La “mattra” e il suo albero genealogico

di Armando Polito

Oggi è un oggetto di antiquariato, soprattutto nella sua versione “estesa”, la mattrabbanca; fino a cinquanta anni fa era un mobile che non mancava nell’arredo delle case signorili come delle più umili, data la sua versatilità soprattutto nella preparazione del pane e della sua conservazione dopo la cottura.

Detto che mattrabbanca è composto da mattra e bbanca (sinonimo di tavolo, da banco), soffermeremo la nostra attenzione sul primo componente.

Mattra è dal greco maktra (=madia, colino, bara), a sua volta dalla radice (mag-) di masso (=impastare), secondo una collaudata tecnica di formazione: per esempio, masso ha dato vita oltre che a maktra anche a maktèr (sempre col significato di madia), come fylàsso (=custodire) ha dato vita con la sua radice fulak-, oltre che a fylax (=guardiano, protettore, difensore), anche a fylaktèr con lo stesso significato, come prasso (=fare) ha dato vita con la sua radice prag– a praktèr (=esecutore), a praktikòs (= pratico, utile) e, per chiudere in bellezza…, a praktès (=traffichino).

Dalla radice mag– si è formato in latino màgida (=specie di piatto di grandi dimensioni), secondo la definizione che ce ne ha lasciato Marco Terenzio Varrone Reatino (I secolo a. C.) quando nel De lingua Latina (V, 25) fornisce un elenco di contenitori per cibo: Vasa in mensa escaria: ubi pultem aut iurulenti quid ponebant, a capiendo catinum nominarunt, nisi quod Siculi dicunt katinon ubi assa ponebant; magidam aut langulam alterum a magnitudine alterum a latitudine finxerunt (= Vasellame da tavola: chiamarono catino da càpere (=prendere, contenere) il recipiente dove mettevano la farinata o il brodo, ma i Siciliani chiamano catino quello in cui mettono l’arrosto; crearono le voci magida o lancula (alla lettera piccola bilancia) l’una dalla grandezza, l’altra dalla larghezza). Màgida continua nel latino medioevale con lo stesso significato.

Dal suo accusativo (màgidam) è derivato l’italiano madia [trafila: màgida(m)>màida>màdia] e da questo l’osoleto madiello (=bacile quadrato di legno) che, in percorso a ritroso non raro nella lingua, ha ridimensionato quello che potremmo definire un esempio di elefantiasi semantica.

Come dimenticare, in chiusura, il proverbio Sparàgna la farina/quandu la mattra è cchina!/Cce sserve lu sparagnàre/quandu lu fundu pare? (Risparmia la farina quando la madia è piena! Che serve il risparmiare quando si vede il fondo?).

Se anche i banchieri (banca e banco, ironia del destino, hanno la stessa etimologia di bbanca) lo avessero tenuto in conto, non ci troveremmo ora con le banche vuote e con la barca che affonda…

Un arcaico culto dei morti nella protostoria salentina?

IL MISTERO DI ANTICHE SCULTURE RINVENUTE NEL TERRITORIO DI MIGGIANO. UN ARCAICO CULTO DEI MORTI NELLA PROTOSTORIA SALENTINA?

di Marco Cavalera

Una misteriosa scoperta è stata effettuata – agli inizi degli anni ’90 – dai signori Luigi Carbone e Luigi Marra, nel territorio a sud-est di Miggiano (località Rutti-Sala).

Si tratta di enigmatiche sculture in pietra tufacea locale, rinvenute nei pressi di caverne e ripari sottoroccia frequentati a partire dall’Eneolitico finale[1]. I manufatti erano reimpiegati in muri a secco che fungevano da confine tra le varie proprietà, decontestualizzati dalla loro posizione originaria.

Due sculture, in particolare, presentano delle peculiarità che le rendono intrise di mistero:

  • una ha il collo appena accennato, la nuca intonacata e dipinta, come a significare dei capelli. Presenta il volto pressoché sfigurato, senza lineamenti (privo di occhi, naso e bocca). Sulla testa, quasi nella zona frontale, ha un foro per metà occupato da un pezzo di legno;
  • l’altra presenta dei lineamenti del volto ben definiti (occhi, naso e bocca), un busto appena abbozzato, in parte intonacato con evidenti tracce di colore a bande grigie/grigio chiare; sulla testa è visibile un incavo su cui doveva essere allocata una corona, un elmo o un cappello di pietra[2].
Fig. 1 e 2: sculture litiche rinvenute in località Rutti-Sala (Miggiano)

La loro datazione e interpretazione sono molto incerte, sebbene nell’area del loro ritrovamento sia stata rinvenuta ceramica ad impasto di età protostorica.

Le sculture litiche di Miggiano trovano uno stretto confronto con le stele daunie, ossia sculture in pietra locale  rinvenute nel territorio della Piana Sipontina (Foggia), in località Cupola nei pressi di Monte Saraceno. Maria Luisa Nava ha analizzato oltre 1200 stele e quelle che la studiosa classifica come “teste iconiche del tipo I” (riferite cronologicamente all’età del Ferro, tra il IX e il VI secolo a.C.) presentano le più interessanti analogie con le sculture individuate a Miggiano. Si tratta di “teste in cui i tratti del viso sono ottenuti con tecnica mista: a rilievo appaiono infatti il naso e le orecchie, mentre ad incisione sono realizzati gli occhi e la bocca[3]. Secondo Nava, queste costituivano la sommità di una colonnetta o di un piedistallo liscio o sfaccettato, alto 40-50 cm. La testa era separata dalla base, come si evince dalle evidenti suture: “il pilastrino-segnale di tomba e la maschera (del defunto) applicata alla sua sommità” avevano diversa origine[4].

La funzione di questi manufatti, probabilmente, era quella di sema, segnacolo di tombe che, nel caso della Piana di Siponto, sono del tipo a fossa rettangolare, completate superiormente da una copertura di pietre disposte a formare il tumulo, sul quale poteva essere collocata, infissa verticalmente, la stele[5]. Enrico Pellegrini pone in relazione la presenza di sculture litiche antropomorfe, rinvenute in diversi insediamenti della Puglia settentrionale (Castelluccio dei Sauri, Monte Saraceno), con il rituale funerario della tarda età del Bronzo (XIII-X secolo a.C.), fase in cui sono attestate in Puglia le tombe a tumulo[6].

L’evidente confronto con le stele daunie e la presenza di piccole specchie, nella stessa area, permettono di ipotizzare un loro uso originario come semata di tombe a tumulo.

Un’altra ipotesi è che si tratti di sculture di età moderna e/o contemporanea collocate al confine di poderi o masserie, presenti numerose in questo lembo di territorio[7].

località Rutti-Sala (Miggiano). Caverne e riparo sottoroccia

Secondo L. Carbone e L. Marra, la scultura che presenta il volto sfigurato e senza lineamenti raffigura una divinità funeraria, con la funzione di veicolare un messaggio che riguarda il destino ultimo dell’uomo, richiamato nell’Antico Testamento della Bibbia: “[…] tu non puoi vedere la mia faccia, perciochè l’uomo non mi può vedere, e vivere” (Esodo, XXXIII, 20). Per quanto riguarda la seconda scultura (quella con i lineamenti del volto ben definiti), gli stessi scopritori ritengono che rappresenta un defunto o un guerriero[8].

Solo ricerche di superficie sistematiche nel territorio e un eventuale scavo dei tumuli potrebbero chiarire la cronologia e la funzione di queste sculture dall’espressione enigmatica.

 

BIBLIOGRAFIA

Bietti Sestieri A.M., Protostoria. Teoria e pratica, pp. 15-16, 342, Urbino, 1996.

Carbone L., Marra L., Il calendario del Capo di Leuca 2001, a cura dell’Associazione culturale Akra Iapigia, 2001

Cavalera M., Medianum. Ricerche archeologiche nei comuni di Miggiano, Montesano Salentino e Specchia, Tricase, 2009.

Nava M.L., Stele Daunie I. Il Museo di Manfredonia, TAV. CCXXXIII, n. 727 e TAV. CCXXXIV, n. 731, Firenze, 1980.

Nava M.L., Le stele della Daunia. Dalla scoperta di S. Ferri agli studi più recenti, Milano, 1988.

Pellegrini E., Le età dei metalli nell’Italia meridionale e in Sicilia, in Guidi A., Piperno M. (a cura di) Italia Preistorica, p. 505, Roma-Bari, 1992.


[1] La frequentazione in età protostorica è documentata dal rinvenimento, nell’area antistante due piccole caverne, di numerosi frammenti di ceramica dell’Eneolitico e dell’Età del Bronzo (Cavalera 2009, pp. 17-20).

[2] Carbone, Marra 2001.

[3] Nava 1980, pp. 27-28 (TAV. CCXXXIII, n. 727 e TAV. CCXXXIV, n. 731);  Nava 1988, pp. 79-102.

[4] Nava 1988, pg. 81.

[5] Nava 1988, pp. 12-13. Le tombe dell’età del Ferro – quasi sempre ad inumazione – sono scavate nella roccia, con una tipica struttura troncopiramidale con base più o meno svasata. In corrispondenza di esse spesso si rinvengono teste sommariamente scolpite nel calcare locale (Bietti Sestieri 1996, p. 342).

[6] Pellegrini 1992, p. 505. Le necropoli della tarda età del Bronzo sono formate da tombe a inumazione sotto tumulo.

[7] Cavalera 2009, pp. 20-22.

[8] Carbone, Marra 2001.

Le fave. Un legume antichissimo, tanto caro ai salentini

di Massimo Vaglio

La Fava (Vicia faba), è una pianta erbacea annuale appartenente alla famiglia delle Leguminose, dai cui fiori, alla fine dell’inverno, si sviluppano dei grossi baccelli contenenti i semi dalla caratteristica forma reniforme e appiattiti.

Di antichissima coltivazione, è citata già nei testi biblici ove il suo consumo viene temporalmente collocato già prima del Diluvio universale. Gli studi paletnobotanici eseguiti in numerosi siti dell’Italia meridionale, Puglia inclusa, danno la Fava o meglio il Favino come il legume più diffuso e quindi consumato, insieme alla Lenticchia, già nel Neolitico. Un consumo, che sarebbe progressivamente aumentato, e di molto, facendone il legume più diffuso nel Calcolitico, nell’Età del Bronzo e nell’Età del Ferro.

Un primato che questo legume avrebbe conservato anche con l’avvento della Storia e mantenuto sino praticamente ai nostri giorni. In età ellenistica, veniva consumata sia fresca che secca. Oltre ad essere ampiamente impiegata nella panificazione, Teofrasto (371-286 a. C) parla della produzione che si faceva a Taranto. Un consumo ed un apprezzamento notevoli quindi, nonostante i moniti di grandi autorevoli filosofi che non perdevano occasione per lanciarsi in terrorizzanti vituperi contro questo legume. Nella cultura ellenica, infatti, si riteneva che la fava con il suo fusto cavo e senza nodi mettesse in relazione i viventi con l’Ade, che era il regno dei  defunti e per tale motivo il suo consumo era oggetto di tabù e restrizioni. Pitagora, grande filosofo e genio incontrastato nelle discipline matematiche, nonché fine erborista, le considerava un cibo malefico in grado di corrompere la mente ed il fisico. Egli, in prima persona, le odiava tanto che evitava con cura ogni minimo contatto con le stesse, una sorta di fobia che gli sarebbe stata fatale. Infatti, in fuga dagli scherani di Cilone di Crotone, Pitagora preferì farsi raggiungere ed uccidere piuttosto che mettersi in salvo attraverso un campo di fave. Della sua stessa opinione anche Aristotele, il quale oltre alla caratteristica di corrompere anima e corpo, attribuiva loro anche il potere di far fare sogni osceni, inducendo a pericolose tentazioni. Ciò nonostante i Greci non si lasciarono mai condizionare più di tanto, probabilmente perché, come

Tradizioni funebri salentine di fine Ottocento. i crocifissi mortuari

 

Lu crucifissu ti lu asu [*]

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Lu crucifissu ti lu asu (il crocefisso del bacio), per il suo stare fra le mani dei defunti durante le veglie funebri, non doveva essere usato come simbolo di culto, veniva ritenuto sconsacrato, motivo per cui, le poche famiglie ricche di un paese, potendosi permettere più crocifissi, ne tenevano uno apposito; e siccome apparenza voleva non fosse soltanto un simbolo religioso ma anche un elemento decorativo della salma, era un crocefisso importante, se non addirittura prezioso. Destinato a essere trasmesso di generazione in generazione, doveva poter rappresentare nel tempo il decoro delle casata, e non di rado  – ritenendolo soggetto a diritti dinastici – veniva citato nei capitoli testamentari, devoluto quasi sempre al primogenito.

Col passare degli anni e il sommarsi delle morti, il prestigio di quel crocefisso aumentava, tanto che si arrivava a fregiarlo di un nome particolare, affibbiandogli quello del trapassato più illustre: in qualche famiglia poteva essere “Il crocefisso di nonno Giovanni”, in qualche altra quello del bisnonno Giuseppe, in qualche altre ancora “Il crocefisso dello zio monsignore”. Un dato di fatto che aveva sempre irritato, e qualche volta mandato in bestia, le vecchie cameriere: per loro, figlie del popolo, alle cui usanze rimanevano vincolate per rapporto viscerale, quell’indicazione suonava bastarda, se non blasfema, giacché ritenevano inaccettabile l’idea di sovrapporre alla totalità di Cristo la riduzione di un possesso espresso

Al mio paese nessun morto è mai morto…

 

da: http://erbariodellastrega.splinder.com/

di Alfredo Romano

Non ho avuto libri da bambino, non c’erano i libri. La carta era quella paglierina del pizzicagnolo che ti incartava un’aringa o cento grammi di ricotta forte detta schianta. La pagina era quella di un vecchio giornale che trovavi dal barbiere, tagliata fino a ricavarne un mazzo di quadratini da inchiodare sul muro: serviva a pulire il rasoio dalla schiuma da barba intrisa di peli. Per non dire di quella scritta in latino quando si andava a servire messa a don Salvatore. A fare i bravi si guadagnava anche un ordo missae, l’annuario delle messe, che portavo a casa raggiante: era pur sempre un libro.

Non c’erano libri da bambino, ma è stata una fortuna per me non avere libri da bambino, ci sarebbe stato tempo per questi.

Non ho avuto libri… ma ho avuto in casa dei narratori che ricordo come altrettanti libri parlanti le cui voci mi giungono ora, nel tempo, misteriose, inafferrabili. Non si dice che quando muore uno dei nostri vecchi è come se morisse una biblioteca?

L’arte del raccontare è stata una prerogativa della mia famiglia. I miei nonni materni[1], come i miei genitori, erano depositari di una sconfinata tradizione orale fatta di storie vere e fantastiche, satire e lazzi tipici dell’astuzia contadina. E poi canti d’amore e di dispetto, poesie religiose e d’occasione, proverbi, modi di dire, indovinelli, filastrocche, conte, ecc.

Erano i tempi dell’ozio, inteso come tempo necessario da dedicare allo spirito, allo svuotamento dei pensieri, al comunicare, al tramandare. Era questo il “perder tempo” a raccontare. Il momento magico arrivava di sera, quando il buio scatenava le paure sopite, quando il latrare dei cani sembrava provenire dagli abissi infernali. La morte era in agguato, ma i morti non erano morti e tornavano a solleticare i vivi. C’erano strane donne vestite di nero che salivano il sagrato della chiesa per la funzione serale, poi, a rito finito, di loro nessuna traccia. C’era un cane sconosciuto, enorme, vestito di una lanugine bianca, che di notte girava il paese e scompariva all’alba: era l’uomo pugnalato per sbaglio davanti all’osteria in una sera di lampi e di tuoni, e la moglie, a cercarlo, era inciampata sul corpo nel buio.

Al mio paese nessun morto è mai morto, i sogni erano sempre tempestati di anime, di anime in pena che invocavano i suffragi così come gli eroi greci rimasti insepolti invocavano una degna sepoltura. Le anime erano i rami degli ulivi pronti a ghermirti che pendevano al chiaro di luna disegnando strane ombre sulle strade bianche e polverose. Le anime bussavano alla finestra annunciate dal lugubre verso della civetta, oppure camminavano

Centesimo su centesimo, pensando al funerale…

 

collezione privata Nino Pensabene

 

LA CIVILTA’ CONTADINA NEL SALENTO FINE OTTOCENTO

 

LU LIBBRU TI LA CAMPANA

 

Le vecchie contadine, una volta vedove, risparmiavano centesimo su centesimo per pagarsi già in vita le spese del funerale

 

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Rimaste vedove, le donne contadine, seguendo l’esempio delle mamme,  delle nonne e delle anziane zitelle, si davano a mettere da parte, centesimo su centesimo, il gruzzoletto destinato a pagare le spese del loro funerale, giacché da vive – dicevano – si poteva anche saltare i pasti o rimanere a camino spento, ma da morti si doveva avere almeno la bara.

Uso voleva che gli spiccioli raggranellati venissero di volta in volta depositati presso l’arciprete o il parroco, che al momento opportuno avrebbe personalmente provveduto alle esequie, rispettando coscienziosamente le volontà espresse e già annotate, assieme alle somme versate, su di un registro che in gergo popolare veniva indicato come “Lu libbru ti la campana” (“Il libro della campana”). Volontà e depositi, infatti, si sviluppavano in modo parallelo, poiché le prime dipendevano inesorabilmente dalla minore o maggiore consistenza dei secondi che, a volte, per quanti sacrifici si facessero, risultavano appena bastevoli all’indispensabile guscio di legno.

L’acquisto della bara, appunto, era l’assillo più pressante, il primo che si doveva assolvere, quello che, una volta assicurato, concedeva un sospiro di sollievo permettendo di comunicare alla comare più vicina la propria soddisfazione: “Cristu m’à bbinitétta, cummàre mia, e ngià tegnu ssicuràtu lu liéttu pi’ ll’osse” (“Cristo mi ha benedetta, comare, mia, e già tengo assicurato il letto per le ossa”).

Subito dopo si pensava alla mancia per il sacrestano incaricato a suonare le campane, tenendo presente che nella somma predestinata doveva rientrare lu miéru e lla pagnòtta, ossia il bottiglione di vino e la forma di pane farcita di ricòtta ‘scante (ricotta piccante) che, poco tempo prima del funerale, l’arciprete provvedeva di far trovare all’interno del campanile: il campanaro poteva così, fra una scampanata e l’altra, mangiare e bere pi’ lla salùte sua e llu ddifrìscu ti l’ànime sante (alla sua salute e in suffragio delle anime sante del purgatorio).

Quella delle campane, ossia la durata del loro suono, pure essendo un’esteriorità fine a sé stessa, veniva tenuta molto in conto, vista come elemento caratterizzante o, per meglio dire, discriminante tra funerale e funerale. Per il transito dei ricchi, infatti, le campane suonavano a lungo, tutte e quattro contemporaneamente, e poiché – nella filosofia pratica del

Lecce. La Torre dei Cavalieri presso l’antico casale di Aurio

Su quel che resta dell’antico casale della Madonna dellu Rìu incombono le 18 torri del parco eolico

testo e foto di Roberto Gallo


La Torre dei Cavalieri è, con la chiesetta di Santa Maria, tutto ciò che rimane dell’antico casale di Aurio, località sita al confine tra i comuni di Lecce e Surbo. Il toponimo deriverebbe dal greco ‘layrion’, cioè piccolo cenobio e compare per la prima volta in un documento di epoca normanna (1180) con il quale Tancredi d’Altavilla dona in dote il casale alla chiesa dei Santi Nicolò e Cataldo di Lecce.

Aurio si può raggiungere percorrendo la Lecce-Torre Chianca e voltando in direzione Surbo; a quel punto, non essendo visibile dalla strada, il modo più facile per arrivarci è seguire la freccia che indica il ‘centro rifiuti’ dell’Axa. Esatto! Il segnale che indica la discarica è quello di gran lunga più visibile.

Sebbene l’aspetto della torre sia trulliforme, non si chiudeva a volta, ma aveva probabilmente, un solaio di legno sorretto da travi, come il piano intermedio
Il lato nord: questo è il destino che attende la torre se non si interviene in tempo

A differenza della chiesetta che è ben conservata, nonostante i discutibili interventi di restauro che l’hanno ‘cementificata’, la torre versa nel più completo abbandono ed è a rischio crollo.

Santa Maria d’Aurio (sec.XII) vista dalla torre: pali della luce disturbano la vista e la stradina adiacente è percorsa da camion che trasportano rifiuti al centro raccolta dell’AXA
Il campanile ‘a vela’ della chiesetta d’Aurio

Anche il territorio circostante è largamente degradato: il grande parco con 18 torri eoliche, il centro raccolta rifiuti, la masseria diroccata ridotta a discarica sono il triste corollario di questa zona che è diventata una estrema periferia urbana. L’ennesima offesa a un patrimonio storico-archeologico di enorme pregio e l’ennesima occasione perduta. Lecce, nel cui comune è situato Aurio, sembra aver dimenticato questo piccolo angolo del suo passato che pure ha dato il nome alla sua celebre Pasquetta del martedì chiamata ‘lu rìu’. L’antica usanza era infatti quella di recarsi in quel giorno “alla Madonna dellu Rìu” per un pellegrinaggio- scampagnata dove, secondo tradizione, si consumava lattuga, ‘marzotica e ‘unguli fae’.

La Torre dei Cavalieri (sec.XVI) è separata dalla chiesetta da un’ampia spianata, il cui terreno è completamente ricoperto da frammenti ceramici affioranti
Frammenti ceramici di vario tipo e, credo, di varie epoche ricoprono letteralmente il terreno
frammenti ceramici rinvenuti nelle immediate vicinanze della torre
La torre aveva un piano intermedio sostenuto da travi di legno, accessibile da una scala che portava anche sul tetto
Un veliero graffito sui muri esterni della chiesetta

 

A una ventina di metri dalla torre c’è un grande cumulo di pietre che occupa un’area circolare della stessa superficie della torre. Pietre informi e qualche blocco squadrato
Alle spalle della chiesetta di Santa Maria d’Aurio: il degrado più assoluto

 

Il sito in questione dovrebbe essere per i leccesi un ‘luogo dell’anima’ da tenere caro nella memoria collettiva, invece è abbandonato e degradato in maniera davvero colpevole.

Nell’interno della torre

 

Anni fa la giunta Poli ripristinò l’usanza de “lu riu”, cioè la pasquetta del martedì, che da allora si svolge al parco del Rauccio e non nel luogo da cui la festa prende il nome e che attualmente è, sinceramente, impresentabile.

Il sito si presterebbe a diventare un parco. Tuttora la stradina che lo attraversa è frequentata da rari cultori di footing o di ciclismo, oltre ai camion dell’Axa. La masseria alle spalle della chiesetta sembra sia stata utilizzata per oscuri traffici, nell’interno è stata bruciata una macchina e in seguito è stato murato l’ingresso, per cui si ha la sensazione surreale di non capire come la macchina sia entrata lì. La masseria ha subito dei crolli ma ha una struttura che sembra solida. Nell’area della masseria ci sono canalizzazioni e una grande cisterna e tracce di antiche carrareccie, così come intorno alla torre.

 

Sono arrivati i santi! Tutti al teatrino dei guitti…

 

 

La piazza di Copertino in una veduta agli inizi del secolo scorso, ricavata da un vetrino a coppie stereoscopiche (coll. priv. Nino Pensabene)

LA CIVILTA’ CONTADINA NEL SALENTO  FINE OTTOCENTO

 

LI SANTI A ‘NDINIEDDHRU

 

Il teatrino dei guitti che col carrozzone, di tanto in tanto, allietavano i pomeriggi domenicali, si basava su delle figure statiche (i santi, interpretati dagli stessi guitti) che – a tende abbassate , nel segreto di cinque cabine – andavano indovinate solo attraverso suoni o rumori alludenti a una particolarità episodica o iconografica del santo.

  

GUSTO DELLA SCOMMESSA

ED OSTENTAZIONE DELLA CONOSCENZA SACRO-CULTURALE

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Fra gli spettacoli piazzaioli che di quando in quando interrompevano la monotonia delle domeniche paesane offrendo ai contadini un gradito diversivo al loro abitudinario incontrarsi, bere un quarto di vino assieme e parlare di lavoro, il più elettrizzante era “Lu tiatrìnu ti li santi a ‘ndiniéddhru” (“Il teatrino dei santi da indovinare”). E questo non perché offrisse un maggiore divertimento, che anzi, al confronto delle spericolate esibizioni dei funamboli, delle clownesche uscite dei saltimbanchi o delle lunghe tessiture dei cantastorie, poteva dirsi misero – basato com’era su delle figurazioni statiche e prive di un qualsiasi commento verbale -, ma per la capacità di coinvolgimento che esercitava. Una forza dovuta unicamente alla formula d’impianto, studiata in modo di garantire agli spettatori, oltre al godimento della fruizione – comune a tutti gli spettacoli -, la possibilità di una partecipazione nonché esibizione personale, con ciò venendo a centrare quelli che – al riguardo – erano i due punti sensibili della psiche contadina: il gusto della scommessa sostenuto dalla speranza di una vincita, e la soddisfazione di potere pubblicamente ostentare la personale conoscenza sacro-culturale acquisita attraverso li cunti ti li santi patriarchi (i racconti dei santi patriarchi), al cui tramando orale scrupolosamente attendevano gli anziani ritenendolo inescludibile patrimonio del sapere familiare.

Era infatti sulla rappresentazione di personaggi arcaico-biblici o neotestamentari che il suddetto spettacolo si imperniava, ovviamente

Su alcune reliquie conservate nella cappella di Tutti i Santi, nella cattedrale di Nardò

armadio con le reliquie dei Santi nella cattedrale di Nardò

di Marcello Gaballo

La festività di Tutti i Santi è occasione utile per ricordare una eccezionale donazione dell’abate Domenico Roccamora, allora rettore del Seminario della Compagnia del Gesù di Roma, alla Cattedrale di Nardò effettuata nei primi decenni del ‘600.

Il prelato, con lettera accompagnatoria del 10 febbraio 1612, difatti, aveva fatto dono all’ università neritina dei corpi, con le loro teste, di S. Vittore martire e di S. Teodora vergine, ed altre reliquie di santi contenute in due grandi reliquiari che oggi sono esposti alla venerazione dei fedeli nella chiesa madre neritina. Tra le varie disposizioni del presule si legge nell’atto notarile che le reliquie sarebbero state conservate in apposita cappella in Cattedrale, di patronato dell’ università, ancora esistente e serrata da due grandi ante, aperte solo in questa giornata ed in particolari festività. Si tratta de “lu stipu ti li Santi”, nella cappella della navata sinistra, abbellita e definitivamente sistemata sotto l’episcopato di Mons Ricciardi, sul finire del secolo XIX. Lo stemma del vescovo difatti è finemente scolpito sulle due grandi ante.

reliquiari nella cattedrale di Nardò

Oltre la donazione è bene anche notare la particolare e poco nota richiesta del prelato. Nell’atto del marzo 1612, per notar Palemonio da Castellaneta rogante in Nardò, si legge infatti che le reliquie donate alla Cattedrale

Tutto sulle zucche, zucchine e fiori di zucca

LE ZUCCHE, E NON SOLO PER HALLOWEEN

di Massimo Vaglio

Una volta tanto la giustamente avversata globalizzazione ha provocato un effetto collaterale positivo. Infatti, grazie all’acquisizione da parte delle giovani generazioni dell’americanissima festa di Halloween, è tornata un po’ in auge la coltivazione delle zucche, e si rileva anche la riscoperta di tante ricette dimenticate ed un rinnovato  interesse per questi, come vedremo, utilissimi quanto bistrattati ortaggi.

Prima, però occorre fare un po’ di chiarezza nella non sempre semplicissima materia botanica. Facile infatti dire zucca, ma bisogna sapere che sotto questa banale denominazione ricadono ben novanta distinti generi e un numero di specie stimato intorno al migliaio. Negli orti italiani, si coltivano numerose varietà di zucche e zucchette, di cui si utilizzano come ortaggio i frutti quando sono completamente maturi, ossia le zucche; oppure, quando sono ancora teneri e non del tutto ingrossati, ovvero le zucchette meglio note come zucchine.

Si tratta di varietà orticole derivate da alcune specie appartenenti al genere Cucurbita e alla famiglia delle Cucurbitaceae. Le varietà di zucca universalmente più diffuse sono quelle derivate dalla Cucurbita maxima. Si riconoscono per il portamento delle piante che sono sarmentose o rampicanti con frutti generalmente molto grossi, globosi, schiacciati ai poli, lisci, costoluti o bitorzoluti.

Altre zucche molto interessanti e saporite sono quelle derivate dalla Cucurbita moschata, queste sono ugualmente sarmentose e danno luogo all’emissione di frutti molto grandi, cilindrici, diritti o leggermente ricurvi e maggiormente ingrossati all’apice ove sono contenuti i semi.

Le zucchette, sono invece il prodotto della Cucurbita pepo, che si distingue facilmente dalle altre specie per il portamento cespuglioso e i frutti cilindrici e

Uccisione di un brigante

 

di Alessio Palumbo

Come oramai assodato da buona parte della storiografia locale e nazionale, il brigantaggio salentino fu, nel contesto meridionale, un fenomeno quantitativamente e qualitativamente marginale. Lo stesso Regio Decreto del 20 marzo 1863, del resto, non incluse la Terra d’Otranto tra le province “invase dal brigantaggio”.

Sebbene, dunque, non fossero mancati episodi di ostilità ai Savoia, spesso fomentati dal clero e da vecchi “baroni”, le bande dei briganti salentini, solo in rarissimi casi, furono guidate da ideali legittimisti o conservatori.

In Terra d’Otranto, quindi, operarono soprattutto gruppi di sbandati, guidati da generici malviventi dai nomi pittoreschi, come lu Pecuraru, Pirichillu, Cavalcante, Scardaffa, Statico, etc.

In alcuni casi, le azioni spettacolari e sanguinose di queste bande, diedero ai briganti un’aura leggendaria che si riverberò per anni ed anni. È il caso di Quintino Venneri di Alliste, la cui leggenda continuò ad essere tramandata ancora per molti decenni dopo la sua morte, come testimonia questo scritto sulla sua uccisione, datato 1912:

La stazione dei carabinieri di Ruffano, nel pieno della notte del 23 luglio 1866, “fu avvertita che Quintino Venneri si era rifugiato entro la cappella di Cirimanna, una chiesetta sita alle falde della collina di Supersano. […] La chiesetta aveva dietro un piccolo orto, cinto di alto muro, e il brigadiere, posti i suoi militi alla posta, si avventurò da solo per forzare la posizione. Poverino, si era appena appena affacciato all’orto, ed al momento di scavalcare il muro, una rombata di Venneri lo fredda. Alla caduta fulminea del superiore i militi si lanciano come leoni feriti nel covo di Quintino Venneri. I più risoluti si gettano nell’orto, gli altri, col calcio del fucile atterrano la porta della Cappella e, a due fuochi, impegnano il sanguinoso conflitto. Una palla del moschetto del carabiniere Anacleto Risis, di Alba Pompea, pose fine alla mischia spaccando in due il cuore del temuto bandito[…].

La notizia, intanto, del conflitto che si era impegnato tra l’arma dei carabinieri e Quintino Venneri, sulla cappella Cirimanna, era giunta a Don Angelantonio Paladini, sopra la Masseria Grande, e quando il maggiore, comandante tutte le guardie nazionali dei nostri dintorni, impegnate nella repressione e cattura degli sbandati, giunse ai piedi della collina di Cirimanna, già la benemerita arma aveva pagato il suo tributo e riscosso il premio delle sue fatiche. Don Angelantonio divise in due drappelli le sue guardie: la compagnia delle guardie nazionali di Parabita l’adibì per accompagnare il corpo esamine del povero brigadiere, sino al vicino paese di Supersano, e la 3° compagnia delle guardie nazionali di Galatina accompagnò il cadavere di Quintino Venneri che per pubblico esempio e per appagare la curiosità di tutte le popolazioni del Capo lo si tenne esposto, per tre giorni, sulla piazza di Ruffano, guardato dalla nostra Guardia Nazionale.

La presa di Quintino Venneri fece epoca e in tutta la regione del Capo se ne formò una leggenda: bello, dai capelli ricci, forte, simpatico e, nella sua rudezza di uomo di macchia, generoso e galantuomo. Le mamme ancora lo ricordano ai loro bambini, intessendo mille aneddoti e mille avventure intorno alla vita di colui che, morto, si tenne esposto sulla piazza di Ruffano per pubblico esempio” (R. Rizzelli, Pagine di Storia Galatinese, 1912).

Gallipoli. Il castello angioino, centro nevralgico della storia cittadina

 

L’UMILIANTE CONDANNA ALL’INCURIA PER IL CASTELLO ANGIOINO DI GALLIPOLI

di Gino Schirosi

Per diretta esperienza sembra proprio difficile il rapporto tra cultura e politica. La cultura ha il compito di rincorrere ed incalzare la politica, spesso distratta da impegni istituzionali, anche perché coinvolta nella lotta esclusiva per il potere ad ogni costo pur di occupare poltrone e posti di riguardo. Rischiando di disattendere le primarie aspettative sacrosante della collettività, ormai dai politici, in tempi di magra, nessuno pretende né si aspetta miracoli, essendo lontano il miraggio di vedere realizzate opere importanti o faraoniche. È tuttavia auspicabile almeno che si possa provvedere a quanto è nell’evidenza: salvaguardare la realtà paesaggistica e l’eredità storico-artistica esistente da esaltare per promuovere l’eccellenza.

Gallipoli è naturalmente una città maliarda e tale deve restare al cospetto del forestiero non meno innamorato dei residenti. Nel corso della sua bimillenaria storia non ha mai avuto bisogno di protettori o padrini; è stata sempre libera e franca, mai dipendente da feudatari né svenduta impunemente a nessun capitano di ventura. È l’unico centro del Salento che può vantarsi della sua libertà senza aver mai conosciuto sudditanza da una classe nobiliare. Non sono difatti mai esistiti stemmi araldici di conti, baroni, duchi! È ampiamente documentato come alla sola Corona l’Università gallipolitana dovesse dar conto e corrispondere, senza intermediari.

Testimonianza del suo glorioso passato è il castello angioino, centro nevralgico della storia cittadina, cui sopratutto ha l’obbligo di guardare il primato della politica come dovere civico e impegno culturale. Si tratta del maniero più ricco, articolato e complesso finora sopravvissuto nel panorama dell’architettura militare di Terra d’Otranto, la piazzaforte più sicura nell’estremo avamposto del Regno di Napoli, caposaldo di rilievo a difesa del Salento e del Mediterraneo sud-orientale.

Il primitivo fabbrico della monumentale opera difensiva appartiene agli Svevi, ma la costruzione definitiva è degli Angioini, ancorché non siano mancati interventi marginali in periodi successivi fino al secolo scorso. Dopo il tragico fatto d’arme, sfociato nell’assedio e nell’occupazione veneziana del maggio 1484, e fino agli inizi del XVI sec. gli Aragonesi ne consolidarono ulteriormente la struttura prima che fosse aggiunta la fortezza del rivellino, con la successiva dotazione di torri costiere di avvistamento, torrioni, bastioni e baluardi.

Per secoli ha costituito la roccaforte della città-isola murata e bastionata e il castellano, reggente responsabile della piazza, era una personalità di prestigio nella stessa amministrazione civica, pur essendo sempre d’origine spagnola al pari di molti vescovi succeduti per secoli nella sua esigua diocesi. Oggi, debitamente restaurato, potrebbe invero costituire il più significativo contenitore culturale della città e del suo hinterland. Ma così non è ancora e, se non sono per nulla noti i motivi, il rammarico è più che giustificato e non è irrilevante.

Quale tra i castelli salentini vanta tanta storia quanto il castello di Gallipoli? Né il castello Carlo V di Lecce né di Copertino né di  Corigliano e neppure quello di Otranto hanno goduto della stessa gloria. Una storia a sé è Acaya. Di quali fatti militari sono stati protagonisti? Mai hanno avuto un ruolo di rilievo nello scacchiere strategico a presidio della periferia orientale del Regno di Napoli. Quali vicende storiche hanno minato più di tanto la sicurezza della provincia prima del XVI sec.? Solo allora fu costruito l’attuale castello idruntino in sostituzione del fragile fortilizio caduto senza difficoltà sotto i colpi fatali delle scimitarre della mezza luna (1480).

Eppure oggi negli antichi manieri, proprietà della collettività, aperti al territorio e al pubblico di visitatori, si celebrano costantemente manifestazioni culturali di vario genere: teatro, concerti, mostre d’arte, editoria, artigianato e antiquariato, convegni, congressi, tavole rotonde, incontri di studio e di lavoro con associazioni ed Enti, concorsi letterari, progetti culturali d’Istituti scolastici di ogni ordine e grado con vari forum monotematici multimediali.

Per il restauro del castello angioino di Gallipoli si è sempre accennato a fondi regionali ma non si sa in quale direzione o lotto sono stati dirottati e per fare che cosa e per chi. È tuttora inagibile in quanto degradato, specie il prospetto e l’ampio salone ennagonale, addirittura il Comune non è in possesso delle chiavi e nessuno può ipotizzare e garantire quale sarà il suo destino! La cittadinanza, insieme con cultori di storia patria e di arte, insieme con turisti e visitatori, attende di vederlo quanto prima aperto e fruibile in tutta la sua struttura, com’è stato prima dell’oscuramento causato dalla realizzazione del mercato coperto ben oltre un secolo addietro. Indubbiamente è il più importante contenitore culturale ereditato dalla storia. Solo se restituito dal demanio alla città e liberato dalle infauste superfetazioni legittimate dall’utilizzo improprio che lo Stato ne ha fatto ospitando per lunghi decenni la caserma della GdF e insieme il deposito dei Monopoli di Stato, potrebbe divenire un volano di sviluppo per un turismo culturale di eccezionale portata proiettato per le più disparate attività: riferimento per cittadini e forestieri, strumento di rivalutazione dell’antico borgo medievale, in grado di raccontarci l’eredità del glorioso passato che resiste tuttora ad insegnarci cosa fare nel presente e soprattutto cosa programmare per il futuro.

Se poi, tra le altre opzioni progettuali da tempo in cantiere, si volesse pervicacemente insistere, come finora s’è fatto, a “riqualificare” l’ex mercato coperto dando seguito ad un’idea scellerata, inadeguata e solo dilatoria senza rendere più vivibile l’attigua piazza Imbriani, salotto di richiamo del centro storico, sarebbe un’altra opportunità persa per la “perla dello Ionio”. Ma, perché possa restare davvero una perla a tutti gli effetti, vanno messe in sicurezza e rivalutate tutte le risorse culturali esistenti insieme con quelle naturalistiche e paesaggistiche di cui il nostro territorio si pregia.

Un serio e attento amministratore non può non coniugare turismo, ambiente e cultura, essendo ormai tale connubio una necessità urgente e improrogabile. Un cambio di rotta e di mentalità è indispensabile per il decollo definitivo della “bella città”, che notoriamente non ha nulla da invidiare ad altre ma che viceversa è ingiustamente umiliata e abbandonata al suo destino. Palese, difatti, è il suo graduale declino generato da varie impunite responsabilità, facilmente identificabili in precise inadempienze istituzionali, frutto dell’arroganza legittimata da una democrazia malata, ma pure falsata dall’indifferenza generale.

Senza andare assai lontano, la lezione di Otranto docet! Chiara la “morale”! Per il definitivo decollo della città ionica non c’è spazio per opportunisti, insipienti e irresponsabili, servi sciocchi e ballerini, avventurieri, acrobati e saltimbanchi della politica, gente effimera dal fiuto infallibile dietro al “vecchio che avanza” e che ritorna a dettar legge, sadico in “poltrona” con una regia occulta. Siano dunque all’erta, pronti a consigliare e suggerire quanto è da fare con sollecitudine, almeno i benpensanti, oggi più che mai delusi e in attesa che risorgano i valori della cultura. Tutto dipende ovviamente dalla buona politica, ossia dalla volontà non tanto di conoscere e interpretare, quanto di affrontare e risolvere i più elementari problemi che più ci assillano.

Agli amministratori va ribadita la solita lagnanza con un accorato appello: l’urgenza di priorità improrogabili da perseguire senza perdere ulteriore tempo. Chi sceglie Gallipoli si aspetta realizzato un certo modo di vivere nel rispetto di una moderna civiltà fatta di ordine e pulizia ad ogni livello, a partire dal centro storico tuttora sacrificato e derelitto, prigioniero di assurdi, ingiustificati ritardi. È proprio questo il problema principe e resta ancora un sogno per chi con dolore e rammarico attende ansioso di ammirare i beni culturali finora impunemente trascurati, come il castello chiuso nel suo degrado e soffocato non si sa da quali oscuri misteri!

Se si riuscirà a risolvere questo cruciale problema,  tutto il resto verrà di seguito come naturale conseguenza. Ma sarà possibile solo se s’intende operare unicamente per il bene comune, con trasparenza e competenza, tenacia e integrità morale, facendo politica autentica, mai ricorrendo a strumenti inequivocabili di un mortificante imbarbarimento del teatrino della politica, deteriorata e declassata fino al qualunquismo trasversale e strisciante, orfana di dialogo e tolleranza.

Ma, se Gallipoli stenta ancora a decollare, la responsabilità morale appartiene agli stessi gallipolini, mai sagaci, svegli e liberi da umilianti ricatti o condizionamenti con cui purtroppo si crea maggioranza e governo di una democrazia piuttosto fragile. Un imperativo categorico deve guidare in futuro quanti, capaci, operosi e consapevoli dell’impegno civile, si sentono legati alle loro radici, allo “scoglio”, stanchi di sbirciare dalla finestra, disponibili non alla facile critica denigratoria, demolitrice, ma alla dialettica democratica, per  “riappropriarsi” con fierezza delle sorti della città da governare con onore e rispetto, non verbis sed rebus.

Potranno pure essere, per indole, amanti del forestiero alla ribalta, non senza tuttavia essere politicamente maturi e pronti a denunciare e respingere i mercanti di voti e privilegi, sempre più spregiudicati in periodo elettorale nel costruirsi solide e facili “fortune”, mai domi e mai sazi di potere, figlio diretto del moderno dio dell’opulenza. A quanto pare, qui da noi la politica è di rado amante della cultura e il suo motto resta ancora legato al vile ricatto, che tradotto vale tristemente: “Ma cci me tocca a mme?”.

Intanto, nell’indifferenza generale, non pare siano ancora conclusi i lavori nell’ex mercato coperto addossato al castello, di cui peraltro invano si auspica l’apertura definitiva. Ma quando? Spetta agli intellettuali, al mondo della cultura incalzare il lavoro dei politici, ma spetterà alla politica investire per tutelare lo scrigno delle nostre risorse culturali da renderle fruibili alla collettività. Il potere finora ci ha irriso, forse sicuro di presentarci domani il conto di non si sa quali risibili “atti concreti”!

 

 

Il Calvario di Ortelle

di Angelo Micello

 

Commissionato da una nobile famiglia ortellese, come per tutte queste architetture religiose aperte ed esterne, il calvario di Ortelle si pone in posizione fortemente scenica rispetto al contesto urbano formando la perfetta la quinta finale di corso Vittorio Emanuele II in direzione sud.

Nato negli ultimi decenni dell’ottocento come buona parte dei calvari dell’area Jonico-salentina, è caratterizzato da una struttura a portico in pietra leccese (ad eccezione del prospetto posteriore) che dispone di un proprio spazio urbano formato da una grande villetta appositamente dedicata. Se in altri ambiti la struttura  devozionale è ubicata su piccoli larghi o appoggiata ad altri fabbricati civili, qui ad Ortelle alla struttura è dedicato un proprio spazio e concorre alla definizione delle visuali prospettiche urbane nell’ambito di maggiore prestigio del paese.

Per un approfondimento sui calvari pugliesi segnalo uno studio organico di Bruno Perretti e alcune considerazioni su queste architetture minori di Francesca Talò.

Fu affrescato da Giuseppe Bottazzi (1821-1890) probabilmente negli ultimi anni della sua attività, un vero e proprio manierista delle rappresentazioni religiose e dei calvari in particolare. I tagli, le pose e i colori delle figurazioni del Bottazzi sono replicate per esempio nel calvario di Montesano Salentino (commissionato nel 1873). Formatosi presso il concittadino Francesco Saverio Russo, dopo una pausa di studio e di prime esperienze a Napoli, nel 1849 fece ritorno a Diso ed ebbe tra i suoi disceppoli Paolo Emilio Stasi di Spongano, Giuseppe Mangionello e Nino Palma di Maglie, Vincenzo Valente di Specchia, Roberto Palamà di Sogliano, Alessandro Bortone di Diso, Emilio Iannuzzi ed altri.

Per la sua capacità tecnica nei dipinti murali ben presto gli vennero commissionati molte opere all’aperto, soprattutto calvari; tra quelli finora certi: Ortelle, Specchia Preti, Montesano Salentino e Morciano di Leuca tutti eseguiti con la tecnica del mezzo fresco che gli permetteva di ridurre di molto i tempi di esecuzione delle opere.

A Ortelle, come negli altri calvari, illustrò le immagini della Passione di Gesù Cristo, raffigurandovi i cinque Misteri Dolorosi del Rosario secondo lo schema delle Litanie Lauretane. Tre delle cinque scene sono collocate sull’abside centrale. Al centro la Crocifissione con la Vergine, San Giovanni e la Maddalena.

Alla sinistra la Flagellazione

Alla destra una stazione dell’Andata al Calvario, con la Maddalena

Nei due bracci laterali altre due stazioni della Passione, come la Coronazione di spine

e l’ultimo quadro la Preghiera nell’orto degli ulivi:

L’edificio, pregevolissimo negli equilibrati prospetti in pietra leccese, è arricchito da cancelli in ferro e ghisa e da ringhiere di pietra di pianta quadrata.

Le foto del post ed altre di dettaglio, in maggiore risoluzione, le scaricate QUI

Istruzioni per non tediare un vegetariano

di Pier Paolo Tarsi

Non so se qualcuno di voi è vegetariano o frequenta assiduamente vegetariani, so in compenso che certamente anche qui essere vegetariani significa far parte di una sparuta e numericamente insignificante minoranza (ammesso sempre che il sottoscritto non sia l’unico e solo!). Ebbene per farvi capire come si vive da questa parte del cosmo, vorrei farvi un elenco ragionato delle miserie e dei fastidi cui è sottoposto costantemente un vegetariano (specialmente in Italia), sperando che questo mio sfogo possa servire anche a chi vegetariano non è, suggerendogli cosa evitare per non angustiare il prossimo vegetariano che avrà tra i piedi (devo dire subito che esiste tuttavia anche una razza di vegetariani specializzata ad angustiare gli onnivori). Tra le prime fatiche che un vegetariano affronta quotidianamente vi è proprio quella sensazione di far parte di una comunità microscopica, di essere una mosca bianca e in qualche modo un diverso. Ora, a questo senso di particolarità ognuno reagisce a modo suo, andando per generalizzazione i due atteggiamenti discordanti di fondo più riscontrabili sono da un lato quello di chi fa del proprio vegetarianesimo una bandiera da sventolare sempre e ovunque alla minima occasione (anche per abbordare, perché fa figo talvolta) come se fosse un segno di eroismo e levatura morale (atteggiamento questo che nasconde una scelta non matura e convinta di

L’ortica. Tanti nomi dialettali per una pianta “che brucia”

La cantarìnula

 

di Armando Polito

 

nome italiano: Ortica maggiore

nome scientifico: Urtica urens L.

famiglia: Urticaceae

nomi dialettali salentini: cantarìnula (Nardò), ardìca (Alessano, Spongano), ardìcula (Neviano, Erchie, San Vito dei Normanni, Cisternino, Mottola, Massafra, Palagiano), ardìchele (Ceglie Messapico, Martina Franca) ardìchela (Ostuni), irdìca (Galatone), irdìcula (Veglie), àrdeche (Taranto), urdìca (Aradeo, Castrignano del Capo, Collepasso, Galatina, Miggiano, Presicce, Sogliano, Specchia), lurdica (Cutrofiano, Parabita, Vernole, Surbo), vurdìca (Salve).

Etimologie dei nomi: l’italiano, il primo componente dello scientifico e quello della famiglia sono dal latino urtìcam, probabilmente connesso col verbo ùrere=bruciare; il secondo componente del nome scientifico (urens=che brucia) altro non è che il participio presente del verbo latino appena ricordato; per quanto riguarda i nomi dialettali salentini, mentre ardìca, ardìcula, ardìchele, ardeche si collegano al verbo ardere1 (da notare in ardìcula e ardèchele l’aggiunta di un suffisso diminutivo) urdìca è direttamente dal detto latino urtìcam;  lurdica, poi, è sua figlia per agglutinazione dell’articolo (l’urdica>lurdìca>la lurdìca) cui potrebbe essere non estraneo un incrocio con lurdu, come pure vurdìca che registra

Salento a tavola. La patata novella Sieglinde di Galatina

di Massimo Vaglio

La patata (Solanum tuberosum), benché introdotta in Europa dall’America nel XVI secolo, sarà per circa due secoli coltivata come curiosità botanica e a scopi medicinali, rigorosamente per uso esterno, come lenitivo per piaghe e scottature. Solo le carestie del Settecento, e la promozione effettuata dai governi dell’epoca, rimossero i gravi pregiudizi che la attorniavano, e questo strano tartufo bianco, come spesso veniva indicata, cominciò ad essere accolto nei campi e sulle mense. Sulla scorta delle rape venivano lessate e condite con olio, aceto e sale, oppure con olio, aglio, pepe, e prezzemolo.

Nel Salento, grande impulso alla sua coltivazione, ed al suo uso, venne dato dall’oritano Vincenzo Corrado, che nel suo famoso libro di cucina, Il Cuoco Galante, include un Trattato sulle patate o pomi di terra, ove egli consiglia l’uso della fecola di patate per confezionare il pane, mescolandola al 50% con la farina di grano; e ne rivela oltre cinquanta modi diversi d’impiego gastronomico.

La patata novella Sieglinde di Galatina, è una pregiata varietà orticola di patata. Presenta tuberi di forma ovale allungata, del peso medio di 80-100 grammi, buccia di colore giallo intenso, brillante e pasta gialla. Nel Salento, e in particolare nella parte Sud Occidentale dello stesso caratterizzata dalla presenza della cosiddetta sinopia, ovvero, della terra rossa, ha trovato un ambiente particolarmente congeniale e sviluppa ineguagliabili caratteristiche

La Città Bella nei diari di alcuni viaggiatori

il castello di Gallipoli (ph Vincenzo Gaballo)

di Alessio Palumbo

Alla fine dell’800 la crisi del commercio e della produzione olearia in Puglia e l’affermarsi dei porti di Taranto e Brindisi mise in ginocchio l’economia di Gallipoli. I commerci, le attività artigianali ed industriali, come ad esempio la produzione di botti, subirono una drastica contrazione. Ciò pose fine al periodo di splendore e ricchezza vissuto dalla città tra il XVIII e il XIX. Di tale “età dell’oro” rimangono le affascinanti testimonianze di alcuni viaggiatori.

Nel 1789, agli albori della rivoluzione che avrebbe sconvolto le sorti di mezza Europa, così Carlo Ulisse De Salis Marschlins descriveva la città bella, nel suo Viaggio nel Regno di Napoli:

“Gallipoli è un paese di 7000 abitanti, con strade sporche e strette, e situato sopra una roccia che sporge nel mare […]. Quantunque non abbia né porto, né una sicura rada per le imbarcazioni, a Gallipoli si pratica il commercio più importante del Regno. Vengono di qui esportate annualmente 150.000 salme d’olio […] Gallipoli è certamente un fenomeno fra le città commerciali, ed è inconcepibile come questo fiorente commercio riesca a mantenersi” (C.U. De Salis Marschlins, Viaggio nel Regno di Napoli, Cavallino, L.Capone, 1979, pp. 148-149).

Una città inaspettatamente ricca dal punto di vista economico, dunque, ma non esteriormente. Le strade sono sporche, il porto è inesistente. Un giudizio non isolato, quello del De Salis.

Circa un secolo dopo infatti, nel 1882, Cosimo De Giorgi, esprimeva la sua ammirazione per il dinamismo della città, ma non per le sue bellezze artistiche ed architettoniche. Un vero e proprio nonsense per la città Bella:

“Il borgo di Gallipoli non ha nulla di artistico” scriveva De Giorgi “ma pure

Lettera a mio cugino residente a Taviano

di Ezio Sanapo

PRIMA GENERAZIONE

 

Caro cugino,

Lo scorso mese di giugno 2004, sono stato, per vari motivi nel nostro paese di origine e ho chiesto di te. Mi hanno detto che ora risiedi a Taviano presso una nuova e confortevole casa di cura per disabili e malati mentali e che lì tutti ti vogliono bene. Così ci siamo rivisti, dopo non so quanti anni a Taviano.

In tutto questo lungo periodo, credimi, ho potuto riflettere meglio per capire queste nostre due esperienze di vita, vissute agli antipodi, come i due lati della stessa medaglia, ma simili tra loro.

Noi, ti ricordi, siamo cresciuti insieme per tutto il periodo della nostra infanzia fino all’età di sei anni. Poi ti hanno rinchiuso in un orfanotrofio e lì hai potuto studiare. Io invece come tu sai, sono rimasto in paese e lì ho dovuto inventarmi un lavoro molto riduttivo e con quello ho potuto lavorare mentre aspettavo il tuo ritorno per le festività di Pasqua, Natale e poi tutta l’estate.

Durante quei periodi e per gli anni che scorrevano, abbiamo ragionato molto sul mondo così com’era e come lo immaginavamo. Era come qualcosa che ti sfugge di mano e ti accorgi poi che non hai più. Quel mondo stava radicalmente cambiando, con le contraddizioni e le conseguenze che ne sono derivate.

Era il 1960: il consumismo e il miraggio del benessere economico, l’abbandono del paese, l’emigrazione e la disgregazione di una intera comunità. Intanto, grazie ai tuoi studi, noi avevamo scoperto e condiviso un reciproco interesse per i classici: la musica, la poesia, la letteratura, il cinema, il teatro e tutto ciò era bastato a preservarci da un imbarbarimento sempre più diffuso. La nostra generazione non aveva potuto, nè voluto continuare a tramandare i valori di un modello culturale, quello nostro di origine, ritenuto non più credibile. Noi però in quegli anni abbiamo vissuto quei brevi periodi, molto intensamente ed in maniera diversa. Grazie alla nostra fervida fantasia ci siamo creati uno schema esistenziale approssimativo ma tutto nostro, basato su valori e principi controcorrente, una specie di ’68 molto anticipato che però non rinnegava niente del proprio passato.

Un ’68 che poi è arrivato ma, per noi, non aveva più senso. Fu l’anno del nostro ‘primo esodo: tu in Germania per ragioni economiche, io in Svizzera per incomprensioni familiari. La gente in quel periodo viveva con entusiasmo un clima di festa e di rinascita, di entusiasmo. Tutto questo sarebbe sfociato poi in più impegno nel sociale, in politica e quindi nelle lotte per la conquista di diritti fondamentali.

Tanta volontà, passione, ma anche ingenuità e utopia. Nessuno si aspettava una così feroce e violenta controffensiva conservatrice che da lì a poco, con un nuovo clima di tensione e paura, avrebbe determinato la fuga di ognuno nel suo privato (la comunità non c’era più), la caduta di ogni certezza acquisita (quelle d’origine le avevamo rinnegate) e da tutto ciò ne è scaturita una crisi d’identità che ha causato danni in ogni singola famiglia. Noi tutto questo l’abbiamo visto col senno di poi.  Alla ricerca delle nostre radici negli anni ’70, io ero tornato in paese e tu con il tuo bravo diploma acquisito in orfanotrofio, hai trovato lavoro all’ltalsider di Taranto, dopo un breve periodo in una fabbrica tedesca. Le tue esperienze in fabbrica, Germania prima e Taranto dopo, ti hanno fatto scoprire la realtà cruda e cruda che sicuramente ignoravi.

Hai avuto un ripensamento, uno sbandamento e hai tentato anche tu una fuga a ritroso, ma indietro, nel tuo passato, come un chiodo dolorosamente piantato nella memoria, c’era l’orfanotrofio con tutti i suoi orrori. Ricordo allora quando mi confidavi che nell’orfanotrofio i bambini più malinconici smarriti e provati fisicamente, venivano fotografati e fatti pubblicare sul giornalino da mandare a tutte le famiglie, insieme al vaglia per le offerte […] I più carini invece, scelti in mezzo a tanti, erano privilegiati e coccolati. A questi, i padri educatori manifestavano certe attenzioni, nessuno avrebbe reagito, nessuno avrebbe saputo. Ognuno di questi bambini pensava di essere il solo, il fortunato, magari prescelto da un disegno divino”.

Tra questi c’eri tu, Sergio, all’anagrafe Salvatore, nato il 25 dicembre, notte santa di Natale. Mi raccontavi che il padre educatore che abusava di te, ti leggeva il Vangelo, quello di San Matteo che racconta di Gesù Bambino, Salvatore e nato la stessa notte come te, morto poi sulla croce per scontare tutti i nostri peccati. Successe allora così, un corto circuito improvviso nella tua mente, pesante come una croce, la tua.


SECONDA GENERAZIONE

Come tu sai, io sono invece cresciuto in mezzo alle insidie quotidiane e questo mi ha preservato dal male che ti ha colpito. Ho avuto credimi molta forza d’animo per continuare anche da solo a far valere le ragioni tutte ideali, dei nostri principi. L’ho fatto anche per te.

Quello che ho potuto fare è sicuramente servito a preparare il terreno a quanti sarebbero ritornati nel nostro paese: Quelli che partivano per cercare lavoro e quelli che invece per studiare alle università del nord. Quelli partiti per lavoro non sono più tornati, gli studenti, invece (li abbiamo aspettati tanto) sono puntualmente arrivati: medici, ingegneri, avvocati, professori. Appena arrivati diventavano esattamente come quelli che c’erano già, lo stesso opportunismo, la stessa arroganza e secolare mentalità borbonica che ancora oggi fa comodo e si tramanda.

Allora ho capito che la realtà lì non sarebbe cambiata anzi riceveva rinforzi. La maggior parte dei medici di famiglia si alternano a spadroneggiare con metodi feudali i paesi del sud come il nostro, questo perché la gente lì, più che altrove, ha due chiodi fissi: la morte e la malattia. Su queste paure medici e preti senza scrupoli hanno sempre speculato sui risvolti emotivi della gente strappando loro i consensi necessari per il controllo del territorio. Per questo, nelle competizioni elettorali di quei paesi i medici sono sempre primi e al comando di ogni lista, con tutta la loro ipocrisia ideologica. Di riempimento e a seguire tutti gli altri, le loro pretese in base al titolo.

Era il periodo degli arrampicatori sociali, arrivisti e furbi di ogni genere, gli ideali erano il loro tormento. Quel periodo ha segnato il nostro ‘secondo esodo’: tu a Taviano e io a Parma. Come tu sai, il mio impegno ha sempre avuto una motivazione ideale, un’esigenza caratteriale che ho pagato a caro prezzo, niente per interessi personali. Gli ideali ti portano a fare scelte di vita che non puoi barattare con un posto di lavoro, una licenza edilizia, una strada asfaltata che ti arriva fino a casa e lì la strada finisce.

Gli ideali non si barattano con un parcheggio contornato di verde, fatto costruire d’autorità accanto alla propria casa con la scusante dell’interesse pubblico. Chi non ha ideali non può avere scrupoli e anche questo è un dato caratteriale che può esplicitarsi e avere ragione solo in un basso della storia, perché come tu sai la storia è fatta di alti e bassi e questi livelli valgono per tutti, nessuno è escluso. Cambia solo il valore di cosa si rimette o si guadagna.

Il compito che ha la storia è quello di quantificare, soppesare e discernere inesorabilmente. Lo so, caro cugino, cosa hai provato quando hai capito che crescere significava subire una trasformazione, accettare l’ipocrisia, la furbizia e la mediocrità come regole di vita e su queste regole, misurarsi con gli altri: sopraffare per non essere sopraffatti. Hai accettato la pazzia perché questo ti permetteva di restare bambino, ti sei rifiutato di crescere.


TERZA GENERAZIONE

Ma noi intanto siamo cresciuti e il mese di giugno scorso ci siamo ritrovati a parlare per la prima volta da adulti ma con le stesse idee, perché le idee non muoiono, non invecchiano, e restano giovani per sempre. Nel nostro paese ho conosciuto gente che ha tanto bisogno di speranza e di credere che il peggio è passato.

Oggi ci tengo a dirti che sul grafico della storia siamo ad una risalita: c’è forse un’altra generazione che avanza. Non parlo della nostra, ingenua e bidonata, né di quella attuale, fredda e calcolatrice, ti parlo di una generazione nuova, con più orgoglio e dignità: una terza generazione, forse quella ideale. Con questa occorrerà costruire un dialogo, stabilire un contatto (di questo lo gente ha bisogno)e tu puoi farlo da Taviano, io da Parma e di seguito tutti gli altri mille, duemila paesani sparsi in tutto il mondo.

Un’intera comunità che si ricompone. Non è l’annuncio di una speranza messianica nè tanto meno di una rivoluzione. Ti lascio con il progetto, forse l’unico possibile, di un sogno infantile interrotto tanti anni fa, così sarai tranquillo per un po’. Sono tanti anni che non dormi più e finalmente potrai farlo ora; abbiamo un intero millennio davanti, alla fine di questo faremo un bilancio, io sarò lì ad aspettarti.

Ciao, tuo cugino Parma, 20 luglio 2004

“Andrò a chiedere a Dio

La mia antica anima di bambino

Con il cappello di carta

E la spada di legno”

(F. Garcia Lorca)

Taranto. Il cappellone di san Cataldo, capolavoro dell’arte barocca

di Angelo Diofano

Noti critici d’arte, tra cui Vittorio Sgarbi, sono concordi nel definire così il cappellone di san Cataldo, vero trionfo del barocco, situato a lato dell’altare principale del duomo di Taranto. È un vero trionfo di affreschi e di marmi policromi, con colori e immagini che s’inseguono e si fondono in un turbinio di emozioni.

Molti interrogativi permangono sulle tappe più importanti della sua storia. I primi passi per la realizzazione dell’opera furono mossi nel 1151 con l’arcivescovo Giraldo I che ordinò la costruzione, (nell’area dell’attuale vestibolo) di una cappella quale dignitosa sepoltura al corpo del Patrono. Nel 1598 mons. Vignati ne ideò la trasformazione, sollecitando l’autorizzazione di Clemente VIII e trasferendovi il sepolcro marmoreo rinvenuto ai tempi del Drogone.

Nel 1658 con l’arcivescovo Tommaso Caracciolo Rossi il cappellone iniziò ad avere il suo assetto definitivo così come siamo abituati a vederlo oggi. I lavori furono proseguiti nel 1665 dall’arcivescovo Tommaso de Sarria, con il contributo generoso di tutta la comunità. L’ultimo tocco, nel 1759 con l’arcivescovo Francesco Saverio Mastrilli che fece realizzare l’artistico cancello di ottone.

Alla cappella vera e propria, di forma ellittica, si accede dal vestibolo quadrangolare, in un ambiente reso suggestivo da giochi di marmi verdi e gialli che si alternano alle belle volute bianche ad intarsio delle quattro porticine.

Le statue di san Giovanni Gualberto a destra e di san Giuseppe a sinistra sono opera dello scultore napoletano Giuseppe Sammartino. L’organo, collocato al piano superiore, è del 1790, opera di Michele Corrado, in sostituzione di quello più antico, realizzato dal leccese Francesco Giovannelli, distrutto in un incendio.

Nel cappellone attirano l’attenzione i coloratissimi marmi intarsiati alle pareti, fatti porre dall’arcivescovo Lelio Brancaccio nel 1576, probabilmente ricavati dalle rovine degli edifici classici, sparse in gran quantità nel sottosuolo. Lo sguardo poi si perde in alto, verso l’affresco della cupola, dove il vescovo irlandese è ritratto nella gloria dei santi. Neppure dopo l’ennesima visita è possibile abituarsi a tanta bellezza.

L’opera fu commissionata nel 1713 dall’arcivescovo Giovanni Battista Stella all’artista napoletano Paolo De Matteis, allievo di Luca Giordano, per un compenso di 4.500 ducati. Ne La gloria di san Cataldo (così s’intitola l’opera) il vescovo irlandese appare inginocchiato di fronte a Maria Santissima che lo invita ad accostarsi al trono di Dio; la scena è sovrastata dalla Santissima Trinità attorniata dagli angeli mentre in basso appare la folla dei santi, soprattutto francescani e domenicani, appoggiati su nuvole rocciose nell’atto di scalare la montagna dell’Empireo.

I sette affreschi del tamburo ritraggono, invece, gli episodi più importanti vita di san Cataldo. A partire da sinistra: la resurrezione di un operaio addetto ai lavori di scavo delle fondazioni di un tempio alla Vergine, finito sotto le macerie; il ritorno alla vita di un bambino in braccio alla madre; il cieco guarito all’atto del Battesimo; San Cataldo mentre prega sul sepolcro di Gerusalemme e che riceve l’ordine di recarsi a Taranto; il ritorno della voce a una pastorella muta mentre indica all’illustre pellegrino la strada per la città ionica; la liberazione di una fanciulla indemoniata mentre è in preghiera davanti alle spoglie mortali del santo. L’affresco di fronte all’altare mostra infine san Cataldo mentre predica al popolo tarantino.

Di pregevole fattura anche le dieci statue di marmo, collocate nel in apposite nicchie, di epoche e autori differenti. Da destra a partire dall’ingresso, raffigurano nell’ordine: san Marco, santa Teresa d’Avila, san Francesco d’Assisi, san Francesco di Paola, san Sebastiano, sant’Irene, san Domenico e san Filippo Neri. Ai due lati dell’immagine del Patrono appaiono i simulacri di san Pietro e di san Giovanni. Secondo una suggestiva ipotesi, ancora tutta da avvalorare, pare che questi ultimi due fossero di antica fattura greca (naturalmente in seguito adattati alla fede cristiana) e che rappresentassero rispettivamente Esculapio ed Ercole.

Visibile attraverso una grata marmorea e finestrelle laterali, la tomba del Santo è posta all’interno dell’altare marmoreo. Quest’ultimo fu realizzato nel 1676 da Giovanni Lombardelli, artista di Massa Carrara, impreziosito da madreperle e lapislazzuli. Alzato su tre gradini, ha struttura lineare caratterizzata da un decorativismo dei marmi ora finissimo nei ricami dei gradini del postergale e del paliotto, ora nervoso nelle ornamentazioni scultoree dei putti capialtare.

Le decorazioni marmoree, tutte policrome, hanno temi diversi; sui due pilastrini laterali vi sono gli stemmi, dai vivissimi colori arricchiti da inserti di madreperla, del capitolo e della città di Taranto, committenti dell’opera.

Sul ciborio lo stemma con le tre pignatte del vescovo Francesco Pignatelli, a testimonianza del suo intervento all’abbellimento della cappella avvenuto nel 1703.

Sovrastante l’altare, ecco la nicchia ove è posto l’argenteo simulacro di san Cataldo, il quarto nella storia di Taranto. Di una prima statua di san Cataldo si iniziò a parlare nel 1346 quando l’arcivescovo Ruggiero Capitignano-Taurisano, accogliendo le richieste della popolazione, volle realizzarla con l’argento del sarcofago, ove nel 1151 il suo successore, Giraldo I, volle riporre il corpo del Santo. Il prezioso metallo fu però insufficiente per un simulacro completo, tanto da costringere a ripiegare su un mezzo busto.

Per il completamento della statua si attese il 1465, anno in cui la città fu liberata dal flagello della peste. Il merito fu attribuito all’intercessione di san Cataldo, tanto che l’intera popolazione a gran voce chiese il completamento del simulacro. Il sindaco Troilo Protontino indisse perciò una sottoscrizione che ebbe l’effetto auspicato, con l’allungamento del mezzobusto. La statua fu rifatta ad altezza d’uomo (sette palmi) a spese della civica università con l’esazione del catasto e con il personale contributo dell’allora sindaco Troilo Protontino. Pareri contrastanti, nel tempo, accompagnarono l’esistenza di quella statua. La popolazione vi era affezionata in quanto realizzata con l’argento ricavato dal sarcofago che aveva toccato il corpo del Patrono. Inoltre il volto del Santo era di grande espressione, tanto che i devoti lo credettero finito per mano angelica. Altri però ritenevano l’opera dalle forme troppo rigide e stilizzate, in quanto proveniente da un mezzobusto. Senza contare che le ripetute riparazioni e le aggiunte in breve lo ridussero in condizioni davvero pietose.

Fu così che nel 1891 l’arcivescovo mons. Pietro Alfonso Jorio commissionò la nuova statua d’argento all’artista Vincenzo Catello dell’istituto Casanova di Napoli. L’artista completò il lavoro in appena sei mesi. Furono impiegati oltre 43 kg di argento, di cui 37 provenienti dalla vecchia immagine. La statua era smontabile per facilitare le operazioni di pulitura e lucidatura. Il simulacro giunse il 7 maggio del 1892 alla stazione ferroviaria di Taranto da dove, dopo la solenne benedizione, fu portato in grande processione fino alla cattedrale. L’opera piacque per la perfezione della lavorazione e l’espressione del viso.

Così descrivono le cronache dell’epoca: “L’argenteo simulacro di san Cataldo misura due metri in altezza: il patrono è in atto di camminare, con la destra benedicendo la città che gli è fedele, mentre con la sinistra stringe il pastorale… Indovinatissimi la posa e l’atteggiamento… Assai bello il panneggiamento della pianeta della stola, il merletto del piviale, il camice che sembra cesellato”. Gli occhi, poi, neri e lucenti da sembrar veri; questo grazie alla devozione di una nobildonna tarantina che in periodo più recente donò alla cattedrale due artistici e preziosi spilloni a testa nera (forse di onice) e con al centro una piccolissima pietra preziosa da far pensare a una pupilla. Un’opera, insomma, vanto dell’intera comunità ma destinata a durare non per molto.

Nella notte fra il primo e il 2 dicembre del 1983, mentre imperversava il maltempo, la statua fu rubata assieme a molti altri reperti (candelieri, calici, reliquiari ecc.). Qualche anno dopo, grazie alla soffiata di un recluso tarantino, gli autori del furto (quattro napoletani specializzati in furti nelle chiese) furono arrestati e condannati, ma della statua non fu possibile recuperare nulla in quanto fusa e ridotta in lingotti. Un’impresa davvero poco fruttuosa e per giunta finita male per i malfattori ma ancor più per la comunità, privata di uno dei suoi simboli più importanti.

L’attesa per una nuova statua, la terza della storia, non durò a lungo. Il 14 gennaio ’84 l’arcivescovo Guglielmo Motolese incaricò un apposito comitato presieduto dal priore del Carmine, Cosimo Solito, di provvedere in merito.

Fu contattato l’artista grottagliese Orazio Del Monaco, che approntò in breve il bozzetto in argilla. Valutate alcune proposte, si decise di realizzare il nuovo San Cataldo in ottone e di rivestirlo in argento (tranne testa, mani e braccia che furono interamente di quel metallo prezioso) donato dagli orafi tarantini (in tutto ben 35 kg). Finalmente l’opera fu completata. Il volto era quello felice del pastore che finalmente torna dal suo gregge dopo l’esilio. Molti però non furono d’accordo con quella scelta perché avrebbero preferito la copia conforme a quella derubata. Portata in un furgone a Palazzo del Governo, l’8 settembre del 1984 alla rotonda del lungomare la nuova statua fu ugualmente accolta da una gran folla festante; nella stessa sera si svolse quella processione a mare che non poté aver luogo nel maggio precedente. Ma tanti non si riuscivano a rassegnare, ostinandosi a fantasticare sul san Cataldo di Catello esposto nella residenza di qualche emiro amante delle opere d’arte e chissà un giorno da recuperare: tanto era anche il sogno dell’allora parroco della cattedrale mons. Michele Grottoli.

Ben presto si dovette fare i conti con l’eccessivo peso del manufatto. Le operazioni concernenti lo spostamento dalla nicchia in preparazione ai solenni festeggiamenti di maggio destavano parecchie preoccupazioni per l’incolumità sia degli addetti sia dei preziosi marmi dell’altare. Inoltre ci voleva la gru per le complicate e laboriose operazioni di imbarco e di sbarco sulla motonave per il giro dei due mari. Così dopo vent’anni dall’arrivo dell’opera di Del Monaco si cominciò a pensare a una nuova statua.

L’arcivescovo mons. Benigno Luigi Papa accolse la proposta dell’arcidiacono mons. Nicola Di Comite che, agli inizi del 2001, dette il via all’operazione “Una goccia d’argento per la nuova statua di San Cataldo”, per la raccolta del prezioso metallo. I tarantini aderirono generosamente all’iniziativa, donando medagliette, catenine ed oggetti fra i più disparati. La realizzazione del simulacro fu affidata all’artista Virgilio Mortet, del laboratorio di Oriolo Romano (Viterbo).

Sue opere si trovano nei Musei Vaticani e in chiese, conventi e gallerie d’arte; per la cattedrale di Osimo eseguì un artistico sarcofago per custodire le reliquie di san Giuseppe da Copertino e una sua croce pettorale di ottima fattura fu donata a Giovanni Paolo II. A Mortet fu posta solo una condizione: che le sembianze della statua fossero, finalmente, quanto più possibile simili a quelle dell’opera di Catello. L’iniziativa ebbe buon fine. Così il 4 maggio del 2003 il nuovo san Cataldo (fuso in un unico pezzo) fu pronto e arrivò via mare alla banchina del castello aragonese. Tanta gente, affacciata su corso Due Mari, partecipò alla cerimonia. Ancor più massiccia fu l’affluenza di popolo alle successive processioni a mare e a terra, porgendo così il più caloroso benvenuto alla nuova effige del santo Patrono.

Una grande manifestazione di fede che continua a mantenersi inalterata ogni anno nei tradizionali festeggiamenti di maggio.

L’orobanche, per i nostri contadini spurchia, terrore dei campi

La spùrchia

 

di Armando Polito

Nome italiano: orobanche, succiamele delle fave

nome scientifico: Orobanche minor L.

famiglia: Orobanchaceae

Il primo nome italiano, la prima parte di quello scientifico e il nome della famiglia derivano tutti dal latino classico orobanche1, a sua volta dall’omofono e omografo greco2 composto da òrobos=veccia e ancho=stringere, soffocare; la seconda parte del nome scientifico (minor=minore) è distintiva rispetto alle innumerevoli varietà di questa specie.  Il secondo nome italiano deriva da succiare e mele (variante popolare di miele, inteso come umore).

Tutte le etimologie fin qui riportate confluiscono concordemente a stigmatizzare il carattere di infestante parassita in grado di distruggere intere piantagioni di fave con l’azione del suo austorio (forma aggettivale sostantivata dal latino haustum, supino di haurìre=attingere, che definisce l’apparato attraverso il quale piante o funghi parassiti assorbono le sostanze nutritive dal corpo dell’ospite).

E il nome dialettale? Spùrchia, invece, contiene un riferimento alla grandissima quantità di semi che la pianta è in grado di produrre, derivando da un latino *exporculàre=produrre come una piccola porca3; legato ai successivi passaggi semantici per traslato (facilità di riproduzione> carattere infestante>danno) è il significato che la voce ha assunto come sinonimo di sfortuna (quandu tice la spùrchia=quando si parla di sfortuna) e, come epiteto poco gratificante, quando è riferita a persona: per lo più è la mamma a farne le spese: ddha spùrchia ti màmmata (quell’orobanche di tua madre).

E pensare che in passato, in tempi di bisogno,  la spùrchia è stata una vera e propria risorsa alimentare, specialmente in Puglia dove lo stelo tenero veniva consumato fritto in olio. Ma della sua commestibilità non aveva parlato molti secoli prima, come abbiamo visto nella nota 2, Dioscoride?

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1La voce è attestata in Plinio (I° secolo d. C.)): (Naturalis historia, XIX, 44): Est herba, quae cicer enecat et ervum, circumligando se: vocatur orobanche (C’è un’erba che uccide il cece e la lenticchia, avvolgendosi [questa caratteristica escluderebbe la possibilità di identificarla con la nostra e spingerebbe a credere che si tratti della cuscuta] loro intorno: si chiama orobanche).

2 La voce in Teofrasto (IV°-III° secolo a. C.), De historia plantarum, VIII, 8, 4, designa la cuscuta: L’orobanche della cicerchia e la speronella della lenticchia: la prima prevale soprattuttio per la debolezza della pianta infestata, la seconda prolifera poi soprattutto in mezzo alla lenticchia e in qualche modo è simile all’orobanche, poichè avvolge con i suoi riccioli tutto lo stelo avviluppato e in questo modo lo uccide, donde ha preso il nome.

In Dioscoride (autore greco contemporaneo del latino Plinio), De materia medica, II, 171 la descrizione rende plausibile l’identificazione con la nostra: L’orobanche (per alcuni cinomorio, per altri leone, per i Ciprioti tirsine,dal popolo detta lupo] è un piccolo stelo rosseggiante, quasi di un piede e mezzo, talora di più, senza foglie, un po’ lucido, un po’ peloso, tenero. Si fregia di fiori biancastri o tendenti all’arancione. Si dice poi che nascendo vicino a certe leguminose le soffoca, donde prende pure il nome. Si mangia poi a guisa di erba cruda o cotta nei pasticci a mo’ di asparago. Si dice che cotta insieme con i legumi ne accelera la cottura.

3. Rholfs, Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo, Galatina, 1976, v. II, pag. 685, alla voce spùrchia, ove, tra l’altro, si ricordano  le napoletane spòrchia=gemma germogliata e sporchiàre=gemmare, nonché  il calabrese purchiàre= germogliare. Sulla probabile comunanza etimologica con brucàcchiu vedi sul sito il post Lu brucàcchiu del 3 dicembre u. s.

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/19/portulaca-porcacchia-erba-porcellana-erba-dei-porci-insomma-lu-brucacchiu/

Borgagne – Bel suol d’amor

Borgagne su una tela del ‘600

 

di Wilma Vedruccio

Per molto tempo Borgagne non è stato il mio paese, era il paese di mia madre, il paese dei nonni materni che coltivavano garofani in vasi di fortuna, nel loro giardinetto dietro casa, con al centro l’albero di mèndule. La loro casa, sotto un arco di pietra con un rosaio di rosa ndurante per ghirlanda,  in quello che oggi si dice centro storico, si affacciava nella stessa corte dove imperava un geranio  rosso scuro di velluto, dentro una capasa, e dove Romeo, il cacciatore di sanguette, passava i pomeriggi a fumare la pipa e a riposare sul gradone di liccisu.

Odor di rose a maggio, odor di botti di vino in tutte le stagioni.

La poesia di San Martino si mandava a memoria facilmente.

Ora, dopo vicissitudini ed affanni, è il paese in cui vivo stabilmente, io che ho eletto il Salento intero a patria mia poichè un paese solo mi par poco.

Olivi cingono Borgagne tutta in tondo, le vigne le vedi solo se ti inoltri a piedi nel feudo di Pasulo, in alcune conche le puoi ancora trovare, coi cippuni che affondano nell’acqua, nelle annate in cui abbondano le piogge.

Il centro abitato, cresciuto molto negli ultimi decenni, sembra voler assediare gli oliveti,  morde la campagna che si ostina a fiorire intorno, cancella sciardine, innocenti vittime sacrificate al dio delle lottizzazioni, mentre la popolazione è ferma ad un numero costante, circa 2000, che ha cristallizzato istituzionalmente il paese in un dimensione sgradita  di frazione. Poche le sezioni di scuola di base. Tante le macchine e le case.

Duemila anime, dunque, suppergiù, un microcosmo multiforme di culture, dalle roccaforti ancora resistenti di cultura contadina a frange giovanili postmoderne, da stili di vita quasi arcaici a quelli riconducibili a forme sfrenate di consumismo a gogò, con annessa problematica e malcostume inerente a cosa farsene degli oggetti in più, se non abbandonarli nelle campagne quali istallazioni di arte informale.

Il meglio del paese viene fuori nelle occasioni di partecipazione corale a festività, civili e religiose. Dal pellegrinaggio a Roca, nel mese di maggio, alle feste patronali, dalla Maratona di Primavera al premio Vrani, per salentini geniali e operosi, fino allo travolgente Borgoinfesta, tre giorni di ininterrotta giostra di musica, arte, cibo e solidarietà, che si offre a stanziali del Salento e a turisti d’ogni dove e che vuole allungare sguardo e benefici all’Africa lontana del Benin, dove i ragazzi dell’orfanotrofio di Ouenou, guardano a Borgagne quale paese di Bengodi, a ragione.

Ogni iniziativa è frutto di lunga programmazione, di concertazione, di volontariato generoso oltre che di forte motivazione.

La Chiesa Madre è ricca di tracce del passato di cui non si ha memoria,  parla di arte, religione, ricchezza, di pietas e di amore per la natura.

Il santuario di Borgagne è la zona dell’Olmo, sopravvissuta a smanie di lottizzazione. Si trova ai piedi della mappa, quale propaggine naturale per un paese bucolico, da sogno, frammento di coltivi illuminati del passato, quando si combatteva con metodi naturali, la presenza d’acqua, eccessiva.

Ora la zona dell’Olmo è un residuo “culturale” che parla di rapporto positivo fra gente di buona volontà e territorio, di equilibrio fra natura e uomo. Le sue foglie raccontano per tutta la stagione storie scordate.

Lo so, la mia descrizione del paese carezza aspetti di poco conto, marginali, alternativi, non sono queste le cose che contano in banca, che parlano di crescita e di guadagni…voi che ne dite, rincorriamo la modernità ad ogni costo o ci aggrappiamo a ciò che di bello ancora s’intravede?

La Fiera di S. Vito e l’ucceria di un tempo

di Rocco Boccadamo

Si svolge ad Ortelle, piccolo paese del Sud Salento, l’annuale e ormai secolare Fiera di S. Vito, fra le più antiche dell’ Italia meridionale, assurta al rango di “Manifestazione Fiera Regionale” e rappresentante, come si legge sulle apposite locandine, un “appuntamento imperdibile per espositori, produttori ed estimatori, anzitutto, del maiale, la cui carne viene venduta, preparata e servita in tanti modi che ne valorizzano sapore e proprietà”.

Mette subito conto di sottolineare che, negli ultimi tempi, la manifestazione di cui trattasi ha progressivamente registrato una radicale evoluzione e trasformazione, passando da “Fiera“ del genere “mercato all’aperto omnicomprensivo”, quale, tradizionalmente, si poneva una volta, ad una sorta di agorà, anfiteatro, tempio di culto specifico per leccornie culinarie ottenute dal corpulento suino.

Specialità, piatti, sfizi, vieppiù ricercati e, perché no, gustosi e stimolanti; ciò, sulla base del consueto, rigoroso ricorso a materie prime genuine e di qualità, accompagnato, nel contempo, dalle tecniche di preparazione maggiormente raffinate acquisite e poste in atto man mano.

che, sul maiale e sul consumo della sua carne, una volta si dicevano tante cose, anche non veritiere, ad esempio che la carne di maiale è troppo grassa e, quindi, va evitata, specie quando fa caldo.

Sulla base dell’anzidetta credenza, nel periodo, all’incirca, da giugno a settembre e anche ottobre, non se ne vendeva, né, ovviamente mangiava (i freezer erano sconosciuti) e proprio la Fiera di S. Vito, l’ultima domenica d’ottobre, segnava la canonica riapertura del consumo di tale alimento.

Si diceva, con riferimento ad una volta, di fiera del genere mercato, dove le famiglie del luogo e dei paese vicini solevano portarsi, a piedi o in bici o su traini, ai fini di preordinati acquisti utili: spezzoni di stoffa per far confezionare pantaloncini per i figli piccoli, scarpe, giacche di panno pesante per l’inverno. Se avanzava qualche spicciolo, il giro in fiera si concludeva con la compera di alcuni etti di sanguinaccio.

Ben diverso appare lo scenario di oggigiorno, l’obiettivo dei visitatori attuali: si va ad Ortelle per una mangiata, chi più chi meno, di carne e/o specialità varie di maiale. Mangiata, ovviamente, affatto sostitutiva, bensì aggiuntiva rispetto ai normali pasti domestici.

Puntualizzazione, quest’ultima, confermata dall’interminabile colonna di autovetture che sabato 23 ottobre, intorno alle ventidue, si muoveva lungo la statale 16 e provinciali a seguire, sulla  direttrice Lecce – Maglie – Ortelle. Effetto collaterale dello straordinario richiamo e afflusso, le condizioni del traffico nell’abitato del paesino apparivano a livello di Roma centro.

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In un’altra minuscola località limitrofa ad Ortelle, verso la metà del ventesimo secolo, esisteva sì una macelleria (o ucceria), ma con apertura limitata alla domenica e, eccezionalmente, al sabato e in occasione di determinate vigilie. Giovannino “ucceri” doveva servire, infatti, due paesi contemporaneamente.

Del resto, allora, gli abitanti non si portavano in tale esercizio ogni giorno, ma, quando andava bene, con frequenza settimanale, compiendo acquisti misurati se non centellinati.

E, non tutti gli abitanti. Sicuramente, non conosceva per niente la macelleria, un compaesano con pochissime risorse e famiglia numerosa a carico, il quale, tuttavia, la domenica mattina si faceva puntualmente notare, in sosta lì fuori, accanto alla porta del locale. Alla domanda di taluno in merito al motivo dell’ immancabile presenza, questa era la sua risposta: ”Siccome non posso per- mettermi di comprare la carne, mi metto qui, in modo che, perlomeno, mi sia dato di saziarmi attraverso il suo profumo”.

I cavalieri teutonici in Puglia e a Santa Maria al Bagno (I parte)

 

L’ ABBAZIA DI SANCTA MARIA DE BALNEO

DA DIMORA DEI CAVALIERI TEUTONICI A MASSERIA

 

di Marcello Gaballo

A meno di 300 metri dal rudere delle Quattro Colonne, a sud del piccolo abitato costiero di Santa Maria al Bagno, sulle ultime propaggini delle Serre Salentine, a circa 35 metri dal livello del mare, seminascosta dalle abitazioni sorte senza rispetto del paesaggio e fuori da ogni regola urbanistica, si intravede la torre di quella che un tempo fu la masseria Fiume, oggi radicalmente ristrutturata in moderna e confortevole abitazione.

L’ ingresso alla masseria si raggiunge da una traversa, sulla provinciale S. Maria al Bagno-Galatone, prima di via Edrisi, per la quale si giunge alle Quattro Colonne e che un tempo era contigua all’ importante ed antica via di comunicazione che da Galatone portava al mare.

La denominazione della masseria si spiega, probabilmente, col fatto che la costruzione fiancheggiava un corso torrentizio in cui si raccoglievano le acque reflue da tutto il territorio a monte, per mescolarsi poi con quelle della sorgente delle Quattro Colonne[1]. Il complesso, nel modo con cui si colloca, corona una prospettiva che sale regolarmente dal litorale verso l’ entroterra.

Le numerose modifiche delle costruzioni adiacenti e la suddivisione successiva impediscono di delineare l’aspetto originario della masseria, restando comunque evidenti l’ androne di ingresso alla corte e, soprattutto, la torre, che rappresenta ancora oggi il nucleo centrale e l’ elemento più sorprendente.

Essa, formata in epoche successive, si sviluppa su due piani, di cui quello a piano terra molto ampio, con volta a botte e spessa muraglia; il secondo è il piano diventato utile, in cui risiedeva il proprietario, con volta a botte lunettata, tre finestre, il camino (poi trasformato in “cucina economica”), una muraglia dello spessore di circa 80 cm.

Santa Maria al Bagno – Nardò (Lecce), masseria Fiume, ingresso principale

Opere in muratura successive dividono questo piano in più ambienti, evidenziandosi comunque un corpo aggiunto sul lato orientale, che ha trasformato la pianta della torre da quadrata in rettangolare. Tale modifica ha previsto anche l’ aggiunta di una scala esterna a due rampe che collega i due piani, in sostituzione di quella più antica che si sviluppava nello spessore delle

Viaggio a Presicce, città degli ipogei

Piazza Villani

testi e foto di Gianluca Ciullo

I luoghi del cuore sono sempre cari ed appaiono agli occhi di chi li percorre belli e a volte unici, ma obiettivamente il piccolo borgo di Presicce è un prezioso scrigno di architettura gentile come il Basso Salento che lo ospita. Un concentrato di edilizia religiosa, nobile, gentilizia e “a corte” che è difficile riscontrare comunemente in un’estensione di territorio così modesta.

Nulla è casuale, la sua storia l’ha reso possibile.

Palazzo ducale Paternò è stato da sempre la residenza dei feudatari che si succedettero. Dell’antica  torre di difesa è rimasto solo un richiamo nella merlatura neoguelfa che il duca Pasquale Paternò fece apporre sull’ormai residenza gentilizia agli inizi del novecento. Era il 1630 quando la principessa Maria Cyto Moles lo modificò secondo l’attuale fisionomia, arricchendolo di un meraviglioso giardino pensile e della cappella dell’Annunziata.

il giardino pensile del palazzo

I Cyto non godevano di particolari privilegi, spesso oppressivi per la popolazione locale come accadeva nel resto del Mezzogiorno feudale. Liberi erano i mulini, i forni e i frantoi appartenenti ai privati. Ancora libera era l’elezione del sindaco senza il consenso del feudatario così come quella del parroco. Tale assenza di privilegi consentì di creare condizioni particolarmente favorevoli tra ceto popolare e borghese, dediti pertanto, non solo al lavoro dei campi ma anche e soprattutto all’artigianato ed all’arte.

Piazza Villani con la colonna su cui è posta la statua di S. Andrea

Questo consentì di attrarre l’interesse economico di molti nobili, baroni, e ricchi possidenti che immigrarono fornendo al paese giureconsulti, medici, notai e letterati. I Giuranna di origine veneta, i Pepe fiorentini, i Cara foggiani,

Piccolo approdo di età romana in località Lido Marini (Ugento)

di Marco Cavalera, Nicola Febbraro

Lido Marini, località balneare divisa tra i comuni di Salve e di Ugento, si caratterizza per un tratto di spiaggia, che si alterna tra sabbia finissima e bassa scogliera.

Lungo la costa rocciosa, a sud della marina, dove l’acqua diventa improvvisamente fredda e dolce – per la presenza di alcune sorgenti subacquee – si conservano significativi resti di costruzioni associati ad abbondante materiale ceramico. Si tratta di una struttura muraria parallela alla linea di costa, lunga circa 17 metri, perpendicolarmente alla quale se ne sviluppano altre tre lunghe circa 2 metri.

I resti murari sembra che un tempo definissero una serie di ambienti in seguito intaccati dall’azione erosiva del mare, che ha determinato il continuo arretramento della linea di costa.

I ruderi – conservatisi in alzato per un’altezza di circa 40 cm- sono costituiti da pietre calcaree informi, di piccole e medie dimensioni, poste in opera direttamente sul banco roccioso e da numerosi frammenti ceramici (in prevalenza laterizi), il tutto coeso con malta.

Alle strutture sono connessi depositi archeologici; l’erosione marina, infatti, ha messo in luce alcune sezioni di sedimento terroso ricco di frammenti ceramici.

Poco distante dalle costruzioni si individua un tumulo artificiale, di pietre calcaree informi e terra, eroso anch’esso dall’azione del mare. In sezione è presente un significativo strato di frammenti ceramici che poggia direttamente sul banco roccioso. Molto probabilmente si tratta di una base per il sovrastante allineamento di blocchi e pietre calcaree, in opus caementicium.

La datazione delle strutture dipende dall’inquadramento cronologico degli

Il cappero


 di Armando Polito

nome dialettale: chiàpparu

nome scientifico: Capparis spinosa L.

famiglia: Capparidaceae

Tutti i nomi sono dal latino càppari(m), dal greco kàpparis. Da notare nella voce dialettale la conservazione del vocalismo originale con la seconda a passata in italiano ad e. Il secondo componente del nome scientifico si riferisce alle spine di cui la specie è dotata, assenti nella varietà inermis (disarmata) che è quella presente nel nostro territorio1.

La più antica testimonianza sulle proprietà terapeutiche del cappero risale ad Ippocrate (V°-IV° secolo a. C.): “Altro rimedio [contro le fistole]. Applica foglie di cappero verde tritate poste in una borsa e quando ti sembrerà che brucino allontanale e poi riapplicale. Se non hai a disposizione le foglie applica allo stesso modo la corteccia pestata della radice del cappero infusa in vino nero. Questa procedura è efficace pure nel caso di dolore alla milza2.

Due secoli dopo il latino Catone lo propone tra gli ingredienti per “correggere” il vino per renderlo efficace contro la stranguria: “Trattare il vino, in caso di stranguria. Pesta in un mortaio cappero o ginepro, mettine una libbra, fallo bollire in due congi di vino vecchio in un contenitore di bronzo o di piombo:quandosi sarà raffreddato , versalo in una brocca di terracotta. Prendine al mattino unciato a digiuno: ti gioverà3”.

capparis baducca o amplissima

È però in epoca successiva e nel mondo romano che a questa essenza vengono riconosciute maggiori benemerenze, anche se non disgiunte da avvertimenti precauzionali, sicché leggiamo in  Plinio (I° secolo d. C.): “Bisogna guardarsi dalle sue specie straniere, dal momento che quello degli Arabi è nocivo, quello Africano dannoso per le gengive, il Marmarico per le vulvee per tutti i gonfiori. Quello dell’Apulia procura il vomito, libera lo stomaco e l’intestino. Certi lo chiamano cinosbato, altri ofiostafile4; “Del cappero ho parlato abbastanza tra gli arbusti stranieri. Non bisogna usare quello d’oltremare, più innocuo è l’italico. Dicono che coloro che lo mangiano quotidianamentenon corrono rischio di paralisi né di dolori di milza. La sua radice elimina le vitiligini bianche se stropicciate al sole con quella dopo averla affettata. La corteccia della radice nella dose di due dracme  bevuta nel vino giova ai sofferenti di milza ed elimina la necessità dei bagni; e dicono che in 35 giorni tutta la milza viene eliminata attraverso l’urina e l’intestino. Si beve contro i dolori dei lombi e la paralisi. Calma il dolore di denti tritato con aceto o il seme cotto o la radice masticata. Si applica cotto con olio in caso di dolore di orecchi. Le foglie e la radice verde con miele sanano quelle ulcere chiamate fagedene. Così la radice elimina anche le scrofole e cotta in acqua è efficace contro la parotite econtro i vermi. Pestata con la farina di orzo si applica in caso di dolori di fegato. Cura pure le malattie della vescica. La somministrano pure in aceto e miele contro le tenie. Cotta nell’aceto elimina le ulcere della bocca. Gli autori sono concordi nel ritenerla inutile per lo stomaco5”; “Il caglio della lepre con pari peso di cappero cosparso di vino cura le piaghe sanguinanti6”.

E Celso qualche decennio prima di lui aveva scritto: “(Contro le difficoltà di respirazione) deve essere assunta a digiuno acqua con miele, nella quale sia stato cotto l’isopo o spezzettata la radice del cappero7”; “E in molti modi a questo scopo [a curare i sofferenti di milza] è adatto il cappero: infatti è utile assumerlo col cibo e sorbirne la salamoia con aceto. Anzi giova pure applicare esternamente la radice tritata o la sua  con corteccia con la crusca o lo stesso cappero tritato con miele. Pure gli empiastri sono utili allo scopo8”; (Contro le malattie dell’anca) sembra giovare soprattutto o con farina di orzo o mista a fico con acqua bollita la corteccia tagliata del cappero9”.

Nel mondo greco, successivamente, la testimonianza di Galeno (II°-III secolo d. C.): “La pianta del cappero è ricca di germogli e cresce soprattutto a Cipro. La sua sostanza risiede in particelle minute, sicché, come succede a tutti gli altri alimenti costituiti da particelle minute, danno poco nutrimento a chi se ne nutre. Uso perciò il frutto di questa pianta più come medicamento che come alimento. Nelle nostre parti viene importatto cosparso di sale, dal momento che imputridisce se è conservato da solo. È chiaro che il cappero ha maggiori sostanze nutritive prima della salatura, a causa della quale ne perde una grandissima parte, a meno che il sale non venga sciacquato: tuttavia rilassa l’intestino. Se viene messo a mollo in modo che si perda il sapore del sale non è un gran cibo da mangiare; sarà tuttavia un companatico ed un medicamento per stimolare l’appetito, purificare lo stomaco, eliminare le occlusioni della milza e del fegato. Bisogna per questi scopi utilizzarlo prima di tutti gli altri cibi con l’aceto al miele o aceto e olio. Si mangiano anche di questa pianta i teneri germogli, come quelli del terebinto, ancora verdi e mettendoli a bagno in aceto e acqua salata o solo in aceto10”. 

L’interesse piuttosto freddo che il mondo greco sembra manifestare, rispetto al romano, nei confronti di questa pianta è confermato da Ateneo di Naucrati, anche lui del II°-III° secolo d. C.

Nel primo passo (in cui due interlocutori si scambiano opinioni sulla prostituzione) il cappero diventa quasi il simbolo sociale di una classe subalterna e del suo sfruttamento: “- La meretrice poi – come Antifane dice nel Rustico – è una grave calamità per lo sfruttatore: infatti ha in casa la peste e tuttavia è contento-. Perciò un tale viene introdotto da Timoteo nella Neera mentre si compiange: – Ma sono veramente infelice, io che ho amato Frine quando raccoglieva capperi e non aveva quel patrimonio che ha oggi; e io che non ho badato a spese in ogni occasione ora sono sbattuto fuori dalla porta-11“. Insomma, la raccolta del cappero di allora stava a Frine come la raccolta del pomodoro di oggi sta all’extracomunitario di turno12.

Il secondo passo mi offre l’occasione per mettere in risalto quella che sembra essere una straordinaria coincidenza. Il plurale capperi, come tutti sanno, in italiano viene usato anche come interiezione e considerato in questo caso come  una deformazione eufemistica di cazzo, al pari di caspita (da cui caspitina e caspiterina), cavolo e cacchio13. La più antica attestazione conosciuta e registrata di capperi! risale al Rinascimento14 (quella di caspita! al 183015, quella di cavolo! al 185014 e quella di cacchio! al 194316). Fatta questa premessa riguardante tempi più o meno moderni, ecco cosa ci ha tramandato l’antico: “Teleclide ne I Pritanensi dice: -Giuro sui cavoli-. Epicarmo in Mare e terra giura sul cavolo. Eupoli ne I tintori giura sul cavolo e questo giuramento sembra essere ionico. Non deve sembrare strano che certi giurassero sul cavolo  dal momento che Zenone di Cizio, che fondò la Stoà, imitando il giuramento fatto da Socrate sul cane, giurava pure lui sul cappero, come dice Empodo ne Le cose memorabili17”.

A proposito di questi strani giuramenti c’è da chiedersi se è il caso di cogliere in essi la vena ironica di chi li pronunciava  (il che, poi, significava giurare senza assumersi nessun impegno, avendo sostituito la divinità non con un animale, come aveva fatto Socrate,  ma, addirittura, con due comunissimi vegetali che, fra l’altro, non godevano di commistioni mitologiche con una qualsiasi divinità) oppure un’intenzione discreditante nei loro confronti da parte di chi ce ne ha tramandato il ricordo. Se si è verificata la prima ipotesi l’interiezione capperi! potrebbe essere la “citazione” di qualche letterato del Rinascimento18 colpito dalla lettura del brano di Ateneo in cui il giuramento finisce per corrispondere ad una bestemmia; il passaggio finale, poi, sarebbe stato favorito dalla coincidenza in cazzo e capperi dei primi due fonemi, come, d’altra parte, è successo per le restanti voci.

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1 Del cappero si conoscono molte varietà, tra cui Capparis baducca o amplissima, nativa di S. Domingo, il cui frutto è grande quanto un uovo d’oca (nella foto).

2 De fistulis, 10.

3 De agricultura, 122: “Vinum concinnare, si lotium difficilius transibit. Cap<ar>idam vel iunipirum contundito in pila, libram indito, in duobus congiis vini veteris in vase aheneo vel in plumbeo defervefacito. Ubi refrixerit, in lagonam indito. Id mane ieiunus sumito cyatum; proderit”.

4 Naturalis historia, XIII, 23: “Cavenda eius genera peregrina, si quidem Arabium pestilens, Africum gingivis inimicum, Marmaricum vulvis et omnibus inflationibus. Apulum vomitus facit, stomachum et alvum solvit. Quidam id cynosbaton vocant, alii ophiostaphylen”.

5 Op. cit., XX, 5:“De cappari satis diximus inter peregrinos frutices. Non utendum transmarino, innocentius est Italicum. Ferunt eos, qui cotidie id edint, paralysi non periclitari nec lienis doloribus. Radix eius vitiligines albas tollit, si trita in sole fricentur. Splenicis prodest in vino potu radicis cortex duabus drachmis, dempto balinearum usu, feruntque XXXV diebus per urinam et alvum totum lienem emitti. Bibitur in lumborum doloribus ac paralysi. Dentium dolores sedat tritum ex aceto vel semen decoctum vel manducata radix. Infunditur et aurium dolori decoctum oleo. Ulcera, quae phagedaenas vocant, folia et radix recens cum melle sanant. Sic et strumas discutit radix, parotidas vermiculosque cocta in aqua. iocineris doloribus tusa cum farina hordeacia inponitur. Vesicae quoque malis medetur. Dant et ad taenias in aceto et melle. oris exulcerationes in aceto decocta tollit. Stomacho inutile esse inter auctores convenit”.

6 Op. cit., XXVIII, 74: “Carcinomata curat coagulum leporis cum pari pondere capparis adspersum vino”.

7 De medicina, IV, 8: “Sumenda deinde ieiuno potui mulsa aqua, <in qua> vel hysopus cocta vel contrita capparis radix sit”.

8 Op. cit., IV, 16: “Multisque modis huic rei cappari aptum est: nam et ipsum cum cibo adsumere et muriam eius cum aceto sorbere commodum est. Quin etiam extrinsecus radicem contritam vel corticem eius cum furfuribus aut ipsum cappari cum melle contritum imponere expedit. Malagmata quoque huic rei aptantur”.

9 Op. cit. IV, 29, 2: ”Maxime prodesse videtur aut cum hordeacea farina aut cum ficu ex aqua decocta mixtus capparis cortex concisus.”

10 De alimentorum facultatibus, II.

11 Deipnosofisti, XIII, 22.

12 Chiàpparu a Nardò, al pari di lampasciòne,  è usato anche nel significato di stupIdo.

13 Nel dialetto neretino non è raro sentire l’interiezione cazzulèddha! o cazzatèddha! Le voci normalmente sono usate per indicare una specie di mestolo e un tipo di panino schiacciato. Pure etimologicamente slegate da cazzo (cazzulèddha è doppio diminutivo dell’osoleto cazza; cazzatèddha è da cazzare), tuttavia, lo evocano, pur approssimativamente, nella forma; lo stesso è successo per l’italiano cavolo e cacchio (=germoglio, dal latino  càtulum=cagnolino, cucciolo).

14 Dizionario italiano Sabatini-Coletti, Giunti, 1997; il Dizionario italiano De Mauro, Paravia, 2000, si limita solo a riportare la data di nascita della voce al singolare nell’accezione originaria: circa 1340.

15 Dizionario italiano De Mauro, op. cit.; idem nel Dizionario italiano Sabatini-Coletti, op. cit. Qui i due dizionari, pur avendo potuto fruire di strumenti informatici di ricerca,  hanno preso una cantonata incredibile, dal momento che caspita usato come interiezione compare già, per esempio, in due commedie di Carlo Goldoni (XVIII° secolo): L’impostore, atto III, scena XII: “Le bandiere? Mo caspita!”; Il frappatore, atto II, Scena XII: “Caspita! Poeta ancora?”. Non escludo che nelle edizioni più recenti, che non ho potuto controllare, compaia una retrodatazione ancora più spinta di quella da me suggerita.

16 Dizionario italiano Sabatini-Coletti, op. cit.; nel Dizionario De Mauro, op. cit. la voce è fatta risalire al 1955.

17 Op.cit., IX, 9.

18 La più antica attestazione rinascimentale che son riuscito a trovare appartiene a La Sibilla, commedia, sicuramente anteriore al 1566, di Anton Francesco Grazzini detto il Lasca (nel pezzo, che colpo di fortuna!,  compare pure un càppita, dal quale, secondo me, con dissimilazione è nato càspita): atto III, scena IV: “Capperi! o va, abbi spesso dietro di queste pollezzole; ella vorrebbe in poche volte mandarmi alle stinche: cappita! oh, io mi pensava fare a grossoni”.

Storia del pasticciotto salentino

di Sonia Venuti

Il pasticciotto, dolce tipico galatinese,  è nato per caso nel 1740 nell’antica e rinomata pasticceria Andrea Ascalone ubicata ancora oggi, come allora, nella storica sede dell’odierna Via Vittorio Emanuele II, cuore del centro storico  e fulcro intorno al quale ruotava molto del dinamismo e della vita cittadina.

La fragranza del suo profumo accompagna  la storia di Galatina attraverso i secoli da ben nove generazioni, approdando ai giorni nostri senza aver perso nulla, negli anni, del suo antico sapore.

Nato col nome di bocconotto, piccolo boccone di pasta frolla farcito di crema pasticcera, insieme ad un altro dolce tipico Galatinese dita d’apostolo”, nome trasformato in seguito in “africano”, il pasticciotto è divenuto il dolce galatinese per antonomasia che andrebbe gustato, per esaltarne il sapore, con una tazza di cioccolata calda o granita al caffè.

In uso da sempre per i galatinesi quale  dolce tipico della domenica e delle festività in genere, è consigliato ai turisti  come tappa obbligata di degustazione nella visita alla città.

L’antica pasticceria Ascalone, un tempo anche rinomata gelateria e servizio ricevimenti, ha legato il suo nome nel corso dei secoli a tutte le famiglie della nobiltà prima, e della nuova borghesia poi, con la sua presenza costante nei giorni  importanti quali feste di fidanzamento,  matrimoni battesimi e quant’altro,  attraverso la produzione di piatti tipici, dolci e gelati, quest’ultimi conservati in appositi contenitori con una miscela di  ghiaccio e sale, per mantenere la giusta temperatura.

Requisita dagli Americani, subito dopo l’armistizio dell’8 Settembre 1943, la pasticceria Ascalone produceva  i sui rinomati prodotti  esclusivamente per gli aeroporti di Galatina e Brindisi, ove erano di stanza molti soldati delle truppe

Dall’antica Grecia al Salento. Appunti per una storia della tessitura

Tessere

di Maria Grazia Anglano

Donna.

E’ nella donna, il silenzioso mistero, del tempo del creare.

Da sempre trova in lei, la sua casa. E la paziente attesa tesse.

La sua unicità irripetibile.

 

All’apertura del passo, rintocca il telaio. Mentre la navetta scorre, nel varco, degli alterni fili dell’ordito. Gesti rituali, di un improbabile danza, scanditi ritmicamente, nel sonoro vuoto della propria stanza.

E’ antica quasi quanto l’uomo quest’arte e nel tempo è diventata più di una semplice necessità, assumendo sempre più caratteristiche identificative di popoli, cultura, stato sociale e non ultima capacità decorativa e creativa.

La tessitura ha superato secoli, tradizioni e miti, basta pensare all’Odissea, dove Penelope nel “tessere” riaffermava la sua capacità di scegliere, una fiduciosa attesa. Oppure ad Aracne, che della sua abilità, ne fa addirittura un’amara sfida agli dei. Condannata per questo, a tessere per sempre, la sua tela dalla bocca.

Dal mito all’arco della nostra storia, la tessitura ha conosciuto alterni momenti, legati strettamente alle vicissitudini, del periodo storico.

Così come anche per la storia dell’arazzo. Inizialmente aveva caratteristiche grezze e prettamente nomadi, serviva di volta, in volta, ora per separare un ambiente, ora per coprire una finestra ecc.

Finché queste grossolane tessiture non iniziarono ad acquisire delle decorazioni più proprie e ad assurgere a un compito più prettamente decorativo. Trovando, per questo, il loro uso, anche e specialmente nelle occasioni più solenni.

Doveroso è ricordare la città francese di “Arras”. Dalla quale prenderanno il nome gli arazzi, e dove appunto i Gobelins, per secoli, ad iniziare dal 1601, hanno prodotto pregiatissimi arazzi, dalle complesse e istoriate decorazioni.
La Galerie des Gobelins, requisita nel corso della prima Guerra Mondiale, venne inaugurata nell’ 1922 e ospitò mostre sino al1939. Chiusa nel 1972, in seguito utilizzata come deposito, ha riaperto i battenti il 12 maggio 2007, dopo ben tredici anni di restauri, con la mostra: Les Gobelins 1607-2007, Trésors dévoilés – Quatre siècles de création.

L’arte del tessere, col suo lento divenire, dilata uno spazio atto anche al pensare, recuperando un tempo del lavoro più a misura d’uomo. Dove la manualità segue ed esegue, da una precedente progettazione, messa appunto su una carta tecnica, detta propriamente -cartone-.

Qui ogni piccolo quadratino sulla carta tecnica, corrisponde a quell’unico fiocco (termine tecnico, che indica un filo lungo pochi centimetri, che si annoda a quelli verticali dell’ordito.) che insieme agli altri costruisce il vello dell’arazzo. E dall’uno (fiocco) diviene il tutto(opera-arazzo, con la sua caratteristica iconografica).

Vi sono vari tipi di telai, da quelli verticali a quelli orizzontali, o da tavolo. Tra i tanti telai, quelli, tuttora, maggiormente in uso, sono quelli a pedali, di origine antichissima. Questo modello ha forma rettangolare ed è in legno d’ulivo.

Con esso la lavorazione è resa più veloce grazie all’apertura del passo, ossia lo spazio creato tra i fili dell’ordito, mediante i pedali, con la successiva introduzione della navetta, o sciuscetta, che porta con se il filo della trama. Vi sono poi due rulli, uno anteriore ed uno posteriore: il primo serve ad avvolgere il lavoro, tessuto, il secondo a reggere i fili dell’ordito, ancora da lavorare. I licci, poi, servono ad allontanare ad uno, ad uno i fili dell’ordito. Il battente, o pettine, ha poi la funzione di pettinare e assestare il tessuto, ossia permette al filo della trama di accostarsi, a quello precedente.

Interessante è focalizzare come quest’arte abbia trovato pervicace espressione, anche nel nostro Salento. Attraverso i più svariati centri, della nostra penisola. Trovando poi in Casamassella, uno dei più importanti epicentri della storia della tessitura salentina.

Casamassella è un paesino di mille abitanti, vicinissimo ad Otranto. Tutto ebbe il suo inizio, nel castello dei Marchesi De Viti De Marco, dove la giovane donna Carolina decide di trasformare l’arte del ricamo, diffusamente conosciuta in tutto il Salento, in un’arte assolutamente esclusiva al fine di poter esportare i prodotti di tale, pregiata produzione.

Sul finire dell’ottocento fonda così a Maglie, la scuola del ricamo di Casamassella. Grazie alle conoscenze, che il celebre economista Antonio De Viti De Marco aveva a Roma ed in tutta Italia, la signora Carolina poté commercializzare i ricami, diffondendo il prestigio della scuola.

 Dopo qualche anno a Maglie arrivava il lino dall’Irlanda, mentre i ricami si vendevano tanto in America, quanto in Russia; un vero mercato mondiale che fu attivo per tutta la durata dell’attività della scuola. La tradizione familiare fu continuata dalle due figlie di Donna Carolina, Lucia e Giulia. Lucia si trasferì in Sud Africa, portando la tradizione salentina nelle comunità Boere, mentre Giulia si specializzò nell’uso dei telai che fece montare nelle sale al pianterreno del castello, e poi in una masseria, detta Villa Carmosina, destinata al proseguimento di queste ricercate lavorazioni.

Negli anni 20 il mercato del tabacco era fiorente, e le donne preferirono spostare le proprie energie nella coltivazione, e nella raccolta del tabacco, obbligando così la scuola a chiudere. La tradizione continuò nel castello e molte donne del paese di Casamassella continuarono a produrre. Anche se questo determinò un cambio di connotazione di mercato, passando da una produzione capace di soddisfare una richiesta di livello internazionale, ad una più prettamente locale.

Successivamente dal lino si incominciò a tessere la bambagia e la lana. Si incominciarono a produrre coperte, tappeti ed arazzi. Per migliorare la produzione furono importate delle pecore che migliorassero la qualità della lana, dal Medio Oriente arrivarono le pecore karakul. Queste pecore dalla lana nera, venivano tosate e filate, insieme alle bianchissime pecore locali, creando geometrie di colori bianco e nero di rara eleganza.

La riforma fondiaria diede una nuova e ulteriore scossa a questa scuola, e così il nuovo progresso fece terminare, per una seconda volta, il sogno della scuola di Casamassella.

Era d’uso ancora sino ad un po’ di decenni fa, a Casamassella trovare donne negli atri delle proprie abitazioni intente a tessere al proprio telaio.

La tessitura ha poi avuto, un rinnovato impulso, in alcuni centri della provincia, come Casarano,  Collepasso e Uggiano La Chiesa.  Nella zona di Maglie e Suranonoti sono i tappeti in lana e cotone grezzo, con una tecnica forse di origine saracena, detta “fiocco leccese”, che evidenzia un aspetto arricciato.

Non ultimo in questo elenco Nardò, dove donne maestre nelle diverse arti, dal telaio al ricamo, svolgevano lavoro su committenza oltre ad insegnare l’arte. Queste maestre, all’occorrenza, attuavano quella rete di solidarietà femminile per le mamme, intrattenute in altri impegni o lavori da assolvere, chiedendo“lu ntartieni” (cioè l’ intrattenimento)per i loro ragazzini, e questo era una buon motivo per tentare, su un piccolo canovaccio, di imparare i più facili rudimenti del ricamo. Come pallini e punto erba.

Importanti a tal proposito sono le coperte imbottite di Nardò e Galatone dette “buttite”. Venivano tutte rifinite e cucite a mano, all’interno si inseriva la bambagia, tra due teli di diverso colore, quasi sempre in raso rosso o verde, e rappresentavano un elemento indispensabile, nel corredo o “dote”della futura sposa.

La produzione dei ricami, e dei tessuti, ha tradizioni antichissime, ed è nata per oggetti di uso quotidiano: asciugamani, lenzuola, tovaglie, sacchi, abbigliamento, ecc. Oggi la tendenza si va spostando verso la realizzazione di tessuti pregiati, arazzi, tappeti, stuoie, cuscini e coperte.

Tutte le tipologie del punto ad ago sono presenti, in una infinita gamma di disegni, spesso ispirati al paesaggio e alla natura. I merletti più conosciuti sono “il chiaccherino”, fatto con la spoletta sulle dita, che forma una sorta di tela di ragno, a disegni concentrici.

tombolo

Ed ancora nelle zone di Lecce, Nardò, Galatina e Ruffano abbiamo “il tombolo”. Con la famosa tecnica, di intrecciare i fili intorno ad aghi puntati su un disegno, sistemato su un grosso cuscino cilindrico, imbottito. E un’arte poco diffusa perché generalmente viene tramandata di madre in figlia, o comunque nel ristretto del proprio ambito familiare.

Ci sono oramai poche realtà o botteghe, che perdurano le caratteristiche dell’artigianalità. Dove le esperte ricamatrici salentine si cimentano nell’arte del ricamo, in tutti i suoi punti, ed anche nella realizzazione di pizzi e merletti, sia ad ago che ad uncinetto. Se si passa alle origini storiche del merletto, si vede che esso è nato con tutta probabilità proprio in Italia, alla fine del 400, e per ragioni funzionali, non meno che estetiche. In quanto andava a sostituire importanti e pesanti decorazioni, galloni, con uguale pregio e maggiore facilità di lavabilità.

Dal seicento sino all’ottocento il merletto ha il suo apice e per la sua preziosità, costituisce uno degli elementi di distinzione del ceto socia­le nobile e alto borghese; viene richiesto da committenze facoltose, destinato ad arricchire gli abiti degli aristocratici, del clero e ad abbellire gli altari nelle cattedrali. La produzione italiana è la più ricercata, apprezzata anche all’estero: il protocollo delle varie Corti Reali euro­pee obbliga i nobili a presentarsi con abiti ornati di pizzi. Tale fu l’importanza economica che ebbe in Italia il merletto che nacquero pesanti sanzione a quanti diffondessero i segreti di tali tecniche, sino ad essere tacciati addirittura come traditori della patria. Successivamente l’avvento della Rivoluzione industriale sovverte abitudini e stili di vita decretando un impoverimento di questo settore. La tessitura subisce così le sue necessarie contaminazioni dovute alla tecnologia, alla comparsa di nuove fibre, e ad una produzione sempre più rapida e accessibile economicamente, a scapito di una imitata quanto approssimativa qualità artigianale. Prova ne sono i merletti industriali.

Ma l’artigianalità perdura nelle pregiate fatture, per quanto ripetibili come soggetto, rimangono comunque sempre uniche.

Infatti, la storia dell’artigianato nelle sue pecularietà e specificità, da sempre porta con sé quel labile e difficile distinguo, tra opera in sé, ed opera come, semplice, buona fattura tecnica. D’altra parte delimitare questo terreno di commistione è reso ancora più difficile, in quanto l’artista stesso usa e si avvale di bravi artigiani per realizzare le proprie opere. Innumerevoli sono infatti gli artisti che nella storia recente, e passata, hanno prodotto importanti cartoni, per la realizzazione di arazzi. Tra i tanti nomi Matisse, Le Corbusier, Picasso.

Molti artisti hanno trovato espressione nelle fibre tessili, dando il via a quella che successivamente sarà chiamata fiber art. Anch’io ho subito la fascinazione di questo mondo e da tempo, faccio ricerca attraverso l’uso di queste tecniche nelle sue varie e possibili declinazioni. Realizzando, oltre ad arazzi in canapa, anche arazzi su carta. Dove il filo è insieme segno, e materia percettibile, capace di ospitare la luce, è il relativo indelineabile, cono di presenza,-ombra-. Il tutto, in una forma di comunicazione, di piani .Di vuoti, e superfici, in una sorta di continuum spazio temporale. Dove la luce allo zenith, ha ormai arso e graffiato ogni cromia, di delineate, quanto arcaiche, geometrie.

Giurdignano. Il menhir San Paolo

di Marco Piccinni

Appena fuori dal centro abitato di Giurdignano, lungo quella che è stata definita la strada dei dolmen e dei menhir, all’interno del percorso archeologico del comune, definito il giardino megalitico d’Italia, è possibile ammirare una perfetta forma di sincretismo religioso-culturale costituitosi nei secoli intorno alla cripta di San Paolo.

Sormontata da uno dei menhir più “bassi” di Giurdignano, alto poco più di due metri, una cavità scavata in un basamento roccioso con tracce di affreschi fortemente deteriorati dal tempo e ulteriormente danneggiati da azioni vandaliche, rivela le sue origini, probabilmente bizantine, con degli abbozzi al culto di San Paolo e alla ormai storica associazione alla terribile taranta.

Menhir e cripta di San Paolo

San Paolo, divenuto un taumaturgo per ogni fenomeno di avvelenamento indotto dal morso di animali dopo aver debellato dal suo corpo il veleno iniettatogli da un serpente sull’isola di Malta, divenne anche il “testimonial ufficiale” di un fenomeno tipico dell’Italia Meridionale, con prevalenza nel territorio salentino, che fece discutere uomini illustri di ogni tempo, tra cui anche il grande Leonardo da Vinci:

San Paolo che vince sul mistico ragno che induce uno stato di possessione nel soggetto morso, è rappresentato nella piccolissima cripta di Giurdignano, accanto ad un ragnatela, probabilmente postuma all’affresco insieme ad altri piccoli dettagli  ”ricalcati” intorno alla figura dell’apostolo delle genti.

Affresco di San Paolo

 

L’associazione di San Paolo alla taranta avvenne con predominanza nel ’700, quando la chiesa cercò di arginare il fenomeno del tarantismo, di stampo tipicamente pagano, intorno ad un piccola cappella di Galatina, con il solo fine di debellarlo e ristabilire l’ordine nella terra dove la leggenda vuole siano sorte le prime chiese cristiane d’occidente. Nello stesso periodo, inoltre, i progressi in campo medico raggiunti nella capitale del regno di Napoli respingevano ormai di netto la teoria della possessione da morso, benchè fosse stata fortemente accreditata nei secoli precedenti, per sposarne una  più razionale focalizzata su un autentico avvelenamento. Questi sarebbe stata la causa di spasmi e tormenti psico-fisici.

All’interno della cripta, tutt’oggi oggetto di culto, è possibile individuare altre figure di santi ai lati di San Paolo. Si ipotizza che in origine fosse utilizzata per usi sepolcrali, ipotesi non suffragata da evidenze archeologiche. Sulla sua sommità tuttavia, adiacente al menhir,è possibile notare un insenatura nella roccia, artificiale, che ricorda tombe bizantine e medievali. Se così fosse non ci sarebbe spazio per nessun stupore. Questa zona è stata fortemente frequentata nei secoli, come dimostrano i rinvenimenti archeologici nelle vicine contrade Quattromacine e Vicinanze.

Possibile tomba sul menhir San Paolo

 

Il lato nord del menhir presenta sette tacche alla medesima distanza, mentre sulla sommità è possibile notare un foro, probabilmente utilizzato per l’installazione di una croce. Tutti i monumenti/simboli vistosamente legati a culti di stampo pagano vennero progressivamente cristianizzati a partire dagli editti di Teodosio, con i quali il Cristianesimo divenne religione di stato per l’impero romano e il popolo dei Cristiani divenne, da perseguitato, un persecutore. I menhir vennero incisi con delle croci o sormontati con “addobbi” cristiani, le cripte vennero affrescate e gli dei catechizzati.

Anche se molto piccola, questa cripta rappresenta un anello di congiunzione per molti dei culti che hanno segnato in maniera decisiva la storia etnografica del Salento.

 

pubblicato su http://www.salogentis.it/2012/02/19/il-menhir-san-paolo-di-giurdignano/

Briganti di casa nostra

Archivio di Stato Lecce, Pref. Gab. Ctg. 28, fasc. 2636

di Fernando Scozzi

Ancora oggi emerge come siano contrastanti  le interpretazioni che i vari indirizzi storiografici danno del brigantaggio meridionale postunitario. Cosicché, la  storiografia di destra che prima condannava il brigantaggio vedendo in esso la personificazione della reazione borbonico-clericale, oggi  lo  rivaluta  facendolo assurgere a lotta partigiana contro l’invasore  piemontese,  mentre gli storiografi di sinistra, che fino ad un certo periodo hanno  visto  nel  brigantaggio  i  prodromi  delle  lotte  contadine  contro la protervia dei galantuomini, usurpatori dei demani, oggi lo condannano vedendo in esso più l’aspetto delinquenziale che quello politico. In effetti, non fu l’unificazione nazionale a creare il brigantaggio, perché le molteplici cause di questo fenomeno, da sempre esistito, non sono di origine politica, ma di origine sociale. I presupposti per lo sviluppo della rivolta si svilupparono sotto i Borbone e se pure a Napoli e in Campania c’erano delle isole felici, (dovute alla presenza della corte e di alcune industrie manifatturiere) nel resto del Regno delle Due Sicilie e specialmente nelle campagne, si  viveva nella miseria. Il caos politico e sociale scatenato dall’unificazione, la leva militare, le tasse, l’usurpazione dei demani (che i Borbone, comunque, non avevano provveduto a far dividere fra i contadini)  la politica anticlericale del governo, innescarono la miccia. Ma  non ci fu un brigantaggio politico, bensì un brigantaggio utilizzato per fini politici. E’ lo stesso Pasquale Villari a scrivere che il brigantaggio meridionale antico e contemporaneo trae unicamente origine dalla triste condizione delle popolazione, non dagli avvenimenti politici, che se possono aumentargli forza, non basterebbero mai a dargli vita; il brigantaggio altro non è che una questione ardente agraria e sociale. I borbonici, quindi, strumentalizzarono il malessere del Mezzogiorno servendosi del brigantaggio per impedire la stabilizzazione del nuovo ordine. I briganti accettarono il patrocinio politico perché  in  questo  modo  le  loro imprese uscivano dal  novero  delle azioni delinquenziali   e  della mera vendetta contro i signorotti locali per assurgere a lotta politica contro l’invasore piemontese. In realtà, sia i briganti che i borbonici combattevano per scopi diversi e si servivano gli uni degli altri.   La comunanza  di  interessi  si  ruppe  per  il mancato intervento delle Potenze assolutistiche europee nel Mezzogiorno e per il conseguente rafforzamento dello Stato unitario. A quel punto, chi dalle retrovie aveva soffiato sul fuoco della rivolta si dileguò; ma i briganti non potevano tornare indietro e furono fucilati, deportati, massacrati senza pietà.

In Terra d’Otranto non c’erano le condizioni per una rivolta di grandi dimensioni, perché – scriveva un funzionario di pubblica sicurezza al prefetto –  la Provincia di Lecce non sarà mai la prima a ribellarsi contro l’attuale ordine di cose, essendo pronta sì alla parola, ma tarda, anzi nemica di ogni azione. I leccesi hanno buone viscere, calda fantasia, facile parola,  ma tardo il braccio.   In realtà, più che di brigantaggio si può parlare di gravi problemi di ordine pubblico per evitare i quali  era necessario assicurare pane e lavoro ai contadini che, ben presto, iniziarono a manifestare il loro malcontento. Il contadiname del piccolo Comune di Surbo – infatti – falsamente imbevuto dell’idea del rientro in Napoli di Francesco II,  si abbandonava dall’avemaria fino alle ore sette  circa  della sera di domenica 10 marzo, alle maggiori sfrenatezze reazionarie imperocché,  principiando a gridare in piazza “Viva Francesco II , Abbasso la Costituzione”, in più centinaia si davano a percorrere le vie del paese, continuando sempre nelle stesse grida e portando un lenzuolo bianco come vessillo. Nel giro che facevano abbatterono gli stemmi reali, mentre nel corpo di guardia venivano presi e rotti alcuni fucili e bistrattato un militare in servizio che tostamente se la svignava per la paura. Poscia aggredirono diverse persone che avevano fama di liberali arrecando loro molti danni. Al municipio si davano a sconquassare la poca mobilia, rompendo i quadri di Garibaldi e di Vittorio Emanuele, nonché disperdendo diverse carte dell’archivio, molte delle quali bruciarono in piazza. E durante il tumulto alcuni dei più facinorosi gridavano: “ Vittorio Emanuele, che ci dai? Noi moriamo di fame e dobbiamo rivoltare per farci dare lavoro. A Marittima la popolazione insorse il 23 marzo 1861 mentre i tumulti si propagavano nei comuni di Ortelle, Andranno e Spongano. A Taviano, nel corso di un tumulto popolare scoppiato il 7 aprile 1861, fu ucciso Generoso Previtero, primo eletto del Comune, mentre la rivolta si estendeva rapidamente ai limitrofi comuni di Racale, Melissano e Alliste dove  furono  devastati  i locali del municipio e fatto un corteo con l’immagine di Ferdinando  II.

Ma la causa scatenante della rivolta è da ricercarsi nella legge per la coscrizione militare, obbligo fino ad allora sconosciuto nel Mezzogiorno d’Italia, che privava le famiglie dell’apporto indispensabile dei figli più giovani i quali non intendevano marciare sotto le bandiere di uno Stato lontano e sconosciuto. A Vernole l’affissione della lista dei reclutabili provocò un tumulto popolare con grida ostili e laceramento della medesima, mentre a Gallipoli un centinaio di popolani e di pescatori, si spinse fino al palazzo municipale fra le grida: Non vogliamo la leva! Abbasso il Municipio, Viva la libertà! La guardia nazionale, prima di essere sopraffatta da una violenta sassaiola, aprì il fuoco; quando la folla si dileguò rimasero sul terreno due morti e numerosi feriti.

Furono quindi i renitenti alla leva, uniti ai soldati sbandati del disciolto esercito borbonico a costituire le prime bande brigantesche anche nel Salento meridionale. Gli ex soldati borbonici, infatti, rientrati a casa col rancore di una perduta carriera, non avevano altra prospettiva che il duro lavoro dei campi e si comprendere benissimo come la possibilità di darsi alla macchia  e spadroneggiare col pretesto della difesa del trono e dell’altare, costituisse per alcuni di loro una valida alternativa.  Fra questi,  Rosario Parata, alias lo Sturno che dopo il 1860, soldato sbandato del disciolto esercito borbonico, ritornò a Parabita. Lo Sturno era un brigante “sui generis” perché non si macchiò mai di delitti di sangue. Si faceva annunciare da uno squillo di tromba e al grido di Viva Francesco II,  irrompeva nei vari centri abitati sventolando la bandiera bianca gigliata dei Borboni e disperdendo i militi della guardia nazionale. Così invase  Supersano, Nociglia, Scorrano e Gagliano, dove prese un caffè e poi attraversò la pubblica piazza con i fucili spianati. Nel 1864, venne catturato. Processato, fu condannato a sette anni di reclusione e a due di lavori forzati. Un anno dopo, a soli 34 anni, fu trovato morto in carcere.

L’esempio dello Sturno fu seguito da alcuni renitenti alla leva di Carpignano, Borgagne e Martano i quali costituirono una banda brigantesca capitanata da Donato Rizzo, alias Sergente e il 7 agosto 1861 penetrarono in Carpignano impadronendosi dei fucili della Guardia Nazionale e ingaggiando un conflitto a fuoco con i carabinieri nel bosco del Belvedere.

Molto più pericolosa si rilevò la banda capeggiata  da Quintino Venneri, detto Macchiorru, di Alliste. Costui,  partito  militare  nel  1859,   ritornò in   Alliste  nel 1860 come sbandato del disciolto esercito borbonico e il 7 aprile 1861 prese  parte al tumulto popolare scoppiato a Taviano. Fu arrestato ed uscito dal carcere l’anno seguente, si diede alla macchia.  Attorno a lui si raccolsero una ventina di persone, fra le quali il melissanese Barsanofrio Cantoro anch’egli sbandato del disciolto esercito borbonico, il gallipolino Scardaffa, Ippazio Gianfreda, alias Pecoraro, di Casarano, Vincenzo Barbaro, alias Pipirusso, di Alliste, Giuseppe Piccinno, di Supersano, detto Mangiafarina. Questa banda, il 25 giugno 1863, penetrò in Melissano per derubare e poi uccidere don  Marino Manco, uno dei pochi sacerdoti della diocesi di Nardò favorevole all’unificazione nazionale. Ma  le azioni delinquenziali del Venneri non finirono qui perché, pochi giorni dopo l’assassinio del Manco, assaltò il carcere di Ugento per liberare suo fratello, ivi recluso; ferì un carabiniere, si rese responsabile di numerosi furti ed estorsioni. Arrestato, riuscì ad evadere dal carcere di Lecce e infine, il 24 luglio 1866, fu ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri,  dietro la cappella di Santa Celimanna, nei pressi di Supersano.  Il suo corpo fu esposto, come monito,  sulla piazza di Ruffano.

Nella zona di Alliste operava anche la banda di Salvatore Coi che nel 1865 arruolò soldati sbandati nei Comuni di Racale, Alliste e Felline, con la promessa di quattro carlini al giorno e di saccheggio delle abitazioni dei liberali. I briganti costrinsero quindi il sindaco di Alliste a consegnare 12 fucili e dopo aver requisito altre armi si diressero verso Melissano, ma si scontrarono con i carabinieri e si diedero alla fuga. La banda fu poi catturata dalle forze dell’ordine nei pressi della masseria “Campolusio”, in agro di Ugento.

Con la morte dello Sturno e di Macchiorru  e con la cattura del Coi,  il brigantaggio nella nostra provincia poteva dirsi esaurito; rimanevano i problemi di una terra cui occorreranno decenni per uscire dalle nebbie del sottosviluppo.

Solo un’autentica rivoluzione popolare avrebbe potuto risolvere il problema agrario, coagulando intorno al nuovo Stato il consenso delle masse contadine.  Ma nel Mezzogiorno, l’Italia nasceva per opera di una minoranza che, assediata dal malcontento, consegnò le province napoletane alla monarchia sabauda. I meridionali si rassegnavano ancora una volta alla fame e alla miseria, mentre la borghesia celebrava il trionfo della sua rivoluzione.

Lettera minatoria al sindaco di Laterza per la mancata divisione dei demani comunali.

Bari e Lecce. Psicologia di una diversità

 

Lecce, particolare della facciata di Santa Croce (ripr. vietata)

di Luigi Corvaglia

Mario Sansone, che, da critico letterario, era uso a guardare in profondità e che, da oriundo proveniente della non lontana piana dauna, poteva vedere Bari con occhi non nativi, ebbe a dire che questa è città “senza ironia e senza malinconia”. Non una critica. Una efficace, fredda, tagliente rasoiata descrittiva. Da oriundo salentino, non riuscirei a trovare maggiore sovrapponibilità fra questa fendente condensazione semantica e quanto, fino alla lettura di questa definizione, percepivo senza sapere esprimere. Un’epifania. Ecco. Questo volevo dire tutte le volte che farneticavo, sotto sguardi sempre più perplessi, di una seriosità ilare che copula con una tristezza rabbiosa. Lo so, non si capisce. Appunto. Sguardo profondo e occhi non nativi servono a vedere, non a descrivere. Sansone mi è venuto in soccorso. Fatto è che questa definizione, nel suo essere il preciso negativo della fotografia della città che nelle Puglie è il contraltare storico del capoluogo regionale, cioè Lecce, mi permette di riflettere sulle differenze profonde tra i territori di cui le due città sono riferimenti storici e amministrativi.

Lecce la sapevo descrivere molto bene anche prima di conoscere il giudizio di Sansone su Bari. La città salentina è luogo di straripante ironia e sottile malinconia. E’ riflettendo su questo che diviene immediatamente comprensibile, al di là di lingue e campanili, al di là di ripicche storiche e calcistiche, di orgogli snobistici e fierezze mercantili, la lontananza incolmabile fra Puglia e Salento. Non di distanza culturale trattasi, bensì di contrapposizione psicologica.

Questo un “forestiero” non lo capirà mai. Non capirà che la

Un antichissimo piatto salentino: cìciri e ttria

di Armando Polito

A beneficio dei lettori più giovani che non hanno probabilmente mai sentito questo nesso o avuto la voglia di conoscerne il significato (quanto alla degustazione, invece, sono certo che McDonald’s e compagni ne hanno decretato, e da tempo, la fine…) dirò che si tratta di un piatto tipico quanto semplice della nostra cucina, a base di ceci e sottili strisce di pasta fritta, un piatto contadino, come oggi si suol dire, con accezione finalmente positiva, velata, comunque dall’artificiosità che accompagna lo snobismo e che è insita in tutto ciò che è, sempre come oggi si dice, trendy.

tria

Il geografo arabo Idrisi nell’opera Kitab-Rugiar (Libro di Ruggiero) del 1154 parla della itryia (così suona la trascrizione dall’arabo) una specie di capellino molto sottile. Ancora oggi in Sicilia è comune chiamare i capellini tria. Riporto, tradotto, il passo in questione: A ponente di Termini Imerese vi è l’abitato di Trabia, sito incantevole, ricco di acque perenni e mulini, con una bella pianura e vasti poderi nei quali si fabbricano vermicelli (itryia) in quantità tale da approvvigionare, oltre ai paesi della Calabria, quelli dei territori musulmani e cristiani, dove se ne spediscono consistenti carichi.

Si presume che Idrisi nell’adoperare il vocabolo itryia si riferisse ad un tipo di pasta conosciuto nel proprio paese di origine.  siciliani probabilmente nell’inventare gli spaghetti si ispirarono all’itryia, dando vita, comunque, ad un prodotto nuovo. Da questi due tipi di paste si hanno diversi piatti tipici. Uno di questi, con sicure discendenze di tradizione araba o comunque orientale, è la pasta fritta croccante di capellini, appunto tria, lessati e cosparsi di miele e cannella. Che gli arabi conoscessero i capellini è fuori di dubbio, per i loro contatti con l’oriente, tenendo presente che i cinesi da millenni cucinavano i famosi capellini di soia. Il nostro ciciri e tria non sarebbe altro, dunque, a prima vista, che una variante del piatto dolce siciliano prima descritto.

Un’ultima riflessione: comunemente si crede che a far conoscere i vermicelli sia stato Marco Polo (nato un secolo dopo l’opera di Idrisi) nel suo Milione: in realtà, nel Meridione d’Italia già si fabbricavano da tempo…

Non è finita: nel primo libro delle Satire di Quinto Orazio Flacco (poeta latino del 1° secolo a. C.) la satira 6 ai versi 114/115 contiene, a mio avviso,  un probabile riferimento al tipico piatto neritino dei cìciri e ttria: …inde domum me/ad porri et cìceris rèfero laganìque catìnum: …poi me ne ritorno a casa dove mi attende un piatto di porri, ceci e pasta sfoglia.

Ora mi soffermerò sul  precedente laganìque: esso è composto da -que enclitico (che significa e) e da làgani, genitivo di làganum. Dal nominativo plurale làgana è nata la voce dialettale làiana (vale la pena ricordare, a vanto del dialetto, che la voce latina non è sopravvissuta in italiano; quella che sembra foneticamente più vicina, lasagna, deriva da un latino *lasània, dal classico làsanum=treppiedi, in Petronio vaso da notte , a sua volta dal greco làsanon con lo stesso significato).

La làiana è la sfoglia di pasta da cui, volendo, si ricavano le lasagne. L’originario latino làganum significa frittella, in altri autori pizza; tuttavia, il vocabolo è usato da Apicio (gastronomo latino vissuto tra il I° secolo a. C. e il I° d. C.) anche come sinonimo di tractum=pasta sfoglia (da tràhere=tirare). Làganum, poi, è dal greco  làganon=dolce di farina, miele e olio; tuttavia l’espressione elkiùein làganon (in cui elkiùein, come sempre, significa tirare, stendere) ci consente di capire che in sostanza il   làganon era la sfoglia da cui si partiva per realizzare il dolce che aveva lo stesso nome: storia parallela a quella del làganum latino.

Debbo infine dire che la voce è usata in frasi di rimprovero rivolte ai bambini come sostituto ammiccantemente eufemistico di lagna.

Insomma, se Orazio avesse aggiunto a quel làgani anche il participio passato fricti (ma ho già detto che la voce làganum può significare da sola frittella), avremmo avuto la certezza assoluta di trovarci di fronte alla citazione del nostro cìciri e ttria, dal quale, e chiudo, per evidentissimo slittamento metaforico dovuto a somiglianza (quella che solo la gente semplice e i poeti sono, da sempre, in grado di cogliere), è nato il nome dialettale di una specie di narciso, il cicirittrìa.

La vera storia di papa Galeazzo di Lucugnano

di Ezio Sanapo

Difficile dire quanto i periodi felici della storia, abbiano riguardato le popolazioni del sud e in particolare di Terra d’Otranto, zona questa, così fuori mano. Ma il periodo che sta tra il ‘500 ed il ‘700, è stato la notte più fonda della storia, la vera “notte della taranta” per gli abitanti di quella zona.

Al morso della taranta e della fame si aggiungeva quello della paura e della disperazione a causa del clima inquisitorio messo in atto dal regime spagnolo, coadiuvato dal clero, per scongiurare il dissenso che nasceva dentro e fuori la Chiesa. Vengono in mente immagini di paesaggi torbidi, senza aurore né tramonti come nei versi di un’antica filastrocca salentina:

 …Cquai nu ssé canta gallu

e nnù sse vite luna.

Nuddhru fiju te mamma

camina mai a quist’ura…

Ma il Sud, che aveva risorse proprie, sopravvisse a tutto ciò, esorcizzando il proprio disagio con la superstizione e la magia e in situazioni estreme anche con l’ironia: al simbolo pagano della taranta se ne aggiunse un altro altrettanto contrapposto alla chiesa da far pensare ad una presa di distanza dalla fede: nacque in un così ostile contesto e come rimedio a tutti i mali, il personaggio di “Papa Galeazzo” del paese di Lucugnano e paludi limitrofe, a sud del Regno di Napoli, zona questa, soprannominata le ” Indie” d’Italia”.

“Papa Galeazzo”, che non ha nessuna certificazione anagrafica comprovante la sua reale esistenza, è la trasposizione in chiave ironica, di un anonimo cittadino di Lucugnano, nella persona immaginaria, di un Papa malizioso e bonario, metafora di quello che nella realtà era un inquisitore temuto e potente.

In certe situazioni può succedere dunque che ciò che è troppo temuto e potente, può essere, anche da una singola persona, esorcizzato o ridimensionato a condizione che questa abbia, una forte consapevolezza della propria identità e che tenga in dovuto conto la caducità e la transitorietà di ogni vicenda umana. La commiserazione, la tolleranza o l’ironia sono risorse conseguenti che tale persona acquisisce a completamento di tutto ciò, senza lasciare spazio a nessuna forma di violenza.

L’idea del personaggio di Lucugnano, era nata, probabilmente, a danno di un omonimo parroco,a quel tempo, realmente esistito in quel paese. Si presume che esso non fosse ben visto dalla povera gente di quel luogo, tanto da essere beffeggiato con l’appellativo di “Papa”, un Papa che però si atteggia, ragiona e vive come uno di loro. Sta di fatto che molti preti, a quel tempo, oltre alle loro funzioni liturgiche, aiutavano il Potere Temporale svolgendo compiti “polizieschi” che culminavano con la persecuzione di persone a volte anche innocue e innocenti. Anche per queste vicende la gente di quel luogo avvertiva ormai la necessità di far valere le proprie ragioni, e non potendo farlo liberamente, ha dato delega a “Papa Galeazzo”, maschera tragicomica di un personaggio creato a imitazione di un prete non al servizio di Dio ma dei potenti, nel quale si incarna e diventa tutt’una l’anima di un “cafone” o di un “picaro”, che forte della sua carica ironica e trasgressiva, mette in atto, una rappresentazione a scena aperta, delle reali condizioni di vita della propria comunità. Nella storia anonima e mai scritta di quella gente, questo tipo di “ribellione” in apparenza puerile ed insignificante non era nuovo se consideriamo che, per esempio il turpiloquio cioè l’uso di espressioni oscene ed esplicitamente sessuali nel linguaggio dialettale Salentino era motivato da una repressione sessuale, premeditata e sistematicamente messa in atto, per tanti secoli dalle stesse autorità, con tutte le devianze, le sottomissioni e le frustrazioni, che da questa ne sono derivate.

ancora un ecclesiastico dipinto da Botero

Anche l’abitudine di esprimersi con imprecazioni e bestemmie rivolte a Dio, Madonne e Santi è sempre stata una forma di disubbidienza che si è diffusa proprio in quegli anni e le stesse autorità se ne preoccuparono tanto da ricorrere a torture come la mordacchia e a leggi speciali.

Di ribellioni “liberatorie” come queste, molti anni più tardi, ne ha fatto le spese l’arma dei carabinieri. Questi, quando giunsero per la prima volta nel Salento, non furono visti di buon occhio dalla popolazione. I salentini che storicamente lavorano la terracotta, li hanno copiati e prodotti in serie come pupazzi in miniatura con tanto di pennacchio, baffoni, e un curioso fischietto attaccato al fondoschiena: Dritti sull’attenti a guardia di un popolo salentino notoriamente scettico e prevenuto ai cambiamenti. E’la riprova che tutto ciò che viene imposto dall’alto crea sempre disagio, inquietudine e quindi rigetto.

Oggi che viviamo tempi di relativa libertà di pensiero e di parola, possiamo comprendere meglio il disagio di tante generazioni, all’ombra delle quali, anonimi autori controcorrente, in quel clima di caccia alle streghe, hanno avuto il coraggio, di “inventarsi” ad ogni male, rimedi così irriverenti e irriguardosi nei confronti dei rigidi ed opprimenti costumi di allora, sapendo di rischiare l’accusa di eresia e finire sul rogo, come è capitato ai filosofi Giordano Bruno di Nola e Cesare Vanini di Taurisano, nello stesso periodo e sotto lo stesso regime.

Papa Galeazzo dunque, più che l’interprete di una volgare comicità demenziale, come oggi ci fanno credere, si distingue invece come un autorevole personaggio salentino del sedicesimo secolo nato con il diffondersi della letteratura spagnola cosiddetta picaresca, che per la prima volta raccontava la realtà nuda e cruda della gente comune e che poi si è estesa, per merito di autori, a volte non a caso anonimi, in tutta Europa con i personaggi Lazzaro da Tormes, Justine, Moll Flanders, Tom Jones, Gil Blas e tanti altri meno noti.

Nella premessa a “La letteratura picaresca: cultura e società nella Spagna del l600”, di José A. Maravall, si racconta di una società, quella spagnola, divisa in tre categorie fondamentali: Una, quella privilegiata del clero e dei nobili aristocratici, l’altra costituita dal ceto medio, che condivideva quei privilegi ma criticamente e proponendo riforme. La terza categoria infine è quella dei dissenzienti, ossia il ceto più povero in tutta la sua moltitudine: Un sottogruppo di questi, ancora più emarginato era quello dei “picari” ai quali indubbiamente si ispiravano, per dissenso o per scrupolo, intellettuali del ceto medio o elementi illuminati del popolo stesso, per dare vita a personaggi immaginari e renderli messaggeri di una denuncia che diversamente sarebbe stato impossibile fare.

Nacquero perciò da un contesto sociale così ingiustamente delimitato, i comportamenti del “picaro”, persona libera e senza regole, individualista e senza padroni, con i suoi comportamenti (non avendo più niente da perdere), al limite della legalità, abituato com’era, a vivere ai margini di una società, quella spagnola, che comprendeva nella sua più estrema periferia anche il paese di Lucugnano in provincia di Lecce.

La figura di Papa Galeazzo storicamente è collocata sotto il regime spagnolo di Filippo II, quando ormai finiti i fasti del Rinascimento, tutta l’Europa, attraversava un periodo di difficoltà economiche che ogni Stato cercava di tamponare proponendosi unito a investire in attività mercantili. In Italia questo non fu possibile per l’influenza della Chiesa cattolica che impediva ogni tentativo di unificazione del Paese. Divisa perciò in tanti piccoli stati contrapposti tra loro, l’Italia non fu in grado di far fronte alla concorrenza degli altri paesi europei e questo portò ad un suo ulteriore impoverimento.

Le precarie condizioni di vita in una realtà così difficile e incerta, furono giustificate con la teoria tutta clericale dell’esistenza terrena come periodo transitorio e di espiazione. Una realtà che, per essere accettata così com’era, aveva tuttavia bisogno di essere mitigata con un tocco di virtualità: Per ingannare l’occhio si sovrappose allora ad essa, una visione architettonica ricca, imponente e solenne a fare da facciata e come per miracolo, Chiese e palazzi signorili mutarono forme e si arricchirono di fregi ed elementi decorativi esagerati, allo scopo di ostentare maggiore prestigio e pretendere più rispetto: nacque così il Barocco che trovò il suo epicentro proprio in Spagna e Terra d’Otranto.

In questo rimarcato conflitto tra il reale e l’irreale e tra il vero e il falso, può succedere allora che nel più piccolo e sperduto angolo del Regno,un picaro o un qualsiasi cafone, delle borgate più povere e fatiscenti di Lucugnano, può diventare “Papa”. Un Papa che per descrivere le reali condizioni di vita della gente comune deve necessariamente farsi interprete della loro storia, con comportamenti e racconti di vita ironici e maliziosi, come sfogo alle loro paure, alle loro inibizioni e alla loro impotenza. Storie e racconti di vita realmente vissuta e non più censurata. Si realizzava così il sogno del “picaro”, che è quello di riscattarsi sul proprio destino, diventare qualcuno, conquistare il posto più alto della società ed essere considerato dalla storia, così come non era mai stato. Un sogno che non poteva durare e il risveglio fu tragico e amaro. Dopo il concilio di Trento, in pieno periodo di restaurazione, tutto rientrò sotto il controllo dell’ordine costituito e seppellito poi dal tempo e dall’oblio: La Taranta, simbolo pagano, passò sotto la tutela di S.Paolo protettore, furono travisate le sue ragioni e impedita la sua autonomia. Di “Papa” Galeazzo, finito lo spettacolo e calato il sipario non se ne seppe più nulla: Il suo virtuale personaggio svanì con tutta la sua carica ironica e trasgressiva. Trecento anni dopo, con l’Italia unità e liberata, Papa Galeazzo ricomparve sulla scena come lobotomizzato, senza più nessuna motivazione storica e senza parrocchia. A lui sono stati attribuiti, “cunti e culacchi” cioè volgari racconti da osteria e come un patetico e ridicolo buffone è stato consegnato ai giorni nostri.

Papa Galeazzo è invece quell’anonimo eroe popolare che crede ancora in sé stesso, perciò capace ancora di sognare, e che vive da sempre in noi sospeso tra la fantasia e la realtà. Forse, sotto le sue mentite spoglie di figura barocca, continua a battere un cuore tenero di umile contadino che sa di essere destinato a soccombere e che ride soltanto, per nascondere dentro di se, un pianto che dura dalla notte dei tempi.

 

Lecce. Curiosità sull’antica toponomastica

 

ph Giovanna Falco

di Giovanna Falco

Nel 1869 il giudice Luigi Giuseppe De Simone, noto erudito di Terra d’Otranto, propose al Sindaco e ai consiglieri comunali di Lecce di rinnovare la toponomastica della città[1]. All’epoca vie, corti e piazze erano indicate per sommi capi, con nomignoli derivati da chiese, conventi, famiglie proprietarie di palazzi, ecc. L’opportunità gli fu data nel 1871 in occasione del Censimento Generale del Regno, quando gli fu affidato il compito di compilare le nuove tabelle denominative della toponomastica di Lecce.

De Simone decise di commemorare la storia locale, mise mano agli appunti raccolti negli anni e compilò il nuovo elenco formato da: nomi di personaggi storici (da Idomeneo a Tancredi, da Federico d’Aragona a Giuseppe Libertini, ecc.), antiche famiglie nobiliari (dai Guarini ai Carnesecchi), letterati (da Antonio Galateo a Isabella Castriota), caratteristiche del territorio (dall’Idume alle Giravolte). Furono poche le vie che conservarono il ricordo di antiche attività produttive (via dei Figuli, vico Sferracavalli, ecc.), così come quelle dedicate a edifici di culto (corte San Pietro Garzya, piazzetta San Giovanni dei Fiorentini, ecc.). Per accreditare le sue scelte De Simone redasse Lecce e i suoi monumenti, pubblicato una prima volta nel 1874 e poi riedito con le Postille di Nicola Vacca, dove sono elencate tutte le denominazioni stradali con note storiche inerenti alle singole voci[2].

All’epoca la nuova intitolazione delle vie non piacque ai nostalgici, si ritenne che fosse stata spazzata via la tradizione popolare in nome di un asettico nozionismo[3]. Per quanto meritevole, il lavoro di De Simone (sottoposto nel corso del tempo ad alcune varianti) ha cancellato varie testimonianze della storia leccese: l’ubicazione di cappelle demolite, di edifici pubblici e opifici, i cui siti oggi sono difficilmente individuabili.

Questa lacuna è stata colmata in parte dalla Guida pratica della Città di Lecce di Italo Madaro[4], uno stradario pubblicato nel 1904, dove, affianco alle nuove intitolazioni corredate da note storiche, sono riportate le denominazioni antecedenti al 1871.

Sfogliando l’opuscolo è evidente come, prima dell’elaborazione delle nuove tabelle denominative, i tracciati viari erano indicati sommariamente: alcuni erano menzionati con nomi diversi (es. l’attuale via Antonio Galateo era conosciuta come via dietro l’Ospedale, o Molini di Rusce, o Sant’Antonio di dentro); spesso una via e uno slargo ricadenti nella stessa area urbana avevano la medesima denominazione (es. largo dietro il Monastero delle Scalze – attuale piazzetta dell’Arte della Stampa -, vico dietro il Monastero delle Scalze – attuale via Francescantonio Piccinni – e largo delle Scalze – attuale piazzetta Mariotto Corso). Non mancano le curiosità come il vico dei cani nella via delle Case nuove (l’attuale vico dei Panevino).

ph Giovanna Falco

Sono importanti gli antichi appellativi derivati dai luoghi di culto (es. vico San Pantaleo – attuale via Pietro Belli -, vico San Procopio – attuale via Isabella Castriota, ecc.), che permettono, così come si accennava prima, di rintracciare il sito di queste cappelle demolite da tempo.

Riguardo alle attività produttive pubbliche e private, si viene a sapere che esisteva il Magazzino dei Sali (da cui prendeva il nome l’attuale via degli Antoglietta) e quello della Neve (la limitrofa piazzetta dei Longobardi), via Acaya era detta dei barbieri, il forno dei Bernardini assegnava il nome all’attuale vico dei Guidano. Si possono individuare anche le ubicazioni delle costruzioni di pubblica utilità: la Chiavica di San Martino assegnava nome a un vico (attuale vico dei Fieschi) e quella del Rosario a uno slargo (attuale piazzetta Giovanni d’Aymo).

Alcune denominazioni sono state tradotte dal dialetto all’italiano, come il vico delle reòte trasformato in vico delle Giravolte. Ci s’imbatte anche nella corte lunga, l’attuale vico dei Figuli: intitolazione molto interessante perché, oltre a indicare in quella zona della città quest’attività produttiva (era limitrofa alla via dei Piattàri, l’attuale via Quinto Ennio), informa della trasformazione urbanistica di questo elemento viario. Il vico Cesario dell’acquavite (attuale vico degli Alberici), può essere considerato un antenato dell’odierna strada di Pippi Nocco: via del Palazzo dei Conti di Lecce nota, appunto, per questa rivendita di alcolici.

Si nota, inoltre, come la maggior parte di vichi, corti e strade erano identificati con il nome delle famiglie che vi risiedevano, alcuni sono stati mantenuti da Luigi Giuseppe De Simone (es. le corti dei Guarini e dei Lubelli, vico dei Petti, ecc.), allo stesso modo, come si è già accennato, lo studioso ha conservato quello di alcuni luoghi di culto (vico dei Cretì – vico Chetrì -, piazzetta Chiesa greca – largo Chiesa greca (con il nome di questa chiesa era conosciuto anche il limitrofo vico degli Albanesi), vico storto Carità vecchia – vico Carità vecchia -, ecc).

Un’ultima considerazione, ma non meno importante: nella Guida pratica di Italo Madaro sono citati anche gli assi viari scomparsi a causa d’interventi urbanistici, come ad esempio il vico Luigi Ceppola, l’antico vico dietro il Sedile cancellato in età fascista per riportare alla luce l’Anfiteatro e costruire il palazzo dell’INA e, ancora, la corte Contessa Albiria (già Corte Romano, nel vico Grate di S.a Chiara), situata nell’area dov’è stato scoperto il Teatro romano.

Un attento studio della Guida pratica di Italo Madaro, dunque, permette di ricostruire l’antico assetto urbanistico di Lecce e del vissuto cittadino.


[1] Cfr. L.G. DE SIMONE, All.mo Sindaco e consiglieri municipali della città di Lecce, in «Cittadino Leccese», VIII (1869), n. 24.

[2] Cfr. L. G. DE SIMONE, Lecce e i suoi monumenti. La città, Lecce 1874, nuova edizione postillata a cura di N. Vacca, Lecce 1964.

[3] L’anno successivo alla pubblicazione dell’opera di De Simone, fu dato alle stampe un opuscoletto a firma dell’avvocato Angelo Miccoli che ne contestava i contenuti (Cfr. A. MICCOLI, Cenni storici sugli antichi popoli salentini, loro città e monumenti, ossia Lecce rivendicata nella sua antichità e civiltà, Lecce 1875).

[4] Cfr. I. MADARO, Guida pratica della Città di Lecce, Lecce 1904.

Manduria/ Stucchi barocchi nella chiesa di Santa Maria di Costantinopoli

Altare in stucco (Sec.XVIII)(ph Agostino Quaranta. Tutti i diritti riservati)

di Nicola Morrone

Tra le chiese barocche di Manduria merita senz’altro un approfondimento quella dedicata a Santa Maria di Costantinopoli, fatta erigere nel 1718 dai padri Agostiniani (insieme all’annesso convento) e collocata nei pressi dell’attuale via XX Settembre. All’esterno la chiesa si presenta con un alto prospetto a due piani scanditi da paraste, e termina con un fastigio mistilineo. Degna di nota anche la bella cupola con mattonelle policrome, decorata secondo un motivo tipico di varie chiese dell’area salentina e, più in generale, meridionale.

(ph Agostino Quaranta. Tutti i diritti riservati)

L’interno ha pianta  a croce latina , con ampio transetto e spazioso presbiterio quadrato, ed è notevole soprattutto per la decorazione barocca a stucco, pressochè integra e resa più fruibile dai recenti restauri. Spiccano anche, tra le altre cose, il meraviglioso altare maggiore commesso di marmi policromi risalente al 1725, opera di valenti scultori napoletani, e l’organo ligneo a canne, anch’esso settecentesco.

Numerose sono le tele, tra cui si segnala un trittico dedicato a Sant’Agostino e due dipinti raffiguranti la Madonna della Cintura, che rimandano all’esistenza di una confraternita sotto lo stesso titolo, attiva certamente nel secolo XVII  e poi scomparsa. Vogliano soffermarci in questa sede proprio sulla decorazione barocca a stucco, che è senza dubbio uno dei punti che più qualificano la chiesa a livello artistico. Fatta eccezione  infatti per il marmoreo altare maggiore, tutti i restanti altari, che si distribuiscono lungo le pareti laterali ed il transetto della chiesa, sono stati realizzati tra il 1752 e il 1754 dallo stuccatore tarantino Francesco Saverio Amodei, su commissione dei

Olive Celline. Perchè questo nome?

Lu cilìnu

di Armando Polito

È una delle varietà di olivo più diffusa, e da tempi certamente non recenti, nel territorio di Nardò. La voce nel vocabolario del Rohlfs è registrata solo nel volume (terzo) che funge da supplemento all’opera, il che potrebbe far supporre che l’illustre studioso a suo tempo si concesse una pausa di riflessione perché aveva dei dubbi sulla sua etimologia o perché la voce stessa gli era in un primo momento sfuggita. Tuttavia, se si tratta del primo caso, va detto che ogni dubbio poi è svanito se leggo “ha preso il nome dal paese di Cellino”. A questo punto, direbbe l’amico Pier Paolo Tarsi, scatta la teoria di Occam. Ho già avuto occasione di contestarla e la voce di oggi mi fornisce un’ulteriore occasione per dimostrarne, quanto meno, la discutibilità. Insomma, siamo veramente sicuri che Cellino San Marco sia la patria del cilìnu? A questo punto mi si obietterà che è inutile negare l’evidenza, tanto più che proprio un albero di olivo compare nello stemma della città. È vero, ma qual è la testimonianza più antica di questo stemma? In attesa che qualche lettore cellinese cultore di queste cose si faccia vivo, io parto, al solito, da molto lontano.

Marco Porcio Catone (III-II secolo a. C.), De re rustica, VI: In agro crasso et caldo oleam conditivam, radium maiorem, Salentinam, orchitem, poseam, Sergianam, colminianam, albicerem. Quam earum in his locis optimam dicent esse, eam maxime serito. Hoc genus oleae in XXV aut in XXX pedes conserito. Ager oleto conserundo,qui in ventum favonium spectabit et soli ostentus erit, alius bonus nullus erit. Qui ager frigidior et macrior erit, ibi oleam Licinianam seri oportet. Sin in loco crasso aut caldo severis, hostus nequam erit et ferundo arbor peribit et muscus ruber molestus erit. (In terreno grasso e caldo [pianta] l’oliva da conservare, l’oliva lunga, la salentina, l’orchite, la sergiana, la colminiana, l’albicera. Pianterai soprattutto quella che dicono essere la più adatta al luogo. Pianta questo tipo di olivo a 25 o trenta piedi di distanza l’uno dall’altro. Sarà adatto all’impianto dell’oliveto il campo esposto al Favonio e al sole, nessun altro sarà adatto. laddove il terreno è piuttosto freddo e magro, lì conviene che sia piantato l’olivo liciniano. Se invece lo pianterai in un luogo grasso o caldo il raccolto sarà di cattiva qualità e il muschio rosso lo danneggerà).

Plinio, Naturalis historia, XV, 3: Principatum in hoc quoque bono obtinuit Italia toto orbe, maxime agro Venafrano, eiusque parte quae Licinianum fundit oleum: unde et Liciniae gloria praecipua olivae. Unguenta haec palmam dedere, accomodato ipsis odore. Dedit et palatum, delicatore sententia. De cetero baccas Liciniae nulla avis appetit. (L’italia in questo [nella produzione di olio] ha il primato in tutto il mondo, soprattutto nell’agro di Venafro in quella parte di esso dove si produce l’olio liciniano: per questo enorme è la fama dell’oliva liciniana. Hanno dato questo pregio gli oli col loro odore gradevolissimo. Lo ha dato anche il gusto col suo sapore alquanto delizioso. Inoltre nessun uccello è ghiotto delle bacche dell’oliva licinia).

Non a caso qualche decennio prima Il geografo greco Strabone (circa 64 a. C.-19 d. C.), Geografia, V, 3 aveva notato: …Venafro, dove l’olivo è bellissimo.

E c’è da meravigliarsi se l’olivo di Venafro trova la sua celebrazione anche presso i poeti?

Orazio (I secolo a. C.), Carmina, II, 6, 13-16, manifestando all’amico Settimio il desiderio di trascorrere gli ultimi anni a Tivoli o a Taranto: Ille terrarum mihi praeter omnis/angulus ridet, ubi non Hymetto/ mella decedunt viridique certat/baca Venafro (Quegli angoli della terra mi sorridono più di ogni altro, dove il miele non ha nulla da invidiare a quello dell’Imetto e la bacca gareggia col verde Venafro); Satire, II, 4, 68-69, descrivendo la composizione di una salsa raffinata:  insuper addes/pressa Venafranae quod baca remisit olivae…(aggiungici olio spremuto  dalla bacca di oliva di Venafro).

Columella (I secolo d. C.), De arboribus, 17: Optima est oleo Liciniana (La liciniana è ottima per la produzione di olio).

Giovenale (I-II secolo d. C.) , Satire, V, 80-82: ipse Venafrano piscem perfundit, at hic qui/pallidus adfertur misero tibi caulis olebit/lanternam…(…lui [Virrone, il padrone di casa] annega il pesce nell’olio di Venafro, ma questo pallido cavolo che a te viene servito puzza di olio di lanterna…).

Il lettore si starà da tempo chiedendo: “Ma questo, dove vuole arrivare?”.

Gli rispondo immediatamente con una gragnuola di domande: E se cilìnu fosse, per metatesi e abbreviazione, deformazione di liciniànu(m), cioè una varietà antica e non relativamente recente (domanda nella domanda: qual è la prima attestazione, necessariamente scritta, di cellìno?). È un caso che l’olivo liciniano (ancora oggi coltivato) e il suo frutto sono straordinariamente simili ai nostri? E le denominazioni cellina di Nardò e cellina barese1 sono veramente figlie di una varietà importata da Cellino? Come mai, in una tendenza alla geminazione delle consonanti, Cellino in dialetto fa Cilìnu?

E non è finita! In una pergamena barese del 10952 si legge, con inequivocabile riferimento ad una varietà di olivo, hocellina e in un’altra del 11593 tucellinus. Può darsi che quest’ultimo sia lettura (o scrittura?) errata del primo che potrebbe essere una forma aggettivale dal latino tardo aucèllus=uccello, con riferimento alla predilezione che l’animale mostrerebbe per il frutto, secondo un tipico condizionamento semantico delle forme aggettivali. Il che contrasterebbe con il dettaglio finale del passo di Plinio.

Se si trattasse di uva mi attenderei almeno una risposta da Albano; in questo caso me ne dovrei attendere almeno mezza da Massimo Cassano, ma credo che passerò invano molte notti insonni…

Per chiudere:  la foto di testa ed il dettaglio si riferiscono ad uno dei miei alberi di olivo che non possono certo competere con i “patriarchi” riprodotti in questi ultimi giorni sul sito per i motivi che, ormai, tutti conoscono; ma,  almeno finché vivrò io, vivranno anche loro, tutti…

_____

1  Estrapolando dai nomi correnti delle cultivar nazionali che contengono un riferimento sicuro al territorio di origine ottengo per le due varietà un tempo non lontano più diffuse nel territorio neretino (cilìna e ugghialòra) in esame questi risultati:

CELLINA   Cellina di Nardò, Cellina barese.

OGLIAROLA Ogliarola garganica, Ogliarola del Vulture, Ogliarola di Lecce, Ogliarola del Bradano, Ogliarola seggianese;.e per altre: Rapollese di Lavello, Oliva Cerignola, Bella di Cerignola, Cima di Bitonto, Cima di Mola, Cima di Melfi, Termite di Bitetto, Tonda di Strongoli, Dolce di Rossano, Grossa di Cassano, Grossa di Gerace, Pignola di Arnasco, Aurina di Venafro, Cerasa di Montenero, Olivastra di Montenero, Olivastra seggianese, Saligna di Larino, Nera di Gonnos, Nera di Oliena, Nocellara del Belice, Nocellara etnea, Nocellara messinese, Tonda iblea, Ascolana tenera, Nostrale di Rigali.

In tutti i nomi surriportati una parte si riferisce ad un dettaglio (colore, forma, etc.) del frutto, l’altra al luogo di origine o diffusione. Uniche eccezioni: Rapollese di Lavello e  la nostra Cellina di Nardò. È sufficiente accomunare le due reali o presunte eccezioni e concludere che le rispettive varietà vennero importate a Lavello da Rapolla e a Nardò da Cellino, considerando irrilevante la distanza minore nel primo caso (15 km.), maggiore (55 km.) nel secondo?

2 Codice diplomatico pugliese, V, 21, 18.

3 Codice diplomatico pugliese, V, 117, 23.

La pirateria nel Salento

pirata barbanera
IL PIRATA BARBANERA. Edward Teach, conosciuto come Barbanera fu un pirata britannico che agì nel Mar dei Caraibi tra il 1716 ed il 1718. Egli nacque nel 1680, forse a Bristol o forse a Port Royal. Fu un uomo feroce e tutt’oggi rappresenta lo stereotipo del pirata cattivo. Scultore: Gianni La Rocca Copyright © 2009. Per gentile concessione di Romeo Models S.n.c., Via M.Lessona, 14 Catania (autorizzazione del 17/10/2009)

di Alessio Palumbo

Premessa. In questo articolo verranno utilizzati, in maniera spesso indistinta, termini come “pirati”, “corsari”, “bucanieri”: si tratta di una necessaria semplificazione, dovuta alla brevità dello scritto.

 

Passeggiando lungo le nostre coste, le antiche torri di guardia che le punteggiano possono far sorgere, soprattutto nelle belle giornate di mare calmo, immagini lontane. Sono scene di piccole battaglie, scorrerie, assalti più o meno cruenti: in una parola, pirateria.

Se già in seguito alla crisi dell’impero romano d’occidente e nel corso di tutto il medioevo, le nostre coste erano state oggetto di assalti, spoliazioni e rapine da parte di  genti provenienti dal mare, la caduta di Costantinopoli e l’espansionismo turco nel Mediterraneo cronicizzarono il pericolo.

In particolar modo, dall’inizio del ‘500 fino al 1571, anno della sconfitta ottomana a Lepanto, non si contano gli attacchi dei pirati nel Salento. Nel 1537 Castro, difesa da Mercurio Gattinara, dovette arrendersi ai turchi del pirata Barbarossa e, nonostante le assicurazioni ricevute, subì saccheggi, rapimenti e violenze. In quegli stessi giorni, piccole squadre di pirati attaccarono villaggi e casali sulla costa jonica, penetrando sino ad Ugento, Gallipoli e Salve. Solo nell’agosto di quel terribile anno la nostra terra fu abbandonata dagli ottomani, che confluirono in altre zone del Mediterraneo per combattere veneziani e spagnoli.

Dopo le imprese del  pirata Barbarossa,  furono  bucanieri come Torghud e Dragut Bassà a tormentare le nostre coste con continui attacchi. Gli assalti si concentrarono spesso intorno a Leuca, al suo santuario e nei paesi vicini (Ugento, Salve, Gagliano,. etc.). Dal 1571, la sconfitta dei turchi a Lepanto, non indebolì l’azione dei pirati che, sentendosi ancora più liberi dai vincoli che li legavano ad Istanbul, ripresero le loro scorrerie, saccheggiando nuovamente Castro.

L’innalzamento di torri, la ricostruzione dei castelli di Lecce, Otranto, Gallipoli, il rafforzamento delle mura cittadine (ad esempio ad Acaya), l’organizzazione di truppe armate, furono delle buone soluzioni per contenere l’assalto dei pirati, che tuttavia continuarono a pungolare le nostre coste ancora per un paio di secoli.

Dalla fine del ‘500 la pirateria smise quasi del tutto di essere un arma a servizio della politica della Sublime Porta. Organizzati in bande spesso

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