In distribuzione “Il filo di Aracne” nr. 1 anno 2023

 

Questo il Sommario del numero in distribuzione: 

La voce dei lettori                                                                           5

I quadernetti di Athena. L’AFFARE UCRAINA

di Rino DUMA                                                                                  6

Virorum humanitas. PIERO VINSPER – CUSTODE DELLA CULTURA POPOLARE

di Giuseppe MAGNOLO                                                               10

Poetando. LO SGUARDO POETICO DI TOTÒ

di Maurizio NOCERA                                                                     14

Humanae litterae. METODO E PASSIONE

di Massimo GALIOTTA                                                                  18

Iniziative sociali del Circolo “Athena”. LA BANCA DEL TEMPO

Articolo redazionale                                                                    21

Cittadinanza attiva. LA DIGNITÀ DEL CITTADINO di Francesco PAPADIA    22

Usi e costumi salentini. IL SALENTO DELLE LEGGENDE

di Antonio MELE/MELANTON                                             24

Storiografia. GIOVANNI BERNARDINO BONIFACIO

di Giovanni LEUZZI                                                                 26

Historia nostra. IL TERREMOTO DEL 1743 A GALATINA

di Filippo Giacomo Cerfeda                                                    30

Uno sguardo sul passato. GALATINA NELLA GRANDE GUERRA

di Salvatore CHIFFI                                                                  33

Scienza e innovazione. L’IMPORTANZA DELLE ENERGIE RINNOVABILI

di Antonio SALMERI                                                                 36

Artisti galatinesi. RILIEVI DELLA VIA CRUCIS

di Pietro DE FLORIO                                                                 38

Salentini illustri. GIUSEPPE PALAMÀ

di Clelia ANTONICA                                                                   41

Il Carnevale di un tempo. “L’HAI COMPRATO IL SALE GROSSO?”

di Gianni VERGINE                                                                     42

Terra noscia. I FORNI NEL SALENTO PER CUOCERE IL PANE “FATTO IN CASA”

di Marcello GABALLO                                                                 44

Libri| La Contea di Conversano

 

Antonio Fanizzi, La Contea di Conversano. Origini, sviluppi e dignitari, prefazione di Nicola Montesano, 2023

 

Dall’Introduzione al libro, di Antonio Fanizzi

Nel corso di molti anni, nella costante ricerca di notizie sui vari aspetti della storia della città di Conversano, ho raccolto notizie relative alla sua importante contea ed ai suoi signori feudali, con il fine di mettere ordine nella loro successione, ma, soprattutto, comprendere quello che la nostra città ha rappresentato nella storia della Puglia e dell’intero Regno di Napoli.

La storia feudale di Conversano non ha ricevuto, purtroppo, le dovute attenzioni, salvo alcuni contributi specifici su alcuni singoli conti (Goffredo di Conversano ed i suoi successori, Giulio Antonio I, Giangirolamo II e i suoi successori). Ancora comunemente il conte Goffredo viene indicato come “Goffredo Altavilla”, eppure sappiamo che la madre era una Altavilla, non il padre, tuttavia l’errore continua ad essere ripetuto, tanto da essere riportato persino su una recente targa stradale. Su di un conte, in particolare, Giangirolamo II Acquaviva d’Aragona, circolano ancora, retaggio di odio antifeudale, infondate leggende che vengono spacciate per fatti autentici. Egli viene, comunemente, definito “Guercio di Puglia”, quando sappiamo per certo dalla descrizione di Francesco Capecelatro, che non era affatto guercio, ma, soprattutto, un altro, a metà Seicento, era il “Guercio di Puglia”, cioè il tarantino Fabio Carducci, ricordato da Eugenio Baffi (Saggio di effemeridi tarantine, in “Taras”, a. IV (1929, p. 61: 4 gennaio 1640, nasce a Taranto Fabio Carducci il tanto famoso Guercio di Puglia, da Ludovico e Laura di Noha; p. 65: 26 aprile 1672, reduce dalle sue grandi imprese militari compiute contro i Turchi, Fabio Carducci da Taranto, il famoso Guercio di Puglia, cavaliere di Malta e colonnello dei Dragoni di Carlo II di Spagna, è accolto trionfalmente dai suoi concittadini) e Alessandro Criscuolo (Fabio Carducci, “il Guercio di Puglia”, in “Vecchio e nuovo”. Rivista meridionale di lettere, arte, turismo, vol. 1, n. 2 (1930)).

Fabio Carducci non fu l’unico “Guercio di Puglia”, poiché nel Cinquecento visse un altro guercio, Antonio Marinario, di Grottaglie, frate carmelitano e scrittore di opere di teologia, morto nel 1574, soprannominato proprio così!

Peraltro, la definizione di “Guercio” attribuita Giangirolamo II, non risulta da nessun documento o altra fonte storica coeva: la prima notizia con la definizione di “Guelfo di Puglia”, la si trova nell’opera del canonico Gianfrancesco Cassano, del 1739, La ristretta ed erudita narrazione dell’origine e progresso della Terra delle Noci, edita a cura di Domenico Forti (Noci, Carucci, 1999, p. 8). Da “Guelfo” a “Guercio” il passo è breve, ma come si vede il secondo nomignolo si è affermato prepotentemente, tanto da essere ritenuta tuttora una verità assoluta!

Il ritratto presente nel castello di Marchione, che si ritiene comunemente raffiguri il famosissimo Giangirolamo II e dal quale alcuni hanno, molto fantasiosamente, individuato l’inesistente difetto fisico, in realtà non raffigura lui, bensì suo padre Giulio I, come scrissi, dubitativamente, già nel 1985 e come conferma una lettera  del 28 settembre 1839, inviata da Carlo seniore, a suo fratello, il conte di Conversano e duca d’Atri Giangirolamo V  e da due lettere del pittore conversanese Nicola La Volpe, residente in Napoli, dirette allo stesso conte, per il restauro dell’opera, tutte recentissimamente ritrovate tra le carte di Casa Acquaviva d’Aragona.

Assai ondeggiante è la cronotassi dei conti, ad alcuni dei quali vengono attribuiti numeri di pura fantasia, come ancora nel caso di Giangirolamo II, in realtà ottavo di Casa Acquaviva d’Aragona, come risulta dall’epigrafe conservata nel palazzo comitale di Alberobello.

Per la storia della contea di Conversano si è fatto finora ricorso all’opera dell’abate Paolo Antonio Tarsia (Historiarum Cupersanensium libri tres, Madrid 1649), agli appunti del canonico Giuseppe Antonio Tarsia Morisco (Memorie storiche della città di Conversano, Conversano 1881). Da queste fonti attinse, a piene mani, il canonico Giuseppe Bolognini nella compilazione della sua Storia di Conversano fino al 1865 (Bari 1935). Vero è che i tempi del canonico Bolognini non consentivano facili ricerche ed infatti la sua opera è carente proprio da questo punto di vista, poiché si limita a ripetere quanto già scritto dai due precedenti storici conversanesi, introducendo scarsissime novità. L’opera, tuttavia, proprio per la mancanza di altre fonti di riferimento, continua, pur a distanza di ottantasette anni ad essere ritenuta valida e così contribuisce a perpetuare notizie errate.

Una revisione delle vicende feudali della contea e quindi della storia della città di Conversano, che ha recentemente aspirato a diventare capitale della cultura italiana, è indispensabile, anche per conoscere la reale importanza dei personaggi che l’hanno posseduta e in essa hanno vissuto e gli eventi che qui si sono svolti…

 

Libri| Brindisi sconosciuta

 

Prefazione del volume

 

La rappresentazione del passato di Brindisi da parte dei cronisti locali avviene molto avanti nel tempo ed in un momento del tutto particolare.

Si è nel XVI secolo mentre è in corso un’accesa competizione con Oria per la rivendicazione della sede vescovile, allora cespite importantissimo per le economie comunali, e ne è antesignano un notaro brindisino, Giò Battista Casmiro, in aperta polemica con Quinto Mario Corrado, umanista oritano ben più accreditato di lui, che si trovava naturalmente schierato sul fronte opposto.

La prima diffusione delle tradizioni e dei culti cittadini, contenuta nella “Epistola Apologetica” del Casmiro, indirizzata nel 1567 appunto a Corrado, trova così spunto nel clima di rivalità che s’era allora creato con Oria nella contesa per il titolo vescovile e risente di conseguenza degli obiettivi che l’opera intende perseguire in difesa degli interessi di Brindisi. Più che ricreare uno scenario realistico, l’autore tende così a presentare quello più favorevole e sostenibile possibile, come un qualsiasi buon avvocato difensore farebbe a sostegno delle pretese del proprio assistito. In tale contesto, la storia di Brindisi viene pertanto redatta perché soddisfi ad una tesi preconfezionata, privata sin dall’inizio da tutti quegli elementi che possano far sorgere dubbi, creare fraintendimenti o appigli di replica. In aggiunta si esaltano i pregi, se del caso raschiando il barile, e si sminuiscono quelli che la controparte potrebbe utilizzare come difetti.

In tal senso Casmiro ha fatto scuola e molti dei successivi storici e cronisti locali non hanno saputo affrancarsi del tutto da questo modo di fare, industriandosi ad abbellire gli avvenimenti e configurandoli secondo un modello ideale di sviluppo che favorisse l’immagine della città, come se essa fosse in perenne competizione con le comunità vicine.

Parrà strano ma le conseguenze di questo modo di fare ha avuto degli effetti alquanto sconcertanti per il nostro passato: lo ha riempito di banalità, di luoghi comuni, di leggende metropolitane svuotandolo, nel contempo, delle sue pagine più interessanti e gloriose.

Proprio la scoperta di queste pagine nascoste di storia cittadina è lo scopo principale di questo libro.

Per conseguirlo, si dovrà necessariamente passare al setaccio le interpretazioni sinora date e, se del caso, rivederle togliendo le incrostazioni accumulatesi nel tempo. Un’operazione non del tutto simpatica perché bisognerà per forza mettere qualche puntino sulle i, correggere tutta una serie di false opinioni, smentire tradizioni, demolire leggende e tante fantasie spacciate sino ad ora per verità sacrosante.

La speranza è che il lettore non viva tutto questo come pedanteria fine a sé stessa ma, se possibile, in senso positivo, ritenendola necessaria se si vuole scoprire un passato credibile e non solo composto da forme stereotipate o da temi scontati e ricorrenti.

Un’altra avvertenza mi pare necessaria: questo libro si rivolge al lettore non specializzato e privilegerà pertanto un linguaggio semplice, senza però con questo indulgere in semplificazioni. Anzi, se necessario, si affronteranno temi controversi e divisivi, e si riporteranno interi brani in lingua latina e greca, sempre però accompagnandoli con una traduzione, per mettere in risalto come una ragionata rilettura delle fonti narrative antiche possa aiutare per far emergere aspetti sinora trascurati.

Non si rinuncerà neppure alle note ed alle citazioni. Anche in questo caso non tanto per fare sfoggio, quanto piuttosto per fornire a chi lo desideri gli strumenti utili per potersi creare una propria opinione.

Il tutto nella speranza di far riemergere pagine di storia rimaste per troppo tempo sconosciute.

 

Brindisi sconosciuta, di Nazareno Valente

Pagine: 458; formato: 21.59 x 2.64 x 27.94 cm

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Indice

Parte prima: Periodo preromano

1.1. La penisola salentina nelle fonti narrative antiche

1.2. Messapia: era davvero una terra tra due mari?

1.3. Quando arrivarono gli Elleni

1.4. Miti di fondazione

1.5. Prima dell’arrivo dei Parteni

 

Parte seconda: Periodo romano

2.1. Il bellum sallentinum ed il mistero della dea Pales

2.2. Penisola salentina romana

2.3. La colonia latina di Brindisi

2.4. La fondazioni della colonia latina di Brindisi (247-244 a.C.)

2.5. L’assedio di Brindisi: uno scontro mancato

2.6. Brindisi ai tempi di Cesare Ottaviano Augusto

 

Parte terza: La cristianizzazione ed il periodo del declino

3.1 Brindisi da metropoli a borgo desolato

3.2. Il manoscritto: la vita del divino Pelino vescovo e martire (traduzione di Armando Polito).

3.3. Altri inni per l’ufficio di san Pelino

 

Parte quarta: Li cunti, li culacchi e i luoghi d’una volta

4.1. Virgilio e Brindisi

4.2. Un antico proverbio

4.3. Brindisi e i brindisi

4.4. L’isola che non c’è più

4.5. Alla scoperta della fontana di Crisostomo

4.6. Abbasciu a la marina alla fine del Settecento

 

Parte quinta: Il porto di Brindisi nel periodo della decadenza

5.1. Una storia tutta da scrivere

 

Dialetti salentini: ‘sta

di Armando Polito

Supponiamo che tra i salentini sia indetto un referendum che ponga la domanda: Ritieni sto venendo traduzione letterale di Sta bbegnu?; immagino che la risposta positiva sarebbe univoca o, comunque, largamente dominante. E poi, non basterebbe l’autorevolezza del Rohlfs a confermarlo?

A dire il vero, nella sua ancora fondamentale opera dedicata al salentino1 al lemma sta (v. II, p. 693) si legge:

e a stu (v. II, p. 714):

A parte il fatto che la grafia più esatta sarebbe dovuta essere ‘sta e ‘stu per aferesi tanto se considerati dall’italiano (questa/questo) che dal latino (istam/istum), per trovare traccia del nostro nesso bisogna andare al lemma staci (v. II, p. 693):

Ad aci (v. I, p. 30):

Non si comprende come per il Rohlfs staci (con la sua abbreviazione aci) sia forma “fossilizzata” di stare (sarebbe, a mia conoscenza, l’unica del salentino e la presunta fossilizzazione non giustificherebbe, comunque, l’assenza di una più dettagliata analisi etimologica e per questo mi sembra essere  stata messa in campo per spiegare la sua invariabilità. A mio parere, invece, la voce napoletana e quella calabrese citate a supporto alla fine del lemma  stace sono corrispondenti all’italiano stacci (forma letteraria per ci sta), in cui ci (in posizione enclitica) è dal latino ecce hic (=ecco qui), dunque non pertinenti. Oltretutto, le due voci usate in funzione perifrastica reggono il gerundio e non l’indicativo (in napoletano stace facenno=sta facendo). La funzione enclitica di –ci in staci/aci trova la sua conferma in altre forme enclitiche da lui registrate al lemma stare1 (p. 68): stocu, stoche (io sto), stave (egli sta).

Al lemma stare2:

 

Insomma, le voci staci e aci riportate per il salentino per  me lungi dall’avere qualsiasi legame con stare, sarebbero anche loro, al pari di ‘sta, dall’avverbio latino istac, come mi accingo a motivare, ripercorrendo passo dopo passo la strada che mi ha portato a questa conclusione..

Anch’io per lungo tempo ho creduto che la traduzione suffragata dal Rohlfs fosse esatta al micron, convinto che sta fosse voce del verbo stare. Poi, tornendoci su, ha cominciato a suscitare perplessità la sua reggenza dell’indicativo nell’espressione dialettale e del gerundio nell’italiana. Supponendo inizialmente corretta l’analisi del Rohlfs, ho controllato le coniugazioni complete, come nello specchietto che segue. Ho evidenziato con la sottolineatura il perdurare nel dialetto di un unico sta, mentre in italiano si susseguono le diverse forme delle persone  del presente indicativo:

sta bbegnu/sto venendo

sta bbieni/stai venendo

sta bbene/sta venendo

sta bbinimu/stiamo venendo

sta bbiniti/stateo venendo

sta bbèninu/stanno venendo

Lo stesso puntualmente si ripete anche con l’altro tempo previsto per il supposto stare in formazione perifrastica, cioè l’imperfetto:

sta bbinìa/stavo venendo

sta bbinìi/stavi venendo

sta bbinìa/stava venendo

sta bbinìamu/stavano venendo

sta bbinìi/stavate venendo

sta bbinìanu/stavano venend

Il perdurare di sta solo nel dialetto fa capire che esso è sicuramente una parte invariabile del discorso, che nel nostro caso non può essere che quella che, come dice il suo nome, è più connessa con il verbo, cioè un avverbio; ma quale? Ci viene in aiuto ‘sta (per aferesi dal latino ista (=questa), femminile del pronome/aggettivo dimostrativo iste, presente in italiano solo nelle voci composte designanti le fasi del giorno: stasera, stanotte, stamane o stamani, stamattina. Connesso con ista è l’avverbio istac (=per di qua, per questa via), da cui, sempre per aferesi e consueta caduta della consonante finale, il nostro ‘sta.1

Per concludere, abbiamo nel dialetto salentino due voci che sembrano omografe (stessa grafia ma diverso significato), ma lo sono solo parzialmente perché la loro comune paternità (anzi maternità, visto che ista è di genere femminile …) si riflette nella conservazione del concetto originario pur nella differenziazione della marca grammaticale (il primo aggettivo, il secondo avverbio:

1) ‘sta aggettivo dimostrativo dal citato ista (‘sta cosa=questa cosa)

2) ‘sta avverbio da istac (chiaramente connesso col precedente ista), usato solo nel nesso dell’immaginario referendum, in cui, dunque, sta (inesistente come forma verbale, essendo le voci del presente indicativo

sto/stai/stae/stamu/stati/stannu) e ricorrente solo in composizione pronominale nella seconda persona singolare statte, corrispondente all’italiano statti, e plurale stàtibbe, corrispondente all’italiano stàtevi,   va emendato in ‘sta e la corretta traduzione in italiano sarà costà (vedi nota 2). Null’altro da aggiungere a quanto detto su quello che mi sembra  un esempio emblematico di un equivoco basato su un errore filologico indotto da suggestioni fonetiche istintive, anche se le conseguenze semantiche per il nesso completo non sono, nel nostro caso, drammatiche

__________

1 Gerhard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976.

2 Da eccum istac (=ecco di qua) nasce l’italiano costà, in cui l’accento sull’ultima sillaba è giustificato dalla necessità di evitare  la confusione col sostantivo costa; lo stesso succede per costì (da eccun istic), che altrimenti si confonderebbe con costi, voce verbale di costare.

Per la storia feudale di Alliste e Felline

di Luciano Antonazzo

 

Le vicende feudali di Alliste e Felline sono andate quasi sempre di pari passo, essendo stati i loro territori assoggettati molto spesso ad uno stesso Signore fino all’eversione del feudalesimo.

La cronologia della successione dei loro feudatari risulta chiara e lineare fino a quando entrambi i feudi pervennero in testa di Don Francesco Pignatelli[1]. A questi succedette, nella seconda metà del XVII secolo, Bartolomeo de Capua, Principe della Riccia e Gran Conte di Altavilla, ma non era chiaro come ciò fosse avvenuto. I successivi passaggi attraverso i quali le stesse terre passarono poi in possesso degli Scategni che le detennero fino all’eversione del feudalesimo, sono a loro volta abbastanza confusi e non chiaramente delineati nei tempi e nei modi.

A fare chiarezza su come il passaggio del loro possesso pervenne a Don Bartolomeo de Capua e da questi al marchese di Ugento Don Nicola d’Amore, avvenuto nel 1691, contribuisce un atto del notaio Biagio Domenico de Conciliis di Napoli concernente una convenzione stipulata il 30 ottobre 1702 tra Donna Dorotea Acquaviva d’Aragona, contessa di Conversano[2], e Don Paolo Serafini, procuratore del marchese di Ugento Don Nicola d’Amore. Per i passaggi successivi si riporta quanto esposto ne La saga dei d’Amore, marchesi di Ugento, principi di Ruffano, marchesi di S. Mango[3].

Nel suddetto documento del notaio de Conciliis, Donna Dorotea Acquaviva d’Aragona, vedova del conte Don Giulio Antonio Acquaviva d’Aragona sr. († 2 gennaio 1691)[4] e balia e tutrice del figlio Giulio Antonio jr. nato postumo al padre, riferisce che nei capitoli matrimoniali per il matrimonio da contrarsi con Don Cosimo Acquaviva d’Aragona, alla suocera Donna Maria Caterina de Capua[5], contessa di Noci, da Don Bartolomeo de Capua erano stati assegnati in dote 40.000 ducati e per essi la tenuta del feudo di Nicotera[6].

Proseguì Donna Dorotea dicendo che “qualmente gli anni passati essendono dedotte nel S. R. C. le Terre d’Alliste, e Fellino, una con li feudi di Tariano, Verito, e Sinisgalli esecute ad instanza de creditori contro D. Francesco Pignatello Cugnetti Duca d’Alliste, e le medesime Terre, e feudi apprezzate dal Tavolario eletto, et esposte come venali[7], prima che si trovasse un compratore, tra Donna Maria de Capua e don Bartolomeo, mediante albarano (del 1668) si era convenuto che questi dovesse in nome e per conto di lei, comprare i due feudi per 36.000 ducati e che tale somma (quantunque il principe avesse sborsato di più o di meno) sarebbe stata scomputata dai 40.000 dovutile per dote. Conseguentemente, promise Donna Maria che gli avrebbe rilasciato il possesso di Nicotera.

In osservanza dell’albarano, il principe Bartolomeo, mediante il duca di Mignano (Ce), suo parente[8], comprò i due feudi e ne fu immesso nel possesso in attesa del Regio Assenso. Donna Maria però ritornò sulla sua decisione e rifiutò di prendersi i due feudi e restituire la tenuta di Nicotera, sicché Don Bartolomeo fu costretto qualche anno dopo ad adire le vie legali. I giudici sentenziarono che Donna Maria era obbligata al rispetto di quanto contenuto nell’albarano, ma ella fece ricorso opponendo diverse “proposte di nullità”. Pendente la discussione sulle pretese cause di nullità dell’albarano, Donna Maria decedette nominando suo erede universale il figlio Giulio Antonio Acquaviva sr., anche in virtù della rinuncia fatta in favore di quest’ultimo dal fratello Don Domenico.

Fra Don Bartolomeo e Don Giulio Antonio, per dirimere la questione inerente ai due feudi, fu stipulato un atto di concordia col quale si demandò il tutto alla valutazione e decisione degli avvocati Don Serafino Biscardi e Don Nicolò Caravita, da entrambi scelti come “amichevoli compositori”. Fu deciso che Don Giulio dovesse riprendersi i feudi di Alliste e Felline e restituire Nicotera a Don Bartolomeo.

Don Giulio Antonio restituì Nicotera e prese possesso di Alliste e Felline insieme ai suffeudi, ma si trovò ad essere molestato dai creditori della sua famiglia, a cominciare dal cognato Don Giovanni Geronimo Acquaviva d’Aragona duca d’Atri e dagli eredi di Geronimo e Vincenzo Barra. Questi erano ricorsi al S. R. C. ed avevano ottenuto che in danno di Don Giulio Antonio si vendesse il ducato di Nardò e che nel frattempo lo stesso venisse affittato. Il conte di Conversano allora ricorse all’“espediente” di mettere a disposizione dei creditori i feudi di Alliste e Felline coi suoi suffeudi, ed al loro acquisto rese disponibile il marchese di Ugento Don Nicola d’Amore.

Stemma ducale della Casata Acquaviva

 

Intervenne però la morte dello stesso conte Don Giulio Antonio e fu dichiarato suo erede il figlio postumo Don Giulio Antonio jr.  al quale furono assegnati come tutori e balii la madre Donna Dorotea e suo fratello Don Giovanni Geronimo (1663-1709). Questi, per evitarsi nuove liti, spese e dispendi di denaro, in specie per evitarsi un nuovo apprezzo che si sarebbe dovuto fare per i due feudi, con l’intervento “del Sig. Commissario, Avvocati, Procuratori, Tabulario, Mastro d’Atti, Scrivano, Soldati et altre subastazioni e deritti stimorno con la loro matura prudenza essere utile, et espediente all’interesse del minore vendere dette terre, e feudi volontariamente, precedente decreto di expedit”, al  marchese di Ugento Don Nicola d’Amore, “una con tutti loro Corpi, Intrate, giurisdizioni, gagii, emolumenti et Intiero Stato, e dell’istesso modo, e forma, e con quelli medesimi corpi che sub verbo Signater se descriveano, contenevano et erano stati apprezzati primo loco, e venduti dal detto S. C. al detto quondam Ill. Principe Don Bartolomeo per l’intermezza persona del detto Duca di Migniano, e che dal detto quondam Ill. Principe Don Bartolomeo dell’istesso modo, e forma, et sub verbo Signater erano stati ceduti al detto quondam Illustre Conte Don Giulio seniore”.

E questo per il prezzo di 33.000 ducati dei quali subito se ne dovessero dare 3.000 a Don Felice Basurto, duca di Alliste (come somma dovutagli a complimento del credito vantato sull’eredità e sui beni dei precedenti conti di Conversano)[9] ed altri 25.000 da pagarsi ai tutori per far fronte ai creditori dopo aver ottenuto dal S. R. C. il decreto d’ expedit alla loro vendita. Dalla sua immissione nel possesso dei due feudi e fino all’ottenimento di detto decreto, Don Nicola era tenuto a pagare sui 25.000 ducati l’interesse del 4,5 %. I restanti ducati 5.000 a complemento del prezzo si convenne che sarebbero stati pagati all’ottenimento del Regio Assenso e che nel frattempo Don Nicola era tenuto a corrispondere lo stesso interesse del 4,5 %.

Fu stabilito ancora che “la spesa del Reale Assenso impetrando la dovesse pagare, e sborsare tutta intiera, e di suo proprio denaro esso Ill. odierno Sig. Conte, et à riguardo all’altra spesa, e deritti occorrendi qui in Napoli per l’esecutoria al detto Reale Assenso accapato[10] se dovesse fare à spese comuni”. Fu inoltre precisato che se nel frattempo fosse stato costretto Don Nicola a pagare qualche relevio, o qualsiasi altra nuova tassa pretesa dalla Regia Camera, tale somma l’avrebbe scomputata dai 5.000 ducati.

Dallo stesso atto notarile risulta che Don Nicola prese possesso dei feudi nel 1693[11] e che adempì ai suoi obblighi versando per intero i 28.000 ducati e nel 1694 ducati 606.3 a complimento dei ducati 900 maturati complessivamente fino a quella data per interessi. Don Nicola per potersi intestare i due feudi rimase in attesa che i curatori di Don Giulio Antonio Acquaviva jr. chiedessero per quest’ultimo il regio Assenso alla successione al padre nei due feudi e conseguentemente quello per la loro vendita in suo favore, ma sorsero degli ostacoli imprevisti. Dato che si trattava di feudi nuovi acquistati e pervenuti al piccolo conte nato postumo al padre, sorse il dubbio se nei beni feudali poteva aversi successione in favore di questi e non piuttosto dello zio Don Domenico come più prossimo in grado di Don Giulio Antonio sr. defunto senza successori legittimi.

Accanto a questi dubbi si valutò anche il caso di un eventuale diniego dell’Assenso Regio, evento per cui “sarebbero rimaste dette Terre, e feudi sottoposte all’articolo di caducità, e devolutione à prò del Regio Fisco”, con la conseguenza che il piccolo conte sarebbe stato costretto a risarcire col suo patrimonio Don Nicola per il prezzo dei feudi già quasi interamente pagato, per tutte le spese e i per tutti i danni patiti, assieme agli interessi.

Per scongiurare questi rischi, gli avvocati e i procuratori delle parti escogitarono l’escamotage per cui si sarebbe dovuto far figurare l’acquisto all’asta dei due feudi non in testa del Principe Don Bartolomeo, ma del di lui primogenito ed erede Don Giovan Battista de Capua, “con stipularne le dovute cautele con il Regio Incantatore, e sopra di quelle ottenersi il Regio Assenso, e che poi dal medesimo Principe Don Giovanni Battista si dovessero vendere le dette terre al detto Ill. marchese, e delegarsi il prezzo a beneficio di detto odierno Sig. Contino in soddisfattione di parte delli ducati 40.000 dotali della detta quondam Ill. Duchessa Donna Maria”. Così avvenne con l’avallo del Regio Commissario Don Pietro Fusco ed il Regio Incantatore del S. C. potette ratificare il tutto e procedere ad una nuova vendita di dette terre in favore del marchese di Ugento per atto dello stesso notaio de Conciliis[12].

Ma necessitava ancora il Regio Assenso in favore del principe Giovanni Battista che però non potette ottenerlo in quanto, per sopravvenuta condanna in qualche altro giudizio, fu “dichiarato foriudicato, e come tale reputato morto civile”. Ragion per cui venne dichiarato suo erede universale e nei beni feudali suo figlio primogenito Don Bartolomeo. La vendita dei due feudi fu quindi fatta figurare in testa di Don Brtolomeo jr.  ed il 3 aprile 1702 fu finalmente concesso il Regio Assenso che dalla Regia Camera fu notificato a Don Nicola assieme all’elenco di alcune pendenze fiscali poste a carico del compratore e specificatamente:

 

  • Che per il jus delle piazze e della bagliva dei due feudi non vi era concessione, “ma come usurpati si doveva à prò del Regio Fisco il prezzo, una con la tassa de preterito[13] decorsa e tassarsi per l’avvenire
  • Che si doveva costringere il possessore a restituire gli annui ducati dieci percepiti per ciascun feudo come strenna, o offerta, e che se ne dovesse astenere per il futuro.
  • Che per le decime dovute al barone nemmeno vi era concessione, e che come usurpate se ne dovesse pagare il prezzo al Regio Fisco assieme a quanto percepito dai precedenti possessori.
  • Che il relevio presentato da Giovanni Luigi Coppola per le entrate feudali “iuxta la significatoria spedita nell’anno 1608” non era stato soddisfatto per intero e che il nuovo barone era tenuto a sanare assieme agli interessi.
  • Che per la morte di Don Francesco Pignatelli, nel possesso dei due feudi era succeduta la sorella Donna Anna Maria, contessa di Mesagne, ma che questa non aveva pagato il relevio, “che si doveva duplicato, ò sempio[14] con l’interesse ad elettione del Regio Fisco”.
  • Che si dovevano “anco doppi, ò sempji con l’interesse ad elettione del Regio Fisco” tutti gli altri relevii per morte dei successori alla contessa Donna Anna Maria, come dal mandato dell’Attuario della Regia Camera Don Giuseppe Nicolò Fiore.

 

Don Nicola con i suoi avvocati e procuratori, dopo aver prodotto “alcuni discarichi adverso detti corpi di resulda fiscale” per transigere tutte dette pretese somme offrì al Regio Fisco 1.000 ducati e per il diritto di piazza e bagliva si disse disposto a pagare per il futuro 4 ducati annui, offerta che fu complessivamente accettata dai funzionari del Regio Fisco.

Dallo stesso atto notarile risulta che a conclusione di detta transazione sorsero nuovi contrasti con gli eredi Barra che pretendevano il pagamento dei restanti 5.000 ducati a loro assegnati dal tribunale; Don Nicola produsse allora documentazione di tutte le spese da lui sopportate, anche di quelle per ottenere il Regio Assenso che sarebbero dovute ricadere in testa del conte di Conversano e che erano da defalcarsi dai 5.000 ducati residuo del prezzo dei due feudi. Alla fine tutti i contrasti furono sopiti con ulteriori accordi tra le parti, compreso quello per cui Don Nicola si impegnò a consegnare altri 1000 ducati a Don Felice Basurto per il suo credito verso i precedenti conti di Conversano, per cui il prezzo effettivamente pagato per i due feudi fu di 34.000 ducati[15].

L’atto di convenzione e transazione in questione necessitava ovviamente della ratifica di Don Nicola, ratifica che era da farsi con altro atto di pubblico notaio entro due mesi.  Don Nicola però non fece in tempo a ratificarlo perché improvvisamente decedette il 24 novembre del 1702.  A ratificarlo fu allora la sua vedova, Donna Camilla d’Amore, con atto del notaio Francesco Carida del 5 febbraio successivo.

Donna Camilla d’Amore era figlia del secondo marchese di Ugento, Don Giuseppe, e di Donna Anna Maria Basurto (nata in Felline nel 1659 da Don Francesco Basurto, duca di Alliste, e Donna Antonia Beltrano dei conti di Mesagne). Aveva sposato nel 1697 Don Nicola in seguito ad accordi di famiglia tesi alla ricomposizione degli aspri contrasti sorti dal fatto che Don Giuseppe, per ottemperare al fedecommesso disposto dal capostipite Don Pietro Giacomo, aveva nominato suo erede lo stesso Don Nicola, suo cugino[16].

Donna Camilla, che quando il marito decedette fu nominata curatrice e balia del figlio Domenico nato il 28 marzo del 1702[17], ebbe per sorella Donna Antonia e ad entrambe, allora in età pupillare, Don Giuseppe nel suo testamento del dicembre del 1690 aveva assegnato 22.000 ducati, ignaro che la moglie fosse nuovamente gravida. La piccola Antonia però decedette qualche mese dopo il padre e nel luglio del 1691 Donna Anna Basurto diede alla luce la sua terzogenita alla quale fu posto il nome della sfortunata sorella defunta. I 22.000 ducati destinati a questa vennero quindi assegnati all’ultima nata che a sua volta sposò il congiunto marchese di S. Mango, Don Giacomo d’Amore, discendente da Don Giovanni Battista d’Amore, fratello del primo marchese di Ugento Don Carlo. Donna Camilla s’apprestò quindi ad amministrare i beni del figlio dichiarato dalla Gran Corte della Vicaria erede ab intestato del padre.  Lo fece in piena autonomia, senza curarsi dei vincoli e dei gravami che insistevano sull’eredità del marito in virtù del fedecommesso e del moltiplico.

La sua gestione però procurò al figlio notevoli danni finanziari che portarono ad uno strepitoso processo che vide la sua conclusione solo con un laudo, o arbitrato, nel 1729.

Per quanto concerne specificamente i feudi di Alliste e Felline, Donna Camilla nel 1715, di propria iniziativa, alla sorella Donna Antonia, come sua quota sull’eredità paterna assegnò ben 50.000 ducati al posto dei 22.000 spettantile e per essi 2.250 ducati l’anno. Non disponendo di denaro le assegnò per 1.700 ducati annui la tenuta dei due feudi; ed altrettanti ducati assegnò nel 1716 a sé stessa in occasione del suo secondo matrimonio col principe di Pado, Andrea Serra[18]. Don Domenico per mantenere fede all’impegno della madre confermò alla zia la tenuta di detti feudi anche se non facevano parte dell’eredità di Don Giuseppe essendo stati comprati dal padre Don Nicola.

Don Domenico premorì alla madre nel 1754 e la zia Antonia due anni dopo chiese che le venissero intestati i feudi di Alliste e Felline, ma non essendosi rinvenuto nei Regi Quinternioni l’assenso all’accordo tra lei e il defunto marchese, la sua richiesta trovò l’opposizione del Regio Fisco.

Don Domenico alla sua morte nominò per testamento sua erede la madre, ma la stessa, per le conseguenze dell’esito del laudo del 1729[19] e in ottemperanza del fedecommesso primogeniale, fu costretta a cedere il feudo di Ugento assieme al titolo al congiunto Don Domenico d’Amore, solo nominalmente principe di Ruffano. Il nuovo marchese di Ugento, avanzò legittime pretese anche sui due feudi di Alliste e Felline in quanto il loro valore doveva reintegrare i beni vincolati al fedecommesso ma che erano stati venduti da Donna Camilla. Ma poiché il marchese di S. Mango aveva a sua volta avanzato aspettative sullo stesso fedecommesso, la questione fu concordemente accantonata ed i due feudi rimasero in godimento di Donna Antonia. Poco tempo dopo ella, con atto del notaio napoletano Don Giovanni Pisacane, donò al figlio Francesco il suo credito sull’eredità paterna, e per quello la tenuta dei due feudi, con la facoltà di chiudere le pendenze esistenti col Regio Fisco.

Questa cessione-donazione ottenne il Regio Assenso il 28 aprile del 1763, previo pagamento di 2.500 ducati di relevio ed in conseguenza di ciò, il 10 luglio del 1772, i due feudi dal Regio Fisco vennero intestati a Don Francesco d’Amore, marchese di S. Mango[20]. Questi poi, il 2 gennaio 1777, con atto del notaio Andrea Cavaliere, per 59.000 ducati si disfece dei due feudi cedendoli ai fratelli Nicola e Domenico Oliva di Monasterace (RC) che non ebbero un buon rapporto con gli abitanti di Alliste e Felline, soprattutto per via della loro pretesa “di decimare su tutto[21], ragion per cui decisero di rivendere i due feudi ed acquistarne altri in Calabria.

Li vendettero a Don Francesco Maria d’Amore, fratello di Don Domenico per conto del quale amministrava il feudo di Ugento. Acquistò i due feudi con atto del notaio Pasquale Cerrito di Torre Paduli del 2 dicembre 1778[22], subentrando ai fratelli Oliva alle stesse condizioni per cui questi avevano comprato i due feudi il cui prezzo non era stato ancora interamente pagato.  Don Francesco Maria però non fu in grado di far fronte agli impegni presi ed i fratelli Oliva, col consenso del marchese di S. Mango, gli fecero subentrare Lorenzo e Onofrio Scategni che acquistarono i due feudi il 13 dicembre del 1779 e ne mantennero il possesso fino all’eversione del feudalesimo.

 

Note

[1] Francesco Pignatelli era figlio di Camillo e di una non meglio precisata dama della famiglia Cognetti. Sposò Giulia Beltrano, figlia di Ferdinando conte di Mesagne e di Donna Camilla Acquaviva dei duchi di Nardò. Nel 1648 ottenne il titolo di duca di Alliste, titolo che alla propria morte (1660) senza figli passò alla sorella Anna Maria e ai suoi discendenti. Anna Maria Pignatelli nel 1613 aveva sposato Alfonso Basurto († 1624) e in seconde nozze sposò Don Ferdinando Beltrane, conte di Mesagne e vedovo di Camilla Acquaviva.

[2] Dorotea Acquaviva d’Aragona (7/1/1666? – † 3/12/1714) era figlia di Giosia (1631-1679) e Francesca Caracciolo (1646-1715) unitisi in matrimonio nel 1662. Nel 1686 sposò Giulio Antonio Acquaviva d’Aragona.

[3] L. ANTONAZZO, La saga dei d’Amore – Marchesi di Ugento, Principi di Ruffano, Marchesi di S. Mango, Congedo Editore, Galatina 2011.

[4] Giulio Antonio era figlio di Cosimo († a Ostuni il 6/7/1665 in un duello contro Petraccone Caracciolo, duca di Martina) e Maria Caterina de Capua (29/5/1626 – † 2/2/1691). Nel 1690, essendo scoppiata la peste a Conversano, cercò riparo a Napoli. Venne posto in quarantena nell’isola di Nisida dove morì.

[5] Donna Maria Caterina de Capua era figlia di Giovanni Fabrizio (1604-1645) principe della Riccia e di Margherita Ruffo (26/6/1607- ?) dei conti di Sinopoli.

[6]Don Bartolomeo era fratello minore di Donna Maria Caterina e fu lui a dotarla quando si sposò nel 1646, un anno dopo la morte del padre. Nei capitoli matrimoniali egli assegnò alla sorella 50.000 ducati, 10.000 dei quali “dovevano provenire dal Monte dei Giunti”, fondato nel 1585 da venticinque famiglie nobile napoletane (De Capua, Pignatelli, Caetani d’Aragona, ecc.) al fine di fornire di dote le figlie degli stessi fondatori e dei loro discendenti maschi. Per i restanti 40.000 ducati si impegnò a versarle fino alla loro liquidazione 2.300 ducati l’anno e per quelli la tenuta del feudo di Nicotera. [V.: G. SODANO, Da baroni del Regno a Grandi di Spagna – Gli Acquaviva d’Atri: vita aristocratica e ambizioni politiche (secoli XV-XVIII)], Alfredo Guida Editore, Napoli 2012, pp. 157-158.

[7] I feudi di Alliste e Felline, coi suffeudi di Tariano, Verito e Sinisgallo furono apprezzati nel 1665 dal Regio Tavolario Pietro Apuzzo (o d’Apuzzo). Nella sentenza n. 90 del 18 luglio 1810 emanata dalla Commissione Feudale si trova che lo stesso Tavolario per Alliste e Felline aveva redatto altri due apprezzi, rispettivamente il 24 agosto 1661 e l’11 luglio 1663 (v.: Commissione feudale, Napoli 1810, p. 682).

[8] Si trattava di Giovan Battista di Capua, figlio di Francesco Antonio (1619-1676) e Anna di Capua (1620-1686) e marito di Beatrice Muscettola.

[9] Don Felice Basurto (1653-ca. 1727) era nipote di Alfonso e figlio di Francesco e di Antonia Beltrano dei duchi di Mesagne. Sposò Candida Brancaccio figlia di Carlo, principe di Ruffano, e Teresa d’Amore (zia di Don Nicola d’Amore) e risulta che nel 1691, dopo un lungo processo, gli venne riconosciuta la titolarità su una quota del feudo di Alliste. Non si conoscono i termini di questo processo, ma in questo documento del notaio Biagio Domenico de Conciliis è precisato che il suo credito era stato riconosciuto dai balii e tutori di Don Giulio Cesare jr. con atto del notaio Aversana di Napoli. Per quanto concerne il pagamento da farsi in favore di Don Felice Basurto, verosimilmente vi fu una compensazione col credito che Don Nicola vantava verso lo stesso duca, come risulta da un atto del notaio Francesco Carida di Ugento del 30 aprile 1704. In questo atto Donna Candida Brancaccio afferma che quando nel 1694 (leggi 1695) il marito Don Felice acquistò sub asta il feudo di Racale per ducati 53.390,9 utilizzò i 20.000 ducati che gli erano stati dati a mutuo al 4% nel 1692 da Don Nicola nel d’Amore con atto del notaio Biagio Domenico de Conciliis.

[10] Da accapare = condurre a termine, conseguire.

[11] L’atto di acquisto fu stipulato con Don Bartolomeo sr. il 6 novembre 1693 presso il notaio Biagio de Conciliis di Napoli.

[12] L’atto di vendita (fittizio) tra Don Giovanni Battista e Don Nicola fu stipulato il 9 maggio 1699 (v.: L. ANTONAZZO, La saga dei d’Amore …, cit. p. 46).

[13] Per l’addietro.

[14] Semplice. Quando nella successione nel feudo non si provvedeva a pagare il dovuto relevio, dal Regio Fisco veniva spedita lettera di significatoria con la quale si imponeva al nuovo titolare del feudo di pagare a breve quanto dovuto sotto pena di essere costretto a pagare il doppio.

[15] Agli eredi Barra fu riconosciuto un credito verso Don Nicola di ducati 1.350, somma che Donna Camilla pagò mediante un censo acceso con tale Don Luciano Silverio (v.: ARCHIVIO di STATO DI LECCE, Scritture delle Università e feudi (poi Comuni) di Terra d’Otranto – Alliste, fascc. 4/1 [1735]), 4/2 [1736]).

[16] Don Pietro Giacomo aveva fondato un fedecommesso primogeniale stabilendo che le sue sostanze (ascendenti a ca. 150.000 ducati) dovessero essere investite per 20 anni in acquisto di altre entrate e che dopo tale periodo al moltiplico così prodotto dovessero subentrare i suoi discendenti maschi, di primogenito in primogenito. In caso di mancanza di discendenza per linea maschile della linea del suo erede primogenito Don Carlo (1o marchese di Ugento) dovessero subentrare i primogeniti maschi della linea collaterale. Solo in caso di assoluta mancanza di discendenti maschi dispose che subentrassero le femmine. L’interruzione della linea maschile dell’erede si ebbe proprio con Don Giuseppe che procreò e gli sopravvissero due figlie.

[17] Fu nominata anche curatrice e balia della figlia Elena nata postuma al padre e che divenne monaca col nome di suor Vittoria nel convento dei Santi Pietro e Sebastiano di Napoli.

[18] ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI, Processi antichi, Pandetta corrente n. 5217, vol. XVI, fasc.926, Post compromissum patrimonij Ill. Marchionis Uxenti, cc. 28v-29r.

[19] Nel laudo Donna Camilla era stata riconosciuta erede del padre, ma per entrare in possesso del feudo di Ugento avrebbe dovuto risarcire il figlio pagandogli oltre 57.000 ducati, cosa che non fu in grado di fare per cui Ugento rimase in testa a Don Domenico.

[20] E. RICCA, La nobiltà delle due Sicilie, Napoli 1869, vol. IV, parte prima, pp. 354-355.

[21] ASLe, Sez. Not., not. G. V. Arnò, 105/8, Taviano 30 dicembre 1783.

[22] ASLe, Sez. Not., not. P. Cerrito, 107/3, Torrepaduli 2 gennaio 1777.

A volte tornano, pure le testuggini

di Armando Polito

Meglio loro che un Hitler o un altro simile umano (solo la nostra razza lo sa fare …). Il lettore già col titolo si starà chiedendo se si trova di fronte ad un giornalista extrapazzo o da strapazzo, ma io, parafrasando l’immenso Totò (per i giovani e per i non ancora anziani

(https://www.youtube.com/watch?v=MuaJdM5JKzs), che sono, un giornalista? E allora, in attesa di altre bordate, proseguo. Le testuggini, anzi la testuggine di cui sopra è quella della quale mi sono occupato su questo blog; consiglio per chi continua a pensare che stia farneticando: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/15/melpignano-due-epigrafi-del-palazzo-marchesale/.

Partita da Melpignano, or sono più  di due anni, e approdata grazie alle vele di questo blog in quel di Ferrara, in Salento  è tornata, arricchita come solo le esperienze, stavo per dire le avventure, culturali consentono, sotto forma di un pdf a firma di Micaela Torboli, dal titolo La formica e la testuggine. L’epigrafe di casa Achille Pozzati di Via della Ghiara a Ferrara, un saggio pubblicato in Atti e memorie della Deputazione provinciale ferrarese di storia patria,  serie V, volume I, Baraldini edizioni e stampe, Finale Emilia, 2021, pp. 99-150. Sarei un ipocrita se non dicessi che l’apprezzamento per qualche mia modesta fatica mi fa piacere (e in questo sono ancora nella razza umana …), ma certamente sono sincero quando dico che mi fanno più piacere le eventuali, tutt’altro che improbabili, critiche negative (e, mi si creda o no, in questo comincio a collocarmi al di fuori di quella razza …). Sorvolo, perciò, sulle locuzioni gratificanti contenute nel saggio e mi soffermo sull’unico appunto che mi si muove, cioè la mancata indicazione del luogo di ubicazione di un manoscritto, riguardo al quale mi si rimprovera pure di non averne sottolineato la rilevanza. Prendo atto della lacuna nella quale sono incorso nonostante il mio rigore quasi maniacale, quanto meno  nella citazione della fonte quando non sia stato possibile fornire alcuna immagine o controllare de visu il manufatto; in questo caso c’è l’aggravante che un manoscritto esattamente con lo stesso nome Palatino 147 (coincidenza quasi incredibile) è custodito nella Biblioteca Vaticana.  Ho già provveduto  alla quanto mai opportuna integrazione, con un doveroso richiamo in nota e  ora intendo disobbligarmi forse contando un po’ troppo nelle mie reali o presunte competenze di cultura classica e in partticolar modo di filologia e, per scendere ancor più in dettaglio, in metrica.

L’autrice nel suo saggio manifesta più volte il dubbio, per non dire la certezza, del rimaneggiamento del supporto, il che avrebbe indotto anche una lacuna nella parte iniziale dell’epigrafe ferrarese.

Di seguito  come essa si presenta nella sua trascrizione, che ho tratto in formato grafico dal documento originale.

Subito dopo l’autrice aggiunge: Questa trascrizione riprende quasi esattamente lo stato grafico del testo, impaginato su due linee.  Esso fa comprendere che la lastra è mutila, perché la linea superiore manca di un verbo iniziale, chiave, come vedremo, per chiarire il senso della frase, e che doveva sporgere sulla sinistra, rendendo armonica la distribuzione delle lettere capitali nello specchio, così:  

Posso assicurare, per quanto mi compete (sul supporto nulla posso dire,  non avendolo, fra l’altro, visionato), che l’iscrizione in sé è assolutamente integra e mi accingo a dimostrarlo,  chiedendo scusa ai meno (cioè ai cosiddetti addetti ai lavori) per rendere fruibile quanto dirò ai meno (ahimè, sempre meno …) disposti a non perdere neppure un po’ del loro tempo per seguire le ultime vicende di questo o quel presunto artista del momento  piuttosto che argomenti come questi. Non confido, comunque, nelle mie capacità divulgative, che, almeno teoricamente, avrei dovuto possedere in partenza e, se non ottuso, affinare proprio grazie al mio mestiere (ricordo che la parola è, tramite il francese, dal latino ministerium=ufficio, incarico,  servizio; e quello dell’insegnante dovrebbe essere, soprattutto, un servizio …).

Intanto la trascrivo con l’emendamento di perambulat (presente indicativo) con perambulet  (presente congiuntivo), non solo perché tale modo esprime la potenzialità solo augurale, purtroppo, delle due azioni, per giunta rese ancora più problematiche dallo scambio dell’habitat naturale (terra/mare) dei due animali  (la congiunzione donec regge, invece, l’indicativo quando si riferisce ad un atto già compiuto o suscettibile di compimento nel futuro), ma anche perché la congiunzione et, che è una coordinante, sarebbe una pessima coordinatrice di una coppia sgangherata quale sarebbe quella formata da due proposizioni, la prima col verbo al congiuntivo, la seconda all’indicativo. Un esame più accurato del manufatto dovrebbe confermare l’emendamento, anche se è sempre in agguato l’errore dell’esecutore, non certo del committente o di chi, per lui, ha fornito il testo da incidere o, se si tratta di un’inscriptio picta, da dipingere.

Haec  domus hic donec fluctus formica marinos

ebibat et totum testudo perambulet orbem

Tuttavia, lo scambio perambulat/perambulet non inciderebbe minimamente, come s’intuisce, sul problema dell’ipotizzata mutilazione  del testo, ipotesi basata su motivi puramente estetici (armonica la distribuzione delle lettere), e di una conseguente  difficoltà di comprendere il senso.

Dirimente, invece, è l’esame metrico; di seguito la scansione.

I due esametri, anche il primo sospettato di essere rimasto vittima di un incidente, mostrano una struttura perfetta, che non lascia alcuna possibilità dell’intrufolamento di STET, perché, almeno fino ad ora, non ho incontrato un solo esametro con un piede mostruoso fatto di quattro sillabe (STET HAEC DOMUS).

– Va bene ! – mi si dirà.  – E col senso, come la mettiamo? Difficile, no? -.  La risposta è – Facile! – e si trova proprio nella parte finale delle due battute, in quel verbo che, paradossalmente, esprime la presenza, l’esistenza, l’essenza, ma che non solo in italiano spesso, senza che ce rendiamo conto, è sottinteso.

Per farla breve: all’inizio dell’epigrafe è sottinteso SIT (sia, esista, resti in piedi), la cui presenza, sarebbe stata certamente plausibile dal punto di vista semantico (da qui lo STET di altre epigrafi in esametri col testo più o meno simile, riportate dall’autrice e che, se trascritte correttamente, mostrerebbero anche loro una struttura perfetta.

Pertanto la traduzione letterale dell’epigrafe suona così:

Sia questa casa qui finché i flutti marini la formica

berrà e la testuggine farà il giro di tutta la terra

Resto a disposizione per ogni ulteriore chiarimento ed esprimo la mia gratitudine perché una delle piccole onde generate da un sassolino gettato in mare è giunta a felice destinazione o, per tornare al titolo,  una piccola testuggine, dopo essere diventata adulta, è tornata a farmi visita …

Dialetti salentini: caissa e bancillera, due probabili, per quanto insospettabili, citazioni dotte? *

di Armando Polito

*Questo post sostituisce quello pubblicato per un equivoco nella stesura provvisoria il 17 u. s.    

Succede, quando meno te lo aspetti, che nella memoria riaffiori il ricordo di un evento, di una persona, di una parola, anzi di due, come nel nostro caso. Nel corso di una piacevolissima conversazione tele un amico (non dico il nome ma, leggendomi, lui capirà …), dopo che gli avevo chiesto conferma sull’uso di peu  nel dialetto di Nardò prima di redigere la scheda relativa con l’intento di farla uscire su questo blog1, ha sottoposto alla mia attenzione caissa (vocabolo che già mi era noto per averlo sentito dalla  bocca di mia madre, ma del cui significato, certamente dispregiativo, non ero in  grado di individuare i riferimenti specifici, se non un generico indizio di cattiveria dedotto dal contesto) e, subito dopo bancillera (lì per lì avevo capito bacciollera, ma la forma corretta è emersa dopo qualche giorno nel corso di un’altra telefonata), sentito, sempre con valenza dispregiativa e nel nesso caissa e bancillera, da sua nonna

Nell’affrontare un problema che non richieda una soluzione rapida e, direi, istintiva, ciascuno di noi segue, o dovrebbe seguire, una procedura articolata in due fasi. La prima, che vuol mettere alla prova la nostra competenza, reale o presunta, consiste nel formulare una o più ipotesi di lavoro, mettendosi subito dopo alla ricerca di prove corroboranti. La seconda, che può portare, a seconda degli esiti, la soddisfazione di una conferma o della certezza della propria integrazione o, addirittura, correzione,  oppure la frustrazione per non esserci arrivato, consiste nel conoscere come il problema è stato trattato da chi se ne è occupato prima di noi. Non si sottrae certamente a tutto questo la filologia e, in particolare, Individuare l’etimo di una parola del cui significato si ha una conoscenza sfumata, nel nostro caso pure troppo, è sempre impresa non facile ma intrigante, soprattutto quando si giunge alla seconda delle due fasi prima descritte.

Alla prima di esse si riferiscono le due schede che seguono (quella relativa a bancillera è nella forma originaria, redatta quando ancora era baccillera).

CAISSA è l’invenzione di William Jones, filologo inglese del XVIII secolo (Londra, 28 settembre 1746 – Calcutta, 27 aprile 1794) particolarmente interessato alle  lingue orientali, tra i primi studiosi del sanscrito e da considerare come il precursore dell’indoeuropeistica.

Spesso menti simili passano con disinvoltura dal rigore alla sfrenatezza, com’è naturale che succeda quando dalla scienza si passa alla fantasia. Frutto della fantasia, appunto, è Caissa, una driade (divinità boschereccia) che testardamente respinge Marte, invaghitosi di lei, ma che alla fine cede, conquistata da un  gioco che il dio della guerra, su suggerimento di un’altra driade, le ha regalato. Tutto questo in un poemetto intitolato, appunto, Caissa, composto quando aveva solo diciassette anni ma pubblicato insieme con altri poemetti in Poems, Consisting Chiefly of Translations from the Asiatick, Clearend-Press, Oxford, 1772 (di seguito il frontespizio del volume e il titolo del poemetto).

Il gioco è quello degli scacchi; e qui i conti tornano, nel senso che s’incontrano il letterato con la creazione di una nuova favola mitologica, l’orientalista che conosce bene l’origine orientale del gioco e che al gioco di parola non sa rinunciare, dando con Caissa un alone foneticamente classico a chess, la parola inglese corrispondente al nostro scacchi.

Va, comunque, detto che l’inglese era stato preceduto due secoli prima dall’italiano Marco Gerolamo Vida nel 1525 con il suo Scacchi ludus, in cui celebra in esametri una memorabile partita giocata tra Apollo e Mercurio, arbitrata da Giove e con le più importanti  divinità come spettatori, non all’Olimpico … ma sull’Olimpo.

L’opera del Vida fu tradotta in inglese e pubblicata nel 1750  (di seguito il frontespizio).

 

Può darsi che sia stata questa pubblicazione (con  il testo originale più che con la traduzione annessa, visto lo spessore del filologo) ad ispirare il Jones, come, d’altra parte, dichiarato espressamente nell’advertissement che precede tutte le edizioni, a partire dalla prima2.

Fatto sta che grazie al filologo inglese Caissa sarà celebrata come la dea degli scacchi. Una bufala mi pare la presunta Caissa che sarebbe stata dipinta dal bolognese Domenico Maria Fratta, la cui riproduzione circola in rete e che di seguito riporto.3

 

Ma, per tornare a noi,  quale sottile legame legherebbe Caissa a caissa? Intanto va detto che la voce dialettale è usata sempre antonomasticamente, cioè non come aggettivo, ma preceduta dall’articolo (queddha gggh’è nna caissa=quella è una donna prepotente, e non  queddha ggh’è caissa=quella è prepotente). Proprio l’uso antonomastico rende plausibile che un personaggio capace di tener testa, almeno fino ad un  certo punto, al dio della guerra ben appaia come un modello di donna forte, decisa e, per traslato amplificato, prepotente e, magari, pure cattiva; senza contare che contro uno scacchista è difficile misurarsi anche per uno esperto, figurarsi contro la dea degli scacchi!

 

BANCILLERA

Non mi pare un  caso che compaia, come riportato all’inizio, in coppia con caissa. Credo che questa volta la valenza metaforica non sia quella dell’antonomasia, ma di un sarcasmo, per così dire, doppio. Credo che la voce abbia il suo esatto corrispondente nell’italiano baccelliere, usato, però al femminile. Quello di baccelliere era un titolo di studio corrispondente alla licenza di scuola media superiore. Nel nostro caso  sta scherzosamente (tanto più per una donna che in passato era costretta a vivere in un clima talebano ante litteram, per cui il titolo di studio non  era nemmeno immaginabile) per sapientona, saccente ed un  tipo così non è certamente indenne dall’essere contemporaneamente anche prepotente, cioè caissa.

Mi muovo da solo un’obiezione, prima che altri lo facciano: com’è possibile che due voci di origine dotta (soprattutto la prima, legata, fra l’altro, ad un gioco tutt’altro che popolare) abbiano allignato nell’uso popolare? Non sarebbe l’unico esempio, e certamente non sarà l’ultimo, a patto che ci sia pure un pizzico di fortuna a sancire anche tra il popolo il successo di una parola, per così dire, di alto lignaggio.

Fin qui la prima fase, con esiti sottesi, come è bene che sia sempre, dal dubbio.

Nella seconda in questo tipo di indagine punto obbligato di partenza è il Rohlfs. Nel nostro caso, però, nessuna delle due parole è registrata nel suo vocabolario sui dialetti salentini.

Nel volume del maestro tedesco caissa e bancillera non sono le uniche voci in uso, magari ancora oggi, a Nardò che risultano assenti, il che, tuttavia, non è da ascrivere come colpa al grande studioso tedesco ma alle lacune dei suoi informatori locali. Mi chiedo sempre cosa ci avrebbe lasciato se ai suoi tempi avesse potuto fruire delle nuove tecnologie e in particolare della rete e delle immense possibilità offerte dai motori di ricerca. Ed è proprio grazie alla rete (e dopo aver appreso che baccillera era in realtà bancillera) che ho potuto apprendere che dell’etimo di queste due voci si era già occupato alla fine del XIX secolo un mio concittadino, cioè Luigi Maria Personè, i cui contributi dal titolo Etimologie neritine vennero ospitati alla fine del XVIII secolo nel quindicinale napoletano Gaiambattista Basile  (anno VI, n. 11, Napoli, 15 novembre 1889, p. 87; anno VII, n. 3, Napoli, 15 marzo 1889, p. 17; anno VII, n. 6, Napoli, 15 giugno 1889, p. 46; anno VII, n.11, Napoli,1 ottobre 1889, p. 87).

Come ho detto, i due vocaboli sono assenti nel Rohlfs nonostante il Personè sia citato nella bibliografia (di seguito il dettaglio).

Mi fa venire il sospetto che il Rohlfs non abbia mai letto il contenuto di questo dato bibliografico (probabilmente passatogli da qualcuno poco avvezzo alla precisione) il fatto che nel numero del Giambattista Basile riportato non appare nessun contributo del meritino, che, invece, collaborò con il quindicinale napoletano dal 1888 al 1889 per un totale non di 15 ma di ben 56 vocaboli, come documenterò in un prossimo lavoro.

Nel secondo tra i contributo del Personè che ho sopra citato compaiono, insieme con altre, pure le due voci che ci interessano e che di seguito riproduco.

Come chiunque può notare, non tutto il male vien per nuocere, perché senza il mio fraintendimento di bancillera con baccillera molto probabilmente non sarei approdato alla soluzione della scheda precedente, anche se mi son perso l’intermediario spagnolo, che oggi è bachillera con la seguenti definizioni tratte dal dizionario della Real Academia Española:

1 Persona que ha cursado o está cursando los estudios de enseñanza secundaria. (Persona che ha frequentato o cvhe sta frequentando gli studi di scuola secondaria)

Persona que había recibido el primer grado académico que se otorgaba a los estudiantes de una facultad universitaria (Persona che abbia conseguito il primo grado accademico che si rilasciava agli studenti di una facoltà universitaria)

Persona que habla mucho e impertinentemente (Persona che parla molto impertinentemente)

desusado Persona instruida, experta. Era u. t. c. adj. Era u. t. en sent. despect. (obsoleto Persona istruita, esperta. Era usato solo come aggettivo. Era usato solo in senso dispregiativo)

Credo che il n. 4 sia proprio la pietra tombale per qualsiasi dubbio relativo a bancillera, che non sia la trafila seguita: dalla voce spagnola indicata  con geminazione di –c– e successiva dissimilazione (bacillera>*bacciller>bancillera) , oppure direttamente (senza la geminazione di –c– ma con la stessa dissimilazione) dall’italiano baccelliera?

La pietra, invece, resta sullo stomaco per caissa. Il Personè cita il Facciolati, che a sua volta cita Festo, il quale nomina Lucilio. è quasi inevitabile in questa catena che l’affidabilità dell’informazione ne risenta, anche perché manca un anello. Ecco la catena con tutte le sue maglie (ho sottolineato quella mancante): Facciolati ( XVII-XVIII secolol)<Paolo Diacono (VIII secolo)<Festo (II secolo d. C.)<Lucilio (II secolo a. C.). Per quanto può essere utile, traduco le parole di Festo tramandate da Paolo Diacono: Carissa presso Lucilio  significa scaltro. Rispetto a Festo, poi, il Facciolati rincara la dose: Carissa, ruffiana scaltra e arguta. E sulla Carissa di Lucilio i letterati medioevali si sbizzarrirono. Basti come esempio Uguccione da Pisa (XII-XIII  secolo), che nelle Derivationes (riporto il testo dall’editio princeps a cura di Enzo Cecchini e di Guido Arbizzoni, Sismel-Edizioni del Galluzzo, Firenze, 2004) al lemma careo (=mancare) così scrive:

Item a careo hoc carenum -ni, idest mustum, quia fervendo careat parte; tertia enim parte musti amissa, quod remanet carenum est, cui contraria est sapa, que fervendo ad tertiam partern redacta descendit; et carino -as verbum neutrum, idest arguere vel conviciari vel illudere, unde hic carinator idest conviciator et maledicus, et hec carisia -e idest lena vetus et litigiosa vel potius dicitur a careo, unde et fallaces ancille carisie dicuntur, quia veritate carentt. (Parimenti da careo questo careno, cioè il mosto, poiché fervendo viene a mancare di una parte; infatti, persa la terza parte del mosto, quello che rimane è il careno, al quale si contrappone la sapa, che, ridotta fervendo alla terza parte, discende; e  carino/carinas, parola neutra, cioè significa accusare o insultare o prendersi gioco, donde questo carinatore, cioè oltraggiatore e maldicente  e questa carisia/carisiae, cioè ruffiana vecchia e litigiosa o piuttosto è detta da careo, donde anche le ancelle che raccontano falsità sono dette carisie, poiché mancano di sincerità)

Perchè carissa (o carisia) possa essere considerata  madre di caissa, bisognerebbe spiegare la caduta di –r– suffragata da almeno una voce in cui tale fenomeno si sia verificato, come caterve di esempi si possono, invece, addurre per la caduta di –v–  (anche quando nasce da un originario –p-, come in capezza>cavezza già in italiano; il salentino ha capezza, ma la variante caezza fa capire l’azione di cavezza.

Sulla scorta di quanto appena documentato potrei anch’io lanciarmi senza paracadute e ipotizzare che caissa sia ciò che rimane di un originario *capessa, femminile di capo, attraverso un *cavessa>*cavissa; non so, comunque, se questa conclusione etimologica sarebbe gradita o meno dalle femministe …

Quanto al χάσσα (leggi chasssa) che il Personè sembra fornire come dato proprio, i controlli effettuati hanno rilevato l’assenza di questa voce nel greco classico, in quello bizantino e in quello moderno.

Per aggiornare il quadro a tempi a noi più vicini aggiungo che caissa (non bancillerra) è registrato in Enrico Ciarfera-Mario Mennonna, Il Volgare Neritino, Congedo, Galatina, 2020, col significato specifico di donna prepotente, ma con una proposta etimologica, peraltro formulata senza l’aggiunta di un forse o di un probabilmente[i], che per nulla convince: [dal greco kaké-kakè: cattiveria] donna cattiva; donna oppressiva.4

Un’ipotesi etimologica, infatti, per essere plausibile deve manifestare congruità sul piano fonetico (sempre soggetto alle insidie di calchi, ricalchi, incroci, assonanze e consonanze) e su quello semantico (sempre soggetto a slittamenti metaforici talora non prevedibili e non chiari). La proposta citata soddisfa la seconda condizione ma è lontana anni luce dalla soddisfazione della prima, col risultato che la fonetica appare arbitrariamente e maldestramente asservita alla semantica.5

Siamo giunti alla fine di questo lungo viaggio, le cui tappe, almeno per caissa, non hanno dato un esito definitivamente convincente. In fondo andare alla caccia di un etimo significa immettersi sull’autostrada del tempo, la quale è piena di rettilinei ingannevoli, curve pericolose, svincoli che spesso confondono e costringono a tornare indietro, con una segnaletica sbiadita e, comunque, di interpretazione non sempre immediata. Io con un pizzico d’incoscienza ho imboccato quest’autostrada e, pur avendo pagato il pedaggio,  sto per essere fermato da una pattuglia che certamente mi chiederà anzitutto di esibire una patente che io non ho. Ma, siccome in questo sono presuntuosamente recidivo e non ho nulla da perdere, nemmeno, come ho detto, la patente, la storia potrebbe non finire qui …

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/02/13/dialetti-salentini-peu-e-bbunatu/

2 Alla prima, già citata, del 1772 seguirono quelle del 1774 (Richter, Altenburg) e del 1777 (W. Bowiee & J. Nichols, Londra) e altre nel secolo successivo.

Suscita quanto meno sospetti prima di tutto il fatto che non è mai citata la fonte, né è fatto, almeno, riferimento , magari solo generico, ad una collezione, pubblica o privata che sia. E, poi, il Fratta morì nel 1763, cioè proprio nell’anno in cui il Jones scriveva Caissa: come faceva a conoscere un’opera che sarebbe sta pubblicata dopo 9 anni?

4 Ad essere precisi: in greco κακήκακῆς (leggi kakèkakès) sono il nominativo e il genitivo del femminile dell’aggettivo κακός/κακή/κακόν, che significa cattivo; non esiste un κακήκακῆς sostantivo.

5 Collegare, come mi sembra sia stato fatto, l’-ss– di caissa con il sigma (-ς-) del genitivo κακῆς è un’operazione assolutamente improponibile.

 

Libri| Vicende dei Vanini di Taurisano tra XVI e XVIII secolo

 

di Luciano Antonazzo

 

dalla presentazione del libro

In queste pagine si espone quanto attraverso i documenti si è riusciti a conoscere delle vicende esistenziali ed economiche dei Vanini di Taurisano. Del capostipite Giovanni Battista si riportano sommariamente gli atti notarili finora rinvenuti e pubblicati, mentre del figlio Giulio Cesare[1], accanto a quelle note riferite dagli studiosi, si riportano alcune notizie desunte da documenti inediti che gettano un raggio di luce sulla sua nebulosa biografia, come l’anno effettivo del conseguimento del dottorato o quello del suo ingresso in convento. Ancora attraverso documenti inediti viene delineato un profilo biografico dello zio don Gabriele e del padre carmelitano Bartolomeo Argotti, personaggi che ebbero un ruolo determinante nella vicenda esistenziale di Giulio Cesare.

Più estesamente si parlerà delle vicissitudini di Alessandro Vanini, fratello minore del filosofo, e della sua discendenza. Viene per questi qui organicamente riproposto ed approfondito, con l’aggiunta di altri documenti, quanto ho scritto in diverse occasioni su «Presenza Taurisanese» tra il 2016 e il 2017[2], con l’intento di contribuire a meglio inquadrare e contestualizzare le vicende della famiglia Vanini nella vita economica e sociale di Taurisano tra la fine del XVI e il XVIII secolo.

Un ringraziamento va a Salvatore Antonio Rocca che mi ha messo a disposizione dei testi e consultato, per mio conto, i registri parrocchiali di Torre Paduli, permettendomi di completare la genealogia dei Vanini.

 

 

[1]Sulla cui figura e dell’importanza che in campo filosofico rappresenta hanno scritto valenti studiosi di livello internazionale tra i quali, per limitarsi ai conterranei, sono da annoverare Luigi Corvaglia, Giovanni Papuli, Antonio Corsano, F. P. Raimondi, F. De Paola e M. Carparelli.

[2] In questa circostanza mi sono avvalso anche dei documenti riportati (non integralmente) dal prof. Giovanni Cosi nel suo saggio Nuova serie di documenti vaninani in «Bollettino di Storia della Filosofia dell’Università di Lecce», vol. VII, anno 1979 (ed. Milella, Lecce 1983), e di quelli dallo stesso citati in due articoli su “Presenza Taurisanese” del marzo 1985 e dell’aprile 1999, scritti a compendio e parziale rettifica del suddetto saggio.  

Dialetti salentini: caissa e baccillera, due probabili, per quanto insospettabili, citazioni dotte?

di Armando Polito

Succede, quando meno te lo aspetti, che nella memoria riaffiori il ricordo di un evento, di una persona, di una parola, anzi di due, come nel nostro caso. Nel corso di una piacevolissima conversazione telefonica un amico (non dico il nome ma, leggendomi, lui capirà …), dopo che gli avevo chiesto conferma sull’uso di peu nel dialetto di Nardò prima di redigere la scheda relativa1 con l’intento di farla uscire su questo blog1, ha sottoposto alla mia attenzione caissa (vocabolo che gia mi era noto per averlo sentito dalla  bocca di mia madre, ma del cui significato, certamente dispregiativo, non ero in  grado individuare i riferimenti specifici, se non una generico indizione di cattiveria dedotto dal contesto) e, subito dopo baccillera (sentito, sempre con valenza dispregiativa e nel nesso caissa e baccillera, da sua nonna.

Individuare l’etimo di una parola del cui significato si ha una conoscenza sfumata, nel nostro caso pure troppo, è sempre impresa non facile ma intrigante, soprattutto quando altri non se ne sono occupati, primo fra tutti il Rohlfs, nel cui vocabolario sui dialetti salentini mancano non poche parole ancora oggi usate a Nardò, il che certamente non è da ascrivere come colpa al grande studioso tedesco ma alle lacune dei suoi informatori locali. Mi pare doveroso aggiungere, però, a conferma del dato per Nardò, che caissa (non baccillerra) è registrato in Enrico Ciarfera-Mario Mennonna, Il Volgare Neritino, Congedo, Galatina, 2020, col significato specifico di donna prepotente, ma con una proposta etimologica, peraltro formulata senza l’aggiunta di un forse o di un probabilmente2, che per nulla convince: [dal greco kaké-kakè: cattiveria]] donna cattiva; donna oppressiva.3

Un’ipotesi etimologica, infatti, per essere plausibile deve manifestare congruità sul piano fonetico (sempre soggetto alle insidie di calchi, ricalchi, incroci, assonanze e consonanze) e su quello semantico (sempre soggetto a slittamenti metaforici talora non prevedibili e non chiari). La proposta citata soddisfa la seconda condizione ma è lontana anni luce dalla soddisfazione della prima, col risultato che la fonetica appare arbitrariamente e maldestramente asservita alla semantica.

Di seguito le conclusioni alle quali sono giunto.

CAISSA è l’invenzione di William Jones, filologo inglese del XVIII secolo (Londra, 28 settembre 1746 – Calcutta, 27 aprile 1794) particolarmente interessato alle  lingue orientali, tra i primi studiosi del sanscrito e da considerare come il precursore dell’indoeuropeistica.

Spesso menti simili passano con disinvoltura dal rigore alla sfrenatezza, com’è naturale che succeda quando dalla scienza si passa alla fantasia. Frutto della fantasia, appunto, è Caissa, una driade (divinità boschereccia) che testardamente respinse Marte, invaghitosi di lei, ma che alla fine cede conquistata da un  gioco che il dio della guerra, su suggerimento di un’altra driade, le ha regalato. Tutto questo in un poemetto intitolato, appunto, Caissa, composto quando aveva solo diciassette anni ma pubblicato insieme con altri poemetti in Poems, Consisting Chiefly of Translations from the Asiatick, Clearend-Press, Oxford, 1772 (di seguito il frontespizio del volume e il titolo del poemetto).

Il gioco è quello degli scacchi; e qui i conti tornano, nel senso che s’incontrano il letterato con la creazione di una nuova favola mitologica, l’orientalista che conosce bene l’origine orientale del gioco e che al gioco di parola non sa rinunciare dando con Caissa un alone foneticamente classico a chess, la parola inglese corrispondente al nostro scacchi.

Va, comunque, detto che l’inglese era stato preceduto due secoli prima dall’italiano Marco Gerolamo Vida nel 1525 con il suo Scacchi ludus, in cui celebra in esametri una memorabile partita giocata tra Apollo e Mercurio, arbitrata da Giove e con le più importanti  divinità come spettatori, non all’Olimpico … ma sull’Olimpo.

L’opera del Vida fu tradotta in inglese e pubblicata nel 1750  (di seguito il frontespizio).

Può darsi che sia stata questa pubblicazione (con  il testo originale più che con la traduzione annessa, visto lo spessore del filologo) ad ispirare il Jones, come, d’altra parte, dichiarato espressamente nell’advertissement che precede tutte le edizioni, a patire dalla prima5.

Fatto sta che grazie al filologo inglese Caissa sarà celebrata come la dea degli scacchi. Una bufala mi pare la presunta Caissa che sarebbe stata dipinta dal bolognese Domenico Maria Fratta, la cui riproduzione circola in rete e che di seguito riporto.6

Ma, per tornare a noi,  quale sottile legame legherebbe Caissa a caissa? Intanto va detto che la voce dialettale è usata sempre antonomasticamente, cioè non come aggettivo, ma preceduta dall’artiicolo (queddha ggh’è nna caissa=quella è una donna prepotente, e non  queddha gghìè caissa=quella è prepotente). Proprio l’uso antonomastico rende plausibile che un personaggio capace di tener testa, almeno fino ad un  certo punto, al dio della guerra ben appaia come un modello di donna forte, decisa e, per traslato amplificato, prepotente e, magari, pure cattiva; senza contare che contro uno scacchista è difficile misurarsi anche per uno esperto, figurarsi contro la dea degli scacchi!

 

BACCILLERA

Non mi pare un  caso che compaia, come riportato all’inizio, in coppia con caissa. Credo che questa volta la valenza metaforica non sia quella dell’antonomasia, ma di un sarcasmo, per così dire, doppio. sarcasmo de che la voce abbia il suo esatto corrispondente nell’italiano baccelliere usato, però al femminile. Quello di baccelliere era un titolo di studio corrispondente alla licenza di scuola media superiore. Nel nostro caso  sta scherzosamente (tanto più per una donna che in passato era costretta a vivere in un clima talebano ante litteram, per cui il titolo di studio non  era nemmeno immaginabile) per sapientona, saccente ed un  tipo così non è certamente indenne dall’essere contemporaneamente anche prepotente, cioè caissa.

Mi muovo da solo un’obiezione, prima che altri lop facciano: com’è possibile che due voci di origine dotta (soprattutto la prima, legata, fra l’altro, ad un gioco tutt’altro che popolare) abbiano allignato nell’uso popolare? Non sarebbe l’unico esempio, e certamente non sarà l’ultimo, a patto che ci sia pure un pizzico di fortuna a sancire anche tra il popolo il successo di una parola, per così dire, di alto lignaggio.-

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/02/13/dialetti-salentini-peu-e-bbunatu/

2 Sono profondamente convinto, ma non è detto che abbia ragione, che la vera conoscenza si basa sul dubbio ricorrente,  anche perché ciò che appare certo può non corrispondere al varo.

3 Ad essere precisi: in greco κακήκακῆς (leggi kakèkakès) sono il nominativo e il genitivo del femminile dell’aggettivo κακός/κακή/κακόν, che significa cattivo; non esiste un κακήκακῆς sostantivo.

4 Collegare, come mi sembra sia stato fatto, l’-ss– di caissa con il sigma (-ς-) del genitivo κακῆς è un’operazione assolutamente improponibile.

5 Alla prima, già citata, del 1772 seguirono quelle del 1774 (Richter, Altenburg) e del 1777 (W. Bowiee & J. Nichols, Londra) e altre nel secolo successivo.

6  Suscita quanto meno sospetti prima di tutto il fatto che non è mai citata la fonte, né è fatto, almeno, riferimento , magari solo generico, ad una collezione, pubblica o privata che sia. E, poi, il Fratta morì nel 1763, cioè proprio nell’anno in cui il Jones scriveva Caissa: come faceva a conoscere un’opera che sarebbe sta pubblicata dopo 9 anni?

Dialetti salentini: peu e ‘bbunatu

di Armando Polito

 

È fenomeno ricorrente in tutte le lingue quello di alcune voci, il cui significato ha subito, col passare del tempo e con l’intervento di fattori non sempre facilmente individuabili, un ribaltamento totale della valenza positiva o negativa (in senso etico) del significato originario.

Così è stato per peu, usato nel dialetto neritino col significato di stupido. Il Rohlf non registra questa voce nella sua opera da me già citata fino alla noia, per cui non ne ripeterò gli estremi bibliografici né riprodurrò, giocoforza, il dettaglio grafico del lemma. L’aureola del Maestro questa volta non m’illuminerà nella ricerca etimologica e posso solo sperare che il mio avventuroso e, forse, avventato tentativo non si risolva in una catastrofe.

Ritengo che peu abbia l’esatto corrispondente italiano in pio, che è dal latino piu(m), accusativo di pius/pia/pium, aggettivo che qualifica l’uomo virtuoso, devoto (da vivente) ed il beato (da defunto). Lo stesso aggettivo in funzione onomastica come cognomen (soprannome) è Pius, da cui l’italiano Pio, nome, fra l’altro, assunto  da ben dodici papi1.

Derivato di pius è pietas, dal cui accusativo (pietatem) è l’italiano pietà, che rispetto alla voce latina significante  virtù e devozione (cioè due fondamentali valori laici e religiosi) ha perso gran parte del suo valore morale, limitandosi ad esprimere un sentimento di compassione, di partecipazione alle miserie altrui, infarcite di astratte elucubrazioni e vuota retorica, quando, in concreto, non finisce per prostituirsi a losco affare, come recenti fatti di cronaca nazionale ed internazionale hanno portato alla luce. Con queste premesse uno si chiede come mai dal concetto gratificante di pio si sia passati a quello mortificante di peu. La risposta viene dalla storia dell’uomo, soprattutto da quella contemporanea e da ciò che è una costante del costume italiano, per cui chi è onesto e rispettoso, anzitutto della legge, è considerato un fesso rispetto ai furbi, categoria alla quale appartengono i politici, che, senza distinzione di colore, nulla hanno fatto, fanno e faranno per porre rimedio alle tante piaghe sociali, in primis l’evasione fiscale2. Prima di deragliare metto in azione la rapida e mi stabilizzo sul binario … La donna, poi, è quella doppiamente coinvolta in questo gioco perverso che non risparmia neppure il sentimento religioso, per cui oltre che pea (stupida) poteva essere anche piarella. Questa voce è dal latino classico piare (propiziare, placare, onorare, venerare una divinità; compiere, celebrare riti espiatori; allontanare, stornare, scongiurare con sacrifici; purificare, espiare con riti espiatori), connesso col pius messo in campo all’inizio. Piare in unione alla preposizione ex (expiare) ha dato in italiano espiare, mentre la tecnica di formazione del nostro piarella è simile a quella che ha portato, per esempio, da cacare a cacarella e da tremare a tremarella, solo che nelle voci appena citate la nota, per così dire, negativa continua a riguardare un’azione, nel nostro caso, invece, una persona che era considerata troppo ligia, forse solo formalmente, ai doveri religiosi.3  Contadino, scarpe grosse e cervello fino, recita un vecchio proverbio; e così ci voleva il suo dialetto e la sua filosofia (o più semplicemente saggezza nascente dalla realistica, nella sua amarezza, quasi cinica visione del mondo, scevra da ogni edulcorazione retorica) per scoprire con peu e piarella l’altra faccia di pio. In fondo lo stesso è successo con cretino, che è dal franco-provenzale crétin, col significato in origine di cristiano, poi adoperato con sentimento di commiserazione nel senso di povero cristiano, povero cristo, poveraccio e, infine, in quello dispregiativo che conosciamo; e che dire di idiota (dal latino idiota, a sua volta dal greco ἰδιώτης (leggi idiotes), che, partendo dal concetto di privo, attraverso progressive integrazioni si specializzò già in epoca classica nel senso di rozzo (privo di eleganza), ignorante (privo di cultura), privato (senza cariche pubbliche), per arrivare all’attuale, dominante significato  di privo d’intelligenza?

Siccome, forse presuntuosamente, a proposito d’intelligenza, credo di non esserne totalmente privo, mi concedo il beneficio del dubbio, prima che qualcuno con il suo graditissimo intervento mi mostri che l’ipotesi etimologica avanzata per peu equivale ad una disastrosa arrampicata sul proverbiale specchio. Talora la soluzione più semplice si rivela alla fine come quella più attendibile; per questo non escluderei che peu (non piarella) nasca per aferesi da babbèu, corrispondente all’italiano babbèo, che è di origine onomatopeica). Sul piano fonetico il passaggio b>p non pone alcun problema perché sono entrambe labiali e basterebbe pensare alla lunga storia di Giuseppe>Giuseppino>Peppino>Peppe

>Beppe.

Nessun dubbio suscita, invece, bbunatu, usato, anch’esso come peu, col significato di stupido‘Bbunatu ha il suo esatto corrispondente nell’italiano abbonato, participio passato di abbonare. Però gli abbonare  nella nostra lingua sono due. Il primo, che per comodità chiameremo abbonare 1, ha il significato di fare un abbonamento a favore di uno ed è è dal francese abonner, a sua volta dall’antico francese bonne, dal quale il francese  moderno borne =confine, limite. Abbonare 2, invece, ha i significati di condonare in parte o interamente (abbonare un debito), in senso figurato non tenere in considerazione (abbonare un errore), considerare qualcosa come già adempiuto (abbonare un esame) e, infine, (registrato come obsoleto, il che  non mi pare casuale …) rendere buono, migliorare. Appare evidente come abbonare 2 è da ad+ buono, che è dal latino bonu(m) e fratello, per così dire, del francese bon, ma nemmeno lontano parente di bonne e borne prima citati. Il nostro ‘bbunatu, dunque, è per aferesi da abbonato, participio passato di abbonare 2 e mostra di condividere l’amaro destino di cretino, di idiota e, forse, di pio. Sarà pure vero che il troppo storpia, ma viviamo in una strana società, in cui l’eccesso nel male  viene giustificato, anzi, premiato e quello nel bene deriso e penalizzato (buono>troppo buono>fesso), col trionfo della furbizia, che è anch’essa intelligenza, ma nella sua forma più perversa nutrita di ipocrisia e, non solo nel senso corrente, di abuso di potere.

Alla fine di questa tiritera ricordo, forse anche per dare una comoda giustificazione alle fesserie che potrei aver detto, che in fondo l’etimologia non è altro che l’archeologia della parola, solo che nell’archeologia propriamente detta qualsiasi ipotesi di lavoro può trovare in qualsiasi momento e luogo credito più o meno definitivo in un reperto materiale protetto nel tempo, insieme col suo contesto, dal terreno; lo scavo filologico, invece, ha a che fare con un elemento instabile , non univoco e, quel che è peggio, estremamente labile insieme con il suo contesto, soprattutto orale, qual è la parola.

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1 San Pio I (II secolo), Pio II (Enea Silvio  Bartolomeo Piccolomini, XVI secolo), Pio III (Francesco Nanni Todeschini Piccolomini, XVI secolo), Pio IV (Giovanni Angelo Medici di Marignano, XVI secolo), Pio V (Antonio Michele Ghislieri, XVI secolo), Pio VI (Giovanni Angelico Braschi, XVIII secolo), Pio VII (Barnaba Niccolò Chiaramonti, XVIII secolo), Pio VIII (Francesco Saverio Castiglioni,  XIX secolo), Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti, XIX secolo), Pio X (Giuseppe Melchiorre Sarto, XX secolo), Pio XI (Achille Ratti, XX secolo), Pio XII (Eugenio Pacelli, XX secolo).

2   Solo un idiota metterebbe  in discussione il primato dell’economia e magari negherebbe pure il rapporto strettissimo esistente tra potere e denaro; eppure c’è chi, considerato meno idiota, in rapporto a quest’ultimo (il denaro, per restare nell’ambito economico) continua a non ritenere necessario adottarne il controllo. Uno stato poliziesco è certamente odioso, ma trovo pretestuosamente osceno accampare la ridicola e opportunistica scusa della tutela della privacy e di una libertà dannosa per gli onesti, per non eliminare (altro che limitare!) l’uso del contante e sostituirlo con strumenti tracciabili, quando ormai da tempo la nostra privacy è nelle mani, anzi nella cassa,  del mercato globale.

3 Su piarella vedi pure  https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/02/02/dialetti-salentini-piarella/

3 febbraio, San Biagio a Nardò. Riprende il rito della benedizione della gola

Nardò. La statua di S. Biagio (1886) venerata nella chiesa di S. Teresa (cartapesta, 1888)

 

Dopo il culto e il protettorato di san Gregorio l’Illuminatore, che si festeggia il 20 febbraio, la città di Nardò celebra un altro santo dell’Armenia, Biagio, vissuto tra il III e il IV secolo a Sebaste in Armenia. Per sua intercessione si rinnova, come ogni anno, con la sola interruzione nel periodo pandemico, l’antichissimo rito della benedizione della gola nella chiesa di Santa Teresa (vicino l’Ufficio postale).

Tra i quattordici santi ausiliatori, patrono degli otorinolaringoiatri, i fedeli si rivolgono a San Biagio, medico in vita, per la cura dei mali fisici e particolarmente per la guarigione dalle malattie della gola, tanto che tra i diversi miracoli a lui attribuiti si menziona a simbolo quello del salvataggio di un bambino col rischio di soffocamento a causa di una lisca di pesce.

Il suo martirio, avvenuto intorno al 316, è da ricollegare al rifiuto di abiurare la fede cristiana. La leggenda riporta che fu decapitato dopo essere stato a lungo torturato con pettini di ferro che gli straziarono le carni. Lo strumento del martirio fu preso a simbolo del santo e poiché simile a quelli utilizzati dai cardatori di lana e dai tessitori, questi ultimi lo vollero designare quale loro protettore. Il corpo fu sepolto nella cattedrale di Sebaste. Nel 732 una parte dei suoi resti mortali furono imbarcati per essere portati a Roma. Una tempesta bloccò il viaggio a Maratea (Potenza), dove i fedeli accolsero le reliquie; lo elessero protettore e ne conservarono parte dei resti (torace) nella basilica sul monte San Biagio (a Carosino, provincia di Taranto, è custodito un pezzo della lingua, chiuso in un’ampolla incastonata in una croce d’oro; a Ostuni si conserva un osso usualmente posto sulla gola di ogni fedele in pellegrinaggio al santuario; nella cattedrale di Ruvo di Puglia si venerano i resti del braccio esposti entro un reliquiario a forma di arto benedicente).

 

In provincia di Lecce, oltre al culto riservato a Nardò, è nota la devozione degli abitanti di Salve nel cui territorio ricade la masseria e la cappella di Santu Lasi, termine dialettale con cui si designa il santo.

Il motivo dell’antica venerazione nella chiesa di Santa Teresa a Nardò potrebbe ricollegarsi non tanto alla protezione per le comuni malattie delle prime vie aeree, quanto alla grave malattia infettiva della difterite, di cui sono accertate epidemie nel XVII secolo in città e che procurarono non pochi lutti, specie tra i più piccoli, di solito morenti per asfissia.

Non è da escludere che il particolare culto cittadino sia strettamente collegato con la locale famiglia dei baroni Sambiasi, anticamente Sancto Blasio, i cui discendenti fecero realizzare in suo onore ben due chiese.

La prima fu fatta costruire nel 1623 dal barone Giuseppe Sambiasi sull’attuale Via De Pandi, che la istituì con atto notarile del 10 aprile, ad laudem et gloria di S. Biagio, dotandola di 48 ducati di annuo censo. Della chiesa, aperta al culto fino alla metà del secolo XIX, oggi non restano che i muri laterali e parte della volta. I fregi e i decori in pietra leccese sopravvissuti documentano quanto fosse valida dal punto di vista artistico.

L’altra chiesetta, comunemente detta di S. Biagio in Via Lata, per distinguerla dalla precedente, fu edificata nel secolo precedente dalla nobile famiglia Chiodo, nel pittagio San Salvatore.

Pur se non frequentissima, l’iconografia a volte ritrae Biagio come santo guaritore e intercessore, altre ancora nel momento del martirio, più spesso come vescovo, con mitra, pastorale e libro, a mezzo busto o a figura intera.

Il rito della benedizione della gola da parte dei sacerdoti viene esercitato nella giornata del 3 febbraio, subito dopo la messa delle 8.30 e fino a tarda serata, con la sola interruzione dalle 13 alle 15. I festeggiamenti in onore del santo sono preceduti da un triduo che si sta celebrando in questi giorni, che si tiene nella medesima chiesa di Santa Teresa, per interessamento e cura della confraternita del SS.mo Sacramento.

 

Dialetti salentini: scarfisciatu e ‘nfitisciutu

di Armando Polito

Per la poco gratificante serie1 delle voci salentine designanti una particolare puzza , oggi tocca a due altre componenti.

Si sente fièzzu ti scarfuisciatu (Si sentee puzza di fermentato) e Si sente fièzzu ti ‘nfitisciùtu (Si sente puzza di imputridito) sono espressioni ricorrenti, la cui analisi inizia dall’elemento comune, cioè fièzzu.

Fièzzu è da un latino *foetiu(m), dal classico foetère (=puzzare), da cui il salentino fitire, dal quale, con l’aggiunta in testa (pròstesi in linguaggio tecnico) della preposizione in ridottasi poi per sincope in ‘n, la forma incoativa ‘nfitiscire (imputridire), il cui participio passato (nfitisciùtu) è usato con valore sostantivato, come nella seconda delle due espressioni riportate all’inizio.

Scarfisciatu è participio passato, anch’esso in funzione sostantivata, di scarfisciare, frequentativo di scarfare, che è, con sincope di –ce-, dal latino excalfàcere, variante sincopata di excalefàcere, composto dalla preposizione ex (in funzione intensiva e che in scarfare  per aferesi si è ridotta ad s)+calefàcere, a sua volta da càli(dum) fàcere (=rendere caldo). Sopra ho tradotto scarfisciatu con fermentato, che non a caso è da fermentare, a sua volta da fermento, che è dal latino fermentu(m) nato per sincope da *fervimentu(m), a sua volta dalla radice di fervère (=essere caldo, bollire). Da quanto fin qui detto, a parte il fenomeno fonetico ricorrente della sincope che sembra in linea con quello fisico che potrebbe colpire, di fronte ad una puzza, soggetti particolarmente sensibili …, si può concludere che l’azione di ‘nfitiscire è il fatale sviluppo di quella indicata da scarfisciare e che la protagonista (tutt’altro che improbabile con i tempi che corrono …) della vignetta di testa non sa che il caldo dell’armadio altera, il freddo del frigorifero conserva …

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1 Per lientu vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/01/18/dialetti-salentini-lientu/

e per lagnu https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/01/22/dialetti-salentini-lagnu/

UNA PAGINA DI STORIA DI LECCE: LA FAMIGLIA VITERBI SALVATA DALLA SHOAH

Grazia Viterbi

 

di Francesco Frisullo – Paolo Vincenti

 

In occasione del giorno della memoria, ci è gradito ricordare una storia che unisce Lecce alla città di Assisi e alla comunità ebraica durante l’ultimo periodo delle persecuzioni naziste, prima della conclusione della Seconda Guerra Mondiale. Questo episodio rientra in quel genere che in passato veniva definito “aneddotica”, quello della storia minore, se non fosse che questi episodi vanno poi a comporre come tanti tasselli il grande mosaico della storia con la esse maiuscola. Protagonista del nostro intervento è la famiglia Viterbi, di origine ebraica, che singolarmente riuscì a salvarsi dallo sterminio proprio grazie a Lecce. La famiglia viveva ad Assisi ma poté scampare all’arresto perché attraverso una rete di appoggi locali i Viterbi si spacciarono per leccesi grazie a falsi documenti. Nelle carte contraffatte, essi erano registrati come “Vitelli”, residenti nel comune di Lecce, poiché la città all’epoca era già liberata dagli americani, ed era quindi impossibile verificare la validità dei documenti stessi, come viene riportato dal sito dello Yad Vashem:

I Viterbi furono una delle famiglie che riuscirono a vivere all’aperto a causa delle carte false preparate per loro dal Brizi. Nelle carte contraffatte risultavano iscritti come residenti nel comune di Lecce. Il falsario aveva scelto quel paese perché era già stato liberato dagli americani, impedendo così ogni possibilità di verificare la validità dei documenti. Nonostante la famiglia fosse arrivata in un luogo dove era assistita e protetta, e nonostante i documenti falsi in loro possesso, la paura di essere braccati e catturati non li ha mai abbandonati. Grazia Viterbi – o Graziella Vitelli come veniva chiamata nelle sue carte false – voleva assicurarsi che, se scoperti, passassero l’interrogatorio. Andava alla biblioteca di Assisi e prendeva appunti su Lecce per familiarizzarsi con il luogo, in modo che, nell’eventualità di incontrare per caso qualcuno di quella città, potesse parlare del luogo[1].

Approfondiamo la vicenda.

Emilio Viterbi, docente di Chimica all’Università di Padova, nell’ottobre 1943, per sfuggire alla persecuzione razziale si rifugiò ad Assisi con la sua famiglia, la moglie Margherita, le figlie Graziella e Myriam, godendo della protezione del Sacro Convento. Dal 1938 in poi le leggi razziali lo avevano spogliato di quasi tutto, privandolo anche della cattedra universitaria. Tra il ’43 e il ’44 la famiglia ha vissuto ad Assisi da clandestina ed è riuscita a sfuggire alle persecuzioni nazifasciste grazie all’aiuto della chiesa, come racconta Graziella Viterbi in un’intervista pubblicata sul sito www.sanfrancescopatronoditalia.it/[2].

I Viterbi arrivati ad Assisi trovarono nel Vescovo Nicolini un formidabile patrono della causa ebraica. Il Vescovo indicò loro una persona che gli avrebbe fornito i documenti falsi e li aiutò a trovare un appartamento in via Borgo Aretino, dove poi si sarebbero stabiliti definitivamente. Non si può non rendere merito a questo coraggioso prelato, monsignor Giuseppe Placido Nicolini, che riuscì a creare ad Assisi dall’8 settembre del 1943 al 17 giugno 1944 (giorno della liberazione da parte delle truppe alleate), una vasta rete di aiuti coinvolgendo nella sua impresa tanti protagonisti della vita sociale assisiate del tempo, tutti riconosciuti “Giusti tra le nazioni” e oggi insigniti e commemorati con i loro nomi al Museo dell’Olocausto di Gerusalemme. Quella di Graziella Viterbi è solo una delle storie di “sommersi e salvati”, come li definisce in rete Avvenire.it[3].

I salvataggi venivano compiuti nel monastero di clausura delle Sorelle Povere di Santa Chiara, di cui era badessa madre Maria Giuseppina Biviglia.

Ai rifugiati, come nel caso della Viterbi, venivano appunto forniti falsi documenti che erano stampati dalla macchina “Felix” della tipografia (vicina alla cattedrale di Santa Chiara) di Luigi Brizi che, col figlio Trento, dava nuova identità ai clandestini. Il trasporto spettava all’insospettabile campione di ciclismo, Gino Bartali, il quale nascondeva i documenti nella canna o sotto il sellino della sua bici «color ramarro» e al traguardo finale del monastero veniva accolto e rifocillato da tre suorine, Amata, Alfonsina e Candida”[4].

Come si può vedere, nella rete di aiuti compare anche il grande campione di ciclismo Bartali. Continuiamo a leggere l’interessante narrazione:

La paura iniziale, con il passare delle settimane divenne puro spirito di missione. «Si obbediva solo a un sentimento che sorgeva spontaneo di volta in volta che si presentavano dei disgraziati… La pietà avrebbe trionfato come trionfò. E trionfò per amor di Dio e del prossimo…», scrive madre Maria Giuseppina. Ma il trionfo quotidiano, a rischio della vita di tutti gli abitanti di quella casa salvifica che, non a caso, la madre badessa aveva ribattezzato “l’arca di Noè”, subì un brusco arresto il 26 febbraio del ’44. «La macchina dell’assistenza ai rifugiati funzionò senza problemi sino a quella data – scrive Barbara Garavaglia nel suo saggio “L’arca di Noè a San Quirico” – A seguito di un controllo, venne scoperto un giovane con documenti contraffatti, il quale rivelò di essere alloggiato al monastero». Si trattava del croato Paolo Josza, alias Paolo Macrì, già evaso da un campo di concentramento nella ex Jugoslavia e del tenente dell’aeronautica Antonio Podda, che in clandestinità era diventato Giorgio Cianura. Alla loro cattura seguì l’ispezione a San Quirico dei funzionari della Repubblica Sociale ai quali madre Maria Giuseppina Biviglia, pur sotto la minaccia d’arresto, oppose strenua e disperata resistenza: «Eccomi pronta; munitevi del permesso, perché son monaca di clausura e non posso abbandonarla senza autorizzazione. Per grazia di Dio non ne fu nulla…». Quell’episodio a San Quirico fu l’apice del terrore provato in quel tempo temerario in cui la presenza di cunicoli medioevali e della botola che collegava la clausura ai sotterranei e alla «grotta» era pienamente servita allo scopo: mettere in salvo tante anime ingiustamente destinate ai campi di sterminio[5].

Carta d’Identità di Graziella Vitelli

 

In rete, è presente svariato materiale sulla famiglia Viterbi fra cui un’altra intervista fatta a Graziella nel 2011 nella quale la donna ripercorre la sua esperienza durante quella drammatica vicenda[6].  Curioso il legame che si venne a creare pur da lontano con la città di Lecce e il fatto che Graziella si documentasse sulle bellezze storico artistiche della capitale del barocco meridionale prendendo degli appunti su Lecce per essere credibile in caso di interrogatorio ed affrontare così con sicurezza un paventato test di “salentinità”.

“Così Graziella studia Lecce in biblioteca su di una Guida e con i genitori riscrive la storia della famiglia, che, ogni sera, legge alla sorellina, perché le sia bene impressa per non incorrere in errore in qualche conversazione. Un allenamento quotidiano ad essere un’altra persona, con il terrore di essere sempre scoperti. Uno sdoppiamento con una capacità di controllo che neanche lontanamente riesco ad immaginare”. Così scrive Fulvia Alidori in un bellissimo articolo sulla storia di Graziella in cui riporta anche una foto degli appunti manoscritti dell’allora ragazzina ebrea e una foto della sua carta d’identità con le generalità alterate[7].

Graziella, operatrice culturale e scrittrice, è la madre del rabbino prof. Benedetto Carucci Viterbi, biblista, Preside delle scuole della comunità ebraica romana e docente alla Pontificia Università Gregoriana, e di Emanuele Carucci, affermato attore. Ma è anche la moglie dell’editore Beniamino Carucci (1922-1992), appassionato diffusore della cultura ebraica in Italia, a cui si devono preziose pubblicazioni di saggistica, narrativa e architettura[8]. Nel 2013 incontrò anche Papa Francesco.

Racconta Mirjam Viterbi Ben Horin:

Nel 1943, per salvarsi dalle persecuzioni naziste, la mia famiglia trovò rifugio ad Assisi, dove ricevette un aiuto meraviglioso da parte del vescovo Nicolini e di tutto il clero locale. Ci fornirono anche di carte d’identità false, dove risultavamo originari di Lecce. All’inizio, ancora con i documenti veri, si alloggiò per un mese in un piccolo albergo, l’Albergo del Sole, e successivamente in una casa privata; qui avevamo due camere, di cui una era la stanza da pranzo, il luogo dove praticamente si viveva gran parte della giornata. Al centro c’era un grande tavolo rettangolare, di legno scuro[9].

L’attività della rete di salvataggio è stata anche il tema di un film del 1985, Assisi Underground, diretto da Alexander Ramati con Ben Cross e James Mason nella parte del vescovo Nicolini.

Nel 2019 è scomparsa Graziella Viterbi.“Fondamentale il suo apporto alla ricostruzione delle vicende che videro per protagonista la città di Assisi al tempo delle persecuzioni antiebraiche, cui si sottrasse grazie all’aiuto della rete di assistenza clandestina che lì operò e che vide in prima linea esponenti del clero locale”: così scrive il sito Moked.it in occasione della morte, che ha avuto vasta eco non solo nella comunità ebraica. “Dopo la guerra fu instancabile animatrice nel mondo della cultura e dell’azione di assistenza nel corso delle drammatiche migrazioni ebraiche che contrassegnarono il secondo Novecento”[10].

Il 22 novembre 2022 è morta anche Mirjam.[11]

Ma se oggi sono scomparsi i protagonisti diretti di questa vicenda, non sia spenta la memoria su un episodio drammatico della storia del Novecento, che può essere tramandato e conservato dagli illustri successori della famiglia Viterbi “Vitelli”.

 

Note

[1] Monsignor Giuseppe Placido Nicolini, Father Aldo Brunacci, Father Rufino Niccacci, Luigi Brizi and his son Trento. https://www.yadvashem.org/righteous/stories/assisi.html

[2] È morta Grazia Viterbi, le condoglianze del Vescovo di Assisi.
http://www.diocesiassisi.it/e-morta-grazia-viterbi-le-condoglianze-del-vescovo-di-assisi/

[3] Suor Biviglia, la Giusta di Assisi, in Avvenire.it. https://www.avvenire.it/agora/pagine/suor-biviglia-la-giusta-di-assisi

[4] Ibidem

[5] Ibidem

[6] Assisi clandestina, Graziella Viterbi ricorda, in Terra Santa.net. https://www.terrasanta.net/2011/11/assisi-clandestina-graziella-viterbi-ricorda/

[7] Fulvia Alidori, Sacerdoti e suore di Assisi salvarono Graziella Viterbi. https://anpi.it/media/uploads/patria/2010/9/18-20…

Si veda anche “Alunni di razza ebraica”. Studenti del Liceo-Ginnasio “Tito Livio”, sotto le leggi razziali, a cura di Mariarosa Davi, Padova, 2010, con l’intervista a Graziella che parla della storia della propria famiglia, alle pp. 39-54.

[8] Su di lui si legga Fausto Parente, Beniamino Carucci: ricordo di un amico, in Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, «La Rassegna Mensile di Israel», Vol. 58, No. 1/2, Gennaio – Agosto 1992, pp. V-VII. https://www.jstor.org/stable/i40058099

[9] Assisi, la guerra e la fantasia che salva. https://www.wikiwand.com/it/Rete_clandestina_di_Assisi.  Su quella drammatica circostanza, Mirjam scrisse anche un libriccino: Mirjam Viterbi Ben Horin Gli abitanti del Castelletto Una luce nel buio della shoah, Assisi, Edizioni francescane italiane, 2020. Altre sue pubblicazioni sono: Il sogno di Giacobbe, Roma, Borla, 1988; Verso l’Uno. Una lettura ebraica della fede, Bologna, EDB, 2005; Con gli occhi di allora. Una bambina ebrea e le leggi razziali, Brescia, Morcelliana, 2008. Mirjam era sposata con Nathan Ben Horin (1921-2017), diplomatico, fine studioso e membro della commissione dei Giusti allo Yad Vashem, fattivo collaboratore nel dialogo ecumenico tra cattolici e  ebrei. Un’antologia di suoi interventi e contributi storico-teologici è stata pubblicata nel 2011 con il titolo Nuovi orizzonti tra ebrei e cristiani, a cura di Piero Stefani, Edizioni Messaggero, Padova.  https://moked.it/blog/2017/10/15/nathan-ben-horin-1921-2017/

[10] Graziella Viterbi (1926-2019).

https://moked.it/blog/2019/03/10/graziella-viterbi-1926-2019/

[11] Morta Mirjam Viterbi Ben Horin, ebrea salvata in Assisi.
 http://www.diocesiassisi.it/morta-mirjam-viterbi-ben-horin-ebrea-salvata-in-assisi/

La rinascita della scherma e il ritorno a San Rocco

di Giovanni Pellegrino

con una nota introduttiva di Giuseppe Corvaglia

 

La notte di San Rocco a Torrepaduli

 

Nota introduttiva

Negli anni ’70 la danza delle spade a Torrepaduli accusò una flessione e tendeva quasi a scomparire. La gente aveva perso interesse, sia perché molti con l’avvento delle automobili non si fermavano più la notte, sia perché le autorità tendevano a limitarla, sia perché la vicinanza delle ronde con il santuario poteva disturbare le funzioni e qualcuno riferiva di incidenti con accenni di risse e disordini che potevano turbare l’ordine pubblico.

Così quei momenti di socializzazione spontanea che si formavano fra i pellegrini per passare la notte, furono scoraggiati.

Nel 1982 Giovanni Pellegrino e la Bottega del Teatro e del Ballo Popolare di Zollino cercarono di ripristibare quella   grande occasione di incontro e di festa spontanei e proposero il progetto “Ritorno a San Rocco”, con il supporto di istituzioni politiche e amministrative (Comuni di Cutrofiano e Ruffano, Regione, Confcoltivatori…) e culturali (Università di Roma con Diego Carpitella, e Università di Lecce con Nando Taviani).

Diego Carpitella Conferenza Cutrofiano 8 agosto 1982  – Archivio G. Pellegrino

 

Giovanni, tecnico metalmeccanico e apicoltore, ma appassionato genuino di cultura popolare, con all’attivo interessanti operazioni di riproposta (rilancio delle pasquette, Festa del Fuoco, canto rituale della Passione in griko…)  progettò e realizzò un evento complesso che fosse rilevante, coinvolgente e non perdesse la sua spontaneità. Per raggiungere tale scopo fece un’efficace opera di ricerca e reclutò tamburellisti, danzatori e musicisti di musica popolare, fra cui il sottoscritto, Antonio Romano e Damiano Palma di “Terra tumara”.  Soprattutto spiegò con tutti i mezzi possibili i significati dell’arte popolare della festa e la storia nient’affatto finita del suo strumento emblematico: il tamburello.

L’operazione non era facile: gli artisti non venivano ad esibirsi, ma dovevano inserirsi in quella operazione di recupero e “salvataggio” in maniera naturale, quasi come se fossero capitati lì, quali pellegrini, e formare le ronde spontanee che animassero la notte di Torrepaduli.

Per fare questo il progetto era articolato e Giovanni, oltre a ricercare chi potesse animare l’evento comprendendone lo spirito e a trovare il consenso delle istituzioni e il supporto degli enti culturali, organizzò una festa del tamburello e della pizzica a Cutrofiano e cercò di dare rilevanza all’evento sulla stampa.

Uccio Aloisi Conferenza Cutrofiano 8 agosto 1982 Archivio G. Pellegrino

 

Fra i tanti articoli, uno spazio cospicuo lo diede all’evento “Pensionante dei Saraceni – Fogli di Caffè Greco” curato dal compianto e lungimirante Antonio Leonardo Verri che dedicò all’evento un paginone intero della rivista.

In quegli articoli Giovanni Pellegrino raccontava la genesi della festa, il rischio che il mondo contadino e culturale salentino si impoverisse per lo scomparire di questa e di altre feste simili e argomentava un concetto fondamentale del fare festa come lavoro liberato che si contrappone al mero consumo di un evento.

Oggi la notte di San Rocco a Torrepaduli è ancora un evento spontaneo; giovani e meno giovani si recano alla festa e aspettano di vedere costituirsi una ronda per parteciparvi suonando, ballando o anche solo godendosi le movenze dei ballerini e il ritmo incalzante e c’è davvero posto per tutti perché sul piazzale del santuario se le ronde sono affollate ecco che se ne formano delle altre e i suonatori e i ballerini non mancano.

Se questo è il presente, allora, perché riproporre il “passato”?

Perché, come accennavo, in quegli articoli ci sono concetti importantissimi come il “fare festa”, inteso come lavoro liberato e sublimato, che era e dovrebbe essere la base della festa e si oppone al concetto di festa come mero riposo e come consumismo edonistico che non ci consente di godere a pieno dell’evento, dove la fruizione non è più partecipazione attiva, ma adesione passiva.

Forse questi concetti potrebbero generare utili riflessioni anche nelle nuove generazioni perché una visione siffatta è utile all’uomo non solo all’uomo del XX secolo ma anche all’uomo del futuro.

Festa della Pizzica Cutrofiano

 

 

Ritorno a San Rocco – Inchiesta-mobilitazione sulla festa contadina. 

La festa: un fatto di cultura

Numero Speciale del Pensionante dei Saraceni, luglio-agosto 1982

di Giovanni Pellegrino

 

La Bottega del Teatro e del Ballo Popolare di Zollino

La festa come fatto di cultura complessiva e di massa ci interessa moltissimo e non da ora.

I nostri interventi dentro la Pasquetta, la Festa del Fuoco o in altre occasioni sono esemplari.

Il “Ritorno a San Rocco” lo consideriamo una tappa importante di un lungo lavoro sulla festa contadina che dovrebbe portarci a raccogliere energie per un intervento più qualificato ed efficace. L’obiettivo finale non lo nascondiamo: tentare di ricucire la lacerazione tra festa e prodotto contadino.

Secondo noi ci sono energie-festa represse e il nostro lavoro consiste nel fare in modo che esse si liberino. In questo senso ci siamo mossi in questi mesi, andando a cercare i tamburellisti e i ballerini dispersi in tutto il Salento e ridiscutendo con loro il San Rocco dei balli e dei suoni spontanei; le motivazioni vecchie e nuove che li animano; i blocchi che li reprimono.

Abbiamo cercato anche le istituzioni culturali: Diego Carpitella, professore di etno-musicologia dell’Università di Roma, Nando Taviani, professore di storia del teatro all’Università di Lecce, che si sono a fianco con la loro qualificata esperienza.

Abbiamo ottenuto il patrocinio di alcuni enti locali: il Comune di Ruffano, che ospita la festa e quest’anno curerà meglio gli spazi e l’organizzazione, il Comune di Cutrofiano che l’8 agosto, in concomitanza con la X mostra dell’Artigianato Figulo, ospiterà la Festa del Tamburello della Pizzica.

Festa del Tamburello della Pizzica. Cutrofiano 1982. Foto G.C. Di Tacchio

 

Abbiamo, infine, avuto il patrocinio della Confederazione Coltivatori Italiani, direttamente interessata al discorso culturale che stiamo facendo. Occorre, a questo punto, solo ricordare che le nostre scelte di lavoro confinano, sono sempre confinate, con il nostro impegno e il nostro entusiasmo. C’è da chiedersi quando si potrebbe fare, e dare, di più in condizioni diverse.

 

La Bottega del Teatro e del Ballo Popolare

 

Festa del Tamburello della Pizzica. Cutrofiano 1982. Foto G.C. Di Tacchio

       

 

SI PUÒ FAR FESTA LAVORANDO – La festa come lavoro completamente liberato

di Giovanni Pellegrino

La festa noi non la conosciamo più; si è persa nel tempo, incalzata dal professionismo, dallo spettacolo, dallo sradicamento della gente. Incalzata anche, bisogna dire, dalla ignoranza profusa a piene mani da una cultura che ha sempre odiato la festa.

Abbiamo finito con credere che la festa è il riposo, il non far niente, il fare da spettatore a uno o più spettacoli sia pure in piazza. E invece chi indossa l’abito della festa e fregato: non può più farla.

La festa è (come sempre stata) lavoro, lavoro veloce e con rischio, più di quanto non avvenga durante l’anno. Solo che, anziché ripetere una serie di gesti finalizzati alla produzione di beni, (con tutto il carico di coercizione di noi e quindi di alienazione che questo fatto porta inevitabilmente con sé), la festa è invece un lavoro completamente liberato, carico di fantasia, portato avanti da un numero di persone e, quindi, carico di stimoli.

Questo tipo di festa è stata distrutta (non sappiamo se temporaneamente o per sempre) e sono in rare occasioni è possibile vederne ancora delle tracce.

La Fiera di San Rocco a Torrepaduli (frazione di Ruffano – Lecce) è una di queste eccezioni.

La festa viaggia su una base musicale di tamburelli, armoniche a bocca, organetti.

Questa musica innesca i balli che sono la tarantella, la pizzica o la scherma. Il ballo prevalente è certamente quest’ultimo.

In esso viene rivissuto e ritualizzato lo scontro fisico (la lotta di coltello) tra individui singoli e, nell’intreccio degli individui, al limite, anche lo scontro tra gruppi. Sembra pure che vi sia ritualizzata la lotta tra il bene e il male.

Il gioco consiste evidentemente nel superamento delle spinte aggressive (attraverso la catarsi conseguente alla loro esplicitazione) e ha quindi finalità liberatorie e di riaggregazione sociale.

La scherma e quindi un ballo che ha poco a che vedere con la simbologia sessuale e viene generalmente eseguito da maschi, ma una donna che “osa” misurarsi con un uomo è vista con grande interesse. Ballano solo due ballerini che però, uno per volta, vengono sostituiti continuamente da uno del pubblico. Questo fa cerchio intorno ad essi partecipando vive vivacemente con suoni, con il battito delle mani, cantando e ridendo.

Questo ballo era molto praticato fino all’immediato dopo guerra e veniva ballato nelle feste dei santi più popolari (la notte della vigilia) come fatto di socializzazione e di festa, ma anche per riempire in modo creativo il tempo tecnico intercorrente tra l’andata e il ritorno (si poteva viaggiare solo di giorno) sia che si andasse col traino, sia che si andasse a piedi; veniva anche ballato (per conoscersi) nelle grandi feste familiari, come ad esempio i matrimoni.

La scherma si esprime in forme spettacolari di eccezionale interesse, per l’intenso uso che si fa delle mani, delle braccia e del volto, oltre che, evidentemente, delle gambe e di tutto il corpo in stretta relazione con l’uso del corpo nel mondo contadino e bracciantile.

Tutto ciò, se deriva da un grande e laborioso passato che non si è del tutto esaurito, ha certamente qualcosa in comune con i nuovi orientamenti culturali circa l’uso del corpo.   G.P.

archivio G. Corvaglia

 

 «C’è nell’aria una strana attesa…»

di Giovanni Pellegrino

 

«Quelli che hanno studiato» non hanno mai visto il ballo della scherma: addirittura non ne hanno mai sentito parlare. E perché poi?

Anche i ballerini, del resto, ne parlano con difficoltà, quasi con senso di colpa. Solo in circostanze specialissime, tra gente fidata, se spunta fuori chissà da dove un tamburello che sia un tamburello (segnato dal sangue di altre feste), battuto da mani che siano mani, i freni si spezzano l’aria vibra, «quelli che non possono star fermi» innescano un gioco antico che è difficile fermare.

La fiera di San Rocco è un’eccezione. Qui il ricordo dell’egemonia del tamburello e del ballo della scherma e una presenza reale. Al tramonto della vigilia una folla enorme e varia si snoda attraverso le stradine e i passaggi lasciati liberi dai venditori dirigendosi verso il santuario per la devozione. Il piazzale attiguo diventa concretamente un incrocio tra sacro e profano; tra l’attesa del miracolo della guarigione delle piaghe e la fame di cibo e di vino locale; tra i desideri di salvezza e quelli dei mille prodotti artigianali offerti dai mercanti. Eppure, c’è nell’aria una strana attesa, che diventa via via più palpabile finché, ecco, si ha la risposta.

Uno dei tanti tamburellisti quasi clandestini prende in mano l’arma e dà il segnale: quando e dove crede, spazio o non spazio.

Subito un altro si rivela e gli si affianca; subito un ballerino compare e si agita in meno di un metro di spazio e subito un altro attraversa la folla e gli si contrappone. Più veloce a farsi che a dirsi: la gente si illumina e si apre polarizzata a cerchio; il cerchio magico della pizzica e della scherma, carico di energia, di simpatia, di voglia di confronto e partecipazione.

Se vuoi, puoi scoprirne le leggi: la scintilla viene dai tamburelli (se si fermano loro si ferma tutto).

Le energie maggiori vengono dai due ballerini, ma questi vengono continuamente sostituiti dal pubblico che mai come in questo caso è straordinariamente attivo. In questo modo il «cerchio-festa» ha una sua propria vita, a prescindere dai protagonisti del momento, che può durare anche delle ore. Se ci sono molti tamburellisti si formano più cerchi.

davanti al santuario di Torrepaduli, foto Fernando Bevilacqua

 

Per una notte intera, sia pure nella Torrepaduli, mamma TV e i suoi spettacoli per uomini soli vengono dimenticati, sommersi dalla gioia del gruppo ritrovato, dalle energie nel gruppo in festa.

La luce del giorno dopo ridisperde nel Salento i tamburellisti; ridisperde in tutta Europa i loro figli; divide ancora la gente in individui singoli perfino nel tempo libero, buoni per essere riconsegnati ai televisori. Di tamburelli e pizziche neppure parlarne, se non tra gente sicuramente fidata.

Giovanni Pellegrino

Torrepaduli 1983  foto Fernando Bevilacqua

 

Intervista di Giuseppe Corvaglia a Giovanni Pellegrino

  • Gli articoli che abbiamo proposto sono stati sempre per me un punto di riferimento specie il concetto di festa intesa come lavoro liberato; d’altronde vengo da Spongano dove la festa di comunità più importante, “Le Panare”, sono proprio questo perché la panara non la puoi delegare, o la fai o non la fai e farla vuole dire: approntare il necessario, acconciarla, condurla nel corteo… ma il gusto sta proprio lì e se si fanno 30-40 panare vuol dire che ci sono in ballo 30-40 gruppi cioè una comunità intera. In questo senso gli articoli mi sono sembrati attuali e degni di essere riproposti anche a distanza di quarant’anni.

Oggi la tendenza è quella di consumare gli eventi, quasi di bruciarli. Ci dobbiamo rassegnare a questo consumismo edonistico oppure dobbiamo tutti riflettere e riappropriarci di questo modo di sentire la festa?

Non dobbiamo assolutamente rassegnarci a questo.

Intanto riconsideriamo le cosiddette feste, dico cosiddette, perché in antico si distingueva la festa dallo spettacolo. La festa la si fa; i partecipanti la fanno, la vivono, la usano. Chi la fa, la consuma mentre la fa e la fa prendendone parte attiva agendo o anche passiva, ma partecipando calato nella stessa.

Nella festa popolare c’è un soggetto collettivo forte, grande, esteso che opera e gli altri che partecipano.

Il bambino portato alla festa, per esempio, la osserva con attenzione, si incuriosirà, ma poi vorrà partecipare lui stesso.

Lo spettacolo consente solo la fruizione, ma non la partecipazione attiva, se non nell’espressione del consenso o del dissenso.

Se nelle feste patronali o laiche suona la banda o il gruppo musicale o ci sono i fuochi di artificio, non puoi fare altro che applaudire o dissentire, ma non puoi cambiare nulla, dire la tua, dare un tuo contributo…

Quasi tutti gli eventi che continuano a chiamarsi “feste” sono programmati con interventi più o meno spettacolari e quindi a rigore non sono vere feste, a differenza, per esempio, dei carnevali, delle pasquette e di simili occasioni.

Perché la festa spontanea si possa fare, bisognerebbe inventarsi delle situazioni che in qualche modo la permettano. Per esempio, ti parlo di alcuni progetti realizzati nei primi   anni 2000.

Uno di essi era “Filìa” meglio conosciuto come “I Martedì de lu Puzzu”, un’osteria dove si mangiava buona cucina casareccia e ottime pizze. Era un’iniziativa nata come estemporanea cominciata nel duemila e durata per 12 anni finché non ha chiuso. L’elemento caratterizzante, al di là della serata, era il padrone Uccio Caldarazzo, capace di gestire il “caos”, l’atmosfera fatta di contributi come poesie, canzoni, storie. Questa esperienza era un momento di festa, di svago in cui ci si ritrovava e si stava bene con il fantasioso e libero contributo di molti anche di semplici dilettanti, che per motivi personali non si esprimevano mai in pubblico.

Inizialmente era ridotta a un numero limitato che pian piano è cresciuto come fenomeno raccogliendo aficionados da tutta la provincia senza tuttavia perdere la sua impronta iniziale. Il bello di queste feste era che non sapevi chi potesse esserci, ma poteva succedere di tutto e ogni volta la situazione era diversa e dava spazio a persone che anche inaspettatamente potevano esprimere capacità artistiche che sarebbero rimaste nascoste o conosciute solo da pochi intimi. Si stimolava la partecipazione di ognuno e la curiosità di chi prendeva parte; in quel contesto ci si aspettava sempre qualcosa di particolare, di creativo. In dodici anni ci sono state più di 600 serate che non costavano nulla, non prevedevano la consumazione obbligatoria e accoglievano tutti anche fino a tardi.

Altra esperienza autogestita erano i “Martedì di Fonè”. Questa parola in grico significa voci, voci che vengono da lontano, indistinte; ci si ritrovava insieme in una casa, si mangiavano cibi preparati da noi. Anche qui la festa era data dalla ricchezza dell’incontro dallo scambio, dall’improvvisazione, salvo serate particolari nelle quali c’erano discussioni a tema, ma sempre con un rilassante finale festoso.

Altre esperienze ci sono state, come la “Puteca de mieru” di Minervino, alla quale prendevano parte sia artisti affermati sia dilettanti o persone capitate lì per caso animando le serate in modo imprevedibile e autogestito.

Come ho detto molto dipende da un gruppo che riesce a tessere con leggerezza il caos della creatività estemporanea che è la ricchezza di questi eventi portandoli a una certa armonia, non priva di sorprese. Altro protagonista di tutto questo è il cibo elemento importante dello stare insieme.

Giovanni Pellegrino

 

I latini usavano il termine “convivium” che vuol dire vivere insieme mangiando.

Dal momento che il tempo libero si ha più facilmente verso sera, nasce ovviamente il problema del cenare… Vedersi prima o dopo?… Il cibo condiviso svolge a quel punto un ruolo importantissimo perché consente di fermarsi, di non andare via di fretta per andare a mangiare in casa, oppure di arrivare tardi dopo aver mangiato.

Certo la frequentazione di ristoranti o osterie ha un costo che non tutti possono affrontare. La soluzione ottimale sarebbe portare ciascuno qualcosa, come si faceva a Foné. In tal caso il cibo condiviso con gli amici ha un valore aggiunto speciale, particolare: esso diventa anche “messaggio” personale tra i convitati come una “freccia” scelta dalla faretra per fare colpo, per stupire.

Concludendo, la festa la fa chi è presente, la gente che interviene, che si incontra e dipende dall’incontro delle persone che partecipando e incontrandosi evocano curiosità, gioia, emozione, sorpresa: insomma fanno festa.

 

  • L’esperienza del Ritorno a San Rocco nasce da fermenti nuovi in quegli anni in cui si facevano strada esperienze come il Canzoniere Grecanico Salentino, ma nascevano anche tante compagnie popolari di teatro e di musica e, cosa di non poco conto, anche le Università cominciavano a considerare il fenomeno.

Come nasce il Ritorno a San Rocco?

Sono occorse molte casualità, e certamente, come hai detto, c’erano molti fermenti, ricerche, riproposte e poi c’erano feste politiche, nuovi interessi a fare una festa popolare. Tuttavia, S. Rocco, per la specificità della ronda e soprattutto per la danza della “scherma” era del tutto misconosciuta. Fino all’81 non era mai apparsa nelle cronache, spiegata; anzi, molto a torto, era oggetto di pregiudizi. Si è rischiato seriamente di perderla.  E con essa il suo strumento principe: il tamburello.

Infatti, la riproposta era nata da ambienti “colti”. Da gruppi che curavano meticolosamente il loro messaggio, facevano spettacoli, dischi, insomma cercavano di trovare in quell’ambito artistico il massimo di perfezione, di visibilità e anche una prospettiva politica ed economica. La spontaneità della partecipazione a San Rocco non dava tutto questo. Quindi non interessava, agli assessori, o a persone culturalmente affermate; di conseguenza affondava sempre più nel degrado, salvo sprazzi di grande qualità e impatto emotivo talvolta intravedibili…

Per esempio, i tamburellisti erano pochi, circa 5-6; ma non tutti insieme: erano persi in un mare di folla confusi tra le motivazioni devozionali verso il Santo e gli acquisti dei prodotti della fiera. Per esempio, i tamburellisti erano pochi, circa 5-6; ma non tutti insieme: erano persi in un mare di folla confusi tra le motivazioni devozionali verso il Santo e gli acquisti dei prodotti della fiera. Se, nel 1981, non fossi rimasto lì a lungo, fin all’alba, non avrei potuto cogliere quelle che erano tracce di un evento ormai in caduta libera.

Neanche io sapevo qualcosa di questa festa, salvo misteriosi racconti, ricordi di partecipanti che in passato da Zollino ci andavano a piedi o col traino, ma negli anni ’70 tutto ciò era pressoché finito.

Sono venuto a conoscenza di questa festa a Corsano. Nel ‘76 c’ero andato con Cici Cafaro per una festa politica. Purtroppo, il gruppo musicale in programma non si presentò e allora gli organizzatori, visibilmente costernati, ci pregarono di “fare qualcosa” in supplenza.

Accettammo.  Io, Cici Cafaro (contadino, poeta, creativo animatore di ritrovi amicali) insieme a un turista milanese con la chitarra e a un mimo coinvolto nella festa per gestire i ragazzini, imbastimmo frettolosamente in una mezz’ora un recital della durata di un’ora.  Ma Cici, gasatissimo, non volle scendere dal palco e tra culacchi, poesie e valzer suonati con l’armonica per far ballare la gente, arrivò a due ore… mentre io me la godevo in mezzo al pubblico…

Finita la festa i compagni di Corsano, grati ed eccitati, strizzarono i loro cervelli e tra il più e il meno di analisi politiche e culturali alla rinfusa a proposito di tradizioni e di spontaneità, mi parlarono di San Rocco a Torrepaduli, dicendomi di andare a vedere “assolutamente”; senza però entrare nei dettagli per la buona ragione che non tutto era loro chiaro: bisognava “studiare di più”.

Ma la festa di Torrepaduli è a ferragosto, tempo sempre denso di eventi (la festa dei Martiri a Otranto; dell’Assunta a Martano, ecc. e poi il richiamo del mare) e il vai-vieni di amici emigranti; così me ne sono scordato per diversi anni… sarà per l’anno prossimo, dicevo…

Nella primavera dell’81 ci fu un colpo di scena.

Mi trovai coinvolto in quello che appariva un affascinante progetto, colmo delle migliori promesse: “Il Ragno del Dio che danza”. Era un momento felice di sinergie tra istituzioni comunali della Grecìa Salentina, Università e cultura popolare… Purtroppo alcune cose andarono storte; le polemiche affondarono gran parte delle valenze di quel lavoro e io persi interesse al suo risultato finale e me ne andai. Non senza aver capito che bisognava fare meglio e subito, prima che istituzioni e cattiva politica rovinassero perfino il ricordo della nostra cultura originaria.

Così decisi che sarebbe stata la mia prima volta di S. Rocco, intuendo una scoperta e un insegnamento importante.  Nel frattempo feci una piccola ricerca e divulgai l’evento con un articolo su Quotidiano, il primo mai apparso su un giornale.

Articolo Quotidiano 1981

 

La mia impressione fu folgorante: mi trovavo di fronte a una vera festa, secondo una mia concezione.

La “vera festa” si ha quando i ruoli dei partecipanti non sono programmati e rigidi, pubblico/artista, ma aperti e intercambiabili: ognuno può dare il proprio “Sé”, la propria fisicità, il proprio talento, la propria personalità, permettendo agli altri di fare altrettanto, nel massimo rispetto. Questa modalità di partecipazione era la peculiarità di quella festa e, per una visione distorta da parte dell’intellighenzia che snobbava l’evento, si stava perdendo. Le autorità, ma soprattutto il clero, lo tollerava a malapena, quasi fosse solo fastidio e disturbo. Alla fine, si percepiva un dissolversi dell’evento e un accentuato abbandono. Ciò pregiudicava anche lo strumento musicale simbolo delle danze di S. Rocco: il tamburello; nonché la meravigliosa formazione a “ronda” nelle quali per tradizione si suona e si danza.

Per fortuna, c’erano i “resistenti” che si ostinavano a dare continuità, sia pur frammentata, all’evento.

Cito solo qualcuno: Antonio Metafune, oggi ingegnere, allora solo un ragazzo e Amedeo de Rosa di Torrepaduli; la famiglia “Zimba” con Uccio e Pino e pochi altri.

La ronda era piccola, ma sufficiente a mostrarne il funzionamento; si vedeva già il meccanismo con gli attori effimeri che venivano sostituiti da altri del pubblico ma niente di sontuoso, come era stato ai vecchi tempi e come si può vedere oggi. Ma che importa? La ronda basta a sé stessa…

Verso le due sono venuti i carabinieri per fermare la festa perché “si dovevano dire le messe”.  Con l’intervento dei Carabinieri si stava smobilitando tutto, e i suonatori e danzatori se ne sarebbero andati via…  Per fortuna tra il desistere o il continuare di un momento che mi appariva magico, prevalse il buon senso di spostarci dalle vicinanze del santuario di qualche centinaio di metri e ricomporre la ronda fino all’alba.

Tanto, per ricordare l’allora dominante atteggiamento di rimozione generale. Oggi non potrebbe più accadere…

  • Secondo te oggi queste esperienze sono archeologia dell’anima, cose del passato o esprimono soluzioni a problemi attuali che non sono cambiati? E potrebbero essere recuperate e assunte nel nostro stile di vita con consapevolezza?

Io penso che l’uomo, assolti i problemi d’obbligo rispetto al lavoro e alla famiglia, ami vivere in relazione con gli altri attraverso attività ludiche o culturali. Tra le tante, la festa esprime bene il bisogno conoscere e farsi conoscere, di raccontarsi, di rassicurarsi, di consolarsi. Diversamente si va in depressione, si diventa inabili, malati. Quindi giocoforza la festa va assunta allo stesso modo del buon cibo per stare bene o di una medicina per curarsi se si sta male. Ma la festa nasce da una certa cultura diffusa che contiene gli archetipi della pace, della convivialità, della solidarietà che vedo scomparire da un’epoca affannata da viaggi e comunicazioni digitali talvolta assurdi e di disconoscenza del vicino, quindi della base pratica della solidarietà naturale e facile e dell’accoglienza. Inoltre, non tutti amano la festa: siamo in presenza di culture e tendenze diverse; alcuni movimenti o correnti di pensiero facilitano la positività che è in noi; altre invece creano conflittualità e individualismo… E’ una scommessa da vivere facendo ciascuno la sua parte, conservando e potenziando nel territorio   ciò che dimostra di aiutarci a vivere bene, inventandoci anche nuove occasioni, in sostituzione di alcune che diventano obsolete o impraticabili: insomma il “lavoro liberato” di cui parlo, deve continuare a dare frutti. Tornando alla festa e alle ronde, questo sta già accadendo ed è abbastanza evidente. Ci sono già degli appassionati che fanno ronde anche in altre feste. Per esempio, i concerti di pizzica diventano collettori di costoro e alla fine del concerto “ufficiale” escono fuori i tamburelli, le armoniche e altri strumenti e la festa continua con le proprie forze.

Un’idea per il futuro, anzi già attuale, potrebbe essere un accorciamento della durata del concerto dal palco giusto per raccogliere le energie presenti sulla piazza e rompere il ghiaccio con un “la” qualificato per poi aprire la serata al coinvolgimento della gente, magari sotto la guida dello stesso gruppo musicale che ha suonato dal palco.

Con il mio gruppo a volte sperimentavamo tutto ciò già negli anni ’70: un tempo sul palco, un altro tempo tra la gente, vicino agli stand del cibo. Lo chiamavamo “la coda della festa” che esprimeva creatività spontanea, canto corale, vicinanza … Era questa, secondo me, la parte più viva e educativa della festa e nello stesso tempo ne determinava il successo.

Non parliamo di archeologia: un bisogno primario delle persone è sempre quello di conoscere e farsi conoscere; fare attività creative e vederle fare; apprendere e insegnare; cementare o rinnovare amicizie; mettersi in armonia. Per questo hanno successo delle situazioni che stimolano e liberano la creatività, la spontaneità e danno spazio a chi voglia mettersi in gioco.

 

  • Parlavo prima di Consapevolezza. Ti voglio fare una domanda che spesso mi faccio a cui non so rispondere: oggi il Salento è considerato dalla stampa nazionale e internazionale e viene definito come uno dei luoghi più belli del mondo, forse esagerando, ma noi Salentini siamo consapevoli della vera bellezza del Salento, della sua anima o ci stiamo adeguando a un clichè commerciale nato per promuovere questa terra?

Tra qualche mese uscirà un “saggio romanzato” sul Salento “La Tarantella di Hölderlin” scritto da uno degli artisti e intellettuali stranieri che ci frequentano da 40 anni e che conoscono il Salento forse meglio di noi: il tedesco Klaus Voswinckel, tradotto da Cesira De Vito per ItinerArti  Edizioni.

Sarà interessante conoscere direttamente un giudizio imparziale, nel bene e nel male e confrontarci con pregi e difetti che talvolta noi non vediamo.

Io l’ho potuto leggere in anteprima e ne sono entusiasta, anche perché il percorso di Klaus mi ha costretto ad approfondire vari aspetti della cultura europea e mediterranea  che ci riguardano più di quel che pensiamo…

Il Salento, il posto più bello del mondo? Oggettivamente tra qualità fisiche e vivibilità nelle relazioni umane forse lo è; quantomeno uno dei meno peggio. Mi convincono, non tanto la pubblicità interessata, ma le scelte consapevoli che fanno persone che hanno girato l’Italia e l’Europa e decidono di “sistemarsi” qui.

 

  1. C’è speranza per questa terra? E ci sono energie?

Speranza? Certo, sempre! Ma a una imprescindibile condizione…

Riflettiamo. Il Salento, di cui molti decantano il dinamismo culturale ed economico, non ha imboccato sempre percorsi virtuosi. Sviluppo quantitativo più che qualitativo; strade inutili; aree industriali debordanti, improbabili e distruttive del territorio, abbandono dell’agricoltura di qualità; le stesse “operazioni culturali” fatte più per le carriere di alcuni, che per una sobria e congrua affermazione di significati; sprechi; incapacità di formare grandi cooperative o soggetti associati nel mondo del lavoro; crescita della corruzione…  perdita di risorse umane di grande qualità, spinte ad emigrare per mancanza di attenzione; vedo insomma molte storture che tralascio di esaminare in questa sede…

Di questo passo, purtroppo, non vedo un grande futuro, perché gli errori prima o poi si pagano.

Se invece si compie una salutare correzione di rotta, penso che si possano aprire nuove e grandi prospettive.

Abbiamo infatti, per fortuna, un retaggio culturale di fondo diffuso e attivabile per salvarci.

Oggi qui corre un neologismo inaspettato: la “RESTANZA”; il contrario di partenza.  Ed è la prospettiva che ci si dà per restare, apprezzando le cose che ci sono. Ma anche monitorando disvalori e limiti, per superarli.

Tra i promotori della restanza ci sono associazioni come la “Scatola di Latta”, la “Casa delle Agricuture” di Castiglione, “Coppula Tisa” di Tricase, La “Rete km 0” che gestisce a Zollino il “To Kalò Fai” (= il buon cibo, in griko) Al solito le idee viaggiano se sono sostenute da grandi passioni e tanto lavoro.

Questa non è più la terra da cui scappare senza pensarci due volte, ma un posto in cui vivere più felici.

E’ giusto e importante anche partire, perché occorre viaggiare, per apprezzare meglio i valori e le cose dei tuoi luoghi e per imparare Io, per esempio, ho preso consapevolezza della bellezza e dell’importanza del Salento a Milano (ma anche in Africa, in Bolivia, dove mi sono trovato a lavorare benissimo, grazie anche all’essere salentino). Se non avessi frequentato la Comune di Dario Fo, Ciccio Busacca che cantava il poeta siciliano Buttitta ed altre realtà culturali al di fuori del Salento non avrei mai potuto apprezzare quelle persone che incontravo in piazza nelle osterie ben al di fuori dall’accademia, ma pregne di un sapere e arte popolare e di una saggezza antica meravigliosa che non erano molto distanti dagli artisti che avevo incontrato a Milano e che in questi decenni sono stati determinanti per cambiare l’immagine del territorio.

Ma è altrettanto importante restare e impegnarsi a migliorare la nostra terra.

Per restare però devi conoscere i valori, le cose belle dei luoghi, ma anche le cose che non funzionano quelle da cambiare.

Per esempio, le nostre risorse, che a volte sono in stato di abbandono o di degrado.

La nostra incapacità di associarci per imprese importanti.

La perdita di conoscenze artigianali e agricole significative

L’incapacità di dare alle risorse umane la giusta collocazione.

Non siamo capaci di cooperare.

Ci sono, però, anche molti fermenti di cambiamento.

Oggi crescono tante aziende agricole biologiche e a km 0 che hanno una mentalità moderna, diversa da quella dei contadini di una volta che se fossi passato vicino al loro campo ti avrebbero guardato male per paura che potessi fregare la loro meloncella. Oggi questi imprenditori di nuova generazione sono attenti alla produzione biologica e compatibile con il territorio e i mercatini biologici non sono solo momenti commerciali, ma sono anche momenti di scambio culturale, di animazione, informazione sull’agricoltura e l’alimentazione.

Il laboratorio “To Kalò Fai” a Zollino, gestito dalla Rete Km 0, è esemplare in questo: uno spazio di incontro in cui il cibo diventa il fulcro di attività gastronomiche, culturali ed esperienziali, come laboratori con i bambini, caratterizzate da attenzione alla biodiversità e alla sostenibilità. Ma ciò comincia ad accadere anche in aziende private o cooperative, quali Piccapane a Cutrofiano, la cooperativa “Karadrà”  ad Aradeo e il Laboratorio Rurale Luna a Galatone (le ultime due a egemonia femminile) solo per citare alcune realtà.

Sono disponibili altri spazi socializzati e socializzanti quali Manifatture Knos, a Lecce, grande “porto di mare” collettore di una miriade di iniziative…

Le energie verranno se cessa o si riduce l’emigrazione delle migliori risorse umane, ma anche dall’immigrazione, (come dire?) di qualità.

In ogni caso la scommessa è aperta e si basa su scelte personali o di gruppi che si stanno attivando con modalità e prospettive nuove, creando modelli nuovi, che non escludono antiche e collaudate buone pratiche troppo frettolosamente mandate al macero.

Insomma, fatemelo dire in massima sintesi, parafrasando l’indimenticabile musicista-barbiere Luigi Stifani: IO AL SALENTO CI CREDO!

 

Dialetti salentini: lagnu

di Armando Polito

 

 

Dopo lientu,  del quale mi sono recentemente rioccupato1, è la volta di un altro omofono da aggiungere alla lista presente in calce a quel post. Confido nell’aiuto di qualche volenteroso lettore per individuare, al di là degli omofoni, altre voci del nostro dialetto designanti una puzza particolare. Mi rendo conto di quanto l’argomento possa essere gradevole e gradito; però la scienza (!) vuole i suoi sacrifici e, si sa, omnia munda mundis, che viene canonicamente tradotto con tutto è puro per i puri; nella fattispecie basta sostituire puro con pulito e puri con puliti  per comprendere come, forte del mio cognome, mi sia autoautorizzato  (premio in palio per chi individua colui che ha usato questa voce prima di me …) a trattare il tema.

lagnu1 usato nel significato di lamento insistente e fastidioso, corrisponde esattamente all’italiano lagno, che è da lagnarsi, a sua volta dal latino se laniare=graffiarsi, lacerarsi dal dolore (da cui l’italiano dilaniarsi).

lagnu2 usato per significare il cattivo odore emanato dalle capre.

Di seguito come il Rohlfs tratta il lemma nel Dizionario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976

v. I, p. 283

Su lagnu1 1 non c’è niente da osservare, mentre l’attenzione va riservata a lagnu2 con i suoi numerosi rimandi:

v. I, p. 283

v. II, p. 795

v. II, p. 804

v. I, p. 267

Da quanto riprodotto il Rohlfs fa intendere (anche se il gioco di rimandi sembra un espediente per non dichiararlo apertamente) che lagnu2 è connesso con la pecora, per cui deriverebbe per aferesi da valagna/velagna/ilagna.

Dopo l’osservazione più o meno critica che mi sono permesso nei riguardi delle scelte  esclusivamente formali nella trattazione del lemma, pecco d’audacia più o meno cosciente ed avanzo due altre, a mio parere plausibili,  proposte etimologiche:

1) dal latino classico làneu(m)=relativo alla lana.

2) dal latino Claniu(m), poi Làniu(m), none di un fiume campano ricordato dagli antichi autori2, dal quale deriverebbe Regi Lagni, opera di canalizzazione e bonifica idraulica effettuata tra il 1610 e il 1616 dal viceré Pedro Fernández de Castro durante il predominio spagnolo in Italia. Ancora oggi  in Campania lagni sono chiamati i fossati d’acqua, i maceri per la canapa e i canali collettori di acque stagnanti o piovane.

______

1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/01/18/dialetti-salentini-lientu/

2 Tra gli altri: Virgilio, Georgiche II, 225; Silio Italico, Punica, VIII, 537; Livio, Ab Urbe condita libri, XXXII, 29; Stefano Bizantino, Ethnica, v. Γλάνις (leggi Glanis).

 

 

Antonio Ancora. L’ultimo leone di El Alamein

 

Intervista ad Antonio Ancora, Caporale della Vª Btg Div. Folgore classe 1921

Antonio Ancora racconta il contenuto della presente intervista a Romualdo Rossetti e agli operatori del Club per l’ Unesco di Galatina nel settembre del 2019

 

a cura di Romualdo Rossetti

Buona sera, signor Ancora, sono venuto affinché possa raccontarci della sua avventura bellica a El Alamein. È disposto a rilasciarmi un’intervista dettagliata?

Certo! Volentieri!

 

Antonio Ancora racconta il contenuto della presente intervista
a Romualdo Rossetti e agli operatori del Club per l’ Unesco di Galatina
nel settembre del 2019

 

Ci può dire quando è nato, dove è nato, quanti fratelli aveva e che mestiere faceva prima del suo arruolamento militare?

Sono nato a Galatina il 9 aprile del 1921. Appartenevo a una famiglia molto numerosa. Mio padre faceva il colono agricolo e avevo sei fratelli, nell’ordine: Angela la maggiore, poi veniva Annetta, poi venivo io, poi Luigi, Pippi, Maria Luce e Totò, che era l’ultimo. Prima di arruolarmi ho lavorato in un’impresa di ristrutturazioni, con la quale lavorai tanto all’Arsenale militare di Taranto quanto all’aeroporto di Galatina.

 

Ci può raccontare, adesso come e quando ebbe inizio la sua avventura militare?

Quando sono stato chiamato dal distretto militare di Lecce per passare la visita di leva, io, insieme a molti altri miei amici, siamo stati mandati a Bari, presso la caserma di Artiglieria campale. Lì ci siamo fermati per una ventina di giorni e lì presi il brevetto di radiotelegrafista Dopo venimmo rispediti a Lecce, presso la caserma Santa Rosa se non ricordo male. Dopo qualche giorno giunse una circolare destinata a quanti avessero voluto arruolarsi nei paracadutisti. Io e tanti altri chiedemmo così di entrare nei paracadutisti come volontari. Dopo alcuni giorni giunse una lettera in cui era scritto che dovevamo andare a Napoli, alla caserma “Nino Bixio” del rione Pizzofalcone, dove c’era il 1° reggimento dei Bersaglieri. Lì ci vennero fatti tutti gli accertamenti di rito, le visite mediche e altri esami; poi ci venne consegnato un certificato di idoneità e ci rispedirono nuovamente a Lecce, dove cominciammo un primo corso di addestramento. Non terminammo nemmeno quel primo corso di addestramento, che giunse una circolare nella quale vi era scritto che saremmo dovuti andare in Albania, perché avevano bisogno di rinforzi militari. Quella circolare mi mise in apprensione perché io non volevo spostarmi dall’Italia, ma soprattutto perché avevo già fatto domanda per entrare nei paracadutisti, e avevo paura che, andando in Albania avrei dovuto abbandonare il mio sogno di diventare un paracadutista. Comunicai i miei dubbi al mio superiore, il quale mi disse: “Ora devi partire ma è probabile che ti richiamino in patria per farti fare il paracadutista!”. Così avvenne. Dovetti però partire e fermarmi in Albania per qualche tempo.

 

Ha conosciuto l’Albania allora! Che rapporto avevate voi Italiani con gli Albanesi?

Gli Albanesi non ci potevano sopportare perché erano stati invasi da noi; ci guardavano sempre in cagnesco. Di conseguenza nemmeno noi li potevamo sopportare. Vi era reciproca antipatia, diciamo!

 

Poi che successe?

Dopo quindici, venti giorni arrivò un’altra circolare, in cui era scritto che tutti quelli che avevano fatto domanda per entrare nei paracadutisti dovevano rientrare in Italia. Ci fecero imbarcare su di una nave da Durazzo, anzi per l’esattezza da una località chiamata “Erbasanta” e ci sbarcarono a Bari. Dovemmo, poi, raggiungere Viterbo dove arrivammo nei tempi stabiliti.

 

Ci può raccontare come si svolgeva il vostro addestramento militare?

Lì l’addestramento militare si fece serio. Facevamo ginnastica tutti i giorni, trazioni alla sbarra, addominali, piegamenti, lotta a corpo a corpo, esercizi di mimetizzazione. mo mimetizzare. Dopo la colazione a base di latte e gallette ci obbligavano a fare una corsa forzata facendo circa 25 26 chilometri, tra l’andata e il ritorno. Poi passammo alle cadute sui materassi. Ci insegnarono come cadere, come fare corretamente le capriole, ecc. Salivamo su di una torretta, alta una trentina di metri, legati a due funi che alcuni nostri commilitoni reggevano dal basso. La corda era trattenuta da dei moschettoni. Se i nostri commilitoni si distanziavano tra di loro, la caduta era lenta, ma se si avvicinavano, diventava sempre più veloce. Gli istruttori facevano alternare i tipi di caduta, affinché imparassimo come comportarci. Era importantissimo ammortizzare e non cadere sui talloni. Poi, per rendere più verosimile l’ambiente, ci fecero esercitare in una carlingaa di aereo che aveva il motore acceso. L’aereo poggiava su di una base ad una certa altezza e noi, in fila indiana, ci entravamo dentro e aspettavamo la pacca sulla spalla dell’addestratore, che ci indicava il momento per saltare giù. Da un’altezza di circa venti metri cadevamo sulla sabbia per ammortizzare la caduta. Poi giunse il momento del lancio vero e proprio. Occorreva fare tre lanci per poter ottenere il brevetto di paracadutista. Il 14 giugno del 1942 ottenni il mio brevetto, n. 8198.

 

Si ricorda il suo primo lancio?

Certo che me lo ricordo. Il primo lancio è come il primo amore, non lo si scorda mai. Eravamo tutti tesi e ansiosi di provarlo. Vedevamo la campagna circostante in lontananza e tutto ci sembrò piccolo, piccolo. Una volta che mi fui lanciato, vissi una sensazione meravigliosa; mi sembrò quasi di volare. Mi sentii libero, nonostante avessi la responsabilità di fare bene la caduta e di raccogliere come si deve il paracadute.

 

I vostri istruttori militari erano del luogo o venivano da fuori?

Questo non lo ricordo… so solo che la stragrande maggioranza di loro si era formata in Libia e avevano fatto parte del Reggimento paracadutisti “Fanti dell’aria”, nato come battaglione su iniziativa di Italo Balbo, e che si erano esercitati a “Castel Benito”[1] vicino Tripoli.

 

È vero che dovevate chiamarvi “Cacciatori d’Africa”?

Si è vero! Poi a qualcuno venne in mente il nome “Folgore” e lo propose ai vertici militari. Quel nome piacque e ci chiamammo così, che sinceramente, è molto più bello!

 

Una volta terminato l’addestramento e ottenuto il brevetto da paracadutista che cosa accadde?

Accadde che giungemmo dal centro di addestramento di Tarquinia, a Villa Castelli, vicino a Grottaglie. Un bel momento, di notte, il sergente ci svegliò e ci disse: “Ragazzi preparatevi che dovete spostarvi!”. Ci caricarono sui dei camion gommati e ci portarono verso una destinazione top secret. Appena giunti, mi accorsi che il campo di atterraggio era quello di “Fortunato Cesari” di Galatina, dove prima di arruolarmi avevo lavorato per delle ristrutturazioni. Dissi: “Gesù mio qui a Galatina siamo!”. Sulla pista già molti aerei erano pronti per il decollo. Ognuno di quelli aveva una capienza di oltre 100 persone più i membri dell’equipaggio di volo e le nostre attrezzature di lancio.

 

Partiste dall’aeroporto di Galatina?

Si, precisamente la notte del 7 luglio 1942, a bordo dell’aereo militare S.M. 82 partimmo da Galatina con destinazione “Africa Settentrionale – Primi Rami del Nilo”. Prima di decollare lanciai in un contenitore un messaggio, dove avevo scritto chi fossi e dove fossi diretto. Quel messaggio venne trovato e successivamente consegnato a mia sorella Annetta, che da sposata viveva a Soleto. Stavamo quasi per raggiungere la Libia, quando ricevemmo in volo un contrordine in cui si intimava di atterrare al più presto al più vicino aeroporto. L’aeroporto più vicino era quello di Barce[2], dove atterrammo. Una volta a terra ci ordinarono di consegnare il paracadute. Durante l’addestramento ci era stato detto che il proprio paracadute non lo si poteva consegnare a nessuno se non con l’esplicito ordine del proprio comandante; quella così avvenne. Chi li prese in consegna, dopo averli esaminati uno per uno, si accorse che a Viterbo o a Tarquinia vi era stato un sabotaggio. Qualcuno, di nascosto, era penetrato nei depositi e utilizzando dell’acido, avevano intaccato le funicelle di tutti i paracadute.

 

Vi erano state delle spie allora?

Si certo, in Italia quel sabotaggio era avvenuto presso i nostri centri di addestramento.

 

In Libia dove andaste?

Una volta messo piede in Libia rimanemmo a Tobruk per qualche giorno. Lì ci fecero visitare l’incrociatore San Giorgio che si era arenato dopo essere stato colpito dagli Inglesi. Quella nave fungeva da postazione antiaerea ed era dotata di moltissime bocche da fuoco.

 

In Africa settentrionale le venne affidato qualche incarico?

Si, mi venne affidato. Giunto in Libia, fui inviato insieme ad altri miei commilitoni a Bengasi per motivi di addestramento, e soggiornammo a spese dell’Esercito al maestoso Grand Hotel “Berenice” di Bengasi.

 

Bengasi – Grand Hotel “Berenice”

 

 

Come si chiamava il vostro comandante?

Giuseppe Izzo. Era salentino pure lui, perché era nato a Presicce. Un eroe nel vero senso della parola.

Comandante della Folgore Tenente Colonnello Giuseppe Izzo

 

Può descriverci il vostro rapporto col deserto?

Fu un rapporto davvero terribile. Combattevamo con la sabbia che era così sottile da entrare dappertutto, armi comprese. L’acqua fu l’elemento più importante. Non potevamo sprecarla, quindi ci si lavava poco o niente. Di mattina faceva un caldo insopportabile e di notte sentivamo freddo. Dovevamo fare attenzione anche agli animali del deserto che erano velenosi. Nonostante tutto il deserto conservava un fascino tutto suo.

Soldato italiano nascosto in una buca
aspetta il nemico per sabotare i suoi mezzi di trasporto

 

È mai stato preso dallo sconforto?

Si Come tutti. Vivere in quelle condizioni non era affatto semplice, provi un attimo lei a stare sempre col fiato sul collo, sapendo di poter morire da un momento all’altro, a vivere con pochissima acqua e pochissimo cibo, in un paese lontano in mezzo alla sabbia rovente, vestito con divise che giorno dopo giorno si trasformavano in stracci, tra la sporcizia, gli animali velenosi e le malattie contagiose, con l’ossessione di non poter rivedere più i propri genitori, i propri fratelli, le proprie sorelle, le proprie fidanzate. Una volta, preso dalla disperazione, arrivai a tirarmi addosso un bidone di benzina, sperando che mi fratturasse qualche osso, per poter essere ricoverato in infermeria nelle retrovie e magari riuscire a ritornare in Italia; e invece quel bidone mi graffiò solo di striscio. Un’altra volta cercai di prendermi la scabbia, per essere mandato in infermeria in un posto più tranquillo, e cominciai a strofinandomi su di un commilitone che l’aveva presa. Non la presi! Era destino che dovessi partecipare alla battaglia finale…e forse fu anche meglio, perché ora ve la posso raccontare.

 

Tiene a mente il nome di qualche famosa località nei pressi di dove eravate stanziati voi in Africa del Nord?

Come no! Da noi non era troppo distante la famosa “Oasi di Giarabub”, poi la “depressione di El Qattara”, “Gebel Kalakh”, “Deir El Munassib”, “Alam el Halfa” …

 

Come facevate a resistere alla sete?

Rubavamo di notte, di nascosto, dai camion tedeschi ma anche da quelli italiani, l’acqua dei radiatori. Aprivamo la valvola e lasciavamo che gocciolasse in alcuni contenitori di metallo, poi la filtravamo con dei panni, ma nonostante questo, puzzava sempre di carburante. La bevevamo lo stesso, però. Abbiamo sofferto tantissimo la sete.

 

Anche da prigionieri?

No, da prigionieri no, perché giungevano puntualmente dei camioncini con acqua pulita e generi alimentari.

 

Ha mai visto di persona il generale tedesco Erwin Rommel?

Si. l’ho visto più di una volta dal vivo, prima della battaglia finale però, perché quando avvenne la battaglia, lui non era in Africa.

 

Che aspetto aveva e come lo consideravate voi Italiani?

Aveva un aspetto buono e sorridente, non era mai arcigno. Era circondato sempre dai suoi attendenti. Noi lo tenevamo in grande considerazione. Era astutissimo tanto che lo chiamavano “La volpe del deserto”!

Il generale Rommel insieme ad alcuni suoi collaboratori in Africa del Nord

 

Di Churchill cosa pensavate?

Che era il nostro più grande nemico, ma che sapeva il fatto suo. Fu lui però a chiamare i paracadutisti della Folgore “I leoni di El Alamein” per il coraggio che avevamo dimostrato combattendo.

Winston Churchill insieme al Gen. Bernard Law Montgomery

 

Qual era il vostro equipaggiamento militare?

Noi eravamo abbastanza riforniti di armi automatiche; tenevamo il moschetto automatico Beretta mod. 1938 con il caricatore verticale, che era migliore di quelli a nastro. Avevamo il cannone anticarro Breda 47/32 Mod. 1935, la mitragliatrice Breda Mod. 5C, non mancavano fucili, pistole, bombe a mano. Durante la battaglia adoperammo di tutto, anche le bottiglie molotov.

 

È vero che molto spesso eravate voi Italiani a togliere d’impaccio le meglio equipaggiate truppe tedesche dell’Afrika Korps quando con i loro mezzi corazzati si insabbiavano nel deserto?

Tantissime volte, mica una volta sola, specie quando si inoltravano nei sentieri che noi chiamavamo delle “sabbie mobili”, erano zone pericolosissime. Andavamo con i mezzi nostri a tirare via i loro camion.

 

Voi durante la battaglia eravate posizionati sotto gli Inglesi?

Noi eravamo posizionati nel deserto; verso la litoranea c’erano altri Italiani, c’erano i bersaglieri, oltre ai Tedeschi ovviamente. Montgomery fece il tentativo di cacciarci via per due o tre volte, ma alla fine capì che non c’era nulla da fare. Noi resistevamo con tutto ciò che avevamo a disposizione, non cedemmo nemmeno di un millimetro. Provarono anche con la guerra psicologica; ci fecero giungere notizie che dicevano che noi della folgore dovevamo arrenderci perché le truppe di Montgomery erano già arrivate a Tobruk e Bengasi. Noi resistevamo anche a quello. Capimmo che erano solo menzogne.

 

L’ultima battaglia cominciò il 23 ottobre alle 10 di sera, vero?

Si cominciò di notte. Attraverso dei camminamenti, noi di notte uscivamo di pattuglia, per poterci avvicinare quanto più alle linee nemiche, nonostante i campi minati.

Parà della Folgore mentre piazza delle mine sotto un blindato nemico

 

I campi erano minati?

Certo i campi erano tutti minati. I Tedeschi li avevano minati a forma di doppia S ed era pericolosissimo venirne fuori. Loro erano attrezzati a sminare col radar, noi invece adoperavamo i coltelli per tastare il terreno. Bisognava fare molta attenzione, perché le mine, come le toccavi, esplodevano ad altezza d’uomo e colpivano con le schegge a livello intestinale i malcapitati che le avevano pigiate.

Piazzamento mine antiuomo soldati dell’Asse

 

Ci racconti cosa accadde.

Eravamo stati bersagliati da giorni. Ma noi non demordevamo, anzi eravamo disposti a vendere cara la pelle. Giunse il momento in cui ci accorgemmo che le munizioni stavano per finire. Volevamo però dare l’idea che non eravamo quasi disarmati, quindi un nostro superiore ad un certo punto ci disse che al suo segnale dovevamo sparare con tutto ciò che avevamo a disposizione, in tutte le direzioni, con una specie di fuoco incrociato. Così facemmo, al suo segnale non si capì più nulla; fuoco a volontà. Raffiche di mitraglia, colpi di fucili, insomma sparammo con tutto ciò che avevamo. Quella trovata riuscì, perché non solo le truppe nemiche si allontanarono, ma riuscimmo a fare addirittura alcuni prigionieri. Churchill e Montgomery capirono che eravamo dei duri, quindi mandarono a stanarci i migliori soldati che avevano, ma nemmeno con quelli riuscirono a farlo. Si creò, però, una situazione di stallo. Loro non riuscivano a farci indietreggiare, noi non avremmo potuto resistere a lungo; quindi gli Inglesi e i nostri superiori optarono per una resa onorevole. Ci fu tributato l’onore delle armi. Cosa che gli Inglesi non facevano molto spesso.

 

In cosa consisteva una resa con l’onore delle armi?

Venimmo disarmati tutti, ma al nostro comandante fu lasciata la sciabola di ufficiale. Lui ci fece mettere in fila e sfilammo tutti davanti agli Inglesi che al nostro passaggio si misero sull’attenti. Quella scelta, nonostante fossimo stati battuti, ci riempì di orgoglio.

Le truppe Inglesi tributano ai parà della Folgore l’onore delle armi

 

Si ricorda la scena più straziante a cui assistette durante la battaglia finale?

Durante la battaglia, un mio commilitone, mentre mi stava passando alcune munizioni, venne raggiunto da una scarica di mitraglia in pieno volto. Nonostante ciò, rimase per qualche tempo in vita e prima che morisse lo vidi strapparsi dei pezzi di carne dal viso esclamando: “mm …mmm…mia… mmmamm” forse voleva dire “mamma mia… non madonna mia!” Perché quando si sta per morire, si cerca sempre la mamma. Quel povero Cristo in breve spirò tra le nostre braccia, invocando la sua mamma!

 

Ebbe mai la consapevolezza di aver ucciso qualche nemico durante una sparatoria? Mi rendo conto che le sto ponendo una domanda stupida ma mi piacerebbe che mi rispondesse lo stesso!

Figlio mio! Come facevo ad avere la consapevolezza di aver ucciso qualcuno!? In guerra è così; ti sparano, tu spari! Quasi quasi non lo fai nemmeno per uccidere il nemico, lo fai per fermare l’attacco e metterti al riparo. In quei momenti non si pensa, si agisce d’istinto.

 

Ha avuto mai paura della morte?

Durante i combattimenti mai. Allora subentrava l’istinto di sopravvivenza. Quando ci fermavamo a riflettere speravamo di essere uccisi subito, per non soffrire come quel ragazzo mitragliato in faccia. Era peggiore l’attesa dell’attacco nemico… quella sì che ti logorava dentro!

 

Ci può parlare della sua prigionia? Come vi trattavano gli inglesi?

Per la verità gli Inglesi generalmente non ci trattarono male; anche se episodi brutti verso di noi non mancarono.

 

In che senso? Vuol farci credere che una volta prigioniero ha subito qualche forma di sopruso o violenza da parte dei suoi carcerieri?

Di questo non voglio parlare!

 

Ci parli di altro allora, di qualche episodio della prigionia che ricorda bene!

Una volta arresi ci portarono ad Alessandria d’Egitto in un campo di concentramento. Insieme ad altri Italiani rimasi prigioniero in Africa per tantissimo tempo, veramente tantissimo tempo. Un giorno, mentre stavamo marciando in fila indiana, mi trovai casualmente dietro una camionetta che portava viveri ai prigionieri. Senza essere visto infilai la mano nella cabina e rubai dei biscottoni, loro li chiamavano “cookies”.  Come li prendevo, alcuni li tenevo per me, altri li passavo ad alcuni miei compagni. Lo feci una volta, una seconda, una terza, ma alla quarta una mano gigantesca di un australiano afferrò il mio polso! Mi chiamò “thief” ovvero “ladro”. Quel soldato era altissimo, con un cappellaccio a falde larghe. Quello cominciò a strattonarmi e a fischiare per chiamare la polizia militare che giunse subito. Mi ammanettarono e mi portarono subito dai loro superiori. Mi accusarono di furto e contrabbando e venni processato per direttissima. Fortuna volle che mi diedero un avvocato d’ufficio, che aveva una figlia che aveva studiato in Italia e aveva a buon cuore gli Italiani. Per farla breve quell’avvocato riuscì a farmi assolvere perché disse alla Corte che, se avevo rubato, lo avevo fatto non per contrabbando, ma perché spinto dalla fame. Fu così che venni graziato.

 

Ci parli del suo trasferimento da prigioniero.

Era trascorso tanto tempo da quando ci avevano presi prigionieri e la situazione internazionale era cambiata. Quelli che erano nostri amici, erano diventati nostri nemici, e i nostri nemici collaboravano con noi. Noi eravamo, però, sempre prigionieri loro, anche se cercarono di farci collaborare nelle retrovie. Decisero di spostarci altrove. Nel frattempo noi avevamo fraternizzato con alcune guardie carcerarie inglesi, che ci avevano detto che molto presto ci avrebbero trasferiti in Italia.

Ad un certo punto, proprio quando stavamo per imbarcarci dal porto di Alessandria d’Egitto, arrivò un allarme con relativo ordine di non accendere nessuna radio, perché nei paraggi si aggirava un sottomarino nemico, che era partito dalle vicinanze di Malta. Dopo qualche tempo venimmo imbarcati su di una grande nave. Gli Inglesi avevano chiamato in soccorso due incrociatori, affinché ci scortassero alla nostra destinazione, senza incappare nelle mire del sottomarino nemico.

Appena giunti a destinazione, guardai fuori dall’oblò e mi accorsi che le guardie del campo non ci avevano mentito. Con grande stupore compresi che stavamo per attraccare nel porto di Taranto. Deve sapere che la Marina Italiana aveva subito gravi perdite durante un bombardamento alleato…

 

Si sta per caso riferendo alla famosa “Tragica notte di Taranto” fra l’11 e il 12 novembre del 1940? Quel bombardamento era successo qualche anno prima. [

Sì! Quella notte vennero messe fuori uso le navi da battaglia “Conte di Cavour”, la “Littorio” e la “Duilio”, e ci furono morti e tantissimi feriti, ma ritorniamo a noi…dicevo che mi accorsi che eravamo giunti a Taranto, dove avevo lavorato per tanto tempo, presso l’arsenale militare, prima di partire soldato e dove avevo alloggiato in via Adua 72. Una volta attraccati, ci fecero scendere in fila indiana e salire su di un’altra nave, che ci avrebbe condotto prigionieri chissà dove. A un certo punto mi fermai e mi inginocchiai per allacciarmi i lacci delle scarpe. Venne subito un soldato inglese, forse australiano non so, che parlava mezzo inglese e mezzo italiano e mi disse gridando: “Don’t stop….Don’t stop. Not from here…non da qui…quella parte tu andare!” e mi spinse verso la parte opposta…io obbedii al suo ordine e mi accorsi che quel soldato mi aveva indicato la via verso la libertà. Ero libero…facendo la massima attenzione, sgattaiolai fuori, non dando nell’occhio. Ero riuscito a fuggire, ero in una città che conoscevo; ma dove andare? Si capiva subito da come ero vestito che ero un reduce di guerra italiano. Mentre pensavo a tutto ciò, incontro un tizio che mi fa: “Senti …ma tu non sei uno di quelli che…” Ed io istintivamente risposi volgarmente: “Tu pijate li c…. toi! Che vai cercando da me? Vedi di andartene o finisce male!” Ma quello continuò dicendo: “No… no…stai calmo. Volevo solo dirti che in fondo a questa strada c’è un cancello…se vai lì e bussi c’è un grande frantoio, se cerchi il proprietario che è di Soleto, Mesciu ‘Ntoni Nuzzaci[3], è possibile che ti possa aiutare!” .

 

Gli inglesi, nel frattempo, si erano accorti della sua fuga?

Non ancora, ma se ne accorsero dopo…purtroppo per mio fratello!

 

In che senso?

Mi lasci finire e capirà…mi comportai come mi aveva suggerito quell’uomo. Arrivai davanti a quel grande cancello, suonai e uscì un uomo, forse un nachiro[4] che mi disse: “Hei amico mio, non c’è nulla da fare, oggi qui è già tutto pieno!” Io gli risposi: “No… guarda che ti stai sbagliando, io non cerco un lavoro, io vorrei parlare con Mesciu ‘Ntoni!”. “E chi sei tu che vuoi parlare con Mesciu ‘Ntoni?” – mi disse – ed io subito: “Digli che c’è il fratello di Annetta Ancora, di Galatina, che gli vuole parlare!”. Dopo aver pensato come fare, quell’uomo andò a chiamare Mesciu ‘Ntoni. Appena giunse, gli spiegai la mia situazione e mi disse: “Guarda io non posso portarti a Galatina perché ci sono moltissimi posti di blocco Alleati; se mi beccano con t,e per me saranno guai, perché ci sono dei controlli rigorosissimi. Tu puoi fare solo una cosa, qui c’è un treno merci che porterà vettovaglie, patate ed altro al capo di Leuca, che parte da Roccaforzata, qui vicino; cerca di salirci sopra, poi ti renderai conto tu quando scendere. Nel frattempo farò in modo d’informare tua sorella e tuo cognato”. Così avvenne. Presi insieme ad altri quel treno merci carico di patate e riuscii, nascondendomi, a raggiungere Zollino, praticamente alle porte di casa. A Zollino incontrai mio cognato Masi che era stato già avvisato, e mi venne incontro. Lui mi fece salire sul suo biroccio e, nascondendomi, mi portò a casa sua. Stetti un poco da loro, poi decisi di andare in giro latitante, perché sapevo che se fossi andato a Galatina, prima o poi gli Inglesi sarebbero venuti a prendermi, perché risultavo come fuggiasco.

Stetti in giro parecchi giorni, presso vari amici, poi decisi di andare dai miei a Galatina, preoccupandomi di trovare il modo di scappare, se per caso fossero venuti a prendermi. Quando giunsi a Galatina, il caso volle che arrivò contemporaneamente a me mio fratello Luigi, in licenza da Bologna. Venivano spesso le guardie a cercarmi a casa, ma io appena le sentivo arrivare, mi nascondevo.

Una notte mentre dormivamo tutti, sento l’esigenza di andare in bagno. Mentre ero fuori – perché il bagno lo tenevamo in cortile – sento un frastuono dentro casa. La polizia militare inglese aveva fatto irruzione e aveva incatenato mio fratello Luigi, scambiandolo per me. Mio padre disperato gridava. “Lasciatelo stare…non è Antonio, questo è Luigi …vi state sbagliando!” e per il nervoso si mordeva le mani. Ma loro imperterriti lo incatenarono e se lo portarono via. Fortuna volle che vicino a casa di mio padre abitava un noto carabiniere, che anche lui si trovava in licenza. Fu lui ad andare al comando inglese e a testimoniare in favore di mio fratello. Fu così che lo rimisero in libertà!

 

Poi che accadde?

Accadde che a guerra finita tutto si risolse a mio vantaggio.

 

Vedo che si è stancato parecchio; credo che l’intervista possa finire qui. Grazie di tutto sig. Ancora. Lasci che mi complimenti con lei per la memoria ferrea.

Grazie, quando si vivono certe esperienze, queste ti rimangono dentro per tutta la vita. Ho visto la guerra e la pace…molto meglio la seconda. Ai ragazzi dico sempre che è meglio puntare sulla pace e mai sulla guerra. Altre guerre mai!

 

Inaugurazione celebrazione “Ricordando i Leoni di El Alamein. Dai racconti del parà Antonio Ancora” organizzata dal Club per l’Unesco di Galatina il 15 Dicembre 2019 presso la sala “G. Pollio” – Parrocchia “San Biagio” a Galatina

 

 

Antonio Ancora insieme al Presidente Club per l’Unesco di Galatina Dott. Salvatore Coluccia, il Vice Presidente Dott. Giuseppe Serra, i figli Mariolina e Pio e Romualdo Rossetti ideatore dell’evento.

 

Antonio Ancora insieme al Col. De Chigi Vice Comandante e responsabile dell’Ufficio Storico della Folgore e altri ufficiali e sottufficiali dell’Esercito Italiano convenuti per l’evento

 

 

Antonio Ancora durante la commemorazione
dei caduti di tutte le guerre a Galatina

 

  

Testimonianza filmata di Antonio Ancora nella trasmissione di RaiStoria “Italia in guerra. Nord Africa, la resa dei conti” andata in onda martedì 10 Gennaio 2023 alle h. 21.10

 

 

Note

[1] Ora città libica di Ben Gascir.

[2] Ora chiamato Al-Marj che durante il periodo del colonialismo italiano venne ridenominato Barce in onore dell’antica colonia greca di Barca, era una cittadina della Libia orientale, nota come Cirenaica.

[3] Mastro Antonio

[4] Nocchiero, un grado dei lavoratori dei frantoi salentini.

Dialetti salentini: lientu

di Armando Polito

 

In linguistica l’omografo è  una parola che presenta, rispetto ad un’altra, la stessa grafia ma etimo, significato e talvolta pronuncia diversi.  Questo fenomeno non è estraneo al dialetto salentino1 e vi rientra, tra molti altri, anche lièntu, del quale mi sono occupato già più di dodici anni fa con un post su questo stesso blog (https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/10/omografi-del-dialetto-neritino-lientu/); da quello ho replicato le vignette di testa, che ho preferito non aggiornare, ridotto, come sono, su una sedia a rotelle, dettaglio che mi auguro non faccia piacere oggi all’ex studente … ..

Per comodità di trattazione, indicherò con numeri diversi.

lientu 1 corrisponde all’italiano lento, che è dal latino lentu(m) con una caterva di significati non privi, in qualche caso, di apparente contraddizione:

a) pieghevole, elastico, flessibile
b) duttile, malleabile
c)viscoso, appiccicoso
d) prolungato, persistente, tenace, lungo, duraturo
e) resistente, duro, rigido
f) tenace, ostinato, caparbio
g) lento, pigro, tardo, indolente, ozioso
h) placido, tranquillo, paziente, calmo, flemmatico
i) insensibile, indifferente

Può aiutare chi legge a comprendere la convivenza di concetti opposti l’esempio dell’acciaio che si spezza (dunque, debole)ma non si piega (dunque, forte).

lientu 2 (che non ha corrispondente diretto in italiano2) è usato solo col nesso puzza ti (puzza di) con riferimento specifico all’uovo marcio; lientu è per aferesi da un latino *olentum, voce non attestata (da qui l’asterisco) nel latino classico, tardo e medioevale ma in quello scientifico (p. e.: olentum ammoniatum in Archiv der pharmacie, In Verlsag der Hahn’schen Hofbuchandlung, Hannover, 1842, p. 196).

Olentum è dalla radice (olent-) del participio presente (olens/olentis) di olere (mandare odore, cattivo o buono). Da olere (in italiano tal quale, di uso poetico insieme con il participio olente) deriva   l’aggettivo olidus (=odoroso, puzzolente) da cui il verbo *olidare, dal quale, attraverso un *olidiare è derivato l’italiano olezzare, da cui olezzo e da quest’ultimo, per aferesi, lezzo (specializzatosi negativamente col significato di cattivo odore). La prolificità della voce latina si mostra in italiano, oltre alle parole semplici prima citate, in molte altre composte come fraudolento (alla lettera che emana odore di frode), macilento (alla lettera che emana odore di magrezza), violento (alla lettera che emana odore di violenza) e, per finire con il trionfo del concetto di base, maleolente (alla lettera che emana odore malamente) e il quasi tautologico (come, tutto sommato, è puzza ti lientu)  puzzolente (alla lettera che emana odore di puzza). Non deve sorprendere più di tanto l’incontro, pur se probabilmente casuale, tra la scienza (olentum) e il dialetto (lientu); basti l’esempio di munètula (un fungo), che è deformazione (con aggiunta di un suffisso diminutivo) di Amanita. E, quanto a fedeltà rispetto alla forma di partenza, con lientu è andata pure meglio …

_________

1 Per altri omografi vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/?submit=Cerca&s=ncarrare

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/10/14/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-16-critazzu/

 https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/10/13/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-15-stuccare/

 https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/29/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-14-cuerpu/

 https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/19/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-spirdare/

 https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/02/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-ncarnare/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/01/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-3/

 https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/31/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-casu/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/29/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-2/

 https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/28/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti/

 https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/27/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-mpicciare/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/26/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-mazzu/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/24/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-la-corsa/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/23/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-la-cagge/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/22/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-la-carza/

2 Riproduco di seguito i due lemmi come sono trattati dal Rohlfs nel suo Dizionario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976, p. 293)

Laddove esiste un esatto corrispondente tra la voce dialettale e quella italiana l’insigne studioso si limita a riportare quest’ultima; in caso contrario riporta la sua proposta etimologica, a parte i lemmi in cui essa manca, perché, evidentemente, nemmeno lui è riuscito a raccapezzarsi. Così in lientu1 si legge come primo significato lento; in lientu2, invece, lezzo non è il suo esatto corrispondente italiano, perché le due voci, pur nascendo dalla stessa radice (ol- di olere), hanno seguito strade diverse, sicché il lettore comune, per il quale è di banale evidenza anche fonetica la corrispondenza di  lientu1a lento, resterebbe perplesso di fronte a lientu2/lezzo. Il Rohlfs non poteva sprecare tempo e spazio e la mia precisazione ha solo lo scopo di dare una risposta alla sua legittima perplessità. E poi come poteva scovare quel decisivo olentum con gli strumenti a disposizione ai suoi tempi, quando l’informatica e la digitalizzazione con il connesso sviluppo dei motori di ricerca non era nemmeno agli albori?

I Cappuccini a Francavilla: la chiesa dello Spirito Santo

di Mirko Belfiore

Se volessimo individuare fra i monumenti della città degli Imperiali una composizione architettonica che possa avvicinarci alla conoscenza della grande lezione del Barocco romano, basta passeggiare per il centro storico di Francavilla e tralasciando per un attimo la meravigliosa chiesa Matrice, prendere in esame un edificio in particolare: la chiesa dello Spirito Santo. Utilizzando le parole della studiosa Vita Basile, che sugli edifici di Francavilla ci ha lasciato un’opera esemplare, possiamo leggere questa interessante riflessione: “La ricerca del movimento e della spazialità basati su di una dialettica interno-esterno, in contrapposizione alla pura ostentazione decorativa, vide nel Settecento, anche e soprattutto nei feudi della Famiglia Imperiali, la sua massima espressione”. Quindi Francavilla non rimase insensibile ai richiami artistici che provenivano dai centri più importanti della nostra Penisola, grazie soprattutto ai contatti di Casa Imperiali fuori dai confini feudali pugliesi.

Chiesa del Santissimo Nome di Gesù a Roma, Jacopo Barozzi da Vignola (XVI secolo)

 

Sicuramente Napoli e il suo Barocco esuberante e teatrale, ancora oggi ben testimoniato dalle opere architettoniche di grandi nomi come Ferdinando Fuga, Ferdinando Sanfelice e Luigi Vanvitelli, faro artistico di una buona parte delle province meridionali, ma a cui dobbiamo necessariamente aggiungere la lezione impartita dalla Roma papale, diffusa in Meridione secondo molteplici riletture, ma universalmente riconosciuta nello stile plastico e sinuoso dei grandi artisti come Gian Lorenzo Bernini, Francesco Borromini e Carlo Maderno.

Chiesa dello Spirito Santo, fra’ Liborio da Manduria (XVIII secolo)

 

Detto ciò, nell’analisi della chiesa dello Spirito Santo dobbiamo mettere in conto come essa rappresenti una delle istituzioni conventuali fra le più amate e di cui ancora oggi se ne conserva un ricordo intimo e carico di devozione.

Fu verso la metà del XVI secolo che un piccolo gruppo dell’ordine Minore dei Frati Cappuccini giunse in città, una notizia storiografica confermata dalle parole dello storico Pietro Palumbo: “…havendo il pubblico di Francavilla risoluto di fondare un Convento di Cappuccini nel suo distretto, ricorse con reiterate preghiere al Provinciale Tullio da Potenza in tempo ch’egli attendeva alla fondazione di più Conventi in queste parti, scongiurandolo a passare uffizi di raccomandazione affinché si accordasse la petizione. Tanto occorse agli abitanti di Francavilla, i quali, per avere i Cappuccini, si prodigarono nell’edificare loro un Convento a proprie spese. Così, ottenuto il Placet, si venne tosto all’esecuzione e per quale può concetturarsi al millesimo posto sopra la Porta della Chiesa che è il 1564…”.

San Francesco d’Assisi incappucciato (Francisco de Zurbarán, 1638, olio su tela, Città del Messico, Museo Soumaya)

 

I frati furono richiesti con insistenza dalla popolazione, perché a quest’ordine veniva riconosciuta una grande umiltà e una profonda dedizione per la cura dei poveri e degli ammalati. In una conclusione capitolare risalente al 22 gennaio 1581, i cappuccini dichiararono che il loro convento era già “compito”, a dimostrazione di come le parti fecero di tutto per ospitare i membri di questa congrega nel minor tempo possibile.

In una relazione del 15 febbraio 1650, redatta dai padri in occasione della riforma dei conventi voluta da Papa Innocenzo X e nota come Inchiesta innocenziana, infatti, si legge: “Il convento della terra di Francavilla de’ frati minori capuccini della provincia d’Otranto si ritrova sotto la diocesi d’Oria ed è situato fuori dalle mura della terra […] Ha la chiesa col titolo dello Spirito Santo, dove per la devotione de’ signori padroni et del popolo, vi è molto concorso, sì per sentirvi la santa messa come per visitarvi la chiesa. Intorno alla fondatione del convento […] per come si cava dal millesimo inscritto sopra la porta della chiesa, che sta alli 1564, debbe forse essere principiato verso li 1560. Poi, col progresso di tempo, perché la terra è stata ingrandita et ampliata per essere stata ben governata da’ signori padroni Imperiali, vi sono state fatte al convento alcune aggionte, ma il tutto per limosine de’ devoti come de’ signori padroni e d’altri benefattori devoti del convento […] [Nel piano superiore] vi sono 30 celle abitabili, due stantiole per riposto diversi utensili, due altre celle grandotte, una che serve per studio et l’altra per communità […]. Nel di basso vi è la chiesa, il choro dietro la trabona, la sacristia […] il refettorio, una stantiola dov’è il lavatorio dove si lava i piedi a’ frati viandanti, la cucina e due altre stantiole. […] E tutti questi frati sono sostentati di limosine quotidiane, somministrate al convento sì da’ signori padroni della terra come dall’università, da gentilhuomini e dal popolo, ch’è molto divoto della Religione”.

Veduta di Francavilla (Carlo Francesco Centonze, 1643, disegno su carta, Napoli, Archivio di Stato, elaborazione grafica)

 

La seconda fonte che ci conferma la presenza di un grande complesso, la possiamo individuare nel disegno “a volo di uccello” realizzato nel 1643 da Carlo Francesco Centonze, un documento preziosissimo in cui ritroviamo i contorni urbani di una vivace cittadina in piena espansione.

Focalizzando la nostra attenzione sulla mappatura in basso a sinistra, si riconoscono sia il tempio religioso che la struttura conventuale con l’ortale attiguo, una struttura cinque-seicentesca che in quel momento ebbe un ruolo centrale nello sviluppo settentrionale dell’insediamento, dovette fare i conti con il terribile sisma del 20 febbraio 1743.

Questo terremoto, uno fra i più eccezionali fra quelli registrati nella storia della sismologia, ebbe effetti devastanti per Francavilla e insieme a molte città del basso Salento, una fra tutti la bellissima Nardò, subì sconquassi, distruzioni e demolizioni a molti degli edifici civili e religiosi presenti.

Ed è sempre da una lettera inviata da uno dei provinciali del convento, tale Daniele Quaranta, che possiamo conoscere lo stato dei danni: “…che la chiesa minacciando rovina per cagione dei terremoti precorsi e per motivo dei mali fondamenti presi nel riattamento e riparo per i suddetti terremoti, e quindi c’era bisogno rifarla dalle fondamenta sull’appoggio dell’Ecc. signor Principe e padrone amorississimo del loro abito e di detto convento benefattore specialissimo”. A questa missiva fu data risposta non molto tempo dopo, con la concessione per l’edificazione di un nuovo plesso “…ut iuxta mentem et ordinem Exc. Domini Principis munificientissimi fundatoris partes ruinisas aedificari possit”.

Altare maggiore con il dipinto settecentesco della Discesa dello Spirito Santo con in chiave di volta l’aquila araldica della famiglia Imperiali.

 

Alla ricostruzione si mossero alcune delle personalità di spicco del contesto architettonico locale e uno fra tutti il progettista ed esecutore dei lavori: l’architetto fra’ Liborio da Manduria, a sua volta appartenente all’ordine dei cappuccini, lo stesso che ritroveremo in altre fabbriche cittadine: la Collegiata del Santissimo Rosario, la cupola della Chiesa di San Sebastiano e con molta probabilità l’attigua porta Cappuccini. Ai lavori della nuova composizione architettonica contribuì con sostanziosi finanziamenti Michele IV, settimo e ultimo feudatario di Francavilla, il quale volle dare una forte impronta del potere di Casa Imperiali (come per la nuova Collegiata del Santissimo Rosario), aspetto che trova conferma se osserviamo la parte alta dell’abside maggiore, dove in posizione privilegiata è presente lo stemma araldico della dinastia con l’aquila imperiale.

Particolare del prospetto principale

 

I lavori iniziati con la posa della prima pietra il 19 marzo 1759, si conclusero nel 1770 in tempi relativamente brevi. Osservando la struttura possiamo constatare un edificio che si presenta con la classica pianta a croce latina suddivisa su tre navate, coronata sul lato meridionale da un’imponente facciata dall’andamento concavo-convesso e da cui si apre uno slargo rialzato, accessibile tramite una scalinata monumentale.

Due ali lievemente arretrate si agganciano al corpo centrale, quest’ultimo decorato da una serie di lesene finemente scolpite, il tutto organizzato su due sezioni sovrapposte, separate da un’ampia cornice marcapiano. Nel registro inferiore si posizionano le tre aperture con arcate a tutto sesto, corrispondenti nella parte superiore alle tre grandi finestre con frontoni ricurvi e balconate convesse. La zona sommitale del prospetto è contraddistinta da un ricco fastigio con finestra circolare, chiusa in origine da una meridiana ma in seguito sostituita da un moderno orologio.

È palese come questa facciata mostri chiare affinità con quella della chiesa Matrice, in cui si ripresenta lo stesso prospetto curvilineo e la stessa tipologia di frontone mistilineo, dato che conferma come nei due progetti si fosse tenuto ben presente la lezione vignolesca che proveniva dalla chiesa del Gesù a Roma. Una volta varcata la soglia di ingresso, si accede al piccolo ambiente voltato comunicante con la loggia mistilinea, dove si segnala il cartiglio riportante la data MDCCLXX (1770) in riferimento alla conclusione dei lavori, alcuni dipinti di influenza napoletana e le due particolari acquasantiere in marmo sorrette da una mano scolpita, entrambi risalenti al XIV secolo.

All’interno della navata centrale, la pregevole volta a botte con sezioni a stella intersecata da otto finestroni, conferma ulteriormente quella lezione romana a cui facevamo riferimento e dove infatti, forte è il richiamo alle composizioni del Borromini. Tutto l’ambiente poggia su possenti pilastri smussati alternati ad arcate a tutto sesto, elementi portanti su cui si frappongono gli ampi spazi, a loro volta impreziositi dalle diffuse decorazioni a stucco: cartigli, volute, capitelli corinzi e cornicioni aggettanti. Le attigue navate laterali sono fiancheggiate da una serie di tre cappelle, coperte da volte a crociera dipinte e completate da altari in marmi policromi addossati alle pareti.

Acquasantiere in marmo sorrette da una mano scolpita (XIV secolo)

 

L’arredamento interno indubbiamente si presenta come uno dei più compositi del panorama artistico presente a Francavilla.  Nella navata destra troviamo uno splendido Cristo in Croce che si staglia fra le dolci figure dipinte della Madre di Dio e di Maria Maddalena, un seicentesco quadro di autore ignoto raffigurante frate Benedetto Greco di Francavilla Fontana, qui venerato insieme ai resti conservati in un vasetto di ceramica sito in una nicchia e in un’urna reliquiario posta sotto l’altare centrale.

Martirio di San Sebastiano (Autore ignoto, olio su tela, XVIII secolo)

 

L’arredo in questa parte dell’edificio si arricchisce di una statua di cartapesta di San Benedetto Martire, opera dell’artista leccese Antonio Maccagnani, e un quadro di “San Francesco in preghiera sul monte La Verna mentre riceve le stimmate”, quest’ultimo posto nella cappella dell’abside minore. Una menzione particolare la rivolgiamo alla splendida struttura in legno posta in controfacciata e che accoglie le cinque statue dei santi Cosma e Damiano insieme ai fratelli maggiori Sant’Antimo, San Leonzio e Sant’Euprepio.

Prospettiva della navata principale e particolare della volta a botte con sezioni a stella.

 

Struttura in legno con le cinque statue dei Santi medici Cosma e Damiano e dei fratelli maggiori Sant’Antimo, San Leonzio e Sant’Euprepio

 

Questa devozione per i santi Medici è una delle più forti fra quelle presenti della bassa Murgia e nell’alto Salento e si ricollega a Francavilla con un sottile filo rosso che la vede protagonista durante la festa dell’Ascensione. All’alba della domenica che ricorre quaranta giorni dopo la Pasqua, i fedeli si uniscono al lungo pellegrinaggio che si incammina verso il santuario di Santo Cosimo della Macchia ad Oria, con una lunga fila di traini accompagnati dai suoni della tradizione, in particolare la pizzica-pizzica suonata dagli organetti e dai tamburelli. La grande festa che viene allestita all’esterno del santuario, celebrata ogni anno l’ultimo giovedì di giugno, vede impegnati nell’organizzazione i membri della congregazione di San Bernardino, che ha sede proprio nella chiesa dello Spirito Santo ed è una delle più antiche della città; una devozione quella per i Santi Cosma e Damiano condivisa con la chiesa dell’Immacolata e la congregazione a essa intitolata.

Cappelle votive situate nelle absidi minori

 

Nella navata di sinistra si segnala un’opera del pittore Ludovico Delli Guanti (1770) dal forte valore simbolico, dove vengono raffigurate la Madonna con il Bambino circondati da una folta schiera di santi.

Cappella votiva con una scultura di Cristo in croce che si staglia fra le figure dipinte della Madonna e Maria Maddalena di autore ignoto

 

A conclusione di questo piccolo excursus artistico, segnaliamo il ricco altare maggiore che nella sua esuberanza baroccheggiante accoglie la settecentesca tela “Discesa dello Spirito Santo”, fra un tripudio di volute, stucchi e marmi, a cui aggiungiamo la presenza di numerose statue in cartapesta, figlie della grande tradizione francavillese, fra cui emerge quella della Madonna delle Grazie, uno dei tantissimi culti mariani presente in città e che ci rimanda a un altro unicum architettonico posto a poche centinaia di metri: la chiesa della Madonna delle Grazie.

Non possiamo che spendere due parole, infine, per la porta urbica sita a pochi passi e che la storia ci tramanda come porta Cappuccini. Anche qui, con molta probabilità ritroviamo la stessa mano attiva nel vicino tempio cristiano e che durante la seconda metà del XVIII secolo si operò per dare a Francavilla un varco civico che chiudesse a nord la cinta difensiva sei-settecentesca. La sua struttura essenziale ma voluminosa non manca di ripercorrere la plasticità delle forme sinuose della chiesa dello Spirito Santo, con linee curve e superfici rotondeggianti, il tutto però con un’interpretazione del Barocco leggermente più sobria.

È costituita da un arco a sesto acuto ribassato poggiante su due pilastri in muratura, mentre sulla parete esterna l’arco ribassato è mascherato da un arco pieno che poggia su due lesene.

La facciata è scandita da due semicolonne, chiuse in basso da un alto basamento e in alto da capitelli compositi, sulle quali poggiano la consistente trabeazione sormontata da un frontone con cornici dai profili rettilinei aggettanti e un timpano a mezzaluna. Questo “angolo” della città degli Imperiali dimostra la forte aspirazione di una cittadina e della sua dinastia feudale di darsi un volto più internazionale, rileggendo in piena autonomia uno stile architettonico allora imperante. Uno stile che nel Salento ebbe una vera e propria specificità, ampiamente testimoniata dalle architetture che ancora oggi possiamo ammirare a Lecce, la celebrata capitale del “Barocco leccese”.

Porta cappuccini, frà Liborio da Manduria (XVIII secolo)

 

Francavilla si fece interprete di un progetto nuovo e moderno anche se in un contesto più circoscritto, ma dove un’intera comunità si riconobbe dando seguito a quella volontà di creare un’immagine di forte vivacità e con lo scopo inconscio di lasciarsi alle spalle le devastazioni del “terribilissimo terremoto” che qui lasciò tracce evidenti nelle persone quanto nelle cose.

Due momenti della festa dell’Ascensione con il pellegrinaggio dei fedeli al santuario di Santo Cosimo della Macchia ad Oria e i suoni della tradizione

 

BIBLIOGRAFIA

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Palumbo P., Storia di Francavilla Fontana, Lecce 1869, ristampa anastatica, ed. Arnaldo Forni, Bari 1901.

Intervista a una tarantata

Tarantate, di Luigi Caiuli

 

 

Intervista alla sig.ra Domenica di Minervino di Lecce analisi antropologica inerente La sua esperienza di tarantata

 

a cura di Romualdo Rossetti

 

Buongiorno signora! Potrebbe raccontarci di quando venne morsa dalla tarantola?

Se può avvicinarsi e alzare la voce, per cortesia, perché da questo orecchio non sento molto!

 

Certo! Dicevo …può parlarci di quando venne morsa dalla tarantola?

Si… certo!

 

Per prima cosa può dirci come si chiama, quanti anni ha e dove è nata?

Mi chiamo ….. Domenica e sono nata a Minervino di Lecce il 29.12.1929.

 

Bene! A che età è stata morsa dalla tarantola?

Da giovane, prima di sposarmi!

 

Si ricorda in che anno è accaduto?

L’anno preciso non me lo ricordo però è stato due, tre anni prima che mi sposassi…io mi sono sposata nel 1956, quindi sarà stato nel 1954, 1953…credo!

 

Può raccontarci cosa successe? Se si stanca può fermarsi quando vuole!

Si…certo! Ero andata insieme a tutta la mia famiglia presso un fondo che mio padre possedeva a Minervino e che si chiamava “I Madrigali”, che poi è stato diviso alla sua morte tra i miei fratelli, e stavamo tutti impegnati per la mietitura. Quel giorno era venuta anche mia madre, poverina, nonostante soffrisse di dolori reumatici. Verso mezzogiorno mentre ci stavamo preparando a mangiare qualcosa ebbi l’esigenza di andare in bagno e così mi allontanai e mi inginocchiai dietro un piccolo muro di pietre a secco per non essere vista dagli altri. Quando mi alzai mi accorsi che da sotto un ginocchio era scappata via una taranta, di quelle che hanno il colore rosso e nero. Quando la vidi mi spaventai e dissi dentro di me; “Mamma mia na taranta era, Santu Paulu meu! Speriamo che non mi abbia morso!”. Dolori da pizzicatura non ne avevo sentiti…però, rimasi col dubbio. Mi alzai e raggiunsi gli altri ma poco dopo venni colta da brividi di freddo, un freddo che aumentavano sempre di più… ma un freddo… un freddo… un freddo che ti entrava nelle ossa…

 

Si ricorda in che periodo accadde?

Si che mi ricordo il periodo… il giorno preciso no… ma il periodo me lo ricordo! Era nella prima decina di giugno, intorno all’8, 9 … giorno più, giorno meno. Faceva un caldo che spaccava le pietre ma io sentivo sempre più freddo…sempre più freddo. Tremavo dal freddo. Poi cominciai a sentirmi male… accusavo nausea e poi dolori alle ossa e alle parti delle donne. Erano dei dolori che andavano e venivano ma che si facevano sempre più forti… sempre più forti, tanto forti che non resistetti più e dissi a mio fratello Orlando di accompagnarmi a casa con la bicicletta. Così facemmo! Durante il percorso verso casa venni presa da dolori talmente forti che per reggermi mi aggrappano al collo di mio fratello tanto forte che gli faci male, poverino! Nonostante tutto arrivammo a casa e mi coricai, ma i dolori non passavano… aumentavano!

 

Una volta arrivati a casa che successe?

Successe che mio fratello scappò a chiamare il medico. Nel frattempo mia madre e i miei altri fratelli rientrarono anche loro a casa. Ben presto si sparse la notizia che non stavo bene e cominciarono a venire le vicine per vedere come mi sentivo. La casa di mio padre aveva un lungo cortile che si riempì di gente. In quell’epoca ci si voleva bene, non era come adesso che ognuno pensa ai fatti suoi e con i vicini nemmeno ci si saluta, allora, ai miei tempi era diverso… ci si aiutava.

 

Lei si sentì un pochino meglio una volta arrivata a casa e distesasi a letto?

Macché… non trovavo pace! Non riuscivo a trovare una posizione a letto che mi desse sollievo. Me ne fregavo che ero in vestaglia corta. Quando venivano quei dolori tanto forti non ci pensavo a chi c’era in casa. Facevo “piedi-capitali”, un po’ mettevo la testa sul cuscino un po’ la mettevo dove si mettono i piedi, ma niente, i dolori non terminavano. Ad un certo punto entra mio zio Ottaviano, il fratello di mio padre, per vedere come stavo. Vedendomi sofferente mi chiese: “Ma che ti è capitato nipote mia?” E io gli risposi stizzita: “Lasciami stare zio, che tu non puoi capire… questi sono i dolori del partorire!” Allora tutte le donne presenti nella stanza capirono la causa del mio malessere… la taranta aveva parlato tramite me e si era presentata. Era una “taranta de partu”. Subito dopo giunse mio fratello dicendo di non essere riuscito a trovare il medico perché gli avevano detto che era  dovuto andare fuori paese per una visita… ma tanto ormai non serviva più il dottore. Tutte mi dicevano che l’unica soluzione era andare a Galatina a chiedere la grazia a San Paolo perché si trattava di taranta. Fu così che i miei si organizzarono per farmi andare a Galatina. Era già pomeriggio inoltrato.

 

Che cosa accadde allora?

I miei fratelli preoccupati cercarono subito un’automobile affinché arrivassi presto a Galatina, la trovarono pure ma adesso non ricordo il motivo per il quale non andammo… forse non si misero d’accordo per il costo del viaggio… non ricordo… in quell’epoca nel mio paese c’era solo un’automobile a disposizione di un autista che la utilizzava per accompagnare le persone che avevano bisogni urgenti. Sta di fatto che quella volta fallì il tentativo di utilizzare un’automobile per raggiungere Galatina, né potevo chiedere ai miei fratelli di accompagnarmi in bicicletta perché era notte ma soprattutto perché i forti dolori non mi consentivano si stare seduta sul tubo della bicicletta da uomo non so come si chiama… ma ci siamo capiti! Allora scegliemmo di andare in biroccio e così  partimmo. Mi accompagnò mio fratello Orlando. Mia madre rimase a Minervino perché non si sentiva molto bene in quei giorni. Mio fratello Orlando era scettico riguardo il morso della taranta e questa cosa mi infastidiva molto perché non mi credeva. Mentre passammo per i vari paesi io mi vergognavo molto del mio stato ma soprattutto del fatto che le persone mi potessero vedere così tanto sofferente. Pensi che quando venivo presa dai dolori per non gridare troppo mi tenevo stretta ad un aggeggio che era legato al biroccio proprio come fanno le donne gravide quando stanno per partorire. La mia, come ho detto prima, era una “taranta de partu”!

 

Ci può spiegare meglio questo dettaglio? Che significa la parola “taranta de partu”?

Deve sapere che dalle nostre parti si è sempre detto che le tarante prima di essere dei ragni erano delle persone come noi, che facevano tutti i mestieri che facciamo noi e tutte le azioni che facciamo noi; solo che erano troppo orgogliose e avevano offeso Dio col loro modo di fare, quindi il Signore per punizione le aveva trasformate in tarante, in ragni. Durante la loro trasformazione continuarono a fare ciò che stavano facendo … c’era chi ballava mentre venne trasformata e se ti mordeva una di quella ti costringeva a ballare, c’era chi cantava e una volta diventato ragno se ti mordeva ti obbligava a cantare, c’era chi dormiva e se ti mordeva come ragno ti faceva dormire e via dicendo. La mia era stata una persona che stava per partorire e aveva le doglie mentre venne tramutata in taranta quindi il suo morso mi aveva dato tutti i dolori del parto… le doglie diciamo.

 

Come fa a sapere con certezza che i suoi erano dolori simili alle doglie del parto e non invece qualcos’altro?

Figlio mio… come facevo a sapere che erano dolori da parto? Perché stavo morendo di doglie proprio come le donne prene quando devono partorire! Solo io so cosa ho passato… gli altri non possono minimamente immaginare! E poi, tutte le persone che erano venute a casa mia e che avevano partorito e mi avevano vista in quello stato subito avevano capito che si trattava di quello… di taranta partoriente. Lo compresi pure io, dopo maritata, quando mi capitò di assistere parenti o vicine di casa che stavano partorendo! I miei dolori e il mio comportamento era stato simile al loro! Io non ho avuto figli ma i dolori del parto li ho subiti. All’epoca, deve sapere che solo le donne maritate potevano assistere a un parto… se una donna non era sposata non poteva assistere anche se era grande d’età, questo, per una questione di pudore. Chi non aveva conosciuto il marito non poteva assistere a una nascita…all’epoca era così… e all’epoca tutte partorivano in casa con l’aiuto della mammana… a volte manco il dottore c’era, veniva chiamato solo in casi gravi.

 

Una volta giunti a Galatina che cosa accadde?

Arrivammo che era già sera e la cappella di san Paolo era chiusa. Non c’era nessuno. Per prima cosa cercammo il sagrestano perché avevamo saputo che era lui che custodiva le chiavi della cappella. Quando venne e aprì la porta per prima cosa mi disse che dovevo bere l’acqua del “pozzo di San Paolo”. Raccolse con un vecchio secchio l’acqua del pozzo e me la porse in una specie di boccale unto. Appena la bevvi sentii che era acqua grossa che faticavo a ingoiare. Lui mi disse che dovevo sforzarmi a bere altrimenti il santo non mi avrebbe fatto la grazia. Bevvi a forza quell’acqua, prima piano poi a piccoli sorsi. Mamma mia che brutto sapore aveva quell’acqua amara! Era acqua grossa! Ne bevvi poca! Dopo un poco vomitai…vomitai il veleno, una volta… due volte e sul pavimento, proprio dove vomitavo si era formata tanta schiumazza segno del veleno che avevo messo fuori. Notai che col vomito i dolori piano piano stavano scomparendo. Dopo poco tempo mi sentii meglio. Dissi a quel punto a mio fratello Orlando e al padrone del biroccio che potevamo ritornare a Minervino. Avevo bevuto l’acqua del pozzo, i dolori erano scomparsi… potevo ritenermi soddisfatta… san Paolo mi aveva fatta la grazia…pensavo!

 

Poi cosa accadde?

Una volta arrivati a Minervino i parenti si tranquillizzarono nel vedermi rimessa. Raccontai loro come erano andati i fatti poi loro fecero ritorno alle loro case. Vidi mia madre molto preoccupata ma non ne compresi la ragione. Appena rimanemmo soli in casa i dolori ritornarono più forti di prima. Mi sentii persa… San Paolo non mi aveva fatta la grazia, questo comportava il fatto che sarei dovuta ritornare a Galatina per chiedere ancora la grazia al santo. Mi si avvicinò mia madre e mi disse che nonostante non si sentisse affatto bene quella volta mi avrebbe accompagnata lei. Seppi dopo, da mia sorella Nina che quando ero partita con mio fratello Orlando, la prima volta, loro due si erano appisolate sul letto matrimoniale di mia madre perché mio padre era ritornato al campo a terminare la raccolta delle spighe e per sorvegliare i covoni affinché non li rubassero. Mia madre una volta appisolata si era messa a mugolare nel sonno e a agitarsi tanto da svegliarsi di soprassalto. Tutta sudata e pallida come un cencio aveva detto a mia sorella che aveva visto in sogno san Paolo che l’aveva ammonita dicendole che se non mi avesse accompagnata lei a Galatina, in quanto madre, non mi avrebbe fatto la grazia. Una volta svegliata era rimasta molto turbata da quel sogno e aveva intuito che pur apparendole in buono stato di salute non ero guarita. Lei già lo sapeva perché san Paolo glielo aveva detto in sogno.

 

Antidotum Tarantulae. Dal Magnes sive de magnetica arte (1644) del P. Atanasio Kircher

 

Dunque ritornaste a Galatina?

Si.

 

Ci racconti. Allora, della sua seconda visita al Santo!

Partimmo di mattina presto che era ancora buio sempre con lo stesso proprietario del biroccio. Quella volta mia madre si sedette accanto a me. Mio fratello Orlando rimase a casa perché doveva aiutare mio padre. Durante il tragitto quando venivo assalita dai dolori mi aggrappavo a mia madre e lei mi consolava. Nuovamente dovemmo passare per i paesi e quella cosa mi diede ancora molto fastidio. Non volevo mi vedessero in quello stato. Giungemmo a Galatina in prima mattinata e quella volta trovammo la porta della cappella aperta e molte tarantate con i loro accompagnatori erano già entrate dentro o si erano fermate fuori. Quel giorno vidi tante altre tarante, chi stava seduta mezza appisolata, chi balbettava qualcosa che non riuscivo a comprendere, chi muoveva freneticamente la testa con i capelli scompigliati, chi cercava di arrampicarsi sull’altare. Io avevo sentito dire che alcune tarante, anche se vecchie, si muovevano come ragni e si arrampicavano dove per tutti gli altri uomini non era possibile arrivare.  Mi avevano anche raccontato che alcune di loro riuscivano a diventare sinuose come le sacare al punto da riuscire a passare tra i piedi delle sedie senza muoverle o che alcune riuscivano a rimanere in equilibrio su uno spazio così piccolo (mima lo spazio di un palmo) senza cadere per tanto tempo. Erano tutte cose che mi erano state raccontate da gente che era stata prima di me, gente di cui potevo fidarmi. Quel giorno ebbi, invece, modo di vedere una tarantata che aveva preso per il collo un signore che indossava una cravatta rossa e nera. Si gettarono in otto su di lei per trattenerla. Se non l’avessero fatto lo avrebbe soffocato con le sue mani. Le tarantate avevano una forza straordinaria, una forza che nemmeno si può immaginare. Quando entrai nella cappella notai un uomo che stava come se stesse dormendo e una donna, che seppi essere sua moglie, che di fronte la statua del santo nella teca gli diceva: “Ma perché non gliela fai la grazia? Perché? Perché non gliela fai?”. Senza dire una parola andai al pozzo mi feci passare il secchio e ingurgitai moltissima acqua, ma davvero tanta. Subito ripresi a vomitare, una… due… tre… quattro volte, finché non mi sentii del tutto liberata dal veleno. Mi sentì allora subito bene, talmente bene come se non mi fosse accaduto nulla. Fu allora che mi avvicinai alla signora che interrogava il santo e le dissi: “Signora mia, guarda la statua del santo… vedi cosa indica col dito? Indica il pozzo! Se non fai bere a tuo marito tanta acqua quello non ti sana!”

La donna mi guardò riconoscente e mi disse che era più di un anno che suo marito versava in quello stato… non dava più segni di vita… non moriva ma nemmeno campava più. Si sentiva disperata!

Dissi a mia madre che mi sentivo davvero bene e che volevo ritornare a casa ma prima di andare al biroccio volevo passare a rendere omaggio a San Paolo e San Pietro presso la chiesa madre che distava poco. Mentre parlavo con mia madre fui fermata da un signore distinto che mi intervistò. Mi disse di essere uno studioso delle tarantate e io gli raccontai cosa mi era accaduto. Dopo ci recammo in chiesa e ringraziammo san Paolo e anche san Pietro. Fu allora che notai che la statua di san Pietro era molto più preziosa di quella di san Paolo. Era a mezzobusto tutta d’argento… era bellissima. Anche quella di san Paolo era bellissima ma era di cartapesta. Dopo aver detto le preghiere ritornammo dal proprietario del biroccio e lo vedemmo litigare con un signore.

 

Cosa era accaduto?

Cosa era successo? Era successo che il padrone del biroccio aveva legato il cavallo davanti a uno studio fotografico ed era andato a farsi quattro passi per fumarsi una sigaretta. Al ritorno aveva saputo che il suo cavallo con un colpo di muso aveva mandato in frantumi la cornice di un quadro di san Paolo e ora il proprietario dello studio pretendeva che aggiustasse la cornice. Noi proponemmo di dargli dei soldi per il danno ma lui fu irremovibile… ci disse: “fin quando non aggiustate il quadro e non lo appendete dove stava di qua non ve ne andrete!”. Allora con la santa pazienza convincemmo l’uomo del biroccio ad andare a trovare un falegname e un vetraio. Così accadde. Dopo tanto tempo riuscimmo a riparare il danno e fare finalmente ritorno a casa. Fu una giornata stancante… molto stancante, tanto per me quanto per mia madre.

Il ballo della tarantata, olio su tela di Daniele Bianco

 

Si recò altre volte a Galatina a rendere omaggio a san Paolo in occasione della sua celebrazione il 29 Giugno?

Certo! Ci andai quell’anno e altre due volte da sposata. Quell’anno andai in bicicletta perché avevo recuperato tutte le forze e mi sentivo bene. Avevo superato Corigliano d’Otranto quando venni superata da un biroccio che portava una tarantata che si stava scalmanando. Quella si mise a gridare: “Haiiiiiiiiiiii…haiiiiiiiiiii” e quel grido mi fece di colpo perdere tutte le forze. Stavo quasi cadendo dalla bicicletta e mi misi subito a tremare. Mi fermai e lasciai che si allontanassero, poi ripresi a pedalare verso Galatina.

 

È vero che il santo vi lascia i segni della sua presenza in prossimità della sua festività?

Si è vero! Da quando venni morsicata nel periodo della sua celebrazione mi sento strana… stanca, svogliata… frastornata diciamo! Anche adesso mi capita, poi quando mi dicono che è la festa di San Paolo capisco la causa del mio malessere. È il santo che vuole che mi ricordi del suo intervento prodigioso e allora gli recito un Rosario con tutti i misteri, mai per rinfaccio. È stato san Paolo che mi ha guarita non i medici!

 

La ringrazio di tutto signora. La sua testimonianza è davvero molto importante. Grazie ancora!

Grazie a lei… che santu Paolo e lu Signore vi benedica e vi protegga!

 

Typus Tarantiacorum saltantium. Dalla Phonurgia nova del P. Kircher (1673)

 

Analisi antropologica della testimonianza

L’esperienza vissuta dalla Sig.ra Domenica di Minervino di Lecce intorno alla metà degli anni ’50, praticamente a ridosso della spedizione di ricerca di Ernesto De Martino a Galatina e nel Salento, proprio perché slegata dal comune aspetto coreutico-musicale presente nel fenomeno catartico del tarantismo, risulta essere particolarmente preziosa ai fini di un’accurata indagine antropologica e sociale. Nel racconto emerge una forte fede religiosa nella vita della signora fin dalla sua giovane età. La signora Domenica apparteneva a una numerosa famiglia contadina legata alla mezzadria, ma non solo, di discrete condizioni economiche. La signora non ha mai sofferto di disturbi di natura psicosomatica né psichiatrica, né si annoveravano casi psicopatologici in famiglia come risulta da accurata indagine. La signora e la sua famiglia di appartenenza godeva nella sua comunità di ottima stima, stima che è proseguita anche nel paese del marito divenuta comunità di residenza una volta sposata.

È presente in lei, come precedentemente accennato, un fortissimo attaccamento all’ambito religioso che rasenta l’affabulazione. Mi risulta che la signora sia stata educata fin dalla sua giovanissima età dalla sorella minore di suo padre, una “suora di casa” che impossibilitata per motivi di salute a esercitare in convento i doveri in una non meglio specificata congregazione religiosa venne dispensata dai voti ed esercitò nella sua abitazione la missione cristiana di accoglimento, custodia cura religiosa degli infanti di genitori entrambi lavoratori. Anche gli altri suoi familiari (fratelli, sorelle e genitori) risultano essere tutti dei cattolici credenti e praticanti tutte le funzioni religiose.

Dalla sua narrazione emergono numerosi spunti d’indagine e riflessione quali:

  • La presenza di un rimando mitologico riguardo l’origine del fenomeno del tarantismo (metamorfosi di uomini e donne in tarante per punizione divina) che richiama alla mente la vicenda mitica di Atena e della tessitrice Aracne, fatto questo che lascia supporre una presenza latente di una rimembranza etnica nel sottobosco rurale demologico salentino;
  • Il convincimento pre-ippocratico che la malattia provenga dalla sfera divina per cause occulte, il più delle volte per una manchevolezza volontaria o involontaria del malato ma anche di alcuni suoi familiari;
  • L’emergere di una tradizione sapienziale diagnostica di natura rurale laddove altre tarantate o testimoni di tarantate convincono il malato a lasciar perdere l’iter medico-scientifico e di rivolgersi unicamente a quello religioso;
  • Un continuum di una presenza asclepiea nella vicenda che vede nell’acqua il farmakon per certi versi omeopatico (acqua amara e disgustosa) con cui si ottiene la salute perduta. Non va trascurata la vicinanza geografica e culturale con la tarantata Filomena da Cerfignano che nell’opera La Terra del Rimorso di Ernesto De Martino viene fotografata da Franco Pinna mentre esegue il rito dell’incubatio onirica di sicuro rimando iatromantico asclepieo. Incubatio onirica che nel caso specifico della signora Domenica è presente nella vicenda del sogno premonitore della madre;
  • Non si esclude che l’intervistatore della signora Domenica possa essere stato lo psichiatra Giovanni Jervis in persona o qualche suo stretto collaboratore poiché in quel periodo il neurologo era presente in zona per approfondire autonomamente il fenomeno del tarantismo prima di fare parte, dal 1959 al 63 dell’equipe di Ernesto De Martino;
  • In ultimo l’appartenere alla “ciclicità dell’evento” anche da vecchia a dimostrazione che nella signora permangono indisturbati due modi vi vivere la storia, quello ciclico del ritorno di radice religiosa arcaica e contadina, presente nel riproporsi del tenue malessere in corrispondenza del giorno della celebrazione del santo; e quello lineare cristiano, proprio invece della vita quotidiana, che procede inesorabile, con i suoi avvenimenti profani, verso la fine dei giorni.
Galatina, il pozzo di San Paolo

Dialetti salentini: cacanìtulu

di Armando Polito

Il nido, si sa, non è dotato di servizi igienici e un unico ambiente funge contemporaneamente da soggiorno, stanza da pranzo e bagno. Quando si schiudono le uova, sono i genitori a provvedere alla periodica pulizia del nido per tutto il tempo, relativamente breve, in cui gli uccellini non sono in grado di volare. Si comprende bene che, se così non fosse, in breve il nido si ridurrebbe ad un ammasso di letame con tutte le conseguenze del caso per i suoi abitanti.


Il metabolismo piuttosto accelerato degli uccellini trova il suo parallelo nei cuccioli umani, com’è confermato dal detto Lu piccinnu ti la naca1 lu ggiurnu enchie2 e la notte sdiaca3 (Il piccino della culla di giorno riempie e la notte svuota).

Non sorprende, perciò, come meglio si capirà dall’analisi etimologica che sarà fatta più avanti, che cacanìtulu sia l’appellativo riservato all’uccellino della covata   nato per ultimo. La voce, che trascritta in italiano sarebbe cacanìdolo, risulta composta da caca (come in italiano, a conferma della sua universalità d’uso …)+nitu (corrispondente all’italiano nido)+il suffisso diminutivo -olu (corrispondente all’italiano -olo, come, per esempio, in rìvolo da rivo). Per quanto s’è detto, tutti gli uccellini non ancora in grado di volare sono dei cacanido ma, in virtù del suffisso diminutivo, che agisce non sull’oggetto (nido) ma sul protagonista dell’azione espressa dal primo componente (caca), il cacanìtulu, come anticipato, è l’ultimo nato.

C’è poi chi, divenuto adulto, si è guadagnato l’appellativo di cacamargiali4 per l’abitudine di lasciare il suo ricordino poco gradito sul manico (margiale) della zappa momentaneamente lasciata incustodita dal contadino: è, a seconda delle zone, il saltimpalo o la cinciallegra. Temo che della voce resterà fra poco solo il ricordo, come, tra gli altri, di questi uccelli e del contadino che usa ancora la zappa ….

Questo post per i miei gusti avrebbe avuto forse scarse probabilità di essere, se la voce del titolo non fosse usata metaforicamente per identificare, con un sentimento di nostalgica tenerezza e affettuosa protezione il più giovane dei fratelli di una famiglia; egli, anche se  avrà raggiunto una bella età (e soprattutto se sarà costretto ad usare il pannolone dopo una più o meno lunga liberazione dal pannolino), sarà sempre il cacanìtulu

 

E sempre questo post, se avrà suscitato qualche ricordo tra chi è avanti negli anni e curiosità in chi ne ha ancora tanti da vivere e che potrà contribuire alla sopravvivenza del lemma, non sarà stato scritto invano.

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1 Per naca vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/17/sul-termine-naca-la-culla-dei-nostri-avi/

2    Da inchire, che è dal latino implere, con normale passaggio –pl->-chi-, mentre in italiano è –pl->-pi– (empire).

3 Da sdiacare, in cui s– è ciò che resta della preposizione latina ex (=fuori), -di- è dall’altra preposizione, sempre latina, de (=da) e acare è, con aferesi, semprea dal latino vacare; va detto che acare da solo è usato nel salentino soltanto nel participio presente (acante) riferito ad un frutto (come una mandorla o una noce) il cui guscio è vuoto o ad un contenitore anch’esso vuoto.

4 Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/tag/margiale/ e https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/10/01/il-sentimento-e-la-tecnologia/

 

 

 

 

Ancora su Paolo Emilio Stasi, con una sua foto

di Riccardo Carrozzini

Nel trascorso anno 2022 è caduto il centenario della morte, oltre che di Cosimo De Giorgi, anche di Paolo Emilio Stasi. Il 22 dicembre il Museo Castromediano ha inaugurato la mostra Paolo Emilio Stasi, pittore e archeologo in terra d’Otranto tra otto e novecento, che sarà visitabile fino al 31 gennaio prossimo.

Mi sono occupato di lui non come pittore, ma come ricercatore – archeologo, nel volume Liborio Salomi, un illustre salentino quasi sconosciuto, edito da Milella nel 2015, annoverandolo tra i personaggi che Salomi conobbe o con cui fu in contatto. Metto qui a disposizione di chi lo volesse utilizzare quanto è contenuto nel volume citato su Paolo Emilio Stasi.

Riporto in apertura una parte della presentazione del volume su Salomi sopra citato, scritta da Livio Ruggiero, utile come inquadramento generale, specie per i “non addetti ai lavori”:

Il patrimonio culturale di Lecce e del suo territorio sembrerebbe non pre­sentare elementi legati alle scienze in senso lato, a causa delle emergenze letterarie, artistiche e archeologiche che sembrano aver relegato nell’ombra dell’oblio tutto il resto; ma la Terra d’Otranto ha dato i natali ad una schiera piuttosto numerosa di studiosi in varie discipline scientifiche, non escluse quelle più strettamente legate allo sviluppo dell’agricoltura e alla gestione del territorio. Antonio Miglietta, Oronzo Gabriele Costa, Salvatore Trin­chese, Filippo Bottazzi sono personaggi noti a livello internazionale per i contributi determinanti dati allo sviluppo delle scienze mediche e di quelle biologiche, del presente e del lontano passato, ma il loro ricordo, vivo nei testi di specialisti italiani e stranieri, è presentato ai conterranei, che igno­rano anche che siano vissuti, solo dalla toponomastica stradale. Altri hanno fatto dono alla città del frutto dei loro studi e del loro impegno sociale, come Giuseppe Candido, il sacerdote scienziato che realizzò a Lecce, tra il 1868 e il 1874, la prima e unica rete, non solo in Italia, di orologi pubblici sincronizzati elettricamente, o come i numerosi agronomi che hanno con­tribuito allo sviluppo e all’ammodernamento dell’agricoltura locale. Anche per essi il velo dell’oblio si è steso inesorabile sulla loro vita e sulle loro opere. E non vanno dimenticati i non salentini che hanno contribuito in maniera determinante alla conoscenza del passato e del presente di questa regione, come Ulderigo Botti, scopritore di numerose testimonianze del­la presenza dell’uomo preistorico, del prezioso ricco giacimento di fossili quaternari di Cardamone e della breccia ossifera che diede a Paolo Emilio Stasi l’opportunità di scoprire la Grotta Romanelli, prezioso archivio di dati paleoclimatici, e come Pietro Parenzan, che negli anni Sessanta del Secolo scorso fondò la Stazione di Biologia Marina di Porto Cesareo, dan­do un impulso determinante per la conoscenza degli ambienti costieri e subacquei non solo del Salento.

Di uno solo non si è potuta cancellare la memoria, Cosimo De Giorgi, perché i numerosi scritti da lui lasciati, frutto di una pluridecennale attività di ricerca appassionata sulla sua terra, hanno costituito da sempre il punto di partenza obbligato per chi ha voluto interessarsi in seguito di questa parte d’Italia.

Negli ultimi decenni si è avviata, da parte di alcuni studiosi, un’azione di recupero della memoria di questi personaggi, nella speranza che l’accre­sciuto interesse per loro e per le loro opere possa suscitare, soprattutto nelle giovani generazioni, il desiderio di permetterne la valorizzazione nello svi­luppo della formazione culturale di tutti.

 

Ed ecco (con qualche piccola modifica e/o adattamento a questo contributo) quanto ho scritto nell’introduzione alla sezione del libro in cui ricordo alcuni personaggi di rilievo, tra cui Stasi, con cui Salomi fu in contatto, al fine di fornire un quadro più completo del clima e di alcune vicende, anche di rilevante importanza, in certi ambiti scientifici salentini nei primi decenni del XX secolo nonché dei rapporti e delle frequentazioni tra i personaggi culturalmente più in vista in quegli anni, che tutto sommato si riducevano, per l’ambito di nostro interesse, a una ristretta cerchia di persone.

Salomi fu per diversi anni a stretto contatto con Cosimo De Giorgi, che negli ultimi anni di vita lo prese come assistente personale e del quale prese il posto nella cattedra di Scienze naturali presso l’Istituto “Costa”. La scuola nominò Salomi, che anche in questo succedette al più illustre predecessore, direttore del Museo / Gabinetto di scienze naturali. Pochi documenti attestano le frequentazioni e la familiarità tra Salomi e Cosimo De Giorgi. Quello più noto lo troviamo nel libro di De Giorgi “Descrizione geologica e idrografica della Provincia di Lecce” pubblicato postumo a cura proprio di Salomi.

Nella presentazione dello scritto, datata 4 novembre 1922 (meno di un mese prima della sua morte), dopo l’esternazione della sua delusione nei confronti della Provincia, che dopo 5 anni non si era ancora decisa a pubblicare il suo scritto, l’autore così si esprime: “Un giorno dell’estate scorsa passeggiavo con l’amico Liborio Salomi nel bel giardino del nostro Circolo cittadino, quando questi d’un tratto si rivolse a me e disse: ‘Professore, mi assumo io la pubblicazione dell’opera sua’. Accettai commosso da questo atto spontaneo e lo ringraziai ‘Con quel tacer pudico che accetto il don ti fa’.”

Ricordo anche il contenuto della breve prefazione di Salomi, riportato in parte nelle note biografiche.

Durante la frequenza al Liceo “Capece” di Maglie Salomi ebbe come docente, tra gli altri, Pasquale De Lorentiis, padre di Decio (quest’ultimo fu il primo direttore del Museo Paleontologico di Maglie) e Salvatore Panareo.

Furono suoi compagni di corso presso l’Università di Napoli e amici carissimi, sino alla morte, Augusto Stefanelli, Geremia D’Erasmo, Giulio Cotronei. Relatore della sua tesi fu il prof. Francesco Bassani. Conobbe e frequentò un altro grande personaggio salentino: Paolo Emilio Stasi. Fu in contatto epistolare con il prof. G. A. Blanc, che lo tenne in grande considerazione e lo consultò per le sue pubblicazioni geologiche salentine; lo accompagnò, alcune volte, anche nelle esplorazioni della grotta Romanelli, a Castro.

Pur non avendolo ancora citato, ritengo necessario ricordare Ulderigo Botti. Questi fu personaggio troppo importante per il Salento della fine del XIX secolo per ignorarne l’esistenza; ebbe inoltre tanta parte nell’istituzione del Museo / Gabinetto dell’Istituto “Costa”, ed i suoi scritti furono tenuti in grande considerazione dal Salomi nella sua tesi di laurea (nella bibliografia ne sono riportati sette).

Botti, su segnalazione di C. De Giorgi, scoprì la grotta di Cardamone, tra Lecce e Novoli, oggi non più esistente, i cui abbondantissimi reperti osteologici di fauna fossile, compresi nel patrimonio del Gabinetto del “Costa”, attendono ancora che qualche studioso se ne occupi.

 

Di Stasi, che nelle sue ricerche fu coadiuvato dal paleontologo parmense Ettore Regalia (1842-1914), del Gabinetto Paleontologico di Firenze, la bibliografia della Tesi di Salomi, che ho ricopiato nel mio volume, riporta i seguenti tre scritti:

  1. LXXVIII 1904 Stasi P. E e Regalia E. Grotta Romanelli (Castro, Terra d’Otranto) stazione con faune interglaciali e di steppa (Arch. per l’Antr. e l’Etnol. vol. XXXIV, fasc. I)
  2. LXXXI 1905 Stasi P. E e Regalia E. Due risposte ad una critica (Arch. per l’Antr. e l’etnol. vol. XXXV, fasc. 2°)
  3. LXXXV 1906 Stasi P. E Grotta funeraria di Badisco (Terra d’Otranto) (Arch. per l’Antr. e l’Etnol. vol. XXXVI, fasc. I°)

 

Ecco, inoltre, quanto ho scritto nel volume su Salomi di Paolo Emilio Stasi, che insegnò disegno al liceo Capece di Maglie dal 1870 al 1911 (le notizie appresso riportate sono state – nel 2015- prese dal sito del Museo civico di Paleontologia e Paletnologia “Decio de Lorentiis” di Maglie www.maglie.cchnet.it ).

A Paolo Emilio Stasi (1840-1922), agiato pittore di Spongano, risale l’antefatto della nascita del Museo di Maglie. Appassionato di paleontologia già dalla seconda metà del 1800, grazie anche alla presenza nel Salento di uno dei capostipiti italiani di questa disciplina, Ulderigo Botti, e autore di diverse segnalazioni lungo la costa di Castro, come il deposito a fauna pleistocenica di Grotta delle Striare (i cui materiali prontamente sottopose al Botti), conobbe Pasquale de Lorentiis, padre di Decio, al Real Ginnasio Francesca Capece di Maglie, dove entrambi insegnavano, stringendo una leale amicizia che non avrà termine. Nel 1900, penetrando in una cavità presso Castro, già segnalata nel 1871 dal Botti, grotta de’ Romanelli, ne svelò al mondo la fondamentale importanza nell’ambito della preistoria italiana. I primi saggi di scavo, condotti dallo stesso Stasi, aiutato dal De Lorentiis e da altri amici fidati, tra il 1900 e il 1903 misero in luce resti di fauna pleistocenica associata a strumenti litici di epoca paleolitica, la cui esistenza in territorio italiano era allora negata dal Pigorini, la più autorevole voce in tal campo, e i primi documenti in Italia di arte preistorica in grotta. Nel 1904, insieme a Ettore Regalia, del Gabinetto Paleontologico di Firenze, pubblica la nota introduttiva alle ricerche condotte in Romanelli, attirando non solo le ire e lo sdegno del Pigorini, ma anche l’acredine di autorevoli voci salentine, come quella di Cosimo De Giorgi che, sulle pagine del Corriere Meridionale, ne stroncava la figura, rispondendo con veemenza e sarcasmo alle note di Pasquale de Lorentiis sull’importanza e il valore scientifico della scoperta realizzata dall’amico. Ne seguì una damnatio memoriae dello scopritore e della cavità, che non solo amareggiò a lungo Stasi, ma lo relegò in un ruolo quasi secondario nella vicenda di Grotta Romanelli. La sua figura fu ridimensionata, nella memoria collettiva salentina, a quella di un pittore per nulla interessato alla ricerca preistorica e che per un puro caso fortuito si imbattè in Grotta Romanelli, mentre vagava tra gli scogli di Castro alla ricerca di un anfratto suggestivo dove ritrarre una Madonna, e così è giunta fino a noi. Venivano così cancellate, fino a tempi recenti, la passione di un uomo e la trentennale attività di ricerca nel territorio precedente alla scoperta di Grotta Romanelli.

Dopo 10 anni di assoluto silenzio ufficiale, sebbene schizzi delle prime manifestazioni artistiche (prime in assoluto per l’intero territorio italiano), scoperte sulle pareti di Romanelli dallo stesso Stasi, facessero il giro dei salotti scientifici europei, nel 1914 lo scienziato di fama internazionale Barone Gian Alberto Blanc ottenne autorizzazione a scavi sistematici in Grotta Romanelli, dando così avvio al più felice e fecondo periodo di ricerche. L’anziano Paolo Emilio seguì sempre appassionatamente le campagne di scavo fino al 1922, accompagnato dal suo amico de Lorentiis, a cui presto si aggiunsero i giovani Decio de Lorentiis, Alberto Carlo Blanc, Paolo Graziosi, Antonio Lazzari ed i figli di Stasi, Gino e Giovanni. Nascevano, in quei momenti, i presupposti che avrebbero portato alla nascita del Museo di Maglie. In esso confluirono, infatti, le collezioni provenienti dalle “terre rosse” e dalle “terre brune” di Grotta Romanelli delle Famiglie Stasi e De Lorentiis, divenendone il nucleo fondamentale delle esposizioni del Museo.

 Ed infine ecco la foto che Stasi dedicò al suo carissimo amico Liborio Salomi. La foto, pubblicata nel volume citato in apertura, mi è stata fornita da Teresa Salomi, figlia di Liborio, che ha lasciato questo mondo proprio pochi giorni fa, il 4 gennaio 2023, alle soglie dei 90 anni.

Il presepe artistico della parrocchia del Sacro Cuore di Nardò

47.a edizione del presepe artistico della parrocchia Sacro Cuore di Nardò (foto Luigi Romano)

 

di Marcello Gaballo

La tradizione presepiale nel Salento è ancora viva nelle abitazioni private e nelle chiese, senza differenziazione d’età e di censo. Molti Comuni organizzano anche edizioni del presepe vivente, che continuano a destare l’interesse e la partecipazione dei locali e dei turisti.

Anche quest’anno tra le diverse rappresentazioni si segnala, per il grande livello qualitativo, quello allestito nella parrocchia del Sacro Cuore di Gesù in Nardò, a cura della confraternita.

Ogni anno, ed ormai da 47 anni, la comunità, in originali e mai ripetitive raffigurazioni presepiali, esibisce il suo gruppo statuario inserito in un contesto tradizionale di grande effetto scenico per adulti e bambini, dimostrandosi fedele alla volontà di chi, per primo, volle qui istituirlo. Ci riferiamo al sacerdote don Salvatore Leonardo (1939-1997), primo parroco della comunità, che ebbe la grande intuizione di commissionare il gruppo presepiale.

Attento cultore dell’arte popolare e particolarmente devoto al grande evento della Natività di Cristo, francescanamente innamorato del presepe di Greccio, don Salvatore si rivolse al più valido artefice della cartapesta leccese deceduto pochi anni fa, il maestro Antonio Malecore. Ultimo esponente della celebre bottega ancora attiva sino a qualche decennio fa nel cuore della Lecce antica, impiantata dallo zio Giuseppe nel 1898, il maestro ha operato in Lecce dapprima in Piazza delle Poste, dal 1958 in Vico degli Alami, quindi in Via Stampacchia n. 44 ed infine nel laboratorio sulla via Merine, al civico 9.

Nato a Lecce il 20 luglio 1922, Antonio Malecore ha frequentato la Scuola d’Arte, formandosi presso il laboratorio condotto dal padre Aristide (6/11/1888- 1954) e dal fratello di questi, Giuseppe (18/8/1876-1967), entrambi allievi di Giuseppe Manzo, poi titolari della Primaria Fabbrica Italiana di Statue Religiose Artistiche. I due erano figli di Francesco (morto nel  1893), che era stato allievo di Antonio Maccagnani e di Achille De Lucrezi.

Le sue opere sono presenti in numerosi centri salentini, quasi sempre commissionate da parrocchie, oratori e confraternite. Non pochi i pezzi esibiti e conservati fuori dalla regione e nel mondo (Canada, Stati Uniti, Argentina). Ha partecipato a innumerevoli mostre ed è stato insignito di pregevoli riconoscimenti da parte di Enti pubblici e privati.

Il sacerdote neritino aveva notato la finezza e la valenza artistica del Malecore in numerosi lavori sparsi nelle diverse chiese salentine, cogliendone la cura meticolosa dell’esecuzione, il sorprendente realismo dei personaggi e la perizia tecnica esercitata in ogni particolare delle statue. Era soprattutto attratto dalla dolcezza dei volti del maestro, dall’anatomia, dal panneggio e dalla delicata cromìa, mai esagerata, non translucida, ben accostata.

Nardò, parrocchia Sacro Cuore, pastore presepiale di Antonio Malecore, particolare (foto Lino Rosponi)

 

Undici figure a tutto tondo, di grandezza proporzionatamente ridotta (la più alta è di circa 120 cm), colorate a pennello, dal peso alleggerito grazie alla struttura impagliata: Maria, Giuseppe, il Bambino con la mangiatoia, il pastore in ginocchio, l’umile contadina con il cesto di mandarini, il pifferaio, i tre Magi, un altro pastore col suo gregge e l’angelo in cima alla grotta che annunzia al mondo la lieta Novella. Meravigliose opere gelosamente custodite dalla Comunità nel corso dell’anno, tolte dal luogo “riservato” solo pochi giorni prima del Natale, per essere collocate con inedita sequenza nell’originale scena che rimanda a paesaggi agresti del nostro Salento.

Nardò, parrocchia Sacro Cuore, pastore presepiale di Antonio Malecore, particolare (foto Lino Rosponi)

 

La semplice carta, ridotta in poltiglia secondo tecniche centenarie, diventa pregevole materia capace di competere con i più nobili materiali, alla ricerca della perfezione e della bellezza classica che indossa le vesti del popolo salentino. Ma anche quando deve trattare “reali” personaggi, come i tre Magi, l’artista riesce a conservare la dolcezza dei loro volti, l’umile posa, rendendoli esuberanti solo per le vesti degne del loro status, impreziosite dall’abile collocazione  di gemme e minuterie in metallo dorato.

Non ci vuole molto a capire che il maestro Antonio Malecore qui, come per altri presepi sparsi nelle sedi più prestigiose del mondo, è andato ben oltre la tradizione leccese, con risultati che lo inseriscono di diritto nella storia artistica della cartapesta.

Nardò, parrocchia Sacro Cuore, uno dei Re Magi realizzati da Antonio Malecore, particolare (foto Lino Rosponi)

 

Il gruppo statuario neritino qualche anno fa è stato incrementato da cinque pecore, sempre in cartapesta, realizzate dalla bottega Zappatore, che rimandando al contesto di quella magica Notte, contribuiscono alla dinamicità della scena accanto a quelli che vennero chiamati ad adorare il Figlio di Dio.

Nardò, parrocchia Sacro Cuore, angeli musicanti realizzati da Davide Di Vetta

 

Nardò, parrocchia Sacro Cuore, angeli musicanti realizzati da Davide Di Vetta

 

In questa 47.a edizione si è voluto impreziosire la già ricca rappresentazione con elementi che possono sembrare decorativi, invece rivestono significati importanti, e aggiungendo un altro gruppo formato da una coppia di angeli musicanti. Realizzati su commissione di devoti dal giovane sannicolese Davide Di Vetta, le due figure  fanno pendant con il pastorello che suona il piffero, anche questo al cospetto del Bambino, rendendo celestiale l’umile luogo e riuscendo ad incantare chiunque  osserva, invitando al ricordo di quell’evento portentoso.

foto Luigi Romano

Libri| Paolo Emilio Stasi, pittore e archeologo. Arte e scienza in Terra d’Otranto

 

Paolo Emilio Stasi, pittore e archeologo. Arte e scienza in Terra d’Otranto tra fine ‘800 e inizi ‘900. Pagine sparse e documenti inediti sulla vita e sull’opera di Paolo Emilio Stasi scritti e raccolti da Cesare Teofilato, a cura di Glauco Teofilato, Edizioni Esterno Notte, 2021, brossura, pp. 316, € 18.00

 

Introduzione di Glauco Teofilato

Strano a dirsi, l’artista produsse lo scienziato

“Effetto di neve” è il quadro che Paolo Emilio Stasi donò, con dedica, nell’agosto del 1921, al suo fraterno amico Cesare Teofilato. Quel quadro, che primeggiava nello studio di mio padre ora, offre un cara ed antica visione accanto alla mia scrivania. Osservando il quadro, mio padre con il viso illuminato dai ricordi, raccontava di aver conosciuto un Grande Vecchio quando lui, giovane insegnante e ufficiale, nel 1917 venne destinato presso il Comando  del Presidio e Vigilanza Costiera di Castro in Terra d’Otranto, nella prima Guerra Mondiale. Mi parlava della loro grande amicizia nata per un fortuito incontro che li legò fraternamente per sintonia di pensiero, di cultura e vivacità intellettuale. Proseguiva con la descrizione del quadro:

               ” Credo questo l’ultimo lavoro dello Stasi. L’Autore volle rendere nella tristezza di un bosco coperto di neve lo stato dell’animo suo all’approssimarsi della morte. Il quadro diffonde un senso di pace solenne in quanti lo ammirano, ed ispira quella gioia infantile da cui siam presi, un po’ tutti, dopo una nevicata. L’ho sempre dinanzi agli occhi e costituisce per me la più cara memoria del vecchio amico diletto ed estinto.”

Poi dei suoi studi a Napoli nella facoltà di farmacia, anche con l’interesse sottaciuto per la chimica, al fine di conoscere i segreti dei materiali per la composizione dei colori nella pittura. Anche il periodo napoletano, infatti, contribuì a perfezionare il  suo genio pittorico. E mi esaltava il suo spirito “garibaldino” sempre vivo anche in tarda età. Seguì il rientro da Napoli nella sua Spongano per insegnare disegno presso il Ginnasio Capece di Maglie, per molti anni. Era divenuto un bravo maestro ed eccellente artista quando, nel secondo tempo della sua vita, complice la richiesta di realizzazione di un quadro e la conseguente ricerca di uno sfondo adeguato sulla costa castrense, nacque l’interesse per l’esplorazione e lo studio delle grotte ivi presenti, con la straordinaria scoperta del sito paleolitico di Grotta Romanelli.

Quindi mio padre sintetizzò la sua vita:  “Strano a dirsi, l’artista produsse lo scienziato”.

Nel tempo in cui si conobbero, lo studio-laboratorio a Spongano, spaziava con “artistico disordine” relativo alla esposizione dei suoi quadri e relativi strumenti per la produzione, una notevole varietà di ritrovamenti provenienti da Grotta Romanelli ( da suscitare invidia ai musei di paleontologia) e poi giornali e riviste contenenti articoli sulla sua scoperta,  libri di arte pittorica e di archeologia, appunti e straordinari schizzi di ogni genere, infine corrispondenza con  le autorità scientifiche.  L’età avanzata di Paolo Emilio, lo stato di salute precario, l’assenza di altri collaboratori al suo lavoro ed il susseguirsi di continui impegni con il mondo esterno, fecero accettare a mio padre l’invito a “dargli una mano” per  la riorganizzazione ed il censimento del materiale artistico, archeologico ed epistolare. E Cesare, fervido sostenitore della sua Opera, accettò con grande entusiasmo, guadagnando la  qualifica di collaboratore ed il privilegio di divenire suo “erede culturale”.  In quel periodo, mio padre quindi, oltre alla attività di organizzazione nello studio-laboratorio di Paolo Emilio, pubblicò anche diversi articoli per diffonderne l’opera di artista e archeologo. Seguì infine, da parte di Cesare,  la promessa solenne a Paolo Emilio di tener viva ai posteri  la sua arte ed il suo straordinario impegno scientifico.

Dopo la scomparsa di Paolo Emilio nel 1922, Cesare proseguì il lavoro promesso, tenendo i contatti anche con il figlio Gino che, all’epoca, conservava ancora relazioni con le autorità scientifiche. Seguirono purtroppo tempi  che contrastarono il lavoro di Cesare, privandolo anche della libertà individuale e riducendolo per lungo tempo al confino. Dopo la Liberazione d’Italia Cesare fu coinvolto in impegni istituzionali e vicende familiari che non gli permisero di completare la realizzazione della solenne  promessa fatta allo Stasi.

Solo nel 1961, all’età di 80 anni, Cesare riuscì a ricomporre l’opera che purtroppo, anche se incompleta di alcuni documenti originali (però in precedenza trascritti), e in assenza di interesse culturale per la materia, restò inedita e sconosciuta.  Alla fine dello stesso anno morì.  Quindi, tutti gli inediti di Cesare, compreso il suo lavoro su Paolo Emilio Stasi e Grotta Romanelli, furono archiviati e gelosamente custoditi da mia madre.

Un nuovo salto temporale, purtroppo inattivo per la storia di Paolo Emilio e Grotta Romanelli, ci trasferisce nei primi anni 2000, quando ebbi l’opportunità di iniziare ad “esplorare” i lavori inediti di mio padre.  Notai che tra i tanti, in evidenza, c’era “Grotta Romanelli e il suo Primo Esploratore” datato maggio 1961. Mi ritrovai emotivamente proiettato nella Castro dei  loro  tempi e, volgendo lo sguardo sul quadro “Effetto di neve”, è come se gli alberi raffigurati avessero avuto un sussulto quando lessi  il nome di Paolo Emilio Stasi su quelle vecchie carte. Pertanto, non avendo personalmente competenze di arte pittorica e di archeologia, la mia prima attività si concentrò su una rapida ma “profonda” lettura che mi entusiasmò a tal punto da chiedere  aiuto a mio figlio, allo scopo di riportare in vita il contenuto delle vecchie carte e della  corrispondenza. Proseguendo con il lavoro, mio figlio si chiese se si poteva risalire alle lettere che mio padre aveva inviato allo Stasi, forse custodite da un suo parente. Fu così che dopo alcune ricerche in zona  e dopo  quasi novant’ anni  si ripropose lo straordinario incontro tra gli stessi nominativi: mio figlio Cesare Teofilato ed il pronipote, materano, Paolo Emilio Stasi. Inutile a dirsi, e a conferma dei valori dei tempi trascorsi,  anche in questo nuovo incontro nacque una nuova ma antica e sincera amicizia. Grazie ai comuni interessi, immediata e proficua fu la collaborazione delle parti allo scopo di riportare in auge la figura, l’arte e la scoperta paleolitica.

Pertanto  é con immensa soddisfazione, presentare  il volume di mio padre sullo Stasi , iniziato nel 1917 ed aggiornato fino al 1935, su “Grotta Romanelli e il suo primo esploratore”, unico sulla vita e sull’opera di Paolo Emilio Stasi,  dedicato alla conoscenza dell’Uomo, dell’Artista e dell’Archeologo salentino. Il volume è determinante per comprendere il periodo e le difficoltà affrontate per portare al riconoscimento ufficiale dell’importanza della scoperta. Sono evidenti i contrasti, l’assenza di collaborazione ed il rifiuto anche governativo all’utilizzo di fondi per la prosecuzione dei lavori. La tenacia infine, ed il valido contributo di alcuni scienziati, tra i quali il paleontologo Ettore Regàlia, permisero di confermare la scoperta a livello nazionale e internazionale.

Suddiviso in VI parti, il volume nasce anche con l’esigenza di raccogliere pubblicazioni e documenti editi ed inediti, in alcuni casi difficilmente reperibili, quali l’epistolario inedito con le massime autorità dell’archeologia dell’epoca, ed alcuni contributi e giudizi della stampa italiana e straniera. E’ compresa anche una parte dedicata agli studi sui ritrovamenti, sulle vie dell’Alca Impennis, del Pinguino e delle civiltà preistoriche, con interessanti considerazioni che spaziano dalle verità geologiche anche poeticamente considerate dal Leopardi, alle teorie ed al complesso lavoro degli scienziati.

Paolo Emilio Stasi oggi, ad un secolo dalla tua scomparsa, – ti prego di non volermene –  si sono verificate le condizioni che hanno permesso di  approvare e far realizzare il progetto che, grazie alle opere pittoriche ed agli archivi storici  di casa Stasi e Teofilato, coadiuvati dalla professionalità di uno straordinario Gruppo di Lavoro, ha consentito di far rivivere la tua Opera. L’intento è quello di riconsegnarti alle generazioni del nostro XXI° secolo, a beneficio della nostro Territorio, dei nostri giovani e dei luoghi tutti dove si genera Cultura. Permettimi infine di rivolgere un particolare e sincero “grazie” al tuo pronipote Paolo Emilio, amorevole ed attento custode delle tue opere ed a mio figlio Cesare per il costante e grande impegno dimostrato nei tuoi confronti, riportando alla luce la tua straordinaria Opera.

Lecce – dal Museo Sigismondo Castromediano ,  14 dicembre 2021.

Libri| Le “Poesie varie” di Francesco Maria dell’Antoglietta, arcade salentino

 

di Antonio Tomaselli

(stralci dall’Introduzione al libro)

“Tra la civiltà cortigiana del Cinquecento e la rozzezza fastosa del Seicento da una parte e la civiltà individualistica e borghese che uscirà dalla rivoluzione, ha il suo posto la società arcadica, che per la sua varia composizione, per la condizione di parità dei suoi membri di diversa provenienza sociale e di diverse parti d’Italia, ha contribuito alla trasformazione nelle relazioni tra letterati e pubblico, all’instaurazione, sotto un blasone aristocratico, di un più democratico costume letterario. […] Essa ci appare così quasi la mediatrice tra l’antica e la nuova Italia, tra l’Italia del Rinascimento e l’Italia del Risorgimento: comprendiamo come […] a lei si guardasse con reverenza come ad un simbolo della letteratura italiana, della continuità della sua tradizione, dei legami fra tutte le persone colte della penisola. […]

… Anche per questo la diffusione delle accademie del primo ‘700 acquisivano un significato politico prima ancora che letterario da una parte, dall’altro ebbero il merito di diffondere la lingua italiana; B. Croce in Storia dell’età barocca in Italia, Bari, Laterza 1929, p.489; scriverà che “l’Arcadia ebbe il pregio di scrivere in modo semplice e modesto e si tenne lontano dallo stile artificioso e stravagante dei marinisti. Il Risorgimento, egli afferma, non comincia il 1815, ma sia pure in forma crepuscolare intorno al 1670”.

Questo significato dell’Arcadia, Francesco Maria dell’Antoglietta lo renderà esplicito già nella Orazione a’ Sapientissimi, ed eruditissimi Signori accademici della Crusca (dalla Stamperia di Oronzio Chiriatti, Lecce 1722) in cui attraverso una analisi linguistica e sociologica poi, scriveva appunto; “da voi riconosce il Mondo, l’essere la Poesia Toscana restituita al pristino suo decoro, e col- locata nell’antica sua nicchia […] Mercè il vostro Zelo, e la vostra accuratezza, vediamo oggi giorno ridotta la volgar lingua a quella purità, che non invidia punto al Greco e al Latino idioma, purgata da quelle voci, o barbare o improprie”…

… In tale contesto si spiegava l’interesse di Francesco Maria dell’Antoglietta per lo studio delle lettere. L’aristocratica famiglia con grande lungimiranza aveva compreso il significato politico della letteratura arcadica. Nel Saggio di un catalogo bibliografico degli scrittori salentini di Paolo Antonio Foscarini edito a Lecce nel 1894, veniva descritta la sistematicità della produzione di dell’Antoglietta. Estri di gioventù ovvero Entusiasmi del genio era la prima opera alla fine del XVII secolo e nel 1700 a Napoli la pubblicazione del dramma in musica Il Silla in Atene.

La produzione poetica matura invece è stata del 1710 come prima edizione delle Poesie Varie contemporaneamente all’Arcadia Coronata; del 1711 era la Vita di Antonio Bruni, poeta manduriano amico del Marino.

La ‘fortuna’ gli aprì le porte dell’Accademia della Crusca di Firenze prima e dell’Arcadia di Roma col nome di Sorasto Frisio poi (Cfr, Accademia dell’Arcadia, Ms. I, Catalogo Arcadi, Custodia Crescimbeni, n.1035).

La comunanza di interessi con il poeta tarantino Tommaso Niccolò d’Aquino, autore delle Deliciae Tarantinae, lo introdusse anche come “Principe” nell’Accade- mia degli Audaci. La raccolta poetica era suddivisa in sonetti, madrigali e canzoni e rifletteva in pieno il gusto del tempo; forme metriche che più di tutte si prestavano a prediligere la musicalità nella letteratura…

… Pertanto, se osserviamo la poesia di dell’Antoglietta nel panorama dell’Arcadia allora possiamo indubbiamente sostenere che di tale corrente egli fosse stato un rappresentante di primo piano nel cosiddetto “primo periodo”…

 

La poesia di Carlo Stasi

di Paolo Vincenti

Carlo Stasi si laurea in Lingue e Letterature straniere, nel 1984, con una tesi in Filosofia del linguaggio su Walpole e il Castello di Otranto (che rivela la sua passione per la letteratura fantastica e dell’orrore). Lo scrittore settecentesco Horace Walpole, considerato dagli studiosi di settore l’iniziatore della letteratura gothic-noir, resta sempre negli interessi di Stasi se è vero che una delle più recenti sue fatiche letterarie è dedicata proprio allo scrittore inglese e alla cittadina adriatica dove è ambientato il romanzo: Otranto nel mondo (dal “Castello” di Walpole al “Barone” di Voltaire), uscito nel 2018 dall’ Editrice Salentina di Galatina, con una prefazione di Augusto Ponzio e una presentazione di Mario Spedicato, contiene anche la prima traduzione italiana del “Baron d’Otrante” di Voltaire.

Per il lavoro di insegnante nelle scuole superiori, Stasi ha vissuto a Roma, poi a Como e Varese, per ritornare nel 2000 nel Salento, prima al Liceo Classico Capece di Maglie e, infine, al Liceo Scientifico De Giorgi di Lecce. Oggi risiede a Lizzanello, ma è originario di Acquarica del Capo, avito borgo dell’entroterra leucano, che ha dato i natali anche ad un artista musicista, amico d’infanzia di Carlo, il cantante Franco Simone, al quale Stasi ha dedicato nel 2016 Sono nato cantando… tra due mari (radici e canto nella poetica di Franco Simone, cantautore salentino), per le edizioni de I Quaderni del Bardo.

Nel 1981, ancora studente universitario, pubblica Poesie (Gabrieli, Roma), nel 1984 La speranza (Ricerche poetiche), Schena editore, con prefazione di Giovanni Dotoli, nel 1993 Leucàsia, con presentazione di Carlo Scarcella e prefazione di Vincenzo Guarracino, giunto alla quarta edizione nel 2001 (Leucasia Editore); del 2001 è Danza dei 7 pensieri, un poemetto edito da Bollate.

“Mi piace/stare qui/ a pensarti/ pensando/ che mi pensi/ e pensare/ che ti piace/ stare lì/ a pensarmi/pensando/che ti penso/” (Mi piace).

Si intravede fin dalle prime opere poetiche da quali suggestioni letterarie Stasi sia disponibile a farsi irretire, a quali echi delle letterature straniere egli risponda, insomma la sua cifra stilistica è d’abrupto segnata. La lezione di Apollinaire e della poesia calligrammatica porta anche Stasi ad una sorta di “tipografia cubista”, come ebbe a dire Braque dell’autore di Alcools. Comunque, a Mallarmé e alle avanguardie europee novecentesche Stasi frammischia temi tipicamente salentini, alle tentazioni neoavanguardistiche, l’amore per i classici su cui si è formato, i richiami di un surrealismo giocoso e sfrenato che impatta ossimoricamente sulla realtà “pietrosa e murale” della nostra terra. Nei suoi testi il paroliberismo futurista fa i conti con le trame della storia, del paesaggio, delle leggende e della lingua salentini. Il Salento, terra madre, impasta umori sapori e saperi della sua ispirazione, fornisce l’abbrivio, dà fondamento alla sua scrittura.

“Terra del Sud/ terra del sudore/ ore ore ore/ a lavorare/ are are are/ vite intere/ ere ere ere/ o partire/ ire ire ire/” (Echi del Sud).

In questo senso, anche l’uso del dialetto diventa testimonianza di attaccamento alle proprie radici.  Leucàsia, racconti, leggende e poesie di terra, di mare e d’amore… si compagina di sentimenti accorati per la propria terra, il Salento amato e cantato da poeti come Vittorio Bodini, i cui versi, che introducono in esergo le varie sezioni del libro, ne accompagnano la lettura.

Quasi come un manifesto d’intenti, sulla copertina del libro si legge: “Luce abbagliante/E col faro la terra finisce/Ulivi pensosi/Cantano chini sul mare un/Addio di pescatori/” in cui, unendo le lettere iniziali, si ottiene la parola LEUCA e i versi, con un gioco visivo, si dispongono a formare proprio l’estrema punta del Salento, Finibusterrae.

Nella prima parte, E Leuca…sia!,  si trovano alcune leggende e racconti come Leucàsia (bellissimo personaggio femminile, per la cui felice invenzione Stasi ha ricevuto anche l’elogio di Maria Corti), Il mare sfondato, Sub finibus terrae,  La sigaretta e Il materassino.

Nella seconda parte del libro, Impronte di Mare – poemetti del mare-, si trovano diverse liriche di ambientazione o ispirazione marinaresca, come “Palpita di/Ulivi e di/Grotte/La terra rossa/Irrorata da/Antiche rugiade/” (acrostico in cui, unendo le iniziali dei versi, si ottiene la parola PUGLIA); “Lampi palpitanti/Emergono nella notte e/Un desiderio di stelle si/Costella di carezze sino/Al risveglio dell’aurora/” (combinazione linguistica per LEUCA); oppure “Muore l’onda/Ai piedi della sponda/Rinascendo alla brezza con/Eterna dolcezza/” (per MARE); o ancora “Lievi si levano/Effimere luci come/Un sogno d’amore che si/Consuma tra i flutti ed invano/Aspira all’eterno/” (sempre per LEUCA). Nella Sezione intitolata Trittico Salentino, troviamo Donne del Sud, che dice: “le donne/del sud/sospese/ in attesa/ al muro bianco/ nero/ è il loro pensiero/ nere le rughe/ delle gonne/ delle donne/ del sud/ le donne/ del sud/ distese/ in attesa/ sul letto di fianco/ rossa/ è la loro passione/ rosse le foghe/ sotto le gonne/ delle donne/ del sud”.

Molto interessanti anche la poesia visiva sul lenzuolo, in cui i versi si dispongono a formare tanti lenzuoli appesi al filo ad asciugare, e quella sulle gocce d’acqua, formata da tante gocce di versi che cadono dal cielo.

E in Ritorno: “il Salento/ è un angolo segreto/ in fondo al nostro cuore/ una penisola/ dove arriviamo/ dopo che tutti gli altri/ sono scesi/ ed il treno resta/ pieno solo di leccesi/ dagli sguardi complici/ impazienti/ di riveder/ quel sole”. Nella quarta sezione del libro, Attendendo l’onda –poemetti d’amore-, troviamo quelle Sirene e quell’Idrusa, rese immortali dalla penna di Maria Corti, mentre nell’ultima sezione del libro, in cui si sente più forte l’influenza di Bodini, richiamata dal corvagliano titolo Finibusterrae –poemetti della terra-, compare l’acrostico “Sognare è/Arte che è/Legge quaggiù dove non/Esiste che il/ Nulla fatto di/Tutto ed/Ogni cosa è sogno/”, per SALENTO.

Il verso è libero, non obbedisce a nessun “legislatore del Parnaso”, come scrisse Francis Viele-Griffin, il maestro di Breton, nessuna forma fissa può essere considerata come lo stampo necessario per una poesia, l’espressione artistica segue i più variegati percorsi, il poeta obbedisce al ritmo personale. I versi si compongono di allitterazioni, assonanze, consonanze, rime baciate e alternate, la poesia è sempre musica per Stasi (melica, infatti, la chiamavano i Greci) e la musica è una delle variazioni sul genere, potremmo dire, nella sua attività artistica (infatti ha anche scritto testi per canzoni), l’altra è la pittura.

Le sue composizioni sono tributarie di quella grande biblioteca personale che ognuno di noi porta con sé, che è stipata dei testi che abbiamo letto e amato, sicché ogni creazione poetica o narrativa potrebbe definirsi una riscrittura, meglio, un omaggio a quei referenti letterari. Dalla poesia passa alla narrativa.

Nel 2008 pubblica Leucasia e le Due Sorelle Storie e leggende del Salento, edito da Mancarella, che raccoglie racconti fantastici, a metà fra storia e leggenda. Decide quindi di pubblicare una summa della sua produzione poetica, quella della sperimentazione verbo visiva, in questo libro che abbiamo fra le mani.

Il valore iconico dei versi dà una valenza del tutto particolare alle composizioni che, dalla sperimentazione visiva, traggono nuova linfa, come se si alimentassero di ulteriori significati, nascosti ad un primo approccio. Anche nelle liriche più spensierate e leggere, il divertimento linguistico si combina con la ricerca del messaggio, crea un’atmosfera, quella nuance, che è tutta propria di Stasi. Le sue liriche si dilatano in una esplosione plurisemantica, incoraggiata dalle performance live che il “poeta saltimbanco” ama tenere.

È l’idea sinestetica, che abbina in prodigiosa diade immagine e parola, a creare quelli che l’autore chiama “parlagrammi”. Il lettore avvertito potrà così entrare nella joie de vivre di questo libro, ultimo omaggio di Stasi, che in altre occasioni abbiamo definito “George Herber iapigio”.

Libri| Le facce, romanzo di Rudy Marra

di Paolo Vincenti

Dopo “L’utente potrebbe avere il terminale spento” (Edizioni Zona 2007), “Le facce. Dal diario del dottor Frank Saltarino. Storie di ordinaria incomunicabilità” (Edizioni Zona 2015) è il secondo romanzo di Rudy Marra, originario di Galatina ma trapiantato da molti anni in Emilia Romagna, conosciuto ai più come cantautore di talento, sebbene lontano dalle scene da molti anni. Se la grande industria discografica però sembra essersi scordata di lui, d’altro canto lui sembra non soffrirne particolarmente, impegnato in tanti e diversi progetti artistici.

Il libro è un romanzo breve.  Al mondo della comunicazione Rudy Marra è molto attento, anche per studi fatti: è laureato in Sociologia all’Università di Urbino. Il dottor Frank Saltarino, come spiega l’autore nella Prefazione, è uno psichiatra italo-americano, vissuto nella prima metà del Novecento, che ha lasciato un ricco diario da cui l’editore del libro attinge per questo racconto e per altri che probabilmente ne verranno. Il libro infatti sembra precludere ad un seguito, al quale forse l’autore sta già lavorando. Il movente del libro è la confessione di un paziente del dottor Frank Saltarino, il quale, per paradosso, finisce fra quegli stessi “pazzi” che ha avuto in cura per molti anni. Cioè, termina la propria vita in un centro di igiene mentale, vittima del logoramento dovuto al diuturno esercizio della sua professione.

Il paziente di cui viene pubblicata la confessione, invece, è un pittore che dipinge facce sulle sue tele coi colori ad olio ed è ossessionato dalla corrispondenza dei dipinti con le persone ritratte, nella tormentata ricerca di una impossibile armonia fra realtà e finzione, fra vero e verosimile. Egli vorrebbe dare vita ai propri ritratti.  Inizia allora una serie di sperimentazioni, sui materiali, sui colori, sugli stessi modelli, i soggetti da ritrarre, alla febbrile ricerca del vero, nella spasmodica tensione verso il ritratto perfetto. Sullo sfondo, la New Orleans del jazz e del woodoo, di Billie Holiday e Louis Armstrong, di George Lewis e Emma Barret, con un ossessivo motivetto, St. Thomas, di Sonny Rollins, che accompagna tutta la narrazione. Fra il delta del Mississipi che attraversa il ventre della città e il Quartiere Francese dove abita il pittore, si snoda la trama del racconto, con la lunga teoria di tentativi andati a vuoto nella ricerca pittorica, frustrata dalla incipiente schizofrenia che lambisce, fino a devastarla, la fragile psiche del protagonista. Così il pittore di facce inizia ad accumulare copie di copie sempre dello stesso soggetto, ovvero Mamy, una grassa negra che è la sua donna delle pulizie, e queste copie diventano sempre più simili all’originale, apparentemente perfette, fino a quando il pittore non raggiunge il suo scopo, ossia quello di confondere l’originale con il ritratto. Tuttavia, ancora qualcosa manca: resta, seppure impercettibile, sempre una lievissima differenza, fra vero e verosimile. E questo porta il pittore alla dannazione.

Si avverte il richiamo di Goethe della “Teoria dei colori” in questo racconto, ma fonte di ispirazione può anche essere stato il noto aneddoto che si tramanda su Michelangelo, il quale di fronte alla perfezione delle forme del suo Mosè avrebbe gridato: “perché non parli?”.

Fra fumo e birra, nella follia parossistica del pittore di facce, si dipanano le pagine del racconto che rievoca le atmosfere di certa letteratura americana, quella della Beat Generation, di Kerouac, di Burroughs, vagamente anche di Bukowsky. In effetti, la scrittura è dinamica, quasi cinematografica, e il linguaggio usato, confidenziale, basso.   Che dire poi del movente che offre pretesto e contesto a Marra per scrivere questa short story, ossia la confessione di un malato di mente? A partire dall’inizio del Novecento, con le teorie di Freud, i rapporti fra letteratura e psicanalisi sono sempre stati molto stretti. Pensiamo a “La coscienza di Zeno”, di Italo Svevo, o a “La signorina Else” di  Arthur Schnitzler, connazionale di Freud e medico psichiatra come lui, autore anche di  “Doppio sogno” da cui il regista Stanley Kubrick ha tratto nel 1999 il film Eyes Wide Shut.  Lo stesso Freud ha analizzato questi rapporti nei suoi interessanti “Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, con uno studio psicanalitico sul romanzo Gradiva di Wilhelm Jensen, le annotazioni psicobiografiche su Leonardo da Vinci e la teoria sul perturbante, e poi con il saggio “Dostoevskij e il parricidio”. Tanti gli scrittori nel Novecento che hanno contratto un debito di riconoscenza con la psicanalisi, da T.S. Eliot a Stefan Zweig, da Thomas Mann a Robert Musil, da D.H. Lawrence, a Hjalmar Bergman, ma anche gli scrittori del “flusso di coscienza” come James Joyce e Virginia Woolf.  Rudy Marra si inserisce in questo fortunato filone che ultimamente anche in tv sta dando i suoi frutti, pensiamo a “Mental” trasmesso in Italia da Fox, a “Perception”, sempre su Fox , o  più recentemente a “In treatment”, serie italiana trasmessa da Sky. Proprio come ne “La coscienza di Zeno”, nel libro di Marra il protagonista del racconto espone al medico curante gli accadimenti della propria vita, li trascrive su un diario, e affastella tentativi di spiegare le cause che lo hanno portato a quella ossessione per i colori e per il ritratto perfetto, divenuta patologica.

A Lecce in mostra l’attività pittorica e scientifica di Paolo Emilio Stasi

 

di Marcello Gaballo

Nel centenario della scomparsa di Paolo Emilio Stasi (Spongano 16 gennaio 1840 – 4 marzo 1922), il Museo Castromediano di Lecce ha organizzato un evento per ricordare una delle personalità più importanti e poco note della cultura di Terra d’Otranto di fine Otto e inizi Novecento.

Figura eclettica e poliedrica, di lui vengono esposte per la prima volta le opere d’arte, i reperti archeologici, le fotografie, documenti e altri materiali provenienti da collezioni private e degli eredi, dalle raccolte del Museo Castromediano.

Non è vasta la bibliografia che lo riguarda, ma è sufficiente per inquadrare al meglio questo valido artista che è da ritenersi tra gli esponenti della pittura napoletana del tardo Ottocento.

Nella capitale partenopea Stasi, studente di farmacia negli anni 1865-66, si forma all’Accademia di Belle Arti di Napoli, alla scuola dei maggiori maestri di quel periodo, tra cui il salentino Gioacchino Toma.

Rientrato nel 1870 nella sua Spongano fu maestro di disegno presso il Ginnasio “Capece” di Maglie e produsse un discreto numero di dipinti a vario soggetto, prediligendo la ritrattistica e il paesaggio, con i toni dell’Impressionismo e del post-Impressionismo francese, opere tutte finora poco indagate ed apprezzate.

Per niente trascurabile la committenza proveniente dal mondo ecclesiastico, che a più riprese e da diversi luoghi del Salento richiese dipinti a tema sacro da esporre nelle chiese. Di lui ritroviamo infatti una Deposizione dalla Croce nella chiesa madre di Castrignano del Capo (dove  è anche presente una Madonna del Rosario), che l’artista replica come tema per la chiesa madre di Nociglia.

Ma oltre ad essere artista Paolo Emilio Stasi restò alla storia per aver scoperto nel 1904, in maniera del tutto casuale, la grotta Romanelli, fra Castro e Santa Cesarea Terme, dove si era recato per dipingere su commissione un quadro della Madonna di Lourdes, scorgendovi un reperto fossile e alcuni graffiti, poi indagati con l’ausilio del paleontologo Ettore Regalia del Gabinetto Paleontologico di Firenze.

Le successive esplorazioni sul territorio e il desiderio di approfondire questo particolare ed avvincente ramo della scienza, gli procurarono nuovi ritrovamenti e lo portarono a dirigere gli scavi nella grotta Zinzulusa a Castro e nei cunicoli dei Diavoli a Porto Badisco, con rinvenimento di ceramiche e numerosi frammenti vascolari. Fu sempre lui a rinvenire, nel 1910, il dolmen di Castro.

 

La mostra, coordinata da Luigi De Luca, direttore del Polo biblio-museale di Lecce, curata da Brizia Minerva, Annalucia Tempesta, Michele Afferri e Salvatore Bianco, sarà visitabile fino al 31 gennaio 2023, tutti i giorni dal martedì alla domenica, dalle 9 alle 20.

Si prevede a breve la pubblicazione di una monografia che illustrerà la sua vita, ricostruendone l’attività artistica e scientifica. Questa affiancherà un’edizione a stampa di 316 pagine, già in circolazione dal 2021: Paolo Emilio Stasi, pittore e archeologo. Arte e scienza in Terra d’Otranto tra fine ‘800 e inizi ‘900. Pagine sparse e documenti inediti sulla vita e sull’opera di Paolo Emilio Stasi scritti e raccolti da Cesare Teofilato, curata da Glauco Teofilato, con grafica di Daniele Coricciati e foto di Raffaele Puce, edita dall’Associazione Esterno Notte.

In ricordo di Gino Pisanò, filologo, critico letterario, storico della cultura

FORSAN ET HAEC OLIM MEMINISSE IUVABIT.[1]

RICORDO DI GINO PISANO’

 

di Paolo Vincenti

La figura dell’intellettuale Gino Pisanò, filologo, critico letterario, storico della cultura, nato a Casarano il 26 giugno 1947 e morto a San Giovanni Rotondo il 18 marzo 2013, è stata ricordata in un libro edito dalla Società di Storia Patria sezione di Lecce, intitolato “Qui dove aprichi furono i miei giorni”. La luminosa humanitas di Gino Pisanò.[2]

Il volume, a cura di Fabio D’Astore e Mario Spedicato, raccoglie una serie di testimonianze da parte di amici e studiosi, oltre al profilo bio-bibliografico. Ordinario di Latino e Greco nei licei, è stato docente di Storia delle Biblioteche, presso la Facoltà di Beni Culturali dell’Università degli Studi di Lecce. Gino Pisanò aveva una cultura enciclopedica, perché insaziabile era la sua curiosità, varia la gamma degli aspetti su cui si appuntava il suo interesse erudito.

Si poteva dire esponente di quella humanitas, come intesa nel Quattrocento e nel Cinquecento, che considerava cioè le humanae litterae, il terreno di confronto, il mezzo privilegiato di comunicazione spirituale, ovverosia di una comunicazione alta, ad ampio raggio, non chiusa, elitaria, settoriale, parcellizzata, come purtroppo sta tornando ad essere oggi il sapere. Suoi riconosciuti maestri furono Oreste Macrì, Mario Marti, Donato Valli.

Pisanò era anche poeta. Clematides, la sua esordiale raccolta poetica, è anche una delle sue prime opere[3]. Sebbene questa rappresenti un unicum nella sua carriera, emergono dalla raccolta, l’amore per i classici greci e latini, la devozione filiale per la terra madre, l’interesse filologico ed erudito, il gusto della scrittura colta, lo scavo piscologico, insomma tutti i temi che hanno accompagnato la sua lunga carriera.

Fittissima, la sua attività di conferenziere. Presidente, dal 2000 al 2008, dell’Istituto di Culture Mediterranee della Provincia di Lecce, era anche membro del comitato tecnico di studio del Parco Letterario “Quinto Ennio” della Provincia di Lecce. Nell’incarico all’Istituto di Culture Mediterranee profuse moltissime energie. Da umanista, non poteva restare insensibile al grande fascino esercitato dal Mare Mediterraneo. In un’intervista, rilasciata allo scrivente per un periodico locale, nei primi anni Duemila, disse: “Il Mediterraneo, prima ancora di essere un luogo fisico, ossia una rete viaria liquida e un immenso contenitore di bio-diversità, è per me un ‘luogo mentale’: è lo spazio sociologico nel quale è nata la democrazia greca antica, nel senso che furono i viaggi dei greci, i loro incontri, le loro scoperte di nuovi popoli e costumi, i confronti fra mentalità diverse a far nascere nel dna di quel popolo l’idea della relatività della conoscenza, sottesa alla crisi di ogni certezza e di ogni assolutismo. Questo era in fondo il magistero di Socrate, questo era il senso della struttura dialettica del teatro tragico ateniese del V secolo a.C. Lontano dal Mediterraneo, sulle montagne e nei deserti, nacquero i grandi imperi e i loro poteri assoluti, donde il contrasto fra la civiltà politica panellenica e la barbarie persiana. Il Mediterraneo dunque è il simbolo della cultura occidentale: Odisseo si forma e matura sul mare diventando, da astuto, saggio. La miriade di porti del Mediterraneo può diventare simbolo di quella cultura dell’accoglienza, della tolleranza e della solidarietà che dovrebbe stare alla base del nostro essere europei, eredi di Socrate, di Cristo, di Voltaire. Il Mediterraneo è un tourbillon di razze, lingue, odori e colori diversi. Il Mediterraneo lambisce anche i paesi del Medio Oriente. È sempre il Mediterraneo che ha visto il dispiegarsi della grande civiltà arabo-islamica; oggi l’islam rischia di diventare un luogo comune come civiltà antitetica a quella occidentale o addirittura come antagonista perenne”.[4]

Parole profetiche, se si pensa che oggi non soltanto stiamo vivendo un ritornante scontro di civiltà, fra Occidente e Oriente, ma anche, in seguito agli esodi massicci di profughi dalle coste africane e mediorientali, un asperrimo dibattito interno sulle politiche migratorie fra forze della reazione, latamente xenofobe, che lavorano a piani di indifferenziato respingimento, e forze progressiste aperte di converso ad una accoglienza indiscriminata.

Ricevette numerosi premi durante la carriera. Nel 1997, il professor Osvaldo Giannì gli dedicò un profilo sulle pagine della rivista della Società di Storia Patria sezione di Maglie, con una bibliografia dei suoi scritti, seppure parziale[5].

Da Mario Marti, forse più di tutti, aveva mutuato il fondamento metodologico, di derivazione crociana, con cui si approcciava ai problemi testuali, all’esegesi critica, allo scavo erudito, all’approfondimento delle tematiche che volta per volta affrontava, in continuità con gli studi già inaugurati dallo stesso Marti, da Vallone, Mangione, Valli, Dell’Aquila, Rizzo, Giannone. E quanto ai criteri ispiratori della sua ricerca, egli stesso invocava « a loro beneficio (ma anche a testimonianza della mia attenzione per il “certo” e il “vero”) quanto Giovan Battista Lezzi scriveva a Marco Lastri nel presentargli la sua Biblioteca salentina: “Procuro di dare un’idea la più esatta dell’autore, do un giudizio, qualunque siasi, delle opere da lui scritte e perciò cerco di vederle in fonte”» .[6]

A Giovan Battista Lezzi volle intitolare la rinnovata Biblioteca Comunale di Casarano quando, nel 2005, dopo due anni di lavoro, venne riaperta al pubblico. Ben 4010 volumi, inventariati, catalogati e classificati da Pisanò. In occasione dell’inaugurazione, intervistato sul valore che una biblioteca può continuare ad avere nell’era di Internet, egli, da esperto di biblioteconomia e storia delle biblioteche, non poteva che rispondere così: “È il luogo dell’aggregazione, è lo strumento contro la dispersione scolastica, è un servizio sociale, è un istituto della democrazia. Pertanto, la biblioteca deve essere arricchita da una ludoteca per bambini, una emeroteca, una discoteca, ecc., per diventare come la Public Library del mondo anglosassone. Va sfatata la concezione della biblioteca pubblica come luogo claustrale. Internet non basta: comunica un sapere universale ma non scientificamente documentato e perciò assolve solo a un compito divulgativo. La ricerca è altra cosa: richiede approfondimento, indagini documentali (le fonti, per esempio), confronti testuali e intertestuali. Ma soprattutto lo studio in biblioteca eroga, insieme con i suoi silenzi, stimoli per una ricerca sempre in progress, dietro la quale si annida il fantasma della nostra limitatezza. E questo è il primo vero segnale che si è sulla strada giusta per conoscere prima sé stessi e poi il mondo”.[7] In occasione della sua scomparsa, scrive Gigi Montonato, in un commosso ricordo dell’amico e collega: “La sua è stata una delle pochissime voci di questi ultimi trent’anni a recuperare la dimensione greca della nostra cultura, in un incontro ideale col Galateo; a stabilire un rapporto con le nostre radici elleniche, che la crisi sugli studi classici ha lasciato inaridire. Dall’amore per la Grecia all’amore per la cultura tedesca, che più di ogni altra, con la filosofia e con la poesia, ha dato alla civiltà europea importanti segni di identità, il passo è breve. Gino era affascinato dai grandi filosofi e poeti tedeschi quanto lo era di Omero e dei lirici e tragici greci, di Euripide, di Sofocle, di Eschilo, ma anche di Aristofane. L’affetto e l’ammirazione per Francesco Politi, il germanista di Taurisano, trovava linfa costante nelle belle traduzioni dal tedesco di Rilke, di Holderlin, di Nietzsche, che Gino riprendeva nei suoi scritti e di cui si faceva interprete a sua volta”.

E conclude: “La sua scomparsa impoverisce il panorama culturale salentino e lascia in chi lo ha conosciuto un senso di vuoto e di tristezza. Consola che per quello che ha fatto Gino, come il suo Orazio avrebbe detto, non morirà del tutto!”.[8] Su alcuni intellettuali in particolare concentrò i suoi sforzi: Girolamo Cicala nel Seicento, Ignazio Falconieri, Giovan Battista Lezzi, Francesco Antonio Astore, nel Settecento, Giacomo Arditi nell’Ottocento, Macrì, Bodini, Caproni, Pagano, Comi, Pierri, Corvaglia nel Novecento. L’esegesi dei passi poetici, le curatele e le note di lettura, la traduzione delle più impenetrabili epigrafi latine, la riflessione filosofica, procedevano di pari passo con la sua opera di divulgazione. Intrinseca finalità, quella di trarre fuori di orfanezza piccoli e grandi avvenimenti, date e personaggi illustri, per iuvare mortales, come diceva il suo amato Livio, cioè sottrarre l’oggetto dei suoi studi all’oblio. “Forsan et haec olim meminisse iuvabit”, proprio come l’insegnamento di Virgilio, che aveva messo in epigrafe al suo volume su Falconieri.[9] Con abbondanza di dottrina, si soffermava sui vari aspetti, nella disamina storico critica di un autore greco o latino, oppure del Rinascimento o del Romanticismo, di un componimento poetico, di un racconto o di un romanzo, sempre inquadrando l’oggetto d’analisi nel contesto sociale in cui si colloca, con approccio multidisciplinare.

Il registro alto della scrittura è certo uno dei connotati del suo stile. Egli aveva il culto della parola ed in tutti i suoi testi usava una prosa dotta, volutamente ricercata, intrisa di echi tardo-ottocenteschi e novecenteschi, ma forgiata, come egli avrebbe detto, sull’incudine letteraria dei classici. La parola nei suoi scritti si faceva elegante, il suo lessico, impreziosito da aulicismi, disseminato di termini desueti, forestierismi, o termini presi a prestito da altri linguaggi settoriali, era diventato un marchio di fabbrica, e la sua sintassi così elaborata, traboccante, a volte involuta, ma talmente originale da far familiarizzare il lettore più provveduto, che riconosceva un suo scritto senza vedere la firma.  A volte, ingaggiava quasi un corpo a corpo con la lingua, fino ad ottenerne effetti straordinari, ricercando per lo stesso tema immagini diverse, che d’altronde rampollavano con facilità dal suo universo di conoscenze, fino a torcere la lingua in una resa polisemica con utilizzo anche di calchi semantici e morfologici.

L’ultima opera di Pisanò è un volume che raccoglie alcuni saggi pubblicati negli ultimi anni: Studi di italianistica fra Salento e Italia: sec. XV-XX.[10]

La presentazione di questo libro, nel 2013, già fissata, fu annullata a causa della sua sopravvenuta scomparsa. A proposito degli ultimi giorni di vita, scrive Marco Leone: “Nonostante che la malattia avanzasse inesorabilmente, Pisanò si propose di presentare, con mio grande compiacimento, l’edizione del Cicala: stava lavorando a questo appuntamento, già calendarizzato, con l’abituale dedizione, però poi il peggioramento delle sue condizioni di salute gli impedì di portare a termine il suo proposito. Mi telefonò per comunicarmi il suo rammarico, che era anche il mio: lo fece con la signorilità e con la eleganza che lo contraddistinguevano di consueto. Fu l’ultima volta che ebbi la possibilità di parlargli, anche perché la presentazione dell’altro suo più recente volume, Studi di italianistica fra Salento e Italia secc. XV-XX, a cui pure avrei dovuto partecipare come relatore, fu purtroppo annullata, a pochi giorni dalla data fissata, a causa della sopraggiunta morte. Si può dire così che il mio rapporto con Gino Pisanò si sia concluso come era iniziato, nel nome di un ignoto poeta latino di età barocca e nel segno di una condivisione di interessi letterari che alla fine si è trasformata col tempo, per mia fortuna, anche in una corrispondenza umana e amicale”[11].

Per famigliari, amici ed estimatori, oltre all’affetto, restano le sue opere, testimonianza di alto impegno morale e civile, dacché, per concludere con Dante, “Amore, acceso di virtù, sempre altro accese, pur che la fiamma sua paresse fore”.

Si passano ora in rassegna le iniziative degne di nota e le principali manifestazioni commemorative tenute a partire dall’anno della sua scomparsa.

Già nel maggio del 2013 a Parabita, presso Palazzo Ferrari, si tenne una cerimonia di consegna del Premio “L’Apollo d’argento” a Gino Pisanò, voluto dal centro culturale “Il Laboratorio” di Aldo D’Antico. Il premio venne consegnato dal Presidente della Provincia Antonio Gabellone alla famiglia di Pisanò e furono chiamati ad intervenire alcuni studiosi che sono stati amici del professore, come Fabio D’Astore, docente di Letteratura italiana presso la Facoltà di Beni Culturali dell’Università di Lecce, Gigi Montonato, animatore della rivista “Presenza taurisanese”, e Luigi De Luca, dell’Istituto di Culture Mediterranee, che ne fu direttore durante la Presidenza di Pisanò. Alla Biblioteca Comunale di Parabita, intitolata ad Ennio Bonea, e gestita da “Il Laboratorio”, Pisanò aveva donato i suoi libri prima della scomparsa.

Nel marzo del 2014, dunque ad un anno dalla scomparsa, nell’Aula Magna del Liceo Classico di Casarano, dove Pisanò ha insegnato per molti anni, è stato presentato il volume  Studi di Italianistica fra Salento e Italia secc. XV- XX, che egli non ha fatto in tempo a vedere realizzatoL’importante serata, presieduta dal Prof. Mario Spedicato, dell’Università del Salento, ha visto gli interventi di saluto del Sindaco di Casarano Gianni Stefano, del Presidente della Provincia di Lecce Antonio Gabellone, della Vice Preside del Liceo Classico Casarano Tonina Solidoro, del Presidente dell’Istituto Culture Mediterranee Mauro Sbocchi; quindi le relazioni del Prof. Fabio D’Astore, Presidente della Società Dante Alighieri Comitato di Casarano,  del  Prof. Marco Leone  della Facoltà di Beni Culturali dell’Università del Salento, e del Prof.  Antonio Lucio Giannone della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università del Salento. Infine, brevi interventi della Dirigente di Liceo Docet, Casarano, Lucia Saracino, e del figlio del professor Pisanò, Attilio.  Questa manifestazione è stata fra le più intense ed emozionanti, anche per il luogo in cui si è svolta, vale a dire il Liceo Classico “Dante Alighieri”, massimo tempio della cultura casaranese.[12]

Nel 2015, la Compagnia Teatrale La Busacca, guidata da Francesco Piccolo, ha portato in scena un tributo al professore, con l’opera “Gino Pisanò: l’uomo che guardava il mare”, un omaggio incentrato sulla nota passione dello studioso per il mare.

Nel marzo del 2016, a tre anni dalla morte, a Casarano è stato a lui intitolato l’Auditorium Comunale, con una cerimonia alla presenza del Sindaco Gianni Stefàno, del Presidente della Provincia Antonio Gabellone, dei docenti dell’Università del Salento Lucio Antonio GiannoneFabio D’Astore e Marco Leone, e del nuovo Presidente dell’Istituto di Culture Mediterranee Gigi De Luca. In quell’occasione è stato anche inaugurato un concorso letterario di prosa dedicato alla sua memoria, rivolto ai ragazzi maturandi delle scuole superiori casaranesi e voluto da Liceo Docet Lucia Saracino e comitato cittadino della “Società Dante Alighieri”.

Nel giugno 2017 a Porto Cesareo, a cura dell’Associazione di Promozione Sociale “MediterraneaMente”, è stato consegnato alla sua memoria l’alto riconoscimento “Virtù e conoscenza”,  un premio “assegnato a chi con l’ingegno e la sua opera meritoria ha dato lustro alla terra salentina e mediterranea”, riproduzione, dal valore simbolico, di una statuetta rappresentante il dio Thot, divinità egizia della scienza e della sapienza, risalente al VI secolo a.C., rinvenuta nel 1933 nel mare di Porto Cesareo e ora esposta nel Museo Nazionale della Magna Grecia di Taranto. Il premio è stato consegnato al figlio, Attilio Pisanò, dalla professoressa Cristina Martinelli, responsabile del Presidio del Libro di Casarano.

Nel marzo del 2018, a cinque anni dalla morte, si è tenuta una giornata di studio dal titolo “Gino Pisanò: l’uomo e lo studioso”, presso l’ex Monastero degli Olivetani, a Lecce. L’incontro, promosso dal dipartimento dei Beni Culturali dell’Università del Salento e dalla sezione leccese della Società di Storia Patria, ha visto vari e qualificati interventi, coordinati dal prof Mario Spedicato, di studiosi come Cristina Martinelli, Giuseppe Spagnolo e Luigi De Luca, e poi Alessandro Laporta, che si è soffermato sulla figura di Pisanò ricercatore e didatta di Storia delle biblioteche,  Marco Leone, che ha trattato di Pisanò come studioso del Seicento, Fabio D’Astore e Antonio Lucio Giannone, che si sono soffermati sugli studi di Pisanò sul Settecento e sul Novecento, mentre Luigi Montonato e Felicità Cordella hanno parlato di Pisanò poeta.

Nel giugno dello stesso anno, a Casarano, in occasione del suo compleanno, il comitato cittadino della Società Dante Alighieri, ha voluto dedicargli un’altra serata ricordo, dal titolo “Gino Pisanò, luminoso umanista”. Nell’aula magna della Scuola “San Giovanni Elemosiniere” di via Cavour, molti sono stati gli intervenuti, a partire da Mario Spedicato, Tonina Solidoro, Vice Preside del Liceo Classico di Casarano e  Gigi De Luca, insieme alle attrici Alessandra De Luca e Carla Guido. La serata, condotta dal giornalista Antonio Memmi, ha visto anche gli interventi musicali di Rocco Luca e Luigi Marra e dei maestri Lucia Rizzello e Luigi Bisanti. Saluti finali di Attilio Pisanò.

A Pisanò è stato anche dedicato un omaggio poetico dall’artista Peppino Martina, “A Gino Pisanò, indice del tempo e delle circostanze”, pubblicato in “Fondazione Terra D’Otranto” on line[13].

Infine, il libro segnalato in apertura di articolo.

 

Note

[1] VIRGILIO, Eneide, I, v.203.

[2] Aa. Vv., “Qui dove aprichi furono i miei giorni”. La luminosa humanitas di Gino Pisanò, a cura di FABIO D’ASTORE e MARIO SPEDICATO, Società di Storia Patria sezione di Lecce, “I Quaderni de L’Idomeneo”, Lecce, Grifo, 2019.

[3] GINO PISANÒ, Clematides, Galatina, Congedo, 1984 . La raccolta reca la prefazione di Aldo de Bernart, storico ed erudito ruffanese. Su ALDO DE BERNART, si veda: I luoghi della cultura e cultura dei luoghi, a cura di FRANCESCO DE PAOLA e GIUSEPPE CARAMUSCIO, Società Storia Patria, sezione Lecce, “I Quaderni de L’idomeneo”, n.24, Lecce, Grifo, 2015. Con Aldo de Bernart, Pisanò pubblicò anche Giovan Battista Giugni e le sue epigrafi, in “Contributi” Rivista Trimestrale Soc.di Storia Patria per la Puglia sezione di Maglie, a. 2, n. 4, Galatina, Congedo, Dicembre 1983, pp. 109-116; e poi  Aradeo dalle origini all’Unità d’Italia, in Aa.Vv.  Paesi e figure del vecchio Salento, a cura di ALDO DE BERNART, vol. III, Galatina, Congedo, 1988, pp. 18-20.

[4] PAOLO VINCENTI, La cultura va per mare, in “Città Magazine”, Lecce, 19-25 novembre 2004, pp.21-24.

[5] OSVALDO GIANNÌ, Contributi per una bibliografia di studiosi salentini dell’ultima generazione – parte prima, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria sezione di Maglie, n.9, 1997, Lecce, Argo ,1997, pp. 121-149

[6] Premessa, in GINO PISANÒ, Lettere e cultura in Puglia tra Sette e Novecento: studi e testi, Galatina, Congedo, 1994, pp.7-8.

[7] PAOLO VINCENTI, Una biblioteca nel nome di Lezzi. Finalmente, in “Il Tacco d’Italia”, Casarano, giugno 2004, pp.16-17.

[8] GIGI MONTONATO, L’umanista che conciliava la tradizione con la modernità, in “Presenza Taurisanese”, a. XXXI, n.255, Taurisano, aprile 2013, p.12.

[9] GINO PISANÒ, Ignazio Falconieri: letterato e giacobino nella rivoluzione napoletana del 1799, Manduria, Lacaita, 1996.

[10] GINO PISANÒ, Studi di italianistica fra Salento e Italia: sec. XV-XX, Società Storia Patria per la Puglia Sezione Lecce, Galatina, Panico, 2012.

[11] MARCO LEONE, Ricordando Pisanò, in “L’Idomeneo”, Soc. Storia Patria sez. Lecce,  n.21, 2016,Lecce,  Università del Salento, 2016, pp.210-211;  anche in “www.unigalatina.it › Necrologi e ricordi ›”, 21 marzo 2016.

[12] Tutti gli interventi della serata sono in: Gino Pisanò, Studi di Italianistica fra Salento e Italia (secc. XV-XX),Galatina, EdiPan, 2012.Interventi: F. D’Astore, A.L. Giannone, M. Leone, A. Gabellone, G. Stefano, M. Sbocchi, T. Solidoro, L. Saracino, A. Pisano’, in “L’Idomeneo”, Soc. Storia Patria sez. Lecce,  n.17, 2014, Università del Salento, 2014, pp.281-294.

[13] http: www.fondazioneterradotranto.it/ a-gino-pisano-indice-del-tempo-e-delle-circostanze, giugno 2018.

 

Libri| San Giuseppe da Copertino e i pellegrini 

 

di Pietro Mariano

Il romanzo breve di Antonio Tarsi, San Giuseppe da Copertino e i pellegrini, immerge il lettore nel pellegrinaggio che un gruppo di fedeli compie per raggiungere la mèta agognata del Convento-Santuario copertinese della Grottella, dove intende omaggiare l’icona della Santa Vergine Maria che San Giuseppe, straordinario esempio di virtù evangelica, definiva la “Mamma mia”.

Il racconto, che ha sullo sfondo la figura del santo copertinese, rende ragione di quanto il raggiungimento della Virtù (devozione sincera verso il Bene perseguito sulle orme di chi ha “segnato la strada”) si scontra sempre con le insidie del “vizio” (tentazioni di varia natura “svianti” come “muse” seducenti). L’opera costituisce un invito a confrontarsi con le raisons du coeur che molto spesso confliggono con la raison tout court dialectique.

Il volume presenta in copertina l’immagine del Santo che spicca il volo estatico, circondato da varie figure di devoti pellegrini in varie pose.

Le dimensioni dell’opera sono di cm 15×21, la casa editrice è la Fides edizioni che è un marchio del Gruppo editoriale Les Flâneurs.

Maglie. Una statua per Francesca Capece

 

di Paolo Vincenti

Una storia affascinante, quella di Francesca Capece (1769-1848), ultima feudataria di Maglie, che si inscrive nell’alveo della beneficenza magliese, in un’età storica che ha visto fiorire, non solo nel Salento, tantissime opere pie, realizzazioni della solidarietà e della filantropia umana.

Alla Duchessa, la città di Maglie, oltre alla statua di cui ci occupiamo in questo contributo, ha dedicato una strada, una piazza, il famoso Liceo, un ente morale (oggi Fondazione Capece), una Galleria d’arte, una targa commemorativa nell’atrio del Palazzo Comunale ed un’altra nella Chiesa Madre, dove è sepolta.

Discendente di un’antica casata, quella dei Capece, originari di Napoli, baroni di Corsano, Barbarano e Maglie, era figlia di Nicola Capece Castriota-Scandeberg, Barone di Maglie (1743-1772), e Maria Vittoria Della Valle di Aversa, sorella di Nicola junior (1772-1791), che nacque dopo la morte del padre, e di Geronima (1771-1846). Con la morte in giovane età del fratellino, Nicola junior, Francesca e Geronima rimasero sole, ancora bambine, insieme alla madre e a due anziane zie, Donna Barbara e Donna Concetta. All’età di diciannove anni, Francesca sposò il Duca di Taurisano Antonio Lopez y Rojo, aggiungendo ai propri titoli quello di Duchessa, con il quale più sovente viene ricordata.

La sorella Geronima andò in sposa a Filippo Affaitati dei Marchesi di Canosa. Con la morte del fratello Nicola, erede legittimo del casato, tutto il patrimonio Capece passò alla sorella maggiore Francesca, che divenne nel 1805 unica feudataria di Maglie, cosa che creò non pochi malumori e invidie in famiglia, specie nella sorella Geronima e nel marito di lei Filippo Affaitati. Tuttavia, mentre Geronima aveva tre figli, la Baronessa Francesca non generò prole. L’amministrazione dei beni dei feudi rimase alla prozia, Donna Barbara, la quale fu una pessima amministratrice e portò i Capece quasi alla rovina.

Nel 1806, viene abolita la feudalità dal Re Giuseppe Bonaparte. Francesca Capece iniziò a pensare ai possibili destinatari delle sue ingenti ricchezze. Si delineò fin da subito nella sua mente l’idea di fare della beneficenza. Si giunse alla donazione ai Padri Gesuiti. E nacque così l’Istituto Capece, nel 1843.

La prima idea fu quella di realizzare un ospedale per i poveri. Ad un certo punto però, si aprirono le ostilità nei confronti dei religiosi. Anche lo stesso marito di Francesca, il duca Antonio, era molto diffidente nei confronti di Padre Sordi, responsabile dei Gesuiti di Maglie, il quale si era installato nel Palazzo e si comportava da padrone, atteggiamento, questo, che indisponeva non poco il Duca, e più in generale tutti i detrattori dei Gesuiti, fra i quali, in primis, il deputato Oronzio De Donno e l’avvocato Alessandro De Donno. In realtà, Padre Sordi seppe ben interpretare i desiderata della Duchessa e infatti la Capece lasciò le proprie sostanze ai membri della Compagnia di Gesù proprio con il progetto di realizzare un’opera di beneficenza che unisse insieme la religiosità e l’istruzione.

Si delineava cioè una prima bozza di quello che sarebbe poi diventato il Liceo-Convitto Capece.

I Gesuiti venero cacciati da Maglie una prima volta nel 1848 e poi ancora nel 1860, quando gli ordini religiosi furono aboliti ed i loro beni incamerati dal Fisco. E con il testamento olografo del 1848, dettato da Francesca tre giorni prima della morte, redatto dal notaio Lorenzo Garrisi di San Pietro in Galatina, la Duchessa lasciava tutti i propri averi alla Beneficenza magliese.

La Capece, a causa dei rovesciamenti che dovette subire, conosceva benissimo la povertà e l’indigenza, e il suo spirito umanitario, la formazione che aveva ricevuto, inoltre il fatto di non avere figli, la portarono ad avere un’ottima predisposizione verso il prossimo, in particolare verso i più bisognosi. La sua Opera Pia contemperava la beneficenza con l’istruzione; infatti, oltre a dare ai ragazzi i primi rudimenti del leggere e scrivere, insomma le scuole primarie, veniva fornita anche un’istruzione superiore ed inoltre si dava ad essi, specie a chi veniva da fuori Maglie, la possibilità di vivere nel Collegio. Varie furono le vicissitudini di quest’ente. Ad un certo punto, il Collegio chiuse e i suoi beni furono incamerati dal Fisco.

Nel 1863, il Governo concesse la temporanea amministrazione dell’Ente al Comune, senza però la proprietà del bene, e ciò innescò una lunghissima battaglia con il Demanio, che portò nel 1871 alla cessione definitiva con atto notarile da parte del Real Governo. Nel 1885, venne finalmente stipulato, fra il Comune e il Demanio, lo scioglimento del vincolo di inalienabilità del bene. Nacque una battaglia fra una parte dell’intellighenzia magliese, la cosiddetta borghesia umanistica, che rivendicava l’autonomia dell’ente dal Comune, e la politica, che la negava decisamente. Di questa battaglia, ancora una volta, si fecero interpreti l’avvocato Alessandro De Donno e il deputato Oronzio De Donno, i quali sostenevano che il patrimonio della Capece non potesse essere preda della cattiva amministrazione del Comune, cosa che ne avrebbe snaturato il disegno originario, e lo scontro si fece talmente acceso che degenerò in tafferugli e sommosse di piazza. Ma alla fine si arrivò alla resa dei conti e nel 1887 il Comune rinunciò al controllo dell’Istituto, che venne riconosciuto autonomo, e con Real Decreto n.2583 del 22 maggio 1887 “il Pio Istituto Capece del Comune di Maglie” venne eretto in “Corpo Morale”.

Questa fin qui descritta, in sintesi, la storia dell’Istituto Capece, e della sua fondatrice, la Duchessa Francesca, alla quale la città di Maglie volle dedicare una statua, come segno tangibile di riconoscenza nei confronti della munifica donna[1].

La statua è opera di Antonio Bortone (1844-1938), insigne scultore originario di Ruffano, ma trasferitosi a Firenze, dove raggiunse la gloria. Quell’Antonio Bortone, “mago salentino dello scalpello”, come lo definì Brizio De Santis, nel basamento della sua opera più importante e conosciuta: il Fanfulla, che gli diede fama anche a Parigi[2]. Questo monumento, oggetto pochi anni fa di un intervento di restauro, si trova in Piazza Raimondello Orsini, a Lecce.

Scrive Aldo de Bernart: “Antonio Bortone è scolpito sul plinto, che regge la famosa statua, nel testo epigrafico del prof. Brizio De Santis: Sono/ Tito da Lodi /detto il Fanfulla/ un mago di queste contrade /Antonio Bortone/ mi tramutò in bronzo/ Lecce ospitale mi volle qui/ ma qui e dovunque/ Dio e l’Italia nel cuore/ affiliamo la spada/ contro ogni prepotenza/ contro ogni viltà/ MCMXXII.

La statua raffigura il Fanfulla, uno dei tredici cavalieri della “Disfida di Barletta”, ritratto ormai avanti negli anni quando orbo di un occhio e col saio domenicano faceva penitenza nel fiorentino convento di S. Marco, mentre affila la misericordia, un acuminato spadino che all’inquieto lodigiano era servito in tante battaglie”.[3]

Ma numerosissime sono le opere del Bortone degne di menzione, fra le quali: il busto di Giuseppe Garibaldi, in marmo, che si trova presso il Castello Carlo V di Lecce;  quello di Gino Capponi, presso Santa Croce in Firenze; il monumento a Quintino Sella, a Biella; il Monumento a Sigismondo Castromediano, nella omonima piazzetta a Lecce; il monumento a Salvatore Trinchese, a Martano; il ritratto di Pietro Cavoti, presso il Convitto Colonna a Galatina; il monumento ai Martiri di Otranto; il monumento ai Caduti di Tuglie; il monumento ai Caduti di Ruffano;  il monumento ai Caduti di Calimera; il monumento al Sottotenente Benedetto Degli Atti, nel Palazzo Comunale di Guagnano; e tanti altri.[4] Il monumento alla Duchessa Capece venne realizzato nel 1896-98.

Si deve ad Alessandro De Donno, grande amico e protettore di Antonio Bortone, la proposta dell’erezione della statua, per la quale si costituì a Maglie anche un comitato cittadino. Ne parlano Teodoro Pellegrino, in Un dimenticato scultore salentino. Il Mangionello. Nel centenario della sua nascita,[5] e Antonio Erriquez, in Giuseppe Mangionello scultore pittore architetto.[6] Il Comitato cittadino, presieduto da Alessandro De Donno, decise di affidare l’incarico appunto a Bortone, il quale lo portò a compimento in maniera egregia. Dubbi sorgevano soltanto sul posizionamento della statua. Alessandro De Donno chiedeva che la statua, della quale possedeva già nel suo palazzo un bozzetto in gesso realizzato dallo stesso Bortone, fosse allocata nella centrale piazza di fronte al Municipio, mentre alcuni cittadini, fra i quali in primis Raffaello De Donno, esponente di spicco della politica magliese, ritenevano più giusto che questa fosse nell’atrio del Liceo Capece. Altri ancora chiedevano che questa fosse allocata nella piazzetta retrostante il Liceo, riservando la piazza centrale al monumento ad Oronzio De Donno, anch’esso indifferibile, nei voti dei proponenti[7].

Prevalse invece la scelta del Comitato cittadino e la statua della Capece venne sistemata di fronte al Municipio, mentre nella piazzetta che a lei è intitolata, trovò posto la statua di Oronzio De Donno, anch’essa opera del Bortone, sebbene questa anomalia toponomastica ingeneri ancora oggi non poca confusione nei visitatori. Lo scultore magliese Giuseppe Mangionello (1861-1939), pur riconoscendo l’elevata qualità dell’opera dello scultore ruffanese, al quale era legato da stima profonda e ricambiata, riteneva che la statua, date le sue ridotte dimensioni, sarebbe stata meglio posizionata nell’atrio del Liceo, mentre in quella grande piazza avrebbe avuto maggior presenza scenica la sua, mai realizzata. Infatti, occorre dire che Mangionello aveva ogni buon motivo per aspettarsi che la commissione della statua di Francesca Capece fosse assegnata a lui, non solo per chiari meriti artistici, ma soprattutto per ragioni di concittadinanza. Non mancò mai di rilevare quanto la mancata assegnazione fosse ragione di rammarico, avendo egli nel cuore i meriti e la fama della grande benefattrice, la nobildonna Francesca, per la quale, come tutti i magliesi, nutriva affetto sincero. Infatti Mangionello realizzò di sua iniziativa un progetto per il monumento, tanto fervida era in lui l’aspettativa, che però andò delusa[8].

La statua, realizzata in marmo, in stile neoclassico, raffigura la Duchessa ormai anziana ma dall’espressione serena, con un fanciullo accanto, seminudo e con il perizoma alla greca, che regge con la mano sinistra lo scudo civico di Maglie e riceve con la destra il libro della sapienza dalla Duchessa, allegoria della missione educatrice della nobildonna e del suo istituto.

Scrive Ilderosa Laudisa: “Il monumento proponeva due figure trattate in modo ben diverso. La donna, scolpita con meticolosa attenzione ad ogni particolare dell’abbigliamento e del viso, sul quale il tempo e le vicissitudini avevano lasciato evidenti tracce, è una figura reale; sembra quasi un’immagine ricavata da fotografia. Il fanciullo, in quanto figura allegorica, è seminudo, di belle fattezze e fortemente idealizzato. I simboli della Conoscenza e della Fede legano i due personaggi.  Alcuni particolari, quali le mani della Capece sulla spalla del ragazzo e la posizione di quest’ultimo, riportano alla mente una delle opere eseguite nel primo periodo fiorentino: la Carità religiosa”[9]..

A Maglie, comunque, Antonio Bortone fu molto amato, se è vero che diverse committenze gli vennero affidate: oltre alla statua in onore di Oronzio De Donno, di cui abbiamo già detto, anche il busto bronzeo del giovane Salvatore Cezzi (1912-1926), che fu voluto dalla famiglia e inaugurato nel 1831 proprio nell’atrio del Ginnasio-Liceo Capece dove il fanciullo era studente[10].  E ancora, il busto all’Avvocato Nicola De Donno, un “Gladiatore morente” ed un “Ippocrate” per il palazzo del  Senatore Vincenzo Tamborino, un busto a Achille Tamborino, i busti per Zoraide e Maria Luisa, ovvero moglie e figlia dell’On. Paolo Tamborino[11].

All’inaugurazione della statua della Capece, lo scultore Bortone non era presente, ma la stampa locale e nazionale ne diede ampio risalto. “Credo che sia il più bel monumento alla cultura di tutto il Salento”, scrive Aldo de Bernart, in un commosso ricordo che dedica sull’annuario della Società di Storia Patria magliese all’amico scomparso Nicola De Donno, che tanto ha scritto proprio sulla Duchessa e sull’Istituto Capece.[12] Sul plinto della statua, l’iscrizione “Lettere e Religione: Luce intellettual piena d’amore” (tratta dal XXX Canto del “Paradiso” di Dante) e “ego plantavi… sed Deus incrementum dedit” (versetti tratti dalla Lettera di San Paolo ai Corinzi)[13]. “Il seme”, scrive Emilio Panarese, “è quello simbolico della beneficenza, della promozione civile e culturale magliese, della donazione di tutti i beni ducali…”[14].

La statua venne inaugurata il 29 luglio 1900, con una grande cerimonia. Ma a distanza di tanti anni, essa campeggia ancora nella centrale Piazza Aldo Moro e continua a parlare ai distratti passanti di una storia antica eppure nuova.

 

Note

[1] Per una storia della Duchessa Francesca Capece e del Liceo Convitto Capece, si veda:

Salvatore Panareo, La Duchessa Francesca Capece, fondatrice degli studi in Maglie (1769-1848), Maglie, Tipografia Capece,1900, ristampato a cura dell’Amministrazione Comunale di Maglie, Erreci Edizioni, Maglie, 2000; Idem, Relazione sul 1° corso d’una scuola normale promiscua istituito in Maglie nell’anno  1914, Maglie,Tipografia Messapica, 1915; Idem,  Discorso tenuto nel I centenario della fondazione dell’Istituto Capece, Maglie, Tipografia Messapica, 1943; Idem, Il comune di Maglie dal 1801 al 1860, Maglie, Tipografia Messapica, 1948 ; Alessandro De Donno, Memorie su l’origine e le vicende del Pio Istituto Scolastico Capece di Maglie, Lecce, Editrice Salentina, 1900; Nicola De Donno, Lo Studente magliese: notizie ed indici, in “Quaderni del Liceo Capece”, II, Edizioni del Liceo Ginnasio Capece di Maglie, Galatina, 1961; Idem,  L’origine e i primi incrementi dell’Istituto Capece, in “Quaderni del Liceo Capece”, III,  Edizioni del Liceo Ginnasio Capece di Maglie,  Arti Grafiche Ragusa-Bari, 1966, in Appendice “Narrazione di Padre Sordi”; Idem, Scuola e sviluppo sociale in un comune del Salento nel sec.XIX (Maglie), in “Rassegna Pugliese”, anno V, N.1-3, gennaio-marzo 1970, p.58; Idem, con Emilio Panarese, Le strade di Maglie, Via Pietro Pellizzari, in “Tempo d’oggi”, Anno II, N.7, Maglie, 1975; Idem, Pietro Siciliani e “Lo Studente magliese”, in “Contributi”, Storia Patria per la Puglia, sezione Maglie, Anno V, N.3-4, settembre-dicembre 1986, Galatina, Congedo, 1986; Giuseppe Bonivento, Relazione generale sul Liceo Ginnasio di Maglie nel triennio scolastico 1912-1915, Tipografia Messapica, Maglie, 1915 ;                                                                                                                        Raffaele Cubaju, Francesca Capece, in “Regio Liceo Ginnasio Francesca Capece- Annuario 1923-24”, Tipografia Capece, Maglie, 1925, p.3; Emilio Panarese, L’istruzione secondaria pubblica e privata in Terra d’Otranto nel 1862-63, in “Tempo d’oggi”, Anno II, n.25, 1975; Idem, Settecento magliese. Il palazzo baronale, in “Rassegna salentina”, Anno IV, N.2, Lecce, 1979 ; Idem,  Cenni storici sullo sviluppo dell’istruzione pubblica a Maglie dall’Unità ad oggi (1861-1985), in “Contributi”, Anno V, N.1, marzo 1986, Galatina, Congedo, 1986; Idem,  Maglie. L’ambiente La Storia Il Dialetto La Cultura popolare, Galatina, Congedo Editore, 1995; Idem, Francesca Capece e il suo monumento, Argo Editore, Lecce, 2000; Cosimo Giannuzzi, La città che deve molte delle sue fortune a Francesca Capece, celebra l’inaugurazione del monumento (29 luglio 1900).  I primi cento anni della vecchia signora, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 24 luglio 2000; Cosimo Giannuzzi e Vincenzo D’aurelio, La figura di Francesca Capece e l’origine dell’istruzione pubblica a Maglie, in “ Il Regio Liceo-Ginnasio F. Capece di Maglie. Ricerche e studi”, Edizione monografica dei «Quaderni del Liceo» a cura di Vito Papa, Ed. Liceo Capece, N. X, Galatina, 2009, p.13-75. Anche in versione ebook, in www.culturasalentina.it;

Vito Papa, Il sogno della duchessa. Profilo storico di Francesca Capece e del suo ‘Stabilimento di carità cristiana’, Fondazione Capece, Galatina, Editrice Salentina, 2010 ; Idem,L’alba di un sogno. Francesca Capece, l’ ‘impareggiabile benefattrice’. Dramma storico in cinque atti con prologo, Centro Studi Capece, Galatina, Congedo Editore, 2014; Lina Leone, Francesca Capece: da “Stabilimento di carità cristiana” a “Fondazione”, in “L’Idomeneo, Miserere nobis: aspetti della pietà religiosa nel Salento moderno e contemporaneo. Atti del convegno di studi”, Società Storia Patria sezione Lecce, Università del Salento, n. 22, Lecce, 2016, pp.  9-16; Pino Refolo, Giuseppe Mangionello Scultore-pittore, Maglie, Edizioni Erreci, 2017, p.35.

 

[2] Iderosa Laudisa, L’opera di Antonio Bortone, in Aa. Vv., Antonio Bortone, Pro Loco Ruffano, Lecce, Conte Editore, 1988, pp.13-15.

[3] Aldo de Bernart, Antonio Bortone e la sua casa natale in Ruffano, Amministrazione Comunale Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis, 2004, pp.5-10. Continua de Bernart: “Modellata a Firenze nel 1877, l’opera è figlia della tensione tra i circoli artistici fiorentini e il Bortone, che si era prodotto, e bene, nel nudo, con il Gladiatore morente, ma non aveva ancora dato prova di sé nel drappeggio. Tale prova il Bortone la darà appunto con la statua del Fanfulla, inviata alla Mostra Internazionale di Parigi, dove però giungerà ammaccata in più parti. Invitato a ripararla, il Bortone non andò mai nella capitale francese, forse per il suo carattere che a volte lo rendeva spigoloso e quasi intrattabile. […] Comunque la statua fu esposta ugualmente a Parigi e vinse il terzo premio, previo il restauro praticato dal grande scultore napoletano Vincenzo Gemito, che si trovava nella capitale francese a motivo della stessa Esposizione.” (op.cit. pp.5-10) Il personaggio di Fanfulla da Lodi è tratto dal romanzo di Massimo D’Azeglio “Ettore Ferramosca, o la disfida di Barletta” del 1833 ( incentrato sulla contesa fra tredici cavalieri italiani e tredici francesi, combattuta nelle campagne pugliesi nel 1503), e poi dal successivo “Niccolò de’ Lapi ovvero i Palleschi e i Piagnoni del 1841, ambientato durante l’assedio di Firenze del 1530.

 

[4] Aa.Vv.,Antonio Bortone, Pro Loco Ruffano, Lecce, Conte Editore, 1988, passim.

[5] Teodoro Pellegrino, Un dimenticato scultore salentino. Il Mangionello. Nel centenario della sua nascita, in “Voce del sud”, 23.12.1961.

[6] Antonio Erriquez, Giuseppe Mangionello scultore pittore architetto, Galatina, Editrice Salentina, 1969.

[7] Sull’illustre patriota salentino, si veda: Emilio Panarese, Il patriota Oronzio De Donno Seniore (Maglie 1754-Napoli 1806) nella Repubblica Napoletana del 1799, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Soc. Storia Patria Maglie, a cura di Fernando Cezzi, N.X-XI, 1998-99, Lecce, Argo Editore, 1999, pp. 5-34: Nicola De Donno, Oronzio De Donno (1754-1806), ostetrico, massone, patriota partenopeo, Ivi, pp. 35-49.

[8] Pino Refolo, Giuseppe Mangionello. Scultore- Pittore, Maglie, Erreci, 2017, pp.55-61.

[9] Iderosa Laudisa, L’opera di Antonio Bortone, in Aa. Vv., Antonio Bortone, Pro Loco Ruffano, Lecce, Conte Editore, 1988, p.24.

[10] Emilio Panarese, Le iscrizioni latine di Maglie,  in ”Note di storia e cultura salentina” Società Storia Patria Maglie, N. VII, 1995, Lecce, Argo Editore, p.190.

[11] Emilio Panarese, Francesca Capece e il suo monumento, Argo Editore, Lecce, 2000, p.13

 

[12] Aldo de Bernart, La statua della Duchessa Capece nella piazza di Maglie, in “Note di Storia e Cultura salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie, N.XVI, Lecce, Argo Editore, 2004, pp.55-56.

[13] Lina Leone, Francesca Capece: da “Stabilimento di carità cristiana” a “Fondazione”, in “L’Idomeneo, Miserere nobis: aspetti della pietà religiosa nel Salento moderno e contemporaneo. Atti del convegno di studi”, Società Storia Patria sezione Lecce, Università del Salento, n. 22, Lecce, 2016, pp.  9-16. La professoressa Leone, Presidente del Centro Studi della Fondazione Capece, con i versi “Ego plantavi” ha titolato anche un numero unico della Fondazione Capece, uscito nel luglio 2013 (Lina Leone, Francesca Capece, un sogno divenuto realtà, in “Ego Plantavi”, Liceo Capece, 2013, p.3).

[14] Emilio Panarese, Le iscrizioni latine di Maglie, in ”Note di storia e cultura salentina” Società Storia Patria Maglie, VII, 1995, Lecce, Argo Editore, p.192.

Ordini mendicanti e filantropia a Francavilla: l’operato di Casa Imperiali e non solo

di Mirko Belfiore

 

Grazie all’operato in Età moderna di una consistente fetta del composito ceto nobiliare genovese, la popolazione appartenente agli strati più poveri e bisognosi della città vide una significativa fioritura di fondazioni filantropiche attive nel sostegno dei più indigenti. Questa tradizione assistenzialistica, che ha saputo lasciare tracce indelebili nel tessuto urbano, la possiamo individuare a Genova e in maniera consistente a partire dal XVI secolo, come una vera e propria attitudine verso quell’idea di promozione sociale che andava oltre la sterile elargizione di denaro: un esempio su tutti la costruzione dell’Albergo dei Poveri (XVII secolo), ad opera del nobiluomo Emanuele Brignole, istituzione quest’ultima dove si garantiva ricovero, alimentazione e istruzione a tutti, un luogo che ancora oggi rimane nel cuore dei genovesi.

1. l’Albergo dei poveri alla fine del XVII secolo (foto dal Web)

 

Su questo argomento esiste un sottile filo rosso che collega la nostra realtà a quella ligure, identificabile in molti dei contesti del Vicereame di Napoli fin dalla seconda metà del Cinquecento.

Che nel Meridione fu consistente la presenza di mercanti-banchieri della Repubblica è ormai un fatto noto, gli stessi che a Napoli contesero ai toscani, ai fiamminghi e ai portoghesi il primato nel settore del credito e della finanza, questione a cui bisogna aggiungere la compravendita dei feudi e dei relativi titoli, operazione alla quale la Spagna ricorse ampiamente fino alla seconda metà del Seicento. Per capire meglio cosa si intende, bisogna pensare al feudo come a una merce di scambio: Madrid aveva bisogno di denaro per finanziare le sue numerosissime incombenze belliche mentre i ricchi mercanti liguri aspiravano alla nobiltà titolata e possidente. In quest’ottica ricaddero tutte le province del Vicereame e in particolar modo la Terra d’Otranto, vera e propria terra di conquista per questa élite.

2. Pirro Ligorio, Regni Neapolitani verissima, 1570 (Genova Antica e dintorni – ed. Mondani)

 

Una volta entrati in possesso dei feudi di Francavilla, Oria e Calsanuovo (Manduria), gli Imperiali perseguirono in primis i loro interessi feudali, ma analizzando bene la storia del loro governo, non mancano gli esempi che confermano quel continuum con la tradizione caritatevole ereditata dal contesto di origine. Le parole dello storico Pietro Palumbo offrono una propria lettura su quest’argomentazione: “Splendida eccezione a questo sistema corrompitore [quello spagnolo] furono gli Imperiali. Essi educati nelle Corti e in città libere non furono veramente feudatari di antico stampo. A Francavilla apportarono onori, ricchezze, ampliamenti. Come i sovrani angioini e aragonesi iniziarono, gli Imperiali compirono i miglioramenti della Terra costruendo quartieri, assolvendo balzelli, fondando istituti per i poveri e per le fanciulle, ed introducendo la pubblica istruzione coi monaci delle Scuole Pie”.

3. Papa Paolo III ha la visione del Concilio di Trento (Sebastiano Ricci, Olio su tela, 1687-1688, Piacenza, Musei Civici)

 

Pur mediando la tipica enfatizzazione del massimo storico della città, nelle sue parole troviamo conferma di quanto detto e di come questa naturale propensione alla solidarietà vada ricondotta non solo a un’educazione recepita in ambienti di più ampio respiro ma che a questo fattore, vada aggiunta una mentalità che vedeva nella sudditanza una risorsa da “potenziare”. Attraverso l’istituzione di opere benefiche, l’introduzione di ordini religiosi con peculiarità specifiche e la creazione di lasciti testamentari distribuiti con criterio alle categorie più a rischio, Casa Imperiali seppe evolvere il tenore di vita della popolazione, garantendo l’integrità morale delle fanciulle, educando gli orfani secondo una metodologia moderna, assistendo i moribondi con opere caritatevoli costituite ad hoc e sostenendo l’accrescimento culturale di una cittadina che fra il XVII e il XVIII secolo ebbe un consistente sviluppo demografico. Per compiere questo complesso programma sociale, c’era bisogno dell’apporto di un esercito di uomini spinti da una forte fede verso l’aiuto del prossimo. In questo frangente, quindi, dobbiamo inserire l’importante ruolo che gli ordini religiosi ebbero nella Francavilla degli Imperiali come in tante altre realtà.

Il movimento mendicante nella nostra Penisola ha profonde radici medievali e moltissimi insediamenti sparsi lungo le varie regioni italiane videro una vera e propria “invasione” da parte dei diversi nuclei monastici. Nel Sud Italia però, questo fenomeno lo possiamo registrare solo in piena età controriformata e in buona parte su iniziativa feudale. D’altronde, il peso dei nuovi arrivati si faceva sentire subito dopo il loro arrivo, con lo sviluppo di iniziative architettoniche e commissioni artistiche (conventi, chiese, monasteri, opere d’arte) o nel lavoro compiuto in risposta all’esigenze di una popolazione in rapida espansione ma di cui una gran parte rimaneva pur sempre bisognosa di cure, educazione e alimentazione.

A Francavilla, in aggiunta al primo nucleo francescano di istituzione angioina (situato dove oggi trovano posto i Padri redentoristi) e alla comunità dei Padri carmelitani (dal 1517 allocati in una struttura posta lungo il tracciato che conduceva verso l’antico casale di Casalvetere), il contesto religioso smosso dai dettami post-tridentini portò al proliferare di nuovi ordini monastici, una parte dei quali arrivò in città. Nel convento oggi non più esistente e attiguo all’odierna chiesa dello Spirito Santo si insediarono intorno al 1564 i Frati minori cappuccini, secondo le fonti ben voluti dalla popolazione. Alcuni anni dopo nel 1573, trovarono posto nel complesso appena istituito di Maria Santissima della Croce i Frati minori osservanti, seguiti a loro volta dai Preti dell’oratorio appartenenti all’ordine di San Filippo Neri, i quali si insediarono per volere del Cardinale Borromeo nel primitivo sito di San Sebastiano.

L’Ordine femminile francescano delle Clarisse giunse in città solo nel 1624, occupando una struttura attigua alla chiesa Matrice angioina, oggi ancora identificabile in alcune sue parti ma ormai completamente snaturata in quella che era la sua primitiva destinazioni d’uso. Gli Imperiali ebbero parte attiva in questa piccola-grande rivoluzione.

Stemmario dell’Albergo della famiglia Imperiale olim Tartaro

 

Nel 1592 Davide I, da pochi anni divenuto signore del feudo, sostituì l’ordine dei Minori osservanti di Santa Croce con quello dei Padri riformati, i quali si misero subito all’opera per avviare una serie di lavori di ampliamento dell’edificio in cui si sistemarono. Nelle sue volontà testamentarie dettate prima della morte avvenuta nel 1678, lo stesso Andrea I si prodigò per favorire l’introduzione dei Padri dell’Ordine di San Giuseppe Calasanzio, comunemente conosciuti come Padri scolopi, ai quali si deve l’istituzione delle scuole Pie. Per generosità si distinsero altre figure: il nobiluomo Giovanni Battista che sostenne la creazione a proprio spese di un Monte di Pietà, poi divenuto conservatorio delle figlie di Sant’Anna e ancora oggi esistente come una delle fondazioni benefiche fra le più antiche della Puglia, i fratelli Agostino e il Cardinale Lorenzo, ai quali si devono “i primi lampi di beneficenza e di considerazione pè quali sono meritatamente elogiati” (Palumbo 1901).

Cardinale Giuseppe Renato Imperiale

 

Ma è con Giuseppe Renato, quest’ultimo figura illuminata all’interno del panorama familiare, che si raggiunge l’acme: per cultura (la sua biblioteca balzò agli onori quando ancora lo stesso era in vita), per filantropia (si impegnò a sostegno di categorie protette attraverso l’elargizione di numerosi legati) e per riconoscenza verso la sua città natale (donò al Santuario di Maria SS. della Croce un busto reliquiario in oro riproducente San Renato, oggi trafugato).

4. Veduta di Francavilla (Carlo Francesco Centonze, 1643, disegno su carta, Napoli, Archivio di Stato, elaborazione grafica)

 

Per concludere, prendo in prestito le parole del prof. D. Camarda il quale in uno dei suoi libri contorna perfettamente quanto affermato in precedenza: “…la forza di una società, infatti, sta nel saper formare prima e impiegare poi le capacità intelligenti dei futuri cittadini e in questo gli Imperiali seppero essere dei precursori”.

 

BIBLIOGRAFIA

D. Balestra, Gli Imperiali di Francavilla, Ascesa di una famiglia genovese in età moderna, Edipuglia, Bari 2017.

D. Camarda, La cultura in Francavilla al tempo degli Scolopi, Locopress, Mesagne 2010.

V. Basile, Gli Imperiali in terra d’Otranto. Architettura e trasformazione urbane a Manduria, Francavilla Fontana e Oria tra XVI e XVIII secolo, Congedo editore, Galatina 2008.

F. Clavica, R. Jurlaro, Francavilla Fontana, Mondadori Electa, Milano 2007

C. D’Amone, Il Conservatorio delle orfane e la chiesa di San Nicola in Francavilla Fontana, edizione Ferrarelli & D’Andrea, Francavilla Fontana 2007.

G.D. Oltrona Visconti, Imperialis Familia, con la collab. di G Di Groppello, Piacenza 1999.

V. Ribezzi Petrosillo, F. Clavica, M. Cazzato (a cura di), Guida di Francavilla Fontana. La città dei Principi Imperiali, Congedo editore, Galatina 1995.

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M.C. Forleo, Da quelle antiche voci: Francavilla Fontana. I suoi uomini, la sua cultura, Schena editore, Fasano 1988

G. Martucci, Carte topografiche di Francavilla Fontana, Oria e Casalnuovo del 1643 e documenti cartografici del principato Imperiali del secolo XVII, S.E.F., Francavilla Fontana 1986.

R. Colapietra, I genovesi in Puglia nel ‘500 e 600’, in “Archivio Storico Pugliese”, Bari (XXXV) 1982.

F. Argentina, I Francescani in Francavilla Fontana, estr. da “Rivista Storica Salentina”, XIII, 1.3, Maglie 1921.

P. Palumbo, Storia di Francavilla Fontana, Lecce 1869, ristampa anastatica, ed. Arnaldo Forni, Bari 1901.

Galatina, Atena e il tarantismo

di Romualdo Rossetti

 

  1. “Galatina”: storia e interpretazioni di un toponimo

Molte sono state le supposizioni e gli studi effettuati nel corso degli anni riguardo alla possibile genesi del nome “Galatina” e molte sono state anche le probabili risposte scaturite da questi studi, alcune più fantasiose di altre, ma nessuna delle quali, va ribadito, ha mai tenuto in debito conto la possibilità che il nome del popoloso centro urbano salentino potesse essere nato da una sacra invocazione a carattere iatromantico, un’invocazione divenuta poi nello scorrere del tempo toponomastica, come questo studio, invece, tende a sostenere.

Le teorie più additate sull’origine del toponimo della città sono state quelle che vorrebbero il nome derivare da γάλα con esplicito riferimento al “latte”, per la sovrabbondanza di pascoli presenti anticamente nel limitrofo circondario rurale. Per altri ermeneuti, invece, il nome sarebbe da attribuire a un probabile epiteto, a γάλα αθηνά “Atena del latte” per richiamare alla mente anche l’arcaica γίδα αθηνά “Atena capra”, in riferimento all’egida della dea (il pettorale) costituita dal bellissimo vello della capra Amaltea o, secondo altre versioni del mito, dalla pelle caprina del gigante Pallante, ucciso e scuoiato dalla dea in uno scontro. Altri interpreti hanno proposto come plausibile la possibilità che il toponimo significasse invece non “Atena”, bensì “Atene del latte” in virtù di un’antica alleanza militare stipulata dai Messapi con la grande polis ellenica che avrebbe avuto come naturale conseguenza anche un antico insediamento attico in loco.

Teorie più marginali hanno attribuito, viceversa, l’origine del nome della città a Galathena[1] la polis di provenienza del popolo dei Tessali che avrebbero colonizzato la parte occidentale della Messapia, o ancora alla mitica nereide Galatea[2], o anche una non meglio identificata Galata o Galazia che nella confusione di alcuni mitografi venne ritenuta come una presunta figlia di Teseo.

La teoria più accreditata ma anche quella più dibattuta in seno alle nuove indagini semantiche, è stata l’interpretazione “scientifica” del filologo tedesco Gerhard Rohlfs che, ammaliato dalle teorie linguistiche ariane, sostenne che il termine “Galatina” fosse derivato per opera dell’antica colonizzazione del luogo su cui ora sorgono i paesi di Galatina e Galatone di genti di stirpe celtica, i Galati, coloro i quali, si diceva possedessero la pelle “color del latte”.

Ultimamente è emersa anche un’altra ipotesi[3], per certi versi affascinante anche se non del tutto persuasiva  da un punto di vista geologico, che vuole il nome della città derivare dal non dall’ “Atena del latte” bensì dal “latte di Atena” ovverosia dalla presenza nel sottosuolo galatinese di una falda freatica di origine sulfurea che renderebbe le acque lattiginose  e dalle proprietà curative ed emetiche che riporta la dea alla sovrapposizione con l’arcaica “Dea Madre” di cui pure era stata in origine sovrapposta.

NASCITA DI ATENA – PITTURA VASCOLARE A FIGURE NERE SU FONDO ROSSO

 

Questo breve saggio propende, invece, a sostenere che il nome derivi da una sacra invocazione rituale o da un frammento di un antico peana destinato alla καλή αθηνά alla “Bella Atena”[4], che nella fattispecie greca del termine sottintenderebbe anche la “Buona Atena” e per espansione semantica anche la soteriologica formula di “Benevola Atena” o la più consona “Indulgente Atena”.

Ma se così fosse di quale Atena si starebbe parlando? Di quale dea della “strategia d’intervento” e della “protezione” ben sapendo che verosimilmente nell’antichità il culto di Atena era stato un culto d’importazione medio-orientale e che successivamente non fu unicamente legato alla sfera olimpica della religione ellenica?

 

  1. L’origine e la diffusione del culto di Atena nel mondo antico

Prima di trattare dell’Atena che ha dato il nome a Galatina è bene riesaminare quale fu la genesi (o le genesi), le trasmutazioni, e in ultimo, le ipostasi che subì quest’antica divinità durante nel corso dei secoli.

Rintracciare le sue origini non è certo impresa facile perché la sua genesi si perde nella protostoria del bacino del Mediterraneo e del Medio Oriente dove si sovrapposero varie etnie e si fusero culture di diversa provenienza. Molte sono state le opinioni circa il luogo d’origine del suo culto, ma a tutt’oggi, nessuna di queste può ritenersi risolutiva. Si può solo credere che il culto di Atena sia stato un culto d’importazione perché molti sono stati gli studi filologici e linguistici che hanno supportato questa ipotesi, primo fra tutti quello di Giovanni Semerano che nella sua esemplare opera Le origini della cultura europea, esaminando la lingua degli Accadi ha scoperto un’impressionante affinità semantica e fonetica tra i lessici delle lingue europee e quelli delle antiche lingue mesopotamiche. Secondo le sue approfondite ricerche semantiche riguardanti il nome “Atena” ha scritto:

Il nome di Atena, Ἀϑήνη nella forma ionica, Ἀϑάνά in dorico, Ἀϑήνάα in attico, fu inteso da Platone (Cratilo, 406 d) come ἁ θεονόα, τὰ θεῖα νοοῦσα o anche ἡ ἐν τῴ ἤθει νόησις. Così Παλλάς, fu accostato a πάλλειν (vibrare). I moderni hanno ceduto all’accostamento con πάλλεξ (giovane donna), riferito da Eustazio (Ad Od.,1742, 30). Atena ha assunto gli attributi della dea bellicosa degli Accadi, Ištar, la figlia di Sin o Anu, come Atena è figlia di Giove: di Ištar Atena serba nel nome l’attributo E-ta-nam-an, come Minerva ripete l’altro attributo di Ištar stessa, Me-nu-ata. Ma in seguito E-ta-nam-an si incrociò con la base che ha il significato di “protettore”, accadico ֲatīnu (‘protector’, CAD,6, 148 sgg.), ḫutnu protezione (‘protection’) da accadico ḫatānu (proteggere, ‘to protect’). Ḫutnu appare in nomi personali quali Adad-ḫu-ut-ni, Marduk ḫu-ut-nu, Ḫu-ut-ni – Dingir. Ma Atena è ricalco su accad. ḫazānu (magistrato supremo di una città, protettore ‘chief magistrate of a town…mayor, burgomaster, headman; fron Ur IIIon…’). L’etimologia del nome della città di Atene deve riferirsi al sistema di protezione e di difesa dell’acropoli e dobbiamo ricondurre la voce Ἀϑῆνάι alla stessa base di ḫatānu ma, comunque, con incrocio della base corrispondente ad accadico dannu (forte, detto di luogo di fortificazione di città, ‘stark: v. Orten, Festungen, Städte’ vS 161a), interferenza che si scopre, anche per Atena, con questa base da’ ānu, attestata per gli dei (da’ ānu ‘migth, force, strength, said of gods’, CAD, 3, 81 sgg). Pallas Athena si chiarisce come la divinità con occhi benevoli fissi alla Città: Pallas deriva da base corrispondente ad accad. palāsu (guardare con occhio amico, ‘freundlich anblicken: Subj. Gott’) vS, 814; cfr. M.-J. Seux, Epithètes royales, Paris, 1967, p. 187 sg.), pullusu in ant. Accadico è nome proprio. Ma Athena deve essere stata sentita come la divinità del diritto: accad. (š)a dēni: dēnu, dinu è anche la decisione, il verdetto di un dio (‘verdict: said of gods’) e dậnu significa giudicare (‘to judge, to render judgment: referring to the favorable judgment of a deiry’, CAD, 3, 100sg.), che è sempre un attributo del potente. L’accadico da’’ānu dajānu (giudice, ‘judge’, ‘Richter’) ricorda il supremo giudizio dell’Aeropago sotto gli auspici di Atena. Tale voce accadica richiama anche il nome Diava (v.), altra divinità che è posta originariamente a tutela del diritto di tribù, di popolazioni vicine e federate. L’attributo τριτογένεια corrispone alle basi accadiche tārītu protettrice (‘Wärterin’) e kࣵēnu vero (‘wahr’): auspice del vero, cioè del giusto.[5]

Pallade Atena

 

È possibile anche che il nome “Atena” possa essere originario della Lidia e trattarsi di una parola composta, derivata in parte dalla lingua Tirrena dove ati significava “madre”, e in parte dal nome della divinità hurrita denominata Hannahannah che spesso veniva abbreviato in Ana. Il suo nome comparve in una singola iscrizione in lingua micenea nelle tavolette in scrittura Lineare B in un testo appartenente al gruppo delle “Tavolette della stanza del carro” rinvenute a Cnosso. La più remota testimonianza scritta in lineare B riguardante la dea trovava iscritto il nome A-ta-na-po-ti-ni-ja il cui significato letterale oscillò tra una “Padrona Atena” e una poco verosimile “Signora di Atene” di cui non è possibile stabilire con certezza una connessione con la polis attica. Si è rinvenuta anche un’altra forma espressa con A-ta-no-dju-wa-ja, la cui parte finale risultava essere la scomposizione in sillabe in Lineare B di quella che in greco era conosciuta come Diwia (in miceneo Di-u-ja o Di-wi-ja), che significava “la divina”.

Anticamente esisteva una versione del mito che vedeva Atena avere una sua eguale in Egitto al punto che tanto Erodoto quanto Platone affermarono che nella città di Sais, si venerava una divinità della guerra denominata Neith che gli stessi Egizi identificavano con Atena.

Trasmigrata in Grecia con l’avvento degli Ioni provenienti dalle coste dell’Asia Minore diede il nome alla città di Atene che come giustamente ha fatto notare Semerano traducendo l’accadico che il significato della polis attica doveva significare il significato di “La protetta”.

In ambito ellenico venne da sempre considerata una divinità olimpica sebbene custodisse nascosto da tempo immemorabile un suo lato ctonio che disveleremo più avanti, Atena ha lasciato un’impronta indelebile in miti e imprese di uomini. In un’arcaica versione del mito, Atena era emersa dalla forza dirompente delle onde del titanico “fiume” Oceano[6](Ὠκεανός) o da Tritone (Τρίτων) tanto da venire chiamata Tritoghèneia[7] (Τρίτωγένεια) ovvero “generata da Tritone”.

Nell’Odissea giocò un ruolo importantissimo dove Omero la descrisse con le doti di protettrice e consigliera dell’Itacese. Anche nell’Iliade, il sommo cantore ne narrò le gesta definendola la “figlia di forte padre” alla quale Zeus affidava fiducioso gli incarichi più delicati e problematici. Molto celebre nel mondo antico fu l’ode[8] omerica a lei dedicata, che recitava:

Pallade Atena, la Dea famosa comincio a cantare, che azzurro ha il ciglio, saggia la mente, inflessibile il cuore. Intatta è, veneranda, gagliarda, e le rocche protegge. A Trito nacque; e Giove medesimo a luce la diede, dal suo cerèbro, già vestita dell’armi di guerra lucide, tutte d’oro. Stupirono tutti i Celesti, quando la videro. Ed essa, dinanzi all’egíoco Giove, rapidamente balzò, dal suo capo immortale, scotendo un giavellotto acuto. L’Olimpo, un orribile crollo die’, sotto l’urto della Divina Occhiglauca: la terra tutta echeggiò d’un rimbombo terribile, il mar si sconvolse, tutto agitato nei flutti purpurei, contro la spiaggia l’onda proruppe, fermò d’Iperíone il fulgido figlio a lungo i suoi cavalli veloci, sinché la fanciulla Pallade Atena tolte non ebbe dagli òmeri santi l’armi divine: lieto fu il cuor del saggissimo Giove. E dunque, a te, figliuola di Giove l’egíoco, salute: io mi ricorderò d’esaltarti in un carme novello.

 

Atena risulta quindi, protostoricamente venerata come fosse stata una ninfa legata al culto delle acque superficiali e sotterranee tanto da essere venerata molto spesso lungo le sponde dei fiumi o dei laghi. In Beozia la si venerava con l’epiteto di Atena Alalkomenìs o Alalcomenide (Ἀλαλκομεηῖς) ovvero “protettrice” della polis di Alalcomene che vantava i natali della dea e si trovava ubicata nei pressi delle pendici sovrastanti l’antico lago acquitrinoso di Copaide dove operò il violento re Flegias padre di Coronide e nonno di Asclepio. In Arcadia, il suo culto si diffuse presso il fiume Alfeo. Nell’Elide gli indigeni erano particolarmente devoti ad Atena Larisea (Ἀϑήνά Λάρισας) così denominata perché venerata lungo le sponde del gelido fiume Larisos oggi Larisso, lo stesso fiume che aveva utilizzato Eracle per pulire le fetide stalle di re Augia nella sua quinta fatica. In Messenia il suo culto ebbe luogo in prossimità del corso d’acqua Nedonas la cui sorgente era situata sul famoso monte Taigeto. A Creta la divinità trovò particolarmente riconoscimento nelle sue qualità salvifiche e salutari presso la grande polis di Cnosso.

Ben più diffusa fu, viceversa, l’altra sua origine cosmogonica che la volle far nascere dalla testa di Zeus – o dal suo polpaccio – dopo che questi per paura di un’oscura profezia aveva ingurgitato preventivamente la sua prima moglie Metis – la dea della saggezza e della prudenza primordiale e madre naturale di Atena – per paura di pover venire detronizzato dalla tracotanza dei figli della sua compagna.

Fu per tale motivo che dopo aver giaciuto con lei, Zeus convinse Metis a trasformarsi in una goccia d’acqua, o in una mosca, o ancora in una cicala, come sostennero altri mitografi in altre versioni, per poter meglio cibarsene. Nonostante il suo piano fosse riuscito, il suo seme divino era già attecchito nell’utero della dea[9] la quale, nonostante fosse stata fagocitata a tradimento, si era messa subito in moto per costruire ciò che sarebbe stato necessario alla creatura che portava in grembo per la sua futura incolumità. Nel forgiare l’elmo a colpi di maglio provocò una dolorosissima cefalea a Zeus che non gli lasciò scampo. Il dio Efesto, allora, intervenne, in aiuto del padre degli dèi e, con un assestato colpo di labris[10] aprì la tempia di Zeus liberandolo dal dolore e facendo uscir fuori Atena in sembianze già adulte e armata di tutto punto.

La dea come primo gesto di nascita, avrebbe mimato una ordinata danza di guerra dando così il via a quella che sarebbe divenuta la sua specializzazione divina, ovverosia l’utilizzo della migliore strategia di difesa atta a combattere il nemico, qualunque esso fosse.

L’aver voluto ingerire Metis non significò per Zeus il volerla annientare, bensì piuttosto nel volerla trasformare da ancestrale intelligenza anticipatrice o prolessi (πρόληψις) in una mera capacità tecnico-strategica e in una nuova sapienza filantropica, la sophia (σοφία) da porre all’interno del logos umano affinché questo ne potesse fruire nell’esplicazione delle sue azioni pratiche e teoretiche. Quell’atto a prima vista così crudele fu un atto di benevolenza divina, teso a realizzare un cambio di registro logico. Fu così che, per volere del padre degli dèi, la prima forma d’intelligenza presa nella sua primitività e nel proprio sacrificio si trasformò in nuova sapienza – in Atena appunto – per divenire nella ritualità pratica dell’azione umana, un perenne equilibrio o di phronesis (φρόνησις) ovvero saggezza e sophrosyne (σωφροσύνη) ovvero temperanza.

Atena, quindi, come la dea atta a quella “giusta misura” da intraprendere per poter raggiungere al meglio uno scopo o anche la divinità atta alla della “giusta azione” per districarsi in una “tela” reale, immaginaria o logica per rammendarla, ripararla, “curarla” o costituirla ex novo. Atena quindi come “mente di dio” e non fu un caso se il sommo Platone nel suo Cratilo fornì l’origine del nome della dea dal lemma “A-θεο-νόα” o “H-θεο-νόα” per rievocare il mito olimpico della sua nascita, quello conosciuto dagli ateniesi. Egli, infatti, scrisse:

Questo è più difficile, amico mio. Pare che gli antichi riguardo ad Atena la pensassero allo stesso modo di come oggi fanno i bravi critici di Omero. Infatti la maggior parte di loro, studiando il poeta, sostengono che in Atena abbia voluto personificare il “nous” e la “dianoia”, ovvero la mente e il pensiero, e similmente sembra aver ragionato colui che le assegnò i nomi; addirittura, appellandola con ancor maggiore solennità “theou nesis” (mente del Dio) dice che è la “theonoa”, ovvero la “mente divina”, servendosi della lettera “alfa” al posto della lettera “eta” come fanno gli stranieri, ed eliminando “iota” e “sigma”. Era assai poco distante dal chiamarla “Ethonoe”, dato che è colei che come indole ha il pensiero “en thoi ethei noesis”. Ma alla fine o lui stesso od altri, per renderne il nome più bello, la chiamarono Atena.[11]

Atena, va ricordato, era entrata in relazione con Efesto non soltanto a causa della sua nascita, lo era stata anche a causa di una primordiale contesa mitica, una lite che aveva visto contrapporsi i due “fratelli sposi” Zeus ed Era, una lite familiare in seno alla quale il primo aveva generato Atena da una parte di sé, la seconda, Efesto, per un atto di gelosa ripicca. Era, però, ebbe la sfortuna di mettere al mondo un essere deforme, brutto e zoppo, che sarebbe stato da lei ripudiato e scaraventato giù dall’Olimpo per la vergogna di aver generato un mostro[12]. Così, se Atena nella sua fulgida glaucopide bellezza[13] era nata da Zeus che rappresentava l’infinito cielo tempestoso, tra i bagliori dei lampi e il fragore dei tuoni, Efesto, al contrario, era nato da un atto egoistico di divina empietà, ovverosia da ciò che era apertamente in contrapposizione al sacro connubio teogamico, da ciò che contravveniva e contrastava la stessa divina missione di sua madre – la partenogenesi. Tale atto nefasto avrebbe causato dunque la deformità fisica ad Efesto, quale segno indelebile della colpa di sua madre.

Fu così che Atena finì per rappresentare l’etra raggiante che disperdeva lampeggiando le nubi minacciose riconducendo il cielo al sereno, allo svelamento e al luminoso veritativo da cui l’idea veritativa filosofica detta alétheia (ἀλήθεια), Efesto rappresentò la fiamma primordiale domata, il fuoco che fondeva la materia (soprattutto il metallo) e purificandolo creava la forma ottimale al suo utilizzo. Atena ed Efesto, quindi, nei propri opposti simbolici rappresentarono un’endiade inscindibile, che contemplava da una parte l’abilità tecnica che riusciva a produrre il migliore armamentario, dall’altra, la sagacia della scelta e del suo migliore utilizzo in vista della vittoria finale.

ATHENA PARTHENOS RICOSTRUZIONE DIMENSIONI REALI

 

Atena, dunque come divinità guerriera[14] perché nata in mezzo alle dispute celesti, armata di lancia elmo e scudo atta però, a differenza di Ares, più alla difesa conservativa che all’attacco distruttivo. La sua lancia rappresentava un chiaro riferimento alla folgore paterna tramite la quale riusciva a squarciare la spessa tetra coltre delle nuvole permettendo il passaggio dei raggi vivificanti e curativi del Sole, i raggi di Apollo Iatros (Ἀπόλλων Ιατρός) o Apollo Medico. Nel mezzo del suo corpetto detto “egida” compariva la testa raccapricciante della Gorgone Medusa[15] Gorgòneion (Γοργόνειον) il cui significato originario alludeva non solo alla notte, rappresentata dal suo aspetto lunare, ma anche la malattia, la sofferenza e il decadimento ultimo umano. La sua armatura protettiva grazie a quell’orribile orpello allontanava la morte e la disfatta garantendo la vittoria. Venne per questo soprannominata Gorgὸphonos (Γοργοϕόνος) ovvero la “dea che ha ucciso la Gorgone” – o meglio ha suggerito la strategia del riflesso a Perseo affinché potesse annientarla – e Gorgὸpis o Gorgopide (Γοργῶπις) “colei che ha il potere dello sguardo truce della Gorgone”.

Le rappresentazioni della dea, i cosiddetti “Palladi” ovvero le sue rappresentazioni più frequenti, la vollero raffigurata tutta armata, con tanto di elmo, scudo e lancia, i suoi epiteti più famosi furono quelli di: Pròmachos  (Πρόμαχος ) ovvero “colei che combatte nelle prime file”, in Tessaglia e in Beozia era chiamata Alkìs ( Ἀλκίς ) “la soccorrente”, in Macedonia era venerata come Steniàs (Σϑενιάς) la “forte”, a Trezene la si invocava con l’appellativo di Laossòos (Λαοσσόος) “la dea che chiama il popolo a battaglia” o con quello di Aghelèie (Ἀγελείη) “colei che concede la vittoria e la preda” ma anche come Erusìptolis (Ἐρυσίπτολις) “colei che difende la polis” o Ergàne (᾿Εργάνη)  “la industre”. In ultimo ma non certo per ordine d’importanza la si trovava spessissimo menzionata come  Arèia (Ἀρεία) come quella che spesso era invocata nelle battaglie[16] insieme ad Ares.

 

La sua relazione con i fenomeni celesti venne accentuato dal simbolismo dei suoi epiteti, primo fra tutti quello di Glaucopide o Glaukopis (Γλαυκῶπις) allusivo al colore glauco dei suoi occhi, tanto che, in Atene la sua città per antonomasia, le venne affiancato la nottola o civetta (Athene noctua) dagli occhi fulgenti come animale totem che divenne, in seguito, il suo simbolo ufficiale.

Atena[17] rappresentò oltre alla salvezza (Σωτηρία) anche la vittoria, (Νίκη) come tale (Ἀϑηνᾶ Νίκη) venne venerata in Atene, nello speciale tempio dinnanzi ai Propilei. In Attica fu riverita come Hippìa (‛Ιππία ) in special modo a Corinto dove aveva insegnato a Bellerofonte a domar e mettere il freno al cavallo alato Pegaso e perciò venne detta anche Chalinìtis (Χαλινῖτις) ovvero “colei che imbriglia il morso”; a Lindo, presso l’isola di Rodi, era riverita come la dea che aveva insegnato a Danao a costruire la prima nave a cinquanta remi, così come il mito narrava avesse diretto la costruzione della nave “Argo” che avrebbe condotto Giasone e i suoi cinquanta compagni nella lontana Colchide a ritracciare il famoso “vello d’oro”.

Igea

 

Il suo epiteto più importante ai fini di questa indagine fu senza ombra di dubbio quello di Atena Hygièia o Igea[18] (Ἀϑηνᾶ Ὑγίεια) epiclesi che l’avrebbe introdotta nel novero della paredria asclepiea in qualità di sovrapposizione mitica della figlia prediletta dell’agatodemone greco della cura e della medicina ovvero Asclepio. Fu così che anche il suo culto sarebbe rientrato nella ritualità dell’incubatio e dell’oneirocritica tanto da lasciare famosa testimonianza nella biografia dello stesso Pericle ad opera di Plutarco che nel tratteggiare il famoso personaggio ateniese ricordò che durante dei lavori di edificazione sull’acropoli della polis, un operaio era precipitato da grande altezza ferendosi gravemente. Allora la dea Atena era apparsa in sogno a Pericle indicandogli quale dovesse essere la cura giusta che avrebbe guarito e salvato l’operaio:

Per questo, dunque, Pericle fece erigere sull’acropoli la statua di bronzo di Atena Hygièia presso l’altare che, a quanto dicono, esisteva anche prima.[19]

 

Ma non solo Plutarco avrebbe attestato la presenza ad Atene del culto di Atena Hygièia, anche Pausania ricordò di aver veduto sull’acropoli, accanto alla statua dello stratego Diitrefe trafitto dalle frecce le statue di due divinità:

Igea figlia di Asclepio e Atena anch’essa denominata Hygièia [20].

 

È probabilissimo che la sovrapposizione del culto Atena su quello di Igea ad Atene si sia verificata durante la celebre epidemia del 430 a.C. descritta da Tucidide, causata dal morbo della peste o di una febbre emorragica, che dall’Africa transitò per il Pireo per poi diffondersi in tutta la Grecia, durante la Guerra del Peloponneso.

Dalla sua origine guerriera la dea dagli occhi glauchi si tramutò col tempo nella divinità protettrice delle opere di pace tanto da venire considerata in qualità di genio tutelare dello stato, la maggiore dea della polis detta Poliàs (Πολιάς), e come tale venne venerata con gran rispetto ovunque tanto in madrepatria quanto nelle colonie. Accanto a suo padre Zeus definito Boulàios (Βουλαῖος) con l’epiteto di Boulàia (Βουλαία) o di Agoràia (Άγοραία), vegliava sul buon governo delle póleis e delle sue istituzioni, proteggeva le costituzioni e le leggi, controllava le alleanze liberamente stipulate. Come divinità poliade, venne appellata ovunque in con epiteti che designano i toponimi e le maggiori sedi locali del suo culto. In Tessaglia e in Beozia fu detta Itoniàs (Ἰτωνίας) ovvero “la dea di Itonos”, oppure Alalcomenèis (Ἀλαλκομενηῖς) “la dea di Alcomene”; in Arcadia, fu Alèa (Ἀλέα) “la dea di Alea”, nella regione della Troade fu venerata con l’epiteto di Iliaca o Iliàs (Ἰ’λιάς) la stessa divinità recentemente rinvenuta nel Tempio a lei dedicato a Castro[21]. Nelle tre città dell’isola di Rodi fu Kàmira (Κάμιρας), Ialusìa (Ἰαλυσία), Lindia (Λίνδία); a Delos venne, invece, detta Kynthia (Κύνϑία); fu chiamata Lemniàs (Λεμνίας) sull’isola di Lemno.

Ella proteggeva le città anche sotto un profilo igienico, purificandone l’aria dai miasmi mortali garantendo così facendo il mantenimento e della salute pubblica allontanando le malattie e le infermità da guadagnarsi l’epiteto di Apotropàia (Ἀποτροπαία), favorendo, come suo padre Zeus, il moltiplicarsi e il perpetuarsi delle genti e delle famiglie in quanto Fràtria (Φρατρία) e Apaturìa (Ἀπατούρια).

Atena personificò non soltanto il valore della migliore strategia d’intervento ma anche, o soprattutto, la virtù intellettuale per antonomasia perché, in quanto figlia di Zeus e di Metis, venne personificata di volta per volta con la sapienza (σοφία), con la filantropia (ϕιλανϑρωπία), con la saggezza (φρόνησις), con la protezione (προστασία) ma soprattutto con la prudenza intesa come “capacità di autocontrollo e di riflessione” (σωφροσύνη).

Atena inventò la tromba, in Beozia invece l’aulos e il diaulos (strumenti musicali aerofoni a una o due canne), l’aratro, il vaso in terracotta e il tornio per produrlo, il giogo per i buoi, il rastrello, il morso per i cavalli, il cocchio e l’arte per costruire imbarcazioni. Fu la prima a insegnare il calcolo e la scienza dei numeri. Fu lei a proteggere tutte le arti domestiche femminili come il danzare[22], tessere, il filare, il cucinare che vennero designate come “opere di Atena” (ἔργα Ἀϑηναίης). Estese in particolar modo la sua protezione sulle donne elargendo loro la fecondità nel matrimonio, la capacità di vegliare sulla salute e la capacità di crescere la prole per cui assunse il nome anche di Kurotròphos (Κουροτρόϕος) ovvero “nutrice”, protesse anche le attività più prettamente maschili come la produzione artigianale e l’agricoltura. Da lei l’Attica aveva appreso la coltura dell’olivo il cui prodotto ebbe non unicamente una valenza alimentare ma anche simbolica e soprattutto iatrica.

Riguardo alle varie festività del culto attico dedicate alla dea vanno ricordate le Oscofòrie (Ὀσχοφόρια) che si celebravano al tempo della vendemmia, sul finire dell’anno agricolo. Queste consistevano in una lunga processione che, movendo dal tempio ateniese di Dioniso, arrivava a quello di Atena Scirade (Ἀϑηνᾶ Σχίράς) al Falero, atto religioso che ricordava la mitica partenza di Teseo e dei giovani destinati a placare la fame del Minotauro. Il corteo in processione era preceduto da due fanciulli vestiti con l’antico chitone attico recanti in mano dei tralci di vite carichi di grappoli detti (ὀσχοϕόροι). All’inizio di ogni anno agricolo, invece, che corrispondeva alla fine dell’inverno, quando le piante cominciavano a germogliare le messi, si festeggiavano le Procaristèrie (Προχαριστήρια), ovverosia dei riti di ringraziamento nei quali tutti i magistrati della polis erano obbligati a offrire dei sacrifici ad Atena, a Demetra e a Core. Nel mese di Pianepsione (Πυανεψιών) corrispondente a fine ottobre, in occasione delle Efèstie (Ἡφαίστια) festività dedicate al culto di Efesto, quando aveva inizio il lavoro di tessitura del peplo destinato ad Atena, al quale compito di tessitura e ricamo attendevano le donne e le fanciulle dette ergastine (ἐργαστῖναι) poste sotto la stretta sorveglianza della sacerdotessa della dea delle due ragazze prescelte nelle festività delle  Arrefòrie (Ἀρρηφόριαι)[23].

Al principio del periodo estivo tra maggio e giugno, nel mese di Targelione (Θαργηλιών) avevano luogo le Plintèrie (Πλυντήρια) e le Callintèrie (Καλλυντήρια): in questa occasione, i Prassiergidi ovvero i membri di un apposito sodalizio religioso dopo aver compiuto alcune funzioni espiatorie, svestivano del peplo la statua della dea e serravano il tempio ai visitatori. Nel mese successivo di Sciroforione (Σκιροφοριών), seguivano le festività delle Arrefòrie (Ἀρρηφόριαι) durante le quali si sceglievano due fanciulle, di alto lignaggio e di età compresa fra i sette e gli undici anni, che venivano incaricate, per gran parte dell’anno, di porsi al servizio di Atena Poliade sull’Acropoli di Atene. Nel periodo di Ecatombeone (Ἑκατομβαιών) metà luglio metà agosto, infine, si celebravano le famose Panatenee (Παναθήναια) dedicate al sinecismo attico, voluto e protetto dalla dea. Queste solenni festività si distinguevano in Panatenee ordinarie, che avean luogo ogni anno, e in Grandi Panatenee, che ricorrevano, invece, nel terzo anno post olimpiade. Le feste consistevano principalmente in agoni ginnici, e gare musicali e poetiche. Culminavano, il ventottesimo giorno di Ecatombeone intorno alla metà di agosto, con la grande processione che portava in dono alla dea il magnifico peplo tessuto e ricamato dalle fanciulle ateniesi.

I primi documenti della presunta iconografia di Atena furono rappresentati da una categoria di rozzi idoli cui doveva apparteneva il cosiddetto Palladion (Παλλάδιον)[24], citato nell’epopea omerica, venerato come indispensabile talismano protettore e garante della libertà di Troia. È probabile che statuette simili esistessero in molti arcaici luoghi di culto della Grecia preistorica e protostortica. La loro presenza fu documentata in varie poleis prima fra tutte Atene, dove era conservata all’interno del tempio dell’Eretteo, a Sparta, dove veniva venerata sotto il nome di Chalchiòikos (Χαλκίοικος) che significava “dal bronzeo tempio” a Pergamo ma anche altrove. La divinità era rappresentata in piedi con le gambe serrate, col corpo bloccato in una compostezza poco plastica, in attitudine di difesa e/o di attacco, con lo scudo imbracciato e la lancia pronta a essere scagliata. Doveva trattarsi di primordiali idoli lignei detti xoàna (ξόανα) e derivati molto probabilmente da antichissimi trofei antropomorfi che si riteneva avessero poteri miracolosi e apotropaici.

Insieme a questa tipologia di statuette se ne aggiunse, successivamente, un’altra in cui la dea comparve assisa così come doveva apparire l’Atena Poliade descrittaci da Omero nell’Iliade. Assise[25] erano anche le statue successive descrittaci da Strabone[26] a Focea e a Chio oltre alle note Atena Alea di Tegea, la Ergane di Eritre e le famosissime statue dell’Acropoli di Atene, una posta davanti l’Eretteo opera dello scultore attico Endeo che la tradizione voleva fosse stato un discepolo del mitico Dedalo e l’altra l’Atena Parthènos (Αθηνά Παρθένος) ovvero “Atena la vergine” scolpita da Fidia nel 438 a.C di cui parleremo nel dettaglio più avanti.

La tipologia assisa non ebbe, però, grande fortuna nell’iconografia della dea, alla quale si preferì l’atteggiamento in piedi che sarebbe divenuto, via via, sempre più plastico. Mentre avveniva lo sviluppo di questa prevalente tipologia scultorea di Atena combattente in atto di scagliare la lancia, sopravvenne un altro motivo che la raffigurò si in piedi e armata ma in posa di calma vigilanza. Subentrò poi nell’immaginario collettivo un’altra postura che fu presente unicamente nel caso di Atena Hygièia. Fattole deporre lo scudo la si immortalò col gesto della richiesta dell’offerta tramite la mostra del palmo aperto della sua mano destra. Successivamente venne raffigurata “orante”[27] e soprattutto in atteggiamento pensieroso atteggiamento che la abbinò all’esercizio della filosofia.

La famosa statua crisoelefantina d’oro, avorio, legni e metalli preziosi che Fidia aveva scolpito per il Partenone nel 438 a. C., era simile alla tipologia più diffusa. Pausania nel primo libro della sua Descrizione della Grecia la descrisse ritta, vestita d’una lunga tunica talare, con l’egida e l’elmo crestato con un cavallo raffigurato sopra di esso. Sui tre cimieri si trovano anche una sfinge, che rappresentava la grande sapienza degli Egizi, e dei grifoni alati. La dea si appoggiava con la mano sinistra allo scudo posato a terra, dietro il quale svolgeva le spire il mitico serpente[28] Erictonio o Erittonio[29]. Il suo braccio destro sosteneva una statuetta della “Vittoria”, il cui peso era sorretto da una piccola colonna. La sua lancia era appoggiata alla spalla sinistra. Sull’esterno dello scudo era stata cesellata in rilievo una amazonomachia, sulla parte interna, invece, una titamomachia. Sulla bordura dei suoi sandali compariva una lotta di Centauri e Lapiti e sul prospetto del piedistallo la nascita di Pandora. Secondo Plinio[30] la statua era alta, senza il piedistallo, 26 piedi (circa 12 metri) ed erano occorsi, per costruirla, 40 talenti d’oro.

Con l’avvento della civiltà romana[31] Atena cedette il posto alla sua alter ego italica Minerva[32] di discendenza molto presumibilmente etrusca[33], anche lei considerata dea della saggezza, della guerra scoppiata per giuste cause o per motivi di difesa, ma anche protettrice delle strategie, degli artigiani e dei musici e dello Stato. Svolse funzioni di ausilio medico col nome di Minerva Medica che a Roma venne venerata in un tempio situato mei pressi dell’Esquilino che da poco tempo a questa parte è stato riscoperto dagli archeologi solo in qualità di un antico ninfeo[34].

LA NOTTOLA DI MINERVA DIVENUTO IL SIMBOLO CIVICO DI GALATINA

 

Il suo animale sacro continuò a essere la civetta ma, alcune volte, anche il gufo che nella mitologia greca era sacro, invece ad Ares. Anche per i Romani era considerata colei che aveva inventato i numeri dei quali le era sacro il numero cinque. I Romani celebravano la festività dal 19 al 23 marzo nei giorni denominati Quinquatria[35]. Una versione più contenuta, le Minusculae Quinquatria, aveva invece luogo dopo le Idi di giugno, il 13 giugno, con la presenza di flautisti, strumenti molto usati nelle sue cerimonie religiose a ricordo della loro invenzione.

A Roma come in Grecia venne particolarmente venerata con vari epinomi al punto che le costruirono numerosi templi in tutta l’urbe. In epoca tarda il suo culto assunse caratteri sincretistici, come per molte altre divinità, per cui la dea venne assimilata a Igea per la scelta della migliore terapia di cura, Vittoria-Bellona con la presenza di due poderose ali e Fortuna se nella sua iconografia la si riscontrava reggente una cornucopia. Stranamente comparve come in Etruria sugli specchi che le donne utilizzavano per imbellettarsi probabilmente per la loro azione riflettente atta a valutare la loro condizione fisica. La sua clemenza durante le votazioni propendeva sempre a titolo di garanzia[36] a favore del presunto colpevole.

A Roma il calculus Minervae era la pietra di Minerva, cioè il voto decisivo in un organo collegiale che fosse in stallo per parità di voti su una proposta, equamente approvata e avversata dal medesimo numero di componenti[37].

 

  1. Atena Hygièia: la divinità che proteggeva dalle malattie

Dopo aver lungamente trattato l’epigenesi mitica di Atena è bene soffermarsi a esaminare nel dettaglio quale fosse l’Atena venerata nell’antico comprensorio di Galatina e, al contempo, ricercare le tracce della sua presenza e del suo culto impresse indelebilmente, a livello religioso extraliturgico, nell’antico rito di guarigione del tarantismo, tramite l’ausilio di una terapia a carattere coreutico musicale, che ha reso Galatina, etnologicamente e folkloristicamente parlando, famosa e unica in tutto il mondo.

Senza ombra di dubbio, soprattutto per la sopravvivenza nel rito di catarsi e guarigione della pratica iatromantica dell’incubatio, la divinità venerata in quel di Galatina non potette non essere che Atena Hygièia, che in epoca romana sarebbe stata ricordata con gli appellativi di Salus o Valetudo.

Quali sono, però, le prove storico-scientifiche a supporto di questa teoria?

Le prove a favore di questa tesi risultano non solo essere molteplici ma anche abbastanza consistenti sotto una lente d’indagine storico-religiosa. In primis va detto che difficilmente in un luogo ben determinato come quello della penisola salentina – una terra protesa naturalmente verso l’Ellade arcaicamente particolarmente affezionata al culto della dea – vi sarebbe potuta essere una duplicazione cultuale della stessa figura religiosa senza ipotizzare una differenziazione del proprio intervento specialistico.

PICCOLA EFFIGE IN BRONZO RAFFIGURANTE L’ATENA ILIACA DI CASTRO

 

Così se Castro[38] aveva goduto di antica fama per il grande tempio dedicato alla sua Athena Iliaca e Otranto a un altro santuario dedicata a un’Athena ancora da specificare ma molto probabilmente legata al culto delle acque fluviali, come pure in quel di Santa Caterina al bagno col fiumiciattolo che ne richiama la presenza. Anche il richiamo semantico presente nel nome del paese di Minervino di Lecce rimanderebbe ad una radicata presenza cultuale sul suo territorio. Nel comprensorio galatinese molto difficilmente avrebbe officiato una dea Athena presente altri luoghi seppur limitrofi senza pretendere che la divinità in questione si offrisse ai suoi adepti con una propria peculiarità di culto, caratteristica che per il territorio in cui sarebbe sorta la città di Galatina si sarebbe avuta, con buona probabilità all’interno di un antico santuario, usualmente creduto un semplice Athenaion, ma verosimilmente legato a doppio mandato al culto di Asclepio e dei suoi paredri[39], un vero e proprio Asklepieion, dove l’Atena locale ebbe modo di trovare collocazione con ben altre  specifiche finalità d’intervento strategico.

LA NUDA VERITÀ ESCE DAL POZZO, JEAN-LÉON GÉRÔME, 1896,

 

Risultano infatti esserci elementi e corrispondenze inoppugnabili tra antico culto asclepieo e tarantismo, come la presenza del pozzo (cisterna) dalle acque curative divenute poi dopo la cristianizzazione forzata popolarmente intese come miracolose, la vicinanza del luogo di cura extraliturgico (la famosa casa di san Paolo) ad un tempio liturgico (la chiesa Matrice[40]), la presenza di alcuni atti propiziatori pre e post ricovero religioso, la mimica coreutico-catartica delle tarantate durante il rito di richiesta guarigione, la presenza e il comportamento dei parenti delle tarantate o dei tarantati in loco, l’utilizzo di determinati strumenti musicali atti a scatenare la scazzicatura soprattutto quelli a percussione, l’applicazione diagnostica della cromocritica tramite la scelta delle zacareddhe[41], la presenza nel tarantismo di alcuni animali simbolici considerati emissari della malattia proveniente dal numinoso (tarantole, serpenti costrittori e scorpioni), la corrispondenza astrologica in occasione della data della festività, l’azione iatroimantica dei richiedenti la grazia al santo con esplicazione di vera e propria ira hominum e in ultimo ma non certo per ordine d’importanza la figura iconograficamente similare e sovrapponibile di san Paolo col nume pagano Asclepio.

MONUMENTO AI CADUTI DI GALATINA DEDICATO AD ATENA

 

In particolar modo è evidente la somiglianza della la fenomenologia rituale riportata anche ne La Terra del rimorso di Ernesto De Martino delle reminescenze dell’antico rito dell’incubazione onirica, rito che nel suo saggio venne documentato dalle splendide immagini in bianco e nero scattate dal fotografo italiano neorealista Franco Pinna che immortalarono tal tarantata Filomena di Cerfignano distesa sotto l’altare della cappella sconsacrata di san Paolo mentre cercava di addormentarsi per ricevere in sogno la terapia di cura migliore da parte del santo utilizzando le stesse movenze e gli stessi atti propiziatori effettuati negli antichi santuari di Asclepio di tutto l’ecumene antico.

Riprendendo, poi, ad analizzare l’utilizzo iatrico degli classici, animali totemici del tarantismo non si può non rimanere stupefatti nell’osservare come tutti questi ebbero una notevole valenza terapeutica nell’arte medica dell’antichità mediterranea. Nello specifico i serpenti costrittori, scurzune e sacara richiamano ora alla mente il loro utilizzo all’interno delle varie tholos dei santuari di Asclepio[42] e Igea dove venivano appositamente allevati in quanto si credeva che il loro morso succhiasse via il male provocato, lo scorpione anticamente utilizzato come medicamento per le afflizioni oculari una volta ridotto in polvere, la taranta (il ragno) per gli effetti emostatici della sua ragnatela in caso di ferite da taglio procurate in battaglia. Precedentemente a questo studio la dea Atena la si era approssimata al tarantismo unicamente per la vicenda mitologica della sfida che questa ebbe con Aracne e per la metamorfosi da questa subita per aver offeso la dea che l’aveva tramutata in uno degli animali totemici del tarantismo, la taranta.

 

  1. Atena, il tarantismo e il ripudio mitologico nella ricerca di Ernesto De Martino.

 

A questo punto della presente indagine ermeneutica, qualche critico o studioso del tarantismo di salda fede demartiniana potrebbe obiettare chiedendosi per quale motivo Ernesto De Martino, non abbia, con la sua competenza in materia, avvalorato tale ipotesi optando, invece, per una origine del fenomeno in età medievale?

A tale lecita domanda si potrebbe rispondere tirando in causa in primis la famosa disputache vide De Martino contrapporsi al filosofo milanese Remo Cantoni riguardo la considerazione del cosiddetto primitivo, anche da un punto di vista religioso, quindi mitologico.

De Martino, nonostante avesse in gioventù usufruito della competenza del suocero l’archeologo Vittorio Macchioro, suo vero e proprio “nume tutelare” che lo portò all’inizio a valorizzare la bellezza e la complessa attualità del mito greco arcaico[43], nell’evoluzione del suo pensiero critico si trovò più volte costretto a barricarsi dietro stereotipi utili alla propria connotazione filosofica, come l’aver voluto abbracciare lo storicismo idealista crociano di matrice occidentalista e separatista.

Egli accusò Cantoni – che a sua volta lo rimproverò di palesare nelle sue teorie poco spessore filosofico – di irresponsabilità perché aveva preteso di poter vivere l’arcaico nel presente o addirittura di tesserne le lodi. Per De Martino che permaneva ancorato ad una visione cristiana del tempo lineare, pur avvalorando la presenza di un pensiero primitivo in epoca contemporanea, riteneva essere il primitivismo culturale la causa di tutti i mali dell’Occidente.

Fu molto probabilmente anche il suo complesso e contraddittorio percorso politico  che lo vide dapprima convintamente aderire alla scuola di Mistica Fascista per poi avvicinarsi timidamente al liberalismo crociano e poi ancora dopo al socialiberismo di Tommaso Fiore e amici, tramutatosi in piena adesione clandestina a Giustizia e Libertà d’ispirazione azionista, adesione a sua volta abbandonata per aderire al Partito del lavoro, poi ancora al PSI di Nenni per cambiare ancora collocazione e aderire in ultimo al partito comunista nel quale sopravvisse alle antipatie di Togliatti grazie al “lasciapassare Gramsci”  e all’adesione all’etnologia progressiva di matrice sovietica di Sergej Tolstov  molto apprezzata dallo stesso Stalin –  che lo costrinse a rigettare d’ufficio ogni possibile eco mitologica che lo avrebbe fatto nuovamente avvicinare all’irrazionalismo macchiorano guénoniano e eliadeiano.

Pur avvicinandosi, poco prima della pubblicazione della Terra del Rimorso al tema del dionisismo e coribantismo mitici leggendo il saggio dello storico delle religioni francese Henri Jeanmaire Les mystères de Dionysos ed des Corybantes pubblicato nel 1949 sul Journal de Psychologie normale et pathologique pur tenuamente ammettendo all’inizio alcuni aspetti sincretici del tarantismo con alcuni antichi riti catartici pagani, successivamente escluse con un breve scritto intitolato Tarantismo e Coribantismo comparso nel 1961 sulla prestigiosa rivista universitaria “Studi e materiali di storia delle religioni” qualsiasi possibile parallelismo:

 

Ovviamente il confronto tra tarantismo pugliese e coribantismo, per quanto abbia fruttato una migliore comprensione del modo di esecuzione dei riti coribantici e una più perspicua interpretazione di alcuni passi di Platone (piccolo ma sicuro frutto che da solo mostra l’opportunità del confronto), non autorizza affatto, neanche in via ipotetica, a stabilire rapporti di dipendenza storica fra l’uno e l’altro.[44]

Pur apparendo affini ad un primo superficiale sguardo, le due modalità catartiche erano storicamente del tutto differenti. Per De Martino l’origine del tarantismo risaliva al tempo delle crociate con nessun esplicito riferimento, però, alla terra di Puglia:

Quanto alla voce taranta, al diminutivo tarantula (a cui risalgono tutti i continuatori romanzi indicanti probabilmente diverse varietà di ragni) e all’altro più tardo e popolare diminutivo tarantella, tutto ciò che si può ragionevolmente dire dal punto di vista etimologico è la connessione di taranta con Taranto, almeno sin quando non si ritrovi qualche nuovo documento che consenta di rivedere la quistione. La taranta e il suo morso velenoso appaiono per la prima volta nelle cronache medievali in connessione all’urto fra Occidente e Islam, ma senza riferimento alla Puglia e all’esorcismo musicale.[45]

 

Ma quali furono le plausibili ragioni di questo suo atteggiamento, per certi versi inspiegabile e contraddittorio?

Molto presumibilmente se avesse interpretato il tarantismo e la sua genesi sotto la lente dell’ermeneutica del mito classico, con tanto di presenza di divinità specialistiche atte alla cura e alla guarigione sincreticamente e religiosamente subentrate le une alle altre (Asclepio-San Paolo, Atena IgeaVergine della luce o altra peculiarità mariana) sarebbe stato obbligato, per certi versi ad abiurare i canoni progressivi della sua etno-antropologia e i fondamenti della sua stessa etnometapsichica, unitamente a quelli propri di un’azione emancipatrice politica delle masse contadine del meridione d’Italia; masse costrette a continuare a subire sperequazioni economiche irrisolvibili e a permanere in una stagnante situazione di assoggettamento ad un numinoso dispotico capace di ammansire nella sua ciclicità fenomenica l’ira hominum riconducendola nell’alveo di una devozione rurale, seppur in via di estinzione, come avrebbe compreso tempo dopo proprio all’interno della cappella di san Paolo a Galatina osservando le tarantate, che avrebbe  generato l’ultima sua opera, uscita postuma, intitolata  La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali.[46]

Inoltre, l’analisi del mito classico collegato al tarantismo avrebbe dato in parte ragione anche a Levy-Bruhl, al suo prelogismo e alla sua “legge di partecipazione” ma al contempo avrebbe avvalorato anche le tesi anche a Remo Cantoni con la sua idea di inclusione crono-antropologica del primitivo nel contemporaneo, una permanenza da non condannare come regressione culturale ma da proteggere come “peculiarità contrastante” dell’Occidente progredito e cristiano.

Immergersi nel mito dei Mysteria[47] lo avrebbe obbligato a indagare anche l’esoterismo magico presente nei riti d’iniziazione presenti in organizzazioni frequentate dalle sfere più colte del paese come “La Massoneria” e non soffermarsi a indagare strumentalmente solo il magismo presente unicamente nelle zone più arretrate dell’Italia, soprattutto quelle meridionali.

ASCLEPIO – SAN PAOLO: CORRISPONDENZE STATUARIE

 

Fu dunque utile per lui rimanere fedele alla sua scelta politica e utilizzare il corollario folklorico del luogo per leggerlo in chiave gramsciana considerando che tutto il costrutto, a cominciare dal culto di San Paolo che a Galatina[48], a differenza di quello di san Pietro era stato introdotto e sovrapposto solo in età moderna per volontà per bonificare cristianamente, una buona volta per tutte, il “luogo magico della cura” che aveva generato il peana καλή αθηνά che avrebbe a sua volta dato origine al toponimo ovverosia un vecchio pozzo, o meglio ancora, una vecchia cisterna dalle acque medicamentose facente parte ad un arcaico santuario pagano. Il tarantismo è stato, con buona pace di De Martino e dei suoi seguaci, la riprova dell’inapplicabilità universale dell’editto di Tessalonica nelle remote terre del Salento dove mutò pelle mantenendo inalterate le sue caratteristiche di fondo, prima fra tutte la volontà di un nume pagano/santo cristiano iconograficamente molto simile che prima colpisce, poi misericordiosamente guarisce il suo prescelto.

Se è indubitabile che Veritas filia temporis, di conseguenza la presunta “inviolabilità” del contenuto storico della Terra del Rimorso meriterebbe una più degna reinterpretazione partendo in primis, proprio dal significato nascosto del toponimo Galatina che Ernesto De Martino trascurò volontariamente di esaminare.

 

 RINGRAZIAMENTI

L’autore devolve i suoi più sentiti ringraziamenti alla dott.ssa Emanuela Zitti per la supervisione critica al testo.

  

BIBLIOGRAFIA

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Note

[1] Col nome Galatena o Galathena è stata denominata nel Salento una piccola sorgente d’acqua dolce defluente in località Santa Maria al Bagno frazione balneare del comune di Nardò, situata nei pressi dei resti di una roccaforte difensiva, ora denominata “Le quattro colonne” per la forma assunta dal complesso difensivo dopo i crolli che hanno rovinato l’integrità della struttura facendo restare in piedi i quattro torrioni situati agli spigoli del complesso a pianta quadrata. Non si esclude la possibilità che in loco in passato potesse esistere qualche edificio di culto dedicato alla dea il cui culto in terra di Messapia era diffusissimo come ricordano altri toponimi o luoghi. A tal proposito si ricordi il tempio di Atena Iliaca di Castro, il “Colle della Minerva” dove vennero decollati gli 800 martiri di Otranto e il nome del paese di Minervino di Lecce.

[2] Galatea dal greco “Γαλάτεια” che significa “lattea”, ma questa interpretazione sembra un’etimologia popolare data dalla somiglianza con l’aggettivo γάλακτος, γαλακτεία, derivato da γάλα “latte”, mentre probabilmente la vera origine del nome potrebbe derivare da γαλήνη “calma” e per estensione terminologica “la dea del mare calmo”. Galatea, infatti, era nella mitologia greca, una delle cinquanta ninfe del mare, dette Nereidi, la cui abituale residenza si trovava negli abissi marini dove insieme al loro padre Nereo proteggevano e assistevano i marinai nel loro peregrinare.

[3] Tesi sostenuta dallo studioso del tarantismo di salda fede demartiniana, Maurizio Nocera.

[4] A onor del vero la possibilità che il toponimo Galatina derivasse dalla frase “Bella Atena” è stato sostenuto con perizia documentale  dal prof. Rino Duma in un approfondito articolo comparso nel 2016 sulla rivista telematica “la Tela di Aracne” ma anche dallo studioso magliese Oreste Caroppo nell’articolo.http://naturalizzazioneditalia.altervista.org/i-celti-galli-galati-in-salento/. Entrambi gli studiosi, però, si sono soffermati a tradurre unicamente la corrispondenza lessicale non collocandola, come invece questo lavoro di ricerca tende a fare, in un ambito iatrico-religioso da cui sarebbe derivato il rito coreutico curativo del tarantismo.

[5] G. Semerano, Le origini della cultura europea. Rivelazioni della linguistica storica, Firenze, L.O. Olschki Editore 1984, pp. 179-180.

[6] Nella mitologia greca, Oceano era un titano, nato da Urano (il cielo) e Gea (la terra). Cresciuto aveva preso in moglie di Teti, con la quale generò i tremila Potamoi e le tremila Oceanine. Egli possedeva un’inesauribile potenza generatrice, non diversamente dai fiumi, nelle cui acque si bagnavano per un auspicio di fecondità le fanciulle greche prima delle loro nozze, e a tal motivo molti fiumi o corsi d’acqua furono considerati come i capostipiti di molte antiche famiglie. Oceano non era, però, un comune dio fluviale comune, perché non era, di fatto, un fiume comune. Quando tutto aveva già avuto inizio da lui, lui continuò a scorrere agli estremi margini della terra, rifluendo in se stesso dando vita a un circolo ininterrotto. Il mare, i fiumi, i torrenti, i rigagnoli, le sorgenti e le paludi continuavano a scaturire dal suo essere fluente. Anche quando il mondo si trovò sotto il dominio di Zeus, egli solo poté rimanere al suo posto originario, oltre al quale si credeva esistesse solo Erebo, il buio. Tuttavia anche Teti e non solo Oceano rimasero nel loro luogo primitivo tanto che teti venne appellata col titolo di “madre”. Per ira reciproca la coppia primordiale decise di non procreare più e a Oceano rimase soltanto la facoltà di fluire in modo circolare in modo da poter alimentare le sorgenti, i fiumi e il mare unitamente alla subordinazione al potere di Zeus. A differenza dei suoi fratelli, Oceano non prese parte alla titanomachia, e non fu quindi imprigionato nel Tartaro. Oceano veniva raffigurato come un anziano a torso nudo, semicoperto da un manto e con due chele di granchio tra i capelli. A volte era rappresentato accompagnato da Teti.

[7] L’enigma dell’epiteto permane irrisolto in quanto potrebbe significare tanto “nata da Tritone” quanto “nata presso il lago Tritone” nell’Africa Settentrionale come avrebbe addirittura riportato lo stesso Omero.

[8]   Cfr. Omero, Ode a Pallade Atena.

[9] Nella Teogonia di Esiodo, Metis risultò essere la prima compagna di Zeus anche se Atena sarebbe nata quando Zeus era già sposato con sua sorella Era. Con nascita di Atena, sua madre Metis scomparve dall’orizzonte umano, mantenendosi sempre, però, dentro Zeus in qualità di intelligenza e sapienza primordiale.

[10] Ascia bipenne.

[11] Platone, Cratilo 407b.

[12] Efesto sarebbe stato, poi, riaccolto nell’Olimpo dalla misericordia di colui che non gli fu padre naturale ma soltanto zio e padre putativo perché fratello e sposo di sua madre Era.

[13] Alcuni mitografi sostennero però che avesse una testa sproporzionata dal corpo proprio per accentuare la sua sagacia.

[14]Cfr.  Platone Timeo 21 e ErodotoStorie 2:170-175.

12 Medusa era una fanciulla dotata dai una splendida chioma, che, amata da Poseidone, aveva provocato la gelosia di Atena che per punizione aveva trasformato i suoi capelli in serpenti e reso così micidiale lo sguardo da impietrire chi avesse voluto sostenerlo. Inviato dalla dea, Perseo aveva ucciso il mostro il cui volto orribile, procurava terrore e rovina di ogni nemico, con l’abile stratagemma del riflesso dello sguardo tramite il suo scudo. Atena aveva poi fissato nel centro del suo scudo la testa di Medusa a mo’ di trofeo come era in uso nelle antiche popolazioni europidi che consideravano la testa la sede naturale della psychè (ψυχή), ovverosia, dell’anima/energia del nemico.

 [16] Atena in battaglia consigliò i guerrieri greci che le furono particolarmente devoti e cari come Odisseo e Diomede.

[17]La dea aveva altri epiteti, oltre a quello sovra menzionati. I più diffusi furono: Leitis (dea della bellezza), Peana (la misericordiosa), Zosteria (della cintura) quando era armata per la battaglia, Anemotis (dei venti), Promachroma (protettrice dell’ancoraggio), Pronea (attinente al pronao), Pronoia (della provvidenza), Xenia (la ospitale), Oftalmitis (dell’occhio), Cissea (dell’edera), Agoraia (delle piazze), Coronide (la cornacchia) e in quest’ultimo caso ciò lascia propendere a una confusione e sovrapposizione originaria con la madre di Asclepio.

[18] Sulla base di una statua votiva dedicata ad Atena alta m. 0,60 con base 0.09 rinvenuta a Epidauro in prossimità delle terme di Antonino (senatore Sex Iulius Maior Antoninus) ora custodita presso il Museo Nazionale di Atene, fu apposta una dedica risalente al 304 d.C. da parte di tal Marco Giunio Neoretos, sacerdote di Asclepio Soter e daduco di Eleusi, quindi di sangue ateniese ad Atena Hygieia. Cfr. IG 4², 428.

[19] Plutarco, Le vite parallele. Pericle 13, 13.

[20] Pausania, Periegesi della Grecia,1, 23, 4.

[21] La statua della dea mutila della testa del tempio della Minerva di Castro venne rinvenuta dal Prof. Archeologo Amedeo Galati nel 2015, all’epoca supervisore degli scavi dell’equipe del prof. Francesco d’Andria dell’Università degli studi del Salento, il noto archeologo nazionale famoso per le sue importanti campagne di scavi archeologici in Italia e all’estero, con l’ausilio di altri validissimi collaboratori.

[22] Fu anche la dea che impartì agli uomini la danza guerriera che infondeva coraggio prima della battaglia e precedeva gli scontri più importanti.

[23] Erano due fanciulle, di nobile famiglia (chiamate appunto ἀρρηϕόροι), fra i sette e gli undici anni, le quali restavano addette, per gran parte dell’anno, al servizio di Atena Poliade sull’Acropoli della polis.

[24] Callimaco nel suo inno: Per i lavacri di Pallade narra di una cerimonia argiva, che consisteva nel portare il Palladio ogni anno al fiume Inaco per lavarlo e riallestirlo.

[25] Numerose statuette votive di terracotta ritrovate in Attica riproducevano lo schema di tali primitive statuette in atteggiamento assiso con gli attributi del πόλος, dell’αίγίς e del γοργόνειον.

[26] Strabone, XIII, 601.

[27] In atteggiamento orante si veda per esempio l’Atena di Velletri, ora al Museo del Louvre, attribuita alla mano dello scultore cretese Cresila di poco posteriore a Fidia.

[28] Il serpente potrebbe connetterla alla dea cretese dei serpenti, divinità domestica cui è affidata la protezione della casa o molto più verosimilmente con Igea la figlia di Asclepio di cui divenne l’ipostasi.

[29] Erittonio essere mitologico successe ad Anfizione divenendo il quarto mitologico re di Atene. Secondo Pausania era nato dall’unione di Efesto e Gea. Nella Biblioteca di Apollodoro risultava essere, invece, il figlio di Efesto ed Athena (o di EfestoAttide). Sposò la naiade Prassitea con la quale generò Pandione. Il suo nome secondo etimologie popolari, deriverebbe da ἔρις èris (contesa) e χθών chthṑn, (terra), oppure per quanto riguarda la prima parte da ἔριον èrion (lana, la stessa con la quale Athena si deterse dallo sperma di Efesto che questi aveva eiaculato sulla sua coscia). Un’altra tradizione vorrebbe invece significasse il nome terra dell’ericain quanto alcune leggende lo facevano derivare dall’azione di pulizia della dea Athena che facendolo cadere il lembo di lana sporco del seme del suo assalitore sulla terra, lo fece finire sulla sommità di un monte ricoperto di piante di erica. Gli avvenimenti della sua nascita furono i seguenti: Poseidone, ancora arrabbiato per aver perso il diritto di protezione sulla polis di Atene che era andata, invece, in dote ad Athena, aveva convinto Efesto del fatto che quest’ultima sarebbe andata a trovarlo per intrattenersi eroticamente con lui usando la scusa di farsi forgiare una nuova armatura. Atena recandosi effettivamente da Efesto con l’intenzione di farsi fabbricare delle armi nuove attirò le sue morbose attenzioni. Efesto dopo aver cercato di possederla iniziò a inseguirla. Athena fuggì e quando Efesto riuscì a raggiungerla, non si lasciò possedere. Il dio riuscì solo a eiaculare sulla sua coscia. Dopo essersi ripulita dallo sperma con un panno di lana lo scagliò a terra con ribrezzo. A causa di questo gesto Gea (la Terra) divenne gravida e dovette generare Erittonio che rispecchiando l’aspetto deforme del padre nacque con due serpenti al posto delle gambe. Athena vedendolo ne ebbe, però, pietà e lo chiuse in una cesta che affidò ad AglauroPandroso ed Erse (le figlie di Cecrope), imponendo loro di non aprirla. Le ragazze però, incuriosite disobbedirono alla dea che, per punizione le spinse a gettarsi dalla rocca di Atene. L’unica ad essere risparmiata dall’amara sorte fu Pandroso, che aveva distolto all’ultimo momento lo sguardo dalla cesta. Successivamente Athena cominciò a occuparsi di Erittonio, nutrendolo e allevandolo nel recinto dell’Eretteo. Una volta cresciuto, riuscì a scacciare l’usurpatore Anfizione divenendo re di Atene.  Ordinò che venisse posta nell’Acropoli una statua lignea di Athena istituendo con quell’atto le feste Panatenee che secondo Plutarco, invece, sarebbero state create non da lui ma da Teseo. Poi prese in moglie la naiade Prassitea, dalla quale nacque Pandione. Il fatto che Erittonio fosse stato nutrito nel recinto chiamato di Eretteo, ha dato forse adito alla confusione che spesso vi è tra Erittonio e il nipote Eretteo. A Erittonio venne accreditata l’introduzione del denaro e l’invenzione della quadriga per celare le sue gambe serpentiformi.

[30] Plinio, NatHist., XXXVI, 18.

[31]Pare che Minerva non fosse conosciuta nei primi stadi della religione romana, per la mancanza di un flàmine ovvero di colui che accendeva il fuoco sull’ara dei sacrifici con funzioni sacerdotali addetto al suo culto e dall’assenza di festività a essa dedicate. Nel più antico calendario sacro dei Romani: il suo nome comparve nel canto dei Sali, anche se è noto che questo venne introdotto solo dopo che Minerva sarebbe stata accolta nella religione pubblica romana. È probabile che il suo ingresso nel culto ufficiale dei Romani sia avvenuto quando era ormai finitala serie dei cosiddetti dei indigeti del tempo dei Tarquini.

[32] Benché sia così dimostrata l’antichissima appartenenza della dea alla religione etrusca, non pare per questo che Minerva debba ritenersi etrusca anche di origine. Il suo nome infatti risalirebbe probabilmente a lontane radici italiche. Colse nel segno l’ipotesi del filologo classico Georg Wissowa che ammise che patria d’origine della dea fosse stata la polis di Falerii, dove l’antico elemento latino-falisco aveva saputo e mantenersi vivo sotto l’elemento etrusco che si sovrappose poi a questo indigeno. Nella polis di Falerii le testimonianze antiche del culto di Minerva furono molto più numerose che altrove nella penisola italica. Da Falerii la dea sarebbe transitata nella religione etrusca e solo successivamente in quella romana entrando a far parte della famosa triade capitolina.

[33] Il termine Minerva fu probabilmente importato dal pantheon etrusco dove veniva denominata Menrva. I Romani ne confusero il nome straniero col loro lemma mens (mente) proprio per il fatto che la dea governava non solo la guerra, ma anche tutte le attività intellettuali.

[34] Va ricordato che i Ninfei anticamente svolgevano un ruolo devozionale atto alla cura.

[35] I primi cinque giorni successivi alle Idi di marzo, a partire dal diciannovesimo nel Calendario degli Artigiani

[36] Si trattava della traduzione latina dell’Athenas Psephos, il coccio che il presidente deponeva nell’urna per ultimo nella Bulè dei Cinquecento, l’organo legislativo nella Costituzione di Clistene, che pare esercitasse anche una funzione giurisdizionale. Tale definizione fu ricavata dall’esempio del leggendario voto di Athena in favore di Oreste, scritto da Eschilo ne: Le Eumenidi, voto che fu decisivo per mandare esente da pena capitale l’eroe che si era macchiato di matricidio.

[37] Stando a Tito Livio il numero dell’assemblea giudicante si aggirava intorno ai cinquecento.

[38] La divinità venerata a Castro era probabilmente molto affine all’Athena Poliade per l’ubicazione del suo tempio sull’acropoli e per il richiamo troiano del vestiario (presenza di un elmo di foggia frigia) e assenza dell’egida e le antiche gesta che legavano la fondazione della polis medesima a un nobilissimo eroe omerico di stirpe minoica presente in prima fila nelle vicende della guerra di Troia (Idomeneo o meglio Idameneo essendo il nome un oronimo) se non addirittura la presenza momentanea per approvvigionamento idrico e alimentare del mitico profugo Enea.

[39] Aiutanti di Asclepio che nel suo culto comparivano assisi accanto.

[40] Con l’avvento del cristianesimo tutti i santuari di Asclepio e Igea vennero distrutti e sulle loro rovine innalzati luoghi di culto della nuova religione. Molto singolare è la vicinanza del pozzo-cisterna pagano a pochi metri dalla chiesa matrice cosa che lascia supporre la preesistenza di un santuario pagano atto alla cura, dedicato molto probabilmente ad Athena Igea.

[41] Nastri colorati che erano utilizzati per comprendere la specializzazione della tarantola che aveva punto la donna o l’uomo richiedente l’intervento liberatorio di san Paolo. Potevano essere stati punti da taranta ballerina e allora dovevano danzare per ottenere la grazia, da taranta de partu e allora dovevano soffrire le doglie del parto, da taranta muta allora persistevano in uno stato comatoso, da taranta d’amore che causava malesseri a sfondo sentimentale, taranta d’acqua presente nella zona nord del Salento e via discorrendo.

[42] Primo fra tutti quello di Epidauro in Argolide.

[43] Nello studio dei Gephyrismi Eleusini suo argomento di laurea, aveva trattato ermeneuticamente la figura di vecchia Baubò la mitica moglie di Disaule colei che aveva inventato il ciceone che era divenuta con il passare del tempo una maschera in auge nei carnevali mitteleuropei.

[44] E. De Martino, Tarantismo e Coribantismo, “Studi e Materiali di Storia delle Religioni”, XXXII, 2: p.200.

[45] E. De Martino, La terra del rimorso. Il Sud, tra religione e magia, Milano, il Saggiatore 1997, p. 229.

[46] «de Martino ha avuto modo di assistere “in presa diretta”, sul terreno, al tarantismo in statu moriendi, alla sua disgregazione in atto, dietro la quale si cela la fine di un mondo, quello della cultura contadina d’impronta magica dell’Italia del Sud, “altra” rispetto ai canoni del cattolicesimo ufficiale». Cfr. M. Massenzio, Senso della storia e domesticità del mondo in Ernesto de Martino. Un’etnopsichiatria delle crisi e del riscatto, (a cura di) Roberto Beneduce, Simona Taliani, in «Aut aut» (2015), n. 336, pp. 39-60.

[47] I riti e i culti di Asclepio e Igea rientrano a pieno titolo nei grandi Mysteria ellenici.

[48] Cfr. AA.VV., Sulle tracce di S. Paolo. Verità storiche e invenzioni tarantologiche, Regione Puglia – Settore Pubblica Istruzione CRSEC, Galatina, Torgraf 2001;

 

Libri| Arte barocca nella chiesa del Rosario di Copertino

 

ARTE BAROCCA NELLA CHIESA DEL ROSARIO DI COPERTINO

di Marcello Gaballo, Giovanni Greco e Alessandra Marulli, per la collana Analecta Nerito Gallipolitana,  Grenzi Editore, Foggia (pagine 115, copertina cartonata, riccamente illustrato a colori con foto di Lino Rosponi e rilievi di Fabrizio Suppressa)

 

Questa sera 12 dicembre 2022 alle ore 19, nella chiesa del Rosario di Copertino, Via Cosimo Mariano, si terrà la presentazione del volume che illustra la scultura barocca dei due maestosi altari realizzati tra metà 600 e inizi ‘700 da Ambrogio Martinelli e Giuseppe Longo. Nel volume, dopo le vicende storico-artistiche dell’edificio anticamente officiato dai padri Domenicani, si illustrano anche le coeve emergenze pittoriche, tra le quali l’imponente tela della Madonna del Rosario dipinta dal celebre pittore Gian Domenico Catalano.

particolare di uno degli altari esaminati nel volume (foto Lino Rosponi)

 

L’iniziativa editoriale, corredata di una mostra didattica curata da Alessandra Marulli, è stata promossa dal parroco don Antonio Pinto, che nella prefazione scrive come dal lavoro, ricco di rimandi archivistici e nuove fonti documentarie, siano “emerse inaspettate e inusuali immagini e simbologie recondite che incantano per la loro resa plastica e per la delicata e incisiva policromia… Solo ora si può finalmente godere del tripudio di angeli e angioletti festanti, nelle loro mutevoli pose, che si inerpicano in ogni dove delle due barocche macchine d’altare, a solennizzare incredibile sequenza di santi e sante che proiettano efficacemente l’uomo nello spazio divino”.

Santa Caterina da Siena, particolare della tela della Madonna del Rosario dipinta da Gian Domenico Catalano (foto Lino Rosponi)

 

L’odierna presentazione del volume, sarà preceduta dai saluti istituzionali del vescovo della diocesi di Nardò-Gallipoli, mons. Fernando Filograna, dal sindaco Sandrina Schito, dal presidente della provincia di Lecce Stefano Minerva e dall’assessore regionale all’Istruzione e alla Formazione Sebastiano Leo.

Particolare della tela di San Domenico, dipinta dal Carella, nell’altare di Ambrogio Martinelli (foto Lino Rosponi)

 

Gli interventi sono affidati a mons. Giuliano Santantonio, vicario generale e direttore dell’ufficio Beni culturali della Diocesi; Luigi De Luca, funzionario della Regione Puglia e direttore del polo Bibliomuseale di Lecce; Aldo Patruno direttore generale del Dipartimento Turismo, economia della cultura  e valorizzazione del territorio. Modera il parroco don Antonio Pinto, mentre gli intermezzi musicali sono a cura del M° Maurizio Coppini.

Padre Angelo Stefanizzi, il Gandhi dello Sri Lanka. Una biografia spirituale

di Francesco Frisullo-Paolo Vincenti

 

Angelo Stefanizzi nasce il 2 ottobre 1919 a Matino (Lecce), secondo di cinque fratelli e due sorelle. Come il fratello Antonio, anch’egli entra nella Compagnia di Gesù, nel 1936, a Napoli. Per la precisione, compie il Noviziato e gli studi liceali a Vico Equense. Inizia gli studi filosofici in Sicilia e li completa a Gallarate, Varese, a causa degli spostamenti imposti dagli sviluppi della Seconda Guerra Mondiale. Compie gli anni del Magistero nel Collegio di Bari. Nel 1948 parte per l’India, dove l’anno successivo viene ordinato sacerdote.

Dopo aver compiuto gli studi di teologia, nel 1952, egli intraprende l’attività missionaria nel centro-sud dello Sri Lanka, prima a Yatiyantota come viceparroco, in seguito a Dehiowita, nel 1967, e poi a Maliboda, nel 1983, come parroco. Qui impara a parlare correntemente tre lingue: inglese, singalese e tamulico.

In totale ha trascorso ben 58 anni nello Sri Lanka. Si dedica all’assistenza della povera gente, in particolare dei lavoratori nelle piantagioni di the a Tamil, e all’assistenza dell’infanzia. Capisce l’importanza di dare ai bambini un’istruzione, per questo si fa promotore dell’apertura di scuole, corsi serali per minori ed adulti, reclutando moltissimi insegnanti volontari. “Sono giunto nello Sri Lanka nel 1952”, seguiamo le sue stesse parole, “e fui destinato alla parrocchia di Yatiyantota come collaboratore del parroco, P. C. Iannaccone. Inparticolare fui incaricato dell’apostolato nelle piantagioni di tè e di gomma presenti nella parrocchia, con lavoratori soprattutto Tamil di origine indiana. Oltre ai bisogni spirituali dei pochi cattolici, mi colpì la povertà di tutti e la scarsissima preparazione scolastica dei giovani e dei bambini”[1].

Per Padre Angelo arriva molto presto la chiamata missionaria. Egli si convince nel profondo che solo in terra di missione può realizzare pienamente sé stesso. In effetti, il gesuita è cittadino del mondo; nessun ordine è più cosmopolita della Compagnia di Gesù, in quanto nella sua Regola fondante è stabilito che il frate debba essere pronto a viaggiare in ogni parte del mondo, “quocumque gentium”, ubbidendo ciecamente a quanto ordinato dal suo superiore; egli non deve avere legami di sorta e deve annullare persino la propria coscienza di fronte ad un ordine che gli venga impartito dall’alto, sull’esempio dei fondatori dell’Ordine. L’apostolato di Padre Angelo fa guadagnare alla religione cristiana un numero sempre crescente di fedeli. In terra cingalese, si avvia un grande fervore soprattutto nei confronti della gioventù disoccupata. A Padre Angelo si deve la costruzione della chiesa di Maliboda e di alcuni centri di incontro e ricreativi per i cattolici indigeni.  Il territorio di Maliboda, luogo di grandi piantagioni di the, era dilaniato dallo scontro tra singalesi e tamulici, i due principali gruppi etnici presenti nello Sri Lanka, divisi linguisticamente e culturalmente, oltre che dalla religione. Frequenti scoppi di violenza mettevano a serio rischio la vita degli stessi missionari. In questo contesto, si inserisce l’opera di mediazione del Nostro, il quale tenta uno straordinario esperimento di riconciliazione, partendo proprio da quegli elementi divisivi che trasforma nel collante fra i due gruppi etnici. Padre Angelo, cioè, capisce che quello che prima divideva doveva unire. A quest’opera di mediazione viene dato ampio risalto dalla stampa e dai media locali tanto che egli si guadagna l’appellativo di “Padre Gandhi”, che lo accompagnerà per tutta la vita. Come il Mahatma, Padre Angelo è un profeta disarmato, che predica la non violenza e l’appianamento pacifico dei contrasti[2].  Mantiene i contatti con l’Italia, soprattutto grazie alla sua corrispondenza con gli organi di stampa dei Gesuiti. Riferisce della guerra che dilania il Paese sulla rivista «Societas»[3].

Padre Angelo nella sua missione in Sri Lanka

 

Nel 1972, l’isola di Ceylan o Ceylon aveva assunto l’attuale denominazione di Sri Lanka. Intanto però, nel nord-est del paese, popolato dal gruppo etnico dei Tamil, si era generato un vasto malcontento, con la nascita di un movimento autonomista che portò alla guerra civile che insanguinò il paese negli anni Ottanta e Novanta. Del resto, la complessità delle componenti etniche in cui era frammentato il Paese risultava già nota agli antichi viaggiatori europei. Lo scontro fra tamulici e singalesi giunse solo a peggiorare un quadro già critico. Come detto, lo scontro politico e civile diventava anche contrapposizione religiosa poiché il gruppo etnico dei tamulici professa in gran parte il cristianesimo, mentre il gruppo dei singalesi si riconosce nel buddismo. I frequenti bombardamenti aerei portavano migliaia di morti fra i civili e comportarono una fuga di massa da parte della popolazione che cercava scampo lontano dalle zone di guerra. I rapporti dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite in quegli anni parlarono di più di un milione di rifugiati, su una popolazione totale di 19 milioni, che trovarono asilo nei campi profughi sparsi per il Paese dove molti di essi vivono ancora oggi. Oltre alle inevitabili ripercussioni su donne e bambini, la guerriglia procurò vittime anche fra i religiosi, soprattutto della maggioranza cristiana tamulica, i quali cercavano di portare conforto ai feriti o, ancor di più, denunciavano le continue violazioni dei diritti umani. Padre Angelo, nella terribile contingenza determinata dallo scontro fra forze governative e truppe indipendentiste, più che prendere posizione politicamente, si adoperò a favore degli orfani e delle vedove di guerra. Nel 2009 è stata firmata la pace, ma la tensione corre ancora sotterranea nel popolo srilankese, se è vero che il governo non riconosce tuttora l’autonomia delle regioni tamil e continua ad intervenire manu militari, e se è vero che il giorno di Pasqua 2019 tre chiese cattoliche di Colombo sono state oggetto di un attentato con centinaia di morti[4].

Padre Angelo, dunque, cerca di mettere in contatto le due comunità etniche in guerra attraverso il dialogo attivo e chiama nelle sue scuole insegnanti di tamulico per i singalesi e lo stesso fa con gli insegnanti singalesi per i tamulici. Abbiamo già evidenziato come a lui si debbano la costruzione di case per senzatetto e l’avvio di moltissime attività di assistenza e volontariato. La sua vocazione alla riconciliazione in verità era cominciata prestissimo, fin da quando era giunto a Dehiowita alla sua prima esperienza missionaria. Già all’epoca egli, vedendo la città di Ceylon sconvolta dal sangue della guerra civile, lanciava un appello alla pace e alla ricomposizione. “Da Cylon, che fu teatro recente di rivolta e di sanguinosa repressione ci giunge l’appello accorato di un missionario P. Angelo Stefanizzi. Affronta nel suo territorio uno dei problemi più scottanti per il Terzo Mondo: come preparare al domani una gioventù fatalmente in crisi”: così scriveva, in un articolo a firma dello stesso P. Angelo Stefanizzi, la rivista «Popoli e Missioni», che riportava anche una foto del giovane Padre Angelo insieme alla madre e alla sorella che erano andate a trovarlo a Dehiowita[5].

L’aspetto più interessante della sua carriera consiste nell’ecumenismo del suo missionariato, nel senso che egli cerca un dialogo anche con le altre confessioni religiose presenti sul territorio indiano, ossia l’induismo, l’islamismo e il buddismo. “Dialogo e riconciliazione”, chiama la sua opera, e questo binomio caratterizza tutta la sua attività apostolica. «Nell’opera promozionale dello sviluppo sociale era guidato da due princìpi: “sviluppo di tutti nella solidarietà” e “sviluppo di ogni comunità utilizzando gli uomini migliori della comunità”»,

Tratto da «Popoli e Missioni», novembre 1971, pp. 5-6.

 

scrive il fratello, P. Antonio Stefanizzi[6]. Dopo lo storico incontro interreligioso tenuto ad Assisi nel 1987 fra le tre fedi monoteistiche, voluto da Giovanni Paolo II, Padre Angelo decide di aprire una Sala di meditazione comune dove si possano incontrare tutte le religioni professate nell’isola.

Nel 1985, introduce nello Sri Lanka la Società Kolping, organizzazione internazionale socio-religiosa di laici cattolici che promuove la fede e lo sviluppo, intitolata al beato tedesco Adolf Kolping[7]; essa viene inaugurata a Deraniyagala da Mons. Ambrogio De Paoli, Nunzio Apostolico della Santa Sede nello Sri Lanka, che pone la prima pietra, insieme all’Ambasciatore tedesco e ai prelati del posto[8].


Tratto da «Popoli e Missioni», aprile 1986, pp. 54-55.

 

Nel 1998 viene costituita la Sri Lanka Kolping Society con atto del Parlamento: questo è il riconoscimento ufficiale dell’associazione[9]. Padre Angelo, nel primo Congresso dei membri dello Sri Lanka, viene acclamato all’unanimità primo   presidente   nazionale[10]. Sempre nel segno del dialogo interraziale ed interreligioso, promuove la nascita di giardini di infanzia per gli orfani, di artigianato e di corsi di taglio e cucito per le ragazze disagiate.  Fitto continua il suo scambio epistolare con amici e benefattori.

Nella sua missione in Sri Lanka

 

Nel 1995 incontra il Papa Giovanni Paolo II in occasione del viaggio del Pontefice in Sri Lanka.

Per quanto attiene alla sua attività intellettuale, oltre a numerosi articoli apparsi sulla rivista «Societas», pubblica l’opuscoletto 50 anni della chiesa a Maliboda 1955-2005, sulla chiesetta di cui è stato fondatore e parroco, in tre lingue: inglese, tamulico e singalese. Il libro viene ottimamente recensito su «Societas»[11].  Nel 2000 si manifestano i primi segni del morbo di Parkinson che lo costringe sulla sedia a rotelle. L’incrudelirsi della malattia gli impedisce di continuare la pastorale.

Un bel profilo biografico gli viene dedicato dalla rivista «JIVAN-News and Views of Jesuits in India» nell’agosto 2005[12].

Su «Societas» del sett-dic.2003, appare un suo intervento su “Sri Lanka: sviluppo nella solidarietà” in cui ripercorre le tappe della sua carriera missionaria, soprattutto della ricerca dei collaboratori che lo affiancarono nella evangelizzazione, nel du-ro compito di tenere le fila di una comunità frammentata su un territorio molto vasto[13]. Ripensa ai lavori di costruzione delle varie chiesette e delle scuole per dare un’istruzione alla popolazione delle piantagioni pressoché analfabeta, ripensa soprattutto al grande affiatamento che si creava con gli altri fratelli delle religioni diverse che collaboravano con lui, non in un’ottica di competizione ma di cooperazione, ripercorre le iniziative culturali e ricreative nelle quali coinvolgeva gli indigeni, come la proiezione di film, le recite, gli incontri sportivi, e quindi il grande progetto della formazione professionale per i giovani più promettenti e desiderosi di apprendere. L’esperienza scuola-lavoro si rivelava molto formativa per generazioni di cingalesi impiegati nell’agricoltura. Tutto questo senza trascurare la formazione spirituale per i fedeli che trovavano in lui una vera guida[14]. Padre Angelo si è sempre mantenuto fedele al primo intento missionario dei fondatori dell’ordine gesuitico, in particolare all’eredità di San Francesco Saverio, il Protomartire delle Indie, nel cui esempio egli si rispecchiava, come ribadiva, ormai convalescente e degente nell’ospedale della comunità dei Gesuiti di Colombo, in una sua memoria pubblicata dalla “News letter” dei Gesuiti dello Sri Lanka[15].

All’indomani della Prima Guerra Mondiale il papa Benedetto XV sentì il bisogno di ribadire il valore esclusivamente evangelico dell’azione missionaria e condannare le strumentalizzazioni nazionalistiche e colonialistiche che non erano mancate durante gli anni della guerra, e a tal fine   emanò il 30 novembre 1919 l’enciclica Maximum Illud[16]. Un altro momento significativo fu la proclamazione dell’anno giubilare delle missioni proclamato da papa Pio XI nel 1925, insieme all’allestimento della mostra missionaria[17], che ci ha lasciato in eredità il Museo Missionario Vaticano, culmine di un progetto di riflessione e riorganizzazione dell’azione delle missioni che ebbe tra i suoi artefici Angelo Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII, allora funzionario di Propaganda Fide[18]. Bisogna quindi attendere il Concilio Vaticano II perché la chiesa ribadisca la sua naturale vocazione missionaria. Il tema del confronto tra le chiese, le varie culture e le missioni è stato oggetto specifico del Concilio, in particolare delle costituzioni sinodali Gaudium et Spes e Ad gentes (1965) di Paolo VI. L’attuale papa, Francesco I, ha proclamato il 2019 anno giubilare delle Missioni. Iniziativa assai lodevole, da parte di un pontefice che porta il nome di due santi esponenti dei due ordini che di più hanno dato alla storia delle missioni, ovvero Francesco d’Assisi e Francesco Saverio; e non può sfuggire che uno dei suoi primi atti dopo l’insediamento sia stato l’omaggio all’icona della Salus popoli Romani, come erano soliti fare i padri gesuiti prima di intraprendere il loro viaggio verso le Indie.

Di questa nobile tradizione, Padre Angelo può essere considerato un fiero vessillifero e non pecca di agiografia chi lo definisce un campione delle missioni.

In occasione del Natale 2009, circa un mese prima di morire, ringrazia collaboratori e benefattori con le parole di Gesù: “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). Nel gennaio 2010, «The Messenger», il settimanale cattolico dello Sri Lanka, gli dedica un ampio articolo in occasione dei suoi sessant’anni di sacerdozio. L’autore, reverendo della Diocesi di Ratnapura, spende parole di grande elogio per Padre Angelo e conclude il suo intervento così: «E’ mia convinzione che egli ripeta le parole di San Paolo ai Filippesi: “In conclusione, fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri. Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare. E il Dio della pace sarà con voi”. (Fil 4,8-9). Caro Padre Angelo: molte grazie per tutto quello che lei è, per tutto quanto lei ha fatto per la nostra gente della diocesi di Ratnapura, specialmente per i lavoratori Tamil che operano nel settore delle piantagioni. Possa lei rimanere come luce che illumina noi generazioni più giovani, affinché possiamo emulare lei e gli altri grandi missionari del passato, quali il B. Joseph Vaz, il Vescovo Regno O.S.B., il Vescovo Joy Gunawardena O.M.I. ecc. ecc..»[19].

Padre Stefanizzi ritornò a Matino in occasione del suo 50esimo di sacerdozio, nel 2000, festeggiato da tutta la comunità del suo paese, come conferma una relazione manoscritta di Don Giorgio Crusafio che riprende l’intervento pronunciato la sera del 2/5/2000 nella Chiesa del Sacro Cuore di Gesù. E grandissimi furono gli onori che ricevette nella sua patria acquisita, Ratnapura. A Yatiyanota, nel novembre di quell’anno, venne celebrata una santa messa dai Padri Ruben Perera, Vicario Generale della Diocesi di Ratnapura, e Baylon Perera, Provinciale dei Gesuiti, con l’intervento del Vescovo, Mons. Malcolm Ranjith, alla presenza di una grandissima folla di fedeli. Al Giubileo d’oro parteciparono, sebbene lontani, anche il fratello, P. Antonio Stefanizzi e la sorella, Suor Agata[20].

Padre Angelo muore nel febbraio del 2010. Il 5 febbraio 2010 l’Agenzia Ucan (Union Catholic Agency News) di Ratnapura diffonde il seguente comunicato stampa: “I poveri lavoratori delle piantagioni di tè nel sud dello Sri Lanka (cattolici, indù e musulmani) piangono la morte del missionario gesuita italiano p. Angelo Stefanizzi, che ha lavorato fra loro per 58 anni”[21]. Il suo corpo è sepolto ad Ampitiya.

In occasione della morte, moltissime sono le testimonianze e i messaggi di cordoglio. Un bellissimo ricordo gli viene dedicato dalla rivista «Il Gesù Nuovo»[22].

Riporta il sito on line AsiaNews: «K.s.s.a. Francis, direttore dell’organizzazione Foliseb Sri Lanka con base nella città di Hatton, lo ricorda come un “santo dei nostri tempi” e “una guida accurata ed eccellente” per tutti i lavoratori della terra. Egli sottolinea la particolare attenzione mostrata da p. Stefanizzi per i poveri agricoltori della provincia e il suo impegno “nel cercare di parlare con loro e aiutarli a risolvere i problemi, per questo lo chiamavamo con affetto… p. Gandhi”. Il suo segreto, come riferisce K.s.s.a. Francis, era quello di “parlare in modo fluente sia il singalese che il tamil, nonostante fosse uno straniero”; una particolare dote che gli ha permesso di “conquistare il cuore delle persone” che potevano “avvicinarlo senza incontrare barriere o ostacoli”. P. Maria Anthony, superiore provinciale dei Gesuiti nello Sri Lanka, spiega ad AsiaNews che “abbiamo perduto un missionario di lungo corso, con un cuore grande e una profonda educazione”. “Mi piaceva chiamarlo uomo per i poveri” continua il confratello, perché “era pronto a lavorare in mezzo a ogni difficoltà. Non gli interessava una vita agiata, voleva solo stare vicino ai contadini poveri”»[23].

Anche il sito on line del Daily News, Sri Lanka’s National Newspaper, riporta il suo necrologio[24].

Della sua morte, dà l’annuncio la rivista «Gentes», che scrive: “Il 3 febbraio è giunta invece la notizia dell’ascensione al cielo di un altro grande missionario gesuita, il padre Angelo Stefanizzi, defunto a Kandy (Sri Lanka) nel suo 91° anno di età e 74° di Compagnia”[25]. Anche Radio Vaticana on line dà la notizia della sua morte[26].

Su «The Messenger», del 5 ottobre 2014, gli viene dedicato un bel profilo biografico in occasione dei 95 anni della nascita[27]. Infine, giunge questo libro, voluto dall’Associazione Autori Matinesi, che si propone di mantenerne, nella comunità che gli ha dato i natali, desto il ricordo e viva la testimonianza.

 

Nota degli autori

Alcune fonti bibliografiche citate nel profilo sono incomplete poiché si trovano in fogli dattiloscritti o in fotocopia conservati e rilegati dalla famiglia Stefanizzi-Caputo o dagli amici dell’Associazione Autori Matinesi, i quali ce li hanno messi a disposizione per il presente lavoro. Tuttavia, piuttosto che fare a meno di tali preziose fonti, si è preferito utilizzarle, indicandone in nota la provenienza da Archivio personale Padre Angelo Stefanizzi.

 

Note

[1]           Angelo Stefanizzi S.I., La mia esperienza personale, 2000, documento contenuto in Archivio personale Padre Angelo Stefanizzi, per gentile concessione della famiglia Stefanizzi-Caputo.

[2]           Dialogo e riconciliazione. Tra Singalesi e Tamulici dello Sri Lanka, in «Popoli e Missioni», ottobre 1987, pp. 44-46.

[3]           Angelo Stefanizzi S. I., Nelle zone di guerriglia dello Sri Lanka, in «Societas», n.6, dicembre 1993, pp. 171-173.

[4]           Per un excursus storico sullo Sri Lanka si rinvia al capitolo Missionari gesuiti pugliesi in Estremo Oriente e storia della missione dello Sri Lanka, presente in questo stesso volume

[5]           P. Angelo Stefanizzi, Cercasi mangiaserpenti, in «Popoli e Missioni», novembre 1971, pp. 5-6.

[6]           P. Antonio Stefanizzi, Padre Angelo Stefanizzi “Un missionario non ordinario”, in Matino si racconta 3. Pagine della nostra storia, a cura dell’Associazione Autori Matinesi, Matino, Tip. San Giorgio, 2016, p.129.

[7]           http://www.kolping.org/about/ L’atto costitutivo della Società riconosce che Kolping opera al fine di “lavorare per un’amicizia etnica e religiosa tra i cittadini dello Sri Lanka; promuovere quei valori umani e religiosi che portano alla pace e all’armonia nello Sri Lanka, incoraggiando il dialogo tra le varie tradizioni religiose; intraprendere tutte le forme di servizio utili alla comunità.”

[8]           Si veda: P. Angelo Stefanizzi, Sri Lanka. I centri Kolping, in «Popoli e Missioni», aprile 1986, pp. 54-55.

[9]           Si veda: Idem, “Da Sacerdote” nei problemi dello Sri Lanka, in «Societas», n.6, nov-dic.1982, pp. 116-118, e Idem, Le vie della pace. Il “Kolping Sri Lanka”, in «Societas», n.3-4, maggio-agosto 1998, pp. 123-125, in cui l’autore fa una dettagliata descrizione delle finalità e dell’attività della associazione.

[10] Gaetano Iannaccone S.I., Solidarietà col popolo dello Sri Lanka.  Il Padre gesuita Angelo Stefanizzi eletto Presidente Nazionale della Società Kolping, in «Il Gesù Nuovo», Napoli, pp.273-274, in Archivio personale Padre Angelo Stefanizzi.

[11] P. Carlo Sorbi S.I., Sri Lanka, giubileo d’oro: cinquant’anni della chiesa di S. Anna a Maliboda, in «Societas», n.5-6, sett-dic. 2005, pp.249-252.

[12]         Articolo in traduzione italiana, in Archivio personale Padre Angelo Stefanizzi.

[13] Si veda: Angelo Stefanizzi S. I., I miei cooperatori laici, in «Societas», n.1, gennaio-febbraio 2000, pp. 51-54.

[14] P. Angelo Stefanizzi, Sri Lanka: sviluppo nella solidarietà, in «Societas», n.5-6, sett-dic.2003, pp.241-245.Questo articolo viene ripubblicato sulla rivista per cortesia del Journal of Religious Reflection, n.9, agosto 2003, pubblicato dal Satyodaya Center, Kandy, dei gesuiti dello Sri Lanka, a cura del P. Paul Kasperz S.I. e tradotto da P. Antonio Stefanizzi. Sulla drammatica situazione politica nell’isola, altri interventi: Angelo Stefanizzi, Di chi è la colpa?, in «Societas», n.6, nov-dic. 1989, pp. 169-170, e Idem, Guerriglia nello Sri Lanka,  in «Societas», n.6, nov-dic. 1993, pp.171-173.

[15] L’eredità di S. Francesco Saverio. Riflessioni di P. A. Stefanizzi dopo 62 anni di Missione, da “Newsletter” dei Gesuiti dello Sri Lanka, gennaio 2007, in Archivio personale Padre Angelo Stefanizzi.

[16] http://www.vatican.va/content/benedict-xv/it/apost_letters/documents/hf_ben-xv_apl_19191130_maximum-illud.html. Alba Rosa Leone, La politica missionaria del Vaticano tra le due guerre, in «Studi Storici», Anno 21, n.1 (Jan. – Mar., 1980), pp. 123-156.  Per una rapida analisi dei rapporti tra colonialismo e missioni: Claude Prudhomme, Missioni cristiane e colonialismo, Milano, Jaka Book, 2007.

[17] Luigi Grammatica, Contributi apologetici delle Missioni e della Esposizione Missionaria Vaticana, in «Rivista Internazionale di Scienze Sociali e Discipline Ausiliarie», Vol. 102, Fasc. 392 (Agosto 1925), pp. 285-297.

[18] Stefano Trinchese, L’Opera della propagazione della fede dalla centralizzazione a Roma nel 1921 alla Mostra missionaria del 1925, in Achille Ratti pape Pie XI. Actes du colloque de Rome (15-18 mars 1989) organisé par l’École française de Rome en collaboration avec l’Université de Lille III – Greco n° 2 du CNRS, l’Università degli studi di Milano, l’Università degli studi di Roma – «La Sapienza», la Biblioteca Ambrosiana. Rome: École Française de Rome, 1996, pp. 693-718.

[19] Fr K. D. Joseph, P. Angelo Stefanizzi S.I. – 60 anni di sacerdozio – Un missionario di raro calibro, in «The Messenger, The Catholic Weekly of Sri Lanka», 3 gennaio 2010, articolo in traduzione italiana in Archivio personale Padre Angelo Stefanizzi. Si parla di lui anche nell’articolo The Parish of Dehiowita, Ratnapura, in «The Messenger, The Catholic Weekly of Sri Lanka», 22 gennaio 2012, p.2.

[20] P. Angelo Stefanizzi S.I.: 50 anni di sacerdozio, a cura di P. Domenico Parrella S.I., in «Popoli e Missioni», febbraio 2000, pp.30-31. Inoltre, Edward Kumaragama, Il 50° di P. Angelo Stefanizzi, in «Societas», n.1-2, gennaio-aprile 2000, pp. 49-50.

[21] Archivio personale Padre Angelo Stefanizzi.

[22] Un missionario di raro calibro, coraggioso e generoso: P. Angelo Stefanizzi S.I. (2 ottobre 1919-3 febbraio 2010), in «Il Gesù Nuovo», n.3, Napoli, maggio-giugno 2010, pp.177-179.

[23] Melani Manel Perera, Kandy, fedeli cristiani e contadini piangono la scomparsa del “p. Gandhi” italiano: http://www.asianews.it/notizie-it/Kandy,-fedeli-cristiani-e-contadini-piangono-la-scomparsa-del-%E2%80%9Cp.-Gandhi%E2%80%9D-italiano-17558.html

[24] http://archives.dailynews.lk/2010/02/05/main_Obituaries.asp

[25] I padri Michele Catalano e Angelo Stefanizzi, missionari in Sri Lanka e amici della Lega Missionaria Studenti, in «Gentes mensile della Lega missionaria Studenti e del M.a.g.i.s.», n.1, gennaio-febbraio 2010, p.21. Un bel ricordo gli viene dedicato anche da Don Giorgio Crusafio, Padre Angelo Stefanizzi uomo per i poveri, in «Il Giornale degli autori matinesi», Matino, aprile 2010, p.5.

[26]    Sri Lanka: fedeli cristiani e contadini piangono la scomparsa di padre Stefanizzi, in www.archivioradiovaticana.va › storico › 2010/02/06

[27] J. Anthony, Rev. Fr. Angelo Stefanizzi, s.j.  95th Bith Anniversary, in «The Messenger, The Catholic Weekly of Sri Lanka», 5 ottobre 2014, p.10.

Libri| L’anima poetica di Pierfranco Bruni – Antropologo del sentimento

 

di Floriano Cartanì

“L’antropologo del sentimento”, così l’autrice Stefania Romito definisce magistralmente la poetica di Pierfranco Bruni, attraverso un recente libro dedicato interamente a lui.

Si tratta di una primizia scritta dalla Romito, per la Passerino Editore, assai profonda quanto interiore per quel che concerne l’analisi poetica di Pierfranco Bruni. Un  testo che nasce da un vero e proprio studio operato dalla scrittrice, sull’arte della poesia del noto scrittore e saggista internazionale, calabrese di nascita e tarantino d’adozione.

Due alleanze di pensiero che appaiono camminare all’unisono nella reciproca vicinanza letteraria in essere da tempo, a ragione della scrittura di libri e nel corso di eventi che li hanno visti molto spesso protagonisti insieme: lei giornalista professionista e Responsabile letteraria del Centro Leonardo da Vinci di Milano lui, Piefranco Bruni, già candidato al Nobel per la Letteratura e di nota rilevanza nel panorama editoriale italiano ed estero. I grandi autori come appunto Pierfranco Bruni, non si distinguono e si elevano sugli altri scrittori per il proprio lungo pubblicare libri. Le differenze risiedono anzitutto nella propria intrinseca capacità di trasmettere, attraverso la scrittura di libri ma anche convegni e simposi letterari, sensazioni vere, contenuti profondi, innovativi e creativi come avviene, appunto, in Pierfranco Bruni. Ma il nostro, se volete, si distingue ancora di più perché riesce pure a creare nei fatti un alone d’influenza letteraria in chi lo frequenta o lo legge assiduamente. Forse proprio per questo Stefania Romito nel suo “L’anima poetica di Piefranco Bruni”, è riuscita probabilmente come nessuno mai finora, ad  approfondire anche quei contenuti poetici più cari espressi da Piefranco Bruni: ora classici ora innovativi, ma sempre componimenti dotati di una grandissima raffinatezza e ricercatezza stilistica. Ciò nondimeno l’osservazione poetica di Stefania Romito non si è fermata solamente ad accogliere e raccogliere per iscritto tutto ciò che di più prezioso emanano i bruniani temi ispirati, è infatti andata oltre. Per l’autrice questo suo lavoro letterario su Piefranco Bruni, ha rappresentato alla fine persino un’esperienza di vita e, appunto, una specie di palpabile antropologia dell’anima (come spesso ama dire lo stesso Bruni), che si assapora e si interiorizza come tutte le più stupefacenti esperienze che rendono sublime la nostra stessa esistenza. “Versi che si vivono leggendoli e che si leggono vivendoli”, ha avuto modo di sottolineare a riguardo la stessa Stefania Romito la quale, tra l’altro, oltre a essere anche conduttrice radiofonica e televisiva, fondatrice dell’associazione “Ophelia’s Friends cultural projects, è responsabile per la Lombardia del sindacato Libero Scrittori Italiani.

Tra le diverse pubblicazioni di Stefania Romito, ricordiamo il romanzo d’esordio “Attraverso gli occhi di Emma”, i thrillers della serie “Ophelia, le vite di una ghost writer” e la raccolta di poesie “Nadir e Najeli” in collaborazione proprio con Pierfranco Bruni.

 

Copertino, 1878: melodramma patriottico dalla penna di Sigismondo Castromediano

di Davide Elia

La morte di Vittorio Emanuele II, il 9 gennaio 1878, colse l’Italia di sorpresa. Nonostante il re non avesse ancora compiuto 58 anni e apparentemente godesse di ottima salute, la sua forte fibra venne fiaccata nel volgere di pochissimi giorni da un male il cui decorso fu così repentino da non consentire nemmeno una diagnosi certa (forse polmonite o addirittura malaria).

 

In tutta la nazione, che ancora cercava di assestare e consolidare la propria unità così di recente e a caro prezzo raggiunta, vennero organizzate solenni esequie per il monarca. Nelle grandi città come nei piccoli villaggi ogni comunità allestì, sulla base delle proprie risorse finanziarie e della propria inventiva, cerimonie pubbliche arricchite di apparati scenici e caratterizzate da grande concorso di pubblico.

La Terra d’Otranto non si mostrò da meno. Le modalità con cui la figura del monarca venne commemorata in provincia furono adeguatamente descritte da un pamphlet pubblicato a cura dell’amministrazione provinciale[1]. Si tratta di un’opera scritta a più mani, ma tra i testi contenuti il contributo di gran lunga più ampio risulta la cronaca delle manifestazioni di lutto che si erano tenute praticamente in tutti i centri della provincia. Se si ha la pazienza (o magari il piacere) di leggere questi reportage fino all’ultimo, si scopre la firma in calce è quella di Sigismondo Castromediano.

Erano passati 30 anni dai moti del 1848, il cui coinvolgimento valse al “Duca bianco” la condanna al carcere duro, e 19 anni dalla sua rocambolesca riconquista della libertà. Nel 1861 Castromediano era stato eletto nel collegio di Campi al primo parlamento nazionale. Successivamente, la mancata rielezione nel 1865, oltre a farlo piombare in un’amarezza e un senso di scoramento che non lo avrebbero mai più abbandonato, gli fece lasciare definitivamente Torino per tornare a vivere stabilmente nel suo Salento. Qui, oltre a spendersi, come è noto, per il recupero e la salvaguardia delle memorie storiche della sua terra (opera che culminò nella creazione del museo provinciale a lui intitolato), fu anche fecondo scrittore e consigliere provinciale dal 1869 al 1879. Non sorprende, quindi, il fatto che il compito di stilare per conto dell’amministrazione provinciale il resoconto delle onoranze funebri rese dal Salento a Vittorio Emanuele II cadesse proprio su di lui. Circa un terzo di quel testo consiste nella descrizione delle manifestazioni tenutesi nel capoluogo (in figura possiamo vedere l’allestimento funebre del duomo di Lecce per l’occasione), cui seguono, più succinte, le cronache da ciascuno dei numerosi centri di terra d’Otranto, elencati alfabeticamente.

 

Il resoconto da Copertino porta la data del 26 gennaio. La “pingue e laboriosa cittadina chiuse spontanea le botteghe e i luoghi pubblici, ma li chiuse del pari nel dì in cui furon celebrati i riti sacri nella Collegiata, dove gl’Impiegati, le Autorità e con essi il Pretore, 18 Carabinieri col Capitano, le Guardie di Finanza, il Delegato delle Scuole coi Maestri e Maestre e circa 300 loro alunni, e l’Agente delle Tasse di Lecce, Sig. Eugenio Canudo, vi si recarono in Corteggio[2], preceduto dalla banda, la quale frequente intuonava dolorose melodie composte dal Maestro Zuppa, direttore della medesima”.

Non conosciamo esattamente la data in cui si tenne questa celebrazione: se da un lato non può essere stata troppo posteriore al 9 gennaio, è pur vero che almeno qualche giorno doveva essere servito per allestire un complesso catafalco nella chiesa collegiata di Copertino: “L’interno del Tempio, oltrecchè addobbato a gramaglia, mostrava in mezzo eretto un monumento tutto di marmo bianco, circondato da epigrafi lapidarie, da coni piramidali, da quattro stendardi agli angoli e da quattro simulacri di donne piangenti che sostenevano le armi di Torino, Firenze, Roma e Napoli. In alto poi, presso la volta, splendeva una stella d’oro, dai raggi della quale scendevan veli neri quasi a cuoprirlo a simiglianza di cortine. N’era stato inventore l’ingegnere Raffaele Leo[3]: gli alunni delle scuole vi deposero molte loro corone”.

Fatto tutt’altro che scontato in quell’epoca di conflitti tra Stato e Chiesa, il clero (o una sua parte, quantomeno) partecipò con convinzione alle onoranze: “Le solennità consuete vennero adempite dai Canonici della Collegiata e dal Capitolo; l’Arciprete[4] pronunziò senza scrupolo il Rex noster, e il canonico D. Vincenzo Calassi[5] predicò le funebri lodi. Dopo seguiron le altre del Maestro elementare Annibale Castaldi”.

 

Il momento di partecipazione popolare fornì l’occasione per un’opera di pubblica beneficenza, come l’elargizione della dote a tre giovani orfane e prive di mezzi: “La Congregazione di Carità estrasse a sorte tre maritaggi a favore di tre povere orfane, di 50 lire[6] ciascuno, due dei quali per conto dell’erario comunale, e il terzo del proprio”.

A questo punto, però, prende forma il dramma… “È da notare che scossa l’urna, il primo nome che ne uscì fu quello d’una infelice, la quale nel medesimo momento col Viatico era licenziata da questa vita, e che ciò non ostante benedisse a Vittorio Emanuele”. In altre parole: una delle ragazze estratte come beneficiarie delle doti estratte a sorte si trovava, derelitta, ormai in fin di vita e sarebbe morta di lì a poco, non mancando tuttavia di ringraziare il defunto monarca per quel dono tanto inaspettato quanto ormai inutile.

Per provare a dare un nome alla protagonista di questa straziante vicenda non resta che sfogliare gli atti di morte del comune di Copertino relativamente al periodo in questione, un intervallo di giorni che deve necessariamente andare dal giorno della morte di Vittorio Emanuele II alla data della relazione del Castromediano, ossia dal 9 al 26 gennaio 1878. In quei giorni vennero ufficialmente registrati i decessi di Sebastiano Camisa, di 7 anni, Santa Lillo[7] (4 anni), Liberato Salvatore Martina (43 anni), Giuseppe Cazzato (43 anni), Rosaria Greco (4 mesi), Sebastiano Pedone (5 anni), Licinia Leo (14 mesi) e Donata Renis (70 anni)[8].

Come si può constatare, nessuno di questi profili è compatibile con quello di una giovane donna in età da marito. Dobbiamo dunque ritenere infondata la straziante scena narrata dal Castromediano.

Da chi e perché, allora, fu ideata quella che oggi definiremmo una fake news? È al di sopra di ogni sospetto la buona fede del “Duca bianco”, che improntò la propria intera esistenza a un inflessibile rigore morale, spesso facendone dolorosamente le spese. D’altronde sarebbe contrario a ogni logica immaginare che egli avesse potuto presenziare a tutte le manifestazioni tenutesi in quei giorni nei numerosissimi centri della provincia, pertanto è plausibile che le notizie sulle celebrazioni di Copertino gli fossero pervenute da terzi, ossia da testimoni oculari locali. Se anche così fosse, non è necessario ravvisare a tutti i costi il dolo da parte della “fonte” copertinese del duca scrittore: la morte della giovinetta potrebbe essere realmente accaduta qualche tempo prima o dopo l’intervallo di date cui si accennava in precedenza, e “avvicinata” ad arte a quel periodo per aggiungere un tocco di pathos alla cronaca patriottica delle esequie regali. Un’altra ipotesi, infine, potrebbe essere che si tratti di un episodio accaduto in realtà in un altro comune, e attribuito a Copertino solo in seguito ad una banale svista.

 

Ciò che sembra innegabile, tuttavia, è che il Castromediano non si lasciò certo sfuggire l’occasione di narrare, in accordo con il gusto del tempo per i toni da melodramma, un simile episodio da libro Cuore: la giovane orfana che finalmente riceve una piccola gioia da una sorte avara, ma non può goderne perché la vita stessa la abbandona subito dopo. Nell’attimo supremo – e qui il melodramma si ricopre di edificante retorica patriottica – ella spira benedicendo la memoria dal re, quel Vittorio Emanuele II nel quale Sigismondo Castromediano vent’anni prima aveva definitivamente riposto tutte le speranze per un’Italia indipendente e unita.

In ogni caso, la tentazione a cui non si deve cedere nel rileggere la pagina del Castromediano e nel discuterne la veridicità è quella di formarsi un giudizio basato su un’ottica, la nostra, distorta dai quasi 150 anni trascorsi da quei fatti. I temi delle lotte risorgimentali da un lato e della povertà e della morte in giovane età dall’altro, lo stile con cui venivano espressi in forma di testo “giornalistico”, nonché la sensibilità del pubblico a cui tutto ciò era indirizzato, sono quanto mai lontani dal contesto e dal modo di sentire odierni. Quanto oggi ci potrebbe apparire ingenuamente artefatto rispondeva invece, all’epoca, a precise esigenze di carattere morale e civico.

All’antico patriota perdoniamo dunque la piccola imprecisione e, anzi, restiamo riconoscenti per averci lasciato questo ampio e vivace spaccato di vita pubblica nel Salento tardo-risorgimentale.

 

Note

[1] AA. VV., “A Vittorio Emanuele II, onoranze funebri in Terra d’Otranto”, Lecce, 1878. Per quanto riguarda le cronache da Copertino, parzialmente citate nel seguito, si vedano le pagine 77-79.

[2] Corteo.

[3] Raffaele Leo (1841-1910) fu una figura di primo piano nella seconda metà del XIX secolo a Copertino, e non solo, nella realizzazione di opere di edilizia civile, religiosa e privata. Il suo nome si incontra continuamente nei progetti di opere pubbliche e nelle perizie richieste per cause civili relative a suoli e fabbricati dell’epoca. Suoi furono anche progetti per interventi architettonici nelle chiese di San Giuseppe da Copertino e del SS. Sacramento.

[4] Alla data del 20 dicembre 1878, in occasione della visita pastorale del vescovo di Nardò  Michele Mautone, la carica di arciprete risultava vacante (O. Mazzotta, M. Spedicato [a cura di], “Copertino in epoca moderna e contemporanea. Vol. III: Le fonti ecclesiastiche. Tomo I: Le visite pastorali”, Galatina, 1997, p. 467). Figurava come “ex arciprete curato”, non più in carica da diversi anni, Nicola Leonardo Pisacane (1819-1906), mentre svolgeva le funzioni di parroco, con il titolo di economo curato, Francesco Verdesca Zain (1838-1921), futuro arciprete a partire dal 1880. È possibile dunque pensare che l’arciprete qui menzionato sia monsignor Pisacane.

[5] Si tratta in realtà del canonico Vincenzo Calasso (1827-1903).

[6] La moneta da 50 lire di quegli anni era in oro 900/1000, con un peso totale di poco più di 16 grammi. Il suo contenuto in oro fino, al cambio attuale, corrisponderebbe a un valore di circa 730 euro. Più interessante del cambio attuale è, però, il potere d’acquisto di questa somma all’epoca: 50 lire corrispondevano, grosso modo, a una singola mensilità dello stipendio di un maestro elementare o di una guardia municipale.

[7] Santa Lillo era nata a Monopoli, figlia di Antonio, imprenditore che si era poi trasferito a Copertino impiantando una distilleria nel soppresso convento dei Cappuccini, sulla via per Leverano (il decesso della bambina risulta infatti avvenuto a tale indirizzo).

[8] Archivio di Stato di Lecce, Stato Civile del Comune di Copertino, Registro degli Atti di Morte, a. 1878, nn. 2-9.

 

Intervista ad Antonio Prete, letterato, critico, traduttore

a cura di Renato De Capua

 

Antonio Prete ha insegnato Letterature comparate all’Università di Siena e ha tenuto corsi e seminari presso istituzioni internazionali, tra cui il Collège de France e la Harvard University.

Autore di saggi, narrazioni e poesie pubblicate in diverse lingue, ha tradotto in italiano Baudelaire (I fiori del male), Mallarmé, Rilke, Valéry, Jabès, Bonnefoy: le sue traduzioni poetiche sono raccolte in L’ospitalità della lingua (2014).

Tra i saggi, Il pensiero poetante (1980 e successive edizioni), Nostalgia (1992, ed. ampliata 2018), Prosodia della natura (1993). Le raccolte di poesia: Menhir (2007, Premio Metauro), Se la pietra fiorisce (2012), Tutto è sempre ora (2019, Premio Bodini).

Le prose narrative: L’imperfezione della luna (2000), Trenta gradi all’ombra (2004), L’ordine animale delle cose (2008). Presso Bollati Boringhieri sono usciti: Trattato della lontananza (2008), All’ombra dell’altra lingua. Per una poetica della traduzione (2011), Compassione. Storia di un sentimento (2013), Il cielo nascosto. Grammatica dell’interiorità (2016, Premio Mondello), La poesia del vivente. Leopardi con noi (2019).

Abbiamo avuto il privilegio d’incontrarlo e di dialogare insieme sul rapporto tra la letteratura e la vita; sul mestiere di critico e di traduttore; sulla lontananza e il legame con la propria terra natale. I suoi lavori di scrittura sono stati il punto di partenza del nostro viaggio, nonché il punto di arrivo verso nuove splendide attese.

 

1) Quali sono stati i suoi maestri?

Se pensiamo ai maestri in senso accademico, devo dire che Mario Apollonio, con il quale sostenni la tesi di laurea in letteratura italiana e la tesi di perfezionamento in filologia moderna, è stato un forte punto di riferimento negli anni della formazione: soprattutto per la sua idea di critica come esegesi, cioè come ascolto del testo, della sua parola, in rapporto al proprio interrogare e cercare, al proprio cammino interiore, ma anche per lo sguardo sulla tradizione letteraria italiana che muoveva da punti di osservazione non nazionali, ma europei e mediterranei, e per l’idea che la letteratura è in dialogo costante con le diverse forme artistiche, tra queste il teatro e le arti figurative, compreso il cinema. Ma poi maestri più prossimi, per dir così,  negli anni in cui l’attività dello scrivere era diventata per me essenziale, sono stati poeti e scrittori che ho avuto modo via via di incontrare e che mi hanno fatto dono della loro amicizia: penso a Edmond Jabès, i cui libri ho tradotto in italiano, a Mario Luzi, con il quale ho intrattenuto un dialogo costante sulla poesia, a Yves Bonnefoy, che ho incontrato più volte, e ho tradotto, e del quale ho sempre ammirato l’esercizio di una scrittura poetica non separato dall’esplorazione dei saperi. Ritengo comunque che le relazioni  – di lettura e di incontro reale – con amici poeti e scrittori siano momento rilevantissimo di una formazione.

 

2) Quando è iniziato il suo interesse per Leopardi e Baudelaire? Che cosa lega questi due grandi autori?

Leopardi già nell’adolescenza mi conquistava: mandavo a memoria alcuni Canti, provavo a scrivere versi, approssimativi,  seguendo la sua musica, guardavo la luna salentina alta sopra gli ulivi pensando alla sua luna appenninica, evocando i suoi versi. Alla maturità (liceo classico Palmieri, a Lecce) ebbi  un tema sulla poesia di Leopardi, un tema di impostazione crociana nella traccia, che svolsi, azzardando, in forma narrativa, per una larga parte, ma dicendo comunque della poesia. Il professore d’italiano della commissione, all’orale, mi disse che aveva apprezzato questo ardimento e m’invitò a dedicarmi soltanto, decisamente, alla scrittura. Ma mi scrissi a Lettere, Milano Cattolica (lì c’erano borse di studio), perché volevo insegnare: per vocazione, diciamo, ma anche per necessità di un lavoro immediato (lavoro che svolsi, in forme varie, anche negli anni dell’Università: correzione di bozze, ripetizioni). Comunque subito dopo la tesi la scrittura, nelle sue varie forme, è stata occupazione assidua (collaborazioni a riviste, in particolare).

Il primo studio su Leopardi fu un saggio pubblicato sulla rivista “Per la critica”, nel 1973, dedicato alla Ginestra, intitolato Leopardi e il sapere della morte.  Sulla stessa rivista alcuni mesi prima, nel primo numero, avevo scritto il mio primo saggio su Baudelaire critico, Salon Baudelaire. “Per la critica” era una rivista di teoria che facevamo nei primi anni Settanta con un gruppo di amici giovani, un gruppo  animato da un intellettuale come Gianni Scalia, che veniva da altre esperienze di riviste novecentesche, come “Officina” (con Pasolini, Fortini, Leonetti e altri). Nell’ambiente della rivista, in un incontro bolognese intitolato Eros, eversione, merce, incontrai Pasolini. Partecipavo attivamente, tra Milano e Bologna, alla redazione della rivista (anche portando le bozze in tipografia).

Quanto a Leopardi e Baudelaire, sono due classici che non ho più abbandonato. Mi hanno sempre fatto compagnia, e in forme diverse sono sempre tornato ai loro versi, al loro interrogare. Ho rinviato a lungo un saggio che li metta insieme: non so se mai lo scriverò, quel saggio. Ma molto hanno in comune, i due grandi classici. Il fiore e il male – il nesso tra il fiore e il male – è quel che,  per usare una sorta di emblema,  li avvicina. Pur di generazioni diverse, con linguaggi e orizzonti diversi hanno dialogato tra di loro intorno a grandi temi come la bellezza, il fuggitivo,  il dolore, la pietà, la poesia e il tragico nella modernità…

 

3) In “Sottovento – critica e scrittura” (Manni, 2001) si legge: “la parola, in un libro, ha nascosto la sua voce, per disporsi, inerte sequenza di grafemi, negli spazi e nei tempi della pagina, tra i vuoti e i silenzi che l’assediano”. Quali sono gli strumenti che un critico letterario deve saper adoperare?

Anzitutto l’ascolto, il porsi in stato di ascolto dinanzi al testo, alla sua lingua, ai suoi silenzi. Poi, non separare mai, nell’attenzione e nell’ascolto, il suono dal senso, la lingua dal discorso, il ritmo dall’idea, insomma la forma dal significato. Inoltre si tratta di stare dinanzi a un testo cercando di porre domande e di lasciarsi interpellare dalle domande del testo, in una sorta di colloquio mai passivo. L’atto critico non è che il passaggio dall’ascolto alla scrittura. Un atto nel quale è necessario essere se stessi, cioè avere un proprio modo, un proprio stile. La critica come racconto dell’esperienza propria di lettore. Se la critica è scrittura, vuol dire che comprende la forma, le forme, del dire e la singolarità, lo stile, di colui che dice. Il critico non come uno che classifica, giudica, ordina secondo schemi da storiografia letteraria, colloca in alto o in basso, cataloga secondo valori, ma come uno che sa stare nel bianco della pagina, nel margine del testo che legge, e da lì muove, attraverso l’ascolto, verso la propria scrittura.

 

4) È corretto affermare che “l’arte della traduzione è un’operazione di scrittura”? Che cosa si cela “all’ombra dell’altra lingua”?

Sì, la traduzione ha tutte le implicazioni della scrittura, colui che traduce è di volta in volta un poeta se traduce poesia, un narratore se traduce narrazioni, un saggista se traduce saggi. Questo, al di là se lo sia come suo principale mestiere: nel momento in cui traduce lo è, perché fa esperienza piena del linguaggio, e del movimento che trasmuta un testo in un nuovo testo, insieme specchio o riedificazione o resurrezione del primo e altro dal primo. Trasmutazione nella propria lingua. E una lingua è tradizione, invenzione, stile, identità. Certo, si traduce stando sempre  “all’ombra” dell’altra lingua, all’ombra dell’altra scrittura, ma quell’altro testo rinasce, prende nuova vita, nella propria lingua. Questo è il filo che tesse le pagine che ho dedicato alla traduzione e che ho intitolato appunto All’ombra dell’altra lingua. Sottotitolo: per una poetica della traduzione. Ho sempre ritenuto importante sottolineare la responsabilità di colui che traduce nei confronti della lingua da cui traduce, e contemporaneamente nei confronti della propria lingua: si tratta di ospitare nella propria lingua un’altra esperienza, con un suo timbro, un suo tono, una sua vita. E l’ospitalità è degna se l’accoglienza è appropriata, se la propria casa è resa accogliente: con l’esercizio, lo studio, l’esperienza propria di scrittura.

 

5) Nella sua poesia “Verso la parola” (tratta da “Tutto è sempre ora”, Einaudi 2019) si legge: “quel punto dove il silenzio si sporge/oltre il tacere, forse è il nido/delle parole […]”. Che cosa può la letteratura nei riguardi dell’uomo?

Quei versi dicono del silenzio, della necessità che il silenzio sia il tappeto vero della poesia, la sua anima. Il silenzio inteso non come negazione della parola, sosta, interruzione – “tacere” – ma come movimento che andando verso la parola la sostiene, la abita: contro il rumore del mondo, contro l’usura e l’abuso della parola stessa. Scrivere versi per me è stare nell’esercizio del meditare, dell’interrogare, in attesa che la parola si allei con la musica, si faccia musica senza abolire il senso, cioè l’interrogazione su di sé e sul proprio tempo.

Quanto alla letteratura, essa non salva, ma dà punti di osservazione, di comprensione, e assiste l’immaginazione, i sensi, tiene vivi i sentimenti, e aiuta a entrare in relazione con l’altro – l’altro che è poi principio della nostra identità, del nostro conoscerci e riconoscerci –  ma anche con l’altrove, di un altrove che è respiro del qui, e dell’ora.

 

6) In Carte d’amore (Bollati Boringhieri, 2022) lei ha raccolto molti esempi e figure dell’amore attraverso varie forme di rappresentazione artistica. Quali le sono particolarmente cari?

Sì, il libro si svolge nella prima parte per figure, che sono come dei luoghi intorno ai quali si raccoglie e definisce la lingua dell’amore: dall’apparizione alla confidenza, dalla fascinazione alla gelosia, dalla tenerezza alla lettera d’amore, e così via. Dopo l’intermezzo, che racconta il Simposio di Platone, c’è una seconda parte che cerca di esplorare il paesaggio dell’amore – il giardino, la selva, il mare, la stanza ecc. – non come cornice ma come presenza che partecipa alla lingua dell’amore, al suo definirsi. Quali figure ho sentito di più? Diciamo che ci sono alcune figure alle quali avrei dato più spazio, ma avrei rotto l’equilibrio di un saggio. Sono la tenerezza, per esempio, o l’ agape. La tenerezza come lingua mite della passione d’amore, insieme cura dell’altro e dolcezza, relazione di prossimità  che sa piegarsi sull’altro; e l’agape come passaggio dall’altro come individuo all’altro come comunità, senza che questo passaggio sminuisca l’amore.

 

7) Un’ altra tematica esistenziale sulla quale ha riflettuto è stata la lontananza. Perché proprio ciò che è lontano è stato da sempre suggestione tensiva, anelito verso la scrittura e il racconto, in molti autori della storia letteraria?

La lontananza è un campo di indagine intorno al quale ho lavorato, tenendo per alcuni anni corsi universitari relativi a temi come l’addio, la nostalgia, la rappresentazione dei cieli nella poesia ecc. Il lontano, nella forma greca – tele – va a comporre i termini che dicono i mezzi della comunicazione contemporanea, dal telefono alla televisione. Ebbene, quel lontano la letteratura lo tiene aperto, lo fa attraversare con la collaborazione immaginativa del lettore, mentre la tecnica del nostro tempo, appunto telematica, tecnica del lontano, lo riduce nella prossimità visiva del monitor, riducendo spesso la collaborazione immaginativa e attiva dello spettatore. Si tratta di partecipare attivamente a tenere vivo lo spessore della lontananza, la sua presenza, cioè il rapporto interiore con l’altrove, con l’assente, con l’orizzonte: di questo si alimenta il linguaggio della letteratura e delle arti. Dopo la traduzione spagnola del Trattato della lontananza, alcuni lettori spagnoli hanno aperto un blog, tratado de la lejania, dove si susseguono immagini della lontananza, raffigurazioni che invitano l’immaginazione a misurarsi con l’oltre.

 

8) Lei è originario del Salento, ma ha poi vissuto e insegnato a Siena. Quanto è profondo il legame con la sua terra d’origine e come si riverbera all’interno del proprio sentire?

Il Salento è terra d’origine e di frequenti ritorni. È presente nei miei versi, nelle narrazioni, perché è il paesaggio fisico e umano che mi ha formato, e che è diventato non solo deposito di ricordi, ma linea di confronto, richiamo di alcune presenze che agiscono nella scrittura: la luce, la terra, le architetture, i paesi con i loro colori e le loro storie, la lingua e le lingue, la memoria popolare, la musica popolare, il lavoro sulla terra, le migrazioni, la povertà,  la campagna. E, soprattutto,  il mare. Ma anche gli aspetti dolorosi di una terra di privazioni e di un paesaggio che di recente è stato trasformato dalla Xylella: dramma che non è diventato una questione nazionale, come avrebbe dovuto essere, da subito. Quanto alla presenza del Salento, della sua luce, delle sue forme, nella mia scrittura, i libri di poesie, in particolare l’ultimo, Tutto è sempre ora, uscito presso Einaudi, cercano di raccoglierne riverberi. Come è accaduto anche con le prose del libro L’imperfezione della luna, di Feltrinelli, 2000. E al Salento ho dedicato qualche anno fa esplicitamente un libro per dir così descrittivo, e di memoria, insieme: un viaggio  nelle sue terre, nelle sue coste, nelle sue tradizioni, Torre saracena, per le edizioni Manni. Cito questi libri per dire quanto sia forte il legame con il Salento e come alimenti alcune stazioni del mio lavoro di scrittura.

Giuseppe Giannuzzi (1841-1915), ovvero dell’alto diletto che tragghiam dall’arte. Linee per un Umanesimo salentino

 

 

di Renato De Capua

 

  1. Cenni biografici e produzione letteraria

Giuseppe Giannuzzi[1] nasce a Poggiardo il 1 aprile 1841. Durante l’infanzia, fin da subito, grazie all’incontro con il parroco Don Felice Rausa iniziò a coltivare un percorso umano e spirituale, che si risolse nel perseguimento della via sacerdotale e di un amore appassionato per il latino e per le lettere. Tra i primi dati biografici rilevanti sono gli anni 1856-1860, segnati dall’ingresso nella Compagnia dei Gesuiti a Napoli, dove Giannuzzi rimarrà dall’età di 15 anni fino al compimento dei 19. Già in questo periodo inizia a scrivere un piccolo volume[2] di composizioni latine, che si trova presso l’Archivio Parrocchiale di Acquarica del Capo (LE).

Le circostanze politiche e gli avvenimenti storici che avvengono nel Regno delle Due Sicilie, in particolare la caduta dei Borboni e l’avvento di Giuseppe Garibaldi, coinvolgono i Gesuiti, che vengono cacciati sia nel 1848, quando molti di loro furono costretti all’esilio, che nel 1860, con un decreto di espulsione proprio a firma di Garibaldi. Alcuni di loro rimasero a Napoli, riuniti anche in forme di organizzazione clandestina; altri continuarono il proprio percorso di formazione e di fede in Spagna e in Francia. Giannuzzi è nel centro dei Gesuiti a Balaguer, dove ha modo di studiare Retorica e Filosofia, come attesta l’Archivio Centrale dei Gesuiti nel Catalogus del 1862.

Per quanto riguarda gli studi teologici l’autore li compie nel Collegio Massimo Legionense nella città di Lèon (Spagna) e dal 1865 viene menzionato come “sacerdote” e non più come “studente”.

Non si dispone di dati precisi circa la sua ordinazione sacerdotale, ma l’ipotesi più attendibile sostenuta dagli studiosi (Brigante-Ventura 2007) è che sia stato ordinato sacerdote da mons. Callisto Castrillo Ornedo, vescovo della diocesi di Lèon nel periodo 1863-1869.

Successivamente completa gli studi teologici nel 1868. Come spesso accade, la lontananza dagli affetti più cari ispira anche nel Nostro alcuni versi dal titolo “Lamento di un esule” (1865), contenuti in una sua importante raccolta poetica[3], nei quali l’autore chiede a una “stridula rondinella” di salutargli sua madre che gli diede la possibilità di venire al mondo dal suo grembo; e ancora di salutare suo padre, immerso “nel sen del sommo Bene” di Dio, essendo venuto a mancare due anni prima.

Sempre nella stessa opera è contenuta un’ode del 1867 che egli scrive ad un amico poeta, condividendo con questi la triste notizia dell’esilio:

 

“La sorte ingiusta sia: non m’arrovello:

del nostro allor l’invidia non sfronda

l’incorruttibil fronda;

E se dar ne potrà guerra e martello,

Tor non potranno, né scemare in parte

L’alto diletto che tragghiam dall’arte”.

 

I versi citati appaiono ancor più significativi se contestualizzati nel clima soffocante e alienante dell’esilio: sebbene nel poeta sia ravvisabile una sorta di stoica rassegnazione dinanzi agli avvenimenti storici, premessa e causa scatenante della propria esperienza a Lèon, Giannuzzi traccia un’elegia dell’arte, ritratta come fonte inestinguibile dalla quale trarre un “alto diletto”, che non conosce impedimenti e dal quale egli si lascia guidare nelle azioni e nell’ispirazione letteraria.

Proprio l’ultimo verso tratto da quest’ode è stato scelto come titolo, nonché come proposta di contestualizzazione di una parabola poetica vissuta con strenua abnegazione e che riuscirà a giungere al suo culmine, come si vedrà.

Durante l’esilio Giannuzzi si dedica all’insegnamento in varie città europee dal 1870 al 1876. Egli insegna “lettere latine, italiane e spagnole nell’Istituto di Carrion de los Condes nella provincia di Valenza; indi nel Belgio, professore di spagnolo nel Politecnico di Anversa”.[4]

Dal 1876 al 1884 fa ritorno a Napoli e durante questo nuovo soggiorno napoletano, provvede al proprio sostentamento facendo il precettore nelle famiglie.

Come evidenzia sapientemente Donato Valli, anche Giannuzzi aderisce “a quella che era una legge fissa delle province meridionali, cioè il soggiorno napoletano per gli studi degli abbienti. Napoli era una tappa obbligata per i figli della buona borghesia dopo un primo periodo di istruzione domestica o presso uno dei numerosi collegi confessionali della provincia; tappa anche importante, che serviva da cura e da contagio: da cura di quella diffusa malattia che è la provincia o il campanile, da contagio delle idee nuove, spesso anticonformistiche, comunque più libere e aperte, agitatisi nella capitale meridionale, sempre così caotica e divisa nelle sue due anime di borbonica conservazione e di illuministica rivoluzione[5].

Successivamente scrive un dramma[6] composto da un prologo in tre atti in onore di San Quintino, patrono di Alliste (LE), su richiesta di un comitato.

Il 24 ottobre 1884 viene incardinato[7] nella diocesi di Ugento. Così ha modo di tornare ad Acquarica dove vive con il fratello Luigi e l’adorata madre Concetta.

Da alcuni documenti dell’Archivio Diocesano di Ugento e dalla lettura delle opere pervenuteci, si comprende che Giannuzzi continua a scrivere e a tradurre opere letterarie dal latino all’italiano e viceversa nel periodo 1884-1915. Tra i suoi alunni c’è anche Fortunato Capuzzello con il quale intrattiene un duraturo rapporto di stima e di amicizia; sarà lo stesso a tenere un discorso molto significativo in una commemorazione del 25 aprile 1916, della quale rimane fortunatamente memoria e di cui si parlerà più avanti.

Nel 1895 Giannuzzi pubblica la traduzione in latino[8] del Carme Dei Sepolcri di Ugo Foscolo e nell’anno scolastico 1895-1896 insegna italiano presso il Regio Liceo Ginnasiale Palmieri di Lecce[9].

Un altro dato biografico significativo si ha nel 1904 quando Carlo Villani lo attesta Rettore del Seminario Diocesano di Ugento[10]; mentre nel 1910 partecipa a una gara internazionale, avendo composto un poema in esametri latini sul terremoto che aveva distrutto Reggio Calabria e Messina nel 1908, ovvero il De Siciliae et Calabriae excidio carmen[11]. La competizione[12] in questione era il Certamen poeticum Hoeufftianum, il più prestigioso premio letterario di poesia in lingua latina esistente dal 1844 al 1978 ad Amsterdam. Il primo a vincere la competizione poetica nello stesso anno in cui vi partecipò Giannuzzi, fu Giovanni Pascoli con il componimento Pomponia Graecina.

Negli ultimi anni della sua vita Giannuzzi è ormai una figura ben radicata dal punto vista sacerdotale, sociale e letterario ad Acquarica, nonché punto di riferimento per la piccola comunità; a questo periodo si può ascrivere la pubblicazione della sua ultima opera ovvero L’Eneide di Virgilio tradotta in italiano e stampata dalla “Tipografia Donato Siena” di Matino nel 1913.

Giuseppe Giannuzzi muore all’età di 74 anni il 5 aprile 1915 per un problema cardiaco, lasciandoci in eredità tredici opere censite. Il lavoro di ricostruzione della bibliografia non è stato semplice in quanto alcuni testi sono stati ritrovati in negozi di antiquariato, altri in varie biblioteche nazionali ed estere. L’elenco che qui si riproduce è frutto di questo lavoro di rinvenimento delle varie opere ed è ripreso fedelmente dalla parte iniziale della seconda parte dello studio fondamentale e completo sull’autore (Brigante-Ventura 2007):

 

  1. Raccolta di poesie ad uso di Giuseppe Giannuzzi AN: DNI 1860.
  2. Specimen latinae italicaeque poeseos.
  3. San Quintino M. Patrono di Alliste.
  4. Le grandezze di Maria Vergine Madre di Dio svelate al popolo cattolico.
  5. Il giuoco degli scacchi.
  6. Le opere di Q. Orazio Flacco.
  7. Orazio e il suo secolo.
  8. AS. M. Umberto I°. Re d’Italia.
  9. Le satire di D. G. Giovenale.
  10. Dei Sepolcri.
  11. De Siciliae et Calabriae Excidio Carmen.
  12. L’Eneide di P.Virgilio Marone.
  13. Sulla Vergine greca venerata a Ravenna.

 

La notizia della dipartita del Nostro viene riportata sulla stampa del tempo, i cui contributi più importanti possono essere letti su “La Provincia di Lecce”[13], “il Corriere Meridionale”[14], “l’Ordine[15]”.

Si faceva cenno prima al rapporto tra Giannuzzi e Fortunato Capuzzello.

Proprio quest’ultimo nel suo discorso di solenne commemorazione avvenuto il 25 aprile 1916[16], ha definito Giannuzzi “un umanista contemporaneo in Terra d’Otranto”. Sarebbe auspicabile leggere in questa definizione l’invito a raccogliere la sfida di un impegno quantomai urgente e propedeutico alla visione di nuove prospettive. Pur nel rispetto della storiografia che colloca gli eventi in un ordine consequenziale e coerente, al fine di dare agli studi storici una struttura organica, si potrebbe riconsiderare la semantica del termine “Umanesimo”, cercando talvolta di applicarlo in un’indagine letteraria atta a rilevare il riverbero delle costanti dei suoi princìpi ispiratori. Se cercassimo di decontestualizzarlo per un attimo dall’uso denotativo più affermato, che lo vede indicativo della temperie culturale italiana del 400-500, incentrata sulla riscoperta dei classici e il recupero della loro lezione originaria mediante l’analisi filologica, potremmo effettivamente vedere la realtà filtrata attraverso la luce del suo significato; avverrebbe in questo modo la focalizzazione sull’opera di tante personalità che hanno arricchito di senso e sostanza la storia letteraria del Salento del secolo scorso, nonché l’identità di una Nazione giovane, che da poco aveva conosciuto la propria unità. E in questo impegno risiedono le ragioni di questo articolo e l’esigenza della narrazione.

 

 

II. Flos hibernus (Fiore d’inverno): un approccio traduttivo

Al fine di fornire un chiaro esempio del sentire poetico di Giannuzzi, ho scelto di concentrarmi sul componimento Flos hibernus (Fiore d’inverno), uno tra quelli presenti nello Specimen latinae italicaeque poeseos, un volume formato da poesie in latino e in italiano di vario genere e metro.

La traduzione ha cercato di rispettare quanto più possibile la sintassi latina, cercando di adeguarne le norme a quella italiana e alla ricostruzione emozionale di quella che può essere stata l’intima vocazione alla scrittura di Giannuzzi per questi versi.

In molte poesie dello Specimen si può notare un chiaro riferimento ai poeti latini Lucrezio e Virgilio per il loro amore per la natura, e nel caso specifico del componimento preso in esame, per lo sguardo attento ed esaminatore, che si posa ovunque possa scaturire una nuova forma di vita, anche contro lo schematismo del pensiero ordinario.

E allora ecco che un piccolo fiore che riesce a germogliare nella durezza dell’inverno, è capace di essere un fattore discriminante, un evento straordinario; diviene l’appropriato espediente elegiaco per ricordare all’uomo che alla base di ciò che gli è concesso avere facoltà ed esperienza, c’è l’amore. Quest’ultimo è inteso come archè (nel senso filosofico di “principio originario”, “origine cosmologica”), con la facoltà di dare quell’afflato vitale, che fa sì che una nuova vita possa palpitare e prosperare nell’atonia del gelo e del suo paesaggio incolore.

Nella parte conclusiva, oltre all’auspicio di un prossimo ricongiungimento con Dio, è presente il punto più alto della riflessione all’interno del componimento: là dove il corpo non possa superare gli impedimenti, che sia la mente a condurre l’io verso nuovi approdi. L’esortazione è alla vita attiva, nell’andare oltre le concrete asperità dell’inverno e di rivolgere la mente verso il cielo, affinchè l’opera di ogni uomo non sia mai cosa vana.

 

Flos hibernus[17]

(Testo latino di Giuseppe Giannuzzi)

 

Floscule, quem genuit tellus adoperta pruinis,

In quo censendum nil nisi dantis amor,

Munus eas gratum Puero qui lapsus Olympo,

Rupe sub algenti, victus amore, iacet.

I Rosa, virgineo vultum suffusa rubore :

Nescis ah! quales sis aditura manus!

At cave ne digitos ferias hirsuta tenellos,

Et cogas niveas imbre madere genas.

Vel cum te admoveat gremio, foveatque iocose,

Pectoris innocui spina cruentet ebur.

Est Puer ille Deus, tibi qui prodire sub auras.

Dum concreta rigent frigore prata, dedit.

Is te reginam praefecit floribus horti,

Et tibi odoratas sparsit honore comas.

Felix qui pueri tractabere, floscule, dextra,

Cuius ridet humus munere, et astra micant.

Cur ego non fieri subito mea munera possim,

Et regis regum protinus ire manus?

Irrita sed voveo! saltem vice fungere nostra:

Quoque ego non potero corpore, mente ferar!

 

 Fiore d’inverno

(Testo latino di Giuseppe Giannuzzi; Traduzione di Renato De Capua, novembre 2022)

 

Fiorellino, che generò la terra velata dalle brine,

in cui null’altro si deve stimare se non l’amore di colui che concede,

che tu giunga come dono gradito al Fanciullo che, caduto dall’Olimpo,

giace sopra la fredda roccia, vinto dall’amore.

Prospera, o Rosa, timida il viso di un virgineo pudore:

Ah, non sai! Quali mani stiano per avvicinarsi!

Ma bada a non ferire le dita delicate con la spina

E che tu non costringa le candide guance a essere bagnate dalla pioggia.

O quando ti avvicina al cuore, e ti accarezza per gioco,

che una spina non tinga di rosso del petto innocente l’avorio.

È un Fanciullo quel Dio che ti fece germogliare oltre i venti,

mentre i prati irrigiditi sono inerti dal freddo.

Egli prepose te regina dei fiori del giardino,

e a te concesse le chiome odorose con grazia.

Felice che toccherai, o fiorellino, i doni del fanciullo.

Per sua grazia è ridente la terra, e brillano gli astri.

Perché io non posso conseguire subito i miei doni,

e andare adesso nelle mani del re dei re?

Vani pensieri, ma faccio voto! Che almeno le nostre opere compiano le veci,

per ciò che io non potrò con il corpo, che sia condotto dalla mente.

 

Note

[1] Per uno studio critico completo della vita, del pensiero e della bibliografia delle opere di Giuseppe Giannuzzi è indispensabile il prezioso studio di Brigante A. – Ventura T., Giuseppe Giannuzzi. Poeta e latinista acquaricese, ed. Romeo Corchia, Presicce 2007. Il libro si articola in tre parti: nella prima vi sono le notizie biografiche (pagg.13-94); nella seconda la riproduzione delle introduzioni dello stesso autore alle opere (pagg. 95-169); nella terza si può trovare una breve antologia delle sue opere (pagg. 170-223).

Un altro contributo fondamentale è dato dallo scritto di Palese S., Inediti Giovanili di Giuseppe Giannuzzi, in Acquarica del Capo 1970, a cura di S. Palese, ed. Salentina, Galatina 1970, pagg. 65-69.

[2] Giannuzzi G., Raccolta di Poesie ad uso di Giuseppe Giannuzzi, AN: DNI 1860, APA.

[3] Giannuzzi G., Specimen latinae italicaeque poeseos, F.lli Tornese, 1887, p.169.

[4] Nuovo Annuario di Terra d’Otranto, Pajano Edit., Lecce 1957, p. 227.

[5] Valli D., Cento anni di vita letteraria nel Salento (1860-1960), Lecce, Milella Edit., Lecce, 1985, p. 21.

[6] Giannuzzi G., San Quintino M. Patrono di Alliste, Napoli, F.lli Tornese, 1877.

[7] ADU Ordinazioni Sacre/63, Incardinazione di D. Giuseppe Giannuzzi, 24 ottobre 1884.

[8] Giannuzzi G., Dei Sepolcri, Lecce, Garibaldi Tip., 1895.

[9] Archivio storico del Liceo Palmieri Lecce, Registro del Consiglio dei Professori, 3 maggio 1896.

[10] Villani C., Scrittori ed artisti pugliesi antichi, moderni e contemporanei, Trani, 1904, p. 414.

[11] Giannuzzi G., De Siciliae et Calabriae Excidio Carmen, Amsterdam, Mullerum, 1910.

[12] Il concorso era stato voluto dallo studioso olandese Jacob Hendrik Hoeufft. Il premio della gara era una medaglia d’oro per il primo classificato, più la pubblicazione dell’opera a spese dell’Accademia. Le altre composizioni, che alla giuria sembravano degne di nota, ricevevano la magna laus e la possibilità di pubblicazione a discrezione dell’autore.

[13] La Provincia di Lecce, Anno XXI n. 13 del 11.04.1915.

[14] Il Corriere Meridionale, Anno XXVI, n. 14 del 15.04.1915

[15] L’Ordine, Anno IX n. 13 del 16.04.1915

[16] Capuzzello F., Un umanista Contemporaneo di Terra d’Otranto, Matino, Siena Edit., 1918.

[17] Giannuzzi G., Specimen latinae italicaeque poeseos, F.lli Tornese, 1887.

La Madonna della Fontana fra i numerosi culti mariani di Francavilla (III parte)

Chiesa di Santa Maria delle Grazie (XVII secolo) (Foto di Alessandro Rodia)

 

di Mirko Belfiore

Intorno alla prima piazzolla, l’attuale piazza Giovanni XXIII, cuore medievale della città di Francavilla, troviamo quelle che sono le tracce più antiche dei riti dedicati alla Madre di Dio, di cui la più antica è quella che riguarda la Matònna ti Costantinopoli (la Madonna di Costantinopoli).

Questa denominazione è presente nel vicino largo Costantinopoli, dove a pochi passi dalla Basilica si posizionava l’originaria chiesa dedicata al culto orientale, importato in Occidente dai monaci ortodossi. Questo titolo sottolinea il legame fra il Sud Italia e l’impero bizantino, il tutto ricollegabile al laghetto della leggenda mariana, a sua volta riconducibile alla consistente risorgiva presente nei pressi della chiesa Matrice che ancora oggi scorre sotto l’edificio e che impedì, fra le altre cose, di ultimare il grande campanile.

Nel vico omonimo si trova l’immagine seicentesca della Matònna ti Loreto (la Madonna di Loreto), dipinta da autore anonimo e conservata in una struttura di proprietà privata a tempietto con archetto ogivale. Ogni 10 dicembre un picchetto d’onore dell’Aviazione portava in processione una statua in segno di riconoscenza, culto oggi perduto, a cui si aggiunge una scultura opera dell’artista francavillese Vincenzo Zingaropoli, tuttora custodita nella chiesa di Santa Chiara.

In questo edificio, inoltre, viene protetta con cura la struggente statua della Matònna Addolorata, una devozione molto forte a Francavilla e nell’antico regno di Napoli, e che durante la sera dei riti dei Misteri della Settimana Santa, viene portata in spalla lungo le vie cittadine fra la grande commozione del popolo francavillese.

Affresco con immagine della Madonna della neve (XVI secolo) (foto di Giuseppe Cafueri)

 

Nei pressi del castello incastonata nel tessuto antico (via Lilla) troviamo poi i ruderi della chiesetta della Matònna ti la nei (la Madonna della neve), piccola cappella di proprietà privata, dove il 5 agosto viene festeggiata la Madre di Dio a protezione della neviera che si trovava lì vicino, all’epoca unico sistema per conservare il ghiaccio.

All’interno si può ancora trovare un piccolo dipinto murale con l’effigie della Madonna con il Bambino ormai in pessimo stato di conservazione.

Percorrendo via di San Giovanni, troviamo uno dei templi fra i più antichi dedicati al Precursore, benché in precedenza vi fosse celebrato il culto della Nnunziata (L’Annunciata).

Ciclo di affreschi dell’Annunciazione (XV secolo, Chiesa di San Giovanni)

 

I lavori di restauro hanno portato alla luce gli affreschi con la scena dell’Annunciazione e altri santi riquadrati in apposite cornici. Il cambio di titolo è stato fatto con molta probabilità in pieno Medioevo, quando un gruppo di Cavalieri Crociati in viaggio per la Terra Santa importò in città la venerazione per San Giovanni Battista, lasciandolo in eredità alla cittadinanza.

Proseguendo sull’antico rettifilo si raggiunge ciò che rimane della cappella di Santa Maria delle Grazie, oggi demolita e dove ancora si riconosce l’antico portale incastonato nel palazzo Pipino-Resta, ricordato come varco dell’ex chiesetta di San Marco, una delle poche testimonianze cittadine dell’architettura del XIV secolo.

Anticamente si trovava un’immagine della Matònna ti la grázzia (la Madonna della Grazia), poi scomparsa nella demolizione del XX secolo. Nella chiesa dedicata al Salvatore sorta sui resti di un antico tempio pagano, si festeggiava la Matònna ti la Cintura (la Madonna della Cintura), cui era collegata una confraternita oggi estinta e che in ottobre celebrava l’antico culto agostiniano della Beata Vergine della Consolazione, la cui statua è ancora conservata all’interno dell’edificio.

Affresco del XVII secolo con l’immagine della Madonna della Consolazione

 

Al termine di questa rassegna dobbiamo ricordare i resti di quella che era la chiesa di Santa Maria della Misericordia, antica sede della confraternita dell’Immacolata e i cui ruderi si possono ancora vedere sotto la chiazza cuperta. Essa venne demolita quando nel 1750, il sindaco dell’epoca Niccolò Giannuzzi fece allargare l’antica piazza Maggiore, oggi piazza Umberto I.

La confraternita trovò dimora nell’ottocentesca chiesa della Mmaculata (Immacolata), opera dell’architetto Luigi Fumagalli, sorta sulla primitiva cappella voluta dalla famiglia Casalino. Il culto viene festeggiato l’8 dicembre con la venerazione della statua attribuibile all’artista Francesco Citarelli, custodita sull’altare maggiore. L’agro circostante e in particolare le vie di comunicazione con i centri vicini sono ricchi di quelle piccole ma innumerevoli tracce di fede verso la Madre di Dio, che il popolo ha voluto esprimere con sacrificio e dedizione.

Una delle prime è sicuramente la Matònna della Consolazione, cappella rurale posta sulla via per Brindisi, dove ancora oggi si conserva un pregevole affresco seicentesco e che viene onorata l’ultima domenica di agosto con una sentita processione che si conclude davanti all’antico sito.

Cappella nobiliare di casa Resta (XVIII secolo)

 

Sempre sulla via per Brindisi ritroviamo la cappella di Casa Resta, sita all’interno delle proprietà e splendido edificio che ancora oggi conserva un ciclo pittorico molto pregevole contenente opere pittoriche realizzate dagli artisti Ludovico Delli Guanti e Vincenzo Zingaropoli, che ritraggono i culti mariani più venerati in città come la Madonna della Fontana o dell’Addolorata.

Particolare dell’arredo interno con l’altare maggiore e opere artistiche di Vincenzo Zingaropoli)

 

Sulla via per Grottaglie, invece, si posizionava l’ormai scomparsa cappella della Màtonna ti li Padùli, detta La Mmamminnèdda (la piccola mamma) perché intitolata alla natività della Madonna, festeggiata l’8 settembre. All’interno vi era presente un’immagine del Cinquecento successivamente scomparsa, mentre la statua che la ritrae si trova conservata presso la chiesa di Sant’Alfonso dei Padri Liguorini.

Chiesa rurale, demolita, dedicata alla Mafonna delle Paludi (XVI secolo)

 

Di proprietà privata e molto venerata era la Madonna del Buontempo, inserita nella residenza dei Carissimo in contrada Buontempo e voluta dal vescovo Luigi Margherita, che veniva invocata contro le esondazioni del Canale Reale, molto frequenti, e per il buon tempo ventilato durante la trebbiatura.

Infine, al confine fra la città di Ceglie Messapica e Francavilla, troviamo la chiesa dedicata alla Madonna della Fontana (parrocchia di Santa Maria Goretti), festeggiata la domenica successiva al 14 settembre, in ossequio alla Madonna della Fontana di Francavilla. L’attuale chiesa fu iniziata nel 1948 e ultimata nel 1950 per volontà degli abitanti di contrada Bax. A essa è collegato un evento miracoloso molto significativo e che rimanda alla caduta di alcuni fulmini avvenuta durante la costruzione della struttura. L’evento miracoloso trova forti analogie con la caduta del fulmine di un’altra leggenda mariana avvenuta durante una discussione svoltasi all’interno della chiesa Matrice e di cui sempre il Delli Guanti ci ha lasciato un dipinto molto emozionante conservato nella controfacciata della Basilica pontificia.

 

Testo integrale del libretto della festa patronale di Francavilla Fontana – settembre 2022. Parte terza ed ultima

 

Per la prima parte:

La Madonna della Fontana fra i numerosi culti mariani di Francavilla (I parte) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Per la seconda parte:

La Madonna della Fontana fra i numerosi culti mariani di Francavilla (II parte) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Il gesuita salentino Sabatino De Ursis (1575-1620), straordinaria figura di scienziato missionario in Cina

ECHI LEONARDESCHI NELLA CINA DEI MING: L’IDRAULICA OCCIDENTALE DEL MISSIONARIO SALENTINO SABATINO DE URSIS

 

di Francesco Frisullo e Paolo Vincenti

Un articolo del 1963 di Ladislao Reti, Francesco di Giorgio Martini’s Treatise on Engineering and Its Plagiarists, colpisce la nostra attenzione, perché in questo contributo l’autore adombra il fatto che fra i vari plagiari di Francesco di Giorgio ci sia lo stesso Leonardo da Vinci[1].

Reti si occupa di un’opera del grande architetto Francesco di Giorgio Martini (1439-1501), fino ad allora poco nota o comunque poco valorizzata. Si intitola Trattati, in sette libri.  “L’importante codice appartenuto a Cosimo I, contiene una versione della «seconda stesura dei Trattati di Francesco (cc.5-112), la non poco significativa traduzione del De Architectura di Vitruvio (cc.103-192) e, infine, un complesso di disegni di macchine belliche e fortificazioni militari (cc. 193-244)»”[2]. Il Trattato di Architettura di Francesco, scrive Reti, “è preservato in parecchi manoscritti originali: una prima bozza nella Biblioteca Comunale a Siena (No.S.IV.4); una versione elaborata è nella Biblioteca Nazionale di Firenze (No.II.I.141), la presente copia dedicata a Federico de Montefeltro, Duca di Urbino, è nella ex libreria del Duca di Genova (Codice Saluzziano No. 148, pergamena). C’è anche un manoscritto incompleto che una volta apparteneva a Leonardo da Vinci. Quest’ultimo è di particolare interesse perché Leonardo ha aggiunto note e schizzi ai margini; il manoscritto è ora nella libreria Laurenziana a Firenze (Codice Mediceo Laurenziano 361, precedentemente Ashb. 361 [293])”[3]. Il Trattato fu pubblicato per la prima volta nel 1841 da Carlo Promis, usando il Codice Saluzzo, sebbene con l’omissione del settimo libro, quello certamente più interessante per i suoi disegni meccanici.[4]

Questo libro omesso da Promis venne pubblicato solo nel 1917 da Girolamo Mancini.[5] “Il Codice Laurenziano fu parzialmente pubblicato dal Mancini che lo assegnò all’Alberti. Si tratta di disegni che illustrano un sistema di chiuse con bacini navigabili «da condurre navigli su per la fiumara», uno schema di acquedotto e, in alto a destra, una fontana eroniana a tempo. In testa alla colonna destra, una delle annotazioni autografe di Leonardo: «Dell’acqua nel vasca»”[6]. Reti lamenta l’assenza di Francesco di Giorgio in importanti opere di tecnologia di titolati studiosi, nonostante la sua incontrovertibile importanza. In effetti, anche quei pochi storici che lo hanno citato, non hanno comunque rilevato le coincidenze che Reti elenca. “Sebbene il Trattato sia stato scritto intorno al 1475, tra i disegni possiamo osservare molti dispositivi meccanici generalmente attribuiti a epoche successive”.

Fra questi, un gran numero di pompe e dispositivi di sollevamento dell’acqua. “La domanda sorge spontanea sul perché i manoscritti e apografi di Francesco di Giorgio, contenenti una tale ricchezza di informazioni, rimasero inosservati per così tanti secoli. E la risposta è che non lo hanno fatto: le idee importanti che descrive sono state prese in prestito, senza citarlo, dagli scrittori del sedicesimo secolo. Alcuni degli autori l’accreditarono alla trasmissione del patrimonio di Leonardo nel campo dell’ingegneria, e seguendo i suggerimenti di Duhem, Beck e Usher siamo d’accordo nel nominare gli ingegneri della scuola Italiana: Ramelli, Besson, Zonca, Veranzio, Castelli, Strada,  ecc., che hanno trovato un’ampia ispirazione negli scritti di Francesco di Giorgio”[7].

Fra questi autori che si sono ispirati a Francesco di Giorgio, in alcuni casi indirettamente, in altri copiando spudoratamente, a detta di Reti, salta alla nostra attenzione Zonca. “Vittorio Zonca (1568-1602), fu meno attento. Il suo libro ha goduto di grande popolarità e ha attraversato quattro edizioni, l’ultima nel 1656”[8]. Scrive Reti: “molti dei disegni di Zonca furono incorporati, senza citare Francesco, in un altro compendio popolare, il Theatrum Machinarum di Heinrich Zeising. Questo libro è stato ripubblicato diverse volte dalla sua prima edizione nel 1607-14 fino alla sua ultima nel 1708. Confrontando le ultime sette figure del trattato di Zonca, tutte tranne una che illustrano i dispositivi di sollevamento dell’acqua, con i corrispondenti disegni di Francesco di Giorgio, troviamo che le tavole di Zonca sono riproduzioni dirette dei disegni di Francesco”[9], e riporta i disegni a testimonianza dei prestiti. “È forse assieme a quelle dello Strada l’opera a stampa tra fine Cinquecento e inizi Seicento che maggiormente risente dell’influenza delle macchine di Francesco di Giorgio. Uscita postuma, ebbe, come attestano le ristampe (quattro nel Seicento), notevole diffusione e influenzò molti autori europei, Zeising per esempio”[10].

A p.294, Reti scrive: “La tradizione tecnologica iniziata con Francesco di Giorgio ha trovato la sua strada, e molto presto, in Estremo Oriente. Sabbatinus de Ursis (1575-1620) fu assistente del famoso missionario gesuita Matteo Ricci (1562-1610), che aprì la Cina al Cristianesimo e in seguito divenne Superiore in quella chiesa. Tra gli altri importanti contributi, de Ursis (conosciuto in Cina come Hsiung San-Pa) redasse nel 1612 un libro illustrato con il titolo Machines of the West. Qui la tecnologia Europea contemporanea è stata presentata ai tecnici cinesi.

Per il suo compendio de Ursis utilizzò inter alia i libri di Besson, Veranzio, Ramelli e Zonca. Sfortunatamente, i disegnatori cinesi, che non conoscevano la prospettiva tecnologica Occidentale, non potevano copiare correttamente i disegni della macchina […]. Nel 1726 questo libro fu incorporato nella grande Enciclopedia cinese (5020 volumi). Quando alcuni studiosi europei studiarono questa monumentale opera tra il 1865 e il 1888, essi rimasero molto impressionati dalle conoscenze tecnologiche che vi trovarono. Solo più tardi si è realizzato che le sue fonti erano Europee”.

In Appendice riportiamo il disegno di Reti che illustra con uno schema ad albero i possibili plagiari di Francesco Di Giorgio. Fra questi, oltre al caso più eclatante di Leonardo,[11]proprio il salentino de Ursis. E veniamo così alla figura di questo gesuita scienziato citato dal Reti.

Sabatino de Ursis, nato in provincia di Lecce, precisamente a Ruffano[12] nel 1575, da quanto lo stesso riferisce nella sua lettera del 25 gennaio 1605 da Macao indirizzata a Bernardino Realino,[13] partito in missione in Cina, vi giunse nel 1603, esattamente a Macao, colonia portoghese.

Fu allievo di Cristoforo Griemberger, quando operava ancora nel Collegio Romano il grande matematico Cristoforo Clavio. La sua formazione inizia a Napoli, prosegue poi a Roma e a Coimbra in Portogallo, come di prassi per i gesuiti che si imbarcavano per le Indie orientali, e termina nel Collegio San Paolo di Macao, dove egli risiede dal 1603 al 1607, quando parte per Pechino.

Astronomo, matematico, geografo, architetto, versatile scienziato, giunse nel continente asiatico in seguito all’appello che Matteo Ricci rivolgeva ai suoi superiori per avere collaboratori esperti in materie scientifiche. Col Ricci collaborò negli ultimi anni della vita e del grande maceratese scrisse una biografia utilizzata ed ampliata poi da altri autori. A Pechino, dove divenne di fatto l’erede di Matteo Ricci, acquistò fama tra i mandarini come divulgatore di matematica e di idraulica. Scoppiata la persecuzione del 1616, fu espulso il 18 marzo 1617 da Pechino e costretto a riparare prima a Canton, poi a Macao, dove morì nel 1620. Scrisse, fra le altre cose, un Saggio sulla sfera armillare, un Saggio sul quadrante geometrico L’idraulica occidentale, ma importante anche il suo contributo alla riforma del calendario cinese. Egli previde l’eclisse solare del 15 dicembre 1610 e ricalcolò le coordinate di Pechino. Per questo, nel 1611, insieme al compagno spagnolo Diego Pantoja, ricevette l’incarico dall’imperatore WanLi. In tanto fervore di attività pratiche e scientifiche, mai perdette di vista la fede cristiana e insieme con essa, l’obbiettivo primario della sua missione, ossia l’evangelizzazione della Cina.  Negli ultimi anni di vita, ricopre l’insegnamento, come risulta dal Catalogo di Macao, riportato da Schutte, di “mestre dos livros sinicos, que vejo da China”.[14]  Su Sabatino de Ursis esiste una bibliografia sterminata, sui vari aspetti del suo operato scientifico, ma manca ad oggi un volume monografico sulla sua figura.

Sabatino, memore della lezione di Matteo Ricci, ben comprese l’importanza dello scambio delle conoscenze tra Oriente e Occidente, come via privilegiata per giungere alla conversione degli intellettuali cinesi prima e del popolo dopo. Il suo fu quindi un apostolato scientifico. Fra le varie sue opere, particolare importanza riveste ai fini della nostra analisi, il testo sull’Idraulica, che si presenta come un’opera originale rispetto ai precedenti lavori di Ruggeri e Ricci.  A questo testo, egli lavorò insieme ad un importante esponente dell’intellighenzia cinese nonché uno dei primi mandarini convertiti al cristianesimo, ovvero Xu Gianqui, romanizzato in “Dotto Paolo”, del quale è in corso la causa di canonizzazione insieme a quella di Ricci. Precisamente nel 1612 Sabatino detta a Xu Guangqi (1562−1633)[15], che la trascrive in cinese, “L’idraulica Occidentale / (Trattato sulle pompe idrauliche)”  Tai xi shui fa,[16]un’opera in 6 volumi su carta di bamboo che introduce per la prima volta elementi della tecnologia idraulica occidentale in Cina[17].

Il Chinese Christian Texts Database, dell’Università Cattolica di Lovanio, principale centro per gli studi sulle missioni cinesi, riporta la scheda bibliografica del libro con i suoi numerosi autori e collaboratori e le vicende editoriali del libro stesso[18].

L’opera è conservata in ARSI Jap-Sin II, 61 e la copia della Biblioteca Nazionale di Pechino, editata dal dotto Leone – Li  Zhizao ( 1565-1630 ), porta la prefazione del  Censore  Cao Zibian (1558-1634).[19]Un’altra copia è conservata presso la Biblioteca Apostolica Vaticana[20]. La prima edizione dell’opera dunque è del 1612. Come riporta la scheda in World Digital Library relativa alla copia conservata presso la National Library of China: “Tai xi shui fa (macchinari idraulici occidentali) è il primo lavoro sulla tecnologia idraulica agricola occidentale introdotta in Cina. Raccoglie l’essenza dell’ingegneria idraulica classica europea. L’autore fu Xiong Sanba (Sabatino de Ursis, 1575–1620), un missionario gesuita italiano, che dettò i testi, che furono tradotti in cinese da Xu Guangqi (1562-1633) e curati da Li Zhizao (1565-1630). Questa copia, pubblicata per la prima volta nel 1612, ha tre prefazioni all’inizio dell’opera, scritte da quattro autori Ming, una congiuntamente da Cao Zibian e Zheng Yiwei, un’altra da Peng Weicheng. La terza prefazione è del traduttore, Xu Guangqi. È incluso anche un saggio di de Ursis, intitolato Shui fa ben lun (Trattato sull’idraulica). Il nome dell’incisore è visibile anche nell’area del centro della pagina. Il libro è illustrato”[21].

Secondo le nostre conoscenze attuali, de Ursis non poteva attingere direttamente a libri sull’idraulica occidentale, né tantomeno Ricci aveva fatto richiesta di queste pubblicazioni, e inoltre gli interessi di de Ursis erano maggiormente rivolti verso testi di astronomia[22]. Fra i prefatori, Cheng Yiwei, che nel 1632 ricoprirà il ruolo di Ministro dei riti e Cancelliere; inoltre Peng Weicheng, che ne fu anche censore e correttore[23].

Nel 1626 l’Idraulica  viene inserita – insieme a  scritti di Ricci e di  altri gesuiti – nel Tianxue chu han (  La prima raccolta di scienze celesti ), compilata da Li Zhizao e Dong Shaoxin[24]. Nel 1639 viene pubblicata postuma dai suoi allievi, Nongzheng quanshu (農政全書) ), di  Xu Guangqi, un’opera sull’agricoltura all’interno della quale viene inserito il Tianxue chu han, che occupa esattamente i capitoli 19 e 20[25]. Ancora, l’opera viene inserita nella raccolta The Siku quanshu 四庫全書 “Complete books of the Four Storehouses” (Tutti i libri delle quattro sezioni della letteratura), un’opera monumentale sulla cultura cinese pubblicata nel 1782[26].

“Nella prefazione dell’Idraulica Xu volle unire le applicazioni della scienza pratica con le speculazioni teologiche, delineando due diversi atteggiamenti dei Gesuiti. Da un lato, Matteo Ricci il quale riteneva che la scienza pratica potesse risolvere i problemi di sussistenza del popolo e di fatto sostituire il Signore nella cura dei suoi figli […] Matteo Ricci era dell’avviso che, se dal punto di vista dell’agricoltura si fosse potuto migliorare la produttività, si sarebbe data una grossa mano al benessere del popolo. Sabbatino De Ursis (1575-1620) riteneva invece che soffermarsi sulla scienza pratica avrebbe distolto l’attenzione dalla salvezza dell’anima, e dunque sarebbe stato di poco aiuto per l’evangelizzazione della Cina. Xu Gunagqi chiese a Sabbatino De Ursis di partecipare alla traduzione delle tecniche idrauliche […] Xu Guangqi provò a convincere Sabatino De Ursis nei seguenti termini: Quando l’uomo è ricco, benevolenza e giustizia nascono di conseguenza, e questo è certamente un principio comune sia in Oriente sia in Occidente […]”[27]. Le fonti cinesi ci mostrano un de Ursis un po’restio a seguire la linea di Ricci, più portato all’azione missionaria  tradizionale, sì da ritenere la traduzione delle opere della scienza occidentale un diversivo rispetto al prioritario obiettivo della conversione. Tale immagine però non coincide con quella trasmessaci da Bartoli e soprattutto contrasta con quanto lo stesso Sabatino scrive nelle sue lettere dove insistenti sono le richieste per avere libri e padri esperti di Matematica, proprio come già aveva fatto Ricci[28].

Dalle stesse fonti a stampa gesuitica coeve, ricaviamo un profilo di de Ursis uomo di scienza più che di Chiesa, eccetto per il periodo antecedente all’arrivo a Pechino, quando affianca Lazzaro Cattaneo nelle prime avventure missionarie. Dalla lettera che de Ursis da Pechino scrive a P.Antonio Mascarenhas leggiamo: “nel principio che entrai in questa missione il P.Matteo Ricci mi chiamò per questa casa di Pakino. Il suo intento fu che sapendo io alcuna cosa di matematica, mi voleva introdurre nelle cose di questa scienzia […] ma come non abbiamo libri, non si può far nulla: i libri ch’abbiamo sono la Gnomica del P.Clavio, la Sfera e il suo Astrolabio. La verità è, che, come diceva, è necessario ad esso travagliare con due mani, la destra nelle cose di Dio, e la sinistra in queste cose, perché non si può far dimanco e quel che insino ad esso s’ha fatto, tutto di questo modo […] Mi raccomando a tutti, dimandando al P.Christoforo Grembergerio alcuna cosa di matematica, bella e curiosa per questi letterati della China perché sarà de grande servitio del Signore come altre volte l’ho scritto”[29].

L’avvio delle ostilità nei confronti dei gesuiti dal 1616, attaccati anche per i contenuti scientifici da loro portati, causerà un ripensamento circa l’opportunità  di continuare  nella traduzione delle opere scientifiche europee da parte dei padri. Il  provinciale Valentim de Carvalho aveva dato indicazione perché si interrompesse ogni collaborazione con i letterati cinesi e si sospendesse l’insegnamento della matematica nel collegio di Macao[30]. Ma ciò, come evidenzia Baldini, non avvenne, anche grazie a quanto scrisse de Ursis al Generale Muzio Vitteleschi dalla sua “ prigionia” a Cantone: “Forse il suo insegnamento ( matematica )  è stato reso possibile anche da una lettera di S. De Ursis al nuovo Generale, M. Vitelleschi (Canton, 2 dicembre 1617). In questa lettera (ora in ARSI, Jap.-Sin., 17, ff. 108r–109r) scrisse che i ‘più vecchi’ sacerdoti di Pechino, convinti che la matematica e la geografia erano stati strumenti preziosi per aumentare la loro credibilità con i cinesi, avevano programmato di inviare una lettera firmata da tutti loro alla residenza di Macao, dove dovrebbe essere letta a tutti i sacerdoti nel refettorio, incoraggiandoli ‘a trabalhar nesta Missao, e usar dos mejos sobredittos da Matematica, literas morais, e cosas semillantes.’ Questa mossa pubblica, apparentemente diretta a tutta la comunità, avrebbe potuto essere un tentativo di forzare il Provinciale a cambiare idea a seguito della reazione dell’assemblea”[31]. Sicché, l’insegnamento della matematica nel collegio di Macao fu quasi imposto dalla curia generalizia romana ai superiori portoghesi. Possiamo inoltre notare che de Ursis non chiede opere di idraulica ma di matematica e astronomia.

Du Shi-ran, nella sua opera[32], afferma che la strategia di Guangqi di apertura verso la scienza e la tecnologia occidentale era incentrata su tre mosse: “tradurre, assimilare e superare”[33].

Il controllo delle acque ha rivestito un ruolo importante nella storia cinese tanto che ad esso sono legati il mito del Grande diluvio e la figura di Yu il Grande (terzo millenio a.C ) a cui è attribuita la fondazione della dinastia Xia, dalla quale  prende il via la successione dinastica cinese. Yu stabilì la divisione della Cina in nove provincie e realizzò un sistema di drenaggio idrico per la regolazione delle acque[34], tanto che Yu è noto anche come il Grande regolatore delle Acque[35].

Donatella Guida ci fa capire in che contesto nasce l’opera di Idraulica. “Un concetto senza dubbio centrale nei testi confuciani che Xu aveva interiorizzato fin dall’età di 3-4 anni, prima ancora di imparare a scrivere, è il benessere del popolo: i classici delineano doveri precisi del sovrano e dei ministri, essenzialmente volti alla prosperità della comunità tutta e alla sua educazione e alle norme morali […]”[36]. Daniela Lambertini[37] scrive: “Che sorpresa ritrovare fra  le  pagine di un trattato cinese d’idraulica seicentesco le macchine del repertorio martiniano seppure  con qualche incomprensione del loro funzionamento […] De Ursis ( 1575-1620 ), [è] allievo e successore di padre Matteo Ricci e convinto sostenitore dell’importanza di dotare i soldati  della Compagnia di Gesù di conoscenze scientifiche e tecniche. Padre De Ursis, che si trovava a Macao già nel 1603, pubblicò a Pechino un trattato di idraulica, utilizzando la fonte più consueta ai suoi tempi: le macchine di tradizione martiniana”[38]. L’agricoltura rivestiva una importante funzione sociale poiché garantendo la prosperità della collettività dava legittimazione al potere del Sovrano. “Dal punto di vista filosofico, il controllo delle acque rappresenta, d’altro canto, un dato essenziale a sostegno del cosiddetto Mandato Celeste, su cui si basava la stabilità della dinastia regnante”[39]. I discepoli cattolici e confuciani rigettarono le religioni politeiste come il Taoismo e il Buddismo, poi rifinirono meglio il pensiero confuciano “attuando la cosiddetta politica di completamento del confucianesimo e correzione del Buddismo”[40]. In quest’ottica va visto l’interesse per il Cattolicesimo, lo dice espressamente Guangqi nell’Introduzione all’Idraulica del 1612, nel senso che il cattolicesimo doveva essere complementare al confucianesimo[41].

La Cigola spiega: “Ci sono quattro prefazioni, rispettivamente scritte da: Cao Yubian, Peng Weicheng, Xu Guangqi e Zheng Yiwei. Solo la prima di tre prefazione è datata 1612. La terza prefazione sui fogli 1 di juan 1–5 indica il titolo del libro, il numero di juan e i nomi degli autori (Xiong Sanba e Xu Guangqi) e del revisore (Li Zhizao). Vi sono dieci colonne per ogni mezzo folio con venti caratteri per ogni colonna e venti nel caso delle annotazioni. Il titolo del libro è riportato al centro di ogni foglio. Il numero di juan e del folio e i titoli dei capitoli sono indicati sotto la coda di pesce. Juan 1–4 si occupa dei metodi idraulici. Juan 5 dà risposte a coloro che hanno dubbi sul sistema idraulico o volevano saperne di più sul sistema. Juan 6 è costituito da illustrazioni. Quindi il testo è stato diviso in quattro parti che descrivono l’uso di acque fluviali, acque sotterranee e fonti, acqua piovana e neve e include un’appendice che copre argomenti vari. Il capitolo quattro comprende anche una sezione sulla distillazione di vari medicinali. Altrove vengono date delle spiegazioni manuali sulla fisiologia del corpo umano, un allineamento della visione rinascimentale della circolazione del sangue, i quattro temperamenti, ecc., con le loro controparti nel mondo naturale [ …]”[42]. La studiosa precisa che: “le illustrazioni di Taixi Shuifa sono organizzate in 18 figure nel Vol. 6, le prime 13 delle quali rappresentano dispositivi di sollevamento dell’acqua come. Long wei che(龙尾 车), Yu heng che (玉衡车)e Heng sheng che恒升车). In particolare le figure da 1 a 5 rappresentano chiaramente il Long wei che che era conosciuto come ‘La vite di Archimede’ o Coclea in Europa,[43] e le figure da 6 a 9 rappresentano Heng sheng che  che è conosciuto come la macchina di Ctesibius in Occidente.

Per rintracciare la fonte delle illustrazioni in Taixi Shuifa,  sono stati ricercati alcuni libri occidentali relativi alla conoscenza della macchina e abbiamo scoperto che la Vite di Archimede e la Macchina di Ctesibius erano anche incluse nel decimo libro di ‘De Architectura’ di Vitruvio nel capitolo 6: ‘La vite dell’acqua’ e nel capitolo 7: ‘La pompa dell’acqua di Ctesbius’  con illustrazioni. […] Per provare questa tesi facciamo un confronto tra le illustrazioni del Taixi Shuifa e quelle delle edizioni di Vitruvius stampata da Frà Giocondo nel 1513 e da Cesare Cesariano nel 1521. La vite di Archimede nel Taixi Shuifa è presentata per la prima volta in proiezioni ortogonali […] con pianta e elevazione, riprendendo una parte della carta di Cesariano […]”[44].

Uno dei primi libri cinesi sulla tecnologia e l’artigianato risale alla Dinastia Zhou  770–221 a.C.), ed è il “Kao Gong Ji” o “Il libro delle diverse arti”, di autore sconosciuto, ma è nel XVI –XVII secolo che si può già parlare di un primo superamento della tecnologia occidentale, come sostiene J. Needham nella nota “Questione Needham”[45]. L’introduzione della meccanica occidentale, grazie ai gesuiti, metterà in evidenza un maggiore sviluppo della tecnologia europea e introdurrà un elemento poco esplorato nella pubblicistica cinese: il disegno tecnico, o potremmo dire il disegno industriale[46]. Le illustrazione degli antichi testi cinesi mostrano prevalentemente le macchine in fase operativa, molto meno le sezioni dei singoli componenti[47].

“A differenza di Cesariano che ha presentato il dispositivo in ambiente naturalistico in cui un fiume e la sua sponda appare, Xu ha presentato la pompa a vite in un diagramma bianco, inserendolo in uno spazio asettico e astratto, con l’aggiunta di alcune didascalie. La seconda illustrazione sulla vite di Archimede […] è fortemente ispirata all’edizione di Vitruvio di Fra Giocondo datata 1513 anche se la pompa a vite è rappresentata solo con il corpo centrale. Anche in questo caso, l’impostazione è molto più semplice di quella di Fra Giocondo. Xu infatti elimina l’orizzonte e la vegetazione di fondo, lasciando semplicemente l’essenziale, e questa è la rappresentazione del flusso che è funzionale alla pompa a vite. L’acqua, tuttavia, è disegnata in un modo essenziale senza soffermarsi sul naturalismo, evitando di rappresentare le parti sommerse del dispositivo. Molto diverso è il fiume di Fra Giocondo, caratterizzato da linee sinuose, che eccedono e sommergono con grande abilità la base del dispositivo. Qui la traduzione in forme appropriate al gusto cinese del pilastro è interessante. La macchina di Archimede viene quindi studiata in modo più dettagliato nel Taixi Shuifa, perché Xu gli dedica altre tre carte […] in cui presenta una buona conoscenza delle proiezioni ortogonali che dimostrano come questo modo di disegnare cominciò a radicarsi nella Cina del diciassettesimo secolo. La macchina di Ctesibius […] ci viene presentata nel Taixi in uno spazio completamente vuoto, in una rappresentazione che riassume e sintetizza in modo quasi estremo.

Nell’edizione di Fra Giocondo il dispositivo è molto meglio finito in termini di rappresentazione e con buona cura del chiaroscuro. Per quanto riguarda l’illustrazione della vite di Archimede, in questo caso anche la parte immersa nell’acqua viene risolta con notevole abilità. Nell’illustrazione cinese Xu si sofferma di più sia sulla parte centrale che sui due sifoni, rappresentandoli in modo che sia possibile vedere all’interno, probabilmente per illustrare come funzionano. Proprio come per La vite di Archimede, Xu dedica altre tre carte alla macchina di Ctesibius […], in cui usa in un modo maturo e sicuro delle proiezioni ortogonali. Dobbiamo tenere presente che Taixi Shuifa è un volume che riprende in particolare alcuni dei testi tecnici europei italiani. Si dice che uno di loro dovrebbe essere il testo di Ramelli Le diverse et artificiose macchine di Agostino Ramelli che è inserito con numerose illustrazioni, ma da un’analisi di alcune figure del testo cinese è chiaro che Sabatino de Ursis e Xu avevano incluso nel loro lavoro illustrazioni che riflettono molto da vicino quelle di due dei più famosi autori del Rinascimento. Altre interpretazioni possono essere date al testo di Taixi Shuifa e De Architectura, che forniscono anche alcune possibili evidenze della connessione tra questi due libri. Nel vol. 1 di Taixi Shuifa, la parte di Longweiche Ji (龙  车 记) rappresenta  dettagliatamente  le componenti della vite di Archimede. Nel libro 10 di ‘De Architectura’ di Vitruvio, il capitolo 6 ‘L’acqua Vite’ è anche la descrizione della vite di Archimede”[48].

Molto complesso risulta il processo di scrittura del Taixi Shuifa, come di tutte le opere scritte dai gesuiti missionari, che viene ricostruito da Elisabetta Corsi, la quale spiega che le opere: “sono state scritte in una lingua complessa e sofisticata, nota come guanhua 官話, ovvero la lingua semivernacolare in uso già da secoli tra i membri dell’élite composta dai funzionari pubblici (guan 官) che avevano superato con successo gli ultimi gradi dell’esame di stato. Anni di intenso studio non necessariamente garantivano ai missionari la certezza di poter padroneggiare quella lingua al punto da essere in grado di impiegarla con profitto nella composizione dei testi. Ciò spiega dunque il ricorso alla rete degli adepti, cioè quei convertiti cinesi che potevano assicurare la messa in prosa dei concetti che i missionari, talvolta con il solo ausilio della memoria, poiché sprovvisti di testi di riferimento, trasmettevano loro, forse sotto dettatura, oppure attraverso appunti. Non solo la lingua rappresentò uno dei principali ostacoli all’adattamento dei missionari alla vita intellettuale cinese; la composizione dei testi dovette infatti tenere conto di norme editoriali invalse da secoli, di una comunità di lettori preparata ed esigente, di un mercato editoriale fiorente e differenziato a livello locale […] Un’ulteriore difficoltà che si riscontra nell’ermeneutica dei testi è determinata dal fatto che essi erano soggetti ad un processo di revisione non solo di carattere censorio ma anche stilistico”[49]. Sostiene la Corsi che, come riferisce il gesuita torinese Alfonso Vagnoni (1566-1640) che sarà compagno di de Ursis dal 1617, “nel Tongyou jiaoyu 童幼教育 (titolo in latino sulla prima pagina di guardia: De ludo litterario ad ducendos pueros): 遵教規凡是譯經典諸書必三次看詳方允付梓茲並鐫訂閲姓氏於後. le regole della venerabile religione [contemplano] che sia le traduzioni dei testi canonici sia qualsiasi altro libro debbano essere letti attentamente per tre volte ed emendati ogni qualvolta vi si riscontri qualcosa di sconveniente. I nomi dei revisori dovranno inoltre apparire sullo stampato”[50]. Inoltre, “date le difficoltà prosodiche della lingua cinese, i missionari dipendevano dall’aiuto di convertiti e assistenti per la messa in bello stile dei loro testi, i quali spesso venivano composti sotto dettatura (koushou 口授). È inevitabile che il processo di revisione del testo comportasse delle alterazioni di senso, talvolta forse anche molto significative. Non sempre i risultati di tali revisioni sono brillanti, poiché in alcuni testi la scrittura risulta diseguale e il periodare disadorno, come se fosse il prodotto dell’intervento di più mani”[51]. Dunque, come riferito dalla Cigola, la fonte a cui fa riferimento de Ursis è il testo di Agostino Ramelli[52].

Nel luglio 2016, il prof. Saldanha (Università di Macao) ha scoperto, nella Biblioteca Ajuda di Lisbona, un manoscritto di de Ursis. Questo manoscritto rappresenta un eccezionale ritrovamento poiché ad oggi non abbiamo gli scritti preparatori alle numerose opere dei gesuiti in Cina. Esso quindi ci permetterà di entrare nel laboratorio degli scienziati gesuiti e cogliere gli elementi di originalità e conoscere le fonti occidentali oppure cinesi di alcune di queste opere, capire quindi se quella del Nostro sia da considerarsi opera originale o mera trascrizione.

L’opera viene anche tradotta in giapponese. Tamburello scrive: “Il trattato del gesuita S. De Ursis,T’ai-hsi shui-fa, stampato a Pechino nel 1612, fu volto in kanbun da Matsushita Kenrin per un’edizione che apparve a Kyoto nel 1663, insieme ad altre opere dello stesso gesuita e di altri correligionari”[53]. Le opere sono state anche tradotte in coreano[54].

Bartoli sostiene che De Ursis è stato un uomo di scienza non solo teorico ma anche pratico e ci fornisce una dettagliata descrizione delle sue abilità, nel paragrafo intitolato “Macchine da innalzare l’acqua ammiratissime dai Cinesi”[55]. Saverio Santagata, parlando di de Ursis (dicendolo però nato a Napoli nel 1572), scrive che: “applicò l’animo a far vedere che gli altri missionari sforniti non erano di quelle Matematiche Scienze, onde si era renduto così ammirevole il già defunto[56]. Egli stesso, alle usate macchine, altre ne aggiunse, e quelle in particolare, che Idrauliche si appellano, non mai più vedute in Pechino, e perciò sommamente ammirate. La reputazione del Padre Sabatino crebbe moltissimo, quando di lì a poco in puro linguaggio mandarino stampò un Commentario Critico, Matematico, Istorico, e discoprì errori intorno alle Epoche e a’ Fasti Cinesi, aggiungendovi, tra altri trattati, il primo delle predette Macchine Idrauliche, el secondo di Gnomonica, e il terzo degli Analemmi”[57].

Ebbe de Ursis conoscenza delle acquisizioni di Leonardo, trovandosi egli in Cina? Ci aiuterà certamente a capirlo la traduzione in corso dell’Idraulica, a cura del Prof. Hans Ulrich Vogel dell’Università di Tubingen[58], raffrontandola con la nuova opera rinvenuta all’Ajuda di Lisbona. È certo però che se la fonte più accreditata di Sabatino è stato Agostino Ramelli, definito da Reti addirittura un plagiario di Leonardo, de Ursis ebbe sia pure indirettamente conoscenza degli studi leonardeschi[59]. La Cina ebbe senz’altro notevoli apporti dalla cultura araba e persiana[60]. I Rapporti con il mondo mussulmano, in epoca Song (960-1279), oltre la più nota via della seta erano segnati dalla “via del muschio”. Il commercio di questo prodotto univa il Mediterraneo e il Medio Oriente all’India, al Tibet e alla Cina[61]. Risalgono a questo periodo la traduzione delle prime opere scientifiche arabo-persiane. Il prestigio degli astronomi mussulmani si consoliderà in epoca Yuan (1279-1368), quando i mussulmani al servizio del Khan contribuirono enormemente al progresso scientifico e culturale dell’impero mongolo e della civiltà cinese, in generale operando un’originale sintesi tra la sapienza orientale e le idee provenienti dall’Occidente[62]. Molto probabilmente anche Leonardo ebbe conoscenza dei trattati arabi. Secondo la versione di Reti, molte furono le reciproche influenze fra gli scienziati europei, a partire da Francesco di Giorgio Martini, e dunque dovremmo fare un ulteriore passo avanti e dare per acquisito il fatto che Sabatino venne in contatto con gli studi di Leonardo e li assimilò, permeandoli nei suoi studi cinesi. Numerosi sono i riferimenti ai rapporti fra Leonardo e la tecnica cinese[63].

Se è così, possiamo allora affermare che attraverso Sabatino e suoi successori gesuiti missionari, gli echi leonardeschi si riverberano nella Cina dei Ming.

 

Note

[1] L. Reti, Francesco di Giorgio Martini’s Treatise on Engineering and Its Plagiarists, in «Technology and Culture», The Johns Hopkins University Press, Vol. 4, N. 3, 1963, pp. 287-298.

[2] Voce Francesco Di Giorgio Martini, in La corte il mare i mercanti la rinascita della Scienza editoria e società astrologia, magia e alchimia, Milano, Electa Editrice, Centro di Edizioni Alinari Scala, 1980, p. 157.

[3] L. Reti, op.cit., p.288. Tutte le traduzioni sono degli autori.

[4] “F. di Giorgio Martini, Trattato di Architettura Civile e Militare, edito da Carlo Promis (2 volumi, Turin, 1841)”: Ibidem.

[5] “G. Vasari, Vite cinque (Franceschi, Alberti, Franc. Di Giorgio, Signorelli, de Mercillat), annotati da Girolamo Mancini (Firenze, 1917)”: Ivi, p. 289.

[6] Voce Francesco Di Giorgio Martini in La corte il mare i mercanti la rinascita della Scienza, cit., p. 157.

[7] Ivi, p. 290.

[8] Ivi, p. 293.

[9] Ibidem.

[10] Voce Vittorio Zonca, in La corte il mare i mercanti la rinascita della Scienza, cit., p. 163.

[11] Per i rapporti fra Leonardo e Francesco Di Giorgio, si veda: F. P. di Teodoro, L’architettura idraulica negli studi di Leonardo da Vinci: fonti, tecniche costruttive e macchine da cantiere, in Architettura e tecnologia : acque, tecniche e cantieri nell’architettura rinascimentale e barocca, a cura di Claudia Conforti e Andrew Hopkins, Roma, Nuova argos, 2002, pp. 258- 277.

[12]G. Barrella, La Compagnia di Gesù nelle Puglie, 1574-1767, 1835-1940, Lecce, Tipografia Ed. Salentina, 1941, p. 81.

[13] Jap-Sin 14 II ff.192rv.-193r. ai righi 7-8.

[14] Per una bibliografia essenziale su de Ursis, si vedano:Vita del P. Carlo Spinola della Compagnia di.Giesù morto per la Santa Fede nel Giappone del p. Fabio Ambrosio Spinola dell’istessa Compagnia all’Illustriss. E Reverendiss. Signore, e Padron Colendissimo, Monsignor Prospero Spinola Digniss. Vicelegato di Bologna, In Roma e in Bologna, per Clemente Ferroni, 1628, p. 165; Dell’Historia della Compagnia di Giesu la Cina terza parte dell’Asia descritta dal P. Daniello Bartoli della medesima Compagnia, Roma, Stamperia del Varese, 1663, passim; P. Couplet, Catalogus Patrum SocietatisJesu qui post obitum S.Francisci Xaverii primo saeculo sive ab anno 1581 usque ad 1681 in Imperio Sinarum Jesu Christi fidem. Propagarunt, Paris 1686, pp. 12-13; Menologio di pie memorie d’alcuni religiosi della Compagnia di Gesù raccolte dal Padre Giuseppe Antonio Patrignani della medesima Compagnia e distribuite per quei giorni dell’anno, ne’ quali morirono. Dall’anno 1538. Fino al 1728. Tomo I, che contiene gennajo febbrajo, e marzo, Venezia, Niccolò Pezzana, 1730, pp. 51-52; H. Cordier, L’imprimerie sinoeuropéenne en Chine : bibliographie des ouvrages publiés en Chine par les européens au XVIIe et au XVIIIe siècle / par M. Henri Cordier, Parigi, Imprimerie Nationale, 1901, p. 41 e pp. 51-52; P.M.Ricci S.J., Relacao escripta pelo seu companheiro P.Sabatino De Ursis S.J. publicacao commemorativa do Terceiro Centenario da sua morte (II de maio de 1910) mandada fazer pela Missao Portoguesa de Macau, Roma, Tipografia Enrico Voghera, 1910; L.Pfister, Notices Biographiques et Bibliographiques sur les Jésuites de l’Ancienne Mission de Chine, Xangai, 1932-1934, passim, pp. 103-105; L. G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti, Vol.I, Lecce, Gaetano Campanella, 1874, p. 56; Opere storiche del P.Matteo Ricci S.I., a cura di Pietro Tacchi Venturi, Macerata, Tipografia F.Giorgetti, 1913, Volume II, p. 58; G. Barrella, I Gesuiti nel Salento Appunti di storia religiosa da documenti editi ed inediti pubblicati in occasione del III Centenario dalla morte del B. Bernardino Realino apostolo e compatrono di Lecce (1616-1916) Parte prima, Lecce, Tipografia Giurdignano,1918, pp. 71-72; Idem, La Compagnia di Gesù nelle Puglie, 1574-1767, 1835-1940, Lecce, Tipografia Ed. Salentina, 1941, p. 81; Storia  dell’introduzione del Cristianesimo in Cina scritta da Matteo Ricci S.I. nuovamente edita ampiamente commentata col sussidio di molte fonti inedite delle fonti cinesi da Pasquale M. D’Elia S.I.,Parte II, Libri IV-V, Da Nancian a Pechino (1597-1610-1611), Roma, La Libreria dello Stato,1949, p. 387; G. Ruotolo, Ugento Leuca Alessano Cenni storici e attualità, Siena Cantagalli, 1952, p.7; J.Wicki, Liste der Jesuiten-Indienfahrer:1541–1758, Münster Aschendorff, 1967, pp. 283-284; J. Dehergne S.J., Répertoire des Jésuites de Chine, de 1542 à 1800, Biblioteca Instituti Historici S.I. Volumen n.37, Roma, 1973, p. 75; J. F. Schutte, Monumenta Missionum Societas Iesu, Vol. XXXIV, Missiones Orientales, Monumenta Historica Japoniae I, Textus Catalogorum Japoniae 1549-1654, Roma, 1975, passim; Dictionary of Ming Biography 1368-1644 L.Carrington Goodrich, Editor, Chaoyng Fang, Associate Editor, Volume II, M-Z, Columbia University Press, New York and London, 1976,pp. 1331-1332; F. Iappelli, I gesuiti nel Salento 1574 -1767, in «Societas», n.4-5, 1992, p.112; U. Baldini, Saggi sulla cultura della Compagnia di Gesù (secoli XVI-XVIII), Padova, Cleup Editrice, 2000, p. 94; G. Ricciardolo, Oriente e Occidente negli scritti di Matteo Ricci, Napoli, Chirico, 2003, p.164; G. Spagnolo, Xion Sanba. Sabatino de Ursis, un gesuita salentino alla corte di Pechino, in «Il Bardo», a.XX, n.1, Copertino, dicembre 2010, p. 4; ecc.

[15]Per un’analisi complessiva della figura e dell’operato di Xu si rinvia a: Statecraft and Intellectual Renewal in the Late Ming: The Cross-Cultural Synthesis of Xu Guangqi (1562-1633), a cura di Catherine Jami, Peter Engelfriet, Gregory Blue, Leiden, Brill, 2001. Specificamente, in questo volume: A. Dudink, The image of XU Guangqi as author of christian texts ( a bibliographical appraisal), a p.100 cita L’Idraulica e Sabatino de Ursis; F. Bray, G. Metailiè, Who was the author of  the nongzheng quanshu ?, pp. 322-359, per un’analisi del “Nongzheng quanshu”; e A. Dudink, Xu  Guangqi’s carreer: an annotaded chronology, pp. 399-409, per la biografia di Xu. Su quest’ultimo aspetto si veda anche R. Stone, Scientists Fete China’s Supreme Polymath, in «Science», Vol. 318, 2 novembre 2007, p. 733.

[16] P. Couplet, Catalogus Patrum Societatis Jesu qui post obitum S.Francisci Xaverii primo saeculo sive ab anno 1581 usque ad 1681  in Imperio Sinarum Jesu Christi fidem Propagarunt  Paris 1686, pp. 12-13.

[17] M. Cigola, Y.Fang, Preliminary study of the work of Xu Guangqi in the technical knowledge in 17th century: from the perspective of drawing and representation, in IFToMM Workshop on History of Mechanism and Machine Science May 26-28 2015, St-Petersburg, Russia, p. 3

https://www.academia.edu/12604535/Preliminary_study_of_the_work_of_Xu_Guangqi_in_the_technical_knowledge_in_17th_century_from_the_perspective_of_drawing and_representation

[18] https://heron-net.be/pa_cct/index.php/Detail/objects/3273

[19] Copia digitalizzata in World Digital Library. https://www.wdl.org/en/item/13534/#q=sabatino+de+ursis.  Inoltre si vedano: A. Dudink, The Chinese Christian books of the former Beitang Library, in «Sino-Western cultural relations journal», Dept. of History, Baylor University, Waco, TX, USA, n.26, 2004, p.56; A. Chan, Chinese Books and Documents in the Jesuit Archives in Rome. A descriptive catalogue: Japonica Sinica I-IV, M.E.Sharpe, Amonk, New York, 2002, pp. 366-367 (Arsi, JAP.Sin. II, 61). “It is a manuscript made by six volumes (Jian卷) written on bamboo paper with a paper case. There is no date on, the cover bears a label with the title in Chinese and a Latin inscription: «Hydraulica | a p.Sabbathino | de Ursis, S.J»” : M. Cigola, Y.Fang,  op.cit., p. 3. Per la copia conservata presso la Biblioteca Nazionale di Francia: https://catalogue.bnf.fr/ark:/12148/cb445839431.

[20] Y. Dong, Catalogo delle opere cinesi missionarie della Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1996, che contiene 487 titoli di opere missionarie datate dal secolo XVI al secolo XVIII e comprende “documenti, manoscritti e a stampa che riguardano le attività missionarie in Cina in età moderna: testi di missionari europei, ma anche di scritti dei loro collaboratori cinesi”: p.II. Tra le opere di Sabatino, viene indicata l’Idraulica: “Ursis, Sabatthinus , de,  Tai  xi  shu fa in   Barb. Oriente 142 ( 1-2 ); R.G. Oriente. III. 227 (5)”, p. 98; “ LI Zhizao  Tian  xue  chu  han (Prima collezione delle discipline  celesti)  1 ed  a Beijing ? 1629 -1630, Barb. Oriente. 146  142-143”,  p. 116; “Nong Zheng quan Shu  Enciclopedia Agricola 1 ed a Beijing 1640  R.G. Oriente. III. 1 195 “, p. 124.

Altre copie sono conservate presso la Biblioteca di Shanghai. Si veda: A. Dudink,  The Zikawei 徐家匯 manuscript copy (1885) of Wang Zheng’s Renhui yue 仁會約 (1634) [revised, with footnotes], in «Sino-Western cultural relations journal»,  Dept. of History, Baylor University, Waco, TX, USA, n.36, 2014, pp. 14-24; Idem, The rediscovery of a seventeenth-century collection of Chinese Christian texts: The manuscript ’Tian xue ji jie’,in «Sino-Western cultural relations journal», cit., 15, 1993, pp.1-26. La Biblioteca di Shanghai sorge dove c’è stato l’ultimo collegio dei Gesuiti e dove ha insegnato il prof. Pasquale D’Elia. Shanghai ha dato anche i natali a Xu Guangqi, che è sepolto nel quartiere cattolico di Zikawei. L’insediamento gesuita di Zikawei  fu fondato nel 1847 quando il superiore gesuita, P. Claude Gotteland, ordinò a Padre Lemaitre di acquistare la proprietà a quattro miglia fuori dalla città di Shanghai adiacente al luogo di sepoltura dell’eminente studioso. Un ramo della famiglia di Xu era rimasto fedele ai cattolici per anni e aveva costruito una piccola cappella su questa proprietà in un sito chiamato appunto Zi-ka-wei (letteralmente “villaggio della famiglia Xu”). Si consultino: D. E. MungelloDrowning Girls in China Female Infanticide since 1650, Lanham, Md, Rowman & Littlefield Publishers, 2008, p.90; G. King, The Xujiahui (Zikawei) Library of Shanghai, in  «Libraries & Culture», University of Texas PressStable ,Vol. 32, n. 4, 1997, pp. 456-469.

[21] https://www.wdl.org/en/item/13534/#q=DE+URSIS+ .

[22] Come riportato da Standaert, l’arrivo di testi di idraulica, di autori come Zonca, Ramelli, ecc., risale al 1618 ed è quindi posteriore alla pubblicazione del trattato di de Ursis: N. Standaert, The transmission of Renaissance culture in seventeenth-century China, in «Renaissance Studies »Vol. 17 n.3, 2013, pp. 367-391. Sullo stesso argomento, R. André, J. Filliozat, Une bibliothèque de la Renaissance en Chine, in «Bulletin de l’Association Guillaume Budé», n.3, octobre 1953, pp.113-125; e ancora I. Iannaccone, Johann Schreck Terentius. Le scienze rinascimentali e lo spirito dell’Accademia dei Lincei nella Cina dei Ming, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 1998, pp. 63-64.

[23]G. Aleni, Vita del Maestro Ricci Xitai del Grande Occidente, a cura di Gianni

Criveller, Brescia, Centro Giulio Aleni, 2010, p. 167. Fra i correttori, anche Zhang Nai: T. Meynard SJ, The Jesuit Reading of Confucius The First Complete Translation of the Lunyu (1687) Published in the West, Brill Leiden, Boston, 2015, p. 43.

[24] E. Giunipero, Fede religiosa e ideali politici in Xu Guangqi alla luce della persecuzione di Nanchino, in Un cristiano alla corte dei Ming Xu Guangqi e il dialogo interculturale tra Cina e Occidente, a cura di Elisa Giunipero, Milano, Guerini e Associati, 2013, p. 167.

[25] M. Cigola, Y.Fang, Preliminary study of the work of Xu Guangqi in the technical knowledge in 17th century: from the perspective of drawing and representation, in IFToMM Workshop on History of Mechanism and Machine Science May 26-28, 2015, St-Petersburg, Russia, 2015, p. 2 https://www.academia.edu/12604535/Preliminary_study_of_the_work_of_Xu_Guangqi_in_the_technical_knowledge_in_17th_century_from_the_perspective_of_drawing_and_representation.  Inoltre si veda: L. A. Maverick, Hsü Kuang-Ch’i, a Chinese Authority on Agriculture,  in  «Agricultural History, American Historical Association», Vol. 14, n. 4, 1940, pp. 143-160.

[26] G. Bertuccioli, SABATINO DE URSIS, in Dizionario Biografico Degli Italiani, Torino, Treccani, 1991, p. 499. B. Zhang, M. Tian, Wang Zheng (1571–1644), in  Distinguished Figures in Mechanism and Machine Science Their Contributions and Legacies, Part 2, a cura di Marco Ceccarelli, Springer Science e Business Media B.V., 2010, pp. 247-260.  A p.254, il libro riporta che l’opera fu pubblicata fra il 1781 e il 1782.

Edizioni moderne del Tianxue chuhan nel 1965: Tianxue chuhan [Fondamenti di astronomia], [annotato da] Li Zhizao, Taipei, Taiwan xuesheng shuju, 6 volumi,1965; del Siku quanshu zongmu tiyao nel 1997: Siku quanshu zongmu tiyao [Catalogo generale con annotazioni della ‘Biblioteca completa dei quattro depositi’], [edizione rivista a cura di] Lu Guangming, Beijing, Zhonghua shuju, 2 volumi, 1997; del Nongzheng quanshu jiaozhu nel 1979 e 1994: Nongzheng quanshu jiaozhu  [Edizione annotata del ‘Trattato completo sull’amministrazione agricola’], [compilato da] Xu Guangqi, [a cura di] Shi Shenghan, Shanghai, Shanghai guji chubanshe, 3 volumi, 1979; Nongzheng quanshu [Trattato completo di amministrazione agricola], [compilato da] Xu Guangqi, in Zhongguo kexue jishu dianji tonghui. Nongxue juan [Raccolta di testi sulla scienza e la tecnologia cinesi. Agricoltura], [a cura di] Fan Chuyu, Zhengzhou, Henan jiaoyu chubanshe, 5 volumi,1994. Il Bertuccioli dice che l’opera Tianxue chu han ha avuto un’ulteriore ristampa in sei volumi nel 1966 a Taipei e venne poi ristampata a Shanghai nel 1843: G. Bertuccioli, Sabatino De Ursis, in op.cit., pp. 498-499.

[27] Z. Xiaohong, Le opere di carità di Xu Guangqi e il loro fondamento teologico, in Un cristiano alla corte dei Ming Xu Guangqi e il dialogo interculturale tra Cina e Occidente, a cura di Elisa Giunipero, Milano, Guerini e Associati, 2013, pp. 154-156.

[28] Si veda M. Fontana, Matteo Ricci un gesuita alla corte dei Ming, Milano, Mondadori 2005, pp. 290- 291.

[29] Arsi, Jap.-Sin., 14 ff.347v. – 348r, riportato in P. M. D’elia S.J., Galileo in Cina. Relazioni attraverso il Collegio Romano tra Galileo e i gesuiti scienziati missionari in Cina (1610-1640), Roma, Pontificia Università Gregoriana, 1947, pp. 30-31.

[30] L. M. Brockey, Journey to the East: the Jesuit mission to China, 1579-1724, Cambridge, Belknap Press of Harvard University Press, 2007, pp. 75-76.

[31] U.Baldini, The Jesuit College in Macao as a meeting point of the European, Chinese and Japanese mathematical traditions. Some remarks on the present state of research, mainly concerning sources (16th–17th centuries),  in The Jesuits, the Padroado and East Asian science (1552-1773),  a cura di Luís Saraiva e Catherine Jami, Singapore, Hackensack, NJ, World Scientific, 2008, p. 47. A p.48, nota 47, viene riportato un estratto della lettera.

[32] D. Shi-ran, La science sous les dynasties Ming et Qing :les contacts entre les civilisations chinoise et occidentale, in Regards historiques sur sciences II, n.160, 1990, Unesco, pp. 397-404.

[33] Ivi, p. 400. Nella stessa pagina fa un elenco dei gesuiti, tra cui de Ursis.

[34] M. Paolillo, Il giardino cinese: una tradizione millenaria, Milano, Guerini e Associati, 2007, p. 20. L’origine della stessa città di Pechino è connessa alla figura mitologica di Zeha “collegato al tema della regolamentazione dell’elemento acqueo”: M. Paolillo, Un ragazzo venuto da lontano. Origine, fortuna e ruolo nel simbolismo spaziale di Pechino, in La Cina e il mondo Atti dell’XI convegno dell’Associazione italiana Studi Cinesi Roma, 22- 24 Febbraio 2007, a cura di Paolo De Troia, Università La Sapienza Roma Edizioni Nuova Cultura Roma, 2010, p. 417.

[35] D. Latini, Yu il Grande: biografia di un mito Ricostruzione e interpretazione simbolica del mito delle acque debordanti, tesi di Laurea (relatore Prof. Riccardo Fracasso), Università Ca Foscari Venezia, Anno accademico 2013/2014.

[36] D. Guida, Xu Guangqi e la ricostruzione della legittimità della dinastia Ming attraverso il pensiero occidentale, in Un cristiano alla corte dei Ming, cit., p. 93. Per le edizioni moderne delle opere di Xu: Xu Guangqi zhuyi ji, Scritti vari e opere tradotte di Xu Guangqi, [compilato da] Shanghaishi Wenwu Baoguan Weiyuanhui, Shanghai, Shanghai guji chubanshe,1983; Xu Guangqi ji, Opere complete di Xu Guangqi, [edito da] Wang Chongmin, Shanghai, Shanghai guji chubanshe, 2 Voll., 1984.

[37] D. Lambertini, La fortuna delle macchine senesi nel Cinquecento, in Prima di Leonardo Cultura delle macchine a Siena nel Rinascimento, a cura di Paolo Galluzzi, Milano, Electa,1991 pp. 135-146.

[38] Ivi, p. 137.

[39] Ivi, p. 94.

[40] L.Tiangang, L’armonia religiosa sulla “Via della Seta marittima”: il dialogo tra Confucianesimo e Cristianesimo, in Uomini e religioni sulla Via della Seta, a cura di Elisa Giunipero, Milano, Guerini e Associati, 2017, p. 113.

[41] Il concetto viene rafforzato da Y. Liu, The Complexities of a New Faith: Xu Guangqi’s Acceptance of Christianity in «Journal of Religious History», Religious History Association Vol. 37, n. 2, June 2013, pp. 228 -244. Specificamente a p. 236,Yu Liu dice: “In a preface to Sabatino de Ursis (1575–1620)’s treatise Taixi Shuifa [Western Irrigation], Xu famously summarised the relationship of Christianity with his native belief as supplementing Confucianism and repudiating Buddhism (buRu yiFo).”

[42] M. Cigola, Y.Fang, op.cit., p. 3.

[43] Si veda Z. Baichun, T.Miao, Wang Zheng and the Transmission of Western Mechanical Knowledge to China, in Transformation and Transmission: Chinese Mechanical Knowledge and the Jesuit Intervention, a cura di Zhang Baichun e Jürgen Renn, Max Planck Institute for the History of Science, Berlino, 2006, p.81. Si veda anche K-H. Hsiao, H –S. Yan, Mechanisms in Ancient Chinese Books with Illustrations, Springer, 2014, dove a p.116 si dice che de Ursis introduce la vite di Archimede  e a p.118 si riportano le illustrazioni.

[44] M. Cigola, Y.Fang, op.cit., p. 3.

[45] “«Why did modern science, the mathematization of hypotheses about Nature, with all its implications for advanced technology, take its meteoric rise only in the West at the time of Galileo? … why modern science had not developed in Chinese civilization (or Indian) but only in Europe? » This question was sharpen by his realization that «between the first century B.C. and the fifteenth century A.D., Chinese civilization was much more efficient than occidental in applying human natural knowledge to practical human needs»”: J. Needham, The Grand Titration: Science and Society in East and West, Toronto, University of Toronto Press, 1969, pp. 16 e 190.

[46] E.Bautista Paz, M. Ceccarelli, J. Echávarri Otero, J. L.Muñoz Sanz, A Brief Illustrated History of Machines and Mechanisms, in «History of Mechanism and Machine Science», Volume 10,Springer, 2010, p. 20.

[47] Ivi, pp. 19-20.

[48] M. Cigola, Y.Fang, op. cit., p. 4. A proposito delle invenzioni di Archimede, si rimanda a: Z. Baichun et Al., Archimedean Mechanical Knowledge in 17th Century China, in The Genius of Archimedes – 23 Centuries of Influence on Mathematics, Science and Engineering   Proceedings of an International Conference held at Syracuse, Italy, June 8-10, 2010,  a cura di S. A. Paipetis e M. Ceccarelli, Springer  2010, pp.189-205; Z. Baichun, Mechanical Technology, in A History of Chinese Science and Technology, a cura di Yongxiang Lu, Vol.3 Springer, pp. 277-384.

[49] E. Corsi, Missionari, saperi e adattamento tra Europa e imperi non cristiani. Atti del Seminario (Macerata 14 maggio 2013), a cura di Vincenzo Lavenia e Sabina Pavone, Macerata, Edizioni Eum, 2015, pp. 78-79.

[50] Ivi, p. 81.

[51] Ivi, p. 82.

[52] Le diverse et artificiose machine del capitano Agostino Ramelli dal Pnte Della Tresia Ingegniero del Christianissimo Re di Francia e di Pollonia. nelle quali si contengono varij et industriosi movimenti, degni di grandissima speculatione, per cavarne beneficio infinito in ogni sorte d’operatione: composte in lingua Italiana et Francese a Parigi in casa dell’autore, co. privilegio del re 1588. Con riferimento allo studio della Cigola, un’altra fonte è: B. S. Hall e A. Ramelli, A Revolving Bookcase by Agostino Ramelli, in « Technology and Culture», Vol. 11, n. 3, Jul., 1970, pp. 389-400, in cui si  nomina anche de Ursis alla nota 17, p. 395. E inoltre P. JIxing, The Spread of Georgius Agricola’s De Re Metallica in Late Ming China, in  T’oung Pao, Vol. 77, Liv.1/3,  Brill, Leiden, 1991, pp. 108 -118.  Si veda inoltre L. Reti, Leonardo and Ramelli, in « Technology and Culture», The Johns Hopkins University Press,Vol. 13, n. 4, Oct.,1972, pp. 577-605.

[53] A. Tamburello, La cultura occidentale nel Giappone Tokugawa: Parte I: Gli sviluppi del nanbangaku e l’apporto attraverso la Cina, in «Il Giappone», Vol. 19, IsIAO, Roma, 1979, p. 147. Notizie biografiche su Li Zizao e Xu Guangqi, con riferimento all’Idraulica, in A. W.Hummel, Eminent Chinese Of The Ch’ing Period 1644-1912 Vol.I  The Library of Congress Washington, 1943, in cui alla voce Hsu  Kuang -ch’I, a cura di J.C. Yang, pp.316-318, si parla di de Ursis e dell’Idraulica; alla voce Li Chih- tsao, a cura di P. Y. Teh-Lu e J.C. Yang, pp. 452-454, si parla di de Ursis precisamente a p. 453; e ancora K. Hashimoto, Hsu Kuang-ch’i and Astronomical Reform:The Process of the Chinese Acceptance of Western Astronomy 1629–1635, Kansai, Japan, Kansai University Press, 1988, dove a p.16 si parla dell’Idraulica. Inoltre, sempre sull’Idraulica cinese, si veda il già citato: E.Bautista Paz, M. Ceccarelli, J. Echávarri Otero, J. L.Muñoz Sanz, A Brief Illustrated History of Machines and Mechanisms, Springer, Science + Business Media B.V., 2010, in particolare al Cap 2, Chinese Inventions and Machines On Hydraulic Machinery, pp. 26 -32. Per un’analisi storica della tecnologia sulle macchine nell’Idraulica, si rinvia a C. Rossi, F.Russo, F. Russo, Ancient Engineers’ Inventions Precursors of the Present, Springer, 2009, pp. 81-148, in particolare per la vite di Archimede (nota in Cina come “la coda del drago”), p. 101. Inoltre, P. Palmieri, Breaking the circle: the emergence of Archimedean mechanics in the late Renaissance, in « Archive for History of Exact Sciences», Vol. 62, n. 3, Springer, May 2008, pp. 301-334.

[54] Si veda: D. L. Baker, Jesuit Science through Korean Eyes, in « Journal of Korean Studies Contents», Vol. 4, 1982-83, University of Washington Center for Korea Studies, 1982, pp. 207-239 (viene citato de Ursis alla nota 11, p. 210 ); Idem, The Seeds of Modernity: Jesuit Natural Philosophy in Confucian Korea,  in « Pacific Rim Report », n. 48, August 2007.

Sull’impatto delle macchine di de Ursis si veda  S. Kink, MA, Beistand für die Himmlischen Kräfte: Pumpentechnik, in Sabatino de Ursis’ Taixi shuifa 泰西水法 (Hydromethoden des Großen Westens, 1612), https://www.georgius-agricola.de/downloads.html L’articolo presenta vari estratti dell’Idraulica che risulta così essere non un semplice trattato ma una summa della fisica aristotelica appresa da de Ursis nel Collegio di Coimbra, soprattutto con riferimento all’effettivo uso che delle macchine idrauliche viene fatto, per esempio in Giappone.

[55] D. Bartoli, Delle Opere del Padre Daniello Bartoli della Compagnia di Gesù Volume XVII Della Cina Libro III, dalla Tipografia di Giacinto Marietti, Torino 1825, pp.15-18; nell’edizione originale secentesca, pp. 545ss. Recentemente è stata pubblicata una nuova edizione dell’opera di Bartoli: D. Bartoli, L’Asia Istoria della Compagnia di Gesù, a cura di Umberto Grassi Introduzione a cura di Adriano Prosperi Contributi di Elisa Frei, Torino, Einaudi, 2019.

[56] Si riferisce a Padre Giovanni Andrea Giordano, anch’egli matematico e missionario in Cina che morì a Nanchino nel 1613.

[57] S. Santagata, Istoria della Compagnia di Gesù appartenente al Regno di Napoli, descritta dal P. Saverio Santagata della medesima Compagnia dedicata a sua Eminenza Il Signor Cardinale Antonino Sersale, Arcivescovo di Napoli, Parte Quarta, Napoli, Stamperia Vincenzo Mazzola, 1757, pp. 177-178.

[58] Il progetto“Translating Western Science, Technology and Medicine to Late Ming China: Convergences and Divergences in the Light of the Kunyu gezhi 坤輿格致 (Investigations of the Earth’s Interior, 1640) and Taixi shuifa 泰西水法 (Hydromethods of the Great West, 1612),” dal 2018 al 2021, finanziato dalla German Research Foundation (DFG), sotto l’egida dell’Unesco.

[59] Per il contributo di Leonardo sull’idraulica, si veda anche L. Reti, The Leonardo da Vinci Codices in the Biblioteca Nacional of Madrid, in «Technology and Culture»,  Vol. 8, n.4, Oct.,1967, pp. 437-445.

[60]F. Rosati, L’Islam in Cina Dalle origini alla Repubblica Popolare, Roma, L’asino d’oro edizioni, 2017, passim.

[61] Ivi, p. 37.

[62] Si veda: J. Goody, Rinascimenti. Uno o molti?, Roma, Donzelli, 2010, passim.

[63] Si veda J. Needham, Science and Civilisation in China, Vol. 4: Physics and and Physical Technology, Part. II Mechanical  Engineering, Cambridge University Press,1965, passim.

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