La morte di un lemma, l’agonia di un altro

La morte di un lemma, l’agonia di un altro: la sciuscètta e la šciušcètta.

di Armando Polito

Il titolo non è allegro ma ho più volte sostenuto che le parole sono proprio come noi e, dopo aver per qualche tempo più o meno fedelmente espresso sensazioni, emozioni, sentimenti comportandosi talora nel modo capriccioso, imprevedibile, strano, irrazionale che sovente contraddistingue gli umani, in tempi variabili, come chi le ha create, subiscono prima il declino diventando obsolete e quasi per pietà ancora registrate nei comuni dizionari, poi l’inevitabile scomparsa dall’uso e dalla memoria.

Qualcuno si chiederà perchè non ho inserito questo post nella serie “Gli omofoni del dialetto neretino a fumetti” e qualcuno più attento penserà che l’ho fatto nella speranza di avere qualche lettore in più visto che la serie citata ha riscosso un’attenzione molto, molto blanda1. In realtà i due lemmi che oggi esaminerò non possono essere definiti omofoni anche perché il secondo comporta una pronuncia rafforzata della s (lunga o doppia) del gruppo sc (grafia šc).

Comincerò dal defunto, la sciuscètta (a Nardò era usato pure il diminutivo sciuscèttula): la voce è legata all’arte antichissima della tessitura, che nel Salento è rimasta fino alla metà del secolo scorso relegata al ruolo di industria tessile casalinga2, e, in particolare, indicava la spola, la navetta del telaio.

La voce è dal latino sagìtta(m)=freccia, saetta3 .

Passo ora al moribondo: šciušcètta designa ancora, con notevoli difficoltà di comprensione del suo significato da parte della generazione SMS, lo status della ragazzina battezzanda o cresimanda4 nei confronti del padrino che, secondo il diritto canonico, diviene responsabile dell’educazione cristiana della figlioccia.5 Non a caso, infatti, la voce è dalla locuzione latina fìlia(m) suscèpta(m)=figlia adottata; e suscèpta(m) è participio passato del verbo suscìpere=accogliere, difendere, composto da sub=sotto e càpere=prendere. Suscèptus in latino era il cliente rispetto al suo avvocato e il paziente rispetto al suo medico; mi piace sottolineare il carattere originario protettivo e non subordinante della preposizione (sub), soprattutto alla luce di un recentissimo fatto di cronaca sul quale soltanto adesso intervengo per dire quale devastante degrado ha subito quella preposizione (dal concetto di servizio a quella di prevaricazione), in triste accordo e squallida coerenza con quelle stranezze, di cui parlavo all’inizio, che definire animalesche è offensivo per le cosiddette (da noi umani!) bestie.

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1 Siccome sono un masochista sto per inviare all’amico Marcello le ultime tre puntate della serie; tenuto conto della generosità del nostro mentore, al lettore per sperare di non leggere nemmeno il titolo non rimane che fare esplicita, tempestiva richiesta di non pubblicazione. Non è finita: siccome sono un miserabile, m’illudo di suscitare un fantasma di attesa (emulando in questo i più scadenti, autoreferenziali spot pubblicitari di trasmissioni televisive imminenti) facendo sapere in anteprima che le voci prese in considerazione sono: stuccàre, critàzzu e mùgnulu.

2 Sull’argomento segnalo L’arte della tessitura nel Salento di Antonio Monte e Maria Grazia Presicce, stampato nel 2010 da Nuova Phromos, Città di Castello,per conto di CRACE (Centro Ricerche Ambiente Cultura Economia).

3 Mi piace ricordare che saetta ha la stessa etimologia di sciuscètta; però il neretino, in connessione col significato di fulmine, ha sviluppato saiètta, usato come interiezione e come sinonimo di colpo apoplettico o grave malore improvviso, quasi a non voler confondere il positivo/sacro (il lavoro) col negativo/blasfemo (la malattia/l’imprecazione). Anche la fonologia ha un sentimento!

4 Esiste, naturalmente, anche il maschile šciušcèttu, anche se qui sciuscètta mi ha costretto a considerare centrale il femminile.

5 È amaro constatare come questa funzione protettiva oggi si sia ridotta ad essere una mera partecipazione burocratica e, nella stragrande maggioranza dei casi, ad un narcisistico esibizionismo che ha la sua manifestazione più significativa in un regalo, appariscente e costoso, anche se inutile, al figlioccio, la cui famiglia, dal canto suo, ha già provveduto, in una spirale perversa, a non sfigurare, organizzando una festa laica degna di un faraone. Dopo di che, ognuno per la sua strada…

Come aderire alla Fondazione Terra d’Otranto

 

Per aderire alla Fondazione è sufficiente inviare una mail con oggetto “Richiesta adesione” alla casella di posta elettronica info@fondazioneterradotranto.it, specificando le generalità e un recapito postale. Vi invieremo a stretto giro di posta il modulo di adesione e un bollettino per il versamento della quota associativa per l’anno 2012 (contributo minimo di 30 euro + 9 euro per le spese di spedizione del pacco postale).

 

Si conclude la saga di Cretì. Ippazziantonio si accasò…

Fidanzata e sposa

di Giorgio Cretì

Alla fine, poi, Ippazziantonio si accasò e con una ragazza alla quale era arrivato da solo, direttamente, senza alcuna intermediaria o ruffiana.

Era ancora il tempo delle sanzioni economiche all’Italia, dell’autarchia fascista e della raccolta di derrate alimentari gestite dallo Stato, nonchè dell’occultamento  di ciò che veniva sottratto all’ammasso. Doveva essere dichiarato qualsiasi raccolto, anche se si trattava di pochi tomoli, poi le autorità decidevano qual era il fabbisogno del contadino-produttore.

Tabacco al sole (ph Giorgio Cretì)

La gente nascondeva di tutto, però: grano, legumi, olio e soprattutto tabacco, nei posti più impensati ed a poco servivano le ispezioni, che, per la verità, non erano molto fiscali. Si coltivava il tabacco ma i fumatori, per mantenere il vizio, non potevano adoperarlo e dovevano comprare quello del Monopolio. Qualcuno per nascondere l’olio aveva escogitato un sistema molto originale: scavava una buca nel terreno, vi sistemava, per esempio, una giara piena d’olio e poi copriva con una lastra di pietra e con la terra; quindi, piantava le fragole o il prezzemolo che innaffiava regolarmente. I muri a secco delle strade campestri nascondevano il tabacco migliore che i contadini fumavano durante le soste dal lavoro. I caini della Finanza per sorprenderli con il contrabbando, a volte dovevano rimanere acquattati per ore e per mezze giornate per poter appioppare loro una contravvenzione.

Dal mese delle messi alla Madonna del Rosario quasi tutti gli abitanti dei paesi si trasferivano in campagna e dormivano anche in ricoveri di fortuna; principalmente per la coltura del  tabacco e poi per gli ortaggi in genere, i pomodori e la raccolta dei fichi da seccare per i mesi invernali quando si tornava ad abitare in paese.

Dopo la disfatta di Cerfignano, dove aveva rischiato di rimetterci le cuoia, Ippaziantonio aveva preso a frequentare la Madonna di Costantinopoli, una

Otranto, terra di sole e di vento

di Florio Santini

«Il petroso Salento, e soprattutto una città d’insolita bellezza come Otranto, bisogna dimenticare, oggi, quanto su essa è stato scritto e riscritto, senza nulla aggiungere di nuovo alle sue pur suggestive storie. Di questo mare idruntino, invece, bisogna conoscere correnti e approdi, esplorare caverne e scogliere; insomma, bisogna giungervi dal largo, non da terra. Baie, canaloni, grotte, insenature dai suggestivi toponimi, allora, spiegheranno cose non dette, civiltà dimenticate, portandoci spesso fino alle soglie del mito, giusto quello che dal mare approdò, là dove la costa si apriva, calda e sicura, ai marinai.

In verità Otranto, terra di sole e di vento, mi conquistò del tutto quando, dopo averla studiata in cronache avare, la vidi dal suo limpidissmo azzurro, come la videro i Greci. La costa si avvicinava azzurra nel mattino, rosseggiante di sera; e gli antichi lutti, le mistiche storie sparivano nella fiducia chiara ch’essa trasmetteva»

 

(da “Anche la vita ha i suoi scavi”, Otranto 2004, pp. 60-61).

Una veduta di Galatina in una placchetta d’argento di Matthias Melin

di Marcello Gaballo

L’amico Giovanni Boraccesi, tra i maggiori esperti di argenti del Meridione, non inusuale nelle scoperte d’archivio, ancora una volta sorprende per una interessante notizia pubblicata in un saggio apparso su “Archivio Storico Pugliese”, a. LXII, 2009: L’entrata di Gianbattista Spinola a Galatina in una placchetta d’argento di Matthias Melin.

Si è agli inizi del Seicento e il duca Giambattista Spinola, della nobile stirpe genovese, e la consorte Maria Spinola, entrano trionfalmente nel proprio possedimento di San Pietro in Galatina, in cui avrebbero dominato dal 1616 al 3 dicembre 1625, quando muore il predetto duca.

Signori anche di Soleto, Noha, Borgagne e Pasulo, Pisanello, Padulano e San Salvatore, l’aristocratica coppia dovette risiedere per un certo periodo, dal momento che almeno uno dei loro figli, Giovan Pietro, risulta esservi stato battezzato il 5 luglio 1616.

Il corposo articolo, corredato da utile e completa bibliografia, descrive una placchetta istoriata di altissima qualità (la cui foto Franco Boggero invia a Boraccesi, come si legge nella nota 1), che assieme ad altre quattro, ora conservate al Rijksmuseum di Amsterdam, impreziosivano uno smembrato cofanetto delle dimensioni press’a poco di cm 65 x 25 x 40, appartenuto alla predetta nobile famiglia genovese.

Giovan Filippo Spinola commissionò il lavoro all’argentiere fiammingo Matthias Melin (Anversa 1589-1653), a quel tempo attivo nel capoluogo ligure, che la realizzò nel 1636, in occasione delle sue nozze con Veronica Spinola, futura principessa di Molfetta.

Le scene ritratte sui lati della preziosa cassetta –come annota con estremo dettaglio l’Autore- “esaltano pubblicamente alcune imprese memorabili della potente famiglia genovese, a quel tempo sotto la tutela della Spagna: l’Assedio di Gulik, la Consegna delle chiavidi Breda ad Ambrogio Spinola, il Matrimonio di Giovan Filippo Spinola e Veronica Spinola, l’Ambrogio Spinola durante l’assedio di Casale, La presa di possesso del feudo di Borgo San Pietro in Galatina”.

Matthias Melin, La presa di possesso del feudo di Borgo San Pietro in Galatina, 1636. Amsterdam, Rijksmuseum

La scena presenta sulla destra la carrozza a padiglione, con i duchi, che si dirige verso San Pietro in Galatina. “Un popolo di soldati a piedi, a servizio del duca, si assiepa lungo la strada e intorno alla carrozza; tra questi, alcuni, come si può desumere dal loro abbigliamento, sono soldati romani, come quello in primo piano, che ha infilato nel braccio sinistro lo scudo ovale decorato nel mezzo dallo stemma degli Spinola. Sul fondo del corteo, in prossimità della massiccia cinta bastionata come pure nel margine destro, sono presenti altri uomini armati, dei Turchi, riconoscibilissimi soprattutto per il loro turbante: minuziosa è la raffigurazione dell’ufficiale a destra, colto nell’atto di ringuainare la spada… A sovrastare la scena –continua Boraccesi- appena descritta, la seguente iscrizione a lettere cubitali: OPPIDUM SANCTI PETRI INGRESSURUS DUX / IO(ANNES) BAT(IS)TA SU(M)MO CUM CIVIUM APPLAUSU / ET IUBILATIONE EXCIPITUR.

Dal punto di vista iconografico, però, quello che della placchetta interessa maggiormente è la probabile raffigurazione della città di Galatina: un tratto della cinta muraria – con merli, torricelle e un imponente torrione circolare – che racchiude l’antico borgo, ove pure riusciamo a distinguere il profilo della supposta chiesa di San Pietro che nel 1633, dunque poco prima della realizzazione della lastra in esame, si decise di riedificare a spese dell’Università e che in parte fu terminata nel 1640”.

Ancora, scrive lo stesso: “L’ipotesi che questo documento figurativo sia effettivamente la veduta di Galatina è avvalorata dal confronto con quella nota riprodotta su una tela seicentesca (post 1657-ante 1675) conservata nel palazzo vescovile di Otranto, ma direi soprattutto con l’incisione tratta dalle Memorie (1792) di Baldassar Papadia…”.

Per dovere di informazione occorre precisare che la placchetta è stata anche ripresa sulla copertina del volume di Giovanni Vincenti Galatina tra storia dell’arte e storia delle cose, pubblicato dall’editore Mario Congedo, sempre nel 2009,  ed inserito al n. 178 della collana “Biblioteca di Cultura Pugliese”.
 

Le castagne secche, pastiddhe per i Salentini

di Massimo Vaglio

 

Pastiddhre, con questo termine in larga parte della Puglia, ma anche della Sicilia e della Calabria, si appellano le durissime castagne secche senza scorza e “pellicina” che un tempo, in questa terra, costituivano il tipico pasto delle lunghe e fredde giornate di fine inverno. Facevano la loro comparsa in tutte le botteghe generalmente nel tardo inverno e venivano vendute a prezzo modico alla stregua dei legumi. Erano consumate principalmente previa cottura anche se i bambini se ne riempivano le tasche per sgranocchiarle durante il gioco.

Il castagno, come è noto, vegeta bene oltre i 700 metri sul livello del mare e quindi, nel pianeggiante Salento, venivano importate dalle regioni montuose più vicine. Erano spesso anche oggetto di baratto, infatti, avventurosi commercianti, con spirito e mezzi da veri pionieri, raggiungevano le impervie montagne della Basilicata e della Calabria, barattando i più tipici prodotti salentini: farina di grano duro, olio d’oliva, vino, mandorle e fichi secchi, con pastiddhre, castagne del prete e sovente anche con salsicce e maiali. Non mancavano neppure gli artigiani, soprattutto calzolai che andavano a vendere i loro manufatti nelle zone interne della Basilicata e della Campania, integrando spesso il compenso con qualche sacco di castagne che, al ritorno

Intervista a Giacinto De Metrio, un artista da riscoprire

il maestro Giacinto De Metrio

di Gianluca Fedele

Se si volesse descrivere l’atteggiamento che la città di Nardò ha assunto negli ultimi decenni nei confronti dell’arte, probabilmente utilizzerei questa similitudine: terra argillosa, dove l’acqua non drena.

Una rappresentazione decisamente pessimistica, ma altrettanto realistica, in quanto sono numerosi gli artisti che hanno attraversato in varie forme il ‘900 neretino. In ogni caso quasi nessuno ha fatto breccia, col proprio passaggio, né sulla critica internazionale né tanto meno sul mercato locale.

Ricordo sempre una frase del mio caro professore di educazione artistica delle scuole medie, Giacinto De Metrio, che mi disse: “A Nardò è più facile vendere una busta di verdura piuttosto che un dipinto di Picasso”; citazione che esprime, nella sua semplicità, tutta quell’amarezza di chi dedica la propria esistenza all’estro artistico, con la sensibilità che ne consegue.

Proprio al mio professore, nonché carissimo amico, ho deciso di rivolgere qualche domanda, per farmi spiegare quali, secondo lui, sono le condizioni sociali che determinano il disincanto dei più nei confronti del bello e cercare di comprendere i meccanismi che portano alla conseguente aridità, guardando con gli occhi di chi l’arte l’ha prodotta quotidianamente per oltre mezzo secolo.

D: Caro Giacinto, nelle vene della famiglia De Metrio scorreva già il sangue denso della creatività ben prima della tua nascita. Tuo zio Michele Gaballo, infatti, è stato un autorevole testimone del primo Novecento a Nardò, nonché autore d’importanti opere divenute poi simboli indiscussi della città, basti pensare alla sua fontana del toro in piazza Salandra. Essendo quindi diretto erede di principi morali ed artistici, qual è la tua posizione in merito alla prima ristrutturazione alla quale è stato sottoposto proprio il monumento su citato?

R: Il monumento, venne realizzato nel 1932, in occasione dell’inaugurazione dell’acquedotto pugliese. Da allora, dacché io abbia memoria, è stato sempre trattato con estrema indifferenza ed incuria da ogni amministrazione che si sia succeduta a Palazzo Personé. Gli pseudo-restauri che io ricordi sono stati diversi, ma solo un paio sono più clamorosi; originariamente il colore della fontana parietale era di un grigio marmoreo, poi, a cavallo tra gli anni ’80 e ‘90 l’intera opera venne completamente pitturata di bianco con pallida calce, alla stessa stregua di un qualsiasi muretto di campagna. Ultimamente, addirittura, è stata trattata con due diverse cromie, neanche fosse un mobile di bassa fattura, in barba a qualsiasi semplice criterio di restauro. Ma non è tutto, c’è dell’altro. Negli anni ‘80 l’assessorato preposto alla cultura e al turismo, prese incarico di stilare una guida che riguardasse le storie dei maggiori monumenti neretini, tra questi, immancabile, la fontana murale in oggetto. In questo elaborato sono state trattate notizie non veritiere, tanto da mettere in dubbio, per i più sprovveduti, persino la paternità del gruppo marmoreo, laddove invece, a tuttora, si può benissimo leggere la sua firma autografa.

Nardò, fontana del toro prima dell’ultimo restauro (per gentile concessione di Giacinto De Metrio)

 

D: Che altre opere importanti sono state realizzate dal Gaballo?

R: Le sue opere sono innumerevoli, ma quella che ricordo con più affetto e rammarico è “Il rimorso”, opera che sino a qualche anno addietro era posta all’interno della sala consiliare del municipio di Nardò. Ora è rovinosamente danneggiata da concittadini incivili che assistevano ai consigli e che sfogavano le loro misere frustrazioni sul gesso di cui era fatta. In seguito ad un maldestro restauro è stata resa praticamente irriconoscibile rispetto all’originale plastica di cui ora si può solo fantasticare, e la si può per così dire ammirare  nella biblioteca comunale “Vergari” dove attualmente è collocata. Alla luce di questo, voglio ricordare che quando venne donata, fu imposta ai custodi un’unica clausola, cioè che il Comune prendesse incarico di fonderla in bronzo proprio per evitare eventuali danneggiamenti. Potete immaginare quindi, quale dispiacere ho nel saperla nelle attuali condizioni. Tra i lavori più celebri aggiungerei anche il busto di Benito Mussolini, realizzato del “XV anno” per una sala del complesso Vittoriale di Lecce e del quale si sono perdute le tracce. Un altro busto importante, quello del On. Grassi, Ministro di Grazia e Giustizia, di origini salentine, nonché ultima scultura realizzata. Questa, trova la sua collocazione all’interno del tribunale di Lecce.

Michele Gaballo, Il Rimorso (per gentile concessione di Giacinto De Metrio)

D: Come è stata ricordata negli anni la figura di questo illustre scultore?

R: In vita mio zio era molto popolare ed apprezzato, popolarità che è andata scemando con il susseguirsi delle generazioni. Ora, mi spiace dirlo, ma il suo ricordo  è stato praticamente cancellato del tutto, tant’è vero che nel 2001, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte, nessuno tra i nostri rappresentanti politici o solo tra i concittadini gli ha dedicato un pensiero, né pubblico né privato. Solo tra noi familiari Michele Gaballo è stato onorato col ricordo. Io stesso, infatti, amareggiato affidai ad un breve comunicato la sua memoria, facendolo pubblicare dalla Gazzetta del Mezzogiorno.

 

D: Oltre al Gaballo, anche tuo fratello Michele, ormai venuto a mancare, era dedito all’arte e al teatro. Come veniva visto dai nostri concittadini?

R: Mio fratello era molto amato e ben voluto per la sua umanità; lo ricordo come pittore e soprattutto come grande uomo di teatro: infatti si occupava tanto di regia quanto di recitazione. Queste grandi doti, le espresse in maniera magistrale, nell’opera Risorgimento che andò in scena al teatro comunale nel 1948, dove lui stesso interpretava il ruolo principale del Patriota Conte Vitaliano Lamberti conseguendo un notevole successo sia di pubblico che di critica. Persona di grande fede, manifestata in occasione di un funerale, dove il Vescovo dell’epoca fece vietare il rito religioso e Michele, arbitrariamente, portò la croce dinanzi al corteo per l’intero percorso.

 

D: Ma quanto ha inciso la figura dello zio scultore sulla vocazione artistica dei nipoti?

R: Michele Gaballo è stato per noi assolutamente fondamentale, oserei dire determinante!

 

D: Ma ora veniamo a noi. La tua formazione culturale e stilistica avviene all’interno del liceo artistico di Firenze: qual’era il fermento creativo che si respirava nel panorama fiorentino dell’epoca? E quali erano le differenze rispetto all’ambiente culturale locale che ti lasciavi alle spalle?

R: Firenze era, e forse lo è ancora, la culla dell’arte, una meta agognata per chi, come noi, si formava nel segno delle belle arti. Mi ritrovai in terra fiorentina in compagnia di mio fratello: quei tempi e quei luoghi ora mi appaiono così romantici e ricchi di significato rispetto ad un sud che continua, culturalmente parlando, a svuotare piuttosto che a formare. Fortuna volle che a plasmare la mia personalità e la mia cultura provvedessero insegnati e artisti di chiara fama: ricordo Piero Bigongiari, mio professore di lettere e illustre poeta ermetico, recentemente scomparso e commemorato dal Corriere dalla Sera. E c’erano pure gli artisti: i professori Pucci, Pozzi, Gallo, Colacicchi, Peiron e anche il critico d’arte Michelangelo Masciotta.

Giacinto De Mterio, Magnetismo

D: So che sei stato premiato in occasione di eventi e concorsi nazionali di valenza internazionale, me ne elenchi qualcuno? [Si allontana un attimo per prendere un piccolo foglio come memorandum dove ha annotato tutti i premi vinti]

R: Nel 1961, vinsi il secondo premio nel concorso di pittura durante la mostra campionaria di Galatina.

Nel 1965, nella mostra-concorso, presso la pro-loco Santa Caterina di Nardò, ricevetti una coppa d’argento omaggiata dall’Amministrazione Provinciale di Lecce.

 Al concorso Internazionale di Torino “la telaccia d’oro”, ho vinto tre premi: nel 1993 con la scultura Tossicomane mi venne assegnato il terzo premio che consisteva in una targa d’argento della Regione Piemonte; nel 1994 con la scultura in marmo Il silenzio dell’urlo conquistai il settimo premio della relativa categoria; nel 1998, con il dipinto ad olio Sogno d’artista, giunsi terzo classificato e ricevetti in premio una medaglia d’argento.

 D: Quale è stata la risposta, in termini di riconoscimento, che la nostra Nardò ti ha dato per la gloria riflessa che esportavi con le tue opere?

R: A parte l’affetto e la stima di pochi familiari ed amici, praticamente nulla. E pensare che io posso vantare, tra l’altro, di aver donato a Sua Santità Giovanni Paolo II un’opera pittorica, offertagli in occasione di un viaggio-scuola e che ritrae la guglia di piazza Salandra, arbitrariamente situata su una spiaggia. Di tale dono, lo stesso Papa, per mezzo del suo segretario, ha ringraziato i ragazzi della scuola media III nucleo per il significativo omaggio.

 D: Molti dei tuoi lavori, soprattutto quelli appartenenti all’ultimo periodo, hanno uno spiccato gusto introspettivo, qual è la ragione?

R: L’arte, di per sé, riflette l’animo e le sensazioni emotive. Ora come ora, e ancor di più per via del mio delicato stato di salute presente, trovo di enorme sollievo riversare le tensioni in ciò che realizzo, un motivo in più per non darmi per vinto.

 

D: Anche se ne conosco la risposta o posso intuirla, quale soggetto ha rappresentato meglio la tua fonte d’ispirazione?

R: La donna in tutte le sue sfaccettature. Una sorta di donna assoluta, fonte di inesauribile bellezza.

 

D: Un’ultima domanda per concludere. Hai istruito e avvicinato all’arte migliaia di ragazzini, per tantissimi anni, presso scuole medie  inferiori di mezza Italia: qual è il principio d’insegnamento a cui più tenevi?

R: Per me l’insegnamento non è mai stato un mestiere. E con un certo orgoglio posso ammettere di aver svolto il mio ruolo di professore con passione e impegno assoluti. Ho sempre cercato d’infondere nei giovani non solo i valori dell’arte, ma ho sempre, innanzitutto, esaltato le qualità che ognuno di loro possedeva; doti che, secondo me, vanno stimolate ed evidenziate sempre attraverso l’autostima.

A questo punto la conversazione si conclude, un po’ per la commozione del momento, un po’ perché il tempo è davvero volato via. Adesso, a mente fredda la sensazione che mi rimane nel cuore dopo questa intervista, è un senso di ingiustizia che la nostra terra, i nostri luoghi, sanno così ben dispensare nei confronti di chi, per una vita, ha cercato di amarli omaggiandoli con la propria arte.

dipinto di Giacinto De Metrio
dipinto di Giacinto De Metrio

“Uen gudd gudd…”

Allievo dell’accademia Navale al timone del San Giorgio

di Salvatore Chiffi

Alle prime luci dell’alba del 13 agosto ‘73, con un giorno di anticipo sulla tabella di marcia, la nave San Giorgio, il caccia un po’ snob della Marina Militare, aveva raggiunto la Norvegia proveniente da Halifax (Nova Scotia), e, dopo oltre duemila miglia di navigazione piuttosto burrascosa, tra orche e balene, ad una latitudine prossima al Circolo Polare Artico, si era insinuato nelle placide acque del Sognefjord (fiordo dei sogni) con il suo carico di giovani cadetti.

Quando il Chief uscì in coperta per raggiungere a poppa la Centrale di Tiro e dare il cambio alla guardia, un meraviglioso ed imprevisto spettacolo lo lasciò a bocca aperta.

Il San Giorgio stava navigando tra montagne con le cime innevate in un mare color cobalto.

Sfruttando con perizia la corrente del Golfo, il Comandante aveva anticipato di un giorno l’arrivo. Il recupero di una giornata sulla tabella di viaggio avrebbe consentito di ripulire la nave dalle raccate (vomito dovuto al mal di mare), di lavare con acqua dolce le fiancate e la coperta dalla salsedine e di permettere all’equipaggio e agli allievi dell’Accademia di darsi una bella rassettata, in modo da presentarsi nel porto di Bergen in perfetta tenuta, come nelle migliori tradizioni della Marina Italiana.

Il Chief salutò i marinai e i cadetti, intenti a far finta di lucidare con la mantecca gli ottoni della tuga di rappresentanza, esortandoli a metterci un po’ più di olio di gomito.

1973 Norvegia – Ingresso nel Sognefjord

Capo, domani si va a caccia di vichinghe!” – disse un cadetto dai

Fanfulla da Lodi ed altre opere leccesi di Antonio Bortone

di Giovanna Falco

Lecce, Il monumento a Fanfulla del Bortone (ph Giovanna Falco)

Nell’articolo Antonio Bortone da Ruffano (1844-1938), il mago salentino dello scalpello, pubblicato il 30 dicembre 2010 su Spigolature Salentine da Paolo Vincenti, si è parlato a lungo del monumento a Fanfulla da Lodi di Antonio Bortone, scultura che, sin dalle sue origini, ha vissuto una storia travagliata.

L’opera, così come si riscontra osservandola, è ispirata a Niccolò de’ Lapi ovvero i Palleschi e i Piagnoni (1841), il romanzo di Massimo D’Azeglio ispirato all’assedio di Firenze del 1530: Fanfulla da Lodi, divenuto frate domenicano, lascia il saio per riprendere le armi[1].

La statua in gesso fu modellata a Firenze nel 1877, anno in cui fu esposta anche a Napoli. L’anno successivo fu inviata all’Esposizione Universale di Parigi insieme a un busto in gesso. Durante il trasporto subì vari danni, nonostante ciò vinse la medaglia della terza classe insieme alla Chioma di Berenice del milanese Ambrogio Borghi (1848-1887)[2].

Le traversie di quest’opera non finiscono qui: sono state raccontate da Teodoro Pellegrino in La vera storia del Fanfulla[3]. Durante la lunga permanenza a Firenze, il gesso rischiò di essere distrutto, lo salvò Brizio De Sanctis, preside dell’Istituto Tecnico leccese, che si prodigò affinché fosse trasferito a Lecce[4]. Qui, grazie all’intervento di Giuseppe Pellegrino[5], grande estimatore di Bortone, nel 1916 la scultura fu donata al Museo Civico di Lecce (all’epoca alloggiato nel Sedile)[6].

Lecce, Il monumento a Fanfulla del Bortone (ph Giovanna Falco)

Rimandata a Firenze per essere fusa in bronzo, nel 1921 fu inaugurata e sul basamento fu apposta la targa commemorativa scritta da Brizio De Sanctis

Finocchio, finocchietto e caruselle. Caratteristiche, proprietà e ricette

di Massimo Vaglio

La pianta del finocchio selvatico (Foeniculum vulgaris Miller), presente nel Salento con la subspecie Foeniculum vulgare Miller ssp. Piperitum, è fra le specie selvatiche di interesse gastronomico, una delle più appariscenti, nonché di più facile identificazione. E’, infatti, praticamente uguale alle varietà coltivate, dalle quali si differenzia solo per le dimensioni del grumolo e conseguentemente delle infiorescenze e dei semi. Comunque, volendo dare una rapida descrizione, la pianta è costituita da germogli formati da un’asse su cui sono inserite le foglie, caratterizzate da una guaina slargata alla base, abbraccianti il fusto; segue un lungo picciolo terminante con le caratteristiche foglie fortemente laciniate, ridotte cioè a sottili fili verdi.

Con l’arrivo della bella stagione si levano gli slanciati scapi fioriferi recanti all’estremità le ombrelle formate da tanti piccoli fiori giallini, al posto dei quali troveremo più tardi, nell’estate-autunno, i ricercati piccoli acheni che, botanicamente parlando, sono dei frutti secchi. Questa specie, ha la curiosa abitudine di eleggere comunemente a proprio habitat, i bordi delle strade, ove, a dispetto dell’asprezza del luogo vegeta con prorompente vigoria dando non poco filo da torcere agli stradini.

In cucina, possono essere utilizzati i giovani grumoli che in seguito alle prime piogge, già a fine estate, spuntano alla base delle vecchie piante. Se abbastanza teneri, questi possono essere consumati lessati, meglio se in brodo di carne. Sono inoltre un ingrediente fondamentale della famosa pasta con le sarde della cucina siciliana.

Gli steli e le infiorescenze vengono sovente  utilizzati per aromatizzare le conserve ed in particolar modo le salamoie di governo delle olive, tanto delle

La fidanzata di Marittima

ph Giorgio Cretì

di Giorgio Cretì

Ippaziantonio, questa volta, si era trovata una fidan­zata a Marittima e l’andava a trovare in bicicletta. Tutti, allora, andavano in bi­cicletta, soprattutto i giovani che si spostavano da un paese all’altro per i loro svaghi.

Esisteva una procedura particolare per trovarsi la fidanzata, che in certi ca­si diventava complessa, ma bisognava seguirla perché era la regola. Un giovane non si avvicinava ad una ragazza per strada né le si accostava in alcun luogo pubblico. Tutto sommato, però, l’ap­proccio non era difficile, nemmeno per i più timidi. Era necessario avere una in­termediaria, ecco! Bastava che il giova­ne manifestasse le proprie intenzioni al­la ruffiana, che in ge­nere era persona già conosciuta e si pre­stava a questo tipo di ambasciate, e le di­cesse che gli piaceva la Tizia. La ruffiana riferiva e poi portava la risposta, che di solito era di attesa: non lo conosco, bisogna che lo veda. Così il giovane faceva in modo di essere visto e se la ragazza gli mandava a dire che era interessata, la cosa era fatta. A questo punto la ruffia­na poteva anche togliersi di mezzo, ma spesso era lei stessa ad organizzare il primo incontro.

Diversamente, bisognava ritentare e, in tal caso, il ruolo della intermediatrice ed il suo prendersi più o meno a cuore il caso erano molto importanti.

Così Ippaziantonio si era trovata quel­la fidanzata ed ora era giunto il giorno, il due di luglio, del patrono di Marittima. Egli l’aveva atteso, non per San Vitale, a cavallo di un baio che sembrava un asi­no – altro era il cavallo bianco di San Giorgio –. Del santo ad Ippaziantonio non importava proprio nulla. Gli importava, invece, incontrare la fidanzata e “parla­re” un po’ con lei. Si diceva

Il finocchio marino noto come erva ti mare

di Massimo Vaglio

Il Finocchio Marino (Crithmum maritimum) è una pianta della famiglia delle Ombrellifere, dalle foglie carnose, specie alofila, ossia amante dei luoghi salsi, cresce spontanea lungo i litorali rocciosi spesso a pochissima distanza dalla battigia.

Nel Salento, in particolare nei paesi dove è utilizzato, assume diverse denominazioni: Erva ti Mare, Salissia, Crìtimu, Trìtimu. Questa graziosa pianticella, dallo spiccato aroma di finocchio, accentuato dal salino della sua linfa, per poter resistere nel suo habitat estremo, esposta perennemente agli spruzzi di acqua marina, senza disidratarsi per scambio osmotico, come avverrebbe alla quasi totalità delle piante, possiede nella linfa una concentrazione salina molto simile a quella dell’acqua di mare.

Proprio le sue spiccate caratteristiche aromatiche e di sapidità non l’ hanno fatta sfuggire a un popolo come quello Salentino che possiede nel suo corredo cromosomico la mirabile attitudine a valorizzare le cose più povere, con le quali nei secoli ha saputo creare una grande cucina, i suoi rametti, conservati sott’aceto, sono tradizionalmente utilizzati alla stregua della giardiniera, in insalate, per arricchire il condimento delle friselle e per contorno al lesso.

Non sono molte le località italiane ove si utilizza questa pianta a scopo gastronomico, e anche nel Salento, terra come più volte ribadito, detiene il primato nell’utilizzo di essenze spontanee, il suo uso non è universale, bensì limitato ad alcuni paesi.

Saltando il Salento bisogna però arrivare sul Mare del Nord e in particolare sulle coste dell’Inghilterra e dell’ Irlanda per trovarlo di nuovo sulle tavole.

 

Finocchio marino sott’aceto

I rametti teneri del Finocchio Marino, vengono raccolti recidendoli manualmente dalle piante che crescono spontanee lungo i litorali rocciosi, quindi pressoché esclusivamente in aree demaniali marittime. Questi, vengono mondati dalla parte dura e fibrosa, nonché dalle foglie ingiallite e maltrattate quindi risciacquati e lasciati su di un piano ad appassire leggermente , condizione che normalmente si verifica già dopo una mezza giornata.

A questo punto i rametti vengono semplicemente posti in vasetti di vetro, ricoperti d’ottimo aceto bianco di vino, chiusi ermeticamente a mezzo delle apposite capsule e lasciati stagionare qualche mese prima di avviarli al consumo.

Dato l’alto potere antisettico dell’aceto e l’alta concentrazione salina naturalmente presente nella linfa del finocchio marino, nella preparazione casalinga non si procede a sterilizzare il prodotto, che pronto all’uso entro un mese dall’invasettamento, si conserva in perfetto stato per oltre un anno.

Taranto: oltre l’acciaio

Taranto, Castello Aragonese (ph F. Lacarbonara)

di Francesco Lacarbonara

Al di là di alcuni aspetti a tutti noti (la mitilicoltura, la più importante base navale militare d’Italia, le abitudini gastronomiche dei suoi abitanti, il mare, ecc.) probabilmente è l’insediamento industriale (l’ILVA, il cementificio, le raffinerie, e quant’altro) a caratterizzare più di ogni altro la città di Taranto, tanto da creare nell’immaginario collettivo un’inevitabile equazione:

Taranto+siderurgico+inquinamento=meglio-che-ce-ne-scappiamo-subito(e chi resta si arrangi…).

Il problema è  che a restare è la stragrande maggioranza della popolazione, che da decenni subisce (non senza una responsabile dose di passiva rassegnazione) scelte di politica industriale e di gestione del territorio, sulle quali comunque non è stata chiamata ad esprimere un’opinione o a proporre un’alternativa.

Il dissesto economico del Comune (il più grande della storia repubblicana italiana) forse è servito a smuovere un po’ le coscienze intorpidite da decenni di malgoverno (non dimentichiamoci però che siamo noi cittadini a scegliere da chi farci amministrare) e qualcosa sembra che negli ultimi tempi si stia muovendo.

Ma la mia riflessione va oltre le manifestazioni di piazza e le legittime proteste, riguarda la nostra stessa mentalità e il come ci rapportiamo in primis con la nostra città: e se iniziassimo noi a pensare a precise e mirate proposte di valorizzazione dell’enorme patrimonio culturale che la città bimare sa offrire, partendo da quanto di più bello essa possiede? Penso al MARTA (i famosi Ori di Taranto saranno esposti in Cina, ma quanti tarantini frequentano regolarmente il museo o accompagnano amici ospiti a visitarlo?), al Castello Aragonese, che grazie alla Marina Militare è uno dei monumenti storici più visitati in Puglia, alle decine di chiese nascoste nel centro storico e sconosciute anche alla maggior parte dei tarantini, e via dicendo.

Ma soprattutto penso all’immagine che diamo di noi stessi e di Taranto agli altri: si è mai sentito un barese parlar male di Bari o un leccese di Lecce? Eppure non mi sembra che Bari e Lecce (città per me stupende e che amo tantissimo) siano il massimo della vivibilità e dell’organizzazione urbanistica. Il fatto è che essi amano le loro città e si prodigano per migliorarle e offrire a chi le visiti il meglio di quanto possiedono.

Forse dovremmo mettere da parte inutili campanilismi e prendere esempio da loro. Dalla rassegnazione si esce solo rimboccandosi le maniche senza lasciarsi prendere dai luoghi comuni; il compito della ricostruzione non può che iniziare dai tarantini stessi e dalla nascita di un nuovo rapporto con la propria città, da una sua nuova visione che sappia cogliere, oltre agli aspetti negativi, tutte le positività e potenzialità di sviluppo che possiede, e che sono tante, senza nulla togliere agli spaghetti con le cozze e alla passeggiata in via d’Aquino.

Uccisione di un brigante

 

di Alessio Palumbo

Come oramai assodato da buona parte della storiografia locale e nazionale, il brigantaggio salentino fu, nel contesto meridionale, un fenomeno quantitativamente e qualitativamente marginale. Lo stesso Regio Decreto del 20 marzo 1863, del resto, non incluse la Terra d’Otranto tra le province “invase dal brigantaggio”.

Sebbene, dunque, non fossero mancati episodi di ostilità ai Savoia, spesso fomentati dal clero e da vecchi “baroni”, le bande dei briganti salentini, solo in rarissimi casi, furono guidate da ideali legittimisti o conservatori.

In Terra d’Otranto, quindi, operarono soprattutto gruppi di sbandati, guidati da generici malviventi dai nomi pittoreschi, come lu Pecuraru, Pirichillu, Cavalcante, Scardaffa, Statico, etc.

In alcuni casi, le azioni spettacolari e sanguinose di queste bande, diedero ai briganti un’aura leggendaria che si riverberò per anni ed anni. È il caso di Quintino Venneri di Alliste, la cui leggenda continuò ad essere tramandata ancora per molti decenni dopo la sua morte, come testimonia questo scritto sulla sua uccisione, datato 1912:

La stazione dei carabinieri di Ruffano, nel pieno della notte del 23 luglio 1866, “fu avvertita che Quintino Venneri si era rifugiato entro la cappella di Cirimanna, una chiesetta sita alle falde della collina di Supersano. […] La chiesetta aveva dietro un piccolo orto, cinto di alto muro, e il brigadiere, posti i suoi militi alla posta, si avventurò da solo per forzare la posizione. Poverino, si era appena appena affacciato all’orto, ed al momento di scavalcare il muro, una rombata di Venneri lo fredda. Alla caduta fulminea del superiore i militi si lanciano come leoni feriti nel covo di Quintino Venneri. I più risoluti si gettano nell’orto, gli altri, col calcio del fucile atterrano la porta della Cappella e, a due fuochi, impegnano il sanguinoso conflitto. Una palla del moschetto del carabiniere Anacleto Risis, di Alba Pompea, pose fine alla mischia spaccando in due il cuore del temuto bandito[…].

La notizia, intanto, del conflitto che si era impegnato tra l’arma dei carabinieri e Quintino Venneri, sulla cappella Cirimanna, era giunta a Don Angelantonio Paladini, sopra la Masseria Grande, e quando il maggiore, comandante tutte le guardie nazionali dei nostri dintorni, impegnate nella repressione e cattura degli sbandati, giunse ai piedi della collina di Cirimanna, già la benemerita arma aveva pagato il suo tributo e riscosso il premio delle sue fatiche. Don Angelantonio divise in due drappelli le sue guardie: la compagnia delle guardie nazionali di Parabita l’adibì per accompagnare il corpo esamine del povero brigadiere, sino al vicino paese di Supersano, e la 3° compagnia delle guardie nazionali di Galatina accompagnò il cadavere di Quintino Venneri che per pubblico esempio e per appagare la curiosità di tutte le popolazioni del Capo lo si tenne esposto, per tre giorni, sulla piazza di Ruffano, guardato dalla nostra Guardia Nazionale.

La presa di Quintino Venneri fece epoca e in tutta la regione del Capo se ne formò una leggenda: bello, dai capelli ricci, forte, simpatico e, nella sua rudezza di uomo di macchia, generoso e galantuomo. Le mamme ancora lo ricordano ai loro bambini, intessendo mille aneddoti e mille avventure intorno alla vita di colui che, morto, si tenne esposto sulla piazza di Ruffano per pubblico esempio” (R. Rizzelli, Pagine di Storia Galatinese, 1912).

Quel mitico deschetto del calzolaio

di Rocco Boccadamo

 

Mesciu T., mesciu R., mesciu L.

Sino alla metà del ventesimo secolo, nel paesello di appena duemila anime, tenevano bottega ben tre maestri calzolai o ciabattini, in dialetto scarpari. In apertura di queste note, ne ho indicato i nomi di battesimo con le iniziali e non per intero: ciò, per un senso di rispetto nel ricordo delle persone, sebbene le medesime, ormai da decenni, indossino i loro grembiuloni incerati e unti e maneggino martello, chiodi, spago, colle, piedi di ferro e forme, lassù, ai piani alti, dove, per la verità, così risulta al cronista, si vive e ci si muove esclusivamente a piedi scalzi. Quaggiù, invece, una volta le cose erano diverse. Nel novero degli effetti, meglio anzi dire dei beni, personali, le scarpe, sembra incredibile, si collocavano, quanto a valore e preziosità, ai primi posti. Accadeva, infatti, che, specialmente nei piccoli centri, se ne facesse addirittura a meno nella maggior parte dell’anno, le piante degli arti inferiori, dai primi passi dei più piccoli a quelli lenti degli anziani, in un certo senso si solidificavano a prova di nuda ruvida terra, senza differenza alcuna fra selciato, sterrato, solchi e superfici erbose dei campi.

Non è esagerato rievocare che, nell’arco dell’intera esistenza, si arrivava ad avere a disposizione e a indossare, al massimo, due o tre paia di calzature, di cui uno, peraltro, doveva servire e rimaneva riservato per gli eventi solenni, ossia matrimoni e…funerali. Mancavano del tutto, ovviamente, nelle località di provincia, negozi di vendita al dettaglio, si ricorreva, quando era possibile spostarsi, alle baracche ambulanti delle fiere e dei mercati periodici nei centri principali, le scarpe erano, nella quasi totalità, confezionate su misura dai calzolai del posto: zoccoli, sandali, mocassini, scarpini, scarpe alte, modelli con o senza tacchi per signore e signorine. Punto e basta. E poi, in base all’uso – geloso, parsimonioso e prolungato in anni e decenni – che si faceva dell’importante accessorio, quando era indispensabile si ricorreva, anche per ripetute volte, alle riparazioni o risolature a cura dei medesimi artigiani.

A questo punto, sembra però doveroso sottolineare che ciascun calzolaio, oltre che risultare benemerito per via della preziosa opera svolta a contatto di piedi con i compaesani, rappresentava anche una sorta d’istituzione, di punto d’incontro, di raccolta fra persone, vuoi per scambi di notizie sull’andamento delle annate agricole, di confidenze sui rispettivi menage familiari oppure, semplicemente, per accenni di chiacchiere, alla stregua, volendo usare un’accezione moderna, di una sorta di gossip, innocuo, mai cattivo.

Intorno al deschetto o tavolino da lavoro del maestro scarparo , si accomodavano, anche per lunghe ore, tre o quattro “avventori” per volta, intessendo, principalmente fra loro e con limitato coinvolgimento del padrone di casa che non doveva essere distratto più di tanto dal suo lavoro, conversazioni e discorsi su comuni ma svariati argomenti. Durante i periodi dell’anno caratterizzati da clima mite, il deschetto trovava posto all’esterno della bottega, sempre con il medesimo contorno di astanti. Quest’ultima collocazione, arricchiva ovviamente il menù con lo spettacolo offerto dai compaesani che transitavano lungo la strada, la qual cosa dava talvolta luogo ad ulteriori intrecci di commenti, e però mai di tono offensivo o malevole.

Il rito della seduta dal calzolaio era molto sentito e diffuso fra la popolazione in genere, a prescindere dal censo e dall’età, gli si conferiva apprezzamento alla stregua di un utile e gratuito veicolo di contatto e socializzazione. Al punto, da divenire quasi irrinunciabile e insostituibile, come è confermato da una certa osservazione, rimasta famosa, uscita dalla bocca di un affezionato e arguto cliente ultra novantenne, il quale, in un tiepido pomeriggio primaverile, nel mentre il ciabattino era rientrato nella bottega per prelevare del materiale, così si esprimeva all’indirizzo dei colleghi di seduta:”Cari amici, come faremo quando mesciu L. (nota dell’autore: di poco sopra la cinquantina) non lavorerà più, sarà morto?”.

Da precisare che, colmo dei colmi, fu profeta inappuntabile il quasi centenario commentatore, giacché il povero artigiano, nonostante la notevole differenza d’età, finì realmente col precederlo nella trasferta verso l’aldilà. Oggi, al paese, di calzolai non ne è rimasto manco uno, non si fanno più scarpe a mano, le stesse riparazioni sono rare. Conseguentemente, i deschetti raduna persone sono scomparsi.

Peccato, giacché in chi scrive, destavano simpatia, innocente interesse e curiosità, altro che il parterre o arena degli attuali talk show o le soste, con o senza carte da gioco in mano, ai tavoli all’aperto dei bar: sui citati palchi, virtuali e di ritrovo moderno, allignano spesso pettegolezzi e critiche, per non andare oltre, di segno e contenuto che lasciano a desiderare.

Faccellavatu

coll. priv. Giorgio Cretì (riproduzione vietata)

di Giorgio Cretì

Biagio Sannimaro giunse nel pomeriggio inol­trato di un’afosa giornata d’agosto. Era stato in giro tutta la mattina montando uno di quei caval­li arabi che il barone aveva acquistato di recente e che si erano dimostrati ottimi anche per il dipor­to e per la caccia. Egli aveva il compito di batte­re ogni giorno il territorio delle due masserie che con il loro feudo costeggiavano il litorale adriatico e, quando vi passava vicino, si fermava al casino a conferire con il barone oppure a scambiare due chiacchiere con il casiniere che, come lui, parlava volentieri, e per ristorare il cavallo.

A volte, quando d’inverno la famiglia del ba­rone non c’era, dormiva lì, ma la sua residenza fis­sa era alla masseria Bruficu(1).

Durante la notte non era calata muttura(2) e, av­vicinandosi alla zona la mattina presto, egli si era soffermato qua e là a parlare con i mezzadri sparsi per la campagna. Le macchie di terra rossa zappata rompe­vano ogni tanto la monotoria delle stoppie brucia­te delle grandi colture cerealicole. Vicino ai casolari sparsi i contadini coltivavano anche piccole strisce di cotone e pomodori, dolici(3)  e altri ortaggi, quanti se ne po­tevano permettere in base alla capacità delle ci­sterne di acqua piovana che avevano a disposizione.

Intorno a quelle costruzioni dall’architettura molto essenziale, lussureggiavano a filari le chio­me dei fichi, grande fonte di frutta secca per l’inverno.

ph Giorgio Cretì

Poi i sentieri che Biagio aveva percorso si inoltravano fra i grandi boschi di ulivi, o in mezzo alle vigne, per perdersi nella macchia bassa che copriva un largo tratto dalla parte del mare. Se n’era andato, in quell’intrico di arbusti, un po’ al trotto e un po’ al galoppo, con il cavallo che sembrava divertirsi a volare sopra lentischi e ginepri spinosi, come ricordasse le scorribande di un suo

La fidanzata di Depressa

Il Municipio di Ortelle (ph Antonio Chiarello)

di Giorgio Cretì

Quella volta Ippaziantonio aveva puntato abbastanza in al­to: alla figlia del segretario co­munale di Depressa, e, natural­mente, per avere la vita più faci­le e darsi un’immagine di perso­na per bene, si era fidanzato in casa.

Nell’occasione si era spac­ciato per impiegato comunale. Aveva potuto farlo perché era di carnagione chiara e nessuno, che non lo conoscesse bene, l’avreb­be creduto un contadino che zap­pava dalla mattina alla sera. In più, in quel periodo era stato ma­lato e l’aspetto di colui che sta esposto tutto il giorno ai raggi del sole e alle intemperie non l’aveva proprio.

Innocente Sucamèle, con il quale poi divenne compare, allo­ra aveva la fidanzata a Tricase e lì andava in motocicletta la sera e quando era festa. Anche Ippa­ziantonio andava con lui e si faceva lasciare a Depressa, dove, al ritorno, Innocente passava a pren­derlo e tornavano a casa assieme.

Avenne che (c’era sempre qualche avve­nimento a guastare le cose), avvenne che in quell’anno si faceva il censimento della po­polazione ed il Segretario di Depressa pensò bene di farsi dare una mano dal futuro gene­ro, visto che era già addentro alle pratiche amministrative del suo Comune. E glielo chiese aspettandosi entusiasmo ed una rispo­sta affermativa subito. Ma Ippaziantonio, che pure all’istante fu colto alla sprovvista, lungi dal farsi prendere in castagna, rispose che l’avrebbe fatto molto volentieri, dopo aver

La fidanzata di Spongano

di Giorgio Cretì

Ippaziantonio, o Patintoni,  in quel periodo aveva la zita, la fidanzata, a Spongano e da lì andava e tor­nava in bicicletta. Ma andare e venire così, semplicemente, non poteva durare a lungo e ora, dopo quasi un mese, sia la Nina, la zita, che i suoi parenti gli imponevano di presentarsi con i suoi.

Con quasi tutte le fidanzate che aveva avuto era sempre andato in casa e questo comportava una certa tranquillità rispetto al fidanzamento scusi, di nascosto, che ri­chiedeva continui stratagemmi per potersi incontrare con la ragazza, ma comportava anche la difficoltà, di notevole peso, che prima o poi i genitori del fidanzato dove­vano recarsi in casa della fidanzata e su­gellare così un patto prematrimoniale che diventava impegnativo anche agli occhi della co­munità.

Ippaziantonio continuava a tergiversare, ma quelli insistevano. “Sì, sì egli diceva, li porterò”. Ma sapeva molto bene che non avrebbe potuto: sua madre non gli avrebbe nemmeno lasciato fare la richiesta e suo padre, come minimo, gli avrebbe assestato un paio di calci nel culo, anche se solo a parole. Gli rimaneva, perciò, solo una pos­sibilità: cercarsi un’altra fidanzata. Ma siccome non poteva abbandonare il terre­no così presto, ne inventò una delle sue.

C’era allora in paese una donna povera che si chiamava Concetta, tanto povera che a malapena riusciva a mangiare tutti i giorni. Ippaziantonio si recò da lei.

“Concetta”, disse subito dopo averla salu­tata, “vogliamo fare un negozio?”.

“Che cosa devo fare, Ippaziantonio?”, disse la donna incuriosita.

“Devo portarti in un posto, a casa di una mia fidanzata, e tu devi venire con me, come se fossi mia madre. Se vieni è sicuro che ci scappa una buona mangiata”.

Concetta, che per una buona mangiata avrebbe fatto chissà che cosa, perché in casa sua la fame aveva dimora stabile, fu subito inte­ressata alla proposta, ma gli fece capire che c’era qualche difficoltà da superare. Esistevano limiti

Autunno, tempo di tordi

Alexandre-François Desportes (1661-1743)

di Massimo Vaglio

Devo premettere che discendo da una schiatta di provetti cacciatori ed io stesso sono stato cacciatore per molti anni. Tutta la mia infanzia e la mia giovinezza sono state fortissimamente legate a questa nobile arte, perché di arte, sino ad un certo momento, si è trattato. Si dovevano conoscere profondamente i venti, periodi, le lune; i preparativi erano più laboriosi, impegnativi e gratificanti dell’attività stessa.

Il rito iniziava recandosi in sobrie quanto gremite armerie a scambiare chiacchiere con gli altri cacciatori, spesso più anziani e ad acquistare l’occorrente per caricare le cartucce, anzi per ricaricarle, dato che venivano regolarmente riciclate almeno una o due volte. Una babele di nomi e sigle: Acapnia, Cordite, D.N., G.P., G.M.3., M.B., Balistite Compensata, Superbalistide, S4, Sipe, Star, Randite, Sport, Universal… e questo solo per quanto riguardava le polveri, poi c’erano i bossoli, rigorosamente di cartone, gli inneschi, le borre, i tacchetti, che ognuno utilizzava secondo sue personali convinzioni, ripetendo meticolosamente sempre le stesse operazioni e gli stessi dosaggi gelosamente custoditi in un quaderno segreto.

Il giorno seguente si usciva a caccia con le cartucce contate, giusto quelle contenute nella cartucciera e con un’altra manciata in tasca. I richiami erano anch’essi essenziali: i fischietti d’ottone e lo zirlo in legno e piombo; i risultati erano fortemente vincolati all’esperienza e alla bravura quando non condizionati dalle possibilità economiche.

Poi è arrivato un maggiore benessere, la tecnologia con le cartucce in plastica e a volontà, che la terra non riusciva più a metabolizzare, caricate con i contenitori anch’essi di plastica e con le chiusure stellari che consentivano tiri sino ad allora impensabili. Seguirono i richiami elettronici, le scellerate mattanze. Quella nobile arte si è trasformata in una delle più becere espressioni del consumismo.

Da qui il mio abbandono e la mia viscerale avversione verso quella che ormai considero un’ignobile pratica.

Quanto sopra, perché questo mio scritto non venga interpretato come un’anacronistica apologia della caccia, ma essendo purtroppo questa ancora legale e consentita, i tordi, le allodole e le quaglie, finché continueranno a sostare o transitare nella nostra penisola, finiranno impallinati e non potendo evitare che ciò accada, possiamo solo invitare i nostri lettori a rendere giusto onore alla fine di questi animali, se mai ne avessero occasione, con delle preparazioni genuine e prelibate che possano rimanere impresse per molto tempo nella mente dei loro commensali.

Non v’è bisogno di ricordare il Salento come terra d’ulivi, anzi, se volessimo, potremmo considerarla un’enorme foresta di ulivi con qualche radura. È normale, quindi, che in questa terra, già regolare linea di migrazione per numerose specie di uccelli, i tordi abbiano sempre trovato, approfittando di questo paradiso di fronde argentee e di olive turgide d’olio, il luogo ideale in cui svernare nei mesi invernali. Non sorprende, quindi, che i cacciatori locali si siano organizzati per far loro pagare il pedaggio e la sosta, specializzandosi in delle forme di caccia specifiche a questa specie, sia durante il passo (scise) che durante la sosta, con appostamenti nei luoghi di entrata ed uscita dai dormitori (’mmasunu), e organizzando delle redditizie cacce a rastrello (spase) appunto negli enormi oliveti.

Abbiamo riferito del Salento come rotta di migrazione per molte specie, ma anche in tempi in cui c’era l’imbarazzo nella scelta delle prede da insidiare, il tordo ha costituito sempre la preda d’elezione, per una motivazione molto semplice: il tordo è stato sempre considerato, gastronomicamente parlando, il miglior boccone tra i selvatici alati. Infatti, nelle interminabili disquisizioni dei cacciatori, oltre a parlare di luoghi di caccia, di polveri, di cani, il tutto naturalmente infarcito da spacconate, si parlava spesso di selvaggina in cucina e, quando usciva questo argomento, sovente entrava in scena il letterato di turno che declamava saccentemente la frase latina “Vulatiles turdus, quadrupedes lepores”, attribuendola a Virgilio e traducendola per gli astanti più incolti in questo modo: “In cucina il miglior uccello è il tordo e il miglior quadrupede è la lepre”, e aggiungendo che se lo diceva Virgilio, appellato dal grande Dante: maestro di color che sanno, il giudizio non poteva essere messo in discussione.

Il sottoscritto, non essendo un latinista e volendo riportare la frase su questo scritto meno maccheronicamente, l’ha ricercata certosinamente leggendo integralmente tutte le opere di Virgilio. Il piacere, naturalmente è stato grande, ma di giudizi gastronomici su tordi e lepri neppure l’ombra. Solo nelle Satire di Orazio, una citazione, in una descrizione di un viaggio nell’Italia meridionale ove descrive presso Benevento una scena in cui: “l’oste zelante mentre al fuoco girava magri tordi mancò poco che non bruciasse” (Orazio Satire, libro I  5, 72).

Un giorno però, a conferma che dietro a qualsiasi balla c’è sempre un fondo di verità, il mio sguardo si è posato su di un epigramma elogiativo di un altro grande poeta latino che di buona tavola e lieto vivere se ne intendeva, che così recitava:

“Inter aves turdus, si quid me judice certet;

inter quadrupedes mattea prima lepus”

(Marziale, Epigrammi, libro XIII, ep. 92)

cioè: “Se il mio giudizio ha qualche valore, dirò che il miglior boccone fra gli uccelli è il tordo, fra i quadrupedi è la lepre”.

Francamente, e con tutto il rispetto, non credo che il tordo abbia bisogno delle pur gratificanti referenze reali o presunte di questo o di altri grandi poeti. La grande versatilità gastronomica sarebbe già sufficiente a sancire questo primato; infatti questo è uno dei pochissimi uccelli selvatici che può essere preparato con ottimi risultatati praticamente in qualunque modo.

Sino a qualche anno addietro i tordi erano regolarmente venduti nelle macellerie, in cui si vedevano esposti appesi in scenografici mazzi, spesso inghirlandati con rami di mirto. Da qualche anno le cose sono cambiate: la legge vieta la vendita degli uccelli selvatici e limita fortemente il numero dei capi che si possono abbattere in una giornata. Ma ad allontanare dalle mense dei salentini i tordi, è stata sicuramente la loro forte diminuzione, le grandi mattanze degli anni passati, la forte antropizzazione del territorio e soprattutto il comportamento antisportivo di molti cacciatori che usano, contro legge, micidiali richiami elettronici; ciò ha minato seriamente la consistenza numerica della specie.

Fortunatamente, alla diminuzione dei tordi, sta seguendo una certa diminuzione del numero dei cacciatori, una volta tanto le regole della natura sul rapporto preda, predatore, coinvolgono anche l’uomo, in verità più predone che predatore.

Tordi con le olive  

Per preparare questa prelibata pietanza per sei persone dovete procurarvi dodici tordi che dovete spennare con cura, fiammeggiare e svuotare, avendo cura di recuperare i ventrigli. Disponete in una casseruola un filo d’olio extravergine d’oliva, fate soffriggere una manciata di olive piccole da olio, preferibilmente della cultivar ogliarola e ben mature, unitamente ad uno spicchio d’aglio, due foglie di alloro, sale e pepe. Appena le olive cederanno facendo uscire il nocciolo con una leggera pressione della forchetta, aggiungete i tordi ed i ventrigli, e quando saranno rosolati un buon bicchiere di vino rosato del Salento. Lasciate evaporare e continuate la cottura a fuoco bassissimo, aggiungendo un po’ d’acqua se ce ne fosse bisogno, sino alla loro completa cottura. Vanno serviti caldissimi.

Tordi al ragù

Con i tordi si può preparare un ottimo ragù che può essere utilizzato egregiamente per condire i maccheroni. I tordi, che con questa preparazione diventano tenerissimi, vanno serviti come secondo piatto. Per preparare il ragù seguire lo stesso procedimento della ricetta Maccheroni al ragù di carne. Per le dosi dovrete procurarvi non meno di due tordi per  commensale.

Tordi alla cacciatora  

Dopo aver predisposto i tordi per la cottura, fateli rosolare in una casseruola abbastanza larga in solo olio extravergine da tutte le parti, quindi salate, pepate e aggiungete un buon bicchiere di vino rosato, fate evaporare a fuoco vivo e togliete i tordi. Aggiungete all’intingolo una cipolla e due spicchi d’aglio tritati, un’ombra di rosmarino o meglio un rametto di mirto. Appena il trito sarà imbiondito, aggiungete qualche pomodoro tritato o meglio dei pomodorini freschi tagliuzzati in quantità tale che colorino leggermente la preparazione, fate amalgamare bene, aggiungendo se occorre un po’ d’acqua, rimettete i tordi e continuate la loro cottura a fuoco moderato per almeno 40 minuti. Quando il sughetto si sarà ben ritirato e l’olio comincerà a “slegarsi”, i tordi saranno pronti per essere serviti ben caldi.

Turdi allu suzzu

Tordi sotto vetro

Spennate, fiammeggiate diligentemente dei tordi freschissimi, eliminate la testa, oppure, come vuole la tradizione solo la parte superiore del cranio, lessateli in acqua salata aromatizzata con qualche foglia di alloro e semi di finocchio, badando che rimangano ben sodi, quindi fateli asciugare bene su dei canovacci puliti, disponeteli in vasi a chiusura ermetica frammezzati con qualche foglia di alloro e ricopriteli di vino bianco secco di buona gradazione alcolica. Sono pronti al consumo già dopo una decina di giorni anche, se così preparati, si conservano per diversi mesi. Possono essere gustati sia tali che cucinati in umido.

Allodole alla leccese

L’allodola, altro prelibato uccello, è un assiduo frequentatore delle grandi distese pianeggianti del Tavoliere nonché delle aride «fattizze» che circondano le antiche masserie del Salento. Data la sua estrema diffusione, nel periodo autunnale, questo piccolo migratore alimenta, anche se meno di qualche anno addietro, un discreto pendolarismo venatorio da altre regioni italiane. Cacciatori o meglio sparatori semiprofessionisti hanno per decenni perpetuato vere e proprie stragi di questi volatili che andavano ad alimentare il florido mercato Nord’Italiano degli uccelletti da polenta, nonché fatti oggetto di caccia tradizionale con l’uso di specchietti e zimbelli vivi, ora vietati dalla legge, anche se, invero, era già un po’ di anni che le allodole non si lasciavano più ammaliare facilmente da tali stratagemmi. Ora la tecnologia ha pensato di supplire con micidiali richiami ad ultrasuoni. Per le allodole consigliamo questa degnissima preparazione tipica:  spennate le allodole, fiammeggiatele, evisceratele e dopo averle lavate, trafiggetele con degli spiedini intervallandole con funghi cardoncelli (Pleurotus erjngii) e foglie di alloro. Ponete gli spiedini in una terrina,  salateli, pepateli e pennellateli con olio extravergine di oliva; quindi ponete la terrina in forno caldo, a metà cottura ritiratela e spolverate gli spiedini con pangrattato insaporito con sale, pepe e prezzemolo tritato. Irrorateli moderatamente con dell’olio e riponeteli nuovamente in forno a completare la cottura; ritirateli e quando gli stessi si presenteranno di un bel colore dorato serviteli caldissimi. Visto che le allodole e i cardoncelli condividono lo stesso habitat, i pascoli pietrosi della Puglia, è da pensare che questo abbinamento sia tutt’altro che casuale.

Curiosità: in alcune famiglie salentine, varie specie di piccoli uccelli, ma in particolare  le allodole, venivano tritate finemente con l’ausilio di un tritacarne, naturalmente con tutti gli ossi. Dal trito ottenuto venivano ricavate delle polpette metodo classico salentino che avevano, a dire dei testimoni intervistati dallo scrivente, un gusto eccezionale, per nulla penalizzato, anzi, a loro dire, migliorato dalla presenza degli ossicini triturati.

Senza la presunzione di chiudere il cerchio sulla cicerchia…

di Armando Polito

A miserabile integrazione del bel post dell’amico Massimo dell8 ottobre e prima che l’arterosclerosi galoppante mi impedisca di dare risposta adeguata a chi dovesse pormi qualche domanda di natura filologica, passerò in rassegna le voci più significative di quel post.

Comincio dal nome italiano: cicèrchia è dal latino cicèrcula(m), diminutivo di cicer=cece. La voce è ripetutamente attestata in Columella (I° secolo d. C.): “La cicerchia, che è simile al pisello, deve essere seminata in un luogo favorevole e dal clima umido. nei mesi di gennaio e febbraio. Tuttavia in alcuni luoghi d’Italia viene seminata l’ultimo giorno di ottobre. Tre moggi bastano per uno iugero di terreno. Nessun altro legume è meno dannoso per il campo. Raramente dà buoni risultati poiché quando è in fiore non sopporta né il caldo né i venti provenienti da sud; i due inconvenienti si verificano quasi in quel periodo dell’anno, ragion per cui perde il fiore…Quattro moggi di cicera o cicerchia1 richiedono tre giornate di lavoro, una per erpicarla, una per mieterla, una per spiantarla…Ma tra i semi di cui ho parlato lo stesso Saserna ritiene che i campi da alcuni siano concimati, da altri al contrario bruciati e impoveriti e che siano concimati dal lupino, dalla fava, dalla veccia, dall’ervo, dalla lenticchia, dalla cicerchia, dal pisello”2; “Quando i campi sono piuttosto secchi i buoi debbono essere alimentati alla mangiatoia ed a loro va dato il cibo secondo la condizione dei luoghi”; “Nessuno dubita che siano ottime la veccia legata in fasci e la cicercia…Ai buoi nel mese di gennaio conviene dare mezzo moggio di cicerchia macerata…Nei mesi di novembre e dicembre sono sufficienti dodici sestari di cicerchia bagnata misti a paglia ”3; “Sono ottimi mangimi per le galline l’orzo pestato e la veccia, non di meno la cicerchia”4.

Continuo col nome scientifico, Lathyrus sativus5 L., dicendo che Lathyrus è dal greco làthyros tradotto in genere con veccia; in realtà i dettagli con cui essa compare negli autori antichi non consentono di identificarla con precisione. Passerò ora rapidamente in rassegna le loro testimonianze seguendo un ordine cronologico. Per brevità non riporto il testo originale greco o latino (in nota, comunque, cito sempre l’edizione da cui l’ho preso) ma solo la mia traduzione (nella quale renderò con latiro, sottolineandolo, il lathyros originale).

La voce compare per la prima volta nel mondo greco in un frammento di Alessi, commediografo del IV° secolo a. C. nato in Calabria: “Ho un marito povero, e io sono vecchia, e una figlia e un figlio piccolo e questa (altra figlia) è minorata, (siamo) cinque in tutto. Tre di noi mangiano, due si spartiscono con loro una piccola focaccia. Intoniamo canti funebri senza l’accompagnamento della lira ogni volta che non abbiamo nulla e il colorito di noi digiuni diventa pallido. Il nostro destino e sopravvivenza sono una fava, un lupino, una verdura qualsiasi, una rapa, un ocro6, un latiro, una ghianda, un bulbo, una cicala7, un cece, una pera selvatica e un fico secco, per me oggetto di cura materna manifestato dagli dei, ritrovato del fico di Frigia. “8

Ho riportato l’intero brano perché al lettore fosse più facile comprendere come il nostro latiro costituiva, pur nella presumibile esagerazione cui induce ancora oggi il genere comico, uno degli emblemi di una vita di pura sussistenza.

Dopo Alessi è la volta di Anassandride, anche lui poeta comico, probabilmente del III° secolo a. C.: “…di pane dolce inzuppato nel vino, di orzo mondato, di farinata, di fave, di latiri, di ocri, di dolichi9, di miele, di formaggio, di salsicce, di frumenti, di castagne, di farina grossa. Gamberi alla griglia…”10

Basta e avanza per notare come qui latiri e ocri siano stati inseriti in un menu tutt’altro che di sopravvivenza.

Interessantissima è la testimonianza di Plutarco I°-II° secolo d. C.): “…i Pitagorici  si astenevano dalle fave per le ragioni dette, dai latiri e dai ceci come evocanti  l’Erebo e il Lete”11.

Ho tradotto con ceci l’originale erèbinthos e con Lete l’originale Lethe. Sono costretto a ricordarlo, anche perché Plutarco ha invertito i termini della corrispondenza per via di quella figura retorica che si chiama chiasmo. Insomma il latiro (in greco, come ormai sappiamo, làthyros) sarebbe in rapporto con Lete e il cece (in greco erèbinthos) sarebbe in rapporto con Erebo12. Soffermiamo la nostra attenzione su latiro e Lete; quest’ultimo, come un tempo quasi tutti sapevano, era uno dei fiumi infernali e ad esso si abbeveravano le anime destinate a reincarnarsi. Non a caso, come nome comune, in greco lethe significa oblio ed è collegato alla radice (lath) del verbo lanthàno che significa nascondere ((in fondo cos’è il dimenticare, anche nella sua forma inconscia detta rimozione, se non un nascondere?). I pitagorici, dunque, associavano il latiro all’idea della morte; ma, se è possibile che da un punto di vista filologico la testimonianza di Plutarco ci ponga di fronte ad una paretimologia (cioè etimologia popolare senza alcun fondamento scientifico), io non sono autorizzato a vedere in questo un rapporto certo con il latirismo, cioè con gli effetti molto tossici che sul sistema nervoso produce l’uso prolungato della cicerchia, per quanto il mio pensiero sia stato tanto suggestivo da indurmi a parteciparlo.

Passo ora al nome dialettale salentino: tòlica. Il suo corrispondente italiano (del quale condivide l’etimologia) è dòlico con cui si indica comunemente il fagiolo della Cina e in botanica con l’iniziale maiuscola un genere della famiglia delle Papilionacee, con quella minuscola una pianta erbacea rampicante con fiori bianchi o rossi e frutti a baccello, diffusa nelle regioni tropicali e subtropicali.

Dolico è dal latino dòlichos13, trascrizione del greco dòlichos che era il nome di una corsa di fondo (poco più di 4 km.), ma anche una misura di lunghezza e, in botanica, un generico fagiolino nella testimonianza di Teofrasto (IV°-III° secolo a. c.): “Altre piante hanno lo stelo prostrato a terra come l’ocro. il pisello, il latiro; il dolico poi se gli applichi vicino lunghi pezzi di legno sale su di loro…”14;  “Quelle piante invece che, come il vilucchio, il lupino e il dolico, sono leggere e sottili, salgono e si attaccano con nessuna difficoltà”15.

A  sua volta dòlichos è dall’aggettivo  dolichòs/dolichè/dolichòn, che significa lungo (evidentissimi i rapporti di traslazione semantica nel significato di corsa di fondo e probabile il riferimento alla forma delle foglioline).

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1 La locuzione originale cìcerae vel cicèrculae ci fa sapere che cìcera era sinonimo di cicèrcula.

2 De re rustica, II, X, XII e XIII

3 Op. cit. VI, 3.

4 Op. cit. VIII, 4.

5 E non sathivus, come leggo nel post di Massimo (l’errore sarà stato indotto dall’h di Lathyrus).

6 O rubiglio, pisello selvatico usato come foraggio. Ocro corrisponde all’originale greco òchros, a sua volta dall’aggettivo ochròs/ochrà/ochròn=pallido, giallastro, usato non a caso per definire il colorito di questa famiglia disgraziata; mi piace far notare che non si tratta solo di un gioco di parole (più precisamente di una figura etimologica, cioè dell’utilizzo ad effetto, a breve distanza l’una dall’altra, di due parole che hanno lo stesso etimo, ma quasi l’applicazione del proverbio chiodo scaccia chiodo e un’anticipazione, per quanto metaforicamente disperata, del similia similibus curantur di Samuel Hahnemann, il padre dell’omeopatia.

7 La tradizione manoscritta reca concorde tettix che significa inequivocabilmente cicala; il fatto è strano perché è l’unico animale citato tra tanti vegetali.

8 I, 12 (da A. Meineke, Fragmenta comicorum Graecorum, Keimer, Berlino, 1840, vol. III, pag. 456).

9 Traduco così l’originale greco dòlichos che, come vedremo più avanti, è il padre della voce dialettale tòlica. Da notare che nel brano dolico e latiro compaiono insieme, come succede pure in Teofrasto (vedi la nota n. 14)

10 I, 43 (da A. Meineke, op. cit., pag. 184).

11 Moralia, 18, 286  (da G. N. Bernardakis, Plutarchi Cheronensis moralia, Teubner, Lipsia, v. II, 1889 pag. 308.

12 In greco èrebos come nome comune indica l’oscurità infernale e, come personificazione, l’Inferno.

13 Plinio, Naturalis historia, XVI, 92: Quaedam enim in terra gigni non possunt et in arboribus nascuntur. Namque cum suam sedem non habeant, in aliena vivunt, sicut viscum et in Syria herba quae vocatur cadytas, non tantum arboribus, sed ipsis etiam spinis circumvolvens sese, item circa Tempe Thessalica quae polypodion vocatur et quae dolichos ac serpyllum. (Quelle piante che non possono crescrere nella terra nascono anche sugli alberi. Infatti non avendo una loro sede vivono nelle altrui, come il vischio e in Siria l’erba chiamata cadita, avvolgendosi non solo attorno agli alberi ma anche alle stesse spine, come fa a Tempe di Tessaglia quelle piante che si chiamanp polipodio, dolico e serpillo). Se il dolico, al di là dei problemi identificazione, compare in Plinio lo stesso non si può dire del latiro, anche se il naturalista latino Plinio ci parla della latiride (etimologicamente il nome è dal greco lathyrìs/lathyrìdos derivato da làthyros):  (op. cit., XXVII, 71: Lathyris folia habet multa lactucae similis, tenuiora germina multa, in quibus semen tuniculis contonetur, ut capparis; quae quum inaruere eximuntur grana piperis magnitudine, candida, dulcis, facilia purgatu. Haec vicena in aqua pura aut mulsa pota hydropicos sanant. Trahunt et bilem. Qui vehementius purgari volunt cum folliculis ipsis sumunt ea; nam stomachum ledunt. Itaque inventum est ut cum pisce aut iure gallinacei sumerentur (La latiride ha molte foglie, simili alla lattuga, molti germogli piuttosto sottili nei quali il seme è contenuto in tunichette, come il cappero; quando le tunichette sono secche si traggono granelli grandi come quelli del pepe, bianchi, dolci, facili da pulire. Essi guariscono gli idropici se bevuti in numero di venti in acqua pura o mielata. Placano pure la bile. Quelli che vogliono purgarsi piuttosto energicamente li assumono insieme con le tunichette, dal momento che da soli i granelli potrebbero danneggiare lo stomaco; e così si è pensato di assumerli con pesce o con brodo di gallina).

14 Historia plantarum, 8, 3, 2; da notare che in questo brano latiro e dolico compaiono insieme, come era già successo in Anassandride (vedi la nota n. 9).

15 Historia plantarum, 8, 11, 1

Quando l’arte va sott’acqua

dal sito di Ivan Marra

di Ilaria Marinaci

Quando l’arte va sott’acqua, ci si può inventare un mestiere. È quello che è successo a Ivan Manca, giovane imprenditore di Nardò che è diventato, in pochi anni, uno dei più apprezzati e richiesti produttori di arbalète artigianali in legno.

In un piccolo laboratorio che si trova proprio nel cuore del centro storico neretino, a pochi metri dalle fascinazioni barocche di Piazza Salandra, Ivan crea questi splendidi esemplari di fucili subacquei a propensione elastica che fanno la felicità degli appassionati di pesca in apnea. Prodotti che si distinguono dagli altri perché fondono insieme arte e artigianalità, abilità e gusto estetico, fantasia e funzionalità. Da qui nasce lo slogan di Ivan, “Quando l’arte va sott’acqua”, che sintetizza il senso del suo lavoro meglio di mille parole.

Fra listelli di legno, aste tahitiane, mulinelli e tante foto, incontriamo Ivan nella sua “bottega” dove nascono gli arbalète che, attraverso il suo sito www.gimansub.it, vende soprattutto fuori regione e, in molti casi, anche all’estero. Come tanti suoi coetanei salentini, fortemente radicati alla loro terra, Ivan ha deciso di non preparare una valigia da emigrante ma di mescolare insieme alcune sue passioni e di trasformarle in un mestiere “di nicchia”.

“Io sono un designer – ci racconta – e per questo ho esperienza di progettazione. In più, mi diletto con la pittura e ho lavorato, in passato, come scalpellino della pietra leccese. Da una decina d’anni, poi, pratico la pesca in apnea, che mi permette di vivere il mare, che è la nostra più grande ricchezza, in maniera diversa, più profonda. La pesca in apnea, a differenza di quella con le bombole che è vietata ormai dalla fine degli anni Ottanta, è riconosciuta per avere un impatto ambientale controllato e giustificato. In un certo senso, possiamo dire che vedendo la preda, dovendo decidere in pochi secondi se catturarla o meno, questa pratica sportiva fa sviluppare una certa coscienza venatoria”.

Il passo dall’hobby al lavoro non è stato lungo. È bastato far incontrare la sua passione per la pesca in apnea con quelle per l’arte, per l’artigianato e, soprattutto, per la progettazione. Ne sono venuti fuori due modelli di fucile, il Dentex e il Labrax, che hanno come segno identificativo la cura dell’estetica ma sono ugualmente apprezzati da chi li acquista anche per la loro resa balistica. Per i veri intenditori, un arbalète in legno, che, oltre ad essere bello a vedersi, garantisca anche una lunga gittata, una straordinaria precisione, una grande potenza e un’estrema silenziosità , è – secondo Ivan – il “fucile dei sogni”.

“I miei arbalète sono realizzati in numero limitato e vengono spediti su ordinazione. Ho ormai una clientela fidelizzata che ha voluto più di un fucile, in qualche caso chiedendomi anche di personalizzarlo. C’è chi vuole che venga usato un particolare tipo di legno per l’impugnatura o chi gradisce qualche incisione particolare. Una volta, mi è stato richiesto di realizzarne uno con il manico in legno d’ulivo, proprio in omaggio alla nostra terra. Con i pescatori, quindi, si viene a creare un rapporto speciale. Condividendo la stessa passione si finisce con l’entrare in grande confidenza”.

La parola “passione” ritorna spesso nel discorso di Ivan che sottolinea come “l’apprezzamento dei clienti, che mi descrivono le loro sensazioni dopo la prima battuta di pesca con il loro fucile in legno, è il vero compenso per un produttore e vale più di qualsiasi guadagno materiale”.

Il Salento, poi, con i suoi tanti chilometri di costa accessibile e con il suo mare che non si presenta sempre torbido e mosso, come l’Adriatico o il Tirreno nel tratto laziale, ospita da qualche anno i campionati nazionali di pesca in apnea e il numero degli appassionati va progressivamente aumentando. “I campionati per società sono stati fatti a Casalabate, mentre gli Assoluti a Santa Maria di Leuca. A differenza delle altre location, il Salento permette di vivere le due dimensioni: quella del mare e quella della terra. Potendo, infatti, pescare dalla riva senza l’ausilio del gommone fa sì che si possa godere anche della bellezza delle nostre coste”.

C’è una consapevolezza che pervade la nostra conversazione e che, alla fine, viene fuori. “Faccio questa attività perché sono nato qui. Forse se fossi nato a Milano, farei il tassista. Secondo me, il mezzo per esprimere meglio quello che hai dentro lo trovi rapportandoti con il luogo in cui vivi”. In questo senso, per Ivan, la chiave di tutto è stata il suo rapporto con il mare vissuto come un “mezzo mistico per ricercare se stessi in una direzione introspettiva”.

“Immergersi in apnea – spiega – è come ritrovare la condizione del bambino che nel ventre materno nuota nel liquido amniotico”.

L’ispirazione per costruire la sua attività, in ultima analisi, è venuta proprio dalla sua terra che definisce “semplice e vera”. La storia di Ivan va ad aggiungere un’ulteriore testimonianza a favore della tesi di chi potrebbe andarsene via ma sceglie di restare. E con un po’ di fantasia, s’inventa un mestiere guardandosi intorno e finisce col lavorare divertendosi. È una delle magie di questo Salento pieno di talenti nascosti.

Francesco Libetta… la classe pianistica

Molto volentieri pubblichiamo un breve ma significativo profilo di un amico, un grande pianista di cui il Salento può sentirsi fiero, che non poteva mancare nei nostri albums. Riprendiamo buona parte delle notizie da Wikipedia e dal suo sito http://www.libetta.it, ringraziando Francesco per averci consentito di riprodurre alcune delle foto personali.

 

Francesco Libetta (Galatone, 16 ottobre 1968 è un pianista, compositore e direttore d’orchestra italiano.

La sua formazione artistica si è sviluppata soprattutto in Francia e in Russia. Ha studiato pianoforte con Vittoria De Donno a Lecce, composizione con Gino Marinuzzi a Roma e Jacques Castérède a Parigi. Dopo essersi imposto all’attenzione internazionale nel 2000 al Miami International Piano Festival of Discovery, è stato invitato in stagioni concertistiche negli Stati Uniti, a Londra, Parigi, Stoccolma, Oslo, Barcellona, Hong Kong, Tokyo e Osaka. Si esibisce in alcune delle più importanti istituzioni musicali, quali il Teatro alla Scala di Milano – sia da solista che in quartetto con il Trio d’archi della Scala – e la Carnegie Hall di New York.

Come direttore d’orchestra ha collaborato con I Filarmonici di Verona, la Nuova Orchestra Scarlatti di Napoli, l’orchestra del Teatro Nazionale di Tirana.

Ha eseguito registrazioni (pubblicate anche negli Stati Uniti) delle Variazioni Diabelli di Beethoven, le trascrizioni di Liszt delle opere wagneriane, Mozart, brani di Debussy, Brahms, Ravel e Chopin, numerose opere di Schumann, l’integrale della musica per tastiera di G. F. Händel.

Ha eseguito le 32 sonate di Beethoven per pianoforte (le cui registrazioni sono disponibili in formato .mp3 su internet), l’integrale pianistica di Chopin e la “prima assoluta” (1990) dei 53 Studi di Leopold Godowsky sugli Studi di Chopin.

Il regista Bruno Monsaingeon ha dedicato un filmato, premiato con il Diapason d’Or e lo CHOC – Le Monde de la Musique, al concerto da lui eseguito al Festival pianistico di Roque d’Anthéron.

Insegna “Musica da Camera” presso il Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce.

Nel 2005 appare nel film “Musikanten” di Franco Battiato.

Con Eugenia Leon, a Città del Messico

Nel 2009 è stata prodotta la sua opera musicale “Ottocento”, scritta in collaborazione con il coreografo e regista Fredy Franzutti (Otranto – Agosto 2009. Ripresa a Roma, Auditorium di via della Conciliazione – Gennaio 2010). Viene messa in scena la storia dell’assedio subito da Otranto nel 1480.

Nel 2010 la casa discografica statunitense Marston lo include in una antologia di interpreti chopiniani storici, che a partire da Pabst include de Pachmann, Friedman, Paderewski, Rubinstein, Lipatti, Bartok, etc., e un unico altro italiano: Busoni.

È direttore artistico del “Miami International Piano Festival in Lecce” ed è fondatore e presidente dell’Associazione Nireo che ha realizzato e messo in commercio la serie delle registrazioni integrali di Tito Schipa (un album di 34 compact disc).

Prossimi eventi

Filmographie

  • Les Pianos de la Nuit – Récital à La Roque d’Anthéron 2002 (réalisateur : Bruno Monsaingeon)

Strauss, Liszt, Debussy, Cajkovskij, Ligeti, Hummel, Alkan, Saint-Saëns, Chopin-Godowsky, Delibes – DVD NAIVE 2003 – DR 2101

  • Libetta à Lecce, Récital Beethoven, Delibes, Chaminade, Schubert-Godowsky, Ravel, Chopin, Brahms, Debussy, Saint-Saëns/Godowsky – DVD VAI 2002 – 4225
  • Camille Saint-Saëns, Claude Debussy, Leo Delibes (+ Berezowsky, Lugansky, Kocsis, etc) – DVD Ideale Audience International – MIRARE 2002
  • Master of the keyboard – Miami International Piano Festival

(Godowsky: Igniis Fatuus; Saint-Saens: Étude en forme de valse Op. 52 n. 6; Schubert/Strauss: Kuppelwieser Walzer) VAI – VHS 69230 (2001)

Discographie

  • Libetta Plays Beethoven (Variations Diabelli, Variations Op. 34) VAI (2003) – AUDIO VAIA 1208
  • Piano duos – Mozart, Libetta, Rimsky-Korsakov/Libetta (avec Pietro De Maria); Liszt (avec Kemal Gekic); Rachmaninov (avec Ilya Itin) VAI (2003) – AUDIO VAIA 1212
  • Masters of the Keyboard Vol. 2 (+ A. Neiman, N. Angelich, D. Burstein, I. Itin, P. De Maria) – Debussy (Les Collines d’Anacapri), Strauss-Risler (Till Eulenspiegel), Brahms- Cortot (Wiegenlied) VAI (2002) – AUDIO VAIA 1206
  • Respighi (Due Danze Italiane), Gesualdo (Canzone Francese), Godowsky (Deux Études d’après Chopin), Ravel (La Valse), Debussy (Estampes), Wagner/Liszt (O du mein holder Abendstern), Gounod/Liszt (Valse de “Faust”), Saint-Saens (Étude en forme de Valse), etc. VAI (2001) – VAIA 1196
  • Alkan (Grande Sonate Op. 33, 1er mvt), etc. (+ autres) – MPF (2000) – (2 CD) Danacord (2000) – DANACOCD 559

Godard (Mazurka n. 4 Op. 103) (+ autres)

  • Eisler (Die Mutter) – avec E. Arciuli, D. Fasolis, RTSI Choir. Chandos (2000) – CHAN 9820
  • Liszt – Intégrale des transcriptions d’opéras de Wagner – Agorà (1999) – AG 175.2 (2CD)
  • Platti (Sonate XIII-XVIII) – Agorà – AG 168.1
  • Chopin (Deux Nocturnes Op.27, Scherzo Op. 31, Études Op. 10 n° 3,5,10,12 Études Op. 25 n° 2,8,9,12, Valzer Op. 34 n. 2, Impromptu Op. 66, Polacca Op. 53) – AIG (1998) – AIG 1097
  • Libetta (Le candide), Monpou (Cancion VI), Wagner (Brautlied aus Lohengrin) – Eventyr (1998) – ED 180481202
  • Liszt (Transcriptions d’opéras italiens et français : Rigoletto, La muette de Portici, Guglielmo Tell, Roberto le Diable, La Sonnambula, Faust) – Agorà (1997) – AG 115.1
  • Schubert (Moment musical, Kuperwieser Waltzer), Mendelssohn (Romances sans paroles Op. 62 n° 6, Op. 67 n° 4), Beethoven (Sonate Op. 78), Mozart (Adagio KV 617a), Hummel (Rondo favori Op. 11), Raff (La Fileuse), etc. – Eventyr (1995) – LC 01
  • Ligeti (Études, Premier Livre I-V) – Promusica Norway (1992) – PCC 9031
  • Sinding (Sérénades Op. 33 n. 4) Cleve (Étude Op. 17 n. 2) – Promusica Norway (1992) – PCC 9030.

Repertorio

Repertorio da solista

I. Albeniz (1860-1909) Seguidillas Op. 232 n. 5; Iberia, terzo quaderno

F. Alfano (1875-1954) Se taci… – Tr. P. Mijic

Ch. Vn. Alkan (1813-1888) Due Concerti da camera Op. 10; Sonata Op. 35; Allegretto alla Barbaresca Op. 39 n. 10; Salterelle; Grande Sonate Op. 33; etc.

M. A. Balakirev (1837-1910) Islamey; Sonata

L. van Beethoven (1771-1827) Sei variazioni sopra un tema originale Op. 34; 32 Sonate; Variazioni su un tema di Diabelli.

P. Boulez (1925) Notation

J. Brahms (1833-1897) Variazioni su un tema di Paganini; Danze ungheresi n. 1, 2, 5, 6, 7, 9, 10, 11

H. von Bülow (1830-1894) – D. Scarlatti (1685-1757) Siciliana

S. Cafaro Swing piece

G. Cambissa (1921) Tre schizzi

A. Casella (1883-1947) Toccata; Studio Op. 72 n. 1 – Per le terze maggiori

J. Castérède La Course du soleil, quatre études de concert

C. Chaminade (1857-1944) Les Sylvains

A. Chasins (1903-1987) Parafrasi su due temi dal’opera Shvanda di J. Weinberger (1896-1967)

F. F. Chopin (1810-1849) Integrale delle opere per pianoforte

M. Clementi (1752-1832) Sonata Op. 47 n. 2; Sonata Op. 40 n.2; Sonata Op. 26 n. 3

H. Cleve (1879-1951) Etude op.17 n. 2

K. Czerny Studi op. 740

F. D’Avalos Composizioni per pianoforte

A. C. Debussy (1862-1918) Estampes; L’isle joyeuse; La plus que lente; Elegie; etc.

L. Delibes (1836-1891) Pizzicato Polka from “Sylvia”

A. Dvorák (1841-1904) Humoresken Op 101 n. 6 e 7; Walzer Op. 54 n. 1 e 4

N. Fago (1676-1745) Toccata

M. de Falla (1876-1946) Tre danze da El Sombrero des tres picos

G. Fauré (1845-1924) Nocturne n. 6, Nocturne n. 13 (Op. 119); Improvviso n. 2, n. 3; Ballata

I. Friedman (1882-1948) Frühlingsstimmen, Walzer von J. Strauss (1825-1899); O schöner Mäi, Walzer von J. Strauss; Tabatière à musique Op. 33 n. 3; Danza viennese n. 1 di E. Gärtner

C. Gesualdo Principe di Venosa (1560-1613) Canzon francese

A. E. Ginastera (1916-1983) Suite de danzas criollas

B. L. P. Godard (1849-1895) Quarta mazurka Op. 103

L. Godowsky (1870-1938) Studien über die Etüden von F. Chopin (1810-1849); Valses de Chopin; Valzer von J. Strauss (1825-1899)

L. M. Gottskalk (1829-1869) Tournament Galop

E. Granados y Campiña (1867-1916) Quiejas ò la maja y el ruiseñor (da Goyescas)

E. H. Grieg (1843-1907) Rötnamsknut

A. von Henselt (1814-1889) Si oiseau j’étais, Studio Op. 2 n. 6

A. Honneger (1892-1955) 7 Pezzi brevi

J. N. Hummel (1778-1837) Rondo favori Op. 11; Concerto di W. A. Mozart K 482

L. Janacek (1854-1928) “1-X-1905” (Sonata) Il presentimento, La morte

L. Leo (1694-1744)Canzone a dispetto da “Amor vuol Sofferenza” – tr. F. Libetta

G. Ligeti (1923) Etudes: I-Désordre; II-Cordes vides; III-Touches bloquées; IV-Fanfares; V-Arc-en-ciel; VI-Automne à Varsave; XIII-L’escalier du Diable

F. Liszt (1811-1886) Rapsodia ungherese n. 16 “A. Munkàcsy”; n. 6; n. 2; Nuages gris; Parafrasi sul Rigoletto [G. Verdi (1813-1901)]; Au bord d’une source; Feux Follets, Étude d’exécution transcendante; Via Crucis: Station IV-Jesus begegnet seiner heiligen Mutter; Vallée d’Obermann; Mephisto-Walzer; Valse-Impromptu; Valse de l’opéra Faust [C. Gounod (1818-1893)]; Reminiscences de Robert le diable – Valse Infernale [J. L. Meyer Beer (1791-1864)]; Overture de l’Opéra Guglielmo Tell [G. Rossini (1792-1868)]; Grosse Concert-Fantaisie aus der Oper Sonnambula [V. Bellini (1801-1835)]; Reminiscences de Lucia de Lammermoor – Fantaisie dramatique [G. Donizetti (1797-1848)]; Simon Boccanegra – Oper von G. Verdi. Concert-Paraphrase; Tarantella di bravura su temi da La Muette de Portici [D. F. E. Auber (1782-1871)]; Sonata; Totentanz; Integrale delle trascrizioni da Opere di R. Wagner (1813-1883)

S. Ljapunow (1859-1924) Studio Op. 11 n. 2 (Rondò des fantòmes); n. 10

A. Marescotti (1902-199.) Fantasque

G. Marinuzzi (1920-1996) Tre preludi (1, 9, 11)

J. L. F. Mendelssohn-Bartholdy (1809-1847) Variation sérieuses Op. 54; Romanze senza parole: Op. 38 n. 6 (Duetto); Op. 53 n. 2; Op, 62 n. 6; Op 67 n. 4

S. Mercadante (1795-1870) La serenata del Marinaro – tr. F. Liszt

O. Messiaen (1908-1992) Regard de l’Esprit de joie; Regard de l’Eglise d’ amour; Le baiser de l’enfant Jesus

M. Moszkowsky (1854-1925) Serenata; La jongleuse; Caprice Espagnol

W. A. Mozart (1756-1791) Sei variazioni in Fa magg. K 416c su tema da “I filosofi immaginari”di G. Paisiello; Sonata K. 311; Giga KV 574; Adagio KV 617a; Minuetto KV 355; Variationi in Fa magg. K 398; etc.

M. P. Mussorgsky (1839-1881) Hopak da “La Fiera di Sorótschinzy” (Tr. S. Rachmaninov); Quadri di un’esposizione.

F. Nietzsche (1844-1900) Unserer Altvordern eingedenk (zwei polnische Tänze): Mazurka – Aus der Czarda; Hymnus auf die Freundschaft Fassung für Klavier zu zwei Händen

J. Pachelbel (1653-1706) Aria variata

G. Paisiello (1740-1816) Inno

I. Pizzetti (1880-1968) La Pisanella, Musique de scène, préludes, choeurs et danses pour le drame de Gabriele D’Annunzio Trascriptions de concert par Mario Castelnuovo-Tedesco L’Estampie Royale; La “Danza dello Sparviero” (La danse de Pauvreté et de Parfait Amour); Le quai du port de Famagouste; Per “La Pisanella” di Gabriele D’Annunzio Musica di Ildebrando Pizzeti da Parma (3191) Preludio dell’Atto III (Il castello della Regina spietata); Canti di ricordanza, Variazioni su un tema del Fra Gherardo

G. B. Platti (1700-1763) Sonate XIII, XIV, XV, XVI, XVII, XVIII

S. Rachmaninov (1873-1943) Melodia Op. 3 n. 3; Etudes-Tableaux Op. 39 n. 5 e 9

J. J. Raff (1822-1882) La Polka de la Reine (Caprice); La Fileuse

M. Ravel (1875-1935) Miroirs; Jeux d’eau; Toccata; La Valse; Valses nobles et sentimentales

O. Respighi (1879-1936) V. Galilei (1520-1591): Gagliarda; Ignoto (fine Sec. XVI) Siciliana; Valse caressante; Tre preludi sopra melodie gregoriane

A. G. Rubinstein (1829-1894) Studio in Do Maggiore; Melodia; Valse-Caprice

C. Saint-Saëns (1835-1921) Etude en forme de valse Op. 53 n. 6; Il Cigno (L. Godowsky)

E. Satie (1866-1925) Sports et divertissements; etc.

D. Scarlatti (1685-1757) Sonata in Re K 96, etc.

A. Schönberg (1874-1951) Sechs kleine klavierstüke Op 19

F. Schubert (1797-1828) Wanderer-Phantasie; Sonata D 537; Sonata D 850

A. Schulz-Evler (1852-1905) Arabesken über Themen des Walzers “An der schönen blauen Donau”, von Johann Strauss (1825-1899)

R. Schumann (1810-1856) Studi sinfonici Op.13; Variazioni postume dall’Op. 13; Fantasia Op. 17; Gesänge der Frühe Op. 133; Papillons Op. 2

A. Scriabine (1872-1915) Sonata n. 4 Op 30; Poemi Op. 32; Studio Op 40 n.5

C. Sinding (1856-1941) Serenade

B. Smetana (1824-1884) Polka “Narodni Besede”1880; Danze boeme (1 – Furiant, 2 – Slepicka, 5 – Cibulicka, 8 – Obkrocak, 9 – Sousedska); Rêves n.6 (La fête des paysans bohemiens)

Igor Strawinski (1882-1971) Serenata

G. M. Trabaci (1575c.-1647) Gagliarda II

P. J. Tchajkowsky (1840-1893) Le Stagioni; Polonaise da “Eugene Onegin” (tr. F. Liszt)

R. Wagner (1813-1883) Sonata in Si b Maggiore; Integrale delle trascrizioni da Opere (Liszt); Albumblatt – “Lied ohne Worte”; Albumblatt für Frau Betty Schott; Widmungsblatt – Palermo 25 Dez ’81

C. M. von Weber (1786-1826) Invitation à la Valse Op. 65

Repertorio con orchestra

Ch. Vn. Alkan (1813-1888) Due Concerti da camera Op. 10

L. van Beethoven (1771-1827) Concerti n. 1, n. 5

J. Brahms (1833-1897) Concerto n. 1, n. 2

F. F. Chopin (1810-1849) Concerto n. 2

F. D’Avalos Idillio per pianoforte e archi

G. Fauré (1845-1924) Ballata

E. H. Grieg (1843-1907) Concerto

F. J. Haydn Concerto in Sol magg. per pianoforte

F. Liszt (1811-1886) Fantasia su temi popolari ungheresi; Concerto n. 2

J. Massenet (1842-1912) Concerto

J. L. F. Mendelssohn-Bartholdy (1809-1847) Concerti n. 1 e 2

W. A. Mozart (1756-1791) Concerti K. 467, K. 482, K. 488, K. 595

F. Oppo (1935) Concerto

G. Paisiello (1740-1816) Concerto per pianoforte in Sol min. n. 4

I. Pizzetti (1880-1968) Canti della stagione alta

S. Rachmaninov (1873-1943) Concerti n. 1, n. 3, n. 4

C. Saint-Saëns (1835-1921) Wedding-cake, Concerto n. 5

A. Scarlatti (1660-1725) Concerto in La magg. n. 2

R. Schumann (1810-1856) Concerto Op. 54, Introduzione e Allegro Op. 92, Allegro da concerto Op. 134

A. Scriabine (1872-1915) Concerto

P. J. Tchajkowsky (1840-1893) Concerto n. 1

Villa Scrasceta a Nardò, una pregevole testimonianza di architettura tardo-barocca e di dimora signorile

di Fabio Fiorito e Maria Vittoria Mastrangelo

Lo Scrasceta in una foto di circa vent’anni fa

Di villa Scrasceta[1] a Nardò diversi testi hanno già ampiamente trattato.

E’ di fatto un monumento  tutelato dalla Soprintendenza di Puglia e soggetto a vincolo con D.M. del 17/09/1981, ai sensi della Legge 1089/1939, “in quanto costituisce una pregevole testimonianza di architettura tardo-barocca e di dimora signorile legata all’attività agricola ed alle strutture socio-economiche dell’area salentina nei secoli XVIII – XIX”[2].

Al di là della doverosa imposizione del vincolo, la villa, oggi abbandonata, resta un esempio schietto di residenza settecentesca con caratteristiche e peculiarità davvero notevoli.

Il feudo detto Strageta è già nominato nei documenti tardo-medioevali[3]; vigneti in località Scrageta, sono riportati nel XVI secolo di proprietà della chiesa della Santa Croce (o del Salvatore, oggi profanata); altri risultavano di proprietà della chiesa di San Giorgio dei Greci (oggi distrutta) nel  1591; ed ancora nel 1637 sempre in località Scrageta risultava un oliveto di diciassette alberi proprietà della chiesa di santa Lucia[4].

Sulla base di tanti antichi documenti possiamo quindi asserire che la località Scrasceta sia sempre stata, così come del resto tramanda la tradizione locale, un’area molto fertile e ben coltivata.

La zona è infatti particolarmente favorevole alle colture, soprattutto vitivinicole: a pochi chilometri dal paese, in direzione ovest, attraversata da un’antichissima strada che collegava Gallipoli a Taranto, protetta dal vento di sud-ovest dall’altura di Porto Selvaggio, è da sempre coltivata prevalentemente a vigneto.

Come ben spiega Antonio Costantini, alla fine del Settecento, cessato oramai il pericolo delle incursioni saracene e divenuto di moda passare la stagione estiva nelle residenze rurali, la ricca aristocrazia salentina costruì diverse ville nelle tenute più fertili di campagna, inizialmente ben separate dall’abitazione dei coloni, con caratteristiche lussuose, evidenziabili da uno studio attento delle planimetrie; solo in seguito, all’inizio del XIX secolo, la villa si trasforma in “casino”, in cui la residenza del padrone viene realizzata al piano superiore dell’edificio, deputando l’uso di quello inferiore alle attività produttive ed abitative del contado. Unico punto d’incontro restava inequivocabilmente la cappella, quasi sempre presente, dove la domenica si celebrava la messa: “…in queste costruzioni già si avverte quel senso di distacco tra casa patronale e fabbricato della masseria, un distacco che è anche la conferma di quella mentalità che nel Mezzogiorno  d’Italia non è mai venuta meno e che ha determinato l’atavica contraddizione tra città e campagna”[5].

La villa prima dell’asportazione del balcone, in una foto di circa trent’anni fa (archivio privato M. Gaballo)

Così infatti si presenta villa Scrasceta: un ingresso elegante, sulla strada, ed il famoso viale incorniciato da una balaustra che sorregge “curiose statue in tufo di uomini a metà busto in atteggiamenti buffi: un portabandiera, suonatori di strumenti musicali: trombone chitarra mandolino, tamburo, clarinetto; altri con una botte sulle spalle, con un fucile a tracolla, con una fetta di melone in mano, con un uccello svolazzante nella mano elevata, con un bicchiere in una mano ed un orciolo nell’altro, con una ruota tra le mani e davanti al petto,  e in vari modi ancora”[6].

rilievo Fabio Fiorito

Al piano superiore, “l’elemento musicale era fortemente rafforzato dalla presenza sul prospetto principale di una loggia con balaustra-cantoria raffigurante sette piccoli putti (alternati tra musici e danzatori)”[7]. Il viale termina in un’esedra davanti all’ingresso dell’abitazione ed un elegante salone passante fa trasparire al di là la splendida trozza – il pozzo barocco su cui è riportata la data 1746 – ed poi ancora il giardino, di impianto perfettamente simmetrico e studiatissimo. In questo contesto, l’abitazione del colono, con le stalle e gli altri locali restano “nascosti” sulla sinistra dell’ingresso alla tenuta, rasenti la strada, mentre la cappella, costruita dai copertinesi Ignazio Vedesca e Angelo Preite nel 1778[8] e dedicata alla Beata Vergine Immacolata, è posta lateralmente, quasi un incidente sul lato destro dell’esedra punto di raccordo tra la villa ed il viale d’accesso.

rilievo Fabio Fiorito

Dai documenti conservati nell’archivio vescovile di Nardò sappiamo che una casa a volta con due palmenti per vendemmiare e vigne contigue “tutte poste in feudo imperiale in luogo detto Scrasceta”[9] fu venduta nel 1729 da Andrea Pesciulli al seminario vescovile. Con l’approvazione del vescovo  Francesco Carafa, nel 1748 l’economo del seminario vendette la tenuta a don Saverio Giaccari che la cedette l’anno successivo al barone Francesco Personè. La famiglia Personè ne conservò la proprietà fino al secondo decennio del XX secolo ma, mutate le mode e le condizioni storiche del territorio, ben presto la villa venne di fatto abbandonata: “Per molti proprietari terrieri la campagna continuava ad essere intesa soltanto come luogo di villeggiatura e non come fonte d’investimento”[10]. Il tempo e l’incuria fecero il resto: la chiesetta fu profanata, le buffe statue del viale e finanche la preziosa balaustra in leccese della sala al piano superiore, rubate.

Non sappiamo con esattezza quale degli eredi Personè trasformò il vecchio casino rurale nell’elegante villa giunta sino a noi. Probabilmente si trattò di Giuseppe, fratello di Francesco, morto nel 1786[11].

vista dal viale, prima dell’abbattimento dei “pupi”

Poiché nei documenti che attestano i passaggi di proprietà l’abitazione del colono, la cappella ed il giardino non vengono mai menzionati[12], possiamo affermare – anche in base ai numerosi reperti individuati – che i due palmenti venduti nel 1729 da Andrea Pesciulli coincidessero con parte dei locali adiacenti la strada; mentre l’abitazione voltata, menzionata nello stesso documento, sembra individuabile nella parte dei locali dell’attuale villa posti sul retro del lato est, che appaiono più antichi  del resto dell’edificio e asimmetrici rispetto all’impianto generale). Tale podere vineato, con abitazione rurale e due palmenti adiacenti la strada (il cui tracciato era anticamente leggermente diverso dall’attuale), pervenuto ai Personè venne ri-progettato: Giuseppe edificò la villa, inglobando l’antica abitazione,  e mascherandone la parte anteriore con la giustapposizione della cappella che sembra aggiunta in un secondo momento e magari inizialmente destinata a stalla o rimessa (come appare da alcune alterazioni o “ripensamenti” presenti sul prospetto) affidandone la realizzazione ai copertinesi Preite e Verdesca[13].

L’incisione sulla trozza del giardino posteriore reca la data del 1746, indicando come dall’agosto di quell’anno essa emanò regolarmente acqua (probabilmente si scavò più in profondità). L’ipotesi di De Pascalis[14] , che attribuisce al pozzo un’importanza simbolica oltre che strategica, resta peraltro suggestiva e plausibile in un’epoca in cui ancora per poco l’aristocrazia poteva permettersi di ricreare strabilianti giochi d’acqua nei propri giardini.

il pozzo retrostante

Appare peraltro verosimile che Personè, appurata lì la presenza di acqua sorgiva abbia deciso di realizzare la sua “villa di delizie” in quel punto, erigendola proprio attorno al pozzo che ne diveniva così il fulcro: il raffinato disegno mistilineo dell’elegante ingresso sulla strada[15], il viale, l’ampia esedra, il salone passante e le logge decorate con stucchi ed affreschi diventavano la lussuosa cornice della splendida trozza barocca; similmente alle spalle si apriva il proscenio del giardino, con il cancello in ferro battuto perfettamente in asse[16], chiuso a suggellarne le delizie; e poi, nascosti ancora dietro, le fantasiose rampe, il pergolato rettilineo e le edicole simmetriche a cadenzarne il percorso. Uno schema planimetrico, lucido ed essenziale, ma squisitamente leggero ed elegante, che può soltanto essere scaturito da un unico puntiglioso ed organico progetto. Niente viene lasciato al caso. Anche la cappella, che sembrerebbe estranea alla primitiva stesura del progetto, viene poi ad inserirsi armoniosamente, mentre è possibile che la balaustra laterale, delimitante il piazzale ed il viale di accesso con le statue dei bizzarri musicanti, sia di qualche decennio più tarda.

particolare del prospetto

Sicuramente incompiuta sul lato ovest, l’impianto generale di villa Scrasceta appare simile a quello della vicina villa Taverna, datata da un epigrafe su prospetto nord al 1780: sono analoghi i portali barocchi al piano terra e le logge al piano superiore su entrambi i prospetti contrapposti nord e sud, con i saloni passanti alla “veneziana”; diversa invece la destinazione d’uso del piano terra che, mentre allo Scrasceta è già un elegante abitazione decorata con stucchi, affreschi ed forse anticamente anche con specchi, alla Taverna appare deputata ad un uso più pratico, con annessa l’abitazione del fattore e le stalle, restando qui l’ingresso alla villa signorile risolto da un ampio scalone che sale al piano superiore occupando parte del lato ovest dell’edificio.

Totalmente diverso è infine l’impianto del giardino,  che alla Taverna viene lasciato spontaneo (a parte l’orto concluso sul lato est) venendo impreziosito soltanto dalla splendida e famosissima recinzione barocca che a nord delimita la tenuta.

Villa Scrasceta è quindi nel Salento uno dei rari esempi settecenteschi di villa rurale con annesso un giardino di delizie espressamente progettato: oggi non siamo in grado di dire cosa vi fosse coltivato; per analogia, possiamo supporre si trattasse di agrumi, mentre il pergolato poteva venire ombreggiato da un vitigno. Tutto intorno alla tenuta si estendevano vigneti presumibilmente a perdita d’occhio; e forse le eleganti loggette del primo piano furono progettate per goderne la vista e nel contempo controllarne dall’alto i lavori di conduzione. Ma poi l’abitudine di trasferirsi a fine estate dalla residenza al mare a quella in campagna, proprio al momento della vendemmia, passò di moda – forse anche per gli eventi sconvolgenti che unificarono l’Italia. Villa Scrasceta, come molte altre in tutto il Meridione, venne trascurata, nessuno ne curò il completamento e fu infine completamente abbandonata. Così l’acquistò Pantaleo Fonte, in epoca fascista. Così è ancora oggi, silenziosa in mezzo ai vitigni scampati alle promesse della Comunità Europea, ed in attesa di un ripristino che ne racconti gli antichi splendori.

BIBLIOGRAFIA

M. Cazzato, Oltre la porta, 1997

M. Cazzato, a cura di, Paesaggi e sistemi di ville nel Salento, Lavello 2006

A. Costantini, Guida alle ville del Salento, Galatina 1993

A. Costantini, Le masserie del Salento, Lavello 1994

M. Gaballo, Nardò Sacra, Galatina 1999

B. Vetere, Città e Monastero, Galatina 1986


[1]     Il termine deriva probabilmente dall’antico nome di una locale pianta selvatica.

[2]     Relazione della Soprintendenza per i BB. AA. AA. AA. SS. della Puglia al Ministero per i BB. CC., in E. Mazzarella, a cura di M. Gaballo, Nardò Sacra, Galatina 1999, 397 nota.

[3]     Nell’inventario dei beni appartenenti al monastero di Santa Chiara in Nardò, redatto su richiesta della regina Maria D’Enghien dalla badessa Dyambra de Persona nella prima metà del XV secolo si legge”… orti due di vigne deserte in feudo Strageta”; in vedi B. Vetere, Città e Monastero, Galatina 1986, 140

[4]     E. Mazzarella, op. cit., 82, 131, 137

[5]     A. Costantini, Le masserie del Salento, Lavello 1994, 293-297

[6]     E. Mazzarella, op. cit., 399

[7]     G. De Pascalis, Dai trattati alle tipologie del villino rurale: modelli e simbolismi dell’abitare nel paesaggio neretino, in Paesaggi e sistemi di ville nel Salento, a cura di M. Cazzato, Lavello 2006. Rubata anni fa, ad oggi non si hanno notizie della balaustra del loggiato, di cui restano solo alcune fotografie.

[8]     M. Cazzato, Oltre la porta, 1997, 19

[9]     P. Giuri, Dimore extraurbane a Nardò: le Cenate fra barocco ed eclettismo, in M. Cazzato, op. cit., 2006, 190

[10]    A. Costantini, op. cit., 291

[11]    In tal caso la Scrasceta risulterebbe edificata contemporaneamente alla vicina villa Taverna, altro splendido esempio di lussuosa abitazione rurale per la villeggiatura.

[12]    P. Giuri, op. cit., 192

[13]    “Sotto questo aspetto la “casina”, così come la “villa”, denota un certo distacco dalle attività agrofondiarie e dall’ambiente rurale […]con soluzioni planimetriche differenti dal tipo “casino”, in quanto generalmente l’abitazione del contadino è disposta in modo da non “disturbare” la privacy della casa patronale. In questo caso l’abitazione del proprietario, risolta, di norma, al solo piano terra e appena rialzata dal piano di campagna, espone il prospetto verso la strada principale e nasconde completamente la più modesta dimora del colono. Spesso la “casina” è una realizzazione di epoca successiva rispetto alla casa del contadino , anche se si appoggia a questa per ragioni di opportunità.” A. Costantini, Guida alle ville del Salento, Galatina 1993, 30

[14]    G. De Pascalis,  op. cit., 180

[15]    U. Gelli, Portali pozzi e cisterne: esperienze di rilievo architettonico, in M. Cazzato,op. cit., 276

[16]    “L’elegante sagoma mistilinea del portale d’ingresso, fa da ouverture al portale del giardino chiuso, il cui recinto è a sua volta impreziosito da alcune edicole.” S. Politano, Portali e recinti di ville nelle campagne salentine, in M. Cazzato, op. cit., 270

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°7.

Limoncello, un gusto superbo del Mediterraneo

di Daniela Lucaselli

“E poscia per lo ciel, di lume in lume

ho io appreso quel che s’io ridico,

a molti fia sapor di forte agrume”

Così Dante Alighieri nella Divina Commedia (Paradiso, Canto XVII, vv. 115-117) associa la sua satira aspra al “forte agrume”.

L’albero del limone fiorisce e fruttifica tutto l’anno. Il frutto d’oro, dal dolce profumo, è succoso e genuino ed è ricco di proprietà curative.

Gli si attribuisce una valenza salvifica, grazie al suo colore giallo che richiama la luce dei raggi del sole che ne favoriscono la crescita. E’ spesso associato all’essenza femminile e lunare ed è  considerato simbolo della fedeltà amorosa e della fertilità.

Il limone… tracciamo la sua storia…

L’agrume (le origini del nome derivano dal persiano لیمو Limu), scoperto allo stato spontaneo in Estremo Oriente, in particolare in India e  Cina, fu ben presto conosciuto  anche nelle civiltà mesopotamiche per le sue proprietà antisettiche, antireumatiche e tonificanti. Ritenuto sacro nei paesi islamici, veniva impiegato come antidoto contro i veleni, come astringente contro le forme dissenteriche ed emorragiche e per tenere lontano il demonio dalle case.

Gli antichi egizi lo utilizzavano per imbalsamare le mummie. I Greci lo importavano dalla Media e lo utilizzavano a scopo ornamentale, per profumare la biancheria e difenderla dalle tarme.  Teofrasto, l’allievo di Aristotele, considerato il fondatore della fitoterapia, indica, nei suoi trattati, l’impiego del limone a scopo terapeutico. Gli Ellenici coltivavano gli alberi di limone vicino agli ulivi per preservare questi ultimi da attacchi parassitari. Plinio nelle sue opere prescrisse il limone come antidoto verso diversi veleni.

Si riteneva che gli antichi Romani non conoscessero il frutto, ma nel 1951, durante gli scavi effettuati a Pompei (distrutta dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C.), venne alla luce una casa, denominata la “Casa del frutteto”, con degli affreschi alle pareti che ritraggono varie piante tra cui, appunto, il limone. Pertanto si può dedurre che il limone fosse presente in Campania nel primo secolo dopo Cristo. Si presuppone che l’imperatore Nerone ne fosse un assiduo consumatore, intimorito  dal presentimento di un suo possibile avvelenamento.

In Occidente il limone si diffuse intorno all’anno 1000 grazie agli Arabi che lo portarono in Sicilia. La prima descrizione del limone, introdotto dall’India due secoli prima, apparve infatti in scritti arabi del dodicesimo secolo.

In Europa la prima coltivazione di limoni si registra a Genova intorno alla metà del quindicesimo secolo. Nel 1494 i limoni comparvero nelle Azzorre,

Gastronomia. La lectio di Massimo: tutto sulle frattaglie

Pieter Aertsen Butcher’s Stall with the Flight into Egypt; Oil on wood panel

FRATTAGLIE, RIGAGLIE & CO.

di Massimo Vaglio

Sono sempre più le persone che sentendo parlare di frattaglie arricciano il naso. Quasi sempre si tratta di un’antipatia preconcetta, completamente scollegata  da quelle che sono le caratteristiche organolettiche e nutrizionali delle stesse; un pregiudizio che, come spesso avviene, è originato da una scarsa conoscenza dei prodotti in questione e da una certamente scarsa cultura gastronomica. Ne è riprova la circostanza che vi sono frattaglie molto apprezzate in alcune località e ignorate o comunque poco consumate in altre. Può così capitare di trovarle in vendita, a seconda dei luoghi, a prezzi infimi o molto sostenuti.

Quello delle frattaglie è comunque un argomento molto ampio con implicazioni che vanno ben oltre la gastronomia, la loro valorizzazione rappresenta un virtuoso esempio di utilizzo razionale delle risorse messeci a disposizione dalla madre terra, un dovere morale, che asseconda il principio: utilizzare tutto, per nutrire tutti.

Oltre all’animalismo in senso stretto, la motivazione che spinge molte persone a diventare vegetariane è di carattere etico, in quanto, se si considera che un ettaro di terreno coltivato a cereali produce il quintuplo delle proteine di un ettaro utilizzato per la produzione di carne.

Che i legumi producano dieci volte quelle proteine e i vegetali a foglia quindici volte le proteine per ettaro di terreni di pari dimensioni destinati alla produzione di carne, si comprende come la produzione di carne sia la principale causa dell’ingiusta distribuzione delle risorse alimentari del

La grotta dei Cervi di Badisco: considerazioni ed ipotesi sul pittogramma dello “sciamano”

Baia di Badisco

 di Elvino Politi*

La presenza umana nel Salento sin dall’età del Paleolitico Medio è testimoniata da rinvenimenti che costituiscono ad oggi una delle sezioni più importanti per uno studio compiuto della preistoria nell’Italia Meridionale. Ci riferiamo in particolar modo ai depositi di Maglie, relativi il sito di Cattie, che hanno restituito tra i pochissimi resti osteologici riferibili all’uomo neandertaliano. Qui sono stati rinvenuti altresì industrie di piccolo formato di tipo charentiano con accenni alle tecniche di Quinson.

Al sito magliese si aggiungono i depositi, riconducibili al Würm II, di Castro (Le) localizzati in Grotta Romanelli (da cui la facies omonima) e Nardò (Le) localizzati in Grotta del Cavallo in località Uluzzo (da cui la facies musteriana “uluzziana”).

Quest’ultima, che si colloca tra il Würm III e l’interstadio di Arcy, è il più antico sito italiano riferibile al Paleolitico Superiore e si compone di tre stadi rispettivamente arcaico (strato E III) medio o avanzato (strato E II-I) e recente (strato D).

gruppo di Neanderthal

L’importanza che ricoprono tali siti è dovuta non solo allo sviluppo di attività proprie, tali da distinguerle come facies autonome all’interno dello schema culturale di riferimento riscontrabili anche oltre l’orizzonte territoriale prettamente locale, ma anche al fatto che la scoperta delle

La fidanzata di Cerfignano

Resti del feudo San Giovanni Calavita (ph Maria Cretì)

di Giorgio Cretì

(Inedito)

Col solito sistema dell’ambasciatrice-ruffiana, più volte collaudato, Ippaziantonio s’era cercata una fidanzata a Cerfignano: lì conosceva diversa gente ed aveva anche dei parenti. Ma Cerfignano non era vicino come Spongano o Marittima e la strada da fare era molta di più perché c’era da fare il giro dalle Vele di Santacesarea con una bella salita che partiva dalla vora di Vitigliano. L’inizio non era stato difficile, come sempre, perché il suo bell’aspetto faceva sempre colpo sulle giovani ragazze. Aveva messo gli occhi su una brunetta che aveva visto più volte prendere acqua alla fontana del largo Cànica(1) e le aveva inviato la sua ambasciata proprio con una parente che si chiamava Tetta, cioè Concetta. Per la cronaca, quella fontanella  esiste ancora, ma le hanno cambiato posto perché veniva ripetutamente abbattuta dai parcheggiatori distratti.

L’ambasciata era stata gradita, ma la ragazza non era riuscita a farsi trovare sola in luogo appartato nemmeno una volta: tante occhiate furtive e tanti sospiri, ma nessun incontro intimo, soprattutto perché il padre di lei che era un gran lavoratore era anche uomo un po’ violento e per tale ragione anche  la madre di lei non aveva avuto il coraggio di rischiare di portarsi in casa il ragazzo.

Così Ippaziantonio andava e veniva da Cerfignano tutte volte che poteva scappare con la sua bicicletta, ma più di qualche occhiata di soppiatto non ne aveva ricavato, anche se qualche volta era riuscito ad accompagnarla fino a casa sulla via per Cocumola. E proprio in una di quelle occasioni aveva notato che vicino alla casa di lei, proprio addossato al muro, c’era un palo della luce che sembrava messo lì

Il pavimento di Otranto, mosaico-sinfonia, corale e plenario, su cui convergono l’Occidente e l’Oriente

di Florio Santini

…Qualcosa m’aveva spinto a ritirarmi ad Otranto, dopo aver vissuto, per molti anni, ai quattro angoli della Terra, quando chiedevano il perché di tale scelta, davo risposte che convincevano gli altri, non me stesso: la gente semplice, la vita non cara, il mare pulito, la quiete tra dotte memorie./ Ora, invece so. La spiegazione l’ho trovata sul pavimento della basilica-cattedrale di Otranto che, come troppi pseudo-informati professori, non conoscevo… Uno specialissimo prete, di nome Pantaleone, aveva ricordato l’epifonema di Terenzio “Penso che niente di umano mi sia estraneo”./ Entrai in chiesa, guardai per terra./ Erano i tempi delle Crociate, dei Cavalieri, delle turbe pellegrine; eppure, in quel mosaico-sinfonia, corale e plenario, convergevano l’Occidente e l’Oriente. Un emblematico disegno, intitolabile ‘Teologia della storia’, sussumeva grandi e piccole cose, bestie e fiori, artigiani e profeti, miti pagani e rivelazione cristiana. In breve, una specie di mistico fumetto sulla fenomenologia del creato. Fu così che […] inventando, a forza e furia di pietruzze e di marmo, la prima enciclopedia per immagini, vera Bibbia dei poveri, mi fece vedere, ripeto “vedere” che dovevo dimenticar subito quanto stava dietro di me, se avessi voluto progredire un po’. Forse, avrei fatto in tempo. E mi riconobbi, con gioia, nell’asino arpista del mosaico: il mosaico pavimentale del non abbastanza noto “duomo di Otranto”, costruito tra il 1080 e 1088 […] Grande era stata […] l’emozione del ritrovamento sul pavimento d’una cattedrale pugliese, quel discorso ideografico che tante volte, in scala ridotta, avevo ammirato nei tappeti da preghiera del Medio Oriente e d’Asia; grandioso, ora, il significato, lì, sul pavimento idruntino, di quei tre alberi della vita […] che attestano la singolare potenza del segno di Pantaleone. Mistico paziente aveva composto sotto quelle tre navate, tessera dietro tessera, dall’ingresso al presbitero, un gran libro che tutti, di ogni fede o civiltà, potessero leggere, presentandosi a noi, oggi, come un Teilhard de Chardin del 1163./ Mi sorpresi a pensare che l’ecumenismo fosse nato ad Otranto e che, non per caso, io vi fossi approdato da popoli lontani e diversi…

(da: Suggestioni e analogie tra il mosaico pavimentale della Basilica Cattedrale di Otranto e la Divina Commedia, pp. 107-110).

Filosofia del cacciatore

Archibald Thorburn (31 Maggio 1860 – 9 Ottobre 1935 Hascombe, Surrey)

di Armando Polito

Non mi importa minimamente se con questo mio scritto mi inimicherò qualche lettore amante dell’arte venatoria ridimensionando, magari, anche il suo giudizio positivo su qualche mio post precedente e pregiudicando inesorabilmente quello su tutti i futuri. Anzi, invito tutti i cacciatori a non cedere alla tentazione di leggermi, anche perché la prima parte potrebbe risultare indigesta anche a quello che eventualmente fosse curioso di saperne di più dal punto di vista storico.

Arte venatoria, dicevo. Su arte mi limito a dire che è dal latino arte(m), connesso con la radice ar-, la stessa di arto e di articolo, che ha in sé l’idea dominante di attaccare (sulla derivante idea di protesi tornerò dopo). Il discorso risulta più complesso per venatoria: essa è dal latino venatòria(m), dal verbo venàri=andare a caccia, da una radice vi– con la dominante idea di assalire, sopravvissuta nelle zone più disparate del mondo (riporto a mo’ di esempio, tra le infinite voci, l’antico slavo voina=guerra, voi=guerriero, vojnŭ=soldato, l’antico scandinavo veidhi=caccia) e presente anche nel latino vis=violenza.

Archibald Thorburn

Non mi meraviglio del successo senza tempo della radice che, purtroppo, è alla base della vita animale, anche se in quest’ambito sarebbe doveroso da parte degli umani tener presente il diverso esercizio della forza praticato, rispetto a noi, dalle cosiddette bestie.

La nostra intelligenza ci ha portato allo splendido risultato di fare della violenza uno strumento di spettacolo in cui la morte, naturalmente altrui, è addirittura fonte di entusiastico piacere. Il pensiero corre subito alla corrida, ma la storia è antica e lunghissima; perciò, sempre per brevità, dirò che forse non tutti sanno che tra gli spettacoli del circo nell’antica Roma un successo pari alle lotte tra gladiatori riscuotevano le venatiònes (alla lettera cacce), cioè il combattimento tra gladiatori e fiere o (e i Cristiani dell’epoca lo sperimentarono sulla loro pelle) la lotta (?) tra persone inermi e fiere (magari tenute preventivamente a digiuno).

Archibald Thorburn

Non posso, per onestà intellettuale, accomunare a queste manifestazioni il cosiddetto cannibalismo rituale o i sacrifici umani che, antichissimi (ma l’eco permane pure in certe leggende romane in cui è esaltata la figura del capo che si sacrifica perché l’esito della battaglia sia favorevole), avevano almeno uno scopo propiziatorio: questo tipo di violenza è definito “culturale”.

Ma la cultura non è qualcosa di statico o un alibi per giustificare il perpetuarsi della violenza. Se la caccia per l’uomo primitivo (e non solo) ha rappresentato per millenni l’unica forma di sostentamento, la cultura ci ha poi consentito di sostituirle, con le stesse finalità, l’allevamento. Qualcuno mi obietterà: la caccia è sostanzialmente uno sport. Ribatto che perfino alcuni illuminati scienziati sostengono che oggi la vivisezione è una pratica, oltre che crudele, anche inutile. Si ha ancora il coraggio di affermare che la caccia è uno sport quando con le armi ultramoderne dotate anche (proprio come le fotocamere e le videocamere) di stabilizzatori e puntatori laser (questo modello di fucile non è uscito? uscirà, uscirà…) pure io, che non ho mai imbracciato un’arma, sarei in breve capace di centrare un’aquila a tre km. di distanza? Si tratta di protesi veramente miracolose, altro che quelle esaltate in rete come soluzione finale del problema dell’impotenza..senza dire che l’abilità nel tiro può essere coltivata con metodi incruenti (i poligoni non sono solo figure geometriche) e non a spese, ormai, di qualche volatile d’allevamento cui l’uomo, generosissimo, ha concesso qualche attimo di libertà (i famosi “lanci”).

Archibald Thorburn

E il contatto con la natura, lo spirito d’avventura (!) dove lo mettiamo? Mi pare abbastanza evidente dove se li è messi il cacciatore odierno, che farebbe meglio a fare le sue escursioni munito solo di fotocamera.

Ma il massimo dell’ingenuità la raggiungo quando non mi rendo conto che proibire la caccia equivarrebbe a mettere in ginocchio le fabbriche di armi col conseguente lìcenziamento di schiere di operai (forse già malpagati) e di dirigenti (forse da tempo ultrapagati…).

È il solito ricatto economico che in questa dannata società obnubila le coscienze fino a stabilire, per esempio, accampando squallide e vergognose motivazioni di ricerca scientifica (!), che la caccia alle balene può continuare.

Archibald Thorburn

Unico conforto per un ingenuo e stupido come me la notizia che il tale cacciatore ha impallinato il suo collega o, letta di recente, che il cane ha sparato al proprio padrone (nella nostra presunta superiore intelligenza siamo veramente sicuri che quel cane abbia premuto accidentalmente il grilletto?).

L’anno scorso (vivo ai Masserei in quella che fino a qualche decennio fa si poteva definire campagna e che oggi si può tranquillamente considerare centro abitato con grandi spazi) ebbi un diverbio con un cacciatore che aveva sparato (non so a chi o a che cosa, dal momento che non sono rimaste nemmeno le mosche) alcuni colpi di fucile a poca distanza (meno di 50 m.) dalla mia abitazione. Sosteneva di essere a distanza regolamentare, solo che la dstanza improvvisamente si accorciò quando minacciai di telefonare ai Carabinieri; si allontanò borbottando con la coda, pardon, il fucile tra le gambe e Dio solo può dire quanto desiderai (pure io, all’occorrenza, so essere cattivo) che gli partisse un colpo…

Legge 11 febbraio 1992 n. 157 articolo 21:  È vietato a chiunque: (lettera e): l’esercizio venatorio nelle aie e nelle corti o altre pertinenze di fabbricati rurali; nelle zone comprese nel raggio di cento metri da immobili, fabbricati e stabili adibiti ad abitazione o a posto di lavoro… ; (lettera f): sparare da distanza inferiore a centocinquanta metri con uso di fucile da caccia con canna ad anima liscia, o da distanza corrispondente a meno di una volta e mezza la gittata massima in caso di uso di altre armi, in direzione di immobili, fabbricati e stabili adibiti ad abitazione o a posto di lavoro…

Archibald Thorburn

 

 

Il muto

ph Giorgio Cretì

di Giorgio Cretì

Lo chiamavano “Muto”, non perché non possedesse il dono della favella, ma perché parlava pochissimo e solo con poche perso­ne. La gente non sapeva dire da dove venis­se. Chi si ricordava di quando era arrivato, e chi lo aveva sentito parlare qualche volta, di­ceva che doveva essere di un paese in fondo al Capo, dalle parte di Gagliano. Tore Capijancu ricordava che un giorno si era presen­tato alla Petrosa, una sua cisura(1), e gli aveva chiesto se poteva fare qualche prova sopra una spianata di roccia affiorante, co­perta solo di licheni e di qualche arbusto. Si era presentato con un piccone da cava, una pala ed un sacco, dentro cui teneva poche sue cose.

Tore non aveva avuto nulla in contrario, perché proprio di quella cutara(2) non sape­va cosa fare, anzi gli aveva dato anche il per­messo di dormire nel pajaru(3) costruito al­la buona, anche se solido, che serviva da ri­paro in caso di pioggia.

Così Sante, che questo era il suo nome, aveva iniziato a spianare quella chiancara(4), partendo dalla linea che segnava il con­fine con la strada campestre. Secondo lui, lì c’era un banco di roccia buono da sfruttare per qualche anno.

Tore non ci credeva perché nessuno ave­va mai provato a saggiare la pietra in quella contrada e se ne era andato a zappare in un pezzo di terra, bonificata dalle pietre, che in autunno intendeva mettere a grano.

Sante aveva poi comincialo a tagliare, con fessure a caso, e senza misure, la roccia di superficie. Quindi con la ucca del suo pic­cone, la parte larga e corta

Maletiempu a Porto Badisco

Il faro di Punta Palascìa

testo e foto di Giorgio Cretì

 

Da Castro ad Otranto non c’erano approdi se non la caletta di Porto Miggiano che, in casi estremi, poteva servire da rifugio di fortuna. Adesso non c’è più perchè è crollato tutto.

A Santacesarea non c’erano barche e non c’erano neanche marinai, così come non c’erano barche e marinai al Porto Badisco di Uggiano. Durante la bella stagione le barche di Castro andavano agli Archi ed anche a Sant’Emiliano la mattina e tornavano a casa la sera.

Finché un certo Ponente non prese moglie a Uggiano e diede inizio ad una piccola comunità di gente di mare part time. A Porto Badisco allora non c’era nessuno, non c’era nessuna delle case che si vedono adesso. C’era soltanto quella palazzina centrale di fronte a Pippi de mesciu ‘Ndrea, subito prima della bottega che vende cozze tarantine e ricci per chi ama deliziarsi il palato con le squisite cruditès locali. Pippi era detto Balilla e faceva il commerciante; suo padre si chiamava Guerrino. Insomma, questo Pippi, avvicinò al mare anche gente di terra che aveva sempre esercitato altri mestieri: uomini che pur rimanendo furesi(1) e zoccaturi(2), divennero anche pescatori.

Erano anni di miseria, quelli, e conseguentemente di fame. La gente la mattina usciva di casa con il pane per la giornata e spesso lo guardava e si voltava dall’altra parte per non cadere nella tentazione di mangiarlo subito. Parte degi uomini di Castro si imbarcavano sui pescherecci calabresi dello Jonio o su quelli di Monopoli, Molfetta, di Bari e riuscivano a guadagnare fino a cinque lire al giorno; le loro donne andavano alla masseria Girifalco di Ginosa, per la stagione del tabacco; i bambini rimanevano a casa di qualche parente. Gli uomini che che non andavano via si arrangiavano come potevano: con barche a quattro remi uscivano fino a metà del canale con i loro conzi(3) di sei-settecento ami, che calavano a cento, centoventi passi di profondità, e quasi sempre usciva loro la giornata, ma a volte tornavano a riva a debito, senza guadagnare neanche una lira.

Era l’inizio della Primavera e una di queste barche con quattro uomini a bordo che pescava non lontano dal porto di Otranto, aveva salpato le reti  gettate la sera prima ed aveva portato a riva quasi un quintale di spicaluri(4)

Punta Palascìa

Non era stata una pesca miracolosa, ma visto che allora si camminava per la fame, nessuno si era lamentato. Il giorno successivo, però,  non avevano preso niente e tutti d’acccordo decisero di tornare a Castro. Il cielo era coperto, nero come la fuliggine, ma il mare era piatto, calmo come una tavola. Il più anziano dei quattro, però, cominciò a dire che quel tempo non gli

L’arte di intrecciare il giunco ad Acquarica del Capo, patria delle sporte

Fische, fiscareddhe, sporte e spurteddhe: ovvero l’arte di intrecciare il giunco (paleddhu) ad Acquarica del Capo

di Tommaso Coletta

ph Paolo Giuri

Cogliendo l’occasione dell’articolo di Armando Polito “N’era nna fiata la fesca… ecc.” e incoraggiato dall’appassionato invito di Marcello Gaballo, proverò a far venire a galla i miei ricordi d’infanzia per raccontare qualcosa sulla lavorazione del giunco e come questa caratterizzava la vita stessa del mio paese Acquarica del Capo, patria delle sporte.

Durante la mia infanzia, primi anni ’60, in quasi tutte le case del mio paese c’era la presenza di una donna giovane o anziana, mamma o nonna, che seduta per terra, su una vecchia coperta o un sacco di iuta, intrecciava lu paleddhu per realizzare una fisca, una sporta, un cestino. Gran parte delle donne acquaricesi infatti, oltre a seguire le faccende di casa, contribuivano all’economia domestica attraverso la produzione e la vendita di vari manufatti di paleddhu.

Si rimaneva incantati a seguire quelle dita che così velocemente spostavano i fili di paleddhu a sinistra e a destra, sopra e sotto intrecciandoli strettamente fra loro. Via via che si andava avanti ad intrecciare, i fili di paleddhu che si stavano lavorando diventavano sempre più corti e quindi occorreva inserirne degli altri, in maniera da costituire un continuum, un filo senza fine. Per far questo, la mano scartava di lato, prendeva un nuovo filo di paleddhu dal mazzetto posto a fianco lungo le gambe e veniva inserito nelle maglie in lavorazione e così si procedeva fino alla fine.

La tipologia di intreccio non era sempre la medesima ma variava, oltre che in funzione del tipo di prodotto che si voleva realizzare, anche in base allo stadio di lavorazione: il fondo, i fianchi, l’orlo finale. Inoltre, e questo succedeva specialmente per i prodotti di fattura più fine, non destinati all’uso quotidiano, ognuna di queste artiste, in base alla propria fantasia e maestria, creava l’articolo ricorrendo alla combinazione di diversi stili di intreccio, oppure inserendo dei fili di paleddhu colorati (di cui dirò dopo) e, a volte, impreziosendo il prodotto finale con nastri e passamanerie varie.

Terminata la fase di lavorazione che definiremo “grezza”, giusto per

La cicerchia, antico e rustico legume

La circerchia, antico e rustico legume

di Massimo Vaglio

La cicerchia (Lathyrus sathivus L.), localmente appellata tolica, è un’antica e rustica leguminosa da granella, tradizionalmente coltivata e consumata nel Salento da tempo immemorabile. Tanto la pianta, quanto la granella, hanno conformazioni molto particolari e inconfondibili. La pianta è caratterizzata da steli deboli a sezione quadrangolare; il fogliame, molto tenue e delicato è composto da foglioline oblunghe accoppiate; presenta sottili viticci e fiori isolati generalmente di colore bianco (più raramente anche rosa o bluastro).

Il baccello, è breve e ospita pochi semi all’incirca della grandezza dei grani di pisello, ma più schiacciati che nella forma ricordano tipicamente quella dei molari, ragion per cui, in alcuni paesi la cicerchia viene curiosamente appellata “tòlica cangàle” o “tòlica vangàle”  dove “cangàle”e “vangàle” stanno appunto a significare dente molare.

Le varietà di cicerchia si distinguono generalmente a seconda della forma e della colorazione dei semi che possono essere piatti o subrotondi con colorazione che varia dal grigio al color sabbia sino al bianco sporco, sovente, alcuni presentano strie e screziature. Le esigenze climatiche della cicerchia sono molto simili a quelle del cece, ma più di questo si adatta ai terreni poveri, marginali, asciutti e pietrosi. La coltura in Italia ha una diffusione limitatissima in quanto, in molte regioni è sconosciuta e in altre è distribuita solo in limitati comprensori.

I tempi di semina e di raccolta coincidono sostanzialmente con quelli del cece (febbraio – giugno). La cicerchia va preferibilmente coltivata in terreni ben esposti ai venti dominanti non interessati abitualmente dalle nebbie primaverili che limiterebbero drasticamente la produzione. È una coltura che non richiede molte cure, non ha infatti particolari esigenze nutrizionali e non richiede concimazioni, normalmente, l’unica cura attribuitale è una sarchiatura, per il controllo delle erbe infestanti. E’ però opportuno praticare la rotazione della coltura, facendola preferibilmente seguire a colture ortive, in modo che si avvantaggi della forza vecchia, ossia, dei residui di concimazioni delle stesse.

Si semina in febbraio – marzo a mano o con seminatrice meccanica. Per la semina eseguita a mano si utilizzano 20-25 kg/ha di semi che vengono interrati in solchi eseguiti in filari distanti tra loro 40-50 cm, il terreno viene subito leggermente compresso, onde favorire il contatto dei semi con il terreno agevolandone la germinazione e quindi una rapida emergenza delle piantine. Sulle coltivazioni di cicerchia, normalmente, non viene eseguito alcun trattamento fitosanitario, in quanto, sono colture non soggetta a particolari malattie ed infestazioni.

In giugno-luglio, quando i baccelli di cicerchia sono semi appassiti, si procede, in base all’estensione aziendale, allo sfalcio manuale o meccanico delle piante. Le piante sfalciate vengono raccolte in mucchi o in andana e si lasciano esposte al sole per qualche giorno, affinché i baccelli si essicchino del tutto e sia più agevole estrarne la granella. Questa viene estratta dai baccelli, manualmente, a mezzo battitura delle piante secche e ventilatura delle paglie, quando si tratta di piccole quantità, oppure, mediante macchine trebbiatrici. Essendo la granella facilmente attaccata dal tonchio, viene opportunamente sottoposta ad un semplice processo termico di disinfestazione (alte temperature per pochi minuti o basse temperatura per 4-5 giorni). Le cicerchie, così trattate sono pronte per la cottura e tenute in luoghi freschi ed asciutti, possono essere conservate in contenitori ermetici anche per più di 2 anni.

Il legume, ricco in proteine e buona fonte di ferro, ha invece un modesto contenuto di grassi e contiene un alcaloide, la latirina, che può causare disturbi nervosi anche gravi, indicati come latirismo. E’ da rilevare che, i pur sempre da tenere in conto problemi da latirismo,sono praticamente sconosciuti in questa subregione. Sarà, per la scarsa presenza d’alcaloidi nocivi negli ecotipi locali; sarà (ipotesi più probabile), che la popolazione salentina si è in secoli d’incauta utilizzazione selezionata divenendone immune (come analogamente verificatosi per quell’altra gravissima intolleranza che è il favismo); è un dato che oggi la sua popolazione risulta quasi praticamente immune a questo problema.

Nel Salento, la gustosa cicerchia, seppure apprezzata per le sue valide qualità organolettiche, è pur sempre considerata una leguminosa d’importanza secondaria rispetto alle altre leguminose tradizionalmente qui coltivate, che sono state sempre ritenute più nutrienti e digeribili. Non a caso, sino ad un recente passato, nella cultura contadina si soleva dileggiare una persona ritenuta eccessivamente di bocca buona, oppure, che non riusciva ad apprezzare un cibo raffinato, appellandolo come mangiatore di tolica,ossia di cicerchia, con frasi del tipo: a casa di quello, tolica si mangia; oppure: quello, solo di tolica ne può capire… inoltre, un ironico proverbio recita: chi ha debiti pianta tolica, come per dire, che continuerà a non combinare nulla di buono. Ciononostante, la cicerchia, è un prodotto cui i salentini si sentono identitariamente più legati, tanto che gli emigranti o comunque coloro che per motivi di lavoro vivono fuori, non mancano di  consumarla durante le ferie e ne fanno solitamente avida incetta onde servirla, magari in qualche virtuale rimpatriata con i conterranei, come pasto evocativo della comune identità.

Tuttavia, nonostante l’esistenza, anzi, la stoica resistenza, di una solida nicchia d’affezionati consumatori, la sua produzione, è ormai ai minimi storici anche nel Salento e la sua coltivazione viene ormai effettuata solo su piccola scala, quasi relegata negli orti familiari. S’intravede però la possibilità di una sua ripresa poiché, ultimamente si stanno moltiplicando le attività di ristorazione che la propongono abitualmente nei loro menu e crescono di pari passo gli estimatori.

Nella tradizione salentina, la gustosa cicerchia viene solitamente preparata “alla pignata” ovvero cotta al fuoco di legna nella tradizionale pignatta di terra cotta, ma si annoverano anche ricette più appetitose e particolari.

Tolica alla pignata

Mondate mezzo chilo di cicerchia ispezionandola diligentemente, lavatela e mettetela a bagno per una nottata. Ponetela a cuocere, preferibilmente al fuoco di legna, in una pignatta di terra cotta con sola acqua, schiumatela, unite una piccola cipolla intera oppure un cipollotto, due foglie d’alloro, qualche pomodorino pelato e privato dei semi, un mazzetto di sedano e prezzemolo e salate. A cottura unite dell’ottimo olio di frantoio crudo, oppure dopo averlo scaldato e avervi fatto imbiondire qualche spicchio d’aglio. Infine, mescolatela, e servitela ben calda.

Tolica alla pizzicaiola

Fate imbiondire leggermente due spicchi d’aglio in un filo d’olio di frantoio, eliminateli e unite mezzo litro di passata di pomodoro oppure di pomodori pelati triturati. Unite tre-quattro acciughe dissalate, un cucchiaio di capperi sott’aceto, una presa d’origano e un pizzico di pepe. Lasciate cuocere sino a quando non vedrete affiorare l’olio in superficie. Con questo stuzzicante sughetto condite la cicerchia cotta in pignatta seguendo le indicazioni della precedente ricetta.

foto da: susy1958.blogspot.com

Tolica a minescia

Mondate mezzo chilo di cicerchia ispezionandola diligentemente, lavatela e mettetela a bagno dalla sera precedente. Riducete a dadini mezzo chilo di patate a pasta gialla, due coste di sedano e due carote. In una pentola, con un filo d’olio sul fondo, fate imbiondire leggermente una cipolla finemente tritata e uno spicchio d’aglio contuso, unite gli ortaggi a dadini e fateli rosolare insaporendoli con una presa di sale, unite la cicerchia ammollata e scolata e mescolate bene. Coprite il tutto con acqua calda sino a superare di tre dita il livello della cicerchia e salate. Quando riprende bollore, abbassate la fiamma e lasciate cuocere a pentola coperta unendo qualche pomodoro da serbo pelato e privato dei semi e un mazzetto di prezzemolo. A cottura, prelevatene due-tre  mestoli di minestra, passatela e versatela nella pentola in modo da ottenere una minestra cremosa. Servitela in fondine nelle quali avrete preventivamente posto delle fette di pane di grano duro fritte in olio di frantoio.

Gallipoli nel suo torpore autunnale è deliziosa

di Elio Ria

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Gallipoli oggi pomeriggio è davvero tranquilla: un’atmosfera surreale si spande dappertutto, anche negli angoli più remoti dei vicoli quasi ciechi della città antica. Interminabili silenzi sommessi di mare e di piazze snodano immagini di gente. Il duomo nelle sue altezze dalle linee sterili, e offuscate dalle ombre delle corti appare come il luogo della vera dimora di Dio. E seppure l’antichità del borgo è frastagliata e imbottita di negozi e pizzerie e ristoranti, vedo nei dettagli di antichità dei palazzi l’indicibile bellezza del tempo che sa resistere a se stesso.

Gallipoli oggi mi è di sollievo. Respiro aria nuova e i mie passi per le vie dimenticano pigrizia e angoscia. Non so se per le contrade aleggiano spiriti, ma la fantasia coinvolge finanche il cielo, che improvvisamente muove nubi con vento garbato  verso l’antologia delle parole sacre per raccontare il travaglio della terra.

È un gustare vivace di ogni intorno e diligentemente ogni cosa contemplo. La città non vive l’assillo di agosto e il frastuono delle voci forestiere è lontano. C’è l’alchimia della quiete che nella luce che s’appresta al tramonto in estensioni di ombre acrobatiche concede letizia al pescatore nell’ora di riposo.

Nessun precetto impone il volo iperbolico di un gabbiano: le sue acrobazie disegnano infiniti finiti sul cielo a ridosso del porto e del castello, certamente vorrebbe segnalare qualcosa, stupido io ad avere guardato altrove.

Ho la sensazione di vivere alla giornata senza nessun fardello addosso; libero come il passero diffidente e furbo della città che non si lascia ingannare, che sa dove andare a beccare e non si lascia prendere, e poi spicca il volo appagato del suo vivere gioioso e facilitato dalla spensieratezza della città.

Senza avere aggiunto nulla di mio al paesaggio che mi è stato donato agli occhi, ho immobilizzato le immagini della città per avvalermi in seguito della facoltà del ricordo di un pomeriggio che nel garbo di un luogo ha disposto emozioni soddisfacenti e piacevoli.

Mai far cadere i cachi dagli alberi!

Conviene coltivare il kaki mela nel Salento?

 

di Antonio Bruno

“…vi è uno stretto rapporto tra bosco, campo e giardino: in fondo il giardino, non è altro che il prolungamento degli altri…”.

Sere fa con il mio amico e collega Vincenzo Castellano è venuto fuori un discorso sull’albero e sul frutto del Cachi oppure Kaki. Mi ha raccontato che ha acquistato il frutto di una cultivar che si chiama “Caco mela” al prezzo di 1 euro a frutto. In pratica a 3 euro e 50 centesimi al chilogrammo. Mi ha detto che aveva anche acquistato degli alberi di questo frutto che aveva messo nel pezzetto di Paesaggio rurale che possiede qui a San Cesario di Lecce. Mi riferiva che gli è piaciuto molto mangiare il Caco mela, i cui frutti hanno le stesse caratteristiche del caco tipo vaniglia, ma che rispetto a quest’ultimo hanno sapore e consistenza che ricordano vagamente la mela.

 

La mia esperienza con i kaki

Ho frequentato l’Istituto Tecnico Agrario “Giovanni Presta” di Lecce e ricordo le ore in cui con l’insegnante d’Azienda prof. Polimeno passeggiavamo lungo il viale con cui si raggiungeva la stalla dell’Agrario. Oggi laddove c’era la stalla è stato ottenuto un Istituto Alberghiero. Io e gli altri ragazzi negli anni 1970 – 1976 abbiamo fatto grandi scorpacciate di kaki che cadendo tappezzavano la proiezione sotto le chiome di quel bel filare di alberi. C’è la leggenda che dice che quando si dicono le bugie nel raggio di tre metri c’è un albero di cachi quest’ultimo fa cadere tutti i frutti. Infatti c’è il detto “Mai far cadere i cachi dagli alberi!”. Certamente in quel tempo noi ragazzi ne abbiamo dette di bugie ai prof! Sono tornato più volte all’Agrario di Lecce per rivedere quegli alberi che hanno vita lunga, più di 50 anni. Dal 1970 ai giorni nostri ne sono passati 40 di anni ma degli alberi di cachi dell’Agrario di Lecce non è rimasta traccia. Peccato! Forse le bugie dei ragazzi che si sono succeduti in questi ultimi 40 anni oltre che a far cadere i frutti di cachi hanno anche provocato la mattanza degli alberi

Elogio al bianco della calce

Venditore ambulante di calce (anni ’60 del secolo scorso)

di Ezio Sanapo

Il paesaggio urbano nella stragrande maggioranza dei comuni del Salento, continua ad essere sempre più sfregiato da: forme architettoniche estranee alla nostra cultura, dalla colorazione esagerata delle facciate delle abitazioni, dal ricorso eccessivo della pietra a vista e dalle bombolette spray.

Il paesaggio ha subito perciò un trattamento opposto a quello riservato alla musica popolare salentina: le due cose legate insieme da secoli, sono state separate e trattate in maniera indiscriminata. In questo contesto oggi si balla e si suona il tamburello sullo sfondo di ciò che ci circonda, senza chiederci che cosa  dovremmo veramente esorcizzare.

Il paesaggio e la sua storia

“…Con il loro paesaggio i paesi raccontano la loro storia, la loro architettura, i modi di dare forma e colore allo spazio abitato e dunque anche il modo di vivere di intere generazioni attraverso i secoli” (Arch. Carlo Socco – Politecnico di Torino).

“…bisogna capire che salvare il paesaggio della propria terra è salvarne l’anima e quella di chi la abita” (Andrea Zanzotto – poeta).

 

Il paesaggio che noi salentini abbiamo ereditato porta i segni stratificati delle dominazioni straniere che si sono succedute: bizantine, normanne, angioine, turche, aragonesi, borboniche e savoiarde. Contaminato e sopravvissuto a tutte queste, il nostro paesaggio può ancora raccontare la sua storia come una persona anziana la racconta ai propri nipoti affinchè tutto si tramandi e sopravviva.

Il turismo arrivato finalmente nel Salento non è attratto soltanto dal clima e dalla musica ma anche dal paesaggio e quello che i turisti trovano porta evidenti i segni del degrado e dell’incuria ad opera dell’uomo che lo abita. I turisti dicono di noi che non sappiamo conservare che è meglio se non tocchiamo più niente che di danno ne abbiamo fatto già troppo. Il danno

Fuga d’amore

Ortelle (ph Giorgio Cretì)

di Giorgio Cretì

Antonio aveva ereditato un giardino sulla strada vecchia per andare a Poggiardo, un luogo intimo, hortus conclusus cintato da alti muri di pietre a secco. Lì, come aveva imparato da suo padre teneva il ben di Dio di frutti e tanta verdura che bastava per la sua famiglia e ne cresceva anche. E lì trascorreva molto del suo tempo quando non era impegnato come autista di piazza a portare i ragazzi a scuola o le donne al mercato; d’estate per la frescura e d’inverno perché era al riparo dai venti di tramontana o di scirocco che spesso soffiavano molto fastidiosi sia per gli uomini che per gli animali. Aveva una casetta di un solo vano ed un ricovero per l’asino e per la pecora.

Una pianta di mele cotogne portava certi frutti mai visti da quelle parti che facevano gola a quanti passavano e li vedevano appesi ai rami che superavano il muro di cinta. Antonio era stato attento a non far pendere l’albero sulla strada, per non indurre in tentazione, ma le mele cotogne venivano rubate sistematicamente ogni anno da qualcuno che si arrampicava a raccoglierle dall’esterno. Il fatto lo contrariava; se li volevano per metterli nel comò a profumare la biancheria, potevano chiederli perché lui glieli avrebbe dati volentieri, ce n’eran tanti, ma gli dava proprio fastidio che glieli rubassero mentre lui era a casa. Così quell’anno decise di scoprire il ladro e una mattina se n’andò al giardino prestissimo; per non essere visto fece il giro da lontano e attese sotto l’albero dietro il muro. Non passò molto che sentì passi lesti e leggeri di donna che si avvicinavano, poi qualcuno si arrampicò sul muro e iniziò a staccare dai rami i frutti più belli e più gialli, con naturalezza come fossero suoi. Allora Antonio riconobbe la donna e la chiamò per nome; quella non si scosse e continuò a raccogliere i frutti che riusciva a raggiungere. “Ehi, comare Palmira”, disse, “ma tu lo sai che quest’albero l’ha piantato mio padre e che le cotogne sono mie?”

“Lo so”, disse la donna affacciandosi dal muro, “lo so, è che quando passo e le guardo sento che mi chiamano”.

“Ah sì”, disse Antonio, “e tu fai finta di non sentire e tira dritta”.

La donna se n’ando con i pochi frutti raccolti, come se nulla fosse accaduto, ma Antonio decise di raccoglierli lui quelli rimasti e di portarli a casa per conservarli nella paglia.

Le nuvole basse spinte dal vento di scirocco quasi lambivano le cime degli alberi e incupivano la giornata. Comunque, alla fine d’ottobre spesso il tempo era così.

Di lì a poco venne a trovarlo Angelo Vito, il proprietario delle macchine da noleggio. Per qualche minuto parlarono del più e del meno poi Angelo Vito cambiò discorso. “Ascoltami bene compare”, disse, “c’è da compiere un’azione decisa e per compierla ci vuole la tua faccia”.

“Cala”, disse Antonio, “dobbiamo fare uno sbarco in Grecia?”

“No”, disse Angelo Vito, “no. Conosci Cosimino Fracilisco, no?”

“Sì che lo conosco, figurati…, e conosco anche tutta la sua famiglia, tredici o

A proposito del castello di Oria

Il castello di Oria, di origini sveve o normanne?

Costruito o ampliato da Federico II°?

di Franco Arpa

Pur nella consapevolezza che a qualcuno può dare fastidio che da un pò di giorni continuo a parlare del castello di Oria, non posso non pubblicare alcune considerazioni che ho fatto dopo aver letto articoli di diversi storici vissuti in varie epoche. A mio parere ci sono molti elementi che fanno credere che il castello, oggi di proprietà della famiglia Romanin-Caliandro, è stato solo ampliato per ordine di Federico II° e non costruito di sana pianta fra il 1227 ed il 1233.
Fra l’altro in molti scritti si legge che “secondo tradizione il castello è stato costruito da Federico II°…  o addirittura da suo figlio Manfredi”.

Tradizione …  questo termine mi ricorda alcuni scritti presenti anche su internet circa il Torneo dei Rioni: “…. secondo la tradizione ha origine nel 1225 con Federico II di Svevia, il quale decise di insediarsi nel territorio di Oria in attesa della promessa sposa Isabella (detta anche Jolanda) di Brienne. ” Tutti noi oritani sappiamo che ciò non è vero in quanto prima del 1967 (ovvero prima della geniale idea avuta da Gino Capone, supportata da dirigenti della Pro Loco di allora, di inventare i giochi de lo torneamento) nessuno ha mai parlato o scritto del Torneo di Oria e del relativo Bando di Federico II°.

Quindi… per analogia è probabile che nel corso dei secoli si è tramandato qualcosa di sbagliato circa le vere origini del castello di Oria.

A conforto della mia ipotesi riporto stralci di documenti di tre esperti:

1) – Gennaro Basile di Castiglione (1865-1920), ingegnere e scrittore di cose d’arte, nel suo libro CASTELLI PUGLIESI così scrive:
« Il castello, strumento potentissimo dell’Autorità Regia, residenza signorile e spesso sontuosa di chi — Governatore o Preside, Castellano o Feudatario quell’autorità rappresentava — vide sempre entro l’ambito delle sue mura le sorti supreme della città e della terra » .
Con intendimenti non certo diversi Federico II di Svezia giudicò opportuno che si fortificassero le città di Puglia, dove costruì i castelli di Bari, di Trani e di Brindisi, e aumentò le opere difensive di Oria, perchè — come dice Cantù — « trovando continuamente rivoltose le città soggette, egli volle frenarle con lo spediente dei tiranni: le fortezze ».

2)- Il contemporaneo Benedetto Vetere, Professore Ordinario di Storia Medievale presso la Facoltà dei Beni Culturali dell’Università del Salento, a proposito di Giovanni di Brienne, re di Gerusalemme, suocero di Federico II°, per l’Enciclopedia TRECCANI ha scritto : “Era evidente che con il matrimonio di Jolanda con Federico di Svevia il controllo della situazione passava all’imperatore di Germania, re di Sicilia nello stesso tempo. La cerimonia di nozze fu, ad ogni modo, celebrata nella cattedrale di Brindisi agli inizi di novembre del 1225 con il fasto che si addiceva a una coppia imperiale. Con uguale magnificenza la regina e il suo seguito erano stati accolti all’arrivo in città, dove ad attenderli vi erano il futuro sposo e il padre che, intanto, avevano soggiornato nel castello di Oria.”

3)- Antonio Diviccaro, esperto in storia dei castelli federiciani, su una pagina web così scrive:
[Lo svevo vi fece costruire con certezza la più imponente torre dell’edificio al vertice sud-ovest, che ne costituisce anche la parte più antica attualmente visibile. Il torrione quadrangolare ricalca la tradizionale pianta e possenza dei donjon normanni, nuclei centrali di molti castelli di Puglia e del Mezzogiorno.]

Tempo di melagrane. Mille motivi per mangiarle

LA MELAGRANA E LE SUE ECCEZIONALI PROPRIETÀ

di Alessandra Mattioni*

Un frutto antico, ma straordinariamente moderno per efficacia e utilità, con un’azione preventiva nei confronti dell’insorgenza dell’arteriosclerosi, attività antibatterica, azione anticancerogena e attività antiossidante.

ph Luigi Panico

La melagrana è un frutto antico al quale numerose civiltà hanno attribuito un importante valore simbolico. Secondo il mito di Persefone, nell’antica Grecia il melograno rappresentava il legame coniugale; nella mitologia persiana, secondo Erodoto, rappresentava l’invincibilità; nella Bibbia e nelle rappresentazioni medioevali è descritto come segno di fertilità e di abbondanza. Per il Buddismo come per l’Islam, la melagrana è considerata un frutto benedetto ed è usato per l’infertilità femminile.

L’immagine della melagrana è presente nello stemma di diverse associazioni mediche a indicare vitalità, fertilità e rigenerazione. Nell’Antico Testamento è citata come uno dei frutti della Terra Promessa, mentre per i cristiani il rosso della melagrana è stato usato per simboleggiare il sangue dei martiri e la carità.

Proprio per il suo valore simbolico i pittori dei secoli XV e XVI mettevano spesso una melagrana nella mano di Gesù Bambino, con allusione alla nuova vita donataci da Cristo.

Presso molte civiltà è stata simbolo di fertilità. Le spose turche, dopo il matrimonio, usavano scagliare a terra una melagrana: più alto era il numero

La scuola magliese dell’arte del ricamo

di Emilio Panarese

alto bordo, assai originale e ricco, detto “pupi e stelle”, arricchito a sua volta dai “bordini”, col particolare assai raro del “pupo guerriero” armato di spada

Oltre ad essere un importante centro di cultura e la città di maggiore commercio di tutta la regione del Capo, settant’anni fa Maglie era pure famosa per lo sviluppo dell’artigianato, ma soprattutto per i mobili d’arte, per gli apprezzati lavori di ferro battuto e per i pizzi e i merletti, rinomati in Italia e all’estero.
L’arte del ricamo, già verso la metà dell’800, era assai diffusa a Maglie tra le giovanette del popolo, ma la sua fortuna è legata alla fondazione della scuola d’arte applicata all’industria, quella scuola, una delle prime ad essere istituita nelle province meridionali, che, come sappiamo, fu voluta e creata da Egidio Lanoce. Le lezioni serali di disegno applicato ai merletti iniziarono nel maggio del 1905, quando fu istituita nella scuola, accanto alle sezioni maschili (ferro battuto, intaglio su legno, ebanisteria, scultura, plastica), che funzionavano già da venticinque anni, una sezione femminile, frequentata all’inizio, per un primo esperimento, che durò circa un mese, con ottimi risultati, solo da quattro alunne. Fu subito dopo la visita dell’ispettore E. Venezian, che approvò il progetto di trasformazione delle locande di via C. Vanini per i locali della scuola, che le lezioni serali di disegno applicato alla lavorazione delle trine e dei merletti si svolsero regolarmente.

 

particolare di tovaglia d’altare lavorata dalle alunne della “Regia scuola d’arte di disegno applicata al ricamo” (1906), diretta da Egidio Lanoce

Il primo anno, il 1906, la scuola fu frequentata da 28 giovanette (è di quell’anno la bellissima tovaglia dell’altare del SS. Sacramento della chiesa collegiata di S. Nicola); negli anni successivi, dal 1907 al 1914, da 40 alunne in media.
In seguito, un po’ per la scarsezza dei mezzi finanziari, un po’ per rendere possibile una maggiore partecipazione dei giovani dei corsi maschili, la sezione fu momentaneamente sacrificata. Ma venne ripristinata più tardi, quando venne trasferita nella sede più appropriata dell’Orfanotrofio Annesi-Capece, frequentato soprattutto da fanciulle della media borghesia, che lavoravano il traforo o “punto Maglie”, il “punto siciliano” o “a reticella”, il “traforo” e il “punto reale”, alternato, con tale mirabile precisione, con tale finezza di esecuzione, da lasciare ammirati.
Caratteristici sono i nomi dati ai diversi tipi di traforo (”a muliné”, “a panierino”, “a malota”, “a trifoglio”, “a quadrifoglio”, “ad s stella”, “ad ics”, “a margherita”, “a pupo stella”, “a puntina”) o ai legamenti del traforo (“gigliuccio”, “zippitelli”, “zippitelli a reta”, “zippitelli a maccarruni”, “a spaghetti”, “a sfilatino”, “a dentino”) e ai motivi ornamentali (di cui ricordiamo il “mustazzolu” a forma di rombo come il noto dolce, e i “punti sospesi” o “punti in aria”, detti comunemente “pirichilli”, che si ottengono con cinque o sei giri intorno all’ago e tirando il filo).

Un notevole sviluppo dell’arte del ricamo dette pure in quegli anni e nei successivi l’attiva e intelligente signora donna Carolina Starace De Viti-De Marco, che raccoglieva a Maglie, intorno a sé, oltre 150 ricamatrici, molte delle quali avevano frequentato i corsi serali di disegno. Neppure le mogli dei professionisti disdegnavano allora di dedicarsi, nelle ore libere, al ricamo, lavorando fino a tarda notte, per arrotondare lo stipendio del marito.

 

Dalle gentili mani delle ricamatrici magliesi uscirono lavori artistici del più fine gusto, che ebbero lusinghieri riconoscimenti in varie mostre e soprattutto in quelle di Roma e di New York, lavori pregevoli, riprodotti da antiche pergamene di varie biblioteche, come quelli che servirono per la figlia del celebre miliardario americano Morgan o come le estrose composizioni ornamentali, ideate da Egidio Lanoce, applicate ai lavori di trine, che pure furono fornite alla scuola di ricamo di Casamassella, diretta dalla stessa Starace, in cui lavoravano oltre cinquecento ricamatrici.
Oggi, purtroppo, questa nobile ed antichissima “arte dei merletti” (si pensi che a Lecce si insegnava alle fanciulle povere del Conservatorio di S. Leonardo sin dai tempi della dominazione spagnola, agli inizi del ‘600) è in piena crisi, non solo a Maglie in cui la esercitavano solo alcune ricamatrici anziane (Addolorata Lionetto, discepola della Starace, Rosina De Donno, Vincenza Sticchi, Maria Negro e poche altre), ma in tutto il Salento, come a Galatina, come a Nardò, che di questa nobile arte custodisce preziosi cimeli: arazzi e paliotti in broccato con ricami policromi in oro, di meravigliosa bellezza, di inestimabile valore.In «Tempo d’oggi», I(9), 1974

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