Laura Petracca. Quando a dipingere è la passione

di Paolo Vincenti

Blu, rosso, giallo, verde: colori intensi, come forte e intensa è certamente la sua personalità. Parliamo di un’artista molto brava e affermata, una paesaggista ma anche astrattista, che sa infondere alle proprie opere quel tocco di originalità che le contraddistingue, che dà ad esse quella cifra stilistica personale che le rende di certa paternità, anzi maternità, visto che parliamo di una donna. La nostra artista, che ci riceve nella sua bella casa nella campagna solatia di Specchia, in contrada Petri, è Laura Petracca, una signora raffinata, colta, dal portamento che diresti aristocratico, se non fosse per quel suo ribollire quasi come di un vulcano in piena, per quel suo sommergerti con la vitalità che le appartiene, di quella che oggi si direbbe “una donna in carriera”, presa da mille impegni e responsabilità. Solo che l’espressione “donna in carriera” si adatta ad una donna manager, capitana d’impresa o alta dirigente, niente di quello che è la Petracca.

Per lei, la carriera è la sua arte, che trasmette alle sue allieve nell’insegnamento che deve amare molto, che infonde nelle sue opere, vere e proprie figlie che camminano sulle proprie gambe per il mondo, e arte ci deve anche essere nel dirigere la sua casa e la sua famiglia, un marito e una figlia, e nel volontariato che pratica con la partecipazione a diverse associazioni e iniziative di carattere sociale nella sua Specchia.

La Petracca trasuda passione ed energia da tutti i pori. Si vede che quello dell’artista era per lei un destino segnato, che però la Nostra ha forgiato con le proprie mani, con gli strumenti del mestiere e la valentia di un’ “artigiana” della propria arte.

Laura Petracca, diplomata in Decorazione  all’ Accademia Di Belle Arti ” Decorazione ” di Lecce, insegna “Disegno e Storia del Costume” nell’indirizzo “Abbigliamento e Moda” presso l’I.I.S.S. Polo Professionale “Don Tonino Bello” di Tricase (Le).  Ha partecipato a numerosissime  mostre collettive e personali, durante le quali ha ricevuto premi e riconoscimenti , gli ultimi dei quali, in ordine di tempo, sono, solo nel 2011: Premio Biennale “Trofeo Artista  dell’anno 2011”Cesenatico ( Fc),  Premio “Eccellenza Stilistica” Palermo ,  Premio Parga (Iv Edizione) Castello Veneziano Parga ( Grecia) 1-6 Agosto . Hanno scritto di lei: Dino Marasa’, Andrea Michele Vincenti, Nadine Giove, Antonio Penna, Valerio Utri, Luigi De Giovanni, Giuseppe Afrune,Rocco Vergari, Maurizio Antonazzo, Vincenzo Abati, Mariarosaria Belgiovine, Oronzo Russo, Tiziana Cazzato, Domenico Distilo, Anna Iozzino, Simone Fappanni, Vittoria Bellomo, Sandro Serradifalco, Dino Marasa’, Nadine Giove, Andrea Michele Vincenti, Pina Petracca, Elena Cicchetti, Pompea Vergaro, Anna Francesca Biondolillo, Liliana Nobile, Salvatore Russo.

La brillantezza cromatica delle sue realizzazioni esprime a pieno quell’Exultat con il quale sembra che la Petracca, per carattere e forse anche per una spiritualità profonda, festeggi ogni giorno il miracolo della vita. Se non si provano emozioni, non si possono trasmettere emozioni. Non si può rendere l’incanto del nostro mare, di una pianura infinita bagnata dal sole, del rosso acceso di una rosa o del giallo oro del nostro grano, se non se ne vivono intensamente sulla propria pelle le vibrazioni. Non si può dipingere con originalità l’arma civica della propria città, stranota a tutti, e questa diventare lo stemma della locale Pro Loco, se non si ama a fondo il proprio luogo d’origine, quella Specchia che oggi si accredita all’attenzione nazionale come uno dei borghi più belli d’Italia, mèta di un turismo continuo e internazionale.

Non si può dipingere un “campo con papaveri e fiori gialli” con tanta vivezza, se non si è corso a perdifiato su quei campi, fino allo sfinimento, fino a percepire la sensazione di diventare tutt’uno con la natura intorno, medesimo fiato, unico respiro. Non si può dipingere una tanto radiosa “primavera in riva al mare” o un maestoso “albero solitario” affogato nel verde, se non lo si è abbracciato con tutta la propria forza; non si può rendere, su acrilico, la magia di un’ “estate salentina”, se non la si è vissuta a fondo, in anni di libertà assoluta e selvaggia, e rievocare con spontaneità creativa certi paesaggi, senza stravolgerne la forma, se non si sentono questi paesaggi parte integrante del proprio vissuto, in altre parole: casa. Barocca forse, la Nostra, in certi suoi risultati, ma non ridondante, certo il cromatismo dei suoi dipinti lascia il segno.

La sua capacità tecnica è vivificata dalla sua passione di donna.  Scrive Liliana Nobile: “ La natura, nella personale interpretazione di Laura Petracca, è un inno alla fantasia che nel suo immaginario pittorico esplode con un’esultanza di colori intonati ad un armonico vivere.” E Nadine Giove: “La poesia pervade l’intera opera di Laura Petracca, che conduce lo spettatore verso mondi d’intima bellezza. La purezza dei colori, la leggiadria delle forme, l’equilibrio compositivo delle pennellate sulla tela: tutto suscita un incantato stupore in chi osserva le sue opere. La natura è resa romanticamente e con sensibilità squisitamente femminile . Tuttavia il segno trattico è ben disegnato, dai contorni precisi a punta di pennello. Tutto ciò rivela un istintivo talento da parte della pittrice, che senza timore rivela ciò che più le sta a cuore. L’arte con lei diviene così ritratto idilliaco di un universo dall’atmosfera magica e sognante. Laura Petracca è artista dallo stile personale, che ci svela il suo Io interiore, intingendo il pennello nella sua anima per creare splendide opere: al fruitore non rimane che coglierne gli aspetti più profondi e farsi ammaliare da esse.”

Laura realizza pitture su legno, pitture su stoffa (come abiti decorati, tende, coordinati  e fiocchi per neonati o per carrozzina, coperte, ecc.), fregi, specchi decorati e finanche poster, a testimonianza della sua grande versatilità e, direi, anche di una certa umiltà che non la fa tirare indietro di fronte alle richieste che potrebbero sembrare più peregrine.

La sua ultima realizzazione degna di nota è una bellissima “Madonna del Passo”, acrilico di cm 90 x 130, per la omonima chiesa specchiese dalla Petracca devotamente frequentata. Laura Petracca ha fatto propria la lezione dei grandi artisti da lei ammirati e studiati ai quali spesso si ispira o ne fa anche delle riproduzioni e il risultato, come ben conferma Oronzo Russo, “sono opere di grande effetto comunicativo, che ti appassionano e pervadono, senza lasciar traccia di scontato perchè Laura Petracca ad ogni tocco si rinnova come per incanto.” Ma Laura sa anche osare, come in un “campo divisionista”, o come per le pitture su vetro che sono l’ultimo approdo della sua arte senza frontiere. Scrive appunto  Vittoria Bellomo:  “La cifra portante di Laura Petracca è senz’altro quella del movimento delle forme, del dinamismo, in piena sintonia con la sua forte simpatia verso il futurismo, a cui fra l’altro rende spesso omaggio con le sue belle opere dedicando tele ricche di segni, sogni e colori di splendida fattura (pensiamo a “Omaggio a Depero”, n.d.a.).

Un’altra sua caratteristica è quella di reinventare la natura come nell’opera “ Forma astratta con foglie”.” Insomma, se tutti questi scrittori sono concordi nell’affermare la vitalità espressiva di un’artista a tutto tondo comela Petracca, ci sarà ben più di un motivo per cui valga la pena di andare a visitare o ad acquistare le sue opere, che sono infatti abbastanza quotate.La Petracca ha anche un sito personale continuamente aggiornato: www.laurapetracca.com.

Cogliere la poesia dell’arte anche in particolari minimi e apparentemente insignificanti: ciò distingue l’artista, con la sua sensibilità, dall’uomo comune. Infatti Picasso afferma: “Ci sono pittori che dipingono il sole come una macchia gialla, ma ce ne sono altri che, grazie alla loro arte e intelligenza, trasformano una macchia gialla nel sole”. In questo trova giustificazione quella nota di astrazione, di reinterpretazione soggettiva, infine di originalità, che si può cogliere nelle opere della Petracca. Il perfetto ovale del suo viso che, insieme al candido incarnato, la fa assomigliare a certe bellezze del Seicento, se non fosse per quella nota di biondo che colora i suoi capelli, il suo eloquio fluente e veloce, i suoi modi eleganti, la simpatia data dalla spiccata cadenza salentina della sua parlata (Specchia, non più centro-Salento ma quasi Capo di Leuca), e in ultimo l’ammirare i suoi quadri: tutto ciò rende la visita pomeridiana  a casa sua un’esperienza da ricordare e da annoverare fra gli incontri belli che in questo ambiente della cultura salentina si fanno ancora, grazie a Dio, a dispetto della frenesia e della desolazione di cui a volte sono fatte le nostre giornate di lavoro e di ricerca di un senso. E di questo, voglio ringraziare Laura Petracca.

Infine, non per smentire tutto quello che  ho scritto finora o per mancare di rispetto agli illustri critici d’arte che ho citato, ma c’è sempre, al fondo di ogni scelta, una ragione soggettiva, che è quella del proprio gusto personale, quando si ammira e ci si innamora di un’artista o di un’opera d’arte. Come scrive infatti quel grande provocatore di Oscar Wilde: “Esistono due modi per non apprezzare l’arte. Il primo consiste nel non apprezzarla. Il secondo nell’apprezzarla con razionalità”. Così, spinto da quel demonietto dello scrittore inglese testé citato, io mi prendo la licenza di affermare che apprezzo l’arte di Laura Petracca, al di là di ogni dotta e motivatissima esegesi critica, soprattutto perché mi piace.

Il brigante Chiavone

Il brigante Chiavone, di Michele Ferri e Domenico Celestino


di Rocco Biondi
Il libro, pubblicato nel 1984, si inserisce nel filone delle microstorie che privilegiano le storie locali in un limitato arco di tempo. Vengono presentati gli avvenimenti della guerriglia filoborbonica alla frontiera pontificia negli anni 1860-1862. La figura del brigante Chiavone è tenuta quasi sullo sfondo della corale reazione all’invasione ed annessione piemontese del Regno delle Due Sicilie. Clero e contadini, la stragrande maggioranza del popolo meridionale quindi, si oppongono ai galantuomini borghesi che per salvaguardare i loro privilegi si sono schierati con i piemontesi, che con l’alibi dell’attuazione del sogno liberale dell’unità d’Italia sono venuti al Sud per impossessarsi degli appetibili beni del Regno delle Due Sicilie. I briganti sono il braccio armato di questa resistenza.
Attorno ai briganti si gioca una partita che vede un non indifferente movimento di capitali, gestiti dalla Centrale borbonica che si era formata nello Stato Pontificio, dove aveva trovato ospitalità l’ultimo re di Napoli Francesco 2°, e che aveva come quasi impossibile obiettivo il ritorno del Borbone a Napoli. Insieme ai briganti lottarono tanti legittimisti stranieri corsi in aiuto di Francesco 2° e della regina Maria Sofia. Ma mentre i briganti combattevano per un loro miglioramento sociale, non sempre chiare sono le finalità dei legittimisti.
Teatro della guerriglia delle bande armate di Chiavone sono la parte meridionale dello Stato Pontificio e i confinanti Terra di Lavoro e Abruzzo Ultra. I briganti agivano nel territorio dell’ex Regno delle Due Sicilie, con epicentro a Sora, ma per sfuggire ai piemontesi si rifugiavano nel Territorio Pontificio, dove l’esercito francese dimostrava grande acquiescenza. Le abbazie di Casamari e Trisulti ed il convento di Scifelli offrivano ospitalità ai briganti.
Luigi Alonzi, detto Chiavone, era nato a Sora il 19 giugno 1825 da una famiglia di contadini. Per i suoi servigi a favore del re Francesco 2° era stato nominato guardaboschi del distretto di Sora e della Valle Roveto. Dopo l’invasione piemontese si diede alla macchia e riuscì a formare una nutrita banda di briganti, che lottò contro gli invasori. Nel periodo di maggiore auge la banda Chiavone, nominato comandante in capo da Francesco 2°, era suddivisa in otto compagnie e comprendeva 20 ufficiali, un chirurgo, 59 sottoufficiali e caporali, 7 trombettieri e 343 soldati, per un totale di 430 uomini.
Il libro è quasi un diario degli avvenimenti succedutesi tra il giugno 1860 ed il giugno 1862. Tanti fatti e tanti uomini si avvicendano in un biennio tragico per il meridione d’Italia. Oltre e più che capi e comandanti lasciano la loro traccia persone comuni e normali. Si sussegue, come in un martirologio, una

EUGENIO IMBRIANI – Le parole degli altri

Abstract

Gli incontri etnografici lasciano spesso il residuo di un disagio nei protagonisti, specialmente nei cosiddetti informatori, le persone, i testimoni contattati dagli antropologi; questi talvolta registrano delle strategie di difesa nei comportamenti dei loro interlocutori, talaltra non ne intravedono e usano la loro autorità per riferire e spiegare le loro parole, esercitando una sorta di diritto/dovere in realtà privo di mandato e di consenso. L’oggetto del saggio è un’indagine su una tale contrapposizione, realizzata attraverso la lettura e l’analisi di documenti etnografici nei quali essa emerge in modo molto evidente, e comprende altresì una riflessione sul lavoro che gli antropologi conducono sul campo, sui fraintendimenti forse inevitabili che ne derivano, sul ruolo che recitano in contesti che consentono ai loro testimoni di raccontare in prima persona le proprie storie.

 

ENGLISH

 

Ethnographic meetings can often leave residue of discomfort in protagonists, especially in so-called informants, people, witnesses contacted by anthropologists; they sometimes register defense strategies in interlocutors behaviors, other times do not glimpse and use their authority to report and explain their words , applying a kind of right / duty actually without commission and consensus.  purpose of essay is an investigation about such a contrast, made by reading and analysis of ethnographic documents in which it emerges quite clearly, and also includes a reflection about work conducted on field by anthropologists, about inevitable misunderstandings that may arise from it, about character they perform in environments allowing their witnesses to tell their stories in first person.

L’edificio storico archeologico Faggiano a Lecce

di Giovanna Falco

L’intrecciarsi e compenetrarsi degli elementi decorativi delle varie epoche che si affastellano sulla maggior parte dei prospetti degli edifici di Lecce vecchia, è dovuto all’estensione urbanistica della città, che per secoli e secoli ha mantenuto pressappoco la medesima superficie, racchiusa dalla cinta muraria. Alcuni tratti delle mura urbane hanno testimoniato la sovrapposizione di blocchi lapidei messapici, romani, medievali e, infine, cinquecenteschi. È datata a quest’ultima epoca la trasformazione dell’ipotetica forma ovoidale medievale (ancora leggibile esaminando la pianta della città), nell’attuale “trapezio”[1].

L’ampliamento, però, interessò solo alcune zone perimetrali della città. Da qui la stratificazione della maggior parte degli edifici nel centro storico di Lecce, frutto di continui adeguamenti dettati dalle esigenze dei proprietari che nel corso del tempo li possedettero. Là dove oggi sorge un’abitazione, forse in passato si ergeva una cappella, un magazzino, o quant’altro.

Nel centro storico, ovunque si scavi, sono riportati alla luce reperti delle varie epoche: basti pensare ai ritrovamenti nell’area delle piazzette Vittorio Emanuele II, Lucio Epulione, Sigismondo Castromediano, nei sotterranei del Castello e di palazzo Vernazza. Sono tutte aree di proprietà di enti pubblici, studiate scientificamente e, nel caso di piazzetta Sigismondo Castromediano, riqualificate.

Ma quando è un privato a “imbattersi” nella storia, cosa succede? Nella maggior parte dei casi non si sa.

Se i proprietari sono Luciano Faggiano e famiglia, nasce un “Edificio storico archeologico” di notevole suggestione: una sorta di grotta di Alì Babà, dove gli appassionati di archeologia, storia e architettura si trovano inaspettatamente di fronte ad un tesoro ammonticchiato e possono percorrere una passeggiata nel tempo, lunga duemila anni.

Lo stabile è articolato su tre livelli: il piano terra è suddiviso in sei ambienti, il seminterrato è distribuito in tre vani, al primo piano sono visitabili quattro locali. Presenta un anonimo prospetto in via Ascanio Grandi al numero civico 56, la seconda traversa a destra, entrando nel centro storico di Lecce da porta San Biagio. Ricade all’interno del confine di una delle aree interessate all’ampliamento urbanistico cinquecentesco di cui si è accennato sopra, nel versante orientale della città.

Probabilmente sorgeva a ridosso delle mura medievali, ancora individuabili in pianta e corrispondenti a un tratto di via Marino Brancaccio (prima traversa a destra dopo porta San Biagio) e vico dei Panevino.

L’Edificio Faggiano conserva tra le sue meraviglie una torretta belvedere, del tipo a balconcino, risalente al XIV secolo. È una delle torri d’avvistamento delle mura medievali? Il vano sottostante la torretta

Da Sancta Maria de Nerito a cattedrale. Un millennio di storia nella chiesa madre di Nardò (XIII secolo)

di Maria Vittoria Mastrangelo

Tra il 1230 e il 1249 due violente scosse telluriche lesionarono gravemente tutta la navata a nord. I monaci benedettini che intrapresero i primi interventi di restauro fecero ricostruire la navata  a nord, secondo lo stile gotico, con archi a sesto acuto, visibilmente assai diversi da quelli a tutto sesto della navata di destra.

E’ cosi spiegata l’anomalia evidente, dettata dall’esigenza (come affermava Cosimo De Giorgi) e non voluta intenzionalmente (come invece sosteneva Giacomo Boni).

Dal punto di vista tecnico, gli archi a sesto acuto hanno diversi vantaggi rispetto a quelli a tutto sesto. Il materiale utilizzato fu il carparo, materiale più duro e che fa miglior presa con le malte rispetto alla pietra leccese, utilizzata in precedenza.

probable look of the church after the partial rebuilding: the bell tower is detached from the church

 

I capitelli e le cornici delle semicolonne addossate ai pilastri vennero tutti realizzati in pietra leccese, pietra friabile e facilmente lavorabile.

Nel 1249 l’abate Goffredo fece restaurare la venerata immagine della Madonna della Sanità, affrescata su una lastra di carparo. Lo attestava un’epigrafe dell’epoca, oggi scomparsa, che riportava anche il nome del pittore (Bisardo) e del restauratore (Baylardo).

Interior of the church: perspective section of the central nave. The asymmetry between the arcades is clear after the partial rebuilding

Alla fine del XIII secolo, i benedettini ripresero la costruzione del campanile in stile tipicamente normanno e staccato dal corpo della chiesa. Di forma quadrangolare, su due ordini sovrapposti, con bifore sui lati, fu anch’esso costruito in carparo, utilizzando le soluzioni decorative tipiche dell’età

Racconti salentini/ Don Tuninu

di Alfredo Romano

Nc’era nu prete ca se chiamava don Tuninu. Tenìa na bbeddha cantina china te vinu, te oju e de sardizze. Ogni giurnu ca passava però, vitìa ca tuttu ‘stu beneteddìu chianu chianu se ssuttijàva. A dire la verità, don Tuninu nu suspettu su cci lu rrubava lu tenìa: lu Tore, lu sacristanu sou. Tante fiate n’ia fattu la fila, ma nu’ ss’era mai fitatu cu llu scopre e nnu’ ssapìa comu ia ffare cu llu spompa. E ccomu ia ffare e ccomu nu’ nn’ia ffare, alla fine pensàu ca l’unicu modu era ffazza sse cunfessa, cusì lu Tore tuccava pe’ fforza cu ddica li peccati soi.

Sicché alla prima occasione, don Tuninu pruvàu nne dice a llu Tore:

«Tore, ma comu ete ca nu’ tte cunfessi mai? Pussibile ca nu’ ttieni mancu nu peccatu? Ca nu stozzu te peccatu lu tenimu tutti.»

«Iu nu’ ttegnu propriu bisognu,» tisse lu Tore, «cce mm’aggiu ccunfessare se stau sempre intra la chiesa, servu messa, sonu le campane, ticu rusari… Peccati nu’ nde tegnu propriu!»

«Nu’ è ppussibile!» nsistiu don Tuninu, «Sciàmu tte cunfessi: cce tte custa? Sciamu, ca poi te tau na beddha ‘ssoluzione.»

‘Nsomma don Tuninu, quantu fice quantu nu’ ffice, riuscìu ccunvince lu Tore cu sse cunfessa. E appena lu Tore se ‘nginucchiàu nnanzi ‘llu cunfessiunile, don Tuninu zziccàu:

«Beh, Tore, timme cce ppeccati hai fattu.»

«Nuddhu, don Tuninu, te l’aggiu titta, nu’ ttegnu nuddhu peccatu: quante fiate te l’àggiu ddire?»

«Ma pussibile, Tore? E dimme ‘llora: ci ete ca se rruba lu vinu, ci ete ca se rruba l’oju, ci ete ca se rruba le sardizze te intra la cantina mia?»

«Don Tuninu: nu’ sse sente!»

«Comu nu’ sse sente, Tore: ca iu sta tte sentu! Tornu cu ddicu: ci ete ca se rruba lu vinu, ci ete ca se rruba l’oju, ci ete ca se rruba le sardizze te intra la cantina mia?»

«Don Tuninu, sta tte ticu: nu’ sse sente!»

«Nu’ è pussibile, Tore, cu nnu’ sse sente. Sai cce ffacimu ‘llora? Passa tie ‘llu postu miu e bitimu ci se sente!»

E ccusì lu Tore e don Tuninu se cangiàra te postu.

«Cunta tie moi e bitimu ci se sente,» tisse don Tuninu a llu sacristanu. E llu sacristanu zziccàu:

«Don Tuninu, timme na cosa: ma… ci ete ca se futte mujèrama?»

«Nna, Tore, tieni ragione sai? Tici bonu ca nu’ sse sente!»

E llu fattu nu’ ffoe cchiùi, mòrsera iddhi e ccampamme nui.


TRADUZIONE

Don Tonino

C’era un prete che si chiamava don Tonino. Teneva una bella cantina piena di vino, di olio e di salsicce. Col passare del tempo però, s’avvide che tutto questo bendiddio andava man mano assottigliandosi. A dire il vero un sospetto don Tonino ce l’aveva su chi lo rubava: Tore, il sacrestano suo. Tante volte gli aveva fatto la fila, ma non era mai riuscito a trovarlo con le 

La cripta del Crocifisso ad Ugento

di Valeria Sasso

Ugento, Città d’Arte. Un’arte, dalle molteplici forme, che evoca secoli di storia; un’arte che suggestiona e conforta l’osservatore contemporaneo perché frutto gentile e nobile del genio umano.

Emblema di quest’arte eloquente è la cripta detta del Crocefisso, un luogo di culto ipogeo, scavato nella roccia, che racchiude mirabili affreschi, echi di cultura bizantina. Detto ipogeo è situato all’ingresso di Ugento per chi vi giunge da Casarano, in un’area, di notevole interesse archeologico, che registra la presenza umana almeno dal IV secolo a.C. È opportuno ricordare, brevemente, la presenza di un tratto del circuito murario della città messapica, conservatosi in località denominata Porchiano (a sud-ovest dell’ipogeo); il rinvenimento di una necropoli messapica in località denominata S. Antonio (a sud-est dell’ipogeo); l’esistenza di un villaggio rupestre, forse di origine tardo-romana, a nord dell’ipogeo; il recente rinvenimento di alcune tombe medioevali presso il lato occidentale dell’invaso.

Il contesto si arricchisce ulteriormente se si considera l’ubicazione della cripta di Ugento sulla cosiddetta Via Sallentina. Il percorso di quest’ultima si evince dalla Tabula Peutingeriana, una rappresentazione cartografica del mondo antico redatta, probabilmente, nel IV secolo d.C. ma pervenutaci in una copia medioevale. La Tabula offre un quadro completo del sistema stradale della penisola salentina: vi sono indicate la via Appia, la via Traiana, il suo prolungamento “calabro” (da Brindisi ad Otranto) e la via “salentina” (da Otranto a Taranto attraversando Castra Minervae, Veretum, Uzintum, Baletium, Neretum e Manduris).

Acquisita al patrimonio del Comune di Ugento, la cripta è stata sottoposta ad accurati interventi di restauro conservativo delle strutture murarie e degli affreschi ed è stata restituita al pubblico, in uno splendore rinnovato, il 13 gennaio 2006.

I predetti interventi, oltre a migliorare la leggibilità delle decorazioni già note, hanno permesso l’individuazione e la riapertura dell’ingresso originario (posto sulla parete occidentale dell’invaso), nonché la scoperta di inediti affreschi.

Le nuove acquisizioni hanno offerto maggiori possibilità di comprensione e di interpretazione: il programma iconografico, come in altre chiese rupestri dell’Italia meridionale, appare di tipo votivo, legato ad una committenza privata e ad una funzione funeraria; sembrerebbe, dunque, superata l’ipotesi di una funzione eremitica.

L’aspetto odierno della cripta è il risultato di modifiche operate in età moderna, probabilmente a partire dal sec. XVI, consistenti nell’elevazione, sopra l’ipogeo, di una semplice costruzione, funzionale all’attuale ingresso (posto sul lato settentrionale); nella collocazione di due colonne all’interno, sostenenti un soffitto prevalentemente piano; nell’aggiunta di un altare sulla parete orientale, sovrastato da un affresco seicentesco raffigurante la Crocifissione (da cui il nome della cripta).

La semplicità dell’architettura esterna cela il fascino, quasi inaspettato,

Gli occhi del lupo

di Vincenzo Ampolo

In un intervallo tra un inverno ed una primavera, tra  un rapporto analitico ormai consumato ed un’altro che si annunciava dolorosamente necessario,  mi lasciai  trasportare da un carnevale di emozioni che mi condusse in una città di mare, tra mucchi di case abbracciate le une alle altre, stradine strette e madonne dipinte sugli archi di piazze piccole come cortili.

In una di queste piazze, porta d’accesso al corpo profondo della citta’, si affacciava una finestra, che per molto tempo apparve misteriosamente chiusa come a custodire gelosamente un segreto indicibile.

Poi un giorno, come per il ritorno improvviso da un viaggio, la finestra si aprì, e apparve il  viso di una donna-bambina che mi guardò a lungo con occhi tanto teneri e struggenti da impedirmi di volgere lo sguardo, anche quando lei sparì all’interno, misteriosamente com’era apparsa.

Il turbamento che quello sguardo mi procurò, sembrò crescere nei giorni e nelle settimane che seguirono.

Arrivavo dal mare, entravo timidamente nella piccola piazza silenziosa e, senza perdere di vista la finestra chiusa, iniziavo a muovermi su e giù, e poi intorno, e appena un attimo di sosta a riprendere fiato e ancora con movimenti leggeri a muovermi lungo i bordi, come in un bacio che scalpita per aprire altre porte, per ritrovare altri misteri, per esplorare passaggi oscuri che portano verso  mondi indicibili.

Lei, sentivo, era lì a guardarmi, protetta dal buio della sua stanza.

La precedenza del suo sguardo seducente feriva i miei sensi, rubava potere al mio ardire.

Avrei potuto trovare una scusa per suonare alla sua porta, per vederla io,

Il quadro, il fonte, la pietra. Nuovo contributo sul santuario di San Pietro in Bevagna

Quantcast

di Nicola Morrone

 

E’ nota l’importanza che per la comunità manduriana riveste il santuario di San Pietro in Bevagna, collocato in riva al mare, a 10 km. dalla città, e fulcro della vita religiosa della omonima frazione balneare, popolata soprattutto d’estate. In questa chiesa, non diversamente da quelle che possono vantare un’antichità così alta, ogni oggetto si riveste di un significato particolare, storico, artistico, o devozionale. E ogni opera, anche la piu’ umile, è testimonianza di un passato, spesso remotissimo, e al tempo stesso nostra  contemporanea, per il fatto di essere ancora presente in questo luogo carico di un indiscutibile fascino, e  pronta a suscitare  piu’ di un interrogativo.  sono tanti, nel santuario, gli oggetti che hanno un particolare significato per i fedeli  o i  visitatori, che vi si accostano con  devozione o semplice  curiosità.

Vi sono oggetti che possono vantare una secolare presenza  nel santuario di San Pietro in Bevagna, ed altri che invece vi  sono presenti solo da qualche decennio, o addirittura da pochi anni.

In questo luogo di culto così significativo per il popolo  manduriano, in cui tra l’altro sono rappresentati  i tre principali riferimenti religiosi della nostra comunità (San Pietro, San Gregorio , l’Immacolata) vi sono chiaramente anche i segni di devozioni più recenti, come quella per San Pio da  Pietrelcina (testimoniata da un quadro gia’ collocato nella cappella) e quella tutta particolare per l’Assunta, cui l’ ex parroco Don Enzo di Lauro consacrò in modo particolare il santuario. Solo per citare un altro esempio, nel santuario fecero la loro temporanea comparsa  anni orsono  anche le reliquie di Santa Faustina Kowalska, anch’ella già  rappresentata nella chiesa con la sua effigie.

Vi sono però tre oggetti cui la devozione popolare , da sempre, annette un’importanza maggiore rispetto a tutti gli altri. Essi sono, come è noto, il quadro raffigurante San Pietro, il fonte battesimale, la pietra d’altare, collocati tutti nel cuore del complesso luogo di culto, cioè il cosiddetto “sacello”, ovvero la piccola cripta alle spalle dell’altare maggiore.

Il primo degli oggetti “mitici” , probabilmente il più significativo per la devozione popolare, è il quadro di San Pietro Apostolo, racchiuso in una bella cornice lignea che possiede tra l’altro una complessa decorazione nella parte posteriore, visibile ai fedeli solo durante la processione per la festa del santo, che si svolge il 29 Giugno di ogni anno nella frazione balneare. A questo quadro, cui in passato erano stati applicati tre bellissimi ex voto in argento risalenti alla fine dell’800 ( poi opportunamente ricollocati nel sacello in una vetrina  perchè possano essere ammirati dai visitatori e dai devoti) sono legate come è noto numerose leggende, fedelmente riportate dagli storici locali nelle loro narrazioni e su cui , in questa sede, non vogliamo soffermarci.

Ci limitiamo a riportare quella (del tutto fantasiosa)che vuole che il quadro di San Pietro, nella sua versione originale, sia stato dipinto addirittura da San Luca Evangelista. Nella realtà, una rassegna delle vicende che hanno riguardato il quadro del santo, custodito a Bevagna, è possibile solo per le epoche recenti, visto che per i periodi più antichi  mancano del tutto i documenti. Sappiamo pero’ con  certezza che la storia di questo oggetto e’ stata segnata da continui trafugamenti e relative sostituzioni.

A partire dalla primitiva icona bizantina di San Pietro, non più ricostruibile , l’immagine ha attraversato i secoli, fino ad arrivare al 1914, quando è documentato il suo trafugamento ad opera di ignoti. Il rettore del santuario, allora, commissionò una nuova immagine del santo, che fosse  il più possibile simile a quella trafugata. Fu sollecitata allo scopo  la pittrice manduriana Olimpia Camerario, che realizzò nel corso dello stesso anno il nuovo quadro del santo. Anche questo, però, fu rubato, e sostituito per l’ennesima volta con un altro simulacro.

Nel 1972, su richiesta della Diocesi, dipinse il nuovo quadro il pittore Oscar Testa di Malta, mentre la versione attuale del quadro è una riproduzione fedele dell’immagine realizzata a suo tempo dalla Camerario.

Il secondo degli oggetti “mitici” che la tradizione popolare riconduce al passaggio di San Pietro Apostolo sul lido di Bevagna è la “vasca”, cioè il  fonte battesimale. Davvero un oggetto misterioso, questo  fonte battesimale! E’ ricavato da un blocco di basalto, è alto cm. 55, ha il diametro superiore di cm. 71 e quello inferiore di cm.31.

Da sempre collocato nel sacello “petrino” è, allo stato attuale, l’unica reliquia plastica di una chiesetta rurale di origine altomedievale che certamente, come tutte le cappelle campestri coeve, non doveva possedere alcun altro elemento decorativo scolpito, nemmeno rozzamente realizzato. Si tratta di un’opera che sarà sempre difficile ricondurre ad un preciso ambito culturale o datare con  certezza, per la totale mancanza di elementi figurativi che la caratterizza e per l’assenza, altresì,  di termini di confronto con manufatti similari datati con precisione .

Ai fini di una più compiuta contestualizzazione storica del fonte battesimale e di una conseguente  ipotesi di datazione , forse l’unico elemento che ci può aiutare, del resto  trascurato da tutti gli studiosi, è quello metrologico. Il diametro di base della vasca misura infatti cm.31, cioè un piede bizantino esatto. E il piede bizantino di cm. 31 (usato fino in eta’ normanna) è tra l’altro, come rilevato anni fa dallo studioso R. Jurlaro, la misura utilizzata per la costruzione della cappella medievale e del sacello.

Il fonte battesimale di pietra lavica fa dunque riferimento, in termini metrologici, alla cultura bizantina, e potrebbe quindi essere datato all’epoca della piu’ significativa  presenza dei Bizantini nell’Italia meridionale , cioe’ ai secc. IX-XI.

Siamo abbastanza convinti del fatto che la “vasca” battesimale, cui sono particolarmente devoti i pellegrini, faccia riferimento alla presenza dei monaci italo-greci (i cosiddetti “basiliani”) nel santuario, mentre escludiamo che il manufatto sia stato fatto arrivare in loco dai monaci benedettini d’Aversa che alla fine del sec. XI presero possesso della cappella  e del vastissimo feudo ad essa pertinente (la famosa”grancia” di San Pietro in Bevagna)in seguito alla donazione dei principi normanni.

Oltre al problema della datazione e della committenza, il fonte battesimale pone quello della sua provenienza. A questo proposito, ci pare naturalmente da scartare l’ipotesi che la vasca sia stata realizzata procurandosi la materia prima dai dintorni del santuario. Il manufatto, composto da pietra lavica (basalto) è stato  verosimilmente importato in tempi remoti.

Uno studio scientifico, pubblicato nel  2000  e condotto dal prof. Paul Arthur dell’Universita’ di Lecce (cattedra di Archeologia medievale) ha evidenziato che le rotte commerciali antiche e medievali relative ai manufatti in pietra lavica, coinvolgenti anche il Salento, avevano come punto di partenza le isole dell’Egeo (soprattutto la località denominata Melos) e, dall’altra parte del Mediterraneo, la Sicilia, e in particolare l’area etnea.

Sia i manufatti provenienti dall’Egeo che quelli provenienti dalla Sicilia (Etna) sono probabilmente transitati, con riferimento al Salento, attraverso porti quali Otranto, Brindisi, Gallipoli e Taranto.

Un elenco dei rinvenimenti di manufatti in pietra lavica (essenzialmente macine), su siti della Puglia Meridionale con presenze di età medievale indagati archeologicamente in modo sistematico, mostrano una prevalenza dei manufatti provenienti dall’Etna rispetto a quelli di origine egea. A questo punto, ferma restando la necessità di un’analisi petrografica della roccia vulcanica che costituisce il fonte battesimale di San Pietro in Bevagna (che potrebbe essere effettuata con la collaborazione e il permesso dell’autorità diocesana), riteniamo che ci siano fondate ragioni per credere, in linea teorica,  che, esclusa naturalmente del tutto un’ improbabile origine locale, la pietra lavica di cui è costituito il fonte battesimale di San Pietro in Bevagna possa provenire dall’Etna o dall’Egeo. E gli artefici di questa importante committenza, destinata a rimanere per secoli nel santuario (attualmente protetta da un artistico cancello in ferro battuto del secolo XVIII con le iniziali S.P.) saranno stati con ogni probabilità i monaci italo-greci al tempo in cui gestivano la cappella, cioè, ripetiamo, nei secc. IX-XI.

Essi, ben più dei benedettini d’Aversa, potevano inserirsi, per la loro stessa provenienza, nella rete di relazioni e di commercio che coinvolse nel medioevo l’area mediterranea, e  che vide transitare sulle navi oggetti, uomini, idee.

I monaci italo-greci vollero con ogni probabilità realizzare una duratura “memoria” del mitico battesimo di San Pietro Apostolo, avvenuto, secondo la leggenda, nelle acque del fiume Chidro intorno al 44 D.C, e ordinarono che fosse realizzato questo suggestivo manufatto, la “vasca” di San Pietro, che ancora oggi i pellegrini contemplano  con devozione e stupore.

Il terzo degli oggetti “mitici” collocati nel sacello petrino è la cosiddetta “pietra” di San Pietro, che secondo la leggenda servì al santo per celebrare la prima messa  sul suolo italiano, appunto a Bevagna intorno al 44 d.C.

Anch’essa è un oggetto su cui nessuno si è mai interrogato troppo, avallando automaticamente  la predetta ipotesi del tutto leggendaria. La “pietra”, in realtà un blocco di calcare delle dimensioni di cm. 93x40x 40, era in origine collocata all’interno dell’altare che si trovava in fondo al sacello, la cui esistenza è documentata da vecchie fotografie. L’altare fu demolito negli anni ’80, nell’ambito di un intervento di restauro invero discutibile, in seguito al quale si decise di stonacare anche le pareti del sacello, che assunse quindi l’attuale configurazione. La “pietra”squadrata era stata quindi collocata nell’altare posticcio a mo’ di  presunto ricordo  del passaggio di san Pietro e della sua opera di evangelizzazione sui nostri lidi, ed è di fatto indatabile.

Ai fini di una ipotesi di datazione, anche in questo caso, come per il fonte battesimale, forse ci puo’ essere di aiuto solo l’elemento metrologico. La pietra è infatti alta 93 cm., cioè tre piedi bizantini esatti. Solo casualità? A noi pare invece che anche per questo oggetto su cui nei secoli si è concentrato l’interesse  popolare si possa ricondurre tutto all’iniziativa dei monaci italo-greci che a partire dal sec. IX occuparono l’area del santuario. Anche in questo caso, con ogni probabilità, i bizantini avranno voluto produrre una “memoria” del  mitico passaggio di San Pietro su questi lidi, e avranno ordinato la fabbricazione di questo oggetto (che non ci pare certo, come del resto il fonte battesimale, di età apostolica!). Un oggetto realizzato stavolta ricorrendo a materiale di provenienza assolutamente locale, come del resto di provenienza  locale sono i blocchi irregolari di tufo e di arenaria con cui e’ stato realizzato nel medioevo l’intero sacello “petrino”.

La tecnica costruttiva del sacello rimanda chiaramente ad una età remota, e ciò sia detto a scanso di equivoci, dal momento  che questa piccola cappella, su cui esiste una vasta bibliografia, è stata considerata in passato, anche da eminenti studiosi, addirittura alla stregua della cisterna della Torre di San Pietro, la quale invece risale al tardo ‘500, ed e’ stata realizzata con una tecnica del tutto differente.

L’estate del padre

di Wilma Vedruccio

     Comincia presto al mattino, la giornata del padre in estate.

Apre le vecchie imposte per guardare il tempo, poi esce mentre la luce del sole comincia a farsi vedere da oltre l’orizzonte e l’umidità dell’aria annuncia giorno caldo o la brezza mattutina fresca, giorno ventilato.

La pioggia è un evento raro, auspicato, desiderato, che soggiunge a metà giornata, quasi sempre burrascoso, ma con acqua benefica e benedetta come acqua santa, per i propri lavori e per l’agricoltura dell’intera regione.

Ore lente passate nell’orto, scandite da gesti delle mani sicuri, solleciti, sapienti, per estirpare, legare, zappettare, interrare, innaffiare, raccogliere.

Presto il sole abbaglia gli occhi e il sudore annebbia la vista, bisogna rientrare.

Non a mani vuote, c’è sempre qualche pomodoro arrossato, fiori di zucca con ancora api ronzanti dentro il cuore, un ciuffo di prezzemolo, un fiore.

Un bicchiere d’acqua e zucchero per riprendere fiato mentre ascolta le notizie alla radio, perplessità per i fatti nel mondo, compatimento per i drammi dell’umanità a qualunque latitudine la si trovi, espresso con commenti discreti ma sempre appropriati, mentre fa con le carte un solitario.

Ferma il gioco per una domanda muta, vuol capire, cerca una ragione per i fatti ascoltati, non si dà pace… ma se sei tu a domandare ti risponde, bonario o ironico, ti rassicura, tutto si spiega, c’è una ragione per ogni cosa, il tempo farà venire a galla la verità o il succo che sia.

In cucina non è ancora pronto? Vado a fare un sonnellino prima del pranzo, sono stanco… e dai piedi cade una zolla o due di terra dell’orto.

Ritorna a tavola per il pranzo, riposato, misurato, parco, quasi inappetente poi sbuccia un frutto con cura e lo mangia lentamente e sembra pregare, lui che dice di non essere credente.

Un bicchiere di vino rosso, bevuto sorso a sorso, lo disseta.

Ascolta gli altri, si preoccupa, risponde, argomenta. Il futuro dei giovani lo

L’indesiderato

Banca di credito cooperativa di Piove di Sacco, Oreste Da Molin, Ritratto di uomo con occhiali e barba

 

di A. P.

 

Quando si sposò la figlia di don Achille Stamerra era da poco passato san Martino. Come d’uso tra i signori, tutto il paese era stato invitato, ma come al solito finirono con l’andarci solamente gli uomini.

In quei giorni del novembre 1953 il matrimonio di donna Giovanna Stamerra non era però l’unico motivo di chiacchiera. Molto più interesse lo aveva suscitato l’arrivo di un nuovo “indesiderato”, inviato al confino lì ad Aradeo. Era dai tempi del fascismo che il paese non era sede di confino.

Per i bene informati si trattava di un assassino, che aveva ucciso persino dei bambini. In pochi ci avevano creduto: gli indesiderati, generalmente, erano politici o al massimo giornalisti. Gli assassini non venivano mandati al confino. Comunque, ora si era in democrazia e i politici e i giornalisti erano liberi di dire quello che volevano. Il nuovo arrivato, quindi, non poteva rientrare nemmeno in queste categorie.

Nel dubbio, tutti preferirono tenersi alla larga da quel tipo bassetto, con una faccia volpina e rossa sulla quale poggiavano due occhiali dalla montatura dorata. L’indesiderato alloggiava in vico San Giovanni e passava la gran parte della giornata chiuso in casa. Usciva quasi esclusivamente al mattino ed al tramonto, per apporre le due firme in caserma. Attraversava di fretta le strade, guardando sfuggevolmente, con gli occhi stretti dietro alle lenti tonde, i passanti in sui si imbatteva. Aveva proprio l’aspetto di una volpe anche nelle movenze rapide, quasi a scatti. Chi lo incontrava non gli rivolgeva la parola ed evitava persino di incrociarne lo sguardo ferino.

La sera del matrimonio di donna Giovanna, Paolo era tornato a casa in anticipo. Si era lavato accuratamente e aveva indossato i pantaloni e la camicia buona per andare in piazza, dove lo aspettavano gli altri. Mentre usciva di casa Tina lo aveva richiamato e, fingendo di togliergli una macchia dal collo della camicia, gli aveva ripetuto per la ventesima volta: “Non bere e cerca di non fare tardi, che domani è lavorativo”. Lui l’aveva stretta forte ridendo e le aveva appiccicato un bacio sonoro sulla fronte. Lei era rimasta per un po’ sulla soglia della porta a guardarlo andare via, a passo svelto e fischiando.

La sera era calata veloce e fredda. Tina, dopo aver messo i due bambini a dormire nel piccolo letto accanto al suo, aveva deciso di ingannare il tempo con le carte. I rintocchi delle due di notte la sorpresero. Si era addormentata. Paolo non era ancora tornato. Si riprese dal torpore ed uscì per strada. La luce della luna piena, risaltando la desolazione della viuzza, le creò un groppo alla gola. Rientrò in casa, si buttò uno scialle addosso, lanciò una rapida occhiata ai bambini che dormivano tranquilli ed uscì.

Il paese era deserto, ma la luce della luna la rincuorò. Percorse a passo svelto le strade che portavano in piazza San Nicola e, quando vi giunse, lo spazio aperto ed illuminato da quella luce bianca la colse di sorpresa. Anche la piazza era vuota. Proseguì la sua camminata, sentendo nel silenzio di quella notte il proprio cuore battere sempre più velocemente ed il respiro farsi frequente e pesante.  Arrivò di fronte al cancello del palazzo degli Stamerra, ma le luci erano spente e non si sentivano voci. La festa doveva essere finita da un bel po’.

Per tornare a casa percorse altre vie. Magari anche Paolo era ancora per strada e stava tornando a casa. Passò vicino alla chiesa della Madonna dell’Annunziata e si fece il segno della croce. Solo in quel momento gli venne in mente di pregare. Proseguendo a passo spedito incrociò vico San Giovanni e lì si fermò. Un brivido freddo le scese lungo la schiena. L’immagine di Paolo ucciso da quell’uomo le venne agli occhi. Svoltò il vicolo e si avvicinò lentamente alla porta dell’indesiderato. Tese l’orecchio e

Mai più erbicidi nell’oliveto: l’erba aumenta la quantità e qualità dell’olio

 di Antonio Bruno

I giganti del Mediterraneo, gli olivi secolari del Salento, veri e propri monumenti vegetali che danno frutto ma che ne danno di più se c’è la più disponibilità di acqua. L’acqua che da la vita è importante perché anche in volumi ridotti migliora la produttività e la resa in olio. In questa nota come aumentare l’acqua a disposizione degli olivi della nostra terra.

L’olivo nel Salento leccese

In provincia di Lecce le piante di olivo sono oltre 9 milioni e 500 mila vi sono oliveti tradizionali su terreni rocciosi e poverissimi, senza irrigazione. Comunque nella provincia ci sono anche oliveti irrigati capaci di produrre anche 300 q.li di olive per ettaro.

Gli impianti recenti interessano all’incirca 9.000 ettari, dei quali 3.000 di varietà nuove rispetto alle presenze secolari della Cellina di Nardò e dell’Ogliarola. La coltura è specializzata e viene praticata generalmente in asciutto, anche perchè meno del 20% circa della superficie olivetata è irrigata.

Quale acqua agli olivi del Salento leccese?

Nel Salento leccese il problema della desertificazione, processo irreversibile che comporta una diminuzione o distruzione del potenziale biologico dei suoli, impone una gestione delle riserve idriche sempre più oculata, unitamente alla necessità di rendere ecologicamente compatibili i modelli di sviluppo sociale ed economico.

Tutelare la risorsa idrica della falda

La Provincia di Lecce è ricca d’acqua, grazie alla presenza dell’acquifero calcareo che favorisce l’accumulo nel sottosuolo di ingenti risorse. Ma nello stesso tempo è di dominio pubblico che la ricchezza di acque sotterranee è compromessa da un uso dissennato della risorsa stessa. In provincia di Lecce, sino a qualche anno fa, erano 70mila i pozzi autorizzati e non sappiamo quanti altri ce ne siano senza autorizzazione. Lo sfruttamento della falda del Salento leccese è caratterizzato da prelievi eccessivi e non pianificati nonché dall’inquinamento puntiforme e diffuso di diversa origine (urbana, agricola, industriale). Se si dovessero trivellare nuovi pozzi per irrigare gli oliveti che oggi sono coltivati in asciutto si rischierebbe di compromettere ulteriormente la situazione con la conseguenza di un eccessivo prelievo di acque sotterranee e ulteriore abbassamento del livello della falda, il che a sua volta può produrre delle modificazioni ambientali. Tali modificazioni sono l’aggravamento di ciò che già accade: il mondo scientifico ha più volte denunciato che si sta verificando il richiamo di acque superficiali inquinate in acquiferi profondi non contaminati e che in prossimità della costa si è già provocato il richiamo di acque marine causando la salinizzazione della falda.

Coltivare l’oliveto solo con le acque di pioggia

Nel nostro territorio gli oliveti che non dispongono di irrigazione hanno a disposizione solo l’acqua di pioggia che come sappiamo a seconda delle zone del Salento leccese varia dai 600 ai 900 millimetri annui. Il tema è: “Quali pratiche agronomiche possiamo mettere in atto nel Salento leccese per aumentare l’acqua presente nei terreni degli oliveti?” Si tratta di fare in modo di aumentare la capacità che hanno i terreni del Salento di conservare l’acqua che cade con la pioggia nel periodo autunno – invernale e per ottenere questo obiettivo l’unica strategia che possiamo adottare è quella di limitare le perdite di acqua nel terreno quando l’olivo entra in vegetazione.

Lo studio coordinato da Assunta Maria Palese

Ho letto sull’informatore agrario 25/2011 lo studio coordinato da Assunta Maria Palese del dipartimento di scienze dei sistemi colturali, forestali e dell’ambiente dell’Università della Basilicata in cui i ricercatori giungono alla conclusione che se non si effettuano le lavorazioni e si lascia il terreno dell’oliveto inerbito si intercettano più efficacemente le acque piovane anche in quei periodi si pioggia scarsa facendo si che l’acqua si distribuisca sia in superficie che in profondità. In particolare questo studio ha accertato che l’acqua che si trova a più di un metro di profondità, che è quella che viene utilizzata dalle radici dell’olivo, si ricostituisce in presenza del cotico erboso.

Attenzione però, bisogna tagliare il cotico erboso!

Sempre nel lavoro coordinato da Assunta Maria Palese si legge “in generale i consumi idrici del sistema inerbito sono risultati superiori a quelli del sistema lavorato in tutti i periodi considerati”….”pertanto è di importanza fondamentale la scelta del momento più opportuno per il taglio del cotico erboso per evitare la sovrapposizione tra lo sviluppo delle essenze erbacee e le fasi di fioritura ed allegagione dell’olivo, particolarmente sensibili allo stress idrico e determinanti per la produttività.”

L’idea del collega Rori Muratore: le pecore che tagliano l’erba dell’oliveto

Per il taglio dei prati in maniera da averli ben rasati, senza rovi e arbusti vari generalmente si ricorre a decespugliatori e rasaerba che sono mezzi costosi, rumorosi e che richiedono l’impiego di manodopera. Il collega Rori Muratore in occasione di un Convegno e sollecitato dal prof. Silvano Marchiori che denunciava il pericolo dell’estinzione della flora nei terreni coltivati ad oliveto sottoposti al diserbo chimico propose di utilizzare le pecore per il controllo delle infestanti. Ho appreso poi che già da alcuni anni nell’Italia centro settentrionale i prati risultano sempre sotto controllo grazie al pascolo delle pecore e in particolare di quelle di razza Sufflok che sono voracissime e insaziabili. “L’utilizzo delle pecore Suffolk (per tenere sempre ben rasati e puliti i terreni incolti) è estremamente naturale e biologico, non inquinante e a ciclo chiuso: il terreno fornisce l’erba, le pecore mangiano l’erba, i loro escrementi concimano il terreno, l’erba ricresce ancora più rigogliosa. Quanto alle piante infestanti, queste vengono tenute sotto controllo e gradualmente eliminate perché le pecore ne mangiano in continuazione le foglie e i germogli.”….” “QUANTE PECORE PER ETTARO DI SUPERFICIE? Il numero ideale dei capi è di circa 2- 4 per ogni ettaro di terreno, in dipendenza dalla quantità e qualità dell’erba. Se ne possono tenere anche 6 o più, ma in questo caso occorre integrare l’alimentazione con fieno e mangimi appropriati per pecore da carne….” (Carlo Bavecchi, Allevate alcune pecore di razza Suffolk per tenere «pulite» le aree incolte VITA IN CAMPAGNA 1/2006)

Nel Salento leccese c’è erba per 280mila pecore

Moltiplicando due pecore per ettaro per i circa 90mila ettari di oliveto della Provincia di Lecce posso affermare che in questo territorio c’è pascolo per 280mila pecore e che questo reddito unito a quello della migliorata quantità e qualità dell’olio rappresenta una suggestione che potrebbe dare luogo a una prova che se riuscirà porterebbe eliminare definitivamente l’uso degli erbicidi nel Salento leccese.

Taranto saluta i marinai d’Italia: Il Monumento al Marinaio

ph Daniela Lucaselli

di Daniela Lucaselli

Il Monumento al Marinaio si impone all’attenzione di chi dal Borgo antico di Taranto giunge, attraversando il Ponte girevole, sul corso Due Mari, nel Borgo nuovo della città. L’opera fu realizzata in bronzo dallo scultore Vittorio Di Cobertaldo nel 1974, per volontà dell’Ammiraglio Angelo Iachino, comandante della flotta di stanza a Taranto durante la seconda guerra mondiale, che volle far dono della scultura alla città in ricordo dei marinai caduti durante il  conflitto mondiale e nella atroce e sanguinosa “Notte di Taranto”, dell’11 novembre 1940 quando la flotta ancorata nella rada del Mar Piccolo venne bombardata dagli aerosiluranti inglesi.

L’opera protesa maestosamente verso il cielo per circa sette metri poggia su un piedistallo sul quale è posta una iscrizione:

 AI MARINAI  DELLE  FORZE  NAVALI  ITALIANE  L’AMM. D’ARMATA  A. IACHINO 

II GUERRA  MONDIALE  1940-43.

ph Daniela Lucaselli

La scultura, che  cattura in modo suggestivo lo sguardo di chi ammira l’impetuosità e l’irruenza dei flutti del mar Grande, è dedicata ai marinai della Marina Militare Italiana e raffigura due marinai che, con la mano destra,  tengono il  berretto levato in alto e “salutano” il passaggio delle navi e piccole imbarcazioni che costantemente solcano le acque del canale navigabile che collega il Mar Grande con il Mar Piccolo.

Il portamento dei due militari, con garbo ed elegante maestosità, manifesta uno spiccato spirito di accoglienza  verso tutti coloro che vengono dal mare, coloro che portano nella nostra terra le loro tradizione, la loro cultura. L’apertura all’altro, la reciproca ricchezza e crescita della gente comune e di una intera città è un  prezioso dono.  Ma non solo. Il periodo di accoglienza, l’ospitalità nella nostra terra, la condivisione di scorci di vita quotidiana, l’addestramento in Marina e Aereonautica Militare è seguito da un malinconico saluto di chi è ormai parte di noi,  pronto a portare con sé e in

L’unica casa dove alle sette di mattina ridono tutti…

             

             Il Mulino Bianco, ovvero l’unica casa  

              dove alle sette di mattina ridono tutti…

            Ma che farina c’è in quel mulino?

di Raffaella Verdesca

Suo figlio sì che era bello! Soltanto bello? Ma no, chè scherziamo? Bello, bravo, intelligente, istruito ed eccellente in tutto. C’era da smontare una ruota? Come Vincenzo non lo avrebbe saputo fare nessuno. Una versione di latino si era inceppata? Tranquilli, c’era Vincenzo! La lavatrice perdeva acqua? Bastava chiamare Vincenzo! Un’equazione folle, un algoritmo indecifrabile, un commento dettagliato sulla Divina Commedia, una traduzione simultanea dal giapponese al dialetto salentino? Niente paura, meno male che c’era Vincenzo!

Eh sì, per Marilena l’unico sole che riscaldava veramente la terra era il suo primogenito.

Non si trattava di una questione d’età avanzata della donna nel rapporto madre-figlio: quella lo adorava e basta!

Evidenti segni di questo cedimento affettivo erano emersi pure a trent’anni, quando la giovane signora Perrone aveva confessato di essere stata chiamata mamma dal neonato prima ancora che quello aprisse gli occhi, così come in seguito era stata pronta a giurare che il suo piccolo le era corso incontro già a otto mesi.

A tavola Marilena guardò il calendario di Padre Pio appeso sopra il frigo e la sua espressione rassegnata fece capire a tutti che l’anno 2010, impresso sul foglio, le aveva ricordato i suoi settant’anni.

Francesca e Renato, gli altri suoi figli, le regalarono subito un sorriso d’incoraggiamento: “Dài, ma’, che ne dovremo dare ancora di offerte per ricevere questo calendario a casa! Almeno per cent’anni, vero Vincenzo?”

Asciugandosi le labbra col tovagliolo del corredo, l’uomo annuì circondando la madre con un abbraccio rassicurante. Mangiava così poco ultimamente la poveretta! Colpa dei pensieri, diceva lei per giustificare tosse e magrezza, ma Vincenzo quei pensieri li conosceva a uno a uno.

Santi figlioli quelli, tutti premurosi e bravi dal primo all’ultimo: Vincenzo ingegnere, Renato capitano dell’esercito, Francesca avvocato. Marilena e il marito avevano sudato a crescerli così quei tre e poi nel paesino dove vivevano! Piccolo, privo di ogni comodità, a parte quella di essere vicino a Lecce, la loro città santa. Erano nati tutti lì i Perrone: lei, il marito, i figli, i

Sei proprio cotto, Octo!*

di Alessio Palumbo

Il mio nome scientifico è Octopus vulgaris, ma in realtà di volgare ho ben poco. Appartengo alla classe dei Cefalopodi ma, rispetto al resto della classe, la mia famiglia è di un altro livello. Non ci sono paragoni.

Innanzitutto tra i cefalopodi siamo i più abili ad adattarci a qualsiasi condizione. Ci trovi nei porti, nelle acque limpide, nelle profondità abissali e, certe notti in cui sentiamo il bisogno di districarci ben bene i tentacoli, perfino sugli scogli o sul bagnasciuga. In secondo luogo siamo dei contorsionisti. Un pertugio, una spaccatura in uno scoglio, una lattina possono fungere comodamente da tana. Lo immaginate voi un calamaro o una seppia, con quello scomodo osso, rinchiusi in un buco di pochi centimetri cubi? Sicuramente no. Per non parlare poi dell’intelligenza e della preveggenza. Nei mondiali del 2010 un mio cugino tedesco, Paul, azzeccò tutti i pronostici sulle partite. E che dire delle doti mimetiche? Nessuno può competere con noi sopra e sotto il livello del mare. Uno scorfano lo becchi facilmente, un camaleonte solo un cieco non lo noterebbe. Noi no, sappiamo essere invisibili… a meno che tu non sia un pescatore sopraffino o non riesca a coglierci in un raro momento di distrazione.

Io poi, tra i polpi della zona tra Gallipoli e Santa Caterina, ero tra i più in gamba. Una massa di oltre due chili di soli muscoli: forte, agile, bellissimo, con un’abilità nel cambiare livrea degna di un’artista. Dovevate vedere le femmine della zona: si acquattavano tra i banchi di poseidonia per osservarmi con cupidigia. Andavano in visibilio nel vedermi mutare dal grigio perlato al bianco, dal rosso del corallo al verdone delle alghe morte. Le mie tane poi,

Una perturbazione proveniente dalla Tunisia

di Giorgio Cretì

Nunzio in quel periodo andava a pesca con suo fratello, con uno schifo lasciato loro in eredità dal padre.

Egli, che era il più anziano, era stato in mare sin da quando aveva avuto quindici anni, con barche che andavano fino ad Otranto, a Sant’Andrea, ad Alimini o, verso sud, fino a Leuca, a San Gregorio, a Murciano e ai Pali. Per quasi dieci anni, poi, aveva fatto parte degli equipaggi di grandi barche da pesca di Amantéa, di Trebisacce, di Ginosa, di Monopoli e di Ostuni. I due fratelli, ora, bazzicavano verso Santa Cesàrea, di fronte alle cave di carparo, quelle cave da cui era uscito tutto il ma­teriale per la costruzione della casa di don Pippi Ciullo e di tut­te le vecchie ville; quando l’abitato di Santa Cesàrea terminava con il palazzo dei Rizzelli all’angolo di fronte al palazzo degli Sticchi, quello con le cupole, che era stato fatto costrui­re dai Papaléo di Bagnolo con maestri veneziani. Nunzio vi aveva lavorato come giovane manovale

A volte gettavano le reti o calavano i palamiti anche di fronte alle Fontanelle, oltre il promontorio della torre, ma più spesso pescavano all’interno della baia di Porto Miggiano, pren­dendo a riferimento lo scoglio detto Pescu Cirumanu o l’Isuleddha, un altro scoglio che emergeva appena da una sottostante piattaforma rocciosa; oppure si fermavano proprio sotto la tor­re, dentro quella piccola insenatura a forma di ferro di caval­lo che chiamavano Rasca. Tràsicu era un altro punto di ri­ferimento, molto difficile da raggiungere per via terra. Suo fratello aveva preso moglie da poco, forse da un anno, a­veva appena battezzata la Dorotea.

I pescatori e gli uomini che tagliavano la roccia si salutavano da lontano e spesso mangiavano il pane assieme. I pescatori portavano la barca a riva, su quella spiaggetta sotto la mon­tagna, e poi facevano un fuoco con rami di cardo scolimo o con altri sterpi ed erbe secche che trovavano tra le rocce.

Vi mettevano sopra, con un treppiedi improvvisato di sassi, un pentolino: un pezzo di cipolla e pochissimo olio per non svuotare in fretta il bottiglino; quando l’olio cominciava a fumare, but­tavano dentro la cipolla. Poi aggiungevano un po’ d’acqua e, quando questa bolliva, vi buttavano dentro anche i pesci. Così potevano inzuppare il loro pane. Se erano in tanti,

Omaggio a Carmelo Bene, nel decennale della morte

di Paolo Rausa

Attore, regista e scrittore, Carmelo Bene, un uomo che ha trasformato ogni messa in scena possibile, è nato a Campi Salentina in provincia di Lecce il 1° settembre 1937. A dieci anni dalla scomparsa lo ricordiamo con le parole del Marco Giusti, voce fuori campo nella trasmissione televisiva “Bene! Bravo!”: “Un giovanotto magro, nervoso, spiritato, venuto dalle Puglie per inventare a Roma un suo personalissimo teatro. Si chiama Carmelo Bene. Non ha ancora trent’anni. Ha già scritto il romanzo Nostra Signora dei Turchi. Ha diretto come attore, autore e regista, una decina di spettacoli. Dieci spettacoli, dieci polemiche clamorose. È un istrione? Oppure: è un genio? È un mistificatore? Su questi giudizi il pubblico e la critica si interrogano…” Siamo tra il 1965 e il 1966. Nel 1967 Carmelo Bene inizia la sua esperienza da regista cinematografico, arrivando l’anno successivo a vincere il Leone d’Argento al Festival di Venezia con quello che viene considerato il suo capolavoro: Nostra Signora dei Turchi. Nel 1981, con la Lectura Dantis dalla Torre degli Asinelli di

Quel distretto corporeo regolatore del sonno. Riti e credenze sulla nuca

 

Brueghel, Il Giardino dell’Eden

 

IN VIRTU’ DI  UN’ANTICA LEGGENDA SORTA INTORNO ALLA CREAZIONE DEL MONDO,  LA NUCA ERA ANCORA, PER I NOSTRI CONTADINI, LA TTACCA-SSUEGGHI DEL SONNO

LU CUCUZZIEDDHRU (LA NUCA)

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

…nel concetto popolare la nuca era parte anatomica preposta alla regolamentazione del sonno, un’attribuzione che leggendariamente si faceva risalire addirittura ai fatidici giorni dell’Eden: Dio, volendo creare Eva servendosi di una costola di Adamo, aveva divisato di compiere l’operazione durante la notte, basandosi sulla tacita collaborazione del sonno alla cui legge notturna aveva già sottoposto la sua prima creatura. Frastornato com’era per il gran daffare, non si era però reso conto ca ja scattatu tiémpu ti nfiuràta, quannu puru ti notte furmìcula lu sangu (che era scattato il tempo della fioritura, quando il sangue è in fermento anche di notte), per cui, sceso a notte inoltrata nel paradiso terrestre, con sua grande meraviglia aveva trovato Adamo che, desto e beato, se la spassava sciucànnu a scunnicòla cu lla orpe (gicando a nascondino con la volpe).

      E mmo comu la mintìmu cu st’uécchi nzippàti?” (“E ora come la mettiamo con questi occhi zeppati [mantenuti aperti da uno stecchino]?”), si era chiesto piuttosto contrariato; e guardandosi attorno come a raccogliere le idee si era accorto che, al contrario delle altre piante, coinvolte nell’ebbrezza della notte, quella del trifoglio aveva pacificamente rinserrato le foglie sprofondando nel sonno. “Menumàle ca nn’àggiu ttruàta una ngarbàta” (“Menomale che  ne ho trovata una garbata”), si era detto compiaciuto; e staccatone un rametto era corso a strofinarne le foglie sobbr’a llu cucuzziéddhru  (sulla nuca) di Adamo, ingiungendo perentorio:“Comu sta chiànta t’à ccumpurtàre; la notte no ll’à scangiàre cu llu sciùrnu… ca la notte, jò, pi ddurmìre l’àggiu criata!” (“Come questa pianta ti devi comportare; la notte non la devi scambiare per giorno… perché la notte, io, per dormire l’ho creata!”). Al contatto del trifoglio, stillante sonno e ubbidienza, Adamo si era subito addormentato, e poiché la strofinata era avvenuta a livello di cucuzziéddhru (nuca), questo, sommando al diretto assorbimento del succo erbaceo l’altrettanto diretto rintrono del comando divino, ne era uscito particolarmente responsabilizzato, sicché da quel momento era divenuto lu  ttacca-ssuégghi ti lu suénnu (il lega-sciogli [faccendiere] del sonno, ovverosia centro regolatore di ogni funzione ipnica.

 

famiglia colonica (per gentile concessione di Nino Pensabene)

 

 

Grazie al corollario di credenze venutesi a creare attorno al fulcro leggendario, il presunto rapporto nuca-sonno era assurto a verità pseudo-scientifica, determinando sul piano pratico tutta una serie  di relativi

RISORGIMENTO INSANGUINATO PARTE II. Elezioni e Plebisciti-burla

 
 
RISORGIMENTO INSANGUINATO PARTE II
Elezioni e Plebisciti-burla

di Antonella Randazzo

Il 21 ottobre 1860, come nelle migliori tradizioni “democratiche”, si svolse la votazione per l’annessione della Sicilia al Piemonte. Con la collaborazione della mafia, venne creato un clima intimidatorio. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono soltanto 432.720 cittadini (il 18%). Dei votanti, 432.053 votarono “Sì” e 667 “No”. Il ministro Henry Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, nel suo rapporto al governo scrisse: “Moltissimi vogliono l’autonomia, nessuno l’annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa”.
E un altro ministro inglese, John Russel, comunicò: “I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore”. (17)
I Plebisciti-burla si svolsero anche nelle altre regioni. Si trattava di un metodo per far passare l’Unità d’Italia come voluta dal popolo, mentre in realtà non era così, ma questo doveva apparire.
In Campania le votazioni erano controllate dai camorristi, che bastonavano quelli che votavano “No”, e qualcuno morì misteriosamente. Camorristi, piemontesi e garibaldini votarono diverse volte per accrescere la quantità di votanti per il “Si”. Cesare Cantù spiegò come si svolsero a Napoli le operazioni di voto:

“Il plebiscito giunge fino al ridicolo, poiché oltre a chiamare tutti a votare sopra un soggetto dove la più parte erano incompetenti, senza tampoco accertare l’identità delle persone e fin votando i soldati, si deponevano in urne distinte i SI e i NO, che lo rendeva manifesto il voto; e fischi, e colpi e coltellate a chi lo desse contrario. Un villano gridò: Viva Francesco II! E fu ucciso all’istante”.(18)

In Toscana votò soltanto il 19% della popolazione. Come nelle altre regioni, votarono soprattutto gli appartenenti alla classe ricca o benestante. In Veneto venne dato l’ordine alle autorità di “assicurare S. E. che della medesima non mancherà di adoperarsi affinché la votazione abbia a riuscire di unanime accordo pella dedica a S.M. il Re Vittorio Emanuele II”.(19) I votanti veneti furono meno di 650.000 (641.000 votarono “Si” e 69 “No”) su

1752. Un assalto di pirati sulle coste di Ugento

UN ASSALTO DI PIRATI SULLE COSTE DI UGENTO DESCRITTO IN UN DOCUMENTO DEL 1752

di Ennio Ciriolo

Una tartana in una incisione del XIX secolo

 

Il 18 aprile del 1752 un grande veliero con un albero a vela latina (tartana), partì dal porto di Manfredonia per raggiungere Napoli, capitale del Regno, con un carico di cinquemila tumuli di orzo. Un tumulo è pari a circa 15 Kg. Quindi, la tartana doveva far arrivare a destinazione circa 75.000 Kg di orzo. La Puglia era considerata il granaio del Regno di Napoli e, infatti, la maggior parte dei carichi mercantili provenienti dalla Puglia, trasportavano frumento.

La tartana si chiamava Immacolata Concezione ed Anime del Purgatorio e l’equipaggio era composto dal comandante Michele Guida e dai mozzi Salvatore di Palma, Egidio Rossano e Michele Visco, tutti provenienti da Vico Equense, una delle più belle città del napoletano affacciate sul mare.

Il percorso più rapido per un’imbarcazione salpata da Manfredonia era quello di arrivare a Capo di Leuca e da qui proseguire per le coste calabresi, passando poi per lo stretto di Messina e risalendo infine per Napoli. La distanza non doveva superare le 600 miglia nautiche. Certamente il tragitto non era dei più lunghi se paragonato alle grandi traversate di ciurme che praticavano il commercio via mare fin dall’inizio dell’Età moderna, toccando i maggiori porti europei come Barcellona, Marsiglia, Genova, Venezia, Napoli, Bari, Taranto, Malta, fino alle coste più a sud del Mediterraneo.

Tuttavia un tragitto più breve non significa certo meno pericoloso.

Il nostro veliero, partito il 18 aprile, dovette già fermarsi il giorno dopo, a pochi chilometri a sud di Otranto, presso Porto Badisco, per il vento poco favorevole. Solo la sera del 24 aprile, dopo cinque giorni, il veliero Immacolata Concezione salpò per proseguire la sua rotta fino a Napoli. Ma per l’imbarcazione comandata da Michele Guida le insidie non erano certo

Elio Ria, i pensieri di un poeta

Intervista a cura di Maria Ausilio Gulino, pubblicata su www.lepagine.net

 

Gemäldegalerie Alte Meister (Dresda) – Domenico Fetti (1588-1623), Archimede (1620)

Quali sono i tormenti interiori di un poeta? Ormai nell’immaginario collettivo, quando pensiamo agli scrittori dei versi, pensiamo sempre a quelli del passato. Eppure qualcuno è presente anche adesso, magari ci parla, e potrebbe anche essere un nostro amico. Però non lo riconosciamo. Perché talvolta ci sembra uno diverso da noi. Lontano dai nostri modi di vivere e di pensare. Noi abbiamo incontrato Elio Ria, che di poesia vive, che in qualche modo, tra le pagine, si confessa, mostrando ogni suo timore e ogni sua voglia di vivere. E poiché non è così comune svelarsi senza maschera, siamo certi che i suoi lettori gliene saranno grati.

Come gestisce il suo lavoro di redazione?
Prima di scrivere un testo raccolgo le idee, sviluppo mentalmente l’ordine delle cose che intendo presentare al lettore, guardo i miei appunti, seleziono, tralascio, includo e poi inizio a mettere nero su bianco. Sì, mi documento con dovizia e attenzione per non tralasciare nulla di importante. Poi lascio sedimentare per un po’. Infine rileggo. Aggiusto. E quando sono convinto della qualità del testo lo pubblico.

Un poeta dai versi così sensibili come conduce la sua quotidianità?
La quotidianità concede sempre straordinarietà e meraviglie. Ho le mie abitudini: lavoro, studio, caffè, sigarette, le chiacchiere con gli amici, leggere il giornale e i libri, scrivere. Leggo moltissimo: le poesie dei grandi poeti antichi

Musei di Terra d’Otranto. Il museo diocesano di Gallipoli

Musei di Terra d’Otranto. Il Museo Diocesano di Nardò-Gallipoli. Sezione di Gallipoli

di Alessandro Potenza

Il museo diocesano – sezione di Gallipoli è allestito nella sede dell’antico seminario diocesano, realizzato in un lasso di tempo che va dal 1751 al 1759. Si tratta di un immobile architettonicamente pregevole, collocato alle spalle della cattedrale e in contiguità con essa; un edificio  giunto fino a noi pressoché integro e che,  attraverso alterne vicende, perdendo negli anni ’70 del secolo scorso la sua originaria destinazione a causa del calo delle vocazioni ecclesiastiche, oggi accoglie la recente istituzione.

Il museo raccoglie 553 manufatti, comprendenti sculture,  dipinti, argenteria e oreficeria liturgica, paramenti sacri e materiale archeologico.

Le opere esposte provengono in gran parte dal tesoro della basilica concattedrale e dal palazzo vescovile di Gallipoli. Vi sono anche  manufatti provenienti dall’ex-chiesa di Sant’Angelo, dalle chiese della B.V.M. del Rosario e di S. Maria dell’Alizza e dal patrimonio del seminario.

Il museo si sviluppa su tre piani e gli spazi espositivi sono costituiti da 12 sale, quattro saloni, l’ex-cappella del Seminario, l’antico refettorio, per una superficie complessiva di 900 mq circa. Vi è una sala multimediale e un punto di ristoro, collocato sulla terrazza dell’edificio, con uno spettacolare belvedere.

Al piano terra,  oltre ai servizi di accoglienza (biglietteria, bookshop) e  alla  direzione, vi sono: l’antico refettorio del seminario,  rivestito in legno  intarsiato;  un salone occupato da due grandi tele: l’Assunta, capolavoro del 1737 di Francesco De Mura e l’Immacolata del gallipolino Gian Domenico Catalano (1560c.–1624c.); la sala multimediale. Due cippi funerari di epoca imperiale fanno memoria dell’antichità della città. Due tombe bizantine, rinvenute presso la locale chiesa di S.Giuseppe picciccu, rappresentano le più antiche testimonianze monumentali cristiane del territorio. Una serie di campane rievocano l’arte dei fonditori gallipolini (tra i quali i Roscho e Patitari), attestata fin dal sec. XI.

Il primo piano raccoglie i manufatti illustrativi delle devozioni popolari del luogo. Nell’antica cappella del seminario sono esposti i busti argentei dei patroni: S. Agata (1759) e S. Sebastiano (Filippo Del Giudice, 1770), i preziosi

Die Basilika Heilig Kreuz in Lecce, ein Wahrzeichen des Barocks


di Teodoro De Cesare

Die Basilika Santa Croce ist das Wahrzeichen des Barocks von Lecce schlechthin und ein Gebäude, das den künstlerischen Geist der Architektur des Salento verkörpert. Berühmt ist die Kirche wegen der reichen und prunkvollen Dekoration besonders im oberen Teil der Fassade.

Es handelt sich nicht um eine von Beginn an im Barock-Stil gebauten Kirche, vielmehr wurde sie in früheren Zeiten errichtet. Es wird sogar vermutet, dass die Kirche aus dem 14. Jahrhundert stammt: so vermutet man, dass beispielsweise die Lilien, welche die Rosette umgeben, die Lilien darstellen, die das französische Königshaus an die Bevölkerung schenkte und den Celestinern (Zweig des Ordens der Benediktiner) damit Wohlstand wünschte. Jene Blumen würden an die erste Gründung erinnern, als Gualtieri VI von Brienne Graf von Lecce war. Im Auftrag der Celestiner bat er den Bischof, ihnen eine ihm angehörende Kirche zu vermachen. Nach Wunsch des Grafen hätte die Kirche „Santa Maria Annuntiata“ und „San Leonardo confessore“ benannt werden sollen. Da jedoch die Kirche schon unter den Namen „Santa Croce“ bekannt war, zog die Bevölkerung diesen Namen vor. Gualtieri starb 1356 und die Arbeiten wurden unterbrochen; über eine möglichen Fortsetzung der Arbeiten liegen keine Dokumente vor.

Zweifellos wurden auf Anregung der Celestiner Äbte ab 1549 die Bauarbeiten fortgesetzt. In jenem Zeitpunkt beginnt die Geschichte der Kirche, die bis zur Vollendung der Barock-Fassade andauern will.

Die Arbeiten am Bau von Santa Croce begannen im Jahr 1549 dank des Architekten Gabriele Riccardi. Riccardi schuf die Struktur der Basilika und vollendete auch den unteren Teil der Fassade, von klassische Ausgewogenheit und romanische Architektur aus blinden Rahmen bestehendem Gesims.

Sechs Säulen mit zoomorphen Kapitellen trennen die Wand, die von einem Fries klassischer Inspiration geschmückt ist. Im Jahr 1606, dank Francesco Antonio Zimbalo, wurde eine Art Prothyron mit Zwillingssäulen und zwei seitlichen Portalen angebaut. Der obere Teil wurde um 1646 durch Cesare Penna und Giuseppe Zimbalo ausgeführt. Er ruht auf einer Galerie die mit zoomorphen oder symbolischen Karyatiden gestützt ist. Dreizehn mit Emblemen versehenen Putten bilden die Balustrade. Die grosse zentrale Rosine weist einen romanischen Einfluss auf und ist von einem prächtigen Gesims umgeben; vier Säulen bieten eine fantasievolle Dekoration; im Fries sind die Buchstaben die für den Namen des auftraggebenden Abtes Don Matteo Napolitano stehen. Zwei Säulen stützen die Statuen von Sankt Pietro Celestino und Sankt Benedikt.

Alles ist durch eine Plastik von ungezügelter Fantasie und schöpferischer Freiheit vereint, ohne dadurch allzu überladen oder allzu reichlich zu wirken. Im Gegenteil, in ihrer Reichhaltigkeit erscheint die Struktur schlicht und klar.

Diese Leichtigkeit im Reichtum ist bestimmt der pietra leccese (lokaler Kalksandstein), die eine helle Farbe hat und leicht zu verarbeiten ist und dadurch die Komposition lebendig erscheinen lässt, zu verdanken.

Aus dieser kurzer Beschreibung versteht man, wie allein der Bau der Fassade eine Zeitspanne von etwa hundert Jahren in Anspruch genommen hat.

Von 1549 bis 1646 macht die italienische Kunst dann eine radikale Veränderung durch: die Zeit des Manierismus nähert sich dem Ende zu, Florenz verliert zugunsten von Rom ihre künstlerische Vorherrschaft. Ihrerseits empfängt Rom im Laufe des 17. Jahrhunderts Künstler aus der ganzen Halbinsel und dem Ausland; so folgen Klassizismus, Naturalismus und Barock aufeinander. Durch diese Situation kommt auch Lecce ein Reflex zu: so vereinen sich hier die Verspätungen der römischen Modelle mit einer starken lokalen künstlerischen Tradition.

Man kann behaupten, dass der Barock aus Lecce , der in der Fassade von Santa Croce zu erkennen ist und der später auch in anderen Bauten der Stadt wahrgenommen werden kann, sich zwischen der zweiten Hälfte des Cinquecento und Ende des Seicento entfaltete.

Der geschichtliche Kontext in dem sich diese kulturelle Erscheinung eingliedert, ist jener der Gegenreformation und des Eintretens der reformierten  Glaubensorden, ein Kontext der ökonomisch und kulturell besonderen Prozesse, zu dem politische und verschiedene künstlerische Persönlichkeiten beitrugen.

Der in Lecce ist ein Komplex von Palästen, Villen und Adelsresidenzen, Kirchen, Klöster, Religionsschulen, Sozialinstitutionen die vom politischen Rang der der Stadt zugeschrieben wird, über hinaus des unglücklichen ökonomischen Bildes, wie es die Historiker für die Terra d’Otranto zwischen Seicento und Settecento beschreiben.

Man kann behaupten, dass die Fassade von Santa Croce als prunkvoller Altar gedacht wurde und einen ewigen Verweis zwischen Aussen und Innen, klein und gross – was der Aufbau der Bedeutung der Architektur des Barocks von Lecce darstellt – ist.

Bei der Fassade und dem Altar handelt es sich gewissermassen um einen schmückenden Überbau auf einer Wand, die schon vorher bestand und die speziell im Fall „Santa Croce“ noch erforscht werden sollte. Ein Fassaden-Barock?

Der Abschluss des unteren Teils der Kirchenfassade reicht, laut Inschrift, auf das Jahr 1582 zurück. Die drei Portale wurden auf Entwurf von Francesco Antonio Zimbalo zwischen 1606 und 1607 ausgeführt; auf jeden Fall mussten die drei Tore – wahrscheinlich in anderer Form – schon vor dem Bau der Portale existieren, da sie den drei Eingängen des Schiffes entsprechen.

Es ist also sehr wahrscheinlich, dass eine ursprüngliche Form des Portals ein Werk des Gabriele Riccardi, Autor des unteres Teils der Fassade war. Das zentrale Portal kennzeichnet sich besonders durch vier paarweise verbundenen Säulen aus und es ist durchaus stichhaltig, dass gerade dies den Anbau des Zimbalo ist. Die verpaarte Säulen ruhen auf 45° gedrehtene Sockel: diese Lösung kann man in der Kirche auch im Altar von Sankt Francesco di Paola, ebenfalls im Jahr 1614 ausgeführt, beobachten. Diese Art von Säulen ist hier kein Einzelfall: man findet sie in der Theorie der Architektur des italienischen Manierismus.

Ein Werk des Riccardi könnte vielleicht die Lisene im Portal sein, wie man es aus dem Vergleich mit den Akanthusblättern über den Kapitellen des Schiffes in Santa Croce entnehmen kann.

Diesen Teil der Fassade hat 1646 ein dritter Künstler und Bildhauer, Cesare Penna beendet. Die Angabe des Jahres 1646 ist in einer von zwei Löwenfiguren getragene Schriftrolle enthalten und legt die Weihe der Kirche fest.

Die Balustrade stützt sich auf Telamonen und zoomorphen Figuren. Anhaltspunkt ist ein mittelalterliches Bestiarium, was im Salento nicht ungewöhnlich ist und profane und religiöse Themen verbindet: das bedeutendste Beispiel stellt der Mosaik-Boden in der Kathedrale zu Otranto, zwischen 1163 und 1165 ausgeführt, dar.

Das Thema in Santa Croce könnte könnte auch das vom siegenden Kreuz über die Mythen und den Hochmut der Heiden sein: «Diese Anspielung wird in der Serie der dreizehn Telamonen, die die Konsole zur Loggia des zweiten Stockes bilden, klar: es ist – durch den Prunk des Barocks noch vergrössert – die alte Symbolik der Löwen, die Säulen tragen, und auf die unterworfene Bestialität und das Böse hinweisen: unter den dreizehn Konsolen finden wir nämlich den Löwen, aber auch den Vogel Greif, den Adler und den Drachen, Bilder von Stolz und Ungeheuerlichkeit. Weiter sind erkennbar die römische Wölfin, Herkules mit dem Löwenfell, Figuren von Legionären, Negern, Muslimen, alten und neuen Heiden oder Ungläubigen. Dies alles mit einem gewissen Hinweis auf die Piraten des Mittelmeeres, die kürzlich (…) in der Schlacht von Lepanto zerschlagene berüchtigte Türken».

Die zentrale Rosette ist fällt einem am meisten auf: aus ihr entwirren sich eine Art Bewegung und visuelle Spiele, die die Eigenschaft des Festes und der Freude in sich haben. Im innersten Kreis sehen wir zwölf Engel, die dem Motiv der zwölf Strahlen entsprechen würden; dies ist in den Rosetten von mittelalterlichen Kathedrale häufig und symbolisiert die Christus-Sonne. In den beiden äussersten Kreisen sind vierundzwanzig christologische Granatäpfel sowie vierundzwanzig Engel zu sehen.

Der obere Teil der Santa Croce-Fassade ist der Triumph der dekorativen Fantasie. Dargestellt sind einige sich wiederholende ikonographische Elemente wie die Flammen und Löwen, Glaubenssymbole, der Pelikan der seine Kleinen ernährt (im Kapitell links von der Rosette) und die Granatäpfel, Symbole der Passion Christi.

Es ist auch möglich einen  Hinweis auf die grafische Technik der Miniatur zu erkennen, besonders in den verzierten Gesichtern und noch mehr in den von Engelchen getragenen Schriften, die man im Fries unklar zu sehen bekommt.

Dieses reiche und funkelnde Ornament stellt ein Barock dar, der an eine Wandstruktur des Cinquecento angebracht wurde und zwar nach den Regeln manieristischer Architektur und der Gegenreformation.

In ihrer künstlerischen Schönheit und technischer Feinheit, gleicht die Fassade von Santa Croce einem provisorischen, leichten Bau, den Figuren aus Papiermaché ähnlich, die in Italien, mindestens seit dem Quattrocento mit den provisorischen Ausschmückungen oder einem Entwurf des Modells, das selten aufbewahrt wurde, in Verbindung gebracht werden . Es ist kein Zufall, dass sich in Lecce seit dem Settecento eine grosse Tradition von Papiermaché-Meistern entwickeln konnte. Eine Tradition, die noch bis zum heutigen Tag floriert.

 

Übersetzung: Marco A. de Carli

 

Leuca nelle fonti letterarie, tra storia e leggenda (parte terza)

dipinto di San Paolo nella basilica di Leuca

Il viaggio a Leuca è un viaggio nella letteratura: moltissimi sono gli autori salentini che hanno scritto di Leuca e si sono fatti affascinare dalla sua suggestione. Ne hanno scritto, oltre a tutti quelli già citati, Luigi Tasselli in “Antichità di Leuca” (Eredi Pietro Micheli 1693, poi ristampato in Lecce 1859); Don Geronimo Marciano, in un poemetto, del 1692, in vernacolo, “Viaggio a Leuche, a lengua noscia de Rusce”, pubblicato nel 1996 sulla rivista “Verso l’Avvenire”, con traduzione e commento di Padre Corrado Morciano; Lorenzo Giustiniani nel suo “Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli” (Napoli 1797); Giacomo Arditi nella “Corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto” (Forni Bologna 1879); Girolamo Marciano  in “Descrizione, origine e successi della Provincia di Terra d’Otranto”, pubblicato nel 1855;  e per venire a tempi più recenti, Vincenzo Rosafio con le sue opere  “Leuca e dintorni” (Marra 1970), “Le Chiese del Santuario di Leuca” (Editrice Salentina 1983),  “Il Santuario di Leuca o De Finibus Terrae”(Tricase 1990); il Tanzi, con “Gagliano del Capo e il suo Santuario di Santa Maria di Leuca” (Editrice Salentina 1972) che ci riporta alla secolare contesa fra i comuni di Castrignano del Capo e Gagliano sul possesso del Santuario di S.M. di Leuca; Corrado Morciano, autore di tantissime pubblicazioni sul tema,  a partire da “Leuca, la bianca del sud” (Editrice Salentina 1973), passando per “Grotte rupestri nel territorio di S.Maria di Leuca” (Editrice Salentina 1990),”Il carisma del Santuario della Madonna di Leuca” (Del Grifo, 2000), “La devozione della Madonna di Leuca nel Salento” (Bleve Editore, 2000), e le varie Guide Turistiche, edite dal Circolo Culturale “La Ristola”; anche l’Università di Lecce, con la monumentale opera “Leuca” (Congedo 1978); Giuseppe Milo con “Il Santuario di Santa Maria di Finibus Terrae o di Leuca oggi” (New Cards Editore 1993); Cesare Daquino con “La guida di Leuca” (Capone Editore 1993); “Iscrizioni latine nel Salento. Paesi del Capo di Santa Maria di Leuca”, a cura di Antonio Caloro, Mario Monaco, Antonio Lenio e Francesco Fersini (Congedo 1998,) sulle innumerevoli epigrafi che incontriamo nella nostra visita; Antonio Caloro con “Relazioni del Vescovo di Alessano Celso Mancini” in “La seconda chiesa matrice di Tricase nel Settecento”, a cura di Salvatore Palese e Maurizio Barba (Congedo 2001); Nunzio Stasi con  “Leuca e il Salento” (Nibbio Editore 2002); AnnaRosa Potenza con “Leuca una perla ai confini della terra” (Leucasia 2004) ;  ma come non citare il De Giorgi, che spesso ha trattato Leuca nelle sue opere di geografia, archeologia, idrologia, agraria ed arte. E poi la pubblicistica leucana si completa  con le riviste “Mamma Nostra di Leuca. Bollettino dei pellegrini di Maria”, storica rivista voluta nel 1951 da Mons. Giuseppe Ruotolo, la più recente “Verso l’avvenire”, rivista bimestrale della Basilica, nata nel 1980 (prima come “Voce nuova”)diretta da Mons.Stendardo (Laborgraf Editore) e  “La Spina de Rizzu”, rivista annuale dell’Ass. Cult. La Ristola, nata nel 1974 e diretta da Padre Corrado Morciano.Queste riviste hanno un loro illustre antesignano ne “Il Leuca”, la prima rivista di cultura e costume fondata sul finire dell’Ottocento da Tommaso Fuortes (1846-1915), animatore delle serate della dolce vita leucana (come riporta Alessandro Laporta in “Un secolo di stampa periodica da <Il Leuca> a <Spina de Rizzu>”, in “La Spina de Rizzu”, numero unico 1998) e fratello di quei Gioacchino e Tarquinio Fuotes dei quali è stato recentemente ripubblicato un “Saggio di canti popolari di Giuliano (Terra D’Otranto)” da Sergio Torsello per Edizioni Dell’Iride (2006).

Qui, nel “Tallone d’Italia” , fra cartoline e depliant e le prelibatezze della cucina locale, la vita scorre più lentamente se ci si lascia vincere da quella dolce indolenza che ci fa intorpidire nei meriggi estivi, quando cerchiamo riparo dalla canicola nel fresco delle case leucane o in un bagno rigenerante a mare. Leuca è l’approdo, in una mattina d’azzurro e di vento,in una terra gentile ed ospitale, è quel grido “terra!” dopo tanto e tanto mare. Leuca è l’incrocio dei venti, da tramontana a libeccio, da scirocco a maestrale, forse è in una di queste caverne che il mitico  Eolo li raccolse ed è da qui che si

La vita svanisce, ma l’arte no. Vito Russo, scultore e pittore salvese

VITO RUSSO,

SCULTORE E PITTORE SALVESE

LA BELLEZZA,LA SEMPLICITÀ E L’ARMONIA D’INSIEME NELLA SUA FILOSOFIA ARTISTICA

di Marco Cavalera e Sandra Sammali

Vito Russo, scultore e pittore salvese, ci accoglie nella sua casa – atelier in un freddo e piovoso pomeriggio di metà autunno, circondati da statue e sculture di ogni forma e materia che esprimono la filosofia intrinseca del suo pensiero artistico. Ci sediamo intorno ad un grande tavolo pieno di appunti e bozze di disegno per opere che un giorno, da un foglio bianco di quaderno, prenderanno vita, e tra un caffè caldo e un aneddoto (molto suggestivo quello del suo incontro con il grande poeta salernitano Alfonso Gatto) passa in rassegna tutta la sua storia artistica, a partire dal 1966, quando divenne titolare della cattedra di scultura presso l’Istituto d’Arte di Lecce.

“L’arte non avrà mai fine finché l’uomo, incontrando i materiali che gli stanno intorno, o creandosene di nuovi, saprà trasmettere loro, con la sua manualità, le forme del proprio pensiero”, esordisce Russo sfogliando le pagine segnate dal tempo di un album di ricordi.

Fin dalle prime battute dell’intervista si percepisce subito l’essenza delle forme di pensiero che l’artista esprime attraverso l’arte figurativa: bellezza, semplicità, accordi di linee e armonia d’insieme.

La scultura e la pittura rappresentano il suo linguaggio privilegiato perché “l’arte non conosce confini, né lingue. La pittura o la scultura sono linguaggi accessibili in  qualsiasi modo o in qualsiasi situazione”. Non è l’arte fine a se

Il guardiano dei tacchini

di Wilma Vedruccio

Da bambino aveva fatto il guardiano dei tacchini.

Li aveva rincorsi quando, appena fuori dal pollaio, liberi finalmente ed affamati, s’erano diretti verso l’aia dove s’accumulavano i covoni d’avena, i covoni di grano. Li rincorreva gridando per scoraggiarli ma era lui scoraggiato ed impaurito di non riuscire a tenerli a bada. Li raggiungeva alfine quando s’erano già accaniti a beccare le fascine che crepitavano sotto i loro colpi ed era costretto ad un assalto caotico e disordinato, frammisto di urla, lanci di sassi e gesticolazioni per dissuaderli e allontanarli dai covoni.

Finalmente li menava verso i pascoli concessi, il loro passo era cadenzato come di chi obbedisce malvolentieri, e lo scontento si esprimeva nei versi che gli animali facevan rimbalzare l’un con l’altro.

Il nostro eroe aveva riacquistato dignità, si era munito di un bastone di fortuna e riusciva ora anche a fischiare se era necessario. Li lasciava poi liberi in un campo di stoppie dove avrebbero cercato fra la terra riarsa chioccioline e spighe non raccolte.

   Si poteva distrarre finalmente, guardava le nubi che s’alzavano a occidente, fiutava il vento e progettava di salire sull’albero di fichi di laggiù, vicino al pozzo. Quando poi le bestie pennute, un po’ sazie un po’ vinte dalla calura, s’accoccolavano fra la polvere, il pastorello s’allontanava per salire sull’albero dai frutti dolci come il miele.

Passava di ramo in ramo agile come felino, coglieva i frutti che rosseggiavan fra le fronde, li portava alla bocca, li gustava con i denti, col palato, con la lingua e l’ingoiava avido come se fosse stata acqua di sorgente, fin quando ne scorgeva ancora uno.

Oh no, quei dannati tacchini hanno assalito l’orto dei pomodori…..

Giù dall’albero, corre all’impazzata agitando il bastone e lanciando pietre e fischi. S’affanna un po’ prima di scoraggiare quelle bestie. Vola qualche piuma e molti sono gli schiamazzi.

Era costretto a lunghe camminate sotto il sole in campi di stoppie perché quegli uccelli dal collo troppo lungo, troppo nudo  e troppo avido insieme,

Le strade di Carlo Casciaro

di Raffaella Verdesca

 

“Tutte le strade portano a Roma” era il detto più usato da questa nostra nazione fin nei villaggi più sperduti dello stivale.

Orgoglio patriottico e bussola per i distratti, gli insicuri e i maratoneti d’ogni giorno, quelli bisognosi di traguardi.

A me basta osservare il cielo per trovare la strada giusta, e il cielo che oggi mi è amico è quello fitto di nuvole e schiarite che Carlo Casciaro appende in alto alle sue tele per far luce sulle strade di Diso, Giuggianello, Vignacastrisi. Salento crocevia di piazze, di storie e di vita.

I prospetti bianchi delle case sono illuminati da un sole che non si vede ma si intuisce dalle tonalità celesti sopra le case senza tetti, dai giochi d’ombra sotto i cornicioni senza abbandono, fatali connubi che attestano che Casciaro riprende ciò che esiste e fa esistere ciò che ritrae.

Se fisso dove si specchiano i raggi sui muri so in quale parte del cielo danza il sole prima dell’applauso finale, so quando l’ultimo gatto lascerà la soglia della propria casa per la caccia notturna, riesco a sentire il richiamo delle madri sui giochi di strada dei figli, vedo i curiosi ritirarsi dalla facciata di una locandina che informa il mondo della Mostra Pittorica di Carlo Casciaro, quella che li farà conoscere al pubblico.

E io chiudo gli occhi certa dei miei passi.

Insieme a voi arriverò fino a ‘Roma’, ovvero alla sorgente naturale della meraviglia, calpestando le vie che una mano d’artista ha segnato attraverso l’occhio mite e attento del suo respiro innamorato.

Casciaro ama infatti la sua terra e ce ne regala i colori migliori attraverso immagini che nel passato scovano l’armonia del vissuto, del semplice, di quel palpitare non più ovvio se immortalato nei volti che quelle stesse strade e piazze hanno abitato.

Ed ecco affacciarsi i ritratti di personaggi che hanno il sapore della storia, forse della favola. In caso di dubbio sulla giusta direzione, è a loro che Carlo ci suggerisce di chiedere.

Fra tutti questi fogli appesi a consigliarci c’è u Dunatu Capone u Peppe Zainu  Mescia Cosima’,  non mancano la stessa madre e lo stesso padre  del pittore.

La metamorfosi del tratto dell’artista fa scomparire d’incanto il colore dai ritratti, come sciolto dal sudore di una vita dura a cedere il passo alla dimenticanza.

Chiunque avrà la fortuna di ammirare queste splendide tavole di Carlo Casciaro avrà l’impressione di essere osservato da uomini e donne in carne ed ossa, figure fiere di quel chiaro-scuro che oggi di loro racconta il sacrificio, la bontà, l’inquietudine dettata da una passione da realizzare o da seppellire, la beatitudine alimentata da un sogno da consacrare o da dimenticare.

Arriveremo tutti a ‘Roma’ sani e salvi, novelli Magi all’inseguimento di cieli brillanti d’azzurro, di sguardi carichi di emozioni e di forti legami con la terra, gli stessi che scavano le strade che Carlo Casciaro oggi ci offre come un viaggio, il viaggio alla scoperta di noi stessi, l’avventura che non dura il tempo di una Mostra, la mappa di ogni cacciatore di vita che si rispetti.

 

 

 

Nardò. L’antichissima abbazia di Santa Maria delle Tagliate

Dai “Sommessi racconti inediti”

 Il racconto del silenzio. L’abbazia di “Sancta Maria de le Talliate”

di Enrico Gaballo

Può sembrare un fantasioso ed antistorico controsenso che si possano raccontare vicende legate indissolubilmente ad un’antica abbazia benedettina attraverso alcuni segni rupestri. L’abbazia di S. Maria de le Talliate sorgeva a circa due chilometri dal centro abitato di Nardò e a quattro dal mare. Insisteva su di un’area di nove ettari a forma di valletta quadrilatera facilmente individuabile dalle rovine di una chiesa con campanile a vela. Della chiesetta settecentesca di origine bizantina, crollata tra il 1964 – 1966, rimane solo un cumulo di macerie.

Intorno e nelle immediate vicinanze si può godere della visione dell’omonimo insediamento rupestre (vedi sez. urbanistica Nardò, zona rilevante) con alcune abitazioni – grotte, con croci latine sugli stipiti degli ingressi, che hanno senz’altro subito scavi da parte dell’uomo nel periodo intorno all’anno Mille a.C. con scale di collegamento e con una cisterna vicino alla chiesa diroccata, che consisteva in un unico ambiente con volta a botte di circa metri tre per cinque.

Queste testimonianze si sprofondano nella roccia dissestata e sono cavità di piccola dimensione in parte allineate ed, in apparenza, intercomunicanti. Somigliano molto alle grotte otrantine. Il complesso rupestre si affacciava con molta probabilità su di un’importante via di comunicazione: la Sallentina che collegava non solo centri marittimi come Otranto e Taranto, ma anche due mari: l’Adriatico e lo Ionio. La strada un tempo tagliata dalle ruote dei carri, oggi è impietosamente sepolta da grigio asfalto.

Questi agglomerati scavati nella roccia erano occupati da popolazioni disperate per il continuo stato di guerra nell’Alto Medioevo.

Nei pressi del villaggio con molta probabilità vi era l’antichissima abbazia appunto di “Sancta Maria de le Talliate”,

Leuca nelle fonti letterarie, tra storia e leggenda (parte seconda)

di Paolo Vincenti

A Leuca, sacro e profano convivono sincreticamente insieme, in una fusione culturale prodigiosa. Leuca, frazione di Castrignano del Capo, ha origini antichissime: ne parlano lo storico Strabone e Lucano. Qui, nell’antichità, sorgeva un tempio dedicato alla Dea Minerva  e questo tempio era visibile dai naviganti a diversi chilometri di distanza ed incuteva loro un certo timore. Secondo la mitologia, Minerva contese con Nettuno per la signoria di Atene e si stabilì che essa sarebbe toccata a chi di loro avesse fatto il dono più utile alla città. Nettuno, col suo tridente, fece balzare fuori dalla terra un cavallo; Minerva invece fece nascere l’ulivo, che fu riconosciuto di maggiore vantaggio per la città e Minerva ne ebbe la supremazia. La dea era molto amata nella antica Japigia: santuari le erano stati dedicati a Castro, Otranto e Leuca. Secondo la leggenda (Leuca è terra di leggende), Japige fece costruire  un santuario dedicato alla dea quando seppe della vittoria riportata da Minerva nella battaglia contro i Giganti. Inoltre, il fatto che la dea avesse fatto spuntare dal suolo il primo albero di ulivo, le fece guadagnare la riconoscenza di tutti i salentini, che dedicarono a Minerva il mese di Marzo, durante il quale si celebravano le Quinquatrie, feste sontuose in cui si tenevano giochi, sacrifici e danze sfrenate. Durante queste feste, gli uomini di Leuca indossavano abiti morbidi e le donne assumevano atteggiamenti lascivi, perdendo ogni inibizione. In una sorta di estasi collettiva, tutti rubavano, si accoppiavano promiscuamente ed assecondavano i più bassi istinti. Per questo Giove, adirato, incenerì Leuca con il suo tempio e i suoi abitanti. Il Santuario fu edificato, probabilmente, sulle rovine dell’antico tempio di Minerva.  La leggenda vuole che l’apostolo Pietro, approdato a Leuca, nel 43 d.C., convertì gli abitanti al Cristianesimo e da qui iniziò le sue predicazioni in tutto il mondo occidentale; all’apparire dell’apostolo, il simulacro di Minerva andò in frantumi e Pietro, appena approdato sul suolo italico, vi piantò una croce. Nel Seminario di Leuca è conservata un’ara di questo famoso tempio. Il Santuario, distrutto sotto l’Imperatore Galerio,  fu riedificato e consacrato al culto di Maria Vergine, nel 343,secondo la leggenda, da Papa Giulio I, come si legge in una lapide

Antonietta De Pace, patriota gallipolina

 

di Gino Schirosi

 

Gallipoli ha l’obbligo morale di celebrare con orgoglio, soprattutto oggi, la sua figlia più illustre: Antonietta De Pace. Una piccola donna, ma una grande eroina, una patriota mazziniana, fervente e intrepida rivoluzionaria, collaboratrice di Garibaldi e Pisacane, Poerio e Settembrini, Valentino, Libertini e Castromediano.

Singolare e indomita figura femminile che nella vicenda risorgimentale occupa un posto di primo piano, assieme con i grandi della patria, nell’universo storico e politico dell’800, un secolo difficile per le incomprensioni, le diffidenze e le ostilità. Notevole risulta la sua intensa attività politica contro le forze di polizia della potente dinastia borbonica.

La sua lotta è tesa solo ad affermare la propria ideologia, la propria fede politica in opposizione alle forme di governo retrive e repressive di ogni libertà. Propugna il senso di giustizia sociale, la propria avversione ad ogni tipo d’illegalità o sopraffazione a difesa di emarginati ed oppressi, dei più deboli della società. Il suo impegno civile, unicamente dedito a contribuire alla nascita dell’Unità nazionale e inteso a modificare il corso degli eventi, non conosce tentennamenti né compromessi, ma le cagiona, tra ostacoli e rischi, la detenzione nelle tristemente note galere borboniche, insieme con altri suoi compagni di lotta.

Una donna antesignana del femminismo moderno e protagonista del suo tempo nella periferia del regno, personaggio inflessibile e coraggioso, intrepido e indomito nell’affermare i suoi princìpi liberali e democratici, i suoi ideali romantici e risorgimentali di italianità. Partecipa in prima fila all’impresa garibaldina fino a festeggiare la liberazione di Napoli. Entra in città cavalcando insieme con Garibaldi attraverso via Medina in direzione della reggia.

Figura apparentemente leggendaria, ma vera e autentica, umana e poetica, modello di ben altro protagonismo che oggi è solo miraggio, ma che va additato ad esempio di forza morale e civica in un mondo, quello attuale, che ha snaturato ogni ideologia, ha smarrito o non conosce più i valori della storia patria e delle nostre radici.

Da tale testimonianza i nostri giovani dovrebbero dedurre una nobile lezione di vita, conoscere anzitutto i segreti che si celano nel sogno di questa gallipolina, una donna sulle barricate del nostro Risorgimento. Dalla sua città tuttora non è stata debitamente gratificata se non con l’intitolazione di una via. Forse non si è abbastanza compreso che, in qualche modo, anche

Una fotografia

di Alessio Palumbo

All’alba del natale di Roma del 1943, il generale Solmi passò in rassegna le truppe schierate nella piazza d’armi della caserma Antonio Cascino di Salerno. Nino, suo attendente da oltre due anni, ossia dal rientro dalla campagna di Francia, sfilò dietro lui, a cavallo.

Il fotografo del reggimento lo immortalò in una posa agile e sicura e, pochi giorni dopo, gli donò la foto, senza voler nulla in cambio. Era proprio venuto bene.

La sera stessa, dopo aver accudito il suo mezzosangue ed esser passato da Solmi per le ultime consegne, uscì dalla caserma e si diresse spedito verso il bar di via Candia, a due isolati da lì. Sedette comodamente, ordinò un’orzata e si mise a contemplare con soddisfazione la foto. Gustata la bevanda, rivoltò l’immagine e, con la grafia che i pochi anni di scuola gli permettevano, scrisse: “Tornerò. Saluti, Nino”.

L’indomani spedì la foto con la posta del reggimento.

Una mattina di maggio, nell’androne del nuovo tabacchificio, Concetta accostò Cristina, intenta a mangiare il suo pezzo di pane e sarde di metà turno. Dopo un lungo sorriso le disse: “Nino ha scritto” e cavò dal tascone del grembiule la foto. Cristina gliela strappò dalle mani e la fissò, estasiata. Avrebbe voluto mettersi a correre, a saltare… ma riuscì a trattenersi. Con Nino si conoscevano da quando lei era una ragazzina e lui quasi un uomo. Sette anni di differenza! Troppi, almeno per i rispettivi genitori, i quali avevano fatto di tutto per tenerli lontani l’uno dall’altra. La guerra era riuscita ad allontanarli ancora di più, ma poi Nino aveva trovato il modo di

Il Mangialibri/ Eleonora

  

 

 

 di Michele Stursi

 

Nei piccoli paesini del Salento la gente non va mai a letto rimpiangendo qualcosa del giorno passato, ma quasi sempre con un occhio, o almeno il pensiero, rivolto verso il mattino successivo.

Nel Salento la notte non segrega, ma fa da filo conduttore: i giorni sono fatti passare attraverso questo spago e così facendo si raccolgono insieme e si lasciano seccare al sole come foglie di tabacco, per poi assaporarne l’aroma durante l’inverno.

Nel Salento non si dorme per abitudine o piacere, ma per dovere e necessità, come per qualsiasi altra cosa.

Sono le sei del mattino e fuori si sente già un brulichio continuo, incessante. Il sole ancora si nasconde dietro l’orizzonte emanando fiochi bagliori rossastri che accarezzano le mie palpebre. Le grida del fruttivendolo sono come una sinfonia scritta e finalmente musicata, una moglie ricorda al marito di portargli verdura fresca e prezzemolo da campagna, due giovani contadini si salutano in piazza e il vecchietto di fronte casa mette in moto l’Ape. Io mi godo, steso sul letto, questo stupendo risveglio, ignorando quanto realmente stia accadendo per strada. Difatti appena mi affaccio alla finestra, mi rendo subito conto che Noha è già entrata nel cuore della giornata: le comari tornano in gruppetti dalla messa, un bambino ritorna dalla putea[1] con il panino in mano, il contadino raccatta gli attrezzi del mestiere e li sistema in un’arrugginita cinquecento famigliare, il vecchietto sottocasa si avvia verso la

Racconti/ Il delfino nello scaffale

di Raffaella Verdesca

Una giornata difficile oggi, diciamo pure infernale!

“Sì, sì, non si preoccupi, sistemeremo tutto: due volumi di ‘Le strategie militari correnti’ e cinque di…come? Ma, generale, è tutto ieri che cerco di spiegarle che questa è un’opera ormai fuori stampa da almeno un quarto di secolo, un vero e proprio cimelio editoriale! Per risolvere il problema dovrei chiamarmi Aladino ed avere la lampada magica sotto il braccio.”

Certe giornate, anzi, non dovrebbero nemmeno iniziare.

“Forse non sono stato chiaro, Grimaldi: l’”Arte della guerra dai Greci ai nostri giorni” è un testo specialistico già a suo tempo stampato in pochissime copie, mi sono informato appena me lo ha richiesto. Ma che! Niente ristampa e fortuna per quest’opera d’arte, come la chiama lei.

Io non posso sapere se da qualche parte siano rimaste copie in giacenza, sono solo un libraio, mica Padre Indovino!”

Perché sono un libraio in questo momento? Non potrei tornare ad esserlo domani?

“Su, da bravo, generale! Potessi vederla soddisfatta, le suggerirei io stesso il nome di qualche libreria fornita del testo che desidera, mi creda.

Grazie, lei è sempre gentilissimo, lo so che siamo noi la sua libreria storica, ma a quanto sembra, non tanto ‘storica’ quanto le servirebbe in questo momento!

Se ha il chiodo fisso dei testi militari, perché non prova a cercarli a Roma? Magari in qualche deposito, forse in biblioteca.

Non so davvero cos’altro suggerirle, Grimaldi, mi spiace. Per accontentarla, riscriverei seduta stante e di mio pugno tutti i trattati che non riesce a trovare!

Senta qua che introduzione mi sta venendo in mente per il suo libro ormai inesistente:

“Gli antichi Greci, filosofi e raffinati strateghi, non eccellevano solo in cultura e democrazia,ma anche nell’affinamento del mezzo con cui trasmettere questo loro patrimonio alle nazioni conquistate e da conquistare: l’arte bellica.” Ad effetto, eh? Non sembra, ma potrei fare il saggista, sebbene mi accontenti di essere un semplice libraio. Se lei invece dovesse trovare lavoro in base allo spirito che si ritrova, ahimè, temo rimarrebbe disoccupato a vita!

Tornando al suo problema, mi dia retta: l’unico modo per conoscere il contenuto del libro che cerca, sarebbe quello di evocare lo spirito dell’autore!

Ora devo proprio lasciarla, ho del lavoro da sbrigare al banco. E’ stato un piacere, si figuri! Chiami pure, se le viene in mente una richiesta meno

Carlo Caggia, ovvero il coraggio dello storico

A dieci anni dalla presentazione delle Memorie di Galatina di Giuseppe Virgilio

 

a cura di Gianluca Virgilio

 

Pubblichiamo il discorso pronunciato da Carlo Caggia durante la presentazione del libro di Giuseppe Virgilio dal titolo Memorie di Galatina. Mezzo secolo di storia meridionalistica e d’Italia (Mario Congedo Editore, Galatina 1998) avvenuta lunedì 4 gennaio 1999, alle ore 18:00, presso la sala “Fede e Cultura” di San Biagio a Galatina. Risentire la sua voce racchiusa nelle parole dedicate al lavoro di Giuseppe Virgilio, nelle quali si riassume la concezione storica dell’autore di Carlo Mauro pioniere del socialismo salentino (1967), Cronache tra due secoli (1976), Carlo Mauro costruttore di civiltà (1996) e Cronache galatinesi (1996), ci sembra il modo migliore di ravvivare il ricordo di Carlo Caggia tra le nuove generazioni.

La Redazione de Il Filo di Aracne

particolare di palazzo nobiliare nel centro storico di Galatina

Un saluto, innanzitutto, allo scelto e anche numeroso pubblico dei concittadini. Gli amici di Galatina mi consentano un saluto alla preside Calabro che per moltissimi anni è stata con noi impegnata nel mondo politico e civile, e un saluto particolare al professore Coppola, Presidente della Società di Storia Patria di Maglie e di Otranto, e a tanti carissimi amici che involontariamente ho omesso di citare. Un saluto particolare a Franco Martina, al quale mi lega un’antica amicizia, pluridecennale, collaboratore apprezzato di quel vecchio giornale [il “Corriere di Galatina”], che per una ventina d’anni pubblicammo a Galatina. Forse, se mi permettete, non siamo vissuti invano, per quello che abbiamo saputo fare, di piccolo, di modesto, di infinitesimale.

Questa sera siamo chiamati a parlare del bellissimo libro di Peppino Virgilio, che io non debbo presentare perché tutti lo conoscete. Però non posso omettere di delineare il suo cursus honorum culturale. Peppino Virgilio nasce liberale. Intendiamoci: a Galatina il termine liberale, specialmente negli anni dell’immediato dopoguerra, significa agrario, cioè non aveva niente di quella nobiltà che la parola liberale ha avuto ed ha ancora oggi. Il gruppo di intellettuali che si raccoglieva intorno a Peppino Virgilio e a Carlo Tundo cercava di dare a questo liberalismo meridionale un’impronta progressista,

Otranto, il laghetto di bauxite

ph Ivan Lazzari

 

di Rocco Boccadamo

Non bastano, invero, le parole, perlomeno si rivelano inadeguate secondo la sensibilità del comune osservatore di strada che scrive, per poter dire di Otranto, del suo cuore, della sua anima, della sua storia, impaginata fra momenti di osanna e di gloria e parentesi di tragedia, dei suoi stessi dintorni.

Otranto è, insomma, un impareggiabile tesoro, anzi un insieme di tesori, un autentico piccolo grande miraggio reale, punto e basta, sicché l’approccio dell’umana mente al suo indirizzo non può non coniugarsi anche con moti emotivi, con scansioni di commozione profonda.

A pochi chilometri dalla località, lungo l’arteria litoranea che si snoda in direzione sud verso Porto Badisco, Santa Cesarea Terme e Castro, più o meno all’altezza della Baia delle Orte, si trovano, ponendosi all’ammirazione stupita dei transitanti e visitatori, i resti d’una cava di bauxite, ormai

Le autostrade del Salento fra ansia di modernità e rischi di scempi ambientali

di Paolo Rausa

 

Sulle grandi opere viarie che sono in progetto o in fase di realizzazione in tutto il nostro paese sorgono da più parti comitati di associazioni ambientaliste e di cittadini, preoccupati per il loro impatto ambientale. E’ il caso delle statali 275 (nel tratto Maglie-Leuca) e 16 (nel tratto Maglie-Otranto), che interessano la porzione sud-orientale del Salento, l’estremo lembo della Provincia di Lecce.

Un territorio significativo per la presenza del Santuario della Madonna De Finibus Terrae, laddove si erge il Faro che irradia con la sua luce le acque dell’Adriatico e dello Ionio che qui si separano e si ricongiungono in un moto perenne. Proprio questo Santuario ha rappresentato nella cultura contadina la fine del mondo, dell’ecumene conosciuto, il termine oltre il quale cominciava il regno dell’Ade e per questo – dice il poeta Vittorio Bodini – “è qui che i salentini dopo morti / fanno ritorno / con il cappello in testa”.

Certo, altre suggestioni… Ora dobbiamo guardare avanti, allo sviluppo di una terra arretrata… – sostengono i promotori di queste nuove arterie super o auto/stradali, che attraverseranno come cicatrici la terra già lungamente provata del Salento. Non è pensabile una grande opera senza prima aver

Diario del Salento – I pomodori secchi

 

di Tommaso Esposito

Tommaso Esposito gira il Salento. Ecco le sue suggestioni


E’ un miope incapace di stupore chi nel cibo scorge oggi solo il frutto della tecnica che ha sostituito antichi attrezzi da lavoro o della scienza che ha inventato mutazioni genetiche.”
E. Bianchi, Il pane di ieri, p.37.

Ritorno da Gemini frazione di Ugento dove incontro un amico.
Un gelato non degno di nota.
Rientro e mi trovo lungo la strada per Alliste, l’antica Kallistos, “La Bellissima” in griko.
E se passo per Felline? No, sarò al “Mulino di Alcantara” un’altra sera.
Bene. La rossa campagna argillosa mi fa compagnia.
Cosa fanno laggiù?
Nooo, son pomodori stesi al sole.

Lecce., La bella storia di Angela e Ranil

di Rocco Boccadamo

Anche se queste righe fotografano una vicenda reale e attuale, mette conto di precisare che, per ragioni di riservatezza, i nomi dei protagonisti non corrispondono agli effettivi dati anagrafici, ma sono frutto di fantasia.
Ho conosciuto Angela, diversi anni fa, in chiesa, assistendo alla messa in una piccola parrocchia, con un’altrettanto piccola comunità di fedeli, del centro storico di Lecce e sono rimasto colpito dalla sua figura eccezionale, tanto nell’aspetto esteriore, quanto con riferimento alla solidità e all’equilibrio dei valori e contenuti che, da subito, ho avvertito sprigionarsi dal suo profondo intimo.

Angela non ha la possibilità di condurre un’esistenza completamente normale, è una persona diversamente abile, la sua compagnia più prossima e fedele sta incorporata in una carrozzella. Eppure, ella si propone come giovane donna piena d’interessi, di conoscenze e di desideri e soprattutto, anche se ciò potrebbe sembrare un paradosso, sprizzante una grossa carica di vitalità: basta soffermarsi sul suo sguardo, sugli occhi che emanano fasci di luce folgoranti e coinvolgenti.

Leuca nelle fonti letterarie, fra storia e leggenda

 

 (parte prima)

 

di Paolo Vincenti

Il cammino leucadense è un lungo viaggio nella memoria, è un viaggio indietro nel tempo sulle tracce degli antichi pellegrini che si recavano al Santuario di Santa Maria de Finibus Terrae, lungo l’antica via della perdonancia. Era una grande tristezza, forse il pentimento per le colpe commesse, o forse la speranza di un domani migliore, a muovere questi viandanti e a farli percorrere a piedi decine e decine di chilometri, per arrivare a Leuca ed impetrare la grazia dalla Madonna di Finibus Terrae. Ed è una grande malinconia, forse malinconia di cose perdute, l’amarezza per gli sbagli commessi o la speranza di potere domani essere migliori, a muovere noi oggi, pellegrini del duemila, sui passi che furono dei nostri avi.  Il cammino leucadense è un viaggio fra cielo e terra, fra infiniti fichi d’india e muretti a secco che delimitano i confini delle campagne,tipici di tutta l’area sud salentina, fra il profumo del mirto e il frinire delle cicale, un viaggio fra le mille fluorescenze che offre questa assolata terra ai confini del mondo. Il cammino dei pellegrini oranti e giubilanti, fra vecchi tratturi e l’odore del mare che si avverte da lontano, è un tendere verso una mèta conosciuta ma non per questo meno anelata: Santa Maria di Leuca e il suo Santuario, il primo d’Italia e d’Europa (almeno a noi piace che sia così), dedicato alla  Vergine Assunta in Cielo, che tutto il mondo conosce e venera come Madonna De Finibus Terrae.

Si, perché Leuca è la mèta ultima, il traguardo estremo, la fine della terra, non nel senso metaforico di terra conosciuta che attribuivano i romani alle regioni del mondo non ancora esplorate (“hinc sun leones”  scrivevano sulle loro rudimentali cartine geografiche), ma nel senso fisico, spaziale, di  ultimo confine territoriale, di ultima frontiera del mondo occidentale, ponte ideale per l’Oriente, imbarco per nuove avventure, partenza per una diversa

Fiabe Salentine/ Il geranio

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Nascendo lo avevano chiamato Giorgio come il santo patrono del paese, un santo guerriero che l’immagine posta sull’altare maggiore della chiesa mostrava fiero mentre in sella ad un cavallo bianco uccideva a colpi di lancia un terribile drago tutto fiamme e fumo.

Di quel nome il bambino ne andava orgoglioso, come se il sentirsi associato a un santo tanto forte lo compensasse della sua mancanza di vigorìa: era infatti nato e cresciuto malaticcio, con una gobbetta che gli premeva sulle

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