Iconografia sacra a Manduria: spunti di riflessione

di Nicola Morrone

Nel 2002 fu pubblicato un volume di importanza fondamentale per la conoscenza del patrimonio artistico locale, vale a dire “Iconografia Sacra a Manduria”, curato da M.Guastella. Da questo imponente lavoro ormai non si potra’ prescindere , ogni qualvolta si vorranno ricostruire le vicende della produzione pittorica manduriana , magari apportando precisazioni e integrazioni alle informazioni ivi contenute. Con la pubblicazione del predetto volume, in ogni caso, la gran parte del patrimonio iconografico sacro “culto” del territorio di Manduria puo’ dirsi catalogato.Esiste pero’ un’altra produzione pittorica, che si è sviluppata parallelamente rispetto a quella “culta”, di qualità più o meno sostenuta, di collocazione prevalentemente urbana. Essa è precisamente la produzione definita”popolare”, di qualità nel complesso inferiore, e di collocazione prevalentemente rurale. Siamo dell’idea che anche questa produzione, pure quantitativamente minore rispetto a quella della città, meriti di essere catalogata con criteri scientifici. Ci riferiamo a tutta quella serie di dipinti (a fresco, a secco, a tempera su rame) collocati nelle edicole e nelle cappelle votive, la gran parte rurali, ma qualcuna anche urbana, alcune delle quali , pur nell’ambito di una compagine artistica comunemente definita”popolare”, sorprendono per il grado di elaborazione mostrato. E’ venuto quindi il tempo, dopo la pubblicazione della ” Iconografia sacra”, di rendere nota anche la “Iconografia sacra popolare” relativa al nostro territorio. Non si tratterà di un lavoro impegnativo quanto quell’altro, data, lo ripetiamo, la esiguità numerica delle testimonianze pittoriche “popolari” sparse tra la città e il contado, e comunque la ricerca si potra’ avvalere di alcuni strumenti preparatori, quali i volumi di B. Perretti (“Testimonianze cristiane nel territorio rurale di Manduria”, Manduria 2000) e di R.G.Coco (“Manduria tra Taranto e Capo d’Otranto. Etimo, mito e storia del territorio“, Manduria 2009). Alle indicazioni fornite in queste due opere , utili anche a meglio precisare l’ubicazione dei monumenti, per lo più votivi, che ospitano i manufatti pittorici (collocati spesso nei pressi delle vie di comunicazione principali della campagna) si dovrà aggiungere solo il lavoro di catalogazione vero e proprio, che preciserà soggetto, datazione, tecnica d’esecuzione e misure delle pitture e del monumento che le ospita.

Per quanto riguarda la datazione, sappiamo che la gran parte delle edicole superstiti e relativi dipinti risalgono a non prima del sec. XIX, epoca a partire dalla quale vi fu una vera e propria proliferazione di queste piccole ma significative testimonianze d’arte e, soprattutto, di fede. Gli autori sono, naturalmente, anonimi, nè è dato in qualche modo ricostruire la loro identità attraverso testimonianze scritte o orali. Ci si potrebbe però chiedere quale sia la necessità di realizzare un lavoro di catalogazione scientifica di questo patrimonio pittorico. Rispondiamo che si tratta non solo di una necessità meramente conoscitiva; non si tratta, cioè, solo di avere un’idea piu’ precisa della portata, qualità e quantità di questo patrimonio ritenuto comunemente “minore” o addirittura “minimo” rispetto alla contemporanea produzione pittorica “culta”, qualitativamente sostenuta, che rappresenta giustamente il vanto dell’arte locale. Le ragioni di un simile, auspicabile, anzi doveroso lavoro si giustificano con l’importanza intrinseca di questo piccolo patrimonio di cultura figurativa, per più motivi alternativo rispetto a quello dell’area urbana.

L’importanza della pittura manduriana definita “popolare” è essenzialmente di ordine storico, estetico e antropologico. Importanza storica, perchè le immagini sacre di fattura popolare sono un documento di una cultura figurativa che per lunghi secoli si è evoluta parallelamnete rispetto a quella colta e ufficiale. Lungi dall’essere frutto di “spontanea”ispirazione, anche la tradizione figurativa popolare ha avuto una sua tradizione tecnica e di contenuti, chiaramente non più ricostruibile per l’assoluta mancanza di testimonianze documentarie che nessuno, verosimilmente, si è mai preoccupato di produrre, proprio per la perifericità di questa cultura pittorica. Importanza estetica, perchè le immagini sacre popolari rappresentano un universo che si è evoluto con caratteri iconografici e formali propri, sempre facilmente distinguibili, e non certo riducibili (come di solito ritengono gli storici dell’arte) a copie più o meno fedeli di prodotti “colti”.

Il fascino che esercitano queste immagini apparentemente “senza tempo” è indubbio, proprio data la loro permanente carica di “primitivismo”. Questo patrimonio artistico, inoltre, si pone spesso in aspra opposizione, sul piano estetico, rispetto a quello “colto”, elaborato, formalmente più “evoluto”. Importanza antropologica, perchè le immagini popolari sono specchio non solo di un diverso modo di realizzare visivamente un dato tema iconografico, ma sottendono anche (come ha puntualmente sottolineato l’antropologo A. M. Cirese) una vera e propria concezione del mondo, se non addirittura un’ideologia, degne di essere studiate al pari di quelle espressione delle classi dominanti .Tutta la produzione pittorica popolare, quindi anche quella a soggetto sacro, oltre che avere un valore prevalentemente collettivo, si caratterizza sul piano formale per alcune costanti, in particolare per lo schematismo rappresentativo, per la stilizzazione che semplifica forme e tratti, per l’espressività caratterizzata da atteggiamenti fissi, per l’assenza di profondità spaziale e la mancanza di dettagli anatomici precisi, per l’assenza di valori chiaroscurali. Sul piano sociale, essa si sviluppa in un ambito di artigianato domestico e si tramanda nelle zone più periferiche e subalterne. Inoltre (riprendendo ancora una fondamentale osservazione di un noto studioso) una caratteristica costante che identifica il prodotto figurativo popolare è la riproposizione dei motivi. Cioè, ciò che caratterizza in prima istanza un manufatto pittorico popolare (come anche un prodotto poetico-letterario popolare) è ”la ripetizione, talora variata, di un modello, e il cui ideale non sta tanto nella novità del messaggio, quanto invece nella capacità, talora vertiginosa, di restare saldi all’interno di un sistema e di operare variazioni interne che sfruttano tutte le possibilità logiche del sistema stesso” (A. M. Cirese).

In seno a questo ampio patrimonio figurativo, che, come già detto, dobbiamo doverosamente riscoprire e scientificamente catalogare, saremo comunque sempre in grado di distinguere il singolo prodotto, la singola mano del pittore- contadino che, pur avendo maturato la sua esperienza nell’ambito della vasta koinè artistica che definiamo “popolare”, lascia il segno della sua individualità, ma sempre in ossequioso rispetto del modello.

 

Oria. La cripta delle Mummie, unico caso di laici mummificati

di Franco Arpa

Sotto la Basilica  Cattedrale di Oria è situata la cosiddetta cripta delle Mummie, unico caso di laici mummificati.

Secondo la tradizione locale la cripta venne realizzata nel 1484 come luogo di preghiera e di memoria di tutti coloro che non erano tornati dalla battaglia contro i turchi in Terra d’Otranto (1480-1481). Apprendiamo da fonti documentali (AVO, Congrega della Morte, cartella 123. Oria 1896/97, fasc. n.38, riportata in LE CONFRATERNITE IN ORIA del C.R.S.E.C.N°21 – Ceglie M/ca)  che

…[nell’autunno del 1481,il re Ferdinando d’Aragona approfittando di un momento di debolezza delle Falangie Turche di Macumetto II, spedì suo figlio Alfonso con molta armata, che a sè unita aveva parte di quella del Papa e della Repubblica genovese che ripresero con vittoria l’afflitta città di Otranto. Disfatti i Turchi molti di essi si sbandirono per la provincia in piccole guerriglie che saccheggiavano e incendiavano i villaggi, chiese e rapinavano donzelle. Prima che partisse il re Alfonso, lasciò in provincia Giulio Bonifaci che col suo naviglio in Otranto avea recato per compervi alcuni incarichi regi. Il Bonifaci, dopo aver compito al real mandato, mal tollerando le brigantesche compagnie turche che si eano sbandato dietro la disfatta di Otranto, istituì qui in Oria assieme ad illustri cittadini una colonna mobile di Crociati per disfare i pochi nefandi Turchi che si appellò: “Crociati fede o Morte”.

 
mummificazione ben riuscita

Alla patriottica impresa promossa dal Bonifaci, tra gli illustri oritani che si arruolarono si distinse Beltrando Landi. Così per opera di molte compagnie di Crociati furono disfatte le bande turche. Quando approssimandosi la primavera, il dì 14 marzo 1484, secondo venerdì del mese, che di già s’era compiuta in Italia la pace tra i principi, tutti i Crociati si ritirarono nei rispettivi paesi, ma la principale era quella di Oria.

 

Giunta nelle vicinanze della città, il vescovo Mons. Francesco De Arenis, di nazione portoghese, assieme al molto clero di quel tempo, uscirono incontro a quella crociata per riceverla trionfalmente a condurla in Chiesa ove il predetto vescovo benedisse e impose il titolo di Compagnia del SS. Crocefisso, facendo premettere quello di “Fede o Morte”. Così si mantenne fino al 1576. Nel 1598 Mons. Del Tufo, primo vescovo dopo la separazione della chiesa di Brindisi da quella di Oria, pose la Compagnia sotto la protezione e titolo di Maria SS. del Carmine, appellandola Confraternita della Morte, sotto il titolo del Carmine]…

Lungo i lati maggiori della cripta furono ricavate 22 nicchie, nelle quali avrebbero preso  posto i corpi mummificati dei confratelli che ne avessero fatto richiesta, a partire dai reduci della crociata contro i turchi, al fine di dare loro una sorta di visibilità eterna.

emblema dipinto sugli stalli del coro dei confratelli

Dai molti documenti si rilevano le testimonianze degli stessi confratelli che esprimevano la volontà di essere poi sistemati nel soccorpo della cattedrale, nella cripta. Uno dei tanti documenti così riporta: “…Ogni confratello che voleva essere imbalsamato doveva dichiarare e documentare la sua volontà in presenza di una riunione assembleare non inferiore di quaranta fratelli, nonché la presenza dei familiari dopo il rito funebre, rivestito della sua divisa che gli servì da Professo nella compagnia e messo in una nicchia… avendo cura i familiari delle pulizie entro il mese di Ottobre per la commemorazione dei defunti…”.

Il 12 giugno del 1804 la Francia di Napoleone Bonaparte adotta l’Editto di Saint Cloud (recepito nel 1806 nelle repubbliche napoleoniche italiane), con il quale, fra l’altro, si vietano le mummificazioni, che ad Oria però continuarono, forse clandestinamente, se si considera che delle 11 mummie presenti solo una è risalente all’anno 1871 e quindi ad epoca antecedente all’editto napoleonico. Le altre 10 mummie recano data successiva al 1804 e l’ultimo confratello che ha subìto il processo di mummificazione è Michele Italiano, deceduto nel 1858.

Il cadavere da mummificare veniva eviscerato ed aspirata la materia cerebrale dalla narici, al posto degli organi interni veniva messa una miscela di sali disidratanti insieme a calce vergine polverosa, e poi ricucito e calato in una vasca in cui c’erano le stesse sostanze messe all’interno del corpo. Perchè avvenisse la completa disidratazione e disinfezione il cadavere rimaneva in detta vasca  per un periodo di tempo (due anni, due anni e mezzo) che variava in base  alla corporatura del confratello. Dopodiché, alla presenza obbligatoria di almeno due familiari, il cadavere ormai disidratato, mummificato, veniva ripescato, ripulito, trattato con degli unguenti, ricoperto con la tunica personale e posto in una delle nicchie.

Non sempre il procedimento di mummificazione andava a buon fine, in quanto essendo la calce caustica l’operatore, per evitare danni all’apparato scheletrico ed alla pelle (che doveva rimanere integra), doveva fare molta attenzione a dosarla in modo ottimale in rapporto al peso ed alle caratteristiche del cadavere.

la botola

Sul pavimento delle cripta sono visibili delle botole che portavano ad un cunicolo di collegamento con la Torre Palomba,  volgarmente chiamata anche “Torre Carnara” perché fino al XVIII secolo è servita da ossario dell’antico camposanto che occupava Piazza Cattedrale. All’interno della Torre vi erano anche le vasche e gli strumenti chirurgici per la mummificazione.

In una di dette botole sono tuttora custoditi i resti di un “priore” della confraternita della Morte e di sua moglie, che l’attuale “priore” ha intenzione di rendere visibili ai visitatori apponendo una lastra di vetro.

particolare mummificazione ben riuscita
Viapiana, l’attuale priore della Congrega

 

Le foto della cripta sono di Franco Arpa

Tutte le ricette tradizionali per il lampascione, il re dei bulbi

di Massimo Vaglio

Lampascioni in insalata

Nettate i lampascioni, lessateli in acqua salata, fateli raffreddare, divideteli in due se sono grossi e conditeli con olio extra vergine, aceto, pepe e a piacere con menta o prezzemolo. Serviteli freddi. Una variante, consiste nel cuocerli nel modo anzi descritto e nel servirli accompagnati da rape di barbabietole lesse, condendo il tutto come sopra indicato. E’ bene che queste insalate per insaporirsi meglio vengano lasciate riposare qualche ora condite prima di essere servite.

I lampascioni costituiscono da tempo immemorabile, uno degli stuzzichini tradizionali dei pugliesi e dei salentini in particolare, per cui, forse non esiste “putea ti mieru”, così sono denominate le caratteristiche botteghe di vino con mescita nel Salento, ove non vi sia una brava coppa di “lampasciuni ccunzati”, (conditi cioè con olio, sale, pepe e aceto) a disposizione degli avventori, poiché si ritiene che il loro gusto dolce-amaro favorisca il consumo di vino.

Lampascioni cotti nella cenere calda

Questo è un piatto a dir poco primordiale, uno dei primi alimenti umani, insieme ai tuberi di asfodelo, sin dal Neolitico, ma l’uso di arrostire i lampascioni nella cenere, al contrario di quello dell’asfodelo, si è conservato sino ai nostri giorni. Quando gli “alàni” delle masserie pugliesi, ossia i bifolchi addetti all’aratura con muli o buoi, arando il terreno cavavano dei bulbi di lampascione, li raccoglievano e la sera, rientrati per la cena a base quasi

Questa Terra adagiata fra due mari…

ph Roberto Filograna

di Elio Ria

La semplicità è bellezza. I miei occhi sono per questa Terra adagiata  fra due mari con il sole che resiste a se stesso per non ardersi.

Quando i miei passi staccano vita quotidiana per un percorso di meraviglia e nei sentieri di campagna s’inoltrano per convergere verso il mare ascolto la melodia della bellezza che sorprende.

Da quale luogo partire?

Quale direttrice tracciare per perdersi nelle meraviglie delle corti, dei palazzi assonnati e dimenticati, delle piazze di sbadigli,  dei giardini ornati di ciclamini, petunie e garofani; degli orti di basilico e rosmarino a profumare aria di luna?

E’ così incantevole la mia Terra  tanto da confondere l’immaginazione.

E a seguire fantasie di cieli merlati, io m’appresto a seguire il cammino di Astolfo sulla luna a ritrovare il senno per ricomprendere le ragioni di tanta bellezza che è dono degli dei per questa Terra  aspra ma dolce, forestiera non più, taciuta per molto tempo, congiunta dalla nascita alla sofferenza, umile negli intenti.

E degli eterni ulivi disseminati – fra pietre bianche striate di grigio –  dappertutto a significare eterna gratitudine agli orologi del tempo.

Il tempo del Sud è figlio di un dio  che del fluire del suo tempo ha rallentato vita al  giorno e alla notte, incuneandosi nelle pieghe del sole, come a torcersi su se stesso per concedere tempo all’eternità, giacché di questo hanno bisogno le genti del Sud: un tempo che non sia sempre tempo ma  ampio respiro, affinché ogni cosa possa sedimentare e lievitare nel tempo dei tempi.

Alcune note sulla chiesa Madre di Casarano

di Maura Sorrone
– La facciata è la soglia dell’edificio:
con essa l’edificio si “affaccia” sul contesto,
ma anche si esclude da esso –
(M. Manieri Elia, Barocco leccese, Milano 1989, p. 171)

Con questa espressione si è scelto di introdurre questa breve segnalazione sulla chiesa dedicata a Maria Santissima Annunziata di Casarano.
Innanzitutto si vuole ricordare che il 2012 è stato un anno importante per la chiesa perché sono infatti passati 300 anni dalla fine della sua costruzione.
Di recente, inoltre, sono terminati i lavori di restauro che oggi ci permettono di associare a questa bella chiesa del barocco salentino i nomi di artisti e artigiani che in diversi momenti sono stati “ingaggiati” dalla committenza a lavorare per quello che fu l’edificio più importante del paese.

Come la maggior parte delle costruzioni ecclesiastiche del primo XVIII secolo, questa chiesa mostra una facciata longitudinale, particolarmente semplice, scandita da due colonne e arricchita da motivi decorativi soltanto nelle lesene che incorniciano il portale principale.

Questi elementi, così come le sculture che si vedono più in alto, hanno ritrovato grazie ai restauri, la loro originaria volumetria.

Ma la facciata ha ancora qualcosa da dire nelle epigrafi che sono collocate nel fastigio. Quella centrale, pubblicata anni fa da Gino Pisanò, testimonia la partecipazione di tutti i cittadini che, autotassandosi, hanno contribuito attivamente alla costruzione dell’edificio (L. Graziuso, E. Panarese, G. Pisanò (a cura di), Iscrizioni latine del Salento…, Galatina 1994, cit. p. 123).
Le altre due invece riportano l’anno di edificazione della chiesa, a sinistra si legge: A[nno] D[o]M[ini] 1712 (Nell’anno del Signore 1712 – fig. 1) e M[astro] ANG[el]O DE GIOV[anni] F[ecit], (Mastro Angelo De Giovanni fece – fig. 2) a destra (colgo l’occasione per ringraziare Rocco De Micheli autore di queste due foto).

Ciò ci permettere di aggiungere questa chiesa all’elenco delle architetture del Salento che sono legate non solo ai validi architetti e scultori attivi tra il XVII e il XVIII secolo, ma anche alle numerose famiglie di costruttori che lavoravano accanto ai progettisti. Ancora tanto c’è da dire e chi scrive da qualche tempo si occupa di ricostruire le vicende storico – artistiche della chiesa.

Ad ogni modo è possibile dire con certezza che questi artigiani avevano una parte importante nello sviluppo del lavoro tanto da potersi permettere di scrivere il proprio nome nelle costruzioni che realizzavano, più precisamente nel punto più alto delle facciata: a futura memoria.

Un salentino a Nord Est. Osservando, curiosando e ricordando

di Rocco Boccadamo

 

Alligna nel Salento, come, del resto, in tanti altri posti, una bella e forte pianta, il carrubo, che, nell’arco della sua lunga vita, può anche raggiungere la non comune altezza di dieci metri e si mostra con una folta chioma fronzuta sempreverde.

E’ un albero che non richiede soverchie cure, aduso e resistente a qualsiasi condizione climatica, le erbe e le erbacce, che vanno spuntando naturalmente ai suoi piedi, crescono, diventano rigogliose, ingialliscono e seccano, un ciclo vegetativo dopo l’altro, mentre il nostro gigante lussureggiante se ne resta imperterrito lì, quasi a gustarsi la scena.

Conferisce un appagamento speciale, durante la stagione calda, la sosta alla sua ombra, con l’agio privilegiato di occhieggiare fra i minuscoli spazi del fogliame e, in tal modo, cogliere frammenti di cielo o di mare, in movimento, oscillanti dietro la carezza timida del venticello.

Il carrubo dà anche frutti, sottoforma di grossi baccelli contenenti, all’interno, alcuni semi e contraddistinti da buccia di colore verde quando sono acerbi e di tonalità marrone nella fase di maturazione: si chiamano, semplicemente, carrube.

 

In passato, i contadini, o agricoltori o mezzadri o proprietari dei fondi, provvedevano sistematicamente a raccogliere le carrube; in parte, erano utilizzate ai fini dell’alimentazione degli animali da lavoro e/o domestici, in parte, invece, erano cedute a commercianti ambulanti all’ingrosso, i quali caricavano i capienti sacchi di iuta su traini o camioncini, li ammucchiavano temporaneamente nei magazzini e, da ultimo, conferivano la merce all’ammasso.

Correvano quotazioni bassissime e, di conseguenza, contropartite in denaro risicate, appena gocce di entrate a beneficio dei magri bilanci familiari dei produttori venditori. Adesso, purtroppo, nessuno abbacchia e raccoglie le carrube, se si eccettuano i modesti quantitativi colti e conservati in casa, per preparare, con l’aggiunta di fichi secchi, qualche infuso o decotto che, all’occorrenza, può arrecare lenimento e rivelarsi rimedio naturale alla tosse o al mal gola.Sicché, i frutti del verde e maestoso albero finiscono col cadere da soli sul terreno e col marcire, e così da una stagione alla successiva.Eppure, incredibilmente, sul bancone di un fruttivendolo, stamani, si è presentata alla vista una cassetta, contenente proprio carrube color marrone, e il relativo cartellino prezzo segnava niente poco di meno che € 5 a chilogrammo.

Non c’è che dire, dalla produzione al consumo, esattamente chilometri zero e neanche l’ombra di ricarico.

La vetrina di una macelleria ha invece dato agio, al comune osservatore di strada, di apprendere una cosa assolutamente nuova, in altre parole l’offerta al pubblico, fra le varie specialità, di “carne e salame d’asino”, con l’aggiunta, a beneficio della clientela della zona, dell’appellativo dialettale dell’animale, cioè musso.

La commessa del negozio, per la verità, ha riferito che gli acquirenti di tale genere di carne formano una nicchia limitata, che risente, forse, dei richiami riguardanti la preparazione e la degustazione di manicaretti della specie, in occasione di fiere e sagre. Ha, ad ogni modo, aggiunto che occorrono molte ore, sino a dieci, per cuocere a puntino l’alimento in questione.

Pensare come, lo scrivente, con riferimento all’utile animale da soma, fosse fermo e arretrato al “latte d’asina”, utilizzato per finalità alimentari, particolarmente dei bambini, o cosmetiche.

Poveri asinelli, anche voi, dunque, talora andate a finire al macello, non vi sono più riservati, esclusivamente, il trapasso naturale e il meritato riposo per sempre!

Pensare ancora come, il ragazzo di ieri, provasse uno scrupolo non da poco nei vostri confronti, come categoria, quando, con i calzoncini corti, per fare dispetto all’anziano contadino del paesello natio, Vicenzu u cuzzune, piccolo e ricurvo, il quale si muoveva esclusivamente in groppa a un somarello di pari altezza, gli andava appositamente dietro, sfruculiando l’innocente quadrupede, mediante un ramo, esattamente in un preciso punto, al che la bestia, ovviamente, reagiva saltellando e scalciando, con il rischio, per il suo padrone, di essere disarcionato e cadere malamente a terra.

Cambiando completamente genere di proposta e commercio, un altro esercizio sul corso espone uno strano cartello: “Novità assoluta – Bigodini per boccoli”.
Al che, s’innesca uno stimolo alla curiosità, la titolare del negozio, intenta a provare una parrucca in capo ad una cliente, incarica il marito di sentire e assistere me.

Il predetto mi domanda subito se sono per caso un parrucchiere. Dopo di che, passa a spiegarmi che si tratta di un’invenzione freschissima, frutto, però, di lunghi studi, e fa scorrere un breve filmato in cui scorgo una serie di aggeggi, cannelle di plastica, intorno alle quali si arrotolano, tutto in una volta e non capello per capello, i boccoli, tenuti poi fermi e stretti, per un certo arco di tempo, grazie a mollette, pure di plastica, fatte scorrere, dal basso verso l’alto, lungo le cannelle, e fissate con gancetti sino tenere, i boccoli medesimi, avvolti e bloccati.

Notevole risparmio di tempo, risultati egregi, aggiunge l’uomo, che, alla mia domanda al riguardo, precisa di vendere kit di siffatti bigodini, ciascuno con quarantadue pezzi, alla cifra di euro quarantotto. Mi saluta con un sorriso, non senza gratificarmi con un “ha fatto bene a chiedere illustrazioni”.

Da queste parti, abbondano i manifesti pubblicitari proponenti “Corsi di ballo”, se ne incontrano proprio tanti, si vede che i veneti sono portati per la danza in coppia. Nulla di male, ovviamente, anzi è risaputo che i movimenti, giustappunto del ballo, sono salutari per il fisico e per lo spirito.

In uno stretto e poco profondo canale o roggia, al centro di Padova, ho notato folte colonie di pesciolini; ciò spiega come mai, fra i postumi delle recentissime esondazioni di corsi d’acqua più grandi, nella zona, si siano rinvenuti numerosi esemplari ittici, soprattutto carpe, all’interno delle cantine e garage delle abitazioni rimaste allagate.

Stufato di tartufi

di Armando Polito

L’archivio della Fondazione Terra d’Otranto non sarà, magari, I deipnosofisti1 di Ateneo di Naucrati (II-III secolo d. C) e neppure il Convivium2 dantesco, ma stimola l’appetito (sempre, come nei modelli appena citati, quello della mente…e non solo). Ispirato, perciò, dal bel recentissimo post di Massimo (ormai, per antonomasia, possiamo fare a meno del cognome) I tartufi del Salento, ho sentito il bisogno di non mancare all’ideale banchetto.

bianchetto (tuber albidum)

Comincio dall’etimologia e già mi pare di sentire un nutrito coro di no, per favore, ancora!  Non siamo nella tragedia greca, in cui al coro era affidato il compito di recare ferali notizie o di esprimere riprovazione nei confronti di qualcosa o di qualcuno; perciò continuo imperterrito, anche perché ho in serbo qualcosa che potrebbe far ricredere, se non tutto, parte di quel nutrito coro (convinto dal titolo che si trattasse di una ricetta e non della solita rottura in omaggio al significato traslato di stufato) almeno sull’utilità di conoscere la storia di una singola parola, non fosse altro che per guardare con un sorriso ironico, unica consolazione forse rimastaci, alla realtà che ci circonda.

Se cerco in qualsiasi dizionario l’etimo di tartufo trovo registrato pressappoco quest’etimo: probabilmente da un latino *territùfer, composto di terra=terra e *tufer variante italica di tuber=fungo.

Si tratta della riesumazione, sia pure fatta con le pinze, di un etimo la cui paternità spetta a Nicola Ignarra, un letterato napoletano del XVIII secolo, che credette di ravvisare nel tartufo il terrae tuber attestato da Petronio (I secolo d. C.), Satyricon, XV: Vix me teneo et sum natura caldus: ciceris ius cum cepi, matrem meam dupondii non facio. Recte! Videbo te in publicum, mus, imo terrae tuber (A stento mi trattengo e sono caldo di natura: quando ho preso il brodo di ceci3 non ho rispetto [alla lettera: non stimo due assi] nemmeno per mia madre. Bene! Guarderò te in pubblico come si guarda un topo, un tubero di terra [per l’Ignarra è il tartufo] in profondità).

Se il terrae tuber petroniano è veramente il tartufo, c’è da concludere che esso non aveva grande considerazione nel mondo romano, altrimenti non sarebbe stato usato come termine di paragone (alla pari, addirittura, col topo) in un insulto.

Il probabilmente che accompagna l’etimo corrente potrebbe essere a mio avviso ridimensionato, se non cancellato, secondo il ragionamento che segue.

Nel dialetto siciliano accanto a tartùffu c’è tiritùffulu (quest’ultima voce l’ho sentita nella forma tiritùfulu  anche a Nardò;  essa manca per tutto il Salento nel vocabolario del Rohlfs e può darsi che sia d’importazione relativamente recente; tuttavia nel Brindisino mi risulta che il tartufo di mare è chiamato tiratùfulu).

Bisognerebbe scoprire quale fra tartùffu (che sembra la trascrizione della voce italiana) e tiritùfulu è nato per primo e, se per tartufo si tratta del XV secolo, per tiritùffulu  (come per tutte le voci dialettali) è pressoché impossibile stabilire la data di nascita, e l’attestazione scritta più datata che son riuscito a trovare è il lemma tiritùffulu (con rinvio a tartùffu) presente in Michele Pasqualino, Vocabolario siciliano etimologico, italiano e latino, Reale Stamperia, Palermo, 1790.

Comunque, per quello che le mie osservazioni possono valere: tiritùffulu sembra presentare a prima vista  un suffisso diminutivo, il che indurrebbe a pensare che sia figlio di tartuffu con un’evoluzione fonetica (-a->-i-) strana, che supporrebbe una forma precedente *tirtùffu passata poi a *tiritùffu con l’epentesi di una vocale uguale a quella più vicina (-i-) come in cancarèna da cancrena. Oppure in tiritùffuluulu non è suffisso diminutivo ma solo regolarizzazione della desinenza attraverso una trafila che ha registrato (partendo dal latino) i seguenti passaggi: *terraetùber>*terretùber>*territùber>*teritùber>*tiritùber>*tiritùfer>*tiritùffer>*titituffèru>*tiritùffelu>*tiritùffulu (con passaggio –e->-u– per influsso della precedente –u-. Inutile dire che questa seconda ipotesi porterebbe acqua al mulino dell’Ignarra e farebbe morire (per annegamento…) il probabilmente compagno inseparabile dell’etimo fin qui proposto.

Come già altre volte è successo di fronte a una difficoltà, mi rifugio nel sicuro riportando la testimonianza di Plinio (I secolo d. C): E poiché abbiamo cominciato dai miracoli delle cose seguiremo il loro ordine, in cima al quale si colloca il fatto che qualcosa possa nascere o vivere senza alcuna radice. È il caso di quelli che si chiamano tartufi (tùbera), circondati da ogni parte dalla terra, senza barbetta alcuna né pelo capillare; il luogo in cui nascono non rigonfia4 né si fende né essi fanno un tutt’uno con la terra. Sono rinchiusi da una corteccia, sicché non si può dire del tutto che siano terra né altro se non callo di terra. Nascono in luoghi secchi, sabbiosi e pieni di sterpi. Superano spesso la grandezza d’una mela cotogna e possono giungere anche al peso di una libbra5.  Sono di due tipi: arenosi nemici dei denti e non. Si distinguono anche per il colore, rosso e nero e bianco all’interno. I più pregiati sono quelli africani. Se crescano per loro natura o sia dovuto a difetto della terra (altro non si può prendere in considerazione) il fatto che assumono subito la forma di una palla della grandezza destinata a mantenersi in futuro e se vivano o no credo che non possa essere facilmente compreso. Si discute pure se marciscano come il legno. Abbiamo saputo che pochi anni fa al pretore Larzio Licinio in servizio a Cartagena in Spagna è accaduto che mentre mordeva un tartufo (tuber) un denario rimasto imprigionato dentro gli ruppe i denti anteriori: per questo è evidente che inglobano in loro la natura della terra. Ciò lo si deduce da quelle cose che nascono ma non si possono seminare. Simile al tartufo è quello che nella provincia della Cirenaica chiamano misi, unico per soavità di odore e di sapore ma più carnoso; e quello che in Tracia si chiama iton6 e quello che in Grecia si chiama geranio7. Sui tartufi si dice in particolare che nascono quando ci sono le piogge autunnali e frequenti tuoni e che nascono soprattutto da questi; che non durano più di un anno e che in primavera sono tenerissimi. In alcuni luoghi sono portati dall’acqua, sicché a Mitilene dicono che non nascono se i fiumi traboccando non portano il seme da Tiari. È questo il luogo dove nascono nella più grande quantità. I più pregiati dell’Asia si trovano intorno a Lampsaco e Alopeconneso, quelli della Grecia intorno a Elide.8

Per chi volesse fare un controllo prima di inventarsi un nuovo mestiere: Mitilene si trova nell’isola di Lesbo (Egeo settentrionale), che è la patria di Saffo, forse la più grande poetessa greca, oggi, forse inconsapevolmente, parzialmente note l’una (l’isola) e l’altra (la poetessa) per due aggettivi, lesbico e saffico. La presenza di resti di case tardo-romane autorizza a supporre, oltre a quella connessa con l’importazione, anche una fruizione straniera in loco.

Lampsaco era una città della Misia, sull’Ellesponto. Secondo la testimonianza di Cicerone e di altri il culto privilegiato era quello di Priapo, come già per Saffo probabilmente noto solo per il sostantivo derivato, priapismo. Comunque, tenendo conto, per chi non lo sapesse, che Priapo era il dio della potenza sessuale e della fertilità e senza trascurare gli apporti di Saffo, l’autore dell’ipotetico controllo farebbe, se tanto mi dà tanto,  nnu iàggiu e ddo’ sirizzi (un viaggio e due servizi): ricerca di tartufi e “turismo sessuale”. Una raccomandazione: alla partenza farsi un bel brodo di ceci…

Alopeconneso è un’isola nel Mar di Marmara e, secondo me, non conviene andarci, perché probabilmente si rischierebbe la rabbia, sempre che siano sopravvissute le volpi che le hanno dato il nome (alòpex=volpe e nesos=isola).

Elide era una regione del Peloponneso nonché il nome della città che di quella regione era la capitale; che taccagni questi Greci rispetto a noi che ci inventiamo, naturalmente in nome della democrazia e per conto (intendi bene: tramite un conto che sarà pagato dai) dei soliti fessi,  pure rappresentanze suburbane…!

Avrei voluto  chiudere con un sorriso possibilmente non ironico, cioé dolce, ma neppure questa volta l’argomento o il mio temperamento mi hanno consentito di farlo:  penso a Le Tartuffe ou l’imposteur di Molière (XVII secolo; in basso il frontespizio dell’edizione del 1682), personaggio al quale è debitore l’uso traslato del nostro vocabolo per bollare chi ostenta falsa bontà e devozione religiosa; e penso che truffa (anche nel suo significato obsoleto di bagattella) quasi concordemente è fatto derivare probabilmente (ancora!) dal francese truffe, dall’antico provenzale trufa=tartufo, dal latino tardo tùfera, che è dal classico tuber da cui siamo partiti.

Però, nonostante questi “precedenti”, che carriera brillante ha avuto il nostro tubero che oggi gode di un’altissima quotazione, superando di gran lunga il fratello lampascione che non aveva avuto un esordio brillante neppure lui!

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1 Alla lettera: I saggi a banchetto. L’opera è molto importante perché contiene citazioni da altri autori (frammenti) di cui nulla ci è pervenuto.

2 Alle lettera: Banchetto.

3 Galeno (II-III secolo d. C.) attesta che alcuni somministravano il brodo di ceci agli stalloni perché provocava il coito e generava sperma, opinione confermata, questa volta a vantaggio degli umani,  da Ezio (VI secolo d. C.), il quale dice che il brodo di ceci non solo genera calore ma incrementa  la produzione di sperma. Debbo pensare alla somiglianza di forma con l’organo a ciò deputato e ad un adattamento ante litteram, con significato diverso, del principio dell’omeopatia similia a similibus curentur (ciò che somiglia ad una cosa da quella sia curato)?

4 Gonfiarsi nell’originale latino è espresso con extubèrare, composto da ex con valore intensivo e tuber. Tuber (=e il suo diminutivo tubèrculum con l’aggettivo tuberòsus, da cui, rispettivamente, l’italiano tubercolo e tuberosa) in latino ha come significato di base quello di escrescenza, poi tumore, nodo (del legno), tartufo; per questo viene associato da alcuni a tumor che significa gonfiore, tumore, collera, superbia, ampollosità, dal verbo tumère=gonfiarsi, a sua volta connesso col greco thymòs=soffio vitale, anima, animo, mente, al quale alcuni riportano anche il latino fumus=fumo.

5 Poco più di 300 grammi.

6 Attestato in Teofrasto (III secolo a. C.), fr. 167,  ma come nome di un fungo.

7 Attestato nella forma gheràneion in Teofrasto (Historia plantarum, I, 6, 9), che usa anche il sinonimo ydnon (Historia plantarum, I, 6, 5); quest’ultima voce è usata anche da Dioscoride (I secolo d. C.), De materia medica, II, 145.

8 Naturalis historia, XIX, 11-13: Et quoniam e miraculis rerum coepimus, sequemur eorum ordinem, in quibus vel maximum est, aliquid nasci aut vivere sine ulla radice. Tubera haec vocantur, undique terra circumdata, nullibus fibris nixa, aut saltem capillamentis, nec utique extuberante loco in quo gignuntur, aut rimas agente: neque ipsa terrae cohaerent. Cortice etiam includuntur. ut plane nec terram esse possimus dicere, nec aliud quam terrae callum. Siccis haec fere et sabilosis locis, frutectosisque nascuntur. Excedunt saepe magnitudinem mali cotonei, etiam librali pomdere. Duo eorum genera: arenosa dentibus inimica, et altera sincera. Distinguuntur et colore, rufo, nigroque, et intus candido: laudatissima Africae. Crescant, anne vitium id terrae (neque enim aliud intelligi potest) ea protinus globetur magnitudine, qua futurum est; et vivantne, an non, haud facile arbitror intelligi posse. Putrescendi enim ratio communis est lis cum ligno. Lartio Licinio praetorio viro jura reddenti in Hispania Carthagine, paucis his annis scimus accidisse, mordenti tuber, ut deprehensus intus denarius primos dentes inflecteret: quo manifestum erit, terrae naturam in se globari. Quod certum est ex iis quae nascantur, et seri non possint. Simile est et quod in Cyrenaica provincia vocant misy, praecipuum suavitate odoris ac saporis, sed carnosius: et quod in Thracia iton, et quod in Graecia geranion. De tuberibus haec traduntur peculiariter: quum fuerint ombres autumnales ac tonitrus crebra, tunc nasci, et maxime e tonitribus; nec ultra annum durare, tenerissima autem verno esse. Quibusdam locis accepta riguis feruntur, sicut Mitylenis negant nasci nisi exundatione fluminum invecto semine ab Tiaris. Est autem is locus in quo plurima naascuntur. Asiae nobilissima circa Lampsacum et Alopeconnesum, Graeciae vero circa Elin.

 

Il post di Massimo Vaglio può leggersi cliccando il link in basso:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/11/21/proprio-vero-ecco-i-tartufi-del-salento/

C’era una volta il foglio “brotocollo”…

di Armando Polito

 

Più di una volta, approfittando dell’ospitalità concessami da Spigolature salentine, ho avuto occasione di stigmatizzare il nostro cronico ritardo rispetto ad altri paesi per quanto riguarda la diffusione della cultura in formato digitale e dei rapporti strettissimi che la legano all’autentica democrazia.  Non mi meraviglio, perciò, come il movimento grilliano abbia colto di sorpresa e totalmente impreparata una classe politica saldamente ancorata al mezzo televisivo come primario suo strumento di propaganda e per la quale nessi come Google>Libri e Internet Archive sono espressioni in marziano. Non mi meraviglio neppure che, in nome, tanto per cambiare, del profitto di pochi che hanno i magazzini rigurgitanti di un certo prodotto sulla cui diffusione avevano scommesso ed investito, sia stato varato, senza, per quanto ho detto e dirò, la minima consapevolezza delle sue conseguenze,  il decreto n. 179 del 19 ottobre u. s. dal titolo, per me inquietante, Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese, che rende obbligatorio, a partire dal prossimo anno scolastico 2013/2014, nelle scuole superiori l’utilizzo di libri in formato digitale o misto, quest’ultimo costituito da un testo in formato cartaceo o elettronico e da integrazioni in formato elettronico accessibili o acquistabili in rete.

Nemmeno la pietà, cristiana o no che sia la mia, mi consente di sorvolare sul fatto che il detto decreto riprende parte del precedente n. 112 del 25 giugno 2008 che recava il titolo, altrettanto se non più pomposo, Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria; non posso, inoltre, evitare di ricordare che all’epoca il ministro della pubblica istruzione era Mariastella Gelmini, colei che passerà alla storia non tanto per l’invenzione del tragicomicamente lungo tunnel del neutrino quanto per aver dato un contributo notevole all’affossamento della scuola pubblica.

E che tale affossamento continui, per di più a spese del contribuente, mi accingo a dimostrarlo con i fatti concreti, cioè con i testi ufficiali.

Recita l’articolo 11 (Libri e centri scolastici digitali) della sezione III (Agenda digitale per l’istruzione) del nostro decreto 179:

1 All’articolo 15 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 113, sono apportate le seguenti modificazioni:

  1. al comma 2 il secondo periodo è sostituito dai seguenti: Il collegio dei docenti adotta per l’anno scolastico 2013-2014 e successivi, esclusivamente libri nella versione digitale o mista, costituita da un testo in formato digitale o cartaceo e da contenuti digitali integrativi, accessibili o acquistabili in rete anche in modo disgiunto. Per le scuole del primo ciclo detto obbligo decorre dall’anno scolastico 2014-2015. La delibera del collegio dei docenti relativa all’adozione della dotazione libraria è soggetta, per le istituzioni scolastiche statali e limitatamente alla verifica del rispetto del tetto di spesa di cui al comma 3-bis, al controllo contabile di cui all’articolo 5 del decreto legislativo 30 giugno 2011, n. 123”;
  2. al comma 3 sono apportate le seguenti modificazioni: 
  1. alla lettera a), le parole “a stampa” sono sostituite dalla seguente “cartacea” e sono aggiunte infine le seguenti: “tenuto conto dei contenuti digitali integrativi della versione mista”;
  2. alla lettera b), le parole “nelle versioni on line e mista” sono sostituite dalle seguenti: “nella versione digitale, anche al fine di un’effettiva integrazione tra la versione digitale e i contenuti digitali integrativi”;
  3. alla lettera c), sono aggiunte in fine le seguenti parole: “tenendo conto della riduzione dei costi dell’intera dotazione libraria derivanti dal passaggio al digitale e dei supporti tecnologici di cui al comma 3-ter”.
  1. dopo il comma 3 sono inseriti i seguenti: “3-bis. La scuola assicura alle famiglie i contenuti digitali di cui al comma 2, con oneri a loro carico entro lo specifico limite definito con il decreto di cui al comma 3”. 3-ter. La scuola assicura la disponibilità dei supporti tecnologici necessari alla fruizione dei contenuti digitali  di cui al comma 2, su richiesta delle famiglie e con oneri a carico delle stesse entro lo specifico limite definito con il decreto di cui al comma 3”.

 

2 A decorrere dal 1° settembre 2013 è abrogato l’articolo 5 del decreto-legge 1° settembre 2008, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2008, n. 169

 

A chi non ha dimestichezza con i testi legislativi starà già scoppiando la testa per via dei riferimenti a leggi precedenti ed alle loro modifiche successive, che ho diligentemente sottolineato. Io, che non mi lascio intimidire da questi mezzucci indegni di un’autentica democrazia, mi sono masochisticamente divertito a trovare tutti quei riferimenti, che qui, sempre fedelmente e integralmente, riporto:

decreto-legge n. 112 del 25 giugno 2008, articolo 15 (Costo dei libri scolastici):

1. A partire dall’anno scolastico  2008-2009,  nel  rispetto  della normativa vigente e fatta salva l’autonomia  didattica  nell’adozione dei libri di testo nelle scuole di ogni ordine e grado, tenuto  conto dell’organizzazione  didattica   esistente,   i   competenti   organi individuano preferibilmente i libri di testo disponibili, in tutto  o in parte,  nella  rete  internet.  Gli  studenti  accedono  ai  testi disponibili tramite internet,  gratuitamente  o  dietro  pagamento  a seconda dei casi previsti dalla normativa vigente.

 

2. Al fine di potenziare la  disponibilita’  e  la  fruibilita’,  a costi contenuti di testi, documenti e strumenti  didattici  da  parte delle scuole, degli alunni e delle loro famiglie, nel termine  di  un triennio, a decorrere dall’anno  scolastico  2008-2009,  i  libri  di testo per le scuole  del  primo  ciclo  dell’istruzione,  di  cui  al decreto legislativo 19 febbraio 2004, n. 59, e per  gli  istituti  di istruzione di secondo grado sono prodotti nelle versioni a stampa, on line scaricabile da internet, e  mista.  Sono fatte salve le disposizioni relative  all’adozione  di  strumenti  didattici  per  i soggetti diversamente abili. 

 

3. I  libri  di  testo  sviluppano  i  contenuti  essenziali  delle Indicazioni nazionali dei piani di studio e possono essere realizzati in sezioni tematiche, corrispondenti ad unita’ di  apprendimento,  di costo  contenuto  e  suscettibili  di  successivi   aggiornamenti   e integrazioni. Con decreto di natura non  regolamentare  del  Ministro dell’istruzione, dell’universita’ e della ricerca, sono determinati: a) le caratteristiche tecniche dei libri di testo nella  versione a stampa anche al fine di assicurarne il contenimento  del  peso

    b) le caratteristiche tecnologiche dei  libri  di  testo  

    c) il prezzo dei libri di testo della scuola primaria e  i  tetti di spesa dell’intera dotazione libraria per ciascun anno della scuola secondaria di I e II grado, nel  rispetto  dei  diritti  patrimoniali dell’autore e dell’editore 

 

  4. Le Universita’ e le Istituzioni dell’alta formazione  artistica, musicale e coreutica, nel rispetto della propria autonomia,  adottano linee di indirizzo ispirate ai principi di cui ai commi 1, 2 e 3. 

 

legge n. 113 del 6 agosto 2008, articolo 15 (Costo dei libri scolastici):

1. A partire dall’anno scolastico 2008-2009, nel rispetto della normativa vigente e fatta salva l’autonomia didattica nell’adozione dei libri di testo nelle scuole di ogni ordine e grado, tenuto conto dell’organizzazione didattica esistente, i competenti organi individuano preferibilmente i libri di testo disponibili, in tutto o in parte, nella rete internet. Gli studenti accedono ai testi disponibili tramite internet, gratuitamente o dietro pagamento a seconda dei casi previsti dalla normativa vigente.

2. Al fine di potenziare la disponibilità e la fruibilità, a costi contenuti di testi, documenti e strumenti didattici da parte delle scuole, degli alunni e delle loro famiglie, nel termine di un triennio, a decorrere dall’anno scolastico 2008-2009, i libri di testo per le scuole del primo ciclo dell’istruzione, di cui al decreto legislativo 19 febbraio 2004, n. 59, e per gli istituti di istruzione di secondo grado sono prodotti nelle versioni a stampa, on line scaricabile da internet, e mista. A partire dall’anno scolastico 2011-2012, il collegio dei docenti adotta esclusivamente libri utilizzabili nelle versioni on line scaricabili da internet o mista. Sono fatte salve le disposizioni relative all’adozione di strumenti didattici per i soggetti diversamente abili.

3. I libri di testo sviluppano i contenuti essenziali delle Indicazioni nazionali dei piani di studio e possono essere realizzati in sezioni tematiche, corrispondenti ad unità di apprendimento, di costo contenuto e suscettibili di successivi aggiornamenti e integrazioni. Con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, sono determinati:
a) le caratteristiche tecniche dei libri di testo nella versione a stampa, anche al fine di assicurarne il contenimento del peso;
b) le caratteristiche tecnologiche dei libri di testo nelle versioni on line e mista;
c) il prezzo dei libri di testo della scuola primaria e i tetti di spesa dell’intera dotazione libraria per ciascun anno della scuola secondaria di I e II grado, nel rispetto dei diritti patrimoniali dell’autore e dell’editore.

4. Le Università e le Istituzioni dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica, nel rispetto della propria autonomia, adottano linee di indirizzo ispirate ai principi di cui ai commi 1, 2 e 3.

decreto-legge n. 123 del 30 giugno 2011, articolo 5 (Atti sottoposti al controllo preventivo):

1.  Sono  assoggettati  al  controllo  preventivo  di   regolarita’ amministrativa e contabile tutti gli atti dai quali derivino  effetti finanziari per il bilancio dello Stato, ad eccezione di quelli  posti 

in essere dalle amministrazioni, dagli organismi e dagli organi dello Stato dotati di autonomia finanziaria e contabile. 

  2. Sono in ogni caso soggetti a  controllo  preventivo  i  seguenti atti:  

  a) atti soggetti a controllo preventivo di legittimita’ della Corte dei conti;  

  b) decreti di approvazione di contratti o atti aggiuntivi, atti  di cottimo e affidamenti diretti, atti di riconoscimento di debito;  

  c) provvedimenti o contratti di assunzione di personale a qualsiasi titolo;  

  d)  atti relativi al trattamento giuridico ed economico del personale statale in servizio;  

  e) accordi in materia di contrattazione integrativa,  di  qualunque livello, intervenuti ai sensi della vigente normativa legislativa  e contrattuale. Gli accordi locali stipulati dalle articolazioni centrali e periferiche dei Ministeri sono sottoposti al controllo da parte del competente Ufficio centrale del bilancio;  

  f) atti e provvedimenti  comportanti  trasferimenti  di  somme  dal  bilancio dello Stato ad altri enti o organismi;  

  g) atti e provvedimenti  di  gestione  degli  stati  di  previsione dell’entrata e della spesa, nonche’ del conto del patrimonio.  

  3. Gli atti di cui al comma 2, lettera a), sono inviati all’ufficio di controllo e,  per  il  suo  tramite,  alla  Corte  dei  conti.  La documentazione che accompagna  l’atto  viene  inviata  al  competente ufficio di controllo, per il successivo inoltro alla Corte dei conti. Gli eventuali  rilievi  degli  uffici  di  controllo  sono  trasmessi all’amministrazione che ha emanato l’atto. Le controdeduzioni dell’amministrazione sono parimenti trasmesse all’ufficio di controllo e, per il suo tramite, alla Corte dei conti, unitamente all’atto corredato dalla relativa documentazione. La Corte si pronuncia nei termini di cui all’articolo 3 della legge 14 gennaio 1994, n. 20 e all’articolo 27 della legge 24 novembre 2000,  n.  340, che decorrono dal momento in cui l’atto le viene trasmesso,  completo di documentazione, dall’ufficio di controllo competente.  

  4. I contratti  dichiarati  segretati  o  che  esigono  particolari misure di sicurezza, ai sensi dell’articolo 17, comma 7, del  decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163,  sono  sottoposti  unicamente  al controllo contabile di cui all’articolo 6, fatto salvo, in ogni caso, il controllo della Corte dei conti.  

decreto-legge n. 137 del 1° settembre 2008, articolo 5:

Fermo restando quanto disposto dall’articolo 15 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, i competenti organi scolastici adottano libri di testo in relazione ai quali l’editore si sia impegnato a mantenere invariato il contenuto nel quinquennio, salvo le appendici di aggiornamento eventualmente necessarie da rendere separatamente disponibili. Salva la ricorrenza di specifiche e motivate esigenze, l’adozione dei libri di testo avviene con cadenza quinquennale, a valere per il successivo quinquennio. Il dirigente scolastico vigila affinche’ le delibere del collegio dei docenti concernenti l’adozione dei libri di testo siano assunte nel rispetto delle disposizioni vigenti.

 

legge n. 169 del 30 ottobre 2008 (conversione in legge del decreto-legge precedente), articolo  15:

Fermo restando quanto disposto dall’articolo 15 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, i competenti organi scolastici adottano libri di testo in relazione ai quali l’editore si e’ impegnato a mantenere invariato il contenuto nel quinquennio, salvo che per la pubblicazione di eventuali appendici di aggiornamento da rendere separatamente disponibili. Salva la ricorrenza di specifiche e motivate esigenze, l’adozione dei libri di testo avviene nella scuola primaria con cadenza quinquennale, a valere per il successivo quinquennio, e nella scuola secondaria di primo e secondo grado ogni sei anni, a valere per i successivi sei anni. 11 dirigente scolastico vigila affinche’ le delibere dei competenti organi scolastici concernenti l’adozione dei libri di testo siano assunte nel rispetto delle disposizioni vigenti. 

Al lettore, anche lui masochista, che mi abbia eventualmente fin qui seguito faccio notare che ai titoli pomposi Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria del decreto n. 112 del 25 giugno 2008 e Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese del decreto n. 179 del 19 ottobre u. s. non corrisponde nessun riferimento a destinazione di risorse.  L’articolo 8 del primo dopo la sua conversione nella legge n. 169 del 30 ottobre 2008 recita: Dall’attuazione del presente decreto non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica; nell’articolo 38 (Disposizioni finanziarie) del secondo compare copertura finanziaria per altri articoli ma non per il 15.

Questa osservazione mi serve per portare a termine la dimostrazione dell’assunto iniziale dell’affossamento della scuola pubblica che continua sempre a spese del contribuente.

Da un governo tecnico mi sarei aspettato anzitutto un provvedimento che non è solo formale, come a prima vista potrebbe sembrare: scrittura chiara delle leggi con riferimenti a quelle precedenti solo in caso di stretta necessità. L’articolo 15 (almeno quello!) del recente decreto 179 qui preso in esame poteva, per esempio, essere così riscritto:

1. A partire dall’anno scolastico  2008-2009,  nel  rispetto  della normativa vigente e fatta salva l’autonomia  didattica  nell’adozione dei libri di testo nelle scuole di ogni ordine e grado, tenuto  conto dell’organizzazione  didattica   esistente,   i   competenti   organi individuano preferibilmente i libri di testo disponibili, in tutto  o in parte,  nella  rete  internet.  Gli  studenti  accedono  ai  testi disponibili tramite internet,  gratuitamente  o  dietro  pagamento  a seconda dei casi previsti dalla normativa vigente.

 

2. Al fine di potenziare la disponibilità e la fruibilità, a costi contenuti di testi, documenti e strumenti didattici da parte delle scuole, degli alunni e delle loro famiglie, nel termine di un triennio, a decorrere dall’anno scolastico 2008-2009, i libri di testo per le scuole del primo ciclo dell’istruzione, di cui al decreto legislativo 19 febbraio 2004, n. 59, e per gli istituti di istruzione di secondo grado sono prodotti nelle versioni a stampa, on line scaricabile da internet, e mista. Il collegio dei docenti adotta per l’anno scolastico 2013-2014 e successivi, esclusivamente libri nella versione digitale o mista, costituita da un testo in formato digitale o cartaceo e da contenuti digitali integrativi, accessibili o acquistabili in rete anche in modo disgiunto. Per le scuole del primo ciclo detto obbligo decorre dall’anno scolastico 2014-2015. La delibera del collegio dei docenti relativa all’adozione della dotazione libraria è soggetta, per le istituzioni scolastiche statali e limitatamente alla verifica del rispetto del tetto di spesa di cui al comma 3-bis, al controllo contabile di cui all’articolo 5 del decreto legislativo 30 giugno 2011, n. 123. Sono fatte salve le disposizioni relative all’adozione di strumenti didattici per i soggetti diversamente abili.

 

 3. I libri di testo sviluppano i contenuti essenziali delle Indicazioni nazionali dei piani di studio e possono essere realizzati in sezioni tematiche, corrispondenti ad unità di apprendimento, di costo contenuto e suscettibili di successivi aggiornamenti e integrazioni. Con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, sono determinati:
a) le caratteristiche tecniche dei libri di testo nella versione cartacea, anche al fine di assicurarne il contenimento del peso, tenuto conto dei contenuti digitali integrativi della versione mista;
b) le caratteristiche tecnologiche dei libri di testo nella versione digitale, anche al fine di un’effettiva integrazione tra la versione digitale e i contenuti digitali integrativi;
c) il prezzo dei libri di testo della scuola primaria e i tetti di spesa dell’intera dotazione libraria per ciascun anno della scuola secondaria di I e II grado, nel rispetto dei diritti patrimoniali dell’autore e dell’editore, tenendo conto della riduzione dei costi dell’intera dotazione libraria derivanti dal passaggio al digitale e dei supporti tecnologici di cui al comma 3-ter.

 

3-bis. La scuola assicura alle famiglie i contenuti digitali di cui al comma 2, con oneri a loro carico entro lo specifico limite definito con il decreto di cui al comma 3.

 

3-ter. La scuola assicura la disponibilità dei supporti tecnologici necessari alla fruizione dei contenuti digitali  di cui al comma 2, su richiesta delle famiglie e con oneri a carico delle stesse entro lo specifico limite definito con il decreto di cui al comma 3.

4 A decorrere dal 1° settembre 2013 è abrogato l’articolo 5 del decreto-legge 1° settembre 2008, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2008, n. 169. 

Il lettore, sempre quello di prima, avrà notato che questa volta ho apposto delle sottolineature che mi accingo a commentare:

1) Gli  studenti  accedono  ai  testi disponibili tramite internet,  gratuitamente  o  dietro  pagamento  a seconda dei casi previsti dalla normativa vigente.

Non capisco il riferimento alla normativa vigente, a meno che per testo disponibile gratuitamente s’intenda, per esempio, una voce di wikipedia o un testo datato e, quindi, non più soggetto al diritto d’autore. Sono queste le fonti che già da tempo qualsiasi scuola anche modestamente attrezzata dal punto di vista tecnologico avrebbe dovuto insegnare ad utilizzare intelligentemente. I testi di cui qui si parla (Ebook o altro) , invece, non saranno certo messi a disposizione gratuitamente dagli editori che, come chiunque vive del proprio onesto lavoro, può fare beneficenza solo una volta ogni tanto.

2) …accessibili o acquistabili in rete anche in modo disgiunto.

Vale quanto detto al punto precedente.

3) riduzione dei costi dell’intera dotazione libraria derivanti dal passaggio al digitale e dei supporti tecnologici.

Io andrei molto cauto col concetto di riduzione dei costi, perché bisogna immaginare che lo studio non potrà mai essere fatto proficuamente a schermo né dal singolo né collettivamente nel caso in cui gli utenti siano interfacciati singolarmente tra loro e collettivamente con il docente. Questo richiederebbe, oltretutto,  un adeguamento delle attrezzature che rischierebbero di diventare obsolete nel giro di un lustro, con un impegno finanziario che, con i chiari di luna attuali, è proibitivo per qualsiasi  scuola pubblica che, ormai, non è in grado di fare nemmeno la normale manutenzione dell’esistente, per giunta vecchio. Non solo: prevedo nell’immediato un’attività frenetica di stampanti e il consumo incontrollabile di toner, cartucce e carta. D’altra parte, chi, come il sottoscritto,  si presenta la dichiarazione dei redditi da sé con l’invio, obbligato, on line, deve da qualche anno a questa parte conservare, per sua precauzione anche su supporto cartaceo,  la copia della dichiarazione inviata telematicamente ma anche l’attestazione di avvenuta ricezione da parte dell’Agenzia delle entrate e, dopo qualche giorno e da parte della stessa, anche la copia-riscontro di quanto ricevuto. Bilancio finale: consumo di carta e di inchiostro raddoppiato rispetto a quando il tutto veniva inviato tramite il servizio postale…

Se poi, in alternativa, consegna la sua dichiarazione ad un ufficio territoriale della detta agenzia deve esibire la dichiarazione compilata in cartaceo (non sono ammessi file su chiavetta, cd e simili) che verrà dall’addetto digitata e stampata in due copie che l’interessato firmerà trattenendone una alla quale verrà allegata la ricevuta di avvenuta consegna. Dopo circa un mese il contribuente dovrà tornare per ritirare l’attestato di avvenuta trasmissione dall’ufficio territoriale e ricezione dalla sede centrale della sua dichiarazione; nell’occasione riceverà anche una copia della dichiarazione così come pervenuta alla sede centrale. Lascio al lettore, questa volta, fare il calcolo dello spreco di carta, di inchiostro e di tempo in questo stramaledetto  e insensato tour burocratico.

4) La scuola assicura alle famiglie i contenuti digitali di cui al comma 2, con oneri a loro carico entro lo specifico limite definito con il decreto di cui al comma 3.

A parte il fatto che è fin troppo comodo assicurare qualcosa ad uno a sue spese (lo fa pure l’idraulico, salvo, poi, a ritrovarti, dopo il suo intervento, con la casa allagata…) e che è molto meglio che qualcosa ci venga data a spese altrui ed a nostra insaputa…, non mi fa presagire nulla di buono lo specifico limite definito con il decreto di cui al comma 3, espressione in cui è chiaro solo l’intento dilatorio. Non ci sarà da meravigliarsi, perciò, se nel 2020 ancora si parlerà di questa rivoluzione in fieri, nonostante essa sarebbe dovuta partire con l’anno scolastico 2008-2009!

5) La scuola assicura la disponibilità dei supporti tecnologici necessari alla fruizione dei contenuti digitali  di cui al comma 2, su richiesta delle famiglie e con oneri a carico delle stesse entro lo specifico limite definito con il decreto di cui al comma 3.

Vale esattamente quanto detto al punto precedente. Non capisco solo perché il su richiesta delle famiglie compaia solo qui in riferimento all’hardware e non anche nel punto precedente riguardante il software.

Può sembrare contraddittorio, per chi che, come me, è sempre stato un acceso fautore dell’uso intelligente del pc e di Internet nella scuola e della digitalizzazione ed immissione in rete per un utilizzo gratuito di tutto ciò che è digitalizzabile (nel rispetto del, per certi aspetti discutibile, diritto d’autore), formulare che per il bene dei nostri giovani si verifichi quanto preconizzato (!) nella parte conclusiva del commento al punto 4, non solo perché, per quanto ho detto, non mi sembrano maturi i tempi (chissà se mai lo saranno…) per un passaggio pur non integralmente  sostitutivo, per quel che riguarda il libro, dal cartaceo al digitale, ma pure perché di  ciò che poteva essere un formidabile strumento di democrazia (la rete) si sfruttano solo le possibilità di veicolo commerciale (anche io, per fare un solo esempio, compro on line le cartucce universali per la mia stampante invece delle originali il cui tosto totale, sono sei, supera di gran lunga quello della stampante…che mai con questo tipo di cibo, malgrado ciò che qualcuno dice, ha avuto problemi di sorta, sia fisici, leggi avarie dell’hardware, sia di resa, nemmeno nelle stampe fotografiche), con buona pace dei librai che a breve dovranno cambiare, pure loro, mestiere.

Ma cosa succederà dopo il 2020? Probabilmente il ragazzo consegnerà il suo bravo compito di italiano (zeppo di acronimi e simboli di ogni specie, tanto che se letto ad un maiale la povera bestia risponderà a tono…) o di altra materia in formato digitale, corredato magari di un allegato in MP7 (diamine, siamo nel 2020!) o con un file sonoro incorporato nel testo, contenente un messaggio teso ad ottenere clemenza con una preghiera o con una minaccia.

 

Avrebbe potuto farne a meno perché il docente (lo immagino sulla settantina, vista la velocità con cui la classe docente, e non solo quella…, risulta rinnovata fino ad ora), quasi totalmente digiuno delle nuove tecnologie e troppo pieno conoscitore della grammatica, per non avere, comunque, rogne applicherà il non capisco ma mi adeguo di arboriana memoria.

 

Eppure, saranno passati poco più di cinquant’anni da quando noi studenti adoperavamo per lo stesso scopo il foglio protocollo.  Qualcuno di noi, con una trasposizione assolutamente legittima sul piano fonetico ma anche su quello esistenzialmente consolatorio, dal momento che l’unico brodo negli anni del dopoguerra era quello vegetale, pronunziava brotocollo, senza sapere che protocollo è dal latino medioevale protocòllu(m), per cui il Du Cange (op. cit., tomo pag. 542) registra la seguente definizione: Liber ex glutine compactus  in quel acta publica referuntur

. Protocòllum, a sua volta, è trascrizione del greco πρωτόκολλον=prima sezione di un rotolo di papiro (con dati di fabbricazione ed altro), composto da πρώτον=primo+la radice di κολλάω=incollare (da κόλλα=colla); πρωτόκολλον, insomma, era il primo foglio di un rotolo di papiro costituito dalla giustapposizione, per mezzo di colla, di più fogli.

Si perderà il ricordo del brotocollo, ma anche del quinterno. Sempre gli stessi scolaretti in occasione dei compiti in classe compravano, infatti,  cinque fogli brotocolli (due per la brutta copia, due per la bella ed uno, non si sa mai, di riserva o anche da dare a qualche compagno che, per un motivo o per l’altro, ne avesse avuto bisogno), di solito in tabaccheria. Va precisato che,  accanto al modello più antico (utilizzato anche per la carta bollata) si affermò per uso scolastico quello in cui i righi non erano intersecati  da una linea alle due estremità. Ricordo come ieri la vergogna che per oltre due anni provai nell’usare il modello più vecchio per colpa di mio padre che ne aveva acquistato un numero notevole,  per me infinito, di esemplari.

 

Vallo a spiegare al ragazzino (ma anche al genitore …) già fornito, fra l’altro, di telefonino di ultima generazione e di zaino firmato e che si accinge a fare il suo ingresso trionfale in aula esibendo il lettore digitale (e relativi accessori…) appena scelto tra i modelli più costosi, seguito dagli sguardi invidiosi dei compagni che hanno dovuto accontentarsi (nonostante il generoso contributo governativo…) di un modello di seconda o terza mano. E se quel ragazzino ha un quoziente di intelligenza o semplicemente un rendimento scolastico molto basso, di che preoccuparsi? L’importante è che appaia in un mondo fatto di apparenze, anche perché è sulla buona strada per aspirare un domani (se questo dovesse restare simile all’oggi…) a un posto di comando o di potere; e poi, per elevare, se ce ne fosse bisogno, il suo quoziente di intelligenza, ci sarà sempre un microchip da inserire nella sua scatola cranica; anzi, più di uno, perché lo spazio non manca in un contenitore vuoto…

 

La cinghia dei pantaloni, umiliante pegno della parola d’onore

LA CIVILTA’ CONTADINA NEL SALENTO DI FINE OTTOCENTO

LA CURESCIA

 

Nella ricerca di una giornata lavorativa, da simbolico scettro di comando la cinghia dei pantaloni diveniva l’umiliante pegno sostitutivo della parola d’onore.

Jean-François Millet – Uomo con la zappa

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Cinca sciurnàta ole ttruàre si fazza la chiàzza pi’ cummàre” (“Chi vuole trovare giornata lavorativa, non una donna ma la piazza deve farsi per comare=amante”), consigliava un antico proverbio i cui termini, intesi come positivi, venivano però contrastati, anzi drasticamente capovolti da un altro detto che definiva la piazza “Càcchiu pi’ llu cuéddhru ti li sciurnalièri” (“Cappio per il collo dei giornalieri”). Diritto e rovescio di una stessa medaglia che nell’unificazione delle due oggettivazioni si tramutava in referente sociale, per di più venendo a spirare, per il tramite delle diversificate valutazioni, in una sintesi di consonanze fra le mutazioni cicliche della natura e le oscillazioni occupazionali di quanti lavoravano la terra.

In questa sincronia di rapporti infatti, il periodo invernale e quello estivo ne uscivano sottintesi, quasi mimicamente rappresentati da quel figurale di uomini dalle coppole scure che al crepuscolo affluivano verso il centro della piazza, via via formando una siepe lungo il tratto più di passaggio. Un modo – ufficializzato dall’uso – di porsi ‘in vendita’, ovverosia segnalare il loro stato di disoccupati ai rappresentanti del potere padronale, ai fattori appunto, che interessati a reperire manodopera da impiegare sulle terre dei latifondi o nei

22 novembre. Santa Cecilia e le pèttule a Taranto

 

Piccoli e semplici gesti… grandi  e genuini ricordi… ed è festa!

Le pèttuli, il sapore della mia terra

 

di Daniela Lucaselli

Il 22 novembre ricorre, nell’anno liturgico, una delle feste più popolari della tradizione, santa Cecilia. Per Taranto e i tarantini è un giorno speciale in quanto questa ricorrenza segna l’inizio dell’Avvento, l’alba dei festeggiamenti natalizi, in netto anticipo rispetto a tutti gli altri paesi in cui si respira aria di festa solo dall’Immacolata o da Santa Lucia.

Il perpetuarsi di antiche usanze rende vivo il legame col passato e, nel caso specifico,  le festività natalizie si arricchiscono di un profondo significato, che supera le barriere dello sfrenato consumismo di una società che sembra non credere più negli antichi valori.

Una magica atmosfera avvolge, in una suggestiva sinergia musicale, le tradizioni sia religiose che pagane. Non è ancora l’alba quando, per le strada di Taranto, si ode, da tempi ormai remoti, la Pastorale natalizia. Ed è così che nasce questa tradizione. Le bande musicali locali, in particolare il Complesso Bandistico Lemma, città di Taranto, svegliano gli abitanti dei quartieri della città,  diffondendo, nella nebbia mattutina, la soave melodia, per onorare Santa Cecilia, protettrice dei musicisti. I primi ad alzarsi sono i bambini che, incuriositi, corrono vicino ai vetri della finestra che affaccia sulla strada e, con la mano, frettolosamente, puliscono i vetri appannati. Dinanzi ai loro occhi, i musicanti infreddoliti, orgogliosi protagonisti di questo momento, augurano un buon Natale. Si vanno a rinfilare sotto le coperte, al dolce tepore del letto, chiudono gli occhi e continuano ad ascoltare, in un indimenticabile dormiveglia, le note della banda. Rimangono in attesa del momento in cui sentiranno l’odore di olio fritto…

Secondo la tradizione, infatti,  le mamme preparano, al passaggio dei suonatori, le pettole. Le famose “pastorali” sono state composte da maestri musicisti tarantini, come Carlo Carducci, Domenico Colucci, Giovanni Ippolito, Giacomo Lacerenza, , che si sono  ispirati ad antiche tradizioni, che affondano le loro radici nelle melodie suonate dai pastori d’Abruzzo che, durante la transumanza, scendevano nella nostra terra, con il loro gregge.

Muniti di zampogne, ciaramelle e cornamuse  percorrevano i vicoli della città, regalando le loro dolci melodie in cambio di cibo. I tarantini donavano ai pastori delle frittelle di pasta di pane, un prodotto povero e  semplice, ma,

La Repubblica Neritina

Il 9 aprile 1920 i contadini di Nardò si sollevarono contro lo strapotere dei latifondisti

LA REPUBBLICA NERITINA

Al grido di “pane, lavoro e libertà” oltre cinquemila rivoltosi, capeggiati da Giuseppe Giurgola e Gregorio Primativo, occuparono il Palazzo di Città e tennero testa per un’intera giornata alle forze dell’ordine accorse in gran numero dal capoluogo

Nardò, piazza Salandra, l’antico palazzo municpale


di Emilio Rubino

Per attirarsi le benevolenze e i favori del popolino e per mantenerlo nell’alveo dell’ordine pubblico e del quieto vivere, i governanti di ogni epoca e di ogni luogo puntavano essenzialmente al raggiungimento di due obiettivi di estrema importanza. Come prima cosa, essi garantivano a ogni cittadino una razione giornaliera di pane per tacitare i languori di stomaco e, soprattutto, eventuali pericolose contestazioni; in secondo luogo, organizzavano di tanto in tanto delle feste, degli intrattenimenti pubblici, delle gare sportive, dei tornei popolari per infondere nel loro animo la necessaria contentezza, buon viatico per affrontare il duro lavoro quotidiano. Insomma applicavano alla lettera l’antico motto “Panem et circenses” dei nostri padri latini. Aveva ben ragione Lorenzo il Magnifico quando asseriva che pane e feste tengono il popolo quieto. Nel regno delle due Sicilie i Borbone attuarono un sistema ancora più mirato, la cosiddetta politica delle tre F: Feste, Farina e Forca. In presenza di questi necessari elementi, la vita pubblica di ogni comunità cittadina non poteva che scorrere tranquillamente.

Ci sono stati casi, purtroppo, in cui le sorti di una nazione sono state completamente sovvertite dalla rivolta popolare per la scarsa lungimiranza, l’incuria e l‘arroganza di certi regnanti. La storia, magistra vitae, ci ha tramandato alcuni esempi, il più eclatante dei quali è la Rivoluzione Francese. Scaturita dalle tante ingiustizie sociali, dalla corruzione dilagante e dalle continue vessazioni alle quali era sottoposta la gleba, esplose in modo cruento e sanguinoso allorquando i cittadini, da giorni in agitazione per la mancanza di pane, si sentirono ancor di più umiliati e vilipesi dalla regina Maria Antonietta che, ad un loro accorato appello, aveva risposto incautamente e con distacco: ”Non hanno pane?… allora che mangino brioches!”. Poi, sappiamo bene come sono andate a finire le cose.

Una situazione analoga, anche se di proporzioni molto ridotte, accadeva all’inizio del secolo scorso in diversi comuni del Salento e, in modo particolare, a Nardò. Grandi masse di contadini, muratori e braccianti vivevano in condizioni di estrema miseria e tra tante sofferenze. Sfruttati dai latifondisti, dovevano chinare la testa e accettare mestamente ogni tipo di maltrattamento e mortificazione. I governanti dell’epoca, purtroppo, stavano dalla parte dei “padroni”, tolleravano ogni loro sopruso, addirittura li proteggevano e nulla si poteva fare o dire contro di loro per non ritrovarsi senza il minimo necessario alla sopravvivenza. Mancava il lavoro, nonostante ci fossero a disposizione immensi campi incolti di proprietà dei “signori”, i quali preferivano non coltivarli piuttosto che sobbarcarsi al pagamento di un salario giornaliero di £ 7 a contadino. Questa era la paga pro-capite pattuita con il Prefetto di Lecce.

Era difficile, assai difficile campare con quei padroni, i quali, nonostante tutto, continuavano a retribuire i contadini alla vecchia maniera, dando loro un salario di una lira e mezza al giorno. La povera gente, per non inimicarsi il padrone strangolatore, era costretta, obtorto collo, ad accettare le imposizioni e a mantenere un silenzio omertoso.

veduta settecentesca di Nardò

Riportiamo un’eloquente testimonianza di un funzionario di Pubblica Sicurezza rilasciata nel 1922, esattamente due anni dopo la sanguinosa rivolta neritina: “La mentalità dei signori di Nardò è tuttora arretrata, come ai tempi del duca di Conversano, che, giungendo in città nel 1647, rimase attonito per l’eccessiva tolleranza con cui si trattavano i servi della gleba, nonostante questi vivessero in condizioni disumane, come un branco di bestie moleste e dannose”.

Lo stesso Tommaso Fiore annotava in un suo scritto: “I padroni della gleba sono avidi, gretti, bigotti sino all’assurdo, reazionari, nemici acerrimi della gente povera”. Noi aggiungiamo che i “signori”, ed anche i loro pupilli, abusano delle donne, soprattutto di quelle che avevano estremo bisogno di portare avanti la propria famiglia.

Con tanta rassegnazione nel cuore e nella speranza che la situazione potesse migliorare, i contadini e i braccianti, sconfitti e umiliati, continuavano a subire ogni genere di sopraffazione e a masticare l’amarezza delle loro sofferenze.

“Cusì ‘ole Diu!” – erano soliti dire, a giustificazione delle loro pene.

Poi giunse la Grande Guerra.

“Difendete la Patria e sarete ricompensati!” – fu promesso loro prima di partire per il fronte e combattere contro gli Austriaci in difesa degli interessi della “casta degli eletti”, ma non certamente di tutti gli Italiani.

Furono in molti a perire sul Piave o sui monti della Carnia e pochi, soltanto pochi, a riabbracciare la moglie, i figli, i genitori. In cambio non ottennero nulla. Non un pezzetto di terra da coltivare in proprio (nonostante le iniziali promesse), non una sussistenza che potesse lenire i tanti disagi, ma soltanto una misera medaglia di rame o una croce di bronzo e, tutt’al più, una modestissima pensione d’invalidità, a ricordo di una guerra che era stata prodiga soltanto di lutti.

Ritornarono le paghe basse, ritornò lo sfruttamento dei ricchi proprietari, ritornarono prepotentemente a riaffacciarsi la solita miseria e la solita fame. Tutto come prima, se non più di prima.

Era comprensibile, quindi, come a questi umili uomini covasse nel cuore un giustificato risentimento di odio e di riscatto nei confronti dei ricchi proprietari e accogliessero con favore coloro che si battevano per la loro causa e per la costruzione di una società più giusta e socialmente più avanzata. Pian piano si cominciò a parlare di Socialismo e si dette vita alle Leghe. Sorse, entro le vecchie mura di questa sonnacchiosa città, la “Lega di Resistenza dei Contadini”, il cui animatore fu il neritino Eugenio Crisavola, ottimo persuasore e agitatore, e, per tale motivo, inviso sia ai ricchi signori sia al clero locale che, di socialismo, non volevano nemmeno sentir parlare. Quest’uomo era considerato un sobillatore di coscienze, era il diavolo vestito di rosso, che metteva zizzanie nella mente del popolino.

Si badi attentamente che, in quegli anni, i signori, pur retribuendo il bracciantato con paghe misere, che a malapena consentivano l’acquisto del pane, si facevano pagare l’olio ed altre necessarie cibarie (di scarsa qualità, ovviamente) a prezzi esagerati; allo stesso modo, imponevano per le anguste case date in locazione (più che altro tuguri) affitti salatissimi, da veri strozzini.

Nardò, piazza Salandra con il Sedile e la guglia

Ben presto si manifestarono i primi malcontenti di piazza e le dure contestazioni allo strapotere della classe agiata. Le forze dell’ordine riuscirono facilmente ad avere il sopravvento sui dimostranti e a disperderli nelle campagne, anche perché erano poco organizzati.

Un delegato di Pubblica Sicurezza, disgustato dallo spropositato intervento delle forze dell’ordine, ebbe a scrivere al Prefetto di Lecce: “Non è giusto, né opportuno, né possibile usare la forza contro disoccupati che non chiedono altro che il lavoro… I signori pretenderebbero avvalersi della loro disoccupazione per farli lavorare nei loro terreni con pochi denari, ed esigono che l’Autorità, con la forza, li protegga”.

L’intransigenza dei padroni, nonostante tutto, continuava a persistere come prima e più di prima.

Nel frattempo, il 7 aprile 1920, accadeva nell’interno della Lega dei Contadini un avvenimento decisivo, che avrebbe stravolto da lì a poco l’intera vita della città. Si erano verificati gravi contrasti tra il Crisavola, che voleva trattare con i padroni, e Gregorio Primativo e Giuseppe Giurgola, entrambi favorevoli ad uno scontro frontale. A spuntarla furono i secondi. L’8 aprile si preparò lo sciopero generale, si studiò nei particolari il piano per isolare completamente la città e per far cadere il governo municipale. Alla rivolta aderì anche la Lega Muratori. Tra gli scioperanti nacque l’idea di proclamare, a battaglia vinta, “La Repubblica Neritina”, retta dai proletari rivoluzionari. Si diede vita ad un corpo di polizia denominandolo “Guardie Rosse”, al quale aderirono numerosi giovani, e fu nominata una Commissione Permanente di Agitazione, a presidente della quale fu chiamato il carismatico Giuseppe Giurgola.

Nella notte tra l’8 e il 9 aprile furono tagliati i fili del telefono e della luce, s’innalzarono barricate agli ingressi principali della città, fu bloccata la stazione ferroviaria, disarmati i carabinieri e il delegato di Pubblica Sicurezza, di modo che Nardò fu totalmente isolata.

Alle sette della mattina successiva, la città si sollevò dalle sue ataviche sofferenze e una folla di oltre cinquemila persone si riversò nella Piazza del Comune, mentre i ricchi proprietari si rinserrarono nei palazzi insieme alla servitù, rimasta loro fedele. Alcuni baldi giovani salirono sulla loggia del Municipio per ammainare il tricolore e issare la bandiera rossa. Un consistente manipolo di dimostranti sfondò il portone di palazzo Personè e dai magazzini furono trafugati grano, vino, olio, formaggi e salumi in abbondanza.

Verso le tre pomeridiane arrivarono in città settanta soldati e trenta carabinieri, armati di moschetti, pistole e bombe a mano. L’ordine impartito dal Prefetto di Lecce era stato perentorio: repressione!

Intanto la folla dei rivoltosi si era radunata nei pressi della “Porta ti lu pepe”. In prima linea alcune donne iniziarono a lanciare pietre e quant’altro capitasse nelle loro mani contro i militari, che si avvicinavano a ranghi serrati. Un soldato puntò contro la folla il fucile senza però sparare. Immediatamente il militare fu assalito da cinque dimostranti che lo disarmarono e lo pestarono duramente. La scintilla della sommossa era ormai scoccata. Di fronte al furore incontenibile dei rivoltosi, i militari indietreggiarono mentre la folla, scatenata e agguerrita, continuava a scagliare pietre ed oggetti di ogni dimensione. Ben presto i soldati, vistisi alle strette, lanciarono contro i manifestanti due bombe a mano. Fu una vera strage: persero la vita cinque uomini, un sesto morirà dopo alcune ore. I feriti furono ventisette, alcuni dei quali in condizioni gravi, mentre tra le forze dell’ordine si contò un solo morto.

La guerriglia terminò dopo tre ore, intorno alle sei di sera, quando i rivoltosi furono accerchiati e presi tra più fuochi. Intanto continuavano a giungere da tutta la provincia altre forze dell’ordine (un migliaio in tutto) che rincorsero i manifestanti, dividendoli e disperdendoli nelle vicine campagne. Alla fine i militari arrestarono ben duecento persone, grazie anche all’aiuto dei servi dei padroni, che in seguito si lasciarono andare ad ogni azione delittuosa nei confronti dei contadini che abitavano nei casolari di campagna.

Gregorio Primativo fu arrestato il 20 aprile. Mandati di cattura furono spiccati anche contro il Crisavola e altri personaggi di spicco, fra cui il noto avvocato galatinese Carlo Mauro, colpevole di aver partecipato alla costituzione della Lega di Resistenza dei Contadini.

Il mitico Giuseppe Giurgola si rifugiò nella Repubblica di San Marino, che gli dette asilo politico. In seguito, si trasferì esule in Francia, dove morì nell’agosto del 1938 in un incidente sul lavoro.

La repressione dei padroni si scatenò con ferocia inaudita sui contadini e muratori rivoltosi tra l’inspiegabile indifferenza delle forze dell’ordine.

La mattina del 10 aprile i ricchi proprietari organizzarono una contromanifestazione per le strade cittadine. I palazzi furono bardati col tricolore e ornati a festa. Una folla di 1500 persone sfilò per le vie più importanti di Nardò, con in testa gli agrari più ricchi (Zuccaro, Personè, Giannelli, Muci, Fonte, Vaglio, Colosso, Arachi, Saetta, ecc.).

Cinque giorni dopo, esattamente il 15 aprile, alcuni signori si riunirono nel Palazzo Comunale e fondarono il “Fascio d’Ordine”, i cui componenti si vantarono di aver represso la sommossa e affossato la Repubblica Neritina: un’istituzione vissuta solo ventiquattro ore, ma che poi rinacque più forte e più bella vent’anni dopo.

Quella dei rivoltosi sottoposti al giudizio del Tribunale Penale di Lecce è un’altra brutta pagina di storia, sulla quale ci soffermeremo in un prossimo articolo.


La motonave Vlora

di Gianni Ferraris

La motonave Vlora (Valona in albanese) venne costruita nei cantieri di Genova negli anni ’60. Nell’agosto 1991 era un malconcio mercantile che faceva rotte lunghe, in quei giorni attraccò a Durazzo per scaricare tonnellate di zucchero cubano, fu proprio durante le operazioni di scarico che Halim Malaqi, il poco più che trentenne comandante della Vlora, e il suo equipaggio videro arrivare di corsa migliaia di persone che presero letteralmente d’assalto la nave occupandone ogni spazio vitale, alcuni si issarono fino sui pennoni, il ponte brulicava di teste, le stive erano veri e propri carnai. C’erano uomini di ogni età, donne, bambini assiepati come sardine in scatola, Malaqi fu costretto a partire con il suo carico di zucchero e persone in un viaggio che aveva dell’incredibile, al comando di una nave senza un motore e senza radar. Per i circa ventimila “passeggeri” era la corsa e la fuga verso la libertà. Così era vista l’Italia dall’Albania, terra di libertà. “Vedevamo la televisione italiana” dicono gli intervistati. Confondevano l’Italia con la Carrà, la libertà con Pippo Baudo.

Partirono, direzione Brindisi, Italia, Libertà.

In marzo ci fu un primo grande esodo, cinque motonavi e almeno dieci pescherecci sbarcarono sul molo di Brindisi migliaia di persone che fuggivano da cinquant’anni di governo di Enver Hosha che tenne un intero popolo nella povertà assoluta, come accadeva ai regimi del Socialismo cosiddetto reale. Forme di populismo chiuso, gretto e violentemente repressivo contro i “dissidenti”; “avevamo paura di dire una sola parola contro il regime perché venivamo incarcerati immediatamente” dice uno segli esuli del Vlora. E i passeggeri dei primi sbarchi vennero accolti da una popolazione stupenda, solidale. I brindisini mostrarono la loro grandezza aprendo le case, accogliendo, offrendo quel che potevano a quei poveracci arrivati con molto orgoglio, ma molto spesso in mutande, senza soldi, senza cibo, senza un luogo dove andare, solo una corsa verso un paese che sapevano civile, ancora non sospettavano quanto criminalmente duro, rigido, e ai limiti della violazione della carta dei diritti umani del governo composto all’epoca da Democrazia Cristiana e Partito Socialista. Presidente del consiglio l’inossidabile Andreotti, suo vice il belloccio del PSI, Claudio Martelli (che era anche ministro di grazia e giustizia), e ancora Vincenzo Scotti agli interni, e via via, Cirino Pomicino, Goria, Bodrato, De Lorenzo, tutti colpevoli, in epoca pre leghista, del primo immane respingimento di massa di albanesi, Agli esuli del Vlora misero in mano 50 mila lire e li ricacciarono nel loro girone infernale dicendo loro che l iavrebbero trasportati in centri di accoglienza. La legge Martelli sui respingimenti era degna dei più raffinati xenofobi leghisti. Quel viaggio, i motivi della partenza, le corse verso la nave, l’unica, che sarebbe partita, le speranze, le illusioni sono raccontate nel film documentario “La Nave dolce” per la regia di Daniele Vicari.

Come è narrata la felicità nel vedere Brindisi dopo venti ore di navigazione, l’impossibilità di attracco perché le autorità portuali non dieredero assenso. Poi il viaggio, l’altro, verso Bari, la permanenza in mare a causa di una nazione che non aveva voluto prepararsi a quell’ondata di persone vista e prevista da tempo. Poi i tuffi dalle murate della nave di migliaia di ragazzi, uomini, donne che nuotavano verso la terraferma, verso la “libertà”, e il molo preso d’assalto, persone tenute al sole cocente dell’otto agosto barese, poi letteralemnte deportati nel campo di calcio senza ascoltare il sindaco di Bari, Enrico Dalfino, che chiedeva tendopoli e assistenza, chiedeva l’esercito e la protezione civile. Il governo fu inflessibile con i miseri, duro con gli inermi. Utilizzò il campo di calcio come si fa in paesi che dicevamo incivili. Solo il Presidente Cossiga arrivò a Bari per usare parole di incredibile brutalità contro il sindaco e la giunta tutta “…Non ringrazio, invece, il comune di Bari, né tantomeno ringrazio il sindaco le cui dichiarazioni sono semplicemente irresponsabili. Mi dispiace – ha detto il presidente della Repubblica – che questa città, così generosa, abbia un siffatto sindaco…” Colpevole, secondo Cossiga, di aver ecceduto con la pietas. Meglio tenere donne, bambini e uomini al sole dell’agosto pugliese di un campo di calcio. Il sindaco, non ricevuto da quel presidente, rispose dicendo: “…Anche quando Adamo fu cacciato dall’ Eden sapeva di che cosa doveva rispondere. Quando saprò di cosa dovrò chiedere scusa, se effettivamente valuterò riprovevole questo mio comportamento sul piano morale e giuridico, chiederò scusa…”

I pugliesi hanno fatto grandissimi gesti di solidarietà in quei giorni, il governo italiano si è dimostrato peggiore dei peggiori. Poi ci furono i respingimenti, poi la storia cambiò per sempre. Gli immigrati in Italia erano all’epoca 300.000, ai giorni nostri superano i 4 milioni. E siamo, contro ogni pietas, contro ogni convenzione, il paese che ha l’infamia del reato di clandestinità. L’hanno voluto quelli che compravano lauree in Albania.

I tartufi del Salento

 

di Massimo Vaglio

Facile dire Salento, certamente molto più difficile trovare una sua puntuale ed esaustiva descrizione, persino nello spazio della più ampia e valida delle guide. Tante sono, infatti, le emergenze, la varietà di ambienti, di usi e tradizioni, che rendono unico e sorprendente come pochi altri, questa estrema propaggine italica. Una terra, che non finisce mai di sorprendere, e non solo il visitatore, ma anche i suoi stessi abitanti, e persino i più profondi conoscitori.

Anche, il più esigente dei gourmet  trova qui un’infinita, varia e talvolta inaspettata platea di prodotti con cui soddisfare la sua  passione. Naturale, che i protagonisti della gastronomia locale siano in prevalenza i tipici prodotti mediterranei, ma le sorprese non mancano e non di rado si incontrano prodotti e piatti di matrice nettamente più nordica e continentale, retaggio di antichi scambi e contaminazioni.

Un popolo ricco di storia quindi, che con intelligenza ha saputo fare tesoro anche delle più umili e neglette risorse locali, ma che, quando ne ha avuto la possibilità con altrettanta intelligenza e grande apertura mentale ha saputo approfittare delle novità portate dai dominatori oppure di quelle risorse inaspettatamente arrivate dai nuovi continenti.

Un caso fa però eccezione ed è quello dei tartufi, un prodotto, che almeno da qualche secolo era caduto completamente nell’oblio, fino ad una sua recentissima, e come vedremo, quasi casuale, riscoperta.

Questi pregiatissimi funghi ipogei, massima e preziosa delizia dei i gourmet dell’Italia Centro-Settentrionale, sono da tempo praticamente ignorati, dalla stragrande maggioranza dei meridionali. Tuttora, nonostante le notizie viaggino veloci come non mai, non sono molti i salentini che sanno della loro esistenza nei boschi nostrani, anche se è da rilevare, che molti di quelli che spinti dalla curiosità, hanno iniziato a degustarli, ne sono rimasti conquistati, e sono divenuti degli assidui consumatori. D’altronde, non è una novità, gli uomini, apprezzano solo quello conoscono e conoscono solo quello che gli è stato insegnato.

Ma il tartufo è stato sempre estraneo alla gastronomia salentina? Molto probabilmente, in passato, ossia prima della pressoché totale distruzione delle foreste primigenie che ricoprivano ampissimi tratti del suo territorio, i tartufi dovevano essere un prodotto molto abbondante, apprezzato e  fatto oggetto di regolare raccolta.

Questa supposizione scaturisce dal fatto che i tartufi sono ben presenti nel Cuoco Galante, Napoli 1778, pregevole ricettario del salentino Vincenzo Corrado, ove compaiono come ingrediente di numerosi piatti, di salse e persino in arditi accostamenti con il pesce. Ciò attesta con certezza il loro gradimento almeno fra i ceti dominanti dell’epoca. La raccolta, con molta probabilità, com’era in uso a quel tempo, veniva effettuata nelle leccete dai guardiani di maiali che, nei periodi canonici, seguivano a vista i maiali, e appena questi, avendo annusato la presenza dei ghiotti tuberi, tentavano di scavarli con il coriaceo grugno, lesti li scacciavano e se ne impossessavano.

tuber albidum

La raccolta dei tartufi terminò ineluttabilmente quando venne pressoché completata la totale distruzione delle foreste, distrutto l’habitat. I tartufi sparirono anche dalle mense e sopraggiunse un lunghissimo oblio. Questa secolare assenza li ha allontanati completamente dalla cultura gastronomica salentina, almeno se si escludono le Terfezie degli pseudo tartufi appartenenti al genere Terfezia, quasi inodori e dal gusto dolciastro, che essendo delle specie semi epigee, sino a qualche decennio addietro venivano sporadicamente raccolti da qualche raccoglitore e sovente destinati, quasi a titolo di curiosità a fanciulle e bambini che li consumavano crudi.

Nel dopoguerra, un po’ per lenire il problema della disoccupazione, un po’ per cercare di rimediare a qualche guasto ambientale, si dette luogo alle cosiddette campagne silvane, ovvero a delle campagne di rimboschimento, che furono realizzate prevalentemente con pini d’Aleppo e pini domestici, è stato così, che in alcune centinaia di ettari rimboschiti si è ricreato un ambiente idoneo allo sviluppo dei tartufi delle specie: Tuber aestivum, noto come Scorzone e del ben più pregiato, Tuber albidum = Tuber borchii, comunemente appellato Bianchetto. Questi sono stati scoperti qualche decennio addietro da cercatori professionisti di oltre regione che con bravissimi cani al seguito hanno svolto per diversi anni con estrema circospezione delle proficue campagne di raccolta. Il segreto, mantenuto ben stretto, pare che nei primi anni abbia procurato favolosi guadagni, grazie alla copiosa raccolta in questi boschi ancora vergini, di pregevoli tartufi che, grazie alla loro ottima qualità, venivano regolarmente commercializzati nelle più importanti piazze italiane, il più delle volte, come tartufi di Alba spuntando, ottime quotazioni. Parallelamente, qualcuno dei tanti salentini trapiantati al Nord ha imparato lì la tecnica di raccolta e una volta tornato ha fatto la loro inaspettata quanto gradita scoperta.

tuber aestivum (da www.naturamediterraneo.com)

Il caso più significativo è quello di Giuseppe Lolli di Corigliano d’Otranto, titolare del primo tesserino di autorizzazione alla ricerca e raccolta dei tartufi, rilasciato dalla Provincia di Lecce, per il quale la passione per la raccolta e la trasformazioni dei tartufi è divenuta già da un po’ di anni un’attività prevalente e ricca di soddisfazioni.

Nella zona di Corigliano d’Otranto, come un po’ in tutto il Magliese, insistono infatti, diversi relitti d’antiche foreste primigenie miracolosamente scampate alla distruzione, habitat ideale alla proliferazione del pregiato Bianchetto, ma si cominciano anche a mettere a dimora delle tartufaie ossia dei boschetti appositamente costituiti con piante  micorizzate con spore di tartufo. Da qui l’idea dello stesso Lolli di tipicizzare questa produzione e richiedendo l’attribuzione di un marchio d’origine per il tartufo di Corigliano d’Otranto, un progetto che per la sua esemplare sostenibilità ambientale non possiamo fare a meno di augurarci che trovi attenti e validi interlocutori.

Pappardelle al tartufo

500 gdi pappardelle,150 gdi Scorzone (tartufo estivo),80 gd’olio extravergine d’oliva, sale.

Lessate le pappardelle in abbondante acqua salata. Nel frattempo pulite i tartufi, frullateli con l’olio e regolate di sale. Scolate le pappardelle al dente e conditele con il frullato di tartufo. Mescolate e servitele caldissime, guarnendo il piatto con ciuffetti di prezzemolo.

Linguine stuzzicanti

500 gdi linguine, 4-5 tartufi della varietà Scorzone,50 gd’olio extravergine d’oliva, 1 spicchio d’aglio, 4 alici sotto sale, sale, pepe bianco.

Dissalate sotto l’acqua corrente le acciughe e diliscatele. Frullate o grattugiate diligentemente i tartufi. In una casseruola fate sciogliere i filetti di acciuga, aggiungete lo spicchio d’aglio finemente tritato e senza che soffrigga i tartufi. Scolate le linguine lessate al dente, unitele al condimento, mescolate accuratamente il tutto e servite in piatti singoli completando con una spolverata di pepe.

Sagne ‘ncannulate alla carbonara mediterranea e tartufo

500 gdi sagne ‘ncannulate,400 gdi ricotta fresca di pecora,100 gdi tartufo della varietà Scorzone,80 gdi caciocavallo podolico stagionato,50 gd’olio extravergine d’oliva, 12 pomodori secchi, 1 mazzetto di basilico fresco, 1 spicchio d’aglio, sale, pepe nero.

Versate l’olio in un’ampia padella, unite una metà dei pomodori secchi e lo spicchio d’aglio schiacciato che eliminerete appena questo accenna ad imbrunire. Unite quindi la ricotta, stemperatela con un po’ d’acqua calda ed aggiungete i restanti pomodori secchi e  le foglie di basilico trinciate grossolanamente. Versate nella padella le sagne ‘ncannulate lessate al dente, cospargetele con il caciocavallo grattugiato, pepate, mescolatele diligentemente e servitele in piatti singoli cospargendo abbondantemente con i tartufi grattugiati e guarnendo con qualche foglia di basilico fresco.

Risotto classico al tartufo

500 gdi riso Carnaroli o Vialone Nano,60 g di tartufo Bianchetto salentino, 1 cipolla, 2 costole di sedano,40 gdi burro, 4 cucchiai di panna da cucina,60 gdi grana grattugiato, 1 bicchiere di vino bianco secco,1 ldi brodo, sale, pepe nero.

Tritate la cipolla e le coste di sedano e fateli appassire in una casseruola con il burro, unite il riso e lasciatelo tostare, mescolando per due minuti, bagnate con il vino e fatelo evaporare a fiamma vivace. Abbassate la fiamma e portate a cottura il risotto versando il brodo bollente, solo quando il precedente sarà stato assorbito completamente. Quando il riso avrà raggiunto il grado di cottura desiderato, spegnete il fuoco, incorporate il grana grattugiato, la panna e regolate di sale se necessario. Suddividete il riso nei piatti individuali e cospargetelo con il tartufo tagliate a lamelle utilizzando l’apposito utensile: Spolverate con pepe macinato al momento e servite.

Quel fastidioso inconveniente che nell’inverno tormenta mani e piedi

Edgar Degas, L’Assenzio, 1875/1876, olio su tela (92×68 cm.), Parigi, Musée d’Orsay

Li pruticèddhi (i geloni)

di Armando Polito

Chi non ne ha sofferto o non ne soffre alzi la mano! Oggi si parla di quel fastidioso inconveniente che nell’inverno tormenta le mani e in misura maggiore i piedi (non ne sono indenni naso ed orecchie; per fortuna nei maschi, a quanto mi è dato di sapere, non è coinvolto un altro organo “periferico”, probabilmente per merito, nonostante il nome inquietante, dei corpi cavernosi che, evidentemente, anche nei casi più disperati hanno un’irrorazione sanguigna sufficiente almeno ad impedire lo sviluppo dei geloni…bella consolazione!), perché, mentre le prime possiamo grattarle senza dare troppo nell’occhio, i secondi richiedono più tempo e discrezione essendo necessario togliersi scarpe e calze. Il nome italiano è, per usare un termine dotto, eziologico (dal greco aitìa=causa e logikòs=relativo al discorso), legato, cioè, alla causa riconosciuta, al freddo che esercita il suo effetto nei soggetti con disturbi circolatori periferici. Per quanto mi riguarda i geloni mi hanno tormentato fino ai venti anni, poi più nulla: forse, da quel bastian contrario che sono, il mio sistema circolatorio è migliorato col passare del tempo? Oppure ha ragione il Foscolo (non ho voluto perdere l’occasione di citare il mio poeta preferito) quando scrive: “Domenico, vecchio barbogio, patisce del male dei ragazzini; ha i pedignoni, cammina a stento per la casa…”1.

Come è evidente che il nome italiano è connesso con la causa, è altrettanto evidente che quello dialettale, pruticèddhu, lo è con l’effetto, cioè il prurito. Pruticèddhu è diminutivo di prutìtu, che ha il suo corrispondente italiano in prurito, che è dal latino prurìtu(m), a sua volta da prurìre=prudere.

Tutto lineare, ma se la radice di partenza è prur– perché la voce italiana prudere e le dialettali prutìtu e prutìre presentano una radice prud-/prut?

Nella circostanza viene concordemente messo in campo un latino volgare *prùdere variante del classico prurìre e questo spiega bene tanto l’accento, conservatosi, della forma italiana, quanto il suo spostamento in quella dialettale, sulla collaudata falsariga di lègere (latino)>lèggere (italiano)>liggìre (dialetto), mìttere (latino)> mettere (italiano)> mintìre (dialetto). Io mi limito solo a ricordare il fenomeno opposto, cioè il passaggio d>r nel dialetto napoletano (denari>renari).

Latino classico o volgare, lascio la parola ai nostri progenitori che per significare il gelone usavano il sostantivo della terza declinazione pèrnio/perniònis, dal cui accusativo perniòne(m) è derivata la voce italiana tecnico-specialistica perniòne,  sinonimo del comune gelone.2

Un pò prima di pernio/perniònis tutti i vocabolari latini registrano perna/pernae col significato di coscia, prosciutto.  Pensando all’effetto visivo del gelone, la tentazione di sfruttare la somiglianza fonetica e la congruenza semantica, sia pure per metafora, per rivendicare una parentela tra le due voci, è molto grande3. Il latino perna, poi, non è altro che la fedele trascrizione del greco perna, usato con lo stesso significato di prosciutto.

Operiamo una rapida indagine su voci latine di conformazione simile ma certamente legate fra loro:

adlùvies/adluvièi=allagamento>adlùvio>adluviònis=alluvione

adnèxus/adnèxus=legame>adnèxio/adnexiònis=annessione

còleus/còlei=testicolo>còleo/coleònis=coglione

Appare evidente che la seconda voce di ognuno dei tre gruppi ha in sé una sfumatura accrescitivo-peggiorativa, come se il suffisso delle seconde avesse già assunto il valore che poi –ione avrà in italiano; senza scomodare la storia di Cicero/Ciceronis che, dei tre nomi che ogni romano aveva, era per il famoso oratore l’ultimo, cioé il soprannome (i primi due erano, com’è noto Marcus, corrispondente al nostro nome, e Tullius , corrispondente al nostro cognome), dovuto, secondo la testimonianza di Plutarco (I-II secolo d. C.)  ad un’escrescenza sul naso a forma di cece (per cui cìcero/cicerònis deriverebbe da cicer/cìceris=cece.

Troppo poco, comunque, per trasferire senza adeguata riflessione queste considerazioni al caso di perna/pernio.4

Meglio affidarci a dati sicuri e passare in rassegna i rimedi che Plinio (I secolo d. C.) proponeva nella Naturalis historia contro questo fastidioso disturbo:

“Anche la rapa ha proprietà curative. Applicata bollente sana i geloni”; “Essa [la bietola] bollita dà sollievo ai geloni”; “Il fisico Fania tributò lodi [all’ortica] dicendo che come cibo o come condimento è utilissima per le arterie, contro la tosse, la diarrea, il mal di stomaco, i gonfiori, la parotite, i geloni”; “La cenere ricavata dalla radice [dell’asfodelo] cura l’alopecia, le screpolature dei piedi e del sedere; Il succo della radice bollita nell’olio i geloni…Diocle la utilizzò contro i geloni bollita e mescolata con olio”; “Il laser che fuoriesce dal silfio…cura i geloni cotto e mescolato con vino e con olio”; “[La polenta] si applica ad empiastro anche ai geloni”; “Il succo [della lenticchia cotta] si applica ai geloni”; “Il decotto [di ervo, una specie di veccia] sana i geloni e il prurito”; “La morchia di oliva nera è abbastanza utile contro i geloni”; “Le scorze di melagrana cotte col vino e applicate sanano i geloni”; “I fichi secchi con cera sono utili ai geloni”; “[Il decotto delle foglie dell’acacia di Galazia] sana i geloni; “La radice di ciclamino, il cui decotto [è utile] contro i geloni”; “Il  ciclamino bollito in acqua cura i piccoli geloni e tutti gli altri inconvenienti dovuti al freddo, i piccoli geloni pure il cotiledone con sugna [forse è l’ombelico di Venere]”; “Il decotto [di erba ursina] …in vino viene applicato alle scottature e ai geloni”; “La sugna pura cura le scottature anche quelle causate dalla neve, i geloni concenere di orzo e galla in pari dosi”; “Curano i geloni e tutte le screpolature dei piedi il grasso di orso, più efficacemente con l’aggiunta di allume. il grasso di capra, la farina di dente equino, il fiele di cinghiale con grasso, il polmone applicato sopra; se i piedi sono stati danneggiati da attrito o scottati dal freddo (si usa) cenere di pelo di lepre o il suo polmone pestato o la cenere del polmone”; “[Cura] i geloni il cuoio bruciato, meglio quello di una vecchia scarpa”; “Pure ai geloni si applica grasso di pecora con allume, la cenere della testa di un cane o di sterco di topo. Se le piaghe non sono infette, aggiunta della cera, favoriscono la cicatrizzazione la cenera calda di topi o ghiri cremati mista ad olio, come pure quella di topo selvatico con miele, anche di vermi di terra con olio vecchio e le lumache che si trovano nude”; “[L’acqua marina] allo stesso modo contro i geloni prima che compaiano ulcere”; “[Il sale] elimina e i duroni dei piedi e i geloni”; “I gusci delle ostriche se sono pestati sanano la scrofolosi e i geloni dei piedi”; “Cura i geloni il polmone di mare, la cenere di un gambero di mare mista ad olio, allo stesso modo quella di un gambero di fiume pestato e bruciato, dopo avere trattato la cenere con olio, e il grasso del pesce siluro”; “[La spuma d’argento] cura pure i geloni con [bacche di] mirto e cera”; “[L’allume] frena i geloni”5.

Sia ben chiaro: io garantisco solo per quel che riguarda la traduzione…

________

1 Epistolario, lettera del 16 dicembre 1808 indirizzata da Pavia  ad Ugo Brunetti. Pedignone, forma letteraria per gelone del piede, nasce da perniòne (vedi più avanti nel testo e in nota 3) con sovrapposizione di piede.

2 I Greci, invece, pure loro collegandosi alla causa, chiamavano il gelone chimètle o chimètlon, entrambi da cheima=inverno, freddo. Gelòne in italiano è pure (probabilmente non per l’aspetto, come mi è capitato di leggere, ma perché tende a svilupparsi su vecchie ceppaie) il nome comune del fungo Pleurotus ostreatus.

3 Non a caso nella Treccani on line al lemma pedignòne leggo: lat. pernio-perniònis (der. di perna=gamba), incrociato con pes/pedis=piede. È in linea con la mia ipotesi, anche se il suo riferimento alla gamba mi sembra meno congruente del mio che mette in campo il prosciutto (che è pur sempre una gamba, ma che ha assunto un particolare aspetto).

4 Oltretutto, qualcuno mi potrebbe far presente che negli esempi addotti la –i- faceva già parte del nome primitivo, mentre in perna essa manca. All’obiezione si può facilmente rispondere non mettendo in campo il caso di adnexio (in cui la –i– può essere considerata come sviluppo della –u- di adnexus)  ma il fatto che nel latino medioevale il lessico del Du Cange registra come variante di pernio un pernium (da cui, secondo alcuni, gli italiani perno e pernio) che potrebbe essere neutro sostantivato da un originario pèrneum , forma aggettivale da perna (e qui il prosciutto per metafora diventa un dettaglio meccanico).

5 XX, 18 Est et rapo vis medica. Perniones fervens inpositum sanat…; XX, 70 Ipsa vero decocta pernionibus occurrit; XXII, 35  …condidit laudes eius Phanias physicus, utilissimam cibis coctam conditamve professus arteriae, tussi, ventris destillationi, stomacho, panis, parotidibus, pernionibus…; XXII, 70 …cinis e radice alopecias emendat et rimas pedum sedisque, decoctae radicis in oleo sucus perniones…; XXII, 71 …Diocles… usus est ad perniones decocta ex oleo…;XXII, 104 …laser e silphio profluens…perniones ex vino fovet et ex oleo coctum…; XXII, 126 …inlinitur… item pernionibus…; XXII, 143 …decoctae sucus…adhibetur pernionibus…; XXII, 153 …aqua decocti perniones et pruritus sanat…; XXIII, 74 …pernionibus nigrae olivae amurca utilior…; XXIII, 109 …cortices punici ex vino cocti et impositi perniones sanant…; XXIII, 123 …utiles sunt… pernionibus cum cera…; XXIV, 110 …sanant perniones…; XXVI, 100  …cyclamini radix, cuius decoctum et pernionibus…; XXVI, 106 …cyclaminos decocta in aqua perniunculos curat omniaque alia frigoris vitia, perniunculos et cotyledon cum axungia…; XXVII, 33 …decoctum…ex vino ambustis inponitur et pernionibus…; XXVIII, 137 …sincera axungia medetur ambustis vel nive, pernionibus autem cum hordei cinere et galla pari modo…; XXVIII, 221 …perniones ursinus adips rimasque pedum omnes sarcit, efficacius alumine addito, sebum caprinum, dentium equi farina, aprunum vel suillum fel cum adipe, pulmo impositus et si subtriti sint contunsive offensatione, si vero adusti frigore, leporini pili cinis; eiusdem pulmo contusis dissectus aut pulmonis cinis…; XXVIII, 222 …perniones vero corium combustum; melius, si ex vetere calciamento…; XXX, 79 …pernionibus quoque inponitur sebum pecudum cum alumine, canini capitis cinis aut fimi murini. quod si pura sint, ulcera cera adda ad cicatricem perducunt soricum vel glirium crematorum favilla ex oleo, item muris silvatici cum melle, vermium quoque terrenorum cum oleo vetere et cocleae, quae nudae inveniuntur…; XXXI, 65 …item pernionum vitio ante ulcera…; XXXI, 103 …tollit et clavos pedum, item perniones…; XXXII, 65 …testae ostreorum… crudae si tundantur, strumas sanant et perniones pedum…; XXXII, 111 …perniones emendat pulmo marinus, cancri marini cinis ex oleo, item fluviatiles triti ustique, cinere et ex oleo subacto, siluri adips…; XXXIII, 108-110 …item perniones cum myrtis et cera…; XXXV, 189 …compescit…perniones…

Litanie dell’acqua

di GIUSEPPE CRISTALDI

 

E’ probabile che Daniela Liviello sia un fluido ignoto figliato dall’acqua.
Che non appartenga alla specie della carne. Al contrario, che veda nel suo stato accidentale dell’esistere, la pelle o la carta quali registro del suo trapassare la terra. Il che non è attraversare la terra, non è un passaggio superficiale sulle misture di materia cadute nell’estetica, ma un trapasso, una perforazione degli stadi o degli stati nel mezzo dei quali vorrebbe fottere tutti gli astanti, sperdendosi.

Questo è quello che si percepisce quando tesse le sue litanie dell’acqua. S’avverte un accordo segreto con la terra, una terra a cui imputa dolori laceranti, ma in fondo una terra che le si è divaricata davanti come la peggiore ninfomane, nel medesimo istante in cui rabbia da un lato e precarietà storica dall’altro si fondono nell’identità. In più subentra uno stato di disarmo, avviene la verità, ovvero il perfetto coesistere tra dire umano ed espressione del creato; la verità che ti aspetta e non ti aspetta, nel mentre che la poesia si manifesta.
E’ probabile che Daniela Liviello sia di un fluido ignoto figliato dall’acqua.
Un flusso che faccia la spola fra due luoghi al fine di assegnare, assegnarsi, una provenienza.
Se non fosse che si ha, leggendola, lo stagnare tempestivo di una nostalgia, un dolore, insomma, un sentimento che vorrebbe ricondurre tutto alla sua origine. Gli uomini agli uomini, la terra alla terra, l’acqua all’acqua. In questo scocca la sua necessità, ovvero l’annullamento del vizio onomastico: chiede di non possedere nome perché dove il suo nome nasce, ella muore. Lo fa forse per poter essere ogni cosa e se stessa allo stesso tempo e quindi consegnarsi ad un flusso creativo che non implichi inani distinzioni e categorie.
I fogli, il compromesso mal sopportato, ove avere la misura del suo viaggio, non sanno scansarla dall’essere il passero che vola tra i limoni la cui sofficità non è inferiore ad una neve settentrionale, o il fiore diruto che galleggia e passa sullo stagno muto. Daniela c’è sempre, proprio per non esserci più. Così affermandosi, il libro di assenze che annovera ogni giorno, si popola, e la solitudine che prima ne derivava ora è una folla che denuncia l’assenza della donna che scrive.
Un’assenza che ha il sapore di pubblico sacrificio, pubblica resa nella rabbia, come arrendersi per non dire l’odio verso una madre bruta, molesta, una madre che l’ha scalciata altrove, da parte a parte in luoghi più o meno voluti, una madre che le ha ammiccato di ritornare, salvo poi stravolgerla di silenzio. Silenzio e ancora silenzio; nessun saluto, nessun benvenuto, solo un calcio in culo novello, ma espresso nella modalità di una dolce prigionia, una catena attorta all’essenza ultima dell’amore.
Pensi ad un imbroglio pazzesco, per cui se prima era lei a perforare gli stadi e gli stati della terra, ora sei tu. Tu, inerme lettore, che ti ritrovi impigliato nel meccanismo, proprio quando la verità, da dietro le quinte, mette piede sul palcoscenico spietato di quello che sei. Ci vedi tutto, e non sai che definizione dare a questo spettacolo.

Io non so cosa mi leghi al comporre indomito e zitto di Daniela Liviello, non so quanto valga ciò che ho scritto, e quante volte arrivi a reiterarsi l’omicidio eppoi la resurrezione sequenziale delle identità. Non so dove finisca il nome della cosa, del luogo, e cominci quello della persona. Non conosco ancora il punto preciso in cui odio e amore facciano l’odio e l’amore, siano l’insieme perfetto. Non so quante paralisi si nascondano dietro un andare, e quanti passi costruiscano un isolamento.
Non so se quella nave e quelle centinaia di naufraghi lasciassero la terra, o la prendessero.
Di mezzo vi era qualcosa, di mezzo vi è sempre qualcosa, solo questo so.
Mi rimane di guardare la distesa mediterranea attraverso gli occhi della donna che scrive, intuire da un’alga, fare parola la salsedine, vedere le braccia che annegando salutano. Tace tutto, poi tutto è assordante.
La commozione, ecco, è la venere dei tempi nostri, la schiuma lo sa.
Il resto è il brusio della quiete scomposta, violata eppoi venerata dall’acqua stessa.

Volti di Carta. Storie di donne del Salento che fu. Di Raffaella Verdesca

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La cripta e gli affreschi di Santa Maria degli Angeli in Poggiardo

 

di Marco A. de Carli

A un tiro di schioppo dalle note mete turistiche costiere di Castro e di Santa Cesarea Terme, nell’entroterra sorge la ridente cittadina di Poggiardo, che riserva al visitatore notevoli ricchezze storiche ed artistiche.

La cripta bizantina dedicata a Santa Maria degli Angeli, insieme con la cappella della Madonna della Grotta e la chiesa dei Santi Stefani a Vaste¹, rappresenta una delle suggestive chiese-cripte ipogee che caratterizzano quella che un tempo era conosciuta come Terra d’Otranto. Risalente alla cosiddetta “seconda età d’oro” del periodo tardo-bizantino, pur non presentandone la raffinatezza architettonica, la cripta di Poggiardo può essere paragonata al “San Salvatore” di Giurdignano (località conosciuta soprattutto per i suoi menhir e che dista una decina di chilometri da Poggiardo).

Sorta intorno all’anno Mille, la cripta fu adibita al culto per oltre quattro secoli, fino al suo totale abbandono alla scomparsa del rito greco, nel corso del XVI secolo.

Riportiamo qui di seguito la descrizione che della cripta fece, nel 1847, Giovanni Circolone

«Nell’interno dell’abitato vi è il tempio a S. Maria sacrato, di cui ne investe onoratamente il nome. Situato al di sotto del calpesto terreno pare che nasconder si voglia alla vista dei mortali moderni: vi si penetra dal curioso, escavando la ripiena entrata dalla consolidata macerie: pervenuto nel tempio la accesa fiaccola fa subito rilevarne la tripartita rettangolare figura, il doppio filo di colonne, le immagini di più santi, l’altare, l’effige di Colei, di cui ne porta il nome; i scolorati colori e il goccolio della insinuante umidità rompono il vero effetto del settemplice raggio: tutto in breve riveste lo squallore e l’oblio, nell’atto che la sua vetustà concentra l’animo del filosofo e trascorrere un sacro tremore fa per le membra. Comincia l’incavato tempio sulla strada da oggi detta la Chiesa, sette in otto passi al di là dell’angolo egrediente del palazzo Ducale: si estende a proporzione a dritta e a manca, e giunge fino al loco ove attualmente giace la Chiesa Matrice. Delle iscrizioni esistenti in detto tempio non mi è riuscito interpretarne alcuna, attesa la mal conformazione dei caratteri di cui si è fatto uso, non essendo riferibili ad alcuno dei conosciuti alfabeti. Ci mi sono acquietato al solo riflesso che assegnando l’epoca alla escavazione del tempio, deve essere poco tempo dopo il 1000: in allora trovandosi caduto l’Impero occidentale, ed essendo i barbari sfrenati a delle continue incursioni rimase in Italia avvinta e deserta in ogni punto, come ancora i guasti di tanti eserciti e le calamità di ogni sorte agevolarono la estinzione di quel fuoco, che avea reso immortale l’animo degli etruschi e dei latini. Laonde per cotale disastro s’estinse ogni lume di lettere e di cognizioni umane, per locché da un particolare alfabeto dovettero essere formate le iscrizioni in parola»².

Nel 1929, durante uno scavo, la cripta, situata sotto la sede stradale di via Don Minzoni, nelle adiacenze della chiesa parrocchiale, fu casualmente riscoperta e riportata alla luce e ne vennero immediatamente riconosciuti il pregio ed il valore. Dopo essere stata liberata dal materiale di riempimento e restaurata, riacquistò il suo originale aspetto. Una copertura in calcestruzzo armato sostituì quella originaria in tufo, quasi del tutto franata. Quanto all’illuminazione naturale della cripta, la si ottenne mediante una struttura in vetrocemento.

L’architettura della costruzione, a forma basilicale, è a tre navate che si concludono in altrettante absidi curve, con la volta sorretta da quattro pilastri, due dei quali crollati poco dopo la riscoperta della struttura. Di essi rimangono solo i basamenti. L’invaso è nettamente diviso in naos (ναός), area riservata ai fedeli, e bema (βήμα) che, nelle chiese bizantine, è lo spazio riservato a clero e ministri (presbiterio). Naos e bema erano separati da una iconostasi litoidea che metteva in comunicazione le due zone attraverso stretti passaggi. Singolare è la posizione fuori asse della parete di fondo che, dopo lo scavo, fu probabilmente oggetto di un aggiustamento nella più tipica direzione richiesta dalla liturgia, ossia verso oriente.

Di particolare interesse sono gli splendidi affreschi che adornano la cripta. Per carattere di tecnica e stile essi si differenziano da quelli della stessa epoca (XI-XII sec.) delle altre cripte salentine, principalmente per i colori accesi e vari, con uno spiccato predominio dei rossi e delle ocre.

La diffusa ed insanabile umidità delle pareti della cripta, unita all’incombente minaccia delle muffe, resero necessario lo stacco degli affreschi, che nel corso del 1955 furono portati all’Istituto Centrale del Restauro di Roma. Il restauro richiese un lungo lavoro ma il risultato fu soddisfacente; essi vennero esposti in una serie di mostre in varie città italiane e, nel 1975, tornarono finalmente nella propria terra di origine dove trovarono una degna collocazione in una struttura-museo ipogea appositamente realizzata in piazza Episcopo, a quattro passi dalla cripta, e all’interno della quale il perimetro originario della cripta è stato tracciato sul pavimento e gli affreschi montati su pannelli nella posizione di origine. Se ciò da un lato contribuì ad una migliore conservazione e valorizzazione del prezioso materiale iconografico, dall’altro determinò l’abbandono della struttura originaria, che nel 1985 è stata resa oggetto di opportuni lavori di ristrutturazione. Le fessurazioni createsi, avevano causato infiltrazioni delle acque meteoriche. È stata effettuata l’impermealizzazione completa della struttura con materiali di sicura affidabilità e risolto il problema della presenza di forte umidità, ventilando la cripta con l’installazione di un apparecchio aspiratore-ventilatore. Copie artistiche e durature degli affreschi, in polistirolo ignifugo e refrattarie all’azione degli agenti atmosferici, sono state collocate nella loro sede originaria. In tale modo si è ottenuto un doppio percorso: le opere originali in un ambiente salubre e protetto, la parte architettonica resa di nuovo agibile e ricorredata del suo ciclo pittorico. Il museo è stato inaugurato il 12 giugno 1975 con l’autorevole partecipazione dell’allora presidente del consiglio Aldo Moro.

Il ciclo degli splendidi affreschi è particolarmente ricco: nel naos, sulla parete destra dell’ingresso figurano, racchiuse in riquadri policromi, le immagini di San Nicola, San Giorgio nell’atto di trafiggere il drago e – queste tutte in dittico – San Gregorio Nazianzeno e San Giovanni Teologo, Sant’Anastasio e Cristo con ai piedi la Maddalena, San Demetrio e San Nicola.

Le pareti poste a separare il naos dal bema vedono le figure di San Giovanni Teologo a destra e San Giovanni Battista a sinistra. Degli affreschi che decoravano il pilastro crollato non rimane traccia. Ancora visibili, invece, quelli che abbellivano il pilastro ricollocato nel museo e che rappresentano San Giorgio, una Vergine con Bambino ed un santo ignoto. Ancora a sinistra nel naos sono raffigurati San Michele e San Giuliano e, nella parte terminale, una Vergine con Bambino e San Nicola.

Nel bema, di notevole bellezza è l’abside centrale, che raffigura una Vergine con Bambino, posta tra gli Arcangeli: l’abside di sinistra contiene l’Arcangelo Michele, mentre sui setti tra le tre absidi sono raffigurati, a sinistra Santo Stefano e a destra San Lorenzo. Sulla parete sinistra i Santi Cosma e Damiano.

Come abbiamo già avuto modo di accennare, le pitture risalgono al periodo che va dalla seconda metà del sec. XI alla prima metà del XII. Fanno eccezione alcuni affreschi, come quello che raffigura la Madonna con Bambino, del secondo pilastro di sinistra e che risalirebbe alla prima metà del XV sec. e l’altra Vergine con Bambino, sulla parete NO e San Nicola che le sta accanto, databili al sec. XIII.

Segue qualche cenno descrittivo dei singoli affreschi.

San Nicola, vescovo di Mira

Il santo è raffigurato con paramenti vescovili mentre benedice “alla greca” (con pollice e anulare della mano destra che si uniscono, lasciando l’indice diritto e formando così l’anagramma greco di Cristo IC XC [ΙΗΣΟΥΣ ΧΡΙΣΤΟΣ]. Le due dita unite simboleggiano la duplice natura di Cristo: divina e umana).

San Giorgio

San Giorgio martire è rappresentato secondo l’iconografia tradizionale, mentre trafigge il drago-serpente dall’alto del cavallo. Pur apparendo di profilo, il santo volge busto e capo di prospetto. Veste una tunica svolazzante rossa e una corazza a squame gialle.

San Giovanni Teologo e San Gregorio Nazianzeno

San Giovanni veste una tunica grigia e un manto rossastro, mentre San Gregorio è raffigurato con manto giallo. Nella mano sinistra sostiene un libro. Le scritte a lato dei santi risultano illeggibili, come in quasi tutti gli affreschi della cripta.

Cristo Benedicente, la Maddalena e Sant’Anastasio

Cristo è assiso sul trono mentre benedice alla greca. Reca in mano un libro con la scritta “Io sono la luce del mondo, chi segue me non camminerà nelle tenebre”. Il Cristo veste un manto che ricade in pieghe molto ampie e calza dei sandali. Ai suoi piedi è inginocchiata la Maddalena, vestita di rosso. Verticalmente vi è la scritta greca “Maria Maddalena”. A destra troviamo Sant’Anastasio che reca in mano una piccola croce.

San Demetrio e San Nicola

San Demetrio è raffigurato di fronte, in un dittico in gran parte sbiadito, con San Nicola che benedici alla greca e che tiene stretto al petto un evangelario.

San Giovanni Teologo

Il santo è affrescato anch’egli nell’atto di benedire. Con la mano sinistra regge un evangelario decorato da un fiore. La sua tunica è di un rosso scuro e un manto grigio gli avvolge la vita.

San Lorenzo

Il santo, raffigurato di prospetto, veste una dalmatica rossa. Il suo volto, di un bell’ovale, è ben conservato.

Madonna con Bambino tra gli Arcangeli

L’affresco si trova nell’abside centrale. La Vergine siede sul trono con il Bambino sulle ginocchia e veste di rosso scuro, con un manto blu scuro. Alla sua destra l’Arcangelo Gabriele, rappresentato con una veste grigia e manto rosso. L’Arcangelo è proteso verso il gruppo centrale della Vergine e del Figlio. A sinistra l’Arcangelo Michele, che indossa un manto grigio su veste rossa.

Santo Stefano

Il primo martire della cristianità è raffigurato in piedi, di prospetto, e veste da diacono una dalmatica marrone decorata da cerchi bianchi. Con la mano destra l’incensiere.

Arcangelo Michele

E’ affrescato nell’abside di sinistra, di propsetto, ad ali aperte. La sua veste è di colore rosso. Nella mano destra alzata impugna la lancia e con la mano sinistra regge il globo incrociato.

Santi Cosma e Damiano

L’affresco si trova sulla parete orientale, presso l’abside minore. San Cosma indossa una tunica bianca ed un manto di foggia particolare, identificato con la penula ebraica che gli copre interamente la spalla destra, lasciando libera la sinistra. Con la mano destra a dita unite alzata, nella sinistra regge un rotulo. La figura del fratello San Damiano è analoga alla precedente per aspetto e foggia dell’abbigliamento. Il manto lascia libere le spalle e sulla veste grigia risaltano decorazioni a cerchi marroni. Nella mano sinistra stringe un libro.

San Giovanni Battista

La sua figura intera e di prospetto è posta sulla parete meridionale d’angolo. La sua tunica bianca rosata si intravede appena. La mano destra con tre dita aperte poggia sul petto.

San Michele Arcangelo

Il santo, affrescato a figura intera con le ali aperte, indossa una veste rossa e sul petto si incrocia una stola marrone. L’arcangelo impugna, con la destra, la lunga asta, mentre nella mano sinistra regge il globo. Come il precedente, questo affresco è alquanto guasto.

San Giuliano

A figura intera, dipinto di prospetto, il santo veste una tunica di colore rosso con orlature e calza gambiere rosse e sandali. La mano sinistra è alzata a palma in fuori e con la destra stringe la croce.

Madonna con Bambino e San Nicola

In questo affresco la Madonna, in veste grigio scura con un manto marrone, tiene in braccio il Bambino con tunica bianca e manto giallo. Il volto della Vergine è leggermente inclinato verso il Figlio. A destra è dipinto, di prospetto, San Nicola, con una penula rossa chiara e il pallio episcopale. Il santo è raffigurato benedicente alla greca. Lo stato della pittura è molto precario.

 

Vergine con Bambino

Il dipinto è situato sul lato est del primo pilastro di sinistra. La Madonna sorregge con il braccio destro il Bambino seduto e benedicente. Indossa un manto azzurro (annerito nel tempo) che le copre pure il capo. Questo affresco si differenzia nettamente da quello dell’abside centrale; l’insieme dell’esecuzione, di duro disegno, e l’espressione dei volti rivelano una diversa mano e epoca. Si può pensare al tardo XIII secolo.

San Giorgio

Affrescato sul lato a sud del primo pilastro di sinistra, San Giorgio è raffigurato di prospetto. Veste corazza a squame gialle, su tunica a maniche bordate. Con la mano sinistra impugna la lancia a punta triangolare, mentre la destra è appoggiata, a pugno chiuso, al petto.

Santo Ignoto

L’ultimo affresco della cripta-museo rappresenta un santo ignoto, in veste bizantina. Il Santo Ignoto può essere considerato come l’espressione simbolica delle virtù esercitate da tutti i santi.

A partire dall’anno 725, per iniziativa di Leone III Isaurico, successore di Teodosio al trono di Bisanzio, oltremare si andavano diffondendo l’iconoclastia e la conseguente persecuzione della popolazione greca ad essa ribellatasi e che produsse fenomeni di culto nascosti. In tale scenario, per lungo tempo Otranto ed il monastero di San Nicola di Casole assunsero una posizione chiave nella strategia della cultura. La cripta di Santa Maria degli Angeli fu citata in relazione al prestito di uno sticherarion (στιχηράριοv), libro che contiene i canti degli uffici liturgici vespertini e delle lodi del mattino, prestito concesso dal monastero di San Nicola al capo della comunità di Poggiardo, il monaco Michele.

L’attività dei monaci, anziché attirare la benevolenza delle autorità, scatenò pontefici e re di Napoli, che si misero d’accordo per sopprimere quanto di greco esisteva in Italia. Gregorio I estese la gerarchia latina; i conti di Lecce e Nardò soppressero i calogerati basiliani, donandoli ai benedettini. Nel 1583 il sinodo diocesano, presieduto dall’arcivescovo di Otranto Pietro Corderos, sancì l’abbandono del rito greco nel Salento che, tuttavia, rimase in uso fino al XVII secolo.

La cripta ed il museo di Santa Maria degli Angeli in Poggiardo sono aperti al pubblico.

¹  Vaste fu una città messapica di considerevole importanza (l’antichissima Basta o Baxta), fondata probabilmente attorno al 600 a.C. Oggi è frazione del comune di Poggiardo.

²  M. LUCERI, La cripta di S. Maria in Poggiardo, in Japigia, IV 1933.

 

Bibliografia

S. RAUSA, Poggiardo : una vivace comunità salentina, Lecce 1995.

C.D. FONSECA – A.R. BRUNO – A. MAROTTA – V. INGROSSO, Gli insediamenti rupestri medievali nel basso Salento, Galatina 1979.

M. FALLA CASTELFRANCHI, La pittura bizantina in Salento, in “Ad Ovest di Bisanzio. Il Salento medioevale”, Atti del Seminario Internazionale di Studio, Martano 1988 (Galatina 1990), 129-214, a cura di B. Vetere.

M. FALLA CASTELFRANCHI, Pittura monumentale bizantina in Puglia, Milano 1991.

M. LUCERI, La cripta di S.Maria in Poggiardo, in Japigia, IV 1933.

 

Le foto sono della Fondazione Terra d’Otranto

Straordinari carciofi!

di Massimo Vaglio

Il carciofo (Cynara scolimus L), è una specie botanica appartenente alla famiglia delle composite. E’ pianta perenne e si coltiva per la produzione delle infiorescenze che, costituiscono la parte primaria, commestibile della pianta. In Puglia, vengono inoltre consumati anche i polloni che la pianta emette in esubero, detti carducci. Questi, opportunamente selezionati, vengono avviati al consumo in quanto tradizionalmente adoperati alla stregua di come altrove si fa con i cardi propriamente detti, Cynara cardunculus.

La coltivazione del carciofo, derivato dal carciofo selvatico con abili operazioni d’ innesto, nasce, pare, intorno al XIII secolo in Medio Oriente, ma diverse fonti attribuiscono già nel XV secolo grandi meriti all’abilità degli orticoltori italiani, che già avevano selezionato numerose varietà, così descritte nel 1557da Andrea Mattioli: “Veggonsi a tempi nostri i carciofi in Italia di diverse sorti imperochè di spinosi, serrati e aperti e di non spinosi ritondi, larghi, aperti e chiusi se ne ritrovano”.

Terra, particolarmente vocata per questa coltivazione, grazie al clima mite e alla presenza di vaste e fertili pianure alluvionali, la Puglia conta circa 20 mila ettari di carciofeti che la pongono al primo posto in Europa. La varietà maggiormente coltivata  è il Locale di Mola discendente  dal carciofo Catanese.

Nel Leccese, seppur a livello familiare, si coltiva una pregevole, antica varietà tardiva localmente molto apprezzata, distinguibile per la colorazione viola scuro e le brattee, divaricate all’apice, questi carciofi, sono molto ricercati e apprezzati per la loro delicatezza che li rende particolarmente idonei ad essere gustati crudi.

Raro trovare un prodotto che, come il carciofo, coniughi  le a dir poco straordinarie qualità organolettiche con altrettanto straordinarie proprietà nutrizionali e salutari. Digeribilissimo, privo di controindicazioni rilevabili in molti altri pur nobili ortaggi e dal gusto estremamente grato, il carciofo meriterebbe un’utilizzazione molto più ampia. D’altronde basterebbe ricordare la raccomandazione di Esculapio: siano gli alimenti i vostri farmaci, e quale alimento può concorrere per salubrità con il carciofo? Vera e propria farmacia della natura, quella che i tedeschi chiamano Apotheke Gottes (farmacia di Dio).

I carciofi, hanno pochissime calorie perché la maggior parte dei carboidrati è presente sotto forma di inulina, un polisaccaride che l’organismo non utilizza come gli altri zuccheri per la produzione dell’energia. Ciò rende i carciofi estremamente utili ai sofferenti di diabete, poiché l’ inulina, migliora il controllo dello zucchero nel sangue. La cinarina, un altro principio attivo presente nei carciofi ha una lunga tradizione nella terapia di molti disturbi del fegato che proteggono e rigenerano.

Inoltre, hanno effetti coleretici, vale a dire che stimolano il flusso della bile, favoriscono la decongestione nel fegato sofferente e abbassano i livelli di colesterolo e di trigliceridi nel sangue.

Infine, è stato accertato che consumando regolarmente carciofi freschi si rilevano sensibili miglioramenti  nei casi di artrite reumatoide, di azotemia, di anemia e di stipsi ostinata. Un ortaggio prezioso quindi, di cui si avvantaggiano equamente gusto e salute.

 

 

Carciofi fritti

Nettate i carciofi che devono essere molto freschi e teneri e divideteli in senso longitudinale in quattro otto spicchi e poneteli in acqua acidulata con succo di limone. Con acqua e farina 00 e sale q.b. approntate una pastella liscia ed omogenea, immergetevi quindi gli spicchi di carciofo e friggeteli in olio di frantoio ben caldo. Potete prepararli anche fritti dorati, passandoli prima nella farina 00 e poi nell’uovo sbattuto e salato.

 

Minestra di carciofi e fave verdi

Estraete le fave verdi dai baccelli, nettate i carciofi e i cipollotti, quindi ponete sul fuoco una casseruola con due dita d’ acqua, olio e sale; unite le verdure e lasciate cuocere a fuoco lento con la sola aggiunta di qualche fogliolina di menta. In ultimo aggiustate di sale se necessario e  servite. Questa minestra tipicamente primaverile può essere gustata anche fredda.

Parmigiana di carciofi

Nettate i carciofi, divideteli longitudinalmente in spicchi, e friggeteli. Preparate un sugo di pomodoro dalla consistenza piuttosto blanda, versatene un mestolo in un tegame e acconciatevi sopra ben serrati gli spicchi di carciofi fritti, copriteli con mozzarella fior di latte tagliata a fette, cospargete a piacere con parmigiano o con pecorino grattugiato e  infine con altro sugo e avendone la possibilità con qualche fogliolina di basilico fresco. Ripetete l’operazione una o più volte e terminate con sugo e formaggio grattugiato. Ponetela in forno caldo per circa un quarto duro e comunque il tempo sufficiente a rendere filante la mozzarella. Volendo, si può arricchire la farcitura aggiungendo delle polpettine di manzo fatte secondo la ricetta classica e delle uova sode affettate che però acquisiranno un’insolita colorazione.

Tortino di Carciofi al forno

È un piatto d’antica tradizione preparato con piccole varianti  in tutta la Puglia.

Ingr.: 8 carciofi, 400 grammi di mozzarella, 4 fette di pane casereccio, 100 grammi di pecorino dolce grattugiato o parmigiano, quattro uova, latte, olio extravergine d’oliva, burro, pane grattugiato, prezzemolo, sale, pepe nero q.b.

Bagnate nel latte le fette di pane casereccio e adagiatele in una teglia imburrata e cosparsa uniformemente di pane grattugiato. Distribuite su di queste la mozzarella tagliata a dadini e sopra i carciofi nettati lessati al dente e ridotti in spicchi o affettati. Versate sul tutto, le uova diligentemente battute e il formaggio. Cospargete con un composto di pangrattato, pepe nero macinato al momento e prezzemolo fresco tritato. Spruzzate la superficie con acqua e olio extravergine d’oliva e fate gratinare in forno per circa un quarto d’ora e comunque sino a quando la superficie avrà acquisito una bella colorazione dorata.

Carciofi ripieni

Nettate i carciofi, rasate i gambi in modo che possano rimanere ritti, accorciate le brattee e allargatele in modo da poter accogliere il ripieno. Preparate quindi il ripieno, unendo a delle uova, pangrattato, pecorino grattugiato, capperi, aglio finemente tritato (facoltativo), prezzemolo e pepe nero macinato al momento. Amalgamate diligentemente il tutto, riempite i carciofi, sistemateli ben serrati in un tegane e irrorateli con un filo d’ottimo olio extravergine d’ oliva. Versate acqua fredda sino a raggiungere la metà dell’altezza dei carciofi, ponete sul fornello e fate cuocere a fiamma bassa, sino a quando l’acqua non sarà quasi completamente consumata. Passateli quindi in forno caldo, sino a quando la loro superficie avrà assunto un’invitante colorazione dorata.

Polpette di carciofi

Prendete una decina di carciofi, nettateli per bene e lessateli in acqua salata, quindi dopo averli ben sgocciolati passateli al passa verdure incorporate alla purea due etti di formaggio vaccino grattugiato, altrettanto pangrattato, tre o quattro uova, una manciatina di prezzemolo tritato, pepe e sale. Amalgamate bene il composto, formate delle polpette e friggetele in abbondante olio. Si possono gustare tali ben calde oppure dopo averle passate per una ventina di minuti in una blanda salsa di pomodoro alla cipolla.

Carciofini sott’olio

Costituiscono una delle conserve tradizionalmente più diffuse in Puglia sia a livello familiare che industriale, la produzione dei carciofi qui  si protrae dall’autunno sino alla primavera inoltrata, periodo in cui le piante danno luogo all’emissione di un grande numero di capolini di piccole dimensioni che non hanno quindi le caratteristiche merceologiche per essere avviati al consumo diretto. Vengono perciò impiegati nella produzione di conserve,  in particolare nella produzione dei  carciofini sott’olio, particolarmente apprezzati come antipasto.

Preparazione:

Nettate i carciofi, accorciando loro le brattee ed eliminate completamente quelle più esterne, e ponetgeli man mano, onde evitare che anneriscano, in un recipiente contenente acqua acidulata con aceto o limone. Quindi, a seconda delle dimensioni; lasciateli interi, oppure divideteli a metà o a quarti, e metteteli a bollire in acqua salata e acidificata con aceto di vino, metà acqua e metà aceto. Una volta cotti al dente, scolateli, disponeteli in vasi di vetro intervallandoli a piacere con foglioline di menta  o prezzemolo e con rotelline di aglio. Ricopriteli infine, d’olio extravergine d’oliva e serbate i vasi ben sigillati in ambiente fresco e possibilmente buio.

Polpette di carciofi

Prendete una decina di carciofi, nettateli per bene e lessateli in acqua salata, quindi dopo averli ben sgocciolati passateli al passa verdure incorporate alla purea due etti di formaggio vaccino grattugiato, altrettanto pangrattato, tre o quattro uova, una manciatina di prezzemolo tritato, pepe e sale.

Amalgamate bene il composto, formate delle polpette e friggetele in abbondante olio. Si possono gustare tali ben calde oppure dopo averle passate per una ventina di minuti in una blanda salsa di pomodoro alla cipolla.

Un luogo: l’infanzia

di Maria Grazia Presicce

La luce m’inonda come allora, come quando da bambina uscivo sul terrazzo e la luce mi pioveva addosso improvvisa e mi avvolgeva dolcemente proiettando la mia ombra piccina piccina.

Il sole come allora accompagna i miei passi, la mia ombra ora mi sovrasta, non è più piccina piccina e mi precede sicura guidandomi, esortandomi a procedere. Improvvisa scompare e mi si riavvolge attorno quando, timorosa, varco il limitare di una porta sgangherata. La penombra allora m’invade e mi penetra insieme ad un tanfo di chiuso, di umido, di fradicio.

Circospetta avanzo, mentre solo i ricordi mi spronano ad andare oltre e illuminano quella penombra, quella desolazione che ora occupa e incombe sulle mura scorciate, sulle porte sbilenche, sugli stipiti infranti, i pavimenti violentati, le finestre violate coi vetri rotti invase da rami di fico che pendono inerti e danno però un bagliore di vita e di colore a tanto sfacelo, a tanto silenzio.

Ma, il silenzio, la desolazione non fa parte dei miei ricordi che vividi e imperiosi riaffiorano e non mi fanno vedere più il buio e non vedo più squallore e non sento più silenzio:

“Lisa….Lisa è arrivata! Vieni, vieni a salutare il nonno, gli zii, Mesciu Guido …”#

E’ festa intorno a me, c’è tanta allegria fatta di saluti, di abbracci, di sorrisi che si diffondono nella penombra rischiarata dai lumi a petrolio e ad olio e dalla fiamma del camino che sprizza e sfavilla

e anch’essa lieta partecipa e saluta l’arrivo di Lisa e dei suoi fratellini che vispi e gioiosi corrono chi di qua chi di là a salutare e poi sgattaiolare e spiare, curiosare colorando e riempiendo di festosità tutto l’ambiente, mentre il cavallo bendato lento e silenzioso continua a girare la macina nella vasca dove alcuni uomini versano canestri di olive nere e mature.

C’è profumo di tutto qua dentro: profumo di muffa, di olive schiacciate, di olio, di fumo, di lavoro di onestà e d’amore e il cavallo gira, gira mentre gli uomini si affaccendano a caricare la pressa di fisculi colmi di polpa schiacciata e l’olio abbondante e lucente cola prepotente nel tino sottostante.

I barili pieni, in fila, attendono d’essere portati via e sembrano soldati nella loro luccicante armatura pronti a marciare.

“Lisa! …Lisa! Vieni di qua, stiamo abbrustolendo il pane”.

E’ Mesciu Guido che chiama a raccolta tutti. Lisa corre insieme ai suoi fratelli e siedono vicino al camino intorno ad un tavolo, dove troneggia un piatto colmo d’olio mosto. Ognuno intinge il suo pezzo di pane nel piatto e mangia incurante delle gocce che gocciolano lordando le mani e spesso anche i vestitini.

Che sapori che allegria, quanta serenità!

Le fragranze avvolgono e inebriano: è profumo d’altri tempi è profumo di semplicità, è piacere di poco e di tanto, è gioia fatta di sincerità e tanta schiettezza, mentre la fiamma scoppietta allegra sotto il camino e si accompagna ai nostri giochi, alle nostre risa al nostro parlottare incessante e irruente sotto lo sguardo affettuoso del nonno che sorride sotto i baffi.

Gesù! Un mare di ricordi m’inonda.

Una stanza desolata e vuota, la sua soglia sconnessa, un’imposta ciondolante e il camino ora murato…

Lacrime lente e incontrollabili scivolano sulle mie guance, vorrei ma non posso, non riesco a trattenerle. Colano inconsapevoli, solitarie e vanno insieme ai miei ricordi e mi accompagnano di là di un’altra soglia… mi ritrovo nel cortile…

“ Lisa corri, corri! .. scendi nel cortile, vai a prendere le foglie  del “tiraesana”, la zia si è fatta male col coltello. Corri! Fa presto!”

Scendevo allora di corsa le scale e andavo nel cortile dietro il forno, dove cresceva spontanea la pianta del tiraesana e delicatamente ne coglievo le foglie tenere e vellutate. Stavo accorta a staccare quelle larghe e verdi per non rovinare le foglioline più piccole.

Le staccavo una ad una tirandole leggermente in giù come mi aveva insegnato nonna e le ponevo nella mano libera una sull’altra. Tre o quattro aveva detto nonna. Le contavo e di corsa tornavo sopra e la nonna aiutava la zia a medicarsi mettendo le foglie sulla ferita: “ così rimargina prima ” Diceva, e a me allora sembrava una pianta magica.

Ora quella pianta magica era ancora lì con i suoi fiorellini gialli sulle punte dei rametti che sembravano sorridermi e invitarmi ancora a cogliere le foglie… ma, la ferita da rimarginare adesso era troppo grande, troppo estesa e tutte le foglie non sarebbero bastate.

Almeno lei, però, era sempre la stessa, mi sono limitata ad accarezzare i calici gialli sperando che nessun veleno evoluto l’abbia intaccata così potrà continuare a moltiplicarne la specie per sempre per sempre per sempre… Mi rallegra questo pensiero, mi dà gioia vederla vivida e vitale ma, la mia gioia dura poco allorché supero il varco del giardino recintato. Quanto sfacelo mi accoglie! Non è più un giardino di piante di fiori di frutti. Ora è un ammasso di pietre di cianfrusaglie, di ossa. Più che un giardino è una discarica e vicino al forno accanto alla grande macina del frantoio è stato allestito addirittura un mattatoio clandestino! E’ ben segreto, in effetti, questo luogo per prestarsi a simili sconcezze.

Adesso vedere tutto ciò mi fa quasi paura. Paura che da un momento all’altro qualche losco figuro possa saltare fuori….lentamente e quasi in punta di piedi torno indietro. Un brivido mi attraversa allo sbattere di una porta. Varco la soglia della penombra ed esco all’aria. Non c’è nessuno. Il silenzio e il bagliore del sole continua a sovrastare su tutto, su me, sul fabbricato sberciato violato e in parte crollato e le pietre ammucchiate in cumuli informi e altre sparpagliate mi guardano e mi appaiono tristi nel loro splendore sotto il sole.

Una lucertola fa capolino da sotto un sasso sul mucchio, gira lesta il suo capino e scompare per ricomparire poco più in là sotto un altro sasso.
Pietre sparse e sformate che facevano parte del grande torrione rifugio di colombi, di barbagianni, di civette e nidi di rondini in primavera… e ora? Il ricordo impetuoso mi riporta sul terrazzo formato da quei sassi e mi rivedo bambina correre felice sulle chianche arabescate dai muschi ed affacciarmi al muretto formato da quei sassi che ora giacciono muti e solitari e urlano la loro sventura e paiono rimproverarmi.

Ma, che potevo fare io sola contro l’incuria e la testardaggine di tanti? Eppure sarebbe bastato poco, tanto poco, lo so, ma non ero sola e non potevo decidere per tutti. Vorrei, avrei voluto salvarvi…  lacrime continuano ad inondare il mio viso e colano e mi giungono in bocca e sono amare, amare come la disperazione di quei cumuli confusi sommersi di luce, di quella luce che sommerge anche me. Mi chino a prenderne uno e poi un altro ed un altro ancora,…li porterò con me……ma mi pare d’un tratto di udire le grida di tutti li altri che mi pregano di portarli via…vorrei poterli prendere tutti, vorrei poterli tutti abbracciare mentre le lacrime continuano a scorrere e colano irrefrenabili sui sassi ai miei piedi.

Ho il cuore colmo di tristezza, vorrei poterli dare l’antica forma, ridarli la vita, vorrei, vorrei, vorrei…Ne stacco dal cumulo solo tre e li abbraccio e li porto con me ed è come abbracciarli tutti quanti, proverò a ridarli vita, resteranno con me, per sempre. Nel mio ricordo sono sempre vive ed ora sono già vita perché sono ancora con me e fanno ancora parte di me.


Ulivi di Puglia, come maestose colonne tortili…

di Emilio Panarese

…In nient’altro si può trovare il simbolo della nostra provincia se non nei giganteschi e pittoreschi ulivi plurisecolari, che, come maestose colonne tortili, sormontate da larghi capitelli d’argento, tormentate, spaccate o scoppiate, di un vetusto tempio pagano dedicato a Pallade, si perdono, a vista d’occhio, per chilometri e chilometri, da Lecce fino al mare, fino a Finibus Terrae.

Qui, nella nostra terra, l’ulivo ha il suo regno, qui l’ulivo sin dall’epoca messapica è stato spettatore di tante antiche vicende, di tante illustri civiltà, di tutto il nostro glorioso e doloroso passato…

 


da: E, Panarese, Gallipoli, porto europeo dell’olio in «Tempo d’oggi», I (22), 18/12/1974

Il pasticciotto leccese

di Massimo Vaglio

Il pasticciotto è il dolce per antonomasia degli abitanti del Salento leccese, ove è assolutamente immancabile in qualunque pasticceria degna di questo nome. Rientra perfettamente negli stilemi della cucina locale, caratterizzata come poche, da piatti semplici, sobri, ma dal gusto spesso sorprendente. Proprio, sorprendente, è l’aggettivo più appropriato per definire il gusto del pasticciotto, una sorpresa che aumenta quanto più aumenta la sua conoscenza, quando cioè si scoprono i suoi semplicissimi ingredienti.

Nessuna particolare alchimia, d’altronde, il segreto del suo universale gradimento e della sua inconfutata bontà, risiedono proprio nella sua semplicità.

Queste prerogative fanno si che con questo dolce i salentini usino scambiarsi omaggi nelle più disparate occasioni; da quelle liete, a quelle più tristi, è usanza, infatti, offrirli come “cùnsulu”, in questo caso come colazione consolatrice alle famiglie colpite da un lutto.

Per molto tempo, è stato esclusivo appannaggio della cucina aristocratica salentina e deriva probabilmente dalla torta di pasta frolla farcita con ricotta zuccherata ed altri ingredienti, ma già nei primi anni del “700 veniva

La Tumara

thymus capitatus (ph Giorgio Cretì)

di Giorgio Cretì

Allora, da maggio ad ottobre, la gente si trasferiva a vivere in campagna ed in paese tornava solamente per comperare il sale e qualche altro genere di stretta necessità. Quasi tutti coltivavano tabacco ed il tabacco aveva bisogno di cure molto assidue.

Alla Tumara c’erano ben cinque famiglie, alloggiate in seccatoi ad un solo spiovente con il tetto di coppi. Una vera e propria comunità, anche se ciascun nucleo familiare economicamente viveva per proprio conto e non aveva interessi in comune con gli altri. In alcune stagioni la comunità raggiungeva anche le venticinque persone.

Tumara, poi, era il termine per indicare una zona al alto degrado vegetale, dove il timo(1) la faceva da padrone, assieme al mentastro(2), alla salvia selvatica(3), al rosmarino(4): tutte piante molto aromatiche. In primavera, dal sottilissimo strato superficiale di humus prorompeva la vita vegetale ed il suolo si copriva prima di un bellissimo verde e poi diventava una variopinta tavolozza di colori cui concorrevano il giallo dei ranuncoli(5), il bianco delle pratoline(6) ed il lilla della scabiosa(7) e di tanti altri fiori meno appariscenti, come le ombrelle delle carote selvatiche(8) ed i ciuffi dei sonaglini(9) e dell’avena selvatica(10)) che fremevano creando suggestive vibrazioni alla carezza del vento. Fra le fitte e sottili foglie del lino delle fate(11)), spuntavano anche le scarpette della Madonna(12)), piccole orchidee nere che sembravano di velluto.

Uno dei due seccatoi, quello abitato dai due mezzadri, aveva le soglie affacciate sulla tumara, l’altro, che era di proprietà degli occupanti, dava sulla strada di campagna che proseguiva un po’ più oltre e si perdeva fra gli ulivi della contrada detta Fogge, che formavano un vero e proprio bosco.

I due edifici erano posti a elle, leggermente distaccati l’uno dall’altro, nel punto più alto di un piccolo rilievo che scendeva con leggera scarpata verso una zona eluviale di terra rossa, molto adatta a varie colture, dove si piantava tabacco.

Dall’alto si scorgeva l’inizio dell’oliveto che andava fino a Diso e Vignecastrisi.

Origanum vulgare (ph Giorgio Cretì)

In mezzo la gariga di timo, in qualche piccolo affossamento che raccoglieva un po’ di terreno, o in qualche piccola tasca terrosa, crescevano piante isolate di fico che erano tenute in gran conto.

Ogni due o tre anni le zappe raschiavano il poco humus formatosi sulla roccia calcarea e ne facevano piccoli mucchi.

Il timo sradicato serviva per il fuoco domestico e per il forno del pane. I mucchi di pietre sparsi, venivano spostati, e rimessi insieme con perizia, per ricavare altro terreno da coltivare. Questo era ricco di sostanze organiche prodotte dalle erbe seccate, da gusci di chiocciole, da millepiedi scarabei glomenidi morti e da licheni e somigliava molto al letame. In quei mucchietti si piantava orzo o legumi e, se durante la primavera successiva cadeva sufficiente pioggia, si poteva anche avere un raccolto. Altrimenti, se era secco, ci si rimetteva la semente, perché i frutti morivano sulla pianta prima ancora di maturare. L’humus grattato dalla roccia veniva poi regolarmente dilavato verso il basso.

Ampie zone di roccia rimanevano nude ed erano segnate qua e là da cadinaz, che sono quelle vene verticali di roccia più dura resistente all’erosione, che in alcuni punti, a seconda dello spessore, emergono come muriccioli.

A fine maggio, le erbe secche o le stoppie davanti ai seccatoi venivano bruciate e tutto quello spazio era destinato ai telai del tabacco da seccare e, più tardi, anche ai cannicci dei fichi spaccati e messi al sole.

Calamintha nepeta (ph Giorgio Cretì)

Donato e Angelo, i due mezzadri, con le loro famiglie coltivavano le terre del padrone dei seccatoi che abitavano; Angelo le aveva tutte dentro la “Tumara”, Donato nel fondo attiguo che era leggermente sottoposto e si trovava al piano della strada provinciale, diritta bianca e polverosa. Angelo aveva anche la vigna, in una pietraia verso le Fogge; la vigna di Donato era nel fondo di un altro padrone, ma non era lontana.

La maggior parte dello spazio all’interno dei seccatoi era occupato da un’intelaiatura fissa, alta fino al soffitto per sostenere il tabacco, man mano che seccava e si metteva da parte; nel resto si lavorava, mangiava e dormiva, salvo occupare per intero anche questo spazio quando minacciava pioggia e si doveva proteggere il tabacco che non era ben secco, perchè una sola goccia d’acqua ne avrebbe compromesso la qualità e abbassato il prezzo. Riuscivano a farci stare anche i cannicci dei fichi, accatastati a ridosso di una parete, con un sistema che permetteva, a mezzo di canne, di tenerli staccati uno dall’altro.

Daucus carota (ph Giorgio Cretì)

La gente, in campagna, si portava anche gli animali, ossia la capra o la pecora che davano il latte occorrente alla famiglia e le galline che fornivano le uova da vendere. Angelo aveva anche un corvo nero che sapeva dire qualche nome e lo ripeteva quando gliene veniva l’estro. Esternamente al seccatoio, Donato e Angelo avevano costruito le loro cucine che avevano appena lo spazio per accendere il fuoco in terra e accostarvi le pignate dei legumi o per sistemare un treppiedi per usare la pentola.

La cucina di Angelo era coperta di coppi, quella di Donato di fronde di leccio che ogni anno bisognava rinnovare. Dietro la cucina, al mattino tenevano legata la capra che spostavano dietro il seccatoio quando girava il sole.

Un po’ distante avevano costruito un piccolo recinto di pietre che serviva da gabinetto. Quello di Angelo era in parte coperto da lastre di pietra (chianche) per creare un po’ di ombra nei caldissimi mesi estivi.

Myrtus communis (ph Giorgio Cretì)

Completava i servizi il pollaio che era costituito da un riparo più ampio con una porticina che poteva essere chiusa per il riparo vero e proprio e uno molto più piccolo e aperto, dove le galline facevano le uova.

Le galline razzolavano tutto il giorno in due gruppi separati, sempre mantenendosi nei pressi dei seccatoi e la sera tornavano ai loro pollai che venivano poi chiusi dall’esterno con un blocco di tufo, perché la notte quando tutto era silenzio vi si aggirava la volpe.

Con la scusa della devozione, la gente si prendeva due o tre giorni di riposo all’anno, che poi si traducevano in pellegrinaggi religiosi di una giornata a questo o quel santuario. Il più importante era il santuario dell SS. Crocefisso a Galatone dove si fa festa ancora ai primi di maggio; poi c’era quello di San Rocco di Torrepaduli, a metà agosto, e da ultimo, quando la raccolta del tabacco era ormai terminata ed i contadini potevano un po’ rifiatare, l’otto settembre, c’era la Madonna di Sanarica; si andava anche a Leuca, quando si poteva – almeno una volta nella vita lo si doveva fare! – ed al Santuario di Montevergine sulla Serra di Palmariggi. La gente si muoveva a piedi scalzi, perché non poteva permettersi il lusso di consumare quell’unico paio di scarpe che teneva custodite per il giorno del suo funerale, e portava con sé il pane ed anche un po’ di companatico: brodetti di peperoni o melanzane fritte. Partiva la mattina all’alba e tornava la sera ch’era già buio. A Leuca ed a Galatone, ch’erano un po’ più lontani, si andava con una vettura da noleggio, uno scerabbà. Le ferie non propriamente dedicate al culto religioso, due o tre giorni di fila al massimo, si prendevano per l’Assunta ed in quei giorni la gente partiva la mattina e si riversava sulla costa con ogni bendidio da mangiare. La sera, però, tornava sempre a casa.

Salvia trilobata (ph Giorgio Cretì)

Alla Tumara la raccolta del tabacco quell’anno era terminata; ormai era rimasto soltanto qualche cannicciodii canne (cannizzu) di fichi da seccare, oltre a qualche lavoro nella vigna. Adesso si poteva veramente rifiatare e la Madonna delle Grazie, la Madonna di Sanarica, cadeva proprio nel momento più propizio. Quell’anno partirono tutti, grandi e piccoli, rimasero lì alla Tumara soltanto Uccio e suo zio Donato.

Uccio aveva raccolto i fichi maturi dal culummu nero che, insinuatosi con le sue radici in una fessura della roccia, lussureggiava maestoso presso l’angolo che si formava tra i fondi Montepozzello e Cinesi: ad ogni raccolta quell’albero, da solo, dava tre cannicci di fichi spaccati ed era una specie di brogiotto nero unifero, che non produce fioroni, con frutti particolarmente adatti ad essere seccati. Uccio stava all’esterno e suo zio, ch’era tornato dalla vigna con una bisaccia d’erba per la capra, stava ora dentro al seccatoio sistemando certi telai del tabacco che s’erano schiodati o erano andati fuori squadra con il peso e con il sole. Dalla parte dei Cinesi salì un questuante con un sacco in spalla, di quelli che allora giravano per le campagne a raccogliere derrate per la festa di un santo.

“San Rocco!”, il forestiero disse quando arrivò vicino al ragazzo.

Uccio chiamò suo zio.

“Zio Donato, esci che c’è uno per San Rocco”.

Suo zio si affacciò sull’uscio con in mano un martello e rivolto al nuovo venuto disse: “Che cosa ti serve?”.

“San Rocco!”, disse quello.

“E’ passato”, disse lo zio, e intendeva ch’era già passata la festa.

“Da che parte è andato?”, chiese quello che non aveva capito.

“E’ andato di là con un sacco in collo”, lo zio concluse dando un’occhia d’intesa al nipote.

“Mannaggia la prima donna. Quando lo trovo, per il patretercu, …”, disse il forestiero e se n’andò bestemmiando tra i denti. Uccio a stento riuscì a trattenere il riso, sapeva che suo zio più di una volta si divertiva a prendere in giro il prossimo.

Le donne andando via la mattina avevano lasciato a zio e nipote le istruzioni per la giornata: “Scoprite i fichi e attenti al tempo…”.

“Sì, sì non preoccupatevi, andate tranquille”.

Non pioveva da mesi ed il cielo era terso e luminoso come ogni altro giorno.

Tolti i cannizzi di paglia, messi lì la sera per riparare i fichi spaccati di fresco dall’umidità della notte, ed assolte ciascuno per suo conto altre faccende, zio e nipote consumarono un’abbondante zuppa fredda fatta con patate lesse, pomodori, cipolle e peperoncino, e poi scrutarono il cielo come facevano spesso per abitudine. C’era qualche lembo bianco di nuvola qua e là ma non si era ancora formato nessun cumulo tale da impensierire. Lo zio si accese la pipa di creta e si distese sulla littera, poi quasi subito posò la pipa in terra, si abbassò la coppola sugli occhi e si addormentò supino. Uccio, che fumava di nascosto, approfittò del momento di tranquillità per diseppellire il suo tabacco e trinciarlo con calma; quindi lo sistemò in un borsellino di pezza e lo nascose di nuovo. Diede un’ultima occhiata al cielo, disse “Mah” e si sdraiò anche lui. Si addormentarono perché non avevano preoccupazioni particolari.

Non si sa quanto dormirono, forse un bel po’, finché il ragazzo non percepì un toc toc toc familiare. Pioveva.

Schizzò subito fuori pensando ai cannicci dei fichi che bisognava prendere in due per portarli dentro.

“Zio Donato, zio Donato… Piove”.

Lo zio si svegliò e venne subito sull’uscio.

“Come piove?!”, esclamò.

“Zio Donato, alzati che sta piovendo. Sta dilluviando”.

In effetti dai cannizzi colava acqua che subito aveva preso il colore dell’aceto.

“Ormai”, disse lo zio Donato quando si rese conto della situazione, “ormai non c’è più niente da fare, abbiamo fatto il pancotto. Sai cosa facciamo adesso? Ci sediamo qui, tu di là ed io di qua, e ci godiamo lo spettacolo”.

Ed osservarono la pioggia cadere copiosa e formare rigagnoli veloci dopo aver inzuppato il suolo polveroso. Nemmeno un tuono di avvertimento come succedeva spesso quando pioveva d’estate!

Come era prevedibile, al ritorno dei pellegrini zio e nipote se ne dovettero sentire di tutti i colori.

“Vi abbiamo lasciati qui in due apposta e siete stati capaci di bagnare i fichi! La mia meraviglia”, diceva la zia Nunziata, “non è tanto per il ragazzo…”, e via rimbrotti al marito.

“Noi non volevamo farli bagnare”, disse lo zio Donato dopo aver incassato in sislenzio per un po’. “Ci ha presi il sonno. Che cosa volete fare? Vuol dire che il prossimo anno a Sanarica andremo noi due e la guardia ai fichi la farete voi”.

La ruta e la malva, due farmacie a cielo aperto

di Armando Polito

nome scientifico:  Ruta graveolens L.       nome scientifico: Malva silvestris L.

nome italiano e dialettale neretino: ruta  nome italiano: malva

nome dialettale neretino: marva

Ruta è dal latino ruta(m), dal greco rytè che potrebbe essere connesso con rytér=protettore (con riferimento alle sue proprietà), a sua volta dal verbo rýomai=proteggere1. Graveolens (da grave=pesante+olère=mandar odore) significa di odore acuto.

Malva è dal latino malva(m) connesso col suo nome greco malàche, a sua volta collegato con malaké=morbida, tenera (con riferimento alle sue proprietà emollienti). Silvestris significa selvatica; la voce neretina presenta il passaggio –l->-r– (dalla liquida sonora alla vibrante sonora).

La ruta ogni mmale stuta2 (La ruta spegne ogni male).

La marva ti ogni mmale ti sarva (La malva ti salva da ogni male).

Questi due vecchi proverbi la dicono lunga sulle proprietà medicinali delle due piante e rappresentano la continuazione di conoscenze antiche che ne facevano quasi due erbe gemelle, dal momento che, come vedremo, molto spesso sono loro attribuite proprietà terapeutiche contro la stessa malattia. Non è un caso, perciò,  il fatto che a ciascuna di loro un naturalista come Plinio (I° secolo d. C.) dedichi esclusivamente un intero capitolo, senza contare le altre notizie fornite in ordine sparso.

Comincerò dalla ruta che vedremo proposta (lo stesso sarà per la malva) come rimedio contro un numero impressionante di malattie, dall’herpes zoster al mal di pancia, dalla dissenteria alle fratture, oltre che come anticoncezionale.

Essa fa la sua timida comparsa nel capitolo 37 del libro XIX: “Credono che

Grotte nel territorio di Salve (Lecce)

GROTTE  IN  LOCALITÀ  MACCHIE   DON CESARE  NEL  TERRITORIO  DI  SALVE

 

di Marco Cavalera – Nicola Febbraro

ingresso di Grotta Febbraro

Un programma di ricerca avviato, fra gli anni sessanta e settanta del secolo scorso, dal gruppo speleologico salentino “P. de Lorentiis” di Maglie, in collaborazione con l’Istituto di Archeologia e Storia Antica dell’Università di Lecce, ha interessato diverse aree del Capo di Leuca e fra queste alcune del territorio di Salve. Le ricerche di superficie hanno portato all’individuazione di un cospicuo numero di ripari sottoroccia, grotte e siti all’aperto, caratterizzati dalla presenza di depositi ad interesse paletnologico.

Fra le scoperte effettuate, rientrano alcune grotte individuate e segnalate, nel 1973, dai fratelli Antonio e Francesco Piccinno, in località Macchie Don Cesare (Salve); si tratta delle grotte denominate “Speculizzi I, II, III e IV”.            

Prendendo spunto dalle notizie d’archivio e bibliografiche a disposizione, è stata svolta una ricerca di superficie con lo scopo di individuarle e posizionarle più precisamente, integrandone  la documentazione. Fra le quattro citate sono state localizzate solo quelle note come “Speculizzi III e IV”.

 

Grotta Febbraro

Alla cavità denominata “Speculizzi III”, considerando l’incertezza sulla località di pertinenza, è stato assegnato il nome del proprietario del fondo dove è ubicata diventando, pertanto, Grotta Febbraro. Essa si sviluppa  nelle

Bambini

di Pino De Luca
 
Pomeriggio di primavera inoltrata in una qualunque strada alla periferia di un qualunque paese del sud degli anni ’60. Il sole è rovente e morde la strada bianca.

Qualche rara millecento passa sollevando code di polvere che impasta il naso e la bocca e costringe a sciacquarsi la gola alla fontanina pubblica. Nera, di ferro, con la manovella a molla e il fascio littorio fuso sopra, ricordo del “fascismo popolare” delle periferie.

Pomeriggio bollente, lungo e noioso, poca ombra dai muri delle case basse, bianche di calce, povere di mobili, secche di orpelli. Popolate da bambini e donne con la pancia gonfia e molti peli, ovunque. Pancia gonfia di legumi e cicoria di campagna e di frutti d’amore concepiti in amplessi rubati al tempo delle zolle e al fischio del treno che porta al Nord, “alla Svizzera” o “alla Germania” o ancora più lontano.

E cantieri aperti ovunque, distribuiti da un architetto ubriaco e prodigo. Cantieri per placare la fame di benessere e la rabbia di chi ha visto il lusso del bagno in casa, della doccia e del frigorifero. E lo vuole, lo desidera, lo brama nella coda di uno sviluppo che al sud, come tutte le cose, arriva ritardato e sgonfio.

Ultimo latte di mammelle succhiate a guance piene in altri luoghi, ultime gocce di nettare di un favo colmato da api operose e sfortunate, alcune delle quali portano nella memoria la dolcezza del miele odorato e, qualche volta, financo gustato.

Cantieri abusivi in una terra abusata, svuotata delle sue braccia più forti e lasciata a vecchi, bambini e vedove bianche. Terra di facile conquista per predoni e mascalzoni, terra di padroni avidi e gretti, avvezzi a tutelare il passato perché incapaci di immaginare il futuro. E uomini e donne indifferenti allo sfregio, ignavi e conniventi per timore e convenienza.

È il sud visto dagli occhi di un bambino, cresciuto in mezzo alla strada bianca, giocando giochi improbabili, a volte innocenti a volte crudeli. Con palloni di plastica acquistati alla festa del patrono, o massacrando a fiondate innocenti lucertole e passerotti di prima piuma.

I bambini cresciuti sulle strade bianche hanno combattuto, hanno conquistato il diritto alla vita, fra mille errori e mille sconfitte, senza risparmiarsi.

Poi è venuto il momento della stanchezza, della divisione e della frantumazione, le forze sono crollate.

E più di cinquant’anni sono trascorsi e di nuovo il sud si svuota, di braccia e di menti. Ma il mondo è cambiato, non ci sono più fontanine pubbliche, e le strade sono d’asfalto e di buche. Non partono più solo gli uomini partono tutti. Uomini e donne. E qui di nuovo i vecchi e pochi bambini. Le terre di nuovo violate da giganti ruotanti e specchi riflettenti.

Terre preda di nuovi padroni, ancora più avidi e violenti, ancora più ignoranti e prepotenti. E l’ignavia di chi guarda attonito e senza parole.

Non abbiamo più la stessa forza per lottare, non abbiamo la stessa innocenza ma abbiamo memoria.

Possiamo dire ai bambini di oggi che è possibile, in questa terra bellissima, un futuro luminoso. È possibile anche un presente migliore, noi ne siamo, ancora, testimoni.

Alzate la testa bambini, cittadini di oggi e non di domani. Alzate la testa e amate la terra vostra, non perdetevi dietro trofei effimeri come lucertole e passerotti. Entusiasmatevi per quello che fate, organizzatevi per distruggere il male che ammorba il sud, studiate come colpirlo senza pietà, questo mostro maledetto che lascia alle masnade il diritto di abbrutire la nostra luce, questo mostro maledetto che si chiama indifferenza.

Santa Maria Dell’Odegitria (Madonna del cammino)

di Onofrio Milella

LA MADONNA ODEGITRIA RAPPRESENTA L’ARCHETIPO FIGURATIVO DELLA VERGINE MARIA, MADRE DI DIO. LA SUA IMMAGINE E’ IL PRIMO RITRATTO CONOSCIUTO.

LA CORRETTA ETIMOLOGIA DEL NOME DERIVA DAL GRECO “ODOS”=VIA ED “EGHETER”=GUIDA, DA CUI L’APPELLATIVO POPOLARE DI “MADONNA DEL BUON CAMMINO”, CHE GLI VIENE COMUNEMENTE ATTRIBUITO, ED IL SUO TABERNACOLO ERA SPESSO POSTO IN PROSSIMITA’ DEGLI INCROCI FRA STRADE DIVERSE, PROPRIO PER INDICARE LA GIUSTA DIREZIONE AL VIANDANTE SPERDUTO E STANCO.

Quanto fin qui scritto è facilmente reperibile, tramite internet, su uno dei tanti portali che scorrono sul video cliccando “madonna dell’Odegitria”.

Io invece voglio raccontare di un evento che ci riporta ad alcuni secoli fa!

Questa storia ha il sapore di una favola perché è troppo lontana dalla convulsa vita odierna e troppo vicina ad un romanzo, eppure è talmente vera che ne è celebrata la memoria, annualmente, nella ricorrenza della Madonna dell’Odegitria, la terza domenica di Novembre, a Galatone in provincia di Lecce.

In questo piccolo paese, come in tutta la Terra d’Otranto, il culto della Madonna dell’Odegitria, nei secoli detta anche Madonna di Costantinopoli e, nella latinizzazione della dottrina cattolica Madonna dell’Idria, è stato sempre molto coltivato.

È noto a tutti il legame che ha unito la Terra d’Otranto all’Oriente e ai bizantini con la cultura, la mentalità e i costumi che, ancora oggi, caratterizzano antropologia, architettura e toponomastica dei nostri centri storici e, in alcuni casi, interi territori con la loro lingua dialettale.

Per meglio intendere il significato di quello che andrò a raccontare voglio brevemente contestualizzare l’episodio dal punto di vista storico e sociale.

Siamo negli anni 1690-1695, nel Regno di Napoli, all’epoca dominio spagnolo, governava il viceré Fernando Fajardo, marchese di los Valéz, già viceré di Sardegna. Regna in Spagna Carlo II, ultimo degli Asburgo, figlio di Filippo IV. È Papa regnante Innocenzo XII, al secolo, Antonio Pignatelli, già Cardinale a Napoli.

Le provincie erano suddivise in feudi demaniali e feudi privati. Nei feudi demaniali gli uffici pubblici erano spesso ceduti in gestione ai privati.

I giudizi di grado inferiore erano delegati a tribunali locali detti Regge Udienze, quelli di grado superiore erano svolti a Napoli presso la Vicaria, dove in nome del Re veniva pronunciato il giudizio di condanna o di assoluzione.

A Galatone, per tornare all’evento oggetto di questo racconto, in quegli anni era già dimorante e chiara nel paese la famiglia Tafurus (Tafuri), ramo cadetto dei Tafuri di Lecce. Era vivente il Dottore Don Orazio Tafuri che, dal matrimonio con Donna Caterina Farata, aveva avuto tre figli maschi, Gioacchino nato il 14 marzo 1670, Niccolò Francesco e Giulio Cesare. Gioacchino, essendo primogenito, si laureò in diritto civile per ereditare possedimenti e titoli, gli altri due si laurearono in diritto civile ed ecclesiastico per divenire prelati.

La famiglia Tafuri, oltre ad avere proprietà e parentele tali da essere considerata una delle più potenti in Terra d’Otranto, godeva di privilegi e uffici in concessione in diverse Università.

Più che ventenne, Gioacchino fu accusato, da un componente di una famiglia rivale, di conio e spaccio di moneta falsa, condotto a Napoli nelle carceri della Vicaria, si proclamò sempre innocente e tale lo ritenne la sua famiglia.

Per sostenere la difesa a Napoli, furono impiegati tutti i mezzi a disposizione, economici, professionali e, non per ultimo, si ricorse al Patrocinio della Madonna con messe, orazioni e pubbliche suppliche. Quando si era verso la fine della causa, davanti alla Gran Corte della Vicaria, pare che non fosse durata a lungo, si presentò una donna di nobile aspetto, vestita di nero, avendo superato le guardie ed essendosi avvicinata senza alcun impedimento al Preside della Corte e chiedendo di poter testimoniare a favore dell’imputato Gioacchino Tafuri. La richiesta fu accolta e la testimonianza fu talmente valida e dimostrativa dell’innocenza dell’imputato che la Corte assolse Gioacchino per non aver commesso il reato, ordinandone l’immediata scarcerazione.

Tutto sembrerebbe ordinario, ma la straordinarietà dell’episodio è data dall’apparizione nell’aula di questa donna che nessuno conosceva, compreso lo stesso Gioacchino. Qualcuno potrebbe ipotizzare che la donna sia stata una testimone della difesa, come si direbbe oggi spontanea che, conoscendo i fatti, abbia agito liberamente a favore di un innocente. Se si analizzano attentamente le circostanze, è facile capire che dietro quella presenza qualcosa di eccezionale si era verificato. Siamo alla fine del XVII secolo, nella colonia della Spagna conservatrice, dove le donne difficilmente erano considerate, nella Vicaria dove ogni ingresso era controllato da guardie che non consentivano ad alcuno l’accesso in quei luoghi.

A ogni buon conto, giunta a Galatone la novella prima dello stesso Gioacchino, tutti i paesani e la famiglia Tafuri, attribuirono l’evento all’intercessione della Madonna e che, ella stessa, fosse la Signora presentatasi a testimoniare.

Per questa singolare grazia fu fondato un LEGATO PIO in perpetuo, per volere di Orazio Tafuri, padre di Gioacchino, che lasciò ai suoi eredi l’incarico di fondarlo, con l’obbligo di sette messe piane, nel giorno del Patrocinio di Maria, la terza Domenica di Novembre: le sette messe simboleggiano i sette dolori di Maria e dovevano essere celebrate anche per suffragio ai defunti della famiglia Tafuri.

Il legato pio prevedeva un capitale censo iniziale di Ducati 50, con interessi di Ducati 4,5 annui. Tale importo era elevatissimo; se si pensa che l’elemosina ordinaria per una messa era di 1 Carlino con 4,5 Ducati si sarebbero potute celebrare ben 45 messe, senza tener conto del capitale iniziale.

Per concludere il racconto, il nostro Gioacchino, in seguito fu Sindaco di Galatone per ceto nobile dal 1696 al 1697, dal 1703 al 1705 e dal 1712 al 1713. Il 6 Novembre 1695 sposò la nobile Anna Maria Antonia Leuzzi di Galatone. Fu sempre rispettato in paese come persona onesta e saggia, dedicò la sua vita alla famiglia, alla gestione dei suoi beni e all’osservanza dei suoi doveri religiosi.

Ancora oggi, gli ultimi discendenti della famiglia Tafuri di Galatone, pur essendo stati aboliti i legati pii, fanno celebrare, nella terza Domenica di Novembre, la messa in memoria dell’episodio attribuito al miracolo della Madonna e per suffragio ai defunti Tafuri.

Per quanto mi ricordi, non ho mai mancato di partecipare alla celebrazione della terza Domenica di Novembre, nella quale è evocato il racconto sopra scritto e, la chiesa di Galatone insieme ai Tafuri ha caparbiamente, contro la trascuratezza per il passato dei nostri giorni, voluto mantenere viva nella coscienza dei fedeli l’importanza dell’affidamento alla Madonna in ogni circostanza, anche quando tutto sembra perduto o tutto sembra essere contro.

Io nelle situazioni più disparate ho avuto certezza che la Vergine con il Suo Figliolo intervengano potentemente a dipanare ogni situazione grave, specialmente li dove vi siano casi di ingiustizia e di sofferenza.

Quel che è utile sapere sul cavolfiore

di Antonio Bruno

Il Cavolfiore del Salento leccese (Brassica oleracea L. conv. botrytis (L.) Alef. var. botrytis L.)

 

Il cavolfiore appartiene alla famiglia delle Brassicaceae (genere Brassica, specie oleracea L., varietà botrytis L.) e deriva da piante selvatiche originarie del Medio Oriente e del Bacino del Mediterraneo. Fin dai tempi più antichi, a questa pianta erano attribuite proprietà benefiche. Il cavolo era, infatti, considerato una vera panacea, utile a curare ogni sorta di male: Ippocrate, padre della medicina, lo prescriveva per coliche e dissenteria; Catone il Vecchio sosteneva che i Latini, grazie alle proprietà curative di questo ortaggio, per secoli avevano fatto a meno del medico e, in genere, i Romani lo

Ancora sulle ortiche…

Ancora su “la cantarìnula”

 

di Armando Polito

nome italiano: ortica

nome dialettale neretino: irdìcula e cantarìnula

nome scientifico: Urtica urens L.

famiglia: Urticaceae

 

Etimologie:

ortica viene dal latino urtìca(m),che per alcuni filologi è di origine sconosciuta, da altri viene connessa col verbo ùrere=bruciare.  Se quest’ultima proposta è ineccepibile sul piano semantico, a prima vista appare inconciliabile con la fonologia, anche perché il supino (modo dal quale normalmente si formano sostantivi ed aggettivi derivati) di ùrere è ustum (da cui ùstio/ustiònis=ustione) e nulla giustificherebbe  un ipotetico passaggio *ustìca>urtìca; si tratterebbe, insomma di una vecchia1 paretimologia (etimologia popolare) periodicamente rimessa in campo senza alcun fondamento scientifico.

irdìcula suppone un latino  *urtìcula, diminutivo del precedente urtìca, con normalissimi passaggi u->i– (probabilmente non è da escludersi pure l’incrocio con verde) e –t->-d-. Lo stesso nome designa pure l’ortica marina; irdìcula è ben distinto da irsìcula che è il nome di un fungo e che è diminutivo del latino tardo bursa=borsa (per evidentissima analogia di forme), dal greco byrsa=pelle conciata. Per cantarìnula, Urens e Urticàceae vedi il post La cantarìnula del 9 dicembre 2010, di cui questo è integrazione (https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/29/lortica-tanti-nomi-dialettali-per-una-pianta-che-brucia/).

Talvolta capita di incontrare persone a prima vista poco simpatiche, scostanti, per non dire sgradevoli e di scoprire, dopo averne approfondito la conoscenza, che dietro quella scorza di rozzezza si nascondeva un tesoro di umanità. Capita pure a uomini e donne di incontrare qualche esemplare dell’altro sesso (o, con i tempi che corrono, dello stesso…) e di restare lì per lì attratti, anzi fulminati dal suo sex-appeal, salvo ricredersi non appena il presunto campione di bellezza comincia ad aprir bocca (e non certo per una dentatura non impeccabile…) e, al contrario, scoprire il fascino sottile di chi, pur non essendo esteticamente in regola, ha tanti pregi da far dimenticare l’unico difetto (se di difetto si tratta…). Se dovessi indicare una pianta che immeritatamente evoca nei suoi confronti un iniziale atteggiamento negativo da parte dell’uomo, senza esitare farei il nome dell’ortica. Il suo aspetto è, tutto sommato, insignificante ma sono i tricomi (peli) delle foglie e del fusto che, contenendo una sostanza irritante, ne rendono antipatico un incontro ravvicinato. Poi, come si sa, la voce si sparge e la reputazione è rovinata per sempre, tanto che urticante diventa sinonimo, più usato, di irritante, e orticaria indica una patologia nella cui eziologia entrano svariate sostanze, in qualche caso, addirittura, di difficile identificazione. Né la pianta può rallegrarsi di essere stata assunta a simbolo di sentimento spiacevole addirittura da Dante (Divina commedia, Purgatorio, XXXI, 85):  Di penter sì mi punse ivi l’ortica, tanto meno sentendosi usata in nessi come ci crescono le ortiche (in riferimento ad un terreno incolto) e gettare la tonaca alle ortiche (spretarsi).

Eppure, improvvisamente il cervello si illumina e diventiamo più tolleranti nei confronti di quest’erba solo a leggere su un flacone shampoo alle ortiche. Ormai di fronte ai componenti più strani che si leggono sulle etichette non battiamo ciglio e compriamo sulla fiducia. Nel caso del nostro shampoo, però, non si tratta di una fiducia mal riposta, sempre che nel flacone ci sia veramente una parte di estratto di ortica…

Ho cominciato a parlare delle proprietà della nostra erba partendo, in senso letterale, dalla nostra testa. Sarà meglio, però, cambiare rotta e cominciare, come al solito, dalla testa di altri, ma in senso metaforico.  Di Plinio si disse nel primo post2, ma l’uso dell’ortica in tempi antichi trova conferma, oltre che nella letteratura scientifica, anche in quella propriamente detta: Catullo (I° secolo a. C.): “Qui mi sconquassarono il raffreddore e la tosse insistente finché non mi rifugiai nel tuo [del podere] seno e mi curai a lungo col riposo e con l’ortica”3. In Giovenale (I°-II° secolo d. C.) compare come sinonimo di evento nefasto: “Da dove, o Gradivo [Marte], questa ortica toccò i tuoi nipoti?”4 e di libidine “…eccitazione del desiderio che langue e pungenti ortiche del ricco…”5.

Petronio (I° secolo d. C.), dal canto suo, sembra anticipare Donatien-Alphons-François de Sade: “Enotea tira fuori un fallo di cuoio e dopo averlo cosparso di olio, pepe in polvere e seme pesto di ortica comincia ad inserirmelo pian piano nel didietro. Subito dopo la crudelissima vecchia mi spalma quell’intruglio sui genitali, mescola succo di nasturzio con abrotano e dopo avermi lavato i genitali con questa miscela prende un fascio di ortiche verdi e comincia a darmi lente frustate dall’ombelico in giù”6.

Tornando ad immagini più usuali, le proprietà medicinali dell’ortica trovano ospitalità anche tra i precetti della Scuola medica salernitana (XII-XIII secolo), che, comunque, nulla aggiunge a quanto detto dai precedenti autori: ”[L’ortica] procura il sonno agli inquieti, elimina pure il vomito e il suo ripetersi, il suo seme con miele cura i sofferenti di coliche. Cura anche la tosse cronica se è bevuto spesso. Elimina il raffreddore, il gonfiore del ventre e giova a tutte le malattie articolari.” 7

Nulla hanno aggiunto (d’altra parte sarebbe stato veramente difficile, anche se non manca qualche criminale che, magari, pretende di guarire con l’ortica anche il cancro, entrando in concorrenza con chi in tempi recenti ha preteso di farlo col bicarbonato… ) neppure gli studi fitoterapici moderni, sicché, per riassumere, la nostra erba è utile per depurare il sangue e la pelle, contro emorragie (emottisi, epistassi, metrorragie), anemia, astenia, diabete, emorroidi, reumatismi, artrite, gotta, disturbi dell’apparato intestinale, per facilitare la diuresi, per aumentare la secrezione della bile e favorire la funzionalità epatica, per aumentare la secrezione lattea, contro il mal di denti e l’afta, contro la calcolosi renale, contro la forfora e la caduta dei capelli, contro l’acne.

Anche in cucina l’ortica si prende la sua brava rivincita nella preparazione di minestroni, zuppe e frittate, anche se pare che la sua morte più gloriosa sia nella preparazione del risotto (solo il comune amico Massimo Vaglio potrà confermarlo o meno).

Non è finita: secca è ottima per l’alimentazione del bestiame, avendo un valore nutritivo superiore a quello del fieno e stimolando, a quanto pare, il sistema immunitario (altro che farina animale…), oltre che in grado di aumentare, come già s’è detto per la donna, la secrezione lattea; piantata con altre specie officinali ne accresce il contenuto di olii essenziali;  è un ottimo fertilizzante e tiene lontani gli afidi.  Fino alla metà almeno del XIX° secolo, infine, se ne ricavava una fibra tessile rozza ma resistente8.

Mi sono accorto che questa integrazione, come il post principale,  rischia di essere un po’ troppo seriosa. La chiuderò, perciò, con un graffito pompeiano; sento il dovere, però, di mettere in guardia il lettore più sensibile (o puritano?) avvertendolo che poi, se continua a leggere, non deve mostrarsi scandalizzato per un gioco di parole, di quasi duemila anni fa, appena appena volgare (roba, comunque, come si diceva una volta, da educande se raffrontata con certa altra spudoratamente presentata in tv e sovente spacciata per arte…).

C.I.L.9, 8899

Questo graffito fu rinvenuto al n. 4 dell’insula 5 della regio 3 sul muro di un edificio sepolcrale. Si tratta di due distici elegiaci, dei quali seguono la trascrizione e la traduzione (trascuro, per questa volta, la scansione metrica):

HOSPES ADHUC TUMULI NI MEIAS OSSA PREC[ANTUR]

NAM SI VIS (H)UIC GRATIOR ESSE CACA

URTICAE MONUMENTA VIDES DISCEDE CACATOR

NON EST HIC TUTUM CULU(M) APERIRE TIBI

O PASSANTE, LE OSSA DEL TUMULU CHIEDONO ANCHE CHE TU NON VI FACCIA SOPRA LA PIPÌ.10

PERCIÒ, SE VUOI FARE COSA PIÙ GRADITA, CACA.

TU STAI VEDENDO IL SEPOLCRO DI ORTICA11:

QUI PER TE NON È SICURO APRIRE IL CULO!

Insomma, l’ortica fu (e forse lo è ancora oggi…)  in grado di ripristinare, col suo energico intervento,  perfino il rispetto dei morti!

_______

1 Antonius Nebrissensis, Dictionarium redivivum, Escribano, Madrid, 1778,  pag. 835, alla voce Urtica: Etiam Urtica genus piscis marini inde nomen habens, quod tactu uredinem excitet, quemadmodum eiusdem nominis herba (L’ortica è anche un genere di pesce marino che prende il nome dal fatto che al tatto procura bruciore, come l’erba che ha lo stesso nome). L’urèdinem del testo è il caso accusativo di urèdo che è dal tema di ùrere (ur-)+il suffisso –edo; se il tema di urèdo fosse stato ured– avremmo potuto ipotizzare la seguente trafila: *urèdica (ured+il suffisso aggettivale –ica)>*urdìca (sincope della sillaba tonica, fenomeno di per sé raro)>urtìca (passaggio –d->-t-), ma il problema è che il tema di urèdo non è ured– ma uredin-. D’altra parte, ad avvalorare l’ipotesi della paretimologia, vengono in soccorso le varianti dialettali salentine ardìca (Alessano e Spongano e Otranto) dove è evidente l’incrocio tra i latini urtìca e ardère=ardere (stesso concetto di ùrere). Ancora più inaccettabile, poi appare la proposta a suo tempo formulata da Francesco Ambrosi, Flora del Tirolo meridionale, Sicca, Padova, 1857, pag. 146: Il nome Urtica deriva dal latino urere (bruciare), e da tactus (tatto), riportandosi al bruciore che produce la pianta toccandola.

2 Nel mondo greco l’ortica era chiamata knide (da knizo=grattare, infiammare, tormentare) o akalèfe (probabilmente parola composta la cui prima parte è da ravvisarsi nell’antica radice ak- indicante cosa che punge).  Vale la pena di riportare solo le testimonianze poetiche. Per la prima:  Teocrito (III° secolo a. C.), Idilli, 7, 110: “Che tu possa grattarti con le unghie tutto il corpo e possa dormire nell’ortica…” e Nicandro (probabilmente II° secolo a. C.), Antidoti, 201-202: “E dopo aver tritato finemente semi di pepe e di ortica, distribuiscili…”. Per la seconda: Aristofane (V°-IV° secolo a. C.), Vespe, 884: “…che tolga l’ortica alla sua ira…”.

3 Carmina, XLIV, 15: XLIV, 13-15 Hic me gravedo frigida et frequens tussis/quassavit usquedum in tuum sinum fugi/et me recuravi otioque at urtica.

4 Saturae, II, 127-128: Unde/haec tetigit, Gradive, tuos urtica nepotes?

5 op. cit., XI, 165-166: inritamentum Veneris languentis et acres/divitis urticae…

6 Satyricon, 138: Profert Oenothea scorteum fascinum, quod ut oleo et minuto pipere atque urticae trito circumdedit semine, paulatim coepit inserere ano meo; hoc crudelissima anus spargit subinde humore femina mea, nasturcii succum cum abrotono miscet perfusisque inguinibus meis viridie urticae fascem comprehendit omniaque infra umbilicum coepit lenta manu caedere.

7 Regimen sanitatis, LXV: Aegris dat somnum, vomitum quoque tollit et usum/illius semen colicis cum melle medetur./Et tussim veterem curat, si saepe bibatur./Frigus pulmonis pellit, ventrisque tumorem,/omnibus et morbis subvenit articulorum.

8 Pietro Monti, Vocabolario dei dialetti della città e diocesi di Como, Società tipografica de’ classici italiani, Milano, 1845, pag. 166, alla voce  Ortichetta: Tela grossolana e brunastra di lino simile alla tela, che si fece talvolta della scorza filata delle ortiche; Francesco Ambrosi, op. cit. in nota 1: I fusti macerati danno un tiglio [fibra] chìè analogo negli usi a quallo della canapa e del lino.

9 Per i non addetti ai lavori: è l’acronimo di Corpus Inscriptionum Latinarum, la più ampia raccolta di iscrizioni latine.

10 L’abitudine degli antichi (?), nonostante, allora come ora,  la legge non lo permettesse, di soddisfare per strada i loro impellenti bisogni è attestata da altri graffiti  e da avvisi ufficiali presenti all’angolo delle strade. Come potevano sottrarsi a questo vizietto i cimiteri che, di regola, erano siti fuori porta? Sull’argomento vedi il post La mondezza a Pompei in http://www.vesuvioweb.com/new/IMG/pdf/La_mondezza_a_Pompei.pdf

11  Il nome, non è, come si potrebbe pensare, inventato per l’occasione come deterrente per l’eventuale maleducato: una Maria Urtica è attestata a Roma (CIL VI, 22200), un Publius Urtica ad Aquino (CIL X, 5536), una Attia Urtica ad Assisi (CIL XI, 5455), e, fuori d’Italia, una Auruncia Urtica in Gallia narbonese (CIL XII, 4598) e Aurelia Urtica in Tripolitania (AE 2003, 1922); attestato, ove non bastasse, anche il diminutivo  Livia Urticula a Roma (CIL VI, 29562). Tutto ciò, naturalmente, rende ancor più pregnante il gioco di parola e più sottile l’ironia cui contribuisce anche la forma poetica del testo che, oltretutto, è la parodia dell’epitaffio posto sul cippo di Giulia Fericula e del marito Evaristo a Roma (CIL VI, 2357): HOSPES AD UNC TUMULUM NI MEIAS OSSA PRECANTUR/TECTA HOMINIS SET SI GRATUS HOMO ES MISCE BIBI DA MI (O passante, le ossa sepolte di un uomo chiedono che tu non orini presso questo tumulo. Se sei un uomo di buoni sentimenti versa (del vino), bevine e offrimene!).

Incontri d’autunno, Mogol: 50° di attività professionale

 

 

 

di Ermanno Inguscio

L’impatto mediatico sull’attività professionale di artisti della parola (e della musica) come quella del milanese Mogol (pseudonimo di Giulio Rapetti, aggiunto dal 2006  all’originario cognome) non è mancato, né era facile annullarlo, noto com’è il personaggio presso il grande pubblico se non altro per il sodalizio istituito a suo tempo con Lucio Battisti. In questi giorni di novembre, infatti, emittenti televisive e testate della carta stampata hanno dato grande risalto all’importante traguardo raggiunto in Italia dall’artista milanese, il quale, in un pomeriggio domenicale, il 4 novembre 2012, con un ristretto gruppo di amici, ha lasciato la fredda Milano per rifugiarsi a Saronno, in anonimato, nel Santuario della Vergine dei Miracoli, grande contenitore di opere d’arte del Cinque e Seicento italiano. Qui, l’abbiamo incontrato di persona, apprezzandone soprattutto l’umiltà e la cordiale semplicità dei grandi.

 

L’umida sera novembrina a Saronno, cittadina del varesotto lombardo, scivola verso la sua conclusione di domenica trascorsa con persone care e con emozioni vissute in ambito familiare. Un tappeto autunnale di foglie d’acero cadute in terra ci porta, dall’abitazione di una delle mie figliole, sino al Santuario mariano della Vergine dei Miracoli, sul cui sagrato si assiepa già una delegazione ufficiale di quel Comune, pronta per entrare nel tempio.

 

Tra i tanti convenuti ci sono  Mogol e uno sparuto gruppo di suoi amici. Capitiamo per caso, nelle prime file di banchi, seduti accanto nello stesso banco, subito dopo la selva di stendardi municipali e le numerose Associazioni combattentistiche. Il comune bisogno di raccoglimento e l’emozione per la data del 4 novembre, che riporta al sacrificio dei tanti Caduti, c’impediscono, all’inizio, persino quel pizzico di curiosità che ti abilita a distrarti nella individuazione delle persone presenti. Solo in fase di saluto finale ci siamo finalmente resi conto a chi avevamo stretto la mano. Proprio a Giulio Rapetti Mogol. Egli festeggia, infatti, proprio in questi giorni, i suoi 50 anni di fervida attività professionale. Figlio d’arte (suo padre Mariano era un importante dirigente della Casa editoriale musicale Ricordi), cominciò la sua avventura come impiegato della Ricordi Radio Record. Si era subito imposto all’attenzione del pubblico, come autore di testi musicali, ottenendo sin dal 1961 successi al Festival di Sanremo con Al di Là, scritta con il maestro Carlo Donida e interpretata da Luciano Tajoli e Betty Curtis. Misuratosi come traduttore di testi dall’inglese specie di musica di colonne sonore di films  e di brani di Bob Dylan e David Bowie, nel 1965 istituì il fortunato sodalizio musicale con Lucio Battisti. Interrotto nel 1980 il rapporto con quest’ultimo, operò come autore di testi con Riccardo Cocciante e Gianni Bella. Alla fine degli anni 1990 divenne autore di molti dei testi di canzoni di Adriano Celentano. Dal 1975 ha fondato (con Morandi, Mengoli e Baglioni) La Nazionale italiana Cantanti, con cui ha avviato l’importante Centro Europeo Toscolano (CET), sede di riferimento per artisti, cantanti e musicisti.

 

La sera del 4 novembre, con  Gabriella Marazzi ed un gruppo di amici milanesi, egli  recato a far visita alla “Madonna dei Miracoli” del famoso Santuario mariano lombardo. Lui che è, per noi mortali, fruitori di musica, uno dei “miracoli” della buona musica italiana.

Non mi aveva sorpreso, all’ingresso nella Basilica di Saronno, l’ordinato corteo presieduto di persona dal sindaco, Luciano Porro, con tanto di fascia tricolore, tra stendardi del Comune e quelli delle Associazioni di Combattenti (Esercito, Marina ed Aviazione). Tutti s’erano immessi nel silenzio del tempio, rotto dal grave fragore delle campane in cima alla superba struttura del campanile (1511) di Paolo della Porta, ritenuto uno dei più bei campanili lombardi. E’ toccato proprio al “Santuario della Vergine dei Miracoli”, quest’anno, essere il contenitore, il 4 di novembre, della celebrazione comunale in Saronno per la Festa delle Forze Armate. In breve resta vuoto il sagrato dell’imponente Santuario mariano, sotto il vigile sguardo del tiburio di Antonio Giovanni Amadeo (1505), che sovrasta la grande cupola e domina la parte rinascimentale della chiesa e la maestosa facciata disegnata da Pellegrino Tibaldi. All’interno il tempio è gremito di cittadini, autorità, delegazioni civili e militari, sotto le tre navate di Vincenzo Seregni (1566), mentre l’organo a canne, suonato da un abile maestro, sottolinea ogni passaggio dell’intera manifestazione liturgico-celebrativa. Un vero scrigno d’arte questo Santuario mariano, che ho imparato ad amare da una decina di mesi a questa parte, dacchè ritorno periodicamente in Saronno per  raggiungere la mia secondogenita. Confesso di distrarmi facilmente, ora, all’interno della chiesa e di sottrarre spesso tempo al raccoglimento, mentre con il naso all’insù ammiro le opere di scultura (specie lignea), di pittura e di decorazione dei più importanti maestri lombardi, al colmo della loro piena maturità artistica: Bernardino Luini (affreschi dell’abside, del presbiterio e dell’ antipresbiterio), Gaudenzio Ferrari (il Paradiso festante della grande Cupola, del 1535) con gli affreschi di 86 angeli cantanti e musicanti, 30 puttini danzanti e 10 cherubini, soggetti raffigurati, con ben cinquanta diversi strumenti musicali; Bernardino Lanino (1547) con i dipinti delle serliane e dell’organo. E poi gli intagli, nelle nicchie del tamburo, di Giulio Oggioni delle ventidue statue di profeti e sibille.

Si fa ascoltare il celebrante, il nuovo Rettore del Santuario fresco di nomina, don Sebastaino Del Tredici, nell’omelia nella quale si ricorda che il 4 di novembre è anche la festa di San Carlo Borromeo, che da cardinale aveva dimorato per due giorni proprio in Saronno ed aveva rivolto ai suoi abitanti un accorato appello alla frequenza e devozione al già rinomato santuario mariano. Il tempo vola in fretta, quasi più del solito delle Messe vespertine frequentate di domenica, e già mi trovo,  dopo l’omelia, così è nella liturgia ambrosiana che vige anche a Saronno, a dover “scambiare un segno di pace” con i vicini di fila e gli sconosciuti della fila davanti e di dietro. Il sottrarsi a tale compito sconfesserebbe  chi si reca in chiesa e lo collocherebbe tra i campioni della maleducazione. Un signore alto, attempato, ma distinto e affiancato da una signora, che dev’essere sua moglie, si gira e mi rivolge il saluto di rito, che ricambio. Non lo riconosco, pur avendo appreso che è presente in Santuario anche un gruppo di milanesi, che ha chiesto al Rettore di poter visitare, in questo pomeriggio novembrino, il famoso Santuario della Vergine dei Miracoli. Mentre io sono assorto nell’ammirare, alla recita comunitaria del Padre Nostro, l’Ultima Cena lignea (1531) dell’intagliatore Andrea da Milano e le decorazioni di Alberto Meleguli, opera di spicco di una delle Cappelle Laterali (da me distante appena due metri), quel signore ha chiesto di tenere nella sua sinistra la mano destra di mia moglie, e nell’altra quella della compagna, per la durata della preghiera cristiana per eccellenza. A conclusione della serata quel garbato signore ci saluta con una stretta di mano e ci tiene a dire, in modo affabile, e spera, che la richiesta del gesto di fratellanza non abbia infastidito nessuno.

 

Un incontro inaspettato e sereno, il nostro, con un personaggio,  il paroliere Mogol, ch’è si è subito diretto verso la sua Milano, dietro un sorriso, sciamando leggero, con un pugno  di suoi amici, tra il cadere delle foglie rossicce sul sagrato a rinnovare il miracolo dell’autunno.                                      

 

 

 


La stanza del naturalista, un thriller di Pier Francesco Liguori interamente ambientato a Maglie

“Un Salento luminoso, la cui luce abbagliante non viene offuscata neanche dai delitti più efferati. Pier Francesco Liguori, con stile accattivante ed una scrittura scorrevole e colta, emoziona il lettore con la delicatezza della narrazione anche quando i suoi protagonisti affrontano i più raccapriccianti e oscuri misteri”

Jefferson E. Kronemberg, Italian Mystery Novels, Word Press, 2012

 

TRAMA

Teodoro De Angelis è un biologo con l’hobby dell’allevamento delle farfalle, soddisfatto della propria vita, che scorre tranquilla in una piccola città di provincia, e del suo lavoro di insegnante di scienze. Quando la preside del suo liceo gli chiede di riordinare le collezioni naturalistiche della scuola, Teodoro non ci pensa due volte ed accetta l’incarico con entusiasmo.

Tra i preparati tassidermici che il professore si appresta a restaurare c’è anche un grande serpente, opera di Gregorio Sebastio, un naturalista vissuto alla fine dell’800, la cui memoria in paese è sempre stata avvolta da un alone di mistero.

De Angelis scopre, proprio durante il restauro del serpente, che il rettile racchiude in sé molti segreti, non solo scientifici, e per riuscire a svelarli chiede aiuto a Monsignor Eugenio Guarnera, suo ex compagno di studi, ora Prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana, che a sua volta coinvolge nella ricerca l’archeologo Luca Leonardi, una sua vecchia conoscenza.

I tre amici, eccitati dall’inaspettata ed intrigante avventura, si troveranno ben presto a dipanare un groviglio di intricati misteri che affondano le loro radici molto indietro nei secoli e ad indagare, loro malgrado, su alcuni efferati delitti che funestano la calda estate della piccola, tranquilla città di provincia.

 

L’AUTORE

Pier Francesco Liguori (Maglie, Lecce, 1959) è un antropologo fisico che vive a Torino ed attualmente si occupa di archeologia ed antropologia forensi applicate ai crimini di guerra nell’ambito di un’agenzia dalle spiccate connotazioni internazionali.  Ha al suo attivo numerose pubblicazioni scientifiche ed alcuni saggi storici. Con lo pseudonimo di Vittorio L. Perrera ha pubblicato nel 2010, per i tipi di Ananke, il thriller archeologico Il custode delle reliquie .

 

 

Il sito del libro  www.lastanzadelnaturalista.it

 

Titolo: La stanza del naturalista

Autore: Pier Francesco Liguori

Editore: ANANKE

Data di Pubblicazione: Novembre 2012

ISBN: 8873255019

ISBN-13: 9788873255017

Pagine: 270

Formato: brossura

La cicoria di Galatina

Cicoria di Galatina (Chicorium Intybus, Cv. Catalogna) : il “subbra taula” del Salento leccese

di Antonio Bruno

La “Memmi te Galatina”. Così mia nonna era conosciuta a San Cesario di Lecce perchè il suo papà Giovanbattista Gabellone, mio bisnonno, faceva il fruttivendolo e mio padre mi raccontava che spesso lo aiutava ad innaffiare gli alberi e le verdure “allu sciardinu” che gestiva in fondo a Via Umberto I, più nota agli indigeni come “la spallata”. Il mio bisnonno tra le altre piante aveva portato con se dalla natia Galatina la cicoria che avrebbe venduto come “subbra taula”.
Tu che sei del Salento leccese con ogni probabilità sai benissimo che cosa sia il “subbra taula”; traduzione: SULLA TAVOLA. Ma se sei un Salentino leccese troppo giovane, oppure se non sei di queste parti, cosa sia “lu subbra taula” non lo sai: ed ecco che io ti svelerò l’arcano!
In inverno quando non c’era la globalizzazione che ti fa arrivare la frutta da ogni parte del mondo e quando ancora non c’erano le serre che in un ambiente artificiale ricreano le condzioni climatiche dell’estate la frutta del Salento leccese era lu “subbra taula” ovvero il dopo pasto che poteva essere una serie di finocchi, oppure una serie di sedani ma anche una bella CICORIA MAMMALURA ovvero la cicoria di Galatina (catalana).
Ma la bellezza te lu subbra taula (traduzione: del sopra la tavola) è che deve

Voglia di cozze piccinne…

di Tommaso Coletta

Da qualche anno ho nel “cassetto” queste immagini da me riprese nel periodo di giugno a ridosso della fascia dunale nel posto dove sono solito andare a mare e cioè tra le località di Torre Pali e Pescoluse (versante ionico del Capo di Leuca, per chi non fosse pratico).

Fresco frequentatore di questo spazio web, mi era venuta una mezza idea ti utilizzarle a corredo di qualche breve nota riguardo l’impiego dell’animaletto in questione nella cucina salentina.

Cercando materiale nel web ho scoperto che l’argomento era già stato ampiamente trattato da Massimo Vaglio in due precedenti articoli. Quindi ho dovuto prendere atto di essere arrivato tardi e comunque gli articoli sono talmente accurati ed esaurienti che non saprei cosa altro aggiungere se non il fatto che anch’io sono goloso di questo piatto e che non perdo occasione – almeno quando in estate torno al paese per le ferie – di farmi una mangiata di cozze piccinne, chiaramente dopo aver provveduto personalmente a farmi un giro per le stradine di campagna alle prime luci dell’alba (quando c’è un po’ di muttura) a raccogliere le cozze.

Comunque non volevo perdere l’occasione e il piacere di condividere queste immagini con gli altri spigolatori. Le foto tecnicamente non sono niente di particolare, ma il contesto è veramente unico !!!

E’ risaputo che le cozze piccinne sono attaccate, in particolare d’estate, sui muri, sugli arbusti, sulle pale di fico d’india, sulle stoppie, ecc. ma così fittamente concentrate non ne avevo mai viste. Eppure non è l’unico sostegno presente in zona; perché sono tutte concentrate su quella pianta rinsecchita?

Forse qualche spigolatore più scientifico potrà dare una risposta, avanti con le spiegazioni!

Ancora una meraviglia della natura nel Salento: la Salicornia

di Massimo Vaglio

La Salicornia glauca (Arthrocnemum macrostachyum) è una parca pianta alofita, ossia amante del sale, appartenente alla famiglia delle Chenopodiaceae. Si presenta come un cespuglio, dalla base legnosa, portamento cespitoso, fittamente e irregolarmente ramificato fin dalla base e con le estremità formate da foglie cilindriche articolate di consistenza erbacea e succulenta, con articoli lunghi circa 1 cm.

L’altezza, è in genere di pochi decimetri, ma in particolari condizioni può raggiungere facilmente gli 80-100 cm. L’habitus della salicornia glauca, ossia il suo aspetto, è molto simile a quello delle sue congeneri e di altre Chenopodiaceae alofile che vivono nel suo stesso ambiente.

Si confonde infatti facilmente con l’Arthrocnemum fruticosum, da cui differisce per pochi caratteri e con il quale è spesso associata.

Durante la piena attività vegetativa, in inverno e primavera, la pianta ha una colorazione verde glauca (da cui il nome), mentre in estate e in autunno ha una colorazione con tinte rossastre. Le foglie sono opposte; apparentemente assenti, sono in realtà ridotte a squame carnose saldate a formare una guaina che avvolge il ramo. I fiori, sono poco appariscenti e riuniti in spighette di tre elementi, di colore all’inizio giallastro poi scuro in corrispondenza della maturazione dei frutti. Le spighette sono inserite in fossette formate negli articoli, da cui però sporgono vistosamente, e sono portate dai rami fertili inseriti sui rami dell’anno precedente. Il frutto è leggermente allungato, di colore nero e lucente.

Si può sicuramente definire una  pianta eroica, infatti, fa parte di quella ristretta schiera di essenze che hanno scelto un ambiente estremo per prosperare. Vegeta benissimo, ed è comunemente diffusa, sulle nude scogliere, ma anche nelle paludi costiere su suoli salini presso lagune e stagni

La città di Muro Leccese dalle origini al ventesimo secolo

 

di Venerdì Santo Patella

 

Questo lavoro è il frutto dell’utilizzo di moderne metodologie di studio,

acquisite durante i miei studi universitari e maturate nel corso delle mie

attività extra e post universitarie: la prima stesura, intitolata “Architettura

e città a Muro Leccese”, risale al 2005 per la mia tesi di laurea in Beni

Culturali, poi aggiornata ed ampliata fino a giungere a questa opera.

L’approccio è stato quello della ricerca storico-artistica: le fonti, la

documentazione d’archivio, la documentazione figurativa, la storiografia.

Il periodo preso in esame per questo studio va dalle prime attestazioni pre-

messapiche ai primi decenni del XX secolo, e si concentra in buona parte sulla

Città.

L’analisi del territorio, con escursioni sul campo, mi ha consentito, ad

esempio, di ricostruire la probabile ampiezza della cosiddetta “cinta muraria

interna” e ricostruire la centuriazione romana, comprese le partizioni interne,

e ipotizzando una nuova datazione per i menhir corrispondenti ai termini della

medesima centuriazione romana.

Ho cercato di incrociare e riesaminare i dati fornitimi da queste ricerche e

ciò mi ha permesso di rintracciare il nome medievale del casale prima che

divenisse la “Terra di Muro”, ossia Santa Maria de Muro, ed il secondo nucleo

medievale di Muro, cioè il Casale di San Giorgio, mentre la presenza della

“Terra”, ossia di un luogo fortificato con una sua riconoscibilità formale,

sembra documentata a partire dal 1380.

Dal Novecento una maggiore disponibilità, non solo di fonti, ma anche di

architetture giunte fino a noi, ha modificato in modo sostanziale il corso dell’

indagine nel senso che di ogni secolo è stato possibile seguire le

trasformazioni del tessuto abitativo e di quello viario che ha mantenuto,

almeno sino al XIX secolo, una fisionomia in parte fissata nei secoli

precedenti.

Non a caso ho analizzato, per il periodo moderno, singole emergenze

monumentali considerate nel loro rapporto col più minuto tessuto residenziale.

Si sono così potuti correggere errori di trascrizioni di date e recuperare la

memoria di monumenti non più esistenti come il “Campanile a tre registri” della

chiesa matrice.

Tramite l’analisi artistica ho potuto anche attribuire più opere tra cui le

seguenti: a Gaetano Carrone l’altare dedicato all’Annunziata, a Serafino Elmo

la tela raffigurante Sant’Oronzo, nell’altare omonimo, a Gian Domenico Catalano

la tela dedicata al “Perdono di Assisi” tutto ciò nella chiesa Matrice; a

Placido Boffelli la lipsanoteca sita all’interno del Convento di Santo Spirito;

la ricerca bibliografica mi ha permesso di individuare in Ferdinando De

Ferdinando l’autore dell’altare maggiore in marmi policromi attualmente sito

nella chiesa Matrice.

Grazie anche alla lettura visiva degli organismi architettonici, supportata da

inediti documenti d’archivio, ho descritto antichi interventi di restauro o

rifacimento eseguiti su alcuni edifici simbolo dell’identità cittadina, come la

Matrice e il palazzo Protonobilissimo, detto anche “del Principe”, ed altri.

La ricerca si conclude ai primi decenni del XX secolo, con la descrizione dell’

ampliamento dell’abitato (lottizzazioni Puti e Scurca) e della demolizione di

antichi monumenti, financo medievali (la cappella della Madonna delle Grazie

dei Magistris, la cappella di San Pantaleo).

 

Il mio auspicio è che questa opera sia utile per la tutela e conservazione del

nostro patrimonio artistico, archeologico ed architettonico, a prescindere se

sia vincolato o meno o se sia ubicato o meno all’interno del centro storico, e

che possa stimolare futuri studi sulla nostra Muro Leccese ed essere di

supporto all’attività di trasformazione urbanistica ed edilizia della città e

del suo territorio.

 

I càpperi, perle verdi della cucina salentina

di Antonio Bruno

Certe volte i ricordi dell’infanzia si possono concretizzare nell’immagine di un uomo in bicicletta che aveva il suo negozio fatto di una cassetta di legno sulla ruota posteriore, dietro alla sella. A San Cesario di Lecce, nel Salento leccese, a un tiro di schioppo dalla città capoluogo all’angolo di un incrocio tra via Saponaro e via Liguria dove erano diffuse abitazioni frutto dell’edilizia economica e popolare del dopo guerra e che negli anni sessanta suonava pressappoco “CASE INA” un uomo in bicicletta si guadagnava da vivere gridando “Chiapperi Chiapperì!”lui voleva dire che vendeva Capparis Spinosa L. (Cappero) nome volgare italiano Cappero della Famiglia Capparidaceae. I capperi erano conosciuti ed apprezzati sin dai tempi dei Greci e Romani: era ingrediente basilare del famoso garum, la salsa aromatica più importante dell’epoca. Prima del 5.800 avanti Cristo era presente in Iraq, la mezzaluna fertile che si chiamava Mesopotamia, l’hanno trovato negli scavi fatti nella cittadina di Tel es Sawwan. Ma si parla del Cappero anche nella Bibbia nell’Ecclesiaste XII 5, Dioscoride nel suo “De Materia Medica” (II,204) scrive degli usi terapeutici del Cappero, Plinio il vecchio nel suo “Naturalis historia” (XIII, 127) dice che l’unico cappero buono è quello egiziano tutti gli altri sono pericolosi!

pianta di cappero in fiore (ph M. Gaballo)

Una volta per far nascere il cappero da

Castiglione d’Otranto (Lecce). Cripta dello Spirito Santo

di Marco Cavalera

La cripta dello Spirito Santo è ubicata alla periferia occidentale di Castiglione d’Otranto, in località Casaranello, circa 80 metri a nord dalla cappella di Santa Maria Maddalena. La zona, nota a metà ‘700 con il toponimo Le Pozze [1], si trova in prossimità di un incrocio stradale molto importante, dove si svolge annualmente la fiera di Santa Maria Maddalena[2]. Non a caso le chiese-cripte e i santuari, a partire dal Medioevo, erano considerati un vero e proprio punto di riferimento, di convergenza e di incontro tra le diverse comunità rurali di un determinato territorio, in occasione di festività religiose e di fiere[3].

La cripta dello Spirito Santo è un luogo di culto strettamente legato alla fede e alla  devozione della piccola comunità rurale di Castiglione d’Otranto; numerosi elementi – infatti – portano ad escludere, in questo caso, una

Pino docet: il vino è figlio di natura e sapienza umana

di Pino de Luca

In ambiente enoico DOCG e DOC sono garanzie per il consumatore. Esse testimoniano di un legame fra prodotto e territorio, assetti colturali e processi di lavorazione che, in qualche misura raccontano quel vino prima che venga acquistato.

Ma il vino non è come l’acqua né si rassegna a vivere entro la gabbia di rigidi disciplinari. Il vino è figlio di natura e sapienza umana. Nasce nel campo, tra i filari ma si realizza in cantina e, qualche volta, anche in bottaie fredde, umide ed oscure.

Il vinificatore ha bisogno di una valvola di sfogo per la sua creatività, di sperimentare nuovi prodotti e nuovi processi produttivi.

Per far questo vi è un’altra denominazione: IGT ovvero Indicazione Geografica Tipica. Disciplinare più blando del DOC sia geograficamente che per la composizione delle uve.

SALENTO, ROSA DEL GOLFO, TARANTINO e VALLE d’ITRIA sono i marchi delle nostre terre oltre al più generico PUGLIA.

L’IGT ha una straordinaria varietà di produzioni, alcune di comune vino da tavola altre di particolare peculiarità, altre di livello assoluto. Molti dei vini più celebri del Salento sono degli IGT, e la loro ricerca nelle piccole e grandi cantine può essere un modo splendido di fare turismo enogastronomico.

Nella cerchia delle novità IGT vanno senza dubbio inseriti alcuni spumanti sia bianchi che rosati che iniziano ad affermarsi, come alcune produzioni da vitigni nuovi e recuperati che, grazie allo sviluppo delle tecnologie, vengono vinificati in purezza ribaltando alcuni luoghi comuni che il tempo sta smentendo ogni giorno.

Si è raccontato per decenni che la Puglia non è terra di bianchi. Vi sono Chardonnay, Pinot e   Sauvignon che si sono ambientati in modo eccellente, da far concorrenza alle più sperimentate Malvasie bianche, Verdeca e Bianco d’Alessano. E che dire della riscoperta del Fiano Minutolo o di alcuni Vermentini nella zona di Gallipoli? O di arditi sperimentatori che producono del Negroamaro in bianco, vino particolarissimo per palati particolari?

Dei rosati nulla da aggiungere perché questa è la terra dei rosati e non è un luogo comune, altrove non si possono fare nella stessa maniera.

E rossi stupendi da blending di uve di varia natura, Negroamaro, Malvasia e Montepulciano ad esempio anche se i risultati più importanti per vini complessi, longevi, di grande corpo e struttura da far invidia alle più blasonate etichette Toscane e Piemontesi, si sono ottenuti, al momento, sposando i due colossi del Grande Salento: Negroamaro e Primitivo. Sarei tentato di scrivere anche i nomi dei vini IGT che sono stati insigniti delle più importanti valutazioni nazionali e internazionali.

Non possiamo farlo, sarebbe pubblicità occulta, anzi palese. Ma chiedervi di consultare le guide alla voce Vini di Puglia possiamo farlo e anche suggerirvi di andare in cantina a vedere dal vivo come nascono. I produttori, specialmente per gli IGT importanti, soffrono di vanità: li esibiscono, giustamente, con grande soddisfazione.

Salento, terra di calendule e di tradizioni

LA CIVILTA’ CONTADINA NEL SALENTO DI FINE OTTOCENTO

TERRA TI CARENULE

Le calendule, simboliche deus ex machina della fortuna contadina

e, di riflesso, fiori emblematici dello stato padronale

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) Se, tanto per fare qualche esempio, a calura già esplosa [i contadini] vedevano un campo di grano maturo punteggiato da cespi di papaveri, molti dei quali ancora in boccio, non avevano dubbi: quella era terra néura grascia (terra nera grassa), cioè talmente ricca di succhi e sali minerali da reggere imperterrita il risucchio del sole e non accusare impoverimento neppure in seguito allo sforzo di inchjtùra (riempitura delle spighe). Al contrario, se la stessa accensione di papaveri la notavano prematuramente, cioè sul finire di aprile quando il grano cominciava appena a spigare, il loro giudizio era tassativamente negativo: quella era terra russa subbràna ca fila sperta ma no rrìa a ttissìre (zona di terra rossa a strato superficiale, svelta nel filare ma incapace di giungere alla tessitura), cioè terreno che col sopraggiungere della calura si inaridiva, per cui il seminato – che in prima fase appariva rigoglioso – alla resa dei conti si rivelava rrisicàtu (stento, non florido), compensando la fatica del coltivatore con ccota mazza ti spiche ummàte a mmiénzu (raccolto magro di spighe piene solo a metà).

Ricitéddhra ca nasce a ttigna / terra a scuppatùre ca no bbole igna” (“Dove il convolvolo nasce a tigna [a chiazze isolate] è terreno dal sottosuolo discontinuo nella composizione, non adatto alla coltivazione del vigneto”), sentenziavano passando d’estate davanti a un campo che appariva solo qua e là punteggiato dalle campanelle bianche del convolvolo, intendendo per discontinuità del sottosuolo la presenza di carisciòle ti critàzzu (tracciati cretosi) che, per essere inserite in un contesto di terra nera, vietavano al terreno la necessaria uniformità nella reazione termica. Impiantando vigneto, ne conseguiva che al momento della vendemmia si registrava lo stesso effetto accusato dalla rada fioritura del convolvolo, cioè la sgradevole alternanza di ceppi la cui uva era già mpassulàta (stramatura, passita) a ceppi con grappoli di ua culirùssa (uva a culo rosso, cioè ancora acerba, non del tutto annerita e quindi lesiva alla mostatura).

La graduatoria di un terreno veniva sempre rapportata alla sua adattabilità all’impianto del vigneto, la cui coltivazione, per essere a lungo termine e

Distillerie, alcool e liquori nel Salento

di Massimo Vaglio

Un elemento che contraddistingue e caratterizza molti paesi del Salento, è la presenza di antiche, svettanti ciminiere color sughero. Nella quasi totalità dei casi si tratta dei monumentali camini delle gloriose distillerie che hanno operato in questa subregione sino agli ultimi decenni del secolo scorso.

Osservando l’imponenza e la qualità artistica e architettonica di molti di questi opifici, non ci vuole molto per capire che si trattava, di un’attività industriale particolarmente importante ed opulenta.  Enormi, erano infatti le masse di prodotti e sottoprodotti agricoli locali a basso costo, suscettibili di distillazione; basti pensare, che verso la fine degli anni “20 del secolo scorso, nel solo Salento leccese la produzione di uve da vino sfiorava i tre milioni di quintali, dato da cui si deduce un volume di circa seicentomila quintali di vinacce e un notevole quantitativo di altri scarti della vinificazione. Se a queste di aggiungono la non meglio quantificabile, ma certamente significativa, produzione di carrube e le migliaia di quintali di fichi secchi di scarto prodotti negli stessi anni, dagli oltre ventimila ettari di ficheti specializzati e dalle altre centinaia di migliaia di alberi di fico sparsi per tutta la Provincia, ci rendiamo conto  di quanto questa industria fosse economicamente rilevante.

Verso la fine dell’800 la tecnologia per la distillazione dell’alcool, aveva fatto grandi passi avanti ed è in questo periodo che, anche in seguito all’aumento della produzione vinicola vengono impiantati in Puglia, i primi stabilimenti industriali. Nel 1890 se ne contano 186, dei quali, 50  nella sola provincia di Lecce con 79 alambicchi, 7 dei quali, innovativi alambicchi a vapore, per una produzione complessiva annua di circa 13.000 q.li di spiriti. Di lì a poco, sarebbero scomparsi gli stabilimenti più piccoli, e alla fine degli anni “20 si sarebbero contate ben 40 grandi distillerie, molte delle quali, però non avrebbero, però resistito alla terribile crisi economica del “29. Il settore,  si avviava però, verso un lento, progressivo ridimensionamento, comunque negli anni “60, in provincia, operavano ancora una ventina di solide industrie di distillazione, ma nel 1980, anche molte di queste avevano chiuso definitivamente i battenti.

Ottima la qualità dell’alcool prodotto nel Salento, che, non a caso, alimentava primarie aziende nazionali, quali: la Stock, la Buton, la Sarti etc. Molti, sono inoltre i nomi di imprenditori rimasti indelebilmente impressi nella storia, nella memoria collettiva non solo locale, e negli albi d’onore delle Camere di Commercio e delle Esposizioni Internazionali di molti paesi europei.

Fra questi Luigi Capozza e il figlio Luigi, titolari di una grande distilleria con annessa fabbrica di liquori a Casarano. Il Cavaliere Ambrogio Piccioli, con distilleria e innovativa raffineria di alcool e fabbrica di liquori a Tuglie. Sempre a Tuglie, Pompeo Imperiale e figlio. A Lecce, operava la distilleria Carmelo Pistillo, poi rilevata dall’imprenditore Giacomo Costa e infine demolita per far posto all’Hotel Tiziano. Sempre a Lecce, l’imprenditore neretino Gregorio Falconieri, ai primi del secolo scorso, aveva impiantato una distilleria presso l’ex convento di San Domenico extra moenia, sulla via per San Pietro in Lama, ove aveva iniziato la fortunata produzione dell’Amaro San Domenico, stabilimento che in seguito sarebbe stato rilevato dal Consorzio Agrario Provinciale di Lecce, che ha continuato questa produzione sino ad un recente passato. La ditta F.lli De Bonis, a San Cesario di Lecce, produttrice di tutta una gamma di apprezzati liquori, quali: il Malibrand, l’Anice Crystal Forte, l’Elixir Jamaica, la Sambuca… che ha cessato l’attività nel 2003, alla morte dell’ultimo depositario, Gino De Bonis.

Qualche anno prima, nel 1999, sempre a San Cesario di Lecce, aveva chiuso i battenti un’altra importantissima azienda, la ditta De Giorgi, che aveva operato nel Salento con ben tre distinte, grandi distillerie (a Squinzano, San Pietro Vernotico e San Cesario di Lecce), i cui prodotti, in 90 anni di attività avevano conquistato notorietà anche internazionale ed un ricco e prestigioso medagliere, mitica, l’Anisetta, prodotta sin dal 1919 e, alla quale, nel 1920 venne concesso, da Vittorio Emanuele III il brevetto di fornitore della Real Casa. Altra ditta salentina ad essere insignita con lo stesso ambito riconoscimento fu la Ditta Leone di Nardò, fondata ne 1896 da Gregorio Leone e rilanciata dal figlio adottivo Salvatore Napoli Leone,  scienziato e inventore di grande talento, che ampliando con formule esclusive la gamma delle referenze prodotte, portò la ditta Leone ad essere una delle più accreditate a livello nazionale.  Per non far torto alla memoria di alcuno, precisiamo che, per ragione di spazio, quelle citate sono solo alcune delle premiate ditte salentine.

Negli ultimi decenni la prestigiosa tradizione liquoristica salentina ha rischiato quasi di sparire, ma è stata recentemente ripresa e viene portata avanti,  da alcune giovani dinamiche aziende, che in diversi casi hanno rilevato alcuni storici brand, ma vive anche in molte famiglie, che spesso si tramandano di generazione in generazione l’affascinante arte dei liquori fatti in casa.

Analisi per un censimento degli ulivi secolari

di Mimmo Ciccarese

 

ph. http://www.frantoionline.it/

“La Regione Puglia tutela e valorizza gli alberi di ulivo monumentali, anche isolati, in virtù della loro funzione produttiva, di difesa ecologica e idrogeologica nonché quali elementi peculiari e caratterizzanti della storia, della cultura e del paesaggio regionale”.

 

In particolare con l’art. 4 della Legge sulla Tutela degli ulivi secolari si definiscono le azioni sistematiche di conteggio, su proposta della commissione tecnica s’introduce un’apposita scheda di rilevazione, un modulo predisposto per la raccolta d’informazioni relative a univoche localizzazioni, proprietà, dimensione e numero delle piante, caratteri monumentali, paesaggistico-ambientali, storico-culturali, tipologie colturali.
Con tale provvedimento la Giunta regionale taglia il nastro sul rilevamento regolare degli ulivi e di uliveti monumentali, che può effettuarsi anche attraverso la stesura di convenzioni e protocolli d’intesa con altri enti o organizzazioni. Singoli cittadini, associazioni, organizzazioni, enti pubblici e loro articolazioni possono segnalare l’esistenza di ulivi e/o uliveti monumentali da sottoporre a tutela e valorizzazione.
Dopo la rilevazione sistematica e le segnalazioni, nell’art.5 si specifica l’elenco delle essenze rilevate e come il ramo ecologico della Regione su parere della commissione tecnica serba, predispone, aggiorna annualmente il censimento e definisce le risorse finanziarie per la loro tutela e valorizzazione.

Tal elenco è un contenitore d’indicazioni catastali utili per l’individuazione delle singole proprietà è pubblicato sul bollettino ufficiale della regione puglia e comunicato agli enti interessati.

A questo proposito è bene ricordare che la regione Puglia con l’art. 30 della Legge Regionale n. 14 del 31/05/2001 ha istituito “l’Albo dei monumenti vegetazionali, nel quale sono iscritti, con le loro caratteristiche fitologiche e panoramiche, gli alberi, di qualsiasi essenza, anche in forma isolata, che costituiscono elemento caratteristico del paesaggio […]”.
Con il DGR n. 345 dell’11 marzo 2011è stata pubblicata la prima lista regionale prevista dal suddetto art. 4. Si riferisce a 13.072 alberi d’ulivo monumentali dotati di numero, comune, foglio e particella, ben poco rispetto ai 354.000 ettari di oliveti considerando che il 35% sono secolari.

(23.000 ettari nel Salento): la densità di circa 4 alberi secolari ad abitante. Per dare un’idea della portata del calcolo, un ettaro di terra può ospitare circa 100 piante d’alberi secolari con sesti tradizionali regolari. Quindi un ettaro di oliveto secolare darebbe respiro a 25 pugliesi.

In ogni caso rintracciare la scheda utilizzata dalla Regione Puglia per il rilevamento e poterla confrontare con quella di altre regioni sarebbe auspicabile per dedurne delle indicazioni a supporto.

In provincia di Como ad esempio il censimento di alberi monumentali si è reso concreto con la collaborazione di appassionati ”segnalatori” supportati da tecnici esperti. Tale territorio ha reso reperibile un modulo di raccolta dati impegnando comunità montane, sedi dei comuni, enti parco, scuole, biblioteche, rifugi e associazioni di volontariato. Il documento contiene dati utili a fini dell’identificazione dell’albero e le relative istruzioni per la compilazione. Durante questa fase sono stati realizzati seminari aperti alla gente con lo scopo di far conoscere gli stessi alberi censiti.

In provincia di Mantova la scheda di rilevamento del monumento, contiene dettagli circa la località, il percorso per raggiungerlo, l’esposizione altimetrica, le coordinate geografiche, i connotati di distinzione, il nome volgare, il quadro strutturale, quello vegetativo e fitosanitario, i trattamenti eseguiti, il quadro dei vincoli, delle minacce e della tutela. Esauriente esempio di descrizione e valorizzazione tecnica ed etica.

Quali sarebbero gli strumenti adoperati per fare un buon censimento?

Ovviamente, alle soglie del 2013, pensare di setacciare un territorio equipaggiato da migliaia di olivi, con semplici strumenti è difficile ma non impossibile. La rilevazione può riportare numeri avvalendosi anche di video e supporti di definite immagini satellitari. Il Sistema Informativo GIS, utilizzato nel settore agricolo, restituisce la quantità di piante, la superficie d’incidenza (proiezione della chioma sul terreno) le eventuali perdite, a causa di un espianto, ad esempio, ma non fornisce età o carattere di monumentalità. Trovare un appezzamento, ormai, non dovrebbe essere più un problema quando s impiegano strumenti come una comune fotocamera GPS. Calcolare dimensioni e altezza quando si usano strumenti laser o a ultrasuoni è ancor più semplice.

Per l’olivo, data la sua fisiologica tendenza a svuotare il tronco, è quasi impossibile stabilire con precisione la sua età; in genere si comparano dimensioni o volume dell’albero oggetto di studio con quelli d’un campione di alberi d’età nota. La padronanza storica e geografica del territorio potrebbero comunicare informazioni sufficienti.

Un lavoro di censimento dovrebbe essere demandato ai singoli comuni perché conoscitori del loro agro e più vicini agli olivicoltori. Mappare e preservare gli alberi sul territorio di competenza è di grande utilità per conoscere, ad esempio, le misure da adottare per contenere le cause del dissesto idrogeologico o della desertificazione, creare percorsi eco turistici o favorire i prodotti tipici.

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

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