Era andato al bosco dello Scravasciu per tagliare qualche ramo di alloro da mettere come sfondo al presepio che stava costruendo con i bambini in un angolo della cantina, tra la catasta della legna e l’angolo della capra. Lo costruiva lì per due motivi: primo perché quello era l’unico spazio disponibile e poi perché in cantina non c’era mai freddo.
Il supporto era costituito da due casse da tabacco vuote, affiancate e poste contro la parete coperta in molti punti dal salnitro, bianco come zucchero, che, a causa dell’umidità, affiorava dalla pietra. Certi ciocchi di ulivo, massicci e pesanti, si prestavano molto bene per l’architettura della parte montagnosa del paesaggio e, una volta sistemati, venivano ricoperti con carta ricavata da vecchi sacchi di cemento, spruzzata con calce e tempera di vario colore. La stessa architettura prevedeva anche la grotta verso la quale si spostavano le statuine rappresentanti i Magi che venivano da lontano, i pastori, i contadini e gli artieri con le loro umili botteghe. La parte piana veniva ricoperta con il velluto, il muschio, pure raccolto nel fitto del bosco dello Scravasciu ed un frammento di specchio, ben camuffato, serviva a dare l’idea di un laghetto o di un fiumiciattolo presso cui venivano piazzati gli armenti. I Magi viaggiavano a dorso di cammello e giungevano dal sentiero tra le montagne sullo sfondo del quale, tra le frasche dell’alloro, si intravedevano alcune palme da dattero, abbozzate su carta da imballaggio azzurrina. Sopra una grossa radice nodosa e contorta, che era servita per ricavare la forma della grotta, era già piantata una stella di latta che cominciava ad arrugginire.
Era tornato a casa con i rami di alloro ed aveva trovato i bambini che armeggiavano per conto loro con i ciocchi di legna, con una certa difficoltà. Montò
Gli ingredienti sono: mandorle pelate e zucchero per la pasta di mandorle; confettura di pere o marmellata di agrumi, faldacchiera, cioccolato fondente e facoltativamente, canditi d’agrumi. La faldacchiera, è una densa crema, ricavata addensando dello zabaione, è ingrediente fondamentale della farcia di parecchi dolci, in particolare di quelli di pasta di mandorla. Per prepararla, ponete in un recipiente svasato dei tuorli d’uovo freschissimi e un uguale numero di cucchiai di zucchero. Lavorateli a lungo con una frusta fino ad ottenere una crema gonfia e spumosa, versatela in una casseruola o meglio in un polsonetto e ponetela a cuocere a bagnomaria girando di continuo con un cucchiaio di legno sino a quando, sollevando lo stesso, la crema che cadrà filando, scriverà, ovvero formerà sulla superficie della crema, un cordone che rimarrà ben visibile per qualche istante. Una volta raffreddata, potete addizionarla a piacere, con della bagna tipo Benevento.
Macinate le mandorle con un uguale quantitativo di zucchero stemperate con un poco d’acqua e mettete a cuocere il tutto in una casseruola a fuoco moderato, sino a quando l’impasto si stacca dalle pareti della stessa. Quando l’impasto è freddo, stendetelo con il matterello sino allo spessore di circa un centimetro e foderale lo stampo in gesso a forma d’agnellino accovacciato o di pesce, precedentemente spolverato di zucchero a velo. Farcite con la marmellata, pezzetti di cioccolato fondente e faldacchiera. Ricoprite con altra pasta di mandorle e capovolgete su vassoi in cartone per alimenti o cestini di legno, quindi decorate. Per decorare l’agnellino, utilizzate della pasta di mandorle stemperata con albume d’uovo che facendola passare attraverso il beccuccio zigrinato di una siringa per pasticcere, produrrà un decoro piacevolissimo ed efficace, in quanto molto simile ad un vero vello d’agnello. Applicate la faccia dell’agnellino, (si acquistano nei negozi di articoli per pasticcerie, di varie misure) e completate con confettini argentati, nastrino, la classica bandierina recante i simboli della Pasqua e ricoprite con un foglio di cellophane trasparente. L’agnellino di pasta di mandorle, è un dolce tipico della Pasqua.
Per Natale, invece, con gli stessi ingredienti e con lo stesso procedimento si realizza il pesce. L’agnello, nella simbologia cristiana, rappresentano il sacrificio di Cristo; il pesce, Cristo e la ragione.
Questo dolce, in entrambe le forme, viene confezionato dalle suore del Monastero benedettino di san Giovanni Evangelista di Lecce almeno dalla fine dell’ottocento e viene per la sua squisitezza richiesto in tutt’Italia e anche all’estero. Per molto tempo questo dolce per la sua prelibatezza e per l’elevato costo era detto: “tuce te li signori” dolce per signori.
Da almeno 50 anni viene preparato nella quasi totalità delle pasticcerie di Lecce e Provincia.
Metereologia salentina e celebrazione dei Santi, dall’8 settembre a Natale
Le celebrazioni dei santi come termini convenzionali di riferimento meteorologico in una strumentale emissione di volontà collettiva e l’accanita ricerca di segni a carattere divinatorio.
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
(…) Dal niente al troppo. Era questa la scomoda altalena della meteorologia salentina, nel cui quadro però, il “troppo” non veniva tanto rappresentato dagli improvvisi nubifragi – statisticamente rari nel Salento -, quanto dalle possibili eccedenze pluviali del tardo autunno, capaci di determinare, con l’impantanamento delle campagne, non solo la crisi economica dei coltivatori (era periodo di semine e di raccolta delle olive), ma soprattutto la disperazione dei sciurnaliéri (giornalieri) che, privati di ogni possibilità di trovare ingaggio di lavoro, soffrivano la fame.
Uno spauracchio che nella frequenza del suo proporsi aveva generato una vera e propria psicosi stagionale, a sua volta convertita, quasi a contrasto propiziatorio, in una sorta di tabella delle piogge da scandire in misura calendariale, ovverosia assumendo le celebrazioni native dei santi come termini convenzionali di riferimento meteorologico. Riferimento che, sia pure inconfessatamente, voleva adire alla messa in orbita di un condizionamento, la cui sostanza magico-religiosa la si poteva carpire più che dalla valenza delle singole aggiudicazioni, dalla curiosa eterogeneità di significanti espressi dallo stessa scadenzario, nel quale venivano a confluire, unitamente ai sensi di affidamento devozionale, una strumentale emissione di volontà collettiva e l’accanita ricerca di segni a carattere divinatorio.
Appena iniziato settembre, con ancora sulla nuca lo specchio ustorio dell’estate, i contadini cominciavano a parlare di pioggia come di un ospite che avesse già annunziato il suo arrivo, fissandone la data in concomitanza con la festa della Madonna delle Grazie (8 settembre), giorno ritenuto di stura ai doni celesti e perciò quanto mai adatto a segnare l’avvio di quello che era il ciclo di fertilità della terra:
Pi’ lla Matònna ti li razzie,
ssetta li roddhre, scupa la lliàma
e mminti lu limmu sott’a llu canàle,
scuscitàtu ca l’acqua la tiéni an capitàle.
Entro la ricorrenza della Madonna delle Grazie, / sistema i semenzai, scopa la terrazza / e metti la vaschetta sotto il canale di scolo, / sicuro di avere l’acqua già sotto il guanciale.
Pur se attinte al comune canovaccio delle consuetudini contadine e perciò ricche di una certa spontaneità nella scelta, le tre azioni da compiere in sostanza risultano ideologicamente mediate nella sovrapposizione dei simboli, ovverosia finalizzate a rappresentare il passaggio da un presente ancora in debito col passato a un presente già in commistione col futuro: la terrazza da liberare dalle scorie accumulatesi durante il tempo dell’arsura; la presenza della conca che da vuota deve farsi piena; la sistemazione dei semenzai– momento icastico del rinnovamento nel festoso schiudersi dei germogli -, nel mentre provvedono ad assolvere a quelli che sono gli strascichi della patita sofferenza estiva, si convertono in rituale di accoglienza dell’acqua, peraltro celebrata non in quanto oggetto della speranza, ma come bene già assicurato, prova ne sia che la si dà presente sotto il guanciale, notturno posto di deposito dei risparmi contadini e quindi significante il pieno possesso del tesoro.
Non è infatti difficile notare come il tutto tenda a stabilire un magico processo di decretazione, quasi si voglia, attraverso la forza coercitiva del pensiero, vincere le leggi della fisicità facendole incappare nel tranello di una finzione che vuole dare per conclusa una stagione ancora in attivo.
Malgrado gli alberi di fico fossero ancora carichi di frutti in maturazione e si prevedesse di continuare il lavoro di essiccazione per tutto settembre, li ficalùri (i ficaioli) si imponevano l’aria del disarmo già dai primi del mese, non trascurando di far rimbalzare da campo a campo l’interessato monito:
A Mmatònna rriàta,
furnìta la spaccata…
Stà rrusce lu mmuddhràtu…
ncanìscia lu siccàtu,
ccuégghi lu siccatiéddhru
e lli littére mìntile a ccastiéddhru.
L’8 settembre, / la spaccatura dei fichi è conclusa!… / Si avverte già il crepitìo della pioggia… / ci conviene, pertanto, radunare nella canestra l’ultimo prodotto seccato, / raccogliere da terra quello appassito sugli alberi / e mettere i cannicci a deposito, sistemandoli, come si fa a ogni fine stagione, uno sull’altro a mo’ di castello.
Né diversamente si comportavano gli ortolani di Copertino: pur sapendo che avrebbero aspettato la festa ti li paisàni [1] (19 settembre) per portare al mercato li ponte ti cucùzza (le cimature delle piante di zucca), ritenute una leccornia in quanto raccolte solo una volta all’anno – in concomitanza cioè con l’estirpazione di tutta la coltura -, nell’approssimarsi della festa della Madonna delle Grazie davano già per conclusa la stagione orticola:
La tìa ti li ràzzie
no ffranca la mmuddhràta:
scigghiàmu la pagghiàra
e ffacìmu scapuzzàta.
Il giorno dedicato alla Madonna delle Grazie / non ci rinfranca dalla pioggia: / smontiamo perciò il pagliaio / e, raccogliendo gli ultimi frutti, sradichiamo le piante.
A quanti potranno trovare assurda tanta finzione, magari giudicandola incompatibile col rozzo semplicismo campagnolo, facciamo presente che lo spirito d’impostura non era estraneo al comportamentale dei contadini spesso obbligati dalla necessità a prospettare ai padroni, più precisamente ai fattori, una situazione – familiare, economica o agricola – diversa da quella reale, all’uopo mendicando la complicità dei vicini e sempre riservandosi la possibilità di cambiarne i termini allorché venivano a mutare le tangenze della loro convenienza.
Ugualmente impotenti di fronte alle forze della natura, trovavano logico ricorrere allo stesso stratagemma, credendo di poter influire sul proporsi della fenomenica meteorologica così come, imbrogliando, condizionavano le decisioni dell’avversario padrone: unica differenza che questa volta la complicità la chiedevano ai santi, delle cui ricorrenze si servivano come di altrettante chiavi di volta in sintonia con i loro tornaconti. L’avere scelto la festività della Madonna delle Grazie a data della prima pioggia, rientrava in un loro calcolato piano di ipotetica regolamentazione degli avvicendamenti atmosferici, nella convinzione che solo attraverso lo scatto del primo passo le nuvole stabilivano il tempismo dei successivi: un partire col piede giusto, in base al quale – e proprio in virtù di quelle che erano le naturali leggi di avvicendamento fra periodi di sereno e giornate piovose -, una volta piovuto ai primi di settembre, si sarebbe avuto bel tempo durante la vendemmia, il cui travaglio aveva inizio subito dopo la festa di San Giuseppe da Copertino (18 settembre).
Va da sé che simili previsioni erano del tutto aleatorie, nessuno essendo certo che una volta ottenuta la pioggia questa non avrebbe poi continuato a cadere per giorni e giorni, miseramente fagocitando quello scampolo di sereno necessario ai vendemmiatori, nonché a quanti dovevano approntare i campi per la semina delle granaglie. Un’apprensione che, sollecitando al rimedio preventivo, faceva sì che i contadini, appena superata la festa della Madonna delle Grazie, avessero di colpo a cambiare bandiera, incentrando la loro volontà – sino a quel momento evocativa della pioggia – in uno scongiuro orientato a ottenere bel tempo. E poiché la vendemmia, come già detto, si poneva a ruota delle celebrazioni patronali, era proprio a San Giuseppe che si appellavano, coinvolgendolo in un’azione di salvaguardia comprendente festa e campagna:
Ti la paratùra e ddi lu innimàre
Sangiséppu nuésciu no ssi nni pote scirràre.
Della luminaria e della vendemmia / San Giuseppe nostro non se ne può dimenticare.
L’associazione delle due proposte beneficiarie – luminaria e vendemmia – risultava più che pertinente ai fini atmosferici, e non soltanto perché l’addobbo stradale, per essere l’elemento più fragile della festa, offriva perfetta corrispondenza alla deperibilità dell’uva in caso di gravi intemperie, ma anche per il sottile concatenamento di incomodi che pure una semplice piovuta avrebbe provocato e ai festeggiamenti e ai vendemmiatori.
Per comprendere l’oggettività della concatenazione, occorre rifarsi all’epoca, cioè tenere presente che nell’Ottocento, essendo l’illuminazione elettrica una realtà di là da venire e non avendo il Salento adottato quella ad acetilene – attestatasi solo ai primi del Novecento -, le luminarie venivano ancora allestite fissando alle arcate di legno – in una composizione a tappeto – dei piccoli bicchieri di vetro variamente colorato, che debitamente riempiti d’olio e muniti di luminelli venivano accesi dai paratori con un paziente passare di stoppino.
A tanta laboriosità di accensione corrispondeva un’altrettanta precarietà di funzionamento, essendo bastevole un semplice piovasco a decretare non soltanto l’immediato abbuiarsi, ma anche l’intransitabilità delle strade addobbate: la pioggia, colmando i bicchieri, faceva infatti traboccare l’olio, macchiando i vestiti di chi si trovava a passare sotto gli archi e, quel che era più grave, rendendo pericolosamente sdrucciolevole il selciato. Un incomodo che durava anche a pioggia finita, convertendosi in vero e proprio ostracismo al passeggio, soprattutto a quello dei contadini, i quali, calzando acchétte cu lli tacce (stivaletti con le suole bullonate), nel contatto fra metallo e pietra unta facilmente finivano stesi per terra.
Analoghe conseguenze si registravano in campagna se la vendemmia si svolgeva sotto la pioggia: nel passa e ripassa fra i filari di vite, il terreno bagnato diventava estremamente viscido, non offrendo stabile appiglio ai piedi nudi ti li scufanatùri (dei trasportatori) che, già sbilanciati dal peso delle tinéddhre (tinozze) rette sulle spalle, sommavano capitomboli con grave rischio per la loro incolumità e ovvio danneggiamento dell’uva così malamente scodellata per terra. C’è da aggiungere che all’impraticabilità dei terreni faceva riscontro quella dei viottoli e strade sterrate, per cui spesso capitava che i carri pieni d’uva s’impantanassero, richiedendo, per il loro disincaglio, immani sforzi di uomini e bestie messi insieme.
Alla luce di tanta collimanza e soprattutto tenendo presente la stretta successione dei tempi – inizio di vendemmia a fine celebrazioni – , vien fatto di pensare che i contadini, nel basare la richiesta di protezione sull’abbinamento “paratùra-innimàre”, al di là dell’indiscusso interesse alla buona riuscita dei festeggiamenti, perseguissero un calcolo di opportunistica connessione delle due citazioni, volendo far sì che l’una (luminaria) avesse a risultare il preambolo dell’altra (vendemmia): se infatti avesse piovuto durante i giorni di festa, all’untuosità del selciato avrebbe corrisposto la fanghiglia della campagna, mentre il bel tempo assicurato ai festeggiamenti – qui rappresentati dalla luminaria – si convertiva in terreno asciutto per chi si accingeva a vendemmiare. Un esplicito sfruttamento delle circostanze, che trasferito sul piano morale veniva a configurarsi in manovra di incastro per le buone disponibilità di S. Giuseppe, il quale, dopo aver vigilato sinu all’ùrtimu scungulàre ti nucéddhre (fino all’ultimo sgusciare di noccioline [fino agli ultimi minuti di festa]), e presumibilmente soddisfatto per le onoranze ricevute, non poteva ingratamente uscirsene con un ”Sparàti li fuéchi, ccenca bbole fazza, fazza!” (“Una volta esplosi i fuochi d’artificio, quel che il tempo vuol fare, faccia!”), fregandosene della vendemmia: se per tre giorni consecutivi il paese si trasformava in un “paradiso di suoni e di luci”, lo si doveva in buona parte al contributo economico di pastori e contadini, i quali, abituati com’erano all’obbligatoria spartizione dei prodotti cu lli patrùni ti stu munnu (con i padroni terreni), si facevano scrupolo di non concorrere personalmente e tangibilmente alla spesa per i festeggiamenti in onore ti lu patrùnu an celu ti tuttu lu paése (del santo padrone di tutto il paese). Quasi il pagamento di una decima, il cui saldo, per i contadini avveniva proprio durante la vendemmia, quando i componenti del comitato feste patronali imboccavano i viottoli campestri sollecitando i coltivatori – così come d’estate avevano fatto con i pastori per le pezzotte di formaggio – a offrire uno o più panieri d’uva.
“Nna stiddhra ti miéru pi llu Santu nuésciu!…” (“Una goccia di vino per il nostro santo!…”), chiedevano con voce stentorea fermando al margine del campo il loro traino con sopra due botti vistosamente contrassegnate da più croci dipinte con la calce; e a ogni vuotata di paniere si facevano obbligo di prendere un grappolo d’uva e sollevarlo verso il cielo, quasi volessero lasciare intendere che S. Giuseppe stava lì, affacciato a conteggiare l’entità dell’offerta. “Bbiùnnali a ccentu vussignurìa…” (“Ricompensali centuplicando, vostra signoria…”), dicevano infatti, dandone per scontata la presenza; e rifacendosi alla necessità del momento, concludevano pressanti: “E stiénni la manu a ttiémpu ssuttu… ca topu nn’annu ti fatìa, no bbògghia Ddiu àggianu a sprangìre jastìme!…” (“E stendi la mano a trattenere il bel tempo… ché dopo un anno di lavoro, non voglia Dio abbiano motivo di snocciolare bestemmie!…”).
L’abitudine a minacciare i santi di un possibile ricorso alla bestemmia in previsione di un qualsivoglia accadimento avverso – viziosità della religione popolare, altrove messa in rilievo – in questo caso viene a spogliarsi da ogni sospetto di esagerazione nella causa, suffragata com’è dal fatto che settembre era periodo di rotture atmosferiche, facili a passare dalla semplice piovuta alla catastrofica grandinata. Un peggio che se pure scaramanticamente taciuto per non creare nell’alone evocativo dell’immagine una qualche forza di richiamo, era nel senso e nella destinazione dell’appello, implicitamente intendendo stabilire nella raccomandazione “stendi la mano a trattenere il bel tempo” il più radicale dei fermi all’evoluzione del negativo.
Non a caso fra richiesta di intervento e minaccia di ricorso all’imprecazione scatta la cognizione di causa “dopo un anno di lavoro”, pregiudiziale che nel mentre si fa consuntiva dei sacrifici affrontati, allude a una temuta vanificazione degli stessi, qualificando lo stato apprensivo in paura di completa distruzione dell’uva. Un attestarsi sul problema di fondo – quello degli interessi economici -, del resto implicito nello scongiuro iniziale, non certo esauribile agli incomodi provocati dalla banale piovuta ma chiaramente finalizzato a salvaguardare quello che era il nocciolo e della vendemmia e della festa: il guadagno, appunto.
Dietro l’ostracismo al passeggio, in sé per sé patetico – e diciamo pure alquanto comico -, scattava l’anticipato rientro dei pellegrini, decurtando, se non addirittura azzerando, l’introito dei venditori. E in quei tre giorni di festa, venditore non era soltanto il piazzista venuto da fuori a rizzare la sua bancarella, ma anche la contadina che, collocando sulla soglia di casa uno sgabello con sopra tre fichi e un grappolo di ua rosa (uva da tavola bianco-rosata), invitava i forestieri a entrare e comprare i frutti della sua campagna; o l’artigiana che, sperando di ottenere commesse di lavoro, appendeva agli stipiti della porta – a seconda se era tessitrice, frangiaia o filatrice – un lembo di tela, due fiocchetti di frangia o una matassina di cotone filato. Un intrecciarsi di piccole industrie casalinghe che venivano a saldarsi agli introiti delle improvvisate trattorie, ai contributi pro-festa, alle offerte lasciate in chiesa e – perché no? – all’accarezzata speranza delle ragazze di trovare marito, assillo che le madri fronteggiavano corredando le figlie di un vestito nuovo, magari stentatamente pagato cu ssordi pigghiàti a spiéttu (con denaro preso in prestito) e per la cui restituzione attendevano i risultati della vendemmia.
Nel malaugurato caso di una grandinata, altro che mancato pagamento del vestito! Dopo un intero anno di lavoro non retribuito in quanto svolto nel proprio campo, e privata di quella che sarebbe stata la giusta ricompensa dei sudori, la famiglia si ritrovava sul lastrico, impossibilitata non solo ad assolvere ai debiti contratti nell’attesa del raccolto, ma tragicamente catapultata nel contesto di una miseria in alcuni casi talmente nera da far dubitare circa le possibilità di sopravvivenza. Ecco perché a scongiurare simile catastrofe i componenti il comitato festa patronale si rifacevano all’uso del ricatto: furbamente menzionando il disperato ricorso alla bestemmia erano convinti che S. Giuseppe, interessato come tutti i santi a salvare l’anima dei fedeli, pur di non indurre in tentazione i contadini facendoli peccare, avrebbe soddisfatto le loro suppliche, quella preventiva e quella memorativa, che ripetevano in continuazione mentre vendemmiavano:
Sangiséppu no tti nni scirràre
mantiéni lu tiémpu
pi’ ttuttu lu innimàre.
S. Giuseppe non te ne dimenticare; / trattieni il bel tempo / finché tutti abbiano finito di vendemmiare.
Richieste che in fin dei conti si riducevano a ottenere solo una breve parentesi di sereno, essendo bastevoli pochi giorni a eseguire il taglio di tutte le uve: a parte l’abbondanza della manodopera, all’epoca il Salento non vantava le odierne estensioni di vigneto, trovando gli agricoltori pari convenienza economica in coltivazioni alternative, quali i seminativi e i ficheti, senza parlare poi degli uliveti, ai cui impianti secolari nessuno si sarebbe mai azzardato di sostituire la vite. “Cinca tàgghia nn’àrriru t’aulìa / scetta nna chésia!” (“Chi taglia [estirpa] un albero d’ulivo / abbatte una chiesa!”), dicevano i contadini a difenderne la sacralità, ben lontani dall’immaginare i sacrilegi che invece furono perpetrati subito dopo la seconda guerra, quando, col sorgere delle cantine sociali e quindi nel miraggio di una redditizia esportazione vinicola, vaste zone furono selvaggiamente disarborate.
C’è da aggiungere che, allora, si coltivavano solo ue nustràli (uve nostrane, cioè vitigni non innestati), capaci di dare qualità, non quantità di prodotto, per cui a fine settembre la vendemmia poteva dirsi conclusa o quanto meno agli sgoccioli. In verità, se qualche ritardo c’era, lo si doveva al caparbio ordine di quei padroni che, dovendo vinificare solo per uso familiare, pretendevano uva ultramatura, spesso cozzando con gli intendimenti dei coloni, il cui credo, in tempo di vendemmia, era solo quello di “manisciàmune mmanisciàmune prima ca rrìanu l’àngili” (“sbrighiamoci, sbrighiamoci, prima che arrivino gli angeli”).
Nel loro quadro meteorologico, infatti, il 2 di ottobre (festa degli Angeli custodi) era giornata di rientro nel clima piovoso; e questo porsi nuovamente in aspettativa dell’acqua lo si poteva notare già nella mattinata del 27 settembre, quando le donne, convenendo in chiesa per la messa dei SS. Cosimo e Damiano (protettori della salute), si auguravano l’un l’altra: “La casa a mmanu a lli Santi miétici / e lli gnofe a mmanu a ll’Angili ti Ddiu” (“La casa sia affidata ai Santi medici [affinché custodiscano la salute degli abitanti] e le zolle agli Angeli di Dio [affinché non le abbiano a privare dell’acqua]”). Un buttare in avanti le mani nel timore che il bel tempo, una volta instauratosi, non avesse più a finire, in questo caso confermando lo sgradito detto:
Ci l’Angilu no ssi mmoddhra l’ale
no cchiòe fenca a Nnatale.
Se il 2 ottobre l’Angelo non si bagnerà le ali / non pioverà fino a Natale.
Previsione preoccupante per l’andamento agricolo, essendo ottobre e novembre gli antonomastici mesi delle piogge, periodo che i contadini, vigili traduttori delle necessità della campagna, definivano ti mpurpamiéntu (di rimpolpamento [nutritizio]), poeticamente immaginando la terra nello stadio della primissima infanzia, quando unico compito – e spettanza – è quello di dormire e succhiare. Dal canto loro avevano provveduto ad assicurare questo nutrimento, spargendo a larghe manate il letame curato nelle concimaie, ma affinché lo stesso penetrasse ingrassando le zolle e raggiungendo le radici delle piante, occorreva la collaborazione delle nuvole, ovverosia l’azione dissolvente della pioggia, in assenza della quale il processo rigenerativo non sarebbe avvenuto, mettendo in serio dubbio la sperata produttività:
Fiàcca nnata si para nnanti
ci ti tutti li Santi
la nuégghia no cchiànge
e lla gnofa no rrufa!…
Cattiva annata si prospetta / se arrivata la festività di Ognissanti / la nuvola non piange / e la zolla non tracanna!…
Situata com’era il I° di novembre, proprio al centro di quello che veniva ritenuto il periodo delle piogge, la festa di Ognissanti si poneva a data di resoconto della situazione, diciamo pure di verifica dell’ansia insorta un mese prima, cioè quando, ricorrendo la festa degli Angeli custodi, si era paventata la iattura di un asciutto protratto sino a Natale. Ormai non si era più nell’ambito delle ipotesi, bensì dei riscontri oggettivi, al di là dei quali c’erano solo urgenze, venendo inesorabilmente a restringersi il tempo giudicato utile all’impinguamento idrico della campagna. La ricorrenza di San Martino (11 novembre) era vicina e per quella data ogni acquiescenza nell’attesa si intendeva bandita, letteralmente cancellata dal montare di una fretta tradotta in perentorietà di affermazione:
Ti Santu Martinu
la gnofa s’à ttaccàre a lla menna ti la nuégghia
comu lu mbriàcu a lla entre ti la otte.
Di San Martino / la zolla deve attaccarsi alla mammella della nuvola / come l’ubriaco si attacca al ventre della botte.
Considerando come questo era l’ultimo dei detti affermanti la necessità della pioggia e senza trascurarne il senso di voluttuosa imbibizione – già espresso nel detto riguardante la ricorrenza di Ognissanti e perciò piuttosto esasperante nella rimarcatura -, vien fatto di pensare che i contadini, nella scelta della data e più che altro mediante la metafora comparativa terra-ubriaco, intendessero – sia pure in modo indiretto – prefigurare i termini di quella che, nella loro visuale, doveva essere la svolta meteorologica.
Decretando l’immancabilità della pioggia per l’11 novembre, in sostanza concedevano parecchio spazio al pacifico susseguirsi delle precipitazioni, ma nell’istintiva rimonta dell’atavica diffidenza prudentemente cercavano di segnarne la cessazione ricorrendo, appunto, alla comparazione terra-ubriaco: se da una parte l’ubriachezza relazionava l’avidità del bere, per cui ne usciva esclusa l’immagine limitativa del bicchiere – controfigura dell’isolata pioggerellina -, dall’altra, proprio in virtù dell’ingordo tracannare, scattavano i limiti dell’assorbimento: continuando a bere, l’ubriaco rischiava di vomitare, così la terra, nell’esagerato intridersi, si sarebbe impantanata.
Una deduzione che potrebbe apparire frutto di arzigogolamento, se ad assolvere ogni dubbio di arbitraria interpretazione non concorresse il successivo detto imperniato sul 30 novembre, ricorrenza di S. Andrea Apostolo:
Pi’ Ssantu Ndrea ti li corde
tinne croce fatta;
ca ci nno rria jùtu ti limòne
nni tocca lu maru ti lu fele.
Il giorno di Sant’Andrea delle corde[2] / devi dire “Sia croce fatta [punto e basta]”; / perché se non viene in aiuto il limone [fermo della pioggia] / ci toccherà l’amaro del fiele [vomito, cioè tanta pioggia d’averla a nausea].
Ora, premettendo come questi detti, che a noi possono apparire isolati, in realtà si ponevano a tasselli di un mosaico unico, per cui, nascendo concatenati nella significazione, l’uno si prestava a complementarità dell’altro, va sottolineato che quest’ultimo riguardante S. Andrea non aveva esclusiva applicazione agricolo-meteorologica, essendo ampiamente sfruttato dai cantinieri allorché, per una certa etica professionale, si vedevano costretti a rifiutare la mescita agli ubriachi che palesemente non erano più in grado di reggere altro vino. Esortazione-imposizione che accompagnavano appunto con l’offerta di un limone (ne tenevano sempre un cesto pieno sul banco), le cui proprietà antiemetiche e astringenti venivano a rappresentare sia il rimedio pratico, sia la scansione simbolica del punto e basta.
Detto questo, al lettore risulterà chiara – e soprattutto giustificata – l’interpretazione fornita circa il ricorso alla comparazione terra-ubriaco; tanto più se riuscirà a convincersi che i simbolismi popolari – spesso esposti in accozzaglia – non erano riducibili a semplice funzione connotativa, ma erano invece condizioni della decifrabilità stessa dell’esposto, in quanto metro delle effettive denotazioni psicologiche. Un eleggere l’immagine a mezzo di svisceramento della tensione interna, e che, per quanto riguardava il 30 novembre, denunciava un vero e proprio subbuglio negli animi, venendo di lì a due giorni a scattare la ricorrenza di S. Bibiana, giornata pericolosa ai fini meteorologici, gravata com’era dalla scoraggiante affermazione:
Ci chiòe ti Santa Bbibbiana
quarànta sciùrni e nna simàna.
Se piove il giorno di S. Bibiana / pioverà per quaranta giorni e una settimana.
Se in ottobre e novembre l’acqua veniva invocata, compiacentemente tollerandone anche l’eccesso, con l’attestarsi di dicembre si reclamava un tassativo ritorno del sereno, nel timore che le granaglie già seminate avessero, per il troppo ammollo, a marcire e ponendosi la fretta di iniziare la raccolta delle olive, per la quale occorreva poter contare su un terreno agibile al via-vai dei passi. Ansia che, pur quando veniva brillantemente superato lo scoglio di S. Bibiana, non si acquietava, tant’è che il 7 dicembre, vigilia dell’Immacolata, ci si impegnava a dire e ridire “Ti la Mmaculàta / l’acqua serve sulu pi lli pucce” (“Il giorno dell’Immacolata / l’acqua serve solo per fare le pagnottelle con le olive”), enucleando, nella laconicità della frase, e la tangenza del rifiuto, e la blandizie devozionale.
Essendo le pucce assurte a emblema del digiuno vigiliare, nominandole si faceva presente alla Madonna la pia disponibilità alla penitenza, implicitamente chiedendole, a contropartita, di appoggiare il rifiuto dell’acqua, peraltro espresso in una forma che oseremmo definire elegante, cioè basandolo su un simbolo privilegiato e facendolo nascere per gioco di antitesi: nel dichiarare l’acqua necessaria solo alla produzione delle pucce, ci si riferiva a quella occorrente per sciogliere il lievito e impastare, operazione per la quale si adoperava solo acqua piovana, essendo quella sorgiva di scarso sollecito alla fermentazione; nel momento però che si tirava in campo la panificazione, automaticamente si entrava nell’aura di quelli che erano i rituali domestici, sicché l’immagine mentale che ne conseguiva escludeva l’acqua piovana come contemporaneità di effetto-pioggia, focalizzata com’era sulla madre di famiglia che, scoperchiando la cisterna – sua o della vicina di casa -, religiosamente vi attingeva ripetendo ad alta voce una delle tante antiche formule di benedizione scrupolosamente trasmesse da madre a figlia. Tirando le somme e tenendo presente che in quel periodo le cisterne erano già colme, si può affermare che nel dire “L’acqua serve solo per le pucce” i contadini intendevano precisare: “La pioggia non serve affatto”.
Dal diplomatico rifiuto all’aperta provocazione il passo era breve; sette giorni appena, quelli appunto che intercorrevano fra la vigilia dell’Immacolata e la ricorrenza di S. Lucia (13 dicembre), al cui approssimarsi i contadini non si peritavano di commentare “Santa Lucia éte pisciacchiàra!…” (“S. Lucia è pisciona!…”), furbamente sperando che la santa, risentita per così irrispettoso epiteto, si impegnasse a smentirlo tenendo lontana la pioggia.
Azzardo curioso nel suo farsi chiave di convincimento attraverso l’offesa, ma non certo unico nella proposizione, poiché se ne trovava copia pressoché conforme il 16 di luglio, quando la Madonna del Carmine veniva definita “La Madonna latra ca pìzzica la ua” (“La Madonna ladra che ruba l’uva”), nell’ingenuo convincimento, appunto, di indurla a moderare i raggi solari che, battendo sui chicchi d’uva ancora troppo teneri, ne provocavano la bruciatura con ovvia decurtazione del raccolto.
E’ chiaro che, pur se anomali nella formulazione, tali detti nascevano per così dire comprovati, traendo origine dal riscontro oggettivo di quelle che erano le climatiche stagionali: se la Madonna del Carmine diventava “ladra”, era perché, essendo piena estate, bastava una giornata di sole più cocente a danneggiare i chicchi in gonfiatura; così come con S. Lucia, alla quale si dava della “pisciona” perché piscione poteva essere il tardo autunno, spesso caratterizzato da uno snervante rincorrersi di pioggerelle che, si sapeva, erano di preludio a quelle più compatte dell’inverno ormai alle porte.
L’accanimento con il quale i contadini perseguivano lo stralcio di sereno era dovuto in buona parte a questa consapevolezza, diciamo pure paura dei mesi a venire, a moderare la quale altro non rimaneva che aggrapparsi alla consolatoria previsione scandita a chiusura della tabella calendariale:
Ci uéi bbegna nna bbona nnata
Natàle ssuttu e Pasca mmuddhràta.
Per avere una buona annata / Natale asciutto e Pasqua sotto la pioggia.
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[1] Essendo la festa di S. Giuseppe da Copertino (16-18 settembre) frequentatissima da pellegrini che giungevano da tutto il Salento, gli abitanti del luogo, per un senso di ospitalità, l’avevano soprannominata “Festa ti li furastiéri”. Di contrasto, il 19, giornata ritenuta di ponte fra la stanchezza delle celebrazioni e la ripresa della normale attività lavorativa, era festa tutta per loro; festa ti li paisàni, appunto, durante la quale potevano, senza la confusione dei giorni precedenti, fermarsi con calma alle bancarelle superstiti, comprare a minor prezzo, e a sera, sia pure a luminaria pressoché spenta, assistere tranquillamente all’esibizione concertistica di una delle bande rimasta in paese esclusivamente per loro.
[2] Detto “delle corde” per agevolarne la visualizzazione iconografica che lo presentava su una croce decussata, oltre che confitto, legato con più giri di grosse funi.
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Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari 1994, pagg. 359-373
Si può notare una certa relazione tra l’origine del nome Maremma e l’origine del nome Salento. Entrambi i nomi derivano dalle caratteristiche morfologiche del territorio. I territori della Maremma e del Salento sono caratterizzati dalla massiccia presenza di paludi e di acquitrini. I due luoghi hanno poi avuto nel corso dei secoli lo stesso destino, la storia è stata matrigna con le popolazioni autoctone residenti nelle due aree in questione. Comunque è sempre il mare, che ha caratterizzato profondamente le due realtà storico-geografiche. Un’altra cosa, che lega insieme le origini dei due luoghi geografici, è la provenienza delle etnie che popolarono per la prima volta le due zone d’Italia, entrambe le etnie provenivano dal mare. Il Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani fa risalire il nome maremma all’antico francese maremme, l’origine del nome sarebbe però latina, marit’ma, sincope di marìtima, ad indicare una terra sulla riva del mare. Infatti, salta subito all’occhio una certa somiglianza, che può essere colta più dettagliatamente nel brano seguente tratto dal sito http://it.wikipedia.org/wiki/Salento: ” Il toponimo Salento ha origini incerte. Secondo un leggenda deriva dal nome del Re Sale, un mitico re dei Messapi. Il nipote del Re Sale poi, il re messapico Malennio – figlio di Dasumno, avrebbe fondato Syrbar (primo nome della località costiera Roca, che significa Città del Sole), nonché Lyppiae (l’attuale Lecce) e Rudiae.
Uno studio di Mario Cosmai lo farebbe derivare da “salum”, inteso come “terra circondata dal mare”: i Romani, infatti, indicavano con Sallentini gli abitanti delle paludi acquitrinose che si addensavano intorno al Golfo di Taranto[1]. Esattamente dal libro citato: <<Salento in messapico significa “mare” : ce lo conferma Plinio che dice “Salentinos a salo dicto” (cfr. il greco hals,halòs e il latino salum, mare)>>Secondo Strabone, il toponimo deriverebbe dal nome dei coloni cretesi che qui si stabilirono, chiamati Salenti in quanto originari dalla città di Salenzia[2]. L’ipotesi di Marco Terenzio Varrone, invece, è quella di un’alleanza stipulata “in salo”, ovvero in mare, fra i tre gruppi etnici che popolarono il territorio: Cretesi, Illiri e Locresi[3].”
Si può notare una certa relazione tra l’origine del nome Maremma e l’origine del nome Salento. Entrambi i nomi derivano dalle caratteristiche morfologiche del territorio. I territori della Maremma e del Salento sono caratterizzati dalla massiccia presenza di paludi e di acquitrini. I due luoghi hanno poi avuto nel corso dei secoli lo stesso destino, la storia è stata matrigna con le popolazioni autoctone residenti nelle due aree in questione. Comunque è sempre il mare, che ha caratterizzato profondamente le due realtà storico-geografiche. Un’altra cosa, che lega insieme le origini dei due luoghi geografici, è la provenienza delle etnie che popolarono per la prima volta le due zone d’Italia, entrambe le etnie provenivano dal mare.
Si potrebbe pensare a un origine comune dei popoli etrusco e messapico, tanto per incominciare si potrebbe facilmente notare una certa comunanza delle origini, data dalla loro provenienza. Questi due popoli provenivano dal mare, il punto di partenza dal quale si erano imbarcati non si è mai conosciuto con certezza. Questo può essere considerato un punto in comune che mette in relazione i due popoli, e che potrebbe far pensare che magari avrebbero potuto avere le stesse origini. Un altro punto in comune è la mitologia che presenta quasi la stessa origine di alcune divinità dei due popoli. La religione e riti cultuali sono sicuramente un altro punto di contatto, e si può aggiungere a questa serie di analogie anche il culto dei morti, uguale in entrambe le etnie. Ma c’è di più una altra cosa in comune è l’alfabeto, che risulta essere quasi del tutto uguale per i due popoli del mare. Riportiamo qui di seguito un brano tratto dal sito web:http://www.belpaeseweb.it/articolo.asp?di=I+Messapi%2C+Etruschi+di+Terra+d+Otranto%3F&rubrica=Cultura&sezione=Rubriche&id_sezione=5&id_rub=58&id=3892“Le similitudini tra questi due popoli appaiono fin troppo evidenti, non solo nel pantheon, che vede nella coppia sacra messapica una corrispondenza nell’etrusca Aite-Persipnai (sebbene vi fossero anche Mantus e Mania), ma anche nella concezione della morte, della necropoli come vera e propria “città dei morti” distinta da quella dei viventi alla quale era però contigua e nel Mundus etrusco che ripropone la grotta messapica come luogo di passaggio soprannaturale. Anche gli Etruschi veneravano un dio del fulmine, Apulu (l’assonanza con “Apulia” è purtroppo solo suggestiva) ed due dei della superstizione, Tagete e Vetis che avevano caratteristiche simili a quelle di Bes. Anche gli etruschi veneravano infine Artume con le stesse caratteristiche della Thana messapica. Vi è perfino una leggenda che unisce questi due popoli, quella della ninfa Themis, patrona dell’aruspicina, la quale, provenendo dalla Città arcade Pallanzio, ritrovò nella terra dei Messapi il proprio alfabeto, iscritto sulla tavoletta bronzea conservata presso il Tempio di Minerva, e da qui le portò nel Lazio dove formò l’alfabeto latino. Senza addentrasi tuttavia nel campo proprio della linguistica si può notare, suffragati dalla sola mitografia, la sorprendente somiglianza tra l’alfabeto messapico e quello etrusco, dal quale il latino trasse origine e che sarebbe un ulteriore tassello nella conferma della comune origine del celebre popolo che colonizzò la toscana e di quello messapico, accomunati da queste veteres graecas litteras.
Un altro punto di contatto fra le due etnie era l’organizzazione politico-sociale delle loro comunità, riportiamo un’altra citazione tratta sempre dal sio web più sopra riportato: “La più sorprendente similitudine tra questi Messapi ed Etruschi si trova nella loro organizzazione sociale e politica. Come gli Etruschi i Messapi erano infatti organizzati secondo un criterio gerarchico al vertice del quale si situava un’aristocrazia sacra presieduta da un Re, traccia evidente della comune radice indoeuropea. L’unità politica di entrambi i popoli era la città, organizzata urbanisticamente secondo criteri ben precisi, con templi e città di pianta circolare, in perfetta continuità con quelle pre-italiche. Ogni città costituiva un istituzione a sé, indipendente in tutto e con una propria divinità tutelare, alla quale era dedicato un fuoco sacro pubblico, che tutta la popolazione era chiamata ad alimentare, come il fuoco era simbolo dell’unione domestica, il nucleo originario e fondante della società indoeuropea, ossia il clan familiare, fondato sulla natura.
Nel V secolo a.C. i Messapi si unirono in una lega sacra, modellata secondo una struttura tipicamente etrusca, ossia la dodecapoli, nella quale il numero sacro 12 era la cifra della compiutezza (la riduzione di 12 è infatti 1+2=3, numero della perfezione e 3 *4 – numero della terra – è uguale nuovamente a 12) della ricomposizione della totalità originaria, la discesa in terra di un modello cosmico di pienezza e di armonia. La Lega, fondata su un solenne giuramento di fedeltà, fratellanza e reciproco aiuto, non solo mise fine ai dissidi che vi erano stati tra le varie comunità, ma costituì il germe dell’unità politica ed ideale del Salento come entità politica, insomma, il cuore stesso della nostra Identità.”.
A questo punto sarebbe opportuno ipotizzare un’origine comune per le due etnie.
Gli ingredienti della cupeta sono: mandorle leggermente tostate zucchero e aroma alla vaniglia. Viene realizzata in almeno tre versioni: cupeta nera, (con mandorle integre); cupeta bianca, con mandorle pelate; cupeta macinata, con mandorle pelate e tritate. Si mette lo zucchero nel polsonetto, si bagna con l’acqua in modo che ne derivi uno sciroppo molto denso, si pone sulla fiamma che deve essere abbastanza viva e, quando lo zucchero diviene di un bel colore ambrato, si unisce un analogo quantitativo di mandorle, si mescola bene, si aromatizza con la vaniglia e si sorveglia, mescolando di tanto in tanto. Quando lo zucchero bollendo non genera più schiuma e appare limpido, viene tolto prontamente dalla fiamma onde evitare che superi la cottura (condizione che lo renderebbe amaro) . Si versa il contenuto del polsonetto sopra un tavolo di marmo unto di olio, dove si procede a spatolarlo un bel po’, rivoltandolo ripetutamente con uno specifico utensile che altro non è che una sorta di coltello dalla lama rettangolare molto allungata, alta e con affilatura appena accennata, che si utilizza a mo’ di spatola. Appena accenna ad indurirsi si stende velocemente e utilizzando sempre il coltello, si rifila ai bordi, in modo da ottenere una forma rettangolare il più regolare possibile. Infine, si taglia la cupeta così ottenuta, a stecche larghe due dita e spesse una.
…A Otranto […] il tono allegro della gente, tuttavia, non concede arrabbiature; se vuoi non importa cosa, vai con fiducia al mercato e […] tra scalini, scale, scalette e scalinate, puoi persino trovare chi t’incornincia i quadri come sempre avevi sperato […]; ad Otranto non ti senti turista plagiato, sei solo un amante della costa, dunque un uomo libero. In definitiva, gli otrantini non vogliono perdere l’antica dignità di abitanti di un’antica terra, per certi viandanti stagionali […] Di cappelle ne ho viste in tutta la Cristianità, ma quelle ossa, quelle tibie, quei teschi sottovetro in Cattedrale sono un insolito, formidabile martirologio; e quella consunta gradinata in pietra secolare, con a lato la moderna, in marmo per i visitatori, che discendono e risalgono verso e dal cuore profondo di Otranto eroica, sembra l’allegoria leggendaria e reale assieme di questa terra bivalente, non abbastanza nota, i cui testi, le cui municipalistiche ricerche meriterebbero d’esser presenti nelle grandi biblioteche italiane…
Ben volentieri richiamo l’attenzione sul grande livello qualitativo di un gruppo statuario che è presente nella parrocchia del Sacro Cuore di Gesù in Nardò. Ogni anno, ormai da oltre otto lustri, la comunità esibisce il complesso figurativo in originali e mai ripetitivi presepi, seguendo le volontà del sacerdote che volle commissionare le opere, don Salvatore Leonardo (1939-1997), primo parroco, il cui ricordo e la cui sensibilità restano ancora vivi tra quanti lo ebbero pastore.
Questi ebbe grande cura della comunità e dell’edificio sacro a lui affidato, preoccupandosi di dotarlo di ottimi arredi, tra i quali le statue presepiali di cui si scrive in questa nota.
Attento cultore dell’arte popolare e particolarmente devoto al grande evento della Natività di Cristo, francescanamente innamorato del presepe di Greccio, don Salvatore volle dotare il suo gregge di quanto meglio potesse rievocare la lieta Novella.
Si rivolse dunque al più valido artefice della cartapesta leccese vivente, il maestro per eccellenza, Antonio Malecore,[1] ultimo esponente della celebre bottega ancora attiva sino a qualche decennio fa nel cuore della Lecce antica, impiantata dallo zio Giuseppe nel 1898.[2]
Il sacerdote aveva notato la finezza e la valenza artistica del Malecore in numerosi lavori sparsi nelle diverse chiese salentine, cogliendone la cura meticolosa dell’esecuzione, il sorprendente realismo dei personaggi e la perizia tecnica esercitata in ogni particolare delle statue. Era soprattutto attratto dalla dolcezza dei volti del maestro, dall’anatomia, dal panneggio e dalla delicata cromìa, mai esagerata, non translucida, ben accostata.
Ne commissionò ben sei, con costi non indifferenti per quel periodo (1979) e per le limitate risorse degli offerenti, sempre ripromettendosi di ampliare la scena con successive committenze, come effettivamente avvenne nei decenni successivi da parte del suo successore e dei parrocchiani.
Maria, Giuseppe, il Bambino con la mangiatoia, il pastore in ginocchio, l’umile contadina con il cesto di mandarini, il pifferaio. Meravigliose opere gelosamente custodite nel corso dell’anno, tolte dal luogo “proibito” solo alla vigilia, per essere collocate nel presepe allestito, ultimo atto da compiersi poco prima della Veglia della Santa Notte.
Nel 1998 alcuni fedeli, desiderosi di incrementare il patrimonio scultoreo, commissionarono al medesimo maestro, ormai al termine della carriera, i tre Magi, l’angelo e un terzo pastore.
La diversa cronologia delle opere non si ravvisa in modo netto, è evidente per lo più nella crescita artistica del Malecore: è il caso ad esempio degli alteri Magi, particolarmente interessanti rispetto alle restanti statue per la capacità manuale che senz’altro supera il limite dell’artigiano.
Non è da meno il bel pastore genuflesso sull’arto destro, figura che si volge delicatamente verso destra, con un atteggiamento devoto che nulla ha da invidiare ai simili dipinti nelle più belle opere del Seicento. La raffinata resa delle mani, i lineamenti del volto, l’andamento della barba e la garbata posa forse potrebbero designarlo come il miglior pezzo della collezione.
Non esiste tuttavia competizione tra le figure, rispettando ognuno il suo ruolo ed esercitando un fascino che solo Malecore poteva attribuire loro. E quanta dolcezza nel volto di quel giovin suonatore di piffero, le cui mani stringono con incredibile eleganza l’umile strumento che sembra davvero diffondere un melodioso suono nell’angusta stalla.
Lo stile del gruppo statuario senz’altro richiama ai leccesi altari zimbaleschi, infinite volte ammirati dal maestro nella chiesa del Rosario in particolare, la sua “maniera” tuttavia si distingue dallo stile accartocciato barocco, prediligendo una composizione più sobria e più vicina al gusto del contemporaneo. L’angelo del presepio neritino, per esempio, nulla ha a che fare con gli angioletti paffuti e giocosi degli altari di S. Irene o di Santa Croce e di tanti altri altari barocchi salentini, offrendosi allo spettatore in posa severa, consapevole dell’evento che si celebra, fiero di esibire quel cartiglio che esorta alla Gloria al Padre per tutti gli uomini nel più alto dei Cieli, in eterno.
E quella che potrebbe apparire come la statua più semplice, raffigurando un contadinello con la legna nella saccoccia, ancora una volta conferma l’abile modellazione plastica del Malecore, evidente nella realizzazione di caratteri somatici sempre differenti, marcati, tipici della gente del Sud, con uno standard che non tradisce mai la sua inconfondibile arte scultorea.
La semplice carta, ridotta in poltiglia secondo tecniche centenarie, diventa pregevole materia capace di competere con i più nobili materiali, alla ricerca della perfezione e della bellezza classica che indossa le vesti del popolo salentino. Ma anche quando deve trattare “reali” personaggi, come i tre Magi, l’artista riesce a conservare la dolcezza dei loro volti, l’umile posa, rendendoli esuberanti solo per le vesti degne del loro status, impreziosite dall’abile collocazione di gemme e minuterie in metallo dorato.
Il risultato è dato dall’insieme di undici figure a tutto tondo, di grandezza proporzionatamente ridotta (la più alta è di circa 120 cm), colorate a pennello, dal peso alleggerito grazie alla struttura impagliata.[3] Il contesto presepiale in cui vengono annualmente inserite – anche questo mai ripetitivo – conforme al mondo contadino di fine Ottocento, esalta la bellezza dei manufatti, esprimendo egregiamente il bimillenario racconto della Natività nell’angusta stalla.
Non ci vuole molto a capire che il maestro Antonio Malecore qui, come per altri presepi sparsi nelle sedi più prestigiose del mondo, è andato ben oltre la tradizione leccese, con risultati che lo inseriscono di diritto nella storia della cartapesta. Un catalogo delle sue opere, a mio parere, è più che mai auspicabile, a dispetto degli scettici che si ostinano a ritenere quella della cartapesta un’arte di livello inferiore.
Il gruppo statuario neritino, per la sua singolarità e il gusto realistico, meriterebbe una collocazione stabile nel sacro edificio, magari in un’apposita cappellina laterale. Questo eviterebbe gli immancabili guasti delle opere, in più punti già riscontrabili con le cadute di colore e la frattura di alcune parti più deboli, come purtroppo ho potuto constatare.
Plaudo comunque alle sagge scelte della fervente comunità, che ha saputo ben scegliere, investendo attentamente sulla cultura dell’arte popolare a Nardò e nel Salento.
Sono dolci monoporzione, dalla tipica forma a cupoletta, costituiti da pasta savoiardo, farcita con crema e glassata con zucchero fondente bianco.
Nell’aspetto, sono molto simili alle famose “Minni di Vergine” della pasticceria siciliana, ma al contrario di queste, sono meno elaborate nella preparazione e molto più povere di ingredienti. Originariamente pare che fossero un dolce rituale, legato alla devozione per Sant’Agata della quale nella forma avrebbero dovuto ricordare la crudele mastectomia. Dolce di tradizione molto antica anche nel Salento, sono, come abbiamo visto, una variante povera del dolce siciliano, anche se, vista la loro originaria diffusione nelle famiglie più agiate, probabilmente ciò non è scaturito da motivi economici, ma è stato semplicemente un intelligente quanto ben riuscito adeguamento agli stilemi più sobri della cucina locale. Molto più diffuse in provincia di quanto non lo siano nel capoluogo, hanno sempre accompagnato molti lieti eventi, ed erano immancabili nei buffet dei tradizionali veglioni di carnevale. Sono dolci che possiedono la rara qualità di coniugare una straordinaria squisitezza ad una assoluta genuinità, non compaiono infatti nell’impasto né agenti lievitanti né grassi saturi.
Preparazione:
Montate a neve ferma gli albumi di dieci uova con trecento grammi di zucchero, unite i tuorli spappolandoli con le mani e mescolandoli rivoltando la massa dal basso verso l’alto, agendo molto velocemente in modo da riuscire ad incorporarli prima che gli albumi si smontino. A questo punto, sempre rivoltando il composto, versate quattrocento grammi di farina 00 setacciata, e quando anche questa sarà incorporata ed amalgamata, riempite una tasca da pasticcere con foro largo e formate delle cupolette piuttosto alte su di una teglia rivestita con carta da forno. Mandate subito in forno a 200 °C, dove 10 minuti di permanenza, dovrebbero essere più che sufficienti, comunque il colore dorato vi avvertirà dell’avvenuta cottura. Estraetele dal forno, lasciatele raffreddare, ponete un po’ di crema pasticcera su di una metà delle cupolette dopo averle leggermente spianate e scavate quindi sopra ognuna di queste sovrapponetene un’altra. A questo punto, glassatele superiormente con zucchero fondente bianco e ponetele in dei pirottini di carta plissettata sul cui fondo avrete versato un po’ di bagna, tipo Benevento allungata e dolcificata. La classica ciliegina completerà questo dolce squisito e naturale.
Novità archivistiche sul santuario di San Pietro in Bevagna
Come è noto ai più, gran parte delle fonti storiche utili ad una ricostruzione delle vicende che hanno interessato le istituzioni religiose secolari e regolari della nostra diocesi è conservata nell’Archivio vescovile di Oria , sito appunto nella graziosa cittadina messapica, nei pressi della Cattedrale. Soprattutto dopo il recente riordino, a partire da questo ricco patrimonio documentario, costituito da migliaia di carte, lo storico locale e quello accademico possono studiare con profitto anche la storia della chiesa mandurina, nelle sue varie articolazioni.
Con il cortese consenso di Don Daniele Conte, direttore dell’Archivio, e con l’aiuto delle sue collaboratrici, ci siamo piu’ volte accostati ai fondi manoscritti, nella speranza di trarre notizie utili, in particolare, ad una ricostruzione della storia artistica mandurina dei secoli moderni. Soprattutto per le epoche più antiche, non sempre i risultati sono stati proporzionati alle aspettative (i fondi contengono documentazione in particolar modo a partire dal sec. XVI) ma da uno studio accurato dei documenti sono comunque emersi dati interessanti, e in alcuni casi, vere e proprie novità archivistiche.
Ci siamo negli ultimi tempi dedicati allo studio delle comunita’ religiose maschili, delle cappelle rurali, e in particolar modo abbiamo scandagliato il faldone (gia’ noto da tempo agli studiosi, a partire da Primaldo Coco) riguardante l’abbazia di San Pietro in Bevagna.
Abbiamo avuto il primo approccio con quest’ultimo fondo manoscritto al tempo della stesura della nostra tesi di laurea sul Santuario costiero manduriano, tra il 2004 e il 2005, traendone utili e, in taluni casi, inedite informazioni, chiaramente sostenute, per una loro migliore comprensione, dalla preliminare lettura di tutto la bibliografia prodotta sull’argomento, riassunta da E.Dimitri in un saggio del 1993.
A quella prima ricognizione ne seguirono altre, tutte finalizzate a trarre il maggior numero di indicazioni utili ad una ricostruzione dell’aspetto materiale della cappella di San Pietro in Bevagna nel corso dei secoli, e possibilmente, anche dell’abbazia benedettina che ancora resiste, allo stato di rudere, ad un centinaio di metri di distanza dal santuario, in direzione Nord.
Allo stato attuale, le notizie piu’ preziose per la nostra ricerca sono state fornite dai documenti del sec. XIX. Questi ultimi, tra l’altro, si sono rivelati nella gran parte dei casi anche di piu’ facile lettura rispetto alle carte dei secoli precedenti (XVII e XVIII),che pure riveleranno in futuro, a chi avra’ la pazienza di compulsarle, molti altri preziosi dati.
Particolarmente proficua per la ricerca storico-artistica e’ stata la consultazione degli “Inventari dei beni” del santuario, che periodicamente venivano redatti dai Rettori, al fine di avere (e trasmettere ai superiori) una conoscenza precisa della suppellettile in dotazione alla cappella petrina.
Il primo documento utile alla nostra ricerca è risultato essere un inventario redatto da Don Giuseppe Ferrara, rettore del Santuario, risalente al 1836 (pubblicato dal Coco in appendice alla sua monografia su San Pietro in Bevagna, data alle stampe nel 1915). Dalla sua lettura abbiamo appreso che nella cappella petrina esisteva ancora, alla meta’ dell’800, una dignitosa suppellettile liturgica e un buon numero di paramenti sacri, di cui però non è precisata la datazione.
Nella chiesetta, per esempio,vi erano ancora “una pisside con la coppa d’argento e piede d’ottone, un calice con la sua patena tutto d’argento, una reliquia di San Pietro con l’ostensorio [leggasi:reliquiario] fogliato d’argento” , e ancora “quattro candelieri con la croce all’altare di marmo e quattro piu’ piccoli con la croce all’altare di pietra detto Spirito Santo tutti otto di ottone; quattro frasche di foglie di ottone,(….) il quadro di San Pietro con la sua cornice e lastra, ecc.”.
Sia detto per inciso: tutti questi oggetti, ancora in uso nel Santuario fino a due secoli fa, sono stati purtroppo accomunati da un unico destino, cioe’ la dispersione, e a nessuno e’ certamente dato recuperarli.
Come scrive Michele Paone in relazione alla vastissima quadreria degli Imperiale di Francavilla, questi oggetti sono ”cose di un tempo perduto, cose ormai lontane, disperse, forse distrutte, sono lacrimae rerum”, sottolineando pero’ che, grazie ai descrittivi inventari cartacei ancora superstiti, essi “riacquistano spessore e consistenza, umore, forme e colori, in una parola, la loro antica realtà”.
Il secondo documento rappresenta una vera e propria scoperta archivistica, relativa ad un oggetto tuttora conservato nel Santuario, miracolosamente scampato alla dispersione dell’intera suppellettile ottocentesca.Questo oggetto e’ la “barca d’argento”(visibile nell’elaborazione fotografica dell’amico Mino Morrone) applicata per molto tempo alla base del quadro processionale di San Pietro, e proprio in virtù di tale pratica esigenza, ancora esistente, ed attualmente collocata in una vetrinetta nel sacello petrino, insieme a due altri significativi ex-voto di privati cittadini. Il documento ad esso pertinente e’ collocato nella cartella 40 del fondo “San Pietro in Bevagna”, con l’indicazione “Dono del popolo di Manduria al Santuario” e la data 1889. Questo il testo del documento: ”L’anno 1889, il giorno 25 del mese di Giugno si e’ presentato in questa Curia Vescovile il Sacerdote D. Saverio Polverino da Manduria, ed ha presentato un oggetto di argento del peso di once undici e tre quarti, fatto lavorare da una Deputazione di Manduriani, de’ quali ci ha presentato ancora i nomi, per rimetterlo alla chiesa di San Pietro in Bevagna, come offerta fatta dal popolo a San Pietro. L’oggetto rappresenta una Barca sormontata da un triregno, con lavori e pietre, filettato d’oro, con sopra un globo dorato, e al di sopra di questo una croce, colle infule anche lavorate con ornati d’oro, con un’ancora che lo sostiene; piu’ una Croce a destra e un Pastorale Pontificio a sinistra. Tutti questi accessori che trovansi al di sopra della Barca son tutti d’argento. Noi dichiariamo di aver ricevuto l’oggetto sopradescritto, per rimetterlo al Cappellano del detto Santuario di San Pietro in Bevagna. Oria, dalla Curia Vescovile, 8 Agosto 1889. (Firmato) Tommaso vescovo di Oria [trattasi di Monsignor Tommaso Montefusco, vescovo di Oria dal 1888 al 1895].
Il manufatto, di cui non si conosce l’autore (verosimilmente un argentiere locale) e’ importante proprio perche’ e’ un ex-voto offerto da tutta la comunita’ manduriana al Santuario. Infine, in dotazione da almeno tre secoli alla chiesa di San Pietro in Bevagna c’è pure un’altra, in questo caso monumentale, reliquia del passato, cioe’ il meraviglioso altare maggiore, che campeggia al centro del presbiterio. Si tratta di un commesso marmoreo policromo barocco, verosimilmente di scuola napoletana, su cui non abbiamo rintracciato finora documentazione d’archivio (quest’ultima potrebbe dare una risposta a molteplici interrogativi:in quale anno esso fu realizzato,chi ne fu l’artefice,quanto costo’, ecc.). L’altare, comunque, fu con ogni probabilità commissionato dal potente ordine monastico dei Benedettini d’Aversa, nel cui possesso ricaddero il Santuario e l’abbazia dalla fine del sec. XI all’inizio del sec. XIX. Vale la pena descriverlo brevemente.
E’caratterizzato da un paliotto a motivi rettilinei, che diventano volutiformi nel medaglione centrale, ed ha ampia mensa retta da mensoloni a volute su snelli pilastrini. Il postergale, a due ordini, è concluso alle estremità da putti capialtare. Il tabernacolo, figurato, non conserva la portella d’argento originaria. Nei cantonali non compare lo stemma del committente, mentre nella parte posteriore, purtroppo, non c’e’ l’epigrafe con l’anno di consacrazione.
Nelle chiese manduriane, tra l’altro, sono ancora presenti una decina di commessi marmorei barocchi napoletani, di cui solo la ricerca d’archivio potrà precisare datazione, artefici, committenti e costi. Si tratta di opere che, ingiustamente definite seriali, rappresentano invece (come del resto le molteplici statue lignee policrome che spesso le sormontano) veri e propri capolavori dell’arte napoletana dei secoli d’oro, meritevoli, per la loro importanza, di uno studio di carattere monografico.
In conclusione, le informazioni rintracciate sulla suppellettile del Santuario di San Pietro in Bevagna (in passato ricca e preziosa), in uno con le opere ancora superstiti, ci obbligano a riconsiderare l’importanza storica di quella che, a motivo del presunto passaggio petrino e di una radicatissima devozione popolare, fu sempre, per il popolo, molto piu’ che una piccola e periferica cappella campestre.
Sulle tavole salentine il Natale è allietato da una quantità notevole di delizie e ghiottonerie nostrane, come le pittule, di cui abbiamo già ricordato la leggenda sull’origine di queste frittelle, che possono essere semplici oppure dolci, zuccherate e ripiene di mela, o ancora salate ripiene di cavolfiore lesso, di cime di rape lesse o con pomodorini, cipolla, olive nere e peperoncino, o ancora con pezzetti di acciughe sotto sale.
Il Natale, la festa più magica dell’anno, porta con sé infinite tradizioni, riti, leggende, proverbi e detti popolari, che uniscono il sacro al profano, documentati da molti studiosi di tradizioni popolari nelle loro pubblicazioni.
Facciamo allora un tuffo nel Natale del passato, per vedere come questa festa veniva vissuta dai nostri antenati. Secondo la tradizione i piatti del pranzo di Natale dovevano essere tredici anche se, in passato, le condizioni economiche della famiglia non erano certo molto buone ed allora si contavano anche gli ingredienti per poter arrivare al canonico numero di tredici. Sicuramente non potevano mai mancare ciciri e tria, i purciddhuzzi e le ncarteddhate.
I purciddhuzzi, così chiamati perché essi avevano la forma del muso di un porcellino, fritti in olio bollente e decorati con confettini, sono una ricetta di derivazione persiana, portata dagli Arabi in Spagna e poi dagli Spagnoli in Puglia.
Le ncarteddhate, fritte e cosparse di miele, erano servite insieme ad altri dolci, come gli anisetti, che erano dei piccoli e policromi confetti, simili a chicchi di grano, e il pesce di mandorla, che richiamava il Cristo, rappresentato nell’iconografia cristiana dei primi secoli con il simbolo del pesce, che molto spesso compariva nelle catacombe dove si rifugiavano i cristiani perseguitati. A proposito delle ncarteddhate, alcuni studiosi fanno derivare questo dolce da una specialità marocchina, anzi dal dolce più tipico del Marocco, la cebakeia, preparato durante il periodo del Ramadan. Questo dolce, ottenuto mescolando insieme farina, zucchero, uova, olio, fiori d’arancio, cannella, sesamo, semi di finocchio e lievito, fritto in pezzi cosparsi di miele caldo e semi di sesamo arrostiti, è straordinariamente simile alle nostre ncarteddhate, pur essendo frutto di una cultura religiosa completamente diversa e lontanissima ( quella musulmana) dalla nostra. Nelle ncarteddhate, A.E.Foscarini ha individuato come derivazione quei dolci che nell’antichità i salentino offrivano alla Dea Minerva, protettrice della Terra D’Otranto, in occasione delle “Quinquatrie”, cioè le feste in onore della dea che si celebravano dal 1 al 15 marzo.
Le pittule, ottime se mangiate calde, appena tolte dall’olio di frittura, potevano essere accompagnate da lu cottu, cioè il vin cotto, e, insieme alle pucce e ai taraddhi, accompagnavano tutto il periodo natalizio. Fra le ricette salentine di questo periodo, vi erano i caranciuli,dei bastoncini grossi quanto un dito, tagliati a tocchetti, avviluppati di miele e cosparsi con cannella e confettini, e poi, per la gioia del palato di grandi e piccoli, scajozzi, cupeta, pane cottu.
Nei paesi della Grecìa Salentina, immancabili sono li jermiceddhi cu lu ronghettu, le sagne ncannulate e i classici pezzetti de cavaddhu; ancora,rape nfucate, li turcinieddhi, la pasta al forno, i peperoni arrostiti, il capitone e poi la carne, preparata in tutti i modi, frutta di stagione, dalle arance ai mandarini clementini, alle mele e alle pere, e i fichi secchi con le mandorle.
Si è perduta anche la memoria del rosoliu, un liquore zuccheroso fatto in casa che suggellava l’abbondantissimo cenone della vigilia. Dalla strada veniva il fracasso dei tronetti, i tricchi tracchi, fatti esplodere in segno di gioia.
Dopo la mezzanotte, ci si scambiava i doni sotto l’albero, si deponeva il Bambinello nella mangiatoia e ci si faceva gli auguri per un altro Natale arrivato, quello più bello, il Natale dei ricordi.
Venti dicembre, alle soglie del Natale, il primo approccio dell’inverno indossa le vesti di una giornata non solo fredda, ma anche caratterizzata da vivace vento di tramontana, mare mosso e, appena al largo, addirittura in burrasca.
In siffatte condizioni ambientali, la sosta sulla rotonda di Castro è un’autentica meraviglia. Colpiscono i vari elementi prima accennati, vale proprio la pena di soffermarsi a rimirarne l’insieme, dall’eccezionale palcoscenico si possono trarre molteplici pensieri, motivi di riflessione, ricordi, visioni e rievocazioni.
Ecco, la natura è protagonista in pieno, non meno indicativamente di ciò che accade allorquando, in un teatro cittadino, si esibiscono artisti di calibro che catturano l’attenzione e l’interesse degli spettatori.
Personalmente, bavero alzato e berretto in testa per non farmi attaccare troppo dai soffi settentrionali, trovo attraente soffermarmi a guardare la distesa.
Già, il suo colore è speciale, assolutamente non comune, come tonalità si aggira fra l’azzurro e il grigio, rispecchiando in fondo anche le sfumature in alto, ma soprattutto, la superficie, la sconfinata coperta è increspata di strisce, ghirigori, accavallamenti di bianco, evidente effetto del trascinamento operato, dai refoli decisi, sullo strato liquido: talmente espressiva, la contingente situazione del nostro Canale, da sembrare quasi un’eco di immagini, voci provenienti dalla profondità e vogliose di proferire o suggerire qualcosa.
La prima sequenza nella memoria è fatta di un piccolo gozzo di legno recante sulla fiancata la denominazione carina di “Davide”, non proprio comune da queste parti. A imbracciare i remi del legno, un signore di mezza età, da poco pensionato, il quale sembra usare il veicolo acquatico alla stregua d’una bicicletta, vi monta dentro ogni giorno che il tempo lo consente, a prescindere dalle stagioni.
E’ comunissimo notarlo nei pressi del molo frangiflutti o a ridosso del Pizzo Mucurune in tutti i mesi dell’anno, in particolare il sabato e la domenica, unico soggetto in servizio, gli altri operatori che si pongono a disposizione dei turisti e visitatori per escursioni in barca esercitano, in genere, da giugno a settembre/ottobre, mentre l’armatore di ”Davide” è fisso, mai che manchi, remi in mano e muovendo lentamente il piccolo pegno, d’incitare e di richiamare i turisti a passeggio sulla banchina esterna del molo foraneo, invitandoli a raggiungerlo sulla barchetta, al Porto vecchio, sua base di partenza e di rientro. Precisa ad alta voce “a prezzi modici”, si sa che le sue sono gite brevi, un quarto d’ora, venti minuti, d’altro canto il nocchiero non si avvale di motore, bensì soltanto della forza delle sue braccia d’anziano, però è egualmente bello scorgere sparuti gruppi di visitatori/utenti a bordo del risicato gozzo “Davide”.
Una seconda immagine che, nonostante il passare del tempo, rimane incancellabile, è quella di un bel barcone, con, al timone, un’altra figura tipica di qui, Vincenzo. Decisamente più giovane del precedente personaggio ma non in grandissima forma dal punto di vista della salute, sempre cordiale affabile e disponibile, egli si avvale di un potente entrobordo per il suo “stozzo” intitolato “Nina”, che mena i turisti sino alle grotte Zinzulusa e Romanelli o a Porto Miggiano, giacché il motore, appunto, consente di coprire discrete distanze. Col suo modo di parlare, calmo, quieto, lento, quasi cantilenante, Vincenzo fornisce, agli ospiti, sommarie e tradizionali illustrazioni sui tratti e i dintorni della costa e del paesaggio di Castro.
Vincenzo è permanentemente di colorito scuro, nero, tanto che A., quando capita di incontrarlo, è indotta a sostenere che, secondo lei, non è italiano, che, magari ha origini indiane, laddove però di indiani, da queste parti, non é che ne siano capitati molti nei secoli, essendo semmai approdati gruppi di turchi, i quali, invero, nulla hanno a che vedere con il colorito di Vincenzo.
Ma Vincenzo è un personaggio unico e basta. Fa un certo contrasto vederlo con indosso la cotta bianca, nell’atto di servire Messa nella ex cattedrale di Castro, e però quest’ultimo ruolo rientra nell’accennata disponibilità dell’uomo a trovarsi con la gente, per la gente.
Vincenzo, dunque, soggetto servizievole, umile, indubbiamente unico a Castro: peccato che, al pari del proprietario di “Davide”, non ci sia più.
I riverberi di bianco sulla superficie scompaginata dalla spinta del vento sembrano una serie di voci, di volti e d’immagini solo superficialmente cancellate dal tempo e dagli eventi, ma che, in realtà, quanti si sono trovati a vivere lungo le stagioni passate e lasciate alle spalle, nel loro intimo non dimenticheranno facilmente.
In proposito, il pensiero non può non andare a chi, sulle onde di questo tratto di mare, ha concluso i suoi giorni, a causa di vicende varie, per una burrasca che lo ha colto intento alla pesca, oppure in servizio, come qualche militare delle Fiamme Gialle in attività di contrasto e di controllo avverso ai tristemente noti fenomeni dell’immigrazione clandestina e dei trafficanti di vite umane, sfociati, talvolta, in epiloghi tragici.
E, poi, non è difficile immaginare che, attraverso le striature di schiuma o tra le onde sbattute dal vento, facciano capolino una serie di persone che hanno semplicemente preceduto il cronista di oggi, testimone e spettatore di una giornata di tramontana, figure riconducibili ad ambiti disparati, dai legami differenti ma, ugualmente, non meno solidi: familiari, parenti, amici, paesani, giovani e meno giovani
Tra dette figure – che, a loro volta, in tante occasioni si saranno verosimilmente soffermate a godersi lo spettacolo del mare, di Castro, di Marittima, dell’insenatura Acquaviva, delle scogliere di Porticelli – mi sovviene quella di un primo cittadino, il sindaco del comune dove sono nato, il cui nome, questa è una cosa bella, di qui in avanti sarà ricordato o scritto o letto più spesso, giacché è stato recentemente deciso di intitolargli una strada e, quindi, sia per indirizzo, sia per transito, sia per sguardi rivolti verso la relativa targa toponomastica, il suo nome ricorrerà, insomma, più spesso, per il futuro e per le generazioni che seguiranno.
Del resto, la personalità in discorso è ampiamente meritevole di restar viva nella memoria, dal momento che, a suo tempo, non è passata inosservata, anzi ha fatto molto, ha lasciato il segno in senso positivo e costruttivo.
Seguita a soffiare e a sussultare, il vento di tramontana e, a un certo punto, causa anche qualche brivido. L’osservatore di strada è nondimeno molto soddisfatto dello spettacolo cui è andato assistendo, avendo potuto cogliere, in una mattinata prenatalizia, in una particolare situazione meteorologica, fra clima freddo, vento, mare mosso, burrasca al largo e impossibilità di esercizio della pesca, una rappresentazione non comune che gli è penetrata dentro, lo ha colpito, lo ha arricchito di nuove emozioni e di nuove sensazioni.
Del resto, sul metro e lungo il canovaccio del suo abituale e costante rapporto di amore, consuetudine, vicinanza e colloquio con la natura della propria terra d’origine.
Tradizioni di Natale. Gli zampognari del meridione salentino
Zampognari che suonano per le strade, la novena di natale
Tutte le tradizioni natalizie, nei secoli passati erano molto più suggestive di quelle di oggi. Ce ne accorgiamo leggendo Usi, costumi e feste del popolo pugliese (1930) di Saverio La Sorsa e Folklore garganico (1938) di Giovanni Tancredi, opere fondamentali per gli appassionati di antiche tradizioni popolari pugliesi.
Una di queste tradizioni, la storia degli zampognari, che potremmo quasi definire un mito, è appunto uno di quei fenomeni importantissimi, che purtroppo sembra essere quasi finito nel dimenticatoio.
Figura antichissima, legata indissolubilmente a quella dei pastori e della transumanza. Quando essi portavano al pascolo tutti gli animali, spingendosi a seconda dei periodi, anche molto lontano dalle loro case, era consuetudine infatti che ognuno di loro portasse con sé uno strumento: chi la zampogna, chi la ciaramella, chi l’organetto, chi il tamburello, chi i flauti di canna, e ogni pastorello imparava da quello più grande. Così, durante il riposo, quando gli animali erano giunti al pascolo, tra un sorso di vino e un pezzo di formaggio, si liberava nell’aria un vero concerto musicale dalle note soavi e dolcissime.
La ciaramella e la zampogna, sono gli strumenti più tipicamente pastorali, proprio perché realizzati con la pelle di capra. La zampogna è un aerofono a sacco dotato da 4-5 canne che vengono inserite in un ceppo dove viene legata l’otre. Solo 2 canne sono strumento di canto mentre le altre fanno da bordone (suonano una nota fissa). Le canne terminano con delle ance che possono essere singole o doppie, tradizionalmente realizzati in canna, e recentemente anche in plastica. La sacca di accumulo dell’aria, otre, è realizzata con una intera pelle di capra o di pecora, utricolo, e oggi anche da altri materiali o da una camera d’aria di gomma, nella quale il suonatore immette aria attraverso un insufflatore, cannetta o soffietto, che mette in vibrazione le ance innestate sulle canne melodiche: sempre due, quella destra per la melodia, quella sinistra per l’accompagnamento e nei bordoni detti basso e scantillo.
Esiste una grande varietà nella lunghezza dei diversi tipi di zampogne. Mentre nell’Italia meridionale, l’unità di misura utilizzata per indicare la lunghezza della zampogna è il palmo, nell’Italia centrale la misura e quindi la tonalità, dello strumento, viene indicata in modo alquanto insolito, con un numero (ad es. 25) corrispondente alla lunghezza in centimetri del fuso della ciaramella corrispondente.
Modello di zampogna
Secondo alcune leggende la zampogna sarebbe in qualche modo legata alla figura di Pan; il dio Pan, poggiato su un cane, ha nella mano destra un bastone e nella sinistra il flauto di Pan, cioè la siringa. Il bastone simboleggia tutti gli elementi maschili del cosmo, la siringa tutti quelli femminili. Secondo il nostro storico i sacerdoti del dio Pan hanno, deliberatamente, trasformato il bastone in un bordone di zampogna, la siringa nel chanter con tre fori. Cioè hanno riproposto l’immagine del dio Pan, molto presente nell’iconografia del dio, in chiave musicale, sonora, per poter, attraverso il suono, armonizzare gli elementi maschili del cosmo con quelli femminili.
Che sia uno strumento natalizio deriva dal fatto che il dio Pan, al solstizio di inverno, con la zampogna incoraggiava la rinascita del sole e, in più, dirigeva il caos da lui stesso provocato verso un nuovo ordine cosmico.L’iconografia medievale ben ci informa della diffusione e della varietà morfologica dello strumento. Una leggenda narra che San Francesco abbia inserito per primo una coppia di suonatori di zampogna nel suo Presepe… che da allora sono rimaste figure sempre presenti.
In epoca più vicino a noi troviamo ampie descrizioni della zampogna in Praetorius e Mersenne. Essa fu fonte di ispirazione anche per i musicisti colti e letterati. Una pastorale del Messiah di Handel trae ispirazione da melodie popolari di zampognari (forse gli zampognari ciociari: Haendel soggiornò ad Alvito, a pochissimi chilometri dalla zona da cui ancor oggi provengono moltissimi di questi musicisti). Hector Berlioz ebbe occasione di ascoltarli a Roma e furono d’ispirazione per la “Sèrenade d’un montagnard.” Lo zampognaro, quindi, è il suonatore di zampogna.
Le regioni dove è tradizionalmente presente la zampogna sono: Lazio (province di Frosinone e Latina), Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia.
Con l’arrivo del Natale, in particolare durante il periodo della Novena dell’Immacolata Concezione e del Natale, essi abbandonando temporaneamente il loro lavoro di pastori, scendono a valle nei paesi, o nelle piazze, percorrono le vie cittadine, in abiti tipici, suonando motivi natalizi tradizionali, quali ad esempio “tu scendi dalle stelle di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori,” e, comunque, il loro repertorio comprende sempre pastorali, giaculatorie e storie di Natale. Generalmente gli zampognari suonano in coppia, uno la zampogna vera e propria ed un altro la ciaramella o altri strumenti a fiato e talvolta sono accompagnati anche da donne o bambini, con nacchere, tamburelli e scacciapensieri. Essi sono vestiti con brache corte, giacca di fustagno, ampio mantello, sostituito qualche volta dal pelliccione, berretto di panno, e calze con fiocco e cioce ai piedi.1 Accurata è la descrizione che il Tancredi ci fa del costume tradizionale di questi robusti zampognari dal viso abbronzato:
“cappelli a cono con le fettucce attorcigliate, corpetto di vello di capra, robone bruno (un’ampia veste di drappo pesante aperta dinanzi), camicia aperta sul collo “taurino”, calzoni di velluto marrone o verde abbottonati sotto il ginocchio, calze di lana grossa, lavorate a mano, e cioce che salgono attorno ai polpacci. Il tutto avvolto da un ampio mantellone pesante di lana blu, con due o tre pellegrine (corte mantelline) una sopra l’altra. I due mistici pastori, uno anziano, l’altro molto più giovane, attorniati e seguiti da gruppi di ragazzini festanti, suonavano le loro “allegre novene” innanzi a ogni porta della città; si fermavano dappertutto: davanti alle botteghe, agli angoli delle vie, sulla soglia delle case, dove le famiglie erano raccolte attorno al focolare. Il più vecchio, dai capelli bianchi e dalla barba incolta, suonava la classica zampogna di legno di olivo a tre pive, stringendo l’ampio otre gonfiato fra il braccio destro ed il corpo; il ragazzo imbottava il piffero esile e snello fatto di olivo per metà e di ceraso per l’altra metà con la pivetta di canna marina. Ed entrambi accordavano le caratteristiche nenie in onore della Madonna e di Gesù. Dopo la suonata di ringraziamento, gli zampognari facevano una “scappellata” salutando il capofamiglia con un addio, sor padrò, con l’intesa di rivedersi l’anno successivo. Il suono melanconico, dolce della zampogna ed il trillo stridulo ed allegro del piffero” conclude poeticamente il Tancredi, “ si spandevano per l’aria rigida sotto l’arco limpido del cielo”2
Nel Salento fino agli anni settanta, come in tutto il meridione, quando arrivava il 6 di dicembre e sino alla festa dell’Epifania, gli zampognari giravano ininterrottamente per tutte le strade di Lecce, in particolar mondo nel cuore storico della città, facendo felici soprattutto i bambini, che ascoltando il suono delle loro zampogne, capivano che finalmente stava arrivando il Natale, per loro, la festa più attesa di tutto l’anno. Poi la notte del ventiquattro dicembre e il mattino dopo, si posizionavano all’ingresso delle chiese, dove i cittadini andavano a pregare durante la veglia per la nascita di Gesù, e per la celebrazione della messa natalizia, suonando le loro melodiche nenie. Continuavano la loro performance, fino al giorno dell’epifania.
La loro scomparsa non è stata repentina, ma è avvenuta in modo graduale, prima accorciando i giorni delle loro…serenate durante la novena dicembrina e poi scomparendo dalla città, per restare ancora qualche anno come consuetudine e costume dei paesi.
Oggi, però, chi è legato particolarmente alle tradizioni, perché comprende l’importanza e il valore che esse hanno nella nostra cultura, per cui non dovrebbero assolutamente andare smarrite, può ammirare queste carismatiche figure, nel contesto dei presepi viventi, fenomeno sempre più diffuso, nel Salento, dove si svolge una vera e propria sfida, tra il borgo o il paese che riesce a realizzare quello più suggestivo.
Si entra così in un’atmosfera surreale di magia del Natale, dove lungo il percorso si incontrano, pastori, ciabattini, fabbri, falegnami, pescatori, che svolgendo il loro mestiere, abitano un villaggio magico, lungo un sentiero che tra rocce e ruscelli, porta sino alla grotta di Betlemme, dove giace tra Maria, Giuseppe, il bue e l’asinello, il bambino Gesù, circondato dagli angeli, e dal suono celestiale delle zampogne. Nel Salento ve ne sono alcuni veramente belli, e i visitatori arrivano da ogni luogo. Inoltre, le tradizioni antiche, vengono di continuo recuperate e restaurate, esattamente come è successo con la musica popolare. Questo grazie ad un gruppo, fondato nel 1975 dalla scrittrice Rina Durante, il Canzoniere Grecanico Salentino, che è il più importante gruppo di musica popolare salentina, il primo ad essersi formato in Puglia. L’affascinante dicotomia tra tradizione e modernità caratterizza la musica del CGS: il gruppo è composto dai principali protagonisti dell’attuale scena pugliese, che reinterpretano in chiave moderna le tradizioni della musica passata. Un membro in particolare di questo gruppo, il giovane Giulio Bianco, animato da grande curiosità e passione per gli strumenti a fiato, si dedica ad uno studio meticoloso e costante dei flauti (dritti e traversi), dell’armonica a bocca e della zampogna italiana. L’esigenza di ampliare le possibilità dello strumento lo porta, inoltre, a intraprendere lo studio della zampogna a chiave “Melodica” e della zampogna zoppa, che gli permette il confronto con altri generi musicali, e che gli da l’opportunità, nella riproposta della musica popolare salentina, di usare lo strumento con una sensibilità moderna e personale.3
3 Giulio Bianco, membro del canzoniere grecanico salentino, il primo e più antico gruppo di musica popolare salentina ad essersi formato in Puglia, più di 35 anni fa.
Taranto. Una segnalazione nella chiesa di Sant’Agostino
Nella riscoperta di tesori artistici a Taranto possiamo sicuramente annoverare la statua lignea policroma settecentesca di San Nicola da Tolentino, conservata nella cappella eponima, la prima a sinistra entrando nella chiesa di Sant’Agostino. La stessa cappella venne fatta erigere dalla confraternita dedicata al Santo, che molto probabilmente commissionò anche la statua; purtroppo non si hanno notizie archivistiche sul simulacro ligneo in quanto un incendio nel XVIII secolo ha distrutto i preziosi documenti. L’eremita agostiniano (1246 ca.- 1305) canonizzato nel 1446 è riconoscibile per il saio nero dell’ordine agostiniano e per la stella al centro del petto, che alluderebbe all’astro che apparì al momento della sua nascita.
Il Santo è colto nel momento estatico tipico della retorica barocca, lo sguardo rivolto al cielo, la bocca socchiusa, le braccia aperte, gesti caratterizzanti un dialogo privilegiato con il trascendente. La qualità sostenuta della statua lignea, data dall’estrema raffinatezza nell’intaglio, fa pensare senza ombra di dubbio all’ambito napoletano e, più in particolare, alla cerchia di Giacomo Colombo, uno dei maggiori artefici della scultura lignea del settecento meridionale.
La sinuosità della forma e la resa naturalistica degli incarnati controbilanciano la stesura un po’ bloccata e accademica del modello, vivacizzato dalle fluenti pieghe delle vesti che cadono perpendicolari e lasciano intravedere un accenno di movimento della gamba destra rispetto a quella sinistra di appoggio.
Sciogliere l’attribuzione in favore del maestro è quanto meno rischioso, vista la serialità di opere realizzate dalla fiorente bottega, per venire incontro ad una committenza sempre più numerosa ed esigente. Tuttavia, azzardando un’ipotesi, la nostra statua richiama la mano di Francesco Picano, collaboratore di Giacomo Colombo, nel trattamento del panneggio che viene semplificato rispetto ai modelli del più quotato maestro, come già sottolineato dalla Gaeta, una delle maggiori esperte su Colombo; sono inoltre palesi i rimandi del santo agostiniano con il San Francesco di Paola nella chiesa di Santa Lucia a Serino.
Il mio breve contributo vuole essere da stimolo alla riscoperta e allo studio della statuaria lignea, visto che rispetto ad altri territori baciati da studi specifici e da indagini scientifiche, i simulacri lignei tarantini, importantissimi dal punto di vista religioso e antropologico (basti pensare alle statue napoletane dell’Immacolata in San Michele e a quelle del Cristo Morto e dell’Addolorata del Carmine) , hanno avuto solo la degna attenzione del compianto Nicola Caputo e di qualche altro storico locale.
Gli studi sulle tradizioni popolari natalizie pugliesi ci restituiscono immagini di grande fascino, dai presepi napoletani di Francesco Emanuele Pinto, principe di Ischitella, all’arrivo degli zampognari nel santuario scavato nella roccia a Monte Sant’Angelo, alle pettole di Peschici…
IL NATALE COM’ERA….
Forse non tutti sanno che i presepi allestiti nei palazzi nobiliari di Napoli erano qualcosa di unico. La meraviglia delle scene costruite con ricchezza di particolari, la plasticità dei volti dei pastori, attiravano un pubblico numeroso e di ogni estrazione sociale, suscitando nei visitatori “diletto e meraviglia”. La ricchezza inaudita di sete e stoffe, gioielli, ori ed argenti, che caratterizzava l’ornamento dei personaggi del presepe, doveva dimostrare lo status socio-economico del nobile casato che lo allestiva.
Le cronache della «Gazzetta di Napoli» citano, durante il periodo austriaco (1707-1734), la visita dei Vicerè ai presepi napoletani. È singolare apprendere che il più celebre presepe in città era quello di Emanuele Pinto, principe di Ischitella e Peschici. L’ultima Viceregina austriaca andò a vederlo, preceduta da un drappello di guardie tedesche ed accompagnata da alcune dame, nel giorno di Natale del 1733. Il principe e la principessa d’Ischitella la ricevettero ai piedi della scala. Era con loro l’architetto che aveva diretto l’allestimento del presepe, Desiderio de Bonis», oggi quasi sconosciuto, ma che fu il più quotato “specialista” del genere.
Il principe Francesco Emanuele Pinto era quindi un raffinato collezionista di presepi. Ne aveva di ogni materiale e disposti in ogni stanza della sua dimora napoletana. Gli allestimenti, fatti eseguire nel suo palazzo a Chiaia nella prima metà del Settecento, dovettero essere qualcosa “di inusitato” anche per un pubblico avvezzo a questo genere di “sacre figurazioni”, al punto che ancora alla fine del Settecento ne restava memoria.
Ma il fatto che il principe Pinto, fin dal 1765, sia stato costretto ad impegnare i gioielli dei Magi e gli ori delle popolane del suo presepe denota la natura precaria delle imponenti costruzioni presepiali che erano nate, più che per devozione natalizia e scopi religiosi o mistici, per la funzionale esigenza di consolidare, attraverso l’ostentazione, il prestigio personale raggiunto dalle grandi famiglie napoletane.
Emanuele Pinto morì indebitato nel 1767. I suoi creditori sequestrarono il feudo di Peschici e concorsero per l’acquisto del feudo di Ischitella.
Oltre alla passione per i presepi, il Principe nutrì quella per l’arte: fu un vero
1 kg. di mandorle pelate, 1 kg. di zucchero, 1 kg. di farina, 12 uova intere.
Tostate le mandorle passandole in forno sino a quando acquisiscono una leggera coloritura, quindi si lasciatele raffreddare, trinciatele grossolanamente con un coltello, amalgamatele a tutti gli altri ingredienti e lavorate sino ad ottenere un impasto omogeneo e consistente. Formate delle sorta di salami appiattiti larghi 6-7 cm e disponeteli su di una teglia da forno unta con del buon olio d’oliva. Infornano a 180°, estraeteli dopo una mezz’ora, disponeteli su di un tagliere e con l’ausilio di un coltello a lama larga ben affilato affettateli in tranci dello spessore di circa 1 cm. Rimetteteli in forno e lasciateli biscottare lentamente a temperatura moderata. Negli ultimi minuti di permanenza in forno aumentate la temperatura onde fargli acquisire una spiccata colorazione dorata. Se ben riusciti devono risultare oltre che ben coloriti, duri e croccanti. Un tempo erano i dolci tradizionali del periodo di Quaresima da cui il nome. Oggi, costituiscono per lo più un dolce da fine pasto, ideali per essere inzuppati in un vino da dessert, un Aleatico o preferibilmente un ottimo Primitivo di Manduria.
Divini amori
1 kg di mandorle dolci senza pelle macinate fini, 800g di zucchero a velo, 3 (o 4) uova (a seconda di quante ne richiede il tipo di mandorla)
la scorza di un limone grattugiato, glassa per copertura. Macinate finemente le mandorle e mischiatele con lo zucchero a velo, unite la scorza di limone grattugiata, aggiungere le uova impastate tutto per bene fino ad ottenere un impasto omogeneo. Formate ora i dolcetti dando la forma di piccoli ovetti o palline, poneteli su di una teglia foderata di carta da forno e cuoceteli in forno a 180° per circa 15 minuti (una variante consiste nel farcire i dolcetti con confetture varie o marmellata d’arancia). Tenete presente che appena estratti dal forno i dolcetti saranno morbidissimi, ma bastano pochi minuti perché induriscano, una volta raffreddati, passateli nella glassa, lasciateli asciugare e conservateli in scatole di latta.
Per preparare la glassa occorrono 750 grammi di zucchero a velo, due albumi e un limone. Versate in una casseruola lo zucchero, bagnatelo con un po’ d’acqua e ponetelo sul fuoco, mescolando sino a quando inizia a formare bollicine. Unite gli albumi montati a neve ferma con l’aggiunta di un po’ di succo di limone e mescolate per bene. Possono pure essere glassati con cioccolato fondente sciolto a bagnomaria.
Simbolo di felicità, il vischio è considerato un portafortuna. Secondo una tradizione di origine anglosassone, baciandosi sotto il vischio ci si sposerà entro l’anno seguente.
Il vischio era considerato una pianta apportatrice di fecondità, dato che le sue bacche schiacciate davano un liquido molto simile al seme umano.
I Druidi, i sacerdoti degli antichi Celti, consideravano questa pianta sacra perché le attribuivano particolari virtù come quella di allontanare le epidemie. Questa pianta veniva recisa dall’albero su cui nasceva con una solenne cerimonia che si svolgeva, secondo il racconto di Plinio il Vecchio, il sesto giorno della luna e veniva tagliata con un falcetto d’oro. Questo utensile univa in se le opposte energie solari (l’oro è infatti un metallo legato al sole) e lunari (la falce ha la forma di una mezzaluna), ed era quindi simbolo della riunione dei due principi, maschile e solare con quello femminile e lunare.
Il vischio è considerato come una panacea di tutti i mali poiché esso cresce sui rami degli alberi e non ha quindi contatti con la terra. Virgilio, nell’Eneide, lo cita per le sue virtù magiche.
Il Vangelo apocrifo Armeno assegna loro i nomi di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre Una antica consuetudine era anche quella di preparare le focare cioè accendere dei fuochi ai crocicchi delle strade del paese ai quali si dava fuoco la vigilia di Natale.
La famosa “stella di Natale”, che da secoli si lega agli allestimenti tipici del Natale, nasce dal regalo di un bimbo. Narra la leggenda che il 25 dicembre di un anno imprecisato, un bimbo povero entrò in una chiesa per offrire un dono a Gesù nel giorno della sua nascita. Si trattava di un esile mazzo di frasche ed il bimbo, triste e vergognoso per il suo magro regalo, cominciò a piangere. Ma le sue lacrime, che bagnavano quei
Dalla dispensa della nonna ai laboratori di ricerca: le insospettabili virtù dei chiodi di garofano
Il loro nome non tragga in inganno. Come molti già sapranno, infatti, i chiodi di garofano nulla hanno a che vedere con il ben noto fiore, il garofano comune (Dianthus caryophyllus) simbolo di promessa di matrimonio, pegno d’amore e della Passione di Gesù.
I chiodi di garofano derivano invece dai boccioli fiorali, raccolti ed essiccati, dell’ Eugenia caryophyllata (sin. Syzygium aromaticum, Caryophyllus aromaticus,Eugenia caryophyllus), albero sempreverde appartenente alla vasta famiglia delle Myrtaceae. Originario delle Molucche e diffuso spontaneamente nelle Isole Reunion, Antille, Madagascar e in Indonesia, oggi viene coltivato in molte aree tropicali: Antille, Africa orientale, Cina e Zanzibar, l’isola africana “delle spezie” e maggior produttrice mondiale per la quale rappresenta la migliore risorsa economica.
Alto 10-15 m mostra una chioma tondeggiante, foglie ovato-lanceolate, opposte, di color rossastro da giovani che diventano con il passare del tempo di una tonalità verde scuro; viste in trasparenza mostrano numerosi puntini traslucidi, ricchi di olio essenziale. I fiori sono riuniti in corimbi ad ombrello: da un lungo calice rosso acceso sboccia un fiorellino bianco, dall’aspetto piumoso; ai fiori seguono piccole bacche rossastre. Una volta essiccati i singoli fiori assumono una forma che ricorda vagamente quella di un garofano, da qui il nome della famosa spezia. Ogni singolo chiodo di garofano è formato dal lungo calice gamosepalo, formato da 4 sepali e da 4 petali ancora chiusi che formano la parte tonda centrale. La prima raccolta dei bocci (che viene effettuata a mano in tarda estate ed in inverno) si ha dopo 6-8 anni dalla piantagione dell’albero, che poi produrra’ circa 34 chili di prodotto essiccato all’anno.
I boccioli essiccati hanno colore bruno e consistenza legnosa, si utilizzano interi, oppure vengono macinati, preferibilmente appena prima dell’utilizzo, per evitare la dispersione degli oli aromatici: emanano infatti un profumo forte, dolce e fiorito, con una punta di pepato e di “caldo”, mentre il gusto può ricordare quello degli infusi di carcadè. Ricordiamo ancora che i chiodi di garofano
Vengono da molto lontano le origini del Natale cristiano. Proviamo a ricostruirle. In concomitanza con la parabola terrena di Gesù e la prima diffusione del Cristianesimo, a Roma si diffondevano alcune religioni provenienti dall’Oriente, come il culto della Dea frigia Cibele, la Grande Madre, il culto degli dei egizi Iside, Osiride e Serapide, e quello del dio persiano Mitra. Il trionfo dei culti orientali concludeva, a Roma, un processo di penetrazione iniziato in epoca remota, perchè sempre straordinariamente sensibile era stata Roma alle religioni “altre”, estranee alla cultura autoctona, importate grazie a quel processo di sincretismo che caratterizzava la religione romana. La promessa della salvezza costituiva la caratteristica principale delle religioni orientali che, per questo, sono chiamate “salvifiche”. Le divinità, che si credeva avessero conosciuto la morte e la risurrezione, erano più vicine all’uomo di quanto non lo fossero gli dèi della religione di Stato, così lontani e irraggiungibili.Il loro culto comportava una iniziazione molto elaborata, in seguito alla quale il neofita era ammesso nella confraternita, insieme agli altri adepti.
Religioni “misteriche”, dunque, ed “esoteriche”, che esercitavano un fascino particolare non solo sulle classi più colte ed abbienti ma anche sulle classi popolari, penetrando a fondo nel tessuto religioso, politico e culturale romano. Di fronte ad un nemico così forte come il paganesimo, la religione cristiana aveva due strade davanti: quella di combatterlo strenuamente, impresa ardua, quasi impossibile, oppure quella di assimilarlo in se stessa, rendendolo, per così dire, innocuo. La storia dimostra che il cristianesimo scelse questa seconda strada.
Fra le religioni orientali, una di quelle che maggiormente attecchirono, a Roma, era il Mitraismo, al punto da far scrivere allo studioso Ernest Renan che “se il cristianesimo fosse stato fermato nella sua espansione da qualche malattia mortale, oggi il mondo sarebbe mitraico”. Assimilato con la religione del Sole, il mitraismo, durante il regno di Aureliano, godette di una vasta fortuna, oltre che nell’esercito, soprattutto tra le classi più modeste della società: schiavi, liberti, operai, artigiani, ecc.
Dagli stessi strati popolari muoveva l’altra grande religione monoteista dell’epoca: la religione cristiana, che, con i suoi apologisti, come Giustino, Tertulliano, Firmico Materno, avversò il mitraismo come il suo più pericoloso avversario. In effetti, oltre alle comuni origini orientali, molti erano gli elementi sorprendentemente somiglianti fra i due culti. Innanzitutto, la leggenda della nascita di Mitra in una grotta, la sua vita sulla terra di trentatre anni e l’aureola che il Sole gli dona. L’episodio di Mitra che fa scaturire l’acqua dalla roccia richiamava il miracolo della rupe di Mosè e il miracolo della fonte di San Pietro; non può sfuggire il parallelismo tra le lustrazioni e il battesimo cristiano, la comune credenza nella resurrezione dei morti e nel giudizio finale, la data di nascita del dio, fissata il 25 dicembre, poco dopo il solstizio d’inverno, da entrambe le religioni.
Il rituale mitraico prevedeva sette gradi di iniziazione, stesso numero dei misteri cristiani, e chi raggiungeva il grado più alto era chiamato “Pater”, stesso appellativo con cui ci si rivolge ad un sacerdote cristiano, e questi era colui che officiava i riti, era considerato il ministro della divinità in terra, indossava un berretto ed un vestito rossi, come i cardinali, ed aveva un bastone da pastore con la punta ricurva, come la mitra dei vescovi cristiani. Ben presto i cristiani considerarono il mitraismo un travisamento satanico dei riti della loro religione, perseguitandolo aspramente. Nella lotta tra le due comunità, una prima vittoria fu conseguita dai cristiani, con l’Editto di Costantino del 313 d.C. Anche Costantino, prima della conversione, era un fedele del culto solare e vedeva nel “Sol Invictus” il fondamento del suo impero.
In seguito, il Sole venne subordinato al Dio supremo e questa fu la prima conseguenza della conversione al cristianesimo dell’imperatore. Il 28 ottobre del 312, Costantino sconfisse il suo avversario Massenzio sul Ponte Milvio. Secondo Lattanzio, Costantino ricevette in sogno un avvertimento, cioè di far imprimere sugli scudi il segno celeste (“in hoc signo vinces”) e di attaccare battaglia in questo modo; egli obbedì e fece iscrivere sugli scudi il nome di Cristo. L’anno dopo (313) si giunse così all’editto di Milano.La restaurazione pagana di Giuliano l’Apostata (361-363) permise una ripresa del culto di Mitra, facendo momentaneamente fermare la distruzione dei mitrei che nel frattempo era cominciata. Con la vittoria di Teodosio su Eugenio (394 d.C.), la religione cristiana prevalse definitivamente su quella mitraica e a Roma, sopra i mitrei, saccheggiati e distrutti, vennero erette chiese e basiliche. I primi simboli cristiani incominciarono a comparire sulle monete fin dal 315, mentre le ultime immagini pagane comparvero nel 323.
Ma tornando al Natale, come si sa, la data del 25 dicembre, in cui si festeggia la nascita di Nostro Signore, è puramente convenzionale. Già le antichissime feste dei Saturnali si svolgevano a Roma dal 19 al 25 dicembre. Non fu facile giungere a questa data. Il racconto di San Luca, il più completo sull’argomento, narra di pastori che passarono la notte all’aperto, cosa che fa pensare ad una stagione primaverile piuttosto che al rigido inverno.
Anche tutta la tradizione patristica fissava la nascita di Gesù in un giorno di primavera, variamente il 18 aprile, il 28 marzo o il 29 maggio. Clemente d’Alessandria l’aveva stabilita il 19 aprile. Fu il monaco Dionigi a collocare la nascita di Gesù al 25 dicembre. Il Papa Giovanni I, infatti, aveva incaricato questo monaco astronomo di calcolare la data della Pasqua, perché questa fosse fissata per tutto un secolo, a partire dal 525 d.C.. Gli studi di Dionigi, che contemplavano astronomia, matematica, fede cristiana e tradizioni pagane, portarono ad una modifica del calendario. Invece di contare gli anni a partire dall’incoronazione di Diocleziano, come si faceva fino ad allora, Dionigi si riferì alla data dell’incarnazione di Cristo che, secondo le sue stime, era avvenuta 753 anni dopo la fondazione di Roma. La data fu ricavata calcolando a ritroso gli anni di Cristo. Si partì dal numero magico 33, quanti sono gli anni che Cristo avrebbe trascorso sulla terra. Poiché la morte di Cristo era stata già fissata al 25 marzo, presumendo che questa fosse avvenuta, appunto, 33 anni dopo la sua incarnazione, che quindi veniva anch’essa fissata ad un 25 marzo, la nascita non poteva allora essere avvenuta che nove mesi dopo la sua incarnazione nel ventre di Maria, e quindi il 25 dicembre.
Le prime tracce del Natale come festività cristiana si incontrano nel III secolo dopo Cristo e il suo definitivo affermarsi verso la metà del IV secolo: precisamente, la festa del Natale fu introdotta ad Antiochia dopo il 375 e ad Alessandria dopo il 430.
La triste storia di Isabella Morra, poetessa di Valsinni e del poeta Diego Sandoval De Castro, signore di Bollita.
« Torbido Siri, del mio mal superbo / or ch’io sento da presso il fine amaro, / fa tu noto il mio duolo al padre caro, / se mai qui ‘l torna il suo destino acerbo. »
Isabella Morra
Il castello di Valsinni
Fa da sfondo alla nostra vicenda la guerra franco-spagnola. Il periodo è la metà del Cinquecento.
Isabella Morra (1520-1546), nata a Favale, l’odierna Valsinni, vicino Matera, da famiglia nobile, condusse una vita infelice e inquieta nel castello di famiglia1, una severa rocca sulla valle del fiume Siri oggi Sinni, sognando la corte francese nella quale viveva il padre, costretto ad emigrare per aver parteggiato con gli sconfitti francesi contro gli spagnoli. Aveva otto anni, quando il padre divenne esule, portandosi appresso il primogenito. In quel maniero sinistro, sotto la tutela dei fratelli rozzi e selvatici che la detestavano, ebbe come unico conforto la lettura dei classici, la composizione di poesie, ed il fantasticare. La madre pare soffrisse di nervi ed era sempre rinchiusa nelle sue stanze, lasciando abbandonata a se stessa, la piccola Isabella. Crescendo la sua tristezza e l’isolamento si acuivano sempre di più.
Un canonico, suo precettore, tale Torquato, per alleviare questa profonda solitudine, favorì la conoscenza e la corrispondenza tra Isabella e il cavaliere e poeta spagnolo Diego Sandoval De Castro, che aveva sposato per procura la nobildonna napoletana Antonia Caracciolo, forse amica di Isabella. Egli aveva militatonell’esercito dell’imperatore Carlo V, prima di essere investito della baronia del feudo di Bollita, oggi Nova Siri in provincia di Matera, e di ottenere la castellania di Cosenza, e quindi era dichiaratamente nemico dei Morra.
Isabella aveva ventitré anni quando tra loro cominciò una fitta corrispondenza letteraria. Non si sa se i rapporti tra i due rimasero platonici oppure si concretizzarono in una relazione passionale, ma la gente cominciò a mormorare, e le dicerie giunsero alle orecchie dei fratelli di Isabella, che associando motivi di “onore” a quelli politici, attuarono una sanguinosa vendetta.I signori di Valsinni erano di parte francese ed ancor più soffrirono delle voci che riguardavano la vita sentimentale della sorella, legata ad un cavaliere della fazione opposta.
Per sdegno e per onore, uccisero il maestro di letteratura che Isabella riceveva. Questo le portava lettere di Diego, e gliele consegnava di nascosto. Subito dopo pugnalarono Isabella. Infine tesero un’imboscata a Diego Sandoval. Nonostante Diego sapesse bene di correre pericolo e viaggiasse sempre sotto scorta nei suoi tragitti da Taranto a Bollita, quando andava a trovare la moglie, l’agguato riuscì alla perfezione, in un bosco non lontano da Favale. Dopo una notte di attesa lo ammazzarono.
Nei due secoli passati, la tragica esistenza di Isabella, colpì a tal punto l’immaginazione dei critici tanto da oscurarne e travisarne la poetica, in parte a causa della natura strettamente personale e intima dei suoi versi, che ha incoraggiato l’indagine della sua arte in relazione con gli eventi della sua vita.
Della poetessa è rimasto un breve canzoniere che spicca, tra quelli del suo tempo, per i toni accorati e meditativi La poetica di Isabella fu incoraggiata dalla corrente, in voga al tempo, del Petrarchismo, ma i suoi versi dispiegano, un’originalità inusitata ai poeti petrarchisti, e altre influenze includono Dante e i classici della letteratura italiana.
Qualche critico cita Isabella come precorritrice delle tematiche esistenziali care a Leopardi, incluse la descrizione del natio borgo selvaggio e dell’invettiva alla crudel fortuna.
L’interesse attorno alla figura e all’opera di Isabella di Morra si è accresciuto nel corso dei quattro secoli e mezzo che ci separano dalla sua morte, nonostante il corpus (soltanto dieci sonetti e 3 canzoni) estremamente esiguo a noi pervenuto. Se fino al XIX secolo i meriti della sua opera poetica furono sufficienti a tramandarne la fama, per parte dell’Ottocento e per tutto il Novecento, la sua tragica biografia ha in larga parte oscurato la comprensione e il pieno apprezzamento dei suoi testi. Molte sono state, infatti, le letture della sua opera in chiave meramente femminista, specie in ambito americano senza che tenessero in sufficiente considerazione il retroterra culturale e storico dell’epoca.
È generalmente assodato che i tredici testi giunti fino a noi fossero stati scoperti dagli ufficiali del Viceré, durante l’indagine che seguì l’uccisione di Don Diego De Sandoval, quando il Castello di Valsinni fu perquisito.
Pochissimi anni dopo la morte di Isabella, qualche sua poesia apparve nel terzo libro di Ludovico Dolce, che raccoglieva le Rime di diversi illustri signori napoletani (Venezia, Giolito, 1552), e fu positivamente accolta dall’ambiente letterario italiano. Non ci furono notizie ufficiali inerenti alla sua vita fino a che Marcantonio, “figlio del fratello minore Camillo, che era rimasto estraneo a quei fatti, perché militava allora fuori del regno”2, non pubblicò una storia della famiglia, nel 1629.
Secoli dopo, nel 1928 il filosofo abruzzese Benedetto Croce, si interessò della vicenda e pubblicò il saggio “Storia di Isabella Morra e Diego Sandoval De Castro”, che di fatto riportò alla luce la storia e la poetica della sfortunata poetessa.
Nei primi del ‘900 Benedetto Croce si è recato in Basilicata per indagare personalmente sulla vita di Isabella Morra, incuriosito dalla particolarità delle sue poesie.Egli, sfogliando le carte del processo intentato dagli spagnoli contro i fratelli Morra per l’omicidio del Sandoval, ritrovò le poesie della nostra Isabella che erano state annesse agli atti. Di qui la notorietà della poetessa. E’ grazie alle sue ricerche che possiamo conoscere meglio la storia di Isabella, che muore dopo aver vissuto in un’epoca che considerava la donna intellettualmente inferiore all’uomo, e in un paese dove, come avrebbe scritto Carlo Levi, nessuna donna poteva frequentare un uomo se non in presenza di altri.
Ad Isabella è stato negato il conforto di una famiglia che l’amasse e ci ha lasciato una storia che è uno spaccato del suo tempo e della sua terra, e una poesia che, per dirla con Croce, contiene quell’immediatezza passionale e quell’abbandono al sentimento che sono la virtù della migliore poesia femminile.
Isabella è la dolente figura di una poetessa che rappresenta tutte le donne schiave e vittime di una realtà ostile, che impedisce la libera espressione di vita e di sentimenti. Le vicende femminili come quelle umane si ripetono nei corsi e nei ricorsi storici: il ricordo e la rappresentazione della vita della nostre protagoniste può essere spunto di riflessione per gli uomini e le donne del nostro tempo.
“Ed io ho voluto recarmi nei luoghi dove è vissuta questa breva vita e cantata questa dolorosa poesia; in quell’estremo lembo della Basilicata, di cui ha parlato il Lenormant, tra il basso sinni e il confine calabrese, tra la riva del mar Jonio, dove verdeggia la foresta di Policoro, e il corso del Sarmento, che versa le sue acque in quel fiume: un pezzo della Magna Grecia e della regione detta la Siritide, che, memore di quanto di essa celebrano le storie, sogna sempre una vittoria sulla malaria desolatrice e un rifiorimento dei suoi campi e della varia operosità dei suoi abitatori.”3
Croce fece effettuare scavi alla ricerca delle spoglie della giovane donna, in particolar modo sotto la chiesa, ai piedi del castello, senza ottenere risultati, tanto che ancora oggi non si conosce dove sia ubicato il corpo d’ Isabella, alimentando fantasie e miti, come quello del fantasma della poetessa, che si dice che, non avendo ricevuto degna sepoltura, vaghi ancora per le stanze del castello, o come raccontano in tanti, di nottesi vede la sagoma evanescente di Isabella al di sopra dei bastioni. Non si sa se questa delicata storia, fatta di sentimenti gentili e scambiata sul filo della poesia e delle rime petrarchesche in cui Diego e Isabella si cimentavano, avesse veramente forti significati amorosi.
Certamente Isabella soffriva di solitudine in quel luogo distante dai luoghi di cortigiani e cantori. La baronessa era ottima poetessa, come anche affermò Benedetto Croce, e stupisce che ella riuscisse a tenere lo stile letterario del tempo senza contatti con accademie e salotti letterari. I versi di Isabella sono tristi e talvolta alludono alla morte, che la giovane vede vicina. In una poesia chiede al fiume Sinni di ripetere il suo lamento, quando lei non ci sarà più. E il Sinni risponde alla poesia, con un lamento, in una notte di febbraio, scorrendo ai piedi del Castello dei Morra.
Isabella Morra
Torbido Siri, del mio mal superbo,
or ch’io sento da presso il fine amaro,
fa’ tu noto il mio duolo al padre caro,
se mai qui ‘l torna il suo destino acerbo.
Dilli com’io, morendo, disacerbo
l’aspra fortuna e lo mio fato avaro,
e, con esempio miserando e raro,
nome infelice e le tue onde io serbo.
Tosto ch’ei giunga a la sassosa riva
(a che pensar m’adduci, o fiera stella,
come d’ogni mio ben son cassa e priva!),
inqueta l’onda con crudel procella,
e dì: – M’accrebber sì, mentre fu viva,
non gli occhi no, ma i fiumi d’Isabella.
“Essere poeta non è mai stato facile”, introduce Alessio Lega4 così la sua canzone sulla tragica vicenda di Isabella di Morra, la grande poetessa petrarchesca lucana del XVI secolo. “Figuratevi esserlo, e donna, nel ‘500”.
Le poesie di Isabella di Morra, in tutto tredici, furono scoperte e pubblicate da Benedetto Croce; su una di esse, “D’un alto monte onde si scorge il mare”, Alessio Lega ha costruito questa canzone di prigionia e di speranza. La poetessa, certa della morte che i fratelli, a loro volta prigionieri di un’ottusa e assassina “morale” maschile, le daranno, scorge il mare aspettando invano che giunga la nave del padre o qualcuno che venga a liberarla. Non fu così. Rimangono i suoi splendidi e desolati sonetti, una voce di donna che in qualche modo ha spezzato le catene della prigione e della morte.
D’un alto monte onde si scorge il mare
miro sovente io, tua figlia Isabella,
s’alcun legno spalmato in quello appare,
che di te, padre, a me doni novella.
Ma la mia adversa e dispietata stella
non vuol ch’alcun conforto possa entrare
nel tristo cor, ma, di pietà rubella,
ha salda speme in piano fa mutare;
ch’io non veggo nel mar remo nè vela
(così deserto è l’infelice lito)
che l’onde fenda o che la gonfi il vento.
Contra Fortuna allor spargo querela,
ed ho in odio il denigrato sito,
come sola cagion del mio tormento
Rocca di Favale, Valsinni (MT). Il sonetto D’un alto monte onde si scorge il mare di Isabella di Morra su un dipinto ad esso ispirato, sulle mura del castello.
Oggi la Valsinni tanto odiata da Isabella celebra ogni anno la sua poetessa con spettacoli (Dacia Maraini ha scritto un testo teatrale ispirato a questa storia), letture e anche un parco letterario Della corrispondenza tra i due personaggi oggi rimangono solo le lettere che don Diego scrisse a donna Isabella, mentre le risposte sono a noi ignote.Nel 1542 don Diego pubblicò una raccolta delle sue rime petrarchesche.
Nobil pensier, che nel mio cor s’annida
e d’un cortese desiar s’appaga,
la voglia rende innamorata e vaga
de la vostra beltà, che ‘n ciel mi guida.
E tanto l’alma nel valor suo fida,
che non teme lo sdegno che l’impiaga,
né virtù d’erbe o forza d’arte maga,
che dal primo voler mai la divida.
Ma voi, che sete alma celeste e diva,
come creder potete che ‘n voi brami
altro ch’aver co’ bei vostr’ occhi pace?
Io non voglio altro che vedervi priva
d’odio e pregarvi, poi ch’è forza ch’ami,
che non vi spiaccia almen, se non vi piace.
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1“Suggestivo nell’architettura e imponente nella pienezza delle forme, classico nella fuga dei merli e delle feritoie”. Sono le prime considerazioni condotte da Benedetto Croce in “Vita di avventure, di fede e di passione, Isabella Morra e Diego Sandoval de Castro” , quando l’illustre intellettuale, risalì l’aspra rupe, ponendosi sulla tracce di Isabella. Il castello di Valsinni sorge su di una preesistente fortificazione longobarda, costruita all’inizio del millennio. Antico castrum romano, come posto a guardia dell’ultima chiusa del fiume Sinni, il castello dell’antica Favale lega la sua fama ai versi petrarcheschi al femminile che si alzarono dal maniero. Nella solitudine a cui le consuetudini del tempo, e l’avversa sorte, la condannavano, Isabella Morra, terza degli otto figli di Giovanni Michele Morra barone di Favale, oggi Valsinni, cantò al “Torbido Siri… l’aspra fortuna e lo mio fato avaro”. L’antica fortificazione divenne prigione dell’amore della poetessa per le muse, ed in seguito sua tomba. La sventurata sorte di Isabella, ritratta nel film Sexum Superando , ancora oggi risuona nelle sue “Rime”, pubblicate postume. La fortificazione che dall’alto domina Valsinni fu feudo dei Sanseverino, famiglia, come i Morra, di discendenza normanna. Agli inizi del 1500, attraverso Menocca Vivacqua di Oriolo, ne divenne proprietaria la potente famiglia Morra, di origine irpina, che conservò il maniero per circa 140 anni, sino al 1638. Benché dal 1921 ne sia divenuta proprietaria la famiglia Rinaldi, nelle stanze e lungo i corridoi del castello ancora si dice vi aleggi la presenza della poetessa nata sotto una “adversa e dispietata stella”; per essere condotti sin nel suo animo si potranno seguire i sentieri compresi nel Parco letterario Isabella Morra .
2 Benedetto Croce. Storia diIsabella di Morra e Diego Sandoval de Castro. Sellerio editore, Palermo, 1983, p.13. Pubblicato per la prima volta in La critica, vol. 27, 1929
3 Benedetto Croce, idem, p.39
4 Alessio Lega (Lecce, 26 settembre 1972) è un cantautore e anarchico italiano. Realizza una canzone dedicata a Isabella Morra incorporando nel testo i versi della sua poesia “D’un alto monte” nell’album E ti chiamaron matta, 2008.Proprio il binomio tra amore e politica gli è valso, nel 2004 la Targa Tenco come miglior opera prima per l’album Resistenza e amore realizzato assieme ai Mariposa.
Il mandorlo (Amygdalus communis L.), è un albero originario dell’Asia occidentale e dei paesi caldi del bacino del Mediterraneo. In Italia, viene coltivato da epoca remota e già i Romani ne avevano selezionate diverse cultivar. E’ molto longevo, potendo superare anche i cento anni d’età e le sue dimensioni variano a seconda della varietà, del clima e della fertilità del suolo. Nel Salento, grazie al clima evidentemente molto congeniale, il mandorlo raggiunge solitamente grandi dimensioni anche in terreni poco profondi e aridi.
Il fiore, è quello caratteristico delle rosacee, dalla colorazione bianco-candida o rosea, la cui fecondazione avviene rigorosamente per via entomofila. La fioritura è assai precoce e varia a seconda dell’ubicazione del mandorleto e delle caratteristiche delle diverse cultivar. Nel Salento, nelle aree litoranee è comune imbattersi in alberi completamente fioriti già ai primi di gennaio, naturalmente queste precoci fioriture limitano di molto, a causa delle gelate, l’allegagione dei frutti come sancito puntualmente in un famoso distico popolare:
Mendule di scinnaru,
non ‘ndi minti intra ‘llù panaru
ossia: dal mandorlo che fiorisce in gennaio non scaturiscono mandorle da porre nel paniere. I contadini salentini, per cercare di limitare il succitato problema, procedevano empiricamente ad impiantare le varietà a fiore rosa perché fioriscono più tardivamente, rispetto a quelle a fiore bianco.
Le cultivar sono molto numerose, gli studiosi ne hanno descritte 400 nella sola Sicilia, mentre per la Puglia il Fanelli ne ha descritte 50, ed elencate circa altre 400. Dal punto di vista dell’utilizzazione, le cultivar possono essere suddivise nei seguenti gruppi:
1) mandorle da tavola fresche.- con guscio molle o semi molle, frutto grosso e a maturazione precoce, vengono raccolte con il mallo ancora verde e devono essere consumate entro qualche giorno.
2) mandorle da tavola secche.- con guscio molle o semi molle, ossia tale da poter essere facilmente rotto con la pressione delle dita nel primo caso e facilmente con lo schiaccianoci nel secondo caso, il seme deve essere unico e grosso.
3) mandorle da dolceria.- fra queste, rientrano anche le cultivar a seme amaro, si utilizza il seme per la preparazione di una grande varietà di dolciumi, sono le più coltivate.
In Puglia e in particolare nel barese sono diffusi impianti specializzati investiti soprattutto con le seguenti cultivar: Pizzuta d’Avola, Santoro, Fragiulio, Montrone, Cristomorto, Occhiorosso, Filippo Ceo, Genco, Tuono, Mollese, Fragile di Terlizzi, Amara Coratina… . Nel Tarantino e nel Salento le cultivar selezionate maggiormente diffuse sono la Rachele e la Cartuccia o Agatuccia, con frutto grosso, rotondo, quasi sempre a due semi che un tempo, per la sua bellezza, veniva anche esportata in alcuni paesi asiatici ove veniva impiegata per fare collane ornamentali.
Le mandorle sono letteralmente ricolme di elementi nutritivi. Hanno una percentuale d’olio che si aggira intorno al 60% quindi sono quindi molto caloriche: un etto fornisce quasi 600 calorie.
Sono ricche di grassi polinsaturi, di proteine, di potassio, calcio, ferro, zinco, vitamina E e B2. Le mandorle contengono anche un po’ di amigdalina, più nota come laetrile, il che le ha procurato una reputazione di alimento anticancro. Bisogna però stare molto attenti a non mangiare mandorle rancide o dal sapore amaro segno della presenza del pericoloso acido prussico.
DA BARI ALLA LAPPONIA: STORIA E LEGGENDA DI BABBO NATALE
di Paolo Vincenti
Uno dei personaggi più popolari dell’immaginario collettivo è sicuramente Babbo Natale, l’allegro e paffuto vecchietto dalla barba bianca che, durante il periodo natalizio, imperversa su giornali, internet, tv, centri commerciali e in tutti i luoghi di aggregazione sociale, dai quali ci sorride immancabilmente il suo faccione rubicondo. Come ormai tutti sapranno, il personaggio storico da cui il Nostro prende le mosse è San Nicola. Il Santo, nato da una ricca famiglia a Patara, in Turchia, nel IV secolo, è molto venerato anche nel Salento. Calato nella vasca per ricevere il battesimo, il piccolo Nicola si reggeva in piedi da solo, congiungeva le manine al petto e pregava. Inoltre, ogni settimana, il mercoledì e il venerdi, giorni di digiuno per i fedeli dei primi secoli, non voleva mai succhiare il latte e si opponeva con gesti e grida alle insistenze della madre Giovanna, che voleva indurlo a poppare. E questi sono solo alcuni dei suoi miracoli.Uomo onestissimo e integerrimo, divenuto vescovo di Myra, partecipò al Concilio di Nicea del 325 per combattere l’eresia di Ario. Così, già in vita, si diffuse la fama della sua magnanimità e della sua santità e, quando morì, le sue spoglie furono deposte a Myra. Molti ambivano di possedere le sue ossa. Nel 1087, un gruppo di mercanti baresi, con alcune navi cariche di frumento, partirono per Antiochia. Da lì, avendo il disegno di impossessarsi delle ossa di Nicola, si diressero a Myra, che si trovava sotto la dominazione dei Turchi. Riuscirono così, anticipando altri mercanti, come i veneziani, che pure avevano di mira il prezioso bottino, a conoscere il luogo dove era depositato il santo sepolcro e, non senza ostacoli e violenze, riuscirono a rompere la pietra del pavimento e scoprire la tomba. Un soave odore di incenso indicò
Dall’insonnia all’ulcera, dalla tosse secca agli ascessi… il cipollotto (spunzàle)
Appartenente alla stessa famiglia dell’aglio e della cipolla (Liliaceae), lo spunzàle (in italiano cipollotto), non è altro che lo sviluppo di un bulbo avventizio di una cipolla (Alliumcepa) dell’anno precedente. Spesso lo spunzàle è confuso col porro (Alliumporrum), anch’esso delle Liliacee.
Il porro è una specie coltivata già nell’antico Egitto (alcuni geroglifici ci raccontano che esso era consumato dagli schiavi impegnati nella costruzione delle piramidi) e poi nel mondo greco (ove era chiamato prason, cui fa riferimento il nome scientifico della varietà Alliumampeloprasum) e in quello romano (col nome, appunto, di porrum).
Riporto sul porrum (che nella sua genericità potrebbe pure essere riferito allo spunzàle) per brevità solo tre testimonianze, comunque più che sufficienti a dare un’idea dell’ampio spettro di applicazioni medicinali del vegetale (che fosse un ingrediente diffusissimo in cucina lo testimonia, fra gli altri, il De re coquinaria di Apicio) : dall’insonnia all’ulcera, dalla tosse secca agli ascessi, fino a far parte della nutritissima schiera di presunti afrodisiaci
Solo a Lecce e provincia: il rustico, uno straordinario prodotto da forno
L’origine del rustico, straordinario prodotto da forno esclusivo di Lecce e della sua Provincia, per quanto certamente non remota, si perde comunque nel tempo, e qualunque leccese, per quanto anziano, si vorrà intervistare, dirà semplicemente di conoscerli da sempre.
Sulle origini di questo peraltro comunissimo prodotto, sono stati davvero in pochi ad azzardare una qualche ipotesi. Di certo non è un prodotto di tradizione contadina, e nemmeno, come molti dolci e prodotti da forno, monacale, ma piuttosto cittadina e aristocratica, molto probabilmente un’interpretazione originale e straordinariamente ben riuscita di vol-au-vent di un qualche monzù in forza presso qualche famiglia nobile Leccese. La datazione precisa è quindi molto difficile, ma l’ingrediente besciamella o béchamel che dir si voglia, derivata dal patronimico settecentesco del suo presunto ideatore, il marchese Louis de Bèchameil lo rendono inquadrabile in un periodo certamente non precedente alla fine del 1700.
Preparazione
Ingr. : pasta foglia , besciamella, mozzarella “fior di latte”, polpa di pomodoro e pepe nero.
La pasta sfoglia viene realizzata con farina 00, strutto, acqua e sale. Viene aggiunto burro e la stessa viene distesa manualmente o con l’ausilio della sfogliatrice ad uno spessore di ca. 0,5 cm.. A mezzo di un’ apposita fustella circolare del diametro di 10-12 cm. si ricavano tanti dischi, dei quali metà andranno a costituire la base, e l’altra metà la copertura. La farcitura è composta da besciamella, mozzarella fior di latte, polpa di pomodori pelati, pepe nero e sale. Su un disco si pone la besciamella, poi la mozzarella tritata, infine la polpa dei pelati salata, e un pizzico di pepe nero, infine si ricopre con un altro disco, e con un cerchietto di diametro leggermente inferiore si pressa, in modo che i due dischi si saldino perfettamente e si abbia la caratteristica forma a cupoletta. I rustici, vengono posti a riposare in frigo a +4 °C, dopo circa due ore vengono pennellati con uova intere battute, e mandati in forno a 260 °C per 15 minuti ove acquisiranno un’invitante colorazione oro bruciato.
Vanno mangiati rigorosamente caldi, anzi caldissimi, quindi vanno tenuti in bancone riscaldato sino alla vendita che deve comunque avvenire entro qualche ora dalla cottura.
Tre antichissime tecniche di pesca micidiali, altro che ngulatòra1!
di Armando Polito
Prima che la chimica invadesse anche questo campo introducendo sostanze mirabolanti nella preparazione di ogni tipo di esca, ogni pescatore aveva il suo segreto personale e si guardava bene dallo svelarlo alla concorrenza sicché, mentre mostrava con orgoglio a chiunque il cestino in cui custodiva i pesci appena catturati sforzandosi mentalmente di farli sembrare più grossi di quanto non fossero, si preoccupava di tenere ben nascosto agli occhi indiscreti il barattolino contenente la magica pozione di sua invenzione.
Contravvenendo a questa regola oggi vi rivelo tre ricette antichissime. La prima risale ad Aristotele (IV° secolo a. C.)(Storiadegli animali, VIII, 20): I pesci muoiono col verbasco2: perciò altri li pescano buttando il verbasco nei fiumi e nei laghi, i Fenici pure in mare3.
La secondaè di Plinio4 (I° secolo d. C.):
Tra le (erbe) nobilissime…c’è quella che si chiama plistolochia5, che costituisce la quarta varietà6, più sottile di quella prima citata, con la radice ricca di filamenti, grossa quanto un giunco ben sviluppato. Alcuni la chiamano polirrizo7. Il profumo di tutte ha virtù salutari, ma il più pregevole ce l’ha la radice lunga e alquanto sottile. La corteccia è carnosa e l’erba è adatta a confezionare unguenti di nardo. Nascono in luoghi fertili e pianeggianti. Vanno raccolte al tempo della mietitura e vanno conservate semplicemente scuotendo le tracce di terra. È apprezzata tuttavia soprattutto quella del Ponto8e in ogni varietà quella più pesante è più adatta ai medicamenti. Quella rotonda è efficace contro il morso dei serpenti. Tuttavia ha il massimo pregio quella allungata se, come si dice, accostata all’utero con carne di bue a concepimento avvenuto fa nascere un maschio. I pescatori della Campania chiamano la radice che è rotonda veleno della terra e in mia presenza la sparsero in mare dopo averla pestata e mescolata con calce: volano i pesci con straordinaria velocità e subito galleggiano esanimi.
La terza è diOppiano di Anazarbo (II° secolo d. C.) (Della pesca, IV, 647-684), la cui testimonianza mi ha particolarmente colpito perché la questione viene vista, inconsuetamente, dalla parte dei pesci: I pescatori che usano veleni hanno un’altra (prima ha parlato di quella fatta con l’ausilio della luce, la pesca in mare alla lampara e quella da terra, in dialetto neretino alla iàcca9) tecnica di cattura e hanno ordito contro i pesci un veleno maledetto col quale riservano ai pinnati una rapida fine. Essi dapprima con fitti colpi di bastoni e con quelli dei remi spingono i pesci impauriti in un luogo concavo dove ci sono numerosi nascondigli. I pesci allora si rifugiano nei cavi scogli, i pescatori invece da ogni lato li circondano con le reti in modo che gli scogli formino una solida barriera come se si trattasse di uomini assediati. A questo punto un pescatore prende un po’ di grassa argilla e di quella radice che i medici chiamano ciclamino10 e mescolando il tutto forma due pagnotte che colloca in mare sotto le reti: intorno poi unge col veleno nefasto dall’odore acuto le stesse cavità e nascondigli e avvelena il mare. Risale sulla barca dopo che ha sparso il veleno mortale. Subito il cattivo e nemico odore assale i pesci nei loro nascondigli: gli occhi, la testa e le membra sono annebbiati né possono restare nei nascondigli e sofferenti si precipitano da sotto gli scogli. Ma per loro il mare è molto più amaro, tale è l’inganno disciolto nelle acque. E come ubriachi, oppressi dalle mortifere esalazioni vagano in ogni direzione e non trovano pace da nessuna parte. Affrettandosi desiderando oltrepassarle cadono nelle reti . Da quel grande pericolo non c’è scampo e ondeggiano con affanno battendo la coda e saltando. Corre sul mare il respiro dei moribondi: per i pesci c’è questo misero lamento. E fuori in superficie i pescatori godendo della loro sofferenza si rallegrano in attesa che il silenzio cali sul mare e cessino gli strepiti di quell’agonia nell’ultimo affannoso respiro. E allora recuperano quella la turba di infiniti cadaveri accomunati da un’unica orribile fine. Come quando gli uomini contro i nemici dichiarano guerra con troppa facilità e desiderano saccheggiare la città né desistono dall’escogitare danni contro di loro, anzi avvelenano mortalmente l’acqua delle sorgenti; quelli che stanno sui torrioni patendo la fame ed altri disagi muoiono a causa dell’acqua ostile di una morte odiosa e orribile; tutta la
LA FIERA E LA FERA. LA TRADIZIONE DELLA FIERA DI SANTA LUCIA A LECCE
di Paolo Vincenti
Quella della Fiera di Santa Lucia a Lecce è una tradizione antichissima, legata alla Festa di Santa Lucia, che si celebra il 13 dicembre. Già Giulio Cesare Infantino ne parla nella sua opera “Lecce sacra” del 1634, definendo l’antichissima fiera “ principalissimo mercato dove concorrono diversi venditori e compratori con diverse sorti di robbe”. I festeggiamenti, da sempre, si svolgevano intorno all’antica chiesetta di Santa Lucia, demolita nei primi anni del 1960 ed oggi non più esistente. La statua della Santa venne trasportata nella chiesa di San Giuseppe, dove si trova ancora oggi. Come informa Rossella Barletta in “Natale nel Salento” (Guitar Edizioni, 2003), “quando vigeva l’abitudine di pagare l’affitto di casa, la cosiddetta terza, a scadenza quadrimestrale, molti espositori speravano nel ricavato delle vendite di tutto ciò che serviva all’allestimento del presepe […] per poter fare fronte a quell’impegno; data la stagione invernale avanzata e l’incostanza del clima, gli espositori trepidavano per la buona riuscita della fiera e non mancavano di rivolgere interessate preghiere al cielo: ci bà chioe, sta sciurnata, sorte mia!, se va a piovere, in questo giorno, povero me!”. Dalla stessa fonte apprendiamo che il 13 dicembre 1931 fu inaugurata la “I Fiera del Presepe”, organizzata dalla Segreteria Provinciale della Federazione Artigiana di Lecce, in Piazza Sant’Oronzo, sotto l’alto patronato del Gerarca del Fascismo Achille Starace.
Nel 1937, si tenne la “I Mostra Dopolavoristica del Presepe” e nel 1946, la “I Mostra Artigiana Mercato del Presepio” a cura della Camera di Commercio, che protrasse la durata della fiera dal 13 al 24 dicembre.
Un’arte antica, quella della lavorazione dei tradizionali pupi in terracotta, un’arte iniziata, pare, a Lecce, dai barbieri i quali, avendo molto tempo a
Anche il cuore più duro non può fare a meno di battere. Anche nel più roccioso dei senzadio la fragilità umana trova il suo cantuccio. Come Achille era vulnerabile al tallone così chi scrive è permeabile alla ricorrenza di Santa Lucia.
Non ne farò, ovviamente, il martirologio se non per rammentare che il 13 dicembre se ne rammenta il martirio per jugulatio o per decapitatio a mezzo di un Arconte tanto ignorante quanto violento.
Ne parlammo della Santa Lucia in cucina qualche anno fa, del miracolo di Siracusa e della cuccìa (salata e dolce). Santa Lucia è patrona anche nel Salento, ad Erchie per aver ospitato la traslazione del corpo ed è molto amata e riverita in … Svezia.
Ma come tante feste cristiane, anche Santa Lucia non sfugge al parallelismo con altre religioni. Siamo prossimi al Solstizio di inverno, anzi siamo proprio nel giorno in cui il sole tramonta più presto e quindi legati alla luce.
Santa Lucia ha corrispondenza nell’ebraica Hannukkah (o Chanukkà) e nell’indiano Dipavali (o Diwali), Tutte feste della luce e ognuna di esse con il suo dolce. Al Chanukkà i Sufganiot, al Diwali il Khoya Laddoo e, in Svezia, a Santa Lucia i Lussekatter.
Mi permetto di esporre quello che so delle tre forme di dolce, magari, insieme agli inimitabili “purciddhruzzi” del nostro Salento possiamo abbinare anche dei sapori nuovi (pardon antichissimi).
I Sufganiot si preparano con un kg di farina 00, 50 grammi di lievito, 4 uova, un etto di margarina, un bicchiere di acqua tiepida, una stecchetta di vaniglia, un bicchierino di brandy, e dello zucchero.
S’impasta la farina con le uova e nell’impasto si amalgama la margarina e il lievito disciolti nell’acqua tiepida, si aggiunge il brandy e la vaniglia e dopo aver impastato bene si lascia riposare la massa coperta per circa un’ora. Quindi si stende sulla spianatoia una sfoglia di circa mezzo cm di spessore e con un bicchiere si ritagliano dei tondi. Si coprono e si lasciano riposare per un’altra ora. Quindi si friggono in abbondante olio d’oliva (devono affondare nell’olio quindi usare una pentola fonda almeno 15 cm). Quando son dorati si estraggono, si passano sulla carta assorbente e poi si ripassano nello zucchero.
I Khoya Laddoo si fanno utilizzando il Khoya, una tazza di semi di sesamo tostati, zucchero a velo, mandorle, pistacchi e zafferano.
Il Khoya si può acquistare o fare in casa. Per autoprodurlo occorre del latte fresco intero, si porta a bollore in una pentola e quando bolle si abbassa la fiamma e si gira continuamente finché non comincia a solidificare. Quando solidifica si spegne la fiamma e si continua a girare fino a quando non perde un po’ di calore. Quindi si lascia raffreddare. Quando è freddo si può tenere in frigo per almeno due giorni. Per preparare i ladoo riprendere il khoya rimetterlo sul fuoco dolce e lasciare che diventi dorato. Togliere dal fuoco e lasciar riposare un momento, mescolare quindi con i semi di sesamo. Quando la pasta intiepidisce aggiungere lo zucchero a velo e mescolare per bene impastando e quindi formare delle palline che saranno decorate con zafferano, mandorle e pistacchi.
I Lussekatter (gatti di Lucia) si confezionano con sette etti di farina 00, un etto e mezzo di burro, 1,5 grammi di zafferano, 300 cc di latte, 150 grammi di zucchero, 50 grammi di lievito di birra, sale, un uovo e dell’uva sultanina. Fondere il burro in una casseruala e versarci dentro il latte e lo zafferano. Quando bolle e s’amalgama levare dal fuoco e scodellare in una coppa dove c’è il lievito spezzettato. Aggiungere la farina, lo zucchero e un pizzico di sale e impastare per bene il tutto. Quando la pasta è morbida ma soda lasciar riposare per circa 45 minuti. Dalla massa trarre delle strisce con le quali sagomare degli 8 o delle serpentine, guarnire con l’uvetta fatta rinvenire in acqua tiepida e spennellare con l’uovo sbattuto. Infornare a 250° per dieci minuti. Vanno servite fredde la mattina di Santa Lucia dalla primogenita ai genitori insieme al caffé. Secondo la tradizione la primogenita dovrebbe portare una corona con le candeline e cantare “Sul mare luccica …”
Per i Sufganiot suggerisco un biccherino di Aleatico dell’azienda Candido, per Khoya Ladoo è una bella sfida il passito Serra dei Santi di Santi Dimitri e per i Lussekatter il Primitivo Dolce Naturale di Attanasio.
Quanto è banale fermarsi al panettone … e quante similitudini tra popoli lontanissimi.
Una luce santa illumini tutti.
Gallipoli. Melodie, sapori e tradizioni, nell’attesa del Natale.
Impossibile intraprendere il periplo delle mura antiche senza affacciarsi a quel balcone fantastico che è il connubio tra cielo e mare, tra natura e opera umana.
Nei tramonti si perde lo sguardo del visitatore.
Negli stessi tramonti trabocca il cuore del gallipolino che si fa prendere da nostalgie di profumi, suoni, pensieri e persone, che sono ancora nel ricordo vivo, che irrompe, come nelle narici, il vento della tramontana. In questo periodo di freddo e vento, in questo periodo caldo per il cuore, che si lascia intenerire da tradizioni sacre ed attese.
Antichi ricordi e tempi presenti, per nulla saturi di quella monotonia globalizzata.
Giorni, tra speranze e nostalgie, vissuti intensamente; giorni attesi.
I cinque Santi dell’Avvento gallipolino: Teresa “Madre”, il 15 ottobre, Cecilia, il 22 novembre, Andrea il “Pescatore”, il 30 novembre, l’Immacolata, 8 dicembre e Lucia, il 13 dicembre . Sono loro a scandire l’orologio dell’attesa.
Presenze discrete, che incedono lentamente tra le vie del centro storico, ondeggiando, “nnazzacando” al ritmo di una musica soave, fatta da strumenti popolari, che non varcano le soglie delle grancasse o dei teatri. Musica della pace interiore, note tradizionali ed anch’esse nostalgiche che per nulla possiedono il sangue bleu delle auliche sonate, anzi, ben si distinguono nel genere, chiamato “Pastorale”, il che è tutto dire!
Illuminate da fioche luci, le sacre statue notturne, che si affacciano per un attimo alle mura urbiche, quasi avvertissero anch’esse il vento fisico, riparando subito, virando nel labirinto delle vetuste vie.
Santi familiari da rispettare, ma che li porti perfino in tavola, perché è un giorno di festa ordinaria, un giorno di festa familiare, in cui si fa di tutto per accontentare il festeggiato preparando le sue pietanze preferite.
E’ così che il menù oscilla tra rape stufate ed il baccalà, tra i calamari appena pescati ed il decotto, tra il vino ancora novello e l’acredine delle olive incastonate nel pane delle “pucce”, tra gli aciduli capperi, le salate acciughe ed alici, un digiuno prefestivo per l’Immacolata e le immancabili “pittule” semplici o farcite con vari ingredienti, tutti previsti.
L’odore acre degli agrumi, il sapore dolce dei datteri di palma ed in preparazione gli “scajozzi” e li “purciaddruzzi”, si confonde con l’odore della colla di farina, fra mille pezzi di giornale, che le mani sapienti, modellano per preparare un posto dignitoso al Messia.
Sapori forti e vivi che collegano il gusto al cuore, mentre fuori dall’uscio tutto tace, nell’intermittenza fioca delle luci, nell’avvicinarsi e nell’allontanarsi della Pastorale, tra le “monzette” ed i “cappucci” svolazzanti dei confratelli, che, lenti incedono, recando i ceri votivi, la cui fiamma incerta tutelano con una mano. Visioni viventi dei quadri di Rembrant, tra luci profuse ed ombre non definite.
E lì, oltre il perimetro delle mura custodi, il mare circonda le isole del “Campo”, dei “Piccioni” e di “Sant’Andrea”, che nell’autonomia del suo faro, riproduce in proprio, la sua processione, nei riverberi della sua luce nelle acque marine, nel vento che ulula, nel suo stesso nome.
Lì, tra le sere del mare, dall’altura della “Serra”, si intravedono finte costellazioni, prodotte dalle imbarcazioni, mentre, i pescatori sono intenti alla cattura dei calamari, che le donne, saggiamente, sezioneranno per le “pittule”.
Giorni magici, di quella magia che ci fa riscoprire umani, mentre i presepi di cartapesta, si asciugano al vento della tramontana e prendono vita dai colori del sangue, del cobalto, del grano, della terra, della neve, del muschio.
Giorni dei semplici che donano una ricchezza interiore incomparabile.
Negli anni intorno al 1950, puntualmente ogni 13 di dicembre, la mia nonna paterna, di povera e numerosa famiglia contadina, soleva recarsi da Marittima a Scorrano, due paesi del sud Salento, per la fiera in onore di S. Lucia, protettrice della vista, verso la quale nutriva profonda devozione. In quell’occasione, l’anziana donna non mancava mai di acquistare un dono per ciascun nipote, ossia una pigna, l’inflorescenza lignea in cui sono contenuti i frutti del pino (pinoli). Il relativo costo ammontava ad una o due delle vecchie lire a pezzo. All’epoca, si poteva mangiare un panino imbottito di mortadella con venticinque lire, mentre i biglietti d’ingresso al cinema Excelsior di Marittima erano di 30, 40 e 60 lire, rispettivamente per platea ragazzi, platea adulti e galleria. Stamani, in un negozio di frutta sotto casa, ho notato una cesta ricolma, giustappunto, di pigne: prezzo, sentite un po’, € 1 (un euro) a pezzo. Facciamo un po’ di conti. E’ vero che il ricordo del dono della nonna per S. Lucia risale a oltre mezzo secolo, però, alla luce anche degli altri riferimenti monetari fatti, si deve dedurre chenella quotazione della pigna, fra allora e oggi, esiste un autentico abisso, una differenza senza dubbio sproporzionata. Ma, ahinoi, questo passa il convento.
Era mia nonna che, subito dopo la festa dell’Immacolata, cominciava a creare, in casa, l’atmosfera natalizia che noi ragazzi sognavamo per un intero anno; tutto aveva inizio con il suo invito caloroso: “piccini, cominciate a raccogliere il materiale per il presepe”.
I miei fratelli allora avevano campo libero: c’era un falegname che aveva la sua bottega di fianco al portone di casa di mia madre (io vivevo a casa di nonna dove si svolgeva la vita di noi tutti); il suo nome era Antonuccio “pizzaridd”; da lui essi prendevano pezzi di legno di varia lunghezza e di diverso spessore; rientravano carichi e cominciavano a depositarli nel “maiazzl”, un’ampia stanza-deposito per le provviste che, pcr1’occasione, si trasformava in laboratorio.
Seguiva la raccolta dei giornali c poiché allora non c’era tanta carta in giro come oggi, per metterne insieme un bel po’, bisognava penare diversi giorni; si facevano ricerche nel retrobottega di nonno, dal cartolaio-libraio Mimi Carrieri, amico di famiglia e sempre tanto generoso (da lui mamma comprava i libri di scuola per noi quattro, “a rate” interminabili perché quelle di un anno si incrociavano con quelle dell’anno successivo) e talvolta anche qualche Famiglia cristiana, a cui mamma era abbonata, serviva allo scopo.
Tempi difficili quelli, di guerra e dell’immediato dopo-guerra, ma il presepe in casa non doveva mancare (come in casa Cupiello); mia zia, che sovrintendeva alle masserizie, brontolava sempre quando doveva mettere fuori la farina che serviva per preparare la colla: in un vecchio barattolo Nino e Pietro impastavano acqua e farina e non dovevano essere molto bravi, a detta di zia, se consumavano tanta, tanta farina; io allora vedevo colla dappertutto, sul pavimento, sui loro vestiti, sulle pareti e mi estasiavo, ma non “davo una mano” perché quello era lavoro esclusivo dei “maschi”.
Preparata la struttura del presepe, con montagne impervie, valli nascoste, qualche raro sentiero e una minuscola grotta, si passava alla seconda fase, la coloratura: con polvere verde e marrone il paesaggio veniva delineato meglio, anche se, a rivederlo oggi con gli occhi della memoria, mi rendo conto che quello era un paesaggio inesistente in quanto né in Palestina, né in
L’amministrazione comunale di Alessano, in collaborazione con Pro-Loco, Centro Anziani, Marinai d’Italia e Adovos, organizza la Mostra di dipinti di Ezio Sanapo, pittore e decoratore autodidatta ben noto al pubblico salentino. La rassegna , che sarà ospitata nelle sale del cinquecentesco Palazzo Legari ad Alessano dal 15 dicembre – 15 gennaio 2012, sarà inaugurata il 15 Dicembre alle 17,00 con i saluti del sindaco di Alessano Osvaldo Stendardo cui seguiranno gli interventi di Francesco Greco, Alessandro Laporta, direttore della Biblioteca Provinciale di Lecce,Francesco Accogli, direttore della Biblioteca Comunale di Tricase e Nello Wrona. La mostra, che prevede l’esposizione di oltre trenta dipinti che riassumono il lungo percorso artistico dell’artista salentino( risale al lontano 1960 ,quando aveva appena 12 anni, la sua prima mostra), comprenderà anche il ciclo di otto opere sul tema “Una donna di nome Maria” in ricordo del vescovo Don Tonino Bello. Nato nel 1948 a Supersano, Ezio Sanapo, che attualmente risiede a Tricase, ama definirsi un artista “congenito e per vocazione, non per titolo ma per stato d’animo”. Dal 1977 ha tenuto diverse mostre in diverse località italiane riscuotendo un notevole successo di critica e di pubblico. Di lui ha scritto il compianto Enzo Panareo : “Ezio Sanapo è un artista ostinato e coerente a considerare il suo impegno artistico come impegno sociale e culturale al riparo da ogni condizionamento commerciale perché l’arte, a suo dire, possa essere libera di esprimere tutta la sua carica poetica, ironica e di denuncia. Il suo scenario di ispirazione è sempre stato la realtà che lo circonda, non quella piatta e virtuale ma quella vera, che sta nelle pieghe e non si vede ad occhio nudo, con tutta la sua problematica e la sua potenziale carica umana, con al centro il singolo individuo e il suo stato di conservazione”.
La mostra resterà aperta tutti i giorni, dal 15 dicembre al 15 Gennaio dalle 16,00 alle 21,00.
Il mese di dicembre, dal latino “december” (cioè il “decimo mese” secondo l’antico calendario giuliano), è caratterizzato da innumerevoli feste, che culminano in quella del Natale, tanto da essere definito il “mese santo” per eccellenza. Se le ricorrenze della Madonna Immacolata, 8 dicembre, e di Santa Lucia, 13 dicembre, (ma non dimentichiamo la festa di San Nicola di Myra, il 6 dicembre) sono feste autenticamente cristiane, proprio la festa del Natale può essere considerata una festa paracristiana, poiché affonda le sue radici in un passato pagano che si perde nella notte dei tempi. Si sa, infatti, che la data del 25 dicembre è una data arbitraria, stabilita dalla Chiesa per festeggiare in un fissato giorno la nascita del Cristo. Questa data venne scelta anche per sovrapporsi alla festività pagana del “Natalis Solis Invicti”, cioè il “Natale del Sole Invincibile”, che nella Roma imperiale era festeggiato e molto sentito in tutte le province. Questo culto si era innestato su un culto ancora più antico e proveniente dalla Persia, vale a dire il culto del Dio Mitra, anch’egli “Dio della Luce”, che veniva festeggiato dalla comunità mitraica (molto fiorente fino al III secolo d.C.) il 25 dicembre, dies natalis di questo dio orientale, definito l’Invitto. Alla data del 25 dicembre, inoltre, corrispondeva la festa ebraica della “Hannukah”, ossia la purificazione del Tempio, e questa era chiamata “Festa della Dedicazione” o “Festa delle Luci”. Inoltre, questa data era molto vicina a quella del solstizio d’inverno, che cade il 21 dicembre, e che comporta un cambiamento, una rigenerazione della natura, sia pure ancora impercettibile.
Quale data più appropriata di quella del 25 dicembre, allora, per collocarvi il dies natalis di Colui che ha portato il più grande cambiamento di tutti i
Il basilico …dannoso inoltre soprattutto alle donne avendo contro di loro una tale naturale ostilità…
Etimologie: la prima parte del nome scientifico è il nome del basilico in latino, òcimum, a sua volta dal nome greco della pianta, òkimon; basìlicum è un aggettivo che significa reale, dal greco basilikòs (con lo stesso significato1), a sua volta da basilèus=re2. Lamiàceae è forma aggettivale da làmium che in Plinio è una specie di ortica non pungente. Per il nome italiano vale quanto detto per basìlicum; il nome dialettale presenta raddoppiamento espressivo di –l– (nel dialetto toscano il raddoppiamento ha coinvolto la –s-: bassìlico).3
Passo alle testimonianze antiche cominciando dal mondo latino, prima con un poeta satirico, poi col re dei naturalisti.
Persio Flacco (I° secolo d. C.) ): “Purché non sia più stupida la cenciosa Bauci quando allo schiavo discinto canta bene i basilichi”4.
Plinio (I° secolo d. C.): “Dicono che il basilico va seminato di regola al tempo delle feste di Pale5, per alcuni anche in autunno e prescrivono, se si semina in inverno, che il seme sia bagnato con aceto”6; “Crisippo condannò senza appello pure il basilico, dannoso per lo stomaco, per la minzione e per la vista. Inoltre sostiene che provoca pazzia e stati letargici e danni al fegato e che perciò le capre lo riifiutano; ritiene che debba essere evitato pure dagli uomini. Alcuni aggiungono che se se pestato viene messo sotto una pietra genera uno scorpione e che masticato e messo al sole produce vermi.7 Gli Africani dicono che se uno viene morso da uno scorpione nel giorno in cui ha mangiato del basilico non può salvarsi. Anzi alcuni dicono che pestando un mazzo di basilico con dieci granchi marini o fluviali dalle immediate vicinanze vi si radunano gli scorpioni. Diodoro negli empirici dice che il basilico come cibo genera pidocchi. L’età che seguì l’ha difeso energicamente: infatti sostiene che esso è il cibo tipico della capra. Non meno della menta e della ruta è efficace contro i morsi degli scorpioni terrestri e col vino contro i veleni di quelli marini con
Tante volte passando, prima che l’alto muro fosse demolito, attraverso alcune crepe avevo provato a spiare cercando di andare, con lo sguardo e con la fantasia, oltre quel muro oltre quella cancellata, oltre porte e portoni oltre le finestre che davano sul cortile.
Quella mattina non mi sembrò vero. I lavori di restauro erano avviati da un po’ e quella mattina erano in corso e il cancello era… aperto. Non resistetti. D’impulso entrai senza esitare, al massimo, mi dissi, mi sarebbe stato chiesto di uscire.
M’incamminai verso una delle porte aperte, intravidi un signore intento al suo lavoro di muratura e – Buon giorno! Posso entrare a dare uno sguardo?-
– I lavori non sono ultimati – risolse – solo il restauro murario è stato completato. – Mi osservò e – Comunque entrate pure, fate però attenzione a dove mettete i piedi, mi raccomando.-
Non mi parve vero. Ringraziai, ero davvero felice. M’inoltrai nelle varie stanze del piano terra. Le spesse mura ovattavano ogni rumore che poteva provenire dall’esterno. Mi sembrò di essermi calata in un’altra epoca e… m’inoltrai:
Suore vestite di bianco si aggiravano silenziose tra quelle mura ove regnava una pace stratificata e illusoria che, più che tranquillità dava un senso di vuoto. Una di loro, sotto un grande camino, era intenta a riattizzare il fuoco. Sulla porta un’altra ne apparve con un grande bricco in mano, si avvicinò al camino e lo accostò al fuoco per far riscaldare il latte che sarebbe servito per la colazione.
Al centro della stanza un grande tavolo, con attorno degli scanni, fu ricoperto dalla prima suora con una tovaglia a righe bianche e blu e sopra vi furono poggiate delle ciotole di latta bianca, dei cucchiai e un cestino con del pane affettato.
Poi, la prima suora scomparve e, appena la seconda suora si avvide che il latte era pronto, suonò una campanella posta al lato del camino e, in fila, delle giovani apparvero andando ad occupare silenziosamente i posti vicino agli scanni. Rimasero in piedi: “ In nome del Padre, del Figlio …” cominciò la prima suora e le ragazze continuarono a capo chino. Poi sedettero e ognuna ebbe la sua razione di latte.
Sguardi silenti, malinconici sorrisi velati s’intrecciavano su quel tavolo, attente a che la suora non se ne avvedesse. Stavano vicinissime intorno a quella tavola, i loro gomiti si sfioravano eppure parevano lontanissime e nel loro essere s’intravedeva un accorato senso di sconforto.
Mesto un volto più d’ogni altro stava lì ma era come se non ci fosse. Il suo cucchiaio muoveva istintivamente alla bocca e i gesti ripetuti parevano non appartenerle. Il suo sguardo smarrito e vuoto era lontano: in realtà non era lì. Chissà quale nuvola cavalcava, chissà in quali cieli si librava e, lì dentro, non c’erano nuvole, non c’erano cieli…
“ In nome del Padre…” nuovamente in piedi, pregarono ringraziando il buon Dio del pasto e, sempre in silenzio, com’erano giunte, si avviarono su per una scala. Le seguì. Scomparvero dopo poco ed io mi ritrovai in un lungo corridoio che prendeva luce da alte finestre che davano in un profondo e stretto pozzo luce. Levando lo sguardo si poteva intravedere un ritaglio d’azzurro. Chissà quante di loro si erano perse in quel fazzoletto colorato!
Sul lato opposto del corridoio diverse porte davano accesso ad alcune stanze di varie dimensioni. Sicuramente erano adibite a dormitori o celle. Da una camera mi parve di udire una flebile voce pregare. Passai oltre, non volevo disturbare ma più in là mi bloccò un indistinto lamento, forse un pianto…. M’ avvicinai sommessa a spiare: dalla porta socchiusa intravedi di spalle un’esile figura di donna che, a testa china, lentamente incedeva silente, le mani strette sul grembo lasciavano intravedere una croce e i grani lucenti di una corona del rosario. Lacrime le rigavano il volto e colavano bagnando la corona. Chissà quale motivo l’aveva condotta lì dentro nel bel fiore degli anni! Chissà di quanti sospiri ed affanni era testimone quella stanza e il suo bianco cuscino! Mi riscossi da tanta impressione, proseguii la mia esplorazione: mi ritrovai in un altro corridoio diverso dal primo. Era un camminamento protetto da una balaustra in ferro che s’affacciava su alcuni vani posti all’interno. Mi sporsi e levai in alto lo sguardo.
Lassù una cupoletta, spandeva una luce vivace donando a tutto l’ambiente un tocco da fiaba. Magnifico! Veramente magnifica architettura! Appoggiata alla balaustra scrutai il piano sottostante: altri vani s’intravedevano: “scenderò dopo “ mi dissi, al momento avevo voglia di salire ancora.
Altri stretti gradini mi condussero in un incavo senza luce. Ci poteva entrare solo una persona. Un insolito sportello tondeggiante, in legno scuro, attirò la mia attenzione. Più che una piccola porta sembrava un mobile incassato nel muro. Provai a muoverlo. Lentamente cedette sotto la mia pressione e allora continuai a ruotare fino a quando non comparve una nicchia. Un brivido m’ invade. Ero sorpresa e un po’ sgomenta: era la ruota. La famosa, antica ruota che accoglieva e distribuiva.
Sapevo che, a Lecce, vicino a questo monastero era esistita una Ruota che accoglieva i neonati non desiderati: io, però, non ne avevo mai vista una. Di questa ruota non ne conoscevo l’impiego. Sicuramente, era l’unico mezzo che metteva le suore e le altre occupanti del Conservatorio, in contatto col mondo di fuori. Emozionata la mia mano, accarezzò quel legno pregno di chissà quanti e quali segreti e piano, piano lo roteai riportandolo nella posizione primaria. Uscii confusa da quello stanzino e seguitai a salire e adagio vagare tra i tanti locali: archi, architravi, cornicioni, nicchie, muraglie e fregi possedevano un fascino straordinario e inducevano a soffermare lo sguardo sulla perlacea e luminescente pietra leccese testimone da sempre di chissà quante e quali vicissitudini!
Il mio insolito girovagare mi condusse in un ampio stanzone ancora pieno di cianfrusaglie, tra cui una particolare corona di fiori di latta colorati, appoggiata ad un muro. Ne ammirai estasiata la superba fattura. Ghirlande di fiori multicolori s’intrecciavano. Chissà per chi e perché erano stati intrecciati. Il calice di un giglio si era staccato e giaceva solitario sull’impiantito: lo raccolsi.
Lo conservo ancora in ricordo di suggestioni e sensazioni che colmarono il mio cuorein quel magico mattino.
Mostra Internazionale di Illustrazione per l’Infanzia
La mostra internazionale dell’illustrazione per l’infanzia “Fiabe dal Mondo” è immancabile appuntamento del periodo natalizio per gli appassionati e i visitatori del centro storico di Nardò.
Per la prima volta nel Salento, è stata inaugurata domenica sera alla presenza del Carlo Falangone, Assessore alla Cultura della Città di Nardò, dell’illustratrice Chiara Criniti e di Mauro Vaglio, responsabile del Centro Servizi culturali e bibliotecari.
La sala conferenze del Chiostro dei Carmelitani di Nardò ospita, sino al 31 dicembre, una selezione di opere della 25°, 26° e 27° edizione de “Le immagini della fantasia” della Fondazione Mostra Internazionale di illustrazione per l’infanzia “Stepan Zavrel”, patrocinata dalla Provincia di Treviso, dalla Regione Veneto e dal Comune di Sarmede (Tv), piccolo centro del trevigiano divenuto nell’arco di trent’anni un punto di riferimento per gli artisti di tutto il mondo
Il percorso espositivo, formato da 50 tavole di illustratori provenienti da tutto il mondo, abbinate ad eloquenti fiabe, si articola in tre sezioni tematiche:
– “I canti dei ghiacci, fiabe dalle Regioni Artiche” – La straordinaria tradizione fiabesca dei popoli artici richiama l’attenzione sul profondo legame che unisce uomo e ambiente.
– “Favolosi intrecci di seta, fiabe dall’Estremo Oriente” – Sulla via delle storie per l’Estremo Oriente si incontrano infiniti diversi colori: Giappone, Cina, Corea e Mongolia raccontate attraverso immagini fantastiche ed inedite.
– “Echi di mari lontani, fiabe dall’Oceania” – Gli Aborigeni australiani, i Maori della Nuova Zelanda e tutti gli altri popoli pescatori e navigatori delle isole dell’Oceania, considerati nei secoli scorsi come ingenui selvaggi, in realtà possiedono da secoli espressioni artistiche e culturali di incomparabile bellezza e complessità.
In concomitanza con la Mostra, i bambini, le scolaresche e tutti gli appassionati dell’illustrazione, della fiaba e del piacere di leggere saranno coinvolti in percorsi didattici, proiezioni di film e passeggiate guidate per il centro storico di Nardò.
Inoltre, presso il Centro Servizi culturali e bibliotecari, nel piano superiore del convento, sarà possibile visitare la mostra della giovane illustratrice Roberta Muci e l’esposizione dei libri della sezione Narrativa Illustrata.
L’iniziativa, promossa da Fluxus Cooperativa, è realizzata con il contributo dell’Assessorato alla Cultura della Regione Puglia, con la partecipazione dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Nardò e con la collaborazione del Centro di Servizi culturali e bibliotecari.
Orari di visita: tutti i giorni (esclusi 25 e 26) h. 17:00 – 20:00; 9:00 – 13:00 solo su prenotazione di gruppi e scolaresche.
L’Albero di Natale. Una leggenda vuole che l’Albero di Natale sia uno degli alberi del giardino dell’Eden, per l’esattezza quello da cui Eva colse il frutto proibito. Questo albero sarebbe avvizzito e non sarebbe più fiorito, fino alla notte in cui nacque Gesù Bambino .Un’altra leggenda vuole che, dopo la cacciata dall’Eden, Adamo avesse portato con sé un ramoscello dell’albero del bene e del male. Da questo ramoscello sarebbe poi fiorito l’abete che fu usato per l’Albero di Natale.
Il pettirosso. A Betlemme un piccolo uccellino entrò nella stalla dove la Sacra Famiglia dormiva. Di notte, vedendo che il fuoco si stava spegnendo, volò giù verso le braci e tenne il fuoco vivo per tutta la notte con il movimento delle sue ali, per tenere in caldo Gesù Bambino. Al mattino, il petto dell’uccellino divenne rosso, come premio per l’amore che aveva avuto per il neonato Re.
Le campane di Natale. La leggenda delle campane di Natale è legata ad un episodio accaduto dopo la nascita di Gesù Bambino. Tutti i pastori accorrevano alla grotta di Betlemme, ma un piccolo bimbo cieco, sentendo l’annuncio degli angeli, pregava i passanti di condurlo da Gesù , ma nessuno
Per una storia del presepe. I presepi artistici nel Salento
Che Natale sarebbe senza il presepe? Soprattutto nel nostro Meridione, è ancora viva e molto sentita la tradizione di allestire nelle proprie case “o’ presepio”, come lo chiamano a Napoli (come dimenticare quella famosissima scena dell’opera teatrale napoletana “Natale in casa Cupiello”, in cui il grande Eduardo chiede insistentemente al figlio “te piace o’ presepio?”), elemento straordinariamente poetico e romantico, a differenza del più recente albero di Natale, che rimanda all’elemento profano e consumistico della festa. Il presepe è per noi uno dei simboli più cari del periodo natalizio. Storicamente, il merito di avere “inventato” il presepe, viene attribuito a San Francesco il quale si rifece alle sacre rappresentazioni che fin dal primissimo Medioevo venivano inscenate in chiesa durante la liturgia della notte di Natale. Il Santo dei poveri riprodusse la scena della Natività a Greccio, piccolo paesino in provincia di Rieti, nel 1223, secondo la testimonianza di San Bonaventura, con personaggi in carne ed ossa, per rendere più vicino anche alle persone umili e semplici e agli analfabeti, che non potevano leggere le Sacre Scritture, il miracolo della nascita di Gesù.
Molto bella la storia dell’arrivo di San Francesco a Greccio, nel 1209, ancora oggi rievocata nel piccolo paesino montano in provincia di Rieti.
Suggestiva la leggenda della scelta del luogo dove costruire un convento, che venne affidata al tizzone lanciato da un ragazzino, l’incontro di San Francesco con il Signore di Greccio, Giovanni Velita, al quale raccontò di voler rappresentare la nascita di Gesù in una grotta sui Monti Sabini, e quindi l’allestimento del primo presepe vivente della storia, con pastori, Giuseppe, Maria e il Bambino, il bue e l’asinello Il più antico presepe inanimato si deve invece ad Arnolfo di Cambio, che lo scolpì in legno, nel 1289, nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, anche detta “Ad Presepe”, perché conserva i resti della Sacra Culla. Secondo la tradizione, questa Culla sarebbe stata trasportata da Betlemme a Roma all’epoca di Papa Teodoro I (642-649). L’ usanza di allestire dei presepi artistici divenne così popolare che presto tante altre chiese vi aderirono. Ognuna creava un proprio presepio particolare ed unico, dove le scene della Natività erano spesso ornate con oro, argento, gioielli e pietre preziose.
Secondo la leggenda, comunque, il Salento vanta un invidiabile primato in fatto di presepi: infatti, il primo presepe artistico del mondo sarebbe stato realizzato a Lecce da San Francesco nel 1222. Il Santo tornava da un viaggio in Oriente e si sarebbe fermato a passare le feste a Lecce. Qui, avrebbe realizzato un presepe artistico con statue in terracotta, un anno prima del “presepe vivente” di Greccio.
Il Salento conserva una tradizione presepiale antichissima. Moltissimi presepi, di tutti i tipi, viventi, artistici, meccanici, piccolissimi ed enormi, sono realizzati in ogni angolo della nostra provincia: nelle chiese, nelle piazze, nelle masserie di campagna, nei “trappeti”, nelle grotte in riva al mare, se non addirittura in fondo al mare. Il termine “presepe”, che vuol dire propriamente “stalla, greppia”, deriva dal latino “praesepium”, parola composta dal prefisso “prae” che significa “davanti”, e “saepes”, che significa “siepe”, ossia un recinto limitato da una siepe, ad intendere appunto una stalla, o, più specificamente, la “mangiatoia” degli animali, nella quale nacque Gesù. In tutti i presepi sono raffigurati la Madonna, San Giuseppe ed il Bambinello, scaldato dal bue e l’asinello. Fuori dalla grotta, i pastori, vestiti con pelli di agnello, gli zampognari che con le loro cornamuse allietano la fredda nottata, poi il “guardastelle”, un pastore con lo sguardo rivolto al cielo in cerca della stella cometa.
Un posto d’onore è riservato a Santu Scilesciu, San Silvestro, un pastore che è sempre raffigurato in ginocchio, con un fagotto sulle spalle che simboleggia l’anno che è trascorso e, quindi, la vicinanza del Capodanno quando, appunto, viene festeggiato San Silvestro.
Poi, i Magi con i loro doni di oro incenso e mirra. Sulla grotta, sono presenti due angeli che reggono un cartiglio con la scritta “Gloria in excelsis Deo”.
Riguardo l’asino e il bue, la leggenda vuole che, nella santa notte, mentre il bue si avvicinò al bambino che aveva freddo per scaldarlo col suo alito, l’asino, invece, stupido e testardo, si mise a ragliare come se fosse estate, impedendo così al bambino di addormentarsi. La Madonna, allora, lo punì, rendendolo rozzo ed ignorante, a differenza del bue che è invece un animale forte ed intelligente.Si deve adOrigene, importante erudito dell’antichità cristiana, aver aggiunto nella grotta le figure del Bue e dell’Asinello.
Se fu San Francesco il primo a dar vita ad una rievocazione della nascita di Gesù, con pastori, bestie e Sacra Famiglia in carne ed ossa, la raffigurazione della Natività ha origini ben più antiche. Infatti, i primi cristiani usavano rappresentare con graffiti la scena della Natività nei loro luoghi di incontri e, successivamente, quando finirono le persecuzioni, anche nelle prime chiese, con rilievi ed affreschi.
L’uso di allestire presepi nelle chiese si diffuse nel Quattrocento, soprattutto nel Regno di Napoli: infatti, molto importante è il presepe di San Giovanni a Carbonara (1484), conservato, sia pure parzialmente, a Napoli, con pregevoli figure lignee.
Ideatore del presepe popolare è invece San Gaetano da Thiene che, nel 1500, immise nel presepe, insieme con i personaggi storici, personaggi secondari, vestiti con gli abiti del tempo, che dovevano fare da contorno alla scena madre della Natività.
Oltre ai francescani, a diffondere la tradizione del presepe furono poi i domenicani e i gesuiti.
Nel Cinquecento, molti presepi erano allestiti nei conventi romani e, fra questi, particolarmente apprezzato era quello dell’Aracoeli, dove si trovava un Gesù Bambino che un anonimo frate francescano, secondo la tradizione, aveva intagliato direttamente da un tronco d’ulivo del Getsemani, come riferisce il francescano spagnolo Juan Francisco Nuno nel 1581.
Nel Seicento, dalla Toscana e dal Nord Italia, la tradizione si diffuse moltissimo nell’Italia Meridionale e arrivò anche in Campania, in Sicilia, in Molise e in Puglia.
A Napoli, fra i più belli, vi è il presepe che fu realizzato nel Palazzo dei Padri Scolopi e poi, importanti presepi furono realizzati nella Chiesa di Santa Maria in Portico e nella chiesa di San Gregorio Armeno, paese che oggi vanta un indiscusso primato in Italia in fatto di realizzazioni presepiali.
Dopo il 1700, si cominciò ad ammirare il presepe anche fuori delle chiese, nelle case private, e si diffuse l’abitudine di avere nel presepe statuine rappresentanti personaggi appartenenti a tutte le categorie sociali ed anche personaggi contemporanei. In Terra d’Otranto, l’arte presepiale in cartapesta ha avuto una straordinaria fioritura a partire dal Seicento, ma il culto del presepe è molto più antico; anzi, ormai tutti gli studiosi hanno accertato che questo culto è antecedente al presepe di Greccio creato da San Francesco nel 1223.
Infatti, in Terra D’Otranto, alla fine del XIII secolo, già questa tradizione è in piena espansione, mentre nelle altre parti d’Italia bisognerà attendere la fine del Quattrocento.
Il culto presepiale salentino si ispirava nella iconografia al modello siriaco, con la Madonna coricata, mentre il modello francescano ha poi proposto la Madonna inginocchiata in adorazione del Figlio.
Fra i presepi più antichi, in provincia di Lecce, come informa Maurizio Nocera, in un numero di “Il Ponte. Salento- Brianze” (Anno 2004), il presepio del XV secolo, forse il più antico del Salento, costruito in pietra locale da Stefano da Putignano nella chiesa di San Francesco d’Assisi a Gallipoli Vecchia, e il presepe, pure del XV secolo, costruito da Gabriele Riccardi nel Duomo di Lecce.
Non si possono certamente passare in rassegna tutte le opere esistenti ma accontentiamoci di fare solo un breve excursus fra i maggiori presepi salentini.
Degni di nota sono, a Galatina, nella Basilica di Santa Caterina d’Alessandria, il Presepe realizzato da Nuzzo Barba e nella Chiesa del Carmine, il Presepe di Emanuele Manieri del XVIII secolo.
Molto bello è il Presepe della Chiesa del Crocifisso o di San Pasquale, a Parabita, attiguo all’ex Convento degli Alcantarini e confinante con l’attuale Cimitero. Questo presepe, di scuola napoletana, voluto nel XVIII secolo dal Duca di Parabita, Giuseppe Ferrari, fu eseguito in roccia marina e pietra leccese, e le statuine sono per la maggior parte in cartapesta.
A Cutrofiano, molto forte la tradizione dei pupi in terracotta. Nel Museo Comunale della Ceramica si conservano pezzi del presepe del prelato di corte Alemanni e i pupi realizzati dall’artista cutrofianese Vincenzo Galeone, detto Pingisanti.
Nella cripta di Otranto è affrescato il Presepe di Greccio di San Francesco.
A Lecce, si possono citare l’ Altare del Presepe della Chiesa di San Giovanni d’Aymo o del Rosario, opera del barocco leccese, il Presepe allestito dall’Amministrazione Comunale nell’Anfiteatro Romano in Piazza Sant’Oronzo; la Mostra dei presepi artistici nella pinacoteca francescana del Convento Sant’Antonio a Fulgenzio e le numerose botteghe, sparse nel centro storico, dei maestri pupari; nel Convento dei Teatini, poi, si tiene la Fiera di Santa Lucia, la più importante esposizione di pupi in cartapesta e terracotta dell’Italia Meridionale dopo quella di San Gregorio Armeno a Napoli.
A Squinzano, da segnalare Santa Maria di Cerrate, con il portale del XIII secolo con la raffigurazione della Vergine e dei Magi.
Nel Seicento, quando si diffuse in Terra D’Otranto l’arte presepiale, si crearono tre scuole, cioè quella dei “sammacaleri”, pupari di San Michele, quella dei pastori di Cutrofiano e Ruffano, esperti nella lavorazione della terracotta, e quella dei barbieri leccesi, pupari esperti nella cartapesta.
ACopertino, presso Santa Maria ad Nives, si può visitare il presepe in pietra fine ‘500-inizio ‘600; a Corigliano d’Otranto, nella Chiesa San Nicola, l’ Adorazione dei Magi, tela d’altare del ‘600; a Maglie, l’Arazzo del ‘700 con Natività, donato alla chiesa Matrice da Francesca Capece; a Gallipoli, nella chiesa di San Francesco, il Presepe di Aurelio Persio da Montescaglioso.
A Salice Salentino, vi è il Presepe in schiuma espansa realizzato da Francesco Spagnolo, tra i più belli d’Italia; a Giuggianello, presso la tenuta “La Cutura”, il presepe con pupi di pezza realizzato da Totò Cezzi;a Diso, il Presepe permanente organizzato dall’Associazione culturale “Diso e futuro”.
Sempre a Lecce, nella chiesa di San Giovanni Evangelista, l’ “Adorazione dei pastori” di Serafino Elmo.
Per quanto riguarda la mostra dei pupi che si tiene in occasione della Fiera di Santa Lucia, nel capoluogo salentino, da tempo immemorabile, tutti i pupari leccesi si danno convegno in questa che è per eccellenza la fiera dei pupi, testimoniata già nel XVII secolo da Giulio Cesare Infantino nella sua opera “Lecce Sacra”. La tradizione dei pupari a Lecce è stata in passato veramente rigogliosa. Da una ricerca condotta da Edoardo Foscarini e riportata da Maurizio Nocera ( “Il Ponte. Salento-Brianza” anno 2004) sono venuti fuori i nomi di alcuni pupari leccesi del passato, come Francesco Ingrosso, Ignazio Pietro Sugente, Francesco Calabrese, Vincenzo Oronzo Greco, ecc. Il primo maestro cartapestaio accertato fu Mesciu Chiccu Perdifumu, che modellava le preziose statuette insieme alla moglie Assunta. Questa tradizione, che si rinnova ogni anno in occasione della Fiera di Santa Lucia, è stata molto ben documentata negli ultimi anni da La Fera, storica rivista fondata nel 1984 dal maestro puparo leccese Gino Totaro, che continua le sue pubblicazioni ancora oggi, ad opera di Fulvio Totaro.
Lo stesso Nocera riferisce poi del bellissimo presepe Gotico di Michele Massari (1902-1954), costruito nel 1947 e ubicato in una delle sale del Castello Carlo V, dove si trovano anche altri importanti presepi leccesi.
Queste mostre ci riportano ad un’altra nota consuetudine di questo periodo, cioè quella dei mercatini di Natale, presenti nei nostri paesi durante il mese di dicembre, e che, famosi in tutta Europa, sono una tradizione legata ai paesi nordici.
Le foto sono della Fondazione Terra d’Otranto.
L’albero di Natale: storia di un culto nato ad Otranto?
Il culto degli alberi ha un ruolo importante nelle culture e nelle religioni di tutto il mondo! Esistono su quest’argomento innumerevoli notizie o leggende. Gli alberi entrano in questo modo a pieno titolo tra gli elementi spirituali oggetto di venerazione.
Molti uomini hanno sempre creduto che gli alberi fossero governati da spiriti e divinità: tra i primi furono i greci che adoravano la quercia come dimora di Zeus e la consideravano, come l’ulivo, pianta il cui sacrilego atto di sradicarlo era punito severamente.
Per alcune popolazioni africane, nella creazione del mondo, l’albero è protagonista perché contiene la forza spirituale e materiale di un dio arcaico che si manifesta a tutti gli altri esseri proprio attraverso radici, foglie e rami. È consuetudine per alcuni popoli africani radunarsi sotto la chioma di alberi sacri per prendere decisioni d’interesse collettivo.
L’albero è conoscenza, sopravvivenza e nutrimento per ogni popolo. Il legame con gli alberi era per i Celti così forte tanto che si sentivano parte di essi. Per questi popoli, l’albero era il collegamento tra terra e cielo, un riferimento cosmico che appellava perfino i cicli lunari, i luoghi e le famiglie.
Quando le missioni di altre religioni iniziarono la loro opera di conversione su questi popoli, in nome di decisioni supreme, per impedire il perdurare dei loro culti arborei, rasero al suolo le loro foreste sacre. Si può facilmente immaginare cosa sarebbe accaduto dopo, a coloro che, in segno di venerazione portavano offerte agli alberi o chiedevano protezione per i propri familiari o per i propri beni.
Singolare è la storia di San Martino vescovo, che con il grado di difensore di tali editti, si fece legare a un immenso pino da abbattere per sostenere e comprovare la virtù della sua fede alle popolazioni pagane; dopo il suo segno di croce, l’albero cadde graziandolo e il miracolo favorì le conversioni.
Le storie di alberi tagliati e di proclami che proibivano i riti pagani si susseguirono in tutta Europa durante tutto il medioevo. Emblematici furono i tagli d’albero eseguiti per sancire la fine o l’inizio di nuove epoche. La storica decisione nel 1188 di Goffredo di Buglione, feudale della prima crociata, di far tagliare un olmo a Gisors alla presenza di due sovrani decretò la fine di un’alleanza e l’inizio di un dissidio. Gli eroici abitanti di Capannori in Toscana salvarono l’ultrasecolare “quercia delle streghe”dalla scure nazista che la gradivano come legname; poi cittadini di ogni luogo in difesa di ulivi, querce, lecci, pini di carattere monumentale da ricorrenti minacce antropiche.
Non esiste simbolo più rappresentativo dell’albero per le festività di Natale. L’alberello del nostro focolare è un singolare documento di fede, certamente assorbito da primitivi simbolismi e antiche tradizioni.
La scelta di un sempreverde per celebrare una nascita, in grado di trasferire il messaggio d’immortalità e di rinnovamento era già diffuso tra i romani che ricorrevano decorando le loro case con coccarde di rami di pino. I druidi (dal gaelico querce) e i vichinghi , invece, per il giorno più breve dell’anno si auspicavano fertilità e rinascita vegetativa addobbavano i loro sacri abeti rossi con diversi frutti.
Qui si presenta il confronto dell’albero natalizio con la mitologia nordica dell’albero cosmico detto Yggdrasill, albero invisibile e simbolico fonte della vita, origine della sapienza e dell’immortalità, simile a quello raffigurato nel mosaico del Duomo di Otranto, splendido esempio uscito nel 1165 d.C. per opera del monaco Pantaleone che era riuscito a ramificare natura e mitologia in una delle prime missive ecologiche che il Salento ricordi.
Anche nella pittura G. Klimt con il suo “albero della vita” rievoca un riferimento alla naturale combinazione tra spirito e materia tramite l’amore e la conoscenza, mentre nella letteratura, H. Hesse, con la sua favola trasforma il protagonista Pictor, giunto nell’Eden, in albero, per descrivere e completare l’uomo con una metafora arborea.
Il termine albero della vita era menzionato nei riferimenti biblici della genesi e nell’apocalisse: “E in mezzo alla piazza della città e da una parte e dall’altra del fiume si trovava l’albero della vita, che fa dodici frutti e che porta il suo frutto ogni mese; le foglie dell’albero sono per la guarigione delle nazioni”. Altri riferimenti si rintracciano sorprendentemente anche tra popoli egizi, assiri, mesopotami nel buddismo, induismo e nella cabalà ebraica.
Da qui potrebbe essere nata la tradizione dell’albero di Natale, che le prime missioni cristiane chiamarono “albero del paradiso” sul quale comparivano mele e ostie come simbolo di redenzione poi nel tempo sostituite da candele, frutta secca, dolci e doni vari.
I sempreverdi più utilizzati sono il peccio, il pino e l’abete, specie incensate dai colori intensi che dovrebbero essere, di rigore, veri e vegeti se si vuol dare significato e continuità all’allegoria cristiana.
Con un albero artificiale, quindi, non si avrebbe alcuna percezione; il senso della ricorrenza sarebbe relegata a effimero consumismo. Agli italiani pare incanti il falso albero, perché assicura la prontezza dell’installazione, risolve le gestioni economiche durante le feste e poi si può usare per più anni. In genere sono fatti in PVC, polietilene, derivati del petrolio, materie, spesso non degradabili, che in futuro dovrebbero finire in discarica.
Gli scandinavi hanno stimato e paragonato i consumi energetici e di produzione tra un albero vero e uno falso (anche utilizzati a lungo termine) dalle stesse forme e dimensioni ed hanno riscontrato che il primo ha un valore etico e ambientale cinque volte maggiore.
Procurarsi un albero vero da un vivaio specializzato rigenera la coltivazione della specie e favorisce l’assorbimento della CO2 dall’atmosfera durante il suo accrescimento.
È convinzione diffusa che gli alberi di natale provengano da deforestazioni e che ogni anno avvenga uno sterminio di alberelli; grazie ai controlli o alle certificazioni ambientali (Forest Stewardship Council) che garantiscono il rispetto e la conformità tecnica, si può stare tranquilli.
Ovviamente la preferenza di utilizzare alberelli autoctoni, acquistati da vivai locali (km 0), possibilmente a produzione bio, sarebbe una buona scelta e magari, dopo la festività, ripiantare gli stessi in habitat idonei, per contribuire a mitigare le cause della desertificazione.
Allora alla luce di queste considerazioni potremmo confermare che ogni albero, a prescindere dal suo rito, è certamente, un luogo di ricerca e di riflessione, una relazione di valori ed emozioni e di unione tra terra e cielo; ecco perché non dovrebbero essere mai tagliati. Questo potrebbe essere il primo augurio per il Natale.
8 dicembre. Sine macula. Una tela dell’Immacolata Concezione a Squinzano
La chiesa dell’Annunziata di Squinzano è uno dei più straordinari ambienti ecclesiali seicenteschi conservatisi integri, anche per quanto riguarda la decorazione pittorica, nella diocesi di Lecce. Entrando nella grande chiesa squinzanese ci si sente immediatamente trasportati nel cuore del XVII secolo: la suggestione è emozionante. Il visitatore si trova infatti immerso in un ambiente riccamente decorato, con quasi tutte le tele originali ancora al loro posto: tele dalle dimensioni impressionanti, che misurano poco meno di quattro metri d’altezza per due e mezzo di larghezza! L’abside è occupato da un maestoso altare ligneo ornato da piccole pitture tra cui, al centro, quella della Madonna col Bambino. Tutta la chiesa è un inno al culto mariano: a Maria Vergine è infatti interamente dedicato il programma iconografico.
Lo stato di conservazione dei dipinti è precario, per alcuni di essi è pessimo, e tutto il complesso versa purtroppo in un grave stato di abbandono. Alla mancata valorizzazione si tentò anni or sono di porre rimedio con l’organizzazione di una bella mostra documentaria, a cura del dott. Salvatore Polito. Dagli studi allora realizzati, pubblicati sul materiale illustrativo dell’allestimento (non altrove, per quel che io sia riuscita a sapere) si possono trarre molte e puntuali informazioni sullo stato di conservazione, sui dettagli della tecnica pittorica dei dipinti e sull’iconografia.
La storia della chiesa dell’Annunziata di Squinzano attende dunque ancora di essere ricostruita e scritta nei suoi particolari, che comprendono anche le notizie relative allo straordinario evento religioso e culturale che fu la sua stessa fondazione da parte della devota Maria Manca nonché alla venerazione che intorno a questa figura e al santuario da lei fondato si sviluppò nel tempo. Quel vero e proprio repertorio di pittura salentina che in essa è fortunatamente conservato attende per parte sua di essere recuperato con gli opportuni interventi di restauro, rivalutato, studiato e reso finalmente fruibile al pubblico.
Entro la metà del secolo l’Annunziata di Squinzano, grazie al finanziamento e alle cure di Maria Manca, era completata , ma già dagli anni ’30 del secolo probabilmente erano all’opera i pittori che avrebbero dovuto realizzare le vaste superfici pittoriche previste.
Non vi è alcuna coerenza stilistica e linguistica tra le diverse tele: si deve perciò supporre che siano state eseguite in modo indipendente l’una dall’altra e non dalla medesima bottega. Tuttavia si scorgono in esse legami con artisti attivi in ambito francescano: la Visitazione, dalla bizzarra ambientazione architettonica di sapore rinascimentale, sembra infatti legata ai modi espressivi di fra’ Giacomo da San Vito, mentre la Circoncisione di Gesù, nonostante la pesante ridipintura che la copre, è attribuibile all’anonimo maestro della Presentazione al Tempio di S. Maria degli Angeli a Lecce, la quale d’altra parte è iconograficamente legata al grande telone dal medesimo tema presente proprio nell’Annunziata.
Altre tele sembrano invece degli unica di artisti che lavorarono in modo sporadico in diocesi di Lecce, senza essere legati al contesto produttivo locale. Lo stile fresco ed espressivo della Natività della Vergine ad esempio non trova riscontri in altre opere della diocesi, così come il linguaggio carnoso e vigoroso della bella Immacolata Concezione, per la quale non sembrano esservi analoghi, se non altro sul piano della qualità.
E’ proprio su quest’ultimo dipinto che voglio soffermarmi in questa sede, per metterne in rilievo alcuni aspetti iconografici e alcune caratteristiche di stile che gli conferiscono, a mio giudizio, un fascino tutto particolare. Si tratta di una versione particolarmente bella e grandiosa di uno schema iconografico piuttosto diffuso nella diocesi e, più in generale, nel Salento: Maria è in piedi su una falce di luna sorretta da due angioletti che, specularmente, reggono in mano rami di due piante simboliche, le rose bianche e l’ulivo, entrambe riferibili alla Vergine; ai suoi lati due ordinate, ascendenti schiere di Angeli sorreggono i simboli delle litanie lauretane; al di sopra, all’interno della centina, il Padreterno appare tra le nubi a benedire la propria creatura perfetta, sine macula, sul cui capo volteggia la colomba dello Spirito Santo. Una regale corona è posata sui capelli biondi, mentre un alone di luce dorata l’avvolge tutta. Sono elementi comuni nell’iconografia dell’Immacolata del XVII secolo, ma si osservi come qui vengano tradotti in modo inconsuetamente grandioso e attraente: gli Angeli che sorreggono da un lato la gigantesca Turris e dall’altro il modellino in grande scala del Templum si affacciano al proscenio paffuti e dolcemente sorridenti, avvolti da vesti riccamente panneggiate, dialogando tra loro con gli sguardi e con i gesti, conquistando l’ammirazione dello spettatore e suggerendogli al tempo stesso le proporzioni, le distanze e le profondità in cui si scalano gli altri personaggi, fino ai remoti Angeli musici assisi nella corte celeste. Maria riempie tutto lo spazio aurato con il suo amplissimo mantello azzurro, con le braccia che si muovono in eloquente gesto di intercessione, con i bei capelli soffici sparsi sulle spalle.
L’ambiguità iconografica con il tema dell’Ascensione e Incoronazione della Vergine è frequente nelle rappresentazioni seicentesche del controverso dogma immacolista, approvato ufficialmente dalla Chiesa soltanto nel XIX secolo (ma caldamente patrocinato già ai tempi del nostro dipinto dalla corona di Spagna e dall’Ordine francescano): la tela squinzanese non fa eccezione, richiamando anch’essa l’idea che Maria stia appunto ascendendo al Cielo, incoronata e trionfante.
Facendo poi scorrere lo sguardo verso il basso e osservando ciò che si trova sul “proscenio” del dipinto, troveremo ancora elementi caratteristici e degni d’attenzione. Il Serpente, nemico veterotestamentario della nuova Eva, appare qui raffigurato come una creatura dalle fattezze diabolicamente antropomorfe, contorte in una smorfia di rabbia e terrore cui non è difficile dare spiegazione, poiché la punta d’acciaio di una lancia, la cui asta è però invisibile incombe su di lui come se fosse spinta da una forza soprannaturale, è già quasi conficcata nel suo cranio. Si tratta di una soluzione bizzarra e inedita per raffigurare la sconfitta del demonio ad opera della Vergine Madre di Dio.
Ai due lati, in basso, secondo uno paradigma iconografico che si diffonde nel XVII secolo, sono raffigurati due santi in adorazione della Vergine, come se fossero comuni devoti ritratti nell’atto di preghiera e contemplazione: si tratta di uno straordinario stratagemma comunicativo che consente allo spettatore di sentirsi “sullo stesso piano” del santo che, come lui, rivolge il proprio sguardo alla Vergine Immacolata, l’icona cui si tributa venerazione.
A sinistra è raffigurato un giovane e commovente sant’Antonio da Padova con il suo ramo di giglio, la tonsura, il saio francescano: si osservi la cura con cui il pittore si è soffermato a rendere l’incarnato del volto delicato e roseo, le mani tornite e paffute, gli occhi quasi rovesciati in estasi, le labbra leggermente dischiuse in una preghiera che, nel silenzio assorto della chiesa, sembra quasi di udirgli mormorare.
A destra invece il pittore, certamente su richiesta del committente, ha giustapposto la vigorosa vecchiaia di un canuto san Nicola, rigorosamente bardato di abiti vescovili ma, nelle fattezze, già ad un passo dall’assumere l’aspetto che, qualche secolo dopo, trionferà sui manifesti pubblicitari della Coca Cola. In questa figura l’anonimo artista salentino sembra aver speso il meglio della sua capacità di tornire e cesellare l’immagine nei dettagli più corposi e realistici, dai peli della barba ai riflessi della luce sulla pelle lucida del volto del vecchio, dalle minuscole perle che ornano la sua mitria agli intagli che arricchiscono il suo pastorale.
Bibliografia: P. Coco, Cenni storici di Squinzano, Lecce 1922, pp. 239 ss.
Borgagne (Lecce). L’altare dell’Immacolata nella chiesa matrice
Fu la famiglia Pino a volere, nel 1788, la prima cappella ancora oggi dedicata all’Immacolata Concezione di Maria, sul fianco sinistro della chiesa matrice di Borgagne, ornando l’altare di una bella tela coeva.
Il vero protagonista fu Carmine, un notabile del posto ma di origini poggiardesi, economicamente assai agiato, tanto da permettersi di ricostruire l’altare che i suoi avi avevano a suo tempo eretto in onore di San Giuliano di Cuenca.
La committenza fu celebrata con un’epigrafe che ancora si legge, scolpita nel fregio che sovrasta la tela di nostro interesse:
SACELLUM HOC AUGUSTISSIMUM/ DIVO JULIANO CONCESSUM EPISCOPO PROFUSA IN PAUPERES LIBERALITATE EXIMIO/PER MAIORES FAMILIAE PINO OLIM IN TERRA JULIANI UNA CUM SUI PATRONATUS IURE DICATUM DOTATUM ERECTUM/ DEIN VETUSTATE PENE COLLAPSUM/ CARMINUS PINO/ EX MAGIS.(TRO) JO(ANNE) PINO BOARDENSI ET CATHARINA SANTORO BURBANENSI CONIUGIBUS NATUS HIC DEINDE BONAVENTURAE PICO CONNUBIO ADNEXUS/ AVITAE PIETATIS AEQ. AC JURIUM HAERES SUB AUSPICIIS THEOTOCOS SINE LABE CONCEPTAE CUM/ GENTILITIO FAMILIAE SUAE PROPE IPSIUSMET ARAM SEPULCHRO PRAEVIO UNIVERSITATIS PERMISSU/ ET ELEGANTIORI FORMA HIC RESTRUENDUM CURAVIT A.D. MDCCLXXXVIII
“Questo augustissimo altarino, dedicato a San Giuliano Vescovo, insigne per la sua splendida munificenza verso i poveri, fu dedicato, dotato ed eretto insieme col diritto di proprio patronato da parte degli antenati della famiglia Pino, un tempo nella terra di Giuliano. Poi, quasi crollato per vetustà, Carmine Pino, nato qui dalle nozze del mastro Giovanni Pino di Poggiardo e Caterina Santoro di Borgagne e successivamente unito in matrimonio con Bonaventura Pico, erede dell’antica pietà e diritti, sotto gli auspici della Madre di Dio concepita senza peccato, insieme al sepolcro gentilizio della propria famiglia presso il suo stesso altare, ottenuto il permesso dell’Università, con più bella forma qui volle che si ricostruisse nell’anno del Signore 1788“.
Il dipinto, di buona fattura, datato 1790, ma di autore ignoto, rappresenta il vescovo Giuliano che intercede presso Maria Immacolata per i poveri, ritratti appena sotto il santo.
Maria guarda al cielo, con la testa inclinata, avvolta tra le nubi, accerchiata da una moltitudine di angioletti colti in diversi atteggiamenti: alcuni conversano tra di loro, di altri si vedono solo i visi quasi confusi con le rotondità delle nubi; uno è aggrappato a un drappo, un altro ancora ci volge la schiena, portando in spalla un fascio di gigli bianchi.
L’iconografia è quella classica e la Vergine con il piede destro schiaccia la testa del serpente, mentre il sinistro poggia sulla mezzaluna, in buona parte nascosta dagli angeli.
Di buona fattura anche la figura del santo, vescovo noto per la prodigalità verso i più poveri, riprodotta con dovizia di particolari: pregevoli le pieghe del mantello, la stola e i polsini finemente ricamati, la solenne posa del pastorale sorretto da un angioletto in secondo piano.
L’abilità dell’artista non cala nel ritrarre le tre donne in costume popolare dell’epoca, che occupano la parte inferiore sinistra del dipinto, giustamente proporzionate rispetto al restante.
Evidente la figura del committente, a destra, in basso, della tela, anche questo con i vestiti del tempo, che ha voluto perpetuare la propria persona, non ritenendo sufficiente il ricordo perenne offerto dall’epigrafe e dallo stemma di famiglia che domina sulla cimasa dell’altare.
Posto di tre quarti, con lo sguardo rivolto al pubblico, l’offerente posa quasi entusiasta, pur nel rigore dell’abito scuro e del candido colletto riccamente merlettato. Che volesse apparire un uomo di preghiera lo conferma il libretto di preghiere che il donatore tiene con la mano sinistra, il cui indice tra le pagine sottolinea la momentanea distrazione per offrirsi al ritrattista.
La statua era originariamente ubicata su una guglia al centro dello slargo, dove sorgeva il complesso religioso dei francescani convenutali.
Nella chiesa di San Francesco della Scarpa, infatti, sin dal Cinquecento aveva sede la Compagnia di Maria Immacolata, posta sotto Patronato Regio nel 1591 e attestata da Giulio Cesare Infantino nel 1634[1].
Colonna e statua erano già in loco nel 1787[2] e sono state attribuite da Michele Paone a Matteo Carrozzo[3].
Ulteriori studi potrebbero dare conferma all’ipotesi secondo cui l’elemento architettonico fu realizzato in occasione del regio assenso e l’approvazione delle Regole accordati alla Confraternita da Carlo III il 31 agosto 1752[4].
Allontanata nel 1809 la comunità francescana, nel 1816 l’ex convento diventò sede del Collegio San Giuseppe, affidato nel 1832 ai PP. Gesuiti. Costoro ampliarono l’immobile su disegno del gesuita Giambattista Jazzeolla; il progetto prevedeva «una bella e grande sala per la palestra alli Saggi pubblici della loro scolaresca»[5].
Per l’occasione, nel 1845 fu abbattuta la guglia e la statua fu posta sul timpano che sormontava l’accesso alla suddetta sala.
La piazzetta sino al 1904 era denominata largo dei Gesuiti, poi piazzetta degli Studii e infine dedicata a Giosuè Carducci, il cui busto, che sorge là dove si issava la guglia, è stato realizzato nel 1908 dallo scultore leccese Giovanni Guacci[6].
[1] Cfr. G. C. INFANTINO, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), p. 51. La confraternita nel 1838 fu trasferita nella chiesa dei Teatini (Cfr. A. M. MORRONE, I pii sodalizi leccesi, Galatina 1986, pp. 79-81). All’interno della chiesa, così come descrive Luigi De Simone, vi era sul soffitto un dipinto dell’Immacolata e, sull’altare dedicatole, un quadro «cogli attributi simbolici di lei, Sant’Anna, S. Gioacchino, e il Devoto» (L. G. DE SIMONE, Lecce e i suoi monumenti. La città, Lecce 1874, nuova edizione postillata a cura di N. Vacca, Lecce 1964, p. 206), opera, così come rivela Nicola Vacca di «Fra Angelo da Copertino pingebat, 1682» (Ivi, p. 494). Vacca, inoltre, attribuisce la macchina dell’altare a Francesco Antonio Zimbalo e la data 1599 (Cfr. ibidem).
[2] Cfr. M. PAONE, La Madonna nella storia dell’arte in Lecce, in M. PAONE (a cura di), “Contributi alla storia della chiesa di Lecce”, Galatina 1981, pp. 44-46.
[3] Cfr. M. PAONE, Chiese di Lecce, Galatina 1981, II ed., voll. 2, II vol. p. 238. Carrozzo era un membro della famiglia di costruttori che nel Settecento realizzò svariati monumenti disegnati da Mauro ed Emanuele Manieri e che realizzarono il suggestivo palazzotto in via del Palazzo dei Conti di Lecce.
[6] Cfr. A. FOSCARINI, Guida storico-artistica di Lecce, Lecce 1929, pp. 35-40.
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