Costretta a fuggire da Betlemme, la Sacra Famiglia fece un viaggio terribile, attraversando, sempre a dorso d’asino, zone arse e pressoché desertiche.
Grande fu perciò il sollievo di San Giuseppe e la Madonna quando, varcato finalmente il confine della Terra d’Egitto, scorsero una rotonda di alberi la cui lucentezza di fogliame lasciava intendere la vicinanza di un corso d’acqua.
Fiutandone la frescura, l’asinello accelerò il trotto, andandosi a fermare proprio sotto un albero che, per avere una grande chioma e le radici sporgenti, consentiva una sosta ristoratrice.
– Ah! – esclamò soddisfatta la Madonna – Ora che l’incubo è finito, grazie a
Aniello Letizia e il dipinto dell’Immacolata di Montesano
Nel panorama artistico salentino tra il XVII e il XVIII secolo assistiamo all’attività del pittore Aniello Letizia. L’artista, figlio di Domenico di Alessano e di Prudenzia Turca, nasce presumibilmente verso il 1669. Dopo il praticantato artistico nella città partenopea, si accaserà a Galatone e qui morirà nel 1762 a circa 93 anni.
Piuttosto scarni sono i dati biografici e artistici di questo pittore. La sua attività più nota è l’esecuzione di quasi tutto il ciclo pittorico della chiesa del Crocifisso di Galatone (il capitolo galateo incomincia a commissionargli dipinti fin dal 1716 fino quasi alla sua morte); della chiesa della Purità di Gallipoli (dipinti eseguiti tra il 1726 e il 1738); della basilica di Leuca (nel 1747 il vescovo Luigi D’Alessandro noterà nel Santuario sei dipinti: la Nascita di Maria, l’Annunciazione, l’Ascensione, S. Giovanni Battista, S. Antonio di Padova, il Martirio di S. Giovanni Evangelista, annotandovi:“opus penicilli excellentis pictoris Agnelli Letizia Alexanensis, a schola Lucae Jordani”).
Nella chiesa Matrice di Montesano vi è un’inedita opera attribuibile al nostro pittore: è il dipinto dell’Immacolata Concezione. Nuovi particolari e conferme sono proprio emerse dal restauro. Quest’opera rivela chiare analogie con un dipinto di Leuca: si può notare ad esempio come i disegni degli angeli svolazzanti di Montesano sono stati impiegati nel dipinto del Martirio di S. Giovanni Evangelista di Leuca.
Quello che certamente emerge dalla produzione pittorica che il Letizia ha svolto, è il costante riferimento a modelli della pittura napoletana: i forti contrasti e le tonalità a volte fredde rimandano proprio alla pittura giordanesca e solimenesca. L’incostante qualità nelle opere è presumibilmente dovuta all’attività di bottega, la quale, coadiuvava Aniello nelle sue numerose commissioni.
Bibliografia
– S. Tanisi, Nota sui dipinti di Aniello Letizia (1669 ca. – 1762) nel convento e nella chiesa della Grazia di Galatone, in “Miscellanea Franciscana Salentina: rivista di cultura dei Frati minori di Lecce”, a. 23 (2007), n. 23, settembre 2009.
– S. Tanisi, Montesano: che… Letizia di dipinto. Nella Chiesa Madre un’inedita opera attribuibile ad Aniello Letizia. Ora è nel laboratorio di restauro, in “Il Gallo” periodico indipendente, Anno XIII, Numero 8 (361), 29 marzo/4 aprile 2008.
Scegliete delle cipolle della varietà salentina appellata Barlettana di dimensioni piuttosto grosse e quanto più possibile omogenee, nettatele e cuocetele a metà cottura in acqua salata. Sgocciolate, fatele raffreddare, tagliatele nella parte apicale in modo da ottenere una specie di coperchio e vuotatele di una buona porzione di polpa evitando però di indebolire troppo la loro struttura. Tritate la polpa estratta e mescolatela con del formaggio grattugiato, pangrattato, uova, sale, pepe e olio. Con il composto ottenuto riempite le cipolle, ricopritele con il coperchio di cipolla, ponetele ben serrate in un tegame irroratele d’olio e mettetele a completare la cottura in forno. Volendo potete arricchire la farcitura aggiungendo al composto della carne trita rosolata col olio, sale e aromatizzata a piacere con della noce moscata.
Cipolle rustiche
Nettate delle cipolle Barlettane eliminando le tuniche esterne, praticate un taglio a croce sulla sommità di ognuna di esse onde agevolare la cottura e sistematele ben serrate in una teglia. Irroratele abbondantemente con olio di frantoio, spruzzatele d’aceto, cospargetele di sale e ponetele in forno a temperatura non molto elevata
Mi alzo, è molto tardi, è pure domenica mattina, il più infame dei giorni. È quasi ora di pranzo, ma non posso comunque rinunciare a un caffè. Mi vesto con le prime cose che trovo, oggi i prescelti sono un jeans e un maglioncino nero con una lampo difettosa che si chiude con enormi sforzi sul petto. Sono molto previdente in certe cose e prima di andare al bar penso bene di fermarmi un attimo da un tabaccaio aperto anche nei festivi. Non mi è affatto simpatico il tipo, un burbero che a mala pena ti guarda in faccia dandoti il resto. L’uomo tuttavia, con mia grande sorpresa, questa volta mi scruta con attenzione non appena entro nel suo negozio, mi segue con lo sguardo finché, fissandomi intensamente per qualche secondo, addirittura accenna a un sorriso. Mi porge con gentilezza il resto, si risofferma sul mio viso mentre quel suo mezzo sorriso si allarga sempre più, tanto che contagiandomi gli rispondo muovendo qualche muscolo facciale.
Lo so, non sono stato molto espansivo, ma è il massimo che riesco a fare di domenica mattina. Non posso più aspettare per un caffè e per evitare di riprendere l’auto parcheggiata in terza o quarta fila decido di entrare nel bar più vicino. Detesto anche questo posto, a servire al bancone c’è una signora dall’aria sempre grigia, con un’eterna espressione spenta e tetra, una donna musona e triste insomma. Guardandola mentre ti prepara qualcosa hai quasi l’impressione che sbuffi, il timore che da un momento all’altro ti sbotti contro un “Senti bello, vedi di fartelo a casa il caffè la prossima volta eh!”. Di fronte a
Una luce accecante penetra dalla fessura che si apre tra le mie palpebre pesanti come saracinesche. Sono come in catalessi: gli arti inferiori indolenziti e gettati per terra su un ruvido marciapiede, le braccia pendono inerti sui miei fianchi. Sono confuso e infreddolito; sento i vestiti carichi d’acqua piovana aderire sul mio corpo flaccido, viscido. Tremo, non ho la forza di caricare sulle spalle la mia carcassa e portarmi via, al riparo.
In lontananza sento il grido esasperato di un gallo avvertire che ormai è l’alba e il sole sta cominciando a sorgere dietro gli ulivi. Voglio aprire gli occhi per vedere i suoi raggi frantumarsi tra i rami e le foglie di quegli alberi, abbattersi sui vigneti e poi infine, sfiniti, strisciare leggeri sulla rugiada, stesa sull’erba come un velo di seta. Voglio vedere la foschia soffocare tra le mani possenti dell’alba; voglio sentire il canto soave degli uccelli sostituire il bubbolio dei tuoni e lo scroscio della pioggia. E mentre il mio corpo diafano giace per terra e si lascia trafiggere come una goccia d’acqua, ripeto dentro di me i versi di una poesia di Emily Dickinson.
“La luce del mattino mi eleva di grado
se qualcuno mi chiede come
risponda l’artista che mi tratteggiò così”.
Un rumore mi frastorna. Sento una macchina accostare, uno sportello aprirsi e poi la voce di un uomo: «Tutto bene?». Un sussulto e poi sollevo un braccio in aria come per dire “non si preoccupi, sto bene”. Lascio cadere la mano per terra e faccio forza sul mio polso; provo a sollevarmi ma non ce la faccio. Sto male. Dopo una nottataccia passata sotto la pioggia non ho più quel soffio di
Ci sono rapporti che nel Tempo migliorano e diventano sempre più importanti.
Sono costretti a nascere timidi ma dopo diventano forti e prepotenti.
Ecco così è successo con mio Padre.
Io faccio parte della generazione 1985, quella in cui era normale che un papà desse un ceffone al proprio figlio per imparare l’educazione.
Quella generazione in cui i genitori si svegliavano alle 5.00 di mattina per andare in campagna e dormiente ti portavano nel lettone dei nonni.
Quella generazione in cui il Papà era il Papà con la P maiuscola, non un amico, non un tenerone e nè un giocherellone, ma IL Capofamiglia, colui che aveva il dovere di proteggere e guidare 4 persone, una casa e un lavoro, colui che bisognava rispettare e “non rispondere” perchè così si faceva, perchè così era giusto.
Era il papà che mi diceva “tu hai solo un dovere: studiare! Se vai male ti porto via da scuola e vai a lavorare alle pecore dietro casa!”
Era il Papà che non mi prendeva per mano, perchè al tempo era compito della mamma, lui doveva insegnarmi a essere duro e forte, freddo quanto basta per affrontare la realtà.
Era il Papà che per dirti “bravo” ce ne voleva di tempo e di buoni voto…
Era il Papà che con con la paghetta di 5 mila lire mi insegnava a essere risparmiatore e cosciente del valore dei soldi.. forse anche un pò troppo
Faccio parte di quella generazione in cui non c’erano telefonini, computer, i phone, uscite notturne a 14 anni, vacanze estive a 16 anni, sigarette nei bagni e quant’altro. NO.
Io avevo il mio diario, un piccolo quaderno nascosto tra quelli di scuola, spiato puntualmente da mia madre e che riferiva tutto a lui, da casa uscivo per andare in chiesa o al massimo per andare, di nascosto, a danza (a 18 anni), la mia vacanza estiva era un campo scuola con gli amichetti del catechismo laddove i miei genitori puntualmente dovevano venire a trovarmi almeno un giorno, contro il mio volere.
Io faccio parte di quella generazione che non si sarebbe mai permessa di dire una parolaccia a tavola davanti ai propri genitori, nonostante loro le dicessero, eccome… ahahah….
Mio padre è stato il papà che non ha accettato la Danza nella mia vita “perchè è una cosa inutile e fa spendere soldi”.
Mio padre è stato il papà che aveva dei genitori malati e ha sofferto come un cane quando il Cielo se li è portati via, pur non facendolo vedere.
Mio padre è stato il papà che ha costruito e ristrutturato tutta casa sua, con le proprie mani.
Ma il tempo ci migliora più delle volte…
E mio Padre è cambiato.
O forse siamo cambiati insieme.
O forse ancora siamo cresciuti.
Mio padre ora mi presenta con orgoglio e soddisfazione come il “Figlio Ballerino e Maestro” davanti a tutti, anche laddove non ce n’è il bisogno e magari istigando mia madre a mettere in borsa qualche dvd dei miei spettacoli per afrli vedere durante le cene con parenti e amici.
Mio padre ora mi telefona per chiedermi “come stai? che stai facendo? la macchina va bene? Guida Piano ca tu scappi sempre!”… forse anche troppe volte…
Mio padre ora non perde occasione per complimentarsi con me, per farmi capire che è contento del mio lavoro, del mio carattere, del mio percorso, anche se magari fa finta di non vedere molte cose della mia vita, come un padre vero dovrebbe fare.
Mio padre è ora persino su facebook, pronto a prendere il posto di mia madre e a spiare tutta la mia vita sociale e non…
Mio padre soprattutto è colui che è sempre pronto a salvarmi.
“Papà la macchina non parte”… e lui dopo mezz’ora ha già fatto 43 km ed è li affianco a me ad aiutarmi.
“Papà voglio farmi un controllo al ginocchio” e il giorno dopo ha già trovato l’appuntamento dal medico.
E non scorderò mai lo sguardo di mio padre (e ovviamente anche di mia madre) quando il 5 agosto un medico in cam ci disse “suo figlio sta benissimo, non ha nulla.” Uno sguardo di liberazione e commozione messi insieme. Di serenità dopo tanta paura, di felicità, di amore.
Lo sguardo di orgoglio davanti alla mia proclamazione “Dottore in beni culturali con 110 e lode”.
Cosiccome non posso dimenticare il suo tono di voce di solo qualche giorno fa, sconsolato e triste e pieno di rabbia con quella breve frase “di nuovo”.
E in un periodo così ansioso e difficile per me e per la famiglia, lui si fa in quattro per provare a “salvarmi” di nuovo.
Ecco questo è il mio Papà.
Questo è il nostro rapporto.
Poche parole.
Pochi abbracci.
Poche dimostrazioni.
Tanto sentimento.
Rubo una frase dal mio libro preferito, che rappresenta al meglio noi due, questi due uomini così diversi ma così uguali allo stesso modo.
L’essenziale è invisibile agli occhi…
Mino Bianco, 27 anni , nato nella messapica Mesagne ma residente da otto anni nella Barocca Lecce.
Laureato in Beni archeologici con il massimo dei voti, tutt’ora è insegnante di Danza Moderna e Hip Hop presso il proprio Centro Studi “Danza&Passione” e altre strutture sparse nella provincia di Brindisi e Lecce.
Sostiene che da grande vorrebbe fare l’ “Artista”.
Dedito completamente alla Danza, è anche un amante della Scrittura di racconti e piccole Operette poetiche messe in scena durante i suoi spettacoli.
Appassionato di internet, interagisce con il Mondo circostante anche attraverso il suo blog personale.
“A me piace scrivere e danzare perché ho tanto da dire”
Il fatto di san Giorgio [In basso la versione in dialetto salentino]
Racconto tratto dal libro “Lu Nanni Orcu, papa Cajazzu e altri cunti salentini” di Alfredo Romano. Nardò, Besa, 2008.
C’era una volta una che, essendo donna molto pia, non mancava di recarsi in chiesa per assistere a tutte le funzioni. Era molro bella e abitava in una casa che divideva col fratello.
Il prete della chiesa, tuttavia, pian piano se ne innamorò, fino a che un giorno, finito che ebbe di dire messa, la chiamò in disparte e le disse:
«O cara donna pia, devo svelarti un segreto che credo ti farà felice. È venuto a trovarmi san Giorgio per dirmi che desidera scendere apposta dal paradiso per venire a farti visita. Potrà farlo però solo al cadere della mezzanotte e alla condizione che in casa tua non ha da esserci nessuno, neppure tuo fratello.»
«San Giorgio a casa mia! Ma che onore! Ma che fortuna! Non posso credere che san Giorgio scenda dal cielo per una donna povera come me, io che non sono degna neppure di nominarlo.»
Fu così che la bella donna pia se ne tornò a casa e raccontò tutta entusiasta al fratello di questa visita. Lo pregò pure, per la notte che veniva, di andare a dormire altrove, perché così voleva san Giorgio.»
E il fratello disse alla sorella:
«Non ti preoccupare, dici mo’ che per il desiderio di un santo non m’allontano una notte da casa?»
E la donna pia, per l’occasione, s’affrettò a pulire tutta la casa, non mancando di porre qua e là anche dei mazzi di fiori. Lei stessa si fece ancora più bella per la venuta del santo. Lì che si fece mezzanotte e sentì bussare alla porta.
«Chi è?» disse tutta tremante.
Un giorno, un nome e una leggenda s’incontrarono per caso grazie al tubo catodico.
Avevano entrambi lo stesso aspetto sciupato e pallido, forse perché si guardavano attraverso una vecchia pellicola degli anni ’60: “Dracula, principe delle tenebre” del britannico Terence Fisher.
Quei due non erano la stessa cosa, si capisce dal titolo di questa storia: il primo, con un nome accompagnato per secoli dalla fantasia popolare, il conte Vlad Tepes Draculea di Pennsylvania, il secondo, invece, con un nomignolo affibbiatogli dagli amici per quella sua aria smunta e lugubre tipica, a detta di tutti, di una certa razza strana di cadaveri, i vampiri.
Il conte ispiratore di buona parte della produzione letteraria e cinematografica dell’ultimo secolo, era stato un uomo dalla vita ricca di passioni estreme, grandezza e orgoglio. Principe di Valacchia, Dracula aveva combattuto con incredibile ferocia i turchi, di cui era stato più volte prigioniero, tornando poi a regnare nel 1476, alla fine del quale anno era finito assassinato da chi gli era successo al trono. Forse per via dell’abitudine di mangiare sotto il corpo impalato dei suoi nemici, la gente cominciò a immaginare da subito il conte Dracula come un essere immondo, immortale, una creatura sanguinaria e affamata di sangue, tanto da animare gli incubi di intere generazioni.
Alessandro Arrighi era invece un comune cittadino di Milano, arrivato a trent’anni con una laurea in storia e filosofia e una tesi sul Medioevo pubblicata sulle più importanti riviste del settore.
Il pallore sconcertante del suo viso era dovuto a una forma congenita di anemia, ma i suoi modi di fare schivi e le sue trovate imprevedibili gli avevano fatto guadagnare soprannomi e dicerie a non finire. Cultore appassionato delle pellicole horror, Alessandro passava le sue nottate a vedere e rivedere vecchi film fatti arrivare direttamente dall’Inghilterra per la sua collezione personale.
La notte dello strano incontro il giovane sentì di essere particolarmente inquieto e per la prima volta le scene del film di Fisher gli trasmisero paura, quasi terrore. Assopitosi per qualche minuto davanti alla tv, l’uomo sentì il bisogno di continuare a dormire e l’avrebbe anche fatto se l’urlo lacerante della vergine vampirizzata non lo avesse buttato giù dal divano senza tanti complimenti.
“Accidenti! L’avrò visto almeno venti volte sto’ film, ma questa è la solita scena canaglia che mi terrorizza a tradimento. Che imbecille che sono!”, borbottò cercando a tentoni gli occhiali persi nella caduta.
Finito di inforcare bene le lenti, la sua visione nitida gli regalò l’immagine di due occhi di brace a pochi centimetri dal suo naso. Un salto all’indietro e il
La strada che si presenta nel mio campo visivo è una viuzza costellata di antichi palazzi interamente rivestiti di “fogli” di pietra leccese; una delle strade più vecchie del mio paese.
Abitavo in un palazzo molto antico appartenente al mio trisavolo. Ricordo due grosse colonne in pietra leccese, lisce come la superficie del mare d’estate, quando il sole arrossisce sulla linea dell’orizzonte e l’afa lascia il posto alla frescura del vespro. Immettevano l’ospite in un ampio cortile scoperto, dove papà parcheggiava lu sciarabbà[1]caricato di tutti gli attrezzi del suo lavoro: la pala, la sarchiuddhra[2], la ‘mbruffarola[3], lupalieddhru[4], la ‘nzurfarola[5].
Poi, attraverso un portone, si entrava in una sorta d’ingresso e una scalinata, anch’essa in pietra leccese, portava al piano di sopra, dove vi erano due enormi stanze con volta a stella. Queste facevano da cucina, sala da pranzo, salotto, soggiorno e stanza da letto matrimoniale, dove vi erano anche due lettini, uno per me e l’altro per mia sorella. Il bagno era in giardino, nella stalla: in un angolino dietro la porta, di fronte al nostro vecchio cavallo Neru, papà aveva sistemato una tazza. Non avevamo lo sciacquone e quindi per ripulire usavamo dei secchi d’acqua piovana. Ricordo che non avevamo neanche la carta igienica e quindi si utilizzavano o i fogli di carta, gli stessi usati dal fornaio per incartare il pane fresco, oppure uno strofinaccio, già adoperato ovviamente, ma che mamma disinfettava in acqua bollente ogni due giorni.
Cammino sotto la pioggia che ora ha preso un ritmo incessante e mi guardo intorno nella speranza di riconoscere casa mia. Niente, sono quasi arrivato alla fine della strada e ormai sono sfinito, il peso dell’acqua mi sta sfiancando. Mi siedo su degli scalini e sto per tirare di nuovo fuori il taccuino per finire il
Il fuoco scoppietta davanti ai miei occhi e quelle piccole fiamme mi riportano con la mente indietro nel tempo. Siedo dinanzi a un vecchio camino, fisso un tizzone in incandescenza e all’improvviso sento quella cenere solleticarmi le narici, sul mio volto si posano, danzando nell’aria, piccoli frammenti di fogli bianchi. E così per ore, sino a quando mi accorgo che sono completamente sommerso, non riesco quasi a respirare e, quando faccio per alzarmi dalla sedia, una valanga d’inchiostro nero mi rimette a sedere.
A questo punto salto in aria urlando e mi accorgo di essermi addormentato. Il fuoco si è spento, fuori piove a dirotto e la pioggia sembra bussare alla finestra, poi alla porta. Subito i miei pensieri rievocano quel tamburellare incessante, quel volto d’uomo riflesso nello specchio, quel leggero tocco tra i capelli, e inizio a tremare come un ramoscello d’ulivo. Ribussano e in quel fracasso mi sembra di sentire una voce.
«Pasquale ci sei? Sono Eleonora». La mia coscienza mi dice di non aprire, mi mette in allarme, potrebbe non essere Eleonora. «Scusa se ti disturbo, ma ho finito ora di lavorare e ho pensato di passare a salutarti» – la voce dietro la porta continua a perseguitarmi. Poi vedo un pezzo di carta bianco passare lentamente sotto la porta, ripenso a quei frammenti bruciacchiati e il livello di paura sale. Lentamente mi sollevo dal letto e vado a raccattare quel biglietto, lo apro e leggo: “Ciao Pasquale sono passata a salutarti. Vieni a trovarmi appena puoi”. Mi faccio coraggio, apro la porta e vedo con stupore Eleonora
Maria mangia il suo gelato con tanto amore, stando attenta a non sporcarsi il vestitino. È una bambina molto bella, la sua pelle è candida; stringe forte al petto la bambola di pezza, mi guarda e sorride continuamente. Il suo sguardo dolce e tenero scruta i miei occhi in cerca di un conforto, di una presenza al suo fianco che forse non ha mai avuto e ora ha paura di perdere da un momento all’altro.
Io la guardo e ne rimango estasiato, colpito dai semplici gesti da bambina: ogni tanto, in maniera molto istintiva, si sfiora i riccioli con le dita e li porta dietro le orecchie; rigira di continuo il cono tra la mano, catturando con la sua piccola lingua le gocce di gelato che si sciolgono al calore del sole.
Prima di ritornare a casa però, mi volto a guardare nuovamente la casa baronale. Qualcosa attira la mia attenzione, come un suono, un lamento, un canto. Non saprei. Devo darci un’occhiata.
«Maria ora ti aiuto ad attraversare la strada e poi vai a casa da sola. Te la senti?».
La piccola mi guarda perplessa e poi fa cenno di sì con la testa. La vedo correre felice verso gli altri bambini con il suo gelato in mano, alzato al cielo come un trofeo.
M’incammino verso la vecchia costruzione abbandonata e di fronte al portone mi fermo a contemplare l’ammasso informe di rovine. Mi chiedo se quello che sto per fare abbia qualche particolare significato o sia solo pura curiosità. Da bambino ci passavo diverse volte durante la giornata accanto a questo palazzo ma non ricordo mai di avere avuto voglia di vedere cosa si nascondesse dentro, celato agli occhi di tutti. Una strana sensazione, come un richiamo di sirena sperduto nell’oceano, gabbiano nell’immensità della notte, cucciolo svezzato o amore infranto, mi vuole dentro.
Il mio cuore pulsa veloce. Come rotaie di una vecchia locomotiva sento scanditi sulle tempie i suoi battiti. “Ora come ora niente e nessuno può
Carmelo, a quel tempo, non aveva più di otto anni. Era un ragazzo timido, a volte impetuoso e sempre pronto a gettarsi nella mischia dei giochi, anche pericolosi. Abitualmente taciturno, nascondeva sotto quell’apparenza, una fantasia e una mente astuta e volitiva.
Nato e cresciuto all’ombra del campanile che dominava le casupole ammucchiate l’una sull’altra in un piccolo paese del sud, non poteva sottrarsi agli effetti ambientali di un’apatia, che, inasprita dalla calura di certi pomeriggi infuocati, conduceva a una noia letargica quasi incosciente.
In quei pomeriggi, quando gran parte degli abitanti del paese era in campagna a sudare fra le stoppie e quelli che rimanevano in paese si godevano la “siesta” nelle proprie case, Carmelo sedeva al fresco sui gradini della chiesa aspettando, con la leggera brezza della sera, lo stuolo di amici per i soliti giochi.
Di lì poteva seguire il treno che tornava semi vuoto dalla città; la corriera per San Biagio che arrancava lentamente sulla strada dei Cappuccini; oppure il lento ritorno dei contadini lungo le stradine di campagna.
Di tanto in tanto, preso dal desiderio di muoversi, di fare qualcosa per sconfiggere la noia, si aggirava sul piazzale della chiesa, in cerca di lucertole da intrappolare, o di formicai da osservare.
Spesso si fermava a guardare il via vai dei corvi sul campanile.
Ah!… il campanile… Suonare le campane!… Quante volte aveva pregato l’Arciprete di fargli suonare le campane. La risposta era sempre la stessa: “Sei troppo piccolo”.
Un asinello carico di paglia, dalla quale uscivano a stento la testa e le gambe, passava sfiatato.
Senza capire perché, gli venne in mente il piccolo musicista della banda del paese, quasi schiacciato dal peso del tamburo.
Pensò alla prossima festa patronale; la banda che girava per le strade del paese; i fuochi d’artificio che coloravano il cielo sulla collina e le bancarelle
Il brigante Ciro Annicchiarico, detto il “Papa”, nel territorio di Martina Franca. Le testimonianze dei generali Riccardo Church e Michele Santoro
di Michele Lenti
Uno degli aspetti più complessi ed affascinanti della storia salentina è, sicuramente, il brigantaggio, la cui fenomenologia variò nel corso dei secoli, dando vita a pure forme di banditismo, o a movimenti di lotta, più o meno ispirati da motivazioni politiche ed ideologiche. Ciro Annicchiarico fu un esponente di spicco del contropotere nel Sud Italia, archetipo di fuoriuscito e capo di una corrente che al suo interno contemplava eversione e strategia del terrore; aspetti, questi, attribuiti al suo operato, che molto colpirono l’immaginario collettivo, e che offrirono il destro, sia a storici che a scrittori, per una interpretazione della sua vita in chiave politico-sociale, ma anche picaresca e un po’ romantica.
Figlio della temperie culturale giacobina che imperversava nelle province del Regno, ed in particolar modo nel Salento, Ciro Annicchiarico nacque a Grottaglie, da Vincenzo e da Ipazia d’Alò, il 16 dicembre 1775. A venticinque anni divenne sacerdote e maestro di canto gregoriano. Ma nel 1803, accusato dell’assassinio di Giuseppe Motolese, antagonista in amore per una certa Antonia Zaccaria, fu arrestato e condotto a Lecce, e da quel tribunale condannato a quindici anni di esilio, da scontare in prigionia. La quale, però, riuscì ad evitare fuggendo e tornando nella sua città natale. Convinto massone e giacobino, atteggiandosi a sostenitore del nuovo regime dei re francesi, di Giuseppe Bonaparte prima (1806 – 1808), e di Gioacchino Murat dopo (1808 – 1815), riuscì a spadroneggiare, assieme ai cinque fratelli, nella Guardia civica del comune di Grottaglie. Nel 1808 il padre del Motolese ottenne dalle autorità che si ordinasse di nuovo il suo arresto; detenuto nel carcere di Lecce, riuscì nuovamente ad evadere.
Datosi, pertanto, alla macchia, fondò, nel 1813, con il fratello Salvatore, una banda di ventiquattro persone, giurando lo sterminio dei persecutori. Il 16 agosto 1814 il governo di Murat lo dichiarò bandito, ma nessuno osò toccarlo. Con la restaurazione borbonica del 1815 l’Annichiarico cercò, invano, di essere amnistiato; divenne, allora masnadiero politico, alleato della Carboneria. Si iscrisse, pertanto, alla setta dei “Decisi”, ala estrema costituitasi nella dieta straordinaria dei liberali salentini a Lecce nel 1816, divenendone, in seguito, il capo e dandole un programma politico-sociale ed un’organizzazione di tipo militare.
La banda, le cui logge erano dette “Decisioni”, era padrona assoluta del Nord-Est tarantino e delle Murge, e non ammetteva atteggiamenti neutrali. All’interno di siffatto sodalizio non mancava un sistema di entrate costituto, oltre che dalle tasse per le patenti di appartenenza, anche dalle contribuzioni imposte; le esecuzioni, poi, erano eseguite con macabra solennità. Dal 1816, infatti, la setta si diede a vendette crudelissime e a delitti orrendi, mentre aumentava la potenza del prete-brigante, che godeva di appoggi nelle classi più diverse. Nella sua orbita d’influenza ora entra anche Martina, evento, questo, favorito dallo stato di stagnazione economico-sociale divenuto più fosco all’indomani della Restaurazione Borbonica. «Martina Franca, la prima città in Terra d’Otranto… godeva cattiva reputazione, come uno dei principali covi dei briganti che formavano la compagnia del rinomato capo Ciro Annichiarico».
Sulla città, infatti, pesavano disoccupazione e miseria, oltre ad un degrado culturale e sociale che vedeva ignorare persino le più elementari norme di igiene pubblica. «Tutti i larghi erano ingombri d’immondizie – come ricorda, nei suoi scritti, il generale Michele Santoro – tutti gli escrementi si accumulavano in questi luoghi durante la notte, le strade non selciate, porci che scorrevano il paese, l’aria putrida e fetente, produttrice di molte malattie, e precisamente dell’antrace, e febbri di mutazioni opprimevano questi abitanti, e non poche vittime scendevano nel sepolcro, e molto più che il paese era ingombro di cloache e di muraglie e non dava accesso alla libera circolazione dell’aria».
Terreno fertile, dunque, per il banditismo e per le manovre politico – militari dell’Annichiarico, il quale poteva contare sull’appoggio del galantuomo Martino Recupero, e sul ricovero che offriva la folta boscaglia che allora circondava Martina, in special modo le Pianelle ed i Monti del Duca. Ciononostante, nel 1817, cercò di venire a patti col governo, al quale promise di sterminare le bande di Oria e del bosco dell’Arneo in cambio del perdono. Ma, proprio per l’opposizione di Ferdinando I, re delle Due Sicilie, il 22 settembre di quello stesso anno fu nuovamente bandito, mentre, qualche mese dopo, fu deciso l’invio, in Salento, di truppe al comando del generale Riccardo Church, col proposito di spezzare ogni velleità liberale e distruggere la setta dei «Decisi».
È il libro Brigantaggio e società segrete nelle Puglie (1817 – 1828) a dare un quadro, seppure di parte, della situazione cui venne incontro l’ufficiale inglese nella sua marcia verso il Salento: «Il brigantaggio era all’ordine del giorno su tutte le strade maestre e a tutti i passi. Bande armate di assassini spargevano il terrore dovunque, ma più specialmente nelle province pugliesi».
A Martina Franca il generale «si attendeva d’incontrare segni d’ostilità, forse d’opposizione». «Marciai con tutte le mie forze ancora compatte ed intere – scrive Church al generale Nugent il 24 dicembre 1817 – per potere, in caso che le cose andassero male, stabilire l’ordine e proteggere Taranto, nel castello del quale avevo posto una compagnia di Greci, e a fine di cominciare le mie operazioni nella provincia di Lecce, in una delle città principali di essa». «Martina – continua a scrivere il generale – è una piccola città di 15.000 abitanti, posta sulla sommità di una collina, circa 50 miglia lungi da Lecce e 18 da Taranto».
In realtà, con i suoi 15.000 abitanti, era uno dei centri più popolosi non solo della Puglia, ma di tutto il Meridione. Essa, infatti, teneva testa a Bari che contava appena 20.000 anime, a Cerignola che ne aveva 16.000, e alla vicina Taranto, dove si stimava vivessero 18.000 persone, mentre superava Lecce e Trani, che avevano 14.000 abitanti ciascuna, e Brindisi che, con i suoi 5.000 abitanti, era poco più che un paese. In Terra d’Otranto era, dunque, la città maggiore. Perplessità deve avere sicuramente suscitato, invece, il comitato d’accoglienza all’ingresso delle truppe nell’antico borgo. Accanto al «vescovo, figura maestosa…seguito dal clero, dal sindaco e dai primari cittadini..accalcati intorno e dietro di loro», vi erano «quanti degli abitanti avevano potuto trovare una scusa per uscire all’aperto, uomini e donne, madri con lattanti in collo, barcollanti fanciulletti dagli occhi neri aggrappati alle sottane, vecchi con bastoni in mano, giovinastri dall’aspetto selvaggio, alcuni che seguivano il corteo, altri fermi in crocchio, fuori delle porte, guardando con avida curiosità».
Nonostante questo primo impatto e la fama che precedeva la città, il generale ebbe modo di scrivere in una delle sue lettere: «Siamo stati ricevuti con cordialità, non un lamento è stato profferito contro un soldato delle mie truppe, ed io faccio sempre venire avanti il sindaco a consegnarmi in iscritto le lamentazioni, se ve ne sono».
La visita di Church non mancò di sortire effetti immediati sulle condizioni in cui versava Martina. Infatti, per far fronte alla pesante carenza igienica, «subito – come scrive il generale Michele Santoro – furono dati ordini severissimi, non solamente al comune, ma a tutti gli abitanti di sfrattare di tutte quelle macerie le strade nonché dei porci ambulanti che infettavano il paese. Pene severissime furono pronunciate contro i trasgressori. In tutte le ore, sì di notte che di giorno diverse pattuglie perlustravano il paese, e guai a quella famiglia che si avesse permesso di gittare un bicchiere d’acqua dal balcone, ed in pochi giorni il paese divenne una città, che si poteva scorrere a piedi scalzi senza pericolo di macchiarsi».
A Martina il generale ebbe modo di conoscere quella parte della borghesia ricca ed influente, presso la sontuosa residenza cittadina di Martino Recupero, che era, però, allo stesso tempo, il quartier generale proprio del brigante Ciro Annichiarico. Ciononostante, il vecchio galantuomo martinese mostrò affabilità e cortesia nei confronti del militare inglese, al punto che quest’ultimo, a distanza di non pochi anni, ricordava con piacere e nostalgia quel breve soggiorno martinese.
L’amena parentesi presso casa Recupero sembra, per il momento, distogliere il generale dalla sua missione. «Chi lo crederebbe?» scrisse infatti il Santoro nel suo manoscritto parlando della sosta del Church a Martina: «mentre lì dimorava il generale – continua il manoscritto – don Ciro, ferito in un attacco precedente co’ rivali di Grottaglie, si curava nella stessa casa, al piano superiore. Il Recupero, mentre onorava in tutt’i modi l’ospite, voleva mantenere l’amicizia di don Ciro, anche perché utile ai suoi disegni. Una sera in conversazione col generale era il sign. Raffaele Conserva, e parlando di Ciro si lasciò sfuggire “voi l’avete su la testa”, ma il generale non capì a che volesse alludere, e la cosa passò inosservata». In realtà il Church seppe farsi valido interprete delle direttive imposte dal governo borbonico, riuscendo abilmente a separare i Carbonari, che comunque aspiravano alla costituzione di una Repubblica Salentina, che fosse distaccata dal potere centrale, dall’Annichiarico, che cavalcò tale idea, ma per il proprio tornaconto e facendo uso di mezzi violenti. Tra i liberali che, al momento opportuno, decisero di passare dalla parte del Governo, memori, probabilmente, delle tristi sorti a cui andarono incontro i fautori della Repubblica Partenopea del 1799, vi era una vecchia conoscenza del Church: don Martino Recupero.
«Certo sono stato in qualche modo un protettore di Annichiarico – pare avesse detto il vecchio galantuomo, avvertendo che le cose nell’aria, ormai, stavano cambiando – ma che cosa fare? Il Governo non fa nulla per proteggerci, e se uno non si mostra amico di don Ciro, non può osare di uscir fuori e non si è nemmeno salvi nella propria casa, né si è più padroni delle proprie terre, nemmeno dei servi; ma quanto ad essere un amico di don Ciro, signor generale, la verità è che egli non ha nemico più acerrimo di me! Vostra Eccellenza ha avuto fiducia in me, ha rifiutato di ascoltare le calunnie a mio carico, ed io son vostro! Comandatemi e disponete di tutto quanto possiedo».
Il racconto, fantasioso come gran parte del libro, ma sconcertante per l’analisi che fa di alcune dinamiche criminali, purtroppo ancora attuali ai giorni nostri (basti pensare, ad esempio, alle vittime del racket delle estorsioni, spesso e volentieri, per evitare tragiche conseguenze, costrette a tacere, anche a causa delle Istituzioni, spesso inefficienti sul piano della sicurezza), rivela, comunque, l’abilità diplomatica dell’inglese, unita ad un’efficace tattica militare, che fece terra bruciata intorno al prete – brigante, il quale ebbe ancora il tempo di compiere scorrerie tra le «masserie dei monti di Martina, rifugi preferiti dei briganti, i quali sapevano che il massaro era, generalmente, per timore o per simpatia, un amico su cui poter fare assegnamento».
Non fu trattato, certo, come amico il proprietario di Masseria Piccoli, un certo Pietro Chiarelli, sequestrato ed obbligato a versare una somma che si aggirava intorno ai tremila ducati. Nonostante questo episodio, la morsa dell’esercito al comando di Church continuò a stringersi sempre più intorno a Ciro Annichiarico, scampato avventurosamente, durante il matrimonio di un brigante, all’assedio di san Marzano. Nulla può, però, presso masseria Scasserba, vicino Grottaglie, dove oppose una tenace resistenza per poi arrendersi ed essere condotto a Francavilla il 7 febbraio 1818. Lascia perplessi l’ultimo atto della vicenda terrena di questo masnadiero: senza formulare alcun interrogatorio, alcun processo, colui che «per diciotto anni» era stato «padrone assoluto della provincia, facendo impazzire molti generali francesi, italiani, svizzeri, tedeschi, napoletani», ora, invece, «ridotto all’impotenza», venne giustiziato la mattina dell’8 febbraio 1818, nella pubblica piazza di Francavilla.
Evidentemente anche in catene destava timore, perché capace di fare rivelazioni sul mondo delle società segrete salentine le quali, ad un certo punto, gli avevano voltato le spalle, decretando la fine del suo dominio in Terra d’Otranto. Quanto al Church, fu certamente più il timore di scontrarsi con un militare che aveva assunto le funzioni di Alter Ego dello stesso Ferdinando I, che una sincera ammirazione, come vuole far credere il libro Brigantaggio e società segrete nelle Puglie (1817 – 1828) a far sì che fosse ristabilito l’ordine nella provincia meridionale pugliese. Non fu certamente colpito dalla sua figura il generale Michele Santoro, il quale, piuttosto, coglie occasione, nel suo manoscritto, per mettere in evidenza qualche pecca, quando fa riferimento al soggiorno in casa di don Martino Recupero.
Né fu lusinghiero il giudizio dato da Pietro Colletta (1775 – 1831) nella sua Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825: pur sottolineando come «il rigore di lui fu grande e giusto», ingenerando «spavento a’ settari, ardimento agli onesti, animo nei magistrati», rendendo «a quella provincia la quiete pubblica», lo storico marca, in maniera negativa, il fatto che «l’inglese» fosse «passato agli stipendi napoletani per opere non lodevoli».
Quali fossero queste opere non lodevoli il Colletta non lo spiega, ma interessanti indizi, in tal senso, pare siano stati portati alla luce da Antonio Lucarelli in Rinascenza Salentina. Dopo aver condannato a morte l’Annicchiarico e sgominato la banda di cui era a capo, «il governo credette necessario accordare un potere illimitato a Church».
Questo, secondo lo studioso, consentì al generale di decidere chi condannare, salvando la reputazione, ma soprattutto la vita ed i beni dei capi settari nella provincia di Lecce, dietro, però, il pagamento di un compenso. Così «il marchese Granafei – scrive il Lucarelli – opulento anzi che no, nel giro di pochi mesi ha contratto circa 10.000 mila docati di debiti… il principe di Cassano ha dovuto sborsare la sua rata, che non teneva pronta e che in docati 6.000 gl’improntò il cavalier d. Stefano Maremonti di Lecce».
L’ingordigia di Church era tale per cui «costui non ha ribrezzo di far trattare le sue estorsioni per mezzo di Astuti e del capo dello Stato Maggiore tenente colonnello Smerber, che si sono resi pure ricchi. Il grandissimo timore in cui si vive in Provincia, rende difficile il sapere tutte le rapine; ma sono bastantemente note alcune, e fra l’altre: i 9000 docati che Church, per mezzo di Astuti e Smerber si ha presi dal barone Scazzari… d. Achille Preite ed altri scelerati di Francavilla rimasti impuniti.
Circa 21.000 docati, che per mezzo di Astuti, Sternatia e Principe di Cassano si ha preso da colpevoli di Galatina, Maglie e luoghi vicini… Per mezzo di Astuti…da Benedetto Rovito di Ugento Church si prese docati 3000 ed escarcerò i rivoluzionari di detto comune, Ippazio Baglivo, fratelli Caputo ed altri liquidati rei, fatti arrestare dal zelante Giudice istruttore di Gallipoli; anzi Church…ritirò il processo dalla Commissione Militare. S’ignora il quantitativo, ma si sa che Church per mezzo di Astuti e Smerber ha preso danaro per rimaner impunite le sceleragini di Martina, l’armamento de’ naturali di Laterza contro i Motolesi, ed infiniti altri eccessi».
Pesante, dunque, l’accusa, circa l’operato del Church «che – come conclude il Lucarelli – riferiva al sovrano ed al capitano Generale che il Brigantaggio era debellato e che la pace sorrideva ormai a Terra d’Otranto, aliena da ogni spirito di ribellione e tutta incline ai voleri di sua Maestà…».
Ma evidentemente, lo spirito di Ciro Annicchiarico, così come quello delle più fervide idee liberali, ancora aleggiava nella provincia di Lecce, per cui, dopo la partenza dell’inglese «qualche mese dopo esplodeva la rivoluzione del 1820 – 21, che nel Salento rinveniva una falange di acerrimi ed agguerriti propugnatori…».
pubblicato integralmente su Spicilegia Sallentina n°5
Arrivo. Ho abbandonato per sempre Pisa.
Dopo quattordici scomodissime ore di viaggio, eccomi giunto a destinazione.
Se ci penso, mi viene da piangere: gettato per terra come un sacco di patate in uno scompartimento di un treno che non so perché, forse per il puzzo nauseante di urina o il sudiciume nero che impregnava l’ambiente e persino l’aria, mi ricorda il treno della disperazione. Quei treni merce su cui uomini, donne e bambini erano caricati come animali, o meglio come bestie senz’anima e sentimenti, e trasportati all’inferno.
Queste ripugnanti scene riemergono dalla mia memoria come sangue da una ferita profonda. Quante volte mi sono messo a piangere dinanzi a quelle immagini sulla deportazione degli ebrei nei lager nazisti, quante volte sono stato assalito da una rabbia accecante e quante di quelle volte ho pensato che l’uomo è davvero un deficiente, la più stupida delle creature. Me lo immagino io il “primo uomo” mentre rigira tra le sue rozze mani il libretto delle istruzioni, nel tentativo di capire quale tasto premere per avviare la “ragione”. Povero “primo uomo”, notte e giorno a tormentarsi nel letto nella speranza di riuscire a trovare la soluzione al problema, e poi esausto, eccolo che pensa, grattandosi la nuca con la clava, “ma che me ne faccio io della ragione, inventerò prima o poi qualcosa per sostituirla!”. Allora un bel giorno inventa
Nel febbraio 2006, l’Assessore agli Affari Sociali del Comune di Napoli, Raffaele Tecce, nel Catalogo “Disegni” Mostra personale di Amedeo Curatoli (Napoli,La Città del Sole, 2006) scriveva: «È con grande gioia ed orgoglio che ho accolto l’invito dell’amico e Maestro Amedeo Curatoli a scrivere di lui e della sua Mostra “Disegni”, patrocinata dal mio Assessorato e da me sostenuta con enorme impegno./ Mi onora poter esprimere, in un momento tanto importante, tutta la stima e l’affetto che nutro per Amedeo, per la sua passione per la lotta e per la politica che in maniera così viva, traspare dalla sua arte».
Ebbene, in questa sintesi è enucleata l’intera avventura umana dell’artista
Lecce e i conventi dedicati a Sant’Antonio da Padova
Il 13 giugno la Chiesa cattolica commemora Sant’Antonio da Padova (1195-1231), canonizzato dopo un solo anno dalla morte e proclamato Doctor Evangelicus nel 1946 da Pio XII.
È uno dei santi più venerati: protettore degli orfani, dei poveri, delle reclute, dei sacerdoti, degli sposi, è Santo patrono del Portogallo, del Brasile, della Custodia di Terra Santa, di molte città e centri urbani italiani e, in Terra d’Otranto, di Ceglie Messapica, Fragagnano e di tredici paesi nel leccese[1].
Il Santo Taumaturgo dal 1631 è anche compatrono di Lecce, «quando questa Città prese il Santo per suo particolare protettore, che veramente si fé sì solenne, che non può dirsi maggiore»[2]. La decisione di proclamare Sant’Antonio patrono della città nacque dal suggerimento dato al sindaco Giovan Domenico Veneziano da fra Nicolò de Seracina «huomo di gran Santità, e dotato da Dio dello spirito della Profetia»[3].
Da qui la fondazione del bellissimo altare nel Duomo e di quelli in altre chiese di Lecce, nelle cui nicchie sono riposti dipinti e statue che ritraggono Sant’Antonio
“Sono figlio della Terra e del Cielo stellato; datemi presto da bere la fredda acqua del lago di Mnemosyne”: così recita il testo di una laminetta orfica appartenente all’antica civiltà magno- greca e Vincenzo Ampolo, che si abbevera da sempre alla fonte di Mnemosyne, sa che “l’anima riarsa di sete è la più sapiente e la più nobile”, come diceva Eraclito. E Ampolo ha sete, tanta, di conoscenza.
Vincenzo Ampolo è un uomo delle continue rinascite, che sa inventare sempre nuovi progetti culturali e reinventarsi continuamente come artista, nella sua ricerca assidua e partecipativa di arte totale. In effetti, l’immaginario è il luogo del transdisciplinare, e lui conosce bene e frequenta da sempre l’immaginario,con le sue numerose articolazioni simboliche. Vincenzo Ampolo è psicoterapeuta, scrittore, poeta, pittore e operatore culturale. Attraverso i moderni strumenti di
17 marzo 1861, nasce l’Italia unita. In realtà mancano ancora alcune regioni (per arrivare ad un assetto simile all’attuale bisognerà attendere la fine della Grande Guerra), ma soprattutto manca un fattore fondamentale: gli italiani.
Il nuovo Regno d’Italia è un coacervo di genti, lingue, storie, culture, sistemi metrici, monetari, economici. Realtà spesso agli antipodi sono ora ricondotte sotto un’unica corona, un unico governo. Fatta l’Italia,dunque, bisogna fare gli italiani: una frase mai pronunciata da Massimo D’Azeglio, ma quanto mai efficace.
Ed allora, in questi giorni di giusti festeggiamenti e doverose celebrazioni, è lecito chiedersi: quando sono stati “fatti” gli italiani? Quando il senso di appartenenza ad una nazione ha smesso di essere patrimonio di pochi eletti, per divenire coscienza comune? Ed infine, considerando il carattere principalmente locale degli argomenti affrontati in queste pagine: quando gli uomini e le donne della provincia di Lecce hanno cominciato a sentirsi veramente italiani?
In realtà non esiste una risposta univoca. Il concetto di nazione, il sentimento di
Santo Stefano. Una tela di Antonio Verrio in Sant’Irene a Lecce
Alezio. S. Maria della Lizza, affresco di Santo Stefano
di Nicola Fasano
Stefano, il cui nome di origine greca significa “corona”, è il protomartire della fede cristiana, vissuto in Palestina nel I secolo. Probabilmente ebraico di origine ellenica, fu il primo nominato di sette diaconi incaricati di curare la distribuzione quotidiana del cibo ai più bisognosi. Tra loro Stefano si distingueva per la profonda conoscenza delle scritture e per l’eloquenza. Queste doti furono causa del suo martirio. Durante il sinedrio di Gerusalemme, organo preposto all’emanazione delle leggi e alla gestione della giustizia, Stefano scatenò le ire dei membri, accusandoli nel suo discorso (Atti, 7, 2-56) di essere miscredenti e di avere ucciso il Messia, già preannunciato dai Profeti. Conclusa la sua arringa, come riportano gli atti, il Santo esclamò : “Ecco, io contemplo icieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio”, ciò aizzò maggiormente gli astanti che trascinarono Stefano sul luogo del martirio per lapidarlo impietosamente fino ad ucciderlo. La salma del Santo venne inumata da Gamailiele che, secondo la tradizione, rivelò in una apparizione il luogo preciso della sepoltura, scoperto nel 415, circa 400 anni dopo il martirio. Le reliquie di Stefano vennero distribuite in tutto il mondo cristiano, alimentando il culto in suo onore.
Il Santo, festeggiato il 26 dicembre in Occidente e il 27 in Oriente, viene ritenuto protettore dei diaconi, dei muratori, dei frombolieri, è inoltre invocato contro l’emicrania e i calcoli renali.
Dal punto di vista iconografico, il soggetto trova larga diffusione in Italia e in Francia nei secoli XV-XVII;[1] viene rappresentato come un giovane abbigliato con la dalmatica, spesso accompagnato da
Attribuita al Regolia una tela conservata nel Municipio di Taranto
Taranto: città delle industrie, città dell’inquinamento, delle brutture, però anche città dei tesori nascosti che non trovano una piena fruibilità. E’ il caso di un dipinto seicentesco di notevole formato conservato negli uffici di Palazzo di Città raffigurante San Francesco che soccorre gli ammalati.
La tela faceva parte del sontuoso arredo di palazzo D’Ayala-Valva (già Marrese), e abbelliva il soffitto a cassettoni del salotto di rappresentanza. Con l’espropriazione del palazzo a favore del comune nel 1981, tutti i beni conservati nel palazzo sono diventati di proprietà comunale.
Il professor Galante dell’Università di Lecce, analizzando la suddetta tela, aveva attribuito l’opera al pittore napoletano Pacecco De Rosa; successivamente lo studioso Leone De Castris riconduceva il dipinto (giustamente, secondo il parere di chi scrive) al palermitano di formazione napoletana Michele Regolia autore di numerose tele nel vicereame. Educato presso la scuola tardo-manierista di Belisario Corenzio, l’autore del dipinto tarantino non è esente da influenze emiliane alla Domenichino.
Regolia si apre alle nuove istanze del naturalismo caravaggesco imperante a Napoli, nei due personaggi maschili in primo piano torniti da vigorosi effetti chiaroscurali.
All’estrema sinistra della composizione è raffigurato un personaggio in abiti nobiliari che volge lo sguardo allo spettatore, molto probabilmente il committente del dipinto, devoto di San Francesco; sulla destra una madre con il figlio cieco in braccio implora al Santo la grazia.
Il maestro palermitano era un autore caro ai francescani perché rispondente a determinati precetti, quali la devozione e la pacatezza nelle figure, la dottrinalità nelle immagini secondo i dettami rigorosi della controriforma. Caratteristica dell’artista siciliano è, inoltre, la raffigurazione di angeli dalle ampie ali che irrompono dall’alto o sospesi a mezz’aria.
Una Taranto che può quindi inserire il Regolia ad altre figure di spicco della cultura artistica napoletana del 6-700 quali i fratelli Fracanzano, Luca Giordano, Giaquinto e lo scultore Sanmartino.
Questo gioiello pittorico è stato fortunatamente sottratto all’incuria e al vandalismo che ha purtroppo svalorizzato il prestigioso palazzo di via Paisiello. Il restauro, curato dalla Soprintendenza, ha pulito la tela da pesanti ridipinture e ha portato alla luce gli squillanti colori delle vesti e l’atmosferico paesaggio collinare che si schiude tra le figure.
Un dipinto difficilmente fruibile, che andrebbe valorizzato maggiormente, con l’esposizione in qualche mostra, anche per capire i gusti di una committenza sopraffina quale era quella dei D’Ayala-Valva, i quali secondo lo studioso Farella, avrebbero acquisito la tela dal convento di San Francesco per collocarla nell’ottocentesco palazzo.
Un doveroso ringraziamento va alla dottoressa Danese e all’assessore Davide Nistri per la disponibilità dimostrata e per avere permesso le riprese fotografiche.
* Tutor diocesano dei beni culturali (Diocesi di Oria)
Pubblicato su CORRIERE DEL GIORNO Mercoledì 9 marzo 2011
E’ l’ultimo d’agosto e sono settantatrè gli anni di un’amica lontana, incontrata e conosciuta, su monti che in certo qual modo mi mancano, una quarantina di calendari fa.
Il suo aspetto, allora, era un po’ diverso, ma anche oggi sono evidenti i tratti di una bella donna. Auguri, C.
° ° °
In tema di bellezza, questa volta riferita alla natura, qui c’è Castro, verosimilmente la più fulgida perla della splendida penisola salentina. Chi non la conosce, la ammira e l’apprezza?
Solo a immergersi nelle acque della sua rada si prova una sensazione paradisiaca, così come il semplice sguardo ai suoi tesori artistici e storici riempie e inebria gli occhi, la mente e il cuore.
E pensare che, appena mezzo secolo addietro, Castro era un nome quasi sconosciuto ai più, correva prevalentemente l’accezione dialettale di Casciu, piccola frazione con una marina raggiungibile a fatica, animata da alcune centinaia di poveri pescatori, i quali
Aradeo. Una minuscola, buffa guerra di santi ed idee
Tutt’a un tratto, mentre San Rocco se ne andava tranquillamente per la sua strada, sotto il baldacchino, coi cani al guinzaglio, un gran numero di ceri accesi tutt’intorno, e la banda, la processione, la calca dei devoti, accadde una parapiglia, un fuggi fuggi, un casa del diavolo: preti che scappavano colle sottane per aria, trombe e clarinetti sulla faccia, donne che strillavano, il sangue a rigagnoli, e le legnate che piovevano come pere fradice fin sotto il naso di San Rocco benedetto. Accorsero il pretore, il sindaco, i carabinieri; le ossa rotte furono portate all’ospedale, i più riottosi andarono a dormire in prigione, il santo tornò in chiesa di corsa più che a passo di processione, e la festa finì come le commedie di Pulcinella.
Tutto ciò per l’invidia di quei del quartiere di San Pasquale, perché quell’anno i devoti di San Rocco avevano speso gli occhi della testa per far le cose in grande; era venuta la banda dalla città, si erano sparati più di duemila mortaretti, e c’era
Seguendo, distrattamente, il dibattito sulle ultime elezioni amministrative, si ha la sensazione di aver vissuto un evento del tutto nuovo, vuoi per la rilevanza politica di questa tornata elettorale, vuoi per i mille episodi che l’hanno caratterizzata.
Il confronto milanese è forse quello più ricco di spunti, con accuse al vetriolo, menzogne, finti rom assoldati per fingersi seguaci di Pisapia, spauracchi islamici agitati più o meno quotidianamente, promesse roboanti, eccetera eccetera. Anche a Napoli non sono mancati gli scontri, le minacce, i comitati elettorali incendiati. Un confronto elettorale senza precedenti, secondo molti… ma ne siamo proprio sicuri?
Ai nostalgici dei bei tempi passati, delle epoche in cui i candidati erano dei galantuomini, seri ed onesti, possiamo ben dire che questi tempi, forse, non sono mai esistiti. Giusto per darne una prova, riportiamo alcuni episodi, legati ad un confronto elettorale di circa un secolo fa. Perdonerete il parallelismo un po’ semplicistico, se non azzardato, ma è un modo come un altro per riflettere e “consolarsi” di fronte alle tante brutture della politica contemporanea.
Nelle elezioni politiche del 1913, le prime a suffragio quasi universale maschile, nel collegio di Gallipoli si confrontarono due uomini, per molti versi agli antipodi. Da un lato Antonio De Viti De Marco, originario di Casamassella, deputato
La vendetta di Otranto, ossia la guerra di Libia vista dal tacco d’Italia
particolare di carta nautica del Mediterraneo (1561)
di Alessio Palumbo
Giorni fa, un bell’intervento di Rocco Boccadamo, comparso su Spigolature Salentine, rimarcava la curiosa coincidenza temporale tra i moti libici di questi giorni e l’avventura coloniale italiana in Tripolitania e Cirenaica, nel contesto della guerra italo-turca. Nell’ottobre di un secolo fa, le navi italiane “volsero la prora” verso Tripoli, lanciandosi in un’impresa che da mesi faceva discutere partiti, mezzi di informazione, circoli culturali e cancellerie di mezza Europa. L’Italia si accingeva a conquistare la tanto agognata quarta sponda. Ma come visse il Salento questo evento?
La guerra contro l’Impero Ottomano per la conquista della Libia riscosse immediati consensi tra la popolazione e le classi dirigenti salentine. Le ragioni di questo fervore coloniale sono parecchie.
Innanzitutto presso le masse analfabete e ridotte in miseria, la Tripolitania fu presentata come la nuova terra promessa. Un vero e proprio Eden che avrebbe garantito ricchezza e prosperità. I salentini manifestarono rumorosamente tali aspettative: nei giorni immediatamente antecedenti alla guerra con la Turchia furono inscenate imponenti manifestazioni a Lecce, Gallipoli, Alezio, Aradeo, Casarano, Neviano, etc. Le piazze si riempirono per ascoltare i comizi dei politici nostrani e i battaglioni di soldati in partenza furono salutati da ali di folla festante.
Nel ceto politico salentino, mentre i socialisti si scindevano tra favorevoli e contrari, i moderati, i conservatori ed i cattolici soffiarono sul fuoco dell’imperialismo, mettendosi a capo delle manifestazioni e delle iniziative di quei giorni. Gli stessi vescovi, nell’opera di graduale avvicinamento allo stato italiano, benedirono le bandiere dei reggimenti in partenza. Tuttavia, nel fervore cattolico verso l’impresa libica, c’erano degli elementi che andavano oltre la politica di riavvicinamento allo stato laico. Da un lato influivano gli interessi che la Santa Sede ed il Banco di Roma avevano impiantato nell’Africa settentrionale, dall’altro era riscontrabile un rinnovato spirito di crociata, di lotta al musulmano, che in alcuni ambienti cattolici di Terra d’Otranto non si era mai sopito.
Riportiamo, a testimonianza di ciò, una poesia composta in onore del conflitto libico dal poeta Angelo Perotti. In essa la guerra contro i turchi è presentata come una sorta di riscatto del Salento e, in particolar modo, di Otranto, che dagli ottomani era stata devastata.
“Otranto è l’ora della tua vendetta!
T’eri ravvolta nel dolor tuo santo,
ma guardavi lontan come chi aspetta.
Più non piangevi sul tuo sogno infranto,
ma sapevi che il fior sarebbe nato
dal seme del tuo sangue e del tuo pianto.
Otranto, ed ecco che s’adempie il fato.
In gloria, in fede, in carità ti rende oggi
la patria quel che tu le hai dato.
Sciogli dal capo le abbrunate bende;
Lèvati, gitta il grido che tu sai,
alluma il faro su cui l’angue scende;
raccogli i cittadini e i marinai nella chiesa
che appar riconsacrata dalla gioia che tu diffonderai;
pianta sul colle di Minerva astata
la pia bandiera della tua fortuna,
dove il delfino dalla groppa arcata
morde la falce della mezza luna;
e incidi sul solenne monumento una parola: Italia.
E sia quest’una il motto del nuovo giuramento”.
( A. Perotti, Poesie, Bari, Laterza, 1926, p. 203).
Renato Marra sedeva stancamente sulla seconda panca posta sul lato destro della piccola navata. Respirava con leggero affanno e rivolgeva il suo sguardo al viso bianco di una Madonna di pietra, che lui stesso aveva scolpito cinquant’anni prima.
Lo faceva tutte le sere. Terminata la funzione pomeridiana, spazzava il marmo lucido della navata, cambiava l’acqua ai pochi vasi da fiori, se c’erano fiori, e spegneva la rare candele accese. Nel buio pieno dell’odore della cera che si raffreddava, sedeva lì, stendendo la stampella di legno sulla panca e fissando con l’unico occhio ancora aperto quella statua paffuta di Madonna. Da quel momento in poi tutto ciò che lo circondava spariva e, se qualcuno fosse entrato per chiamarlo o chiedergli qualcosa, avrebbe faticato non poco a scuoterlo.
Dalle piccole finestre della chiesa, la luce del sole calante penetrava di traverso e il pulviscolo vorticava in fasci luminosi che andavano assumendo tonalità rossastre. Seduto sul suo scranno, oramai immerso nella zona d’ombra del tempio, Renato non pregava. Non lo faceva da tanto. Si limitava solo a fissare in silenzio quel viso che aveva modellato con scalpello e raspa quando aveva poco
Lecce e gli strumenti della Passione di Cristo: araldica religiosa e reliquie
Osservando la facciata della chiesa del Gesù, nota anche come del Buon Consiglio in via Francesco Rubichi a Lecce[1], si può notare come i dodici bassorilievi che decorano il fregio di coronamento dell’ordine superiore rappresentano i simboli della Passione di Cristo. Il fregio, ispirato all’ordine dorico, è costituito da tredici triglifi solcati non da tre, ma da cinque scanalature (probabile riferimento alle Cinque Piaghe di Cristo: le ferite al costato, nelle mani e nei piedi) e da dodici metope dove sono simbolicamente ritratte le scene salienti della Passione di Cristo, riprese dal Vangelo di Marco.
Con il prezioso contributo di Giovanni Lacorte sono riuscita a individuare i dodici simboli: Due palme (entrata in Gerusalemme); vessillo con la scritta SPQR e fusti d’albero sullo sfondo (arresto di Gesù); braccio con un sacchetto e una campana sullo sfondo (i trenta denari di Giuda); due profili di uomo (il bacio di Giuda); il gallo (Pietro rinnega Gesù); corona e canne incrociate (scherno dei soldati);
Un’emergenza archeologica: la cripta del Redentore, la più antica sede del culto cristiano di Taranto, situata nel Borgo Nuovo, dopo circa trent’anni in stato di abbandono, è stata aperta alla cittadinanza nel mese di dicembre 2010, grazie all’impegno di associazioni cittadine, storici ed archeologi.
L’antico monumento post-classico, ubicato in Via Terni, è una pregevole testimonianza delle origini cristiane, un prezioso documento e bene del patrimonio storico artistico della città bimare.
La piccola chiesa ipogea necessita di un consistente ed urgente intervento di consolidamento e restauro, per rinsaldare la ormai compromessa staticità. La volta è purtroppo sfondata e invasa da tubature di servizio.
Fonti letterarie del IV secolo attestano che Taranto, città portuale, fu proprio in questo periodo aperta ad ogni innovazione in campo religioso e il Cristianesimo trovò il terreno fertile per affermarsi. La cripta in esame rappresenta a proposito un primo esemplare monumentale.
Originariamente la cripta ipogeica era una tomba a camera di età classica, situata esattamente dove prima sorgeva la grande necropoli della Taranto greco-
Fra le più antiche chiese di Ugento é da annoverare quella denominata “Madonna del curato”.
Sorge su una roccia scoscesa sul ciglio della stradina omonima, all’incrocio fra via Barco e la vecchia strada per Gemini, e chi ha cercato finora di tracciarne un profilo storico ha dovuto arrendersi davanti alla mancanza assoluta di notizie; oggi però grazie al rinvenimento da parte nostra di una breve relazione redatta in seguito ad una visita pastorale effettuata nei primi decenni del 1600 siamo in grado di fare un po’ di luce sulla sua origine e sulla sua reale intitolazione.
La piccola chiesa ad aula rettangolare é suddivisa in tre sezioni con copertura a spigolo e sul lato sinistro le é addossato un piccolo locale con volta a botte che era adibito ad abitazione “del curato” ciò che sarebbe secondo l’opinione corrente all’origine della sua denominazione.
Sulle sue possibili origini e per cercare di spiegarne l’intitolazione scrisse Mons.
Viaggio nel Salento, a Diso, fra arte e devozione popolare nel saggio di don Adelino Martella
di Paolo Rausa
Un viaggio alla ricerca delle tradizioni perdute e ritrovate da don Adelino Martella, parroco di Diso nel Salento, provincia di Lecce, che ci invita a intraprendere con il suo ultimo libro ”Il Miracolo e… I Miracoli dei Santi di Diso”, corredato di dati storici, appendici e note di carattere socio-religioso. Don Adelino ci accoglie nella piazza e ci invita a visitarela Parrocchiale dedicata ai cosiddetti “Santi nostri di Diso”, i Santi Apostoli Filippo e Giacomo, a cui la Chiesa è dedicata, il Santo “con la barba” che reca la croce del martirio e il Santo “senza barba”, scaraventato giù dal Tempio e percosso dal bastone. Ci conduce all’interno, desideroso di farci ammirare la navata centrale restaurata “integralmente, senza aggiunte” – ci dice –, ripristinando i colori originali dell’altare e della balaustra antistante in pietra, delle pareti e delle nicchie nonché delle tele realizzate nel settecento da maestranze locali – fra cui quella,
La cappella di santa Caterina nella chiesa dei Francescani Neri di Specchia
Il complesso dei Francescani Neri a Specchia Preti, fondato secondo la tradizione da san Francesco reduce dall’oriente[1], presenta ancora oggi -oltre ai locali del convento e un frantoio ipogeo con i suoi torchi alla calabrese- una chiesa conventuale che custodisce pregevoli altari e frammenti decorativi bassomedievali.
In prossimità del lato destro dell’ingresso nel 1532 Antonio Mariglia fa costruire una cappella a pianta quadrata e coperta da una volta a crociera, espediente che ricorre -sia per la posizione che per la tecnica costruttiva- nella cappella dei Tolomei nel convento di santa Maria la Nova a Racale, collocabile qualche decennio prima[2]. Un altro confronto per l’ubicazione della cappella e datazione può essere effettuato con la cappella dell’Annunciazione nel santuario della Madonna della Strada a Taurisano[3], dove anche le tematiche affrescate sembrano essere di gusto francescano.
Il ciclo decorativo della cappella di Specchia risulta essere complesso: lo sguardo viene catalizzato dall’episodio frontale, ovvero Gesù con la croce che incontra
L’ARTE PITTORICA: ELEGIA DEI COLORI IN TERRA SALENTINA, CON “LA STELLA DEL SUD”, ELENA PICCIOLO
di Piero Barrecchia
Tra i viaggi già compiuti in terra salentina, spesso ho indugiato dinanzi a vetuste opere architettoniche, molte volte ho contemplato, estatico, la volta celeste, il manto marino, le distese auree delle biade o quelle purpuree dei papaveri.
Sovente ho ritrovato il sacro nel profano e viceversa.
Non sempre, però, ho rallentato i miei passi dinanzi alle fucine dei colori di cui è disseminato il nostro territorio.
Non per farne una colpa all’antichità che sovrasta i miei interessi, ma per darle giusta importanza e parola, espressa nelle interpretazioni personali dei nostri pittori salentini, che leggono il paesaggio, lo interiorizzano, lo “intellegono” e lo materializzano.
La loro missione è così ardua da intersecare i vari gusti, da interessarsi ai vari usi, da utilizzare vari materiali, da interrogare i progenitori, da tradurre i primigenii linguaggi nell’idioma corrente.
Donando, esclusivamente donando!
Tutto ciò con un pennello e la tavolozza dei colori nelle loro mani e l’ardente cuore nella loro mente!
Ho quindi deciso di porre rimedio a tale mia mancanza ed ogni volta che ne avrò l’occasione interrogherò le loro opere e sovente mi vedrete tra le righe dell’aratro
A Muro Leccese si restaura il Sacrificio di Abramo di Liborio Riccio
La vicenda storico-artistica dell’opera
di Giancarlo Brocca e Santo Venerdì Patella
Recentemente sono iniziati, a Muro Leccese, i lavori di restauro della grande tela raffigurante il Sacrificio di Abramo, opera del pittore e sacerdote murese Liborio Riccio (1720-1785), realizzata per la chiesa matrice della sua città natale.
Il quadro è di dimensioni considerevoli: misura quasi 30 metri quadrati, sui quali è campito uno degli episodi più affascinanti dell’Antico Testamento.
L’opera è attestata per la prima volta nel 1754, nell’inventario redatto durante la visita pastorale dell’Arcivescovo di Otranto Mons. Caracciolo.
Si sa invece con certezza che fino al 1768 la tela aveva una collocazione diversa dall’attuale ed era posta dietro l’altare maggiore tra i due grandi quadri di Serafino Elmo: Eliodoro cacciato dal Tempio e La danza di David davanti
Simbolo di stanchezza e di riposo, di pausa, di sosta e di attesa, ma anche di solitudine e di problematiche esistenziali
di Nino Pensabene
Simbolo di stanchezza e contemporaneamente di riposo è la panchina. Simbolo di sosta, di pausa e anche di attesa: attesa per un gioioso appuntamento o nella speranza che qualcuno passi e gratifichi – sia pure con un semplice sorriso – la persona che, seduta e attraverso particolari atteggiamenti o comportamenti , rende vitale quella solitudine di cui la panchina vuota potrebbe esserne la rappresentazione.
Simbolo anche di problematiche esistenziali è la panchina, e a proposito – pensando appunto a tutte le problematiche dalle quali per forza maggiore si lascia coinvolgere – si può ben dire sia un personaggio non soltanto simbolico nella vita degli uomini, ma reale, addirittura familiare, alla stregua quasi del proprio letto, di una sedia o di una poltrona di casa.
Chi può asserire che per un motivo o per l’altro non ha mai avuto rapporti con una panchina? Oh, se parlassero le panchine dei giardini pubblici! E superficialmente si potrebbe pensare che hanno condiviso soltanto stanchezze fisiche facendosi donatrici di riposo, in certi casi supplendo alla propria sdraio o al proprio letto. Ma quante stanchezze psichiche hanno placato?! Chissà quante persone in un momento di disperazione si sono “buttate” su una panchina, rialzandosi poi e riprendendo serenamente il proprio cammino nella vita!
Io le panchine le paragono a dei confessionali, confessionali religiosi e nello stesso tempo laici, confessionali simbolico-spirituali e confessionali operativamente materiali, trasformati, cioè, in campo operativo del “peccato” stesso. Come infatti avranno silenziosamente risposto alle “Ave Maria” di qualche pia donna, sedutasi per godersi in pace il suo rapporto spirituale col Cielo, così avranno fatto finta di non sentire tutti i pettegolezzi espressi fra comari o le bestemmie di qualche povero infelice che non sapeva – poverino – dove sbattere la testa.
Se potessero parlare le panchine, chissà quante cose avrebbero da dire! Quanti segreti da svelare! Spaccio di droga, ideazioni o complotti di furti, speculazioni politiche o commerciali, ricatti a carattere sessuale o di qualsiasi tipo – a noi inimmaginabile -, meditazioni di vendetta o aperte promesse… e – a proposito di promesse – c’è da chiedersi a quante false promesse matrimoniali hanno assistito e a quante felicemente andate in porto attraverso una convivenza “eterna”.
Monumenti sono le panchine, e nel pronunciarne la parola mi tornano in mente i “mezzi busto” e le panchine di Villa Borghese a Roma: a quante tenere effusioni e a quanti squallidi rapporti sessuali hanno assistito nelle buie serate invernali quando ancora la lontananza del boom economico non consentiva un’autonomia riparata facendo dei parchi tanti teatri di incontri illeciti? Conosceranno tutte le parole dolci e tutte le bugie, conosceranno tutte le posizioni del Kamasutra e le scelte sessuali di parecchia parte di umanità. Prostitute, gay, travestiti, coppiette innamorate, amanti furtivi e amanti dichiarati, e tutti, tutti tutti con le proprie problematiche esistenziali al di là del momento godereccio, non escluse quelle contingenti della necessità di un rapporto protetto o di un coito interrotto o quelle involontarie – anzi non desiderate – di una eiaculazione precoce o di una squallida impotenza.
Povere panchine, macchiate di lacrime, di sangue, di sperma, di sputi e di bestemmie! Ma per contrasto, beate panchine, complici e disinteressate sensali di unione di solitudini, testimoni di sorrisi, di risate, di festosi giochi infantili, d’innocue confidenze e di sincere parole d’amicizia, di speranza e d’amore!
Vanno amate le panchine. E vanno amate non solo come utilissimo bene pratico collettivo, ma perché, come tali, è come se fossero parte integrante delle esperienze del vissuto quotidiano, è come se fossero un tutt’uno col nostro prossimo, è come se ci rappresentassero, controfigura di ognuno di noi in quanto membri dell’umanità potenzialmente usufruente. E non sembri assurdo se invito, passando davanti a una panchina vuota, a rivolgere lo sguardo con tenerezza, con affetto: chissà se qualche volta non ha accolto le membra di una persona a noi cara o non ha raccolto i suoi dolori o le sue gioie. Chissà se non è intrisa di fluidi a noi congeniali perché trasmessi da persone che avevano le nostre stesse caratteristiche, le nostre ansie o problematiche varie. Chissà se non voglia invitarci a sedere per trasmettere, attraverso un nostro rilassamento psichico, una positività, un incoraggiamento a perseverare nel bene o raccontarci che la vita è una lotta e va affrontata con coraggio.
Sì sono mute le panchine, ma parlano e perciò capisco che qualche volta possano anche inquietare, tanto che egoisticamente, e in contrasto con quanto ho testé consigliato, ci si vorrebbe girare dall’altra parte per non essere coinvolti e quasi plagiati o addirittura “infettati” da tutto il loro passato che può essere sì di bene e di gioie, di promesse mantenute e di glorie avverate, ma anche di sconfitte e di trame perverse.
In ogni caso fanno parte del tempo che va e che non si sottrae alla sua trasformazione in verità storica, perché mentre gli uomini nascono e muoiono, esse, nella maggior parte, rimangono – ignorate testimoni – ad aggiungere note su note ad ogni transitare, comprese quelle delle nostre eventuali fragilità. E a proposito di fragilità e di confessionale, quale amico più sincero che offra tanta discrezione, anzi fedeltà, ai segreti implicitamente confidati e sia pure consistenti solo in delle delusioni o stanchezze?
Rifacendomi ancora al “vissuto quotidiano” e ai sentimenti appena citati, quelli cioè a cui muove una panchina vuota – amore e inquietudine –, mi piace ora proporre all’immaginazione del lettore una piazza o meglio il viale o lo slargo di un giardino pubblico dove sono collocate parecchie panchine.
Un vero e proprio studio antropologico si potrebbe fare, in quanto aggiungendo alle soste rappresentative della vita sociale a largo raggio il ribaltamento scenografico della vita familiare, ovverosia trattando ogni panchina “occupata”come fosse anche l’interno di un’abitazione, si avrebbe la dimensione oggettiva della realtà esistenziale degli “occupanti”, dei vari tipi di menage o, andando più nello specifico, dei vari momenti d’incontro interpersonale.
La giovane madre che gioiosamente porta i bambini al parco o tutta la famiglia riunita per un pranzo a sacco; un gruppo di amiche che al pari del salotto di casa si scambiano qui le loro confidenze e pareri; gli anziani genitori che discutono fra di loro sul comportamento dei reciproci figli; la giovane coppia che litiga portando a galla la necessità di un divorzio; nonni che nostalgicamente raccontano ai nipotini le loro esperienze giovanili; donne frivole che parlano di moda o di chirurgia estetica e donne meno frivole che, lavorando a maglia, vicendevolmente si scambiano ricette della propria cucina o antichi rimedi per procacciarsi la buona salute.
Insomma ho voluto immettere visivamente il lettore in tutto questo più o meno festoso bailamme per potere meglio far risaltare il concetto di “panchina vuota” nell’immaginifico delle abitazioni e di riflesso della vita privata di ognuno di noi: non l’allegrezza ma la malinconia, non la solitudine ma il deserto, non la vita ma la morte, e questo quando il vivere da soli non è dovuto a una scelta da parte di una persona giovane ma condizione coatta vissuta da un uomo anziano che ha perduto ogni affetto.
A questi uomini io penso al mattino quando, a conclusione del mio trekking, mi fermo nel verde piazzale della “Grottella” [1] per fare qualche esercizio appoggiato alla spalliera di una panchina vuota. A costoro, penso, e a quanti su quella panchina si sono nel tempo seduti portando con sé il dolore di uomini crocifissi o la sofferenza con la quale, da cireneo, hanno contribuito a portare la croce altrui.
E non sembri ridicolo a nessuno se congedandomi, prima di salire in macchina per tornarmene a casa, metaforicamente trasferisco sulla spalla di tutte queste creature la manata di saluto che affettuosamente batto sulla spalliera di quella vuota panchina. Una pacca onesta e sincera che, di rimando, mi piacerebbe venisse da qualcuno data idealmente a me come a un uomo senza volto e senza storia, come a un uomo simbolo di tutti gli anziani a cui la morte ha tolto il bene terreno più prezioso: l’amore della propria compagna.
[1]
Santuario Santa Maria della Grottella, situato fuori dell’abitato di Copertino.
(Le immagini qui rappresentate sono prese in prestito da Internet)
Per aderire alla Fondazione Terra d’Otranto in qualità di Socio Sostenitore dovrà compilare e spedire la richiesta di adesione ed inviare l’importo che Le sembra più giusto per sostenere le nostre attività nel 2014, non inferiore a 30 Euro.
La domanda e la ricevuta dell’avvenuto versamento del contributo a favore della Fondazione.
Dovranno essere inviati per posta a:
Fondazione Terra d’Otranto – Via Duomo, 51 73048 Nardò (Lecce)
Il versamento della quota si può fare tramite ufficio postale (c.c.p. 1003008339 intestato a Fondazione Terra d’Otranto o postagiro sul c.c.p. 1003008339 intestato a Fondazione Terra d’Otranto).
Se trova più comodo potrà anche disporre un bonifico bancario al seguente conto:
IT30G 07601 16000 00100300 8339 (Poste Italiane – Nardò)
A quanti aderiscono saranno inviati all’indirizzo indicato:
il terzo numero de “Il delfino e la mezzaluna” (2014)
il volume Salvatore Napoli Leone – Genio in Terra d’Otranto
Itineraria n°1 – La cattedrale di Nardò.
Per qualsiasi altro chiarimento potrà comunicare con noi attraverso la casella di posta elettronica: info@fondazioneterradotranto.it
LA CIVILTA’ CONTADINA NEL SALENTO DI FINE OTTOCENTO
LA PRESA DI POSSESSO DI UNA COLONIA VISSUTA ALLA STREGUA DI UNO SPONSALIZIO
LA NSURATA CU LLA TERRA (IL MATRIMONIO CON LA TERRA)
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
(…) I contadini che ottenevano in colonia un pezzo di terreno credevano di entrarne in legittimo possesso non al momento che apponevano il loro segno di croce in calce al contratto, ma solo quando davano di mano a dissodarlo. Nella loro atavica diffidenza (per molti aspetti giustificata), venivano infatti a male interpretare la dicitura contrattuale che stabiliva i termini di affidamento annuale “dalla prima dissodatura effettuata a raccolta ultimata”, scorgendovi non l’onestà di una puntualizzazione, bensì un furbo raggiro del padrone: se nel frattempo avesse trovato un colono migliore, avrebbe potuto rescindere il contratto, appigliandosi al fatto che non c’era stata ancora un’effettiva presa di possesso. In sostanza alla colonìa attribuivano le stesse regole del matrimonio, che se pure contratto a ccarta tenta sobbra’a lla comune e a ccampanieddhru sunàtu intra’a lla chésia, ci no ppassà a ffuécu ti saccone no ccuntàa pi ffattu (a carta scritta [ufficialmente] al Comune e a suono di campanello [celebrato] in chiesa, se non passava a fuoco di materasso [se non veniva consumato] non contava per fatto [poteva essere sciolto]). Per cui, pur di non trovarsi in simili circostanze, erano capaci di ammazzarsi di fatica, sicuri che, di fronte a un
So benissimo che competere con la poesia è impresa disperata e solo un incosciente come me poteva “integrare”, a suo modo, il recentissimo, magistrale post di Rocco Boccadamo sull’argomento. Chiedo, perciò, anticipatamente scusa ai lettori per la mia pazzia.
Còrnula in dialetto neretino (ma la voce è in comune con tutto il territorio leccese ad esclusione di Tiggiano dove si usa còrnala, con Oria e Mesagne per quello brindisino e con Pulsano per quello tarantino) è il nome (albero e frutto) del carrubo1. Si intuisce facilmente come la nostra voce si collega strettamente alla forma del frutto che è un baccello lungo 10-15, prima verde pallido, a maturazione marrone scuro, con superficie esterna molto dura (direi cuoiosa), con polpa carnosa e zuccherina e semi scuri, ovoidali, molto duri: esso, infatti, ha la forma curva di un corno e còrnula non è altro che un suo diminutivo2. Nativa delle aree orientali del Mediterraneo (numerose sono le attestazioni nei testi micenei della sua importanza economica; la carruba veniva utilizzata nell’antico Egitto per alimentare il bestiame e preparare un vino, costituì i pasti ascetici di san Giovanni Battista nel deserto e quelli del figliuol prodigo ridotto a guardiano di porci), fu poi diffusa dai Greci in Italia e poi dagli Arabi sulle coste del nord Africa e in Spagna.
Il perdurare della sua importanza economica particolarmente in Sicilia è attestato dalle parole del geografo arabo Idrisi (XII secolo): Carini, terra graziosa, bella e abbondante produce gran copia di frutte d’ogni maniera ed ha un vasto mercato e la più parte de’ comodi che si trovano nelle grandi città, [come sarebbero] de’ mercati [minori], de’ bagni e de’ grandi palagi. Si esporta da carini gran copia di mandorle, fichi secchi, carrube, che se ne carica delle navi e delle barche per varii paesi.3
Anche i semi hanno avuto il loro momento di gloria quando venivano utilizzati come unità di misura ponderale molto ridotta: caràto, infatti, deriva dall’arabo qīrāt, a sua volta dal greco keràtion (piccolo corno, carato), diminutivo del keras di nota 1: tutto ciò perché si riteneva che i semi del carrubo avessero un peso estremamente uniforme (circa 1/5 di grammo)4.
Poi, come per tante altre specie, il declino. Ancora oggi, però, è possibile leggere sull’etichetta di alcuni prodotti alimentari tra i componenti quale addensante la farina di carrube (per inciso va detto che la stessa farina, non contenendo glutine, è perfettamente tollerabile dai celiaci).
Non tutti sanno, infine, che il carrubo, rispetto alle altre dicotiledoni, ha uno strato di tessuto particolare (cambio) costituito da cellule meristematiche o totipotenziali, cioè in grado di dare origine alla crescita di qualsiasi organo della pianta, diffuse e non localizzate solo all’apice del germoglio e alla punta della radice. Queste cellule hanno le stesse proprietà di quelle che permettono alla coda della lucertola di ricrescere, alla zampa della salamandra di riformarsi (nell’uomo questa capacità naturale è limitata al solo fegato). Insomma, dopo il radar (o, almeno, la sua idea) rubata ai pipistrelli, l’attuale ricerca sulle staminali umane che, però, nella ricostruzione di un organo hanno bisogno di essere indirizzate alla moltiplicazione con appropriate procedure di coltivazione che, com’è intuitivo, implicano, proprio perché “violente”, che il risultato non sia indenne da insidie che, magari, si manifesteranno dopo decenni. Mi chiedo: non sarebbe meglio rinunziare al risultato immediato e che fa business (ipocritamente camuffato, per lo più, dall’urgenza terapeutica) e concentrare tutti gli sforzi per carpire al carrubo (ma il discorso vale anche, nel mondo animale, per la planaria e per altre specie) il segreto naturale (sicuramente genico) che gli consente di rigenerare spontaneamente un suo ramo marcito?
______
1 Dall’arabo xarrūb, a sua volta dall’ebraico kharuv; il nome scientifico è Ceratoniasiliqua (Ceratònia è la trascrizione latina del greco keratonìa=carrubo, a sua volta da kèraton o keras=corno; silìqua in latino designa il baccello dei legumi e in unione all’aggettivo Graeca in Columella e a Syriaca in Plinio designa il carrubo).
2 Credo che nasca come neutro plurale (còrnula) di còrnulum=piccolo corno, attestato in Pomponio Porfirione (III° secolo d. C.), a sua volta dal classico cornu=corno. Còrnula, dunque, all’origine dovrebbe essere stato un collettivo (per cui l’albero avrebbe significato insieme di corna), per assumere poi, in virtù della desinenza, il genere femminile singolare.
3 In M. Amari-C. Schiaparelli, L’Italia descritta nel “Libro del re Ruggero” compilato da Edrisi, Salviucci, Roma, 1883
pag. 40.
4 Da Wikipedia: Sarebbe stato scelto il seme del carrubo perché è facile constatarne la differenza dimensionale ad occhio nudo; sono state fatte delle prove con delle persone che hanno stimato le dimensioni di vari semi, confrontandoli con un seme campione, con il risultato che il massimo errore di valutazione rientrava nel 5%. La variazione del peso di semi di carrubo presi alla rinfusa arriva al 25%. ll carato fu rapportato e definito con precisione solo nel1832inSudafrica, il luogo di maggior produzione ed esportazione di diamanti del mondo, dove ne fu stabilita la connessione con ilsistema metrico decimale: pesando con unabilanciaa braccia uguali più semi di carruba ed eseguendo poi lamedia aritmeticadei valori ottenuti ne derivò un valore pari a circa 0,2 grammi. Successivamente la quartaConférence générale des poids et mesuresdel1907adottò come valore del carato (dettocarato metrico) il peso esatto di 0,2 grammi.
I ricci di mare, gustosissima pietanza del Salento
Nel Salento, ma pure in molte altre zone d’Italia, per distinguere i ricci commestibili da quelli non commestibili, si parla comunemente di ricci maschi e ricci femmine, ove da retaggio popolare, i commestibili sarebbero, il più delle volte, i ricci maschi, Ma per questa volta non è, come vedremo, una questione di becero maschilismo.
I più perspicaci, invece, indicano come commestibili i ricci femmina,
deducendo per logica, tale circostanza dal fatto che, se le parti edibili sono uova, le uova le fanno le femmine. Invero, si tratta di due specie ben distinte, rispettivamente Arbacia lixula, quella non commestibile e Paracentrotus lividus, quella di interesse gastronomico della quale, badate bene, la parte che consumiamo, sono
di Massimo Vaglio
Il noce (Juglans regia), è un albero originario dell’Asia, ma naturalizzato in tutta Europa ove è stato introdotto sin dall’antichità, di grandi dimensioni, può raggiungere anche i trenta metri d’altezza.
Seppure il clima del Salento non sia perfettamente confacente
alla biologia di questa nobile essenza che prediligerebbe terreni
profondi, leggeri, freschi e fertili giacenti ad almeno qualche
centinaio di metri di altitudine, il paesaggio di questa subregione è
abbastanza caratterizzato dalla presenza di grandi, frondosi e
produttivi esemplari.
Generalmente, un po’ d’ovunque si trovano piante isolate la cui produzione viene spesso destinata all’autoconsumo. Solo nel territorio di Casarano e di qualche altro comune del quadrante sud orientale della Provincia, questi alberi sono frequenti anche in gruppetti di una certa consistenza e la loro produzione alimenta tradizionalmente una discreta nicchia di commercio al minuto.
I suoi frutti, ovvero le noci, sono il veicolo della riproduzione di queste
piante ed in quanto tali al loro interno c’è il potenziale dell’intera
pianta. Costituiscono una fonte eccellente di acidi grassi essenziali
(omega 3, 6 e 9), vitamina E, proteine e minerali. Hanno un elevato
contenuto calorico e ciò alimenta spesso un ingiustificato ostracismo
nei loro confronti, infatti, un ampio studio epidemiologico condotto
sui 30.000 statunitensi, ha dimostrato che l’obesità era meno comune
fra chi consumava abitualmente noci, in quanto le stesse producono un
forte senso di sazietà, lo stesso studio ha evidenziato che il consumo
di noci era associato ad un sensibile grado di protezione nei confronti
degli attacchi di cuore.
Sin dall’antichità sono considerate un buon alimento per il cervello. Probabilmente, questa convinzione è legata all’aspetto del gheriglio, che è simile al cervello, oltre che allo straordinario profilo nutrizionale della noce. Tra l’altro vengono loro riconosciute proprietà digestive, antinfiammatorie, depurative, ipoglicemizzanti e ipotensive.
Le foglie sono utili contro gli eczemi, il mallo è un buon antisettico e viene utilizzato in cosmetica come abbronzante e come tintura per i capelli.
Dalla macerazione in alcol delle noci verdi si ottiene un famoso liquore, il nocino, la cui produzione fonti certe rimandano già al 1300 : … acqua di noci verdicanti, qual si da a febbricitanti di terzana, del peso di quattro o cinque oncie, con salute… questa l’origine, però visto che piaceva e faceva bene anche senza la febbre di terzana, la medicina divenne liquore.
Esistono moltissime versioni di questo liquore sia italiane che straniere e diversi libri che le codificano e che spesso ne fanno risalire la paternità alle bellicose tribù inglesi dei Picti. Nelle varie ricette si rilevano spesso marcate differenze, ma tutte concordano che le noci vengano raccolte la notte di San Giovanni tra il 23 e il 24 giugno, solstizio d’estate.
La tradizione vuole infatti che questa sia la notte dei più grandi sabba, ossia raduni di streghe e che il noce sia la pianta magica per eccellenza attorno alla quale si compiono i sortilegi.
La produzione del nocino si giova un po’ in tutta la Puglia di una grande tradizione che raggiunge punte di eccellenza in particolare nella zona della Murgia Barese ove operano anche alcuni rinomati laboratori artigianali.
Preparazione NOCINO I (consigliato)
1 Litro di Alcol, 22 Noci, 1/2 stecca cannella, 7 chiodi
di garofano, 500 grammi di zucchero, 150 ml di acqua
Lavate sotto l’acqua corrente le noci, asciugatele con un canovaccio. Dividete ogni noce in quattro parti e mettetele in un capiente vaso di vetro.
Aggiungete l’alcool, la cannella e i chiodi di garofano. Lasciate 40
giorni le noci in infusione agitando energicamente il vaso ogni
settimana. Trascorsi i 40 giorni, fate sciogliere lo zucchero in acqua
tiepida. Filtrate il nocino dalle spezie e dalle noci e versatelo nello
sciroppo di zucchero intiepidito. Mescolate il nocino fino a che lo
sciroppo di zucchero e l’alcool non i siano amalgamati del tutto.
Travasate il nocino nelle bottiglie e conservatelo al buio almeno fino
a dicembre.
NOCINO II (più leggerino)
Ingr. noci verdi perfette n. 17, alcol a 90° l 1, acqua g 600, zucchero g 600, cannella gr 5, chiodi di garofano g 5.
Pestate le noci, raccolte naturalmente la notte di San Giovanni, ponetele in un vaso di vetro a chiusura ermetica con tutti gli altri ingredienti, mescolate con un cucchiaio di legno sino a quando tutto lo zucchero sarà sciolto. Lasciate macerare al sole per 30 giorni, ritirate il vaso di notte e agitatelo più volte al giorno.
Passato il tempo richiesto filtrate attraverso un telo strizzando bene
il residuo. Lasciate decantare almeno una settimana prima di
imbottigliare. Lasciate riposare almeno altri tre mesi prima di
imbottigliare.
N.B. Il particolare andamento climatico di questa bizzosa
primavera ha indotto un sensibile ritardo nella vegetazione di molti
fruttiferi, noce incluso, per cui riteniamo che, eccezionalmente, la
raccolta delle noci per preparare un ottimo nocino possa essere
procrastinata almeno per tutta la prima decade di luglio.
English: Watermelon – Close up Italiano: Anguria – Dettaglio (Photo credit: Wikipedia)
Cocomero o anguria? Secondo gli Accademici della Crusca usando il termine anguria, si incorre nel classico errore di ipercorrettismo, ovvero si sceglie il termine che suona meglio in italiano, ignorando, che è proprio quello, il termine dialettale.
Cocomero, viene infatti percepito dai più come termine infantile e giocoso, e dai puristi della Lingua, persino come come grezzo e volgare. Viene quindi, più comunemente, per un motivo o per l’altro, scelto il più serioso e settentrionale, anguria dal Greco tardo angùrion, che vuol dire cetriolo, un ortaggio derivato da una ben diversa specie botanica.
Superando questa pur doverosa precisazione lessicale, passiamo ad approfondire la conoscenza con questo immancabile frequentatore delle tavole estive.
Appartiene alla famiglia delle Cucurbitacee, specie Cucurbita citrullus, Schrad, originaria dell’Africa Centrale, è una specie annuale a ciclo primaverile estivo, comunemente coltivata per i grossi frutti acquosi. Ha fusto prostrato, sarmentoso con ramificazioni molto lunghe e foglie palmate lobate.
Il frutto, è un peponide di forma sferoidale oppure ovale, più o meno allungata che arriva comunemente a pesare venti chili, con buccia liscia, di colore dal verde chiaro al verde scuro, uniforme, marezzato o striato. La polpa è rossa, zuccherina, con semi appiattiti più o meno grandi, ovali, di colore marrone, grigio, nero o screziato, da qualche decennio sono state selezionate anche delle varietà a polpa gialla.
Esige un clima temperato caldo, per cui la messa a coltura inizia generalmente a fine inverno, per anticipare la produzione, la coltivazione viene iniziata sotto dei piccoli tunnel di film plastico trasparente, scoprendo le piante solo quando le temperature si saranno definitivamente mitigate e stabilizzate. Il cocomero predilige terreni profondi, ma non umidi, sciolti o di medio impasto.
In Italia, essendo ormai state quasi completamente soppiantate le varietà locali (che sopravvivono solo in qualche orto familiare) la coltivazione su vasta scala si effettua con varietà ibride, derivate generalmente da quelle di provenienza americana.
Per quanto riguarda il Salento, la produzione dei cocomeri è stata, come tutti gli autori georgici attestano, sempre molto abbondante e qualificata nell’ Inchiesta Agraria (monografia circa lo stato di fatto dell’agricoltura nella Provincia di Terra d’Otranto), pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del Regno, il 24 dicembre del 1878, così si legge: “(…) i meloni d’acqua che per ogni dove si coltivano e principalmente nei Comuni del Circondario di Brindisi:
Brindisi, Francavilla, Mesagne e Oria. Di Gallipoli: Alezio, Aradeo,
Galatone, Gallipoli, Nardò, Neviano, Seclì e Supersano. Di Lecce:
Arnesano, Carmiano, Cellino, Cutrofiano, Galatina, Lecce, Lequile,
Leverano, Monteroni, Novoli, San Cesario, Squinzano e Torchiarolo. Di
Taranto: Leporano, Manduria, Pulsano, Sava e Taranto. Di detta
produzione se ne fa un discreto commercio, esportandosi ancora una
parte di essi fuori della Provincia”.
Albino Mannarini nella sua “Orticoltura Salentina” Tipografia Editrice Leccese Bortone e Miccoli, 1914 così ne parla: “Di pari importanza a quella del Mellone è la coltura del Cocomero. I centri di maggior produzione, ed anche per bontà del prodotto, sono verso il Gallipolino, quali: Galatina, Sogliano, Cutrofiano ecc. E’ quivi che il Cocomero assume proporzioni tali da destare meraviglia. Il peso medio di ciascun capo si aggira intorno ai 8 e 13 Kg. ; e in alcune terre fresche, e con buone colture, si hanno delle singolarità di frutti che vanno sino ai 20 Kg come massimo. (…) Le razze coltivate sono: Citrullus vulgaris Schrad communis, coltivato ovunque. (…) Citrullus vulgaris Schrad, microspermus niger et microspermum flavus, distindi dall’ortolano locale col nome vernacolo di Sargeniscua semenza tunisina mora e Janca”.
Le due varietà per così dire autoctone salentine di Cocomeri
appellate genericamente Sargenischi avevano forma tondeggiante e si
differenziavano per la colorazione della buccia una chiara ed una più
scura e per il colore dei semi. La coltura tradizionalmente veniva
effettuata nei cosiddetti “orti di chiesura” estivi, orti di rotazione,
e veniva loro destinato quasi sempre il primo posto nella rotazione.
I terreni che gli venivano destinati dovevano essere comunque freschi e profondi, poiché non essendo quasi mai possibile l’ irrigazione,
venivano ugualmente bene se piantati con un sesto molto ampio e
sottoponendo con cadenza quasi quotidiana il terreno a sarchiatura o
meglio a strisciatura, una pratica agricola oggi scomparsa, che
consisteva nell’interrompere, smuovendo superficialmente il terreno, l’evaporazione dell’acqua immagazzinata in profondità attraverso le
piogge, a ricordarlo un antico distico contadino recitava: na strisciata, ale quantu na ‘ndacquata (una strisciatura, vale quanto un’
innaffiatura).
Sovente questa coltura compariva nei terreni profondi la stagione seguente allo svellimento di un vecchio vigneto, infatti questa coltura dava risultati davvero eccellenti su terreni vergini o che non erano stati interessati per molti anni dalla coltivazione di altri ortaggi. Dopo il secondo conflitto mondiale, giunsero dagli Stati Uniti, nuove pregevoli varietà soprattutto a frutto allungato: fra le prime la Klondike Sriped Blue Ribbon comunemente nota come Nastro Azzurro, la Fairfax e la Charleston Gray, subito adottate con il generico appellativo di “Miluni Americani”, davano frutti enormi, scenografici e ottimi sotto il profilo organolettico per la buccia sottile, la polpa liquescente, dolcissima e dalla consistenza croccante, qualità che venivano esaltate da una pur breve permanenza in ghiacciaia. Ma come spesso avviene, una grande qualità mal si concilia con le esigenze di mercato, lo scarso spessore della buccia e la sua turgidità li rendevano fragili, a maturazione sovente si crepavano fragorosamente da soli, per non parlare delle rotture che avvenivano durante le operazioni di carico e di trasporto, ragion per cui vennero presto soppiantate da varietà più resistenti al trasporto in primis la Crimson Swet tipicamente striata e dalla forma tondeggiante, e la Sugar Baby quasi perfettamente sferica, liscia, ma più piccola e dall’elegante livrea verde cupo.
Nel frattempo, ma si è già alla fine degli anni “60, nuovi sistemi di coltivazione irrompono tumultuosamente. La possibilità di emungere l’acqua dal sottosuolo con pompe azionate da semplici motori a scoppio alimentati a petrolio lampante, e l’introduzione della coltura protetta tramite l’utilizzo delle coperture con film plastici, portarono questa coltura su più ampia scala, specie nella produzione di primizie con cocomeri della varietà Sugar Baby, che presto andarono ad integrare un’importante corrente d’esportazione soprattutto verso la Germania, migliaia di autotreni e vagoni ferroviari partirono in quegli anni carichi di cartoni con l’eloquente stampigliatura “wassermelone – product of Italy”.
English: Watermelon – Close up Italiano: Anguria – Dettaglio (Photo credit: Wikipedia)
I pionieri nella produzione intensiva, furono soprattutto alcuni lungimiranti coltivatori di Galatone, seguiti ben presto da numerosi coltivatori di Nardò e Galatina, furono scavati parecchi pozzi lungo tutte le aree litoranee dove la falda acquifera era più raggiungibile, ma si trattava di un’agricoltura nomade bisognosa sempre di terre vergini, che vennero ricavate anche bruciando le ultime grandi distese di macchia e spianando non pochi cordoni dunali. Le rese per ettaro, con un investimento di circa 4000 piante, su questi terreni erano comunque molto basse, di rado raggiungevano i 300 ql. Le superfici, però si potettero ampliare solo quando, grazie all’innovazione tecnica e all’introduzione di moderne potenti pompe ad asse verticale, fu possibile emungere grandi volumi d’acqua anche da notevole profondità e venne sperimentata anche la coltivazione di nuove varietà come la Jubilee, la Dumara e di altre ancora più particolari come la Asahi Miyako, la Janosik e la Yellow Dolly Pikaciù a polpa gialla.
Intanto si cominciavano a vedere i frutti della globalizzazione con la concorrenza della produzione di altri paesi del bacino del Mediterraneo, così, nonostante la sempre migliore qualità e quantità della produzione salentina, avente come capofila il territorio di Nardò, molti anni, troppi, si ricorda ampia parte della produzione rimasta a perire nei campi.
Oggi la coltura interessa diverse migliaia di ettari, concentrati
soprattutto nel territorio di Nardò, assurta ormai a incontrastata
capitale italiana dei cocomeri (e qui, sarebbe indubbiamente suonato
meglio il termine angurie n.d.r.), seguono i territori dei comuni di
Galatina, Copertino e a lunga distanza quelli di diversi altri comuni
della parte occidentale del Salento. Oggi, essendosi notevolmente
ridimensionata l’importanza della produzione primaticcia, si punta all’
ottenimento di produzioni di grande qualità, soprattutto estetica, per
uniformità, perfezione morfologica e grandezza dei frutti, qualità
ovviamente associate anche a delle accettabili caratteristiche
organolettiche della polpa per gradevolezza, consistenza e colorazione.
Per questa ragione, ai cocomeri oggi vengono riservate prevalentemente terre fertili e profonde che grazie (si fa per dire) alla scoperta dell’innesto su dei particolari ibridi di zucca resistenti alle diverse malattie, possono essere reinvestiti a cocomeri per diversi anni di seguito.
Ormai da decenni anche nel Salento il monopolio delle sementi è detenuto dalla multinazionale Asgrow, Gruppo Monsanto, che oggi mette a disposizione dei coltivatori nuovissime ed estremamente produttive varietà ibride tipo Crimson Swet, ma dai frutti leggermente più allungati, quali: Eletta F1, Melania F1, Sentinel F1…, quasi sempre innestate su un ibrido di zucca, messo a punto sempre dalla stessa azienda sementiera, attraverso l’incrocio della Cucurbita maxima con la Cucurbita moschata; con questo sistema si ottengono rese medie per ettaro che si aggirano intorno agli 800 ql.
Dal punto di vista nutrizionale, il cocomero è un vero toccasana perché, nonostante sia costituito per il 98 % d’acqua, contiene zuccheri, principalmente fruttuoso, sali minerali come potassio e magnesio utili a combattere la spossatezza estiva, betacarotene, e licopene, antiossidanti che ostacolano l’invecchiamento cellulare e aiutano il sistema immunitario. Inoltre, è un alimento dissetante, diuretico e disintossicante, indicato in caso di ipertensione, ritenzione idrica, cellulite e gonfiore alla gambe, il tutto con un apporto calorico di appena 30 calorie per 100 grammi di prodotto che, ma i benefici non si fermano qui, gli scienziati della Texas A&M University, hanno scoperto come il cocomero sia particolarmente ricco di citrullina, sostanza che ha lo stesso effetto del Viagra.
La citrullina, trasformandosi nel corpo nell’amminoacido arginina, fa rilassare i vasi sanguigni favorendo le prestazioni amorose e la salute del sistema circolatorio.
Gelo di mellone (ricetta siciliana)
Ricavate da un cocomero la polpa rossa, eliminate i semi e
passatela al passaverdura. Unite 100 g di zucchero ed 80 g di amido
per dolci per ogni litro di succo e portate ad ebollizione per 4-5
minuti e comunque tenete sul fuoco sino a quando il liquido accenna ad
addensarsi. Lasciate raffreddare e unite, sempre per ogni chilo di
prodotto una ventina di grammi di cioccolata fondente e altrettanti di
zucca candita e di pistacchi, il tutto diligentemente tritato, infine
aromatizzate a piacere con un po’ di cannella in polvere o con un senso
di maraschino. Mescolate bene, poi versate il prodotto ottenuto in uno
o più stampi e lasciateli in frigo per qualche ora. Oltre che essere
consumato come fresco dessert, il gelo può anche essere impiegato per
farcire delle originali crostate.
Granita di cocomero
Ingr. : una piccola anguria, 250 g di zucchero, 250 ml d’acqua, il succo di mezzo limone.
Fate sciogliere a fuoco lento lo zucchero con l’acqua in modo
da ottenere uno sciroppo, fatelo raffreddare e unitelo alla polpa di
anguria, frullate il tutto e aggiungete il succo di limone. Versate il
tutto in una vaschetta di acciaio inox e ponetela in freezer per circa
due ore mescolando ogni mezz’ora con l’ausilio di una spatola di legno
in modo da frantumare la granita e farle incorporare aria. In questa
fase potete unire a piacere dei chicchi di caffè. Servite in coppe
ghiacciate.
Con il termine di còccioli, cuzzìuli o cuècciuli tarantini nel Salento si appellano genericamente le murìci d’entrambe le due specie più comuni, ossia le murici propriamente dette (Murex trunculus) e le murici spinose (Murex brandaris). Tutte e due le specie ma, in particolare le prime, sono ampiamente presenti nei mari pugliesi, su quasi tutti i tipi di fondale sino ai 100 metri di profondità, ma è il Golfo di Taranto a mantenere da millenni il primato di questa produzione.
Questi molluschi che appartengono alla classe dei Gasteropodi hanno alle spalle una storia illustre e millenaria. Da esse infatti veniva ricavata la preziosissima porpora di cui già si parla nella Bibbia e nelle opere di Omero e sulla cui fabbricazione ampie testimoniante hanno lasciato Plinio, Aristotele, Plutarco, Teofrasto ed altri. Questa serviva a colorare, tra i vari filati, anche la cosiddetta “lanapenna” ricavata dal bisso della Pinna nobilis.
Il “laticlavio”, ossia la toga indossata dai senatori romani, era orlata dall’alto in basso da una fascia di porpora. Indossavano toghe orlate di porpora anche i notabili anziani, ed i sacerdoti, mentre toghe interamente di porpora, erano indossate, sul carro di trionfo, dai generali vittoriosi nelle grandi parate ufficiali.
Taranto era, a quanto pervenutoci, una delle maggiori produttrici di porpora e su questa industria trasse molta della sua fortuna. Tanto è stata notevole questa produzione che ancora nella seconda metà del XVIII secolo, il conte Carlo Ulisse De Salis Marschlins, viaggiatore svizzero, testimonia la presenza a Taranto di una strana collina :- ….Sempre in queste vicinanze, di là dal convento Alcanterino, esiste una collina, chiamata Monte Testaceo, consistente nella massima parte di avanzi di bivalvi e di mùrici. Si vuole che la celebre tinta purpurea di Taranto fosse stata anticamente preparata in questo punto, e che la piccola cisterna quadrata lì presso esistente, fosse usata per la preparazione del prezioso liquido.-
Con la scoperta della cocciniglia (kermes) prima ed infine dell’anilina, l’uso della porpora decadde, ma si incrementò l’utilizzo gastronomico delle murici che, perduta la preziosità e decaduto la sorta di monopolio a cui erano state sino ad allora assoggettate, tornarono ad essere solo un cibo gustoso ed alla portata di tutti.
Le murici, non sono oggetto di allevamento, anche se spesso vengono raccolte e mantenute dagli allevatori di mitili nelle zone in loro concessione, per poi ripescarle e porle in vendita nei periodi dell’anno più propizi.
Ancora oggi, in Puglia sopravvivono delle particolari forme di pesca
La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione
al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.
C.F. 91024610759 Conto corrente postale 1003008339 IBAN: IT30G0760116000001003008339
www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.
Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi: Gestione contatti e invio di messaggi MailChimp Dati Personali: cognome, email e nome Interazione con social network e piattaforme esterne Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo Servizi di piattaforma e hosting WordPress.com Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio Statistica Wordpress Stat Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo Informazioni di contatto Titolare del Trattamento dei Dati Marcello Gaballo Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com