo segmenti di significato per una geografia astrale, per non smarrire la strada e poter ritornare, novelli Pollicini, su questa terra che sì, ci fa penare ma ci avvolge materna, protettiva e matrigna insieme.
Ma torniamo a perderci fra le stelle per una sera… ecco qui Cassiopea, là il Grande Carro e il Piccolo che si tira dietro la Stella Polare…e noi non più marinai, non carovanieri, non sappiamo che farcene e poi abbiamo il “navigatore”…di altre stelle abbiamo bisogno, fari per l’animo, universo tutto da esplorare, con grovigli di nebulose e buchi neri, e noi incapaci a venirne a capo, non punti di riferimento, non modelli, prospettive nebbiose e incerte.
Storie mitologiche riempiono il cielo, non favolette né telenovele di qualche millennio fa. Miti, netti, indecifrabili, inquietanti. Vita e morte, amori, sacrifici, passioni, gelosie, vendette, capricci e prepotenze son tracciati nella mappa celeste da tempo immemorabile: Orione, Cigno, Aquila, Chioma di Berenice… Un’eredità celeste che attende d’essere goduta da una umanità balbuziente? E’ nel cielo il bandolo della umana psiche?
Troppe domande, troppi problemi per un’esistenza così breve da vivere, ricca di tesori da riconoscere, ammirare e godere in un tempo di cui non ci è data certezza, tempo che non possiamo governare, che scivola via dalle mani e forse s’accumula lassù, nel buio fra una costellazione e l’altra, quale riserva per l’umanità futura, una “previdenza” astrale.
No, troppo difficile trovare una ragione… e già il sonno appesantisce le palpebre… guarda lì una stella cadente! Non una stella, sai, un meteorite.
Sì, va bene, ma hai espresso un desiderio? No, non ne ho avuto il tempo…
1) Ci tene fili si fazza la naca! (Chi ha figli si faccia la culla!).
2) Lu piccìnnu ti la naca nnu ggiùrnu ènchie1 e l’addhu sdiàca2(Il bambino della culla un giorno riempie e l’altro svuota).
3) El più del tempo stava, questa3, mbriaca/e non sapëa quel che se facea;/e molte volte sopra de la naca/con greve sonno spisso4 se adormea (La maggior parte del tempo stava, questa, ubriaca/e non sapeva quello che faceva;/e molte volte sopra alla culla/con pesante sonno profondo si addormentava).
Chi legge avrà già intuito che i primi due documenti sono due proverbi in dialetto neretino e che il primo è un invito ai genitori a far fronte direttamente (si fazza) alle loro responsabilità, il secondo è di interpretazione più problematica, perché potrebbe alludere al continuo, alternato aumentare di peso, ingrassare (ènchie) e diminuire, dimagrire (sdiàca) del bambino5, oppure dipingere un quadro di regolarità intestinale in tempi in cui Activia e il suo biphidus actiregularis non esistevano e, non esistendo nemmeno la tv, non rompevano, come fanno oggi, le scatole senza, peraltro, garantire nei fatti ciò che a parole e ad immagini promettono…
È altrettanto evidente che il terzo documento non è in dialetto neretino; infatti si tratta di quattro endecasillabi (vv. 249-252) tratti dal poema LoBalzino scritto nella seconda metà del XV° secolo dal neretino Rogeri de Pacientia6. Il poema, contenuto nel manoscritto F24 della Biblioteca di Perugia, fu studiato dal Croce, ma la prima pubblicazione integrale del testo, a cura di Mario Marti, è relativamente recente7. Quanto alla lingua usata, si tratta di uno dei primi tentativi salentini dell’uso del volgare con intendimenti letterari ed essa non si discosta da quella solita degli scrittori napoletani del secolo, non priva di forme dialettali, barbarismi, costrutti poco lineari che sovente danno vita ad un’espressione piuttosto intricata del pensiero.
Chi, però, pensa, sulla scorta dei proverbi probabilmente più antichi de Lo Balzino, che naca nei quattro versi riportati sia la forma dialettale neretina più
Uno sconosciuto insediamento rurale tardo antico tra Melissano e Racale
Tra i tanti racconti che mio nonno Paolo mi tramandò ha sempre suscitato nel sottoscritto una certa curiosità la scoperta di alcune tombe e reperti in ceramica che lo stesso, insieme a suo fratello Antonio, ebbero modo di rinvenire lavorando il terreno di “donna Rosa Panico”, al fine di impiantare alcuni uliveti negli anni ’50.
Si tratta di una contrada sita tra le masserie Cuntinazzi e Cutura, tagliata dalla provinciale Melissano-Felline, sul confine amministrativo tra la stessa Melissano e Racale.
Ebbi modo di segnalare l’episodio sulla personale tesi di laurea magistrale (Cortese 2009, 22-23) in quanto questa contrada, a personale avviso, doveva essere lambita dal percorso che da Ugento portava al monastero italo-greco di santa Maria del Civo, per poi proseguire in direzione Alezio.
L’amico Fernando Scozzi (2009, 10), in un suo contributo inerente la masseria Cutura, accenna inizialmente alla storia della masseria e del suo passaggio di proprietà alla famiglia Panico (con istrumento del 12 febbraio 1896), poi ha modo di riportare una fonte orale, quella di Giuseppe Cortese, il quale ricorda che in questa contrada, denominata Spagnuli, furono scoperchiate delle tombe che si diceva facessero parte di una necropoli di un non meglio precisato convento degli “Spagnuli”.
Grazie alle sue ricerche, il professore Scozzi segnala che il toponimo Spagnuli era già presente nel catasto onciario dell’università di Racale del 1754, tra i possedimenti del duca Basurto, segnalando come sulla stessa contrada insistesse il toponimo monte d’Ercole e quello di calcara di Cola, a causa appunto di una calcara ancora viva nella memoria degli anziani.
In vista della pubblicazione “Nei Borghi dei Tolomei. Formazione e caratteristiche dei centri storici di Racale, Alliste e Felline” (Cortese 2010), ho avuto modo di compiere un sopralluogo in zona per poter meglio delineare le caratteristiche di questo insediamento. Nel fondo dove furono trovate delle tombe è presente oggi una piccola cava e molto probabilmente, se le tombe non erano terragne, almeno parte della necropoli è andata distrutta; dall’altro lato della strada, in un terreno adibito a giovane oliveto, i fondi sono cosparsi una grande quantità di ceramica di datazione tardo antica, a partire soprattutto dal II-III secolo d. C.
Tra la ceramica rinvenuta, laterizi, ceramica anforaria e da mensa (in particolare sigillata africana C). Poca, ma presente, la ceramica bizantina (non si esclude una residualità d’uso di ceramica romana imperiale nell’età bizantina), mentre è assente la ceramica invetriata.
La vocazione agricola del piccolo insediamento rurale romano viene corroborata dalla testimonianza orale fornitami da Giuseppe Cortese, il quale ricorda di aver visto il negativo, nel terreno, di due grandi contenitori, probabilmente due grandi pithoi o dolia. Non sappiamo il toponimo del sito, ma la vicina toponimo prediale Ruggiano e la presenza a poco meno di un centinaio di metri di distanza di almeno 3 tracce di centuriazione romana (direzione sud-sudest), testimoniano l’antropizzazione della contrada.
Infine, ci fu mai una comunità monastica sul sito? Il toponimo Spagnuli, a personale avviso, è da riferirsi alla caratteristica erba selvatica conosciuta nel volgo con tale nome, oppure alla origine spagnola dei proprietari della contrada, cioè i Basurto. Nessuna fonte, purtroppo, ci autorizza a pensare la presenza di un’antica comunità monastica in zona, anche se in un vicino sito analogo già frequentato, leggermente più ampio (un probabile vicus), si insediò la comunità italo-greca di Civo, reimpiegando, come accadeva spesso, i conci dagli edifici romani.
E’ grazie all’archeologia del ricordo che è emerso l’ennesimo insediamento rurale romano (fattoria?) che costellavano il nostro territorio in epoca imperiale, scoperta il cui input va tributato al mio compianto nonno.
BIBLIOGRAFIA
-Cortese S. 2009, L’insediamento monastico di Santa Maria del Civo fra indagine storica ed archeologica, tesi di laurea magistrale in topografia medievale, relatore prof. Paul Arthur, a. a. 2008/09
-Cortese S. 2010, Nei Borghi dei Tolomei. Formazione e caratteristiche dei centri antichi di Racale, Alliste e Felline, edito dal CRSEC Le/46 Casarano, tip. Martignano, Parabita
-Scozzi F. 2009, “La masseria “Cutura” note di storia e di archeologia” in Rosso di sera, a cura della Pro Loco, Melissano gennaio 2009, p. 10
A 530 anni dalla guerra di Otranto (1480/81-2011) (II parte)
1480/81-2011 – 530° Anniversario della guerra di Otranto
LA GUERRA DI OTRANTO DEL 1480
di Maurizio Nocera
… Ma vediamo ora la scansione temporale della cronologia essenziale della guerra di Otranto:
– il 28 luglio la flotta navale (130/150 navi), comandata dal navarca Achmet Pascià Keduk, sbarcò i suoi uomini (dalle 10 alle 15 mila unità) più 400/600 cavalli ai Laghi Alimini (8 Kma Nord di Otranto). In quel luogo costruirono il loro campo;
– il 9 agosto cominciò il primo assalto, respinto dagli otrantini;
– il 10 agosto il secondo assalto, anch’esso respinto;
– l’11 agosto il terzo, e fu quello che conquistò la città, subito dopo messa a sacco;
– il 18 agosto il Pascià Achmed inviò un ultimatum di arresa alle città di Lecce e di Brindisi, che resistettero. La flotta ottomana allora inseguì il suo obiettivo di espansione spingendosi sulle coste baresi e su quelle della Capitanata. Dalle popolazioni native fu organizzata una prima controffensiva degli eserciti e della flotta navale del re Ferrante d’Aragona, che:
– il 25 settembre fece giungere nelle acque del Canale d’Otranto la flotta napoletana;
– la prima settimana di ottobre gli Ottomani cominciano a ritirarsi dentro le mura di Otranto. Una parte dei militari vennero rinviati a Valona (Albania); in Otranto rimasero all’incirca 6.500 fanti e 500 cavalieri;
– il 7 febbraio 1481, presso Minervino di Lecce, avvenne uno scontro frontale tra i militari ottomani e un piccolo esercito organizzato da Giulio Acquaviva, conte di Conversano, luogotenente generale del duca di Calabria Alfonso d’Aragona. Com’è risaputo, l’Acquaviva rimase ucciso assieme ad altri suoi 700 soldati;
– in aprile, i militari ottomani presenti in Otranto vennero ridotti a circa 4.000. Il Pascià Achmed era andato via; le cronache dicono che era ritornato a Istanbul per chiedere rinforzi;
– il 2 maggio, al comando di Alfonso d’Aragona, l’esercito napoletano-aragonese si posizionò davanti a Otranto, molto probabilmente sull’altopiano,
Da Marittima, un nuovo lido e vecchi, indelebili ricordi
Anche qui, ovviamente, vanno mutando i tempi, i costumi con le correlate esigenze, le strutture.
Cosicché, alla Marina, in zona Porticelli, esattamente fra il “Pizzo della Merdara” e la “Ucca de Porticeddri” (bocca di Porticelli), è da poco sorto un lido o stabilimento balneare, a ridosso della scogliera. In termini materiali, è stata allestita un ampia spianata di ombrelloni, sdraio e lettini, insieme con un chiosco bar e ristorante e, soprattutto, onde permettere agli ospiti di sormontare senza pericoli le irte rocce e scendere agevolmente sul “lapitu” (bagnasciuga erboso) per fare il bagno, un sistema di passerelle e scalette in legno.
Gli operatori economici risultati assegnatari della concessione demaniale hanno attribuito al complesso la denominazione “Fiore di zagara” che riprende fedelmente quella della “Locanda Fior di Zagara”, entrata recentemente in esercizio, secondo la formula del bed & breakfast, nella vicina località di Diso.
Fin qui, si tratta di un doveroso cappello o preambolo di mero riferimento, senza propositi di traino reclamistico alle pur opportune realizzazioni di carattere turistico – ricettivo in discorso.
E’ tutt’altra, difatti, la ragione essenziale che ha spinto il comune osservatore di
Da ragazzo, nei vicoli odorosi di cappero e salvia del centro storico di Galatina (è nato nel 1942), la città di Gaetano Martinez, fra Santa Caterina d’Alessandria e Porta Luce, sognava di fare lo scultore. E’ diventato un archistar del restauro richiesto in tutta Italia. La parabola vincente di Rosario Scrimieri è stata festeggiata alla “Pajara Rita”, ai Fani (la mitica città di Cassandra), incantevole scorcio di paradiso a due passi da Leuca-Finibus Terrae.
Scrimieri ha presentato “Lo Spazio e la Forma”, il secondo volume che racchiude i restauri firmati dal 1999 al 2012 (Nuovo Signum nel segno dell’arte-Roma, pp. 168, s.i.p., stampa Editrice Salentina, Galatina, progetto grafico di Valentina Buzzone e Tamara Rossi, disegni architettonici di Maurizio Caproni, Laura e Rosario Scrimieri, elaborazione disegni informatici di Donato De Bonis).
Il primo, “La Forma e lo Spazio”, storicizzava i lavori eseguiti dal 1957 al 1998. Di entrambi i volumi i testi sono di Giovanni Carbonara e Toti Carpentieri. Ecco
Tempo d’estate, tempo di feste di paese. Ogni paese un santo da onorare.
L’orizzonte borbotta all’imbrunire di botti, di spari, la notte s’incendia di fuochi d’artificio, la luna impallidisce, si fa discreta, lascia la scena, scompare.
Tutte le sere una festa in terra salentina, si consulta il calendario o la memoria dei vecchi nella casa, per sapere Chi si festeggia, dove la devozione entra in scena e si esprime in un exploit di luce che vuole vincere il buio della notte.
La devozione si fa così pretesto per affermare un bisogno forse primordiale, di scuotere il cielo, riempirlo di meraviglie di luce per pochi minuti, un quarto d’ora… desiderio di onnipotenza forse, complice il santo in questione.
Un santo vale l’altro in questa gara, ogni santo è l’unico per queste mirabilie nel cuore dei devoti, che sia un Santo dei miracoli, dalla vita incredibile ed integerrima, impossibile da imitare, o una Madonna tenera, materna e pietosa. pronta a stendere il suo manto di cielo su ogni povera cosa.
Dopo la processione, lenta, silenziosa, l’aria si riempie d’attesa, la terra si tende come pelle di tamburo, si tende il cuore di ciascuno in attesa del primo botto, dopo di che si entra in un’altra dimensione…
Faville riempiono il cielo e gli occhi di ciascuno, ciascuno ha occhi di bambino nei quali si specchia l’oro dei fuochi d’artificio, fiori di luce riempiono il cielo, petali di luce cadon veloci sulla terra scura mentre ancora e ancora sbocciano fuochi nel nero della notte, rossi, gialli, d’ogni colore, sibilando, crepitando, sfrigolando di sorpresa, di piacere in un crescendo che sospende il respiro, immobilizza il moto delle palpebre per non perdere una sola favilla…
Dopo i tre botti finali tutto tace, piccoli fuochi d’erba secca e fumi che diradano nell’aria sono i segni di un bel sogno già finito, il risveglio alla vita di sempre, quando il santo tacerà nello stipo e bisognerà ascoltare le necessità quotidiane.
Fin già dal prossimo mattino.
Da Sancta Maria de Nerito a cattedrale. Un millennio di storia nella chiesa madre di Nardò (le origini)
Fin dai primi secoli del Cristianesimo Nardò (Neretum), dominio dell’Impero Romano di Bisanzio, è stata sede vescovile. Come l’intero Salento era rimasta legata a Costantinopoli anche in seguito alle invasioni barbariche dell’Italia e, ai tempi dell’iconoclastia (VIII sec), divenne il rifugio di alcuni dei monaci basiliani che lasciarono Costantinopoli per sfuggire alle persecuzioni.
Le origini dell’attuale Cattedrale si perdono nella leggenda, che ne attribuisce la fondazione al conte Goffredo, conte normanno di Conversano, conquistatore della città nel 1054. All’epoca, sul luogo dell’attuale Cattedrale esisteva già una chiesa di probabile fondazione basiliana, nota come Sancta Maria de Nerito.
Sotto i dominatori normanni, che soprattutto per motivi politici appoggiavano la chiesa latina, S. Maria de Nerito fu ricostruita e trasformata in abbazia benedettina e tale restò fino al XV secolo. In quanto avamposto dell’espansione benedettina, fu sempre sostenuta dai normanni con donazioni e privilegi.
La costruzione fu iniziata nel 1080 e la chiesa fu consacrata il 15 novembre 1088: orientata secondo la direttrice est-ovest, come vuole la tradizione, e costruita sopra la basilica precedente, aveva una larghezza circa pari
Per il primo nome dialettale e per quello italiano basta la foto; per il secondo dialettale è evidente il riferimento al colore rosso cardinalizio del fiore; Celosia è considerato generalmente arbitrario adattamento dell’italiano gelosia; non riesco, tuttavia, a cogliere il collegamento semantico, sicché mi sembra più verosimile la proposta del botanico francese Alexandre De Théis1 (Glossaire de botanique, 1810), per il quale la voce deriverebbe dal greco kèleos=ardente, a sua volta dal verbo kaío=bruciare, in quanto i suoi fiori scariosi (in botanica scarioso indica un organo o un margine di organo dalla consistenza di una squama secca) paiono disseccati; cristàta significa munita di cresta; Amarantaceae è forma aggettivale da amaràntum=amaranto, dal greco amàranton, composto da a privativo e dalla radice del verbo maràino=appassire (alla lettera: fiore che non appassisce).
Il nome dialettale cardinale a Nardò designa pure l’essenza (della stessa famiglia) il cui nome italiano è amaranto comune o spigato, lo scientifico Amaranthus retroflexus L. (nella foto in basso).
Quello della capra [versione in lingua italiana; in basso la versione in dialetto salentino]
Racconto tratto dal libro “Lu Nanni Orcu, papa Cajazzu e altri cunti salentini” di Alfredo Romano. Nardò, Besa, 2008.
Era una che si chiamava Maria ed era in attesa di un bambino. Allora il marito le disse:«Non sarà bene procurarci una capra per il bambino? Ci sarà bisogno di latte.»«Ùmh, e compriamoci pure la capra!» rispose la moglie. E così si comprarono la capra. Capra che diventò bella grossa, bella con i suoi capretti, no? e che faceva tanto bel latte. Successe che un monaco cercantino [monico addetto alla questua] che passava da casa della Maria per la questua, notò quella caspita di capra.
«Ah!» disse tra sé «questa capra è proprio buona per il padre guardiano.»
«Non mi fai l’elemosina?» chiese intanto alla Maria.
«Sì, to’!» disse la Maria. E gli porse due belle frise6 infornate da poco insieme con una manciata di pomodori.
Ma venne la notte e il frate cercantino andò a rubare la capra della Maria, sai? Il marito mo’ s’era levato presto per andare in campagna e non s’era avveduto del furto. Ma quando a sera rientrò dalla fatica, la Maria gli corse subito incontro e: «Ah!» gridò «marito mio, la capra ci hanno rubato!»
«Chi è passato ieri di qua?»
«Il frate cercantino è passato: gli ho fatto un po’ d’elemosina.» «Eh,» disse il marito «il frate se l’è presa!»
«Nooò,» disse lei «non può essere!»
«Siiì, se l’è presa, il frate se l’è presa, dài retta a me! L’ha rubata sicuramente per il padre guardiano, che è uno che se ne sta sempre a pancia piena. Mo’ gli faccio vedere io!»
L’indomani, il marito corse al convento e, giunto sotto il muro di cinta, vi s’arrampicò per affacciarsi sul giardino. E che ti vide? La pelle della capra sua stesa nel bel mezzo al sole ad asciugare. Capì che i monaci, una volta mangiata
Luglio e Agosto, tempo di vacanza (dal latino vaco, “sono vuoto, sono libero”) per grandi e piccini. Dopo un anno di stress e duro lavoro, arrivano le agognate ferie e le spiagge sono prese d’assalto da frotte di bagnanti che cercano rifugio dalla calura estiva. Soprattutto quando il caldo si fa insopportabile, non c’è niente di meglio di un bagno ristoratore e di una buona granita o una gustosa bibita ghiacciata. Attenzione, però, ad esagerare: un noto detto recita: ad agosto mangia sano, bevi meno e coi dolci poni un freno. Infatti, come segnala il calendario di Barbanera, durante le ferie, avendo più tempo da dedicare a se stessi ed agli amici, si tende ad esagerare con le abbuffate e con le occasioni conviviali, che a volte si protraggono fino al mattino. Ma proprio in estate, con il calore, proliferano più velocemente i batteri, che possono creare intossicazioni alimentari. Bisogna anche fare attenzione all’igiene dei posti in cui si mangia e si dovrebbero evitare cibi crudi o preparati con latte ed uova, perché troppo pesanti. Il caldo intenso e la eccessiva sudorazione, inoltre, possono determinare dei cali di pressione ed occorre allora bere molto, per reintegrare i liquidi mancanti, o assumere mezzo cucchiaino di zucchero o di miele. Attenzione anche ad esporsi troppo e nelle ore più calde al sole: la smania della tintarella potrebbe causare sgradevoli sorprese. Ciò detto, però, bisogna anche aggiungere che il sole, se preso con moderazione, può fare molto bene alla pelle ed alla salute in genere, alleviando alcuni particolari disturbi, dal banale raffreddore alla più seria psoriasi.
Seguendo Barbanera, ai nostri amici turisti stranieri consigliamo di portare nella loro valigia ottime creme protettive, contro le scottature del solleone, una scorta di bicarbonato di sodio da sciogliere nella vasca da bagno in caso di eritema solare e, se soffrono di insonnia, tisane o confezioni di erba gatta o valeriana.
La nostra penisola salentina offre ogni tipo di divertimento e di svago, sia sulla costa ionica che su quella adriatica, a chiunque voglia trascorrere delle giornate di sano e rigenerante ozio. Con quest’ultimo termine, otium i latini indicavano il tempo dedicato alla meditazione ed alle attività letterarie, in contrapposizione con negotium che indicava invece il tempo dedicato ai traffici e agli affari. Nei giardini estivi, un tripudio di colori attira la nostra attenzione. Passeggiando nelle fresche sere d’estate, ci si può imbattere in aiuole fiorite di viole del pensiero, tipico fiorellino estivo, che si può cogliere e magari regalare alla propria amata/o prima del commiato: così, possiamo, come per incanto, ritrovarci in Un sogno di mezza estate, come quello descritto dal grande Shakespeare, secondo il quale da questo fiore si poteva ricavare un potente filtro d’amore.Questo fiorellino viene anche chiamato erba della Trinità, poiché spesso si caratterizza per tre colori che rimandano, simbolicamente, proprio alla Santissima Trinità.
Vogliamo anche mettere in guardia tutti i turisti che vengono a trascorrere le loro vacanze sui nostri lidi dai brutti incontri: per esempio, con formiche, mosche e zanzare, per non dire blatte, che, soprattutto durante le giornate di caldo torrido ed umido, molto frequenti, purtroppo, a queste latitudini, possono infestare spiagge, case e locali pubblici; inoltre, attenzione alle punture di api, vespe e calabroni o, ancora, alle punture, frequenti soprattutto nei litorali a fondo sabbioso, di pesci velenosi, come i pesci ragno, e, se ci si inoltra in mare aperto, di ricci e meduse. Quando li si incontra, meglio girare al largo. Ma se proprio non si riesce a farlo, allora per ogni mal del corpo la medicina è nell’orto. La saggezza popolare ci viene incontro e, nel caso di punture di insetti, un toccasana sarà il prezzemolo, che ha il benefico effetto di attenuare il dolore e di ridurre il prurito grazie alle sue proprietà antinfiammatorie e disinfettanti. Contro le mosche e zanzare, si può riporre sul davanzale delle finestre aperte una pianta di basilico, perché il suo caratteristico odore risulta del tutto sgradevole a questi insetti. Secondo una antica credenza, le foglie di basilico hanno delle qualità magiche: se colte con la mano sinistra e con la luna crescente, messe nell’acqua del bagno, allontanano gli influssi malefici dalla mente e dal corpo. Così come l’ortica, che i nostri vecchi usavano preparata in un impacco per lavare i capelli ed irrobustirli. Infatti, d’estate, i nostri capelli, sottoposti a continui lavaggi e all’acqua salata ed alla sabbia del mare, rischiano di rovinarsi irrimediabilmente: allora, ogni tanto, uno shampoo all’ortica, lasciata in infusione nell’acqua bollente per mezz’ora, può aiutarli e prevenire la caduta. Bene, portare un po’ di ortica addosso, chiusa in un sacchettino, libererebbe dagli influssi negativi.
Ma, al di là di tutte le assicurazioni e delle precauzioni che si possono consigliare per potere godere al meglio la meritata vacanza, l’estate è il tempo dei divertimenti e della spensieratezza: scrupoli e malinconia fuori da casa mia. Agosto, soprattutto, è mese di pazze vacanze: agosto moglie mia non ti conosco, recita il detto popolare ad indicare anche un certo risveglio dei sensi tipico della bella stagione.
Nell’antico calendario romano, Agosto era chiamato sexstilis, cioè il sesto mese, perché l’anno veniva fatto iniziare a marzo. Successivamente il suo nome venne mutato in Augustus, in onore dell’Imperatore Augusto. Il suo segno zodiacale è il Leone. E’ una delle maggiori costellazioni dello Zodiaco tra l’Orsa Maggiore, il Cancro e la Vergine, e comprende 150 stelle, visibili spesso ad occhio nudo nelle notti di chiarore estivo. Il primo calendario romano, detto giuliano, iniziava appunto con il mese di Marzo, Martius, così chiamato in onore del dio della guerra Marte, poi vi era Aprilis, dal verbo aperire, “aprire”, probabilmente perché in quel mese tutta la natura si risveglia e si apre alla bella stagione, quindi Maius, così chiamato dalla Dea Maia, divinità della crescita, che rimanda al comparativo maior, “più grande”, Iunius, che rinvia alla dea Giunone, Iuno, e poi Quintilis, per indicare il quinto mese, prima che questo diventasse Iulius, Luglio, in onore di Giulio Cesare, Sexstilis, il sesto mese, di cui abbiamo già detto, quindi September, settimo, October , ottavo, November, nono, e December, decimo. Gennaio era Ianuarius perché rimandava al dio Giano, dio degli inizi, in quanto divinità bifronte che rappresentava la chiusura di un tempo, con una delle sue facce, e l’apertura di un tempo nuovo, con l’altra. Febbraio invece, l’ultimo mese, rimandava nell’etimologia a februa, cioè “mola salsa, ramoscello di pino”, ecc., strumenti di purificazione, in quanto a febbraio si spazzava via l’immondizia del vecchio anno e si cominciava, purificati, un nuovo ciclo. E’ chiaro che il calendario dell’antica Roma era condizionato soprattutto dalla guerra, costante preoccupazione dei latini, e dall’agricoltura, principale sostentamento nell’economia primitiva romana, e quindi il ciclo delle stagioni era sommamente importante nel determinare giorni lavorativi e giorni festivi, inizi, chiusure, tutti accompagnati da opportuni riti propiziatori che avevano lo scopo di ingraziare le divinità di riferimento per ogni occupazione agricola. Il termine feriae nell’antica Roma indicava tutti i giorni festivi, cioè i giorni dedicati ad una divinità e quindi consacrati al riposo. Così tutto il mese di agosto era feriale, cioè dedicato al riposo, poiché venivano sospese in quel mese tutte le attività. Durante il I Secolo d.C., questi festeggiamenti trovarono il loro apice il giorno 15, che fu dedicato all’Imperatore Augusto e che per questo venne chiamato Ferragosto, da feriae Augusti. Nel latino ecclesiastico, feriae indicava i giorni della settimana a partire dalla domenica: feria prima, feria secunda (che richiama il portoghese segunda feira, per lunedì), feria tertia, ecc. I giorni della settimana erano così chiamati perché ognuno era dedicato ad un Santo ed ognuno di questi giorni, quindi, rappresentava una festa per la comunità cristiana, a partire dalla domenica, che era la festa del Signore. Nel tardo latino, però, e poi con l’avvento del volgare, la denominazione feriale passò ad indicare i giorni lavorativi, in contrapposizione al giorno festivo, cioè la domenica, giorno del Signore. E così noi oggi indichiamo con il termine feriale tutti i giorni ordinari, che non sono segnati in rosso sul calendario, anche se questo è curiosamente in contraddizione con l’originaria etimologia del termine, che rimanda alla festa.
Il ciel d’agosto nelle notti chiare offre lacrime calde e non amare. Il 10 agosto si festeggia San Lorenzo e questa è la notte delle stelle cadenti. Le stelle cadenti, secondo la leggenda, ricordano le lacrime versate dal santo durante il supplizio, che vagano nei cieli, e scendono sulla terra il giorno in cui Lorenzo morì. Queste stelle sono anche chiamate fuochi di San Lorenzo poiché ricordano le scintille della graticola infuocata su cui fu ucciso il martire.
Agosto è anche tempo di acquazzoni che a volte si abbattono violentissimi sul Salento e durano solo pochi minuti: la prima acqua d’agosto rinfresca bene il bosco. Agosto è tempo di feste e di sagre in tutto il Salento e si spera che questi temporali risparmino almeno il giorno di Ferragosto quando tutti, ma proprio tutti, vogliono festeggiare, in discoteca o in qualche mega-raduno al mare o nell’entroterra, fra le bellezze paesaggistiche e culturali e le prelibatezze gastronomiche che offre questo Salentu, terra de lu sule lu mare lu ientu, come recita un fortunato slogan di promozione territoriale. Ma non bisogna dimenticare che il 15 agosto si
festeggia una ricorrenza importantissima per il calendario cristiano, cioè l’Assunzione della B.V.Maria: a mezzo mese è assunta in ciel Maria preghiamola con fede e così sia.
Gli ultimi giorni di agosto poi si insinua una certa tristezza, al pensiero che le ferie volgono al termine e si dovrà ritornare al lavoro e agli affanni del tran tran quotidiano.Quando arriva agosto prepara i tini per il nuovo mosto: a fine agosto, infatti, i contadini si preparano già per i grandi lavori di settembre, con la vendemmia e la successiva vinificazione. Non ci rimane che augurare buona permanenza nella nostra terra e buone vacanze a tutti !
L’arte è divenuta sin dall’antichità impegno primario nella creazione d’immagini-simbolo attraverso schemi differenti nel tempo e nello spazio e, le stesse, hanno una straordinaria capacità comunicativa, evocativa, persuasiva ed emozionale. Guardandole l’uomo ricorda, si riallaccia ad avvenimenti e si avvicina col cuore al pensiero che ha creato quell’immagine. In un’opera, in generale, arte e simbolo sono imprescindibili l’una dall’altro perché ogni autore, da sempre, nel realizzarla la pervade d’intimi effluvi, desiderando conferire un senso al suo manufatto, impregnandolo del suo mondo esteriore ma, ancor di più del suo mondo interiore, delle sue sensazioni più nascoste.
Il simbolo, in fondo, è sempre parte basilare di un’opera d’arte, ne costituisce il fulcro interpretativo e spesso lo stesso manufatto artistico diventa vettore del simbolo in essa racchiuso. A ben pensarci, arte e simbolo sono coesi l’una all’altro nella storia dell’umanità sin dalle sue origini perché l’uomo, da sempre, ha avvertito la necessità di capire il mondo che lo circondava e, desiderando rendere visibile il sacro nella sua quotidianità, lo ha rappresentato nelle forme artistiche più varie ed anche su supporti più disparati caricando le immagini di una forte simbologia.
Considerando, poi, che l’arte, in genere, è l’illustre linguaggio in cui il segno e il simbolo vengono esplicitati per consegnarli alla società come valori di autenticità e sacralità, è quasi scontato per quel segno essere metafora di comunicazione per chi le sta di fronte.
L’arte, come la poesia, va “scritta” e interpretata secondo il proprio pensiero e per farlo si possono usare varie chiavi di lettura; non vi è dubbio, però, che proprio grazie a questa sua rappresentatività impregnata di simboli e metafore, l’opera d’arte, più della poesia, si presenta ai nostri occhi come fonte inesauribile di segni, di messaggi silenziosi e d’impercettibili vibrazioni che scuotono nel profondo e che, spesso, fanno parte del nostro modo di essere mondo nel mondo e della nostra coscienza solitaria e silente.
Girolamo Comi, forse, si era avvicinato all’arte grazie al suo amico Evola[2] ed era amante dell’arte in genere.
Forse anch’egli aveva provato a cimentarsi nel disegno; infatti nei suoi diari, conservati gelosamente nelle teche della biblioteca provinciale di Lucugnano, ritroviamo in alcune pagine schizzi e disegni o forse simboli.
Nel momento in cui ho cominciato ad interessarmi agli arazzi presenti nel Palazzo del poeta Girolamo Comi ( oggi Biblioteca della provincia di Lecce) mi ha colpito l’interesse di questo poeta verso l’arte del tessere, sia perché arte
“cittu tie, ca nu sai fare mancu l’o cu lu bicchieri” era l’invito, il rimbrotto, la condanna, la provocazione, lo stimolo, in tempi in cui non si predicava di autostima, la pedagogia era altra, il rispetto per gli adulti era sovrano e i bambini non avevano voce in capitolo, anche se avevano da dire.
Erano altri anche i bicchieri e qualcuno andava in frantumi a forza di provare e riprovare a fare un cerchio preciso, senza sbavature… non tutti si era come Giotto che lo tracciava col bastone da pastore sulla strada polverosa, dietro al gregge e sotto lo sguardo di un Cimabue.
Altri tempi, altre situazioni, opportunità altre, altre le strade…
Se un bambino di oggi ci vuol provare, ha qualche difficoltà ad essere preciso su una superficie d’asfalto, ne convenite?
Eppure il desiderio è sempre uguale, è una spinta antropologica a realizzare “a mano libera” la perfezione, poter dire con orgoglio “guarda, ci son riuscito!”
Quindi, ci si prova col bicchiere. No, il compasso no, è un’altra cosa.
Anche la matita fa la sua parte, un tempo era sgrossata col coltello, una matita da falegname, altro che punta fina, il segno ben evidente su una carta corposa, spessa, e c’era sempre, seduto al tavolo, un nonno, uno zio, un padre, che aiutava a temperarla, a tener fermo il bicchiere, lo stesso censore che poco
In modo silente, severo e semplice al tempo stesso, esprime e trasmette la sacralità della terra, secolari esperienze di vita, pane, lavoro e innumerevoli sacrifici.
La traiettoria ardita di una maestosa libellula, sospesa e riverente, libera i miei pensieri invitandomi al volo. La inseguo. Nel frattempo ascolto, rifletto e mi chiedo: era così anche per gli antichi abitanti di Terra d’Otranto?
L’accettazione fatalistica dell’inevitabile dolore insito nella condizione umana filtra dall’educazione, permea le menti rendendole forti dal punto di vista psicologico e resistenti di fronte alla durezza del vivere… Nel passato i giovani erano di certo meno liberi, ma senza dubbio meno fragili rispetto a noi.
Terra, pane, lavoro, resistenza alla fatica.
Valori propulsivi che per secoli hanno modellato menti e comportamenti giungendo, una generazione dopo l’altra attraverso la mediazione della famiglia, fino a oggi. Alcuni nel frattempo si sono rafforzati, altri indeboliti, per il susseguirsi delle stagioni dell’anno e della vita che scorrendo cambiano luoghi, uomini e cose.
Oggi un valore è inalterato e vivo più che mai, anche se con sfumature nuove rispetto al passato: l’importanza della terra come generatrice di frutti e bene da valorizzare e difendere.
Residuo di questo ancestrale attaccamento alla terra, quasi una sorta di “terrestre” religiosità, è penetrata finanche nel mondo cristiano. Lo testimoniano le chiesette, le cappelle, l’edicole votive di cui sono disseminate le contrade e le campagne salentine.
Un esempio meraviglioso è dato dal sito di Cacorzo, nei pressi di Carpignano Salentino, dove sorge uno splendido santuario dedicato alla Madonna della Grotta, quasi che la devozione popolare abbia voluto porre sotto il mantello della bella santa, una Terra che gli uomini da soli non sarebbero bastati a difendere e preservare. Quante volte la statua della Madonna sarà stata portata in processione lungo strade e sentieri che correvano tra gli ulivi, a ridosso delle neviere e della colombaia, sotto un cielo tanto bello da sembrare forse l’immagine stessa del Paradiso. Di queste e di altre analoghe, intense esperienze religiose si nutrivano le famiglie che della religione facevano il pilastro della loro esistenza, come nel lavoro ne ponevano le basi.
Tutto rientrava nel quadro dell’ordine e della tradizione con al centro la famiglia, mediatrice per eccellenza tra l’individuo e la società per la conservazione di valori sentiti e vissuti come irrinunciabili. È commovente oggi pensare a queste famiglie, all’infinita tenerezza dei membri per i quali la fatica di una realtà quotidiana a volte amara e la condizione di un’intera vita all’insegna del lavoro e del sacrificio, trovavano in un certo senso giustificazione in una visione ultraterrena che le rendeva accettabili. E se a volte l’amarezza era un calice impossibile da vuotare, specialmente per i giovani a causa dell’età e delle attese, allora – a domare l’irrefrenabile impulso alla ribellione – interveniva il sentimento dell’autorità anch’esso molto forte e radicato nella cultura contadina. Non doveva essere facile, per dei giovani nati e cresciuti in quel contesto, superare la zona impervia e difficile della giovinezza e approdare alla terra della realtà e della condizione adulta. Difficile, se non impossibile, il guado di questa terra di nessuno, senza l’apporto dei genitori, dei nonni, della famiglia in generale, senza il calore e la sicurezza che all’individuo viene da quei legami ideali forti, da quei sentimenti che nella famiglia stessa hanno la loro sede naturale. A questa prima “base psichica” che rende possibile, oggi come in passato, l’accettazione dell’autorità se ne unisce una seconda, che secondo il sociologo Vilfredo Pareto[1] risiede nei sentimenti di soggezione, di affetto, di riverenza. Nel passato, il rapporto dei giovani con la famiglia era gravato da un forte senso dell’autorità, e ciò faceva probabilmente sì che la loro psiche con i delicati meccanismi, anziché essere guardata con rispetto e trattata con delicatezza, fosse considerata un semplice mezzo per governare i comportamenti. E queste dinamiche si potevano determinare, come purtroppo avviene ancor oggi, a livello consapevole o a livello inconscio sia per chi subiva sia per chi dominava. D’altro canto provare quei sentimenti di soggezione mista ad affetto è stata, in tutti i tempi e in quasi tutte le società umane, la condizione indispensabile per la costruzione delle società umane.
Inoltre è stata sempre la famiglia a svolgere una funzione e un ruolo di primo piano per la preparazione psichica, «la conservazione e la riproduzione dell’autorità»[2]. Spesso tutto ciò non appariva né agli occhi degli adulti né a quelli dei giovani, offuscati da un alone di romanticismo che ancor oggi la famiglia dei tempi trascorsi si porta dietro nell’immaginario di anziani ma anche di una parte della popolazione più giovane. Se si vuole, tuttavia, fare un confronto tra la condizione giovanile di un tempo e quella dei giovani che vivono l’odierna realtà, bisogna scrollarsi di dosso le incrostazioni romantiche e sentimentali, che spesso nascondono realtà ben più crude. Rispetto a noi, giovani di oggi, quelli del passato, a fronte di una forte riduzione della libertà, godevano se non altro di maggiori sicurezze affettive e psicologiche. I ragazzi che oggi si incontrano in quelle stesse contrade, sono forse apparentemente più liberi, ma non sempre altrettanto sicuri. Siamo, dunque, come i nostri coetanei del passato, inclini a cedere ai ricatti psicologici, potenti quanto subdoli, della famiglia e dell’autorità, che ancora, in un certo senso anche se in modo diverso, da essa pretende di promanare.
Quello che forse di veramente bello e profondo aveva la società salentina in altri tempi era il ritmo lento della vita, che permetteva una comunicazione tra le generazioni, mentre oggi la rapidità che contraddistingue i contatti e le relazioni umane rischia di far perdere di vista l’antico valore della lentezza, quello che dava più voce ai deboli della società, anziani e bambini. Oggi sbiadendo, questo valore rischia di far tacere le voci delle generazioni estreme, ma ciò potrebbe scavare un solco più profondo anche nelle relazioni tra giovani e adulti.
[1] Vilfredo Pareto (1848-1923), ingegnere, economista e sociologo italiano, i cui concetti presenti nel Trattato di Sociologia Generale ripresi da H. Marcuse sono illuminanti per comprendere meglio le complesse dinamiche psicologiche che intervengono nel rapporto: io-autorità-famiglia. Cfr. V. PARETO, Trattato di Sociologia Generale, cit. da H. MARCUSE, L’autorità e la famiglia, Torino, Einaudi, 1970.
[2] F. FERRAROTTI, Lineamenti del pensiero sociologico, Roma, Universale Donzelli, 2002, p. 362.
Nota. Il narratore popolare, dovendo far parlare i santi e il prete, si sforza inutilmente di farli parlare in italiano. In basso la traduzione in italiano del racconto
Nc’era ‘na fiata ‘na piarella ca era mutu beddha e abitava a ccasa soa paru cu fràtusa. Scia sempre ‘lla chèsia ddha cristiana, e ccusì lu prete chianu chianu ne ccuminciàu mmenare l’occhiu, sai? E ‘nnu beddhu giurnu, tittu ca ia messa, la chiamàu te sparte e nne tisse: Tonna pia, ti devo dire ‘na cosa, ‘na cosa che t’ha ppiàcere di sicuro. È benuto a ṭrovarmi san Giorgi e mm’ha dditto ca ‘ole farti visita allo catìre della menźanotte. A ‘nna condizione però: che devi stare sola, non ci-ha bèssere nišciuno alṭro, manco il frate tuo.»
«Uuuh, san Giorgi ccasa mia! cce onore! cce ffurtuna! nu’ ppozzu critìre: san Giorgi ca šcinde te lu cielu e bene ṭṭroa ‘na tonna cumu mmie, ca nu’ ssu ddegna mancu llu mantunu.»
Foe cusì ca la piarella, turnata a ccasa, ne cuntàu a llu frate sou te ‘sta visita te san Giorgi. E nne tisse puru pe’ lla notte ca venìa ca se nd’ia ‘ssire te casa, ca ia šcire se ṭroa cu ddorma a ‘nn’addha parte, percé cusì vulìa san Giorgi. E llu frate tisse a lla soru: «Nu’ tte nde ‘ncaricare! Tici lampu ca pe’ llu tesitèriu te ‘nu
L’affaire ILVA di Taranto è un ossimoro bello e buono
La Costituzione parla esplicitamente del diritto alla salute e di quello al lavoro, addirittura quest’ultimo è, secondo la carta, la parte fondante della Repubblica stessa. Lo Stato ha quindi il dovere di tutelare entrambi questi diritti. Ora, a meno che non si ritenga la Carta Costituzionale alla stregua di un soprammobile inutile e da spolverare di tanto in tanto, magari giusto nelle ricorrenze, per poi scordarlo per il resto dell’anno, l’affaire ILVA di Taranto è un ossimoro bello e buono. Gli operai sono costretti a scendere in piazza per difendere il loro posto di lavoro minacciato da chi vuole difendere la loro salute e non disdegnerebbe il chiudere la fabbrica. Si rischia di camminare sui vetri facendo questo discorso, nessun attacco alla Magistratura, per carità, soprattutto quando fa il suo lavoro.
Che a Taranto si crepi di cancro più che in altri luoghi è un fatto dimostrato,
Vediamo un po’ cosa mi tocca illuminare questa sera…
La superficie del mare come sempre, con tutte le creature che vivono là sotto . Vivono? Si, pascolano, guizzano, si nascondono, inseguono, ingoiano, sbranano… sono tante, difficili da tenere a bada, d’addomesticare.
Le conosco da sempre, se la vedon fra di loro, le lascio fare.
Certo, mi fa piacere quando vedo la mia luce riflessa sul dorso lucido dei delfini che vanno, lenti, bonari e cantano… mi sento meno sola quelle volte.
Ci sono più problemi sopra la superficie del mare, che sotto, questo è certo. E non posso far finta di non vedere, con tutta questa luce…
Lì c’è una imbarcazione prepotente, lascia una scia profonda e sconvolta di acque, chissà dove la porta tanta fretta, cosa “giustifica” tanto spreco di
La festa di Sant’Emidio, protettore di Leporano (Taranto)
La festa di Sant’Emidio, il protettore di Leporano (Taranto)
di Daniela Lucaselli
Leporano, un piccolo centro pugliese a pochi chilometri da Taranto, sorge su un altopiano tra pianure che pavoneggiano il loro splendore affacciandosi sullo Jonio.
Nell’ambito delle manifestazioni culturali e folkloristiche, l’estate leporanese, tra musica, danza, teatro, moda e tradizioni, nei giorni che vanno dal 3 al 5 agosto, vede protagonista la festa patronale in onore di Sant’Emidio.
Un vivace intrecciarsi di suoni, luci, colori, allegria e gioia fa corredo ai tre giorni in cui si celebra la ricorrenza.
Il 3 in piazza musica anni sessanta; il 4 al tramonto si svolge la processione d’intronizzazione e il concerto della banda; il 5, sempre al tramonto, la processione del Santo, salutata al rientro da sfavillanti fuochi pirotecnici sul sagrato e concerto delle bande. Intorno circa all’ 1,30 grande spettacolo seguito, fino all’alba, da musica di discoteca all’aperto sul piazzale antistante lo stadio.
La devozione al Santo nel piccolo paese tarantino nasce a seguito di una violenta scossa di terremoto che avvenne il 20 febbraio1743. Il sisma
Antonio De Vito. Segni e segreti negli affreschi del Salento
Solo per gli sprovveduti ricorderemo che l’affresco è una antichissima tecnica che ci ha consegnato pitture del periodo medievale e rinascimentale, con esempi sparsi in tutto il Salento, in cui è forte la tradizione per questo tipo di pitture, particolarmente nelle cripte disseminate sul territorio, ma anche all’interno e all’esterno delle chiese.
Una tecnica quella dell’affresco assai difficile e laboriosa, che richiede tempi rapidissimi per la sua realizzazione, oltre ad una particolare abilità del frescante, che non può ripensare o correggere una volta applicato il pigmento colorato e diluito sull’intonaco fresco, che immediatamente lo assorbe.
La bravura sta anche nel saper scegliere la superficie, che l’artista deve rendere assolutamente piana, per poi applicarvi il tonachino e quindi i colori. Wikipedia comunque vi spiegherà ogni particolare.
Queste essenziali caratteristiche siano sufficienti per spiegare quanto pochi siano i frescanti e perché la tecnica sia stata abbandonata nel corso dei secoli, nonostante sia tra quelle che ci hanno tramandato meravigliose opere d’arte, che difficilmente sarebbero sopravvissute se le stesse fossero state realizzate con la pittura. Bastino per tutte Pompei, le opere di Giotto e la cappella Sistina. Per rimanere nel Salento solo due esempi: la chiesa di S. Caterina in Galatina e quella di Santo Stefano in Soleto. Ma in queste Spigolature Salentine si cerchino i diversi articoli di Massimo Negro, che pazientemente ha visitato le numerose cripte affrescate della provincia, offrendoci esempi talvolta bellissimi e tanto sconosciuti. Tra le più recenti edizioni a stampa mi piace ricordare gli affreschi di Santa Maria de Itri in Nociglia, un incantevole edificio medievale, per secoli naturale tappa del pellegrinaggio verso l’antico santuario di Leuca, abilmente studiati e descritti da Sergio Ortese.
La stringata premessa per introdurre quello che, secondo il mio punto di vista, è uno degli eventi culturali dell’estate salentina che merita particolare attenzione. Dal 3 al 27 agosto, presso la Torre Matta di Otranto, esporrà le sue opere il qualificato maestro Antonio de Vito, nativo di Alessano, che ha raccolto ventisei delle sue creazioni nella mostra “I muri dell’arte. Segni e segreti negli affreschi del Salento”, patrocinata dalla Provincia di Lecce, APT, Comune di Otranto e Comune di Poggiardo.
Attento studioso degli affreschi antichi, il maestro De Vito, molto abile nella tecnica pittorica, ha prodotto numerose reinterpretazioni di celebri affreschi italiani, con uno stile assai pulito e nitido, armoniosamente classico e di chiara ispirazione rinascimentale, rinnovando con le sue opere la conoscenza di alcuni dei capolavori dei grandi maestri.
Scelto il supporto su cui immortalare l’opera, magari un imperfetto muro in pietra, comunque una superficie provata dai segni del tempo, ecco che realizza con la rapidità necessaria il soggetto preventivamente studiato. Giorni e giorni di applicazione, di stesura dei ricercati pigmenti, assistendo con emozione alla lenta ma efficace azione della chimica di quei materiali selezionati. Poi faranno la loro parte il calore ed il tempo, che fisseranno indelebilmente sulla pietra le capacità artistiche appena espresse, misteriosamente esaltate dalla patina che si viene a creare. Seguirà lo stacco dal muro originale, conclusione di tanta perizia, che consentirà l’adattamento alle proprie esigenze.
Legato alla sua terra, come accade per molti salentini che si son dovuti spostare, il maestro De Vito ha avuto la brillante intuizione di reinterpretare e riproporre anche alcune opere esistenti nel territorio salentino, disseminate in grotte, cripte e chiese, che spaziano dall’arte bizantina a quella rinascimentale.
Le eloquenti foto inserite a corredo di questo annuncio denotano chiaramente la maestria di De Vito, e le bellissime figure in primo piano, particolarmente predilette dall’artista, risaltano per l’incisiva lucentezza e per i volumi così sapientemente delineati e modellati. A mio modesto parere, un evento da non perdere assolutamente.
I MURI DELL’ARTE – Segni e segreti negli affreschi del Salento
Le foto sono state gentilmente fornite dall’Autore, che le ha concesse in esclusiva per questa nota. E’ vietata ogni riproduzione, con qualsiasi mezzo.
Anche quest’anno per combattere il caldo si raccomanda di bere…
Se la televisione fosse esistita ai tempi dei Greci e dei Latini quasi sicuramente i nostri antenati si sarebbero dovuto sorbire in questa stagione più volte al giorno un Bisogna bere in abbondanza, che è, poi, la traduzione delle due frasi, di mia invenzione, appena scritte.
Il problema, oggi probabilmente più assillante di allora, veniva risolto bevendo acqua o vino freschi, in un modo, cioè, vino a parte, non dissimile da quello puntualmente raccomandato ai nostri giorni dal tg e suggerito, per non dire subliminalmente imposto, (questa volta anche ma non solo per l’acqua…) dalla miriade di messaggi pubblicitari al cui bombardamento siamo sottoposti tutte le ore del giorno e della notte.
Si, ma come facevano a rinfrescare ciò che bevevano? Tutto questo lo vedremo tra un attimo, dopo la pubblicità…
Greci e Romani, ma pure altri popoli più antichi, rinfrescavano ciò che bevevano più o meno come si è fatto fino alla fine del XIX secolo: con la neve. E, per mantenere costante la temperatura per un periodo sufficientemente lungo, a partire dal VI secolo a. C., i Greci usavano un contenitore chiamato ψυκτήρ (alla lettera refrigeratore, da ψύχω=soffiare, respirare, raffreddare; i primi due significati denotano pure la derivazione dallo stesso verbo di ψυχή=vita, anima; nel linguaggio specialistico ψυκτήρ è reso in italiano con psictère), avente una forma particolare, che, riempito di neve o acqua fredda, veniva posto nel cratere contenente il vino (secondo altri il ruolo dei due contenitori era invertito); un altro modello più raro e in uso solo nel VI secolo somigliava ad un’anfora con doppia parete, la cui intercapedine era riempita con il liquido refrigerante: sono, soprattutto quest’ultimo, gli antenati del thermos.
I brani che seguono da me tradotti nelle due sezioni, la prima dedicata agli autori greci, la seconda ai latini1, rappresentano adeguatamente il tema di oggi (limitato all’acqua e alla neve visti solo come mezzi per la soddisfazione della sete e per sollievo dall’arsura e non, tra l’altro, come strumenti terapeutici) nelle sue molteplici sfaccettature: dalla sentimentale alla scientifica, dalla polemica all’economica, dalla sociologica all’ironica (mi riferisco all’ironia dei testi originali, non alle mie superfetazioni alle quali, purtroppo, non ho saputo o potuto rinunciare).
1)
Senofonte (V-IV secolo a. C.), Memorabilia, II, 1 nel citare la favola di Ercole al bivio da un’opera perduta di Prodico (V-IV secolo a. C.) così fa parlare la Virtù all’indirizzo della Felicità: “… per bere con piacere ti procuri vini costosissimi e d’estate vai in giro a cercare la neve…”.
Vuoi vedere che l’allusione non è tanto alla neve che serve alla Felicità (leggi evasorefiscale) per raffreddare il suo costosissimo vino (leggi champagne) ma, piuttosto, a quella artificiale sparata in estate da un cannone ante litteram sui campi da sci di qualche località rinomata per la pratica di sport invernali (se ancora non avviene, potrebbe essere un’idea per qualche coraggioso “imprenditore statale”)?
Teocrito (III secolo a. C.) nell’XI idillio (vv. 47-48) mette in bocca a Polifemo innamorato di Galatea queste delicate parole con cui il gigante (leggi la bestia) descrive le comodità del suo appartamento (leggi caverna) cercando di conquistare la ninfa Galatea (leggi la bella): “C’è acqua fresca che il boscoso Etna mi fornisce dalla bianca neve, bevanda divina”.
Altro che altissima, purissima, Levissima!
Strabone (I secolo a. C.), Geographia, XI, 4: “Dicono che qui [in Armenia] nel corso di scalata dei monti spesso intere cordate sono state fagocitate dalla neve; che per far fronte a questo pericolo i viandanti hanno dei bastoni da sollevare in superficie in modo tale che possano respirare e segnalare la loro presenza ai soccorritori e che ne hanno tratto giovamento e sono stati liberati e salvati. Dicono pure che nella neve si formano zolle cave contenenti all’interno, come se avessero la buccia, acqua da utilizzare”.
Sulle capsule di acqua non ho nulla da dire; mi chiedo, invece, quante volte abbiano funzionato i bastoni perché, allora come oggi, quando t’inghiotte la neve o t’investe una valanga, per potere restare col bastone in mano e poi manovrarlo adeguatamente ci vuole la stessa fortuna che ha avuto Schettino col suo scivolone nella scialuppa… Comunque, fatte le dovute differenze non so a vantaggio di chi, il bastone è un ARVA (acronimo di Appareil de Recherche des Victimes en Avalanche), un rilevatore di posizione ante litteram.
Ateneo di Naucrati (II-III secolo d.C.), I deipnosofisti, IV, 21: “Su un treppiedi c’erano uno psictere di bronzo, una brocca, un bacile di argento contenente due coppe e una tazza, una coppa di bronzo più grande per versare il vino”.
E, dopo questa presentazione collettiva di contenitori per bevande, che a qualcuno può pure ricordare per certi versi qualche vendita televisiva di una batteria di pentole:
III, 35: “Semo di Delo nel secondo libro de L’isoletta dice che nell’isola di Cimolo d’estate vengono approntati luoghi per tenere fresca l’acqua, dove vengono riposti vasi di creta pieni di acqua tiepida, poi vengono usati come se contenessero neve sciolta…….. Alessi dunque ne Il parassita dice: -Voglio che tu assaggi la mia acqua; ho dentro casa la grande ricchezza di un pozzo la cui acqua è più fredda di Ararote2-. Ermippo ne Il furfante chiama freatica l’acqua del pozzo. Alessi ne La donna che beve la mandragora dice che bevevano pure la neve: Non è forse l’uomo una strana creatura che gode di cose tra loro contrarie? Disprezziamo i parenti, amiamo gli estranei. Pur non avendo nulla siamo ricchi per gli altri, quando si fa una colletta la nostra partecipazione è misera. Per quanto attiene il vitto quotidiano vogliamo che la nostra focaccia sia quanto più bianca possibile e poi la inzuppiamo in un brodo nerissimo; sovrapponiamo ad un colore bello uno indelebile. E siamo pronti a bere la neve mentre critichiamo il cibo se non è caldo. Sputiamo il vino inacidito e poi perdiamo la testa per le salse piccanti. Non è vero dunque ciò che i sapienti vanno dicendo, che sarebbe stato meglio non nascere o morire appena nati? Dexicrate nella commedia intitolata Gli ingannati da se stessi: Quando sono ubriaco bevo neve e l’Egitto mi fornisce un ottimo unguento con cui spalmarmi il capo. Euticle ne I dissoluti o Epistola: Per primo egli seppe se la neve ha un prezzo ma prima fu necessario che quello mangiasse interamente un favo3. L’elegante Senofonte in Fatti memorabili mostra di conoscere la bevanda ottenuta dalla neve. Chares di Mitilene in Le storie di Alessandro espose pure per quale motivo bisognava conservare la neve trattando dell’assedio della città indiana di Petra. Dice che Alessandro fece scavare trenta fosse poco distanti tra loro le fece riempire di neve e coprire con rami di quercia; così la neve durò parecchio tempo. Stattide in Quelli che prendono il fresco dice che raffreddavano anche il vino per berlo più fresco: Neppure uno sopporterà di bere vino caldo ma molto prima refrigerato in un pozzo, mescolato con la neve. E Lisippo in Le Baccanti: A -Ermone, che succede? Dove ci troviamo? – . B -Nient’altro se non il fatto che, mi sembra, il padre dall’alto si è calato nel pozzo come fa con il vino in estate-. Difilo ne Il piccolo monumento dice: Refrigera il vino, Dori. Protagoride nel secondo libro de Le storie comiche narrando la navigazione del re Antioco su un fiume parla di un’artificiale refrigerazione dell’acqua con queste parole: Dopo aver esposto l’acqua al sole di giorno ed averne filtrato di notte la parte più densa, ciò che resta lo espongono all’aria aperta in vasi di creta sulla parte più alta delle case e per tutta la notte due schiavi bagnano con acqua i vasi. All’alba sollevano i vasi, di nuovo filtrano il sedimento rendendo l’acqua limpida e potabile e pongono i contenitori sotto la paglia. E così si servono di quell’acqua senza aver bisogno della neve. Anaxilade ne La suonatrice di flauto parla così dell’ acqua di cisterna: Sappi che da parte mia è a disposizione per te quest’acqua di cisterna. E di nuovo: Forse si è esaurira l’acqua di cisterna. Apollodoro di Gela ne La traditrice ricorda anche lui l’acqua di cisterna, come noi diciamo, così: Ansiosa, dopo aver sciolto il secchio del la cisterna e quello del pozzo, tenni pronte le funi. Mirtilo sentendo ciò disse: Amici miei, io che sono amante del pesce sotto sale voglio bere la neve seguendo Simonide. E Ulpiano dice: Si legge amante del pesce sotto sale in Onfale di Antifane così: Non sono per nulla amante del pesce sotto sale, o ragazza. Alessi ne Il potere delle donne chiamò uno pure pesce salato in umido con queste parole: Questo è Cilice, Ippocle, un pesce salato in umido, un ipocrita. Che sia quello che dicesti a proposito di Simonide non lo so. -Certo – ribattè Mirtilo – perché non ti curi della conoscenza delle storie, ghiottone! Infatti sei un goloso e, come dice il poeta Asio di Samo, quello senior, un parassita goloso-. Callistrato nel settimo libro de I mescolamenti dice che, banchettando il poeta Simonide in casa di alcuni nella stagione del caldo e mescolando i coppieri agli altri con la neve il vino da bere e a lui no, improvvisò questo epigramma: Quella [la neve] facilmente un tempo Borea impetuoso muovendo dalla Tracia sparse intorno ai fianchi dell’Olimpo e morse i sensi degli uomini privi di mantello; poi s’intenerì ricoperta viva4 dalla terra di Pieria. Qualcuno me me ne sciolga un pezzo. Non è conveniente infatti porgere ad un amico una bevanda calda”.
Plutarco, Convivio dei sette sapienti, VI, 5: “Penso che tu ricordi cosa ha detto Aristotele intorno alle pietre e ai pezzi di metallo che gettati nell’acqua la raffreddano e la congelano”; VI, 6: “Come anche la paglia posta attorno delicatamente per la sua leggerezza non indebolisce la massa di ghiaccio; altre volte [la paglia] è fitta e spessa sì da respingere il calore dell’aria e non permettere al freddo della neve di disperdersi”.
Ricordo che fino a tutta la metà del secolo scorso l’unica possibilità di preparare bevande fresche era offerta dal blocco di ghiaccio (la produzione del ghiaccio artificiale era iniziata un secolo prima) e la parte (il blocco intero costava troppo per chi, anche allora, non era un evasore…) acquistata veniva avvolta in un panno, collocata in una cassa e ricoperta di paglia per ritardarne la liquefazione. Sul potere isolante della paglia vedi più avanti anche la testimonianza di Seneca. Un rito era poi, specialmente per noi ragazzini, il movimento di quella specie di pialla usata per raschiare da quel pezzo, con movimenti rapidi per motivi facilmente intuibili, scaglie con cui preparare granite senza tante scelte nel loro gusto: caffé per gli adulti, limone per noi. Gli adulti maschi (per le femmine sarebbe stato perdizione…), poi, a Nardò potevano gustarle così preparate nella sua rivendita di ghiaccio ed altro dal mitico PippinuGiuranna.
2)
Plinio il Vecchio (I secolo d. C), Naturalishistoria, XIX, 19: “La natura aveva creato gli asparagi selvatici perché chiunque li raccogliesse qua e là; ecco che ora si vedono asparagi coltivati e a Ravenna tre pesano una libbra. Prodigi del ventre! Sarebbe strano che non fosse lecito al bestiame pascersi di cardi, eppure non è permesso alla plebe. Si separano pure le acque e gli stessi elementi della natura sono resi differenti dalla potenza del denaro. C’è chi beve la neve, chi il ghiaccio e trasforma in piacere della gola i fastidi dei monti. Si conserva il freddo per il caldo e si trova il modo perché la neve rinfreschi nei mesi caldi. Altri fanno bollire l’acqua e subito dopo la fanno ghiacciare. Così l’uomo non ha nulla che piaccia alla natura”; XXXI, 23: “Fu un’invenzione dell’imperatore Nerone far bollire l’acqua e posta in un vaso di vetro farla raffreddare nella neve. Così il piacere del freddo si ottiene senza i difetti della neve”.
Chissà cosa direbbe oggi il buon Plinio di fronte alle violenze continue cui protervamente sottoponiamo la natura!
Plinio il Giovane (I secolo d. C.), Epistole, I, 15: “Erano state preparate per ciascuno una lattuga, tre lumache, due uova, spelta con vino al miele e neve; infatti terrai conto pure di quest’ultima, anzi di questa soprattutto perché sparisce nel piatto”.
La spelta con vino al miele e neve ha tutta l’aria di essere l’antenata del sorbetto, parola che non ha nulla a cha fare con la sorba e tanto meno con sorbìre (che è dal latino sorbère, di probabile origine onomatopeica) poiché è dal turco şerbet=bevanda fresca, a sua volta dall’arabo sharab=bevanda.
Marziale (I secolo d. C.),Epigrammi, V, 64: “Versa, o Callisto, due bicchieri di Falerno e tu, Alcimo, scioglici sopra le nevi estive”; IX, 22: “Solo grandi coppe di cristallo siano sfiorate dalle mie labbra e i nostri Falerni rendano nere le nevi”; 91: “Lontano da ogni fastidio possa tu bucare il ghiaccio col nero vino della coppa”; XIV, 103: “Mi raccomando, allunga nelle coppe il vino di Sezze con la mia neve; con un vino meno pregiato puoi tingere il sacco”; 104: “Anche il mio sacco sa liquefare la neve; dal tuo colatoio l’acqua non zampilla più fresca”; 105: “Quando la chiedi non ti manchi l’acqua fresca nè la calda, ma evita di scherzare con la sete che dura da lungo tempo“; 106: “Ti viene donato questo rosso orciolo col manico curvo: lo stoico Frontone vi beveva l’acqua gelida”; 116: “Bevi il vino riposto nelle grotte di Soleto o dei Marsi; che ti giova il nobile freddo dell’acqua bollita?”7; 117: “S’immaginò un’ingegnosa sete: non bere la neve ma bere l’aqua gelata dalla neve”; 118: “ Evita, ragazzo, di mescolare gli affumicati vini di Marsiglia8 all’acqua fresca proveniente dalla neve, altrimenti l’acqua costerà più del vino”.
Seneca (I secolo d. C.), Naturalesquaestiones, IV, 13, 7: “E non sono contenti della neve, ma cercano il ghiaccio come se il freddo fosse più sicuro nella sua solidità e spesso lo sciolgono ripetutamente con l’acqua: il ghiaccio non è preso dalla superficie ma perché abbia una forza maggiore e un freddo più persistente viene scavato in profondità . E così il suo prezzo non è unico, ma l’acqua ha dei bottegai e, che vergogna!, un prezzo vario. Gli Spartani cacciarono dalla città i profumieri e imposero loro di allontanarsi rapidamentedai loro territori, poiché sprecavano olio. Che avrebbero fatto se avessero visto i depositi di neve e le tante bestie da tiro necessarie per il trasporto dell’acqua, il cui colore e sapore inquinano a causa della paglia con cui la proteggono?”; Epistulae morales ad Lucilium, XV, 3: “Non pensi che quella neve estiva procuri insensibilità all’animo?”.
Meno male che a distanza di duemila anni noi siamo messi meglio: la privatizzazione dell’acqua, infatti, favorirà la concorrenza e determinerà un calo delle tariffe; proprio com’è già successo per trasporti, telefonia, banche, assicurazioni e chi più ne ha più ne aggiunga; e, per quanto riguarda la neve, è un conforto sapere che, mentre ai tempi di Seneca costava caro conservarla, oggi costa carissimo alle finanze pubbliche eliminarla dalle strade e ai singoli cittadini affrontare e superare i disagi provocati dalla sua caduta… 9
Elio Lampridio (forse IV secolo d. C.), Vita di Eliogabalo, XXIII: “Fece realizzare in estate nel giardino della sua casa un monte di neve fatta trasportare apposta”.
Abbiamo chiuso in bellezza con colui che fu proclamato imperatore nel 218 d. C. a 14 anni (altro che il Trota!) e che probabilmente fu il primo ad usufruire dell’aria condizionata (sia pure nel solo giardino, poveretto!) grazie ad un sistema molto più spettacolare ed esteticamente appagante dello schiavo-ventilatore di egizia memoria; però dopo quattro anni di malgoverno fu ucciso dai pretoriani, e qui mi fermo…
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1 Il dato temporale che accompagna ogni singolo autore consente al lettore di approntare, se vuole, un’unica sequenza cronologica.
2 Frecciata micidiale, anche se indiretta, ad Aristofane, il padre della commedia di mezzo, il cui figlio si chiamava Ararote ed era anche lui poeta comico.
3 Qui la tradizione manoscritta è estremamente varia e le interpretazioni molteplici. Ho fornito la mia basata sul testo dell’edizione curata da Johannes Scweighaeuser, Ex typographia societatis Bipontinae, Argentorati, anno IX (1801). L’immagine di chi ingurgita un favo (api comprese) e per lenirne le conseguenze usa la neve è perfettamente plausibile in un testo comico. All’ipercritico che dovesse obiettare che in estate è facilissimo imbattersi nelle api ma impossibile nella neve rispondo che anche a quell’epoca c’erano sistemi per conservare la neve.
4 Interrata in buche prima che sciogliesse.
5 L’apparente ossimoro è da intendere come nevi cadute in inverno e usate in estate.
6 Nell’epigramma precedente ed in questo sono ricordati i due modelli di colatoio per il vino; il primo (columvinarium o colum nivarium, sembra un gioco di parole…), riservato ai ricchi, era di argento o di bronzo e consisteva in un contenitore con buchi che veniva riempito di neve e poi vi si versava il vino che, freddo, scolava nella coppa; il secondo, quello della povera gente (saccusvinarius), era costituito da un semplice panno.
7 Che l’acqua prima di essere rinfrescata con la neve venisse bollita è una prova, già allora, della sua scarsa potabilità.
8 I vini importati dalla Gallia Narbonese, spesso contraffatti, erano i più scadenti.
Da sempre l’uomo ha avuto l’esigenza di trovare refrigerio, specie durante la stagione estiva, attraverso l’assunzione di cibi e bevande fredde.
Oggi la tecnologia consente la produzione del ghiaccio artificiale in ogni casa, con frigoriferi, congelatori ecc., ma non sempre è stato così.
In passato l’uomo, per poter godere del privilegio di avere bevande e cibi freddi durante i mesi torridi, si ingegnò utilizzando ciò che la natura gli metteva a disposizione: la neve. Essa era merce preziosa ed un’abbondante nevicata era considerata una benedizione.
Con ogni mezzo l’uomo cercò di utilizzare questo prezioso genere anche quando madre natura non lo forniva, ossia durante la stagione estiva.
Nei paesi a clima temperato, l’utilizzo della neve era consuetudine sia per l’uso alimentare sia per quello medico: serviva per preparare sorbetti e bevande, per conservare i cibi, come riserva di acqua potabile per i periodi di siccità, ma era usata anche per curare febbri, ascessi, contusioni, ecc.
La neve veniva raccolta in luoghi esposti a nord, freschi ed umidi, quali sotterranei, grotte, scantinati e fosse oppure in costruzioni apposite, chiamate neviere.
Queste ultime assunsero forme e tipologie diverse in funzione della zona geografica in cui si trovavano ed a seconda delle necessità locali.
In talune zone dell’Appennino, le neviere erano delle semplici buche nel terreno, pressoché circolari, con diametro di 5-10 m. e profonde altrettanto, con pareti di rivestimento in pietra in cui veniva conservato il ghiaccio.
In altre zone, specie nell’arco alpino ma anche in molte zone appenniniche, erano delle vere e proprie costruzioni in muratura, con il tetto a due e a quattro falde, senza finestre e con la sola porta di accesso.
Quando la profondità della neviera lo consentiva, si formavano più strati di neve intervallati da strati di frasche e foglie secche, che avevano funzione isolante. Questo sistema consentiva di mantenere freddo lo strato più profondo, anche quando si estraeva la neve dagli strati più superficiali.
Per il trasporto della neve nei luoghi di utilizzo erano adottati vari sistemi: talvolta sul dorso di muli, altre volte, quando le vie lo consentivano, in carretti o slitte.
Lungo l’arco alpino, ogni malga aveva la propria neviera: serviva per conservare meglio il latte, in attesa dell’accumulo di una quantità sufficiente per l’avvio della lavorazione del formaggio.
Nelle zone vulcaniche le neviere consistevano in un cilindro, scavato nel terreno, con una sola apertura per il carico di neve fresca e per il prelievo del ghiaccio; per garantire un sufficiente isolamento termico la costruzione era ricoperta da un grosso cumulo di terreno. Esse avevano l’ingresso rivolto verso Nord, per ridurre l’irraggiamento solare diretto verso l’interno. Anche la porta d’ingresso era schermata da una fitta copertura di frasche.
In Sicilia fino agli inizi del ‘900, nei mesi invernali più rigidi quando la neve cadeva copiosa, molti contadini di Piana salivano sulla Pizzuta a lavorare nelle neviere di proprietà del comune di Palermo, poste all’inizio del versante occidentale della montagna. La neve, raccolta in buche scavate ad imbuto, era compressa su vari livelli in corrispondenza dei quali veniva inserito uno strato di paglia.
A Catania era molto diffuso il commercio della neve dell’Etna, pertanto, le neviere si trovavano nelle cavità naturali della montagna. La neve veniva trasportata in città e nei paesi limitrofi con carretti coibentati in maniera rudimentale; infatti, per evitarne lo scioglimento i venditori cospargevano il fondo del carro con uno strato di carbonella ricoperto a sua volta di felci; al di sopra di queste ultime si disponeva la neve avvolta in un telo di canapa protetto superiormente da un altro strato di felci.
In Val Mugone, le neviere erano profonde circa 57 metri ed avevano l’ingresso con uno scivolo inclinato che portava direttamente alla cavità, alla cui base era depositata un’enorme quantità di ghiaccio.
Nell’Appennino Umbro Marchigiano, le neviere erano delle strette depressioni esposte a nord, spesso a ridosso di pareti rocciose ed impervie. A Secinaro, vicino alla maestosa catena del Sirente, i nevaroli sin dal ‘500 erano soliti risalire il monte, fino alla neviera, dove si calavano con scale e corde per tagliare i blocchi di ghiaccio e riportarli a valle in gerle di vimini, avvolte in foglie secche isolanti, sul dorso di asini e muli.
Nell’Altopiano delle Murge le neviere erano distribuite soprattutto presso le masserie e nei declivi dei campi; avevano la forma di un parallelogramma con volta a botte ed un piano di calpestìo formato da terriccio ricoprente le lastre adagiate sulla volta per neutralizzare il calore in maniera uniforme. Esse avevano, inoltre, una o due aperture laterali murate o chiuse con porte di legno che servivano per prelevare il ghiaccio mentre la neve veniva infilata dalla bocca posta alla sommità della volta. Sul fondo, all’interno, si deponevano dei fasci di sarmenti il cui scopo era quello di evitare che le neve venisse a contatto con il suolo e potesse sciogliersi o inquinarsi. La neve appena caduta veniva raccolta e, ancora fresca, veniva trasportata sui vaiardi, simili a portantine,perché i traini erano ingombranti e non potevano entrare negli erbaggi senza provocare danni; oppure, si formavano grosse palle di neve e si lasciavano rotolare dall’alto verso il fondo della valle dove erano collocate le neviere. Solo la neve raccolta lontano dalle neviere era trasportata sui traini. Una volta raccolta la neve veniva immessa nella neviera dall’apertura sulla volta mentre le porte laterali restavano chiuse sino al prelievo del ghiaccio. I fasci di sarmenti isolavano la neve dal fondo su cui si lasciava cadere un tubo che serviva per pompare l’acqua che lentamente si accumulava. La neve veniva compressa affinché la neviera potesse contenerne grandi quantità.
Nel Salento il commercio del prodotto era destinato soprattutto all’esportazione, fuori dall’Alta Murgia, verso i paesi costieri. Altamura, Minervivo, Santeramo, Locorotondo ed altri comuni erano i maggiori esportatori di neve. La neve venduta era di due tipi: quella bianca, per uso alimentare e medico, e quella grezza o nera destinata ad altri usi.
In epoca bizantina il territorio salentino era organizzato come provincia dell’impero. Il paesaggio agrario era costituito da muretti a secco che delimitavano le proprietà, costruzioni a secco (furnieddhi) tronco piramidali e tronco coniche che costituivano le case dei contadini, si diffusero nella campagna della “Grecia Salentina”. Con il tempo tali costruzioni si arricchirono di scale esterne e nicchie interne. Spesso intorno alle costruzioni era costruito un recinto per gli animali. Negli avvallamenti naturali del terreno, una serie di cisterne, le pozzelle, raccoglievano e conservavano l’acqua piovana filtrata e arricchita da sali, attraverso il drenaggio del terreno. Le pozzelle risolsero in maniera geniale il problema dell’approvvigionamento idrico.
La tipologia architettonica delle neviere variava di zona in zona. In alcune parti del Salento, ed in particolare a Cellino San Marco, ancora oggi, presso la Tenuta Monte Neviera, nella Contrada Veli, sorge maestosa Villa Neviera o Torre del Rifugio, così chiamata per aver ospitato Sua Maestà Re Vittorio Emanuele III. La villa, chiamata comunemente dagli abitanti del luogo, castello, fu costruita nel 1888, ed è ancora oggi ben conservata, è una vera e propria costruzione costituita da più ambienti, qui fu ospitato il marchese Antonio De Viti De Marco. Riportata al suo originario splendore da un accurato restauro, è attualmente abitata. Essa deve il suo nome alla capacità di conservare anche nei periodi primaverili ed estivi, le scorte di neve all’interno delle sue cantine.
La neviera ubicata nei pressi della masseria Corillo fu edificata probabilmente nel XV secolo. L’edificio di forma rettangolare è scavato nel tufo con volta a botte e sorge sui terreni di pertinenza del complesso della masseria. Tale neviera, è una manifestazione significativa dell’architettura ipogea salentina, scaturita dalla necessità di sopperire alla mancanza di acqua nel periodo estivo. Si raccoglieva la neve nel periodo invernale e si conservava ammassata in queste stanze sotterranee coperte da una volta di pietre e da terreno vegetale. Scavata nella roccia tufacea per una profondità di circa sei metri, a pianta rettangolare e coperta a botte, ha l’accesso mediante una finestrella aperta a piano di campagna su uno dei lati più corti.
Esiste poi la neviera “Cerceto” di Cannole, localizzata all’interno del complesso della masseria, dal quale prende il nome. Risale forse al IX secolo, epoca di costruzione della masseria. In questo caso la neviera ha una struttura simile ad una cisterna, interamente scavata nella roccia; la neve veniva pigiata e coperta con strati di paglia, di piume e di stracci per conservarla quanto più a lungo possibile. All’inizio della stagione calda la neve veniva venduta ai mercati, con notevoli proventi.
Altra tipologia costituisce il “puddaru Neviere” che è situato in una delle campagna di Poggiardo. Si tratta di un elemento architettonico tipico della la civiltà contadina del posto. Il “puddaru” è situato in una delle campagne circostanti il territorio di Poggiardo. Esso prende il nome, “Neviere”, dalla campagna dove è ubicato. Costruito interamente con pietre a secco, presenta una base circolare e una struttura a campana. Sulla facciata si apre un’ampia porta d’ingresso con architrave. Si tratta di una struttura che i contadini usavano per riporre e allevare i polli, da qui il nome “puddaru” ossia pollaio. Nelle campagne circostanti di Poggiardo, così come anche dei paesi limitrofi, si possono visitare numerosi manufatti del genere, con diverse tipologie.
Sandro Montinaro parlando delle neviere di Cacorzo afferma che : “[…] la località “Cacorzo” è uno dei primi nuclei abitativi di Carpignano. Intorno ci sono le neviere che si presentano come anfratti sotterranei profondi circa tre quattro metri, alcune grotte un tempo abitate, il santuario della Madonna della Grotta con la cripta e la torre colombaria più grande ed austera del Salento. Sull’architrave della porta della colombaia (Palumbaru) ci sono gli stemmi Del Balzo e al centro quello dei Del Balzo-Acquaviva […]”
Sempre nel Salento altre tipologie di neviere sono ubicate nelle zone di Matino, Vernole, Neviano, Casarano, Ugento, Tricase, Corigliano, in quest’ultimo centro se ne contano otto, a Lequile sei.
Per quanto riguarda quelle preistoriche, i centri di Alessano e Supersano vantano una discreta presenza, mentre quelle di epoca rinascimentale sono ubicate nelle zone di Galatina e Maglie.
In queste zone le neviere sono scavate nella roccia ad una profondità che si aggira intorno ai cinque o sei metri, a pianta quadrata o rettangolare dalla larghezza di circa dieci metri, coperte con volte a botte cui si accedeva mediante una piccola finestra collocata da un lato a piano di campagna.
In territorio di Cutrofiano è ubicata una neviera presso la masseria “Nevera”, ed in territorio di Acaja, presso la masseria Favarella, ve ne sono altre.
Nei dintorni della la masseria Mollone, nel territorio di Copertino, c’è una struttura che dicono sia stata in passato una cripta bizantina poi trasformata in neviera nei secoli successivi.[1]
La presenza di tante neviere nel Salento, ed in provincia di Lecce in particolare, mette in luce un aspetto dell’economia locale che in passato ebbe grande rilievo.[2]
Dai primi anni del Novecento la fornitura di neve fu soppiantata dalla produzione di ghiaccio industriale venduto fino a tempi recentissimi, ovvero fino a quando non entrò nelle case il frigorifero. Così si concludeva un’era di tradizioni e di folclore lasciando spazio solo ai ricordi.
Foto di Sandro Montinaro: Carpignano Salentino, località Cacorzo, neviera sita nei pressi della colombaia e del santuario della Madonna della Grotta.
Pubblicato su Spicilegia Sallentina n°7.
Bibliografia essenziale:
Amici del Menhir, Costantini A., Del modo di conservare le acque e la neve, in “Sallentum a. XI nn.1-2.
Costantini A., Guida ai monumenti dell’architettura contadina del Salento, Galatina 1996.
Lopriore L., Le neviere in Capitanata – affitti, appalti e legislazione, Foggia 2003.
Il fascino del Gioco dell’oca, popolare gioco da tavoliere, al quale è rivolta questa ricerca, sta nella sua struttura formata da simboli che, per loro natura, rinviano a molteplici significati. E’ concepito come metafora della vita e il suo percorso mostra al giocatore delusioni, pause, successi, com’è appunto il cammino dell’esistenza.
Questa idea del gioco viene bene evidenziata dallo studioso di miti e storia delle religioni, Nerino Valentini, che osserva in proposito:
«Per il giocatore superficiale e poco attento varrà, con molta probabilità, il consiglio di rivolgere la propria attenzione a qualcosa di più “moderno”; la ricchezza dell’Oca è tesoro per pochi, per quei pochi che, avendo occhi attenti non per guardare, ma per investigare, rimangono colpiti dalle implicazioni simboliche, dai continui rimandi al pensiero alchemico, della struttura sapienziale che pervade il tutto».
Il tabellone su cui si sviluppa il gioco può essere in carta, cartoncino, legno, plastica, latta, stoffa; su di esso è disegnato un percorso illustrato. Sono vari gli elementi che lo costituiscono: forma e andamento dello stesso, numero totale delle caselle e verso (centripeto o centrifugo) di percorrenza, immagini che contrassegnano le caselle e loro specifica collocazione. Predomina fra le immagini la raffigurazione di un palmipede pennuto: l’oca appunto.
A questo animale le narrazioni simboliche ascrivono qualità psicagogiche per la sua versatilità in tre elementi naturali (aria, acqua, terra), ovvero come volatile, uccello acquatico e camminatore. Risulta inoltre che l’oca possa essere stato il premio alimentare per il vincitore del percorso. Non è facile perciò stabilire se la scelta di questo animale si riferisca al compito d’accompagnatore o sia da mettere in relazione con il suo utilizzo alimentare.
Nel gioco comunque l’immagine di questo animale assume una valenza esoterica in quanto collegata con il destino, perchè “rappresenta i pericoli e le fortune dell’esistenza”. In tale accezione il Gioco dell’oca è un gioco iniziatico per eccellenza.
Dopo aver considerato il ruolo dell’immagine dell’oca presso gli sciamani dell’Altaj, lo studioso francese Jean Paul Clébert osserva:
« Questo ruolo iniziatore dell’oca è di certo estremamente antico […] Ne fa fede lo straordinario successo del Gioco dell’oca, “ripreso” dai Greci, come si diceva al tempo di C. Perrault. E’ un gioco sostanzialmente simbolico; se ne attribuisce l’invenzione a Palamede, inventore anche degli scacchi e della dama. Il gioco consiste nel far avanzare una pedina, a seconda del numero tirato dai dadi, sulle caselle di una spirale che si avvolge verso l’interno da sinistra a destra. Ogni 9 caselle c’è un’oca diversa, fino alla sessantatreesima, che raffigura il giardino dell’oca. La prima casella è una porta o un portico. Quindi si alternano immagini simboliche, dei ponti, una locanda, un pozzo, un labirinto, la prigione, la morte. Alcuni di questi ostacoli obbligano a tornare indietro, e il giocatore attraversa così un terreno insidioso e accidentato. Si tratta senza dubbio di un gioco iniziatico, ma se ne è perduta la chiave. Eliphas Lévy vi vedeva una variante dei tarocchi, di cui riconosceva nei geroglifici le immagini tradizionali ».
Occorre considerare inoltre che non è solo l’animale a conferire al gioco un significato simbolico; subentrano altri elementi, che caratterizzano le varie forme del percorso: forma geometrica elementare (circolare, a spirale, quadrilatera, a scacchiera) e non geometrica, spesso a grafo. Ogni percorso è contrassegnato da tappe (le caselle o case, fauste ed infauste) numerate progressivamente, che ostacolano o favoriscono il cammino, con un senso orario o antiorario e da una direzione che è generalmente centripeta. L’avanzamento nel percorso avviene in base al punteggio ottenuto dal lancio di due dadi. Il numero ottenuto indica le caselle che si potranno percorrere. I dadi rappresentano l’idea di Casualità (o di Destino). Il rapporto tra il gioco e il viaggio iniziatico sta nelle difficoltà e nei pericoli che si dovranno affrontare. Questo aspetto rende il percorso accostabile al labirinto il cui itinerario è pericoloso e difficile. Chi lo percorre, infatti, potrà smarrirsi in esso e imbattersi nel pericoloso custode del labirinto, il Minotauro, oppure nelle vesti di Teseo orientarsi nel saper ritrovare la via del ritorno. Il Gioco dell’oca e il Labirinto condividono la stessa finalità che è quella di conseguire un’iniziazione psichica o spirituale; e non è superfluo notare che anche la struttura di base del gioco anticamente era sempre una Spirale che è la forma più semplice di un Labirinto.
Non poteva dunque che essere connessa ad una leggenda la nascita del gioco. Alcuni studiosi, prevalentemente francesi, attribuiscono l’invenzione a Palamede, uno dei capi delle truppe greche, nell’attesa di espugnare la città di Troia.
Palamede, dice il mito, ideò il gioco rappresentando la planimetria muraria della città di Troia. Questa invenzione gli diede la fortuna di farlo entrare nella leggenda, ma gli causò la sfortuna di essere condannato a morte per lapidazione per aver, secondo Ulisse, truccato il dado del gioco.
Molti giochi prodotti in Francia fanno riferimento a questo evento (Jeu de l’oie renouvelé des Grecs). A questa origine favolistica si affiancano altre ipotesi altrettanto allettanti ma controverse. Una vedrebbe il Gioco dell’oca quale emanazione da un illustre prototipo: il Disco di Festos, la celebre tavoletta circolare in argilla rinvenuta durante alcuni scavi archeologici nella città cretese di Festos e realizzata, secondo gli esami stratigrafici, nel 1700 a.C. Essa presenta sulle due facce segni pittografici, non ancora completamente interpretati, incisi a spirale da destra a sinistra. L’ipotesi più convincente afferma che si tratta di un misuratore del tempo, una sorta di calendario. Anche il Gioco diMehen, una tavola in pietra con la rappresentazione di un serpente arrotolato a spirale e suddiviso in caselle, del periodo arcaico dell’antico Egitto, conservato nel Museo Fitzgerard di Cambridge, presenta affinità con il “gioco dell’oca”. Altra analogia è offerta dal gioco cinese dello Shing Kunt t’o (“la promozione dei mandarini“), che, a differenza del gioco occidentale, è costituito da 99 caselle disposte a spirale. Analogie sono state riscontrate anche con il gioco giapponese Sugoroku nella versione cartacea prodotta dalla fine del XIX sec. e con il Gioco dellaIena, un gioco di percorso a spirale delle tribù del Sudan. Quest’ultimo cammino è tracciato sulla sabbia e sono utilizzati sassolini e bastoncini come pedine e dadi. Non è stabilito il numero delle caselle, ma queste costituiscono le tappe del percorso che dal villaggio portano al centro, dove la conclusione del gioco è il pozzo dell’oasi. Emblematico è inoltre il gioco tibetano della Rinascita, Sa-Pan, creato utilizzando testi sacri i cui insegnamenti mostrano finalità iniziatiche. Le caselle del percorso, contengono “rappresentazioni di stati della mente e dello spirito” derivanti da “concezioni cosmologiche del buddismo indiano”.
Tutte queste analogie con il Gioco dell’oca fanno pensare ad un archetipo presente in numerose popolazioni anche lontane tra loro, quindi senza alcuna possibilità di propagazione. Per avere però una prova storica sulla nascita del Gioco dell’oca in occidente, bisogna richiamarsi al più antico gioco, giunto fino a noi, risalente alla seconda metà del XVI secolo. Si tratta di una invenzione attribuita al granduca di Toscana Francesco I de’ Medici (1541-1587), o al suo successore, il fratello Ferdinando I (1549-1609). Il gioco, denominato Nuovo e molto dilettevole giuoco dell’oca, è offerto in dono da Francesco I al re spagnolo Filippo II, e dalla Spagna si diffonde in altri paesi europei, in particolare Inghilterra e Francia. La struttura del gioco è composta da un percorso a spirale e da molteplici figure lungo tutto il tragitto. Esso è suddiviso in caselle numerate e figurate in numero di 63. Rappresentano il decorso di un evento costituito da momenti, alcuni dei quali particolarmente influenti nell’andamento del gioco.
Questa struttura avrà una vita lunga, fino a metà del sec. XX. In seguito saranno introdotte numerose varianti riguardanti il numero di caselle che può essere minore ed in altri schemi maggiore fino a superare il centinaio.
Nella versione classica l’immagine dell’oca compare nella spirale del percorso ad intervalli regolari in 13 caselle che sono: i 7 multipli di 9 fino al 63 e quelle che dal 5 si raggiungono aggiungendo 9. Il centro, indicato con il numero 63, è anche il risultato della moltiplicazione fra il 9 e il 7 ovvero successione di sette cicli di 9 caselle con l’immagine dell’oca.
Sia negli esemplari della Tradizione che nella maggior parte di quelli moderni, ciascun tabellone contiene le regole del gioco:
ogniqualvolta si incontra nella casella un’oca, si procede nel percorso replicando il punteggio ottenuto dal lancio dei due dadi, mentre se si incontrano altre immagini prestabilite, anch’esse simboliche, si va incontro a ricompense o a sanzioni o a staticità.
La successione numerica riguardante le caselle occupate dall’oca è la seguente: 5-9-14-18-23-27-32-36-41-45-50-54-59-63; mentre la classe delle caselle nefaste (escluse la 26 e la 53 dove sono rappresentati due dadi) è simboleggiata da: ponte, locanda, pozzo, labirinto, prigione, morte, con i seguenti numeri: 6-19-31-42-52-58. Tali sequenze obbediscono a criteri che per la prima sono individuabili, mentre per la seconda sono indefinibili. La prima successione è generata dalla somma del numero 4 e del numero 5 in modo alternato con il numero precedente a partire dalla casella 5 fino alla 63. Si è spesso sottolineata da parte di numerosi studiosi la non casualità della disposizione delle oche e degli ostacoli lungo il cammino, facendo ricorso alla cabala; ma, fra le tante congetture, quella che appare più verosimile è che gli intervalli di 4 e 5 caselle nella successione delle case delle oche rivela una intenzionalità fondata sul simbolismo del numero 9.
La logica dell’altra sequenza è sfuggente perchè per i primi quattro numeri mostra una coerenza nelle distanze fra le caselle nefaste secondo i valori 13-12-11-10, ma questa sequenza decrescente si arresta con la casella 52 (la morte).
Il gioco termina positivamente per chi per primo arriva al 63 (porta del paradiso o porta del giardino dell’oca o banchetto) con un tiro esatto dalla casa dove era posizionato; se invece il punteggio ottenuto dal lancio dei dadi è troppo alto, si dovrà tornare indietro secondo i punti eccedenti.
Vi sono tuttavia numerose varianti che utilizzano altre caselle. In particolare, la versione italiana a 90 caselle aumenta i posti delle oche e aggiunge altre caselle speciali. Tali alterazioni non riguardano solo il numero, ma anche il modello del regolamento che in alcune produzioni è del tutto trasgredito, sicché il gioco diviene solo apparentemente un Gioco dell’oca.
Le rappresentazioni figurative dei percorsi tradizionali e delle varianti sono di tipo simbolico o realistico e interessano numerose categorie riguardanti ogni aspetto della vita umana: le vicende storiche (personaggi, avvenimenti), geografiche (viaggi, località e monumenti), il tempo libero, l’araldica, gli eserciti, le scienze pure e applicate, le arti e la letteratura, la cronaca, l’epica, la religione, il diritto, la morale, la mitologia, la fiaba, la favola, la didattica, l’occultismo, la musica, la nomenclatura di oggetti, la classificazione riguardante le scienze naturali (animali, piante, minerali), la propaganda politica, la pubblicità, gli sport e tanti altri aspetti della cultura.
Non c’è campo della vita umana che non è rappresentato in un Gioco dell’oca, anche se la denominazione del gioco subirà cambiamenti riferiti al tipo di storia rappresentata. L’oca, come animale, avrà una molteplicità di sostituti quali la civetta o il cavallo ma anche la chiocciola, l’aquila, la scimmia, l’orca, l’elefante ed altri ancora. Equiparabili al Gioco dell’oca sono molte tipologie di giochi di percorso quali il “gioco dei serpenti e delle scale” (snakes and ladders), del labirinto, della barca, della luna, del barone, delle “corse ippiche” (Steeplechase), dell’”assalto al castello”, del “gioco con i dadi”, ed i “giri del mondo” o di paesi specifici con vari mezzi di locomozione (nave, aereo, bicicletta, tramway) e tutta una serie di varianti. Ogni gioco è la rappresentazione del decorso di un evento reale o simbolico costituito da momenti che lo rendono vitale perché in essi c’è la chiave della competizione alla quale si è chiamati a partecipare.
Restringendo l’orizzonte alla nostra regione, non emerge in Puglia una produzione particolarmente copiosa di Giochi dell’oca. Di essi sono presentati in questo lavoro alcuni esemplari che consentono di formulare delle valutazioni su quale sia stata la diffusione del gioco in Puglia e sulle specificità grafiche di tale produzione.
Alcuni esemplari appartengono alla categoria dei Giochi di percorso, altri sono specificatamente Giochi dell’oca, uno con la variante a 90 caselle, gli altri più antichi a struttura tradizionale. Di questi ultimi sono presentati quattro esemplari, presumibilmente tutti e quattro degli anni ’30.
Di questi uno riguarda l’educazione da impartire ai giovani (stampato a Galatina) che ha per protagonista un personaggio che richiama Pinocchio. Le istruzioni sono firmate da Salvatore Zecca[20], autore della tavola che spiega le finalità del gioco. Tra l’altro scrive:
« Il giuoco, facile e ricco di emozioni, è un sussidio didattico eccellente che, se coltivato, migliorerà le condizioni culturali dell’educando ed economizzerà tempo e fatica ai signori educatori».
E’ denominato Monello saggio, ed ha 136 caselle. Le regole sono differenti da quelle conosciute perché si basano sulla moltiplicazione dei numeri ottenuti dal lancio dei dadi. Vi sono ricompense e punizioni di vario grado ed è questa la ragione che rende questo gioco assimilabile a quello dell’oca.
Nel secondo esemplare disegnato da Zecca, variante del precedente, anche questo denominato Monello saggio, predomina nella stampa il colore rosso del percorso e spicca anche qui l’immagine del burattino.
Il terzo esemplare (prodotto a Nardò) riguarda l’educazione stradale denominato Prudenza. Mostra le stesse caratteristiche del precedente con il medesimo personaggio, mentre le caselle sono 135. Vince chi “riesce a passare il semaforo verde”. Le punizioni e le ricompense sono attinenti alla positività o alla negatività della casella incontrata.
I tre giochi di percorso sono stampati negli anni ’50, il primo dalla tipografia Pajano, una storica casa editrice di Galatina, conosciuta più per la pubblicazione di annuari e testi di storia locale che per la produzione di questi tavolieri. Quello in rosso è stampato a Galatone dalla Tipografia di Giovanni Russo. Quello di Nardò è commissionato da M. Gorgoni ed è pubblicato nel 1959 dalle Arti Grafiche Favia, Bari-Roma.
Un quarto gioco denominato Previdenza è realizzato per l’INA (Istituto Nazionale Assicurazioni), una compagnia assicurativa nata come ente pubblico. Il gioco non è mai stato edito.
Tutti i quattro giochi hanno una direzione centripeta. Solo il primo ( Prudenza) ha una partenza in basso a sinistra e il senso è antiorario, gli altri hanno una partenza in alto a sinistra con un senso orario. In tutti è rappresentato un burattino simile al burattino di C. Collodi, Pinocchio. Al traguardo del quarto gioco è rappresentata una cornucopia dalla quale sgorgano monete d’oro accompagnate dalle istruzioni e da un commento che recita:
“ Fanciullo, nelle ore libere, dilettati con i familiari o con i compagni, imparerai ottime cose che ti spianeranno il sentiero impervio della vita. Questa tavola ha lo scopo precipuo d’inculcarti l’idea di Risparmio senza del quale molto improbabile sarebbe la vita dell’agiatezza e ad invitarti a combattere la miseria, da cui non si possono sperare cose buone (dai uno sguardo alla vignetta del n. 78 ed a quelle del n. 22…e pensaci su! Scongiurala, dunque, coll’evitare lo sperpero e coll’aderire ai consigli dell’Istituto Nazionale Assicurazioni che mirano a farti pervenire al successo. Per ragioni di spazio non possiamo abbandonarci a più plausibili commenti, ma siam sicuri che ci verranno in aiuto tanto il tuo maestro, quanto i tuoi genitori. A noi intanto il compito per formularti un sincero augurio: Che la tua vita sia tutta quanta sorrisa dall’agiatezza…!
Simile al Gioco dell’oca classico è il gioco a 90 caselle dell’EPT-BARI (Ente per il Turismo di Bari). Le ricompense e le punizioni riguardano gli usi e costumi della città, ma il gioco non si attiene alle istruzioni del Gioco dell’oca tradizionale, sia nelle numerazione delle caselle critiche che nella natura delle ricompense e delle punizioni.
Appare alquanto singolare il gioco salentino denominato 40° parallelo e datato 2001, “dedicato ai viaggiatori della notte”. Si tratta di un percorso con caselle numerate, costituite dal logo di locali pugliesi (birrerie, pub, locande ecc.), per un totale di 105 caselle. Contiene un regolamento semplice con un numero limitato di punizioni e ricompense. Condivide con il Gioco dell’oca il percorso a spirale, centripeto.
Con finalità formative è il gioco dell’oca ecologico salentino, Giocagiò ideato per diffondere alcune iniziative di Legambiente. E’ un gioco riguardante temi sociali con una particolare attenzione rivolta all’ambiente. Presenta un numero di caselle inferiore a quelle del gioco dell’oca classico, in molte di esse compare l’oca, ma le regole non si attengono ai canoni tradizionali.
Quest’ultimi tre giochi presentano una direzione centripeta e un senso antiorario, la partenza è nei giochi dell’EPT-BARI e della Legambiente al lato sinistro mentre per il 40° parallelo in basso a destra.
La satira politica è tra i temi più trattati dai disegnatori anche nei Giochi dell’oca. In Puglia e specificatamente in provincia di Lecce, si è distinto l’illustre galatinese Antonio Mele (in arte Melanton), autore, tra l’altro, di tre giochi dell’oca. Melanton (o Mel), annoverato fra i maggiori disegnatori di satira ed umorismo italiani[23], nel primo dei suoi percorsi evidenzia, esaltandoli, alcuni tratti caratteristici di politici italiani e stranieri, facilmente riconoscibili. Il suo primo gioco, denominato Il gioco dell’oca Satyrica, è pubblicato da “Il Quotidiano di Lecce” in occasione delle festività natalizie del 1986. Si tratta di un percorso costituito da 63 caselle con un andamento spiraliforme centripeto, con senso antiorario. Le oche occupano quasi tutte le caselle tradizionali ad eccezione dello scambio 31 con 32 e 60 con i 59. Le caselle negative (16, 20, 22, 29, 35, 37, 53, 57) sono differenti dalle corrispondenti caselle tradizionali. Riguardo ai contenuti va osservato che i politici ed i personaggi più significativi dell’epoca sono oggetto di ironia a partire dall’alterazione dei nomi accompagnata dalla vignetta caricaturale: Andreottico (Andreotti), Alessandro Nafta (Alessandro Natta), Giovanni Sparolini (Giovanni Spadolini), Craxophone (Craxi), Pelato Ciriaco (Ciriaco De Mita), Streagan (Reagan), Golbaciov (Gorbaciov), Perteenager (Pertini), Wolostyla (Wojtyla) ed altri ancora. L’aspetto della satira che sembra emergere è principalmente quello dell’ironia bonaria, mentre l’aspetto corrosivo e sarcastico è solo epidermico per una evidente scelta dell’autore di non graffiare ma di suscitare un sorriso da parte dei giocatori..
Il secondo gioco firmato da Melanton è Il Gioco dell’oca italo-canadese, realizzato per una testata destinata ai lettori italo-canadesi e pubblicato in occasione delle festività natalizie del 1996 dal “Corriere Canadese”, unico quotidiano in lingua italiana rivolto ad un vasto bacino di utenti della comunità italiana residente in Canada. Si notano nel gioco vignette che richiamano particolari geografici, storici e culinari dell’Italia, anche se la prima e l’ultima casella sono dedicate al paese ospitante. Le regole riportate non ricalcano lo schema tradizionale e il numero delle caselle è 54. Il percorso ha un andamento centripeto spiraliforme con un senso orario ed una partenza in alto a sinistra.
Il più recente Gioco dell’oca realizzato da Melanton è denominato Il fantastico Gioco dell’oca carabiniera. E’ allegato al numero di dicembre 2008 della rivista “Il Carabiniere” diffuso perciò in tutta Italia ed anche agli abbonati residenti all’estero. La quasi totalità delle caselle riporta episodi salienti della storia d’Italia e della vita dell’Arma. Si nota come la casella 61 riporti l’Unità d’Italia (1861), la 48 la Costituzione (1948), il 14 le Regie patenti (1814), il 46 il Regno d’Italia (1946–fine) Fra le regole si nota che fermandosi nelle caselle 33 (Torino), 34 (Firenze) e 35 (Roma), cioè nelle città capitali vi è l’obbligo di avanzare al 46, casella del “Regno d’Italia”. Molte caselle contengono l’immagine dell’oca carabiniera con i copricapo d’ordinanza. Questo gioco risulta essere una variante nei contenuti dell’Oca Satirica, di cui rispetta la struttura, sia nell’andamento che nella direzione e nel senso, pur essendo di dimensioni ridotte e a colori.
Di carattere divulgativo-didattico è il gioco denominato Il Gioco del Cigno di Altamura e dedicato a Saverio Mercadante, celebre compositore musicale vissuto nel XIX secolo. Questo gioco può essere collocato fra quei giochi che utilizzano l’espediente ludico per attuare strategie didattiche inerenti le tematiche culturali. Fra queste vi è anche la musica che ha una lunga tradizione nei giochi.
Volgendo l’attenzione verso la provincia più a Nord della Puglia, si rivela interessante il gioco didattico realizzato nel foggiano, riguardante quella parte del territorio pugliese interessata economicamente e socialmente fino ai nostri giorni dal fenomeno della transumanza ovina proveniente dall’Abruzzo. Luogo privilegiato per la pastorizia è stata la pianura di Foggia, istituita sede di dogana da Alfonso di Aragona, per ottenere, tramite un tributo, un risarcimento da parte dei mandriani per il giovamento del transito e per i danni che le greggi potevano causare durante lo svernamento e nel loro spostamento nel territorio pugliese. Il percorso seguito nell’antico fenomeno della transumanza è rappresentato in una carta topografica divenuta motivo ispiratore per una mappa di un gioco costituito da 30 caselle numerate. A differenza del classico Gioco dell’oca, in questo gioco sono essenziali le “carte delle istruzioni” che contengono ognuna una didascalia il cui contenuto ha come argomento «l’intreccio di eventi tra mondo pastorale ed agricolo che contraddistinse a lungo la vita economica e sociale della Capitanata anche in quel XVII secolo al quale risale la mappa del gioco. Nelle fasi del gioco riemerge anche la conflittualità continua fra le due realtà produttive e le difficoltà che i locati e i massari incontravano per gli imprevisti climatici e la scarsa liquidità monetaria che caratterizza l’epoca ».
E’ un gioco destinato ai ragazzi della scuola secondaria di primo grado e del biennio delle superiori che prevede una gestione da parte dell’insegnante nella veste di:
«rappresentante dell’amministrazione statale (la Dogana delle pecore della Puglia) incaricata di distribuire l’appannaggio economico iniziale; da mercante, acquirente dei prodotti agricoli e della pastorizia; da mercante/banchiere interessato al finanziamento delle attività produttive locali; da esattore dei tributi».
Il percorso di questo gioco interessa i territori della pianura intorno a Foggia detta Locatione de Castiglione, S. Iacovo, Fontanelle e Motta S. Nicola qual è la denominazione della carta topografica divenuta tavola del gioco. Anche in questo gioco il percorso si discosta dall’andamento consueto del gioco dell’oca tradizionale in quanto la direzione non è centripeta e le caselle sono disposte in modo discontinuo a guisa di zig zag.
pubblicato integralmente su Spicilegia Sallentina n°5.
Mal sopporto il vento di maestrale che va imperversando, senza sosta, da settimane. Sarà, forse, semplicemente perché non ho una naturale confidenza col suo soffiare a gittata intensa e possente, talvolta anche sotto forma di raffiche.
Ad ogni modo, mi sento come invaso, fuori e dentro, e consumato, dalla sua voce; l’aria asciutta e, in certe ore, rovente, che vortica intorno, influisce sullo stesso respiro, né mitigazione alcuna, dallo stato di fastidio e disagio, riesco a trarre nemmeno al riparo delle grandi chiome della pineta che circonda la casetta del mare.
Del resto, non è ragionevole e tantomeno logico pensare e parlare di stravolgimenti climatici unicamente riguardo ad altre zone, aree e realtà, insomma auto escludendosi, a immeritato vantaggio, insieme con il proprio circoscritto territorio e habitat.
E’ vero, nel Salento, lo scrivente ne è testimone e spettatore dalla tenerissima età, si era abituati a una diversa gamma e tipologia di venti, a nomi radicati, tradizionali e storici, risuonanti soprattutto nelle accezioni di tramontana, scirocco e, con minore frequenza, levante e ponente.
Riguardo al maestrale, regnava un’assoluta ignoranza, scrutandosene a mala pena l’esistenza accanto alle guglie della rosa dei venti, roba di terre e mari a grandi distanze, sino al mistral dei transalpini per sentito dire.
V’è da aggiungere che gli abituali soffi più frequenti, vuoi la tramontana, vuoi lo scirocco, nelle rispettive turnazioni, di norma evidenziavano un arco di tempo circoscritto, di solito pari a tre foglietti di calendario: il primo giorno nasce, il secondo pasce e il terzo muore, erano soliti commentare, e ancora oggi lo fanno, i nostri vecchi.
Invece, l’ultimo subentrato, giustappunto il maestrale, non solo ha scalzato i soffiatori di sempre, ma dimostra, inoltre, un’insistenza e una resistenza di ben maggiore portata e durata: in cotale guisa, almeno, è andato manifestandosi nella trascorsa prima fase dell’estate 2012.
° ° °
Le stesse notti, con il loro buio totale o rischiarato parzialmente dalla luna, non sono lasciate indenni, in pace, dal maestrale, i gradi di calore scemano di poco; nonostante le finestre spalancate, non assecondano placidamente il sonno, come avviene di solito.
Ieri sera, ho presentato la luna dal bel faccione ad Andrea, il quale ha tre anni, stimolando un breve dialogo tra di loro. Nei rivoli di luce che residuavano dal crepuscolo, gli occhi scuri del bimbo sembravano due gocce prodigiosamente staccatesi dalle macchie brune del satellite e arrivate sin quaggiù.
Nel frattempo, sotto il porticato bianchissimo di calce, faceva la rituale e puntuale comparsa un simpatico geco, cui il nipotino ha prontamente assegnato il nome Biagio
Per completare l’intervallo sino alla messa a letto di Andrea, s’inanellava, quindi, una breve sequenza d’innocenti e semplici filastrocche in gergo italo – dialettale.
Sotto la cappa del mio compare,
c’è un vecchio che sa suonare,
sa suonare le ventiquattro,
una, due, tre e quattro.
Din do lò,
le campane di Nardò,
una sale, l’altra scende
l’altra fa di dò, din do.
° ° °
Alla fin fine, momenti e parentesi di fastidio a parte, l’ingrigito osservatore di strada sopravvive anche al maestrale, fiducioso che, pur con le rivoluzioni e i cambiamenti intervenuti, verranno ancora a riaffacciarsi le giornate di tramontana, preferite in assoluto, e/o di scirocco, vento che, quantunque un tantino appiccicoso, è costante, senza strappi, con il mare a cavalloni pieni ma non a dismisura, parterre ideale per le passeggiate con una barchetta a vela.
E però, sembra intanto giusto che ognuno si ritagli le cornici e i contenuti della propria estate, non a caso appellata bella stagione. Ad esempio, v’è chi ama e frequenta le lunghe liste di sagre a contenuto culinario mangereccio, del genere “Sagra della carne alla turca” ( che sarà mai) oppure “Festa de lu cannuzzutu” (in italiano, golosone).
Lo sapevo che mi avrebbe fatto sorridere e commuovere Mario Perrotta. Il teatro romano non era pieno, ahinoi, chissà perché i leccesi non corrono a rendere omaggio a questo leccese che ha talento e capacità, che porta in giro per il mondo la migrazione dei salentini con una incredibile capacità affabulatoria. Riesce ad incollarti sulla poltrona, anche se è solo un sedile di pietra come si conviene agli anfiteatri romani.
“La turnata – Italiani cincali parte seconda” è il titolo, e racconta di bimbi chiusi per anni in una camera perché la legge elvetica non consente ad un immigrato di portarsi i figli. Succedeva con i pugliesi allora, oggi con i turchi, gli slavi e gli altri immigrati. Nulla è cambiato nel mondo della cioccolata fondente e delle banche. Nulla muta nell’indifferenza dell’Europa che, tutto sommato, invidia la terra sedicente neutrale e che utilizza questo status per ripulire i quattrini di ogni più nefanda tirannia ed ogni traffic odi armi, in alcuni stati extra comunitari e non solo le norme anti immigrati, che sono nei fatti incivili, sono quotidianità anche se hanno nomi diversi, possono chiamarsi Bossi Fini o pinco pallino, la sostanza non muta.
La “turnata” si distingue dalla “’enuta” anche se ne ha lo stesso significato, entrambe significano ritorno. La seconda però è una cosa lieve, temporanea. Ha il sapore delle auto pulite e grandi degli immigrati che arrivavano per le ferie ostentando ricchezza con i coprivolanti di pelo e le tendine ai finestrini “come fanno i tedeschi”. Quelli che andavano al bar del paese a testa alta, come chi ce l’aveva fatta, salvo poi tornare nel mondo dell’assurdo, delle baracche, dei cartelli “vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”. Ma questo non si poteva dire, erano i pugni chiusi per nascondere lo sporco delle mani. La “turnata” è invece per sempre e significava l’avercela fatta. Quasi sempre, nella storia narrata da Mario c’è il nonno morto che non può essere affidato al ritorno su mezzi convenzionali perché costa troppo e viene portato al suo paese, per la sua “turnata” come passeggero sulla Giulia 1300, assieme a tutta la famiglia, compreso il bimbo nascosto nel bagagliaio perché non avrebbe dovuto essere “alla Svizzera”.
La capacità narrativa di questi nuovi guitti, parlo di Mario che ci racconta i migranti in Belgio e in Svizzera e parlo di Paolini che ci ha sapientemente raccontato il Vajont e non solo, sarebbe da portare in ogni scuola. La storia narrata in questo modo, documentata e supportata di ore di registrazioni di testimonianze, da viaggi ad ascoltare l’uomo blu di Casarano, piuttosto che il tunisino che, sempre a Casarano, vive e che racconta del perché gli immigrati antichi siano a loro volta guardinghi, quasi razzisti verso i nuovi migranti “perché lo schiavo liberato diventa spesso schiavista”, è La Storia (maiuscolo) che tutti quanti dovremmo conoscere. In un breve dialogo prima dello spettacolo, Mario mi parlava di Cincali due come della chiusura di un cerchio. “Chissà se ora indagherà sulla ripresa della vita al ritorno degli emigranti nei loro paesi” mi diceva Angelo uscendo da lì. Ovviamente giro la domanda a Mario. E’ veramente chiuso questo cerchio? Se non lo fa lui questo sforzo sarà difficile leggerlo in modo ironico e apparentemente leggero nelle pagine di qualche saggista. Sarebbe altra cosa.
La d cacuminale retroflessa: quattro chiacchiere tra il serio e il faceto.
La riproduzione grafica di un fonema presente in una parola dialettale è un problema antico ed ancora attuale e di soluzione difficilissima. Se infatti si usassero i simboli dell’alfabeto fonetico internazionale i fonemi recherebbero dei simboli diacritici che trasformerebbero il testo, agli occhi del comune lettore, in una sorta di quadro astratto di complicata lettura che costituirebbe un’ottima premessa per garantire o, forse, per consolidare un triste nostro record, quello, appunto, della ridotta pratica della lettura.
Siccome, poi, gli inconvenienti non vengono mai da soli, per il dialetto salentino del territorio leccese1 c’è un problema particolare all’interno del generale: la trascrizione del digramma dd cacuminale invertito. Questo suono, che nell’alfabeto fonetico internazionale è indicato con l’aggiunta di un puntino sotto la d, nasce sempre da un originario digramma ll; per esempio, dal latino illu(m) è derivato il neretino iddhu2.
La situazione si complica, poi, se si pensa che la trascrizione ha rappresentato e rappresenta ancora un problema di ricerca per gli scrittori in vernacolo leccesi che hanno sempre optato per una scelta personale
29, 30 e 31. A gennaio si chiamano i giorni della merla.
A luglio occorre trovargli un nome. Che sono date nelle quali il sogno diventa realtà.
29 di luglio: Nardò. Nel meraviglioso Parco del Castello appena riaperto alla frequentazione dei cittadini, Marcello Gaballo ha rappresentato la concretizzazione di un sogno: la Fondazione Terra d’Otranto è ormai viva, vegeta, riconosciuta ed in buona salute. Un luogo nel quale i talenti nel campo dell’arte, della letteratura e della cultura potranno avere momenti di confronto e di verifica intorno alla rivista Il Delfino e la Mezzaluna diretta magistralmente da Pier Paolo Tarsi. Bellissima serata con centinaia di persone che son li, fino a quasi mezzanotte, a nutrirsi di cultura.
30 di luglio: Lecce. Nella sala Janet Ross del Resort Risorgimento, dopo un gestazione faticosa, un altro sogno prende forma: Leccellente, magazine bimestrale che non si compra ma si merita, vede la luce. Raccolta tutto ciò che di straordinario è da Lecce, con Lecce e per Lecce, con Lecce intendendo tutto il territorio dei cento comuni. Sala stracolma, il Sindaco Paolo Perrone riesce a trovare una pausa del Consiglio Comunale per esserci con un intervento non di circostanza, e, a chiudere, piccole delizie di Donato Episcopo e Marco Greco.
31 di Luglio: Lecce. Sala Didattica dell’ex-ospedale psichiatrico. Conferenza stampa di presentazione di Ortoporto. Ci sono il Direttore generale della ASL,
Lu furese susu ‘lla ciùccia (Tit. originale: “Ca te cquai passava iu”. In basso la traduzione in italiano)
‘Na fiata ‘nu furese scìu fore ‘n cavaddhu lla ciùccia cu ffazza la munda te le ulìe. Topu ca ttaccàu la ciùccia sotta ‘nn àrburu, salìu susu ‘nna ulìa e sse mise ssettatu propriu susu lla cima ca ia ttajàre.
Addhai ca se ṭruàu ppassare ‘nu cristianu ca se ddunàu te ddhu furese ssettatu propriu susu lla cima ca sta tajàva. E nne tisse: «Bon omu, essi te ddhai, se no cati te ddha ssusu paru cu ttutta la cima!» Nu’ ffice ttiempu cu spiccia la parola, ca la cima se spezzàu e llu furese catìu cu tutta la cima. Ma nu’ nd’ìppe ṭroppu male, anzi, se ‘źàu te pressa e nne tisse a llu cristianu ca l’ia ‘vvertutu: «Vistu ca m’hai nduvinatu ca ia ccatire, sai ‘llora nduvini puru quandu moru? Moi me l’hai ddire, sangu te ddhu porcu!»
«Ddha ciuccia toa ete?» ne dumandàu lu cristianu.
«Sine» tisse lu furese.
«E ‘llora quandu face ṭṭre ppìrate la ciùccia, tandu mori.»
Lu furese ‘llora, tuttu scustulisciatu (ca mo’ ia catutu te susu ‘nn àrberu, no?), restaccàu la ciùccia e ppijàu nne mmonta susu cu sse nde vae ‘ccasa. Ma nu’ ffice ttiempu cu ssale, ca la ciùccia ccuminciàu ttirare caggi. E cquai ca ne scappàu lu primu pìratu. Se zzaccàu ppijare pena ‘llora lu furese. E ddisse: «Do’
L’amore dormiente, una tela nel Museo Archeologico di Taranto
Il dipinto, oggetto del mio articolo, fa parte della collezione che il vescovo di Nardò, monsignor Ricciardi, donò al Museo Archeologico di Taranto[1] tramite un testamento olografo depositato nel 1907[2].
Il documento recita: “Tutti i quadri di qualche merito artistico sia esistenti nel Palazzo di Taranto, che all’Episcopio (di Nardò), voglio che siano depositati nel Museo pubblico di Taranto”.
Le tele in questione sono per la maggior parte opere di scuola napoletana del XVII e XVIII secolo, tra le quali trova spazio il nostro dipinto, raffigurante “L’amore dormiente”.
L’opera in questione è una teletta (57 x 39) che tradizionalmente viene attribuita alla scuola Andrea Vaccaro; essa trova spazio in un saggio del Galante[3] che, senza il conforto della fotografia, cita
La chiesa di Santa Maria di Costantinopoli a Taranto
Nell’agro tarantino una delle cappelle più antiche e famose è quella dedicata alla Vergine di Costantinopoli. Situata nei pressi del cavalcavia ferroviario, lungo la via che porta a Massafra, venne edificata nel 1568 dal sacerdote don Giambattista Algerisi di Taranto e consacrata il 2 aprile del 1570 da Monsignor Bartolomeo IV Sirigo, vescovo di Castellaneta.
Al suo interno il pavimento è lastricato con marmo misto a pietra e copre tre sepolture. L’altare, anch’esso di marmo, è corredato di candelabri di bronzo; vi è anche un altro altare di pietra dietro il quale è posta una tela che raffigura i Santi Cataldo, Simeone, Leonardo. Sono presenti due fonti di marmo per l’acqua benedetta.
“Un documento dell’Archivio Arcivescovile di Taranto del 1577 attesta che la chiesa di Santa Maria di Costantinopoli possiede assieme ad altri beni tre tomoli di terra coltivati a frutteto, seminativo, ecc. con fontana a stalla accanto alla stessa chiesa, in un luogo detto Fontana Vecchia”. Nel 1582 nella chiesa si insediò la confraternita di Santa Maria di Costantinopoli, in quanto nella stessa vi era un antico dipinto raffigurante l’immagine della Vergine, di inestimabile valore, giunto, secondo la tradizione, da Costantinopoli.
Nel 1867 la vita della cappella venne segnata da un nefasto destino. Iniziarono i lavori per la costruzione di un tronco ferroviario e la Direzione Compartimentale di Bari avanzò trattative col patrono della chiesa, il barone Giuseppe RIZZI ULMO, per la cessione della stessa e del terreno circostante, dietro rimborso di una somma equivalente al valore materiale dell’immobile, da investirsi per la riedificazione del Santuario su terreno libero di proprietà delle Ferrovie dello Stato. Nel frattempo, il 2 agosto 1897, venne nominato rettore della chiesetta, don Francesco DE VINCENTIIS che diede vita ad intense opere di restauro. Ma il corso degli eventi fu inarrestabile. Quando scoppiò la prima guerra mondiale la chiesa fu requisita per esigenze militari e quel momento fu l’inizio di una visibile decadenza. Venne anche adibita a deposito di generi alimentari.
Il 20 luglio 1924 Monsignor Giuseppe BLANDAMURA visitò la chiesa e, animato da uno spirito di tutela e di rinnovamento, con il consenso dell’arcivescovo Orazio MAZZELLA, approntò una lista dei cimeli superstiti esistenti nella cappella che sarebbe stato opportuno e doveroso salvare. In particolare, l’altare marmoreo, la scultura rappresentante la Vergine col Putto, un’iscrizione lapidaria ed infine un cippo funerario con dedica.
Nel 1926 la vecchia chiesa fu abbattuta ed immediatamente ricostruita in parte con lo stesso materiale proveniente dalla demolizione.
Oggi è lì, ristrutturata dai portuali, con il suo vetusto aspetto, protetta da una ringhiera e da un cancello di ferro.
Al suo interno non resta quasi nulla di quanto descritto. Superstite della distruzione è solo un’ opera in pietra databile intorno al Cinquecento, opportunamente restaurata, che raffigura la Madonna col Bambino che però è stata collocata all’inizio della navata destra della Cattedrale.
Bibliografia:
Associazione Internazionale di studi e ricerche sulla cultura popolare religiosa, Il Tradizionalista, Blog culturale, 30 ottobre 2008;
G. BLANDAMURA: Santa Maria di Costantinopoli, in Taras 1926;
N. CAPUTO: Destinazione Dio, Taranto 1985;
– N. CIPPONE: Le fiere, i mercati, la fontana della pubblica piazza di Taranto, Martina Franca, 2000;
– V. DE MARCO: La Diocesi di Taranto nell’età moderna: 1560-1613, Roma 1988;
M. Mirelli, Service 2003-2004, Lions Club Taranto Host.
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