Il convento di Santa Maria del Tempio a Lecce, ricordo di un monumento scomparso…
Che c’era in Piazza Tito Schipa?
di Valerio Terragno
Pochi mesi fà, durante gli scavi effettuati per la creazione di un parcheggio sotterraneo in piazza Tito Schipa, nel cuore di Lecce, sono venuti alla luce i resti di colonne e di ambienti sotterranei, forse tombe.
In questo luogo, sorgeva il convento di Santa Maria del Tempio, una delle principali dimore francescane del Salento, divenuto caserma nell’ottocento, a seguito dell’abbandono da parte dei religiosi.
Il convento, in origine tenuto dai Francescani Osservanti, fu costruito nel 1432 per volontà del barone di Corigliano d’Otranto Nuzzo Drimi e di suo figlio Lorenzo.
Sorto al di fuori delle mura di Lecce, verso sud- est, per volontà del barone Nuzzo Drimi esso venne ampliato ed abbellito grazie alle offerte dei fedeli leccesi, molto legati alla figura del fraticello d’Assisi e della Vergine, desiderosi così di avere un nuovo punto di riferimento religioso.
Questo complesso sorse accanto ad un’ antica chiesa, in stile tardo-gotico, dedicata alla Presentazione della Madonna al Tempio detta della Candelora eretta al tempo dei Principi angioini di Taranto.
Il primo rifacimento
Nel corso del 500, gli Osservanti, diramazione dell’ordine francescano, demolirono l’originario convento e lo ricostruirono, ampliandolo, in stile gotico – rinascimentale, su disegno di Padre Riccardo Maremonti ministro provinciale dei Francescani Osservanti. Frate Maremonti progettò la sacrestìa, le cucine, il refertorio ed il bel chiostro costituito da una fuga di archi ogivali sorretti da colonne con capitelli di tipo ionico.
Dopo padre Riccardo furono i suoi parenti Silvia e Filippo Maremonti ad interessarsi dell’ampliamento del chiostro e dell’arricchimento della residenza monastica.
Nel 1591 i Francescani Osservanti donarono il Convento ai Riformati, altra diramazione monastica dell’ordine, per farne la sede di noviziato in cui poter istruire tutti i fanciulli che volevano diventare frati.
Grazie alla presenza dei Francescani Riformati, Santa Maria del Tempio accrebbe sempre di più il proprio prestigio, fino a diventare la prima sede conventuale della provincia minoritica di San Nicola, che nel 600 comprendeva gran parte dei conventi della Terra d’Otranto.
Tra le sue mura sorsero una biblioteca ricca di importanti testi e documenti, un’infermerìa, un dormitorio ed una scuola di teologìa e di pittura. Nel Convento del Tempio dipinsero fra Giacomo da San Vito e fra Giuseppe da Gravina, il quale affrescò il chiostro con scene della vita di San Francesco d’Assisi, a somiglianza di quello della Basilica di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina. In questo convento fiorì la scuola teologica leccese nella quale operarono molti insegnanti prestigiosi.Tra i nomi dei francescani illustri vissuti nella dimora di Santa Maria del Tempio spiccano Padre Gregorio Scherio, il poeta Serafino d’Alessandro da Grottaglie, Giacomo da Lequile, l’architetto Nicola Milelli o da Lequile che costruì il santuario barocco del Crocifisso a Galatone e Bonaventura da Lama, famoso storico-teologo.
La chiesa
La parte più bella di tutta la dimora conventuale doveva essere la chiesa, realizzata ad una sola navata, sulla quale si affacciavano un coro, i matronei e le cappelle laterali, appartenute a nobili famiglie leccesi e salentine come i Condò , i Lecciso, i Maremonti, i Di Giorgio ed i D’Andrea.
Questa chiesa custodiva al suo interno preziose opere d’arte, come l’affresco mariano proveniente dal primitivo edificio, la statua di Sant’Antonio da Padova scolpita da Gabriele Riccardi, la tela dell’Immacolata attribuita a Francesco da Martina Franca, una tavola bizantineggiante raffigurante la Vergine, un Crocefisso opera di fra Angelo da Pietrafitta, la statua di Santa Lucìa attribuita a Francesco Maria Palmieri, la pala conla Presentazione della Vergine al Tempio ed il meraviglioso tabernacolo eseguito da Frà Giuseppe da Soleto. Molte di queste opere, disperse a seguito della soppressione risorgimentale del convento, sono oggi collocate in alcune chiese salentine come quelle di San Lazzaro, di Santa Maria della Grazie e la Parrocchiale di Merine.
Il soffitto ligneo fu commissionato dal devoto Lelio Bozzi che si fece raffigurare inginocchiato nel quadro raffigurante la Presentazione della Madonna al Tempio, collocato al centro della volta.
Nella chiesa di Santa Maria del Tempio si conservavano alcuni oggetti venerati dai fedeli come reliquie, quali un pezzo di legno della Croce ed una spina della Corona di Cristo.
L’attigua sacrestìa era provvista di alcuni armadi realizzati in legno d’ulivo, completamente istoriati e al cui interno si custodivano preziose suppellettili. La chiesa fu pure luogo di sepoltura non solo per i frati ma pure per parte dei cittadini leccesi.
Nel 1811, al tempo del governo napoleonico, il convento fu soppresso e chiuso per la prima volta, venendo adibito ad ospedale per accogliere i malati di tifo petecchiale. Qualche anno più tardi, nel 1822, su interessamento dell’attivo frate Angelo da Lecce, Santa Maria del Tempio ritornò nelle mani dei Francescani Osservanti . Intorno al1850, inquesto convento fu impiantato lo Studio Generale dell’Ordine, ma la dimora non raggiunse, dal punto di vista culturale, l’originario prestigio culturale religioso. A seguito della seconda soppressione, quella sabauda, il complesso smise, definitivamente, di essere un convento, venendo trasformato in caserma nel 1872.
Chi era Oronzo Massa?
Il primo nome di questo distretto militare fu quello di ” Caserma Tempio”, sostituito poi, nel 1905, con l’intitolazione ad Oronzo Massa, ufficiale salentino che partecipò alla rivoluzione partenopea del 1799, fucilato nell’agosto di quell’anno nel carcere del Carmine a Napoli, per aver sostenuto la causa repubblicana, rivelandosi così ostile e nemico della monarchìa borbonica.
Negli anni 40 e 50 del 900, l’ex convento fu adibito sia a scuola media che abitazione di militari; i suoi ampli e rigogliosi giardini e frutteti scomparvero per dar posto a nuove costruzioni.
Poco fuori l’edificio si trovava inoltre un monumento eretto in onore dei Caduti del ’95 Reggimento Fanteria, realizzato, in pietra di Ostuni, dallo scultore Angelo Cocchieri.
Nel febbraio 1971, iniziarono i lavori di demolizione di tutta la struttura, per realizzare l’attuale piazza sulla quale sarebbe dovuta sorgere una struttura tesa a divenire punto di riferimento per la vita pubblica e culturale della città, opera tuttavia ancora non realizzata.
In questo modo Lecce ha perso uno dei suoi monumenti più belli ed importanti del XVI secolo, la cui esistenza oggi è rappresentata soltanto da sbiadite fotografìe in bianco e nero ed è custodita nei ricordi dei pochi anziani leccesi che ebbero l’opportunità di vivere una testimonianza di cultura e di arte, oramai inesorabilmente scomparsa.
pubblicato su Paesenuovo del 2 luglio 2011. Si ringraziano il direttore della testata Mauro Marino e l’Autore per la gentile concessione.
In illo tempore, e anche dopo, la gente lavorava una giornata intera per due chili e mezzo di farina, appena per dare da mangiare ad una piccola famiglia; oppure, se aveva di che sfamarsi e possedeva qualche gallina, per dieci chili di crusca. Un salario in moneta non era previsto.
Così quando era stata tagliata la roccia per allargare la strada di San Vito, così quando era stata alzata la piazza del paese.
Prima la chiesa di San Giorgio era ad un livello più alto di quello della piazza, come tutte le chiese, e per entrarvi si salivano tre gradini di pietra di Cursi consunti dall’uso secolare. Quei gradini Buonafede Martano saliva di corsa con lo stendardo di San Giorgio che teneva inclinato fino a farlo passare dalla porta e innalzava subito dentro la chiesa, con la forza dei muscoli delle braccia. Uno stendardo che aveva l’asta lunga sei metri e che nessun altro era capace di portare in processione con il drappo spiegato al vento. C’era stato, invero, un altro più forte di lui, un certo Giorgio detto Cocculo, che riusciva a sollevare lo stendardo da terra da solo, addirittura con uno sgabello legato alla punta dell’asta, ed era entrato nella leggenda.
La piazza era stata riempita con pietre trasportate da specchie(1) di Cazzafarri, Vignaudhia e delle Urle, con traìne(2), per giorni e giorni.
Di fronte alla chiesa, addossate al magazzino(3) dei Rizzelli, erano ammucchiate alcune vecchie costruzioni e lì c’era stato l’ufficio postale, nonché un’aula per la scuola. C’era stata anche la bottega di mastro Raffaele Ncoppe, vinaio, e poi quella di mastro Umberto che aggiustava biciclette.
Ora noi conosciamo la piazza così com’è, squadrata e con un marciapiede in mezzo, ma era molto diversa una volta. A fianco delle vecchie case, vicino al cortile di Toitoi, c’era una cisterna con un ampio puteale in unico blocco di pietra, che spesso serviva da scivolo ai ragazzi.
Era una cisterna posseduta in comunione da cui più famiglie attingevano acqua; trasformata poi in pozzo perdente, ora raccoglie le acque del tombino
E’ notorio come le carni equine non siano apprezzate univocamente in tutta la penisola italiana, bensì, come il loro uso, sia circoscritto a piccole aree sparse a macchia di leopardo, tanto a Nord, quanto nel Centro-Sud.
Una delle più estese, è senza dubbio il Salento, ove il consumo di carni equine o ferrate, come vengono localmente denominate, è quantitativamente paragonabile a quello delle carni bovine e suine.
Nessuno azzarda a ipotizzare una continuità storica, ma è un dato scientificamente comprovato, che le carni di un piccolo equide: l’Asino Idruntino (Equus asinus hydruntinus), fossero qui, già cospicuamente consumate, sin dal Paleolitico Medio e Superiore, come una grande mole di reperti, ritrovati in molte grotte del Salento testimoniano. Forse, ma è sempre un’ipotesi, l’estinzione di questo simpatico asinello dalla testa di mulo, sopravvissuto persino alla terribile glaciazione wurmiana,
Mauro Manieri e l’altare di San Michele Arcangelo nella chiesa del Carmine in Lecce
A Lecce, nella chiesa di Santa Maria del Carmine in piazza Tancredi, è custodito l’altare di San Michele Arcangelo, realizzato nel 1736 da Mauro Manieri e le sue maestranze. È una delle opere più interessanti per la storia dell’arte leccese, perché il suo artefice l’ha progettata e realizzata nella sua totalità.
L’altare in pietra leccese è situato nella prima cappella a destra entrando nella chiesa. Sui due pilastri laterali che delimitano la nicchia, sono murate due epigrafi inneggianti a San Michele Arcangelo[1]. Vi si ascende da due gradini, sul piano di calpestio si apre una botola coperta da una pedana di legno. Il sarcofago bombato, decorato con volute, è delimitato da due busti di angelo.
La mensa si articola in tre gradi finemente intagliati. L’ancona convessa è contenuta tra due stipiti costituiti da brevi pilastri, scolpiti con decorazioni barocche, e sormontati da capitelli con foglie di acanto. Su questi poggiano le cariatidi scolpite a tutto tondo, raffiguranti a sinistra la Superbia e a destra l’Ambizione. Le due figure, incatenate, sono abbigliate con una semplice tunica, forgiata con panneggi molto movimentati, e indossano un copricapo che funge da appoggio ai capitelli sovrastanti. Questi ultimi presentano le stesse decorazioni dei capitelli delle paraste che racchiudono l’edicola ovale con San Michele Arcangelo: foglie di acanto sormontate da rosette. Alla base delle paraste, articolate verticalmente in tre gradi, due coppie di putti innalzano armature vuote, complete dei loro accessori e sormontate da croci.
L’edicola è racchiusa, alla base da tre testine di putti, due laterali e una centrale, in alto da due decorazioni angolari, formate da una rosetta contornata da foglie. Sui capitelli è posata una cornice mistilinea che funge da elemento di raccordo tra i due ordini dell’altare: al centro sono seduti due putti separati da due palme che s’incrociano. Il fastigio, più stretto e arretrato rispetto al settore sottostante, termina con una breve cornice mistilinea, composta da un elemento centrale curvo e sormontata da una testa di angelo. Al di sotto è ubicata un’edicola, cinta da una composita cornice che racchiude un dipinto raffigurante il Redentore. Ai lati dell’edicola sono presenti due sculture a tutto tondo raffiguranti angeli seduti e rivolti verso di essa. La composizione è delimitata da due volute, le cui estremità inferiori sono forgiate a guisa di busto di angelo. L’edicola centrale ospita la pala ovale con l’altorilievo di San Michele Arcangelo, racchiusa in una cornice lignea. Sotto la scritta“QUIS UT DEUS”, è ritratto il Santo con la spada sguainata, nell’atto di trafiggere il drago. Il manufatto è stato descritto nel Settecento come un’«effice di creta cotta e messa in argento che sembra di argento in pietra, opera degna del signor D. Mauro Manieri»[2]. Le analisi di laboratorio, eseguite durante il restauro dell’opera, hanno rilevato un «assemblaggio di vari materiali, dal sughero alla terracotta alla cartapesta»[3].
Per quanto le sculture siano scolpite con uno stile riconducibile al barocco romano e risalgono al 1736, l’apparato iconografico dell’altare si rifà a una concezione già riscontrata a Lecce nella facciata della basilica di Santa Croce, dove Marcello Fagiolo e Vincenzo Cazzato suppongono che le decorazioni alludano alla vittoria della Fede sugli infedeli [4]. Nell’altare del Carmine, la Superbia e l’Ambizione sono incatenate e spogliate delle armature simboleggianti il loro potere. Queste ultime sono state conquistate dall’Autorità celeste, rappresentata dai putti che le sostengono e dalla croce sovrastante. Così come nel Carmine le due statue sorreggono la sezione superiore dell’altare, destinata al Redentore e ai suoi messaggeri, in Santa Croce sui telamoni (allegoria degli infedeli) ricade tutto il peso della Fede, rappresentata negli ordini superiori della facciata. È la stessa foggia che si riscontra nelle due coppie di cariatidi, poste ai lati del portone di palazzo Marrese, in piazzetta Ignazio Falcomieri a Lecce. Nel Carmine, inoltre, si nota il forte contrasto tra la posizione scomposta delle figure inferiori e la serafica tranquillità degli angeli di fianco al Redentore. Un altro elemento già riscontrato nel Cinquecento a Lecce, in porta Napoli e sul Sedile, è l’armatura vuota, da interpretare come trofeo delle vittorie conseguite da Carlo V. Questo elemento ricompare in seguito su porta Rudiae, realizzata nel 1703 e attribuita da Michele Paone a Giuseppe Cino[5]. Nel Carmine potrebbe rappresentare la vittoria dell’Arcangelo Michele sulle debolezze umane. Il tema della vittoria è trascritto anche nel testo delle lapidi inneggianti al Santo, da cui si rilevano le varie facoltà attribuitegli nel Settecento, e, allo stesso tempo, il monito nei riguardi di chi non lo venerava, già rappresentato dalle due cariatidi incatenate.
L’apparato iconografico dell’altare denota una regia unitaria, che non tralascia nulla al caso. L’unico elemento di difficile lettura è rappresentato dai due putti con le palme incrociate, poiché non è dato sapere se alludano al culto di San Michele o al committente dell’altare. Dalle fonti consultate, infatti, non è stato possibile evincere se l’altare fu commissionato dai frati, da una famiglia nobile o da uno dei due pii sodalizi che avevano sede nella chiesa: l’Oratorio degli Artisti e la Confraternita del Carmine. Sono riconducibili al committente gli autori del testo delle epigrafi: «pantal: diac:» e «d: laurent: iust».
San Michele Arcangelo, è ritratto nell’atto di trafiggere il Male, rappresentato dal drago. E’ la stessa iconografia con cui usualmente è rappresentato il profeta Elia, raffigurato anche nell’altare di fronte a quello di San Michele nel Carmine. Qui l’ovale racchiude la pala dipinta da Gian Domenico Catalano tra Cinque e Seicento. A differenza dell’altorilievo attribuito a Manieri, Lucifero è ritratto con sembianze umane. Si potrebbe leggere nella decisione di ubicare i due altari di fianco all’entrata della chiesa, un monito ai fedeli contro le forze del Male, o, viceversa, per chiunque entri nel pio luogo, la protezione dei difensori della Cristianità dal Maligno. Potrebbe, altrimenti, indicare l’importanza del culto dei due Santi nella comunità carmelitana. La centralità della figura del profeta Elia nell’Ordine Carmelitano è nota[6], non è altrettanto facile comprendere la devozione dei padri nei riguardi di San Michele. Nello specifico, per la comunità carmelitana leccese, è giunta testimonianza di un’immagine dell’Arcangelo Michele di legno indorato, acquistata, nel 1614 a Napoli insieme con altre cinque statue, per adornare l’altare maggiore[7]. Nella chiesa del Carmine si trova un’altra immagine del Santo: è un dipinto riposto nell’edicola superiore del sesto altare intitolato a Sant’Anna, ubicato nel transetto a destra[8].
La venerazione per San Michele Arcangelo si diffuse in Italia a causa della lotta iconoclasta che ebbe luogo nell’Impero d’Oriente tra il VII e il IX secolo: molti religiosi si rifugiarono in Occidente e trasmisero la loro dottrina alla popolazione che li aveva accolti. Il culto di San Michele Arcangelo, inoltre, fu imposto nei domini bizantini durante l’impero di Niceforo Foca (964-969), tra questi era annoverata Otranto, la cui diocesi era alle dirette dipendenze della chiesa di Costantinopoli. Riguardo alla situazione leccese, non ci sono giunte testimonianze dirette che attestano la situazione dell’epoca. Le uniche tracce pervenuteci risalgono al 1300 e riguardano la consacrazione a San Michele Arcangelo della chiesa degli Agostiniani, già dedicata a Santa Maria di Costantinopoli[9]. Tra Cinque e Settecento, inoltre, furono realizzate svariate effigi dell’Arcangelo Michele, riscontrabili sia su edifici privati, sia all’interno e all’esterno di alcune chiese[10]. Sono attribuite a Mauro Manieri altre quattro sculture raffiguranti San Michele Arcangelo: sono ubicate sulla colonna angolare di palazzo Panzera in via degli Ammirati; nella mensola centrale del portale di palazzo Marrese in piazzetta Ignazio Falconieri, dove due coppie di cariatidi, abbigliate come quelle del Carmine, sono scolpite ai lati del portale; sul fastigio, a sinistra, della chiesa dei Santi Niccolò e Cataldo degli Olivetani (1716) e nella nicchia a sinistra del portale della chiesa di Santa Maria della Provvidenza delle Alcantarine[11].
Il motivo per cui molte immagini di San Michele Arcangelo risalgono ai primi anni del Settecento e ben quattro, oltre a quella nel Carmine, sono state attribuite a Mauro Manieri, verosimilmente dipende dal fatto che nel 1688 il Santo fu proclamato protettore generale del Regno di Napoli.
L’altare di San Michele Arcangelo è il frutto della maturità acquisita da Mauro Manieri nel corso degli anni. Il suo ingegno derivò da un’approfondita preparazione classica. Il diciannovenne Mauro Manieri fu definito dall’abate e letterato Domenico De Angelis, un «giovane di elevatissimo ingegno, e di molte aspettazione nelle lettere latine»[12]. Nell’atto di matrimonio, celebrato a Nardò nel 1710 dal vescovo Antonio Sanfelice, è scritto: «Clericus Maurus Manieri Utriusque Juris Doctor Lyciensis»[13]. Ulteriori notizie si apprendono da Nicola Vacca: fu «censore, dottore e matematico»[14]. Ricoprì la carica di censore, infatti, per l’Accademia degli Spioni, cui si aggregò giovanissimo producendo tre componimenti poetici in latino[15]. Mauro Manieri fu membro anche dell’Accademia dei Trasformatori e della colonia leccese della napoletana Arcadia, presso la quale assunse il nome di Liralbo[16]. Completò la sua formazione un soggiorno a Roma, dove conobbe personalmente i capolavori dei grandi protagonisti del barocco, tracciandone gli schizzi, cui s’ispirò al momento della progettazione delle sue opere[17].
Quest’assunto è facilmente riscontrabile mettendo a confronto il San Michele Arcangelo del Carmine con l’angelo posto a sinistra della Cattedra di San Pietro nella Basilica Vaticana, realizzata tra il 1657 e il 1666 da Gian Lorenzo Bernini e i suoi aiuti[18]. L’angelo berniniano è ritratto in un atteggiamento di scarto: posato su una nuvola, reca in mano una palma. Nell’opera di Mauro Manieri gli attributi iconografici cambiano, ma si riscontrano la posizione simile delle gambe, così come la stessa impostazione dell’ala a sinistra di chi guarda. Mutano le torsioni della testa e del braccio destro e non compare il braccio sinistro nascosto dal mantello. Riguardo alla scelta dell’altorilievo, e non di un gruppo scultoreo a tutto tondo, è evidente l’ascendenza dalla tipologia delle pale d’altare tipiche della produzione di Alessandro Algardi, ripresa in seguito, oltre che dai grandi artisti romani, da scultori di tutta Italia.
Il San Michele Arcangelo nel Carmine di Lecce, può essere considerato la summa di tutto il sapere del grande architetto e scultore settecentesco. Ai suoi tempi, il «signor D. Mauro Manieri» era considerato «eccellentissimo nel modello e architettura»[19]. Il cronista Francesco Antonio Piccinni, lo definì «Mastro celebre singolare (in) tal mestiere di modellare»[20].
Oltre alle tante opere architettoniche, realizzate a Lecce e in molti centri pugliesi, a Mauro Manieri è stata attribuita una vasta produzione scultorea lapidea, in cartapesta e in terracotta[21], ma non è dato sapere se fu realizzata direttamente dall’artista o su suo disegno. Si nota, infatti, una differente resa plastica tra le statue in pietra e le altre, così com’è evidente ad esempio, confrontando, nella chiesa del Carmine, l’altorilievo del San Michele Arcangelo e la statua, abbigliata con la medesima foggia, posta a destra dell’altare del profeta Elia, entrambi attribuiti a lui e datati 1736, e, ancora, con gli angeli dell’altare maggiore.
Si è scritto tanto su Mauro Manieri e le sue opere, ma ci sarebbe tanto altro da rintracciare e studiare, come, ad esempio: il soggiorno a Roma, il rapporto delle sue opere con la cultura napoletana e romana, i committenti, i rapporti con gli esponenti della cultura dell’epoca, il ruolo che ricoprì nelle accademie leccesi. Sta di fatto che è stato una figura fondamentale per la storia dell’arte salentina. In lui s’incarna il passaggio dal vecchio al nuovo modo di “fare arte”: l’artista non è più solo esecutore materiale di un disegno altrui, ma lo concepisce, lo progetta e lo realizza.
Rocco Serra era tornato in Italia per votare e vi aveva trovato la morte. Questa la drammatica vicenda di un emigrato salentino, il cui cadavere venne rinvenuto sui binari della ferrovia per Lecce, ad una diecina di chilometri dalla stazione. La macabra scoperta era stata fatta dal personale ferroviario, in transito nella zona.
A conclusione delle indagini, i Carabinieri dissero che il poveretto, dopo aver votato, si era messo in viaggio per riprendere il lavoro a Berna. Forse aveva aperto per errore uno degli sportelli del vagone nel quale viaggiava ed era precipitato nel vuoto battendo la testa sui “cozzi” che affioravano lungo la ferrovia. Era morto sul colpo.
Al momento della scoperta, Rocco indossava un paio di pantaloni a righe blu e una maglietta rossa. Nel suo portafoglio, oltre al passaporto, furono trovati due biglietti da centomila lire, sessanta franchi ed alcune monete. Dal documento di riconoscimento i Carabinieri erano giunti all’identità dello sfortunato emigrato. La notizia fu presto comunicata a parenti ed amici ed in paese non si parlò d’altro.
Rocco non aveva neppure 17 anni quando emigrò in Svizzera per trovare un lavoro più redditizio. Il padre era malato e non poteva lavorare in campagna, con gli altri contadini del paese.
Il giovane periodicamente lavorava sulla terra di don Antonio Catanese, portando a casa poche migliaia di lire, appena sufficienti per comprare il pane e la farina e per sopravvivere in seno alla famiglia. Non essendo contento di quello che guadagnava, decise di partire con lo zio Vito per lavorare all’estero.
Dopo sette anni trascorsi in Svizzera, si sposò con una giovane di origine tedesca che lavorava nella ristorazione. Non erano ancora passati due anni dal matrimonio quando la moglie rimase incinta. La nascita di Erika, una bimba che si rivelò molto aggressiva e scontrosa, non allietò il già difficile ménage famigliare. Dopo tanti sacrifici e tanta sopportazione, prevalsero le incomprensioni ed i rancori: Erika, all’età di diciotto anni, abbandonò la casa paterna ed andò a vivere con un tedesco separato dalla moglie.
Rocco, col lavoro di giardiniere che svolgeva nelle ville e nei parchi, fuori città, aveva messo da parte un piccolo gruzzolo ed era intenzionato a rientrare definitivamente in Italia, anche da solo, perché la moglie non voleva lasciare la città dov’era nata e cresciuta e dove lavorava da molti anni. E poi in un borgo non lontano da Berna viveva la figlia con i nipotini che andava a trovare ogni fine settimana e durante le vacanze.
Rocco, ogni tanto, nel periodo delle ferie, tornava in Italia per fare i bagni al mare con parenti ed amici. Era sempre triste e non amava parlare del suo lavoro e della sua famiglia, né voleva ricordare i tempi della sua infanzia. Nessuno conosceva la moglie e la figlia, neppure in fotografia. Rocco non ne parlava e se qualcuno chiedeva notizie cambiava discorso. Però guardava ammirato le donne del paese e i ragazzini che giocavano felici nella piazzetta, in campagna e al mare.
La partenza per lui era un momento difficile; soffriva molto quando doveva allontanarsi dalla sua terra e dai suoi compaesani per tornare in Svizzera. La mattina presto si recava alla stazione da solo perché non voleva farsi accompagnare dai parenti; saliva in silenzio sul piccolo treno locale che lo avrebbe portato in città; poi, dalla stazione di Lecce, sarebbe partito di filato verso il nord, per tornare in quel paese straniero che non aveva mai amato.
Durante la breve permanenza in casa della sorella più piccola, Rocco aveva sottoscritto un compromesso per l’acquisto di un pezzo di terra nella zona del mare. Poveretto, chissà quanto l’aveva desiderato, ma, ormai, non gli serviva più!
Forse qualcuno di voi ne avrà sentito parlare, ma la sua origine riflette una cultura davvero lontana da noi, oggi. Il Tavoliere delle Puglie (l’estesa pianura che circonda Foggia) è stata da sempre coltivata a grano. Grano duro, per lo più.La piovosità limitata e la mancanza di risorse idriche hanno indotto la gente del posto a coltivare l’unica pianta che vi si pot…esse adattare: il grano. E per antica e ancor oggi non del tutto scomparsa cultura agricola, a fine mietitura, le basi degli steli del grano non venivano rivoltate nel terreno, ma date alle fiamme.Provate a immaginare la scena dantesca di centinaia o anche migliaia di ettari di campi già mietuti, che prendevano fuoco, nelle giornate già torride di fine giugno, col fumo che scuriva il cielo per chilometri e chilometri fino a nascondere il sole o che di notte baluginava e si avvistava anche a decine e decine di chilometri. Un gioco della mia infanzia era quello di gareggiare con mia sorella a chi contava più incendi intorno a noi, sulla pianura o sulle colline circostanti.Finita la bruciatura delle stoppie, i proprietari terrieri autorizzavano, per tradizione, la gente povera di quei posti a spigolare.La spigolatura era un lavoro davvero ingrato. Ore al sole torrido, sui campi ancora caldi dell’incendio, chini a raccogliere le poche spighe di grano sfuggite alla mietitura e rimaste sui campi, bruciate dal fuoco.Con quelle spighe si otteneva una farina particolare, la farina di grano arso.Era davvero l’estrema risorsa per quella povera gente. A volte la scambiavano con la farina bianca (riservata ai ricchi): un kg di farina di grano arso per un pugno di farina bianca. Altre volte veniva usata per panificare o per fare la pasta.Le tagliatelle di farina di grano arso costituiscono una tradizione tutt’affatto locale e sconosciuta in quasi tutto il resto d’Italia.
La tostatura dei chicchi di grano, dovuta al fuoco, dona a questa farina un sapore particolarissimo, qui ancora molto apprezzato e oggi considerato eccezionale per la rarità del prodotto. Tant’è che un mulino di queste zone, ha preso a tostare il grano per recuperare un sapore e un gusto che molti rimpiangono.
In onore a quella gente dura e piena di risorse, ho intenzione di procurarmi questa farina e domani mattina andrò a comprarla.
La moderna tostatura è ben diversa dal fuoco delle stoppie e offre garanzia di omogeneità e sicurezza alimentare.
Ora che non c’è più è come se il paese fosse stato privato di qualcosa. Un paese del sud, come tanti, con tanta gente di fatica, con i colori del sole e il grigio perla della luna.
Rosa era una donna del sud, tutti in paese la conoscevano.
Aveva i capelli neri ondulati, abbandonati alla bizzarria del vento. Il rossetto sulle labbra carnose ne risaltava l’indole trasgressiva. Amava passeggiare con il ventaglio nero con sottili righe di color rosso. I suoi abiti rigorosamente neri con il profilo di merletto, come a significare l’eleganza di altri tempi. I suoi occhi erano accesi di simpatia e fermezza.
La sua bellezza di gioventù consumata troppo in fretta per miseria viveva nel suo cuore e amava parlarne con discrezione come solitamente sapevano fare le nobildonne.
Il paese non badava alle sue stravaganze, ai suoi giochi di parole, alle continue burla e risate: preferiva tenerla a debita distanza, non godeva della stima degli altri, di coloro che in fondo erano sì brave persone ma non potevano accettare il suo modo di essere donna diversa.
Il suo viso beffardo congelava le maldicenze e all’occasione sapeva imporre la
La fine dei Vinti. Giovanni D’Avanzo: da gendarme a brigante,
Il romanzo tratta del processo che si tenne davanti alla Corte d’Assise di Santamaria Capuavetere (Caserta), dal 24 febbraio al 13 marzo 1864, contro i fratelli Cipriano e Giona La Gala, Domenico Papa e Giovanni D’Avanzo. I reati che vengono loro addebitati si riferiscono a fatti avvenuti nel 1861.
Il 1861 è un anno in cui in tutto il Mezzogiorno d’Italia è in atto una grande ribellione contro l’invasione operata dai Savoia piemontesi nel Regno delle Due Sicilie. Molteplici erano le bande brigantesche in azione: in Basilicata quella di Carmine Crocco, nelle Puglie quella di Pasquale Domenico Romano, in Terra di Lavoro quella di Luigi Alonzi. Franco Molfese nella sua fondamentale “Storia del brigantaggio dopo l’Unità” individua ben 388 bande.
In questo grande sommovimento nell’ex Regno delle Due Sicilie rientrano le azioni dei fratelli Cipriano e Giona La Gala, nati a Nola, il primo nel 1834, il secondo due anni dopo. Nel 1855 i due fratelli erano stati condannati a 20 anni di carcere per un furto, durante il quale vi fu un morto. Nel 1860 i due fratelli La Gala fuggirono dal carcere di Castellamare e si diedero alla macchia diventando briganti. Cipriano formò una sua banda, che contò fino a 300 uomini.
Nel gennaio 1862 raggiunsero Roma, dove incontrarono il re in esilio Francesco II Borbone, che voleva mandarli a Marsiglia e a Barcellona per reclutare gente per una guerra di riconquista dell’ex Regno delle Due Sicilie. Si imbarcarono a questo fine sulla nave francese Aunis. Ma nel porto di Genova furono arrestati dai piemontesi. Ne nacque un incidente diplomatico, che si concluse con la restituzione dei La Gala ai francesi in un primo tempo e con l’estradizione poi dalla Francia all’Italia. Portati a Napoli per il processo, vennero condannati a morte. Condanna poi tramutata all’ergastolo.
La forma che assume il romanzo è quella diaristica, con anche una raccolta di corrispondenze giornalistiche per il giornale “L’Osservatore Romano”. Autore del diario e delle corrispondenze è Paolino Amato, avvocato napoletano e corrispondente appunto dell’Osservatore Romano. Sono raccolti il racconto di nove giornate del diario e nove corrispondenze da Napoli.
La prima data del Diario di Paolino Amato è quella del 20 febbraio 1864. Vengono raccontati i preparativi della partenza da Roma. Cosa che poi prosegue nei tre giorni successivi fino all’arrivo a Napoli. Per capire lo spirito del romanzo leggiamone un brano: «Conoscere la versione del popolo m’intriga e confido possa essermi di aiuto per comprendere cos’è veramente accaduto a questa gente, cos’è che hanno reso “briganti” campagnoli tranquilli e pacifici, armato la mano di canonici e zappaterra, fatto di don Giovanni D’Avanzo un fuorilegge».
La prima corrispondenza da Napoli di Paolino Amato (che è la personificazione di Fiore Marro, l’autore del romanzo), per rendere conto del processo contro i quattro briganti dell’Aunis, è del 24 febbraio 1864. Viene interrogato il brigante Giovanni D’Avanzo. Viene fuori che i giudici hanno già deciso a priori la colpevolezza degli imputati.
Nel processo si narra anche di un presunto episodio di cannibalismo. Noi siamo certi che si tratta di una falsa accusa inventata dai piemontesi per screditare al massimo i briganti.
Il giornalista Amato sta dalla parte dei vinti ed è sicuro che prima o poi sarà fatta giustizia, si saprà la verità. «Ingiustizia è fatta», con queste parole inizia l’ultima corrispondenza.
Al titolo del romanzo a me piace dare un significato positivo. E’ finito il tempo in cui i briganti e i meridionali debbono essere considerati dei vinti. I vinti non sono più vinti, stanno per diventare vincitori.
Rocco Biondi
Fiore Marro, La fine dei Vinti. Giovanni D’Avanzo: da gendarme a brigante, Società Editrice L’Aperia, Caserta 2011, pp. 64, € 10,00.
Sabato 29 settemdre 2012 – Ore 18.00
Sala Consiliare Comune di Villa Castelli (Brindisi)
Piazza Municipio
Associazione
“Settimana dei Briganti – l’altra storia”
Villa Castelli (Brindisi)
in collaborazione con
Associazione Euclidea
Villa Castelli
nell’ambito de I SABATI BRIGANTESCHI
organizza
la presentazione del volume
La fine dei vinti. Giovanni D’Avanzo: da gendarme a brigante di Fiore Marro
PROGRAMMA
Introduce: Vito Nigro
Coordina: Rocco Biondi
Presentazione di
Francesco Laricchia Nato a Bari nel 1955. Dirigente medico presso l’Ospedale di Castellana Grotte. Responsabile della Rete Sud. Coordinatore per la Festa della Vittoria di Carlo di Borbone a Bitonto (BA). Fondatore del Premio “L’Alfiere del Sud”. Consigliere e componente della Commissione Cultura del Comune di Casamassima (BA).
Relazione dell’autore FIORE MARRO Nato a Cervinara (Avellino) nel 1963, vive a San Nicola La Strada (Caserta). Si ispira per le sue campagne meridionalistiche a Guido Dorso. E’ presidente nazionale dei Comitati Due Sicilie. E’ autore di romanzi e testi teatrali. Ha allenato alcune squadre di calcio. Fonda, con altri leaders del meridionalismo, la Confederazione Duosiciliana.
Evento musicale
Dai sedani di Corinto a Luciana Littizzetto. Il sedano selvatico nei secoli
Il nome italiano (sedano) è dal greco sèlinon1; la prima parte del nome scientifico (àpium) è il latino àpium2=sedano, la seconda (gravèolens) è un aggettivo che significa dall’odore acuto. Il primo nome della famiglia (Ombrelliferae) significa portatrici di ombrelle, con riferimento alla forma dell’infiorescenza, il secondo è dal citato àpium.
Passo ai nomi dialettali: lacciu è dal citato latino àpium con normale passaggio -api->-acci- (come in sàcciu=so, da sapio); da àcciu per agglutinazione dell’articolo (l’àcciu>làcciu>lulàcciu) è nato làcciu. Per murlu e murùddhu il Rohlfs non propone alcuna etimologia; io partirei da murùddhu, in cui la ricostruzione dell’originario –ll– (sviluppatosi normalmente in –ddh-) mi porta ad un murùllu che potrebbe essere un diminutivo del greco muron=profumo, diminutivo che qui, però, avrebbe un significato quasi dispregiativo, come nel gravèolens prima citato. La variante murlu, infine, sarebbe da murùllu per sincope della vocale tonica, retrazione dell’accento e naturale scempiamento –ll->-l-.
L’attestazione più antica del sedano, nella valenza quasi esclusiva di componente primario del paesaggio, è in Omero (probabilmente IX° secolo a. C.): ”Intorno verdeggiavano teneri prati di viole e di sedano: là poi anche se un immortale si fosse accostato ne sarebbe restato ammirato e si sarebbe rallegrato in cuore3”; “…i cavalli poi stavano ognuno vicino al suo carro a pascere il loto e il sedano palustre…4”: “[parla un topo rivolto ad una rana] Non mangio ravanelli o cavoli o zucche né mi nutro di porri freschi né di sedani; questi infatti sono i vostricibi nella palude5”.
Qualche secolo dopo godeva di grande prestigio se Pindaro (V° secolo a. C.) lo ricorda più volte quale premio in vittorie sportive: “…quando nella gara del rimbombante Nettuno (la gara col tridente) fiorì dei sedani di Corinto…6”; “Nettuno dopo aver donato nei giochi istmici questa vittoria nella gara dei cavalli a Senocrate gli inviò una corona di sedani dorici con cui si cingesse la testa”7; “…egli che ottenne la vittoria ai giochi istmici dai sedani dorici…8”; “Due corone di sedani ornarono lui che si era distinto nei giochi istmici…9”.
L’abitudine di piantarlo al limitare dei giardini aveva dato luogo al proverbio di Aristofane (V°-IV° secolo a. C.): “La tua situazione non sta né al sedano né alla ruta10”, cioè neppure all’inizio11. E qualche secolo dopo in Plutarco (I°-II° secolo d. C.) il nesso “ha bisogno del sedano12” cioè sta per morire è in riferimento all’abitudine di ornare col sedano non più la testa del vincitore ma le tombe.
Fu protagonista anche nella toponomastica se la città di Selinunte deve il suo nome all’abbondanza che di questo vegetale trovarono in situ i colonizzatori greci e, se così non fosse stato, forse la sua raffigurazione non sarebbe comparsa, prima da sola poi insieme col nome degli abitanti o della città (e in forme via via più stiizzate), su monete datate (in sequenza nella foto in basso) la prima alla metà del VI° secolo, le altre del V° a. C.
La costante presenza nel verso di tutte le monete, meno la prima, di Apollo e della foglia di sedano trova giustificazione nella testimonianza di Plutarco: “Mentre così si discorreva camminamavo. Nel tempio dei Corinzi mentre guardavamo una palma di rame, che è l’unica superstite dei doni, lì attorno
Dedicato a Don Grazio Gianfreda il volume «Note di storia e di cultura salentina» (2)
Nel volume «Note di Storia e Cultura Salentina» (Argo Editrice), annuario a cura di Fernando Cezzi, ed organo della Società di Storia Patria per la Puglia una miscellanea di Studi dedicati a Mons. Grazio Gianfreda. Il volume è introdotto da un ricordo di mons. Grazio Gianfreda di Maurizio Nocera riprodotto qui nella sua seconda parte.
« (…) il mondo basato sulle grandi visioni sintetiche e interculturali, come quelle raffigurate sul Mosaico, si è frantumato. / La programmazione informatica, da parte sua, più che mettere ordine in tale universo, rappresenta con i suoi archivi computerizzati solo una difesa disperata, mossa dalla consapevolezza che i frantumi sono diventati cocci, pezzi ormai inutili»
« (…) Nel Mosaico c’è l’incontro tra l’integrazione culturale di Alessandro il Grande, la romanizzazione dell’Impero Romano, l’arte e la cultura dell’Impero Arabo, la Rinascenza dell’Impero Bizantino e le culture dell’Europa Occidentale: nella Cappella degli 800 Martiri, invece, c’è il risultato dello scontro tra civiltà. L’incontro produce l’“opus insegne”; lo scontro rovina, distruzione, morte»
L’albero di Pantaleone
Maurizio Nocera
Altro libro che mi donò Don Grazio Gianfreda, sempre con dedica, fu la sua bella e agile “Guida di Otranto” (Edizioni del Grifo, Lecce 1993), nella quale riprende l’argomento della chiesa di San Pietro, confermando alcune affermazioni e precisando alcune datazioni.
Scrive: «la Chiesa bizantina di San Pietro risale al sec. IX. È tutta affrescata. Sulla cupola dell’altare è la “Annunciazione”; nella conca sottostante è
Montesardo (Lecce). Il convento di S. Maria delle Grazie dei frati Conventuali
Nella sua “Corografia fisica e descrittiva di Terra d’Otranto” l’ Arditi (rifacendosi ad un manoscritto di memorie antiche) riferisce che un convento di francescani era stato eretto in Montesardo da Donna Maria de Capua nel 1550.[1]
A sua volta Mons. Ruotolo, oltre a precisare che si trattava di un convento di francescani Conventuali, sostiene che in quello i frati vi “ebbero dimora dal 1610 al 1810”.[2]
In realtà però il convento fu voluto e fondato nel 1527, assieme ad altri cittadini, dalla madre di Maria de Capua, Antonicca del Balzo,[3] e la sua esistenza non durò più di un secolo.
E’ quanto si apprende da alcuni documenti appartenenti all’ex diocesi di Alessano e custoditi nell’Archivio Diocesano di Ugento.[4]
Fra queste carte si è avuta la fortuna di rinvenire proprio l’atto originale di fondazione del convento in oggetto; fu rogato in Alessano il 15 giugno del 1527 dal notaio Luigi Pedilongo di “Montearduo” che intervenne come agente e stipulante tanto in nome proprio che (come persona pubblica) in nome e per parte “Ecclesiae Venerabilis Monasteri Sanctae Mariae de la Gratia de novo costruendo ordinis Sancti Francisci Mendicantorum in terra Monteardui”.
Alla sua presenza si costituirono Donna Antonicca del Balzo, Principessa di Termoli, Contessa di Alessano e Baronessa di Montesardo ed i signori: il Rev. abate Giovanni Paolo, Don Giovanni Baldovino, Giovanni Vitali, Giovanni Carlo Romano, Marco Surracca, il Rev. don Selomu Bleve, il maestro Marco Bleve, Antonio Ingrosso, lo stesso notaio Pedilongo, Evangelista Romano, don Antonio Rizzo, Giovanni Piccinno, Giovanni Schiavone, Bernardino Blanco, Luigi Pezzuto, Bernardino Mastria, Antonio Conte, Nicola Charati, Mattia de Tommaselli, Luigi Caprarica ed il figlio Don Giulio (tutti di Montesardo) ed il sig. Mandil.
Tutti sostennero spontaneamente di voler donare dei loro beni a suffragio dell’anima dei loro parenti ed antenati e “pro edificando dicta Ecclesia et Monasterio ”.
Donna Antonicca promise quattrocento ducati da pagarsi in quattro anni e si impegnò anche a nome dei suoi successori a versare ogni anno venti ducati per l’acquisto delle tuniche per i frati; l’abate Giovanni Paolo assegnò 50 ducati, trenta dei quali da pagarsi in otto anni ed i restanti 20 in rate da un ducato l’anno; Giovanni Vitali donò a titolo di donazione irrevocabile tra vivi tutti i suoi beni mobili e stabili riservandosene l’usufrutto assieme alla moglie vita natural durante ed intanto si impegnò a versare ogni anno 15 tarì. Alla sua morte e di quella della moglie i detti beni sarebbero passati in piena proprietà della chiesa e convento da edificarsi, a condizione che il procuratore della stessa avesse versato ogni anno, in perpetuo, un tarì alla chiesa dello Spirito Santo. Nel caso che la nuova chiesa ed il convento non fossero stati eretti il suo atto di liberalità era da eseguirsi in favore di quest’ultima.
Anche Don Giovanni Baldovino promise 50 ducati, ma da pagarsi in cinque rate annuali da 5 ducati l’una; Giovanni Carlo Romano di ducati ne assegnò 25 da pagarsi con rate annue di 3 ducati l’una ed in più una chiusura con olive e vigna nel luogo detto Vigniscemoli; il Reverendo Selomo Bleve si impegnò a costruire a sue spese, entro sei anni, una cappella dentro l’erigenda chiesa, mentre il maestro Marco Bleve promise che avrebbe fatto gratis, finchè fosse vissuto e la salute glielo avesse consentito, tutti gli infissi in legno, comprese porte e finestre.
Una seconda cappella promise di farla costruire, anche questa entro sei anni, Antonio Ingrosso con l’impegno a dotarla con due ducati annui in perpetuo per la celebrazione di messe in suffragio dell’anima sua, dei suoi genitori e dei suoi figli. Lo stesso notaio Pedilongo promise 10 ducati a condizione che gli fosse stato consentito di costruire per sé e per i suoi discendenti un altare con sepoltura.
Una cisterna sita nella pubblica via la donò don Antonio Riccio (Rizzo) che si riservò il diritto di attingere acqua e lo stesso fece Giovanni Piccinno che assieme alla cisterna donò la chiusura in cui quella si trovava, nel luogo detto le Conche.
Un’altra chiusura, sempre alle Conche, con cisterna ed area fu donata da Luigi Craparica e da suo figlio Don Giulio.
Il sig. Mandil (per sé e sua moglie) assegnò 9 ducati, Luigi Pezzuto 5, Giovanni Schiavone 1 ducato d’oro come Nando Ciullo, mentre Polidoro Pedilongo promise 2 ducati d’oro[5] e Nicola Charati 4, da pagarsi per tutti in tempi diversi.
Con tale dote si diede inizio alla costruzione del convento da intitolarsi al pari della sua chiesa alla Madonna delle Grazie.
Non è dato sapere quando effettivamente ebbero inizio i lavori, mentre è certo che ancora nel 1547 gli stessi non erano stati ultimati; lo documenta un testamento di detto anno nel quale è contenuto un legato in favore del convento stesso.[6]
Il quattordici marzo il notaio Angelo Securo di Montesardo si recò con i necessari testimoni in casa “egregi”Carlo Perreca, “sita et positam intus predictam terram Montisardi”, il quale gli dettò le sue ultime volontà.
Egli nominò come sua erede universale di tutti i propri beni mobili, stabili e semoventi, ma nel solo usufrutto, la moglie (di Presicce) Gemma Adamo gravandola di diversi legati.
Innanzitutto destinò alla contessa Antonicca del Balzo un giardino con alberi comuni e con dentro un’abitazione ed un “colombaro”, ed un “clausorio” di terra e vigna con un “tigurio”ed un palmento nel luogo detto “Vigniscemoli”.
Vincolò la donataria assieme ai suoi eredi e successori a non alienare mai detti beni e li gravò dell’onere di far celebrare in perpetuo per la propria anima e di quella dei suoi defunti due messe la settimana nella cappella che egli intendeva far costruire nella chiesa del convento della Madonna delle Grazie e da intitolarsi a S. Nicola. Stabilì che qualora non fosse riuscito a farla erigere egli stesso, l’incombenza di far erigere detta cappella sarebbe stata a carico della moglie che era altresì vincolata a comprare una campana per la chiesa del convento.
Per far ciò autorizzò la consorte a vendere dei beni ereditari fino ad un valore di settanta ducati per ognuna delle due incombenze e ciò nel termine di dieci anni.
Finché fosse vissuta la moglie era tenuta a fargli celebrare una messa a settimana nella costruenda cappella e stabilì che tutti i suoi beni dopo la di lei morte dovessero andare in dote della suddetta cappella di S. Nicola e che i frati in quella dovessero celebrargli in perpetuo sei messe settimanali per la sua anima e dei suoi defunti.
E proseguì dicendo: “Si per caso lo ditto convento di S. Maria della Gratia non si compisse de edificare,& in quello non convenisse de abitare e commorare in ditto Monistero dè S. Maria de Gratia i frati preditti, & in quello servire in divinis secondo solono servire i Monasteri per quello tempo sarà viva la predetta Gemma sua universale erede per spazio di anni dieci,allora la detta cappella se abbia da edificare in lo Monasterio di S. Francesco de Alessano una con ditte robe, e si in ditto Monasterio de ditta Alessano non se edificasse ditta cappella, quella se abbia da edificare in S. Francesco della terra di Specchia”.
Precisò altresì che la moglie avrebbe potuto godere dell’usufrutto della sua eredità solo nel caso non fosse convolata a seconde nozze, altrimenti i suoi beni erano da considerarsi in piena proprietà dei legatari.
Dispose ancora che la consorte gli dovesse far fare le esequie “secondo la sua condizione” e fargli “dire tre nove quaranta” nel suo anniversario, e che dopo morto avrebbe dovuto fargli fare un “tauto”[7] ed in quello deporlo e farlo portare nella chiesa matrice e lì lasciarlo fino a quando non fosse stata completata la sua cappella con relativa sepoltura.
Per il soddisfacimento di questi due legati diede alla moglie la potestà di vendere un pezzo di terra in località “lo Piano”, precisando che dalla somma ricavata, dedotti gli otto ducati ed un tarì, il resto era da distribuirsi ai poveri.
Infine alla chiesa madre legò “tutte le case, & locore cum curtjs cisterna & orto preditto con tutti suoi altri membri riservati li due capienti grandi della sua solita abitazione siti e posti dentro la predetta terra di Montesardo in vicino ditto la strata di S. Bartololmeo…” per adibirle ad ospizio per i poveri, ospizio il cui “governo”e “dominio” era demandato in perpetuo al sindaco della città. Qualora detto ricovero non fosse stato realizzato o disattese le sue disposizioni, anche i detti immobili erano da assegnarsi alla sua costruenda cappella.
Legò alla stessa chiesa madre sei ducati “pro edificazione prefate ecclesie” (sic),[8] e due ducati ed un tarì lo lasciò alla chiesa della Madonna del Rosario.
E’ verosimile ritenere, stando a quanto riferito dall’Arditi, che il convento fosse stato completato nel 1550, un anno dopo la morte di Antonicca del Balzo (avvenuta il 23 aprile del 1549) per un impulso economico della di lei figlia Maria; sicuramente però non venne mai realizzata nella chiesa della Madonna delle Grazie (né altrove) una cappella sotto il titolo di S. Nicola e questo probabilmente perché Gemma Adamo decedette prima di vedere la conclusione dell’erezione del convento.
Del nuovo convento non si rinviene più alcuna notizia degna di nota fino al 1628, anno in cui la Chiesa Romana per “sorvegliare ed insieme promuovere l’applicazione dei decreti del Concilio di Trento nel Regno di Napoli”, inviò come Visitatore Apostolico della città di Alessano e della sua diocesi il vescovo di Venosa Mons. Andrea Perbenedetti. [9]
L’alto prelato effettuò la visita “Ecclesiae et conventus S. Mariae Gratiarum Montis Ardui Fratrum S. Francisci Minorum Conventualium” il 24 febbraio di detto anno e dalla sua relazione apprendiamo che la chiesa dipinta di bianco era decentemente costruita e con la copertura a volta; una campana era situata sul muro sopra la porta maggiore ed a fianco a questa vi era il fonte battesimale; la stessa porta era dotata di serratura e le finestre erano coperte con tela cerata.
L’altare maggiore era realizzato in forma comune con il tabernacolo dorato nel quale era custodita una pisside argentea; su questo altare i frati erano tenuti a celebrare quattro messe la settimana per l’anima della defunta Donna Lucrezia delli Falconi,[10] baronessa dello stesso luogo, ed altre due per l’anima di due pii testatori, uno dei quali era verosimilmente il defunto Perreca.
La chiesa era adornata con altri due altari dei quali il primo era sotto il titolo dell’Assunzione di Maria Vergine ed il secondo intitolato a S. Antonio. Su questi non era stato costituito alcun obbligo di messe e le stesse vi si celebravano per devozione solo di quando in quando. La sacrestia si trovava in cornu evangelii dell’altare maggiore e vi si custodivano le necessarie e congrue suppellettili sacre.
Per quanto riguarda il convento Mons. Perbenedetti relazionò: Conventus ipsorum fratrum ante decreta postremo emanata fuerat extructus, in eoque duo tantum fratres eiusdem ordinisminorum conventualium sunt de famiglia assignati, qui oneribus paedictis missarum satisfaciunt. Vivunt secundum constitutiones regulae quam fuerunt professi in communi de redditibus ipsius conventus, qui ad summam sexaginta annorum ascendunt et ex elemosinis piis fidelium praestationibus elargitis”.[11]
Veniamo così a sapere che il convento era stato eretto ben prima che venissero concesse le necessarie autorizzazioni, ma non ci è dato sapere quando effettivamente sia entrato in funzione e la sua chiesa officiata; conosciamo invece la data nella quale lo stesso convento entrò in possesso dell’eredità del Perreca.
E’ documentato infatti che il primo marzo del 1578 frate “Antonio de Andrata custode seu guardiano Conventus, seu Monasterii Sanctae Mariae de la Gratia”, si rivolse al notaio Lupo Antonio Mazzapinta di Montesardo asserendo che il notaio Angelo Securo aveva rogato il testamento del fu Perreca e che “antequam dittum testamentum in publicam formam reduceret ad istantiam ditti Conventus dittum Notarium Angelum, sicut Domino placuit suum diem clausisse extremum”; [12] e poiché era interesse del convento avere in pubblica forma tale documento chiese al notaio Mazzapinta di adoperarsi in tal senso. Questi, in virtù delle facoltà e poteri concessigli dalla legge, cercò tra i protocolli del suo defunto collega e rinvenuto il testamento in oggetto ne rilasciò copia al frate guardiano.
I frati del convento ebbero così garantiti gli introiti delle rendite provenienti dalla eredità del fu Perreca, entrate che, come ci relaziona Mons. Perbenedetti, nel 1628 ascendevano a sessanta ducati, somma comunque appena sufficiente per il sostentamento dei soli due frati che allora vi dimoravano.
Data la esiguità di tali rendite è improbabile che nel convento si sia avuto in seguito un incremento dei frati, ma anche se ciò fosse avvenuto è certo che nel 1652 i residenti non raggiungevano le sette unità, numero che metteva al riparo dalla soppressione prevista dalla bolla “Inscrutabili” di Papa Innocenzo X.
Fu così che il convento di S. Maria delle Grazie dei Conventuali di Montesardo cessò la sua esistenza e lentamente andò i rovina fino a perdersene la memoria; le sue ultime vestigia infatti furono viste dal De Giorgi attorno al 1880.[13]
La stessa sorte toccò alla sua chiesa anche se per qualche anno continuò ad essere officiata per disposizione del vescovo di Leuca ed Alessano, Mons. Giovanni Granafei, il quale si trovò a dover dare seguito alle disposizioni del fu Carlo Perreca.
Come stabilito nel suo testamento, con la soppressione del convento di Montesardo, i suoi beni sarebbero dovuti infatti andare ai Conventuali di Alessano, ma il vescovo, assieme al capitolo, il 15 luglio del 1654 inoltrò una richiesta alla S. Sede tendente ad ottenere che, data la indigenza, la tenuità dei frutti e dei proventi della chiesa parrocchiale di Montesardo, fosse quest’ultima a subentrare nell’eredità del Perreca al posto dei Conventuali di Alessano, fermo restando l’obbligo per il curato pro tempore di soddisfare al peso delle messe da celebrarsi nella chiesa del soppresso convento.[14]
La richiesta di Mons. Granafei venne esaudita il 27 agosto dello stesso anno ed il 16 ottobre successivo il notaio della Curia vescovile, don Giovanni Stivala, immise il vescovo nella “veram, realem, actualem, &corporalem possessionem” della chiesa, e l’arciprete ed il procuratore della parrocchiale di Montesardo nel possesso dei beni che il Perreca aveva legato al convento dei Conventuali di S. Maria delle Grazie di Montesardo.
[1] G. Arditi: la corografia fisica e descrittiva della provincia di Terra d’Otranto. Lecce, rist. anas. 1979, p. 369.
[2] G. Ruotolo: Ugento -Leuca – Alessano, cenni storici e attualità. Cantagalli Ed. Siena 1969 (III ed.). p.82.
[3] Antonicca del Balzo subentrò come titolare della Contea di Alessano al fratello Raimondo, morto senza discendenza, nel 1509 e sposò il duca di Termoli Ferrante de Capua. Da detto matrimonio nacquero Isabella, che sposò lo zio Vincenzo de Capua e succedette alla madre morta nel 1549, e Maria che sposò il barone di Giuliano Filippo dell’Antoglietta.
[5] Questi ultimi due non figurano tra i costituiti elencati dal notaio.
[6] Questo testamento ci è pervenuto attraverso una copia che il notaio Antonio Tasco di Alessano trasse da quello esistente nel convento dei Conventuali della città di Alessano e che a sua volta era una trascrizione del testamento originario rogato dal notaio Securo e reso pubblico solo nel 1578 dal notaio di Montesardo Lupo Antonio Mazzapinta (v. infra).
[7] Tauto (altrim. tavútu, tabbutu, chiaútu,) = cassa mortuaria (dalla’arabo tabût). V. Gerhard Rolfs: Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo Ed. 1976, vol. I, p.139
[8] Qui evidentemente il testatore si riferisce alla edificazione della stessa chiesa madre.
[9] AndrèJacob: La visita apostolica della diocesi di Alessano nel 1628 in Il bassoSsalento – ricerche di storia sociale e religiosa a cura di Salvatore Palese, Congedo Ed, 1982, pp.131 e ss. (Della realzione di tale visita una fotocopia è conservata nell’Archivio Diocesano di Ugento).
[10] Ferrante delli Falconi acquistò il feudo di Montesardo il 9 novembre del 1607 da Ettore Brayda.
[11] Trad: Il convento degli stessi frati era stato costruito prima che fossero finalmente emanati i decreti, ed in quello vi sono assegnati soltanto due frati dello stesso ordine della famiglia dei Conventuali, i quali soddisfano agli oneri di predette messe. Vivono secondo le costituzioni della regola da quando furono professi in comune col reddito dello tesso convento, che ascende alla somma di sessanta ducati annui, e con le pie elemosine dei fedeli per le prestazioni elargite.
[12] Trad: prima che detto testamento fosse ridotto in pubblica forma ad istanza di detto convento, detto notaio, come a Dio piacque, aveva chiuso il suo giorno estremo.
[13] Cosimo De Giorgi: La provincia di Lecce- bozzetti di viaggio. Rist. anast. Congedo Ed. Galatina 1975, vol. II, p.95.
Da ragazzo, a pochi anni dalla fine della seconda guerra mondiale e quando era ancora lontano da venire il periodo cosiddetto della modernità e del boom economico, i giochi e gli svaghi conosciuti e alla portata di tutti erano invero limitati.
Consistevano, più che altro, in formule di divertimento di antica ideazione, che si tramandavano pari pari da una fascia generazionale all’altra.
Tra essi, ricordo con simpatia il gioco delle noci. Era solitamente rispolverato e praticato in settembre, in concomitanza con la maturazione, l’abbacchiatura, la raccolta, la sbucciatura e l’essiccazione al sole di tali frutti.
Già, perché in paese, allora, le noci non si trovavano sul banco del negozio di “generi alimentari e diversi” (del resto, il solo esercizio esistente), ma erano reperibili ed acquistabili unicamente dalle poche persone che ne possedevano una pianta e che, riservandosi preventivamente una porzione dei frutti ad uso familiare, vendevano la rimanenza al dettaglio, in questo caso “al minutissimo dettaglio”, riuscendo così a raggranellare qualche gruzzolo a beneficio del bilancio domestico.
Di produttori venditori, mi vengono in mente i nomi della comare L., della zia B. e della mamma C.
Ragazzi, adolescenti e giovanotti, quando avevano la disponibilità di piccole somme, si recavano nelle case o nei giardini di dette persone e comperavano modeste quantità di noci, il cui prezzo era di una lira per frutto.
Dotatisi così della materia prima, i medesimi, solitamente di pomeriggio, ma anche la sera sotto la fioca luce delle lampadine pubbliche del paese, gareggiavano nel gioco delle noci, che si teneva contemporaneamente in più posti dell’abitato e consisteva nell’allestimento di un filare orizzontale di 6 o 8 o 10 o 12 frutti, assiepati in piedi, in precedenza consegnati uno a testa dai partecipanti.
Una volta allestito il filare, da una distanza predefinita, di 10 o 15 o 20 metri, ogni giocatore mirava verso quell’insieme di frutti, lanciando nella sua direzione una noce scelta fra le più grandi, piene e pesanti, soprannominata non a caso palla, in dialetto “paddra”.
Non era per niente facile fare centro, specialmente quando era buio: l’impatto o meno con il filare della posta in palio dipendeva dalla precisione e della forza del lancio, nonché dalla qualità della “paddra”. Condizioni valide pure ai fini della quantità di frutti che uscivano abbattuti e costituivano la vincita del giocatore.
I più bravi e fortunati accumulavano apprezzabili scorte di noci che, spesso, rivendevano agli altri gareggianti, riuscendo in tal modo a recuperare le lire spese inizialmente per la provvista e realizzando anche dei guadagni.
Io, senza falsa modestia, me la cavavo bene nel gioco delle noci.
L’archeologia accademica tende a relegare il fenomeno del megalitismo in un periodo che va da IV al II millennio a. C. ; in realtà, grazie alle scoperte di ricercatori indipendenti e appassionati, questa datazione si può arretrare fino al 10-15000 a. C.
Un dubbio però ancora non chiarito è come sia stato possibile che in tutto il mondo, culture diverse tra loro e senza contatti reciproci, abbiano utilizzato la stessa tecnica costruttiva, ossia l’uso di enormi blocchi in pietra, il cui peso spesso superava le 100 tonnellate; gli esempi di costruzioni megalitiche sono numerosi: dalla Bolivia, con la perduta città di Tiahuanaco che un tempo sorgeva sulle sponde del Lago Titicaca, alle Piramidi in Egitto; e ancora, i templi maya e le città fenice di Tebe, Delfi, Micene, Tirinto. A noi più familiare risultano la civiltà nuragica in Sardegna, quella Etrusca e nel Salento i popoli pre-Messapico e Messapico.
Che si tratti di templi, mura, piramidi, menhir, tutti questi popoli sono accomunati dall’uso di enormi pietre, megaliti appunto, nelle rispettive costruzioni.
La prima reazione di fronte a queste costruzioni è quella di chiedersi perchè siano stati utilizzati enormi e pesanti blocchi e non tagli più piccoli e maneggevoli e come siano stati spostati, le teorie sono molte e diverse tra loro; ad esempio si teorizza l’intervento di civiltà aliene dotate di tecnologie avanzatissime superiori alle conoscenze e ai mezzi utilizzati dall’uomo di quel periodo. Personalmente ritengo un errore continuare a teorizzare usando come parametri le conoscenze e le tecnologie oggi a noi note, sarebbe molto più utile e produttivo riuscire a ragionare in base a ciò che l’uomo dei megaliti aveva sicuramente a disposizione e cioè la natura e la sua energia.
I nostri antenati erano perfettamente in grado di sentire le diverse energie di cui era circondato come fossero informazioni ed era capace di gestirle e utilizzarle, essendo l’unico modo di sopravvivere. Oggi abbiamo perso tali capacità, avendole affidate alla tecnologia; calendari, orologi, telefoni, antenne sono le nostre energie informanti.
La fisica moderna ha ampiamente dimostrato il carattere vibratorio dell’energia, in qualsiasi forma essa si presenti. In un’ottica vibrazionale, il pensiero è facilmente rivolto al suono quale più facile e immediato strumento per creare energia e dal suono prendiamo a prestito un altro concetto che è quello della risonanza. Nell’Universo tutto risponde al principio della risonanza, ogni forma di energia è in grado di rispondere ad una frequenza simile alla propria.
Possiamo quindi affermare Energia=Vibrazione=Risonanza sulla quale si basa non solo la musica ma ogni forma di energia attorno a noi e in qualsiasi stato: solido, liquido, gassoso, quindi anche pensieri, colori, odori e naturalmente, suoni.
Numerose sono le terapie basate sull’uso di determinati suoni o musiche, sia antiche che moderne. In tutte le più antiche culture e tradizioni, a tutte le latitudini, troviamo riferimenti al suono come al mezzo di avvicinamento a Dio o all’Universo, si pensi ai mantra, al canto gregoriano, al suono di una campana.
Facciamo un passo indietro e mettiamoci nei panni di un costruttore di megaliti. Abbiamo già evidenziato come egli fosse in grado di interagire con le frequenze della natura e quindi risulta logico ipotizzare che fosse anche in grado di riprodurre tramite un suono l’esatta frequenza di risonanza della pietra con cui lavorava. Nel momento in cui la pietra riceve la giusta frequenza, inizia a vibrare liberando energia, risultando facilmente trasportabile o manovrabile.
Un aspetto poco noto e poco studiato del megalitismo è il suo rapporto con questa determinata forma di energia che è il suono, interpretando quest’ultimo come la primordiale forma di espressione energetica esprimibile dall’uomo.
Ma quale sarà la frequenza segreta del megalitismo?
Il primo approccio è legato al materiale, che nel caso del Salento è il calcare con il quale furono eretti menhir, dolmen e mura e nel quale furono scavate grotte, ipogei, chiese rupestri , attraverso lo studio delle caratteristiche chimico-fisiche dei minerali che lo compongono. Ma altrettanto importanti sono anche la forma e le dimensioni del manufatto oggetto di studio. Per quanto riguarda il suono, si sta procedendo sia con suoni espressi a voce, in particolare con il canto armonico, che attraverso suoni prodotti da tecnici specializzati nel campo della musica. Come si può capire è fondamentale un approccio multidisciplinare in cui fisica, chimica, musica e tecniche energetiche antiche, operano con l’unico obiettivo di entrare in risonanza con il megalitismo salentino.
Gallipoli. Nicola Malinconico (1663-1727) nella cattedrale di Gallipoli
Da un bozzetto ritrovato ad una singolare congiunzione di tre artisti in rapporto con Gallipoli
di Antonio Faita
Chi entra nella cattedrale di Sant’Agata, sin dal primo sguardo, percepisce d’essere entrato in un tempio importante per la sua ricchissima decorazione pittorica. E’ una vera e propria galleria d’arte dove sono presenti opere di artisti locali e napoletani del ‘600-‘700 e tra le quali spiccano quelle di Giovanni Andrea Coppola, Gian Domenico Catalano, Luca Giordano, Nicola e Carlo Malinconico. Su questi ultimi due, e soprattutto su Nicola, mi vorrei soffermare e, in particolar modo, sul suo dipinto: “La cacciata dei mercanti dal Tempio” che sovrasta la porta centrale.
Recentemente, lo studioso napoletano Achille della Ragione ha ricostruito, cronologicamente e con più precisione, il percorso inerente l’attività pittorica di Nicola Malinconico, sulla scorta di numerosi documenti di pagamento che lo studioso Umberto Fiore è riuscito a reperire nell’archivio storico del Banco di Napoli e nell’archivio di Stato.
Ciò ha permesso di datare gran parte dei lavori del Malinconico, correggendo molti precedenti errori, tra i quali la data della sua morte, indicata da Bernardo De Dominici e riportata, successivamente, da vari biografi, al 1721 ed oggi spostata al 1727[1].
Nel 1700 la cattedrale di Gallipoli, grazie alla volontà del nuovo prelato mons. Oronzo Filomarini della casa dei teatini di Sant’Eligio di Capua[2], fu oggetto di abbellimento e di trasformazione in chiave barocca. L’artista, chiamato a completare il programma perseguito da mons. Filomarini[3], fu il napoletano, esponente di area giordanesca, Nicola Malinconico (Napoli 1663-1727)[4] il quale, per il gran numero di tele commissionategli, fu impegnato quasi sicuramente, anche se non ininterrottamente, dal 1715 fino al 1726, un anno prima della sua morte. Non è documentato infatti quel che molti sostengono, e cioè che il Malinconico abbia dipinto per la chiesa di Sant’Agata già a partire dal 1700, mentre è attestata la sua presenza in Gallipoli nel 1715. Infatti, dalla Visitatio ailocali della cattedrale che mons. Filomarini fece il primo agosto di
Libri/ Sud Est. Vagabondaggi estivi di un settentrionale in Puglia
Chi l’ha detto che le cronache di viaggio debbano restare esclusivamente legate al ricordo del Gran Tour che nell’800 letterati e nobili stranieri si accingevano ad intraprendere? Quei diari di viaggio, che oscillavano tra la descrizione narrativa e le divagazioni filosofiche, sono stati assai amati fino alla prima metà del secolo scorso. Poi, il giornalismo, con grandissimi cronisti, ne ha raccolto la funzione e le finalità, svecchiando un modo di raccontare il Paese che sembrava ormai dimenticato.
Ebbene, da una decina d’anni questo genere sembra nuovamente caduto in disgrazia, sia per l’onnivora presenza televisiva che ha degradato ogni narrazione, sia per l’esistenza di una certa narrativa che, attraverso (discutibili) reportage e real story, ha recuperato la sua antica consuetudine di raccontare il territorio. Marco Brando, giornalista del Corriere del Mezzogiorno, ha scritto un agile libretto, che già dal titolo,
Sud Est. Vagabondaggi estivi di un settentrionale in Puglia, rievoca la forte – ed atavica – commistione tra giornalismo d’inchiesta e racconto d’evasione.
Composto di una trentina di percorsi e di due “fuori rotta”, il libro di Brando assolve con facilità ad una duplice funzione: quella di denuncia, dettata dalla sconforto e dall’avvilimento per l’incuria e l’insensibilità di alcuni scellerati progetti di industrializzazione; e quella della fascinazione, che una terra come quella di Puglia è capace di emanare proprio nei suoi anfratti dimenticati (e quindi sottratti al degrado ambientale, ma anche alla valorizzazione turistica e culturale che dovrebbe invece esserne fatta).
Da “settentrionale trapiantato nel Sud”, Brando riesce ad evidenziare bene questa contraddizione entro cui il sud-est – come tutto il Meridione, del resto – rischia di restare fulminato, ma ne comprende anche le straordinarie possibilità di riscatto mai attuate, che la condannano in un odioso limbo nel quale sembra ormai essersi rassegnato.
(pubblicato sulla rivista “Gli Apoti. Quelli che non la bevono”
È, in dialetto neretino1, il nome di una pianta annua, ancora molto diffusa nelle nostre campagne2 che non abbiano subito il passaggio di quel novello Attila costituito dal diserbante. Il nome comune italiano è tribolo o caciarello, il nome scientifico TrìbulusterrèstrisL. ed appartiene alla famiglia delle Zigofillacee.
Il primo nome italiano (trìbolo) è dal latino trìbulu(m)=trebbia, trebbiatrice (connesso con tèrere=estenuare), a sua volta dal greco trìbolos che indica genericamente una pianta spinosa e nello specifico proprio la nostra; non a caso trìbolos è costituito da tri-(radice di treis=tre) e bolos=lancio, da ballo=gettare. Trìbolos in greco era pure un ferro con quatttro punte divergenti sparso sul terreno per ostacolare il transito della cavalleria nemica, nonché la punta del morso nei finimenti e, la voce, usata come aggettivo significa triforcuto. Il secondo (caciarèllo) pone seri problemi etimologici: la voce potrebbe essere collegata col romanesco caciàra=chiasso (forse connesso con gazzàrra, che è dall’arabo gazara=mormorio) o col toscano caciàia3=luogo in cui si fa stagionare o si conserva il cacio; nel primo caso ci sarebbe un riferimento all’effetto della puntura dei suoi frutti spinosi, nel secondo alla diffusione particolare di questa pianta in un territorio ben preciso.
La prima parte del nome latino (Trìbulus) è il padre del primo nome italiano (trìbolo), la seconda (terrèstris) si riferisce al suo portamento prostrato e nello stesso tempo funge da elemento distintivo rispetto al TrìbulusaquàticusMat. o Trapanatans L. (Trappola che nuota), in italiano castagnadipalude; per trapa vedi la nota n. 4.
A parte il toscano caciàia tutte le etimologie fin qui proposte evocano gli effetti spiacevoli della puntura dei frutti di questa pianta. Per chi non li avesse provati è sufficiente uno sguardo alla foto che segue, che ne mostra uno in dettaglio.
Anche i nomi stranieri confermano questa deduzione:
Le trecce alla “scaunizzu” Saveria le preparava d’inverno, vicino al camino acceso. A semicerchio intorno alla fiamma disponeva le pigne, affinché, sciolta al caldo la resina, fosse agevole recuperare i pinoli e, nel frattempo, si dava a preparare l’impasto.
Metteva in una padella, a bordo alto, un litro di vincotto al quale aggiungeva mezzo chilo di fichi secchi tritati, tre etti di mandorle pestate, due etti di noci sminuzzate, tre cucchiaiate di mostarda, una manciata di uva passa, un po’ di cedro candito tagliato a dadini e un pizzico di cannella. Faceva bollire a lungo, amalgamando col mestolo di legno, poi passava sulla spianatoia a raffreddare. A parte preparava la sfoglia con mezzo chilo di farina, due etti di strutto, una presa di sale e un pizzico di lievito sciolto in un bicchiere di marsala.
Le sfoglie le tirava lunghe e sottili, le tagliava a nastri larghi cinque dita e le riempiva del composto, chiudendole solo a tratti, a pizzicotti, come una giacca male abbottonata. Poi le intrecciava a due a due e, dove la sfoglia si allargava, lasciando intravedere l’impasto, tracciava un disegno con i pinoli. Le infornava, sorvegliandone attentamente la breve cottura. Tirate fuori al punto giusto, si presentavano croccanti, con un aroma spiccato e un gusto delizioso.
Erano in parecchi a mangiare le trecce dolci di Saveria, ma da un po’ di tempo a questa parte, è inutile attenderne l’offerta. No – afferma decisa -, non ne preparo più. Le facevo per gli amici ed era una gioia, ma ho avuto modo di constatare che oggi la parola “amicizia” è qualcosa di astratto, una parola che appartiene ad una lingua che non si parla più. Me li chiami forse veri amici gli opportunisti, i falsi, i traditori?
Una amara constatazione la sua che diviene amara meditazione per noi ogni qualvolta il profumo delle “trecce alla scaunizzu” riempie la casa di Saveria e dilaga financo sulla strada, perfido come una tentazione e pesante come una condanna.
Da “L’APOLLO BONGUSTAIO”, ALMANACCO GASTRONOMICO PER L’ANNO 1973, a cura di Mario Dell’Arco (Dell’Arco Editore in Roma), pag. 76
Chiunque si sia interessato di Ennio ha sempre sottolineato che il nostro grande conterraneo si vantasse di avere tre anime perché, come viene ricordato da Aulo Gellio, conosceva tre lingue, il greco, il latino e l’osco: Q. Ennius tria corda se habere dicebat, quod loqui Graece et Osce et Latine sciret.
In effetti la sua lingua materna non era l’osco, bensì il messapico, ma forse egli considerava il messapico quasi un “dialetto” facente parte della gente di lingua osca, che aveva espresso forme d’arte che, sia pur limitate, tuttavia erano tali da poter aspirare ad una dignità letteraria.
Che egli conoscesse bene il latino prima ancora della sua venuta a Roma è facile capirlo tenendo presenti le vicende storiche dei decenni che precedono la sua nascita. Nei Fasti Trionfali Capitolini si ricordano i trionfi dei Romani sui Salentini e sui Messapi negli anni 268 e 267 avanti Cristo, in seguito alla sconfitta dei loro grandi alleati Taranto e Pirro, che per tanti anni avevano tenuto testa ai temuti Romani. Quindi quando nasce Ennio nel 239 a.C. nel Salento era già diffusa da circa trenta anni la lingua latina dei dominatori, almeno nelle relazioni sociali e politiche e negli strati più alti della popolazione messapica. Ora è indubitato che Ennio discendesse da nobile e prestigiosa famiglia, anzi egli stesso si vantava di discendere dal mitico re Messapo. Quindi era naturale che, data la sua condizione sociale, egli stesso e tutta la sua famiglia avessero studiato e appreso bene la lingua dei conquistatori.
Quanto poi alla sua conoscenza del greco è facile individuarne l’origine. Certo Rudiae, la sua città natale, non era proprio città greca, anche se Strabone la definisce “Polis ellenìs”, ma era comunque profondamente ellenizzata. Per convincersi indiscutibilmente di questo basterebbe osservare che gran parte dei manufatti e dei materiali greci esposti nel Museo Provinciale di Lecce provengono in larga parte da rinvenimenti e scavi di Rudiae.
Il Ciaceri, nella sua splendida Storia della Magna Grecia, ritiene che già a partire dal V secolo a.C. l’egemonia dei Tarantini si fosse fatta sentire più o meno su tutta quanta la penisola salentina, prima sulle coste da Gallipoli ad Otranto e poi sulle città dell’interno, le quali ben presto risentirono fortemente l’influenza della grande colonia spartana. Quindi Ennio, data la sua alta condizione sociale, potè avere fin dall’infanzia un pedagogo greco o un maestro di lingua greca o comunque potè spostarsi durante l’adolescenza a studiare nella vicina colonia greca di Taranto, allora città ricchissima e dai notevoli fermenti culturali.
Fra gli scrittori antichi che ricordano Rudiae importanti sono Strabone, Pomponio Mela e Plinio il Vecchio, ma le indicazioni topografiche di questi tre autori, vissuti tra il I secolo a.C. ed il I secolo d.C., dando posizioni vaghe e contrastanti sulla ubicazione di Rudiae, hanno fatto sorgere il tanto discusso problema della identificazione del centro moderno corrispondente all’antica patria di Ennio. Ricordiamo a tal proposito che gli studiosi hanno proposto vari centri moderni: Carovigno, Grottaglie, Francavilla Fontana, Ostuni, Rutigliano, Andria e persino, con molta fantasia, Rodi Garganico.
Noi, tenendo presente anche la attendibile indicazione dell’antico geografo Tolomeo, che colloca Rudiae nella zona mediterranea del Salento accanto a Neretum (Nardò) siamo convinti che la patria di Quinto Ennio fosse indiscutibilmente nella zona archeologica situata sulla strada per S.Pietro in Lama a due chilometri da Lecce, fuori dalla porta della nostra città che ancora oggi reca il nome di porta Rudiae o porta Rusce.
E’ merito del Bernardini l’aver fatto nel secolo scorso una scrupolosa planimetria di questa zona archeologica, cinta dai resti di due cerchie murarie con al centro la cavea ellittica di un piccolo Anfiteatro, arricchito da lavori scultorei, e nelle vicinanze resti di un ninfeo e un lungo tratto di strada romana a grosse lastre dalla forma di poligoni irregolari. I reperti fittili e lapidei provenienti da questa area archeologica, messapici, greci e romani, oggi conservati nel Museo di Lecce, testimoniano che in questo centro antico, forse per le sue radicate tradizioni, la cultura latina, a partire dalla metà del secolo III a.c., pur sovrapponendosi alla precedente indigena e greca, sicuramente non la sopraffece.
Tutto questo rafforza l’immagine poliedrica che Ennio da di sè quando parla di tre anime (tria corda) e quando mostra il suo attaccamento alle sue origini: anche dopo che ottenne la cittadinanza romana da Q.Fulvio Nobiliore volle in un bel verso mostrare la fierezza e la gioia dell’alto riconoscimento a lui conferito, ma contemporaneamente ricordare con orgoglio di essere nato a Rudiae nel Salento:
nos sumus Romani qui fuimus ante Rudini
oggi siamo Romani noi che un tempo fummo Rudini.
Ma quali eventi portarono Ennio a Roma, ove doveva divenire il primo grande poeta epico e dare l’avvio ad una produzione poetica raffinata che sollevasse la poesia latina a vette altissime tali da competere con la grande civiltà greca?
Ciò avvenne durante la seconda guerra punica, quella guerra che vide contrapposte per il predominio sul Mediterraneo le due più grandi potenze del tempo, Roma e Cartagine.
Quella guerra impose, come ha visto giustamente il grande storico Gaetano De Sanctis, una scelta agli uomini dell’Italia meridionale: per Roma o contro Roma.
Molti, dice il De Sanctis, forse i più, Greci, Osci e anche Iapigi, scelsero la fedeltà alla tradizione locale e la riscossa contro il dominio di Roma sotto la guida di quell’Annibale che aveva sbaragliato le legioni romane proprio in Puglia, a Canne nel 216 a.C. Ennio invece, come cittadino nobile e fiero e come poeta in quella lingua latina che ormai riconosceva come propria, accanto a quella greca a lui ancora più familiare, scelse Roma. Tale scelta fu decisiva per lui e per la poesia romana. Al servizio della romanità Ennio poneva uno spirito ricco d’arte e di pensiero greco, perché la letteratura romana conquistasse un altissimo posto accanto o addirittura sopra alla greca contemporanea, ormai decaduta rispetto alla gloriosa letteratura greca più antica.
Militava dunque Ennio tra le truppe ausiliarie romane quando nel 204 a.C. s’incontrò in Sardegna con Catone il Censore, che apprezzò subito le sue alte doti d’ingegno e la fine cultura (benché fosse fiero avversario della grecità) e lo condusse con sè a Roma. Lì Ennio entrò nella familiarità degli Scipioni, grandi mecenati ante litteram, sostenitori della cultura greca, e intensificò la sua multiforme attività letteraria, che spaziò dall’epica con gli Annales, al teatro con le ammiratissime sue tragedie, sino alla satira e alla produzione filosofica. Non lasciò insomma intentato nessun settore della cultura e dell’arte e se tributò ampio riconoscimento all’aristocrazia, volle contemporaneamente proporsi come il poeta di tutta la società romana e delle sue virtù collettive.
Si può benissimo dire che la produzione letteraria romana per almeno tre secoli sarà influenzata dalla poesia di Ennio: Lucilio sotto vari aspetti si ricollega a lui; Orazio, che pure è così aspro con gli scrittori antichi, che bistrattò Plauto e Lucilio, porta Ennio come esempio di vera e assoluta poesia; Lucrezio è imbevuto di spirito enniano; Cicerone trova in lui sentenze da oracolo, lo imita e lo cita continuamente nelle sue opere filosofiche; Varrone e Catullo riecheggiano varie sue espressioni; Virgilio infine si rifà spesso ai versi di Ennio, anzi, talvolta, riporta qualche verso quasi di peso alla lettera, come avviene, per esempio, nel sesto libro dell’Eneide allorchè parla di Quinto Fabio Massimo, che temporeggiando salverà lo stato: “Unus qui nobis cunctando restituit rem”.
Oggi un giudizio preciso sulla poesia enniana e in particolar modo sugli Annales per noi è impossibile, dato che la sua opera ci è giunta solo attraverso poche centinaia di versi frammentari; ma perché essa non venne ricopiata e conservata per intero? Non certo, come qualche critico maliziosamente ha detto, perché nelle età successive non piacque più per la sua primitività e il suo modesto valore artistico, anzi i continui richiami dei più grandi poeti e letterati dell’età classica mostrerebbero il contrario, ma , come ha dimostrato Scevola Mariotti, grande studioso di Ennio, perché le generazioni posteriori non furono sempre capaci d’intendere e apprezzare pienamente quell’arte evoluta, spesso ardita e forse troppo intellettualistica: l’arditezza di cui Ennio dà spesso prova va spiegata alla luce del suo temperamento innovatore e originalmente creatore.
Ennio comprese d’essere un capostipite nella poesia latina: audacemente nel primo proemio del suo poema epico immagina che gli appaia in sogno l’ombra di Omero, il quale gli rivela di essersi reincarnato in lui, secondo la dottrina della metempsicosi: per Roma Ennio sarà il vivente sostituto del più grande poeta di tutti i tempi, il Novello Omero. Ennio sceglie la storia di Roma come soggetto da trattare con toni e movenze mitiche, la storia passata apparirà nell’esametro enniano come un’epica leggenda suscettibile d’essere trasformata in mito: gli Annales di Ennio saranno il capolavoro della nuova cultura romana che viene dalla Grecia.
Lucrezio rievocando nel suo poema sulla Natura il sogno fatto da Ennio, dice che Omero appare al poeta di Rudiae piangendo: “lacrimas effundere salsas coepisse”. Quale il motivo del pianto? Secondo i critici più attenti sono quelle di Omero lacrime di gioia, per aver egli potuto incontrare Ennio e rivivere in lui, erede, oltre che della sua anima, anche delle sue qualità e della sua missione poetica.
Giunti a questo punto noi vorremmo tentare di delineare il carattere e la personalità dell’uomo Ennio, molto difficilmente potremmo intravedere il suo aspetto fisico.
Ennio, il cantore aulico degli Scipioni e di Marco Fulvio Nobiliore, circondato da amicizie potenti, in stretta dimestichezza con i principali esponenti della politica romana del suo tempo, secondo quanto ci dice S. Girolamo volle vivere modestamente, in una piccola casa sul monte Aventino: dirigeva il collegium scribarum histrionumque ma si contentò di un tenore di vita assai parco e dell’assistenza di una sola ancella. Secondo Svetonio lì, presso il tempio di Minerva, avrebbe insegnato grammatica latina e greca ai rampolli dell’aristocrazia romana, ma a tal riguardo si levano forti dubbi, perché S.Girolamo ricorda solo Livio Andronico come maestro di scuola nel tempio di Minerva: d’altra parte, provenendo Ennio da famiglia aristocratica, discendente da stirpe regale, difficilmente si sarebbe adattato ad un mestiere che allora era praticato da schiavi o liberti. Impegnato soprattutto nella versificazione di tutta la storia di Roma sino ai suoi tempi, visse lieto della sua esistenza sobria, ma allietata dall’affetto dei componenti del primo Circolo degli Scipioni, sino a settant’anni, come ci ricorda Cicerone in varie sue opere, e principalmente nel De Senectute e nel De Officiis. Ennio ci dà egli stesso un suo autoritratto spirituale in un ampio frammento del suo monumentale poema: il poeta immagina di delineare il ritratto del fedele consigliere del console Servilio Gemino, ma già gli antichi, tra cui Lucio Elio Stilone ed Aulo Gellio, riconoscevano in tale profilo tracciato da Ennio l’ideale figura di se stesso, quale compagno e confidente di Scipione l’Africano, Scipione Nasica e Fulvio Nobiliore, con cui egli trattava da pari a pari, senza alcun servilismo. Dal frammento si evince che il poeta sente che Scipione “divide con lui affabilmente la mensa e i discorsi, con lui parla confidenzialmente di affari di stato ma anche di banalità, perché il grande condottiero considera l’amico Ennio uomo accorto e fedele, eloquente, contento del suo, capace di dire la parola giusta al momento giusto, conoscitore delle leggi divine ed umane, uno che sa dire o tacere prudentemente le cose che gli sono state confidate”. Anche in un altro frammento, tratto dalle Tragedie e riportatoci sempre da Gellio, si ritiene che il poeta ritragga se stesso dicendo “Questa è la mia indole e così sono fatto: porto scritto in fronte e tutti possono leggere se amico sono ad altri ovvero nemico”.
Ennio insomma impersona la saggezza pratica e la discrezione onesta, cioè gli aspetti principali della realistica humanitas latina, che noi ritroviamo anche in un altro frammento delle sue Satire, ove testualmente dice “non aspettarti dagli amici qualcosa che tu puoi fare da te stesso (ne quid expectes amicos quod tute agere possies)”.
Se questo era l’animo e il sentimento di Ennio, ora vorremmo figurarci quale fosse il suo aspetto fisico. Esiste invero di lui tutta una tradizione figurativa, esistono indizi e notizie di statue e pitture che lo effigiavano. Cicerone, Tito Livio, Ovidio, Plinio il Vecchio ci ricordano che Ennio riposò nella tomba degli Scipioni sulla via Appia Antica accanto all’Africano, anzi Plinio precisa che l’Africano stesso ordinò che una statua di Ennio fosse collocata nel suo sepolcro (prior Africanus Quinti Enni statuam sepulcro suo imponi iussit). Dalla tomba degli Scipioni invero proviene la cosiddetta testa di Ennio (alta cm. 24) scoperta nel Settecento ed ora nei Musei Vaticani. Tale attribuzione però non è corretta, oltre che per certe considerazioni di vario ordine (la testa di un modellato essenziale ma efficace, col viso tondeggiante, dalle labbra tumide ed il naso largo, potrebbe essere più femminile che maschile, sulla testa vi compare qualcosa che somiglia più ad un fermaglio che ad una corona d’alloro), ma soprattutto perché essa è in tufo dell’Aniene, non in marmo, come indicano alcune fonti antiche.
Certo è incontestabile che ritratti del poeta (una novità di assoluto rilievo nella Roma arcaica) si diffusero per tutte le province della Res Publica romana prima e dell’Impero successivamente, come testimonia tra l’altro un mosaico di Treviri del III secolo d.C. conservato appunto nel Rheinisches Landesmuseum di Treviri in Germania, sul confine con il Lussemburgo: si tratta però, almeno per i reperti giunti sino a noi, di immagini ideali o idealizzate e non di veri ritratti realisticamente eseguiti. Un tributo d’omaggio ed una attenzione particolare rivolse ad Ennio nel Rinascimento il sommo Raffaello quando in Vaticano rappresentò nella Stanza della Segnatura i poeti degni di stare sul Parnaso: accanto ad Apollo ed alle Muse egli dipinse Omero circondato dai poeti epici: Virgilio e Stazio alla sua sinistra, Dante ed Ennio alla sua destra. Il primo seduto, a sinistra di chi guarda, con in mano una penna e pronto a mettere per iscritto i versi che Omero inebriato pronuncia è appunto Ennio, come ha di recente sostenuto Giovanni Reale, appoggiandosi alle osservazioni di Giorgio Vasari e Redig De Campos: solo Ennio non ha la corona d’alloro sulla testa, ma questo perché è una reincarnazione dello stesso Omero, come il poeta latino apertamente sostiene nel proemio degli Annales. Insomma, come dice Orazio, egli è l’ alter Homerus, Omero redivivo, perché accoglie dentro di sé l’afflato del più grande dei poeti. Letta in questo modo la figura raffaellesca del giovane Ennio, che pende dalla bocca di Omero, diventa veramente toccante, di una straordinaria efficacia drammaturgica.
Lecce oggi conserva pochi ricordi tangibili del suo grande figlio, ma meritano d’essere menzionati due segni lapidei in città. Una stele in pietra di Trani, accanto al monumento antico più significativo della nostra città, l’anfiteatro in piazza S. Oronzo, fu eretta in ricordo di Quinto Ennio nel 1913 ed è opera dell’insigne scultore Antonio Bortone: ancora oggi si possono vedere di essa il basamento e la fascia in bronzo con maschere teatrali; non è invece più visibile il verso enniano che vi era scritto sopra, tramandatoci da Cicerone.
Immediatamente fuori Porta Rudiae è un’altra testimonianza che ricorda ai leccesi che qui ebbe i suoi natali il primo grande poeta epico di Roma: si leva infatti qui una colonna in granito grigio donata dal comune di Roma alla città di Lecce in occasione del bimillenario di Quinto Ennio.
Non sono mancate certo in questi ultimi anni le manifestazioni culturali in ricordo di Ennio: nel novembre del 1994 l’Associazione Italiana di Cultura Classica volle che si svolgesse a Lecce, nell’Hotel Tiziano, un Convegno Nazionale di studi classici su “Ennio tra Rudiae e Roma” con la partecipazione dei più eminenti studiosi in tale campo, tra cui è d’obbligo ricordare almeno gli insigni latinisti e grecisti Scevola Mariotti e Dario Del Corno.
Ogni anno infine si svolge a Lecce, già da sedici anni, organizzato dal Liceo Classico Palmieri in collaborazione con l’Università di Lecce, il Certamen Ennianum, gara internazionale di lingua e cultura latina, che ha lo scopo di favorire contatti e scambi culturali tra i licei del territorio nazionale ed europeo e di approfondire e continuare la conoscenza del grande poeta latino: così infatti Ennio continuerà a vivere tra noi come egli stesso si augurava e sperava, se, come ci dice Cicerone, egli personalmente sulla sua tomba, o più probabilmente sotto la sua statua dentro la tomba degli Scipioni, allorché morì nel 169 a.C., volle che si scrivesse “continuo a volare come vivo sulle bocche di tutti (volito vivus per ora virum)”.
BIBLIOGRAFIA
Fonti antiche
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S. Girolamo, Chronicon, a. Abr. 1777 e 1830
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Orazio, Epistole, Libro II, Milano 1959
Plinio Il Vecchio, Naturalis Historia, Lipsia 1906
Svetonio, De viris illustribus, De Grammaticis, Milano 1968
Strabone, Geographica, Parisiis 1863
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Studi
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M. Bernardini, La Rudiae Salentina, Lecce 1955
E. Ciaceri, Storia della Magna Grecia, Milano1928
G. B. Conte, Letteratura latina, Firenze 1988
G. De Sanctis, Storia dei Romani, IV, II, tomo II, Firenze 1953
Dizionario degli scrittori greci e latini, diretto da Francesco della Corte, Marzorati editore
A. Grilli, Studi enniani, Brescia 1965
Scevola Mariotti, Lezioni su Ennio, Pesaro 1951
Monaco-De Bernardis-Sorci, La produzione letteraria nell’antica Roma, I, Firenze 1995
G. Reale, Raffaello Il “Parnaso”, Rusconi, 1999
S. Timpanaro, Contributi di filologia e storia della lingua latina, Roma 1978
G. Zappacosta, Nil intemptatum, I, Firenze 1968
Da Marittima (Lecce), i quadretti di un (non) pittore senza cavalletto
Sin dai tempi delle mitiche aste e/o delle prime vocali, R. è stato sempre accompagnato da una congenita negazione per il disegno. Più precisamente, riuscendo a malapena a salvare la faccia riguardo a quello geometrico, laddove si trattava di mettere due linee in croce o di tratteggiare un angolo o un poligono, ma rivelandosi addirittura una completa e assoluta frana per ciò che attiene all’altro genere, il cosiddetto ornato.
Così che, negli anni preadolescenziali delle medie, succedeva sistematicamente che il docente della materia, in occasione degli scrutini, finisse ogni volta col trovarsi in serio imbarazzo: insomma, l’otto segnato sulla pagella di R. era tutt’altro che meritato, ma cadeva miracolosamente dal cielo, alla stregua di provvidenziale manna, solo affinché non fosse “guastato” l’insieme dei voti eccellenti, abitualmente riportati in tutte le altre discipline.
Invece, nonostante l’anzidetta antica non predisposizione o vocazione, in virtù di una sorta di strano contrappasso, in questo caso al rovescio o meglio a beneficio, quando si tratta di “disegnare” o tratteggiare il paesello, il mare, la costa, i campi pietrosi, le distese verdeggianti e argentate degli ulivi, le facce della gente di ieri, i ricordi di una serie di vecchi mestieri e delle abitudini passate in generale, ecco che R. si scopre pittore. Senza tavolozza, né pennelli, né colori, bensì servendosi di particolari “strumenti” immateriali, ma evidentemente non meno efficaci, quali sono la memoria, i pensieri, l’interpretazione e la fantasia.
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Nella toponomastica stradale di Marittima v’è un’arteria, fra le più lunghe, che parte da Piazza della Vittoria per terminare all’altezza del Santuario Maria SS. di Costantinopoli, con adiacente edificio già sede di un convento di monaci, e, sulla destra, in corrispondenza del piazzale del camposanto.
Il suo nome ufficiale è Via Convento, ma, da parte mia, giacché vi transitano indistintamente gli abitanti della piccola località nel loro ultimo viaggio, ho da qualche tempo preferito battezzarla con l’appellativo “Via di tutti”.
Lungo il percorso in parola, è continuamente dato di cogliere volti, emozioni, sofferenze, non solo nelle precipue occasioni dei tristi eventi, bensì tutti i giorni dell’anno.
Ad esempio, a percorrere detta strada, stamani, si trovava Nino, non a piedi, non in macchina, non in moto, bensì camminando appoggiato al manubrio della sua vecchia bicicletta.
Prossimo ai novanta, egli è solito recarsi – quasi quotidianamente – nell’area caratterizzata dai cipressi, per la visita e un saluto alla moglie che l’ha lasciato solo.
Oltre a Nino, proprio davanti al portone del luogo dei trapassati, ho scorto, ferme e intente a conversare, due sorelle, vestite rigorosamente di nero: chissà quali contenuti o argomenti erano insiti in quei discorsi, tuttavia, a prescindere da ciò, le citate figure, in un lampo, mi hanno richiamato alla memoria il triste evento di alcuni anni addietro, sottoforma di tremendo scontro stradale fra due autovetture sul nastro d’asfalto di una vicina provinciale, in cui le donne videro perire la loro sorella più giovane, due cognate e, infine, una sorella di queste ultime, l’indimenticabile comare Amalia, lei sì pittrice, ricamatrice e creatrice dotata d’inesauribile inventiva, come ho avuto modo di sperimentare personalmente attraverso la realizzazione, per opera sua, del vessillo effigiante i volti dei miei tre gatti che hanno ispirato il nome della barchetta a vela, nonché, autentica minuscola chicca, dell’indirizzo di posta elettronica rocco_b@libero.it, ricamato in fedelissime tinte sotto il coccodrillo delle Lacoste.
Insomma, è immaginabile e comprensibile che le visite di dette donne al luogo sacro siano quanto mai intrise di serti di pensieri, emozioni, rievocazioni e rimpianti.
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Lasciata la “Via di tutti” e passando per un’altra vecchia strada di Marittima, mi è capitato, invece, d’imbattermi in Vitale C., seduto, al solito, fuori dall’uscio della sua abitazione a pian terreno.
Arrestata di colpo la corsa e spento il motore dello scooter, dopo il saluto, sono immediatamente venuto alla domanda: “Di che classe sei?”
E, Vitale, a rispondere senza esitazione: “!915”. Riflettendo, niente poco di meno che la data dell’ingresso dell’Italia nel prima grande guerra e/o, tradotto in calendari, novantasette primavere.
“Guido ancora il motocarro Ape” – aggiunge l’uomo – “ma sono autorizzato esclusivamente a portarmi dal garage qui accanto sino al mio campicello sulla strada nuova per Andrano”.
A onor del vero, da un pezzo, la campagna di Vitale si presenta incolta, pressoché abbandonata, si vede quindi che l’uomo, più che altro, non intende rinunciare, almeno nel racconto, alla vita attiva condotta sino a non molto tempo addietro.
Vitale, al pari di tutti i suoi familiari, è conosciuto con il soprannome “’u sceri” (in formula italianizzata, “dello sceri”, dove il misterioso termine rappresenta l’accezione dialettale di “usciere”.
Traendo spunto dall’incontro con il quasi centenario – nel paese, esiste solo un’altra persona più grande d’età, zio E., che ha superato i novantotto – sono stato preso dalla curiosità di scoprire l’origine del nomignolo “’u sceri”, e,a tal fine, mi sono rivolto alla sorella giovane di Vitale, cummare Mmimmi, la quale, da parte sua, non sfigura, navigando intorno all’ottantina.
E’ venuto fuori che il loro genitore, Peppe ‘u sceri, originario di Tuglie, nell’ambito dello svolgimento della propria attività lavorativa, si rese ad un certo punto conto di aver bisogno di un animale da soma; contemporaneamente, seppe, per caso, che l’usciere (in dialetto sceri), o messo notificatore, o daziere del circondario stava per vendere il suo asino e allora, con il classico incontro della domanda e dell’offerta, Peppe rilevò la bestia, giustappunto, dallo “sceri” e, da quel preciso momento, divenne, fra i paesani, “Peppe ‘u sceri”, finendo poi col lasciare, il bizzarro soprannome, in successione agli eredi.
Richiamando la figura del vegliardo del paese, zio E., mi piace porre in risalto la di lui piena lucidità e l’autonomia per svariati atti del vivere quotidiano, compreso il prelievo dell’acqua per bere, mediante la tradizionale capasa, direttamente dalla sua pressoché coetanea fontanella pubblica in ghisa, con impresso il simbolo del fascio littorio che contraddistinse un ventennio, ancora zampillante nei pressi della sua abitazione.
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La villetta di Piazza della Vittoria registra, specialmente d’estate, la presenza di nugoli di bimbi e ragazzini che corrono e giocano, avvicendata e controbilanciata dalle soste pomeridiane, nelle parentesi di libertà, di nutriti gruppi di badanti e collaboratrici domestiche provenienti dall’est europeo, che hanno eletto lo slargo in questione e le relative panchine a luogo di ritrovo.
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C. Minonne, faceva, da giovane, il manovale, o manipolo, presso una piccola impresa edile; basso di statura, ma robusto, si distingueva per la semplicità e la velocità con cui si caricava sulle spalle, talora due per volta, destreggiandosi su scale, impalcature e muri perimetrali, i conci o tufi o piezzi che, all’epoca, erano la materia prima fondamentale per la costruzione delle abitazioni.
A un certo punto, per C., in concomitanza con il matrimonio e con le accresciute necessità finanziarie, arrivò la parentesi dell’emigrazione in Svizzera, con decenni, anche lì, di duro lavoro e, infine, il momento del rientro a Marittima, ormai da pensionato, insieme con la moglie.
C., abituato a non stare mai con le mani incrociate, prese, fra l’altro, a interessarsi di un fazzoletto di terra, alla periferia del paese, lo trasformò, in breve tempo, in un vero e proprio giardino, impreziosito innanzitutto da un bel portone d’accesso di ferro battuto, piantumato con una serie di alberi da frutta e, lungo il muretto di confine della sua proprietà, arricchito da un fantastico filare di rose di colore rosa, realizzato non con il comune acquisto di germogli o talee dal negozio, ma semplicemente attraverso il prezioso e paziente trapianto di rametti di una “vecchia” pianta di rose, già coltivata dalla sua mamma nel giardino della casa natia.
Da poco, pure C. ha percorso la “Via di tutti” e, purtroppo, non anima più il giardinetto in periferia. La sua definitiva assegnazione ad altro incarico, è dimostrata chiaramente da un giovane mandorlo che, per la prima volta, è rimasto con i frutti, pronti per l’abbacchiatura e ormai rinsecchiti, appesi ai rami e, con maggiore risalto, dalla condizione in cui si è ridotto il roseto: rispetto all’abituale susseguirsi esplosivo di bellissimi boccioli e fiori, adesso fa capolino appena un esemplare, peraltro scolorito.
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Tutto passa e ne va, recitavano antiche e tuttora valide massime, ma, in pari tempo, per fortuna, la natura ci offre e mette a disposizione innumerevoli ritorni, perlomeno nel suo evolversi e rinnovarsi: fra essi, nel corrente periodo stagionale, quello delle preziose olive, frutti che, grazie ai primi spruzzi di pioggia e le temperature miti dopo la lunga fase di caldo e secco, non mancheranno, come sempre, di evolversi verso l’ingrossamento e la maturazione.
Come augurio, ovviamente, buon olio.
Sul feudo copertinese di Specchia di Normandia o Cambrò e sulla masseria “la Torre”
Uno dei più bei complessi masserizi dell’agro di Copertino è la masseria comunemente nota come “la Torre”, sulla strada Nardò-Copertino, a poche centinaia di metri da quest’ultima, raggiungibile mediante più tratturi. Posta al centro di un territorio coltivato ad uliveto di antico impianto, confina a nord con la masseria Li Tumi, a ovest con proprietà Licastro, a sud con la ferrovia, ad est con altra proprietà Licastro.
La singolarità e la peculiarità della sua forma, pur nella varietà delle tipologie masserizie della Puglia, è data nel nostro caso dall’imponenza del torrione, che rinvia al mastio e alle torri angolari del cinquecentesco castello copertinese e particolarmente allo stile delle torri costiere a pianta quadrata della “serie di Nardò”. Se queste ultime avevano prevalentemente funzione di avvistamento, la nostra masseria possiede più i connotati di una residenza signorile, fortificata per la difesa patrimoniale del bestiame, dei prodotti agricoli e delle suppellettili. Attorno ad essa si sono man mano aggiunti, e sino a pochi decenni addietro, locali di lavoro e di deposito, inevitabile segno delle dinamiche storico-produttive del complesso, che hanno alterato la struttura originaria, che tuttavia non ha risentito delle grandi trasformazioni agrarie tra Otto e Novecento.
Una prima testimonianza architettonica della masseria, anch’essa singolare ma più tarda, è a meno di 200 metri. Si tratta di una vera e propria dimora in tufi, aperta su tutti i quattro lati, con due archi laterali per parte ed uno, più alto, avanti e dietro. Al centro ospita il pozzo, il cui boccale è delimitato da blocchi di pietra piuttosto voluminosi.
Il prospetto della masseria è rivolto a mezzogiorno, verso Copertino, e su di esso spiccano l’unica caditoia, localizzata al centro della facciata, a sbalzo su mensoloni lobati, in corrispondenza dell’ingresso originario (ancora raggiungibile con scala in muratura), il cordolo marcapiano, la cornice a beccatelli, la base quadrata con leggera scarpa, che ricordano ancora i tempi in cui i pirati degli stati barbareschi rendevano insicure le nostre terre.
Evidente come essa sia stata concepita quale difesa passiva, vista la possente muratura, e come difesa piombante, basata sul lancio dalla terrazza di pietre o liquidi contro gli assalitori. Sulla restante cortina muraria, anche questa in blocchi squadrati di pietra locale a faccia vista e di buona fattura, nel corso dei secoli sono state arbitrariamente aperte diverse finestre, più grandi a pianterreno, ed un secondo ingresso, resosi necessario per essersi in essa stabilito un ulteriore proprietario. Tale divisione ha comportato anche all’interno della struttura molte variazioni architettoniche, certamente utili e funzionali per l’attività lavorativa, purtroppo deturpanti nella maggior parte dei casi, come è dato dal voluminoso corpo aggiunto adibito a forno.
Dell’impianto originario interno, anche questo caratterizzato da una architettura essenziale e priva di ogni ornamento, sopravvive il collegamento tra i locali superiori e gli inferiori, un tempo consentito dalla rimovibile scala in cordame. Il recinto, ottenuto con antichissime pietre pazientemente incastrate “a secco”, delimita l’ampio cortile col suo frantoio ipogeo, stalle e granai, cui si sono aggiunti nel corso dei secoli locali voltati usati ad abitazione e depositi, immaginando di aver potuto ospitare almeno trenta-quaranta persone. La distanza dalla strada carrozzabile, ma non dalla ferrovia che passa vicinissima, ha permesso all’ambiente circostante di conservarsi nella sua fisionomia e ancora oggi agli uliveti si alterna l’incolto, dove un tempo erano prevalenti la coltura granaria e l’allevamento del bestiame.
L’antichissimo feudo in cui il complesso è ubicato è quello denominato Cambrò o Specchia dei Normanni, compreso tra quelli di Castro, Puggiano, S. Barbara e Mollone, che nel 1316 possedeva Nicola de Buggiaco, per eredità del padre Roberto . Nel corso dei secoli la distinzione tra il feudo e la masseria fu sempre meno netta, tanto che nei documenti spesso veniva citato l’uno per l’altro, perché coincidevano i proprietari: nel 1550 i terreni e l’abitato sono del barone Carlo Balsamo e nel 1564 è detta la “masseria del defunto Antonio Bove” . Nel 1567 il nome è variato, ritrovandosi come “la massaria de li Troyali”, derivata dal nome del nuovo proprietario di Copertino, Giorgio Troyalialias Arenito , che nel 1570 l’ha ceduta, con l’annessa chiesa di S. Martino, al concittadino Organtino Verdesca, da cui ad Angelo Lombardo nello stesso anno.
Il feudo invece nel 1568 appartiene al nobile Lucantonio Sambiasi di Copertino che vende, per poi ricomprare nel 1583, diversi appezzamenti di terreno al barone neritino e suo congiunto Lupantonio Sambiasi per 1300 ducati . L’omonimia fu ancor più evidente negli ultimi anni del secolo XVI e nei primi del successivo quando del feudo non si fa più menzione negli atti notarili, né tantomeno nei secenteschi Cedolari di Terra d’Otranto, forse perchè integrato col confinante feudo di Castro, che detenevano i baroni Personè.
Intanto la masseria ha cambiato denominazione per la nuova proprietà passata ai nobili Lombardi e infatti nel 1577 è dei fratelli Cesare e Giacomo Lombardi, figli di Angelo. Gli stessi vendono, a beneficio dello spagnolo Giovanni de Sisegna, alla ragione del 10% per un capitale di 200 ducati, un vigneto di 10 orte ed un uliveto con casa lamiata, pila e palmento, in loco vulgariter dicto la massaria dè Lombardi, con atto del notaio Russo Antonio di Copertino del 6/5/1577. Successivamente i fratelli vendono gli stessi beni al neritino Alessio Sambiasi, il quale si impegna a versare i predetti 200 ducati al Sisegna . A distanza di una ventina d’anni la fortuna dei due fratelli dovette man mano scemare, visto che si registrano diversi loro atti di vendita dei beni ubicati nel feudo: nel 1581 vendono un uliveto di 300 alberi al monastero di S. Chiara di Copertino per 100 ducati ; diversi appezzamenti li vendono nel 1592 al barone Cesare Sambiasi di Nardò, figlio del predetto Lupantonio.
In altro atto del notaio neritino Fontò del 1588 il predetto Cesare figura signore del feudo “Specle de Normandia” e forse anche della nostra masseria, visto che da cinque anni continua ad acquisire altri appezzamenti circostanti per accorparli in una più efficiente unità poderale; alcuni dei terreni li acquista ancora da Giorgio e Domenico Troyalo , altri da Giovan Battista Imbeni e suo figlio Guglielmo . Notevoli dovettero essere i capitali investiti dal barone in questa proprietà, che nel 1598 continua ad acquisire gli ultimi appezzamenti rimasti in altrui possesso: nel 1598 Cesare Lombardi gli cede i terreni in loco la Carcara, confinanti coi beni di Cesare Imbeni e le terre dotali di Francesco Lubelli , e Giacomo Liuzzi un oliveto con 800 alberi. Questi sono gli anni in cui si affermava progressivamente il sistema di masserie in tutta la Terra d’Otranto e così cospicua proprietà, come per molte altre del territorio, da una lato assicurava la regolarità dei rifornimenti alimentari, dall’altro rappresentava una eloquente testimonianza del benessere e del comprovato status delle famiglie più ricche della provincia, tra cui anche i Sambiasi.
Numerosi atti notarili di questo decennio documentano il fitto scambio di derrate alimentari e, particolarmente, l’esportazione via mare del commerciabile e prezioso olio dall’opulenta terra salentina in ogni parte del Regno di Napoli.
Dopo un intricato sistema di vendite e ricompra dei terreni circostanti, finalmente nel 1613 la nostra masseria, chiusa di pariti di pietre, in loco Specchia Lombardia, feudo Castri, risulta di Giuseppe Sambiasi, figlio di Alessio, a sua volta erede del predetto Cesare. Tra gli altri beni essa comprende un curaturo lini, uno palmento et pilaccio dentro, puzzo seu cisterna e curtali, e numerosi appezzamenti con terre scapole, dei quali uno con arbori di olive 1000 incirca, et altri arbori communi venduto ai Sambiasi da Cesare Lombardi e dai suoi figli Angelo e Lucio per la considerevole somma di 1950 ducati.
La torre-masseria risulta finalmente realizzata nel 1625, quando, in altro rogito, il complesso viene descritto tra le proprietà del chierico Giuseppe Sambiasi, titolare anche del feudo Specle de Normandia, e consiste in terriis factitiis et machosis, olivetis, turri, capannis et ovilibus et aliis membris suis . Lo esplicita un altro atto dell’anno seguente, quando è comproprietario Bernardino, fratello del predetto chierico: vi è la torre, detta li Lombardi, ubicata nel feudo inhabitato vulg. nuncupato Specchia di Anormandia, vicina ad altri beni di Giuseppe .
L’ingente investimento da parte del facoltoso Alessio Sambiasi fu senz’altro dovuto alla disponibilità pecuniaria pervenutagli dalla dote della seconda moglie, la galatonese Vittoria de Ferraris, che gli aveva procurato ben 3200 ducati, che si aggiungevano ai beni di famiglia e a quelli ottenuti dalle prime nozze con Isabella, figlia del barone neritino De Pantaleonibus. Visto che la ratifica del secondo matrimonio avvenne nel 1618, è da pensare che la costruzione della torre possa essere iniziata dopo il 1618, per essere ultimata nel 1625. Certo è difficile sapere se si trattasse di un ampliamento ed innalzamento della domus lamiata del 1603, a sua volta magari costruita su un’antichissima sopraelevazione del suolo che dava il nome al feudo.
Si può anche ipotizzare che a metterla su furono gli Spalletta, mastro Angelo o più probabilmente suo figlio Vincenzo, che qualche anno prima aveva ultimato la costruzione della torre costiera del Fiume, oggi nota come Quattro Colonne, e che in più occasioni aveva lavorato per i Sambiasi di Nardò. Vincenzo, come il padre, era partitario Regie fabrice nuncupata de Fiume e nel 1609 riceve per quest’opera un ulteriore acconto o saldo definitivo dal cassiere dell’università neritina Donato Antonio Massa.
I proprietari della masseria però dovettero avere qualche problema finanziario e a causa di censi non pagati il complesso viene venduto all’asta e liberato da Melchiorre de Filippo di Racale, con atto del not. Palemonio del 9/10/1636. Da Melchiorre viene donata al fratello chierico Antonio, ma il pieno suo possesso risulta bloccato dalla Curia Vescovile di Nardò, in quanto la masseria era stata già venduta su istanza del monastero dell’Annunziata di Copertino che doveva esigere i predetti censi.
Rimessa all’asta la masseria viene acquistata da Bartolomeo de Magistris di Gallipoli, ma residente a Copertino, per 260 ducati, con atto not. Giacomo Panarello di Lecce del 1/8/1636. Il de Magistris la cede al citato monastero con istrumento del notaio copertinese Pietro Fulino del 3/12/1637.
Nel 1662 comunque conserva la dizione di massaria de’ Lombardi e si trova in Specchia di Normandia , di cui è feudatario il gallipolino Diego Sansonetti . Il figlio di Alessio Sambiasi, Giuseppe, nel frattempo ha saldato la quota restante dei 200 ducati dovuti a Giovanni Sisegna da suo padre nelle mani di Maddalena, per conto di sua sorella Isabella Isalas, a sua volta rappresentata dal procuratore Pietro Alvarez, hispano .
Per quasi un altro secolo la masseria passa da padre in figlio tra i Sambiasi, per ritrovarla proprietà del leccese Francesco Maremonti, come si evince dal Catasto Onciario di Copertino del 1746, cui è pervenuta per dote della moglie Maddalena Sambiasi, una degli ultimi rampolli del facoltoso ramo copertinese, figlia di Tommaso e Maria Sambiasi, eredi di Vitantonio. Il Maremonti dovette poi vendere il complesso ai baroni Personè, già titolari dei vicini feudi di Castro e Ogliastro, dei quali Giuseppe possiede la masseria “la Torre” nel 1774 .
Dai Personè probabilmente fu venduta per una parte ai Licastro di S. Cesario di Lecce, in persona di Francesco (deceduto a S. Cesario il 29/12/1937), possessore anche delle vicine masserie Cambrò e Marulli, che la cede al figlio Raffaele, da cui ai figli Roberto e Giovan Francesco Licastro-Scardino, residenti in Lecce. Questi, con atto per not. Astuto di Lecce del 3/4/1970 la vendono ai coniugi Giovanni Mele e Lucia Marinaci di Copertino, da cui al figlio Salvatore che la possiede tuttora. Tale quota è al foglio 51, part. 45, ha superficie abitativa di 350 mq. ed un terreno circostante di 55.000 mq. di cui 10.000 piantumati con ulivi e 45.000 di seminativo e alberi da frutto La restante parte, di ettari 38, are 19 e centiare 24, era di Luigi Vaglio, che la trasmise ai figli Teresa e Giuseppe. I figli di quest’ultimo, che avevano avuto anche la parte degli zii Teresa, Bartolo, Felicetta, Pasquale, Maria e Giuseppina, nel 1964 vendono la parte alla “Cassa per la Formazione della Piccola Proprietà” , che successivamente viene acquistata da Rolli, dei quali oggi Giuseppe possiede la restante parte.
Nonostante la bellezza e la vetustà del complesso, purtroppo si constata il lento dissolversi del modello originale e molti punti stanno miseramente franando per mancanza di manutenzione. Per svariati motivi il suo sistema produttivo non è più proponibile e spontaneamente nasce l’idea di una sua utilizzazione a fini turistici, sempre che le vertenze giudiziarie trovino presto risoluzione.
Sarebbe un altro esempio della civiltà contadina salentina che troverebbe giusto recupero, come timidamente si osserva in qualche altro sito della opulenta e bella provincia, che fatica a trovare il suo rilancio sul mercato internazionale del turismo, dimostrandosi incapace di valorizzare le sue risorse e, come in questo caso, il suo caratteristico paesaggio, che la benefica natura ha voluto favorire colmandola dei doni di Bacco, Cerere e Minerva.
La frisella.Tutto ciò che avreste voluto sapere e non avete mai osato chiedere
L’Eccellenza sulla tavola dei salentini: la friseddha
di Massimo Vaglio
Friseddhe, sarebbe questa l’esatta denominazione di questa sorta di pani biscottati, che in epoca più recente nella foga italianizzatrice del lessico sono stati riappellati anche frise e friselle. La prima delle due denominazioni posticce per quanto usata e abusata, è sicuramente una forzatura linguistica. Più giustificabile l’uso del termine frisella, che trova una ratio nel sollevare i non salentini dal difficile e spesso impossibile impegno di pronunciare il ddhr, suono cacuminale (invertito), caratteristico dell’idioma salentino, la cui verifica di una perfetta pronuncia è più efficace di un test del D.N.A., infatti per pronunciare alla perfezione questo suono bisogna arcuare all’indietro la lingua ripiegandola su se stessa, un’operazione che richiede un allenamento sin dalla primissima infanzia. Oscura la loro origine, probabilmente erano il cibo dei navigatori e dei soldati, qualcuno le vuole originarie della Grecia da dove sarebbero giunte al seguito dei navigatori che pare le usassero come gallette. Sono delle ciambelle senza buco, di farina di grano, o di orzo, cotte intere, poi spaccate e lasciate biscottare nel forno a legna.
Se la loro origine è remota quanto incerta, la loro diffusione su larga scala è invece certa, ed è iniziata quando, meno di un secolo fa, con il declino del latifondo, fu incoraggiato nel Salento la costituzione di piccoli poderi dati in beneficio o a riscatto e detti appunto beneficati o binificati. Su questi spesso aridi poderi, i conduttori oltre a coltivare e creare frutteti e oliveti edificavano delle precarie costruzioni a secco trulliformi, i furnieddhi, con tipologie e grandezza variabili a seconda del numero dei componenti della famiglia e del materiale litico rinvenibile sul luogo. In queste costruzioni, i contadini passavano insieme al nucleo familiare, tutta la stagione estiva, lavorando spesso, per un’economia di stretta sopravvivenza e con l’ambito scopo di procacciare le provviste per l’inverno.
La lontananza dai paesi, la precarietà dei mezzi di trasporto e la carenza delle suppellettili e delle strutture necessarie per preparare e cuocere il pane, imposero presto la necessità di trovare un’alternativa, alternativa offerta appunto, dalle mai dimenticate friseddhe, che potevano essere preparate e conservate per mesi nelle “capàse”, i tradizionali orci panciuti in terra cotta dal collo largo e le piccole e robuste anse.
L’impasto, costituito da farina, acqua e sale è del tutto simile a quello del pane ma con un 10 % in meno di acqua.
Per le friselle di grano duro e di orzo viene tradizionalmente utilizzato il lievito madre, in ragione di 200-220 grammi per ogni chilo di farina, l’impasto viene allungato lavorandolo sul tavoliere quindi diviso in tratti ognuno dei quali viene a sua volta allungato e riunito a cerchio in modo da formare delle ciambelle senza buco dal diametro oscillante tra gli 8 e i 15 cm.
Queste, dopo essere state lasciate a lievitare, vengono sottoposte ad una prima cottura in forno di pietra, alla pompeiana, alimentato, secondo tradizione con ramaglia d’olivo. Una volta cotte, vengono estratte dal forno e spaccate in due secondo l’asse mediano, orizzontale.
Questa operazione deve garantire un’accentuata rugosità nella parte tagliata, oggi i moderni panifici hanno a disposizione un’ingegnosa macchina appositamente brevettata. Un tempo, ed ancora oggi nella lavorazione casalinga o su piccola scala si effettua con l’ausilio di uno spago, cingendo le friselle e tirandone i capi, oppure utilizzando una sorta d’archetto rudimentale, attrezzato di un filo di ferro rugoso, nei vecchi forni che cocevano le friselle conto terzi, sovente si utilizzava un filo di balla di paglia (non zincato) ben teso ai bordi di un canestro di canna.
Le friselle, una volta spaccate si differenziano in friseddhre te sutta e friseddhre te susu, immediatamente distinguibili fra loro poiché la prima appare più schiacciata e dura per il contatto avuto con la chianca del forno ovvero con il piano di cottura. La friseddhra te susu, invece, più bella esteticamente, conserva ancora una mezza forma toroidale.
Per una perfetta riuscita queste devono essere spaccate appena sfornate, e poste subito a biscottare, un eccessivo ritardo in questa sequenza provoca la riuscita di fiseddhe ‘mpitruddhate, dure, che si imbibiscono d’acqua con difficoltà e in modo non omogeneo o nnuticuse, cioè che si deglutiscono con difficoltà.
La biscottatura può essere effettuata direttamente nel forno, dopo ovviamente averlo lasciato scendere di temperatura, oppure, nel caso di forni, per così dire, più professionali in una sorta di duomo, ossia un’ampia camera realizzata sopra i forni medesimi.
Dalle friselle, in tempi più recenti, sono state derivate le cosiddette friselline, queste si realizzano utilizzando farina di grano tenero di tipo 0 o 00 e vengono lievitate con lievito di birra; spesso nell’impasto viene fatta rientrare anche una piccola quantità d’olio di frantoio che dona loro un piacevole sapore e un’invitante fragranza.
Uso delle friseddhe
Il consumo delle friselle è soprattutto estivo, quando vanno a costituire un piatto fresco e facilmente digeribile. L’uso canonico, consiste nel bagnarle, incoronarle con i pomodorini freschi locali ricchi di criddhu o riddhu, che sarebbero i semi ancora avvolti nella loro gelatinosa placenta, cospargerle di origano salentino (Origanum eracleonticum), di sale e infine nell’allagarle o quasi d’olio di frantoio.
Ciononostante, la riuscita non è sempre garantita poiché, sembrerà strano, ma anche nell’espletazione di queste semplicissime operazioni si possono commettere degli errori ottenendo un risultato insoddisfacente. Facile infatti dire bagnare, ma come si bagna una friseddha doc? Alcuni la profanano direttamente sotto il rubinetto, altri la pongono in una ciotola e sommergono di acqua, altri, la bagnano a rate con piccole, timide mestolate d’acqua.
Tutte le metodiche elencate, ed altre che potrebbero aggiungersi sono implacabilmente errate e portano il più delle volte a portare in tavola un prodotto simile ad un pappone informe.
Vi dettiamo ora un preciso protocollo per eseguire questa operazione a regola d’arte: per prima cosa bisogna porre in tavola una ciotola con acqua preferibilmente fresca, poi, dopo essersi muniti di fondine, bisogna afferrare le friseddhre con tre dita, con la parte rugosa sopra e calarle e cacciarle velocemente per tre volte dall’acqua della ciotole, quindi porle nella fondina sul cui fondo, badate bene si è proceduto a versare un mestolino della stessa acqua e solo allora si può procedere al condimento. In questo modo la frisella si manterrà soda e consistente per tutto il tempo necessario a consumarla senza gonfiarsi, provare per credere.
Qualche volta vengono arricchite con altri condimenti come: rucola, peperoni, peperoncini, capperi, caruselle, finocchio marino sott’aceto…in questo caso, in alcuni paesi, vengono denominate friseddhe ’ncapunate.
Sull’argomento rimandiamo ad altri contributi pubblicati su questo sito:
Intorno al ventisei – ventisette settembre, anche al mio paese natio vige la secolare tradizione e devozione di festeggiare i Santi Medici Cosma e Damiano: celebrazioni, sia di carattere civile (luminarie, addobbi, fuochi d’artificio, complessi bandistici), sia d’impronta meramente religiosa (novena, processione del simulacro dei Santi per le vie cittadine, messa solenne, panegirico).
Ovviamente, sull’insieme dei riti, ha man mano inciso l’evoluzione dei tempi e la modifica dei costumi, pur tuttavia, in seno alla sensibilità collettiva, la ricorrenza resiste ancora.
A proposito dei venerati fratelli “dottori” e martiri della fede, mi piace tratteggiare, con brevi e semplici accenni, come e con quanta intensità, nelle stagioni passate, fosse vivo il trasporto e l’autentico e convinto credo nei loro confronti, e ciò indistintamente in ogni famiglia.
L’occhio di riferimento e i pensieri d’invocazione alla loro aureola e forza di santità rappresentavano in pratica una costante quotidiana, specie alla presenza di problemi o di timori inerenti alla salute e al benessere fisico, ma anche di là da questi specifici, importanti aspetti esistenziali.
Inoltre, frequenti erano i racconti e le testimonianze su apparizioni in sogno delle figure dei Santi in questione al capezzale del bisogno o dell’incertezza o del dubbio. Sì, in ciò non mancava, verosimilmente, l’influsso della suggestione
Il Salento è una terra ricca di energie. Energie donate dalla Madre Terra, evidenti come le serre che attraversano il territorio in tre linee parallele, che vanno a congiungersi nel Capo di Santa Maria di Leuca; energie nascoste, come l’acqua sotterranea che, grazie al carsismo, scorre nel sottosuolo come un sistema di arterie.
L’uomo preistorico, sempre connesso sulle frequenze della natura per la propria sopravvivenza, sapeva sentire e riconoscere tali energie, al punto da considerare alcuni luoghi come sacri in virtù della divampante energia che ne scaturiva. La sua naturale capacità a servirsi della natura come di un immenso dispositivo energetico, ha fatto si che ancora oggi, laddove la mano distruttiva dell’uomo moderno non è entrata in azione, possiamo beneficiare “energeticamente” di luoghi ma anche costruzioni come menhir, dolmen, triliti e specchie, costruiti millenni addietro.
Uno di questi luoghi è situato sulla Serra di Monte Vergine. Si tratta di un complesso articolato in cui la mano dell’uomo, nel corso dei millenni, ha interagito con le forze benefiche della natura. Situata a circa 7 Km da Otranto, a 96 mt sul livello del mare, l’area si affaccia in direzione est come una vera e propria terrazza rocciosa naturale dalla forma perfettamente circolare; notevole doveva essere la presenza di acqua che dal sottosuolo e in superficie, con una rete di canali tutt’attorno, arrivava ad alimentare il bacino più piccolo dei laghi Alimini, tramite un grande canale oramai in secca.
In cima alla collina svetta il santuario di Monte Vergine, costituito da ben tre livelli; il più antico e sacro è rappresentato da una grotta, luogo di apparizione della Madonna; sopra si trova una cappella intermedia ed infine, a livello stradale, la chiesa di più recente costruzione. Ritroviamo quindi i tre livelli sacri che è possibile ritrovare in molte antiche culture: il mondo degli inferi, il mondo terreno e il mondo celeste.
Esternamente, in posizione sovrastante la grotta, è situato un menhir che prende il nome dal santuario. Siamo di fronte ad un vero e proprio dispositivo energetico primitivo, l’opera dell’uomo che ha scavato la grotta e costruito il menhir, si intreccia con quella della natura. L’uomo preistorico sapeva riconoscere ed utilizzare gli elementi naturali attorno a lui, sentiva che l’acqua è un potente trasportatore di informazioni e che la grotta funge, oltre che da rifugio, anche da accumulatore di tali informazioni. Costruendo il menhir in cima alla grotta, ha posto una sorta di antenna per ricevere oltre che l’energia terrestre, anche quella cosmica o celeste, arrivando così ad una più totale immersione e comprensione delle forze necessarie al proprio benessere.
Facendo un paragone con la vita e la sensibiltà dell’uomo moderno, basta immaginare il ruolo svolto dai ripetitori radio e televisivi, ormai indispensabili per raccogliere informazioni di ogni tipo.
La conformazione carsica del sottosuolo salentino facilita lo scorrere dell’acqua ed è noto che il potenziale energetico dell’acqua in movimento è sempre elevato; ma è nella grotta il vero e proprio “fulcro energetico”; essa funge da vero e proprio accumulatore energetico nel quale si mescolano le energie scaturite dall’acqua e dalla Terra con quelle cosmiche trasmesse dal menhir. L’acqua che scorre nel sottosuolo cede parte del suo potenziale energetico alla roccia e, di conseguenza, al menhir che contemporaneamente assorbe energia dal cosmo. L’incontro/scontro delle due energie, quella cosmica e quella tellurica, si manifesta proprio all’interno della grotta o anfratto sottostante, provocando un’elevata concentrazione di energia sottile. Quando nell’antichità le grotte erano aperte e accessibili, erano il vero luogo utilizzato per ricevere e utilizzare questa energia naturale. Probabilmente erano il luogo in cui lo sciamano o sacerdote di un gruppo si ritirava per svolgere riti, guarigioni e pratiche necessarie alla comunità.
La presenza o meno di metalli nella roccia o nel terreno circostante il complesso grotta-menhir amplifica gli effetti energetici. Grazie alla elevata conducibilità elettrica delle sostanze metalliche, la presenza di queste ultime amplifica ed allarga il raggio d’azione del benefico effetto di un dispositivo menhir-grotta e il complesso di Montevergine sorge su un’area il cui strato superficiale è costituito da bauxite.
Sembra non essere un caso che in tutto il mondo i casi di apparizioni, soprattutto mariane e miracoli, siano avvenuti all’interno di grotte in associazione alla presenza di acqua, dove si trova una notevole concentrazione di energie sottili che l’uomo moderno, con le sue “sovrastrutture” mentali, ha spiegato con eventi a lui familiari. Anche nel Salento molti dei casi di apparizioni e miracoli sono avvenuti all’interno di grotte sopra le quali si ergono dei menhir: la grotta di Montevergine in cui è apparsa la Madonna, Carpignano in cui è avvenuto il miracolo della restituzione della vista ad un contadino, San Paolo a Giurdignano, dove ogni anno si rinnovano le richieste di protezione contro il morso della taranta; laddove non si siano verificati miracoli o apparizioni, le tradizioni popolari e la chiesa li hanno “consacrati” come luoghi di protezione e i menhir sono stati cristianizzati con l’incisione o l’affissione di croci sulla sommità. Si potrebbe addirittura ipotizzare che il complesso chiesa-campanile, ma anche moschea-minareto, siano frutto di una antica, ma ormai sopita, consapevolezza del fenomeno da parte dell’essere umano. Si è infatti constatato che il già elevato livello energetico all’interno di una chiesa, aumenta considerevolmente in coincidenza al movimento delle campane, che emettendo vibrazioni che si incanalano dall’interno del campanile fino alla chiesa, incontrano energie telluriche provocando lo stesso fenomeno osservato nel complesso grotta-menhir.
Il passare del tempo e la trasformazione del paesaggio hanno causato la scomparsa di gran parte delle grotte, ma abbiamo ancora a disposizione numerosi menhir che, posti in superficie, risultano essere molto carichi di un’ energia con cui è possibile interagire non soltanto attraverso il contatto ma anche sostando in loro prossimità. La loro influenza infatti si estende nel raggio di centinaia di metri, regolando l’equilibrio energetico-naturale dell’area di pertinenza, tra cui il regime delle acque sia superficiali che sotterranee.
Nel Salento sono diversi i casi di menhir sovrastanti o a ridosso di grotte, ma quello di Monte Vergine è senza dubbio il più evidente e il più facilmente visitabile ed utilizzabile per sperimentare tecniche energetiche e di connessione con la natura.
Le foto del menhir e l’appello lanciato da Luigi Panico si possono vedere in:
A margine delle giornate della memoria celebrate in Puglia per ricordare la vergogna della Shoah, l’olocausto degli ebrei avvenuto durante il secondo conflitto mondiale, segnalo alcuni episodi di antisemitismo alimentati a Galatina e a Soleto, ma anche in altri centri, da Raimondello del Balzo Orsini (1350/55-1406), sua moglie Maria d’Enghien (1367-1446) e il figlio Giovanni Antonio (1401-1463).
Nel Quattrocento gli ebrei di Galatina erano probabilmente concentrati in Via Marcantonio Zimara, come segnala il TETRAGRAMMATON (per gli ebrei, l’impronunciabile quadrilittero nome di Dio, JHWH) inciso sulla finestra nella corte del civico 10. Quelli di Soleto erano chiusi nel ghetto di Rua Catalana.
La loro ricchezza derivava dalle attività della concia, della lavorazione delle pelli, della tintoria. Lavori altamente inquinanti e dannosi per la salute, svolti dai “diversi” del tempo, gli ebrei, gli albanesi, i levantini, così come oggi le mansioni più umili, le “più sporche”, dagli extracomunitari, rom e badanti, i “diversi” dei nostri giorni.
Tuttavia, gli ebrei della Contea di Soleto, sotto la signoria dei del Balzo, erano riusciti, grazie alla concessione di numerosi privilegi, in particolare quelli relativi al prestito di denaro, a rafforzare il loro ruolo all’interno di una comunità, quella galatinese e soletana, completamente in mano al ceto clericale italogreco.
I del Balzo, all’inizio, almeno sino agli anni Trenta del Quattrocento, ebbero grande stima degli ebrei, dimostrata nei continui rapporti con la comunità
Il contadino salentino ha instaurato, sin dall’antichità, un rapporto sostenibile con l’ambiente naturale, realizzando una serie di manufatti rurali in grado sia di alleviargli il lavoro che di produrre profonde trasformazioni sociali e produttive ed elaborato sistemi ingegnosi ed ecocompatibili non solo di raccolta, conservazione e utilizzazione dell’acqua piovana, ma altresì di delimitazione delle proprietà agricole (muretti a secco) e di allestimento di un’ampia gamma tipologica di manufatti, tra cui trulli, masserie, frantoi e case a corte, come quelle ammirate a Martano.
Le “pozzelle” di Martignano e Castrignano dei Greci (riprodotte, rispettivamente, nelle foto) sono serbatoi ipogei scavati nelle depressioni di origine carsica (su cui le precipitazioni meteoriche ristagnavano), realizzati per soddisfare le esigenze vitali e affrontare i lunghi periodi siccitosi (da luglio a settembre, proprio quando le coltivazioni richiedono maggiori volumi d’acqua).
Tali manufatti, in larga parte scomparsi sia per l’ampliamento degli insediamenti urbani e della viabilità, sia per l’aggressione prodotta dalla vegetazione spontanea e dalle radici degli alberi , sono ricordati spesso dalla toponomastica di vie, piazzette, contrade e rioni, dalla memoria popolare locale e, ancora oggi, presenti nella maggior parte dei centri abitati della Grecìa Salentina, attualmente costituita da dieci comuni (Calimera, Martano, Carpignano Salentino, Castrignano dei Greci, Melpignano, Corigliano d’Otranto, Soleto, Sternatia, Martignano e Zollino), mentre, nel periodo della massima estensione (secoli XIV e XV), occupava una superficie tre volte superiore e raggiungeva il litorale gallipolino.
La Grecìa è l’unica isola ellenofona della provincia di Lecce (la più orientale d’Italia) – ricca di toponimi, tradizioni, elementi linguistici, gastronomici, architettonici e religiosi greci –, che, protesa nel Mediterraneo, tra lo Ionio e l’Adriatico, verso la Penisola Balcanica, ha costituito un ponte non solo per scambi commerciali e culturali, ma altresì per viandanti (greci, slavi, albanesi), militari, pellegrini e religiosi, i quali, integrandosi nel corso dei secoli con i gruppi umani locali, hanno influito ora sulla lingua, ora sulle vicende abitative, edilizia domestica, usi e costumi, ora sull’organizzazione socioeconomia e trasformazione dell’ambiente con la bonifica dei terreni, la diffusione di nuove colture grazie allo sfruttamento dell’acqua, soprattutto di quella piovana depositata naturalmente negli avvallamenti del terreno.
Tralasciando in questa sede la secolare querelle, ancora in piedi tra filologi e glottologi, sull’origine del dialetto greco-salentino, si può ragionevolmente ritenere che elementi bizantini si siano inseriti in una preesistente matrice magnogreca, attingendo dall’adstrato salentino (volgare romanzo parlato dal proletariato e, pertanto, diverso dal latino usato dagli ecclesiastici e dall’aristocrazia terriera e commerciale), anche se altri studiosi ipotizzano un’immigrazione dalle colonie grecofone calabresi e siciliane attraverso il porto di Gallipoli. Il griko ha subito un processo di evoluzione del tutto
indipendente lasciando, nel corso dei secoli – malgrado la soppressione del rito religioso greco, l’introduzione di quello latino, la scolarizzazione di massa, i matrimoni misti, la diffusione della lingua italiana, ecc. –, ampie tracce nel costume locale e sopravvivendo ancora presso gli anziani (prevalentemente in ambito domestico) e soprattutto nei nomi di vie e contrade, poesie, canti popolari (d’amore, di lavoro e di dolore), racconti, leggende, indovinelli, proverbi e nenie (Biumbò, biumbò, pame na fèrome lio nerò a to frea tu Ja Marcu cino pu lene ka è pleo kalò = Biumbò, biumbò, andiamo a prendere un poco d’acqua presso il pozzo di San Marco quello che dicono sia il migliore).
Le “pozzelle”, profonde mediamente da 3 a 6 m (a seconda della posizione dell’interstrato argilloso che impediva la dispersione del prezioso liquido nella circolazione sotterranea) e dalla tipica forma a campana, generalmente presentavano le pareti “incamiciate” con materiale semipermeabile, costituito in tempi più recenti da tufi e in quelli più antichi da pietre informi disposte a secco in cerchi concentrici – per evitare l’eventuale smottamento delle rocce friabili e consentire la compenetrazione dell’acqua che, in questo modo, si arricchiva di minerali – fino all’imboccatura (vukkali in griko, coincidente con il piano di campagna), protetta abitualmente da un blocco calcareo (dalla forma circolare o quadrangolare) forato al centro (vera) per rendere possibile l’emungimento e inciso a volte con croci a testimonianza della fervente religiosità di cui era permeata la vita quotidiana della società contadina. Ricadenti in genere nei pressi delle vie di comunicazione, potevano essere sia private e contrassegnate perciò dalle iniziali delle famiglie che non solo ne vantavano il possesso, ma curavano anche la manutenzione e la pulitura della
pareti interne, asportando il terriccio che altrimenti avrebbe ostacolato l’infiltrazione per osmosi dell’acqua – il cui livello risultava sempre costante in tutti i manufatti per il principio dei vasi comunicanti –, sia di proprietà demaniale. In tal caso erano utilizzati persino dagli abitanti dei paesi vicini, garantivano il prelievo anche ai più poveri, rappresentavano un luogo d’incontro (pame na piàkume nerò a’ to frea = andiamo a prendere acqua dal pozzo) e offrivano spesso, a numerosi cittadini, nelle calde giornate estive, l’unica possibilità di dissetarsi e rinfrescarsi (pame sta Scilò na piame nerò frisco = andiamo all’Ascilò per un sorso d’acqua fresca).
Lo stesso metodo di raccolta delle acque piovane era usato a Sternatia, dove, fra i vari invasi pubblici, ne viene menzionato uno per le sue dimensioni, detto volgarmente la Matria (la madre di tutti), che denomina la via in cui era ubicata e da cui è nato il proverbio «Chi beve l’acqua della Matria non se ne va da Sternatia» («Tis pinni to nnerò à tti mmatria e ssiete pleo apu Sternatia»).
Una grande cisterna nell’ex convento dei Domenicani del 1709 (attualmente sede del Comune), era alimentata delle precipitazioni meteoriche cadute sul tetto e piano calpestio (lastricato con materiale lapideo), attraverso un reticolo di canalizzazioni e una serie di piccole vasche di decantazione, disposte ad altezze diverse.
Male che vada chiederò in giro. Qualcuno si trova sempre, da quelle parti. Qualcuno che sappia dirmi dove si trova l’officina a cielo aperto di Rocco, il demolitore di automobili. Giù, giù, verso il Capo di Leuca, mi sono quindi fatto strada tra le dettagliate informazioni fornitemi dagli anziani del paese, affidabili motori di ricerca d’ogni paesino. Le soffiate mi portarono in un bar. Rocco era lì dentro. Mi ero finalmente convinto. Gli avrei spiegato cosa fare e amen. Già, cara vecchia Fiat, ho deciso di demolirti. Cambio macchina. Mi sono indebitato di rate mensili per i prossimi cinque anni. Prima però ti scrivo.
Raggiungere Rocco, una volta individuato, non era semplice. Bisognava dapprima superare i cazzari. Io ritenevo che i cazzari da Bar Sport, quelli, per intenderci, che Stefano Benni raccontò con straordinario umorismo oltre trent’anni fa, fossero scomparsi. Macché. Da quelle parti qualcuno era sopravvissuto all’estinzione. Ne avevo le prove. Appena entrato, un esemplare di Homo Cazzarus si era palesato a me esponendo a voce altra il suo brillante curriculum. Ovviamente senza che né io né i poveri astanti, mattina presto ed ancora privi di caffeina, si fossero sognati di chiedergli qualcosa. Mi guardavo attorno, in quel bar. Anche l’arredamento circostante ed i suoi monili richiamavano Benni. Il vaso dell’Amarena Fabbri utilizzato per le arance. Le redivive mentine Saila. Il Cinzano lassù in vista, dove si espongono le novità. E tutto ciò richiamava, a sua volta, la mia automobile. L’abitacolo
La torre del Serpe domina Otranto. Quel poco che ne è rimasto è stato ristrutturato per tenerlo in piedi. Perché ha una storia importante. Era un faro ad olio che indicava la punta di Otranto ai naviganti. Segnalava la via.
Da quella torre, quando il tempo è limpido, quando lo scirocco non crea foschia, si vedono le alture albanesi. Dice la leggenda che i turchi stavano arrivando a Otranto per prenderne possesso. E che una serpe mandata da Dio, forse dagli dei, si bevve tutto l’olio della riserva. La luce si spense, i turchi persero la via e l’invasione fu rimandata ed attaccarono la vicina Brindisi. Sarebbero poi tornati e sarebbe stata strage. Gli 800 che non si vollero convertire all’Islam furono trucidati. I loro corpi lasciati esposti perché si capisse dove stava la forza e dove la ragione. Oggi le loro ossa, i loro crani, sono lugubramente esposti nella cattedrale che ha un magico mosaico per pavimento.
Di Pantaleone, autore dell’opera d’arte, non si conoscono i dati anagrafici ma si ipotizza che fosse un chierico, lui stesso si firma Pantaleonis presbiteri, probabilmente un Monaco Basiliano di origine greca. I basiliani che occuparono per lungo tempo le grotte naturali fra gli scogli del Salento.
“Opera, originale e perfettamente conservata, offre uno spaccato della cultura dell’alto Medioevo abbastanza fuori dagli schemi e ci presenta un enigmatico percorso in un labirinto mentale di cui, spesso, sfugge la vera interpretazione iconologica.
Nella parte centrale della navata si stende un Albero della vita e sulla destra (guardando verso l’altare) dodici medaglioni rappresentano i mesi e lo Zodiaco (un tema sviluppato anche in altre chiese medievali). Nel pavimento altre scene sono ispirate dalla cultura cavalleresca con le storie di Re Artù (Rex Arturus per Pantaleone) e Parsifal.
Non mancano il Paradiso e l’Inferno dove si agitano dannati fra i tormenti e un grosso Satana incoronato è a cavallo di un drago. Molto interessante è una delle poche rappresentazioni del Diavolo nero (Puer niger) ancora con le ali bianche da angelo, ben presto sostituite da quelle da pipistrello dei demoni cinesi.
Al centro della navata ci sono altri medaglioni, tredici dei quali formano un classico Bestiario medievale nel quale si riconoscono: un basilisco, una lonza, un centauro, un liocorno e un’antica iconografia della sirena rappresentata mentre regge tra le braccia due code.
Altre simbologie che numerose affollano il mosaico sono ancora oggetto di studi e di dispute soprattutto sul messaggio teologico di Pantaleone o di chi ha redatto il programma di questa opera musiva così complessa.” (il virgolettato è tratto da wilkypedia)
Incredibile opera d’arte. Quella volta, però, la serpe salvò gli Otrantini. E l’Albania, quando hai la possibilità di vederla, pare di poterla toccare. Mi sono seduto ai piedi della torre del serpe. Ed ho a lungo guardato il mare là sotto. Ed era esplosione di profumi di menta, origano, timo ed altre erbe spontanee. E’ un autunno con temperature primaverili questo. Poco sotto un gregge al pascolo. Quando cammini su quelle alture ed hai il mare sotto, l’orizzonte è aperto. I confini sono lontani , come impalpabile è l’orizzonte. Non solo io, il mondo non inizia e non termina con me. Però a volte rinasce la voglia di esserci, di fare, di parlare, di capire. Qui è tempo di raccolta di olive. Da secoli il Salento vive di olio. Molti frantoi ipogei sono ancora visitabili. Erano sotterranei, perché la temperatura sotto è costante, come l’umidità. In quegli scantinati ci sono enormi macine e il camminamento del cavallo o dell’asino che le faceva girare. Era un animale vecchio o non idoneo ad altri lavori quello utilizzato nel frantoio. Perché una volta sceso non avrebbe mai più visto la luce del sole. Gli si bendavano gli occhi perché non si rendesse conto di girare tutto attorno venti ora al giorno e non impazzisse. E gli addetti al frantoio passavano giorni e notti là sotto. Arrivavano dalle campagne per fare la stagione della frantumatura delle olive. Non uscivano per non spendere il poco che guadagnavano. E nel tempo libero si riposavano e vegliavano come potevano. Trasformando quel microcosmo nel loro mondo intero per il tempo necessario e terminare il lavoro. E si costruivano pipe ed altri attrezzi. Così, per passare il tempo. Mentre il cavallo continuava incessante a girare attorno e a far ruotare quella enorme macina di pietra. E le olive venivano triturate e ripremute, per ricavarne l’olio fino all’ultima goccia nel caso del lampante. Più raffinato quello commestibile.
Oggi ci sono reti sotto gli ulivi. Servono per trattenere le olive che cadono. E subito dopo la raccolta vengono portate al frantoio che immediatamente le macina, così non muta l’acidità. Terra rossa come ossido di ferro. Dura da coltivare. Muretti a secco delimitano le proprietà, fatti con i sassi raccolti nei campi. E in molti casi i campi sono colmi di altri sassi. “Perché la campagna rende poco e pochi ormai la coltivano ” Mi dice un signore che produce olio e vino. E’ strano vedere sassi che racchiudono altri sassi. La proprietà delimitata, anche se apparentemente inutile ed improduttiva. Terra di profumi, e di colori il Salento. Il cielo è azzurro intenso, il mare passa dal verde al bianco, al nero. E la campagna ha il rosso della terra e il verde intenso della vegetazione. In queste terre ho mangiato per la prima volta nelle mia lunga vita i corbezzoli raccolti dall’albero (rusciuli in dialetto), ed ho raccolto rucola spontanea. Ne trovi ovunque qui. Ed ho visto ballare la pizzica. Pizzica e taranta, ritmi simili che hanno contaminazioni africane con l’ossessivo suono dei tamburelli. E i ballerini usano in molti casi le nacchere. Perché anche gli spagnoli hanno lasciato il segno. Molte pizziche hanno una partenza lenta che accelera sempre più. E i danzatori, ragazzi e ragazze del luogo, uomini e donne non più giovanissimi, tutti non professionisti, si lasciano prendere da questi ritmi e ballano una danza che è la “pizzica d’amore”. Sono vere e proprie coreografie, la base dei passi è simile, ma ogni coppia ci mette molto di suo. E’ corteggiamento con lui che si avvicina e lei che ammicca e si nega, nasconde il suo volto dietro l’immancabile fazzoletto e si avvicina e allontana. E’ di una sensualità incredibile. E’ musica che prende e coinvolge anche chi, come me, non ha dimestichezza alcuna con il ballo. Molti testi arrivano dai canti delle “tabacchine”. Raccoglievano tabacco. Erano tutte donne. Ed hanno anche condotto lotte epocali, molte ci hanno rimesso la vita. Spontaneo il parallelo con le mondine. Ma questi non sono canti di lotta, molto spesso sono intrisi di doppi sensi. “Femmine femmine che andate al tabacco, ve ne partite in due e tornate in quattro…” .
E le donne erano le più colpite dal morso della tarantola. “O Santo Paolo mio della taranta, che pizzica le donne tra le gambe… ” Le tarantate erano sollevate dalla frenesia del veleno del ragno solo da una musica ossessiva fatta con tamburelli che ritmavano a velocità sempre crescente i loro movimenti. E si contorcevano in terra in preda a convulsioni da musica e al ritmo di quella danza. Ed è altra pizzica, quella delle tarantate. Ritmi simili a quella d’amore, ma finalità diverse. Ogni anno il giorno di S. Paolo a Galatina c’è il giorno delle tarantate. Perché S. Paolo era il protettore contro tutti gli animali velenosi. Si trovano nella piccola cappella e per tutto il paese ci sono tamburellisti ed altri suonatori. Oggi, oltre ai tamburelli e violini, si sono aggiunti organetti e altri strumenti. Si narra di tamburelli conservati dai tempi antichi con macchie sulla pelle. Erano macchie di sangue. Perché le tarantate dovevano essere seguite per ore e la musica doveva aumentare di ritmo sempre. Fino, appunto, a far sanguinare la mano del suonatore. Quel che colpisce è l’attaccamento a queste tradizioni, una rappresentazione tangibile di “appartenenza” a questi luoghi e alla loro storia. L’emigrazione ha strappato molte persone da queste terre . Ancora prima da qui sono passati saraceni, il regno di Napoli, Piemontesi, spagnoli, normanni e molto altro ancora. Quindi la salentinità è sentita come un bene prezioso da difendere da ogni invasione, anche se contaminata da culture diverse. E la lontananza delle istituzioni è molta. E si sente e si tocca con mano questo distacco. In questo pomeriggio domenicale di caldo sole d’autunno, davanti a quel mare a ai piedi di quella torre, mi sono lasciato andare a questi pensieri. E ancora una volta mi sono convinto che occorre rendere più solidi i legami fra queste terre e il nord meno caldo e meno profumato e con colori meno intensi. Perché solo la trasversalità può contro l’imbarbarimento. Perché abbiamo molto da imparare da queste tradizioni e soprattutto abbiamo legami che ci uniscono. In tempi di federalismo, quando si sente parlare di autonomie in molti qui pensano alla sanità scassata, ai trasporti che non ci sono, alla scuola abbandonata a sé stessa. E viene da pensare che gli italiani ora sono fatti, e qualcuno pone come discrimine l’appartenenza a inesistenti padanie, guardando con altezzosità il resto d’Italia. Mentre altri vogliono tracciare nuovi confini lo sforzo dovrebbe essere quello di eliminare barriere.
(…) Nel rispecchiamento di una moralità che eleggendo a scala di misura le esperienze di un vissuto a raggio comunitario non si sottraeva all’immediatezza delle analogie pratiche, chi voleva mettere in guardia i giovani affinché non incorressero in pericolose connivenze, illeciti legami o discutibili amicizie, si rifaceva a quello che, per la concezione popolare, rappresentava il vertice dei rapporti interfamiliari (il comparatico), per cui, perentoriamente e quasi stesse a scongiurare un’azione blasfema, si dava a sentenziare: “Pi ssanti cumparàti / no ffémmine ti putéa / nné zingari ti fera” (“Per buoni comparatici / né donne di bettola / né zingari di fiera”).
Purtroppo, l’avere esteso il detto a queste oblique applicazioni, diciamo pure l’averlo elevato a pedina di codice allegorico, ne aveva aggravato l’intrinseca inesorabilità di giudizio, basato sul rilievo di quanto sboccate e spesso licenziose fossero le donne che servivano nelle bettole e di come infidi e pericolosi si rivelassero i nomadi, propensi non solo a imbrogliare durante la compravendita del bestiame, ma anche a rubacchiare nelle campagne e a menar di coltello.
Nel progressivo assorbimento psicologico, infatti, quello che nella sua valenza letterale intendeva essere avvertimento a non stringere sacralità di legami, aveva man mano debordato in un preconcetto rifiuto ad avere normalità di rapporti, col risultato che gli appartenenti alle due categorie incriminate venivano a trovarsi come ghettizzati, vittime di un comportamento razzista che, pur se in contrasto col sentire fraterno proprio dell’ambiente paesano, tutti esercitavano quasi fosse un dovere da compiere: una fattispecie di norma sociale, peraltro reciprocamente imposta quale garanzia di onestà e quindi necessaria a salvaguardare la personale buona reputazione.
Tanto per fare un esempio, nna fémmina ngarbàta (una donna dabbene), o che voleva passare per tale, non si azzardava mai ad accompagnarsi per strada cu nna fémmina ti putéa ((con un’ostessa), né si permetteva di concederle scambio di parola se, transitando davanti alla bettola, se la ritrovava ferma sulla porta e magari palesemente ansiosa di dialogare. Quale concetto si sarebbero fatto di lei gli occasionali passanti o quanti dalle case o dalle botteghe artigianali potevano sbirciarla? Nessuno le avrebbe risparmiato l’acido quanto proverbiale commento “Ci la jaddhrìna pizzulìscia intra’a lla foggia / si ete ca nni carba lu fiézzu ti la mmerda” (“Se la gallina becca nel letamaio / vuol dire che le torna gradita la puzza della merda”). Riporto analogico che tornava a cappello, giacché le bettole venivano ritenute i letamai del paese non soltanto per il loro essere l’abituale covo di quella che era la feccia della società, ma anche per una palese realtà di sporcizia, rappresentata dalle pisciate e dai vomiti che gli ubriaconi vi scodellavano nelle immediate vicinanze e non di rado negli interni stessi del locale.
Per “Putéa ti miéru” non s’intendeva infatti la semplice mescita di vino (detta “cantina”), la cui consumazione, fatta all’impiedi direttamente al banco, imponeva agli avventori una relativa brevità di sosta; era un esercizio dove ci si poteva accomodare, impegnandosi nel gioco a carte e, se in bastevole grana, usufruire di un infimo servizio-trattoria, le cui economiche specialità* (pezzetti ti ciùcciu alla sciotta; ficatàle a lla pignàta; stufàtu ti intricéddhra; mminuzzatu ti ntrame nfucàte [stufato di carne d’asino; spezzatino di polmone d’asino; stomaco d’asino preparato in umido; tagliuzzato di visceri d’asino cotto nella conserva di pomodoro]) erano tutte e sempre “nna ngluriàta ti tiaulìcchiu” (“un trionfare di peperoncino”), esaltata al massimo dagli osti nell’affaristica considerazione che se il vino predisponeva al cibo piccante, quest’ultimo, a sua volta, reclamava altro vino.
L’eccitazione animalesca provocata dalla gozzoviglia, degenerando nell’irrazionalità dell’ubriachezza e venendo a saldarsi a quelle che erano le pericolose tensioni suscitate dalle perdite al gioco, non concorreva certo a stabilire un clima civile, per cui agli inevitabili subbugli gastrici dovuti alla smoderatezza del tracannare, faceva riscontro un altrettanto inevitabile subbuglio psichico, sfociando da una parte in conflittualità, bestemmie, imprecazioni – se non addirittura in liti con relative mazzate (botte) -, dall’altra in un gallismo di bassa marca spinto sino ai limiti dell’oscenità.
Che donne giovani e meno giovani – figlie e mogli degli osti – passassero le serate in commistione con persone così triviali non poteva non essere motivo di scandalo per la mentalità paesana, venendo tanta confidenzialità a porsi agli antipodi di quanto suggeriva il registro comportamentale assegnato alla donna: regole ben precise, tese a salvaguardare l’onore attraverso una severa riduzione di spazi, quasi un ideale tendere di cortine che – a parte la campagna, vista come area di lavoro – la confinava in un sacralizzato perimetro includente solo casa e chiesa. (…)
*Le pietanze più costose, quali purpètte ti ciùcciu fritte (polpette d’asino fritte), gnummariéddhri rrustùti (spiedini di frattaglie d’agnello strettamente avvolte di budella [gnummariéddhri=gomitolini], nturtigghiàti ti trippa ti acca (involtini di trippa di vacca ripieni di formaggio pecorino e sedano cotti nel sugo di pomodoro), salìzza ti caddhru rrustùta (salsiccia di cavallo arrostita) e sangunazzu ti puércu sfrittu (sanguinaccio di maiale sfritto), venivano cucinate solo in occasione di fiere e feste patronali, quando i pellegrini, per essere in gita fuori paese, non si negavano la soddisfazione di spendere per il buon mangiare.
Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari, 1994 (pagg.345-347)
La prima attestazione del toponimo (tenimentum Dernei) risale al 1092 ed era contenuta in una pergamena dell’archivio della curia vescovile di Nardò, pergamena oggi perduta, di cui nello stesso archivio resta il transunto cinquentesco. Fortunatamente quella originale era stata pubblicata prima da F. Ughelli1 e successivamente da G. Guerrieri2.
La seconda attestazione è del 11043: Item ecclesiam Sancti Nicolai de Verneo…(Parimenti la chiesa di san Nicola di Arneo).
La terza risale al 13764: …item massariam unam sitam in Derneo, in loco nominato Sancta Maria de le Campure cum dicta ecclesia cum gripta…(…parimenti una masseria sita in Derneo in località chiamata Santa Maria delle
La porta bronzea della basilica Sancta Maria ad Nives di Copertino
Le figure, pur nel loro vitale proporsi, non irrompono prepotenti, non asservono la loro carica alla limitazione del momento, bensì la carpiscono a un’armonia cuneiforme che le rende promanazione di un passato o, se preferiamo, concretezze riassuntive di una scenografia preesistente.
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
La creazione di un’opera d’arte che si trovi, già in partenza, condizionata da precisi moduli di collocazione, e quindi subordinata alle esigenze di un contesto ambientale, non può non rivelarsi complessa, se non addirittura difficile. La sua maturazione, infatti, deve scontare in anticipo la prigionia dell’orbita assegnatale, e perciò spesso si svolge in un clima di contrasti, o per lo meno in un conglobamento di motivi non sempre facilmente incastrabili fra di loro.
Per semplificare l’idea, la si potrebbe paragonare alla sorte delle antiche donzelle reali che, promesse spose fin dalla nascita, dovevano dalla più tenera infanzia adeguarsi – a volte torcersi – alle abitudini e culture del popolo che in un domani le avrebbe avute a regine. Il loro, era perciò un crescere nella messa a fuoco della cornice che le avrebbe inquadrate, e ogni giudizio sulla loro adeguatezza al ruolo andava sempre rappresentato in chiave di trapianto.
Un costante gioco di trasposizione che, tornando all’arte, non può che rivelarsi stressante per l’artista, costretto a far marciare insieme la carica creativa e le remore di ordine logistico. Considerazione questa da non dimenticare quando si accede a una valutazione dell’opera, che necessariamente deve essere giudicata nel contesto del suo inserimento, oggettivata cioè non soltanto nelle sue incidenze espressive, ma anche, forse soprattutto, nella sua maggiore o minore concordanza con l’insieme. Che se poi l’insieme è una costruzione antica come la basilica S. Maria ad Nives di Copertino, l’asserto si complica, poiché al di là dei rispetti architettonici, dei rapporti spaziali e delle eventuali fedeltà iconografiche, si impone la necessità di non generare strappi all’atmosfera stessa della costruzione, quell’atmosfera complessa – impossedibile ma percepibile – che è propria dei monumenti antichi e contemporaneamente sacri, e che scaturisce non tanto dalla sedimentazione del tempo, quanto da un’avvenuta permealizzazione spirituale. Elemento sottile e pur non di meno determinante per un approccio artistico che, in questo caso, deve essere condotto sul filo dell’avvertibile più che del semplice visibile.
Quasi una sintonizzazione sulle onde del sensoriale che Raffaele Del Savio deve avere bene eseguito durante le sue visite di studio alla Basilica – precedenti e seguenti all’incarico di realizzare in bronzo la porta centrale della chiesa – e intelligentemente teorizzato, tanto da riuscire poi a lievitarne la presenza nella dipanazione dell’opera, che appare appunto come patinata dal passaggio di una luce che la insegue, la raggiunge e la supera in uno stabilirsi di circuito.
Patina che peraltro potremmo definire composita, poiché al di là della luce – che è la risultanza più avvertibile, soprattutto quando si avvita sul tondeggiare delle figure – s’inseriscono delle modulazioni diaframmatiche, quasi parvenze di un tempo vissuto e perciò unificato alla porosità delle scansioni circostanti.
Le figure, infatti, pur nel loro vitale proporsi, non irrompono prepotenti, non asservono la loro carica alla limitazione del momento, bensì la carpiscono a un’armonia cuneiforme che le rende promanazione di un passato o, se preferiamo, concretezze riassuntive di una scenografia preesistente.
Che Raffaele Del Savio abbia solide esperienze scenografiche (è infatti Direttore di Scenografia al Teatro Comunale di Firenze) lo si comprende a primo acchito, e non tanto dall’armonica formulazione delle scene, quanto dall’aver saputo brillantemente risolvere il rischio di un’immanenza del fondo come piano d’appoggio, pervenendo, in virtù di ritmi spaziali ben congegnati, a un’abolizione del piano come superficie geometrica. Le figure, nascendo, già autonomizzate e quindi non soggette a schiacciature di appoggio, incrinano il piano, dissolvendone l’ingrata schematicità, sicché la porta esiste soltanto come proiezione, come orizzonte interno, quindi, ovviamente, assorbita dalla contestualità delle immagini e felicemente mutata in spessore atmosferico.
Il rapporto diretto esistente tra figure e piano di appoggio ne esce così traslato o, meglio ancora, incuneato in uno spazio indefinito che può essere
Esistono retoriche e simbologie assai efficaci a catturare l’animo umano. Fra queste, la retorica delle guerre patriottiche e nazionalistiche, che si basa sul racconto di eventi storici che suscitano orgoglio, commozione e senso di trascendenza morale. Per ottenere questo risultato, le autorità si mostrano disposte anche a mistificare gravemente i fatti, creando falsi eroi e false imprese eroiche. E’ il caso degli eventi che portarono all’Unità d’Italia, passati alla Storia come “Risorgimento italiano”. A scuola ci hanno raccontato che all’epoca gli italiani elaborarono diversi piani ideologici per raggiungere la tanto desiderata unità nazionale, e che personaggi illustri, come Giuseppe Garibaldi, Nino Bixio, Camillo Benso di Cavour e Vittorio Emanuele II, in perfetta sintonia con ciò che gli italiani volevano, operarono per unire il paese dopo secoli di dominazione straniera. Il periodo risorgimentale emerge dunque come un momento storico ricco di idee che infervorarono gli animi degli italiani, che praticamente all’unanimità desiderarono porsi sotto l’autorevole potere dei Savoia. Tutto questo è molto commovente e lusinghiero, peccato che sia frutto di una mistificazione degli eventi reali.
In realtà l’Unità d’Italia fu un evento voluto “dall’alto”, ossia dalle autorità dei paesi egemoni (Inghilterra e Francia), e i Savoia non guardarono tanto all’interesse e alla volontà della popolazione quanto ai vantaggi personali e a quelli dell’élite a cui appartenevano.
Anche all’epoca dei fatti c’erano molte persone che nutrivano dubbi sull’idea che Cavour o Vittorio Emanuele II avessero a cuore le genti del meridione d’Italia. Si raccontava che Cavour, che non era mai stato nel sud Italia, avesse riferito in Parlamento “non solo di aver fino allora creduto che in Sicilia si parlasse arabo ma che di quest’isola ben poco egli conosceva, essendogli invece più familiare la storia dell’Inghilterra”. (1) Anche Bixio non aveva mostrato molta considerazione per la Sicilia, quando aveva scritto alla moglie: “(La Sicilia) è un paese che bisognerebbe distruggere, e mandarli in Africa a farsi civili”.(2)
Di certo, sia Cavour che Vittorio Emanuele II non avevano alcun interesse a migliorare le condizioni del sud Italia, mentre ne avevano parecchio a difendere gli interessi dei proprietari terrieri e dell’oligarchia dominante. Lo stesso Cavour apparteneva alla ricca classe nobiliare terriera piemontese.
L’Inghilterra iniziò ad imporre il suo potere nel Mediterraneo in seguito alle guerre napoleoniche, e aveva l’obiettivo di accrescere il suo dominio.
I Borbone non si erano sempre mostrati completamente sottomessi alle autorità inglesi, e desideravano concludere accordi con l’Impero Russo, che voleva avere una base navale nel Mediterraneo. Anche la Francia mirava ad accrescere il proprio potere sull’Italia, creando un protettorato sullo Stato
Una scultura di Giovanni Maria Mosca “il Padovano” dalla Polonia nel Salento
Note di collezionismo salentino. Una scultura di Giovanni Maria Mosca “il Padovano” dalla Polonia nel Salento
di Gianni Ferraris
Sono solo un fruitore dell’arte, un osservatore, non un critico. Per questo il mio approccio è meno professionale e molto più emotivo. Non penso, in realtà, che le emozioni di un osservatore siano più o meno intense di quelle di un critico, anzi, di fronte al “bello” siamo tutti affascinati. Accade che l’opera chiami, divenga una sirena. Attragga e lusinghi, inquieti e sconvolga. Così mi trovo a passeggiare per le strade del Salento leccese, con gli occhi persi sul barocco, su un menhir, su un ulivo che è, egli stesso, opera d’arte, con le sue volute, i suoi contorcimenti. Che fa sospettare ed insinuare che l’artista sia quella persona che ha la dote di prendere il meglio di quel che la natura offre e riproporlo, reinterpretarlo, ci mette dentro le proprie emozioni, il proprio vissuto, le ansie, l’amore. L’artista legge il pathos e lo ripropone con la sua arte.
Sono solo pensieri in libertà, gli stessi che mi vennero in mente quella sera. Io, immigrato in Salento, ospite per una stupenda cena, di amici, immigrati a loro volta. Anche loro del nord più profondo. Gli amici salentini, commensali e complici di quella cena, erano quasi in minoranza quella sera. E come tutti gli emigranti, anche i nostri ospiti si sono portati appresso i loro ricordi, i tesori, le emozioni di altre terre.
Quella scultura era lì. Appoggiata su una colonna lignea intagliata alla maniera secentesca, con zampe di leone, con il fascino che un manufatto ligneo antico sa avere, e con l’austerità che lo stile dell’epoca imponeva. Quasi una scultura a sorreggerne un’altra. Da tempo lontanissimo. E sopra la colonna la testa di un San Giovanni Battista giovane. Folti ricci irruenti ed imponenti, barba arruffata, sguardo rivolto verso l’alto. Guardava lassù, forse in attesa della benedizione più elevata, della vocazione. Guardava dove la fede arriva, dove la fede porta. Un bel giovane ricco di pathos e di emozione. Quasi vero, quasi vivo. Il marmo freddo pare riscaldarsi per la capacità dell’artista di modellarlo, plasmarlo. Certo, forse lui era già dentro il marmo, aspettava solo che qualcuno lo tirasse fuori da quella pietra. Pochi però potevano farlo, anzi, forse uno solo. Giovanni Maria Mosca, detto il padovano, ne è l’autore, come recita la perizia.
E questo frammento di scultura ha una sua storia di emigrazione, di viaggio. Un uomo arrivato da Padova a Kracovia cinquecento anni fa, la creò. Dopo chissà quale incidente che la separò dal corpo, la testa venne conservata dai reali e venne appoggiata sul basamento in legno. Così per generazioni. Finchè un’antenata degli attuali proprietari, la contessa G.C., italiana d’origine, arrivata in Polonia e dama di corte, l’ebbe in dono. Poi le successioni ereditarie ed il trasferimento dei proprietari la portarono fino in questo Salento, già così straripante di opere d’arte e di bellezza. Davvero strana la vita a volte. Chissà cosa ne direbbe il Padovano. Sicuramente il Salento ne è fiero.
Giovanni Maria Mosca nacque a Padova nel 1493, si formò alla scuola dello scultore Bartolomeo Mantello. Fra le sue opere presenti in Italia e documentate si trovano: un rilievo in bronzo del Decapitazione di San Giovanni Battista (1516, Duomo di Padova).Sempre a Padova ha eseguito un rilievo marmoreo del Giudizio di Salomone che ora si trova al Louvre di Parigi. In S. Rocco, il registro inferiore dell’ altare contiene due opere di marmo del Mosca, San Giovanni Battista (a volte identificato come San Pantaleone) e San Sebastiano. E proprio da qui c’è la svolta, inizia il periodo della maturità, si emancipa dalla scuola di provenienza ed esprime tutta la sua arte. Altre opere di questo periodo comprendono rilievi marmorei diversi, citiamo la Venere (Londra), Il suicidio di Porzia (Venezia, Ca ‘d’Oro) e Muzio Scevola (Firenze, Bargello). Importantissimo “il miracolo del bicchiere scagliato dall’eretico”, un rilievo nel quale si raffigura un miracolo di Sant’Antonio, che possiamo vedere nella cappella dell’Arca, presso la Basilica del Santo in Padova. Opera iniziata dal Mosca e terminata da Paolo Stella per l’improvvisa partenza del Padovano verso la Polonia dove è stato chiamato dal sovrano per erigere il suo monumento funebre, e dove opererà per tutta la vita come medaglista, scultore e architetto.
Nel cuore dell’Europa il Mosca porta il suo sapere e le sue capacità. Commissioni importanti dei reali e di altri nobili lo portano a creare opere d’arte importantissime. Come riferisce Anna Markham Schultz in una monografia a lui dedicata, “Giovanni Maria Mosca, autore di statue nelle maggiori chiese di Padova e Venezia, era tra i maggiori scultori dell’Italia del nord durante la seconda e terza decade del sedicesimo secolo…”, e ancora, riferisce la Schultz, “del ruolo chiave dello scultore nella diffusione nell’Europa dell’Est degli ideali del rinascimento italiano”.
L’opera che è giunta in Salento riveste un’importanza d’eccezione per la sua bellezza, ma soprattutto per la rarità. Pochissimi collezionisti privati hanno infatti il privilegio di possedere opere del Padovano. Pochissimi pezzi sono stati battuti dalle più importanti case d’asta. Noti il busto “giovane imperatore romano” battuto da Sotebhy’s a New York nel 1996, e la “figura di putto disteso nudo su pelle di leone”, in asta da Christies a New York nel 1993.
Per quanto riguarda il nostro San Giovanni Battista, leggiamo sulla perizia redatta dalla Dott.ssa Maria Teresa Florio, soprintendente del Ministero per i beni artistici e le attività culturali:
“La notevole scultura è frammento di statuetta che, in origine, fu forse alta, considerando il sistema proporzionale con analoghe scultura veneziane, circa 130, 140 cm. Tale dimensione potrebbe essere perfettamente confacente ad una figura di centro di una grande vasca per l’acqua santa, un fonte battesimale o altarolo marmoreo con più santi entro le nicchie.
Lo stile della testa è facilmente riconoscibile con quello del grande scultore padovano Giovanni Maria Mosca: i confronti con le opere veneziane dell’inizio del secolo XVI non sembrano lasciare dubbi in proposito. Accostamenti stringenti si possono istituire con il Battista scolpito nel 1503 per l’acquasantiera della chiesa agostiniana di Santo Stefano – citato con lode da Francesco Sansovino (Venezia 1581, p. 49v) e il Battista nell’altare della chiesa di San Rocco, una delle opere cruciali del primo 500 veneziano, per il quale la scuola grande di San Rocco fece un concorso nel 1516 e che fu consacrato nel 1520, come testimonia il Sanudo (Diarii, 28, Venezia, 189’, col. 393). Solo che si accosti la testa in oggetto a quella di queste due figure, si noterà la perfetta uguaglianza della struttura del volto, del modo di incidere le pupille, dei riccioli gonfi e abbondanti, quasi fuori scala, della capigliatura e della barba, che si attorcigliano con profondi sottosquadri. Anche l’uso di lavorare, fino all’ultima politura la pelle del viso, mentre restano ben più grezzi i capelli, è tipico del Mosca…
Come si sa il grande scultore, oggetto di una importante monografia di Anne Markharm Schultz (Gianmaria Mosca called Padovano. A renaissance scultor in Italy an Polland, voll. 2, The Pennsylvania University Press, 1998) è autore assai raro in Italia poiché molta parte della sua attività matura si è svolta all’estero, in particolare presso la corte di Polonia. In Italia, nonostante il grande influsso del padovano sulla scultura contemporanea, e la sua fama presso collezionisti ed amatori, e la produzione di preziose sculture da studiolo di soggetto mitologico, le opere conservate sono assai rare: a parte le due citate a Venezia, il magnifico bassorilievo con il suicidio di Porzia alla Cà d’oro e la tomba di Alvise Pasqualigo ai Frari, a Padova, un piccolo bassorilievo nella sagrestia della cattedrale e il celebre miracolo del calice della serie monumentale nella cappella dell’Arca del Santo nella basilica si Sant’Antonio. La rarità di opere del padovano, soprattutto nel periodo giovanile, consiglia di fare ogni sforzo affinchè tale testa entri in una pubblica collezione.”
L’opera è stata esposta una sola volta, dietro richiesta dei curatori della mostra, all’esposizione: “Il Genio e le Passioni. Leonardo e il Cenacolo. Precedenti, innovazioni, riflessi di un capolavoro” . Milano, Palazzo Reale – 21 marzo, 17 giugno 2001.
Scultura in marmo: h. cm. 15 Larghezza cm. 15.5 Circonferenza cm. 40
Ritto sulla sua biciclettona come una cariatide sulla facciata della chiesa di San Domenico, puntuale come la morte, faceva il suo giro per il latte, due volte al giorno, mattino e sera preannunciato dal suono sordo del campanaccio e seguito dall’immancabile fido cane; una specie di coccodrillo giallastro dalle orecchie mozze e dal passo così corto che pareva quasi scivolasse sul selciato, il barilotto poggiato sulla canna della bicicletta e la misura appesa al manubrio.
Praticamente indifferente a qualunque evento atmosferico, ne’ pioggia, ne’ neve, ne’ canicola riuscivano a modificarne minimamente la postura, mai un segno d’insofferenza in un afono rituale di gesti immutati da una vita. Appena Pascalinu, questo era il suo nome, terminava di mungere le bestie, la moglie premurosa gli porgeva un boccale colmo di generoso vino ristoratore, che egli, dopo essersi terso la fronte dal sudore beveva tutto d’un tiro.
Pascalinu, era il decano dei lattai neretini, gli altri, più giovani si erano tutti, da qualche tempo, motorizzati; motorini, vespe, lambrette, tutti rigorosamente muniti di parabrezza, il loro arrivo era annunciato dallo stridio dei gracchianti clacson. In tutto, la città era servita da una ventina di questi navigatori solitari, era questa la categoria cui, non so perché, li ho sempre accomunati, sarà stato per i pastrani gialli o neri, dalla foggia vagamente norvegese indossati durante le interminabili uggiosità autunno-invernali, sarà stato per quell’inossidabile tempra riscontrabile solo nella letteratura romanzesca e nei film d’avventura marinara, nei pirati che anche quando appesantiti nel fisico, anziani e con orrende mutilazioni continuavano impavidi a solcare i mari turbolenti in cerca di tesori, proprio come questi piccoli eroi quotidiani le strade ed i vicoli del paese per riempire l’apposito secchiellino di spiccioli.
La strada di casa mia era attraversata da quattro cinque lattai, fra questi, oltre al fatidico Pascalinu, Lelè che era il lattaio di mio zio e il simpaticissimo compa’ Gigi, baffetto alla Errol Flynn e grande lepraiolo, lo conoscevo da sempre e non mancava giorno che non ci salutassimo calorosamente ad alta voce.
Oltre ai lattai per così dire tradizionali in città vi era anche il servizio di distribuzione a domicilio della Centrale del Latte di Lecce; un gruppetto d’aitanti giovanotti con relativa flottiglia di tricicli, attraversavano in lungo e largo tutto il paese annunciati dal suono di una lucida cornetta in ottone che da piccolo avrei dato un occhio per possedere. Distribuivano latte pastorizzato nelle bottiglie con l’effigie di Minerva, simbolo della repubblica, in rilievo e il coperchietto di latta che quando si toglieva non si poteva fare a meno di leccare per lambire la deliziosa panna che vi si depositava.
Mai bevuto latte così buono, anzi, mai più bevuto latte da allora, ogni latte offenderebbe quella religiosa memoria. Le stalle si trovavano quasi tutte in città, generalmente a pochi passi dall’extramurale. Ve n’erano in Via Duca d’Aosta, in Via Taranto, in Via Fiume… non passavano certo inosservate per via dell’olezzo ammoniacale che filtrava dai portoni schermati da fitta rete metallica antimosche e per l’onnipresente “scialabbà” carico di profumato foraggio verde.
Le stalle che più mi affascinavano, erano quelle poste nel complesso rurale delle Due Aie appena fuori del paese, sulla via di Leverano. In estate erano quasi invisibili, occultate da enormi covoni biondi nella attesa della trebbiatura, più avanti offrivano uno spettacolo a dir poco fiabesco con tutti i muretti, i tetti e i cornicioni ricoperti dalle grandi zucche gialle celebrate da Vittorio Bodini.
Gli “accari” di rado possedevano più di tre quattro vacche, che accudivano amorevolmente; una dieta varia ed equilibrata, a base di foraggi freschi e secchi; beveroni di sfarinati a base di fave ed orzo; profumatissime “brufende” con zucca gialla, sfarinato e talvolta persino pane. Per il principio che: “dal becco la gallina fa le uova”, non venivano private di nulla, o quasi: cibo buono, pulizia, ma poco sesso, infatti, le vacche venivano coperte con turni molto ampi per ritardare quanto più possibile i tempi improduttivi della gestazione e quando c’era l’inevitabile lieto evento, il vitellino veniva allontanato subito dalla madre, per paura che l’istinto materno l’inducesse a “disculiciarsi” incrinando lo straordinario rapporto di devozione assoluta che intercorreva con il proprietario. Quindi, per i giorni immediatamente successivi al parto, veniva munto l’iperproteico colostro che non potendo essere venduto come latte, veniva solitamente donato ai vicini, un po’ come tacita ricompensa verso la loro tolleranza.
Di colore giallastro, appena posto sulla fiamma coagulava, formando una specie di fibrosa ricottina che veniva gradita da grandi e piccini ancora calda con il suo siero per accompagnamento.
Oggi, nell’era delle merendine Kinder, il solo pensare al colostro farebbe rabbrividire ogni mamma, ma nessuna paura, le stalle cittadine sono ormai scomparse da tempo, e a dire il vero ne sono rimaste poche anche in campagna. Il latte che compriamo, spesso sponsorizzato da grandi divi dello sport, ormai viene tutto dalle cosiddette zone vocate ossia dalle grandi pianure europee dove le vacche vivono in stalle climatizzate; ascoltano musica lirica, fanno la doccia tutti i giorni e dove l’antiquato sfarinato di fave e granone è stato sostituito con insilati troppo spesso ricettacolo di aflatossine e di mangimi integrati con il miracoloso nucleo: un pout pourry di vitamine e stimolanti sintetizzati in laboratorio e, sino ad un recente passato, con farine proteiche ottenute dalla liofilizzazione delle carcasse animali. E pensare che Stayner, padre dell’agricoltura biodinamica, già nel lontano 1924 aveva ammonito: “se un giorno arrivassimo a somministrare delle proteine animali a dei ruminanti, il livello d’acido urico nel loro sangue aumenterebbe tanto che si depositerebbe nel loro cervello portando gli stessi animali alla pazzia”.
Così, è stato, e in quest’epoca d’equini radioattivi, di polli e maiali alla diossina e di mucche pazze cominciamo a renderci conto che la massificazione e l’industrializzazione sfrenata dell’agricoltura non pagano, ma ormai è troppo tardi le grandi aziende multinazionali lo sanno e ci considerano alla stregua di polli in batteria.
Il latte che beviamo viene tutto da molto lontano insieme ai biscotti del Mulino Bianco, agli yogurt, al Nesquik e questo solo per fermarci alla prima colazione.
In pochi lustri, folgorati sulla via del progresso, come Paolo sulla via di Damasco, ci siamo liberati dall’afrore ammoniacale delle stalle cittadine ed anche dal profumo del trifoglio appena sfalciato. In compenso, siamo stati circondati da megadiscariche cittadine dai miasmi mefitici, che servono a raccogliere gli imballaggi delle merci che dobbiamo importare. Insomma, un po’ come dire, pubblicità, regresso.
Con la farina di lupino nel 1926 aumenta la produzione di olio d’oliva
Nella campagna olearia 1925 – 26 la Cattedra di Agricoltura di Lecce diretta dal Dottore Agronomo Attilio Biasco presso l’oliveto denominato “Usciglio” in agro di Calimera (Lecce) che in quegli anni era di proprietà del signor Luigi Lefons si istituì una prova di concimazione che dal collega Attilio Biasco fu definita “vasta” che aveva lo scopo di determinare la convenienza alla somministrazione di dosi più elevate di fertilizzanti rispetto a quelle che allora venivano consigliate. Sempre in quelle prove si voleva stabilire l’efficacia dell’utilizzo come concime della farina ottenuta dal seme di lupino che in quegli anni veniva usata dagli agricoltori del Salento leccese per concimare il frumento che, a detta del collega Attilio Biasco, aveva dato ottimi risultati.
Il terreno del fondo era di medio impasto e poggiava su un sottosuolo costituito da roccia tufacea crepacciata per effettuare le prove di concimazione l’intera superficie venne divisa in cinque parcelle ognuna con 96 alberi della varietà “Cellina” le parcelle furono concimate nelle quantità per albero di olivo che seguono:
1° controllo – senza concimazione
2° perfosfato Kg 10
3° perfosfato Kg 10; solfato potassico Kg 3
4° perfosfato Kg 10; solfato potassico Kg 3; solfato amminico Kg 3
5° perfosfato Kg 10; farina di lupini Kg 5
I concimi sono stati sparsi nella prima decade di novembre e la prima di dicembre in corrispondenza della proiezione della chioma degli alberi. Dopo la concimazione per coprire i concimi venne praticata un’aratura e una seconda aratura fu praticata nel febbraio inoltrato seguita da due sarchiature energiche effettuate durante la primavera. Tutti questi lavori furono fatti sia alle quattro particelle concimate che alla particella di controllo.
La stagione primaverile e quella estiva del 1926 ebbero un andamento particolarmente siccitoso e durante il periodo della fioritura si verificarono solo alcuni giorni di nebbia.
Il collega Attilio Biasco osservò che la ripresa primaverile dell’attività vegetativa ebbe un leggero anticipo nella parcella 5°; la fioritura fu contemporanea ed uniformemente abbondante su tutti gli alberi. Nelle parcelle 1° e 2° i nuovi rametti erano meno vigorosi rispetto a quelli delle altre tre parcelle e con l’inoltrarsi della stagione calda subirono un arresto anticipato di sviluppo. Nelle parcelle 4° e 5° la ripresa autunnale della vegetazione fu più pronta e molto più vigorosa soprattutto se confrontata con quella degli alberi della parcella 1°.
La quantità di olive prodotte per albero fu stimata con il metodo locale di allora della stima ad “ad occhio” da un perito pratico ed è la seguente:
1° tomoli 80 di olive (i tomoli sono di 56 litri) (Controllo)
2° tomoli 92
3° tomoli 104
4° tomoli 108
5° tomoli 124
Le olive raccolte e molite separatamente dettero le seguenti rese in olio per tomolo di frutto dedotte dalla media di tre prove di molitura eseguite in due diversi frantoi:
1° Kg 6,5
2° Kg 7
3° Kg 8
4° Kg 8
5° Kg 8
In definitiva il prodotto di olio in ettaro fu il seguente:
1° Kg 520
2° Kg 644
3° Kg 728
4° Kg 864
5° Kg 992
Il collega Biasco tenne conto che l’olio nel 1926 veniva venduto a 850 lire per quintale, il perfosfato costava 40 lire per quintale, il solfato potassico costava 150 lire per quintale,il solfato ammonico costava 170 lire per quintale, i lupini sfarinati costavano 85 lire per quintale e considerando inoltre la spesa dello spargimento dei concimi e per la raccolta della maggiore quantità di olive calcolò l’utile della concimazione come è possibile vedere nella tabella che segue:
ParcelleValore olio Lire/ha Spese di concimazione e maggiore raccolta Valore del prodotto al netto delle spese precedenti Utile della concimazione
1° controllo 4420-4420
2°54742805194774
3°618858056081188
4°734489664482028
5°843261578173397
Si deduce che per l’oliveto le laute concimazioni danno un maggior utile economico anche in annate siccitose come quella del 1925 – 26, che con le concimazioni non solo aumenta la quantità di olive ma le stesse contribuiscono ad aumentare la resa unitaria di olio e che la farina di lupini costituisce un ottimo fertilizzante la cui azione secondoBiasco è da attribuirsi al principio attivo di cui è ricca.
Nel 1926 la coltivazione dell’olivo occupava circa un terzo della superficie agraria della Provincia di Lecce e rappresentava una delle più importanti fonti di ricchezza e lamentava una conduzione degli oliveti che non poteva considerarsi razionale forse per il convincimento che “annus fructificat non tellus” (è l’anno che produce, non la terra). Nel corso degli anni la produzione diviene favorevole se rispetto bene il campo.
Dei lupini si dice che divengono dolci “tenuti a rinvenire nell’acqua e tolto loro l’amaro” . Si usava dire in maniera offensiva agli altri di “non valere un lupino” che voleva dire che non si valeva nulla o pochissimo; ancora sul lupino si diceva “non stimare un lupino”, che significa che non si ha alcuna stima. Ma il lupino è anche il nome di una malattia degli occhi che quando si infiammano prendono l’apetto di un lupino ed è anche il nome che si da ai calli.
Ho cercato le quatazioni alla borsa merci della farina di lupino ma ho solo appreso la vendita in sacchetti da 10 chili a circa 2,9 euro al chilo. Nel mondo si coltivano un milione di ettari di lupino, la classificazione botanica Lupino (Lupinus spp.): Lupinus albus L.Lupino bianco, Lupinus luteus L.Lupino giallo, L. angustifolius L.Lupino azzurro. Il lupino bianco (Lupinus albus), il più diffuso in Italia: tollera il gelo e terreni moderatamente acidi anche limosi, il giallo (Lupinus luteus): sensibile al freddo (ciclo primaverile in Europa centronord) vuole terreni acidi e sabbiosi, l’azzurro (Lupinus angustifolius): sensibile al freddo, vuole terreni acidi.
Da granella, da foraggio o da sovescio. Semina (l.bianco): ottobre-novembre. Raccolta: giugno-luglio.
Bibliografia
L’Agricoltura salentina gennaio 1928
Pietro Fanfani Vocabolario dell’uso toscano Dott. Raffaele Casa, Dipartimento di Produzione Vegetale, Università della Tuscia, Viterbo Colture erbacee:leguminose da granella
Prof. Guido Baldoni Generalità sulle Leguminose da granella
Il ‘sole delle Alpi’: Simbolo padano, dauno o europeo?
Il “sole delle Alpi”, noto simbolo della Padania, si trova su numerose stele daunie e non è un simbolo prettamente padano. L’eclatante rivelazione è dell’appassionato di storia sipontina Aldo Caroleo, confutando dunque la teoria padana per cui il simbolo sarebbe di derivazione celtica. Il “sole delle Alpi”è presente già in alcune stele daunie risalenti intorno al VI o al X secolo a.C. e “non è presente in nessuna area celtica pura, come la Scozia, né nelle sue ramificazioni”, spiega Caroleo. In alcune stele, in particolare, il simbolo fa parte delle decorazioni ornamentali, come i pendagli o le cinture. In pratica, il simbolo sarebbe originario del Medio Oriente, anche se in Europa era già presente nel periodo romano, tanto che lo si sarebbe trovato, ad esempio, in alcuni tipi di clessidre a Pompei. “Da noi fu sicuramente portato (o assorbito) da quelle popolazioni indoeuropee che si affacciarono da queste parti occupando gran parte del territorio pugliese (l’antica Iapigia) nel III, II e I millennio a.C.”. Ma la vera diffusione del simbolo “la fecero i Crociati di ritorno dalla Palestina dove lo trovarono disegnato sugli ossari attribuiti ai cristiani del primo secolo – spiega Aldo Caroleo – Per questo motivo, ritenendolo legato a Cristo (Sole invictus), lo riprodussero nelle chiese del XII e XIII Sec., contribuendo a diffonderlo in tutta l’Europa”.
Questo segno è presente a Manfredonia, in graffiti, sulla basilica di santa Maria Maggiore di Siponto (XIII Sec.) accanto a croci greche risalenti sicuramente al periodo medievale. È inoltre un ornamento grafico popolare e popolano: lo si ritrova spesso inciso o disegnato su comuni oggetti (utensili,ecc.) usati quotidianamente dai ceti popolari dauni.“Ho trovato questo simbolo inciso su delle scodelle di legno dei pastori transumanti e su altri oggetti comuni come piatti, bastoni e selle – racconta Caroleo – In un corno, usato come contenitore di polvere de sparo, datato 1810, ve ne sono incisi addirittura tre”. E la ricerca si è limitata solo a pochissimi elementi. E solo a Manfredonia e Siponto.“Bisognerebbe dire agli amici “padani”, che affermano una presunta autoctonia culturale, che ciò è invece antistorico e sta a dimostrare come certi segni e certe culture antiche hanno determinato il nascere dei germi di una vera a propria idea culturale “europea ” già dai tempi remoti e che ai giorni nostri si è realizzata appunto con l’Europa Unita”, spiega Caroleo.
Il “sole delle Alpi” fu quindi un simbolo dauno millenni di anni fa per poi diventare, oggi, il simbolo ufficiale della Padania e della Lega Nord, che tanto rivendica la sua autonomia rispetto al Sud.
settembre 2009
pubblicata da LUCERANET.IT il giorno lunedì 11 ottobre 2010 alle ore 18.23
La morte l’aveva colto di sorpresa nel mentre era occupato a vivere con frenesia, a scoprire il mondo,a sentire il sapore della vita.
Ora era lì inerme il riccetto, sacrificato alla civiltà dell’asfalto nella sua prima primavera.
Gli aculei ancora morbidi, sul muso un’espressione più che di dolore…di sorpresa, il collaretto ancora del color del candore.
Era lì sulla strada nel mattino.
A mezzogiorno già non ci sarebbe più stato, le gazze son solerti e scrupolose in questo.
La notte era stata fresca e dolce insieme, una notte di maggio, con un cielo orgoglioso di mostrare tutti i suoi gioielli messi giusti, appuntati sul velluto della notte.
La campagna odorava di frutti ormai maturi, c’era un albero di gelsi aldilà della strada e poi gli orti, ricchi di verdure nuove e oltre, oltre un muro a secco difficile da superare, un nespolo sovraccarico di frutti.
L’umidità della notte esaltava gli odori.
Seppur molto giovane, il cucciolo di riccio aveva già sentito parlare della morte, veloce, rombante e puzzolente l’avevano descritta, imprevedibile seminava lutti ogni notte nella popolazione dei timidi selvatici.
Ma a quell’ora, prima dell’alba, non c’erano rumori intorno, c’era solo il soffio leggero della brezza di mare prima del mattino e tutti quei buoni odori che
“Tu sei di Mesagne? Dove è successo quel casino con la Mafia a Brindisi?”
Ecco cosa mi è stato detto appena arrivato a Roma qualche giorno fa.
Ma fu solo l’inizio di una diffamazione continua della mia città.
Ma chi meglio di un cittadino può raccontarvi e parlare del proprio Paese?
Allora oggi lo faccio io!
E pretendo la stessa attenzione degli articoli in cui si inneggia Mesagne come capitale della violenza!
Mesagne è un paese di circa 30.000 abitanti in provincia di Brindisi.
E’ uno dei paesi più popolosi del Salento, magica terra a cui appartiene.
Nel suo stemma c’è una palma e due spighe a rappresentare la fertilità della terra e il clima caldo e mite.
Dientro di sè ha una lunghissima storia documentata ancora oggi dai suoi innumerevoli e magnifici beni culturali.
Prima centro messapico, poi romano, bizantino, passando per il medioevo, Federico II, il Barocco, per arrivare infine all’età moderna e le due grandi guerre e i simboli ancora impressi in molti palazzi del dispotismo del 900.
Perchè Mesagne è una città che ricorda ciò che ha vissuto e non lo dimentica, anzi è sempre pronta a buttartela in faccia a costo di farti male.
Città prettamente agricola. Chi non conosce il nostro vino, il nostro olio extravergine di oliva? Le pesche saporite, i pomodori, i carciofi e tutti i piatti buonissimi che potete assaporare nelle tante trattorie e ristoranti del paese?
Mesagne è anche città di cultura e sport!
Calcio, basket, tennis, taekwondo, teatro, danza : non abbiamo limiti per far vedere i talenti che portiamo fuori!
Città artigiana e negli ultimi periodi scoperta dai turisti.
Ecco Mesagne è prima di tutto questa!
Mesagne è la città in cui si celebra il 16 Luglio la Festa della Madonna del Carmine, piena di luminarie che illuminano le strade del paese e che affascinano i passeggeri.
Mesagne è la città in cui io a 16 anni camminavo alle 3 di notte per strada senza aver paura.
Mesagne è la città che ha ispirato i miei studi universitari essenso così ricca di storia e ricordi.
Mesagne è la città delle mille masserie che puoi visitare prendendo una bici e facendoti una bella scampagnata nelle nostri colorate campagne.
Mesagne è la città delle venti chiese, simbolo della forte devozione di un popolo fedele.
Mesagne è la città dove fanno la cavalcata dei Re Magi, dove c’era il carnevale, dove si promuove una bella rassegna teatrale, dove io ho iniziato a studiare danza classica e la mia maestra ora si trova a insegnare alla Scala ed io a fare il suo stesso mestiere.
Mesagne è la città che ha il centro storico a forma di cuore così come i suoi cittadini come hanno dimostrato nelle ultime occasioni.
Si, Mesagne è ANCHE il Paese dove è nata la SCU, ma sottolineo ANCHE!
C’è chi ci ha dipinto come gente che vive nella paura e nell’omertà!
Il territorio di Salve dai primi abitanti alla romanizzazione
Il Territorio di Salve dai primi abitanti alla romanizzazione
di Sandra Sammali
Siamo nati in Africa circa 5 milioni di anni fa. Nel tempo, ci siamo evoluti: dal primo ominide siamo arrivati all’Homo Sapiens, circa 30.000 anni fa. Allora vivevamo di caccia e raccolta, spostandoci di volta in volta lì dovela Terraci offriva nuovi frutti e materie prime, dominati dalla natura e inconsapevolmente vincolati ai suoi mutamenti.
Poi, circa 8.000 anni fa, è avvenuto il cambiamento epocale: siamo passati a modi di vita sedentari e alla produzione di cibo per mezzo dell’allevamento e dell’agricoltura, dalla pietra scheggiata alla pietra levigata e ai minerali metallici. Da quel momento, la nostra evoluzione non si è più arrestata e ci ritroviamo, oggi, in quella che il Nobel Paul Crutzen ha definito l’era dell’ “Antropocene”, già..perché oggi è proprio l’uomo, anthropos, a dominare prepotentemente su tutto il resto.
Paleolitico, Mesolitico, Neolitico, età dei Metalli, età iapigio – messapica ed età romana: 2.000.000 di anni, è questo l’arco di tempo racchiuso e raccontato tra le pagine di Archeologia del Salento. Il territorio di Salve dai primi abitanti alla romanizzazione, di Nicola Febbraro (ed. Libellula), laureato in Archeologia nel 2006, presso l’Università di Lecce. In quest’opera, l’archeologo salvese, grazie alla collaborazione di Marco Cavalera, laureato in Archeologia e di Anna Lucia Nicolì, laureata in Lingue e Letterature
Parliamo con il regista Carlo Fenizi. Dalle sue note biografiche scopriamo che: nasce in Puglia, a Foggia, nel 1985. A Roma studia Letteratura e Cinema e si laurea in Letteratura e Lingua, Studi Italiani ed Europei, con il massimo dei voti, presso la facolta’ di Lettere e Filosofia dell’Universita’ di Roma La Sapienza. Ha frequentato a Firenze la scuola di cinema Immagina. E’ autore di cortometraggi e video arte. Nel 2008, in Spagna, dirige il suo primo film La luce dell’ombra, un lungometraggio dal taglio noir, di cui e’ anche autore. Nel 2010 realizza il documentario Lo sguardo libero. Nel 2011 scrive e dirige la commedia fiabesca Effetto Paradosso, il suo secondo film prodotto dalla Cpm film. Collabora con le scuole in progetti di formazione cinematografica. Parla, pensa e sogna in spagnolo. Dipinge. (dal sito: www.carlofenizi.com).
“Sei giovanissimo, 27 anni e già due film”
“Non sarebbe strano in altri paesi. Qui da noi un giovane regista ha 40 anni, un ventisettenne è un bambino”.
“Effetto paradosso è un termine medico”
“Si, è l’effetto opposto di un farmaco rispetto alle aspettative.
“C’è Puglia nel tuo film”
Ho tentato di dare un’immagine magica e diversa della Puglia. Il meridione è visto come provinciale, malavitoso, tradizionalista, chiuso. Abbiamo rovesciato l’impianto, il paese del film è un piccolo mondo al femminile, una micro nazione che addiritura rivendica indipendenza. In realtà le forme meridionali ci sono, quello che è stato stravolto è il contenuto”.
“Gli attori sono esordienti?”
“No, l’unico alla prima esperienza è Konrad Ianussi”.
“L’uscita per quando è prevista?”
“Molto ravvicinata, la prima sarà a Foggia il 28 settembre, le altre date le ufficializzeremo appena ne avremo certezza”.
“Le musiche?”
“Sono state fatte dal gruppo TERRANIMA, che stimo moltissimo, appositamente per il film”. (http://www.terranima.it)
“Il paese del film non ha nome, però la location scelta è Orsara di Puglia”
“Volevo un paese del foggiano, i luoghi anche qui, come nel resto della Puglia, sono stupendi. La scelta è caduta su Orsara perché l’amministrazione ci ha accolti benissimo e perché il paese ha avuto nel tempo restauri conservativi che ne hanno mantenuto le caratteristiche, penso sia stata una buona scelta”.
“Apulia Film Commission ha finanziato il tuo film?”
“Apulia ha appoggiato il film da un punto di vista tematico e formale. Non abbiamo potuto, per motivi burocratici, partecipare al bando per i finanziamenti, però è piaciuto il prodotto finito e Apulia Film Commission ci ha dato il patrocinio gratuito e lo distribuirà nel “circuito d’autore”. Il produttore è la C.P.M. film di Firenze con la quale ho collaborato dal mio primo film”
Se il Salento non riuscirà a “governare”, nel senso più largo del termine, la straordinaria attrazione che in Italia e all’estero sta riscuotendo il proprio marchio, rischia di rimanerne travolto. E perché questa fase sia “governata” – non solo amministrata – è necessario aprire quanto prima una riflessione profonda, un dibattito vero a tutto campo, senza conformismi e senza infingimenti su che cosa dovrà diventare questa terra nel futuro. Una riflessione, un dibattito e, se del caso, uno scontro di idee tanto più urgente se pensiamo che siamo alla vigilia del rinnovo di molte rappresentanze nei Comuni dell’area jonico-salentina, a partire dai tre capoluoghi Lecce, Taranto e Brindisi.
Mai come stavolta serve un progetto unificante, non un programma frastagliato nei mille particolarismi territoriali. E serve prima dell’imminente apertura della battaglia elettorale, prima che tra primarie e secondarie la parola passi alle truppe cammellate e alle bande organizzate che si contenderanno i consensi. Insomma, prima che i candidati scopiazzino qua e là pensieri e parole per redigere una parvenza di programma che nulla ha a che fare con il progetto.
E prima che comincino i fuochi d’artificio delle promesse elettorali, degli annunci spot, delle proposte di grandi eventi lanciate come armi di distrazioni di massa.
E qui, senza che alcuno si offenda, va detto che il ritardo vero, l’ostacolo più forte riguarda non tanto la politica o l’amministrazione della cosa pubblica, sulle quali pure ricadono gravi responsabilità per aver rinchiuso il confronto in spazi sempre più comodamente autoreferenziali, quanto la cultura, gli intellettuali, i produttori di idee, le competenze che stentano a venir fuori e a schierarsi. Appare sempre più evidente un deficit di soggettività, di protagonismo della cultura in questa terra che va superato al più presto se vogliamo che la politica esca dalla pura amministrazione – buona o cattiva, non è qui importante accertarlo – e torni a governare, cioè ad individuare e a far camminare idee-forza con le quali e sulle quali costruire il futuro del Salento. Proprio ieri, su queste colonne, abbiamo pubblicato una lucidissima riflessione di Domenico Mennitti sul rapporto tra politica e cultura o, meglio, sulla distinzione tra politiche culturali e culture politiche. C’è un filone in quella riflessione – il ruolo della cultura rispetto alla politica e a un territorio – che vale la pena qui sviluppare.
Di fatto, da anni la voce degli intellettuali salentini appare spenta, afona, rassegnata. Un atteggiamento più di rimessa che da protagonisti, segnato spesso in privato da un lamentoso pessimismo privo di sbocchi. Senza urtare la suscettibilità di meritorie associazioni e tranne rarissime eccezioni, il massimo della cultura che si riesce ad esprimere sul territorio è ormai l’organizzazione di incontri e kermesse che, viziati di evidente provincialismo, tendono ad esaltare ciò che avviene “al di fuori” piuttosto che a evidenziare ciò che manca o si produce all’ “interno”. L’esterofilia come malattia infantile del provincialismo genera due risvolti negativi: o il pensare globale liquidando con fastidio l’identità locale; o l’esaltare fino al parossismo la sola identità del territorio senza parlare al mondo e senza dialogare con la globalità. Questo è il frutto della scarsa produzione di idee sul e per il territorio, e dell’altrettanto scarsa circolazione di progetti di lungo respiro. Intendiamoci, va benissimo organizzare le presentazioni di libri o gli incontri con intellettuali e “maître à penser” nazionali su temi e argomenti di generale attualità. Guai a rinchiudersi nei propri confini e limitare la circolazione delle idee. Ma la cultura del territorio è altro. E la cultura di cui ha maledettamente bisogno oggi il Salento è ben altro ancora: è produzione di idee, è schieramento delle competenze, è uscire dalle tante piccole torri d’avorio per spalancare scenari e orizzonti nuovi per questa terra. È spezzare la gabbia della pigrizia intellettuale, rompere la cappa perniciosa del conformismo, mettere in gioco le piccole e grandi rendite di posizione personale. È uscire, insomma, da un rapporto di subalternità con il “principe” di turno, che non sempre tra l’altro coincide con il politico. Solo così il Salento può superare il suo provincialismo culturale.
Citiamo tre casi. Il boom del turismo registrato quest’anno impone la definizione, in tempi brevi, di una precisa strategia che esclude o ridimensioni determinati segmenti a vantaggio di altri.
E ciò va fatto qui e ora, prima che i successi di stagione e le mode non governate prendano il sopravvento e finiscano per decidere da soli il corso degli eventi, con la politica chiamata poi solo ad amministrare l’esistente e a rincorrere processi già maturi. Dunque: più infrastrutture, ma quali e per che cosa? Più servizi, ma quali e come? Meno “divertimentificio”, rigetto del modello Ibiza o costiera romagnola, ma con quali politiche e attraverso quali deterrenti? A parte qualche dibattito estemporaneo tra addetti ai lavori, a parte qualche amministratore che tende ad appuntarsi al petto il successo di quest’anno, su questi temi la cultura urbanistica e la cultura economica tacciono. Male. Provi la politica, a questo punto, a stanare le competenze. Provi la politica, fin da settembre, a sollecitare la produzione di idee e progetti, a mettere in rete una discussione sulle criticità emerse in questa stagione, ad aprire un cantiere sulle possibili terapie. Per quanto ci riguarda, siamo pronti a sostenere fin da subito l’apertura di questo dibattito.
Il secondo caso riguarda l’Università. È stato varato tra molte polemiche, quasi tutte però rimaste sotto traccia, il nuovo statuto dell’Ateneo del Salento, come previsto dalla riforma Gelmini. Uno strumento importantissimo per il futuro dell’istituzione sul territorio. Siamo sempre più convinti che il Salento senza l’Università sarebbe una terra molto più povera, destinata ad un sicuro declino: anche per questo, al di là delle non poche cose che non funzionano, siamo scesi in campo al fianco dell’Ateneo in difficoltà con l’appello alla comunità salentina di destinare il cinque per mille della dichiarazione dei redditi all’istituzione. E, tuttavia, se è vero che il Salento non può fare a meno dell’Università, è altrettanto vero che la comunità salentina non può rimanere del tutto estranea, emarginata, tenuta all’oscuro di ciò che vuole e può essere la sua Università. Tranne un articolo su queste colonne del nostro editorialista Ferdinando Boero, che ha avuto il coraggio di uscire allo scoperto e di motivare il suo personale appoggio al nuovo statuto, molti docenti universitari, pur essendo fortemente critici, hanno preferito il basso profilo o il silenzio. Peggio ancora, hanno sollecitato in privato i mass media a intervenire o a denunciare i punti più controversi (che erano e sono rimasti tanti), preferendo non aprire una battaglia alla luce del sole sulla vicenda. Un atteggiamento tutt’altro che esaltante. Speriamo che alla ripresa delle attività, fin da domani, il dibattito si riapra. Anche su questo fronte, siamo pronti ad ospitare contributi e riflessioni.
Il terzo caso riguarda la strigliata che l’arcivescovo di Lecce ha fatto alla comunità – non solo di fedeli – sugli sfarzi della festa di Sant’Oronzo, il suo appello alla maggiore sobrietà della politica, il suo invito a non sperperare fondi pubblici per feste e sagre paesane. «Dobbiamo pensare di più ai poveri, agli emarginati, a chi soffre in questa terra», ha detto monsignor d’Ambrosio. E ha rivolto anche a noi, al mondo dell’informazione, una critica severa perché ci occupiamo pochissimo dei poveri. Critica giusta, giustissima, di cui cercheremo di far tesoro ogni giorno, a partire da un autunno che si preannuncia ancora più caldo sul fronte della povertà. Ma è possibile che su un tema così importante, la cultura taccia? Possibile che gli intellettuali, qui e ora, non abbiano nulla da dire?
*direttore de Nuovo Quotidiano di Puglia
L’articolo è stato pubblicato sabato 27 agosto 2011 su
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