Maccagnani e De Lucrezi: diatriba sul “Cristo morto” di Lecce e Gallipoli
di Antonio Faita
Il crescente interesse degli ultimi anni nei confronti del fenomeno della produzione artistica in cartapesta mi ha spinto ad approfondire, nell’ambito dello studio della ritualistica locale, le committenze, soprattutto confraternali, e maestranze che a metà Ottocento gareggiarono nella produzione della statuaria in cartapesta. Della splendida città di Gallipoli è fin troppo nota la vicenda confraternale[1] iniziata in epoca medievale e sviluppatasi in età barocca, ma tuttora vivace e significativa in ambito pugliese e meridionale. Vicenda che ha lasciato il segno nella ritualistica tradizionale con le tipiche processioni devozionali e penitenziali nelle quali la statuaria aveva la funzione di umanizzare l’evento religioso trasformandolo con grande capacità espressiva in una mistica narrazione popolare.
Tra il XVIII e il XIX secolo, la cartapesta leccese diventa la protagonista assoluta, soprattutto nell’800, quando ormai acquista una propria identità, rafforzandosi e diffondendosi moltissimo. Nella città di Lecce nascono così numerose botteghe. Fu il secolo dei grandi maestri, attorno ai quali si avvicendarono molti discepoli, che divennero a loro volta abili statuari.
E’ opinione diffusa in ambiente popolare gallipolino che quasi tutta la statuaria in cartapesta sia stata realizzata tra fine Ottocento e primi anni trenta del secolo successivo, quando operò a Gallipoli il noto laboratorio d’arte di Agesilao Flora[2]. Ed in verità pochi sono gli esemplari, diciamo così, di metà Ottocento presenti nelle chiese cittadine, tra i quali un bellissimo “Cristo morto” nella chiesa confraternale di Santa Maria degli Angeli, statua sulla quale ho voluto riservare una prima notazione d’archivio.
E’ stata attribuita, sulla scorta di quella esistente a Lecce nella chiesa di Santa Teresa, ad Antonio Maccagnani[3], notissimo cartapestaio leccese[4].
Essa presenta una chiara dipendenza dal volto del Cristo morto con i fluenti capelli raccolti sul lato sinistro, che Diego Villeros scolpì in legno sul finire del ‘600 ed oggi si può ammirare nella chiesa di San Francesco d’Assisi a Gallipoli[5].
Ma non al Maccagnani va assegnata il Cristo morto di Santa Maria degli Angeli di Gallipoli, bensì ad Achille De Lucrezi[6] che con l’ambiente gallipolino aveva intrattenuto rapporti già nel 1865 e che certamente aveva visto il Cristo morto in San Francesco d’Assisi[7].
Ne dà certezza una annotazione conservata nel “Libro dei conti” della confraternita di Santa Maria degli Angeli nel quale si legge: “Spesa pel Cristo morto= All’artefice Achille de Lucrezi di Lecce, per la statua del Cristo morto, pattuita D(ucati) 100, a dì 23 marzo 1866 si è dato a conto la somma d. 60”[8].
La minuta descrizione delle spese fatte per il trasporto della statua da Lecce a Gallipoli ci informa, anche, sul conto delle fatiche prestate dal maestro De Lucrezi per “lavorare la bara dorata… per ornare il letto del Cristo morto posto in un’urna uscita in processione nel Giovedì Santo”, il 29 marzo del 1866[9].
Stabilita, pertanto, e senza ombra di dubbio la paternità del Cristo morto di Gallipoli al De Lucrezi, resta da individuare l’autore della statua di Lecce che, senza alcun fondamento, viene invece generalmente attribuita ad Antonio Maccagnani[10].
Il raffronto fotografico dei due lavori non lascia dubbio sull’unica matrice artistica, dovendosi peraltro annotare che apparirebbe insostenibile una più tarda replica in Gallipoli, da parte del De Lucrezi, dell’esemplare di Lecce. Ci soccorre a tal proposito la schematica ricostruzione delle vicende della statua leccese descritta il 10 settembre 1880 da mons. Salvatore Luigi dei Conti Zola nel corso della “Santa visita” eseguita alla confraternita del Calvario, che risulta eretta nel 1868 e formalmente riconosciuta il 9 ottobre 1869[11]. Tale confraternita si trasferì nel 1898 nella chiesa di Maria SS. Annunziata, accorpandosi con la confraternita dei SS. Medici. Nel 1919 e fino ai primi anni ’30 si stabilì in San Matteo mentre, dagli inizi degli anni ’50, fu in San Francesco della Scarpa e fino al 1973, anno in cui prese in consegna, dalla disciolta Arciconfraternita del SS. Crocefisso e Gonfalone, la chiesa di Santa Teresa, dove è attualmente collocata la statua del Cristo morto.
E’ evidente che è possibile così datare la statua leccese solo ad epoca successiva al 1868, anno in cui fu eretta la confraternita del Calvario, oggi in Santa Teresa e che, in conseguenza, non avrebbe potuto eseguirne una copia in Lecce se non lo stesso De Lucrezi. D’altronde come avrebbe potuto il Maccagnani presentare in Lecce, cioè nello stesso ambiente artistico del De Lucrezi, una plateale replica di un soggetto che peraltro non è dimostrato abbia mai potuto vedere?
Il 1956 fu l’ultimo anno che la Confraternita portò in processione il simulacro del Cristo morto (del de Lucrezi) e l’Addolorata.
Il Vescovo mons. Biagio d’Agostino nel 1957 emanava un decreto che rivedeva e correggeva i riti della Settimana Santa fino ad allora vissuti nella più totale libertà senza alcun vincolo liturgico.
Un passo di detto decreto così recitava:
“Il diritto alla processione del Cristo morto il giorno del Venerdì Santo è della Confraternita del SS. Crocefisso. Le confraternite di Maria SS. degli Angeli e di Maria SS della Purità dovranno uscire all’alba del Sabato Santo alternativamente con il simulacro dell’Addolorata gli uni e della Desolata gli altri”.
La confraternita della Purità dopo l’attuazione dell’accordo declinò l’invito astenendosi dall’organizzare la processione, mentre la confraternita di S. Maria degli Angeli continuò a rispettare il decreto e ad uscire il Venerdì Santo, dietro la confraternita del Crocefisso con la propria statua dell’Addolorata, come accade ancora oggi.
[1] Cfr., E. PINDINELLI – M. CAZZATO, “Civitas Confraternalis. Le confraternite a Gallipoli in età barocca”, Ed. Congedo, Galatina 1997;
[2] Cfr., C. RAGUSA, “Guida alla cartapesta leccese” a cura di M. Cazzato, Ed. Congedo, Galatina 1993: “Agesilao Flora (1863-1952), noto più come valente decoratore e apprezzato paesaggista che come cartapestaio. A 17 anni emigra a Roma dove si pone al seguito di Maccari e dell’Ing. Koch. Rientra a Lecce attorno al 1891 e frequenta subito l’ambiente artistico provinciale, soprattutto la bottega di Achille De Lucrezi. Fa le prime esperienze nel campo della statuaria collaborando con Luigi Guacci, dove conosce e sposa Anna Guacci nipote di Luigi. Nel 1907 si trasferisce a Gallipoli dove assieme al cognato Eugenio Guacci, impiantono uno studi d’Arte e un laboratorio di lavorazione di cartapesta”, Scheda a cura di E. PINDINELLI.
[3] Cfr., M. DE MARCO, “La cartapesta leccese”, Ed. Del Grifo, Lecce 1997: “Antonio Maccagnani (1809-1892), apprese i primi rudimenti dell’arte dal De Augustinis (altri dicono da Pietro Surgente). Col suo talento artistico operò il rinnovamento dell’arte della cartapesta, superando il manierismo e il convezionalismo che ai suoi tempi imperava a Lecce. I suoi lavori suscitarono una vera e propria rivoluzione nel campo della modellatura in carta. Il Maccagnani ebbe ambìti premi e riconoscimenti”;
[4] In sede di restauro nel 1984, Antonio Malecore, l’attribuì ad Antonio Maccagnani e ne lasciò memoria con una iscrizione dipinta ai piedi della statua (!);
[5] E. PINDINELLI – M. CAZZATO, “Dal ghigno infernale… all’orrida bellezza. Il “Malladrone” di Gallipoli tra tradizione e cultura popolare”, Tip. Corsano, Alezio 1999;
[6] Cfr., M. DE MARCO, “La cartapesta leccese”: “Achille De Lucrezi (1827-1913), discepolo di Francesco Calabrese dove per i primi anni modellò la creta. Poi iniziò a lavorare col Guerra, ma per sottrarsi ad ogni convenzionalismo, andò a studiare a Lecce con Andrea Majola ed in Roma per venti anni con il pittore Filippo Cipolla. Le vicende politiche lo costrinsero a ritornare a Lecce dove impiantò la sua modesta bottega di statuario, e diede impulso quasi industriale all’arte della cartapesta. Il De Lucrezi non appartenne mai alla scuola del Maccagnani, che per breve periodo frequentò da bambino, e andarsene come tanti altri in quanto il maestro, geloso della sua arte, si nascondeva addirittura quando doveva compiere le fasi più delicate del lavoro” – Cfr., C. RAGUSA, “Guida alla cartapesta leccese”, ”Tralasciando ogni convenzionalismo, il De Lucrezi, dette alle sue figure naturalezza, libertà e varietà di atteggiamenti ed alle linee delle pieghe maggiore morbidezza. Anche il De Lucrezi ebbe ambiti premi e riconoscimenti;
[7] E. PINDINELLI, “Cristina di Bolsena V. e M. nel culto e nella iconografia gallipolina”, Tip. Corsano, Alezio 1999;
[9] Cfr., Ibidem, “allo stesso; cassa per trasportare la statua suddetta d.2,40. Allo stesso; paglia pel trasporto di detta statua, d.0,40. Allo stesso; pel il traino che trasportato la statua, d. 3,60. Allo stesso; strisce dorate per la bara di detta statua, d. 6,60. A primo aprile 1866. Complimenti pagati a Perruccio per la benedizione del Cristo morto e per la processione del Giovedì Santo”;
[10] Cfr., C. RAGUSA, “Guida alla cartapesta leccese”;
[11] ACALecce, mons. Salvatore Luigi Zola, “Visita Pastorale” (10.09.1880), f.276.
Pubblicato su Il Bardo, Anno XI-2001, luglio-agosto, n°1.
Vittorio Bodini inventò il Sud, i salentini inventino se stessi, traggano dalle loro multiformi tradizioni il filo conduttore delle specificità culturali e sociali, convergano su idee e progetti scevri da orpelli di propaganda, guardino al sodo e soprattutto s’impegnino a salvaguardare il territorio dalle pale eoliche, dalle ciminiere, dai depuratori che non depurano, dalle costruzioni abusive sulle coste, recuperino i monumenti e i luoghi della storia. Puliscano le campagne e le spiagge insozzate dai rifiuti, tolgano il cemento e lascino respirare la terra, lascino in pace gli ulivi secolari nelle campagne.
Non basta lo slogan: il sole, lu ientu e lu mare per affermare qualcosa d’importante del Salento. Sì, vero, il sole c’è, il vento c’è, il mare c’è e poi?… Non si può continuare a ripetere sempre le stesse cose. Le case di calce sopravvivono all’incuria del tempo, le piazze dormono e negli angoli si stipano le immondizie, lo Ionio e l’Adriatico sono in apnea, le strade come stoffe lacerate sono impercorribili e insidiose.
Il paesaggio del Salento suscita emozioni, ai salentini il compito di reinterpretarle e trasmetterle agli altri con obiettività, senza eccessi. In superficie il patrimonio artistico è costituito di inestimabili tesori artistici; in profondità vi sono grotte scolpite dallo scalpello della pioggia e dallo scorrimento di ruscelli, nonché dalle onde del mare. Le leggende narrano di luoghi incantevoli abitati da streghe e diavoli. La Zinzulusa è la più famosa, il cunicolo dei diavoli a Porto Badisco si rivelò essere invece un luogo di sepoltura, Grotta Romanelli (presso Castro Marina) destinata alla vita quotidiana e al culto, Grotta dei Cervi (Porto Badisco) è un libro dell’antichità con simboli, figure e immagini sulle pareti levigate e sulle volte, ma forse anche un “santuario” sotto le cui volte gli stregoni scolpivano le loro visioni e riti propiziatori. Il Salento è meraviglia sia in superficie sia in profondità. Gli
Le vetrine di Carlo Deison. Visioni in un teatro stabile
di Pier Paolo Tarsi
Vi può essere artista salentino inteso come l’artista che in questa terra che chiamiamo Salento ha avuto i propri natali, oppure artista che nel Salento ha trovato i propri maestri, ossia coloro che all’arte lo hanno introdotto, iniziato. Niente di tutto ciò può servire a inquadrare Carlo Deison come un “artista salentino”: ciò che nel suo caso autorizza a classificarlo come tale è un richiamo misterioso e saldo che lo ha condotto in questa terra tre decenni fa. Salentino d’elezione dunque, o salentino per ispirazione, in quanto sedotto dalle bellezze di una terra che non ha più voluto lasciare, una terra incontrata per caso come uno zingaro viandante e ai cui colori e alle cui meraviglie di pietra delle sontuose masserie egli ha dedicato anni della sua opera successiva. Terra da dipingere, da ritrarre, da abitare, terra in cui mettere radici robuste come quelli di un ulivo, in cui comprare una dimora, in cui rifarsi un’esistenza dopo un errare senza meta da Capo Nord al Marocco.
Qualcuno scrisse che la vera opera d’arte di un artista deve essere la propria vita. Non sta a noi dire se ilDeison, oggi sessantenne, sia riuscito o meno ad adempiere allo spirito di questo celebre aforisma, tuttavia sul varco di ingresso che quelle parole aprono si svela chiaramente il compito che qui ci assumiamo: ricercare riflessi che, come in un ologramma in cui il tutto si riflette in ogni sua parte, riempiono uno spazio che dalla sfera biografica oscilla continuamente sui prodotti artistici che hanno riempito ed accompagnato l’esistenza di questo
Tra i molluschi marini, autentici gioielli della gastronomia, ce n’è uno che spicca in modo particolare, naturalmente, si parla dell’ostrica, un mollusco nobile universalmente apprezzato e con un ineguagliabile record di qualificate referenze storiche e letterarie. Nei tempi antichi la troviamo descritta, magnificata ed esaltata già da Omero, Virgilio, Petronio e molti altri padri della letteratura, ma ha incontrato, senza soluzione di continuità, in ogni epoca illustri estimatori, prodighi di rime, tra questi, Goethe, Voltaire e persino il cupo Giacomo Leopardi, che ebbe a dedicarle dei gratificanti versi. Plinio, cento anni prima di Cristo, le dedica ampie trattazioni e fa una puntuale descrizione del sistema di allevamento messo a punto da Sergio Orata, indicato dallo stesso come un ricco ed avaro cavaliere romano che doveva la sua grande fortuna proprio alle ostriche. Questi, infatti, aveva messo a punto, un innovativo sistema di allevamento su pali con il quale riuscì ad ottenere ostriche più grasse, turgide e dolci, suscitando così, una vera e propria mania fra i suoi contemporanei più ricchi, e a renderle di moda, praticamente indispensabili, nei convivi eccellenti. Lo stesso Giulio Cesare preferiva le ostriche a qualsiasi altro cibo e sulla sua mensa se ne consumavano quantitativi industriali. La richiesta, ad un certo punto divenne tanto ingente, che si dovettero esplorare nuovi areali di rifornimento, si scoprì così che le ostriche di Brindisi, non meno famose e prelibate di quelle della Gran Bretagna, trovavano un ambiente ideale nel Lago di Lucrino, ove, dopo una breve stabulazione, acquisivano particolare dolcezza, sapidità e grassezza. Allo stesso scopo erano adibiti anche i Laghi di Fusaro e Miseno.
Per quanto riguarda Taranto, nonostante non tutti concordino, l’ostricoltura si
Tutto su… il verde melograno dai bei vermigli fior
Il melograno (Punica granatum L.) è una classica essenza mediterranea della famiglia delle Mirtaceae, di sviluppo contenuto, ha il fusto tipicamente contorto ed è sovente circondato da polloni. Le foglie, sono caduche, lanceolate e si presentano prima rossastre, poi verde intenso; i fiori, come ricordato in una celeberrima poesia dal Carducci (“…il verde melograno dai bei vermigli fior”), presentano appunto un’inconfondibile, vistosa colorazione arancione.
I frutti, correttamente detti balauste, sono delle bacche con epicarpo duro ricco di tannini, suddivise all’interno in 7-15 loculi, che ospitano i “chicchi” di consistenza succosa dalla colorazione rosso-trasparente contenenti i semi; i “chicchi” vengono anche detti granati e non a caso, infatti, per lucentezza e bellezza, ricordano le omonime gemme.
Pianta originaria della Persia e dell’Afghanistan, viene più volte citata nella Bibbia e da qualche millennio è coltivata in tutto il bacino del Mediterraneo, ove presso gli antichi popoli, il suo frutto era un simbolo di fertilità consacrato a Demetra, cui veniva offerto. Sempre nella mitologia, era associato al mito di Persefone e pare che fosse proprio questo il pomo della discordia che Paride donò a Venere, ponendo le premesse della guerra di Troia.
Proprio per il suo valore simbolico, la melagrana, è anche un elemento estremamente ricorrente nelle ricche decorazioni che caratterizzano l’architettura barocca salentina. Presso gli antichi i frutti, oltre ad essere consumati allo stato fresco, venivano trasformati in confetture e, facendo fermentare il succo, in una bevanda alcoolica molto diffusa e apprezzata.
Fiorisce in maggio, e questa fioritura tardiva, mette al riparo la produzione dai ritorni di freddo e dalle gelate primaverili. Nel Salento la maturazione delle balauste si verifica solitamente nei primi giorni d’ottobre e a ricordarla, come spesso avviene nella cultura contadina, anche in questo caso è stato coniato un apposito distico popolare : “ti San Frangiscu, la sita allu canistru”, ossia di san Francesco d’Assisi (4 ottobre) la melagrana nel canestro. In questo periodo, invero, le melagrane non sono ancora perfettamente mature, ma si preferisce coglierle con una porzione del rametto che li porta così da evitare fenomeni di marcescenza e farle maturare completamente in fruttaio, poiché le abbondanti piogge, e più ancora le nebbie autunnali, provocano la crepatura dell’epicarpo e il conseguente rapido deperimento.
Le limitate esigenze colturali, la spiccata resistenza alla siccità e l’adattabilità ai più diversi tipi di terreno, anche poveri, la rendono estremamente congeniale all’ambiente salentino, ove sono rinvenibili almeno una decina di pregevoli cultivar tradizionali, distinguibili per le caratteristiche dei frutti: piccoli, grandi, più o meno dolci e con semi più o meno grandi.
A Palmariggi, paesino nei pressi di Otranto, si tiene ogni anno un’interessante sagra delle melagrane detta “paniri de site” ove “paniri”, sta per festa, festa appunto delle melagrane.
Negli ultimi decenni, la sua coltivazione, ha subito una fortissima contrazione ed è caratterizzata dalla diffusione di piante isolate o di piccoli nuclei sufficienti a fornire produzioni poco più che familiari o comunque su piccola scala. Solo negli ultimi anni, con il decadere della convenienza economica di molte altre coltivazioni tradizionali e con il crescere dell’interesse dei consumatori verso questi buoni e decorativi frutti, si cominciano a intravedere degli esempi di moderne e razionali coltivazioni sulla scorta di quanto è già avvenuto in Grecia e soprattutto in Spagna, paese da cui ogni anno importiamo grossi quantitativi di frutti.
Le melagrane, di cui le caratteristiche più apprezzate sono: la dolcezza, la minutezza del seme, e una spiccata colorazione dei chicchi, sono nel Salento, anche ingredienti d’alcuni dolci tradizionali sicuramente d’antichissima origine, quali la colza e la coddhiva.
Colza
Si tratta di un dolce semplicissimo, d’origine certamente molto datata, ma ancora in auge in alcuni paesi del Salento. Sgranate le melagrane in un recipiente, unite cioccolato fondente a pezzettini, mandorle tostate e tritate, cospargete il tutto con vincotto, mescolate diligentemente il tutto e servite in singole coppette.
Coddhiva
Anche la coddhiva, come la colza è un dolce d’antica tradizione, noto non solo nel Salento (ove il suo uso è limitato ad alcuni paesi della Grecìa Salentina), ma con piccole varianti, anche nelle province di Bari e Foggia e in diversi paesi della Calabria e della Sicilia, ove costituisce spesso una sorta di dolce rituale legato alla ricorrenza del 2 Novembre (commemorazione dei defunti). Cocete in pignatta il cosiddetto “grano stompato”, ossia il grano perlato, lasciatelo raffreddare e unite chicchi di melagrana, mandorle tostate e tritate, gherigli di noci tritati, cioccolato fondente a pezzettini e vincotto, servite in singole coppette. A piacere potete aggiungere anche dello zucchero e aromatizzare con della cannella in polvere.
Parola di pasticciere! L’olio extravergine d’oliva salentino batte tutti
Partiamo da lontano, dai tempi in cui gli uliveti dei Messapi rappresentavano una grande risorsa per la loro produttività e per l’ottima qualità delle olive, una in particolare, la Sallentina, menzionata da Catone nel suo “trattato Sull’agricoltura” e da Plinio il Vecchio nella sua opera “Storia Naturale”.
L’olivo selvatico era, ma lo è ancora, chiamato “oleastro”, stesso nome utilizzato dagli anziani della vicina Grecia.
E dopo alcuni millenni ci ritroviamo, ai giorni nostri, a sentirci dire “ma cosa me ne faccio di questi ulivi secolari?”.
…Scusate ma credo sia stata una delle frasi che mi ha maggiormente turbata durante una settimana di studio sull’olio extra vergine di oliva.
Avrei voglia di mantenere vivi e fruttuosi quegli ulivi secolari, solo per la gioia di ammirarli, solo per sdraiarmici all’ombra della enorme chioma con un libro ed un buon bicchiere di rosato a meditare, ma questo è tutto un altro discorso, questo fa parte del mio modo di essere e di amare la mia terra.
Percorrendo la Lecce-Santa Maria di Leuca o risalendo da Lecce verso Bari ed ancora oltre, si può ammirare un panorama che pullula di ulivi stupendi, ognuno dei quali con imponenza attira la mia attenzione. Passerei ore a guardarli, a coglierne le differenze, le posizioni, i segni delle slupature; creature viventi, speciali, quali credo essi siano, almeno per chi ha vissuto sempre in loro compagnia. Una compagnia discreta, silenziosa e gentile, ma allo stesso tempo tanto generosa.
Mi riprendo dalle immagini bucoliche e riparto dalla mia passione per le ricette tradizionali salentine, con delle ricette dolcissime intrise di ricordi come la crostata della nonna preparata con l’olio, quello buono, come diceva sempre lei, le “pastareddhre”, i buonissimi biscottoni da colazione preparati con olio e latte e le “pitteddhre” le crostatine di una pasta sottile fatta con olio e vino, farcite con la “mostarda”, la confettura di uva da vino.
L’olio in pasticceria, purtroppo, è stato soppiantato da altri grassi meno
Il caso dei calvari nell’area Jonico-Salentina (II parte)
A rischio il patrimonio nazionale dei beni architettonici “minori”
Il caso dei calvari nell’area Jonico-Salentina (II parte)
di Francesca Talò
Figli dell’atavica miseria e della devota ignoranza delle popolazioni del Sud (quasi in toto acculturate dalla Chiesa e solo su base orale e attraverso l’iconografia sacra), i calvari cittadini esprimevano il senso della vicinanza e della sentita compartecipazione spirituale alle sofferenze del Dio-uomo. Le missioni popolari, poi, e le prediche dei padri quaresimalisti, facevano il resto.
Nella varietà delle diverse culture di appartenenza, i calvari del Grande Salento si rinvengono realizzati nelle vesti di un’architettura eclettica, sia pure minore, povera, essenziale. Le forme planimetriche, che si trovano replicate su siti diversi (certamente per l’utilizzo delle medesime maestranze), sono tradotte nelle tipologie a edicola, a emiciclo o esedra, a portico, a recinto o a monoptero, mentre i registri stilistici di maggiore riferimento si ispirano alla scuola classica e neoclassica, quella neogotica, del liberty e non di rado sono presenti esempi feriti al razionalismo, ma sempre con esiti estranei o lontani da quel che si definisce opera d’arte.
La mancanza di materiali nobili e l’impiego generalizzato e non trattato della pietra locale, proveniente dalle cave vicine, hanno consegnato manufatti poco resistenti all’aggressione degli agenti atmosferici e all’azione corrosiva del tempo. Rimane, comunque, la convinzione di quanto grandi fossero la volontà e il sacrificio dei devoti, nel realizzare al meglio un’esperienza di fede e di accostamento al sacro. Tanto, lo si evince dalla cura e dalla preoccupazione dei committenti, i quali tentavano di impiegare il meglio delle maestranze in materia, come attestato soprattutto dalle prestazioni degli scalpellini, autori del decorativismo delle scarne strutture di base, sempre poi abbellite da multiformi colonne, paraste fregiate, intagli, girali e festoni carichi di foglie e fiori, terminanti con eleganti bandelle, cartigli con iscrizioni commemorative, cuspidi e pennacchi, nicchie, mensole ed altri elementi aggettanti, vasi replicanti forme classiche, acroteri ed altri elementi di chiaro prestito barocco. I risultati certamente evocavano una cultura dell’estetica, ma di stampo tipicamente popolare, così che quasi mai si arrivava all’idea di monumento, intesa nell’accezione propria del termine.
Infatti, a guardarli, è evidente che trattasi per lo più di architetture povere, a volte elementari, oggi strutturalmente malate e composte di ornamenti scultorei o pittorici in stato di forte degrado o malamente recuperati con logiche distorte di intervento. Sovente, la loro sopravvivenza è debitrice alla sola e devota generosità di privati, stante quella perniciosa assenza di una mirata politica di recupero da parte delle pubbliche amministrazioni, sempre miopi nei confronti della salvaguardia dei beni culturali minori.
Tuttavia, questi minuscoli tempi dello spirito, pur nella loro condizione minimale e lontani, com’erano, dai fasti degli ambienti liturgici, sempre hanno svolto il ruolo di fissare in concreto nell’immaginario dell’anima della pietà popolare – proprio attraverso la somma di semplici e artigianali elementi scultorei e figurativi – le scene più emblematiche della PassioChristi, così come narrata dai Vangeli. E, ancora, scorrendo le schede iconografiche di questa pubblicazione, non passa inosservata la persistenza di una produzione figurativa catechizzante (si tratti di affreschi, di tele, di bassorilievi, di statue lignee, in pietra, terracotta, di cartapesta o a impasto di cemento e gesso romano), che però sembra attingere la fisiognomica dei personaggi direttamente dai tanti volti rudi e sofferenti della terra di Puglia: i Cristi ripetono le sembianze contadine, le Madonne mutuano le espressioni di quel dolore ancestrale di tante madri del Sud, che hanno vissuto esperienze luttuose, mentrela Maddalena ola Veronica ricalcano forme e posture, tipiche delle popolane; e sempre ispirati al reale osservato appaiono anche i modelli figurativi dell’apostolo san Giovanni, i due ladroni o i restanti attori della Via Dolorosa.
Raro è il rinvenimento di firme di artisti certificati, come quelle di Giuseppe Buttazzo (1821-1890) e Alessandro Bortone (1848-1939), attivi a Diso, Agesilao Flora (1863-1952) di Latiano o Ciro Fanigliulo (1881-1969) di Grottaglie, pittori e affreschisti rinomati, la cui presenza testimonia, in genere, l’intervento generoso di un qualche aristocratico nell’elenco dei committenti di questi sacri edifici.
Un altro dato merita di essere rimarcato: la notevole concentrazione di calvari superstiti in questa porzione geografica della Puglia. Il fenomeno, a parer nostro, si giustifica e si legittima sostanzialmente nella consolidata e secolare presenza degli ordini mendicanti, dei gesuiti e dei passionisti, protagonisti attivi della cultura religiosa popolare presso molte comunità; una presenza rivelatasi fortemente incisiva già a partire dal tempo della riforma cattolica e avvalorata anche dall’azione delle confraternite e dalla pedagogia pastorale delle diocesi e delle parrocchie.
La porzione temporale, entro cui si colloca il patrimonio dei calvari pugliesi, parrebbe circoscritta a circa mezzo secolo e si situa fondamentalmente tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi tre del Novecento. Sporadiche le realizzazioni che cadono fuori da simili riferimenti diacronici. Non è azzardato, tuttavia, pensare, come attestano alcuni esempi riportati dal Perretti, che alcuni dei calvari osservati sono rinati sui ruderi di altri più datati, abbattuti o scomparsi a causa della povertà dei materiali impiegati, per l’esiguità delle loro dimensioni, ma anche per il mutare dell’assetto urbano, che nel tempo, per l’ampliamento delle zone da demizzare, li ha miseramente sventrati o atterrati. Tanto, perché non ci sembra di cogliere alcuna documentata giustificazione storica, che limiti il loro fiorire al solo segmento epocale suddetto, tenuto pure conto del fervore dei suggestivi riti della Passione, attivi in ogni angolo del Salento e che animavano, fin dal sec. XVII, le tante pratiche di pietà, presso le laboriose e devote popolazioni di questa Terra.
Volendo concludere con una qualche riflessione da consegnare ai Lettori, vale la pena ricordare che i calvari salentini (sopravvissuti al guasto o ad azioni di demolizione vera e propria) parlano ancora del legame inscindibile tra sacro e profano, che connotava la civiltà contadina; pertanto, oggi, simili edifici sono da tutelarsi, perché tale è anche il dettato delle norme sui beni culturali, in quanto documenti materiali del patrimonio demo-etno-antropologico[1] di una comunità.
Inquadrati in un contesto più tecnico, essi valgano, ancora oggi, quali testimoni dei tanti saperi e delle competenze di perite maestranze e abili artigiani della civiltà preindustriale; per questo, recuperarli dal degrado in cui versano, vuol dire conservare i segni delle tecniche e delle strategie costruttive, a cui erano estranei alcuni materiali e l’uso massiccio della tecnologia, che ha sostituito la mano e la libera creatività dell’uomo. In questo momento, per molti di questi tempietti, appare urgente il risanamento dei danni statici, prima che le strutture vadano in collasso, come si evince dall’analisi in loco di alcuni di questi monumenti; interventi a regola d’arte possono, poi, risolvere o fermare la perniciosa decoesione dei materiali di fabbrica più usurati. E al fine di non incorrere in quel deprimente ibrido tra antico e moderno (come non è raro vedere), prima di operare e già in fase di progetto, vale la pena accertarsi dei materiali e delle tecniche costruttive poste in essere all’origine, per non sconvolgere – in situazione d’opera – l’autenticità dell’esistente e la validità storica[2] dell’edificio.
La conservazione è uno dei teoremi più categorici delle attuali scuole del restauro.
A tanto va ad aggiungersi la necessità di un programma attento di recupero degli affreschi e delle tele, che rappresentano le componenti più critiche degli antichi calvari salentini. Spesso per un fenomeno di sfarinatura o per scollamento di materiale di superficie, risultano illeggibili sia gli originari stilemi figurativi che la sintassi cromatica, quest’ultima snervata anche dagli attacchi delle muffe, stratificatesi nel tempo. Non mancano gli esempi di degrado anche per la ricca statuaria, che correda numerosi calvari; alcuni esemplari in cartapesta di certo valore artistico, provenienti dalle botteghe di Lecce, con firme anche prestigiose, denunciano distacchi e malformazione di parti non facilmente recuperabili.
Per tutto questo, anche, si leva, alta e autorevole, la voce dell’Autore – e noi lo ringraziamo – perché, se è pur vero che questi monumenti popolari non ricadono sotto l’interesse delle soprintendenze, è per vero che è un dovere civile, per chi li detiene, provvedere alla loro sopravvivenza, non solo per consegnarli al futuro della collettività, quale prezioso retaggio della cultura dei padri, ma anche per esperire nuove strategie e logiche di valorizzazione e di fruizione collettiva di simili beni culturali minori; “minori”, però, solo per un soverchio e tecnico modo di dire.
[1] In sintesi, non nuoce ricordare una breve nota di antropologia culturale, che vuole significare come la presenza dei calvari nei centri urbani del Mezzogiorno d’Italia – sia un segno forte di richiesta di protezione al divino. In tal senso, essi venivano edificati quasi sempre con orientamento a nord, forse come barriera capace di fermare il buio, inteso – nell’immaginario collettivo – come tutto ciò che oscura e mette in crisi l’esistenza individuale, familiare e di una comunità intera. In origine, sorgevano più frequentemente ai limiti dell’abitato; tanto, a significare una apotropaica presenza liminale tra il bene e il male, tra la vita e la morte, tra la luce e il buio. Al di là del valore connotativo di luogo-memoria dei dolori di Cristo, esso appare un segno del sacro che rassicura, che offre protezione dai pericoli materiali e spirituali e tiene lontane quelle inquietanti presenze malefiche, che sempre erano avvertite come reali nella quotidianità umile e sofferente delle masse popolari.
[2] In uno dei più datati documenti internazionali normativi sul restauro, la Carta di Venezia (1964), si dice che “la conservazione ed il restauro dei monumenti mirano a salvaguardare tanto l’opera d’arte che la testimonianza storica”.
A rischio il patrimonio nazionale dei beni architettonici “minori”.
Il caso dei calvari nell’area Jonico-Salentina, Saggio di presentazione del volume di: Bruno Perretti, Calvari. Architettura della pietà popolare nell’area Ionico-Salentina, Manduria 2011, pp. 7-15.
Quante genti erano passate per quelle contrade aride, seccate dal sole eppure opulente in certe stagioni. Genti che prima erano venute dal mare esuli dalle loro ricche e civili città e lì avevano trasportato i loro usi, i loro costumi, le loro divinità, la loro cultura e le loro colture.
Poi erano venute altre genti ed il più forte aveva sempre avuto ragione del più debole. Così i Romani avevano vinto i Messapi ed i Goti i Romani. Così quelle aride contrade, che schiudevano le porte del mare, erano state colonie dei Bizantini, dei Longobardi, dei Saraceni, dei Normanni, degli Aragonesi, degli Spagnoli, degli Austriaci e dei Savoia.
Ma Rosario queste cose non le sapeva, anche se in lui c’era la somma di tutte quelle genti; al massimo aveva sentito raccontare qualche leggenda che si riferiva alle scorrerie dei pirati o qualche fatto che aveva per protagonista il brigante Serafino che si nascondeva nei fitti boschi del Belvedere e la cui cappa serviva ad aprire qualsiasi porta.
Eppure di segni ce n’erano a testimonianza di tanta storia. Lì, giù verso Malepasso, alta sul mare c’era una torre di quelle fatte costruire da Carlo V che era collegata a vista con altre più o meno dirute, sempre alte sul mare, verso Tramontana e verso Scirocco e poi c’erano le masserie Grande e Piccola, retaggio dell’organizzazione agricola che aveva introdotto le colture intensive dei cereali per maggior comodità di prelievo fiscale. C’erano altri segni nei monumenti e nei manufatti di ogni tipo e le parole che egli usava tutti i giorni per comunicare erano un misto di greco e di latino, con qualche elemento di francese, di spagnolo e di arabo.
Ma egli queste cose non le sapeva. Aveva sempre saputo, però, ed era importantissimo, che per campare bisognava lavorare la terra, anche quella
La Survia del Salento leccese, il Sorbo ( Sorbus domestica L.)
di Antonio Bruno
Le donne come un frutto: la Survia del Salento leccese! Un frutto antico il Sorbo ( Sorbus domestica L.) che è originario dell’Europa Meridionale, dalla Spagna alla Crimea e all’Asia Minore, e che meriterebbe di essere presente sulla nostra tavola che sempre più spesso subisce la “monotonia” dei frutti dai sapori sempre uguali, che oramai non provocano “stupore”. In questa nota le caratteristiche di questo frutto del Salento leccese.
Leo (Lionardo) Vinci da non confondere con il geniale Leonardo da Vinci è un compositore e maestro di cappella vissuto intorno al 1600 che inserì il brano che segue nella sua commedia “Lo cecato Fauzo”
So’ le sorbe e le nespole amare,
So’ le sorbe e le nespole amare,
ma lo tiempo le fa maturare
e chi aspetta se ll’adda magna”,
se ll’adda magna’, se l’adda magna’,
se ll’adda magna’, se l’adda magna’,
So’ le sorbe e le nespole amare,
ma lo tiempo le fa maturare
e chi aspetta se ll’adda magna’,
se ll’adda magna’, se l’adda magna’,
se ll’adda magna’, se l’adda magna’,
Accussi’ so’ le femmene toste,
che s’arrangiano quanno t’accuoste,
tiempo e purchie le fanno ammulla’,
tiempo tiempo, purchie purchie,
tiempo e purchie le fanno ammulla’
Naturalmente le “purchie” altro non sono che i soldi!
Il Sorbo ( Sorbus domestica L.) è conosciuto nel Salento leccese con il nome di survia.
Il territorio rurale del Salento leccese è stato storicamente plasmato dall’attività di tanti agricoltori e basta fare una passeggiata per cogliere immediatamente la correlazione tra il sistema produttivo agricolo e la presenza di torri, castelli e masserie fortificate. Proprio in queste piccole porzioni di territorio una volta abitate dai nostri antenati è possibile cogliere una particolare forma di paesaggio, caratterizzata dalla presenza di colture tradizionali, spesso non più redditizie, che sono in stato di abbandono con il rischio di estinzione di alcune specie e varietà vegetali.
Ed è in queste particolari porzioni di territorio rurale del Salento leccese che è possibile la coesistenza di diverse condizioni produttive e paesaggistiche in un dinamico equilibrio ambientale che è ogni giorno a messo a rischio da una antropizzazione che rischia di far divenire il Salento leccese un’unica megalopoli popolata da case e strade.
Nel classico giardino familiare della masseria delle Cesine a Vernole del Salento leccese, piantato a lato della corte con lo scopo di avere sempre nella masseria un po’ di tutto, o meglio, almeno un frutto per ogni mese dell’anno, c’è un albero di Sorbo (Sorbus domestica L.).
Fra’ Domenico Palombi ha rinvenuto nel territorio del Comune di Martano del Salento leccese e di Carpignano Salentino alberi di Sorbo.
Nella determinazione del dirigente del Servizio Foreste della Regione Puglia del 26 marzo 2010, n. 65 in tema di “Disposizioni attuative per la raccolta ed epoche di raccolta del materiale di moltiplicazione forestale nei boschi e popolamenti da semi della Regione Puglia” si legge di un intervento finalizzato ad eliminare specie dominanti per dare spazio a specie sporadiche, tra cui c’è il sorbo.
Anche l’Università del Salento ha rilevato in uno studio la presenza del Sorbo anche se ha registrato un inselvatichimento dell’albero che una volta era coltivato (Curti et alt. 1974).
Roberto Quaranta, Marcello Solferino e Fabrizio Licchelli nel loro progetto “Piccoli Giardini” a Tiggiano del Salento leccese hanno previsto uno spazio chiamato “Alberi della memoria o dei frutti dimenticati” dove c’è il Sorbo. L’area di progetto si sviluppa lungo la direttrice di attraversamento del paese, che collega i comuni di Alessano, Corsano, Tricase: una strada che non è quasi più trafficata e che lascia spazio a un Giardino che tiene conto degli alberi del Salento leccese che rischiano l’estinzione e tra questi c’è appunto il Sorbo e che si ricollega alla tradizione dei Giardini delle Masserie del Salento leccese.
L’albero do Sorbo è elegante e ciò gli da titolo per essere presente nei parchi urbani e nei frutteti. E’ alto fino a 13 metri, molto longevo, i rami sono grigi e la gemma quasi glabra e vischiosa. Le foglie sono alterne e lunghe fino a 20 cm, con 6-10 paia di foglioline ovale o lanceolate sessili, dentate ai margini e acute all’apice. I fiori sono numerosi con il calice a cinque lacinie triangolari acute. Il frutto e’ lungo da 2 a 4 centimetri, di colore giallo-rossastro-arancione e punteggiato diventa di colore bruno a maturità. La polpa è verdognola e dolce quando il frutto è maturo.
Si adatta ovunque e ciò rende il Sorbo un’essenza utile alla valorizzazione di ambienti marginali.
La verità è che le sorbe che cogliamo dall’albero sono immangiabili ed è per questo che il Vinci le paragona alle donne particolarmente rinunciatarie e cocciute.
Le sorbe appena raccolte sono astringenti ed allappanti, ma se si attende facendole maturare ancora, ad esempio nella paglia, ecco che le sorbe arrivano all’ammezzimento, che è un processo mediante il quale i frutti acerbi, riposti ben distanziati l’uno dall’altro, su un vassoio di cartone o cassetta di legno, vengono conservati in un luogo asciutto e senza luce, fino a che non avranno raggiunto la giusta maturazione.
Dai frutti si ricavano anche marmellate e confetture, mentre dal legno durissimo e compatto dell’albero, si ricavavano un tempo, viti, ingranaggi ed altre componenti di attrezzi e utensili complessi come torchi e fucili.
Ma cosa significa la parola Sorbo? Sorbo deriva dal latino “Sorbus” che a sua volta deriva dal celtico “Sor”, che significa aspro.
Le tradizioni celte volevano che l’edera, il caprifoglio e il sorbo venissero intrecciati insieme in una corona e posti sotto i contenitori del latte per preservarne la salubrità.
Il medico greco Galeno, le consigliava come rimedio contro la dissenteria, infatti, sono diuretiche, astringenti, antinfiammatorie, lenitive, in questo caso, è consigliabile utilizzare frutti ancora più acerbi.
Questa sua capacità medicinale deriva dal fatto che possiedono dei principi attivi, sostanze peptiniche e tanniniche, acidi organici specialmente acido sorbico, malico, citrico e tartarico, sorbitolo (o sorbite).
Le testimonianze dell’uso del sorbo sono molto antiche: le prime risalgono al 400 a.C. in Grecia, i Romani lo fecero conoscere al resto dell’Europa.
Presso i romani è ampiamente documentato l’uso dei frutti del Sorbus Domestica. L’importanza di avere di questi frutti in dispensa è ricordata da Catone nel De Agricoltura,144 (CLII): “Tenga in dispensa: pere secche, sorbe, fichi, uva passa, uva in marmitte, mele stanziane in doglio e tutti gli altri frutti che è uso conservare, anche quelli selvatici, li conservi ogni anno con diligenza “.
Virgilio, nelle Georgiche (III, 380), narrando di popolazioni che vivevano nell’Europa dell’Est, a nord del Mar Nero, racconta che dopo cacce al cervo nella neve si riunivano in grotte dove accendevano grandi fuochi e “…trascorrono la notte nel gioco, e allegri imitano la bevanda delle vigne con quelle di orzo fermentato e acide sorbe”.
Plinio, nella sua opera Naturalis Historia, riferisce che: “alcune di esse sono tonde come mele; alcune aguzze come pere, altre ovate come son certe mele, queste rinforzano tosto. Le tonde sono più odorose e più delicate che le altre. L’altre hanno sapore di vino”.
Columella, nel suo De re rustica dà consigli sulla piantagione: “…le sorbe… piantale dopo la metà dell’inverno fino a metà febbraio”, sul modo di conservarle “raccoglile a mano con diligenza e mettile in piccoli orci spalmati di pece. Alcuni conservano molto bene il frutto nel vino passito o nel vino cotto, aggiungendovi una specie di tappo di finocchio secco dal quale le sorbe siano tenute bene in fondo”.
Apicio raccomanda un piatto caldo e freddo con le sorbe. “Prendi delle sorbe, puliscile, pestale nel mortaio e passale alla staccio. Snerva quattro cervella scottate, mettile nel mortaio con una decina di grani di pepe, bagna di salsa e pesta. Aggiungi le sorbe e amalgama, rompi otto uova, aggiungi una tazza di Salsa. Ungi una padella pulita e mettila sulla brace calda sopra e sotto. Quando sarà cotta cospargi di pepe tritato fine e servi”.
Lo scrittore Alexandre Dumas, consigliava di mangiarle, quando raggiungono una condizione intermedia tra la putrefazione e la maturazione, stato che chiamava di “mezzo”.
Stefano Giacchino, cultore del mondo forestale, sostiene che “La sorba può essere conservata in due modi: o lasciandola ammorbidire per qualche tempo su un letto di paglia o “alla sicana” (incastrati in un rametto di salicone o di salice in modo da formare un grosso grappolo)”. Inoltre fa menzione di un ecotipo di sorba, presente nei monti Sicani, detta “natalina”, leggermente più grossa della varietà comune è di colore rosso, così chiamata poiché giunge a maturazione nel periodo “natalizio”.
Bibliografia Francesco Minonne con il Patrocinio scientifico dell’Orto Botanico dell’Università del Salento: Il Sorbo domestico (Sorbus domestica L.)
Mele, P. Medagli, R. Accogli, L. Beccarisi, A. Albano & S. Marchiori: Flora of Salento (Apulia, Southeastern Italy): an annotated checklist
FRA’ DOMENICO PALOMBI: ELENCO GENERALE DELLE PIANTE ERBACEE ED ARBUSTIVE, OFFICINALI E NON, E DI QUELLE COLTIVATE, MA CON PROPRIETA’MEDICINALI, RINVENUTE NEL TERRITORIO DI MARTANO E, MARGINALMENTE, IN QUELLO DI CARPIGNANO SALENTINO.
L’aratro affonda con forza e poi risale impetuoso, smuovendo e frantumando zolle compatte, friabili in superficie, di una terra rossiccia, pregiata. Nell’aria, tutt’intorno, si spande un odore di nuovo: è arrivato il momento, è per questo che in silenzio e con rassegnata accettazione la terra che sino ad ora ha potuto godere della bellezza della natura si lascia trascinare giù, accogliendo con umile entusiasmo quella nuova e fresca, che tanto ha atteso questo momento.
I raggi del sole non riescono a farsi strada tra le fitte nubi grigiastre, talmente basse che per istinto vien d’abbassare il capo per evitare di sbatterci contro. Un elegante gioco di chiaroscuro potrebbe rievocare il ricordo del mare, ma tutti sanno che quei solchi e quell’odore inconfondibile sono entrambi figli della terra e come tali sembrano impossessarsi di tutta la campagna, fagocitando nella foga dell’inatteso rinnovamento sin anche quella piccola casa, solitaria ai piedi del secolare olivo.
Gli stessi solchi ora si allontanano da me e si portano indisturbati ai piedi della parete, la scavalcano come crepe nell’intonaco ed entrano dalla finestra semiaperta; poi continuano il loro pellegrinaggio su un piccolo tavolino, tra vecchie assi di legno traballanti, e infine eccoli imprimersi sulle mani di un’anziana signora. Le fasciano dapprima i polsi, si avvinghiano sulle nocche e poi di lì giù per le dita sino a morire nell’impasto che con tanto amore la donna rivolta, tira di qua, ora di là e poi ricomincia. Con una manciata di farina cerca di scollarsi la pasta molle e appiccicosa di dosso, strofina forte le mani imbiancate, piega le dita, distende il pollice, che ingenuamente traccia ancora dei solchi, intrecciati ora a formare una piccola croce.
Da quell’universale simbolo di redenzione si diramano, rispondendo al dolce calore del fuoco, gli innumerevoli solchi che vanno a intarsiare la profumata e croccante crosta del pane. Rimangono in superficie, non intaccano il cuore di mollica bianca, e attendono con pazienza di raggiungere la colorazione giusta, segno di una buona cottura.
Approfittano di questa pausa per riprendere a viaggiare: s’incamminano giù per la scorza del pane sino a toccare le mattonelle di terracotta ardenti e screpolate, le attraversano sfruttando cinerei canalicoli, sfiorano tizzoni incandescenti, si lasciano accarezzare da vorticose fiamme, per imboccare subito dopo l’uscita dal grande forno e ritrovarsi di nuovo in aperta campagna. E di nuovo per terra, evitando le piccole radici di erbe e piante spontanee, viaggiano spedite sino al grande olivo; imboccano una delle tante radici, poi circonvallano l’immenso tronco con spugnose trincee e si portano in alto, tra i rami e le argentee foglie.
È qui che finisce il sentiero dei solchi: dopo essersi sminuzzati infinite volte, eccoli lì che attendono, quasi invisibili, aggrappati come pelle verdastra alle piccole olive, quella carezza di vento che le farà vibrare attorno al loro peduncolo sino a scollarselo di dosso e cadere leggiadre per terra. Solo allora potranno riprendere a viaggiare: alcuni si fonderanno con la terra, aspettando l’aratro, altri resteranno indissolubilmente legati alla scorza nera delle olive mature, moriranno affogati nell’olio nuovo, ma subito riprenderanno vita su una fetta di pane.
E intanto quei solchi sulle mani dell’anziana donna vi rimangono, gettano radici, si addentrano sempre più nella carne, raggrinzano la pelle, la devastano come un cancro inarrestabile, sino a portarla alla tomba. Alcuni la chiamano vecchiaia, altri vita. In un modo o nell’altro quelle mani continueranno in eterno nella mia memoria a rivoltare gli ingredienti giusti per un pane che non sazia, ma fa campare in eterno.
Fuori di suggestione, è una sorta di tuffo nel profondo, volendo in certo qual modo significare che non occorre, necessariamente, recarsi al mare per fare o, come dicevano gli antichi, per “prendere” il bagno.
Beninteso, senza alcun riferimento, qui, all’atto del calarsi nelle terse acque dei nostri litorali, intendendo, bensì, parlare d’immersione, giustappunto bagno, in insenature di varia, anzi variopinta, viva e interessante umanità.
La direttrice del centro storico è ormai nella memoria della bici che mi conduce in giro, un viatico, invero, piacevole e tonificante, fra gradazione di temperatura tiepida e qualche filino di tramontana che s’intrufola all’interno del giubbotto, accarezzandomi e inebriando di sana aria le vie respiratorie e i polmoni.
Mi trovo già nei pressi della meta stradale di cui al titolo, in uno slargo delimitato, su un lato, da un elegante palazzotto: la facciata terranea termina con un vano dall’uscio dischiuso, l’interno ricolmo di suppellettili e mercanzie di mille generi, un uomo seduto appena dietro la soglia.
Si ferma, il velocipedista curioso, punta lo sguardo insistito, con l’interrogativo, evidentemente malcelato, “che sarà mai?”. Tanto, che l’uomo si alza e, di sua iniziativa, approccia così: “Non si tratta di un’abitazione, in quanto mancano i servizi essenziali; non è una bottega, poiché la superficie è angusta e nessuno concederebbe la licenza commerciale; è solamente un locale privato, adibito a ripostiglio di una piccola montagna di cianfrusaglie; io, tutti i giorni o quasi, vengo ad aprire la porta e sosto un po’, così per sguariare (distrami)”.
° ° °
Ringrazia e saluta, il comune osservatore di strada, e procede avanti. Poche centinaia di metri e gli s’affaccia alla vista la targa “Via Giravolte”, uno sguardo intorno ed ecco, alla confluenza con un’altra stradina, la sequenza d’incanto di una terrazza ricoperta da un tripudio di fiori, incastonata fra pareti secolari, un lampione che sembra recitare versi in idioma dialettale, sotto squarci, incrociati ad angolo retto, d’intenso azzurro.
Fino a qualche decennio fa, via Giravolte, continuante senza soluzione con un omonimo vico, era conosciuta o, piuttosto, intesa come la strada in cui si trovavano concentrati molti poveri locali per l’esercizio del mestiere più antico del mondo. Casualmente, mi è stata fatta memoria di ciò, la settimana scorsa, da Alfonso, l’unico impagliatore di sedie rimasto a Lecce, il quale mi ha raccontato che da ragazzino, nel corso dell’ultima guerra, si proponeva a far da guida, a beneficio di gruppi di soldati americani alla ricerca di momenti di svago.
L’attuale via Giravolte si presenta carinissima come tracciato, nonostante sia delimitata da edifici solo in piccola parte restaurati e risanati e prevalentemente, invece, ancora in condizioni precarie, malsane, con scrostature sulle pareti, umidi e vacillanti all’interno. Numerose porte sono serrate.
La popolazione non è più composta, esclusivamente, dalle dimoranti accennate dianzi, ancorché sparute figure omologhe si notino ancora, consiste per la maggior parte in giovani e meno giovani immigrati, i quali hanno un lavoro regolare o, comunque, si danno da fare alla meglio.
Poi, dimorano alcune persone di categoria media o elevata, occupanti ampi appartamenti rimessi a nuovo e confortevoli e, infine, altri privati, originari di Lecce e dintorni, chi in abitazioni di proprietà, chi in affitto.
Un ambiente, nell’insieme caratterizzato da un livello di vivibilità fra sufficiente e buono, immune da problemi d’ordine pubblico, con l’unica eccezione di qualche bevuta abbondante dentro casa e anche per strada e saltuari episodi di soddisfacimento di bisogni, diciamo così, fuori posto e luogo.
° ° °
Attraverso la tapparella di una finestra aperta, mi metto a parlottare con una coppia di salentini, lei più spigliata a raccontare, anche se intenta al disbrigo di faccende domestiche. Usufruiscono di una cinquantina di metri quadrati, devono fare i conti con l’umidità, sono inquilini del Comune e pagano un affitto mensile di quindici euro, tutto sommato s’accontentano, anche perché non sono in grado di concedersi di meglio.
Poco in là, incrocio un giovane di colore che fa comunella con una coppia di occidentali, questi ultimi distesi a terra davanti ad una porticina, bottiglia in mano o a fianco: da notare che sono le undici.
Appena oltre, si apre un’amena piazzetta, mi sorprende un po’ una Smart parcheggiata, da un locale terraneo aperto, odo sottili miagolii, rivolgo lo sguardo e vedo un signore anziano, Hassan, di origini marocchine, a Lecce da 22 anni, inquilino di un istituto di suore, italiano perfetto, insieme con una donna, ancora giovane e di bell’aspetto, recante in una mano una micetta nata da poco e nell’altra un minuscolo dosatore, con cui va instillando gocce di non so che negli occhi del piccolo animale domestico.
“Sì, sto cercando di curare gli occhi di questo micio, fortemente arrossati”, mi conferma dandomi la voce. Intanto, fuori, vicino a me, la gatta madre si esibisce in miagolii ben più intensi, segno di comprensibile diffidenza rispetto alla presenza dell’intruso.
Terminato il compito, l’affascinante signora esce, è italiana, capelli biondi, incarnato in tono, dall’inflessione s’arguisce che non è di Lecce. Difatti, mi dice di essere originaria della Toscana, di essere arrivata qua nel 2007 e di aver subito deciso di fermarsi, abita in zona, in duecento metri quadrati rimessi a nuovo, lavora in banca, tenendo peraltro a definirsi “una bancaria anomala”, per lei i clienti non sono numeri ma persone.
A Lecce, vive unitamente al marito, pensionato, mentre l’unico figlio, venticinquenne, risiede in Toscana, responsabile regionale del movimento giovanile di un grosso partito politico. E’ una “gattara”, la signora, e in tale ruolo, mi confida, d’essersi adoperata, insieme con qualche amica leccese, ai fini di una campagna di sterilizzazione nell’universo micie.
Svoltando nei pressi, incontro un anziano, quasi ottantenne, vive lì da solo da oltre mezzo secolo, in casa sua, in assoluta autonomia, è contento. Di fronte, mi indica, abita, in affitto, “una studente”.
Costeggio, quindi, la facciata posteriore dell’Accademia delle Belle Arti, dove una coppia di ragazzi, sul marciapiede esterno, va prestando ritocchi e cure ad una scultura, cui, da profano, non riesco a dare un’identità o un significato.
° ° °
Sul percorso del ritorno, di fronte al bellissimo palazzo storico “Palombi Carrelli”, sedute su un gradino, sostano due ragazze: sono in attesa d’entrare in un Centro di assistenza per immigrati, ubicato nel portone attiguo, giacché una di loro, laureanda in sociologia della comunicazione, ai fini della preparazione della tesi, ha un appuntamento con un filippino per un’intervista sulle condizioni e le prospettive della comunità proveniente da quel paese, assai numerosa a Lecce.
Pochi minuti e mi ritrovo nella città dell’oggi, del commerciale, della frenesia e delle mode da terzo millennio. L’ultimo impatto è con un’avvenente giovane, dà l’idea di un’attrice o un’indossatrice, che mi scivola veloce a lato, anche se io sono in bici, Ne seguo, per un minuto, l’avanzata e, in tal modo, la vedo dirigersi verso le bancarelle che fanno mercato dietro il Palazzo delle Poste, in un attimo ha in mano tre magliette colorate. Sic.
E’ la riprova che l’estate è alle porte, s’avvicina il tempo dei bagni canonici al mare, mentre, mi sia permesso, è il caso di ricordare che quelli, non meno benefici, in forma d’immersione nel profondo dell’umanità, si possono prendere durante l’intero arco dell’anno.
Mi è sempre piaciuto immaginare S. Francesco d’Assisi e Giotto come due buoni amici che, tenendosi per mano, si avviano lungo le parallele di un messaggio destinato, più che a trasfigurare, a puntualizzare la parabola umana.
Se si parla di Giotto, infatti, scappa fuori subito S. Francesco e chi, viceversa, si muove alla ricerca di S. Francesco, si trova prima o poi faccia a faccia con Giotto.
Tutto questo, perché il francescanesimo ha trovato nella dimensione artistica di Giotto l’espressione più esatta e il pittore, assimilando la realtà del messaggio francescano, è pervenuto ad una fusione dell’umano con il divino; punto d’arrivo che per molti altri artisti è rimasto semplice stadio di ricerca.
Ci si trova immersi in uguale atmosfera, sia che si ascolti il “Cantico delle creature”, sia che, nella Basilica di Assisi, si assimili la narrazione pittorica di Giotto. Uguale limpidezza di ritmo, analoga chiarità di visione ci vincolano alla scoperta della verità, una verità che, mentre esprime il mistico, sottolinea l’umano, quasi a richiamare alle fonti prime di ogni evoluzione esistenziale.
S. Francesco è certo il Santo più rivoluzionario della storia della Chiesa, nel senso che il suo messaggio, esploso in un periodo di particolare crisi, sovverte, direi meglio mina alle basi l’edificio di una società che aveva costruito l’egoismo e la lotta sull’acquiescenza dei deboli e la malvagità dei forti. Una rivoluzione totalmente nuova, sia nello spirito come nei mezzi: distruggere edificando, lottare instaurando la pace, condannare perdonando. Praticamente, S. Francesco scavalcando le posizioni morali del suo tempo, richiamando ad una vita più vera, intesa nel migliore significato e, pur proiettandosi nel futuro, attinge ogni suo gesto dal passato, cioè torna alle origini dell’amore, uniformandosi pienamente al modello primo: Cristo. E la sua rivoluzione si compie nella calma, quasi nel silenzio, nella fedeltà di una missione ch’è poi umiltà di operato e semplicità di verbo.
E’ da ritenersi che Giotto abbia studiato a fondo S. Francesco, riuscendo ad assorbirne lo spirito compiutamente. Non si sa quale influsso abbia avuto il francescanesimo nella sua vita di uomo, giacché – a parte la leggenda fiorita attorno alla sua figura di guardiano di pecore – poco, quasi niente, si sa del suo travaglio umano; ma per quanto riguarda la sua vita di artista, non è azzardato ritenerlo un “impegnato francescano”. Anche lui, sia pure a suo modo e in un campo tutto diverso, attua la sua rivoluzione; anche lui, per cercare nuovi approdi, si volge al passato, creando in una semplicità di linee che ricorda l’istintiva purezza dei primitivi.
Scavalca la staticità dell’arte bizantina e inaugura un periodo di pittura viva, umana, senza esaltazioni drammatiche o esasperazioni scenografiche. L’uomo lo scopre nella semplicità degli atteggiamenti e, sempre dalla semplicità, riesce a cavare il concetto della santità.
Ci offre così la visione di un S. Francesco spiccatamente umano, un S. Francesco che non suggerisce una distaccata venerazione, ma incita alla confidenza, al rapporto diretto.
E anche quando la figura del Santo campeggia in successione di esplicazioni miracolose, nessuna frattura viene a stabilirsi fra il naturale e il soprannaturale: la figura del Poverello d’Assisi non si trasforma, non si complica e lo stesso accrescimento di alone mistico e di tensione lirica, risultano diagonali convergenti di una verità di essenza.
Giotto è l’artista che più a fondo ha cercato di rendere una dimensione religiosa che fosse, prima di tutto certezza di possesso. E a questa sua ricerca, meglio ancora convinzione, è giunto proprio perché ha camminato sulla scia francescana.
Unitamente a S. Francesco, Giotto non ha visto la fede come un termine astratto da cercare nel bagliore di rapide folgorazioni, ma come una naturale presenza, un qualcosa che è dentro l’uomo, prima ancora di manifestarsi attorno all’uomo. Non è perciò ricorso all’impalcatura di costruite visioni, né ha cercato di forzare gli accenti.
Come in S. Francesco l’opera di rinnovamento morale improvvisamente scopre una sua poetica, un lirismo intenso e profondo, per via di quel contatto diretto con la natura, riportata alla purezza primordiale della creazione, la pittura di Giotto, pur rimanendo distesa ed essenzialmente vincolata alla realtà, spesso sconfina nel simbolo, in virtù di una forza metafisica inconsciamente rimasta alle basi del dialogo.
Ho detto all’inizio che S. Francesco e Giotto li ho sempre immaginati come due buoni amici avviati sullo stesso itinerario, ma – a ripensarci – è più giusto immaginarli al megafono di una stessa verità, una verità che giorno dietro giorno, o meglio secolo dietro secolo, si è fatta sempre più scottante: la necessità che l’uomo ritrovi la sua essenza, la sua parte migliore. S. Francesco continua a lanciare il suo messaggio, chiamando fratello il sole e dialogando con gli uccelli, dando un’anima al vento e una mansuetudine al lupo. Giotto traduce in linee e colori il grande messaggio, con la purezza di chi crede senza richiedere prove.
E per noi, alle soglie del duemila, persi fra corse astrali e disintegrazioni atomiche, per noi che ci scopriamo sempre più macchine (1969!!!)* e ci avviamo a diventare robot, è un messaggio quanto mai necessario, un appello quanto mai urgente.
* La nota in parentesi è aggiunta da Nino Pensabene
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Questo articolo è tratto da “Il Santo dei Voli”, Anno XXIII, N. 7, luglio1969, periodo in cui, grazie alla direzione di P. Eugenio Galignano, la rivista del santuario “San Giuseppe da Copertino” si era culturalmente arricchita, cioè al suo carattere prettamente religioso e devozionale aveva – pur conservando i principi di fondo – aggiunto quel tenore tematico-espressivo che le consentiva di affiancarsi alle riviste culturali dell’epoca. Noi (io e Giulietta), che in quel tempo operavamo a Roma, dirigendo “La Prora” e pubblicando sui giornali e sulle riviste artistico-letterarie più in auge dell’Italia intera, non ci sorprendemmo affatto quando P. Galignano ci invitò a collaborare; intendo dire che quanto eravamo in grado di offrire non ci sembrò potesse essere non pertinente alla linea programmatica della rivista. Certo, nonostante tutto, ricordo che per questo articolo Giulietta si pose il problema del linguaggio, di non dargli cioè un carattere eccessivamente critico – come il tema “Arte” invogliava- e mantenerlo invece in una semplicità espressiva dolcemente fruibile anche da una categoria di lettori “non addetti ai lavori”, quale poteva trovarsi fra i devoti di un santo.
Successivamente, P. Eugenio – che saluto con immutata stima – è stato chiamato all’alta carica di Presidente Internazionale della Milizia dell’Immacolata, fondata nel 1917 da San Massimiliano Kolbe. (N. P.)
Santa Maria del Tempio in Lecce. Le ossa dei frati
E così la tanto attesa risposta della Direzione regionale per i beni culturali paesaggistici della Puglia, riguardo l’area dell’ex Caserma Oronzo Massa a Lecce, già convento di Santa Maria del Tempio (1432-1864), è arrivata. A firma del direttore generale Isabella Lupi è stato dato parere favorevole alla realizzazione del centro direzionale, del mercato coperto e dei parcheggi interrati.
L’autorizzazione è vincolata a specifiche prescrizioni, tra cui: «soluzioni che consentano la massima conservazione e leggibilità delle strutture preesistenti, con particolare riferimento alla planimetria della chiesa, anche tramite la ricomposizione in situ dei resti rinvenuti», la «messa in luce, con scavo archeologico e documentazione grafica, delle strutture murarie ancora non rilevate nell’area interessata dal progetto» e lo «svuotamento delle fosse di scarico, pozzi, cisterne e ossari già individuati o che si dovessero ancora individuare», interventi da affidare a «archeologi esterni di comprovata esperienza e adeguata formazione»[1].
Da queste prescrizioni emerge l’importanza di questo sito, anche se «le strutture murarie della chiesa e del complesso conventuale preesistenti emerse dallo scavo si presentano fortemente alterate e compromesse, non solo per le modifiche effettuate quando il complesso è stato adibito a caserma, ma anche per la successiva realizzazione delle infrastrutture cittadine a rete interna di gas e illuminazione pubblica»[2], situazione che ha permesso l’autorizzazione a procedere.
Lasciando a chi è preposto a farlo, il compito di formulare le varie considerazioni di carattere tecnico-amministrativo e anche politico, ciò che è spunto di riflessione, perché denota un’insensibilità generalizzata dovuta a un modo di vivere che anestetizza e allontana da quelli che dovrebbero essere i principi base di civiltà, tanto semplici, ma altrettanto scomodi, riguarda lo svuotamento degli ossari.
Dal 1971, anno in cui è stato abbattuto l’edificio, nessuno ha tenuto conto del fatto che nel sottosuolo, all’epoca salvato dalle ruspe, vi erano sepolti i frati
Al mio paese, poco più di duemila anime, sino alla metà del secolo scorso esistevano ben tre opifici per la lavorazione delle foglie di tabacco già fatte essiccare sotto i raggi del sole, in dialetto “magazzini”, dove, in determinati periodi stagionali, trovavano occupazione alcune centinaia di donne.
Ciò, giacché le piantagioni dalle strette e lunghe foglie di color verde costituivano, per antica tradizione, una delle principali colture e fonti di risorse della zona.
L’ingresso d’ogni magazzino era presidiato dal “caporale”, l’unica figura maschile presente, avente il compito di vigilare che le operaie, all’uscita, non si portassero appresso, per destinarli ai familiari fumatori, quantitativi ancorché piccoli di quelle foglie, da ritirarsi rigorosamente ed esclusivamente da parte dei Monopoli di Stato: non a caso, si parlava di contrabbando.
Fra i caporali in servizio intorno al 1950, c’era un giovane proveniente da un paese vicino, alto, capelli biondi, incarnato roseo; poverino, aveva solo un braccio, non so se mutilato di guerra o sul lavoro. La sua figura, forse anche per via della menomazione fisica, colpiva particolarmente l’attenzione dell’autore di queste righe, allora ragazzo delle elementari. Nei decenni successivi, le vicende della mia esistenza hanno assunto un po’ i connotati di un “magazzino” ambulante, in giro per l’Italia, fino al traguardo della pensione e al ritorno nel Salento. Di conseguenza, per un lunghissimo periodo, non ho più avuto modo di rivedere il caporale, né di avere sue notizie.
Qualche giorno addietro, però, è avvenuto il miracolo: uscendo da un bar nella piazza di un paese vicino alla mia Marittima e prima di risalire in macchina,
Saverio Lillo nasce a Ruffano nel 1734. Inizia giovanissimo a dipingere, spinto soprattutto dalla necessità, a causa delle ristrettezze economiche in cui versava la sua famiglia. Sposatosi a 21 anni con Margherita Stefanelli, che gli diede ben sette figli, accettava ogni tipo di committenza per sbarcare il lunario. Ben presto venne a contatto con la nobiltà salentina, per la quale il Lillo iniziò a produrre le sue inconfondibili Madonne, dal tenero incarnato e dal volto dolce e malinconico.
Nel 1765, quando ormai aveva abbracciato in pieno l’arte come sua ragione di vita, iniziò la sua opera più importante: le tele della nuova chiesa parrocchiale Beata Maria Vergine di Ruffano, su committenza della Confraternita del Rosario, per un prezzo di 160 ducati, un prezzo certo molto modesto ma che il Lillo accettò volentieri poiché voleva lasciare l’impronta della sua arte nella chiesa madre del suo paese.
La prima opera è la tela centrale, raffigurante “Eliodoro che ruba i tesori del tempio”, datata 1765. L’episodio è tratto dal II Libro dei Maccabei e il soggetto ricalca l’affresco del 1725 di Francesco Solimena nella chiesa del Gesù Nuovo a Napoli e la tela del leccese Serafino Elmo nella parrocchiale di Muro Leccese. Poi, la tela del “Trasporto dell’Arca”, episodio tratto dall’Esodo, che riprende l’omonima tela del leccese Oronzo Tiso nella chiesa di Sant’Irene a Lecce. Quindi, la tela della “Visita della Regina di Saba a Salomone”, la più bella del Lillo, episodio tratto dal III Libro dei Re, che ricalca la omonima tela di Oronzo Tiso nel Palazzo Baronale di Arnesano.
Il Lillo poi si occupò della tela ottagonale del transetto, raffigurante la “Natività di Maria Vergine” e, successivamente, delle tele degli estradossi, raffiguranti le virtù “Vigilantia, Fortitudo, Virginitas, Puritas, Una Fides, Iustitia, Constantia, Miseratio, Aelemosina, Spes, Charitas”.
Completa l’opera la tela “Gesù che caccia i profanatori del Tempio”, episodio tratto dal Vangelo di Matteo, che ripete le omonime tele di Liborio Riccio nella parrocchia di Muro Leccese e di Nicola Malinconico nella cattedrale di Sant’Agata a Gallipoli.
Nel 1776, dopo alcuni lutti in famiglia, come la prematura scomparsa di due sue figlie, si dedicò a dipingere la tela raffigurante “Il miracolo di Sant’Antonio e la conversione dell’eretico”.
Vissuto in un secolo in cui l’arte pittorica fioriva in Terra D’Otranto, circostanza che giovò alla sua formazione, non ebbe però la possibilità di frequentare le grandi scuole pittoriche del Settecento e questo influenzò la sua arte che non venne considerata, dai critici, degna dei grandi maestri dell’epoca.
Lillo morì a 62 anni e venne sepolto proprio nella chiesa parrocchiale che con tanto amore aveva decorato.
(Liberamente tratto da: “Saverio Lillo pittore ruffanese del Settecento”, di Aldo de Bernart, in “Ruffano una chiesa un centro storico”, Congedo Editore 1989).
Il Lillo, che non solo a Ruffano ha lasciato l’impronta della propria arte, morì nel 1765 e, da quel momento, scese su di lui un velo di silenzio, dispiegato, nel 1989, da una preziosa pubblicazione, la sopramenzionata “Ruffano una chiesa un centro storico”, ad opera di Aldo de Bernart e Mario Cazzato, che ha fatto riscoprire la figura di questo pittore del XVIII secolo, ingiustamente dimenticato.
Il fagiolo dall’occhio o dolico dall’occhio nero è appartenente al genere Dalichos, d’origine afro-asiatica. La più antica ricetta con i fagioli con l’occhio che conosciamo risale addirittura al I secolo dopo Cristo; nel “De re coquinaria” di Marco Gaio Apicio.
La storia del fagiolo dall’occhio è molto più antica dell’epoca Romana, tracce sicure testimoniano, infatti, che Egizi e Greci ne facevano uso ed era largamente coltivato nel Salento leccese ma, col passare del tempo, è stato progressivamente trascurato per la perdita di importanza economica. Ciò ha causato la scomparsa di molte varietà, tanto che solo alcune di esse sono rintracciabili presso agricoltori che le hanno mantenute in coltivazione per il consumo familiare o il mercato locale. In questa nota una proposta indirizzata alle Istituzioni per scongiurare il rischio di estinzione delle varietà superstiti.
I proverbi, già! “Li uai te la pignata li sape sulu la cucchiara ca la ota” che tradotto significa “I guai della pentola li conosce il cucchiaio che li gira.” E nel Salento leccese la “pignata” è un recipiente in terracotta per la cottura dei cibi.
La “pignata te pasuli cu n’ecchiu”. Che bel ricordo!
Era mio padre che chiedeva a mia madre la sera se l’indomani fosse il caso di fare questa “pignata”, che indicava genericamente la pentola, ma che si riferiva a ciò che la pentola doveva cuocere e inoltre significava che per poter mangiare i legumi era necessario che gli stessi fossero posti a bagno in acqua la sera precedente al giorno della cottura. La pignata è una pentola che serve a cuocere i legumi che gli artigiani “figuli” del Salento leccese realizzano a mano e che smaltano esternamente fino ai manici. Ha due manici a forma di nastro che sono uno vicino all’altro e questo accorgimento permette di avere una buona presa. Inoltre la pignata può in questo modo essere avvicinata al fuoco fino all’inizio della smaltatura esterna, invece la parte della pignata che non è smaltata permette che possa trasudare il contenuto, mantenendolo nello stesso tempo caldo.
La cottura dei legumi alla pignata ha un lungo procedimento che, come ho scritto, inizia la sera, che è il tempo in cui i legumi vengono messi a “bagno” con acqua e sale. Devono cuocere per un lungo tempo e comunque non meno di cinque ore. Attenzione quando li mettiamo nel camino perché vanno messi sulla brace, ma distanti dalla fiamma. Le pignate devono essere due, una con i legumi, ricoperti di acqua, con l’aggiunta di sale, cipolla e pomodori e l’altra con sola acqua. L’acqua nella pignata coi legumi si scalda fino alla soglia dell’ebollizione, bisogna stare attenti però che non raggiunga mai l’ebollizione, in questo modo lentamente evapora e per questo motivo deve essere aggiunta acqua utilizzando la seconda pignata, ed è in questo modo che i legumi dovranno essere sempre ricoperti di acqua.
Ma cos’è ”il fagiolo con l’occhio (Vigna unguiculata)? E’ una leguminosa coltivata principalmente in Africa come la principale sorgente di proteine, ma presente anche in Italia con il nome di fagiolo dall’occhio.
Originaria della Nigeria, si caratterizza per la spiccata resistenza ai climi desertici. E’ una ottima fonte di proteine e può diventare una valida alternativa alla soia nei mangimi zootecnici.
In Puglia sono coltivate molte varietà di fagiolo dall’occhio o dolico; sono apprezzatissimi come fagiolini mangiatutto, meno come fagioli secchi.
Ma perché si chiama “Vigna unguiculata”? il nome generico Vigna è stato attribuito in onore del botanico pisano del XVII secolo Bartolomeo Vigna che ha descritto questi fagioli, “unguiculata” sta per “con un’unghia”, “con uno zoccolo” e “con dita ad artiglio”. Unguicola (piccola unghia) caratterizza in zoologia le scimmie antropomorfe e l’uomo, in quanto ” a forma appiattita o incurvata solo trasversalmente, con punta rotonda e sporgente dal polpastrello”. Ma la definizione esatta è quella botanicamente accettata che dice: “petalo che reca alla base un prolungamento con forma di unghia umana all’inserzione del ricettacolo fiorale”.
Allora abbiamo capito perché il fagiolo con l‘occhio si chiama Vigna Unguiculata? Soddisfatti?
Se il fagiolo con l’occhio viene dall’Africa, allora perché mai coltivare il Fagiolo con l’occhio del Salento leccese se invece si possono acquistare a prezzi stracciati tutti i semi che si vogliono dal mercato globale?
Intanto possiamo senz’altro dire che siccome è diffusissimo il consumo allo stato fresco come “fagiolini mangiatutto”, è bene coltivarlo in zona!
Hai capito bene! Quei gustosi piatti di fagiolini, lunghi come spaghetti, che non vedi l’ora di mangiare, altro non sono che i fagioli con l’occhio appena colti! Ma anche se si raccolgono allo stato secco il fagiolo con l’occhio del Salento leccese, anzi quello di quel proprietario di un pezzetto del Paesaggio rurale del Salento leccese, è il risultato di una sapienza che gli è stata trasmessa sotto forma di seme dai suoi antenati!
Infatti a Perugia Negri, Floridi e Montanari hanno effettuato uno studio per la valutazione di quattro antiche varietà di Fagiolo con l’occhio (Vigna unguiculata). La valutazione è stata effettuata per caratteri organolettici come l’attrattiva visuale, la prima impressione in bocca, la durezza dei tegumenti del seme e per i caratteri chimici come la percentuale di ceneri sulla sostanza secca, l’azoto totale, i carboidrati, la fibra e i lipidi. La cosa sorprendente è che sono state scientificamente riscontrate differenze significative per tutti i caratteri organolettici ad eccezione per la durezza dei tegumenti del seme e sono state riscontrate differenze significative anche nei caratteri chimici sia per le proteine che per i carboidrati totali.
La conclusione a cui sono giunti gli studiosi è stata che con la selezione operata dalle singole famiglie che hanno coltivato il fagiolo con l’occhio nel corso di centinaia di anni si sono avute varietà con enormi differenze tra i vari semi, anche se ci si trova in una zona piuttosto ristretta.
La differenza tra varietà locali di fagiolo con l’occhio e varietà commerciali, offre un fondamento scientifico per richiedere marchi di tipicità e unicità della qualità come la Denominazione di origine protetta, che potrebbero contribuire ad estendere l’area di coltivazione delle varietà locali ottenendo la salvaguardia della biodiversità “in situ”.
Per quanto riguarda il nostro territorio, sulla base delle informazioni disponibili, risulta che la coltivazione di varietà locali appartenenti a questa specie è ormai limitata a piccoli areali del Salento leccese.
Ma come ho già scritto esiste il modello dell’attività condotta dall’Università di Perugia, che ha permesso un dettagliato monitoraggio della zona intorno al lago Trasimeno, dove sono coltivate numerose varietà locali di quella che è localmente denominata “fagiolina del lago”.
Altra notizia che dovrebbe interessare l’Assessorato alle risorse Agricole della Regione Puglia che ha fatto la proposta di legge finalizzata alla tutela e alla ricostituzione del patrimonio genetico d’interesse agrario a rischio di estinzione e che l’Università di Perugia per la conservazione ex situ del materiale raccolto nella zona intorno al lago Trasimeno ha creato una struttura ad hoc gestita dal Dipartimento di Biologia Applicata dell’Università di Perugia in collaborazione con la Provincia e situata sull’isola Polvese (PG), nel Parco Scientifico Didattico del Lago Trasimeno. La stessa collezione è duplicata presso il Dipartimento dell’Università. E l’Università del Salento non potrebbe “imitare” questa buona pratica facendo qualcosa di simile per le varietà di Vigna unguiculata (L.) Walpers del Salento leccese?
In una mia precedente nota ho riportato ciò che Cosimo De Giorgi scrisse nel 1879 all’allora Ministro dell’Agricoltura circa l’alimentazione a base di cereali e di civaje della popolazione del Circondario di Lecce. Tra le civaje c’è il fagiolo con l’occhio e quindi mi chiedo e ti chiedo: che aspettano gli scienziati dell’Orto Botanico di Lecce a mettere in moto la macchina così come hanno fatto gli scienziati di Perugia?
Le varietà commerciali di fagioli con l’occhio, che con ogni probabilità provengono dalla Nigeria, vengono vendute sul Web 2.0 dai 3 sino a 4 euro al chilo. Siccome è considerata “buona” la produzione di 2000 chili di fagioli per ettaro già se fosse garantito il prezzo delle varietà commerciali, si avrebbe una produzione lorda vendibile dai 6mila agli 8mila euro per ettaro.
Ma se la mia proposta fosse accolta, con gli studi dell’Università e con la legge Regionale, i fagioli con l’occhio del Salento leccese potranno ottenere la Denominazione di origine protetta e, in tale ipotesi, è probabile che i prezzi emuleranno quelli che spunta il pisello nano di Zollino che viene venduto sul Web 2.0 a 7 euro al chilo e se ciò si verificasse, la produzione lorda vendibile salirebbe a 12- 14mila euro per ettaro. Vale la pena di coltivarlo vero?
Bibliografia
V. Negri, S. Floridi, L. Montanari, Valutazioni di varietà locali di vigna unguiculata Cv. Gr. Unguiculata (L.) Walp. Per aspetti organolettici e composizione chimica.
Tosti N., Negri V. 2002. Efficiency of three PCR-based markers in assessing genetic variation among cowpea (Vigna unguiculata subsp. unguiculata (L) Walp.) landraces. Genome 45, pp. 268-275.
ISPRA, La conservazione ex situ della biodiversità delle specie vegetali spontanee e coltivate in Italia
La festa del santo senese (*Massa Marittima, 8 settembre 1350 – +L’Aquila, 20 maggio 1444) è occasione utile per sottolineare ancora una volta l’operosità del parroco don Giuliano Santantonio, che ha fermamente voluto il restauro dell’affresco del santo francescano, celebre nel mondo per la devozione al santissimo nome di Gesù e per la riforma del suo ordine, della quale fu uno dei principali sostenitori.
La straordinaria capacità oratoria e le ferventi prediche tenute in moltissime città italiane ne fecero il più illustre predicatore italiano del secolo XV.
Non si riproporrà qui la biografia, trattata ampiamente in numerosissimi libri e facilmente consultabile nel web, mentre piace sottolineare come nessuno degli agiografi ufficiali faccia cenno della sua sosta in Puglia e a Nardò nello specifico. Si descrivono infatti le sue celebri prediche tenute per un trentennio in quel di Mantova, Bologna, Venezia, Ferrara, Siena, Viterbo e nell’Urbe, ma non risultano soste pugliesi.
Si è portati a considerare quelle neritina come l’unica tappa del santo nella nostra regione, e vi giunse perché chiamato dal vescovo dell’epoca, suo confratello, monsignor Giovanni Barella o Barlà, in carica dal 1423 al 1435[1].
Il fratello Minore avrebbe predicato nella cattedrale di Nardò nel 1433 e la memoria di quel celebre atto fu immortalata qualche decennio dopo da un altro vescovo neritino, Ludovico de Pennis, in carica dal 1451 al 1484[2]. Il presule volle raffigurare l’evento ritraendo il santo nell’atto di predicare dal pergamo di questa cattedrale, con un affresco del 1478, ventotto anni dopo la santificazione. La presenza dello stemma episcopale[3], replicato nei due angoli superiori, consente di fornire veridicità sulla datazione dell’opera.
Molti secoli dopo ancora un vescovo neritino, Antonio Sanfelice[4], volle rimarcare quel giorno facendo dipingere a celeberrimo Solimena il santo con in mano il turibolo. Ciò avvenne nel 1734, con pittura ad olio sul marmo del lastrone posteriore del pergamo, addossato alla quinta colonna della medesima cattedrale[5]. L’inusuale tecnica e l’usura del tempo hanno cancellato buona parte del dipinto e confidiamo sempre nella sensibilità del parroco a che si recuperi quanto gravemente danneggiato.
Ma torniamo al nostro prezioso affresco, che originariamente si trovava su di un pilastro della navata sinistra, inserito in una più ampia decorazione pittorica che solo in minima parte sopravvive.
I rifacimenti e rimaneggiamenti del provato edificio sacro, in origine basiliano, poi benedettino, ampiamente rivisto nel XVI secolo, quindi da Ferdinando Sanfelice (Napoli, 18 febbraio 1675 – Napoli 1 aprile 1748) ed infine dagli importanti lavori di restauro e ripristino della fine dell’800, probabilmente causarono diverse traslazioni del nostro, come avvenne per altri pregevoli affreschi eseguiti nello stesso edificio.
L’affresco, su incarico del Ministero, venne separato nel 1893 dal muro con la tecnica dello “strappo” dal pittore-restauratore romano Pietro Cecconi Principi e montato su una rete metallica trattata adeguatamente, per essere collocato dove si trova attualmente[6].
Alto 270 cm e largo 130, l’affresco è stato restaurato quest’anno da Januaria Guarini e Gaetano Martignano, che lo hanno ultimato nell’aprile 2011[7]. Eccellente il lavoro da essi effettuato, anche perché non facile era la rimozione meccanica del cemento utilizzato dal Cecconi Principi e dell’altro del 1980, quando con esso si vollero colmare delle lacune. Diligentemente rimosse anche le scialbature a calce e le scolature di colore utilizzato nella ridipintura delle pareti. Tutte le complesse fasi di restauro hanno restituito un’opera tra le più belle della cattedrale, la cui iconografia merita dei cenni.
Il santo è raffigurato in piedi, inquadrato in un’edicola ottagonale, leggermente rivolto a sinistra. Indossa un saio grigio con cappuccio e cordone intorno alla vita da cui pende un sacchetto. Con la mano destra regge una tavoletta circolare col trigramma JHS, con la quale benediva i fedeli al termine della sua predicazione, e nella sinistra ha un antifonario aperto su cui si legge Pater/ mani/ festa/ vi no/ men/ tuum/ homi/ nibus. In alto, agli angoli, sono dipinti i citati due scudi con lo stemma del vescovo; ai lati del capo si legge il nome del santo (S. BER – NAR. OM[8].).
A parte la rarità del soggetto in Puglia, occorre anche rimarcare che il nostro è uno dei più antichi ritratti, probabilmente conforme al calco mortuario eseguito a L’Aquila, comunque assai vicino ai prototipi delle rappresentazioni rinascimentali di Bernardino che lo raffigurano calvo, con il volto scarno e mento prominente[9].
Qualche nota merita anche il trigramma JHS, il simbolo ideato dal nostro santo, che per questo motivo è ritenuto patrono dei pubblicitari.
Consiste in un sole raggiante in campo azzurro, al centro del quale vi sono le lettere dorate IHS, le prime tre del nome greco di Gesù, oppure forma abbreviata di “Iesus Hominum Salvator”. L’asta sinistra della H è chiaramente tagliata in alto per farne una croce.
Il sole è chiara allusione a Cristo e i dodici suoi raggi a serpentina rappresenterebbero i dodici Apostoli. Studi accreditati dei secoli scorsi attribuiscono ai raggi un preciso significato teologico: il primo raggio starebbe per “rifugio dei penitenti”; il secondo per “vessillo dei combattenti”; il terzo per “rimedio degli infermi; il quarto-conforto dei sofferenti, il quinto-onore dei credenti, il sesto-gioia dei predicanti, il settimo-merito degli operanti, l’ottavo-aiuto degli incapaci, il nono-sospiro dei meditanti, il decimo-suffragio degli oranti, l’undicesimo-gusto dei contemplanti, il dodicesimo-gloria dei trionfanti.
Nella nostra tavoletta non figurano altri otto raggi che in altre raffigurazioni si intercalano ai precedenti, che rappresenterebbero le beatitudini.
Il simbolo, più tardi adottato anche dai Gesuiti[10], dunque conteneva la devozione al Nome di Gesù. Venne rappresentato in moltissimi luoghi religiosi e civili, pubblici e privati, e risulta che esso campeggiasse sulle antiche porte della città di Nardò. Sempre in città sopravvive ancora sulla facciata della chiesa dei SS. Medici, sull’architrave d’accesso al palazzo di città (nella piazza), sul pergamo della cattedrale e in diversi altri luoghi che sarebbe troppo lungo elencare.
Ci piace esprimere gratitudine al citato don Giuliano per la sensibilità e l’impegno dimostrato, ancora una volta, a salvaguardare il notevole patrimonio artistico di cui la città di Nardò può gloriarsi.
[1] Nato a Galatina nel 1359, nato da nobile famiglia, francescano, deceduto a Nardò nel 1435, nominato dal pontefice Martino V.
[2] Nato a Napoli nel 1393, di nobile schiatta, deceduto a Nardò nel gennaio 1485, nominato dal pontefice Niccolò V.
[3] ”d’azzurro a tre penne di struzzo d’ argento disposte in palo” (cf. M. Gaballo, Araldica civile e religiosa a Nardò, p. 88).
[4] Napoletano, XXIV vescovo della diocesi, in carica dal 2/11/1707 sino al 1/1/1736, data della sua morte.
[5] Cf. V. De Martini-A. Braca (a cura di), Angelo e Francesco Solimena, due culture a confronto, Fausto Fiorentino Ed. 1994, pp. 83-84.
[6]A. Tafuri, Ripristino e restauro della Cattedrale di Nardò, Roma 1944, p.66; C. Gelao, Chiesa Cattedrale, in Insediamenti benedettini in Puglia, II/2, p.439.
[7] La relazione dei lavori di restauro è datata 22 aprile 2011.
[9] Una delle prime raffigurazioni di Bernardino pervenutaci, datata 1447, tre anni prima della sua canonizzazione, è data da un affresco strappato e riportato su tela proveniente dalla chiesa di San Francesco di Vercelli e conservato al Museo Borgogna. Nel 1460 (vale a dire 16 anni dopo la sua morte) s. Bernardino viene affrescato nel Santuario della Madonna del Carmine in s. Felice del Benaco (Brescia), come risulta dal libro “1952-2002 – Cinquantesimo anniversario dal ritorno dei Padri Carmelitani nel Santuario della Madonna del Carmine a s. Felice del Benaco” (da wikipedia).
[10] Pur con delle variazioni. A volte c’è la figura di Gesù al posto della croce che sormonta la lettera H (Iesus per crucem Hominum Salvator) e i tre chiodi della passione sono infissi in un cuore.
Il caso dei calvari nell’area Jonico-Salentina (I parte)
A rischio il patrimonio nazionale dei beni architettonici “minori”
Il caso dei calvari nell’area Jonico-Salentina
(I parte)
di Francesca Talò
Nei centri originari delle nostre città, edifici comuni ed edifici artistici coesistono, variamente collegati tra loro, a costruire quel cosiddetto ambiente che ne forma la caratteristica fisionomia (Carlo Ceschi).
L’invito a presentare gli esiti della laboriosa ricerca di Bruno Perretti sui calvari di Puglia – certamente rara, per quel che attiene l’argomento di studio – mi consente una riflessione, sia pure amara, sul destino senza futuro che sembra incombere su tanta parte di quello straordinario patrimonio dei cosiddetti beni culturali “minori[1]”, custodi di importanti tasselli di storia municipale, che in essi si riconosce e si identifica e di cui riccamente si adorna il nostro Paese. In sostanza, queste testimonianze dal tono dimesso, rappresentano riferimenti storici e artistici di un vissuto comunitario che, ancor più dei grandi e noti complessi monumentali, esprimono la specificità di un territorio, partecipando significativamente alla sua configurazione topografica e urbanistica e la cui perdita è anche perdita di memoria delle proprie radici culturali. Eppure, tale patrimonio, immeritatamente, sembra soffrire di una mancanza di attenzione su più fronti: da parte delle Soprintendenze, perché non soggetto alle norme del vincolo, da parte delle pubbliche amministrazioni, poiché ben altri sono gli interventi che urgono sul territorio urbano e, non ultimo, da parte delle singole comunità, oggi perse in altri modelli culturali, certamente non orientati a far recepire – attraverso la presa di coscienza di simili testimonianze materiali, aventi “valore di civiltà”[2] – una più corretta e consapevole gestione della propria municipalità e delle sue potenzialità.
Nello specifico, soffrono ancor più quei modesti (solo per mero valore materiale) monumenti dei centri storici, abbandonati all’edacia del tempo e all’incuria dell’uomo; e parlo di quei preziosi segni connotativi di una specifica
Grigoriu lu sgherru, un semplice contadino amato da tutti
Ricordo di un simpatico bracciante neretino sempre impegnato
alla ricerca di una “sciurnata” di lavoro e di un pasto caldo
di Salvatore Chiffi
Capita spesso, ritrovandosi dopo molti anni fra amici, di raccontare, fra una risata e l’altra, aneddoti, episodi, bravate e fatti legati a personaggi che hanno fatto da cornice della nostra adolescenza.
Uno dei personaggi neritini degli anni ’60, che non manca mai nei ricordi della mia comitiva di quel tempo, è Grigoriu.
Grigoriu lu sgherru1, per l’esattezza, chiamato così a causa del suo carattere sempre canzonatorio, strafottente, da spaccone, il tutto sottolineato dai lineamenti del viso rugoso e da una palpebra sempre socchiusa per l’età avanzata che gli occludeva l’occhio destro, ma dal quale ci vedeva benissimo allorquando la sollevava col dito mignolo.
Grigoriu incarnava perfettamente la figura del bracciante agricolo, temprato dal duro lavoro nei campi da sule a sule2 e dalla scatena3; nelle afose sere d’estate capitava spesso di vederlo arrivare alla Villa4 dalle campagne di Santu Cosimu, accaldato e impolverato, a cavallo della sua bicicletta nera, attrezzata con un portapacchi in legno assicurato con lo spago sul parafango della ruota posteriore in cui riponeva gli attrezzi del mestiere e l’immancabile mbile5 per l’acqua.
Era l’occasione per noi giovani studenti di assistere al rito di Grigoriu che, rinfrescandosi alla fontana, ci divertiva soprattutto poichè usava far precedere da una naschiata le risposte argute che dava alle nostre domande o ai nostri
L’apirenia, cioè la mancata formazione dei semi, è un fenomeno fisiologico, per esempio, nel banano; lo è anche nelle uve tipiche di certi vitigni (per esempio, l’uva sultanina), mentre è un’anomalia nei vitigni le cui uve sono normalmente fornite di semi, in quanto compromette il regolare accrescimento dell’acino.
Nella consumazione della frutta il seme obiettivamente costituisce un fastidio, probabilmente più della stessa buccia, che può essere eliminata più facilmente. Si poteva tollerare nei nostri schizzinosi tempi del tutto, subito e comodamente che un seme si permettesse di continuare a disturbare il nostro pasto? E poi: possiamo comportarci come l’uomo delle caverne che molto probabilmente nel mangiare un frutto ne eliminava i semi sputandoli a destra e a manca?
In attesa che l’ingegneria genetica ci consenta di cogliere frutti già digeriti, ecco, allora, il successo e la diffusione di sempre nuove varietà apireniche.
Sarebbe scorretto non dire, però, che tutto cominciò tanto tempo fa, un tempo molto più antico di quello cui pure risale la testimonianza di un agronomo di 1600 anni fa, Palladio Rutilio Tauro Emiliano (Opus de agricultura, III, 29, Teubner, Lipsia, 1898, pagg. 111-112):
De uva sine seminibus. Est pulchra species uvae, quae granis interioribus caret. Hinc efficitur ut summa iucunditate sine impedimento sorberi possit velut unum omnium corpus uvarum. Fit autem Graecis auctoribus hac ratione per artem succedente natura. Sarmentum, quod obruendum est, quantum latebit in terra, tantum findere debebimus et medulla omni sublata ac diligenter exculpta membra iterum divisae partis adunare et vinculo constricta deponere. Vinculum tamen papyro adserunt esse faciendum et sic in umida terra esse ponendum. Diligentius quidam sarmentum revinctum, quantum excisum est, intra squillae bulbum demergunt, cuius beneficio adserunt sata omnia comprehendere posse facilius. Alii tempore, quo vites putant, sarmentum frugiferum putatae vitis in ipsa vite, quam possunt de alto sublata medulla excavant non divisum et calamo adfixo alligant, ne possit inverti. Tunc opon cyrenaicon, quod Graeci sic appellant, in excavata parte suffundunt ex aqua prius ad sapae pinguedinem resolutum et hoc transactis octonis diebus semper renovant, donec vitis germina novella procedant. Et in granatis malis fieri hoc posse firmatur a Graecis et in cerasis. Opus est experiri.
L’uva senza semi. È bella quella specie di uva che è priva di semi. Da qui avviene che con sommo piacere senza impedimento il suo succo possa essere sorbito come sola essenza del frutto. Secondo gli autori greci avviene in questo modo, mentre la natura subentra attraverso l’artificio. Nel tralcio che dev’essere piantato dobbiamo fare uno spacco lungo quanto la parte che sarà interrata e, tolto e scavato tutto il midollo accuratamente, accostare i bordi e, dopo averli stretti con dei legacci, interrarlo. Affermano che il legaccio dev’essere fatto di papiro e che il tralcio debba essere così posto nella terra umida. Certi, legato accuratamente il tralcio per quanto è stato tagliato, lo conficcano in un bulbo di scilla che secondo loro favorirebbe in tutti gli innesti l’attecchimento. Altri nel tempo in cui potano le viti scavano il più possibile un tralcio a frutto della vite sulla stessa pianta, senza reciderlo, dopo averne tolto il midollo e lo fissano ad una canna perché non si pieghi. A questo punto versano nella parte scavata quello che i greci chiamano succo cirenaico preventivamente mescolato con acqua fino ad assumere la densità di mosto cotto e ripetono l’operazione ogni otto giorni finché non spuntano i nuovi germogli. I Greci affermano che lo stessa cosa può essere fatta per i melograni e per i ciliegi. Bisogna provare.
Nell’era della globalizzazione arti e mestieri sono stati messi quasi in disparte dall’offerta massificata di manufatti provenienti dal mercato internazionale; questo ha fatto sì che antiche arti manuali siano completamente scomparse sul territorio nazionale. E’ quanto è accaduto, in particolare, nel Salento per l’antica e rinomata lavorazione del bisso detto volgarmente seta delmare. La lana-penna, infatti, proviene dal mare e si ricavava da un mollusco presente nelle acque del mare della Puglia, la Pinnanobilis e la lavorazione della sua prestigiosa fibra pare fosse prerogativa delle donne salentine1.
Purtroppo oggi le cozze penne sono divenute quasi introvabili, la loro pesca, bisogna dire per fortuna, è illegale e di conseguenza pure il semplice nesso lana-penna è caduto nel dimenticatoio. Eppure anticamente il nostro mare doveva pullulare di questi esemplari che, oltre che per la preparazione di squisiti piatti, venivano utilizzati per ricavarne e lavorarne il prezioso ciuffo, il già detto bisso o setadelmare.
Non so se questa specie di mollusco al pari delle cozze nere si possa coltivare. Se così fosse non guasterebbe che qualche volenteroso s’adoperasse a riprenderne la produzione: in un periodo di profonda crisi del lavoro il rilancio di un artigianato che ristabilisce il contatto con le peculiarità territoriali, senza prescindere dal loro utilizzo rispettoso dele esigenze naturali, dovrebbe essere riconsiderato e chissà se la riproposta della lavorazione della lana-penna non potrebbe divenire un’opportunità per il territorio salentino, magari abbinando la sua lavorazione alla tessitura delle altre fibre naturali presenti sul territorio. Mi rendo, comunque, conto che non è cosa facile, data la competizione con i manufatti industriali che sono stati la causa principale della perdita dell’artigianalità in genere, oltre che dell’appiattimento del gusto artistico. Purtroppo l’invasione dei manufatti industriali, omogenei e senz’anima, ha contribuito a far anche sparire la manualità e la creatività. Dovrebbe essere compito della scuola individuare e coltivare qualsiasi talento, fornendo ai giovani le basi da cui partire per ridare valore alla manualità (che non sia sinonimo di avvilente, passiva esecutività) e, ancor prima, forse, attrezzarli per non cedere, loro per primi, alle lusinghe di un mercato prono alle leggi di un bieco profitto e far capire che sporcarsi le mani in senso reale è infinitamente più nobile che sporcarsele in senso metaforico, per quanto in quest’ultimo caso spesso lo sporco stenta ad essere visibile e, perciò, perseguibile…
Contemporaneamente (altrimenti si mette in campo il solito, sterile gioco dello scaricabarile) dovrebbe intervenire il sistema politico, promuovendo il prodotto artigianale su un vasto reticolo di relazioni culturali tra i vari paesi, favorendo il commercio dei manufatti e lo scambio reciproco di esperienze degli artigiani, come oggi si dice, dell’area euro, ma solo di quelli veramente bravi…
Visitando alcune delle poche botteghe superstiti dei nostri paesi, mi ha colpito il clima di solitudine che vi aleggia, nel senso che l’unica presenza umana è quella del titolare. Ricordo che fino a pochi anni fa questi erano luoghi affollati di ragazzini e giovani che nella bottega (specialmente nel periodo di chiusura scolastica) trovavano un punto di ritrovo oltre che di insegnamento/apprendimento. Tutto questo ora è scomparso e la desolazione ed un innaturale silenzio la fanno da padroni. Le cause sono certamente molteplici e non ascrivibili tutte a questo o a quell’attore: da un lato l’avversione dei ragazzi all’approccio a qualsiasi tipo di attività artigianale e la progressiva, inesorabile scomparsa dell’antico e benefico rapporto tra maestro e apprendista. Questo rapporto nel tempo si è svalutato a causa del costo della mano d’opera e di tutti i cavilli legali a cui il maestro è costretto ad assoggettarsi per non incorrere nell’illegalità. Le varie, a volte complesse, capziose, per non dire demenziali, procedure burocratiche contribuiscono a far desistere il maestro artigiano dal prendere in bottega apprendisti da avviare alla sua arte, ammesso che, per quanto s’è detto, ce ne fosse qualcuno disponibile. Si dovrebbe fare in modo di facilitare l’inserimento dei ragazzini in bottega, cosicchè stimolando la loro creatività e manualità, essi potrebbero essere avviati alla realizzazione di un metodo progettuale ed anche all’acquisizione di una propria capacità critica ed estetica che li approccerebbe all’innovazione del prodotto artigiano e quindi alla rivalutazione e al rilancio economico dello stesso. Rivalutare l’artigianato e l’arte sarebbe davvero un valore aggiunto per questa moderna società e la riscoperta della lavorazione del bisso potrebbe essere un esperimento da non sottovalutare. Ma, prima ancora di rivisitare il passato, bisognerebbe proteggere il presente, anche perché l’’interruzione nel ricambio generazionale anche in questo campo avrà esiti nefasti: passati, infatti, a miglior vita i maestri che non hanno fatto in tempo a trasmettere il loro sapere e saper fare, non ci sarà la cosiddetta “scuola”, così come quella genericamente intesa, senza virgolette, è da tempo morta e sepolta…
È una magra consolazione scoprire che delle problematiche relative alla rivalutazione dell’arte del bisso si era occupato il dott. Cosimo De Giorgi in due articoli apparsi su Il cittadino leccese. Nel primo del 2 marzo 1867 così scriveva (ho aggiunto, e questo vale anche per l’altro testo, solo le mie note di commento):
All’esposizione internazionale di Parigi sono stati, non è guari, inviati dalla nostra Commissione provinciale i prodotti tanto grezzi, che lavorati della Pinna rudes, e della P. nobilis: detti dagli antichi e dai naturalisti bisso: dai moderni tecnologi Lana-penna. Su questi prodotti, richiamo oggi l’attenzione dei miei concittadini, perché se non esclusivi in Italia sono almen propri, delle nostre Jonie costiere: ed è bene, che tutti ne conoscono l’origine, l’uso , ed il valore industriale. Qualche rapido cenno storico naturale sul mollusco generatore della Lana-penna. Il mondo vivente nell’Oceano, non è men ricco di preziose sostanze, utili alle scienze, alle arti, ed allo svolgimento dell’umano progresso, di quello che solca l’aere profumato della nostre valli litorane;o chè si muore, sente e respira sul breve guscio solido del nostro Pianeta. – L’occhio scrutatore si spinge baldo e ardimentoso a disvelare i misteri, che si nascondono fra i banchi contornati di corallo, fra gli eterni fiori di pietra delle isole madreporiche, fra gli scogli e le sabbie conchilifere, che formano il substrato delle acque. Il velo azzurro delle onde non è pel naturalista un diaframma impermeabile, ma una lente: ed egli se ne serve per scoprire la natura in esse guizzante, o lentamente moventesi o fissa; e stabilire le leggi e studiare in modi diversi coi quali in essa la vita si propaga e si svolge – ci passa davanti lo stuolo numeroso degli enormi cetacei, tanto ricchi di tradizioni storiche e di superstizioni, quanto utili all’uomo per prodotti primi e secondari: mondo popolato dai poeti; sconosciuto ai naturalisti fin quasi al secolo XVI. Uccelli, rettili, e batraci, son tutti regni della natura, che hanno nel liquido elemento i loro rappresentanti in parte oggi dispersi, in parte disseminati sulle terre argillose delle nostre marne e delle nostre crete subappenniniche: giganteschi esemplari e mirabili di una fauna estinta o ignota. E qui l’orbe organizzato dei mari ci si schiude in tutta la sua pienezza, e con speciali condizioni organiche necessarie alla vita nelle onde, ci delinea nuovi ordini di viventi: i pesci, i crostacei, i molluschi; questi più numerosi degli altri due, sia nelle epoche paleontologiche, che nelle moderne: non pertanto utili tutti come alimento all’uomo, e pel tecnologo nei loro prodotti secondari. I raggiati, gli infusori, i protozoari, ultimo gradino della vita animale, popolano quei vasti bacini, siccome flora che ne smalta le immense, deserte e profonde vallate , ignare della burrasca, che talora infierisce negli strati superiori. Quanta vita, quanta ricchezza nell’oceano! Eppure dirò col ch. Lessona che “ poco assai è quello che si conosce intorno agli animali marini, rimpetto a quello che resta ignoto; che appena della vita del mare si sa un po’ più di quello che vegeta e striscia, o guizza presso le spiagge e a poca profondità”- oh si facesse almen conto di questo, aggiungerò io: che le arti e l’industria nazionale assumerebbero nuovo incremento, del pari che il progresso materiale della società. Volgiamo ora un colpo d’occhio al nostro mediterraneo: solleviamo la cerulea frangia dei nostri golfi ameni e ridenti dello Jonio, ed osserviamo alcuni molluschi. Voi li troverete analoghi a quelli delle coste tirrene della Calabria e della Sicilia, tranquillamente cullatisi nel breve giro dei seni marini, o nei limpidi laghi di acqua salsa, quasi a schermo della bufera: non li cercate nell’Oceano, perché in esso danno luogo ad altri confratelli, di specie diversa, ma che pur rivestono analoghe apparenze. Una corrente di acqua dolcemente calda e quieta, ecco il loro clima: un fondo ghiaioso, conchifero o di sabbie fini tranquille, e il loro suolo: lo stomaco e gli intestini discretamente sviluppati, ne insegnano che le alghe, i fuchi, i licheni e qualche infusorio sono il loro alimento: un piccolo crostaceo che si innicchia nel loro guscio, e colle sue otto zampe agguanta e lacera un lembo del mantello, mentre con due tentacoli aguzzi ferisce a morte, ecco il loro nemico. E l’uomo compie bene spesso l’opera della distruzione, sembra favorirne la moltiplicazione. Un corpo triangolare allungato grossetto, con organi e sistemi necessari alla vita animale; avviluppato in un mantello or bianco or rosso, epidermico chiuso al di sopra da un’appendice addominale, solcata nel mezzo, fornita di bisso alla base una conchiglia di variabile grandezza e colore a seconda degli individui, dell’età, e della specie diversa: eccovi in breve alcune apparenze microscopiche facilmente riconoscibili nei molluschi del genere Pinna. Il fulgido elmetto dei soldati romani dal quale veniva fuori un pennacchio (pinna) avrà forse dato origine a cosiffatta nomenclatura, per la rassomiglianza col ciuffo detto bisso, ch’ esce dalle valve del nostro mollusco: qui come altrove , ignota o dubbia la fisiologia di molti nomi scientifici e volgari! Nell’interno della conchiglia due robusti muscoletti servono per tener socchiuse le valve, a difesa del mollusco; e per i movimenti dell’animale in relazione col mondo esterno, d’uno interiore presso la bocca, l’altro posteriore presso l’ano: e due impronte la prima piccola e profonda, la seconda più larga e superficiale vi corrispondono nel guscio. Fissate col loro bisso in posizione verticale, le pinne aggruppate in branche, spingono l’apice della loro conchiglia, fra le alghe, fra gli scogli, fra le arene del fondo marino, mentre sollevano fluttuante nelle onde, la circonferenza delle due valve semiaperte. Se trovano uno scoglio, il loro guscio solido vi si aderisce e riman fermamente stabile, formando alla pinna una dimora permanente. Se poi non trovano che mobili arene le induriscono talmente colla secrezione e con le lacinie del bisso, da formarne un solido sostegno. Nel primo caso ogni loro mozione è impossibile; nel secondo possono spostarsi rompendo il bisso e rotolando sulla circonferenza. Nel nostro piccolo museo, osserverete due esemplari delle due varietà sunnotate; ed altri di consimili sono in via per la mostra di Parigi.Se dai caratteri del genere passiamo a quelli della specie, nuove indagini anatomiche ci si presentano corrispondenti a nuove circostanze di vita della Pinna. Di qui le 23 specie di pinne che vivono nei mari, seconda il Lamark3; oltre 18 varietà che giaggiono allo stato fossile, incompletamente caratterizzate, dagli stati anteriori della creta calcarea, ai più recenti letti di essa, tra le varietà viventi nei nostri mari, due occupano il posto primo per le industrie: la P. Rudis e la P. nobilis: entrambe forniscono della lana penna di eccellente qualità. I mitili a conchiglia chiusa dell’Oceanio, potrebbero forse far concorrenza alla nostra Pinna: ma come giustamente ha investigato il Poli4 essi ne differiscono per avere più grosso e consistente il loro bisso e meno intensamente colorato quantunque l’origine di esso, pari che la composizione chimica, e la posizione in rapporto alla conchiglia, per nulla in entrambi differiscono. Questa notevole analogia di struttura e di abitudine in molluschi di specie diversa, mi ha guidato ad un’altra induzione molto più importante. E’ noto come i Naturalisti e i piscicultori d’oggidì, sappiano porre in tali condizioni certi molluschi, da ottenerne una moltiplicazione gradualmente crescente. Sulle spiagge dell’isola del Re la coltivazione delle Ostriche è talmente produttiva, che dal solo dipartimento della Charente Inferieure si esporta annualmente per tre milioni di Lire. Così pure il nostro De Filippi5 osservando non altro le perle, che secrezioni prodotte da certi speciali infusorii, che vivono parassiti fra le valve e il mantello della Meleagvina Margaritifera, delle Unio ecc. ecc. ha proposto metodi speciali per favorir l’industria delle perle. Ebbene nessuna varietà tipica esiste fra i due molluschi or notati, e la nostra Pinna: sotto lo stesso cielo nettunico, e sul medesimo suolo; vivono come in famiglia le Ostriche esculente, il prezioso mollusco
della perla, e la pinna dal nobile ciuffo. Io v’ho detto su, che i Mitili sono analoghi alle Pinne per vita e per prodotti industriali. Ora pongo il problema. Nell’Oceano sulle coste francesi si è ottenuta la moltiplicazione artificiale dei Mitili; non potremmo con tutta ragione tentare e sperare lo stesso delle Pinne su scala ben larga ed estesa? Non potremmo ancora favorire l’accrescimento graduale di quel prodotto primo detto Lana-Penna? Problema, che io propongo, ma non oso sciogliere, almen per ora: i Naturalisti del nostro paese, i marini delle nosre costiere me ne forniscano prima i dati statistico-pratici. Problema però, che sarà sempre collegato all’importanza industriale ed economica dei prodotti primi e secondari del nostro mollusco: ma su ciò un’altra volta.
L’illustre scienziato salentino fu di parola perché nel numero del 22 marzo dello stesso anno così scriveva:
Io non so se mai, nell’osservare qualche varietà di pinna vivente nella sua dimora e tomba calcarea, abbiate cercato a voi stessi, in qual modo essa pongasi in relazione col mondo esterno – Per me dalla sola osservazione del bisso, fui tratto prontamente a questa dimanda. Ma non mi venne del pari facile la risposta. Apersi con diligenza le valve e attentamente osservai: ma altri concorse a sciogliere il mio problema. All’occhio mio era occulto un mondo ancor più grande di quello visibile; ma quattro lenti armonizzate fra loro, me lo hanno disvelato. Il bisso o lana-penna, è una lunga ciocca di filamenti delicati, setacei,di un bel color fulvo-bruno, brillante il che si attacca verso il mezzo della massa addominale della pinna. Esso vien fuori qual mobile pennacchio, dalle sue valve di madreperla, tinte di rosso, di scarlatto, di amaranto, zigrinate come l’onice arabescate. Questo nome fu ancora impartito da Linneo a molte piante fornite di filamenti del pari sottilissimi e setacei, come fra le alghe il Bissus flos aquae, il Bissus vellutinus, l’Asclepinde siriaca ec.ec. basti ciò, per evitare l’equivoco, che fino a un certo tempo, ha pur dominato nella storia filologica di questa sostanza. Il Blainville6 ritenea, che il bisso fosse una riunione di fibre muscolari seccate in parte, e in parte contrattili, finchè l’animale vive; e specialmente mobili alla radice nel punto, dove traversata la conchiglia e il mantello; va a trovare l’addome del mollusco. Una volta morto questo, secondo l’autore francese, la parte carnosa si dissecca, ed il resto si converte in lana. Il microscopio ha confutato in parte questa opinione dottrinale: tra le fibie muscolari o le produzioni cornee gran divario intercorre, e qui si rinvengono le une e le altre. L’osservazione micrografica e chimica mi confermò l’origine muscolare nelle fibre dell’apice del bisso: ma provò esser questo un prodotto di secrezione, come la tela filata dal ragno, come la seta filata dai filugelli, come la lana prodotta sulla superficie termica da un apposito apparato glandolare. Ma andò più oltre : essa mi fa assistere ancora alla riformazione del bisso. Mi fè veder verso l’apice della conchiglia un musco letto conico, scavato come una doccia da un solco longitudinale; musco letto che ritorto su se medesimo serve del pari che al ragno ed ai mitili come filiera, per trarre fuori il bisso in fili più o meno grossi e consistenti. Osservate: una materia liquida, semifluida, tenace, viscosa vien segregata da certe ghiandule, che riposano ai lati della linguetta muscolare or notata; essa traversa la doccia, traversa la filiera, viene in contatto cogli agenti esterni, acqua ed aria, si dissecca, e assume la tenacità propria della lana-penna; o peldinacchera, come altri lo dicono. Una volta formatosi un gruppo di quei peli, il Mollusco si attacca a tutti i corpi estranei che incontra, e con esso si fissa e si rende stabile, dondolandosi mollemente nella conchiglia, spinta in alto dalla pressione delle onde: così si nutre e si moltiplica. Di qui grande esser dee la diligenza nel trar su le pinne di fondo dei mari, perché il bisso non resti adeso al fondo di essi, come si spesso accade specialmente per quello più sottile e più bello, ma meno tenace della P. nobilis. Esciamo ora da questo intricato labirinto di termini zoologici veniamo a respirare aure, se non più grate, almeno più piacevoli; illustriamo la parte economica ed industriale. Ebbero gli antichi scarse ed inesatte nozioni del bisso; i caratteri fisici più appariscenti fecero ritenere come identico il bisso proveniente da certi vegetali ( alghe e licheni) con quello dei molluschi; di qui, gran buio sulla vetustà dell’uso di questo prodotto. Certo è, che quello che quello delle Indie e della Giudea venia molto ricercato: i paludamenti sacerdotali, le porpore dei re splendeano di fulgidissimo bisso: il tempio come la reggia, allora come sempre, erano le sale del fasto, della ricchezza, della magnificenza! Di bisso, è fama, avvolgessero il corpo dei defunti i nostri vecchi latini per raccorne le ceneri fra le stipe divampanti dei roghi: ma questo bisso! Com’è evidente, era il tessuto delle fibre setacee alluminio-magnesiache dell’amianto. Saltiamo a tempi più vicini a noi; e troveremo il ciuffo lanoso dei Mitili oceanici messo in uso per farne, tessuti, drappi; coltri ecc. d’un bel color fulvo-lionato. Tali, quelli del Decretot6 presentati ad un’altra accademia di Parigi. Man mano cresce l’industria, in regione, che la scienza addita nuovi molluschi forniti di lana-penna: grado, grado le arti meccaniche ne migliorano le specie. Il Ternaucz7 ha superato tutti: egli espose non ha guari all’Accademia delle scienze in Parigi, i tessuti di fibre lanose dei mitili, comparandole coi migliori drappi di lana merinos; ed il favore generale fu pei primi. Non è dunque ora, o lettore, che si introduce la lana-penna nelle arti, neppure è trovato della nostra provincia, gli è un prodotto primo ignoto a molti fra noi, e come tale ho creduto bene fosse fatto palese. Le proprietà d’un prodotto son veramente quelle, che ne esprimono il suo vero valore. Ebbene, nel bisso voi avete una serie di fibre omogenee di natura uniformi in grossezza, in consistenza in colore or fulvo-bruno, or rosso marrone, or bruno lionato. L’Eriometro ne addita che le sue fibre superano in finezza quelle della lana migliore. L’elasticità e l’uguaglianza del pelo, lo rendono adatto a qualunque genere di lavori, a tessuto, a drappo, a feltro. La lucentezza, e la morbidezza dei panni inviati all’Esposizione dalle Suore del nostro Orfanatrofio suburbano, del pari che la lunghezza e la leggerezza di essi, si raccomanda di se alla pubblica ammirazione. Resta a dire della calorificità, della diatermasia, delle proprietà elettriche, chimiche, organiche del bisso; argomento abbastanza delicato, che cercherò di svolgere in prosieguo, dietro studii molto accurati. Di fronte ai vantaggi suaccennati, vi ha due inconvenienti uno proprio alla lana-penna; l’altro a questa, ed alla lana comune. In momenti come questi di dissesti finanziari, è egli economico l’uso della lana-penna. Forse tu; o lettore, con riso Mefistofelico, arricciando i baffi giustamente ne dubiterai, specialmente se avrai veduto il modo col quale si pescano le Pinne, nei nostri mari: e quanti di questi non trascinano seco loro, che poco o punto bisso. Ma in ciò la colpa non è tutta del povero mollusco: l’è pur nostra. Dimmi un po’: perché tu compri le ostriche solo per mangiarti il corpo dell’animale chiuso nella conchiglia? Perché butti via le valve di questa: le non ti giovan forse a nulla? Eppure se ne studiassi la chimica composizione vedresti che son più utili all’agricoltore i gusci delle ostriche, di quello che non sia al tuo stomaco questo mollusco indigeribile ed insalubre. Lo stesso dicasi delle Pinne, che fin qui abbiam pescato e adoperato solo per nutrimento: e le valve di argento, di rosa, di madreperla, ed il bel ciuffo rosso-morato si è tenuto pressoché inutile o di poco di valore. Non dovremmo piuttosto far l’inverso? Non dovremmo anzi cercar di moltiplicar questi molluschi per l’utile estrazione della lana-penna? Perché nei soli Musei dee vedersi qualche drappo di bisso, a futile esempio, scevro d’incitamento al bel fare? Così sparirebbe il Problema Economico e delle nostre Pinne si farebbe quel che la Francia ha fatto dei mitili oceanici. Il secondo inconveniente è più grave, ma comune ancora alla lana comune. Si dice che all’una ed all’altra facciano guerra i bruchi tignuoli. Io non ho esperienze in proprio; ma cercherò di farle su di un po’ di bisso di Pinna che tengo meco. Cercherò previamente di nettarlo e lavarlo con diligenza: perché altrimenti allo stato grezzo com’è, è inattaccabile dalle grigio-argentee farfalline, e ciò pei soli marini di che è imbevuto. Proverò ancora se i mezzi preservativi applicati in Germania alla lana comune (essenza di trementina, fumigazioni ammoniacali, e di petrol
ie) giovino ancora a custodire il bisso. Questioni tutte di tecnologia, che richieggono tempo e lavoro; mentre invece quel barbogio di Coo8 mi concede ozii molto brevi, e bene spesso interrotti. Una volta però, che potessi verificar l’inalterabilità della lana-penna alle tignuole, si comprende agevolmente, che la diverrebbe più preziosa della lana comune. Due parole di Epilogo, che ben potrebbero farla da proemio. Io non ho preteso, o lettor mio, con questi cenni messi su alla buona; farti l’elogio del bisso, per solo sfoggio di scienza; e molto meno svelare alla tua mente tutti i misteri reconditi di essa: avrei forse fatto bene, ma avrei tradito la mia missione e i tuoi interessi. Ho voluto soltanto farti sapere come giustamente abbia il nostro paese apprezzato la lana-penna, inviandone le fibre adese al mollusco, distaccate, tagliate, lavate, filate, tessute, alla mostra parigina: farti conoscere, che sia il bisso, donde provenga, le sue qualità, il suo valore industriale. Agli occhi della scienza o vuoi che si dica Fisica o Chimica applicata o tecnologia, nulla va perduto: ai prodotti primi succedono i secondarii; e questi talora esprimono un valor maggiore di quelli, il carbone di tutte le specie, la sanza degli ulivi me ne porgono una prova luminosa. In tempi critici come questi per la finanza, di tutto conviene giovarsi: un proverbio americano ne insegna che. La vera ricchezza sta nella povertà dei prodotti primi: più ricco è quegli, che sa giovarsi di tutto a qualche uso. Ma a ciò fare v’ha d’uopo di istruzione e di lavoro: basi fondamentali di ogni progresso materiale e morale. Epperò io proseguirò lavorando ad istruirti o lettore, in argomenti come questi di pratico interesse; anco a dispetto di coloro, che saprebbero e potrebbero fare meglio di me. La sola scienza, sbrigliata dallo spirito e dai privilegi di casta, è quello, che meriti giustamente il titolo di repubblicana e di cosmopolita.
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1 Sull’argomento vedi Antonio Monte e Maria Grazia Presicce, L’arte della tessitura nel Salento, CRACE, Narni, 2010, pp. 68-72.
2 Michele Lessona (1823-1894), zoologo, medico e divulgatore scientifico.
3 Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829) biologo, zoologo e botanico, autore della prima teoria dell’evoluzione degli esseri viventi e della ereditarietà di alcune loro caratteristiche.
4 Giuseppe Saverio Poli (1746-1825), fisico, biologo e naturalista.
5 Filippi De Filippi (1814-1867), zoologo e medico.
6 Jean Baptiste Decretot, manifatturiere della lana a Louviers, fu membro dell’Assemblea Nazionale Costituente (1789-1791) e nell’Almanachimpérial del 1812 compare tra gli assistenti e tra i membri aggiuntivi dell’Ufficio consultivo delle arti e delle manifatture.
7 Errore di stampa per Ternaux. I fratelli Ternaux furono anche loro famosi manufatturieri della lana a Parigi agli inizi del XIX secolo.
8 Appellativo affettuosamente ironico che il De Giorgi dedica ad Ippocrate di Coo (V-IV secolo a. C.), il padre della medicina; ma tutto è allo stesso tempo una dichiarazione di dedizione ed amore che lo scienziato salentino nutriva per la sua professione. Ippocrate visse circa 85 anni (da qui il “barbogio”), ma non sapremo mai se raggiunse quello che ai suoi tempi era veramente eccezionale e tale sarebbe rimasto per millenni seguendo lui stesso i consigli ed assumendo i rimedi che prescriveva ai suoi pazienti…
Un vico nascosto fra le pieghe dei palazzi di Lecce abbellito di fiori che da un balconcino tendono a coprire le macchie di usura delle pietre. Un frammento di bellezza floreale che dà vivacità e movimento all’immobilismo dell’isolato. Verde, viola, rosso accanto al solitario lampione. Una finestra chiusa che nasconde vita domestica. La pareti tinte di grigio dallo scorrere della pioggia che su di esse si aggrappa per non precipitare e lasciare un segno. Pittaccio, vico del Pittaccio, il nome a rendere signorilità ed eleganza ad un vico oscuro e dimenticato. Uno scorcio della città che nella solitudine della pietra prova ad incantare il visitatore con un ricamo di fiori.
Iniziò così, come ogni cosa che viene alla vita, proprio come piaceva al vecchio Talete: iniziò tutto dall’acqua.
Passeggiava un giorno su una spiaggia dell’est salentino, avanzava placido sulla sabbia, senza meta, mirando i lontani profili delle vette d’Albania, cenni tra la foschia all’orizzonte. Era solo.
Radente all’acqua, in quel punto in cui non è più possibile fare un passo senza bagnarsi, abbassò gli occhi e lì, finalmente, vi trovò quanto il mare pareva gli volesse ad ogni costo consegnare: trascinata da chissà dove, una scarpa, misera, lacera, pietosa, solitaria e sfinita naufraga appartenuta a chissà chi. Egli la raccolse e la portò con sé, nella sua casa, quasi fosse un dono prezioso venuto da una fonte imperscrutabile.
Dapprima se ne prese cura, la pulì, la lucidò, la lustrò con tenerezza, la fece pazientemente tornare alla vita dignitosa delle cose. Non pago, la volle poi bella. Non soddisfatto, la volle infine meravigliosa ed unica. La rivestì di colore, la tinse amorevolmente, la adornò, l’arricchì di ciò che a lui pareva fosse degna, ora dopo ora, per giorni, fino a fare della naufraga una regina, un sacrario della bellezza, stupore per tutti coloro che l’avrebbero lasciata su quella riva, fino a farla diventare, in breve, un’opera d’arte.
Fu da quando il mare gli consegnò quella prima naufraga che Antonio Catanzariti, detto Tonino, divenne un cercatore di scarpe. Se ne va da quel giorno a cercarle, seguendo con pazienza i passi degli uomini e delle donne che
Salvatore Crudo, originario di Torrepaduli, si appassiona alla danza sin da piccolo. Con Pierpaolo De Giorgi e Rocco Luca, è uno dei fondatori del gruppo “I Tamburellisti di Torrepaduli”.
Con i “Tamburellisti di Torrepaduli” registra molti cd e suona in teatri famosissimi. Sin dall’età di 17 anni dà un grande contributo al gruppo, affrontando le difficoltà iniziali e insistendo sul valore della pizzica come genere coreutico e musicale. Da sempre considera la pizzica non soltanto una danza o una musica ma un’avventura interiore dello spirito.
Difende costantemente la cultura popolare del Salento e la tradizione della notte di San Rocco di Torrepaduli, cercando di non disperdere le forme arcaiche della ronda come danza e come ritmo percussivo. Della pizzica
Vituccio “Paracazzi”. Breve storia di un ragazzo di strada
Il mio paese è il centro, l’ombellico del Salento, così come piazza IV Novembre era l’ombellico di quel paese. Non è una piazza, in realtà è la strada principale che da nord a sud spacca in due il paese e lo priva di ogni intimità: non una meta quindi, ma un paese di passaggio. tranne quel punto dove la strada si allarga e si formano due “piazzole di sosta”, una di fronte all’altra, dove nessuno, per un motivo qualsiasi, si sarebbe mai fermato a sostare. Tranne i cani randagi e tutti quei ragazzi assidui frequentatori della piazza perché nelle case non c’era spazio sufficiente per tutti. La piazza era allora abitata.
Almeno una volta al giorno, la casa, unico vano o due al massimo, veniva completamente oscurata e il ragazzo prima di uscire aiutava la madre a scacciare le mosche: dall’interno il ragazzo apriva e chiudeva ripetutamente lo spiraglio della porta che dava alla strada, con movimenti rapidi e regolari per indicare alle mosche un punto di luce e una via di uscita e la madre, partendo dall’angolo più interno ed opposto, sventolando un asciugamani , spingeva le mosche verso quello spiraglio di luce allora bastava spostarsi di lato, spalancare la porta e con rapidi colpi d’asciugamano, cacciarle via. Questa operazione, due o tre volte, e con le ultime mosche, quasi inseguendole, anche il ragazzo scappava via: restava la madre, a porta chiusa e in penombra, sola finalmente.
A differenza dei cani randagi, che sulla piazza stavano insieme ambedue i sessi, del genere umano solo i maschi potevano stare. Le ragazze invece, già da piccole, terrorizzate dai genitori: “se stai con i maschi ti muore la mamma!” facevano una vita più riservata, quasi anonima.
Senza la presenza adulta e femminile, quasi sempre svezzati e cresciuti senza un abbraccio, senza baci nè carezze, senza dialogo, nè allegria, nè giochi da parte dei propri familiari, i ragazzi di strada erano in realtà soli tra loro, ma proprio per questo, liberi di dare sfogo al loro istinto più naturale e alla loro rabbia che tanto li faceva assomigliare ai cani.
I cani a loro volta erano terrorizzati dai sassi che in ogni momento, e da ogni direzione potevano arrivargli addosso e la loro permanenza sulla piazza o soltanto il loro passaggio era un’incognita, un rischio. I ragazzi si divertivano a spaventarli, ad inseguirli con bastoni e a sassate interrompere i loro amplessi quando si accoppiavano tra loro.
Certo è che le strade e le piazze allora erano popolate, le case colme e traboccanti e animali e persone, giorno per giorno dovevano fare i conti con la realtà, per avere spazio sufficiente a legittimare la propria esistenza anche
L’imposizione con la forza della conversione all’Islam alla popolazione di Otranto da parte dei Turchi in occasione dell’occupazione del 1480 è ancora oggi oggetto di interpretazioni differenti.
Un retrogusto amaro è quello che hanno percepito i partecipanti alle celebrazioni civili dei Martiri di Otranto del 14 agosto scorso, a seguito della relazione di Hubert Houben, professore di Storia medievale presso l’Università del Salento. Un impatto simile lo ebbe nel 1965 la commemorazione civile tenuta dal professor Nicola De Donno, che inaugurava quella storiografia “demitizzante” che trova oggi in Houben un autorevole continuatore.
Un punto di vista del tutto legittimo, sebbene non possa essere condiviso sotto alcuni profili storico-metodologici che vale la pena analizzare con scrupolo. La pietra dello scandalo è costituita, come anche per la relazione del compianto preside De Donno, dall’episodio del Martirio, ove non tanto si mette in discussione la tragica fine degli 800 martiri, i quali ebbero la sfortuna di sopravvivere all’assedio ottomano del 1480, quanto la circostanza dell’imposizione di conversione all’Islam, attribuita dalla cronaca del Laggetto (sulla cui autenticità Houben solleva non poche perplessità) al comandante turco, il Kapudan Pascià della flotta Ahmed Gedik Zade.
L’acquisizione di nuovi documenti storici che possano chiarire i punti ancora oscuri, come ad esempio la documentazione diplomatica Sforzesca utilizzata dal professor Giancarlo Andenna nella commemorazione del 2006, ha contribuito certamente a chiarire alcuni significativi contorni dell’episodio otrantino, ma è del tutto carente un riferimento esplicito alla richiesta di conversione forzata. Ciò però non significa che tale circostanza non si sia verificata, in quanto più di un riscontro documentale ne confermano la sussistenza. Come dimostrano gli autorevoli studi storici che hanno approfondito la figura di Maometto II e la natura dell’espansionismo turco ottomano, come Robert Mantran e Ludovico Leoni, la conversione forzata, pur costituendo un fatto episodico delle modalità di sottomissione di un popolo vinto, non era del tutto estraneo alla tradizione diplomatico-militare turca.
In questo senso la nuova documentazione diplomatica costituisce una preziosa chiave di lettura che meglio inquadra nel contesto delle alleanze degli stati italiani la posizione dell’Impero Ottomano nei confronti del Regno di Napoli e degli eroici difensori di Otranto, il cui valore non fu mai messo in discussione dai contemporanei, nonostante l’iniziale perplessità del Re Ferrante. Va tuttavia sottolineato un punto chiaro che contrasta con l’impostazione della storiografia “demitizzante”, ossia che la conquista di Otranto non rientri nel feroce scontro religioso che contrappose per oltre cinque secoli l’occidente cristiano all’espansionismo arabo prima ed ottomano poi.
Quello ottomano in particolare vedeva in Maometto II l’iniziatore di una nuova fase, che modificava i canoni della Jihad fino ad allora adottati, senza però snaturarne l’intimo senso religioso che ancora oggi continua ad avere per i musulmani. La Jihad di Maometto II era una riproposizione dei fasti dell’Impero Romano, del quale il Sultano si riteneva continuatore in chiave islamica, come proprio l’episodio di Otranto conferma. La giustificazione religiosa della conquista di Otranto non aveva pertanto una natura meramente propagandistica, ma costituiva uno dei pilastri stessi della politica di Maometto II, che voleva espandere il Dar Ul Islam in tutti quei territori appartenuti all’impero romano d’Oriente, del quale Maometto aveva conquistato la capitale, Costantinopoli, per poi riunificare sotto l’egida della seconda Roma islamica tutto l’Occidente.
Negare oggi questo tratto dell’espansionismo turco presterebbe maggiormente il fianco a critiche di strumentalizzazione ideologica, rispetto all’inverosimile prospettiva di una cattiva storiografia locale e nazionale che brandirebbe ancora oggi la spada della vendetta cristiana. Occorre innanzitutto partire dai fatti per così come si svolsero, senza avere un atteggiamento di falso scrupolo e quasi di pavida vergogna per gli episodi nei quali i cristiani presero le armi per difendersi dall’espansionismo ottomano. Tale modo di porsi rischia, tra l’altro, di applicare il pericoloso filtro della mentalità moderna, non soltanto all’interpretazione storica, facendola ricadere in una prospettiva ideologica, ma allo stesso vaglio della documentazione, spingendo pericolosamente la demitizzazione, in certi casi doverosa ma non ugualmente perseguita, nel campo minato del preconcetto del quale si vogliono forzatamente trovare conferme nella documentazione che man mano si acquisisce.
L’episodio dell’impalamento dei prigionieri turchi citato dalla relazione del 2010, se non correttamente inquadrato nei modi e nei tempi della feroce guerra quattrocentesca, ed in particolare di una risposta alle altrettanto feroci scorrerie della cavalleria miliziana ottomana che, nelle primissime ore che seguirono lo sbarco, aveva letteralmente messo a ferro e fuoco l’intera regione dei laghi Alimini, spingendosi quasi fino alle porte di Lecce a nord e di Cannole ad est, con il corollario di uccisioni, stupri di donne e abusi di fanciulli che erano quasi la cifra strategica della Razwa ottomana, rischierebbe quasi di giustificare l’eccidio degli 800, dipingendosi quelli che difendevano la città e che avevano visto coi loro occhi le devastazioni e la morte portata dagli ottomani, quasi come degli avventati e degli scriteriati, accecati da un odio instillato dai nobili e dai religiosi, che li avevano spinti ad impalare i prigionieri, per persuadersi a resistere con maggior risolutezza e che quasi, per utilizzare la logica di chi è estraneo al complesso quadro storiografico e documentale relativo al sacco di Otranto, se l’erano cercata.
Così non fu. L’impalamento dei prigionieri turchi fu uno tra i tanti episodi ricadenti nella “normalità” di un assedio che vide 1.500 uomini, che spesso non avevano mai visto prima neanche un coltello, resistere per oltre 15 giorni alla sistematica distruzione dei campi, alla violenza delle donne e dei bambini, poi ridotti in schiavitù, all’incessante tiro della più formidabile artiglieria dell’epoca ed ai tre cruentissimi assalti generali messi in atto da oltre 15mila uomini, che annoveravano tra i ranghi l’elite militare dell’Impero Ottomano, ossia una vera e propria superpotenza mediterranea, che mirava esplicitamente, dopo aver piegato Otranto, al Principato di Taranto prima, all’Italia poi fino alla conquista dell’intera Europa.
(per gentile concessione dell’Autore, pubblicato su www.belpaeseweb.it del 29/09/2010)
La scapèce e una, forse indebita, illazione toponomastica
Scapèce: pesce marinato con aceto, aglio e zafferano. Etimologia: secondo alcuni la voce è dallo spagnolo escabèche=pesce marinato (dall’arabo sikbag=carne marinata), secondo altri dal latino esca Apìcii=cibo di Apicio.
Queste due ipotesi etimologiche sono state sbandierate anche in tempi molto recenti da vari autori che si sono ben guardati dal citare il padre autentico, facendo passare per loro proprietà ciò che in realtà è solo un plagio, in parole povere, un furto. Ritengo che il merito più grande della Rete sia proprio quello di consentire a chiunque abbia tempo e, soprattutto, voglia, di operare un controllo in tempo reale e di scoraggiare eventuali esibizioni di un’originalità inesistente.
Leggo infatti nel Vocabolario delle parole del dialetto napoletano che più si discostano dal dialetto toscano degli Accademici Filopatridi, Porcelli, Napoli, 1789, tomo 1°, pag. 89: “Scapece. Voce data a noi dagli Spagnuoli, che dicono escabeche. Originariamente esca Apicii. È infatti un genere di salsa che si trova descritta tralle vivande di quell’antico libro di cucina romana, che porta il nome di Apicius. Il solo pesce fritto è quel che da noi con tal salsa preparasi, la quale altro non è ch’un agrodolce.”
Risulta incontrovertibile dalla lettura appena fatta del brano, che già alla fine del 18° secolo per i Filopatridi la voce spagnola derivava dalla locuzione latina esca Apicii; i filologi successivi, quando sono stati originali, hanno solo ipotizzato che lo spagnolo escabèche derivi dall’arabo sikbag=carne marinata.
Riporto di seguito tutte le ricette di Apicio (gli storici antichi ci hanno tramandato notizia di ben tre personaggi distinti con questo nome, tutti buongustai, ma il nostro molto probabilmente è Marco Gavio Apicio, vissuto tra la fine del I° secolo a. C. e la prima metà del successivo; nella prima metà del 3° secolo d. C. un cuoco di nome Celio realizzò una compilazione di ricette, il De re coquinaria, attribuendole ad Apicio) in cui compare, trattato in modo che a prima vista potrebbe sembrare parzialmente connesso con la scapece, l’ingrediente principale, cioè il pesce:
[I, 11] Ut pisces fricti diu durent, eodem momento quo friguntur et levantur, ab aceto calido perfunduntur.
Affinchè i pesci fritti si conservino a lungo, appena friggono vanno tolti (dal fuoco) e bagnati abbondantemente con aceto caldo.
[IV, 144] Patina piscium: pisces quales libet rades et curatos mittes. Cepas siccas Ascalonias vel alterius generis concides in patinam et pisces super compones. Adicies liquamen, oleum. Cum coctum fuerit, salsum coctum in medio pones. Addendum acetum. Asparges et coronam bubulam.
Piatto di pesci: squama e pulisci pesci di qualsiasi specie. Metti in una pentola scalogni o bulbi di altra specie e sistemaci sopra i pesci. Aggiungi acqua ed olio. Quando il tutto sarà cotto versaci acqua di mare cotta. Va aggiunto aceto. Spruzzaci pure santoreggia.
[X, 1] Ius diabotanon in pisce frixo: piscem quemlibet curas, lavas, friges. Teres piper, cuminum, coriandri semen, laseris radicem, origanum, rutam, fricabis, suffundes acetum, adicies caryotam, mel, defritum, oleum, liquamen, temperabis, refundes in caccabum. Facies ut ferveat. Cum ferbuerit, piscem frictum perfundes, piper asperges et inferes.
Brodo di erbe per pesce fritto: pulisci qualsiasi pesce, lavalo e friggilo. Macina pepe, cumino, seme di coriandolo, radice di silfio, origano, ruta; mescola il tutto, versa aceto, aggiungi sugo di dattero, miele, vino cotto, olio, acqua, mescola il tutto. Versa in una pentola e fai bollire. Quando sarà bollito gettavi dentro il pesce fritto. Spruzza pepe e servi.
Come è possibile notare, nessuna delle ricette riportate sembra accennare, nemmeno vagamente, alla scapèce, perché dei quattro ingredienti principali (il pesce fritto, il pan grattato, l’aceto e lo zafferano) sono presenti contemporaneamente solo il pesce fritto e l’aceto, il che rende più plausibile per me la proposta etimologica che la voce derivi dallo spagnolo escabèche e questo dall’arabo sikbag=carne marinata.
La specialità è ricordata nella forma latina medioevale askipècia in un mandato del 25 marzo 1240 (Regesta imperatoris Frederici II, foglio 91, verso, in Constitutiones Regum Regni Utriusque Siciliae mandante Friderico II Imperatore, a cura di Getano Carcani, Napoli, 1786, pag. 383), in cui l’imperatore Federico II così ordinava a Riccardo De Pulcari: “…Preterea mandamus ut Berardo coco curie nostre facias dari de bonis piscibus de Resina et aliis melioribus qui poterunt inveniri, ut de eis faciat askipeciam et gelatinam pro nobis…” (…Inoltre diamo mandato affinchè tu faccia in modo che a Berardo, cuoco della nostra corte, siano forniti buoni pesci pescati a Resina e altri migliori che si potranno trovare, perché da quelli faccia la scapece e la gelatina per noi…). Non capisco perchè si continui a tradurre Resina con Lesina: il fatto che in quest’ultima località ancora oggi la scapece è preparata con le anguille dell’omonimo lago non è sufficiente ad ipotizzare nel testo originale una trasposizione R->-L-; da qui la mia traduzione con Resina, antichissimo villaggio in prossimità della costa campana).
L’argomento mi consente, infine, di accennare ad un fenomeno linguistico molto diffuso: l’ipercorrettismo, che consiste nella correzione erronea di una forma linguistica o di una pronuncia esatta, ritenuta scorretta per apparente analogia con altre forme realmente scorrette.
Il fenomeno, anche se esso è antico quanto la lingua ed è naturale nel bambino che adatta, soprattutto nella coniugazione dei verbi irregolari, alcune voci ai modelli conosciuti (per esempio, raccogliuto per raccolto), è stato analizzato e messo in luce in tempi relativamente recenti, tant’è che la voce in questione nasce nel 1957.
Esso costituisce uno dei tanti esempi di trionfo dell’errore, dunque dell’ignoranza, nella lingua che, si sa, è basata sull’uso, magari scorretto; e la potenza dell’uso è dimostrata dall’esempio che sto per fare: il letterario (!) aulire=profumare deriva dal latino *aulère=avere odore, per ipercorrettismo dal classico olère.
Non sempre, a parer mio, l’ipercorrettismo è, per così dire, in buona fede; talora intervengono, a fondersi con quelle dell’incultura, motivazioni di carattere psicologico, dando vita ad una miscela esplosiva in grado di alterare la verità, violentare la storia e rendere più problematica la ricostruzione del passato, perpetuando un falso che col passare del tempo è sempre più difficile smascherare.
Ecco un esempio, mi auguro presuntuosamente presunto, degli effetti nefasti dell’ipercorrettismo nel dialetto neritino: Scapigliari è la denominazione ufficiale di una via piuttosto periferica di Nardò, ove in un passato ormai lontano la zona chiamata Scapiciàra era utilizzata per la preparazione e la vendita della scapèce da parte degli scapiciàri. Sarebbe interessante, anche se è difficile, conoscere il nome di chi, probabilmente per vergogna della sua stessa storia, operò a suo tempo la correzione di Scapiciàri incrociandolo con Scapigliàti, ma conservando del primo la desinenza; forse, se qualcuno glielo avesse fatto notare in tempo, probabilmente si sarebbe pure meravigliato del rimprovero per aver sostituito, sia pure parzialmente, la puzza del pesce con i più nobili capelli, sia pure arruffati, di alcuni letterati della seconda metà dell’800…Se, invece, Scapigliari è il nome di qualche famiglia, un toponimo, un soprannome, insomma qualcosa che con la scapece non ha nulla da spartire, chiedo scusa per l’ignoranza, la mia, questa volta.
La fortuna filosofica di Vanini: l’ateo e il credente
Giulio Cesare Vanini nacque a Taurisano il 18 gennaio 1585. Il Vanini entrò nell’ordine carmelitano col nome di frà Gabriele, in seguito si trasferì a Padova per studiare teologia. In Veneto entrò in contatto con il cristianesimo irenico e latitudinario di Paolo Sarpi. Dopo svariati viaggi attraverso l’Italia e la Germania, nel 1612, fugge in Inghilterra, dove abiura alla fede cattolica, abbracciando l’anglicanesimo. Dopo due anni tenta di riprendere i contatti con la Chiesa cattolica, tentando la fuga, ma le autorità religiose inglesi lo rinchiudono in una prigione nella torre del Palazzo di Lambeth, da dove riuscirà a fuggire grazie alla connivenza dell’ambasciatore spagnolo a Londra.
Da questo momento inizia il peregrinare del Vanini, che teme la ferrea intransigenza dell’Inquisizione. Nel 1615 pubblica a Lione l’Amphiteatrum aeternae providentiae e nel 1616, a Parigi, il De admirandis naturae reginae deaeque mortalium arcanis. Dopo un breve periodo trascorso a Tolosa, venne processato dall’Inquisizione nel 1618, condannato per eresia e ateismo e, l’anno seguente, mandato al rogo.
Influenzato dall’aristotelismo di Averroè, di P. Pomponazzi e di G. Cardano, Vanini contesta la religione rivelata, facendosi promotore di una concezione della divinità immanente alla natura. Nella sua filosofia i dogmi della religione rivelata vanno riconsiderati alla luce della ragione, mentre i miracoli, lungi dall’essere fenomeni straordinari, hanno una spiegazione naturale.
Questa visione materialistica e razionalistica della natura conduce Vanini ad un determinismo universale, in cui si nega che il mondo abbia avuto origine per creazione e allo stesso tempo si proclama la materialità dello spirito e la mortalità dell’anima umana.
A dominare l’intero corso della ‹‹fortuna›› del Vanini è l’identità di significato tra ‹‹vanianesimo›› e ‹‹ateismo esemplare››, che accompagnerà l’eretico autore dell’Amphiteatrum e del De admirandis, fin dal crudele rogo di Tolosa. La documentazione scritta redatta per le Annales de l’Hotel de Ville, gli imputa l’offensiva intenzione di creare dei proseliti, cioè di insegnare l’ateismo. La sua morte incarna la fine del perfetto filosofo, lontano dai conforti religiosi, irrisorio nei confronti dell’assurda credenza nell’immortalità dell’anima, saldo nel credere alla funzione catartica e
Un giorno passare per via Veneto e accorgersi d’improvviso di un’insegna che sa di altri tempi: La puteca te li Papaionaca…
Una trovata pubblicitaria eccellente. Un ritorno al passato che fa piacere rivivere seppure nelle righe di un messaggio che prepotente rimanda nel tempo, quando leputeche di generi alimentari in un paese rappresentavano l’unico mezzo di approvvigionamento. La pasta, la conserva, la ricotta forte, il caffè si vendevano al minuto, non confezionati in pacchetti o simili ma sfusi. Altri tempi. Tempi non buoni, fatti di povertà e sacrifici. Lu putacaru sovente concedeva ai clienti gli alimenti con la libretta, dove si annotavano gli importi giornalieri della spesa: un rapporto fiduciario che si instaurava sull’onorabilità del cliente, il quale avrebbe poi provveduto a pagare appena le risorse finanziarie glielo avrebbero consentito. Un sistema che attualmente si può paragonare con le varianti moderne del compra oggi, paga fra un anno.
Gli anni Cinquanta faticosamente tendevano al progresso, le popolazioni del Sud dovevano adattarsi alla lentezza di un divenire migliore che altrove incominciava a fare capolino. Non c’era superbia. C’era solidarietà, un alto senso di mutuo soccorso accomunava le persone. Il paese era una grande famiglia che accettava con rassegnazione le disgrazie, ma nel contempo era capace di tirare fuori il meglio di sé per costruire futuro. Se non ci fosse stata la benevolenza, a quei tempi, dei putecari a dare da mangiare ai paesani, la vita sarebbe stata un inferno.
E l’insegna de La puteca te li Papaionaca, oggi nel terzo millennio, ha il sapore di un monito, di una reprimenda, di un segnale per le genti che vedono sopraggiungere una nuova povertà, diversa del passato, ma che fa sentire il
Pezzetti alla “pignata”
In una casseruola fate imbiondire leggermente in olio di frantoio della cipolla tritata grossolanamente, aggiungete delle carote, delle coste di sedano a tocchetti, pepe macinato, meglio se pepe bianco, peperoncino, sale, un po’ d’acqua e conserva di pomodoro in quantità tale che non colori eccessivamente gli ortaggi. Lasciate stufare a fuoco lento in modo che tutti gli ingredienti cuociano perfettamente, ammorbidendosi e insaporendosi a vicenda, quindi passate diligentemente il tutto al passaverdure e tenetelo da parte. In una pentola, ponete la carne preventivamente tagliata a pezzetti della grandezza desiderata con qualche foglia di alloro, ricopritela di acqua, salate e portate ad ebollizione, schiumate ripetutamente, togliete dal fuoco, eliminate una parte di questo brodo e sostituitelo con il passato di ortaggi precedentemente preparato. Continuate la cottura a fuoco lento aggiustando di sale se necessario; appena la carne risulterà tenera e ben cotta e il sugo ben ristretto ed avrà acquisito il sapore della carne, si potrà
servire. Per questa tipicissima preparazione si possono adoperare sia carni bovine che equine; ma prevale nettamente l’uso di queste ultime, in questo caso il buon oste usa spesso inserire degli ossi di bovino o meglio degli ossi cartilaginosi presi dalla spalla o dal petto allo scopo di arrotondarne il gusto.
Carne di cavallo con i capperi
La carne tradizionalmente utilizzata per questa preparazione è quella “ferrata”, come in varie zone della Puglia (non è difficile capire il perché) viene indicata la carne equina. Originariamente si adoperava prevalentemente carne di asino,
Lecce. Trasformazioni e ampliamenti del convento di Santa Maria del Tempio
Come tutti i leccesi appassionati di storia locale, attendo la relazione degli scavi archeologici preventivi nell’area dell’ex Caserma Massa (eseguiti sotto la direzione dello staff composto da esperti di Archeologia Classica del Prof. Francesco D’Andria), per apprendere la natura dei cunicoli riportati alla luce, il tipo di reperti che hanno custodito per tanto tempo e da quale area del sito proviene il capitello fotografato dall’esterno del cantiere da più persone tra fine marzo e inizio di aprile, probabile testimonianza della fase architettonica più antica di questo ex edificio.
Riscuotono un certo fascino le gallerie sotterranee voltate a botte emerse dal sottosuolo, attorniate dai vari piani di calpestio dell’immobile, testimonianza delle varie trasformazioni cui è stato sottoposto tra il 1432 e i primi decenni del Novecento. Com’è possibile definirle non rilevanti? Non sono forse state realizzate antecedentemente e/o in contemporanea di tante glorie monumentali presenti in città?
Purtroppo non vi è più l’alzato dell’edificio, ma la peculiarità di questo sito sta proprio nel fatto che l’area è sgombera di strutture sovrastanti ed è ubicata fuori dal perimetro storico della città: è un interessantissimo percorso a vista di storia dell’architettura.
Le dicerie che sono circolate in città, attorno a quest’area, sono dovute al fatto che molte persone non conoscono la storia del convento di Santa Maria del Tempio, più noto come ex Caserma Massa. Finalmente sabato 2 luglio 2012 Valerio Terragno ha pubblicato su il Paese Nuovo una bella sintesi delle sue vicende storiche, fugando dunque qualsiasi leggenda metropolitana.
L’ex convento di Santa Maria del Tempio – poi Caserma Massa – attuale ginepraio di cunicoli, è stata una grande e gloriosa struttura, le cui vicende costruttive possono essere sintetizzate in quattro fasi principali legate alla sua storia, magistralmente raccontata da padre Benigno Francesco Perrone nel primo volume di I Conventi della Serafica Riforma di S. Nicolò inPuglia (1590 – 1835) (Congedo Editore Galatina 1981).
Fondato nel 1432 come convento dell’Osservanza della Vicaria di Bosnia dipendente da Santa Caterina in Galatina, assorbita nel 1514 dalla Provincia minoritica di San Nicolò (diventata già nel 1446 Vicaria di San Nicolò di Puglia), nel 1591 passa ai padri della Serafica Riforma di San Nicolò in Puglia, diventandone nello spazio di alcuni decenni la casa provinciale più grande. Allontanati i frati una prima volta nel 1811, costoro tornarono nel 1822 per abbandonare il convento definitivamente il 14 settembre 1864. Concesso al comando distrettuale nel 1872, in seguito l’immobile fu adibito a sede della Caserma del Tempio, dedicata nel 1905 a Oronzo Massa. L’1 febbraio 1971 l’edificio è stato demolito.
È preliminare a queste quattro fasi e alla nascita della fondazione monastica, l’inventario dei beni posseduti a Lecce dai Templari stilato nel 1308, recentemente analizzato da Salvatore Fiori nel suo I Templari in Terra d’Otranto. Traccee testimonianze nell’architettura del Basso Salento (Edizioni Federico Capone, Torino 2010). Ebbene, l’area dov’è sorto il convento era il Feudum Domus Templi, una delle proprietà più importanti dell’ordine cavalleresco nel basso Salento. Il feudo era prospiciente un importante asse viario (attuale via San Lazzaro), che conduceva all’Ospedale di San Lazzaro nei cui pressi s’incanalava la strada verso l’entroterra salentino.
Alla soppressione dei Templari, avvenuta nel 1310, probabilmente il feudo diventò di dominio dei conti di Lecce: nel 1634 Giulio Cesare Infantino in Lecce Sacra, confidando nella tradizione, attribuisce ai conti la proprietà di un’antichissima cappella ubicata in uno dei fertili giardini di pertinenza del convento (da non confondere con la chiesa ipogea di Santa Lucia, l’attuale misero buco pieno di erbacce occultato da un muro, situata di fronte all’area in questione).
Non si conoscono ancora documenti che si riferiscono al passaggio di proprietà a Nuzzo Drimi: costui nel 1432 volle erigere nel suo podere una piccola chiesa e conventino, che dedicò alla Presentazione della Vergine al Tempio e affidò ai francescani dell’Osservanza della Vicaria di Bosnia, gli stessi frati che gestivano il monumentale complesso di Santa Caterina in Galatina fondato dai principi di Taranto.
Giovanni Antonio Orsini del Balzo, erede universale di Drimi, volle donare al convento leccese una teca d’oro, ottenuta dalla fusione di una sua collana, dove fu custodita la reliquia di un chiodo della Croce. L’Orsini del Balzo, inoltre, nel 1449 presentò a Nicolò V una petizione affinché intercedesse presso il vescovo di Lecce, per far sì che nella chiesa extraurbana fosse sepolto il cavaliere gerosolimitano Giacomo da Monteroni. Nel 1440 il convento fu ingrandito grazie alle elemosine offerte dai leccesi. Il complesso monastico, all’epoca, era costituito da un convento la cui area è stata inglobata dall’infermeria seicentesca e da una piccola e bassa chiesa che custodiva una miracolosa immagine della Vergine molto venerata.
Un secondo e più significativo ampliamento fu voluto a partire dal 1508 da padre Riccardo Maremonti, ministro della Provincia di S. Nicolò in Puglia dal 1515, nonché architetto che progettò un quadriportico sul lato nord della chiesa medievale. Costui fece abbattere l’antico convento e tra il 1508 e il 1517, realizzò il lato sud e l’ala est su cui si affacciavano le cucine e le officine. Il portico era formato da sei archi ogivali per lato, sostenuti da possenti colonne sormontate da capitelli decorati da quattro semplici volute (così come si può riscontrare nelle fotografie pubblicate nel libro di Perrone). Maremonti che realizzò, così come ha già illustrato Terragno, anche la sacrestia, il refettorio, e, al primo piano, un corridoio su cui si aprivano dodici stanze, volle ornare i gradini delle scale e le soglie delle stanze con un materiale di pavimentazione duro, adoperato in seguito come modello per lastricare le strade di Lecce.
Subentrati nel 1591 i padri della Serafica Riforma di San Nicolò in Puglia, costoro vollero apportare nuove modifiche allo stabile, dettate dalla necessità di accogliere un maggior numeri di frati e novizi, oltre agli ammalati provenienti da altri conventi. La grande infermeria, menzionata nel 1634 da Infantino, era allineata al prospetto della chiesa ed era dotata di refettorio, cucina, dispensa, farmacia e un numero cospicuo di celle per gli ammalati e di un piccolo chiostro. Prima del 1641 furono completati i due bracci mancanti del portico, realizzati secondo lo stile di Maremonti. Al piano superiore furono costruite nuove celle per i frati e fu aggiunto il corridoio sul lato nord, così da arrivare a ospitare fino a settanta religiosi. A fine secolo fu realizzata una grande biblioteca a uso dei novizi che si acculturarono in questi luoghi. Risale a questa fase l’ingrandimento della chiesetta medievale, essendo state aggiungente le cappelle laterali; la nuova chiesa comprendeva tredici altari e un coro superiore.
Il convento di Santa Maria del Tempio diventò la più grande struttura di tutta la provincia francescana. L’edificio è rimasto sostanzialmente immutato sino alla soppressione del 1864, e nell’inventario redatto per l’occasione, sono elencati i vari vani dello stabile.
Adibito nel1872 a caserma, nell’edificio furono apportate profonde modifiche dettate dalla nuova destinazione d’uso con le relative esigenze funzionali.
La patata zuccherina del Salento, buona e decorativa!
La decorazione nei cimiteri della Sicilia con la Batata del Salento leccese (Ipomoea batatas L.)
di Antonio Bruno
Il Conte Villa di Mont Pascal, Tesoriere della Reale Accademia di Agricoltura di Torino, nell’adunanza del 28 aprile 1842 illustrò la coltivazione della Batata dolce americana. Lui la chiamava Convolvulus Batatas (Ipomoea batatas L.). La coltivazione fu introdotta dal Marchese Ridolfi in un podere sperimentale di Meleto. Il Prof. Moretti aveva tentato la coltivazione della Batata in Lombardia avendo avuto difficoltà e anche per l’impossibilità di conservare i tuberi sino alla semina, quelle varietà erano davvero difficili da conservare.
I primi di aprile si misero a germinare i tuberi e in 15 giorni da un tubero spuntarono i germogli. Da quell’unico tubero ottenne delle talee che che alla fine di giugno vegetavano. Interessante la concimazione che consisteva nell’utilizzo di cenere e poi contro le formiche e i grillotalpa il Conte utilizzò della fuliggine. Le piante lussureggiarono raggiungendo tre metri di larghezza. Ai primi di ottobre le piante cominciarono a fiorire e per paura delle piogge si
La tela delle Anime del Purgatorio di Casarano: due autori per un dipinto
Nel terzo altare a destra entrando nella chiesa Matrice di Casarano, quello assegnato allo scultore copertinese Giovanni Donato Chiarello, è collocato il dipinto delle Anime del Purgatorio.
La composizione del dipinto si articola secondo lo schema piramidale. In alto, troviamo la Madonna che, fra nuvole, sorregge il Bambino benedicente; a sinistra e destra inginocchiati San Giuseppe e Sant’Anna invocano a Maria e Gesù la salvezza eterna per le anime purganti poste in basso.
Al di sotto, alla loro sinistra e destra, vi sono altri Santi, anch’essi adagiati su nuvole, disposti in gruppi che intercedono per la redenzione dei peccatori. Al centro una figura femminile è levata in cielo da angeli, indice che è stata purificata. Nella parte bassa del dipinto si sviluppano le fiamme nelle quali bruciano le anime penitenti; quelle redente invece sono sollevate da angeli.
Una recente indagine -segnalata da Luciana Margari, restauratrice dell’opera- ha assegnato questo dipinto al pittore gallipolino Giovanni Andrea Coppola (1597-1659).
Una indagine più approfondita svela, però, particolari interessanti circa la fase esecutiva del dipinto. Esso, infatti, rivela una mano differente accanto a quella del Coppola. Se si prende in considerazione la parte superiore del dipinto – costituito dalla figura della Vergine col Bambino, San Giuseppe, Sant’Anna, i Santi disposti a destra e sinistra e soprattutto gli angeli che sono intorno a questi personaggi – appare subito di diverso stile e qualità esecutiva rispetto la parte centrale (a partire dalla donna che sta per ascendere al cielo) e bassa del dipinto.
Le movenze forzate e le disposizioni degli angeli, i ben caratterizzati lineamenti fisiognomici dei volti di questi personaggi riscontrati nella parte superiore dell’opera, richiamano la pittura di frà Angelo da Copertino (1609-1685 ca.).
Perché due diverse importanti e ben distinguibili mani per un solo dipinto? La pala d’altare casaranese è stata eseguita probabilmente prima della morte del Coppola, il quale ha dato al dipinto l’impostazione generale e ne ha eseguito gran parte. Probabilmente a morte sopraggiunta dell’artista gallipolino fu chiesto al frate cappuccino di terminare il dipinto: siamo verso il 1659. Frà Angelo allora era da considerare tra gli esponenti più interessanti della pittura salentina.
Già nel 1636 firma il Sant’Antonio di Padova per la chiesa dei Cappuccini di Ruffano, e nel 1655, per la chiesa Matrice di Copertino, realizza la Regina dei Martiri, che con i dettagli indicati su quello di Casarano trova chiare analogie. Infatti, se si prendono proprio in considerazione i gruppi dei santi dell’opera copertinese, si possono individuare i volti e le posture dei santi casaranesi.
Due pittori dunque per un significativo dipinto dell’arte controriformata salentina del XVII secolo.
da: S. Tanisi, La tela delle Anime del Purgatorio,in “L’Ora del Salento”, settimanale, Anno XIX, Numero 33, 10 ottobre 2009.
Faceva il giro delle masserie con la sua carretta, tutte le mattine.
Una “motom” stracarica di tutto, tutto in una bisaccia a cavalcioni della moto. Buste di ogni tipo, sporte, panare, appese ai due bracci del manubrio. Una montagna di pacchi, lattine, involti, in una cassetta, sul sedile di dietro, ogni cosa separata a seconda della sua natura.
Arrivava con gran rumore di schioppettii del motore, piano piano, in un esercizio di equilibrio fra una pozzanghera e l’altra della vecchia strada e i cani gli andavano incontro festosi, a ricevere un pezzo di pane, un osso, un biscotto, a loro dedicato.
Spento il motore, faceva gli ultimi metri con i piedi, come in un atterraggio di fortuna, come fanno grossi volatili da cortile nel toccare terra.
Calmo, sorridente, un po’ infreddolito, consapevole di essere atteso, appoggiava la moto al muro, toglieva i guanti dito a dito, sollevava la visiera del berretto nel mentre rivolgeva il suo calimera in un bonario sorriso. Di poche parole, cercava nel suo universo di cose, la cosa attesa, ordinata il giorno prima, da consegnare al committente di campagna.
Una spoletta di cotone, dei bottoni, forcine per i capelli, un paio di calzini, un bigliettino d’auguri… come lo si era atteso, immaginato, pregustato… la letterina per Natale poi… con i luccichii dorati e gli angioletti in trasparenza…veniva consegnata con complicità, in gran segreto alla bambina che sperimentava così la programmazione…
I giornali della settimana, La Domenica del Corriere per il padre, con i fatti della settimana e i fumetti del Signor Bonaventura per la piccola bambina, il Grand Hotel per la madre con infinite storie d’amore in bianco e nero.
Il petrolio per il lume, da un sacco di juta puzzolente, il mastice per la bicicletta che è forata da due giorni, la carne per il sugo, le pastiglie per il
La Maddalena in gloria del Lanfranco in San Pasquale a Taranto
La sacrestia della chiesa San Pasquale di Baylon di Taranto conserva numerosi dipinti di autori importanti quali Cesare e Francesco Fracanzano, Leonardo Antonio Olivieri e una tela attribuita a Luca Giordano. Con questo mio articolo voglio fare luce su un dipinto di alta qualità, sfuggito alla critica, raffigurante la “Maddalena in gloria”, ascrivibile ad uno dei più importanti artisti del Seicento, Giovanni Lanfranco.
Il pittore, esponente di primo piano della pittura seicentesca e della decorazione barocca, fu allievo di Agostino e Annibale Caracci e si ricorda come autore di importanti cicli pittorici nelle chiese di Roma e Napoli, oltre ai molti quadri conservati nei musei più importanti del mondo tra i quali il Louvre.
Tornando alla tela tarantina, la Maddalena è raffigurata mentre sale
Il chiostro di S. Francesco di Paola a Grottaglie e il pittore Bernardino Greco da Copertino
IL CICLO BIOGRAFICO DI S. FRANCESCO DI PAOLA NELLE LUNETTE DEL CHIOSTRO DEI PAOLOTTI DI GROTTAGLIE
di Rosario Quaranta
Il chiostro dei Paolotti non è l’unico in Grottaglie; altri ve ne sono, infatti, nei diversi complessi conventuali dei Carmelitani, dei Cappuccini e delle Monache di S. Chiara. Di questi però solo quello annesso al maestoso convento del Carmine risulta degno di particolare nota, sia per la struttura che per le interessanti pitture e decorazioni. Quello dei Cappuccini, molto semplice e di modeste dimensioni, è ormai irriconoscibile come quasi tutta l’imponente struttura conventuale sita, peraltro, in un sito altamente suggestivo sullo spalto nord della storica gravina del Fullonese, da tempo abbandonata allo scempio e alla distruzione ed ora in fase di recupero e restauro. Il minuscolo chiostro delle Clarisse, in aderenza alla peculiare severità ed estrema semplicità del monastero, non presenta interesse artistico o architettonico. Il chiostro del Carmine appartenente strutturalmente al secolo XVI e completato nelle decorazioni nel secolo XVIII, rappresenta sicuramente un elemento di notevole interesse artistico e architettonico del territorio. Nonostante le modeste dimensioni, si presenta all’occhio del visitatore snello, elegante e ricco, come quello dei Paolotti, di un ciclo pittorico di tutto rilievo.
Il chiostro di S. Francesco di Paola, annesso alla chiesa e al grandioso convento dei Frati Minimi, qui introdotti nel 1536 dal grottagliese P. Girolamo Sammarco. è di sicuro il più importante di Grottaglie, e tra i più interessanti e significativi dell’Ordine dei Minimi, sia per la struttura che per il richiamo del ciclo pittorico quasi completo della vita del taumaturgo calabrese. La struttura architettonica risale, perciò alla seconda metà del secolo XVI, mentre le lunette vennero completate nel 1723, con fresca e originale vena popolaresca, dal pittore salentino Bernardino Greco da Copertino, il quale per le varie scene si ispirò abbastanza fedelmente a una serie di incisioni di Alessandro Baratta stampate con didascalie poetiche a Napoli nel 1622: La vita e miracoli del gloriosissimo Padre Santo Francesco di Paola, con le rime di Don Oratio Nardino Cosentino, dato in luce per Ottavio Verrio genovese, Napoli 1622 (altra edizione a Napoli nel1627 a cura di Giovanni Orlandi).
1723 FIRMA DELL’AUTORE BERNARDINO GRECO DA COPERTINO
Nelle lunette di Grottaglie vengono proposti, senza un vero e proprio ordine, episodi della vita miracolosa del santo di Paola, insieme con figure e personaggi legati alla storia dell’Ordine dei Minimi. Ogni scena è illustrata da una didascalia poetica (quattro quartine sono del celebre letterato minimo del Seicento Francesco Fulvio Frugoni) e riporta i nomi e gli stemmi delle famiglie grottagliesi che commissionarono l’opera, tra le quali quella dei feudatari principi Cicinelli.
Il chiostro, in parte restaurato, è un monumento studiato e giustamente decantato in diverse pubblicazioni da P. Francesco Stea; in particolare nel suo Un monumento barocco (Fasano, 1979): Ecco come ne parla: “Al centro del convento si allarga il chiostro: costruzione ad ampio respiro, quadrilatero perfetto, che si articola in venti arcate a tutto sesto, rette da colonne doricheggianti di carparo locale. Su tre lati — sud, est, ovest — esse sono quadrate e sormontate da brevi capitelli; a nord sono ottagonali a diretto sostegno dell’arco. A somiglianza del tempio dorico, poggiano, senza base, sullo stilobate, «come albero che spunta direttamente dal terreno»; la loro base è un unico rialzo perimetrale, con due cuscinetti accennati a doppio ripiano; il fusto è senza scanalature, assottigliato, per accentuare l’energia di tensione verso l’alto. Il capitello si compone d’un cuscinetto a linea curva — echino — e di un parallelepipedo — abaco — sul quale poggia un semicatino con foglie ai lati; un’ampia cornice a più ripiani, inizia il pie’dell’arco. Nella parte superiore del lato nord, i pilastri ripetono motivi analoghi a quelli del piano inferiore: echino ed abaco più evidenziati e fregi ai quattro lati. Corre sull’orlatura la “sima” con le docce per l’acqua piovana; il tetto, infine, è a terrazze lastricate. Le volte sono a vela; al centro una pigna, di forma quasi sempre diversa, fa da chiave di volta. Sei ampi finestroni luminosi del corridoio di soggiorno soprastante l’atrio si affacciano sul lato nord, in proiezione prospettica, conferendo eleganza e sontuosità (…) Oltre all’equilibrio architettonico e alla simmetria dell’intero corpo di fabbrica, pur nel continuo variare dei diversi elementi, in mirabile armonia tra loro ad accrescere fascino e bellezza concorrono gli affreschi sotto le vele. Sono trentadue le lunette, comprese quattro dell’ ingresso, di cui una è andata completamente perduta, l’altra è visibile solo per metà. Di fronte, nel vestibolo, si apre l’albero genealogico dell’Ordine; le altre si snodano come in un interessante diorama storico: la vita del Santo Fondatore dei Minimi e la sua azione prodigiosa, lungo tutto l’arco dei suoi novantuno anni. Tra l’una e l’altra, dove si allarga l’angolo della vela, sono inseriti dei medaglioni di illustri personalità: re, regine, duchi, arcivescovi, vescovi, benefattori insigni, terziari dell’Ordine con i loro stemmi e blasoni: venti in tutto (…) Ove meglio le pitture si conservano, è sul lato nord, a ridosso di tramontana; qui non hanno perduto niente della loro primitiva freschezza, come la canonizzazione del Santo, affollatissima di alti dignitari pontifici ed ecclesiastici di ogni rango. In un’altra, il Santo appare circonfuso di fulgore nella gloria della sua apoteosi, con i lembi della tonaca che sembrano toccare terra, come per assicurare i suoi devoti, dal cielo, che egli continua a guardarli e proteggerli. Importanti, per l’araldica grottagliese e di qualche famiglia di paesi forestieri, i nomi di chi ne ordinò l’esecuzione; alcuni sono tuttora esistenti: Marra, Lo Monaco, Serio, Ciracì, Lillo, Finto, Maranò, Caforio, Bucci. Di ventisei lunette conosciamo il committente, degli altri il nome non è riapparso dopo i restauri; sei della famiglia Pinto; sei del Principe di Cursi e Duca di Grottaglie; sei di sacerdoti grottagliesi; una del Viceduca Antonio Damiano; una del Barone Tommaso Basta di Monteparano; le rimanenti di altri devoti. Pitture fatte eseguire senza finalità specifiche o particolari riferimenti ai soggetti raffigurati: alcuni committenti avevano il nome “Francesco”, evidente la devozione al Santo; i sacerdoti erano quasi tutti del locale Capitolo Collegiale; anch’essi vollero in tal modo manifestare l’attaccamento al Paolano, oltre che all’Ordine dei Minimi, orgogliosi del decoro e del lustro che il monumento conferiva al paese. I versi, quartine e terzine rimate, risentono del gusto del tempo e s’intonano perfettamente al soggetto rappresentato. Essi, oltre che deteriorati, non sono stati, in parte, riprodotti con fedeltà. Alcune strofe non prive di pregio denotano spontaneità e scioltezza (…) Negli affreschi domina sovrana la figura del Santo, attorniato da alcuni suoi religiosi o seguito da ammiratori e devoti. Gli spazi sono pieni, qualche volta, di immagini senza vita e movimento, che balzano all’occhio dell’osservatore, non senza un fascino alla luce del giorno, suggestiva e piena di mistero nella penombra della sera. Le scene conferiscono una sacralità a tutto il chiostro, e non pochi sono coloro, che, entrando, in ore vespertine, vengono presi da religioso rispetto e timore: sembra che il Taumaturgo di Paola, dipinto nelle lunette, abbia, operato qui, tali prodigi. La storia, così varia, di oltre quattro secoli, svoltasi sotto queste arcate e nell’intricato dedalo dei lunghi corridoi del convento, la severità e la ieraticità di tanti personaggi dicono che «ora, veramente, questo luogo è santo», specie se si considera il forzato abbandono da parte dei religiosi, quando, tristi e foschi episodi ne hanno profanato la sacralità.”
L’Autore delle pitture murali: Bernardino Greco
Per quanto riguarda l’autore, gli unici dati certi derivano dalla sottoscrizione e dalla data che si possono ancora leggere, inserite in un cartiglio nel vestibolo del convento: “Bernardino Greco di Copertino dipingeva nell’anno del Signore1723”. Di sicuro sappiamo che egli dipinse pure il ciclo pittorico sul santo di Paola del convento di Monopoli (Bari): 20 lunette corredate, come a Grottaglie, da didascalie, ritratti di personaggi illustri, stemmi nobiliari e decorazioni. Si tratta di una serie di episodi dipinti con una vena leggermente più sommaria e semplificata.
Il pittore copertinese, di certo su indicazioni dei religiosi grottagliesi, dipinse gli episodi della vita del santo su 28 lunette del chiostro e su tre lunette del vestibolo; sull’intera quarta parete del vestibolo, ed esattamente quella posta di fronte all’ingresso, raffigurò l’albero dell’Ordine dei Minimi (Arbor Religionis Minimorum). Quindi in tutto 31 episodi biografici, dei quali, però, quello raffigurante probabilmente la morte del Santo è andato completamente perduto, e altri tre sono cancellati per oltre la metà (Il Santo che ripara la fornace ardente, l’asinello restituisce gli zoccoli all’avaro maniscalco e l’episodio dei pesci arrostiti fatti tornare in vita). Diversi altri, poi, versano in uno stato di progressivo deterioramento che nel volgere di pochi anni ne rovinano vistosamente i tratti; è il caso degli episodi riguardanti il passaggio dello stretto di Messina, il miracolo dell’uomo assiderato da tre giorni e tornato in vita, del guerriero miscredente e dello stesso Albero della Religione del vestibolo ormai irriconoscibile per oltre la metà. Una vera iattura da fronteggiare al più presto se si vuole salvare questa testimonianza di religiosità e di cultura.
Per buona fortuna, ad eccezione della lunetta del tutto perduta, siamo in grado di identificare e riconoscere tutti gli altri episodi grazie al modello che il pittore tenne presente abbastanza fedelmente, tratto, come si è detto, dalla serie delle tavole realizzate nel primo Seicento dal pittore-incisore Alessandro Baratta.
Il lavoro del pittore si protrasse per un certo tempo prima di concludersi nel 1723 che, evidentemente, è la data di conclusione dei lavori fissata nel cartiglio del vestibolo; una prova di ciò si può intravvedere nella mancanza di un preciso ordine nella sequenza degli episodi e dei medaglioni dei personaggi. Probabilmente si dovette procedere in base agli interventi finanziari di coloro che commissionarono le pitture con gli episodi miracolosi scelti da loro stessi tra quelli che maggiormente li avevano colpito e corredandoli con didascalie poetiche e con la raffigurazione dei propri stemmi o blasoni nobiliari. Spiega ancora P. Stea: “I versi, quartine e terzine rimate, risentono del gusto del tempo e s’intonano perfettamente al soggetto rappresentato. Essi, oltre che deteriorati, non sono stati, in parte, riprodotti con fedeltà. Alcune strofe non prive di pregio denotano spontaneità e scioltezza: evidente il fine di magnificare ed esaltare la potenza taumaturgica del Santo.
Ecco l’oro del cor fatto assassino
Spander punito i sanguinosi umori;
Perché succhiò le vene a tanti cori
Rende il sangue rubato il ladro fino.
Nella reggia di Napoli, dove Ferdinando d’Aragona non si fa scrupolo d’angariare e di vessare le popolazioni, l’Eremita di Paola tuona con la forza del suo animo contro i soprusi che immiserivano la povera gente.
A stupir qui, natura, Egli t’invita
Informe volto a disegnar s’accinge;
Ad immagine sua qual Dio, lo pinge,
Sputo è il color, e son pennel le dita.
Pittura e poesia si fondono mirabilmente: non sappiamo dove l’una cominci e l’altra finisca. La fresca vena popolare, è componente unica nella cornice architettonica di colore.
Questo sincronismo ci induce a ritenere il chiostro un’opera degna di nota tra le altre della nostra regione; giudicarlo diversamente sarebbe voler obliare ogni espressione d’arte minore e limitarsi alle maggiori.”
Gli episodi della vita del Santo
La biografia del Paolano viene perciò efficacemente illustrata con una sequenza consistente di episodi che così si possono riordinare:
Un bagliore nel cielo di Paola nella notte in cui nacque il Santo
Nascita del Santo (27 marzo 1416)
Il giovane Francesco si consacra a Dio coi i 4 voti (ubbidienza, povertà, castità e vita quaresimale)
Il giovane Francesco riceve dagli angeli le insegne dell’Ordine (il cappuccio e lo stemma CHARITAS)
Un capriolo scampa ai cacciatori rifugiandosi presso il Santo
Con l’applicazione di erbe il Santo guarisce il barone di Tarsia da una cancrena alla gamba
Il Santo accetta una generosa offerta da un nobile cosentino per la costruzione di un convento
S. Francesco entra nella calcara ardente per ripararla (nel vestibolo, in alto, sul portone)
Risana un religioso che si era tagliato il piede nel fare legna nel bosco
Richiama in vita dalla fornace ardente l’agnellino divorato dagli operai
Fa tornare in vita un morto assiderato nella neve da tre giorni
I soldati inviati dal re non riescono a catturare il Santo
E’ sorpreso in estasi davanti alla Trinità con una triplice corona sul capo
Guarisce un lebbroso
Ordina all’asinello di restituire gli zoccoli al maniscalco avaro (vestibolo, in altro a destra)
Guarigione di forsennati e furiosi
Ridona sembianze umane a un bambino deforme servendosi delle dita come un pennello
Risuscita il nipote Nicola D’Alessio che poi diventerà frate
Passa miracolosamente lo stretto di Messina
Consegna ai soldati del conte d’Arena la candela benedetta per la guerra contro i Turchi
Un soldato rifiuta la candela benedetta dal Santo; per questo egli non fece ritorno dalla guerra contro i Turchi
S. Francesco di Paola spezza le monete d’oro davanti a Re Ferrante d’Aragona a Napoli
Ridona la vita ai pesci arrostiti che il re gli aveva fatto portare (rovinata)
Il Santo è ricevuto a Roma dal Papa Sisto IV. In alto a destra egli profetizza il pontificato a Giovanni dei Medici che poi lo canonizzerà nel 1519 (Leone X).
La nave che aveva portato il Santo in Francia, al ritorno, scampa al naufragio grazie agli zoccoli del santo gettati in mare
Il re di Francia Luigi XI accoglie il Santo
Profetizza a Luigia di Savoia la nascita di un figlio.
Luigia di Savoia presenta al Santo il figlio avuto per sua intercessione (Francesco I di Francia).
(Perduta: probabilmente raffigurava la morte del Santo)
Canonizzazione del Santo in S. Pietro (1 maggio 1519)
Il Santo Taumaturgo guarisce i malati di ogni sorta (vestibolo, in alto a sinistra)
Albero dell’Ordine dei Minimi (vestibolo, di fronte)
Il vestibolo del convento appare oggi molto diverso da come si presentava nei secoli scorsi. L’incuria degli uomini e lo scorrere inesorabile del tempo ne hanno irrimediabilmente compromessa la bellezza: la parete che si trova di fronte all’ingresso, una volta interamente ricoperta dalla pittura murale raffigurante l’Arbor Religionis, oggi conserva solo una parte di questo interessante soggetto iconografico e per giunta in condizioni pietose. Delle tre lunette sovrastanti, solo una (e cioè l’azione taumaturgica del Santo) si può ancora osservare nella sua interezza, mentre le altre due (e cioè l’episodio della fornace ardente e l’asinello che restituisce gli zoccoli all’avaro maniscalco) risultano perdute per oltre la metà. Anche la volta, interamente decorata, è molto rovinata; nonostante tutto è ancora possibile leggere sui due cartigli il nome dell’Autore e la data di realizzazione:
BERNADINUS GRAECUS [CO]PERTINENSIS [PINGE]BAT
[……………………………………… ] A. D. MDCCXXIII
Il significato allegorico dell’albero che, partendo alla base dal corpo del Fondatore, si innalza maestoso nella storia della Chiesa e che porta i suoi buoni frutti di virtù e di santità, viene espresso in maniera alquanto diversa e semplificata rispetto a una nota incisione del 1622.
Comunque , si può ancora vedere in alto, “ il Fondatore S. Francesco di Paola; sul suo capola SS.ma Trinità; intorno, un coro di angeli festanti e uno stuolo di venerabili martiri, confessori, dottori e vergini, re, regine, personalità illustri, alti dignitari, ecclesiastici, religiosi del primo Ordine, suore e terziari d’ambo i sessi; sotto, si diramano maestosi e folti i rami di questo albero secolare, che «diede fiori e frutti santi», al dir di Dante.”
Il progressivo deterioramento sta gradualmente cancellando dal basso verso l’alto, numerosi personaggi al punto che alcuni di questi già riportati nella monografia di P. Stea, sono ormai scomparsi. La stessa sorte sta interessando purtroppo molte altre lunette.
Recentemente sono state restaurate le due lunette relative al fausto presagio della notte in cui nacque il santo e al miracolo della nave in tempesta, salvata per intercessione del santo. Si attende anche per le altre un intervento sollecito per salvare questo significativo monumento di spiritualità di arte e di cultura del nostro territorio.
Le recenti polemiche inerenti al restauro del Sedile in piazza Sant’Oronzo a Lecce, amplificate dalla scioccante illuminazione rosa fucsia (ormai spenta) e concentrate sulla rimozione di vari elementi storicizzati (la piastrella in maiolica recante l’antico numero civico 1674, le vetrate, il lampadario, il camino)[1], così come sul nuovo impianto illuminotecnico e le vetrate antiriflesso fissate da crociere di acciaio, fanno tornare alla mente un altro dibattito – anche questo riportato dai giornali – che ha riguardato sempre questo monumento.
Nel 1897, per dar risalto al Sedile, si pensò addirittura di abbattere la chiesetta di San Marco, che gli sorge di fianco. All’epoca – a differenza di oggi, fu proprio il Regio Ispettore dei Monumenti di Terra d’Otranto – Prof. Cosimo De Giorgi -, ad appellarsi alla cittadinanza dalle pagine del Corriere Meridionale, ricordando come la chiesetta testimoniasse la presenza secolare della potente colonia veneta, e sottolineando l’importanza del piccolo monumento: rara dimostrazione incontaminata dell’arte cinquecentesca. Da qui nacque un acceso dibattito che per più di un anno riempì di polemiche i giornali locali. Dalle pagine della Gazzetta delle Puglie, ad esempio, si criticava la troppa attenzione di Cosimo De Giorgi per «una cappelluccia corrosa e di
Anche i figli degli antichi romani mandavano il “turbo”
di Piero Vinsper
“Costruire delle casine, attaccare i topi ad un carrettino, giocare a pari e caffo, cavalcare una lunga canna” sono per Orazio i primi giochi infantili: giochi di ragazzi romani e giochi dei nostri.
A pari e caffo (par impar) si giocava così: uno teneva chiusi nel pugno alcuni sassolini (noci, ecc.) ed invitava il compagno a dire se erano in numero pari o dispari. Apriva poi la mano, e si vedeva se l’interrogato ci aveva dato giusto.
Si usava anche giocare capita et navia, cioè, come diciamo noi, “a testa e croce”, e nel dialetto galatinese “a capu e litthri”, gettando in alto una moneta e cercando di indovinare, prima che cadesse, se sarebbe rimasta in alto la parte con la testa o la parte con la nave.
E si giocava alla morra (digitis micare), si mandava la trottola (turbo) con lo spago o con la frusta, o il cerchio (orbis, trochus), servendosi di un bastoncino diritto o ricurvo (clavis).
Molto giocavano con le noci, tanto che Persio dice “lasciate le noci” volendo significare “passato il periodo dell’infanzia”.
Da allora ai nostri giorni il gioco non è cambiato affatto: si mettevano su delle capannelle con tre noci sotto e una sopra, e se uno riusciva a farle crollare, colpendole con il “bocco” (boccus = corpo rotondo, la nostra “paddhra”), le noci erano sue.
Va detto che, nel periodo posteriore all’invasione della cultura greca, tutti i giochi infantili greci divennero abituali in Roma: come, per esempio, l’altalena sospesa alle funi (αίώρα) o su di un’asse in bilico (πέταυρον),l’aquilone (άετóς) e il fare ad acchiappino (άποδιδρασκíνδα, il nostro zzaccarreste) e a mosca cieca.
Mosca cieca in greco si dice mosca di rame (χαλκή μυΐα); un ragazzo con gli occhi bendati brancolava cercando di afferrare uno dei suoi compagni e diceva:”Darò la caccia alla mosca di rame”; e i compagni, ronzandogli intorno con un bastoncino:”La cacceraie non l’acchiapperai”; e giù botte.
Ora prendiamo in esame il gioco del turbo latino, della trottola, cioè, nella nostra κοινή διάλεκτος, de lu curuddhru.
Curuddhru deriva dalla forma tardo-latina currulus, che si rifà al verbo curro e sta a significare una cosa che corre, che scappa, che ti sfugge di mano.
Tre sono i tipi di curuddhri: curuddhru propriamente detto, mathrecòcula e pinnetta.
Lu curuddhru ha forma conica, la base del quale è sormontata da un cerchietto rotondo, la chìrica, il vertice termina con una punta d’acciaio.
Per far fitare (da φοιτάω: vado qua e là, su e giù, avanti e indietro, corro, giro, ecc.) lu curuddhru è necessario avvolgere, a partire dal vertice, intorno alla sua superficie, una cordicella; l’abilità del giocatore consiste, appunto, nel far aderire perfettamente questa corda in modo che, lanciandolo, e facendo presa sull’estremità della corda che si tiene in mano, si possa imprimere una forza tale da fargli acquistare un’accelerazione che duri un certo periodo di tempo.
La mathrecòcula è ‘nu curuddhru schiricatu, un po’ più panciuto, mentre la pinnetta, dalla forma più snella e slanciata, ha al vertice una punta d’acciaio ben più spessa.
Due sono i tipi di gioco cu llu curuddhru: sotta manu e a morte e si devono svolgere su terra battuta. Sia nell’uno che nell’altro gioco il numero dei partecipanti è illimitato; la differenza consiste nel modo di far fitare lu curuddhru.
Sotta manu: dopo aver avvolto intorno a llu curuddhru la corda, tenendo fra le dita il capo dell’altra estremità della corda e facendo attenzione che lu curuddhru che si ha in mano abbia il vertice rivolto verso l’alto, lo si lancia in senso orizzontale sulla superficie da gioco. Vince il giocatore che fa fitare lu curuddhru in un tempo maggiore rispetto agli altri.
A morte: sempre la solita operazione. Però in questo caso lu curuddhru viene lanciato a picco, in senso verticale, sul terreno da gioco.
La cosa si complica se subentra la mathrecòcula; e qui è messa a dura prova l’intelligenza del ragazzo, perché, in breve tempo, deve calcolare traiettoria, distanza, tempo e raggio d’azione per poter colpire il bersaglio.
Si traccia allora per terra un cerchio, ed il gioco diventa più difficile se il cerchio è più piccolo di diametro. Dapprima si fa fitare nel cerchio la mathrecòcula, poi ogni giocatore deve colpirla tirando a morte la pinnetta o lu curuddhru. Se l’una o l’altro riesce a colpire in pieno la mathrecòcula accade spesso che quest’ultima si spacchi in due.
Ed il momento più opportuno per cercare di centrare la mathrecòcula è quando questa rotea su se stessa con una velocità tale da sembrare che stia ferma. Naturalmente risulta vincitore chi colpisce la mathrecòcula.
(in “Il filo di Aracne”, n°1 – 2006)
(Lu curuddhru = la trottola)
Le origini della chiesa Matrice di Manduria: un mistero non ancora chiarito
Quello circa le origini della chiesa Matrice di Manduria è uno dei tanti problemi relativi alla storia della nostra citta’ a tutt’oggi non ancora definitivamente risolto. A questo proposito, una tenace tradizione storiografica (mancando i documenti) concorda su un assunto: prima che nel sec. XVI (1532) sorgesse l’attuale chiesa Madre, dedicata alla SS. Trinità, al suo posto esisteva una cappella di epoca normanna, sorta intorno al 1090, al tempo cioe’ della fondazione di Casalnuovo ad opera dell’intraprendente Ruggero Borsa , figlio del duca di Puglia Roberto il Guiscardo.
Questa ricostruzione si scontra però, come è noto, con due dati di fatto inoppugnabili, e cioè con la mancanza di un documento che faccia esplicito riferimento alla fondazione della primitiva chiesetta, e, parimenti, con l’assenza di emergenze artistiche o architettoniche che possano farci ragionevolmente ipotizzare l’aspetto della chiesetta stessa.
Secondo gli studiosi, comunque, parrebbe sussistere almeno un elemento riconducibile alle vestigia della cappella dell’XI sec., e cioè i due leoni in pietra calcarea che adornano attualmente il magnifico portale rinascimentale della nostra chiesa Madre ( la cui iconografia complessiva, del resto, attende ancora di essere debitamente studiata).
A nostro avviso, però, anche da una semplice occhiata risulta alquanto problematico riferire questi due bei manufatti, di epoca certamente medievale, al corredo decorativo di una chiesa del sec. XI o XII. Difficilmente questi due leoni, maestosi “guardiani” della soglia della più importante chiesa manduriana, possono appartenere, anche solo per ragioni schiettamente stilistiche, alla primitiva cappella normanna di Casalnuovo.
Confrontando infatti le due sculture con prodotti simili dei secc. XI-XII ancora superstiti in area salentina, e in particolare con i mostri dell’Episcopio di Oria, con i leoni stilofori della chiesa di San Giovanni al Sepolcro a Brindisi,
RELIGIONE E MAGIA NELLA CIVILTA’ CONTADINA DI FINE OTTOCENTO
ORIGINE E DISCENDENZA DEI CARMATI TI SANTU PAULU
Necessaria precisazione linguistica per evitare che, alla luce del nuovo dialetto, gli agguerriti carmàti ti Santu Pàulu vengano identificati non più come i fortunati discendenti di una famiglia magicamente dotata, bensì come persone ammansite da S. Paolo.
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
Negli Atti degli Apostoli, in riferimento al viaggio di S. Paolo da Gerusalemme a Roma, dopo la descrizione della tempesta nelle acque di Creta e il successivo naufragio, si legge:
“Una volta in salvo, venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta. Gli indigeni ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti attorno a un gran fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia ed era freddo. Mentre Paolo raccoglieva un fascio di sarmenti e lo gettava sul fuoco, una vipera, risvegliata dal calore, lo morse a una mano. Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli indigeni dicevano tra loro: certamente costui è un assassino, se anche scampato dal mare, la Giustizia non lo lascia vivere. Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non ne patì alcun male. Quella gente si aspettava di vederlo gonfiare e cadere morto sul colpo, ma dopo avere molto atteso senza vedere succedergli nulla di straordinario, cambiò parere e diceva che era un dio”.
Su questa succinta nota degli Atti, la fantasia popolare ci aveva ricamato sopra, e stando all’ampliata versione assunta come testo tradizionale, S. Paolo non aveva scosso il braccio e fatto cadere la vipera nel fuoco, bensì l’aveva afferrata delicatamente con due dita e dopo averla compassionevolmente rimproverata chiamandola “fìgghia spinturàta ti lu piccàtu” (“figlia sventurata del peccato”) le aveva ingiunto di fare il giro dell’isola, chiamando a raccolta tutte le vipere e facendole convenire in massa accanto al fuoco. Torcendosi in spire precipitose la vipera si era allontanata, per poi riapparire pochi minuti dopo seguita da centinaia e centinaia di vipere che si erano fermate a pochi metri dal santo sibilando la loro minacciosa presenza.
Issùte ti lu ‘nfiérnu parìanu e llu ‘nfiérnu purtànu intra lla occa mpéssime an core loru si ticìanu: ilénu tinìmu, uai a ccinca nni tocca!
Uscite dall’inferno sembravano / e l’inferno portavano nella bocca / cattive in cuor loro si dicevano: / veleno teniamo, guai a chi ci tocca!
Ma S. Paolo era ben più potente di loro. Fra gli urli di terrore dei suoi compagni di naufragio si era avvicinato sin quasi a toccarle, e tracciando un segno di croce aveva loro imposto, nel nome di Dio, di avvicinarsi al rogo e sputare nelle fiamme il dente velenoso.
Miràculu ti Ddiu istu e ttuccàtu la zzoca ti lu male s’ìa spizzàta, lu tiàulu si nn’ìa sciùtu scunfunnàtu, la facce ti li sierpi ja cangiàta.
No cchjùi ssassìne cu ll’uécchi ti la morte, ma criatùre ti Ddiu senza piccàtu, criatùre carmàte pi’ nna bbona sorte, mmansùte comu àunu ‘mpena natu.
Miracolo di Dio visto e toccato / la corda del male s’era spezzata, / il diavolo se n’era andato confuso, / la faccia delle serpi era cambiata: // non più assassine con gli occhi della morte, / ma creature di Dio senza peccato, / creature incantate per una buona sorte, / ammansite come agnello appena nato.
Fatte appunto docili come agnelli, le vipere avevano obbedito: dopo avere strisciato in tondo ai piedi di S. Paolo per rendergli omaggio, a una a una si erano avvicinate al fuoco sputando denti e veleno. Commosso da tanta obbedienza, il santo le aveva benedette, e a simbolo delle stabilita alleanza
La tìpara cchiù rrossa ja zziccàta tuttu cundùtu si l’ìa mpisa an cuéddhru tànnule ssiéttu, bbona ncummitàta la cota amm’occa, sistimàta a nniéddhru.
E cquannu poi pi’ mmare s’ìa ‘mbarcàtu si ll’ìa purtàta a rretu, ca sapìa quiddhru ca nn’ìa ffare, ja pinzàtu pi cquale ràzzia ranne lli sirvìa.
La vipera più grossa aveva acchiappato / tutto compiaciuto se l’era appesa al collo / dandogli assetto, buona accomodata / la coda in bocca, sistemata ad anello. // E quando poi per mare si era imbarcato / se l’era portata dietro, perché sapeva / quello che ne doveva fare, aveva pensato / per quale grazia grande gli serviva.
Con la vipera attorcigliata al collo, S. Paolo era arrivato a Galatina, suscitando l’immediata ostilità degli abitanti, atterriti dalla poco rassicurante presenza della serpe. Pur essendo gente ospitale, pronta a fraternizzare con i forestieri, nessuno gli aveva rivolto la parola, anzi al suo passaggio se ne erano discostati precipitosamente, e tutte le volte che aveva fatto mossa di avvicinarsi a un uscio, questo gli era stato sbattuto sul muso.
Dopo aver percorso tutto il paese chiedendo invano la carità di un alloggio, sul calare della notte si era ritrovato in periferia, dove fra il diradarsi delle case s’incuneava il verde della campagna. Adocchiato un orto pieno di alberi, vi si era inoltrato, andandosi a rannicchiare sotta’a nn’àrvilu ti mbrufìcu (sotto un albero di caprifico) il cui fitto fogliame prometteva bbuénu ‘mbràcchiu a lla muttùra (buon riparo all’umido della notte).
A poca distanza dall’albero sorgeva una casa, nella cui muraglia s’inseriva un pozzo a due bocche: una prospiciente il caprifico per chi voleva attingere dall’esterno, e l’altra all’interno della casa per l’uso familiare. Sicché quando S. Paolo allo scoccare della mezzanotte si era messo a salmodiare, la sua voce, passando dalla bocca esterna del pozzo a quella interna, aveva svegliato gli abitanti, che allarmati erano corsi a spalancare l’uscio. Nel vedere con quanta fede quell’uomo pregava, si erano pentiti di non avere accolto la sua domanda di ospitalità e, superando ogni diffidenza e paura per la presenza della vipera, lo avevano voluto loro ospite per tutto il tempo che si era trattenuto a Galatina.
Grato per tanta carità, il santo aveva pensato di disobbligarsi, e poiché ranne era la ràzzia ca tinìa (grande era la grazia che teneva), prima di ripartire aveva operato tre miracoli. Per prima cosa aveva accarezzato i rami del caprifico, che da quel momento, alla produzione di profichi fòrniti, buoni solo per la caprificazione, aveva aggiunto una successiva maturazione di frutti commestibili; prodigio che, a quanto si raccontava, si era protratto per secoli e che, una volta seccato l’albero galatinese ed estinta la ‘progenie’ dei suoi polloni, sporadicamente e limitatamente a uno o due frutti per albero, e non del tutto commestibili, si riproponeva nelle campagne salentine. Un fenomeno botanico normalissimo, ma che naturalmente veniva attribuito alla benevolenza di S. Paolo, anzi a un rinnovarsi del miracolo, sicché il contadino che all’alba avvistava fra i rami di un caprifico un frutto edulo si sentiva in dovere di farsi il segno della croce e comunicare ai confinanti del campo: “Sta notte Santu Pàulu è bbinùtu acquai cu ppassìa e ss’à ffirmàtu sott’a llu mbrufìcu!” (“Questa notte S. Paolo è venuto qui a passeggiare e si è fermato sotto il caprifico!”).
Del secondo prodigio era stata protagonista la vipera: il santo, dopo averle raccomandato di moltiplicarsi, l’aveva buttata nel pozzo, dove, miracolo dei miracoli, anziché annegare si era trasformata in biscia acquatica. Da quel momento l’acqua del pozzo aveva assunto virtù particolari e chi, essendo morso da bestie velenose – serpi, tarantole, scorpioni – ne beveva nnu ursùlu curmu (un boccale colmo) vomitava subito il veleno ottenendo la guarigione. Dulcis in fundo, il santo aveva riunito tutti i componenti maschi della famiglia e “ll’ìa carmàti a nno ppatìre ilénu e a zzziccàre siérpi, sia iddhri ca lli fili ti li fili ti li fili”, cioè li aveva incantati trasmettendo loro il dono di essere invulnerabili al veleno e di potere catturare i serpenti, sia loro che i figli dei figli dei figli.
Nasceva così la definizione “Carmàti ti Santu Pàulu”, che, pur se a volte sostituita da quella più sommaria di “Sampaulàri”, si intendeva la più ufficialeo quanto meno la più rivendicata dagli interessati, in quanto chiariva l’origine dei loro poteri. Se all’appellativo carmàti, che già di per sé li attestava iniziati magicamente, si aggiungeva il fatto che a trasmettere tali virtù soprannaturali era stato S. Paolo, la loro quotazione – è il caso di dirlo – saliva alle stelle, tenendo anche conto della misura quasi ontologica che il popolo dava alla parola carmàre, la cui valenza oggettiva era però sempre in stretto rapporto con la figura di chi carmàva, o per meglio dire con le qualità spirituali che questi possedeva.
E qui ci sia consentito di sottolineare che ci stiamo riferendo a una significazione inerente l’antico dialetto e la cui derivazione è da ricercare nell’altrettanto arcaico termine dialettale “carma” (carme), valevole qui per incanto, parola magica, influsso attuante una dotazione spirituale. Precisazione necessaria ora che il dialetto non ha più cittadinanza nel vissuto linguistico e ha perso la sua originaria identità. Anche là dove affiora è ormai memoria incerta, spesso e volentieri imbastardito sia nella costruzione che nella resa fonica; soprattutto nella significazione, giacché si tratta di una lingua nata e sviluppata per esprimere un contesto di vita a noi ora completamento estraneo: venendo meno la misura oggettiva di quel particolare codice di comportamenti, peraltro determinati da un complesso patrimonio psicologico, anche l’atto verbale risulta sradicato e quindi difficile a reperire nella sua accezione effettiva.
Fin troppo abituati alla sintesi, non riusciamo a possedere il dialetto nella sua peculiarità di sfumature, e ciò porta a una frettolosa omologazione di termini, spesso espunti da un’arbitraria traduzione dall’italiano.
In seguito allo spopolamento delle campagne, in margine a un processo di urbanizzazione vissuto come rottura dello stato di subalternità e quindi non esente da uno spirito di globale rinnegazione del passato, soprattutto a causa di un condizionamento mentale determinato dai mass media, il dialetto si è trovato, direttamente o indirettamente, sotto processo, quasi che dal suo perdurare dipendesse la scomoda patina di retrività e ignoranza. E poiché non si poteva di colpo cancellarlo, in quanto non si era ancora padroni dell’idioma nazionale, si è cercato via via di modificarlo, di ingentilirlo, col risultato di creare una parlata che è misero compromesso tra la storpiatura dell’italiano e la falsazione del dialetto. Imbastardimento che, come già detto, ha oltretutto implicato una falsazione di significati, in quanto le parole più arcaiche, ritenute per questo più rozze, sono state del tutto cancellate e alle altre, oltre alla plasmatura ammodernatrice, si è insistito a dare significazioni in linea con il nuovo contesto di vita nonché con i termini italiani che si è creduto ne fossero gli equivalenti.
Ciò è accaduto appunto con il vocabolo “carma”, completamente abbandonato per ciò che concerneva la sua originaria significazione e arbitrariamente riassunto come equivalente dialettale dell’italiano “calma”. Sicché oggi carmàtu lo si fa bellamente derivare dal verbo calmare, chiamato ad assolvere indifferenziatamente a tutti gli stati o le proposte di acquetamento, e dimenticando così che anticamente il vocabolo dialettale non veniva svilito in semplice convenzione onnivalente, ma posto nel discorso in misura di appropriazione circostanziale. Ne conseguiva una nomenclatura lessicale caratterizzata da un largo uso di sinonimi, a ognuno dei quali si dava una valenza specifica, ossia un’applicazione differenziata: per comunicare che un dolore di denti o reumatico in genere si era calmato si usava dire “Lu tulòre m’à llintàtu” (“Il dolore mi si è allentato”); ma se lo stato dolorifico riguardava la sfera digestiva si passava a una diversa formulazione: “Lu ngruppu s’à ssuétu” (“L’ingorgo si è sciolto”). Il calmarsi di un accesso febbrile veniva focalizzato con “La frèe m’à scisa” (“La febbre è scesa”), ma se a calmarsi era il vento si diceva “Lu jentu è ccalàtu” (“Il vento è calato”). E continuando in questa minuta frastagliatura di appropriazioni, la bonaccia era “mare cuietàtu” (“mare acquetato”), un giorno senza alito di vento “sciurnàta sota” (“giornata immobile”) e il calmarsi del freddo “aria ndurcinàta” (“aria addolcita”).
Oggi, nel processo evolutivo di cui dicevamo, si è dato un colpo di spugna alla molteplicità delle aggettivazioni, e nel seguire la lingua italiana, in “calmare” si è trovata la scorciatoia per addivenire a una polivalente significazione: se carmàtu si dice in rapporto al dolore, carmàtu vale anche per il vento, e carmàta è la febbre, carma la giornata e carmu il mare. E ciò avviene anche in sede di dialogo evocativo, poiché rivolgendosi a una persona agitata non le si dice più come anticamente “Cuiétate, cuiétate” (“Acquietati, acquietati”) o se l’agitazione era esclusivamente spirituale “No tti mbilinàre” (“Non ti avvelenare”), ma si adopera un generico “Statte carma, statte carma” (“Statti calma, statti calma”). “Statte carmu” (“Statti calmo”) lo si dice anche al ragazzino irrequieto al posto del tradizionale “Statte sotu” (“Statti immobile”), raccomandazione che là dove nasceva preventiva, cioè in vista di una visita da compiere o di una permanenza in chiesa, veniva sostituita da un altrettanto tassativo “Sisci mansu” (“Sii mansueto”). Allo stesso modo, per mettere in evidenza la posatezza di un ragazzo che aveva superato l’aggressività dell’età puberale o un periodo di nervosismo in genere, non si diceva “S’à ccarmàtu” (“Si è calmato”) ma “S’à mmansùtu “ (“Si è ammansito”).
La contrapposizione tra mmansùtu e carmàtu, o più esattamente la sostanziale diversità di significato che anticamente si dava ai due vocaboli, la ritroviamo evidenziata nello stesso testo poetico riguardante la leggenda di S. Paolo, dove, proprio in uno degli stralci che abbiamo riportato, si puntualizza il processo di trasformazione delle vipere, scandito nella successione di due tempi, o per meglio dire chiarito nel suo andare dalla causa all’effetto. L’intervento del santo, in prima istanza, punta a rendere le vipere “criatùre carmàte pi’ nna bbona sorte”, ossia le incanta, le strega, e poiché ciò avviene “pi’ nna bbona sorte” è chiaro che non si intende alludere a un fenomeno transitorio, a una temporanea sospensione della naturale aggressività delle serpi, ma a una totale trasformazione valevole per tutta la vita e perciò implicante l’azione di un influsso magico, tanto potente da riuscire a svellerle dal loro primiero stato di “figghe spinturàte ti lu piccàtu”.
La successiva connotazione, che ci presenta vipere mmansùte comu àunu ‘mpena natu”, non può perciò essere intesa come elemento rafforzativo del precedente concetto – il che renderebbe equivalenti i vocaboli carmàte-mmansùte -, bensì come consequenziale effetto di un processo in sé e per sé già concluso e che non viene maggiorato ma solo confermato dal comportamento. Pur nella concatenazione verbale, che a prima vista sembra unificare la formulazione del pensiero, la separazione dei due campi è netta, e quello che è ragguaglio fisico, o materiale che dir si voglia, subentra ma non si confonde col preavvenuto influsso spirituale.
Ci rendiamo conto che parlare di influsso spirituale in rapporto a delle serpi è semplicemente assurdo, ma propria o impropria che sia la definizione, riteniamo sia l’unica adatta a esprimere fedelmente la specificità che il popolo dava al vocabolo carmàre. E per convincersene basta riaffidarsi a quell’insuperabile chiave di lettura che è il referente antropologico, ossia osservare a quale dinamica di applicazioni il vocabolo sottostava nell’azione verbale del quotidiano.
L’occasione più emergente e più vincolata all’uso era la cresima, un sacramento al quale il popolo attribuiva grande importanza, tanto da giungere a reclamarne l’amministrazione subito dopo il battesimo, soprattutto quando le condizioni fisiche del neonato non lasciavano troppo sperare nella sua sopravvivenza.
In quel tempo, l’alto indice di mortalità infantile era realtà scottante, e ciò determinava non solo un’estrema sollecitudine da parte della Chiesa nell’amministrare i sacramenti, ma anche un senso di scrupolosa responsabilità nei genitori, che ritenevano loro stretto dovere provvedere tempestivamente e nella misura più larga possibile alla sorte eterna dei figli.
Il conferimento del battesimo si poneva come l’atto più urgente da compiere, e perciò quasi mai procrastinato oltre gli otto giorni dalla nascita; ma pur se vissuto con senso liberatorio, in quanto ipso facto assicurava la salvezza, questo non acquetava del tutto l’ansia di arricchire al massimo l’anima del figlio. l’aldilà beatifico, il popolo lo concepiva in una misura oseremmo dire dantesca, immaginando un paradiso sistemato a piani, la cui raggiungibilità veniva determinata dalle credenziali che l’anima poteva esibire al suo arrivo. Per gli infanti, queste si concretizzavano, oltre che nella loro innocenza, nel numero dei sacramenti ricevuti: ne conseguiva che un neonato semplicemente battezzato non avrebbe mai goduto quanto uno attisciàtu e ccrisimàtu.
A questo accaparramento di esclusivo ordine spirituale riguardante l’aldilà, faceva riscontro un’altrettanta premura di ordine temporale, sempre collegata al desiderio di un arricchimento interiore del cresimando ma che trasbordava dalle linee portanti della fede – più che altro si discostava da quelle che erano le intenzionalità ecclesiali nel conferire il sacramento.
Mentre la Chiesa basava il rituale sull’invocazione dello Spirito Santo e affidava l’opera trasformatrice unicamente all’azione della grazia santificante, il popolo dava molta importanza anche all’imposizione delle mani da parte dei padrini, visti non come li voleva la Chiesa in veste di garanti della fede, ma come ministranti chiamati a dispensare virtù a stretto appannaggio terreno. Se la mano consacrata del vescovo propiziava le benedizioni divine richiamando grazie “pi’ ricchjmiéntu ti l’ànima e ccutimiéntu ti l’eternitàte” (“per arricchimento dell’anima e godimento nell’eternità”), la mano del padrino catalizzava doni “pi’ ndutazziòne ti sta ita ti munnu a ddonca l’ànima camina cu lli piéti ti lu cuérpu, e ti la furtùna no nni pote fare a mmenu” (“per dotazione di questa vita nel mondo, dove l’anima cammina con i piedi del corpo, e della fortuna non può farne a meno”).
Religione e magia, come sempre, andavano a braccetto: all’esuberanza di fede, riscontrata nel desiderio dei sacramenti per il completamento dell’essere cristiani e in virtù di un interesse escatologico, si innestava l’inconfessato riemergere di pregnanze arcaiche, che sia pure in termini sfumati si ritrovavano in parallelismo con il rituale della cresima, imperniata sull’imposizione delle mani, gesto che per se stesso riportava ad ancestrali riti di iniziazione o trasmissione di poteri. Di qui la premura di scegliere come padrino o madrina di cresima una persona ricca di doti spirituali, virtù che proprio attraverso l’imposizione delle mani avrebbe trasmesso al figlioccio (o figlioccia), riplasmandolo a sua somiglianza.
Era ferma convinzione che per il cresimato, subito dopo il rito, iniziasse una fase di trasformazione caratteriale che lo avrebbe portato gradatamente a diventare la controfigura del padrino e quindi ad assorbirne anche la intùra, ossia ad avere un destino uguale al suo. Non a caso nella scelta del padrino ci si orientava prevalentemente verso una persona anziana: al senso di maggiore affidabilità o di più ampia panoramica circa la correttezza di vita nonché la fortuna che aveva avuto, si aggiungeva, fattore non trascurabile, la cospicuità degli anni, attestante il dono della buona salute. E ciò valeva soprattutto quando si trattava di cresimare un neonato in pericolo di vita, anzi in quel caso più che un anziano si cercava una persona addirittura vecchia, e alla quale non ci si peritava dal chiedere esplicitamente “Ncòddhrane puru l’anni ti ssignurìa”, ossia “Trasmettigli anche la tua longevità”. Postulazione che se per caso veniva seguita da un reale miglioramento fisico del neonato malato, assurgeva a incontrovertibile testimonianza dell’avvenuto assorbimento, immettendo i genitori in una sfera di assoluta tranquillità circa l’avvenire del figlio. Tanto è vero che a chi si rallegrava con loro per l’avvenuta guarigione usavano rispondere con sicurezza: “Nùnnusa éte écchiu e ll’à ccarmàtu an curmu”.
Si noti come anziché dire “l’ha cresimato” si preferisce dire “l’à ccarmàtu”, il che non va semplicisticamente inteso come banale sostituzione di termine, bensì come voluto scavalco della causa in favore dell’effetto, reso ancora più emergente dalla precisazione “an curmu” che dà misura quasi visiva dell’avvenuto travaso. Interpretazione che ritroviamo confermata dalla frase che si pronunciava allorquando si invitava qualcuno a far da nunnu (padrino) e che, nel riporto di ambedue i termini, annulla ogni sospetto di sostituzione puramente linguistica, attestando che crisimàre stava come azione o rito da compiere e carmàre come risultato da ottenere: “Aggiu ffare crisimàre fìgghiuma e ci nni ll’ài a ppiacìre nci tinìa mutu cu mmi ll’aggi a ccarmàre ssignurìa” (“Devo fare cresimare mio figlio, e se lo hai a piacere ci terrei molto che l’abbia a dotarlo vossignoria”).
Del resto non meno illuminanti risultano altre frasi di più ordinaria occasione, giacché era nell’uso comune sfruttare l’incontro di una persona anziana o particolarmente saggia per presentarle il bambino e, al contrario di quando si incontrava un sacerdote dal quale si pretendeva una semplice benedizione, chiedere specificatamente: “Mpòggiane la manu an capu ssignurìa ca sinti bbiunnàtu ti Ddiu e ccàrmamilu a ccore chinu” (“Poggiagli la mano sulla testa vossignoria che sei abbondato da Dio e trasformalo con tutto il cuore”). Né da tanta petizione venivano esentati li signùri (i signori), ai quali più esplicitamente si chiedeva: “Sulamente ssignurìa mi lu puéti carmàre pi’ nna bbona furtùna” (“solamente vossignoria lo puoi incantare per una buona fortuna”).
Varianti che danno ulteriore conferma all’intendimento della ‘trasmissione’, e che potremmo proporre e analizzare in tante altre sfumature se ormai non fosse del tutto superfluo. Il nostro discorso è nato all’unico scopo di fornire una precisazione ed evitare che, alla luce del nuovo dialetto, gli agguerriti carmàti ti Santu Pàulu vengano identificati non più come i fortunati discendenti di una famiglia magicamente dotata, bensì come persone ammansite da S. Paolo.
GIULIETTA LIVRAGHI VERDESCA ZAIN, “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento (pagg. 27 – 36) con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza 1994
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