Il complesso conventuale dei padri Domenicani di Muro Leccese

di Romualdo Rossetti

 

Da sempre luogo di preghiera e di cultura, l’attuale complesso conventuale dei padri Domenicani di Muro Leccese sorse su ciò che rimaneva di un importante cenobio basiliano dedicato al culto di S. Zaccaria, rientrante, secondo quanto afferma lo storico murese Luigi Maggiulli nella sua Monografia di Muro Leccese, nell’orbita politico-amministrativa del più celebre monastero basiliano del Salento, quello di S. Nicola di Càsole, fatto erigere dalla lungimirante politica di Boemondo di Taranto, figlio di Roberto il Guiscardo nel 1098 e raso completamente al suolo dalle feroci armate ottomane di Maometto II° durante l’assedio di Otranto del 1480.

Con la distruzione ad opera dei Turchi del monastero di S. Nicola di Càsole, prima “Universitas” letteraria ante litteram dell’intero bacino del Mediterraneo, fu inevitabile l’emergere di un lento ma inesorabile declino anche degli altri cenobi basiliani del Salento. Di conseguenza, anche il monastero di S. Zaccaria in Muro, come quello di S. Spiridione in Sanarica (ora masseria Incanelli), patirono la stessa sorte del primo, in maniera, forse meno eclatante, ma sicuramente non meno spiacevole per ciò che poteva concernere la salvaguardia della cultura e della tradizione greco-bizantina nel tacco d’Italia.

Nel 1561 sulle rovine dell’antico cenobio basiliano, il principe di Muro, Giovan Battista I° Protonobilissimo volle che si riedificasse un nuovo sontuoso complesso coventuale e si rivolse per l’occasione al sostegno dei frati dell’Ordo Praedicatorum di S. Domenico di Guzmàn.

Il principe donò ai padri Predicatori, meglio noti col nome di Domenicani, affinché si potessero ben sistemare in paese, i poderi che erano stati dell’antico cenobio basiliano di S. Spiridione in Sanarica ed il patrimonio terriero di S. Zaccaria che, all’epoca, risultava però ancora essere un

Santa Cesarea tra leggende e ricordi

di Renato Rizzelli

 

Parlo di Santa Cesarea. Così come un uomo può parlare di un amore ormai perduto. E ne rammento profumi, voci, personaggi, case, giardini che oramai non riconosco più. Da tempo.

Maria Corti scriveva: “C’è, nel Salento, un luogo marino chiamato Santa Cesaria dalla gente del posto, laddove nel 1913 la passione retorica dei burocrati impose la ridicola variante ufficiale di Santa Cesarea, cui aggiunse Terme, quasi che non al locale San Cesario, ma all’imperiale Cesare si legasse il nome della vergine…” (1).

Dalla passione retorica, col fluire degli anni, siamo passati a una passione ben più pericolosa: quella per la speculazione, per il guadagno personale anche a costo di sfigurare il territorio, sfruttandolo in modo barbaro e miope, fino a corroderne persino l’ormai ingiallito ricordo.

Da tali offese alla bellezza e alla memoria sorge il desiderio di scrivere qualcosa sulle origini di questo luogo che le incarna entrambe, quasi a recuperarne un’eco dell’antica immagine ormai sbiadita, forse irrimediabilmente persa. La ricerca di tali origini è compito che si sostanzia in un nostalgico inseguire i mille rivoli delle leggende locali, variegate

Nardò (Lecce) e la rivolta dei raccoglitori di pomodori

da: http://www.eat-ing.net/

di Elio Ria

Ivan Sagnet è un giovane camerunense di ventisette anni, studente al Politecnico di Torino.

Nel luglio del 2011 si reca nel Salento per raccogliere pomodori. Ha bisogno di soldi per proseguire gli studi. Approda quindi su consiglio di un amico a Nardò (Lecce), presso una masseria del luogo. Da subito s’accorge delle disumane condizioni in cui è costretto a lavorare sotto il sole cocente e senza nessun conforto. Il video, pubblicato su internet ( http://www.youtube.com/watch?v=jQxMuFE1hTI)   esplica con dovizia di particolari  il maltrattamento e le angherie subite dai lavoratori. La denuncia è avvenuta durante la prima puntata del nuovo programma condotto da Fabio Fazio e Roberto Saviano su La7, Quello che (non) ho, il 14 maggio 2012.

Una storia nella storia di “Animal Farm”.  Molti sono gli aspetti che concorrono a delineare che gli animali della fattoria padronale di George Orwell, oggi sono gli uomini di colore, maltrattati e soggiogati.

Il sogno di libertà e di giustizia è stato infranto da alcuni, soprannominati  caporali.

Una storia squallida che non fa bene ascoltare, che induce a fare qualcosa  da subito senza alcun ripensamento.

Ivan Sagnet ha conosciuto un Salento, una porzione di un luogo che lo ha sconvolto.

La violenza è un fatto storico su cui ragionare e  rappresenta il sintomo più vistoso e allarmante di carenze istituzionali ma anche di una coscienza civile che non può prescindere dal rispetto degli altri. Quanto è accaduto al giovane Sagnet è mortificante. Il Salento merita ben altri palcoscenici, certamente non

Arnesano. Il villaggio neolitico di Riesci

via Velardo, direzione Riesci (ph Luigi Paolo Pati)

IL VILLAGGIO NEOLITICO DI  RIESCI IN CERCA DI TUTELA. ART. 9 DELLA COSTITUZIONE

 

di Luigi Paolo Pati

 

 Le prime testimonianze della presenza umana, stabilitasi  a Riesci in agro di Arnesano (Lecce), vennero rinvenute in un’area compresa tra Carmiano, Monteroni, Lecce e la stazione di Surbo, già Collezione De Simone, custodita nella Casa Museo di villa S. Antonio in Arnesano; questa ricca e importante raccolta di oggetti litici di età neolitica,  ora è al Museo Provinciale di Lecce ( Nicolucci 1879, Jatta 1914, De Giorgi 1922).

In  prossimità di Arnesano (contrada Li Tufi) furono rilevate tracce di un insediamento dell’età del Bronzo (Delle Ponti 1968).

Tutto il materiale litico e i frammenti di terracotta rinvenuti a Riesci, oltre ai fondi di capanne con intorno i fori dei pali, vasche di raccolta dell’acqua o buchi di libagione, fosse di combustione, alcuni tratti di muro megalitico e ad un articolato sistema viario,  costituiscono i resti del Villaggio Neolitico di Riesci (L.P.Pati 1986 e 2006).

La testimonianza più nota, ampiamente trattata in letteratura, è la sepoltura a grotticella artificiale scoperta nel 1968, completa di corredo, conservato nel

Metereologia salentina e celebrazione dei Santi, dall’8 settembre a Natale

 

 

CULTI MAGICO-RELIGIOSI  NEL SALENTO  FINE OTTOCENTO

 

TI LA MMACULATA L’ACQUA SERVE SULU PI LLI PUCCE

 

 Le celebrazioni dei santi come termini convenzionali di riferimento meteorologico in una strumentale emissione di volontà collettiva e l’accanita ricerca di segni a carattere divinatorio.

 

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) Dal niente al troppo. Era questa la scomoda altalena della meteorologia salentina, nel cui quadro però, il “troppo” non veniva tanto rappresentato dagli improvvisi nubifragi – statisticamente rari nel Salento -, quanto dalle possibili eccedenze pluviali del tardo autunno, capaci di determinare, con l’impantanamento delle campagne, non solo la crisi economica dei coltivatori (era periodo di semine e di raccolta delle olive), ma soprattutto la disperazione dei sciurnaliéri (giornalieri) che, privati di ogni possibilità di trovare ingaggio di lavoro, soffrivano la fame.

Uno spauracchio che nella frequenza del suo proporsi aveva generato una vera e propria psicosi stagionale, a sua volta convertita, quasi a contrasto propiziatorio, in una sorta di tabella delle piogge da scandire in misura calendariale, ovverosia assumendo le celebrazioni native dei santi come termini convenzionali di riferimento meteorologico. Riferimento che, sia pure inconfessatamente, voleva adire alla messa in orbita di un condizionamento, la cui sostanza magico-religiosa la si poteva carpire più che dalla valenza delle singole aggiudicazioni, dalla curiosa eterogeneità di significanti espressi dallo stessa scadenzario, nel quale venivano a confluire, unitamente ai sensi di affidamento devozionale, una strumentale emissione di volontà collettiva e l’accanita ricerca di segni a carattere divinatorio.

Appena iniziato settembre, con ancora sulla nuca lo specchio ustorio dell’estate, i contadini cominciavano a parlare di pioggia come di un ospite che avesse già annunziato il suo arrivo, fissandone la data in concomitanza con la festa della Madonna delle Grazie (8 settembre), giorno ritenuto di stura ai doni celesti e perciò quanto mai adatto a segnare l’avvio di quello che era il ciclo di fertilità della terra:

Pi’ lla Matònna ti li razzie,

ssetta li roddhre, scupa la lliàma

e mminti lu limmu sott’a llu canàle,

scuscitàtu ca l’acqua la tiéni an capitàle.

Entro la ricorrenza della Madonna delle Grazie, / sistema i semenzai, scopa la terrazza / e metti la vaschetta sotto il canale di scolo, / sicuro di avere l’acqua già sotto il guanciale.

Pur se attinte al comune canovaccio delle consuetudini contadine e perciò ricche di una certa spontaneità nella scelta, le tre azioni da compiere in sostanza risultano ideologicamente mediate nella sovrapposizione dei simboli, ovverosia finalizzate a rappresentare il passaggio da un presente ancora in debito col passato a un presente già in commistione col futuro: la terrazza da liberare dalle scorie accumulatesi durante  il tempo dell’arsura; la presenza della conca che da vuota deve farsi piena; la sistemazione dei semenzai– momento icastico del rinnovamento nel festoso schiudersi dei germogli -, nel mentre provvedono ad assolvere a quelli che sono gli strascichi della patita sofferenza estiva, si convertono in rituale di accoglienza dell’acqua, peraltro celebrata non in quanto oggetto della speranza, ma come bene già assicurato, prova ne sia che la si dà presente sotto il guanciale, notturno posto di deposito dei risparmi contadini e quindi significante il pieno possesso del tesoro.

Non è infatti difficile notare come il tutto tenda a stabilire un magico processo di decretazione, quasi si voglia, attraverso la forza coercitiva del pensiero, vincere le leggi della fisicità facendole incappare nel tranello di una finzione che vuole dare per conclusa una stagione ancora in attivo.

Malgrado gli alberi di fico fossero ancora carichi di frutti in maturazione e si prevedesse di continuare il lavoro di essiccazione per tutto settembre, li ficalùri (i ficaioli) si imponevano l’aria del disarmo già dai primi del mese, non trascurando di far rimbalzare da campo a campo l’interessato monito:

A Mmatònna rriàta,

furnìta la spaccata…

Stà rrusce lu mmuddhràtu…

ncanìscia lu siccàtu,

ccuégghi lu siccatiéddhru

e lli littére mìntile a ccastiéddhru.

L’8 settembre, / la spaccatura dei fichi è conclusa!… / Si avverte già il crepitìo della pioggia… / ci conviene, pertanto, radunare nella canestra l’ultimo prodotto seccato, / raccogliere da terra quello appassito sugli alberi / e mettere i cannicci a deposito, sistemandoli, come si fa a ogni fine stagione, uno sull’altro a mo’ di castello.

Né diversamente si comportavano gli ortolani di Copertino: pur sapendo che avrebbero aspettato la festa ti li paisàni [1] (19 settembre) per portare al mercato li ponte ti cucùzza (le cimature delle piante di zucca), ritenute una leccornia in quanto raccolte solo una volta all’anno – in concomitanza cioè con l’estirpazione di tutta la coltura -, nell’approssimarsi della festa della Madonna delle Grazie davano già per conclusa la stagione orticola:

La tìa ti li ràzzie

no ffranca la mmuddhràta:

scigghiàmu la pagghiàra

e ffacìmu scapuzzàta.

Il giorno dedicato alla Madonna delle Grazie / non ci rinfranca dalla pioggia: / smontiamo perciò il pagliaio / e, raccogliendo gli ultimi frutti, sradichiamo le piante.

 

A quanti potranno trovare assurda tanta finzione, magari giudicandola incompatibile col rozzo semplicismo campagnolo, facciamo presente che lo spirito d’impostura non era estraneo al comportamentale  dei contadini spesso obbligati dalla necessità a prospettare ai padroni, più precisamente ai fattori, una situazione  – familiare, economica o agricola – diversa da quella reale, all’uopo mendicando la complicità dei vicini e sempre riservandosi la possibilità di cambiarne i termini allorché venivano a mutare le tangenze della loro convenienza.

Ugualmente impotenti di fronte alle forze della natura, trovavano logico ricorrere allo stesso stratagemma, credendo di poter influire sul proporsi della fenomenica meteorologica così come, imbrogliando, condizionavano le decisioni dell’avversario padrone: unica differenza  che questa volta la complicità la chiedevano ai santi, delle cui ricorrenze si servivano come di altrettante chiavi di volta in sintonia con i loro tornaconti. L’avere scelto la festività della Madonna delle Grazie a data della prima pioggia, rientrava in un loro calcolato piano di ipotetica regolamentazione degli avvicendamenti atmosferici, nella convinzione che solo attraverso lo scatto del primo passo le nuvole stabilivano il tempismo dei successivi: un partire col piede giusto, in base al quale – e proprio in virtù di quelle che erano le naturali leggi di avvicendamento fra periodi di sereno e giornate piovose -, una volta piovuto ai primi di settembre, si sarebbe avuto bel tempo durante la vendemmia, il cui travaglio aveva inizio subito dopo la festa di San Giuseppe da Copertino (18 settembre).

Va da sé che simili previsioni erano del tutto aleatorie, nessuno essendo certo che una volta ottenuta la pioggia questa non avrebbe poi continuato a cadere per giorni e giorni, miseramente fagocitando quello scampolo di sereno necessario ai vendemmiatori, nonché a quanti dovevano approntare i campi per la semina delle granaglie. Un’apprensione che, sollecitando al rimedio preventivo, faceva sì che i contadini, appena superata la festa della Madonna delle Grazie, avessero di colpo a cambiare bandiera, incentrando la loro volontà – sino a quel momento evocativa della pioggia – in uno scongiuro orientato a ottenere bel tempo. E poiché la vendemmia, come già detto, si poneva a ruota delle celebrazioni patronali, era proprio a San Giuseppe che si appellavano, coinvolgendolo in un’azione di salvaguardia comprendente festa e campagna:

Ti la paratùra e ddi lu innimàre

Sangiséppu nuésciu no ssi nni pote scirràre.

Della luminaria e della vendemmia / San Giuseppe nostro non se ne può dimenticare.

   L’associazione delle due proposte beneficiarie – luminaria e vendemmia – risultava più che pertinente ai fini atmosferici, e non soltanto perché l’addobbo stradale, per essere l’elemento più fragile della festa, offriva perfetta corrispondenza alla deperibilità dell’uva in caso di gravi intemperie, ma anche per il sottile concatenamento di incomodi che pure una semplice piovuta avrebbe provocato e ai festeggiamenti e ai vendemmiatori.

Per comprendere l’oggettività della concatenazione, occorre rifarsi all’epoca, cioè tenere presente che nell’Ottocento, essendo l’illuminazione elettrica una realtà di là da venire e non avendo il  Salento adottato quella ad acetilene – attestatasi solo ai primi del Novecento -, le luminarie venivano ancora allestite fissando alle arcate di legno – in una composizione a tappeto – dei piccoli bicchieri di vetro variamente colorato, che debitamente riempiti d’olio  e muniti di luminelli venivano accesi dai paratori con un paziente passare di stoppino.

A tanta laboriosità di accensione corrispondeva un’altrettanta precarietà di funzionamento, essendo bastevole un semplice piovasco a decretare non soltanto l’immediato abbuiarsi, ma anche l’intransitabilità delle strade addobbate: la pioggia, colmando i bicchieri, faceva infatti traboccare l’olio, macchiando i vestiti di chi si trovava a passare sotto gli archi e, quel che era più grave, rendendo pericolosamente sdrucciolevole il selciato. Un incomodo che durava anche a pioggia finita, convertendosi in vero e proprio ostracismo al passeggio, soprattutto a quello dei contadini, i quali, calzando acchétte cu lli tacce (stivaletti con le suole bullonate), nel contatto fra metallo e pietra unta facilmente finivano stesi per terra.

Analoghe conseguenze si registravano in campagna se la vendemmia si svolgeva sotto la pioggia: nel passa e ripassa fra i filari di vite, il terreno bagnato diventava estremamente viscido, non  offrendo stabile appiglio ai piedi nudi ti li scufanatùri (dei trasportatori) che, già sbilanciati dal peso delle tinéddhre (tinozze) rette sulle spalle, sommavano capitomboli con grave rischio per la loro incolumità e ovvio danneggiamento dell’uva così malamente scodellata per terra. C’è da aggiungere che all’impraticabilità dei terreni faceva riscontro quella dei viottoli e strade sterrate, per cui spesso capitava che i carri pieni d’uva s’impantanassero, richiedendo,  per il loro disincaglio, immani sforzi di uomini e bestie messi insieme.

Alla luce di tanta collimanza e soprattutto tenendo presente la stretta successione dei tempi – inizio di vendemmia a fine celebrazioni – , vien fatto di pensare che i contadini, nel basare la richiesta di protezione sull’abbinamento “paratùra-innimàre”, al di là dell’indiscusso interesse alla buona riuscita dei festeggiamenti, perseguissero un calcolo di opportunistica connessione delle due citazioni, volendo far sì che l’una (luminaria) avesse a risultare il preambolo dell’altra (vendemmia): se infatti avesse piovuto durante i giorni di festa, all’untuosità del selciato avrebbe corrisposto la fanghiglia della campagna, mentre il bel tempo assicurato ai festeggiamenti – qui rappresentati dalla luminaria – si convertiva in terreno asciutto per chi si accingeva a vendemmiare. Un esplicito sfruttamento delle circostanze, che trasferito sul piano morale veniva a configurarsi in manovra di incastro per le buone disponibilità di S. Giuseppe, il quale, dopo aver vigilato sinu all’ùrtimu scungulàre ti nucéddhre (fino all’ultimo sgusciare di noccioline [fino agli ultimi minuti di festa]), e presumibilmente soddisfatto per le onoranze ricevute, non poteva ingratamente uscirsene con un ”Sparàti li fuéchi, ccenca bbole fazza, fazza!” (“Una volta esplosi i fuochi d’artificio, quel che il tempo vuol fare, faccia!”), fregandosene della vendemmia: se per tre giorni consecutivi il paese si trasformava in un “paradiso di suoni e di luci”, lo si doveva in buona parte al contributo economico di pastori e contadini, i quali, abituati com’erano all’obbligatoria  spartizione dei prodotti cu lli patrùni ti stu munnu (con i padroni terreni), si facevano scrupolo di non concorrere personalmente e tangibilmente alla spesa per i festeggiamenti in onore ti lu  patrùnu an celu ti tuttu lu paése (del santo padrone di tutto il paese). Quasi il pagamento di una decima, il cui saldo, per i contadini avveniva proprio durante la vendemmia, quando i componenti del comitato feste patronali imboccavano i viottoli campestri sollecitando i coltivatori – così come d’estate avevano fatto con i pastori per le pezzotte di formaggio – a offrire uno o più panieri d’uva.

Nna stiddhra ti miéru pi llu Santu nuésciu!…” (“Una goccia di vino per il nostro santo!…”), chiedevano con voce stentorea fermando al margine del campo il loro traino con sopra due botti vistosamente contrassegnate da più croci dipinte con la calce; e a ogni vuotata di paniere si facevano obbligo di prendere un grappolo d’uva e sollevarlo verso il cielo, quasi volessero lasciare intendere che S. Giuseppe stava lì, affacciato a conteggiare l’entità dell’offerta. “Bbiùnnali a ccentu vussignurìa…” (“Ricompensali centuplicando, vostra signoria…”), dicevano infatti, dandone per scontata la presenza; e  rifacendosi alla necessità del momento, concludevano pressanti: “E stiénni la manu a ttiémpu ssuttu… ca topu nn’annu ti fatìa, no bbògghia Ddiu àggianu a sprangìre jastìme!…” (“E stendi la mano a trattenere il bel tempo… ché dopo un anno di lavoro, non voglia Dio abbiano motivo di snocciolare bestemmie!…”).

L’abitudine a minacciare i santi di un possibile ricorso alla bestemmia in previsione di un qualsivoglia accadimento avverso – viziosità della religione popolare, altrove messa in rilievo – in questo caso viene a spogliarsi da ogni sospetto di esagerazione nella causa, suffragata com’è dal fatto che settembre era periodo di rotture atmosferiche, facili a passare dalla semplice piovuta alla catastrofica grandinata. Un peggio che se pure scaramanticamente taciuto per non creare nell’alone evocativo dell’immagine una qualche forza di richiamo, era nel senso e nella destinazione dell’appello, implicitamente intendendo stabilire nella raccomandazione “stendi la mano a trattenere il bel tempo” il più radicale dei fermi all’evoluzione del negativo.

Non a caso fra richiesta di intervento e minaccia di ricorso all’imprecazione scatta la cognizione di causa “dopo un anno di lavoro”, pregiudiziale che nel mentre si fa consuntiva dei sacrifici affrontati, allude a una temuta vanificazione degli stessi, qualificando lo stato apprensivo in paura di completa distruzione dell’uva. Un attestarsi sul problema di fondo – quello degli interessi economici -, del resto implicito nello scongiuro iniziale, non certo esauribile agli incomodi provocati dalla banale piovuta ma chiaramente finalizzato a salvaguardare quello che era il nocciolo e della vendemmia e della festa: il guadagno, appunto.

Dietro l’ostracismo al passeggio, in sé per sé patetico – e diciamo pure alquanto comico -, scattava l’anticipato rientro dei pellegrini, decurtando, se non addirittura azzerando, l’introito dei venditori. E in quei tre giorni di festa, venditore non era soltanto il piazzista venuto da fuori a rizzare la sua bancarella, ma anche la contadina che, collocando sulla soglia di casa uno sgabello con sopra tre fichi e un grappolo di ua rosa (uva da tavola bianco-rosata), invitava i forestieri a entrare e comprare i frutti della sua campagna; o l’artigiana che, sperando di ottenere commesse di lavoro, appendeva agli stipiti della porta – a seconda se era tessitrice, frangiaia o filatrice – un lembo di tela, due fiocchetti di frangia o una matassina di cotone filato. Un intrecciarsi di piccole industrie casalinghe che venivano a saldarsi agli introiti delle improvvisate trattorie, ai contributi pro-festa, alle offerte lasciate in chiesa e – perché no? – all’accarezzata speranza delle ragazze di trovare marito, assillo che le madri fronteggiavano corredando le figlie di un vestito nuovo, magari stentatamente pagato cu ssordi pigghiàti a spiéttu (con denaro preso in prestito) e per la cui restituzione attendevano i risultati della vendemmia.

Nel malaugurato caso di una grandinata, altro che mancato pagamento del vestito! Dopo un intero anno di lavoro non retribuito in quanto svolto nel proprio campo, e privata di quella che sarebbe stata la giusta ricompensa dei sudori, la famiglia si ritrovava sul lastrico, impossibilitata non solo ad assolvere ai debiti contratti nell’attesa del raccolto, ma tragicamente catapultata nel contesto di una miseria in alcuni casi talmente nera da far dubitare circa le possibilità di sopravvivenza. Ecco perché a scongiurare simile catastrofe i componenti il comitato festa patronale si rifacevano all’uso del ricatto: furbamente menzionando il disperato ricorso alla bestemmia erano convinti che S. Giuseppe, interessato come tutti i santi a salvare l’anima dei fedeli, pur di non indurre in tentazione i contadini facendoli peccare, avrebbe soddisfatto le loro suppliche, quella preventiva e quella memorativa, che ripetevano in continuazione mentre vendemmiavano:

Sangiséppu no tti nni scirràre

mantiéni lu tiémpu

pi’ ttuttu lu innimàre.

 

S. Giuseppe non te ne dimenticare; / trattieni il bel tempo / finché tutti abbiano finito di vendemmiare.

 

Richieste che in fin dei conti si riducevano a ottenere solo una breve parentesi di sereno, essendo bastevoli pochi giorni a eseguire il taglio di tutte le uve: a parte l’abbondanza della manodopera, all’epoca il Salento non vantava le odierne estensioni di vigneto, trovando gli agricoltori pari convenienza economica in coltivazioni alternative, quali i seminativi e i ficheti, senza parlare poi degli uliveti, ai cui impianti secolari nessuno si sarebbe mai azzardato di sostituire la vite. “Cinca tàgghia nn’àrriru t’aulìa / scetta nna chésia!” (“Chi taglia [estirpa] un albero d’ulivo / abbatte una chiesa!”), dicevano i contadini a difenderne la sacralità, ben lontani dall’immaginare i sacrilegi che invece furono perpetrati subito dopo la seconda guerra, quando, col sorgere delle cantine sociali e quindi nel miraggio di una redditizia esportazione vinicola, vaste zone furono selvaggiamente disarborate.

C’è da aggiungere che, allora, si coltivavano solo ue nustràli (uve nostrane, cioè vitigni non innestati), capaci di dare qualità, non quantità di prodotto, per cui a fine settembre la vendemmia poteva dirsi conclusa o quanto meno agli sgoccioli. In verità, se qualche ritardo c’era, lo si doveva al caparbio ordine di quei padroni che, dovendo vinificare solo per uso familiare, pretendevano uva ultramatura, spesso cozzando con gli intendimenti dei coloni, il cui credo, in tempo di vendemmia, era solo quello di “manisciàmune mmanisciàmune prima ca rrìanu l’àngili”  (“sbrighiamoci, sbrighiamoci, prima che arrivino gli angeli”).

Nel loro quadro meteorologico, infatti, il 2 di ottobre (festa degli Angeli custodi) era giornata di rientro nel clima piovoso; e questo porsi nuovamente in aspettativa dell’acqua lo si poteva notare già nella mattinata del 27 settembre, quando le donne, convenendo in chiesa per la messa dei SS. Cosimo e Damiano (protettori della salute), si auguravano l’un l’altra: “La casa a mmanu a lli Santi miétici / e lli gnofe a mmanu a ll’Angili ti Ddiu” (“La casa sia affidata ai Santi medici [affinché custodiscano la salute degli abitanti] e le zolle agli Angeli di Dio [affinché non le abbiano a privare dell’acqua]”). Un buttare in avanti le mani nel timore che il bel tempo, una volta instauratosi, non avesse più a finire, in questo caso confermando lo sgradito detto:

Ci l’Angilu no ssi mmoddhra l’ale

no cchiòe fenca a Nnatale.

Se il 2 ottobre l’Angelo non si bagnerà le ali / non pioverà fino a Natale.

 

Previsione preoccupante per l’andamento agricolo, essendo ottobre e novembre gli antonomastici mesi delle piogge, periodo che i contadini, vigili traduttori delle necessità della campagna, definivano ti mpurpamiéntu (di rimpolpamento [nutritizio]), poeticamente immaginando la terra nello stadio della primissima infanzia, quando unico compito – e spettanza – è quello di dormire e succhiare. Dal canto loro avevano provveduto ad assicurare questo nutrimento, spargendo a larghe manate il letame curato nelle concimaie, ma affinché lo stesso penetrasse ingrassando le zolle e raggiungendo le radici delle piante, occorreva la collaborazione delle nuvole, ovverosia l’azione dissolvente della pioggia, in assenza della quale il processo rigenerativo non sarebbe avvenuto, mettendo in serio dubbio la sperata produttività:

Fiàcca nnata si para nnanti

ci ti tutti li Santi

la nuégghia no cchiànge

e lla gnofa no rrufa!…

Cattiva annata si prospetta / se arrivata la festività di Ognissanti / la nuvola non piange / e la zolla non tracanna!…

Situata com’era il I° di novembre, proprio al centro di quello che veniva ritenuto il periodo delle piogge, la festa di Ognissanti si poneva a data di resoconto della situazione, diciamo pure di verifica dell’ansia insorta un mese prima, cioè quando, ricorrendo la festa degli Angeli custodi, si era paventata la iattura di un asciutto protratto sino a Natale. Ormai non si era più nell’ambito delle ipotesi, bensì dei riscontri oggettivi, al di là dei quali c’erano solo urgenze, venendo inesorabilmente a restringersi il tempo giudicato utile all’impinguamento idrico della campagna. La ricorrenza di San Martino (11 novembre) era vicina e per quella data ogni acquiescenza nell’attesa si intendeva bandita, letteralmente cancellata dal montare di una fretta tradotta in perentorietà di affermazione:

Ti Santu Martinu

la gnofa s’à ttaccàre a lla menna ti la nuégghia

comu lu mbriàcu a lla entre ti la otte.

 

Di San Martino / la zolla deve attaccarsi alla mammella della nuvola / come l’ubriaco si attacca al ventre della botte.

 

     Considerando come questo era l’ultimo dei detti affermanti la necessità della pioggia e senza trascurarne il senso di voluttuosa imbibizione – già espresso nel detto riguardante la ricorrenza di Ognissanti e perciò piuttosto esasperante nella rimarcatura -, vien fatto di pensare che i contadini, nella scelta della data e  più che altro mediante la metafora comparativa terra-ubriaco, intendessero – sia pure in modo indiretto – prefigurare i termini di quella che, nella loro visuale, doveva essere la svolta meteorologica.

Decretando l’immancabilità della pioggia per l’11 novembre, in sostanza concedevano parecchio spazio al pacifico susseguirsi delle precipitazioni, ma nell’istintiva rimonta dell’atavica diffidenza prudentemente cercavano di segnarne  la cessazione ricorrendo, appunto, alla comparazione terra-ubriaco: se da una parte l’ubriachezza relazionava l’avidità del bere, per cui ne usciva esclusa l’immagine limitativa del bicchiere – controfigura dell’isolata pioggerellina -, dall’altra, proprio in virtù dell’ingordo tracannare, scattavano i limiti dell’assorbimento: continuando a bere, l’ubriaco rischiava di vomitare, così la terra, nell’esagerato intridersi, si sarebbe impantanata.

Una deduzione che potrebbe apparire frutto di arzigogolamento, se ad assolvere ogni dubbio di arbitraria interpretazione non concorresse il successivo detto imperniato sul 30 novembre, ricorrenza di S. Andrea Apostolo:

Pi’ Ssantu Ndrea ti li corde

tinne croce fatta;

ca ci nno rria jùtu ti limòne

nni tocca lu maru ti lu fele.

Il giorno di Sant’Andrea delle corde[2] / devi dire “Sia croce fatta [punto e basta]”; / perché se non viene in aiuto il limone [fermo della pioggia] / ci toccherà l’amaro del fiele [vomito, cioè tanta pioggia d’averla a nausea].

 

Ora, premettendo come questi detti, che a noi possono apparire isolati, in realtà si ponevano a tasselli di un mosaico unico, per cui, nascendo concatenati nella significazione, l’uno si prestava a complementarità dell’altro, va sottolineato che quest’ultimo riguardante S. Andrea non aveva esclusiva applicazione agricolo-meteorologica, essendo ampiamente sfruttato dai cantinieri allorché, per una certa etica professionale, si vedevano costretti a rifiutare la mescita agli ubriachi che palesemente non erano più in grado di reggere altro vino. Esortazione-imposizione che accompagnavano appunto con l’offerta di un limone (ne tenevano sempre un cesto pieno sul banco), le cui proprietà antiemetiche e astringenti venivano a rappresentare sia il rimedio pratico, sia la scansione simbolica del punto e basta.

Detto questo, al lettore risulterà chiara – e soprattutto giustificata – l’interpretazione fornita circa il ricorso alla comparazione terra-ubriaco; tanto più se riuscirà a convincersi che i simbolismi popolari – spesso esposti in accozzaglia – non erano riducibili a semplice funzione connotativa, ma erano invece condizioni della decifrabilità stessa dell’esposto, in quanto metro delle effettive denotazioni psicologiche. Un eleggere l’immagine a mezzo di svisceramento della tensione interna, e che, per quanto riguardava il 30 novembre, denunciava un vero e proprio subbuglio negli animi, venendo di lì a due giorni a scattare la ricorrenza di S. Bibiana, giornata pericolosa ai fini meteorologici, gravata com’era dalla scoraggiante affermazione:

Ci chiòe ti Santa Bbibbiana

quarànta sciùrni e nna simàna.

Se piove il giorno di S. Bibiana / pioverà per quaranta giorni e una settimana.

 

     Se in ottobre e novembre l’acqua veniva invocata, compiacentemente  tollerandone anche l’eccesso, con l’attestarsi di dicembre si reclamava un tassativo ritorno del sereno, nel timore che le granaglie già seminate avessero, per il troppo ammollo, a marcire e ponendosi la fretta di iniziare la raccolta delle olive, per la quale occorreva poter contare su un terreno agibile al via-vai dei passi. Ansia che, pur quando veniva brillantemente superato lo scoglio di S. Bibiana, non  si acquietava, tant’è che il 7 dicembre, vigilia dell’Immacolata, ci si impegnava a dire e ridire “Ti la Mmaculàta / l’acqua serve sulu pi lli pucce” (“Il giorno dell’Immacolata / l’acqua serve solo per fare le pagnottelle con le olive”), enucleando, nella laconicità della frase, e la tangenza del rifiuto, e la blandizie devozionale.

Essendo le pucce assurte a emblema del digiuno vigiliare, nominandole si faceva presente alla Madonna la pia disponibilità alla penitenza, implicitamente chiedendole, a contropartita, di appoggiare il rifiuto dell’acqua, peraltro espresso in una forma che oseremmo definire elegante, cioè basandolo su un simbolo privilegiato e facendolo nascere per gioco di antitesi: nel dichiarare l’acqua necessaria solo alla produzione delle pucce, ci si riferiva a quella occorrente per sciogliere il lievito e impastare, operazione per la quale si adoperava solo acqua piovana, essendo quella sorgiva di scarso sollecito alla fermentazione; nel momento però che si tirava in campo la panificazione, automaticamente si entrava nell’aura di quelli che erano i rituali domestici, sicché l’immagine mentale che ne conseguiva escludeva l’acqua piovana come contemporaneità di effetto-pioggia, focalizzata com’era sulla madre di famiglia che, scoperchiando la cisterna – sua o della vicina di casa -, religiosamente vi attingeva ripetendo ad alta voce una delle tante antiche formule di benedizione scrupolosamente trasmesse da madre a figlia. Tirando le somme e tenendo presente che in quel periodo le cisterne erano già colme, si può affermare che nel dire “L’acqua serve solo per le pucce” i contadini intendevano precisare: “La pioggia non serve affatto”.

Dal diplomatico rifiuto all’aperta provocazione il passo era breve; sette giorni appena, quelli appunto che intercorrevano fra la vigilia dell’Immacolata e la ricorrenza di S. Lucia (13 dicembre), al cui approssimarsi i contadini non si peritavano di commentare “Santa Lucia éte pisciacchiàra!…” (“S. Lucia è pisciona!…”), furbamente sperando che la santa, risentita per così irrispettoso epiteto, si impegnasse a smentirlo tenendo lontana la pioggia.

Azzardo curioso nel suo farsi chiave di convincimento attraverso l’offesa, ma non certo unico nella proposizione, poiché se ne trovava copia pressoché conforme il 16 di luglio, quando la Madonna del Carmine veniva definita “La Madonna latra ca pìzzica la ua” (“La Madonna ladra che ruba l’uva”), nell’ingenuo convincimento, appunto, di indurla a moderare i raggi solari che, battendo sui chicchi d’uva ancora troppo teneri, ne provocavano la bruciatura con ovvia decurtazione del raccolto.

E’ chiaro che, pur se anomali nella formulazione, tali detti nascevano per così dire comprovati, traendo origine dal riscontro oggettivo di quelle che erano le climatiche stagionali: se la Madonna del Carmine diventava “ladra”, era perché, essendo piena estate, bastava una giornata di sole più cocente a danneggiare i chicchi in gonfiatura; così come con  S. Lucia, alla quale si dava della “pisciona” perché piscione poteva essere il tardo autunno, spesso caratterizzato da uno snervante rincorrersi di pioggerelle che, si sapeva, erano di preludio a quelle più compatte dell’inverno ormai alle porte.

L’accanimento con il quale i contadini perseguivano lo stralcio di sereno era dovuto in  buona parte a questa consapevolezza, diciamo pure paura dei mesi a venire, a moderare la quale altro non rimaneva che aggrapparsi alla consolatoria previsione scandita a chiusura della tabella calendariale:

Ci uéi bbegna nna bbona nnata

Natàle ssuttu e Pasca mmuddhràta.

Per avere una buona annata / Natale asciutto e Pasqua sotto la pioggia.

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[1] Essendo la festa di S. Giuseppe da Copertino (16-18 settembre) frequentatissima da pellegrini che giungevano da tutto il Salento, gli abitanti del luogo, per un senso di ospitalità, l’avevano soprannominata “Festa ti li furastiéri”. Di contrasto, il 19, giornata ritenuta di ponte fra la stanchezza delle celebrazioni e la ripresa della normale attività lavorativa, era festa tutta per loro; festa ti li paisàni, appunto, durante la quale potevano, senza la confusione dei giorni precedenti, fermarsi con calma alle bancarelle superstiti, comprare a minor prezzo, e a sera, sia pure a luminaria pressoché spenta, assistere tranquillamente all’esibizione concertistica di una delle bande rimasta in paese esclusivamente per loro.

[2] Detto “delle corde” per agevolarne la visualizzazione iconografica che lo presentava su una croce decussata, oltre che confitto, legato con più giri di grosse funi.

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Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari 1994, pagg. 359-373

Racconti/ Tonino della lettera

di Salvatore Magno

Si chiamava Antonio Carollo, ma per tutti era Tonino: “Tonino della lettera”. Faceva il pescatore. Tozzo e duro come un pezzo di pane nero raffermo, dava l’impressione di essere appena uscito dalle bocche dell’inferno e invece, a guardare bene in fondo a quegli occhi castani ci si trovava una dolcezza che forse neppure in Paradiso. Aveva passato la sua esistenza tra reti, palamiti e nasse; remando sul mare e cercando di strappargli quel poco che serviva per tirare avanti. Aveva visto la sua vita scorrere via quasi come se non gli appartenesse, come un film girato neanche tanto bene. Una moglie, che non aspettava altro che vedere la sua barca sparire dietro il molo del porto: “Per dare una mano a tirare avanti la giornata” come amava dire, mentre giocava tra le lenzuola e si faceva pagare per questo. Lui lo sapeva,

Il Crocifisso della cattedrale di Nardò. La vetustissima Crucifixi imago nelle fonti

di Marcello Gaballo

Le fonti scritte tre-quattrocentesche giunte sino a noi non ci danno alcuna notizia del Crocifisso e bisogna aspettare la visita pastorale del vescovo Gabriele Setario (1491-1507) del 1500 per registrare in cattedrale una cappella del Crocifisso, nella navata sinistra, accanto all’altare de li Spenelli seu cappella sub vocabulo Sancte Marie et Sancti Iuliani.

Inizialmente il Crocifisso era pendente dalla tribuna centrale e, come di consuetudine, collocato sull’ unico altare posto ad oriente, nella parte terminale della chiesa. Costituiva certamente l’ arredo più vistoso del tempio ed è innegabile la sua fortissima influenza sui devoti.

Cattedrale, navata destra, particolare dell’Addolorata

 

In seguito ebbe la sua nuova dimora in una cappella laterale, affrescata, come fa presupporre un frammento col volto della Vergine addolorata (sec. XV?), ancora oggi visibile a destra della porta minore.

La ristrettezza del luogo o le vicende sismiche del tempio furono motivo di ulteriori spostamenti da una all’altra delle cappelle laterali.

Per ampliare l’ala dextera, versus austrum, nel XVI secolo fu incorporata la vetusta chiesetta di S. Stefano protomartire, di patronato della famiglia Cardami, ubicata a ridosso della Cattedrale. La nuova cappella fu dedicata al Crocifisso ed in essa vi era l’ altare privilegiato, realizzato a spese del magnificus Francesco Cardami, con indulgenza concessa dal pontefice Gregorio XIII.  Non è dato di sapere se in essa fosse appeso il nostro Crocifisso.

Nel 1560 la cappella, ornata ed ampliata dal vescovo Giovan Battista Acquaviva (1536-1569), venne dedicata al SS. Corpo di Cristo ed il nostro simulacro dovette essere ancora spostato in altra cappella laterale, che nella visita del vescovo Bovio è annotata come cappella del SS. Crocifisso. Nel 1591 della stessa, detta anche de Bellottis, ne erano compatroni i nobili Ottavio e Roberto Tisi.

In occasione degli importanti restauri dell’edificio voluti dal vescovo Girolamo De Franchis (1617-1634) la suddetta indulgenza venne trasferita con Breve del pontefice Paolo V nella cappella di Santa Maria della Sanità, ove aveva trovato allocazione l’ antichissimo affresco della Madonna della Sanità, già in columna arcus chori. L’evento fu ricordato con un’epigrafe collocata nella predetta cappella in pariete prope cornu epistolae ostendit.

La vetustissima Sanc.mi Crucifixi imago reposita in cappella noviter aedificata, quindi il simulacro venne spostato ancora una volta nel 1618, nella cappella appositamente fatta realizzare dal predetto pastore, nella navata sinistra.

Alle spese della nuova sistemazione concorse il vescovo Girolamo, l’ universitas neritina ed alcuni fedeli, tra cui il barone Antonio de Pantaleonibus che nel 1614, con testamento dettato al notaio Santoro Tollemeto, lasciava la considerevole somma di 100 ducati pro ornamento et accasamento del Crocifisso, nominando sovrintendente per l’ equo utilizzo il  priore della confraternita del SS. Corpo di Cristo.

Cattedrale di Nardò, cappella del Crocifisso

 

Con diploma dell’ 8 ottobre 1620 il pontefice Paolo V concedeva l’ indulgenza plenaria a coloro che nella ricorrenza della dedicazione della cattedrale di Nardò, confessati e comunicati, avessero visitato il tempio e la cappella del SS. Crocifisso.

In questo decennio la chiesa dovette essere visitata anche dallo storico leveranese Girolamo Marciano (1571-1628), buon conoscitore della città, che nella sua opera ebbe a scrivere: “si vedono oggi delle cose antiche in essa chiesa vescovile di Nardò: in una cappella, ove sono molte reliquie di Santi, un antichissimo e miracolosissimo Crocifisso, ben fatto e di grandissima statura…”.

Notizie assai più esaurienti sul simulacro e sulla sua primitiva collocazione vengono fornite dalla visita pastorale del vicario Granafei.

La cappella si trovava dopo quella di “Tutti i Santi” ed in essa si conservava l’imaginis Sanctissimi Crucifixi… antiquissimam ligneum imaginem che qui aveva collocato il vescovo Girolamo de Franchis ab arcu chori, dove era affissa con le spalle ad oriente ed il volto ad occidente e con la mano destra ad aquilonem e la sinistra verso mezzogiorno. Nello spostamento dall’ una all’ altra cappella contrario situ transferendam curavit.

Il vicario -continua la relazione- la trovò opportunamente collocata, coperta da un rimovibile telo rosso in seta, ed era fissa sulla croce con quattro chiodi. Le sue sembianze richiamavano non solo quelle antiche di Lovanio, della Francia o quelle presenti in Germania, ma anche quelle lignee realizzate in Grecia, ovvero bizantine (similem non vetustissimis tantum Lovanii Parisiis et per Germaniam imaginibus, sed tabulis etiam antiquissimis in Graecia fabrefactis).

[…]

La visita del Granafei ribadisce inoltre la grande venerazione dei Neritini e dei forestieri per il simulacro, in considerazione anche dei diversi miracoli elargiti. Annota altresì l’ indulgenza plenaria concessa dal papa Urbano VIII a quanti avrebbero visitato la cappella e venerato l’ immagine nel giorno dell’ Invenzione della Croce (3 maggio), dal vespro della vigilia al tramonto della festa, e particolarmente a coloro che davanti ad essa avrebbero pregato per la concordia Christianorum principum ed il trionfo della s. Madre Chiesa. Altri benefici spirituali -viene ulteriormente esplicitato- venivano concessi a quanti la visitavano e vi pregavano nel giorno dell’ Esaltazione della S. Croce (14 settembre), come da breve apostolico rilasciato in Roma pochi mesi prima della visita che si stava effettuando, e precisamente il 20 giugno del 1637.

Nella visita del 1654 del vescovo Calanio della Ciaia (1652-1654) si legge della cappella del SS.mo Crocifisso eretta per Geronimo de Franchis, già vescovo di Nardò, dove è riposta l’antichissima imagine di N. S. ed anco molte reliquie di Santi. Essa è l’ ultima ad essere visitata, dopo altre 14, e si trova sempre nella navata sinistra, successiva a  quella di S. Maria ad Nives detta delli Bellotti, dopo del Santis.mo Crocifisso ed hora sotto il titolo di S. Gregorio Armeno.

Nella visita del vescovo Orazio Fortunato (1678-1707) non si trova menzione del Crocifisso, mentre viene descritta la sua cappella, in cui sono conservate le reliquie dei SS. Martiri in due armadi, tra cui quelle dei santi martiri Teodoro e Vittorio e quelle dei martiri di Otranto, che erano state donate dall’arcivescovo otrantino mons. Piccolomini.

Un apposito paragrafo viene invece riservato nella visita del vescovo Antonio Sanfelice del 1719, il 2 gennaio, alla ricognizione di due delle più importanti testimonianze religiose della Cattedrale, il Crocifisso e l’affresco di S. Maria della Sanità: Visitatio/ Sacrarum, ac vetustissimarum Imaginum/ Christi Domini Crucifixi et S. Mariae Sanitatis/ Quae peculiari semper veneratione in Cathedral Basilica culta sunt./

Difatti, si legge nella relazione, ex pluribus sacris sanctorum imaginibus variis magnisq(ue) miraculis clare in Cathedrali templo precipue a Neritino populo Religione culta fuerunt, una è per l’ appunto Jesu Christi lignea imago, quatuor clavis cruci suffixa

E qui il vescovo fece trascrivere l’origine bizantina del manufatto, miracolosamente giunto sino a noi con i perseguitati monaci basiliani. A conforto della imaginis vetustate ac miraculorum gloria  si fa riferimento a quanto scrive a tal proposito il minore Bonaventura da Lama nella sua Cronica Provinciae S. Nicolai.

Il Crocifisso di Nardò -si legge ancora- viene festeggiato in tre ricorrenze, nel giorno dell’Esaltazione della Croce, in quello dell’Invenzione della Croce e secunda dominica maii, in cui in ipsius honore festu celebrant (Neritini), quod in Japigia jure habet longe celeberrimum.

Ad imperitura memoria il vescovo fece poi riportare gli estremi del breve apostolico di Urbano VIII del 1637 con cui concedeva l’ indulgenza plenaria a quanti avrebbero venerato il nostro Crocifisso nelle anzidette festività.

Lo stesso giorno il vescovo visitò anche le reliquie dei santi riposte nella stessa cappella del Crocifisso, ubi nunc colit imago SS.mi Crucifixi, realizzata dal vescovo Girolamo de Franchis et Neritino Magistratu.

Cattedrale di Nardò, cappella del Crocifisso, tabernacolo

 

Nell’ altra visita pastorale del 1725 il vescovo fece trascrivere le epigrafi esistenti in Cattedrale e per quanto ci riguarda: visitavit denique cappellam cum altari SS.mi Crucifixi positam in loco ubi quondam erat parva porta lateralis ecclesiae, in cui si conservavano anche le reliquie dei Santi. La prima delle due iscrizioni, posta sulla parete sinistra della cappella, così recitava: Novum hoc sacellum/ in quo vetustissima crucifixi imago/ varie in hac ecclesia olim locata/ ac sancti gregorii armeniae archiepiscopi/ neritinorum patroni/ aliorumque sanctorum reliquiae asservantur/ hieronymus de franchis vincentii filius episcopus/ ac civitas neritina/ syndicis octavio nuccio, joanne jacobo massa/ et joanne francisco nestore ex nobilibus/ joanne vincentio orlando, hieronymo manerio/ et donato de abbate/ communibus impensis construere fecerunt./ anno salutis domini mdcxviii./

L’ altra iscrizione, sulla tomba del vescovo Brancaccio, è a destra della cappella: D.O.M./ dominus d. thomas brancaccius/ avellinensis olim post neritonensis antistes/ brancacciae prosapiae gloria, praesulum decus, et norma./ urbis, et orbis honor, et amor, totus gratia, totus hilaritas/ intrepidus ecclesiasticae libertatis propugnator/ de neritina ecclesia, et urbe multis peractis, et relictis monumentis/ benemeritus/ fama, nomine, et gestis nunquam moriturus/ mortuus optatus, laudatus, lacrymatus omnibus/ hic quiescit/ anno aetatis suae li pontificatus sui viii./ anno domini mdclxxvii./ memor dolens, lacrymans capitulum neritinum/ monumentum hoc posuit./

L’ulteriore e definitiva collocazione del Crocifisso fu voluta dunque dal Sanfelice, che rifece il tabernacolo e  rivestì l’altare con i preziosi marmi che ancora si vedono.

Il suo successore Marco Petruccelli (1754-1781) nella sua visita alla cattedrale lo trovava collocato nella cappella omonima, contigua a quella delle Anime del Purgatorio, quindi dove ancora oggi si vede. Il vescovo disponeva che si facci nuovo il Crocifisso su l’ultimo gradino; che si facci nuovo il lettorino; che si prendi conto della rendita lasciata al Crocifisso, e che se ne informi D. Agostino Lezzi del canone.

Quindi fece trascrivere due epigrafi, di cui una sulla tomba del Brancaccio, prima riportata, e l’altra, sulla parete sinistra della cappella, che sostituiva quella fatta trascrivere dal Sanfelice.

In questa si leggeva: D.O.M./ vetustissima Xti domini e cruce pendentis imagine/ a grecis monachis ab oriente neritum asportata/ una cum ejusdem sacello/ ex maioris portae illius temporis dextera/ hunc in locum translata/ sacrum nerit(in)ae ecclesiae collegium/ quod antea inibi/ de mortuo thomae brancatio ep(iscop)o/ suorum fratrum amatori ac benefico/ e marmore lapidem cum monimento decrevit/ hic postea/ superstites insignis benefactoris cineres/ XVI kalendas Feb. MDCCXLVI/ novo recondidit tumulo/ et recenti inscriptione donavit//[25].

Dunque si prende per buona la notizia che la croce sia stata portata dai basiliani e si continuerà a ritenerla tale da tutti gli scrittori ed ecclesiastici successivi.

Gli ultimi restauri della cappella furono effettuati al tempo di Mons. Ricciardi (1888-1908) e di Mons. Mennonna (1962-1983). Durante l’ episcopato di quest’ultimo, nel 1963, fu applicato il mosaico a tessere dorate che fa da sfondo alla croce, su progetto dell’architetto leccese Palumbo, e collocate le lampade in ferro battuto, realizzate dalla ditta Troso da Copertino. Furono anche riprese le pitture dell’Eterno Padre, sulla parte più alta della cappella, in corrispondenza del Crocifisso, della Vergine e dell’apostolo Giovanni, poste agli estremi del braccio trasversale, in accordo alla tradizionale formula del tema del Calvario, realizzate sul finire dell’ 800 da collaboratori di Cesare Maccari. Sull’arco furono inoltre dipinti una serie di episodi della vita di Cristo, il tutto col concorso della famiglia Polo, in suffragio del loro congiunto Espedito, come ricorda un’epigrafe collocata sulla parete destra.

Cappella del Crocifisso con i dipinti di Cesare Maccari e dei suoi allievi

 

Non si ha traccia di due statue lignee, della Veronica con la sindone e di Giuseppe d’Arimatea col sudario, che nei secoli scorsi si sarebbero trovate ai piedi della croce e di cui dà notizia Emilio Mazzarella[26].

Nardò, statua lignea del Salvatore (sec. XVIII, G. Colombo?) portata in processione la terza domenica di maggio

 


[1] C. G. Centonze, A. De Lorenzis, N. Caputo, Visite Pastorali in diocesi di Nardò (1452-1501),a c. di B. Vetere, Galatina 1988, pp.198, 224.

[2] Il ritratto della Vergine è posto a lato di una Crocifissione mutila. Al disotto di esso si vedono altri due strati di intonaco dipinto, chiaramente precedenti.

[3] ADN, Acta di Mons. G. de Franchis del 1619 (in A/3-I vol.), c.676v.

[4]ADN, Acta di Mons. Sanfelice del 1719, c.289. Con testamento del 1623 il duca di Nardò Belisario Acquaviva dispose un lascito perpetuo di 30 ducati annui per l’ acquisto di torce e miglioramenti da farsi.

[5] ADN, Acta di Mons. Bovio, c.26. Nella III Relatio ad limina del vescovo G. De Franchis del 1625 infatti si legge che la cappella del SS. Sacramento era stata dedicata al SS.mo Crocifisso (c.436r).

[6] Ovvero della nobile famiglia Bellotto.

[7] Sarà poi dedicata a  S. Gregorio Armeno, protettore della città e della diocesi, per volontà del vescovo Girolamo de Franchis, che nella visita del 1619 ordina di rimuovere imago Sanctissimi Crucifixi depicta in tela, per sostituirla con altra che dovrà farsi similiter in tela S.ti Gregorii Magnae Armeniae Archiepi.i et Martiris, Neritinae Civitatis Patroni  (Acta di Mons. G. de Franchis, cit., c. 682r; Acta Generalis Visitationis in civitate Neritoni factae sub anno 1637 dal vicario Granafei, vol. I 1637, c.158v).

[8] ADN, Acta di Mons. G. de Franchis, cit., c. 678r. La traslazione avvenne col consenso del cappellano Leonardo Antonio Scopetta e dei compatroni dottor Prospero Matera e notaio Santoro Tollemeto. Questa cappella prima era dedicata a S. Maria dello Reto (ADN, Acta di Mons. Bovio 1578, c.125).

[9] ADN, Acta di Mons. G. de Franchis, cit., cc. 678v-679r.

[10] Id., cc. 676v, 679r e 695r. La conferma la si legge nella II Relatio ad limina dello stesso vescovo, compilata nel 1621, a c.443v.

[11] Nei tempi successivi la tradizione testamentaria per il Crocifisso continuò con lasciti di appezzamenti di terreno o di denaro per la celebrazione di Messe nella cappella in suffragio delle anime dei testatori o loro parenti. Nel 1718 , con atto per not. E. Bonvino del 9 gennaio, Tommaso Cupertino dispone un lascito di cinque ducati annui alla cappella, avendone ricevuto incarico dai fratelli Gregorio e Anna Piccione quando erano ancora in vita. Essi avevano espresso la loro volontà al priore della medesima, il sig. Giovan Vincenzo Vernaleone.

Piuttosto consistente fu il lascito dell’ abate Oronzo Spacciante, disposto nel suo testamento del 1731. Nel Catasto Onciario di Nardò del 1750 (vol. II, cc. 489v-490r) la cappella possiede un appezzamento di terreno di 1,5 orte, in loco la Speranza, feudo di Melignano, confinante da scirocco e levante coi beni di Tommaso Demetrio, da tramontana e ponente con la strada provinciale, stimata di annua rendita pari a 12 carlini, da utilizzarsi per la manutenzione della cappella. Le notizie sono state segnalate dall’amico Salvatore Muci, che ringrazio per la consueta disponibilità.

[12] M. Pastore, Le pergamene della Curia e del Capitolo di Nardò, Lecce 1964, p.19.

[13] Marciano G., Descrizione origini e successi della Provincia d’ Otranto, Napoli 1855, rist. fotomecc., Galatina 1996, p.486.

[14] Il Granafei riprende quanto già l’ arciprete Cosimo Megha aveva scritto nel 1633 a Fabio Chigi, futuro pontefice Alessandro VII, nella relazione De statu ecclesiae Neritinae ad Fabium Chisum, ms. in ADN (A/11), cc. 204-205.

[15] Ovvero i Crocifissi gotici classici che Geza de Francovich fa risalire alle cattedrali gotiche francesi, e a quelle di Chartres in particolare.

[16] Ovvero i Crocifissi gotici dolorosi, iconograficamente diffusi nella città della bassa valle del Reno.

[17] Probabilmente il presule vuol chiarire come il nostro Crocifisso sia più aderente ai modelli orientali che nel tardo Medioevo rappresentarono il Cristo già spirato sulla croce (Christus patiens), al contrario di quelli occidentali che, pur non ignorando quel tipo iconografico, rappresentavano il Re ancora vivente (Christus triumphans).

I termini utilizzati sono ripresi fedelmente da quanto aveva scritto il secolo prima il vescovo Guglielmo Lindano nella sua Panoplia: “non ex vetustissimis tantum Lovanii, Parisiis, et per Germaniam imaginibus, sed tabellis etiam antiquissimis in Graecia pridem fabrefactis” (libro XIV, c.97).

[18] G. Bosio, La trionfante e gloriosa Croce, Roma 1610.

[19] La festa commemora il ritrovamento (inventio) della vera croce rimasta sepolta sotto il tempio di Venere eretto sul Calvario da Adriano.

[20] ADN, Acta Generalis Visitationis in civitate Neritoni factae sub anno 1637 dal vicario Granafei, vol. I 1637, cc. 8v-9r.

[21] ADN, Acta di Mons. Calanio della Ciaia del 1654, cc. 310r e v.

[22] ADN, Acta di Mons. Fortunato (A/35).

[23] ADN, Acta di Mons. Sanfelice del 1719, cc. 30r e v.

[24] ADN, Acta di Mons. Sanfelice del 1725 (A/58), cc. 254r e v.

[25] ADN, Acta di Mons. Petruccelli (A/19), cc. 19v-20r.

[26] E. Mazzarella, La Cattedrale di Nardò, cit., p.64.

Notizie estrapolate da: AA. VV., Il Cristo nero della Cattedrale di Nardò, a cura di Marcello Gaballo e Santino Bove Balestra, Quaderni degli Archivi Diocesani di Nardò e Gallipoli, Nuova Serie, Supplementi II, Congedo Ed., Galatina 2005.

 

 

I tarantati secondo Teresina

di Josè Pascal

Gli anni ’50 nei paesini del Sud Salento me li hanno solo raccontati. Ai ricordi di mia nonna devo la mia memoria della miseria più nera, di quella quotidianità oggi chiamata folklore e delle tante braccia partite a cercar fortuna.
Mi sembra di vederli i tarantati, puntuali alle soglie di ogni estate, che si dimenano nelle piazze, tra il clamore concitato della gente ed il ritmo serrato dei tamburelli. Quando nonna Teresina ne parla, comincia sempre dicendo: “Succedia ca certi cristiani tuttu de paru scuppàvane an terra – accadeva che alcune persone all’improvviso stramazzassero a terra posseduti da una forza soprannaturale – anche qui, a Comuncè c’era gente pizzicata da taranta o colpita dai guai de Santu Dunatu. C’era a CONSIJA SSUNTAMIJIA – persona per mia nonna normalissima – ca passava de sutta i pali de segge, scinnia de scale tutta curcata stisa – che strisciava in maniera scomposta tra le gambe delle sedie, si introduceva nei posti più angusti e scendeva dalle scale distesa – se girava de na vanna e de l’autra, sturcia anterra poi cuntava cu Santu Dunatu – si contorceva con fare frenetico e poi rivolgeva richieste e preghiere a San Donato. C’erane quiddi ca sunavane pizziche cu li passa u male. E poi dopu ure li passava e diventavane normali sti cristiani – spesso per esorcizzare questo male si ricorreva ai tamburellisti, ai suonatori di organetto e fisarmonica, perché una danza scatenata ed estenuante era l’unico modo per liberarsi da questo stato di isteria e tornare in se stessi.

Arrivata a questo punto della sua storia nonna Teresina diventa malinconica e reticente – Basta, sta me sentu fiacca cu le cuntu ste cose – non insisto perché continui il suo racconto. La lascio al suo silenzio. So già che con la mente è tornata a quel torrido pomeriggio di giugno; era ancora bambina e davanti la sua casa saltellava attorno a suo nonno che suonava il tamburello. Non poteva sapere, Teresina, che quel suo ballo spensierato e vivace si sarebbe trasformato in una lotta per la sopravvivenza, circondata dagli zombi della sua infanzia.

 

Lo pseudo lettore scrivente
Jose Pascal

In parole semplici – Scatola di latta virtuaculturale
http://parolesemplici.wordpress.com

Link di riferimento:
http://parolesemplici.wordpress.com/2010/05/22/i-tarantati-secondo-teresina/

Tutto su capre e caprini nel Salento

di Massimo Vaglio

L’allevamento della  capra ha sempre avuto i suoi fautori e i suoi detrattori. Basta scorrere un po’ della letteratura che la riguarda per scoprire che sono stati molti coloro che hanno visto in questo animale principalmente un nemico dei boschi. Nel Salento, visti gli indirizzi produttivi agricoli, caratterizzati da coltivazioni arboree, principalmente oliveti, vigneti e ficheti, suscettibili delle golose e non innocue attenzioni di questo vispo ruminante, è stata, ogni volta che la si è nominata, bollata addirittura come flagello dell’agricoltura. Un ostracismo generale, atavico e consolidato che storicamente ha sempre remato contro la sua diffusione, nonostante che la sua nota produttività e la non comune frugalità ne facessero un animale perfetto a rendere produttive le zone più difficili: aride, rocciose e impervie.

La capra il cui nome scientifico è: Capra aegagrus hircus L., è un ruminante appartenente appartenente alla famiglia dei Bovidi e alla sottofamiglia dei Caprini, derivato dall’addomesticamento dell’egagro dell’Asia Minore, avvenuto, stando ai reperti rinvenuti in Iran, tra il 9000 e il 10000 a. C.

La sua natura vagabonda, la sua rusticità, il suo non comune senso dell’equilibrio, associato alle ammirevoli doti di scalatrice, hanno contribuito ad adattarla ai climi e agli ambienti più disparati delle più lontane regioni, ove, grazie alla selezione di diverse razze, prospera e produce spesso in vece delle più esigenti e delicate pecore.

Le origini dell’allevamento caprino nel Salento sono piuttosto datate, come dimostrato da diversi scavi archelogici e rimandano alle capre, anche  i toponimi di due cittadine: Caprarica di Lecce e Caprarica del Capo e di diverse

Il verde Salento che vuole rinascere!

 

La riscoperta del frassino meridionale e del Bosco di Belvedere. La produzione della dolce manna salentina, dal marchio “Foresta Belvedere”. Il ritrovato Orniello, il Frassino orno, stretto cugino del Frassino meridionale!

di Oreste Caroppo

Ritrovai alcuni esemplari di Frassino ossifillo o meridionale (Fraxinus angustifolia), ancora perfettamente vegetanti, alcuni anni fa, nell’area dei Paduli-Bosco Belvedere, in particolare negli agri di Scorrano, Surano e Nociglia, lungo alcuni corsi d’acqua, dopo decenni di creduta scomparsa locale, di questa storica e ben nota specie autoctona igrofila dell’antica foresta chiamata “Bosco Belvedere”, che si estendeva in tutto il cuore del basso Salento. Il primo esemplare di un gruppo relitto di non più di 5 alberi, lo scovai con immensa gioia, nel pomeriggio del 10 agosto del 1995, protetto in una umida vallata tra gli ulivi, lungo un corso d’acqua nascosto da alte canne domestiche (Arundo donax L.), Pioppi neri (Populus nigra L.), e tantissimi Olmi campestri (Ulmus minor L.), dove anche viveva, e vive, qualche pruno selvatico e querce caducifoglie. Era lungo il Canale del “Fosso la Castagna”, così chiamato, non lontano da contrada Silva, nei Paduli, in agro di Scorrano.

“Paduli”, segno dell’atavica presenza di estese paludi, acquitrini, ancor oggi in quei luoghi persistenti nelle stagioni piovose per parecchi mesi all’anno. “Silva”, il nome della selva impenetrabile in latino, eco toponomastico dell’antica locale Foresta del Belvedere. Allo stesso modo il termine “Foresta” non è andato perduto, ma è passao ad indicare alcune voragini

Tuglie. Le origini, la storia, le tradizioni (seconda parte)

di Lucio Causo

La storia

Dopo la distruzione operata dai turchi, il territorio di Tuglie passò in proprietà di diversi feudatari [7], finché nel 1681 fu acquistato da Francesco Antonio Cariddi, signore di una nobile famiglia di Gallipoli [8].

Presso la chiesa di Sant’Agata, a Gallipoli, nel registro dei morti dell’anno 1683, è annotato che il 9 novembre, il barone Cariddi, di anni 90, rese l’anima a Dio. Gli succedette il figlio Pietro.

Il 18 gennaio 1696, la nobildonna Antonia Prato, marchesa di Arnesano, acquistò il feudo di Tuglie per 9.000 ducati da Giacomo Antonio Cariddi, tutore e curatore del nipote Domenico Cariddi (figlio ed erede in feudalibus del fratello Pietro). La Prato nel 1650 aveva sposato il duca Ferrante Guarino, signore di Poggiardo, dal quale ebbe nove figli. Diventati signori di Tuglie, Antonia e Ferrante si trasferirono nel palazzo baronale che si ergeva nel mezzo del casale [9]. I nobili Guarino operarono la prima riforma fondiaria nel nostro territorio e ne tennerola Signoria fino al secolo XVII. Alla morte della baronessa Prato, avvenuta il 18 ottobre 1715, il feudo fu intestato al figlio primogenito Fabrizio Guarino, che morì il 22 settembre 1717. Gli succedette il fratello Filippo.

Sotto il barone Filippo Guarino, il piccolo centro di Tuglie si sviluppò ulteriormente. Il numero delle case arrivò a162 e la popolazione a 600 abitanti, la maggior parte dei quali erano contadini e artigiani.

Nel 1720, il barone, sebbene non più giovanissimo (aveva 60 anni), sposò una nobile sedicenne, Isabella Castriota-Scanderbeg, educanda nel convento

“Lu taluèrnu”, ovvero dalla lamentazione funebre ad un tipo assillante.

di Armando Polito

Le prefiche, dipinto di Franco Corlianò1

 

Questo post, per via delle frequenti “incursioni” nel dialetto napoletano, compare in contemporanea sul sito http://www.vesuvioweb.com/new/ con l’augurio che possa essere l’inizio di un felice gemellaggio.

Le parole hanno una vita molto simile a quella degli uomini: possono durare poche stagioni o molti anni; alcune di loro, però, sembrano ricalcare pure il comportamento che un uomo può assumere nel corso della sua esistenza: come uno può essere, infatti, coerente con i suoi principi o “ballerino”, così le parole col tempo, essendosi estinto il fenomeno che esse definivano, grazie a quella forma di trasformismo linguistico che si chiama metafora, possono sopravvivere assumendo un nuovo significato molto labilmente collegato a quello di partenza.

È il caso di talùernu che nel dialetto napoletano (taluòrno o talòrno) designava la veglia funebre in cui erano protagoniste delle vere e proprie professioniste del lamento che, a pagamento, accompagnavano con il loro “canto” il defunto nell’ultimo viaggio.

Si tratta di una consuetudine fino alla metà dello scorso secolo ben nota anche in Puglia, ma di origini remote. Praefica (da praefìcere=mettere a capo) si chiamava nell’antica Roma colei che dirigeva le ancelle nel corso della lamentazione funebre. Per il mondo romano ne abbiamo il ricordo in Plauto (III°-II secolo a. C.)2 e in Varrone (II°-I° secolo a. C.)3; per il mondo greco spicca per il lucido disincanto (quanto ne avremmo bisogno oggi!) la favola di Esopo (VI° secolo a. C.) Plùsios kai threnodòi (Il ricco e le prefiche)4.

Il significato originario della voce in questione nella letteratura napoletana si presenta un po’ sfumato in Sgruttendio (XVII° secolo)5, ma già in Giambattista Basile, che di poco lo precede, aveva assunto il significato metaforico attuale di fastidio6, per recuperare quello iniziale in Biagio Valentino (XVIII° secolo)7.  Chi ha appena finito di leggere la nota 6 e sia rimasto turbato dalla “volgarità” dell’immagine può riprendersi con questi versi della celebre Funiculì funiculà (Luigi Denza. Peppino Turco, 1880) : Lo core canta sempe ‘no taluorno:/ Sposammo, oi’ Ne’!… Sposammo, oi’ Ne’!… (Il cuore canta sempre una cantilena: Sposiamoci, o Nina…Sposiamoci, o Nina!…). Chissà, però, cosa avrebbe risposto Nina se nell’aria fosse aleggiato ancora il primitivo significato funebre della parola e lei l’avesse colto…

E come tacere del proverbio Ogne gghiuorno è taluorno (ogni giorno è noiosa ripetizione) in cui è condensata un’amara e rassegnata concezione della vita?

Nel dialetto neretino la voce ha assunto il significato di oggetto inutile,

Due antichissime cartografie di Terra d’Otranto

Due tuffi nel passato del Salento

di Armando Polito

L’immagine del titolo non è casuale, dal momento che il mare che circonda la nostra penisola ed essa stessa nei millenni ne hanno viste di cotte e di crude.  Se penso che i tuffatori professionisti per raggiungere certi risultati in vista di manifestazioni sportive di rilievo debbono allenarsi per anni e che anche il tuffatore comune deve avere una certa esperienza per non sfracellarsi, sento che il mio destino è segnato; siccome sono un incosciente, proseguo, ma il lettore che non vuol incorrere nella fatale conclusione di questa avventura può tranquillamente rinunciare a seguirmi nella folle impresa…

La foto riproduce la penisola salentina come appare nella Tabula Peutingeriana1.

Nella parte superiore leggiamo, procedendo da sinistra a destra, i toponimi: Brundisi(um), Pastium, Balentium, Luppia(e), Ydrunte, Castra Minervae; nella parte inferiore: Scamnium, Orbius, Tarento, Manduris, Neretum, Baletium, Uzintum e Veretum.

Centellinando l’ossigeno, mi accingo ad osservarli più da vicino: Brundisi(um) è (che bravo!) Brindisi. Pastium richiede un pò più di tempo, problema non di poco conto per chi è in apnea, ma, per fortuna, ci soccorre Plinio2 a dirci che si tratta di un fiume (dunque si direbbe, a prima vista, un idronimo, non un toponimo3). Balentium è l’odierna Valesio, Luppiae  Lecce, Ydrunte Otranto, Castra Minervae è Castro.

La distanza tra i luoghi è indicata in cifre romane: così sappiamo che tra Brindisi e Valesio c’era la distanza di 10 miglia4, tra Valesio e Lecce di 15, tra Lecce e Otranto di 25, tra Otranto e Castro di 8. Lascio al lettore ogni giudizio sulla precisione delle cifre, pur tenendo conto della diversità dei percorsi viari rispetto agli attuali.

Bisogna fare in fretta perché le bolle cominciano ad uscire con una frequenza preoccupante…

Nella parte inferiore leggiamo: Tarento (Taranto), Manduris (Manduria), Neretum (Nardò), Baletium (Alezio), Uzintum (Ugento) e Veretum (nelle vicinanze dell’odierna Patù).  Distanze: tra Taranto e Manduria 20 miglia, tra Manduria e Nardò 29, tra Nardò e Alezio 10, tra Alezio e Ugento 10, tra Ugento e Patù 10.

Sono costretto a risalire per prendere una boccata d’aria, anche perché col prossimo tuffo ho intenzione di raggiungere una profondità (non in senso metaforico, visti i risultati non certo esaltanti ottenuti col primo…) enormemente maggiore. Al mio emergere qualche timido applauso di pochi amici è sovrastato dalle variopinte espressioni con cui gli altri spettatori esprimono la loro rabbiosa delusione per non essere riusciti a liberarsi per sempre di me. Poi il silenzio preoccupato degli amici e quello di nuovo speranzoso degli altri mentre iperventilo i miei magri polmoni. Mi rituffo e, questa volta dopo un tempo più lungo, ai miei occhi si presenta questo spettacolo incredibile.

È la mappa di Soleto5.

Essa reca in forma abbreviata per alcuni, estesa per altri, con lettere messapiche per alcuni, greche per altri, 13 toponimi. Passo ad esaminarli singolarmente dopo aver fatto notare agli estremi inferiori la simpatica rappresentazione del mare con due tratti zigzagati.

TARAS èTaranto6; NAR è Nardò; BAL è Alezio; BAS è Vaste; OZAN è Ugento; HYDR è Otranto; SOL sarebbe per tutti Soleto (io su questo toponimo e su altri ho un’ opinione che qui non posso esprimere perché debbo risparmiare l’aria)7. I restanti toponimi pongono non pochi problemi di identificazione: MYOS potrebbe essere Muro, STY Sternatia, GRACHA potrebbe essere conneso con il GRA di alcune monete, LIOS non trova corrispondente nella toponomatica delle fonti antiche e meno ancora in quella moderna; LIK fa pensare a Leuca ma la sua posizione contrasta con la precisione quasi satellitare degli altri; infine per l’ultimo toponimo in alto a sinistra è problematica pure la lettura essendo state le lettere parzialmente erose da un’ulteriore frattura che il frammento deve aver subito in epoca posteriore.

La bellezza toglie il fiato e io ne ho appena appena per risalire. Quando con gli occhi strabuzzati la mia testa penetra il pelo dell’acqua, lo spettacolo non cambia: i pochi amici di prima, noncuranti dello stile poco apprezzabile dei miei tuffi, si precipitano attorno a me felici perché, almeno, ho salvato la vita; per gli altri rimane la speranza che prima o poi…

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1 Si tratta della copia medioevale (probabilmente del XIII secolo) di una carta stradale risalente ad età   romana. Tale documento, attualmente conservato nella Biblioteca Nazionale di Vienna sotto il nome di Codex Vindobonensis 324, fu rinvenuto nel 1507 da Konrad Celtes, bibliotecario dell’imperatore Massimiliano I in luogo imprecisato e deve la  sua denominazione corrente al secondo proprietario, Konrad Peutinger (1465-1567), cancelliere di Ausburg. È un rotolo di pergamena lungo m. 6,80 e largo cm. 34, composto di 11 segmenti in origine incollati fra loro e successivamente (nel 1863) staccati in 11 fogli. Essa contiene una rappresentazione del mondo conosciuto dagli antichi (Europa, Asia, Africa), che si estendeva dalle colonne d’Ercole fino alle estreme regioni orientali (India, Cina, Birmania, isola di Ceylon). La mancata  raffigurazione di Britannia, Spagna e parte occidentale dell’Africa induce a supporre che una parte della Tabula sia andata perduta.

2 Naturalis Historia, III, 102: Poediculorum oppida Rudiae, Gnatia, Barium, amnes Iapyx a Daedali filio rege, a quo et Iapygia Amita, Pactius, Aufidus ex Hirpinis montibus Canusium praefluens.[(Città dei Pedicoli sono Rudie (oggi Lecce), Egnazia, Bari; fiumi lo Iapige dal re figlio di Dedalo, dal quale anche lo iapigio Amita, il Pazio, l’Aufido (oggi Ofanto), il Canusio (da cui l’odierna Canosa) che nasce dai monti dell’Irpinia. È una caratteristica di Plinio, purtroppo, il disordine topografico delle sue citazioni.

3 Ma la presenza nel testo pliniano del fiume Canusio che poi ha dato il nome a Canosa ci autorizzano ampiamente a supporre che il Pastium della Tabula (sviluppo del pliniano Pactius) sia un toponimo (anche perché solo quelli la Tabula riporta).

4 Il miglio romano corrispondeva a mille passi (un passo, che per i Romani era la distanza intercorrente tra il punto di distacco e di appoggio di uno stesso piede nel camminare, corrispondeva a m.1,48), cioè a circa 1,5 Km).

5 Si tratta di un ostrakon, cioè un piccolo frammento (cm. 5,9×2,8) di ceramica a vernice nera venuto alla luce a Soleto il 21 agosto 2003 durante gli scavi condotti da Thierry Van Compernolle dell’Università Paul Valery (Montpellier III) sul quale è graffito il profilo della costa salentina. Il frammento e i graffiti sono datati alla seconda metà del V secolo a. C. e non starò certo a tediare il lettore sullo strano destino di questo reperto (dalla maggior parte degli studiosi ritenuto autentico, da altri, con motivazioni per me molto traballanti, un falso) che, dopo essere stato oggetto di un apposito congresso internazionale tenutosi a Montpellier dal 10 al 12 marzo 2005 e la vedette unica di una mostra tenuta dal Museo Archeologico di Taranto dal 16 novembre 2005 al 14 febbraio 2006, è caduto nel dimenticatoio. Basti pensare che per motivi finanziari gli atti del congresso alla data in cui scrivo (16 luglio 2010) non sono stati ancora pubblicati…

6 Da notare la dimensione dei caratteri e il tratto piuttosto deciso e nervoso; è come se contenessero un’annotazione di ordine politico e psicologico col messaggio: Qui comanda Taranto!

7 Non è un’abile, per me meschina, scusa; la motivazione della mia tesi richiederebbe almeno una ventina di pagine.

Ugento. Da Ozan messapica a Uxentum romana: la città odierna sopra quella antica

di Stefano Todisco


Attestata sull’area dell’antica città messapica chiamata Ozan, l’odierna Ugento è uno dei centri culturali più brillanti della provincia di Lecce. Sul suo territorio trova posto un museo archeologico, dedicato all’artista Salvatore Zecca nel 1968, restaurato per la riapertura del 2009-2010 in occasione della quale è ritornato il famoso Zeus di Ugento (vedi voce sotto).

tomba dell'atleta nel museo di Ugento
Tomba dell’atleta nel museo di Ugento

I reperti ivi conservati fanno comprendere l’intenso scambio di idee tra il popolo messapico, simbolo del Salento antico, e quello greco. Questa simbiosi è presente sullo stemma della città: il dio greco Eracle, con la clava, e la scritta del nome preromano del luogo (Ozan).

Un altro museo, nel Palazzo Colosso, ospita l’omonima collezione archeologica con testimonianze ugentine dal VI secolo a.C. all’altomedioevo.

Ma l’archeologia ugentina non è stipata solo nei luoghi della fruibilità visiva: nella zona a nord del centro abitato, prospiciente la campagna, si ergono gli orgogliosi resti delle possenti mura messapiche. Erano queste un circuito difensivo di 9 km di lunghezza, spesso 8 metri, e realizzato con grandi massi squadrati, nel IV secolo a.C. (1)

Mura di Ugento
Mura di Ugento

Il muraglione, munito di circa 90 torri, testimonia il clima turbolento che si era creato in Puglia tra V e III secolo a.C. in seguito all’arrivo di invasori stranieri (guerre contro Taranto, spedizione di Alessandro il Molosso, spedizione di Pirro d’Epiro ed espansionismo romano dopo la guerra annibalica).

In piazza Italia e all’angolo tra via Acquarelli e via Trieste è possibile vedere ciò che resta di questa opera difensiva antica.

Ozan fu uno dei baluardi della “dodecapoli messapica” (2), potente federazione che con la presenza di città-fortezze, a breve distanza l’una dall’altra, impedì ai coloni greci di penetrare nel territorio salentino per fondare nuovi insediamenti. (3)

ricostruzione di una porta di una città messapica
Ricostruzione di una porta di una città messapica

Il municipio romano di Uxentum è testimoniato sulla Tabula Peutingeriana col toponimo di Uzintum, equidistante dieci kilometri sia da Alezio (Baletium) sia da Patù-Vereto (Veretum).

Ugento indicata come Uzintum sulla tabula Peutingeriana
Ugento indicata come Uzintum sulla tabula Peutingeriana

Ugento segnata come OZAN sulla mappa di Soleto
Ugento segnata come OZAN sulla mappa di Soleto, V secolo a.C.

L’antico porto: Torre San Giovanni

L’antico porto di Ugento era Torre San Giovanni (IV-III secolo a.C.), luogo in cui sono state ritrovate tracce dell’emporio di epoca romana ed alcune tombe di guerrieri cartaginesi della flotta di Annibale che anche qui sbarcò durante gli anni della guerra contro Roma.

A poche centinaia di metri da Torre San Giovanni si trovano delle isolette, dette Le Pazze, davanti alle cui coste è stato trovato un insediamento dell’età del Ferro.

Una leggenda narra del naufragio delle navi di Pirro presso le secche di Ugento, un tratto di mare insidioso in cui, nei giorni di bassa marea, emerge uno scoglio roccioso a due kilometri dalla costa di Torre Mozza-Marina di Ugento. (4)

 

Lo Zeus di Ugento

Scoperta fortuitamente, nel 1961, sull’acropoli messapica, la statuetta bronzea di Zeus testimonia gli antichi scambi tra cultura greca e cultura indigena. L’artista, dal chiaro manierismo greco arcaico, suggerì un’iconografia ellenistica della divinità messapica: nudo, nell’atto di scagliare col braccio destro una saetta (andata perduta), regge con la mano sinistra un oggetto, purtroppo non pervenuto, plausibilmente un volatile.

La semplicità artistica del nudo è nascosta dalla torsione del corpo (conquista artistica della tarda scultura arcaica greca) e soprattutto dalle fattezze decorative del capo: l’eccellenza dell’artista è dimostrata dalla barba e dai baffi a rilievo, dalla fila di riccioli sulla fronte, dalle trecce corpose e zigrinate che ricadono sul petto e sulla schiena (tipiche dei kouroi greci di VI secolo a.C.). Una corona di foglie d’alloro, poggiante su una benda con fiori, rimanda alla decorazione del capitello dorico della colonna su cui si ergeva la statua. (5)

La statuetta è alta 74 cm, compresa la base. Stilisticamente viene datata al periodo tra 520 e 500 a.C.

Fino a pochi mesi fa è stato esposto al museo archeologico nazionale di Taranto; di recente è ritornato a far parte dei mirabilia ugentini.

Zeus di Ugento

Zeus di Ugento sul capitello

ricostruzione della collocazione della statua di Zeus
Ricostruzione della collocazione della statua di Zeus

Al momento della scoperta era collocato in una cavità roccioso e coperto dal suo capitello. Non si conoscono le ragioni di tale occultamento, è possibile che si trattasse di un episodio anti-ellenistico che investì le comunità di Messapi, Peuceti e Dauni (i 3 popoli della Puglia antica, detta Japigia).

Infatti nel 473 a.C. ci fu una battaglia tra greci di Taranto (aiutati dai greci di Reggio) e Japigi (6): la sconfitta tarantina fu una delle peggiori per una città greca, tanto che lo storico Erodoto parla di phònos Hellenikòs mèghisto, enorme strage di greci. (7)

 

La cripta del crocifisso e della Madonna di Costantinopoli

Percorrendo la strada che da Ugento porta a Casarano, all’altezza del bivio per Melissano si incontra un piccolo edificio, di nuovo allestimento, che porta all’ipogea cripta del Crocifisso. Questo luogo sotterraneo, ricavato dall’estrazione della roccia, è un posto carico di misticismo: scendendo una scalinata si accede alla sala principale, ricca di affreschi parietali che mostrano scene sacre (annunciazione, crocifissione, Cristo Pantocratore, San Nicola) e profane come animali stilizzati (leone, toro) o immaginari (Idra, Grifone), stelle e scudi templari e teutonici sul soffitto.

Cripta del Crocifisso
Cripta del Crocifisso

Cripta del Crocifisso. Annunciazione
Cripta del Crocifisso. Annunciazione

Cripta del Crocifisso. Crocifissione
Cripta del Crocifisso. Crocifissione

Cripta del Crocifisso. Scudi dipinti sul soffitto
Cripta del Crocifisso. Scudi dipinti sulla volta

Il perimetro dell’ipogeo era interessato dalla collocazione di 8 sepolture. La cripta si ritiene una realizzazione di VIII secolo d.C., ascrivibile ad ambiente bizantino ed utilizzato poi, come dimostrano gli scudi degli ordini cavallereschi, fino al periodo delle crociate. L’attuale entrata è ben successiva, di XVII secolo.

 

Note

  • (1) M. BERNO, Salento : luoghi da scoprire, arte, storia, tradizioni, società e cultura, curiosità, p. 153.
  • (2) STRABONE, Geografia, VI, 3.
  • (3) S. TREVISANI, Viaggio nella Puglia archeologica, p. 62.
  • (4) M. BERNO, op. cit.
  • (5) F. D’ANDRIA, I nostri antenati, viaggio nel tempo dei Messapi, p. 41.
  • (6) ARISTOTELE, Politica V, 3, 7; DIODORO SICULO, Biblioteca Storica XI, 52, 1-4.
  • (7) ERODOTO, Storie VII, 169-172.

Bibliografia

Info

Collezione A. Colosso
via Messapica 28
Tel. 0833554843
orario: mar-dom h. 10-12 e 18-20

Museo civico archeologico Salvatore Zecca
via della Zecca 1
Tel. 0833555819
email museo@comune.ugento.le.it
orario: mar-dom h. 10-12 e 18-20

Nota dell’autore

Chi scrive ha visitato Ugento tra 2004 e 2008. Le foto della cripta sono state scattate dallo stesso, le ricostruzioni e gli altri scatti sono tratti dai siti internet citati in bibliografia.

Five Roses, un riferimento per tutti i rosati italiani

di Pino de Luca

Nella tanto diffusa quanto sciagurata inclinazione alla semplificazione, intere generazioni di camerieri e sedicenti maestri di sala hanno perpetrato, impunemente, suggerimenti nella scelta del vino esclusivamente per … colore.

Ed eccoci al vino rosso per definizione e non-rosso per alternativa, così detto bianco. E pensare che il primo vino che assume moderna storicità è la Vernaccia di San Gimignano che costa il Paradiso al buon Martino IV (Purgatorio canto VI) e l’altrettanto famoso Chianti sono entrambi vini bianchi. Non si storca il naso, il Chianti nasce come vino bianco e di scarsa qualità (1398) diventa rosso e migliora solo dal 1427 …

E in questa dualità fasulla come quella del falso abbinamento chi ne ha pagato pegno, a cagion, si pensi, del colore è il rosato. Il più nobile, fresco e puro dei vini. L’ignoranza, da sempre, è assai più diffusa della canoscenza insita per missione nell’umana essenza.

La storia del rosato è stata escussa ampiamente, ma ribadirò ogni volta che il rosato è di negroamaro e salentino, può farsi anche altrove e con altri uvaggi.

E non vi è alcun dubbio che il primo rosato in bottiglia sia nato a Salice Salentino, nel 1943, quando gli alleati liberarono il mezzogiorno con l’operazione Husky.

Hanno sete le truppe alleate, bevono whiskey del Kentuky fatto di mais. Bevono il Four Roses. La leggenda vuole che Piero Leone De Castris venda una grossa fornitura agli americani che sia più buona del Four Roses e non poteva che chiamarsi Five Roses. In realtà si chiama così perché viene da una contrada che si chiama Cinque Rose, qualcuno dice che si chiami cinque rose per la tradizione dei Leone De Castris che vuole abbiano cinque figli, ma

Il Crocifisso nero nella cattedrale di Nardò

di Marcello Gaballo

 

…La prima impressione che si ottiene guardando il nostro Crocifisso è innanzitutto il rispetto delle partizioni anatomiche ed il rigoroso senso dell’ armonia, che presuppone grande sensibilità e capacità artistiche dello scultore.

Pur se evidente l’ influsso delle tradizioni religiose orientali, è uno dei modelli di Christus patiens medievali, sebbene l’ artista non ne abbia volutamente accentuato l’ aspetto patetico o tragico, sottolineando invece la serenità e sacralità.

La sua espressione, quieta e composta, come di rado si osserva in altri Crocifissi coevi, sembra più essere quella di un dormiente che di un martirizzato.

Nessuna tensione di tendini o vene, nessuna alterazione o smorfia che deforma il volto, non esagerati fiotti di sangue dalle ferite, non sopracciglia aggrottate né segni di flagellazione.

Al contrario un volto sereno, con bocca e occhi socchiusi e composti, un naso affilato che contribuisce ad ingentilire la bellezza del volto, intensamente espressivo.

“… morto senza transizioni di forme o stile, col corpo atteggiato in un composto dolore, disteso e con le braccia aderenti ai due lati della trave trasversa, col corpo afflosciato, il capo inclinato a destra, ma col volto di espressione singolare: occhi chiusi, “in beatitudine”, non glorificato ma aria di serenità in segno di magnanimo sopportamento del dolore, senza spasimo duro e prolungato; in modo che dimostrasse l’umanità veramente sofferente, con la divinità presente a sublimare l’infinito dolore ed umiliazione, volontariamente accettati”[1].

Nessuna spigolosità, anzi delicati trapassi di piani in tutta la scultura e perfino nella sottile barba, che incornicia le dolci fattezze.

Insolita la trattazione della capigliatura a ciocche ondulate, disposte ordinatamente in volumi ben definiti, ricadenti dai due lati della testa, dietro le orecchie e fin sopra le spalle[2].

Molto accurata anche la lavorazione dell’ ampio perizoma che avvolge i fianchi con una stoffa ritorta al di sotto dell’ addome e che si adatta alla linea delle gambe, senza pendere, come nella tradizionale iconografia. Vistosamente aderente al corpo, dalla parte sinistra ricade col suo lembo estremo dietro il ginocchio, che resta scoperto come l’ altro. I residui di colore rilevati nei restauri testimoniano che esso fosse di color verde e quindi anche la scultura, oggi pressochè monocroma, un tempo doveva essere di più colori[3].

Gli arti inferiori, leggermente flessi, poggiano coi piedi sul sostegno; i superiori non sono perfettamente orizzontali, mentre le mani sono inchiodate alla stesa altezza.

Le spalle sono leggermente incurvate in rapporto all’inclinazione della testa e tutto il corpo presenta una lieve curvatura rispetto all’ asse verticale della croce, quasi descrivendo una “S” a rovescio. Potrebbe trattarsi di un implicito rimando iconologico al serpente di bronzo, prefigurazione della Croce del Salvatore, innalzato da Mosè nel deserto.

Il capo dunque girato verso la spalla destra, con un riequilibrio dato dalla pendenza del bacino verso sinistra e delle gambe flesse verso destra.

E’ il corpo di un trentatreenne, modellato con estrema raffinatezza e, nonostante l’ infelice sorte, dolorosamente sereno…


[1] Discorso di S. E. Rev.ma Mons. Nicola Giannattasio, arcivescovo  di Pessinonte, nella commemorazione del  7° Centenario del Miracolo del Crocifisso “ Gnoro” di Nardò, in “Bollettino Ufficiale della Diocesi di Nardò”, gennaio 1955, a. IV n°1, pp.157-158.

[2] Il restauro ha rimosso la brutta tinteggiatura castana effettuata probabilmente il secolo scorso.

[3] Anche al di sotto della ferita del costato vi era dipinto sangue rosso vivo, per acuirne l’effetto doloroso, rimosso negli ultimi restauri.

 

(tratto da  “Il Cristo nero della Cattedrale di Nardò”, a cura di Marcello Gaballo e Santino Bove Balestra, Quaderni degli Archivi Diocesani di Nardò e Gallipoli, Nuova Serie, Supplementi II, Congedo Ed., Galatina 2005).

Le amarene dell’Arneo

LETTERATURA GASTRONOMICA

LE AMARENE DEL FANTASMA

 

Divenute sciroppose al sole in un tegame di creta coperto da una lastra di vetro le amarene all’acquavite fanno… “ risuscitare i morti”

 

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Era abitudine della zona che, almeno dieci volte l’anno, i signori si riunissero per una battuta di caccia. A queste, chiamiamole pure vacanze, il nonno non mancava mai e poiché spesso si andava lontano, l’assenza si protraeva per diversi giorni; al ritorno c’era sempre l’eccezionalità di una preda a solleticare una festosa curiosità, tanto più che il nonno era solito imbalsamare le sue numerose “vittime”. La sua casa, infatti, straripava di cimeli e chiunque, entrando, capiva subito che ivi abitava un cacciatore incallito, ancor meglio se veniva ammesso nella sala grande, dove una ricca collezione di armi sovrastava il lupo cacciato in Sila, l’aquila abbattuta nel Gran Sasso, il cinghiale nero (che a detta del nonno era stato uno dei migliori bocconi), le volpi nostrane e tutta una legione dei più svariati uccelli. E lo zoo imbalsamato cresceva giorno per giorno, poiché non succedeva mai che il nonno tornasse col carniere vuoto. Una sola volta era accaduto, ma “tutto per colpa del fantasma” precisava nel suo orgoglio di cacciatore. “Ovverosia per colpa delle amarene” rettificava la nonna con un risolino. Ne nasceva una piccola scaramuccia coniugale che si concludeva immancabilmente con il racconto dell’avventura.

In quel tempo – ancora lontano dalla riforma agraria – nel Salento esisteva un grande latifondo chiamato “Arneo”. Chilometri e chilometri di terreno macchioso, dove, unico segno di vita, erano gli stazzi, pigiati di bestiame e seminati alla lontana, essendo la zona un ottimo pascolo. Fra stazzo e stazzo si infittiva il groviglio delle frasche e si snodava tutto un labirinto di sentieri che i pastori del luogo chiamavano “le strade perse”. Nella zona più isolata e più

Il Ducato di Modena ed il cafone borbonico

 

di Stefano Manca

I nuovi si riconoscevano subito. La scuola non era poi così numerosa. Ilaria era, appunto “la nuova”. Diventò presto il nostro argomento di conversazione preferito. Elemosinando il permesso di uscire per concederci le nostre prime, proibitissime, sigarette, aprivamo fiumi e fiumi di dibattiti.

Secondo me è del nord.

Secondo me è di qualche paesino qui intorno.

Secondo me snob e famiglia ricca: figliadipapà inavvicinabile.

Le congetture andarono avanti ricreazioni intere. Nessuno di noi, nonostante il look da Bullo Discotecaro, provava ad avvicinarla.

Una così ti fa fare una figuraccia che la scuola ti ride dietro per mesi, pensavamo.

Quella mattina trovai le palle. Il coraggio non era sufficiente. Ci volevano proprio le palle. Finalmente prese a piovere come si deve, come nei film americani. Solo che io non ero Richard Gere e la provincia leccese non era New York. Mi avvicinai con la scusa dell’ombrello.

Ero il primo che la avvicinava con la scusa dell’ombrello.

Ero il primo che la avvicinava tout court.

“Tieni. Per adesso mi sa che non smette”, esordii. Durante il tragitto avevo

Ortelle. Antonio Chiarello, figlio devoto della Terra Madre

ANTONIO CHIARELLO: DI SOLE E D’AZZURRO

 

di Paolo Vincenti

“Antonio Chiarello, classe 1955, vive in un eremo del basso Salento: Ortelle. Adora il sole e la terra. Dipinge e fotografa. Spesso e volentieri ama librarsi in voli pindarici con: poesie, cartoline, fiori, libri, nuvole, brochure, aquiloni, gabbiani, lune, … sogni! Una moglie e due figli lo riportano poi con i piedi per terra”.

Antonio Chiarello, pittore e fotografo, vive e lavora nel paese di San Vito e della sagra del maiale: Ortelle. Proprio alla Fera de lu Porcu, che si tiene ogni anno nel suo paese in ottobre, una delle sagre più antiche e conosciute di Terra d’Otranto, egli ha dedicato molte energie, con le sue fotografie, con le sue pitture, con preziosi consigli, e coinvolgendo anche i suoi amici e compagni di viaggio come Antonio Verri, Fernando Bevilacqua, Rina Durante, Agostino Casciaro, Pasquale Pitardi e Antonio Errico.

Diplomato all’Accademia di Belle Arti di Lecce, Chiarello utilizza, per le sue Pittoriche visioni del Salento , la tecnica dell’acquerello; e l’acqua, elemento primordiale, liquido vitale, è spesso  presente nei suoi lavori, come conferma la mostra Di/Segni d’acqua, sette tavole per un luogo di mare, tenuta ad Otranto nel giugno del 2001. E nell’acqua e nella terra si sostanzia il nostro Salento, Terra Madre alla quale Chiarello, figlio devoto, dedica  ogni suo sforzo, ogni idea, tutto il suo tempo , attraverso la sua opera di promozione territoriale portata avanti con tenacia ed impegno fin dal 1987, anno della sua prima mostra,  Salento immaginifico, tenuta nel Castello di Otranto. La sua arte chiama a raccolta anche gli altri  elementi, del vento –  insopportabile  scirocco d’Africa-, dell’aria  – il cielo salentino, un cielo spesso mago e ingannatore- e  del fuoco – il sole del Salento, che spacca le pietre e brucia questa  nostra terra rubra – .

Il Salento d’autore di Antonio Chiarello sono l’infinito blu del mare e le  vertiginose scogliere  di Castro e di Santa Cesarea, è il volo dei gabbiani su Otranto,  i frantoi ipogei e le pitture rupestri dei basiliani, la luna e il cielo stellato su Poggiardo, la cripta dei Ss.Stefani di Vaste; il Salento d’autore di Antonio Chiarello è il mare “un brivido etereo che riproduce l’immagine spirituale del Cielo” (G.Comi, “Cantico del Mare” ) e la terra “spaziosità di tombe e d’ombre” (Comi, “Cantico del Suolo”) di questa nostra vecchia amata odiata regione iapigia; è la cripta della Madonna della Grotta di Ortelle, primo incontro della mattina per Chiarello  ed ultimo della sera prima di rincasare; gli  ulivi secolari,  la chiesetta bizantina di San Pietro e il Faro della Palascia di Otranto; il Salento di Chiarello è Sant’Antonio, sono le grotte di Porto Badisco, le cave di Cursi,  è la  Cattedrale di Otranto e il suo mosaico pavimentale; insomma, parafrasando Italo Calvino ne “Le città invisibili”, il Salento per Chiarello non sono solo “le sette o le settantasette meraviglie” che offre, “ma è la risposta che dà ad ogni tua domanda”. Il viaggio nella sua terra ha portato Chiarello a tenere varie mostre, come: Ortelle: Luci e Colori, nel 1989 a Ortelle, e poi Visioni di Sanarica, nel 1990, nella Casa Canonica di Sanarica, Olea Eurpoaea, dedicato all’ulivo, all’Euro Art Expo di Verona, nel 1991, e Post vedute, a Santa Cesaria, sempre nel 1991. Ha realizzato inoltre alcuni cofanetti fotografici su Castro e su Santa Cesarea. Il procedimento fotografico utilizzato dal nostro autore, questo post-vedutismo chiarelliano,  viene definito “scrittura con la luce” da Donato Valli, che coglie la confluenza dell’esperienza estetica di Chiarello in quella letteraria di Girolamo Comi, poeta molto amato dal Nostro. Nel 1993, Chiarello tiene, presso il Museo Diocesano di Otranto e poi presso il Frantoio Ipogeo di Cursi, la mostra Lapides Sacri: Frammenti di religiosità rupestre, forse la punta più alta della sua carriera . Dice il Pittore Pitta Santi all’Uomo dei curli che “alle soglie del terzo millennio, nella Madonna de a Crutta, si accorse di essere figlio di Bisanzio, e allora si mise a pittar Santi e Madonne, memore di un’infanzia spesa giocando in un eremo abitato da silenzi muffe e licheni. Continuò a cercare in quel suo pittar Santi il Segno primigenio. Con questi Frammenti di Religiosità Rupestre volle partecipare a tutti un unico messaggio: Salviamo gli ultimi resti!”: una interessante ed originale rassegna sulla pittura basiliana, con presentazione di Marina Pizzarelli. Nel 1996, Chiarello tiene la mostra  S’era pittore jeu…, ode in sette tele per un cuore messapo, a Muro Leccese;  nel 1998,  è la volta di Di/Segni D’acqua –dodici tavole per Santa Cesarea– e Di/Segni D’acqua –sette tavole per Badisco-, mentre nel 1999, tiene a Larissa (Grecia) la mostra Finibus Terrae, Acquaforte per Rassegna grafica. Dice Antonio Errico: “Dove la terra e il mare hanno per confine solo la vertiginosità di uno strapiombo; dove i colori dell’aria e dell’acqua sono la magia di una confusione; dove dalle torri di guardia l’immaginazione può scorgere ancora flotte turchesche verso l’orizzonte, è lì che Antonio Chiarello scruta con lo sguardo, è lì il punto in cui cerca i colori. Dove il Salento ha la fisionomia del mito, dove ogni cosa muore e risorge nello stesso istante, dove le leggende non sono mai finite, in quei posti dove vibra una voce strana e strabiliante, che viene da una fantasia e una suggestione, in quei posti Antonio Chiarello trova i motivi per le sue narrazioni di colori.” Nel 2005, Chiarello ha realizzato la mostra devozionale Sant’Antonio, giglio giocondo, che è partita da Spongano ed ha avuto un grosso successo. Si tratta di una mostra onomastica che Chiarello ha voluto dedicare prima di tutto a se stesso, in occasione dei suoi cinquant’anni, e poi a tutti coloro che si chiamano Antonio. Con la voce recitante di Agostino Casciaro e la musica dei Menamenamò che eseguono inni popolari dedicati a Sant’Antonio, santo molto popolare in tutto il Salento, questo progetto- ex voto raccoglie tredici carte devozionali, che il suo creatore vuole far portare in giro per la provincia di Lecce in tutti i paesi dove vi sia il protettorato o almeno una devozione per Sant’Antonio. Da diversi anni, inoltre, l’artista realizza un calendario d’autore per le Terme di Santa Cesarea. Sue opere sono in molte collezioni private e pubbliche. Ma sono ancora tanti i progetti che ha in mente di realizzare Chiarello, cuore messapo. Continuerà ancora a raccontare l’anima autentica del Salento, i suoi dolmen, i suoi menhir e, seguendo le sue stesse parole, “i suoi paesaggi abitati da fichi, oleandri, carrubi, dal geco e dalla tarantola, capperi, fichi d’India, vite e gran selve d’olivi. Immensi, millenari, biblici Olivi. E tutt’intorno cullati dal liquido primordiale: il Mare. Un mare di leggende, un mare di paure, un mare di speranze… Bassi agglomerati di calce sotto un immenso cielo, dove l’uomo dialoga ancora con la terra ascoltandone il sibilo lungo di millenaria cultura. Tutto questo e tanto altro ancora èla Terra D’Otranto, dove finisce la terra e lievitano leggeri i Sogni.”

I Tafuri… senza peli sulla lingua!

antico stemma dei Tafuri

 

di Piero Barrecchia

 

Non di rado in terra salentina capita di imbattersi in brandelli del passato, in qualche cimelio di vita consumata tra meandri di palazzi ed alternanze di luci ed ombre di chiostri familiari, tra ruderi e restauri sapienti.

Non di rado in terra salentina, succede di far conoscenze con chiarissime casate nobiliari, colonizzatrici di questa penisola, quasi mai indigene.

Spesso in terra salentina, si è accolti da parenti desueti, di un aristocratico lignaggio, che t’accompagnano lungo il perimetro dei loro manieri, accostando gli usci per impedire la violenza della luce, svelandosi tara le ombre, in quella prorompente discrezionalità e riservatezza, incomprensibile ai più.

Ti esibiscono le loro facciate, tra casine, dimore di residenza e perpetui riposi, tra paraste sinuose o liscie pareti, a volte essenziali, in stile rinascimentale, a volte sorprendenti, in  tardo barocco, rococò o neogotico. Lasciano tracce ed al contempo fuggono dalla tua conoscenza. Tale è il D.N.A. tratto dal midollo storico ed architettonico della famiglia nobiliare dei Tafuri. E non se la prenda qualche discendente, che non ho il piacere di conoscere, ma i suoi antenati sono così schivi da non consentirmi la sua vicinanza, poiché nobili, letteralmente e formalmente nobili, di quella nobiltà ortodossa, inviolabile che non si concede e non permette che l’altrui sguardo varchi la soglia della blasonata casa, per non compromettere la discendenza della stirpe, per non consentire miscele sanguinee o intellettuali, se non a casati con pari requisiti.

E non fanno poi tanta fatica a nascondere la loro indole se tra le loro dimore visitate ho ben percepito, oltre all’eleganza usata e mai esagerata, una certa soggezione ed un certo disagio nel porgere anche e solo lo sguardo sui loro domicili.

Non vi è possibilità di penetrare nelle loro stanze e loro stessi mi avvertono di non attendermi un invito all’ingresso, uno zerbino con su scritto “Benvenuto”.

Il loro diniego ad un’estranea visita è esplicitato in parole, motti e figure.

Sembra volerlo ripetere un qualsiasi pertugio dei loro prospetti “Voi siete un’altrà realtà, qui è un altro mondo, un altro modo di esistere. Ammirateci pure dall’estrerno, ma non vi è concesso entrare nelle nostre viscere. Quel che nostro è nostro!”. Se l’Ade dantesca ostacola l’ingresso alla speranza, l’Eden dei Tafuri è inaccesibile ad anima e corpo. Sfido il visitartore a soffermarsi sul varco principale di una qualsiasi loro dimora e di trovar aperto un varco. Sfido il visitatore a voler percepire qualsiasi forma di benvenuto, nel second’ordine del piano nobiliare, racchiuso in perimetri di finestre serrate al pubblico. Sfido il visitatore a trovar ampie balconate nei loro prospetti. Risulteranno prettamente estetiche, assolutamente impraticabili, quasi un auto-impedimento, affinchè sia precluso ogni contatto tra i due mondi.  Sfido, ancora, lo stesso visitatore ad affermare che non sia stato avvertito, come nel costume dei nobili, con  una frase, con un mascherone apotropaico, con lo stemma stesso.  La pena è un duello subito da parte dell’intervenuto. Antico passo carrabile, divieto d’accesso vetusto, ma sempre e comunque da rispettarsi.

Gallipoli – Palazzo Tafuri, particolare dell’ingresso principale

Così, in Gallipoli, se lo stile rococò, esuberante, invita alla briosità della vita, lo scongiuro alla visita è  percepito dalle serrate imposte ed è amplificato ed esplicitato nell’astrusa capite ingiuriante, che sormonta l’ingresso.

E mentre Soleto si fregia, ora, dei natali del suo Matteo e dell’opera da lui consegnata all’intera comunità, poco o nulla gli interessa della casa natale dell’illustre figlio dei Tafuri. E così, la decadenza e l’incuria osano irrompere nella patrizia dimora, senza, tuttavia, dimostrare alcun coraggio nel contaminare il monito del geniale cittadino: “Humile so et hulmità me basta: Dragon diventarò se alcun me tasta”.

La guglia di Soleto

E gli scrigni residenziali e le ultime dimore dei Tafuri riecheggiano di tal monito in Lecce, Nardò, Galatina, Alezio ed in chissà quante altre località del Salento.

Se lo stemma estrinseca l’indole di una famiglia, allora, è ben esplicita l’araldica dei Tafuri nelle sue due varianti riscontrate.

La prima variante rappresenta una quercia, simbolo della famiglia, sormontata da un’aquila bicipite, spiegando la provenienza albanese della stirpe. Nella seconda variante, è presente la quercia sormontata da saette che, tuttavia, non la scalfiscono!

Gli impedimenti agli accessi nobiliari, come già detto, sono vari, ma esclusivo mi è sembrato l’ultimo ritrovato.

Un palazzo nobiliare seicentesco, la dimora dei Tafuri in Neviano.

Neviano- Palazzo Tafuri – particolare del quadrato

Scansione simmetrica di finestre rinascimentali, misurata eleganza, alcuna prorompenza estetica, asimmetria dell’ingresso principale alla dimora e centralità del sacro. Tutto, o quasi, lineare, se non fosse per quel mediano campanile a vela, che campeggia sul prospetto principale. Tutto, o quasi, lineare, se non fosse per quel finestrone curvilineo che apre uno spiraglio lì, sempre sulla facciata principale. Tutto, o quasi, lineare, anche nel bianco intonaco, se non fosse per quel quadrato lapideo, lì, sulla porta di un probabile luogo di culto, al quale si potrebbe accedere, se non fosse per quella porta chiusa, come nell’indole propria di questa famiglia. Tutto lineare, ma proprio tutto, se la tradizione dei moniti della famiglia Tafuri, anche qui non è smentita, proprio per quel quadrato lapideo, sul quale è incisa la scritta:“QUI NON SI GODE IMMUNITA’ ”.

Esecuzione tassativa a quanto disposto dal Sommo Pontefice Clemente XIII, nella sua “Pastoralis Officii”, nella quale si  elencano le fattispecie di illeciti criminali per i quali è interdetto ogni tipo di immunità e si specificano i luoghi ove godere di tale beneficio e, per il nostro caso, così recita:

 

“”(…) 3. Di immunità ecclesiastica invece non devono affatto godere: ” Le Cappelle, e gli Oratori esistenti nelle Case de’ Particolari, e Magnati, quantunque abbiano privilegio di Cappelle pubbliche, e l’adito in strada pubblica;(…)

4. Affinché queste Nostre sopraddette disposizioni raggiungano il loro effetto, imponiamo ed ordiniamo con la presente Lettera a Voi, Fratelli Arcivescovi e Vescovi, che ognuno di Voi nelle sue rispettive città e in qualsiasi terra, paese e castello delle rispettive diocesi assegni ai rei e ai criminali che si trovano nelle chiese e nei luoghi immuni il tempo congruo, secondo il Vostro giudizio, e si affiggano i pubblici manifesti ed avvisi, informandoli che in avvenire, secondo la Nostra presente Disposizione, in alcune chiese e luoghi sopraddetti non debbano assolutamente godere dell’immunità ecclesiastica coloro che si trovano presentemente accusati di crimini commessi (…)

(…)  Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, sotto l’anello del Pescatore, il 21 marzo 1759, nel primo anno del Nostro Pontificato.””.

E’ ovvio, dunque, che presso la nobiliare dimora dei Tafuri non era prevista tutela dalla legge ordinaria, per ogni tipo di illecito commesso.

Non è invece ovvio ed è del tutto sorprendente e particolare che la disposizione papale, emanata per tutto il Regno, sia stata eseguita letteralmente e pedissequamente, con l’affissione del quadrato presente sul prospetto di Palazzo Tafuri di Neviano.

Non escludo che vi siano disseminati altri esemplari in Salento.

Tuttavia, è sintomatico che il divieto, ampliamente pubblicizzato su una delle dimore di proprietà dei Tafuri, declami la “chiarezza” della nobile famiglia, poiché, come si suol recitare, le cose “ non le manda, certo, a dire!”.

“Mamma” nel dialetto salentino

Luigi Bechi (1830-1919)

di Armando Polito

Usato da solo: mamma, come in italiano; pure in senso traslato per indicare a Nardò il deposito mucillaginoso dell’aceto, che, data l’alta concentrazione di acido, favorisce il passaggio ad aceto del vino aggiunto), a Cisternino il fior fiore dell’olio,  a Mesagne tanto la feccia del vino che il fior fiore di ogni cosa.

In espressioni esclamative: ma’ (forma apocopata del precedente).

Un uso particolare è quello che mostra la sua fusione con l’aggettivo possessivo di prima, seconda e terza persona

O tu che passi per questa via, non ti scordar di salutar Maria!

edicola votiva nel centro storico di Copertino

di Armando Polito

La locuzione, con varianti di poco conto, è un classico delle edicole sacre1 che in un passato neppure tanto lontano punteggiavano le strade cittadine e di campagna, emblema di una religiosità semplice e sentita, forse un po’ troppo ingenua, che amava ricordare l’al di là anche se l’al di qua poneva problemi forse peggiori di quelli attuali. Oggi il nostro (di noi italiani…) sguardo si posa con attenzione su costruzioni di enormi dimensioni possibilmente recenti e funzionali allo sport…mentre un giapponese (è solo uno dei tanti esempi) si ferma incantato a guardare quella che a noi sembra una semplice, miserabile pietra corrosa dal tempo. Eppure, anche il giapponese è avviluppato, come noi e più di noi, dal ritmo frenetico della vita di oggi; però ha conservato il culto della cultura (mi si perdoni il gioco di parole che, per chi non lo sapesse, si chiama figura etimologica), l’amore per la conoscenza, il rispetto del passato.  E noi?

L’unica giustificazione per il nostro atteggiamento a dir poco trascurato è che l’enormità del patrimonio culturale di cui siamo gli eredi scialacquatori, nonché il fatto che ce lo abbiamo sempre sotto gli occhi2, ha finito per disorientarci sulla graduatoria d’importanza (è antipatico dover parlare, in campo artistico, di graduatoria ma bisogna pur farlo perché ad essa dev’essere poi correlato, concretamente, il concetto di tutela) dei tanti beni dei quali il destino ha voluto fossimo gli affidatari. Abbiamo fatto della quantità un alibi per non tener conto neppure della qualità, con i risultati catastrofici che sono sotto gli occhi di tutti. E l’ignoranza, non solo della nostra storia, ha finito per dilagare…

Sarebbe utopico, perciò, quanto ingenuo, pretendere che la locuzione del titolo fosse accolta dal frettoloso viandante locale con l’unica variante della perdita, eventuale, della rima e del mutato complemento oggetto finale: la Maria di turno potrebbe essere un qualsiasi manufatto e il saluto avrebbe il significato tutto laico di interesse alla conoscenza, riflessione sul passato non avulso dal presente.

È quanto mi accingo a fare con l’Osanna di Nardò. Per la sua storia evito di ripetere cose ben note già trattate da altri3 ; mi limiterò solo a fare delle osservazioni che abbiano attinenza con il titolo e con le amare riflessioni espresse subito dopo, lasciando al lettore, com’è naturale, la più ampia facoltà di stigmatizzarne  (gli sarei profondamente grato, però, se ne rendesse pubblici i motivi) ogni più o meno sospetta strumentalizzazione.

La rappresentazione più antica che conosco del nostro tempietto risale al 1663, ed è un dettaglio della carta che a Nardò dedicò il cartografo olandese Joan Blaeu (in sequenza la carta nel suo insieme e il dettaglio dell’Osanna con la vicinissima chiesa di S. Maria della Carità).

Per il momento notiamo come il tempietto sembri poggiare su un basamento (si direbbe circolare e senza gradini) piuttosto alto.

Le tre testimonianze successive (due tavole e un brano testuale) risalgono al 1735, anno della prima edizione parziale (primi sei capitoli del primo libro) di Dell’origine, sito ed antichità della città di Nardò di Gio. Bernardino Tafuri, pubblicata nel tomo XI degli Opuscoli scientifici e filologici dedicati da Angiolo Calogierà (così è scritto nella dedica, Calogerà è la grafia ricorrente) al benedettino Bernard Pez, tomo uscito a Venezia per i tipi di Cristoforo Zane4.

Alla pagina 34 seguono le due tavole in basso riprodotte con il dettaglio del tempietto evidenziato in rosso.

Nella prima la fabbrica che ci interessa presenta chiaramente cinque gradini. La seconda, in pratica una mappa, consente con la sua visione prospettica dall’alto di rilevare solo il basamento ottagonale mentre una ricostruzione del numero di gradini tenendo conto della distanza tra il limite esterno delle colonne e quello del basamento stesso (coincidente col perimetro dell’ultimo gradino) appare (almeno a me profano di tali calcoli piuttosto virtuali…) francamente aleatorio.

Passiamo ora alla descrizione della fabbrica fatta dal Tafuri a pag. 41: “Il medesimo è di forma essagona con una cupola sostenuta da sette colonne di Pietra Gentile, detta comunemente Leccese, le quali sono piantate sopra altrettanti gradini della medesima pietra.”

Notiamo la discrepanza tra gli altrettanti (7) gradini e i cinque visibili nella tavola. Fino al 2001 avremmo avuto un buon motivo per credere ad una sbruffonata del Tafuri, anche se qualcuno di gradini ne ha messi in campo addirittura nove5. Ma per lo storico neretino del Settecento, famigerato confezionatore insieme col Pollidori di documenti falsi, potevano pure due semplici gradini in più costituire motivo di maggior vanto e orgoglio per le memorie cittadine? Vada per i ponti sull’Asso di qualche post fa, ma due gradini! Saremmo stati autorizzati comunque, pur nel dubbio, a fargli fare la fine della nota favola del pastore che per burla  gridava a casaccio al lupo! invocando aiuto e che alla fine non ebbe aiuto proprio nell’unica fatale circostanza in cui diceva la verità. Ma, come abbiamo anticipato, la risistemazione dell’area effettuata nel 2001 ha riportato alla luce i due ultimi gradini che erano rimasti coperti dal progressivo innalzamento del livello stradale. La questione dei 5 o 7 o 9 gradini sembrerebbe, dunque, risolta per sempre.

Come spiegare, a questo punto, la discrepanza tra i sette gradini del testo e i cinque della tavola e a quale testimonianza dare più credito? Io privilegerei il testo6 perché è noto che le vedute e le mappe di quell’epoca non sempre erano perfette nel dettaglio e non sempre eseguite da persone del luogo e tenendo innanzi agli occhi il soggetto. Se così non fosse bisognerebbe immaginare che già ai tempi del Tafuri i gradini visibili fossero cinque, come fino al 2001, e che i sette del testo si riferissero a quelli originari. Anche nell’acquerello di J. L. Desprez del 1785, in basso riprodotto, propenderei a riconoscere la presenza più di cinque che di sette gradini.

Torniamo ora all’alto basamento della carta del Blaeu. Anche qui, se non si trattasse di fisiologica infedeltà rappresentativa (basta guardare la rappresentazione mastodontica della vicinissima chiesa di S. Maria della Carità), potremmo ipotizzare che verso la metà del XVII° secolo l’Osanna posasse su un unico alto basamento (questa configurazione, presumibilmente originaria, ben si accorderebbe con la teoria, sostenuta da G. Palumbo7, secondo la quale questi tempietti non sarebbero altro che l’adattamento cristiano di monoliti pagani) che rendeva praticamente impossibile quella fruizione cultuale diretta che avrebbe avuto successivamente grazie all’aggiunta dei gradini.

Se le cose stessero come prospettato nell’ultima, pur discutibile ipotesi, la recente sistemazione dell’area (che ha di fatto prodotto una cavea dovuta al recupero degli ultimi due gradini al di sotto del piano stradale, generando, come giustamente afferma l’amico architetto Giancarlo De Pascalis in Il tempietto dell’Osanna a Nardò, in Il tesoro delle città, Kappa, Roma, 2003, pag. 189, una decontestualizzazione della fabbrica non più direttamente utilizzabile per le funzioni liturgiche come la consueta benedizione delle Palme) avrebbe, sia pure involontariamente, una volta tanto, ripristinato sul piano strutturale un passato più recente (7 gradini) e, forse,  su quello strutturale e funzionale (cavea, aggiungo inversa, che ha lo stesso effetto di un alto basamento) un passato ancora più antico.

Tutto questo, dubbi compresi, non è sufficiente perché il nostro tempietto (e in questo il suo destino è in comune con quello di tanti altri monumenti) meriti un’attenzione, se non religiosa almeno tutta laica ed estetica, maggiore di quella fugacemente riservata ad una semplice rotatoria? Probabilmente sì, ma, intanto, può essere fatto solo passandoci a piedi e senza che qualcuno di mia conoscenza abbia l’infelice idea di apporvi nelle vicinanze un cartello con su scritto: O tu che passi per questa via, non ti scordar di Osanna e (con riferimento alla vicinissima chiesetta di S. Maria della Carità) di Maria, con una sciagurata integrazione non certo disinteressata…

________

1L’aggiunta di quest’aggettivo, superflua per gli addetti ai lavori e per le persone di una certa età oltre che cultura, è per le nuove generazioni che come edicola conoscono solo quella dei giornali (sportivi…) e che a causa del Maria precedente potrebbero essere indotti a credere che il post sia dedicato alla moglie di Maurizio Costanzo.

2 Gli occhi, però, dovrebbero servirci pure a constatare il degrado che, per giunta, non è nemmeno tanto lento…

3 Vedi il post Gli oltre quattrocento anni dell’Osanna di Nardò di Marcello Gaballo su questo sito  e il saggio di  Giancarlo De Pascalis Il tempietto dell’Osanna a Nardò all’indirizzo http://www.scienzemfn.unisalento.it/c/document_library/get_file?folderId=2981496&name=DLFE-34311.pdf

4 L’opera integrale uscì in Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Gio. Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò a cura di Michele Tafuri a Napoli per i tipi della Stamperia dell’Iride nel 1848. In questa edizione le due tavole sono assenti.

5 Emilio Mazzarella, Nardò sacra, Mario Congedo editore, Galatina, 1999, pag. 286: “Vi si accedeva mediante nove gradini; oggi ve ne sono quattro, poiché il livello stradale è stato elevato notevolmente…”. Il computo, probabilmente, è stato fatto sommando i 4 (in realtà erano 5) gradini visibili ai cinque che consentono, scendendo rispetto al piano stradale, l’accesso alla chiesetta di S. Maria della Carità che sorge a poca distanza in posizione frontale defilata a destra (per chi guarda l’’Osanna con le spalle a porta S. Paolo).

6 Anche se le colonne, escludendo dal conteggio quella centrale, sono otto, come appare nella seconda tavola e non sette come si legge nel testo, per cui l’ìncontro di attendibilità testo-tavola di fatto si chiude con un pareggio.

7 Nota 7 del saggio di Giancarlo De Pascalis più avanti citato.

Tutino. Un antico e suggestivo borgo nel comune di Tricase (Lecce)

di Marco Cavalera

La frequentazione umana nel territorio di Tutino (rione di Tricase) risale all’età romana. Questa ipotesi è stata avvalorata da frequenti rinvenimenti di frammenti di ceramica, in fondi ubicati a ridosso di un tratto viario che, secondo alcuni studiosi, coincide con l’antica via “Sallentina”. Uggeri, a tal proposito, afferma che quest’ultima proveniva dalla Madonna del Gonfalone, lambiva a nord-ovest l’attuale borgo di Sant’Eufemia, si dirigeva per Tutino e proseguiva per Depressa[1].

Alcune evidenze di questo antico tracciato persistono ad ovest dell’abitato di Tutino, lungo la c.d. via delle Zicche. Si tratta di una strada campestre, larga circa tre metri e delimitata da muretti in pietra a secco alti, in alcuni punti, più di due metri, che conserva sotto l’asfalto e il cemento tracce superstiti di acciottolato.

Antico tracciato stradale, nel territorio di Tutino, identificato con la via “Sallentina”.

Un tratto di strada secondaria, che interseca ad est il tracciato della via “Sallentina”, presenta dei tagli sul banco di roccia, appositamente regolarizzato per permettere un più agevole transito dei carri. La carrareccia si segue solo per una lunghezza di poche decine di metri: sul suo

I tufi di Puglia

di Angelo Micello

La Puglia è una monotona distesa di calcari e di una infinita varietà di pietre derivate dalla disgregazione del calcare principale, dette calcareniti. Duri e marmorei i primi, tenere e porose le seconde.

I piccoli granelli di calcare, staccatisi dal banco compatto per diversi fattori (erosione, gelo, ecc..) sedimentati generalmente in ambienti marini e consolidati da leganti carbonatici, riacquistavano nuovamente una discreta consistenza. A seconda della quantità e qualità del legante, dalla durezza e pulizia dei granuli sedimentati e della differente porosità dello strato consolidato si riscontrano famiglie di calcareniti con caratteristiche geotecniche molto differenti.

Si passa da pietre mazzare o carparine, anche difficili da cavare e tagliare a misura, alle calcareniti medie (diffuse su buona parte della Puglia) fino a quella consistenza che sconfina con le sabbie vere e proprie che , appena portate in superficie, si disfano alla pioggia e al vento in pochi anni. Queste ultime le potete riconoscete guardando per esempio i muretti di campagna tra Uggiano ed Otranto sempre in eterno sfarinamento.

Non sempre la calcarenite presenta una consistenza omogenea. Lo strato consolidato può avere stratificazioni con differenti caratteristiche visibili a occhio nudo. E non sempre l’area di affioramento del banco omogeneo è sufficientemente estesa. Là dove lo strato consolidato omogeneo è sufficentemente profondo e di buona estensione, in quel posto è nata sicuramente una cava. Da piccole cave aperte per ricavarci i conci per recintare il fondo o farci il piccolo ricovero di campagna o la volta della cisterna, alle cave he hanno fornito pietra ad una intera città o a tutta una provincia. I segni delle cave nel territorio sono diversissimi. Dai segni appena impercettibili dei tagli per estrarre pochi conci, alle microcave diffuse, in genere in parte rinterrate, fino ad arrivare alle spettacolari buche nel terreno delle cave di produzione vere e proprie. Tutte comunque venivano chiamate tagliate (tajate, tagghiate, ecc..) perchè il tufo appunto si tagliava. Ci sono strati che presentano migliori capacità tecniche scendendo di profondità e allora la cava è profonda, sembra quasi non fermarsi mai.  Oppure addirittura sotterranea. Se invece lo strato migliore era in superficie l’aspetto finale è una cava estesa diffusa nel territorio. I conci, filati a mano sui tre lati con la punta sottile del piccone (zoccu, pico, zappune), ecc.  e poi scalzati da sotto con la lama larga, venivano tirati su a mano o al massimo con l’argano in legno (spitu) o in ferro.  Fino all’avvento del motore a combustione nessun mezzo a traino animale era capace di tirare su un carico di conci dal fondo della cava. Per questo i  percorsi dei traini (tràini) sono rimasti invariati per millenni. Dalle cave agli abitati il percorso era quello e solo quello, col minimo di pendenza perchè il tiro dei cavalli o delle vacche non poteva superare grossi dislivelli. Su queste strade, ovviamente anch’esse di calcarenite, i passaggi delle ruote e degli zoccoli formavano veri e propri binari (cazzature) incassati da cui era impossibile deviare.  Sulla  vecchia via tra Ortelle e Poggiardo ormai il traino scompariva dalla vista infossandosi completamente. Al centro il solco degli zoccoli, sui lati quelli delle ruote, a mezza altezza la risega dei mozzi che strisciavano ormai per terra.

L’enorme base calcarea e calcarenitica ha condizionato l’intero assetto idrogeomorfologico della Puglia. Dal regime delle acque superficiali pressoché assenti, al carsismo sotterraneo, alla civiltà ipogea e la cultura dello sfruttamento delle risorse locali.

L’attività di cavare la pietra tenera da taglio è antichissima.  Dal VIII secolo avanti Cristo in poi l’uomo ha cominciato ad abbandonare i ricoveri in legno e a cominciare a costruire i ricoveri con la pietra. L’avvento del ferro ha consentito il taglio estensivo del banco tufaceo e la produzione di conci sempre più regolari. In alcuni affioramenti sono ancora conservati i tagli di cave di epoca messapica. Nella foto  sotto si vendono i segni di una antica attività estrattiva.

Le pezzature del periodo messapico (ellenistico) sono caratterizzate da dimensioni notevoli.  Blocchi di 50×60x180cm erano lo standard per la costruzione delle mura di cinta delle città fortificate di Muro Leccese, Ugento, Vaste, Castro, Manduria, Cavallino e altre città messapiche. Ancora più grossi sono i conci del Cisternale di Vitigliano. Immensi i blocchi spartani di Taranto, che Virgilio dice posati dal mitico Ercole in persona.

La Puglia non ha mai avuto il gusto della pietra irregolare. Quella al massimo era buona per i muretti di campagna. L’arte messapica e poi romana e l’abbondante disponibilità di tufi hanno creato nei secoli maestranze sopraffine, col gusto dell’assetto, della taglia, dell’immorsatura, dell’intaglio, fino a complicarsi l’esercizio muratorio con le tipiche  facciate barocche o le volte in muratura dette appunto alla leccese.

Della cava non si buttava via nulla.  La polvere del tufo prodotto  dagli infiniti tagli, vagliata ai farnari o alle rezze, si usava per le malte (malte di calce).  Le pezzature strane andavano in fondazione, i conci rotti, a volte impastati col bolo (argille fini con poca calce) riempivano i rinfianchi delle volte o i sacchi interni delle murature più spesse. Era una tecnica derivata dalle fortificazioni aragonesi che associavano un paramento esterno in conci ben squadrati e un nucleo spesso a volte anche molti metri di un conglomerato impastato formato da pietrame, argille rosse finissime (bolo, boliu, ec..) e calce bastarda. Una volta asciugato e cementato diventava monolitico e aveva la giusta plasticità per assorbire senza danni i colpi di cannone. Essendo monolitico non generava spinte laterali e in molti ruderi medievali è più facile che si sia conservato questo nucleo di pietrame che non la facciata esterna di conci squadrati, già crollata da tempo.  Contrariamente a quanto si pensa, se la pietra delle facciate non era eccezionale, anche i castelli e le torri erano intonacate e scialbate a calce. Nel nostro immaginario il castello è fatto di dura pietra mentre molto spesso la pietra più dura era riservata ai soli cantoni, ai decori e alle merlature. Il resto era molto più arrangiato ed economico e spesso intonacato.

Quando mi trovo ad operare in zone agricole, cerco sempre di leggere i segni più apparenti del paesaggio per capirne la natura profonda. Dal tipo di terreno agricolo, se rosso, chiaro, compatto, argilloso, dalla vigoria e dalla taglia degli  alberi piantati, dalla presenza di cisterne scavate e infine dai muri di cinta. I muri raccontano come un libro aperto la caratteristica del terreno. Se non ci sono muri sui confini ci si deve aspettare che lo strato roccioso sia profondo o inesistente a profondità accettabili per la cavatura. Se i muretti sono fatti con pietrame informe la roccia calcarenitica è spesso affiorante o poco profonda, ma non buona a cavarsi perchè non omogenea e facile a spezzarsi. Se sui muri di cinta noto dei grossi blocchi quasi regolari allora in quei fondi o in quelli vicini si è cavato. Spesso si è cavato senza la certezza assoluta di trovare un banco omogeneo e compatto. Si tirava via lo strato superiore (spesso più compatto e tenace, ma non sempre) per esplorare le linee di cava inferiori e di quei primi strati superiori si tiravano fuori velocemente grossi blocchi molto pesanti. Non importava la taglia, la modularità o il peso, venivano velocemente portati sui confini del fondo e allineati in piedi in fila indiana per lungo o per corto. Dalle mie parti quel tipo di concio è chiamato “pentime” e con pentime si indica sempre un concio esagerato fuori misura.

Foto di Carlo Mariano da Picasa Web – Salento

Spesso, sotto il primo cappellaccio nervoso, disomogeneo o venato di durissima calcite, non si trovava il tesoro sperato e la cava veniva abbandonata. Quei cappellacci compatti, quasi dei lastroni di cemento, scalzati e posizionati su altri lastroni hanno formato i dolmen. Per questo i dolmen si addensano su parti ben precise del territorio pugliese, proprio là dove la chiancara è affiorante, distinguibile e già naturalmente scollata dal fondo sottostante. Se il lastrone è pure leggermente sollevato rispetto al terreno, nello strato tenero inferiore ci fanno le tane le milogne (i tassi) o le volpi che vi allargano le filature della roccia e creano dei sistemi di tane con più ingressi e ambienti. Quei fondi spesso prendono il toponimo di “rutte” o “rutticeddrhe”.

La stratificazione e il consolidamento quasi orizzontale nelle acque marine determina dei possibili piani di scollamento ben definiti. Se i lastroni dei dolmen si scollano per dimensioni importanti e per spessori considerevoli, ci sono altre calcareniti, che come la più famosa ardesia, si spaccano in sottili lastre e si usano per rivestire pareti o pavimentare spazi esterni. La più famosa è la pietra a spacco di Alessano, un centro del Basso Salento che dal punto geologico presenta singolari eccellenze. La pietra a spacco di Alessano è la più tenera delle lastre con cui si confronta sul mercato. E’ molto più tenera del porfido o della scorsa di Trani, e viene ancora estratta a mano da volenterosi contadini sulla serra di Alessano che scollano gli strati affioranti e li vendono al quintale.

La proprietà di rompersi secondo un determinato piano, in Geologia è detta clinaggio e le lastre di Alessano si scollano in spessori anche di pochi centimetri sul piano orizzontale, quello appunto di sedimentazione. Il porfido si rompe su ben tre piani tra loro ortogonali (e per questo è facile farci i cubetti dei sanpietrini), e proprio più avanti sulla cresta della serra di Alessano che scollina sul paese di Acquarica è facile vedere calcareniti  compatte rotte in tanti piccoli parallelepipedi quasi regolari. Sono fratturazioni da stress che caratterizzano le pietre più dure e che spesso si osservano proprio nei banci di calcare vero e proprio. Le ho osservate anche sulle strade ad ovest di Spongano, sulla Corigliano-Galatina, e sulla costa di Porto Cesareo e nei lunghi viaggi per Bari dove il calcare o la calcarenite più dura si affacciano spesso  sulla statale.  E’ grazie al clinaggio che è possibile ricavare le sottili lastre che coprono i trulli della Valle d’Itria. Anche questa è terra di buoni calcari: qui si cava e si vende  per esempio la pietra di Cisternino.

Ogni provincia ha le sue cave: Cisternino, Fragagnano, Taranto, Massafra, Lecce, Ugento, Acquarica, Alessano, Fasano, Mottola, Grottaglie, Lizzano, Palagianello, Gravina, Montemesola, Monopoli, Castellaneta, Spinazzola, Copertino, Portocesareo, Gallipoli, Cutrofiano e Canosa. Con queste cave si è costruita mezza Puglia. Le pietre dure (calcaree) hanno il loro regno al nord nel tranese e nella foggiana Apricena. Nel Basso Salento sono famosi i calcari scuri di Soleto, quelli bianchi porcellanei di Castro e Santa Cesarea Terme. Ma è più facile che i nuovi basolati che vanno ricoprendo le piazze della Puglia siano fatti da una delle tante varianti di pietra di Apricena che i tranesi vendono ancora con la vecchia denominazione di pietra di Trani.

Tornando alle nostre calcareniti, che volgarmente usiamo chiamare tufi, e i più pignoli tufi calcarei per distinguerli dai tufi veri e propri che sono propriamente di origine vulcanica e risultano dalla compattazione dei lapilli e delle ceneri vulcaniche (diffuse nel Lazio e in Campania), le cave che ho avuto modo di visitare sono tutte nel Basso Salento. In particolare le cave di Matine che molti confondono col paese di Matino, ma che in realtà è una località a nord di Alessano e che ha fornito all’edilizia una delle pietre più sfruttate per ogni bisogno. Gialla, dura ma ancora lavorabile al taglio della mannara per farci i conci sagomati delle volte (mpise e petre lamie). Sono rimaste poche cave, quasi tutte a conduzione familiare, e per assurdo la pietra superiore rossiccia è quella più apprezzata dalla clientela. Prima la si scartava, non piaceva ai muratori e si passava velocemente alle taglie inferiori più dure e giustamente colorate.

Scollinata la serra di Alessano si ritrovavano le cave a nord di Acquarica. Oggi sembrano un paesaggio lunare. Tanti piccole cave di scarsa profondità a cercare la pietra che valeva la pena tagliare, sperando di cacciare il pezzo da vendere intero dopo tanta fatica a filarlo. I più vecchi per dare del testardo a qualcuno usano dire che aveva la testa dura come la pietra di Acquarica. A noi, cresciuti sulla roccia viva di Castro e Santa Cesarea, non sembrava poi un’offesa tanto grave. Ad Ugento ancora si cava su poche aree ma con una certa professionalità. I proprietari sono dei cavatori storici. Sono le famiglie di Taurisano che coltivano anche le cave sulla Alezio-Gallipoli, le famosissime cave della località Madre Grazia, il più bel carparo in assoluto della Puglia. E’ tanto bello che non lo si vende più a conci, viene tagliato in fette sottili per rivesterire con lo stesso concio quanta più parete possibile. E’ ricercato da artisti e artigiani per farci qualunque cosa. Le pietre di Matine, Acquarica e Ugento si assomigliano, sono gialle e carparine, ma rozze, mentre il Madre Grazie tanto è duro, omogeno e perfetto da sembrare quasi finto.

L’attività dei cavatori non è monopolio dell’interno della penisola. Tracce di cave si trovano anche sulle scogliere carparine ( Torre dell’Orso, Santa Cesarea, ecc.) dove si possono vedere i segni del piccone anche mezzo metro sotto il livello del mare. Dove la calcarenite prende il posto del calcare sulla linea del mare lo spettacolo è assicurato. L’erosione diventa più capricciosa formando falesie, scogli, grotte come nel Gargano, Torre dell’Orso, Porto Miggiano.

Troverete molte descrizioni di varietà e sottovarietà dei tufi calcarei salentini, quello da sapere è che alla fine il muratore faceva solo tre distinzioni pratiche.

La pietra mazzara, quasi un dispregiativo, una iattura da lavorare. La macchina quadratufi si piantava, la mannara, quell’ascia a doppio taglio col manico curvato per non ferirsi le nocche delle mani, anche se usata dal lato del filo più piccolo, faceva solo fumo e scintille. Si teneva da parte per infilarlo intero da qualche parte o per farci qualche rinforzo dove le pressioni nelle murature erano più elevate. E mazzaro finì che divenne l’epiteto che si dava alle persone gravi, poco sensibili, rozze. Era raro che si cavasse e quasi scartato all’origine. Solo l’avvento delle macchine da taglio con motore elettrico nelle cave permetteva di continuare il taglio regolare delle bancate anche passando attraverso strati di pietra mazzara.

La pietra carpara era la pietra di eccellenza per la costruzione. Robusta ma ancora lavorabile. Proprio perchè dura era possibile estrarla in conci molto lunghi. La lunghezza del concio è un fattore estremamente importate nell’arte muratoria. Più è lungo il concio, e maggiore è il meccanismo di ingranaggio per attrito che si crea tra i vari filari. Quasi una tirantatura naturale che coi modesti conci dei tagli attuali non è più possibile ottenere. Chi costruisce oggi in muratura, specie le volte, è costretto a tirantare tutto con pilastri e cordoli di calcestruzzo armato.  Un concio di carparo può arrivare anche alla lunghezza di 4 palmi, quasi un metro. Questi pezzi speciali si usavano per ante sulle porte, per legare angoli, aggettare sbalzi. I menhir sono il monumento alla calcarenite cavata. Un concio medio sui 3 palmi pesa 70 chili e se bagnato anche di più, e  potete capire perchè le scale dei muraturi sono così buffe  coi loro scalini stretti stretti. Un passo alla volta per salire di pochi centimetri senza piegare troppo i muscoli delle gambe. Un manipolo ne tirava su centinaia al giorno, caricandoseli da solo sulla spalla. Li lasciava sulla muratura in costruzione, in fila davanti al  suo maestro. Il maestro era la cucchiara e il suo sforzo non era da meno. Calare quei conci coi soli muscoli delle braccia o dei polsi su ponti di  legno aggiustati alla buona era proprio da maestri.  L’occhio era importante.  Se si dosava la giusta quantità di malta  alla  calata del pezzo bastavano poi pochi colpi di martello pesante per piombarlo e assettarlo. Se le cose andavano male bisognava tiralo su in qualche modo e rimediare. I polpastrelli alla sera erano un misto di calli e sangue. Il carparo non si taglia alla sega. I più teneri, se non contenevano fossili,  si potevano accorciare alla misura col serracchio a due mani, ma più spesso era la mannara a fare la misura. Dopo l’intacca continua sul contorno, il colpo definitivo per lo spacco e poi la rifinitura a squadro della testa.

La peculiarità dei prospetti in pietra carpara era quella di poter rimanere a vista, e di poter essere anche scalpellata per fare ornati anche se più grossolani di altre pietra da scalpello. Molte chiese salentine hanno i prospetti principali e secondari a facciavista. Il carparo, ben accostato, difficilmente faceva passare le acque di pioggia e dopo un po’ si impermeabilizzava completamente con la formazione di uno strato superficiale di muffe ed efflorescenze. Un buon carparo resisteva senza problemi all’erosione dei venti. Il carparo esposto alla pioggia si antica virando sul grigio perdendo il colore originario.

Al livello più basso di durezza della pietra da cantiere era quella tenera, quella sola che il muratore chiamava col termine tufo. Le cave per antonomasia erano quelle di Cutrofiano nel leccese e di Fracagnano nel tarantino. Due pietre quasi simili, bianche, tenere, buone per farci le tramezzature interne o i conci sagomati delle volte. Negli anni settanta si cominciò ad usarlo anche sugli esterni, ma richiedeva per forza l’intonacatura. Negli anni ottanta le cave ipogee di Cutrofiano quasi smisero di produrre e i tufi furono garantiti dalla pietra appena un po più dura di Fracagnano. La pietra, bianca,  è tenerissima, segabile e addirittura gli aggiustamenti di pochi centimetri si potevano fare con la raspa (striglia). Spesso la presenza di fossili (gusci di molluschi, conchiglie, ecc.) ne deprezzava proprio questa caratteristica. I valori geotecnici si riducevano di molto, la pietra lasciata all’esterno senza protezione poteva anche erodersi in breve tempo,  ma la lavorabilità era ineguagliabile.

Una famosissima calcarenite è anche la Pietra Leccese o Pietra di Cursi, il liccisu (o liccisa). Contiene un po’ di marne nella pasta finissima e omogenea e si presta a molte lavorazioni particolari. Essendo conosciutissima per i lavori artistici di molte case, palazzi e chiese salentine,   non mi dilungo sulla sua descrizione.

La struttura di una costruzione poteve essere mista. Pietrame poco squadrato, messo di coltello (di punta, di testa, di taglio, ecc.) serviva per la parte in fondazione. Costava qualcosa meno e fino a pochi decenni fa era ancora possibile trovare un prezzo più basso per questi murature nei contratti edili. Oggi costa tutto uguale perchè i conci, anche quelle artificiali, sono tutti selezionati. La struttura portante poteva essere in qualunque tipo di tufo calcareo, dipendeva molto dalla prossimità delle cave  e dal tipo di pietra che vi veniva cavata. A Lecce o nella Grecia Salentina, vista l’abbondanza quasi esclusiva di Pietra Leccese, si costruiva interamente in pietra leccese. Fondazioni, murature, volte e opere di decoro. Più ci si allontanava dalle cave di pietra leccese (liccisu) e più ne diminuiva l’impiego. Solo le committenze più ricche potevano inviare i traini per chilometri a prendere i blocchi della pietra da scalpello per eccellenza. Nelle costruzioni più modeste ci si limitava ai pochi decori e spesso venivano imitati pure con pietre più povere. Indispensabile e diffusissima era la lastra (chianca) di Pietra Leccese o di Cursi (due grossi bacini di affioramento della calcarenite marnosa)  che veniva ricavata col taglio a sega dal concio base delle dimensioni di 25×35×50 cm circa. Se ne ricavavano quattro, cinque o sei per concio secondo lo spessore desiderato.  Le più spesse potevano essere usate per pavimenti interni. Subivano molto l’abrasione, si consumavano moltissimo lungo le zone di passaggio e si pulivano male. Quando arrivò il cemento furono sostituite quasi integralmente dai massetti di cemento più o meno artistici (seminati, alla veneziana, ecc..).  Sopravvivono solo alcuni esempi di pavimenti di chianche in alcune vecchie case in genere non utilizzate o ristrutturate da moltissimi anni. Oggi il pavimento di chianche viene riproposto anche grazie ai trattamenti consolidanti e idrofughi offerti dalla chimica. Lo si può trovare anche perfettamente calibrato per un montaggio senza giunto. Le lastre più sottili impermeabilizzavano le volte delle coperture e il sistema è ancora oggi reputato tra i migliori sistemi di copertura. Le chianche sostituirono  completamente la copertura a cocciopesto (triula), una sorta di intonaco con capacità idraulica (induriva e non si scioglieva in acqua) che ricopriva i cozzi delle volte in muratura. I livellini di pietra leccese sui parapetti delle coperture (petturrate) furono invece un lusso quasi recente.

Il concetto costruttivo alla base era molto semplice. Si ricorreva al concio di migliore resistenza o di dimensioni superiori allo standard  (i due palmi del cosidetto palmatico  di 20×25x50cm ) solo quando era strettamente necessario. Il maestro migliore era quello che realizzava la migliore struttura partendo dalla stessa dote di pietra in cantiere. Perchè a costruire solo con le pietre migliori, selezionate, lunghe e ben squadrate erano bravi tutti. Se i lastroni di pietra leccese  costavano troppo per  coprire un piccolo corridoio ci si ingegnava a realizzarlo a botte con i conci ordinari. Se l’altezza non lo permetteva si ricorrerava alle tecniche della malizia e se proprio non se ne poteva fare a meno solo allora si mandavano i traini alle cave più lontane per avere il concio lungo monolitico.

Potendosi scegliere la pietra di cantiere, di carparo si realizzavano le murature esterne ed interne, che poi si intonacavano o si scialbavano a calce, in pietra leccese le cornici e i fascioni e tutti i decori esterni, pure i lastroni di copertura dei piccoli ambienti e i gradini delle scale. Spesso pure le appese (‘mpise), cioè i primissimi conci delle volte che sopportano le pressioni maggiori e che  era opportuno fossero ricavate da un unico concio più grosso, fuori misura, opportunamente conformato. Di pietra leccese erano spesso i voltini (‘moichi) delle porte e delle finestre. La pietra più tenera si teneva per le volte dove ogni concio andava lungamente sagomato per fatti suoi per potersi inserire in un complesso incastro di volte a crociera con una particolare cuola ellissoidica al centro. Ogni concio poteva avere il suo nome. Cappello di prete era per esempio il concio che terminava l’unghia d’angolo della volta a squadro, ‘Sammureddrhu era il concio finale delle mpise.

La dimensione dei conci si è standardizzata nel periodo aragonese su quasi tutto il meridione. Dall’unità di misura superiore della canna si passava a quella del palmo. Sulle misure dei conci troverete in rete molte indicazioni (parmaticu, piezzottu, curiscia, testa, ecc.) e anche sulla modalità di posa per realizzare le murature (purpitagnu, muraja, de puntu, ecc..)  Anche la tecnica muratoria si è standardizzata nella dominazione spagnola. Se osservate una chiesa seicentesca o un vecchio castello ci trovate già tutti gli elementi tipici delle costruzioni in muratura dei secoli successivi, dalla misura dei conci alla forma delle volte.

Come dicevano all’inizio, l’arte della muratura a sacco si consolida in periodo aragonese. La matrice dell’impasto è formata da una miscela di argille fini selezionate e calce spenta. E’ la stessa composizione della malta dei giunti delle murature e se ne impastava in grandi quantità quando c’era da riempire le intercapedini interne o i rinfianchi delle volte. L’impasto era chiamato murtiere e il termine è rimasto come sinonimo di insozzamento incontrollato. Nell’impasto fresco si accostavano per bene le pietre di ogni pezzatura e forma compattando meglio possibile realizzando una sorta di calcestruzzo ciclopico. Potendo disporne, perchè in Puglia i depositi naturali erano molto scarsi, si aggiungeva pozzolana, un legante idraulico già conosciuto dai Romani. L’impasto una volta consolidato raggiungeva una ottima consistenza e se fatto con la pozzolana o altro legante idraulico poteva anche non sciogliersi più anche se nella muratura o nelle volte ci fossero state infiltrazioni di acqua. La tecnica era notissima ai Romani, anzi già una legge del 105 a.C. la “lex puteolana faciundo”, poneva l’obbligo di rendere idraulica tutta la malta di calce dei riempimenti murari e altre disposizioni successive posero dei limiti allo spessore dei muri a sacco per consentire l’indurimento (carbonatazione) della malta di calce.  Il termine “calcis structum” latino da cui è derivato il termine calcestruzzo indica proprio l’impasto interno alle murature a sacco (murti tunicati).  Sulla chimica delle malte non mi dilungo perchè merita un articolo a parte. Ricordo solo brevemente che il calcare (puro) cotto è il componente esclusivo della calce usata in edilizia e che il moderno calcestruzzo è una miscela intima di argilla e calcare cotti fino a incipiente vetrificazione.  

 Le infiltrazioni di acque all’interno della struttura o del concio sono spesso letali. Tutte le prove di laboratorio dimostrano che la calcarenite perde almeno il 30% delle propria resistenza a compressione e a trazione se bagnata. E pure un pessimo rinfianco fatto solo di argille e pietrame senza consolidante si poteva liquefare con l’intrusione di acqua e ingenerare spinte laterali maggiori di quelle previste. Pure la malta di sola argilla rossa (bolo) poteva liquefarsi e il tutto si trasformava in una pericolosa disarticolazione degli elementi della struttura. Molte costruzioni di campagna, appena non hanno avuto la solita cura dei lastricati e dei prospetti, sono andate in malora. Quasi sempre è proprio il crollo dei rinfianchi a manifestarsi per primo. Nel passato la malta è stato il punto debole delle murature. In origine non serviva per incollare i conci tra loro, ma solo per realizzare uno strato di contatto e di ripartizione delle tensioni tra un concio e l’altro. Se due conci dovessero poggiare soltanto su pochi punti di contatto la rottura dei due conci sotto i carchi sovrastanti è inevitabile. Per questo si stendeva un feltro di qualunque cosa, terra rossa, tufo o malta di calce vera e propria.

Le malte avevano caratteristiche tecniche inferiori ai conci e per questo la presenza di uno strato troppo grosso di malta (o terra) riduceva la capacità portante della muratura nel suo insieme. L’unico modo per ovviare al deprezzamento statico della muratura era curare la planarità delle facce e l’accostamento accurato dei giunti fino a ridurli a uno spessore di pochi millimetri. Nelle costruzioni in pietra calcarea o in pietra leccese, dove la scelta di un ottimo materiale di base denotava fin dall’inizio il bisogno di ottenere una muratura di capacità medio-alte, il filo del giunto è appena visibile. Questo richiedeva dimensioni perfette dei conci (alla taglia) e la posa in opera con maestria. Tutti noi sappiamo quale è il termine che indica la malta nel dialetto salentino, ma se questa aggiustava le cose in qualche modo, compensando la scarsa qualità dimensionale dei conci o l’imperizia del muratore, la presenza di grossi giunti squalificava di molto l’opera. Nei primi decenni del secolo passato una delle prove per accettare l’opera era quella di infilare un coltellino nei giunti e regolarsi di conseguenza circa la profondità dello sprofondamento. Con l’avvento del cemento, che pure nelle malte da costruzione si è affermato con molto ritardo, qualunque malta di sabbia e cemento ha capacità superiori alla migliore pietra calcarenitica disponibile e il problema non si pone più.

L’acquisto dei tufi era un momento importante nella vita di un pugliese. Se nel periodo della fanciullezza il padre si premurava di acquistare per il figlio maschio un lotto edificatorio (sidile) alla maggiore età si  cominciava ad accatastare i conci per la futura costruzione. Nell’edilizia dei secoli passati la spesa della muratura in opera era quasi il costo dell’intera casa. Oggi è l’esatto contrario. I conci caricati a mano nella cava e scaricati ancora a mano venivano preventivamente quadrati ad uno ad uno a mano per ridurli alla taglia. Negli anni questo lavoro fu affidato alle quadratufi  e oggi molte cave producono conci perfettamente rettificati già al primo taglio di cava.

“tagliate” dismesse in territorio di Nardò

L’avvento dei solai piani e la produzione dei blocchi per muratura confezionati col calcestruzzo pressovibrato, poi dei laterizi alveolati e infine dai calcestruzzi alleggeriti o termoisolanti hanno dato un duro colpo all’attività estrattiva dei tufi.  Anche le norme sulla tutela della salute dei lavoratori hannno contribuito a far scomparire dai cantieri il  pesante concio di pietra naturale. Una risorsa, culturale ed economica, che a fronte del danno derivante dalla trasformazione di parte del territorio interessato all’attività estrattiva restava tuttavia ecocompatibile quasi al 100%. Nessun petrolio per cuocerli nessuna discarica speciale per riaccoglierli a fine carriera. Se ancora una casa degli anni cinquanta è possibile demolirla e ricavarci farina di tufo quasi al 100%, le attuali case sono rifiuto speciale al 100%.

Se avete lo sguardo curioso vi sarete accorti che da qualche anno si rivedono in giro nuovamente edifici col rustico realizzato in tufo. Nessun laterizio o blocco di cemento. I loro padroni non sono i soliti nostalgici del passato, ma gente che si è messa a fare bene i conti e ha scoperto che il sedicente progresso costa e non mantiene tutte le promesse. Ma di questo parleremo negli articoli successivi, molto più tecnici e specialistici ai quali questo articolo è solo una veloce premessa.

Terminologia: tajata, filatura, zoccu, pico, zappune, palancu, palamina, cugnu, spitu, nsartu, trozzula, rezza, farnaru, piezzu, cuccettu, pentime, parmu, liccisu, mazzaru, carparu, tufu, tufaru, sapunaru, pilumafu, cuzzaru,  tinciularu, quadrare, basciatura, parmaticu, purpitagnu, muraja, testa, chiamentu, schiamentu, misura, scarciu, vantaggiatu, spalla, marteddrhu, mazzetta, squadru, chianula, brusca, strija, chiummu, rivellu, cucchiara, cardarina, consa, cauce, cimentu, pala, roddrulu, triula, irmice, utticeddrha, sterna, scarda, ligna, corda, taja,  pedimenti, chianca, chiancune, scalune, pede e malizia, arcu e malizia, volta, maddrhotta, a squadru, a spigulu, a utte, cavetta, sammureddrhu, mpisa, cappeddrhu e prete, petre lamie, lamia, liama, mescia, cozzu, chiai, petturrata, rivellinu, mojcu, murtieri, inchimentu,  cazzafitta, traìno, quadratufi, manipulu, frabbicature, mannara,  capicanale.

 

per gentile concessione di Angelo Micello, che si ringrazia per la cortesia. Grati anche a Carlo Mariano per la foto contenuta nell’articolo. L’articolo è stato pubblicato sul blog dello stesso Autore, cui si rimanda: http://www.micello.it/?s=tufi+di+puglia   e su Spicilegia Sallentina n°7.

Aradeo. Sant’Antonio ed il prigioniero

 

 

di Alessio Palumbo

Giorni fa rileggevo con grande interesse il libro Trincee di Carlo Salsa (C. Salsa, Trincee. Confidenze di un fante, Milano, Mursia, 1982). In un passo relativo alla sua prigionia, l’ex tenente milanese scriveva: “I reclusi rimangono tutto il giorno coricati sulle brande che ingombrano le camerate basse come corsie d’ospedale per economizzare le energie succhiate alla fame. Alcuni raggomitolati come serpi, in silenzio, per reprimere i morsi delle budella: altri distesi in contemplazione, con una fissità maniaca negli occhi” (pp. 226-227).

Questo brano mi ha fatto tornare alla mente la storia di un prigioniero aradeino, raccontatami più e più volte da mia nonna. Un suo cugino, Luigi Pedone, subì la stessa sorte di Carlo Salsa, ovvero fu fatto prigioniero nel corso del 1918 e deportato in Austria, in uno di quei campi divenuti poi tristemente celebri per le condizioni di estrema indigenza in cui erano costretti a vivere i  soldati internati.

Luigi Pedone, tuttavia, trovò nella baracca un oggetto che lo aiutò ad affrontare i sei lunghi mesi di prigionia che lo attendevano: un piccolo Sant’Antonio di ceramica. La statuetta divenne il suo più caro compagno di prigionia. Avvoltala in un fazzoletto, la mise nella tasca interna della divisa. Per sei mesi la tenne lì dentro senza toglierla mai.

Molti mesi dopo la fine della guerra, Luigi riuscì a tornare ad Aradeo. Arrivato a casa, chiamò in disparte la madre di mia nonna e le donò il Sant’Antonio oramai frantumato. Donandoglielo le disse: «Durante la prigionia te l’ho conservato con tanto amore. Ora è tuo». La mia bisnonna lo riparò e poi lo regalò a mia nonna, che ancora lo conserva.

Quello appena narrato è soltanto un piccolissimo episodio, in un contesto storico infinitamente più grande. Tuttavia, anche un racconto così breve può risultare significativo per comprendere come la spersonalizzazione causata dalla guerra e il dramma fisico e morale della prigionia, potessero essere affrontati dai soldati solo con il ricordo della famiglia o con l’attaccarsi alle piccole cose che esulavano dal contesto di terrore, devastazione e morte che li circondava.

ROBERTO SPAVENTA – Successioni feudali a Seclì dal XIII al XIX secolo

Abstract

 

Questo studio, che rientra nell’alveo di una più generale ricerca sulla presenza feudale in terra d’Otranto nel Medioevo e primo Rinascimento, è rivolto ad integrare o correggere, seguendo una rigorosa metodologia di ricerca, quanto finora è stato elaborato in merito alla successione feudale nel piccolo paese salentino di Seclì. Più in particolare, la bibliografia esistente poco ha scritto relativamente ai primi secoli di esistenza del casale (dal Duecento al Quattrocento), mentre i contributi riguardanti i secoli successivi abbondano anche a causa della presenza all’interno della famiglia ducale dei D’Amato della Venerabile suor Chiara. Particolare attenzione è stata quindi prestata allo studio delle poche fonti superstiti riguardanti questo periodo (atti della Cancelleria angioina ed aragonese estratti anche da opere erudite di noti genealogisti) riferite al possesso del casale di Seclì, chiamato nel medioevo Sficli. Dall’esame della documentazione esistente si è giunti alla scoperta di alcune famiglie aristocratiche il cui possesso su Seclì non era stato finora chiaramente o per nulla delineato.

 

 

ENGLISH

 

This essay, part of a broader research about feudal presence in Terra d’Otranto in Middle Ages and early Renaissance ,is intended to supplement or correct, following a rigorous research methodology,what has been developed  so far about the feudal succession in Seclì, a Salento village. More particularly, existing bibliography didn’t write much concerning early years of existence of the farmhouse (between 1200 and 1400), while contributions about subsequent centuries abound also due to the presence within  D’Amato ducal family of Venerable Sister Chiara.Special attention was therefore given to study few surviving sources about this period (Angevin and Aragonese Chancellery certificates also drawn by erudite works by famous genealogists) related to possession of farmhouse of Seclì, called Sficli during Middle Ages.An examination of existing documents has led to discover some aristocratic families whose possession of Seclì was not yet been clearly outlined or at all.

GIUSEPPE MUCI – Il feudo di Carignano a Nardò: fonti storiche e dati archeologici

Abstract

 

Il territorio attorno al centro abitato di Nardò è ricco di testimonianze storiche ed archeologiche purtroppo poco note. Nel feudo di Carignano recenti indagini hanno permesso di individuare, presso mass. Carignano Piccolo, tracce di occupazione risalenti alla tarda età romana, e di localizzare inoltre il sito del casale di Carignano, attestato nelle fonti a partire dal XIII secolo, ma abitato fin dall’epoca bizantina sulla base dell’evidenza ceramica. Al casale si sostituirà nel corso del Rinascimento il complesso di mass. Carignano Grande. La diffusione della conoscenza vuole essere d’auspicio per la tutela di queste emergenze storiche.

 

 

ENGLISH

 

The territory around built-up area in Nardò  is rich in historical and archaeological marks, little known unfortunately. In Carignano feud recent surveys allowed identification of occupancy traces dating back to late Roman period in Carignano Piccolo manor farm, and also to locate site of Carignano rural house, attested in sources since thirteenth century, but settled since Byzantine period as pottery evidences attest . Rural house was replaced with Carignano Grande manor farm complex during Reinassance. The spread of knowledge is intended to be the hope  to protect such historical emergencies.

ANGELO SALENTO – Cultura popolare, territorio, sviluppo: genesi, forza e rischi dell’immaginario turistico del Salento

Abstract

 

Sulla base di una ricostruzione sociologica del concetto e del fenomeno del turismo culturale, questo saggio propone una lettura della genesi del successo turistico della Penisola Salentina, con particolare riguardo al ruolo del patrimonio demoetnoantropologico nella costruzione di un immaginario turistico. Si indagano quindi le prospettive e i rischi dei processi di valorizzazione economica delle risorse culturali, con particolare riferimento ai rischi di autoreferenzialità, chiusura identitaria e sclerotizzazione della narrazione identitaria del territorio.

 

ENGLISH

 

Based on sociological reconstruction of concept and phenomenon of cultural tourism, in this essay we propose a reading the touristic successful genesis in Salento Peninsula, especially with regard to role of Demo-ethno-anthropological heritage

in construction of touristic imagination. We investigate therefore prospects and risks of economic enhancement processes of cultural resources, with special regard to the risks of self-reference, identity closure, and hardening the identity narration of territory.

PAOLO AGOSTINO VETRUGNO – La Colonna di S. Oronzo a Lecce tra monumentum e documentum

Abstract

 

Il saggio tratta della colonna di Sant’Oronzo sita nell’omonima piazza a Lecce, opera realizzata tra il 1666 e il 1683 da Giuseppe Zimbalo, su commissione del vescovo Luigi Pappacoda (1595-1670), riadoperando una delle due colonne romane che indicavano il termine della via Appia a Brindisi, crollata nel 1528 e “forzatamente” donata per devozione al protomartire leccese.

Oltre a esporre le vicende storiche e costruttive (la diatriba tra il vescovo di Lecce e i sindaci di Brindisi riguardo alla consegna del manufatto e la realizzazione dell’opera, dettagliatamente descritta in un atto notarile), l’autore si sofferma sul valore simbolico della colonna e del gesto compiuto da Pappacoda, atto ad affermare il potere vescovile nel territorio. Oltre ad avere una valenza monumentale ed essere testimonianza storica, la colonna ha la funzione di impedire la perdita dell’eredità memoriale della prima comunità cristiana a Lecce, diventando un documentum e, come tale, ha il compito di testimoniare ciò che è stato (il santo protomartire salentino e protovescovo fondatore della Chiesa di Lecce), di comunicare ciò che è (è il protettore dell’intera comunità leccese e per estensione anche di Terra d’Otranto), di trasmettere ciò che deve rimanere fermo nelle coscienze (l’Ecclesia militans è l’aspetto visibile della Ecclesia triumphans).

 

 

ENGLISH

 

This essay is about Sant’Oronzo column situated in his homonymous square in Lecce, a work realized between 1666 and 1683 by Giuseppe Zimbalo commissioned by Bishop Luigi Pappacoda (1595-1670), using one of the two Roman columns collapsed in 1528 which indicated the end of Via Appia in Brindisi  and then  “forcefully” donated for devotion to the first martyr from Lecce. Besides displaying historical and building events (the controversy between Bishop of Lecce and the mayors of Brindisi, concerning its delivery and realization accurately described in a notarial act), the writer focuses the symbolic value of the column and Pappacoda act, suited to assert episcopal power on the territory. Besides having monumental value, and being an historical evidence, column acts to prevent loss of memorial inheritance of first Christian community in Lecce, becoming a documentum and, as such, it has the task to witness what it was (the holy Salento first martyr and first bishop founder of Church of Lecce), to communicate what it is (protector of whole community of Lecce and, by extension, of Terra d’Otranto too), to convey what it has to remain still in consciousness (Ecclesia militans is the visible appearance of Ecclesia triumphans).

ALESSANDRO LAPORTA – Il Plinio di Nardò. Un incunabolo da riscoprire

Abstract

 

Articolato in tre parti, il contributo ricostruisce nella prima la fortuna critica di Plinio nell’ambito dell’Umanesimo italiano, e la vicenda in chiave negativa che, a partire dalla seconda metà del Quattrocento, caratterizza gli studi filologici condotti sul testo della Naturalis historia.

Nella nota querelle che vede contrapposti detrattori (Nicolò Leoniceno, Ermolao Barbaro, Alessandro Benedetti) ed estimatori (Pandolfo Collenuccio) dell’opera pliniana, si inseriscono anche Lodovico da Ponte e il Galateo, i quali prendono posizione in difesa del Leoniceno e del Barbaro, stigmatizzando il testo del Collenuccio.

La storia editoriale del trattato enciclopedico di Plinio è invece affrontata nella seconda parte del contributo, dove l’attenzione è focalizzata sulle due edizioni stampate a Venezia nel 1469 e a Roma nel 1470, quest’ultima per volontà del vescovo Giovanni Andrea Bussi, promotore di un ampio programma di stampa finalizzato alla diffusione dei classici latini.

Nella terza e ultima parte si esamina finalmente l’incunabolo posseduto dalla Biblioteca Vescovile di Nardò, esemplare che surclassa le due edizioni pliniane possedute dalla Biblioteca Innocenziana di Lecce (1483) e dalla Consorziale di Bari (1496). L’ex-libris della copia neretina recita esplicitamente Bibliothecae Episcopii Neritonensis addixit Antonius Sanfelicius Ep[iscop]us Nerit[inus], mentre in calce l’incunabolo reca l’impresa araldica degli Avogadro.

Prima di passare al Sanfelice, il Plinio di Nardò appartiene verosimilmente ad uno sconosciuto discepolo di Esculapio che, al verso della carta 374, appunta alcune ricette, rendendo ancora più prezioso questo straordinario documento.

In chiusura l’autore formula alcune ipotesi, delineando nel contempo interessanti piste d’indagine che lasciano il dibattito sostanzialmente aperto a ulteriori approfondmenti su questo tema.

 

 

ENGLISH

 

This contribution, divided in three parts, reconstructs in the first one the critical fortune of Plinio in Italian Humanism and, in a negative viewpoint, the affair which features, since second half of fifteenth century, philological studies that was conducted over Naturalis Historia text. In the popular controversy regarding detractors (Nicolò Leoniceno, Ermolao Barbaro, Alessandro Benedetti) opposed to admirers (Pandolfo Collenuccio) of Plinian works, also Lodovico da Ponte and Galateo took part, who defended Leoniceno and Barbaro, and stigmatized Collenuccio’s work.

Publishing history of Plinio encyclopaedic treaty is dealt instead in the second part of this essay, where emphasis is focused on the two editions printed in Venice in 1469 and Rome in 1470, the latter one for Bishop Giovanni Andrea Bussi’s will, promoter of a wide printing program aimed to introduce Latin classics.

In the third and final part we examine the incunabulum owned by “Biblioteca Vescovile di Nardò” library, a copy that outclass both editions held by “Biblioteca Innocenziana di Lecce” and  “Consorziale di Bari” (1496) libraries. The copy’s ex-libri placed in Nardò specifically  states: “bibliothecae Episcopii Neritonensis addixit Antonius sanfelicius Ep[iscop]us Nerit[inus]”, whereas the incunabulum at the bottom of the page bears Avogadro’s coat of arms. Before passing to Sanfelice, “Plinio di Nardò” probably belonged to an unknown Esculapio’s follower who, in the line of paper 374, pinned some recipes, contributing to make this extraordinary document even more valuable.

On closing the writer formulates some assumptions, outlining at the same time interesting lines of research leaving discussion open to further studies about this topic.

VALENTINA ANTONUCCI – Contributi alla storia dell’arte sacra nella diocesi di Lecce: riflessi di una strategia controriformistica nella produzione pittorica

Abstract

 

Il saggio esplora il rapporto tra i primi vescovi post-tridentini di Lecce e la promozione dell’arte sacra nella diocesi. Pur mancando indicazioni in tal senso negli atti sinodali superstiti, è possibile che ci sia stata una politica di applicazione all’arte dei dettami controriformistici, di cui sono state strumento le committenze dirette del vescovo. Una vera e propria strategia delle immagini si riesce a individuare solo a partire dalla prima metà del ‘600, con il vescovo Pappacoda, ma già nelle epoche precedenti sia i vescovi che gli ordini religiosi mostrano un particolare fervore nel riaffermare l’uso delle immagini sacre per l’educazione religiosa dei fedeli. Occasioni di un’espressione artistica rinnovata, in linea con l’uso didattico delle immagini sacre, sono state soprattutto le diverse rappresentazioni della Madonna, fulcro del culto controriformistico, ma anche le raffigurazioni di Carlo Borromeo e quelle delle Anime del Purgatorio, così come immagini allegoriche del trionfo degli Ordini religiosi riformati, in particolare della Compagnia di Gesù. L’arco cronologico preso in esame va dalla metà del XVI alla fine del XVII secolo.

 

 

ENGLISH

 

This essay explores the relation between first post-Tridentine bishops of Lecce and promotion of sacred art in the diocese. Even without such evidence in surviving acts of the Synod, it is possible there was a policy of applying Counter-Reformation dictates to art, of which the direct commissions of Bishop were instrument. We cannot find a real strategy of images until first half of ‘600, with Bishop Pappacoda but even in previous eras both bishops and religious order , show a special fervor in reaffirming use of sacred images to help religious education of believers. Several opportunities for renovated artistic expression, in accordance with educational use of religious images, were mainly various representations of the Virgin, focus of Counter-Reformation worship, but also representations of Carlo Borromeo and Anime del Purgatorio, as well as allegorical images of reformed religious orders triumph , especially Compagnia di Gesù Order. surveyed chronological period goes from the mid of sixteenth to late seventeenth century.

 

PIER PAOLO TARSI – Il lieto fine invisibile del Capitan Black: una rilettura del pensiero politico ed etico nei Canti dell’autra vita di Giuseppe De Dominicis

Abstract

 

Conosciuti e amati dal popolo fino ad un recente passato, i Canti de l’Autra Vita sono stati variamente recepiti da interpreti colti che ne hanno ottimamente evidenziato il radicamento nel sentire popolare, l’umorismo sagace e dal sapore fresco, la pregnanza dell’immaginario e del linguaggio contadino, la forza poetica ed evocativa dei versi vernacolari.

Sul piano dei significati ultimi, privilegiando in genere una lettura a chiave prevalentemente politica, gli studiosi hanno tuttavia circoscritto il senso complessivo dell’opera nei confini ideali di una presunta sensibilità moderata o disincantata dell’autore, refrattario all’illusione utopica di un rivolgimento sociale rivoluzionario o addirittura reazionario e conservatore. Scopo di questo saggio è emancipare il capolavoro del De Dominicis dalle coordinate socio-politiche suggerite dai commentatori, trasponendone la dimensione interpretativa primaria su un piano propriamente coscienziale in cui il senso complessivo dalla narrazione appare prescindere dalle cornici del pensiero politico e dal discorso sulle concrete forme dell’organizzazione sociale per confluire in un significato ultimo etico dalle tinte cristiano-spiritualiste. La chiave ermeneutica proposta permette sia di ribaltare il senso immediato del racconto stesso – che, in tale luce, non appare più come il fallimentare destino di una rivolta all’ordine costituito cui segue una restaurazione politica, ma, al contrario, come il pieno compimento di un’autentica seppur intima e latente rivoluzione spirituale –  sia di accordare all’autore un sentire complesso, squisitamente affine al sentimento della propria gente e al contempo carico delle suggestioni tardo romantiche tipiche del più ampio milieu europeo del suo tempo storico.

 

 

ENGLISH

 

Well known and loved by people until recent past, the  writings “Canti de l’Autra Vita”  were variously acknowledged by cultured interpreters who have well highlighted their grounding inside popular feeling, witty humor and fresh taste  ,their richness of  peasant imagination and language,poetic and suggestive strength of vernacular verse. In terms of last meanings,generally preferring mostly political interpretation key, researchers however, limited the overall meaning of work into ideal borders of a supposed moderate or disenchanted sensibility in the author, refractory himself to utopian illusion of a revolutionary social upheaval or even reactionary and conservative. Purpose of this essay is to emancipate the masterpiece by DeDominicis from  socio-politica coordinates suggested by commentators, transposing its primary interpretative dimension on a proper conscious plan where overall sense of narration seems to prescind from political thought frame and from discussion on practical forms of social organization to merge into a final ethical  meaning in Christian-spiritualist hues . Hermeneutical clue given here allows both to overturn immediate sense of story – that, in this light, no longer appears as a destined failure of a rebellion to established order followed by a political restoration, but,on the contrary, as the full realization of a genuine although inner and hidden spiritual revolution- and to give the author a complex feeling, purely related to his people feelings full of late-romantic charms as well typical of the wider European milieu of his historical period.

 

FRANCESCA TALO’ – Un’inedita testimonianza della famiglia Del Balzo Orsini nella Storia del santuario di S. Pietro in Bevagna, agro di Manduria

Abstract

 

La ricerca è tesa a far conoscere le peculiarità storico-artistiche e le emergenze archeologiche, paesaggistiche e urbanistiche del sito costiero di S. Pietro in Bevagna, in agro di Manduria.

Il suo territorio, demizzato in maniera persistente fin dal neoltico, vanta una storia certificata e la presenza di un patrimonio archeologico non adeguatamente valorizzato, come pure la chiesa-torre (un complesso architettonico unico nel suo genere), luogo di fede fin dall’alto medioevo.

Nello specifico, il contributo – attraverso il rigoroso metodo della ricerca – si sostanzia, oltre che nella ricognizione del territorio (il cui esito sono le dodici schede dei siti archeologici individuati), anche in un attento lavoro negli archivi.

L’aver compulsato documenti di prima mano, ha prodotto l’attribuzione storica di alcuni elementi architettonici e iconografici ignorati o falsati dalla precedente letteratura, in specie l’incipit storico-architettonico del santuario di S. Pietro e l’identificazione dell’inedito stemma della famiglia dei del Balzo Orsini, situato all’interno dell’edificio di culto. Di questo complesso è stato anche eseguito il puntuale rilievo e lo studio delle diverse stratificazioni nel farsi dei secoli, a partire dal periodo basiliano (sec. VII), fino all’attuale fisionomia architettonica. Un circostanziato corredo iconografico aiuta a chiarire e a meglio comprendere i termini della ricerca.

 

 

ENGLISH

 

This research is aimed to promote art-historical peculiarities and archaeological emergencies, urban planning and landscape emergencies of coastal site in S. Pietro in Bevagna, in the countryside near Manduria.

Its territory, considered divine in a persistent way since Neolithic era, boasts a certified history and presence of archaeological heritage is not suitably esteemed, as its church-tower (a unique architectural complex of its type), place of worship since early Middle Ages.

More specifically, this study – through rigorous research methods – takes form, as well as in the recognition of territory (whose results are twelve boards of identified archaeological sites),also in a detailed work in archives.

Having parsed documents first-hand, resulted in historic allocation of some architectural and iconography elements ignored or distorted by the previous literature, in especially historical and architectural incipit of shrine of S.Pietro and identification of unpublished coat of arms of Balzo-Orsini family, located inside worship building. It was also performed detailed survey of this complex and study of different layers during centuries, starting from Basilian period (7th century), until the current architectural features.A detailed iconography helps to clarify and better understand research terms.

MAURIZIO CARLO ALBERTO GORRA – Il Delfino nel mito, nell’estetica, nell’araldica

Abstract

 

Da secoli il principale emblema araldico della Terra d’Otranto è il delfino, derivato da una figura di epoca classica che, originariamente raffigurata in forme naturalistiche, giunse ad assumere nel periodo rinascimentale un aspetto fantasiosamente feroce.

Partendo dalla sua presenza nel mito antico, che ne sottolineava la natura positivamente benigna e l’abbinamento con Apollo (quest’ultimo giocato anche sull’analogia onomastica col santuario di Delfi), si evidenzia il legame fra il mammifero e le colonie nate dagli auspici del sacro luogo, particolarmente numerose nell’area jonica.

Ogni mito ha un fondo di verità, e l’intelligente cetaceo (aduso a nuotare accanto alle barche) si ritagliò i ruoli progressivi di amico dei marinai, di intermediario della divinità, di re dei pesci; una serie di positività che, col passare del tempo e il mutare della visione religiosa, videro capovolto il proprio significato.

In epoca paleocristiana, essendo stato l’allegoria della salvezza, fu equiparato al Cristo: ma non scampò alla confusione col generico pesce che era il popolare geroglifico del nome del Figlio dell’Uomo. Perciò il delfino successivamente subì il noto processo di “demonizzazione” dell’antico, venendo visto come un mostro che lo schematismo dell’araldica tradusse in una figura tipica e alquanto caratterizzata, di cui questo contributo traccia le principali presenze negli stemmi.

 

 

ENGLISH

 

For centuries dolphin has been the main Terra d’Otranto heraldic , derived from a classical period shape, initially represented in naturalistic forms, which came to assume  fantastically savage appearance in the Renaissance. Starting from its presence in ancient myth, that emphasized its positively benign nature and its matching with Apollo  (the latter also because of onomastic similarity with Delphi shrine), it’s highlighted the link between mammalian and settlements born from auspices of sacred place, which were particularly large in Ionic area.

Every myth has a basis of truth, and the intelligent cetacean (accustomed to swim alongside boats) played gradual roles in sailors’ friendship,as an intermediary of divinity, the fishes’ king; a range of positive approaches that, with time and changes in religious views, overturned its real meaning.

In early Christian era, since it was the allegory of salvation, was equated with Christ: but it couldn’t avoid to be mistaken for the generic fish which was the popular name hieroglyphic of the Son of Man. Therefore dolphin stood the process known as “demonization” of old, being seen as a monster that heraldry schematic putted into a typical and quite marked figure, of which this contribution outlines main appearances in the coats of arms.

Keywords: dolphin,heraldry,Terra d’Otranto,Apollo, demonization

Quanta strada per arrivare dal cardoncello allu sgarlitu!

L’etimologia di sgarlìtu? E mo sono c…ardi amari…

 

di Armando Polito

Nome italiano: cardoncello, cardarello

nome scientifico: Pleurotus eryngii

famiglia: Pleurotaceae

nome dialettale: carduncèddhu, sgarlìtu

 

È, a detta degli intenditori, il fungo più pregiato che ancora è possibile rinvenire, per la verità sempre più raramente, nel nostro territorio.

Per fare onore al titolo comincio con i due nomi italiani in cui la base è cardo, dal latino carduu(m) o cardu(m); in particolare, poi, cardoncello è nato dalla trafila cardo>cardone (da card-, radice di cardo, +suffisso accrescitivo)>cardoncello (da cardon-, radice di cardone, +suffisso vezzeggiativo) con un destino parallelo, per citarne solo due,  a quello di dragoncello (<dragone<drago) e violoncello (<violone<viola); cardarello è sempre da card– + infisso aggettivale –ar– (ad indicare pertinenza, come in marinaro da marina) + suffisso vezzeggiativo.

Non pone alcuna difficoltà il nome scientifico la cui prima parte (Pleurotus) è composta dalle parole greche pleuròs=fianco e ous (genitivo otòs)=orecchio, con riferimento alla posizione del cappello; la seconda parte (eryngii) è il genitivo del latino eryngium=cardo campestre (in basso nella foto il nostro cardu crièstu, nome scientifico Onopordon tauricum W.), con riferimento al fatto che è più facile rinvenire il fungo ai piedi di questa pianta.

Il nome della famiglia (Pleurotaceae) è una forma aggettivale da Pleurotus.

E siamo ai nomi dialettali: liquidato carduncèddhu, che è chiaramente la trascrizione dialettale dell’italiano cardoncello, ci rimane sgarlìtu che ho

Un picture-book su Anna Maria Massari (1929-1993)

PER ANNA MARIA MASSARI

di Paolo Vincenti

Un compiuto e sentito omaggio alla vita e all’arte della pittrice leccese Anna Maria Massari, viene da Lorenzo Madaro, per Martano Editore, con Anna Maria Massari (1929-1993), un piccolo ma significativo picture-book che raccoglie una serie di testimonianze preziose sulla vicenda esistenziale della poliedrica  artista, figlia di Michele Massari e sorella di Antonio. Questo porta Lorenzo Madaro a dire, in apertura della sua trattazione, “ Anna Maria Massari è da considerarsi una di quelle persone che, probabilmente, hanno il destino segnato fin dalla nascita, essendo figlia di un artista, l’eclettico Michele Massari”. Nel testo viene ripercorsa l’intensa parabola esistenziale della Massari, dalla sua prima formazione alle prove di artista matura e originale, passando per la sua attività di insegnante,  madre,moglie  e soprattutto di valida operatrice culturale con un particolare riferimento all’esperienza del “Gruppo Terra D’Otranto”, fondato sul finire degli Anni Settanta insieme con Rita Guido, Rosa Maria Francavilla, Marisa Romano e Pina Sparro. Un gruppo di artiste donne unite dalla comune appartenenza geografica e dal comune sentire in fatto di arte, senza una linea teorica ben definita,  ma con un gran bisogno di libertà di espressione. Un gruppo, tutto sommato abbastanza anarchico nel panorama dell’arte salentina, che movimentò  l’ambiente artistico e culturale di quegli anni e che incuriosiva, non solo gli addetti ai lavori, perché composto da sole donne , decise, preparate, intraprendenti, in un momento storico del nostro paese e in una temperie sociale  in cui parole come emancipazione femminile non erano ancora desuete ma anzi occupavano i dibattiti culturali dell’ epoca. Come scrive Rina Durante , riportata da Madaro, “ tutto in un certo senso avvenne in Via di Vaste, dove il caso volle che abitassero i Massari, Michele il padre, Anna Maria e Antonio, suoi figli, tutti e tre pittori, e nello stabile accanto, Edoardo De Candia che allora faceva ancora bambole per Guachi […] La sera si andava in quella che più che una casa era un laboratorio e la puzza di vernici ci investiva prima ancora di varcare la soglia e ci esaltava. Perché allora c’erano legami strettissimi tra ricerca letteraria e ricerca figurativa e le discussioni intorno al cavalletto potevano andare avanti fino all’alba. Poi un giorno Michele morì; dei suoi figli, Antonio smise di adoperare i pennelli e i sostituì con le spugne; Anna Maria cominciò a dipingere Madonne (Rina

La cappella di santa Caterina nella chiesa dei Francescani Neri di Specchia

di Stefano Cortese

Il complesso dei Francescani Neri a Specchia Preti, fondato secondo la tradizione da san Francesco reduce dall’oriente[1], presenta ancora oggi -oltre ai locali del convento e un frantoio ipogeo con i suoi torchi alla calabrese- una chiesa conventuale che custodisce pregevoli altari e frammenti decorativi bassomedievali.

In prossimità del lato destro dell’ingresso nel 1532 Antonio Mariglia fa costruire una cappella a pianta quadrata e coperta da una volta a crociera, espediente che ricorre -sia per la posizione che per la tecnica costruttiva- nella cappella dei Tolomei nel convento di santa Maria la Nova a Racale, collocabile qualche decennio prima[2]. Un altro confronto per l’ubicazione della cappella e datazione può essere effettuato con la cappella dell’Annunciazione nel santuario della Madonna della Strada a Taurisano[3], dove anche le tematiche affrescate sembrano essere di gusto francescano.

Il ciclo decorativo della cappella di Specchia risulta essere complesso: lo

Nicola D’Urso da Corigliano d’Otranto, calligrafo, miniaturista, stenografo

cartolina commemorativa realizzata dal D’Urso


 

 di Cosimo Giannuzzi

Il collezionismo è una fonte di passione, studio e ricerca. Trovare appagamento in questo settore specifico è assai arduo per la vastità dei materiali specifici. La passione del collezionista si evidenzia nell’interesse storico-culturale  che suscita l’oggetto della sua ricerca. La collezione di cartoline stimola la curiosità se l’ esemplare riguarda un settore particolare o contiene molteplici informazioni.

Storicamente la cartolina nasce dal bisogno di una comunicazione rapida attraverso quell’unico strumento che nella seconda metà dell’800 permette la trasmissione di informazioni scritte: la posta.  Oltre al messaggio privato di semplice e breve contenuto, la cartolina veicola anche un messaggio visivo, specialmente di vedute paesaggistiche e d’altro tipo con una vastità di temi: politici, culturali, umoristici, spettacolari, pubblicitari, militari, storici, propagandistici e tanti altri.

L’interesse collezionistico è generalmente rivolto verso quelle produzioni che, dalla fine dell’800 fino agli anni ’60 del ‘900, hanno caratterizzato la comunicazione di un’epoca tanto da costituire  un documento iconografico.

Quando un collezionista di cartoline si imbatte in un esemplare come quello che è oggetto di quest’articolo, prova una forte emozione, dovuta non tanto al valore che il mercato attribuisce in parte legittimamente ad un oggetto raro, ma soprattutto  al suo valore storico, al tema rappresentato, alla grafica e a tutta una serie di elementi che sono scoperti dalla esperienza e sensibilità del collezionista.

Questa cartolina è denominata Cartolina micrografica dal suo autore, Nicola D’Urso (Corigliano d’Otranto, 2 giugno 1877- Roma, 27 novembre 1937).

La procedura micrografica è una tecnica  consistente in una scrittura minutissima, nota in moltissimi paesi del mondo. Sul retro della stessa è riportato un trafiletto di cronaca in cui si legge  che l’autore la realizzò a soli 16 anni; invece l’età corretta dovrebbe essere 19 anni. Ciò si desume dal testo  che  Nicola D’Urso trascrive nella cartolina e che è la cronistoria pubblicata dal giornale LIllustrazione Italiana.

L’abilità creativa dell’autore indurrebbe ad immaginare che possa trattarsi  semplicemente di una creazione adolescenziale, una stravaganza di un giovane a volte burlone, ma è invece un elemento anticipatore della sua vocazione imminente: uno spiccato talento nel campo delle attività grafiche.

In seguito, infatti, egli mostrerà molte potenzialità insite nella scrittura divenendo uno specialista di arti grafiche che costituiscono i rami della sua attività lavorativa nella produzione di pergamene, di diplomi, di edizioni d’arte. Le sue qualità lo portano, sin dal 1899 a 22 anni, all’insegnamento dell’arte del disegno, della calligrafia, dell’incisione e della miniatura, dei disegni per il ricamo che adempie  a Roma nella R. Scuola Tecnica “A. Manuzio”, nei RR. Istituti Tecnici, nella scuola annessa al Palazzo del Quirinale e a Villa Mirafiore e a Terni nella R. Scuola Tecnica e nel Regio Istituto Tecnico.

Come osserva il pronipote il dott. Orlando D’Urso, studioso di Storia Patria, il nostro Nicola D’Urso è giunto nella capitale verso la fine dell’’800, al fine di “migliorare la propria condizione sociale”, convola a nozze nel dicembre del 1912 con Amelia Ricci che dà alla luce tre figli.

Esercita anche la professione di perito calligrafo presso il Tribunale e l’Alta Corte d’Appello di Roma.

Lo studioso di stenografia il prof. Paolo Antonio Paganini,  in un  testo di cronistoria della stenografia italiana,  pubblicato nella rivista “Civiltà della scrittura”, da questi diretta, pone il prof. N. D’Urso fra gli studiosi più autorevoli nel campo dell’evoluzione stenografica italiana. Il suo metodo di “Stenografia moderna: nuovo sistema celere, semplice, chiaro e completo a traccia corsiva, basato sui segni della scrittura ordinaria”, una monografia pubblicata nel 1908 a Terni, costituisce una importante tappa di questa evoluzione. L’originalità del suo metodo sta nell’aver individuato nella lettera “f” (della scrittura ordinaria corsiva) gli elementi essenziali di tutte le consonanti  e nella lettera  “e “ ( della scrittura ordinaria corsiva) quelli di tutte le vocali.  

La cartolina qui presentata è scritta da Nicola D’Urso ad occhio nudo, all’età di 19 anni. E’ costituita, come è scritto nella didascalia nel verso della cartolina, da 260 righe di scrittura, 10.996 parole e 54980 lettere. Gli argomenti esposti riguardano la Storia di Montenegro, i reali italiani (Regina Elena e Vittorio Emanuele III) le loro nozze  e i festeggiamenti.

Il testo è scritto per circa il 95% in minuscolo stampatello ed il restante in maiuscolo. Quest’ultimo è utilizzato generalmente nei titoli. La scrittura è inclinata verso destra di circa 80 gradi  (carattere corsivo, aldino o italico). Una lettura ottimale del carattere, pari a corpo 12, si può ottenere solo con un ingrandimento tra il 1300 %  e il 1400 %. Il carattere di scrittura è mediamente di mm 0,3 (oggi la microscrittura sugli euro in banconota raggiunge mm 0,2), e lo spessore del tratto è  pari a mm 0,07. Le righe sviluppate tendono a rialzarsi verso destra. Si deduce che lo scritto è di un destroide e che, al momento della vergatura, il foglio, inclinato a sinistra rispetto all’asse del corpo, era posto su un piano perfettamente orizzontale. Tra le parole, si notano dei punti che non sono dei segni di interpunzione bensì dei segni utili a mantenere la direzione dello scritto o a fermare la mano prima di vergare la parola successiva. Il lato destro della superficie scritta è molto inclinato verso il basso. Questo indica che lo scrittore aveva la necessità di inserire un numero minimo di parole su ogni riga e per questo volgendo la scrittura verso il basso recuperava in senso obliquo lo spazio che in senso orizzontale mancava. Il numero medio di parole contenute in ogni riga è pari 42 ossia lettere 211. Lo spazio tra le parole è mediamente di mm 0,6.

Possiamo definire questa misura quasi una costante e ciò rafforza l’idea che il numero di parole o di caratteri da inserire in ogni riga fosse calcolato e quindi prestabilito. Il tratto di scrittura è preciso e chiaro, non c’è alcun ricorso ad abbreviazioni, e misura uno spessore di mm 0,07. Lo spessore, non ottenibile con un semplice pennino, fa presupporre che lo strumento di scrittura fosse un pelo o un capello che, per le sue dimensioni medie (95 ÷ 45 μm), ben si adatta allo scopo, in ogni caso con una punta molto sottile.  L’intero testo si sviluppa su un’area di cm2 126 (cm. 14 x cm. 9). In ogni centimetro quadrato di superficie scritta, ricadono mediamente 87 parole ossia 436 lettere.

In un articolo apparso il 12 Sett. 1909 nel  The World  Sunday Magazine di New York  è fra l’altro riconosciuta alla creazione del Prof. D’Urso  la «Abilità straordinaria in un lavoro minutissimo a penna… Undicimila parole scritte a mano su una cartolina comune, in modo così distinto da potersi leggere ad occhio nudo, è certamente tale abilità che non succede tutti i secoli e merita perciò di essere ricordata…Colui che la scrisse, Nicola D’Urso, è un giovane calligrafo di Lecce (Italia). La cartolina è scritta in italiano ed è dedicata alla Regina Elena. Il Sig. D’Urso ha eseguito altri meravigliosi lavori nell’arte della penna: scrisse il IV atto dell’Otello sulla parte posteriore di un francobollo, il III canto del Purgatorio di Dante su di un francobollo, e la “O Lola” della Cavalleria Rusticana di Mascagni, con parole e musica, pure sulla parte posteriore di un francobollo….»

Anche il numero del giornale La Domenica del Corriere del 13-20 marzo 1910 a pagina 6 dedica a D’Urso  un articolo intitolato Una cartolina eccezionale riguardante, oltre a questo documento, anche un’altra sua realizzazione micrografica: «Abbiamo altre volte citato degli esempi di scrittura minutissima, nessuno però si avvicina neppure lontanamente a quello offerto dal Prof. Nicola D’Urso che riuscì a riempire una comune cartolina postale con 11.000 parole, mentre il massimo sin qui raggiunto rimaneva inferiore alle 3000. La cartolina, dedicata alla Regina Elena, fu scritta in occasione del matrimonio dei nostri Reali e contiene oltre alla Storia del Montenegro, parecchi aneddoti e leggende montenegrine e le notizie sulle nozze e sui relativi festeggiamenti. Il D’Urso….è uno specialista del genere, perché trascrisse su un’altra cartolina la  Storia di Casa Savoia da Umberto Biancamano ad Umberto I, 10.000 parole…»

Si conoscono di questa cartolina due edizioni che sul fronte contengono lo stesso testo già descritto; sul retro, nella prima edizione stampata a Terni  vengono riportate  notizie dell’autore e l’argomento del fronte, nella seconda edizione, oltre alle notizie anzidette, è stampato il profilo pubblicitario dell’autore e le recensioni del The World  Sunday Magazine edellaDomenica del Corriere .

Tra i suoi studi sulle molteplici potenzialità e forme della scrittura, sia sotto l’aspetto grafico che psichico, è meritevole di attenzione il metodo basato sull’insegnamento della scrittura con la mano sinistra. L’autore si dedica a questo studio per aiutare quei soldati che durante la guerra avevano subito la perdita del braccio destro. La sua teoria si fonda sulle simmetrie assiali esposte nel testo La scrittura con la sinistra. Metodo razionale e pratico ad uso dei mutilati, del malati di crampo, dei paralizzati, dei mancini ecc” .

Egli afferma che con il suo metodo aveva raggiunto eccellenti risultati nella riabilitazione di numerosi mutilati.  Si appella preliminarmente agli studiosi di fisiologia per conseguire   una «giustificazione scientifica in modo da accreditare il sistema, divulgarlo e farlo entrare nell’insegnamento ordinario della scrittura nelle scuole elementari e della calligrafia nelle scuole secondarie contribuendo così ad elevare questa negletta disciplina alla dignità che le compete per la sua importanza nella storia della civiltà».

Nella descrizione del suo metodo non fa cenno alla teoria dell’ asimmetria funzionale degli emisferi cerebrali da cui deriva la loro specializzazione in definite abilità, una asimmetria già nota nella seconda metà dell’800 con gli studi di Paul Pierre Broca antropologo, neurologo e chirurgo francese. D’Urso mostra, nei diagrammi esplicativi del suo metodo, una  complementarietà simmetrica nella scrittura eseguita da entrambe le mani,  facendo vedere d’aver intuito la loro bilateralità, ma non il ruolo dell’attività cerebrale nella funzione motoria.

Nella sua trattazione lascia intendere che la mano sinistra dovrà acquisire una funzionalità che appartiene alla mano destra, un obiettivo che potrà essere raggiunto con l’esercizio, con il tempo, la costanza, e con l’attuazione di comportamenti che devono assumere il tronco e le braccia dell’individuo. D’Urso indica alcuni accorgimenti riguardanti la posizione del corpo, del braccio, delle dita, del polso, del foglio, del tipo di penna al fine di superare le numerose difficoltà che si presentano nell’apprendimento di un mutato modo di scrivere.

E’ interessante capire, sulla base degli studi odierni nel campo della bilateralità e del funzionamento indipendente e parallelo dei due emisferi cerebrali, se lo scopo di apprendere la scrittura  per mezzo della mano sinistra possa essere raggiunto adottando comportamenti speculari a quelli dell’altra mano (prima della lesione) come mostra l’autore di questo metodo, o se l’apprendimento di questa funzione non porta nella pratica ad adottare, da parte della mano sinistra, comportamenti indipendenti da quelli della mano destra in quanto la scrittura è il risultato di una complessa attività cerebrale riguardante  i processi emotivo-affettivi dell’individuo.

Un suo biografo, a lui contemporaneo, Ferruccio De Carli, riferisce di una sua importante opera su pergamena realizzata nel 1932 a Roma. L’opera, commissionata per l’obelisco di Mussolini, è collocata in Piazza dell’Obelisco del Foro Italico, il monumentale complesso di strutture sportive. Si tratta di un testo di storia del fascismo, in lingua latina, contenuto in una cassa di bronzo scolpito ( Orlando D’Urso riferisce che la cassa era in oro) ed interrata ai piedi del monolite in marmo di Carrara, rappresentante il fascio littorio. La stesura è realizzata:

«su grandi fogli di pergamena e con caratteri onciali…Si tratta dell’opera più poderosa del Nostro, in quanto Egli suggellò su quei fogli ingialliti che dovranno sfidare i secoli, tutta la genialità sua di artista raffinato che sa di consegnare al tempo un documento che per i posteri dovrà parlare di un’epoca. Intese anche glorificare dal punto di vista dell’arte, la sua epoca, sintetizzando i caratteri e la peculiarità della nostra arte».

Nell’arco temporale di circa un ventennio pubblica un cospicuo numero di monografie riguardanti la calligrafia, la stenografia, gli alfabeti ed i disegni. Tra queste opere va innanzi tutto indicata la sua produzione didattica nel settore calligrafico che lo consacra quale rinomato artista che attinge le sue forme calligrafiche dalla storia delle scritture. Fra le numerose pubblicazioni a carattere didattico va menzionato un piccolo testo che egli “dedica” alla marca di un pennino: Redis. In questo testo, dedicato alla scrittura decorativa, presenta dieci tavole di alfabeti, di fregi, di targhe, di ornamenti realizzati, la cui particolarità sta nel fatto che il pennino Redis ha la punta consistente «…in un piccolo disco circolare di diametro più o meno grande che va da mezzo millimetro a 5 millimetri. Questo disco circolare consente per sua natura il tracciato di un segno grafico sempre uguale nella sua larghezza, in tutte le direzioni che esso si muove, verticali, orizzontali, oblique, circolari, a spirale, ad ellisse, ecc.».

Pubblica, inoltre, alcuni testi costituiti da tavole riguardanti gli alfabeti, le epigrafi, i motivi ornamentali. Quale illustratore edita nel 1926 venti tavole xilografiche dedicate a San Francesco d’Assisi. Quest’opera, scrive Ferruccio De Carli, «…non sta nella ricchezza della veste, ma nella struttura delle tavole, nel simbolismo che dà loro vita, nelle decorazioni che esprimono l’intimo travaglio dell’artista. Per trarre degna e diretta ispirazione, il Nostro andò a chiudersi nel Convento della Verna e lì, in quell’incantevole claustro, dove vive e palpita, la grand’anima di Francesco. Egli attinse ispirazione e guida per quest’opera, nella quale la grandezza del disegno, l’espressione quasi aerea del suo contenuto, la trasparenza e leggerezza del segno, la originale e primitiva dizione delle “Laudi” stesse, “Laudi del Signore Santo Francesco” fanno più di ogni altra opera, …intendere la sublime poesia francescana e danno la prova dell’incomparabile arte di questo nobile maestro, troppo presto sottratto all’Arte e alla Patria. Se la “inesorabile Falce” non avesse troncato i suoi giorni quando più intensa era la sua  attività, l’arte italiana si sarebbe arricchita di un’altra insigne opera: l’illustrazione della “Divina Commedia”, della quale fece in tempo a creare la prima pagina, che basta però da sola a dare la prova della originalità della interpretazione “dursiana”, della prestigiosa bellezza cui sarebbe assurta questa nuova opera se fosse stata portata a compimento».

L’attenzione rivolta in questa riflessione alla cartolina micrografica e in maniera essenziale ad alcune produzioni grafiche, fanno emergere un personaggio eccentrico, un nostro emigrante che ha saputo affermarsi in una professione che ricercava, nella forma della scrittura delle parole, la bellezza. Nicola D’Urso è una figura di studioso e autore che merita d’essere conosciuta o meglio riscoperta. Le qualità estetiche che rivelano alcune sue realizzazioni,  ma anche quelle della sua quotidiana produzione epigrafica, calligrafica, miniaturistica e stenografica, implicano una  precisione geometrica, una armonia, un equilibrio, che sono elementi antesignani dell’arte grafica che ebbe tanto sviluppo e fortuna sotto il periodo fascista e che pur con modificazioni ed aggiornamenti sono divenute opzioni grafiche del “ type design”(arte di disegnare i caratteri).


Ringrazio per alcune notizie riportate il  pronipote di Nicola D’Urso, il dott. Orlando d’Urso, il ricercatore Ferrante Mancini Lucidi di Roma, il prof. Maurizio Nocera e il giovane studioso Vincenzo D’Aurelio, quest’ultimo soprattutto per i suggerimenti e la collaborazione per vari  aspetti descrittivi della cartolina.

 

pubblicato integralmente in Spicilegia Sallentina n°6.

La quercia Vallonea di Tricase e l’arte del conciar le pelli

Tricase. La Vallonea in inverno

La quercia Vallonea di Tricase, “quercia dei cento cavalieri”

Se un albero scrivesse l’autobiografia, non sarebbe diversa dalla storia di un popolo

(Kahlil Gibran)

di Alessandro Bianco

Tricase, piccola cittadina del basso Salento, è spesso meta di tanti turisti che d’estate giungono qui da tutte le parti della penisola per ammirare le sue meraviglie architettoniche e paesaggistiche. Accogliente e ricca di storia, questa è la terra dei cinque castelli, contando anche le sue frazioni, e del  giurista e politico italiano Giuseppe Pisanelli.

Visitando le stradine del centro storico ci si immerge in un’ esplosione di emozioni in quanto ci sembra di rivivere le reminiscenze del passato, le gesta di antichi personaggi ed eroi; palazzo Gallone, la chiesa Madre, piazza Pisanelli, la chiesa di San Domenico: sono questi i luoghi di straordinaria attrazione. Lasciando il paese si raggiungono le marine, con la località Marina Serra, dal mare limpido e il porticciolo di Tricase Porto.

Percorrendo la strada che conduce a quest’ultima località, non sfugge agli occhi dei visitatori, la maestosa Quercia Vallonea, conosciuta anche come “Quercia dei Cento Cavalieri”, un vero e proprio dolmen naturalistico, vecchio di circa 700 anni, che la natura possa aver generato. Imponente e maestosa in tutte le sue forme, a volte bizzarre, di accesi colori, è stata considerata monumento arboreo della Puglia e Vallonea più bella e più grande d’Italia, una onorificenza non solo per questa cittadina ma anche per l’intera regione. Scampata dall’ira (dis)umana, che molti anni fa vide la triste scomparsa nella zona di molti suoi simili, per la costruzione della strada che conduce verso la marina di Tricase Porto, oggi, per nostra fortuna, è inserita nel Parco naturale regionale Costa Otranto – Santa Maria di Leuca e Bosco di Tricase.

A quest’albero è legata anche una fantastica leggenda che vide come artefice il re Federico II, il quale, trovandosi nei dintorni di Tricase con uno squadrone

L’uomo della “conza”

 

di Wilma Vedruccio

Da quando sua madre disse “tocca porti lu pane a casa, fiju miu”, aveva allora undici anni suppergiù, aveva impastato  malta senza posa.

Impastato e trasportato malta fino a quindici, venti anni e poi per sempre.

Aveva visto crescere case d’ogni tipologia, secondo la moda del momento, a seconda delle possibilità te li cristiani, case che s’allargavano sempre più dal centro fino a che si parlò di “centro storico” e di periferia.

Era il primo a darsi da fare sul cantiere, fin dalla mattina presto impastava e impastava e poi era pronto a servire. “Conzaaa” e lui correva con il secchio o la carriola a portare l’ impasto che faceva crescere i muri e teneva saldi i mattoni per sempre. Gli piaceva quell’ impasto, grasso, morbido e traballante, somigliava alla pasta del pane, somigliava…alle mammelle della madre quando allattava il piccolo di casa.

Crescevano crescevano le case e lui sempre a correre per portare malta.

Si accorgeva a volte che un albero da frutto era sparito… ma era qui l’anno scorso, avevo mangiato buoni fichi per merenda…ora non c’era più…

Anche l’albero di noci, bello grande era sparito, e lu pajaru anche…più…

Le case intanto non erano più case ma casamenti alti, grandi e brutti, per decine e decine te cristiani, crescevano veloci in pochi mesi, tutti uguali.

Anche la conza non era più la stessa, lui non poteva farci niente, il capocantiere gli aveva detto più volte di aggiungere acqua, di allungare…

Il capocantiere, il geometra, l’ingegnere, l’architetto ( questo prima non c’era), ora arrivavano con macchine sempre più grosse, grandi come le case di una volta, lui andava e veniva con la bicicletta, gli bastava, e poi il vento sulla faccia e fra i capelli gli portava via un po’ del tufo che li incrostava.

Certo che il tufo lui se lo portava sempre appresso, non lo abbandonava mai, anche durante le feste del paese, aivoglia a lavarsi e mettere la camicia nuova,

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