di Armando Polito
Nome dialettale: tumu
nome italiano: timo
nome scientifico: Thymus capitatus Hofmgg. et L. K.
famiglia: Labiatae
Cominciando dalla fine, Labiatae è voce del latino tardo e significa provviste di labbra, dal classico làbium=labbro; La seconda parte del nome scientifico (capitatus) in latino significa capocchiuto (con riferimento ai fiori a capolino). Il nome dialettale, quello italiano e il primo componente dello scientifico sono tutti dal latino thymus o thymum, a loro volta volta dal greco thumos o thumon. La radice originaria è stata molto prolifica, se, come vogliono alcuni filologi, essa è stata la madre, in greco, di molte altre voci connesse tra di loro da una fitta rete di passaggi concettuali: thuo1=sacrificare, thuon=tuia, offerta sacrificale, incenso, thuos=offerta sacrificale fumante, sacrificio, suffumigio, thuìa=cedro, tuia, mortaio, thusìa=sacrificio, vittima, thumiào=bruciare, fare un sacrificio, thuo2 e thuìo=infuriare, smaniare, thuno=infuriare, thumòo=infuriare, thumòs=forza vitale, coraggio, ira; da quest’ultima voce, poi, il latino fumus=fumo. La variante greca thùmos oltre che significare, come il precedente thumos, la pianta, è sinonimo anche di escrescenza e, in particolare, designa anche il timo (organo); quest’ultimo significato sarà derivato più probabilmente come specializzazione di quello generico di escrescenza, nonostante sia innegabile la somiglianza dell’organo con l’omonima pianta1. Tutto ciò rende probabile che anche i latini tumère=esser gonfio e tumor=gonfiore (da cui l’italiano tumore) siano figli,
SALENTO FINE OTTOCENTO
Rapporto tra contadini e terra incolta: La macchia di Arneo
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
Cosa rappresentava per il popolo salentino la macchia d’Arneo se non l’unica risorsa nei momenti di maggiore bisogno, la madia dove i poveri potevano furtivamente attingere il tozzo, o – per dirla con i contadini – “La menna ti nutrìzza ca ci nno ttene latte armènu no tti neca la culàstra?” (“La mammella di nutrice che se non tiene latte almeno non ti nega il colostro?”).
Centinaia di ettari di terra incolta, regno incontrastato di lecci, pinastri, ulivastri, ginepri, ligustri, rovi, ginestroni, timo e soprattutto mortella, che cresceva alta in un intrico di rami e in un tale fittume di cespugli da confondere i passi di chi vi si inoltrava. Non c’erano infatti carraie da far da guida, ma solo strate perse o più coloristicamente carrariéddhri futtùti, tratturi così chiamati perché, se d’estate non offrivano spunto all’orientamento, confusi com’erano in tante intersecazioni, nella stagione delle piogge sparivano addirittura, inverdendosi e quindi amalgamandosi con le sponde.
“A’ ppassatu lu mbreu!”, commentavano i contadini tutte le volte che arrivando nella macchia non trovavano cenno di sentieri, e così dicendo intendevano riferirsi al leggendario ebreo errante che, per avere insultato Cristo sulla via del Calvario, era stato da Dio condannato a vagare inquieto sulla terra sino alla fine del mondo. Secondo loro, tutte le volte che lu mbreu si trovava a passare dalla macchia di Arnèo, gli angeli del Signore, per trattenerlo il più possibile in quella landa sterminata, coprivano d’erba i
RELIGIONE POPOLARE NEL SALENTO FINE OTTOCENTO
di Nino Pensabene
Leggo fra gli appunti etnologici di Giulietta – e trascrivo quasi testualmente – che
“Per festeggiare la vita esorcizzando la morte, il primo di novembre – periodo propizio per la facilità di raccolta – era di uso fra la popolazione salentina mangiare funghi. E tanto profondamente era sentito l’atto devozionale che, nel mettere la pietanza a tavola, automaticamente si salutavano tutti i santi, la cui presenza era assicurata, esclusa quella di San Cesario, che per tanta defezione veniva chiamato “Lu santu scarbàtu” (“Il santo sgarbato”).
La ragione – si diceva – stava nel fatto che ricorrendo la sua festa proprio il 1 novembre ed essendo la stessa soppiantata da quella più importante di tutti i Santi, il ribelle, sentendosi defraudato della propria celebrazione, si ‘ncazzàa (si incavolava) e anziché partecipare al banchetto mannà tutti a ddhru paése (mandava tutti all’inferno) andandosene a raccogliere funghi.
I più pii, invece, non attribuendo mai ai santi atti di ribellione o scortesie di sorta, correggevano la versione piuttosto laica – opera ti lu tiàulu – ed asserivano che san Cesario era assente dalle tavolate perché, generoso com’era, andava a funghi pur di unirsi agli altri raccoglitori e vigilare sugli stessi affinché non avessero a sbagliare nello scarto fra commestibili e velenosi.
Secondo costoro, per questo motivo invece c’era l’uso di mangiare funghi il primo novembre, per rendere cioè onore a San Cesario, che per il bene altrui annualmente si privava della festa collettiva”.
di Giorgio Cretì
In illo tempore, nel Salento che fu, quando la gente viveva sulla terra che coltivava e da essa traeva il proprio sostentamennto, si faceva grande uso di piante spontanee res nullius che prendevano il nome di foje creste ossia di erbe agresti, che non avevano bisogno di essere seminate e coltivate. Era la sapienza della tradizione che permetteva di ricavare da esse alimenti squisiti e anche salutari.
Tra queste erbe erano compresi anche i cardi prima che indurissero e sviluppassero le loro durissime spine. Molto apprezzato era il Rattalùru, ossia il Cardo scolimo (Scolimus hispanicus), che sulle Murge quando muore genera i funghi carduncielli. Ed anche il cardo mariano (Silybum marianum) che veniva impiegato in cucina ed era pure apprezzatissimo per suoi principi attivi riitenuti ancora oggi molto efficaci per l’apparato cardio-vascolare e per la sua funzione epatica.
A Ortelle, ed anche a Vitigliano, che un tempo di Ortelle era frazione, così pure a Vaste che è frazione di Poggiardo, il cardo mariano si chiamava, e si chiama ancora, Spina de San Giuvanni. In altri paesi, come per esempio Spongano, è detto Cardune.
E’ simile ad una delle tante specie del genere Carduus con foglie spinosissime che avvolgono il fusto ed i suoi capolini isolati di colore purpureo che somigliano ai fiori del carciofo. E’ diffuso nell’Italia Centrale e Meridionale e nelle Isole, più raro è nell’Italia settentrionale dove sopravvive come relitto di antiche colture un tempo tenute solo a scopo medicinale. Nei ricordi della signora ‘Maculata di Vitigliano se ne facevano anche dicotti.
Era credenza molto antica che il cardo mariano, in occasione della festa di San Giovanni dimostrassse particolari virtù divinatorie.
Santina di Vignacastrisi ricorda che la sera della vigilia di San Giovanni gli uomini al ritorno dalla campagna tagliavano gli steli fioriti e li portavano a casa. Le donne li bruciacchiavano alla fiamma del camino e poi li mettevano in un seccchio pieno d’acqua; c’era anche chi lasciava le spine bruciate, o anche altre erbe, semplicemente sulla lamia a prendere la rugiada della notte che così guariva da certe malattie. La mattina dopo, comunque, le spine rifiorivano e questo era sempre e comuque buon segno. Le giovani donne innamorate per sapere se si sarebbero sposate entro l’anno, o per sapere se l’uomo verso il quale spasimavano si sarebbe dichiarato, mettevano le spine bruciaccchiate dentro un bicchiere e le lasciavano sul davanzale a prendere il fresco della notte. Dalla loro posizione traevano i buoni auspici.
Nella notte del 24 giugno in cui gli antichi celebravano il solstizio d’estate, anche nel Salento cristiano, si festeggiava San Giovanni Battista ed era una festa di purificazione in cui si dava fuoco alle stoppie secche. Ma qualcuno per conto suo faceva festa anche con focareddhe vere e proprie ad imitazione dei grandi falò propiziatori fatti in piazza in altri posti e in altre occasioni. Niente a che vedere, comunque, con la “Festa delle Panare” di Spongano che si tiene il 22 dicembre di ogni anno e dove si bruciano le paddhotte, le zolle della sansa dei frantoi.
Nella tradizione popolare San Giovanni era venerato come taumaturgo capace di guarire qualsiasi male, ma gli venivano accreditati soprattutto gli attribuiti del fuoco e dell’acqua ed era a Lui che il popolo si rivolgeva per scongiurare il pericolo dei temporali che incutevano sempre grande paura per i danni che potevano arrecare ai raccolti e alle persone. Ancora a Immacolata De Santis di Vitigliano (‘Macculata) dobbiamo la momoria di alcune invocazioni recitate per scongiurare l’arrivo del maletiempu di ogni genere.
San Giuvanni meu barone
Ka ‘ncoddhu purtavi nostru Signore,
Lu purtavi e lu nucivi
u maletiempu tu sparivi.
E nulla cambiava se a volte era chiamato ad intervenire assieme ad altri santi. In quest’altra composizione il richiedente si rivolge prima a Santa Barbara per poi affidare la parte operativa del miracolo richiesto a San Giovanni.
Santa Barbara ci sta’ ‘menzu ‘li campi
Nu time acqua, nè troni nè lampi,
Azzete Giuvanni e duma tre cannile
Ka visciu tre scère(1) ‘quarrittu vinire:
De acqua, jentu e maletiempu.
A mare a mare lu maletiempu,
Addhurca nu canta gallu,
Addhunca nu luce luna
Addhunca nu passa anima una.
(1) Scèra era detta il cumulonembo
E a San Giovanni Battista era affidata anche la responsabilità di proteggere il contratto sociale detto del comparaggio, che non aveva niente a che vedere con il reato previsto dal nostro Diritto, ma era quello del battesimo, in cui i contraenti – di solito parenti o amici – assumevano, appunto, l’appellativo di compari di San Giovanni. Al santo profeta che aveva battezzato Gesù veniva dedicato un rapporto speciale che si creava e rimaneva sacro per tutta la vita. Tra il padrino e la famiglia del bambino tenuto a battesimo, si instauravano speciali rapporti di amicizia che avevano un valore quasi uguale a quello di parentela. Il bambino figlioccio, fin dalla tenera età, era educato a rivolgersi con affetttuoso rispetto al proprio padrino facendo precedere sempre il suo nome dall’appellativo di nunnu/nunna, anche nell’età adulta. Il padrino/madrina si rivolgeva al figlioccio chiamandolo semplicemente sciuscettu (lat. filius susceptus, figlio adottato) e sullo stessso esercitava quasi la stessa autorità del padre/madre naturale.
Per ultimo non è da dimenticare uno squisiito fico precoce, la cui maturazione avviene a cavallo del soltizio d’estate ed è una varietà di Ficus carica detta fica de San Giuvanni. I suoi fioroni, fichi di primo frutto, puntualmente sono pronti per il 24 di giugno ed hanno forma di trottola con polpa granulosa, dolce ma non mielosa, ottimi per il consumo fresco. Ed essendo la cultivar bifera produce anche un fòrnito, un fico di secondo frutto, di forma globosa a fiasco allungato con buccia gialla, costoluto e con polpa giallo verdastra. Come per tutti gli altri fichi, se al solstizio di giugno sofffia vento di Scirocco i frutti si gonfiano ed essendo i primi sono molto attesi. Se invece persiste vento di Tramonata la loro maturazione diventa difficoltosa e ntaddhene, fanno il callo, cioè, e sono da buttare.
di Angelo Diofano
Il pittoresco, ma molto caotico, mercato ittico di via Di Mezzo, nel centro storico di Taranto, appare popolato già alle prime ore del mattino. I patiti del pesce fresco accorrono numerosi anche dalla provincia, consapevoli che non ne usciranno delusi.
Dalle “paranze” e “paranzedde”, ormeggiate alla banchina di via Garibaldi è tutto un viavai di cassette di pesce catturato nell’appena trascorsa faticosa nottata di lavoro. I componenti degli equipaggi si attardano davanti a una bottiglia di birra, commentando l’esito della battuta.
Triglie, lutrine, calamari, cefali, gamberi e quant’altro popola gli abissi di Mar Jonio sono ancora vivi nelle cassette e non intendono accettare la fine della propria esistenza: un salto, un altro ancora, nel tentativo di raggiungere le caditoie, da dove far ritorno finalmente nel proprio habitat naturale, più o meno inquinato. Una mano impietosa raccoglie però la creatura e la pone, assieme alle altre, in un sacchetto di plastica.
Il sacrificio non sarà vano: immersi nel pentolone di sugo o arrostiti sulla graticola, quei pesci daranno modo al ghiottone di turno di ringraziare il Padreterno di averlo fatto nascere in una città di mare. E nella fattispecie la nostra che, nonostante quello che si dice in giro, è bella, bella assai.
Fra le urla dei venditori e di quanti sono alle prese con appassionate partite di “padrone e sotte” sarà facile sentirsi rivolgere, quasi con tono da congiurati, la fatidica domanda: “Signo’, u ‘ue l’olie d’u pesce sciorge?”.
La turista mal incappata, a digiuno di usi e costumi locali, ne resterà senz’altro interdetta, non sapendo che rispondere. Parimenti per una gentile acquirente dei quartieri nuovi cittadini, non molto avvezza al vernacolo locale, che potrebbe senz’altro pensare a un invito equivoco. E perciò sarà spinta dall’impulso di rispondere accostando il termine dialettale ai parenti stretti,
di Rocco Boccadamo
Un corsivo atipico, ruotante intorno a Lecce, in particolare a Via Salvatore Trinchese, rinomata arteria del cosiddetto salotto buono di questo capoluogo.
Per una volta, ad ispirarlo, non già i bei negozi alla moda, le vetrine luccicanti, il perpetuarsi delle vasche materializzate da gente d’ogni età, specialmente da ragazzi e giovani, la sala Bingo che vi si affaccia, bensì una presenza speciale, lì, fissa, sul marciapiede, appoggiata al muro di un edificio, 365 giorni all’anno, vuoi con i rigori del freddo come accaduto di recente, vuoi con i quaranta e passa gradi estivi.
Giustappunto nel tratto fra la ricordata sala giochi e l’isolato dove ha sede l’istituto della Suore Stimmatine, ci s’imbatte, immancabilmente, nella figura di un uomo, apparentemente e fisicamente minuscolo, ma, senza alcun dubbio, grande dentro.
La natura o il destino – non fa distinzione che si sia trattato dell’una o dell’altro – non sono stati generosi e benigni nei suoi confronti, la persona in discorso è completamente priva degli arti superiori e dotata solamente di un abbozzo di quelli inferiori, due piccole propaggini idonee a farvi aderire appena le scarpe.
E però, si badi bene, nonostante si trovi messo così male nel corpo, quest’uomo non bisogna guardarlo o considerarlo con aria di gratuita compassione o di pietà. Difatti, egli é ricco, assai pieno nel suo interiore, basta accennargli un normale sguardo, prima ancora di porgergli un saluto, è già pronto a lanciarti un fascio di sorriso, sormontato dai suoi occhi luminosi:
di Gianni Ferraris
Aspettando il concerto ci sediamo al bar. Fans arrivano alla spicciolata, si accorgono del registratore e aspettano quieti in disparte, per non disturbare.
Ha l’aria timida Mino, dice parole contate ma decise. E’ un ragazzo quaranticinquenne che ti guarda dritto negli occhi e ti racconta il suo essere, appunto, “cavaddhru malecarne”, la canzone che apre il suo album, il cavallo che non riconosce autorità al suo padrone, non vuole briglie né carri da trainare, piuttosto pretende di decidere da solo la strada da fare. E lui, il padrone, tenta invano di ammansirlo in ogni modo, carota e bastone.
E in fondo è anche “lu cane” dell’altra sua canzone, il randagio che sta bene come sta, anche se la libertà è costosa, spesso dura, non tutti sono disponibili a pagarne i prezzi, è quella cosa “… che a volte ti fa desiderare una ciotola piena, anche a costo di essere legato ad una catena e di dover leccare la mano al tuo padrone. Libertà è anche un colpo di tosse e una zecca in testa” mi dice Mino parlando del perfido, apparente benessere che ti rende schiavo. Libertà “è un boccone bollente… e un’immensa casa per chi casa non ha, tutta la piazza della città” così il suo testo.
Per capire le parole delle sue canzoni mi sono fatto aiutare a tradurre, ahimè non pratico il dialetto salentino, non mi venne in mente solo De Andrè, soprattutto George Brassens. Anche lui cantò “Je suis un voyou” [Sono un ragazzaccio]. Simile la vena anarchica, simile sguardo sul mondo.
E di Brassens, mi conferma Mino, ci sono echi nei suoi testi, come di cantautori nobili italiani, De Andrè, Paolo Conte, quelli che cantano il loro mondo prendendolo, se serve, contropelo, piuttosto che con la raffinata poetica di altri colleghi.
Parliamo con lui di questo suo primo album: “Scarcagnizzu”.
“Ma è poi vero che sei un anarchico?”
“L’anarchia, come diceva De Andrè, come la nomini non c’è più. Limitiamoci a lasciarla intendere”
“Appartieni al mondo, però nelle tue canzoni ci sono radici profonde come quelle dell’ulivo, cos’è il Salento?”
“Il Salento è uno stato d’animo, è lento lento lento, ma inizia a muoversi. Deve
di Maurizio Nocera
Ci fu un tempo in cui il luogo che noi oggi chiamiamo Gallipoli, veniva ancora indicato col nome di Anxa, parola che può ritenersi di origine messapico-cretese. Con tale nome la indicò pure Plinio il Vecchio nella sua “Naturalis historia” [Storia della Natura], pubblicata nell’anno 77 della nostra era, dove scrisse: «… in ora vero Senonum Gallipolis, quae nunc est Anxa» [… inoltre sul litorale dei Sènoni Gallipoli, che ora è Anxa]. A sua volta, Pomponio Mela, nella sua opera “De Situ Orbis” [Del luogo della Terra], scrisse: «Urbs Graia Kallipolis» (Città Greca Gallipoli), dove “Kallipolis” sta per “Kalé Polis”, che in greco significa appunto Bella Città.
Ancora prima dei due scrittori latini, i padri della poesia e della storia dell’antica Grecia, fra cui Esiodo (VIII sec. a. C.), Ecateo di Mileto (VI sec. a. C.), ed Erotodo (V sec. a. C.), nelle loro opere scrivono anch’essi della Iapigia-Messapia. Nelle sue “Storie”, Erodoto, a proposito dello sfortunato viaggio del cretese Minosse il quale, una volta giunto in «Sicania» (Sicilia), perì di morte violenta, narra di un conseguente viaggio di numerosi cretesi che lasciarono la loro isola navigando alla volta della Sicilia per riprendersi la salma del loro re. Erodoto scrive: «Quando, durante la navigazione, si trovarono presso la costa iapigia, una violenta tempesta li avrebbe sorpresi e sbattuti contro terra: sicché, essendosi spezzate le navi, e non vedendosi più alcuna via di ritornare a Creta, fondata in quel luogo la città di Iria, ivi rimasero e divennero Iapigi-Messapi […] invece di Cretesi, e continentali da isolani che erano. Da Iria, dicono, fondarono le altre colonie…» [cfr.
Erodoto, “Storie” (a cura di Luigi Annibaletto), Mondadori marzo 2007, I Classici Collezione Greci e Latini, volume secondo, libro VII, 171, p. 1297].
Sulla Iapigia-Messapia, più particolari ci vengono forniti anche dall’altro padre della storia greca antica, Tucidide (V sec. a. C.) il quale, nella sua monumentale opera “La guerra del Peloponneso”, a proposito delle traversie marinare della flotta atenietese diretta a Siracusa, narra di un evento che è lecito interpretare come collegato al luogo Anxa-Gallipoli. Scrive Tucidide: «Ma i Siracusani, in seguito allo scacco subito con i Siculi, si trattennero dall’attaccare subito gli Ateniesi; intanto Demostene ed Eurimedonte, dato che le truppe raccolte da Corcira [Corfù] e dalla terraferma erano ormai pronte, attraversarono con tutto quanto l’esercito lo Ionio fino al capo Iapigio; partiti di lì presero quindi terra alle isole Cheradi, in Iapigia, dove imbarcarono sulle navi dei tiratori iapigi, circa centocinquanta, appartenenti alla stirpe messapica, e rinnovarono con Arta – che aveva tra l’altro procurato loro i tiratori, in qualità di dinasta del luogo – un certo vecchio patto di amicizia, per poi ripartire verso Metaponto, in Italia» (cfr. Tucidide, “La guerra del Peloponneso”, a cura di Luciano Canfora, Mondadori, I Classici Collezione Greci e Latini, Mondadori, giugno 2007, volume secondo, libro VII, 33, p. 969).
Si conoscono le frontiere entro cui era circoscritta l’antica Iapigia-Messapia, più o meno inscritte nel periplo della costa della punta del tacco d’Italia, con il confine a Nord-Est, verso l’attuale Bari, non oltre Egnazia, e il confine a Nord-Ovest, verso Taranto, non oltre Manduria. Le isole Cheradi di cui parla Tucidide non possono non stare che entro questi confini, tanto che al di sopra o al di là di essi, sarebbe stato impossibile al navarchi ateniesi Demostene e Eurimedonte imbarcare i centocinquanta tiratori di «stirpe messapica», come sarebbe stato impossibile incontrare il dinasta Arta, capo dei curioni dei Messapi, in quel momento residente nella potente città di Alyzia [l’ attuale Alezio], situata nel più vicino entroterra all’approdo marittimo Anxa-Gallipoli. Da ciò è possibile dedurre che le isole Cheradi citate da Tucidide altro non possono essere che le isole dell’arcipelago gallipolino, formato dalla città-isola Anxa-Gallipoli, dall’isola di Sant’Andrea e dagli isolotti Campo e Piccioni; nel tempo antico, accanto a queste isole citate esistevano altri isolotti affioranti, successivamente risommersi dalle acque del mare.
Dopo queste importanti indicazioni il nome di Anxa come pure il nome di Kalè Polis scomparvero per secoli e l’isolotto-città, dopo la definitiva vittoria dei Romani sui Messapi e l’imposizione della nuova lingua latina nella Iapigia, cominciò a chiamarsi – e da allora continua ad essere così – soltanto col nome di Gallipoli.
La pubblicazione in due versioni de “Il Libro Rosso di Gallipoli” [quella curata da Amalia Ingrosso con prefazione di Benedetto Vetere (Galatina, Congedo 2004), e quella curata da Elio Pindinelli (Gallipoli 2003)], con documenti che risalgono fino al XIII-XIV secolo, ci dà l’idea di quanto fosse importante, nel tempo antico, l’isola-città-fortezza di Gallipoli, per cui sono veramente tante le citazioni del suo nome, e in particolare del suo Castello.
Dell’importanza del Castello nei secoli, se n’era reso conto lo studioso Ettore Vernole, tanto che fu uno dei pochi a visionare e attingere fonti certe dal “Libro Rosso di Gallipoli”; libro che sicuramente avrà visto anche l’umanista Antonio De Ferraris, detto Galateo, il quale, il 12 dicembre 1513, scrisse una stupenda lettera – “Callipolis descriptio” [Descrizione di Callipoli] – a Pietro Summonte, suo sodale nell’Accademia Pontaniana di Napoli, dicendo che l’isola-città nella quale egli risiedeva in quel momento, aveva «tratto il nome dalla sua bellezza e non senza ragione. Fu città greca: ignoro donde Plinio abbia appreso che qui si fossero stanziati i Galli Sénoni. Questa città, invece, non si chiama Gallipoli, ma Callipolis come recano antichi codici» (cfr. Antonio De Ferraris Galateo, “Lettere”, nella traduzione e commento di Amleto Pallara, Conte editore, Lecce 1996, p. 97). E poco oltre il Galateo continua la sua epistola descrivendo l’ingresso della città: «Davanti al castello, che si erge sulla città, c’è un ponte che lascia congiungere i due tratti di mare, i quali rendono Callipoli non una penisola ma una vera e propria isola. Da quel punto la terra si riallarga a tondo, assumendo la forma di una padella. Il perimetro della città non è molto ampio; a occhio e croce non supera dieci stadi. Callipoli all’epoca in cui fu distrutta non era sufficientemente difesa né da mura né da macchine da guerra né da guarnigione.
Ora, invece, è validamente fortificata e dalla terraferma e dal mare offre di sé una vista superba, fiera e bellissima per la quale io penso che la chiamarono Callipoli gli antichi Greci» (op. cit., p. 98).
Oggi, guardando le antiche piante cartografiche (mi riferisco in particolare a quelle pubblicate nel libro dello storico gallipolino Federico Natali, “Gallipoli nel Regno di Napoli. Dai Normanni all’Unità d’Italia” (Galatina, Congedo 2007), inserto iconografico tra le pagine 256-257), alcune della quali risalgono più o meno allo stesso periodo del Galateo, si vede come fosse Gallipoli nel ‘500-600. Le piante dell’isola-città prese in considerazione sono tratte da antichi dipinti conservati nelle chiese di Alezio e Gallipoli, che qui cito:
1. Particolare della tela ad olio di “S. Pancrazio”, del pittore Giandomenico Catalano, dipinta nel XVII secolo ed esposta nella Chiesa di S. Maria della Lizza ad Alezio;
2. Particolare della tela ad olio de “Il Vescovo Capece implora la protezione di S. Carlo Borromeo su Gallipoli”, anche questa tela è del pittore Giandomenico Catalano, dipinta nello stesso secolo ed esposta nelle stessa chiesa ad Alezio;
3. Particolare della tela ad olio della “Vergine e i Santi Eligio e Menna”, dello stesso pittore e dello stesso secolo, esposta nella sacrestia della Cattedrale di S. Agata a Gallipoli;
4. Particolare della tela ad olio di “S. Domenico”, dello stesso pittore e secolo, esposta nella chiesa di S. Maria del Rosario a Gallipoli;
5. Veduta dell’antico abitato di Gallipoli, dipinta dal pittore Luigi Consiglio nella seconda metà dell’800, attualmente esposta nel museo di Gallipoli.
Tutte queste tele hanno in comune un particolare: lo sguardo del pittore che dipinge è dalla parte del borgo nuovo, per cui l’abitato dell’isola-città evidenzia sempre e di primo acchito il Rivellino col Castello in contiguità, quindi il perimetro delle mura turrite con i fortini, i baluardi, i bastioni e i torrioni. In questi dipinti altro particolare interessante sono i ponti, non uno che congiunge la terraferma all’isola-città, ma due, il primo che va verso la città e il secondo che collega la terraferma al solo Rivellino. Un’altra pianta, sempre leggibile sulle stesso libro del Natali (tra le pagine 128-129) è quella denominata “Scenografia prospettica della città di Gallipoli” della fine del XVI secolo (tratta dal Coronelli): in questa veduta a volo d’uccello è visibile la struttura dell’isola-città-fortezza con i quattro torrioni del Castello, qui collegato attraverso una terrazza al Rivellino, quindi il perimetro delle grandi mura turrite intervellate dai fortini di “San Benedetto” e “San Giorgio”; i baluardi di “Santa Vennardia”, “San Domenico o Dell’ Annunziata” e “San Francesco”; le torri di “San Luca”, “Quartararo o degli Angeli”, “Sant’Agata”, “Purità”, “San Francesco di Paola o dello Scorzone” e “Bombarda o San Giuseppe”. Altro particolare interessante, su questa tela il pittore ha dipinto anche lo «Scoglio grande» più altri scoglietti, allora esistenti, oggi non più.
Tutto ciò sta a documentare l’esistenza del castello gallipolino sin da tempi antichi; sull’isola-città nel IV sec. a. C. vi abitò per un certo periodo anche il potente Archita, grande curione di Taranto e discepolo prediletto ed erede ideale del vate Pitagora.
Di tutte le antiche e moderne vicende del Castello di Gallipoli, ampiamente ne parla il libro di Ettore Vernole con freschezza di scrittura e di una straordinaria attualità, soprattutto nella descrizione dello stato del maniero.
Nell’ultimo capitolo, il XIII, Vernole scrive: «Dal 1857 il Castello aveva socchiuso gli occhi ad un letargo inonorato ch’ebbe apparenze di morte, al punto che, dopo il Sessanta [Unità d’Italia], per poco non fu venduto a privati per trenta o quaranta mila lire. […] Ma fu di quei primi decenni l’abbattimento dei baluardi e delle cortine della Cinta bastionata, nelle strutture elevantisi sul livello della strada perimetrale […] si volle giustificare la demolizione della Cinta bastionata che oggi (se ancora esistesse) sarebbe stata un Museo Storico, unico più che raro, pel turismo moderno. Ma non vuol essere, questa mia, una sentenza di condanna. / Il Castello, entrato nel Demanio patrimoniale dello Stato, sotto l’Amministrazione del Ministero delle Finanze, fu destinato a sede di Uffici Finanziari: vi si installarono man mano il Magazzino delle Privative, la Dogana, la Regia Guardia di Finanza, poi l’Ufficio del Registro, l’Ispezione Demaniale, l’Agenzia delle Imposte, e fra le mura che risuonarono di armature biascicaron le cifre burocratiche. / Abbattute le muraglie e i baluardi, con l’aria pura marina penetrarono in Città anche i miasmi del malcostume politico. […] Ultimo bagliore di opera durevole fu, nel terzo decennio dopo il Sessanta, la costruzione della galleria del Mercato Coperto sul canale-fosso che separava il Castello dalla Città: fu una di quelle opere necessarie nelle quali non sai trovare il punto di demarcazione tra la lode e la critica, fatto sta che essa formò un sipario dietro il quale la facciata solenne del Castello è nascosta al godimento dei nostri occhi. /
Contemporanea, verso il 1886, fu la demolizione dell’ultima cortina superstite fra i baluardi Santa Vennardia e San Domenico, e la demolizione dei Fortini San Giorgio e San Benedetto e della Porta Civica: i blocchi ciclopici di calcestruzzo, ricavati da quelle demolizioni, furon gettati per formare la scogliera protettiva di ponente che in pochi anni fu inghiottita dal mare».
Altre negative vicende narra poi l’autore, e tutte a sfavore del vecchio maniero, tanto che egli, rivogendosi alle autorità dell’epoca, le implora affinché si prodighino per «la restaurazione del Castello “ad pristinum”, con la destinazione a Sedi che sien degne di un Monumento Storico così insigne».
Fin qui Ettore Vernole e il suo libro “Il Castello di Gallipoli”, pubblicato nel 1933. A partire da questa data, appena qualche anno fa, nel 2003, a Gallipoli si è costituita l’Associazione “Anxa” on-lus col suo organo di stampa «Anxa news», sul cui primo numero, il direttore Luigi Giungato apre il suo articolo di fondo con un titolo a tutta pagina: “L’agonia del Castello di Gallipoli”. Scrive: «Perché il Castello di Gallipoli non deve vivere come avviene, invece, per gli altri castelli pugliesi, quali quello di Copertino o il “Carlo V” di Lecce? Sino ad ora, oppresso dall’incuria inflittagli dalle Autorità preposte e dalla trasformazione in caserma della Guardia di Finanza, è stato relegato a svolgere il pesante ruolo d’ingombrante immobile nel contesto incantevole della “Città Vecchia”. Eppure è uno dei più antichi castelli dell’ Italia meridionale ricco di momenti storici esaltanti e decisivi per molte vicende della nostra terra». E poco oltre, sempre con tono pacato, il direttore di «Anxa-news», alquanto perplesso, afferma: «Un tempo strano il nostro! A Gallipoli si pavimentano con costoso mosaico i marciapiedi del Corso Roma e non si mostra interesse al recupero funzionale ed alla valorizzazione di una struttura essenziale per un efficiente sviluppo turistico e per una presenza più efficace nel panorama artistico-culturale di Terra d’Otranto, specie ora che è stato liberato dall’utilizzo come caserma della Guardia di Finanza».
Ma il clou dell’articolo di Giungato lo troviamo nel punto in cui fa la proposta della necessità di «ripristinare la memoria storica e prendere coscienza dell’importante ruolo [del Castello] vissuto nei secoli. Per realizzare ciò, bisognerà procedere all’eliminazione del Mercato, alla valorizzazione e ripristino del fossato o vallo del Castello, ideato dai Veneziani nel 1484 ed eseguito dagli Aragonesi, evidenziando l’antico quadrilatero staccato dalle mura civiche e collegato con la Città attraverso un ponte, come nel passato».
L’appello del prof. Giuntato non è stato un fuoco di paglia, no, perché al suo primo intervento ne sono seguiti altri di gallipolini e anche di fuori. Da quel momento in poi, e fino ad oggi che scriviamo, sulle pagine di «Anxa-news» ma anche su altri periodici locali e non, alta è stata sempre l’attenzione verso il vecchio maniero gallipolino. Ed anche prima di adesso, tanto che, ancora nel dicembre 1978, un’altra autorevole voce – quella di Antonio Perrella – si era levata alta dalle colonne di un periodico per dire: «I castelli in genere, e quelli di Puglia in particolare, sono stati in passato considerati come manufatti edilizi ingombranti, anacronistici e persino stridenti in un paesaggio assolato e tranquillo. Invece di essere amati, accolti per lo meno quali fatti di casa facenti parte a buon diritto dell’ambiente, hanno rappresentato il simbolo di un medioevo oscuro ed opprimente come il tallone dei conquistatori stranieri che scorrazzavano nel sud. Sono stati considerati testimoni di fosche tragedie e scenari da romanzo nero ed infine degnati di attenzione solo a fini di utilizzo senza cura per le offese che il tempo ad essi riservava. Così, spesso, fenomeni di degrado sono diventati irreversibili (cfr. Antonio Perrella, “Sulla destinazione e l’uso del Castello di Gallipoli”, in «Nuovi Orientamenti», anno IX, Gallipoli, sett.-dic. 1978, n. 52-53, pp. 15-18).
E ancora, appena qualche anno dopo l’intervento del geometra Perrella, un’altra personalità salentina, lo storico Aldo de Bernart, interveniva sullo stesso periodico, affermando: «Tra i tanti monumenti di cui Gallipoli va fiera, il Castello angioino merita senz’altro il primo posto. Carico di anni e di storia, sfila severo a fianco del turista che si accinge ad attraversare il ponte che congiunge il borgo all’isola. / Abbandonato, dopo gli ultimi sussulti di gloria del ‘500 e gli ultimi aneliti di sfarzo del ‘700, e mortificato dalle costruzioni addossategli nel corso dei secoli, il Castello di Gallipoli, proprio nel suo declino, ha avuto il suo massimo cantore, scrupoloso e puntuale, in Ettore Vernole. È stato proprio il Vernole, intorno al 1931, a mettere piede per primo, dopo anni di abbandono, nella sala poligonale che oggi è l’ambiente più emblematico e più fascinoso dell’antico maniero» (Cfr. Aldo De Bernart, “La Sala Poligonale del Castello di Gallipoli” (cfr. «Nuovi Orientamenti”, anno XIII, Gallipoli, nov.-dic. 1982, n. 77, pp. 9-12).
Quanta passione, quanto amore per un edificio che rappresenta un passato secolare di una comunità umana. Meglio di ogni altro sono sentimenti espressi dal canto melodioso di un poeta gallipolino, Luigi Sansò, che li fissò nei seguenti versi: «Il Castello // Nella grommata sua tinta vetusta / sovra l’onde tranquille si riflette / fiero il Castello: di sua luce augusta / indora il sole al torrion le vette. / Ogni memoria, d’almi fati onusta, / ne’ fossati è sepolta: da vedette / fan dei secoli l’ombre: la venusta / mantiglia azzurra il ciel sopra vi mette / come drappo di gloria. E par che dica, / come un dì, l’ampia mole – Non si varca / l’agil ponte da quei che con nemica / mente s’accosti. Se anche d’anni carca / risorge a un cenno in virtù mia antica / e contro l’invasor dura s’inarca».
Oggi, finalmente, dopo più di 70 anni, rivede la luce “Il Castello di Gallipoli”, pubblicato nel 1933 da Ettore Vernole. La nuova edizione, editata da “Il Frontespizio” di Brindisi, ha il pregio di essere stampata da una tra le più note Stamperie italiane ed europee, la Valdonega di Verona, che nella sua storia vanta pubblicazioni importantissime, fra cui l’edizione nazionale dell’opera di Gabriele D’Annunzio in 49 tomi, stampata personalmente con il torchio a mano dal grande stampatore Giovanni Mardersteig.
Questo libro, “Il Castello di Gallipoli” del Vernole, ha un frontespizio stupendo con il suo “calice” perfetto, stampato con due colori (rosso e nero).
In fondo al libro, altro pregio straordinario, il suo colophon, che qui riporto
integralmente: «Composto nel carattere Garamond / vesione Val, questo volume è stato impresso / dalla Stamperia Valdonega di Verona / nel mese di luglio 2008 per conto / de “Il Frontespizio” editore / di Brindisi».
di Giorgio Serrone
Sabato 28 aprile p.v. alle ore 19,30, alla presenza degli eredi Villani e delle Autorità civili e religiose, verrà inaugurato il museo dedicato alla memoria del Cav. Ubaldo Villani, figura di spicco nella vita politica e sociale del secolo scorso.
Grazie all’impegno finanziario, ma sopratutto all’entusiasmo e al lavoro gratuito dei soci della locale Pro-loco, oltre all’importante collaborazione dell’archeologo cannolese Cristiano Villani, è stato riportato al suo stato originario il vecchio frantoio Villani, con una attenta operazione di archeologia industriale.
La presenza, pressocchè intatta, di due strutture risalenti a epoche differenti permette al visitatore di seguire l’evolvere nel tempo delle tecniche di lavorazione delle olive e degli strumenti utilizzati.
Vi sono molti spazi dedicati al mondo contadino e alle testimonianze storiche
di Antonio Bruno
Conoscete Francesco Minonne? Questa è la domanda che rivolgerei agli amici oggi, giorno in cui ho ripreso in mano “Fichi di Puglia storia, paesaggi, cucina e conservazione del fico in Puglia”. Francesco Minonne è un bel tipo: chi lo conosce lo sa. Voglio dire un tipo interessante. Io con Francesco Minonne ho fatto conoscenza anni or sono (una conoscenza parziale, s’intende, come del resto, or più or meno, ogni conoscenza).
Così com’è stato pubblicato, solo in parte lo si può dire un libro di Francesco Minonne (il che d’altronde, or più or meno, può dirsi dei libri di molti autori, forse di tutti) infatti insieme a lui firmano l’opera il fotografo Paolo Belloni e il giornalista Vincenzo De Leonardis. Questo lo sapeva anche Francesco Minonne, anche se non lo dice, credo per modestia. Ascrivo a merito dell’editore il CUIS Consorzio Universitario Interprovinciale Salentino presieduto dal Presidente della Provincia di Lecce Antonio Gabellone averlo pubblicato. In una nota preliminare del libro il prof. Silvano Marchiori Ordinario di Botanica Sistematica ed Ecologia Vegetale presso l’Università del Salento avverte: “L’opera, scritta a più mani da professionisti del settore, mette a disposizione del lettore un enorme quantità di informazioni su una delle più antiche piante da frutta coltivate dall’uomo.”
Qui tento di descrivere il libro, grazie allo stesso Francesco Minonne che me ne donò una copia fresca di stampa consentendomi di vedere la complessità del lavoro di “creazione”.
Il libro stampato nel dicembre 2011, in copertina porta il titolo: Fichi di Puglia storia, paesaggi, cucina e conservazione del fico in Puglia. Uno degli elementi fondamentali che concorrono alla creazione dell’opera, l’elemento cognitivo, è mirabilmente espresso dal Presidente Antonio Gabellone che scrive: “Ancor più ampio è il territorio raccontato in questa pubblicazione; è infatti l’intera Puglia che, attraverso il filo conduttore del fico, esprime la sua storia, la sua cultura, la sua biodiversità”
L’elemento affettivo del libro di Francesco Minonne è l’amore per il fico, albero e frutto, e per il paesaggio che del fico è sede naturale, il paesaggio della Puglia che è il Paesaggio del Mediterraneo.
Il volume di Francesco Minonne ha anche il pregio di stigmatizzare l’importanza del consumo di fichi all’interno di un’alimentazione equilibrata e sana, un concetto ormai acquisito e consolidato tra tutti quelli che si occupano a vario titolo di nutrizione e, per fortuna, anche tra molti consumatori.
Questo libro, tuttavia, non è nato per propagandare le sue innumerevoli qualità nutrizionali, ci sono testi ben più prestigiosi e qualificati che ne evidenziano al meglio le prerogative, piuttosto si prefigge di gettare una luce nuova sui fichi e sull’uso che di questo frutto si può sia nel Paesaggio della Puglia che in cucina.
Dal punto di vista del cuoco, infatti, il fico rappresenta una straordinaria opportunità di alleggerire, rinfrescare e rinnovare sapori e aromi, valorizzare al meglio prodotti serviti sempre allo stesso modo, scoprire combinazioni inusuali e intriganti.
In un suo articolo Francesco Minonne scrive: “Il radicale cambiamento dei mercati e dei consumi ed il conseguente crollo delle coltivazioni ha posto il fico, in pochi anni, tra i cosiddetti “frutti minori”; lo ha relegato ai margini dell’agricoltura produttiva, sottraendolo anche alle cure e attenzioni di cui un tempo godeva e confinandolo spesso ad un abbandono colturale e alimentare“.
Ma è lui stesso in questo libro di 161 pagine ben scritte e illustrate che ci accompagna convincendoci che progetti scientifici, iniziative di promozione e l’azione dei Parchi Naturali pugliesi fanno una parte importante nel rilancio della coltivazione e del consumo dei fichi in Puglia. Ma soprattutto per Francesco Minonne “….all’interno di un grande progetto di agricoltura sostenibile e creativa il fico trova il suo spazio ideale per esistere e continuare a fare la sua parte sulle tavole di questa terra. “
di Alessio Palumbo
Nel giungo di novanta anni fa, esattamente il 15 di giugno, Cosimo Profico, un contadino, ex combattente, vicino alle posizioni del neonato partito popolare e attivo fautore delle leghe contadine organizzate da don Vito Marinuzzi e mons. Vito De Razza, incontra in piazza Colonna, ad Ugento, Luigi Ancora.
Ancora è un procaccia postale, un fascista facinoroso, distintosi per gli attacchi ai popolari e per alcune scritte minacciose ed offensive sull’abitazione del De Razza. In piazza Colonna gli animi si surriscaldano facilmente: tra i due scoppia una lite ed il procaccia estrae la pistola. Profico tenta allora di darsi alla fuga, ma quattro colpi di pistola lo raggiungono alla nuca, uccidendolo. Ancora fu arrestato ma, a distanza di due anni quasi esatti (24 giugno) “beneficiando di un decreto di amnistia emanato dal governo Mussolini nel dicembre del 1922, era stato assolto dalla Corte d’Assise di Lecce in quanto l’omicidio di Cosimo Profico (iscritto al Partito Popolare) era stato qualificato come omicidio politico” (S.Coppola, Politica e violenza nel Capo di Leuca all’avvento del fascismo, Lecce, Grafiche Giorgiani, 1999, pp.10-11).
L’omicidio Profico non era certo il primo in ordine di tempo. Il quattro novembre dell’anno precedente degli squadristi di Galatone avevano ucciso Giuseppe Manta, contadino di Sogliano. Tre mesi dopo fu la volta di Salvatore Giuppa
di Rocco Biondi
Fernando Riccardi nell’introduzione al suo libro scrive che ha soltanto gettato un minuscolo seme nel terreno della vera storia del brigantaggio. Noi riteniamo che abbia fatto qualcosa di più, specialmente quando individua e descrive le cause che hanno dato vita a quel fenomeno; solo mettendo assieme tutte quelle cause e concatenandole organicamente può essere spiegata la genesi del brigantaggio postunitario, nessuna di esse presa isolatamente ha svolto un ruolo decisivo.
Dai piemontesi fu abolito il concordato firmato nel 1818 tra la Santa Sede e il Regno delle Due Sicilie e furono emanati una serie di decreti che abolivano pressoché totalmente la proprietà ecclesiastica, che fino ad allora aveva costituito una vitale risorsa per i tanti che vivevano in situazioni di precarietà e di indigenza. Era scontato che questo avrebbe alimentato il fuoco della rivolta, ma al governo sabaudo importava solamente incamerare l’ingente patrimonio ecclesiastico per rimpinguare le sue esangui casse.
Il carico fiscale si abbatté come una mannaia sulle popolazioni dell’ex regno napoletano. Prima dell’avvento dei piemontesi le tasse in vigore erano soltanto cinque, che pesavano principalmente sui possidenti. Tutto ad un tratto vennero introdotte una caterva di tasse, che andarono ad incidere soprattutto sulle classi più umili. Lo scopo era ben preciso: tutelare la ricca borghesia liberale che aveva abbracciato la causa unitaria e stritolare chi già si dibatteva in enormi difficoltà. E poi venne anche la tassa sul macinato. Le proteste dei “cafoni” furono sedate con le fucilate.
L’obbligatorietà del servizio militare nell’esercito borbonico in pratica era solo nominale, lo svolgevano i volontari che erano tantissimi. Con i piemontesi la leva divenne obbligatoria. La stragrande maggioranza dei giovani meridionali disertò. Non volevano lasciare la loro terra per andare a morire lontano e non volevano privare le loro povere famiglie di braccia lavoro (il servizio durava sei anni). I piemontesi arrestavano i renitenti e fucilavano chi si opponeva. Chi si salvò scappò in montagna ad ingrandire l’esercito dei briganti.
L’eterna promessa di dare le terre a chi le lavorava (almeno quelle demaniali) spinse molti giovani meridionali ad arruolarsi con Garibaldi. Ma anche questa volta rimasero fregati. Le terre demaniali furono messe in vendita, ma vennero tutte accaparrate dai ricchi “galantuomini”, che avevano i soldi per comprarle. Ai poveri “bracciali” non restava che fame, miseria e disperazione. E divennero briganti, lottando per se stessi e per la terra.
Conseguenza del passaggio delle terre demaniali ai ricchi fu l’abolizione degli usi civici. Fino ad allora i poveri meridionali avevano potuto frequentare liberamente le terre del demanio pubblico, raccogliendo legna, olive, funghi, erbe, bacche, ghiande e altro, per sfamare se stessi e i loro animali. Ora tutto ciò fu impedito. E per non morire di inedia furono costretti ad imbracciare il fucile e rifugiarsi nelle montagne e nei boschi. Da briganti si beveva, si mangiava e non si moriva di fame.
Ed infine la popolazione meridionale nutriva un profondo attaccamento alla monarchia borbonica, che si era sempre schierata in difesa e al fianco del popolo. Quando gli ultimi due giovani regnanti furono cacciati dal loro Regno con le armi, senza alcuna dichiarazione di guerra, il popolo si schierò dalla loro parte. I briganti andarono all’assalto dei soldati piemontesi e morivano gridando “viva re Francesco” e “abbasso Garibaldi e il re Savoia”.
Tra i briganti troviamo contadini, braccianti, coloni, massari, pastori, mulattieri, carbonai, guardiani, ma anche artigiani, commercianti, possidenti, aristocratici, funzionari, ed ancora preti, frati, canonici, abati, vescovi, ed anche garibaldini. «Tutto questo variegato cosmo di umanità – scrive Riccardi – contribuì a tenere desta per dieci lunghi anni, e anche di più come dimostrano alcuni recenti studi, la rivolta brigantesca».
Fu una lotta di popolo, di cui la storiografia ufficiale non parla.
Il libro poi tratta di uomini e fatti più significativi del Brigantaggio: il lucano Carmine Crocco, il brigante più famoso del decennio postunitario, che con la sua banda a cavallo, che in alcuni momenti raggiunse le 1.500 unità, riportò una serie di clamorose vittorie contro le truppe sabaude; il pugliese Pasquale Romano, il più importante fra i briganti politici, ex sergente dell’esercito borbonico divenne mito e simbolo della lotta senza quartiere allo straniero invasore; i legittimisti stranieri: rampolli di nobili famiglie, militari di ogni ordine e grado, avventurieri in cerca di emozioni forti, artisti, scrittori, poeti, romanzieri e letterati, che vennero in aiuto del re borbone Francesco II e della regina Maria Sofia, fra essi vengono ricordati lo spagnolo generale José Borges, il belga marchese Alfred de Trazegnies, il tedesco nobile Edwin Kalkreuth; le brigantesse, a volte più risolute e determinate dei loro compagni, fra esse Maria Oliverio (Ciccilla), Maria Capitanio, Michelina De Cesare; la deportazione di un ingente numero di prigionieri napoletani nei lager del Nord (Fenestrelle il più tristemente famoso), dove venivano lasciati morire e sciolti nella calce viva per non lasciarne traccia; la commissione parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio, mandata nel Sud con il compito assegnato di convincere il parlamento a promulgare una legge che attribuisse ai tribunali militari la competenza a giudicare i briganti (legge Pica); la persecuzione spietata da parte piemontese contro le gerarchie e le istituzioni ecclesiastiche: moltissimi vescovi meridionali vennero allontanati dalle loro diocesi, molti seminari diocesani vennero chiusi, oltre 2.300 conventi e monasteri furono chiusi e quasi 30 mila religiosi messi in mezzo alla strada; i fotografi dei briganti, che accompagnarono l’esercito piemontese durante tutta la campagna del Sud, utilizzati per fini propagandistici affinché descrivessero il fenomeno brigantesco non per quello che realmente era ma per ciò che il governo piemontese voleva che apparisse.
Peculiarità del libro di Fernando Riccardi è l’aver collegato episodi storici del brigantaggio, avvenuti 150 anni fa, alla rievocazione che di quegli episodi vien fatta ai giorni nostri. L’avventura di Carmine Crocco viene rappresentata ogni anno per l’intero periodo estivo nel parco della Grancìa, a Brindisi di Montagna in provincia di Potenza, con un eccezionale cinespettacolo dal titolo “La storia bandita”.
L’arresto e la fucilazione di José Borges vengono commemorati da una decina d’anni l’8 dicembre a Sante Marie in provincia dell’Aquila. Il 6 gennaio di ogni anno viene celebrata, in una cerimonia rievocativa, l’uccisione del sergente Romano nel bosco di Vallata a Gioia del Colle in provincia di Bari. Allo stesso sergente brigante Pasquale Romano è stata intitolata una strada a Villa Castelli in provincia di Brindisi.
Fernando Riccardi, Brigantaggio postunitario – Una storia tutta da scrivere, Arte Stampa Editore, Roccasecca (Fr) 2011, pp. 222, € 20,00
di Romualdo Rossetti
Alla luce delle ultime ricerche storiche ed archeologiche risulta evidente che il tarantismo salentino, a differenza di quanto sostenuto da Ernesto De Martino nella sua Terra del Rimorso, affonda le sue radici nella prima storia del bacino del Mediterraneo. Se ci si sofferma ad analizzare con spirito sereno la particolarissima ritualità di questo fenomeno antropologico, ormai in via d’estinzione, non si possono non cogliere le numerosissime corrispondenze di culto che lo legano intimamente agli antichi riti di guarigione praticati in tutti i santuari di Asclepio della Magna Grecia e delle zone ad essa culturalmente contigue.
Ernesto De Martino interpretò il tarantismo quasi esclusivamente in chiave sociologica individuandone la causa nel malessere sociale dei poveri del Mezzogiorno d’Italia, nella condizione subordinata all’uomo della donna contadina, nella società rurale salentina retrograda e culturalmente arretrata, nella diversità fisico-psichica e sessuale mal vissuta e/o socialmente mal tollerata e soprattutto in uno spaccato esistenziale ingenuo e sottomesso all’autorità religiosa.
Per quel che concerne l’origine del fenomeno sociale, nel quinto paragrafo del commentario storico della sua Terra del Rimorso l’etnologo collocò l’atto di nascita del tarantismo nell’alto Medioevo, durante gli scontri tra la civiltà cristiana e quella musulmana in occasione delle Crociate, uno spazio temporale ben preciso che, a ben vedere, escludeva drasticamente la possibilità che esso si fosse generato nella protostoria dell’Occidente. Un’indagine, quella demartiniana, che finì per porre in essere un’interpretazione riduttiva del tarantismo perché frutto di una visione personale del marxismo vissuto soprattutto in chiave esistenzialista, una lettura antropologica, dunque, vittima del tempo (anni 50 del XX secolo) in cui il fenomeno venne studiato, etichettato e proposto al pubblico.
Ciò che lascia oggi sorpresi è però, come mai, uno studioso delle religioni attento, intelligente ed intuitivo come Ernesto De Martino abbia trascurato di esaminare il culto di una importantissima pratica medica delle origini e la sua probabile sovrapposizione sincretica in un altro rito nel corso degli anni. Probabilmente ciò fu dovuto proprio dalla formazione culturale dell’etnologo, una formazione culturale fedele all’indirizzo imposto da Benedetto Croce, da sempre poco incline ad analizzare ciò che poteva fuorviare il dato storico da analizzare. In realtà, però, gli sarebbe bastato interpretare con più attenzione le stesse critiche del medico settecentesco Francesco Serao, da lui più volte menzionate nella Terra del Rimorso, quando affermava che la fenomenologia del tarantismo non dipendeva affatto dal morso della tarantola quanto, piuttosto, dall’indole congenita dei pugliesi.
L’indole di un popolo, è notorio che non la si costruisce dall’oggi al domani, ma è un sovrapporsi di simboli, significati e vissuti sociali che si tramandano nei secoli nei costumi, soprattutto in quei contesti culturali arretrati come possono esserlo quelli propri del mondo contadino. Gli sarebbe bastato poco per intuire che il tarantismo come forma di catarsi dall’oistros, come esorcismo coreutico-musicale, affondava le sue radici nella protostoria della Magna Grecia. Se soltanto avesse disatteso le proprie radici crociane e si fosse soffermato ad osservare lo Zodiaco, la prima mappa sapienziale dell’uomo, avrebbe di sicuro intuito che l’Oistros deteneva, non a caso, un posto d’onore anche tra le stelle dove compariva altresì il nome divino della sua risoluzione. Poco sopra la costellazione dello Scorpione difatti, gli antichi scrutatori e denominatori degli astri, avevano posto la costellazione dell’Ofiuco, detto anche Anguitenens o Serpentario che col calcagno pare schiacciare lo Scorpione che a sua volta, pare, volerlo pungere. A quel punto la chiave di risoluzione del mistero dell’origine del tarantismo poteva essere facilmente risolta rifacendosi ad un’unica antichissima divinità, ad Asclepio il signore e demone colui il quale fu da Zeus predisposto alla guarigione fisica e psichica dei mortali.
Se De Martino non si fosse soltanto soffermato a catalogare in maniera quasi ossessiva, come stabiliva il metodo storicistico, il comportamento dei tarantolati durante l’esorcismo nella piccola cappella sconsacrata della casa di S. Paolo a Galatina ma si fosse soffermato ad esaminare l’ubicazione del pozzo–omphalos dalle acque emetico-curative all’interno del complesso architettonico della cappella avrebbe sicuramente colto la corrispondenza strutturale che la associava ad un antico asclepeion.
Anche i tanti simboli della città di Galatina, a partire dal nome della stessa, furono trascurati e non furono vagliati con la dovuta accuratezza filologica e semantica. Ad onor del vero ciò è accaduto non unicamente con l’indagine demartiniana ma anche con le altre numerose successive indagini antropologiche che, pur volendo distanziarsi dalla lettura del fenomeno operata tramite la Terra del Rimorso, hanno continuato a trascurare l’evidente inoltrandosi in un indirizzo di ricerca alla “moda”, (interpretazione nietzscheana) con tanto di eccessivi ed azzardati rimandi al dionisismo ed al menadismo.
Asclepio, il protagonista nascosto del tarantismo salentino, veniva rappresentato solitamente come un uomo maturo, il più delle volte munito di barba con in pugno un bastone e con l’altra mano appoggiata sulla testa di un
di Armando Polito
Nome dialettale: frasca, stincu, ristìncu
nome italiano: lentisco o lentischio, stinco, sondro
nome scientifico: Pistacia lentiscus L.
famiglia: Anacardiaceae
Il primo nome dialettale (frasca) è un piccolo capolavoro di creatività linguistica; in esso, infatti è da ravvisare non solo una sorta di antonomasia inversa [con un termine generico che è dal latino medioevale frasca(m) si indica, in virtù della sua quasi dominante (un tempo…) diffusione una specie particolare, quasi simbolo di tutte le essenze con caratterstiche simili] ma, contemporaneamente, una sineddoche (il generale per il particolare); ristìncu deriva dal latino lentìscu(m) attraverso la seguente trafila: lentìscu(m)>lestìncu (metatesi a distanza)>restìncu (passaggio l->r-); stincu è dal precedente ristìncu per aferesi.
Il primo nome italiano (lentisco o lentischio) è dal citato latino lentìscu(m); stinco ha la stessa origine del dialettale stincu; sondro (voce regionale toscana), non trovando nessun ascendente nel latino e nel greco, secondo la maggior parte degli studiosi sarebbe di origine etrusca.
Il secondo componente del nome scientifico (Lentiscus) è il nominativo del lentiscu(m) prima citato; il primo (Pistacia) in latino significa pistacchio ed è dal greco pistàkion, a sua volta dal persiano pistak.
E veniamo alle testimonianze antiche. Il solito Plinio ci informa che era usato come aromatizzante del vino: “Tra gli arbusti le bacche o il legno fresco di entrambi i cedri, del cipresso, dell’alloro, del ginepro, del terebinto, della canna e del lentisco sono cotti nel mosto21”; nella preparazione delle olive da tavola: “[Catone consiglia che] siano conservate soprattutto olive orchite e posie22, o verdi in salamoia o pestate nel lentisco23”; come rimedio contro la tignola del fico: “Perseguitano anche le tignole le piantagioni di fico e contro di loro rimedio è sotterrare nella stessa buca una talea di lentisco dalla parte opposta alla cima24”; come componente di tintura per capelli: “E questa [la feccia dell’aceto] arsa acquista più vigore. Allora impiastricciata con l’aggiunta di olio di lentisco in una sola notte rende rossi i capelli25”; come rimedio polivalente: “Quello [l’olio] ricavato dal lentisco è utilissimo per l’acopo26 e gioverebbe come l’olio di rose se non fosse considerato un pò più duro. Lo usano anche contro il sudore eccessivo e le vescichette che ne derivano. Cura molto
di Daniela De Lorenzis
… Cultura, tenore di vita e intento autocelebrativo dei nuovi insediati si evincono dalla lettura degli affreschi che ornano le volte del palazzo, ma soprattutto da quelli presenti nel salone ubicato nell’“Appartamento antico”.
In questo ambiente, «la lamia gaveda dipinta a fresco»[i] esibisce una complessa impalcatura iconografica, interessante non tanto per la resa pittorica piuttosto modesta (fatta eccezione per gli stemmi che presentano una fattura meno approssimativa)[ii], quanto per i significati che sottende: è evidente, da una parte, l’intento di celebrare la lucida politica matrimoniale dei d’Amore – volta a evitare l’estinzione del casato, ma anche un eccessivo frazionamento dei beni patrimoniali – dall’altra di rendere in chiave mitica un tributo alla virtus della stirpe, o di singoli membri, quali dispensatori di benessere e prosperità per il feudo.
Al centro della volta campeggiano le figure di Mercurio, Venere, Cupido e, probabilmente, Giove[iii], fra loro collegate dallo svolazzo di un lungo e sinuoso drappo rosso, simbolo della natura passionale dell’Amore.
Il leit-motiv che informa le decorazioni pittoriche sembrerebbe essere dunque il tema amoroso con evidente allusione al cognome d’Amore, ma anche alle vicende familiari dei marchesi[iv]: negli stessi anni in cui sono realizzati gli affreschi, infatti, Francesco e Nicola d’Amore impalmano rispettivamente Anna Maria Basurto e Camilla d’Amore, ossia la vedova e la figlia del defunto marchese Giuseppe d’Amore, erede del maggiorato.
Gli affreschi del salone celebrano dunque queste doppie nozze, avvenute tra il 1695 e il 1697, ma i cui capitoli matrimoniali erano stati stipulati già nel 1691.
Non è un caso, del resto, che i due stemmi della famiglia al centro della volta sono posti in asse con le raffigurazioni mitologiche che sono per eccellenza l’esaltazione dell’amore, proponendo in successione le figure di Venere e Cupido, del primo stemma dei d’Amore sul quale Venere depone una corona, del secondo stemma dei d’Amore sul quale Cupido depone un’altra corona e, infine, di Venere e Adone.
La sequenza autorizza pertanto a ritenere che ci si trovi di fronte a una sorta di sciarada estetica non solo allusiva al cognome della famiglia, ma volta
di Giorgio Cretì
(Inedito)
Un tempo in una di quelle vecchie case della via del Foggiaro abitava una donna buona di carattere e mite d’indole che si chiamava Eleonora ed era detta Nona, De Luca per via del suo patronimico. Vestiva all’antica con sempre indosso il suo vecchio e liso sciuppareddhu(1) nero, stretto in vita da una cinta pure nera e sempre coperto da uno strato visibile di peli di gatto.
Il marito indossava una camicia di fustagno grigio con la pistagna un po’ sfilacciata ed un paio di calzoni di tela domestica un po’ larghi per la sua corporatura, tanto da doverli reggere con un paio di bretelle di corda incrociate. Si chiamava Raffaele ed era conosciuto come Rafeli, Della Luna per via del suo cognome. All’apparenza era un bonaccione anche lui: quando camminava era di una estrema lentezza, al punto che qualcuno sosteneva scherzando che gli ci voleva mezz’ora soltanto per muovere un passo.
Poveretti, marito e moglie, vivevano così soli in quella casa con dietro un piccolo orto sempre ben ordinato e lavoravano come servitori mezzadri per Giuseppe D’Aprile: Rafeli si occupava anche della stalla e lei infilava il tabacco che coltivavano nel terreno intorno all’aia situata proprio dentro al paese. Non avevano amicizie particolari e non avevano più i genitori ch’erano morti da molti anni.
Dall’altra parte della via abitava Giacomino Vattino che, nella cantina cui si accedeva dalla strada, allevava sempre un paio di mucche che poi vendeva
di Armando Polito
La crisi in atto ha tutte le caratteristiche di una vera e propria terza guerra mondiale in cui gli attacchi speculativi (reali o presunti…) hanno la forza dirompente di un missile e non è detto che, a parziale differenza rispetto alla guerra reale, sul terreno non rimanga una schiera immensa di morti…suicidi o di fame. Le esperienze negative, però, hanno il pregio di un potere didattico ed educativo infinitamente superiore ai successi, soprattutto quando questi ultimi sono dovuti non al puro talento personale ma alla furbizia, all’opportunismo, all’ammanicamento col potere, politico, finanziario, religioso; in poche parole, alla schiavitù alle proprie miserie o a quelle altrui. Nel corso poco dignitoso dei suoi millenni di storia la nostra razza ha dovuto toccare più volte il fondo prima di trovare il coraggio di risalire con una vistosa inversione di tendenza nei suoi comportamenti. Appare, perciò, come un fenomeno provvidenziale, anche se doloroso, la recessione che ha colpito il globo e lo è proprio perché globale, il che renderà inevitabile, prima o poi, prendere delle decisioni condivise da tutti perché, anche in prospettiva addirittura immediata, le uniche a ciascuno convenienti. E dovrà essere la fine, pena la nostra, dello sviluppo forsennato rapinatore e assassino dell’ambiente, della cultura, fin qui prevalente, del superfluo, dello spreco, della sola immagine. Tutto ciò avverrà, comunque, se avverrà, in tempi relativamente lunghi e non perdo tempo nell’illudermi che i nostri nipoti potranno gustare una porzione di giuncata o una ricotta appena estratta dal suo letto naturale di una volta.
Non a caso l’immagine in alto riprodotta1 è l’unica (provare per credere) che mostri la ricotta nel suo contenitore di una volta, nella sterminata serie che si visualizza con l’opzione Immagini di Google.
Voglio perdere, invece, e far perdere al lettore un po’ di tempo andando indietro nel tempo (a parte il gioco di parole, è il massimo del sadismo?), quando il pastore si confezionava da solo i contenitori per la ricotta e il formaggio e la stuoietta per la giuncata raccogliendo gli steli di giunco in riva al mare o in zone paludose.
immagine tratta da http://luirig.altervista.org/schedenam/fnam.php?taxon=Juncus+maritimus
nome scientifico: Juncus maritimus Lam.
famiglia: Juncaceae
nome italiano: giunco
nome dialettale salentino: sciuncu
La prima parte del nome latino significa (che scoperta!) giunco e maritimus (altra scoperta!) marittimo. Juncaceae, per chi non l’avesse ancora capito, è forma aggettivale da jùncus; giunco è, incredibile!, dal latino jùncu(m) e lo stesso per sciùncu, con normalissimo esito del gruppo iniziale come, per fare un solo esempio, in sciùu (=giogo) da iùgu(m). Se poi, come pare, jùncus è da jùngere (=unire), abbiamo una perfetta identità tra il sostantivo e il verbo che ne indica l’azione.
Poi il nostro pastore, anche lui avviluppato dalla tirannia del tempo, cominciò a rifornirsi al mercato utilizzando contenitori, sempre di giunco, fatti da altri. Passò ancora qualche anno e, col trionfo della plastica, stuoiette, fesche e fiscarièddhi assunsero un aspetto (direi una natura e una vita, se di natura e vita si tratta…) diverso, freddo ed esteticamente insignificante, proni ai dettami dell’igiene2 e della Comunità europea…3
immagine tratta da http://www.salentolifeweb.com/blog/2010/11/04/torta-alla-ricotta-fresca-e-limoncello/
La fesca (in italiano fiscella) era riservata di solito al formaggio, la fiscarèddha alla ricotta, come pure lu fiscarièddhu, destinato, però, a contenerne una porzione minore; quest’ultimo, oltre che di giunco, poteva essere fatto anche in rame e la sua superficie interna veniva zincata (anche se si usava il verbo stagnare) due o tre volte l’anno. Tutte le voci (come pure il fiscolo, sul quale si mette la pasta delle olive appena frante prima della spremitura) derivano dal latino fiscu(m) che già allora aveva esteso il significato di base (cesto) a quello di cassa erariale, padre del nostro fisco. Nel Brindisino, poi, il derivato fiscalìri è usato come sinonimo di minchione ad Erchie, Francavilla Fontana e Mesagne; in quello di furbacchione nel Tarantino a Manduria. Per questa voce il Rohlfs non suggerisce etimologia ma mi pare molto evidente che si tratta di una formazione aggettivale eufemistica di fessa (=fesso); quest’ultima voce (per chi non lo sapesse è un sostantivo, sia pur derivato da un participio passato fesso=spaccato), che indica in italiano la vulva, in dialetto si comporta al singolare come un sostantivo mentre l’articolo, quando c’è, conserva il genere del soggetto interessato (lu sire è ffessa/lu sire è nnu fessa; la mamma è ffessa, la mamma è nna fessa); al plurale segue lo stesso destino dell’italiano fesso (li siri so’ ffessi/li mamme so’ ffesse). Da fessa, per un processo analogo a quello di canna>cannale>cannalìre (aggiunta di un doppio suffisso aggettivale) si è passati prima a *fissàle, poi a *fissaliri e, infine, per dissimilazione eufemistica indotta da fesca, fiscalìri. Va detto per completezza che anche fessa ha subito la stessa trasformazione edulcorante nell’espressione la fesca ti màmmata per la fessa ti màmmata. Non deve neppure sorprendere il fatto che fiscalìri possa essere usato in posti relativamente poco distanti tra loro in due significati che sono uno l’esatto opposto dell’altro, e potrei a tal proposito elencare una lunga serie di casi; qui mi preme sottolineare come una volta tanto non ha funzionato il maschilismo linguistico, dal momento che una voce attinente al sesso femminile (fessa) ha assunto un significato offensivo anche per il mondo maschile e, quasi a sanzionare la superiorità finale della donna pure in questo campo (sto già sentendo l’applauso delle femministe…ma non mi tocca più di tanto), addirittura tramite un derivato (fiscalìri), un significato non più (a Manduria) offensivo ma ammiccante a quella forma moralmente negativa di intelligenza, che pur sempre intelligenza è, che si chiama furbizia.
Fesca, fiscarèddha e fiscarièddhu sono destinati a morire come oggetti e come parole; resterà il fisco per i fiscalìri (come l’intendono a Erchie, Francavilla Fontana e Mesagne e come mi sento nei sussulti di scarsa autostima ai quali sono periodicamente soggetto nella stagione della dichiarazione dei redditi)4.
E pensare che sono nato a Manduria…
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1 Tratta da http://labancaimport.com/tedesco/kaese_de.htm
2 Sarebbe interessante sapere quanti di questi contenitori sono in plastica alimentare e, anche nel caso in cui lo siano, se non rilasciano proprio nessuna molecola nociva alla salute a contatto con le temperature relativamente alte del contenuto; se così non è l’ignaro consumatore rischia non di beccarsi (come nella peggiore delle ipotesi poteva succedere con i contenitori di giunco o materiale affine) il tifo (oggi, comunque, più curabile di ieri) ma (a distanza però di qualche anno o decennio, sta qui la consolazione…) il cancro.
3 Si direbbe che i risultati più brillanti raggiunti dai suoi burocrati (assistiti, come succede in questi casi, da esperti competenti, geniali e di pari onestà…) siano quelli legati alla pezzatura della melanzana pugliese e del cetriolo napoletano, naturalmente tra le grida di entusiasmo dei nostri rappresentanti…
4 Mi auguro che quello recente non passi alla storia col nome di “blitz di Cortina” ma sia solo la prima tappa di un lungo giro da completare e da effettuare ogni anno, e dappertutto, in modo da tappare la bocca a chi parla di “operazione di facciata” e si abbandona alle solite, bizantine e tutt’altro che disinteressate distinzioni tra “merito” e “metodo”.
di Giancarlo Brocca e Santo Venerdì Patella
Recentemente sono iniziati, a Muro Leccese, i lavori di restauro della grande tela raffigurante il Sacrificio di Abramo, opera del pittore e sacerdote murese Liborio Riccio (1720-1785), realizzata per la chiesa matrice della sua città natale.
Il quadro è di dimensioni considerevoli: misura quasi 30 metri quadrati, sui quali è campito uno degli episodi più affascinanti dell’Antico Testamento.
L’opera è attestata per la prima volta nel 1754, nell’inventario redatto durante la visita pastorale dell’Arcivescovo di Otranto Mons. Caracciolo.
Si sa invece con certezza che fino al 1768 la tela aveva una collocazione diversa dall’attuale ed era posta dietro l’altare maggiore tra i due grandi quadri di Serafino Elmo: Eliodoro cacciato dal Tempio e La danza di David davanti all’Arca dell’Alleanza.
In una data imprecisata – ma sicuramente dopo il 1768 – il quadro fu spostato nel braccio destro del transetto e corredato da una cornice in legno e stucco, oggi dorata, su cui fa capolino la testa di un moro, stemma della città.
Fin dall’inizio dei lavori, il restauro del Sacrificio di Abramo (così è intitolata l’opera nelle fonti) è sembrato un’occasione propizia per uno studio più accurato sull’opera, che servirà certamente a chiarire numerosi dubbi circa le sue vicende storiche.
Intanto la parte posteriore del quadro ha già rivelato alcune novità: si sono riscontrate due aggiunte nelle porzioni laterali, realizzate nel momento in cui l’opera venne spostata dalla sua prima collocazione. Nella stessa circostanza, la parte superiore del corpo centrale della tela, ossia la più antica, fu ritagliata a forma di centina e si provvide anche a modificare il telaio per adattarlo alla nuova collocazione.
Forse, nei prossimi mesi, ciò che più desterà l’interesse degli studiosi e dei restauratori, sarà l’intervento di pulitura della pellicola pittorica, che certamente promette di riservare molte novità.
Sino a quando lo si è osservato dal basso, posto com’era a diversi metri d’altezza, il quadro risultava abbastanza omogeneo: ora invece, ad un esame ravvicinato, si rilevano delle differenze stilistiche abbastanza evidenti tra il corpo centrale e le due aggiunte laterali.
Queste ultime risalgono a una fase matura dell’artista, di cui se ne riconosce lo stile, mentre la parte centrale, che dovrebbe essere un’opera giovanile, presenta delle affinità stilistiche con la produzione di Serafino Elmo.
Probabilmente il giovane Riccio, all’inizio della sua carriera, prese a modello anche le espressioni del pittore leccese, presente nella sua città già dal 1734, ricordandolo da vicino in alcuni episodi della sua pittura, al punto tale che verrebbe quasi la suggestione di vedere nella parte centrale dell’opera la mano dello stesso Serafino Elmo, autore delle altre due grandi tele alle quali questa faceva compagnia, (si confronti, ad esempio, la figura dell’angelo del Sacrificio di Abramo con una simile eseguita per la tela di Santa Rosa nella chiesa di San Giovanni Battista a Lecce).
Tuttavia, il Sacrificio di Abramo è da sempre attribuito a Liborio Riccio e A. Antonaci sostiene che sia stato commissionato all’artista da parte del Capitolo di Muro nel 1752, senza citare la fonte.
A ogni modo, il pittore ripropose almeno altre due volte il tema del Sacrificio di Abramo: nella chiesa della Purità a Gallipoli e in quella dell’Immacolata a Taviano. Le opere ricordano quella murese nell’impostazione, ma le figure risultano sacrificate per adattarsi alla forma a lunetta delle tele.
Il restauro dell’opera approfondirà certamente la conoscenza circa le vicissitudini storico-artistiche a cui si è accennato, ma l’augurio è che ciò possa accadere senza dover modificare l’ultimo aspetto dato al quadro dal suo stesso autore, il quale lo ingrandì e ridipinse in più parti con l’aggiunta e l’occultamento di alcune figure (come nel caso dell’ariete sulla tela centrale, nascosto da uno strato di colore scuro e riproposto nell’aggiunta al lato destro), per adattarlo al nuovo assetto architettonico e decorativo che la Matrice Murese cristallizzò alla fine del ‘700.
Tali riflessioni, valide per meglio inquadrare l’opera ai fini dell’importante restauro in corso, sono da considerarsi preliminari ad un contributo storico-critico più organico ed esaustivo che sarà possibile realizzare a lavori ultimati.
di Alessio Palumbo
Vi è capitato mai di desiderare profondamente qualcosa per poi, all’atto pratico, avere una gran paura per la sua realizzazione? È una sensazione strana, non semplice da descrivere, ma forse si può essere più chiari con un esempio concreto.
Il mio paese (Aradeo), come scritto da Giovanni Marchese “ha avuto, grazie a vecchi e nuovi vandali, la iattura di vedere distrutto quasi per intero il suo patrimonio storico e artistico [..] in quanto delle antiche chiese di San Nicola, SS. Crocifisso, Spirito Santo, Santa Caterina, Madonna di Costantinopoli, Madonna delle Grazie (nel palazzo D’Acugna), san Trifone […] non rimangono che sbiaditi ricordi tramandatici da antiche carte miracolosamente scampate a tale barbarie” (G.Marchese, Cento anni nella nostra storia, Galatina, Editrice-Salentina, 2009, p.10). Un paese, dunque, “artisticamente sfortunato”. Talmente iellato da non avere, in molti casi, neppure una memoria fotografica delle sue antiche bellezze. Della vecchia chiesa madre, tanto per fare un esempio, esistono solo alcune fotografie dei lavori di abbattimento oppure degli scorci da lontano.
Tra i pochi monumenti sopravvissuti alla furia devastatrice di alcune amministrazioni comunali ed al generico disinteresse degli aradeini per la propria
di Giovanni Boraccesi
In due precedenti contributi ho già fornito un elenco relativamente consistente di orafi e argentieri di Puglia, come pure di forestieri qui domiciliati o itineranti che, senza soluzione di continuità, operarono dal medioevo all’età moderna: in molti casi gruppi familiari di più generazioni[1].
È opportuno ricordare che proprio nella provincia storica di Terra d’Otranto, stando ai dati finora recuperati, tre furono le città che ebbero modo di utilizzare un proprio bollo camerale per la marchiatura di oggetti in oro e argento, ovvero Taranto (TAR), Lecce (LICI e poi Lec), Matera (MATA), quest’ultima entrata a far parte della contigua regione di Basilicata dal 1663[2]. Cominciano così a poco a poco ad assumere consistenza le testimonianze di variegate officine orafe in tutta l’area regionale.
L’ideale percorso attraverso l’oreficeria sacra del primo Quattrocento non può che prendere le mosse dall’unico pezzo che al momento ci consegna il più antico punzone rinvenuto in Puglia, ossia ‘TAR’ impresso sul notissimo e finissimo ostensorio di Grottaglie, del quale, pure, conosciamo il nome dell’artista: Francesco Caputo[3]. Episodio di raffinata cultura rinascimentale, dovuto alla probabile opera di un orafo del capoluogo salentino, è la corona della Madonna della Fontana (1529) conservata presso la chiesa del Rosario di Francavilla Fontana[4]. Essa è per noi di una importanza eccezionale, in quanto documenta l’assoluta novità del punzone utilizzato a Lecce a quell’epoca.
Un nuovo campo di indagini sull’argomento, in specie sull’età moderna, mi consente ora di infoltire questo già nutrito elenco, come pure di precisare le coordinate biografiche e l’arco di attività di taluni addetti. Infatti, una pletora di orafi e argentieri operosi nel territorio di cui ci stiamo occupando, ovvero le province di Brindisi e di Taranto, sono emersi dalla consultazione del fondo Matrici dei Ruoli e Stato dei Patentabili custodito presso l’Archivio di Stato di Lecce[5] oltre che dalla continua e positiva lettura dei testi a carattere locale.
Tali ultimi importantissimi rinvenimenti, sarà bene ribadire fin da ora, una volta acquisiti ed elaborati nonché filtrati da imprecisioni e inesattezze, daranno vita a una raccolta la più completa e ordinata possibile.
Un meritevole e finora poco considerato contributo offerto fin dal 1995 da alcuni funzionari dell’Archivio di Stato di Lecce, in specie da Annalisa
di Daniela De Lorenzis
Nell’ambito del processo di trasformazione che nel Salento, dal XVI al XVIII secolo, porta alla riconversione di molte strutture fortificate in palazzi gentilizi[i], il salone è indubbiamente uno degli elementi che sancisce con maggiore incisività questo passaggio[ii].
Ubicato sempre al piano nobile, è il luogo deputato per antonomasia a scopi celebrativi e di rappresentanza. In esso il proprietario «orchestra ed elabora la scenografia della grandezza familiare»[iii], facendo sfoggio nel contempo della propria cultura ed erudizione. è quanto emerge dall’analisi delle decorazioni pittoriche presenti in molte residenze aristocratiche del Salento, non ultime quelle che ornano le volte del castello di Ugento[iv].
Acquistato da Pietro Giacomo d’Amore[v] – insieme al feudo – il 31 gennaio 1643, il fortilizio sorge in cima all’acropoli ponendosi a caput del recinto murario sul versante nord-orientale[vi]. Da questo lato il “Marchesale Palaggio” domina sul sottostante pianoro dove si adagia il Borgo, così come illustrato nella veduta dell’abitato realizzata sul finire del Seicento da Cassiano De Silva e pubblicata il 1703 dall’abate Pacichelli[vii].
La trasformazione più radicale del maniero – oggetto di numerosi interventi di restauro nel corso dei secoli – si colloca tra la fine del Seicento e l’ultimo quarto del secolo successivo quando, con l’insediamento dei d’Amore, sono ridimensionate le caratteristiche difensive dell’immobile che, soprattutto all’interno, assume l’aspetto di un palazzo gentilizio.
Pur risiedendo saltuariamente a Ugento, i marchesi si prodigano non poco per rendere fastosa questa residenza, adeguando l’antica struttura militare alle proprie esigenze e ampliando le fabbriche preesistenti con ambienti dotati di moderna funzionalità e con nuovi spazi di rappresentanza, opportunamente decorati da cicli pittorici di soggetto mitologico.
Promotori degli interventi tardo-seicenteschi sono verosimilmente i fratelli Nicola e Francesco d’Amore. A farlo presumere sono alcune considerazioni che si potrebbero fare in merito alla politica successoria della famiglia. Infatti, a seguito della morte senza eredi maschi di Giuseppe d’Amore (figlio di Carlo, che il 23 dicembre 1649 aveva elevato la contea al rango di marchesato), il cugino Nicola eredita il feudo di Ugento nel 1691, insieme al maggiorato istituito dal capostipite Pietro Giacomo, il quale – per disposizione testamentaria – aveva stabilito che alla morte senza eredi della linea primogenita maschile del figlio Carlo sarebbe dovuta subentrare la primogenitura maschile del figlio secondogenito Giovan Battista.
Francesco d’Amore, invece, succede allo zio Carlo Brancaccio nel possesso dei feudi di Ruffano, Torrepaduli e Cardigliano, sul primo dei quali consegue il titolo di principe con diploma del 14 novembre 1695[viii].
Questi, inoltre, ottiene la delega di assumere il governatorato di Ugento dal
di Stefano Tanisi
Il pittore settecentesco ruffanese Saverio Lillo (1734-1796) è da considerarsi come il diffusore dei modelli della pittura napoletana nel Salento nel XVIII secolo.
Francesco Saverio Donato Lillo, terzogenito di Angelo e Anna Maria Micoccio, nasce a Ruffano il 14 maggio 1734 (Archivio Storico Parrocchiale Ruffano, atto n. 946 del 15 maggio 1734).
Dal matrimonio il 30 aprile del 1755 con la ruffanese Margherita Stefanelli nascono nove figli, dei quali sopravvivono solo tre: il terzogenito Mosè (Ruffano 1759 – ivi 1789), pittore; la sestogenita Maria Rachele (Ruffano 1768 – Lecce 1845), pittrice; e l’ultimogenito Giosuè (Ruffano 1776 – Lecce 1849), musicista.
Il pittore muore a Ruffano il 12 ottobre 1796, assistito dalla moglie Margherita e dai due figli superstiti, Maria Rachele e Giosuè.
L’impegno pittorico di Saverio Lillo più importante e documentato è quello compiuto per la chiesa Matrice di Ruffano: nel 1765 realizza le tele del coro raffiguranti “La Cacciata di Eliodoro dal Tempio”, “Mosè e il castigo di Core”, “La visita della regina di Saba a Salomone”; nel 1767 la tela della controfacciata di “Gesù scaccia i mercanti dal Tempio”. Proprio con queste grandi opere “d’esordio”, che espongono, nel loro piccolo, il rinnovamento della tradizione locale verso i nuovi modelli napoletani (opere di Solimena, de Matteis e Malinconico), il pittore riceverà vasti consensi dalla committenza salentina e diventerà uno dei protagonisti nell’ultimo trentennio del ‘700.
Molti suoi dipinti sono presenti in diverse località del Salento. Degne di nota sono le opere conservate nelle chiese conventuali domenicane di Tricase, Galatina e Casarano. Nella chiesa di Tricase, infatti, troviamo i dipinti
di Rocco Boccadamo
Ogni tanto, la domenica mattina, vado ad ascoltar la Messa in una chiesa francescana che, a mio avviso, merita a buon titolo di essere definita senza uguali in Puglia: quella, dedicata a S. Caterina di Alessandria, che si erge, con composta maestosità e in una veste di singolare bellezza, nel centro storico di Galatina.
A proposito di tale monumento, devo sottolineare una cosa: sebbene mi sia capitato di accedervi e di ammirarlo oramai diverse volte, in ogni singola occasione avviene come se vivessi l’afflato emotivo del magico godimento che avvertii al primo contatto, tanto è il senso di gioia e di estasi che mi pervade nel soffermarmi al cospetto delle meraviglie artistiche, soprattutto affreschi, che vi si trovano racchiuse.
L’opera fu fatta realizzare, alla fine del quattordicesimo secolo, dalla famiglia Orsini del Balzo: di qui la denominazione, anche, di Basilica Orsiniana. Con essa, si intendeva perseguire una finalità molto significativa e di grande spessore, cioè dare un forte segnale per l’insediamento, nell’ area salentina, del rito cattolico romano, posto che, fino a quei tempi, nella zona era invece dominante il rito bizantino.
Sicché, i nobili committenti del cantiere, evidentemente in sintonia con i vertici della Chiesa di Roma, vi profusero mezzi ingenti: così si spiega la inconsueta grandezza del luogo di culto che, sin dall’inaugurazione, nell’anno 1391, venne affidato ai frati francescani (a ragione, è quindi dato di affermare che S. Caterina in Galatina ha costituito un rilevante avamposto della grande messe di cristianità – a partire dai suoi primi albori – che trasse ispirazione dal Poverello di Assisi) .
Brevi note sul perché della specifica dedicazione della basilica: S. Caterina, vergine di Alessandria, visse nel 10° secolo e, per non aver inteso abiurare la fede cristiana, fu torturata e decapitata. Ben presto, il culto verso la sua figura si diffuse anche in aree lontane, fra cui diversi paesi europei; fu proclamata patrona dell’Università di Parigi e protettrice degli studenti e delle ragazze da marito. Anche Raimondello Orsini del Balzo e la sua illustre consorte Maria d’Enghien si sentirono presi da profonda devozione verso la giovane vergine egiziana e, malgrado i disagi della lunga trasferta, si determinarono a compiere un pellegrinaggio all’omonimo monastero, eretto sul Monte Sinai, dove riposano le spoglie della santa.
La chiesa si presenta con una sobria, ed insieme elegante, facciata, tipica del tardo romanico pugliese; l’interno consta di cinque navate, di cui quella centrale davvero magnifica, con pareti e volte rivestite di affreschi risalenti alla prima metà del ‘400, di ispirazione giottesca (taluni sembrano quasi identici a quelli esistenti nella famosa Cappella degli Scrovegni di Padova) e opera di artisti provenienti, forse, dalle Marche e dall’Emilia e, in parte, sicuramente della Scuola, appunto, di Giotto. Complessivamente, si susseguono ben 150 scene, raffiguranti episodi della Genesi e dell’Apocalisse, del martirio di S. Caterina e di S. Agata (a Galatina sono custodite preziose reliquie di entrambe).
La basilica comprende anche un presbiterio, nonché una cappella ottagonale aggiuntasi in epoca successiva alla originaria costruzione dell’edificio; annessi, trovansi infine il «tesoro» con reliquari d’argento, un mosaico mobile ed una Madonna bizantina in legno e, sul lato sinistro, il chiostro, anch’esso arricchito da affreschi.
Dunque, un’opera d’arte così bella ed interessante, eppure non adeguatamente nota. Ancora più paradossale è la circostanza che i visitatori della basilica sono rappresentati prevalentemente da genti che arrivano da lontano, specie dall’estero, mentre scarseggiano le correnti di interesse, malgrado la vicinanza e anzi la contiguità, da parte della popolazione pugliese e in particolare del Salento: molte persone non ne conoscono neppure l’esistenza.
Secondo me, ciò è da ascriversi anche al fatto che la città di Galatina, che pur si colloca fra i più importanti centri della provincia di Lecce, trovasi situata in una posizione leggermente defilata rispetto ai classici e modaioli circuiti turistici e delle vacanze e, di conseguenza, i visitatori che vi si portano appositamente finiscono col risultare di numero limitato. Si pensi che Galatina sembra essere più ricordata per la tradizione delle «tarantolate» e della Cappella di S. Paolo, santo che, secondo la credenza popolare, guarisce dal morso del ragno, oppure per la sua base aerea o per la cementeria.
Qualunque motivazione o giustificazione si voglia o si possa addurre, rimane comunque una grossa lacuna, cui bisognerebbe, in un modo o nell’altro, porre rimedio ancorché gradualmente.
Tanto per cominciare, si faccia ricorso al veicolo del “passaparola” fra amici, parenti e conoscenti, svolgendo una spontanea opera di sollecitazione e di sprone per la visita a questo insigne monumento. In pari tempo, un importante lavoro al medesimo fine dovrebbe essere svolto costantemente da parte delle istituzioni civili, militari e anche religiose: fra esse, la Scuola in primo luogo, in quanto non va dimenticato che la visita a S. Caterina di Alessandria in Galatina costituisce, in fondo, un vero e proprio percorso educativo.
di Pino De Luca
Un uomo corpulento vagava senza meta su campi brulli e pietrosi, era rozzo e sporco: un selvaggio.
Pendevano dai suoi fianchi una sacca sdrucita ed un otre consunto.
Una tempesta di vento e polvere, tanto improvvisa quanto violenta, lo colse, cercò un rifugio, sedette dietro un grande masso e si riparò. La furia del vento e il cielo plumbeo gli dicevano che non sarebbe stata breve.
Si accomodò, con le sue mani luride cercò nella sacca e tirò fuori un pezzo di pane scuro, incurante della polvere che si posava sul tozzo, lo morse e lo masticò lentamente.
Passi rapidi si confondevano con l’ululare del vento, un cristiano apparve nella nebbia di polvere,
– Salve – proferì con voce piacevole
– Chi sei? – grugnì il selvaggio
– Sono un viandante che cerca riparo da questa tempesta di vento – disse il cristiano, sedendosi dietro al masso.
Egli portava al collo due piccole sacche ricamate.
– Non hai imparato i doveri dell’ospitalità?- continuò il cristiano, con un tono quasi di rimprovero
– Non hai forse anche tu le tue sacche? – grugnì il selvaggio
– Nelle sacche porto semi preziosi, tu cosa mangi?
– Pane di farina di spine della pianta della solitudine, e il mio otre è colmo di vino di rabbia, non piacciono a tutti, ma con loro ci campo. Mangia
di Pino de Luca
Lasciamo il Muro Tenente, avamposto fortificato dei Messapi e ripercorriamo il territorio che sotto il mitico Arthas ebbe fulgore. Ci addentriamo profondamente fino ad Alytia o, come oggi si denomina, Alezio. Una delle città da cui tutto ebbe inizio, centro della civiltà del popolo tra due mari, integratosi con càlabri e sallentini, che, per la sua civiltà, seppe stupire anche gli Ateniesi.
In questo feudo dimora la cantina di Lucia e Damiano Calò, anch’essa d’antica storia.
Una cantina che, avendo un paio di secoli, è nota al mondo intero come son noti i suoi vini. In particolare il Rosa del Golfo. Così importante che l’intera azienda ha assunto questo nome.
Ma come è nostro uso, non ci fermiamo alla fama di un vino per celebrarne i fasti. Cerchiamo fra le pieghe, a volte della tradizione e a volte dell’innovazione, da li proviamo a far emergere sinestesie enofoniche al servizio di piccoli piaceri del palato e dell’anima che possano condire le nostre vite, così spesso soggette a tristezze e travagli.
Questi percorsi sono spesso impervi e avventurosi, costringono a lunghe giravolte certamente faticose ma non prive di fascino. Come esploratori si segue fiuto ed esperienza, è facile allora comprendere perché ci immergiamo in Alytia. Il nome è replicato dai suoi fondatori, la leggenda li vuole provenienti dall’Acarnania di cui Alytia era la capitale.
L’Acarnania esiste per davvero, ora ha come città più importante Missolungi, città nella quale la meningite pose fine alla vita di Mad Jack, il più grande fra gli esploratori d’ogni cosa. E in Acarnania si insegna l’italiano, mah !!!!!
Da lì, forse, partirono per rifondare Alytia, poi divenuta Aletia, Aletium, Aletion e Baletium e, financo, Picciotti!!! Un poutpourrie di crescita e desolazione, di guerre e floridi commerci. Ma sempre, fin da quando Alcibiade rimase impressionato dalla capacità delle donne di sedere a tavola e discutere con gli uomini d’ogni argomento, l’area s’è contraddistinta come capace di grandi innovazioni, di morire e rinascere dalle proprie ceneri con rinnovata vigoria.
Ovvio che, in tutto il Salento, solo qui poteva nascere l’idea di uno spumante di negroamaro e chardonnay con metodo champenois. Rifermentazione in bottiglia e lunga permanenza sui lieviti (24-30 mesi) per ottenere una bollicina sottile e persistente, d’una delicatezza al naso e al palato da render lieto ogni convivio, da farsi apprezzare per freschezza e carattere da chi non ha pregiudizi, da chi sa render lieta una serata sapendo che donne e uomini son di pari diritto anche al piacere, da chi sa concedersi momenti di gioia condivisa indugiando e promuovendo allegria e convivio.
E si prova a librar la voce tra commensali sorridenti e partecipi, invitando tutti, ma proprio tutti, ad un liberatorio “Libiam ne’ lieti calici …”, ponendo ascolto attento alle parole di Violetta: “tutto è follia follia nel mondo/ ciò che non è piacer.”
E i calici sian colmi di Brut Rosé di Rosa del Golfo, fresco il giusto, su crostacei crudi insaporiti da una vinaigrette d’olio extra vergine di oliva di prima molitura e succo di melagrana salentina …
Un soffio di vitalità e d’allegria, utilissimo quando si è circondati dalla tetraggine e il cupo manto dell’ignoranza sembra aver sopravvento sopra ogni lume di ragione.
Mi ascolto la Traviata, gusto un calice e brindo a Brizidia, principessa di Alytia ai tempi della Lega Messapica e della Dodecapoli narrata da Lucio Strabone.
Brizidia, forse reale o forse inventata, è, per me, l’essenza stessa di Alezio, mito e sostanza di tante persone che, in questa piccola, antica città, mi onorano della loro, a volte davvero fraterna, amicizia.
di Alfredo Romano
Se cunta a Galàtune ca ‘na fiata papa Cajàzzu spicciàu na matìna cu ddica na messa te suffràgiu e sse buscàu le mille lire ca ne spettàvanu. Cu lli sordi mpóscia, essìu te la chiesa cu ttorna ccasa, quandu, pe’ la strata, ne vinne cu schiatta te pišciàre. Ṭruàndusi a nnanzi lla villa comunale, cce ffice?: nna! trasìu, se aźàu la tonaca e sse mise ppišciàre contru a nn àrberu te la villa. Addhai ca se ddunàu ‘na cuardia te la Comune. Ca ne tisse: «Papa Cajàzzu, sei in contramizione: nu’ sse pote pišciàre intra llu sciardinu comunale. «Ah!, e quantu àggiu ppacàre?» tisse papa Cajàzzu. «Mille lire,» ne rispuse la cuardia. «Nna!, àggiu tittu messa pe’ llu cazzu!» tisse tuttu giratu te capu papa Cajàzzu.
di Massimo Vaglio
Acqua e sale, acquassale, ciallèdda, ciatèdda, cialatèdda, ciardèdda, sono queste alcune delle denominazioni con cui viene appellato un fresco piatto salentino. Si tratta di un’umile preparazione che al pari delle più aristocratiche friselle, costituisce un piatto quasi esclusivamente serale ed estivo, la risposta dei salentini alla canicola spesso insopportabile della loro terra.
A dispetto della sua, estrema semplicità, l’acqua e sale è un’opera d’ arte culinaria che riassume mirabilmente lo stile alimentare di questa subregione: preparare con pochi semplici ingredienti qualcosa di estremamente leggero e salutare, ma allo stesso tempo appagante e gustoso. Un piatto, che in mancanza di termini più appropriati, non ci resta che definire una zuppa rinfrescante, che estingue la sete e fornisce all’organismo sali minerali tanto necessari in climi così caldi.
Inutile dire, che oggi, nell’era del Gatorade, questo piatto ha perso la sua originaria funzione ed anche a causa della maggiore praticità d’uso delle friselle è in forte declino, tanto che rimane pressoché esclusivo appannaggio delle famiglie più tradizionaliste.
Qualche rigo sopra l’ho, giusto per esemplificare, definito una zuppa,
ma zuppa è esattamente la cosa che questo piatto, se ben preparato non
deve assolutamente diventare. Il pane infatti, che è l’ingrediente
base, attraverso un perfetto dosaggio dell’acqua e dell’olio deve, a
differenza del gazpacho andaluso (questo si una zuppa), conservare una
marcata consistenza e allo stesso tempo presentare una voluttuosa
morbidezza. Qualcuno obbietterà che le due caratteristiche sono in
antitesi e a me non resta che rispondere, come mi è capitato di fare
nel descrivere altre arcaiche semplici preparazioni contadine, che per
preparare questo piatto occorre possedere una buona dose di cromosomi
di: massaro, di alàno, di contadino, o di bracciante… in mancanza di
questo peraltro non raro patrimonio genetico, non vi resta che farvelo
preparare da una brava massaia salentina che ne sia ben dotata e state
sicuri che constaterete le sopraccitate caratteristiche e ne serberete
a lungo il ricordo come un’esperienza gastronomica di non poco conto.
Facile ipotizzare, che questa preparazione, vista la somiglianza con il
gazpacho, sia di origine spagnola, frutto di una contaminazione
culturale avvenuta durante la secolare dominazione aragonese. Potrebbe
rafforzare questa ipotesi la presenza in Spagna della jeringuilla, un
tempo il pasto dei braccianti giornalieri andalusi che costituisce una
versione più semplice di gazpacho, ove gli ingredienti, invece di
essere ridotti in purea, vengono mischiati gli uni agli altri ottenendo
così un risultato molto vicino a quello della nostra acqua e
sale.
Ma torniamo decisamente all’acqua e sale nostrana. Per prepararla occorre il pane di grano duro esclusivo del Salento cotto in uno degli ancora numerosi forni di pietra alimentati con ramaglia di ulivo.
Questo, che deve essere ben raffermo, viene tagliato a cubetti di circa tre centimetri di lato e posto in un piatto reale (questa è la denominazione dei grandi piatti rustici salentini), deve essere irrorato copiosamente d’olio di frantoio e rigirato per bene, quindi bagnato abbondantemente con acqua fresca che deve essere fatta defluire a filo da una brocca, condito strizzando sopra un bel po’ di pomodorini indigeni ricchi di semi e aggiungendo cipolla Barlettana cruda tagliuzzata, precedentemente messa qualche ora ad attutire l’
acredine in aceto di vino, origano e sale. Si rimesta quindi il tutto e
si serve. Si può completare con l’aggiunta di origano, capperi, rucola.
Come spesso avviene, esistono numerose versioni da quelle più arcaiche,
precolombiane, insaporite solo con cipolla e origano a quelle più
recenti, decisamente molto più ricche, ove possiamo trovarvi inseriti
peperoni cornetti verdi, peperoncini piccanti, meloncelle, finocchio di
mare o caruselle sottaceto, sott’oli e sott’aceti vari.
Una versione molto semplice si faceva in quasi tutte le famiglie in occasione della preparazione casalinga della salsa, e prevedeva come condimento solo lu
criddhru o riddhru, ossia i semi dei pomodori ancora avvolti nella loro
placenta, recuperati durante una fase della preparazione della salsa.
Questi, venivano semplicemente conditi con olio, sale e aromatizzati
con spicchi d’aglio fresco contusi, quindi aggiunti copiosamente all’
acqua e sale. Come avrete notato, sono stato costretto a coniugare
quest’ultimo periodo al passato, infatti, la salsa nelle famiglie si fa
sempre di meno e ove la si continui a fare, i pomodori che vengono
utilizzati, meraviglia del progresso, non hanno più lu criddhru.
Comunque si andranno ad evolvere la società ed il gusto, ad immortalare
ad imperitura memoria l’acqua e sale, resteranno gli splendidi versi di
questo, grande poeta salentino:
L’acqua e sale
Ci si fita cu ffazza
l’acqua e sale
co queddhra ca facìa lu tata mia…!
parìa ’nu patre ca
sta cunsacrava
nu sacerdote ca messa ticìa:
spizzàa lu pane ’
mpruscinutu e tuestu
’ntra lu piattu minzanu lu punìa
poi ’nci spandìa
ti sobbra sale e prestu
l’acqua filandu ti lu qualu issìa;
russi li pummitori a ddhoi spaccava
stringìa lu criddhru e intra lu mintìa
cu lu tìscitu l’uegghiu mmisurava
quarche stizza ti citu puru scia.
Mo’ no’ ’ndi saggiu cchiù ti ddhri sapuri
no pare veru, ma ci vo pinsandu
scopru ca ddhr’acqua e sale mi sapìa
ti cuntintezza e di llavoru tantu
Elio Marra
di Dora Elia
Filo di rossetto sì, filo di rossetto no?
Marion si guarda allo specchio e non sa decidere se colorare di rosso le labbra oppure no.
L’immagine riflessa trasmette tutta la gioia che le gonfia il cuore per l’incontro ormai imminente.
È da due giorni che si prepara per Juan, finalmente lo rivedrà e non sta più nella pelle, il tempo che la divide da lui le sembra troppo lungo e inutile.
I preparativi sono iniziati ieri: piega ai capelli, ceretta alle gambe, smalto alle unghie dei piedi e delle lunghe mani che Juan, tante volte, le ha detto esser le più belle del mondo, le uniche le cui carezze lo fanno impazzire.
È buffo come una donna prepari ogni minimo dettaglio per l’amato, quasi fosse la prima volta, come se dovesse stupire,conquistare chi già pende dalla sua bocca.
Costa fatica, ad una donna, prepararsi all’amore, anche quando è solo una ragazza come Marion.
Capello in ordine, ma non troppo per non sembrare apparecchiato per l’occasione, pelle liscia e profumata, ma di crema alla vaniglia, non di alcool di profumo da boutique, vestito semplice e morbido al tatto, biancheria intima piccante, magari solo lo slip: a diciannove anni i seni non hanno bisogno di supporto!
E poi il copione delle frasi da non dire, dei gesti da non fare da imparare a memoria.
Un lavoro, incontrare il proprio uomo, soprattutto quando non è più un ragazzino e il suo mondo è difficile da capire per chi ha ancora l’argento vivo addosso.
Marion vive ogni volta l’ansia dell’attesa e della preparazione, vuole essere bellissima per Juan.
I suoi diciannove anni le vanno stretti, lei col corpo di bambina e il fare da donna, legata con tutta l’anima al cuore di quell’uomo di quasi quarant’anni che sembra un ragazzino quando va al mare con lei con i suoi boxer rossi a fiori bianchi, dal sapore hawaiano.
La differenza d’età non la spaventa, è un dettaglio.
Sa che Juan è l’altra metà della mela, malgrado i primi capelli bianchi ad imperlargli le tempie e il completo scuro, con cravatta Regimental, sfoggiato nel suo Suv nero quando va in tribunale.
Lo conosce da un anno, ma è come se facesse parte della sua vita da sempre, come se il suo profilo fosse quello dei disegni all’asilo e il solo a volere accanto, al risveglio, nel suo futuro da grande.
Quando sono insieme il resto del mondo perde consistenza, nulla ha più valore, tranne i loro corpi stretti sul piumone giallo, nella penombra complice dell’amore.
È diventato il suo tutto, la molla per svegliarsi al mattino e andare al lavoro- fa la barista per pagarsi gli studi in lettere all’università- il dolce peso del troppo pensarlo la sera che la spinge ad andare a letto e magari a sognarlo, abbracciato a lei.
Marion respira perché Juan esiste e il cuore le batte all’impazzata quando lui la chiama tesoro mio e se la stringe al petto.
Marion con i suoi capelli al vento, nelle notti solitarie al mare, con la luna a farle compagnia.
Marion che cammina a testa alta tra la gente, difendendo il suo segreto.
Marion, così complicata nella sua semplicità, che ha imparato troppo presto che l’amore non è la bella favola che ci raccontano i libri, ma è, a volte, distacco, sacrificio, sapersi dare senza pretendere nulla in cambio, aggrapparsi
di Pino de Luca
Nel ventennio, quello tragico del secolo scorso non quello comico che si conclude in questo, nella furia autarchica e nazionalista vi fu una opera agricola straordinaria: la battaglia del grano. Le scuole agrarie della penisola che s’avvalevano di studiosi di grande valore furono messe alla frusta e incaricate di far diventare l’Italia il granaio dell’Europa. La Puglia, ed in particolare il tavoliere furono investite in pieno della missione. Nulla fu inventato, solo dato corso a ricerche già completate e conoscenze già sperimentate.
Pochi rammentano l’opera di Peppino Cuboni, membro dell’accademia dei Lincei, e grande esperto di fitopatologia. Personaggio straordinario che nel 1887 (non è un errore è proprio milleottocentoottantasette) cominciò a studiare gli effetti dell’inquinamento industriale sulle coltivazioni agricole alla Regia Stazione di Patologia Vegetale di Roma. Nel 1903 portò alla conoscenza della comunità scientifica italiana le scoperte alle quali era giunto Gregor Mendel. Scoperte alle quali era già giunto un suo allievo che si chiamava Nazareno Strampelli. Ibridare il frumento per avere specie più resistenti e produttive.
Cuboni fu un grande sostenitore dell’Aridocultura e ne promosse lo studio in Puglia, a Bari, anche se con scarso successo. Ma l’allievo Nazareno Strampelli proseguì gli studi e le applicazioni e, nonostante i tanti impedimenti per superare i quali ebbe ad accondiscendere a numerosi compromessi (divenne massone e si iscrisse al Partito fascista nel 1925 ma non firmò mai il manifesto sulla razza), portò a compimento numerosi ibridi che contribuirono alla Vittoria del grano.
Una di queste varietà destò l’interesse di Raffaele Cappelli, personaggio politico di grande prestigio nella Destra Storica e con grandi interessi in
di Romualdo Rossetti
Oltre al Barocco floreale, uno dei tratti caratteristici del corredo artistico leccese è sicuramente quello del “ferro battuto”. Tali “opere d’arte” erroneamente considerate come dei semplici manufatti di uso comune, a ben considerare, posseggono una loro storia ed una loro dignità estetica, che in questa sede è opportuno ricordare. Fu nel lontano 1916 che venne fondata a Lecce la Règia Scuola Artistica e tra le sue cinque sezioni che la componevano vi era una appositamente dedicata al “ferro battuto”. Dal 1923 al 1929 l’incarico di Capo Officina venne assegnato a Nino Lodi autore della celebre pensilina stile “Liberty” dell’Hotel Risorgimento a Lecce. Dal 1926, invece, a guidare la sezione fu il Maestro Alceo Pantaleoni, anch’essi formato come il suo predecessore presso le officine di Alberto Calligaris di Udine. Fu Alceo Pantaleoni che introdusse a Lecce l’eleganza stilistica propria dell’Art’ Nouveau. I lampioni della Banca d’Italia di Lecce e le lunette del Palazzo delle Poste, presero forma proprio nei laboratori della Scuola Règia.
Nel 1936, il maestro Alceo Pantaleoni si trasferì a Padova per dirigere la Scuola d’Arte di quella città e nel 1937 venne incaricato a dirigere la sezione del ferro battuto il maestro Antonio D’Andrea. Fu proprio da questa nomina che il “ferro battuto” di scuola leccese acquisì, in breve tempo, una vera e propria dignità artistica di tutto rilievo.
Il D’Andrea, con la collaborazione di alcuni suoi allievi, pose in essere una vera e propria rivoluzione stilistica, dove si fusero armonicamente le istanze proprie dell’ “Art-nouveau” e la vivacità floreale propria del barocco leccese, vivacità floreale arricchita da una variegata serie di richiami faunistici di derivazione esotica o locale.
Antonio D’Andrea nacque a Lecce il 23 Luglio del 1908 dove, dopo aver seguito per poco tempo gli studi ginnasiali, decise di iscriversi alla Rèale Scuola d’Arte della sua città dove si licenziò con lode ed onore. Dopo essersi trasferito a Bologna ed aver frequentato il Liceo artistico di quella città si avvicinò con fervore alla scultura del ferro ed a quella di altri metalli. A Roma infine, fece tesoro dei preziosi suggerimenti del grande scultore Alberto Gerardi.
Terminati gli studi fu nominato giovanissimo all’insegnamento del disegno alla Scuola d’arte di Fuscaldo in Calabria, successivamente assolse lo stesso compito a Galatina, a Lecce ed a Bari. Nel 1927 vinse un concorso d’arte bandito dall’Ordine Francescano in occasione del centenario della morte del “poverello d’Assisi” esponendo una lampada in ferro battuto. Nel 1938 fondò a Lecce un laboratorio artistico conosciuto amichevolmente come “bottega d’arte” situato in via Pasubio che, ben presto, divenne il punto di riferimento di artisti e di intellettuali di fama locale e nazionale come: Vittorio Bodini, Giuseppe Ungaretti, Enrico Falqui, Cesare Massa, Vittorio Pagano, Aldo Calò, Michele Massari, Geremia Re, Temistocle De Vitis, Lino Suppressa, Ennio Bonea, Oreste Macrì, Giacinto Spagnoletti. Entrò in sodalizio con lo scultore Galatinese Gaetano Martinez ed il celebre tenore Tito Schipa.
Vittorio Bodini
Giuseppe Ungaretti
Enrico Falqui
Geremia Re
Gaetano Martinez
Ennio Bonea
Tito Schipa
Il D’Andrea, in breve, riuscì a sensibilizzare il gusto dei facoltosi notabili di Lecce e della provincia che con ritmo sempre più incalzante richiesero i suoi “ferri” per l’arredo esterno ed interno delle loro dimore.
La sua opera scultorea era incentrata, da un lato, nella volontà di rendere il metallo quasi avverso alla sua stessa inflessibile natura, dall’altro lato, nella ricerca frenetica di una un nuovo modo d’intendere l’arte della siderurgia.
Con i suoi attenti “coup de marteau” il ferro si trasformava quasi in “parola”, in “fabula”, abbandonava il suo carattere freddo ed ostile e si appropriava di una propensione poetico-poietica che lo impreziosiva a tal punto anche e soprattutto quando prendeva le forme di un oggetto di uso comune come un candeliere, un portacenere od un cancello.
Il simbolismo faunistico-floreale presente nella maggior parte delle opere del D’Andrea, pur risentendo ampiamente della contaminazione del Barocco Leccese proiettava il “nuovo stile” a pieno titolo verso una nuova ed originale metafisica della materia.
Il merito maggiore del D’Andrea fu anche e soprattutto quello di aver osato sfidare le rigide leggi accademiche creando un nuovo indirizzo di ricerca utilizzando elementi poveri ed ordinari come il ferro, il bronzo od il rame. Tanto nei laboratori della sua scuola quanto nella bottega di via Pasubio si eseguivano, con mirabile maestria, dei veri e propri capolavori dell’arte fabbrile che venivano esposti ed apprezzati, per la loro originale battitura, in mostre e in fiere tanto all’estero quanto in Italia. I suoi lavori furono per lo più bassorilievi, sculture e sbalzi che riproducevano soggetti sacri ma non mancarono quelli di una genuina ispirazione profana.
Di grande spiritualità risultano essere le opere sacre tratte dall’Antico e Nuovo nonché dalla vita di San Francesco d’Assisi, eseguite a sbalzo su lamiera di ferro o di rame.
Nei soggetti profani ciò che affascina è l’elegante e delicata sobrietà delle forme dei soggetti raffigurati. La sezione metalli della scuola guidata dall’ingegno del maestro come pure la sua “bottega d’arte”in quegli anni, vengono frequentate da allievi motivati e desiderosi di apprendere l’arte di battere il ferro. Produsse il portale in ferro battuto a lamiera sbalzata perla Basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Lecce.
Nel 1940 espose all’Angelicum di Milano due portali in ferro e rame balzato insieme ad altri bassorilievi. Le sue produzioni artistiche furono apprezzate in mostre tenutesi a Lecce, Bari, Monza, Firenze e Bologna. Si fregiò di sei medaglie d’oro ed una targa d’argento oltre a numerosissimi encomi. Nel 1945 restaura la statua bronzea di S. Oronzo, protettore della sua città. Nel 1948 per il premio “Lecce” di scultura e di pittura espose i suoi lavori a sbalzo in rame che ottennero gli encomi della giuria composta da Berti, Biancale e Freddo. Nel 1951 espose altri sbalzi e disegni alla Quadriennale d’Arte di Roma. Tra il 1949 ed il 1950 diresse la rivista “Artigianato Salentino”. Nel 1952 il personale dell’Acquedotto Pugliese gli commissionò una formella balzata dal titolo “ Laudato si’ mi Signore per sor’acqua” che verrà donata a sua santità Pio XII°.
Nel 1953 ottenne la nomina di direttore dell’Istituto d’Arte di Galatina, dove tempo prima aveva svolto la professione d’insegnante. Riuscì anche a stabilizzare una caratteristica tonalità di verde, detto successivamente verde D’Andrea, tramite particolarissimi e segreti processi di lavorazione.
Il 10 ottobre del1955 asoli quarantasette anni si spense nella sua amata città.
Nella Scuola d’Arte di Lecce il suo insegnamento continuò attraverso i suoi allievi che si erano alternati tra la scuola e la sua bottega. Nel 1958 ottenne alla memoria il prestigioso riconoscimento della Mostra dell’Artigianato di Firenze.
Ma Antonio D’Andrea non fu solamente un abile artista; fu prima di tutto un profondo pensatore, un poeta del ferro che seppe trasformare la fredda materia in voluta, in parola, in segno distintivo. Ogni sua opera fu prima profondamente pensata e poi forgiata, sbalzata, scolpita. A testimonianza di quanto si afferma si riportano alcuni importanti passi del suo diario rimasto incompiuto:
La Crucifissione
Poi ad un tratto si rese conto che la consuetudine è dolce, il già fatto è sempre da farsi, l’antico è sempre nuovo (parole dozzinali, ma innocue) E tutto il suo subbuglio, tutto il suo gran fermento si andarono a scodellare in un piatto. Rotondo. Appeso al muro. Con orlature tiepide. Di rame, infine. Ma che miracolo, all’improvviso!…Non è stato lui, lo sa, lo sa benissimo che non è stato lui…il buon ladrone e il cattivo ladrone: due croci. E fra loro il meno ladro di tutti, perché ci ha rubato solamente la morte, ci ha rubato solamente il Calvario, ci ha rubato solamente Satana: un’altra croce. E la piangente a terra: una tenera schiena modulata sopra un calcagno, tenera e modulata in un senso effimero, triste e vano in tanta eternità (anche di paesaggio). Fare incombere il crocifisso su di lei, da quel piatto rotondo, su di noi, da quel muro, è stato il suo comandamento. E forse l’artigiano ha pianto. Forse sbalzando il rame, ha martellato la propria morbidezza, ha preparato la propria carogna. Doloroso. Ridicolo. Lo gnomo che scrolla la quercia per sradicarla! Amen
Il toro
Idem per questo animale. Ma il fascino della sua scoperta tecnica non doveva, qui, tendergli insidie, distrarlo dalla giusta via. Si trattava stavolta, di un problema di pienezza. Non un vuoto a cui dar forma, ma un pieno da corporeizzare col vuoto. Un normale comunissimo processo da cartapestaio, o da battitore, d’arrotondatore di lamiera? Qualche cosa di più. Come un castello di carte, vogliamo dire, con dentro un po’ di sogno, o di favola, visibile dagli spacchi, dalle finestrature. Ed allora, ecco imporsi il sacrificio della pancia: fare in modo da espellere la pancia, senza l’idea dello squarcio, senza il brivido del macello, senza visceri appesi o palesemente estirpati. Non era che questo. Poi, egli potè scolpire le corna, la coda, il collo, le zampe, tutto. E un taglio, ed una curvatura ad arco, come se dovesse scoccarne la freccia della sua libidine di purezza, d’una sua infanzia ormai camuffata per sempre da furberia, da sacrilegio.
Il folle
Un giorno gli parve di capire che la pazzia fosse una cavità: ma corporea, come tale, definita, in quanto tale, e piena nella sua linea, costruita nella sua figura. A togliere lo sbalzo dal suo campo, a edificarlo nel “tutto tondo”, a dargli tre dimensioni, c’era da risolvere l’assurdo, da liberarsi d’un incubo: e solo così l’immagine poteva essere raggiunta, piegata al racconto, agitata nel dramma (…) Si dirà che s’è ammattito l’artigiano…Ma l’adagio è decrepito, che l’arte sia sempre follia. E si capisce che alludiamo alle intenzioni, alle ambizioni: gli effetti hanno forse la durata del suo martello, della sua fucina. Egli lo sapeva, questo. Tanto vero che ha fatto a meno dello scheletro, dell’ossatura, ed il suo “FOLLE” è una bolla di sapone (di sapone, anzi di ferro: che è l’unica differenza, Decidete come vi pare).
Un uomo poliedrico e coraggioso che seppe rendere giustizia al metallo trasformandolo in viva narrazione.
di Fabrizio Suppressa
Una strofa della pizzica copertinese “lu sciallabbà” recita così: “Gira, gira bella come il vento della Grottella”. Poche semplici parole, cariche di bellezza e di sensualità, descrivono con un colpo di pennello un luogo caro alla memoria degli abitanti di Copertino: il Santuario della Madonna della Grottella.
L’attuale chiesetta sorge nei pressi dell’antico casale di Cigliano, uno dei tanti distrutti durante le invasioni dei Goti e dei Saraceni. Il luogo fu frequentato fin dall’epoca romana, come attesta l’origine prediale del toponimo, ma le uniche tracce antiche rintracciabili sono quelle relative all’epoca dei monaci basiliani. La leggenda narra come nel 1540 un pastorello avendo smarrito un vitello, incominciò in lungo e largo a cercarlo in questa antica terra; lo ritrovò tra cespugli e rovi, inginocchiato davanti l’ingresso di una grotta, dove all’interno due misteriosi ceri accesi rischiaravano il volto affrescato della Vergine. Il pastore, dopo un attimo di smarrimento, corse subito al vicino paese per annunciare il ritrovamento al Capitolo della Collegiata e a tutta la cittadinanza, che una volta accertata la verità, si recò in processione a venerare la sacra immagine.
Dietro autorizzazione di Mons. Giovanni Battista Acquaviva, in quel periodo Vescovo di Nardò, fu costruita una piccola cappella; probabilmente si trattava di una piccola costruzione che custodiva l’ingresso del vano ipogeo. In pochi anni dal ritrovamento fortuito dell’immagine, crebbe in tutto il territorio della Terra d’Otranto la devozione verso la Madonna della Grottella. Occorreva quindi un luogo di culto più capiente e dignitoso.
Per questo motivo attorno al 1578 fu costruita per volontà di Mons. Cesare Bovio, Vescovo di Nardò, l’attuale chiesa. Infatti in un manoscritto del 1700 è possibile leggere “l’immagine fu venerata con molte particolari processioni dal clero, e crescendo tuttavia li miracoli, e la di lei fama, si rese in tal maniera celebre non solo in tutta la provincia, ma ancora nel Regno che da per tutto venivano genti a tributarla di doni” e ancora “coll’autorità, e pia munificenza di Monsignore Cesare Bovio (…) fu dalli fondamenti eretta la nuova Chiesa in quella forma, e magnificenza che hora si vede.”
La nuova fabbrica, costruita in piena Controriforma, segue molto dettagliatamente le nuove linee dettate nel 1577 da San Carlo Borromeo e presenti nel suo libro intitolato “Instructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae” ovvero le istruzioni per l’assetto di nuovi edifici di culto. Infatti la chiesa si caratterizza in pianta dalla croce latina a navata unica, con piccoli altari intitolati ad alcuni santi situati lateralmente al posto delle navate laterali. Ed ancora, per garantire un’ottima acustica durante le omelie e le predicazioni, la navata è coperta da una poderosa volta a botte così come prescrivevano le nuove regole. L’unica eccezione è data dal livello del pavimento della chiesa; San Carlo Borromeo stabiliva che le nuove costruzioni fossero elevate di almeno tre gradini al di sopra del piano stradale, la nostra chiesa invece è posta quasi un metro e mezzo al di sotto, e per accedervi dall’esterno, una volta varcata la soglia, è necessario scendere una decina di gradini. Probabilmente questa deroga è dovuta all’antico livello dell’ipogeo, ampliato nel friabile tufo in modo da far poggiare l’altare direttamente sull’antica area sacra e soprattutto per non compromettere la stabilità delle possenti mura perimetrali.
Molto più semplice e pulita la facciata dai lineamenti cinquecenteschi, composta da un profilo a capanna con al centro un ampio rosone decorato con putti, foglie e fiori, e un portale in pietra leccese sormontato da una piccola statua raffigurante la Madonna con Bambino.
All’interno della chiesa non mancano pregevoli testimonianze artistiche, sulla sinistra si susseguono gli altari intitolati a San Leonardo, San Francesco, Sant’Eligio e Sant’Antonio, mentre sulla destra sono presenti gli altari dedicati al Calvario e San Giuseppe Sposo; quest’ultimo attribuito con certezza allo scultore barocco Giuseppe Longo di Lecce. L’altare privilegiato è invece opera dello scultore Donato Chiarello, realizzato in pietra leccese con alcune parti in rilievo dorate e presenta al centro l’affresco ritrovato dal pastorello della leggenda.
Interamente affrescata è la parete dell’abside sinistra, in alto, nel catino, troviamo Santa Cecilia che suona e canta con gli angeli la gloria di Dio, immediatamente sotto vi è la scena del ritrovamento miracoloso, e infine nella parte inferiore vi sono gli affreschi di San Francesco che riceve le stimmate e accanto il mistero della Visitazione.
Come ci ricorda la strofa della pizzica, il luogo è caratterizzato da un particolare venticello, fresco e asciutto nel periodo estivo, costantemente in rotazione da tutti i quadranti. Questa peculiarità avviene grazie alle caratteristiche geografiche dell’area, posta infatti su un piccolo poggio a spartiacque tra la Valle della Cupa e la piana di Copertino. Per questo motivo l’area fu la sede prediletta per la villeggiatura estiva di nobili e prelati e nel 1579 il Vescovo di Nardò, Mons. Cesare Bovio vi aggiunse “un comodo, et opportuno Palazzo fabbricatovi (…) attaccato alla chiesa medesima per divertimento e soggiorno de’ Vescovi Suoi Successori”.
Il 23 Febbraio 1613 la chiesetta passò sotto la tutela dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali grazie all’intercessione di Padre Donato Caputo di Copertino e nel 1618 si diede vita ad una piccola comunità monastica dipendente dal Convento di San Francesco intra moenia. In quegli anni, durante i lavori di ingrandimento del complesso monastico, vi lavorò come manovale il quindicenne Giuseppe Desa che tra quelle pietre maturò l’idea di farsi frate. Qui visse per circa 17 anni prima da oblato, poi da novizio, in seguito da diacono e infine fu ordinato sacerdote a Poggiardo il 18 Marzo 1628. La devozione alla Madonna della Grottella era talmente intensa da portare il frate in estasi; davanti alla sacra immagine, che lui amava chiamare “la Mamma mia”, volava “come ape che coglie il nettare dai fiori”. La fama del frate che volava, aumentò la mole di devoti che accorrevano al santuario, ma insospettì anche la Santa Inquisizione e il 21 ottobre 1638 Padre Giuseppe dovette lasciare la sua amata Grottella per recarsi alla volta di Napoli per comparire dinnanzi al tribunale del Sant’Uffizio. Non tornò più nei suoi amati luoghi, e dopo un lungo peregrinare tra Roma, Assisi, Pietrarubbia e Fossombrone, approdò a Osimo dove morirà il 18 settembre 1663.
Nel 1753, in occasione della Beatificazione di Fra Giuseppe da Copertino, fu demolita l’abside destra e vi fu aggiunta la cappella in onore del novello Beato, dove qualche anno dopo fu posta sotto l’altare la cassa mortuaria, donata per l’occasione dai confratelli di Osimo.
Il lento declino del Santuario iniziò dapprima nel 1810 con le leggi napoleoniche; i frati continuarono in ogni caso ad officiare e a vivere in convento fino alla definitiva chiusura del 1867, causata dalla legge di soppressione degli ordini monastici. I beni mobili furono incamerati e venduti dal Regio Demanio, mentre tutto il complesso andò lentamente in rovina fino agli anni ’50 del Novecento, quando i Frati Minori Conventuali ritornarono in possesso del Santuario e si poterono apprestare i primi urgenti lavori di restauro.
Un discorso a parte merita la storia della Grottella durante la Seconda Guerra Mondiale. L’intero complesso fu requisito dalla Regia Aeronautica e trasformato in deposito di munizioni e ordigni a servizio dei vicini aeroporti di Galatina e di Leverano. A partire dal 1940, durante i bombardamenti da parte degli Alleati sui cieli salentini, molti copertinesi venivano a rifugiarsi in questo luogo nonostante la pericolosità e la sensibilità dell’area, probabile obiettivo dell’aviazione nemica.
Le fonti orali narrano di come gli Alleati non bombardarono volutamente il facile bersaglio del Santuario poiché molti piloti italoamericani erano devoti a San Giuseppe da Copertino, Santo protettore degli aviatori. Infatti, tra leggenda e realtà, molti contadini delle nostre campagne sostenevano di aver visto tra le lamiere di alcuni aerei abbattuti medagliette o santini raffiguranti il Santo, come altrettanto riferirono alcuni soldati americani dopo gli sbarchi del 1943.
Ed è così che il “santuario dei copertinesi” entrò a far parte della storia anche in questa occasione.
Bibliografia:
P. Bonaventura Popolizio, La Grottella, Santuario mariano del Salento, Copertino, Ed. Il Santo dei Voli, 1958.
F. Verdesca, M. Cazzato, A. Costantini, Guida di Copertino, Galatina, Congedo Editore, 1996.
di Stefano Cortese
Chi dalla marina di Posto Rosso si reca a Felline, non può fare a meno di visitare quei ruderi di un’antica chiesetta intitolata alla Vergine “Santa Potenza”. Tanti misteri cela questo antico edificio sacro, già a partire dall’attributo alla Vergine, misterioso quanto insolito nelle nostre aree. Nella monografia di Felline (Cartanì 1990) viene detto che risalirebbe al 1481, per via un beneficio ecclesiastico in onore della Natività della Vergine voluto da Rosa de Nicola da Cutrofiano, ma già nella visita pastorale del 1452 del mons. De Epiphanis si hanno diverse attestazioni del “loco Santa Mariae Potenciae” (Cortese 2010, 95): la sfortuna ha voluto che tale chiesa, insieme ad altre di Felline, Melissano e Casarano parvum, fossero state censite nel foglio poi smarrito, perdendo cosi tutto il suo inventario “bonorum mobilium et stabilium”. La primitiva chiesetta potrebbe anche essere stata di culto italo-greco, come sembrano confermare i non certamente probanti indizi dell’orientamento est-ovest e di una croce greca incisa in un blocco di reimpiego.
Una volta ricostruita nella seconda metà del XV secolo, subì diverse modifiche tra cui l’abbattimento dell’altare della Purificazione nel 1580 e soprattutto l’edificazione di alcuni locali adiacenti dove doveva vivere l’oblato. Nel 1640 fu dipinta, nel muro di recinto del giardino, una Vergine in trono con Bambino, mentre ai primi anni del ‘700 risale la pittura, oggi in evoluto stato di degrado (si nota ancora la sinopia), del “Riposo durante la fuga in Egitto”, sita a destra entrando nella chiesetta. Sul muro frontale, dove doveva esistere l’altare della SS. Trinità, non rimane che una nicchia, invasa sia dalla vegetazione affiorante, sia dai conci del soffitto crollato.
Pochissimo è rimasto anche delle sale adiacenti, edificate a differenza del sacro edificio, in pietre informi misto a bolo, mentre resiste ancora oggi il muro a secco con nervature in conci che recinta il giardino.
Si teneva una festa il giorno della Natività della Vergine (8 settembre) e la prima antifona vespertina era celebrata dall’arciprete di Ugento, la seconda dall’arciprete di Felline (AVU 1819), essendo lo stesso complesso situato metà nel feudo fellinese (il giardino), metà nel feudo ugentino (la stessa chiesa). Nella visita del 1878 del mons. Masella viene detta “in ristaurazione” (AVU 1878).
In alcune fonti la chiesa viene ubicata nel cuore di Cesite, un casale ricordato nel 1278 quando era infeudato a Raynaldo de Hugot e che verrà poco dopo accorpato a Felline essendo spopolato. A personale avviso l’insediamento di Cesite, come confortato dalle ricognizioni, era situato ancora più ad est, ai piedi della serra, nella zona Acquare/Santi Viti (Cortese 2007): è qui infatti che è stata rinvenuta ceramica imperiale e frammenti sporadici di età bizantina, confortata inoltre dalla presenza della chiesetta intitolata a San Vito, diruta già nel XVII secolo. La chiesa di Santa Potenza era a metà tra l’insediamento medievale di Felline (anch’esso leggermente più ad est) e quello di Cesite, quest’ultimo abbandonato già in età medievale e non come citano le fonti (Corvaglia 1987), soltanto dopo la scorreria turca del 1547.
Un altro insediamento, distante un chilometro circa, è quello di Fracagnone (Cortese 2010, 27-28). Questo insediamento è ben più difficile da intercettare, ma dovrebbe essere sito in prossimità del fondo Gorgoni o Palombaro; toponimo, quest’ultimo, che ci indica la presenza di un bene, cioè una colombaia in avanzato stato di degrado. Probabilmente fu edificata nel ‘500, quando l’insediamento era già da qualche secolo spopolato, e presenta profonde lesioni che minacciano un crollo imminente. E’ una colombaia a pianta circolare, inframmezzata da un toro e con una graziosa merlatura in parte preservata.
BIBLIOGRAFIA
-AVU 1819, Visita pastorale mons. Alleva
-AVU 1878, Visita pastorale mons. Masella
-G. Cartanì (1990), Felline. Storia tradizione costume, Grafo 7, Taviano pp. 316-20
-E. Ciriolo (1999), “Gli affreschi della chiesa di S. Maria della Potenza in Felline” in Lu Lampiune n° 2 anno XV, edizioni del Grifo, Lecce pp. 127-128
-S. Cortese (2007), Il paesaggio medievale tra Felline e Ugento, tesi di laurea in topografia medievale a. a. 2006/07 relatore prof. Paul Arthur
-S. Cortese (2010), Nei borghi dei Tolomei. Formazione e caratteristiche dei borghi antichi di Racale, Alliste e Felline, C.R.S.E.C. Le/46 Casarano, Parabita pp. 95-97
-F. Corvaglia (1987), Ugento e il suo territorio, Galatina pp. 153-155
-P. Scarlino (1899), Memoria giuridica pel comune di Alliste e frazione Felline contro Vitali, ed eredi Basurto fu Luigi da Racale, Gallipoli, Tipografia gallipolina
FRACAZZÁNU, DA CARTAGINE E DA NARDÒ, È STATO LEI A PROVOCARE LA TERZA GUERRA PUNICA?
di Armando Polito
Nello sfruttare, non senza una punta di ironia, il leitmotiv di un programma televisivo attualmente in onda per dare un titolo a questo mio post, mi illudo che il fine giustifichi i mezzi.
Tra le varietà di fichi ancora presenti nel territorio neretino un posto di rilievo occupa il fracazzànu, di cui esistono tre tipi: iàncu, russu e gnoru (in sequenza nelle foto).
Il Rohlfs sulla scorta di panni serici africazzani tres de altare del Codice diplomatico Cav.1 considera la voce, sia pure in forma dubitativa, deformazione di africano; di varietà genericamente africane di fichi riporto la testimonianza di vari autori latini:
a) Catone (III-II secolo a. C.), De re rustica, 8: Ficos mariscas in loco cretoso et aperto serito; Africanas et Herculaneas, Sacontinas, hibernas, Tellanas atras pediculo longo, eas in loco crassiore aut stercorato serito.
(Pianta i fichi marisci in luogo ricco di creta e aperto; gli africani ed ercolanesi, i sacontini, gli invernali , i tellani neri dal lungo picciolo piantali in un luogo più fertile o concimato.)
b ) Varrone (I secolo a. C.), De re rustica, I, 1: Sic genera ficorum, Chiae ac Chalcidicae et Lydiae et Africanae, item cetera transmarina in Italiam perlata.
(Così le varietà di fichi, quelle di Chio, di Lidia e dell’Africa, allo stesso modo le altre di oltremare introdotte in Italia.)
c) Columella (I secolo d. C.), De re rustica, V, 10-11: Ac semper conveniet, simul atque folia agere coeperit ficus, rubricam amurca diluere, et cum stercore humano ad radicem infundere. Ea res efficit uberiorem fructum et fartum fici pleniorem ac meliorem. Serendae sunt autem praecipue …Africanae… hibernae…
(E sempre converrà, non appena il fico avrà cominciato ad avere le foglie, sciogliere terra rossa in morchia e spargerla presso le radici insieme con sterco umano. Ciò rende più abbondante il frutto e più pieno e migliore l’interno del fico. Bisogna piantare poi soprattutto le varietà africane…le invernali…).
d) Plinio (I secolo d. C.), Naturalis historia, XV, 74-75: Sed a Catone appellata iam tum Africana admonet Africae ad ingens documentum usi eo pomo. Namque perniciali odio Carthaginis flagrans nepotumque securitatis anxius, cum clamaret omni senatu Carthaginem delendam, adtulit quodam die in curiam praecocem ex ea provincia ficum ostendensque patribus: Interrogo vos, inquit, quando hanc pomum demptam putetis ex arbore. Cum inter omnes recentem esse constaret: Atqui tertium, inquit, ante diem scitote decerptam Carthagine. tam prope a moeris habemus hostem! Statimque sumptum est Punicum tertium bellum, quo Carthago deleta est, quamquam Catone anno sequente rapto. Quid primum in eo miremur, curam ingeni an occasionem fortuitam, celeritatemque cursus an vehementiam viri?
(Ma la varietà già allora da Catone chiamata africana ci dice che ci si serviva di quel frutto come prova importante. Infatti, tormentato da un funesto odio di Cartagine e ansioso per la sicurezza dei nipoti, mentre strillava in ogni adunanza del senato che Cartagine doveva essere distrutta, portò un giorno nell’assemblea un fico precoce2 proveniente da quella provincia e, mostrandolo ai senatori, disse: “Vi chiedo quando pensate che questo frutto sia stato raccolto dall’albero”. Siccome tutti convenivano che era stato raccolto di recente, disse: “Sappiate che è stato colto due giorni fa da Cartagine”. E immediatamente venne decisa la terza guerra punica, con cui Cartagine fu distrutta, nonostante Catone morisse nell’anno successivo. Cosa potremmo ammirare in lui per prima, l’inquietudine di una mente o l’occasione fortuita e la celerità della carriera o l’energia dell’uomo?)
Ma, quella varietà di fico africano può identificarsi col nostro fracazzànu? La domanda costituente il titolo, perciò, difficilmente sarà inserita in un quiz televisivo di prossima generazione, in cui i protagonisti non siano persone reali ma frutti, a meno che i cosiddetti autori (per lo più di nomina politica, diretta o per subappalto) non individuino (ma come ?) la risposta esatta.
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1 Aggiungo che si tratta di un codice salernitano del 1049 e che varianti compaiono pure in altri codici sempre salernitani e dello stesso periodo: cortine due, planete due…panni serici africati, zani due da coperire altare (1043); planete due de serico de panni de Africa(1057); sindonem unam ad acum, sindones africactianas sericas quinque, sindonem de zendato auro textam (1058); sindones africaczanas sericas quinque (1065); infine, in un codice di Amalfi del 1058: sindones quinque de serico afreaczano.
2 La qualifica di precoce escluderebbe la possibilità di identificarlo col nostro fracazzànu, a meno che Catone non abbia mostrato un fiorone (che matura entro giugno) e non un vero fico o pedagnuolo o fornito (che matura da agosto).
di Paolo Vincenti
Nel 160° di sua nascita (1844-2004) migliore ricordo non poteva avere il “Mago salentino dello scalpello” se non quello del riconoscimento ufficiale della sua casa natale, con l’apposizione di una lapide sulla facciata ovest della fabbrica, di recente restaurata. Una casa dalla nobiltà delle linee architettoniche degne di un grande architetto, che la edificò nel 1595 con una ardita scala aggettante bordata di un intenso fogliame di felce che corre lungo il toro che guarnisce la fronte d’appoggio della scala, rotta da feritoie al tempo stesso lucernari e saettiere; e con un balcone a patio, posto in un angolo con tetto a tegole cadente su di una svelta colonna ottagona, che spartisce gli spazi aperti su due scorci dell’antico borgo di S.Foca.
Una casa prestigiosa, extra moenia, dirimpettaia della dugentesca chiesa di S.Foca, prima matrice di Ruffano. Una casa palatiata, al civico 6 di via S.Foca, dove il 13 giugno del 1844 vide la luce Ippazio Antonio (tale il nome di battesimo) figlio di Carmelo Portone e di Anna Antonino […].
Ma il nostro scultore ben presto ritoccò i suoi dati anagrafici scegliendo il secondo nome Antonio (forse perché era nato proprio il giorno di S.Antonio da Padova-13 giugno) e tralasciando il primo nome Ippazio (impostogli forse per discendenza patronimica) e mutando il cognome da Portone a Bortone.
Il tutto, crediamo, per esigenze d’arte. Infatti, a soli trentatré anni, quando la sua fama di scultore varca i confini d’Italia, la statua che lo rende famoso a Parigi (il Fanfulla) porta infisso il nome di Antonio Bortone. E ancora, Antonio Bortone è scolpito sul plinto, che regge quella famosa statua, nel testo epigrafico del prof. Brizio De Santis: Sono/ Tito da Lodi /detto il Fanfulla/ un mago di queste contrade /Antonio Bortone/ mi tramutò in bronzo/ Lecce ospitale mi volle qui/ ma qui e dovunque/ Dio e l’Italia nel cuore/ affiliamo la spada/ contro ogni prepotenza/ contro ogni viltà/ MCMXXII.
La statua raffigura il Fanfulla, uno dei tredici cavalieri della “Disfida di Barletta”, ritratto ormai avanti negli anni quando orbo di un occhio e col saio domenicano faceva penitenza nel fiorentino convento di S.Marco, mentre affila la misericordia, un acuminato spadino che all’inquieto lodigiano era servito in tante battaglie.
Modellata a Firenze nel 1877, l’opera è figlia della tensione tra i circoli artistici fiorentini e il Bortone, che si era prodotto, e bene, nel nudo, con il Gladiatore morente, ma non aveva ancora dato prova di sé nel drappeggio. Tale prova il Bortone la darà appunto con la statua del Fanfulla, inviata alla Mostra Internazionale di Parigi, dove però giungerà ammaccata in più parti. Invitato a ripararla, il Bortone non andò mai nella capitale francese, forse per il suo carattere che a volte lo rendeva spigoloso e quasi intrattabile. […] Comunque la statua fu esposta ugualmente a Parigi e vinse il terzo premio, previo il restauro praticato dal grande scultore napoletano Vincenzo Gemito, che si trovava nella capitale francese a motivo della stessa Esposizione.
Tanto spigoloso e mutevole nel carattere, altrettanto continuo, però, puntuale e riflessivo nella composizione delle sue opere, che studiava profondamente documentandosi sempre sulla storia dei personaggi che andava modellando, fino a tormentarli, quasi, perché parlassero di sé.
Sotto questo profilo l’opera più sofferta rimane il monumento a Sigismondo Castromediano, il bianco duca di Cavallino, condannato alle patrie galere ad opera dell’intendente di Lecce barone Carlo Sozy Carafa.
Ma le due figure, antitetiche sul piano politico, avevano aiutato, in tempi diversi, il Bortone a percorrere le tappe della sua carriera artistica, talchè l’impianto del monumento le richiamava entrambe alla mente dell’artista, che finì per raffigurare, come ognuno sa, il Castromediano nell’atto di levarsi dalla sedia per offrire le sue “Memorie” ad un ospite che lo visita, che potrebbe essere lo stesso Carafa, non più tutore di un’autorità ma semplice cittadino, che rende omaggio all’antico avversario, alla presenza della Libertà, nelle nobili fattezze di una matrona seduta ai piedi del plinto del monumento, e della Gloria, simboleggiata da un’aquila che lascia cadere la catena di forzato sul blasone dell’antico casato dei duchi di Limburg.
[…] Per il Fusco, Antonio Bortone riassume prodigiosamente, con ritmo severo ed alato, le nostre glorie; per il Vacca, il motto del Bortone è nulla dies sine linea.
Alla sua morte, che lo colse il 2 aprile 1938, il vescovo di Lecce, monsignor Costa, in un commosso saluto pubblico su L’Ordine, scrisse: Il figlio più illustre del Salento, vanto dell’Arte, onore della Patria, si è spento nel bacio di Cristo […] Corsa di una vita di 94 anni, seminata di capolavori della mente e della mano, nei quali egli ha scolpito il suo nome per i secoli…
Ai funerali, io c’ero. A ridosso di Palazzo Carafa, guardavo una marea di gente che attraversava muta le vie di Lecce, al tocco lugubre del campanone del Duomo. Ero a Lecce per motivi di studio. Avevo tredici anni. Non potevo allora immaginare che proprio io sarei diventato il biografo di Antonio Bortone!
(Tratto da: “Antonio Bortone e la sua casa natale in Ruffano” di Aldo de Bernart, stampato in occasione della inaugurazione, nel 2004, della Domus Bortoniana, da parte dell’Amministrazione Comunale ruffanese)
Fra le numerose opere del Bortone,oltre a quelle citate, ricordiamo: il busto di Giuseppe Garibaldi, in marmo, che si trova presso il Castello CarloV di Lecce; presso la Biblioteca provinciale N.Bernardini di Lecce, i busti in marmo di G.C.Vanini, di Francesco Milizia, di Antonio Galateo e di Filippo Briganti; quello di Gino Capponi, presso Santa Croce in Firenze; il monumento a Quintino Sella, a Biella; il monumento a Francesca Capece, a Maglie; il monumento a Salvatore Trinchese, a Martano; il ritratto di Pietro Cavoti, in bronzo, presso il Convitto Colonna a Galatina; il monumento ai Martiri di Otranto; il monumento ai Caduti di Tuglie; il monumento ai Caduti di Ruffano; il monumento ai Caduti di Calimera;il monumento al Sottotenente Benedetto Degli Atti, nel Palazzo comunale di Guagnano; e tanti altri.
di Rocco Boccadamo
Marittima, piccola e amena località del Basso Salento, si presenta, per un cospicuo tratto del suo perimetro territoriale, come incorniciata da un susseguirsi di scogliere, seni, calette e anfratti, un mare letteralmente da favola.
In aggiunta, annovera apprezzabili attrattive naturali e paesaggistiche, fra cui vecchie torri costiere d’avvistamento e spettacolari sempre verdi distese d’ulivi, dalle vivide sfumature argentee, rese scintillanti dai riflessi dei raggi solari.
E, però, nella circostanza, al comune osservatore di strada, viene l’estro di soffermarsi su una connotazione del paesello solitamente sottaciuta, un aspetto incorporeo, in altre parole sulla sua anima.
Una bozza di rosario distintivo e descrittivo senza tempo, una copertina di semplici meditazioni, riflessioni e ricordi, solo in apparenza con correlazione esclusiva al passato, di fatto, invece, serbanti tuttora palpiti, segni, tracce di valori e modelli esistenziali che potrebbero utilmente calarsi anche nella quotidianità.
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E’ sufficiente spostarsi di un centinaio di metri dalla piazza principale e ci si trova immersi, quasi celati, in una serie di viuzze della tradizione, “a rreta a chiesia” si precisava una volta, delimitate da datate ma sempre linde casette a piano terra, alcune con la classica tinteggiatura bianca di calce, altre rivestite da allegre tonalità color pastello.
Davvero superfluo, davanti alle immagini che vanno sfilando, ogni altro commento del curioso passante, basta qualche istantanea per fissare indelebilmente le sequenze della pellicola.
La prima inquadratura è di casa Maroccia, che riconsegna alla mente le figure, uniche e in certo senso eccezionali in seno alla minuscola comunità, di Costantina e Filomena, madre e figlia, abili pasticciere, la seconda, in più, animatrice delle attività parrocchiali – religiose, a cominciare dalla vestizione, a sua cura, dello stuolo di ancileddri e ancileddre per l’arrivo del Bambino, ad ogni Natale di anni lontani.
Lì vicino, ancora, s’affaccia la casa, con annesso piccolo frantoio oleario sul lato opposto della via, già di Vitale F., detto Pisanelli, contadino, agricoltore e proprietario, attrezzato anche con calesse e cavallo.
Correva la voce che Vitale F., fra le altre sue abitudini, era in ogni tempo disponibile a ritirare, corrispondendo in cambio un piccolo compenso, un soldo per l’esattezza, le bisce, specialmente i comuni serpentelli neri, incontrati e catturati dai paesani durante i trasferimenti e i lavori nei campi.
Fra i terreni posseduti dal predetto, si distinguevano, per ubicazione e pregio, il “Casino” sovrastante l’area costiera di Chiancaliscia e la “Viia”, apprezzabile estensione situata lungo la strada di campagna che termina con il pianoro sormontato dalla Torre Lupo.
Un podere, la “Viia” (nome probabilmente influenzato da un francesismo), abbellito da una confortevole abitazione, più che rurale residenziale per la stagione calda, chiaramente secondo i canoni d’inizio 1900, le pareti esterne dipinte d’un rosso/viola tenue e carino, di cui, anche adesso, permangono chiari segni, sulla parte della struttura rimasta saldamente in piedi.
Dal confine a levante della “Viia” , si gode di una pregevole vista su Castro e sul Canale d’Otranto, in certe mattinate, specie d’inverno, con l’impressione supplementare di toccare con mano addirittura i rilievi vicini alla costa albanese.
In omaggio alla sopravvivenza, sempre auspicabile, di ciò che è bello, se non alla completa continuità delle sane abitudini e tradizioni, è incoraggiante e confortante sapere che, qualche anno addietro, la “Viia” è stata assunta in proprietà da un giovane artigiano, non sarebbe esagerato definirlo artista, marittimese, Simone F., il quale, ammirevolmente e lodevolmente, sta eseguendo, sull’immobile, importanti opere di ristrutturazione e mantenimento, a partire dall’elegante ingresso da Via Torre Lupo, delimitato da due solide ma armoniche colonne in muratura con conci di cave locali, nello stile d’una volta.
Intanto, Simone, in un progetto che prevede, nella “Viia”, l’esercizio di attività agricola biologica, ha animato il fondo con la presenza e l’allevamento allo stato brado di due magnifiche oche, nonché di una mula, al momento in addestramento presso una masseria di Otranto, da utilizzarsi per la sella e per l’aratura del terreno con metodi biodinamici, senza, cioè, il ricorso a trattori o mezzi meccanici similari a motore. Bravo, Simone!
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Ritornando alla strada di casa di Vitale F., Via Toselli, esistono, nei paraggi, altri indicativi punti o stazioni: la dimora di Clemente M., in vita ucciere (macellaio) part time e genitore di tre belle e brave figlie. Poi, l’uscio di Cosimo ‘u Barone, conosciuto e temuto dai ragazzi di ieri, soprattutto quale proprietario di un giardinetto confinante con il camposanto del paese e lo slargo adiacente adibito a campetto di calcio: tutte le volte che il pallone finiva col cadere nel podere del Barone, erano mal di pancia, con iniziali sonore proteste del buon uomo, minacce di sgonfiatura della sfera e lunghe trattative che, alla fine, peraltro erano sempre a favore dei giovanissimi giocatori.
Quindi, la casa dei coniugi Nuzzo, una coppia piissima, con sei figli tutti maschi, di cui il terzultimo e l’ultimo si sono fatti monaci e, ancora oggi, ormai nella terza età, si vedono arrivare d’estate per brevi periodi di vacanza.
Come non ricordare, infine, il piccolo terraneo, con confinante giardino, di zio Francesco e Zia Pietrice, i quali, tutti gli anni, in occasione delle Festa dei Santi Medici, avevano l’abitudine di regalare alla mia famiglia un paniere di uva e noci?
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Sono particolarmente affezionato a questo volto, un po’accantonato, del borgo natio, la sua anima senza tempo che va oltre le generazioni e gli eventi, un substrato interiore che, in fondo, sento alla stregua di un tutt’uno con la mia stessa anima.
E’ un legame della medesima intensità di quello che mi unisce a questo mare e alle persone più care.
di Antonio Faita
Nella società in cui viviamo la velocità delle informazioni, il loro accumularsi e susseguirsi senza ordine e mediazione, lo stesso loro “bruciarsi” nell’arco di poche ore nell’interesse delle persone sembra testimoniare la fine della storia. Lo scrittore Daniele Del Giudice, in un’intervista diceva: «quello in cui viviamo è il vero degrado, è l’uomo senza qualità».
La storia può essere ancora considerata maestra di vita?
La concezione che abbiamo della storia riflette quella che abbiamo della società. Occorre, dunque, recuperare ai giovani la certezza del futuro della società. E’ allora che la storia ed il suo insegnamento tornano ad essere essenziali nella formazione integrale della persona.
Dobbiamo essere coscienti che il fatto storico acquista “valore” secondo le idee di chi le interpreta. Conoscere il passato attraverso un’attenta riflessione è il richiamo continuo ai limiti delle nostre conoscenze. La scoperta ed il recupero agli studi di un immenso patrimonio d’arte e di oggettistica devozionale, nonché il reperimento di un notevole nucleo di documenti che consentono di approfondire la memoria storica delle nostre città a vari livelli di conoscenza, tentano di ricostruire un fenomeno, quello dell’associazionismo laicale, legato soprattutto al passato e che potrebbe sembrare controcorrente e un po’ passatista[1].
Ritengo opportuno, per la rara testimonianza dei documenti, riportare in questo articolo la trascrizione di due manoscritti, inediti per la loro caratteristica, pregni di un valore storico-sociale, devozionale, economico ed artistico, che rappresentano uno spaccato della vita religiosa del paese alla fine del ‘700.
Entrambi narrano le vicende di committenze ed arrivo di due simulacri lignei: il primo, del 1738, riguarda la statua della Madonna Immacolata, per
di Giovanna Falco
Queste note vogliono essere una sorta di appello a tutti i lettori. Il contributo di ognuno di noi potrebbe salvare dall’incuria un piccolo gioiello della scultura barocca, nascosto tra le stradine di Lecce vecchia.
In via Antonio Galateo[i], a pochi metri dell’incrocio con via Dasumno, corte Santo Stefano delle Canne e via Luigi Scarambone, sulla sinistra si nota un bellissimo portale. Purtroppo è in un avanzato stato di degrado, a causa della corrosione della pietra leccese. Non vi è dubbio che si tratti dell’accesso a un luogo di culto. Sull’architrave, infatti, sono scolpiti tre busti: a sinistra un vescovo, al centro una figura femminile orante, a destra Sant’Irene.
Ai lati della cornice del portale, sotto il busto del vescovo è scolpito un putto di fianco ad una colomba e sotto quello di Sant’Irene un putto che reca in mano una corona.
Il manufatto è stato realizzato sicuramente prima del 1658, perché Sant’Irene, antica patrona di Lecce, regge con la mano destra il modellino della città, simbolo, appunto, dei santi protettori.
Il 1658 è l’anno in cui il leccese Sant’Oronzo fu solennemente proclamato primo patrono cittadino, e la santa di origini orientali fu relegata a un ruolo di secondo piano.
Il vescovo raffigurato potrebbe essere lo stesso Sant’Oronzo, San Giusto o San Biagio, santi vescovi molto venerati in città, perché legati alla storia di Lecce. Le effigi dei primi due affiancano la statua di Sant’Irene nell’omonimo altare della chiesa dei Teatini attribuito a Giuseppe Zimbalo, commissionato dall’Universitas e già realizzato nel 1652[ii]. San Biagio, secondo la tradizione locale, era un «gentil huomo Leccese, il qual fuggendo la persecutione de’ Tiranni, se ne passò con una nave in Sebaste» dove fu proclamato vescovo e poi martirizzato»[iii]. Sia a San Giusto, sia a San Biagio, inoltre, furono dedicate due porte della città e di conseguenza i due quartieri in cui ricadevano.
Nulla è dato sapere riguardo alla figura femminile centrale. Le si potrebbero riferire la colomba e la corona scolpite sotto l’architrave. Un esempio di orante, colomba e corona, ritratte insieme, è la paleocristiana Epigrafe d’Alessandra, conservata presso il Museo Pio Cristiano di Roma: l’orante con le braccia alzate è raffigurata di fianco alla colomba che regge nel becco una corona. Una colomba recante la corona, questa volta in volo, è scolpita sul Sarcofago degli Agnelli, d’età gota, ubicato all’ingresso di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna. Nella simbologia cristiana colomba e corona rappresentano (tra l’altro), rispettivamente, la purezza e il martirio, così come, nel simbolismo tombale l’orante rappresenta l’anima del defunto in preghiera e la colomba, l’anima che s’innalza verso il cielo recando in bocca, in alcuni casi, la corona dei martiri.
La chiesetta in via Antonio Galateo fu eretta in memoria di un defunto? Lo scultore volle rappresentare separatamente colomba e corona, per esigenze di carattere decorativo?
Dalle fonti a disposizione non è dato sapere a chi fosse intitolata la chiesa, a che epoca risalga, né tanto meno chi la fondò.
Qualche flebile traccia si può ricavare dagli elenchi delle chiese e degli isolati di Lecce, datati tra Cinque e Seicento[iv]. Nei pressi del portale, oltre alla cappella di Sant’Antonio di dentro, ancora in loco, sono attestate San Giorgio de’ Capperini, Santa Maria del Popolo, S. Biasi de Rugge e Santo Stefano delle canne.
La chiesa San Giorgio de’ Capperini, molto probabilmente era sul lato destro di via Antonio Galateo o via Luigi Scarambone, perché Infantino la ubica di fronte a quella di Santa Maria del Popolo. Quella di San Biasi de Rugge è citata solo nell’isolario del 1606, tra le isole della parrocchia del Vescovado, prima di quella di S. Francesco Montefusco e dopo di quella delle Cartelle.
Il campo, dunque, si restringe a Santa Maria del Popolo e a Santo Stefano delle Canne.
La chiesa di Santa Maria del Popolo, è elencata da Infantino nella parrocchia di Santa Maria della Porta, prima di quella di Santa Maria della Visitazione e dopo di quella di San Giorgio dei Capperini. Infantino la ubica di fronte a quella di San Giorgio, «dentro il cortile delle case della Badia di Cerrate»[v], cui apparteneva, e ritiene che anticamente fosse dedicata a San Simeone. Nel 1508 l’isola di Sti Simeonis è elencata prima di Sti Antonij (Sant’Antonio di dentro) e dopo Sti Georgii del portaggio San Giusto.
L’isola di Santo Stefano delle Canne, o meglio Santo Stefano de Canne insino all’hospidale, nello Stato delle Anime del 1631 è elencata prima di quella della Chiesa Nuova e dopo di quella di San Francesco nella parrocchia del Vescovado[vi]. Nel 1634, Infantino elenca la chiesa tra quelle di San Francesco de’ Quartarari e quella di Sant’Angelo nella parrocchia del Duomo. Non si sofferma sulla descrizione, accennando solo al fatto che era così denominata perché le era stato assegnato il titolo di una cappella che sorgeva fuori le mura della città, vicino a un canneto: la cappella extra urbana e il canneto erano ancora visibili nel 1634.
Nel 1871 Luigi Giuseppe De Simone compilò le nuove tabelle denominative delle vie di Lecce, derivate da un approfondito studio della storia di Lecce, da cui scaturì l’opera Lecce e i suoi monumenti[vii]. Dedicò la corte Damiani a Santo Stefano delle Canne, forse riteneva che l’antica chiesa sorgesse in questo slargo. Nicola Vacca ebbe qualche dubbio riguardo questa ubicazione, e nelle Postille all’opera di De Simone citò un manoscritto di Martirano: «Questa cappella fu attaccata a delle case riedificate dal fu Antonio cav. Macchia (che mutata a casa vecchia la trovò) non già nella corte dei Damiano, ov’è la Chiesa della Nascita fin da otto secoli beneficiata di patronato dei suddetti Damiano»[viii]. La Chiesa della Nascita, potrebbe essere Santa Maria del Popolo di Infantino, ubicata nel cortile della Badia di Cerrate. Nell’elenco degli edifici proposti a vincolo di tutela dal Piano Regolatore di Lecce, al n. 153 corrisponde la Chiesa dell’Assunta, situata nella corte Santo Stefano delle canne[ix].
La chiesa sotto le case del cavalier Antonio Macchia, citata da Martirano, potrebbe corrispondere al portale di via Antonio Galateo?
Nuovi studi permetterebbero di approfondire la conoscenza, come ad esempio la consultazione delle Visite Pastorali e degli atti notarili inerenti al cavalier Macchia. Un’approfondita analisi stilistica, potrebbe apportare nuovi contributi e conferire il giusto valore a questo portale.
Un’ultima considerazione.
Presso il Museo Provinciale “Sigismondo Castromediano” di Lecce, è conservato l’arco di un portale, dove sono scolpite due lupe sotto il leccio. Apparteneva alla chiesa di Santa Maria del Gaviglio, anticamente ubicata in via delle Bombarde al numero civico 3, ricostruita nel 1546 e già diroccata nel 1772[x]. Attribuibile a Gabriele Riccardi, il portale fu smontato e acquisito dal Museo, perché rischiava la rovina[xi]. Sarebbe il caso che anche le sculture di via Antonio Galateo siano smontate e conservate presso un luogo adatto a preservarle dalla distruzione?
[i] È la prima traversa a sinistra di via Giuseppe Libertini, che s’incontra dopo porta Rudiae.
[ii] Cfr. G. FALCO, Lo Stemma di Lecce: momenti e monumenti. La Torre, la Lupa e il Leccio, Lecce 2007, p.89.
[iii] G. C. INFANTINO, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), p. 59.
[iv] Cfr. A. FOSCARINI, Lecce d’altri tempi. Ricordi di vecchie isole, cappelle e denominazioni stradali (contributo per la topografia leccese), in “Iapigia”, a. VI, 1935, pp. 425-451 (elenca le isole esistenti a Lecce nel 1508); N. Vacca, Lecce nel ‘600. Rilievi topografici e demografici. I gonfaloni dei quattro «pittagi» che componevano la città, in “Rinascenza Salentina”, VII, 1939, 1, pp. 91-95 (elenca le isole esistenti a Lecce nel 1606 e nel 1620); P. DE LEO, Uno sconosciuto stato delle anime della città di Lecce del 1631, in “Almanacco Salentino 1968-69”, Cutrofiano 1968, pp. 57-66 (elenca le isole esistenti a Lecce nel 1631); G. C. INFANTINO, op. cit. (elenca le chiese esistenti a Lecce nel 1634).
[v] G. C. INFANTINO, op. cit., p. 80
[vi] Nel 1631 l’isola contava 65 fuochi (famiglie) e vi abitavano, tra gli altri, Gio. Domenico Gravili con Sibilla, Cesare e Grazia Antonia Colonna; Isabella Mancarella con Giuseppe e D. Lupo Antonio Venuto; Orazio Celonese.
[vii] Cfr. L. G. DE SIMONE, Lecce e i suoi monumenti. La città, Lecce 1874, nuova edizione postillata a cura di N. Vacca, Lecce 1964.
[viii] Ivi, p. 423.
[ix] Cfr. Tavola 3.11 Edifici vincolati e proposti per il vincolo nel centro storico, del Documento Programmatico Preliminare al Piano Urbanistico Generale.
[x] Cfr. G. FALCO, op. cit. pp. 77-78.
[xi] Cfr. A. CASSIANO, La pinacoteca del Museo Provinciale di Lecce: istituzione e acquisizione, in R. POSO – L. GALANTE (a c. di), Tra metodo e ricerca. Contributi di storia dell’arte, Galatina 1991, pp. 179-206: pag. 204.
di Giovanna Falco
Occorre fare un passo indietro per conoscere la storia di questo manufatto e dell’uomo che l’ha ispirato. Si può seguire questo percorso leggendo il monumento che racchiude i momenti salienti della vita di questo grande personaggio, non solo patriota e poi deputato salentino della prima legislatura del Regno d’Italia, ma anche infaticabile custode della storia della nostra terra.
Il monumento, opera dello scultore Antonio Bortone (1844-1938), fu commissionato nel 1898 da Giuseppe Pellegrino, all’epoca Sindaco di Lecce, e, realizzato grazie ai contributi di Umberto I il Ministero l’Amministrazione Provinciale / il Capoluogo i comuni cittadini[1], fondi in parte raccolti grazie alla sottoscrizione aperta da Adele Savio, la nobildonna torinese cui Castromediano dedicò le Memorie[2]. Pellegrino insistette molto per farlo realizzare, tant’è vero che Bortone gli scrisse: «Se il monumento a Castromediano è veramente piaciuto ne sono essenzialmente contento per te mio buon amico che per vedere attuato quel tuo nobilissimo pensiero hai dovuto sopportare non poche amarezze e lottare molto»[3].
Bortone ha ritratto il Duca in piedi, appoggiato con la mano sinistra a una sedia, dov’è stata posata frettolosamente una coperta. Reca nella mano destra, porgendolo al visitatore, il manoscritto delle sue Memorie, l’opera in cui racconta i moti del 1848, la condanna, gli undici anni di carcere, l’esilio.
Potrebbe aver voluto rappresentare idealmente uno dei momenti più significativi della vita di Sigismondo Castromediano: l’incontro tra il duca e re Umberto I avvenuto il 23 agosto 1889 nelle sale del Museo Provinciale[4]. La coperta abbandonata denoterebbe l’accantonamento della vecchiaia e delle sofferenze subite, la postura altera di Castromediano, ritratto in tutto il suo vigore, è sinonimo dell’orgoglio di porgere al re, e quindi a tutta l’Italia, il suo contributo, e quello di tutta la Terra d’Otranto, alla Patria.
Ai piedi della statua, sul davanti, troneggia una rappresentazione della Libertà «nelle nobili fattezze di una matrona seduta», sul lato posteriore la Gloria è «simboleggiata da un’aquila che lascia cadere la catena di forzato sul blasone dell’antico casato dei duchi di Limburg»[5].
Sul lato sinistro del monumento, sull’alto plinto in marmo si legge: Nei tormenti della pena / non mutò l’animo. Sotto sono elencate le carceri dove fu imprigionato: Procida, Montefusco, Montesarchio, Nisida, Ischia[6].
Sul lato destro, la scritta Ai compagni fedele / sdegnò privilegio / pari ne volle la sorte, è accompagnata dall’elenco dei loro nomi (qui riportati per esteso e correttamente): Nicola Schiavoni di Manduria, Michelangelo Verri di Lecce, Leone Tuzzo di Scilla, Maurizio Casaburi di Manduria, Carlo D’Arpe di Lecce, Nicola Donadio di Manduria, Francesco Erario di Manduria, Pasquale Persico di Lecce, Gennaro Simini di Lecce, Luigi Cosentini di Otranto, Giuseppe De Simone di Lecce, Dell’Antoglietta[7] di Lecce, Gaetano Madaro di Monteroni, Giovanni De Michele di Lecce, Salvatore Stampacchia di Lecce, Achille Bortone di Lecce.
Scorrendo le pagine delle Memorie[8], si viene a sapere che queste persone (tranne il dottor Gennaro Simini, in precedenza espatriato), il 2 dicembre 1850 furono condannate a carcerazioni di varia entità (dai trent’anni di ferri inflitti a Castromediano e a Schiavoni all’anno di reclusione stabilito per Bortone), sentenza conseguente alla partecipazione, a vario titolo, ai moti del 1848, cui seguì l’arresto per cospirazione e insurrezione contro Ferdinando II. In questo elenco non sono citati il sacerdote di San Pietro Vernotico Nicola Valzani, il canonico Salvatore Filotico di Manduria (morto in carcere), Giuseppe Amati di Lecce. La frase che accompagna i nomi sul monumento, si riferisce al rifiuto di Castromediano alla proposta di grazia ottenuta nel 1854, per l’intercessione del Vescovo di Lecce Nicola Caputo, durante la sua detenzione a Montefusco.
[1] La targa è situata alla base del monumento, sotto l’aquila. Parteciparono con somme più o meno ingenti, anche il Presidente del Consiglio dei Ministri Luigi Pelloux e vari Comuni di Terra d’Otranto (Cfr. Ivi, pp. 54-55).
[2] Cfr. S. CASTROMEDIANO, Carceri e galere politiche – Memorie del Duca Sigismondo Castromediano, Lecce 1895, 2 vol. (ed. anast., Bologna 1975).
[3] R. DOLCE PELLEGRINO, Il monumento a Sigismondo Castromediano nel carteggio Savio – Pellegrino cit., p. 58.
[4] Il sovrano era venuto a Lecce per una breve visita con il figlio Vittorio Emanuele, il Presidente del Consiglio Francesco Crispi e i ministri Benedetto Brin e Pietro Lacava. Cosimo De Giorgi era presente all’incontro. Racconta che: «Appena il Re lo vide con accento franco, affettuoso e sorridente, affrettando il passo innanzi a tutti corse ad abbracciarlo». I due, poi, si appartarono in una sala. Quando tornarono dagli altri, erano molto commossi. Castromediano non raccontò mai a nessuno quello che si erano detti, ma commentò l’evento sull’albo dei visitatori del museo. Sotto la firma del re e dei suoi accompagnatori, scrisse: «Con molta loro sodisfazione, tutto ammirando, commentando, spiegando, stettero in detto Museo dalle 5 e mezzo pom. sino alle 6. Onore che non dovrà giammai dimenticarsi» (C. DE GIORGI, Il Duca Castromediano e il Museo Provinciale di Lecce, in “Numero Unico”, Lecce 1896, pp.5-11: p. 5).
[5] Cfr. Antonio Bortone da Ruffano (1844-1938), il mago salentino dello scalpello, pubblicato il 30 dicembre 2010 su Spigolature Salentine da Paolo Vincenti.
[6] Le carceri dove Castromediano soggiornò più a lungo, oltre quelle leccesi (dove fu recluso dal 30 ottobre 1848 al 28 maggio 1851), furono Procida, Montefusco e Montesarchio (Cfr. S. CASTROMEDIANO, Carceri e galere politiche cit.).
[7] Sul monumento manca l’iniziale del nome di Dell’Antoglietta, non si sa, dunque, se chi ha redatto l’elenco si riferisca ad Achille (condannato il 2 dicembre 1850 a quattro anni di prigione), o a Domenico che subì una condanna a dodici anni in un altro processo e incontrò Castromediano al momento dell’imbarco per l’esilio.
[8] Cfr. S. CASTROMEDIANO, Carceri e galere politiche cit., pp. 123-159.
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