A Natale il verbo preferire mia suocera lo usa così… e come si fa a darle torto?
di Armando Polito
La celebrazione dell’Immacolata costituisce il primo collaudo psico-fisico in vista delle grandi manovre culinarie del lungo periodo festivo immediatamente successivo e le pèttule1 ne sono l’immancabile bandiera.
Si tratta di un impasto di farina di forma tondeggiante, lasciato adeguatamente lievitare e poi cotto nell’olio bollente. Le forme più “ricche” prevedono l’inglobamento di cavolfiore o cicoria o capperi o baccalà o alici in salamoia o funghi.
La facilità (relativa all’esperienza…) di preparazione ha dato vita al detto E cce sso’, pèttule? per indicare qualcosa che non può essere fatta in breve tempo e che richiede un certo impegno. L’appiccicosità dell’impasto, poi, ha dato vita ad espressioni del tipo quìddhu ete nna pèttula riferito a chici sta insistentemente appresso o ci annoia (in questo secondo caso con un significato simile all’italiano che pizza!)
Per il Rholfs pèttula è diminutivo di pitta, un tipo di focaccia, fatto derivare dubitativamente dal greco pitta o pissa=pece1; per l’insigne studioso, inoltre, pèttula per traslato ha dato vita alla identica voce che indicava uno dei due lembi posteriori della camicia di un tempo. Si può facilissimamente constatare come il greco pitta/pissa non potesse andar meglio dal punto di vista fonetico ma appare piuttosto traballante da quello semantico (anche se il pensiero vola subito alle olive nere, ingrediente fondamentale della nostra pitta rustica), da cui, credo, il dubbio dello stesso studioso tedesco2.
Dubbi, invece, non ha mia suocera (si chiama Concetta, 87 anni), formidabile forchetta dallo stomaco di amianto e dal fegato di acciaio, nonostante il diabete. L’8 scorso festeggiava il suo onomastico e davanti ad una tavolata di una trentina di persone (solo trenta, perché parecchi componenti della numerosa discendenza erano fuori sede, altrimenti saremmo stati almeno il doppio) alla domanda: “Nonna, quale pèttula preferisci?” ha fulmineamente risposto: “Preferiscu queddha a ssola e queddha cull’alice e queddha cu llu caulufiùru e queddha cu llu bbaccallà e queddha cu lli fungi, e queddha ssuppàta intr’a llu mele e queddha ssuppàta intr’allu cuèttu e…sirà ca sta mmi ‘ndi scordu quarchetùna…”3. All’enunciato è seguita la pronta dimostrazione…
Il problema è che fa così con qualsiasi preparato abbia delle varianti più o meno significative, nonché quando sarebbe più opportuno per la salute gustare solo uno dei tre dolci natalizi di cui ora parlerò, o tutti, ma in modica quantità o porzione ridotta: cartiddhàte, purciddhùzzi e scagliòzzi.
Le cartiddhàte sono strisce di pasta fritte e poi cosparse di miele.
Il nome secondo il Rohlfs deriva dal siciliano cartèddha=cesta, per la forma che rassomiglia ad un intreccio; cartèddha, aggiungo io, è dal greco
Natale è alle porte: l’aria di festa si respira nelle strade e in tutti i quartieri di Taranto. Si rinnova l’antica usanza della novena in onore dell’Immacolata, compatrona della città, assieme a San Cataldo, dal 1711.
L’antica statua della Vergine, custodita nella chiesa di San Michele nella città vecchia, viene accompagnata, il 29 novembre, in processione nella basilica di S.Cataldo per l’inizio della novena in suo onore, che si conclude il 7 dicembre. In qualche vicolo o largo, come ad esempio largo san Nicola, alcuni vecchi altarini ripristinati e qualche statuetta dell’Immacolata recuperata, fanno rivivere ai fedeli un’antica devozione. Le note del popolarissimo inno (versi e musica sono di un autore ignoto) “O Concetta Immacolata” e delle litanie, opera di un compositore laico, in onore della Santissima Vergine, invadono soavemente e pacatamente anche gli angoli più oscuri del borgo antico. A conclusione della Novena, nel tardo pomeriggio dell’8 dicembre, la Vergine Immacolata viene festeggiata con una solenne processione, a cui partecipano con fede il clero, le confraternite, le associazioni ecclesiali ed il popolo. Un volo di colombe bianche, seguito da una batteria di fuochi d’artificio, saluta l’immagine della Madonna. La processione percorre il pendio San Domenico, piazza Fontana, via Garibaldi, discesa Vasto e piazza Castello, accompagnata dalle melodie delle pastorali natalizie, suonate dalle due bande cittadine e da fuochi pirotecnici.
La devozione dei tarantini per la Madre di Gesù ha origini antiche. La costituzione della congrega, denominata “Immacolata Concezione di Maria Santissima“, è datata infatti 14 gennaio 1578. Furono i confratelli a commissionare a Napoli la statua della Vergine, che arrivò a Taranto nel settembre del 1679 (1) e venne collocata nella cappella della Immacolata Concezione, ubicata nella chiesa di S.Francesco.
Il simulacro, dal viso dolcissimo, indossava un abito bianco con ricami dorati e un ampio mantello celeste le copriva delicatamente il corpo. Sul capo rispendeva un’aureola con dodici stelle e ai piedi erano situati il mappamondo, la luna e il serpente con la testa schiacciata dal piede di Maria.
Quest’emozione di riti centenari ha origine nella lontana notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1710, quando Taranto fu colpita da un violentissimo terremoto. I danni furono notevoli, ma non si registrarono vittime. La popolazione interpretò l’evento, verificatosi proprio alla vigilia della festa della Vergine, come un segno divino e riconobbe la mano salvifica della Madonna sulla città. Il Primo cittadino dell’epoca, Giovanni Capitignano, si fece portavoce della volontà del popolo, che volle dimostrare la sua riconoscenza alla Vergine e l’11 luglio 1711 proclamò l’Immacolata protettrice di Taranto. Il documento di tale decisione fu redatto dal notaio Giovanni Antonio Catapano (2). Ma il patrono “principale” rimaneva, comunque, sempre San Cataldo.
Il 20 febbraio 1743, un altro evento catastrofico si abbattè sulla terra di Puglia e, anche in questa occasione, la città subì solo lievi danni, attribuendo,ancora una volta, tale miracolo alla protezione dell’Immacolata. In segno di gratitudine la città, tramite il sindaco Scipione Marrese, istituì, presso la Cattedrale, dove era custodita la statua della Madre di Gesù, un triduo votivo di ringraziamento da tenersi ogni anno nel mese di febbraio. Dopo il terremoto del febbraio del 1743 la statua della Madonna venne trasferita nel monastero delle Cappuccinelle di S.Michele, sito alla fine della Strada Maggiore nel borgo antico.
Il 3 dicembre 1769 (3) Ferdinando IV concesse l’assenso al primo statuto della confraternita.
Nel 1830 l’immagine dell’Immacolata venne rappresentata con le braccia abbassate e quasi unite ai fianchi e con le mani protese verso il basso, così come la Vergine stessa aveva indicato, in un’apparizione avvenuta, in quell’anno a Parigi, a suor Caterina Labouré, una giovane novizia delle Figlie della Carità. Nel 1868, in seguito alla soppressione dei monasteri, alla confraternita Maria SS. Immacolata fu concesso l’uso della chiesa di S.Michele, dove la statua della Madonna fu traslata ed esposta alla venerazione dei fedeli.
Il 12 dicembre del 1934 la confraternita ebbe il riconoscimento civile.
Per circa due secoli l’Immacolata fu venerata come Patrona “minore” di Taranto, fino a quando il 12 febbraio 1943, grazie alla proposta dell’arcivescovo Mons. Ferdinando Bernardi, la Vergine divenne “Patrona principale di Taranto insieme e come San Cataldo”. La proposta fu accettata e riconosciuta dalla Sacra Congregazione dei Riti e il 20 febbraio dello stesso anno, nella chiesa di San Michele fu deposta una lapide che “tramanda ai posteri la solenne proclamazione (dell’Immacolata) a Celeste Patrona di questa città bimare”. Ancora una volta, la città, nonostante fosse uno dei più importanti obiettivi militari, in quel periodo bellico, non aveva subito grosse perdite di vite umane tra la popolazione civile.
Oggi…
I tarantini esprimono la devozione in onore della Vergine l’8 dicembre. La vigilia, all’alba, le bande musicali girano per le vie cittadine ed eseguono le famose e suggestive pastorali. Tutti, grandi e bambini, rinnovano la tradizione iniziata con Santa Cecilia e, gustando le profumate péttole, si prodigano a completare l’albero di Natale e il presepe. In questo giorno, in passato, si usava digiunare, anche se a mezzogiorno qualcuno interrompeva il digiuno con una semplice pagnotta ovale di pasta soffice, detta mescetàre o miscetàle o miscetàte ( termine che deriva da una deformazione di vigitale, ossia della Vigilia) (4). All’imbrunire tutti si riunivano intorno alla “tavola grande” di casa per un pranzo-cena che veniva consumato in compagnia di parenti o di vicini di casa.
Ancora oggi il rito si rinnova.
Il menù è quello tradizionale e il pesce non manca mai tra le pietanze preparate la vigilia.
Frutti di mare, linguine o vermicelli con le anguille o con le cozze, mùgnele e cime di rape, capitone all’agrodolce, spigole, orate, triglie arrosto, baccalà fritto. Ai primi e secondi piatti, innaffiati con ottimi vini nostrani, fanno da contorno fenùcchie e catalogne, arricchiti da alìe, pruvelòne e marangiàne sott’olie; dolcissimi e profumati mandarini accompagnano noci, fichi secchi, mandorle, nocelle infornate e castagne d’u prèvete. Per dolce, ancora pèttole, ma stavolta cosparse di miele o vincotto. Raramente vengono preparati sanacchiùdere e carteddàte, dolci più strettamente legati alla tradizione del Natale. Non manca invece il panettone. Tra i liquori si preferiscono i whisky e i brandy, ma per i palati più delicati non mancano la crema cacao e il mandarinetto.
Terminata la cena, una volta sparecchiata la tavola, nello scenario del presepio e dell’albero di Natale, si dà inizio alla prima tombolata dell’anno e per i bambini e le donne è il momento più atteso. Al centro del tavolo un mucchietto di fave o, in mancanza di queste, anche frammenti di buccia d’arancia per segnare sulla propria cartella i numeri che vengono estratti. Interminabili le tombolate delle vigilie alle quali si pone termine solo quando agli instancabili giocatori (gli uomini generalmente preferiscono appartarsi immediatamente per il solito tressette) s’achiudèvene l’uècchie p’u suènne (5). Ed è così che si attende la magia del Natale…
Note bibliografiche:
1) A. Merodio, Istoria tarentina, Libro IV;
2) N. Caputo, Destinazione Dio, Taranto (1984), p. 301;
3) G. Blandamura, Chiesa e monastero di San Michele, Taranto (1934);
4) N. Gigante, Dizionario critico etimologico del dialetto tarantino, Manduria (1986);
5) G. Peluso, ‘A nnate ‘u Bbammine, Taranto (1982), p.24.
Bibliografia:
N. Caputo, Quel Natale fatto in casa, Martina Franca (1988).
Sono un ragazzo di ieri e, insieme, un comune osservatore di strada; alla fine d’ogni anno, raccolgo i pensieri, le impressioni, le opinioni e le immagini che, man mano, si affacciano e/o mi circondano.
E’ qui allegata la foto della copertina dell’ultimo volume “Quando il gallo cantava la mattina” appena dato alle stampe, insieme con la prefazione, curata, al solito, dall’amico prof. Ermanno Inguscio.
Quando il gallo cantava la mattina
Prefazione
Questa raccolta di scritti di Rocco Boccadamo si apre, secondo la consueta scansione dei contributi pubblicati nell’arco di un anno solare, dal 9 aprile al 21 dicembre 2011, e con il consueto sottotitolo Lettere ai giornali e appunti di viaggi, con il racconto di una prigionia subita da un italiano in Tunisia nel Secondo Conflitto mondiale.
Nell’incipit di questa formula scrittoria, che il lettore ha già gustato da qualche anno, vi è la sintesi della visione prospettica di un mondo, che parte dal promontorio dell’antica Castrum Minervae, nel Salento, ma si allarga nel mare Mediterraneo (e alle sue popolazioni rivierasche) a proporre temi di scottante attualità per tutti.
Quella prigionia, dunque, vissuta dal militare Gino, in terra straniera e con modalità quasi amicali, offre il destro all’autore per un’apertura di carattere interculturale ai fini di una riflessione su grandi temi che lo appassionano, il divario Nord Sud, il villaggio globale, l’economia dei mercati, ecc. Una prigionia, che riporta per forza di cose ad un contesto di vicissitudini belliche, ma stranamente vissuta in mezzo a una popolazione mite, composta da discendenti degli antichi punici, storici nemici di Roma: i tunisini, ieri ospiti di compare Gino, oggi emigranti in massa a causa della “primavera araba”, che ha scatenato l’incendio politico-sociale in tutto il mondo islamico del Nord Africa (Libia, Egitto, Tunisia, ecc.). Ed è il mare Mediterraneo ad unire ancora una volta, più che a dividere, persone, mentalità e consuetudini di mondi apparentemente lontani e diversi.
A spiegare il titolo, è lo stesso Boccadamo, quando scrive: Il percorso esistenziale era un tempo poggiato su scansioni naturali, accettate, condivise: fra esse il primo posto alle nascite, i matrimoni e, presto o tardi, il commiato dalla vita terrena.E tale affermazione rischia solo per un momento di qualificarlo come un laudator temporis acti: un giornalista con la mente al passato e con gli occhi chiusi al presente. Così evidentemente non è.
Il mondo ideale e di affetti di Boccadamo, invece, si sviluppa con realistica lucidità, pur nel groviglio intricato del quotidiano, nell’alveo meraviglioso della vita, accettata con la nascita, riproposta con l’amore coniugale, interrotta con la morte. Ecco perché in tutto ciò che scrive l’autore, spesso affiorano l’amore per la natura e il mito dell’infanzia, l’amore sponsale-parentale ed amicale, il rimpianto per persone ormai scomparse, peggio se prematuramente. Egli sembra voler esorcizzare, nell’attività scrittoria, la negatività della morte con la riproposizione del ricordo del bene fatto da quanti hanno creduto nella vita (specie genitori e amici) e dal nugolo di nipotini, la cui vitalità è benaugurale toccasana contro l’inesorabile volgere del tempo. In tale visione delle cose, anche la stessa morte si tramuta in un semplice “commiato”, un temporaneo “addio”, un “arrivederci”, che prelude ad una concezione ottimista-fideista dell’esistenza umana. L’augurio di un ritorno al chicchirichì, deve configurarsi come viatico di ottimismo per affrontare gli alti e bassi del presente… E le stesse terribili contraddizioni della società dell’intero pianeta possono essere superate soltanto con il dovere dell’impegno comune. Ciascuno nel proprio ambito, in famiglia, nei campi, nelle fabbriche, negli uffici, nelle istituzioni. Non c’è economia o società in crisi che possano fare a meno della necessità dell’impegno ad ogni livello. Concezione della vita non certo di un burocrate annidato dietro una scrivania, ma di una persona abituata a rimboccarsi le maniche di fronte all’individuazione dei problemi di ogni giorno…Oggi non si ode più il canto del gallo: può sembrare un paradosso, ma succede come se l’esordio, il debutto di ciascun nuovo mattino avesse perduto l’applauso di incoraggiamento più schietto e sincero…
Il prorompente canto del gallo, nell’illustrazione iconografica della copertina di Carlo Colella,imperversa nella composizione cromatica e nella dimensione spazio-temporale, quasi a farsi “re” del paesaggio circostante, circoscritto in un orizzonte, luogo dell’anima dell’autore, dove il cielo, la pietra della “pajara” e la stessa “lamia” costituiscono una piattaforma-astronave da cui lanciare l’urlo di liberazione.
Al viaggio, grande strumento di conoscenza e di riflessione, fanno riferimento diversi contributi di questa raccolta: nella seconda parte del sottotitolo del volume, come detto, l’autore non rinuncia mai ai suoi appunti di viaggi. Grande spazio alla voglia scrittoria dell’autore è concesso ad una sua puntata in Cina, forse la sua prima esperienza in Estremo Oriente, compiuta nell’autunno del 2011 in compagnia della dolce consorte. Nella caotica capitale Pechino, avvolta nello smog e stritolata da un diabolico intreccio di arterie stradali, Boccadamo individua subito la generale gentilezza di tutti, la cortesia dei tassisti, il numero smisurato dei grattacieli e degli abitanti, le vie dello shopping di lusso, i saloni di bellezza, l’apertura operativa degli esercizi 24 ore su 24. Sottolinea pure la rarissima conoscenza dell’inglese o di altre lingue occidentali tra la popolazione, ad eccezione degli addetti alla reception in hotel, le elevate tariffe al ristorante e la sorprendente presenza di imprenditori o manager italiani nelle contrade dell’ex Impero Celeste. Tra le tante “gocce di positivo stupore” registrate in terra cinese, l’autore non ha paura, nell’impatto generale con lo smog, di aver fatto fatica a dialogare con le stelle, esercizio fatto spesso in terra patria, a Castro Marina, in confidenza con gli astri, nelle interminabili notti estive.
A quella stessa terra salentina di Castro, il nonno M., volontario arruolato nella Regia Marina militare e maresciallo di prima classe nel Ventennio fascista, un secondo riferimento alla Cina, di stanza in Istria (all’epoca) italiana, aveva tuttavia accompagnato, in una lunghissima crociera in Cina, Edda Mussolini e il conte Galeazzo Ciano, in rappresentanza dell’Italia presso l’Impero Celeste. Quel personaggio a tutti noto in paese, s’era poi congedato e vivere in un trullo, a ridosso della magica insenatura Acquaviva, le “Scarpe”, la “marina di Diso”, presso la Villa Meris, in un fazzoletto di marina, difesa da bassi fichi, fichidindia, viti, carrubi ed allietato da un piccolo orto coltivato a patate e ortaggi.
La stessa visione del mondo, nell’attività scrittoria di Boccadamo, non è mai miope, sebbene alcuni suoi contributi appaiano abbarbicati, per mera prevalenza contenutistica, al microcosmo di una piccola comunità come quella fatta da Marittima, Diso, Castro Marina e Andrano:“luoghi dell’anima, ma già nel sentire dell’autore,“esempi di piccola globalizzazione. Ma ciò ch’è piccolo non rimane mai tale,tutto è filtrato nella coscienza con un’attenta attività riflessiva attraverso cui esperienze e fatti si ricompongono in una coerente visione della vita. Quei piccoli centri urbani, nelle mille descrizioni di Boccadamo, non scompaiono mai nel grande mosaico della società globale, spesso costituiscono essi stessi un’illuminante lente con cui analizzare il mondo, individuare il bene nascosto e schivare le insidie tipiche di una società modernamente organizzata. Vecchie torri colombaie (palummaru), una via vecchia (per Andrano), un piccolo appezzamento di terreno (noto dell’Arciana) assurgono a monito contro i pericoli del moderno inquinamento e dell’insensata cementificazione di coste e (peggio di) siti storici. Anche in paesi abbastanza piccoli languono i processi di coinvolgimento collettivo e d’interazione allargata. Scompaiono così figure storiche di personaggi come il ciabattino, nella cui bottega s’intessevano relazioni umane, il fornaio che direttamente trasformava in pane la materia prima prelevata in casa del coltivatore, il vecchio cacciatore pur sempre pronto a salvaguardare la natura. Per non parlare dei due anziani coniugi, zi’ Franciscu (Francesco) e Pietrice (Beatrice), che amavano far dono all’autore, nel giorno dei Santi Medici (27 settembre) d’un paniere di noci novelle e di grappoli d’uva del loro pergolato. E toponimi come “Punta Mucurune”, “Porticelli”, “Serriti”, “Acquaviva”,“Marine dell’Aia”, “Loggetta piccinna”sono luoghi e pietre palpitanti del paesaggio salentino e della sfera esistenziale dell’autore. Il paesaggio di pietra interagisce con il mare e scopre nella ricca falda freatica l’oro dell’acqua un tempo trasportato a spalla in grandi otri di terracotta (ozzi). Fichi, carrubi, vigneti (cippuni), olivastri e distese di macchia mediterranea sono le mute sentinelle tra i resti di roccia, mummificati in austeri muretti di confine. Quanto ad Acquaviva, oltre alla pajara (caratteristico trullo in pietra a tronco di piramide) ed al suo orticello, dentro cui viene custodita gran parte dei ricordi d’infanzia e di gioventù di Boccadamo, rimangono luoghi privilegiati della sua anima: una chiesa di Castro Marina l’ha visto convolare a nozze, in quel magico specchio di mare, di fronte a Castrum Minervae si aggira per tutte le estati il suo legno a vela,“My three cats”, e proprio il seno di mare di Acquaviva è assurto, nella leggendaria ricostruzione popolare, a sito sacro del recupero dei simulacri dei Santi di Diso, i Ss. Filippo e Giacomo, che nel tripudio dei soli fedeli di Diso, si sono lasciati trasportare in paese. I Santi nosci, come ancora oggi vengono conosciuti e chiamati, sono i patroni di Diso, presso cui, ogni anno,grandi celebrazioni religiose e civili ne sottolineano l’importanza, tra l’altro con la grande gara pirotecnica diurna, che richiama da tutt’Italia grande concorso di visitatori. Liaison di fede e di appartenenza identitaria, il sito La cappiddruzza, per la sosta dello storico corteo con i due simulacri recuperati, dai marosi dell’Acquaviva, attraverso le campagne fra Castro, Vignacastrisi e la destinazione finale (scelta…dai Santi Nosci) di Diso. In questo microcosmo, fatto di piccole ma forti comunità, grande è il respiro globale della gente che ci vive, un tempo con le difficoltà della civiltà contadina e l’ancestrale legame tra quotidiano e sfera del divino, oggi con l’apertura all’accoglienza dei flussi turistici e migratori, con l’attenzione alle moderne sinergie per favorire una migliore qualità della vita a livello istituzionale (Unione di Comuni) e di aggregazione sociale. Con la stessa disponibilità al viaggio, come sempre più spesso fatto da Boccadamo, che guardando (e scrivendo) con apprensione alla propria terra natia, non disdegna avventurarsi così tra i vicoli di Castro antica o di Dublino, come tra le insidie degli hutong di Pechino o nelle sicure grandi piazze di Monaco di Baviera. Non canta il gallo con il chicchirichì mattutino nelle teutoniche città tedesche o nelle metropoli della Mitteleuropa, dove il disordine è dato dalle storture dei sistemi economici e finanziari, dai macigni dell’evasione fiscale, dalla sperequazione della ricchezza e dal rampantismo manageriale; e assolutamente mortificato risulterebbe il suo verso (del gallo) anche nelle odierne città dell’Estremo Oriente, come Pechino, dove covano i mostri (per gli occidentali) del sorpasso economico, dopo quello, ormai scontato, registrato in campo demografico. Ma l’autore non ha paura di catastrofici sovvertimenti geopolitici e finanziari o di contrapposizioni di modelli culturali proposti di qua o di là da qualche intraprendente popolo in qualche parte del globo. A lui preme soprattutto che si preservi, a cominciare dalla propria patria, la dimensione distintiva di ogni realtà storico-culturale, che si perpetui l’attenzione alle realtà dei valori assoluti, propri di ciascuno (la famiglia, il lavoro, la coesistenza pacifica, la condivisione per l’umanità intera dei risultati delle ricerche in campo medico-alimentare), ma soprattutto l’intimo convincimento che l’odierna società del benessere non possa prescindere dalla constatazione della preziosità dei sacrifici e dei progressi fatti dagli antenati e dal genere umano durante la storia.
Come allora Lisa si aggrappò alla maniglia, ma adesso solo per non dimenticare. La strinse forte nella mano fino a farsi male, mentre i ricordi repentini e irruenti riaffioravano:
“ Lisa! Vai in casa, prendimi il gomitolo rosso che sta nel cesto vicino al telaio”.
Lisa si avviava: ”Nonna, la porta è chiusa…non riesco ad aprirla…”.
“ Dai che ci riesci!… non farmi lasciare il lavoro…”.
Lisa vicino alla porta provava ad aprirla, dapprima spingendola con la spalla, sperando cedesse poi, visto che era proprio serrata da dietro, cercava in tutti i modi di arrampicarsi sulla scanalatura in basso alla porta, per riuscire infine a infilare la mano nel portellino e tirare il saliscendi che serrava la porta dall’interno.
“ Allora Lisa? ” Insisteva la nonna, vedendo che non arrivava col gomitolo.
“ Nonna ci sto provando, ma non ci arrivo ad aprire…”.
“ Eh Lisa! Dove non si arriva con la forza, si adopera l’ingegno (1). Ascolta, t’insegno come devi fare. Tieniti, con la mano destra, alla maniglia della porta senza il finestrino poi, puntellati con i piedi sulla scanalatura in basso alla porta “cu lu farcunceddhu” (2) e con l’altra mano reggiti all’imboccatura del finestrino, infila la mano e tira indietro lu manese (3).Vedrai che si aprirà.-
“Nonna, qual è la mano destra? “
“ Ma Lisa! Quella con cui prendi il cucchiaio … “
Lisa si guardava le manine poi, scrupolosamente, eseguiva ciò che la nonna consigliava ed effettivamente riusciva, senza molta difficoltà, ad aprire la porta e trionfante portare alla nonna il gomitolo rosso.
“ Hai visto com’è semplice riuscirci quando si adopera l’ingegno? L’hai richiusa la porta, non è vero? E, il finestrino lo hai accostato per non far entrare le mosche?”.
“ Sì, sì, nonna”, assicurava Lisa e correva ai suoi giochi sul terrazzo adiacente alla casa, mentre la nonna continuava il suo lavoro a maglia col gomitolo rosso che Lisa le aveva portato.
Tornando ai giochi, Lisa cercava di capire cosa fosse “quest’ingegno” che la nonna leaveva detto di applicare. Lei, non aveva applicato nulla, aveva eseguito tutto con le sue mani.
“ Bah! Chissà cosa sarà mai” si diceva. Non osava chiederlo, però; per la nonna era scontato che lei lo conoscesse.
Dio! Una vecchia maniglia inchiodata su un riquadro di legno fradicio e tanti ricordi piovevano, inondando il cuore di Lisa.
Si trovava ora, Lisa, di nuovo là, sul terrazzo della masseria dei nonni, aggrappata ad una maniglia arrugginita per non perdere il filo, il filo dei ricordi e i ricordi scorrevano vividi e le mani serrate sulla maniglia piano piano allentavano la stretta e l’accarezzavano ed un’ondata di commozione la pervadeva scuotendola intimamente.
Lisa guardava il pezzo di porta, ne osservava le rughe che il tempo aveva tracciato. Tracce, solchi profondi che narravano storie. Tante storie. Chissà, quali traversie aveva sopportato. Chissà cosa aveva visto, con chi aveva vissuto, dopo che Lisa era andata via ed ora… ecco cosa rimaneva della porta della sua infanzia.
La porta scardinata, violata, non esisteva più, ridotta a pezzi era stata bruciata.
Nel camino se ne potevano vedere ancora alcuni frammenti; tizzoni mezzi bruciacchiati e carboni e cenere! Sarà servita per riscaldare chissà quali membra, di chissà quale uomo, di chissà quale razza…
Restava intatto, però, questo sconnesso riquadro con la maniglia bene infissa nel legno. Una parte dell’intera parte,…la parte centrale.…Il cuore con la maniglia. Ecco, il cuore era nelle mani di Lisa e viveva ancora e palpitava insieme al suo.
“ Mah! Chi lo sa perché, questo pezzo non è stato bruciato “ si chiese Lisa, e cominciò a fantasticare come al solito. La sua fantasia fervida si perdeva tra mille congetture. Divagava perdendosi nelle “carrareddhe” (4) del presente e del passato, cercando di dare un senso, una spiegazione. Sempre così, doveva ad ogni costo dare un significato alle cose e alle situazioni.
Chissà! Un fuggiasco…un assassino…un evaso…un povero cristo senza casa, senza patria forse, si sarà rifugiato in questo luogo abbandonato…nella casa dei suoi ricordi, nella casa della sua infanzia.
La sua bianca stanza, un covo di gentaglia, forze un ricovero per povera gente in cerca di un riparo, di un po’ di calore.
Lisa sperava che fosse stata brava gente in cerca di calore ad occupare il luogo dei suoi ricordi; per questo, considerò: avranno acceso il camino e bruciato le porte che ora erano tizzoni, carboni e cenere. Prima, però, i pezzi della sua porta avranno scaldato e colorato per un po’ il buio della notte. Le piaceva immaginare questo, un senso di gioia la pervase. Ecco, aveva trovato il senso giusto da dare al suo pensiero.
Strinse a sé il pezzo di porta con la maniglia. Di sottecchi guardò Giuliana. Era grazie a Giuliana che lei, oggi, si trovava lì. Grazie a lei Lisa aveva potuto raccogliere una scheggia d’infanzia dopo aver vagato negli stanzoni vuoti incolori silenti sporchi, pieni di tutto e… di nulla.
Insieme a Giuliana, Lisa si era avventurata con il cuore in tumulto, avanzando silenziosa in quel luogo che non vedeva da tanto tempo.
I muri scorciati sberciati sfregiati mostravano ferite verdastre da cui colava un liquido scuro che, in alcuni punti, si spandeva per poi dividersi in rivoli che si diramavano per l’intera parete annerendola e ferendola.
Le porte e le finestre rimaste, sgangherate e sbilenche, di tanto in tanto cigolavano al refolo di vento che libero s’introduceva e, come un folletto dispettoso pareva seguirle.
Una mezza porta più sbrindellata delle altre, d’improvviso sbatté rimbombando nel vuoto, facendole sussultare.
“ Il folletto, si diverte” pensò Lisa, ma non osò comunicarlo a Giuliana. Di sicuro l’avrebbe presa per matta. Ma, Lisa sapeva bene che lì, il folletto dispettoso, lu munaceddhu (5) era esistito davvero e forse s’aggirava ancora tra quelle mura infrante.
Tante volte Lisa, nelle belle serate d’estate, vicino ad un falò o sotto il chiaro di luna, era stata ad ascoltare i racconti del nonno, della nonna e della gente che viveva nella masseria: narravano di folletti che si divertivano a fare piccoli dispetti ai bambini, agli adulti ed anche agli animali.
“ Guai, se ti prende di mira!” profferiva preoccupato qualcuno. Persino ai cavalli si mormorava facessero dispetti, intrecciando di notte le loro lunghe criniere e poi, aggiungevano: alcune volte il folletto ruba la biada ad un cavallo per darla a quello da lui preferito, così il malcapitato rimasto digiuno continuava a dimagrire. “ Bisognava, allora, – suggeriva qualche altro dargli da mangiare di più durante il giorno! Così, lu munaceddru era bello e beffato!” Tutti ridevano a questa trovata che, comunque, veniva presa seriamente in considerazione.
I ricordi continuavano a riemergere impetuosi, galoppanti proprio come puledri. Lisa, però, li tenne per sé. Era certa che Giuliana non ci avrebbe creduto. Intanto, procedevano guardinghe. Si fermò sulla soglia di una stanza, l’abbracciò con lo sguardo:
–Ecco Giuliana, questa era la mia camera – indicò. – Là, contro quel muro, c’era il mio lettino di ferro battuto dipinto ocra come le porte. Lì, in fondo, si trovava la grande cassapanca, alta e scura, dove la nonna riponeva la biancheria e dove nascondeva il cioccolato. Spesso il nonno di nascosto lo prendeva e me ne dava un pezzetto. Mi raccomando acqua in bocca. – m’imponeva . – lo sai cosa succede se la nonna lo scopre! –
Il cioccolato si poteva avere solo a colazione. Nonno lo prendeva con il caffè. Era tanto goloso il nonno! Quando, però, la nonna si accorgeva che ne mancava, lo rimproverava. Io facevo finta di nulla ed egli, senza replicare, se la rideva sotto i baffi, mi faceva l’occhiolino e usciva lasciando la nonna a “ predicare” (7).
Continuarono ad esplorare la stanza.
– Guarda Giuliana… questo era il ripostiglio. Conteneva lo zinco dell’olio, la capasa (8) delle olive sotto sale, la provvista della salsa, la capaseddha (9) dei fichi secchi con le mandorle, la damigiana del vino…Vieni, vieni a vedere il giardino dei frutti che si vedeva dalla finestra della mia camera…-.
Lisa e Giuliana guardarono oltre la finestra scardinata. Esistevano ancora le mura del fantomatico giardino…solo le mura…il resto era sterpaglia e abbandono e silenzio. Nemmeno gli uccellini cantavano in quella giornata umida di ottobre. Un’ondata di tristezza sommerse Lisa
– Di qua, di qua ! – intimò allora riscuotendosi. – Questa era la nostra sala da pranzo. Vedi com’è grande il camino? Oddio, da piccola mi pareva ancora piùgrande! Lì nell’angolo, su un tavolino, c’era la radio del nonno. Enorme, con l’occhio magico verde fosforescente. Guai a non posizionarlo bene! Finché non raggiungeva il suo preciso punto focale, si sentivano voci sovrapposte, musiche e scricchiolii vari; quando, finalmente, il nonno riusciva a disporlo esattamente, il verde fosforescente appariva in tutta la sua luminosità e squillante ci giungeva la voce del cronista che annunciava il giornale radio. Non sbagliava mai orario il nonno; era un appuntamento quotidiano quello della radio. –
“Silenzio! Sta cominciando il giornale radio, ” ammoniva con la sua voce imperiosa e la lunga pipa in bocca.
Sedeva vicinissimo alla radio, il gomito puntellato sul tavolino, la testa poggiata alla mano e in rispettoso silenzio ascoltava le notizie. A volte, però, si addormentava, sempre la pipa accesa in bocca; Lisa si meravigliava che, pur sonnecchiando, non le sfuggisse dalla bocca.
“ Nonno, ti sei addormentato! “ gli rimproverava Lisa alcune volte che rimaneva a sonnecchiare più a lungo. Egli allora si scuoteva “ ma che dici Lisa, non dormivo: ascoltavo ad occhi chiusi! “
Lei era sicura che dormisse ma non osava contraddirlo.
La radio parlava parlava, lui ascoltava o dormiva e tutti dovevano comunque fare silenzio o parlare a voce bassa perché: “ nonno sente il giornale radio!” Pareva un avvenimento di così grande importanza che tutto il resto passava in secondo piano:-“ aspetta, ne parleremo dopo il giornale radio!” “ Eh no, ora non può venire, sta ascoltando il giornale radio!”
Era il momento più importante della giornata del nonno: l’ascolto del giornale radio.
Era quello il filo magico e trasparente che legava la comunità della masseria al mondo, a quel mondo sconosciuto e virtualmente ricostruito attraverso le parole del cronista, a quel mondo invisibile che Lisa s’immaginava tutto racchiuso all’interno della radio. Così, una volta che riuscì ad eludere la sorveglianza degli adulti, decise di esplorare quel mondo fantastico chiuso nella grande scatola con l’occhio magico!
Quanto tempo, Lisa era rimasta a sognare! Tutto il tempo che il nonno ascoltava il giornale radio lei, in rispettoso silenzio, fantasticava. E lo aveva sognato davvero quel mondo misterioso e lillipuziano!
Si figurava all’interno della radio un mondo in miniatura! Immaginava piccoli omini che si muovevano senza sosta. Folletti e spiritelli curiosi che andavano in giro per il mondo, raccoglievano le notizie e poi le raccontavano attraverso la radio.
Quale fu la sua delusione quando, quel giorno, rimasta sola in casa, dopo essersi ficcata sotto il tavolino e poi sbucata dietro la radio, spiando all’interno vide soltanto un ammasso di fili colorati. Da dietro, nemmeno l’occhio magico, così bello vivido, si vedeva. Decisamente la radio era più affascinante nella parte anteriore!
– Vieni, vieni di qua Giuliana. Guarda! Vedi questi due chiodi vicino alla parete opposta del camino? Qui era appesa la grande piattera (9) di legno, dove la nonna riponeva i piatti con cui pranzavamo tutti i giorni.
I piatti erano di latta col righino blu e in terracotta col galletto al centro e intorno al bordo i fiorellini blu a cinque petali.
Dispiaceva a Lisa quando la nonna, riempiendole il piatto di minestra, ricopriva il galletto sul fondo; per rivederlo, allora, mangiava in fretta tutta la minestra.
– Ecco Giuliana, in quest’angolo c’era il lavandino di ferro col bacile di latta bianco e la brocca. – Stava all’angolo della porta d’ingresso.
Appena rientrati dal lavoro gli uomini prima di mettersi a tavola si rinfrescavano e si lavavano le mani. L’angolo in muratura è ora sberciato, non c’è più il lavandino dei sogni di Lisa, non c’è la piattera, non ci sono gli arazzi con i paesaggi veneziani e le gondole, non c’è il grande quadro del Sacro cuore di Gesù…ci sono solo i chiodi e al posto della piattera ci sono dei disegni osceni fatti con pezzi di carbone. Anche gli altri muri sono imbrattati di scritte e disegni osceni. Al posto degli arazzi e dei quadri di Santi, imperano le oscenità. Sono i graffiti moderni…dicono.
– Vieni Giuliana, andiamo fuori! –
Quasi si vergognava Lisa di far vedere a Giuliana tanto squallore e tanta volgarità. Si sentì, d’un tratto, a disagio tra quelle mura violate che sembrava la rimproverassero. Sono le mura che hanno sentito i suoi strilli di bimba, le prime risate, i primi canti stonati intonati insieme agli zii, al nonno, alla nonna.
– Dai! Vieni Giuliana. Usciamo!- intimò, anche se il varco non aveva più la porta. Erano rimasti attaccati gli stipiti con alcuni chiodi traballanti, ma della porta di legno nemmeno l’ombra!
Fuori Lisa si guardò intorno. Il lanternaio, al centro del terrazzo, che serviva a dare luce al frantoio nuovo, era ora rotto, invaso da un arbusto rigoglioso di fico. I muretti resistevano ancora, la colombaia era stata derubata di alcuni fregi, l’alta torre era ormai ridotta ad un ammasso di pietre informi…nessuna delle varie stanze che davano sul terrazzo aveva più la porta. Erano bocche aperte che gridavano, urlavano tutta la loro disperazione…gemevano, ma solamente Lisa sentiva i loro lamenti mentre continuava a volgere, inquieta, lo sguardo intorno.
D’un tratto con un piede aveva urtato qualcosa…aveva abbassato lo sguardo e, toh! Un avanzo di legno…un pezzo di una delle porte. Lisa lo aveva preso in mano con delicatezza come fosse di cristallo prezioso. Osservandolo ne aveva sfiorato la superficie come accarezzandolo. Un ragnetto, d’improvviso, era fuoriuscito da una fessura e smarrito era fuggito sul piano in cerca di un’altra crepa in cui nascondersi e poi alla fine si era calato attaccato al suo filo lucente. Lisa ne aveva seguita la discesa. Appena giù, il ragnetto aveva ripreso la sua corsa furibonda alla ricerca di un altro riparo. Lei aveva continuato ad osservare il suo prezioso avanzo di legno… c’era anche la maniglia di ferro arrugginito, ma immutata.
– Guarda Giuliana, è un pezzo della porta d’ingresso. Un pezzo della porta della mia infanzia….-
– Tienilo come ricordo, – Aveva suggerito Giuliana – è giusto che lo porti con te e trovi il modo di farlo rivivere. Sicuramente lo farai rivivere. – Sorrise. Lei ne era certa.
– Giusto, Giuliana. Ti prometto che rivivrà. Lo farò rivivere con tutta la sua storia. Lo riporterò al suo antico splendore.-
Era una promessa e Lisa sapeva che avrebbe fatto di tutto perché fosse mantenuta.
La promessa è promessa; e quella era più che una promessa. Era un fioretto, come quello che la nonna le ingiungeva di mantenere da bambina alla fine delle preghiere:
“ Fai un fioretto a Gesù Bambino. E… mi raccomando sforzati di mantenerlo!”
“ Che fioretto devo fare, nonna? “
“ Promettile quello che vuoi. Basta un piccolo sacrificio. Per esempio… che non mangerai il cioccolato di nascosto col nonno ”.
Lisa guardava la nonna che le sorrideva, poi faceva il fioretto e s’imponeva di mantenerlo per non scontentare Gesù che dall’alto del quadro, nella sala da pranzo, la guardava e la seguiva sempre con lo sguardo.
Ora Lisa, come allora, avrebbe mantenuto il fioretto; avrebbe fatto di tutto per dare ancora vita a quel pezzo di legno sghembo e sgretolato.
Con quella promessa nel cuore, si era avviata insieme a Giuliana uscendo da quel luogo di memorie in cui tutto le parlava di affetti, di tenerezze che avvertiva ancora impellenti sulla pelle mentre stringeva nella mano la maniglia “ti lu farcunceddhu” della porta della sua infanzia.
Tra le sorprese che la cattedrale di Nardò riserva possono senz’altro comprendersi i numerosi affreschi, per lo più quattrocenteschi, alloggiati sulle semicolonne e sulle facce dei due ordini di pilastri a base rettangolare della navata centrale, oltre che sulle pareti laterali delle due navate.
Tutti di buon livello qualitativo, qualcuno anche ottimo, sono stati descritti in più riprese dal De Giorgi, dalla Gelao e da Micali. In occasione dell’Anno Santo Giubilare del 2000, in una pubblicazione su Cesare Maccari e sui dipinti della cattedrale neritina, ebbi modo di trattarne anche io, integrando con ricerche archivistiche e notizie inedite desunte da protocolli notarili.
Da quel lavoro estrapolo gli affreschi che ritraggono il santo di Myra, ben tre, riproponendoli in occasione della festività che ricordiamo oggi in questo spazio.
Cominciamo dal primo, che si osserva sul secondo pilastro della navata sinistra (per chi entra), presumibilmente della fine del XIV secolo-inizi XV. E’ allocato sul lato settentrionale e lo ridenominai San Nicola tra Gesù e la Vergine. Ridipinto a tempera dopo la metà del XV secolo, il santo appare benedicente more graecorum, secondo lo schema bizantino. Ritratto frontalmente e a figura intera, veste tunica bianca, felonion rosso, omoforion bianco nerocrociato e tiene nella mano sinistra un Vangelo decorato con gemme. Appeso alla vita si intravede parte del fazzoletto (epigonation). In alto, a sinistra, la Madre di Dio porge il pallio, mentre all’ opposto il Cristo, anch’ esso a figura intera, porge al santo il Vangelo.
Le iniziali latine sono scritte in caratteri gotici; nel terzo inferiore sono graffite diverse iscrizioni greche ed ebraiche. Inquadra il tutto una cornice di color corallo, complementare all’ azzurro dello sfondo. Misura m. 2,48×0,80 e lo stato di conservazione è discreto.
Sul terzo pilastro, sempre della navata sinistra, è ritratto ancora un San Nicola, anche questo, come il precedente, della fine del secolo XIII, ridipinto a tempera nel secolo successivo.
La pittura è la meglio conservata rispetto alle altre del medesimo pilastro. Ritrae il santo frontalmente, a figura intera, inquadrato in un arco trilobato, in piedi sullo sfondo azzurro, con camice bianco e piviale (felonion)[1] rosso, stola (omoforion) nerocrociata, guanti bianchi, con la mano sinistra impugnante il pastorale. La testa è circondata da un’aureola raggiata gialla, mentre nella parte superiore, all’altezza della spalla, si legge il nome del Santo (NICOLAUS) e si ripete uno stemma nobiliare, rovinato in più punti e con parte degli smalti originari mutati nelle ridipinture[2].
Anticamente dotata di altare proprio, la cappella era sub titulo di S. Nicola il dipinto era alloggiato sempre nella navata sinistra, ma in luogo diverso dall’attuale.
Poco distante, in corrispondenza della base del campanile, vi è il trittico, recentemente restaurato, con S. Maria Maddalena orante, la Beata Vergine col Bambino e un terzo affresco con S. Nicola. Quest’ ultimo, in posizione frontale assisa, su sfondo scuro, benedicente alla greca, è vestito con camice bianco e solito felonion rosso, omoforion e guanti bianchi, sostenente con la mano sinistra un libro, poggiato sul ginocchio sinistro, su cui si legge Ecce sa/ cerdos/ magnus/ qui in di/ ebus su/ is placuit/ Deo et/ inventus.
Il volto è incorniciato dai capelli bianchi e dalla barba corta a riccioli. L’ affresco, di m. 2×0,80, è incorniciato da una banda gialla dipinta e mostra diverse scrostature, graffiti ed incisioni.
Il dolce più popolare del Salento. La sua storia, la ricetta
I “mustazzuèli ‘nnasprati“, noti pure come bisquetti, pisquetti, mustazzòli ‘nnasparati, scagliòzzi, scàiezzuli, castagnette, zzozzi… costituiscono il dolce più popolare del Salento, tanto che i suoi banchi di vendita sono praticamente immancabili in qualunque festa o fiera paesana che possa definirsi tale.
Amatissimi nella loro semplicità, sono a base di farina e rivestiti di “naspro” ovvero di glassa di zucchero fondente al cacao. Il termine “naspro”, è una voce tipicamente meridionale, derivata dal bizantino aspros = bianco, venne riportata per la prima volta negli scritti di Vincenzo Corrado che ne descrisse ben undici varianti. Nell’impasto di farina 00, rientrano: lo zucchero, lo strutto, gli agenti lievitanti e sovente scorze e succo d’agrumi, mandorle tostate, chiodi di garofano macinati, cacao in polvere, naturalmente ogni artigiano caratterizza la sua produzione con degli ingredienti più o meno segreti.
Si ricava un impasto piuttosto consistente, con il quale si ricavano delle forme schiacciate generalmente, romboidali o circolari, che si pongono su teglie e si cuociono in forno. Una volta raffreddati si ricoprono con una glassa di zucchero fondente e cacao detta in gergo, “naspro”. Si presentano di colore marrone scuro e lucidi, alla degustazione risultano dolci, ma non stucchevoli, friabili, morbidi e se ben
riusciti, hanno la caratteristica di sciogliersi in bocca.
La loro preparazione è certamente ultrasecolare, e da molto tempo vengono anche venduti in forma ambulante in tutte le fiere e feste paesane del Salento, ad opera di artigiani girovaghi, veri e propri pasticceri di piazza che si tramandano questo mestiere da padre in figlio. Fra le famiglie da più tempo impegnate in questa attività si annoverano: i Sorgente, originari dei paesi dell’hinterland leccese (San Cesario di Lecce e San Pietro in Lama); gli Assenzio di Campi Salentina; i Tamborrino di Matino; gli Stella di Martano e i Basile di Taurisano.
Il primo a portarli sulle piazze è stato prima della seconda guerra mondiale Luigi Sorgente, un’infanzia difficile alle spalle, figlio com’era di genitori ignoti, ma che armato di buona volontà non mise molto tempo a tirarsi un po’ su, giovanissimo si fece una famiglia e aprì un piccolo caffè gelateria a San Cesareo di Lecce e visto che i figli erano tanti e i clienti non erano molti pensò bene di andarseli a cercare. Comprò un’automobile (a quel tempo a San Cesario ve ne era solo un’altra), l’attrezzò come gelateria mobile e cominciò la sua avventura sulle feste e fiere paesane, ma la miseria era tanta, ogni scusa era buona per risparmiare, e il gelato, quando cominciava a fare un po’ di freddo forniva ai genitori una scusa ineccepibile: non ve lo compro senò vi ammalate! Fu così che Luigi, cui non andava giù l’idea di tenere il mezzo fermo durante la bassa stagione, venne l’ingegnosa idea di portare sulle piazze i mustazzueli ‘nnasprati, fu un grande successo. Questi, grazie anche al basso peso specifico risultavano relativamente economici e non fornivano seri appigli ai genitori dal braccino corto, che erano costretti loro malgrado a soccombere alle insistenze dei pargoli. Ma erano gli anni bui dell’era fascista, la guerra incombeva, quell’auto serviva alla patria, e gli venne senza troppe formalità requisita. Il fatto di avere una famiglia di sei figli e che quell’auto servisse al loro sostentamento non fece tornare sui loro passi i solerti e inflessibili delegati del Duce. Un’ingiustizia da fare scoppiare il cuore al più forte degli uomini e aggravata dal fatto che l’altra auto del paese era rimasta invece in possesso del
suo ricco proprietario. Sconsolato Luigi pensò che la causa di quello che gli era successo era un po’ dovuta all’invidia verso di lui, che partito da zero, stava riuscendo ad aprirsi comunque una strada senza chiedere niente a nessuno. Il colpo era stato duro, un’esperienza tanto brutta da bloccare l’intraprendenza di chiunque, ma non a lui che, temprato da una dura vita, non era certo tipo da arrendersi e poi c’erano i sei figli. Si fece allestire un triciclo a pedali e riprese subito a lavorare, qualche anno dopo avrebbero fatto la loro comparsa i Lambro dell’Innocenti ed egli sarebbe stato tra i primi a comprarselo.
Intanto, i suoi sei figli: Antonio, Daniele, Vito Mario, Romualdo, Salvatore e Pompilio cominciavano a diventare adulti, la dote per ognuno di loro fu un Lambro, qualche raccomandazione e un po’ di piazze da conquistare. Tutti i paesi della provincia, e non solo, cominciarono ad essere conquistati da un prodotto che presto divenne una tradizione delle feste. Sulle stesse piazze da tempo immemorabile lavoravano però
i copetari che a causa dei plebei mustazzueli cominciarono a vedere
contrarre le vendite della più prelibata, ma più costosa “copeta”.
Tanta gelosia di mestiere, qualche denigrazione verso questo prodotto e verso chi lo vendeva, ma alla fine qualcuno di loro capì che se non voleva rimanere al palo li doveva introdurre anche lui, nel giro di qualche anno capitolarono tutti, anche i più restii, solo che in conseguenza, i Sorgente iniziarono a vendere anche la copeta.
Naturalmente, questi dolci sono immancabili anche in tutte le pasticcerie e biscottifici che producono dolci tradizionali. La ricetta che segue, come vedrete semplice negli ingredienti, ma piuttosto elaborata nella preparazione, proviene da una valentissima maestra pasticciera di Galatone che ha operato per molti anni a Nardò, formando
una folta schiera di bravi pasticceri, se diligentemente eseguita vi regalerà un prodotto davvero straordinario.
Ecco la ricetta:
-Ingr.: 1
kg. di farina, 4 uova, 1 bustina di vaniglia, 400 g di zucchero, 20 g d’ ammoniaca, 100 g d’olio, latte quanto basta, 50 g di cacao , chiodi di garofano e cannella macinati, le scorze e il succo di un limone e di un mandarino, le scorze grattugiate di un limone e di un mandarino.
Preparazione: Fate fumare l’olio, calate le scorze del limone e del mandarino e lasciatelo raffreddare. Nel frattempo prendete la farina e disponetela a fontana, ponete in mezzo il succo di limone e di mandarino e le scorze grattugiate, quindi qualche pizzico di chiodi di garofano e cannella macinati, il cacao e mescolate il tutto. Unite pure l’olio aromatizzato in precedenza e amalgamate. Aggiungete infine le uova già mescolate all’ammoniaca, sciolta nel latte caldo aromatizzato con la vaniglia, e lo zucchero. Impastate e lavorate bene il tutto aggiungendo ancora latte qualora l’impasto dovesse risultare duro.
Stendete la sfoglia portandola allo spessore di 1 cm circa e ricavate delle forme romboidali o altre a vostro piacere. Disponetele nella teglia per la cottura al forno. Una volta cotti, lasciateli raffreddare e glassateli con zucchero fondente al cacao (“naspro”) ottenuto mescolando su fuoco lento 750 gr. di zucchero a velo, con 200 gr. di cacao in polvere e aggiungendo a riprese 250 gr. d’acqua, lo stesso sarà pronto quando, addensandosi, comincia a filare. A questo punto, calate i mustazzueli pochi per volta nella glassa, rigirateli delicatamente; quindi sgocciolateli e poneteli ad asciugare su della
carta oleata. Potete glassarli anche con glassa bianca, seguendo la ricetta che segue. Versate in una casseruola 750 grammi di zucchero a velo, bagnatelo con un po’ d’acqua e ponetelo sul fuoco, mescolando sino a quando inizia a formare bollicine. Unite 2 albumi montati a neve ferma, aggiungete un po’ di succo di limone e mescolate per bene.
Per noi di Tuglie che ai tempi della nostra adolescenza gironzolavamo dalle parti dell’Oratorio, la ricorrenza di San Nicola era la prima festa che ci introduceva al clima e all’atmosfera natalizia del mese di Dicembre.
Non che ci fosse un’antica devozione verso questo Santo, ma l’avere come arciprete il nostro amato e ormai scomparso Mons. Nicola Tramacere ci portava tutti in chiesa per la celebrazione della messa e per festeggiare il suo onomastico.
Poi crescendo, leggendo e soprattutto gironzolando per le chiese e le cripte del Salento, mi ha fatto pian piano scoprire molti temi legati alla figura di questo Santo orientale profondamente interconnessi con la nostra terra e con la nostra storia.
La devozione verso questo Santo viaggia verso la nostra terra sulle imbarcazioni che portarono nel lontano 700 i monaci basiliani a popolare i nostri luoghi per sfuggire alle persecuzioni orientali e la furia iconoclasta dell’imperatore bizantino Leone III Isaurico.
Della vita di questo Santo, vissuto a cavallo tra il 200 e 300 d.C. in Licia, si tramandano alcune sue azioni che danno la misura della sua santità e che sono diventate motivo della sua devozione e di alcune credenze popolari legate alla sua figura.
Divenuto erede di un grande patrimonio a causa della prematura morte dei suoi genitori, si impegnò alacremente per aiutare i bisognosi della sua terra.
Si narra che Nicola, venuto a conoscenza di un ricco uomo decaduto che voleva avviare le sue tre figlie alla prostituzione perché non poteva farle maritare decorosamente, abbia preso una buona quantità di denaro, lo abbia avvolto in un panno e, di notte, l’abbia gettato nella casa dell’uomo in tre notti consecutive, in modo che le tre figlie avessero la dote per il matrimonio. Per questo motivo viene considerato una sorta di protettore e patrono delle donne nubili (zitelle).
Un’altra leggenda non fa riferimento alle figlie del ricco decaduto, ma narra che Nicola, già vescovo resuscitò tre bambini che un macellaio malvagio aveva ucciso e messo sotto sale per venderne la carne. Anche per questo episodio san Nicola è venerato come protettore dei bambini e, in alcuni paese, la notte del 5 dicembre è tradizione mettere degli stivali fuori dalla porta di casa affinché il Santo li possa riempire di dolciumi
In alcuni paesi dell’Europa orientale, la tradizione vuole che porti una verga ai bambini non meritevoli, con cui i genitori possano poi punirli.
L’immagine del Santo è presente in molte cripte e chiese del Salento, e di Maglie, a cui si riferiscono le foto, ne è il Santo Patrono.
E proprio in questa cittadina del leccese si tramandano delle tradizioni legate al suo essere protettore delle donne nubili e in particolare di coloro che tardavano a maritarsi. Giovani donne che non trovavano fidanzato o donne ormai in età non più tanto giovane e in conclamato “ritardo” sull’argomento matrimonio. Le zitelle.
La tradizione vuole che la zitella, per chiedere l’intercessione del Santo, si dovesse rivolgere a lui dicendo:
“Santu Nicola meu se nu ‘me ‘mmariti, paternosci de mie nu ‘nne spittare”.
E sempre secondo la tradizione, che a ben pensarci vede un San Nicola particolarmente in vena di parlare, il Santo risponde:
“Quando troi la sorte saccitela pijare”.
Come ben sappiamo, nell’antico ma anche nel recente passato, lo stato di zitella o di donna senza figli veniva vissuto quasi come una sorta di castigo di dio (volutamente in minuscolo). A volte considerato quasi come uno stato di peccato che impediva, nello specifico, il maritarsi. Fortunatamente i tempi cambiano.
Le immagini che vedrete sono quelle dei tre simulacri portati in processione il giorno della festa. Con San Nicola, sono portate per le strade della cittadina anche le statue della Madonna delle Grazie e di Sant’Oronzo.
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di seguito il link al video delle foto del giorno di festa
Sulla dorsale collinare che si estende in direzione Sud-Est, sul lato settentrionale della via che collega Montesardo con la frazione di Sandana è la chiesa dedicata a Santa Barbara, appartenente ad un monastero femminile benedettino; attiva in età angioina, l’abbatia Sanctae Barbarae fu abbandonata dalle religiose certamente prima del 1590, anno dalla relazione ad limina del 1590 del vescovo della diocesi di Alessano Ettore Lamia, il quale dichiarava che monasteria monialium in dicta civitate (i.e. Alexanus), et in eius dioecesi non ad sunt; la chiesa continuò invece ad essere officiata e a portare una rendita di 80 ducati annui al conte di Alessano, sotto il cui patronato si trovava la chiesa dopo l’abbandono del monastero: de iure patronatus Comitis Alexani valoris ducatorum 80 quae repetitur commendata dominio Joanni De Doio presbitero Brixiensi.
I documenti medievali più antichi relativi al monumento sono rappresentati dal rapporto dei collettori delle decime pontificie relative agli anni 1324 e 1325, sebbene in entrambe le circostanze la struttura convenutale sia erroneamente indicata al Alessano, che distava da Montesardo poco più di 3 km.
La chiesa di Santa Barbara compare quasi un secolo dopo in un atto notarile del 29 maggio 1599 con cui il barone Orazio Trani di Tutino, procuratore dell’abate Faraone commendatario dell’abbazia di Santa Barbara, dà in consegna al conte di Montesardo gli arredi della chiesa.
Una breve ma interessante descrizione della chiesa è contenuta nella visita pastorale del 1628; i benefici «sotto titulo di S. Barbara, sito in proprio Cappella fuori l’abitato di Montesardo» sono invece elencati nel catasto onciario di Montesardo.
Dalle prime sommarie descrizioni dell’edificio, cui si aggiunge una recente analisi della decorazione pittorica, si è giunti ora ad uno studio organico che ha previsto l’analisi stratigrafica degli alzati, agevolata dal rilievo analitico delle murature, opportunamente integrato con i dati derivanti dalle, seppur scarse, fonti documentarie. L’insieme delle informazioni così ottenute è, infine, risultato utile ad una più completa lettura della funzione del monumento all’interno del paesaggio storico in cui si colloca.
La chiesa, utilizzata negli ultimi decenni come fienile, è stata recentemente acquisita dall’amministrazione comunale di Alessano; al momento è in stato di abbandono, in attesa di un corretto recupero delle testimonianze edilizie e pittoriche d’età medievale, in parte nascoste da maldestri interventi di restauri, e di un’auspicabile indagine archeologica.
L’edificio, oltre ad alcuni piccoli interventi di manutenzione subiti dopo aver perso la funzione sacra, conserva grossomodo le caratteristiche architettoniche originali, con impianto a navata unica rettangolare di m 11,50×5 desinente in un abside semicircolare.
La facciata, esposta ad Ovest, è articolata in una porta d’accesso con architrave monolitico sormontato da una lunetta nella quale sono visibili resti di intonaco che costituiscono, probabilmente, ciò che rimane del supporto di un affresco. Subito al di sopra della lunetta è posizionato il rosone, oggi occluso da conci di tufo, che presenta una sottile modanatura interna alla circonferenza. L’apparecchiatura muraria in facciata è realizzata con conci in calcarenite locale disposti in corsi regolari legati da malta terrosa a base di calce. Sul lato sinistro, alla base della parete e dello stipite destro della porta, sono reimpiegati quattro blocchi di dimensioni maggiori, che costituiscono materiale di riutilizzo forse riferibile alle mura in opera quadrata che cingevano l’abitato messapico di Montesardo e che dovevano correre poco lontano (Il fenomeno del riuso di elementi di spoglio in edifici di culto medievali è ben riconoscibile nelle vicine chiese di San Pietro presso Giuliano e San Giovanni a Patù nelle quali sono reimpiegati elementi architettonici provenienti da edifici funerari d’età imperiale della necropoli orientale di Veretum); Il prospetto meridionale presenta una muratura differente da quelle della facciata e del retro: i conci, anche se disposti in corsi regolari, non sono perfettamente squadrati e i vuoti sono riempiti con zeppe litiche di piccole dimensioni e da frammenti di coppi. Nella struttura sono presenti tre catene verticali disposte a distanza regolare l’una dall’altra costituite da conci messi in opera di testa e di taglio. Questa stessa situazione si riscontra anche sul prospetto Nord, ma con la differenza che da questo lato si apre un varco d’ingresso; tra la spalla destra su cui si imposta l’arco che sovrasta l’apertura e lo spigolo destro della muratura si sviluppa una catena che, come sul lato Sud, è costituita da conci squadrati disposti di testa e di taglio; sul lato opposto del varco la catena è assente, probabilmente a motivo del ridottissimo spazio rimanente tra la spalla sinistra dell’arco e lo spigolo del muro. Anche la muratura del prospetto posteriore è costituita da conci disposti in corsi regolari, le cui dimensioni risultano però costanti.
L’abside, orientata ad Est, è diruta e se ne legge l’innesto della muratura che sporge di pochi cm dal prospetto orientale. Un rozzo muro di tompagno costruito con blocchi squadrati chiude attualmente l’apertura.
Le murature dell’intero edificio presentano tecnica uniforme che prevede due paramenti in conci squadrati ed un nucleo murario a sacco con spezzoni di pietre di piccole dimensioni e frammenti ceramici allettati con malta terrosa.
All’interno, lungo la parete Nord si apre una porta che fungeva da ingresso secondario, forse collegato agli attigui ambienti monastici; il muro è per la maggior parte ricoperto da una spessa scialbatura di calce che in alcuni punti si è distaccata, facilitando la comprensione della fisionomia dell’apparecchiatura muraria interna. Il paramento appare realizzato con conci in calcarenite di dimensioni variabili disposti in corsi regolari. In alcuni punti questa regolarità viene interrotta dall’utilizzo di pietre di piccole dimensioni o da conci appena sbozzati e disposti in modo casuale (segno di restauri tardi), alcuni dei quali conservano tacce di affresco. Lungo questa parete si conserva la raffigurazione di una Déesis, sebbene la figura del Battista sia andata perduta, residuo della prima fase decorativa, datata al primo Trecento. L’intradosso della volta presenta tracce di un restauro avvenuto probabilmente in tempi recenti: si tratta di uno strato di intonaco imbiancato sul quale sono stati disegnati i giunti dei conci, ad imitazione della tecnica costruttiva della volta.
La parete Sud mostra, alla base, i resti di un gradino che sembra delimitare la zona presbiterale; in corrispondenza del gradino, ad una distanza di circa 1 metro, si apre una piccola nicchia e, a destra di questa, si collocava un’apertura più ampia, ora occlusa con conci di tufo. Oltre, si conservano le figure di Santa Barbara con il canonico attributo iconografico della torre sorretta nella mano destra, e di un San Bernardino da Siena (la presenza di questo santo nell’affresco salentino costituisce un valido terminus post quem per la realizzazione della facies pittorica, da collocare dopo il 1444, anno della morte del Santo). Non si tratta di un pannello isolato, ma di una raffigurazione che va letta in una più articolata sequenza di santi e sante nascosta sotto uno spesso strato di calce, come si intuisce da alcuni frammenti riaffiorati sulla parete in questione. La decorazione, quindi, comprendeva più unità figurative disposte ad altezza uomo che convergevano verso l’abside, ricalcando uno schema di tradizione bizantina diffuso nei più noti cicli tardogotici del Salento. Due esempi si trovano nella chiesa di Santo Stefano a Soleto e Santa Maria della Neve a Galugnano. In quest’ultima, nelle figure delle sante Lucia, Orsola e Caterina d’Alessandria si riconosce la mano del Maestro di Nicola Antonio e Cesare Livieri, un pittore di Galatone, al quale probabilmente si può collegare anche la Santa Barbara di Montesardo.
Nella parete di fondo dell’aula, l’apertura dell’abside, con corda di 3 m, è occlusa da un muro realizzato a secco con la messa in opera di conci di tufo, alcun dei quali mostrano evidenti tracce di affresco, provenienti, probabilmente, dai vicini resti dell’abside; sul lato sinistro il muro posticcio non si addossa all’attacco del muro absidale, lasciando a vista parte degli affreschi che decoravano il catino absidale, attribuiti alla seconda fase decorativa datata tra il primo e il terzo decennio del XIV secolo (Si riconosce una figura di santa che, sebbene non siano leggibili iscrizioni esegetiche che lo confermino, potrebbe essere riconosciuta nella Santa cui è titolata la chiesa).
A destra dell’abside si trova una piccola nicchia occlusa da un concio di riutilizzo sul quale si conserva un lacerto d’affresco in cui si distingue un abito vescovile.
Nei secoli l’edificio ha subìto alcuni interventi che hanno modificato la struttura originaria dei prospetti e della pianta. La planimetria, che comunque conserva le misure originarie dell’aula interna, ha riportato variazioni lungo le pareti esterne settentrionale e meridionale, le quali hanno subito un ispessimento pari al doppio della larghezza originaria, mentre la lunghezza dei muri est e ovest è stata aumentata di oltre un metro.
È possibile leggere questi interventi come conseguenza della sostituzione dell’originale copertura a capriate lignee, la cui esistenza è suggerita dalla fisionomia dei prospetti est ed ovest, con una copertura a volta in muratura (la sostituzione della copertura a capriata con un sistema di volta a botte è documentata in numerosissimi edifici medievali salentini), di maggiore peso e che quindi necessitava un rafforzamento delle murature su cui gravare. Sulla facciata e sul prospetto posteriore sono chiaramente riconoscibili i due contrafforti che si sviluppano per la lunghezza dell’edificio addossandosi alle pareti preesistenti e che hanno il compito di resistere alle spinte determinate dal peso della volta.
Sulla facciata, subito sotto la linea delle falde del tetto, si riscontrano altri interventi di piccola entità; si tratta di restauri eseguiti grossolanamente, con malta a base di cemento, per riempire le lacune createsi tra il tetto e i conci con lo scopo di evitare, forse, eventuali infiltrazioni.
Sul retro della chiesa si notano invece ben più evidenti segni di restauro: la tamponatura di conci squadrati realizzata, evidentemente, dopo il crollo, probabilmente forzato, del catino absidale (l’assenza dell’abside ha compromesso la stabilità strutturale dell’edificio che presenta internamente un’evidente lesione longitudinale passante per tutta la lunghezza della volta e alcune lesioni sulla parete absidale); l’incasso, visibile a destra, dell’abside realizzato per l’appoggio di una tettoia; la gettata di cemento con impronte di coppi sul profilo basso; il restauro visibile tra il tetto e l’abside, caratterizzato da una muratura chiaramente differente che prevede l’utilizzo di conci di pezzatura inferiore. La realizzazione della tettoia potrebbe, invece, essere attribuibile ad un periodo molto recente, quando la chiesa era utilizzata come deposito per attrezzi e fienile.
Dall’analisi strutturale effettuata emerge dunque che l’edificio ha avuto almeno due fasi architettoniche principali. La prima, collocabile in un periodo anteriore al 1324, anno della decima pontificia registrata dalle fonti, riguarda la costruzione della chiesa che presentava un tetto costituito da capriata lignea e aveva dimensioni in facciata inferiori rispetto a quelle attuali. Nella seconda fase si verificò la sostituzione della copertura in legno con una volta quasi ogivale in muratura e la conseguente costruzione dei muri di rinforzo sui lati Nord e Sud; quest’intervento deve essere stato realizzato certamente prima del 1628, anno della visita pastorale in cui la chiesa appariva fornicata, ovvero era già provvista di una volta in muratura.
Se la fisionomia attuale della chiesa è il risultato di un’evoluzione edilizia avvenuta in due periodi principali a cui sono seguiti alcuni interventi minori avvenuti tra il XVI ed il XX secolo, non mancano comunque i richiami ad altri pressoché coevi edifici salentini, rappresentanti di quell’architettura romanica del Trecento ben riconosciuta nel Santo Stefano di Soleto e nel S. Giovanni Evangelista di San Cesario. Di queste due chiese la Santa Barbara di Montesardo ripete, approssimativamente, le dimensioni, il modello ad aula unica desinente in un’abside centrale, con rosoncino sulla facciata, portale e piccola porta laterale sulla fiancata sinistra, nonché le piccole nicchie interne ricavate nei muri. Precisi riferimenti alle soluzioni tecniche adottate nella fabbrica dei contrafforti esterni, caratterizzata dall’uso di pietrame di pezzatura irregolare alternato a catene di conci squadrati si trovano, ad esempio, nella tecnica costruttiva delle vicine mura di fortificazione del borgo di Montesardo, databili come detto al tardo Quattrocento, mentre per restare nell’ambito di edifici religiosi, i confronti più prossimi si trovano nella chiesa di San Michele Arcangelo presso Corigliano, nella quale compaiono, però, solo catene angolari.
La tecnica costruttiva dell’edificio originario, che si intravede nel lato nord della fabbrica, nel punto in cui si apre il varco dell’ingresso laterale e che appare del tutto simile a quella utilizzata in facciata, si ritrova invece nel Santo Stefano di Soleto, nel San Giovanni Evangelista di Miggiano a Muro Leccese, dalla quale si discosta però per caratteristiche planimetriche.
La chiesa di Santa Barbara si colloca, dunque, nel panorama architettonico salentino tra le forme minori di architettura religiosa, come luogo di culto inizialmente legato ad un monastero e, in seguito, come luogo di culto extraurbano, mantenuto attivo e capace di alte rendite. L’analisi stratigrafica degli elevati condotta sul monumento non basta da sola a fornire elementi di cronologia assoluta, almeno per quanto riguarda l’impianto originario, ma il complesso dei dati architettonici, topografici e storici sembrano convergere verso una datazione inquadrabile nel basso medioevo, suggerita e sostenuta anche da considerazioni di carattere storico artistico sui cicli pittorici.
BIBLIOGRAFIA
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D. VENDOLA, Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Apulia – Lucania – Calabria (con tre grandi carte topografiche), Città del Vaticano 1939.
Il saggio, in forma più ampia, è stato pubblicato sui Quaderni del Museo della Ceramica di Cutrofiano n°12.
Detti anche dolcetti bianchi, sono dei dolcetti di pasta di mandorle salentina, ripieni di faldacchiera e glassati con zucchero fondente.
La loro storia rimarca quella della pasta di mandorla della quale sono una versione elaborata rigorosamente monodose. Per decenni, sino al boom economico degli anni Sessanta, questi dolcetti hanno costituito per i salentini il “complimento”, ossia il rinfresco, per antonomasia. Tanto da meritarsi appunto l’appellativo di dolcetti di sposa; con il rosolio e i confetti non potevano assolutamente mancare ad un ricevimento nuziale o in altre ricorrenze speciali.
Una versione, un poco più elaborata e se vogliamo un po’ civettuola, della classica pasta di mandorle, evolutasi man mano nelle cucine più opulente, sino ad approdare nei primi caffè pasticceria di cui divennero ben presto un’esclusiva, pezzo forte dei buffet che questi preparavano. Diverse storiche pasticcerie salentine, custodiscono invariate le antiche ricette, i migliori hanno un gusto tipicamente orientale conferitogli dal giusto dosaggio dell’elisir impiegato nella farcia e nel magistrale inserimento del caffè in polvere.
La loro, è una lavorazione molto accurata che inizia con la scelta di mandorle d’ottima qualità, (particolarmente indicate le varietà baresi e le Agatucce salentine) bollitele eliminate loro la cuticola esterna. Aggiungete lo zucchero, e macinatele sino ad ottenere una pasta omogenea. A questo punto modellate i dolcetti dando loro varie forme (tondi, ovali a punta) e farciteli con faldacchiera, rigorosamente nella versione fluidificata con liquore (per questo scopo, meglio con un elisir tipo San Marzano); e con un pout porry di spezie (cannella, chiodi di garofano e caffè in polvere). Lasciateli rassodare per qualche ora e passateli nella glassa di zucchero fondente bianca.
QUANDO LA CHIMICA E LE MUTAZIONI GENETICHE ARTIFICIALI NON ERANO NEMMENO FANTASCIENZA…
La fica quàgghia
di Armando Polito
É una delle varietà1 di fichi, varietà innumerevoli fino alla metà del secolo scorso e di cui oggi sopravvivono, col nome, solo pochi esemplari. Non è di mia competenza indagare sulle cause, d’altra parte facilmente intuibili, che hanno portato all’estinzione, o quasi, di questa e di altre varietà e di altre specie di alberi da frutto. Indietro non si torna ma l’etimologia, essendo in fondo l’archeologia della parola, permette di non recidere completamente i rapporti col nostro passato e con le nostre radici.
I nomi dialettali delle varietà di fico sono generalmente legati anche nel Salento al luogo d’origine (indrisìnu= brindisino), al perido di maturazione con riferimento alla stagione (arnèa=invernale), ad una data ben precisa (sangiuànni=San Giovanni, 24 giugno), all’eventuale proprietario o ad una persona cui si dedicava il frutto in segno di rispetto (ti la signura o signùra=della signora o signora, delabbate=dell’abate), alla forma e colore del frutto (milungiàna=melanzana).
E quàgghia? Chi se ne è occupato ha sempre pensato che il nome fosse collegato alla forma e al colore e che il frutto evocasse la quaglia. Io credo che le cose stiano diversamente e che quàgghia non sia altro che la terza persona singolare del verbo quagghiàre=cagliare.
É noto che anticamente, forse prima ancora prima dell’uso della sostanza estratta dall’abomaso di ruminanti lattanti, la cagliatura del latte prevedeva l’impiego di sostanze vegetali tra cui il latte di fico o un’erba del genere Galium,voce che è dal greco gàlion/gàllion=caglio o erbazolfina. Sul gàlion ecco la testimonianza di Dioscoride Pedanio (I° secolo d. C.)2:
Il galion alcuni lo chiamano gallerio, altri galapo; è chiamato così perché fa cagliare il latte3al posto del caglio. Ha il ramoscello e le foglie simili a quelli dell’aparina [bardana]; il fiore in cima è giallo, piccolo, denso, molto profumato. Il fiore riscaldato viene applicato sulle ustioni, ferma le emorragie; mescolato con unguento di cera rosato, essiccato fino a diventare bianco, elimina la spossatezza. La radice è afrodisiaca. Nasce in luoghi paludosi.
Nel mondo romano veniva utilizzato il latte di fico, secondo la coeva testimonianza di Plinio: Naturalishistoria, XVI, 72: Umor et corpori arborum est, qui sanguis earum intellegi debet, non idem omnibus: ficis lacteus – huic ad caseos figurandos coaguli vis…(Anche gli alberi hanno un liquido che deve essere inteso come il loro sangue, non uguale per tutti: latteo, quello del fico ha il potere di coagulazione per creare i formaggi…).
E, sempre in quel secolo (I° d. C.), Columella (De re rustica, VII, 8, 1-2), pur privilegiando il latte di fico (tratto, a quanto pare, dal ramo), integrava il quadro: Is porro si tenui liquore conficitur, quam celerrime vendendus est, dum adhuc viridis sucum retinet, si pingui et opimo, longiorem patitur custodiam. Sed lacte fieri debet sincero et quam recentissimo – nam requietum vel aqua mixtum celeriter acorem concipit – et id plerumque cogi agni aut haedi coagulo, quamvis possit et agrestis cardui flore conduci et seminibus cneci nec minus ficulneo lacte, quod emittit arbor, si eius virentem saucies corticem. Verum optimus caseus est, qui exiguum medicaminis habet. Minimum autem coagulum recipit sinum lactis argentei pondus denarii, nec dubium quin fici ramulis glaciatus caseus iucundissime sapiat.
(Se questo [il formaggio] è fatto con un latte leggero dev’essere venduto quanto prima, mentre ancora mantiene il colore di fresco; se è fatto con un latte grasso e ricco tollera una conservazione più lunga. Ma [il formaggio] dev’essere fatto da un latte genuino e quanto più possibile fresco – infatti [il latte] non fresco o misto ad acqua rapidamente diventa acido – e coagulato per lo più col caglio di agnello o di capretto, sebbene possa essere rappreso anche col fiore di cardo selvatico e con i semi di cneco [cartamo o zafferanone], nonché col latte di fico che l’albero emette se ne incidi la corteccia verde. A dire il vero è ottimo quel formaggio che ha meno caglio. Una minima quantità di caglio corrispondente al peso di un denario d’argento basta poi per un secchio di latte e non c’è dubbio che il formaggio cagliato coi rami del fico ha un sapore gradevolissimo).
La conferma della sopravvivenza fino a tempi più recenti della pratica attestata da Dioscoride viene dal Vocabolario siciliano di Michele Pasqualino, Palermo, Reale stamperia, tomo IV, 1790, pag. 203, in cui al lemma Quagghia leggo: “Latti o Galju, sorta d’erba così detta dal rapprendere il latte. Gallio. Gallium Inteura C.B.P. 335 e Tour. Inst. 115. Gallium verum L. Sp. Pl. pag. 155”.
E oggi? Limitato l’uso del caglio vegetale a prodotti di nicchia4, anche l’utilizzo dell’abomaso (che svuotato, essiccato e stagionato prende il nome di pelletta) è passato prima ad una fase meno naturale (caglio purificato, liquido, in polvere o in pastiglie, preparato industrialmente per estrazione della chimosina dalle pellette) e successivamente a quella artificiale (cagliochimico, cioè chimosina prodotta tramite le nuove tecniche del DNA ricombinante: in alcuni microrganismi, ad esempio l’Escherichia coliK 12, è stato inserito il gene che regola la sintesi della chimosina tramite l’inserzione di questo in un plasmide vettore che viene inserito poi in un microorganismo vivente5).
Sulla scorta di quanto fin qui riportato è azzardato supporre che quàgghia costituisse la varietà privilegiata nell’uso del suo latte6 per cagliare quello animale e che non abbia niente a che a fare col volatile rispetto al quale, tra l’altro, presenta discutibilissima somiglianza di forma e colore?
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1 Era l’unica varietà di fico il cui frutto poteva essere conservato in alcol etilico.
2 Il testo greco è riprodotto dall’edizione parigina uscita per i tipi di Petrus Haultinus nel 1549, pag. 226 ; la traduzione, come quella dei brani latini che seguono, in parentesi tonde, è mia.
3 In greco gala.
4 I pochissimi che ancora adottano sostanze vegetali nel processo produttivo usano il succo di cardo selvatico (Cynaracardunculus) che, rispetto all’abomaso dell’agnello, conferisce minore stabilità alla cagliata e comporta una minore resa in formaggio e ricotta ma fa assumere un particolare, gradevolissimo profumo al prodotto che, nel caso di utilizzo dell’abomaso (si parla di produzione non industriale), è soggetto ad acquisire un sapore e un olezzo di stallatico.
5 Fortunatamente, ma per quanto ancora?, i formaggi territorialmente tipici non possono essere prodotti con questa tecnica; per quanti vantaggi essa possa comportare (tra cui l’incremento del titolo che per il caglio naturale è di 1:5000 , passato, per il purificato, rispettivamente a 1: 10000 per liquido, a 1: 100000 per quello in polvere e a 1:20000 per quello in pastiglia) valeva la pena rinunziare alle eventuali sostanze attive presenti nella pelletta e, magari, ancora non isolate?
6 Le proprietà del latte di fico in genere (tratto dal frutto acerbo) erano ben note alla “medicina della nonna”, che lo usava, in alternativa alla cozzanuta (TandoniaSowerby, Férussac, 1823) strofinata sulla parte, per eliminare li puèrri ( le verruche): il primo rimedio è già indicato da Plinio, Naturalishistoria, XXIII, 63: Idem cum axungia verrucas tollit. (Lo stesso [il latte del fico] mescolato con sugna elimina le verruche).
L’ultimo breve periodo di speranza che si possa ancora ricordare, risale alla fine degli anni ’60 e fu stroncato sul nascere dalla cosiddetta “strategia della tensione,” che non si limitò alle stragi di vittime innocenti ma rispolverò la filosofia dell’individualismo, tanto cara ai governi conservatori di questi ultimi anni.
La paura è nemica della speranza e a partire dagli anni ’80, la gente cominciò a barricarsi in casa. Quel imponente ripiegamento di massa fu chiamato” riflusso” che concretamente significa rinuncia, dietrofront. Il tutto all’insegna dello slogan: “Privato è bello”.
Da allora sono passati ormai troppi anni e non credo che oggi la gente sia felice, chiusa in casa e in se stessa: Per la sua tranquillità non sono bastati tutti i sistemi di sicurezza possibili: lucchetti, porte corazzate, videocitofoni, telecamere, sistemi di allarme, cani da guardia, guardie giurate, siepi, muraglie e filo spinato e non ultimo la legge che autorizza a sparare a vista. Ma fuori, del nemico neanche l’ombra (tanto poteva entrare via cavo). E per via cavo, invece di cultura, entra una concezione deformata e volgare della realtà che ha seriamente danneggiato la sensibilità della gente e la sua disponibilità ad emozionarsi. Senza emotività e stimoli culturali i liberi cittadini non hanno più parlato e i liberi pensatori non hanno più pensato. Mi riferisco ai tanti e qualificati intellettuali che abbiamo in tutto il paese, sono ormai decenni che questi ultimi non scendono sulle piazze.
Essi, abbandonati dalla gente comune, si sono isolati in cerca di se stessi: alcuni si sono limitati a un dialogo chiuso all’interno della propria categoria, senza un coinvolgimento popolare, altri, i più validi, hanno perso ogni speranza. Sul fatto che non ci sia più speranza essi hanno ragione ma non è questo il problema. Il problema vero è la loro solitudine, che è la stessa di tutti noi: una solitudine né voluta, ne casuale: la soluzione di questo problema è la premessa per un nuovo clima di speranza. Un intellettuale, si sa, è per certi versi una figura scomoda, se poi sta tra la gente lo è a maggior ragione perchè tra la gente crea Speranza, dividi le due cose e la speranza muore. Prova ne è il fatto che oggi effettivamente non si intravede all’orizzonte nessuna grande idea e nessun progetto di società che sia in grado di risvegliare grandi ideali e stimolare passione.
I governi che si susseguono a malapena riescono a portare avanti il disbrigo dell’ordinaria amministrazione con programmi a breve termine. Direbbe Platone: “Quando uno Stato è male amministrato è giusto cominciare a trasformare intanto la nostre coscienze”. Io spero che partirà dai nostri intellettuali la richiesta di riscatto della nostra dignità storica e morale e il ripristino dei valori della nostra cultura classica e universale. “I beni materiali di ogni società più vengono ripartiti più diminuiscono, la cultura invece è l’unico bene dell’umanità che al contrario diventa più grande se più distribuito” (Hans G. Gadamer). A loro e a una nuova speranza che sia di supporto e di stimolo per tutti, dedico, come racconti per adulti e bambini, queste mie modeste riflessioni.
“Quasi una ninna nanna”
Non deve essere facile per un bambino appena nato essere fiducioso e tranquillo in un mondo che lo sovrasta per la sua enormità, lui così fragile e indifeso. Ma c’è la mamma che lo tranquillizza e gli somministra una razione giornaliera di fiducia e speranza. Lo fa con ogni modo: la mammella, i baci e le carezze; lo fa cantilenando e discorrendo con il bambino. La mamma gli parla, il bambino non la comprende ma la guarda negli occhi e capisce che quelle della mamma sono buone notizie, che fanno ben sperare e si addormenta.
“La cometa e i fuochi di artificio”
La speranza viene vissuta come una vigilia: nella tradizione popolare e religiosa è rappresentata da quel lungo periodo in cui le anime del Purgatorio vivono in attesa dell’Avvento che culmina con la venuta del Messia e della liberazione dalle loro pene. A segnalare e simboleggiare la sua venuta è una stella cometa che indica un orientamento, una direzione. C’è ancora oggi, da parte della gente, il bisogno e la necessità che un corpo celeste, al di sopra di noi, indichi una presenza e una direzione. Nelle feste dei santi protettori, altre popolazioni di anime “penanti” ma dello stesso purgatorio, hanno sostituito le comete con i fuochi artificiali. Il finale di ogni festa è sempre uguale: Allo spegnersi di ogni cometa e allo scoppio dell’ultimo e dirompente botto di ogni fuoco artificiale, c’è il silenzio e il buio totale. E’ quello il momento in cui ognuno di noi sente il bisogno di guardarsi intorno a cercare accanto a sé la presenza di qualcuno.
“Il sepolcro e il grano”
C’era una volta il rituale dei “Sabburchi” (dei Sepolcri) e del miracolo del grano che nasce al buio nello spazio di una bacinella di terra e tufo, coperta con uno straccio bagnato e nascosta sotto il letto per trenta giorni, tirata fuori e decorata con piccole bandierine di carta e petali di fresie. Così addobbata, veniva portata in chiesa prima di Pasqua, il giorno della morte di Cristo. Immaginate lo spettacolo che possono creare cento bacinelle variopinte e tutte ricoperte di teneri fili di grano appena nato, ai piedi dell’altare. La speranza che sfida la rassegnazione, il trionfo della vita sulla morte: cento singole bacinelle che unite tutte insieme formano un campo di grano e, su questo, Cristo risorto!
“Una valigia piena di sogni e di speranza”
Ci sono ancora, da qualche parte, cento famiglie che tutte insieme formano una comunità, ma divise e sparpagliate sono rimaste con un pugno di terra che ognuno ha portato con se, come lievito, convinti che la terra potesse lievitare: la speranza viva per miracolo. Chi è emigrato lo ha fatto suo malgrado, per necessità, ma senza fare nessuna rinuncia. La rinuncia e il danno lo hanno fatto quelli che sono rimasti. Chi è rimasto ha accettato compromessi e in cambio della propria tranquillità ha “lasciato fare”. Sono stati stravolti i centri storici, hanno occupato illegalmente le nostre coste, hanno comprato le masserie e le hanno trasformate in ville con piscina, hanno riempito i terreni di discariche abusive, hanno creato diffidenza reciproca, hanno ucciso il dialogo e, come dice un mio caro amico, hanno ucciso la speranza. Verso la metà degli anni settanta ci fu un massiccio ritorno e chi è tornato ha trovato ormai sciolto quel vincolo di solidarietà che aveva unito generazioni per millenni di anni. Altrettanto massiccia fu la ripartenza, come quella di una nuova ondata di emigrazione giovanile che, ancora oggi, dissangua il meridione, conseguenza di quel patto scellerato tra governanti e governati. Anche questi nuovi emigranti porteranno con se i sogni e la speranza che è stata tanto utile a coloro che li hanno preceduti e che, messi tutti insieme, sono tanti. Così tanti da decidere, addirittura, il Governo e le sorti di una Nazione, com’ è avvenuto con il secondo governo Prodi. L’ex ministro conservatore Tremaglia, autore della recente legge sull’immigrazione non immaginava certo che anche i sogni e la speranza potessero essere di così lunga conservazione e casualmente ha toccato una piaga ed è successa una rivoluzione o semplicemente un miracolo, quello di una bacinella che diventa un campo di grano.
“Il Sud come l’Andalusia ”
Visitando certe zone del Sud, ti sorprende e ti sconforta vedere, a qualsiasi ora, le strade e le piazze deserte: sembra che nei paesi non ci sia più nessuno. Allora ti vengono in mente quegli stessi luoghi negli anni settanta, il clima di festa di allora, una festa durata diversi anni. La gente chiedeva Cultura, voleva Sapere. Mi ricordo la moltitudine di artisti e critici d’arte lavorare gomito a gomito e tanti collezionisti di quadri. C’era una galleria in ogni paese e la gente andava numerosa a visitarle. Chi vive oggi in quei paesi si chiede: “Che fine ha fatto tutta quella gente? E tutti quegli intellettuali?” Mi vengono in mente i versi del poeta spagnolo Rafael Alberti esiliato in Italia a causa del regime fascista, il poeta si chiedeva:
“E’ possibile che l’Andalusia sia rimasta senza nessuno? E’ possibile che sui monti andalusi non ci sia nessuno? Che sui mari e nei campi andalusi non ci sia più nessuno?”
E’ il lamento di dolore causato dal vuoto di speranza e dalla solitudine che ne consegue; dalla distanza tra l’intellettuale e la comunità, distanza tanto simile a quella che si è creata tra la metà di popolazione che è andata via e l’altra che invece è rimasta, senza che nessuno avesse stabilito, tra l’una e l’altra, il necessario dialogo costruttivo che potesse far sperare.
“Il campo dei fuochi”
Il campo dei fuochi stava appena fuori dalla periferia del paese così molta gente poteva guardare i fuochi d’artificio dalla propria terrazza. Visto così al buio sembrava un posto misterioso e chissà quanto lontano, faceva quasi paura. Nei giorni precedenti, prima e durante la festa nessuno aveva potuto avvicinarsi, il divieto era tassativo e gli addetti ai lavori erano stanchi di ripeterlo. Il giorno successivo invece, visto alla luce del sole, era un campo qualsiasi, né incolto né coltivato. Disseminati da tutte le parti, sembravano ancora caldi i pezzi di carta bruciacchiati delle “carcasse”, carta dura e resistente, ricavata dai sacchi di cemento, non facilmente infiammabile. Dopo la festa, di buon mattino,come tutti gli anni, i ragazzi erano là, sparpagliati su tutto il campo a cercare frammenti di polvere da sparo. Erano frammenti di colore nero, di grandezza diversa, nascosti tra le zolle ed i piccoli cespugli. Messi tutti insieme in un barattolo di latta, lo portavano di nascosto a casa. Come ogni anno, la sera si sarebbero riuniti e, sempre di nascosto, avrebbero incartato il tutto e messo in uno “stompo,”; poi, con una miccia di carta accesa, lo facevano esplodere, causando un botto improvviso, forte e violento. Non era certo un fuoco di artificio, ma fra tutti quelli esplosi nei giorni di festa, era forse il più gradito. Siccome la festa era passata, il paese era ricaduto nel suo letargo e questo i ragazzi non lo avevano accettato. Così, d’improvviso, si spalancavano porte e finestre, si sentivano voci dappertutto, cani abbaiare e pianto di bambini. Il paese era ancora vivo.
Il bello di un botto è la sua imprevedibilità, non sai mai quando scoppia né dove. E poi un botto serve a tante cose: può dare il segnale che una festa è finita o che sta per cominciare. Può scoppiare oggi o non scoppiare mai.
…tu però stai alla tua finestra e lo sogni, quando scende la sera.
( da ” il messaggio imperiale” di F. Kafka )
Quando si sogna insieme, si possono fare cose straordinarie. Aldilà di quello che poteva pensare l’allora ordinario militare 1 dell’approccio pacifista di Luigi Bettazzi e Tonino Bello alla guerra di Bosnia Erzegovina, il cristianesimo militante condiviso da questi ultimi e messo in pratica dal prete padovano Albino Bizzotto ha prodotto cose straordinarie nella guerra di Bosnia Erzegovina. Tanto straordinarie da coinvolgere persone di ogni credo e di ogni provenienza (una buona metà erano atei o non praticanti).
A Sarajevo, dopo la guerra tutto è cambiato, lì dove quattro religioni convivevano tranquillamente, dove l’etnia non era mai stata un problema, ogni nazionalismo si è accentuato, tutto è stato portato agli estremi. Ci sono stato da poco proprio con don Albino che con i suoi settantaquattro anni è un esempio vivente di una prassi cristiana carica di spinte verticali, lontana dalle vuote liturgie e dai bizantinismi cui spesso ci stiamo abituando. Quest’anno ricorre il ventesimo anniversario della prima eccezionale azione che diede vita ad una interposizione civile durata dal 1992 al 1997, con il servizio della posta, degli aiuti e le innumerevoli azioni dimostrative tra cui quella tragica che coinvolse il francescano Gabriele Moreno Locatelli. Vent’anni dall’ultimo anelito di pace di Tonino Bello, contributo straordinario alla carica eversiva dei Beati Costruttoti di Pace. La gente ricorda con affetto quegli italiani, tanti, che allora si ricordarono di loro.
Dal 6 al 10 dicembre saremo a Sarajevo, italiani, bosniaci, croati, serbi, cristiani, ebrei, musulmani, per ricordare a me che un vero cristiano deve esigere la pace, e agli altri che insieme si possono fare grandi cose anche nella più grande delle tragedie. Ricordiamo a Lecce quest’anniversario, con un po’ di conferenze incontri e spettacoli di teatro civile di alto livello in collaborazione anche con l’Università del Salento ed Amnesty International. Avremo come ospiti persone straordinarie, amici, con cui proveremo a dare una base di lavoro serio per la pace, che abbia i primi frutti qui, in Terra d’Otranto – le parole diventano ciance lì dove il mercimonio dei significati impera – proveremo a dare precedenza dell’atto al misfatto, ai discorsi sul fare. Un grazie a Marcello, che riserva sempre parole d’incoraggiamento.
3 dicembre 2012
H 10:30
Olivetani, Via San Nicola
Islam e Bosnia Erzegovina
–
Alceo Smerilli / Facoltà di studi Islamici, Univ. Sarajevo
Daniele De Luca / Storia delle RR.II., Unisalento
H 17:30
Mon. Benedettine, Via delle benedettine
Sarajevo 1992: la marcia, l’interposizione civile
–
Giacomo Cazzato / Link-Lecce
Giovanni Bongo / Pacifista e filosofo
Attilio Pisanò / Diritti Umani, Unisalento
Albino Bizzotto / Fondatore Beati i Costruttori di Pace, Padova
4 dicembre
H 17:30
Benedettine, Via delle benedettine
Presentazione del libro “Mister Sei Miliardi” di Luca Leone
Michele Carducci / Preside della Facoltà di Scienze FF. PP. SS.
Via Ascanio Grandi è una strada molto cara ai leccesi, la cui toponomastica nel corso dei secoli ne ha raccontata la storia. Negli atti notarili del Cinquecento è menzionata come via vicinale della strittula del monastero di San Matteo, perché si accedeva all’edificio delle suore francescane. In un passato abbastanza recente, tra Otto e Novecento, il tratto nei pressi dell’incrocio con via dei Perrone era noto come le corne te lu Capece, poiché un commerciante aveva appeso fuori dal suo negozio un paio di scaramantiche corna bovine. Il tratto iniziale, invece, quello all’incrocio con via Ludovico Maremonti, era conosciuto come abbàsciu allu Mmamminu.
Nel 1871 Luigi De Simone preferì ai toponimi popolari Trinità vecchia e Grate di San Matteo, via Marco Aurelio Antonino Vero, definitivamente trasformato nel 1904 in via Ascanio Grandi, in memoria del noto letterato leccese che molto probabilmente vi risiedeva nel 1631 assieme ai fratelli.
Lu Mmamminu o Trinità vecchia non è altro che l’ex chiesa di Gesù Bambino dell’Arciconfraternita della SS Trinità dei Pellegrini, attuale chiesa Greco-Ortodossa di San Nicola: quella ultimamente sbarrata dal cancello che ha sollevato l’indignazione di tanti cultori leccesi. Il cancello è il frutto, dell’esasperazione per la mala educazione notturna, ma è una risposta altrettanto arrogante, tant’è vero che, a quanto pare, ne è stata disposta la rimozione.
La chiesetta è uno dei pochi edifici cultuali sopravvissuti a Lecce.
Fu costruita come cappella del «picciolo Spedale, nel quale albergano i Peregrini», fondato nel 1589 da Giovanni Tommaso Pandolfo su disposizione testamentaria del «gentil’huomo di questa Città di Lecce» Achille Maresgallo, così come da lapide affissa nella sala dell’ospedale: «Ioannes Thomas Pandolfus, Achillis Marescalli voluntatemo exequens anno Domini M.D.89».
Da atti notarili cinquecenteschi risulta che, per realizzare l’opera, nel 1590 l’Arciconfraternita della SS. Trinità, fondata dallo stesso Maresgallo, comprò alcuni locali nell’isola di Sant’Angelillo del portaggio San Biagio e con atto notarile del 28 giugno 1590 li concesse ai Padri di San Giovanni di Dio per «erigere l’Ospitale da ricevere feriti e febricitanti», riservandosi gli spazi dove realizzare «l’oratorio, sala per capitolo et congregatione generale ai confrati et ancora un altro loco per fare detta Arciconfrataria Hospitale per ricevere pellegrini et convalescenti per observare le bulle e le instituzioni di detta Arciconfraternita». Chiamati i Padri a gestire l’Ospedale dello Spirito Santo, l’ente fu affidato alla Confraternita della Santissima Trinità. Durante la gestione del nobile Annibale Vignes, costui «vi condusse un numero di poveri figliuoli Orfanelli, de’ quali haveva egli stesso pensiero». Il benefattore voleva «mandare avanti quest’opera, e cominciò anche ad edificare le stanze», ma a causa di «persone malevoli e invidiose, ché il detto Aniballe fù forzato con suo gran dispiacere tralasciare sì santa, e pia opera». I Maestri dell’Arciconfraternita, ogni anno «mettono nella settimana santa le quarant’hore devotissimamente», così come celebravano «solennemente la festa»della Trinità, nell’omonima cappella nella chiesa di Sant’Antonio da Padova, «non essendo la Chiesa di detto Spedale capace per detto effetto»a causa del gran concorso di devoti. Lo statuto dell’Arciconfraternita, riconosciuta da Urbano VIII, il 7 marzo 1633 fu regolato con decreti regi nel 1707 e del 21 giugno 1797. Decaduto il fine dell’Arciconfraternita (l’assistenza ai Pellegrini), nel 1833 il pio sodalizio si trasferì presso la basilica di Santa Croce e gli edifici in via Ascanio Grandi furono ceduti alla Confraternita Nome SS.mo di Dio, che nel 1851 concesse in enfiteusi l’ex ospedale all’avvocato Benedetto Bodini, il quale lo trasformò in civile abitazione. La confraternita nel 1839 abbandonò l’antica sede presso la chiesa di San Francesco della Scarpa e si trasferì presso quella che da quel momento in poi fu detta Chiesa del Bambino.
La chiesa era stata ricostruita dopo il 1797. Presenta una semplicissima facciata decorata dal timpano sopra la porta e da due lesene sovrastate da capitelli compositi. La stessa decorazione si ritrova all’interno a navata unica scandito da tre campate. A sinistra si apriva la porta d’accesso all’Ospedale, sormontata da un piccolo coro che permetteva l’affaccio direttamente dai locali dell’ospedale, adoperato dai nuovi proprietari dell’immobile anche nel secolo scorso. Con breve di Pio X, nel 1907 l’altare maggiore della chiesa fu dichiarato privilegiato in perpetuo e fu adornato con la pala raffigurante i SS. Bernardino da Siena e Giovanni da Capistrano, dipinta da Gaetano Giorgino. Nel 1979 (quando la chiesa era già chiusa al culto) Michele Paone, nel suo Chiese di Lecce, oltre all’immagine di questo dipinto, ha pubblicato quelle delle tele rubate nel 1975 (motivo per il quale è stato murato l’accesso secondario che si apriva sempre in via Ascanio Grandi), affisse sugli omonimi altari dell’Arcangelo Raffaele e Tobiolo e della Pietà realizzate da Pasquale Grassi. Nella chiesa, inoltre, erano presenti la seicentesca tela di Sant’Omobono e quella di Abramo con gli angeli attribuita a Oronzo Tiso. Vi era, inoltre, una statua dell’Immacolata, realizzata da Antonio Maccagnani, trasferita presso la chiesa di S. Pio X.
Pur non essendo stato emesso alcun decreto di scioglimento, la Confraternita non esiste più, per cui la chiesa è stata chiusa al culto, privata delle suppellettili sacre e adoperata per manifestazioni culturali. Concessa da mons. Ruppi alla comunità di ortodossi della Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia, dipendente direttamente dal Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, la chiesa è stata intitolata a San Nicola e inaugurata ufficialmente il 16 gennaio 2000 dall’arcivescovo ortodosso d’Italia e Malta Ghennadios Zervos.
1 Cfr. G. Falco, 19) Il portaggio San Biagio. Via Ascanio Grandi. Memorie di chiesette scomparse nei pressi della Chiesa del Bambino, in Notes – Appunti dal Salento, a. XIII n° 7 15-21 febbraio 2003, p. 5.
2 Cfr. I. Madaro, Guida pratica della città di Lecce, Lecce 1904.
3 Nel 1631 Ascanio Grande abitava con i fratelli Giulio Cesare e Giovanna, due serve e Domenico Chisso nell’isola del Caraccino della parrocchia della Madonna de la Luce, prospiciente via Ascanio Grandi (cfr. lo Status animarum civitatis Litii 1631, manoscritto conservato presso l’Archivio Vescovile di Lecce).
4 Nell’Elenco delle Chiese e Cappelle esistite e esistenti in questa Città del 1885 ne sono annoverate 108 sparse nel centro storico e nel contado, attualmente ne risultano 42 (Cfr. G.B. Cantarelli, Monografia storica della città di Lecce, Lecce 1885, pp. 140-158).
5 Cfr. G. C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. A cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), p. 64.
6Ibidem. La lapide sino al 1853 era ancora visibile (cfr. L.G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti.La città, Lecce 1874, nuova edizione postillata a cura di N. Vacca, Lecce 1964, p. 258).
7 N. VACCA, Postille a L.G. DE SIMONE, Lecce e i suoi monumenti… cit., p. 522.
8Ivi, p. 523.
9 G. C. Infantino cit., p. 64.
10Ivi, p. 65.
11Ibidem.
12Ivi, p. 65.
13Ibidem.
14Ibidem.
15 Cfr. A. M. Morrone, I pii sodalizi leccesi, Galatina 1986, pp. 68-72; L.G. DE SIMONE, Lecce e i suoi monumenti… cit., p. 257.
16 Cfr. ivi.
17 Cfr. A. M. Morrone, cit., pp. 89-91.
18 Cfr. M. Paone, Chiese di Lecce, Galatina 1981, II ed., 2 voll., 2 vol., pp. 75-77.
Si va da un pezzo sostenendo che il dolce e gradevole clima del nostro Bel Paese si sia imbarbarito, che non esistano più stagioni intermedie, che abbia preso corpo un vero e proprio processo di tropicalizzazione delle caratteristiche atmosferiche e così via, ascrivendo l’insieme degli stravolgimenti al cosiddetto «effetto serra» e a una serie di altri fenomeni fisici.
Però, non v’è dubbio che, alle cause anzi esposte, metta conto di aggiungere tutta una serie di comportamenti dell‘uomo e i riflessi dei nuovi modelli di vita dell’uomo medesimo: l’inquinamento del suolo, del sottosuolo, dei mari, dei fiumi, del cielo. Riconoscere, in fondo, che il guasto, o, in questo caso, degrado, ha finito col penetrare anche nelle nostre menti, che, al giorno d’oggi, si presentano più che altro pervase e dominate da mode egoistiche, egocentriche e goderecce, da emulazioni tout court, dalla confusione perenne tra valori e non valori.
Altro che!
Come è possibile approvare o peggio ancora seguire il diffuso vezzo del cellulare incollato all’orecchio finanche in chiesa? Come si fa ad accettare la tendenza, purtroppo stratificata non solamente da noi ma in tutti i paesi cosiddetti evoluti, ad allungare a dismisura la parentesi prenatalizia, con la tipica atmosfera di luci, addobbi, panettoni e robe del genere che, in taluni ambiti, viene provocatoriamente creata sin dal giorno della Commemorazione dei Defunti? Che roba è questa?
Che senso contiene, salvo la spinta fortissima delle false sirene dei pubblicitari e del sistema commerciale in genere, miranti solo a preparare, presentare e proporre a iosa listini di prodotti, merci, articoli e servizi mirabolanti, diversi dei quali quasi mai utili e più che altro voluttuari e illusori?
Se ci soffermassimo sulla verità vera di certe messe in scena, anziché gioire con la vista e con i pensieri, ci accorgeremmo di provare imbarazzo, se non addirittura disappunto e avversione.
Così come è avvenuto per le stagioni del calendario, oramai sono finite sotto terra le festività e le ricorrenze religiose intermedie, «minori» per definizione, ma, certamente, non di secondo piano dal lato del loro tradizionale significato di costume, di fede e di credo.
Per stare su questo ragionamento, viene in mente l’imminente celebrazione dell’Immacolata, l’otto dicembre: almeno per i cattolici, trattasi da sempre di una grande, bella e cara festa, con i suoi riti e le usanze tipiche, già dalla veglia o vigilia, consistenti in riunioni in famiglia o fra amici e in determinati menù. Ora, perché lasciare annegare questa plurisecolare festa nella pagana kermesse commerciale – per di più, in pieno, anticipato e allargato svolgimento del Natale?
Ciò è, a mio avviso, sbagliato, non ha alcun significato valido, se non le finalità connesse con gli ingordi interessi, sopra richiamati, dei potenti operatori pubblicitari e del terziario.
Varrebbe invece la pena di ricordare (ovviamente solo per i cattolici) anche l’antico sentire della Novena dell’Immacolata. Che bella abitudine! Proprio una sana e buona devozione.
Giacché, sovente, la vita arida, fredda e fuggitiva non appaga affatto: non basta correre, arrampicarsi, sbattere, agitarsi; v’è, al contrario, bisogno di pensare, di guardarsi dentro, di riappropriarsi con la mente e con la coscienza, per quanto più possibile, di quelle vecchie usanze che, sottosotto, ci conferivano una solida educazione e ci aiutavano a crescere obiettivi e rispettosi. E, comunque, non lasciamoci fuorviare dall’effimero o da ciò che appare e nulla più.
A Milano, nella «frivola», materialistica e laicissima Milano, c’è ancora in calendario la solenne celebrazione della «Novena dell’Immacolata in Duomo», iniziativa annunciata e divulgata con tanto di locandine pendenti in tutte le vetture della rete metropolitana: questa sì, una positiva invenzione di pubblicità.
Fino a qualche anno addietro, allorquando abitavo da quelle parti, ho potuto fare un’esperienza diretta, lasciandomi cioè prendere, con entusiasmo, dal richiamo in questione. E così, anticipando di una mezz’oretta la fine dell’attività lavorativa e differendo di un’altra mezz’oretta il rientro a casa, mi recavo anch’io in Duomo.
Che spettacolo vedere la grande cattedrale ambrosiana ricolma di fedeli, gente di ogni età, soprattutto giovani, e di ogni ceto e condizione, dai meno abbienti agli imprenditori e/o finanzieri di fama.
Le brevi parentesi di raccoglimento partecipativo si rivelavano pregne di arricchimento per la coscienza e il cuore, al punto che, uscendo per strada e ritornando alla normale vita, avvertivo dentro come un cambiamento migliorativo, mi sentivo capace di muovere passi più leggeri, sulle scorze e sulle ruvidezze del mio carattere e della quotidianità in genere.
Perché, dunque, invece di porsi a catena e in coda dietro ai richiami degli addobbi natalizi oltremodo anticipati, non accostarsi e ritornare a questo genere di tradizioni, facendo in modo che la Novena dell’Immacolata in Duomo a Milano si estenda all’improvviso e prodigiosamente a tutti i luoghi di culto, grandi e piccoli, in ogni dove?
E’ solo utopia, oppure, al contrario, sarebbe bene e utile pensarci su un attimo? Nel mio piccolo e nella mia singola interiorità ho deciso di tornare a rivivere la preparazione alla festività dell’Immacolata: a Lecce, una funzione suggestiva e ben mirata ha luogo nella piccola chiesa di S. Maria della Grazia in Piazza S. Oronzo.
Tanto, per me, le luminarie e gli acquisti di doni possono attendere.
Non c’è due senza tre… Il gioco potrebbe continuare all’infinito, conoscendo l’autore. Anzi ci auguriamo che accada, perché Alberto Diso sparisce dalla nostra vista per mesi e poi ritorna con l’ennesimo romanzo d’amore. Questa volta con “Mariemma”, anticipato negli anni scorsi da “L’ultima estate delle betulle bianche” (2007) e “Sospesa è la notte” (2009). Dalle tundre asiatiche al mare cristallino e scintillante del mediterraneo, anzi greco. Qui sono ambientati gli ultimi due romanzi. Le storie d’amore prendono il lettore fino allo spasimo finale, e lo lasciano incerto sino alla fine se affrettarsi alla conclusione o chiudere il libro prima che termini, lasciando in bilico una storia che intenerisce, commuove e lascia col fiato in gola. Tutto potrebbe succedere. Alberto Diso ci ha abituati ai colpi di teatro e quindi l’esito finale è aperto. Tutto ritorna all’inizio. Chi sono Mariemma e il nostro protagonista? Cos’hanno da farsi perdonare? Cosa chiedono alla vita come risarcimento per la loro passione vissuta fin dai primi anni della giovinezza, quando l’amore si affaccia alla nostra vista e poi ti attanaglia senza darti tregua? Mariemma e Moris non hanno diritto alla felicità e in che modo possono arrivarvi? Quali prove li attendono? La passione e l’amore si intrecciano ai drammi della vita, tanto che il lettore è sospinto ad abbracciare queste anime compassate nella solitudine, che anelano alla loro felicità. Ma sovra tutto incombe la domanda: si può scappare dal proprio futuro? Noi, anime razionali, crediamo che ognuno riesca, sforzandosi, a costruirsi il proprio avvenire. Ma quanto ci sbagliamo, a volte. Il caso è lì, pronto a giocare con Moris che ama trascorrere nelle splendide baie greche – fatale sarà quella di Livàdion – gli assolati e luminosi estati mediterranei. Basta un inciampo, un gesto, una quasi caduta, un urto fortuito con un corpo femminile. Quelle movenze, quell’odore lo fanno ripiombare indietro nel tempo, nella fanciullezza, quando l’amore conquistato e perduto era un tutt’uno, ma questo – scopriamo leggendo il romanzo – non vale per tutti. C’è qualcosa che rimane di irrisolto nel nostro passato, che puntualmente riaffiora facendoci pregustare il frutto dolce-amaro della passione sino allo svelamento finale, che passa come sempre attraverso il superamento doloroso di prove poste lì a monito e suggello finale. Alberto Diso con “Mariemma” ci fornisce un’altra grande prova letteraria, di un’anima del sud del mediterraneo che attraverso la scrittura evoca le nostre passioni manifeste e recondite e le proietta nell’azzurro trasparente dove mare e cielo si confondono e ci coinvolgono fino ai recessi dell’animo scoprendo di essere, come quei gabbiani che attraversano l’aria riarsa, anime in pena alla ricerca della felicità. Mariemma, romanzo di Alberto Diso, Carra Editrice, Casarano (Le), 2012, pp. 172, € 14,50.
1 dicembre. Sant’Eligio. Una tela di Donato Antonio d’Orlando a Nardò
Le sorprese che riserva la chiesa della Vergine del Carmelo a Nardò, un tempo officiata dai carmelitani scalzi, che dimoravano nell’annesso convento, poi parrocchia, sono davvero tante. I preziosi arredi, i decori, gli stucchi e le opere pittoriche presenti, ne fanno una delle tappe che non possono mancare nell’itinerario del turista, sia esso il più frettoloso e poco attento.
Di impianto cinquecentesco, ampiamente rimaneggiata dopo il funesto terremoto del 20 febbraio 1743, l’edificio ospita una bella tela raffigurante Sant’Eligio, opera del prolifico ma poco noto pittore Donato Antonio d’Orlando (Nardò, 1562 ca – Racale, 1636), la cui produzione è uniformemente distribuita in Terra d’Otranto (Muro Leccese, Copertino, Seclì, Uggiano La Chiesa, Ugento, Leverano, Martina Franca, ecc.).
Il Santo orefice (Chaptelan 588 ca. – 1 dicembre 669 d.C.) fu controllore dei metalli, maestro della zecca, poi grande argentiere sotto il regno di Clotario II, quindi tesoriere di Dagoberto I, prima di essere eletto vescovo di Noyon nel 641 (nella cui abbazia riposa il corpo). Fu assunto a patrono degli orefici, argentieri e gioiellieri, per la sua abilità di intagliatore. Prima degli ordini sacri eseguì opere di oreficeria di altissimo livello e ne erano prova i bassorilievi della tomba di S. Germain, vescovo di Parigi e i due seggi intarsiati per Clotario, ancora visibili nel 1789. Delle sue opere oggi restano soltanto, oltre ad alcune monete, un frammento di croce incastonata, conservata nel Gabinet des Médailles a Parigi.
Sant’Eligio è considerato anche patrono di quanti si servono di martelli, tra cui carpentieri, incisori, orologiai, fabbri, meccanici, calderai, minatori, attrezzisti, doratori, ma anche dei trasportatori, autisti, veterinari, sellai, produttori di finimenti, garagisti, carrozzieri, carrettieri, commercianti di cavalli, contadini, operai, braccianti.
Il dipinto di Nardò, ad olio su una tela di cm. 123×193, si ammira sul primo altare della navata a sinistra di chi entra; la presenza di questo santo collima con l’intitolazione dell’altare allo stesso.
Di aspetto giovanile, è dipinto a figura intera, in piedi, vestito in abiti vescovili; con il braccio sinistro regge il pastorale argenteo e un prezioso volume profilato in oro, mentre benedice con la mano destra.
Sui due lati sono inginocchiati i donatori, con l’abito e la croce confraternale, e subito dietro di essi una folta compagine di cittadini e nobili, tutti con lo sguardo rivolto al santo. Lo sfondo è caratterizzato dal particolare architettonico di quella che potrebbe essere una delle porte urbiche, porta San Paolo, nelle cui immediate vicinanze sorge la nostra chiesa. La presenza dello stemma civico di Nardò nella parte inferiore della tela fa pensare che tra i committenti ci sia stata anche l’universitas locale o che abbia perlomeno concorso al pagamento delle spese per realizzare l’opera.
Ad esaltare la figura del santo contribuisce il drappo del baldacchino dietro le sue spalle, in broccato nero e oro, nella cui parte superiore si legge a lettere maiuscole e dorate Sa(nc)tus Elicius. Gli arabeschi, i racemi e i fiorellini sono ripresi sulla pianeta marrone che il santo indossa su un ampio camice in seta bianca. Rifulge ovunque il dorato, che è poi una delle caratteristiche salienti della pittura del nostro, particolarmente accentuato nelle ricche bordure e profili dell’indumento e del manutergio. Dorate sono pure le scarpe, le cui punte avanzano dal bell’appiombo delle pieghe del camice, comprendendo la sigla D.A.O.P. (Donatus Antonius Orlandi Pinxit) con cui si firma l’artista.
La ricchezza decorativa è ulteriormente manifestata dai guanti gemmati, dagli anelli al secondo e quarto dito della mano sinistra, dalle pietre preziose e dal profilo della mitra.
L’ultimo restauro (eseguito da Francesca Romana Melodia nel 1997) ha ridonato splendore ai colori e specialmente alla doratura, rendendo il dipinto molto apprezzabile. Ha anche evidenziato come la tela sia stata ridotta nelle sue dimensioni originarie (probabilmente in coincidenza con i lavori di risistemazione della chiesa dopo il terremoto del 1743), con la definitiva perdita di brani pittorici che potevano narrare episodi della vita del santo. Non si spiegherebbero diversamente le tre iscrizioni sopravvissute ed ancora ben leggibili sul bordo inferiore, che narrano di miracoli accaduti per l’intercessione di Eligio.
Ruca, rùcola, ruchetta… insomma la rùcula salentina
La voci italiane e dialettale derivano tutte dal latino erùca(m) che designa, oltre alla pianta che conosciamo, pure un bruco. È difficile dire se la radice è unica (con un pò di fantasia si possono cogliere labili somiglianze di forma tra la foglia e il bruco o lasciarsi colpire dal fatto che essa, rispetto ad una foglia normale, sembra essere stata divorata da un bruco) oppure se si tratta di due omografi. L’italiano ha ereditato il problema sviluppando accanto ad un ruca (l’erba) un ruca (bruco), entrambi da erùca(m) per aferesi di e-.
Concentriamoci sul vegetale. Ho riportato i nomi italiani in ordine cronologico di formazione e dal ruca appena esaminato sono nate come forme diminutive sia rucola (col parallelo dialettale rùcula) che ruchetta1. Per quanto riguarda il nome scientifico: diplotaxis è voce latina moderna formata da due componenti greci classici, cioé dalla radice dell’aggettivo διπλόοs (leggi diplòos)+τάξις=posizione, con riferimento alla disposizione dei semi in doppia serie nella siliqua; tenuifolia è forma aggettivale latina moderna dal classico tenuis/e=sottile e folium=foglia. Il nome della famiglia è dal latino bràssica(m)=cavolo.
C’è da aggiungere che ruca, rùcola e ruchètta sono usate per indicare tanto la varietà a fiori gialli (la nostra rùcula, appunto) quanto le due varietà (Brassica eruca L. e Ruca sativa Lam.) con fiori bianchi e dal sapore decisamente meno piccante).
L’essenza è nota da tempi molti antichi se Dioscoride (I° secolo d. C.) così ne parla2: “La rucola cruda mangiata in abbondanza stimola il coito. E il suo seme, che è diuretico, digestivo e liberatore dell’intestino, produce lo stesso effetto. Usano il suo seme anche per i condimenti: lo conservano a lungo impastandolo con aceto o latte e modellando delle pastiglie. C’è anche la rucola selvatica, soprattutto nella Spagna occidentale, dove gli abitanti
Uno strumento educativo per bestie e per figli ribelli
Era in pratica uno staffile costituito di tendini di bue essiccati e intrecciati usato per incitare le bestie ma annoverato anche tra gli strumenti educativi (oggi si direbbe coercitivi con tutta la connotazione negativa che il termine, forse giustamente, assume) per domare qualche figlio ribelle. Personalmente non ne ho mai provato gli effetti, nonostante un esemplare (quello della foto), ereditato da mio padre ed a lui passato da mio nonno, faccia bella mostra di sé in casa mia come semplice oggetto di antiquariato e garantisco, per quanto la mia parola può valere, che ogni sospetto su una mia probabile predilezione per il sado-maso sarebbe totalmente infondato…
Mio padre ha preferito usare, quando i normali sistemi di persuasione non funzionavano e, soprattutto, di fronte alla reiterazione di un comportamento scorretto, la cinghia dei pantaloni (anche perché i miei nonni e mia madre avevano opportunamente nascosto l’ugghìna…) e di fronte a quel gesto plateale non c’era nemmeno il tempo, la voglia e l’ironia che oggi sicuramente mi spingerebbero ad augurarmi che, appena sfilata la cintura, il “boia” si ritrovasse in mutande…
Non voglio avventurarmi in disquisizioni psico-pedagogiche e tanto meno rimpiangere il tempo che fu: dico solo che quelle punizioni non mi hanno traumatizzato, mentre mi ripugna la pena di morte, ma altrettanto mi fanno schifo, con particolare riferimento ai tempi attuali, l’aleatorietà della pena e tutte le attenuanti che sembrano essere state inventate solo per favorire chi delinque, nella speranza, per lo più consapevolmente vana, di un suo ravvedimento, mentre in concreto la privazione della libertà non è strutturata in modo da rendere, almeno potenzialmente, rieducativo il carcere. È superfluo pure che dica la mia su certi asili-lager di cui ogni tanto si occupa la cronaca e su certi metodi di insegnamento che sono veri e propri atti di violenza intellettuale e intellettiva, gli uni e gli altri certamente traumatizzanti. In campo politico, poi, sfido chiunque a ricordarmi, in tutta la storia del genere umano, un solo esempio, solo uno, di tirannide veramente illuminata…
Illuminanti mi appaiono, invece, i versi con cui mi piace chiudere:
Se lu sire nu nc’è ttegna la ugghina
ca nde pigghia li fili spalestrati,
la casa de palore sempre è cchina,
nu stanu nnu mumentu rreggettati.
Nci ole unu cu ccumanda, a cquai è llu piernu;
tocca begna de neu lu Padreternu!
(Giuseppe De Dominicis alias Capitan Black, Tiempudoppu, vv. 331-336)
(Se non c’è il padre che tenga la sferza
con cui punire i figli sbalestrati,
la casa è sempre piena di parole,
non stanno un momento tranquilli.
Ci vuole uno che comandi, ma è qui l’inghippo;
bisogna che venga di nuovo il Padreterno!).
Viviamo e vivremo nella disperata consapevolezza (per chi ci crede) che solo l’intervento della Provvidenza e non di un Uomo (quant’è sprecata, qui, l’iniziale maiuscola!) della Provvidenza sarebbe in grado di cambiare il nostro destino.
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1 Dal nesso latino (verpa) bubulìna= (nerbo, membro) di bue, attraverso la filiera: bubulìna>*ubulìna (aferesi di b-)>*ublìna (sincope di –u-)>uglìna (attestato a Zollino)>ugghìna. La variante uvìna (Tiggiano e Taurisano), invece, è dal latino tardo bovìna(m), femminile di bovìnus, con aferesi di b– e passaggio –o->-u-.
Di primo acchito, può suonare come accostamento irriverente nei confronti dei due illustri Professori che, nelle rispettive funzioni di Presidente del Consiglio e di Ministro dell’Economia, si trovano, al momento, insediati a Roma.
In realtà, invece, il termine di paragone identificato negli amministratori locali del capoluogo salentino, Paolo Perrone e Attilio Monosi, nell’ordine, Sindaco e Assessore al Bilancio e ai Tributi, conterrebbe addirittura un valore aggiunto, quanto a capacità operativa e a risultati, a vantaggio dei secondi rispetto alle due figure chiave del Governo nazionale.
I predetti, infatti, si rivelano abilissimi come nessun altro, eccezionali raschiatori del fondo del barile, o meglio delle tasche dei contribuenti, giacché, ultimi traguardi raggiunti, sono stati capaci di:
– elevare l’aliquota base dell’IMU da 0,76 a 1,06 (e passi);
– porre in atto, tramite e d’intesa con l’Agenzia del Territorio, un vistoso aumento delle rendite catastali – dove il 40%, dove il 20% in più – che concerne la quasi totalità degli immobili di proprietà di privati nel territorio di Lecce; tale variazione nella percentuale minima (+ 20%), immaginando una rendita catastale originaria di 1000, si tradurrà in un incremento dell’Imu da 672 a 806 euro se prima casa e da 1781 a 2137 euro nell’ipotesi di altri immobili.
Verrebbe spontanea, la domanda: “Operazioni, specialmente la seconda, da geni?”.
Quando mai! Purtroppo, qui, taluni pensano che Perrone e Monosi, a prescindere dai tagli – che toccano tutte le amministrazioni locali – nei trasferimenti dal Governo centrale, non siano adeguatamente all’altezza di gestire la città. Si fa acqua qua e là nell’ambito della cosa pubblica, sia a livello diretto di Comune, sia e soprattutto riguardo alle società controllate e/o partecipate.
Ultime di cronaca:
– mazzette per le sepolture, per opera di dipendenti della Lupiae Servizi;
– il Comune non ha i soldi per realizzare il consueto presepe in Piazza S. Oronzo.
Spargete un trito di cipolla e sedano in un tegame con un filo di olio sul fondo, disponete sul trito un letto di patate affettate sottilmente, spolverizzate di sale e adagiate il baccalà ammollato tagliato a pezzi. Spolverizzate di pepe nero macinato al momento, cospargete con prezzemolo tritato e facoltativamente con uno spicchio di aglio tritato. Ricoprite infine il tutto con un altro strato di patate affettate, spolverizzate di sale, irrorate generosamente con olio extravergine d’oliva e aggiungete delicatamente acqua sino quasi a sfiorare la superficie delle patate. Ponete in forno caldo sino a quando le patate saranno ben cotte e la loro superficie si presenterà dorata.
Baccalà al forno con patate 2°metodo
Versate sul fondo di un tegame un filo di olio extravergine d’oliva, fate uno strato di pomodori triturati e cospargetelo con un trito di cipolla, sedano, prezzemolo, sale e pepe. Quindi disponete uno strato di patate affettate sottilmente e su queste i pezzi di baccalà ammollato. Spargete sul baccalà qualche filetto di pomodoro, un po’ di trito come quello posto sul fondo, ricoprite con un altro strato di patate e versate delicatamente acqua sino a sfiorare il livello delle patate. Spolverizzate la superficie con un miscuglio di pangrattato, formaggio vaccino grattugiato e pepe nero, irrorate il tutto con un’emulsione di acqua e olio extravergine d’oliva e passate in forno caldo sino a quando le patate saranno ben cotte e la crosticina superficiale apparirà ben dorata. Badate a non fare asciugare troppo poiché per la perfetta riuscita questo piatto dovrà risultare piuttosto brodoso.
Zuppa di baccalà
In un capace tegame fate scaldare in ottimo olio extravergine d’oliva della cipolla tritata finemente. Prima che questa imbiondisca unite abbastanza sedano tagliato a tocchetti; poiché è proprio quest’ortaggio che conferisce il gusto caratteristico alla pietanza, prezzemolo, una manciatina di olive nere in concia e un pugnetto di uva passa fatta preventivamente rinvenire in acqua tiepida. Rimescolate il tutto, aggiungete dei pomodori pelati
La chiesa parrocchiale di S. Andrea Apostolo si eleva in Piazza Castello, di fronte al sontuoso matroneo che abbellisce l’angolo nord-ovest della fortezza gentilizia e fa supporre l’origine feudale della comunità.L’epigrafe incastonata tra due blasoni sul portale del frontespizio racconta: “Questo tempio fu eretto dalle fondamenta a spese e per interessamento dell’Ecc.mo Signore D. Gennaro Fulvio Caracciolo, Duca di Montesardo e Feudatario di Andrano e dedicato all’Apostolo S. Andrea, titolare del medesimo, nell’anno 1741”.E’ pervenuta alle attuali dimensioni in tre tappe. Vistosi segni esterni confermano la tesi delle ricorrenti manipolazioni. Fu costruita originariamente nelle dimensioni adeguate alle esigenze della comunità dell’epoca, tassata nel 1737 per 36 fuochi, corrispondenti a circa 300 abitanti, isolata perimetralmente da strade.L’edificio si eleva con muratura in conci levigati artigianalmente, compatti, ma soggetti all’annerimento per la prolungata esposizione agli agenti esterni. Il tozzo frontespizio mal si incorpora all’edificio, poiché non nasconde i contrafforti di spinta, elevati per il sostegno della volta e sembra recuperato da altra chiesa demolita.All’interno, il sontuoso arco trionfale a tutto sesto, che campeggia nella navata, delimitava lo spazio riservato al presbiterio da quello assegnato ai fedeli. Invece i quattro archi trionfali a sesto acuto, sormontati dagli ovali finestrati, che attualmente caratterizzano il centro dell’edificio sacro, trasformato a croce latina, segnalano gli spazi incorporati successivamente per realizzare l’ampliamento, iniziato nel 1836.Per circa due secoli fu anche, nel sottosuolo, luogo di sepoltura.
L’arredo interno di interesse storico-artistico e religioso è costituito da alcuni dipinti su tela, di autori ignoti, probabilmente di scuola napoletana. Raffigurano l’Immacolata, Il perdono di Assisi, La Madonna del Carmine e San Vito.
Altri sono di formato ridotto: La Madonna del Buon Consiglio, San Giuseppe, San Francesco di Assisi, S. Oronzo. Sei statue in cartapesta: S. Antonio di Padova, San Pietro Martire, San Rocco, S. Andrea Apostolo, San Giuseppe, Sacro Cuore di Gesù, prodotte da rinomati artisti leccesi, sono sistemate in appositi spazi.
La statua della Protettrice, Maria SS. Delle Grazie, è costituita da intelaiatura di legno rivestita di abiti finemente ricamati ed è custodita in un grande armadio a vetrina. Per adeguare il tempio allo svolgimento del culto, secondo le norme innovative disposte dal Concilio Vaticano Secondo, recentemente si sono resi necessari interventi che non hanno alterato la fisionomia originaria dell’edificio sacro al quale sono stati addossati modesti locali di servizio pastorale. Il più antico manoscritto parrocchiale che registra gli Atti di Battesimo data dal 1579.
Domenico Catalano da Gallipoli, Martirio di S. Andrea (1604), olio su tela, chiesa parrocchiale di Presicce
Gian Domenico Catalano nacque a Gallipoli ed operò tra il 1604 e il 1628. Tra le opere presenti nel Salento si ricordano, oltre il Martirio di s. Andrea nella parrocchiale di Presicce, il S. Carlo Borromeo in S. Maria degli Angeli a Lecce, il S. Francesco della chiesa di S. Nicola a Squinzano, del 1613, il Trittico della Assunta nella chiesa di S. Nicola della stessa città, datato 1614, la Madonna con s. Antonio e angeli nella chiesa dei minori di Minervino Murge (1628), l’Assunta, nella chiesa dei teatini a Lecce.
Numerose le tele nella città natale, Gallipoli: nelle chiese del Carmine (Pietà), di S. Domenico (Annunciazione, Circoncisione, Assunta), di S. Francesco (Annunciazione, Assunzione, Circoncisione, S. Diego), di S. Chiara (Annunciazione, Natività, Crocefisso), di S. Maria degli Angeli (Madonna e angeli), la celebre Madonna coi ss. Giovanni e Andrea nella cattedrale.
Molte altre tele sono conservate in vari altri centri del Salento: Alezio, Galatina, Scorrano, Squinzano, Taviano.
Per la Bibliografia si riporta pari pari quella di Pina Belli d’Elia nella scheda dell’Autore, in:
sebbene molti altri studi e volumi siano stati successivamente pubblicati, tra cui Gian Domenico Catalano. Eccellente pittore della città di Gallipoli, di Lucio Galante, edito nel 2004 tra le edizioni Congedo di Galatina.
G. C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634, pp. 7, 83, 94; L. Franza, Colletta istor. e trad. anticate sulla città di Gallipoli, Gallipoli 1835, pp. 57, 67, 70 s., 74 s.; B. Ravenna, Mem. ist. della città di Gallipoli, Napoli 1836, p. 330 e passim; C.Villani, Scritt. ed artisti pugliesi antichi moderni e contemp.,Trani 1904, pp. 1234 s.; G. Gigli, Il tallone d‘Italia, Bergamo 1912, p. 36; C. Foscarini, G.D.C., in Fede, III (1925), pp. 99 ss.; P. Marti, Architetti, pittori e scultori fino a tutto il sec. XIX, in Il Salento, XXXI(1927), p. 34; M. D’Orsi, Mostra retrospettiva degli artisti salentini (catal.), Lecce 1939, p. 11 (rec. di E. Scarfoglio Ferrara, in Rinascenza salentina, VII[1939], pp. 2 ss.); V. Liaci, Un geniale pittore salentino, in Rinascenza salent., X (1942), 2-3, pp. 123-26; M. D’Elia, Mostra dell‘arte in Puglia…(catal.), Roma 1964, pp. 138-141; L. G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti, Lecce 1964, p. 116; M. Paone, Curiosità storiche salentine, in Studi salentini, XXIV(1966), pp. 292 ss.; Id., Un dipinto inedito di G.D.C. in Lecce, ibid., pp. 391-394; M. S. Calò, La pittura del Cinquecento e del primo Seicento in Terra di Bari, Bari 1969, p. 170.
Le vongole, il plurale si impone in quanto sono diverse le specie che vengono genericamente, commercialmente così denominate, sono dei molluschi bivalvi che vivono sprofondati nella sabbia o in particolari tipologie di fanghi marini. Sono animali filtratori, ovvero, che si nutrono filtrando le particelle sospese nell’acqua o depositate nel fondale; tale nutrimento, è costituito principalmente da alghe unicellulari ossia dal cosiddetto fitoplancton. Allo scopo, la natura le ha dotate di un perfetto, quanto funzionale meccanismo di cilia vibratili collegate con due sifoni, uno inalante e l’antro esalante, il volume d’acqua che attraversa ogni giorno il corpo di ogni singolo animale è sorprendentemente grande.
Nei mari pugliesi sono presenti anche quasi tutte le specie di vongola che vivono nel mediterraneo, fra queste, la fatidica vongola verace Venerupis decussata della quale però il quantitativo pescato non è sufficiente a coprire la grande richiesta di mercato che invece viene compensata da altre specie di vongola quale la Chamelea gallina più conosciuta dagli esperti come lupino o ancora più di sovente con la Tapes philippinarum, ovvero con la cosiddetta vongola filippina, una specie alloctona (di origine asiatica) da qualche decennio perfettamente acclimatatasi nelle acque costiere e nelle lagune dell’Alto Adriatico ove viene ampiamente sfruttata sia con il prelievo dai banchi naturali, sia con l’allevamento, praticato intensivamente.
Le vongole (o lupini che dir si vogliano) della specie Chamelea gallina, sono invece presenti nei fondali sabbiosi dell’Adriatico pugliese in enormi stock e la
Castro, mio grande amore: la purissima perla del Salento, incastonata fra illuminanti fuochi di storia e sfavillii di modernità
di Rocco Boccadamo
Non sembra per niente di sognare, si avverte anzi una sensazione concreta, quasi che la divina Pallade Atena per i greci o dea Minerva per i romani – il cui nome costituisce parte integrante dell’ appellativo originale del piccolo borgo di cui mi accingo a dire, appunto Castrum Minervae – forse a causa di una cocente delusione, avesse lasciato stillare da queste parti una piccola pioggia di lacrime, lacrime che, penetrando poi nel terreno e irrorandolo, si sarebbero trasformate in un humus del tutto speciale, a sua volta fonte e origine di una vasta gamma, meglio un concentrato, di bellezze naturali straordinarie e mirabili che si riscontrano diffuse in questa ridente e amena plaga del sud Salento.
Un puntino quasi invisibile sulle carte geografiche, che però reca, di per sé, il pregio di ergersi un po’ ad una sorta di ombelico del connubio fra gli ultimi strati del verde Adriatico e le più vivaci distese, dalle sfumature blu intenso, del mare Ionio.
Come per effetto di un miracolo strano, ma di miracolo non si tratta, Castro è compostamente «vecchia» sulle orme della sua antica e gloriosa storia, intessuta anche da vicende di saccheggi e distruzioni per opera di orde piratesche e di bramosi eserciti conquistatori che salpavano le ancore dalle opposte sponde, vicinissime, del Canale d’Otranto. Si presenta, nello stesso tempo, gioiosamente giovane, dal momento che è riuscita a conservare, anche il giorno d’oggi, una compatta voglia di vita e di crescita: qui, si deve sottolineare, non esiste, se non in termini modesti, il problema del calo delle nascite, sicché i giovani, i ragazzi e i bimbi appaiono numerosi, almeno quanto (se non addirittura di più) viene dato di constatare con riferimento alle persone anziane.
Castro la minuscola, pur tuttavia centro importante nella storia della cristianità. Molti, forse, non sanno che, per tanti e tanti secoli, è stata sede vescovile e, quindi, dimora di una lunga serie di Pastori della Chiesa, con giurisdizione su una decina di piccoli paesi del circondario.
Castro, con appena 100/150 anime, sede diocesana guidata da alti prelati delle più svariate provenienze, anche se in prevalenza di origini meridionali.
Mi immagino tali molteplici figure di successori degli Apostoli in condizioni di naturale e dignitosa povertà, dimoranti sì nel «loro» piccolo palazzo vescovile, ma certamente povere: e, del resto, come poteva essere altrimenti alla luce e sulla base di una comunità – e relative risorse – così risicate?
Chissà quale vita austera, al di là dei paramenti sacri e degli stemmi, dovevano condurre! Chissà come e con quali mezzi di fortuna si arrischiavano, quando arrivava il momento, ad affrontare i viaggi a Roma, alla sede di Pietro, per le periodiche visite apostoliche «ad limina» secondo la definizione del diritto canonico! Nel corso di così lunghi spostamenti, sostavano forse in lussuose dimore pluristellate, o erano costretti ad accontentarsi dell’ospitalità di qualche «collega» o povero parroco dei paesi che attraversavano?
Castro, dunque, e i suoi vescovi, rimasti insediati lì sino all’anno 1818, allorquando la diocesi, al pari di altri similari organismi di piccola portata, venne abolita, dopo che, negli ultimi periodi, mancando completamente i mezzi per il «mantenimento» della sede, alcuni Presuli erano stati costretti ad abbandonare la loro residenza e si erano trasferiti nei paraggi, prima nella località di Poggiardo e poi in un convento di frati della confinante Marittima.
Un breve inciso. A proposito di Marittima, mette conto di sottolineare come i corsi della storia siano davvero strani, ove si pensi che tale convento è attualmente di proprietà di un lord inglese, il quale – previo una serie di ammirevoli, importanti e radicali restauri – lo ho adibito a sua stabile dimora e, in aggiunta, vi ha organizzato un’attività turistica nella formula del «bed & breakfast».
Castro cancellata quindi, oramai da due secoli, come diocesi. Attenzione però, non si è trattato di un colpo di spugna in ogni senso! Le autorità ecclesiastiche hanno infatti gelosamente «conservato» l’antica e prestigiosa sede vescovile «castrensis», tenendola annoverata fra le cosiddette «Chiese titolari», quelle cioè che sono attribuite, giusto come titolo, al momento della nomina, a nuovi Vescovi, nelle più svariate parti del mondo, i quali non siano Pastori residenziali di una determinata città o sede, vale a dire, ad esempio, i Vescovi Ausiliari, i Nunzi Apostolici, i prelati preposti ad organismi pontifici. Per la cronaca, attualmente – precisamente dal dicembre 1979 – il titolo di «Vescovo titolare di Castro delle Puglie» è proprio di un Ausiliare della arcidiocesi della città nord americana di Milwakee, S.E. Rev.ma Mons Richard J. SKLBA.
L’antica «Castrum Minervae» richiamata all’inizio, si identifica oggi con Castro Città o Castro Alta, adagiata su un costone/promontorio discretamente rialzato sul mare e cinta in parte, almeno intorno all’estensione del borgo, da mura e da una catena di castelli con torri cilindriche o a sagoma di cubo/parallelepipedo.
La torre più grande, per la verità, da circa un trentennio è stata «sdemanializzata», passando così in proprietà ad un facoltoso medico, il quale la ha trasformata in lussuosa residenza privata che vanta, soprattutto, un panorama a dir poco mozzafiato: vi si spazia verso nord, quasi a voler rivolgere un rispettoso saluto ideale alla Serenissima, regina di sempre dell’Adriatico, verso est, dove a portata di mano si trovano, e sovente si scorgono, le coste e i rilievi dell’Albania e della Grecia, verso sud, nella quale direzione lo sguardo, doppiato il capo di Santa Maria di Leuca, sembra invece rivolgersi all’universo delle civiltà musulmane, importanti e contrapposte.
Sostando presso questa torre, si ha veramente la sensazione di «sollevarsi» dall’esistenza quotidiana con i suoi intoppi e le sue brutture e, per un arcano
artificio, di salire, salire in alto.
A pochi passi, ecco il piccolo, ma molto armonioso, edificio dell’ex cattedrale, con annesso un raccolto e ben restaurato palazzo vescovile. Soffermandosi sia pure per un momento all’interno della chiesa, si riceve una ventata di sublimazione dello spirito: la mente e il cuore si spostano indietro e lontano, si registra intimamente la rievocazione di annunci di Natività, proclami di Resurrezione del Signore, canti solenni di «Te Deum» di ringraziamento, succedutisi nel corso di secoli; quasi non ci si avvede più della comunità del terzo millennio che qui, appena all’esterno, al contrario è pullulante, viva ed attiva. Da due lati, l’ex cattedrale si affaccia su uno slargo molto accogliente e tranquillo, riparato dai venti, dove, anche in pieno inverno, è concesso di godere magnificamente sostando sotto il sole che non brucia, ma riscalda.
Altri pochi metri di distanza e si apre il piccolo e infiorato Vico S. Dorotea, terminante in un belvedere che si affaccia, a fianco di un altro torrione dei castelli, verso il porticciolo della marina, le incombenti serre salentine e il capo di Santa Maria di Leuca.
A ridosso del primo castello, cilindrico, si stende un’altra piazzetta costituente il classico punto di ritrovo degli abitanti di Castro in ogni stagione, largo impreziosito da un‘ampia terrazza quasi protesa verso il mare sottostante sul fronte nord est e nord, con veduta delle scogliere della Grotta Zinzulusa, di Porto Miggiano e di Santa Cesarea Terme.
E’ questo il sito da cui, più frequentemente e maggiormente, si ha modo di impattare visivamente con la costa greco/albanese, che in certe occasioni, d’inverno in particolare, grazie ad uno speciale fenomeno di rifrazione della luce volgarmente denominato «Fata Morgana», sembra trovarsi a pochissimi chilometri di distanza, potendo distinguerne finanche determinati particolari come strade, edifici ed altri punti cospicui.
All’estremità del Paese, nella parte che conduce ad una piccola altura chiamata con un pizzico di esagerazione Monte Lacquaro, si gode ancora di una entusiasmante veduta su Porto Miggiano e Santa Cesarea Terme, nonché su altre rade e grotte marine, prima fra tutte la Grotta Romanelli.
A Castro città, le giornate si dipanano attive e vive ma, nel contempo, quiete e silenti: un autentico prodigio rispetto alla frenesia e al movimento, almeno durante la bella stagione e nei weekend, che caratterizzano invece Castro Marina, rinomata località di villeggiatura e di esodo frequentata da migliaia di turisti e visitatori – provenienti non solo dalle zone limitrofe, ma anche da tutta l’Italia, specie dal Nord, e dall’estero – i quali rimangono letteralmente estasiati dalla bellezza di questo mare e inebriati dalle acque cristalline che ridanno vitalità e senso di benessere a chi vi si immerga.
Fare il bagno a Castro Marina ingenera un sublime godimento, senza prezzo e senza paragone.
Nell’ambito del porticciolo, accanto ai villeggianti, si svolge anche la vita di un discreto numero di pescatori: certo, ora i pescherecci si sono ridotti appena a tre/quattro e in più rimangono solo i piccoli battelli dei singoli. Eppure, i pescatori di Castro conservano ancora un’abitudine contratta nel corso delle lunghe stagioni delle battute di pesca in gruppo, quella cioè di parlare tra loro solitamente ad alta voce, così come facevano in alto mare per superare i rumori delle onde, della motobarca e dei movimenti dell’attività peschereccia.
Sebbene il mio paese di nascita sia la piccola località contermine di Marittima e abbia trascorso per lavoro diversi decenni fuori regione, Castro è da sempre un po’ parte della mia vita: conosco molti degli abitanti e auspico di arrivare ad essere considerato da loro quasi alla stregua di compaesano.
Altro particolare: nel Santuario di Castro Marina, quaranta anni addietro, mi
sono sposato.
Non è un bel quadretto d’insieme?
D’estate, nel porticciolo di Castro Marina, lascio agli ormeggi la mia piccola barca a vela per le quotidiane regate nella rada, al largo oppure nei dintorni.
Infine, conservo presenti e integri taluni ricordi molto belli di quando ero ragazzo.
Innanzitutto, le gite su barche da pesca, rigorosamente a remi e dotate di grandi lampare, per accompagnare la statua della Madonna di Pompei in occasione della tradizionale processione a mare nel mese di agosto. Particolarmente impresso nella mente, quindi, un piccolo episodio, risalente al 1950 o 1951, periodo in cui – durante le vacanze scolastiche – mio padre soleva portarmi con sé in Municipio, dove era impiegato, per aiutarlo: un giorno, allo sportello dell’anagrafe, rilasciai la prima carta di identità ad un bellissima ragazza bionda di Castro, di quindici o sedici anni, il cui nome di battesimo era Natalizia. Poco tempo fa, un po’ prima della scomparsa di detta persona, ho scoperto che si trattava della madre di due soci della cooperativa che al porticciolo custodiscono le barche dei villeggianti, compresa la mia. Ho successivamente riferito dell’episodio a Luigi, padre dei predetti e vedovo della stupenda Natalizia, il quale si è profondamente commosso ed ha voluto rendere partecipe della mia antica testimonianza un giovane nipote, il quale, da quella volta, ho notato che mi si rivolge con maggior rispetto e riguardo.
E poi, le scalate dei costoni di Pizzo Mucurune alla «caccia» di giovani gazze (qui sono chiamate «ciole») nidificanti nei numerosi anfratti, uccelli che venivano portati in casa, in un certo senso addomesticati e giungevano a far
parte, per l’intera estate, dei nuclei familiari.
E che dire dei richiami ad alta voce, di buon mattino, da parte di pescatori rientranti dalla nottata trascorsa in mare, i quali si fermavano a riva in corrispondenza della «marina» e della semplice casettina di vacanza della mia famiglia per lasciare a mio padre piccoli panieri, o semplici incartate, di pesci azzurri spesso ancora guizzanti.
Piccoli amarcord, intrisi però da profondo significato umano.
Certo, Castro ha un grosso problema: quello delle aree di parcheggio per le auto; spero vivamente che gli amministratori si impegnino e riescano a trovare soluzioni idonee.
Per i tempi a venire ed a favore di un’equilibrata crescita, auspico da ultimo che si introduca, accanto a quelle tradizionali, qualche intelligente formula di turismo culturale.
Corrisponde a banalità purissima affermare che negli ultimi 15 anni la vita dell’uomo medio occidentale sia stata letteralmente rivoluzionata da due tecnologie: il cellulare ed internet. Ma se la navigazione in rete è stata da me scoperta nel 1999 e me ne sono pacificamente assuefatto, il rapporto col cellulare è nato tra mille strepiti e rifiuti, e rimane tuttora tormentato.
Volendo rispondere agli alti obiettivi speculativi fissati dal titolo in latino maccheronico del post, sdoppierò lo stesso affrontando separatamente due problematiche che poi sono anche l’essenza della rivoluzione che la telefonia mobile ha apportato alle nostre vite. Affronterò dunque in primis di come quella scatoletta infarcita di chip abbia stravolto la nozione stessa di “reperibilità”.
Giù in Salento i primi cellulari che non costassero quanto un rene sono apparsi nel 1996 o giù di lì. Sono stato uno degli ultimi fortunati studenti a diplomarmi prima che i cellulari entrassero a stuprare le aule delle superiori. Ho resistito sino al settembre del 1999, cedendo alla forza bruta di mia madre che, dopo una notte insonne senza avere mie notizie dopo una battuta di pesca con ritorno all’alba, mi prese per le recchie e mi comprò una scheda sim, appioppandomi un suo cellulare di risulta.
Ma perché resistevo così tanto? Il solito snobismo da bastian contrario? No. Semplicemente, mentre la gente impazziva nel poter telefonare dovunque o in qualunque momento, io ci tenevo a rimanere non reperibile. Intuivo che il cellulare era né più né meno uno di quei braccialetti elettronici che mettono sui carcerati in America quando li mandano a casa. Non puoi toglierteli, non puoi spegnerli, e ti rendono un puntino sul radar sempre costantemente monitorato.
Badate, la pensavo così quando ancora il cellulare era uno status symbol che non tutti potevano permettersi, non ancora uno strumento a buon mercato che oggi costa meno di un tostapane. A quei tempi era ancora possibile non averne uno, ed era ancora possibile usarlo in modo distratto. Lo usavi quando ti serviva, e se lo tenevi spento problema non ce n’era.
Nel tempo, la reperibilità da opportunità è diventato un obbligo, come avevo previsto senza troppi sforzi. Oggi non è più possibile tenerlo spento, o
(…) Sul calare della sera, prima che gli usci si rinserrassero sull’intimità del desinare e il paese piombasse nel silenzio, le donne interessate a prenotarsi alla cottura del pane, si presentavano a una a una, chi a un forno chi a un altro, e come se stessero a pronunciare una parola d’ordine, annunciavano: “Ccumpagnata ti lla pruiténzia àggiu crisciutu lu lliàtu (“accompagnata dalla provvidenza ho approntato il lievito”). “Cu lla razzia ti Ddiu!” (“Con la grazia di Dio!”) rispondeva il fornaio, e subito chiedeva: “Pi quanti piézzi?” (“Per quante forme?”).
Poi, a precisazione ottenuta, si chinava a cercare fra la legna accatastata contro la parete un rametto di murtéddhra (mortella) che sfrondava lasciando sullo stelo tante foglioline quante erano le forme di pane che la donna intendeva cuocere. I rametti di mortella erano il suo promemoria: via via sommando il numero delle foglioline riusciva a meglio orientarsi sul numero delle prenotazioni, che ovviamente non dovevano superare i limiti di capacità del forno.
“Pi quale ‘nfurnata?” (“Per quale infornata?”), tornava a chiedere prima di infilare il rametto in uno dei tre bicchieri allineati su una mensola e rappresentanti appunto le tre infornate che abitualmente si facevano a distanza di tre ore l’una dall’altra. Se la donna interpellata era contadina e perciò costretta a trovarsi fra i campi alle prime luci, la risposta non poteva essere che una: “Am prima ‘nfurnata, queddhra ti la Matonna” (“Alla prima infornata, quella della Madonna”).
La prima infornata infatti aveva luogo prima ancora dell’alba e veniva detta “ti la matonna” in rapporto a un’antica leggenda secondo la quale l’Arcangelo Gabriele, sceso dal cielo prima dell’alba ad annunziare l’incarnazione del Verbo, aveva trovato la Vergine Maria in preghiera, inginocchiata vicino a un tavolo sul quale aveva appena finito di impastare una pagnotta di pane d’orzo. L’annunzio dell’angelo aveva coinvolto anche la pasta, che, nella gioia, aveva accelerato i suoi ritmi di fermentazione; sicché, quando il fornaio era andato a prelevarla per la cottura, si era accorto ch’era già passata di lievitazione e quindi poteva considerarsi inservibile
Mma intra llu piettu la Ergine Maria
sintìa la ràzzia ca tutta l’ia rrinchiùta
puru la pasta, eddhra lu sapìa,
prisciàta era, filu nnacituta.
Pi quistu, a llu furnàru ja nsistùtu:
‘nfurnala, tamme retta, ane sicùru,
ca ci la ‘nfurni no tti ttruéi pintùtu,
miràculu vitrai, ti lu ssicùru!
Ma in cuor suo, la Vergine Maria
sentiva la grazia che tutta l’aveva pervasa,
pure la pasta, lei lo sapeva,
contenta era, affatto inacidita.
Per questo al fornaio aveva insistito:
infornala, dammi retta, vai sicuro,
ché se la inforni non ti troverai pentito,
miracolo vedrai, te l’assicuro!
Per accontentare la Vergine, l’umile fornaio di Nazareth aveva infornato ugualmente la pagnotta, sistemandola però nell’angolo più periferico del forno, nel timore che il suo acido avesse a guastargli l’altro pane. Ma quale non era stata la sua meraviglia nell’aprire il forno! Quella pagnotta che credeva di trovare piatta e inacidita, era la più bella dell’infornata: pure essendo impastata con scura farina d’orzo si presentava bianchissima, e lievitando in modo strano aveva assunto la forma perfetta di un giglio, fra i cui petali si scorgeva un cuore segnato di croce. Una leggenda cara alle donne contadine, pronte a rivangarla con amore, quasi fosse usbergo alla loro fatica di impastare il pane a ore antelucane. (…)
Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari, 1994 (pagg, 213-215).
La storia italiana dello stoccafisso, come molte storie importanti, inizia casualmente e vede protagonista il nobiluomo e mercante veneziano Pietro Querini, che il 25 Aprile 1431 salpa con la nave di cui era proprietario e capitano, da Candia, allora dominio veneto, con un carico di vino di malvasia, spezie ed altre mercanzie alla volta dei porti di Bruges e di Anversa seguendo la famigerata rotta di Fiandra. Una destinazione che lo stesso non avrebbe mai raggiunto, infatti, dopo varie vicissitudini, il 17 dicembre dello stesso anno, la nave sarebbe naufragata nei pressi della Manica e dopo oltre due settimane solo una delle due scialuppe sarebbe riuscita a toccare terra con undici sopravvissuti, fra cui un salentino, tal Cola di Otranto. Querini, aveva raggiunto l’isola di Rost nel remoto arcipelago delle Lofoten a Nord della Norvegia oltre il circolo polare artico. Il povero Querini, avvilito da tanta sfortuna, appella il remoto luogo “Culo mundi”, l’isola per sua fortuna è popolata da centoventi ospitali abitanti, tra l’altro fedeli e devoti cattolici, che ospitano con generosità i suoi marinai nelle loro case, mentre egli e i suoi due luogotenenti Cristoforo Fioravante e Francesco Querini di Candia vengono ospitati in casa dal sacerdote con il quale riescono ad intendersi in latino. Nei centouno giorni di permanenza, il Querini, pone molta attenzione agli usi e costumi del luogo, ma da buon commerciante anche ai suoi traffici e alla sua economia. Nota, con stupore che gli abitanti dell’isola, come quelli di tutto l’improduttivo arcipelago, si procurano: legumi, cuoi, panni, ferro e quant’altro necessario al loro sostentamento barattando il merluzzo da loro pescato ed essiccato senza sale, al vento e al sole, localmente appellato stocfisi, che fungeva perfettamente da moneta sonante. Il traffico si svolgeva in più tappe, alcuni brigantini effettuavano la raccolta dello stoccafisso, nei vari villaggi sparsi nel profondo dei fiordi delle coste norvegesi e nel sopra menzionato arcipelago e lo conducevano a Bergen nel sud della Norvegia dove giungevano navi cariche di mercanzie da barattare da Francia, Inghilterra, Germania, Scozia, Prussia, etc. Questo, ci fa intendere, come questo prodotto, al tempo del Querini completamente sconosciuto in Italia, fosse invece un alimento comune ed apprezzato in molti altri paesi europei compresa la vicina Francia, dove era alimento molto comune già nel XIV secolo, ma conosciuto già intorno al X secolo, introdotto da quei temerari uomini di mare che erano i baschi, i primi, se si escludono i vichinghi, a trattare i merluzzi. Tanto Pietro Querini, quanto i suoi due luogotenenti, come evidentemente era costume fare a persone aduse ad aggiornare minuziosamente i giornali di bordo, tornati a Venezia, stilano dei precisi resoconti, ove con ottima proprietà di linguaggio e un inaspettato rigore scientifico fanno la descrizione degli usi e costumi del posto, nonché del mirabile sistema di conservazione del merluzzo ivi ideato e lasciano intravedere la proficuità dei traffici che ne potrebbero scaturire. Non possiamo collegare con certezza la sfortunata avventura del nostro capitano con l’entrata nella cucina mediterranea di questo nobile prodotto, ma il sospetto è forte, visto che poco dopo, nei primi decenni del Cinquecento, questo viene già importato sistematicamente in Italia. Com’è noto, sino al Settecento la navigazione non è ancora molto evoluta e spesso si naviga spostandosi di rada in rada, di porto in porto, ragion per cui, porti oggi di secondaria se non di marginale importanza erano un tempo interessati da ampi traffici ed erano sovente teatro di intensi scambi commerciali. Quindi, se Venezia costituiva il naturale capolinea del commercio del merluzzo essiccato, che trovava nell’interland, allora come oggi, una tradizionale e importante area di smercio, diversi altri porti venivano più o meno direttamente coinvolti lungo la rotta. I porti della Sicilia erano ad esempio una tappa pressoché obbligata per chi faceva il traffico tra l’occidente e i porti dell’adriatico e dell’oriente, le navi delle tratte nordiche venivano a caricare gli agrumi, unica arma contro lo scorbuto e il sale di Trapani, bianco, purissimo e poco igroscopico per cui ritenuto il migliore per la salagione del pesce e presto cominciarono a pagare con stoccafisso e baccalà. Messina per la sua posizione era il principale crocevia di questi traffici non è quindi un caso che qui il “piscistoccu” sia divenuto il piatto d’elezione.
Per quando riguarda il Salento, una certa importanza rivestivano i porti di Otranto e Brindisi, ove, gli scambi erano comunque limitati a piccoli approvvigionamenti di derrate alimentari pagati sempre cambio merce, ma sovente con prodotti di qualità inferiore, quali baccalà di pezzatura più piccola, e con diversi succedanei più economici, quali le molve essiccate che nella povertà del tessuto economico locale incontravano un vivace interesse di mercato.
L’oritano Vincenzo Corrado, nel suo Cuoco Galante, Napoli 1792 nel capitolo intitolato “Della Frutta di mare e de’salumi “ ci da queste notizie intorno alla varietà di pesce salato che si trovavano in commercio: “vi sono vari pesci salati, come Merluzzo, ossia Baccalà, Salmone, Capitone, Linguattole marinate, Saracche, Aringhe ed altri i quali posson servire in mancanza de’ freschi Pesci da farne delle vivande, che di essi se n’è detto avvertendo solo di levarne bene il sale con acqua fresca facendoli in essa bene ammollire e cambiarla spesso, particolarmente per lo Baccalà il quale prima di metterlo in acqua fredda bisogna con spazzola stropicciarlo e lavarlo bene. (…) Sono stimatissime le trippe e le lingue di Merluzzo ossia di Baccalà. Questo pesce si pesca nei mari oltramontani dal principio di Febbraio per tutto Aprile e viene a noi trasportato in due maniere, salato, cioè fresco in barilotti, ed a secco: ed è quello più atto a conservarsi prendendo meglio il sale.”
Oggi prelibatezze come trippe, lingue di baccalà, etc… non arrivano più sui banchi dei nostri globalizzati negozi, fortunatamente, hanno trovato in altri posti del mondo nuovi estimatori come le teste essiccate che vengono esportate in milioni di pezzi in Nigeria. Da noi, la scelta spesso si risolve tra baccalà (merluzzo salato) e stoccafisso (merluzzo essiccato). Invero, sotto queste generiche denominazioni vengono commercializzati pesci appartenenti a una decina di diverse famiglie e a oltre duecento specie, quasi tutte viventi nelle fredde acque dell’emisfero settentrionale, e che ridotte in filetti è spesso molto difficile distinguere, ma che sarebbe più corretto denominare con i loro nomi propri: pollak, pollak d’Alaska, brosme, eglefino, motella, molva, melù, cappellano, musdea, etc. . Lo stoccafisso e il baccalà, per così dire originali, si ricavano esclusivamente dal merluzzo atlantico specie Gadus morhua, la classificazione dello stoccafisso è materia piuttosto complessa e quindi per addetti ai lavori, i consumatori, in genere conoscono solo la qualità tradizionalmente commerciata nella loro zona, come l’eccellente Ragno, molto grande e dalle carni magre, diffuso nel Triveneto ove è protagonista del celeberrimo baccalà alla vicentina. Oltre al Ragno, le qualità di stoccafisso più apprezzate in Italia sono: il Westre piccolo, il Westre magro, il Westre Ancona, il Gran Premier, il Bremese e l’Olandese, tutte di prima scelta, ognuna delle quali, è difficile capire perché, incontra maggiori favori in un determinato mercato. A differenza dello stoccafisso, per il baccalà non esiste un’articolata suddivisione in categorie; viene classificato semplicemente in due qualità, a e b, che indicano rispettivamente la prima e la seconda scelta. Diventa baccalà il pesce pescato all’inizio di Gennaio, quando il clima è ancora troppo rigido per iniziare l’essiccamento. Nel Salento, in linea con il gusto del sopra riportato maestro Corrado, è molto apprezzato il baccalà ed è protagonista di molti piatti tipici. Qui, lo stoccafisso è molto meno noto, essendo sempre stato appannaggio di pochissime salsamenterie d’elite, invece è stato sempre molto popolare e diffuso un suo succedaneo povero, la molva essiccata in gergo salentino “stoccu” “stoccapesce”, noto pure con il sinonimo ingentilito, “gronghetto”. Nonostante la solida tradizione gastronomica, il consumo di questo prodotto diviene man mano sempre più marginale, quasi relegato nelle famiglie più tradizionaliste e concentrato prevalentemente nei periodi canonici, un vero peccato, visto che è un alimento nobile e versatile, che come pochi, coniuga straordinarie proprietà nutrizionali a indiscusse qualità organolettiche. Ricchi di proteine nobili, di vitamine A, B e D, e dispensatori di iodio, contengono una piccola percentuale di grassi, peraltro di tipo insaturo, quindi il consumo frequente di stoccafisso e baccalà può allontanare l’arteriosclerosi, il rischio d’infarto, le disfunzioni tiroidee, l’uricemia, diverse altre patologie e grazie alle sostanze antiossidanti il decadimento organico. Il tutto se vogliamo ad un prezzo straordinariamente conveniente, infatti un chilo di baccalà equivale a oltre tre chili di pesce fresco e scusate, se è poco.
L’alloro nel mito, nella storia, nell’arte e… in una sorpresa finale.
La prima parte del nome scientifico, il secondo italiano e quello neretino sono tutti dal latino lauru(m)1, di cui è forma aggettivale il nome della famiglia. Il primo nome italiano (alloro), contrariamente a quanto si potrebbe pensare, è il meno corretto anche se il più usato, a conferma che spesso anche tra le parole, come tra gli uomini, il peggiore prevale… Esso, infatti deriva dalla locuzione latina (il)la(m) lauru(m), con errata concrezione e successiva deglutinazione dell’articolo (*lalauro>l’alauro>l’alloro). La seconda parte del nome latino (nobilis) significa nobile e tale attributo è, per quanto si dirà, particolarmente azzeccato.
Nel mondo greco, infatti, una corona di alloro era il premio per i vincitori nei giochi pitici (a differenza delle olimpiadi non vi si svolgevano solo competizioni sportive ma anche gare di musica e poesia). Si celebravano ogni quattro anni (il terzo dopo ogni olimpiade) nel santuario di Apollo a Delfi (altro nome Pito, da cui prendono il nome gli stessi giochi e la Pizia, la sacerdotessa del santuario); nelle foto in basso: a sinistra il santuario, a destra lo stadio con la gradinata di sinistra aggiunta in epoca romana.
L’alloro era l’albero sacro ad Apollo, dio della musica, della poesia e delle arti in genere. Se il nome latino, come abbiamo visto, era laurus, quello greco era dafne. Lo stretto rapporto esistente in Grecia tra divinità e natura trova conferma nell’arcinoto mito di Apollo e Dafne, avvenente fanciulla che, per sfuggire alle attenzioni del dio, si mise a correre (altri tempi, con tutto il rispetto per gli dei di allora e nessuno per quelli sedicenti tali di oggi…) e, quando stava per essere raggiunta, ottenne dalla terra di essere trasformata in alloro. Ad onor del vero bisogna dire che Apollo, per una sorta di par condicio sfociante nella bisessualità (a parte il fatto che tale comportamento all’epoca era assolutamente normale e nel nostro caso poi siccome l’oggetto del desiderio di regola veniva trasformato in un vegetale il tutto era inquadrabile in quel rapporto strettissimo tra divinità e natura di cui ho detto), ebbe occasione di fare le sue avances anche a dei ragazzi: il dio, giocando un giorno al lancio del disco (non doveva essere molto bravo con l’attrezzo, ma anche gli dei possono sbagliare…) colpì a morte Giacinto, di cui era perdutamente innamorato e pensò bene di trasformarlo nell’omonimo fiore; poi fu la volta di Ciparisso che, per punizione di aver ucciso involontariamente con un lancio maldestro del giavellotto (non conosco mito in cui l’indiretto responsabile sia il peso, ma non è detto che non esista…) il suo compagni di giochi preferito (non era Apollo, ma un cervo sacro addomesticato )chiese ed ottenne dagli dei di morire e che le sue lacrime scendessero in eterno: fu accontentato e nacque il cipresso.2
Conseguenza della sua buca con Dafne fu la ricorrente rappresentazione della sua testa coronata di alloro: due esempi nelle monete sottostanti.
La prima, uno statere (IV° secolo a. C.), proviene proprio da Delfi e raffigura nel verso Apollo seduto sull’omphalòs3 con il gomito destro appoggiato alla cetra ed un ramo d’alloro. La seconda, un tetradramma (V° secolo a. C.), proviene da Lentini (Sicilia) e raffigura nel recto Apollo coronato di alloro con intorno tre foglie della stessa pianta.
Nella poesia l’alloro entra come componente suggestivo di scorci paesaggistici in Omero, Odissea, IX, 181-183: “Ma quando giungemmo alla terra che stava vicino, là vedemmo vicino al mare una spelonca che si apriva nel punto più alto, ricoperta da allori…” e in un frammento (185, 5) di Stesicoro (VII°-VI° secolo a. C.): “Il figlio di Giove si diresse a piedi verso un boschetto ombreggiato da allori”.
Nel mondo romano, a parte le notizie riportate da Servio (vedi nota 1), va ricordato che la forma aggettivale femminile da laurus (laurea) compare con significato sostantivato di corona di alloro già in Plauto (III°-II secolo a. C.)4 e poi in Cesare (I° secolo a. C.)5 e laureàtus (da laurea derivato) in Festo (probabilmente I° secolo d. C.)6. Laurea compare ancora, col significato metonimico di trionfo, in Ovidio (I° secolo a. C.-i° secolo d. C.)7, Lucano (I° secolo d. C.)8, Marziale (I* secolo d.C.)9 e Tacito (I°-II° secolo d. C.)10.
Questa tradizione continuò nel medioevo quando con i rami di alloro si coronava il capo del nuovo dottore in medicina (baccalaureatus o baccalaureus, derivato da baccalarius=giovane cavaliere, forse connesso col tardo latino buccellarius=soldato privato, tutte voci che non hanno nulla a che vedere con l’alloro e con le sue bacche), fino alla laurea attuale (conseguimento di qualsiasi titolo di dottore al termine degli studi universitari).
Sorvolo sui festeggiamenti attualmente riservati al laureato e che in più di un caso sembrano competere con quelli di cui godevano i trionfatori nell’antica Roma. In realtà il paragone è solo un pretesto per riprendere il filo del discorso antico e dire che al nostro albero Plinio dedicò molto spazio nella sua Naturalishistoria: “(L’olio) si ricava anche dall’alloro, mescolandovi olio di olive mature. Certi lo estraggono solo dalle bacche, altri solo dalle foglie, altri dalle foglie e dalla buccia delle bacche ma vi aggiungono lo storace e altri profumi. Per questo vale più di tutti l’alloro che ha le foglie larghe, selvatico, dalle bacche nere”11; “L’alloro è propriamente dedicato ai trionfi, è anche graditissimo in casa e ornamento delle porte di cesari e pontefici; da solo adorna pure le case e veglia davanti alle porte. Catone ce ne ha tramandato due varietà: la delfica e la cipriota. Pompeo Leneo ne aggiunse un’altra che chiamò mustace, poiché si mette sotto ai mostaccioli. (Dice che) ha foglie molto grandi, tenere e bianche, che il delfico è di colore uguale, più verde, con bacche grandissime e che da verdi diventano rosse; che con questa varietà s’incoronavano i vincitori a Delfo e i trionfatori a Roma; che il cipriota è di foglia corta, nera, con i margini a forma di tegola, crespo. Poi ne aggiunsero altri. Il tino: alcuni credono che questo sia l’alloro selvatico , altri un albero della stessa specie. Il colore è differente: ha infatti le bacche rosse. Si aggiunge anche il regio, che cominciò a chiamarsi augusto, albero grande e dalle foglie grandi, con le bacche non aspre al gusto. Alcuni negano che esso sia l’alloro regio che ritengono altra varietà dalle foglie più lunge e più larghe. Gli stessi in riferimento ad un’altra varietà chiamano baccalio quello che è diffusissimo e ricchissimo di bacche e chiamano trionfale (cosa di cui mi meraviglio molto)la varietà tra queste che non produce bacche e dicono che se ne adornano i trionfatori; senonché ciò cominciò dal divino Augusto, come diremo, grazie a quell’alloro che gli fu mandato dal cielo, di altezza minima, dalla foglia crespa e corta, raro a trovarsi. Si aggiunge nell’adornare i giardini il tasso, dalla foglia piccola che si assottiglia in mezzo, come striscia di foglia; senza parlare della spadonia dalla meravigliosa capacità di ombreggiamento tanto che fa ombra al terreno a volontà. E c’è pure il camedafne, arboscello selvatico, nonché l’alessandrino che alcuni chiamano ideo, altri ipoglozio, altri dafnite, altri ancora carpofillo, altri ipelate. Sparge i rami dalla radice, adatti a confezionare corone, con foglie più acute di quelle del mirto, più delicate, più bianche e più grandi, con bacche rosseggianti tra le foglie. Ce ne sono molti sull’Ida e attorno ad Eraclea di Ponto e solo in luoghi montuosi. Pure la varietà che si chiama dafnoide non ha una denominazione costante. Alcuni infatti lo chiamano pelasgo, altri cupetalo, altri stefano [corona] di Alessandro. Anche questo arboscello è ramoso, con la foglia più grossa e più morbida di quella dell’alloro; a gustarlo si infiamma la bocca e la gola, le bacche sono nere tendenti al rosso. Fu osservato dagli antichi che in Corsica non vi era nessuna specie di alloro: oggi piantato si sviluppa anche lì. L’alloro è un albero di pace, sicché quando si mostra anche tra i nemici armati è indizio di quiete. Dai Romani viene aggiunto ai messaggi, alle lance e ai giavellotti dei soldati soprattutto come annuncio di gioia e di vittoria, adorna i fasci dei comandanti. Da loro viene posto in grembo a Giove ottimo e massimo ogni volta che una nuova vittoria procura gioia. E ciò non perché sia sempreverde o perché sia segno di pace (nell’uno e nell’altro caso è preferibile l’ulivo)ma perché è bellissimo sul monte Parnaso e perciò pure gradito ad Apollo, al quale ormai anche i re romani sono abituati a mandare doni là, secondo la testimonianza di L. Bruto. Forse anche perché ivi egli conquistò la pubblica libertà baciando quella terra laurifera secondo la risposta dell’oracolo e perché è il solo tra gli alberi piantati e accolti in casa a non essere colpito dal fulmine. Per questi motivi piuttosto che sia in onore nei trionfi piuttosto che per il fatto che un profumo e abbia funzioni purificatrici dall’uccisione del nemici, come scrive Masurio. E non è lecito che l’alloro e l’olivo vengano inviliti in usi profani, a tal punto che neppure per propiziarsi gli dei debbano essere accesi con essi gli altari o le are. L’alloro scaccia il fuoco con uno scoppiettio manifesto e quasi con un certo disprezzo; e il suo legno cura le malattie dell’intestino e dei nervi. Dicono che l’imperatore Tiberio quando tuonava fosse solito incoronarsi di alloro contro la paura dei fulmini. Ci sono anche fatti degni di memoria avvenuti al tempo di Augusto. Infatti un’aquila lasciò cadere dall’alto illesa una gallina bianca in grembo a Livia Drusilla quando era ancora promessa a Cesare e che dopo il matrimonio avrebbe assunto il nome di Augusta; e mentre lei senza paura guardava si aggiunse un altro prodigio, poiché la gallina teneva bel becco un ramo di alloro carico delle sue bacche. Gli indovini comandarono che si conservasse la gallina e la sua prole e che quel ramo fosse piantato e devotamente custodito. Questo fu fatto nella villa dei Cesari costruita sul fiume Tevere presso il nono miglio sulla via Flaminia, che per questo è chiamata Alle galline; e (dal ramo) crebbe miracolosamente un bosco. Cesare poi trionfando tenne in mano un ramo e portò in testa una corona di alloro tratti da quella selva; e questo fecero successivamente tutti i Cesari imperatori. Si tramandò anche l’usanza di piantare i rami che essi avevano tenuto e le selve ancora continuano distinte dai loro nomi, forse per questo, essendo cambiati i trionfatori. In latino il nome di questo solo tra gli alberi è posto agli uomini. Le foglie di questo solo si distinguono per nome: infatti la chiamiamo laurea. Dura ancora in Roma il nome posto ad un luogo, dal momento che sull’Aventino si chiama Loreto quello in cui ci fu un bosco di allori. Il medesimo albero si usa nelle purificazioni e, per inciso, sarebbe attestato che si pianta pure per ramo, ma ne dubitarono Democrito e Teofrasto”12.
Se non ci fosse stato lo zampino di Apollo, come abbiamo visto, il nostro albero non sarebbe nato e il suo mito non avrebbe avuto la sua più alta celebrazione poetica, quella di Ovidio nel primo libro delle Metamorfosi (vv. 452-567), di cui per brevità riporto solo la parte culminante (VV. 540-552): “Tuttavia colui che la insegue sospinto dalle ali di Amore è più veloce, non le dà tregua e incalza alle spalle della fuggitiva e le fa sentire il suo fiato sui capelli scompigliati. Ella, perse le forze, impallidì e, vinta dalla fatica della fuga forsennata, guardando le onde del Peneo disse.-Padre, aiutami! Se voi fiumi avete potere, distruggi cambiandola quella figura a causa della quale piacqui troppo!-“.
La preghiera era appena finita che un pesante torpore le invade gli arti: tutto il corpo viene cinto da una sottile corteccia, i capelli crescono in fronde, le braccia in rami, il piede fino a poco prima così veloce aderisce alle pigri radici, la cima gira attorno al volto…”.
Senza i bollenti ardori di Apollo (e la ritrosia di Dafne) avremmo pure dovuto fare a meno della rappresentazione scultorea meritatamente14 più famosa del mito, quella del Bernini (1622), che si può ammirare a Roma nella Galleria Borghese (foto in basso) e che sembra proprio essersi ispirata ai versi di Ovidio.
E, siccome mi piace mescolare il sacro con il profano (forse non è vero che gli estremi si attraggono, ammesso che sacro e profano lo siano?), dopo aver aperto in bellezza chiudo in bruttezza (masochista!) con la rappresentazione sottostante (Apollo c’è, manca Dafne…) custodita al Centimetropolitan Museum dei Masserei a Nardò.
* Guarda un po’ che s’è messo in testa oggi!
** Vedo, vedo. Si è montato, in senso metaforico, la testa ma avrebbe fatto meglio a montarsene , in senso letterale, un’altra per sembrare più intelligente, anziché il resto del corpo per sembrare più giovane.
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1 Non ha il minimo fondamento filologico, pur essendo suggestivo, quanto si legge in http://www.actaplantarum.org/floraitaliae/viewtopic.php?t=3443 dove si afferma : Il nome del genere dal latino “laus” = lode, lodare per evidenziare le proprietà curative della pianta “lodate” già dagli antichi. Si tratta di una paretimologia, cioè di un’etimologia popolare, riportata da Servio (IV° secolo d. C.) nel suo commento all’ottava ecloga di Virgilio: Lauro autem triumphantes coronantur, hedera poetae: Pollio et Imperator est et poeta. Cur tamen triumphantes lauro coronentur, haec ratio est, quoniam apud veteres a laude habuit nomen, nam laudum dicebant, vel quod hanc in manu habuit Iuppiter, quando Titanas vicit, vel quod ea arbore Praefecti militum, Fidenatibus victis, se coronassent sub Romulo, vel quod semper vireat (Pollione è imperatore e poeta. Il motivo per cui, tuttavia, coloro che riportano il trionfo vengono incoronati con l’alloro sta nel fatto che presso gli antichi esso prese il nome dalla parola lode, infatti dicevano laudo, oppure perché lo tenne in mano Giove quando vinse i Titani o perché i capi dei soldati dopo la vittoria sui Fidenati ai tempi di Romolo si incoronarono con i rami di quell’albero oppure perché è sempreverde). Vedi anche nota 4.
2 Direi che il carattere antropomorfo della religione antica (dalla Natura alla divinità) favorisse una maggiore coscienza ecologica, cosa che, purtroppo, non è da ravvisare, a mio parere, in quella cristiana (da Dio alla Natura).
3 Alla lettera: ombelico [anche umbone dello scudo, per la somiglianza; non a caso umbone è dal latino umbòne(m) e ombelico dal latino umbilìcu(m), forma aggettivale di umbònem corrispondente al greco omphalikòs=fornito di umbone]. Delfi nel mondo greco era celebrata come l’ombelico del mondo [Pindaro (V° secolo a. C.), Pitiche, IV, 74; Eschilo (V° secolo a. C.), Eumenidi, 166) perché meta di pellegrinaggio. Nel santuario vi era una pietra (l’omphalòs, appunto) che indicava il punto in cui si sarebbero incontrate, secondo il mito, due aquile lanciate dai limiti estremi della Terra da Zeus desideroso di accertare quale ne fosse il centro. Dopo tanti secoli non ci resta altra consolazione se non L’ombelico del mondo lanciato (lancio ben diverso da quello di Zeus…) da Jovanotti nel 1995.
4 Cistellaria, 201: perdite perduelles, parite laudem et lauream (sconfiggete i nemici, meritatevi la lode e la corona di alloro). La presenza contemporanea di laudem e lauream in un autore “popolare” come Plauto sconfessa, secondo me definitivamente, la testimonianza di Servio riporatta in nota 1.
5 De bello civili, III, 71, 3: Pompeius eo proelio imperator est appellatus. Hoc nomen obtinuit atque ita se postea salutari passus, sed <neque> in litteris adscribere est solitus, neque in fascibus insignia laureae praetulit (Pompeo per quella battaglia fu chiamato comandante in capo. Ottenne questo titolo e così poi concesse che fosse salutato, ma non fu solito scriverlo nei messaggi né nei fasci mostrò le insegne della corona di alloro).
6 De verborum significatu, 117, 13: Laureati milites sequebantur currum triumphantis, ut quasi purgati a caede humana intrarent Urbem. Itaque eamdem laurum omnibus suffitionibus adhiberi solitum erat, vel quod medicamento siccissima sit, vel quod omni tempore viret, ut similiter respublica vireat (I soldati adornati di alloro seguivano il carro del trionfatore perché entrassero in Roma quasi purificati dalla strage dei nemici. E così era abitudine usare lo stesso alloro per tutti i suffumigi, o perché molto secco vale come medicamento o perché è sempreverde, cosi che allo stesso modo fiorisca lo Stato).
7 Epistulae ex Ponto, II, 7, 67: Praestat et exulibus pacem tua laurea, Caesar (Il tuo trionfo, o Cesare, assicura la pace pure agli esuli).
8 Bellum civile (Pharsalia), I, 122: Tu,novaneveteresobscurentactatriumphos/etvictiscedatpiraticalaureaGallis/
Magne, times…(Tu, o grande, temi che le gesta [del tuo avversario] oscurino i vecchi trionfi e che il [tuo] trionfo sui pirati passi in secondo ordine rispetto alla vittoria sui Galli…).
9 Epigrammata, VIII, 15, 6: Nec minor ista tuae laurea pacis erat…(Nè minore sarà questo trionfo della tua pace…)
10 Annales, II, 26, 4: …deportare lauream…(riportare il trionfo).
11 XV, 7: Fit et lauro, admixto druparum oleo. Quidem e baccis exprimunt tantum, alii foliis modo, aliqui folio et cortice baccarum, nec non styracem addant, aliosque odores. Optime laurus ad id latifolis, silvestris, nigra baccis.
12 XV, 39-40: Laurus triumphis proprie dicatur, vel hratissima domibus, ianitrix Caesarum pontificumque: sola et domos exornat, et ante limina excubat. Duo eius genera tradit cato: Delphicam et Cypriam. Pompeius Lenaeus adiecit quam mustacem appellavit, quondam mustaceis subiceretur. Hanc esse folio maximo, flaccidoque et albicante: Delphicam aequali colore, viridiorem, maximis baccis atque e viridi rubentibus. Hae victores Delphis coronari et triumphantes Romae. Cypriam esse folio brevi, nigro, per margines imbricato, crispam. Postea accessere genera. Tinus: hanc silvestrem laurum aliqui intelligunt, nonnulli sui generis arborem. Differt color: est enim ei caerulea bacca. Accessit et regia, quae coepit Augusta appellari, amplissima et arbore et folio, baccis gustatu quoque non asperis. Aliqui negant eamdem esse et suum genus regiae faciunt, longioribus foliis latioribusque. Iidem in alio gebere baccaliam appellant hanc quae vulgatissima est baccarumque fertilissima. Sterilem vero earum (quod maxime miror) triumphalem, eaque dicunt triumphantes uti: nisi id a divo Augusto coepit, ut docebimus, ex ea lauro quae ei missa e coelo est, minima altitudine, folio crispo ac brevi, inventu rara. Accedit in topiarioopere taxa, excrescente in medio folio parvulo, veluti lacinia folii.Et sine ea spadonia, mira opacitatis patientia: itaque quantalibet sub umbra solum implet. Est et chamaedaphne silvestris frutex. Est et Alexandrina, quam aliqui Idaeam, alii hypoglottion, alii daphnitin, alii carpophyllon, alii hypelaten vocant. Ramos spargit a radice dodrantales, coronarii operis, folio acutiore quam myrti, molliore et candidiore et maiore, semine inter folia rubro. Plurima in Ida et circa Heracleam Ponti, nec nisi in montuosis. Id quoque, quod daphnoides vocatur, genus in nominum ambitu est. Alii enim Pelasgum, alii cupetalon, alii stephanon Alexandri. Et hic frutex est ramosus, crassiore ac molliore, quam laurus, folio: cuius gustatu accenditur os atque guttur, baccis e nigro rufis. Notatum aniquis nullum genus laurus in Corsica fuisse, quod nunc satum et ibi provenit. Ipsa pacifera, ut quam praetendi etiam inter armatos hostes quietis sit indicium. Romanis praecipue laetitiae victoriarumque nuntia additur litteris et militum lanceis pilisque. Fasces imperatorum decorat. Ex his in gremio Iovis optimi maximique deponitur, quoties laetitiam nova victoria attulit. Idque non quia perpetuo viret, nec quia pacifera est (praeferenda ei utroque olea), sed quia spectatissima in monte Parnaso: ideoque etiam grata Apollini, adsuetis eo dona mittere iam et regibus Romanis, teste L. Bruto. Fortassis etiam in argumentum, quoniam ini libertatem publicam is meruisset, lauriferam tellurem illam osculatus ex responso. Et quia manu satarum receptarumque in domos, fulmine sola non icitur. Ob has causas equidem crediderim honorem ei habitum in triumphis potius quam qui suffimentum sit caedis hostium et purgatio, ut tradit Masurius. Adeoque in profanis usibus pollui laurum et oleam fas non est, ut ne propitiandis quidem numinibus accendi ex his altaria araeve debeant. Laurus quidem manifesto abdicat ignes crepitu, et quadam detestatione: interaneorum etiam vitia et nervorum ligno torquente. Tiberium principem tonante coelo coronari ea solitum ferunt contra fulminum. Sunt et circa divum Augustum eventa eius digna memoratu. Namque Liviae Drusillae, quae postea Augusta matrimonii nomen accepit, quum pacta esset illa Caesari, gallinam conspicui candoris sedenti aquila ex alto abiecit in gremium illaesam: intrepideque miranti accessit miraculum, quoniam teneret rostro laureum ramum onustum suis baccis. Conservari alitem et sobolem iussere aruspices, ramumque eum seri ac rite custodiri. Quod factum est in villa Caesarum, fluvio Tiberi imposita iuxta nonum lapidem Flaminia via, quae ob id vocatur ad Gallinas, mireque silva provenit. Ex qua triumphans postea Ceasr laurum in manu tenuit, coronamque capitre gessit; ac deinde imperatores Caesares cuncti. Traditusque mos estramos, quos tenuerunt, serendi ; et durant silvae nominibus suis discretae, fortassis ideo mutatis triumphalibus. Unius arborum Latina lingua nomen imponitur viris. Unius folia distinguuntur appellatione: lauream enim vocamus. Durat et in Urbe impositum loco, quando Loretum in Aventino vocatur, ubi silva lauri fuit. Eadem purificationibus adhibetur testatumque sit obiter et ramo eam seri, quoniam dubitavere Democritus atque Teophrastus.
13 Qui tamen insequitur pennis adiutus Amoris,/ocior est requiemque negat tergoque fugacis/ imminet et crinem sparsum cervicibus adflat./Viribus absumptis expalluit illa citaeque/ victa labore fugae spectans Peneidas undas/’fer, pater,’ inquit ‘opem! si flumina numen habetis/qua nimium placui, mutando perde figuram!’/ [quae facit ut laedar mutando perde figuram.]/Vix prece finita torpor gravis occupat artus:/mollia cinguntur tenui praecordia libro,/in frondem crines, in ramos bracchia crescunt,/pes, modo tam velox, pigris radicibus haeret,/ora cacumen obit…
14 Nell’ordine: una maiolica attribuita a Nicola di Urbino (prima metà del XVI° secolo); Paolo Veronese (1575), San Diego, San Diego Museum of Art; Luca Giordano (seconda metà del XVII° secolo), Venezia, Ca Rezzonico, Museo del Settecento veneziano; Giambattista Tiepolo, (1760), Washington, National Gallery. Pur tenendo conto del diverso strumento di creazione artistica e del gusto della relativa epoca, nessuna mi pare poter competere con quella del Bernini.
Se si domandasse ad un bambino salentino cos’è il miele, nella stragrande maggioranza dei casi si sentirebbe rispondere: è una sostanza dolce che si consuma a Natale con i dolci tradizionali e poi si tiene nella dispensa in caso di raffreddore, dolore di gola… Questo è purtroppo il marginale ruolo a cui, nonostante una leggera, recente inversione di tendenza, questo mobilissimo prodotto è ormai relegato nella maggior parte delle famiglie salentine. Eppure, questa è terra di grande tradizione apistica come testimoniato già dalla toponomastica di paesi come Melendugno (dono miele) e Melissano con l’ape inequivocabilmente immortala sull’arma civica. Inoltre, nonostante la maggior parte sia stata smantellata o distrutta dalla balorda furia vandalica di questi ultimi decenni, percorrendo la campagna salentina è ancora frequente imbattersi in degli alveari di pietra. Proprio così, gli alveari di pietra, come le torri columbarie e gli ancora meno noti puddhrari
immagine tratta da http://www.agraria.org/coltivazionierbacee/aromatiche/origanocomune.htm
nome italiano: origano
nome scientifico: Origanum vulgare L.
nome della famiglia: Labiatae
nome dialettale neretino: riènu
Etimologie: il nome italiano e la prima parte di quello scientifico sono dal latino orìganu(m), a sua volta dal greco orìganon (spesso nei codici orèiganon), collegato all’aggettivo oreighenès=montano, formato da oros=monte e ghenos=nascita; meno praticabile considerarlo composto dal precedente oros+ganos=splendore.
La seconda parte del nome latino è nel significato etimologico di noto al popolo; il nome della famiglia è forma aggettivale dal latino làbium=labbro. Il nome dialettale suppone la seguente trafila: orìganu(m)>orijanu>oriènu>l’oriènu>luriènu (deglutinazione di o– intesa come componente dell’articolo).
Ecco la consueta carrellata delle testimonianze antiche. Comincio dal mondo romano con Plinio (I° secolo d. C.): L’origano, che nel sapore è simile alla cunila, come dicemmo, ha molte varietà impiegate in medicina; lo chiamano oniti1o prasio2, non diverso dall’issopo. Il suo uso è particolarmente efficace contro i bruciori di stomaco in acqua tiepida, e contro la cattiva digestione; in vino bianco contro ragni e scorpioni; in aceto, olio e lana contro le lussazioni e le contusioni.3
Il tragorigano4 è più simile al serpillo selvatico. Favorisce la diuresi, risolve i gonfiori, bevuto vale come antidoto contro il visco e il morso di vipera, giova contro l’acidità di stomaco e i disturbi intestinali. Viene somministrato pure conn miele a coloro che sono affetti da tosse, da pleurite e polmonite.5
L’eraclio pure ha tre varietà: il primo è più nero, dalle foglie più larghe, vischioso; il secondo ha le foglie più sottili, è più tenero, non dissimile dalla maggiorana e alcuni preferiscono chiamarlo prasio. Il terzo è qualcosa di mezzo tra i primi , ma meno efficace di loro. Ottimo poi è quello di Creta che ha anche un gradevolissimo profumo. Gli si avvicina quello di Smirne, più profumato. Poi c’è l’eracleotico, più adatto per bevanda, che chiamano oniti. Lo si utilizza comunemente per tenere lontani i serpenti, cotto come cibo ai
Molto spesso quando parliamo del Salento ci vengono in mente le sue splendide spiagge, il mare pulito e cristallino, la natura verdeggiante dai secolari alberi d’ulivo, le pajare etc. Non sempre, però, ricordiamo che il Salento è fantastico anche per le sue bellissime tradizioni popolari, leggende, storie mistiche, fantastiche ma anche allegre e divertenti, tramandate dai nostri nonni o da coloro che come i satirici, “storpiando” storie e giocando su gesti o atteggiamenti di facile risata, hanno mantenuto viva la tradizione popolare salentina, studiando l’aspetto sociologico e gli usi e costumi del nostro territorio. Tra questi è d’uopo annoverare Papa Galeazzo, storico arciprete di Lucugnano, piccolo paese del Basso Salento, il quale con il suo modo di fare, bizzarro e allegro, ha saputo rallegrare gli animi di noi salentini.
Pare ormai assolto che papa Domenico Galeazzo sia veramente esistito, tant’è che se ne è documentata la presenza a Lucugnano tra il 1589 e il 1591, rintracciando anche il suo cognome che lo fa appartenere ad una famiglia de Palma. Riteniamo che l’immaginario popolare salentino abbia via via contribuito a caricare la figura del parroco di Lucugnano di caratteristiche e di attributi che lo rendono, inequivocabilmente, maschera simbolo di un’epoca e di una condizione, uno spirito che, pur limitato dall’ignoranza e dalle basse radici sociali, sa comunque sempre emergere col trarsi d’impaccio in ogni circostanza, rivendicandosi indomita libertà, spesso egocentrica, sia pure espressa con malizia, in maniera rozza e spesso becera, capace anche di cogliere, con imprevedibilità, gli aspetti comici e paradossali delle situazioni.
Leggendo gli aneddoti su don Galeazzo corre spontaneo il paragone a riferimenti letterari, quali la commedia attica antica, il teatro plautino, il Decamerone, la commedia dell’arte e tutta la vasta produzione satirico- burlesca. Papa Galeazzo rappresenta emblematicamente la condizione di buona parte del clero del XVI- XVII secolo, tante volte stigmatizzato dai vescovi di Terra d’Otranto che nelle loro SS. Visite annotavano l’ignoranza e la sciatteria di non pochi ecclesiastici, vessati dalle gerarchie della Chiesa che, a volte, si comportavano in maniera poi non tanto dissimile dalla gretta e rapace feudalità, padrona assoluta di uomini e cose.
Galeazzo, alla maniera di Pulcinella, conosce l’arte di arrangiarsi, usa la parola come uno staffile, non si fa scrupoli di ricorrere all’espediente ed è mutevole, sornione, arguto, furbo, possiede insomma, nel bene e nel male, le peculiarità dell’animo meridionale.
Le traduzioni di Papa Galeazzo
Papa Galeazzo insegnava latino in Alessano e il libro suo prediletto di testo erano le Bucoliche di Virgilio. Un giorno ebbe ad assegnare come compito la traduzione del canto pastorale: Titire tu patulae recubans sub tegmine fagi, che alcuno della scolaresca seppe tradurre.
– Bestie!!! Gridò Papa Galeazzo e tradusse: Titire si rifuggiò sotto la pentola dei fagiuoli!!!.
Amici dappertutto
Ricorrendo la festa di S.Michele, 29 settembre, e per quanto l’Arcangelo non fosse santo devoto del popolo di Lucugnano, pure l’arciprete volle che si accendessero candele dinanzi alla sua immagine che adornava uno degli altari laterali della chiesa maggiore.
Mentre che il sacrestano finiva di accendere le candele capitò in chiesa Papa Galeazzo.
– Che cosa avete fatto? Domandò l’Arciprete al sacrestano; le candele son troppe vicine, l’una all’altra; e rimuovendone una, egli stesso la collocò davanti alla figura del diavolo che era dipinta all’estremità del quadro.
– Arciprete, osservò il sacrestano, ma voi, così, fate ardere la candela anche al diavolo?
– Eh! Caro mio, rispose tosto Papa Galeazzo. Nessuno sa ove s’abbia e finire; bisogna farsi degli amici dappertutto!
Ad oculos per istam sanctam unctionem
Chiamato Papa Galeazzo al letto di un moribondo per somministrare gli ultimi sacramenti, dopo aver recitato i due oremus ed aperto il rituale, intinse il pollice nell’olio santo e fece segno al sacrestano di rimuovere le coltri del letto.
Il sacrestano, pratico di tali funzioni, domandò all’ Arciprete da quale parte dei sensi volesse cominciare la santa unzione.
– Dalla prima indicazione, rispose Papa Galeazzo, ad culos per istam sanctam unctionem, e in ciò dire pose sotto gli occhi del sacrestano il rituale.
L’assistente, sorpreso, pur non sapendo leggere, gli fece notare che la prima indicazione prescrive che si cominci dagli occhi.
L’arciprete portò sotto il suo naso il rituale e si accorse che il tarlo aveva roso la vocale o per cui egli aveva letto ad culos, da dove aveva voluto incominciare la santa unzione.
Fonte
RIZZELLI RUGGERO, Gi aneddoti di papa Galeazzo, Capone Editore, 1993, p.3.
Musiche di P. Migali, A. Corelli, G. Tartini e G. F. Haendel
Solisti del Barocco Salentino – Ennio Catanese, Federico Puglielli, Tiziana Di Giuseppe e Francesca Mammana
Uno dei meriti particolari di Padre IginoEttorre è stato quello di aver riscoperto un repertorio locale di grande valore per la storia musicale pugliese, di averlo reso noto attraverso i concerti con il suo coro e di averlo restituito alla storia attraverso pubblicazioni di grande pregio.
L’appuntamento di Mercoledì 28 Novembre alle ore 20.00 presso la Biblioteca Caracciolo a Lecce intitolato appunto “Padre Igino e la ricerca musicologica”, inserito nel cartellone del Festival “Musicando il Cielo”, promosso dal Conservatorio di Musica “Tito Schipa” di Lecce, in collaborazione con il Convento di S. Antonio a Fulgenzio, il Gruppo Madrigalistico Salentino e la Città di Lecce, si aprirà con un intervento di Doriano Longo cui seguirà il concerto dei “Solisti del Barocco Salentino”, ensemble da camera formato dai violinisti Ennio Catanese, Federico Puglielli, la violoncellista Tiziana Di Giuseppe e la pianista Francesca Mammana docente di Pianoforte del Conservatorio “Tito Schipa”.
Il programma traccerà un ideale percorso della storia della Sonata a tre iniziando dalle Sonate di Pietro Migali – autore salentino del Settecento di cui Padre Igino ha pubblicato la revisione di varie opere nel 1979 – proseguendo per la Sonata da Chiesa in Fa Magg. Op. 3 n° 5 di A. Corelli, la Trio Sonata in Fa Magg. di G. Tartini e si concluderà con la Trio Sonata in Mi Magg. op. 2 n° 9 di G. F. Haendel.
Lo “stile concertante” è lo schienale dei brani in programma, come la maggior parte della letteratura dell’epoca che rimanda a Vivaldi e Corelli.
Pietro Migali visse e produsse nella piena atmosfera artistica e storica della sua epoca, contestualizzato perfettamente nello stile dei grandi compositori del Settecento: Vivaldi, Corelli e Haendel. Arditezza armonica in alcuni passaggi, largo impiego di dissonanze non preparate e di false modulazioni di passaggio, vivacità ritmica, specie negli allegri e bella concisione di progressioni serrate, sono le caratteristiche del discorso armonico dei brani che ascolteremo in sala.
Ingresso libero e gratuito fino ad esaurimento posti.
Prossimi appuntamenti del Festival “Musicando il cielo”: Venerdì 30 Novembre alle ore 20 presso la Chiesa di S. Antonio a Fulgenzio a Lecce, con il Gruppo Madrigalistico Salentino e Mercoledì 5 Dicembre alle ore 20, sempre presso la Chiesa S. Antonio a Fulgenzio a Lecce, il Concerto d’organo con l’organista Antonio Rizzato.
Uomini e bestie nella tradizione popolare salentina di fine Ottocento
UOMINI E BESTIE NEL VINCOLO DI UNA TERRA RIARSA, INESAUSTA NELL’ASSORBIRE TANTO IL SUDORE DELL’UOMO CHE LAVORAVA DI ZAPPA, QUANTO QUELLO DEL BOVE CHE TIRAVA L’ARATRO.
IL BRINDISI ALLA VACCA NELL’ARCAICA SIMBOLOGIA TAURINA
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
(…) Che il contadino amasse l’asina più della propria moglie era un luogo comune, assumibile come diagramma significativo del rapporto in termini di profitto (maggiore resa = maggiore cura) ma che non spiega l’insieme contraddittorio dei comportamenti – o sentimenti che dir si voglia –, rimandando pertanto a una qualche ragione primaria più ampia nella capacità dell’inglobo. E poiché risalire a monte nel riflesso di un popolo già di per sé contrassegnato da retaggi arcaici porta inevitabilmente a un recupero di echi ancestrali, ci ritroviamo di fronte quel retroterra di miti e culti panici le cui radici, come altrove abbiamo notato, continuavano a interagire, sia pure camuffate nel ruolo ambiguo delle leggende spesso tramutate in credenze. Non si era certo più a livello di numinoso naturalistico, nel cui contesto anche le bestie potevano avere ruolo deifico, ma se il superamento del politeismo agreste in teoria era valso a neutralizzare i reverenziali timori suscitati dalle misteriose forze della natura, in pratica il contadino dell’Ottocento continuava a esserne soggiogato, per cui lo stesso rapporto con le bestie ne usciva caratterizzato da un’indecifrata soggezione traducibile in senso di colpa, quasi usurpazione di un potere che nel riverbero di moralità archetipiche poteva apparire come passibile di punizione.
Nel passaggio al monoteismo, quelle che erano forme deificate si erano infatti convertite in scansioni di sacralità della natura, formando sì un corpo unitario ma non assolvendo ad un obbligo di prevalenze nel rispetto, né tanto meno azzerando quel ricorso al cultuale vissuto come stato di inermità di fronte al mistero creativo. Un disarmo tanto più avvertibile a livello di classe contadina, il cui stato di asservimento creava pareggiatura di sorti nel vincolo di una terra riarsa, inesausta nell’assorbire tanto il sudore dell’uomo che lavorava di zappa, quanto quello del bove che tirava l’aratro.
Nell’insieme della visione bucolica era infatti impossibile stabilire delle separazioni fra presenza umana e presenza animale, poiché il giorno nasceva, dilagava e moriva traendo vitalità da un’unica orchestrazione, il cui crescendo non concedeva spazio agli assoli: la voce dell’uomo trovava complementarietà nel muggito del bove o nel raglio dell’asino, l’affannato tramestio dei passi si rispecchiava nell’affaticato zoccolare dei cavalli, lo stornellare delle ragazze si intrecciava al belare delle capre, e il pianto dei bambini era dolente contrappunto al lamento degli agnelli. E se dosatura c’era in tanto coinvolgimento di vita e di lavoro, non era certo a favore dell’uomo: per aggiogare un puledro si aspettava che i suoi garretti fossero ben saldi e con scrupolo se ne misurava a palmi il garrese, ma per incatenare i fanciulli alla zappa non ci si dava tempo, per cui il loro passaggio da fiore a frutto era estremamente rapido, e a pausa preparatoria c’era solo un rassegnato sospiro di rinuncia all’infanzia.
Nel quotidiano assenso al sacrificio, l’uomo e la bestia faticavano assieme, con la differenza però che quest’ultima aveva nel padrone un protettore vigile che la valutava e compativa negli sforzi, concedendole pause di riposo durante le quali spesso lui continuava a lavorare, sia pure soltanto falciando erba fresca da offrirle come boccata di ristoro. Pur covando le sue paure di miseria e dibattendosi nelle ristrettezze, questi si preoccupava di non farle mancare il pugno di biada, giungendo financo all’affettuosa attenzione di versarle nel pastone di crusca un bicchiere di vino; un gesto che rasentava l’atto oblatorio, tenendo presente come nell’ambito contadino il vino assurgesse a simbolo celebrativo, tanto da porsi come sigillo nella saldatura delle amicizie, dei comparatici, dei fidanzamenti, che venivano resi di pubblica ragione solo dopo che i due futuri consuoceri si erano offerti reciprocamente un bicchiere di vino, unurànnuse cu nna mbiùta e nnu brìnnisi (onorandosi con una bevuta e un brindisi), il cui usuale testo si articolava in forma propiziatoria:
Miéru, sangu ti la terra, mbéu a ssanitate òscia! La cuntintezza ti lu osce cu bbessa ti nchianàta e mmai ti scisa, erde ti màsciu ‘ndacquàtu ti lu celu!
(Vino, sangue della terra, bevo alla salute vostra! La contentezza di oggi sia sempre in salita e mai in discesa, sia verde di maggio innaffiato dal cielo!).
Anche le bestie si avevano il loro brindisi, e ciò accadeva al tempo delle messi, quando un bovino – meglio ancora se vacca – occasionalmente si trovava a transitare ai margini di un campo in mietitura: pur nella spirale dell’urgenza che caratterizzava quei giorni di raccolta, mietitori e mannellatori sospendevano il lavoro, affollandosi attorno all’animale e gareggiando a chi per primo gli offriva una spiga, a chi più a lungo poteva posargli la mano sulla groppa. A dare alla scena più netto crisma celebrativo ci pensava il capogruppo il quale, dopo aver bevuto a uno dei mmìli (anforette di terracotta) che i lavoranti si portavano dietro pieni di acqua corretta col vino – mistura che si diceva frenasse la sudorazione -, di questa se ne versava un poco nel cavo della mano e, invitando i presenti “mmusàti, mmusàti a lli mmìli” (“sorseggiate, sorseggiate alle anfore”), la offriva alla leccata della bestia, pronunciando la frase d’occasione: “Nui mbìmu a ssanitàte tua e tune lecca a bbunnànzia nòscia!” (“Noi beviamo alla tua salute e tu lecca alla nostra abbondanza!”).
Questa chiara volontà di stabilire una reciprocità di favori, in sostanza privilegiava la bestia, riconoscendole se non le mitiche funzioni tutelari, quanto meno facoltà propiziatorie, in uno spontaneo rinverdirsi dell’arcaica simbologia taurina che vedeva appunto nell’abbinamento terra-vacca la connotazione della fertilità, ossia il principio perfettivo del regno naturale. Fra le due figure archetipiche, l’inserimento dell’uomo aveva ruolo contraddittorio, perché se da una parte questi istintualmente si riconosceva suddito della natura – dalla quale dipendeva in tutto e per tutto -, dall’altra se ne era fatto virtualmente padrone, imponendo le sue regole nella coltivazione e, quel che più incideva psicologicamente, asservendo le bestie ai propri interessi. Di qui il latente senso di colpa nei loro confronti e il costante desiderio di attestare una sanatoria, bilanciando l’imposto servizio con un volontario rispetto. Un senso di compensazione al quale si veniva spronati fin dalla più tenera età e a prevalente cura delle madri, che pur di abituare un figlio a non avere paura delle bestie – soprattutto di quelle provviste di corna -, e nell’intento di orientarlo appunto verso un dominio temperato dall’amore, spesso gli raccontavano che a portarlo a casa, in fasce, era stata una vacca, descrivendo con quanta cura durante il trasporto lo aveva nannarisciàtu intra’a nnu facciulittòne mpisu a nnaca a lli corne (ninnato dentro un fazzolettone appeso alle corna a mo’ di cuna). “Quannu ccuéntri nna acca chiamala nunna” (“Quando incontri una vacca chiamala madrina”) gli ricordavano, e tutte le volte che era possibile si premuravano di farlo salire in groppa incitandolo: “Ncarìzzala, ncarìzzala, ca ti stà cchiàma patrùnu” (“Accarezzala, accarezzala, ché ti sta chiamando padrone”).
Se al momento del brindisi sul campo in mietitura c’era una donna con il proprio bambino, questa non si lasciava sfuggire l’occasione: chiedendo pirméssu ti ‘nsiddhràta (permesso di insellata), sistemava il suo piccolo a cavalcioni sulla groppa della bestia, non prima però di aver affidato alle sue mani due o tre spighe frettolosamente intrecciate a cerchietto, raccomandandogli di appenderle alle sue corna a mo’ di regalo. Un gesto che, pur se nella spontaneità della proposizione non poteva essere scisso dalle ansie suddette, in sostanza svelava un riemergere di pregnanze ancestrali, identificabili tanto nel cerchio di spighe – esplicito di deificazione nei culti primordiali – quanto nell’atto stesso dell’insellata, valevole come simbolica intronizzazione.
Continuando a orbitare nel mitico, ossia concedendo a questo funzioni di sotterraneo suggeritore, se ne può trarre la conclusione che alla base del comportamento materno ci fosse un interesse propiziatorio, tenendo presente che la ricchezza dei re mitici si configurava appunto in dovizia di armenti e le loro stesse qualità di uomini coraggiosi, virili, potenti, venivano riassunte nell’immagine stereotipata di provetti cavalcatori, vuoi di destrieri vuoi di giovenche
Nel leggendario nostrano le giovenche reali erano tutte jànche comu latte mpena muntu (bianche come latte appena munto) e a ogni vigilia di novilunio convenivano in massa a rretu a lla mparitàta ti lu parajsu tirréstre (dietro al muro di cinta del paradiso terrestre), dal cui cancello, a mezzanotte in punto, usciva lu rre Ddavìdde (il re Davide) il quale, essendo il re pastore per eccellenza e quindi ntinnénnuse ti uéi (intendendosene di buoi), le passava in rassegna, a ognuna misurando le corna finché, stabilito quale era la falcatura più bella, se ne impadroniva per tramutarla in luna nuova.
Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA, Culti magico-religiosi nel Salento fine Ottocento”, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari, 1994, pagg. 150-153
La bella armoniosa gallinella d’acqua che galleggia sulle onde si è finalmente involata; è lì a livello del marcapiano, sotto la finestra.
Nel rinascimentale palazzo Vernazza riaperto al pubblico dal dicembre 2011, di proprietà comunale, si è vero, la gallinella ha preso il volo durante l’ultimo recente e costoso restauro (3,3 milioni di euro finanziamento per la legge sul Barocco leccese); ondeggia guardandosi intorno preoccupata e portandosi lì in alto con tutto il grande concio della vera del pozzo: ha fatto un salto a dir poco allucinante.
Un fuori contesto arbitrario, un vero e ben assestato pugno nell’occhio a chi osservi tra cornici e volumi l’equilibrio delle superfici scolpite di quella semplice e bella linearità nell’insieme del prospetto rientrato oltre il portale catalano-durazzesco: curiosando tra le tortuose viuzze del centro storico di Lecce è impossibile che ciò sfugga alla conoscenza storica e ad una lettura architettonica e descrittiva del monumento cinquecentesco. Siamo costretti a sottolineare questa arbitraria, e fuori dalle regole, procedura in questo restauro e chiediamo con giusta ragione filologica di ricollocare questa superficie scolpita nella sua posizione originaria anche per darle una migliore visibilità e una corretta e immediata fruizione: forse che non si aveva modo di proteggere e salvaguardare la gallinella in modo diverso? Si riteneva forse economicamente più praticabile e più facile da attuare solo questa brutta soluzione? Suvvia, in Italia abbondano gli esempi virtuosi per interventi di restauro, con situazioni analoghe, all’interno di importanti monumenti: sono state sperimentate da tempo molte tecniche e troppi materiali utilizzabili per far ritornare la vera del pozzo lì dove era stata pensata e dimensionata troppi secoli fa!
“Non importa se vivi a Correggio o ai Parioli, conta il tuo occhio sulle cose“.
Luciano Ligabue, intervistato nei giorni scorsi da Ernesto Assante per Repubblica, inneggia alla provincia italiana. Ne consiglio la lettura ai provinciali come me e ai metropolitani come voi. Ne consiglio la lettura a chi si lamenta dei vecchietti del paese, a chi crede che gli eventi siano sempre altrove. Ne consiglio la lettura a chi si illude che basti la residenza a cambiare le persone.
Leggere il Liga, che ha accompagnato alcuni anni della mia adolescenza, mi ha riportato alla mente un altro “provinciale”. Daniele Greco è un atleta 23enne di Galatone specializzato nel salto triplo. Il 2012 si è aperto per lui con la qualificazione alle prossime Olimpiadi, conquistata ad Ancona lo scorso 21 gennaio. Il giovane salentino rappresenterà quindi l’Italia nella competizione sportiva per eccellenza, che si terrà a Londra a partire dal prossimo 27 luglio.
Ricordo una vecchia intervista a Daniele e al suo preparatore: i due raccontavano di rocambolesche peripezie per raggiungere la pista d’allenamento, qualche anno fa. Una struttura abbandonata e fatiscente in cui Daniele e il suo staff, tra le erbacce, si andavano ad allenare. Per accedervi era necessario saltare un muretto, poiché il vecchio portone d’accesso era sprangato e arrugginito. Come facevamo da bambini, quando in assenza totale di parchi pubblici giocavamo per strada e scavalcavamo i cancelli delle proprietà private per riprenderci il pallone. Daniele si ritroverà a gareggiare con coetanei di tutto il mondo che forse non hanno mai vissuto queste esperienze. Anche per questo tiferemo per lui. Perché siamo italiani e perché siamo provinciali, e spesso abbiamo saltato più muretti degli altri.
La ricorrenza, caduta nel 2011, dei 150 anni della cosiddetta e pseudo unità d’Italia ha portato con sé una rifioritura dei tanti movimenti meridionali esistenti e diversi libri che hanno riflettuto e fatto riflettere su quanto siamo stati costretti a subire, dall’annessione piemontese delle Due Sicilie fino ad oggi.
Il libro di Di Brango, offrendo una lucida e puntuale analisi del processo unitario e della formazione dell’attuale Stato italiano, dimostra come le contraddizioni di oggi abbiano la loro origine in quell’imperfetto processo che, «tra omissioni, censure, prevaricazioni e sopraffazioni ci restituisce, al presente, più italie divise e, spesso, le une contro le altre armate».
Il 17 marzo 1861, giorno in cui fu proclamato il regno d’Italia, venne ufficialmente sancita l’annessione del Meridione al regno di Sardegna, portando a compimento da parte dei Savoia una interessata conquista coloniale. I beni dell’ex Regno delle Due Sicilie salvarono l’economia piemontese.
Di Brango aggiunge che tutto quello che è avvenuto nella storia politica italiana, dal 1861 ad oggi, è stato condizionato dal modo perverso di raccontarlo sui libri e sui media, diversamente da quello che realmente è stato. Occorre rimettere a posto i cocci della nostra storia, per portare alla luce il nostro vero retroterra culturale e identitario.
A questo fine nel libro vengono affrontati, nell’ottica meridionalista, i temi caldi del Risorgimento, della repressione del Brigantaggio postunitario, del federalismo, della democrazia.
Gli eventi risorgimentali se da un lato determinarono dal punto di vista geografico l’unificazione del paese, dall’altro lasciarono immutate anzi accrebbero differenze e contraddizioni esistenti. Gramsci, Salvemini, Zitara hanno scritto in tal senso. Anche l’antiborbonico Ferdinando Petruccelli della Gattina, giornalista e deputato, nel 1861 scriveva: «Non si dirà certo che il nostro sia un parlamento democratico! Vi è di tutto eccetto il popolo».
La guerra civile, tra i piemontesi invasori e i briganti meridionali che difendevano la loro terra, che si protrasse per oltre un decennio, nella storiografia ufficiale viene descritta come semplice repressione di un fenomeno delinquenziale. Si vuol far credere che il brigantaggio politico e sociale sia stato opera di pochi delinquenti e non fenomeno di massa che coinvolse la stragrande maggioranza degli abitanti nel territorio dell’ex Regno delle Due Sicilie. Le bande armate, che tennero in scacco per dieci anni oltre la metà dell’esercito piemontese, registravano la partecipazione “trasversale” di borghesi, contadini e soldati.
Il federalismo propugnato, negli anni che la cosiddetta unità si stava formando, da Carlo Cattaneo, e più ancora da Giuseppe Ferrari, era tutt’altra cosa rispetto a quello voluto dagli attuali leghisti; quest’ultimi vogliono un federalismo per disaggregazione (ex uno plures), quelli volevano un federalismo per aggregazione (ex pluribus unum). Gli Stati italiani preunitari avrebbero conservato la loro autonomia ed indipendenza. Il federalismo avrebbe potuto e dovuto farsi 151 anni fa e non oggi.
Una vera democrazia, governo del popolo, non è mai esistita, tanto meno fu al centro degli eventi quando si approdò all’unità in Italia. Il processo unitario fu di fatto – scrive Di Brango – un processo élitario che ha ben poco a che fare sia con la democrazia che con la libertà, a meno che non si vogliano spacciare per elementi caratterizzanti dell’una i posticci plebisciti e dell’altra l’affrancamento da una monarchia alla quale ne subentrò, senza soluzione di continuità, un’altra. In certo qual modo, invece, democrazia esercitata dal basso fu la guerra civile combattuta dai contadini con il brigantaggio.
Nelle conclusioni Enzo Di Brango mette in rilievo l’importanza che i movimenti hanno assunto nella battaglia per la verità storica e nel riposizionamento equilibrato del Meridione in chiave economica, politica e sociale. Fare e promuovere cultura è il primo impegno dei movimenti, ma subito dopo bisogna sviluppare strutture organizzative per attività economiche, politiche e sociali.
Nella prefazione del libro Francesco Tassone pone come orizzonte, per ritrovare il nostro cammino di Meridionali, la fuoruscita dalla dipendenza da uno Stato che si è rivelato per noi un fossato buio e cieco, per non continuare a disperdere la nostra energia e la nostra identità, a cominciare dalla nostra radice contadina.
Nella postfazione Valentino Romano ci invita a fare del meridionalismo una scelta di vita e di impegno civile, pur dicendo pane al pane, pretendendo quello che ci spetta, senza acrimonia ma con lucida e pacata consapevolezza.
Enzo Di Brango, L’Italia si cerca e non si trova. Unità Federalismo Democrazia di fronte alla colonizzazione del Sud. Cronaca di 150 anni, Qualecultura Edizioni, Vibo Valentia 2012, pp. 136, € 12,00
I palazzi superbi in cieli di barocco. Le chiese di paradiso in preghiera. I vicoli stretti e inaccessibili allo sguardo riservano sorprese. Gli archi testimoni del passaggio frettoloso delle genti. I merletti di pietre decorano altari. Le botteghe in direzione del tempo. Le piazze solitarie e affascinanti. I santi in alto.
Qui, ora, intorno a me ci sei, e una stupenda serenità mi tiene.
Gli spiriti dell’antichità aleggiano su contrade e piazze. Non vi è giorno che non immagini di essere qui. Ho bisogno di canti e melodie per sopire la soave melanconia in subbuglio. La gente del luogo non mi conosce. Va bene così. L’essere forestiero mi dà libertà di movimento nell’incantevole eterna antichità. Non mi perdo e ritrovo le assenze di osservazione. Non so che cosa mi trattiene ancora per darmi buon tempo e buon luogo. Le forze dentro di me stringono patti con il luogo per imporre scritture di destino, nonostante la rassegnazione sia già soddisfazione di sogno. Al cuore ho chiesto di non agire e di lasciare il governo delle emozioni. Qui, in questo luogo che amo, e non dimentico, ed è sempre in me, la suggestione mi conferma tranquillità.
Dovrei possedere la genialità di un grande poeta per rappresentare ogni cosa che scalfisce l’anticamera della sensibilità e rendere omaggio alla città che commuove gli occhi, ma sono contento di non esserlo. Lecce è la strega che dà pienezza ai miei sguardi smarriti e impauriti.
Sui cigli dei sentieri nascosti stanno, semplicemente, sospesi nella loro inconsapevole ed effimera bellezza, senza che nessuno li abbia mai reclamati.
Quando, chissà da dove, chissà se ancora, giunge per caso un viandante che intende la silenziosa lingua del loro dondolio frusciante, sfiorandosi, gli bisbigliano, si dice, la verità che raccontano da secoli: “mentre vai, mentre credi di andare, contempla attorno, poiché del viaggio che stai compiendo non godrai nella presunta meta ma qui, tra un passo e l’altro”
Secondo la mitologia greca quando Giunone andò in sposa a Giove gli portò come dote alcuni alberelli che producevano dei meravigliosi pomi d’oro, arance e limoni, simboli d’amore e fecondità, un simbolismo tuttora vigente, vista l’usanza di scegliere proprio i fiori di zagara per i bouquet nuziali. Giove, dovette considerare tanto caro e prezioso quel dono che li custodì gelosamente in uno stupendo giardino sito in una parte remota del mondo allora conosciuto, alle pendici del Monte Atlante,incaricando come custodile mitiche ninfe Esperidi, avvenenti fanciulle dal canto dolcissimo che venivano coadiuvate in questa delicata incombenza dal drago Ladone.
Purtroppo per Giove, tali accorgimenti si dimostrarono insufficienti; i preziosi alberi furono infatti sottratti da Ercole, nella sua undicesima fatica, dopo aver combattuto un’estenuante lotta in cui ebbe la peggio il terribile Ladone.
Da allora, gli agrumi divennero appannaggio pure dei comuni mortali, ma conservarono, a ricordo della divina origine, il nome greco di esperidio, termine botanico con in quale viene indicato il frutto degli agrumi.
Gli agrumi appartengono alla famiglia delle Rutaceae, sottofamiglia Aurantioideae, gruppo Citreae, e si ripartiscono in numerosi generi.
La loro coltivazione è iniziata nella loro zona di origine che è l’Asia orientale intorno al 2400 a.C. La loro avanzata verso il Mediterraneo è stata piuttosto lenta e a tappe, transitando progressivamente attraverso l’India e il Medio Oriente. Ma il loro arrivo, se così si può dire, è stato pure rateale, pare infatti che i Romani abbiano conosciuto soltanto i cedri e i limoni, circostanza documentata in vari affreschi e mosaici. Solo più tardi, intorno al VII secolo, gli arabi introdussero in Sicilia l’arancio amaro o melangolo.
Moltissime fonti, anche molto autorevoli, attribuiscono agli Arabi anche l’introduzione dell’arancio dolce, ma di tale circostanza non si ha traccia né nei documenti storici né nella letteratura relativa a questo nobile e prezioso frutto. Per questo motivo, molti studiosi propendono nel darne merito ai Portoghesi, dato che notizie certe su questo agrume cominciano in concomitanza con l’espansione coloniale avviata da questi nel 1415. Una testimonianza scritta si trova nel diario della prima missione portoghese in oriente compiuta da Vasco de Gama dove vi è testualmente scritto: sonvi melancrie assai, ma tutte dolci…. E’ facile pensare che impararono a conoscere questi frutti nel lontano Oriente e li trasferirono nella loro terra di origine. Ad avallare questa ipotesi anche il fatto che l’arancio comune o dolce venne appellato Portogallo, una denominazione che tuttora conserva in vari idiomi meridionali, come in quelli calabresi e salentini (portagallu).
Diversi insigni botanici, fra cui il Risso, il Poiteau, il Fiori e lo Swingle si sono cimentati con risultati spesso discordanti della loro classificazione, operazione che presenta ancora oggi notevoli difficoltà, non essendo facile stabilire con sicurezza, se non con approfondite indagini genetiche, l’ascendenza delle numerosissime forme coltivate da quelle selvatiche, dalle quali si presume abbiano avuto origine per incroci o per mutazioni gemmarie.
Per quanto riguarda il Salento, il suo clima particolarmente mite, lo rende un territorio vocato alla coltivazione degli agrumi, che costituiscono le essenze arboree più diffuse nei giardini cittadini e negli orti suburbani, ma la loro coltura ha storicamente raggiunto un buon grado di specializzazione, soprattutto nella cittadina di Alezio e in tutto l’interland gallipolino, ove sono
Santa Caterina, la Fiera dei Cappotti e la Guerra dell’Uva
Oggi è Santa Caterina, protettrice di Cellino San Marco che la onora con la “Fiera dei Cappotti”.
È riecheggiata, in una piacevole conversazione con il Prof. Bergamini, la “guerra del vino”. Episodio tanto relegato nell’antro dell’oblio quanto fondamentale per comprendere qualche poderoso segmento della Storia del Paese.
La vicenda, ripresa in un bel libro di Alfredo Polito e Valentina Pennetta per Manni Editore, è stata richiamata allorché il prof. Bergamini illustrava la necessità di dover tornare alla coltivazione agricola secondo canoni spesso dimenticati.
Gli agricoltori presenti, ovviamente, hanno dovuto manifestare l’impossibilità di perseguire certi obiettivi se non a carico della follia di alcuni “masochisti” che continuano e massacrarsi di fatica per portare a casa dei sempre più rari benefici.
Che cosa è accaduto al settore primario, all’Italia, al mondo? Perché situazioni analoghe in alcuni periodi son foriere di tumulto e in altri, anche in forma più cancrenosa, sono solo foriere di mugugni?
Il fatto è questo: intorno alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, un quintale di uva fu proposto all’asta al contadino 2500 Lire. Una giornata di “cofanatore” (addetto al trasporto dell’uva dal campo al mezzo di trasporto) costava 500 lire. Ovvero un quintale di uva pagava cinque cofanatori.
Queste condizioni portarono a tumulti violenti con morti e feriti.
Oggi un quintale di uva viene pagato massimo 20 Euro, una giornata di “cofanatore” o equivalente costa 40 Euro, ovvero per pagare un operaio ci vuole dieci volte l’uva che ci voleva cinquanta anni or sono. Eppure non succede nulla.
Il fatto è che allora l’INTERA economia di una società si basava sulla vendemmia. Poi tutto è cambiato, il contadino è diventato residuale, il bracciante è un immigrato supersfruttato e chi pensava di far la rivoluzione raccontando “è ora è ora la terra a chi lavora” non prova più nemmeno la sensazione della sconfitta.
Ora la terra la comprano speculatori e camorristi, per coltivarla a pannelli o per seppellirci l’immondizia (forse quei pannelli quando diventeranno obsoleti) e chi la lavora che fa?
Mugugna e s’indigna, s’impegna e qualche volta s’incagna.
Ma basta un sussidio, una cancellazione di una multa, poter “fottere” i contributi al senegalese che li paga ma non potrà mai riscuotere la pensione, e tutto ritorna come prima. Capiterà ancora che perderemo probabilmente, ma sarà ancora una sensazione diversa da quella della sconfitta. Solo la sensazione d’essere, di nuovo, stati semplicemente venduti.
Leggendo la “Guerra del Vino”, si capiscono molte cose, forse non si riuscirà a perdere di nuovo, ma forse ci venderanno ad un prezzo maggiore.
Come che c’entra Santa Caterina? La Fiera si faceva in questa data proprio perché c’erano i soldi della vendemmia. Adesso molti riescono a spendere solo trenta denari.
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