La natura sull’acciaio celebrata da Rino Greco. Un incisore di armi di lusso tra Italia, Belgio e America

di Marcello Gaballo

Galatonese di nascita, neritino di adozione, Rino Greco ha viaggiato tanto, esportando ovunque l’arte dell’incisione appresa in Belgio. Uno dei più abili e apprezzati incisori di armi di lusso viventi, la sua perizia è nota in tutto il mondo e la sua arte affascina i più importanti collezionisti, che gareggiano per accaparrarsi uno dei suoi pezzi. Lo racconta con orgoglio, avendo negli occhi ricordi dei tanti uomini e luoghi incontrati nella sua vita trascorsa tra l’Italia, il Belgio e l’America.

Nasce il 24 giugno 1942 da Ugo e Lucia Boccuni e nel 1947 parte da Galatone con la sua numerosa famiglia. In Belgio frequenta la scuola dell’obbligo e in Germania, dallo zio, viene avviato al lavoro per diventare tornitore. Su pressioni del padre si ricongiungerà al nucleo familiare e nella città di Herstal (Liegi), ormai maggiorenne, frequenta con profitto la Fabrique Nationale d’Arm con la sua celebre sezione di incisione su metallo. è qui che scopre e segue la sua vocazione artistica, attratto dal paziente lavoro dello stuolo di incisori di armi per la Browing, che osserva estasiato nelle pause lavorative. Essere incorporato in quel selezionato gruppo comporta una formazione artistica, che egli non possiede e che colma studiando privatamente i classici dell’arte presso le fornite biblioteche locali. Il  bagaglio culturale acquisito gli permette di essere incluso tra i 104 incisori e la benevolenza della signora Maria Vanlaar, coordinatrice del gruppo, lo agevola non poco. Tuttavia Greco non si mostra interessato a seguire il tradizionale cursus accademico dell’azienda e dimostra una sua autonomia nel disegno e nell’ornato su acciaio, tanto da attirarsi continui rimproveri da parte del maestro Louis Vrancken che ha ben intuito le capacità artistiche del giovane apprendista. Le limitazioni sono superate per una lunga assenza del precettore che, al rientro, trova il giovane alquanto abile e già esperto nell’incidere scene di caccia sulle bascule (blocco d’acciaio al quale sono agganciate le canne mediante i ramponi), traguardo ambito da ogni aspirante, anche per la maggiore retribuzione spettante. A ventidue anni dunque ha inizio quella che sarà una lunga e promettente carriera e, su disegno del maestro, riesce ad incidere una cinquantina di bascule l’anno, retribuite con un salario di 150 franchi orari, contro i 50 del comune operaio. Il talento emerge in breve tempo e la visita in fabbrica del produttore bresciano di armi Carlo Beretta, che lo ha adocchiato fra trentatrè colleghi, determina un ulteriore salto di qualità e il trasferimento di Greco dal Belgio in Italia, a Gardone Valtrompia, nel 1972.

La possibilità di poter incidere secondo i propri canoni e gusti, libero da ogni schema e condizionamento, favorisce il ritorno in patria, che si limita a meno di nove mesi, nel corso dei quali deve difendersi non poche volte dalle invidie dei trenta colleghi italiani. Qui conosce Firmo Fracassi, particolarmente abile nell’ornato classico, con il quale resterà in contatto amichevole per molti decenni e che influenza non poco la sofisticata e raffinata tecnica del bulino, che Greco non lascerà mai più, preferendola a tecniche meno artistiche e più dozzinali.

Rientra dunque nel paese dei suoi, convolando a nozze con una donna del posto, dalla quale avrà due adorabili figlie, Sylvie e Sabine. Qui lavora in proprio, su commissione di piccole ditte locali, affinandosi continuamente nella tecnica a lui più congeniale, che per gli addetti ai lavori è detta “del punto” o “della maniera punteggiata”: si abbozza il disegno a via di punti invece che di linee, completandolo con il bulino battuto dalla mazzetta, cosicché esso possa meglio distinguersi. Un’operazione assolutamente  manuale e impossibile a realizzarsi meccanicamente, che richiede massima sicurezza di esecuzione e competenza nel dettaglio, considerate le superfici limitatissime su cui si deve intervenire e l’impossibilità a correggere eventuali errori.

Un impiego statale presso il comune di Oupeye (Liegi) gli fornisce l’occasione per cimentarsi nel disegno satirico, fin troppo efficace, tanto da costringerlo a volontarie dimissioni, confortato da richieste di incisioni e pitture da parte di Enti locali (un’incisione per il Comune di Erquy, un dipinto con paesaggio belga per il Comune di Hacourt, un disegno e una pittura per Henri Caps, con il quale ha intanto stretto amicizia).

All’incisione alterna dunque la pittura, inevitabilmente influenzata dai pittori fiamminghi di quella terra, ma anche dai Macchiaioli toscani, dal movimento Realista ottocentesco e, fra tutti, da Gustave Courbet, che Greco osserva, elogia, ama e imita, specie quando si reca a dipingere en plein air, a contatto con l’amata natura. Il legame con l’ambiente, pur se brunito dalle polveri metalliche delle acciaierie di Liegi, garantirà a Rino quella bellezza del creato che i suoi occhi e le sue mani non hanno mai cessato di elogiare tramite il segno più che con la parola.

Con la maturità continua ad approfondire la sua conoscenza dell’arte studiando particolarmente gli Impressionisti. Jean François Millet, Jacob Camille Pissarro e Claude Monet, ancora oggi i suoi modelli d’elezione.

Le sue pennellate infinite e giustapposte, la predilezione per il colore e la luce, l’equilibrio compositivo, l’ottimo disegno di cui è capace, caratterizzano i suoi inediti dipinti, sui quali ancora nulla è stato scritto. Anche qui, come nell’incisione, prevale la natura nei suoi molteplici aspetti e gli animali sono i modelli preferiti. Il bosco e i suoi abitanti sono gli indiscussi protagonisti, forse scelti per  i loro valori certi e inimitabili oppure per la loro fedeltà, incapaci come sono di tradire o di compromettere la morale.

uno dei lavori più recenti del maestro (ph Aristide Mazzarella)

La discesa dei germani, lo sguardo vigile delle beccacce, l’atteggiamento spaurito dei caprioli, la possenza dei fieri leoni, lo sguardo furtivo delle volpi, le perfette posizioni dei bracchi, denotano un estremo realismo che infonde alla composizione una sconcertante naturalezza, come se l’illustrazione di quel gesto sia realmente accaduto.

Avendo qui optato di soffermarci sull’incisore più che sul pittore Greco, è utile rientrare nei propositi e restare negli spazi concessi, sperando in successive e qualificate critiche.

Nel suo peregrinare egli sosta per qualche anno in America, nella ospitale e calda Los Angeles (California) e in Arizona (Phoenix), lavorando su commissione per commercianti d’armi di lusso (la Southwest Shooters Supply[1]), ritagliandosi brevi spazi di tempo per frequentare l’alta società, che nota e apprezza il lavoro del giovane italiano, tanto da oberarlo di ordini. Il nuovo giro di conoscenze e l’interesse da più parti dimostrato gli dà consapevolezza definitiva delle sue capacità e gli apre nuovi orizzonti che lo convinceranno a rientrare nella natia Italia, dove, ormai separato dalla prima compagna, conosce e sposa l’attuale moglie, Anna Rita Filograna. Con questa si stabilisce a Nardò, nel luminoso Salento, che sarà decisivo per l’ispirazione delle sue inedite opere pittoriche. Continuerà imperterrito a ritrarre l’anonimo e insignificante per noi tutti, soffermandosi su scene e animali che solo la sua sensibilità riesce ad immortalare sulla tela, scrutando e indagando particolari e bellezze vietate agli indifferenti, ai noncuranti, ai superficiali che lo circondano e con cui è costretto a interagire. Ritrarrà chiocce e pulcini, galli e volpi in agguato, infinite varietà di volatili, ricorrendo ai colori più insospettabili, con toni tra i più svariati, calandoli in mesti paesaggi nord-europei e alternandoli a stupefacenti arabeschi e mirabili giochi di foglie d’acanto che incorniciano cani e fiere della savana, ai quali è riservata la solenne incisione. Si commuove mostrandoci i suoi dolcissimi caprioli, per i quali ha sempre nutrito una particolare elezione, privilegiati per essere da lui raffigurati col pennello e col bulino. Gli darà espressioni e pose che nessuna macchina fotografica potrebbe riuscire a fermare, confermando la dolcezza del loro grazioso muso anche quando sono stati appena abbattuti.

bascula già montata, incisa da Rino Greco

Non è un’ arte molto conosciuta quella dell’ incisione su metallo, ma non pochi sono quelli che se ne interessano. Alquanto limitati sono invece quelli che la realizzano, perché non è da tutti riuscire a decorare o a raffigurare macrocosmi su minute superfici.

uno dei lavori più recenti del maestro, rimesso in oro (ph Aristide Mazzarella)

La tecnica può definirsi con poche parole, trattandosi di segni incisi su acciaio o su metalli nobili, quali l’oro e l’argento, per abbellire oggetti, gioielli, coltelli e armi di lusso.

La strumentazione necessaria si limita all’essenziale: una lente di ingrandimento, una lampada a luce diffusa, un bulino, un compasso, alcune punte di acciaio e ferri da cesello, un martelletto e una morsa su cui fissare il pezzo da lavorare, che resta inclinato a circa 45 gradi.

Con la forza precisa delle mani obbedienti alla guida dell’ occhio e, soprattutto, con la predisposizione al buon gusto e all’ armonia, ecco che l’incisore applica tutta la sua esperienza su una superficie metallica che ad altri non del mestiere nulla dice, essendo piana, resistente, luccicante, riflettente, al più sagomata. Pochi i nomi eccellenti mondiali che hanno reso celebre questa forma d’arte, tra i quali l’inglese Ken Hunt, l’americano W.G. Churchill, gli italiani del secondo ‘900 Cesare Giovanelli, Giulio Timpini, Angelo Galeazzi, Mario Abbiatico, Francesco Medici, Gianfranco Pedersoli e il menzionato Firmo Fracassi. Accanto a loro senz’altro si colloca il nostro Greco, che continua a stupire per l’effetto di sconcertante realismo e verità di osservazione, per gli affascinanti arabeschi e l’inconfondibile ornato che rendono molto efficace e ricercata la sua tradizione incisoria.

Anche i non addetti ai lavori sanno che non si può disegnare su metallo, e una linea incisa per guidare la raffigurazione o la decorazione che si realizzerà non può essere cancellata, come si può fare con la matita sulla carta.

A quel tratto iniziale dunque seguiranno centinaia e migliaia di altre linee, orientate secondo un armonioso dinamismo per ben incanalare la luce svelatrice. Ne deriverà un’esecuzione assolutamente dettagliata che non ammette errori e che l’ artista ha nella sua mente prima ancora di realizzarla.

La profondità di quei solchi (massimo 2 millimetri) e la loro direzione e lunghezza evidenziano un pensiero, un’idea, fino a realizzare un ornato, una figura, una scena che si impressiona indelebilmente, sfidando i tempi e le mode.

Le variazioni di tonalità del grigio e la proprietà del metallo di assorbire e riflettere la luce offrono immagini in tutto e per tutto comparabili a una pittura monocroma. Solo che in questo caso ci si trova davanti a pochi centimetri quadrati, sui quali l’ incisore riesce a esprimere il suo gusto e la sua personalità, con spirito di artista più che di artigiano.

Ovviamente l’ esecuzione ha comportato anni e anni di studio paziente, di applicazione della tecnica, di attenta osservazione, di padronanza assoluta del metallo, di comparazione con quanto esiste sul mercato, di rispetto per le richieste dei committenti e dei compratori.

Queste brevi premesse per comprendere ed apprezzare l’attitudine speciale e le qualità incisorie di Rino Greco, che da oltre quarant’anni ha abituato i suoi occhi e le sue mani alla perfetta pratica del disegno e dell’ incisione e con volontà ferrea e pazienza ci sta consegnando delle vere opere d’ arte ormai sparse in tutto il mondo.

Le sue applicazioni, sempre inedite e mai ripetute,  quasi sempre sono eseguite sulle due cartelle e sul petto di bascula, ma anche sui ponticelli, di fucili di lusso, in genere concordate col cliente o col fabbricante dell’arma[2]. In un momento in cui la sensibilità estetica va differenziandosi in aspetti piuttosto tecnici e astratti, Greco rimane fedele alla sua formazione e all’intramontabile amore per la natura benigna e generosa che continuamente lo ispira, producendo opere che colpiscono gli occhi e coinvolgono i sensi, sublimando quelle rappresentazioni su fredde e asettiche superfici in arte senza tempo, che impressiona ed emoziona anche i non addetti.

Considerato che è da quarant’anni che svolge questo mestiere e che ogni fucile ha richiesto dalle 150 alle 200 ore di lavoro, è facile desumere che sono meno di 300 i fortunati possessori di un suo pezzo firmato: individui sparsi in tutto il mondo, con netta prevalenza di collezionisti americani e russi, che ben si guardano dall’ utilizzare simili opere d’arte  per una battuta di caccia. Sono esposti sotto vetro, come veri pezzi da museo, per deliziare la vista e inorgoglire per l’ ottimo investimento.

Un’altra particolare dote di Rino Greco è la perizia posseduta nell’incidere in rilievo, come erano soliti praticare gli antichi cesellatori e, soprattutto, gli armaioli (famosissimi quelli milanesi del periodo rinascimentale), come anche la maestria nel riempire i segni della sua incisione a bulino su acciaio con l’oro puro, la cosiddetta “rimessa in oro”, evidentemente applicata su armi di particolare lusso e pregevole fattura.

Una volta ultimata l’incisione egli riempie i solchi delle figure appositamente incavati, incassando a freddo fili del prezioso metallo sino a ottenerne una grossolana figura. Questa sarà rifinita quando il pezzo sarà stato temperato e tornerà nelle sue mani per incidere la superficie dell’oro. Si avrà così un autentico lavoro di oreficeria che tanto richiama le rarissime niellature rinascimentali di Maso Finiguerra, di Antonio Pollaiolo, di Cristoforo Foppa o del più fantasioso Peregrino da Cesena. Greco è uno dei pochi al mondo che riesce a praticare questi sofisticati lavori, come pochi sono quelli che potranno commissionargliene uno per la collezione personale.

Limitatissima e ancor più speciale la produzione di pezzi rimessi in oro colorato (rosso, nero, verde, azzurro), la cui incrostazione produce un effetto policromo di particolare bellezza. Anche in questa antichissima tecnica (lavoro all’agemina, da Agiam, nome della Persia presso gli Arabi) la perizia è particolare per la giusta profondità dei solchi del disegno che l’incisore deve saper scavare a sottosquadro nell’acciaio, che altrimenti non potrebbero ricevere e conservare il metallo colorato picchiato a martello. Lo stesso Greco di fucili da lui eseguiti con tale tecnica ne ricorda pochi esemplari, realizzati in America, per la relativa facilità nel reperire l’oro policromo. Poiché non esiste documentazione fotografica dei suoi rari lavori e per agevolare la comprensione della tecnica ci piace ricollegarla alle statue bronzee degli Eroi di Riace , in cui le labbra, i capezzoli e gli occhi sono di altro metallo inserito sul bronzo. Ageminate erano pure le imposte del mausoleo di Boemondo a Canosa, opere di Ruggero da Melfi, e quelle della cattedrale di Troia (1119 e 1127), di Oderisio da Benevento, entrambe ageminate d’argento. Ancora un esempio eloquente lo forniscono le armature da parata quattro e cinquecentesche e particolarmente quelle dei Negroli per i Gonzaga.

Ma mentre nei pochi esempi citati le superfici sono assai vaste, nel caso di una bascula o del ponticello di un fucile è evidente che lo spazio a disposizione è estremamente ridotto e l’ageminatura deve necessariamente limitarsi a particolari del disegno (fiori, piante, barbe o capelli).

Di tanto prezioso e paziente lavoro resta scarsa documentazione, sparsa nel mondo, e le foto proposte in queste pagine davvero sono uniche ed inedite. Non occorre competenza per comprenderne la bellezza e la perizia dell’artefice che le ha realizzate. La ritrosia di Greco nel mostrarcele è motivo di gioia nel renderci partecipi di quest’arte sempre nuova, irripetibile, che solo egli riesce a creare in copia unica, continuando a decretargli il meritato successo.

 

 

Note tecniche di incisione

Poche notizie vengono proposte per aiutare a comprendere come vengano eseguiti i lavori illustrati in queste pagine, tutti realizzati manualmente da Rino Greco. Intanto il posto di lavoro dell’incisore: un tavolo di adeguata altezza su cui poggia la morsa che trattiene il pezzo da incidere e che, grazie ad una vite con funzioni di “freno”,  gli permette di restare fermo o di ruotare. Greco lavora restando in piedi, spostandosi con il corpo che segue il solco che man mano va tracciando con gli arnesi.

Avendo davanti il pezzo ecco che impugna come fosse una matita la puntasecca e con questa realizza sull’acciaio il disegno, che già tiene ben chiaro nella sua mente. Non sono possibili errori. La manualità, la conoscenza del disegno geometrico e ornato, l’anatomia, la statica e la dinamica delle figure che andrà ad abbozzare, il senso delle proporzioni e la giusta prospettiva, tutto evidentemente derivato dalla bravura e dalla lunga esperienza dell’incisore, sono manifestate sin dalle prime tracce graffiate sul metallo.

Il disegno viene poi tracciato dalla punta impugnata con la mano sinistra che viene fatta avanzare con ripetuti colpi del martelletto tenuto con la destra. Alcuni incisori si limitano a questa tecnica, Greco va oltre ed impugna il bulino, con il quale realizza ogni rifinitura necessaria.

Il bulino è assai più corto della punta ed è infisso ad un’impugnatura in legno che alloggia nel palmo della mano destra, con la quale viene applicata la giusta e continua pressione. I solchi e le linee saranno più leggeri, a vantaggio dell’ombreggiatura e dell’inconfondibile effetto chiaroscurale della scena.

Quando l’incisore vuol far risaltare alcune figure o forme ecco che scava le parti che servono da sfondo utilizzando il cesello. Con appositi ferri, per l’appunto detti “da cesello” o più generalmente “scalpelli”, sagomati in punta e percossi dal martelletto, sposta e ribatte il metallo fino ad ottenere la forma desiderata. Ci ritornerà con il bulino per ombreggiarlo e rifinirlo.

Si è fatto cenno alla tecnica dell’ageminatura, comunemente nota come “rimessa” con oro. L’incisione con la punta in tal caso sarà più profonda perché si deve incastonare nell’acciaio il filo d’oro (ma anche argento o platino). Il solco viene tracciato con la base più larga rispetto alla sommità (“a coda di rondine”) e in esso verrà alloggiato il nobile metallo che, per la sua nota malleabilità e per effetto della pressione esercitata, resta incastrato. Anche in questo caso con il bulino potranno effettuarsi rifiniture sull’oro, dopo aver rimosso la parte eccedente e riportando sullo stesso livello i due metalli.

 

Bibliografia essenziale

M. Abbiatico-G. Lupi- F. Vaccari, Grandi incisori su armi d’oggi, Villanova di Castenaso 1976.
C. Calamandrei, Lampi d’acciaio. Incisioni d’arte sui fucili da caccia, Sesto Fiorentino 2004.

H. Catafal- C.Oliva, L’incisione, Ed. Il Castello 2006.Enciclopedia Italiana Treccani, Bulino, Cesello, Incisione, sub nomine.

M. Gaballo, L’incisore della natura, in “Il Salento”, aprile 2004, pp. 22-24.

E. Malatesta, Armi-ed-armaioli-dItalia”>Armi ed armaioli d’Italia,  Editrice Il Volo 2003.

M. E. Nobili, Il grande libro delle incisioni, Pieve del Cairo 1990.

M. E. Nobili,Le incisioni della Creative Art, Editrice Il Volo.

M. E. Nobili, Fucili d’autore, Editrice Il Volo 2001.

[1]Con questi Greco, quale director of engraving,  ha collaborato per circa sedici anni.

[2] Tra le varie ditte per le quali Greco ha realizzato armi di lusso ricordiamo, oltre Beretta, Perazzi, Abbiatico & Salvinelli, Perugini & Visini, Browning, Holland & Holland, Winchester, Krieghoff International, Inc. (Pennsylvania). Con quest’ultima la collaborazione continua ancora oggi. Per la Smith & Wesson Greco ha inciso alcune pistole con rimesse in oro.

 
 
 
 
 
 
gli attrezzi da lavoro di Rino Greco

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°7.

Il castello di Copertino

di Fabrizio Suppressa

Immerso tra il verde degli ulivi salentini e a pochi chilometri dal blu del mare Ionio sorge Copertino, un comune popolato da poco meno di 25000 abitanti. Se dovessimo descrivere questa ridente cittadina con un’immagine che la rappresenta, senz’altro ci lasceremmo catturare dalla mole bruno-carparo del castello cinquecentesco e dal mastio angioino inglobato nella fortezza. Una perfetta macchina da guerra, che seppur svaniti i cupi periodi bellicosi, continua tutt’ora a destare rispetto e meraviglia ai turisti che giungono a visitare il Monumento Nazionale.

veduta aerea di Copertino

Ripercorriamo brevemente le origini del fortilizio celate nelle gagliarde murature, sino ad arrivare all’attuale conformazione del “più grande, bello e forte castello che si vegga nella provincia”, per dirla con le parole del Marciano, opera di Evangelista Menga “Architettore eccellentissimo, (..) della Cesarea Maestà di Carlo V”. 

Delle primordiali origini del castello di Copertino vi sono molte ipotesi, la più avvincente riguarda una possibile fondazione bizantina di un castéllion o di una piccola cittadella fortificata che amministrava fiscalmente e militarmente i limitrofi casali. Nonostante accurati saggi di scavi e rilievi a cura della Soprintendenza, ad oggi non sono state rinvenute tracce risalenti a questo periodo storico.

Il primo nucleo ben identificabile è l’antico mastio sorto probabilmente sotto il dominio Svevo e portato a termine dagli Angioini, come testimoniano l’esistenza di alcuni stemmi e l’iscrizione “CAROLUS ANDEGAVENSIS 1267”.

castello di Copertino (ph F. Suppressa)

In seguito, a causa di successioni ereditarie, il feudo copertinese, assieme a quelli di Leverano, Veglie e Galatone, passa ai Gualtieri di Brienne, che appongono il proprio stemma in pietra leccese sul lato Est con l’iscrizione (non più esistente)  “GUALTERIUS DE BRENNA COMES CUPERTINI”.

Possiamo immaginare questa magnifica opera come isolata e probabilmente munita di recinzione e fossato di difesa, non molto differente dalla vicina torre federiciana sita in Leverano. D’altronde in alcuni punti non avvolti da superfetazioni, sono ben visibili una pronunciata scarpa alla base della torre e superiormente dei beccatelli mutilati che sorreggevano probabilmente un camminamento in legno. L’interno era poi costituito da solai lignei, sostituiti poi nel ‘700 con volte in muratura, mentre una scala a chiocciola, realizzata nella spessa muratura, collegava tra loro i vari piani.

Il dongione era praticamente inespugnabile poiché l’accesso originario era collocato alla quota del primo piano, e comunicava con l’esterno tramite un ponte levatoio, di cui oggi permangono gli scassi dei bolzoni sul lato Nord che tracciano sulla scarna muratura una sorta di grossa croce latina.

Con il matrimonio tra Caterina, figlia di Maria D’Enghien e Raimondo Del Balzo Orsini, con il Cavaliere francese Tristano di Chiaromonte, il feudo e il castello vengono donati ai novelli sposi. Tristano, divenuto ora Conte di Copertino, cinge di mura le terre del proprio feudo ed erige il raffinato e tutt’ora esistente Palazzo Comitale, arricchendolo successivamente da un grazioso loggiato con bugne a punta di diamante.

Non passa poco tempo che feudo e castello vedono nuovamente cambiare signore. Con la guerra tra Angioini e Aragonesi e la vittoria di quest’ultimi, le proprietà vengono concesse ai Principi Castriota Scanderberg d’Albania come ringraziamento degli aiuti prestati.

Ma siamo oramai agli inizi del XV secolo, l’invenzione e lo sviluppo dell’artiglieria sconvolge radicalmente le tecniche difensive di castelli e rocche. In tutta Europa le esili mura medievali vengono sostituite con cortine e opere bastionate ed anche il nostro castello di Copertino verrà perfettamente rimaneggiato alla maniera moderna.

Promotore di queste nuove ristrutturazioni è Alfonso Castriota come ci ricorda la lunga iscrizione che corre lungo il prospetto Nord-Est:

D. ALFONSO CASTRIOTA MARCHIO
ATRIPALDI DVX PRAEFECTVSQVE CAESARIS
ILLVSTRIVM D ANTONII GRANAI CASTRIOTAE
ET MARIE CASTRIOTAE CONIVGVM FERRANDINAE
DVCUM ET COMITVM CVPERTINO, PATER, PATRVVS
ET SOCER ARCEM HANC AD DEI OPTIMI MAXIMI
HONOREM CAROLI QVINTI REGIS ET IMPERATORIS
SEMPER AVGVSTI STATAM. ANNO DOMINI MDXL.

Costui affida l’incarico al copertinese Evangelista Menga, architetto militare nativo di Francavilla Fontana, già divenuto celebre per le sue fortificazioni di Malta, Mola e Barletta.

Il nuovo sistema difensivo, realizzato tra il 1535 e il 1540, si sviluppa attorno agli edifici preesistenti e ricalca planimetricamente il cortile trapezoidale dell’antico Palazzo Comitale. Vengono realizzate le spesse cortine di difesa, suddivise in due ordini di fuoco di cui quello superiore in “barbetta” e i quattro bastioni a punta di lancia collegati tra loro con una lunga galleria che scorre all’interno del perimetro del castello.

Contemporaneamente viene anche realizzato il portale di accesso (sempre opera di Evangelista Menga), dalle geometrie che ricalcano le linee angioine-durazzesche, arricchito inoltre da decorazioni scultoree in pietra leccese e da augustali con i volti dei personaggi che hanno contribuito alla storia dell’abitato.

particolare del portale del castello di Copertino (ph F. Suppressa)

Possiamo immaginare il castello nel pieno del suo splendore grazie ad un anonima descrizione settecentesca custodita presso l’Archivio Vescovile di Nardò:

“Così è fabbricato con ogni regola militare, che sempre a difesa dei suoi cittadini servirà da palladio contro i nemici. Né il suo fabbrico potrà mai venir meno, che per le sue fondamenta appoggiate si veggono sopra il sasso; tanto più sempre durevole, quanto ch’è pietra viva. E’ di passi 200 di circulo la sua pianta, cingendola per intorno il fossato largo passi 17 dalle cortine di fuore, e dalli Baloardi passi 8. Ha quattro torrioni in faccia de quattro venti più principali, difendendo la terra per ogni parte dai suoi nemici: ogn’uno di quelli ha quattordici finestroni, ed in ciascheduno di quelli vi sono due finestre una diversa dall’altra, per dove a traverso può giocare il cannone. (…)

Nella sua porta maggiore non solo vi è il rastrello, ma anche il ponte a trabocco; a fronte di chi, prima di entrare nel suo cortile, vi sono due fenestroni che con delle bombarde minacciano l’ingesso.

Succedendo il bisogno di far mine, e contro mine, così vi sono altre sotterranee corsie, come sotto de li baluardi in terra piana, che guardano le fossate. Vi sono stanze per abitare di varia sorte di genti e per risposta d’ogni attrezza di guerra. Forni, e molini per macinare grani, e polvere, ritrovandosi in quantità nelle sue grotte il salnetro. Non mancano le provviste dell’acque piovane nelle molte cisterne; come in un pozzo l’acque surgenti dolcissime, ed in abbondanza. Il fabbrico delle sue mura è largo palmi 35 con calcina di molta gran forte mistura. Detto castello fu guarnito con cento pezzi di cannoni ed altra artiglieria di bronzo, e con cento venti e più altri di ferro. Il piano vicino al castello è tutto minato, e con difficoltà questa fortezza potrà essere abbattuta.”

Con l’estinzione del ramo Castriota, il feudo viene messo all’asta dal regio demanio e acquistato dagli Squarciafico, banchieri genovesi con molte attività nel Salento. A questa famiglia dobbiamo la realizzazione di un capolavoro nel capolavoro, ovvero la costruzione della cappella di San Marco (realizzata al di sopra di una angusta cripta tutt’ora esistente) interamente affrescata dal pittore copertinese Gianserio Strafella con scene del Vecchio e Nuovo Testamento; senza tralasciare un ulteriore opera d’arte custodita nella cappella: il monumento funebre di Stefano e Uberto Squarciafico realizzato dallo scultore gallipolino Lupo Antonio Russo in stile manierista.

Negli anni a seguire si susseguiranno ulteriori nobili famigli, quali i Pinelli, i Pignatelli e i Granito di Belmonte, che passata la paura ottomana, trascureranno il nostro castello a favore di palazzi molto più sfarzosi e confortevoli nelle città più importanti del Regno.

L’ultimo periodo di gloria per il castello avverrà verso la fine della Seconda Guerra Mondiale, quando il re Vittorio Emanuele III e il Governo Badoglio rifugiandosi a Brindisi, stabiliscono qui il Comando di Presidio dell’Esercito. Tutti i locali interni e le aree attorno saranno destinate al ricovero delle truppe someggiate.

Verrà in seguito, dopo anni di abbandono ed incuria, acquistato dal Ministero che in accordo con la Soprintendenza darà il via ai lavori di restauro e di restituzione dell’opera come polo culturale ai suoi legittimi possessori: i cittadini di Copertino.

Al paese natìo, le olive sono quasi mature

di Rocco Boccadamo

Marittima è un piccolo centro, un puntino appena visibile sulla cartina e, però, come insegnato dal maestro in seconda elementare, si colloca esattamente all’altezza di una coordinata geografica indicativa e facile da ricordare: il 40° parallelo o, volendolo indicare con precisione scientifica, a latitudine nord 39,98747.

L’immaginaria linea, a numero tondo, del mappamondo intersecherebbe proprio il largo del Convento, che, tanto tempo fa, fungeva da campo per giocare a pallone.

Ha radici prettamente contadine, Marittima, del resto al pari di tutte le località disseminate nel Basso Salento, sebbene, attualmente, di tali ancoraggi è rimasto ben poco.

Le origini e i tempi trascorsi, intessuti di vicinanza, contatto, consuetudine con la terra, basati sulla coltivazione dei campi, scanditi dalle stagioni e dai calendari delle varie attività agricole, erano sinonimi di vera e autentica civiltà, giustappunto di civiltà contadina. Un ambito, uno stato, un insieme di grazia, che, fortunatamente, non viene meno col succedersi delle generazioni, sopravvive alle epoche.

Cosi che, pur con il richiamato ridimensionamento dell’agricoltura, a Marittima permangono ancora sintomi, segni della civiltà contadina e, fra essi, uno speciale momento di fulgore e di luce si nota in concomitanza della raccolta delle olive.

In una fase prevalentemente segnata, anzi marchiata da fuochi fatui che durano un attimo, è uno spettacolo assistere alla preparazione della scena, dell’evento, all’attesa ansiosa della maturazione  dei minuscoli frutti ovali tra il verde e il viola. Innanzitutto, le superfici sotto le piante sono nettate e lisciate alla stregua di delicati e lucidi pavimenti domestici, dopo di che, allo scopo di evitare il diretto contatto dei preziosi frutti con il terreno e anche di poter riporre più agevolmente, nelle ceste e nei sacchi, le olive cadute, si passa a stendere sulle medesime aree, ricoprendole con millimetrica precisione, grandi teli a rete di diversi colori.

I campi, le distese di alberi vecchi e giovani dalle fronzute chiome argentee, danno una volta tanto l’idea di grandi e sontuose dimore, con sale, scaloni e ambienti d’ogni genere ricoperti da preziosi tappeti.

Sì, un bell’allestimento che si rinnova puntualmente ogni anno, a cui gli attori protagonisti non riescono a rinunciare, malgrado, spesso se non sempre, la non convenienza, in termini economici, del prodotto ottenuto: ma, raccogliere le olive e farsi il proprio olio è un precetto fissatosi nell’animo.

Anche per un non addetto ai lavori e quindi semplice osservatore, assistere è piacevole e suggestivo. Alle sequenze in tempo reale, si aggiungono, anzi ritornano alla mente, immagini passate: stuoli di compaesane, da appena ragazzine a donne anziane, che, in questo periodo, partivano da Marittima, con poche e povere cose addosso e appresso, salvo l’irrinunciabile e indispensabile strumento di lavoro denominato pusceddra (dal termine francese pochette), con destinazione il fieu, anche questo francesismo per dire feudo, ovvero un vasto territorio di piantagioni dove restavano a raccogliere le olive per due o tre mesi.

Fra le mete di dette migrazioni di ieri, sovviene la masseria Monteruga in agro di San Pancrazio Salentino.

Non c’è che dire, si rivela senz’altro a buon mercato l’osservazione che si tratta di ricordi, di cose andate, eppure i ricordi, se positivi, rendono più vero e fecondo il presente.

Castro, panorama

Intanto, l’incrocio ideale, in un pomeriggio variabile, fra atti di tempi andati e di oggi, è suggellato e allietato per opera di un sorridente e sconfinato arcobaleno che si pone innanzi allo sguardo, sormontante appieno la stupenda collinetta al di sopra e ai fianchi della quale trovasi adagiata Castro, perla del Salento, e abbracciante anche l‘amato Canale sino alle sponde dei Balcani.

Il maiale, animale enciclopedico, utilizzato in ogni sua parte

 

IL MAIALE NEL SALENTO

di Massimo Vaglio

Il vocabolo maiale, viene fatto risalire a Maia, la dea, madre di Mercurio alla quale veniva sacrificato. Questo termine, oggi viene usato in modo generico, ma un tempo si appellavano così esclusivamente i porci castrati destinati all’ingrasso. Dai Greci, grandi cultori di carni suine l’usanza passò ai Romani che in origine le consumavano in concomitanza di riti sacrificali dedicati a Saturno, il dio della semina e della fertilità, durante i cosiddetti saturnali, feste e giochi che si svolgevano in dicembre e che spesso evolvevano in vere e proprie orge.

Ben presto, i Romani, indiscussi grandi padri della gastronomia, ne estesero grandemente il consumo codificando una serie infinita di piatti. Tutte le parti venivano mirabilmente valorizzate creando, anche da tagli secondari e da parti anatomiche che oggi sarebbe impensabile utilizzare, quelle che venivano considerate prelibate leccornie, spesso ad esclusivo appannaggio di pochi facoltosi eletti. Ne sono un esempio macroscopico, le mammelle e le vulve di scrofa di apiciana memoria, alle quali, oltre al valore gastronomico, venivano attribuite anche una forte valenza simbolica come propiziatrici della fertilità e persino delle spiccate virtù terapeutiche.

Sempre *Apicio, non si è limitato a ideare  e divulgare ricette, ma spesso ha codificato l’intero processo produttivo protocollando finanche la dieta alimentare che doveva essere fatta seguire agli animali soprattutto in prossimità della macellazione. Per i maiali  consigliava di dar loro da bere vino e miele onde far acquisire alle carni, e in particolare al fegato, una particolare delicatezza.

Il consumo delle carni suine, è tabù per una larga parte della popolazione mondiale, se ne astengono gli indiani secondo la cui religione è un animale

Da Plinio agli Autori contemporanei. Tutto sul prezzemolo

di Armando Polito

immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Parsley_bush.jpg

nome scientifico: Petroselinum crispum (Mill.) A. W. Hill

famiglia: Apiaceae

nome italiano: prezzemolo

nome dialettale neretino: pitrusìnu

 

Etimologie: Petroselìnum è il nome latino della nostra pianta, dal greco petrosèlinon, composto da petra=pietra e sèlinon=sedano: sedano che cresce tra le pietre;  crispum significa ricciuto (con riferimento alla forma delle foglie); Apiaceae è forma aggettivale da àpium=sedano; prezzemolo è fatto derivare da un latino *petrosèmolu(m), inteso come deformazione del citato petroselìnum1; pitrusìnu si direbbe da quest’ultimo attraverso la trafila *pitruselìnu> *pitruslìnu>pitrusìnu; tuttavia, siccome per la sincope di –l– non trovo altri riscontri, è più probabile che sia diminutivo di pietroso (*pietrosìno>*petrosinopitrusìnu), come la voce di basso uso petrosèllo che è dal latino medioevale petrosìllu(m).

Plinio (I° secolo d. C.): “Di altro genere alcuni chiamano prezzemolo quello nato tra i sassi, particolarmente indicato contro gli ascessi con l’aggiunta di due cucchiai del suo succo in un bicchiere di succo di marrobio, il tutto in tre bicchieri di acqua calda. Alcuni vi hanno aggiunto il buselino che differisce dal coltivato per la brevità dello stelo e per il colore rosso della radice, ma ha lo stesso effetto. Dicono che bevuto o applicato come cataplasmo è efficace contro i serpenti”2;

“Ai dolori del fegato (giova) il fegato secco del lupo con vino mielato; il fegato secco dell’asino con due parti di prezzemolo, tre noci, pesto col miele e mangiato”3; ”Il castoreo [sedativo tratto dal castoro] col

Quando un’agonia si protraeva oltre i tre giorni, se ne forzava la conclusione posando sul petto dell’agonizzante il pesante giogo dei buoi

LA CIVILTA’ CONTADINA NEL SALENTO FINE OTTOCENTO

 

LA MORTE PER GIOGO

 (LU SCIU’)

 

Per affrettarne la morte posavano sul petto degli agonizzanti il pesante giogo che si metteva ai buoi durante l’aratura. Rimedio barbaro adottato non in virtù di un principio eutanasico, ma nella superstiziosa credenza che a trattenere l’anima nel corpo fosse il diavolo. A furia di gravare, l’agonizzante moriva per soffocamento.

 

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) Al lettore può sembrare inverosimile, ma all’epoca, quando un’agonia si protraeva oltre i tre giorni, se ne forzava la conclusione posando sul petto del povero agonizzante il pesante giogo che si metteva ai buoi durante l’aratura; rimedio barbaro adottato non in virtù di un principio eutanasico (ché anzi la morte avveniva per soffocamento), ma nella superstiziosa credenza che a trattenere l’anima nel corpo fosse il diavolo, e questo al fine di farla spazientire, disperare e quindi impossessarsene.

Intànnu lu fiézzu ti lu sciù [1] (Fiutando la puzza del giogo), oggetto a lui familiare in quanto se ne serviva per piagare la groppa dei buoi – rei di vantare corna non asservite al male perché accarezzate dalla Madonna, tornite da S. Giuseppe e benedette da Gesù Bambino [2] -, il diavolo si incuriosiva e, desideroso di vedere se nella stanza c’era anche un bue sul quale infierire, usciva dalla bocca spalancata del moribondo guadagnando la sponda del letto per meglio guardarsi attorno.

Immaginandolo in questa perlustrazione, al fine di trattenerlo il più a lungo possibile e dare così all’anima maggiore tempo di fuggire dal corpo e rifugiarsi nelle braccia di Dio, le donne, subito dopo aver sistemato lu sciù, si sparpagliavano per la stanza, inscenando la farsa di una loro complicità: mentre la più furba, girata contro il muro, raccoglieva le mani a imbuto sulla bocca emettendo suoni che simulavano muggiti, le altre facevano segni con gli occhi e con l’indice verso il basso del letto, intendendo così suggerire che il bue vi si era nascosto sotto. Un’abbindolata che voleva essere doppia, giacché sotto il letto, al posto del fantomatico bue, c’era una scopa,

L’abbazia di San Nicola di Macugno a sud dell’abitato di Neviano (Lecce)

di Cosimo Napoli

L’abbazia di San Nicola di Macugno è un insediamento bizantino ubicato a sud dell’abitato di Neviano, in località “Specchia di Macugno”.
L’insediamento è raggiungibile dalla Neviano – Collepasso per una antica carraia scavata nella roccia, segnata da solchi profondi (per un buon tratto distrutta da uno sbancamento abusivo nel 1985) ed  è annunciato da due tratti di muri secolari; sul limite del muro di destra è incisa una croce patente (simbolo templare).
Il complesso consta di quattro grotte sotterranee; una di esse è assai vasta, con pilastro al centro, e fu, evidentemente, una cripta.
I fabbricati sono costituiti da un corpo turrito fortificato con tracce di caditoia e da un ampio locale con volta a botte e forno.
L’insediamento s’inerpica sul pianoro, oltre i 100 mt. sul livello marino, da dove si domina la vallata sottostante punteggiata dagli abitati di Neviano, Collepasso, Cutrofìano.
Una delle due nicchie della torre ospita ancora uno sbiadito affresco relativo alla figura del Santo Vescovo con mitra e pastorale: si tratta, probabilmente, di San Nicola di Bari, che vigila tuttora sul complesso grottale Nevianese.

II sito è coperto da lecci e vegetazione tipica delle macchie; sul crinale (la serra) esso è chiuso e protetto da un muraglione medievale di dimensioni straordinarie, circa mt. 2,5/3,00 di larghezza e mt 2,00 di altezza.
Oltre che delimitativo, l’avanzo murario in questione sembra abbia dovuto assolvere ad una funzione di terrazzamento, proteggendo le grotte e il complesso monastico, posti lungo il declivio, dalle frane e dalla piena delle acque.
Numerosi accessi a scala scandiscono quella specie anche di antemurale ogni 5/6 mt., consentendo di montare in cima e quindi di penetrare all’interno.
L’abbazia di San Nicola di Macugno è attestata per la prima volta nel 1578, nella visita pastorale di Mons. Cesare Bovio, vescovo di Nardò, tra le ” Abatie nuncupate civitatis et dioecesis Neritonensis”.
Essa dipendeva dalla chiesa di Nardò cui doveva obbedienza ed il tributo di una libra di cera all’anno in occasione della festa dell’Assunta.
Nel 1612 il beneficio ” S. ti Nicolai de Macugni appare traslato nella cappella del castello (“in castro dicti Casalis Neviani”) che patronato dei baroni pro-tempore di Neviano, i Pirelli.
Il suo modesto patrimonio fondiario nel 1618 consisteva di “12 tomoli di terre scapole in loco detto lo Prato in medio cuiu adest Ecclesia S. Nicolai. Abbatia nuncupata iuxta bona curiae baronalis dicti Casalis, bona doctoris Thomae Megha de Galatone, ex pluribus lateribus, bona Francisci Epifani di Galatone et alios confines, sei tomoli in loco detto la Ruca, dodici tomoli di terre scapole in loco “nuncupato le Pile seu li Mucchi de la Fontana”.

Una ventina di anni dopo, nel 1636, l’arciprete di Galatone Cosimo Megha, convisitatore del Vicario Granafei, la annotò tra le quindici abbazie della diocesi.
Nel 1650 i terreni abbaziali risultano affittati a tal Colamaria Magi, che per essere moroso viene condannato al pagamento di 300 libre di cera.
Notizie scarse e imprecise dà dell’abbazia, dell’ordine monastico e del sito, il Vetere, il quale in forma dubitativa la ipotizza come istituzione bizantina maschile da localizzare in territorio di Neviano.
L’abbazia fu, quindi, polo di aggregazione per i rurali che vi si insediarono e dettero vita ad un casale.

particolare con la croce potenziata

I Registri Angioini ci forniscono alcune informazioni sulle intestazioni feudali del casale di Macugno, che viene anche denominato Matunii e Matundi.
Nel 1269, appena sedato il turbine delle contrapposizioni svevo-angioine, Carlo I D’Angiò concede ai fratelli Rodolfo e Teobaldo Belerio o De Bulleriis, militi, i casali di Matugnii, Neviani, et Melloni con ” provisio pro possesione”.
Anche in seguito, negli anni 1271-1272-1276-1277, l’angioino conferma e rinnova ai due suoi partitanti “casalia Neviani et Macugnii”.

Trapela dalla medesima fonte che prima della infeudazione in favore dei fratelli de Bulleriis, i nobili Narzone de Toziaco e Riccardo de Petravalda avevano posseduto Neviano e metà di Macugno.
Evidentemente de Toziaco e Petravalda dovevano essere stati signori tra il 1266 e il 1269.
Agli inizi del secolo XIV Macugno è in potere degli Amendolia ed è qualificato come feudo. Dopo essere succeduto al padre Giovanni, Tuzzolino de Amigdolea aveva assegnato il casale Matundi al fratello Nicola, con Neviano, Melissano e Maturano.
Coinvolto nelle oscure lotte tra angioini e durazzeschi, il ribelle Nicola Amendolia fu privato di Macugno nel corso della campagna pugliese del 1384 e fu sostituito col fedele Orso Minutoli.
Fin qui le notizie storiche che si è riusciti ad ottenere.

Nel 2005, dopo diversi secoli di abbandono, l’ abbazia di San Nicola di Macugno è stata acqustata dal Comune di Neviano e, grazie ai finanziamenti europei del PIS 14, è stata nel 2008 completamente restaurata e resa funzionale. Attualmente è sede dell’associazione “Ecomuseo del Paesaggio delle Serre di Neviano”. L’insediamento è visitabile previa prenotazione, contattando il Comune di Neviano.

Le foto sono di Cosimo Napoli

La Madonna del Rosario di Alliste opera giovanile di Giovanni Andrea Coppola

Fig. 1 – G.A. Coppola, Madonna del Rosario. Alliste, Chiesa di San Giuseppe

di Emanuele Arnesano
Le vicende della Madonna del Rosario, grande tela del pittore gallipolino Giovanni Andrea  Coppola, sono strettamente legate a quelle della chiesa di San Giuseppe, ad Alliste, in cui essa da sempre è custodita. La ricca documentazione storica, che la riguarda e cui si fa riferimento nel presente lavoro, è costituita soprattutto dalle relazioni sulle Visite Pastorali che si susseguirono in Alliste nell’arco di un secolo, dal 1618  al 1719, conservate nell’Archivio Vescovile di Nardò e puntualmente citate da Antonio Pizzurro in un suo interessante lavoro[1]. Lo studioso ci informa che nel 1618 al vescovo De Franchis la chiesa, che allora era denominata chiesa di S. Salvatore, sembrò piccola e vecchia. Il presule perciò invitò le autorità comunali del tempo a migliorarne le condizioni attraverso lavori di manutenzione straordinaria. Quando il vescovo ritornò per una seconda visita nel 1620 notò che in due anni nulla era stato fatto e questa volta ordinò che la chiesa venisse addirittura ricostruita.

Fig. 2 – G.A. Coppola, Madonna del Rosario, particolare (ritratto del committente). Alliste, Chiesa di San Giuseppe.

I lavori di ampliamento e ristrutturazione iniziarono quasi subito ma, a causa dei costi e soprattutto delle tristi condizioni economiche in cui versava l’Università di Alliste, si protrassero per tutto il secolo XVII. Comunque già nel 1659, durante la sua visita pastorale, monsignor Girolamo De Coris accennò brevemente, oltre che all’altare maggiore, anche all’altare e alla  tela del Santissimo Rosario, la cui costruzione era stata autorizzata dal papa Urbano VIII con bolla del 15 gennaio 1636. L’altare venne nuovamente lodato nella successiva visita pastorale da monsignor Orazio Fortunato il 24 maggio 1678.

Finalmente l’8 gennaio 1698 lo stesso vescovo Fortunato poté visitare la nuova chiesa ormai del tutto ricostruita e i suoi cinque nuovi altari. Nel 1719 il vescovo Antonio Sanfelice – che intanto nel 1717 aveva elevato la chiesa parrocchiale a Collegiata ad instar – nella visita pastorale (29 aprile-1 maggio), «visitavit altare S.mi Rosarij et laudavit».

L’opera, un olio su tela di notevoli dimensioni (cm. 385 x 250), non è firmata e riporta le seguenti iscrizioni: sullo stemma in basso a sinistra, «SPES MEA IN DEO EST» e, accanto al ritratto del committente (ripetuta sul bordo esterno dell’ovale), «EX VOTO DIDACI DE TOMASO».

Il dipinto (fig. 1), già segnalato dal De Giorgi nel 1888[2] e attribuito a Giovanni Andrea Coppola, è stato pubblicato dal Galante nel 1993[3], dopo più di un secolo durante il quale incuria e dimenticanza ne avevano compromesso gravemente lo stato di conservazione. Il Galante, nel confermarne l’attribuzione a Giovanni Andrea Coppola, ha proposto quale data di esecuzione il 1655, ponendola negli ultimi anni di attività del pittore gallipolino, morto nel 1659[4].

Fig. 3 – G.A. Coppola, Madonna del Rosario, particolare (Viaggio al Calvario). Alliste, Chiesa di San Giuseppe.

Un recente restauro, eseguito nel Museo Provinciale Sigismondo Castromediano di Lecce, ha riportato il dipinto alla bellezza originaria, testimoniata da alcune foto, eseguite da chi scrive, a corredo del presente lavoro. 

Il problema della tela della Madonna del Rosario oggi riguarda principalmente la datazione, che andrebbe notevolmente anticipata rispetto al 1655 e collocata tra il 1638 e il 1640. Più che alla maturità, apparterrebbe a quella che possiamo definire la fase giovanile dell’attività artistica del Coppola, che comprende gli anni che seguirono il suo rientro in patria, avvenuto nel 1637, e precede la realizzazione delle grandi tele della Cattedrale di Gallipoli. A sostegno della nuova proposta di datazione interviene la storia stessa della committenza. Antonio Pizzurro ci informa infatti che il conte Diego De Tommasi (1609 – ?), ottenuta l’autorizzazione con bolla del papa Urbano VIII del 15 gennaio 1636, fece costruire nella Chiesa Matrice di Alliste un altare sormontato dalla grande tela della Madonna del Rosario, dove in basso a destra fece dipingere la propria immagine e a sinistra lo stemma della nobile famiglia De Tommasi. Se l’autorizzazione papale alla costruzione dell’altare è del 1636, appare strano che il De Tommasi abbia commissionato il quadro votivo circa vent’anni dopo. D’altro canto la tela è un tutt’uno con la spessa e artistica cornice aggettante, che la contiene, ed è parte integrante della mensa dell’altare, che dal punto di vista artistico non presenta particolari degni di nota; non si spiegherebbe pertanto la presenza per circa vent’anni di un altare costituito solo da una mensa priva di elementi decorativi. Il committente, inoltre, raffigurato dal pittore nell’angolo in basso a destra (fig. 2), appare piuttosto giovane, di una trentina d’anni (era nato nel 1609) più che un cinquantenne.

Fig. 4 – G.A. Coppola, Madonna del Rosario, particolare (Flagellazione). Alliste, Chiesa di San Giuseppe.

A confortare la proposta di nuova datazione della tela intervengono comunque vari elementi stilistici. Anzitutto vi è da osservare che, come le storiette della Vergine delle Grazie e dei Santi Giovanni Battista e Andrea della Cattedrale di Gallipoli, i quindici tondi dei Misteri del Rosario (fig. 1) sono stati dipinti con massima cura da Giovanni Andrea Coppola, che, nonostante il piccolo formato, ha costruito i singoli episodi con grande armonia ed equilibrio. La misura ridotta comunque non ne compromette la fruibilità, al punto che per questa tela si può parlare di sedici scene: i 15 tondi e il grande ovale interno.

La parte centrale della tela richiama la Pentecoste di Coppola del 1636 che si conserva in San Romano a Lucca, in particolare per l’impostazione simmetrica della scena che vede la Vergine posta al centro. Nei personaggi ai lati della Vergine nella Madonna del Rosario tornano gli apostoli della Pentecoste, con lo sguardo rivolto verso l’alto: in particolare la figura del pontefice Pio V con la tiara rimanda direttamente all’apostolo a sinistra della Pentecoste, con la testa rivolta totalmente all’indietro. La disposizione dei personaggi, quasi sullo stesso piano rispetto alla Madonna col Bambino e l’impostazione generale della scena, più che ai dipinti della tarda attività, nei quali l’evento religioso si svolge su due piani ben distinti, l’umano e il divino, in una marcata verticalità, si accosta alle opere giovanili, caratterizzate da una costruzione dello spazio, equilibrata e ben impostata, che mette in risalto l’incontro ravvicinato tra l’umano e il divino. Mentre nelle grandi pale della Cattedrale di Gallipoli lo sfondo si apre, permettendo di intravedere il paesaggio e rendendo la scena più ariosa e con un’impostazione scenografica ricca di personaggi che si affacciano da entrambi i lati, in un movimento spesso frenetico, nella Madonna del Rosario le figure emergono dal fondo scuro illuminate dalla luce proveniente da sinistra, che rende i particolari della pelle e disegna i gonfi manti: evidenti le reminiscenze caravaggesche nella resa della fronte rugosa del pontefice o del profilo immerso nell’ombra del san Domenico. La resa luministica ricorda i chiaroscuri delle opere toscane e tutto appare essenziale, rasserenante. Come nella Pentecoste di Lucca infatti le figure, quasi estatiche e comprese del mistero, appaiono composte ed assorte e l’atmosfera è intima e quasi confidenziale, espressa dal dolcissimo sorriso della Vergine a santa Caterina; il Bambino a cavalcioni in braccio alla Madre, mentre accarezza san Domenico, ricorda quello che si china verso il vecchio re nell’Adorazione dei Magi degli Uffizi. La Natività di Maria e la Nascita del Battista delle Storiette di Gallipoli e le altre opere realizzate dal Coppola nella seconda  metà degli anni trenta del Seicento tra Toscana e Salento, esprimono tutte appieno il senso di genuina serenità e il pathos, con cui l’artista carica questi episodi di storia sacra, derivante anche dalla profonda assimilazione del classicismo bolognese di Annibale Carracci e Guido Reni. Non è casuale poi, quando ammiriamo la piccola Crocifissione di Alliste, il contatto con le serie dei misteri del Rosario proposte da Pietro Ricchi, il Lucchese, allievo del Reni.

Fig. 5 – G.A. Coppola, Madonna del Rosario, particolare (rose alternate agli ovali dei misteri). Alliste, Chiesa di San Giuseppe.

Non secondario appare  l’accostamento della tela di Alliste ad alcune sacre conversazioni dello stesso soggetto, presenti soprattutto in Toscana e così diffuse nel  Cinquecento: basti citare quelle di Raffaello, Lorenzo Lotto, Federico Zuccari e poi di Fra’ Bartolomeo, le cui opere il Coppola ebbe modo di conoscere a Lucca, a conferma ancora una volta della formazione toscana del pittore gallipolino. Possiamo trovare vari elementi caratteristici di queste pale d’altare come gli angeli reggidrappo e il baldacchino, l’architettura, che inquadra la Vergine attorniata dai Santi, i committenti in abiti contemporanei e la stessa formula piramidale della Vergine e del Bambino rivolti agli astanti. La presenza del cagnolino sul gradino poi, elemento non estraneo ad altre opere del Coppola, ricorda alcuni dipinti di Jacopo da Empoli, cui il gallipolino è vicino in altre opere, e conferisce alla scena un aspetto più realistico. Il dipinto del Rosario è lontano dalle citazioni letterali, desunte dai grandi artisti studiati tra Napoli, Roma e Firenze, che vediamo in gran numero nelle grandi tele delle Cattedrale di Gallipoli, segno che il Coppola di Alliste è in una fase di formazione e di continua formulazione, che, alla fine del quarto decennio del Seicento, lo porta ad essere ancora libero di esprimersi per poter arrivare al punto di equilibrio della sua produzione artistica.

Sono soprattutto le undici Storiette della Vergine e dei santi Giovanni Battista e Andrea, che il Coppola dipinse intorno alla pala della Vergine delle Grazie di Domenico Catalano tra il 1637 e il 1640, ( subito dopo il rientro in patria dalla Toscana) ad essere le più affini ai Misteri del Rosario: vivacità descrittiva e narrativa, freschezza del disegno e sintesi del tratto e ancora  gli inconfondibili colori del Coppola, le figure allungate, specialmente nei personaggi nudi, viste nello Studiolo di Francesco I a Firenze, le fugaci lumeggiature nelle armature dei soldati sono alcuni elementi che caratterizzano l’arte del giovane Coppola. L’accurata definizione anatomica, il movimento e la drammaticità delle scene spiegano il naturalismo presente nel dipinto, che non fu mai estraneo alle opere del pittore gallipolino. Ma anche il tardo-manierismo fiorentino e il classicismo emiliano  sono molto evidenti e predominano nettamente sugli elementi barocchi dell’ultimo Coppola, quello che si manifesterà più chiaramente dopo il  secondo viaggio a Napoli del 1640-41. Basti citare il morbido panno tra le mani della Veronica nel Viaggio al Calvario (fig. 3), così vicino a quello dei quadretti degli Uffizi, dipinti prima del rientro in patria nel ‘37, o la Flagellazione di Gesù (fig. 4) che riprende l’impostazione scenica della Flagellazione di San Matteo nelle Storiette. Altra annotazione meritano le rose che a mazzetti di cinque (fig. 5) si alternano ai tondi dei Misteri e che sembrano richiamare quelle dipinte, insieme ai tondi degli stessi misteri del Rosario, dal toscano Giovanni Martinelli intorno a una Madonna con Bambino di Jacopo del Casentino, conservata nella chiesa di Santo Stefano a Pozzolatico (Firenze), per l’impostazione, il naturalismo e il luminismo, cui il Martinelli e Giovanni Andrea Coppola restarono sempre fedeli. Nelle piccole pitture dei Misteri, negli angeli che sorreggono il dipinto e nelle rose che a mazzetti si alternano ai medaglioni emerge la profonda qualità della tecnica pittorica del Coppola pittore più che il valore cultuale e devozionistico dell’immagine sacra. Tutta l’opera comunque risulta ben impostata ed armoniosamente realizzata da un pittore, Giovanni Andrea Coppola, che appare, anche nelle opere meno conosciute, uno dei massimi rappresentanti dell’arte della prima metà del XVII secolo in Puglia, e non solo.

Foto di Emanuele Arnesano.

pubblicato su Spicilegia Sallenina n°3


[1] A. PIZZURRO,  Alliste. Frammenti di storia locale, Taviano 1988, 310-320.

[2] C. DE GIORGI, La Provincia di Lecce. Bozzetti di viaggio, Lecce 1882-1888, II, 251: «Nella parrocchiale vi è un quadro della Vergine del Rosario che si vuole del Coppola, fatto per voto di Diego de Tommaso ed un altro mediocrissimo di Nicolò Romano del 1608 (sic)».

[3] L. GALANTE, Pittura in Terra d’Otranto (secc.XVI-XIX), Galatina 1993.

[4] L. GALANTE, La pittura, in Il Barocco a Lecce e nel Salento, Catalogo della mostra a c. di A. Cassiano, Roma 1995, 65: «con l’attribuzione alla stesso pittore e con la proposta di datazione, anche per riferimenti documentari indiretti, intorno al 1655. Di sicuro interesse è la soluzione iconografica, che riprende il modello dell’immagine di devozione dipinta, trasportata o sorretta dagli angeli, e offerta alla devozione o alla preghiera del donatore o committente, un modello affermatosi agli inizi del ‘600, lo si trova, infatti in Rubens. Il tema del Rosario, inoltre, non più esemplato sulle stereotipe formulazioni tardo-cinquecentesche, sembra qui calato nel clima di una recuperata naturalezza, quale è ravvisabile anche in alcune tele della Cattedrale di Gallipoli, pur essendo evidenti le mai abbandonate propensioni classiciste leggibili nell’impianto complessivo». Cfr. anche ID., Aggiunte a Giuseppe Verrio e Giovanni Andrea Coppola e qualche precisazione sugli esordi di Antonio Verrio, in Studi in onore di Michele D’Elia, a c. di Clara Gelao, Spoleto 1996.

I fichi secchi dei botanici greci e latini

Ficus si capisce, ma carica?

 

di Armando Polito

La tassonomia, si sa, è scienza relativamente recente e unanimemente ne è considerato il padre Linneo, naturalista svedese del XVIII secolo, inventore del metodo binomiale, basato cioè sull’attribuzione ad ogni pianta di un nome formato da due componenti, il primo riferentesi  al genere di appartenenza (comune alle specie che presentino alcune caratteristiche principali), il secondo alla specie. Era il superamento del sistema precedente, invalso fin dai tempi dei botanici greci e latini, basato su una descrizione più o meno dettagliata di ogni pianta (con una rozza applicazione del metodo comparativo in espressioni del tipo con le foglie simili a quelle della…) ma improntata, tutto sommato, a criteri arbitrari, vale a dire personali (il che rendeva operazione difficoltosa, anche per gli addetti ai lavori, la comparazione e il controllo). Anche se era fatale che alcune nuove denominazioni si sostituissero, aggiungessero o affiancassero a quelle di Linneo, non è un caso che il terzo componente più frequente in ogni nome scientifico è ancora oggi proprio l’abbreviazione del suo nome.

È il caso di un’essenza particolarmente diffusa nel mondo mediterraneo e che fino alla metà del secolo scorso ebbe una rilevante importanza economica nel nostro territorio: il fico.

Ficus carica L. è il suo nome scientifico e, tralasciando il primo componente già oggetto di ampia trattazione in più di un post su questo sito, soffermerò la mia attenzione su carica. La voce in latino ha il significato letterale di fico secco della Caria e quello traslato di fico secco in genere.

Plinio

Per il primo significato ecco la testimonianza di Plinio (I° secolo d. C.): “La Siria oltre a questo ha altri alberi peculiari. Nel genere delle noci sono conosciuti i pistacchi. Si dice che giovino contro i morsi dei serpenti come cibo e bevanda, Poi nel genere dei fichi quelli di Caria e altri dello stesso genere più piccoli che chiamano cottani1”; “Appartengono a questo genere [i fichi], come dicemmo, i cottani,  quelli di Caria e quelli di Cauno che furono di presagio a Marco Crasso mentre si apprestava ad imbarcarsi per la campagna contro i Parti quando un venditore pronunziò il loro nome2. Lucio Vitellio, che poi fu censore, li introdusse nel suo podere di Alba dalla Siria, quando era ambasciatore in quella provincia, negli ultimi anni dell’impero di Tiberio3”; “I datteri piacciono per la carnosità, quelli di Tebe per il guscio, le uve e certi datteri per il succo, pere e mele per la callosità, le more per la polpa, i noccioli per la cartilagine, certe in Egitto per i chicchi, i fichi di caria per la pelle. Questa viene tolta ai fichi verdi come scorza e invece è massimamente gradita nei secchi4”.

 

Ovidio

La voce compare pure in Ovidio (I° secolo a. C.): “Dissi: -Che pretendono per loro il dattero e il rugoso fico di Caria?-5; “Qui c’è la noce, qui c’è il fico di Caria misto ai rugosi datteri6”. La scarsa considerazione per il fico di Caria manifestato da Ovidio nel primo dei due brani appena citati viene ribadita per i cottani da Giovenale (I°-II° secolo d. C.): ”Io non dovrei evitare la porpora di costoro? Che prima di me firmi un documento e si riposi disteso sul letto migliore uno venuto a Roma spinto dallo stesso vento che porta prugne e cottani?7”. E il contemporaneo Marziale lo ribadisce a più riprese: “Nulla mi hai fatto avere in cambio del mio piccolo dono, e già son trascorsi cinque giorni dei Saturnali. Dunque, neppure pochi grammi di argento settiziano8, né la tovaglia inviatati dal cliente lamentoso? Neppure un piatto che rosseggia del sangue di tonno di Antipoli9? Neppure uno che contenga piccoli cottani?10”; “Mi hai mandato, o Umbro, tutti i regali che ti hanno portato in cinque giorni per i Saturnali: dodici tavolette a tre fogli per scrivere e sette stuzzicadenti; a questi si aggiunsero come compagni una spugna, un tovagliolo, un bicchiere e mezzo moggio di fave con un cesto di olive del Piceno e un nero vaso di mosto cotto di Laletania11; e vennero piccoli cottano con biondeggianti prugne e un vaso pieno pieno di fichi della Libia. Credo che questi doni a me recapitati da otto imponenti (facchini) di Siria a stento valgano tutti trenta nummi. Con quanto minore sforzo un tuo garzone avrebbe potuto recapitarmi cinque once d’argento!12”; “Questi cottani che ti giunsero riposti a forma di ritorta colonnetta sarebbero stati fichi se fossero stati più grandi13”.

Lucio Anneo Seneca

Eppure, che tavolette da scrivere e cottani fossero tra i regali consueti in occasione di importanti festività è chiaro dalle parole di Seneca (I° secolo d. C.) : “Dal pranzo nulla potè esser tolto. Fu preparato in non più di un’ora, in nessun caso senza fichi di Caria, in nessun caso senza tavolette per scrivere. QuellI [i fichi] se ho il pane fungono da companatico, altrimenti, invece del pane, ogni giorno mi rinnovano il nuovo anno, che io rendo fausto e felice con i buoni pensieri e con la grandezza d’animo14”.

Lascio per ultima la testimonianza di Petronio (I° secolo d. C.) per la sua attualità estrema che da una parte, secondo me troppo sbrigativamente, può essere valutata come la solita laudatio temporis acti (nostalgia del tempo che fu) oppure, peggio, dall’altra  (non certo da quella dei poveracci e degli onesti…) come qualunquistica: “E così in quel tempo  approvvigionarsi era come raccogliere cicorie selvatiche. Se tu compravi un asse di pane non avresti potuto consumarlo interamente neppure con un altro. Ora ti tocca un panino che è più piccolo dell’occhio di un bue. Poveri noi, ogni giorno peggio! Questo paese cresce in senso contrario, come la coda di un vitello. Ma perché abbiamo un edile che non vale tre fichi di Cauno, il quale darebbe la nostra vita in cambio di un asse? E così se la gode a casa sua e in un giorno guadagna più nummi di quanto riesca a guadagnarne un altro in tutta una vita15. So benissimo donde ha arraffato mille monete d’oro. Ma se noi avessimo i coglioni16 non se la godrebbe così. Il fatto è che il popolo in casa è un leone, fuori una volpe17”.

Non sono un giocattolo a molla e nemmeno un cavalleggero, ma la carica si è esaurita…

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1Traduco così il còttana del testo originale (Naturalis historia, XIII, 10: Syria praeter hanc peculiares habet arbores. In nucum generepistacis nota. Prodesse adversus serpentium traduntur morsus, et potu et cibo. In ficorum autem caricas et minores eius generis, quae cottana vocant).  La variante còctana potrebbe facilmente indurre a supporre che il nome sia forma aggettivale neutro plurale dalla radice (coct-) del supino (coctum) del  verbo còquere, con riferimento al fatto che si trattava di una varietà particolarmente adatta all’essiccazione se non, addirittura, alla successiva cottura nel forno; nulla di tutto questo perché in latino nel suffisso aggettivale –ànus/-àna/-ànum la a è sempre lunga, per cui avremmo dovuto avere cottàna e non còttana come nel nostro caso. In realtà la voce pliniana è trascrizione del plurale del greco kòttanon (in cui la a è breve, per cui in latino l’accento risulta sulla sillaba precedente) attestato in Ateneo di Naucrati (autore del II°-III° secolo d. C., ma la sua opera contiene citazioni di poeti perduti di molto più antichi), Deipnosofisti, IX, 34 (385°): “Dicendo un altro che era un piatto gradevolissimo anche la gallina in salsa di olio e aceto, Ulpiano che ha sempre da dire la sua, il solo che se ne stava disteso mangiando poco e tenendo d’occhio quelli che parlavano, disse: -Che è mai la salsa di olio e aceto se voi non nominerete i cottani e il lepidio, cibi caratteristici della mia patria?-“.

2 Ne aveva parlato Cicerone (I° secolo a. C.), De divinatione, II, 40: Cum M. Crassus exercitum Brundisii imponeret, quidam in portu caricas Cauno advectas vendens, -Cauneas- clamitabat. Dicamus, si placet, monitum ab eo Crassum caveret ne iret: non fuisse periturum si omini paruisset (Mentre Crasso imbarcava a brindisi l’esercito, un tale che vendeva nel porto fichi importati da Cauno [città della Caria] andava gridando: -Fichi di Cauno!-. Diciamolo pure, se vogliamo: ammonito da questo fatto, Crasso si sarebbe dovuto ben guardare dal partire; non sarebbe morto se avesse dato retta al presagio). La predizione nefasta coinvolgerebbe i fichi di Cauno solo marginalmente perché sarebbe tutta imperniata su un gioco di parole in base al quale il Cauneas! gridato dal venditore non sarebbe altro che la contrazione della locuzione cave ne eas!=guardati bene dal partire!

Op. cit., XV, 21: Ex hoc genere sunt, ut diximus, cottana et caricae quaeque conscendendi navem adversus Parthos omen fecere M. Crasso venales praedicantes voce, Cauneae. Omnia haec in Albense rus e Syria intulit L. Vitellius, qui postea censor fuit, cum legatus in ea provincia esset, novissimis T. Caesaris temporibus.

4 Op. cit., XV, 34: Carne palmae placent, crusta Thebaicae, suco uvae et caryotae, callo pira ac mala, corpore mora, cartilagine nuclei, grano quaedam in Aegypto,  cute caricae. Detrahitur haec ficis virentibus ut putamen, eademque in siccis maxime placet.

5 Fasti, I, 185: -Quid volt palma sibi rugosaque carica?- dixi.

6 Metamorfosi, VIII, 674: Hic nux, hic mixta est rugosis carica palmis.

7 Satire, III, 77-79: Horum ego non fugiam conchylia? Me prior ille/ signabit fultusque toro meliore recumbet,/advectus Romam quo pruna et cottana vento?

8 Di bassa lega, da saeptum=recinto, con riferimento al luogo dove i Romani contrattavano e vendevano a peso.

9 Oggi Antibes.

10 Epigrammi, IV, 88, vv. 1-6: Nulla remisisti parvo pro munere dona,/et iam Saturni quinque fuere dies./Ergo nec argenti sex scriptula Sepriniani,/missa nec a querulo mappa cliente fuit?/Antipolitani nec quae de sanguine thynni/testa rubet? Nec quae coctana parv gerit? Il motivo, però, era comparso un secolo prima in Stazio, Silvae, IV, 9, 27-28: Nusquam turbine conditus ruenti/prunorum globus atque coctanorum? (In nessun caso [hai da mandarmi] un ammasso informe di prugne e di cottani buttati giù da un vento rovinoso?).

11 Regione della Spagna.

12 Op. cit., VII, 53: Omnia misisti mihi saturnalibus, Umber,/munera, contulerant quae tibi quinque dies: bis senos triplices et dentiscalpis septem;/his comes accessit spongia, mappa, calix/semodiusque fabae cum vimine Picenarum,/et Laletanae nigra lagena sapae; parvaque cum canis venerunt coctana prunis,/et Libycae fici pondere testa gravis./Vix puto triginta nummorum tota fuisse/munera, quae grandes octo tulere Syri./Quanto commodius nullo mihi ferre labore/argenti potuit pondera quinque puer!

13 Op. cit., XIII, 29: Haec tibi quae torta venerunt condita meta,/si maiota forent coctana, ficus erant.

14 Epistole, 87: De prandio nihil detrahi potuit. Paratum fuit non magis hora, nusquam sine caricis, nusquam sine pugillaribus. Illae, si panem habeo, pro pulmentario sunt; si non, pro pane quotidie mihi annum novum faciunt, quel ego faustum et felicem reddo bonis cogitationibus  et animi magnitudine.

15 Si direbbe, tanto per fare un esempio già citato nel pregevole post di Gianni Ferraris Ahi Alessano, terra di Tonino Bello! del 13 gennaio u.s., il “trota” ante litteram. Vallo a spiegare all’interessato quello che ho appena finito di dire…; credo, però, che la spiegazione sarebbe complicata anche per i destinatari dei benefici di cui ci dà notizia Rocco Boccadamo nel suo contributo Pugni nello stomaco alla crisi del 14 gennaio u.s….

16 Mai traduzione dell’originale sed si nos coleos haberemus fu così doverosamente letterale.

17 Satyricon, 44: Itaque illo tempore annona pro luto erat. Asse panem quem emisses, non potuisses cum altero devorare. Nunc oculum bublum vidi maiorem. Heu heu, quotidie peius! Haec colonia retroversus crescit tanquam coda vituli. Sed quare nos habemus aedilem trium cauniarum, qui sibi mavult assem quam vitam nostram? Itaque domi gaudet, plus in die nummorum accipit quam alter patrimonium habet. Iam scio unde acceperit denarios mille aureos. Sed si nos coleos haberemus, non tantum sibi placeret. Nunc populus est domi leones, foras vulpes. Nel volpe (puntualmente, arbitrariamente e erroneamente, per quanto dirò, trasformato dai traduttori in pecora) contrapposto a leone, un’amara autocritica, con la citazione della favola di Esopo che così riassumo: La volpe la prima volta che vide il leone morì quasi dallo spavento, la seconda si spaventò di meno, la terza divenne così coraggiosa da attaccarci bottone. Morale: l’abitudine rende tollerabile ciò che prima ci turbava profondamente.

Quella foto della trisavola… Elucubrazioni settembrine su un occasionale reperto di fine Ottocento

di Marcello Gaballo

Di tanto in tanto è utile variare sul tema. Ci siamo mai posti il perché di quelle fotografie enormi, anche 70×100, che esistono in casa dei nonni o dell’anziana zia? Mi riferisco ai ritratti degli antenati defunti che un tempo campeggiavano sulle bianche pareti tinteggiate a calce, tramessi in eredità da padre in figlio per diverse generazioni. Tutti con pesante cornice in noce, vetro alquanto spesso, pose ieratiche, comunque sempre di grandi dimensioni. Belli o brutti, giovani o anziani, talvolta anche umili pose di contadine con la pelle bruciata dal sole o con volti marcatamente segnati dalle rughe. Difficilmente invece si notavano persone in tenera età, graziose fanciulle, coppie di amanti, figlioletti in triciclo, bimbe con la “pupa”, come è più naturale che fosse.

Nel modestissimo bilancio familiare, tante volte mi son chiesto, perché investire in un grande ritratto dell’avo? Forse per mantenere vivo il ricordo? E in tal caso non sarebbe forse bastata una piccola foto da inserire, accanto alle tante altre, sul comodino o fermarla nell’intercapedine tra lo specchio e la cornice del comò? Reminiscenze degli antichi Lares, direbbe qualcuno, proprio come quegli spiriti protettori degli antenati defunti che, secondo le tradizioni romane, vegliavano sul buon andamento della famiglia, della proprietà o delle attività in generale. Forse.

Credo però di aver trovato il vero motivo e mi piace condividere l’ipotesi con i lettori.

E’ di questi giorni una insolita usanza del popolo salentino emersa da una occasionale visita in casa di amici, che mi hanno invitato ad esplorare il magazzino dell’abitazione ereditata dai nonni.

Tra le varie cianfrusaglie, alcune delle quali mi è piaciuto fotografare prima dell’irrimediabile perdita nella pubblica discarica, una in particolare mi ha colpito e mi ha permesso di ragionare sulla premessa.

Un quadro ottagonale di circa 90×50 cm conteneva sotto il vetro protettivo una corona di fiori interamente realizzata in lamina di ferro. Fiorellini abilmente lavorati in delicata porcellana spiccavano su una base di foglie metalliche di quercia, tutte colorate al naturale, seppur sbiadite dal tempo e in parte ossidate, nonostante la protezione ermetica garantita dal vetro e dalla cassa in cui era disposto il tutto.

Attorno alla composizione era disposto un nastro merlettato nero su cui erano attaccate delle lettere realizzate con cartone dorato: A Rolli Anna Maria- il marito.

La disposizione della ghirlanda era tale da racchiudere nella parte centrale un foglio di carta, ormai tarlato e consunto in più parti, su cui ancora si leggevano alcune parole sopravvissute al tempo. Facile intuire che si trattava di una lettera dedicatoria, scritta in bella grafia,  che il marito e i desolati figli avevano composto dedicandola alla perduta moglie e madre, che aveva lasciato tutti prematuramente. Siglava il testo un teschio con le ossa femorali incrociate, evidentemente ripreso dalla classica iconografia cimiteriale.

il contenitore svuotato dell’addobbo

Una corona funebre! Ma non riuscivo a spiegarmi perché mai potesse trovarsi in quel magazzino anziché nel cimitero, dove era naturale fosse ospitata a imperitura memoria, accanto alle spoglie mortali della povera donna.

Intanto la datazione del nostro reperto. L’amica, oggi settantenne, mi riferisce trattarsi di un omaggio funebre che suo nonno aveva tributato alla moglie, deceduta in giovane età, subito dopo aver partorito la seconda figlioletta. Facendo un po’ di calcoli dobbiamo far risalire il manufatto alla seconda metà dell’800.

Era uso, in quei tempi e fino ad un cinquantennio addietro, portare questo quadro nel cimitero in occasione dell’Ottavario dei Defunti e lì lasciarlo per tutto il periodo, per poi riprenderselo in casa. Veniva appeso in una stanza del cimitero, a sinistra entrando, con molti altri dello stesso genere, quasi a voler rispolverare la memoria degli astanti su quanti avevano lasciato questa terra.

particolare con le rose in porcellana

Appositi artigiani realizzavano su commissione questi lavori. Il falegname avrebbe preparato la cassa, in base alle possibilità e gusto del richiedente, consigliando una meno costosa forma quadrata o rettangolare, sino alle più lussuose forme esagonali o ottagonali. Il pubblico scrivano  avrebbe scritto la lettera sulla base delle essenziali indicazioni fornite dal familiare, riportando i nomi dei congiunti in formule stereotipate, scelte tra le più strazianti in base all’età del defunto e del dolore causato dalla sua perdita. Lo stagnino avrebbe realizzato la composizione floreale e, su una base standardizzata di foglie, aggiungeva i fiori di maggior gradimento da parte del committente: rose e gelsomini (come nel nostro caso), margherite, iris, crisantemi (i più costosi), tutti sapientemente fissati con sottile fil di ferro, come ho potuto notare osservando il retro della composizione. Con gusto ai fiori si alternano foglie di edera e di rosa.

frammenti della lettera dedicatoria

Dopo aver incluso la lettera e sistemato a dovere il nastro messciu Pici sigillava con vetro spesso, affinché resistesse ai sobbalzi del “trainu” (carro) con cui si trasportava annualmente il pesante e ingombrante omaggio.

Intervistato qualche altro anziano a proposito di tale pratica, qualcuno mi ha confermato l’usanza e mi ha riferito che, oltre a questo tipo di composizione, si era soliti portare nel cimitero, sempre nell’Ottavario dei Defunti, i ritratti delle persone più care. Le quattro pareti della stanza venivano dunque ricoperte da quadri di ogni misura, evidentemente grandi per poter essere notati da tutti i visitatori, visto che venivano appesi a diverse altezze. I miei interlocutori però ricordano solo fotografie, non corone funebri come quella ritrovata, essendo la fotografia privilegio di pochissimi e ancor più elitario il ritratto dipinto. Ecco dunque svelato (o almeno così son portato a credere) il mistero di quelle enormi foto che hanno sempre dato tanto fastidio a noi moderni, che non sappiamo mai dove relegare.

Un’usanza del tutto sconosciuta a chi scrive. Sarebbe interessante raccogliere eventuali ricordi e testimonianze di tale pratica, forse adottata in molti altri comuni salentini, probabilmente sfuggita agli etnologi.

Piccoli sprazzi dell’estate salentina

PICCOLI SPRAZZI DELL’ESTATE SALENTINA: TRA FUOCHI D’ARTIFICIO SUPERFLUI E UN …AQUILONE

di Rocco Boccadamo

Per cercare di rinfrancare un attimo la mente dall’eco dei gravi, preoccupanti e tristi eventi inanellatisi durante questa cosiddetta bella stagione, vorrei proporre qualche nota più leggera, con l’auspicio che sproni a riflettere, su costumi e mode, vecchi e nuovi, che si affacciano e ci circondano.

Va prendendo vieppiù piede, e penso, ahimè, che si tratti di un processo destinato a diffondersi a tutto campo, l’abitudine di inserire, nel rituale dei ricevimenti di nozze, lo sparo di fuochi d’artificio.

Dunque, quasi che non bastassero le spese per l’arredamento della nuova casa, gli abiti, i fiori, il ristorante, le bomboniere, i regali ai compari, il viaggio di nozze (cioè cifre enormi, talvolta superiori, ad esempio, alla liquidazione maturata nell’intera vita lavorativa da un genitore degli sposi), ora si aggiunge anche il costo dei botti e dei bagliori pirotecnici. Ma a tal genere di coreografie, non si ricorreva solo nelle feste patronali e, a voler abbondare, nell’ultima notte dell’anno?

Purtroppo, sembra che un vero e proprio senso di stordimento sul tema della distinzione fra consumi necessari e voluttuari ci stia progressivamente e completamente prendendo.

Oltretutto, nelle località di mare, detti crepitii e fragori assordanti ingenerano anche fastidio e disturbo, mentre la gente se ne sta in quiete e in silenzio a prendere il sole o a fare il bagno. E devono, addirittura, spaventare l’innocente fauna ittica, se è vero che quest’anno, sulla superficie del mare di Castro, contrariamente al passato, non ho più visto guizzare, in una sorta di rincorrersi al galoppo sulle onde invitanti e lievi, i nutriti nugoli di pesciolini azzurri, i quali, oltre a tributare letizia a noi umani, davano l’impressione di divertirsi beatamente tra di loro.

In compenso, in un’altra marina del Salento, ieri, pomeriggio volgente verso la sera, ho scorto volteggiare, alto e morbido, sullo sfondo d’un cielo d’incanto, un affascinante e romantico aquilone, con la sua sagoma aerodinamica e la lunga coda svolazzante sotto la  carezza del vento: mi sono a lungo soffermato a rimirarlo, ritraendone un fascio di pensieri positivi e confortanti, non solo per l’inevitabile  riaffacciarsi di ricordi passati, ma anche come spunto di confronto con la quotidianità presente.

Ecco, gli sposi del terzo millennio potrebbero arricchire la cerimonia delle loro nozze con una gara d’aquiloni. Sarebbe tutta un’altra cosa rispetto agli spari fumosi e inquinanti, un piccolo intermezzo di semplicità e  magia nel loro giorno felice.

Dimenticavo di dire che, sopra a quell’aquilone, la scena era illuminata da una coppia di puntini fantastici: la fulgida Sirio e un’altra stella,  minuscola e lontana ma  non meno sorridente.

Il Salento di Roberto Cotroneo

Siamo onorati e lieti di avere tra le nostre pagine un post di Roberto Cotroneo, che ha accettato di riproporre per i lettori la sua introduzione alla Guida del Salento, Touring Club Italiano. In coda all’articolo alcune sue note bio-bibliografiche; le foto sono della Redazione.

di Roberto Cotroneo

Nel Salento le strade corrono dritte, fiancheggiate dai muretti a secco; corrono dritte tra macchie rosse di terra e tronchi che si avvolgono su se stessi, come fossero sculture. Nel Salento le strade corrono dritte e quando si viaggia in automobile con i finestrini aperti si può sentire il profumo del mare, dappertutto; un mare che avvolge la penisola salentina e la protegge, lasciandosi attraversare dai venti, senza neppure una collinetta o una montagnola che opponga resistenza.

I venti si inseguono, si mescolano, corrono indisturbati per una terra piatta che arriva ad alzarsi solo vicino al mare, dalla parte dell’Adriatico, dopo Otranto, fino a santa Maria di Leùca, e anche oltre. E allora lì, le strade dritte, che da Lecce portano a Gallipoli e a Porto Cesareo, a Maglie, a Otranto, e poi giù giù fino a Lèuca, si fanno tortuose, costiere, a tornanti, e salgono su fino a cento metri a picco sul mare, e allargano l’orizzonte, lo spingono lontano fino alle cime dei monti Albanesi, che si rivelano d’improvviso come un miraggio, e trasformano il mare in un lago smisurato, lo chiudono.

Ma uscendo dalla litoranea puoi tornare a un paesaggio dritto, coltivato e come sospeso: il paesaggio di buona parte di questo Salento che inizia a Lecce e finisce proprio sul tacco d’Italia; spostato a Oriente come se un dio greco, per divertirsi, avvesse tirato verso di sé quello stivale. Prendete una cartina d’Europa e tirate una linea longitudinale che passi per Otranto: vedrete che tocca quasi tocca Varsavia, e che Trieste al confronto può apparire come un avamposto occidentale del territorio italiano.

Terra d’Otranto si chiamava il Salento, terra di Normanni. E la città che le dava il nome era una piccola potenza marinara affacciata sull’Oriente. A chi arrivava dal mare appariva il campanile di quella Cattedrale, dal mosaico meraviglioso, grande quanto tutto il pavimento della Chiesa; e poi dopo si poteva vedere il Castello, e la chiesa bizantina di san Pietro; e le torri per avvistare le navi nemiche. Otranto era una potenza: con i suoi monasteri basiliani, cominciando da san Nicola di Casole, a poco meno di due chilometri da Otranto. Uno dei luoghi più colti e sofisticati nell’Europa del duecento. Lì si copiavano manoscritti preziosi, lì si parlava greco e latino, lì si approdava da Parigi come da Bisanzio. Oggi di quel ricco monastero è rimasto soltanto un pezzo di facciata della chiesa. È completamente distrutto. Ma vedere anche soltanto quelle poche colonne lascia impressionati.

In tutto il Salento si respira un’aria particolare. Soprattutto in quei paesi che si raccolgono nella zona che va da Maglie a Leuca. Un’aria ferma, fatta anche di presenze mai ben chiarite. Terra di dolmen, di grotte preistoriche si straordinaria importanza, di luoghi che paiono magici, anche quando purtroppo sono stati distrutti da una speculazione edilizia selvaggia. Se da Lecce si prende la strada che va verso Leverano,  e poi si arriva a porto Cesareo,  e se lo si fa nei mesi di giugno e di settembre ci si può trovare di fronte a uno spettacolo emozionante, con un mare che neppure le brutte case costruite sulla spiaggia spossono cancellare. Luogo di dune di sabbia bianca, piccolo centro di pescatori che è riuscito a mantenere ancora una sua identità e persino un suo fascino.

Più a sud c’è Gallipoli, araba e ambigua, nel senso più squisitamente letterario. Capace di avvolgersi su stessa senza compiacersene, di negarsi ai distratti, di non mostrare la sua storia a tutti ma celando i suoi conventi, i suoi palazzi, le sue chiese. Opposta a una Otranto che è più piccola, più bianca, più greca e che i turchi li ha subìti, e che le sue ricchezze invece le mostra al mondo con l’orgoglio di una città martire. E mostra ricchezze e martirio assieme. Perché le ossa di quegli ottocento decapitati dai turchi nel lontano agosto del 1480 sono ancora visibili, a tutti, dietro immense teche di vetro, in una cappella della Cattedrale. A Otranto il martirio si racconta ogni giorno, a Otranto sembra che i turchi possano ancora arrivare. E le torri vedette che si rincorrono una con l’altra  per tutta la costa certe volte paiono abitate da sentinelle immobili, pronte a gridare aiuto per poi fuggire al riparo.

Sono opposte Otranto e Gallipoli: mondi diversi, inconciliabili. Come opposti sono i due mari che si fondono nel Salento, l’Adriatico e lo Jonio. L’Adriatico che proprio a Otranto finisce (e non a Leuca come credono in molti), e che pare sempre agitato, e che ha colori freddi, tonalità bluastre e, chissà perché, non invoglia alla pesca. Quando soffia lo scirocco a Otranto il mare è terso, pulito. A Gallipoli e Porto Cesareo invece i vestiti aderiscono alla pelle, e l’aria profuma di salsedine. A Otranto il mare sembra un monumento, qualcosa da guardarsi, tenendosi a distanza, ma se vai poco più a sud, a Castro, dove a dispetto di tutte le cartine geografiche è già mar Jonio, del mare non puoi fare a meno. Castro è città sul mare, Otranto è città con il mare, e la differenza si sente.

In mezzo a questi avamposti sull’ignoto c’è una terra di ulivi che ha un colore straordinario; con al centro un’altra città dove il perdersi più che un incidente di percorso è un dovere dell’intelletto: Lecce. Barocca in tutto, anche nelle relazioni sociali. Dove il barocco più che uno stile architettonico è un modo di vivere il tempo. Il tempo di Lecce passa per le sue stradine tortuose, per i luoghi che non riconosci mai, perché le strade cambiano prospettiva di continuo. Dove ogni strada, ogni palazzo, ogni cosa sembra pensata per condurti in quella piazza, dove c’è il Duomo: che si apre come fosse una soluzione alle inquietudini di tutta una città. Una piazza chiusa, ricca e lineare, elegante e, di notte spettacolare, con quelle luci che la illuminano dal basso e che le donano ricchezza scenografica. Città di pietra, Lecce, una pietra che ha permesso agli artigiani di modellare e fare ricca una città: perché lavorabile con facilità, morbida, persino troppo friabile. Città di pietra dove, ma questo accade in molti luoghi del Salento, persino le voci si attutiscono e i luoghi sembrano obbedire a un tempo diverso, un tempo che si curva su stesso, e tiene le vite sospese, e smorza gli umori, ma non le passioni. Dove soltanto la luce, forte, la luce meridiana, pare possa avere il privilegio di dividere il mondo in due parti nette, taglienti; ombra e bianchi bagliori dei muri bianchi delle case. Città avvolgente, luogo ultimo, finis terrae per una città che vive di sfumature dell’immaginazione.

[Roberto Cotroneo, introduzione a Guida del Salento, Touring Club Italiano]

Roberto Cotroneo è nato ad Alessandria nel 1961. Ha pubblicato i romanzi: Presto con fuoco (1995, premio Selezione Campiello 1996), Otranto (1997), L’età perfetta (1999), Per un attimo immenso ho dimenticato il mio nome (2002), Questo amore (2006), Il vento dell’odio (2008), E nemmeno un rimpianto. Il segreto di Chet Baker (2011). La raccolta di racconti: Adagio infinito e altri racconti sospesi (2009). E i saggi: All’indice. Sulla cultura degli anni Ottanta (1991), Se una mattina d’estate un bambino. Lettera a mio figlio sull’amore per i libri (1994. Nuova edizione 2008), Eco: due o tre cose che so di lui (2001), Chiedimi chi erano i Beatles. Lettera a mio figlio sull’amore per la musica (2003), Manuale di scrittura creativa (2008). Ha curato l’edizione delle opere di Giorgio Bassani per “i Meridiani” Mondadori (1998) e il volume che raccoglie i testi di Fabrizio De André (Parole e canzoni, 1999). I suoi libri sono tradotti in numerosi paesi. Vive a Roma.

Il degrado consuma il portale su via Antonio Galateo a Lecce

testi e foto di Giovanna Falco

portale via Galateo fotografato nel 2010

Nei giorni passati Piero Barrecchia ha apportato un interessante contributo all’articolo pubblicato da Spigolature Salentine il 17 dicembre 2010 Lecce – S.O.S. per un portale a firma di Giovanna Falco: http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/12/17/lecce-s-o-s-per-un-portale/.

Piero ha proposto una serie di interessanti considerazioni atte a decifrarne l’iconografia.

Nell’articolo del 2010, oltre a segnalare la situazione di questo delizioso gruppo scultoreo, abbandonato al degrado in via Antonio Galateo a Lecce, si è cercato di abbozzarne la ricostruzione storica e svelarne la valenza simbolica, nella speranza che qualche giovane ricercatore lo studiasse approfonditamente, per poterlo riqualificare, perlomeno, dal punto di vista

Francesco Bellotto scultore di Nardò e il cinquecentesco corteo trionfale della chiesa di S. Sebastiano a Galatone

 

Mesagne, portale del Bellotto (ph M. Gaballo)

di Vittorio Zacchino

Se vi capita di recarvi a Mesagne, vi raccomando una visita alla chiesa dell’Annunziata, o almeno una veloce incursione al «vico Antonio Corsi, alle spalle della Chiesa dei Domenicani». Vi imbatterete nella piacevole sorpresa di poter ancora ammirare «incastonato nella muratura esterna del coro» un bel portale di gusto e fattura rinascimentali con un sopraporta scolpito con scene di un corteo.

Ne fu autore, come scoprirete di lì a poco, uno scultore salentino del Cinquecento, anzi un neretino di Nardò: Francisco Bellocto de Nerito, reso noto per primo nel 1875 dallo storico di Mesagne Antonio Profilo. Dopo un superficiale interessamento di Amilcare Foscarini, fu un altro genius mesagnese, Antonio Franco, che il 1960 sottopose il portale a rigorosa analisi critica, in un ambito comparativo fra portali di epoca rinascimentale, allargato a tutta l’area pugliese. Da quella scrupolosa ricognizione non sortirono altri frutti se non questo che il portale della chiesa domenicana dell’Annunziata risultava opera unica a firma di questo pressoché ignoto scultore.
Infatti su due targhette laterali del portale di Mesagne si conservano il nome del suo autore e quello della sua patria d’origine: su quella di sinistra è inciso M(Fran)CISCO BELLOCTO, sull’altra di destra DE NERITO SCULPSIT, e in aggiunta l’impresa della città di Mesagne e quella della Famiglia Beltrano, feudataria pro tempore di Mesagne; sul filatterio, ai lati della Veronica (testa del Cristo) la data di esecuzione IS/SS (1555).

A giudizio del Franco l’autografo corteo di Francesco Bellotto è «di squisita eleganza» ed ancora in buono stato nonostante le bucherellature del salnitro e quelle prodotte dalle fionde dei monelli.

In concreto siamo di fronte a un fregio rettangolare, collocato al di sotto della statua della Madonna Annunziata, in cui viene effigiata una «scena continua che si svolge da sinistra verso destra e rappresenta molto probabilmente un corteggio regale che entra in una città simboleggiata da una specie di torre a tre piani che si trova all’estremità destra». Nonostante l’entusiasmo di Franco, l’opera appariva, già nel 1960, molto rovinata, ma non fino al punto da non consentirne una descrizione: «da sinistra di chi guarda sono riconoscibili vicino la torre due specie di buffoni che precedono due figure virili con corona, col capo vestito di lunga tunica stretta alla cintura che avanzano verso la torre seguite da paggi, fanciulli, cavalieri e da un carro a due ruote tirato da una coppia di cavalli, uno dei quali arpionato da una figura infantile, è preceduto da un cane. Sul carro è seduta una donna anch’essa con corona sul capo. Segue questo gruppo centrale una serie di guerrieri appiedati vestiti di corazze e con ampi scudi, chiudono il corteo alcuni cavalieri al galoppo verso i quali si sottomette una figura prona».

Ma il corteo rappresentato, smentendo Antonio Franco, non era quello della principessa Isabella Gonzaga che aveva fatto tappa a Mesagne nel luglio 1549, durante il viaggio verso i suoi feudi del basso Salento (di Alessano e Specchia), bensì quello che il 1510 aveva portato la Regina Giovanna a Mesagne e in altre sue terre, dove l’avevano accolta in pompa magna il governatore Giovanni Granai Castriota e il di lui fratello Alfonso (le due figure virili coronate).
Questo di Mesagne, autografo dell’artista neritino, è pertanto un pannello lapideo cinquecentesco, dedicato all’ingresso di una regina in una piccola terra del Mezzogiorno, un corteo affollato delle varie rappresentanze cittadine (civili, religiose, militari) che scortano l’augusta ospite, Giovanna III d’Aragona, una delle due tristi reyne, vedova di re Ferrante nel suo ingresso a Mesagne di cui è feudataria.

Antonio Franco nel tentarne la destrutturazione storica ed artistica, mediante un suggestivo excursus che prende in esame diverse sculture di analogo soggetto, presenti in edifici sacri di tutta la regione, veniva fortemente attratto, tanto da concentrarvi ogni sua attenzione, dal portale rinascimentale della chiesa dei Santi Sebastiano e Rocco di Galatone, datato 1500 e, particolarmente, dall’elegante fregio che lo sormonta. Anche il sovrapporta di Galatone infatti propone un corteo trionfale di rilevanti qualità artistiche.

Mesagne, particolare el portale firmato dal Bellotto (ph M. Gaballo)

Sulla base delle forti somiglianze che vi colse tra le due opere, di Mesagne e di Galatone, Franco si convinse che questo secondo corteo doveva attribuirsi alla stessa mano che aveva firmato il portale di Mesagne, cioè a Francesco Bellotto de Nerito. Il portale di Galatone fa venire in mente scultori di maggior grido come Nuzzo Barba e Niccolò Ferrando di Galatina, o loro discepoli, né si deve escludere che lo stesso Bellotto, come anche il Franco supponeva, potrebbe essersi formato nelle loro botteghe. Un’ipotesi su cui scava il dibattito storiografico come sull’altra, suggestiva, dell’attribuzione del medesimo portale ad artista di maggior spicco, il famoso Gabriele Riccardi proposto di recente da Mario Cazzato, autorevole storico dell’arte. In questa sede mi preme tentare di capire ed eventualmente riuscire a dimostrare, sul piano umano e storiografico, se è compatibile e conciliabile nella vicenda esistenziale ed artistica di Bellotto una divaricazione cronologica di ben cinquantacinque anni, quanti ne sarebbero corsi appunto tra le due committenze domenicane di Galatone (1500) e di Mesagne (1555).

Recentissime analisi storiche, nostre e di altri, hanno dimostrato che la forbice si può restringere di almeno una ventina d’anni, con la conseguente datazione del bassorilievo di Galatone al 1530-1535, e l’agevole superamento del problema di incompatibile longevità artistica del Bellotto. Analisi confortate e supportate dagli avvenimenti storici galatonesi e salentini coevi, e dai loro protagonisti. Nella problematica epigrafe situata sul prospetto della chiesa di Galatone si afferma che la chiesa sorse nell’anno 1500 (MD) per voto ed iniziativa di Giovanni Granai Castriota figlio primogenito di Bernardo, barone di Ferrandina e conte di Copertino, il quale Giovanni dedicò il tempio a San Sebastiano e lo affidò ai padri domenicani.

Chi era costui e quali rapporti ebbe con Galatone? Oriundo macedone, brillante dongiovanni, cortigiano ed intrinseco della regina Giovanna, dopo essere stato anche vescovo di Mazara, il Castriota fu soprattutto audace condottiero e tenace difensore di Taranto di Gallipoli e di Galatone che, fortiter pugnans, aveva difeso e liberato dai francesi invasori del Salento negli anni 1500-1502. Amico dell’umanista Antonio Galateo, il quale qualche anno dopo ne ricorderà le gesta eroiche e le vittorie nel De Situ Iapygiae (1507-1509) e in due epistole dirette ai fratelli Alfonso e Giovanni, e al figlio di quest’ultimo Pirro.

Fu sicuramente in quel tempo (1500-1503) di perdurante esposizione ai pericoli che Giovanni Castriota dovette proclamare l’intenzione di erigere la chiesa la quale, come si può facilmente intuire, non poteva essere costruita in tempo di guerra, bensì alcuni anni più tardi. Nel 1712, ricostruita la chiesa, i domenicani ricordarono l’avvenimento sottolineandone la data con epigrafi dentro e fuori dell’edificio sacro: graffita sulla sommità della facciata in una cornice barocca (PRAEDICATORUM ORDINIS DUX ET MAGISTER DOMINICUM A.D.1712), replicata nella targa marmorea sovrastante il portale, su fascia di colore più scuro aggiunta in basso (NOVITER ERECTUM A(NNO) D(OMINI) MDCCXII), e ancora il 5 maggio 1719 al momento della consacrazione officiata dal vescovo Antonio Sanfelice, con altra più elaborata iscrizione posta all’interno, per riaffermare che questa nuova fabbrica era sorta il 1712 post CC annos dalla precedente del 1500, ad iniziativa dell’ordine domenicano. E così la data della prima fabbrica veniva avanzata, per malizia o ignoranza, dal MD al 1512 senza osservazioni di chicchessia. Fino ad oggi. E già questa discrepanza tra due epigrafi apposte a soli 7 anni di distanza, segnala una correzione di ben dodici anni tramite l’espressione post CC annos. Perché è assurdo che nel 1719, imperversanti Antonio Sanfelice e Pietro Polidori negli ambienti curiali di Nardò, si continuasse a parlare di Giovanni Granai Castriota semplicemente come del rampollo dei baroni di Ferrandina, e si ignorasse il nobile guerriero barone di Galatone e conte di Copertino, e valoroso trionfatore dei francesi.

Giovanni Castriota era succeduto al padre Bernardo nella contea di Copertino e nella baronia di Galatone, nell’ agosto 1508, e gli era anche subentrato a Ferrandina, e nella amministrazione dei feudi reginali di Leverano, Veglie, e Mesagne, dove si narra abbia perso la vita in duello nel 1516 (non nel 1514).

È importante, quindi, sottolineare i seguenti elementi: Mesagne e Galatone, due località governate dal medesimo barone Giovanni Granai Castriota, stessa intermediazione nelle due città dei padri domenicani, incaricati di far costruire due chiese o dallo stesso mecenate-committente finché fu in vita, o, in seguito, da congiunti del medesimo casato. Come è noto i Granai Castriota, con Maria, unica erede di Giovanni a Ferrandina, Galatone, e nella contea di Copertino, inizialmente tutorata dallo zio Alfonso, governatore della provincia e marchese di Atripalda, governarono quei feudi fino al 1549; quindi stesso artifex (Bellotto) pur con interventi eseguiti in epoche assai distanti tra loro.

Qualche anno dopo la morte del Castriota, la sua vedova Giovanna Gaetani di Traetto, aveva sposato in seconde nozze il duca di Nardò Bernardino Acquaviva. Una coincidenza non priva di sviluppi. Si può supporre infatti che il Bellotto sia stato suggerito ai domenicani di Mesagne da Isabella Acquaviva Castriota la quale, per essere figlia di Francesco, terzo duca di Nardò, era nipote di Bernardino Acquaviva, e ovviamente di Giovanna Gaetani, e naturalmente già vedovata in questi anni del conte Beltrano. Sicché la committenza mesagnese potrebbe essere riconducibile a lei che, verosimilmente, vivendo anche a Nardò, vi aveva conosciuto il Bellotto e viste opere sue forse eseguite in precedenza a Galatone e a Nardò.

Il nostro discorso, come è evidente, punta a dimostrare che la prima fabbrica del San Sebastiano di Galatone, e quindi il suo portale col corteo, vanno spostati di una trentina d’anni: a) per le difficoltà belliche già accennate (guerra tra Francia e Spagna scandita dalla disfida di Barletta del 1503, poi dalla battaglia di Cerignola dello stesso anno, fino alla stabilizzazione del viceregno di Napoli nel 1506 con Ferdinando il Cattolico; guerra franco-ispanica di Lautrech del 1527-1529; b) per il ritrovamento di un cartiglio (da me scoperto sul suddetto portale) con incisa la frase CASTRIOTA DOMUS, coincidente col documentato decennio di dimora nel castello di Galatone della famiglia Castriota (Alfonso con la moglie Camilla Gonzaga e la nipote Maria Castriota orfana di Giovanni) dal 1522 al 1531; c) l’inoppugnabile evoluzione artistica del classico manufatto galatonese rispetto a quello più modesto di Mesagne.

Alla luce di tali presupposti si può sostenere che, dopo il voto di Giovanni Castriota dichiarato il 1500, mentre ferveva in Salento la guerra contro i francesi, a costruire la chiesa di S.Sebastiano siano stati i Castriota, con tutta probabilità nel corso della loro residenza a Galatone. La Casa Castriota in solidum (con Pirro e la sua sorellastra Maria figli di Giovanni, soprattutto quest’ultima, ormai uscita di minorità e titolare della baronia) i quali, prima a Galatone, in seguito a Mesagne, vollero immortalare, nei rispettivi portali di due chiese domenicane, le gesta eroiche del loro glorioso congiunto. Le cui spoglie, ormai circondate dall’aureola e dal mito, alla cui nascita avevano contribuito l’amicizia personale e gli elogi di Antonio Galateo, potrebbero aver trovato l’ultima ospitalità in San Sebastiano, ed aver costituito il pannello di un eventuale sarcofago-mausoleo dell’eroe albanese.
(continua)

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°4

Il cacioricotta del Salento ai primi posti nel gradimento dei formaggi pecorini italiani

 

di Massimo Vaglio

Nei riferimenti storici più datati che lo riguardano, il cacioricotta è indicato perlopiù come una prerogativa dei tarantini. G.B. Gagliardo nel suo Catechismo Agrario (1793), riferisce di come questi usassero farlo nell’estate, quando il latte delle pecore ormai gravide perdeva sostanza e diveniva inadatto alla produzione degli altri formaggi. Lo stesso, lo indica come: …giovevolissimo per i malati e i convalescenti, perché non troppo sostanzioso, né molto salso –, e ne illustra anche il singolare metodo di conservazione, in salamoia, ridotto in pezzi e posto in vasi di creta smaltata.

In una classifica sul gradimento dei formaggi pecorini italiani dei primi del “900 troviamo ai primi posti anche il cacioricotta del Salento, che, prodotto nelle masserie di questo comprensorio, alcuni intraprendenti imprenditori, avevano cominciato a commerciare con successo nei più importanti mercati d’Italia. Purtroppo la grande crisi economica del “29 e i successivi eventi bellici, avrebbero di lì a poco stroncato queste iniziative.

Il cacioricotta, la cui produzione oggi  interessa l’intera Regione Puglia si presenta generalmente in piccole forme bianco candide, di forma cilindrica del diametro intorno ai 10 cm, e scalzo di circa 5 cm, recanti esternamente le impronte delle fiscelle.

Il latte viene riscaldato a fuoco diretto fino all’ebollizione. Il riscaldamento viene interrotto e la massa lasciata raffreddare fino a 40-45°C, momento in cui è addizionato il caglio (originariamente veniva utilizzato latte di fico, ovvero l’acre linfa di questa pianta).  Dopo 25-30 minuti avviene la coagulazione, a cui seguono 5 minuti di rassodamento. Si procede quindi alla rottura della cagliata, fino ad ottenere una grana delle dimensioni di una cariosside di grano o poco più, mediante spino di legno (ruotolo). La cagliata, sosta sotto siero per circa 5 minuti, il tempo totale di lavorazione in caldaia è di 45-50 minuti.

Allontanato il siero, si estrae la cagliata, con l’aiuto di una schiumarola, riponendola nelle fiscelle. Parte della produzione è avviata al consumo già dopo qualche ora senza essere sottoposta a salatura. Il prodotto destinato alla stagionatura sosta nelle fiscelle per un giorno. Quindi si toglie dalle fiscelle e si sala a secco cospargendo di sale grosso entrambi i piatti. Quindi viene posto ad asciugare in locali freschi, ove raggiunge una consistenza tale, da poter essere agevolmente grattugiato, in una ventina di giorni.

Da fresco si consuma come formaggio da tavola accompagnandolo solitamente con le “meloncelle”, i meloni tradizionalmente coltivati nel Salento, di cui si consumano i frutti immaturi. Dopo una breve stagionatura, è ottimo per condire i freschi piatti estivi a base di sugo di pomodoro fresco o gli stufati d’ortaggi.

All’ombra del carrubo

di Rocco Boccadamo

In effetti, non soltanto ombra e frescura gradevole, si ha la sensazione di immergersi in una piccola oasi balsamica, che riverbera gli odori gradevoli, autentici e genuini, di cui l’andante stagione è intensamente pregna.

Le foglie, di struttura regolare e armonica, quasi che siano state sagomate da mano artigiana, veleggiano al vento, salde e resistenti. Insieme con esse, grappoli innumerevoli, meglio ancora, caschi di frutti, le carrube, penzolano elastici da rami e rametti: al primo spuntare, con tonalità verde, poi assumendo, man mano, un colore marrone, progressivo da chiaro a scuro intenso, intanto che il succo umorale della polpa è assorbito poco a poco dai raggi forti e assetati del sole.

Si pongono all’osservazione fantasiosa, tali grappoli, in certo qual modo alla stregua di ciondoli, pendenti di corallo di rara sfumatura, mirabilia a piena aria, al pari delle magnifiche infiorescenze dei fondali, opera di mano grande e di arte imperscrutabile.

E’ assai piacevole sostare, adagiarsi alleggerendo la mente, ai piedi di questa pianta del giardino di casa, eccezione assoluta, nella sua specie, rispetto al prevalente e dominante boschetto di pini giganti e baldanzosi.

E’ inoltre stupendo e magico penetrare con lo sguardo e coi pensieri il labirinto di rami e foglie, immaginaria scacchiera o dama costellata di minute finestrelle libere e dischiuse verso l’azzurro del cielo.

Su siffatto “specchio”, ecco sfilare innumerevoli momenti, figure e personaggi, solo all’apparenza di ieri, in realtà avulsi dal tempo e dalle stagioni, tuttora di straordinaria, anche se non fisica, attualità.

Fra tali sequenze, i volti marcati, accentuati, rugosi e espressivi di due nonni, dai nomi di battesimo eccezionalmente inizianti con la medesima lettera, e però, in tutto il resto, diversi, agli antipodi l’uno dall’altra.

Il primo era solito tramandare ai nipoti bambini, in rigoroso idioma dialettale, una serie di “cunti “ (racconti), i cui contenuti rispecchiavano, in genere, vicende reali.

O, in alternativa, sciorinare filastrocche come:

Sotto la cappa del mio compare, c’era un vecchio che sapeva “suonare; sapeva suonare le ventiquattro, uno due, tre e quattro” e, ancora, “caddrina zupputa, furtuna nun n’ha” , da tradursi “una gallina che è zoppa, non può essere fortunata”. Nell’ultimo sciogli lingua, interveniva talvolta, non casualmente, la metamorfosi dell’aggettivo “zupputa” in un altro, “futtuta”, con illusorio cambiamento di situazione e concetto.

Fumava, detto nonno, il sigaro toscano, tenendo, sistematicamente, in bocca il lato acceso e infuocato: a suo dire, così tirava meglio.

Il buon uomo è arrivato a campare sino a cento due anni e mezzo.

La nonna vantava una mente, per lo meno una memoria, finissima: ricordava tutto, non solo nomi e date di nascita di figli, genitori, nipoti, familiari, parenti e paesani, ma addirittura le date dei battesimi, i nomi dei padrini e gli eventuali commenti del parroco che somministrava i sacramenti.

Sotto il carrubo, gli eventi del mondo, le diatribe politiche, il gossip, le distrazioni, i discorsi, le notizie e le cronache sembrano dileguarsi, annebbiarsi e quasi squagliarsi per effetto, misterioso, semplicemente di quel mantello di verde e di fronde svolazzanti ai refoli del vento.

E filtrando attraverso i piccoli squarci tra foglia e foglia, tra ramo e ramo, lo stesso frinire delle cicale riecheggia acquietato e per niente fastidioso, lasciando residuare spazio e agio silenzioso affinché gli occhi di chi indugia ai piedi della pianta si voltino a scrutare e si posino sulla non lontana distesa del mare; quest’ultimo, di suo,  sembra corrispondere profumando con aerei effluvi di salsedine, non soltanto la chioma e il corpo esteriore, ma pure le radici e l’anima del sempreverde e prediletto carrubo.

L’arte di intrecciare il giunco ad Acquarica del Capo (II parte)

di Tommaso Coletta

La raccolta

Che il giunco sia un’erba palustre dovrebbe essere noto un po’ a tutti, se non altro per averlo notato sulle dune o nei terreni a ridosso delle nostre spiagge. La pianta è formata da steli filiformi più o meno sottili, alti da un metro a un metro e mezzo, allo stato vegetativo di colore verde.

La raccolta, essendo un lavoro molto duro e all’epoca anche pericoloso per via della malaria, è stata da sempre riservata agli uomini. Questi, nel periodo estivo, partivano di notte, in bicicletta o con i traìni, per recarsi alli paduli che, se andava bene, erano situati nelle vicine attuali marine di Torre Mozza o Lido Marini, ma il più delle volte la destinazione era per i paduli molto più estesi e quindi abbondanti di materia prima, situati ad Avetrana, Laghi Alimini, Le Cesine. Quindi si trattava di fare dei viaggi da 100-150 km. considerando poi che al ritorno, dopo ore e ore di duro lavoro sotto il sole, portavano sulla bicicletta un carico fino a un quintale di paleddhu, si comprende benissimo la fatica bestiale di questi uomini.

Cestinaie all'opera, tratta dal libro “Acquarica del Capo, percorsi nel territorio e nella memoria
Cestinaie all’opera, foto tratta dal libro “Acquarica del Capo, percorsi nel territorio e nella memoria”

A tal proposito riporto un aneddoto che spesso mi raccontava mio padre il quale durante il ritorno da uno di questi viaggi in bicicletta, di notte, dovendo affrontare una lunga salita, staccò la dinamo dalla ruota per rendere meno faticosa la pedalata. Caso volle che quasi al culmine della salita fu fermato dai Carabinieri che gli contestarono il fatto di procedere sulla strada a luci spente e che pertanto dovevano fargli la multa. Mio padre cercò di chiarire i motivi della sua trasgressione spiegando che lui normalmente viaggiava con i fanali accesi ma che, dovendo affrontare la salita con un quintale di paleddhu sul portapacchi e stanco com’era, aveva fatto la furbata di disinserire la dinamo. I Carabinieri compresero la situazione (bontà loro) e lasciarono andare mio padre con la raccomandazione di riaccendere i fanalini una volta finita la salita !

Oggi i pochi che ancora si dedicano a questa attività utilizzano (e vorrei vedere!) quanto meno il mitico Apu. Le operazioni di raccolta potevano durare giorni e anche settimane; la raccolta vera e propria – in rapporto alla qualità del materiale, più o meno fine – poteva avvenire a mano, per estirpazione, oppure a taglio con l’ausilio di appositi falcetti. Per chi volesse approfondire lo specifico argomento, suggerisco il sito

http://www.bpp.it/apulia/html/archivio/2005/I/art/R05I151.htm

La bollitura e l’essiccazione

Arrivati al paese con la bicicletta o il traìnu, si procedeva a scaricare il raccolto, si slegavano i grossi fasci facendone dei mazzetti più piccoli che venivano poi immersi in un grande recipiente pieno d’acqua dove bollivano per circa un quarto d’ora. Quindi si toglievano e venivano adagiati per terra dove lentamente raffreddavano. Successivamente, in genere l’indomani, si riprendeva il tutto e lo si stendeva su un terreno oppure sulla terrazza (liama) dove lo si lasciava per una quindicina di giorni fino a che, da verde che era, lu paleddhu diventava color paglia. A questo punto si raccoglieva in fasci più grossi e veniva conservato in un luogo asciutto.

Cestinaie alla Fiera dell’Artigianato che si tenne a Lecce nel 1956 (foto tratta dal libro “Acquarica del Capo, percorsi nel territorio e nella memoria). La prima ragazza a sinistra è la madre dell’Autore, di 19 anni d’età

La zolfatura

Man mano che serviva lu paleddhu per lavorare i cestini, si doveva procedere prima alla zolfatura dello stesso, allo scopo di ingiallire e rendere più malleabile il filo.

Per prima cosa occorreva far rinvenire nuovamente, tramite immersione in acqua di circa mezz’ora, lu paleddhu secco quindi, dopo averlo sgocciolarlo, se ne facevano dei mazzetti che venivano disposti lungo le pareti della “stufa” (una sorta di minuscolo stanzino di circa un metro). Intanto, in un recipiente metallico, in genere una vecchia pentola, si mettevano i carboni ardenti sui quali veniva versato lo zolfo.

Devo confessare che questa operazione mi affascinava moltissimo. Se ero presente durante queste fasi, dovevo per forza essere io a buttare lo zolfo sulle braci: subito si innescava una modesta fiammata, poi si sviluppava un fumogeno e tutta l’aria era infestata dal forte odore pungente dello zolfo.

Il recipiente così fumante lo si metteva al centro della stufa, quindi si chiudeva lo sportello di legno avendo cura di sigillare tutte le fessure intorno con stracci umidi. Si lasciava così fino all’indomani, a questo punto lu paleddhu era pronto ad essere lavorato.

Per piccole quantità di paleddhu, al posto della stufa, si utilizzava, con lo stesso procedimento, un grande recipiente di terracotta lu cofunu, (sorta di grande vaso utilizzato anticamente anche per il bucato).

Il processo di zolfatura poteva essere ripetuto anche sugli articoli già realizzati e finiti per renderli ancor di più di un bel colore giallo paglierino.

Cartolina di Aquarica con vedute e i caratteristici cestini

La tintura

Il processo di tintura non è fondamentale all’interno del ciclo di trasformazione, infatti lo scopo di questa procedura è quello di disporre di fili di paleddhu colorato in maniera da abbellire con motivi ornamentali di colore diverso i vari articoli di cestineria. Si arrivava perfino a inserire dei caratteri in modo da comporre un nome, una dedica e altro.

Con lo stesso procedimento che le nostre nonne adottavano in passato per tingere di nero i pochi capi di vestiario a disposizione in occasione di lutti, si coloravano i fili di paleddhu. In un pentolone pieno d’acqua bollente si versava una bustina dell’apposita polverina colorante, rossa, verde, viola; la si scioglieva e poi si immergeva un piccolo mazzo di paleddhu già secco che, dopo una quindicina di minuti di bollitura, era diventato del colore desiderato. Quindi si toglieva dall’acqua e lo si stendeva ad asciugare per poi essere utilizzato nella lavorazione.

Ho raccontato i miei ricordi legati alla lavorazione del paleddhu, ho descritto le principali fasi del ciclo di produzione, non mi resta che riportare alcuni cenni storici tratti dalla pubblicazione realizzata dagli alunni dell’Istituto Comprensivo Statale di Acquarica del Capo edita nell’anno 2001 da PrintLeader editrice di Tricase; il volume ha per titolo “Acquarica del Capo, percorsi nel territorio e nella memoria”.

Non si sa quando gli Acquaricesi abbiano scoperto il giunco e iniziato a lavorarlo. La prime notizie documentate ci sono fornite da G. Arditi, nel 1879. L’autore scrive che le donne acquaricesi, oltre che collaborare con gli uomini ai lavori agricoli, si dedicano anche “all’industria speciale di tessere sporte, cestini e fiscelle di giunco (iuncus et fusus), che chiamano volgarmente Pileddu”.

Il giunco palustre, raccolto nelle paludi dell’Avetrana e in quelle di Ugento e Acaja, opportunamente trattato, veniva lavorato per ottenere “quelle utili e svariate fatture, alcune delle quali meritarono di stare all’Esposizione mondiale di Vienna nel 1873”.

Cosimo De Giorgi nel 1882 conferma la notizia dell’esposizione dei cestini acquaricesi a Vienna dove, aggiunge l’autore, “meritarono un premio”.

Successivamente i cestini furono esposti alla Mostra Nazionale di Torino, in seguito alla quale si ebbero numerose commissioni. La mancanza nel paese di un opificio organizzato non consentì tuttavia un’adeguata risposta.

Una Casa londinese, che aveva ammirato i cestini nell’esposizione di Vienna, manifestò il suo interesse inviando un suo rappresentante in Acquarica. Questi, “raggruppando quelle poche lavoratrici del giunco in un solo centro, giunse a far rifiorire questa industria del panieraio. E i prodotti furono spediti in Inghilterra ed in Germania, e per tutto furono accolti con favore, anche per la tenuità del loro prezzo”.

Sul finire dell’800 l’industria decadde; continuò tuttavia la lavorazione del giunco a conduzione familiare. I cestini prodotti dalle spurtare (cestinaie) di Acquarica erano molto usati nella vita quotidiana della civiltà contadina del tempo ed erano venduti nei mercati paesani di tutto il Basso Salento da piccoli commercianti del luogo. Periodicamente arrivavano in paese anche rivenditori delle province di Bari e di Brindisi per ritirare i cestini ordinati.

Spesso, per le precarie condizioni i vita della maggior parte della popolazione e la limitata circolazione del denaro, i cestini venivano barattati con prodotti alimentari (legumi, formaggio, farina, olio, vino, taralli,…).

Nella prima metà del ‘900, il commercio dei cestini cominciò a rifiorire. A partire dal 1926 nacquero e si svilupparono piccoli opifici per iniziativa di alcuni imprenditori, come Vito Palese ed Eugenio Zonno col figlio Salvatore. Questi chiamavano a lavorare, presso le proprie abitazioni, le cestinaie, in gruppi di 15- 20. La giornata lavorativa iniziava alle 7 del mattino e terminava la sera.

Quando si dovevano preparare spedizioni urgenti, si lavorava anche la notte per terminare i cestini e apporre le etichette sui prodotti da imballare. Questi venivano spediti oltre i confini salentini (Bari, Rimini, Riccione, Milano, Firenze) e all’estero (Inghilterra, Svizzera e perfino in America).

Gli stessi imprenditori, durante l’estate, si recavano personalmente a Rimini e a Riccione per vendere lungo le spiagge borse e cestini vari, paglie e scarpe. Alcuni cestini venivano spediti all’isola d’Elba presso l’Istituto di pena dove i carcerati li usavano per portarsi il pranzo quando andavano a lavorare fuori dalle carceri. I lavori più belli, esposti presso le fiere nazionali e internazionali, ottennero vari riconoscimenti e venivano richiesti, su ordinazione, da commercianti del Nord Italia.

A partire dagli anni ’60, la lavorazione del giunco cominciò a subire un lento e graduale declino. Le cause di tale declino sono molteplici:

Prima fra tutte l’avvento dei materiali plastici che duravano di più ma soprattutto costavano meno, poi il ridursi dei territori paludosi via via bonificati, ed infine il fenomeno massiccio dell’emigrazione che a partire dagli anni ’50 ha spinto molti acquaricesi alla ricerca di un lavoro più redditizio nel nord Italia e all’estero.

Cestini Acquarica esposti Ecomuseo della civiltà palustre Villanova di Bagnacavallo

informazioni finali

Il 27 dicembre 2008 ad Acquarica del Capo è stato inaugurato il Museo del Giunco Palustre, per valorizzare un’arte che è peculiare della storia sociale ed economica di questo paese.

Il museo ospita una sezione dedicata alle varie fasi del ciclo di trasformazione, dalla raccolta al prodotto finale. Inoltre si possono apprezzare numerosi manufatti in giunco realizzati dalle spurtare di Acquarica che ancora oggi continuano ad intrecciare lu paleddhu. Di particolare interesse è poi la presenza del Presepe di Giunco, e di varie foto storiche di lavoratrici del giunco.

I prodotti delle spurtare di Acquarica possono essere ammirati anche all’ Ecomuseo della Civiltà Palustre di Villanova di Bagnacavallo in provincia di Ravenna (vedi mia foto 2) dove, oltre a innumerevoli oggetti di produzione locale realizzati con materiale derivato dalla vegetazione palustre, sono presenti analoghe testimonianze di varie civiltà provenienti da tutti i continenti.

 

La prima parte può leggersi cliccando il link in basso:

 https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/08/larte-di-intrecciare-il-giunco-ad-acquarica-del-capo-patria-delle-sporte/

Invito il Salento alla sagra del futuro

di Franco Arminio

Lo so, è tutto fragile, confuso. La salute morale facilmente si dissesta, il disincanto è più forte dell’incanto, le meraviglie di un giorno non si replicano il giorno dopo.
Parlando coi ragazzi che a Miggiano hanno frequentato un breve corso di paesologia, ho sentito con forza che nel sud c’è una grande capacità di manipolazione simbolica, di astrazione, e nello stesso tempo c’è un cuore conviviale, un’economia della generosità. Da qui bisogna partire ogni giorno, dall’idea che non è Milano la cosa che ci manca, ma siamo noi la cosa che manca a Milano.
Il Salento deve lavorare sui dettagli. Qui più che altrove l’essenziale c’è già. Te lo dà la taranta su una spalla, il sole in testa, il mare in gola, le case di calce, i palazzi di tufo, la pietra dolce delle chiese, i campanili di sughero, lo zucchero filato dei balconi.

Terra scoperta, penisola limata dal vento e dalla luce, terra senza tegole, senza montagne e senza colline, dove la modernità convive con un fiato di magia. Sono arrivato coi nervi aggrovigliati e il cuore scuro, sono tornato a casa coi nervi ben distesi e il cuore più chiaro.

Il Salento, almeno per chi viene da fuori, è una grande farmacia: la farmacia del mare, degli orti e degli ulivi, della luce.
Il sud irpino, il sud in cui vivo, è un frammento del polo incastonato nell’Appennino. Un sud scontroso, iroso, diffidente. Veniamo dalla stessa civiltà contadina, ma con un altro clima, con un’altra geografia. Non abbiamo intorno a noi la cintura epica del mare, abbiamo una terra mossa, agitata, rigata da un vento spinoso. Per me è difficile capire come fila la vita quotidiana salentina nella sua lunga stagione estiva. Da noi l’estate è una breve apparizione. I paesi sono lontani e devi fare sempre tante curve per trovarli. In certi posti l’unica pianura è il palmo della mano.
Il Salento è un’altra storia, non posso pensare di conoscerla passandoci dentro per qualche giorno. Quello che so è che mi fa bene. Al punto che mi fa perdere pure le parole (sono rimasto muto per tre ore su uno scoglio a Novaglie), perché le parole vengono più facilmente nei luoghi che infiammano i nervi, nei luoghi in cui sento solo avarizia e sfinimento.
So che anche qui il sud ha i suoi capannoni, i suoi silos dove raccoglie accidie e rancori. Ho visto coi miei occhi la campagna piena di rifiuti e so che quelli a vista sono ben poca cosa rispetto a quelli che hanno buttato nelle cave.
So che la classe politica di questi luoghi pensa ancora
ad infilarsi nei caselli dello sviluppismo, in un momento in cui bisognerebbe uscire dalla carreggiata, fare sentieri nuovi, impensati, piuttosto che allungare il collo di bitume al cieco bisonte della modernità.
Domenica scorsa ho incontrato molte persone che si battono contro una strada che dovrebbe trafiggere come una spada il Capo di Leuca. A un certo punto abbiamo trovato una grande pietra su cui una volta si batteva il grano. Ci siamo seduti ai bordi di questa pietra e abbiamo fatto silenzio e il silenzio ci ha fatto sentire tante cose di noi stessi e di quello che c’è fuori. Io ho visto le formiche sulla pietra, ho pensato alla malattia di mia madre, ho avvertito il sincero ardore dei miei compagni di passeggiata.

Tante persone venute a dire no a una strada inutile, tante persone animate da una militanza  mite, capace di contestare ma anche di ammirare, una militanza in cui la voglia di cambiare il mondo non ti fa bendare lo sguardo a quello che c’è intorno, che comunque è sempre tanto e spesso è mirabile.
A me pare che oggi siamo chiamati a percepire più che a spacciare opinioni. E mi pare che la Terra ci chieda di essere guardata, ci chieda di non essere caricata come un asino.
Nel Salento più che altrove l’utopia meridiana può essere tagliata con lo scrupolo nordico (come avviene nella bella masseria che mi ha ospitato, gestita da una coppia del nord). Il sud non si salva assolvendosi, ribaltando cioè la sua antica vena vittimistica che ha ricevuto un notevole impulso dalla vicende funeste che portarono all’unità d’Italia. Abbiamo bisogno di guardare come siamo, abbiamo bisogno di congedarci dalla modernità incivile con cui abbiamo rottamato la civiltà contadina. È un bisogno che non deve riportare indietro il nostro sguardo, ma avanti. In fondo c’è una sola sagra che va bene per ogni luogo, la sagra del futuro.

(da il Paese nuovo – pag 19 di giovedì 24 maggio)

La cotognata leccese, un prodotto d’eccellenza

di Massimo Vaglio
Il cotogno appartiene all’ordine delle Rosales, alla famiglia della Rosacee e alla sottofamiglia delle Pomoidee. La specie da frutto è la Cydonia oblonga Mill 1768.

da: http://www.agriturismosantamaria.com/site/I-frutti-speciali/melo-cotogno.html

La specie a sua volta è divisa in varie sottospecie che sono: la “Cydonia oblonga Pyriformis”, la “Cydonia oblonga Maliformis”, la “Cydonia oblonga Lusitanica”, la “Cydonia oblonga Pyramidalis” e la “Cydonia oblonga Marmorata”.

Le varietà che producono frutti (pomi) eduli, appartengono alle sottospecie Maliformis, Pyriformis e Lusitanica, mentre le sottospecie Marmorata e Pyramidalis, hanno elusivamente un interesse ornamentale.

Si suppone che sia originario della Persia e precisamente della regione
del Caspio, dove lo si ritrova allo stato selvatico. È una delle piante  da frutto più anticamente conosciute, veniva infatti coltivato già 2.000 anni prima di Cristo dai Babilonesi. Nell’antica Grecia era un  frutto consacrato a Venere e come si evince dagli scritti di Catone, Plinio, Virgilio ed altri, era molto utilizzato ed apprezzato anche dai
Romani.

Il cotogno preferisce clima temperato-caldo, ed infatti la  coltura per la produzione di frutti, ha la sua maggiore area di  diffusione nelle zone meridionali ove le piante riescono a dare frutti  dolci, sufficientemente commestibili. In fatto di terreno, il più  indicato è quello profondo, fresco, povero di calcare, con pH inferiore  a 6, ovvero leggermente acido e tendente allo sciolto.

da: http://www.cookaround.com/yabbse1/entry.php?b=68267

La propagazione si effettua per talea, margotta e per innesto su franco, ossia su
piante ottenute da seme. A livello amatoriale viene pure innestato su  azzeruolo o biancospino; quest’ultimo è particolarmente indicato per i  terreni calcarei. La moltiplicazione per seme, per quanto possibile,
viene effettuata solo quando si vogliono ottenere nuove cultivar o per  ottenere soggetti da impiegare come portainnesti per lo stesso cotogno  o per il pero.

L’albero raggiunge a maturità i 3-5 metri di altezza, reca foglie tomentose e fiori solitari bianco-rosati. La coltura è soggetta ad essere attaccata dagli stessi parassiti del melo, anche se in genere dimostra maggiore resistenza. I frutti, che hanno un aroma e un profumo particolare, conservano anche a maturazione il tipico sapore astringente; si presentano ricoperti da una fitta peluria che cade per semplice sfregamento.

La polpa dei frutti, che maturano in settembre-ottobre, è acida, astringente, ma cotta e dolcificata, sia da sola che mescolata alla polpa di altra frutta si presta egregiamente per la preparazione di conserve quali cotognate, gelatine, mostarde e, in misura minore di distillati.

Le logge del frutto, contengono un elevato numero di semi, protetti da un tegumento il cui strato più esterno, che viene appellato tecnicamente “testa”, genera nell’acqua una sostanza mucillaginosa che si utilizza per la preparazione di bevante e pomate.
I frutti, venivano anche posti negli armadi e nei cassetti per profumare la biancheria. La produzione mondiale di cotogne, negli untimi decenni ha subito una drastica diminuzione e si attesta intorno ai 2 milioni di quintali, prodotti principalmente in America del Sud, Asia e America del Nord che forniscono insieme, circa il 50% del fabbisogno mondiale, mentre la restante parte, viene prodotta nei paesi dell’Europa orientale, Bulgaria in primis.

La produzione italiana di cotogne è ormai ai minimi storici, è infatti passata dai 175.000 quintali che si producevano nel 1966 ai circa 6.000 quintali rilevati  dall’Istat nel 2007. Alla fine degli anni “50 del secolo scorso, la Puglia, con una media produttiva di oltre 100.000 quintali annui deteneva il primato assoluto di questa produzione, seguita a lunghissima distanza da Campania, Sicilia, Sardegna e Abruzzo. Mentre la provincia italiana dove il cotogno trovava maggiore diffusione era quella di Lecce, seguita da quella di Foggia e di Pescara che sino alla metà degli anni “70 mantenevano ancora una produzione di circa 10.000 quintali ciascuna. A questo punto, si può asserire che in Italia non  esiste praticamente più una coltivazione organizzata praticata in  frutteti specializzati, infatti, l’esigua produzione nazionale proviene  in massima parte da alberi sparsi o coltivati in piccoli nuclei e va a  sostenere le richieste di ancor più risicate nicchie di consumatori.

Sino alla fine degli anni “60 la confettura di cotogne era un alimento diffusissimo, confezionata in pratici cubetti monoporzione, rientrava comunemente nelle razioni dei militari ed era praticamente immancabile nelle refezioni di scuole asili e comunità. Milioni e milioni di
genuini, quanto gustosi e nutrienti pezzi  di confettura che andavano a sostenere una sana economia agricola ed agroalimentare,  ingloriosamente archiviati, sostituiti con la più ghiotta, ma certamente anche meno salutare “Cremalba”, oggi Nutella, fortunatissima creazione dell’agroindustria italica. Il risultato, è che oggi, il cotogno è una delle specie da frutto a maggior rischio d’estinzione, a causa proprio della
perdita d’interesse della sua coltivazione, per cui diviene fondamentale conservare e salvaguardare le diverse varietà locali.
Salvaguardia che andrebbe effettuata facendo una caratterizzazione  morfologica ed agronomica di tutti i principali caratteri vegetativi e  produttivi, procedendo quindi alla loro catalogazione e riproduzione.
Il Salento è fortemente caratterizzato dalla presenza di terreni carsici, in larga parte pietrosi e comunque nella quasi totalità calcarei, quindi la coltura del cotogno, pianta calcifuga per eccellenza, è limitata a delle ben circoscritte aree di origine alluvionale costituite da terre nere argillose e ricche di humus. Di  simili zone, ve ne sono di diverse, di varia ampiezza, distribuite per  tutta la subregione, la più vasta delle quali è la cosiddetta Valle della Cupa, un’ampia, fertile depressione a Ovest di Lecce, che è stata, neanche a dirlo, sempre la primaria fonte di approvigionamento ortofrutticolo di questa città.

Grazie alla ricca e superficiale falda appesa, vi sorgevano dei rigogliosissimi orti e frutteti, e proprio qui, era ed è tuttora concentrata, la quasi totalità della produzione di cotogne della provincia, materia prima della tuttora celebre  “cotognata leccese”. La cittadina di San Pietro in Lama è in testa a  questa produzione, il suo territorio è ampiamente caratterizzato da  questa pianta, presente sia in piccoli gruppi, ai margini di altre  colture, che in piccoli frutteti specializzati. In secoli di coltivazione, sono stati selezionati alcuni cloni (anche se non meglio identificabili), particolarmente adatti al torrido clima locale.

La maggior parte delle coltivazioni ivi esistenti è caratterizzata da alberi anche molto grandi portati a volume, molto produttivi di frutti di pezzatura media, buona presenza e colorazione. Una varietà molto apprezzata è quella trilobata che produce frutti piuttosto allungati, quasi piriformi, localmente nota con la denominazione di “cutugni a piru”.  Infine, è da rilevare l’esistenza di qualche clone di cotogno che produce frutti molto grossi, anche oltre il mezzo chilogrammo di peso, che localmente vengono comunemente distinti con l’aggettivo, di “pacci” = pazzi, Questo termine, infatti, nell’idioma salentino assume anche il significato di gigante.

da: http://www.cookandthecity.it/2010/12/15/cotognata-bars/

Tornando alla cotognata leccese, ovvero alla confettura o composta, che viene localmente tradizionalmente prodotta, non possiamo non convenire che si tratta senza dubbio di un prodotto d’eccellenza, comunemente adoperato come ingrediente nella pasticceria locale. Già magnificata da Vincenzo  Corrado, che nel suo “Notiziario delle particolari produzioni delle  Province del Regno di Napoli”, Napoli (….) così ne parla: “ … e pel  senso del gusto san fare dilicate e gustose cotognate”, pare che questa produzione come quelle di Ruvo e di S. Fenicia, venisse già all’epoca  in larga parte esportata all’estero.

Una tradizione prestigiosa quindi, che non ha trovato soluzione di continuità, se non, l’attuale drastico ridimensionamento dei volumi prodotti. Una produzione che nella prima metà del secolo scorso venne incrementata e razionalizzata raggiungendo il rango di vera industria e diverse erano le industrie dolciarie che stagionalmente vi si dedicavano, a fare da apripista certamente la rinomata ditta Raffaele Cesano che aveva proprio nella cotognata il prodotto di punta e che introdusse l’uso di un particolare macchinario che omogeneizzava la confettura ottenendo così uno standard qualitativo più costante. La memoria di tante altre aziende, non è andata  completamente perduta perché immortalata sulle deliziose scatole di  latta in cui questa veniva confezionata. Nella bacheca di un’appassionata collezionista, mi è capitato di ammirare decine di confezioni diverse e di scoprire, oltre alla Cesano, l’esistenza di altre aziende,  operanti nello stesso periodo in città, fra queste, la ditta Francesco Fiorentino e la ditta Oronzo Tripoli.

Oggi, la tradizione viene brillantemente portata avanti da diverse pasticcerie  di tradizione di Lecce e hinterland, quali: la Pasticceria Franchini; il  Bar della Cotognata Leccese; la Pasticceria Natale e a livello più  industrializzato, ma sempre con la stessa cura artigianale, dall’industria dolciaria Maglio.


Ecco la ricetta come la vuole la tradizione:
Lavate le cotogne sfregandole per eliminare la peluria, eliminate i torsoli e le eventuali ammaccature, tagliatele a pezzi e ponetele in una caldaia unendo mezzo litro d’acqua ogni 800 grammi di prodotto. Llasciate cuocere lentamente il tutto rigirando spesso con un cucchiaio di legno fino ad ottenere una poltiglia che passerete al setaccio, ottenendo così una purea. In un’altra caldaia (tradizionalmente vengono adoperate le caldaie di rame non stagnate)  ponete 500 grammi di zucchero per ogni chilogrammo di purea e fatelo  sciogliere con un po’ d’acqua; aggiungete la purea di mele cotogne e  lasciate cuocere il tutto senza coperchio fino a quando la confettura  avrà assunto una buona consistenza e la tipica colorazione rosso-bruna.
Versate la confettura così ottenuta in formine, oppure in  teglie  quadrangolari dai bordi bassi, una volta raffreddata tagliatela a pezzi  avvolgeteli con carta oleata e conservateli in scatole di banda  stagnata, oppure potete avviarla subito al consumo, tale, o cosparsa di  zucchero semolato.

Come si può notare, in questa ricetta non è prevista l’eliminazione delle bucce, la cui presenza contribuisce ad addensare il prodotto e a caratterizzarlo con un maggiore aroma e una leggera, piacevole granulosità tipica delle produzioni familiari. Volendo ottenere un prodotto più raffinato dovrete procedere quindi alla preventiva eliminazione delle bucce, per proseguire poi  nel modo anzi  descritto.

Liquore di Cotogne
Ecco la ricetta di un piacevole liquore a  base di cotogne, o meglio di bucce di cotogne, apprezzato per il gusto  particolarmente grato e  le ottime proprietà digestive e corroboranti.

Ingr.: 250 g di bucce di cotogne , 500 g di zucchero, 1,2 l di alcool a  95°, 3 dl di acqua minerale. Preparazione: mettete a macerare con l’ alcool le bucce, in un recipiente di vetro a chiusura ermetica. Dopo 40  giorni, sciogliete lo zucchero nell’acqua calda, fate raffreddare e  unite lo sciroppo ottenuto alle bucce macerate. Lasciate riposare per
altri 20 giorni, al buio, agitando di tanto in tanto il recipiente .
Filtrate il liquore ottenuto attraverso una garza e imbottigliate. Si  consiglia di lasciarlo “maturare” per almeno 6 mesi, prima di servirlo.

Il nostro Salento. Fra luce e controluce

ph Vincenzo Gaballo

di Paolo Vincenti

E’ vero, la luce nel Salento ha qualcosa di magico, qualcosa che, chi vive ad altre latitudini, a volte, meglio di noi, può percepire, nell’incanto di un tramonto rosso fuoco, che chiude un giorno di muta pena, o di un’alba bianca come albume d’uovo, che ne apre un altro alla speranza, ogni giorno, per tutti i giorni che gli dèi vorranno per questa terra. Alba e tramonto, alfa e omega di un viaggio continuo intorno all’uomo, in questa terra stregata, qui, a sud, in questa terra  fatata, alla ricerca di noi stessi, di quello che abbiamo perduto, come desiderio inconfessato, come ansia sempre inespressa.  La luce, si diceva, e la controluce.

Fra questi due spazi mentali, come interstizi del tempo, sta tutto un mondo millenario, che parla di radici profonde, di sangue misto a vino rosso, di sudore impastato con la terra, di lacrime e di bestemmie, di gioia e alte grida, di tradizioni e di superstizioni, di storia e di leggende,  di questo estremo lembo di terra cantato dai versi di Bodini, di Pagano, di Ercole Ugo D’Andrea, di Vittore Fiore, di De Donno e di Cataldi, di De Jaco, di Donato Moro. Qui, uomini dalle mani callose e donne dentro scialli neri hanno fatto la storia, al pari di altri uomini dai lunghi mantelli e dai preziosi diademi. Qui, hanno alzato castelli e torri nell’aria, hanno arato campagne dalla terra rossa e messo a frutto alberi secolari, hanno alzato muri e muretti, liame e pajare, hanno sepolto tesori e creato strade verso l’infinito, e chiese per pregare il Dio di misericordia e di clemenza.

Qui, in questa terra di confine, sospesa fra noi e il mondo, il sacro si è mischiato al profano, ed hanno inventato storie, hanno intrecciato fiabe e filastrocche, come grani di un rosario. All’estremo limite del vero, dove una partenza si trasforma in un arrivo ed un arrivo in una partenza infinita, nel continuo andare e tornare di tutte le terre di frontiera, come questa terra finale, agognata, sudata, amata e disprezzata.

Terra madre e matrigna, gelosa dei propri figli, che manda via lontano per fare esperienza, e poi richiama a se;  una terra aspra, che sa essere fredda come lama di coltello e calda come una coperta di lana, descritta da Corvaglia, da Salvatore Paolo, da Rina Durante, da Saponaro e Bernardini. Questo non è l’El Dorado del sogno dei cercatori d’oro, non è l’America degli emigranti, non è l’Arcadia dei poeti e dei romanzieri.

Questa terra è, apparentemente, un posto tranquillo e fermo, sempre uguale a se stesso, che non promette e non chiede che gli si prometta, un posto illuminato da una luna borbonica  e scaldato da un sole magnogreco, che non  dà nessun pegno d’amore, che non può offrire nessun riscatto di felicità. Apparentemente. Questo non è un posto per chi cerca esotiche avventure con  donne belle e mediterranee. Questo non è il buen ritiro di intellettuali illuminati e snob,  o l’eden nascosto di viaggiatori stanchi, avvinti dal canto delle sirene. Se non impari a guardare con certi occhi il tempo, il mare, il cielo e il silenzioso passare delle cose, non potrai mai vedere, in questa terra, niente altro che la tappa dell’ennesimo viaggio, il posto incontaminato e selvaggio, che viene bene per le foto, della tua ultima vacanza estiva con panorama mozzafiato e contorno di fichidindia.

Invece, se sai guardare il profilo misterioso di questo pianeta, il lato nascosto delle cose, e sai fermare nelle foto l’attimo in cui passa l’ombra di un fantasma, sai sentire, nella sera, dalla collina davanti, il richiamo delle anime dei morti che ti cantano una canzone senza tempo, se conosci il sapore amaro della sconfitta, allora saprai che qui si lavora di mani e di piedi,  gli uomini e le donne mutano la pelle con la stagione, come le sacare, e le strade, silenziose e assorte nella calma pomeridiana, sono attraversate da uomini neri o da orchi, spauracchio di bambine e bambini. E incontrerai monaci burloni che tirano fuori il batacchio se gli premi la testa e carabinieri con il fischietto nel sedere, e poi, a mezzogiorno, dalle stalle o da vecchie carcare, vedrai uscire folletti dispettosi, scazzamurreddhi, che vanno a seminare zizzania fra contadinotti e villanelle, e donne ragno che camminano sui muri.

Allora vedrai che donne giunoniche, belle da perderci la testa, non stavano aspettando altro che te per tuffarsi nell’oblio dei sensi, nel piacere della carne. E sentirai  il fruscio del vento al passare, leggero e veloce, di macare su manici di scopa, o i lamenti di stregoni rinchiusi in manicomi  o  abbandonati alla solitudine e al disprezzo di tutti. E incontrerai demoni che praticano strani riti con le loro sacerdotesse, in casini abbandonati, fra  i fumi dell’incenso e l’ebbrezza dell’oppio. Incontrerai uno strano prete che ti racconterà barzellette e un omino stralunato ma simpatico che ti racconterà i suoi guai, e sentirai il suono del tamburello che danza, che canta, che si fa persona viva, anzi si fa dieci, cento, mille persone, che affogano la tristezza nel vino rosso, che scorre  a fiumi nell’estasi della festa.

ph Vincenzo Gaballo

Fra la luce e la controluce, sentirai il brusio di mille pensieri  e il venir meno di tutte le certezze formate sui libri di scuola. Capirai che questa è terra di incontri, dove la reale finitudine delle cose diventa immaginaria infinitezza nel pensiero di ieri, di oggi, di domani.  Capirai, insomma, il vero Salento, il nostro Salento. Fra  luce e controluce.

Tessuti salentini

di Emilio Panarese

Spigolando nell’epistolario di mons. Capecelatro, arcivescovo di Taranto alla fine del ‘700, frammenti delle cui lettere abbiamo rinvenuto in una edizione di Nicola Vacca («Terra d’Otranto, fine ‘700-inizi ‘800, Bari 1966») e alcuni riferimenti nelle «Carte Capece-Lopez», che si conservano nella Biblioteca ‘Piccinno’ di Maglie (lettera spedita nel nov. del 1807 da Bartolomeo Ravenna al duca di Taurisano Antonio Lopez y Royo, marito di Francesca Capece), ci siamo fatta un’idea abbastanza chiara dell’alta considerazione in cui erano sempre stati tenuti, sin dall’alto medioevo, non solo dai consumatori locali, ma anche da quelli di altre regioni italiane e dai mercanti stranieri (inglesi, russi etc.) alcuni tessuti lavorati qui nel nostro Salento: le felpe, le calze di ventinella di cotone sopraffino, lavorate a Galatina e a Taranto, le cravatte, i fazzoletti, i guanti, le coperte, i berrettini sfioccati, il pepariello, il barracano.
Si trattava di un artigianato nobilissimo, raffinatosi attraverso molti secoli, e che si distingueva soprattutto per la delicatezza e la rifinitura artistica dei prodotti.

pregiati tessuti salentini

Assai ricercate erano a Gallipoli le nostre pregiatissime, finissime e morbide mussoline, tessuti di cotone o di lana di oro e di argento, specialmente dai mercanti fiorentini, nel periodo dell’importante fiera del Canneto (2-8 luglio), in cui tutte le merci godevano di franchigia di dazi e di balzelli. Così a metà dell’800 cantavano i gallipolini: «Nini, nini, nini,/ mercatanti fiorentini,/ ci anu utandu pe lle fere/ anu ccattandu li musulini»/. In una lettera del 29 aprile 1797 Ferdinando IV scrive alla regina che da Gallipoli le porterà in dono ‘certe bellissime mussoline’.

“camisola” degli anni ’50 del secolo scorso. Manifattura neritina

Non meno celebri e richieste erano le cuperte azzate, cioè a rilievo, di Nardò (ma si lavoravano anche a Galatone e a Gallipoli), di tanto pregio, che se ne spedivano continuamente a Napoli, Genova, Roma, Milano, Livorno, in Inghilterra e in Russia. Per la confezione di ognuna occorreva più di un anno di lavoro. Venivano trattate con filo di bambagia il più delicato e il più sottile e tinte con dei succhi di radici e di erbe, dalle donne escogitate e da niuno nell’arte di tingere istruite.

Pure noti erano i mussolini di Lecce, detti turbanti, e il barracano di Muro Leccese (mantello grossolano tessuto con filo di pelo di capra).
Pregiata assai era inoltre nel ‘700 la ferrandina salentina (così chiamata dal luogo di origine in provincia di Matera), molto resistente all’uso, con cui si confezionavano soprattutto le camisciole, alias corpetti colle maniche, forse in origine importata nel Salento dai Domenicani. Era una pannina bianchissima (ma se ne faceva pure di altri colori) il cui ordito era di cotone fiore e la trama di lana gentile.

mutande femminili su pregiata coperta. Manifattura neritina anni ’30 del secolo scorso

Molto accorgimento e grande abilità richiedeva la preparazione della materia prima e della manifattura, nelle quali eccellevano sulle altre le donne di Nardò, Galatone, Galatina e Tricase.
Per la biancheria da tavola veniva invece usato il pepariello: un tozzo tessuto di cotone, detto pure a pipiriddu o a pipiceddu, cioè ad acini di pepe.

Anche i tessuti di bisso erano celebri e ricercati sin dall’antichità: a Taranto e in molti paesi della provincia di Lecce si confezionavano col fiocco della pinna nobilis. Coi filamenti del bisso (mollusco lamellibranco) lunghi fino a venti centimetri le gallipoline confezionavano con grande maestrìa dei tessuti detti “nebbie di lino” di estrema morbidezza e vaporosità, di bellissima vista e così pomposi di cui si servivano le più aristocratiche nobildonne del regno. Col bisso si preparavano anche calze finissime e guanti di lana pesce e berrettini sfioccati (che tanto piacevano a Ferdinando IV) superiori a quelli di castoro per leggerezza, morbidezza e durata. Se ne spedivano persino a Pietroburgo. Finissime erano pure le “cravatte”, di gran moda nel ‘700, cioè panni assai pregiati con cui le donne si coprivano le spalle.

copritavolo ad intaglio. Manifattura salentina degli anni ’70 del secolo scorso

E che dire infine degli ombrellini in pizzo bianco, a traforo e trasparenti, con motivi ornamentali o con ghirlande floreali di vario colore, o delle borsette in filigrana d’argento con cerniere finemente cesellate, degli eleganti ventagli di madreperla o di seta, indici di squisita eleganza, di buon gusto, di estrema raffinatezza? E che cosa dei ventagli di piume di struzzo con montatura di tartaruga o di osso e velo, strumenti di civetteria, d’istinti e di passioni, armi potenti nelle mani delle donne?
«Giove, re degli immortali,/ agli augelli ha dato le ali./ Alle donne – e non fu sbaglio -/ dié la lingua ed il ventaglio./»

In «Tempo d’oggi», II (15), 1975, per gentile concessione di Emilio Panarese e del figlio Roberto

Qualche altra cosetta sulla scèsciula (giuggiola)

di Armando Polito

nome scientifico: Ziziphus jujuba Mill.

nome italiano: giùggiola

nome dialettale: scèsciula

famiglia: Rhamnaceae

A cci tanto e a ccii nienti! (a chi tanto e a chi niente!)- mi viene da dire pensando a chi ha piantato con amore la nostra pianta di oggi e, nonostante le assidue cure, l’ha vista poi crescere stentatamente o addirittura morire. Io, invece, sono costretto quasi ogni anno ad eliminarne almeno una decina, dopo aver, per così dire, raccolto le amichevoli “ordinazioni”, senza contare quelle che si sviluppano alla base della pianta madre. Mi viene pure in mente lu Patreternu tae li frisèddhe a ccinca no lli rrosica (alla lettera il Padreterno dà le friselle a chi non le mastica) ma questa volta il detto non mi si adatta, non tanto perché finché non mi cadrà l’unico dente non potrò considerarmi sdentato, ma perché di scèsciule sono ghiotto, anche se rischio sempre di mangiarle insieme con la carne. L’immagine non è propriamente elegante, ma debbo spiegarmi meglio: il nostro frutto, almeno il mio, spesso appare integro ma all’interno presenta un indesiderato ospite che ha già scavato, per lo più, le sue gallerie visibili solo al primo morso, ragion per cui debbo fare attenzione ad isolare la parte sana. Lo faccio da tempo immemorabile, anche perché la campagna in cui, fortunatamente, vivo non sa cosa sia un antiparassitario e così sarà finché vivrò. Solo un anno notai che le giuggiole erano tutte integre, proprio l’anno in cui alla loro base avevo seminato dei ravanelli. Da allora, ne sono trascorsi più di venti anni, mi sono ripromesso di rifarlo, anche se potrebbe essere stata una semplice coincididenza, ma, sarà colpa dell’arteriosclerosi, me ne sono puntualmente dimenticato.

Basta con le cose personali! È tempo di passare alla protagonista, nel tentativo di dire qualcosa in più rispetto a quanto gli amici spigola(u)tori) Luigi Cataldi e Massimo Vaglio hanno rispettivamente trattato nei loro post In un brodo di giuggiole del 2 settembre 2010 e Giuggiole, alias scèsciule, per pochi intenditori! del 10 novembre u. s., cominciando, al solito, dalle etimologie:

Zìziphus è il nome latino (nell’editto di Diocleziano, come dopo si dirà, compare la forma zìzufum), dal greco zìzoyfon; nel greco tardo è zizoulà che, con conservazione, però, dell’accento originario, ha dato vita alla voce italiana ed a quella dialettale. Quanto a jujuba il discorso è molto complicato. Potrebbe essere deformazione del primo componente (zìziphus) e, dunque, sostanzialmente una ripetizione, come succede nell’altro nome scientifico (Ziziphus ziziphus) ma potrebbe anche essere deformazione (attraverso un passaggio intermedio *jonnabon, da cui lo spagnolo jujuba, il francese jujube e il napoletano jojema) di onnabon, il nome dato dagli arabi alla varietà rossa (la bianca è zifzufon).

Rhamnaceae è forma aggettivale da rhamnus, a sua volta dal greco ramnos=pruno (e il pensiero non può non andare alle sue spine…).

Sistemata, più o meno, l’etimologia, passo alle più significative testimonianze antiche, cominciando da quelle del mondo greco che, tuttavia, questa volta, sono cronologicamente successive a quelle latine (il che corrobora la notizia di Plinio, che fra poco leggeremo, sull’importazione dalla Siria  in Italia di questa pianta da parte dei Romani). E preliminarmente va detto che appare definitivamente tramontata la tesi ottocentesca che identificava, sulla scorta di un passo (II, 96) di Erodoto (V secolo a. C.) e sulla sua citazione (XII, 2, 2) da parte di Polibio (II secolo a. C.), proprio nel giuggiolo il lotòs, il frutto del paese dei Lotofagi, cantato da Omero (Odissea, IX, 94); oggi si tende ad identificare tale frutto con la carruba.

Alessandro di Tralle (medico del VI secolo d. C.): è sua l’attestazione della voce zizoulà1 sopra ricordata.

Geoponica (compilazione di 20 libri di agronomia risalente al X secolo, ma che comprende anche testi molto più antichi): “Dai polloni o dagli stoloni si piantano i meli e simili, come il cieliegio, il giuggiolo (zìzoyfon)…dalla talea e dai rami si piantano il mandorlo, il pero,…il giuggiolo…e trapiantati vengono meglio. “; “Il giuggiolo si pianta anche dai rami tolti dalla parte centrale dell’albero, secondo quanto dice Didimo nelle sue Georgiche”; “Le giuggiole (zìzoyfon, come l’albero) si conservano immerse nel vino misto a miele, poste su foglie di canna”.2

Passo agli autori latini. Columella (I secolo d. C.) cita lapidariamente il giuggiolo parlando delle fonti di alimentazione delle api: “Alberi raccomandabilissimisono il giuggiolo (ziziphum) rosso e il bianco…”, anche se poco dopo parlando del miele il nostro albero si classifica, a pari merito con la maggiorana, al quarto posto, dal momento che in riferimento alla bonta del prodotto è preceduto, a salire, dal rosmarino, dall’origano, e dal timo: “Di gusto mediocre sono poi i fiori della maggiorana e del giuggiolo”3.

Il contemporaneo Plinio: “Molti sono i generi di mele. Dei cedri e del loro albero ho detto. Mediche chiamarono i Greci quelle che vengono dalla Media. Ugualmente forestieri sono i giuggioli (ziziphum) e i lazzeruoli che sono giunti in Italia non da molto tempo. I primi dalla Siria, i secondi dall’Africa. Sesto Papinio, che ho visto console, per primo importò gli uni e gli altri negli ultimi anni del divino Augusto, piantandole nell’accampamento, simili alle bacche più che alle mele ma soprattutto adatte ai terrapieni, tanto che ormai si son formati boschetti pure sui tetti”; “I giuggioli si piantano col seme nel mese di aprile”4.

Molto probabilmente la scoperta delle proprietà terapeutiche della giuggiola, visto che negli autori fin qui esaminati non c’è il minimo cenno, è piuttosto tardiva. Tuttavia, che essa fosse senz’altro quotata come frutto è dimostrato dalla sua presenza nel calmiere stilato da Diocleziano nel 301: “Mezza libbra di giuggiole (zìzufum): 4 denari” 5 e da queste ulteriori considerazioni:   mezza libbra corrispondeva a circa 163 g. e 4 denari erano nello stesso editto il prezzo massimo fissato per la stessa quantità di ciliege o per 10 mele di prima qualità (Mattiana o Saligniana).

Per vederne riconosciute, almeno ufficialmente, le proprietà terapeutiche bisognerà arrivare al secolo XVI e al medico Castore Durante da Gualdo, che nel suo Il tesoro della sanità fa precedere la relativa scheda (ma lo fa anche con gli altri frutti) da due distici elegiaci: Magna placent, tussim sedant stomacumque lacessunt,/humenti frigent zizipha temperie./Serica bacca rubens thoraci et renibus offert/praesidium, nutrit concoquiturque parum 6 (Le giuggiole piacciono grosse, placano la tosse e stuzzicano lo stomaco, rinfrescano con la loro natura umida. La sua serica bacca dà giovamento giova al torace e alle reni, nutre ma è poco digeribile); ecco la scheda:

“Nomi. Latin. Zizipha. Ital. Giugube et Giuggiole.

Qualità. Le giuggiole mature son temperate così nel calido, come nell’humido.

Scelta. Si elegghino le mature, et ben rosse.

Giovamenti. Giovano il petto, alle reni, et alla vessica, fermano i vomiti causati dall’acredine degl’humori, se ne fa siroppo, il quale condensa il sangue colerico, et le materie sottili, che discendono al petto, et li metteno nelle decottion pettorali, per domare l’agrimonia del sangue, et cavar fuori il suo humore sieroso; giova alla tosse, et all’asprezze delle fauci. Ne i cibi son solamente dalli sfrenati fanciulli, et dalle donne molto le giuggiole desiderate.

Nocumenti. Sono di pochissimo nutrimento : molto malagevoli da digerire, et imperò molto contrarie allo stomaco.

Rimedi. Bisogna usarle in poca quantità, et solamente per medicina, et non per cibo, che se ne fa nelle spitiarie lo siropo giugiubino”7.

E un secolo dopo la nostra giuggiola raggiunge l’apice della carriera entrando nel ristretto ed apprezzato comitato dei “quattro frutti pettorali: dattoli, fichi, giuggiole e uva passa”8.

Per chi, infine, avesse nostalgia della “pasta di giuggiola”, una specie di gelatina fino a qualche decennio fa in vendita nelle farmacie, ecco il metodo per preparare qualcosa che  lo farà andare, metaforicamente, in brodo di giuggiole:

Snocciolare i frutti secchi e pestare quanto più finemente possibile la polpa fino ad ottenere una massa di circa 400 g.; quindi lavorarla con 600 g. di zucchero fine, spianarla col matterello e metterla nel forno a temperatura moderata per circa dieci minuti. Quando è raffreddata dividerla in losanghe.

E per le caramelle di giuggiola: lasciare a bagno  30 grammi di giuggiole secche snocciolate in 200 grammi di acqua e poi sciogliere a caldo nell’infuso 180 g. di gomma arabica. Filtrare il liquido con un panno, aggiungervi 220 g. di sciroppo semplice, bollire finché il tutto non raggiunge una consistenza pastosa. Profumare con 10 g. di fiori di arancio, togliere la schiuma e versare in stampi di adeguata dimensione e mettere in forno a 30° per dieci minuti circa. Se si vuole si può lasciare mescolata col liquido un po’ di polpa.

Un’ultima annotazione: forse la nostra scèsciula ha a che fare con la Zinzulusa, la famosa grotta tra Castro e Santa Cesarea Terme.

Il Rohlfs al lemma zìnzulu propone un confronto con l’omografo calabrese e con il “greco moderno  τσάντσαλον” (leggi tsàntsalon)=cencio.

Il maestro tedesco mostra di seguire l’opinione corrente che collegherebbe il nome proprio della grotta con le sue stalattiti che sembrano cenci. In realtà questa interpretazione metaforica  risale ad una memoria del Brocchi pubblicata nel 1820, leggibile integralmente all’indirizzo

http://books.google.it/books?id=J47P66UGoI8C&pg=PA80&dq=zinzulu&hl=it&sa=X&ei=rposUYr1LcbUtQaEwID4Dw&ved=0CEcQ6AEwBA#v=onepage&q=zinzulu&f=false

Il De Giorgi, poi, nei suoi Bozzetti di viaggio la riprese forse decretandone la diffusione e il successo. Credo, però, che le cose stiano diversamente. Lo stesso Rohlfs più che proporre un’etimo invita ad un confronto. Infatti τσάντσαλον come padre di zìnzulu non regge sul piano fonetico; e poi, ogni tentativo che ho fatto di trovare τσάντσαλον ha, non da oggi, avuto esito negativo, anche se non è da escludere che più che di una voce neogreca si tratti di una voce dialettale.

Credo che i cenci non c’entrino per nulla e che, invece, un ruolo di protagonista lo reciti il giuggiolo. E in questo condivido pienamente quanto si legge nel saggio dedicato all’argomento da Gianluigi Lazzari, interamente visionabile cliccando sul primo titolo (thalassia 26 definitivo … ul) che appare all’indirizzo

http://www.google.it/#hl=it&sclient=psy-ab&q=antonio+francesco+del+duca+zinzolosa&oq=antonio+francesco+del+duca+zinzolosa&gs_l=hp.12…48141.60550.1.66789.36.32.0.4.4.3.1555.10251.0j20j1j2j5j2j0j1j1.32.0…0.0…1c.1.4.psy-ab.LnJXehqQFrM&pbx=1&bav=on.2,or.r_gc.r_pw.r_qf.&bvm=bv.42965579,d.Yms&fp=b1e277ef7d8a11de&biw=1280&bih=631

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1 Therapetikà, VI, 5.

2 X, 3, 43 e 44 ; traduco dal testo originale dell’edizione a cura di P. Needham, A. & G. Churcill, Cambridge, 1704, pagg. 242 e 270.

3 De re rustica, IX, 4; traduco dal testo originale dell’edizione a cura di J. G. Schneider, Antonelli, Venezia, 1846, pag. 551.

4 Naturalis historia, XV, 14 e XVII, 14; traduco dal testo originale dell’edizione a cura di M. L. Domenichi, Antonelli, Venezia, 1844, vol. I, pagg. 1331-1333 e 1507.

5 Edictum de pretiis rerum venalium, VI, 56. Traduco dal testo dell’edizione a cura di T. Mommsen , Lipsia, 1851, pag.

6 Cito dall’edizione uscita per i tipi di Imberti a Venezia nel 1643, pag. 187.

7 Op. cit., pagg. 187-188.

8 Giovanni Onorato Castiglione, Prospectus pharmaceutici, Quinto, Milano, 1698, pag. 48

Funnucrudeu

(Inedito)

testo e foto di Giorgio Cretì

Funnucrudeu era una proprietà coltivata da quattro mezzadri, cioè da quattro famiglie, ed era suddivisa più o meno equamente in quattro partite ognuna costituita da una buona parte di bassura arativa e da un’area più piccola di cuti1). Tutte le bassure erano coltivate, i cuti solo in piccola parte, con le zappe naturalmente. Il resto era lasciato alla flora spontanea: al timo, ai fùmuli(2) e alle fracilische(3) che una volta secchi venivano raccolti per il forno. Spontanei crescevano anche i lampascioni(4).

Le colture più praticate erano costituite da orzo, grano e piselli, a seconda delle rotazioni. Non si coltivavano ortaggi perchè il fondo era lontano dal paese e c’era soltanto un piccolo ricovero semi diroccato, segno di un’epoca in cui c’era stata la vigna distrutta poi dall’attacco della fillossera alla fine dell’Ottocento. C’era anche una cisterna, ma non mateneva più l’acqua perchè era stata a lungo trascurata ed ora dentro c’erano delle grosse pietre buttatevi chissà da quali mani vandaliche. Per bere bisognava approvvigionarsi alla cisterna di un fondo vicino tenuta sempre in ordine. D’inverno, però, c’era acqua pulita sui cuti di Funnucrudeu, in certe conche naturali impermeabili a forma di cono rovesciato, che venivano tenute regolarmente pulite dalla terra e dalle erbe.

fracilisca (Ferula communis)

Funnucrudeu era ripartito tra Raffaele della Luna, Rafeli, Angelo Cisterna, Ancilu, suo fratello Rocco e la famiglia di una loro sorellla che si chiamava Gesira. Quell’anno Peppino aveva imposto di seminare avena, un cereale che a lui serviva ma non ai mezzadri che avevano dovuto subire il sopruso. A loro servivano il grano, l’orzo ed i piselli. Anche se questi ultimi, coltivati lì, non erano molto apprezzati, però, perchè la terra scarseggiava di certe sostanze minerali e non era adatta per i legumi: non cuocevano mai.

La terra rossa veniva lavorata al secco nei mesi estivi dalle zappe di due chili e mezzo che rivoltavano ernormi zolle puntando nelle spaccature del terreno. Raffaele, con il gomito sinistro poggiato sull’anca, piano piano e da solo zappava al secco tutta la sua partita.

La terra poi veniva era arata da Peppino D’Aprile, il padrone, in autunno dopo le prime piogge che ammorbidivano le grosse zolle rimaste al sole tutta l’estate. Peppino aveva un solo cavallo bianco, paziente come un asino, che assolveva il suo compito come poteva. L’aratro era quello di legno con il timone a forca e il vomere a punta triangolare. I coloni, mezzadri, arrivavano a piedi la mattina presto e risalivano al paese la sera tardi.

Erano sopravvissuti i fichi piantati ai margini della proprietà lungo i confini e addossati ai muri a secco ancora ben tenuti. I frutti prodotti dalle vecchie piante andavano tutti a Raffaele che se li faceva stimare, circa due tomoli(5), e li consumava tutti per mirenna(6) quando zappava. I figli giovani degli altri mezzadri, però, quando arrivavano prima di lui gli rubavano i più belli e li mangiavano loro, a volte glieli portavano via soltanto per fargli dispetto. Questo a lui dava molto fastidio perché era geloso delle sue cose e il giorno che se ne accorse, arrivò prestissimo e raccolse tutti i fichi, maturi e acerbi. Scavò una specie di cassettone in mezzo alle zolle assolate, vi sistemò tutti i fruttti e li coprì di fùmuli e zolle di terra. I ragazzi non tardarono ad accorgersi dell’operazione e stettero all’erta. Non tardarono a scoprire che durante le soste per la mirenna, quando si riunivano tutti assieme all’ombra, Raffaele lasciava gli altri e con una scusa qualsiai andava in un punto della terra zappata e fingeva di muovere qualcosa con la zappa. Poi infilava le mani sotto le zolle e al tatto sceglieva i frutti più buoni da mangiare.

ficus carica

E consumava la bellezza di circa due tomoli di fichi verdi a mirenna. I ragazzi che avevano scoperto il suo segreto e volevano portargli via il tesoro, furono fermati da Angelo che fece la voce grossa, usando anche qualche bestemmia.

Poi arrivò l’autunno con le piogge. Peppino faceva i solchi ed i mezzadri con grande perizia spargevano dentro i semi man mano.

Passò anche l’inverno e dopo la sarchiatura arrivò anche il tempo delle messi. Era abitudine recarsi a mietere tutti assieme.

Ficus sicomorus

Decisero quell’anno di mietere la mattina della festa di Sant’Antonio, anche se Raffaele aveva aderito soltanto pensando di tornare a casa ad una certa ora per andare a messa. Lui andava sempre a messa. E la Nena, sua moglie, lo sapeva bene. Giunse il momento in cui secondo Raffaele bisognava smettere e tornare in paese e cominciò ad agitarsi. Nona diede una voce a Gesira che era più vicina.

“Gesira?”, disse.

“Che cosa c’è, Nona?”, disse Gesira.

“Voi non andate a messa?”.

“No”, intevenne Angelo secco, “No. Visto che ci troviamo finiamo di mietere, poi la festa a Sant’Antonio la facciamo stasera”.

“Nona ce n’andiamo? Andiamo a messa”, tagliò corto Michele alla moglie.

“Stai zitto”, rispose lei, se no loro finiscono di mietere prima di noi”.

“Sangue così”, insistette Raffaele, “che noi non abbiamo neanche portato il pane per la mirenna”.

“Ancilu”, chiese lei, “non avete qualche frisella in più che noi non abbiamo portato pane?”.

“Sì, Nona, ce l’abbiamo”, rispose Angelo e fece cenno a Gesira di darle il pane.

“Ecco Raffaele”, disse Nona, “tieni il pane”.

Fu un attimo, Raffaele prese una frisella e gliela fiondò sulla schiena come una sassata.

“Se vuoi lavorare lavora, io me ne vado”.

E scaraventò in terra anche l’altra frisella assieme alla falce dentata.

Muscari comosum

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(1) Cuti. Rocce superficiali, affioranti.

(2) Fumuli. Iperico (Hyperiicum perforatum).

(3) Fracilisca. Specie di Ferula nana (Ferula communis L.).

(4) Lampascioni. Gigliacea spontanea (Muscari comosum) con poche foglie lineari erette e fiori violetti a ciuffo molto belli a vedersi. Se ne consumano i piccoli bulbi globosi di color rosso-vinoso chiaro, soprattutto nell’Italia meridionale. A seguito delle grandi migrazioni verso il nord il consumo si è esteso a tutto il territorio nazionale ed il nome toscano è stato sostituito con quello pugliese di lampascione. I bulbi si utilizzano di solito in insalata, previa cottura in acqua bollente, conditi con olio, sale, pepe e aceto; si consumano anche in altri modi: alla genovese, fritti, dorati, etc.

(5) Tomolo. Equivalente a 2 mezzetti, a 4 quarte, a 24 misure e a55,545113 litri (legge 6 aprile 1840 di Ferdinando II).

(6) Mirenna. Colazione mattutina dei contadini.

Cripta della Madonna dell’Attarico, in territorio di Andrano (Lecce)

cripta Madonna dell’Attarico, esterno (ph Marco Cavalera)

di Marco Cavalera

La cripta della Madonna dell’Attarico è ubicata nel territorio del Comune di Andrano, circa 3 km a sud-est del centro abitato.

La cavità si apre nelle formazioni geologiche mioceniche e “sorge in un luogo ameno, sul dosso di un ripiano (Serra del Mito), dal quale la vista può spaziare, in un vago ed esteso miraggio, sull’azzurro cupo dell’Adriatico, su Castro, su Santa Cesaria, fino all’incurvarsi della costa verso la Palascia di Otranto ad Est e del promontorio di Santa Maria di Leuca a Sud[1].

Riguardo alla sua denominazione, nel linguaggio popolare permane l’etimologia greca Madonna du Tàricu. Si tratta di una definizione che fa riferimento all’industria della concia delle pelli, sviluppata dai “pelicani” della zona e testimoniata dalla piantumazione della “quercia vallonea”, abbondante nella zona fino a pochi decenni or sono, dalle cui bacche si ricavava l’acido tannico[2] necessario per l’industria della lavorazione delle pelli, prevalentemente di ovini e di vitelli[3] .

Queste ultime – una volta scarnite, rasate, conciate e lisciate – venivano usate dai copisti come materia scrittoria (pergamena o cartapecora) per la trascrizione di manoscritti (codici), nello scriptorium (sala adibita esclusivamente alla copiatura dei codici) dell’antico cenobio di Santa Maria del Mito, florido centro di cultura medievale gestito dai monaci italo-greci, che dipendeva dal monastero bizantino di San Nicola di Casole (a sud di Otranto).

Don Francesco Coluccia – a tal proposito – ha ipotizzato che la grotta rupestre della Madonna dell’Attarico “sarà stata utilizzata, come dimora feriale, da qualche monaco della comunità basiliana della vicinissima Abbazia di S. Maria del Mito, che durante la settimana si ritirava in vita solitaria penitenziale e contemplativa nella tranquillità e nel silenzio (sec. XI-XV)”[4].

L’ipotesi che si basa sull’etimologia del toponimo “Attarico”, che deriverebbe dal greco tarikòn (conceria), esclude la tesi che prevedeva l’origine del termine “Attarico” dal gesto materno della Vergine, immortalata nella caverna in un affresco che la raffigura nell’atto di allattare il Bambino. Questo particolare importante farebbe pensare ad una funzione originaria laica della cripta, trasformata in luogo di culto solo in un periodo successivo[5].

Fonseca, nella sua monografia sugli insediamenti rupestri medievali nel Basso Salento, descrive la Cripta dell’Attarico come “quasi del tutto naturale; l’attuale apertura, che guarda verso il mare, è stata riadattata con un muro a secco. Alcuni gradini originali conducono all’invaso sacrale. L’ambiente non sembra avere attualmente una forma architettonica ben precisa. Sono presenti due cunicoli in gran parte occlusi, uno dei quali doveva comunicare con l’esterno. Le pareti presentano numerose gibbosità e in alcuni punti sembrano esserci avanzi di pilastri non più esistenti, mentre due pilastri addossati inquadrano il corridoio che corrisponde all’accesso murato. […] Il soffitto, molto irregolare, sembra naturale anche se in vari punti si notano delle cupoline; la sua altezza media è di circa due metri. Gli arredi litoidi sono costituiti da tracce di gradino-sedile; una parte di esso è adibito attualmente ad altare – orientato ad Ovest – e alla sua destra vi è un resto di una mensa-ripiano; alcune nicchie sono ricavate nelle pareti[6].

All’interno della cripta sono presenti due affreschi, in pessimo stato di conservazione: uno riproduce una Croce, l’altro ritrae la Madonna con il Bambino e, lateralmente, due santi, di cui quello a destra tiene in mano la palma del martirio[7]. Attorno a questa raffigurazione si è sviluppato un intenso culto mariano e una leggenda sorta – probabilmente – dall’atteggiamento della Madonna di allattare il Bambino.

Si racconta, infatti, che un’umile popolana, dimorante in un casolare della contrada, non riusciva a sfamare col latte del suo seno il figlio che aveva dato alla luce. Disperata per la crescita stentata del figlioletto, chiese l’intervento della Madonna che, comparendole in sogno, le avrebbe rivelato come risolvere il problema: bisognava eliminare la biscia, annidata tra le pietre del casolare, che sottraeva dal seno della donna il latte proprio mentre dormiva.

L’allegorica vicenda si presta a due interpretazioni: una di carattere sociale e l’altra di carattere religioso. Per quanto riguarda la prima, si fa riferimento al territorio pur fertile di Andrano che, a causa dello sfruttamento dei potenti, ha sofferto la fame e la povertà[8]. A proposito della seconda interpretazione, Francesco Coluccia scrive che “la fede ha incontrato difficoltà di crescita, a causa anche di persecuzioni di vario genere, fino a quando la presenza e l’intervento dei Monaci Basiliani, con la proposta del culto della Madonna e con la catechesi, non ha portato l’annuncio della verità e la pratica di vita cristiana[9].

Nelle immediate vicinanze della grotta venne eretta la Cappella – di modestissime dimensioni – tra la fine del ‘700 e i primi anni dell’800, come chiesetta gentilizia per devozione dei Principi Caracciolo. La chiesa attuale, costruita sui ruderi della precedente, è stata inaugurata nel 1990.

 

interno della cripta (ph M. Cavalera)

 

BIBLIOGRAFIA

Cezzi F., Insediamenti rupestri e basiliani in Terra d’Otranto: l’Abazia de lo Mito e le cripte di Andrano e Castiglione, in “Andrano e Castiglione d’Otranto nella storia del sud Salento”, a cura di Cerfeda F.G., Coppola S., Moscatello L., Alessano, 2004.  

Coluccia F., Parleranno le pietre…Testimonianze di vita andranese, Tricase, 1998, pp. 27-30.

Fonseca C.D., Bruno A.R., Ingrosso V., Marotta A., Gli insediamenti rupestri medioevali nel Basso Salento, Galatina, 1979, pp. 53-58.

Pantaleo G., Dall’antica Cellino all’odierna Andrano, Galatina, 1978, p. 23.


[1]Pantaleo 1978, p. 23.

[2] Acido tannico o tannino, estratto dalla corteccia di varie querce, impiegato nella concia delle pelli con il metodo detto appunto al tannino.

[3] Coluccia 1998, pp. 27-30.

[4] Coluccia 1998, p. 27.

[5] Cezzi 2004.  

[6] Fonseca et alii 1978, pp. 53-58.

[7] L’affresco, completamente rovinato e corroso dall’umido, non permette di avanzare una datazione precisa  (probabilmente risale al XIII-XIV secolo). La croce (latina) è affrescata sul ripiano-mensa; sulla parete a N-E si notano tracce di colore (Fonseca et alii 1978, p. 54). Don G. Pantaleo, riguardo all’affresco, scrive: “entrando […] nella grotta, ci si trova di fronte a due affreschi alquanto scoloriti e qua e là picchiettati, ma dai contorni ben definiti: il primo riproduce l’immagine della Madonna, di tipo ovviamente orientale […]; il secondo rappresenta la Croce, forse innalzantesi dal Calvario, con delle figure ai lati” (Pantaleo 1978, p. 24).

[8] Pantaleo 1978, p. 28.

[9] Coluccia 1998, p. 28.

Ma chi ha inventato la frisella?

Sulle tracce della frisèddha

di Armando Polito

E’ opinione comune che la nascita della frisèddha e la prima diffusione nel mondo contadino siano dovute al fatto che in passato i lavoratori, soprattutto quelli della terra, non potevano avere pane fresco ogni giorno e dovettero perciò inventare un prodotto a lunga conservazione (naturale!). Bastavano e bastano, infatti, poche gocce di acqua perché essa diventi morbida senza perdere il suo sapore (come succede per il pane raffermo).

Ma sono state veramente le popolazioni autoctone ad aver inventato la frisèddha?

Come succede di norma in questioni del genere, è praticamente impossibile giungere ad una certezza che abbia il  crisma della scientificità. Possono essere fatte solo delle supposizioni, pur partendo, com’è doveroso, da constatazioni di carattere storico.

Il Meridione, soprattutto il Salento è stato (e per certi versi lo è ancora) prevalentemente, com’è  noto,  per  motivi  di  posizione  geografica, un crocevia di popoli, per lo più animati da intenzioni tutt’altro che pacifiche (la guerra, anche quella preventiva, esiste da sempre), che si sono alternati e talora fusi con le popolazioni locali.

In assenza, purtroppo, di testimonianze letterarie ed archeologiche ad hoc sulle più antiche civiltà delle nostre terre [ad esempio, per quanto riguarda le abitudini di vita concreta, direi quotidiana, dei Messapi, sappiamo solo che, forse (!) erano abili domatori di cavalli; per gli Etruschi, invece, anche se estranei alla nostra cultura delle origini, nella fattispecie sappiamo che anche per loro il nutrimento principale furono per molto tempo le farinate a base di miglio e di farro, le clusinae pultes, la cui esistenza è documentata sia da Marco Valerio Marziale1 (I°secolo a.C.), sia da ritrovamenti archeologici], siamo obbligati a rivolgere la nostra attenzione alle epoche più recenti.

I Romani nella fase più antica della loro storia non conoscevano il pane, ma la polenta, almeno come vocabolo: il mais sarebbe arrivato dopo quasi 2000 anni…

Plinio (I° secolo d. C.) nella sua Naturalis Historia (18, 83-84) ci tramanda quanto segue: Pulte autem, non pane, vixisse longo tempore Romanos manifestum, quoniam et pulmentaria hodieque dicuntur et Ennius, antiquissimus vates, obsidionis famem exprimens offam eripuisse plorantibus liberis patres commemorat. Et hodie sacra prisca atque natalium pulte fitilla conficiuntur, videturque tam puls ignota Graeciae fuisse quam Italiae.

[Poi che di puls2 , non di pane abbiano vissuto per lungo tempo i Romani  (è) cosa chiara, poiché e anche oggi si parla di  pulmentària3 ed  Ennio, antichissimo poeta, volendo dare un’idea della fame che si provava in occasione di un assedio, ricorda che i padri sottraevano ai figli che piangevano un’offa4. Anche oggi i riti antichi e quelli che  accompagnano le nascite  vengono  celebrati  con  puls fitilla5, e pare che la puls fosse sconosciuta tanto alla Grecia quanto all’Italia.].

Per tornare all’argomento in questione, i Romani , dunque, nell’epoca più antica della loro storia, in attesa che Colombo facesse conoscere il mais, mangiavano la puls, anche la polènta6, ma non conoscevano il pane.

Se è pacifico che esso non esisteva già  in epoca considerevolmente anteriore a Plinio, la testimonianza enniana che lo stesso riporta [(Ennio visse dal 239 al 169 a. C. e scrisse il poema Annales in 18 libri, narrante 6 secoli di storia romana, dall’arrivo di Enea nel Lazio fino a circa il 178 a. C; di tale poema ci restano, purtroppo solo pochi frammenti, nessuno dei quali (purtroppo nel purtroppo…) coincide con la citazione pliniana] ci fa intuire che quanto meno ai tempi di Ennio il pane esisteva; peccato che Plinio non ci abbia ricordato (ammesso che lo sapesse o che lo ricordasse) di quale assedio cantava Ennio, perché avremmo in tal caso potuto spostare ancora più indietro nel tempo la conoscenza di questo alimento; tuttavia tutto quello fin qui detto ci autorizza a supporre che i Romani abbiano conosciuto il pane non prima del IV secolo a. C.

E sulle testimonianze antiche di questo alimento diciamo qualcosa in più, cominciando proprio da Plinio: Naturalis historia, XVIII, 105-108: Panis ipsius varia genera persequi supervacuum videtur, alias ab opsoniis appellati, ut ostrearii, alias a deliciis, ut artolagani, alias a festinatione, ut speustici, nec non a coquendi ratione, ut furnacei vel artopticii aut in clibanis cocti, non pridem etiam e Parthis invecto quem aquaticum vocant, quoniam aqua trahitur ad tenuem et spongiosam inanitatem, alii Parthicum. Summa laus siliginis bonitate et cribri tenuitate constat. Quidam ex ovis aut lacte subigunt, butyro vero gentes etiam pacatae, ad operis pistorii genera transeunte cura. Durat sua Piceno in panis inventione gratia ex alicae materia. Eum novem diebus maceratum decumo ad speciem tractae subigunt uvae passae suco, postea in furnis ollis inditum, quae rumpantur ibi, torrent. [Sembra superfluo elencare i vari tipi di pane, che prende il nome ora dal companatico, come l’ostreario7, ora dalle leccornie, come l’artolàgano8, ora dalla fretta, come lo speustico9, e non dal metodo di cottura, come quello cotto al forno o l’artopticio10 o quello cotto nel clibano11,  importato non molto tempo fa dai Parti che lo chiamano acquatico, poiché l’acqua gli conferisce  una tenue e spugnosa delicatezza; altri lo chiamano partico. La fama sta tutta nella bontà del fior di farina e nella sottigliezza del setaccio. Certi lo lavorano con uova e latte, col burro poi pure popoli amici12, mentre dedico (ora) la mia attenzione all’arte dei fornai13. Continua la gratitudine al Piceno per aver inventato il pane dalla spelta (grano vestito). Dopo averlo lasciato macerare per nove giorni, al decimo lo lavorano con succo di uva passa preparato per l’occasione, poi, introdottolo nel forno su tegami, lo cuociono finchè i tegami non si rompono.].

Ma è nel libro XXII, 138 che Plinio ci fornisce un’indicazione che potrebbe essere, secondo me, un riferimento all’antenata della nostra frisèddha: Panis hic ipse, quo vivitur, innumeras paene continet medicamentas. Ex aqua et oleo aut rosaceo mollit collectiones; ex aqua mulsa ad duritias valde mitigandas, ex vino ad discutienda aut quae praestringi opus sit et, si magis etiamnum, ex aceto, adversus acutas pituitae fluctiones, quas Graeci rheumatismos vocant, item ad percussa, luxata, ad omnia autem fermentatus, qui vocatur autopyrus, utilior. Inlinitur et paronychiis et callo pedum in aceto. Vetus aut nauticus panis tusus atque iterum coctus sistit alvum. Pistores Romae non fuere ad Persicum usque bellum annis ab urbe condita super DLXXX. Ipsi panem faciebant Quirites, mulierumque id opus maxime erat, sicut etiam nunc in plurimis gentium. Artoptas iam Plautus appellat in fabula, quam Aululariam inscripsit, magna ob id concertatione eruditorum, an is versus poetae sit illius, certumque fit Atei Capitonis sententia cocos tum panem lautioribus coquere solitos, pistoresque tantum eos, qui far pisebant, nominatos. Nec cocos vero habebant in servitiis, eosque ex macello conducebant.

[Questo stesso pane14, di cui ci si nutre, contiene quasi innumerevoli proprietà medicamentose. Inzuppato in acqua e olio di oliva o di rose lenisce gli ascessi; inzuppato in acqua mescolata con miele è alquanto utile a mitigare sensibilmente gli indurimenti, inzuppato nel vino, meglio ancora nell’aceto, nei casi in cui bisogna fluidificare o solidificare, contro gli attacchi acuti di raffreddore, che i greci chiamano reumatismi, parimenti per le contusioni, le lussazioni; quello integrale poi, che è chiamato  autopìro15, per tutto. Si stende anche sui panerecci e, imbevuto nell’aceto, sul callo dei piedi. Il pane vecchio o il nautico16, pestato e di nuovo cotto, blocca la diarrea. Fornai a Roma non ce ne furono fino alla guerra contro Perseo17, oltre 580 anni dalla fondazione di Roma. Gli antichi romani si facevano il pane da soli e questa era esclusivamente incombenza delle donne, come anche ora nella maggior parte dei popoli. Già Plauto nella sua commedia Aulularia nomina le artopte18, con  grande discussione  a tal proposito tra gli eruditi se  questo verso sia di quel poeta; ma è certo, a parere di Ateo Capitone19, che i cuochi a quel tempo erano soliti cuocere il pane per quelli alquanto piuttosto raffinati e che erano chiamati mugnai solo quelli che macinavano il farro. Né per la verità avevano cuochi tra i servi, ma li  assoldavano dal mercato.].

E’ proprio l’ultimo tipo di pane citato (avente in comune con quello vecchio la durezza), ma distinto nel testo pliniano dalla congiunzione disgiuntiva aut (se avesse voluto dire vecchio altrimenti detto nautico Plinio avrebbe usato vel e non aut)20, che mi fa pensare alla nostra frisèddha, o, almeno, alla sua probabile antenata.

E’ intuitivo che il pane nautico, proprio in virtù della sua durezza, poteva durare a lungo e durante la navigazione essere consumato ammorbidito con acqua, magari di mare21.

Questa intuizione, però, per quanto banale, complica il problema, perché è certo che, prima e più dei Romani, altri popoli furono provetti navigatori e, quindi, dovettero affrontare il problema del pane a lunga conservazione: i Fenici, quelli del Vicino Oriente e i Greci. Purtroppo,  relativamente ai primi due, nessuna testimonianza specifica, neppure semplicemente onomastica, rimane, a quanto ne so, sull’argomento, a parte leggende di ignota provenienza, frutto, forse, di una forma di pubblicità ante litteram, o di elucubrazioni etimologiche facenti concorrenza alle mie, come quella  secondo la quale sarebbe stato Enea ad introdurre la frisèddha nel Salento in occasione del suo sbarco a Porto Badisco (credo, per paretimologia, da Phrygia=della Frigia, troiana); ad onor  del  vero  circola anche  la  leggenda inversa, per la quale  sarebbero  stati  gli  indigeni ad offrire friselle agli ospiti troiani22.

Decisamente meglio le cose vanno col mondo greco perchè vari autori antichi ci parlano di un pane cotto due volte: dipyrìtes23 o dìpyros, [sottinteso artos=pane)]24; entrambe le voci risultano composte da dis=due volte e pyr=fuoco e dalla seconda deriva il latino dìpyros attestato da Marziale25. Diretto discendente di questo tipo di pane è  il paximàdi26, caratteristico di Creta, che, in base alla forma, viene distinto in due categorie: il dakos o dakòs27 e le kulùres28. I dakos sono fette, tagliate spesse, di pane dalla forma allungata. Le kulùres sono ciambelle tagliate a metà longitudinalmente, che danno origine a due parti, quella inferiore e quella superiore (sembrano le gemelle della nostra frisella).

La maniera più comune di servirle è bagnarle, metterci su pomodoro fresco a pezzetti, cospargerle di origano o maggiorana freschi e versarci su un filo di olio extravergine di oliva.

E come dimenticare, spostandoci in altra area  geografica che  ci  riporta  ai  Vichinghi, lo     svedese knekerbrad o knäckebröd? (più simile, per la verità, nonostante il buco centrale, alla piadina  romagnola che  alla  frisella)?

Per aggiungere un altro tassello al  quadro, consapevole che esso, comunque, non sarà per questo completo, ricordo per la Sardegna il pane de fresa o pane carasau29, detto anche carta da musica in  riferimento allo  spessore e alla croccantezza, tipico di alcune zone del  Sassarese e del Nuorese: la sfoglia dopo una prima cottura si lasciava raffreddare, veniva poi spazzolata e  divisa  in due parti, (fresau), infine  posta  su  un  tavolo  a  cataste di  quaranta,  cinquanta pani (sa fresa). I pani venivano  infornati, per essere biscottati, una seconda volta. Una variante ancora più sottile è il bissau.

Infine, per il Veneto, il pan scafetò, pane che dura anche sei mesi e  che la gente di campagna, un tempo, acquistava una volta ogni tanto, conservandolo nello scafetò30, una specie di scaffale in cui i contadini custodivano granaglie, farine e, dunque, anche il pane.

Perciò ho l’impressione che la frisella conserverà forse per sempre il segreto del suo parto gemellare31, con le rughe che ricordano le onde nella parte inferiore (considerata la meno pregiata) e, in quella superiore, con il piccolo foro centrale simile a un gorgo o a un ombelico o, per fare onore alla fantasia dei napoletani che di fresèlla fanno anche un uso metaforico32, al sesso femminile.

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1 Xenia (Epigrammaton XIII, 8): Inbue plebeias Clusinis pultibus olla, ut satur in vacuis dulcia musta bibas.[Colma le pentole scadenti di farinate di Chiusi, affinchè sazio tu beva dolci mosti in quelle vuote] ; si può dedurre da questa testimonianza che gli Etruschi conoscevano la puls, probabilmente fatta non con farina di farro, ma di cereali meno nobili, come il miglio. Qualcosa di simile aveva ricordato, a proposito dei Cartaginesi,  Marco Porcio Catone (III-II secolo a. C.): (De agricultura, 85): Pultem Punicam sic coquito. Libram alicae in aquam indito, facito uti bene madeat. Id infundito in alveum purum, eo casei recentis P. III, mellis P. S, ovum unum, omnia una permisceto bene. Ita insipito in aulam novam. [Cucina così la polenta cartaginese: butta in acqua una libbra di spelta e fa che si imbeva bene; versala in un contenitore oblungo pulito, (aggiungi) tre libbre di formaggio fresco, mezza libbra di miele, un uovo, mescola bene il tutto. buttalo così in un’altra pentola.].

2 Riporto al nominativo le voci, per così dire, tecniche, di Plinio e degli autori citati successivamente anche per rendere più agevole e meno soggetta ad equivoci l’interpretazione del brano; puls (genitivo pultis)[probabilmente connesso con pollen=fior di farina e, in senso traslato polvere(da cui l’italiano polline)e sicuramente connesso col greco poltos o poltòs)=minestra a base di farina] indicava una farinata di farro.

3 Pulmentàrium [o pulmèntum o pulpamèntum o pulpàmen, tutti da pulpa]era il piatto di carne, cioè quello che noi chiamiamo genericamente il companatico, per cui Plinio ci fornisce anche una preziosa nota di ordine filologico;c’è da notare che panis (pane)in latino non entra mai in composizione come nel nostro companatico, per indicare il concetto del quale era usato anche il termine obsònium [dal greco opsònion)=approvvigionamento, da opsònes=chi compra vettovaglie, composto da opson=cibo e onèomai=comprare] voce già presente in Tito Maccio Plauto, autore del II secolo a. C., nel quale, però, la voce ha il significato originario del primo componente greco in uno dei suoi geniali, intraducibili, giochi di parole  (obsònium obsonàre=comprare le provviste, preparato da locuzioni più normali: obsonàtum ire =andare a fare la spesa; tribus obsonàtum est=si è fatta la spesa per tre); vale la pena qui ricordare  che il nostro polentone (nel significato spregiativo con cui vengono chiamati i settentrionali) in realtà era già stato inventato (riferito, però, alle abitudini alimentari dei Romani) più di duemila anni fa da Plauto con i suoi pultìphagus [Mostellaria:  non enim haec pultìphagus òpifex òpera fecit bàrbarus (infatti questi dettagli non li ha fatti un artigiano straniero mangiatore di polenta)] e  pultiphagònides [Poenulus: latìne Plautus pàtruus pultiphagònides (in latino Plauto lo zio dei discendenti di mangiatori di polenta)].

4 Offa significava boccone, focaccia, polpetta e, per traslato, bernoccolo; è evidente che qui sta nel senso di boccone o, al più, di focaccia, non certo di polpetta!(in Cicerone offa pultis: boccone di puls).

5 Per puls vedi la nota 2; della fitilla ci parla anche Lucio Anneo Seneca (più famoso del padre Lucio Anneo Seneca il Vecchio), autore del I secolo d. C., nella sua opera De beneficiis (I,6 VI): Non est ergo beneficium ipsum, quod numeratur, aut traditur; sicut nec in uictimis quidem, licet opimae sint, auroque praefulgeant, deorum est honos; sed pia ac recta uoluntate uenerantium. Itaque boni etiam farre ac fitilla religiosi sunt; mali rursus non effugiunt impietatem, quamuis aras sanguine multo cruentauerint.[Non è dunque il sacrificio in sè stesso che viene tenuto in conto o ricordato; come neppure nelle  vittime, per quanto siano grasse e risplendano di oro, consiste il rispetto degli dei, ma nella pia e retta volontà dei fedeli . E così i buoni sono religiosi anche col farro e con la fitilla; i cattivi, al contrario, non eviteranno l’empietà, sebbene abbiano lordato gli altari di abbondante sangue.]

Ma che cosa poteva essere questa fitilla? Tenendo conto che , oltre  alla puls fitilla citata da Plinio, esisteva anche la puls fabata [vale a dire la farinata di fave, in pratica l’antenata, questa sì, delle fàe iànche (fave bianche) che in un tipico piatto salentino si accompagnano alle cicurèddhe ti campàgna (cicorie selvatiche)] e che nel brano precedente farro e fitilla sono citati come offerte povere,  è legittimo dedurre che la fitilla era un cereale poco pregiato, certamente meno pregiato e costoso del farro la cui pianta, era più sensibile, come ci ricorda sempre Plinio (Naturalis historia, XVIII, 83  ricordi che ex omni genere durissimum far et contra hiemes firmissimum. patitur frigidissimos locos et minus subactos vel aestuosos sitientesque; primus antiquis Latii cibus, magno argumento in adoniae donis…  [di ogni specie il più duro, resistentissimo anche contro i rigori dell’inverno, è il farro; non sopporta  i luoghi molto freddi o troppo caldi e aridi; primo cibo per gli antichi abitanti del Lazio,  di grande importanza tra le ricompense per una vittoria…]. Sulla individuazione  del cereale da cui si ricavava la fitìlla ci viene in aiuto Arnobio (III secolo d. C.)(Adversus nationes, II, 21, 3): At vero cum coeperit solidioribus cibis infans debere fulciri, nutrice inferantur ab eadem…. Ipse autem qui infertur cibus sit unus atque idem semper, nihil materia differens nec per varios redintegratus sapores, sed aut fitilla de milio aut sit panis ex farre aut, ut saecula imitemur antiqua, ex cinere caldo glandes aut ex ramis agrestibus baculae. [Ma invero quando il bambino comincerà a dovere essere nutrito con cibi più solidi, questi siano somministrati da una sola nutrice…Lo stesso cibo poi che viene somministrato sia uno solo e sempre lo stesso, in nulla differente nella materia né corretto con varie sostanze  che gli conferiscano sapore, ma sia o una fitilla di miglio o un pane di farro o, per imitare i tempi antichi, castagne cotte nella cenere calda o bacche di alberi selvatici.]

Ad onor del vero, a complicare le cose, come spesso succede in filologia, in alcuni manoscritti compare, al posto di fitìlla, fit illa, per cui l’interpretazione sarebbe…ma o sia essa (la materia) ricavata dal miglio o…       Tuttavia, il contrasto di fit (indicativo) col successivo sit (congiuntivo) e il soggetto illa (la materia) che nella sua generità si contrappone alla specificità dei successivi (panis, glandes, baculae)mi fanno ritenere che sia da accettare la lezione fitìlla e non fit illa.

Ad ogni buon conto,  nello stesso autore la fitìlla compare senza ombra di dubbio in altri passi  (VII, 24, 5): Quid fitilla, quid frumen, quid africia, quid gratilla, catumeum, cumspolium, cubula? Ex quibus duo, quae prima, sunt pultium nomina sed genere et qualitate diversa, series vero quae sequitur liborum significantias continet; et ipsis enim non est una eademque formatio. [Che cosa è la fitilla, che cosa il frumen, l’africia, la gratilla, il catumeo, il cumspolio, la cubula? Di questi, i primi due, sono nomi di polente ma di specie e qualità diversa, il resto della serie ha il significato di sacrifici e per loro non è una sola e medesima la forma.]; VIII, 24, 6: … non mille species  vel sanguinaminum vel fitillarum, quibus nomina indidistis obscura  vulgoque ut essent augustiora fecistis. […non le mille specie o di offerte a base di sangue o di fitille, alle quali avete affibiato nomi oscuri  e lo faceste perché fossero importanti agli occhi della gente.]. Le parole non certo imparziali di questo apologeta cristiano sono una conferma al carattere “plebeo” della fitilla emerso dalle testimonianze precedenti.

La fitìlla, insomma, doveva essere unafarinata probabilmente non molto dissimile da quella etrusca criticata da Marziale (vedi nota 1 a pag. 2). Quanto, poi, all’etimologia di fitilla a prima vista si direbbe, in virtù del suffisso, un diminutivo; se così è, la radice sarebbe nominale (come in anguìlla=anguilla, da anguis=serpente) o verbale  [come in favìlla=scintilla, da (attraverso un *fovìlla) fovère=riscaldare?].

La candidatura contemporanea del sostantivo fetus=parto, oppure dell’aggettivo fetus=fecondo, oppure del verbo fetàre=fecondare, sembra tagliare la testa al toro, anche per l’evidentissimo accordo semantico tra questa radice *fet e il natàlium del passo  pliniano citato a pg. 2.Per questo mi appare meno praticabile  una derivazione dalla radice *fut (connessa con fùndere)con l’idea di versare (azione tipica dei sacrifici) che, a parte il sostantivo futis=vaso ha dato vita solo a verbi composti come confutàre e refutàre in cui l’idea di versare si è esasperata in quella di abbattere.

Ancora meno praticabile  mi pare la strada che porta al greco; in questo caso candidato sarebbe  fætlh (fiùtle)=stirpe , ma bisognerebbe immaginare nel passaggio al latino l’epentesi di –i– e un raddoppiamento espressivo –l>-ll-: troppo per non privilegiare le due radici prima messe in campo (tra l’altro, già *fet aveva in sé l’idea della fertilità).

A conclusione di questo lungo excursus, rimane, comunque, l’impossibilità di dare un’identità precisa all’ingrediente principale della puls fitìlla.A complicare ulteriormente le cose  e a rendere ancora più problematica l’etimologia della nostra frisèddha c’è da aggiungere, infine, che alcuni codici recano la variante fritìlla, comunque non accettata dalla maggior parte dei filologi., anche se vi si potrebbe ravvisare un legame con il neutro indeclinabile frit che in Marco Terenzio Varrone (I secolo a. C.)(De re rustica, I, XLVIII] indica i chicchi di grano apicali della spiga: Illut autem summa in spica iam matura, quod est minus quam granum, vocatur frit. [Quello poi alla sommità della spiga già matura, che è meno che grano, si chiama frit.].

6 polènta deriva da puls con aggiunta del suffisso  –olènta (da òlens, participio presente del verbo olère=odorare) come violèntus=violento da vis=forza. Puls ha dato vita in italiano a polta (pastone per animali da cortile e, estensivamente, intruglio) e, attraverso il tardo diminutivo pultìcula, a poltiglia.

Polènta assume, nel dettaglio, un significato diverso presso i vari autori che l’attestano: in Marco Porcio Catone  (III-II secolo a. C), più noto col nome di Catone Maggiore o Catone il Vecchio [(per distinguerlo da Marco Porcio Catone Minore o Uticense (I secolo a. C.)], polènta vale come farina d’orzo(De agricultura, 108: Vinum si voles experiri duraturum sit necne, polentam grandem dimidium acetabuli in caliculum novum indito et vini sextarium de eo vino quod voles experiri eodem infundito et inponito in carbones; facito bis aut ter inferveat. Tum id percolato, polentam abicito. Vinum ponito sub dio. Postridie mane gustato. Si id sapiet, quod in dolio est, scito duraturum; si subacidum erit, non durabit.[Se vuoi provare a far durare il vino o no butta in un altro piccolo calice  un ottavo di emina di chicchi di orzo grossolanamente macinati e versaci un sesto di congio di quel vino su cui vuoi fare l’esperimento e metti il tutto sui carboni; fallo bollire due o tre volte. Dopo averlo filtrato butta via l’orzo. Poni il vino lasciandolo scoperto. Assaggialo il giorno dopo al mattino. Se esso ha un sapore come se fosse stato in una botte sappi che durerà; se sarà un po’ acido, non durerà.]; [156]: Postea, salem addito, et cumini paululum et pollinem polentae eodem addito et oleum. [Poi, aggiunto il sale, mettici e un po’ di cumino e fior di farina di orzo e olio]; [157]: Eo addito oleum bene et salis paululum et cuminum et pollinum polentae. [Aggiungici olio abbondantemente e un po’ di sale e cumino e Fior di farina di orzo].

Tito Maccio Plauto (vedi nota 2 parla di polentàrius crèpitus=crepitio della polenta: Curculio, 294-295 :…tristes aut ebrìoli incèdunt: eos ego si offèndero ex unoquòque eòrum èxciam crèpitum polentàrium. […camminano malinconici e alticci: se li offenderò eda ciascuno di loro trarrò fuori il crepitio della polenta.].

In Lucio Giunio Moderato Columella (I secolo d. C.) la voce vale come farinata (probabilmente di orzo) terapeutica: De re rustica, VI, XVII, 8: Epìphoram supprìmit polènta conspèrsa mulsa aqua, et in supercìlia genàsque impòsita.[Sopprime il catarro la farinata bagnata con idromele e applicata sulle sopracciglia e sulle guance].

Vale anche  come cibo per i pulcini: VIII, XIV,  10: Deinde pullis, exclusis primis quinque diebus, polentam vel maceratum far sicut pavonibus obiciunt. [Poi ai pulcini, eccetto i primi cinque giorni, danno da mangiare farinata o farro bagnato come ai pavoni]; e poco più avanti (VIII, XIV,  11]: Et est facilis harum avium sagina, nam polentam et pollinem ter die, nihil sane aliud, dari necesse est…[Ed è facile l’ingrassamento di questi uccelli, infatti è sufficiente che sia data tre volte al giorno farinata e  fior di farina, nient’altro…].

In Publio Ovidio Nasone (I secolo a. C.-I secolo d. C. ) vale come orzo abbrustolito: Metamorphòseon V, 449-454: prodit anus divàmque videt lymphàmque rogànti dulce dedit, tosta quod tèxerat ante polènta. Dum bibit illa datum, duri puer oris et audax cònstitit ante deam risìtque avidàmque vocàvit. Offènsa est neque adhuc epòta parte loquèntem cum lìquido mixta perfùdit diva polènta. [Compare una vecchia ed ella vede la dea ed a lei che chiede un sorso d’acqua porge  una bevanda dolce che prima aveva insaporito con orzo tostato. Mentre ella beve quel dono un ragazzo dallo sguardo duro e insolente si fermò davanti alla dea e ris e la chiamò ingorda. (La dea) si offese  e senza finire di bere gli sputò in faccia, mentre lui parlava,  l’orzo misto al liquido.

In Plinio Secondo vale come polenta vera e propria: Naturalis historia, VIII, 136: ergo corpus eius exùstum adspèrgunt àliis càrnibus polèntae modo insidiàntes ferae necàntque ètiam cìnere. [dunque le fiere in agguato cospargono il suo corpo bruciato con altre carni a mò di polenta e lo spengono anche con cenere].

XIV, 92: sed Fàbius Dossènus his vèrsibus decèrnit: “Mittèbam vinum pulchrum, murrìnam” et in Acharistione:”Panem et polèntam, vinum murrìnam.” [ma Fabio Dosseno in questi versi dice:”mandavo un bel vino,  quello profumato di mirra” e nell’Acaristione:”Pane e polenta, vino profumato di mirra”.

Apuleio (II secolo d. C.) nomina una polènta caseàta, una sorta di torta al formaggio: Metamorphòseon I, 4: Ego denique vespera, dum polentae caseatae modico secus offulam grandiorem in convivas aemulus contruncare gestio, mollitie cibi glutinosi faucibus inhaerentis et meacula spiritus distinentis minimo minus interii. [Per finirla, l’altra sera, mentre  tra i commensali  facevo la bravata di consumare un boccone di torta al formaggio per disgrazia più grosso de l dovuto, a causa della morbidezza di quel cibo molliccio che mi si attaccava al palato e che mi ostuiva le vie respiratorie, per poco non morii].

In Mauro (o Mario) Servio Onorato (IV-V secolo d. C.) vale come pastone per animali.

In Marcio Celio Rufo (I secolo d. C.) e in Sesto Aurelio Vittore Afro (IV secolo d. C.) vale come polenta di farina d’orzo.

Infine, Tito Maccio Plauto (vedi nota 2) parla di polentàrius crèpitus=crepitio della polenta.

7 Che accompagna le ostriche.

8 Tipo di focaccia composta di farina, vino, latte, olio, grasso e pepe ; dal greco artolàganon), da artos=pane (forse da ararìsko=stringere insieme, con riferimento all’impasto) e  làganon=dolce di farina, miele e olio (da lagàio=liberare, con riferimento alla morbidezza).

9 Pane fatto in fretta; sempre dal greco speusticòs=frettoloso, da spèudo=affrettare.

10 Cotto nella teglia; dal greco artoptìkops=cotto in padella, da artos=pane  (vedi nota 2) e optào=arrostire.

11 Specie di teglia probabilmente dalle pareti più alte rispetto a quella della nota precedente; dal greco clìbanos o crìbanos)=tegame, vaso.

12 Ci vedo un’allusione alla difficoltà di reperire il burro in tempo di guerra.

13 Il pistor (da pìnsere=pestare) era in origine il mugnaio, ma ai tempi di Plinio era sinonimo di fornaio.

14 Quello di orzo, cereale di cui ha subito prima decantato le virtù.

15 Dal greco Žautòpyros, da Žautòs=da sé e pyròs=frumento.

16 Quello usato dai marinai; la traduzione fornita dai comuni dizionari, biscotto, la accetto solo in senso etimologico (cotto due volte).

17 Perseo, figlio illegittimo di Filippo, ultimo re di Macedonia, fu vinto da Paolo Emilio nel 168 a. C.

18 Teglie per cuocervi il pane di lusso o cibi raffinati; dal greco artòptes=panettiere, padella per cuocere il pane [da artos=pane e optào=cuocere]. Aulularia, 396-400: Dromo, desquama piscis. Tu, Machaerio, congrum, murenam exdorsua quantum potest. Ego hinc artoptam ex proximo utendam peto a Congrione. [Tu, Dromone, squama i pesci; tu, Macherione, togli le lische al grongo e alla murena, meglio che puoi. Io vado qui presso a chiedere in prestito a  Congrione una teglia.].

19 E’  più probabile che sia Gaio Ateio Capitone (I secolo a. C.-I secolo d. C.), l’insigne giurista, più che l’omonimo padre.

20 Non condivido, perciò,  per oggettivi motivi di grammatica e di stile e non per portare acqua al mio mulino, l’interpretazione che i comuni dizionari danno di questa locuzione pliniana alla voce panis: il Calonghi galletta da marinaio;  il Castiglioni-Mariotti pane vecchio, galletta da marinai (in cui l’uso della virgola e non del punto e virgola sottolinea, secondo me, il valore esplicativo (corrispondente ai nostri o, oppure, ovvero, ovverosia usati per cioè, vale a dire, altrimenti detto) e non disgiuntivo attribuito ad aut. L’importanza di tale tipo di pane rimane, secondo me, nel nesso napoletano mbarcarse senza viscuotte  (letteralmente imbarcarsi senza biscotti, in senso traslato intraprendere un’iniziativa o altro senza aver preso le dovute precauzioni).

21 Ancora fino a pochi anni fa per i pescatori di professione e per diporto la frisèddha, inzuppata nell’acqua di mare e condita con una croce di olio d’oliva, costituiva un impareggiabile spuntino; poi l’inquinamento ha costretto gli uni e gli altri a portarsi appresso l’acqua e il sale…

22 Le due leggende sono evidentemente legate, secondo me,  ai versi 526-546 del libro III dell’Eneide: e, la prima in particolare, ai versi 107-115 del libro VII dello stesso poema : (III, 526-546) Iamque rubescebat stellis Aurora fugatis/cum procul obscuros collis humilemque videmus/Italiam. Italiam primus conclamat Achates,/Italiam laeto socii clamore salutant./Tum pater Anchises magnum cratera corona/induit implevitque mero, divosque vocavit/stans celsa in puppi:/«Di maris et terrae tempestatumque potentes,/ferte viam vento facilem et spirate secundi»./Crebrescunt optatae aurae portusque patescit/iam propior, templumque apparet in arce Minervae;/vela legunt socii et proras ad litora torquent../Portus ab euroo fluctu curvatus in arcum,obiectae salsa spumant aspergine cautes,/ipse latet: gemino demittunt bracchia muro/turriti scopuli refugitque ab litore templum./Quattuor hic, primum omen, equos in gramine vidi/tondentis campum late, candore nivali./Et pater Anchises «bellum, o terra hospita, portas:/bello armantur equi, bellum haec armenta minantur./ sed tamen idem olim curru succedere sueti/quadripedes et frena iugo concordia ferre:/spes et pacis» ait. tum numina sancta precamur/Palladis armisonae, quae prima accepit ovantis,/et capita ante aras Phrygio velamur amictu,/praeceptisque Heleni, dederat quae maxima, rite/Iunoni Argivae iussos adolemus honores./Haud mora, continuo perfectis ordine votis/cornua velatarum obvertimus antemnarum,/Graiugenumque domos suspectaque linquimus arva.(E già, messe in fuga le stelle, rosseggiava l’aurora, quando da lontano vedemmo delle oscure colline [traduco genericamente così obscuros, in quanto l’aggettivo in latino può significare oscuro, vago, sconosciuto, nascosto; non escluderei nemmeno il concetto di misterioso o, più semplicemente, coperte di vegetazione] e la poco elevata Italia. “Italia!” per primo grida Acate, “Italia!” acclamano i compagni con lieto clamore. Allora il padre Anchise incoronò di fiori una grande coppa e la riempì di vino puro, e invocò gli dei ritto sulla parte più alta della poppa:”Dei dominatori del mare e della terra e delle tempeste, date facile via concedeteci al  vento e spirate favorevoli”. Cresce la brezza agognata e già si apre più vicino un porto, e appare sull’altura un tempio di Minerva. I compagni ammainano le vele e volgono la prua a terra. Il porto, curvato ad arco verso il mare di levante, mentre due promontori contrapposti schiumano di gocce salate, rimane nacosto: gli scogli a forma di torri allungano le braccia con una duplice muraglia e il tempio è lontano dalla riva. Vidi qui, primo presagio, pascolare quattro cavalli, bianchi come la neve. E il padre Anchise dice:”Terra straniera, tu porti guerra: si armano i cavalli per la guerra, questo bestiame minaccia la guerra. Tuttavia i quadrupedi talora sono ugualmente avvezzi ad essere aggiogati al carro e a sopportare di buon grado il freno col giogo: c’è anche speranza di pace”. Preghiamo allora la santa divinità di Pallade armisonante, che per prima ci accolse esultanti, e davanti agli altari veliamo il capo col velo frigio e, seguendo il consiglio più importante che Eleno ci aveva dato, secondo il rito compiamo in onore di Giunone protettrice di Argo i sacrifici  che ci erano stati raccomandati. Non c’è indugio, immediatamente dopo, sciolto il voto secondo quanto ci era stato ordinato, volgiamo le vele ed abbandoniamo le case e i campi sospetti dei Greci.)

(VII, 107-115) Aeneas primique duces et pulcher Iulus/ corpora sub ramis deponunt arboris altae,/ instituuntque dapes et adorea liba per herbam/subiciunt epulis (sic Iuppiter ipse monebat)/ et Cereale solum pomis agrestibus augent./ consumptis hic forte aliis, ut vertere morsus/ exiguam in Cererem penuria adegit edendi,/ et violare manu malisque audacibus orbem/ fatalis crusti patulis nec parcere quadris:/ «heus, etiam mensas consumimus?» inquit Iulus,/…[Enea e i condottieri più importanti e il bel Iulodistendono i corpi sotto i rami di un alto albero e dispongono il banchetto sacrificale e  sull’erba pongono come appoggio per le vivande le focacce di frumento (così ammoniva Giove in persona) e riempiono di frutti selvatici questo contenitore ricavato dal grano. Consumate  qui per avventura tutte le altre vivande, come l’esiguità del cibo spinse a volgere i morsi verso il sottile pane e a violare con la mano e con le audaci guance la circonferenza della crosta fatale e a non risparmiare  l’ampia  focaccia, Iulo disse:”Ehi!, consumiamo anche le mense?”…].

C’è da dire che la prima testimonianza di Virgilio (I secolo a. C.) con i suoi dettagli paesaggistici è compatibile con l’identificazione del porto di cui si parla nel poema  con Porto Badisco, identificazione che trova conferma nella toponomastica: nelle immediate vicinanze c’è Castro; di Castrum Minervae nobilissimum ubicato nel Salento parla un frammento delle Antiquitates rerum humanarum et divinarum  di Marco Terenzio Varrone (più o meno coevo di Virgilio) tramandatoci dallo Pseudo Probo (forse V secolo d. C.) nei suoi Commentarii  in Vergili Bucolica VI, 31; Castra Minervae compare anche, ubicato nella stessa zona, nella Tabula Peutingeriana VI 5-VII 2 (si tratta di una mappa il cui originale fu presumibilmente redatto nel IV secolo d. C.); nella stessa direzione sembra portare anche la testimonianza di Servio (fine del IV secolo-inizi del V d. C.) che nei suoi Commentarii in Vergilii Aeneidem III, 531 così dice:”Apparet in arce Minervae: hic dubium est utrum Minervae templum an in arce Minervae debeamus accepire. Sane Calabria ante Messapia vocata est. Hoc autem templum Idomeneus condidisse dicitur, quo etiam castrum vocatur. (Apparet in arce Minervae: qui è dubbio se si debba intendere il tempio di Minerva oppure sulla rocca di Minerva. Veramente la Calabria prima fu chiamata Messapia. Si dice inoltre che Idomeneo abbia fondato questo tempio che viene chiamato anche castrum)]. Tuttavia, a parer mio, il testo virgiliano sembrerebbe escludere un incontro amichevole tra Enea e la popolazione locale; si ha l’impressione che questa abbia autorizzato la visita al tempio solo per rispetto alla divinità più che ai doveri dell’ospitalità (non riesco ad immaginare che i Troiani siano arrivati al tempio senza che nessuno se ne accorgesse); credo pure che la rapidità della visita non sia connessa solo con le esigenze narrative e che la fretta con cui Troiani si allontanano non sia dovuta solo all’ansia di raggiungere il Lazio e alla proverbiale diffidenza nei confronti dei Greci  o, comunque, di popolazioni di origine greca, quasi autocitazione, più ristretta e generica, che Virgilio fa del timeo Danaos et dona ferentes (Temo i Greci anche quando portano doni) del v. 45 del libro II.

La seconda testimonianza fa pensare che i Troiani si fossero portati appresso una buona quantità di focacce da utilizzare come piatti per i sacrifici, ma da questo, a considerare la mensa come l’antenata ed  Enea il primo importatore della frisella, ne passa!

23 Ippocrate (V-IV secolo a. C.),  Sulle malattie interne, 25.

24 Eubulo (IV a. C.), 2;  Alexis (IV-III a. C.), 178.18; Alceo (V-IV secolo a. C. , da non confondersi con l’omonimo lirico del VII-VI secolo a. C.), 2.

25 Epigrammaton, IV, XLVII: Encaustus Phaethon tabula tibi pictus in hac est./Quid tibi vis, dipyrum qui Phaethonta facis? (Fetonte è stato da te dipinto ad encausto in un quadro./Che scopo ti sei prefisso nel dipingere Fetonte bruciato due volte?). Dìpyros non è qui usato con riferimento al pane, ma non posso fare a meno di notare  come l’arte di Marziale riesca a conferirgli un valore quasi surreale, amplificandone le valenze satiriche. Mi spiego meglio: Fetonte, personaggio della mitologia greca, ottenne dal padre Elio (o Apollo) di guidare per un giorno il carro del sole, ma perse il controllo, arse il cielo e fu fulminato da Giove; l’encausto è un metodo di pittura usato dagli antichi, per il quale i colori erano stemperati in cera liquefatta e fissati col fuoco; Fetonte, perciò, nel quadro risulta bruciato due volte, ma, anche se espressamente l’autore non lo dice , è come se la pessima arte del pittore l’avesse bruciato per la terza.

26 Il nome nacque  in epoca bizantina in onore del suo presunto inventore o, per averne parlato, valorizzatore: Pàxamos (scrittore dell’epoca di Cristo), che, secondo la testimonianza di Ateneo (II-III secolo d. C.), si sarebbe interessato di gastronomia. Facendo due ulteriori salti qua e là nel tempo: lo storico Procopio di Cesarea (VI secolo d. C.) nella sua Storia delle guerre ci informa che il pane destinato ai soldati veniva cotto due volte; ma già Elio Spartiano, uno degli autori della Historia Augusta (forse III secolo dopo C.) e Ammiano Marcellino (IV secolo d. C.) ci parlano di un buccellàtum=galletta, pane da militari (da buccèlla=panino, da bucca=bocca);  è noto che durante il dominio veneziano i forni di Creta producevano grandi quantità di paximadi destinato alla flotta della Serenissima; Henry Blount nel suo A voyage into the Levant (1636) ci fa sapere che  per i temerari sfuggarades (pescatori di spugne) di Kalimnos, che aravano il Mediterraneo nelle profondità per cercare le preziose spugne, il paximadi rappresentava il compagno più fedele e che se ne nutrivano fin da piccoli per rimanere magri.

27 Dacos probabilmente è dall’omonima voce classica che significa bestia feroce,  morso (da dakno=mordere).

28 Kulùres sono chiamati a Creta pure i pozzi circolari rinvenuti nella corte occidentale del palazzo di Festo. Ma è la somiglianza col pane ad aver dato il nome a quest’ultimi, o viceversa? Non sono in gradi di avanzare ipotesi: dico solo che nel greco classico collýra significa pagnotta e che certamente da questa voce derivano i siciliani, tipici di Caltanisetta, cuddrirèddri e la salentina cuddhùra (ciambella con un uovo nel mezzo) che ricorda, sia pure vagamente, i pozzi di Creta. Il parallelepipedo centrale  è veramente , come qualcuno vorrebbe, un residuo della distruzione del palazzo o parte integrante del pozzo?

Solo coincidenze?

29 Carasau probabilmente è dal latino charaxàre=solcare, dal greco charàsso=incidere, con riferimento alla crosta screpolata.

30 Dal longobardo skafa=tavola per appoggio.

31 L’impasto, modellato in forma circolare, subisce una prima cottura alla fine della quale la cocchia (corrispondente all’italiano coppia)  viene divisa longitudinalmente a metà con un filo.

32 In tale dialetto la voce è usata anche nel senso di ferita con carne martoriata. Vedi il post ‘A fresella all’indirizzo http://www.vesuvioweb.com/it/2012/01/armando-polito-a-fresella/

 

La pesca con le “botte”

Rammendo delle reti – Castro 1966 (ph Giorgio Cretì)

di Giorgio Cretì

Tutti i mercoledì la gente di Castro si reca­va al mercato di Poggiardo. A piedi. Andava­no tutti scalzi e con le scarpe legate tra di loro per i lacci ed appese ad una spalla. Non facevano grandi acquisti, perché di soldi ne avevano pochi, ma andavano ugualmente, specie d’inverno quando il tempo non permetteva di uscire in mare; anche se poi acquistavano solo qualche chilo di verdura. A Poggiardo compravano anche la canapa ed il cotone che poi davano da filare a Mastro Pativito, per le lenze e per le reti.

Nunzio andò anche lui al mercato, a fare provvista di materia prima. Comprò da Elia, dove andava sempre per questo genere di spese, un chilo di co­loratu – sali di acido clorico –,   mezzo chilo di solfuro di antimonio, che era una polvere nera come il carbone e pesante come il piombo, ed un quarto di pece greca. Nascose il tutto in fondo alla bisaccia e di sopra vi pose un paio di chili di cavoli ed una manna (un mannello) di canapa grezza.

Tornando a casa pensava alle sarpe(1). Le aveva osservate per un po’ di tempo, sotto uno scoglio alle Striare. Perlamadonna, si andava dicendo, devo prenderle! Dieci, quin­dici chili di sarpe gli avrebbero fatto proprio comodo, a venderle se ne poteva ricavare al­meno settanta lire. Tutti i giorni, ad una cer­ta ora, andavano lì a brucare le alghe alla foce di un fiumicello sotterra­neo – erano ghiotte di quell’erba morbida che i pescatori chiamavano erba di seta –. Co­me le pecore, pensava Nunzio, sono proprio come le pecore, per la loro madonna!

Giunto a casa si mise subito all’opera. Ma­cinò nel mortaio la pece greca e la passò al se­taccio della farina, poi prese un pezzo di car­ta azzurra, di quella che allora veniva usata per involgere la pasta, e con la massima at­tenzione cominciò a fare la miscela per le botte. Bisognava fare tutto con arte e perizia. Quello non era un mestiere da pulcinella, ma di gente seria; qualcuno che ci si era messo a farlo senza conoscerne bene l’arte, o ci aveva rimesso la vita oppure era rimasto mutilato di una mano o, anche, di un occhio. Nah, perlamadonna!  Bisognava  assolutamente evitare l’attrito tra le diverse polveri, adesso. Non c’era pericolo di esplosione, ma la mi­scela poteva incendiarsi e bruciare come bru­cia la benzina. Chi gli dava poi le sette lire per andare ancora da Elia? A credenza, ad uno come lui, non dava niente nessuno! Pre­se un altro pezzo di carta, ne fece una specie di cilindro, piano piano lo riempì di miscela e pressò bene il tutto. Mise la miccia, che per il lancio che aveva in mente stimò sufficiente della lunghezza di mezzo fiammifero, chiuse l’ordigno e lo legò stretto con lo spago, come si legano le cartucce dei fuochi d’artificio. Nascose ogni cosa in un posto dove i bambini non  potevano arrivare e scese al Porto per altre faccende. La sua vita era lì.

La sera andò a letto presto, come di con­sueto, anche prima dei bambini. La moglie rimase a rammendare alla luce di una piccola lampadina di quindici candele.

Adunata al vecchio porto – Castro 1966 (ph Giorgio Cretì)

Aveva mangiato poco e sognò molto. Un branco di cefali, di oltre mezzo chilo l’uno, continuava a girare vicino alla sua postazio­ne, ma non veniva mai a tiro ed egli si girava e rigirava nel letto. Poi la visione dei cefali svanì ed egli dormì tranquillamente per qual­che ora.

Si trovò seduto sopra una roccia. Poteva essere il mese di giugno e dal mare soffiava una leggera brezza di scirocco, increspando appena appena le onde che battevano sotto di lui e si frantumavano in spuma frizzante. Stava lì seduto ed attento perché era l’ora in cui le sarpe venivano al pascolo. Teneva pog­giata sulla roccia, alla sua sinistra la bomba pronta per essere innescata e lanciata e alla sua destra teneva accesa una vecchia corda di gabbia di frantoio avvolta stretta con un pez­zo di rete. La corda imbevuta di olio emana­va un acre odore di lucerna.

Aveva anche pronto il coppo(2) a portata di mano, per buttarsi in mare dopo l’esplosione e raccogliere i pesci che sarebbero venuti a galla riversi.

Le sarpe non si facevano vedere. Eppure, perlamadonna!, era l’ora. Controllò l’ordi­gno e ne osservò bene la miccia, tutto era a posto.

Stava con gli occhi fissi al mare, quando intravide sotto il pelo dell’acqua il branco che si avvicinava. Attese che i pesci si avvici­nassero di più e, intanto, con la sinistra prese la botta e ne verificò ancora la miccia. Senza voltarsi allungò la destra per prendere la cor­da accesa e… sentì al tatto una cosa fredda e viscida che non si attendeva, una sacara(3) perlamadonna!, e, d’istinto, scaraventò tutto in acqua.

Si svegliò di soprassalto e si rese conto ch’era ora di alzarsi. In casa tutti dormivano profondamente.

Si infilò in fretta i calzoni, li legò con un pezzo di corda resa rigida dalla salsedine e in­dossò un maglione scuro che aveva comprato chissà quando. Mise in tasca due botte ed uscì. Dalla posizione delle Pleiadi potevano essere le tre e mezzo.

Prese il ripido sentiero che collegava a mo’ di strada diretta il paese alla marina e, quando giunse nel punto in cui questo tagliava la litora­nea, trovò la macchina della Finanza che fa­ceva il giro d’ispezione notturno. Cercò di ti­rare diritto, ma il brigadiere lo chiamò.

“Hei, Nunzio, dove vai?”

“Stavo scendendo al Porto”, Nunzio ri­spose fermandosi. Apparentemente era cal­mo.

“Sali che vieni con noi”, lo invitò il briga­diere.

“Grazie, comandante, disse Nunzio, giù di qua sono già arrivato”.

“E sali..”., lo invitò ancora il brigadiere.

E Nunzio salì e con loro fece il giro di Santa Croce. Nessuno dei finanzieri parlò finché non giunsero sulla piazzetta del Porto.

“Che cosa bevi, Nunzio?”, chiese il briga­diere mentre entravano nel bar di sotto.

“Il compare lo sa, Nunzio disse, compare dammi un Sammarzano”. Pensò che le guar­die erano brave persone, ma siccome le pre­cauzioni non erano mai troppe, disse: “Per­messo un momento, quanto vado qua dietro a urinare”.

Uscì con molta calma, ma appena fuori controllò con la coda dell’occhio i finanzieri e si diresse di corsa verso la parete rocciosa. Prima trasse di tasca le due botte e le nascose in una fessura e poi urinò. Allora tornò al bar, non solo tranquillo, ma anche spavaldo.

“Dov’eri?”, finse di chiedergli il barista.

“Come dov’ero, perlamadonna! Ho detto che andavo fuori a urinare! Dammi il mio Sammarzano, dammi! E ne vogliamo noi di questi!”, disse alzando il bicchiere e schiz­zando l’occhio al compare.

“E ne vogliamo!”, confermò il barista, che sapeva molto bene di quale piede Nunzio zoppicasse.

I finanzieri, bevuto che ebbero, se ne an­darono verso Tricase. Nunzio salutò, andò a riprendersi ciò che aveva prima nascosto e scese al porticciolo. Aveva i suoi attrezzi in una delle grotte naturali ai piedi del monte, li raccolse e li portò nella barca.

Tirò su la mazzara(4), slegò la zuca(5) dell’ormeggio e, remando con ritmo lento ma vigoroso, si avviò verso la Punta Mucurone.

L’alba si preannunciava radiosa.

Sarpe, salpe.

Coppo, retino.

Sacàra, sorta di serpe di considerevoli dimensioni. E’ il Cervone o Colubro a quattro righe che può raggiungere il peso di 3 chili e la lunghezza di 260 centimetri. Una diceria popolare voleva che la sacara, molto ghiotta di latte, durante la notte succhiasse alle mammelle delle donne mettendo la sua coda in bocca ai bambini per farli star buoni.

Màzzara, àncora.

Zuca, generalmente corda di sparto o di giunco, la meno resistente e la meno costosa, in questo caso cima d’ancoraggio.

 

(“il Rosone” – Anno VII n. 4-5, 1984)

Quando s’incontrano foto e poesia. Ivan Lazzari ed Elio Ria

ph Ivan Lazzari

Allora si ricongiunge quello che noi continuamente / separiamo, per il semplice fatto di esserci […]

(Rainer Maria Rilke, Quarta elegia)

 

di Elio Ria

 

Campagna sottratta, per un attimo, al sogno  della natura. A ridosso del mattino, quando ogni cosa è sistemata e non si trova lì per caso, il poeta osserva lo straordinario incanto del cielo che si abbassa alla terra per renderle onore.

Nel segmento del tempo i colori esplodono meraviglia. L’accumulo di bellezze con l’aggiunta di immagine ad immagine, oggetto ad oggetto, è poesia.

Ogni cosa è al suo posto, ancora. Gli alberi d’ulivo –  attori del luogo – non ingigantiscono sguardi, plaudono echi e richiami di Sud.  Il cielo è incanto. Il muro bianco posto all’orizzonte delimita l’infinito, sicché immaginarlo non vi è obbligo di fantasia. È una storia di immagini e di colori voluta dagli angeli per avventura di occhi e di cuori.

Mi fingo poeta per godere dell’immagine che fu sottratta, per un attimo, dal libro di Dio.

La cripta della Madonna del Gonfalone a Tricase

ph Alessandro Bianco

di Alessandro Bianco

Un cimelio d’ interesse storico – archeologico del Basso Salento è senza dubbio l’antica cripta basiliana della Madonna del Gonfalone, in agro di S. Eufemia di Tricase, precisamente sulla strada che conduce per Alessano.

La cripta è costituita da un ampio locale in cui gli interventi e le trasformazioni hanno stravolto l’originale aspetto; infatti quasi tutte le pareti sono in muratura come i diciannove pilastri presenti nell’invaso. 

E’ impossibile, se non con degli approfonditi saggi di scavo, risalire all’originaria conformazione della cripta o delle cripte, proprio perché dietro la muratura oggi esistente vi è una zona di riempimento che si nota in presenza di alcuni fori nella parete e che nasconde lo scavo originale.

Nella zona centrale è presente un recinto, contenente la zona presbiteriale costituito, su tre lati, da pilastri ottagonali, sempre in muratura, quadruplicati agli angoli e legati da una balaustra scandita da pilastrini, anch’essi ottagonali.

All’interno di questa struttura è l’attuale altare d’intonazione barocca, orientato a Nord, ai cui lati, due piccole cappelle contengono dei ripiani d’appoggio.

I rimanenti pilastri sparsi per la cripta senza un benché minimo ordine sono di forme diversificate. Il pavimento è tutto in terra battuta, escluso quello della zona recintata che è invece in mattoni; il soffitto, di altezza media di m. 2,18, è quasi del tutto piano e presenta, in corrispondenza della zona presbiteriale, una vasta apertura che corrisponde, all’esterno, alla struttura già descritta; sono inoltre presenti nel restante soffitto numerosi fori.

Sulla parete alle spalle della “cantoria” è scavata una nicchia, con un altare a credenza di tipo devozionale, vicina ad un’altra oggi murata; poco distante si notano i resti d’un altare addossato alla parete; completano gli arredi litoidi due acquasantiere.

  

Nei pressi dell’attuale ingresso si notano tracce di decorazione parietale; sulla nicchia con altare a credenza si vedono invece i resti di due affreschi palinsesti, rappresentanti un Cristo che sale il Calvario e una Crocifissione. Il Cristo che porta la croce, con tunica bianca è accompagnato da due uomini, uno dei quali soffia una lunga tromba; i resti dell’affresco sottostante appartengono ad una scena non più decifrabile.

Nel secondo affresco, il Crocifisso ha ai due lati la Vergine e San Giovanni; nello strato sottostante s’intravedono i resti di un altro affresco sullo stesso tema.

Il gruppo di affreschi più interessanti, su duplice strato, è sulla parete nord. In essa lo strato inferiore è diviso in quattro riquadri rappresentanti una Santa, due scene più grandi in parte coperte dall’intonaco superiore e un’altra Santa.

La prima figura in grandezza naturale, tiene nelle mani un calice, chiuso superiormente da un coperchio conico, probabilmente è S. Maria Maddalena che porta il cofanetto della mirra. Una fascia bianca a righe scure separa questo dipinto dalla scena successiva in cui s’intravedono quattro volti con aureole siglate (le uniche leggibili sono  una FI e una A) che probabilmente si riferiscono a figure di apostoli, l’immagine di un papa, che regge in mano un libro e con l’altra benedice una figura nimbata distesa, di cui si intravede soltanto un abito monacale; ai suoi lati altre figure in atteggiamento orante, mentre sul pavimento a scacchiera si nota una figura nimbata, forse un angelo, che regge in mano un calice-calamaio. Da tutti questi particolari ci sembra di poter dedurre che l’affresco rappresenti la morte di San Bonaventura, avvenuta durante il Concilio di Lione nel 1274.

ph Alessandro Bianco

Del terzo riquadro non rimane nulla perché completamente coperto dall’affresco superiore, mentre ben visibile è l’ultima figura femminile, che indossa una tunica stretta  in vita e una veletta che le orna il collo, regge in una mano la palma del martirio mentre con l’altra protegge un castello circondato da un paesaggio campestre.

Lo strato superiore, che ricopre solo i due riquadri centrali del polittico sottostante, è diviso in due parti e nelle intenzioni dell’autore, doveva integrarsi con le due Sante, già descritte, poste ai lati. Sull’affresco della morte di S. Bonaventura vi sono resti di una scena non più leggibile, vi è rappresentato un Vescovo nell’atto di benedire con l’aspersorio, con intorno alcune figure dai lineamenti orientali, mentre nella parte alta è rappresentata una piccola figura femminile a mezzo busto con alle spalle il volto di Cristo. Il riquadro che delimita quest’ affresco è leggermente più grande di quello sottostante; una banda bianca lo divide da quello successivo in cui è rappresentata una figura a grandezza naturale, di essa si riconosce solo parte dell’abito e del mantello dai toni scuri.

Le restanti pareti perimetrali mostrano qua e là cenni di decorazione che affiorano sotto lo strato d’intonaco a calce; anche sulla maggior parte dei pilastri vi sono tracce di decorazione, perlopiù a carattere floreale; racchiusi nel medaglione sovrastante l’altare barocco,  vi sono i resti di una Madonna con Bambino.

Come datazione di massima possiamo indicare il XIV-XV sec per l’affresco del S. Bonaventura, mentre quello superiore lo si può ricondurre al  XVI sec.[1].

Recentemente sono stati effettuati interventi di restauro.


[1] FONSECA, Gli insediamenti rupestri medioevali nel Basso Salento, Galatina, 1979, pp. 189-193.

ph Alessandro Bianco

I liquori preparati nelle case dei salentini

di Massimo Vaglio

 

Liquori Casalinghi

I liquori casalinghi sono essenzialmente quelli che si producono attraverso la macerazione in alcool degli ingredienti, richiedono generalmente un’attrezzatura minima. Oltre agli ingredienti che ognuno si procurerà o acquisterà alla bisogna, quali le piante aromatiche e le spezie, occorrono una bilancia, meglio se di precisione; bicchieri graduati; vasi di vetro di varia capacità, preferibilmente scuri e muniti di guarnizione di gomma e chiusura ermetica a leva; un mortaio, preferibilmente di marmo; pezzuole di tela per filtrare e ovviamente bottiglie di varia foggia, capacità e trasparenza. Gli altri strumenti necessari quali colini, imbuti, casseruole, mestoli, cucchiai, pelucchini,   grattugie, etc. , possono essere quelli, normalmente in dotazione di una normale cucina.

Liquore d’arancia al caffè

Ingr. :1 l di rum fantasia a 40°,  2 arance a scorza spessa, 20 zollette di zucchero, 40 chicchi di caffé, 1 baccello di vaniglia.

Incidete con la punta di un coltello la scorza delle arance, inseritevi dentro i chicchi di caffè. Ponete le due arance in un vaso di vetro a chiusura ermetica di adeguate dimensioni insieme al baccello di vaniglia tagliuzzato e lasciate macerare il tutto per due mesi scuotendo il vaso di tanto in tanto. Passato questo tempo, frullate le arance e filtrate la purea ottenuta attraverso un telo strizzandola bene. Rimettete il succo ottenuto nel Rum, unite le zollette di zucchero fatele sciogliere e lasciate riposare per tre giorni. Filtrate accuratamente il tutto, senza più spremere il residuo e imbottigliatelo in bottiglie scure. Servitelo ben freddo.

Liquore di camomilla

Ingr.: 2 manciate di fiori freschi di camomilla,1 l di alcool, 700 gd’acqua,700 g di zucchero.

Mettete a macerare nell’alcool le infiorescenze di camomilla grossolanamente sbriciolate per 40 giorni. Durante la macerazione abbiate cura di scuotete il vaso almeno due volte al giorno. Trascorso questo periodo preparate uno sciroppo facendo sciogliere lo zucchero in acqua calda. Filtrate l’alcool attraverso un telo strizzando bene in modo da estrarre tutta l’essenza dalla camomilla. Unite lo sciroppo raffreddato, mescolate e lasciate riposare per 24 ore, filtrate quindi nuovamente e imbottigliate. Utilissimo come digestivo, calmante e per conciliare il sonno.

Elisir caffé

100 g di miscela di caffè da espresso finemente macinato, 2 baccelli di vaniglia, 500 gdi zucchero, 250 gdi alcool a 95°, 500 g d’acqua.

Ponete a macerare in un vaso ermetico la vaniglia con l’alcool per 3-4 giorni. Preparate un infuso con il caffè e500 gd’acqua calda e sciogliete dentro lo zucchero. Unite l’infuso di caffè con tutto il residuo all’alcool, lasciate riposare per un giorno, filtrate il tutto ed imbottigliate. Con la dovuta moderazione, dopo il pranzo, può sostituire il caffè.

Latte alla crema

1 l di grappa, 2 baccelli di vaniglia,1 kg di zucchero, un limone con tutta la scorza tagliato a piccoli spicchi, 1,25 l di latte intero.

Ponete tutti gli ingredienti, in un vaso ermetico. Lasciate macerare per circa sei mesi. Trascorso il periodo, filtrate ed imbottigliate. La lunga attesa verrà ripagata, ne risulterà un liquore a bassa gradazione dalla fragranza paradisiaca, che non potrà che riscuotere l’apprezzamento dei vostri ospiti.

Oppio e oppiacei nella tradizione popolare di Terra d’Otranto

  
Jenny Lind in “La Sonnambula”

 

LA CIVILTA’ CONTADINA NEL SALENTO FINE OTTOCENTO

IL SONNAMBULISMO E TUTTE LE FORME LINGUISTICHE

INERENTI L’USO DELL’OPPIO E DEGLI EFFETTI OPPIACEI

LA PAPARINA (LA PAPAVERINA)

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

 

(…) Non appena il sonnambulo  – impressionante nell’atonia dei suoi occhi sbarrati – sgusciava fuori dal letto come risucchiato dall’urgenza di compiere un’azione – peraltro imprevedibile in quanto determinata da interferenze oniriche -, un familiare, o persona amica appositamente rimasta a vegliarlo, si metteva sui suoi passi, attento a sincronizzarsi nei tempi di andatura al fine di mantenere una certa distanza cautelare: per un’improvvisa inversione di marcia, il sonnambulo non si sarebbe così scontrato col suo pedinatore, evitando quel risveglio improvviso i cui effetti si temeva fossero letali. Seguendolo, era infatti di regola agire con la massima delicatezza, tenendo presente che più di una volta occorreva arginarlo in azioni rese pericolose dal suo stato di non lucidità: poteva mettersi a tirare acqua dal pozzo, arrampicarsi su un albero, salire su una grondaia, camminare sull’estremo ciglio di un fosso, o inoltrarsi in un campo non suo e venire aggredito da qualche cane da guardia.

Per fortuna, se il contatto fisico – involontario o voluto che fosse – creava dei timori, nessuna preoccupazione sussisteva per ciò che riguardava rumori, voci, grida, sicché la persona che lo seguiva poteva liberamente parlare a voce alta, in tal modo prendendo due piccioni con una fava: da una parte ciò gli consentiva di svolgere l’azione terapeutica, che – come già accennato – consisteva in una reiterazione di messaggi, dall’altra, proprio in virtù di questo suo alto e continuo vociare, dava legalità all’inconsueto incedere notturno, comunicando in tempo a eventuali intercettatori che non si trattava di un malintenzionato ma solo di nnu sunnàmbulu a ppassìu (un sonnambulo a passeggio). Nessuno infatti avrebbe  mai potuto malignare udendo l’avvitarsi di quel monologo, inequivocabile peraltro anche a considerevole distanza per via della particolare cadenza: un litaniare lento nella pronuncia, ma forte nel tono e coreograficamente sostenuto dal costante tendere dei palmi verso la nuca del malato, gesto se non di vera e propria irradiazione, quanto meno di convogliamento della volontà.

Va da sé che la volontà era quella di riportare il sonnambulo nel suo letto, in pari tempo convincendolo a non ritentare l’esperienza di quell’assurdo deambulare, per cui, nel chiaro intento di forzarne la sfera psichica, alle frasi si dava misura lapidaria, forgiandole in termini di confronto fra ordine e disordine e offrendole come chiave di rientro nella normalità: “Spranga li farcùni e ttorna a llu chiasciòne prima ca lu castariéddhru si nni ccorge.” (“Chiudi gli occhi e ritorna nel lenzuolo prima che il gufo se ne accorga.”); “No ss’à ddurmire tisi, s’à ddurmire stisi.” (“Non si deve dormire in piedi, si deve dormire stesi.”); “Lu sciùrnu a mmiénzu all’erva, ma la notte intra,a llu liéttu.” (“Di giorno fra l’erba, ma la notte nel letto.”); “Uécchi piérti a llu sole li bbinitìce  Ddiu; uécchi piérti ti notte li rranfa la cuccuàscia.” (“Occhi aperti di giorno li benedice Dio; occhi  aperti di notte per sonnambulismo li graffia la civetta.”).

A questi messaggi, che il tramando orale definiva “palòre ti cugnu” (“Parole cardine”), spesso venivano a sommarsi “Li palòre scange” (“Le parole non regolamentari”), frasi fantasiosamente improntate da quanti, trovandosi per caso a  incrociare il patetico passìu e forse curiosi di vedere come andavano a finire le cose, facevano gruppo alle spalle del sonnambulo.

Cchiù mmànure sprùanu l’aulìe / cchiù mprima  si àe a llu trappìtu.” (“Più sono le mani che brucano le olive / più presto si va al trappeto [prima si ha l’olio].”), dicevano questi avventizi a giustificare la loro intromissione, analogicamente facendola valere come provvidenziale rafforzamento dell’azione terapeutica e quindi capace di determinare un più rapido “ssugghimiéntu ti nnùbbiu”.

     Questo identificare la guarigione del sonnambulo in uno scioglimento da nùbbiu (annebbiamento) – la cui valenza semantica era specificatamente volta a indicare l’effetto oppiaceo – svela un’indubbia trasposizione di segno nella logica, non essendo accettata, neppure a livello di diagnosi contadina, un’oggettiva correlazione fra stato sonnambolico e azione narcotica. Il perché dell’improprio accostamento va quindi cercato nella sfera delle trascrizioni associative, innestandosi in quella particolare dialettica mentale le cui coniugazioni raramente sottostavano alla legge dei rilievi matematici, interessate com’erano a cogliere i riflessi di ipotetiche derivanze e interferenze.

A tale scopo, occorre necessariamente rifarsi al parlato quotidiano, cioè vedere quali erano in pratica le occasioni di riporto all’effetto oppiaceo e se e quanto l’applicazione linguistica variasse nell’eventuale passaggio dal dichiarato al sottinteso.

L’oppio, per il suo essere prodotto dei campi e quindi più o meno alla portata di tutti, si può dire fosse il ritrovato più comune della farmacopea contadina, per cui, sempre in riferimento terapeutico, non si aveva nessuna remora nell’avallarne e caldeggiarne l’uso.

papavero bianco (“la papagna”) fotografato nel Salento da Ivan Lazzari

Ci uéi cu ddorma, tocca cu llu nnubbi.” (“Se vuoi che si addormenti gli devi propinare un po’ di oppio sciolto nel latte.”), si diceva a una giovane madre alle prese con un bambino restio ad addormentarsi; e se qualcuno lamentava dei dolori – fossero reumatici o mestruali – non ci si peritava di consigliare: “Nnùbbiate cu lla paparìna, accussì no ssuéffri.” (“Stordisciti con uno sciroppo a base di oppio, così non soffri.”).

  

Per quanto diffusa, la paparìna (papavero bianco, nel Salento quasi sempre rosaceo) non era erva ti scapìstru (erba priva di capestro, cioè proliferante) come le famose scàttule (papaveri rossi), per cui, nel suo nascere a ceppi isolati, richiamava l’attenzione dei bambini: “Stàtibbe alla larga ti la paparìna, no nci ficcati lu nasu, ca sinnò bbi nnùbbia.” (“Tenetevi alla lontana dalla corolla del papavero, non avvicinate il naso, altrimenti vi ottunde, vi addormenta.”).

In verità, quando al culmine della fioritura le capsule si gonfiavano accusando la presenza dell’oppio, anche gli adulti giravano al largo per evitarne le esalazioni; né mancava chi – marito geloso di una donna giovane e calda – le guardava in tralice, temendo che la moglie avesse poi a servirsene per narcotizzarlo, in tal modo assicurandosi libertà d’incontri durante la notte. Paura dettata dal comportamento di donne leggere, i cui tradimenti – a quanto si raccontava – erano stati agevolati dalla cummàre paparìna, ca sobbra’a lli corne nci mintìa l’ammàce ssicurànnu a lla mugghére nfitéle nnu marìtu gnorri e scuscitàtu (dalla comare papaverina, che copriva le corna con la bambagia, assicurando così alla moglie infedele un marito ignaro e tranquillo). Episodi che, per quanto sporadici, facevano testo nel ristretto ambiente paesano, malignamente alimentando quel linguaggio ironico-allusivo sempre gradito alle bocche maschili: vedendo un contadino presentarsi al lavoro mezzo addormentato o comunque tardo nei movimenti, i compagni non si lasciavano sfuggire l’occasione di chiedergli fra il faceto e il preoccupato: “Cce tt’à ffattu mugghérita stanotte, t’à nnubbiàtu?” (“Che ti ha fatto tua moglie questa notte, ti ha dato oppio?”).

papavero bianco (“la papagna”) fotografato nel Salento da Ivan Lazzari

E senza dare tempo alla risposta seguiva il collettivo nonché fraterno consiglio: “Anna sotta’a llu saccone, frate mia, e ci ttruéi scusa paparìna, scàngiala cu mmiéru ti putéa, ca nnu lliòne ale cchiùi ti nnu crapòne!” (“Cerca sotto il materasso, fratello mio, e se vi trovi dell’oppio, cambialo [commercialo] con vino di bettola, ché un leone [ubriaco  prepotente] vale più di un caprone [cornuto]!”).

Santa Apollonia in immaginetta devozionale

In realtà, cedendo alla lusinga  del quarto di vino da consumare in allegra compagnia, i contadini eleggevano le bettole a loro privilegiate banche di cambio, incoraggiati dalla bravura che gli osti avevano nel fare incetta di tutto. In tale quadro speculativo, un particolare interesse lo suscitava proprio l’oppio, vantaggiosamente ricollocabile presso gli speziali o i barbieri, usi questi ultimi ad adoperarlo come analgesico durante le loro prestazioni odontoiatriche. All’epoca, infatti, per calmare un forte mal di denti non si aveva altra alternativa se non quella di ricorrere ai buoni uffici o dei barbieri o degli apicultori, gli uni e gli altri esperti nel dare sollievo utilizzando quelli che il popolo definiva “mbàrsami scusi ti la criazziòne” (“lenimenti nascosti nella natura”).

     L’apicultore, condotto il paziente nei pressi di un’arnia, con destrezza catturava un’ape  in un bicchiere, sveltamente otturandone l’imboccatura con un’immaginetta di S. Apollonia la cui protezione contro il mal di denti era unanimemente riconosciuta.

Tàggiu scucchiàta la mégghiu apicéddhra…” (“Ti ho scelto la migliore ape…”), diceva correndo al rincaro del suo servigio, e opinando che più l’insetto si agitava, più veleno accumulava e quindi maggiore effetto aveva la puntura, aggiungeva: “Tàmule tiémpu cu ssi rràggia, ca cchiù si mbiléna mégghiu gghéte” (“Diamole il tempo d’invelenirsi, perché più s’invelenisce meglio è”). Solo quando vedeva l’insetto sbattere furiosamente contro il vetro e ne udiva il ronzare in forsennato crescendo si decideva a capovolgere il bicchiere sulla guancia dolorante, sfilando poi lentamente l’immaginetta e dando così all’ape la possibilità di conficcare il suo pungiglione.

Per l’azione velenifera e più ancora per il turgore che ne conseguiva, il poveretto registrava un rapido scemare del dolore, sicché se ne poteva  tornare subito al lavoro senza dover neppure attendere all’estrazione del pungiglione: trattandosi di ape mellifera, usa a posarsi soltanto sui fiori, non sussisteva rischio di infezione. Se preoccupazione sopravanzava, era solo quella di risarcire all’allevatore la perdita dell’ape (privato del pungiglione l’insetto era destinato a morire), un danno sulla cui entità non c’era da obiettare, soprattutto se si era in tempo di fioritura quando a ogne bbulu criscìa nna stiddhra ti mele (a ogni volo la produzione del miele aumentava di una stilla).

Meno laborioso e quasi più aristocratico il rimedio offerto dai barbieri, come s’è detto basato sull’oppio. “Tiémpu cu ssi mpìccia lu craòne e llu miràculu ete fattu!” (“Il tempo occorrente per accendere un carbone e il miracolo è bell’e fatto!”), promettevano a ogni avanzare di richiesta; e desiderosi di far colpo sulla semplicità contadina ostentavano mosse solenni nel mettere in campo il prezioso oggetto con il quale compivano il vantato ‘miracolo’: un fornello quadrato, quasi una scatola metallica, che voleva essere una pipa da terra, popolarmente soprannominata argiòla” (“gabbia”) e per associazione di meccanismo nonché di uso riportabile ai narghilé orientali.

Posta all’interno la dose dell’oppio, stabilito il calore necessario e inserita nell’apposito buco una rigida e lunga cannuccia, invitavano il paziente ad aspirare il fumo lentamente, raccomandandogli di trattenerlo il più a lungo possibile nel cavo orale affinché il dente malato avesse tempo cu ssi nnùbbia toce toce (di assorbire l’oppio dolcemente).

Pur se ammirata come oggetto di non comune possesso e celebrata in quanto mezzo risolutore di uno stato di sofferenza al quale prima o poi tutti si era costretti a soggiacere (senza cugni nasci, senza cugni muéri [senza denti si nasce, senza denti si muore]), la cargiòla  veniva guardata con un certo sospetto dal popolo, non ignaro che della stessa se ne servivano quanti usavano l’oppio, privatamente, a fine voluttuario; casi rarissimi, spesso semplicemente sospettati o comunque accertabili solo a distanza di tempo, cioè quando nell’assuefazione e conseguente rincaro delle dosi l’oppiomane ne dava conferma con il suo comportamento: delle azioni che compiva in stato di nnùbbiu non serbava memoria.     “Mancu ci gghete nnu sunnàmbulu! » (« Neanche fosse un sonnambulo a come si comporta!”) commentavano alle spalle quanti ne venivano a contatto, e fra questi non mancava chi, passando dal rilievo alla sentenza, impietosamente concludeva: “Tiscrazziàtu cinca lu nnùbbiu si lu cerca ti sulu!” (“E’un essere spregevole chi l’annebbiamento se lo procura volontariamente, cioè per vizio!”). Due frasi che pur se casuali nella proposizione e apparentemente disancorate fra di loro, si offrono a chiave d’interpretazione della definizione “Ssugghimiéntu ti nnùbbiu”, citata a proposito dell’azione terapeutica svolta a favore del sonnambulo.

Se la prima, situando i termini di confronto nell’azzeramento della memoria, fa strada alla ragione dell’improprio accostamento fra sonnambulismo ed effetto oppiaceo – qui focalizzato nella caratteristica di vizio -,  la seconda, calcando nel segno della riprovazione, lascia chiaramente intendere quanto lo stesso effetto oppiaceo – sempre in versione distruttiva – potesse avere origine dolosa. E poiché nùbbiu sostanzialmente stava per sonno indotto, nel momento che se ne parlava come di un negativo interferente, implicitamente lo si identificava in uno stato ipnotico malevolmente provocato da terzi, sia pure in modo indiretto, ovverosia tramite un’azione di affatturamento.

Proprio per questo suo battere sul versante della comminazione esoterica, punto nevralgico delle paure popolari, l’assunto veniva a porsi come certificazione d’immanenza nel vissuto quotidiano, per cui – sempre a livello di agito verbale – lo ritroviamo diluito in più superficiali applicazioni, fatto causa di un cattivo comportamento o decifrazione di un particolare stato d’animo. Tanto per fare un esempio, se una madre vedeva il figlio giovane farsi di colpo svagato e come disancorato dalla realtà, non esitava a dire “Quarche puttàna ti fémmina mi ll’à nnubbiàtu” (“Qualche malafemmina me lo ha rimbambito”), sposando così l’azione pratica del dare oppio a quella meno documentabile ma più temibile del plagio mentale.

Del resto per il popolo fra plagio, sortilegio e maleficio non correva acqua, l’uno innestandosi nell’altro in forza di un’unica matrice che si voleva demonica e perciò responsabile di tutto quanto  poteva capitare di sgradito, dannoso o sia pure semplicemente indecifrabile.

Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA, Culti magico-religiosi nel Salento fine Ottocento”, con  la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari, 1994, pagg. 222-227

L’elegante torre federiciana di Leverano (Lecce)

La torre di Leverano (ph Fabrizio Suppressa)

di Fabrizio Suppressa

Tra le tante torri che svettano sulla penisola salentina, ce n’è una in particolare che racchiude nelle sue geometrie e nelle forme una raffinata eleganza. Stiamo parlando della torre federiciana, emblema dello stendardo leveranese, che da più di 700 anni domina il fiorente abitato della pianura copertinese.

Fu voluta da Federico II di Svevia, il Puer Apuliae, e ultimata nel 1220 come baluardo a difesa dell’abitato e delle coste cesarine, imperversate a quell’epoca da scorribande saracene. Fu posizionata secondo una rete di piazzeforti che proteggeva l’entroterra jonico, assieme alle fortificazioni di Mesagne, Oria e Uggiano Montefusco e collegata visivamente con il primordiale impianto svevo del futuro castello di Copertino (secondo parecchie fonti orali i due fortilizi erano collegati da improbabili gallerie ipogee).

La torre è la più alta della Terra d’Otranto, si erge per 28 metri tra le basse abitazioni circostanti, anche se, originariamente la costruzione sorgeva isolata all’interno delle mura cittadine con un profondo fossato largo alcuni metri.

Varcato l’uscio d’ingresso, posto nel poderoso basamento lievemente scarpato, si raggiunge un ambiente voltato a botte ogivale, dove lateralmente è posta una particolarissima scala a chiocciola a doppia spira (forse unica in tutto il Salento) che si sviluppa nell’anima della muratura per tutta l’altezza della torre.

Raggiunto il primo livello, non si può far altro che alzare gli occhi per ammirare le pareti interne dal colore ambrato, sino alla splendida volta a crociera dai costoloni bicromi. Questa particolarità, realizzata con l’alternarsi di conci in tufo e pietra leccese molto simile al coevo portico dei Cavalieri Templari di Brindisi, denota una chiara influenza orientale, tipica delle strutture duecentesche del Meridione d’Italia.

interno della torre (ph. F. Politano)

L’eleganza della torre risiede nelle raffinate decorazioni e nella perfetta fattura degli apparecchi murari, opere peculiari dell’architettura normanna. Come per esempio i caminetti con le deliziose foglie d’acanto, gli architravi dai precisi incastri e soprattutto le cornici delle finestre con il particolare motivo a zigzag (ornamento a “denti di sega” o a Baton-Rompus secondo Viollet Le Duc). Quest’ultima decorazione, riscontrabile anche nel santuario di Santa Maria della Lizza e nel campanile del Duomo di Nardò, è stata inspiegabilmente privata delle originarie proporzioni nel recente restauro a causa dell’inspessimento delle cornici con fasce in pietra leccese.

La torre era inoltre suddivisa in tre livelli con solai lignei, successivamente crollati o demoliti, come si desume dagli incassi delle travi nella muratura e dagli elaborati caminetti disposti quasi a mezz’aria.

Dall’ampio terrazzo, un tempo protetto da strutture in legno, la torre partecipò alla difesa dell’abitato, come ci ricorda il Marciano nel capitolo dedicato alla sua città natìa:

“Verso il 1220 Federico II vi edificò la torre, (…) acciò dalle scorrerie de’ nemici si difendesse il luogo, il quale per I’arme che si usavano in quelli tempi era fortissimo. E nell’anno 1373, o secondo il Coniger 1378, Francesco del Balzo Duca di Andria, rottosi colla Regina Giovanna I, condusse nel regno di Napoli Giovanni Montacuto capitano Bretone con seimila Brettoni ed Inglesi; ed avendo nella Puglia occupato Canosa, Minervino, Gravina ed Altamura, passò nell’assedio della città di Lecce, e nel passaggio distruggendo quanti luoghi incontrava della Regina distrusse con repentino assalto il Casale Albaro, i cui abitatori si ridussero ad abitare in questa terra.”

Ed ancora, nel 1484 resistette all’assalto dei Veneziani, che in quel periodo avevano occupato Gallipoli e i territori circostanti, mentre nel 1528 riuscì a resistere ai francesi comandati dal visconte di Lautrec.

Con il repentino passaggio delle tecniche difensive da piombante a radente iniziò il triste declino della nostra torre. Il dongione divenuto oramai un facile obiettivo delle artiglierie, fu trascurato dai vari feudatari e trasformato in magazzino per suppellettili e granaglie. Subì ulteriori sfregi quando in seguito, l’ampio locale interno fu trasformato in una vera e propria colombaia mediante l’asportazione, con un disegno a scacchiera, di alcuni conci dalla muratura.

Pericolante a metà ‘800, la torre fu “riscoperta” dai galantuomini più illustri di Terra d’Otranto, tra cui il De Simone, il De Giorgi e l’Arditi. Costoro si attivarono energicamente affinché si intraprendessero i primi lavori di consolidamento statico della volta a crociera e il riconoscimento della torre come monumento nazionale (1870).

Dobbiamo proprio alle loro azioni e alla loro tenacia se tuttora possiamo ammirare e visitare l’eleganza di questa agile costruzione svettante sopra le assolate terrazze della città dei fiori.

Le decorazioni nelle note di Cosimo De Giorgi

Bibliografia:

M. Paone, La Torre, in Tempi, uomini e cose di Leverano, Galatina, Editrice Salentina, 1985.

R. De Vita, Castelli e opere fortificate di Puglia, Bari, Adda Editore, 1974

Lu cutùgnu e lu cuttòne (la mela cotogna e il cotone)

di Armando Polito

Dopo il fallimento delle melagrane debbo registrare quest’anno anche quello delle mele cotogne, scarsissime, piccole, tanto che raccoglierle sarebbe tempo sprecato. È un duro colpo per me che amo i gusti forti e non mi resta che consolarmi a modo mio. Vuol dire che, se anche le cicore creste (cicorie selvatiche) mi tradiranno, sarò costretto ad integrare (non si finisce mai di farlo…) il post a loro dedicato tempo fa. Il lettore è avvertito…prenda, perciò, le opportune precauzioni.

nome scientifico: Cydonia oblonga Miller

nome scientifico: Cydonia vulgaris Pers.

famiglia: Rosaceae

nome italiano: cotògno

nome dialettale neretino: cutùgnu (per l’albero e per il frutto)

Cydònia  è tal quale il nome latino di una città dell’isola di Creta (in greco Kydonìa) ove c’era una produzione molto apprezzata di questo frutto che, comunque, è di origine asiatica.

Rosaceae è forma aggettivale da rosa.

Oblonga (=allungata) e vulgaris (=comune) si riferiscono alle caratteristiche fisiche del frutto, più simile ad una pera il primo, ad una mela il secondo.

Cotògno è dal latino cotòneu(m) che può anche accompagnarsi a malum=mela e che è dal greco kydònion melon o kydonìa malìs=mela di Cidonia.

La voce dialettale è dal latino medioevale cotùgnu(m), attestato nel Chronicon Tarvisinum come un’elementare , ma presumo efficace,  arma1.

Passo ora com’è mia abitudine (anche perché solo questo so, forse, fare) alle testimonianze antiche cominciando dagli autori di lingua greca.

Stesicoro (VII-VI° secolo a. C.) in un suo frammento: “…gettavano molte mele cotogne [kydònia mala] verso il carro per il re, molte foglie di mirto, corone di rose e fitte ghirlande di viole…”2. Dal contesto risulta evidente che “mele cotogne” sta (probabilmente per esigenze metriche) per “fiori di melo cotogno”, anche perché (lo si deduce dal titolo dell’opera, Elena, tramandatoci col frammento) sul carro (nuziale) c’è Menelao insieme con Elena.

Ibico (poeta di Reggio Calabria del VI° secolo a. C.) in un suo frammento: “…in primavera anche i cotogni (Kydòniai malìdes) irrigati dalle acque attinte dai fiumi, dove il giardino inviolato delle vergini e le gemme della vite che si gonfiano sotto gli ombrosi  pampini sono in fiore; a me invece Amore sereno non mi concede stagione felice. Bruciando come il tracio Borea tra i fulmini , irrompendo da Venere spaventoso per le passioni che bruciano, forte della sua imperturbabilità, fin dalla fanciullezza tiene d’occhio la mia mente…”3

Aristofane (V°-IV° secolo a. C.) nella commedia Nuvole: “Nessun ragazzo allora si ungeva al di sotto dell’ombelico, sicché la peluria e la lanuggine sul pube fioriva come sulle mele (mèloisin)”4. Nonostante qui “mela” non sia accompagnato dall’aggettivo è chiaro che si tratta proprio di quella cotogna, l’unica che abbia la caratteristica sfruttata dal poeta greco per la sua similitudine. A tal proposito ricordo che quando la mela cotogna, al pari del fico e di altri frutti, era in auge, c’era l’abitudine di eliminare delicatamente con le mani quella peluria nella convinzione che il frutto sarebbe maturato meglio. Avesse o non avesse fondamento questa pratica, comunque  la pelle del frutto assumeva la lucentezza della seta, ben diversa da quella assolutamente innaturale e probabilmente non innocua di certe mele che ci attendono occhieggianti al supermercato…Proprio su questa lanuggine tornerò…sì, ma dopo la pubblicità, pardon dopo aver fatto parlare gli altri autori.

Plutarco (I°-II° secolo d. C.) nella Vita di Solone (XX, 6) che fa parte delle Vite parallele: “(Le leggi di Solone, legislatore ateniese del VII°-VI° secolo a. C.) prescrivono che la sposa sia chiusa con lo sposo nella stanza nuziale, mangi una mela cotogna (malon kydònion) e che il marito abbia con lei almeno tre rapporti ogni mese; infatti in questo modo, anche se non nascono figli, tuttavia questo rispetto e cortesia manifestati alla casta moglie liberano entrambi dagli inconvenienti che son soliti verificarsi in un matrimonio e si ottiene inoltre che non diventino estranei tra loro per un disaccordo”5.

Lo stesso autore ribadisce il concetto e lo amplia nel De coniugalibus praeceptis che fa parte dei Moralia: “Solone prescrisse che la sposa giacesse con lo sposo dopo aver mangiato una mela cotogna (malon kydònion) dicendo oscuramente che conveniva perché bisogna che la grazia armoniosa e dolce partano anzitutto dalla bocca e dalla voce“6. Condivido pienamente quell’oscuramente di Plutarco perché, se ho già molte difficoltà ad attribuire alla mela cotogna capacità di rendere più gradevole la voce, queste diventano insormontabili quando viene messo in campo il concetto di dolcezza. Probabilmente ci sono allusioni che sfuggivano a Plutarco, figurarsi a me, anche se il tutto potrebbe essere collegato, molto banalmente,  al fatto che il frutto, come tutti i pomi, era caro a Venere. Diametralmente opposta, comunque, la connotazione che emerge dalla locuzione dialettale stae maru comu nnu cutùgnu (è triste come una mela cotogna) e dal proverbio ttre ccose nnòticanu lu core: li cutùgni, li nèspule e li palòre  (tre cose fanno sentire un nodo al cuore: le mele cotogne, le nespole e le parole); in entrambi la spiacevole sensazione legata al gusto diventa metafora di un sentimento.

Dioscoride (I° secolo d.C.): ”Le mele cotogne (kydònia) sono salutari per lo stomaco, diuretiche, cotte diventano più gradevoli, utili a chi soffre d’intestino,  ai dissenterici,  a chi soffre di emottisi  e di colera, soprattutto crude. Il loro infuso come bevanda è adatto a chi soffre di stomaco o di intestino. Il loro succo crudo assunto giova a chi soffre di ortopnea, il decotto come lozione è efficace contro il prolasso rettale e uterino. Col miele favoriscono la diuresi perché esso ne esalta le proprietà di per sé addensanti ed astringente. Cotte col miele sono digestive e gradevoli al gusto , ma meno astringenti. Crude si applicano come cataplasmo contro le ostruzioni intestinali, la nausea e il brucioredi stomaco, la mastite, l’indurimento della milza, i condilomi. Dalle melecotogne pestate e spremute si ricava anche un vino mescolando per l’invecchiamento un sestario di miele a sedici di succo perché non abbia sapore di aceto. Giova a tutte le malattie prima citate. Dalle mele cotogne si ottiene anche un unguento chiamato melino usato ogniqualvolta si abbia bisogno di un olio astringente. Bisogna scegliere le mele cotogne veraci che sono quelle piccole, tonde e profumate; quelle chiamate strutee e quelle grosse  sono meno utili. I loro fiori secchi e verdi sono adatti ai cataplasmi nei casi in cui c’è bisogno di un effetto astringente e contro le infiammazioni degli occhi; bevuti nel vino sono utili contro l’emottisi, la diarrea e la menorrea. I frutti derivanti dall’innesto del melo sul melocotogno (melìmelon) rammolliscono il ventre e ne combattono i vermi, placano la nausea, però danno anche fastidio allo stomaco e causano riscaldamento; alcuni li chiamano mele dolci (glykýmelon)” 7.

Nel mondo latino Catone (III°-II° secolo a. C.) è il primo redattore di un elenco di varietà di meli tra i quali alcuni saranno classificati da autori successivi come varietà di meli cotogni: “Meli  strutei (mala struthea8), cotogni (mala cotonea), allo stesso modo altri che si piantano, meli mustei (mustea9)…”10

Marco Terenzio Varrone (I° secolo a. C.): “A proposito dei pomi che si conservano:  le mele strutee (mala struthea 8), le cotogne (cotonea)…credono che si conservano ottimamente poste in un luogo asciutto e fresco sulla paglia”11

Columella (I° secolo d. C.): “…le mele cotogne (cydònia) che sono di tre varietà: le stutee (strùthia8), le crisomeline (chrysomelìna12) e le mustee (mùstea9); tutte non solo sono gradevoli al gusto ma fanno bene anche alla salute”; “Molti, come fanno con le melagrane, conservano le mele cotogne (cydonia) in fosse o in giare. Parecchi le avvolgono in foglie di fico poi impastano creta da vasai con morchia e ne spalmano le melagrane; quando la creta è seccata le collocano su un tavolato in un luogo fresco ed asciutto. Molti le mettono in piatti nuovi e le ricoprono con gesso secco in modo che non si tocchino. Noi non abbiamo sperimentato altro metodo più sicuro di questo: si raccolgono le mele cotogne molto mature, sane, senza alcun difetto quando il cielo è sereno e la luna calante, dopo averle pulite della lanugine che c’è sul frutto si dispongono in un fiasco  dall’imboccatura molto larga delicatamente e senza esercitare pressione in modo che non possano urtare fra loro. Poi quando si è raggiunto l’orlo del contenitore si bloccano mettendo di traverso ramoscelli di vimini in modo che le comprimano moderatamente e che esse non possano sollevarsi quando verrà aggiunto il liquido. A quel punto si riempie il contenitore fino alla sommità di miele quanto più possibile di qualità e liquido fino a che i frutti sono totalmente sommersi. Questa procedura non solo le conserva ma conferisce al liquido un sapore di vino cotto che senza alcuna controindicazione può essere somministrato ai febbricitanti e che si chiama miele di frutta (melomeli13). Bisogna guardarsi dal conservare col miele mele cotogne non mature, poiché induriscono a tal punto che sono inutilizzabili. È assolutamente inutile, poi, come molti fanno ritenendo che il frutto si guasti,  spaccarle con un coltello di osso e togliere i semi; anzi, la procedura che poco prima ho illustrato è sicura a tal punto che, anche se c’è il verme, cessano di guastarsi quando si versa il liquido di cui ho parlato; infatti il miele ha la proprietà di frenare la corruzione e di non consentire che essa si propaghi; non a caso conserva intatto anche un cadavere per moltissimi anni”14. 

Plinio (I° secolo d. C.): “Sono vicine a queste (le pigne, di cui ha parlato immediatamente prima) in grandezza le mele che noi chiamiamo cotogne (cotonea) e i Greci cidonie (cydonia), portate dall’isola di Creta. Esse (per il peso) fanno curvare i rami e impediscono all’albero madre di crescere. Molte sono le loro varietà: le crisomele (chrysomela12), caratterizzate da solchi, col colore che tende all’oro; quelle che sono più bianche sono dette nostrali, di profumo eccellente; anche le napoletane (Neapolitanae) hanno la loro considerazione; le più piccole della medesima varietà, le strutee (struthea8), emanano un profumo più intenso e sono tardive, le mustee (musteae9), invece, sono precoci. Il melo cotogno poi innestato sullo struteo trasforma la sua varietà in mulviano (mulvianum15), i cui frutti soltanto sono mangiati crudi. Tutte si tengono ora nelle stanze delle udienze e sono poste sulle statue consapevoli delle notti16. Ci sono ancora delle strutee  piccole selvatiche, odorosissime, che nascono nelle siepi “17.

Marziale (I° secolo d. C.): “Se ti vengono offerte mele cotogne (cydonia) sature di miele cecropio puoi dire che sono mele al miele (melimela13)18”; “Hai una peluria così impercettibile, tanto morbida che un soffio, un raggio di sole  e una leggera brezza la consumano. Sono nascoste da una simile lana le mele cotogne ancora acerbe, che brillano spogliate dalla mano di una fanciulla”19.

Ho accennato prima alla lanugine tipica del nostro frutto, un dettaglio non trascurato,come s’è visto, da Columella e non sfuggito al massimo naturalista latino, se in un altro passo  dedicato alle mele propriamente dette  così si esprime: “Quasi forestiere sono quelle che nascono solo nel territorio di Verona e che sono chiamate lanate (lanata20). Le ricopre una lanugine, come succede nelle (mele) strutee (struthea8) e nelle (mele) persiche2122.

E più avanti avverte che “il cotogno piantato così (utilizzandogli stoloni, tecnica efficace, a suo dire, per il melograno, il nocciolo, il melo, il sorbo, il nespolo, il frassino e il fico) s’imbastardisce…si escogitò di piantare i polloni svelti dall’albero. Questo fu fatto prima con i sambuchi, i cotogni e i lamponi per formare siepi…”23.

Nell’Editto emanato da Diocleziano nel 301 per fissare il tetto massimo delle merci più correnti: “10 mele cotogne (mala cydonia) quattro denari” 24.

Palladio Rutilio Tauro Emiliano (IV° secolo d. C.) sulla scia di Columella: “A febbraio si innestano i meli cotogni, meglio nel tronco che sulla corteccia…le mele cotogne vanno raccolte mature e conservate così: o poste tra due tegole se sono spalmate da ogni parte di fango o cotte nel mosto o nel vino passito. Altri conservano le più grosse avvolte in foglie di fico. Altri le mettono semplicemente in un luogo asciutto al riparo dal vento. Altri, dopo averle divise in quattro parti ed eliminato con una canna o con un attrezzo d’avorio la parte centrale, le mettono in un vaso di creta e le coprono di miele. Altri le mettono intere nel miele e per questa conservazione conviene sceglierle sufficientemente mature. Altri le coprono di miglio o le conservano separate da paglia. Altri le mettono in piccoli vasi pieni di ottimo vino oppure per conservarle preparano una mistura di vino o di mosto cotto. Altri le chiudono nei contenitori pieni di mosto, il che rende profumato anche il vino. Altri le chiudono in una padella di creta separate l’una dall’altra e la sigillano con gesso secco”25.

Avevo anticipato che avrei chiuso il post con la lanuggine tipica della mela cotogna. Qualche etimologo fantasioso ma frettoloso potrebbe supporre che il suo nome abbia a che fare col cotone e che quindi cotogna potrebbe pure essere derivata da cydònia, magari con incrocio proprio con cotone. È vero che la pianta del cotone presenta un’infiorescenza che può ricordare (molto vagamente…) il vello del nostro frutto, è pur vero che in Plinio è attestato un arbusto cotonea ma ogni velleità è ridimensionata dalla descrizione: “L’alo, così lo chiamano i Galli, i Veneti cotonea (cotonea);  cura i polmoni, i reni, le contusioni e le fratture. È simile alla cunila bubula e nelle estremità al timo, è dolce, toglie la sete, la radice è ora bianca ora nera26”.

Lascio a qualche (sedicente?) etimologo della Lega nord l’orgoglio di rivendicare l’origine celtica pure del cotone e mi congedo da chi ha avuto la pazienza di seguirmi fin qui ricordando che i latini conoscevano molte piante da cui si ricavavano tessuti,  il cui nome, poi, è diventato quello scientifico del genere Gossypium27 (famiglia Malvaceae) cui appartiene anche il cotone, ma quest’ultimo è dall’arabo qutun28.

L’ultima riflessione, amara, è dedicata alla protagonista di questo post. Le mele cotogne riprodotte nella foto di testa mi sono state regalate, ma non hanno per niente quel profumo inconfondibile di quelle della mia prima infanzia, via via svanito nel tempo, e non certo per decadimento per motivi anagrafici del mio olfatto…

Fra qualche anno, purtroppo, nemmeno un orso riserverà la sua attenzione a questo frutto;  ma almeno lui non saprà, forse…, che un suo antenato di duemila anni prima ne andava ghiotto.

________

1 Traduco dal testo originale del Chronicon Tarvisinum (prima metà del XV° secolo), in Ludovico Antonio Muratori, Rerum Italicarum scriptores, Società Palatina, Milano, 1731, t. XIX, c. 792: “E, portate lance, pavesi [un tipo di scudo] e mele cotogne (poma cutogna) fece molte prove con una sola mano per sollevare le lance e i pavesi e a scagliare le mele cotogne”.

2 Traduco dal testo originale dell’edizione Stesichori Imerensis fragmenta a cura di O. F. Kleine, Reimer, Berlino, 1828, pag. 94.

3 Traduco dal testo originale dell’edizione  Ibyci Rhegini carminum reliquiae a cura di G. Schneidewin, Mueller, Gottingen, 1833, pag. 85.

4 Traduco dal testo originale (vv. 976-977) dell’edizione Aristophanis Nubes a cura di C. R. Thuring, Weidmann, Lipsia, 1820, pag. 62.

5 Traduco dal testo originale dell’edizione Plutarchi vitae a cura di T. Dohener, Didot, Parigi, 1857, v. I°, Solone, XX, 6, pag. 106.

6 Traduco dal testo originale dell’edizione Plutarchi Chaerinensis Moralia a cura di G. N. Bernardakis, Teubner, Lipsia, 1888, v. I°, pag. 338.

7 De re medica, I, 160-161. Traduco dal testo originale dell’edizione a cura di C. G. Kühn, Cnobloch, Lipsia, 1829, pagg. 148-149.

8 Alla lettera: dei passeri, evidentemente ghiotti di questo frutto. La voce è dal greco strouthòs=passero, gallina, struzzo.

9 Alla lettera, con riferimento ai frutti: dolci come il mosto.

10 De agricultura, VIII. Traduco dal testo originale dell’edizione a cura di G. Berengo, Antonelli, Venezia, 1846, pag. 13.

11 De re rustica, I, 59. Traduco dal testo originale dell’edizione Antonelli, Venezia, 1846, pag. 560.

12 Dal greco chrysòs=oro e melon=mela.

13 Trascrizione del greco melomèli=miele aromatizzato con le mele cotogne, da meli=miele e melon=pomo, mela.

14 De re rustica, V, 10 e XII, 47. Traduco dal testo originale dell’edizione a cura di G. Schneider, Antonelli, Venezia, 1846, pagg. 335 e 775-777.

15 Mulvianus/a/um è aggettivo da Mulvius=Mulvio, personaggio contro cui, per un processo,  Cicerone scrisse un’orazione; il nome, perciò, in assenza di altri riscontri, potrebbe essere di natura prediale, cioè indicare un fondo di un certo Mulvio, ove si praticava la coltivazione di questo frutto.

16 È intuitiva nelle stanze per le udienze la sua funzione di deodorante; le statue, poi, sono quelle che nella stanza da letto erano poste a capo del letto nuziale (e in questo caso c’è da supporre che alla astratta funzione apotropaica ricordata da Plutarco e presumibilmente adottata anche nel mondo romano si accompagnasse anche quella, tutta pratica, di deodorante…).

17 Naturalis historia, XV, 10. Traduco dal testo originale dell’edizione curata da L. Domenichi, Antonelli, Venezia, 1844, v. I°, pag. 1327.

18 Xenia, 24. Traduco dal testo originale dell’edizione Lemaire, Parigi, 1825, pag. 104.

19 Epigrammi, X, 42, vv. 1-4. Traduco dal testo originale dell’edizione a cura di P. Magenta, Antonelli, Venezia, 1842, pag. 753.

20 Lanatus/a/um significa coperto di pelo simile alla lana. Il dettaglio successivo della lanuggine esclude, a parer mio, che ci sia un riferimento alla tecnica di conservazione o di trasporto, come vogliono alcuni commentatori. D’altra parte gli autori latini a tal fine mettono in campo la paglia e non la lana.

21 Le mele persiche sono le pesche.

22 Naturalis historia, XV, 15, op. cit., pagg. 1332-1333.

23 Naturalis historia, XVII, 13, op. cit., pag. 1505.

24 Edictum de pretiis rerum venalium, VI, 73. Traduco dal testo originale dell’edizione a cura di S. Lauffer, Berlino,1971.

25 De re rustica, III. Traduco dal testo originale dell’edizione Les agronomes latins a cura di M. Nisard, Dubocher, Le Chevalier & C., Parigi, 1851, pag. 573.

26 Naturalis historia, op. cit., XXVI, 26, pag. 533.

27 Naturalis historia, op. cit., XII, 21 e XIX, 2, pagg. 1153-1155 e 1737-1739: “Nel più remoto posto della medesima isola (Tilo, nella regione persiana) ci sono alberi che producono seta ma in modo diverso da quelli che ci sono tra i Seri. Hanno le foglie sterili che, se non fossero più piccole, sembrerebbero di viti. Producono zucche grandi quanto una mela cotogna (cotoneum malum) che quando maturano mostrano palle di lanugine, dalla quale si ricavano vesti di prezioso tessuto. Chiamano gossimpini (gossympini) alcuni alberi più fertili in un’isola più piccola di Tilo,che è distante dieci miglia. Dice Giuba che intorno alla pianta c’è una lanuggine e che i tessuti che se ne ricavano sono asai più fini di quelli indiani. Gli alberi d’Arabia dai quali pure si ricaverebbero vestiti sono chiamati cine, con le foglie simili a quelle della palma. Così gli Indiani si vestono con i loro alberi”;”La parte settentrionale dell’Egitto che confina con l’Arabia produce un arbusto che alcuni chiamano gossipio (gossìpion, che ha tutta l’aria di essere la trascrizione di una forma greca, di cui, però, non c’è traccia nei dizionari che ho potuto consultare), parecchi silo e siline le tele che se ne ricavano. È piccolo e produce un frutto simile alla nocciola, al cui interno nasce dal baco una lanuggine. Non ce ne sono di superiori per candore e morbidezza e se ne fanno vesti graditissime ai sacerdoti d’Egitto”.

28 È vero che il Glossarium mediae et infimae latinitatis del Du cange registra un coto sinonimo di gossypium (forma latinizzata del gossipion, presunto greco, della nota precedente), dal cui accusativo (cotonem) è elementare supporre che sia derivato cotone. Coto, però, compare in un inventario del 1444 e il verbo derivato cotonnàre in un documento del 1395. Anche se è  legittimo supporre che coto fosse usato prima di quest’ultima data è altrettanto legittimo ritenere che esso non fosse altro che la trascrizione latina dell’arabo qutun. Per farla completa, poi, dirò che la geminazione della dentale nel dialettale cuttòne non è, come si potrebbe legittimamente supporre, di origine espressiva ma è già presente nel latino medioevale cottònus attestato nel libro X degli Annales Genuenses di Iacopo Auria (XIII° secolo). Cuttòne, perciò, è dall’incrocio tra cotòne(m) (accusativo del precedentemente citato coto) e cottònu(m), avendo preso del primo la desinenza, del secondo la geminazione della dentale. D’altra parte, non è raro trovare fino al XIX secolo cottone anche in testi scientifici.

CameMedia – Storia di un inventore

Per le videorecensioni di ‘Arianna, la virtù di scrivere’ Ada Manfreda incontra Gianni Ferraris, autore del libro Salvatore Napoli Leone: genio in Terra d’Otranto (Fondazione Terra d’Otranto e Lupo editore, 2012), e Pier Paolo Tarsi, vicepresidente della Fondazione che lo ha pubblicato.

Gianni Ferraris nasce ad Alessandria nel 1951. Già antiquario e gallerista in Piemonte, si trasferisce successivamente nel Salento, a Lecce, ove collabora assiduamente con la stampa locale quotidiana e diversi periodici in rete di informazione culturale e politica.

Salvatore Napoli Leone: genio in Terra d’Otranto è un libro che vuole rende omaggio alla figura caleidoscopica ed originale di questo personaggio semisconosciuto di Nardò proponendo una narrazione, agile e allo stesso tempo ricca di particolari della sua biografia, intrecciando episodi privati con quelli legati alle sue molteplici attività ed imprese economiche e professionali.

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Presentazione della Fondazione Terra d’Otranto

La presentazione della Fondazione Terra d’Otranto

tenutasi a Nardò il 29 luglio 2012, presso la Villa comunale adiacente al castello e al Palazzo di Città, con interventi dei dott.ri Ilaria Oliva, Pier Paolo Tarsi e Antonio Errico.

Modera il prof. Salvatore Colazzo (Ordinario dell’Università del Salento).

La Madonna del Carro (1699) di Gaetano Patalano per San Cesario di Lecce

G. Patalano, Madonna del carro (doc. 1699). Lecce, Museo Castromediano (ph Antonio e Roberto Tartaglione- Bari).

di Isabella Di Liddo

 

L’analisi della circolazione della scultura  in legno policroma in età barocca tra Napoli, Puglia e Spagna sta evidenziando sempre più l’intenso scambio di opere d’arte nel Mediterraneo occidentale[1]. Luoghi di scambio e di approdo delle sculture sono i porti di Napoli, della Puglia (Gallipoli), di Genova, di Cagliari e della Spagna (Alicante, Valencia, Cartagena e Cadice)[2].

Nell’ottica di tali scambi emerge il ruolo importante di alcune botteghe napoletane tra Sei Settecento protagoniste nella produzione di manufatti lignei di altissima qualità che venivano inviate in Spagna e in tutto il Regno meridionale.

Particolarmente proficua  risultata la consultazione di fedi di credito e di pagamento effettuata presso l’Archivio storico del Banco di Napoli[3]. La pubblicazione delle polizze rivelano l’apporto dato dalle botteghe napoletane allo sviluppo della statuaria lignea tra sei-settecento a Napoli, in Spagna e nel mezzogiorno.

Alla fine del Seicento si distingue l’operosa bottega dei fratelli Aniello e Michele Perrone  con al seguito numerosi apprendisti, tra cui sii annoverano Nicola Salzillo, unico scultore della cerchia trasferitosi nella città spagnola di Murcia, dove apre un’importante bottega (dal 1699 al 1727) e Gaetano Patalano. Proprio al Patalano è stata recentemente assegnata la  Madonna del Carro in legno policroma oggi presente al Museo provinciale Castromediano di Lecce, un tempo attribuita a Nicola Fumo.

Considerato dal De Dominici il miglior allievo di Aniello Perrone, la sua produzione vanta un corpus di opere ancora esiguo, a fronte delle testimonianze che ci riferiscono delle numerose opere che egli fece “unite a quelle di Pietro Suo fratello, e per varie chiese del Regno mandaron loro lavori”[4].

In particolare in Puglia le  si conservano 4 sculture documentate, tutte nella città di Lecce: un San Matteo e l’angelo (datato 1691) in san Matteo, una Immacolata (documentata 1692) un San Gaetano Thiene (1692), un San Pietro d’Alcantara (1692) nella chiesa di S. Chiara[5]. A questo esiguo corpus numero si aggiunge la Madonna del Carro, grazie al ritrovamento di una polizza, datata 31 marzo 1699, reperita da chi scrive presso l’Archivio Storico del Banco di Napoli:

«A Francesco Marulli ducati quaranta, e per lui a Gaetano Patalano, statuario per farene una statua della Madonna Santissima del Carro secondo il convenuto con D. Giovanni Battista Oricelli della città di lecce, in qualità del disegno, al medesimo trasmesso, e per lui a Nicola Garofano» (Monte e Banco della Pietà, giornale copia polizze di cassa 1699, matr. 1069, 31 marzo).

L’opera proviene dalla chiesa matrice di San Cesario, vicino Lecce, ed è stata collocata nel Museo Provinciale Castromediano di Lecce alcuni anni  dopo il restauro.

Dalla lettura della polizza emerge che il committente fu Francesco Marulli che paga 40 ducati a Gaetano Patalano per la statua della Madonna Santissima del Carro in qualità del disegno che lo stesso Gaetano aveva inviato precedentemente a Giovan Battista Oricelli. Francesco Marulli, in questo momento storico, è una delle personalità più importanti di San Cesario, membro dell’antica e nobile famiglia dei Marulli, duchi del feudo di Frisa in Abruzzo, detentori di numerosi titoli e dal 1681 Duchi di San Cesario[6].

I Marulli arrivano a San Cesario già dieci anni prima , nel 1671, quando Giuseppe compra la parte del feudo di San Cesario da Florenzia Vaaz de Andrada, intraprendendo i lavori di ampliamento del palazzo ducale (la nuova ala destra) con la realizzazione dei saloni e del nuovo cortile[7].

Questi anni sono fondamentali per la città di San Cesario: infatti dal 1623 iniziano i lavori relativi alla costruzione della nuova Chiesa Matrice (situata di fronte al Palazzo ducale e sorta sulla cappelletta di S. Maria delle Grazie) col nuovo titolo di Santa Maria del Carro. Pertanto sin dalla sua fondazione, la nuova chiesa matrice di S. Cesario fu dedicata alla Madonna del Carro. A conferma di ciò, più tardi, nel 1641 Mons. Pappacoda, negli Acta Primae visitationis oppidi sancti Cesari, riferisce che la chiesa Matrice è “sub titolo Sanctae Mariae de Carru” e che alle spese della Cappella provvede la Confraternita del SS. Sacramento. Riguardo alle suppellettile, il Pappacoda, riferisce che è presente un affresco dedicato alla Madonna del Carro in cornice di legno e pietra elegantemente scolpito[8].

G. Patalano, Immacolata (doc. 1692). Lecce, Chiesa di S. Chiara (ph Antonio e Roberto Tartaglione- Bari)

Sono le fonti del Settecento che riferiscono della scultura della Madonna del Carro  nella Chiesa Matrice, infatti la presenza della scultura in chiesa è segnalata nelle due Visite di Mons Alonzo Sozy Carafa, nel 1753 e nel 1763, e in una Platea del 1760. Quest’ultima, conservata nell’Archivio Parrocchiale di San Cesario, ricorda che il titolo S. Maria del Carro dato alla nuova Chiesa Matrice fu voluto per “l’avvenuto miracolo di essa rimasto illeso un nostro paesano,dal passagli da sopra un carro carico, all’invocazione di M. a SS.a perlocchè la nuova Chiesa Madre eretta rimpetto al Palazzo Ducale fu sotto il Titolo della Vergine del Carro, e se ne fece un simulacro che fu collocato sul ciborio dell’altare maggiore”[9].

Riguardo invece alla due Sante Visite di Mons. Alonzo Sozy Carafa, una, quella del 1763, si limita  segnalare la presenza di una statua in legno della Vergine Maria col Bambino collocata sull’altare, l’altra del 1753, molto più interessante perché ci fornisce una dettagliata descrizione: “istar cursus variis simulacris angelo rum praedita, variasque cordulas seiceas cum flosculi rubri coloris minibus detinentibus”[10].

La monumentale scultura (alta metri 1,80) presenta la Madonna seduta su un enorme carro, finemente intagliato, con una grande conchiglia che le fa da schienale, mentre l’articolato movimento degli angeli, collocati ai piedi della Madonna attorno ad una nuvola, simulano il traino del carro. Gli angeli sostenevano tra le mani cordoni di seta rosso, oggi non più visibili.

La presenza di altre opere di Gaetano Patalano a Lecce, come abbiamo visto, e la sua rinomata fama (De Dominici) costituiscono probabilmente il tramite per il quale Francesco Marulli, per conto dell’Oricelli, decide di commissionare la scultura al Patalano. La stessa Madonna del Carro richiama, nel volto, fortemente ieratico, un modello stilistico dell’artista già sperimentato a Lecce, come può emergere dal confronto con il volto dell’Immacolata in S. Chiara (fig. sopra).

Appare evidente che questo modello iconografico trovi riferimento nel Trionfo di Galatea, e che questa straordinaria iconografia è forse destinata qui, per la prima volta, ad un soggetto religioso. Ciò mostra il bagaglio culturale del Patalano che spazia anche nei temi generalmente espressi nei dipinti. Sottolineava già il De Dominici che i Patalano acquistarono “buon nome appresso gli amatori delle belle arti del disegno”; pertanto l’esercizio del disegno, com’è noto, costituiva l’anello di congiunzione con la pittura[11].

Nella polizza, infatti, viene ribadito che la scultura deve essere fedele al disegno che lo stesso Gaetano aveva precedentemente inviato. Pertanto il confronto con il Trionfo di Galatea di Luca Giordano appare plausibile e immediato. L’opera del Giordano, eseguita per Firenze[12], costituisce un precedente iconografico di numerosissimi Trionfi di Galatea prodotti da altri giordaneschi, tra cui Paolo de Matteis (Figg. in basso).

P. De Matteis, Trionfo di Galatea (1692). Milano, Pinacoteca di Brera

Luca Giordano e Paolo de Matteis non appaiono estranei all’ambiente di Gaetano Patalano, non solo perché i rapporti dovevano essere personali, in quanto due figlie dello scultore Michele Perrone sposano, una, Paolo de Matteis, e l’altra Giovan Battista Lama, quest’ultimo discepolo di Paolo de Matteis e poi di Luca Giordano[13].

P. De Matteis, Carro marono trainato da Tritone e Nereidi davanti al Dio Sebeto. Napoli, Fondazione Maurizio e Isabella Alisio

Emergono anche attraverso i rapporti familiari di questi scultori quegli intrecci artistici che ci permettono di  rileggere la scultura lignea napoletana in rapporto alla pittura.

Ritengo utile anche sottolineare che la Madonna del Carro, oltre all’immediato confronto con le opere coeve di Luca Giordano e Paolo de Matteis, rimanda nella sua classicità di impostazione alla Galatea di Raffaello alla Farnesina. Colpisce l’analogo motivo gigantesco della conchiglia, qui però ai piedi della dea (come cocchio marino) e soprattutto gli analoghi puttini alla base del carro (fig. 5). Se sulla Galatea di Raffaello sono evidenti i cordoni (per trascinare il carro) legati ai delfini, analogamente possiamo cogliere il motivo dei pugni socchiusi delle manine dei putti (sorreggenti la Madonna del Carro).

L’idea della conchiglia è un elemento classico che trasmigra dal profano al sacro: legata tradizionalmente alla condizione acquatica, la conchiglia diviene via via- passando dal mito antico alla concezione cristiana- simbolo di nascita (generazione di Venere dalla spuma del mare), di maternità (identificandosi col sesso femminile: si pensi all’ambivalenza del termine latino concha) e infine di santificazione e di resurrezione (vedi l’uso paleocristiano di inserire i ritratti entro le conchiglie, che rimanda alla assimilazione della conchiglia alla tomba che rinchiuderebbe l’uomo nel tempo che va dalla morte alla resurrezione)[14].

Un’interessante iconografia della Madonna entro la conchiglia è presente  nella lunetta del portale della chiesa di S. Domenico di Andria. Tale iconografia sembra saldare la Grande Madre di Dio col mito di Venere (intesa come divinità materna e assimilata alla natura Generante), e insieme visualizza il simbolo della Madonna come conchiglia che custodisce nel suo seno la perla del figlio di Dio: “Si allieti il mare del mondo, perché in lui è prodotta una conchiglia, la quale concepirà nel seno il celeste raggio della divinità, e darà alla luce Cristo, pietra preziosissima”, scrive ad esempio San Giovanni Damasceno. Importante, dunque, la formazione di Gaetano Patalano che trova (grazie al ritrovamento del documento) pregevole esplicitazione nella Madonna del Carro, opera che oggi si può aggiungere al piccolo corpus di opere certe. Lo stesso Fagiolo segnala questa bella scultura “che nel segno degli Elementi scandisce il contrasto fra la solennità della posa della Madre (quasi Cibale, dea della Terra) e l’incedere del carro trionfale (la conchiglia appare in sintonia con i carri acquatici di Nettuno e di Venere), portato in area dagli angeli non senza reminiscenza di fuoco che aveva rapito Elia in cielo”[15].

Ignoto scultore, Madonna dell’umiltà (1510). Andria, chiesa di S. Domenico, portale maggiore

[1]Il presente contributo è parte del volume I. Di Liddo, La circolazione della scultura lignea barocca nel Mediterraneo: Napoli, la Puglia e la Spagna. Una indagine comparata sul ruolo delle botteghe: Nicola Salzillo, De Luca Editori d’Arte, Roma, 2008.

[2] I.Di Liddo, Nicola Salzillo entre Nápoles y España. Un entramado de relaciones entre talleres, in C. Belda Navarro (a cura di), Salzillo,testigo de un siglo, catalogo exposición (2 marzo-31 luglio 2007, museo Salzillo, iglesia de Jesus, iglesia de S. Andres, Murcia), Murcia, 2007, pp. 154-169; I.Di Liddo, La cappella maggiore della cattedrale di Santiago de Compostela: un esempio di influenza berniniana in Spagna, in F. Abbate (a cura di), Interventi sulla «questione meridionale». Saggi di storia dell’arte, Ed. Donzelli, Roma 2005 pp. 201-203; I.Di Liddo, Da Jacopo Gambino a José Gambino, scultore a Santiago de Compostela (Spagna), in F. Abbate (a cura di) Ottant’anni di un Maestro. Omaggio a Ferdinando Bologna, Ed. Paparo, Napoli 2006, pp. 435-443. 

[3] Ringrazio il direttore dell’Archivio Storico del Banco di Napoli, dott. Edoardo Nappi, e il dott. Elio Catello per la disponibilità e i suggerimenti fornitomi durante i cinque mesi di studio presso l’Archivio a Napoli.

[4] B. De Dominici, Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani, voll I-II, Napoli 1742-45, rist. an., Sala Bolognese, 1979, p. 191.

[5] R. Casciaro, La scultura, in A. Cassiano (a cura di), Barocco a Lecce e nel Salento, cat. Mostra (Lecce, museo provinciale 8 aprile-30 agosto 1995) Roma 1995, pp.143-169; GG. Borrelli, Gaetano Patalano, in Civiltà del Seicento a Napoli, cat. Mostra (Napoli, Museo di Capodimonte 24 ottobre 1984- 14 aprile 1985, museo Pignatelli 6 dicembre 1984- 14 aprile 1985), Napoli 1984, pp. 223-225; GG. Borrelli, Sculture in legno di età barocca in Basilicata, Napoli 2005, doc. 60, p.112.

[6] R. Poso, I feudatari di San Cesario, in San Cesario Storia, arte e architettura, Galatina 1981, pp. 258-264.

[7] R. Bozza, Evoluzione e caratteri della forma urbana di San Cesario, in San Cesario Storia, arte e architettura, Galatina 1981, p. 9.

[8] F. DeLuca, La prima visita pastorale in San Cesario, in San Cesario Storia, arte e architettura, Galatina 1981, p. 233.

[9] R. Poso, Appendice documentaria, in San Cesario Storia, arte e architettura, Galatina 1981, p. 273.

[10] F. DeLuca, La prima visita pastorale in San Cesario, in San Cesario Storia, arte e architettura, Galatina 1981, p. 220.

[11] L. Gaeta, Pittori e scultori a Napoli tra ‘600 e ‘700: tracce di un’intesa, in «Kronos». Studi per Gino Rizzo, n. 10, 2006, pp. 139-156.

[12] L. Martino, Scheda Paolo de Matteis, in Civiltà del Seicento a Napoli, Napoli 1984, p. 246.

[13] B. De Dominici 1742-45,  op.cit, p. 390.

[14] M . Fagiolo, Simbolismo della conchiglia, in V. Cazzato, M. Fagiolo, M.Pasculli Ferrara, Atlante del Barocco in Italia Terra di Bari e Capitanata, de Luca editori d’Arte, Roma 1996, p. 421.

[15] M. Fagiolo, Presentazione, in R. Casciaro, A. Cassiano (a cura di), Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e Spagna, cat. Mostra (Lecce, chiesa di S. Francesco alla Scarpa16 dicembre-28 maggio 2008), Roma 2007, p. 11.

Sulla povertà

da “Come eravamo”
di Ezio Sanapo

A mia zia Pina

Premessa
Il concetto di povertà, come ceto sociale autonomo e distinto, è finito con gli anni ’50. Come tutte le classi sociali aveva una sua storia, una sua identità, le sue regole e un suo modello di vita. Da allora diventò quello che oggi conosciamo: un insieme di strati sociali indistinti e accomunati da un unico comportamento “piccolo borghese”, a imitazione di quel ceto medio borghese che fino ad allora aveva dominato. Rimescolato quindi il tutto, in una unica, fascia sociale, senza più nessuna identità, questa, poteva essere più facilmente asservita a un nuovo modello di società, “sbarcato” da noi, in quegli anni, dall’occidente. Consumare fu la nuova parola d’ordine. Chi non poteva farlo veniva escluso da questa nuova fascia sociale, che, non avendo più storia, non aveva più doveri, nè protezione e diritti di appartenenza. Così, questo nuovo modello di società, abolendo il principio della solidarietà, che era considerato “sacro” dalle comunità più povere, ha messo in atto, un nuovo tipo di emarginazione: quella del singolo individuo e non più di una intera comunità. L’individuo, da solo, non avrebbe più avuto possibilità nè di difendersi, nè di ribellarsi.

Stagioni parallele
Fino agli anni ’50, prima dell’emigrazione di massa, il ceto popolare e di origine contadina, aveva come unica possibilità lavorativa quella dei lavori bracciantili sui terreni di proprietà dei piccoli o grandi latifondisti, non quindi su terreni di propria appartenenza. Dello stesso ceto, una larga fascia era esclusa, per via che le assunzioni venivano fatte senza regole e sulla base di simpatie e convenienze.

Una massa enorme di povera gente era perciò esclusa dal processo produttivo ma gli veniva per scrupolo riconosciuta la necessità di un probabile sostentamento, dando loro libertà di movimento, a stagione ultimata, sugli stessi terreni a loro discriminatamene inibiti. Così intere famiglie, costrette dalla povertà e dalla fame, potevano “vendemmiare” fuori stagione, nei vigneti già vendemmiati, raccogliendo sparuti grappoli di uva acerba e tardiva. Potevano cercare e raccogliere le ultime olive rimaste.
Raccoglievano le ultime spighe rimaste sui campi di grano già mietuti, prima che le stoppie secche e pungenti venissero bruciate.
Raccoglievano, sotto gli alberi, gli ultimi fichi sfatti e caduti, che opportunamente essiccati potevano essere venduti per ricavarne alcool.
Per queste attività, svolte con una esperienza secolare e tramandata da generazione in generazione, era necessaria la conoscenza dei luoghi di frequentazione, delle colture, delle condizioni climatiche, dei tempi e delle stagioni. Stagioni svolte parallelamente a quelle dei raccolti veri e propri, da persone d’ambo i sessi e di ogni età, persone semplici e dignitose che avevano con la natura un rapporto quasi familiare, religioso e di profondo rispetto. Non potendo essi lavorare la terra, la natura coltivava per essi offrendo loro frutti tardivi e stagionati e altri prodotti selvatici che nessuno avrebbe altrimenti raccolto. Ed essi, inseguendo le stagioni, raccoglievano cicorie selvatiche e lumache, sia in estate che in inverno, da vendere in giro per il paese. Con la stessa dignità facevano lunghe file per una scodella di pasta e ceci che alcuni proprietari terrieri offrivano ai poveri, ogni anno per devozione a S. Giuseppe. La stessa devozione che essi avevano per il proprio vicino di casa, perché quando il povero poteva cucinare, cucinava anche per esso.
Con un candore religioso tipico di un cristianesimo come alle origini, ma ancora paganeggiante, i poveri potevano esprimersi, con il loro antico dialetto che abbondava di riferimenti osceni e scabrosi, senza volgarità e senza perdere la loro purezza d’animo e la loro innocenza. Senza mai scoraggiarsi pregavano senza essere ascoltati, chiedevano senza ottenere, Bestemmiavano senza peccare.
I poveri di allora, diversamente da quelli di oggi, avevano una grande risorsa, avendo essi accumulato nell’arco dei secoli vissuti in solitudine, un enorme patrimonio culturale: tutto questo loro patrimonio, li aveva resi autonomi e autosufficienti, rispetto al resto della società che li aveva storicamente emarginati. Intanto per la loro abitudine a girovagare randagi a inseguire le stagioni su sentieri e campi altrui, avevano maturato una libertà e uno spazio illimitato: in quello spazio immaginario, i poveri di allora coltivavano i loro sogni. I sogni delle masse popolari sono sempre stati frutto di una fede e di una incrollabile speranza e la speranza giustificava la loro resistenza e i loro sacrifici. I poveri credevano, o avevano imposto a loro di credere, che l’esistenza terrena e la loro condizione di vita fosse predestinata, una prova da superare o un castigo del destino che accettavano per espiare colpe che non avevano, per errori mai fatti. La condivisione di questo sacrificio collettivo ha sviluppato nel loro ambito quella solidarietà diventata modello di vita e riparo ad ogni minaccia terrena.
Soltanto da una così tenace e convinta appartenenza sociale, uniti alla fantasia e creatività popolare, possono nascere quegli opportuni strumenti di difesa necessari a garantire la sopravvivenza della classe stessa. Lo strumento di difesa dei poveri era l’ironia: l’ironia nasce dalla fantasia e creatività popolare come risorsa necessaria per difendersi da tutto ciò che di potente e minaccioso li circonda e a mitigare ed esorcizzare non solo quella minacciosa superiorità, ma, anche la propria impotenza e quel senso di nullità che ha sempre caratterizzato ogni appartenente ad un ceto povero.
L’uso stesso di affibbiarsi vicendevolmente nomignoli e soprannomi, assurdi, sconci e ridicoli, a danno dei veri nomi di origine, è tipico dei ceti popolari e della loro capacità di ironizzare persino sulla propria e umile ascendenza. Il soprannome “marcava” l’intera famiglia e si tramandava nei secoli di generazione in generazione come un titolo ironico di onorificenza, per irridere allo stesso tempo il ceto superiore, che aveva invece titoli veri e nobiliari e che con questi poteva imporre il suo dominio legislativo ed economico.
Oggi, vergognarsi del proprio soprannome, equivale a rinnegare le proprie origini a riprova di una povertà che non è più solo economica ma anche culturale.
Mia zia Pina, ultima di quella stirpe e povera per definizione, è morta che aveva appena quaranta anni, agli inizio degli anni ‘60, cioè, agli albori di questa nostra civiltà. Ha vissuto fino all’ultimo con la dignità tipica di quel ceto e con la speranza di una vita a “venire”. Incrollabile nell’attesa di un marito sempre lontano, che dalla sua lontananza gli mandava, come sostegno materiale, non denaro, ma sacchi pieni di scarpe usate e spaiate che lei pazientemente appaiava, legandole strette l’una all’altra con i rispettivi laccioli e ammucchiava in mezzo al locale che abitava, per poi venderle ad altra gente povera come lei. Zia Pina aveva i polmoni malati e l’aria, inquinata dalle vernici di quelle scarpe, respirata per giorni, notti e mesi, ha anticipato la sua fine.
Senza il marito e senza figli attorno al suo letto di morte c’erano solo parenti e vicini di casa. Quando è arrivato il prete per l’estrema unzione mia zia Pina si è guardata intorno, ha accennato una risatina ironica e ha fatto uno sberleffo con la lingua a tutti i presenti, dopo di che si è girata su un fianco e volgendo loro le spalle è morta. Ha lasciato un grosso registro dove minuziosamente segnava i soprannomi di tutti i suoi debitori. Era un lungo elenco di soprannomi sconci e ridicoli, con accanto ad ognuno la misera cifra che mia zia avrebbe dovuto riscuotere ma che non ha mai riscosso. Così tutti hanno potuto verificare che la sua precaria ed inutile esistenza si è conclusa, come per ogni altra persona povera, tutto sommato, in credito.

Conclusione
Così, con uno sberleffo, si era chiusa un’epoca storica e ne era iniziata un’altra: l’emigrazione ha disperso quella massa di gente che era stata una comunità. Ognuno per suo conto ha conosciuto finalmente il benessere ma ha rinnegato, credendole ormai superate, le sue origini. Molti per scrupolo, hanno cercato rifugio nel passato, ma tutto era stato ormai cancellato oppure strumentalizzato e non esistevano più le condizioni per una presa di coscienza di massa e di revisione critica della nostra storia, specie quella più recente.

Oggi, molto spesso, l’uso che viene fatto delle tradizioni popolari originarie di quella gente serve solo a speculare su un patrimonio culturale di un ceto popolare che, come tale, non esiste più e sul suo rituale anche religioso, che meritava certamente più rispetto, perchè, prima di essere affossato del tutto, poteva ancora farci riflettere sul malessere di ieri e quello di oggi. Ma senza più regole tutto è permesso se motivato da una logica di profitto: molti di quelli che ieri erano poveri e sfruttati , oggi sfruttano altra povera gente e si sono a loro volta arricchiti. Altri invece, ieri raccoglitori di grappoli d’uva acerbi e tardivi e oggi più poveri ed emarginati di allora, ingannati da un modello di sviluppo economico che non c’è stato e svincolati da un ordinamento sociale non più credibile, sono stati risucchiati in organizzazioni criminali per svolgere attività illegali. La solidarietà ha lasciato il posto alla diffidenza e il povero di oggi è diventata una persona sola, non ha più nemmeno una controparte e l’arma dell’ironia, se mai la avesse ancora, non gli servirebbe più: una persona, da sola, non può ridere, né di se né degli altri, perché la realtà che gli sta intorno è diventata troppo seria e preoccupante.

Ad un amico che mi chiede se c’è ancora speranza, io, come tutte le persone in buonafede non so cosa rispondere. Forse le persone in malafede, che hanno certo molta più lungimiranza di noi, possono dirci cosa intravedono nell’immediato futuro: questi temono che la speranza torni a risvegliare le coscienze e, per difendere se stessi e tutti i loro privilegi, hanno alzato imponenti barriere nei confronti del prossimo che li circonda, segno evidente che non tutto è scontato, e questo mi fa ben sperare. A questo mio più caro amico posso allora dire che una speranza ancora esiste, qualcuno l’ha intravista, oltre quelle fitte ed altissime barriere, camuffate da siepi sempreverdi e sormontate da un minaccioso filo spinato.

Salvatore Morelli da Carovigno, strenuo difensore dei diritti della donna

di Maria Grazia Anglano

Noi donne tutte, particolarmente oggi, dobbiamo essere fiere e grate all’uomo Salvatore Morelli, un illustre salentino che ha creduto fervidamente nella donna, vedendo attraverso il riconoscimento di quegli allora alienati diritti della persona umana, la possibilità di una più equa società rigenerata.

E ci appare maggiormente interessante adesso vedere come la storia, entrando nelle pieghe delle sue macroscopiche dimenticanze, possa cambiare il nostro punto di vista.

Ed è proprio addentrandosi in questa lassità di maglia, della nostra memoria storica, che possiamo riscattare da un ingiusto oblio un patrimonio spirituale e intellettuale, quale è stata la personalità del nostro Salvatore Morelli.

Di questa gettata luce dobbiamo essere debitori a Emilia Sarogni, con il suo libro, già alla terza edizione; “L’Italia e la donna. La vita di Salvatore Morelli”. Un attento e vibrante spaccato storico della vita di Morelli dentro quel

La morte di un lemma, l’agonia di un altro

La morte di un lemma, l’agonia di un altro: la sciuscètta e la šciušcètta.

di Armando Polito

Il titolo non è allegro ma ho più volte sostenuto che le parole sono proprio come noi e, dopo aver per qualche tempo più o meno fedelmente espresso sensazioni, emozioni, sentimenti comportandosi talora nel modo capriccioso, imprevedibile, strano, irrazionale che sovente contraddistingue gli umani, in tempi variabili, come chi le ha create, subiscono prima il declino diventando obsolete e quasi per pietà ancora registrate nei comuni dizionari, poi l’inevitabile scomparsa dall’uso e dalla memoria.

Qualcuno si chiederà perchè non ho inserito questo post nella serie “Gli omofoni del dialetto neretino a fumetti” e qualcuno più attento penserà che l’ho fatto nella speranza di avere qualche lettore in più visto che la serie citata ha riscosso un’attenzione molto, molto blanda1. In realtà i due lemmi che oggi esaminerò non possono essere definiti omofoni anche perché il secondo comporta una pronuncia rafforzata della s (lunga o doppia) del gruppo sc (grafia šc).

Comincerò dal defunto, la sciuscètta (a Nardò era usato pure il diminutivo sciuscèttula): la voce è legata all’arte antichissima della tessitura, che nel Salento è rimasta fino alla metà del secolo scorso relegata al ruolo di industria tessile casalinga2, e, in particolare, indicava la spola, la navetta del telaio.

La voce è dal latino sagìtta(m)=freccia, saetta3 .

Passo ora al moribondo: šciušcètta designa ancora, con notevoli difficoltà di comprensione del suo significato da parte della generazione SMS, lo status della ragazzina battezzanda o cresimanda4 nei confronti del padrino che, secondo il diritto canonico, diviene responsabile dell’educazione cristiana della figlioccia.5 Non a caso, infatti, la voce è dalla locuzione latina fìlia(m) suscèpta(m)=figlia adottata; e suscèpta(m) è participio passato del verbo suscìpere=accogliere, difendere, composto da sub=sotto e càpere=prendere. Suscèptus in latino era il cliente rispetto al suo avvocato e il paziente rispetto al suo medico; mi piace sottolineare il carattere originario protettivo e non subordinante della preposizione (sub), soprattutto alla luce di un recentissimo fatto di cronaca sul quale soltanto adesso intervengo per dire quale devastante degrado ha subito quella preposizione (dal concetto di servizio a quella di prevaricazione), in triste accordo e squallida coerenza con quelle stranezze, di cui parlavo all’inizio, che definire animalesche è offensivo per le cosiddette (da noi umani!) bestie.

______

1 Siccome sono un masochista sto per inviare all’amico Marcello le ultime tre puntate della serie; tenuto conto della generosità del nostro mentore, al lettore per sperare di non leggere nemmeno il titolo non rimane che fare esplicita, tempestiva richiesta di non pubblicazione. Non è finita: siccome sono un miserabile, m’illudo di suscitare un fantasma di attesa (emulando in questo i più scadenti, autoreferenziali spot pubblicitari di trasmissioni televisive imminenti) facendo sapere in anteprima che le voci prese in considerazione sono: stuccàre, critàzzu e mùgnulu.

2 Sull’argomento segnalo L’arte della tessitura nel Salento di Antonio Monte e Maria Grazia Presicce, stampato nel 2010 da Nuova Phromos, Città di Castello,per conto di CRACE (Centro Ricerche Ambiente Cultura Economia).

3 Mi piace ricordare che saetta ha la stessa etimologia di sciuscètta; però il neretino, in connessione col significato di fulmine, ha sviluppato saiètta, usato come interiezione e come sinonimo di colpo apoplettico o grave malore improvviso, quasi a non voler confondere il positivo/sacro (il lavoro) col negativo/blasfemo (la malattia/l’imprecazione). Anche la fonologia ha un sentimento!

4 Esiste, naturalmente, anche il maschile šciušcèttu, anche se qui sciuscètta mi ha costretto a considerare centrale il femminile.

5 È amaro constatare come questa funzione protettiva oggi si sia ridotta ad essere una mera partecipazione burocratica e, nella stragrande maggioranza dei casi, ad un narcisistico esibizionismo che ha la sua manifestazione più significativa in un regalo, appariscente e costoso, anche se inutile, al figlioccio, la cui famiglia, dal canto suo, ha già provveduto, in una spirale perversa, a non sfigurare, organizzando una festa laica degna di un faraone. Dopo di che, ognuno per la sua strada…

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