La razza podolica del Salento leccese produce poco ma con grande qualità. La questione non è allora se andrebbe specializzato verso la carne o il latte, va, invece, valorizzato tutto il suo potenziale. Grazie a uno studio della facoltà di Agraria di Bari che ha utilizzato una forma di allevamento più razionale ottenendo il risultato di mettere questa razza bovina in rilievo rispetto al quadro agro-zootecnico italiano.
I bovini del Salento leccese danno carni saporite, così come ho appreso grazie all’amico Gigi Di Mitri che mi ha scritto: “a Soleto, villaggio postneolitico …, c’è l’allevatore Arcudi che fa carni a km zero buone quanto quelle che impazzano sulle tavole dei ristoranti parigini: basta informarsi su quali sono le macellerie salentine che vendono i suoi manzi (blue belge, frisona italiana, raramente angus, derivata bruna italiana etc) e andare di corsa a comprarne i tagli.” Ma oggi nel Salento leccese c’è anche Domenica Longo, bella ed intraprendente imprenditrice del mondo della zootecnia salentina. Domenica, 27 anni, un diploma di Perito agrario nell’azienda di papà Luigi, la “Masseria Pascarito”, nell’agro di Maglie, con un’unica passione: la zootecnia. Dichiara alla giornalista Daniela Pastore:“Io avevo già da piccolissima le idee chiare: a 4 anni aiutavo papà a mungere e a fare il formaggio. E non c’è stato un solo giorno della mia vita che non abbia desiderato di fare l’allevatrice”. Amelia sempre in quell’intervista rilasciata a Daniela Pastore afferma: “Certo, non è un lavoro semplice (fare l’allevatore n.d.r.). Io mi alzo ogni mattina alle cinque e mezzo e le vacanze me le concedo con il contagocce. Non c’è un cartellino da timbrare per cui non esiste una barriera netta fra vita privata e lavoro: quante notti in bianco passate perché una pecora doveva partorire… Sacrifici che però sono ripagati dalla soddisfazione di vedere le cose migliorare, l’azienda crescere. Si prova orgoglio perché sai di averci messo del tuo”.
Una storia di uomini e donne collegata ai Bovini del Salento leccese e del resto, tranne il destino di macello, la storia dei bovini non ha aspetti drammatici ma spesso si trova al centro di ispirazioni primitive di arte figurative, così come nella « nostra » Romanelli dove trafitto da zagaglia, troneggia il Bovino su una parete rocciosa, forse come grafica invocazione di buon augurio per le sorti della caccia. Lo stile è povero, ma sufficientemente naturalistico. Il museo paleontologico di Maglie ne presenta i calchi.
L’Istat nel 5° Censimento generale dell’agricoltura 2000 per il Salento leccese aveva contato 8.080 capi bovini. Nella Soleto del nostro buon Gino Di Mitri sono stati censiti appena 102 capi bovini, spicca una Nardò con quasi 700 capi e Uggiano la Chiesa, Galatone, Copertino, Botrugno e Sternatia con circa 300 capi. Tutto dei cento Comuni del Salento leccese non ha grandi numeri come si può vedere dalla tabella che è riportata in bibliografia.
E la Podolica, quasi dimenticata, soppiantata da altre razze bovine? Qua e là, nelle masserie del Salento leccese, le corna della podolica dovrebbero ricominciare ad essere presenti.
Questo prodotto potrebbe avere delle potenzialità nella filiera della carne, la conferma viene dalla Regione Puglia che nel 2007 ha inserito la carne podolica nell’elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali.
Ma cosa la caratterizza? Alla vista si presenta con un grasso giallo, legato alle erbe ricche di carotene di cui si nutrono gli animali. Al gusto ha una consistenza fibrosa, ed un sapore intenso e leggermente dolciastro che richiede, insomma, come abbiamo riferito dagli studi riportati nella mia precedente nota, una frollatura ed una cottura adeguata.
La razza podolica oggi è presente nella Murgia tarantina e brindisina e ha un pelo grigio un po’ più scuro di quella allevata nel foggiano. Le corna un po’ ricurve e non troppo lunghe che caratterizzano sia gli esemplari maschili che femminili. E’ un bovino longevo visto che la sua vita media è di circa 13-14 anni. Le vacche raggiungono un peso di 800-850 kg, ed i tori addirittura 900-950 kg.
Ma qual’è l’etimologia del nome “podolico”? Si potrebbe pensare a “podos” e che questo nome derivi dal fatto che questi bovini hanno “camminato”, sono venuti con le invasioni barbariche. Ma non è così.
L’attuale bovino podolico discende dal Bos primigenius, uno dei primi bovini di cui si abbia notizia e il cui addomesticamento inizia prima del 4000 a.C. Nel Medio Oriente attorno al 2500 a.C. esistevano già parecchie razze ben differenziate di bovini domestici.
Ma il nome deriva dai Bovini che, probabilmente, sono arrivati in Italia dalla Podolia, una regione dell’Ucraina dell’Ovest posta fra i fiumi Dniester e Bug. I Podolici sono arrivati nel Salento leccese con le invasioni barbariche ed il vecchio ceppo è rimasto puro in diversi casi: i tori spagnoli da combattimento, la razza Highland e le razze italiane a corna lunghe (Marchigiana, Maremmana, Romagnola e Podolica).
Nel Salento leccese, originariamente, la cultura delle masserie era di tipo cerealicolo, alla quale s’accompagnava la pastorizia. Il bestiame era alimentato quasi esclusivamente dai pascoli. Annessi alla masseria potevano trovarsi alcuni oliveti e talvolta anche qualche bosco.
Il bestiame che veniva allevato nelle masserie nei periodi in cui queste aziende furono fiorenti era costituito anche dai bovini che venivano impiegati nei lavori della terra e nel tiro dei veicoli. Talvolta, in qualche masseria vi era anche qualche allevamento di bufali, come si deduce dalla denominazione di Bufalaria data a qualche masseria della regione salentina. Una masseria così denominata, infatti, è a sud di Ugento, verso il mare. Quando i terreni della masseria erano umidi, paludosi, i bovini sostituivano quasi completamente gli ovini.
La razza podolica del Salento leccese è di grande qualità. La questione non è allora se andrebbe specializzata verso la carne o il latte, va, invece, valorizzato tutto il suo potenziale. Questa razza, moderna quanto antica, capace di produzioni ad altissimo livello qualitativo e commerciale grazie a uno studio della facoltà di Agraria di Bari che ha utilizzato una forma di allevamento più razionale, ha affiancato alla tradizione (arte e sapienza insieme) le tecniche d’allevamento più moderne e razionali ottenendo il risultato di mettere questa razza bovina in rilievo rispetto al quadro agro-zootecnico italiano.
Bibliografia
Gigi Di Mitri: Lettera pubblicata http://centrostudiagronomi.blogspot.com/2010/06/nel-salento-leccese-cerano-solo-i.html#comments
Daniela Pastore: Domenica ed Amelia, la zootecnia salentina si tinge di rosa: Un’allevatrice di bovini ed un’allevatrice di ovini a confronto, fra progetti, innovazione e sogni. Terra Salentina Gennaio 2006
MARIO MOSCARDINO: ECONOMIA POLITICA E PALETNOLOGIA NEL SALENTO
Istat – 5° Censimento generale dell’agricoltura 2000: Aziende della Provincia di Lecce con allevamenti e aziende con bovini, bufalini, suini e relativo numero di capi per comune e zona altimetrica http://www.census.istat.it/censimenti/Agricoltura/tavole/075/V1_04_14_PROV_075.pdf
Enzo Panareo: Masserie Salentine Apulia Marzo 1976
L. SCODITTI, Le masserie del Salento e le loro vicende, dattiloscritto depositato nella Biblioteca Provinciale di Lecce
L. Rubino G.T., Giordano G., Sasanelli M., Petazzi F.: PROFILO PROTEICO DI BOVINI DI RAZZA PODOLICA
“Te ci si fiiu?”. Filippo non se lo era mai sentito chiedere. La gente sapeva a chi era figlio e non ne faceva mistero. Gli sguardi dei paesani lo avvolgevano come una corazza. Nessuna domanda diretta sulla sua identità poteva infrangere quell’aura che illuminava il suo passaggio.
Filippo era figlio di don Raffaele, un uomo d’affari d’altri tempi.
Don Raffaele era proprietario del frantoio più importante di un paese del Capo di Leuca e uno dei maggiori azionisti della banca locale.
Riverito, rispettato, temuto, don Raffaele aveva un unico figlio, Filippo, un ragazzo perennemente annoiato, che aveva portato a termine gli studi classici grazie al nome di suo padre ed alle amicizie influenti della sua famiglia.
Figlia di contadini, Letizia, con grandi sacrifici da parte dei genitori, aveva frequentato lo stesso Liceo Classico di Filippo, risultando la prima, non solo della sua classe, ma dello stesso Istituto Superiore di Casarano.
A lei sì che la gente chiedeva di chi fosse figlia. Lei rispondeva timidamente dando, in seconda battuta, quello strano soprannome che la faceva tanto vergognare: “Si, la figlia di Giovanni Capodimulo”.
Alla sua risposta gli interlocutori si chiudevano in un silenzio imbarazzante, cambiavano discorso o correvano a sbrigare faccende dichiarate come improrogabili.
Inutile dirvi che Filippo e Letizia, frequentando insieme gli ultimi due anni della stessa scuola, si amarono, lei con tutta la passione e l’ingenuità di un adolescente e lui con il suo bagaglio di noia, appena contrastato dal richiamo ormonale dei suoi giovani anni.
Finito il liceo e trascorsa un’estate fatta di fugaci incontri pieni di promesse e di speranze, lui partì per Padova a continuare, o a fingere di continuare, gli studi e lei rimase nel piccolo paese di Matino, a rovinarsi le mani e gli occhi a furia di cucire scarpe per conto di una fabbrica del luogo.
Letizia, dopo quell’unico amore, vissuto a dispetto di tutto e di tutti, non volle più allacciare rapporti con nessun altro uomo. Fedele, sola e triste finì per morire in un pensionato pieno di odori sgradevoli e di operatori-aguzzini.
Filippo, dopo una vita nel segno del nonfarnulla, si sposò con una ricca vedova e si fece mantenere fino alla fine dei suoi giorni.
Ma si sa, il tempo porta con se ricordi, amarezze, rimpianti…
Già vecchio e stanco, passeggiando per i viali della sua villa, in un giorno di
Frutti della terra nel Salento: oggi, parliamo di lupini, carrube e fichi
Sono frutti, prodotti, derrate, cui, adesso, si annette rilievo scarso, se non, addirittura nullo; si è quasi arrivati a ignorarne l’esistenza, la cura e l’uso.
Sulla scena delle risorse agricole locali, resistono appena, con alti e bassi, le granaglie, le olive, l’uva, gli agrumi, gli ortaggi e/o verdure.
Lupini, carrube e fichi sono, insomma, divenuti figli minori e spuri della terra, le relative coltivazioni appaiono rarefatte e, di conseguenza, i raccolti trascurati o abbandonati.
Mentre, sino alla metà del ventesimo secolo ma anche a tutto il 1960/1970, rappresentavano beni indicativi per i bilanci delle famiglie di agricoltori e contadini ed elementi di non poco conto per le stesse, dirette occorrenze alimentari.
I primi, della sottofamiglia delle Faboidee, al presente richiamati solo sulla carta e nelle enciclopedie come utili ai fini della decantata “dieta mediterranea”, si trovavano diffusi su vasta scala, specialmente nelle piccole proprietà contadine attigue alla costiera, fatte più di roccia che di terra rossa, si seminavano automaticamente e immancabilmente senza bisogno di soverchia preparazione del terreno, né necessità di cure durante il germoglio e la crescita delle piante, dapprima in unità filiformi, poi robuste e ben radicate sino all’altezza di metri 1 – 1,50, recanti, alla sommità, rudi baccelli contenenti frutti a forma discoidale, compatti, di colore fra il giallo e il beige – biancastro.
Al momento giusto, le piante erano divelte a forza di braccia e sotto la stretta di mani callose e affastellate in grosse fascine o sarcine. A spalla, i produttori trasportavano quindi tale raccolto nel giardino o campicello, con o senza aia agricola annessa, più prossimo alla casa di abitazione nel paese, lasciandolo lì, sparso, a essiccare completamente sotto il sole.
Dopo di che, avevano luogo le operazioni di separazione dei frutti dai baccelli e dalle piante, sottoforma di sonore battiture per mezzo di aste e forconi di legno. Diviso opportunamente il tutto, con i già accennati discoidi, si riempivano sacchi e sacchetti.
Il prodotto, in piccola parte, era conservato per le occorrenze, diciamo così, domestiche: previa bollitura e aggiuntivo ammorbidimento e addolcimento con i sacchetti tenuti immersi nell’acqua di mare, i lupini diventavano una sorta di companatico o fonte di nutrimento di riserva e, in più, servivano ad accompagnare i “complimenti”, consistenti in panini, olive, sarde salate, peperoni e vino, riservati, in occasione dei ricevimenti nuziali, agli invitati maschi.
Invece, l’eccedenza, ossia la maggior parte del raccolto, era venduta a commercianti terzi.
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Le carrube sono i favolosi e bellissimi pendagli, color verde all’inizio e marrone sul far della maturazione, donatici dagli omonimi maestosi alberi, taluni di dimensioni monumentali, tutti affascinanti.
Anche riguardo alle carrube, non si pongono attenzioni particolari, salvo periodiche potature delle piante, i frutti si raccolgono, al momento, purtroppo, da parte di pochi, attraverso tocchi con aste di legno, un’operazione denominata abbacchiatura, come per le noci.
Il prodotto, copioso e abbondante ad annate alterne e riposto in sacchi di juta, oggi è indirizzato esclusivamente alla vendita a terzi; al contrario, in tempi passati ma non lontanissimi, le carrube, dopo l’essiccazione al sole, erano in parte abbrustolite nei forni pubblici del paese e, conservate in grossi pitali in terracotta, insieme con le friselle e i fichi secchi, componevano le colazioni e, in genere, i frugali pasti in campagna dei contadini.
Piccola nota particolare, d’inverno, poteva anche capitare di grattugiare le carrube e, mediante la graniglia così ottenuta mescolata con manciate di neve fresca (beninteso, nelle rare occasioni in cui ne cadeva), si realizzava un originale e gustoso dessert naturale e sano.
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I fichi, al momento, purtroppo, lasciati, in prevalenza, cadere impietosamente ai piedi degli alberi, erano, una volta, oggetto di una vera e propria campagna di raccolta, ripetuta a brevi intervalli in genere sempre nelle prime ore del mattino, con immediato successivo sezionamento (spaccatura) dei frutti e disposizione dei medesimi su grandi stuoie di canne , “cannizzi”, e paziente fase di essiccazione sotto il sole.
Allo stesso modo delle carrube, in parte erano poi cotti nei forni e andavano a integrare le fonti dell’alimentazione famigliare, in parte erano somministrati agli animali domestici, in parte, infine, erano venduti.
Soprattutto, se non proprio, per i fichi, le famiglie avevano l’abitudine, in luglio e agosto, di spostarsi fisicamente dalle case di abitazione nel paese, nelle piccole caseddre di pietre situate nelle campagne, cosicché si risparmiavano le ore occorrenti per l’andata e il ritorno di ogni giorno a piedi e avevano, in pari tempo, agio di attendere direttamente e più comodamente a tutte le fasi della descritta raccolta.
Non c’è che dire, ieri, in un modello esistenziale più semplice, alla buona e intriso di spontanea connaturata operosità, si aveva interesse, e attenzione, anche per beni “poveri” ma, con ciò, non meno utili di altri; oggi, il concetto di valore si è in certo senso ripiegato su se stesso e finalizzato a obiettivi e orizzonti di tutt’altra stregua, fra cui miraggi a portata di mano.
A ‘nnu paese, ‘na fiata, ia ‘na beddha fèmmana mmaritata ca se chiamava Maria. Vista era mutu tevota e šcia sempre ‘lla chèsia. Addhai ca lu prete ne zziccàu mmenare l’occhiu a lla Maria, tantu ca ‘nu bellu giurnu, spicciàtu ca ia te messa, la chiamàu te scusu e nne tisse: «Maria mia, te tau centu tucati, basta ca faci begnu ‘na notte cu tte ṭrou sula sula ‘ccasa toa.»
La Maria pe’ llu scornu se nde scappàu senza ddice nu’ isti, nu’ asti e nnu’ bonasera. E ccu nnu’ sse senta maisiasignòre tire tequistupassa, pijàu bàscia a mmessa a nn’addha chèsia. Ma puru cquai lu prete ne zziccàu mmenare l’occhiu a lla Maria, tantu ca ‘nu bellu giurnu, spicciatu ca ia te messa, la chiamàu te scusu e nne tisse: «Maria mia, te tau tocentu tucati, basta ca faci begnu ‘na notte cu tte ṭrou sula sula ‘ccasa toa.»
«Cce mmalesorte àggiu rricapitàtu,» tisse la Maria, «mo’ mancu messa me pozzu vitire cchiùi.»
E ttuccàu ntorna ccàngia chèsia la Maria. Ma foe lustessucapiace, ca cquai lu prete anzi ne prumise ṭrecentu tucati, e a rretu llu prete se ṭruau puru lu sacristanu. Ca ne tisse: «Iu suntu cchiù ppoerieddhu, Maria mia, e te pozzu tare sulamente quaranta tucati.»
Mo’ la Maria a llu paese nu’ ttenìa addhe chèsie cu bàscia: ca se l’ia passate tutte. Allora ne vinne la stizza e šciu e spumpàu tuttu a llu maritu. Quistu, a pprimu mumentu, se mise ccastimare scuddhàndu Gesucristu, la Vergine e ttutti li santi te lu paratisu, tantu ca la Maria cchiùi se dispiacìu, ma poi pensàu
La calce, come affermano le fonti antiche di Vitruvio e di Plinio il Vecchio, fu scoperta molto probabilmente per caso a seguito dello spegnimento di un forte incendio di un edificio costruito in pietra calcarea[1]. Già dal IV secolo a.C. era conosciuta da Greci e Fenici che la diffusero attraverso le loro rotte mercantili in tutto il Mediterraneo.
Dagli scavi archeologici risulta che anche i Messapi utilizzarono la calce, sotto forma di malta, per la realizzazione delle proprie abitazioni; anche se per l’edificazione delle cinte murarie a difesa delle polis preferirono impiegare a secco enormi blocchi in calcarenite locale. E’ però con l’ascesa dei Romani che la calce assunse una qualità maggiore, per la realizzazione di infrastrutture ad ampia luce e di edifici mai realizzati fino ad allora. Nel nostro ambito territoriale, la calce, assieme al tufo, estratto nelle tagghiate, costituisce un connubio perfetto che ancora riesce a caratterizzare l’architettura salentina, sia essa aulica o rurale.
La calce e le calcare
La calce viva si ricavava, fino a pochi decenni or sono, in fornaci tradizionali chiamate calcare o meglio carcare nel vernacolo salentino. Queste primitive attività industriali erano localizzate in aree che avevano due caratteristiche imprescindibili: la presenza di boschi o di macchie per la fornitura di combustibile, come legna da ardere e carbone, e la giusta pietra calcarea per la cottura. Quest’ultima doveva essere, tra tutte le rocce del Salento, quella con formazione cristallina tipo pietra viva e dai
E’ estate. Manifesti sui muri solo per feste patronali o per qualche consiglio comunale. In giro ragazzi e bimbi che corrono e vagano per le strade assolate. Così capita di guardarsi attorno per vedere una chiesa barocca, un balcone con cariatidi che sorridono alternate ad altre tristi. Finestre con persiane socchiuse ed occhi che spiano quel che accade sulla piazza. Giorni d’estate insomma. Ma quelle scritte strane, divertenti, ricche di cose non dette o troppo eloquenti sono ammiccanti. Così un bigliettino su una porta, elegantemente stampato al computer con una cornice floreale che lo ingentilisce. E’ talmente piacevole da vedere che ti costringe ad attraversare le strada per leggerlo. “Testimoni di geova, predicatori di pace. Lasciateci in pace, siamo cattolici”. Pacato avvertimento, da fedele a fedele.
Cari amici, prendendo spunto da alcune fotografie della basilica di S. Caterina in Galatina pubblicate recentemente su Facebook dall’amico Cesare, sono andato a riprendere un paio di foto scattate nei mesi scorsi.
Una di queste è stata scattata appunto all’interno della Basilica, la prima foto, l’altra, la seconda, all’interno della chiesa della Madonna del Carmine. Entrambe a Galatina.
Il soggetto è sicuramente interessante e forse anche singolare: la Madonna che, come una qualsiasi madre, allatta il proprio figlio. E questo figlio, Gesù, nella tenerezza dei suoi primi mesi, come un qualsiasi neonato si nutre al seno della madre.
Ho volutamente lasciato le parole “madre” e “figlio” in minuscolo per trasmettere la normalità del gesto, la rappresentazione della quotidianità tipica nell’agire di una qualsiasi madre, che con il seno scoperto allatta il proprio figlio. Ed è proprio questo che mi ha colpito.
Non c’è niente d’insolito nel veder rappresentata la Madonna con Gesù in braccio, ma solitamente sono ritratti in trono nella loro maestosità, con atteggiamento benedicente. In queste foto sono rappresentati una madre e un figlio.
L’immagine della Madonna con Bambino iniziò a diffondersi dal 431, dopo il concilio di Efeso, che ribadì la figura di Maria Madre di Dio, oltre che di Gesù.
Si trovano molte varianti stilistiche e iconografiche del tema della Madonna che allatta, ripreso nelle miniature, pitture e sculture di epoche e Paesi diversi. Il soggetto è tra i più antichi motivi dell’iconografia religiosa, presente anche nelle catacombe romane, forse con richiami a divinità egizie.
Fu popolare nella scuola pittorica toscana e nel Nord Europa a partire dal Trecento e venne proseguita durante tutto il Rinascimento.
Ma alla Madonna del Latte sono associate antiche tradizioni, credenze e devozioni. La più diffusa è quella che vuole che le donne si rivolgano alla Madre di Gesù affinché interceda per farle coronare il sogno più grande: avere un bambino. Anche nel Salento.
A Salice Salentino, la Cappella “Madonna del Latte” (la Cona) è una piccola chiesetta rurale costruita nel XVI secolo sulla Strada Provinciale Salice-Avetrana, a circa tre chilometri dal centro abitato.
Luogo di culto e di devozione, nei momenti di perdurante siccità i Salicesi da secoli si recano in processione penitenziaria al piccolo santuario per implorare l’intercessione della “Madonna del Latte” per far cadere la pioggia sui campi.
Ad essa si rivolgono tuttora le puerpere per ottenere abbondante latte per nutrire i propri figli. E sempre alla “Madonna del Latte” si rivolgono recandosi spesso al piccolo Santuario, per un momento di preghiera e meditazione, moltissimi giovani del paese. Viene festeggiata il 3 luglio.
Come ben sapete non sono un esperto di arte per cui ricerche sul tema le lascio a chi di competenza, ma sarebbe interessante se si riuscisse a risalire ai motivi, alle tradizioni popolari che possono aver visto anche a Galatina un culto o comunque una qualche forma di devozione verso questa raffigurazione della Madonna.
Tricase. La chiesa di San Domenico e il restaurato coro ligneo di Oronzo Pirti (1703)
Uno dei principali monumenti di Tricase (Lecce) è senz’altro la chiesa di San Domenico con l’attiguo antichissimo convento, un tempo officiato dai padri Predicatori e dedicato ai santi Pietro e Paolo. Ubicata sulla centrale Piazza Pisanelli, la chiesa fu ultimata nel 1688, come attesta il cartiglio posto sulla facciata.
Senz’altro imponente il prospetto, sottolineato dalla grande scalinata che conduce al sagrato, decorato con ornamenti successivi e statue di santi domenicani collocate in più punti, comunque periferiche rispetto a quella centrale del santo titolare, che è inquadrata in una edicola posta sopra l’ingresso. Le due coppie di colonne con i relativi capitelli, l’architrave e l’edicola, potrebbero in parte derivare dalla preesistente chiesa, cui si accedeva da via Guidone Aymone.
Più che la facciata colpisce però l’interno della chiesa, a navata unica e con impianto rettangolare, luminosissima per la giusta disposizione delle tredici finestre sagomate a forma di lira secondo gusti chiaramente settecenteschi.
La bellezza è determinata soprattutto dalle sette cappelle laterali, compresi i due cappelloni posti ai lati di un inesistente transetto, e dall’altare maggiore collocato su un presbiterio innalzato su due gradini. Sette belle statue di santi domenicani animano la già movimentata architettura, aggiungendosene altre due, sempre in pietra policroma, stanti sui pilastri dell’arco trionfale. Delle nove statue due sono collocate al di sotto della cantoria, che ospita l’organo settecentesco.
In ogni cappella laterale vi è un altare con colonne tortili e quasi tutte sono provviste di tela e stemma di famiglia, a ricordo della committenza o del patronato esercitato da nobili tricasini, che in esse avevano anche diritto di sepoltura.
Senz’altro spicca tra tutti il cappellone dedicato a S. Domenico, con i sei artistici busti lignei di santi disposti negli intercolumni, che ospita il dipinto del prodigio della tela di San Domenico di Soriano (Vibo Valentia), commissionata dai principi Gallone, come documenta l’arme dipinta alla base del discreto dipinto. Suggestiva la statua policroma dell’Eterno Padre nella parte più centrale, affiancata da quelle monocrome delle Sante Lucia e Caterina d’Alessandria poste sulla trabeazione.
E’ datato e firmato l’altare della cappella della Vergine del Carmelo e di S. Vincenzo Ferreri, realizzato nel 1711 da Antonio Maria Biasco su committenza dei facoltosi Mecchi.
Ospita una tela di Gioacchino Toma (Mater divinae gratiae, 1854) la cappella di Santa Rosa da Lima, il cui altare del 1713 mostra un paliotto con la scultura del transito di san Giuseppe. Anche qui numerose statue di sante domenicane animano gli intercolumni.
Fuoriluogo soffermarsi sulle tante sculture e dipinti, tra cui ben quattro di Saverio Lillo, che rendono unica questa chiesa, rimandando all’utile pubblicazione di Salvatore Cassati, La chiesa di S. Domenico in Tricase (Congedo 1977), che è stata di riferimento per redigere queste succinte note.
Un cenno comunque merita anche l’artistico soffitto che copre le capriate dell’edificio, ligneo, a lacunari ottagonali, riccamente decorato con intagli policromi.
E sempre in tema di scultura lignea meritano particolare menzione anche la porta maggiore a pannelli quadrati con fine intaglio, a girali e bugne, firmata dal tricasino Oronzo Pirti, che la completò nel 1700.
Lo stesso abile artigiano firmò il coro della chiesa, il cui restauro è stato completato in questi mesi e la cui inaugurazione ha ispirato queste brevi note che leggete.
Riporto su di esso quanto comunicato per l’occasione, che si celebrerà il 3 aprile 2011:
“un’opera disegnata con misurata eleganza, realizzata con sapiente conoscenza dei materiali e delle tecniche di assemblaggio, firmata e datata da Oronzo Pirti, un ennesimo “magister” del barocco leccese. Collocato in una splendida chiesa, ricca di bellezza, il grande coro sintetizza, con la sua sobria visione dell’arte, il fulcro della regola domenicana. I “Domini Canes”, guardiani della fede, sono, infatti, i committenti che campeggiano con il loro stemma sulla cimasa del seggio priorale.
Il restauro, realizzato con l’alta sorveglianza delle competenti soprintendenze, con la sua profondità e complessità, per la prima volta dopo secoli, ha permesso una rilettura del singolare e sofisticato progetto pirtiano. Nulla è scelto a caso, compresa la varietà delle essenze adoperate:
-l’olivo, robusto e durevole, anche nelle condizioni ambientali più estreme, porta con grazia il peso di tutto il piano sollevato;
-l’alpino abete rosso sostiene l’intero apparato decorativo degli schienali;
-il noce nostrano, selezionato con ragionati effetti chiaroscurali e di variegatura, riluce di forza e di austero valore.
Si rivela un mondo solo apparentemente confinato nella cultura artistica locale, ma, in realtà, ben consapevole di quanto la tecnologia e il fiorente mercato marittimo adriatico, con la sua Serenissima dominatrice, elaborava e offriva”.
La pregevole opera è sistemata su tre dei quattro lati del presbiterio tricasino; gli stalli sono diciannove, disposti a lato del centrale riservato al priore. Quest’ultimo sulla sommità è sovrastato da una tabella su cui è incisa la data e un’abbreviazione: MOPF, che sta ad indicare l’esecuzione ad opera del maestro Oronzo; conclude il tutto un artistico e sagomato stemma con le insegne dell’ordine, sovrastato da una corona ducale.
Alla cerimonia di inaugurazione del restauro del coro ligneo, che si terrà domenica 3 aprile alle ore 19.15, presso la chiesa di S. Domenico in Tricase, presenzieranno Mons. Vito Angiuli, Vescovo della diocesi di Ugento – Santa Maria di Leuca, Don Andrea Carbone Parroco della Matrice di Tricase.
Relatori saranno il prof. Giuseppe M. Costantini, restauratore b.c. e progettista e direttore lavori, e il dottor Roberto Borgogno, restauratore b.c. e direttore tecnico dell’impresa.
Per tutto il tratto di costa tra Porto Miggiano e Punta Mucurone la profondità minima sotto la scogliera è di dieci metri, ma tra la Grotta Zinzulusa e la Grotta Palombara essa raggiunge i trenta. La parete rocciosa che emerge dall’acqua raggiunge, poi, l’altezza di sessanta metri e il fondale, man mano che ci si allontana dalla costa, scende repentinamente.
Un tempo quei fondali erano popolatissimi di cernie ed i pescatori di Castro, malgrado le loro lenze di canapa, ne pescavano parecchie, ma negli anni Cinquanta cominciò a diffondersi la pesca in apnea e nei fondali più bassi i serranidi cominciarono ad essere decimati. Pippi Colafati, farmacista di Poggiardo, ed altri sportivi del Basso Salento erano i pionieri di uno sport faticoso ed affascinante. Ricordo che passavano davanti a casa mia, a Ortelle, con le motorette che allora cominciavano a diffondersi dappertutto, e portavano avanti e indietro pinne, maschera e fucile. Sotto il sole che accecava.
Poi le cernie cominciarono a scarseggiare nei fondali bassi e quando sembrava che le tane oltre i venti metri di profondità fossero sicure, vennero lanciati sul mercato i respiratori ad ossigeno e ad aria compressa e la lotta divenne veramente impari per i pesci. I pescatori subacquei si chiamarono sommozzatori e venivano da ogni parte d’Italia. Qualcuno aveva anche la casa a Castro.
Nunzio, che per eredità genetica aveva bisogno di campare e per eredità storica apparteneva alla classe molto diffusa dei nullatenenti, poiché era abile marinaio e ottimo conoscitore del litorale, si era messo al servizio di alcuni forestieri.
In vita sua non aveva mai visto esemplari di pesci così belli uscire dal suo mare ed era contento perché le persone per le quali lavorava erano signori di nome e di fatto e con lui erano sempre molto gentili. Pescavano per il gusto di pescare, per il piacere di vivere parte della giornata sott’acqua ed il pesce che prendevano lo regalavano quasi tutto. Spesso lo andava a portare lo stesso Nunzio, quando tornavano a terra. E lui, avendo a che fare con molti pezzi grossi, si sentiva anche lui un po’ importante.
Da qualche tempo, il pesce migliore lo mandavano a donna Maria, la moglie di un generale, e Nunzio faceva la consegna e poi se ne saliva a casa. Ma alla villa
Una piccola, ma grande chiesa: l’Addolorata di Galatina
Un vero e proprio splendore. La chiesa dell’Addolorata di Galatina (1710) riconquista la sua antica bellezza e straordinarietà stupendo il visitatore al suo ingresso nella casa di Dio. L’intervento conservativo dell’altare maggiore (1716) e il restauro delle sei tele ovali raffiguranti la Via Matris, voluti grazie alla tenacia dell’amministrazione del Pio Sodalizio, guidata da Biagio Buccella, fanno della piccola, ma grande chiesa dell’Addolorata, come amava chiamarla mons. Antonio Antonaci, Rettore per oltre quarant’anni, un vero e proprio gioiello dell’arte barocca, incastonato nel cuore del centro storico, meta obbligata dei pellegrini durante la loro visita alla città, ma anche dei fedeli
Acqua e sale, acquassale, ciallèdda, ciatèdda, cialatèdda, ciardèdda, sono queste alcune delle denominazioni con cui viene appellato un fresco piatto salentino. Si tratta di un’umile preparazione che al pari delle più aristocratiche friselle, costituisce un piatto quasi esclusivamente serale ed estivo, la risposta dei salentini alla canicola spesso insopportabile della loro terra.
A dispetto della sua estrema semplicità l’acqua e sale è un’opera d’arte culinaria che riassume mirabilmente lo stile alimentare di questa subregione: preparare con pochi semplici ingredienti qualcosa di estremamente leggero e salutare, ma allo stesso tempo appagante e gustoso. Un piatto, che in mancanza di termini più appropriati, non ci resta che definire una zuppa rinfrescante, che estingue la sete e fornisce all’organismo sali minerali tanto necessari in climi così caldi. Inutile dire, che oggi nell’era del Gatorade, questo piatto ha perso la sua originaria funzione ed anche a causa della maggiore praticità d’uso delle friselle è in forte declino, tanto che rimane pressoché esclusivo appannaggio delle famiglie più tradizionaliste.
Qualche rigo sopra l’ho giusto, per esemplificare, definito una zuppa, ma zuppa è esattamente la cosa che questo piatto, se ben preparato non deve assolutamente diventare: il pane infatti, che è l’ingrediente base, attraverso un perfetto dosaggio dell’acqua e dell’olio deve, a differenza del gazpacho andaluso (questo si una zuppa), conservare una marcata consistenza e allo stesso tempo presentare una voluttuosa morbidezza. Qualcuno obbietterà che le due caratteristiche sono in antitesi e a me non resta che rispondere, come mi è capitato di fare nel descrivere altre arcaiche semplici preparazioni contadine, che per preparare questo piatto occorre possedere una buona dose di cromosomi di: massaro, di alàno, di contadino, o di bracciante… in mancanza di questo peraltro non raro patrimonio genetico, non vi resta che farvelo preparare da una brava massaia salentina che ne sia ben dotata e state sicuri che constaterete le sopraccitate caratteristiche e ne serberete a lungo il ricordo come un’esperienza gastronomica di non poco conto. Facile ipotizzare, che questa preparazione, vista la somiglianza con il gazpacho, sia di origine spagnola, frutto di una contaminazione culturale avvenuta durante la secolare dominazione aragonese. Potrebbe rafforzare questa ipotesi la presenza in Spagna della jeringuilla, un tempo il pasto dei braccianti giornalieri andalusi che costituisce una versione più semplice di gazpacho, ove gli ingredienti, invece di essere ridotti in purea, vengono mischiati gli uni agli altri ottenendo così un risultato molto vicino a quello della nostra acqua e sale.
Ma torniamo decisamente all’acqua e sale nostrana, per prepararla occorre il pane di grano duro esclusivo del Salento cotto in uno degli ancora numerosi forni di pietra alimentati con ramaglia di ulivo.
Questo, che deve essere ben raffermo, viene tagliato a cubetti di circa tre centimetri di lato e posto in un piatto reale (questa è la denominazione dei grandi piatti rustici salentini), deve essere irrorato copiosamente d’olio di frantoio e rigirato per bene, quindi bagnato abbondantemente con acqua fresca che deve essere fatta defluire a filo da una brocca, condito strizzando sopra un bel po’ di pomodorini indigeni ricchi di semi e aggiungendo cipolla Barlettana cruda tagliuzzata, precedentemente messa qualche ora ad attutire l’acredine in aceto di vino, origano e sale. Si rimesta quindi il tutto e si serve. Si può completare con l’aggiunta di origano, capperi, rucola.
Come spesso avviene, esistono numerose versioni da quelle più arcaiche, precolombiane, insaporite solo con cipolla e origano a quelle più recenti, decisamente molto più ricche, ove possiamo trovarvi inseriti peperoni cornetti verdi, peperoncini piccanti, meloncelle, finocchio di mare o caruselle sottaceto, sott’oli e sott’aceti vari.
Una versione molto semplice si faceva in quasi tutte le famiglie in occasione della preparazione casalinga della salsa, e prevedeva come condimento solo lu criddhru o riddhru, ossia i semi dei pomodori ancora avvolti nella loro placenta, recuperati durante una fase della preparazione della salsa. Questi, venivano semplicemente conditi con olio, sale e aromatizzati con spicchi d’aglio fresco contusi, quindi aggiunti copiosamente all’acqua e sale. Come avrete notato, sono stato costretto a coniugare quest’ultimo periodo al passato, infatti, la salsa nelle famiglie si fa sempre di meno e ove la si continui a fare, i pomodori che vengono utilizzati, meraviglia del progresso, non hanno più lu criddhru.
Comunque si andranno ad evolvere la società ed il gusto, ad immortalare ad imperitura memoria l’acqua e sale, resteranno gli splendidi versi (che umilmente segnalo), di questo grande poeta salentino:
Passerò in rassegna le varietà da me conosciute ancora presenti nel territorio di Nardò, nonostante l’antropizzazione del territorio e motivi di carattere economico abbiano pesantemente declassato fino a renderlo irrilevante un frutto che nell’economia rurale aveva fino a sessant’anni fa un posto di primissimo piano. Il lettore noterà che questo mio scritto è grondante di punti interrogativi. Lo interpreti come un mio limite ma soprattutto come una richiesta del suo aiuto…
ARNÉA
É una varietà invernale; il nome suppone un latino *vernèa, forma aggettivale con la stessa derivazione dell’italiano letterario verno, per aferesi da inverno e questo dal latino hibèrnu(m)=invernale (sottinteso tempus=stagione), probabilmente con aggiunta in testa della preposizione in. Proprio la caratteristica della maturazione e la stessa terminazione in –ea escluderebbero una derivazione dal latino medioevale hibernicus, variante del classico hibèricus=spagnolo, che presupporrebbe, invece, un riferimento alla terra d’origine. Di fichi invernali parla Catone nel brano a e Columella nel brano c leggibile nel link riportato più in basso alla voce FRACAZZÁNU.
CAMPANIÉDDHU
Evidente la derivazione del nome dalla forma simile a un campanello.
CAŠCITIÉDDHU
Probabilmente per la forma appiattita che evoca un piccolo contenitore (cašcitèddha, diminutivo di càscia a Nardò significa piccola cassa e a Salve e Vernole scatola) e per il fatto che la polpa la polpa è spesso cava all’interno; a meno che non sia originaria di Cascito (frazione del comune di Foligno).
CULUMBÁRA
Varietà molto precoce; il nome è forma aggettivale da culùmbu=fiorone, dal latino corýmbu(m)=corimbo, dal greco kòrymbos=cima, infiorescenza.
DELL’ABATE
Il nome appartiene presumibilmente, come SIGNÙRA, al gruppo di quelli legati ad un dedicatario, la cui identità, com’è facile intuire, è quasi impossibile individuare.
FRACAZZÁNU IÁNCU, FRACAZZÁNU RUSSU e FRACAZZÁNU RIGATU
Deformazione di brindisino (per aferesi di b– e metatesi a distanza di –r-), con riferimento al luogo d’origine.
MILUNGIÁNA
Evidente la somiglianza con la melanzana.
NAPULITÁNA
Riferimento al luogo d’origine.
PÁCCIA
Il nome potrebbe essere dovuto alla forma strana (a trottola ma molto schiacciata e con peduncolo cortissimo) ma anche ad altre due caratteristiche: la pianta raggiunge rapidissimamente dimensioni notevoli e il frutto a maturazione tende a spaccarsi.
PURGISSÓTTU
Il corrispondente italiano è brogiotto, forse da Burjazot, nome della città spagnola di origine. La voce neretina sembra derivare direttamente dalla voce spagnola, con passaggio b->p-, sincope di –a-, passaggio –z->-ss– e regolarizzazione della desinenza. Per dare un’idea della persistente difficoltà etimologica riporto solo due testimonianze, la prima più datata, la seconda più recente: a) In Dendrologiae naturalis scilicet arborum historiae libri duo di Ulisse Aldrovandi, Battista Ferronio, Bologna, 1668 pag. 430: Celidonius noster Bononiensis Geoponicus has delectas, & a se cultas ficorum species molles praebet legendas, Brogiottorum scilicet, quos ita dictos crederem prae summa sui dulcedine ab Ambrosia Deorum cibo, quasi Ambrosiottos… (Il nostro Celidonio autore bolognese di un trattato di agricoltura presenta queste tenere varietà di fichi scelte e da lui coltivate come quelle da tenere in più alta considerazione, cioè quella dei Brogiotti, che crederei così detti per la loro notevolissima dolcezza dall’ambrosia cibo degli dei, quasi ambrosiotti…). b) Nel Vocabolario etimologico della lingua italiana di Ottorino Pianigiani, Società editrice dante Alighieri di Albrighi e Segati, Roma, 1907: deriva dall’equivalente portoghese borgejote, borjaçote, che trova spiegazione in borjaca=spagnolo burjaca, sacco, bolgia, dal latino bursa borsa. Fico di color paonazzo che matura verso la fine di settembre e che più degli altri ha la forma di borsa o sacchetto.
Dalla precocità (24 giugno, festa di San Giovanni) nella produzione dei fioroni.
SANTANTÓNIU
Dalla precocità (13 giugno, festa di San Antonio da Padova) nella produzione dei fioroni.
SÉRULA
Da un latino *sèrula=un pò tardiva, diminutivo del classico sera? Oppure dal toponimo sardo Sèrula?1. O dalla voce del Tarantino (Grottaglie) sèrulu=orciòlo, corrispondente al neretino ursùlu? Sarei grato a chiunque mi aiutasse a dipanare la matassa, dal momento che nulla so sulla presunta maturazione tardiva di questo fico né tanto meno sulla sua forma, come dimostra l’assenza di foto.
SIGNÚRA
Il nome (se non è riferito, come probabilmente per DELL’ABATE, ad un dedicatario, la cui identità, fra l’altro, è pressoché impossibile individuare ) è forse a sottolineare la prelibatezza degna di una signora, ma non escluderei nemmeno una maliziosa allusione di carattere sessuale.
TRUIÁNU
Probabilmente dal luogo d’origine (Troia, in provincia di Foggia).
UTTÁRA
Corrisponde all’italiano dottata, forse da Ottati, nome di una località in provincia di Salerno. Ferdinando Vallese nel suo trattato Il Fico, Battiato, Catania, 1909, fa risalire il nome Ottato al latino optatus= desiderato.
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1 Ho trovato questo toponimo in Goffredo Casalis, Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli stati di S. M. il Re di Sardegna, Marzorati, Torino, 1846, pag. 218.
Ottimo report e… quanti ricordi! Ricordo che da piccolo si andava a raccogliergli e mangiarli direttamente sugli alberi delle campagne Leccesi (verso lo stadio). Di tutti quegli alberi e varietà oggi ne rimangono ben poche, gli altri sono tutti sotto il cemento delle periferie che avanzano verso il mare…
I miei preferiti erano i CAŠCITIÉDDHI anche perchè le api spesso e volentieri depositavano alla loro base dell’ottimo miele!
Questo saggio è da manuale, caro Armando. Complimenti ancora!
Una varietà mi sembra sia sfuggita: la fica mele. Ti risulta? Vecchi ricordi me la indicano come tra le più dolci e buone
Un dubbio atroce: milungiana o minungiana? Finora l’ortaggio l’ho sempre chiamato con il secondo dei due
Maria Antonietta
Non per mettere i puntini sulle iii….ma non trattasi di un ortaggio. E’ una infruttescenza (= frutto) dal nome “sicono”, all’interno sono tantissimi fiori trasformati.
La fica mele è la prima volta che la sento (eppure ho i miei anni…); quanto a milungiàna/minungiàna il Rohlfs per Nardò registra entrambe le forme. Debbo, però dire, che ho sentito più spesso usare la seconda, anche se in casa mia (per questo motivo l’ho scelta) si è sempre usata la prima. Quanto al saggio, meglio chiamarlo “assaggio”….
Armando Polito
Per mettere i puntini sulle i, ma anche per aggiungerne, com’è dovuto, una…: il fico si chiama milungiàna/minungiàna proprio per la somiglianza (nella forma e nel colore) con l’ortaggio (melanzana) e l’inflorescenza e infruttescenza del fico si chiama siconio.
Redazione
rileggendo mi vengono in mente gli aggettivi attribuiti ai fichi. Innanzitutto “scritta”, quando è ormai matura. All’opposto “ìfara” (acerba); “cacata”, in avanzata maturazione. Se non erro si dicono anche “mpitruddhate” quando la maturazione non è stata completata a causa delle avverse condizioni metereologiche
Nino Pensabene
Ieri avrei voluto intervenire per integrare le varietà di fichi con altre che – ricordo – la Giulietta teneva segnate in una pagina delle sue agende o quaderni. Purtroppo non sono riuscito a trovarla questa pagina. Prometto che appena la troverò sarà mia cura darne notizia. Così, a memoria, ricordo che ci devono essere delle varietà qui non citate, così come scopro la novità – per me – delle “fiche campaniéddhu”, “cascitiéddhu”, “purgissòttu”, “quàgghia” e “trujanu”.
Nelle campagne di Copertino, in 45 anni di permanenza, non li ho mai sentito nominare. Può darsi che vengono presentati con altri nomi: ecco perché la necessità di confrontarli con quelli che – ne sono sicuro – la Giulietta cita con altri nomi.
Ricordo, a proposito, che la stessa Giulietta lasciava ‘in letargo’ questa pagina perché diceva avrebbe voluto completare la nota, aggiungendo altre varietà delle quali non ricordava il nome e che nessun contadino le sapeva più indicare.
Riferendomi alla nota della Redazione, confermo la “scritta”, metafora di riga bianca sul fico data dalla buccia aperta (spaccata) per avvenuta maturazione; confermo “tìfara”, qui a Copertino, per “acerba” e anche “mpitruddhate” per il motivo spiegato. In quanto invece all’essere “cacata”, non lo è per eccessiva maturazione ma perché punta o “pizzicata”, non ricordo se da un particolare tipo di mosca o verme. Infatti “cacata” sta per “sporcata”, e chi ricorda l’interno del fico in questa particolare condizione sa che ha il colore del cioccolato, dicat delle cacarelle: in sintesi come se qualcuno avesse cacato dentro il fico.
LUIGI CATALDI
Caro Armando, ma pot’essere ca te rascordi sempre la fica “minna”?! pot’essere ca ete quiddhra ca chiami “napulitana?”
aspetto conferma. Buona settimana a tutti!
Armando Polito
Sarebbe stato impossibile per me non ricordarla con quello che evoca nel suo nome, ma a Nardò non l’ho mai sentita nominare. Dubito che uno studio di ficologia comparata possa chiarire definitivamente se corrisponde alla “napulitana”.
Francesco
Se posso essere utile informo che a Latiano ho sentito parlare di fica ‘ngannamele o ‘ncannamele, ma non mi ricordo com’è. E’ molto diffusa e comune la fica janculedda che non ho visto nell’elenco, probabilmente interessa piu la zona morgese che il salento?
Salvatore Calabresevorrei aggiungere l’aggettivo attribuitivo ^^nnigghiata^^ ossia il fico che all’esterno sembra maturo mentre la polpa interna è secca come la crusca (canigghia). Inoltre, mi risulta che la denominazione di ^^S.Giuanni ^^ si riferisce ad un fiorone che matura nel periodo di S. Giovanni e il relativo fico, che nasce da quell’albero, lo si definisce ^^culumbara^^ perchè è il fico più precoce che matura quando ancora su altri alberi ci sono ancora i fioroni (culumbi). Per quanto concerne il miele che si crea sul fico non è assolutamente dovuto alle laboriose api ma si tratta di una linfa concentrata e zuccherosa che il frutto secerne quando è ben maturo. Vorrei aggiungere ancora che a Nardò lu ^^ fracazzanu rigatu^^ è correntemente definito ^^fracazzanu pintu^^.
Redazione
un lettore mi ha mandato un messaggio dicendo di aver mangiato proprio in questi giorni delle prelibate “fica sessa”, il cui albero si trova in un appezzamento tra Galatone e Galatina
manca la fica Rizzeddra, la migliore in assoluto, con la pelle che è quasi un velo inesistente, docissima da matura, che sa quasi di spezie, piccola da infilare in bocca in un sol colpo.
nino pensabene
Ho trovato la pagina di cui in un mio precedente commento ho fatto riferimento. In effetti, dal modo come sono scritte le varietà di fichi che riporterò qui di seguito, si deduce (per lo meno lo deduco io che conosco il modo di condurre la ricerca da parte di Giulietta) che non si tratta di una ricerca completata ma solo delle varietà coltivate nei nostri fondi, soprattutto a “La Corte” dove fino alla prima metà del Novecento il ficheto era a coltivazione intensiva.
JETTE
PILOSE
PACCE
FRACAZZANI ( JANCHI – NIURI)
CANNAJANCHE
UTTATE
PALUMMARE (JANCHE – NIURE)
PITRELLE
CHIANGIMUERTU
BORSA TI MELE
MINUNGIANE
MINUNCEDDHRE
PUTINTINE
NAPULITANE
ARNEE
TI NATALE
TI LA SIGNURA
TI L’ABATE
TI LU PAPA
CULUMMARE
nino pensabene
In un altro appunto trovo ancora “la FICA PANITTERA” e “la FICA LONGA”.
In più, fra quelle già citate, noto che anche “li UTTATE”, “li CHIANGIMUERTU” e “li BORSA TI MELE” sono nella varietà “JANCHE e NNEURE”.
Fra i fichi fioroni trovo annotati:
– PITRIELLI
– CULUMMARI
– TI SANTU ITU
– URGIALURI
Se vi invio una foto di una mia varietà di fico potrebbe classificarmela?
Le sarei molto grato.
Giuseppe Litta
armando polito
La ringrazio per i complimenti e mi scuso per il ritardo dovuto a morte del pc (meglio lui…) dopo un decennale onorato servizio. In riferimento alla sua domanda spero di non deluderla essendo io non un botanico ma solo un inguaribile curioso assetato di conoscenza. Comunque, forse solo nel nostro caso tentare o essere tentati non è peccato, nemmeno in senso laico.
Può inviarmi la foto all’indirizzo in calce e, possibilmente, indicarmi l’eventuale nome con cui il fico in questione potrebbe essere stato, magari occasionalmente,da altri identificato e la zona di allocazione,anche se essa potrebbe non coincidere con quella d’origine.
antonio
Faccio vivi complimenti per la ricerca, ma devo assolutissimamente integrare l’elenco con la tipologia “albaneca”. E’ il tipo di fico che matura da ultimo rispetto agli altri, da cui, ritengo, il nome : nega l’alba. Molto diffuso nel territorio galatonese e va mangiato con la buccia, saporitissima.
Vaste è una frazione di Poggiardo. Le sue origini risalgono al III secolo a.c. Subì violente incursioni dei goti dei longobardi, dei saraceni. Nel 1147 venne rasa al suolo e ricostruita dopo breve tempo.
Con amici sono stato a Vaste in una sera di settembre. L’imponente palazzo baronale accanto alla torre del ‘500 domina la piazza. Il centro storico era deserto. Un’illuminazione adatta all’ambiente e il silenzio rendevano quasi irreale la passeggiata fra quelle case. Ci siamo andati per una mostra, un libro e un film. “La cena di Emmaus” è tutto questo. Josè Corvaglia, giovane regista salentino, rimase fulminato dalla visione del dipinto di Caravaggio.
Santi patroni e filantropi nel “cielo” ligneo della Cattedrale di Nardò
Ricostruendo le vicende del restauro ottocentesco della cattedrale di Nardò sono emersi, contestualmente alle discussioni tecniche e metodologiche, momenti di intima religiosità che aiutano a focalizzare ulteriormente l’attività pastorale di mons. Giuseppe Ricciardi, vescovo di Nardò (1888-1908).
Nel 1892 lo stato di conservazione della cattedrale neretina indusse il vescovo ad escludere qualsiasi ipotesi di conservazione a favore di una nuova costruzione su progetto di Filippo e Gennaro Bacile di Castiglione.
L’ultimo rilevante intervento, curato dall’architetto napoletano Ferdinando Sanfelice (1725) durante il vescovato del fratello Antonio (1708-1736), era stato finalizzato al consolidamento della navata principale, alla realizzazione della facciata e all’adeguamento stilistico dell’edificio, avendo cura di preservare rispettosamente la memoria architettonica[1].
Di fatto, nel corso dei lavori preparatori alla demolizione, su insistenza di Ricciardi e dell’ing. Antonio Tafuri, furono eseguiti alcuni saggi conoscitivi ed inaspettatamente apparvero tracce più antiche.
Ricciardi, persona dotata di una singolare coscienza conservativa[2], non esitò a richiedere l’intervento del competente Ministero della Pubblica Istruzione, nonostante la forte opposizione di alcune rappresentanze cittadine e del progettista. Avvenne cosi l’incontro tra il lungimirante prelato e Giacomo Boni[3], Ispettore presso la Direzione Generale Antichità e Belle Arti, incaricato di recarsi a Nardò per esaminare e relazionare sulle inattese scoperte.
Boni osservò accuratamente l’edificio e giudicò la Cattedrale come «l’anello di congiunzione tra le due forme di architettura, la greca e la saracena, che hanno popolato di monumenti le provincie meridionali; essa è pure un prezioso monumento, nobile e severo nella linea, grandiosamente semplice, dei suoi pilastri e delle sue arcate»[4], la cui alterazione non si poteva tollerare.
Con il consenso ministeriale si procedette all’eliminazione delle superfetazioni e lungo la navata maggiore vennero alla luce alcuni dipinti murali trecenteschi, i pilastri e semicolonne con archi a sesto acuto (lato nord) e a tutto sesto (lato sud), l’arco trionfale, le antiche finestre e il tetto a capriate, sino ad allora occultato dal soffitto a cassettoni voluto dal vescovo Orazio Fortunato (1678-1707).
L’ispettore ministeriale fu tra i primi ad osservare attentamente le trentaquattro incavallature e a rilevare le decorazioni policrome e le iscrizioni a grandi lettere gotiche sul lato di alcune travi-catene; i riferimenti espliciti al Principe di Taranto Roberto d’Angiò e all’abate Bartolomeo consentirono a Boni di datare la realizzazione tra il 1332 (anno in cui Roberto assunse il principato) e il 1351 (anno di morte dell’abate), periodo storico confermato anche dai caratteri dell’iscrizione[5].
L’importanza dei rinvenimenti indusse il vescovo ad accantonare il progetto Bacile e ad assegnare all’ing. Antonio Tafuri il compito di redigerne un altro, attenendosi alle prescrizioni di Boni filtrate dall’istituzione ministeriale.
Come azione preliminare, al fine di garantire la staticità architettonica, furono sostituiti i pilastri in pietra leccese a sostegno degli archi a tutto sesto (lato sud della navata maggiore), «schiacciati e deviati» rispetto ai corrispondenti in carparo «solidi e ben conservati» (lato nord)[6]. Seguirono numerosi altri lavori per i quali rimando alla specifica letteratura, ad eccezione dell’intervento per le capriate della navata maggiore, il cui rifacimento fu necessario soprattutto per il pessimo stato di conservazione delle catene, «guaste e tarlate nei punti di appoggio alla muratura»[7].
L’interesse per questa fase di lavori prescinde dalle disamine tecnico-costruttive e si sofferma sulla singolare valenza religiosa e devozionale documentata da una inedita cronaca. Boni, per conto del Ministero, acquistò da Venezia 127 metri cubi di legno di larice (243 travi di cui 190 nuove acquistate dalla ditta Lazzaris e 53 provenienti dai restauri del Palazzo Ducale veneziano), mentre da Taranto pervennero le trentaquattro travi-catene (di metri 10.20) di pick-pine fornite dalla ditta Luigi Blasi e C.
Rimosse le travi policrome[8], il 13 agosto del 1895 si procedette alla messa in opera e il vescovo Ricciardi, come riferisce il documento citato, «accompagnato dal suo Capitolo e Clero, si faceva ad inaugurare la copertura del tetto della nave maggiore della Chiesa con la Benedizione della prima capriata»[9].
Iniziò, dunque, una speciale funzione religiosa solennemente allietata:
«Difatti dopo il canto del Laudate pueri Dominum, del Nisi Dominus custodierit civitatem, del Lauda Jerusalem Dominum, s’intonò l’AveMaris Stella e si benedisse la capriata dedicandola alla Vergine Santa Maria titolare Assunta in Cielo. E quando l’abile manovra dei carpentieri tarantini sollevava tutta armata ed intera la capriata, si sciolse il Cantico del Magnificat alla Vergine al suono di tutte le campane della Città.
Colla copertura del tempio si fanno voti affinché si abbrevi il tempo che priva la Città della sua Cattedrale, e che si inauguri al più presto la solenne sua destinazione al Culto colla Consacrazione.
Le altre capriate saranno dedicate con questo motto; la seconda: Sancte Michael Arcangele defende nos in praelio; la terza: Sancte pater Gregori esto memor nostra; la quarta: Sancte Antoni ora pro nobis; la quinta: Sancte Sebastiane ora pro nobis; la sesta Sancte Joseph a Cupertino ora pro nobis; la settima: Sancte Joannes Elemosynari ora; l’ottava: Sancte Roche ora; la nona: Sancte Georgi ora; la decima Sancte Quintine ora; l’undecima: Sancte Leuci Martyr ora; la duodecima: Sancte Paule Apostoli; la tredicesima: Sancte Nicolae ora; la quattordicesima: Sancte Martine; santi questi protettori della Città e luoghi della Diocesi.
Le altre venti capriate si avranno il nome delle famiglie benefattrici della Cattedrale, con i nomi celesti del principale di famiglia: quindi la decima quinta capriata avrà il nome: O Emmanuel Salvator noster; la decima sesta Sancta Marianna ora pro nobis; la decima settima Sancte Aloysi ora pro nobis; la decima ottava: Sancte Raymonde ora pro nobis; la decima nona Sancte Ferdinande ora pro nobis; i quali titoli o nomi celestiali corrispondono alle rispettive famiglie di questa cospicua e nobilissima Città di Nardò, cioè alle benemerite famiglie De Pandi-Dellabate, Tafuri, Vaglio, Personè.
Quando si salì la prima capriata, incominciando dall’ingresso maggiore a man destra, si pose una deca di piombo legata con fettuccia celeste, con suggello dall’impronta dello stemma di Monsig. Ricciardi contenente l’effigie del Sacro Cuore di Gesù, della Vergine Santa Immacolata, di S. Giuseppe Patriarca e S. Michele, di S. Benedetto e del Sommo Pontefice regnante Leone XIII.
La Vergine Santa come assistette Monsig. Ricciardi nel salvare dall’ultima rovina già decretata questo suo tempio normanno, così lo compisca a Suo onore e gloria»[10].
Il documento non è datato o firmato, ma quasi certamente il redattore fu testimone dell’evento e «al suono di tutte le campane della Città» condivise con i fedeli neretini la contentezza per l’approssimarsi della fine dei lavori poiché sin dal 1892 la chiesa era stata interdetta al culto e le lungaggini dovute alla scelta delle metodologie appropriate e alle difficoltà economiche avevano accresciuto il desiderio della riapertura.
La dedica alla Vergine Assunta, titolare della chiesa cattedrale sin dalla fondazione, rinsaldava la devozione della cittadinanza e del clero diocesano due giorni prima della celebrazione ufficiale (15 agosto)[11]; l’intitolazione al patrono civico e ai due compatroni s. Michele e s. Antonio da Padova[12] rinnovava l’invocazione alla santa protezione suggellata dalla presenza simbolica degli altri patroni diocesani riuniti sotto lo stesso cielo ligneo[13].
Con gli eponimi santi sarebbero stati ricordati ed onorati anche i rappresentanti delle famiglie benefattrici che sostennero il completamento del restauro: i fratelli De Pandi-Dell’Abate commissionarono il pavimento e il restauro della cappella di s. Marina, la nobildonna Clementina Personè offrì il nuovo organo e la famiglia Vaglio la balaustra del presbiterio[14].
La deposizione della teca con le sante figure è il documento tangibile a ricordo dell’evento e per una inaspettata similitudine riporta all’antica tradizione di riporre l’effige di un santo, quella del protettore cittadino o al quale si è votati, sulla sommità di un edificio al termine della costruzione come segno di ringraziamento e richiesta di protezione[15].
L’invocazione finale schiude al lettore l’intima preghiera del cronista affinché la santa intercessione, guida e sostegno spirituale per il vescovo, possa sostenere il compimento dell’opera, la cui riconsacrazione (27 maggio del 1900) culminò con la celebrazione pittorica del Maccari nel catino absidale[16].
La cerimonia rientra, dunque, nel processo di evangelizzazione avviato dal vescovo al fine di infondere una pratica religiosa ed una partecipazione cristiana «fortemente sentiti e vissuti senza cedimenti a manifestazioni formali ed esteriori che immiseriscano e svuotino di significato e contenuto spirituale il sentimento religioso»[17].
Non di rado l’intransigenza religiosa coincise con una azione di restaurazione culturale e di recupero della coscienza identitaria, quale presupposto indispensabile per una migliore cultura conservativa. L’acceso confronto sui temi della tutela e della conservazione che il vescovo Ricciardi promosse in città con il conforto di Giacomo Boni fu la conseguenza positiva del nuovo clima intellettuale a sostegno del recupero dei beni culturali[18].
[1] G.B. Tafuri, Dell’origine sito ed antichità della Città di Nardò. Libri due brevemente descritti da Gio. Bernardino Tafuri in Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Gio. Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò. Ristampate ed annotate da Michele Tafuri, Napoli 1848, 501-508, E. Mazzarella, La Cattedrale di Nardò, Galatina 1982, 67-84; cfr. M.V. Mastrangelo, L’intervento dei Sanfelice sulla cattedrale neritina. Storia di un restauro “illuminato”, in «Spicilegia sallentina», 2 (2007), 69-76. Per la storia della cattedrale si veda pure B. Vetere, S. Maria di Nardò: un’Abazia Benedettina di Terra d’Otranto. Profilo storico critico, in C. Gelao, a cura di, Insediamenti benedettini in Puglia, Galatina 1980, I, 199-254; C. Gelao, Chiesa Cattedrale (già Chiesa Abbaziale di S. Maria Assunta). Nardò, in C. Gelao, a cura di, Insediamenti benedettini in Puglia, Galatina 1985, II, 2, 433-440.
[2] Per il profilo biografico si veda G. Falconieri, Discorso commemorativo di S.E.Rev.ma Mons. Giuseppe Ricciardi per la traslazione della salma nella Cattedrale di Nardò, in «Bollettino Ufficiale della Diocesi di Nardò», 1 (1955), 61-74; O.P. Confessore, Zelo pastorale e attività civile di Mons. Giuseppe Ricciardi, vescovo di Nardò (1889-1908), in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», XXVI (1972), 436-471; C. Rizzo, L’Episcopato di Mons. Giuseppe Ricciardi (1888-1908), in A. Cappello, B. Lacerenza, a cura di, La Cattedrale di Nardò e l’Arte Sacra di Cesare Maccari, Galatina 2001, 57-64.
[3] Per il profilo biografico si veda E. Tea, Giacomo Boni nella vita del suo tempo, Milano 1932, 2 voll.;E. Tea, Giacomo Boni nelle Puglie, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 28 (1959), fasc. 1-2, 3-34, 193-224.
[5] Tea, Giacomo Boni nelle Puglie, cit., 219-220.
[6] A. Tafuri di Melignano, Ripristino e restauro della Cattedrale di Nardò, Roma 1944, 19.
[7] Tafuri di Melignano, Ripristino e restauro, cit., 30.
[8] Il vescovo e Boni si preoccuparono sin dai primi momenti della loro conservazione e fu proposto di impiegarle per la copertura di una sala dell’episcopio e poi per la sacrestia. Ma, nonostante l’approvazione dei progetti dell’arch. Ettore Bernich da parte del Consiglio Superiore di Belle Arti, l’intervento non fu eseguito ed ignota rimane la sorte delle antiche travi la cui esistenza è documentata nel 1936 quando furono ispezionate dai funzionari della Soprintendenza (Mazzarella, La Cattedrale di Nardò, cit., 13). Fortunatamente l’arch. Pier Olinto Armanini e il pittore Primo Panciroli copiarono in parte le decorazioni policrome per riprodurle sulle nuove travature (cf C. Boito, G. Ricciardi, G. Moretti, In memoria di P. O. Armanini. La Cattedrale di Nardò. La Cascina Pozzobonello in Milano, Milano 1898; P. Panciroli, Raccolta dei motivi decorativi appartenenti alla distrutta travatura della Cattedrale di Nardò, Roma 1904).
Per lo studio iconografico e iconologico delle decorazioni si veda C. Gelao, Un capitolo sconosciuto di arte decorativa. «Tecta depicta» di chiese medievali pugliesi, «I quaderni dell’Amministrazione provinciale», n. 9, Bari, s.d.; M. Gaballo, Per Visibilia ad Invisibilia. Un bestiario sulle antiche travi, in M. Gaballo – F. Danieli, Il mistero dei segni, Galatina 2007, 21-63. Tuttora nella cattedrale neretina sono visibili solo dodici travi antiche che coprono la volta del presbiterio, mentre una è depositata presso il vicino Seminario (cf M.V. Mastrangelo, La distrutta travatura della Basilica Cattedrale di Nardò. Note tecniche, in Gaballo – Danieli, Il mistero dei segni, cit., 65-72).
[9] A.S.C.N. (Archivio Storico della Curia Vescovile di Nardò), B. 14, s.d.
[11] Tafuri, Dell’origine sito ed antichità, cit., 508
[12] Sant’Antonio di Padova fu il primo protettore della città poi detronizzato in un periodo non definito da s. Michele Arcangelo. L’origine di questo patronato fu chiarita da G.B. Tafuri: «essendo decaduta la città dal diritto viver cristiano, un giorno verso il mezzodì oscurata l’aria, con tuoni e fulmini diedesi a divedere il cielo irato, e da certe nubi distaccavansi alcuni globi di fuoco, i quali facevan mostra di cascare sopra della città. Atterriti i Neretini di si spaventevole veduta invocaron con fiducia l’aiuto dell’Arcangelo S. Michele. Incontanente si vide quel potentissimo principe Angelico frapporsi fra quelle fiamme, e trattenerle, e dopo poco spazio di tempo il cielo si fece sereno».
I Neretini a ricordo dell’evento fecero coniare una moneta e lo dichiararono protettore della città (Tafuri, Dell’origine sito ed antichità, cit., 346-347). Nel IX secolo il patronato civico passò a San Gregorio Armeno, le cui reliquie furono traslate a Nardò nella seconda metà del VIII sec.. Il coinvolgimento devozionale per il santo Illuminatore subì un forte rinnovamento con il processo di evangelizzazione post-tridentina (mons. Cesare Bovio curò la conservazione della reliquia del braccio in un teca d’argento) e proseguì con i vescovati di Luigi De Franchis (dichiarazione della festa dedicata al Santo il 1 ottobre), Girolamo de Franchis (dedicazione di un altare della cattedrale), Orazio Fortunato (la costruzione del cappellone di San Gregorio sul lato sud della cattedrale e il reliquiario d’argento dorato a braccio) e mons. Antonio Sanfelice (nel 1717 donò alla città il prezioso busto reliquiario). L’intervento salvifico dalla distruzione del terremoto del 20 febbraio del 1743, palesato dal movimento della statua del santo posta sul Sedile della piazza, rappresentò il definitivo suggello del forte legame tra il santo armeno e la città (Mazzarella, La Cattedrale di Nardò, cit., 118-120; M. R. Tamblè. Il culto di San Gregorio Armeno a Nardò, in 20 febbraio 1743-1993. 250° Anniversario, 10-14; B. Vetere, Il patronato civico di S. Gregorio Armeno, in «Neretum», 1 (2002), 7-16).
[13] Alliste: San Quintino; Aradeo: San Nicola di Myra; Casarano: San Giovanni Elemosiniere; Copertino: San Sebastiano (solo dall’Ottocento San Giuseppe da Copertino); Felline: San Leucio Martire; Galatone: San Sebastiano; Matino: San Giorgio (dal Novecento, compatrona Madonna del Carmine); Melissano: Sant’Antonio di Padova; Nardò: San Gregorio Armeno (compatroni San Michele Arcangelo e Sant’Antonio di Padova); Neviano: San Michele Arcangelo (compatrona Madonna della Neve); Parabita: San Sebastiano (compatrono San Rocco e solo dal Novecento patrona Madonna della Coltura); Racale: San Sebastiano; Seclì: San Paolo Apostolo; Taviano: San Martino di Tours (ringrazio don Francesco Danieli per le notizie sui santi patroni). Per la cronistoria della Diocesi di Nardò, di Gallipoli e poi di Nardò-Gallipoli (dal 1986) si veda F. Danieli, Nardò-Gallipoli, in S. Palese – L.M. de Palma (a cura di), Storia delle Chiese di Puglia, Bari 2008, 251-270.
[14] Cf Falconieri, Discorso commemorativo, cit., 68-69; Tafuri di Melignano, Ripristino e restauro, cit., 98-111.
[15] Il rito si concludeva profanamente con il “capocanale”, un banchetto di ringraziamento per tutti gli operai che avevano partecipato all’impresa (M. Congedo, Il Capocanale, in «Apulia», IV (dicembre 2005).
[16] Cf A. Cappello – B. Lacerenza, La Cattedrale di Nardò e l’arte sacra di Cesare Maccari, Galatina 2001.
[17] Confessore, Zelo pastorale e attività, cit., 443.
[18] P. Giuri, Alcuni contributi alla storia del restauro del patrimonio storico-artistico nel Salento, in R. Poso(a cura di), Riconoscere un patrimonio. Storia e critica dell’attività di conservazione del patrimonio storico-artistico in Italia meridionale (1750-1950), Atti del Seminario di studi (Lecce, 17-19 novembre 2006), Galatina 2007, 169.
pubblicato su Spicilegia Sallentina n°6
Copertino. La chiesa matrice di Santa Maria ad Nives elevata a basilica pontificia minore
La chiesa matrice Santa Maria ad Nives in Copertino è stata elevata dal Santo Padre Benedetto XVI alla dignità di “Basilica Pontificia Minore”.
Tale solenne proclamazione è avvenuta il 3 luglio 2011 durante la celebrazione eucaristica, presieduta da S. Em. il Card. Salvatore De Giorgi, concelebrata da S. Ecc. il Vesc. Domenico Caliandro, dal parroco Mons. Giuseppe Sacino e da tutto il clero copertinese.
La messa solenne ha visto la partecipazione tanto delle istituzioni locali, nelle vesti del Sindaco di Copertino e del presidente della Provincia di Lecce, quanto di numerosissimi fedeli (la chiesa era stracolma di gente anche sulle navate laterali e sul sagrato) plaudenti e gioiosi per l’evento.
L’insigne titolo, materialmente visibile con l’apposizione degli stemmi pontifici sul prospetto principale e con una lapide commemorativa posta all’interno, concesso alla chiesa di Santa Maria ad Nives in Copertino per la sua particolare importanza storica, artistica e religiosa, lega ora la Collegiata copertinese in modo speciale con la Chiesa romana e il Sommo Pontefice; inoltre le conferisce specifici compiti e privilegi, riservati alle Basiliche Pontificie Minori.
Copertino, chiesa collegiata, la cosidetta “porta dei leoni”
La chiesa matrice, o collegiata, dedicata a “Sancta Maria ad Nives” (Madonna della Neve), rappresenta lo scrigno della storia religiosa e civile di Copertino.
Le collegiate erano praticamente delle cattedrali ma, mancando la figura del vescovo, non potevano rappresentare la sede episcopale né adempiere alle funzione di governo della diocesi. Esse facevano da corona alla chiesa vescovile e i membri appartenenti, oltre a curare le cerimonie liturgiche, erano tenuti a far vita comune insieme (da cui il nome).
Esistevano due tipologie di collegiate: quelle “a pieno titolo”, oppure quelle “ad instar”, e tale differenziazione nasceva dall’onorificenza del “canonico” del quale si fregiavano i componenti delle prime; mentre le seconde erano formate da semplici sacerdoti.
Nella diocesi di Nardò, dipendevano dalla cattedrale neretina due chiese propriamente collegiate (Copertino e Galatone) e due “ad instar” collegiate (Casarano e Parabita).
L’attuale chiesa matrice di Copertino fu fondata sull’antica chiesa di San Nicola di rito greco-bizantino, nel 1088, quando nel Salento, per volere e ad opera del conte Goffredo il Normanno, si andò affermando il rito latino. Purtroppo non si sa nulla sulle caratteristiche della chiesa precedente, né di quella edificata nel 1088.
Essa venne riedificata da Manfredi, come possiamo leggere in una fonte tutt’ora conservata negli archivi della stessa Collegiata:
Giacinto Dragonetti, Difesa del Real Patronato della Collegiata di Cupertino fondata nel MLXXXVIII (1088) dal Conte Goffredo Normanno e nel MCCXXXV (1235) riedificata e dotata dal serenissimo re Manfredi, Napoli.
Manfredi di Svevia, conte di Copertino, la dotò di numerosi privilegi elevandola a basilica con il titolo di Vergine delle Nevi, dedicazione che sostituì quella originale dell’Assunta.
Dopo il 1235 la chiesa matrice subì solo delle modifiche e dei restauri, senza essere completamente distrutta. La struttura ha subito, infatti, ampliamenti e rimaneggiamenti nel corso dei secoli, sopratutto nel corso del ‘500 e del ‘700, per poi assumere la forma che noi oggi possiamo ammirare.
La facciata a capanna, è caratterizzata dalla presenza di archetti pensili, medievali, appartenuti alla prima costruzione medievale e dal portone principale, realizzato in bronzo nel 1985 dagli artisti R. Del Savio e G. Gianese.
Copertino, chiesa collegiata, l’ingresso principale
Sul portale maggiore di ingresso esiste un’epigrafe che cita e ricorda il nome di Manfredi e la data di costruzione della riedificazione.
Il cosidetto “portale dei leoni” è quello che si apre sulla facciata del lato destro, in prossimità del campanile, così chiamato per la presenza di due leoni stilofori, romanici.
Questo portale, molto più elegante di quello maggiore, è affiancato da due colonne rinascimentali, che lo separano da due nicchie; al di sopra dell’architrave, è incisa la seguente frase latina di dedica alla vergine Maria della Neve: “Divae Mariae ad Nives Dicatum” ed è impreziosito da un piccolo rosone scolpito nella pietra leccese, sormontato dal un timpano spezzato al cui centro è collocata la statua lapidea della Vergine.
Il campanile, sorto sui resti dell’antico cimitero di Copertino, fu innalzato tra il 1588 ed il 1603 dal magister lapidariusGiovan Maria Tarantino da Nardò.
Tale torre campanaria, in stile tardo rinascimentale, per molti aspetti stilistici e strutturali richiama quella della chiesa matrice di Galatone e le altre dell’Immacolata e del Carmine di Nardò. Da una attestazione risulterebbe che ai piedi del campanile, nel 1460 vi fosse una cappella dedicata allo Spirito Santo, sita iuxta parochialem, nel cortile della chiesa di allora, oggi sostituito dal sagrato.
Copertino, chiesa collegiata, interno
All’interno la chiesa Matrice si presenta con una pianta basilicale a tre navate, un tempo sorrette e scandite da colonne rinascimentali, poi rivestite ed incassate negli attuali pilastri tardo-barocchi del XVIII secolo; entrando dall’ingresso principale sul primo pilastro a destra è possibile scorgere da una fessura, lasciata appositamente, tale stratificazione di stili architettonici.
Il vano absidale, pentagonale, realizzato nel 1576, è opera del Tarantino, lo stesso del campanile, e di Francesco Maria Dello Verde, suo concittadino.
La collegiata di Copertino fu radicalmente restaurata a partire dal 1707 per volontà del vescovo di Nardò, Antonio Sanfelice. Ciò causò l’inglobamento delle colonne romaniche interamente affrescate e dei relativi capitelli in poderosi pilastri; scomparve anche la volta a capriate, nascosta da un tetto decorato con stucchi in stile rococò; il tutto ad opera di valenti artigiani provenienti dall’area barese.
Copertino, chiesa collegiata, particolare del portone bronzeo
Nell’antico rituale religioso delle collegiate il luogo deputato per la recita dell’Ufficio, la partecipazione alla messa “conventuale” e le eventuali riunioni capitolari era il coro (o aula capitolare), posto dietro l’altare maggiore. Sulla parete frontale rispetto all’altare maggiore vi erano gli scranni riservati alle “dignità” del Capitolo, mentre gli altri posti venivano occupanti dai restanti. L’ordine superiore era riservato ai sacerdoti mentre i cosiddetti “beneficiari minori” (chierici, accoliti, mansionari…) occupavano posto nell’ordine inferiore.
Il coro della Matrice è formato da stalli, intagliati in legno, attribuiti a Raffaele Monteanni, che lo realizzò nel 1793, per volontà testamentaria di Vito Nicola Saggese..
La zona del transetto sinistro è occupata da un altare settecentesco con la tela della “Gloria di San Giuseppe” (1754); sul lato destro si trova il magnifico altare, in pietra e indorato, eseguito nel 600, dal celebre scultore copertinese Antonio Donato Chiarello e dedicato alla Vergine della Neve, contenente, incastonato al centro un affresco di stile tardo-gotico, raffigurante Gesù Bambino e la Madonna, la quale è rappresentata mentre viene incoronata da due angeli.
Copertino, chiesa collegiata. Antonio Donato Chiarello, altare in pietra e indorato, eseguito nel 600
Nella stessa sezione di questo altare è raffigurato il Miracolo della Neve.
Si racconta che a metà del IV secolo d.C, ad agosto, in piena estate, una forte nevicata si abbattè su Roma. Fu così che papa Liberio tracciò un solco, tra la neve caduta, sul colle Esquilino, esattamente nel luogo nel quale poi sarebbe sorta la basilica di Santa Maria Maggiore, conosciuta anche tempio della Vergine della Neve. Dopo questo prodigioso miracolo il culto della Madonna della Neve si diffuse ampiamente ed in suo onore, nel Salento, oltre alla matrice di Copertino, furono edificate la cappella a Galugnano, la parrocchiale di Strudà ed una chiesetta a Neviano.
In una cappella nel transetto a destra è collocata una tela con la rappresentazione del Trionfo dell’Eucarestia, affiancata da delle tavole raffiguranti le effigie di San Pietro, San Paolo, San Zaccaria e San Gerolamo, dipinte dal copertinese Gianserio Strafella. Queste tavole, risalenti al 1554, probabilmente erano parti di un unico polittico di cui non esiste più la figura centrale.
Rinnovatore della pittura figurativa salentina della metà del ‘500, lo Strafella, fu enfaticamente definito dal medico leveranese Girolamo Marciano, “pittore nobilissimo, discepolo di Michelangelo, il quale non solamente si può eguagliare al suo maestro e a Raffaello da Urbino, ma agli antichi Apelle e Zèusi”.
Più veritiero, è invece il giudizio espresso nel 1882 dallo studioso leccese Cosimo de Giorgi, che lo riteneva ”uno dei pochi pittori veramente esimi di Terra d’Otranto”.
L’attività manierista dello Strafella, oltre che nei dipinti presenti nella matrice, è visibile negli affreschi della cappella di San Marco nel Castello di Copertino ed è rintracciabile in molti dei principali centri dell’epoca (Lecce, Nardò, Gallipoli) e conferma le capacità artistiche dell’artista copertinese e le chiare influenze desunte dai maestri del tempo.
Interessanti sono le decorazioni barocche degli altari delle cappelle laterali, posti nel 700, in sostituzione di quelli rinascimentali; tra essi, spiccano quelli dedicati a Sant’Anna, al Cristo morto, con l’altra celebre tela dello Strafella, al Crocefisso ed alla Visitazione.
La collegiata di Copertino è il tempio salentino, nel quale gli elementi architettonici di vario stile e di varie epoche si fondono tra di loro, rendendo questo monumento mariano un bene prezioso, pieno di fascino e di arte, tenuto da sempre in enorme considerazione dagli storici, per via anche del suo archivio storico plurisecolare.
Da secoli attrae l’attenzione di fedeli, turisti e studiosi, provenienti dall’Italia e da tutta Europa, e da oggi, con l’elevazione a Basilica Pontificia Minore, si spera possa mantenere indiscusso ed inalterato nel tempo questo suo splendore e possa essere motivo di vanto per tutta la comunità copertinese e salentina.
le foto sono di Marcello Gaballo. Vietata la riproduzione.
Fonti:
– Salento Mariano – Valerio Terragno – Rubrica de “L’Ora del Salento” del 5 settembre 2009
– Topografia Medievale: Copertino e Sternatia, Studio di due Borghi in Età Medievale – 2004/205 – I. Alemanno
– http://www.facebook.com/l/lAQD3R6ZgAQD-yXbRJoCH4QE5Xr-9Sw8mpqk5h-Pep_3Jkg/www.comune.copertino.le.it/
Scienza e scienziati salentini tra Seicento e Novecento
La tradizione scientifica salentina, in buona parte messa in ombra da quella umanistica e dal barocco, è ricca di una lunga serie di personaggi, da Archita da Taranto, grande matematico del IV secolo a. C., a Ennio De Giorgi, uno dei più grandi matematici del Novecento. La vita e le opere della maggior parte di essi sono cadute inesorabilmente nell’oblio e solo di alcuni si è salvato il ricordo del nome nella toponomastica stradale. Eppure la loro attività è stata di grande importanza e spesso di rilievo internazionale, come quella del medico Giorgio Baglivi, dalmata ma salentino di adozione, dei naturalisti Oronzo Gabriele Costa e Salvatore Trinchese, del fisiologo Filippo Bottazzi, candidato al Nobel.
Alcuni hanno dotato Lecce di strutture scientifiche e tecnologiche d’avanguardia, anch’esse cadute nel dimenticatoio e scomparse dal panorama cittadino, come l’Orto Botanico realizzato da Pasquale Manni, la rete di orologi pubblici sincronizzati elettricamente ideata da Giuseppe Candido, sacerdote e vescovo, e l’Osservatorio Meteorologico e la Rete Termopluviometrica realizzati e gestiti, per oltre quarant’anni, con grande passione da Cosimo De Giorgi.
A ciò si aggiungano fatti di rilievo come i primi esperimenti di illuminazione elettrica condotti dal gesuita P. Nicola Miozzi, l’istituzione dell’Istituto Tecnico “O. G. Costa” e la realizzazione del tram elettrico Lecce-S.Cataldo, all’epoca il più lungo d’Italia.
In ambito universitario si sta cercando di recuperare questo ricco patrimonio, ma è l’intera comunità salentina che ne deve riprendere coscienza per salvare quanto rimane.
abstract del saggio pubblicato integralmente suSpicilegia Sallentina n°5
Sia la città di Bisignano (l’antica, medioevale Visinianum), sia la città di Nardò (l’antichissima, messapica Naretinon), legano buona parte della loro storia più recente, dal XV secolo sino ai tempi dell’eversione della feudalità, al nome di due grandi famiglie che detennero il potere feudale ed amministrativo delle due città: i Sanseverino a Bisignano e gli Acquaviva a Nardò.
La famiglia Sanseverino e la famiglia Acquaviva appartenevano al gruppo delle sette famiglie più importanti del regno, assieme ai Ruffo, ai d’Aquino, agli Orsini del Balzo, ai Piccolomini e ai Celano. Ambedue le famiglie, improntarono la storia, l’economia, la cultura e la vita economica e sociale dei due centri, con alterna fortuna per gli stessi e secondo direzioni prevalentemente parallele ma che in
Galatina. Gli affreschi del chiostro di S. Caterina d’Alessandria
Domenica Specchia Basilica di S. Caterina d’Alessandria-Galatina. Gli affreschi del chiostro Galatina (Lecce), Editrice Salentina, 2007
128 pagine, album a colori con numerose illustrazioni e foto del chiostro e della basilica, tra le quali si segnalano particolarmente quelle riportate alle pp. 28-29-30-31
Presentazione del sindaco di Galatina Sandra Antonica, introduzione di Zeffirino Rizzelli. Fotografie di Oreste Ferriero, progetto grafico di Rossella Vilei.
Una monografia dedicata al chiostro quadrangolare della celebre pontificia basilica minore di S. Caterina d’Alessandria in Galatina, voluta dai del Balzo Orsini e custodita dai francescani osservanti fino al 1494. Come noto, da tale anno la reggenza del complesso cateriniano passò, per volere del re Alfonso II d’Aragona, ai monaci olivetani di Pienza e quindi riaffidata agli stessi minori nel 1507.
Furono questi ultimi, oramai aderenti alla Serafica Riforma di S. Nicolò in Puglia, a commissionare all’attivissimo confratello Giuseppe da Gravina gli affreschi che tuttora decorano le pareti del quadriportico, e di recente restaurati. Egli li ultimò nel 1696, ventisei anni dopo quelli realizzati nel chiostro francescano di Nardò. Nel frattempo aveva lavorato nella città natale, dove, nel 1678, nella chiesa di S. Sebastiano, realizzò una tela e ne affrescò il chiostro. Nel 1685 aveva lavorato invece a Lecce, nel chiostro del convento di S. Maria al Tempio, poi a Francavilla Fontana, dove dipinse la tela di S. Giovanni da Capestrano per la chiesa di S. Maria della Croce.
Come per tutti gli altri interventi pugliesi il soggetto è prevalentemente francescano e l’impostazione si ripete, occupando le lunette poste al di sotto delle volte che formano il quadriportico, estendendosi sotto l’imposta delle voltine di copertura e sull’intera parete.
L’Autrice analizza attentamente i cicli, offrendo una esauriente schedatura dei singoli riquadri con le relative iscrizioni, corredata da una storia del soggetto raffigurato e dall’analisi scenico-pittorica. Inusuale ed utile l’esame degli stemmi nobiliari effigiati, che ricordano i generosi benefattori, come era accaduto anche per il ciclo di Nardò, dove invece non compaiono le raffigurazioni delle Virtù.
Quando ci si addormenta sul divano fingendo di guardare la TV il sonno arriva presto. E si sa che gli anziani dormono poco. Così mi sveglio che è ancora buio pesto. Un caffè, una doccia. E poi? Ma si, è una buona giornata per vedere l’alba. Del tramonto ho già detto. Ma l’alba è altra cosa. Soprattutto se con pochi km in auto riesci a vederla per primo in Italia. Il capo d’Otranto è la punta più a est d’Italia. Per arrivarci passo fra uliveti, niente traffico. L’auto scivola sulla strada quasi in silenzio. Il notturno di radio tre mi accompagna. Passo qualche paese. Maglie, antica città molto ricca un tempo. Nel sottosuolo le fondamenta di molte case sono enormi
A Marittima, quando contavo dodici o tredici anni, ci fu un avvenimento notevole per l’intera comunità: il cambio del parroco.
A guidare la nostra parrocchia di S. Vitale, da una località più grande situata nelle vicinanze dove svolgeva il compito di vice parroco, arrivò don G. P., una persona ancora giovane e piena d’energie che subentrò ad un altro sacerdote avente il medesimo nome di battesimo, ma dotato di un temperamento in certo senso opposto, vale a dire oltremodo mite e tranquillo.
Già la domenica in cui prese possesso della nuova sede, don G.P. si distinse e colpì l’affollata platea di fedeli con un’omelia pervasa da forti accenti e da vibrati proclami e ricca di richiami dei valori fondamentali cui, secondo l’oratore, bisognava improntare non solo la pratica strettamente religiosa, ma anche i rapporti di civile convivenza.
Lungo quel disastro “eco-estetico” di costa martoriata dall’abusivismo che va da Torre Lapillo a Sant’Isidoro vi è la Sarparea, un uliveto che costituisce l’unica interruzione di costruito lungo 25 km di litoranea. Percorrendo frettolosamente la strada che costeggia i limiti della masseria non ci si rende conto della reale piacevolezza che questo uliveto possiede. Per scoprirla bisogna necessariamente scavalcare quei bassi muretti e addentrarsi nel dedalo formato da nodose pareti di ulivo, per scoprire a pochi metri dal caos estivo, grotte con sorgenti d’acqua dolce, antiche fornaci per la cottura della calce, stradine selciate senza inizio e senza fine, sino in sommità su di un piccolo poggio dove, con i suoi stili, le sue mura e i suoi inattivi opifici, troneggia la masseria Sarparea de’Pandi.
L’area oggetto di lottizzazione (la si confronti con le dimensioni della frazione di Sant’Isidoro in basso a sinistra)
La Sarparea non è un banale uliveto, come tanti altri di nuovo impianto nella zona, bensì un frammento dell’antica foresta oritana, un bosco di olivastri cresciuti sulla nuda roccia, innestati e addomesticati con tanta fatica durante lo scorrere delle generazioni.
I tronchi nodosi degli ulivi e i muretti a secco hanno temuto per secoli le scorribande che da terra e da mare minacciavano gli averi della proprietà. Sempre da terra e da mare la Sarparea è oggi di nuovo messa in pericolo; ma non più da Goti o Saraceni, ma da costruttori e impresari promotori di due opere: un impattante resort[1] (versione raffinata del villaggio turistico) e un mega porto turistico da 624 posti barca.
IL PROGETTO
Veniamo dunque ad analizzare nel dettaglio il primo progetto, quello riguardante la realizzazione del villaggio turistico. Tutto nasce dal PUG di Nardò (Piano Urbanistico Generale) approvato dalla Regione nel 2002, il quale prevede la completa lottizzazione del comparto 65, ovvero quasi tutta l’area a nord della frazione di Sant’Isidoro, area attualmente con due proprietari, i “F.lli Zuccaro” e la “Oasi Sarparea s.r.l.”. Il controverso progetto è stato presentato 3 anni fa dalla seconda figura, l’Oasi Sarparea s.r.l rappresentata dalla signora Alison Deighton, immobiliarista londinese di origini statunitensi. Per dare solo alcuni numeri, nell’area di intervento sono previsti ben 130.868,85 mc di costruzione e 41.023,15 mq di superficie coperta, in un terreno di poco più di 16 ettari.
Il piano di lottizzazione della Sarparea
Dopo un primo progetto che aveva la filosofia della tabula rasa, ne è stata affidata alla Gensler (una sorta di multinazionale della progettazione architettonica) la realizzazione di un secondo elaborato. La chiave del progetto attualmente al vaglio delle autorità è quella di mantenere l’uliveto e costruirci negli spazi vuoti tra un ulivo e l’altro; idea che si rileva al quanto ambiziosa e al contempo irrealizzabile senza compromettere pesantemente la natura del luogo e la tutela degli ulivi centenari. Grazie agli elaborati finora prodotti dalla Gensler, quali dei render (immagini di grafica computerizzata) che falsano la reale portata dell’intervento, il progetto è stato accolto positivamente dalla passata amministrazione comunale di Nardò, che con deliberazione del Consiglio comunale n. 106 del 21 dicembre 2009 ha adottato il piano di lottizzazione.
L’iter burocratico per l’approvazione definitiva del progetto è ora arrivato alla VAS (valutazione ambientale strategica) presentata due mesi fa dalla LandPlaning s.r.l. (una società spin-off dell’Università del Salento[2]) per conto della società Oasi Sarparea s.r.l. dopo che la Regione in data 8 Marzo 2011 aveva assoggettato il progetto a questa verifica[3]. Per due mesi dalla data di deposito (30 Giugno 2011) chiunque liberamente poteva prendere visione degli elaborati, quali il Rapporto Ambientale e la sintesi non tecnica e presentare delle opportune osservazioni all’ufficio predisposto[4]. Così è stato fatto nella speranza di limitare il più possibilmente i danni e in allegato al fondo pagina vi sono le mie osservazioni presentate in Regione.
L’aspetto architettonico degli edifici rappresenta forse la parte più impattante del progetto, come d’altronde emerge dagli elaborati grafici; architetture internazionali che non prendono minimamente in considerazione il territorio, ad eccezion fatta del terrazzo. Tuttavia, l’iter burocratico è giunto ad una scala urbanistica, quindi la questione stilistica degli edifici a questo livello poco importa. L’aspetto e la conformazione delle strutture potrà variare nelle successive definizioni di dettaglio. Per dovere di cronaca, il progetto è stato insignito di un premio definito dalla stampa “prestigioso”, il “The American Architetture Award 2010”[5] assegnato da un ente il “Chicago Athenaeum”[6] così autorevole da sfornare quaranta premi all’anno e avere un sito internet a malapena funzionante (nella foto in basso la prestigiosa sede del premio). In ogni caso, il premio è valutato in base alla concezione statunitense dell’architettura, basata più sulla spettacolarità che sulla qualità del progetto architettonico.
LE RAGIONI DEL NO
Non è facile opporsi mentalmente a progetti e ad interventi che potrebbero in qualche modo aumentare l’occupazione e lo sviluppo di questa parte del territorio, soprattutto in quest’ultimo periodo di crisi e specie se il progetto si fonda su principi di sostenibilità ambientale. Occorre però domandarsi se vale la pena, in nome della tutela del’uliveto sbandierata nel progetto, modificare pesantemente uno dei territori ancora intatti per offrire al turista un ambiente finto fatto solo di erbettina verde e ombrelloni di paglia. La formula del recinto turistico, per quanto offra servizi e comodità che è difficile trovare al di fuori di esso, non è di per se sostenibile per l’ambiente e per il territorio. Queste sorte di enclave attive solo pochi mesi all’anno, limitano con le loro barriere la scoperta del vero Salento e producono un’occupazione e un tornaconto (per il territorio) altrettanto ridotti, a dispetto del guadagno elevato della società di gestione. Ciò non significa che in nome del turismo sostenibile non bisogna più costruire alcunché, ma al contrario, l’attività edilizia sarebbe senz’altro stimolata dal recupero delle architetture e delle “scenografie” di cui questo territorio è riconosciuto ed apprezzato al di fuori di esso.
Esistono strade sostenibili sia dal punto di vista ambientale e paesaggistico sia economico che investono anche i comuni limitrofi, è un modello turistico aperto tutto l’anno, che non confina il turista in un recinto, ma lo apre alla ricerca del territorio.
LE OSSERVAZIONI
Prima di passare alle osservazioni presentate in Regione, è doveroso sottolineare come il Rapporto Ambientale redatto dalla LandPlaning presenti nelle sue 155 pagine alcuni elementi copiati qua e là dalla rete e da vecchie relazioni tecniche non inerenti all’area in questione. In particolare anche il nostro blog di Spigolature Salentine risulta interessato da tale fenomeno; a pag. 99 del R.A. nella descrizione architettonica della masseria, alcuni paragrafi sono stati interamente copiati da un mio articolo del 3 Dicembre 2010, relativo ad antichi sistemi di copertura in laterizio[7].
Nardò, 07 Agosto 2011
(…)
Dopo un’attenta ed approfondita lettura del Rapporto Ambientale (R.A.) e della Sintesi non Tecnica, depositati in data 30 Giugno 2011 presso gli uffici regionali e comunali competenti dalla società Oasi Sarparea s.r.l. e relativi al piano di lottizzazione del comparto 65 del PRG del comune di Nardò, adottato con deliberazione del Consiglio comunale n. 106 del 21 dicembre 2009, si vogliono sollevare le seguenti osservazioni:
TUTELA DELL’ULIVETO MONUMENTALE. Il Rapporto Ambientale presentato dall’ente proponente sottolinea ripetutamente come il progetto di lottizzazione salvaguardi e valorizzi l’uliveto a sesto irregolare che ricopre quasi tutta l’area del comparto 65. Tuttavia in questo punto si vuole rendere noto come l’uliveto monumentale (BUR Regione Puglia n°41 del 22-03-2011), non sia affatto tutelato dal piano di lottizzazione e al contempo dal suddetto Rapporto Ambientale non vi sia traccia di un esaustivo piano di tutela.
Leggiamo infatti che all’art. 6 (tutela degli uliveti monumentali) comma 3 della L.R. n°14 del 4 Giugno 2007 “Gli uliveti monumentali sono sottoposti alle prescrizioni di cui al punto 4 dell’articolo 3.14 delle norme tecniche di attuazione (NTA) del Piano urbanistico territoriale tematico per il paesaggio (PUTT/P)”
Nel punto 4 dell’articolo 3.14 delle NTA del PUTT/P le prescrizione base sono: “Nell’”area del bene” si applicano gli indirizzi di tutela di cui al punto 1.1 dell’art. 2.02 e le direttive di tutela di cui al punto 3.2 dell’art. 3.05; a loro integrazione si applicano le prescrizioni di base di cui al punto 4.2 dell’art 3.10”.
Inoltre, si ricorda che:
Gli indirizzi di tutela del punto 1.1 dell’art 2.02 delle NTA del PUTT/P: “negli ambiti di valore eccezionale “A”: conservazione e valorizzazione dell’assetto attuale; recupero delle situazioni compromesse attraverso la eliminazione dei detrattori”
Le direttive di tutela del punto 3.2 dell’art. 3.05 delle NTA del PUTT/P: “negli ambiti territoriali estesi di valore rilevante (“B” art. 2.01), in attuazione degli indirizzi di tutela, per tutti gli ambiti territoriali distinti di cui al punto 3 dell’art 3.03, va evitato: l’apertura di nuove cave; la costruzione di nuove strade e l’ampliamento di quelle esistenti; la allocazione di discariche o depositi di rifiuti, la modificazione dell’assetto idrogeologico. La possibilità di allocare insediamenti abitativi e produttivi, tralicci e/o antenne, linee aeree, condotte sotterranee o pensili, ecc., va verificata tramite apposito studio di impatto paesaggistico sul sistema botanico-vegetazionale con definizione delle eventuali opere di mitigazione”
Le prescrizioni di base al punto 4.2 dell’art 3.10 delle NTA del PUTT/P: “Nell’”area annessa”, si applicano gli indirizzi di tutela di cui al punto 1.3 dell’art. 2.02 e le direttive di tutela di cui al punto 3.3 dell’art. 3.05; a loro integrazione si applicano le seguenti prescrizioni di base:
non sono autorizzabili piani e/o progetti e interventi comportanti nuovi insediamenti residenziali o produttivi
non sono autorizzabili piani e/o progetti e interventi comportanti trasformazioni che compromettano la morfologia ed i caratteri colturali e d’uso del suolo con riferimento al rapporto paesistico-ambientale esistente tra il bosco/macchia ed il suo intorno diretto; più in particolare non sono autorizzabili:la formazione di nuovi tracciati viari o di adeguamento di tracciati esistenti, con esclusione dei soli interventi di manutenzione della viabilità locale esistente”.
La realizzazione di strade, parcheggi, costruzioni, e la modifica del suolo va quindi in netto contrasto con la L.R. sulla tutela degli ulivi monumentali.
TUTELA DELL’ULIVETO MONUMENTALE. Il piano di lottizzazione prevede le nuove costruzioni negli interstizi tra un ulivo e un altro. Tali spazi destinati all’edificazione sono stati identificati tramite delle recenti ortofoto (strisciate effettuate nel 2006) che immortalano l’uliveto dopo le pesanti potature avvenute negli anni precedenti; operazioni culturali comunque necessarie alla corretta conduzione agricola ma che al contempo hanno ridotto notevolmente il volume delle fronde quasi al solo tronco. Ad integrazione di quanto appena segnalato si vuole illustrare la seguente figura 5.7.2. tratta dal Rapporto Ambientale a pagina 78.
Le due foto satellitari, la prima del 1954 la seconda del 2006, mostrano come la tesi “presenza di substrato non idoneo alla piantumazione e dalla perdita di esemplari nel tempo” enunciata a pag. 78 del R.A. sia totalmente errata e che nella realtà l’aumento degli spazi disponibili tra un ulivo e un altro siano da attribuirsi esclusivamente a potature e da incendi avvenuti negli anni precedenti lo scatto dell’ortofoto. A completamento si vogliono allegare alcune foto dell’uliveto tratte sempre dal R.A. a pag. 79 che mostrano lo stato attuale degli ulivi potati e il relativo minimo volume.
Quindi le aree destinate all’edificazione previste nel piano di lottizzazione dovrebbero tenere conto del reale volume degli ulivi nelle normali fasi di coltivazione (con un diametro del volume variabile dai 8 – 10 metri) di conseguenza tali aree dovrebbero ridursi di dimensione.
TUTELA DELL’ULIVETO MONUMENTALE. Il Rapporto Ambientale non menziona in quale modo e con quali metodi intende proteggere gli ulivi monumentali durante le fasi di cantierizzazione. Il passaggio di macchinari ingombranti, quali gru, camion, caterpillar e betoniere per la realizzazione di strade e costruzioni, potrebbe infatti danneggiare in maniera irreversibile l’uliveto, non ultimo si ricorda che tale probabilità potrebbe essere maggiore laddove la vegetazione di presenti più fitta e ramificata. In aggiunta si vuole ricordare come all’art. 10 (divieti) comma 3 della L.R. n°14 del 4 Giugno 2007 sia rammentato che: “E’ vietato il danneggiamento, l’abbattimento, l’espianto e il commercio degli ulivi monumentali inseriti nell’elenco regionale di cui all’articolo 5”.
TUTELA DELL’ULIVETO MONUMENTALE. Si ricorda che l’area in questione è stata percorsa in data 17 Giugno 2008 da un incendio che ha distrutto o danneggiato quasi 200 piante (a proposito vi è depositata un interrogazione parlamentare n. 3-00650 presentata da Adriana Poli Bortone nella seduta n.183 in data giovedì 26 marzo 2009). Il piano di lottizzazione va dunque in contrasto con la legge n. 353 del 2000 che, all’art. 10, comma 1, testualmente recita: “Le zone boscate ed i pascoli i cui soprassuoli siano stati percorsi dal fuoco non possono avere una destinazione diversa da quella preesistente all’incendio per almeno 15 anni (…) È inoltre vietata per dieci anni, sui predetti soprassuoli, la realizzazione di edifici nonché di strutture ed infrastrutture finalizzate ad insediamenti civili ed attività produttive, fatti salvi i casi in cui per detta realizzazione l’autorizzazione sia stata già prevista, in data precedente l’incendio dagli strumenti urbanistici vigenti a tale data“.
PARTECIPAZIONE E CONSULTAZIONE. In relazione alla Direttiva comunitaria 2001/42/CE e il D.R.A.G. regionale, si rammenta come non vi siano stati intrapresi percorsi di partecipazione e consultazione che interessassero gli abitanti della stagione estiva della marina di Sant’Isidoro (in prevalenza di comuni limitrofi, quali Copertino e Leverano, e per la maggior parte all’oscuro del progetto), i commercianti o i residenti delle aree limitrofe. Inoltre l’unico momento di presentazione del progetto al pubblico è stato effettuato al di fuori della stagione turistica e all’interno del Consiglio Comunale in data 21/12/2009, come segnalato a pag. 139 del R.A.
Inoltre si segnala che nelle pagine seguenti (pag. 140-141) nella tabella delle osservazioni del capitolo 10.3 vi siano delle osservazioni di copianificazione (con esito considerato!) totalmente fuori luogo e probabilmente frutto di un copia e incolla da altre relazioni tecniche. In particolare si fa riferimento ad un “complesso dell’incoronata”, ad un “centro storico e la fascia circostante” e di “un villino sub urbano di inizio secolo” totalmente estranei al contesto geografico e sociale della Sarparea e della Marina di Sant. Isidoro. Ancor peggio si fa più volte menzione della “Sopraintendenza per i beni ambientali architettonici artistici e storici della Provincia di Brindisi”, ente territorialmente estraneo alla Provincia di Lecce.
(…)
[1] Pur non essendo ancora iniziati i lavori di costruzione del resort è già attivo il sito internet: http://deightonuk.com/
CERTI GROSSI, GRASSI MATRIMONI, CELEBRATI SULL’ALTARE DELL’ESIBIZIONISMO
di Rocco Boccadamo
Scene dal vivo di un matrimonio appena celebratosi in una cittadina del nord Salento, ovviamente innominabile. Per ambientazione, un’aggraziata piazzetta del centro storico (isola pedonale), resa ancora più suggestiva dal fondale buio tenue delle prime ore della sera, ed una prospiciente, ed altrettanto graziosa, piccola chiesa del diciottesimo secolo.
Nubendi, due giovani professionisti appartenenti a buone famiglie e con a fianco redditizie attività commerciali; insomma, tutte le premesse per una cerimonia distinta, se non proprio d’elite.
Sennonché, ancora una volta, si ha la dimostrazione che la ricchezza, la bellezza ed il successo non necessariamente vanno a braccetto con la classe pura, quel volare alto che, prima di tutto, prende l’abbrivio dalla semplicità, dalla naturalezza, dal riserbo e dalla modestia.
Veniamo alle sequenze che, secondo il parere e la sensibilità di chi scrive, si caratterizzano per i toni sfasati e fuori luogo.
Mancano pochi minuti all’orario fissato, e però lo sposo non appare presente all’ingresso della chiesa ad attendere la dolce metà. Nessun problema, comunque, il suo arrivo è annunciato, di lì a breve, dal rombo di un’autovettura, da lui stesso guidata, rombo speciale e inconfondibile giacché trattasi non di un comune veicolo di media o grossa cilindrata, ma, sentite bene, niente poco di meno che di una “Ferrari” color argento metallizzato. Non c’è che dire, un’apparizione veramente “sobria”, quasi che avvenga a bordo di una cinquecento o di un calesse.
Il secondo fotogramma sfocato, diciamo così, si materializza all’interno del luogo sacro, in pieno rito nuziale. Ciascuno di noi ritiene che il culmine del sacramento coincida con lo scambio delle cosiddette “fedi”, ma in realtà, almeno nella circostanza, tale opinione ha un grosso limite, è parziale: difatti, dopo che le comuni fascette d’oro trovansi a cingere gli anulari della coppia, lo sposo trae dalla tasca un involucro e presenta alla ormai moglie un vistoso, preziosissimo anello con brillantone, roba, a occhio e croce, da decine di migliaia di euro.
Beninteso, fra gli oh! di meraviglia della generalità degli astanti, integrati da sommessi risolini e sospiri d’innocente invidia da parte delle invitate giovanissime. Neppure in questo atto, v’è alcuna ombra di ostentazione!
Si osserva, con indulgenza, che certe pacchianerie resistono tuttora, specialmente nei piccoli centri; di fronte a siffatta considerazione, sembra tuttavia bene ed utile replicare che è giunto il momento di estirpare completamente le radici di atteggiamenti e comportamenti del genere, in qualunque latitudine ed ambiente ci si trovi.
E io che ho criticato l’usanza, da poco introdotta, dei fuochi d’artificio in seno ai matrimoni.
1861-2011 – 150° Anniversario dell’Unità d’Italia, Brigantaggio e secessionismo (3.)
di Maurizio Nocera
Se «si vuole comprendere veramente il “brigantaggio”, è proprio nel “quotidiano” dei contadini del Sud che bisogna scavare, immergendosi nell’atmosfera dei tempi, dei luoghi e dell’umanità che li percorse: bisogna – in altri termini – tentare un approccio al fenomeno che non sia preconcetto e partigiano, ma storico e antropologico»
La “miseria” del Mezzogiorno era “inspiegabile” storicamente per le masse popolari del Nord; esse non capivano che l’unità non era avvenuta su una base di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno nel rapporto territoriale di citta-campagna, cioè che il Nord concretamente era una “piovra” che si arricchiva alle spese del Sud e che il [suo] incremento economico-industriale era in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale»
Romanzo “brigante”
di Maurizio Nocera
Ancora un appunto su un altro importante riferimento storico. Spesso i borbonici, quando parlano o scrivono di brigantaggio, richiamano una frase che Antonio Gramsci avrebbe scritto sul suo settimanale torinese «L’Ordine Nuovo» del 1920. È strano che costoro che citano Gramsci non diano mai le giuste indicazioni bibliografiche. Non riprendo qui la frase gramsciana di cui costoro si servono per richiamare il giudizio sullo Stato unitario, perché significherebbe per me, ancora una volta, falsificare la verità storica. Antonio Gramsci, in qualità di segretario generale del Partito comunista d’Italia, ha scritto tutt’altre frasi.
La supremazia del Nord
Conosco bene gli scritti di Gramsci su quel suo settimanale. Egli scrisse solo due editoriali di carattere, diciamo così, istituzionale: “Lo Stato italiano” (cfr. «L’Ordine Nuovo», 7 febbraio 1920, p. 282; e “Stato e libertà” (cfr. «L’Ordine Nuovo», 10 luglio 1920, p. 65). In questi articoli Gramsci denuncia le mostruose disparità economiche tra Nord e Sud, senza fare alcun accenno al brigantaggio, ma solo alle masse contadine meridionali costrette dai governi della Destra, primo fra tutti quello di Cavour, a
Siamo lieti di annunciare la pubblicazione di alcuni racconti estrapolati dall’ultimo libro, fresco di stampa, della scrittrice Raffaella Verdesca, notevole e florida giovane penna salentina. Nata a Lecce nel 1969, l’autrice, che vogliamo qui ringraziare per averci così generosamente offerto gli ultimi preziosi frutti del suo talento, giunge con i recentissimi Racconti per ridere (Gruppo Albatros Il Filo, 2011) al suo quarto lavoro. Questa nuova pubblicazione segue, in una sorta di sequenza continua a frequenza regolare, all’intenso e indimenticabile romanzo d’esordio Chandra Mahal (Il Filo, 2005), alla sua prima raccolta di racconti All’ombra dell’Arca (Il Filo, 2007) e al secondo ricco romanzo Deliri di una verità (Gruppo Albatros Il Filo, 2010).
Fregiare la domenica degli Spigolatori di letture certamente gradite e di qualità, quali regalano la prosa vivace di Raffaella Verdesca e la sua variegata penna, equivale ad aggiungere un ulteriore tassello verso quella meta di ulteriore arricchimento del nostro granaio, fermamente prefissataci
“Ecco appunto. Stai allegro. Beato te che torni giù. Vedrai che le cose si sistemeranno e, alla fin fine, se proprio dovessero andar male, qualcosa te la trovo io qui. Tranquillo”
“Va bene, ma ora vai, tanto il treno sta per partire”
“Sì, va bene. Allora ciao e salutami tutti”
“Non mancherò”
Luigi si allontanò di corsa, senza voltarsi, sparendo rapido dalla sua vista. Lui poté abbandonarsi sul sedile, stremato, con un senso di angoscia che gli rendeva faticoso persino il respirare. Ma come aveva fatto a giocarsi tutto in un giorno? Tutto!
Appoggiò la testa al vetro freddo. Meglio non pensarci, magari provare a dormire, mentre il treno si lascia Monaco alle spalle e punta verso sud: Innsbruck, il Brennero, Bolzano, Bologna e poi ancora giù Ancona, Pescara, Bari e via via fino a Lecce. Ma come si può dormire quando si è perso tutto per un colpo di testa? E perché doveva capitare proprio a lui? Lui che per stazza e carattere poteva essere paragonato ad un bue: grande, grosso e pacifico.
Giù al paese, mai una rissa, mai una litigata, niente di niente. E invece qui, aveva voluto fare l’eroe e gli era andata male. Quel che più gli rodeva era che la scazzottata, in fin dei conti, c’entrava poco. Vinto o vincitore si sarebbe tutto risolto lì. Ed invece no! Era finita nel peggiore dei modi e a lui non rimaneva che andare via, tornare da dov’era venuto.
Il treno correva, mentre il sole si abbassava rapido sulla destra. Non poté fare a meno di pensare al viaggio di andata, tre mesi prima.
Era partito da Lecce con una grossa valigia, un piccolo dizionario in tasca e tanta rabbia in corpo. Mesi e mesi di lavoro sul cantiere, a rompersi la schiena
La prova più difficile per un rosticciere salentino? arrostire i turcinieddhi
I turcinieddhi, noti anche come “mboti, “mbuticatieddhi, “mboiacate, “nturtigghiati, gnummarieddhi, “mbrigghiatieddhri, “mbruscatizzi, ecc… si presentano sotto forma di matassine di budelline d’agnello o capretto che rinserrano le frattaglie dello stesso animale precedentemente tagliate in strisce, assortite e avvolte in un lembo di peritoneo.
Sono conditi semplicemente con sale, pepe nero macinato e prezzemolo; più raramente vi si fanno rientrare anche delle scaglie di formaggio piccante o di caciocavallo molto stagionato. Sono sicuramente una delle specialità più diffuse nel Salento e, seppure in sensibile declino, sono comunque davvero
Un mestiere come un altro [le confessioni di un custode cimiteriale]
Vado ad aprire il cimitero ed inizio la mia normale giornata di custode, cioè di addetto alle pulizie. Scendo le scale della parte vecchia, di quella sotterranea, con il mio secchio e con la scopa e appena arrivo giù, in quell’ambiente poco illuminato e in quel silenzio tombale, percepisco un bisbiglìo lieve lieve di voci che dicono: “speriamo che non se n’accorga”. Non si accorga di che cosa? E chi? Tendo bene l’orecchio e mi guardo attorno, ma non vedo anima viva. Poi scopro che un loculo ha il coperchio riverso ed è vuoto. Ecco che cosa vuol dire “speriamo che non se n’accorga”: qualcuno ieri sera è andato a fare un giro e non si è ancora ritirato. “Bene”, dico ad alta voce, “ora mi piazzo qui e non mi muovo, voglio vedere a che ora si ritira, poi facciamo i conti”. Intanto fingo di fare le solite pulizie. Dopo un po’ vedo arrivare uno scheletro, viene giù dalle scale molto lentamente, ma lo lascio avvicinare. “Allora”, gli faccio: “e tu, a quest’ora, da dove vieni? Lo sai che fuori è già suonata la sveglia ed è stato fatto l’appello?”. Allora lo scheletro con la testa china in segno di rispetto mi risponde: “senta, signor custode, lei lo sa che io, per tradizione, tutti gli anni vado alla festa di Ferragosto ed anche questa volta ci sono andato”.
“Va bene”, gli faccio, “intanto sei uscito senza permesso, ma come mai sei tornato solo a quest’ora?”. “Sa com’è, signor custode, passavo vicino ad una bottega dalla cui porta usciva un odore di pezzetti al sugo molto invitante e non ho resistito alla tentazione di entrare. Poi ho mangiato e bevuto, forse
Rimango nel bar a sorseggiare il caffè e a cercare di finire il mio disegno. Mi accorgo per caso che Liana, la vecchia barista, mi osserva da dietro il bancone. Faccio finta di nulla e continuo a tracciare righe sul foglio, ma con la coda dell’occhio seguo i movimenti di quell’enigmatica signora. A un tratto questa si alza dalla piccola sedia dietro la cassa, viene verso di me e si mette a tamburellare con le dita sul tavolo. Prima fisso intimorito quelle dita grinzose e rigate da evidenti vene violacee, poi alzo pian piano lo sguardo e mi specchio in due grossi occhi azzurri, velati dalle cataratte. «Si trasutu intru lu castellu, no?[1]» – mi dice con tono severo, quasi voglia rimproverarmi qualcosa.
«Buongiorno signora, non riesco a capirla. Si può spiegare meglio per favore?» – le dico gentilmente, sforzandomi di accompagnare la richiesta con un sorriso.
«Sei entrato nel castello ieri?».
«Quale castello, mi scusi?» – la interrogo, non capendo assolutamente a cosa si stia riferendo.
«Il palazzo baronale. Che cosa hai visto? Hai preso qualcosa da lì dentro?» – mi chiede in un tono sempre più concitato e con uno sguardo nel quale riconosco per un attimo la stessa paura che avevo intravisto negli occhi di Chiara l’altra sera.
«No, non sono riuscito a entrare, ma non le nego che mi sarebbe piaciuto» – rispondo ignorando quello strano atteggiamento.
«Nu’ t’hai permettire[2]» – mi dice puntando l’indice verso di me.
Credo di aver ben capito, ma per essere sicuro le chiedo di essere più chiara.
«Non ti devi permettere di entrare in quel maledetto palazzo. Mi hai capito?».
Rimango ancora una volta freddato dalla passionalità e teatralità di questa gente, dall’abilità nel comunicare, nel trasmettere emozioni di qualsiasi tipo
Il Mezzogiorno d’Italia ha svolto un ruolo non secondario nel processo risorgimentale, con un contributo notevole di vite perdute, per lo più sottaciuto nei documenti storici e nelle cerimonie ufficiali rievocative. Il Sud aveva per tempo già dato prova della sua vocazione repubblicana nella breve e tragica esperienza istituzionale della Repubblica Napoletana nel 1799 e poi nei moti rivoluzionari del 1820-21 e del 1848.
Anche la Puglia è stata componente significativa di questo lungo processo storico-culturale, che ha coinvolto i figli della borghesia e i semplici cafoni. A cominciare da Antonietta De Pace, nativa di Gallipoli e fulgido esempio di donna coraggiosa e intelligente, che è andata oltre le convenzioni che discriminavano le donne. Al grande giurista e politico tricasino Giuseppe Pisanelli (1812–1879), autore del primo codice di procedura civile del Regno d’Italia ed esule per la sua azione di animatore contro la monarchia borbonica, poi nominato Ministro di Grazia e Giustizia da Garibaldi e confermato nel Governo nel nascente Regno d’Italia. A Sigismondo Castromediano di
«Ma sei sempre così enigmatico o è solo una mia impressione?».
«Sì, dottoressa, ne sono cosciente» – ironizzo. Chiara si è seduta al mio fianco. La sala d’attesa è vuota. Increspa le sottili sopracciglia e mi dice che non riesce proprio a capirmi. Io le dico che non c’è nulla da capire: sono ritornato per sempre a Noha. La imploro anche di non chiedermi il motivo di questa mia improvvisa decisione, poiché neanche io sono riuscito ancora a darmi una spiegazione esaustiva. Lei si alza, raggiunge la finestra, scosta le tendine e guardando fuori mormora: «Si saranno messi già a pettegolare, non aspettano altro. Sembra essere il loro passatempo preferito! Sono tutto il giorno con un occhio sulla strada a osservare, non si lasciano sfuggire nulla».
La sua voce è ricolma di un sentimento di frustrazione. Chiara ama il piccolo paesino in cui è cresciuta, ma allo stesso tempo odia la mentalità retrograda e ottusa della sua gente.
«Che se ne fanno dei fatti degli altri? Che cosa si prova a captare notizie qua e là e spargerle per il paese come sale sulla neve? Non li capisco».
La stanza sprofonda nel silenzio. Non so cosa dirle. Anch’io da giovane avevo provato quel disagio e in maniera forse un po’ troppo istintiva avevo deciso di porgli fine fuggendo via. Ma ora, se devo essere sincero, provo un certo fascino per questo strano modo di comportarsi, per questa smaniosa ricerca di storie da raccontare.
Chiara continua a fissare fuori. Poi mi chiama alla finestra e m’indica con il dito una bambina che gioca per strada, mi racconta che la sua mamma è morta dandola alla luce e che ora vive con sua nonna. La guardo perplessa non capendo il motivo di tanta attenzione e dopo un attimo di esitazione mi dice che c’è una storia che io devo sapere, una leggenda che si tramanda da ormai qualche decennio a Noha.
«E cosa c’entra tutto ciò con Maria?» – chiedo perplesso non riuscendo a
La casetta di Emilia sorgeva nel mezzo dei campi, collegata alla strada maestra da un sentiero costeggiato da cespugli spinosi. Una siepe fitta, intricata, che, curvando, continuava sino a un bivio rallegrato da un’edicola a forma di chiesetta: all’interno, protetta da una grata leggera come merletto, un’immagine della Vergine protendeva le mani verso i passanti, i quali, conquistati da tanta materna dolcezza, vi sostavano a pregare, a posare fiori e accendere lumini.
Anche la mamma di Emilia, nell’andare e tornare dal paese, vi si fermava, ogni volta sospingendo in avanti la sua figlioletta per meglio sottoporla allo sguardo della Madonna.
Nata sordomuta, Emilia non poteva udire le parole che la madre indirizzava
Sono le nove e fuori non s’intravede nemmeno il soffio del vento. Una pace rassicurante si è posata sul capo di questo piccolo paesino, come mano di un padre amorevole.
Tutto tace, persino il silenzio.
Dalle finestre delle case traspare nel buio il bagliore epilettico dei televisori; una luce giallognola si stempera sui ciottoli della strada come su una ruvida tela e grumi di colore si accumulano intorno all’ombra dei lampioni. Scosto la tendina e cerco di guardare in casa di Maria. La curiosità mi brucia ancora dentro, nonostante abbia cercato di spegnerla più volte con la fresca e dissetante acqua della ragione. Ma in fondo alla strada si staglia l’oscurità, nitida e allo stesso tempo impenetrabile, come il mistero che avvolge la bambina e la sua famiglia.
La vecchia rimbambita mi guarda ancora dall’alto della parete. Chiara mi ha costretto a rimanere a dormire nel suo studio con la scusa che questa è ancora casa mia e lei non ha alcun diritto di negarmela. Ho cercato più volte di rifiutare, ma quando mi ha proposto una sistemazione in casa sua, ho pensato che forse sarebbe stato meglio rimanere qui.
Passeggio su e giù per la stanza, faccio finta di leggere un libro che ho comprato a Pisa prima di partire e che ancora non ho avuto tempo di iniziare a leggere.
Non conosco né titolo, né autore, né trama. E in questo forse sono molto simile a Maria. In genere non sono io a scegliere il mio libro, ma è lui a scegliere me. E questo è alla base di un patto di alleanza stipulato tanti anni or sono in conclusione di una strana avventura, che ha solcato sin qui il terreno arido della mia vita.
Ricordo alla perfezione la prima volta che sono entrato in una biblioteca. Ne ero del tutto inconsapevole.
Fu zio Pasquale a portarci a Lecce, non ricordo il motivo di quella gita in città, ma ho ancora lucido nella mente ciò che accadde quella stupenda mattina. Arrivammo in una piazza, anzi nella Piazza con la “P” maiuscola, imboccammo una viuzza lastricata e ci affacciamo in pochissimo su un enorme spiazzo: di fronte a noi troneggiava un’imponente colonna e seguendola con lo sguardo mi accorsi che reggeva una statua. Doveva essere proprio lui, me ne accorsi dalle dita della mano destra: «Tre, come il voto che prenderai ora» – diceva
“Vi alzate la mattina per andare a scuola e già vi pesa aspettare alla fermata dell’autobus.
Son stata giovane, anche se ora sono la nonna e basta.
A quel tempo mi alzavo la mattina presto, al buio, e contavo i letti delle mie sorelle ancora pieni dei loro sbuffi. Il fratello che mi è toccato, l’unico, aveva una stanza tutta per sé grazie al solito spudorato vantaggio di essere maschio.
Io, invece, non solo avevo avuto lo svantaggio di essere nata femmina, ma anche quello di essere nata per prima e quindi di lavorare il doppio degli altri.
Nel Salento gli effetti del fascismo e della guerra arrivavano in modo più ovattato che altrove: niente pane, tutti zitti e in riga.
Alla fabbrica del tabacco dove ho lavorato per anni, le operaie erano più grandi di me, già sposate, con figli, alcune anche con nipoti. Zitte e in riga anche lì, ad infilare foglia dopo foglia il tabacco a essiccare. Se mio padre non fosse stato un sognatore, non avremmo sofferto così tanto la fame!
In certi periodi essere troppo buoni è ancora più dannoso che in altri.
Papà, Francesco Marraffa, aveva terra e cavalli, ma non controllava mai la buona fede di chi lavorava per lui. Due cavalli bianchi, magnifici, li attaccava alla carrozza per portare i signori fino a Lecce o dovunque volessero andare. Dopo qualche anno d’imprudente fiducia negli altri, gli erano rimasti solo
Fatti il vino in casa con le uve dei Nassisi di Melissano
L’importanza del vino nella tradizione salentina è dimostrata dai grandi festeggiamenti che si tengono lungo tutta la penisola in onore di San Martino da Tours , l’11 novembre, giorno in cui si assaggia il vino novello e si stappano le bottiglie della vendemmia appena conclusa.
Tra le varie cantine che si trovano disseminate sul territorio salentino, e che custodiscono frammenti di un passato e di una tradizione che non accenna a morire, c’è quella di chi il vino se lo fa da sé, per provare l’emozione di un prodotto genuino e tipico che l’11 novembre sarà assaggiato in quei festeggiamenti che tutti amiamo.
Il Salento, oltre al sole e al mare cristallino, ha antiche tradizioni conservate in un bicchiere di vino.
Un’ultima curiosità. La parola mieru che nel dialetto salentino sta ad indicare il vino, ha origine dalla parola latina “merum” che significa “vero, schietto” due parole con le quali si intendeva sottolineare le peculiarità del vino salentino rispetto ad altri vini fin dall’epoca romana.
Melissano del Salento leccese
Melissano del Salento leccese nel 1860 era caratterizzato da una normalità fatta di duro lavoro nei campi e di miseria, ma la distruzione dei vigneti francesi, causata dalla fillossera, indusse i commercianti di vini d’oltralpe a richiedere ingenti quantità di vino pugliese e quindi anche a Melissano si verificò una rivoluzione culturale di notevole portata. La vite prese il posto dei seminativi, dei pascoli, degli uliveti. Il paese divenne il punto di riferimento per i braccianti
Vita che scorre dietro occhi che scrutano il cielo. Quasi il tempo infinito di una notte piena di stelle. “Quanti passi da qui al quella più lontana?” “Contiamoli”. Squarci di ricordi fra i pensieri. Come tele di Fontana con quell’inquieto taglio di cui troppi hanno scritto per interpretarlo. Non sono un critico d’arte. Più banalmente mi limito ad osservare e a ringraziare chi ha osato andare oltre la tela, trapassare il quadro, uscire dai confini delimitati.
“Troppi pittori in giro, pochi artisti” mi dice l’anziano gallerista di fronte ad un nudo velato da un drappo azzurro intenso. Ed ha ragione in fondo. Pochi osano veramente. Pochi contano i passi da qui alla stella più lontana. E troppo spesso li si vorrebbe instradare per vie più note e tranquille. Anche a costo di pagare il prezzo di restare immobili, senza progredire. Perché senza di loro, senza chi osa uscire dalla tela, andare oltre il dipinto, non c’è progresso. Non quello dei cellulari e dei computer.
Un altro progresso, quello delle emozioni e delle intelligenze che guardano nascere fiori o volare rondini. Quello che ci aiuta a sentirci più liberi nonostante questo mondo così assurdamente avvolto su sé stesso. La grandezza del bimbo che vuol prendere tra le mani il fumo di una sigaretta è pari solo al volo di Icaro. Lui osa. Abbiamo visto squarciare molte tele da folli idealisti nel tempo. Guevara come Camillo Torres. Falcone come Peppino Impastato. Accidenti quante morti violente. Ma quante vite continuano ogni giorno dicendo sottovoce che non ci stanno. Cercano serenità nella loro rabbia, guardano, scrutano , divorano ogni giorno il giorno che arriva.
Vite anonime ma di una grandezza immensa. Tele squarciate nel quotidiano. Ogni giorno li contano uno ad uno quei passi. Un tango nella rotonda sul mare. Proprio quella cantata da Bongusto. Loro danzano leggeri come fogli di carta. In nero entrambi. Pare che il caldo di questo scirocco che fa appiccicare la camicia alla pelle non sia roba che li riguarda. “Lo scirocco fa impazzire. Troppi tentati suicidi da queste parti”. Ma Fontana è altra storia. Lui è uscito per urlare rabbia. Questi squarci da scirocco sono muti, lasciano annichiliti. E camminando verso casa si sente la musica di una banda in lontananza.
Feste patronali ovunque. E arriva anche l’eco di chi non può più farcela sopravvivere. Perché la vita è cara, perché c’è aria di rassegnazione in giro. Perché chi sta in alto parla di giustizia e se ne frega della benzina e del pane. Uno squarcio nella tela occorre pur farlo ora. Fontana è anche questo. Le colline del Monferrato sono unite al mare di Salento proprio da questo taglio. Paiono immutati da sempre, ma si muovono, arrivano a lambire coscienze. A carnevale si bruciano falò a Solero, a Pasqua si brucia l’inverno a Gallipoli. Chiediamo solo uno sforzo di fantasia a chi governa e a chi si oppone, perché ci sentiamo uguali e con pari dignità. Basta poco in fondo. “Quanti km/civiltà da qui all’Europa?…” mi scriveva un antico compagno dall’america latina. Già, quanti sono? Meno, molto meno dei passi che ci dividono dalla stella più lontana. Però questa la vediamo, e a volte riusciamo da amarla. Perché è li che ci accompagna.
Perché ci ricordiamo di quella fiaba dei nativi americani che credevano che ogni bimbo morto diventasse una stella. In questa notte che ha fermato il tempo le parole fluiscono senza senso apparente, senza un filo che le leghi. Quasi un pezzo jazz che parte da una base e si dipana verso l’improvvisazione. Coinvolge chi suona e chi ascolta. “Ho parenti in Piemonte, però non è una cosa strana, ogni famiglia ha parenti al nord, siamo emigranti da sempre” mi dice la signora seduta accanto a me. Non è strano, anzi, è la norma. Perché noi settentrionali eravamo persone per bene un tempo. Disposte ad accogliere anche senza prendere impronte digitali. In questo sud le tradizioni sono merce preziosa, come lo è il dialetto. Qui si vive il presente con un occhio rivolto al passato. La storia come patrimonio.
Il massacro di Otranto ancora vissuto con orrore. Le torri di avvistamento stanno ancora sul mare. A una distanza tale l’una dall’altra da essere raggiunte con un segnale luminoso per urlare l’allarme. Perché se arrivavano i turchi crudeli era massacro un’altra volta. Perché tutto questo territorio era “Terra D’Otranto”. Poi il fascismo stabilì che Lecce era provincia, come Brindisi e Taranto.
Oggi sbarcano altri “turchi invasori”, però non sono temuti qui al sud. Perché la miseria la conoscono bene. In Scozia c’è una legge che impone a chiunque l’obbligo di dare un bicchiere d’acqua a chi ha sete. C’è stato bisogno di una legge, accidenti. Qui no, è sufficiente uno sguardo. Quanto porta lontano un taglio su una tela. Esplodono pensieri e si inseguono. Una girandola luminescente. Fra poco arriverà l’alba e tornerà la vita in strada. Turisti si rosoleranno in spiaggia, “noi scendiamo a mare dopo le 11, i milanesi vanno a pranzo e c’è meno confusione”. Ma non è una forma di separatismo, è voglia di vivere il mare come noi “milanesi” non sappiamo fare. Perché loro conoscono i venti e le onde. Perché sanno che “ le nuvole sul mare non portano pioggia, quando sono dall’altra parte è possibile”. Noi aspettiamo e non parliamo con il mare. Siamo in balia degli eventi. Lo scirocco è finito, i danzatori di tango se ne sono andati da tempo. Chissà se si è girato a tramontana o grecale. Non lo capisco mica. Domani chiederò a chi sa.
Gregorio Olivieri (1790-1853): un chirurgo neretino al VII Congresso degli Scienziati Italiani
L’autore segnala all’attenzione del lettore la figura e l’opera poco note del chirurgo che, eseguendo innovativi interventi presso l’Ospedale dei Pellegrini e degli Incurabili di Napoli aveva conseguito una notevole rinomanza nell’ambiente medico napoletano, che gli valse la nomina a membro del VII Congresso degli Scienziati Italiani, organizzato, per l’anno 1845, nella capitale del Regno delle due Sicilie. Anche in seno alla prestigiosa Assemblea, il chirurgo neretino ebbe modo di far valere il proprio prestigio professionale prendendo parte attiva al dibattito su alcuni controversi argomenti di tecnica operatoria. Il contributo si arricchisce della trascrizione di rare testimonianze editoriali, quali una Necrologia dell’Olivieri, scritta da G. Manfredonia, e di due articoli apparsi sul «Lucifero» nel 1842 e nel 1845, riguardanti la descrizione di due operazioni chirurgiche.
L’articolo integrale è stato pubblicato in Spicilegia Sallentina n°6
Questo libro, edito alla fine del 1994, ma diffuso nel ’95, esce a cinquant’anni esatti dalla pubblicazione del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi (1945), a poco più di quarant’anni dalla Terra del rimorso di Ernesto De Martino (1961) e da L’ora di tutti di Maria Corti (1962).
Tali referenti, tra i più significativi e vicini al nostro tempo e al Salento, che mi sono tornati in mente leggendo il libro Tre Santi e una campagna di Giulietta Livraghi Verdesca Zain, servono a inscriverlo storiograficamente nel filone di antropologia narrata, ad un alto grado di intuizione interpretativa e di resa espressiva, elevabile per lo meno per l’intento o progetto, con ben marcate differenze critiche e scrittorie, a quello degli autori che ho sopra citati, per i quali, come per altri noti studiosi dell’universo etnografico Lévi Strass, Pritchard, Malinowski, Benedict, e, risalendo più in su, lo stesso Frazer del Golden Bough, vale il criterio di giudicare l’antropologo anche come autore, secondo la formula dichiarata nel titolo di un recente libro da Clifford Geertz (Works and Lives. The Anthropologist as autor 1988).
Il ruolo primo e primario dell’etnografo antropologo è in effetti, direi istituzionalmente, quello di narratore: narratore di un suo viaggio realmente vissuto e mentalmente rivissuto, dall’interno o dall’esterno, da vicino o da lontano, nel momento di tradurlo in scrittura. Questo passaggio ne connota e distingue l’opera secondo un parametro differenziabile che per la nostra autrice può definirsi come “l’antropologia della memoria narrante”. La memoria è la valvola centrale del recupero scritturale ch’ella compie di un passato, che, per il modo accuratissimo con cui è stato ricomposto e rivitalizzato nella pagina scritta, si ripresenta fresco e vivo grazie anche alla modernità di linguaggio e di stile della scrittrice, che non concede nulla alla retorica e alla Laudatio temporis acti; sì che quel passato, fatto riemergere in continuità col prima e col dopo (a ciò tende l’impiego modultato dell’imperfetto), rivela di essere stato sempre attivo e presente in lei, anche durante il lungo intermezzo di distanza temporale e spaziale.
Tale costante e vitale persistenza, unita alla personalità della scrittrice e alla fervida attività letteraria svolta a Roma, le ha evitato i sintomi di nostalgia che si avvertono solo quando il bene è perduto (e non è certo il caso della Livraghi) e ha impedito – cosa ancora più importante – che si verificasse in lei, parallelamente a quanto è avvenuto oggettivamente nella società contadina del Salento e del Sud in genere, la frantumazione e incenerazione di una cultura che invece si è mantenuta integra e compatta e non si è mai spenta nella sua vigile memoria, anzi si è alimentata al fuoco di altre esperienze critiche di respiro nazionale, forse anche europeo, e nella trasparenza di una razionalità laica, carezzevolmente venata di humour per l’inverosimile e il miracolistico.
Attraverso tale filtro il narratore ci presenta nella sua vergine organicità e però modernamente ravvivata la cultura magico-religiosa della campagna salentina. Copertino ne costituisce consapevolmente e dichiaratamente l’osservatorio che più si confà al soggetto narrante per rappresentarla nel suo dinamico svolgimento e nella piena e minuziosa articolazione di nessi reali e tramiti cerimoniali che la tenevano radicata a un territorio e a un tempo determinati. Senza ingombro di ideologia e sovrastrutture istituzionali quella cultura è potuta direttamente e naturalmente trasmettersi dal passato al presente e scorrere dal ricordo alla scrittura rimanendo intatta e immune da qualsiasi inquinamento esterno o interno, perché, una volta epurata dalle successive importate e sovrapposte incrostazioni, essa viene riconosciuta per nulla perdente rispetto alla odierna cultura della città, anzi matrice e generatrice di valori nettamente superiori.
Il risalto dato alla qualità espositiva della “memoria narrante” non deve ridurre o collocare in secondo piano quello che ne è l’oggetto, ossia l’antropologia, alla quale (intesa anche nella sua specificità demologica) il libro offre un rilevante apporto documentario e un cospicuo contributo critico per la ricchezza di dati, anche minimi e particolari, carenti nelle rilevazioni folkloristiche di vecchio stampo, per la complessità di rapporti e raccordi còlti (sempre attraverso il prezioso scrigno della memoria) dal movimento stesso della realtà quotidiana e arricchiti di speculari significati simbolici, che la Livraghi riesce a scoprire o riscoprire per via intuitiva e per proprio conto senza appoggiarsi – come invece si usa a riparo ed avallo delle proprie idee, quando queste mancano o son deboli – alle teorie dei massimi sistemi e alle auctoritates di rango o di moda, che spesso risultano superflue, talvolta svianti.
Il libero intreccio di referenti semio-antropologici, che accompagna il discorso narrativo, conferisce e, starei per dire, restituisce un addobbo formale e sostanziale alla trama tematica, apparentemente esile, del libro: un addobbo che potrebbe aggettivarsi barocco, nel senso positivo, ormai acquisito, del relativo termine e concetto storiografico come ricerca di significati e valori dispersi dalla società post-rinascimentale in coincidenza con la rivoluzionaria scoperta copernicana, la riforma luterana e la reazione antiriformistica.
I Tre Santi annunciati sulla copertina del libro, S. Paolo, S. Vito e S. Cristoforo, Santi di sicura storicità, di grande séguito culturale e consumo devozionale, proprio in quella temperie di scontro fra due civiltà e interpretazioni religiose del Cristianesimo ebbero riconosciuti quei poteri speciali di protezione, difesa e guarigione da determinati mali, poteri che essi, come Dio e Gesù avevano fatto con gli Angeli e i Santi, avrebbero trasmessi ai loro devoti, a coloro che se ne fossero mostrati predisposti per speciali doti e pratiche rabdomantiche, onde la comunità insignisce rispettivamente del titolo di carmàti ti Santu Pàulu (incantati da S. Paolo) gli incantatori di serpenti, delegati a catturare e immunizzare i rettili velenosi, di mànure ti Santu ‘Itu (mani di S. Vito) i curatori di animali e uomini indiavolati, idrofobi e lupi mannari, di fronne ti Santu Cristòfuru (fronde di S. Cristoforo) gli addetti alla costruzione dei pozzi e alla captazione dell’energia atmosferica per far piovere. Proclamandosi ‘maestri benedetti’, si gloriavano di essersi formati alla Scola ti li ttre pputiénti. La parola ‘scuola’, che nella tradizione salentina è attestata anche nelle locuzioni riferite alla scuola di Salamanca, dalla quale proveniva il mago Virgilio, fabbricatore di ponti e acquedotti, conferiva parallelamente un alone di solennità all’apprendimento di tali poteri santifici, omologabili a quelli magici attribuiti a Virgilio, in quanto gli uni e gli altri erano diretti contro il diavolo o in sfida con i diavoli, rappresentanti dell’inferno e operatori del male.
Ma in ciascuna di queste tre sfere santoriali contenute nei tre lunghi capitoli del libro il discorso sul tema principale si dilata, grazie alla geniale narratività della scrittrice, talvolta anche in eccesso, in modo imprevedibile e però avvincente, incanalandosi, per associazione di idee, conseguenzialità di fatti e concatenamento di tradizioni, in vari rivoli che inondano campi collaterali (parole e cose, interni ed esterni di case contadine, trulli, alimentazione, cultura materiale, dialetto, ecc.), ma che tornano, alla fine di ogni capitolo, a vantaggioso completamento della conoscenza e anamnesi del tema. Il lettore è portato ad assistere e partecipare a una filiazione di molteplici aspetti e problemi compiuta, come in una sacra rappresentazione medievale, con un procedimento a incastro, imperniato sulla loro connessione simbolica.
L’apprendistato de li mànure ti Santu ‘Itu ha come capostipite un vecchio ricco massaro, che, afflitto da una progressiva morìa delle sue bestie, passò una notte intera pregando a occhi aperti e pancia vuota il Signore perché facesse passare l’epidemia. Non ottenuta la grazia da Gesù e, indispettito dai Santi che alle sue buone maniere di pregare facevano lo gnorri, li rimbrottò così severamente che essi non potettero rimanere impassibili e fecero intervenire S. Vito in favore del massaro disperato e irritato. Tanto a dimostrazione del rapporto familiare che il contadino stabilisce con i Santi, trattandoli spesso a tu per tu per ottenerne un immediato soccorso ai suoi bisogni esistenziali.
Ma, se questo comportamento è noto e attestato in altre località non solo del Salento, singolare è la versione dialettale della leggenda per talune espressioni che la Livraghi opportunamente mette a fuoco per una serie di connessioni simboliche interessanti. L’espressione è quella relativa alla notte trascorsa dal massaro para para priànnu a ffarcuni piérti e mmatthra ‘acante, dove gli occhi aperti (indicati con la metafora dei finestrini in alto delle pareti casalinghe, quali varconi per l’aria) e la madia vacante riflettono con riferimenti concreti di vita domestica lo stato di veglia e di digiuno in cui versa il massaro persistendo l’epidemia del suo gregge. E la madia per la sua funzione ordinaria di deposito del grano e di lievitazione del pane sfocia naturalmente nella significazione metaforica della gravidanza quale processo di fruttificazione, come la Livraghi fa rilevare nella frase usata per prenotare presso il forno pubblico lo spazio per infornare il pane all’indomani:àsciu ti ‘nfurnata pi llu crài – cu lla razzia ti ddiu àggiu ‘mprinata la matthra (‘agio [posto] di infornata per domani – con la grazia di Dio ho ingravidato la madia’).
Da qui la sequenza di ulteriori corrispondenze simboliche della madia: 1) con il grembo materno, cui andrebbero assimilate – se si vuole allargare il cerchio comparativo – la sporta del giovane ‘Ntoni nel finale dei Malavoglia, la borsa che Scotellaro porta sotto il braccio uscendo dal paese nell’Uva puttanella, e ancora lo spurtone, il cestone dell’asino, che ha la forma del ventre materno, in cui il poeta dialettale lucano Albino Pierro in ‘A terra d’u ricorde vorrebbe per magia rientrare; 2) con la mammella, in analogia della comune funzione nutritiva del grano e del latte; 3) con la luna, che presiede alle fasi di gestazione e di panificazione e le configura nell’atto di coricarsi per far alzare (cioè nascere) il sole.
Da qui il posto di centralità che occupa la madia nelle fasi rituali della famiglia contadina: su di essa, come fosse il grembo materno, si viene alla luce; ad essa si ritorna morendo; il vuoto della madia è segno di vedovanza, oltre che di miseria. Non é dunque attribuibile ad una bizzarria devozionale, ma mira a segnare nel leggendario mezzo di trasporto un referente esistenziale di sopravvivenza comunitaria l’invenzione della Madonna della Madia, venuta dal mare appunto su una madia e approdata una mattina di tanti secoli fa (equivalente al “c’era una volta” delle fiabe) nel porto di Monopoli per assumere il protettorato della città.
Le invocazioni femminili per impetrare da S. Cristoforo o S. Giuseppe da Copertino la pioggia per la campagna sono fitte di identificazioni fra il processo generativo umano e quello della terra, come in queste suppliche che si udivano durante le processioni primaverili:
Ursùlu ti rrifrìscu stà ddimànnu, ca mprinàta mi ttrou ti ranu e uérgiu… (Boccale di refrigerio sto chiedendo, perché mi trovo incinta di grano e di orzo…).
Rrimòsina ti fae spetta lu sciàticu, ma ena no ttegnu cu nnùtricu l’ùngulu! (Elemosina di fave aspetta il setaccio, ma non ho vena per nutrire il baccello!).
Rrinnitùra ti menna mi stà ccerca lu fiénu ca sta ffiùra, ncénzu pi Ddiu e ssarvézza pi lli éstie, ma ci no mbeu, lattàta no mmi sale!… (Mungitura di mammella mi sta cercando il fieno in fioritura, incenso per Dio e salvezza per le bestie, ma se non bevo, montata lattea non mi ritrovo!…).
E ancora lungo le vie dei pellegrinaggi estivi:
L’ùrtima lacrima si la sucàu la pàmpana e cchiùi no ttegnu sucu cu jùtu lu raggiuéppu ca stà ssecca! (L’ultima lacrima se l’è succhiata la foglia di vite, e più non tengo succo per aiutare il grappolo che sta seccando!).
Sputàzza, sulu nnu picca ti sputàzza cercu cu ssarvu l’aulìa ca stà rrappa! (Saliva, soltanto un poco di saliva cerco per salvare l’oliva che si sta raggrinzendo!).
Sangu no mm’à rimàstu cu ngrossu lu milòne!… (Sangue non mi è rimasto per ingrossare il melone!…).
In particolare S. Giuseppe, “nato e cresciuto in questa terra”, lo si invoca come figlio (Fìgghiu ti li ntrame mia ‘Figlio delle mie viscere’), con le stesse espressioni, ripetute e incalzanti nelle Passioni, dalla lauda iacoponica Donna de Paradiso (vv. 40-47: “O figlio, figlio, figlio, / figlio amoroso giglio, / … Figlio, perché t’ascondi / dal petto o’ sì lattato?”) ai canti della Settimana Santa di tradizione orale. E gli si ricorda che mele à sucàtu a lli minnìcculi mia (miele hai succhiato dai miei capezzoli), e mmo mancu mi uàrdi e ppi sti menne ti mana sbacantùte no ccerchi razzia?! (e ora neppure mi guardi e per queste mammelle materne svuotate non cerchi grazia?!).
Le processioni sono osservate dalla Livraghi, attraverso la sua memoria di vita intensamente partecipata, in tutti i loro aspetti cerimoniali. Dalla organizzazione dei cortei penitenziali per le rogazioni pluviali si deduce il ruolo ausiliario ma determinante del Patrono di Copertino: l’umile e sventurato frate francescano, invocato dai contadini come il più vicino ai loro bisogni e quindi il solo capace di dar fine davvero alla persistente siccità. Per tale lo riconosceva anche la Chiesa locale, che invece non vedeva di buon occhio la commistione del sacro con le imprese truffaldine dei cosiddetti ‘maestri benedetti’, capaci se mai soltanto di stimolare e far cadere una pioggia già meteorologicamente annunciata. E ne prendeva le distanze anche nelle processioni rogatorie, sì che la statua del Santo paesano, prelevata dal santuario, per comune consenso di popolo e clero procedeva in pole position, lasciando fuori pista gli scolari dei “tre potenti” Santi forestieri.
Con incisività altrettanto puntuale e attenta al particolare delle forme e dei significati sono illustrati i comportamenti e abiti professionali differenziati secondo il sesso, il ceto e le categorie.
Il mantello maschile e il grembiule femminile offrono una particolare varietà di significati, a seconda delle funzioni e delle circostanze, nella vita pubblica e privata. La Livraghi ne sottolinea il linguaggio simbolico espresso dalla loro fattura, dalle loro pieghe, dai loro movimenti, dalla posizione e gestualità delle mani di chi indossa quegli indumenti, che erano d’obbligo sociale per i contadini. Il grembiule, per la sua posizione di copertura delle parti muliebri intime, chiamato perciò mmuccia ‘irgògne (‘coprivergogne’) e pignu t’onestàte (‘pegno d’onestà’), era considerato “una specie di cintura di castità”, per cui ci si teneva a portarlo, perché “circolare per le strade senza grembiule” era come “mostrarsi quasi nuda” e vulnerabile a qualsiasi avance troppo ardita. E faceva da tramite ad un linguaggio erotico gestuale: spostandolo a destra o a manca sotto gli sguardi amorosi dei giovani la ragazza nubile dava assenso o diniego al fidanzamento, mentre per la donna maritata far svolazzare con civetteria il grembiule era segno impudico secondo il severo codice morale vigente nei paesi contadini e specialmente nell’ambito dei vicinati. Il linguaggio dei gesti, dei segni e dei simboli aveva pressoché le stesse regole per tutte le comunità contadine del Mezzogiorno d’Italia.
La cultura magico-religiosa salentina del secolo scorso (Ottocento*) non differisce granché da quella praticata in aree e regioni attigue, come in Basilicata: Il che giustifica l’ampio resoconto che ne ho dato in questa rivista, anche ai fini di un puntuale confronto, che porterebbe a constatare molte concordanze e poche varianti delle singole tradizioni e del complessivo sistema di vita.
E comunque da quanto si è detto spero che emergano la brillantezza e validità di questo libro, a riprova della definizione, che ne ho formulata all’inizio, di “antropologia della memoria narrante”.
* Nota aggiunta di Nino Pensabene
Da “BOLLETTINO STORICO DELLA BASILICATA”, a cura della Deputazione di Storia Patria della Lucania, n. 10, 1994 (Edizioni Osanna, Verona).
C’era ‘na fiata ‘nu frate ca scia ‘lla limòsina, e šciu ba ttuzza a ‘nna casa addhune ne aprìu na vagnone nu’ ttantu giustata te capu. Ca tisse a llu frate: «Spetta, ca vau pìju ‘na cosa.» E šciu ba nne pìja lu tiestu cu ‘nnu picca te maccarruni ca èranu rimasti te la sera prima. Ddhu frate, ca tenìa fame mo’, se zziccàu lu tiestu cu lla cucchiara e sse menàu sse li mangia. Ma topu lu primu nghiuttu, tuccàu lli lassa li maccarruni, ca gh’èranu tutti nnacituti. Addhai ca la vagnone ne tisse: «None, ca te li poti mangiare, sai? Tantu nui l’imu mbarcare ca l’hanu pišciati li surgi.»
«Ah sì?» tisse lu frate «E nna!» E nne rumpìu lu tiestu an capu. La vagnone mo’ zziccàu cchiangire. E ffacìa: «Povera mmie! povera mmie! Ca m’hai ruttu lu tiestu a ddhu cacava sìrama te notte. Povera mmie! povera mmie! Ca m’hai ruttu lu tiestu a ddhu cacava sìrama te notte.» Sentendu te cusine, a llu frate addhu nu’ nne restàu ca cu zzacca ddha vagnone e ccu tte la binchia bona bona te mazzate.
TRADUZIONE IN ITALIANO
I maccheroni pisciati
C’era una volta un frate che girava per la questua e andò a bussare alla porta di una casa dove gli aprì una bambina che non ci stava tanto con la testa. Che disse al frate: «Aspetta, che vado a prenderti una cosa.» E tornò con un tegame di coccio con dentro un po’ di maccheroni avanzati della sera prima. Il frate, che era affamato, agguantò cucchiaio e tegame e si buttò a mangiare i maccheroni. Ma, dopo il primo boccone, dovette lasciar perdere per via che erano tutti inaciditi. Qui che la bambina disse al frate: «Guarda che te li puoi mangiare i maccheroni, tanto noi li buttiamo perché i sorci ci hanno pisciato sopra.»
«Ah, è così?» esclamò il frate «E ttié!» E le ruppe il tegame di coccio in testa. La bambina mo’ si mise a piangere. E faceva: «Povera me! povera me! Che m’hai rotto il tegame dove mio padre cacava di notte. Povera me! povera me! Che mi hai rotto il tegame dove mio padre cacava di notte.»
Ascoltando la tal cosa, al frate non restò che afferrare la bambina e riempirla buona buona di mazzate.
FINE
P.S. Un saluto e un grazie a Marcello Gaballo che in questi anni ha dato tanto alla cultura salentina attraverso il blog. Che dire: mi dispiace che il blog finisca, ma mia madre buonanina mi diceva sempre che lu Signore te chiute ‘na porta e tte apre n’addha. L’altra porta sarà la Fondazione di Terra d’Otranto? Me lo auguro di tutto cuore.
Un saluto e un grazie anche a tutti gli spigolatori e lettori che in questi anni mi hanno seguito sul blog. Da questa mia esperienza è nato anche un libro, Piccoli Seminaristi crescono. E non è poco.
Spesso ci è capitato di constatare come i salentini, spinti dalla necessità, abbiano con intelligenza imparato a sfruttare tutte le risorse che il territorio offriva loro, anche le più neglette, ricavando il più delle volte anche piatti molto gradevoli tanto che, anche quando sono venute meno le originarie motivazioni, molti di questi piatti si sono continuati a fare, e qualcuno di questi oggi è assurto perfino a prelibato piatto dei giorni di festa.Amplissimo il panorama dei prodotti spontanei sapientemente valorizzati dalla grande cultura gastronomica coniugata allo spiccato
Il Crocifisso della cattedrale di Nardò (Cristu gnoru)
Il monumentale e severo crocifisso ligneo da secoli venerato nella cattedrale di Nardò, già abbazia benedettina di Sancta Maria de Neritono, non gode di adeguata fama e, nonostante il suo valore artistico, non è molto conosciuto al di fuori della popolazione neritina per la quale, almeno dalla metà del Trecento, è oggetto di grande devozione.
La mancanza di documenti ha consentito agli storiografi settecenteschi di ritenerlo d’epoca bizantina ed il vescovo Antonio Sanfelice (1708-1736), nella sua visita astorale del 1719, scrive, per la prima volta, che l’ effigie ex Oriente in Italiam delata à Grecis monachis ordinis s. Basilii quo tempore Constantini Copronymi imperatoris, l’ acerrimo nemico dei cristiani e delle loro sacre immagini. I Basiliani erano sbarcati apud Neritinos portando con sé il Crocifisso ligneo ut in ipsem et medio ecclesiae capite publice ipsorum venerationi exposito.
La notizia, ripresa da diversi AA., compreso il Mazzarella, è priva di fondamento, così come lo è pure la versione del miracolo del 1255, riportata dall’abate Pietro Polidori nel suo De Neritinae Ecclesiae: le milizie saracene giunte in città l’avrebbero espugnata e nell’allontanare il nostro Crocifisso per bruciarlo in piazza esso avrebbe urtato col braccio sinistro contro lo stipite della porta. Per rimuovere l’ostacolo un infedele avrebbe reciso un dito da cui fuoriuscì un discreto fiotto di sangue. L’evento atterrì i Saraceni che, datisi alla fuga, rinunciarono al progetto di arderlo e quindi non poterono neppure allontanarlo dall’edificio.
Un motivo in più per dubitare dei leggendari avvenimenti del 1255 viene dalle recenti considerazioni fornite da Porzia Lovecchio, nel lavoro di tesi in paleografia greca compiuto presso la facoltà di Lettere dell’Università di Bari nell’ anno accademico 2001/02: “Il ms. Vat. Barb. gr.297: analisi testuale, codicologica e paleografica”, relatore il prof. Francesco Magistrale, titolare della cattedra di paleografia latina e greca. La giovane studiosa offre delle interessanti indicazioni circa il Codice Scorialense, manoscritto risalente alla seconda metà del XIII secolo e già ampiamente esaminato dallo Jacob, opera di “Ioannis de Neritono notarii et fidelis nostri scribi”.
In tale documento l’estensore neritino, testimone oculare dell’accaduto, riporta un’accurata descrizione dei fatti relativi al sacco di Nardò sopraccitato. Mentre fa menzione dell’assalto alla città da parte della lega antisveva (al giorno 12 febbraio 1255), a dispetto della tradizione, non riporta alcun assedio per mano dei saraceni.
L’omissione del miracolo del Crocifisso, che tanta eco avrebbe dovuto suscitare in tutta l’opinione pubblica del tempo, sarebbe un errore imperdonabile per un cronista meticoloso come Giovanni di Nardò. La studiosa conclude: «persino il miracolo del Crocifisso Nero si traduce in una leggenda dal sapore puramente simbolico, visto che lo scriba, un religioso (!), non registra questo atto sacrilego».
Tutto da rileggere, per farla breve, nell’ottica di quelle lunghe lotte intestine tra guelfi e ghibellini che tennero occupati politici ed ecclesiastici per lungo tempo.
Nonostante la battuta d’arresto della Tamblè sulle infondate asserzioni settecentesche non si è ancora riusciti a colmare la lacuna sulla provenienza del Crocifisso e ad esso è stata dedicata un’attenzione di carattere più devozionale che documentario. Sono stati invece di notevole aiuto i restauri che, oltre ad orientare sulla datazione del manufatto, invogliano a nuove ricerche ed indicano nuove piste.
Certo sembra strano come tanta straordinaria arte sia passata inosservata, nonostante la sua comprovata antichità, le sue dimensioni, la venerazione, l’originale ed inconsueta iconografia, che non si riscontra in altri Crocifissi lignei del Salento, della Puglia e forse di tutto il Mezzogiorno d’Italia.
Notizie estrapolate da: AA. VV., Il Cristo nero della Cattedrale di Nardò, a cura di Marcello Gaballo e Santino Bove Balestra, Quaderni degli Archivi Diocesani di Nardò e Gallipoli, Nuova Serie, Supplementi II, Congedo Ed., Galatina 2005
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Paolo
I miei preferiti erano i CAŠCITIÉDDHI anche perchè le api spesso e volentieri depositavano alla loro base dell’ottimo miele!