La salvia

di Armando Polito

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nome italiano: salvia

nome scientifico: Salvia officinalis L.

famiglia: Lamiaceae

nome dialettale neretino: sàrvia

Il nome italiano e la prima parte di quello scientifico la dicono lunga sulle sue proprietà terapeutiche, dal momento che sàlvia deriva dalla radice sal– dei latini salvus=salvo e salus=salute e, probabilmente servàre [da cui l’italiano, con passaggio –v->-b-) serbare ed il composto (con mantenimento della consonante originaria) conservare]=salvare, proteggere, custodire, nonché servus=schiavo (la cui funzione era quella di proteggere il padrone). Officinalis significa da laboratorio (altro riferimento allo sfruttamento terapeutico). Lamiaceae è forma aggettivale da lamium1. La forma dialettale presenta il consueto passaggio –l->-r-.

Il notevole numero di varietà che la specie di cui mi occupo oggi presenta classificate ricalca antiche conoscenze.

Plinio (I° secolo d. C.): “E c’è pure la (lenticchia) selvatica chiamata dai Greci elelisfaco2, da altri spaco3. È più liscia della coltivata, ha la foglia più piccola , più secca e più profumata. C’è un’altra varietà di quella selvatica, dal profumo più intenso: questa è più tenera. ha le foglie simili a quelle del cotogno, ma più

Crisi, carovita ed emergenze: è dura, ma non bisogna soccombere

di Rocco Boccadamo

 

In tempi non lontanissimi, la scuola, fra l’altro, allenava ed educava sull’analisi grammaticale e poi su quella logica e, più avanti, sulla distinzione tra bisogni primari e secondari, consumi essenziali e voluttuari.

A quell’epoca, in linea generale, si disponeva di poco, nondimeno ci si sentiva appagati e sorretti da una grande ricchezza e forza, la semplicità e la robustezza della spina dorsale. Con naturale consapevolezza e senza grilli per la testa, si rispettavano, quasi religiosamente, i momenti difficili, facendo la cernita dei pur legittimi desideri e aspirazioni, rinviandone, al caso, l’appagamento e l’attuazione a momenti più propizi.

La prima gran crisi petrolifera degli ultimi decenni (1973 o 1974) ebbe per risposta generalizzata la scelta di muoversi, il sabato e la domenica, rigorosamente a piedi, e ciò non per scopi ecologici, ma per risparmiare sulla spesa per la benzina.

Il cosiddetto boom o miracolo economico, in Italia, ha avuto il pregio e il merito di far giungere tutti, a un certo punto, alla conquista dello strettamente essenziale, come dire alla cancellazione della miseria nera, del genere di desolate lande africane o del terzo mondo.

Insieme a ciò, ha, però, recato con sé una sorta di tarlo che, pian piano, è penetrato dentro ogni individuo, fiaccando o sgretolando completamente molti degli antichi principi di rigore, prudenza e parsimonia.

Sicché, oggi, appare superficiale e riduttivo parlare genericamente d’impatto con il cambiamento fisiologico dei tempi, laddove, in seno a ciascuno, è, di contro, intervenuto lo stravolgimento e il capovolgimento di costumi, usi ed abitudini, il senso del sacrificio e della rinuncia si è ridotto al lumicino.

Ormai, tutto è concesso, non ci si fa mancare alcunché, compreso molto che è meramente superfluo, altro che scala di priorità nei bisogni e nei consumi: tanto si compie, senza prendere le misure con le risorse disponibili, non v’è chi non sia divenuto esperto del credito al consumo o, per esser chiari, dell’indebitamento.

Ovviamente, la tendenza va rapportata ai 60 milioni d’italiani, con il risultato che, attraverso un’avanzata subdola ed inarrestabile, si sono riformate numerose e diffuse sacche d’accentuata povertà, condizioni assai vicine alla miseria debellata nella stagione del boom.

 

Purtroppo, statistiche congiunturali a parte, nulla sembra riuscire a frenare la gente nello “spendi e spandi”: in barba a, esemplificando, prezzi dei carburanti su valori impensabili (e potrebbe non essere finita), catastrofe smaltimento rifiuti, speculazioni illecite o quanto meno improprie connesse con l’avvento dell’euro, aumento di addizionali Irpef e varie, recente introduzione della micidiale IMU, progressiva lievitazione dei listini prezzi anche relativamente a diversi beni essenziali (pane, pasta, latte, frutta, verdura) e via dicendo.

Succede come se ci fossimo trasformati in un popolo abilmente cinico, sino a riuscire a passare sopra a difficoltà e problemi, illudendoci, forse, che sarà qualcun altro a sistemare le cose.

 

Tuttavia, non è  il  caso di piegarsi alla rassegnazione sterile e al pessimismo cieco e irrimediabile. A patto, però, che:

 

–         si arresti, finalmente, quest’andazzo pseudo godereccio a destra e a manca, a cominciare dalla corsa all’effimero e all’inutile;

–         si riprenda un cammino virtuoso, fatto, non di atti eroici o di miracoli, bensì di buon senso, onestà, correttezza nelle relazioni col prossimo, lealtà verso lo Stato, particolarmente mediante il pagamento delle imposte dovute;

–         da ultimo, ma con una particolare sottolineatura, chi ricopre ruoli alti, ponga fine agli sprechi irresponsabili di risorse non proprie, alle ruberie e ai tanti sfruttamenti e abusi dissennati.

 

In altri termini, parlando per metafora, occorre tornare a circondarsi di specchi nitidi e fedeli, in cui rimirare semplicemente le singole, personali coscienze.

 

Al fondo delle presenti notazioni di un comune osservatore di strada, non v’è ombra di suggerimenti velleitari su come poter, d’incanto, approdare, dal contingente ciglio di precipizio, su spiagge dorate di benessere. L’intenzione insita è, invece, di configurare, ancora adesso, la possibilità di rinascere a nuovi modelli d’esistenza, che prevedano, primariamente, l’innalzamento e il superamento delle situazioni povere e precarie, dando  così luogo a una società più giusta.

Con il che, beninteso, le differenze di ceto e di ricchezza seguiteranno a permanere, senza, però, lasciare del tutto ignorate le condizioni meno fortunate o disgraziate.

 

Un documento ritrovato: il “Campione” del convento del SS. Rosario di Manduria (1697)

di Nicola Morrone

Durante le nostre peregrinazioni nei luoghi istituzionali della cultura (musei, archivi, biblioteche) ci e’ capitato nei giorni scorsi , auspice un  fortunato riferimento bibliografico, di rinvenire  un antico  codice, ritenuto dagli studiosi  ormai definitivamente perduto, al pari di tanti altri importanti documenti relativi alla storia  di Manduria. Si tratta di un codice manoscritto, conservato nell’Archivio di Stato di Lecce, precisamente nel Fondo “Intendenza di finanza, Platee dei Monasteri soppressi”. E’ un volume cartaceo, di cm. 25,5 X 37 , composto di 115 carte numerate, alcune delle quali bianche, in discreto stato di conservazione, intitolato ”Campione, Codice et Inventario maggiore di tutti stabili, et annui censi, che possiede il Venerabile Convento del SS. Rosario, seu della Pace dell’Illustrissima Religione di Santo Domenico, della Terra di Casalnovo”. In concreto, il volume manoscritto  è una “platea” (o inventario, o stellone, o cabreo, nelle diverse denominazioni), cioe’ lo strumento fondamentale di cui si  dotarono nei secoli  i monasteri allo scopo di ricostruire con precisione il patrimonio posseduto, e di poter garantire un corretta ed efficace amministrazione di beni di diversa provenienza, che soprattutto nei secoli XVII e XVIIII iniziarono ad arricchire i monasteri stessi, e soprattutto per prevenire eventuali usurpazioni a danno dei beni posseduti, che , spesso distribuiti su ampie superfici territoriali, erano difficili da controllare.

Il documento in oggetto, come  ogni “platea” monastica, descrive con estrema precisione (naturalmente per un arco di tempo limitato, cioè grosso modo il sec. XVIII) i diversi beni immobili posseduti, costituiti per lo più da fabbricati (abitazioni e masserie)  e beni fondiari (orti, vigneti e uliveti). Ancora vengono descritte nel codice le donazioni fatte a vario titolo, i pesi delle messe annue per legati pro-anima effettuati in favore del monastero, con l’annotazione puntigliosa della notizia dei relativi istrumenti notarili.

Il  ritrovato “Campione” del Convento dei Padri Domenicani di Manduria (che allora si chiamava ancora Casalnuovo), visionato verosimilmente, prima della nostra scoperta, dal solo Tarentini (che lo utilizzo’ per la redazione del relativo capitolo della sua Manduria Sacra uscita nel 1899) è un documento estremamente interessante, non solo perchè permette di ricostruire, al pari di tutte le Platee conventuali , la storia economica di un’importante istituzione monastica in un preciso  ambito territoriale  (nel nostro caso  quella domenicana, fondata in Casalnuovo alla fine del sec. XVI e soppressa agli inizi del sec. XIX), ma anche perchè fornisce, non di rado,  oltre a un preciso ragguaglio storico-giuridico sulla  fondazione dell’istituzione stessa, utili notizie relative  alla fabbrica del Monastero e della Chiesa ad esso pertinente.

E proprio con il desiderio di “spigolare” qualche  notizia relativa alla storia architettonica ed artistica della Chiesa del Rosario ci siamo in verita’ accostati a questo ponderoso documento, che non ha mancato di fornirci poche, ma  utilissime indicazioni in tal senso.

Il compilatore del Codice manoscritto, l’anno di conclusione del lavoro (parziale, poiche’ il codice e’ stato puntualmente aggiornato nel corso dei decenni del sec. XVIII) ed alcune curiosita’ sono precisati  nella carta 1 v, in questi termini: ”Nell’anno 1697 questo libro fu scritto e finito dal Dottor Ottavio Marrazza di questa terra [Casalnuovo], con grandissima fatiga. Il medesimo ha difeso d’Advocato questo Convento per anni trenta gratis, percio’ supplica li R.di Padri e fratri a questo Convento assignati, e venturi, che si degnino pregare Dio per la salute dell’anima sua, di sua moglie e dei suoi discendenti. Amen”.

Nella pagina successiva è riportato, in transunto  (cioè in copia), un documento di fondamentale importanza, cioe’ la Bolla episcopale di fondazione del Convento. Traducendola (e’ scritta interamente in latino), si apprende che in data 11 Novembre 1572, sotto il pontificato di Papa Gregorio XIII,  il vescovo di Oria Mons. Bernardino de Figueroa, arcivescovo di Oria-Brindisi (la separazione tra le due diocesi avverra’ piu’ tardi, precisamente nel 1591) concesse ai frati dell’Ordine Domenicano il consenso di costruire un convento nei pressi della chiesa di San Giorgio, fuori dalle mura di Casalnuovo, dalla parte della tramontana (cioè a nord). Rientra nella logica dell’ordine domenicano il fatto di costruire fuori le mura della città: francescani e domenicani, in quanto ordini mendicanti e “borghesi”, si insediano storicamente appunto nel borgo, cioè fuori  dalla citta’ murata.

Oltre alla preziosa Bolla di fondazione (che, come gia’ detto, il Tarentini utilizzo’ nella compilazione della sua ancor oggi  fondamentale  opera  sulla storia religiosa di Manduria) nel codice manoscritto da noi ritrovato c’e’ anche una sintetica descrizione della Chiesa del Rosario e del Convento, cosi’ come era possibile verificare alla data di compilazione del documento, cioe’ nel 1697.

La Chiesa risulta suddivisa in una decina di cappelle, pressappoco corrispondenti a quelle attuali, ciascuna caratterizzata dalla dedicazione a un santo, e identificata dal relativo altare. E ad ogni cappella corrispondevano  uno o piu’ legati pii , cioe’ obblighi di celebrare un certo numero di messe a vantaggio dell’anima di un defunto, solitamente un membro del patriziato cittadino, che lego’ cosi’ per sempre il suo nome alla chiesa dei Domenicani. E proprio sulla base dei patronati delle singole cappelle, puntigliosamente indicati nella platea,  attraverso un confronto con gli stemmi nobiliari ancora oggi  collocati sul fastigio dei singoli  altari, si puo’ verificare la rispondenza dei dati d’archivio alle informazioni che  la configurazione attuale degli altari medesimi suggerisce, e tentare cosi’  una ricostruzione storica dei patronati nobiliari rispetto  ad una delle piu’ importanti chiese della  Manduria  moderna.

Rispetto alla problematica  storico –artistica, il codice manoscritto e’ comunque , in generale,  piuttosto laconico (a  differenza, per esempio, del Campione della chiesa di Santa Maria di Costantinopoli, o di quello della Chiesa Matrice, che descrivono minuziosamente altari ed arredi),  tranne che per la  Cappella di San Vincenzo Ferrer, di cui e’ indicata in dettaglio la vicenda artistica ed architettonica. E’ quest’ultimo, evidentemente, il dato storico –artistico piu’ interessante che emerge dalla lettura dell’intero manoscritto, che ci permette di stabilire un vero e proprio  punto fermo riguardo la costruzione di un altare , ancora oggi  esistente, e del suo corredo pittorico.Alla carta 14 v del codice si legge infatti , circa la cappella di San Vincenzo Ferrer, che fu “eretta nell’anno 1702 dall’Eminentissimo Cardinal  Ferrari di Casalnuovo, con un capo altare di pietra di Lecce lavorata, con un quadro di San Vincenzo, e sopra, un altro della Vergine.” Questa indicazione cronologica sincrona  fornita dall’anonimo compilatore ci permette di stabilire con certezza, cioe’ su base documentaria, che uno dei due meravigliosi altari di pietra leccese della chiesa del Rosario  fu realizzato nel 1702, e nel medesimo anno furono realizzati i due dipinti che lo corredano, che  tra l’altro sono  tra i piu’ belli ( e qualitativamente sostenuti) di tutto il patrimonio pittorico mandurino. La data delle’esecuzione del dipinto della Predica di San Vincenzo Ferreri , opera del noto pittore Francesco Trevisani da Capodistria (1656-1746), fatta risalire da studi recenti al 1705 circa , va quindi anticipata di tre anni.

Risulta al tempo stesso definitivamente precisata al 1702 la data di esecuzione del dipinto della Madonna col Bambino, di ambito romano marattesco, che occupa il fastigio del medesimo, pregevolissimo altare barocco. Il documento, purtroppo, non precisa chi furono gli artefici del suddetto altare barocco in pietra leccese; a questo proposito, a meno di  ulteriori, fortunati ritrovamenti documentari, per il momento solo un serrato confronto stilistico-tipologico potra’ permettere di attribuire, in via ipotetica, quest’imponente opera ad una precisa maestranza  di scalpellini leccesi operante comunque  tra i secoli XVII e XVIII.

In ultimo, il “Campione” non manca  di precisare, alla carta 2v, il numero dei consacrati presenti nel Convento domenicano alla meta’ del ‘700: nel 1760 erano  in servizio al Rosario di Manduria tredici frati e cinque laici.

Alla fine della nostra breve disamina, occorre comunque spiegare perche’ un documento come quello da noi esaminato,  approntato per le esigenze di  un ente ecclesiatico, si trovi collocato in un fondo archivistico “estraneo” quale quello della Intendenza di Finanza di Terra d’Otranto, poi confluito, con altri documenti di natura amministrativa e contabile, nell’Archivio di Stato di Lecce. Invero, dopo essere stato detenuto dal Monastero dei Domenicani, il codice manoscritto, in seguito alla soppressione dell’Ordine Domenicano stabilita dalla legge murattiana del 7 Agosto 1809, n. 448 (che faceva seguito al decreto del 13 Febbraio 1807, ordinante  la soppressione degli ordini religiosi benedettini possidenti con le loro affiliazioni) e’ stato incamerato , con gli altri beni del convento, nel Demanio dello Stato. Gli uffici finanziari statali  che si sono  occupati dell’amministrazione dei beni dei conventi e monasteri, interessati dalle soppressioni murattiane e risorgimentali, hanno  rilevato  il codice manoscritto, che e’ stato poi, dopo  successivi  passaggi, traferito all’intendenza di Finanza di Terra d’Otranto. Da questa e’ stato poi versato all’Archivio di Stato di Lecce, in cui attualmente si trova ed e’ liberamente consultabile, insieme alle platee di altri monasteri  salentini soppressi.

“Le Pentite” nell’istituto Buon Pastore a Lecce

 

di Maria Grazia Presicce

 

” ………allora mi stavi dicendo, che andavate ad ascoltare la S. messa e partecipavate a degli spettacoli all’Istituto del Buon Pastore dove si trovavano le pentite.”

Si, si. Ci divertivamo tanto! Che belle serate trascorrevamo!Organizzavano davvero bei spettacoli alle pentite“.

Sorride ricordando.

” Ma chi erano queste pentite, nonnina? ” domando curiosa.

Ma come chi erano? ” Mi fa. ” Le pentite erano le pentite“, e resta in silenzio rivolgendomi uno sguardo stupito.

Le sembra strano che non capisca. In effetti, per lei quel termine è indicativo di tutto. Mi accorgo che non vuole parlarne e provo ad aggirare l’ostacolo.

” Si, si, ho capito; ma io volevo sapere perché le chiamavate pentite“.

Perché…mhhmmhm. erano…. signorine ( muove la testa e fa una smorfia di disgusto con le labbra ) che si erano comportate male, nell’istituto venivano educate a comportarsi bene e dopo, se si ravvedevano su ciò che avevano commesse, potevano ritornare in famiglia.

Mi rendo conto che la nonnina è un po’ restia a parlare dell’argomento “comportamento delle pentite” si sente a disagio, la vedo in imbarazzo; infatti, già quello che mi ha detto le sembra troppo, lei è tanto religiosa e le duole parlare male di qualcuno.

Eh! Povere ragazze, che il Signore le perdoni.” Mormora, sperando così di mettere anima e coscienza in pace.

 

Mi affretto a proseguire facendo la finta tonta: ” Ora mi è chiaro; quindi le signorine che in famiglia erano maleducate e magari non seguivano i consigli dei genitori, venivano isolate in quel collegio”.

Ma che stai dicendo! No, non è così. Si trovavano là dentro perché si dovevano pentire di quello che avevano fatto“.

” Ma insomma, che cosa avevano combinato per meritare di essere relegate in quel posto?” sbuffo sempre più fintatonta, cercando di stuzzicare la mia nonnina pudica. So che lei, col suo riserbo mai mi direbbe che l’istituto accoglieva ragazze minorenni che erano state scoperte di avere relazioni sentimentali o con uomini sposati o con uomini che la famiglia non gradiva. La mia nonnina mai parlerebbe esplicitamente di queste problematiche.

Provo allora in altro modo ad avere spiegazioni sull’argomento.

” Non sto capendo … – continuo – ma, venivano affidate all’istituto ragazze di malaffare o altro tipo di ragazze ?”

Si , si , ora hai capito bene, proprio loro. Erano ragazze giovanissime, tutte minorenni“.

Si blocca pensierosa, poi : ” Però, non tutto l’istituto era occupato da ragazze disonorate. Loro occupavano solo la parte retrostante, nei locali anteriori invece venivano ospitate le orfanelle e le bambine o ragazze che avevano dei problemi in famiglia. Le suore si prendevano cura di loro“.

Mi rendo conto che la mia nonnina ha cambiato discorso, non le piace proprio parlare delle pentite, io invece che voglio tornare sull’argomento domando: ” ma le ragazze dei due istituti potevano frequentarsi?”

Ma che dici?” – Mi fa irritata. So di averla punta nel vivo e di aver provocato la sua ira, infatti, continua risentita, – ” secondo te, le pentite potevano incontrarsi con le altre persone?”

” E che ne so! Pensavo che siccome vivevano tutte là dentro potevano anche stare insieme qualche volta. ”

Ma no, ma no. Le pentite rimanevano sempre nei locali di dietro . I due istituti erano separati. Le suore le tenevano continuamente impegnate sotto la loro sorveglianza.”

” E che tipo di lavori svolgevano?” chiedo, vedendo che di questo è più propensa a parlarmi.

Noi, – mi fa – abitavamo allora in una casa al primo piano, proprio di fronte al giardino dell’istituto e dal balcone vedevamo queste ragazze che spesso lavoravano nell’orto. Zappavano, piantavano le verdure, tiravano l’acqua dal pozzo e innaffiavano; altre poi si dedicavano ai lavori interni dell’istituto, lavavano i panni, stiravano, cucinavano e questo sempre sotto il controllo delle suore che non le lasciavano un attimo sole.

Si sofferma, mi guarda con aria furbesca – ” Però, a volte accadeva anche che riuscivano a scappare”. 

” E come facevano a scappare se erano guardate a vista dalle suore?” chiedo.

” Eh!… Scappavano di notte, saltando il muro di cinta di fronte alla nostra casa”. Noi a volte ci accorgevamo, ma facevamo finta di nulla:   succedeva allora un parapiglia generale all’interno quando il fatto veniva scoperto. Tutto l’istituto veniva messo in subbuglio e rovistato da cima a fondo, dopo le suore diventavano ancora più severe”.

” Ma le suore erano le stesse che si occupavano anche delle orfanelle?”

Si si, erano le stesse. Solo che nella parte anteriore c’erano i laboratori dove le suore insegnavano alle ragazze a ricamare, a cucire, a fare il filet, lavorare all’uncinetto, a fare la  maglia e tutte erano occupate in questi lavori. Facevano dei lavori bellissimi che poi vendevano all’esterno”.

” Ci sei stata tante volte all’interno dell’istituto nonnina? ” –

domando vedendo che è più disposta a parlarmi delle orfanelle.

Si. Ci andavamo spesso. Ho anche conosciuto una ragazza che è cresciuta là dentro e che si è sposata ed ora ha una bella famiglia. . Aspetta……, ora ti faccio vedere una cosa.”

Così dicendo si alza e si dirige verso una cassapanca, ne toglie i vari portafoto che sono poggiati sul ripiano, piega perfettamente la tovaglietta di pizzo e apre stando attenta a fissarne l’apertura con un bastoncino di legno posto sul lato del baule.

Con movimenti lesti e sicuri cerca tra la biancheria e infine tira fuori un lenzuolo, lo spiega e m’invita ad ammirare: “guarda com’è bello ? Questa è la mia prima “portata ” . Mia madre l’ha comprata dalle suore, proprio dalle suore delle pentite. Vedi quanti punti differenti di ricamo ci sono? Questi, invece li ho ricamati io.” – mi dice compiaciuta indicandomi degli asciugamani di lino.

” Belli, sono veramente straordinari, – affermo sincera, – ed anche questi che hai fatto tu sono bellissimi”.

Osservo con meraviglia In effetti, sono lavorati proprio con maestria, sono veramente cose d’altri tempi! Sul lenzuolo ricamato in rilievo si legge ” Sempre Uniti “.

Lei vedendomi affascinata e stupita continua: ” eh! prima tutte le ragazze sapevano ricamare, io anche il filet so fare e continuo a farlo“. Così dicendo apre un sacchetto bianco appeso alla spalliera della sedia e mi fa vedere il lavoro di filet che sta portando a termine.

Prendo in mano con somma delicatezza la reticella che si srotola improvvisa tra le mie dita: “ dio, cosa ti ho combinato! ” esclamo dispiaciuta d’averle ingarbugliato il lavoro.

Non ti preoccupare, non è accaduto nulla, – mi rassicura tranquilla, poi lo riprende e rimettendolo a posto mi fa, quasi per scusarsi: ” sai, per non tenere le mani in mano(3

), mentre guardo la televisione lavoro un po’ ogni pomeriggio. EH! Purtroppo non posso lavorare molto, la vista non mi accompagna più tanto bene!”

La guardo con affetto mentre lei s’affretta a ripiegare e riporre le lenzuola e gli asciugamani. E’ veramente tenera la mia nonnina!

Ah! Dimenticavo di dirvi che ella ha 94 anni, vive da sola, e ogni tanto giusto per farsi una passeggiata va a comprare il pane in Piazza Sant’Oronzo: ” sapessi com’è buono il pane di quella panetteria! – mi dice, sorridendo soddisfatta.

 

Asparagi. Ecco le ricette salentine

di Massimo Vaglio

L’asparago (Asparagus officinalis), è una pianta erbacea perenne, appartenente alla famiglia delle Liliacee, originaria delle zone steppose e sabbiose dell’Europa orientale, in particolare dell’Asia Minore. I suoi turioni, che sarebbero la pianta allo stadio medio-giovanile, costituiscono un prelibato, interessante ortaggio, per tale motivo, viene intensamente coltivato in tutti i paesi a clima temperato ove si adatta ovunque, sia nelle zone litoranee più calde, tanto in quelle collinari e interne più fredde, purché il terreno sia ben drenato, molto sciolto e permeabile. I ristagni idrici provocano infatti la marcescenza dei rizomi e delle radici carnose, comunemente appellate zampe.

Conosciuto sin dall’antichità, viene storicamente apprezzato anche per le sue proprietà nel trattamento dell’ artrite e  dei reumatismi, nonché per le sue proprietà diuretiche e depurative che non a caso gli hanno giovato l’appellativo di officinalis, costituisce anche una buona fonte di vitamina C, riboflavina e acido folico. Il caratteristico odore, che si diffonde durante la cottura è dato da un aminoacido in esso contenuto, l’asparagina.

La medicina popolare, consiglia per combattere le bronchiti croniche, una cura stagionale a base di brodino d’asparagi che acquisisce la duplice, intelligente funzione di gradito alimento e di salutare tisana. Ad avallare queste popolari intuizioni, il dott. Jean Valnet (1920-1995), eminente medico francese, che in seguito ad approfonditi studi, ci ha lasciato un ponderoso protocollo, ove ne consiglia l’uso nelle astenie fisiche ed intellettive; nelle convalescenze; nell’anemia; nell’insufficenza epatica e renale; nella gotta; nelle artriti; come regolatore della viscosità sanguigna; nelle dermatosi; nella tachicardia; nel diabete e nelle bronchiti croniche.

Insomma, ciò che si definisce un vero toccasana. Controindicandolo, però in caso di cistite e in alcuni casi di reumatismo acuto. Esistono molte varietà di asparago, ma le principali  sono: l’Asparago di Napoli, di Bassano, di Pescia, il Precoce d’Argentuil, il Colossale di Connover, il Bianco d’Olanda, il Verde Comune, etc.

Pur essendo in Puglia molto estesa e qualificata la coltivazione degli asparagi, specie nel foggiano, ove negli ultimi decenni centinaia di ettari sono stati investiti nella loro coltura, presso i pugliesi, l’apprezzamento per

Qualcosa in più sull’origano

di Armando Polito

Sono in grado di apportare solo due piccole rettifiche alla parte etimologica (e a quale sennò?) del recente, eccellente post Tutto sull’origano… dell’amico Massimo Vaglio. In greco “ornamento” è nos (gànàos, a parte i due accenti, non esiste). L’amàracum di Plinio, poi, comunemente e concordemente identificato con la maggiorana (che sempre al genere orìganum appartiene), è dal greco amàrakon; direi che la confusione in ogni tempo tra erbe molto simili è la regola  ma non è questo il problema che riguarda la seconda rettifica: il fatto è che in greco non esiste  neppure una parola che si avvicini ad amàrakon e che significhi odoroso.

Sono certo, conoscendolo bene,  che Massimo non si è inventato nulla ma potrebbe aver tratto la sua informazione dalla rete o da qualche libro. Si tratta, perciò, di una delle tante bufale circolanti non solo in testi divulgativi ma anche in

Il lupino. La vera marinaaa…

di Massimo Vaglio

 

La coltivazione del lupino (Lupinus albus L.) risale a più di tremila anni addietro, e pare, che fosse molto comune anche nell’antico Egitto ove, i suoi semi, venduti cotti e salati, agli angoli delle strade, costituivano un cibo popolare diffuso fra le classi più povere della popolazione.

Il suo areale di coltivazione, che un tempo comprendeva tutta  la regione mediterranea ha subito secoli di progressivo declino, in quanto, la sua granella, per essere utilizzata nell’alimentazione umana, deve essere trattata onde eliminare la lupanina, alcaloide amaro e velenoso contenuto appunto nel seme. Per quanto sopra, anche nel Salento il lupino è stato sempre considerato un legume povero, destinato con le dovute cautele prevalentemente  agli usi zootecnici, tanto che la sua coltivazione si è nel tempo sempre più sporadicizzata, limitata alla produzione di foraggio verde e soprattutto al sovescio.

Negli ultimi anni, in seguito alla selezione di nuove varietà  a basso contenuto di lupanina, questo legume sta in diverse nazioni riconquistando velocemente terreno, anche grazie alla sua grande produttività, alla scarsa  laboriosità della coltivazione e al fatto che offre ottimi risultati anche su terreni poveri e aridi, che grazie alla capacità che hanno queste piante di fissare l’azoto atmosferico, vengono anche migliorati a vantaggio delle coltivazioni successive. L’interesse però è enormemente cresciuto quando recenti indagini biochimiche hanno rilevato in esso

Raccoglievano le ulive una per una da terra…

di Giorgio Cretì

D’inverno Antonio aveva sempre trasportato le donne alle ulive. Allora si alzava molto presto per pulire la stalla e governare il cavallo e quando le donne arrivavano, ancora sonnolente e intirizzite dal freddo, egli aveva già attaccato ed era pronto a partire.

Alcuni poderi di don Nino erano lontani dal paese e durante il viaggio, ch’era ancora buio, mentre Antonio sedeva davanti con le gambe penzoloni, le donne si accucciavano nel letto del carro e si coprivano con i sacchi vuoti. Nessuno parlava.

A volte c’era la brina e, giunti sul posto, Antonio accendeva un fuoco intorno al quale tutti si scaldavano le mani rattrappite e mangiavano in piedi il pane che si erano portati da casa. Nel pane ci mettevano intingoli molto piccanti che bruciavano un po’ la bocca, ma scaldavano il sangue e facevano svegliare. Poi le donne cominciavano a lavorare e, curve sulla schiena, raccoglievano le ulive una per una da terra. In genere, il terreno sotto gli alberi era stato lavorato e le ulive cadevano al pulito, ma qualche volta era pieno di spini secchi dell’anno precedente e la raccolta, allora, era molto dura. Anche i ragazzi molto giovani, che non erano in grado di zappare al passo degli uomini, erano adibiti a questo lavoro.

Antonio doveva solo svuotare i panieri e caricare i sacchi sul carro, ma qualche volta aiutava le donne a raccogliere le olive da terra.

Il fattore girava continuamente per gli uliveti, per controllare la caduta e disporre per la raccolta delle olive e, quando incontrava le donne, ogni tanto si fermava a parlare con le più anziane. Le più giovani allora rimanevano con la schiena curva, lavotavano più in fretta e non dicevano una parola. Poi, quando il fattore se n’era andato, c’era silenzio finché le anziane non riprendevano i discorsi interrotti. Ma le giovani non erano chiamate a questi discorsi e, quando riuscivano a mettersi in coppia, parlavano tra di loro a bassa voce. Molto spesso, però, non parlavano affatto perché veniva loro vietato o per paura di essere prese in giro: sembrava che loro sapessero dire solo sciocchezze.

Durante la sosta di mezzogiorno era permesso a tutti di parlare e l’ora era sempre molto attesa. Quando si sentivano i rintocchi delle campane dei paesi vicini, le anziane cominciavano a raddrizzare la schiena, seguite dalle giovani, e lo facevano molto lentamente perché, dopo essere state piegate per tante ore, ormai la schiena faceva più male a raddrizzarla che a tenerla curva. Spesso mezzogiorno suonava più volte ad intervalli irregolari, dipendeva dai sagrestani dei vari paesi, ma il primo era quello buono.

Antonio, un po’ prima dell’ora, andava ad attingere acqua alla cisterna più vicina e poi si occupava del cavallo. Con le donne ci stava poco e le giovani lo sbirciavano mentre era intento alle sue faccende. Tra di loro parlavano di lui e facevano congetture sulla ragazza che poteva occupare i suoi pensieri, non senza un pizzico di malignità e gelosia da parte di quelle che avrebbero volentieri accettato di essere da lui corteggiate. Così giustificavano il suo carattere taciturno e un po’ assente: se non considerava le presenti, doveva pur pensare a qualcun’altra. Se saltava fuori qualche nome, c’era sempre qualcuna che abbassava gli occhi delusa.

Le campagne erano sempre molto affollate in certe stagioni. Nella vicina vigna, di quelle basse alla latina, gli zappatori sconcavano le viti e con la terra tolta, man mano che procedevano lungo i filari, formavano un cavalletto che sarebbe rimasto così fino al momento di accavallare, cioè fino all’operazione inversa di fine inverno. Ogni zappatore portava avanti il suo cavalletto ed era incalzato dallo zappatore che lo seguiva. In genere, conduceva un uomo robusto che poteva zappare più o meno in fretta a seconda che avesse dietro gente capace o ragazzi non ancora forti per tale lavoro.

A mezzogiorno si fermavano anche gli zappatori e si mettevano al riparo dal vento per mangiare il pane che si erano portati da casa. I giovanotti, anche se stanchi, mangiavano in fretta e, seguiti dalle beffe degli uomini, migravano verso gli ulivi a cercare compagnia. Quì venivano presi in giro dalle donne, ma era un gioco anche questo e loro ci stavano, pur di sedere vicino alle ragazze. Non che le coppie avessero la possibilità di appartarsi, ché le sanzioni sociali per la ragazza sarebbero state pesanti, ma c’era il modo, a volte tollerato, di stabilire un incontro per la sera, quando con il favore del buio, il giovane scavalcava il muro di un giardino e abbracciava la sua bella. Gli incontri dietro casa, però, non sempre erano possibili e, tuttavia, erano sempre di breve durata, così come quelli che si riusciva a combinare con la scusa di far visita ad un’amica e compensando un fratellino o una sorellina al seguito della ragazza che, in nessun modo, poteva uscire di casa da sola la sera.

I veri incontri d’amore potevano avvenire in campagna e anche qui ogni precauzione era presa per evitare di essere visti e di passare sulla bocca di tutto il paese.

Quando il vento soffiava da Levante, il mugghìo del mare che si sfracellava contro la scogliera, si udiva da molto lontano e si sentiva l’odore della salsedine che superava la serra di Capriglia e si spandeva per l’aria umida. Gli elementi della natura diventavano vivi e, nel profondo silenzio dell’inverno del Sud, gli uomini e le donne, che riposavano al riparo di un muro di pietre, li percepivano distintamente.

Antonio, in quelle ore di riposo, se ne stava appartato, seduto sopra un sacco con le spalle appoggiate ad una ruota del carro e attendeva la folata di vento che lo facesse viaggiare lontano. Vagava attraverso le chiome degli ulivi, fin dove non aveva più percezione di nulla e gli sembrava di volare, invisibile con il vento e di diventare salsedine, nuvola e aria. Ma volando non passava mai sulle ragazze che lo facevano oggetto dei loro pensieri, perché i luoghi che egli visitava non erano abitati. A volte viaggiava addirittura al buio, avvolto in un involucro di caligine lieve e impalpabile.

Non era mai il primo a rimettersi in piedi, perché decidere l’ora di ripresa del lavoro non spettava a lui; attendeva sempre che le donne si avviassero e poi si muoveva. Sistemava la coperta al cavallo, al quale dava nuovamente da bere, e poi, con in mano il sacco da riempire, lentamente si avviava verso le donne.

Quando non era cattivo tempo, le donne lavoravano fino a che ci si vedeva. Antonio per allora aveva già attaccato il cavallo ed aveva caricato i sacchi pieni sul carro. Le donne gli portavano gli ultimi panieri ed egli sistemava il carico in modo che loro vi si potessero sedere sopra. Si partiva per tornare a casa.

Man mano che il carro si avviava lungo lo stradone, le donne sembravano rianimarsi e non erano silenziose come al mattino, una ben visibile agitazione le prendeva tutte. Le anziane perché era finita una giornata di fatica e tornavano a casa, le giovani con il pensiero alla funzione serotina e alla possibilità di scambiare un’occhiata o qualcosa di più con un giovanotto. Se tornando dalla chiesa si attardavano, sapevano di potersi buscare qualche ceffone, ma vi erano preparate.

Sulla strada incontravano altri carri che pure riportavano a casa donne e tanti erano i carri tanti erano i cori che si muovevano nella sera. Anche con il freddo nel ri torno verso casa, le donne cantavano.

Antonio, se riceveva lo stimolo giusto da arie consone al suo carattere, si distraeva dai suoi pensieri e cantava con le donne: con una voce maschile, anche se ancora non molto marcata, il coro acquistava più vigore. Quando si lasciava trasportare dalla canzone, cantava il ritornello con tutta la forza della sua voce e si sentiva trasportato lontano lontano e sicuro di sé. Per le ragazze diventava il giovane più desiderabile del paese.

Il cavallo che come le donne era contento di tornare a casa, procedeva ad un trotto lento ma cadenzato, mentre il vento di tramontana prendeva d’infilata la strada. Le donne se ne stavano accucciate sui sacchi pieni, alle spalle di Antonio che ogni tanto stimolava il cavallo ad andare più in fretta.

Quando entrarono in paese, le campane della chiesa chiamavano puntuali alla funzione della sera e il coro si interruppe su questa strofa:

«L’acqua ci te llavi la matina,

te preu Ninella mia nu Ila minare.

A dhu ci la mini tie nasce nna spina,

nasce nna rosa russa pe ‘ndurare».

 

(capitolo secondo de “L’Eroe Antico”, stampato a Milano
nel 1980 e segnalato dalla Giuria del Premio Stresa)

Ecco le terrecotte salentine

di Marcello Gaballo e Armando Polito

È tempo di passare agli oggetti più comuni messi in vendita ricordando che parecchi di loro sono riusciti a sopravvivere per l’indubbio pregio artistico (così da diventare oggetto d’arredamento, tanto più ricercato quanto più antico) ma anche per una reinvenzione del loro utilizzo e, in qualche caso, della loro forma, soprattutto nei dettagli decorativi.

 

CÀNTARU


Antenato del water (nella foto a sinistra due modelli “d’epoca” in quella a destra uno molto raffinato, di fattura moderna), fino agli anni cinquanta è stato il sanitario principale, se non unico, della stragrande maggioranza dei servizi igienici familiari ed etimologicamente appartiene a quella serie di vocaboli che son passati dalle stelle alle stalle, se si pensa che esso è dal latino càntharu(m), vaso da bere a larga apertura e larghe anse a forma d’orecchie, superanti, talora, l’orlo, a sua volta dal greco kàntharos.

 

CAPÁSA, CAPASÓNE e CAPASIÉDDHU


Vedi il post Capasòne è il capofamiglia, capàsa la mamma, capasièddhu il figlio su questo sito.

 

CÒFANU


Se il càntaru è l’antenato del water, il còfanu (usato anche nel senso metonimico di bucato nel nesso fare lu còfanu) lo può essere della lavatrice, almeno per quanto riguarda l’aspetto strettamente igienico del risultato finale e non certo l’impegno fisico che era notevole, tanto da coinvolgere l’intera famiglia che periodicamente era impegnata in un’attività quasi rituale, scandita da gesti attenti e rigorosi che durava almeno due giorni, sicché la foto a destra dell’archivio Alinari, a differenza della prima, del 1920 ne restituisce un’idea oleograficamente edulcorata. La voce è dal latino medioevale còphanu(m)5, dal classico còphinu(m)=cesta, dal greco kòfinos=cesta6.

E, dopo avere sistemato la questione etimologica, accenniamo rapidamente alle sequenze del “rito”: posto il còfanu su uno sgabello, se ne otturava il foro di scolo, si provvedeva a sistemare i panni da lavare avendo l’accortezza di mettere nello strato più basso quelli colorati, si copriva tutto con un panno bianco di tessuto rustico (lu cinniratùru7) avente la funzione di filtro, dal momento che su di esso si poneva uno strato di cenere8 (da qui il nome del panno) setacciata mista, talora, a gusci di uova; a questo punto si versava  l’acqua bollente riscaldata nel quatarottu (in italiano calderotto), una pentola di rame preventivamente messa sul fuoco. L’operazione di versamento e di scolatura dell’acqua bollente era ripetuta fino a quando dal foro posto in basso al cofanu non fuoriusciva pulita;  essa era raccolta nel limbu. Le ultime acque reflue, la lissìa9, erano riutilizzate per lavare gli abiti più scuri e, solo dalle donne, in acconcia diluizione, i capelli.

 

FURÒNE


Vedi il post Il furòne, ovvero quando un deposito di risparmio non costava nulla u questo sito.

 

LIMBA


Per il Rohlfs la voce è dal greco moderno limpa. L’appartenenza, però, dell’oggetto ad una categoria che annovera nella sua schiera altri dal nome molto antico ci fa sospettare che a questo non si sottragga limba.

E ci vengono in mente  alcune forme epigrafiche leggibili su alcune anfore pompeiane (LYMPAE10, LUMPAE11) e fuori d’Italia (LUMPHAE12 , LYMPHAE13, LYMFAE14). Al di là del probabile contenuto delle anfore resta il fatto che la dicitura si riferiva, comunque, a qualcosa di liquido o in cui la componente acqua15 non doveva essere irrilevante (laddove, nell’iscrizione, il nostro nome si accompagna all’aggettivo vetus=vecchio di certo l’anfora non conteneva acqua pura invecchiata, per cui limpha va interpretato come estratto, succo, con probabile riferimento o al vino o all’olio o al garum). Non ci sembra azzardato supporre, perciò, che questo nome possa essere passato a significare  per metonimia (dal contenuto al contenente) la nostra limba rispetto alla quale presenta, oltretutto, assoluta coerenza fonologica. Purtroppo, l’impossibilità di stabilire se la variante limma (usata in alcune zone del Leccese, del Tarantino e del Brindisino) deve –mm– ad assimilazione da –mb– (in tal caso sarebbe figlia di limba) oppure se, con assimilazione –mn->-mm–  deriva dal greco lìmne=stagno, lago, non escluderebbe, teoricamente, che proprio da quest’ultimo possa derivare pure il nostro limba per successiva dissimilazione –mm->-mb-; tuttavia, c’è da dire che si tratta di una probabilità piuttosto remota, dal momento che di regola il nesso –mm– di alcune varianti nasce sempre per assimilazione di –mb– (palummàru<palumbàru, palùmbu(m); mmile<mbile<(bo)mbýlion, etc, etc.).

 

LIMBU


Ha la stessa etimologia di limba, ma con cambio di genere in funzione di differenziazione dimensionale (in fondo il limbu è come una limba dalle pareti più alte). E come non ricordare la figura dello  cconzalìmbure16, artigiano ambulante  come il seggiàru (riparatore di sedie), lo mmulafuèrbici (arrotino) e l’umbrillàru (riparatore di ombrelli), che rimetteva in sesto i recipienti di terracotta17?

 

MBILE


Vedi il post Quella bizzarra terracotta dal collo stretto… su questo sito.

 

OZZA


Etimologia incerta, come quella delle voci corrispondenti italiane boccia e bozza, forse da un latino *bòccia(m) o bòttia(m), parenti, forse, del latino tardo butte(m), da cui botte.

 

PIGNÀTA


La voce, come la corrispondente italiana pignatta, è forse da un latino pineàta(m)=a forma di pigna. Curioso, poi, l’uso del maschile per indicare il tipo di cottura: purpu a pignàtu (polpo cotto nella pignatta); probabilmente è un ricalco su stufàtu (in italiano stufato) da stufàre, a sua volta da stufa, senza, però il passaggio intermedio pignatàre.

 

RINÀLE


Come il corrispondente italiano orinale è da orina, dal latino urìna(m), a sua volta dal greco uron; la voce dialettale, in più, presenta la deglutinazione della u di urina intesa come componente dell’articolo (l’urinale>lu rinàle).

 

UCÀLA

Ha la stessa etimologia del successivo ucàlu, ma con cambio di genere in funzione di differenziazione dimensionale, come abbiamo visto essere avvenuto in limba/limbu.

 

UCÀLU

Dal latino tardo baucàle(m)=vaso di terracotta per tenere fresco il vino, a sua volta dal greco baukàlion; l’italiano boccale deve –cc– ad incrocio con bocca.

 

URSÙLU


Come il corrispondente italiano orciolo dal latino urcèolu(m), diminutivo di ùrceus, che è dal greco urche= giara.

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1 La stessa trasposizione concettuale tra testa, cranio  e recipiente, ma in senso inverso, è avvenuto nel latino testa, da cui, poi, l’italiano testa e l’obsoleto testo=vaso o oggetto di terracotta (tièstu nel dialetto neretino ad indicare un tegame). Derivati poi da kottìs/kotìs sono kotuledòn=cavità in cui si inserisce il femore, ventosa  sul tentacolo del polpo, lobi della superficie della placenta, coppa (da esso l’italiano cotiledone voce botanica e anatomica) e kòttabos= gioco augurale che si svolgeva durante i simposi, consistente nel lanciare il vino rimasto in una coppa contro un bersaglio.

2 Còtile in italiano è anche termine anatomico sinonimo di acetabolo (cioè la cavità dell’osso iliaco in cui ruota la testa del femore; e l’immagine del contenitore continua, dal momento che pure acetabolo è dal latino acetàbulum=vasetto per l’aceto); lo spostamento d’accento rispetto al greco è assolutamente normale perché la voce italiana deriva dalla trascrizione  latina còtula (o còtyla o còtila) in cui l’accento sulla terzultima sillaba è indotta dalla quantità breve dell’originario ipsilon greco.

3 Continuante in latino con –mus/-ma/-mum; per esempio almus/a/um=che dà vita, dalla radice al– del verbo àlere=nutrire+il nostro suffisso.

4 Per esempio: ètumon=etimo è dalla radice eteo– di eteòs=vero+il nostro suffisso.

5 Da cui l’italiano cofano nei suoi molteplici significati per i quali si rinvia ai comuni vocabolari.

6 L’italiano cuffia vien fatta derivare dal latino tardo cùfia(m) considerato di probabile origine germanica e coffa dallo spagnolo cofa, a sua volta dall’arabo kuffa=cesta. Crediamo, però, per motivi semantici e fonetici che il padre di tutti sia da ravvisarsi nell’aggettivo greco kufos (da cui con l’aggiunta del suffisso è nato kòfinos) che significa leggero, vuoto, ma che al neutro sostantivato significa vaso, boccale: è il frutto della contrapposizione concettuale tra il contenuto, generalmente più pesante, e il recipiente che lo contiene più leggero (che senso avrebbe, infatti, trasportare acqua o vino in un contenitore di piombo?). L’aggettivo kufos, poi, continua nel dialettale kufu (a Lecce, a Nardò cùfiu) che designa il frutto che non ha avuto la possibilità di svilupparsi e, per traslato, il maschio infertile. Alla stessa radice ci paiono infine ricollegabili l’italiano coppa [dal latino cuppa(m), dal classico cupa] e il suo diminutivo coppino (voce settentrionale indicante la nuca) nonché il neretino cuppìnu designante il mestolo.

7 Da cènnire [come l’italiano cenere dal latino cìnere(m), con geminazione di n, forse di natura espressiva, come in scènnuma=mio genero, in cui, tuttavia, il raddoppiamento di n potrebbe essere dovuto pure alla seguente trafila (escludiamo l’enclitico possessivo –ma): gèneru(m)>genru(m) (sincope di –e-)>gennu (assimilazione –nr->-nn-)>scennu]+l’abituale suffisso indicante strumento, come in stricatùru=asse scanalato di legno su cui si strofinavano i panni per lavarli, ‘mbucciatùru=coperchio, tappo, etc, etc.

8 Quella che, ricavata dalla combustione della legna nel camino per cucinare o per riscaldarsi, era stata messa per tempo da parte.

9 Stessa etimologia dell’taliano lisciva o liscivia: dal latino lixìva(m), sottinteso cìnere(m)= (cenere) trattata con acqua bollente, con sincope di –v– e conservazione dell’accento originario, cosa non avvenuta nello stesso latino classico nella variante lìxia (attestata da Columella) dove la i, divenuta breve per posizione, ha dato vita ad una parola sdrucciola.

10 CIL, IV, 5611, 5612, 5613, 5616 e 5617.

11 CIL, IV, 5605, 5627 e 5628.

12 CIL, IX, 466

13 CIL, III, 6373; X, 6791.

14 CIL, V, 5648.

15 In latino lympha o lympha, nonché lumpa del “salentino” Pacuvio (II° secolo a. C.), hanno tutti  come significato fondamentale quello di acqua, in particolare di fonte o di fiume.

16 Parola composta da cconza (terza persona singolare del presente indicativo di ccunzàre, come l’italiano acconciare da un latino *adcomptiàre, composto dalla preposizione ad e da una forma verbale iterativa del classico  comptus, participio passato di còmere=unire, acconciare, composto da cum=insieme e èmere=comprare; il concetto originario di  unione tra proprietario e proprietà è poi passato a quello generico di cose messe insieme) e lìmbure, plurale collettivo  di limbu, che qui assume un significato estensivo ad indicare qualsiasi recipiente di terracotta.

17 La sua attrezzatura era costituita da un trapano (naturalmente, a mano) con il quale praticava nei pezzi da unire dei forellini attraverso cui faceva passare un sottile fil di ferro che poi stringeva con la tenaglia (pizzicalòra); alla fine le linee di sutura venivano cicatrizzate con stucco bianco in polvere opportunamente miscelato con acqua. Quest’artigiano trova la sua celebrazione artistica più famosa nel pirandelliano zi’ Dima de La giara, ma suggestivo è anche il racconto autobiografico contemporaneo di Francesco Aulizio leggibile all’indirizzo http://www.nelracconto.it/pdf/33_3.pdf

 

La sacralità del valicabile e dell’invalicabile da Terminus a Limentinus, passando per Cardea

 

di Romualdo Rossetti

 

Non si potrà analizzare bene il concetto filosofico di limite se non ci si soffermerà ad esaminare quali furono le antiche divinità italiche pagane preposte alla difesa dello stesso. Nel pantheon dei nostri predecessori latini non a caso comparivano più nomi preposti, a vario titolo, alla salvaguardia di quella linea, reale o immaginaria, che di volta in volta definiva il valicabile o l’invalicabile.

Terminus era la divinità preposta alla protezione dei marcatori di confine. A tale divinità erano dedicate le festività chiamate terminalia che si celebravano in suo onore dopo la prima metà del mese di febbraio. Secondo lo scrittore romano dedito all’agrimensura Siculo Flacco il luogo prestabilito per l’edificazione della stele in pietra posta a segnare la fine o l’inizio di un possedimento agricolo, veniva reso sacro con un sacrificio di un animale (un maiale o un agnello) il cui sangue veniva raccolto e versato insieme alle ossa e alle ceneri dello stesso alla base del cippo. Il culto di Terminus molto probabilmente fu introdotto a Roma ai tempi della prima coreggenza tra re Latini e Sabini (Romulus e Titus Tatius). Terminus essendo essenzialmente una divinità preposta alla divisione della proprietà privata sovraintendeva la giusta ripartizione dei possedimenti agricoli, mentre per ciò che concerneva l’equità del lavoro nei suddetti possedimenti e la sana ed equa procreazione dei frutti della terra in questi coltivati (cereali in primis) la mansione ricadeva su di un’altra divinità ctonia di nome Hostilina.

 

 

 

Altra importantissima divinità preposta alla sicurezza dell’ingresso domestico era Cardea e la sua localizzazione sacrale permaneva nelle cerniere delle abitazioni ma non solo. Il cardo (Il cardine ovvero la via/linea principale Nord-Sud rifacentesi nel nome stesso alla dea ed a questa consacrato), intersecato all’altro tracciato detto Decumanus Est-Ovest, era  anche l’asse di orientamento geomantico tramite il quale gli Auruspici nonché successivamente gli Edili suddividevano la planimetria di un accampamento militare o di una città a pianta urbanistica ortogonale come già avevano operato con la volta celeste.

 

 

Cardea, al contempo, rappresentava anche il cardine della vita e della salute  Anticamente venne considerata moglie di Ianus Bifrons (Giano bifronte) la maggiore divinità tra i Di Indigetes, predisposta al movimento ed al cambiamento, colui il quale permetteva il transito e l’ostacolo. Ianus presiedeva tutti i transiti e gli oltrepassamenti e di conseguenza anche le soglie, avessero queste valenza materiale e immateriale, le porte (che solo in caso di guerra rimanevano spalancate nei suoi santuari), i passaggi coperti e quelli sovrastati da un arco, ma sovraintendeva anche l’inizio di una nuova impresa inerente la vita umana, col tempo storico – mitico e religioso della civiltà con tutte le sue istituzioni.

 

Cardea, che da ninfa abitava in un bosco situato presso il Tevere denominato Lucus Helerni, per volere del suo sposo bifronte possedeva il potere di allontanare le Striges dagli infanti proteggendo le cerniere delle porte delle dimore in cui questi erano venuti al mondo. Le Striges, latine come le Arpie e le Lamie elleniche erano rappresentate, nell’immaginario collettivo, come degli orribili uccelli rapaci notturni, dalla grande testa umana e dal verso lamentoso che si cibavano delle viscere e del grasso dei lattanti per poi dissetarsi del loro sangue. Cardea, oltre a proteggere gli infanti, fu anche una divinità minore predisposta alla salvaguardia della salute corporale (l’altro suo nome, quello di Carna richiamerebbe le parole latine caro, carnis ovvero “carne, cibo” e per traslitterazione rimandava alla protezione del corpo dei neonati, invece col nome di Cardea rimandava ai cardini vitali del corpo umano e in primis alla funzione digestiva (si badi bene che l’aggettivo cardiacus in latino originariamente designava la malattia di stomaco e non quella di cuore come comunemente si può credere).

 

 

Cardea, come già citato, presiedeva i cardini degli usci ad uso latino che si aprivano verso l’interno della domus e che potevano essere facilmente forzati dall’esterno, a differenza di quelli in uso nel mondo ellenico che si aprivano sulla strada e che risultavano, quindi, più difficili da forzare per chi era fuori dal limite della dimora). Si narrava spesso che Cardea avesse il potere di “aprire ciò che era chiuso e chiudere ciò che era aperto” permettendo il transito umano, ma anche quello energetico e vitale. Suoi aiutanti erano altre due divinità minori chiamate rispettivamente Forculus e Limentinus. Il primo  proteggeva l’integrità delle porte per tutto ciò che riguardava la parte lignea e come tale veniva invocato dai falegnami quando costruivano una porta. Il secondo proteggeva la soglia della casa ed era in suo onore che i Romani ponevano con cura sopra di essa unicamente il piede destro, come segno di buon augurio e protezione. Secondo altre fonti Cardea presiedeva unicamene il cardine, Forculus il battente e Portunus la chiave. Per altri invece Forculus custodiva le imposte e Limentinus la soglia e l’architrave.

 

 

Limentinus col passare del tempo divenne poi la divinità tutelare più nota della soglia (limen) domestica, sulla quale era buon auspicio poggiare il solo piede destro, consuetudine scaramantica che è rimasta invariata ancora oggi in molte parti d’Italia nonostante il trascorrere dei secoli.

Limen dunque come ingresso, come quel qualcosa che consentiva di accedere in un altro luogo considerato però di propria pertinenza. Esattamente contrapposto al significato della parola quasi omofona Limes che designò in origine il sentiero, quella linea militare fortificata che proteggeva chi racchiudeva, che prima di divenire fines, ovvero, “linea di confine”, volle indicare principalmente non solo un momento di sosta verso l’espansione territoriale di Roma ma una certa volontà di separazione atta a salvaguardare il proprio patrimonio culturale condiviso e considerato il migliore da difendere a tutti i costi col buon utilizzo del pilum e del gladio.

Da qui, necessariamente, la frase antropologicamente sprezzante “Hic sunt leones” che ha accompagnato per millenni un certo modo di considerare la propria civiltà da parte degli Occidentali eredi degli antichi Romani. Ma a ben vedere non è mai esistito un Limes che non abbia avuto in sé uno o più Limen di oltrepassamento e di comunicazione . Il fatto che si sia sacralizzato la linea d’ingresso o la linea di confine non fa che rafforzare ulteriormente questa interpretazione storico antropologica. Quindi, ogni volta che calpestiamo una soglia, o quando superiamo palizzate o linee reali o immaginarie o abbattiamo altrettante barriere culturali sforziamoci di ricordarci sempre del nostro passato e dell’antico culto dell’oltrepassamento latino.

Aradeo. La notte de li lazzareni

 

 

di Alessio Palumbo

 

Circa quindici anni fa, ad Aradeo, la tradizione del Santu Lazzaru era ormai data per morente. Una sola famiglia continuava a perpetuarla, portando le note e le voci della canto quaresimale nelle case di amici e parenti.

Avevo poco più di dieci anni e da non molto avevo preso a suonare la fisarmonica. Questo scatenò l’iniziativa di mio zio: perché non formare un gruppo per il Santu Lazzaru? Ci volle più tempo a dirlo che a farlo. La canzone è assai semplice, pienamente alla portata di un fisarmonicista alle prime armi. Come giustamente la definisce Giovanna Falco è una “lunga cantilena” con due strofe che si alternano. Dopo un paio di prove si era pronti.  Ed ecco come si svolgeva (e credo si svolga ancora) la notte dei lazzareni.

Intorno alle dieci ci si riuniva per l’ultima prova. Terminata questa e concordato il giro delle case, si usciva intorno alla mezzanotte. Mio padre e mio zio, le prime voci del gruppo, usavano preparare la gola mangiando pane, sarde e ricotta

Colori, sapori e aromi dei vini del Salento

di Pino de Luca

Il Grande Salento è costellato da Vini DOC. Traccia evidente di una vita strettamente legata alla vite, due grandi ceppi comuni, Primitivo e Negroamaro, eppure coniugati con gelosie identitarie insieme ricchezza e prigione di una storia culturale e colturale che solo di recente accenna ad una evoluzione.

Ben 14 denominazioni d’origine controllata, 15 se s’aggiunge l’Aleatico che è di Puglia ma che origina anch’esso dalla Bri-LE-TA.

DOC Rossi, Rosati e Bianchi declinati in modo sublime, di casati così intricati da aver conquistato il cuore ed il palato di tanti estimatori ma anche così minuscoli nell’immenso panorama nazionale e mondiale da non avere nessuna DOCG.

C’è stato e si muove carsicamente un tentativo di riunificare almeno alcune DOC sotto la bandiera salentina lasciando al già ricchissimo panorama IGT il compito di custodire i segreti di aree piccole ma ricche di storia e microclimi che possono essere racchiusi in una bottiglia. Territori da esplorare con l’occhio e il tatto, il naso e l’udito per ricercarne poi il gusto nei colori nei sapori e negli aromi di un bicchiere centellinato in religiosa meditazione o tintinnato in allegra compagnia.

Scendendo da Nord, dalla murgia barese, s’incontra il primo dei DOC:

Locorotondo: nato nel giugno del 1969 si produce con Verdeca e Bianco d’Alessano. Di colore giallo verdolino o paglierino chiaro, ha profumi caratteristici gradevoli e delicati, e gusto secco come le pietre dei muretti che circondano i fondi o dei trulli che punteggiano la campagna. Cisternino, Fasano, Ceglie Messapica sono comuni nei quali si coltivano le uve da cui si trae questa vera delizia che, nelle torride estati pugliesi, servito fresco accompagna profumati piatti di pesce dell’Adriatico. Attraversiamoli per spingerci verso Martina Franca, regina della meravigliosa Valle d’Itria. Anche qui, più bassi, troviamo una nuova versione in calice.

Martina Franca : nato insieme e dalla stessa composizione del Locorotondo viene da terre diverse. A cavallo di tre province ha la sua area elettiva nei comuni di Martina e Crispiano, ma si estende anche nell’area di Ostuni e di Alberobello. Con coltivazioni che raggiungono i 400 m. di quota. Come il Locorotondo è prodotto anche in forma spumante per degli aperitivi di gran classe. E da Martina Franca si scende verso lo Ionio, attraversando Crispiano, città straordinaria per la qualità dei prodotti d’allevamento e per le carni. Rosse e di grande impatto gustativo con le quali non possiamo più utilizzare la Verdeca, ma ci tocca addentrarci nello sterminato territorio del Primitivo.

Primitivo di Manduria : originato nel 1973, è uno dei DOC più famosi al mondo, prende nome dalla città Messapica ma il territorio comprende un’area vastissima della provincia di Taranto che comprende i comuni di Manduria, Carosino, Monteparano, Leporano, Pulsano, Faggiano, Roccaforzata, Fragagnano, San Giorgio Jonico, San Marzano di San Giuseppe, Lizzano, Sava, Torricella, Maruggio, Avetrana e si estende anche in Provincia di Brindisi investendo i comuni di Erchie, Oria e Torre Santa Susanna. Il Primitivo di Manduria è vino di straordinarie qualità organolettiche, di grande potenza (minimo 14% di alcool) e grandissima versatilità. Si coniuga in formato secco e amabile, financo dolce da raccolta tardiva. È uno dei Re della tavola di qualunque forma. E non ammette contaminazioni. Il Primitivo è sempre 100% primitivo. Confinante con l’area del primitivo vi è una enclave che ha resistito a questo strapotere.

Lizzano : nasce nel 1988, territorialmenteeee limitato ai comuni di Lizzano e Faggiano, accoglie dei blended che hanno alla base l’altro gigante dell’enologia del Grande Salento: il Negroamaro. Presente nelle tipologie del Lizzano da un minimo del 60% ad un massimo dell’85% e accoglie molte altre varietà in combinazioni che generano risultati di sicuro interesse per chi ama scoprire i segreti della mano dell’uomo in cantina oltre che nella vigna. La frontiera è passata, scendendo la costa Jonica il primo comune che s’incontra è Porto Cesareo, bellissima località dell’estate salentina e primo avamposto di un altro DOC.

Nardò : Nato nel 1987 è vino che si avvale del contributo del vento del mare Jonio, Nardò e Porto Cesareo i suoi comuni d’elezione e blending di uve sul campo. Su una robusta base di Negroamaro dell’80% si innestano Malvasia Nera di Brindisi, Malvasia Nera di Lecce e Montepulciano. Può essere declinato in forma rossa o rosata e anche riserva. È un vino di aromi e personalità ma di facile beva. Tasso alcoolico di 11,5% fino ad un massimo del 12,5% per la versione Riserva. Pochi chilometri più giù, sempre scendendo lo Jonio e s’incontra una delle più antiche città messapiche: Aletium. E anche qui un altro DOC.

Alezio : nato nel 1983, ha composizione simili al Nardò, anche se scompare la Malvasia Nera di Brindisi e compare il Sangiovese. Enclave di Alezio, Sannicola e parte di Tuglie. Come gran parte dei vini basati sul negroamaro, la consistenza alcolica oscilla dal 12% al 12,5% ma a far la differenza sono gli aromi e il gusto. Nell’Alezio prevalgono le note di fresco nel profumo e di amarognolo nel retrogusto. Ancora pochi chilometri, attaccato all’Alezio, dove si inerpica il terreno nella campagna mossa della “Murgia Salentina”, alligna una nuova esperienza enologica.

Matino : DOC, dal 1971 comprende il comune di Matino e le parti vitate di alcuni comuni confinanti come Parabita, Taviano, Casarano, Melissano, Tuglie, Gallipoli e lo stesso Alezio. Tasso di negroamaro minore (70%) e Malvasia Nera e Sangiovese producono un rosso ed un rosato molto caratteristici per corpo e profumi. Dopo Matino la conformazione del terreno lascia il posto alle splendi zone del capo di Leuca e nel nostro viaggio per DOC non possiamo che risalire svoltando verso oriente. Il primo caposaldo che s’incontra è Galatina.

Galatina : dal 1997, i territori di Galatina e Cutrofiano, Aradeo, Neviano, Secli, Sogliano Cavour, Collepasso, fertili e pianeggianti, danno vita ad una vera linea completa di prodotti per ogni gusto. Ben nove declinazioni che vanno dal novello, al bianco frizzante, al rosso prodotti con uve di qualità autoctone e internazionali, in purezza e in blending consentono di rispondere ad ogni esigenza. Ne fa le spese l’identità specifica ma non si può avere tutto … Pochi chilometri più sopra una enclave del rigore riprende la mano.

Copertino: dal 1976 si produce solo in rosso e rosato e nella composizione a madre negroamaro (70%) con ricomparsa di Malvasia Nera di Lecce, Malvasia Nera di Brindisi, Montepulciano e Sangiovese. Il vino riprende vigore (dal 12% al 12,5%) e aromi e gusto riportano al vinoso. I comuni che contribuisconoo al risultato hanno terre in Copertino, Carmiano, Arnesano, Monteroni, e in frazioni di Lequile e Galatina. Ma la multivarietà ricompare sopra Copertino.

Leverano : anche qui siamo alla recente conquista, 1997, e alla scelta di dotare la DOC con una molteplicità di produzioni che va dal Novello al bianco passito, alle vendemmie tardive oltre che ai rossi e ai rosati. Tutte produzioni di pregio alle quali contribuisce l’area estesa e fertile di Leverano e porzioni di terre di Arnesano e Copertino. Ancora risalendo verso Est ancora un DOC, anche questo ampio per estensione, prodotti e storia:

Salice Salentino : dal 1976 comprende i comuni Salice Salentino, Veglie, Guagnano, San Pancrazio Salentino, Sandonaci, e parte dei terreni di Campi Salentina e Cellino San Marco. Nel Consorzio di Tutela del marchio DOC Salice Salentino sono presenti numerose produzioni, autoctone e internazionali, in purezza ed in blending. Un ottimo Pinot Bianco ad esempio come il più famoso Salice Salentino Rosso (80% negroamaro e 20% malvasie). Il Salice Salentino Rosato è sicuramente il più antico fra i rosati prodotti. Verso est continuando s’incontra l’area DOC dello:

Squinzano:  area vasta e antica (1976), fatta da Squinzano, Novoli, San Pietro Vernotico Torchiarolo e parte del territorio dei comuni di: Campi Salentina, Trepuzzi, Surbo, Lecce, Cellino San Marco. Produzione rigorosa, da uve autoctone Negroamaro (70)%, Malvasia Nera di Lecce e Malvasia Nera di Brindisi declinato in rosso ed in rosato. In queste terre calde la potenza alcolica, il corpo e gli aromi si rafforzano con un grado minimo di 12,5 fino a 13,5. E ancora si risale fino a Brindisi, capoluogo sul mare proiettato nella terra.

Brindisi : è DOC dal 1979, il DOC messapico per eccellenza, fa riferimento ai territori della città di cui porta il nome e di Mesagne. Molto simile allo Squinzano ma senza Malvasia Nera di Lecce che si sostituisce con Sangiovese e Sussumaniello, antico vitigno recuperato da poco del quale si devon raccontare altre storie … Rosato e Rosso, il Brindisi DOC è una delle migliori valorizzazioni del Negroamaro. Per tornare a nord s’ha da percorrere la costa adriatica, a sinistra maestosa compare la Città Bianca. Ultimo DOC prima di lasciare il Salento.

Ostuni : uno dei più vetusti disciplinari DOC (1972) per uvaggi assolutamente originali su un territorio altrettanto particolare. I DOC di Ostuni sono due, uno in bianco da uve Impigno (dal 50% all’85%) e Francavilla (dal 50% al 15%), e uno rosso: Ottavianello di Ostuni (almeno 85%) con aggiunta d’altri vitigni. Qui siamo davvero alle produzioni originali e peculiari che non trovano riscontro in altri territori salentini. Assolutamente da visitare, come Ostuni.

Possiamo tornar felici a casa con dell’Aleatico di Puglia che nel Salento ha la sua zona eletta anche se può esser prodotto in tutta la Regione. Ci siamo dimenticati di citare l’ultima delle DOC nate: Colline Joniche Tarantine, sarà un’altra occasione per visitare il GRANDE SALENTO.

Viaggio a Taranto, per antiche rotte

di Rocco Boccadamo

 

Nessuna confusione fra terra e mare, nella circostanza il “veicolo” non è una barchetta a vela, bensì un’autovettura Golf. L’accezione “rotte” sta, dunque, semplicemente per percorsi stradali e, però, non aderenti alle direttrici più scorrevoli e veloci solitamente seguite adesso, ma ricalcanti le tratte d’una volta, quelle coperte dai meno consistenti eserciti di automobili di una sessantina d’anni addietro.

Correvano i tempi delle nutrite migrazioni stagionali, dalle plaghe del Basso Salento, o Capo, verso gli ampi tratti di terreni pianeggianti, qua e là irrigui, ubicati fra il confine a ovest dell’agro tarantino e l’attigua provincia di Matera, specie sulla fascia costiera prossima allo Ionio, da Metaponto a Nuova Siri.

Lo scopo dei “cafoni” che si spostavano era di attendere, in regime di mezzadria, a rilevanti campagne o programmi di coltivazione del tabacco, iniziative, con annessi patimenti e sacrifici, indispensabili per riuscire a dare una dote alle figlie femmine e a tirar su l’abitazione, o “fabbrico”, per i maschi.

In genere, i primi a lasciare il Tacco, fra gennaio e febbraio, erano i capi famiglia, accompagnati da uno o due figli, i quali si occupavano della preparazione dei vivai (ruddre), con la caratteristica e immancabile abitudine di mettere a dimora, sui morbidi cordoli perimetrali, centinaia o migliaia di piantine di lattuga, che, una volta cresciute, avrebbero conferito un non trascurabile contributo alle occorrenze della tavola e/o della stessa dieta alimentare.

Ma il processo emigratorio di maggiore portata, coinvolgente gli interi nuclei con il completo svuotamento delle case salentine, aveva luogo a fine aprile, quando occorreva provvedere alla piantagione del tabacco, alla successiva “sarchiatura” e, dopo di che attendere la crescita e la maturazione, effettuare la raccolta delle foglie in più serie o fasi (la 1^, la 2^, la 3^ e la 4^), curarne man mano l’infilatura e la  lenta essiccagione sotto il sole, sino al confezionamento dei “chiuppi”, appesi ordinatamente al soffitto di grandi capannoni coperti e arieggiati, nelle more dello stivaggio della preziosa materia prima in capienti casse di legno a strisce, da consegnarsi o conferirsi agli opifici o manifatture o magazzini per la lavorazione finale.

Le famiglie trascorrevano, così, nelle loro nuove residenze, di Ginosa, Metaponto, Pisticci, Bernalda, Marconia, Montalbano Ionico, Scanzano, Policoro e Nuova Siri, una parentesi di tre – quattro mesi, rientrando nei paesi d’origine intorno a Ferragosto.

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I mezzi di trasporto per così tanta gente erano rappresentati da grosse autovetture Fiat o Lancia di modello familiare, talora con l’aggiunta, all’interno, di sedili supplementari e precari, onde accogliere addirittura 8 – 10 viaggiatori, il portabagagli sul tetto carico a dismisura, un enorme volume di scatole, cartoni, bisacce, borsoni e pacchi oltremodo ragguardevoli: d’altronde, era l’intero focolare domestico che si muoveva.

I padroncini, o noleggiatori o autisti che operavano principalmente con tale categoria di trasferte, preferivano mettersi al volante di notte o nelle primissime ore del mattino, così da incontrare, almeno in parte, scarso traffico e, insieme, per tentare di scansare le pattuglie della Stradale o di altre forze dell’ordine, che spesso, intimando l’alt ai mezzi strapieni e sovraccarichi, passavano a compilare verbali e a infliggere multe.

Questi viaggi della speranza o, più precisamente, del tabacco, si svolgevano invariabilmente lungo il medesimo itinerario: Maglie, Cutrofiano o Corigliano, Galatina, Galatone, Nardò, Avetrana, Manduria, Sava, Fragagnano, Monteparano, S. Giorgio Ionico, Taranto e, per continuare, lungo la statale 106, sino a Ginosa eccetera. La tabella di velocità segnava da 60 a 90 chilometri orari, unica breve sosta intermedia a Sava.

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Stamattina, per una visita a familiari dimoranti a Taranto, approfittando anche della bella domenica d’ottobre, ho volutamente scelto di ricalcare fedelmente la mappa delle sopra richiamate, ormai lontane, spedizioni lavorative.

Dopo Maglie, ecco Corigliano d’Otranto, nota per il maestoso Castello De Monti e il secolare e grazioso Arco Lucchetti.

Personalmente, ogni volta, sono portato ad associare detta località alla figura di due donne, recanti in comune il nome di Teresa, che molte stagioni fa sposarono due marittimesi, entrambi con il diploma di geometra, il primo un po’ più grande, il secondo quasi coetaneo, intimo amico e pure parente di chi scrive. Purtroppo, solo le signore sono ancora in mezzo a noi: la Teresa giovane, la incontro raramente, giacché risiede fuori, mentre l’altra, che da ragazza era particolarmente bella, la scorgo spesso nella sua villetta di fronte al mare e, sebbene versi attualmente in condizioni fisiche precarie, giammai ella manca di mandarmi un saluto con la mano e di accennarmi un sorriso di buon ricordo.

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Fase assai suggestiva del viaggio, è il segmento di oltre venti chilometri fra Nardò e Avetrana, in corrispondenza delle estensioni che, un tempo, rappresentavano il latifondo dell’Arneo, contraddistinto da una folta macchia mediterranea, spesso zona di rifugio di bande di malintenzionati, predoni o grassatori se non proprio briganti, al punto che le carovane in movimento, a bordo di traini con le alte ruote a raggi sospinti da cavalli, curavano di evitare di percorrere il tratto al buio, salvo, in ogni caso, raggrupparsi per meglio fronteggiare eventuali brutti incontri.

Adesso, chiaramente, per fortuna, di briganti, almeno di quel genere, non ve ne sono in giro. Fra Nardò e Avetrana è sorto un villaggio o borgata, Boncore, dotato, fra l’altro, di un apprezzato ristorante: alla sua altezza, verso ovest, fanno capolino le distese dello Ionio.

Ecco, quindi, Avetrana, paesone o cittadina con oltre diecimila anime, gli abitanti che usano tuttora trattenersi in piazza a conversare, la chiesa parrocchiale con la torre campanaria che, alla sommità, presenta due distinti atipici elementi architettonici.

Nell’occasione, il guidatore che scrive non può limitarsi ad attraversare la località e proseguire, sente il bisogno di una breve sosta: al camposanto, proprio all’ingresso, si affaccia un piccolo monumento sotto forma di aiuola fiorita con, al centro, l’immagine del volto sorridente di una quindicenne e, invero, non è possibile incrociare quegli occhi senza essere presi da pensieri e riflessioni.

Prima e dopo Avetrana, si sussegue un vasto comprensorio di ex cave, da cui, un tempo, si estraevano ingenti quantitativi di tufi o conci o piezzi, adoperati per erigere abitazioni e capannoni.

Ciò che resta, oggi, di tali mastodontiche buche, è l’impatto con le pareti altissime, evidenzianti sommari reticolati a righe, in corrispondenza dei singoli cilindri tufacei estratti durante l’attività delle cave. Si nota, in aggiunta, che, in molti casi, sul fondo degli scavi sono stati immessi grossi strati di fertile terra rossa e creati uliveti e/o altre coltivazioni, quasi che, in luogo della sostanza naturale asportata, si fosse voluto generare nuove linfe di vita.

Superata Avetrana, si snodano altri centri già conosciuti dall’osservatore di strada nei suoi primi anni di lavoro in banca a Taranto. Nonostante i decenni trascorsi e i diffusi cambiamenti, taluni particolari sono rimasti intatti: il ricordo vivo della nobildonna, cliente, di Manduria, il palazzo/castello di un facoltoso cliente a Monteparano, la villa, oggi come allora tinteggiata di color rosso melograno,  di un altro signore in rapporti con la banca.

Oltrepassata S. Giorgio Ionico, non rimane che la lieve discesa verso il capoluogo: la Taranto affascinante con i suoi magnifici due mari, ma, nello stesso tempo, come è noto, portatrice, sotto vari aspetti, di un’assai delicata e complessa realtà.

Intanto, il viaggio è giunto alla meta, avviene l’incontro con uno stuolo di parenti e, in loro compagnia, lo svolgimento di un interessante convivio familiare a base di freschissime orate appena pescate in Mar Grande.

 

La Centoporte di Giurdignano

Chiesa dei santi Cosma e Damiano detta “Centoporte” a Giurdignano (Lecce)

di Michele Bonfrate

I ruderi della chiesa dei santi Cosma e Damiano detta “Centoporte”, costruita tra la fine del V e l’inizio del VI secolo d.C., si trovano nel territorio comunale di Giurdignano (provincia di Lecce) a circa km. 1,5 a nord del paese percorrendo la strada denominata via San Cosma che dal centro abitato conduce ai Laghi Alimini, in un contesto paesaggistico rurale di coltivazione estensiva ad uliveti scarsamente urbanizzato.

I resti monumentali dell’edificio appartengono ad una grande basilica a tre navate, di circa m.30 di lunghezza e m.17 di larghezza e strutture murarie conservate in elevato fino ad un altezza massima di circa m.5.

Grazie al rilievo architettonico eseguito nel 1882 dall’Ing. Giovanni Bodio, alla coeva descrizione dell’illustre Cosimo De Giorgi, alle fotografie del 1930 di Giuseppe Palumbo, allo studio architettonico del 1961 del Prof. Adriano Prandi, alle indagini archeologiche condotte dal Prof. Paul Arthur nel 1993-95 ed al minuzioso studio architettonico condotto dall’Arch. Michela Catalano del 1995 (cui spetta il merito di aver riscoperto con una mirata ricerca d’archivio l’intitolazione della chiesa di Centoporte ai Santi Cosma e Damiano), è possibile documentare la grande importanza storica, architettonica e archeologica che assume l’immobile demaniale malgrado lo stato di avanzato degrado in cui versano i ruderi, che non hanno mai subito un intervento conservativo o di valorizzazione ma soltanto impuniti atti di demolizione e danneggiamento da parte di ignoti, nonostante da oltre un secolo siano segnalati come meta turistica.

Nell’aprile del 1880 Cosimo De Giorgi la trova «in uno stato miserando; l’antica chiesa era di forma basilicale a tre navi divise da dieci pilastri, senza croce, con una sola abside in fondo alla nave mediana, ed era preceduta da un vestibolo o pronao di forma rettangolare. Il presbiterio era collocato nella nave mediana dinanzi all’altare maggiore; ed un muricciuolo chiudeva il coro e gli amboni. Le pareti erano intonacate e dipinte a fresco. La facciata terminava in alto a frontone ed una finestra trifora illuminava la nave mediana e le dodici finestre aperte nei muri laterali della stessa nave sopra gli archi sorretti dai pilastri. Il tetto era a due pioventi; le navi laterali aveano una sola falda. Tre porte mettevano dal pronao nell’interno del tempio, una per ciascuna nave a tre finestre erano aperte nella parete semicilindrica dell’abside, un’altra porta metteva in comunicazione la nave sinistra con una stanza che forse faceva parte del cenobio basiliano. I muri esterni delle navi laterali, i pilastri, il presbiterio sono un mucchio di informi rovine ed hanno ricoperto l’area interna dell’antica basilica sotterrando il pavimento. La smania dei cercatori di tesori  ha messo tutto a soqquadro. La cripta è stata anch’essa saccheggiata e sotterrata. Molte monete sono state rinvenute nei poderi attigui alla basilica; ed un tesoretto scoperto nel secolo scorso a poca distanza dalle Centoporte servì alla costruzione della chiesa di Giurdignano. Terminerò col far voti che l’edifizio sia cinto con un muro per conservare, almeno in omaggio alla storia, i pochi ruderi rimasti ».

L’abside, i pilastri, gli angoli dell’edificio ed altri punti di carico strutturale sono realizzati con l’impiego di grandi blocchi squadrati in pietra leccese, provenienti da qualche edificio di probabile origine ellenistica, come testimonia la presenza di lettere greche incise. Le altre strutture murarie sono costituite da blocchi più piccoli di calcarenite locale grossolanamente squadrati e legati con un ottima malta ed intonaco bianco in diversi punti conservato con eccezionale presa.

Scavi archeologici condotti dal Prof. Paul ARTHUR (Università di Lecce) negli anni 1993-95 hanno permesso di verificare ed acquisire nuovi dati dell’edificio.

Numerosi frammenti di tegole e coppi ceramici hanno testimoniato la copertura a doppio spiovente della navata centrale ed a singola falda le coperture delle navate laterali e del nartece. All’interno dell’edificio non è stata trovata traccia di pavimentazione, mentre il rivestimento parietale superstite era fatto d’intonaco bianco.

La ceramica rinvenuta nelle fosse di fondazione della chiesa e fra i giunti dei blocchi, sembra databile tra il tardo V e gli inizi del VI secolo; di fronte alla chiesa, e nei campi intorno, ove affiora il banco di roccia calcarenitica, è stata rinvenuta una serie di tombe, alcune delle quali sono databili al tardo VI o VII secolo.

Tipologicamente l’edificio ha vari confronti con città del territorio bizantino orientale compresa Costantinopoli.

Probabilmente durante il VII secolo inoltrato o quello successivo l’edificio basilicale fu sostanzialmente ristrutturato (forse in un monastero) con la creazione di ambienti all’interno della navata centrale e con il tamponamento delle aperture esterne. Non è chiaro quanto tempo sia passato tra la fine della costruzione della chiesa originaria e l’inizio delle nuove costruzioni al suo interno; il risultato della ristrutturazione sembra essere la fortificazione dell’edificio tramite il tamponamento delle aperture dei muri perimetrali della chiesa, la costruzione di due piccoli edifici nella navata centrale: il primo sfruttava l’abside e pare sia stato una piccola chiesa, successivamente decorata con affreschi (nel 1608 la visita pastorale dell’arcivescovo di Otranto attesta la presenza nell’abside dell’immagine della Vergine, dei santi Cosma e Damiano, di san Francesco e di sant’Eligio); il secondo edificio, il cui muro di fondo era costituito dalla facciata della chiesa, forse ospitava gli ambienti di servizio, quali refettorio e il dormitorio, verosimilmente dislocati su due piani. Lungo il lato settentrionale della chiesa fu aggiunto un ambiente rettangolare, in cui è stata rinvenuta una sepoltura databile intorno all’XI secolo.

L’ultima santa visita dell’ arcivescovo di Otranto alla chiesa di Centoporte è del 1626 e viene descritta in buone condizioni.

Due secoli e mezzo dopo Giovanni Bodio e Cosimo De Giorgi la descrivono e la documentano come un imponente rudere; alla metà del XX secolo Adriano Prandi documenta un ulteriore disfacimento; cinquant’anni dopo Michela Catalano eseguendo un accurato rilievo architettonico riscontra che altri crolli e demolizioni hanno ulteriormente danneggiato l’indifeso monumento.

L’immobile è una proprietà del Demanio ferroviario della Regione Puglia, sito nel Comune di Giurdignano (provincia di Lecce) ed è stato consegnato all’associazione di volontariato Archeoclub d’Italia Sede locale di Porto Badisco (con sede in Uggiano La Chiesa, Lecce) in data 15/2/2007 in esecuzione della Convenzione d’Uso sottoscritta in data 16/10/2006 tra Ferrovie del Sud-Est s.r.l. e la suddetta associazione.

In base a tale Convenzione, l’associazione è obbligata ad utilizzare l’immobile demaniale «per l’esclusivo fine di svolgervi attività di valorizzazione e fruizione dello stesso garantendone la corretta cura e manutenzione secondo le modalità che dovranno essere concordate ed accordate preventivamente dal competente Ufficio Periferico del Ministero per i Beni e le Attività Culturali ai sensi del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004 n.42 “Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio”. Le “Ferrovie” non assumono alcuna responsabilità in merito all’esecuzione di qualunque opera da realizzarsi sul bene di che trattasi, la responsabilità medesima sarà ad esclusivo carico» dell’Associazione consegnataria (art. 3 della Convenzione).

Ai sensi dell’art.7 della citata Convenzione, l’associazione ha assunto «a suo carico tutti gli oneri relativi alla manutenzione ordinaria e straordinaria dell’immobile concesso in uso, delle opere su di esso realizzate nonché della recinzione dello stesso. Le “Ferrovie” sono sollevate da qualunque responsabilità per danni di qualsivoglia natura a persone e cose che possano accadere sul bene oggetto del presente atto, anche derivanti dalla mancata manutenzione dello stesso. E’, inoltre, a carico dell’Archeoclub la pulizia del cespite concesso in uso».

La Convenzione è stata approvata dalla Regione Puglia -Assessorato ai Trasporti – Settore Sistema Integrato dei Trasporti (nulla-osta prot. n.26/2701/S.I.T. del 14/9/2006) e dalla competente Soprintendenza per i Beni Architettonici, per il Paesaggio e per il Patrimonio Storico, Artistico e Etnoantropologico delle Province di Lecce, Brindisi e Taranto (parere favorevole prot.n. 9776 del 17/11/2006 ) .

 
 
ph Michele Bonfrate

STATO DELLA TUTELA E DELLA FRUIZIONE

La chiesa di Centoporte, in quanto immobile demaniale dello Stato che presenta interesse storico, architettonico e archeologico è un bene culturale tutelato ai sensi dell’art. 10 del Decreto Legislativo 22/01/2004 n. 42 “Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio”.

Nel vigente Piano Urbanistico Territoriale Tematico regionale, un’area circolare tipizzata come “ambito B” di m.500 di diametro erroneamente inscrive graficamente il solo toponimo cartografico “le Centoporte” e non la ubicazione esatta del rudere del monumento che quindi ricade in area tipizzata “ambito C”.

Nel medesimo P.U.T.T. regionale il monumento è riportato nell’elenco delle “segnalazioni architettoniche” del territorio comunale di Giurdignano.

Nel vigente Piano Regolatore Generale del Comune di Giurdignano il monumento ricade in zona E 2 – verde agricolo (uliveto) ed è inscritto in un’area circolare di m.50 di diametro senza legenda.

Il monumento è facilmente raggiungibile sia perchè segnalato con appositi segnali stradali che indicano l’itinerario stradale proveniente dal centro del paese e sia perchè menzionato in ogni tipo di pubblicazione a carattere turistico-divulgativo locale nonchè segnalato su tutte le principale guide turistiche edite a livello nazionale.

I lati est, sud ed ovest del monumento coincidono con i limiti della particella catastale  demaniale confinante con altre particelle di proprietà privata; questa situazione ha consentito in tempi recenti la costruzione a diretto contatto con il lato sud del momunento di un piccolo deposito agricolo (dim m.1,85 x 2,90 altezza m.2,20); lo stesso lato sud del monumento si caratterizza per la demolizione completa fino alle fondazioni di un tratto di circa m.17 dell’antica struttura muraria.

Sul lato est del monumento, lo stipite meridionale della finestra centrale dell’abside reca inequivocabile l’azione di demolizione (per fortuna non portata a termine) avvenuta a danno del grande concio in pietra leccese spostato di oltre cm. 20 dalla posizione originaria dopo le riprese fotografiche di Adriano Prandi del 1961 (cfr. immagini seguenti).

Sempre un’altra ripresa fotografica del Prandi testimonia che dopo il 1961 è avvenuto il crollo dell’ultima porzione superstite del muro d’ingresso della navata sinistra.

Il ridotto volume di materiali lapidei presenti in crollo all’interno del monumento è stato interpretato sia da Prandi che da Arthur come risultato dell’azione di depredamento sistematico dei ruderi; inoltre sono numerosi i segni lasciati sugli elementi lapidei del monumento da percussioni recenti inferti da mano vandaliche.

L’esigenza di una recinzione di protezione intorno al monumento finalizzato a controllare l’utilizzo del bene ed a dotarlo di uno spazio minimo di rispetto funzionale altresì alla realizzazione dei lavori di restauro conservativo nell’ambito di un organico progetto di valorizzazione e fruizione, appare quanto mai prioritaria, urgente ed indifferibile.

Nel 2005 l’Archeoclub d’Italia Sede Locale di Porto Badisco chiede all’Ente proprietario ed alla Soprintendenza le autorizzazioni ad eseguire il taglio della vegetazione infestante che occultava il monumento al fine di consentirne la visita guidata in occasione della manifestazione nazionale “Chiese Aperte – X edizione – 14 maggio 2006”.

All’indomani della manifestazione si avvia la procedura che porterà il 16/10/2006 alla sottoscrizione della Convezione tra le Ferrovie del Sud-Est e l’Archeoclub per l’affidamento dell’immobile demaniale all’Associazione per l’esclusivo fine di svolgervi attività di valorizzazione e fruizione del monumento stesso garantendone la corretta cura e manutenzione.

Dopo la consegna dell’immobile avvenuta il 15/2/2007, l’Archeoclub ha proseguito l’opera di taglio della vegetazione infestante (rovi) che in parte ancora occupava il monumento ed il 13/5/2007 in occasione della XI edizione della manifestazione nazionale “Chiese Aperte“ è stata di nuovo promossa la visita guidata della Centoporte.

Nel mese di luglio 2007 su iniziativa ed intervento diretto del Comune di Giurdignano viene completato il taglio di tutta la vegetazione infestante che copriva le strutture della Centoporte compresi i lati esterni del monumento confinanti con le proprietà private (particelle 41 e 40 ad est, particelle 44 e 45 a sud, particella 43 ad ovest) e parzialmente le banchine della strada comunale Centoporte nel tratto che collega il monumento all’incrocio con la strada comunale per i Laghi Alimini.

Riferimenti bibliografici

BODIO Giovanni,          Basilica detta Centoporte in territorio di Giurdignano a 600 metri dalla casa cantoniera N.599 della ferrovia Maglie-Otranto; appunti, Tip. Editrice Salentina, Lecce 1882.

DE GIORGI Cosimo,     La Provincia di Lecce. Bozzetti di viaggio, Lecce 1888, p. 284-287.

BODIO Giovanni,          Basilica detta le Centoporte in territorio di Giurdignano a 600 metri dalla casa di guardia al km.840 della ferrovia Maglie-Otranto , Milano 1893.

PRANDI Adriano,         Monumenti salentini inediti o mal noti, II, San Giovanni di Patù e altre chiese di Terra d’Otranto, in «Palladio. Rivista di Storia dell’Architettura», fasc. III-IV, anno XI, luglio-dicembre 1961, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1961, p. 103-136.

JURLARO Rosario,       Lettere greche alla «Centoporte» di Giurdignano (LE), in “Atti del IV Congresso Nazionale di Studi Bizantini”, Lecce, 21-23 aprile 1980, Congedo Editore, Galatina 1983, p. 263-266.

CATALANO Michela,  Strutture murarie del Salento: la Centoporte di Giurdignano (Lecce), Politecnico di Milano 1994.

ARTHUR Paul,              Giurdignano (Lecce), le Centoporte, in «Taras. Rivista di archeologia», XIV, 1, 1994, Scorpione Editrice, Lecce 1994, p. 175.

ARTHUR Paul,              “Masseria Quattro Macine” – a desert medieval village and its territory in southern Apulia: an interim report on field survey, excavation and document analysis, in “Paper of the British School at Rome”, vol. LXIV, Hertford 1996, p. 181-194.

ARTHUR Paul,              La chiesa bizantina detta “Le Centoporte” a Giurdignano, in BERTELLI Gioia (a cura di), Puglia preromanica dal V secolo agli inizi dell’XI, Edipuglia-Jaca Book, Milano 2003, p. 177-180.

Dalle orecchiette alle ‘ncannulate. Salento, terra di trafilatori

di Massimo Vaglio

In più occasioni, abbiamo illustrato i formati caserecci di pasta della tradizione salentina, dalle fatidiche orecchiette, da sempre  l’emblema della cucina di questa regione, alle ormai parimenti famose sagne “ncannulate” o agli arcaici maccheroncini cavati. Tutti  formati che ormai vengono apprezzati anche fuori regione anche grazie all’opera di promozione svolta dalle tante dinamiche aziende produttrici.

Per quanto riguarda la preparazione casalinga di questi formati, ricordiamo che le farine vengono quasi sempre ricavate da grani duri coltivati localmente e moliti artigianalmente dai tanti piccoli molini sparsi un po’ in tutto il Salento, Non si tratta quindi di semole, ma di farine, con un vario grado di raffinazione a cui, spesso, chi preferisce un prodotto più rustico vi aggiunge ad arte una percentuale variabile di cruschello ricavato dall’abburattamento della farina dopo la separazione della crusca vera e propria.

Quella della preparazione casalinga della pasta è una pratica semplice che necessita principalmente di una buona materia prima, pochi rudimentali attrezzi e di una sicura manualità.

Il Salento, è però anche terra di rinomati opifici per la produzione industriale di pasta secca trafilata, un’attività che non scaturisce come si potrebbe pensare dall’evoluzione della preparazione casalinga della pasta. Enorme è infatti il divario tecnologico tra le due produzioni, che se si volesse fare un parallelo è come se si mettessero a confronto una carriola con una potente auto di ultima generazione. Un divario tecnologico che parte dalla produzione della semola, per produrre la quale occorrono macchinari imponenti, sofisticati e precisissimi quali i molini di alta macinazione. Piuttosto, la produzione industriale rappresenta il frutto della lenta evoluzione di un’attività che, iniziata

La camomilla

di Armando Polito

nome scientifico: Matricaria chamomilla L.

famiglia: Asteraceae

nome italiano: camomilla

nome dialettale neretino: capumìlla 

Etimologie: La prima parte del nome scientifico è forma aggettivale da matrix=utero, con riferimento alla sua proprietà di favorire i mestrui e, comunque, di lenire i sintomi dolorosi della dismenorrea; la seconda parte del nome scientifico e quello italiano sono dal latino tardo chamomìlla, adattamento del greco chamàimelon, composto da chamài=a terra e melon=melo, con riferimento contemporaneo alle dimensioni e all’odore dei fiori simile a quello di certe mele. Asteraceae è forma aggettivale da aster=stella, con riferimento alla forma del fiore. La voce dialettale presenta passaggio –m->-p– dovuto molto probabilmente ad incrocio con campo, come dimostrerebbe la variante campumìlla (Carovigno e San Giorgio sotto Taranto).        

Plinio (autore latino del I° secolo d. C.), XXI, 24: “Asclepiade tiene in grande considerazione l’antemide. Altri la chiamano leucantemide, altri leucantemo, altri erantemo poichè fiorisce in primavera, altri camemelo poiché ha odore di mela. Parecchi la chiamano melantemo. Le sue tre varietà si differenziano solo nel fiore, non superano il palmo e hanno piccoli fiori, come quelli della ruta, bianchi o del colore della mela o purpurei. Si raccolgono in primavera su terreno povero o presso i sentieri e se ne fanno ghirlande. Nello stesso tempo pure i medici con le foglie pestate confezionano pastiglie, lo stesso fanno con il fiore e la radice. Sono somministrate tutte mescolate nella dose di una dracma contro il morso di qualsiasi serpente. Quest’erba bevuta fa espellere i feti morti, favorisce i mestrui, l’emissione di orina e l’eliminazione dei calcoli; mangiata sana la flatulenza, le malattie del fegato, il travaso di bile,

Il pavimento della cattedrale di Otranto

di Florio Santini

…Ora che Pantaleone e Dante, pur se italo-greco l’uno e fiorentino l’altro, amassero e possedessero rispettivamente la barbara, in senso vichiano, evidenza rude del segno e del verso, ma anche una sottostante emblematicità teologica o significato metafisico di fondo, nessuno potrà negarlo. Che, poi, l’amore del reale e del trascendente in essi coesistessero, trasformandosi in forza creativa del canto e della figura, fino a renderli capaci di grandi sincresi religiose, per dotti e analfabeti in una, ancora una volta, questo, nessuno potrà negarlo.

[…] E ‘La Divina Commedia’ non è forse, anch’essa, una specie di mosaico-omelia? E il pavimento parlante di Pantaleone non è forse una colorata lezione di Conoscenza, condotta con metodo allegorico sopra un ordito di gesta e personaggi storici? Niente di più dantesco, quindi./

Nel mosaico troviamo la biblica punizione terribile del Male che non si pente, ma anche la figura pietosamente cristiana del buon ladrone. Nel mosaico, come nella Commedia, troviamo un attualissimo ammonimento esemplificato ai potenti del mondo, quelli che costruiscono l’effimera e inutile Torre di Babele, non per caso collocata da Pantaleone al lato opposto dell’Albero primigenio./

Tutto il mosaico idruntino, al pari della ‘Commedia’, si svolge e si svela al servizio del simbolismo mistico. Si pensi ai due elefanti indiani, asiatica allusione […] alla Sapienza Divina.

Pantaleone e Dante sono artisti caleidoscopici: non manca il gusto dell’orribile, del grottesco, del gigantismo, del composto e del frammentario, messi però al servizio dell’ incantesimo cristiano, anziché della magia pagana./»

(da Suggestioni e analogie tra il mosaico pavimentale della Basilica Cattedrale di Otranto e la Divina Commedia, p. 97).

Tra i dipinti della chiesa delle Alcantarine di Lecce

Nel secolo fui chiamata Margarita… 

Una rara leggenda agiografica tra i dipinti della chiesa delle Alcantarine di Lecce.

 

di Valentina Antonucci

Una delle più belle chiese di Lecce, benché non tra le più note, è quella dedicata a S. Maria della Provvidenza.

Affacciata sull’odierna piazzetta Giorgio Baglivi, poco distante da Porta Napoli, essa faceva anticamente parte di un complesso monastico appartenente all’ordine degli Alcantarini, francescani riformati che seguivano la Re­gola di S. Pietro d’Alcantara. Nella fattispecie, la residenza di piazzetta Baglivi era sorta per ospitare la comunità femminile delle Alcantarine di Lecce, costituitasi nel 1698.

Si tratta di un edificio ad aula unica con altari laterali e presbiterio a pianta quadrata. La facciata a due ordini, sormontata da cimasa a timpano, è ornata da nicchie con statue di Santi . Fu eretta a partire dal 1724 su disegno dell’architetto Mauro Manieri per volontà e con il finanziamento del barone di Torchiarolo, Giuseppe Angrisani, che lasciò in merito precise disposizioni testamentarie.

La fabbrica fu completata nel giro di vent’anni e nello stesso arco di tempo furono realizzati gli altari, i quali erano originariamente quattro: altri due ne furono aggiunti nel XIX secolo e trovarono posto nel vano di due porte che erano state murate dopo l’abbattimento del convento adiacente e la risistemazione urbanistica dell’isolato.

Qualche anno fa ebbi occasione di osservare e studiare alcuni dei dipinti facenti parte dell’arredo pittorico della chiesa. L’occasione fu quella del loro restauro, che venne affidato ad un laboratorio in cui avevo agevolmente accesso, stanti i rapporti di stretta collaborazione che mi legavano alla restauratrice di esso responsabile. Per uno storico dell’arte, non vi è situazione più felice di quella in cui gli sia dato agio di seguire il restauro di opere pittoriche che rientrino nell’ambito dei suoi interessi di studioso: la visione ravvicinata del dipinto nella luce perfetta del laboratorio, con le emozionanti scoperte di iscrizioni o di dettagli iconografici che quasi sempre comporta, nonché la possibilità di osservare la materia pittorica e persino la consistenza e la struttura del supporto, sono condizioni di studio ideali,

Il lampascione, re dei bulbi. Tutto ciò che occorre sapere

di Massimo Vaglio

 

Squisiti, adorabili, straordinari, benefici, gustosi, ottimi, particolari, ricercati, eleganti, versatili… Accanto a termini come questi, proferiti dai tanti estimatori si affiancano anche tutta una serie di termini meno lusingheri, rispettabile giudizio di una pur presente minoranza di detrattori. Per i lampascioni, infatti non si conoscono le mezze misure, o li si ama o li si odia.

È doveroso comunque premettere che il lampascione resta un bulbo misterioso per la stragrande maggioranza degli italiani, ma è molto probabile che, viste le sue prerogative, se fosse conosciuto meglio, sarebbe certamente amato un po’ di più.

In passato era conosciuto come Muscari comosum Mill.; dopo alcuni approfonditi studi botanici dal 1968, viene più correttamente appellato Leopoldia comosa (L.) Parl. Si contano, inoltre, varie specie simili al lampascione che vengono spesso utilizzate alla stessa stregua del lampascione per così dire verace: si tratta di una decina di specie appartenenti a tre diversi generi Bellevalia, Muscari, Leopoldia che hanno però un po’ tutte caratteristiche organolettiche più scadenti rispetto allo stesso. A tale proposito è utile ricordare quanto riportato dal Mannarini:“Assieme al pampasciulo trovasi spontaneo da noi un altro muscari, il Muscari Holzmannii Bois. o Leopoldia Holzmani Held., che ha proprietà eccitanti ed anche afrodisiache. Questo è volgarmente conosciuto col nome di pampasciulu pe li vecchi. Per questo, esso in Grecia si adibisce ad uso alimentare, da noi non è adoperato, anzi viene scartato nella raccolta del M. comosum”.

Decisamente meno tranquillizzanti le indicazioni di Dioscoride (II.358.) a proposito di una di queste specie identificata da alcuni traduttori naturalisti nel Muscari atlanticus e o M. botryoides:”il porro capitato fa ventosità, genera cattivi umori, fa sognare cose terribili e spaventose. Cuocersi la capillatura sua nell’aceto, ed in acqua marina. Con tali premesse non perderemo nulla se dal punto di vista gastronomico considereremo solo il lampascione rosso verace ovvero la Leopoldia comosa (L.) Parl.

La parte edule è costituita dal bulbo che può raggiungere eccezionalmente i 4 centimetri di diametro ed il peso di 35-40 grammi, anche se generalmente il

La storia verosimile della “Casa del capitano”. Nel Parco Porto-Selvaggio – Palude del Capitano

di Maria Grazia Presicce

 

Tanti, ma tanti anni fa un Capitano dopo aver navigato per tutti i mari e tra tutti i venti  un bel giorno decise che per lui era giunto il momento di mettere a riposo le sue membra e il suo vascello e avere finalmente una fissa dimora. Il suo continuo girovagare, purtroppo, non gli aveva consentito  di formarsi una vera famiglia. Gira di qua e gira di là di donne ne aveva conosciute e amate tante ma nessuna era riuscita a fermare la sua voglia di viaggiare e navigare.

Ora però era davvero stanco  e desiderava mettere i piedi per terra definitivamente. Aveva tanto pensato   a questa eventualità e si era detto che pur fermandosi  non sarebbe rimasto in un paese ma avrebbe cercato un luogo più consono alla sua natura libera e solitaria. Soggiornò per un po’ nel suo paesino d’origine e, a maggior ragione, si convinse che quella vita non faceva proprio per lui. Gli sembrava una vita vuota senza stimoli, senza avventure. Le giornate scorrevano oziose ed uguali. La gente del paese era avvezza a quella staticità che a lui sembrava una prigione, anche  il sole il mare il vento si placavano e stazionavano immobili e fiacchi tra le strade del paesino. Era lieto quando finalmente  il vento imperversava furioso e accumulava le nuvole o il tuono irrompeva improvviso  e scuoteva la terra e gli uomini dal loro torpore. Il vento era vita per lui, correva e fischiava, rincorreva le nuvole e le vele spingeva e affrontava avventure  e pericoli. Conosceva tutto lui dello spirare dei venti:  ne percepiva i respiri, gli affanni,   i segreti, le sue virate  improvvise,  il repentino placarsi.

 

Gli bastava chiudere gli occhi per ritrovarsi lì sull’immensa prateria blu al ritmo del fragor  delle onde e del fischiare del vento. Era quella musica che gli mancava e che ora avvertiva impellente mentre il temporale infuriava. Si riscosse. No, non poteva vivere di ricordi. Si sentiva ancora forte, pieno di vigore e di voglia di fare.   Gli mancava il suo mare, con il suo incessante movimento.

Aveva immaginato anche di poter vivere su un  barcone vicino al mare che gli avrebbe consentito di dedicarsi alla pesca e di non farlo sprofondare nella   nostalgia dei suoi viaggi. Si rese conto, però, che la vita sulla barca non era fattibile, cosicché risolse di cominciare ad esplorare la costa, perché lungo la costa era sicuro di trovare ciò che cercava.

Il  contatto con alcuni militari della zona lo aiutò nell’impresa. Da loro, che si recavano a fare esercitazioni militari in zone impervie e quasi irraggiungibili, ebbe notizia di un luogo meraviglioso   a ridosso del mare che si poteva  raggiungere,però, solo a piedi. Chiese indicazioni e così un bel giorno prese la decisione di avventurarsi .

Partì, naturalmente a piedi, un bel mattino all’alba. La direzione indicatogli era quella tra la torre di San’Isidoro( santusidru) e quella di Torre Inserraglio ( nsirragghia). La zona incantevole si trovava proprio nel mezzo. Camminò e camminò e dopo ore di cammino giunse finalmente su un’altura: era una serra. Da lassù la vista del mare s’imponeva allo sguardo. A quella visione   il capitano si bloccò . Sedette su una pietra e lasciò che lo sguardo affogasse nello sterminato blu che s’adagiava in fondo alla valle.

 

Campagna assolata, macchia selvatica e mare ,tanto mare… il suo mare. Respirò a pieni polmoni quell’aria limpida, fresca e selvaggia come lui. Non si vedeva ombra d’uomo andare, di tanto in tanto il cinguettio degli uccelli nei loro voli radenti e il fruscio solitario del vento tra le piante di lentisco, di mirto, di timo, di olivastri. Null’altro in quello sterminato paradiso! Pareva davvero un luogo incantato al di fuori di tutto e di tutti. Si levò allora in piedi e volgendo lo sguardo intorno immaginò di abbracciare l’intero spazio. Da una parte si scorgeva una torre, dall’altra quell’altra. Erano le torri che li avevano indicato. Con sorpresa notò che la fascia di natura  che circondava la torre alla sua destra appariva più folta e rigogliosa, non riusciva a spiegarsene la ragione per cui decise di dirigersi da quella parte. S’incamminò accelerando il  passo, la discesa del terreno lo facilitava nell’andare spedito. Così in poco tempo giunse ai piedi della serra e s’addentrò nella macchia . Procedeva facendosi largo con le mani tra gli alti lentischi ed i mirti, d’un tratto una limpida conca d’acqua tra due pungenti giunchi attirò la sua attenzione e lo fece fermare.

 

Si chinò e immerse  le mani poi, d’istinto si rinfrescò il viso ed il collo. Era freschissima e … grata quell’acqua non sapeva di mare anche se era salmastra. Riprese il cammino e man mano che andava altre conche scopriva tra i lentischi ed i giunchi finché si trovò dinanzi un piccolo e trasparente laghetto.

 

 

Rimase stupito di tanta bellezza. S’arrestò conteso tra mille emozioni : aveva trovato il suo luogo, era lì che voleva restare per ritrovare l’incanto di una vita serena e continuare a viverla senza rimpianto. E fu così, forse, che questo magnifico luogo si chiamò “  Palude del Capitano”.

 

 

Tutto sull’origano e sui suoi utilizzi nella cucina salentina

di Massimo Vaglio

Sotto la generica denominazione di origano (Origanum spp L. 1753), si identificano delle piante appartenenti alla famiglia delle Labiate, il cui genere è costituito da una ventina di specie, quasi tutte aromatiche, alcune con caratteri erbaceo-perenni, altre costituite da arbusti sempreverdi o a foglie semi-permanenti.

I fiori sono allungati a forma di imbuto, generalmente riuniti in piccoli mazzetti e vanno a formare delle spighe; caratteristica del genere è anche la vistosa presenza di brattee che sovente accompagnano la fioritura, che avviene nella tarda primavera ed in autunno. Le foglie sono, quasi per tutte le specie, di forma ovale. L’altezza della pianta varia a seconda della specie; quelle arbustive possono raggiungere anche gli 80 centimetri di altezza, mentre quelle erbacee, sono generalmente alte dai 25 ai 50 centimetri.

Il nome Origanum, deriva dal greco oros” (monte) e gànàos” ( ornamento), alludendo al fatto che queste piccole labiate costituiscono un ornamento per le alture più aride e rocciose. Secondo alcune civiltà l’origano ha un’origine sacra; nell’Estremo Oriente era sacro a Shiva e Visnù e le sue piante caratterizzavano le adiacenze dei grandi templi buddisti. Come pure la presenza di un vaso di origano sulla soglia di un’abitazione era il segno che in

Il mirto o mortella, tra le essenze fondamentali della macchia mediterranea

La murtèddha

 

di Armando Polito

Con la frasca, di cui discorrerò in un successivo post, il mirto è tra le essenze fondamentali della macchia mediterranea.

Nome dialettale: murtèddha

nome italiano: mirto, mortella

nome scientifico: Myrtus communis L.

famiglia: Myrtaceae

 

Le denominazioni riportate derivano tutte dal latino myrtus a sua volta dal greco myrtos, che con lo stesso significato ha anche myrsìne o myrrìne.  La nostra pianta non si sottrae al destino leggendario di personaggi mitici trasformati in vegetali e celebrati da autori più o meno famosi e più o meno antichi (due soli esempi: l’alloro in cui si muta Dafne per sfuggire alla libidine di Apollo, la canna in cui per pietà fu mutato da Zeus Calamo dopo la morte di Carpo); nel nostro caso la testimonianza è di epoca bizantina, anche se l’opera in cui è contenuta (Geoponica), compilazione risalente al X secolo, è frutto di precedenti stratificazioni: “Mirsìne era una fanciulla attica, che superava in bellezza tutte le ragazze e in forza tutti i ragazzi. Era pure devota alla dea Minerva e trascorreva il suo tempo nelle palestre e negli stadi e incoronava i giovani che gareggiavano e vincevano. Alcuni di loro vinti e superati, mossi da odio e invidia per la fanciulla, la uccisero. Ma non estinsero la riconoscenza di Minerva per la fanciulla, sicché ancora rimane preferito dalla dea il mirto al pari dell’olivo e, cambiata vita, invece delle olive esso produce le sue bacche”.1

Probabilmente la leggenda è molto più antica dell’opera che ce l’ha tramandata e quasi certamente è legata all’importanza che alla pianta gli antichi riconoscevano.  Mi limito a riportare la corposa testimonianza di Plinio (I° secolo d. C.) perché essa compendia ogni conoscenza (anche di epoca a lui anteriore) con i suoi riferimenti simbolici e concreti: “La natura del succo è degna di eccezionale ammirazione nel mirto, dal momento che da questa sola specie si ricavano due tipi di olio e di vino, e ancora, come ho detto, il mirtidano2. E venne usato dagli antichi in sostituzione del pepe prima che venisse scoperto, viene esaltato il sapore della carne di cinghiale pure in un certo preparato  che trae da esso il nome, dopo aver aggiunto per lo più mirti agli intingoli. Si tramanda che questo albero fu visto sotto il cielo dell’Europa più vicina, che inizia dai monti Cerauni3, per la prima volta a Circeo sulla sepoltura di Elpenore4 e gli resta il nome greco, per cui appare come una pianta straniera. Fu dove oggi è Roma già al momento della sua fondazione, poichè si tramanda che con un ramoscello di mirto Romani e Sabini, dopo che avevano voluto scontrarsi per il rapimento delle vergini, deposte le armi, si purificarono in quel luogo dove c’è la statua di Venere Cloacina; gli antichi infatti dicevano cluere per purgare. E pure in quell’albero c’è una specie di profumo e allora per questo fu scelto, poiché Venere presiede all’accoppiamento5 e a questo albero, non so se primo tra tutti piantato a Roma nei luoghi pubblici per un fatidico e memorabile augurio. Infatti si trova tra i santuari antichissimi di Quirino, cioé dello stesso Romolo. Lì davanti allo stesso tempio ci furono per lungo tempo due sacri mirti, uno chiamato patrizio, l’altro plebeo.     Il patrizio durò molti anni esuberante e florido per tutto il tempo che anche il senato fiorì, grande, il plebeo inaridito e squallido. Dopo che questo si riprese mentre il patrizio ingialliva, a partire dalla guerra marsica s’indebolì l’autorità dei senatori e a poco a poco la sua maestà marcì in sterilità. Anzi ci fu anche una vecchia ara a Venere Mirtea, che ora chiamano Murcia. Catone ha tramandato tre tipi di mirto: il nero, il bianco, quello coniugale, probabilmente da coniugio, di quella specie del Cloacino. Ora anche l’altra distinzione del coltivato e del selvatico e nell’uno e nell’altro di quella a foglia larga, nel selvatico particolare quella del pungitopo. I giardinieri considerano specie coltivate la tarantina dalla foglia minuta, la nostrale dalla foglia larga, la esastica dal fogliame densissimo, con sei ordini per volta. Questa non viene usata, è ricca di rami e non alta. Credo che ora la coniugale è chiamata nostrale. Il mirto è profumatissimo in Egitto. Catone ha insegnato che si ricava il vino da quello nero seccato all’ombra e aggiunto al mosto. Se le bacche non vengono seccate se ne ricava olio. Poi si scoprì che anche dalla bianca si ricava vino bianco, con due sestari di mirto pestato macerato  e poi spremuto in due emine di vino. Le foglie pure vengono essiccate in farina a rimedio delle ferite nel corpo umano, con una polvere leggermente pungente e che placa la sudorazione. Anche nell’olio, strano a dirsi, c’è un certo sapore di vino e nello stesso tempo un liquido grasso con la principale proprietà di correggere il vino filtrato attraverso un sacco. Trattiene la feccia e lascia passare solo il liquido puro e si offre come compagno con ottime referenze al filtrato. Anche le sue bacchette, solo portate, giovano a chi procede a piedi in un lungo viaggio; anzi pure gli anelli fatti col ramoscello privi di ferro curano i rigonfiamenti dell’inguine. Anche in campo bellico è entrato e trionfando sui Sabini P. Postumio Tuberto durante il suo consolato, egli che primo tra tutti entrò in città con l’onore dell’ovazione, poiché aveva condotto agevolmente l’impresa senza spargimento di sangue, coronato del mirto di Venere vincitrice avanzò e rese desiderabile quest’albero pure ai nemici. Questa fu poi la corona di coloro che godevano dell’ovazione, eccetto M. Crasso che dopo avere trionfato su Spartaco e gli schiavi fuggitivi avanzò incoronato di alloro. Masurio scrive che anche coloro che trionfavano sul carro usarono una corona di mirto. L. Pisone tramanda che Papirio Masone, che per primo sul monte Albano trionfò sui Corsi, era solito assistere ai giochi del circo coronato di mirto. Questi era l’avo materno dell’Africano minore. Marco Valerio usava due corone, di alloro e di mirto, perché l’aveva promesso in voto.
L’integrazione delle proprietà terapeutiche del mirto trova spazio in numerosi altri passi, a curare (come estratto oleoso) i disturbi più disparati in combinazione con altre essenze (angina: XX, 56; occhi gonfi: XXII, 68; colera e dissenteria; XXII, 70) o da solo (gengivite, odontalgia, dissenteria, ulcerazioni uterine, cistite, scottature, lesioni da attrito, forfora, ragadi, condilomi, lussazioni, contro la puntura di cantaride e buprestide e sostanze urticanti, come deodorante: XXIII, 44).

Ecco, poi, notizie sulla preparazione e sull’uso del mirtidano: “Fra poco diremo in che modo secondo Catone viene preparato il vino al mirto, i Greci lo fanno in altro modo. Dopo aver pestato i rami teneri cotti con le loro foglie in mosto salato, ne bolliscono una libbra in tre congi di mosto, finché ne restano due. Quello che nello stesso modo viene fatto dalle bacche del mirto selvatico si chiama mirtidano. Esso tinge le mani7 Abbiamo detto in che modo si fa il mirtidano. Giova alla matrice riscaldato ed applicato ad empiastro, molto più efficace anche con la corteccia, le foglie e il seme. Viene estratto anche il succo dalle foglie tenerissime pestate in un mortaio, versando poco a poco vino aspro o altrimenti acqua piovana: e di questo succo si servono contro le ulcere della bocca e del sedere, della matrice e del ventre, per far diventare neri i capelli, come astringente per il viso, per schiarire le lentiggini e ogni qualvolta si abbia bisogno di un astringente”.8

Nell’opera di Plinio, inoltre, il mirto compare a modello di comparazione nella descrizione di altre piante, a riprova dell’enorme considerazione in cui era tenuto: rhus (XXIV, 54), heliantes (XXIV, 102), chamaerops (XXVII, 69), polyrrhizon (XXVII, 103).

Le proprietà terapeutiche di questa pianta in veterinaria sono attestate dal contemporaneo Columella che contro la dissenteria nel bue consiglia: “Né manchino germogli di lentisco e mirto e di verde olivastro”; “Devono essere somministrati germogli di olivastro e di canna, allo stesso modo bacche di lentisco e di mirto”.9 Lo stesso autore ci informa dell’importanza del mirto nell’alimentazione dei colombi (“Molti ritengono che dev’essere offerta una varietà di cibi per evitare che quando è unico manifestino avversione. Questo si evita quando si gettano loro semi di mirto e lentisco, oppure bacche di olivastro e di edera, nonché di corbezzolo10), del suo utilizzo nella costruzione di arnie (“…le celle in cui nidifichino le api ed esse siano coperte da arbusti di bozzo o di mirto piantati in mezzo, che non superino l’altezza delle pareti11), per aromatizzare il vino (“Prima di togliere il mosto dal tino riempi pure in abbondanza i contenitori di rosmarino o di alloro o di mirto affumicato affinché il vino fermentando si purifichi bene; poi strofina leggermente i contenitori con pigne12). Le sue indicazioni sulla preparazione del vino al mirto (addirittura quattro procedure!) sono molto più precise ed esaurienti di quelle di Plinio: “Prepara così il vino al mirto utile contro le coliche, la diarrea e il mal di stomaco: due sono le specie di mirto, il nero e il bianco. Si raccolgono le bacche del nero quando sono mature, se ne estraggono i semi e così vengono essiccate al sole e conservate in un vaso di creta in luogo asciutto. Poi durante la vendemmia da un vecchio ceppo o, se non c’è, dalle vecchissime vigne di Aminea si raccolgono uve maturate al calore del sole e il mosto da esse estratto viene messo in un barile e subito nel primo giorno, prima che inizi la fermentazione, bacche di mirto, prima messe da parte, vengono accuratamente pestate e si pesano di queste tante libbre quante sono le anfore da trattare; allora viene preso un pò di mosto dal barile che ci accingiamo a trattare e viene sparsa come farina ciò che è stato pestato e pesato. Dopo di ciò dalla massa si ricavano dei pezzetti e così vengono messi nel mosto del barile ai margini facendo attenzione che ogni pezzetto non vada a finire sopra l’altro. Quando il mosto sarà fermentato e filtrato due volte di nuovo allo stesso modo e nella stessa misura vengono pestate le bacche ma questa volta non si fanno pezzetti ma viene versato il mosto dal barile in una coppa, viene mescolato con le bacche finché non assume le sembianze di un brodo grasso; quando la miscela è pronta si versa nel barile e si gira con un mestolo di legno. Poi dopo nove giorni il vino viene filtrato e il barile viene strofinato leggermente con ramoscelli di mirto secco e viene apposto un coperchio perché niente vi caschi dentro. Fatto ciò, dopo sette giorni il vino viene di nuovo filtrato e versato in anfore ben impeciate e profumate; ma bisogna fare attenzione, quando i versa, a non versare anche la feccia. Prepara così un altro vino al mirto: fai bollire tre volte miele attico e togli la schiuma altrettante volte. Oppure se non ha il miele attico scegli il migliore e togli la schiuma quattro o cinque volte, poiché, quanto più è di qualità scadente tante più impurità ha. Quando il miele si è raffreddato scegli bacche di mirto bianco quanto più possibile mature e strofinale per evitare di pestare i semi che si trovano all’interno. Poi dopo averle messe in una fiscella spremile e mescola il succo, che dev’essere nella quantità di sei sestari, con un sestario di miele bollito, versalo in una bottiglietta e tappala. Questo però deve essere fatto nel mese di dicembre, tempo in cui sono maturi i semi del mirto e bisogna fare attenzione che per sette giorni prima che le bacche siano raccolte (se è possibile, altrimenti per non meno di tre) il tempo sia stato sereno o almeno non abbia piovuto; e bisogna fare attenzione a non raccoglierle se sono bagnate di rugiada. Molti spremono la bacca nera o bianca del mirto quando è matura e, dopo averla seccata un pò all’ombra per due ore, la schiacciano in modo che, per quanto è possibile, i semi interni restino integri; a questo punto spremono per mezzo di una fiscella la massa pestata e attraverso un filtro di giunco versano il succo purificato in bottigliette ben impeciate, senza aggiungere miele né altro. Questo liquido non dura tanto a lungo (ma talvolta può durare senza pericolo) è più utile alla salute che il composto dell’altro mirto conosciuto. Ci sono quelli che, quando il succo estratto è abbondante, lo fanno bollire fino a ridurlo ad un terzo e dopo che è raffreddato lo mettono in bottigliette impeciate; così confezionato dura più a lungo. Ma anche se non è stato fatto bollire può durare senza pericolo per due anni, a patto che sia stato preparato igienicamente ed accuratamente13.

E poteva mancare all’appuntamento con la nostra mortella Apicio, il cuoco più famoso dell’antichità? Le bacche compaiono ripetutamente tra gli aromi nella preparazione di salse che accompagnano sia la carne (“Altra salsa bianca per carni tagliuzzate: pepe, timo, cumino, semi di sedano, finocchio, rita oppure menta, bacche di mirto, uva passa: tempera con vino melato e agita con un ramo di santoreggia14; “Salsa per carni tagliuzzate: affetta uova sode, pepe, cumino, prezzemolo, porro cotto, bacche di mirto un pò di più, miele, aceto, sugo di acciughe, olio.15) che il pesce (“Salsa per orata: pepe, ligustico, carvi, origano, bacca di ruta, menta, bacca di mirto, tuorlo d’uovo, miele, aceto, olio, vino, sugo di acciughe. Scaldala e utilizzala così16), come la cacciagione in genere (“Pepe, cumino fritto, ligustico, menta, uva passa snocciolata o prugne di Damasco, miele in piccola quantità. Lavora il tutto con vino al mirto, aceto, sugo di acciughe e olio. Riscalda e rimesta con sedano e satureia17) e in particolare la pernice (“Pepe, ligustico, seme di sedano, bacche di mirto o uva passa, miele, vino, aceto, sugo di alici e olio. Utilizzalo freddo18) e il cinghiale (“Altra salsa per cinghiale: trita pepe, ligustico, origano, bacche di mirto snocciolate, coriandro, cipolla; versa miele, vino, sugo di alici, olio in piccola quantià; riscalda, adensa con amido, versa sul cinghiale cotto in forno. Questa salsa va bene per ogni tipo di selvaggina19”).

E, dopo i pagani, un autore cristiano, Sant’Agostino, sceglie il mirto per spiegare, addirittura, il concetto della Trinità: “Diciamo poi che l’alloro, il mirto e l’olivo sono solo tre alberi o tre essenze o nature…Ma dove non c’è nessuna diversità di natura così generalmente vengono chiamate parecchie cose che possono essere pure chiamate con nomi particolari. La differenza di natura infatti fa sì che l’alloro,  il mirto e l’olivo o il cavallo, il bue e il cane non siano indicati con un nome speciale (le piante tre allori o gli animali tre buoi) ma generale (le piante tre alberi e gli animali tre animali)20.

Per tutto il medioevo e buona parte dell’età moderna particolare successo ebbe tra i prodotti cosmetici come purificante e tonificante della pelle l’Acqua degli angeli, distillato delle foglie e dei fiori del mirto.

In epoca più recente particolare successo commerciale ha riscosso il liquore di mortella sardo (non è per stupido campanilismo, ma quello che prepara in casa mia moglie è di gran lunga migliore…). E poi, come non dire che mortadella non è altro che il diminutivo del latino murtàtum=insaccato condito con mirto, anche se di mirto (e forse anche di carne…) oggi non c’è nemmeno l’ombra?

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1 XI, 6; traduco il testo greco riportato nell’edizione a cura di P. Nehedam uscita a Cambridge nel 1704 per i tipi dell’Accademia , pagg. 305-306.

2 I branI relativI alla sua preparazione e agli usi terapeutici sono riportati più avanti.

3 In Epiro.

4Uno dei compagni di Ulisse.

5 Vedi più avanti il mirto coniugale che Plinio riporta da Varrone.

6 Naturalis historia, XV, 35-38: Sucorum natura praecipuam admirationem in myrto habet, quando ex una omnium olei vinique bina genera fiunt, item myrtidanum, ut diximus. Et alius usus bacae fuit apud antiquos ante quam piper reperiretur illam optinens vicem, in quodam etiam genere opsonii nomine inde tracto, aprorum sapor commendatur, plerumque ad intinctus additis myrtis. Arbor ipsa in Europae citeriore caelo, quod a Cerauniis montibus incipit, primum Cerceis in Elpenoris tumulo visa traditur Graecumque ei nomen remanet, quo peregrinam esse apparet. Fuit, ubi nunc Roma est, iam cum conderetur; quippe ita traditur, myrtea verbena Romanos Sabinosque, cum propter raptas virgines dimicare voluissent, depositis armis purgatos in eo loco qui nunc signa Veneris Cluacinae habet; cluere enim antiqui purgare dicebant. Et in ea quoque arbore suffimenti genus habetur, ideo tum electa, quoniam coniunctioni et huic arbori Venus praeest, haud scio an prima etiam omnium in locis publicis Romae sata, fatidico quidem et memorabili augurio. Inter antiquissima namque delubra habetur Quirini, hoc est ipsius Romuli. In eo sacrae fuere myrti duae ante aedem ipsam per longum tempus, altera patricia appellata, altera plebeia. Patricia multis annis praevaluit exuberans ac laeta; quamdiu senatus quoque floruit, illa ingens, plebeia retorrida ac squalida. quae postquam evaluit flavescente patricia, a Marsico bello languida auctoritas patrum facta est ac paulatim in sterilitatem emarcuit maiestas. quin et ara vetus fuit Veneri Myrteae, quam nunc Murciam vocant. Cato tria genera myrti prodidit, nigram, candidam, coniugulam, fortassis a coniugiis, ex illo Cluacinae genere. Nunc et alia distinctio sativae aut silvestris et in utraque latifoliae, in silvestri propria oxymyrsinae. Sativarum genera topiarii faciunt Tarentinam folio minuto, nostratem patulo, hexasticham densissimo, senis foliorum versibus. Haec non est in usu, ramosa atque non alta. Coniugalem existimo nunc nostratem dici. Myrtus odoratissima Aegypto. Cato docuit vinum fieri e nigra siccata usque in ariditatem in umbra atque ita musto indita. Si non siccentur bacae, oleum gigni. Postea conpertum et ex alba vinum fieri album, duobus sextariis myrti tusae in vini tribus heminis maceratae expressaeque. Folia et per se siccantur in farinam ad ulcerum remedia in corpore humano, leniter mordaci pulvere, ac refrigerandis sudoribus.Quin immo oleo quoque, mirum dictu, inest quidam vini sapor simulque pinguis liquor, praecipua vi ad corrigenda vina saccis ante perfusis. Retinet quippe faecem nec praeter purum liquorem transire patitur datque se comitem praecipua commendatione liquato. Virgae quoque eius, gestatae modo, viatori prosunt in longo itinere pediti; quin et virgei anuli expertes ferri inguinum tumori medentur. Bellicis quoque se rebus inseruit, triumphansque de Sabinis P. Postumius Tubertus in consulatu, qui primus omnium ovans ingressus urbem est, quoniam rem leniter sine cruore gesserat, myrto Veneris victricis coronatus incessit optabilemque arborem etiam hostibus fecit. Haec postea ovantium fuit corona excepto M. Crasso, qui de fugitivis et Spartaco laurea coronatus incessit.  Masurius auctor est curro quoque triumphantes myrtea corona usos. L. Piso tradit Papirium Masonem, qui primus in monte Albano triumphavit de Corsis, myrto coronatum ludos Circenses spectare solitum; avus maternus Africani sequentis hic fuit. Marcus Valerius duabus coronis utebatur, laurea et myrtea, qui et hoc voverat.

7 XIV, 103 Myrtiten Cato quem ad modum fieri docuerit mox paulo indicabimus, Graeci et alio modo. Ramis teneris cum suis foliis in salso musto coctis tunsis, libram in tribus musti congiis defervefaciunt, donec duo supersint. Quod ita e silvestris myrti bacis factum est, myrtidanum vocatur. Hoc manus tinguit.

8 XXIII, 82: Myrtidanum diximus quomodo fieret. Vulvae prodest, adpositu, fotu, et illitu. Multo efficacius est cortice et folio et semine. Exprimitur ex foliis succus mollissimis in pila tusis, adfuso paulatim vino austero, alias aqua coelesti: atque ita expresso utuntur ad oris sedisque ulcera, vulvae et ventris: capillorum nigritiam, malarum perfusiones, purgationem lentiginum et ubi constringendum aliquid est.
9 De re rustica, VI, 2 Nec desint lentisci myrtique et oleastri cacumina viridis; VI, 3 Cacumina oleastri et arundinis, item baccae lentisci et myrti dandae.

10 Op.cit., VIII, 4 Multi varietatem ciborum, ne unum fastidiant, praebendam putant. Ea est cum obiciuntur myrti et lentisci semina, item oleastri et hederaceae baccae nec minus arbuti.

11 Op. cit., VIII, 5 …cubilia quibus innidificent aves, eaque contegantur intersitis buxeis vel myrteis fruticibus, qui non excedant altitudinem parietum.

12 Op. cit., XII, 4 Mustum autem antequam de lacu tollas, vasa rore marino vel lauro vel myrto subfumigato et large repleto, ut in effervescendo vinum se bene purget; postea vasa nucibus pineis suffricato.

13 Op. cit., XII, 38, 1-8 Vinum myrtitem ad tormina et ad alvi proluviem et ad inbecillum stomachum sic facito: duo genera sunt myrti, quorum alterum est nigrum, alterum album. Nigri generis bacae, cum sunt maturae, leguntur, et semina earum eximuntur, atque ipsae sine seminibus in sole siccantur, et in fictili fidelia sicco loco reponuntur. [2] Deinde per vindemiam ex vetere arbusto vel, si id non est, ex vetustissimis vineis Amineae bene maturae uvae sole calido leguntur, et ex is mustum adicitur in seriam et statim primo die, antequam id ferveat, bacae myrti, quae fuerant repositae, diligenter conteruntur et totidem earum librae contusarum appenduntur, quot amphorae condiri debent; tum exiguum musti sumitur ex ea seria, quam medicaturi sumus, et tamquam farina conspargitur, quicquid contusum et appensum est. Post hoc complures ex ea massulae fiunt et ita per latera seriae in mustum demittuntur, ne altera offa super alteram perveniat. [3] Cum deinde bis mustum deferbuerit et bis curatum est, rursus eodem modo et tantundem ponderis bacae, sicut supra, contunditur, nec iam, ut prius, massulae fiunt, sed in labello mustum de eadem seria sumitur, praedicto ponderi permiscetur, sicut sit instar iuris crassi; quod cum est permixtum, in eandem seriam confunditur et rutabulo ligneo peragitatur. [4] Deinde post nonum diem, quam id factum est, vinum purgatur et scopulis aridae myrti seria suffricatur operculumque superponitur, ne quid eo decidat. Hoc facto, post septimum diem rursus vinum purgatur et in amphoras bene picatas et bene olidas diffunditur; sed curandum est, ut, cum diffundis, liquidum et sine faece diffundas. [5] Vinum aliud myrtiten sic temperato. Mel Atticum ter infervere facito et totiens despumato. Vel si Atticum non habueris, quam optimum mel eligito et quater vel quinquies despumato, quoniam, quanto est deterius, tanto plus habet spurcitiae. Cum deinde mel refrixerit, bacas albi generis myrti quam maturissimas legito et perfricato, ita ne interiora semina conteras. [6] Mox fiscello ligneo inclusas exprimito, sucumque earum, qui sit sextariorum sex, cum mellis decocti sextario misceto et in lagunculam diffusum oblinito. Sed hoc mense Decembri fieri debebit, quo fere tempore matura sunt myrti semina, custodiendumque erit, ut, antequam bacae legantur, si fieri potest, VII diebus, sin autem, ne minus triduum serenum fuerit aut certe non pluerit; et, ne rorulentae legantur, cavendum. Multi nigram vel albam myrti bacam, cum iam maturuit, destringunt et, duabus horis eam cum paululum in umbra expositam siccaverunt, proterunt, ita ut, quantum fieri potest, interiora semina integra permaneant; tum per lineum fiscum, quod protriverant, exprimunt et per colum iunceum liquatum sucum lagunculis bene picatis condunt neque melle neque alia re ulla inmixta. Hic liquor non tam est durabilis, sed quamdiu sine nox[i]a manet, utilior est ad valitudinem quam alterius myrtitis notae compositio. Sunt qui hunc ipsum expressum sucum, si sit eius copiosior facultas, in tertiam partem decoquant et refrigeratum picatis lagunculis condant; sic confectum diutius permanet. Sed et, quod non decoxeris, possit innoxium durare biennio, si modo munde et diligenter id feceris.

14 VII, 6, 7 Aliter ius candidum in copadiis: piper, thymum, cuminum, apii semen, foeniculum, rutam alias mentham, baccam myrteam, uvam passam; mulso temperabis, agitabis ramo satureiae.

15 VII, 6, 12 Ius in copadiis: ova dura incidis; piper, cuminum, petroselinum, porrum coctum, myrti baccas plusculum, mel, acetum, liquamen, oleum.

16 X, 12 Ius in pisce aurata: piper, ligusticum, careum, origanum, rutae bacam, mentam, myrtae bacam, ovi vitellum, mel, acetum, oleum, vinum, liquamen. calefacies et sic uteris.

17 VI, 5, 1 Ius in diversibus avibus: piper, cuminum frictum, ligusticum, mentham, uvam passam enucletam aut damascena, vel modice; vino myrteo temperabis, aceto, liquamine et oleo; calefacies et agitabis apio et satureia.

18 VI, 3 Piper, ligusticum, apii semen, mentam, myrti bacas vel uvam passam, mel, vinum, acetum, liquamen et oleum. Uteris frigido.

19 Aliter in apro: teres piper, ligusticum, origanum, baccas myrti exenteratas, coriandrum, cepas; suffundes mel, vinum, liquamen, oleum modice: calefacies, amylo obligas, aprum in furno coctum perfundes. Hoc et in omne genus carnis ferinae facies.

20 De Trinitate VII, 7: …laurum vero et myrtum et oleam, tantum tres arbores vel tres substantias aut naturas…. Sed ubi est naturae nulla diversitas ita generaliter enuntiantur aliqua plura ut etiam specialiter enuntiari possint. Naturae enim differentia facit ut laurus et myrtus et olea, aut equus et bos et canis non dicantur speciali nomine, istae, tres lauri, aut illi, tres boves, sed generali, et istae, tres arbores, et illa, tria animalia.

Il castello di Corigliano d’Otranto (Lecce)

di Maurizio Nocera

 

Il Castello di Corigliano d’Otranto (Lecce, Edizioni del Grifo 2009, pp. 290, euro 28), a firma di Giuseppe Orlando D’Urso e Sabrina Avantaggiato.

Si tratta del primo volume della collana Helios, diretta da Harvé A. Cavallera. Il libro come prodotto in sé è ben confezionato con numerose illustrazioni ed una copertina cartonata stampata, “vestita” da una sovraccoperta similare. La grafica editoriale e la copertina sono di Federico G. Cavallera, mentre le immagini provengono dalla Foto Video Serra di Corigliano d’Otranto. Hanno patrocinato l’edizione: la Sezione di Maglie, Otranto e Tuglie della Società di Storia Patria per la Puglia, della quale il D’Urso è socio; e la Cartolibreria di Gino Giannachi di Corigliano d’Otranto.

Chi sono i due autori? Giuseppe Orlando D’Urso, «attivo e presente nella vita e sociale del territorio […] ha animato diversi gruppi teatrali e culturali, per poi rivolgere la sua attenzione alla ricerca storica»  con diverse pubblicazioni, alcune con la stessa casa editrice, come “Corigliano d’Otranto. Memorie dimenticate” (2000); “Le strade del Signore sono ferrate. Corigliano d’Otranto 1901-2001. Significatività Sociale dell’Opera Salesiana” (2001); “Corigliano d’Otranto. L’Arco Lucchetti, il Castello, la Chiesa Matrice” (2005); mentre con la Casa editrice EditSantoro ha pubblicato “Corigliano d’Otranto. Famiglie (Comi-Maggio-Gervasi-Peschiulli”) (2005); “Gaetano Papuli e le Sette Antichità di Corigliano d’Otranto” (2005). Sabrina Avantaggiato invece è architetta ed è alla sua prima pubblicazione.

In quarta di copertina c’è l’abstract del volume che così commenta: «Con

Lucio Battisti, Mogol e Torre Squillace…

la spiaggetta di Torre Squillace in inverno

di Giuseppe Tarantino

Davanti al mare “chiaro e trasparente” di Nardò, Lucio Battisti e Mogol crearono “La canzone del sole”. Si aggiunge un dato più certo alla leggenda che lega Lucio Battisti al mare e alle coste di Nardò: la leggenda, che tale rimane, vuole che la famosa “Acqua azzurra, acqua chiara” sia stata scritta dal duo più importante della musica leggera italiana ispirandosi alle acque cristalline della baia di Torre Squillace, nell’estate di oltre quarant’anni fa (il 1967 o il 1968).

Ma sotto il sole dell’allora incontaminata località neritina sullo Jonio, Lucio Battisti e Giulio Rapetti in arte Mogol (ospiti del loro amico copertinese Adriano Pappalardo) avrebbero creato un altro capolavoro: “La Canzone del sole”. Lo rivela Maurizio Leuzzi, il “patron” del Premio Battisti, la manifestazione-tributo al cantautore che si tiene a Nardò da dieci anni. E la fonte che Leuzzi cita è di quelle che “più autorevoli non si può”: proprio Mogol.

Maurizio Leuzzi l’ha inseguito per anni con l’intenzione di invitarlo ad una delle edizioni del Premio Battisti. L’inseguimento è finito sabato 7 novembre, a Lecce, in occasione del “Concerto per la vita”, dedicato proprio a Lucio Battisti, organizzato in favore dei bambini della Nigeria dall’associazione “For life”, che si è tenuto al Politeama Greco e del quale Giulio Rapetti è stato testimonial. A partecipare alla serata erano stati invitati anche i membri dell’Associazione culturale musicale “Lucio Battisti” di Nardò che non si sono fatti sfuggire l’occasione di consegnare un Premio Battisti “fuori stagione”. Il presidente Maurizio Lezzi e il vicepresidente Luca Rizzello, hanno infatti consegnato a Mogol una maiolica dipinta a mano, opera dell’artista neritino Marcello Malandugno, anche lui presente alla serata.

Inevitabilmente il discorso è presto scivolato sul rapporto con la terra neritina e la genesi di alcuni indimenticabili brani del duo Battisti-Mogol. Il paroliere milanese avrebbe lasciato alla leggenda il luogo della creazione di “Acqua azzurra” ed avrebbe, invece, indicato la spiaggia de “Li Cianuri” (Torre Squillace, appunto) come probabile luogo “di nascita” di quello che sarebbe diventato uno dei brani più celebri nella storia della musica italiana: “La canzone del sole”.

Il sole del Salento, quindi, avrebbe ispirato la musica e il testo (di cui rimane impresso in particolar modo l’incipit “Le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi le tue calzette rosse” e l’inciso “Oh mare nero, oh mare nero, oh mare ne..”) del brano che usci nel novembre 1971 sul lato A di un 45 giri che sul retro conteneva un’altra hit di Battisti, “Anche per te”.

da sinistra Rizzello – Leuzzi (presidente dell’Associazione) – Mogol (con il Premio Battisti)- il pittore Malandugno

Ti scrivo per raccontarti del mio paese che mi è stato concesso di amare

di Elio Ria

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Se il mio male fosse medicabile nessuno lo medicherebbe. Nelle mille notti di voli e di acrobazie gli angeli sospetti danzano la follia. Questo giorno pallido, indignato, inopportuno, ripetuto, sconquassato, non richiesto, è terribilmente in tensione con le ore degli artigiani del cielo che in affanno arredano salotti di nubi. Le pagine consumate del libro delle magie deflagrano riti e consulenze, formule alchemiche indesiderate. Un labile sorriso di un passante si perde sugli alberi del frutteto del giardino del signore del paese. Pendono i rami di frutti carnosi e succulenti in attese di raccolta. Ahi, quanti passano dal mio sguardo senza lasciare traccia come i fiori maledetti che non germogliano frutti. È un’estate splendida che non fa per me. Questo giorno che non mi lascia e mi sorprende con i dettagli di un giardino colorato di muretti e alberi e fiori e colori mi commuove.

Il profumo che dal giardino si propaga per la corte appisolata conclude il fumo della pipa di un vecchietto seduto sull’uscio di casa a respirare aria di donne in passeggio sotto il sole nudo di agosto.

La ferrovia taglia in due il paese e il rumore dell’antica littorina fascista solleva il cuore dal silenzio di un meriggio stantio. Non c’è molto da fare. C’è tanto da osservare o da sfidare.

I vecchi seduti sulla panchina di ferro smaltiscono noia con i discorsi sfavillanti del pettegolezzo paesano che dà soddisfazione e piacere all’immaginazione, né a nulla serve il saluto del prete a distrarre le loro narrazioni. È tutto un andare lento verso il passato di un paese che converge inopinatamente al centro del cerchio temporale delle usanze in prossimità del presente. Lentamente per gustare parvenze di modernità incastonate nelle ore delle tradizioni di un tempo.

E io a guardare gente, chiese, case, corti e vie per sopraffare la lentezza della vita, che manifestamente non ne vuole sapere di modernità.

C’è qualcuno che come ombra s’aggira furtivo per non scoprirsi: un uomo di età incerta, magro e purgato. È talmente malandato che la febbre non lo cerca né osa presentarsi nelle sue vene. I suoi occhi appaiono come caverne buie e misteriose. Le mani rozze e contorte. Raccoglie i mozziconi di sigarette sparsi per le strade, poi a tastarli con il pollice e l’indice e infine riutilizzati per un’ultima boccata di fumo grigio.

Scorre così questa giornata – che ormai volge verso l’ora sesta del pomeriggio – nelle storie minime di gente che nessuno vorrebbe conoscere o pensare di raccontare. Eppure c’è un mondo nel mondo, occultato dagli occhi avidi e superbi delle persone, transitato nel confine dell’indicibile o meglio della linea di vergogna dell’emarginazione, periferia di consumo e di parcheggio della vita.

Il sagrestano della chiesa principale e importante del paese chiama a raccolta le donne e gli uomini del paese per la celebrazione della Messa. Il rito va onorato ogni giorno e il dolore senza una liturgia non può esistere per dare l’illusione di una cura. E nel passo spedito e certo delle vedove intravedo il trascorrere di un tempo sempre uguale e mai diverso, che non sa concedersi né distrazione né trasgressione, incapace di rinnovamento.

È il tempo del sud che nell’estremo tentativo di apparire sempre fecondo e laborioso rilascia immagini piacevoli di gente diversa in luoghi multiformi di spettacolarità di colori, di inappetenza modernista ma con la voglia di sbalordire gli orologi dei campanili delle chiese silenziose dei santi protettori di incondizionato amore per il dio che ha voluto una terra così ricca di eccellenze.

È tardi! Invero è sempre la stessa ora da quando ho smesso di leggere il libro di Goethe. Ho ricevuto però diletto dal mio peregrinare visivo per un paese che ancora ha tanto da inventare. Ormai l’afa è alla gola e un buon bicchiere d’acqua ci vuole per ristorarmi. C’è ancora da vedere per conoscere, un po’ difficile da capire, tentare di spiegare la terra del sud.

Il mio malessere è in ritirata, adesso. Non può accedere oltre, e c’è un indizio dell’ora decima che preannuncia divertimento di lune succose.

Ho voluto scriverti per raccontarti di me, ma poi ho preferito inviarti piccoli frammenti di vita di un paese che mi sta a cuore, non per sbalordirti ma per significarti il benessere interiore che mi prende nel riordinare e ripensare i fatti giornalieri contaminati dalle astrazioni di esistenze.

http://www.elioria.com/storie/ti-scrivo-per-raccontarti-del-mio-paese-che-mi-e-stata-concesso-di-amare/

Un nostro amico ci scrive…

…quanto sono stupide le distanze, quando una cultura comune le mette assieme, e riesce a diventare veramente cultura dell’ospitalità e dell’accoglienza

(Vito Roberto, su Facebook del 27/5/2011)

In una parola, questo è il Salento

SALLENTUM

di Paolo Vincenti

Questa è terra di tradizioni, vecchie di millenni, / dove piangevano le prefiche a pagamento / e sui balconi si stendono ad asciugare i panni     – questa è terra di santi e di icone bizantine, /  da secoli interrate sotto le cesure,  / è terra di santi, di ladri e di rapine    – vedi la mottura che scende la sera, / è come un segnale, quasi venisse a dirci / ch’è ora di tornare, nell’ora in cui si spera    –

questa è terra di erbe magiche e superstizione, / dove si beve anche acqua andata a male, / se tirata da un pozzo, dove tradizione vuole    – vedi quell’ombra che arriva a sera, col fresco: / sono i nostri rimpianti, fatti cosa concreta, / ma qui lo chiamano il Basilisco    – ed è meglio non guardalo, se passa, / porta con se tutte le peggiori intenzioni / e passerà, come i brividi sulla tua pelle scossa    – nel nostro antico Salento, porta d’Oriente, / qui, dove la frigia Magna Mater si incontra / con il bizantino Cristo benedicente   – correndo per i boschi, fra verdi frattaglie, / si fanno strani incontri, nel mattino che viene, / quando l’ora sublustre tinge di bianco la valle   – e  il contadino non capisce da dove provenga / a volte,quello strano suono, guardandosi intorno  / ed è Fauno, il dio dei boschi, che modula la sua siringa    –

e col suo seguito di satiri e ninfe, inizia una strana danza, / mentre gli alberi e i fiori sembra partecipino insieme / e i suoi accoliti eseguono i passi che l’esarca indirizza   – e nel mezzogiorno assolato della campagna, fra falso e vero, / quando esseri caprini si muovono al suono della zampogna, / si può conoscere, se ci si rivolge a lui, il proprio futuro   – perché Fauno è Dio vaticinatore e lo sanno i suoi servi, / mentre la natura asseconda quello strano frastuono, / gli allegri esseri che gli girano intorno, veloci e furbi   – intanto esce dalla conchiglia, Venere delle spume, / e porta l’amore ai satiri e alle sirene / che, in lieto raduno, sono intenti a ballare   – ma subito, a quel richiamo irresistibile di Eros, / nelle notti bagnate dal negramaro, / risponde, con un sibilo inquietante, Thanatos   – e forse è quel sibilo lungo di millenaria memoria / di cui parlano i veggenti scrittori, / quando la vita di questa terra si fa storia   –

questa è terra in cui, fra paralleli e meridiani, / si incontrano e si sposano gli opposti, / terra di briganti, di gendarmi e disertori   – e nella interscambiabilità fra energia e materia,  / tra un serpente che incanta e un ragno che danza, / scorre il flusso ininterrotto della nostra storia   –

questa è terra di caporali, di fame e di contadini / e nelle feste sull’aia, le pastorelle ballano la moresca, / che ricorda la lotta secolare fra mori e cristiani   – e quando la sera tinge di azzurro la valle, / mentre Afrodite sembra benedire,  / strani folletti si aggirano nelle stalle   – e sono i moniceddhi che sparpagliano la biada, / gnomi dispettosi, che qui chiamano Sciacuddhi, / che si divertono ad intrecciare ai cavalli la coda   – vedi quella malumbra che si aggira di sera, col fresco: / //sono i nostri rimorsi, fatti sostanza, / /ma qui lo chiamano il Basilisco   – vedi quell’ombra che ritorna dal sentiero: / è il prezzo che ognuno paga alla vita, / ma qui lo chiamano l’Uomo Nero   –  sono eredità di colpe, sbagli di generazioni, / che si cantano in lamenti funebri e sfiancanti litanie / e si offrono ai santi come anatemi   – questa è terra di canzoni, balli e patimento,  / di falsi invalidi, “fotti fotti” e “chi s’è visto s’è visto”, / questa terra mangia e beve a tradimento   – questa è terra di favole, ninnananne e pentimento,  / di chiese, castelli e palazzi nobiliari: / in una parola, questo è il Salento   –

L’alloro nella gastronomia salentina… e non solo

di Massimo Vaglio

L’alloro o lauro (Laurus nobilis), è un’importante pianta mediterranea molto utilizzata sia come essenza ornamentale, sia come essenza aromatica. Raggiunge i quindici metri d’altezza, ha corteccia liscia, dapprima verde poi grigio- nerastra. Le foglie, sempreverdi, sono alternate, coriacee e la loro forma varia dall’ellittica alla lanceolata, come pure i margini che possono essere più o meno grinzosi e dentati. Tutte le parti della pianta emanano un forte, caratteristico odore. Essendo una pianta fortemente pollonifera, il suo habitus è prevalentemente quello di arbusto, infatti, un po’dovunque, la si incontra allevata principalmente a siepe. Nel Salento, invece, questa pianta trova un clima particolarmente congeniale  e sono molto comuni anche esemplari davvero maestosi come quelli presenti nel bosco dei Laghi Alimini.

Pur non essendoci varietà ufficialmente codificate dai botanici, esistono, all’interno della specie, alcune forme biologiche che portano gli specialisti di diversi campi a sceglierne alcune a seconda degli usi cui intendono destinarle. Così, i giardinieri, si orientano su quelle forme che hanno le foglie

Preistoria/ A Nardò e dintorni sarebbe nato l’uomo moderno

di Biagio Valerio

Baia di Uluzzo (Nardò-Lecce), nella foto (portadimare.it) l’ingresso della grotta del Cavallo segnalata dalla freccia

Due denti potrebbero riscrivere la storia dell’uomo così come la conosciamo e testimoniare che la zona ionico-salentina sia stata davvero la culla dell’Homo sapiens sapiens. A Nardò e dintorni, insomma, sarebbe nato l’uomo moderno e ciò è successo molto prima di quanto si pensasse: oltre 40mila anni fa. Lo dicono i fossili umani ritrovati in Italia, a Portoselvaggio.

I resti sono stati analizzati da un gruppo internazionale di ricercatori, tra cui alcuni italiani, e i dati pubblicati sull’ultimo numero di Nature. Si tratta di due molari ritrovati della Grotta del cavallo e, inizialmente, classificati come appartenenti ad un uomo di Neanderthal.

E’ stato Stefano Benazzi, ricercatore all’Università di Vienna, ad utilizzare nuove e raffinate tecniche e datarli a circa 44mila anni fa: sono questi i resti di uomo moderno più antichi d’Europa.

Le datazioni rivelano che la diffusione dei primi uomini moderni sia avvenuta prima di quanto ipotizzato finora e che i nostri progenitori hanno coesistito con i Neanderthal, sicuramente nel meridione d’Italia, per molte migliaia di anni.

i denti che hanno consentito la scoperta (per gentile concessione di portadimare.it)

I denti da latte ritrovati nella Grotta del Cavallo sono stati sempre associati alla cultura detta Uluzziana – toponimo coniato dal professore Arturo Palma di Cesnola, dell’università di Siena, negli anni Sessanta – della quale si

I gustosi mùgnuli degli ultimi fertili orti suburbani salentini

LU MUGNULU

di Massimo Vaglio

Il “mùgnulu” è una Brassicacea tipica del Salento, simile ai comuni cavoli broccoli verdi detti comunemente broccoli verdi (Brassica oleracea var.  botrytis virescens L. ) di cui, secondo recenti indagini genetiche, non ancora completate, potrebbe costituire il progenitore dal quale questi ultimi sono stati selezionati. Alcuni antichi ricercatori trattano il mùgnulu come una varietà a se stante identificandola come: Brassica oleracea asparagoide Pasq.; Brassica botriytis cimosa D.C. e ne codificano almeno tre ecotipi : praecox, major e serotino. Il primo viene comunemente appellato mugnulettu, ha sviluppo più contenuto e viene tradizionalmente coltivato in terreni leggeri tendenzialmente aridi e poco fertili, la cui produzione più precoce, è limitata, ma organoletticamente molto piacevole per cui molto ricercata. Gli ecotipi major e serotino, hanno sviluppo decisamente più esuberante, in particolare il secondo che è a ciclo più tardivo.

Esigono entrambi rigorosamente terreni pesanti o comunque, freschi e fertili, le loro folte piante, di un verde intensissimo, caratterizzano infatti, gli ultimi fertili orti suburbani scampati alla cementificazione, di molti paesi del Salento. Morfologicamente, il mùgnulu è un ortaggio molto vigoroso e rustico, caratteristica che traspare già da una superficiale ispezione, il fusto infatti, appare completamente lignificato sino alle branche ha limitate esigenge colturali ed è di rapida crescita; le piante hanno portamento eretto, ma si ramificano ben presto, le foglie sono oblunghe, fortemente lobate e di colore verde più scuro rispetto agli altri cavoli. Inoltre si distingue dal broccolo verde per l’infiorescenza più piccola e meno compatta; con i singoli fiori bianchi, più grandi e con brattee fiorali più ampie.

Anche le sue caratteristiche organolettiche sono peculiari e lo fanno localmente preferire al broccolo verde comune. Numerose sono le ricette

Il pane dei morti che s’abbina splendidamente con i prodotti salentini

http://lisascreationss.blogspot.com/

di Pino de Luca

È il cinque di novembre, domani si stappano i novelli e tra una settimana è San Martino. Ce ne sarebbe da dire sul vino e sui vini, sul salone del gusto, sull’autunno dei funghi e delle castagne, sull’allouin trascorso e la zucca gialla …
E invece siamo qui a rammentare il mesto novembre, mese dedicato a coloro che non sono più tra noi e a ricordare che noi siamo qui anche perché loro ci hanno fatto spazio, come toccherà a noi fare spazio (fra molti anni) a chi è venuto dopo rinnovando il “sei quel che fui, sono quel che sarai” a quanti verranno a farci visita.
Non è lugubre pensiero o pessimismo cosmico a guidare man che scrive, ma osservazione di cose di natura e cura omeopatica verso infausti sortilegi.
E riportare all’attenzione che Samhain si celebrava millenni fa nei lemurari per scacciare gli spiriti maligni e ingraziarsi quelli dei lari. E come tutte le feste religiose ha un corrispettivo edibile, nel nord le “fave dei morti” e nel napoletano, più civile ed evoluto, il “torrone dei morti”. Su scala più ampia e popolare: il “pane dei morti” che qui vi racconto perché fa giustizia della geografia e s’abbina splendidamente con eccellenti prodotti salentini.
Mentre si fanno rinvenire in acqua tiepida 120 grammi di uvetta passa, un etto di amaretti, uno di biscotti secchi e tre di savoiardi vanno passati nel mixer e resi finissimi, lo stesso trattamento sia riservato a 120 grammi di mandorle e 120 grammi di “cocule” (fichi secchi).
Ora in una ciotola capiente mescolare il tritato. Aggiungere 3 etti di zucchero e due etti e mezzo di farina, 50 grammi di cacao amaro in polvere, un cucchiaino di cannella e due di lievito in polvere, e una spolverata di noce moscata. Impastare con sei albumi e aggiungere l’uvetta strizzata. Continuare l’impasto aggiungendo del Pierale (Passito di Moscato bianco) di Leone De Castris finché non si ottiene un impasto ben amalgamato di un buona consistenza.
Da esso tagliare dei “panetti” a forma di occhio della lunghezza di una quindicina di cm e di larghezza massima di sette otto, tenendo basso lo spessore. Panetti di circa un etto da disporre su carta da forno in una teglia e da infornare per circa mezz’ora a 180 gradi.
I panetti, appena cotti, si spolverano con zucchero a velo e si lasciano raffreddare. Vanno serviti dopo che hanno riposato almeno due giorni in una scatola di latta o in un recipiente di terracotta.
Eccellenti dopocena, si accompagnano ottimamente con il vino dell’impasto e, per i più esigenti, con il Malecon Seleccion Esplendida, straordinario rum panamense.
So bene che si tratta di una preparazione lunga e di una lunga attesa, ma è “pan dei morti” e i morti non hanno fretta. Per il Malecon invece le cose sono un po’ più complicate ed è difficile risolverle da soli.
Avete ben compreso quali siano gli eccellenti prodotti salentini: le mandorle, le “cocule” e il Pierale, lo riscrivo per i distratti.
Poi il Salento produce anche degli amici meravigliosi, difficili da trovare ma che, una volta scoperti, rendono la vita molto più degna d’essere vissuta, anche perché t’aiutano a trovare il Malecon, ed è bellissimo sorseggiarlo insieme, da vivi, magari masticando il pan dei morti.

Cosenza – Lecce andata e ritorno. La Tav della passione

La mia terra mi entra nelle vene come morfina e sento finalmente il sereno, la memoria della mia vera ragion d’essere.

(Raffaella Verdesca)

ph Giovanna Falco

di Raffaella Verdesca

L’aria umida di fango e temporale appesantisce il mio umore. Lancio uno sguardo al calendario e tiro le somme di quasi un mese di pioggia ininterrotta. Non sono fatta per vivere senza sole né per resistere a lungo lontana dalla mia terra, perciò, come consolazione, mi collego a Facebook e clicco sull’archivio della Fondazione Terra d’Otranto.

Seleziono un bel pezzo di Alfredo Romano, “Casa mia/ Canzone per la terra natìa”: è struggente, rievocativo, nostalgico. Il mio cervello esule, conoscendomi bene, cerca allora d’inserire il ‘salvavita’ spingendomi a organizzare il pomeriggio con uscite, incontri, magari con un bel giro a Cosenza a caccia di vetrine stravaganti. Il cuore ringrazia per educazione, ma tira avanti per la sua strada. In quel mentre, mio fratello Gianluca mi chiama da Ancona per informarmi, con tutta la meraviglia possibile, della scoperta della giornata: la sua storia preferita, “Lu Nanni Orcu”, è stata edita in una raccolta ideata e scritta proprio da Alfredo Romano, vecchia conoscenza. Gianluca mi legge pagina dopo pagina le avventure e le disavventure ti lu Nanni Orcu e del suo antagonista Gianninu, occupando a lungo e piacevolmente la mia linea telefonica.

Lui, in realtà, non sa che sta diventando complice di una delle follie più istintive del mio repertorio, quella che, tra l’altro, mi riesce meglio: Fuga da Alcatraz.

Per me Alcatraz è una prigione ben più proibitiva di quella descritta dal cinema, è il legaccio che mi tiene lontana dall’oggetto dei miei deliri sognanti: Lecce, la mia gente, la mia libertà.

Lu Nanni Orcu della storia di Alfredo parla il salentino, come pure lu Giuanninu, scaltro rappresentante di un mondo contadino costretto a usare l’intelligenza più raffinata per non soccombere alla forza bruta dei potenti e dei prepotenti. Gianluca scandisce fluido il dialetto che mi ricorda l’infanzia, le fiabe raccontate dalla nonna nei fortunati giorni di febbre lontani dai banchi di scuola. La nonna si sforzava di parlare in italiano, terrorizzata dalle possibili ritorsioni della figlia insegnante, mia madre, ma per istinto naturale, nelle sue storie intercalava meravigliosamente frasi in dialetto italianizzato ad espressioni salentine veraci. Il suo raccontare non era affatto privo di rivisitazioni in chiave personale dei pensieri dei protagonisti né d’interpretazioni onomatopeiche di spari, canti di uccelli, latrati di cani, trotti di cavallo, scricchiolii di porte e sibili di vento.

Che meraviglioso teatro!

Oggi so che tutta la mia fantasia è frutto dei racconti salentini della nonna e di tutta la saggezza fantasiosa del Salento che si racconta.

Quel sabato, quando Gianluca arriva in fondo alla fiaba con un vibrante “…E iddhi vissera felici e ccuntienti e nui nu’ ìppime gnenzi…”, mi accorgo che manca qualcosa d’importante al finale, ovvero la conclusione di ogni storia legata alla mia infanzia: un largo sorriso.

La nonna ‘Sina luccicava sempre di gioia alla fine di ogni suo regalo di fiaba, quasi a voler suggellare l’incanto delle storie che lei raccontava a me dopo averle sentite a sua volta da madre e nonni tanti anni prima.

Ancora trasognata, apro gli occhi distratta dal rombo di un motore pronto a banchettare con una bella striscia d’asfalto: è la mia auto. Mi sorprendo a stringerne il volante senza avere la minima idea del percorso che mi ha portata fin là. Indifferente alla mia confusione, il suv si lecca i baffi al primo rifornimento di gasolio e se la ride ogni volta che investe le mie scuse mentre le attraversano la strada: “Faccio un giretto e torno a casa.” o magari “E’ troppo tardi per andare da qualsiasi parte: se ci avessi pensato prima sarei arrivata almeno fino a Rossano.”

La mia auto, ahimè, mi conosce almeno quanto il mio cuore: supera Rossano, Corigliano, Sibari e si perde nella nebbiolina che esala l’asfalto bagnato.

Sono ormai le quattro del pomeriggio, le gomme divorano la strada battendo in velocità la lancetta dell’orologio e la mia nostalgia. Piove, batto le palpebre nell’illusione di vedere tutto più chiaro, di svegliarmi da questo trans che mi trascina sulla strada della mia vera casa, serpente insidioso che tante volte ho calpestato. Nella mia mente si affollano liste di cose importanti da fare come respirare, trovare un buon parcheggio alla mia complice a quattro ruote e dare il degno finale alla favola te lu Nanni Orcu. Non so se il tempo, storico mio acerrimo amico, quel sabato avesse deciso di stare dalla mia, fatto sta che in poco più di due ore Porta Napoli mi da il benvenuto in nome della sua e della mia città: Lecce. Scendo e tutto intorno a me si ferma: non ho più fretta né urgenza di fare, dire, pensare. Ora è arrivato solo il momento di vivere.

ph Giovanna Falco

Il Teatro Paisiello, illuminato nella sua calma facciata, mi guarda scivolare lungo la strada certo che troverò ciò che sto cercando. L’aria della mia città profuma di casa e di sole anche sotto la pioggia, al buio, e mi inonda dolcemente dell’aria di Piazza Duomo. Nomadi chiedono un obolo per il loro esistere, ma io non ho che un sorriso ed entro decisa nella cattedrale a carezzare gli echi d’incensi e di voci che mi appartengono fin dalla giovinezza. La mia mano accarezza furtiva ogni calda pietra che riveste le mura della città lungo la strada che porta al santo e ai suoi orizzonti di archi, anfiteatro, lupa e Sedile. Mi viene in mente Giovanna che parla dell’effetto del tempo sulla pietra leccese, divoratore che lascia merletti; penso a Michele che torna a Noha, a Paolo che sceglie la sua ultima meta tra la città e il paesino d’origine. Respiro, guardo come se tutto ciò che mi sta dinanzi sia un tesoro di famiglia conosciuto e sempre nuovo. Meraviglia. La mia terra mi entra nelle vene come morfina e sento finalmente il sereno, la memoria della mia vera ragion d’essere. Venti minuti, dice l’orologio. Può anche bastare, è ora che io vada, che io torni da dove sono venuta nell’attesa della mia terra in premio.

La storia te lu Nanni Orcu è salva, penso, ha il suo bel sorriso a conclusione dell’ultimo rigo, ha la benedizione del Salento che l’ha partorita e della nonna che l’ha tramandata, la nonna di tutti, la stessa che ha raccontato le verità di un popolo dentro la magia di una fiaba.

E vissera felici e ccuntienti…” ecco la corona per questa bellissima favola salentina e per la mia giornata di sabato, fine che segna l’inizio di un’auto che parte e di un cuore che resta.

Otranto. San Nicola di Casole, un monastero dimenticato tra Oriente ed Occidente

di Ubaldo Villani-Lubelli

All’indomani della lotta iconoclasta perpetrata dall’Imperatore bizantino Leone III l’Isaurico (714-741) molti religiosi furono costretti ad abbandonare le proprie terre d’origine in direzione di Roma. Il Meridione d’Italia, zona di confine tra Occidente ed Oriente, divenne terra di rifugio e zona di diffusione della devozione e dell’ordine monastico di San Basilio. Anche dopo la conquista normanna negli anni sessanta dell’XI secolo che avrebbe dovuto avvicinare la comunità locale al cristianesimo latino, la città di Otranto mantenne una notevole presenza di monaci basiliani: sotto gli arcivescovi latini fiorì un clero greco e l’amministrazione civile continuava ad essere gestita da funzionari, notai e giudici di educazione bizantina. I conquistatori, seppur validi cavalieri, non erano spesso alfabetizzati e non avevano lo spessore culturale per poter gestire e riorganizzare strutture amministrative complesse, così si affidarono all’antica “classe dirigente” costituita da avidi lettori, copisti, commentatori, poeti ed autori di trattati teologici che tramandarono la cultura greca per alcune generazioni.

Mentre dunque in Calabria ed in Sicilia, durante il XIII secolo, le comunità greche si ridussero fortemente, nel Salento, ed in particolare ad Otranto, i continui e vivi contatti a tutti i livelli fecero sì che la civiltà greca continuasse a fiorire.

Dall’XI al XIV secolo, infatti, la città di Otranto divenne un importante centro di riferimento, svolgendo funzioni non solo politico-amministrative, economiche e portuali, ma anche religiose e culturali. In questo senso sopravvissero e continuarono a operare alcuni monasteri basiliani ed uno in

Per una storia degli oleifici salentini

 

L’Oleificio Sociale di Matino nel 1906, il primo dell’Italia Meridionale

di Antonio Bruno

Il 18 febbraio 1906, sotto forma di società anonima cooperativa a capitale illimitato, fu costituto a Matino, nel Salento leccese, il primo Oleificio sociale dell’Italia Meridionale. Gli oli dell’Oleificio Sociale di Matino nei primi del 900 riportavano grandi onorificenze nelle mostre e nelle esposizioni dell’epoca.
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Tanto per rimanere in tema di territorio, di tutela, di tradizione. L’olio che si si estrae dalle olive del Salento leccese non ha bisogno di parole e il suo profumo è noto a chi mette ogni giorno a tavola la sua boccetta. Si perché l’olio si riconosce per il suo profumo, e tu devi cominciare a pensare così, come quando vai in profumeria e acquisti il tuo profumo non tenendo in alcuna considerazione di che colore sia. Così l’olio, ha importanza solo il profumo e il gusto, il colore non ha nessun valore.

Nel Salento leccese questo profumo si produce e si produceva alla grande; infatti erano attivi 159 oleifici sociali e 210 stabilimenti di molitura privati.

Gli acquirenti maggiori dell’Olio del Salento leccese sono rappresentati dai grossisti (56%), industria (20%) e mercato nazionale.
Ma c’è sempre una prima volta. E allora chi è che per la prima volta nel Salento leccese ha costituito un Oleificio cooperativo? Sono notizie che dovremmo sapere perché riguardano donne e uomini del Salento leccese che hanno fatto la storia.

Nei primi anni del secolo scorso a Matino, nel Salento leccese, un gruppo di uomini intelligenti e coraggiosi, dopo aver costituito un Consorzio Agrario per gli acquisti collettivi, fecero sorgere il 18 febbraio 1906, sotto forma di società anonima cooperativa a capitale illimitato, il primo Oleificio sociale dell’Italia Meridionale con un patrimonio sottoscritto di Lire 27.500 e con 13 soci che già nel 1910 erano diventati 24 costituendo un capitale sociale di di Lire 50.200 quasi interamente versato e una riserva di Lire 2.628.
Lo stabilimento sociale utilizzava una superficie di 700 metri quadrati che si sviluppava su tre piani. Al piano più alto, spazioso ed arieggiato c’era l’olivaio per il deposito e la conservazione delle olive su graticci della capacità di poco meno di un quintale ciascuno. Dall’olivaio le olive, dopo essere state lavate, passavano attraverso una tramoggia, nel piano immediatamente inferiore, che era destinato a frantoio. Il frantoio era composto da una vasca a tre macelli per la prima molitura delle olive, poi da una serie di torchietti a mano, attraverso i quali veniva estratto l’olio di prima qualità; a seguire una serie di presse idrauliche da otto pollici. C’era una seconda vasca a due macelli per la rimolitura e due grandi forate, anch’esse a pressione idraulica.

L’energia era data da una locomotiva mobile a vapore collocata in un apposita stanza, le presse e le forate erano alimentate da una pompa a sei corpi e regolate da due accumulatori.
Dal frantoio si passava al piano terra destinato a chiaritoio e raffineria dove si lavorava l’olio liberandolo dalle acque di vegetazione coi separatori brevettati Bracci, lavandolo, decantandolo ripetutamente e filtrandolo. Quindi l’olio passava nell’oliario costituito da tanti pozzetti sotterranei rivestiti da mattonelle di vetro e in recipienti provvisori di latta.
Vi erano poi gli uffici e un dormitorio per gli operai. Sotto all’olivaio c’era una scantinato spazioso per deposito di sansa, attrezzi ed altro.

In un corpo di fabbrica isolato e lontano dall’edificio principale era messo “l’inferno” che mediante un canale sotterraneo riceveva le acque madri che dal chiaritoio si scaricavano in una grande vasca e successivamente, per mezzo di sifoni, passavano in altre quattro vasche per disperdersi poi in una vora dopo aver subito una fermentazione di 20 giorni.

Lo stabilimento era in grado di lavorare da 120 a 150 ettolitri di olive al giorno con il solo lavoro diurno.
Gli oli dell’Oleificio Sociale di Matino nei primi del 900 riportavano grandi onorificenze nelle mostre e nelle esposizioni dell’epoca.

L’Oleificio Sociale di Matino pur essendo entrato in funzione in ritardo e con una produzione di olive di annata di scarica nel primo anno lavorò una media di 60 ettolitri di olive al giorno, trasformando 3.177 ettolitri di olive in 408 quintali di olio di tre tipi diversi. Si erano ottenuti inoltre 26,25 quintali di olio d’inferno, un olio molto scadente che si ottiene raccogliendo quello che affiora dalle acque di lavorazione e di lavaggio (in realtà molto poco), dopo averle convogliate tutte insieme in un locale di solito sotterraneo all’oleificio, chiamato, non a caso, “Inferno” e lasciate riposare per alcune settimane. E, come è facile intuire, quest’olio si chiama appunto olio d’inferno che nessuno degli oleifici dell’epoca realizzava perché le acque grasse venivano abbandonate prima ancora di essere totalmente sfruttate. Si sono ottenuti poi 722 quintali di sansa che il Prof. Bracci di Spoleto trovò interamente esaurita con i mezzi meccanici e dopo aver effettuato le analisi chimiche riscontrò la presenza del 9% di grasso.
Nel primo anno di lavorazione l’esercizio finanziario si chiuse con Lire 2.005,50 di utile netto. Nel secondo anno si trasformarono 2.039 ettolitri di olive in 268 quintali di olio, 1.622 quintali di sansa con un utile netto di Lire 5.603,00 e tale utile sussisteva nonostante si fossero messe tra le spese Lire 2.000 per l’ammortamento del locale.
Nella terza annata agraria si lavorarono 2.808 ettolitri di olive ricavando 384 quintali di olio e 658 quintali di sansa.

A Matino gli uomini si mettevano insieme per fare l’olio e realizzavano insieme quell’attimo eterno di storia in cui l’oliva sacrifica se stessa per cedere all’uomo il suo fluido dorato, quel pregiato nutrimento che impreziosisce le tavole fin dalle età più remote: l’olio del profumo e del sapore, l’olio della saggezza e del calore, l’olio della tranquillità e del tepore, l’olio delle morbide chiome, l’olio del Salento leccese, l’olio che ti vuole.
Bibliografia

Cosimo Casilli: Lo Sviluppo economico locale: politiche di programmazione e strumenti di incentivazione – Manni Editore.
E. Viola: Cooperazione Rurale. L’oleificio cooperativo di Matino
Aliberti Giovanni: Strutture sociali e classe dirigente nel Mezzogiorno liberale

La Terra e un figlio del Sud

di Pino de Luca

“Terra, stramaledetta terra del sud. Dura, secca, avara e amara. Voglio fuggire da queste zolle granitiche al sole e fangose alla prima pioggia, le mie mani e la mia schiena non te li regalo.

Mio padre e mio nonno e il padre di mio nonno te li sei mangiati brutta terra schifosa, li hai ingoiati, secchi di fatica e madidi di sudore.”

“Puoi fuggire quanto vuoi, piccolo umano, correre veloce come il lampo e nasconderti come un insetto stecco. Ma tornerai nel mio grembo, son qui da sempre, da prima di te, di tuo padre e di tuo nonno e del nonno di tuo nonno. Da sempre gravida di domani e divoratrice di ieri. Come puoi pensare che sfregiandomi e insultandomi cambierai l’ordine delle cose, tanti prima di te lo hanno fatto e tanti altri lo faranno, ma io ero e sarò qui il giorno dopo, tomba dei padri e puerpera dei figli.”

“Terra, stramaledetta terra del sud. Sei ingiusta e matrigna con i tuoi figli, prodiga e ridente con alcuni, tirchia e megera con altri. Che colpa hanno i tuoi figli del sud? Forse li hai concepiti controvoglia?”

“Ogni sud ha il suo sud, il mio seno è quello che è, oggi gonfio di latte domani secco e cadente, io non guardo chi è attaccato al capezzolo, se altri allattano prima di te e tu trovi poco nutrimento io non posso farci nulla…”

“Terra, stramaledetta terra del sud. Sei perfida, vuoi farmi litigare con i miei fratelli, ucciderli magari per avere il tuo latte. Genitrice incestuosa e meretrice, seminatrice di zizzania, vigliacca e necrofila…”

“Continui ad insultarmi, a dare a me le tue colpe … Miliardi di figli devo mantenere, e ognuno pensa a sé, vuole qualcosa per sé. Quanti fra voi pensano a me? Quanti fra voi ascoltano la mia sete, quanti mi assordano con il frastuono delle bombe e delle urla? Figli ingrati. Pensate che tutto vi sia dovuto, che nulla tocchi a voi, che una madre vecchia e piena di rughe sia brutta e cattiva. Vi conosco sai? Vi piacciono le mie parti più belle e le volete per voi, solo per voi, sottraendole ai vostri fratelli e cercando anche di toglierle a me. Siete avidi e vili, date a me le vostre responsabilità peggiori e vi assumete solo i meriti, se tali si possono chiamare.”

“Chiamerò i miei fratelli a raccolta e ti perforeremo, ti sventreremo, bruceremo le tue foreste e avveleneremo i tuoi mari, vedrai vecchia puttana come sarai ridotta, vedremo se sarai capace di avere ancora questo atteggiamento spocchioso …”

“Ah, Ah, Ah !!!”

“Ridi ridi vecchia strega …

“Piccoli stupidi umani, state tagliando il ramo su cui siete stati ospitati per millenni. Avete avuto in dono due cose: l’intelligenza e la boria, la prima potrà salvarvi e la seconda uccidervi tutti. Se rinunciate alla prima altri prenderanno il vostro posto, magari i ratti o magari gli scarafaggi. Che sono molto più rispettosi di voi nei miei confronti …”

“E se usiamo l’intelligenza?”

“Il mio grembo sarà prodigo di nuovi figli e il mio seno gonfio di latte per tutti, che io sono Tonda, il Sud e il Nord e l’Est e l’Ovest siete voi che lo avete inventato … Ma dovete usare molta intelligenza che i vostri padri sono stati molto molto stupidi, chiamali i tuoi fratelli e curati delle foreste e della purezza dell’acqua, cura le mie ferite e aiutami ad aiutarti.”

“E i miei insulti?”

“Una madre non serba rancore nemmeno verso il più discolo dei figli, una madre ama e basta …”

“Vorrei farti un regalo, terra del sud, magari un piccolo lago di acqua dolce e fresca, per ingentilire le zolle e far sudare meno chi ha scelto di donarti le mani e la schiena, come mio padre, mio nonno e il nonno di mio nonno, ci proverò modestamente, usando l’intelligenza che mi hai donato, amata madre mia, dura terra del sud.”

Mestieri che furono: “U conza limmi! U ‘ggiusta còfini!”… e non solo

di Rocco Boccadamo

         

“U conza limmi!, U ‘ggiusta cofini!”. Non sono parole o frasi misteriose, astruse e stravaganti, si tratta semplicemente dell’annuncio con cui un artigiano ambulante  del Capo di Leuca si  presentava agli abitanti del paese natio dello scrivente.

L’anzidetto lavoratore, con giri periodici, faceva su e giù per tutta la zona, mettendo a frutto la propria abilità manuale, in virtù della quale pensava in cuor suo di poter utilmente corrispondere alle usanze, alle attese e al regime di gestione vigente in seno alle famiglie.

“U conzalimmi!, U ‘ggiusta cofini!”, gridava. Traducendo, il personaggio incitava i residenti ad approfittare del suo passaggio e li invitava a portargli gli eventuali accessori o attrezzi domestici in terracotta che avevano subito qualche deterioramento e, perciò, bisognosi di riparazione.

Praticamente, ciascuna famiglia aveva in casa limmi e cofini, contenitori, tipo tinozze, in terracotta, utilizzati per il bucato. I primi, di dimensioni medie, erano adoperati pressoché quotidianamente: si riempivano d’acqua, dopo di che, i vari capi da lavare s’insaponavano con i mitici panetti di marca “Scala” o “Asborno” e sfregandoli lungamente a forza di mani, braccia e gomiti lungo un’asse di legno dentata che si teneva immersa, appunto, nel limmu pieno d’acqua, aggeggio detto lavaturu, si rigeneravano a completo, naturale lindore.

Il limmune o cofinu era un recipiente di struttura analoga, però di dimensioni ben più grandi, utilizzato periodicamente, ogni 15 – 20 giorni, per il grande bucato, ovvero lenzuola, asciugamani, tovaglie e via dicendo, in dialetto si

L’olio di oliva è l’oro del Salento

di Massimo Vaglio

Gli oli definiti vergini o extravergini, sono il prodotto che si ricava direttamente dal frutto, botanicamente definito drupa, dell’albero dell’Olea europea varietà Sativa. Un albero importantissimo, sicuramente il più famoso e pregno di simbolismi.

La sua origine si perde nella notte dei tempi, secondo Callimaco, poeta greco del III sec a.C. , quest’albero sarebbe stato creato da Pallade Atena, dea greca della guerra e della sapienza, in seguito ad una disputa sorta tra lei e il dio del mare Poseidone, per dimostrare ai Greci il suo lato pacifico. La dea, avrebbe quindi donato agli uomini questa pianta, come simbolo di pace e di prosperità. L’olivo viene menzionato anche nelle Sacre Scritture, come sinonimo di sapienza, bellezza, rettitudine ed era sempre d’ulivo il ramoscello che la colomba portò nel becco sull’Arca di Noè per annunciare la fine del biblico diluvio.

Tenuto, quindi, sin dall’antichità, in grande considerazione; è stato sempre coltivato con rispetto, amore e considerato oltre che emblema di pace, anche simbolo di vittoria, trionfo e onore, mentre il suo olio, simbolo pressoché universale di purificazione. A dispetto di cotanta importanza, non si sa invece in quale precisa zona la sua coltura abbia avuto origine, anche se gli studi più accredidati propendono per l’altopiano iranico, quando il suo clima, notevolmente differente da quello odierno, ne faceva un habitat ideale per questo tipo di pianta. Da qui sarebbe arrivato nella zona compresa tra Cirenaica ed Egitto per diffondersi in tutto il bacino del Mediterraneo.

Alla coltura dell’olivo si dedicarono soprattutto gli abitanti dell’Asia minore e i Greci, questi ultimi, come asserito da Plinio e Teofrasto, avevano già catalogato una decina di cultivar, gli stessi eressero l’olio, insieme al grano e al vino a caposaldo di quel modello alimentare che dopo aver contaminato ed essersi imposto nelle usanze degli abitanti delle sponde del grande lago salato, avrebbe preso il nome di dieta mediterranea. Alla sua diffusione contribuirono oltre che gli stessi Greci, i Fenici che lo esportarono nelle terre toccate nei loro tentativi di colonizzazione, quindi i Cartaginesi che lo diffusero in Nordafrica, Sicilia, Spagna e infine i Romani, che razionalizzarono la coltivazione e organizzarono avanzati sistemi di ammasso, trasporto e distribuzione dell’olio. Secondo Plutarco, i soli possedimenti africani di Roma fruttarono allo stato tre milioni di litri d’olio, ne sono testimonianza le migliaia di relitti carichi di anfore onerarie riportanti sovente impressi sulle anse i sigilli dei commercianti dell’epoca.

Per quanto riguarda la Puglia e il Salento,  i Romani raccolsero il testimone dai coloni greci e lo estensivizzarono facendo anche ampio ricorso al lavoro schiavile, ma con la caduta dell’Impero seguirono secoli d’abbandono sino a quando grazie ai bizantini e in particolare all’opera dei  monaci basiliani intorno al IX-X sec. d.C. , se furono ricostituite vaste estensioni olivetate. Il metodo escogitato dai basiliani per la costituzione di questi oliveti era ingegnoso quanto funzionale, consisteva nell’addomesticare con abili operazioni d’innesto gli olivastri spontanei naturalmente presenti nelle foreste primigenie di leccio (al tempo ancora largamente presenti) e nelle macchie mediterranee eliminando al contempo le altre essenze selvatiche. Queste piante, già fornite di un robusto apparato radicale una volta liberate dalle competitrici s’irrobustivano a vista d’occhio andando a formare nell’arco di qualche decennio rigogliosi e produttivi oliveti. Grande sviluppo si ebbe in seguito, grazie alla costruzione delle torri costiere che alleviando il problema delle razzie saracene, permisero la costituzione delle chiusure o chisure (ovvero dei caratteristici oliveti salentini recintati da muri a secco), anche lungo la costa, come tanti oliveti secolari, sovente coevi alla costruzione delle torri costiere e delle tante masserie fortificate, tuttora testimoniano.

Nel Settecento, quella dell’olivo era già la coltura più diffusa e il commercio dell’olio fiorente, anche se si trattava in massima parte di olio lampante che partendo dal porto di Gallipoli, ma anche da quello di Brindisi e Otranto, su bastimenti carichi di botti, andava ad illuminare le città di mezza Europa. È in questo periodo che grazie al reinvestimento di parte dei cospicui guadagni, cominciano ad essere impiantate grandi estensioni di oliveti a sesto regolare, generalmente a quinconce (rispolverando l’antico schema della quinconce romana) facendo ricorso a giovani piante prodotte in appositi vivai o a giovani olivastri prelevati in natura da innestare una volta ben attecchiti o ancora ai colmoni, alberi adulti capitozzati, ottenuti dal diradamento di altri oliveti appositamente impiantati più fitti, con quel sistema che più tardi sarebbe stato definito a sesto dinamico.

E’ in questo periodo che si inseriscono gli studi agronomici di Giovan Battista Gagliardo (1758- 1826), di Cosimo Moschettini (1747- 1820) e del poliedrico erudito gallipolino Giovanni Presta (1720–1797), in particolare quest’ultimo, con un inedito ed encomiabile approccio scientifico compì una serie di sperimentazioni sulla coltivazione degli olivie la produzione dell’olio, offerti a pubblico vantaggio con l’esauriente libro: Degli ulivi, delle ulive e della maniera di cavar l’olio, pubblicato a Napoli nel 1794, un titolo esplicito per un testo tuttora estremamente valido. Interessantissimi i risultati della sperimentazione da questi eseguita sulla qualità dell’olio in relazione al grado di maturazione, compiuta eseguendo a cadenza quindicinale delle moliture sperimentali dal 15 settembre al 31 marzo. Campioni d’olio, seguiti da una dotta relazione, furono inviati dallo stesso a Caterina II di Russia e al re di Napoli Ferdinando IV. Un’altra sperimentazione riguardò le cultivar, onde valutare quali fossero le cultivar d’olivo più valide dal punto di vista qualitativo per il territorio salentino, anche queste compiute con estremo rigore scientifico, portarono lo stesso a constatare la superiorità delle cultivar autoctone, Cellina di Nardò e Ogliarola Leccese.

In effetti, come otto milioni d’ulivi secolari testimoniano, queste risultano tuttora le uniche varietà, che sfuggendo più delle altre agli insulti della mosca delle olive (Dacus oleae) danno un olio eccellente,  pur se coltivate in modo estensivo e senza alcuno o con limitatissimi interventi fitosanitari.

ph Francesco Politano

Un insegnamento dimenticato o presuntuosamente ignorato negli ultimi decenni e che ha portato all’impianto di migliaia di ettari di nuovi oliveti costituiti da varietà alloctone: Leccino, Frantoio, Coratina… varietà che oltre a non migliorare la qualità dell’olio Salentino, necessitano dell’irrigazione e devono essere sottoposte a puntuali trattamenti fitosanitari con maggiori costi economici ed ambientali, ma che, soprattutto, hanno reso difficile se non inattuabile, una quanto mai necessaria caratterizzazione sensoriale dell’olio salentino.

L’albero dell’Ogliarola si presenta assurgente con foglie lanceolate allungate e drupe piccole, allungate, con nocciolo fragile e di buona resa che producono un olio, con lievi riflessi verdolini, dolce, delicatamente fruttato con note tipicamente mandorlate. L’albero della Cellina, nota localmente pure con i sinonimi di Saracina, Scurranisa, Cafareddha, Casciola… è rustico, molto resistente e con il tempo, se il terreno lo permette può raggiungere dimensioni davvero monumentali; le foglie sono corte e la drupa è piccola, pruinosa con nocciolo duro. Se ne ricava un olio dapprima molto sapido e corposo, ma che si affina nel giro di qualche mese divenendo molto più delicato, limpido e con un’inconfondibile bellissima colorazione giallo oro.

Sia che si tratti di olio  dell’una e dell’altra cultivar, sia, come molto comunemente avviene, che si tratti di un blend fra gli stessi, si tratta di oli sani come pochi, per la pressoché totale assenza di trattamenti fitosanitari sugli oliveti e quindi di pericolosi residui negli oli. Inoltre, risultano organoletticamente piacevoli, delicati e con la non comune caratteristica di rispettare il sapore dei cibi che vi si accostano caratteristica che li rende apprezzatissimi dai cuochi.

ph Mino Presicce

Risultano inoltre ricchi di principi salutari e di antiossidanti e se ciò non bastasse, hanno il più conveniente rapporto qualità prezzo, un motivo in più per preferire, ove possibile, ad ogni altro grasso un olio extravergine d’oliva che, ricordiamo, è uno degli elementi base della Dieta Mediterranea, il modello nutrizionale fondato sul consumo di prodotti freschi e pochi grassi di origine animale. Se mai ce ne fosse bisogno, e vista la proliferazione di grassi e oli spacciati per più leggeri e salutari, ma di più che sospetta dannosità,  ricordiamo, che non esiste un olio più leggero di un altro, attestandosi il contenuto calorico per tutti gli oli in nove calorie per grammo.

L’olio extravergine d’oliva, in compenso, ha moltissime qualità nutrizionali che ne raccomandano l’uso alimentare, unendo gusto e attenzione alla salute.

Il particolare equilibrio nella composizione degli acidi grassi, il contenuto di vitamina E, di provitamina A e di antiossidanti ad effetto protettivo sulla salute lo rendono infatti il grasso più idoneo ad una dieta lipidica equilibrata. La composizione è caratterizzata dalla prevalenza di un acido grasso monoinsaturo (acido oleico) piuttosto stabile alla conservazione e alla cottura e da un perfetto equilibrio di acidi grassi polinsaturi.

Perciò l’olio extravergine aiuta a tenere sotto controllo il livello di colesterolo nel sangue (aumentando quello buono e facendo abbassare quello cattivo) e la formazione di radicali liberi.

Inoltre, l’olio d’oliva protegge le mucose riducendo il rischio di ulcere gastriche e duodenali e svolge un ruolo protettivo contro l’insorgenza di numerose patologie come il diabete, l’arteriosclerosi, l’ipertensione e alcuni tumori. Benefici che non si limitano al suo uso crudo, ma restano anche con la cottura. Anzi, in alcuni casi, abbinato a determinati prodotti, l’extravergine scaldato migliora le sue prestazioni. Studi scientifici dimostrano infatti che la sinergia tra olio e pomodoro dal punto di vista nutrizionale è rafforzata dalla cottura, con la quale aumentano l’attività antiossidante e la biodisponibilità delle sostanze benefiche dei due elementi.

Capucanale ti lu trappitaru

Si tratta di un’antica usanza ancora in auge in alcuni paesi del Salento, che consiste in dei pasti propiziatori, consumati ancora oggi nei frantoi, fra diversi attori: i proprietari del trappeto, il nachiro, i trappitari e i conferitori delle olive, per propiziare appunto una buona campagna olivicola. Il pasto si tiene tradizionalmente nei frantoi,  come quando i lavoratori non uscivano dal tappeto per tutti i mesi necessari alla lavorazione delle olive. Le portate consistono in primis in una caldaia di verdure miste lessate: cicorie, cime di rape, mugnuli, scarole, bietole. Si pone nella cosiddetta limba ti lu trappitu (un’enorme conca di terra cotta smaltata), del pane spezzato rigorosamente con le mani, si adagiano sopra le verdure lessate, si allaga il tutto d’olio appena spremuto, si rivolta il tutto e si mangia con le mani, non prima di essersele per così dire disinfettate strofinandole con le nozze, che sarebbero le lastre di sansa appena estratta dai fiscoli. Seguono i legumi, in genere: fave, fagioli e piselli secchi, questi vengono cotti separatamente nelle pignatte, quindi si cominciavano a versare nella conca le fave e si schiacciano con l’apposito stumpaturu ( grosso pestello di legno), poi i piselli e si stompano anche questi, infine i fagioli, una volta stompato ed amalgamato il tutto, si mescola diligentemente il tutto incorporando il pane sempre spezzato con le mani e allagando naturalmente il tutto con l’olio nuovo, si mangia con le mani intingendo tutti direttamente nella conca. Seguono le pittule, tanto semplici, quanto farcite e si completa con i sobbrataula (fine pasto): noci, sedani, cicorie, finocchi, olive mature o conciate.

Attribuita al Regolia una tela conservata nel Municipio di Taranto

di Nicola Fasano*

Taranto: città delle industrie, città dell’inquinamento, delle brutture, però anche città dei tesori nascosti che non trovano una piena fruibilità. E’ il caso di un dipinto seicentesco di notevole formato conservato negli uffici di Palazzo di Città raffigurante San Francesco che soccorre gli ammalati.

La tela faceva parte del sontuoso arredo di palazzo D’Ayala-Valva (già Marrese), e abbelliva il soffitto a cassettoni del salotto di rappresentanza. Con l’espropriazione del palazzo a favore del comune nel 1981, tutti i beni conservati nel palazzo sono diventati di proprietà comunale.

Il professor Galante dell’Università di Lecce, analizzando la suddetta tela, aveva attribuito l’opera al pittore napoletano Pacecco De Rosa; successivamente lo studioso Leone De Castris riconduceva il dipinto (giustamente, secondo il parere di chi scrive) al palermitano di formazione napoletana Michele Regolia autore di numerose tele nel vicereame. Educato presso la scuola tardo-manierista di Belisario Corenzio, l’autore del dipinto tarantino non è esente da influenze emiliane alla Domenichino.

Regolia si apre alle nuove istanze del naturalismo caravaggesco imperante a Napoli, nei due personaggi maschili in primo piano torniti da vigorosi effetti chiaroscurali.

All’estrema sinistra della composizione è raffigurato un personaggio in abiti nobiliari che volge lo sguardo allo spettatore, molto probabilmente il committente del dipinto, devoto di San Francesco; sulla destra una madre con il figlio cieco in braccio implora al Santo la grazia.

Il maestro palermitano era un autore caro ai francescani perché rispondente a determinati precetti, quali la devozione e la pacatezza nelle figure, la dottrinalità nelle immagini secondo i dettami rigorosi della controriforma. Caratteristica dell’artista siciliano è, inoltre, la raffigurazione di angeli dalle

Novembre, è tempo di raccoglierle

di Armando Polito

Mola olearia da Pompei. Immagine tratta da Rediscovering Pompeii, “L’Erma” di Bretschneider, Roma, 1990, pag. 132

 

È colpa mia se le olive si cominciano a raccogliere  in questo periodo dell’anno e se, dunque, l’argomento non appare fuori stagione?

Questa volta, a conforto di chi mi legge,  a parlare sarà solo (o quasi…) Plinio (I secolo d. C.) con la sua Naturalis historia, anche perché le notizie al riguardo probabilmente sue sono accompagnate puntualmente da citazioni di autori che l’avevano preceduto.

Si comincia con una nota storica: (XII, 1): “Teofrasto, uno dei più famosi autori greci, intorno all’anno 440 dalla fondazione di Roma1 disse che l’olivo non nasceva lontano dal mare più di quaranta miglia e Fenestella2 sostiene che l’olivo non esisteva in Italia, Spagna ed Africa al tempo del regno di Tarquinio Prisco, 173 anni dalla fondazione di Roma e che quest’albero ora è passato pure oltre le Alpi e nelle zone centrali della Francia e della Spagna”.

Ecco, subito dopo, delineate le conseguenze economiche e di mercato: “Perciò nell’anno 505 dalla fondazione di Roma…l’olio aveva il prezzo di dodici assi a libbra, nell’anno 680 M. Seio…diede al popolo romano per tutto l’anno dieci libbre di olio per un asse. Ma molto meno si meraviglierà di ciò chi saprà che ventidue anni dopo …l’Italia mandò l’olio nelle provincie”.

Segue un dettaglio non da poco, pur nella sua estrema sinteticità, che prelude alla coltivazione intensiva, anche se, probabilmente,  con un’esagerazione finale: “Esiodo3, che fu tra i primi ad insegnare l’agricoltura, disse che chi aveva piantato un olivo mai ne aveva colto il frutto, così lentamente cresceva quest’albero. Ma ora pongono i semi  anche nei semenzai e dalle piante trapiantate nell’anno successivo raccolgono il frutto”.

È tempo di passare all’olio: (XIII, 2) “A raccolto effettuato, per produrre l’olio è necessaria più cura di quanto non ne occorra per produrre il vino, perché dalla medesima oliva si possono estrarre oli diversi. Anzitutto è da considerare l’oliva acerba o che, comunque, non ha cominciato ancora a maturare: il sapore dell’olio è eccezionale. Quello poi che esce dalla prima torchiatura è pregiatissimo, a seguire quello che si estrae, come da poco si è cominciato a fare,  mettendo le olive pestate in piccoli cestelli di vimini. Quanto più l’oliva è matura, tanto più l’olio è pesante e meno gradevole. Il migliore momento per raccogliere le olive, quando son sane e abbondanti,  è quello in cui cominciano ad annerire. C’è una grande differenza se si fanno maturare le olive nei frantoi o sui rami, se l’albero era bagnato o se l’oliva aveva solo il suo succo e non bevve nient’altro che rugiada”; (XIII, 3): “L’invecchiamento danneggia l’olio, a differenza del vino, ed esso dovrebbe essere al massimo di un anno;  in questo la natura, se ci fa piacere capirlo, è stata provvida, perché non è indispensabile usare il vino  che è nato per ubriacare; anzi, il suo invecchiamento, che lo rende migliore, ci invita a metterlo da parte; la natura, invece, non volle che così avvenisse con l’olio, che dopo il primo anno è già vecchio e scadente per tutti”.

Poi Plinio, sempre nello stesso capitolo dello stesso libro del brano appena citato, ritorna al raccolto con questi consigli: “È un danno se per limitare le spese si aspetta che le olive cadano da sole. Quelli che vogliono seguire la via di mezzo le battono con le pertiche, danneggiando l’albero e compromettendo il raccolto dell’anno successivo. Perciò c’è per coloro che coltivano l’olivo una legge che dice di non reciderlo e non batterlo. Coloro che agiscono cautissimamente battono leggermente con canne, senza rompere i rami, altrimenti l’albero è danneggiato nella successiva germinazione e si perde un anno di fruttificazione. Lo stesso succede se si aspetta che le olive cadano da sole perché esse permanendo sull’albero oltre il tempo dovuto sottraggono sostanza al raccolto successivo”.

E contro l’opinione (apparentemente non infondata) che l’oliva più polposa dia più olio: “Le olive sono fatte di nocciolo, olio, carne e morchia, che è sua putrefazione amara. Nasce dall’acqua, perciò è minima in tempo di siccità, abbondante in quelli piovosi. Il succo dell’oliva è l’olio e questo s’intende soprattutto nelle olive acerbe…cresce l’olio dopo la nascita della stella di Arturo, fino al 16 settembre, poi crescono i noccioli e la carne. Quando le piogge giungono abbondanti  e le olive sono assetate, l’olio diventa morchia e il suo colore fa che l’oliva diventi nera e perciò all’inizio di questo processo c’è una minima quantità di morchia, prima non ce n’è proprio. E le persone si ingannano pensando che sia l’inizio della maturazione ciò che in realtà è l’inizio di un difetto. Sbagliano inoltre credendo che l’olio nasca dalla carne dell’oliva, che il succo si incrementi e il nocciolo ingrandisca, ragion per cui sottopongono la pianta ad irrigazione. Se tutto ciò avviene per intervento del coltivatore o per le piogge eccessive l’olio si consuma se non interviene il bel tempo che assottigli il corpo dell’oliva. Causa dell’olio, come dice Teofrasto, è il calore e perciò nei frantoi e nei magazzini è richiesto molto fuoco”.

Mi piace chiudere, proprio a proposito del calore,  con questa testimonianza di una coscienza ecologica e di risparmio energetico insospettabile in tempi in cui si poteva pure scialare e che a distanza di due millenni trova ancora oggi applicazione nei moderni frantoi, dove il nocciolino viene utilizzato per il riscaldamento dell’acqua usata nella gramolatura : (XIII, 6) “Tutte queste operazioni vanno fatte nei frantoi caldi e chiusi e non ventilati; qui non c’è bisogno di usare la legna perché dai noccioli delle olive si produce un adattissimo fuoco”.

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1 La data tradizionale della fondazione di Roma è il 753 a. C., per cui la data alla quale fa riferimento Plinio è il 313 a. C.; infatti Teofrasto  visse dal 371 al 287 a. C. Ottantaquattro anni di età a quei tempi erano veramente un traguardo eccezionale e, a parte il patrimonio genetico, c’è da chiedersi che ruolo abbia avuto, magari, il consumo dell’olio di oliva. Purtroppo, non abbiamo su tale tema alcuna testimonianza, mentre gli archivi televisivi oggi grondano di registrazioni dai quali i posteri potranno attingere notizie preziose sulle abitudini, anche alimentari, di un tronista o di una velina che, com’è noto, sono le categorie più rappresentative dell’umanità del nostro secolo…

2 Storico romano vissuto tra la seconda metà del I secolo a. C. e il primo ventennio del I d. C. , autore di Annales, di cui ci restano una trentina di frammenti.

3 Poeta greco vissuto tra l’VIII e il VII secolo a. C.

Oggi, se potete, portate un fiore ai vivi

Questo nostro tempo è talmente privo di punti minimi di riferimento che il centro stesso può divenire la più sperduta e desolata delle periferie. Accade allora in questi giorni che un uomo possa morire nel pieno centro di un piccolo paese come il mio e che nessuno se ne avveda, che nessuno se ne curi, come accadesse nella più vasta e spersonalizzante metropoli contemporanea. La tendenza all’indifferenza reciproca, isola ardentemente cercata da coloro che un tempo sentivano il morso della minuta provincia o del piccolo borgo, non è più un tratto del vivere sociale che connota i luoghi ma è un tratto dell’uomo, è un dato passato definitivamente dalla geografia antropica allo spirito. La reciproca indifferenza tra gli uomini, trasformandoli, trasforma borghi e villaggi in luoghi smisurati, in metropoli sempre più grandi per uomini sempre più piccoli.

“Questo paese non può dirsi una comunità” ammonisce sdegnato mons. Giuseppe Sacino dalle pagine di un quotidiano locale. Ed io, che non sono mai entrato nella sua chiesa e che non ho mai sopportato le omelie dei preti, mi piego in ginocchio alla verità del suo vangelo, alla smisurata nobiltà della sua arringa, alla grandezza del suo verbo. Abbiamo tutti bisogno di cristianesimo forse, persino noi che non crediamo in un dio: da abitante di questo mio piccolo paese voglio  testimoniare la gratitudine per quelle dignitose sentinelle rimaste a vegliare nel generale smarrimento.

Oggi, nel cimitero del mio piccolo paese, nessuno forse si recherà a lasciare un fiore sulla tomba di quell’uomo. Non me ne stupirei: come può esservi rispetto per i morti e per la morte se manca quello per i viventi e per la vita? Vita e morte, si sa, sono inscindibilmente legate l’una all’altra, l’una è condizione per il darsi dell’altra: solo chi è venuto alla vita si appressa ad ogni respiro alla morte, solo chi dovrà morire ha l’opportunità d’esistere. Allo stesso modo, solo un rinnovato culto, una rigenerata cura e l’anelito per i viventi potranno ricondurci al culto, alla cura e all’anelito autentico per i nostri defunti. Dagli uni, gli altri, inscindibilmente. Oggi, se potete, portate un fiore ai vivi.

Pier Paolo Tarsi

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