Tiggiano e Sant’Ippazio, tra fede, virilità, pestanache e giuggiole

tela del Santo nella parrocchiale di Tiggiano (ph Giacomo Cazzato)

Santu Pati: il santo della Fede, della fermezza e della virilità.

Il capodanno contadino nel Basso Salento

di Giacomo Cazzato

Quando si parla di feste patronali spesso ci si fossilizza sui particolari commerciali e di massa, utili per trasformare la festa in una occasione lucrosa, in contrasto con quelli che furono gli originali e sani valori cristiani, cari alla pietà popolare, motivo qui in Salento di ogni festività.

Quella genuinità originale la si può ritrovare intatta nella sua completezza, ancora in terra di Leuca e in particolare a Tiggiano, piccolo paese che si può elevare a paradigma del culto dei santi orientali e delle relative tradizioni popolari.

Sono molti i santi e le festività orientali nel capo di Leuca: Santa Sofia e San Biagio a Corsano, San Giovanni Crisostomo e San Pietro a Giuliano, San Michele Arcangelo a Castrignano, Sant’Andrea a CapraricaPresicce,  Sant’Eufemia e l’Assunta (prima Dormitio) a Tricase, Santa Marina a Ruggiano e Miggiano, San Nicola a Salve e Specchia.

Ad essere venerato a Tiggiano è invece Ippazio di Gangra (Paflagonia), vescovo del IV secolo lapidato a Luziana da eretici novaziani e padre conciliare a Nicea nel 325 d.C.

Il santo dal nome altisonante, di cui poco si conosce per via delle poche notizie desumibili dal martirologio romano, è titolare dell’unica parrocchia, la sola in tutta la chiesa cattolica, e della relativa Matrice in cui si può ammirare una bellissima tela tardo-rinascimentale  ritraente il santo in età senile, datata al 1626. Ed è proprio nel secolo XVII nel passaggio del feudo di Tiggiano dai Gallone ai Serafini che nasce il culto unico di Sant’Ippazio, il cui nome verrà portato ripetutamente da più Baroni nella dinastia ormai estinta dei Serafini-Sauli.

La processione con la statua del Santo per le vie di Tiggiano (ph Giacomo Cazzato)

Ma non è una sola la particolarità del Santo taumaturgo di Gangra; a lui è anche attribuito il potere della guarigione dall’ernia inguinale[1] e quello della fertilità, soprattutto di quella maschile. Mio padre, primogenito, così come tantissimi in paese, porta il nome del Santo Patrono in virtù della propria primogenitura, offerta poi come atto estremo di devozione e di augurio. Ad ogni modo qualsiasi nato non poteva scappare dalla pratica de “li sabbiti”: ogni sabato i bambini in fasce venivano portati sulla pietra sacra dell’altare parrocchiale per ricevere la benedizione per il patrocinio del santo.

Carovane di pellegrini e devoti giungevano e giungono a Tiggiano da ogni parte del basso Salento, molti dal casaranese, dall’idruntino e dal castrense,[2] dove ancora oggi i segni della devozione sono visibili nelle varie matrici.

La festività può essere considerata per le popolazioni del sud Salento una sorta di capodanno contadino, da contrapporre geograficamente alla festività di Sant’Antonio Abate a Novoli.

Oltre alla tradizionale fiera degli animali e alla vendita delle pestanàche e delle giuggiole, celebre è in tal senso il motto dialettale: “Pasca e Bifanìa tutte le feste porta via. Rispunne Santi Pati: e mie a ci me llassati? Se vota la Cannalora: ci su ieu e lu Biasi ‘ncora”[3]. Secondo questo detto a dare continuità diversa alle festività natalizie sarebbe Sant’Ippazio,  cui succederà di lì a breve la Candelora (Specchia) e San Biagio (Corsano).

l’altissimo stendardo viene portato in processione verso la chiesa dell’Assunta a Tiggiano (ph Giacomo Cazzato)

Le messe e l’afflusso di pellegrini si protraggono dall’alba fino alla sera, ma più di tutto è la processione ad essere il culmine della festività: dopo incessabili trattative l’asta dei portantini (che avviene ancora con il vecchio metodo del bastone) si conclude e ad aprire la processione nel suono delle campane a festa è lo stendardo del Santo Patrono, alto ben otto metri ed elevato con non poca dimostrazione di forza, dopo una lunga rincorsa su rullìo di tamburi, dal sagrato della matrice fino alla chiesa dell’Assunta. A seguire lo stendardo del Patrono è quello confraternale, alto parimenti otto metri, cui segue ancora il simulacro settecentesco di scuola napoletana. La benedizione con il reliquiario del santo conclude il tutto in un tripudio di popolo.

LA PESTANACA E LE GIUGGIOLE

Un discorso a parte meriterebbe invece la coltivazione della pestanàca, variante della daucus carota, conosciuta come pestanàca di Sant’Ippazio o carota giallo-viola di Tiggiano, prodotto di nicchia i cui semi vengono gelosamente custoditi dai nostri contadini e che viene venduto durante la festività.

Il frutto, violaceo e dolce, ricco di carotenoidi, è legato da forti fondamenti teologici alla figura del santo ed è simpaticamente ricondotto dal popolo, insieme alle giuggiole, proprio per la loro forma, all’apparato genitale maschile di cui il santo è Patrono.

La pestanàca, presente nell’iconografia bizantina soprattutto nelle cene angeliche o quelle in cui figura il Cristo con gli apostoli, è proprio il simbolo della fede nella natura umana e divina dell’Unigenito: l’inconsistente fragilità di un uomo nella cui profondità si scopre il frutto dolce e divino radicato fortemente nella terra. La tesi ariana combattuta nel Concilio di Nicea si contrappone dunque alla figura del padre conciliare Ippazio e all’immagine della pestanàca, la cui origine etimologica “pistis” indica, nonostante l’apparente espressione dialettale e contadina, il più grande insegnamento di questo santo: la tenacia del martirio per difendere la fede[4], una fede che a Tiggiano e nel Capo di Leuca trova espressione salda nella pietà popolare.


[1]    “HYPATIO SOLVANT VOTUM QVOS HAERNIA TORQVET TAMMERTLA ALTA SVA – 1621” Così recita il fastigio dell’altare a lui dedicato.

[2]    Muro, Scorrano, Andrano, Casarano, Ruffano, Taurisano, sono comuni in cui oltre alla presenza del nome nella popolazione, si conservano opere pittoriche e scultoree dedicate al santo.

[3]    Sant’Ippazio è il 19 Gennaio,La Candelora il 2 e San Biagio il 3 di Febbraio.

[4]    La difesa della  fede è raffigurata nel simulacro dal dragone che cerca di rapire “il tesoro preziosissimo della grazia divina” (dalle preghiere del sacerdote Andrea Caloro).

La statua del santo nella parrocchiale di Tiggiano, restaurata di recente da Andrea Erroi

Sant’Ippazio a Cavallino (Lecce)

di Valentina Antonucci

A proposito di s. Ippazio, vescovo orientale dalla controversa agiografia e decisamente poco presente nella tradizione iconografica cattolica, ma dedicatario di un culto antropologicamente interessantissimo in provincia di Lecce, nel paese di Tiggiano (si vedano gli scritti di Andrea Erroi e di Giacomo Cazzato in Spigolature Salentine), mi sento in dovere di aggiungere una notizia, che forse potrà interessare qualche storico dell’arte o qualche studioso della religiosità locale.

Nella chiesa matrice di Cavallino (Le), dedicata a Santa Maria Assunta come la gran parte delle chiese matrici della diocesi di Lecce, è presente un altare seicentesco sormontato da un dipinto a dir poco singolare, per stile e per iconografia.

Cavallino, chiesa matrice, altare dell’Immacola (ph Valentina Antonucci)

Un’epigrafe sulla sommità dell’altare attesta che esso fu fatto costruire nel 1687 dal sacerdote Domenico De Pandis di Cavallino[1]. Il dipinto potrebbe essere coevo o di poco successivo.

Cavallino, chiesa matrice, altare dell’Immacola, tela dell’Immcolata con i santi Michele arcangelo e Ippazio (ph Valentina Antonucci)

L’iconografia è complessa, anche se resa in modo estremamente paratattico, senza piani di profondità e senza dinamismo: in alto, nella zona più luminosa del dipinto, appare la Vergine Immacolata, circondata da Angeli con alcuni simboli lauretani, stante su una falce di luna su cui si avvinghia il Serpente; in basso, dove i toni oscuri predominano, vi è san Michele Arcangelo che ha sottomesso un mostruoso Satana con i suoi seguaci e che, secondo la tradizione bizantina, sorregge la bilancia in cui vengono pesate due animule (di peccatore demoniaco e di innocente in preghiera).

Sul margine inferiore destro, quasi in esergo, si inserisce una statica icona di s. Ippazio Vescovo in paramenti episcopali e accompagnato dal titulus S. IPATIO. V. M. e da un’ulteriore sigla il cui significato resta da sciogliere: S. P. M.[2]

L’apparentemente bizzarra associazione dell’Assunta con san Michele Arcangelo e il santo vescovo orientale è resa comprensibile da un elemento iconografico, e dunque anche simbolico, che accomuna i tre personaggi sacri: il dragone. Esso rappresenta esplicitamente il Demonio nella tradizione iconografica dell’Immacolata, che si richiama alla fonte biblica dell’Apocalisse di Giovanni, così come, ovviamente, nella raffigurazione dell’arcangelo Michele che abbatte Satana, risalente alla medesima fonte. Per quanto riguarda invece s. Ippazio, è noto che esiste una leggenda orientale (inserita nell’agiografia dei Sinassari greci) secondo la quale il vescovo di Gangra fu protagonista di una misteriosa lotta contro un drago che impediva l’accesso al tesoro dell’imperatore Costanzo II, il figlio di Costantino il Grande che regnò nella stessa epoca in cui viveva Ippazio[3]. Che l’episodio fosse ben noto e centrale nell’agiografia del santo è testimoniato dalla stessa icona lignea conservata nella Matrice di Tiggiano, dove Ippazio è raffigurato in abiti vescovili e nell’atto di schiacciare il dragone. Se nel dipinto tale elemento non compare è, dunque, tanto per motivi di composizione dello spazio, quanto perché qualunque fedele era in grado, a quel tempo, di integrare mentalmente l’immagine e di collegarla, per il legame iconografico-simbolico, a quelle dell’Immacolata e di san Michele: il santo vescovo è strumento della Chiesa Cattolica per schiacciare e sottomettere il Male, da qualunque cosa esso sia incarnato, la malattia come l’eresia (non è superfluo ricordare che ancora alla fine del Seicento nei territori salentini era in pieno svolgimento una vigorosa propaganda antiprotestante).

Il dipinto è molto interessante anche dal punto di vista stilistico: esso condivide sotto questo profilo alcune caratteristiche di ductus con la tela raffigurante S. Giovanni Elemosiniere e la famiglia Castromediano, collocato sull’altare adiacente e databile ai primi anni del XVIII sec.

Il linguaggio pittorico secco e bizzarro di questi due dipinti li caratterizza e isola nel panorama della pittura chiesastica diocesana. Pur tenendo conto che i recenti restauri delle due tele potrebbero non aver rimosso interamente parziali ridipinture deturpanti (soprattutto nella tela con l’Immacolata e sant’Ippazio), non si può far a meno di notare l’assoluta indifferenza manifestata dall’autore per i parametri di bellezza più correnti e diffusi nella pittura italiana del XVII secolo.  Per il pittore, o più probabilmente per i pittori (vicini, ma non identificabili) che realizzarono i due dipinti si potrebbe forse ipotizzare un’origine e una formazione artistica nell’area dell’Europa orientale, greco-balcanica in particolare.


[1] Garrisi A., Cavallino, i luoghi della memoria, con documentazione fotografica di P. Garrisi, Lecce 1998, p.125.

[2] Mi viene in mente che la sigla si potrebbe sciogliere in Santu Pati Martire, ma resterebbe da capire perché sia stato aggiunto il titulus per esteso.

[3] http://www.santiebeati.it/dettaglio/92358

19 gennaio. Tiggiano festeggia il patrono Sant’Ippazio, protettore della fertilità maschile

di Andrea Erroi

Sant’Ippazio nacque in Cilicia e fu vescovo di Gangra (città della Paflagonia, regione storica dell’Asia Minore settentrionale) ai tempi dell’Imperatore Costantino.

Partecipò al Primo Concilio Ecumenico di Nicea (325). Fu martire a Luziana, durante il viaggio di ritorno da Costantinopoli a Gangra, in seguito ad un’imboscata da parte di alcuni eretici seguaci di Novaziano.
Il Santo è molto venerato anche in Russia ed in particolare nella città di Kostroma, dove nel 1330 venne costruito il monastero di Ipatiev.
Il culto per S. Ippazio fu molto diffuso nella Chiesa bizantina e giunse nell’Italia meridionale probabilmente al seguito dei monaci greci. Patrono di Tiggiano, piccolo comune in provincia di Lecce, tradizionalmente è  ritenuto protettore della virilità maschile, benefico per l’ernia inguinale, in quanto ne fu egli stesso a lungo sofferente per un tremendo calcio ricevuto nel basso ventre durante una discussione con gli eretici ariani.

Viene festeggiato, con solenni celebrazioni, il 19 gennaio. Nell’occasione si svolge durante la mattinata la tradizionale Fiera di Sant’Ippazio e nel pomeriggio la processione con la statua del Santo per le vie del paese.

A dare il via alla processione è il rullo di tamburi che segnala l’uscita dalla chiesa matrice con rincorsa dello “stannardhu”, palo in legno di 7 metri con palla di ghisa in cima.

La riuscita dell’innalzamento del pesante e altissimo stannardhu è segno di garantita fertilità e quasi una sfida al protettore dall’ernia inguinale. I pargoli di sesso maschile venivano portati nella omonima chiesa per chiedere al

Per un profilo di Antonio Duma. Scultore galatinese (1916-1986)

 

di Lorenzo Madaro

Recenti pubblicazioni e mostre di ricerca hanno ribadito l’importanza della scultura all’interno delle vicende artistiche pugliesi a cavallo tra il XIX e il XX secolo, facendo emergere figure note e meno note da un vasto panorama non sufficientemente approfondito, almeno rispetto alla coeva pittura. La mostra Gaetano Stella e la scultura da camera in Puglia, ordinata nel 2007 da Clara Gelao nelle sale della Pinacoteca Provinciale “C. Giaquinto” di Bari, è tra gli eventi espositivi che negli ultimi anni hanno avuto il grande merito di far conoscere al pubblico personalità di ampio rilievo ma al contempo – tranne celebri nomi come Filippo Cifariello, Antonio Bortone, Gaetano Martinez – quasi misconosciute, se non per il ristretto mondo degli studi specialistici. Si pensi al tranese Antonio Bassi o, per fare due nomi legati alla Terra d’Otranto, al galatinese Vittorio Vogna e al neretino Michele Gaballo. Non è un caso che alcune tra le opere esposte a Bari tra 2007 e 2008 provenivano dalla prestigiosa collezione di scultura del Museo Civico “Pietro Cavoti” – come nel caso del già citato Vogna o di Nikkio Nicolini, a cui sono state dedicate due schede a firma di Michele Afferri – che vanta difatti opere di significativi autori del panorama territoriale e di respiro, in alcuni casi, nazionale; si pensi, in tal senso, alle opere di Raffaele Giurgola, Eugenio Maccagnani e Pietro Baffa.

Tra le altre opere conservate in questa sezione del museo galatinese – che meriterebbe apparati didattici adeguati, finalizzati a una maggiore comprensione delle opere ivi esposte e a delucidazioni sulle biografie dei loro autori – figura una maternità di Antonio Duma.

Duma nasce nel 1916 a Galatina e, così come avevano già fatto i suoi concittadini Toma, Baffa e Martinez, e come farà il coetaneo Vogna, decide di lasciare il Salento per trasferirsi altrove alla ricerca di stimoli culturali nuovi. Intorno alla metà degli anni Trenta si sposta così a Napoli per frequentare i corsi del Regio Istituto d’Arte, dove nel maggio 1941 riceve il “diploma di abilitazione all’insegnamento nelle scuole ed istituti d’arte del Regno per la Scultura Decorativa”.

Agli anni di studio risalgono alcune opere note solo tramite riproduzioni fotografiche d’epoca, conservate in un archivio privato, che testimoniano prove e indagini intorno alla scultura cinquecentesca, come si ravvisa in una riproduzione dello Schiavo di Michelangelo, datata 1936, e in una testa virile eseguita presumibilmente intorno al 1939-1940, poiché oltre alla firma il giovane ha inciso anche l’anno del corso: il quinto.

Nello stesso torno di anni Duma esegue tre formelle in terracotta con altrettante scene tratte dalla Via Crucis – mediante cui avvia la sua riflessione sull’iconografia cristiana, che poi tratterà ampiamente nella produzione degli anni sessanta e settanta – e una Madre Romana, che è il titolo originale dell’opera conservata nel civico museo galatinese. Cosa emerge da quest’opera? Anzitutto un’attenzione nei confronti della monumentalità, oltre che della semplificazione delle anatomie e delle forme spaziali. Sono i ‘canoni’ propugnati dal regime fascista nel campo delle arti visive, un gusto ampiamente perseguito dagli artisti dell’epoca con maggiore o minore convinzione ideologica. Duma in questi anni si è adeguato a questo flusso, per lo meno dal punto di vista stilistico e iconografico, e la Madre Romana rappresenta l’emblema di questa fase della sua ricerca; la grande figura femminile, che con il braccio sinistro regge con fierezza un bambino e con quello destro alcune spighe di grano, altro non simboleggia che due essenziali valori della cultura italica tanto propugnati dal regime: la famiglia e il lavoro, quello agricolo naturalmente. E quest’ultimo tema ritorna poi senza mezzi termini in un trofeo eseguito in questi stessi anni di formazione – sul retro della fotografia di quest’opera, così come per le altre citate, compare il timbro della presidenza del Regio Istituto d’Arte di Napoli – in cui oltre a due grandi spighe si riscontra un grappolo d’uva e una foglia di vite su cui troneggia un’aquila, esplicito rimando all’iconografia fascista, utilizzato dal regime per sottolineare retoricamente la propria magniloquenza. I temi del lavoro ritornano nell’altorilievo raffigurante due donne e un uomo con il cestino in mano, in cui l’attenzione dell’artista si è soffermata soprattutto sulla resa plastica delle anatomie stilizzate, mentre i volti rimangono poco caratterizzati dal punto di vista fisionomico, tra le finalità di molti artisti del tempo vi è, d’altronde, la rappresentazione di valori collettivi e universali. L’autore si sofferma poi a descrivere i piedi scalzi delle due figure femminili e i grossi scarponi indossati dall’uomo, il quale non rinuncia ad accarezzare il capo di un bambino che tenta energicamente di abbracciarlo. Le due grandi ceste rammentano il lavoro nei campi, ma in un altro rilievo Duma si sofferma sul lavoro nei cantieri edili. La scena, che a differenza delle precedenti è piuttosto movimentata, è dominata da sei uomini impegnati nell’esecuzione di una facciata di un edificio, di cui s’intravede un grande arco e altri particolari evocanti un’architettura razionalista, anch’essa ispirata allo stile dominante. Tra gli altri lavori dell’epoca vi è poi una coppia ritratta in piedi: l’uomo abbraccia la donna, sulla cui spalla poggia il viso dallo sguardo malinconico, la quale in un atteggiamento di rigida fierezza, sottolineata dal lungo abito che rileva le composte anatomie, regge in mano un pezzo di pane. Lo sguardo di Duma si è soffermato sulla condizione umana a lui contemporanea; i temi dell’umanità sofferente ma al contempo della speranza verso il futuro – espressa dallo sguardo fiducioso della donna – ritorneranno anche nelle esperienze plastiche dei decenni successivi, ma il vigore plastico di queste prime realizzazioni lo rendono pienamente al passo con i tempi, inserito, almeno sotto il profilo iconografico, in un dibattito vivace e complesso, quello della scultura degli anni trenta e quaranta, che in Italia ha registrato numerosi e prestigiosi interpreti. Ma d’altronde queste rimangono esperienze legate agli anni di studio a Napoli che presupponevano l’approvazione della direzione del Regio Istituto Artistico, pertanto non potevano affatto distaccarsi dalla cultura figurativa dominante, perseguita per forza di cose anche nelle scuole d’arte.

La stessa compostezza formale, il medesimo rigore plastico – sono d’altronde i valori formali tanto perseguiti e propugnati anche dal punto di vista teorico dallo scultore Arturo Martini o dal pittore Mario Sironi, solo per fare due dei nomi più celebri del panorama artistico italiano di questo periodo storico – sono presenti in un’opera che raffigura un giovane uomo seduto con le gambe accavallate e intento probabilmente a suonare uno strumento musicale, come sembrerebbe suggerire la posizione delle mani. Un profilo essenziale, una sintesi tra plasticismo e arcaismo, ritorna ancora in una statua offerta dagli internati militari italiani al Comune di Därstetten eseguita dal Duma tra il 1944 e il 1945, come conferma la didascalia bilingue di una cartolina edita per l’occasione. Il gruppo scultoreo – probabilmente andato disperso dopo la caduta del Fascismo – è forse il lavoro più retorico della produzione nota dell’artista galatinese, ma non bisogna dimenticare che si tratta di una commissione pubblica.

L’unica opera superstite di questi anni è la scultura conservata al Museo Cavoti, probabilmente donata dallo stesso artista sul finire del decennio, quando la collezione del museo voluto dal segretario della locale sezione del partito fascista, Francesco Bardoscia, s’incrementò grazie alla generosità di alcuni artisti e donatori.

Ma cosa è accaduto dopo la fine degli studi? In seguito alla seconda guerra mondiale, Duma ha fatto ritorno a Galatina avviando la sua attività di docente di disegno presso le scuole medie inferiori e tralasciando, per circa un ventennio, l’attività artistica. Il suo ruolo all’interno delle vicende artistiche del territorio rimane decisamente appartato; non partecipa alle rassegne espositive collettive ordinate in quel torno di anni in Puglia, non riscuote interesse sulla stampa, fatta eccezione per alcuni articoli editi su quotidiani del territorio, e anche nelle antologie dedicate alle vicende artistiche del territorio il suo nome risulta assente, probabilmente per il suo riserbo e, soprattutto, per l’estraneità della sua ricerca dalle coeve indagini artistiche. Duma, difatti, evita qualsiasi forma di sperimentazione linguistica, qualsiasi contaminazione legata alle ricerche visive a lui contemporanee per dedicarsi a un percorso fuori dalla storia ma al contempo – e questo non deve apparire un paradosso – universale, non fosse altro che per la scelta delle tematiche: iconografia cristiana, mitologia, musica e condizione umana. Va così in scena un’umanità afflitta da una sottile malinconia, percepibile negli sguardi assorti, nelle camminate stanche, nella gestualità delle sottili mani e delle braccia affusolate della gente ritratta, elementi questi già ravvisati da Antonio Antonaci che nel giugno 1967 ha affidato le sue riflessioni sull’opera di Duma a un breve articolo edito su “Il Titano” di Galatina.

Un bambino dai calzoni corti s’incammina, un altro scruta il futuro con uno sguardo speranzoso nella sua essenziale divisa scolastica, due fanciulle si avvicinano a una mendicante e gli offrono una ciotola, altre due soccorrono un disabile; un anziano si rivolge affettuosamente a una bambina e un vecchio fuma in solitudine la sua pipa. Gli affetti, il lavoro, la carità, la solitudine. In queste opere si avverte, a differenza dei lavori giovanili noti, un coinvolgimento emotivo da parte dell’autore, il quale nel corso degli anni ha collezionato un vero e proprio campionario di sentimenti e tipologie umane. Dai diseredati che vagano assorti con le proprie intime riflessioni, al chirurgo che impugna il bisturi prima di un’operazione, allo storpio che cammina con l’ausilio di una stampella. E poi, come accennato, la mitologia, come si ravvisa in una Diana cacciatrice e – come riportato in un articolo apparso il 6 novembre 1970 sulle colonne de “La Tribuna del Salento” in occasione di una mostra personale allestita presso la Società Operaia di Mutuo Soccorso di Lecce – con le statue raffiguranti Apollo e Dafne, Ratto di Proserpina e Amore e Psiche.

Tra i cicli ricorrenti nella produzione plastica di Duma in questo torno di anni vi è poi la musica, ballerine e, soprattutto, suonatrici, modellate con un flusso materico mai azzardato, ma non per questo rigido; ed ancora opere legate all’iconografia religiosa – si pensi a un San Francesco o a un profilo della Madonna –, e ancora pescatori, zampognari, circensi e ritratti di giovani modelle in fiore, mentre nella coeva produzione dei bassorilievi – se ne conservano alcuni di grandi dimensioni in collezione privata – si lega soprattutto alla rappresentazione del mondo agricolo e del paesaggio, dove, ancora una volta, “ogni pezzo è un inno alla vita, alla natura alla realtà, è un invito alla speranza, alla umanità eterna delle cose”, come si legge sulle pagine dell’Almanacco Salentino (1970-1972) curato da Mario Congedo e che costituisce l’ultimo contributo noto sull’artista galatinese che morirà nel 1986.

 

Pubblicato su Il filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per averne concesso la riedizione

Nardò. Nello scrigno di Sant’Antonio Abate

di Massimo Negro

Era da tempo che meditavo di andarci, ma non c’era mai stata occasione e non ne conoscevo l’ubicazione. Mi era capitato di leggere qualcosa a riguardo, gironzolando tra i miei libri di storia ed arte sulla nostra terra, ma soprattutto ero rimasto affascinato dalla foto di un affresco di un maestoso santo-cavaliere.

Devo dire grazie all’amico Nestore, che informandomi che da li a pochi giorni in quel luogo si sarebbe tenuta la tradizionale focara di S. Antonio Abate, se alla fine mi sono messo in macchina, ci sono arrivato e ho avuto modo di visitare uno dei più bei patrimoni storico-artistici purtroppo non valorizzati del nostro Salento.

La chiesa-cripta di S. Antonio Abate nelle campagne di Nardò, detta anche S. Antonio “di fuori”, per distinguerla dal convento di S. Antonio presente all’interno della città.

Ci si arriva agevolmente se si conosce l’ubicazione visto che, come nelle nostre “migliori” tradizioni, non vi sono indicazioni. Dopo aver lasciato la strada che da Nardò conduce verso la zona industriale e la statale per Lecce si percorre un breve tratto di strada campestre, sino ad incrociare sulla sinistra l’antica masseria Castelli-Arene con la sua bella e turrita torre colombaia.

Dopo qualche decina di metri, accanto ad una casa di campagna si intravede su un pianoro una croce ben piantata in terra.

Nessun altro segno della presenza della cripta. Solo avvicinandosi al luogo, ad un certo punto compare un ampio scavo. E’ l’ingresso della cripta, nelle antiche fonti denominata ‘Santus Antonius de la Gructa’.

La chiesa è scavata nel blocco tufaceo e si accede senza alcun impedimento. Gli antichi monaci hanno infatti scavato dei gradoni che portano verso l’ingresso della cripta, quasi a formare una sorta di vestibolo a cielo aperto che scende per oltre due metri al di sotto del piano della campagna.

Entrare nella cripta è come entrare in grande scrigno che nasconde un tesoro di cui si ignora l’esistenza. Si rimane estasiati dalla bellezza del ciclo pittorico presente su tutte le pareti della cripta. Il tempo e l’incuria hanno posato la loro pesante mano ma la sensazione di incredulità dinanzi a quello che è possibile ammirare, anche ai nostri giorni, è reale e intensa.
Soprattutto è forte il contrasto tra la bellezza della cripta e la brulla campagna che la circonda.
Nei pressi sorge ora una casa, ma immaginiamo come potesse essere lo stato dei luoghi secoli addietro. Silenzio e solo silenzio attorno. E la mano di un monaco che creava il capolavoro.

Il pavimento è regolare ed è in terra battuta. La cripta ha un impianto rettangolare senza alcuna significativa irregolarità nello scavo. Anche il soffitto è tendenzialmente piano, anche se basso.

L’asse liturgico del sito è orientato in direzione Est-Ovest, con altare addossato alla parete orientale. Un gradino-sedile, in parte interrato, corre ai lati dell’altare, lungo la parete a sud e parte di quella opposta. L’ingresso è invece orientato a Nord.

All’interno, muovendosi da sinistra è possibile ammirare l’Annunciazione e ai suoi lati due Santi. Il primo, si ritiene San Francesco, il secondo Sant’Antonio Abate.

La parete successiva è suddivisa in tre riquadri, due laterali e uno centrale posto sopra l’altare. Nel primo riquadro, la Vergine in trono con Bambino. L’affresco centrale è la Crocifissione, anche se ormai poco visibile. Il terzo riquadro è occupato dalla figura di un Cristo benedicente alla greca. Soffermatevi sulla bellezza del viso e dei lineamenti che l’autore ha dato alla figura.

La parete successiva, quella più lunga che si para dinanzi entrando nella cripta, è suddivisa in cinque riquadri. San Pietro, un trittico di Santi anonimi, un Arcangelo e, nuovamente un Santo anonimo. Purtroppo lo stato degli affreschi non consente di risalire all’identità dei Santi a cui gli affreschi sono dedicati. Nell’ultimo riquadro della parete è presente l’affresco di San Nicola.

Nella parete successiva il bellissimo affresco dedicato a due figure di santi a cavallo, San Giorgio e San Demetrio.

Nell’ultima parete, a ridosso dell’ingresso, si trova la figura di San Giovanni Battista.

Il ciclo pittorico si può far risalire tra il XIII inizio e il XIV secolo. Alcuni elementi degli affreschi si ritiene siano stati aggiunti successivamente, quali ad esempio i motivi floreali. Considerando che le iscrizioni visibili sugli affreschi sono in latino, è lecito pensare che tale luogo fosse legata alla liturgia di rito latina e non greco.

E’ molto probabilmente l’unica cripta del medio-basso Salento in cui sono completamente assenti iscrizioni in lingua greca. Ai benedettini, a cui fu donato nel 1080 l’antico monastero greco di santa Maria di Neretum, si deve molto probabilmente la costruzione della cripta come segno, ancora ai tempi embrionale, di questo progressivo passaggio dalla liturgia greca alla liturgia latina. Infatti, nella zona sono diversi i siti che si possono far risalire alla tradizione greco–basiliana. Tra questi San Giovanni di Collemeto, S. Elia e la stessa prima citata Santa Maria de Neretum e diversi altri siti di preghiera.

L’abbandono, l’incuria e il vandalismo hanno già causato nel corso dei secoli molti danni. Il rischio di perdere questo splendido gioiello artistico, testimonianza del nostro passato e della nostra storia, rappresenta purtroppo una concreta realtà e un futuro, ahimè, imminente se le amministrazioni competenti e la proprietà del sito non provvederanno in tempi  brevi alla sua salvaguardia e valorizzazione.
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Per una visita virtuale al sito e ai suoi affreschi, nel video sono state montate le foto effettuate durante le mie visite alla cripta.

http://www.youtube.com/watch?v=DqJq5MDd1KY

http://massimonegro.wordpress.com/2011/12/05/nardo-nello-scrigno-di-santantonio-abate/

Scultura dell’Otto e Novecento nel museo Cavoti di Galatina

 

di Lorenzo Madaro

L’interesse per la scultura pugliese dei secoli XIX e XX da parte del mondo degli studi storico-artistici ha registrato negli ultimi anni un netto aumento; non sono mancate, difatti, importanti iniziative editoriali ed espositive. Nell’orbita di questo interesse vanno inquadrati questi appunti sulla collezione di scultura conservata nel Museo Civico “P. Cavoti” di Galatina, di cui ringrazio il personale, in particolare Silvia Cipolla, per la disponibilità accordatami durante i miei sopralluoghi.

Situata in un’ala dell’ex Convento dei P.P. Domenicani di Galatina – dal 2000 sede del Museo civico, dopo il trasferimento delle collezioni dalla vecchia sede di Palazzo Orsini inaugurata negli anni trenta ed attiva solo per pochi anni – la sezione scultura del XX sec. comprende una consistente e disomogenea raccolta di opere di alcuni artisti nati o attivi sul territorio salentino tra otto e novecento ed è da annoverare tra le raccolte più significative del territorio pugliese. È senz’altro la donazione Gaetano Martinez il nucleo più consistente con poco più di trenta opere, alcune delle quelli tra le più interessanti del suo percorso di ricerca, che sono state donate dallo stesso artista nell’agosto 1928 (Specchia, 2003). Così come confermano alcune iscrizioni poste sul retro delle sculture, la donazione di alcune opere del maestro si è certamente protratta anche in anni più recenti, come nel caso di un Nudo femminile del 1947 donata da Giovanni Giunta di Roma nel 1988. Nato a Galatina nel 1882, dopo una prima formazione avvenuta nella locale Scuola di Arti e Mestieri diretta da Giuseppe De Cupertinis, si trasferisce a Roma nel 1911, ma solo per un breve periodo. Al 1922 è datato il suo definito trasferimento nella capitale; nello stesso anno esegue il Caino, tra le sculture più affascinanti della sua produzione, in cui si avverte un forte senso di tragicità espresso tramite suggestioni rodiniane. A Roma non manca di avviare meditazioni sulla sintassi quattrocentesca, come attesta il gesso intitolato Adolescente (1926) al Museo Cavoti, ma gli interessi dello scultore sono molteplici. Numerose le opere degli anni trenta esplicitamente legate a quel senso arcaicizzante e monumentale tipico dell’indagine di un Arturo Martini, anche se in questo stesso decennio non rinuncia a un divertissement slegato apparentemente dalla sua ricerca, considerato che il Ritratto caricaturale conservato nella raccolta è datato 1935. Il decennio successivo, come avverte Federica Riezzo – curatrice, assieme a Giancarlo Gentilini, di una mostra antologica allestita nel 1999 a Palazzo Adorno di Lecce – si apre con la partecipazione alla Biennale di Venezia (1942) con una sala personale. Un riconoscimento al valore di un artista che in questi anni avvia “una singolare produzione di ‘teatrini’ in terracotta” (Gentilini, 1999) interrotta bruscamente dalla morte avvenuta nel 1951.

Un gesso di Pietro Siciliani, filosofo e pedagogista nato a Galatina nel 1832, ribadisce, se mai ce ne fosse bisogno, il legame profondo e autentico con la storia della città in cui è ospitata l’istituzione museale. L’autore dell’opera è Eugenio Maccagnani; nato a Lecce nel 1852 si forma inizialmente presso lo zio Antonio, celebre cartapestaio, per completare poi gli studi all’Accademia di San Luca di Roma, città in cui ha un ruolo preminente nella grande impresa del Vittoriano, inaugurato nel 1911. Autore di un nucleo alquanto consistente di sculture pubbliche e da camera, non troncherà mai i rapporti con la sua città natale; nella Villa Garibaldi, tra gli altri monumenti, si conserva proprio un Busto di Siciliani datato 1891. Muore a Roma nel 1930.

Giacomo Maselli, quasi ignorato dalle fonti pugliesi fino a tempi recenti, è autore di un ritratto in bronzo del Siciliani che restituisce un aspetto più intimista del filosofo, a differenza dei tratti fieri e vigorosi espressi dal Maccagnani. Nato a Cutrofiano nel 1883, nel 1904 si trasferisce a Milano, dove opera attivamente fino al 1958, anno della sua scomparsa. L’opera della raccolta galatinese è un doveroso omaggio a un cittadino illustre a cui è dedicata, tra l’altro, la Biblioteca Comunale ubicata nel medesimo stabile in cui è ospitato il museo.

La presenza delle due opere Gruppo antropomorfo e Vendetta, entrambe databili intorno al 1940, firmate da Pietro Baffa, esorta a qualche accenno, per lo meno biografico, sull’artista nato nel 1885 a Galatina. Si forma presso il locale Regio Istituto Artistico “G. Toma” e, come il compaesano Martinez, nel 1911 emigra a Roma. Frequenta il Museo Artistico Industriale, il neonato giardino zoologico – sin da questi anni si caratterizza come artista animalista – e lavora presso lo Stabilimento di mobili Loreti, dove perfeziona le sue competenze di ebanista, già parzialmente acquisite nel laboratorio paterno. Nel 1914 si sposta a Napoli; insegna presso il locale Istituto Artistico e respira per sei anni la cultura artistica partenopea. A Lecce diviene uno dei più validi maestri del Regio Istituto Artistico fondato dal Pellegrino. In Gruppo antropomorfo le masse dei due animali si fondono fino a diventare un tutt’uno, invadono lo spazio con uno spirito fantasioso che caratterizza ad esempio Tigre e Orso (Galatina, coll. privata), due terrecotte invetriate degli anni venti, assimilabili a un gusto liberty. Echi gemitiani, ricercatezza e raffinatezza esecutiva caratterizzano il satiro che con veemenza sguscia una lumaca in Vendetta, un gesso patinato, la cui replica in bronzo è conservata in una collezione privata leccese.

Rimorso, un gesso patinato del 1935 firmato dallo scultore neretino Michele Gaballo, è un’opera che testimonia l’operatività di un “autore di un numero assai considerevole di sculture in marmo, gesso patinato, bronzo, di vario genere” (C. Gelao, 2008), ma al contempo non ancora studiato approfonditamente. L’artista, nato nel 1896, dopo una prima formazione a Lecce presso la scuola di disegno annessa alla Società Operaia, si trasferisce a Napoli e, dopo poco, a Roma, dove collabora alla realizzazione della statua di Benedetto XV nelle grotte Vaticane (1923). Dopo il suo rientro a Nardò si dedica all’insegnamento; muore nel 1951. L’opera conservata nel museo galatinese ben s’inserisce nella sua ricerca plastica legata a certe istanze novecentiste che si ravvisano in particolar modo nella semplificazione dei tratti del volto.

Appartiene allo scultore leccese Raffaele Giurgola il ritratto di Carlo Delcroix che afferma quel forte senso di plasticismo che connota la sua produzione plastica. Nato nel 1898 si forma alla scuola di disegno della Società Operaia, per proseguire poi gli studi a Napoli, dove è allievo di Achille D’Orsi. Celebre per aver eseguito numerosi Monumenti ai Caduti nel Salento, è stato per quasi un trentennio docente presso l’Istituto Pellegrino di Lecce, città in cui è morto nel 1970.

Vittorio Vogna, artista nato a Galatina nel 1916, si forma nel Regio Istituto Artistico Industriale di Lecce, dove entrerà in contatto, tra gli altri, con lo scultore galatinese Pietro Baffa, docente di scultura con cui intratterrà rapporti amicali anche durante il suo trasferimento a Napoli, dove studia presso la Facoltà di Architettura. Ritorna poi nel Salento dove insegna nel suddetto istituto artistico e avvia la sua attività di architetto. Muore nella sua città natale nel 1995. Poche sono le opere note e si attende pertanto una prima analisi del suo percorso creativo che andrà eventualmente confrontato con i documenti conservati presso eredi e conoscenti. Il Museo custodisce, altresì, una Testa di fanciulla firmata da Nikkio Nicolini, autore misconosciuto che, secondo quanto affermato da Michele Afferri (in C. Gelao, 2008), ha eseguito quest’opera secondo i dettami di un gusto legato al recupero dei valori formali arcaici. Altri ritratti di uomini illustri cui Galatina ha dato i natali si riscontrano, così come per il citato ritratto di Siciliani del Maccagnani, in un corridoio interno al museo, dove sono collocati, altresì, dei ritratti di Baldassarre Papadia, Macantonio Zimàra, Alessandro Tommaso Arcudi e Pietro Colonna firmati, rispettivamente, da M. D’Acquarica, P. Bardoscia e C. Mandorino. Attenzione ai temi animalier si riscontrano poi in due pannelli di I. Montini, mentre è dello scultore A. Trono una Testa virile datata 1927 e difatti conforme a taluni orientamenti stilistici dell’epoca, come l’interessante maternità a firma di A. Duma, altro autore che meriterebbe un approfondimento. Restano poi alcune opere anonime, tra cui un Bozzetto di monumento, tutte da studiare e contestualizzare, anzitutto cronologicamente.

Bibliografia essenziale consultata:

Scultura italiana del Novecento. Opere tendenze protagonisti, a cura di C. PIROVANO, Milano 1993. Gaetano Martinez. Scultore, a cura di G. GENTILINI, F. RIEZZO, Matera, 1999. A. FOSCARINI, Arte e Artisti di Terra d’Otranto tra medioevo ed età moderna, a cura P. A. VETRUGNO, Lecce 2000. A. PANZETTA, Nuovo Dizionario degli scultori italiani dell’ottocento e del primo novecento, Torino 2003. Museo Comunale Pietro Cavoti di Galatina, a cura di D. SPECCHIA, Galatina, 2003. M. AFFERRI, Cento anni di scultura salentina, in Arte e artisti in Terra d’Otranto, a cura di A. CASSIANO, M. AFFERRI, Matera 2007. Gaetano Stella e la scultura da camera in Puglia, a cura di C. GELAO, Venezia, 2008.M. GUASTELLA, Scultori in Terra d’Otranto delle generazioni del secondo Ottocento, in Raffaele e Giuseppe Giurgola, “tradizione salentinità ironia”, a cura di L. PALMIERI, Galatina s.d. [ma 2010].

La Fòcara di Sant’Antonio: diamo un po’ di numeri!

di Mimmo Ciccarese

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All’inizio dell’inverno, una vecchina, vicina di casa, usava ravvivare il fuoco del suo braciere lasciandolo per alcuni istanti al soffio della tramontana del suo orto. I toni accesi della carbonella ardente erano l’immagine di un’altra storia, quella che pianificava l’accesso ai freddi tramonti di gennaio.

I giorni di gennaio sono ancora oggi per le comunità salentine, quelli del fuoco. In questo periodo è possibile ritrovare tra le campagne le tradizionali focareddrhe a scandire le pause delle lunghe giornate di raccolta delle olive o della potatura secca. Qualcuno, ha già iniziato a potare il vigneto e a recuperare i nuovi sarmenti, quei lunghi e sinuosi tralci arricciati sui loro tutori, che pare quasi non volessero scollarsi dalla loro pianta. Piccoli fastelli posati con ordine lungo i filari prima di essere radunati a formare la poderosa “sarcina te leune” o fascina di tralci di vite, antica unità di misura contadina.

Ci sono ancora vigneti veterani, sopravvissuti ai moderni impianti, alberelli di raro valore, essenze tipiche di una regione, chiamata anche Parco del Negroamaro, di là dal paretone messapico, apprezzata dagli antichi popoli per la sua nota vocazione vitivinicola.

Un saggio vecchietto, mi racconta che da un tomolo di terra, pari a poco più di mezzo ettaro, si riusciva a estrarre con due giornate di lavoro, una quantità pari a circa cento “sarcine de leune” per riempire “ nu trainu ncasciatu” ossia una torre di carretto colma di utile legna.

Nu trainu te leune”, coincideva a circa dieci quintali di rami pronti all’uso, stipate sulle “logge”(terrazze), accantonate nei giardini come scorta per le stagioni fredde o per essere vendute.

Le “sarcine” erano di modesto valore economico ma molto gradite tanto che possederle in famiglia equivaleva ad assicurarsi una certa dose di calore. Bene prezioso un tempo, rifiuto da non sottovalutare oggi per mezzo di un articolo del Dlgs 152/2006 che non chiarisce la sua duplice valenza di riutilizzo. I viticoltori sono obbligati a rispettare molti regolamenti ma anche quello di potare altrimenti la sua filiera produttiva già contrastata dall’aumento dei costi produzione potrebbe decadere.

Le quantità ricavabili dalle potature sono variabili secondo i requisiti del vigneto, tanto che con una produzione di tralci da vite del peso medio di circa mezzo chilo per pianta, si possono ottenere tra i 15-30 qli/ha di residui da potatura. Con misure di venti qli a ettaro e umidità del 30-40% si ottiene circa 12-14 qli di sostanza secca. Valutando che un kg di sostanza secca di tralci di vite corrisponde a 3500 kcal e che un kg di petrolio equivale a un potere calorifico di 9000 cal, si potrebbero azzardare altri conteggi ricorrendo ai coefficienti di conversione in energia elettrica oppure considerando che il potere calorifico di un litro di gasolio (10kw) si ottiene con circa 3 kg di legno con umidità del 30%.

E come se da un ettaro di vigneto si ricavasse un elevato potere calorifico espresso in litri di gasolio e riscaldasse per qualche mese diverse famiglie. Gli scarti della vite presentano per questo una capacità calorifica che dipende in ogni caso, dal contenuto di umidità, che si riduce del 10% ogni quindici giorni, e che può variare dalle 4000 kcal/kg del legno secco alle 2.200-2.300 Kcal/kg del legno umido.

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In questo periodo, i falò sono accesi a riempire le piazze per scaldare la gente, sarebbe interessante azzardare alla luce di tali considerazioni, per curiosità, quanto calore potrebbe generare una pira, ad esempio, del peso di circa 600 tonnellate o con quasi 90.000 fascine.

Il 16 gennaio di ogni anno il comune di Novoli suggerisce il suo tradizionale rito, grande evento che richiama moltitudini, preparativi di una festa smisurata, riconosciuta dalla Regione Puglia come bene culturale, che si snoda in ogni angolo del suo paese in onore del santo protettore. Il sacro clou festivo si commuta la sera nel ciclopico e immenso falò di migliaia di “sarcine di leune” accumulate da altrettante braccia volenterose.

In quel giorno Novoli è l’ombelico del mondo che coinvolge ed emoziona col fuoco acceso dal fuoco; espressione di una terra colorita del suo crepitare; moto popolare che “ mpizzica” e “ stuta”; predispone il suo rito con grande intensità emotiva, “cu lu fuecu te l’aria” o “cu lu fuecu ancuerpu”.

Ci aè bisuegnu te fuecu cu se lu troa”, recita un vecchio dittero salentino, vale a dire essere in grado di riscoprirsi appassionati, risvegliarsi dal torpore invernale e ritrovarsi raggianti intorno allo sfolgorio di un cerchio fuoco.

EPAMINONDA VALENTINO

Di origini napoletane ma gallipolino d’adozione

EPAMINONDA VALENTINO

di Rino Duma

Epaminonda Valentino è da considerare uno tra i più determinati e attivi perasonaggi del Risorgimento salentino. Epaminonda (chiamato Mino dai familiari e amici) nacque a Napoli il 3 aprile 1810 da Vito, consigliere d’Intendenza di Napoli e da Maria Cristina Chiarizia, i cui familiari parteciparono ai sommovimenti che precedettero la Repubblica Partenopea del 1799.

La famiglia Valentino si trasferì ben presto a Gallipoli per motivi di lavoro. Il padre Vito, essendo molto facoltoso, acquistò il palazzo Doxi-Stracca (oggi palazzo Fontana, in Via Micetti) e il casino di campagna Stracca, a poca distanza da Villa Picciotti (l’attuale Alezio).

Il ragazzo crebbe in una famiglia di spiccate idee liberali, cosicché, sin dall’infanzia, fu influenzato notevolmente nella sua formazione culturale e spirituale. Da giovane studente frequentò scuole tra le più famose del napoletano e del Salento, in cui insegnavano i migliori educatori, che contribuirono ancor di più a fortificargli l’idea repubblicana. Aveva in odio il sovrano Ferdinando I di Borbone, il quale, rimpossessatosi del Regno di Napoli, dopo il periodo di occupazione francese, si lasciò andare a una repressione spietata nei confronti dei liberali e, soprattutto, dei giacobini.

Sin da giovane, entrò a far parte dei movimenti settari napoletani, e, forse anche, si iscrisse alla setta carbonara gallipolina “L’Utica del Salento”, capeggiata dai fratelli Antonio e Gregorio de Pace. Questa setta, mitigata negli atteggiamenti politici, era antagonista di un’altra setta cittadina “L’Asilo dell’Onestà”, molto più attivista e intransigente, i cui aderenti si macchiarono di alcuni omicidi nei confronti di gallipolini “Calderari”, fedeli al sovrano.

Con ogni probabilità, frequentando la setta carbonica, ebbe la possibilità di conoscere Rosa de Pace, figlia di Gregorio e sorella della più famosa Antonietta, con la quale stabilì, sin dal 1830, un rapporto sentimentale segreto (Rosa aveva all’epoca solo quindici anni). Qualche anno dopo (1836) i due decisero di convivere, anche perché la sua compagna era rimasta incinta. Nel mese di settembre di quello stesso anno nacque il figlio Francesco, che morirà nell’estate del 1866, all’età di trent’anni, nella battaglia di Bezzecca, al seguito di Garibaldi, nella terza guerra d’indipendenza. Non essendo ancora sposati, al figlio fu assegnato momentaneamente il cognome di Onorati e solo dopo il loro matrimonio, avvenuto nel 1838, gli fu attribuito il cognome del padre. Nel 1841 nacque la secondogenita Laura.

A cavallo degli anni ’30 e ’40, la coppia risedette ora a Napoli ora a Gallipoli, per via dell’attività commerciale dell’uomo, ma soprattutto per la sua intensa attività politica.

Epaminonda tesseva le relazioni tra i repubblicani salentini e quelli napoletani, rischiando il più delle volte di essere arrestato dalla gendarmeria borbonica, perché in possesso di documenti molto compromettenti. Il giovane repubblicano si spostava in continuazione da Napoli verso le varie città salentine e da queste ritornava nella capitale per tenere vivi e costanti i contatti tra gli affiliati.

Ben presto s’iscrisse alla “Giovine Italia” napoletana e divenne personaggio di spicco, insieme al tarantino Nicola Mignogna, al leccese Giuseppe Libertini e ai concittadini Bonaventura Mazzarella, Francesco Patitari ed Emanuele Barba, tre eminenti personaggi gallipolini, insieme ai quali costituì una sezione cittadina legata al movimento mazziniano.

In questa importante opera di “tessitura politica” fu aiutato dalla cognata Antonietta de Pace, che salirà alla ribalta della cronaca per l’intraprendenza e il coraggio evidenziati durante la sommossa napoletana del 15 maggio 1848 sulle barricate di Via Toledo e in occasione del processo contro di lei intentato e dal quale si salvò grazie ad un verdetto “pari” dei giudici napoletani.

Epaminonda e Antonietta formarono un binomio importantissimo nella lotta antiborbonica, tanto che ogni operazione politica era vagliata dai due, prima della necessaria autorizzazione a procedere.

Per l’intensa attività politica, la polizia borbonica aveva incluso nella lista delle persone “attendibili” di Gallipoli Epaminonda, insieme a Stanislao de Pace (zio di Antonietta) e ai fratelli Francesco e Giuseppe Patitari.

Nonostante tutto, Epaminonda fu proposto, in alcune circostanze, come il più “desiderato” a occupare la carica di sindaco della città: una prima volta nell’agosto del 1838, una seconda nel luglio del 1842. In entrambi i casi il suo nominativo fu categoricamente scartato dall’Intendente cittadino.

Sebbene ci fosse stato il netto rifiuto dell’autorità borbonica, nell’agosto del 1844, il Decurionato di Gallipoli ripropose il suo nome alla prima carica cittadina. Il Valentino, convinto che l’Intendente avrebbe rifiutato ancora una volta la sua nomina, scrisse a costui un’ampia e dettagliata lettera, in cui esponeva le ragioni della rinuncia, addebitandole ai numerosi impegni di vita e alle sue non perfette condizioni di salute. L’Intendente inviò la lettera al Decurionato perché ne prendesse atto e presentasse, in sua vece, un altro nominativo. Il massimo collegio cittadino, riunitosi il 1 ottobre di quell’anno, invalidò le motivazioni addotte dal Valentino, sicché ripropose all’Intendente la sua candidatura, ma, ancora una volta, da questi fu rigettata. Anche nel 1845 Epaminonda ebbe un’ulteriore bocciatura in occasione del suo ingresso nel Consiglio Provinciale.

Nel 1848, subito dopo la concessione della tanto agognata Costituzione da parte di re Ferdinando II, Epaminonda, insieme ad Antonietta, Bonaventura, Emanuele, Giuseppe Libertini, Achille dell’Antoglietta, Luigi Settembrini e Nicola Mignogna, combatterono eroicamente sulle barricate a Napoli, dopo che re Ferdinando II s’era rifiutato di apportare alcune modifiche alla appena nata Costituzione. La guerriglia tra la Guardia Nazionale (a difesa dei Liberali) e la polizia borbonica fu impari. In poco meno di un’ora furono spazzate via le barricate a colpi di cannone e sulle strade rimasero i corpi esanimi di quasi mille rivoluzionari.

Dopo lunghe peripezie, i nostri gallipolini ritornarono nel Salento e costituirono un comitato d’azione in difesa della Costituzione, momentaneamente sospesa dal sovrano.

In tutta la Terra d’Otranto ci furono grandi manifestazioni di piazza che portarono alla destituzione delle autorità locali, nei confronti delle quali non fu però torto un solo capello. Fu armata sufficientemente la Guardia Nazionale che soppiantò la polizia borbonica, alla quale fu tolto ogni tipo di arma per neutralizzare una potenziale reazione.

Epaminonda e Bonaventura, insieme a Sigismondo Castromediano, costituirono a Lecce il Circolo Patriottico Provinciale, cui seguì la nascita, in quasi tutti i paesi del Salento, dei circoli patriottici cittadini. In pochi giorni l’intero Salento era pronto a reggere un eventuale urto delle forze borboniche che da Napoli si muovevano verso le terre in agitazione.

L’euforia era tanta ma la paura di essere attaccati dall’esercito borbonico cresceva in ogni salentino con il trascorrere dei giorni. La resistenza, che prima era compatta e determinata, ora iniziava a scricchiolare, soprattutto per le notizie che provenivano da Napoli attraverso la stampa. Un esercito di ventimila uomini (era di soli quattromila) e una flotta di navi da guerra muovevano verso la Calabria e la Puglia. I liberali moderati (erano in tanti) che facevano parte dei vari Circoli Patriottici decisero di rinunciare alla rischiosa impresa, anche perché erano stati sobillati dalle autorità borboniche esautorate. Epaminonda e Antonietta si recarono in diverse città salentine per mantenere alta la tensione e unita la resistenza. Ma ogni cosa fu inutile.

Dopo alcuni mesi il Salento ritornò nelle mani dei Borbone.

Epaminonda, Bonaventura, Sigismondo e tanti altri eroi della resistenza furono ricercati e alcuni incarcerati. Bonaventura fuggì a Corfù, Sigismondo fu arrestato non opponendo alcuna resistenza, Epaminonda si diede alla macchia.

Anche durante questo periodo il Valentino continuò nell’opera di riorganizzazione della resistenza. Purtroppo, tradito dall’Eletto di San Nicola, Giuseppe Rajmondo, fu scovato nella sua stessa casina di Stracca e arrestato.

L’arresto di Epaminonda fu dovuto al caso. Infatti, avvertito per tempo dell’imminente arrivo della polizia, l’uomo, alquanto grassottello e malato di cuore, non potendo fuggire a cavallo insieme ai suoi amici, fu calato attraverso una stretta botola in un granaio, al di sopra del quale fu sistemato un grosso lastrone. All’arrivo dei gendarmi, la moglie Rosa, fortemente preoccupata, volgeva lo sguardo in continuazione verso il granaio. Il tenente borbonico, accortosi dello sguardo fisso della donna in quella direzione, decise di togliere il lastrone. Solo in questo modo fu scoperto il nascondiglio dell’uomo.

Tradotto nelle carceri leccesi dell’Udienza, umide e scarsamente arieggiate, Epaminonda cominciò a sentirsi poco bene. Nonostante le suppliche dei familiari e del medico militare, l’uomo fu tradotto insieme a Sigismondo e ad altri liberali arrestati, in una zona del carcere ancora più fatiscente, dove non filtrava un solo raggio di luce. L’uomo si aggravò sempre più e la notte del 30 settembre 1849, dopo aver chiesto invano “datemi aria… aria!”, spirò tra le braccia di Sigismondo.

Si concluse in questo modo orrendo la bella vita di Epaminonda Valentino: uomo coraggioso, fiero, amante della libertà e “figlio del vento”, come ebbe a definirlo qualche giorno dopo l’avv. Antonio d’Andrea, durante l’omelia tenuta nella chiesa di Gallipoli.

Il corpo di Epaminonda fu sepolto nel cimitero di Lecce, dove, molti anni dopo, fu tumulato anche quello del figlio Francesco.

 

N.B. Articolo pubblicato su Il filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per averne autorizzato la riedizione.

NORDICI E SUDICI

Centocinquant’anni trascorsi invano

NORDICI E SUDICI

Poco è stato fatto per attenuare l’enorme divario tra un Nord dinamico e un Sud sempre più rassegnato e impotente. L’Italia è tutt’altro che unita, anzi, a distanza di un secolo e mezzo, il gap economico-sociale tra le due comunità è consistentemente aumentato

di Rino Duma

Non me ne vogliano i lettori se, a bella posta, ho utilizzato il termine “sudici” per definire i meridionali: non è mio costume usare parole offensive nei confronti di qualsiasi uomo, figuriamoci se rivolte nei riguardi dei miei conterranei.

Ho preso in prestito la pesante e infelice definizione dal socialista bolognese Camillo Prampolini, che, all’inizio del ‘900, ebbe a distinguere gli italiani – vantandosene – in “Nordici e Sudici”. Una frase, un motto, un marchio d’infamia, che si commenta da sé.

Le ragioni che hanno determinato la profonda frattura tra settentrionali e meridionali sono riconducibili a molteplici cause, tutte figlie di un’unica madre: l’Unità d’Italia!

Con questa affermazione non vorrei essere tacciato di faziosità, assolutamente no! Mi sento italiano a tutto tondo e sono fiero di esserlo. Amo le tradizioni, la cultura, la quotidianità della vita che anima l’intero stivale: le sento mie, le vivo, me ne compiaccio o ne soffro, a seconda delle varie situazioni. Al tempo stesso, però, non posso fare a meno di esternare sentimenti di amarezza e di sdegno per le ripetute umiliazioni e gli abusi subiti dalla mia gente, nel corso di tanti anni, per opera di settentrionali prepotenti e altezzosi, quasi appartenessero a una “razza superiore o dominante”. Le ingiustificate accuse provengono da persone che non conoscono la vera storia che sta dietro all’Unità d’Italia, perché nessuno, volutamente, gliel’ha mai fatta conoscere e studiare. Forse non la conoscono nemmeno gli stessi meridionali. Come dire: la storia dei vincitori prevale su quella dei vinti e prevarica sempre le loro ragioni e diritti.

Per fare maggiore chiarezza esaminiamo la situazione socio-economica italiana all’alba dell’Unità.

Nel Regno delle due Sicilie l’analfabetismo, l’ignoranza, lo sfruttamento e l’enorme indigenza si attestavano intorno all’80% dell’intera popolazione e, soltanto nei grandi centri urbani, scendevano di dieci-quindici punti percentuali. I grandi latifondisti, possessori d’immense proprietà terriere (mediamente diecimila ettari), incravattavano il popolino con pesi e condizioni di vita insopportabili, al limite della sopravvivenza umana. Insomma, si era instaurato e consolidato da diverso tempo una sorta di sfruttamento di tipo colonialistico, nell’ambito della stessa comunità.

Non stavano meglio i settentrionali, che vivevano dei prodotti della terra e della pastorizia ed erano sfruttati sino all’osso dai vari paesi del vasto impero austro-ungarico. Non vi era un adeguato sviluppo industriale, se non nelle grandi città, e l’istruzione era riservata unicamente al ceto sociale più alto. Anche qui, quindi, l’ignoranza, l’analfabetismo e lo sfruttamento regnavano incontrastati.

I settentrionali erano ritenuti dagli austriaci come “gente fiacca e priva di ogni iniziativa”. A testimonianza di tutto ciò, si cita la celebre frase di Clemente di Metternich che, oltre a ritenere l’Italia “una semplice espressione geografica”, considerava la gente padana “un imbelle popolo di straccioni”. Questa accusa inclemente fu poi spiegata da Cristina di Belgioioso, nei suoi “Studi sulla storia di Lombardia”, con “il difetto di energia dei lombardi”.

Quindi, se da una parte i “sudici” non se la passavano bene, dall’altra i “nordici” non stavano meglio. Non erano però straccioni né gli uni né gli altri, poiché in ogni parte d’Europa le condizioni di vita erano suppergiù identiche.

Se potessimo tornare indietro con una fantomatica macchina del tempo e fermarci nel 1860, ci accorgeremmo che l’88-90% dei duosiciliani (i meridionali del Regno delle Due Sicilie), se interpellati in un ipotetico sondaggio, non aderirebbe al progetto di Unità d’Italia. Si pronuncerebbero favorevolmente solo i liberali radicali e i repubblicani mazziniani, che vedevano in questo grande progetto la panacea di ogni male. Poco meno di un milione di persone su un totale di nove. Un’Unità d’Italia, quindi, che non tutti gli italiani hanno voluto.

Proseguiamo nel nostro excursus storico.

Si può asserire, senza alcuna possibilità di smentita, che il Regno duosiciliano era considerato, all’epoca dell’invasione piemontese, uno degli Stati europei più solidi ed efficienti per ricchezza, cultura e organizzazione politica e amministrativa, non altrettanto si può affermare dei cugini settentrionali, che, ad ovest, erano stretti nella morsa dei francesi, mentre, ad est, dell’impero austriaco.

Nel Meridione d’Italia il sistema bancario e finanziario godeva ottima salute e la circolazione monetaria, basata sulla presenza di moneta aurea e argentea (i ducati, per le operazioni commerciali di un certo valore) e bronzea (i baiocchi e i tarì, per i piccoli scambi), garantiva la massima solidità al sistema economico della nazione. Il Banco delle Due Sicilie emetteva in continuazione moneta sonante, che attestava il continuo trend positivo dell’economia nazionale. In Piemonte, invece, (non vi erano banche di Stato) operavano solo Casse di Risparmio, alcune delle quali erano state incaricate dal governo centrale a emettere carta-moneta, che inizialmente era convertibile in oro, ma – si badi bene – non alla pari, bensì in un rapporto di 3 a 1 (cioè, si davano tre lire in carta-moneta per ottenere una d’oro!), ma che ben presto diventò a corso forzoso (cioè non fu più concessa la possibilità di convertire la moneta cartacea in oro) e pertanto tutti gli scambi commerciali avvenivano unicamente in banconote. Si giunse a una decisione del genere per tamponare l’enormità del debito pubblico, paragonabile quasi a quello esistente oggi in Italia. In pochi anni la quantità di carta-moneta fu tanta e tale da determinare una pericolosa inflazione, l’aumento dei prezzi, la conseguente svalutazione del potere d’acquisto e la recessione economica.

Si doveva urgentemente trovare una soluzione al gravissimo problema per non andare incontro a una bancarotta di Stato. Come? Ci pensò Camillo Benso, conte di Cavour. L’astuto primo ministro stabilì importanti relazioni con la Francia, alla quale cedette Nizza e la Savoia, in cambio di un consistente aiuto militare contro l’Austria e di un non-interventismo francese di fronte a una politica espansionistica piemontese in altre parti dell’Italia, in particolar modo nel Meridione.

Il Regno delle Due Sicilie era un boccone prelibato e appetibile. Infatti, in quel periodo, la sua economia era al massimo splendore in ogni settore. Il commercio con l’estero era consistente, tant’è che la Marina Mercantile (la terza in Europa) poteva contare su ben 9.800 bastimenti, che collegavano ogni parte e ogni porto del mondo. Il Settentrione, ahinoi, aveva pochi sbocchi sul mare e, oltretutto, il traffico per terra era quasi nullo perché ostacolato dalla catena delle Alpi e da un quasi inesistente sistema ferroviario. Un’economia, quella del Nord, asfittica, che si raggomitolava su se stessa.

Nel Regno duosiciliano primeggiavano le industrie siderurgiche, su tutte quelle di Mongiana e Fuscaldo, e quella metallurgica di Pietrarsa. Qui si produceva dell’ottimo acciaio, da far invidia a quello inglese, binari, locomotive, carrozze ferroviarie, campane, cannoni, barre di ferro, lamierati, ingranaggi per macchine industriali e agricole, presse olearie, utensileria e oggetti di precisione. Immensi, poi, i cantieri navali di Castellammare di Stabia e Pazzano, dove erano costruite, anche per conto di Stati europei, navi a vapore, bastimenti commerciali e navi da guerra. Importante anche l’industria manifatturiera, come quella tessile, della carta, della ceramica, del vetro, del mobile, della concia delle pelli, della trasformazione delle derrate alimentari (olive, uva, frumento, tabacco, frutta) ecc. Il Regno di Napoli era al centro della vita del Mediterraneo: dai suoi porti partivano bastimenti carichi di ogni ben di Dio, nei suoi porti attraccavano bastimenti stracolmi di prodotti provenienti dalla Spagna, Inghilterra, Francia, dalla Russia, dalla Turchia e dal medio ed estremo Oriente. Dagli archivi doganali dell’epoca emerge che annualmente gli scambi commerciali si aggiravano, tra import ed export, nell’ordine di cinquecento milioni di ducati d’oro!

Una grande fortuna, che suscitava anche tanta invidia.

Nel Settentrione c’erano delle industrie (meccaniche, tessili, manifatturiere, casearie, della ceramica, del vetro e del mobile), ma erano limitate nella produzione, perché limitato era il suo mercato.

Stanti, quindi, una recessione economica preoccupante e un debito pubblico alle stelle, l’unica via d’uscita per il Piemonte era quella di “assorbire”, tramite una fantomatica Unità d’Italia, altri Stati dello stivale. Il Cavour aveva visto bene. In pochi anni, grazie a Garibaldi e Mazzini, furono via via annessi gli staterelli emiliani, il Granducato di Toscana e infine il Regno di Napoli.

Approfittando dell’incerta situazione napoletana, a seguito della morte di re Ferdinando II (22 maggio 1859), e grazie al tradimento di alti ufficiali borbonici (il generale Sforza su tutti), il Piemonte fece un sol boccone della modesta resistenza borbonica, modesta a modo di dire.

Le conseguenze di quell’invasione non tutti le conoscono. Forzieri stracolmi di ducati d’oro, gioielli, oggetti d’arte furono trafugati e spediti a Torino. L’intero territorio fu messo a soqquadro: vi furono ruberie d’ogni genere, stupri di donne innocenti, eccidi di massa (anche bambini) in ogni angolo del Regno, ben quarantamila soldati borbonici arrestati, deportati e fatti morire di fame (ma c’è chi parla di cinquantaseimila!) nelle fredde prigioni piemontesi di Fenestrelle e di S. Maurizio Canavese (sono i primi lager della storia), interi paesi rasi al suolo (Casalduni, Pontelandolfo, Campolattaro). La gente moriva di fame e di stenti. Furono in molti a darsi al brigantaggio per difendere la propria dignità e la propria terra (ma non erano briganti!); in molti preferirono emigrare in Argentina, Australia, Canada, Stati Uniti d’America per non piegarsi ai veri briganti, quelli dai “colletti bianchi”.

I Savoia portarono via ogni cosa (non sto esagerando). Smontarono buona parte degli impianti delle migliori industrie e li rimontarono in Liguria, in Piemonte e in Lombardia. Ne beneficiarono i cantieri Cadenaccio, poi diventati Ansaldo, gli stabilimenti milanesi L’Elvetica, poi rilevati da Ernesto Breda e infine lo stabilimento meccanico torinese, che nel 1899 fu denominato Fiat. Portarono via i brevetti industriali, le maestranze specializzate, le migliori energie umane, la linfa vitale, lasciarono soltanto cumuli di macerie, la miseria, la fame, il dolore, una terra senza futuro, da cui scaturirono ben presto la desolazione, la sporcizia, la rassegnazione, l’abbandono e, nel mentre, si rafforzarono la mafia, la camorra e la ‘ndrangheta. Portarono via anche la storia e le ragioni di una guerra mai dichiarata, di un’invasione ingiustificata, tutto nel nome di un’Italia Unita. Unità che non era mai stata voluta dai Savoia, poiché il loro vero intento era stato quello di metter riparo al dissesto finanziario, poi scaricato sui bilanci del nuovo Stato, che venne alla luce con il pauroso debito pubblico di 2.374 milioni di lire-oro. Ancor oggi gli italiani continuano a pagarne le disastrose conseguenze.

A voler fare un’ultima precisazione, va detto che il Regno delle Due Sicilie contribuì alla ricchezza dell’Italia Unita con 443,2 milioni di lire-oro, mentre il Piemonte con 27, la Lombardia con 8,1 e il Veneto con 12,7 (Rapporto presentato al Parlamento dal Presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti). Ed è quanto dire.

Se ci fosse stata veramente la buona intenzione da parte dei Savoia di unificare e uniformare ogni parte d’Italia, sarebbero bastati pochi anni per farlo. La Germania, dopo la caduta del muro di Berlino, ha impiegato solo vent’anni per ricostruire la parte orientale della nazione. I tedeschi hanno investito marchi per un valore pari a tre volte l’aiuto concesso dagli Stati Uniti all’Europa attraverso il piano Marshall. Ma i tedeschi sono ben altra gente, nonostante i loro crimini di guerra.

Abbiamo ancora tempo davanti a noi per ovviare all’incuria e alle mancate promesse dei vari governi succedutisi nel corso di centocinquant’anni, ma per farlo è necessario che agli Italiani sia consegnata la vera storia e, soprattutto, che ci sia la ferma volontà a “edificare” un’effettiva unità del paese, attraverso una Repubblica Federale, in cui ogni realtà territoriale sia resa autonoma e debitamente sostenuta dal governo centrale. All’epoca, un sistema politico del genere era stato ripetutamente consigliato da Carlo Cattaneo a Vittorio Emanuele II, ma non se ne fece nulla, perché i propositi sabaudi miravano a tutelare ben altri interessi.

Oggi, nonostante i numerosi oltraggi patiti in tanti anni, noi meridionali ci sentiamo di essere Italiani, mentre altri inneggiano a una Padania libera, rinnegando l’Unità d’Italia e minacciando addirittura la secessione dal resto del paese. Come dire: vi abbiamo sfruttato una volta, oggi di voi non sappiamo cosa farne!

Noi, invece, vogliamo bene a quest’Italia, rotta e sfasciata, vogliamo che risorga e che ritorni a essere la nazione che un tempo in molti ci invidiavano e temevano.

Perciò, W l’Italia, con cuore e sentimento, ma senza rancore e ipocrisia!

 

 N.B. Pubblicato su Il Filo di Aracne, la cui Direzione si ringrazia per averne permesso la pubblicazione su questo sito.

Due garibaldini galatinesi: Gioacchino Toma e Fedele Albanese

G. Toma, O Roma o morte
G. Toma, O Roma o morte

di Vittorio Zacchino

 

Come ovunque, in Italia e nel mondo (vale la pena di leggere la superba monografia dedicatagli dal compianto Alfonso Scirocco, Garibaldi, Milano Ediz.Corriere della Sera 2005), anche in Salento e a Galatina Garibaldi fu amatissimo, addirittura idolatrato. Nonostante l’oleografia, l’agiografia e la retorica che hanno invaso e stravolto la storiografia risorgimentale, occorre ammettere che la gente non aveva saputo resiste al fascino travolgente di questo campione dal temperamento forte e deciso, indomabile, generoso, ardimentoso, Giuseppe Garibaldi da Nizza, l’esatto contrario di un carrierista della politica e delle curie.

Nell’agosto 1860 sul punto di varcare lo stretto per puntare su Napoli, dopo aver liberato “le terre sicane / dal giogo” – come cantò il brindisino Cesare Braico – e con la regia di un Giuseppe Libertini giunto apposta da Londra per far insorgere simultaneamente le province meridionali, tanti salentini, ben cinquecento, corsero a indossare la camicia rossa, ad imitazione dei molti conterranei della prima ora che avevano fatto parte dei Mille, dal Braico al Mignogna, dal Carbonelli al Trisolini. Nonostante, turbamenti e crisi di coscienza, roghi di ritratti reali, sommosse legittimiste, assalti ai conventi, istigazioni di preti retrivi e scorribande di briganti per tutta la Terra d’Otranto, i nostri giovani vennero attratti irresistibilmente dal biondo nizzardo e, qua e là, i nostri popolani cantarono: Ci passa Carribbardi / caribbardinu m’agghiu affà.

G. Toma, I figli del popolo
G. Toma, I figli del popolo

Galatina, si diceva, fu tra le città nostre che dettero un contributo rilevante alle campagne di Garibaldi: come le notizie della sua rapida vittoriosa campagna siciliana si diffusero in città, l’entusiasmo scoppiò irrefrenabile e diversi corsero ad indossare la leggendaria camicia rossa, il pittore Gioacchino Toma, il pellettiere Antonio Contaldo che dismise l’uniforme di soldato borbonico per seguire Garibaldi il quale si distinse a Gaeta guadagnandosi una medaglia, e perfino il pretino Pietro Andriani secondogenito del barone di Santa Barbara. Quest’ultimo, qualificato sovversivo e testa calda fin da quando frequentava il seminario, gettò via la tonaca e si arruolò tra i garibaldini. Dopo il 1860 fece di tutto per campare, ma premuto dalla fame e dal bisogno, fu costretto a rientrare nel gregge. Ma le figure più prestigiose restano Gioacchino Toma, pittore di notorietà nazionale, e Fedele Albanese patriota e giornalista.

Gioacchino Toma
Gioacchino Toma

Nato nel 1836, “spirito irrequieto e insofferente di qualsiasi soggezione”, rimasto orfano a soli 10 anni, dopo un’adolescenza difficile e ribelle, trascorsa per sette anni fra i cappuccini di Galatina e un orfanotrofio di Giovinazzo (a carico della Provincia di Lecce) dove lo avevano rinchiuso, Toma se ne era fuggito a Napoli in cerca di fortuna. Qui, mettendo a profitto l’inclinazione al disegno e alla pittura coltivata in collegio, il giovane aveva cercato di sbarcare il lunario. Ma come Garibaldi si affacciava sullo stretto per lanciarsi alla conquista di Napoli, eccolonostro Gioacchino diventare patriota quasi per caso e senza volerlo. Narra il Foscarini che una seravenne arrestato e tradotto nelle carceri della Vicaria ,donde uscì dopo un mese e mezzo per andare al confino in Piedimonte d’Alife. Testa calda e spirito irrequieto e talvolta turbolento, era inevitabile che venisse coinvolto nella rivoluzione in corso. Sicché allorquando Francesco II tentò di salvare il trono con la tardiva concessione delle libertà costituzionali, Toma entrò nelle file dei cospiratori e alla testa di rivoltosi assalì e distrusse la caserma borbonica. Seguì l’ arruolamento nelle file dei garibaldini, nella Legione del Matese, e dopo la presa di Benevento ottenne la nomina a sottotenente. Racconta che mentre la legione ripiegava verso Padula “venne un dispaccio ad annunziare che Garibaldi era entrato in Napoli, ed io,che ero stato un de’ primi a sentir quella notizia,corsi subito a darla ai nostri soldati, che erano alloggiati in un convento. Diventarono quasi matti per l’allegria;mi presero sulle spalle,mi sollevarono in alto ,e gettandomi addosso la paglia in cui dovevano dormire, mi fecero girar così tutti quei corridoi,fino a che stanchi, fra un diavolio da non si dire, mi buttarono a terra e là mi seppellirono di paglia.

ancora un dipinto di Gioacchino Toma
ancora un dipinto di Gioacchino Toma

In seguito Toma aveva preso parte a diversi fatti d’armi, a Santa Maria Capua Vetere, a Caserta, in Molise. Catturato a Pettoranello di Isernia il 17 ottobre, egli era stato condannato alla fucilazione, da cui riuscì a scampare per puro caso, Dai suoi Ricordi di un orfano(Galatina Congedo 1973 per la cura di A. Vallone) togliamo il brano significativo in cui dopo essere stato dato per morto, e dopo aver attraversato “tutta la lunga strada di Isernia al fianco del Generale Cialdini, va a ritrovare a Campobasso i correligionari in camicia rossa che non credono ai propri occhi “ nel vedermi vivo, mentre nella certezza che io fossi morto, avevan già, come ho detto, raccolto il denaro per farmi il funerale. Grande fu l’allegrezza loro e, servendosi di quel denaro, festeggiarono con un pranzo la mia risurrezione e mi diedero in ricordo di quel giorno, un bellissimo pugnale”. Poco dopo,sciogliendosi l’armata garibaldina, diedi anch’io le dimissioni e tornai in Napoli (…).

Compiuta l’annessione del Sud al Piemonte il nostro si dette totalmente alla pittura dipingendo alcune tele in cui rievocava episodi delle campagne garibaldine cui aveva partecipato. Garibaldini prigionieri, O Roma o morte, e Piccoli Garibaldini, sono le più celebri. Quest’ultima, con i piccoli che festeggiano i ritratti di Garibaldi e di Vittorio Emanuele, fu sicuramente ispirata dai tanti auto da fè di stemmi ed effigi sabaude infranti nelle piazze dai partigiani borbonici, dei toselli con i ritratti di Garibaldi e di Vittorio Emanuele II arsi in pubblico. Se da un lato queste scene patriottiche gli procurarono fama, dall’altro, dati i loro contenuti rivoluzionari, accentuarono il suo isolamento in una Napoli ancora sostanzialmente borbonica per cui in questi primi anni unitari egli patì l’indigenza. Ma l’Amministrazione Provinciale di Lecce corse in aiuto del figlio, sensibilizzata (a insaputa di Toma) da un manipolo di artisti napoletani – Palizzi, Morelli, Catalano ed altri – (cfr. V. ZACCHINO, Gioacchino Toma tra rinnovamento stilistico e difficoltà economiche (1865-1867) in “Il Corriere Nuovo di Galatina. Benché queste sue “bambocciate” erano un poco incerte, trasmettevano il patriottismo e le speranze di un popolo lungamente represso.

Fedele Albanese (1845-1882),è l’altro verace garibaldino galatinese, impulsivo ma di mente sveglia (il termine “garibaldino” nelle famiglie tradizionali allineate con i Borbone era sinonimo di rivoluzionario, testa calda e avventata). Già ai primi del settembre 1860, quattordicenne, con altri studenti, alla testa di un grande stendardo confezionato in casa sua, era salito su una tribuna improvvisata e aveva tentato di tenere un comizio che però era stato sciolto dalla polizia. Più fortunato di lui il cappuccino Giacomo Calignano il quale il giorno dopo, “cinto di sciabola e di sciarpa tricolore, si pose alla testa della cittadinanza , la condusse al Largo dei Cappuccini e la arringò con un sermone patriottico con scandalo dei suoi superiori. Nel 1866 il nostro interruppe gli studi per indossare la camicia rossa ed arruolarsi, appena ventenne, tra i cacciatori delle Alpi impegnati nella spedizione tirolese. Presa poi la laurea in giurisprudenza con lode, il nostro era tornato a indossare la camicia rossa nello sfortunato scontro di Mentana del 1867,insieme a diversi commilitoni leccesi (Panessa, Leone, Morone, Grande, Patera) agli ordini di Giovanni Nicotera. Presa la laurea nel 1868, Albanese si ritroverà ancora una volta il 20 settembre 1870 alla breccia di Porta Pia che varcherà tra i primi, da giornalista. Fu valoroso e onesto collaboratore di numerosi giornali , tra Napoli e Roma; ultimo di essi l’amatissimo “Monitore”, ma quando questo giornale cessò le pubblicazioni,per causa di forza maggiore, il garibaldino Albanese non riuscì a sopravvivergli e si uccise nel marzo 1882. Qualche mese prima della morte del suo eroe Garibaldi.

E’ giusto che oggi, alle soglie del 150° anniversario della pur discutibile Unità, l’Italia ,il Salento, e Galatina ritrovino lo spirito unitario che ebbero il duce di Caprera e i “garibaldini” di Galatina, Albanese e Toma, con tutti i salentini audaci che furono al suo seguito. Perché, siamo certi, passato il rigurgito retorico del 150°, sulla memoria di quegli eroi e di quegli eventi, inesorabile ripiomberà l’oblio e ritornerà “a strisciar la lumaccia”.

 

N. B. Pubblicato su Il filo di Aracne, la cui Direzione si ringrazia per aver autorizzato la pubblicazione su questo sito

 

Garibaldi e il Salento


di Maurizio Nocera

Il Salento, l’ottocentesca Terra d’Otranto, è stata una terra dove grandi e dure sono state le lotte per il conseguimento dell’Unità d’Italia. Qui, agirono figure di livello nazionale, come Bonaventura Mazzarella, Sigismondo Castromediano, Luigi Libertini, Antonietta De Pace, altri ancora. Fra di essi, sicuramente va annoverato anche Emanuele Barba, patriota e uomo insigne di Gallipoli, che ebbe relazioni con Giuseppe Garibaldi, Victor Hugo e altri scienziati e patrioti dell’epoca.

Fu soprattutto con Garibaldi che il Barba di Gallipoli tenne buoni e lunghi rapporti, rilevabili ancora oggi da documenti dell’epoca conservati nell’archivio romano dei Barba, tra cui Eugenio Barba, il famoso regista dell’Odin Teatret danese. Per lo più si tratta di manoscritti e materiale iconografico facente parte di una collezione di «ricordi garibaldini» che il Barba si era proposto di raccogliere a partire dal l882, anno della morte di Garibaldi e che chi qui scrive, nel 1982, anno del centenario della morte dell’Eroe dei Due Mondi, ebbe modo di studiare e trarre da essi alcune riflessioni, in parte poi pubblicate su «Il Corriere Nuovo» di Galatina (anno V, n. 5-6, 1982), diretto allora dal compianto Carlo Caggia.
Garibaldi e il Salento

Qui nel Salento è noto che il Barba fu un sincero patriota e che per tutta la vita rimase fedele agli ideali del Risorgimento. Egli, nel maggio 1848, aveva partecipato ai moti insurrezionali dando un non secondario contributo alla costituzione del Circolo patriottico gallipolino, sezione coordinata del Circolo patriottico leccese.

Per questa sua attività fu perseguitato e più volte incarcerato dalla polizia borbonica.

Fino a che non vide l’Italia unita, lottò sempre, partecipando a tutte le iniziative che nel Salento e nella Puglia vennero  prese a favore della liberazione dell’Italia del sud dal governo dei Borboni. Fu garibaldino della
prima ora, nel senso che si prodigò qui, nella sua terra, a propagandare e sostenere le azioni militari e politiche ispirate o dirette dal generale Garibaldi. La prima volta che manifestò pubblicamente l’ammirazione per Giuseppe
Garibaldi fu in occasione della prima “Festa patriottica”, svoltasi a Gallipoli all’indomani dell’unità nazionale. Sotto la statua dell’Italia turrita fece appendere la seguente epigrafe: «A Garibaldi unico/ l’Italia una.// La sua vita fu olocausto/ il suo nome/ sarà/ simbolo della libertà/ dei popoli».Questa targa marmorea, della quale non c’è più traccia nella città ionica, fu apposta a ricordo del grande contributo dato da Garibaldi alla causa dell’Unità d’Italia. Emanuele Barba, infatti, non dimenticò mai le numerose iniziative che l’Eroe dei Due Mondi più volte intraprese, soprattutto per liberare il Sud dai Barboni.

Nel 1860 Garibaldi, alla testa dei Mille, dopo aver sconfitto l’esercito borbonico ed aver conquistato la Sicilia, aveva reso possibile l’unità nazionale, non riuscendo però a liberare Roma ancora sotto governata dallo
stato pontificio. L’obiettivo del generale, però, piuttosto che quello di Camillo Benso, conte di Cavour, e di Casa Savoia, era quello di vedere Roma capitale dell’Italia unita; per questo, nel 1862, egli  intraprese nuovamente, ripartendo dalla Sicilia, un’azione militare, questa volta però interrotta sull’Aspromonte dalle truppe regolari del nuovo regno d’Italia governato da Torino dai Savoia. È noto che, in quella impresa, lo stesso generale, nel corso di quella operazione, fu ferito e fatto prigioniero. Nelle sue “Memorie” è lo stesso Garibaldi che così ricorda quegli avvenimenti: «dopo marce disastrose, per sentieri quasi impraticabili, l’alba del 29 agosto 1862 ci trovò sull’altipiano di Aspromonte, stanchi ed affamati […]. Giunsero i nostri avversari, e ci caricarono con una disinvoltura sorprendente […]. Noi non rispondemmo. Terribile fu per me quel momento. Gettato nell’alternativa di deporre le armi come pecore, o di bruttarmi di sangue fraterno! […]. Io ordinai non si facesse fuoco, e tale ordine fu ubbidito, meno da poca gioventù bollente alla nostra destra, agli ordini di Menotti […]. La posizione nostra nell’alto, con1e spalle alla selva, era di quelle da poter tenere dieci contro cento. Ma che serve, non difendendosi, era certo che gli assalitori dovevano presto raggiungerci. E siccome succede quasi sempre, essere fiero chi assale, in ragione diretta della poca resistenza dell’avverso, i bersaglieri che ci marciavano sopra, spesseggiavano [replicavano] maledettamente i loro tiri, ed io che mi trovavo tra le due linee per risparmiare la strage, fui regalato con due palle di carabina, l’una all’anca sinistra, e l’altra al malleolo interno del piede destro» (cfr. G. Garibaldi, “Memorie”, Avanzini e Torraca editore, Roma 1988, pp. 452-53).

A causa di questa ferita Garibaldi, dopo essere stato condotto a Varignano (forte militare nei pressi de La Spezia) fu condotto a Pisa, dove gli fu estratta la pallottola. Quindi, per evitare altre inconvenienze,  contrastanti con la monarchia sabauda, fu costretto a rifugiarsi a Caprera laddove, «dopo tredici mesi – scrive ancora nelle sue “Memorie” – cicatrizzò la ferita del piede destro, e sino al ’66 condussi vita inerte ed inutile» (cfr. Op. cit., pag. 454).

Però, occorre dire che proprio inerte ed inutile la vita trascorsa in quell’occasione da Garibaldi a Caprera non fu, in quanto il pensiero della liberazione di Roma rimase in lui più vivo che mai. Della liberazione di Roma, in quegli anni, si occuparono molti altri patrioti. Già il IX° Congresso delle Società Operaie (Firenze, settembre 1861) aveva deliberato, a conclusione dei suoi lavori, il massimo rafforzamento e la più ampia estensione dei Comitati di Provvedimento per Roma e Venezia, sorti dalla trasformazione dei preesistenti Comitati di soccorso a Garibaldi per Napoli e Sicilia, che avevano svolto un ruolo determinante prima e durante la lotta per fare unità l’Italia.

A Gallipoli, l’anima propulsiva di tali Comitati fu indiscutibilmente anche quella del dottor Emanuele Barba. Da molto tempo, infatti, egli si dedicava alla raccolta di fondi, tramite sottoscrizioni pubbliche, che periodicamente inviava all’organizzazione centrale. Di questa attività rivoluzionaria, dà notizia egli stesso su «Il Gallo», giornale popolare gallipolino, del 22 maggio 1862, da lui fondato e diretto con lo pseudonimo di Filodemo Alpimare. Scrive:
«Il nostro Comitato di Provvedimento per Roma e Venezia, il quale da 15 mesi [era stato costituito nel febbraio 1860] ha dato opera allo installamento di altri Comitati filiali in molti paesi del Circondario, in men di due alla distribuzione di più migliaia di Azioni pel Fondo Sacro, ha iniziato nella nostra Città una soscrizione» (cfr.  «Il Gallo», anno 1, n. 1, Stabilimento Tipografico, Lecce 1862, quarta pagina).

Il 4 novembre 1863, una delle tante somme raccolte dal Barba venne personalmente inviata a Giuseppe Garibaldi ancora in ritiro a Caprera per i postumi della ferita subita sull’Aspromonte. Dalla sua isola, l’Eroe dei Due Mondi rispose, ringraziandolo così: «Caprera, 12 novembre 1863. Signor Dottore Emanuele Barba. Ho ricevuto il vaglia di L. 287.39 pel fondo sacro Roma e Venezia e la prego ringraziarne per me i generosi oblatori.  Suo G. Garibaldi».
Due anni dopo, nel 1865, si costituì nuovamente un altro organismo simile al primo, il Comitato Unitario Costituzionale, questa volta con 1’obiettivo di sostenere, nelle elezioni parlamentari, i deputati della Sinistra. Su proposta del Barba, che in Gallipoli in quel momento assumeva l’incarico di vicepresidente dell’Associazione Elettorale Italiana, il Comitato locale venne intestato a Giuseppe Garibaldi.

Sul finire di quello stesso anno,  il Barba, con l’apporto di altri suoi compatrioti, fondò la Società Operaia di Mutuo Soccorso ed Istruzione della città, della quale divenne segretario a vita e compilò uno dei primi Statuti e Regolamenti delle società operaie e di mutuo soccorso di tutta Terra d’Otranto.

Anche in questa occasione, Emanuele Barba dimostrò di essere un fervente garibaldino. Agli operai e ai patrioti di Gallipoli, riunitisi il 4 dicembre 1865 per la fondazione della società, disse: «Fratelli Operai, confortati dagli esempi splendidissimi di altre città italiane, voi volete costituirvi in società di mutuo soccorso ed istruzione, del cui statuto e regolamento vi piacque commettermi la compilazione. Ebbene a ringraziarvi per tant’onore e fiducia vi dirò poche e franche parole, quali si addicono a leale operaio in libera terra. A me pare che col volervi affratellare in questa maniera, mostrate di essere capaci e degni di ogni bene, perché volete onestamente usare dei due primi e più antichi diritti dell’uomo, che sono la libertà e l’associazione. Io spero ancora che voi conseguirete ogni bene, perché volete compiere i due primi doveri dell’uomo sociale, che sono lo scambievole soccorso e l’istruzione. Io anzi affermo che voi già possedete i due maggiori beni che possono avere quaggiù gli operai cristiani, cioè la volontà di perseverare nel lavoro, il quale è l’origine più santa di ogni proprietà, la fine di ogni miseria, e il desiderio di uscir dall’ignoranza, la quale è il più funesto retaggio delle classi laboriose, la cagione precipua d’ogni loro sciagura. Voi dunque potete andare alteri d’imitare in ciò l’eroe più caro d’Italia nostra, Giuseppe Garibaldi» (cfr. “Statuto e Regolamento della Società Operaia di Mutuo Soccorso-Istruzione di Gallipoli”,  Tip. A. Del Vecchio, Gallipoli, 1866).

Di questo periodo della vita del Barba, dei suoi rapporti con Gariba1di, in modo più preciso e dettagliato riferisce anche l’avv. Stanislao Senape-De Pace, che scrisse queste parole:«Scettico in politica dopo il ’60, sentì ancora fremere potentemente il sentimento patriottico al 1866, quando tutta Italia sorgeva animosa a pugnare pel riscatto dell’antica martire delle Lagune, quando Garibaldi gridava: “A Vienna, a Vienna” e ricorrendo al Comitato per la liberazione di Roma e Venezia, che fu uno dei primi a costituirsi in Gallipoli, mandò all’esule di Caprera il contributo dei nostri conterranei. E sotto il governo italiano, ebbe ancora 1’onore d’essere sospettato di troppo liberalismo, tanto che dopo Aspromonte, ricevè varie perquisizioni domiciliari, perché si temeva, ed era vero, che facesse parte del Comitato per 1’arruolamento dei Garibaldini». (cfr. “Albo ad Emanuele Barba”, Tip. G. Campanella, Lecce 1888, p. 85).

Un’altra prova di ammirazione per l’Eroe dei Due Mondi, Emanuele Barba lo manifestò pubblicamente nel 1873 quando, assieme ad alcuni amici poeti, fra i quali Forleo-Casalini, Forcignanò, Prudenzano, Adele Lupo, Minervini ed altri ancora, pubblicò un opuscolo di poesie e racconti brevi, sul quale fece stampare un suo componimento poetico, dal titolo “Garibaldi su la tomba di Ugo Foscolo nel 21 aprile 1864”: «Sotto ciel nebuloso e brulla terra/ Giace lung’ora, ahimè! colui che s’ebbe/ Da ignari e da tiranni eterna guerra:/ Di quei che in Grecia nato Italo crebbe/ Le sacre ossa ignota gleba serra:/ Chi di Pindo e Valchiusa al fonte bevve,/ Chi combattèa dei despoti le brame,/ Dei “Sepolcri il cantor” moria di fame!// Volgon più lustri – e l’Anglica nazione / Plaude festante al Forte di Caprera;/ Muto ristà dei liberi il campione/ All’aurà popolar – Ei tutto spera/ In un pensier di patria religione/ Che rifulge qual Sol che non ha sera:/ E colui che i due mondi onoran tanto/ D’Ugo il sepolcro confortò di pianto.// E dopo il pianto con pietosa mano/ Depone una corona in su l’avello;/ Poi togliendo al divin Carme un brano/ Di suo pugno lo incide su di quello;/ E alla tomba del Pindaro italiano/ Esclama alfin, Macedone novello:/ Ad Ugo al generoso al grande al forte/ Giusta di glorie dispensiera è morte.// E quel grido ripetesi da un’eco/ Che alla voce risponde degli eroi;/ Si ripercuote il grido in ogni speco,/ Quel grido già commove il petto a noi/ Che di Foscolo il genio italo-greco/ Ereditammo, perché figli suoi;/ E… Italia grata omai alzi una voce:/ Ugo riposa eterno in Santa Croce» (cfr. E. Barba, in  “Strenna del giornale «L’Araldo Gallipolino» per l’anno 1873”, p. 63).

Appena due anni dopo, Emanale Barba, nel commemorare a Gallipoli il 19° Anniversario dell’Unità d’Italia, dedicò un nuovo componimento poetico – “Un sospiro di Garibaldi nella festa nazionale del 1875” – con versi che ovviamente riflettono lo stato d’animo di quei patrioti desiderosi di vedere Roma capitale
d’Italia.
Questi stessi versi, scritti su un foglio volante e distribuito in Gallipoli come un volantino, Emanuele Barba li inviò anche a Garibaldi, che così gli rispose: «Prof. Emanuele Barba – Gallipoli. Grazie per la vostra lettera del 7 luglio e per i vostri bei versi. Vi stringo la mano e sono Vostro G. Garibaldi. Frascati, 10 – 7 – 75».
Era il 1875, Garibaldi aveva 68 anni e, la maggior parte del suo tempo, lo trascorreva a Caprera. L’Italia era ormai unita e Roma ne era la capitale. Anche Emanuele Barba non era più il giovane rivoluzionario risorgimentalista del 1848 e la sua vita (ha 56 anni) trascorreva prevalentemente fra i libri della Biblioteca Comunale di Gallipoli, della quale era stato nominato bibliotecario a vita, Le sue preoccupazioni maggiori erano rivolte ad arricchire di libri gli scaffali della biblioteca e, nello stesso tempo a dare corpo a quella splendida istituzione da lui stesso creata e che a tutt’oggi è il Museo naturalistico gallipolino, una delle istituzioni pubbliche più importanti dell’intero Salento. Questi suoi interessi, però, non gli impedirono di continuare ad avere come faro della sua azione l’Eroe dei Due Mondi. Quando Garibaldi morì a Caprera, il 2 giugno 1882, Emanuele Barba dedicò un nuovo componimento poetico, intitolato “Il Forte di Caprera”, VI° Canto dell’ “Album di dolore sulla tomba di G. Garibaldi”, pubblicato a cura dell’amico patriota Luigi Forcignanò.

Ad avvisarlo della morte dell’Eroe erano stati il garibaldino Timoteo Riboli e l’amica Antonina Ceva-Altemps, sposata Stampacchia, due personaggi importanti della prima Italia unita. Timoteo Riboli (1808-1895) era medico e patriota di Colorno, fedelissimo di Garibaldi il quale, nella prefazione alle sue “Memorie”, lo ricordò con queste parole: «Ai cari D.ri Prandina, Cipriani, Riboli, io devo pure una parola di gratitudine, siccome al D.re Pastore. Il D.re Riboli in Francia, chirurgo capo dell’esercito dei Vosges, fu contrariato da indisposizione seria ed accanita. Così stesso, egli non mancò di prestar opera utilissima» (cfr. G. Garibaldi, “Memorie”, Op. cit., pag. 39).

Il Riboli, che fu pure massone come Sovrano Commendatore della Giurisdizione italiana del Supremo Consiglio del Rito scozzese antico e accettato, ebbe anche il delicato compito, affidatogli da Garibaldi, di collocare il manoscritto de “I Mille” presso un editore. Corrispose con Emanuele Barba sin dal 1880. Antonina Ceva-Altemps Stampacchia era la moglie del patriota salentino e medico di Casa Savoia Gioacchino Stampacchia.

Entrambi questi due amici del Barba, dopo la morte dell’Eroe, continuarono ad informarlo di tutte le iniziative organizzate in Italia nel nome di Garibaldi.  Per anni gli inviarono lettere e fotografie del generale, con le quali il Barba iniziò a formare quella collezione di «Ricordi garibaldini» (oggi conservata a Roma nel ramo della famiglia Barba colà stabilitasi), alla quale rimase affezionato per il resto della vita. Egli aveva formato un piccolo faldone di carte, chiuso con un biglietto inviatogli dall’amico Luigi Castellazzo (1827 – 1890), patriota e garibaldino sin dal maggio ’48, che aveva preso parte alle campagne militari per l’Unità d’Italia del 1859 e del 1860 come ufficiale di Giuseppe Garibaldi. Il Castellazzo fu pure deputato, e cominciò a corrispondere col Barba a partire dal 1884.
Sul biglietto, che chiude il falcone, c’è scritto un pensiero, secondo me di estrema attualità. Eccolo: «Se Garibaldi rivivesse, Egli, nella sua magnanima e fiera natura di Patriota e di Eroe, imprecherebbe a questa Italia degenerata, che lo commemora a parola, gli erige monumenti di pietra, ma non sa imitarne le
virtù, proseguire l’opera e compierne i sublimi ideali».

NdR: Pubblicato su Il filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per la concessione

Galatina. I racconti della Vadea: palla de pezza, tuddhi e catasca!

 

da repubblica.it
da repubblica.it

di Pippi Onesimo

Vico San Biagio, che promana da Via Biscia e ad essa si aggrappa disperatamente per non ruzzolare rovinosamente giù verso la Staffa de cavallu (piazzetta Cavoti), si trova esattamente nel cuore del centro antico, a monte di piazza Vecchia, che sonnecchia da secoli in precario equilibrio lungo la ripida discesa di via Vignola.

La chiesa delle Anime, saldamente ancorata a valle sulla sua strategica pianta ottagonale, dal basso osserva la più antica piazza di Galatina con trepida apprensione e la sorregge con generosa solidarietà cristiana, da quando si è resa conto che la Casa paterna dei Vignola, pur confinante e precariamente ancorata a Vico Vecchio, non riesce più a tenerla su per i vistosi acciacchi della sua vecchiaia.

A chi osserva vico San Biagio dall’alto, la stradina sembra stretta, buia, triste, angosciante e nervosamente tortuosa, come se piangesse languidamente ripiegata su sé stessa.

Dopo un breve tratto pianeggiante, in precipitosa successione, scivola frettolosamente giù in una silenziosa, irrazionale confusione come un rivolo, che trascina, spingendoli a valle, i suoi fitti misteri e le sue ombre così cupe e dense, che tenacemente riescono a sconfiggere anche la luce del giorno.

In questo suo scorrere vi è tutta la voglia di liberarsi dalle sue ansie, e gridare prepotentemente il bisogno di sorridere e di rivedere il sole.E a valle del pendio si affanna a prendere, finalmente, una boccata d’aria vicino all’ antica arcata, da pochi mesi riaperta, e che solo ora riesce a riaffacciarsi sulla Staffa, dopo la rozza, degradante e offensiva decisione del Palazzo di tenerla murata per molti decenni.

Poi alla fine, con impazienza frenetica, abbraccia voluttuosamente, in un mistico e avvolgente amplesso, lo slargo (abbrutito dalla ingombrante, perenne presenza delle auto in sosta ) di via Lillo, che si modella, per una strana e misteriosa bizzarria architettonica, fra Palazzo Galluccio, la fontanina pubblica, l’imboccatura di vico Freddo e la strozzatura della Staffa).

Intanto, proprio sull’ansa di via Biscia, na decina de vagnuni (alcuni ragazzini) scalzi e accaldati rincorrevano, a frotte ondeggianti in un turbinio confuso e imprevedibile, una rudimentale palla di pezza.

Era stata costruita artigianalmente dal ragazzino più grande e più esperto, nel cortile di casa, arrotolando in un calzino di lana o in una calza di nylon brandelli di stoffe dismesse, poi rinforzata e appesantita cu lle curisce (strisce) di una camera d’aria, recuperata dalla ruota di una vecchia bicicletta in disuso.

Altri, cinque o sei, quasi appartati, fermi più in fondo verso vico San Biagio, attenti e riservati giocavano a tirassegnu cu lli nuci, disinteressandosi di tutto il frastuono che li circondava.

E’ un gioco antichissimo, che risale nella notte dei tempi.

Consiste nel tentare di colpire a turno, da una distanza convenuta, cu lla paddhra (una noce più grossa, scelta fra le più dure e robuste, possibilmente con un guscio a tthre cantuni) una serie di noci, che costituivano lu piattu (la posta), fornite, una ciascuno, da ogni giocatore partecipante e tenute allineate e dritte con sabbia o terra umida disposta su una riga, tracciata sulle chianche. Le noci colpite, e che rimanevano riverse per terra lontane dalla riga, costituivano la vincita.

A volte, se non di frequente, qualche giocatore sfortunato, comunque scorretto, o qualche spettatore invidioso, escluso dal gioco perché non aveva noci da mettere in palio, organizzava la catasca (dal greco katàschesis: il prendere con forza, l’afferrare qualcosa).

Gridando all’improvviso, come uno spiritato, “catasca“, arraffava da terra, con una velocità supersonica, quante più noci possibile e si dileguava in un baleno, correndo a piedi nudi per le vie del borgo, inseguito, spesso senza successo, dai compagni di gioco, inviperiti per l’affronto, per lo scorno, ma soprattutto per il furto. E al danno spesso si aggiungeva la beffa.

Infatti era facile, per chi era nato in quel rione, ricamato da una fitta rete di piazzette, corti, vicoli, viuzze e cortili, attraversare piazzetta Arcudi, dirigersi verso vico del Verme e svicolare da corte Ferrando per uscire a rretu llu spitale vecchiu (alle spalle del giardino del vecchio Ospedale) e poi perdersi fra vico Vecchio o vico Lucerna.

Magari a volte, in segno di sfida e con notevole faccia tosta, risaliva da via Vignola, o dalla via de lu Cazzasajette per vico San Biagio e tornava sul luogo del delitto per godersi impunemente, di nascosto, lo spettacolo di chi era rimasto sconsolato e seduto, a mani vuote, su llu pazzulu de na porta. Ma se veniva afferrato e riconosciuto, ia spicciatu de mmètere e de pisare (non aveva più scampo, perché non gli lasciavano addosso nemmeno i vestiti!)

Anche se nessuno poi, in fondo in fondo, si arrabbiava più di tanto, perché tutti sapevano che il rischio della catasca faceva parte del gioco e che tutti, a rotazione, potevano farla, o subirla.

Intanto due ragazzine, poco più che bambine, silenziose e composte con le loro treccine nervose, asimmetriche, rigide e sporgenti sulle orecchie, come imbalsamate, perché tenute su da un fiocchetto di stoffa colorata, erano sedute, una di fronte all’altra in una zona d’ombra, sul pazzulu di un anfratto di via Biscia, posto accanto al limbatale (soglia) della porta di casa. Giocavano serie e appartate a tuddhri ( sassolini arrotondati e ben levigati di pietra viva).

Era un gioco semplice, allora praticato da tutti i ragazzini perché non costava un centesimo, divertiva e rasserenava lo spirito e soprattutto portava a socializzare; era un gioco antichissimo che veniva da molto lontano (forse risale ai tempi dei Messapi) e si perdeva nella memoria della tradizione popolare.

Adesso è sconosciuto, come tanti altri.

Mazza e mazzarieddhru, la campana, ficura o scrittura, la schiattalora, le stacce, cavaddhru barone, a scundarieddhri, ai quatthru cantuni, alla rota, lu curuddhru, alla linea allu risciu, a spacca chianche ecc.erano alcune semplici testimonianze, veraci ed autentiche, della nostra cultura e della nostra tradizione.

Erano briciole della nostra storia, piccoli scampi del nostro vivere quotidiano, ora irrimediabilmente perduti. Peccato!

Il gioco de li tuddhri si svolgeva con cinque sassolini, scodellati per terra.

Un giocatore, estratto a sorte, afferrava, pizzicando col pollice e il medio della mano destra, un sassolino alla volta e lo lanciava in aria all’altezza del viso, cercando poi di recuperarlo, durante la ricaduta e prima che toccasse terra, nell’incavo che si formava sul dorso della stessa mano, raccogliendo a sé, e tirandoli in su, l’indice, l’anulare e il mignolo.

Le regole del gioco, che proclamavano il vincitore, erano varie e complesse e presentavano delle varianti a secondo dei tempi e dei luoghi in cui si svolgeva.

Non mancava, certo, la fantasia ai bambini!

Passatempi ingenui, semplici e solari che rappresentavano per i ragazzini d’allora, quelli venuti fuori dalla fame, dalla disperazione e dallo scempio morale e psicologico di una guerra vissuta direttamente sulla propria pelle, l’unico diversivo, l’unico divertimento, il loro solo vizio.

Questi rappresentavano per loro la cosiddetta droga povera, quella gratis che si comprava allegramente e liberamente sui marciapiedi, agli angoli delle strade, nei cortili di casa, fra le aiuole dei giardini pubblici, fra i viottoli di campagna e nella fantasia sconfinata, fatta solo di immaginazione, di candide finzioni e di sogni che rimanevano sempre tali, perché non svanivano mai.

La droga ricca invece, quella vera, (c’era anche allora) scorreva solo (fortunatamente per li vagnuni, che non corsero mai il rischio di essere infettati dalla cancrena letale del consumatore di droga a fini di spaccio) nei salotti bene, nelle tasche de li Signurini o nelle borsette delle pulzelle di alto lignaggio e serviva per scacciare la loro noia, ma non la loro insipienza. Poveretti!

Non era facile per loro passare le tante, inutili e vuote giornate, fatte di nulla, di vuoto assoluto, di ozio perenne nei loro ricchi palazzi desolatamente vuoti, ma riempiti di un assordante silenzio, bui e freddi, specialmente d’ inverno, nonostante i camini accuratamente accesi dalla servitù accorta e servizievole.

Il freddo, come la loro aridità, derivava sopratutto dalla mancanza del calore dei sentimenti, dalla incapacità di voler bene, di rispettare gli altri, i diversi, e riconoscere loro la inalienabile dignità di esseri umani.

I giorni, poi, che passavano d’estate nelle immense tenute di campagna erano sempre esageratamente riempiti solo di fatui sbadigli e di insulsi, stupidi capricci.

La loro, era solo una felicità artificiale, dorata ma finta.

Al di fuori da quei palazzi, o lontano da quelle assolate e lussureggianti ville, la vita era più ricca (di sentimenti), più viva, più felice, più vera, più solidale perché, pur se povera, era fatta di momenti autenticamente spontanei e più semplici.

Bastava affacciarsi sull’ansa di via Biscia per capire, gustandola, tutta la differenza !

Vi era un ingenuo, gioioso vociare divertito e scanzonato, fatto di schiamazzi vigorosi che rimbombavano di cantone in cantone. O un groviglio avvolgente di gambe annerite e sbucciate sugli spigoli arrotondati de li scansacarri (paracarri).

O un turbine di inevitabili spintoni che si potevano ricevere sull’onda frenetica e imprevedibile di una palla goffa e irriverente, che ti schizzava accanto.

Qui la vita batteva i suoi ritmi, mentre i giochi scandivano i tempi e le cadenze della felicità.

Questa allegra e scanzonata confusione convinse facilmente la comitiva de lu Cheròndula di scegliere, a ragion veduta, la soluzione della chiesa della Purità.

Oltretutto, così aveva deciso lu Piethruzzu! E dovevano necessariamente assecondarlo, perché, da attore navigato, era molto intransigente.

Pretendeva e otteneva, senza discutere, silenzio, calma, quiete piatta per raggiungere il giusto raccoglimento, scenograficamente adatto, per i suoi contatti… spirituali.

Per tutta questa messinscena qualcuno sosteneva (e forse non a torto) che lu Piethruzzu fosse tutt’altro che della buccata, ma un sornione, inossidabile, bonario… fiju de… bbona mamma.

 

 

NdR: Pubblicato su Il filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per la concessione

La dimensione metafisica nella pittura di Nicola Cesari

di Giuseppe Magnolo

Nicola Cesari è venuto a mancare in modo improvviso nel luglio 2010. La scomparsa di persone che contano nella sfera del nostro vissuto lascia sempre un senso di vuoto, ma al tempo stesso esalta nel ricordo le varie impressioni e sollecitazioni che hanno costellato i momenti di contatto. Nasce anche il bisogno di ripensare giudizi e valutazioni già espressi (vedi il saggio apparso ne Il Filo di Aracne di febbraio 2010 con il titolo “Memini ergo sum: Percorsi della memoria nella pittura di Nicola Cesari”), al fine di individuare aspetti rilevanti che siano sfuggiti per le diverse circostanze di stesura e di pubblicazione.

Abbiamo già evidenziato come l’espressione artistica di Cesari sia sempre da considerare come un tentativo di astrazione dal vissuto mediante una sintesi estrema generata da uno stato concettuale o emotivo innestato sull’esperienza propria ed altrui, filtrato dalla memoria, e riattivato per associazione mentale con i contenuti rappresentati. Tratti peculiari collaterali sono stati individuati nella cura e l’eleganza formale espresse con esattezza geometrica allusivamente simbolica, nella tesorizzazione del mito dell’infanzia che consente di raggiungere uno stato di grazia visionaria, ed infine il tentativo di ricondurre uno stato emozionale a puro effetto cromatico mediante l’uso sapiente del colore.

Dagli elementi definitori suddetti esula tuttavia un requisito importante al fine di pervenire ad una più comprensiva valutazione del modo in cui Cesari concepiva le diverse fasi della realizzazione artistica e le correlazioni tematiche che egli elaborava ed esprimeva sul piano figurativo. Tale aspetto attiene ad una componente di natura metafisica sicuramente presente in alcune opere (anche se in maniera non sempre palese e agevolmente decifrabile), su cui riteniamo utile svolgere alcune riflessioni.

Riguardo al problema religioso Cesari non gradiva in genere dimostrarsi particolarmente coinvolto, preferendo invece ritenersi uno spirito libero, curioso e tollerante verso comportamenti e principi etici anche diversi dai propri, poco propenso ad accettare i vincoli imposti dall’adesione ad una qualunque forma di ortodossia. Egli considerava una prospettiva di tipo laico più consona sia al suo stile di vita che ai suoi orizzonti culturali, ritenendo che potesselasciargli più ampi spazi di conoscenza, confronto e arricchimento.Inoltre il suo senso di ritrosia, proprio di chi conosce la complessità delle proprie pulsioni, lo induceva a non adagiare il suo bisogno di religiosità su una prospettiva acquiescente. E’ quindi naturale che la sua ricerca di spiritualità e trascendenza percorresse altri sentieri, quelli appunto attinenti all’ambito aristico-espressivo. Su questa linea di interpretazione possiamo meglio intendere alcuni elementi apparentemente marginali presenti in molte sue opere, ma certamente non irrilevanti o dovuti al caso.

Procedendo per categorie di riferimento, si possono rinvenire varie evidenze a sostegno della tesi proposta, traendo spunto da alcune opere che appartengono ad una fase relativamente recente della sua vastissima produzione.

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Figura 1

Possiamo innanzitutto individuare un richiamo simbolico di carattere architettonico nelle forme iconiche che spesso nei suoi dipinti racchiudono i soggetti rappresentati. Si tratta ad esempio di archi acuti che possono suggerire la sommità di una cupola (vedi figura 1), e quindi evocare la sacralità di un tempio, oppure forme ad ogiva (semplici, doppie, e anche triple) assimilabili al profilo di finestre presenti nelle cattedrali in stile gotico, attraverso cui possiamo cogliere la suggestione di accesso ad un luogo arcano o che rinvia ad una condizione interna di reclusione indotta dal trasporto mistico (vedi figura 2).

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Figura 2

In altre opere è possibile trovare diversi riferimenti di tipo architettonico, come ad esempio una sezione della volta di una cattedrale nella zona in cui il transetto interseca la navata centrale, oppure un “effetto campanile” generato dallo sciame luminescente prodotto dal riflesso lunare su una superficie riflettente, che poi si innalza nella volta celeste assottigliandosi quasi come la guglia svettante di una struttura architettonica esile e slanciata.

In una ipotesi interpretativa di tipo metafisico, è opportuno anche riconsiderare la funzione di alcune forme di carattere geometrico, in particolare la raffigurazione di una sfera, generalmente disposta in posizione piuttosto centralizzata rispetto all’articolazione complessiva della composizione. Di primo impulso questo elemento potrebbe ritenersi semplicemente riferibile alla visione orfico-pitagorica di figura geometrica che rappresenta la perfezione mediante l’isometria della distanza tra il centro e qualsiasi punto della circonferenza, mentre il movimento circolare lungo la stessa raffigura la visione deterministica dell’eterno ritorno, in cui ogni punto rappresenta contemporaneamente sia l’inizio che la fine. Ma Cesari non si ferma a questa concezione pagana o puramente laica, e crea ulteriori implicazioni. Come possiamo vedere nella figura 3, egli non solo replica su ciascun lato l’immagine della sfera (l’idea della Trinità Divina), ma sovrappone ad essa le bianche ali di una colomba (simbolo dello Spirito Santo), caricando l’opera di valenza superiore connaturata al senso del divino.

 

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Figura 3

Vi è poi un elemento di ulteriore rinvio all’idea di sacralità inerente al modo di intendere la fruizione dell’opera d’arte. Si può infatti notare che alcuni particolari dipinti di Cesari sono realizzati su legno con una tecnica che richiama una pala d’altare, elemento già sufficiente ad evocare la prospettiva religiosa suindicata. Ma ancor di più questo aspetto viene accentuato dal gesto quasi rituale richiesto per poter osservare l’opera, quando questa arriva ad assumere la forma di un polittico, come appunto avviene nel dipinto considerato. Inizialmente questo non si presenta visibile, perché celato dalle tavole laterali incernierate e richiuse a mo’ di ante. Occorre quindi che l’artista stesso, o qualcuno al suo posto, compia il gesto arcano di aprire le imposte di questa finestra per svelare l’immagine che essa nasconde. Necessariamente tanto l’esibizione quanto l’osservazione del dipinto avverrà con la stessa rituale solennità con cui un ministro di culto apre il piccolo uscio di un tabernacolo per esibire il calice con la preziosa reliquia ivi contenuta. Risulta quindi chiaro che l’artista ha intenzionalmente cercato un effetto che attribuisce un significato esoterico non solo al proprio gesto che permette la realizzazione di una sorta di rituale di iniziazione o professione di fede, ma soprattutto a ciò che attraverso il dipinto si offre alla visione dell’osservatore.

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Figura 4

Per altro verso possiamo trarre indicazioni che rinviano al senso del divino mediante alcuni dipinti che raffigurano degli oggetti-simbolo. Una di tali immagini è riportata nella figura n. 4, che può apparire come una semplice litografia, ossia dei segni grafici prodotti su una lastra di pietra, ma potrebbe anche alludere alla sacralità di quanto è in essa riportato, alla stessa maniera in cui vanno considerate le “Tavole della Legge” incise col fuoco sulla pietra, che Mosè ricevette sul Monte Sinai come canone su cui si fonda il corretto agire umano.

Un’altra significativa immagine-documento si può osservare in una pitto-scultura (riportata in figura 5), che presenta longitudinalmente una traccia luminosa di un certo spessore contro uno sfondo scuro. L’ipotesi più immediata è che essa raffiguri un libro chiuso osservato dal lato opposto al dorso, che non reca titolo o autore, e che è pronto per essere sfogliato da chi intendesse consultarlo ed interpretarlo. Ma perché non pensare attraverso questa immagine al “libro dei libri”, il più arcano ed importante che sia mai stato scritto, quello ispirato direttamente da Dio, su cui si può leggere quel che è stato e quello che sarà, il destino di ogni uomo, dell’universo, di Cristo stesso?

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Figura 5

Passando invece a considerare la tecnica figurativa incentrata sul colore e gli effetti cromatici con esso ottenibili, possiamo trovare altri riferimenti di natura biblica, come nel dipinto della figura 6, in cui sembra che l’artista abbia voluto raffigurare l’alba della creazione (Genesi, 1:2), allorché la materia era ancora informe e la luce era indistinguibile dalle tenebre.

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Figura 6

Oppure per contrasto possiamo vedere in figura 7 una resa cromatica successiva all’atto della creazione, in cui la luce e tutti gli elementi naturali manifestano il conseguimento di una giusta collocazione in un ordine universale perfetto, l’espressione di una visione teleologica dell’autore, che produce un effetto di tripudio luminoso attraverso un fitto ammiccamento di colori, e rinvia ad una concezione panica della realtà, in cui un senso di divina armonia sembra penetrare ogni singolo filo d’erba con effetti cromatici insieme esplosivi e rasserenanti.

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Figura 7

L’ipotesi interpretativa che abbiamo illustrato intende affiancarsi ad altri criteri di lettura senza pretendere di superarli o ridimensionarli, cercando di accrescere l’ampiezza e profondità di percezione e comprensione dell’opera d’arte. Lo scopo precipuo di qualunque studioso che analizza l’espressione artistica di un autore non può che consistere nel tentativo di contribuire ad agevolarne la comprensione, suggerendo con chiarezza i diversi livelli di interpretazione che ritiene possibili, e considerandoli come fondamento per ulteriori sviluppi. Questo si rende tanto più necessario con riferimento alla vasta produzione artistica di Cesari, spesso contraddistinta da elementi innovativi sia sul piano tematico che nella tecnica esecutiva.

Riteniamo comunque che si possa convenire sulla validità assoluta del “principio di inclusività”, nel senso di non escludere a priori un qualsiasi criterio interpretativo unicamente per ragioni di tipo preferenziale o meramente soggettivo. La plausibilità di una linea di interpretazione anche in chiave metafisica ci viene offerta dallo stesso autore, che nell’esporre i canoni fondamentali del suo modo di intendere l’espressione artistica ha più volte evidenziato la convinzione che non possono esistere percezioni ed interpretazioni univoche di un’opera d’arte, in quanto qualunque osservatore recepisce il prodotto artistico vedendolo con occhi diversi a seconda degli elementi che egli riesce ad attivare nell’atto di percezione. Tale diversità di requisiti è riferita non solo a quelli senso-percettivi, ma anche e soprattutto a quelli di ordine concettuale, legati al grado individuale di conoscenza, informazione, capacità di associazione attraverso la memoria, e via dicendo. Cesari affermava infatti:”Ciascun individuo vede lo stesso soggetto in modo diverso, e la sua capacità di percezione ed interpretazione è basata prevalentemente su quello che ricorda”.Nel sottolineare ancora una volta la funzione essenziale della memoria nella comprensione dell’opera d’arte, egli postulava anche una conseguente differenziazione circa i significati molteplici che essa può contenere e trasmettere.

Vi è infine una ulteriore riflessione che nella fattispecie ci sembra possa concedere spazio all’attribuzione di una capacità di visione mistico-religiosa in un’ottica individuale ma con effetti a volte diffusivi e condivisibili. Al fine di sostanziare tale convinzione trarremo spunto dalla massima di Terenzio “homo sum: nihil humani a me alienum puto”: sono un uomo, quindi tutto ciò che è umano mi appartiene. E’ ovvio che ciascun individuo impersona una concezione di humanitas con modalità diverse, e quella di Cesari rivelava insieme grande desiderio di conoscenza e afflato partecipativo, poi ricomposti in esiti di lucida sintesi in cui è sicuramente possibile cogliere un anelito di spiritualità, espresso oppure sottinteso. E dunque non avrebbe davvero senso limitare la ricchezza di suggestioni, idee ed emozioni, che con tanta dedizione la sua ricerca artistica ha saputo offrirci. Le sue opere ci consegnano un’eredità preziosa che possiamo riscoprire, a condizione di considerarle non nell’ottica fugace della contingenza, ma in quella più pacata e ponderata del tempo assoluto.

 

NdR: Pubblicato su Il filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per la concessione

 

Gli Spinola a Galatina

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di Giancarlo Vallone

È indubbiamente paradossale, e per più ragioni, che la stagione feudale degli Spinola a Galatina abbia lasciato così scarne tracce di sé; eppure le possibilità di conoscenza erano e restano molte: un dominio di lungo periodo, dal 1616 al 1801, e per un’epoca, poi, nella quale la documentazione non difetta; una famiglia magnatizia sull’intero scacchiere dei possedimenti spagnoli d’ Europa, e ‘Grande di Spagna’, indubbiamente assai ricca ed influente, anche se, per quanto ho potuto apprendere, i loro archivi e le loro ricche collezioni, anche di quadri (inclusi i loro ritratti) sono oggi dispersi. Quel che sappiamo noi, comunque, è quasi nulla e legato a pochi altri scritti, come un mio lavoro dell’antico 1984 che, in qualche modo cercano di sanare i silenzi presenti nelle pagine settecentesche del nostro Baldassar Papadia, che pure si proponeva di narrare le ‘memorie storiche’ di Galatina.

Il testo del Papadia, per altro, è animato da quell’irsuto spirito antifeudale così diffuso nella erudizione locale e nella storiografia municipale del Mezzogiorno d’antico regime ed ha modo di diffondersi largamente in questi sentimenti anzitutto contro i Castriota Scanderbeg, che dalla fine del Quattrocento fino a buona parte del Cinquecento erano stati duchi del paese. Quel che Papadia poteva pensare degli Spinola era stato certamente detto a sufficienza parlando dei Castriota; e proprio alla fine dell’opera il giurista galatinese afferma che non è suo “istituto di parlar di cause nelle presenti memorie”; in altri termini il silenzio sulla famiglia genovese è motivato dal complicatissimo e secolare contenzioso che opponeva l’amministrazione cittadina (universitas) ai suoi feudatari; in un punto, poi, Papadia ricorda anche un’allegazione sulla ‘mastrodattia’ (il diritto di eleggere in genere un concittadino come mastro d’atti, o redattore in scritto degli atti, nel tribunale baronale) che certo apparteneva a quel contenzioso. In altri termini la storia delle cause e del contenzioso, non sarebbe per Papadia, una parte della storia ‘vera’ del paese; ma la sua distinzione è capziosa, e certo nasce dalla esigenza di non schierarsi apertamente contro il fronte ducale, che indubbiamente contava degli ‘zelanti’ fautori in Galatina stessa.

Però il buon Papadia mente, perché sa bene che la storia delle liti è la linfa dello spirito civico, e della sua stessa sopravvivenza, e dunque della sua storia, e poi egli, senza dirlo, usa queste liti, e il loro contenuto ‘storico’ (lo possiamo finalmente riscontrare da una serie di allegazioni settecentesche fino ad ora sconosciute) proprio come materiali informativi ed eruditi già per l’età dei Castriota, e grazie ai quali egli ad esempio descrive, da un anziano testimone di veduta che era intervenuto in un processo del primo Seicento (richiamato poi in un’allegazione successiva), proprio il duca Ferrante, negli umori e nell’aspetto, perché “teneva in Castello una fossa, ove faceva ponere i carcerati, e… era homo alto come un gigante”, che sono, quasi alla lettera, le parole vergate poi dallo storico galatinese. Tuttavia anche il Papadia omette un particolare di fondamentale importanza che noi invece apprendiamo ora, e che consente di valutare in tutta la sua complessità la stagione galatinese degli Spinola, e la posizione, di fronte ad essi, dell’amministrazione universale.

centro storico di Galatina
centro storico di Galatina

Alla estinzione del dominio dei Sanseverino, successori dei Castriota, il distretto feudale galatinese è acquistato, nel 1608, da un personaggio che ha lasciato in Galatina, e nella memoria locale, pochissime tracce: Antonio Carafa, marchese di Corato; ma l’acquisto del Carafa, a caro prezzo, include un potere giurisdizionale illimitato, “la giurisdizione civile criminale e mista in prima seconda e terza istanza”. Insomma ogni contenzioso civile o penale, esaurisce il suo corso, ch’è previsto, su base del diritto romano, nei tre gradi di giurisdizione, nella mano feudale, anche se poi, per prassi, era possibile addirittura una prosecuzione della causa nelle corti regie con ulteriore esborso di denari per i malcapitati o avventurosi litiganti. Non sono pochissime, ma neanche molte le città ed i distretti feudali sottoposti ad un simile gravame ed all’urto d’un simile potere, che, a ben riflettere, rende costosissimo ogni processo, ed estremamente pericoloso, ed impari poi, un eventuale conflitto con il feudatario, che lo può far definire per ben tre gradi dalle sue magistrature.

Il Carafa ha Galatina solo per cinque anni, ma ben presto, dopo alcuni passaggi di mano, il distretto feudale, con inclusa una simile forza giurisdizionale, nel 1616 giunge in appunto in potere degli Spinola genovesi. In un contesto come quello dell’età vicereale del Mezzogiorno, in cui la sovrapposizione di un potere feudale ad una universitas, e cioè, alla fine, il conflitto tra poteri, è una realtà istituzionale, e con una disparità di forze in campo, nel caso specifico, così evidente, non sorprende che l’iniziativa del contenzioso, ch’è comunque un tratto comunissimo per quasi ogni distretto feudale, fosse appunto degli Spinola. Sorprende, caso mai, la capacità di resistenza dell’amministrazione universale. Alcune cose, di questa forza cittadina, le sapevamo. Sapevamo ad esempio che l’universitas di Galatina, pur subordinata ad un feudatario, giunge a divenire, o ad affermare di essere, a sua volta ‘baronissa’, almeno fin dal 1577, dei proventi delle cause discusse nella corte baronale, con la serie di complicazioni ch’è facile immaginare, e, paradossalmente, consumando abusi feudali a danno del proprio feudatario, anche se questo titolo feudale non compare più (ma resta il potere a titolo di semplice privilegio) nella documentazione della fine del Settecento, travolto, probabilmente da un profilo perdente nel contenzioso con gli Spinola.

Sapevamo anche di un altro titolo baronale di Galatina, che infatti, nel Settecento ha in feudo lo ius scannagii, e che già indica la grande fioritura dell’arte dei pellettieri. Quel che ignoravamo, invece, e che il Papadia si guarda bene dal rivelarci, è, ad esempio, che gli avvocati degli Spinola verso il 1768, giunsero a provare che proprio il prezioso privilegio della mastrodattia, che si voleva concesso da Ferrante d’Aragona nel 1469, era un falso, anche se poi sembra che il duca Spinola perdesse comunque la causa.

Se il Papadia non fa alcun cenno alla questione di questo falso, è perché, per lui, gelosissimo custode dello spirito municipale, la verità del giudicato favorevole, che assai probabilmente avrà assorbito l’eccezione di falso, è più importante della verità storica, dato che a quel falso possiamo forse credere.

centro storico di Galatina
centro storico di Galatina

Ora questa lotta incessante e dura, che a ben vedere crea spazi di libertà e di modesto benessere e che porterà Galatina, nell’ultimo decennio del Settecento, all’ambitissimo titolo di città, a simbolo di un effettivo e costante progresso e di una certa articolazione sociale; ebbene questa lotta deve il suo tratto moderatamente vincente anzitutto ad una fortunata circostanza di fatto: l’assenza quasi continua dei duchi Spinola da Galatina. E non si tratta della solita assenza del barone meridionale, che va a Napoli per lunghi periodi e poi rientra nel feudo; si tratta di un’assenza dalla stessa Italia meridionale, legata alla ricchezza ed alla alta posizione di questo ramo della famiglia genovese. E gli Spinola, naturalmente lo sanno. Nel 1736 il loro avvocato, senza mezzi termini, dirà: “non si arrosiscono le parti (galatine) di parlare di osservanza, possesso, e prescrizione contro di un barone forestiere il quale è stato sempre assente dal Regno, e la sua residenza l’ha fatta sempre in Genova, sua Padria, o in Milano, e gli Agenti pro tempore sono stati l’istessi suoi vassalli di San Pietro (in Galatina) come furono per molto tempo gli Andreani, quali poteano a lor modo pregiudicare al Barone, e far beneficio all’Università?…“.

In realtà le cose stavano in modo un poco diverso; se è vero che i duchi Spinola quasi mai si sono affacciati nel loro feudo dell’estrema Puglia, è però anche vero che non di rado sono stati loro ‘governatori’ o ‘agenti ‘ in Galatina membri cadetti della famiglia, che in qualche modo hanno esercitato poteri e controlli nell’interesse del ramo feudale. Tuttavia è indubitabile il ruolo fiduciario che gli Andriani (e in qualche caso anche i Gorgoni) hanno avuto e il loro rapporto intenso con gli Spinola, protratto per generazioni, e del tutto in sintonia con la loro scalata sociale che dal mestiere di giurista, secondo un iter consueto nel periodo d’antico regime, ha portato anche loro alla proprietà feudale, conservata poi, fino all’abolizione della feudalità, della vicina Santa Barbara. Tutto questo serve a spiegare, come si diceva, appunto quel progresso costante della città, anche durante secoli, come il Seicento, che erano stati di generale involuzione e povertà. Anche per questo non c’è da meravigliarsi nel constatare che le ‘parti galatine’ non arrossirono affatto; il contenzioso è stato sempre ininterrotto, e termina, in definitiva, con la fine della feudalità, cioè in altre parole quando cessa la ragione istituzionale del contendere.

 

 NdR: Pubblicato su Il filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per la concessione

Salento e Società Segrete

Nel Salento ve ne erano oltre cento, mentre un migliaio nell’intero Regno delle Due Sicilie

LE SOCIETÀ SEGRETE

Erano movimenti clandestini sorti per contrastare il governo borbonico o per difenderlo

di Mauro de Sica

Premessa

Grazie allo storico Pietro Palumbo di Francavilla Fontana, al notaro Nicola Pignatelli e a Ferrante Tanzi, direttore dell’Archivio di Lecce, la storia salentina del primo Ottocento si è potuta arricchire adeguatamente. Il primo, grazie ad una ricerca meticolosa, ha studiato in lungo e in largo il Risorgimento Salentino; il secondo ha redatto uno zibaldone di cause criminali risalenti alla Repubblica Napoletana del 1799, mentre il terzo ha riordinato pazientemente molte notizie sulle Sette o Vendite Carbonare.

Poco è emerso dagli Atti di polizia relativi al periodo 1800-1860, ammucchiati qua e là disordinatamente in diversi luoghi del Regno. La scarsità di notizie è anche dovuta al fatto che molti storici dell’epoca erano asserviti al regime borbonico, per cui poche verità furono consegnate alla Storia; anzi, uomini di provato stampo repubblicano e patriottico, come Oronzo Massa, Giuseppe Libertini, Nicola Mignogna, Giuseppe Fanelli, Liborio Romano, Epaminonda Valentino, Sigismondo Castromediano, Antonietta de Pace e altri, furono a lungo perseguitati, incarcerati, torturati. Alcuni marcirono in galera, altri furono passati per le armi, in pochi si salvarono.

Origine delle società segrete

Va innanzitutto precisato che, nel Meridione d’Italia, le società segrete erano già operanti ancor prima della Repubblica Napoletana del 1799, fallita nel sangue dopo appena mezz’anno.

A quei tempi si contrapponevano due fazioni estremistiche con finalità diverse: i Giacobini da una parte, i Realisti (poi diventati Sanfedisti, Concistoriali, Trinitari, Calderari) dall’altra.

Sia gli uni che gli altri si muovevano clandestinamente. I primi erano convinti assertori che la libertà, l’indipendenza e il retto governo si potessero ottenere soltanto con una Repubblica democratica. Si muovevano nell’ombra, ma erano legati da vincoli indissolubili e da una buona rete organizzativa. Anche i secondi agivano in clandestinità, ma erano foraggiati e manovrati dai Borbone. Appoggiati dal clero e da alcuni nobili fedeli alla corona, i realisti ritenevano che i giacobini fossero nemici del Papa, di Cristo e del Trono e, come tali, dovevano essere eliminati. Essi usavano tutti i mezzi, leciti o illeciti, per scovarli e combatterli. Molti esponenti giacobini di spicco perirono per mano realista.

 

La società segreta dei Carbonari1

La carboneria vera e propria era stata introdotta nel Regno delle Due Sicilie intorno al 1807, forse dal generale francese Miot, e aveva attecchito immediatamente in quasi tutti gli strati della popolazione. Molti borghesi e nobili napoletani erano stati adeguatamente istruiti e guidati da alcuni ufficiali transalpini al pensiero politico giacobino,in modo che fosse diffuso in tutte le terre del Meridione, sino a radicarsi nelle coscienze di ogni cittadino. Nel 1811 il governo repubblicano di Gioacchino Murat aveva istituzionalizzato il movimento della carboneria, conferendogli il necessario riconoscimento politico e tutelandolo legalmente; ma ben presto le sette carbonare gli si rivoltarono contro per la politica economica sbagliata e ben distante dall’iniziale pensiero riformista.

La finalità precipua delle sette carbonare, che nella struttura erano molto simili a quelle massoniche, era l’emancipazione di ogni uomo e la sua uguaglianza di fronte alla società, alla legge e a Dio. A differenza delle sette massoniche, in quelle carbonare vi era un ordine androgino, cioè vi potevano aderire sia uomini (chiamati buoni cugini) sia donne (chiamate sorelle giardiniere). L’emblema di ogni setta carbonara riportava numerosi simboli caratteristici: la croce drappeggiata, la corona di spine, il fascio e la scure, la spada e il flagello, Marte e Pallade Frigia, il gallo sull’òmphalos, l’albero, il sole, la terra, l’acqua, la bilancia, la scala, il Vangelo, il Cristo e altri minori. I vari simboli erano collocati intorno ai vertici di due triangoli equilateri intersecanti, uno dei quali capovolto sull’altro nella parte mediana. I lati dei triangoli erano costituiti da lunghe catene, a testimonianza delle sofferenze del Cristo, redentore degli oppressi. La Carboneria era in pratica la società degli umili e dei perseguitati. Cristo era considerato il primo carbonaro, san Teobaldo era il patrono della setta. Nella parte interna dei triangoli vi erano delle lettere maiuscole, disposte su due righe. La prima conteneva: A…G…D…G…M…D…U…, vale a dire “A Gloria Del Gran Maestro Dell’Universo”; la seconda, invece, S…G…A…D…N…P…S…T…, cioè Sotto Gli Auspici Del Nostro Protettore San Teobaldo”.

Come in tutte le sette, l’iniziazione alla Carboneria avveniva con riti che avevano del simbolico, del misterioso ed anche del pauroso. All’iniziato erano bendati gli occhi e poi era condotto nella baracca, luogo segretissimo, considerato il Tempio della Virtù. Qui, alla presenza di tre luci (il Gran Maestro e due Maestri) e di persone incappucciate, era sottoposto a una serie di domande e ad alcune prove di coraggio. Se l’aspirante carbonaro superava i vari ostacoli e dimostrava di possedere ingegno, fede e coraggio era sbendato. Si ritrovava con quattro pugnali puntati alle tempie e con il Gran Maestro (anch’esso incappucciato) che gli ricordava che, se avesse tradito, sarebbe stato ucciso brutalmente, il suo corpo fatto a pezzi, bruciato e le ceneri sparse al vento. Dopo di che, l’iniziato era invitato a giurare e a firmare con il suo stesso sangue una pergamena. Per ultimo, il Gran Maestro gli consegnava un nastro tricolore (rosso, nero e celeste), chiamato chantillon, e, pubblicamente, lo nominava Apprendista. Alla fine del rito iniziatico, gli rammentava che l’orgoglio, la vanità e le ricchezze dovevano essere bandite dalla sua vita e che nella sua mente dovevano alloggiare soltanto l’umiltà, la giustizia e la fratellanza.

Ogni affiliato non conosceva altro che i superiori immediati della vendita (setta) di appartenenza, ai quali doveva cieca obbedienza. Nel corso della sua vita poteva salire la scala gerarchica, passando da Apprendista, a Maestro, a Gran Maestro e, infine, a Grande Eletto.

I carbonari, per riconoscersi, dovevano far ricorso a un complicato sistema di battute, di toccamenti, di passi e, infine, a seconda delle situazioni, ad una sequenza di particolari parole d’ordine.

Negli anni a seguire si costituirono in tutto il Salento numerose vendite carbonare. I titoli con cui erano denominate risentivano del risveglio della letteratura classica, iniziato dall’Alfieri, che aveva in odio i tiranni.

A Lecce troviamo ben sei vendite de L’Idume, il cui Gran Maestro era Girolamo Congedo, ad Otranto L’Idro, a Galatina I Novelli Bruti, guidati da tale Giovanni Campa, a Gallipoli L’Asilo dell’Onestà e L’Utica del Salento, a Nardò La Fenice Neretina, a Squinzano Il sollievo dell’Umanità, a Monteroni I figli di Muzio Scevola, a Copertino I Figli della Ragione, a Soleto Il Sole Rallegrato, a Carpignano Gli Alunni di Marte, a Novoli Il Nuovo Carbone e Il Novilunio, a Taurisano L’Aquila Imperiale Romana, e tanti altri ancora. A Lecce gli affiliati si riunivano presso la bottega “Alle quattro Spezierie” di tal Giacomo Macella o presso il “Gran Caffè” di Raffaele Persico, in Piazza Sant’Oronzo.

La setta dei Guelfi

Una setta carbonara moderata era quella dei “Guelfi”, presente in molte parti del Meridione e dello stesso Salento. Gli affiliati si limitavano a diffondere l’ideale repubblicano e liberale, piuttosto che prendere parte a movimenti insurrezionalisti e violenti.

Una tra le sette più affermate era, senza alcun dubbio, L’Utica del Salento, sorta a Gallipoli intorno al 1820 da una costola della vendita carbonara L’Asilo dell’Onestà, sanguinaria e interventista. Pare che i motivi della scissione siano da collegare all’uccisione di un gendarme gallipolino, omicidio non condiviso da alcuni affiliati. La nuova setta, guidata nei primi anni da Gregorio de Pace (padre della più famosa Antonietta) e, alla sua morte, dal fratello, il canonico Don Antonio, si riuniva nelle casine di Stracca e di Camerelle, nei pressi di Villa Picciotti (Alezio).

La setta dei Calderari

Rimpossessatosi del regno nel 1815, Ferdinando IV di Borbone aveva immediatamente vietato logge massoniche e vendite carbonare. Per completare la sua campagna contro i Carbonari, il sovrano aveva autorizzato e sostenuto una setta a lui fedele, i Calderari, o anche Calderai, che diedero inizio ad una serie infinita di regolamenti di conti. Quella dei Calderari era un’associazione segreta reazionaria e filo-borbonica, chiamata anche società «del contrappeso», perché la sua attività era contrapposta a quella dei carbonari. Il sangue si spargeva per tutte le terre del regno e la delazione era diventata un fatto quotidiano. In provincia di Lecce, resta famosa la setta dei calderari di Gallipoli, guidata dal notaio Francesco Sambati, il quale più volte si scontrò con gli affiliati de L’Asilo dell’Onestà. È da ricordare anche il violento Ciro Vergine da Maglie.

Malgrado queste pressioni la Carboneria salentina continuò a crescere.

A capo della setta controrivoluzionaria dei calderari c’era il Principe di Canosa Antonio Capece Minutolo, graziato da Ferdinando ai tempi della rivoluzione del ’99 e poi schieratosi sull’altra sponda, tanto da essere nominato ben presto Direttore di Polizia del Regno. Il nobile si lasciò andare a continue scorrerie nelle zone ad alto indice di carboneria. Godendo del favore del governo, i Calderari agivano in modo inconsulto e sfrenato, compiendo violenze e azioni brutali. Per tale motivo la setta, dopo alcuni anni, fu sciolta e perseguitata dallo stesso sovrano.

Altre sette di minore importanza si mossero nella prima metà dell’800. Su tutte ricordiamo i Concistoriali e i Trinitari, dalla parte borbonica, mentre i Filadelfi, gli Edennisti, i Turbolenti e, soprattutto, i Decisi, dalla parte liberale.

Conclusione

A un Ottocento, fervido e movimentato, in cui gli uomini si sono battuti strenuamente per il conseguimento della Libertà, della Giustizia e della Pace, ha fatto seguito un secolo pieno di guerre e di sangue, in cui sono state conquistate soltanto le Carte Costituzionali e una vita (apparentemente) democratica, ma ancora inquieta, preoccupante e molto distante dalle grandi aspettative umane e sociali.

Oggi, purtroppo, godiamo di una libertà contenuta, ristretta, tascabile. Vi sono persone che ne usufruiscono a piacimento, a volte anche per perseguire degli interessi illeciti; ad altre, invece, è concesso il minimo indispensabile per muoversi entro spazi vitali sempre più ridotti e ritagliarsi una vita appena appena decente. La vera libertà, quella di cui tutti vorrebbero usufruire, è ancora inchiodata sulle pagine della Carta Costituzionale e stenta a muoversi tra la gente. Occorrono decenni e decenni di dura fatica, di lotte civili, di impegni sociali perché si riesca ad abbattere definitivamente le roccaforti egemoniche e possa avverarsi il grande disegno che l’uomo si porta dietro dall’alba della Storia.

Estratto da “http://it.wikipedia.org/wiki/Calderari

 

1 La Carboneria era sorta dalla setta dei “Filadelfi”, chiamati anche “Filateti”, il cui capo era Filippo Buonarroti.

 

NdR: Pubblicato su Il filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per la concessione

Donne salentine alle 5 di mattina. Ad Otranto

otranto

 

di Francesco Greco

 

Il 2013 è donna. E’ entrato pudico e pregno di belle promesse scacciando un anno vecchio che in tanti non vedevano l’ora di rottamare poiché è coinciso con sacrifici da lacrime e sangue, disastri d’ogni genere e default infiniti. E l’ha fatto portato dalle voci di donne dell’altro secolo, sulla frequenza della memoria e dell’identità, che narrano le loro storie tormentate ma dignitose, per tentare di sfuggire al tempo insonne che come un tarlo infido corrode tutto sino a non lasciare tracce.

Vincenzina la “tabbaccara” (tabacchina), quinta di undici figli, detta la “Moretta” per la carnagione olivastra e il colore dei capelli, Nunziata “vedova bianca” che scrive lettere sgrammaticate al marito Nicola che è partito per la Merica dove lavora in una fabbrica di ferro, Teresina che iniziata al sesso dal barone Ignazio, che la crede una sua proprietà, sposa Marcello Musca, soldato tornato dal fronte che ha perso la moglie a causa di una polmonite ed è rimasto solo con due bambini da crescere, nonostante le lusinghe del potente nobiluomo, Immacolata invece va a nozze con Efrem, soldato ebreo scaricato a Santa Maria al Bagno (Nardò): “Domani ti cucino un piatto di vermicelli con il baccalà… Credo che tutte le religioni del mondo nascano dall’amore”. La “mammana“ (levatrice) Uccia Capirizza che aiuta una ragazza a partorire e poi “decisi di prendere con me quella creatura che il destino mi aveva fatto incontrare e dal quel giorno divenni madre…”. Caterina giovane vedova “bella e altera”, che rifiuta le proposte di matrimonio dei paesani e si dedica alla sua famiglia lottando “per la sua dignità e per il futuro dei figli”.

Una gallery di donne del mondo di ieri, che abbiamo troppo velocemente relativizzato, senza metabolizzare i suoi valori immortali, per tuffarci in una modernità alienante che formatta ogni individualità, e che riappaiono sotto altre forme, ma con tutta la grande forza dialettica anche oggi, all’epoca di Facebook. Dopo la commovente performance il 26 di dicembre a Nociglia (alla Casa di riposo fra gli anziani grati) – una esperienza che fa il paio con l’altra che il regista ha vissuto due anni fa con i detenuti-attori nel Carcere di Milano-Bollate in un’altra sua rappresentazione dal titolo “Natura e Cultura nel mondo romano” , in attesa di recitare a Roma e l’8 marzo di nuovo in Salento, al Teatro Illiria di Poggiardo,  aspettando la prima alba dell’anno nuovo (foto di Filomena Giorgino) nel punto più a est d’Italia (Otranto), lo spettacolo tratto da “Volti di carta. Storie di donne del Salento che fu” della scrittrice pugliese Raffaella Verdesca è stato rappresentato dalla Compagnia “Ora in scena!” di Poggiardo a Punta Palascìa, alle pendici del celebre Faro, alle 5 del mattino, davanti a un pubblico attento e coinvolto, impressionato dalla cifra neorealistica del testo adattato dal regista teatrale Paolo Rausa, un maestro del teatro italiano, quello fatto con poche risorse ma con tanto cuore, che ha già rappresentato in diversi luoghi della penisola “L’idea di Italia nella letteratura: da Dante a Pasolini” nell’occasione del 150° dell’Unità dell’Italia e l’anno scorso l’opera teatrale “Sguardi sul Mediterraneo. Miti Leggende Storie”.

Altri personaggi: Rosaria Rita Pasca (Donna anziana che affida al vento le vecchie foto e i documenti), Norina Stincone (Vincenzina), Pippi (Francesco Greco), Maria Orsi (Nunziata), Paolo Rausa (Nicola ed Efrem), Ninetto Cazzatello (Marcello), Tiziana Montinari (Teresina), Francesco Greco (Don Ignazio, il barone), Cinzia Carluccio (Immacolata), Florinda Caroppo (Uccia Capirizza), Lucia Minutello (Caterina). Musiche di Pasquale Quaranta (P40), regia tecnica di Ornella Bongiorni.Dopo lo spettacolo, tutti sulla terrazza a guardare l’orizzonte che lentamente scolorava nell’alba. Tamburi e tamburelli hanno acceso il ritmo della pizzica. Una ragazza, Silvia Primiceri, di Casarano, addolciva il freddo dell’attesa passando con un vassoio di dolcetti fatti da lei (il suo sogno è aprire una pasticceria: auguri!). La luna piena campeggiava discreta come in una scenografia a picco sulla location, illuminando le scogliere di una atmosfera carica di energia dolce e le centinaia di persone giunte da ogni parte del mondo al beneaugurante appuntamento con l’Alba dei Popoli. Persino un missionario italiano che lavora in Nicaragua. Decine i reporter e i cineoperatori armati di videocamera, smartphone e quant’altro per immortalare l’evento. Faceva la comparsa persino un branco di delfini nuotando davanti al Faro e poi verso Badisco (l’approdo di Enea è colmo di monnezza!). Ma il sole, offuscato da una barriera di nuvole che occultava la costa albanese, tardava a sorgere. Previsto per le 6 e 40, per la Storia, è riuscito a vincere l’ostacolo solo alle 7 e 20 del primo giorno del nuovo anno salutato da una scarica di flash. Il tempo di un ultimo vortice di pizzica e di un altro brindisi accompagnato da una fetta di mascarpone (il panettone quaggiù non è molto popolare: richiama l’odiata iconografia leghista), e la folla si è sciolta come ipnotizzata dall’astro sovrano dell’universo. Tutti avevano sul viso un sorriso di infinita dolcezza e di quieta bellezza: le ragazze avvolte in sciarpe pesanti e plaid colorati e gli uomini con cappelli e giubbotti pesanti. E mentre i delfini sparivano leziosi all’orizzonte verso Porto Badisco, la socialità spontanea e contagiosa di un rito solenne, il cui fascino è immutato nel tempo, rendeva l’atmosfera serena e gaia, come se tutti, scaldati dallo stesso sole,dalla sua energia,appartenessero alla stessa etnia che include i popoli di tutto il mondo, condividessero un comune immaginario e avessero trovato il loro Graal, una formula magica capace di sintonizzarti con gli altri, il mondo, gli Universi possibili.

Ciao Otranto, e grazie per quest’altro Capodanno con tutti i Popoli della Terra: ci si vede fra un anno…

Dai Loukoumades ai purciddhuzzi

 

 

di Pino de Luca

 

Nel Libro III dell’Eneide Virgilio descrive, in qualche modo, quella che fu detta Magna Grecia. Numerose imprecisioni ne costellano la storia ma non sarà qui ed ora che esse troveranno lume. La Magna Grecia è, qui, solo il punto primigenio dal quale nascono i Loukoumades: farina di frumento impastata con acqua, latte e sale, lasciata lievitare per qualche ora e, ridotta a palline, fritta in olio di oliva bollente finché non diventa dorata. Dopo, ben scolata dell’olio, condita con miele e aroma di cannella.

Siamo tra il VI e il II secolo a.c., quando, da Cuma ad Ancona, l’italica penisola è punteggiata da colonie di stirpe Greca. Con i Greci hanno viaggiato nella storia le “palline” fritte dolci che nella zona di Parthenope diventano stroggoulos (rotondi) e, negli anni, struffoli

Ogni colonia aveva i suoi loukomades, e ogni colonia la sua contaminazione linguistica: ciciriata in Basilicata e Calabria, cicerchiata nelle Marche, ciceriata in Abruzzo, pignolata in Calabria. E in Puglia accadde di tutto. Popolazioni autoctone divise in mille gruppi e gruppuscoli, consolidate da antiche civiltà, tiraron fuori Pizzi Cunfritti, Sannacchiudere, e le varie declinazioni dell’amato suino: Purciddhruzzu, Purceddhruzzu, Purcidduzzu e Purcedduzzu.

Loukoumades che prendono nome ed occasione dalla forma, dal tempo e dalla regione. Sicché la pignolata si ottiene mettendo le palline nel cartoccio e poi rivoltando il medesimo, la ciciriata o cicerchiata (con palline a forma di ceci o di cicerchia) si costruisce versando le palline intorno ad un bicchiere ed ottenendo una specie di vulcano ciambella e così via.

Sui purciddhruzzi non v’è contea, paese, famiglia o persona che non ne abbia una variante, una sua variante. Dal vino bianco nell’impasto alla modalità di sciogliere e scegliere il miele, alla forma del purciddhruzzu (pallina, cilindro, ricciolo o nodino), dalla “massa dura” che si deve rompere irregolarmente alla “separabilità” di ciascuna pallina, dall’uso dell’alloro ai canditi, agli anisini. Il purcirddhruzzu con il miele secco e quello con il miele filante e quelli che invece del miele usano il vincotto di fichi o il mosto cotto di uva.

E la buccia di limone, di arancio o di mandarino. O di bergamotto?

Qualcuno li inforna e qualcun altro ci aggiunge cioccolato o “mendule ricce”, dall’Immacolata all’Epifania i purciddhruzzi abitano nelle case dei Sallentini di Idomeneo, e a carnevale si fanno Cartiddhrate. Barocco puro.

Ma il purciddhruzzo è un’altra cosa, è socialità nel prepararlo e nel consumarlo, è segno di prosperità e di allegria. Il Purciddhruzzo non tradisce, è buono anche quando non è buono, non va mai a male e dà sapore al tempo. Si mangia piano per forza, si gusta per costruzione, e si continua per passione anche all’infinito. E dove prese terra l’Ecista Falanto, proprio perché troppo attraenti, i probi spartani li chiamano “Sannachiudere”.

Un giorno, la comunità dei Loukoumades si riunirà. Magari per decretare chi ne è l’interprete migliore. Noi, Sallentini di Idomeneo, qualche cosa da dire sull’argomento credo che l’avremo!!!

Lu ricchìnu (il colchico): bello, utile, ma un po’ pericoloso.

di Armando Polito

immagine tratta da http://luirig.altervista.org/photos-ni/colchicum-cupanii.htm

nome scientifico: Colchicum Cupanii Guss

famiglia: Liliaceae

nome comune: colchico

nome dialettale neretino: ricchìnu 

etimologie: La prima parte del nome scientifico (Colchicum) è un aggettivo latino (dal greco kolchicòn) che significa della Colchide, con evidentissimo riferimento alla sua tossicità1; la Colchide, sulle estreme rive del Mar Nero, fu la meta di Giasone e dei suoi Argonauti per la conquista del vello d’oro con la complicità della maga Medea, figlia del re locale, innamoratasi dell’eroe che aveva potuto così fruire delle sue arti magiche; e, si sa, in magia le pozioni, velenose e non, hanno un ruolo determinante. La seconda parte (Cupanii) è il caso genitivo di Cupanius, cognome latinizzato di Francesco Cupani (1657-1711), francescano palermitano, studioso della flora siciliana2, sicché il tutto in italiano suonerebbe colchico di Cupani. Il nome della famiglia (Liliaceae) è forma aggettivale da lilium=giglio). Per il nome comune vale quanto detto per la prima parte di quello scientifico. Il nome dialettale (ricchìnu) è un omaggio al fiore che per forma e dimensioni potrebbe essere (ammesso che non lo sia già stato) fonte di ispirazione per un orefice nella realizzazione di un orecchino.

Inizio la consueta carrellata sugli autori antichi col greco Dioscoride (I° secolo d. C.): “Alcuni chiamano efemero3 un bulbo selvatico che altri (anche i Romani) chiamano colchico e che verso la fine dell’autunno fa sbocciare un fiore biancheggiante; inoltre le foglie sono simili a quelle del bulbo

Il rosmarino

di Armando Polito

nome scientifico: Rosmarinus officinalis L.

famiglia: Labiatae

nome italiano: rosmarino

nome dialettale comune alle tre provincie salentine: rosamarina

 

Etimologie: la prima parte del nome scientifico e il nome italiano sono dal latino rosmarìnu(m), composto da ros=rugiada (in latino di genere maschile) e marìnus=marino (con riferimento all’azzurrino del fiore)1; ne risulta uno dei nomi botanici composti che denotano maggior estro poetico. La seconda parte del nome scientifico è voce del tardo latino, forma aggettivale da officìna=laboratorio, con riferimento alle proprietà medicinali della pianta. Il nome della famiglia è forma aggettivale da làbium=labbro.

Il nome dialettale supporrebbe un incrocio con rosa, come dimostrerebbe il genere femminile  del secondo componente e, alla fine, quello dell’intero composto2.

Ecco le più significative testimonianze degli autori antichi, cominciando da quelli latini.

Virgilio (I° secolo a. C.): “(La terra pietrosa) poco profonda a stento offre alle api la casia e il rosmarino”3.

Orazio (I° secolo a. C.): “Non spetta a te propiziarti con grande sacrificio di animali le tue piccole divinità, a te che le coroni di rosmarino e delicato mirto”4.

Ovidio (I° secolo a. C.): “Profumano il rosmarino e gli allori e il nero mirto…”5;”… così che ora col rosmarino, ora con la viola o con la rosa si

Stampa e sabbie mobili

da: http://www.ragusanews.com/

di Pino de Luca

Le sabbie mobili, nella filmografia avventurosa degli anni sessanta, erano un classico. Luogo di giustizia divina che si abbatteva implacabilmente sul malvagio o che provocava un fremito d’ansia al protagonista impegnato a salvarsi da morte certa , più spesso, a salvare dall’avido gorgo la propria amata. Le sabbie mobili in agguato, infide, profonde e che, lentamente e inesorabilmente avvolgono, avviluppano, conducono allo stato di zombie sepolto vivo.

Le sabbie mobili sono il potere, normalizzano chiunque ci mette il piede dentro, chiunque provi, immergendosi, a scoprirne il mistero. Le sue possibilità di successo sono nulle, la riemersione impossibile. A volte le sabbie mobili espellono qualcuno, per caso, indigestione o eccessivo affollamento. L’orrido però continua ad attrarre, chi viene espulso sente una sorta di minus e una irresistibile attrazione a rituffarsi nel mondo in cui tutto accade senza rumore, in cui tutto è denso, melmoso e il tempo trascorre inutilmente senza produrre cambiamento alcuno.

Ma il potere è necessario, utile perfino, all’organizzazione umana. Nessuna forma di società può esistere senza potere, e tuttavia è possibile un esercizio dello stesso senza melma e senza sabbie mobili. Può esistere un potere limpido, come un lago dalle acque chete, che a volte s’intorbida per la tempesta, per un affluente lordato da inquinatori, ma è capace di chiarificarsi, di metabolizzare, di lasciar vedere il fondo con trasparenza.

La Glasnost di Gorbaciov dovrebbe essere la guida, ma, ahimé, essa è anche il paradosso. Quando Gorbaciov invocò la Glasnost per purificare un potere, coloro che quella glasnost invocavano ne hanno fatto strame, sovvertendo il potere per impadronirsene e rabbuiando ancora di più le acque, rendendo le sabbie mobili ancora più dense ed insidiose.

Nessuna glasnost è possibile dall’interno del gorgo, nessuna glasnost è possibile senza il coinvolgimento dell’informazione, libera e irriverente. Non basta che un paese abbia due giornali che si combattono per avere informazione e glasnost, occorre che ci siano giornalisti capaci di scrivere, di raccontare, di rappresentare. Ai giornalisti tocca la “narrazione” alla politica tocca la “declinazione”. Ai giornalisti tocca l’informazione ai politici la comunicazione. Se i giornalisti “comunicano” dell’informazione chi se ne occupa? La P4?

In forma palese o mistificata, i poteri comprano giornali, zittiscono le voci scomode con l’ostracismo, fomentano divisioni inserendo nel mondo della stampa dei portavoce, rappresentando come giornalisti dei comunicatori, anche bravi, ma privi della curiosità che un giornalista ha come dote inscindibile. Lo fanno tutti i poteri, dalla politica alle istituzioni, contando su persone nate serve e sempre pronte, per una cuccia comoda, ad essere i “portavoce dell’azionista di maggioranza” come sostenne autorevolmente una delle firme più note del giornalismo leccapiedi tipicamente italico.

In Italia, il giornalista, è ben lontano dalla configurazione di quarto potere, limitandosi alla funzione di cane da guardia ben ricompensato.

Certo che ce ne sono di giornalisti veri, alcuni famosi, altri meno. Alcuni vivono i fasti dei riflettori finché riescono a tenere la trincea altri sono ostracizzati in ripostigli dai quali vengono estratti quando servono e solo perché sono bravi.

Come si distingue un giornalista buono da un peracottaro che imbratta colonne? Non è difficile. L’imbratta colonne riempie il giornale di notizie generiche, fatte di nera, cronaca giudiziaria, comunicati stampa, veline di questure e rapporti di carabinieri e guardia di finanza. Il suo schema è “Sesso, Sangue e Soldi” tranne quando riguarda personaggi potenti per i quali il condizionale è sempre legato al “terzo grado di giudizio” e, comunque, alla necessità di una par condicio.

Se invece si tratta di morti di fame, preferibilmente zingari, immigrati, studenti o giovani dai molti tatuaggi e dai capelli lunghi, l’aggettivazione moralista raggiunge l’acme.

Il bravo giornalista cerca i fatti, ne da conto, si informa sui precedenti e sulle condizioni al contorno e non parla mai di politici, magistrati, pubblici dipendenti, operai, farmacisti o rappresentanti di aspirapolveri. Usa nome e cognome dei soggetti coinvolti nei fatti quando si possono usare e si astiene dal proporre aggettivazioni di simpatia o antipatia. Un bravo giornalista scrive che le strade del suo paese sono uno schifo, che l’assessore fa la ricotta sulle mense o che l’ufficio pubblico tal dei tali è colmo di fancazzisti di professione. Il bravo giornalista scrive anche che le strade sono pulite, la tale scuola funziona o che un Vigile Urbano è gentile e competente.

Un bravo giornalista riconosce il potere e lo mette alla frusta, non ci amoreggia, lo costringe alla trasparenza e alla limpidezza, sa distinguere il potere dal governo. Un bravo giornalista conosce la sua terra e capisce che Elisa Claps non poteva essere stata rubata dagli zingari o che i ragazzini possono cadere nelle cisterne lasciate incustodite.

Un bravo giornalista non cerca l’intervista della zio mostro, conosce le strade, le batte, le va a cercare, comprende un territorio, gli usi, i costumi, le relazioni, non si fa dire dai carabinieri quello che è successo. I carabinieri, in un fatto di cronaca, cercano le prove per un processo, il giornalista cerca di capire cosa è successo e di raccontarlo, non fornisce innocenti e colpevoli, solo fatti.

È allora evidente che le sabbie mobili del potere le possono prosciugare solo i bravi giornalisti, nessun altro. E servono bravi giornalisti di sinistra, di destra e di centro, di sopra e di sotto, che le sabbie mobbili sono frequentate da tutti e sono molto democratiche, non fanno differenza.

So che molti solleveranno i se e i ma, molti lo faranno con ottime ragioni, molti con ragioni abiette. Io ascolto tutti, ma per piacere ricordiamoci sempre che se è vero che la paura è fattore umano e umanamente, è anche vero che quando ce la facciamo sotto il naso di chi ci è vicino se ne accorge.

Con i migliori auguri a chi vuole fare “il giornalista” e dedicato a un caro amico che ha lasciato la penna ma con il quale è sempre molto piacevole conversare. Sperando che, qualche volta, gli torni la voglia di guardare la carta bianca e il desiderio di levarle la verginità.

L’agave. Dal mondo sereno delle fate a quello tumultuoso del diavolo

NOMI DI ESSENZE VEGETALI TRA SACRO E PROFANO (6)

L’onga ti tiàulu

 

di Armando Polito

Dalla magia bianca a quella nera il passo è breve, sicché eccoci catapultati dal mondo sereno delle fate a quello tumultuoso del diavolo.

Ecco il resto della scheda:

nome italiano: agave

nome scientifico: Agave americana L.

nome della famiglia: Agavaceae

Il nome italiano e il primo componente di quello scientifico (agave) sono  dal greco agaué=splendido, meraviglioso; americana si riferisce al territorio di origine (Messico); Agavaceae è forma aggettivale moderna da agave.

Onga ti tiàulu (unghia di diavolo): il nome appare più che giustificato non solo dall’aspetto piuttosto inquietante della pianta ma ancor più dagli effetti spiacevoli procurati dal contatto con l’apice spinoso o col lembo completamente aculeato delle sue foglie.

Agave era figlia di Cadmo re di Tebe e Armonia. Sposò Echione dal quale ebbe un figlio, l’eroe Penteo. Questi, divenuto re di Tebe, si oppose all’introduzione in città del culto di Dioniso (per parte di madre cugino dello stesso Penteo), ritenuto troppo sfrenato e completamente privo di razionalità. Il dio, per vendetta, usò Agave, e le zie di Penteo Autonoe ed Ino, per uccidere il sovrano. Dioniso, consigliò, infatti, a Penteo di spiare la madre e le zie, riunite sul monte Citerone a celebrare i riti bacchici, in modo da rendersi personalmente conto di quello che era il nuovo culto. Penteo, nascosto sotto un pino, venne scoperto dalle invasate che, accecate dalla furia dell’estasi dionisiaca, lo scambiarono per un cinghiale e fecero a pezzi il suo corpo. La prima a colpirlo fu la stessa Agave, che presa la sua testa la conficcò su un tirso, portandola come un macabro trofeo fino a Tebe, per mostrarla al padre Cadmo. Solo arrivata in città la madre si accorse del tragico inganno. In seguito fuggì da Tebe e vagò per le terre dell’Illiria, fino ad arrivare alla corte del re Licoterse, dove Dioniso, impietosito, la trasformò nella pianta che porta il suo nome.

La favoletta è carina, ma solo la parte in corsivo corrisponde al mito, la restante è una mia invenzione. Eppure, una conclusione simile si sarebbe

Bon capu d’annu e bon capu de mese…

Strina, Pasca Bbefenìa e šcennaru siccu

di Emilio Panarese

 

La «strina» o strenna (parola sabina che significa salute, buon augurio) è il regalo di Capodanno. 

De Santu Sulivesciu porta la strina allu mesciu.
L’uso dei regali reciproci nel primo dell’anno è antichissimo e risale, secondo alcuni, al re Tito Tazio che andava a raccogliere in quel giorno foglie di verbena, che poi regalava agli amici, nel bosco della dea Strena, la dea della salute. I Romani erano soliti scambiarsi in dono focacce, fichi secchi, miele e datteri o, i più ricchi, tessere di metallo sulle quali facevano incidere la formula augurale «annum novum faustum felicem »: «felice e prospero anno nuovo».

Bon capu d’annu e bon capu de mese
/ apri la ursa e damme nnu turnese, recitavano invece fanciulli e giovanetti del nostro volgo nella case dei signori per fare gli auguri e ottenere regali in denaro o anche in cibarie…

Ci chiange a Ccapudannu, chiange tuttu l’annu; al contrario ‘chi a Capodanno ride, riderà per tutto l’anno’, come canta D’Amelio:
Sienti a mmie ca nu te ‘ngannu / de llegrìa osce è llu puntu / quandu è lliegru Capudannu / l’autri giurni lliegri suntu./ Statte lliegru, canta e ssona, / nu ppenzare a malatìa/ca la prima cosa bbona, / è llu scecu e lla llegrìa.

da http://www.mybefana.it/

L’uso delle strenne creò poi un personaggio simbolico: la Befana, immaginata come una brutta vecchia, sdentata e dal naso adunco, ma benefica e dispensatrice di doni, che va in giro per il mondo cavalcando una scopa e penetra nelle case per la canna del camino. Quest’uso forse è sapravvivenza di qualche rito magico pagano associato poi alla festa cristiana. La parola Befana è corruzione di Epifania, che vuol dire manifestazione divina (adorazione dei Magi, nozze di , etc.).
Fu considerata, insieme con la Pasqua, la festa più solenne dell’anno. Ancora oggi, qui nel Salento, il nostro popolo la chiama prima Pasca o Pasca Bbefenìa. Con essa si chiudono le grandi feste di dicembre, da cui il proverbio:
De Pasca bbefenìa / tutte le feste vannu via.

Tutti i signori in quel giorno si vestivano a nuovo: Te Pasca Bbefenìa se mmuta tutta la Signurìa.

Gennaio è il mese più freddo, anzi è bene che sia freddo, perché se la temperatura è mite, pochi frutti resteranno sugli alberi in primavera: Mandulu ci fiurisce de scennaru / unne ccoji allu panaru.
L’annata sarà buona, invece, se il mese sarà freddo e asciutto: Scennaru siccu, massaru riccu; secondo il suo carattere dovrà essere un mese rigido, perché se scennaru nu scennariscia, febbraru male penza.

Il rigore invernale però non distoglierà i nostri contadini dal lavoro dei campi: essi toglieranno col sarchiello le erbe cattive, perché solo la zappudda de scennaru inchie lu ranaru (il granaio), perché, solo se si zappa e si pota la vigna in gennaio, l’uva nel panaru (cesto) sarà abbondante: zzappa e puta de scennaru: l’ua intru a llu panaru.
 

In «Tempo d’oggi», II (1),1975

L’Arco di Prato, il Bignami della storia di Lecce

di Giovanna Falco

 

Sulla bacheca di LECCE SI’ – LECCE NO (immagini dal Salento), una pagina di Facebook dedicata alle minuzie di Lecce e del Salento, Daniele De Giorgi ha lanciato un appello per l’Arco di Prato, ubicato nell’omonima piazzetta di Lecce, perché versa in un avanzato stato di degradoi.

Foto 1 degrado oltrepassando l'arco

L’appello è stato raccolto da Valeria Taccone, che ha proposto di coinvolgere chiunque abbia competenze in materia, per far sì che si discuta di questa situazione e si porti all’attenzione di tuttiii. Da qui la decisione di scrivere qualche nota su questo Monumento.

Da una rapida analisi delle fonti a disposizione per conoscerne la storia, è venuta fuori una ridda d’informazioni tali, da poter definire l’Arco di Prato una sorta di Bignami della storia di Lecce. La sua presenza testimonia il passaggio dei romani, dei normanni, degli aragonesi, la visita di Ferdinando di Borbone a Lecce, quell’ancora viva nell’immaginario comune grazie alle note di Arcu te Pratu l’inno popolare leccese di Bruno Petrachi.

Qui visse e si spense il 2 dicembre 1922 Cosimo De Giorgi, l’appassionato studioso e promotore della tutela del patrimonio storico, artistico e ambientale di Lecce e della sua grande provincia. Fortuna volle che nel 1874, mentre si costruivano le fondamenta della sua casa, al numero civico dieci di Via Arco di Prato – ubicata all’interno del cortile oltrepassato l’arcoiii -, gli operai portarono alla luce delle grandi lastre di calcare compatto bianco, De Giorgi fece ampliare lo scavo e venne fuori un tratto di strada romana «in tutto simile alle antiche vie che partivano da Roma ed ai resti della “Via Appia” trovati presso Brindisi», sulla cui superficie era presenti «solcature longitudinali prodotte dalle ruote dei carri e dirette da NW a SE cioè verso la Piazza S.a Chiara»iv.

Secondo Giulio Cesare Infantino «i Capi» dell’esercito romano «e più Veterani di questi soldati havevano in Lecce publiche stanze con privilegio della francheggia, & il luogo particolare era dov’è hoggi l’Arco di Prato, con la Chiesa di Santa Maria de’ Veterani»v. Per questo motivo Teodora, sorella del conte normanno Goffredo, nel 1118 volle dare questa intitolazione al pio luogo da lei fondato «per certa pace conchiusa in quelle stanze fra i suoi parenti, fratelli, & altri Signori di molto conto»vi.

Sempre nella prima metà del Seicento Nicola Fatalò: nella sua serie dei vescovi, deputava l’intitolazione della chiesa fondata da Teodora, ai «soldati, tenuti in presidio della Città dal Conte Goffredo», i quali «per la loro libertà militare alle Donne, si che moltissime trattenevansi in casa, con non poterne meno frequentar liberamente la Chiesa», la nobildonna normanna «ordinò per tanto, che si fabricasse, con dedicarlo alla stessa gran Regina del Cielo, imponendo sotto pene rigorosissime à soldati, che non ardissero frequentar altre Chiese che questa: onde a tal fine volle, che si chiamasse la Chiesa di Santa Maria de’ Soldati Veterani»vii. Fatalò, conclude «sta nel suo essere, e nella sua francese architettura sin’oggi questa Chiesa»viii. Jacopo Antonio Ferrari ha tramandato una sommaria descrizione dell’interno della chiesa, dove era posto il «maggiore altare tra i due ordini delle colonne, sopra delle quali furono le due sue ale construtte»ix. Le visite pastorali, probabilmente, la descrivono più dettagliatamente.

Non rimane più nulla della “francese architettura”, al suo posto sorge, in via Santa Maria dei Veterani, un anonimo edificio la cui porta d’accesso è sormontata dallo stemma della famiglia Fonsecax. Ma era quello il sito originario o la chiesa confinava con l’Arco?

Foto 2 via S. Maria dei Veterani

Il pio luogo nel corso dei secoli ha assegnato il nome a un isolato del portaggio San Martino: Ste Me de la Vetrana del 1508xi e Veterane nel 1606xii, nel 1631 lo stesso comprensorio di case era denominato isola dell’arco di Prato e ricadeva nella parrocchia della Madonna de la Porta.

Imboccando via Santa Maria dei Veterani, si vede il fianco dell’arco dov’è apposta una tabella lapidea con tre esemplari dello stemma della famiglia Prato.

Foto 3 Stemmi Prato

La lapide con gli stemmi affissi rappresenta un’importantissima testimonianza per gli araldisti, fu considerata da Filippo Bacile di Castiglione, nel 1894, «ragguardevolissima» perché «sono in essa incorniciati due stemmi a cuore (tipo Angioino, come vedesi in Santa Caterina di Galatina); ed un terzo scudo, in mezzo, più piccolo ed inclinato, con elmo e mantellina, e, per cimiero, due lunghe ali». Il barone blasonò gli stemmi «di oro, a tre pali vajati di argento, e di azzurro» e suggerì di «sorvegliarne la conservazione, con le altre, ma che più specialmente possono riuscire grate a chi s’interessi della famiglia Prato, essendo state le armi sue dovunque deformate, per la falsa interpretazione dei pali e del vajo araldico»xiii. Purtroppo l’attuale stato di questa lastra, permette a stento di leggere quanto descritto da Bacile.

Versano in condizioni peggiori, tant’è vero che non sono più leggibili a causa dell’erosione e dello smog, le figure araldiche poste ai lati dell’arco, i cui scudi sono sormontati, ognuno, da una figura antropomorfa.

Foto 4 Scudo Foto 5 Scudo

La famiglia Prato – i cui membri sin dall’epoca normanna hanno dato lustro alla casataxiv – ha ininterrottamente abitato questo palazzo nel corso del Cinquecento, così come riportato in svariati atti notarili. Nel 1631, nell’Isola dell’arco di Prato, Gualtieri Prato risiedeva in casa di Aloisio Baglivo, mentre nella limitrofa Isola di San Leonardo abitava Francesco Prato con il chierico Francesco e quattro figliexv.

Non si sa quando i Prato diventarono proprietari del luogo dove è stato eretto l’Arco: nel 1508 lo erano sicuramente, dato che nel grandioso palazzo abitava la vedova di Guglielmo con i figlixvi. L’entrata principale del grandioso edificio, passato poi ai Bozzicorso, è al numero civico 40 di via Degli Antoglietta l’arco nell’omonima piazzetta «serviva d’ingresso a un grande atrio, con giardini, nel quale era forse l’accesso al Pal., prima che si fosse fatto l’ingresso principale nella V. degli Antoglietta»xvii,

Foto 6 Arco di Prato

Il possente arco cinquecentesco che immette nell’attuale corte, presenta sul lato sinistro due nicchie nel cui coronamento Bacile trovò assonanze con alcuni ambienti del castello: «dal cortile si discende, con pochi gradini, in un vano, sotto il Maschio. Ha un carattere speciale: si direbbe a due navi; e gli archi per i quali queste si comunicano son coronati d’un motivo, che si riscontra nei due di ogni lato, che si hanno ai fianchi passando lungo l’Arco di Prato»xviii.

Foto 7 Parete sinistra

Dalla descrizione di Bacile, parrebbe di capire che anche lungo il lato destro dell’arco, in passato si aprissero delle nicchie, ma la cornice continua posta al disotto dell’imposta della volta a botte, non dà riscontro all’asserzione dello studioso.

Foto 8 Parete destra

Su questa parete, così come già notato nella Guida della Lecce Fantasticaxix, inoltre, sono presenti svariati graffiti che attestano la datazione di questo muro. Mario Cazzato nel 1991 ha individuato un 1647, anno della rivolta di Masaniello, il cui strascichi causarono morti e distruzioni anche a Lecce e in Terra d’Otrantoxx.

Foto 9 ipotetica data 1647 più 158.

Oltre al non più leggibile 1647, sulla parete sono incise altre date, compaiono, inoltre, una croce greca e altri graffiti di difficile interpretazione.

Foto 10 Croce greca Foto 11 incisioni

Che cosa indicano? Segnalano luoghi di sepoltura? Sono stati incisi da chi si rifugiò nell’arco? Secondo la tradizione chi oltrepassava questa struttura acquisiva l’immunità, perché «alcuni cronisti asseriscono che Leonardo Prato padrone del Pal., ottenne, a questo, molti privilegi e, fra gli altri quello che non si potesse arrestare chi entrasse nell’atrio da quell’arco»xxi, privilegio ottenuto dagli aragonesixxii.

A fine Settecento l’arco fu protagonista di un famoso aneddoto: «Ferdinando IV di Borbone giunse in visita a Lecce il 22 aprile 1797. Il sovrano volle visitare le chiese e i conventi della città e dei dintorni. In queste lunghe escursioni era accompagnato dal sindaco Oronzo Mansi, autore di una cronaca di quelle giornate: il “Ragguaglio”. Il re non aveva nulla da fare, gli unici diversivi erano i ricevimenti organizzati ogni sera in suo onore. Per ragioni di etichetta, il sovrano non poteva sottrarsi ai noiosi concerti, né tanto meno all’elucubrazioni artistiche dedicategli dai nobili leccesi. Doveva, inoltre, sottoporsi ai convenevoli del vescovo Spinelli, che lo ospitava nel suo palazzo. Questa serie di circostanze rendevano Ferdinando IV sempre più nervoso. Il 3 maggio Ferdinando IV, solitamente affabile, era di pessimo umore. Il programma prevedeva una visita al monastero della Nova, dove partecipò alla funzione religiosa. Uscito dalla chiesa, il corteo reale imboccò via Leonardo Prato. Giunti nei pressi dell’Arco, il sindaco disse: “Maestà, questo è l’Arco di Prato”. Ferdinando IV rispose: “Me ne strafotto, io, dell’Arco”. Nel frattempo i leccesi avevano mal sopportato la lunga permanenza del re in città e il conseguente rincaro dei generi alimentari. Finalmente giunse il momento della partenza: la mattina del 8 maggio. Piazza Duomo, però, era deserta. Ferdinando IV chiese spiegazioni al sindaco. Il Mansi, che non aveva dimenticato l’affronto subito, rispose: “Maestà, Lecce è città te l’arte: se nde futte te ci rria e de ci parte”»xxiii.

Riguardo allo stato di degrado di questo Monumento, già nel 1874 Luigi De Simone, accennò al «magnifico Arco, che nominarono dei Prato, e che si sarebbe voluto abbattere con molta leggerezza tre anni or sono; ma ne abortì il desiderio: e spero, dopo la pubblicazione di queste notizie, che non si abbatterà più»xxiv. Speranza esaudita quella di De Simone, ma ora l’arco si sta sgretolando, e con esso i suoi tanti elementi che ne raccontano, anzi, ora come ora, ne sussurrano la storia, poiché ormai poco o nulla si riesce a leggere dal vivo. L’arco già restaurato nel 1979xxv, recentemente è stato sottoposto ad un intervento di “ripristino” in facciata, ma avrebbe bisogno di nuovi interventi.

Come rispondere alle proposte su LECCE SI’ – LECCE NO (immagini dal Salento), andando oltre queste poche note?

Questo monumento merita approfondite ricerche: è una preziosissima fonte per gli studiosi di araldica, genealogia, archeologia, storia, storia dell’arte, storia dell’architettura e dell’urbanistica. È uno dei monumenti tra i più rappresentativi di Lecce, perché abbandonarlo al suo destino? Pur se privato, non è patrimonio dei leccesi? È possibile che sia vittima del suo stesso sinonimo, giacché a Lecce si usa manifestare il proprio disinteresse per una cosa o una persona, declamando “Arcu te Pratu”?

alcune delle date graffite (ph Daniele Maddalo)
alcune delle date graffite (ph Daniele Maddalo)
particolare dell'arco con alcune incisioni (ph Daniele Maddalo)
particolare dell’arco con alcune incisioni (ph Daniele Maddalo)

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i «Una proposta: dedichiamo un po’ di attenzione all’Arco di Prato, che si sta letteralmente sbriciolando. E’ uno dei luoghi più simbolici della nostra tradizione, ma l’amministrazione lo lascia in malora, forse perché è meno sotto gli occhi dei turisti di tanti altri capolavori leccesi. La struttura e la corte nella quale l’arco immette sono corrose e preda del degrado. Ogni volta che ci passo, mi si stringe il cuore».

ii «Ho da fare un appunto (e una proposta) riguardo alla situazione dell’Arco di Prato: se aspettiamo che “chi di competenza intervenga”, purtroppo abbiamo poche probabilità che qualcosa si realizzi, che qualcuno si accorga di ciò che va fatto e che scelga di intervenire. Il patrimonio culturale della nostra città è un bene comune, e come tale merita competenze e attenzione da parte di ognuno di noi. Mobilitiamoci seriamente noi per primi, proviamo ad usare il web come uno strumento per cambiare le cose e non solo come mezzo di indignazione. In questo caso ad esempio, potremmo fare un piccolo report, approfittando del periodo natalizio delle vacanze natalizie e raccogliere le firme per sollecitare un intervento da parte dell’amministrazione. Portiamo seriamente l’attenzione su questo pezzo di storia, da questa pagina web alla piazza e al palazzo comunale. Incontriamoci e discutiamo, se qualcuno di noi è un’architetto, un restauratore, un fotografo, un giornalista, uno scrittore si senta doppiamente chiamato in causa per dare una mano, come cittadino e come professionista. Per chiunque condivida la mia opinione e voglia accordarsi per fare insieme qualcosa, lascio la mia mail: valeria.taccone@libero.it.».

iii Cfr. A. Foscarini, Guida storico artistica di Lecce, Lecce 1929 (Ristampa a cura e con note di Antonio Eduardo Foscarini, Lecce 2002), p. 110 (88).

iv C. De Giorgi, Lecce sotterranea, Lecce 1907, p. 80. Tra fine Ottocento e Novecento in questa area della città ci sono stati svariati ritrovamenti di epoca messapica e romana (Cfr. L. Giardino, Per una definizione delle trasformazioni urbanistiche di un centro antico attraverso lo studio delle necropoli: il caso di Lupiae, in Studi di Antichità, 7, 1994, pp. 137-203).

v G. C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. A cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), p. 168.

vi Ivi, p. 126. Nelle lapidi apposte sulle due porte di accesso all’edificio sacro, si faceva menzione di quest’avvenimento (Cfr. Ivi; Pietro De Leo, Contributo per una nuova Lecce Sacra. I. La serie dei vescovi di N. Fatalò. Testo e note critiche. Parte Seconda, dalla conquista normanna al concilio tridentino, in La Zagaglia: rassegna di scienze, lettere ed arti, A. XVII, nn. 65-66 (gennaio-giugno 1975); J. A. Ferrari, Apologia paradossica della città di Lecce (1576-1586 ca.), Lecce 1707) .

vii Ivi, p. 12.

viii Ivi, p. 13.

ix J. A. Ferrari, Apologia paradossica… cit., p. 339.

x Cfr. P. Bolognini – L. A. Montefusco, Lecce Nobilissima, Lecce 1998, pp. 191-192.

xi Cfr. A. Foscarini, Lecce d’altri tempi. Ricordi di vecchie isole, cappelle e denominazioni stradali (contributo per la topografia leccese), in “Iapigia”, a. VI, 1935, pp. 425-451.

xii Cfr. Cfr. N. Vacca, Lecce nel ‘600. Rilievi topografici e demografici. I gonfaloni dei quattro «pittagi» che componevano la città, in “Rinascenza Salentina”, VII, 1939, 1, pp. 91-95.

xiii F. Bacile, Scritti varii di arte e storia, Bari 1915, p. 63.

xiv Giulio Cesare Infantino nella sua Lecce sacra dedica due pagine alle gesta dei membri della famiglia Prato (Cfr. G. C. Infantino, op. cit., pp. 141-143). Le gesta dei Prato sono state ripetutamente descritte anche nell’Apologia paradossica. Il loro nome compare ovunque nei testi che trattano della storia di Lecce e non solo.

xv Cfr. lo Status animarum civitatis Litii 1631, manoscritto conservato presso l’Archivio Vescovile di Lecce.

xvi Cfr. A. Foscarini, Lecce d’altri tempi… cit. p. 441.

xvii A. Foscarini, Guida… cit., p. 110 (88).

xviii F. Bacile, Scritti varii… cit., p. 170.

xix Cfr. M. Cazzato, Guida della Lecce Fantastica, Galatina 1991, pp. 140-141.

xx «Anno 1647, 7 luglio – Sincronismo storico: Masaniello – Insurrezione partenopea contro i balzelli imposti dal Duca d’Arcos, vicerè spagnolo, alla città di Napoli. Per le ripercussioni in Terra d’Otranto è utile ricordare che la città di Lecce tumultua contro le tasse e il malgoverno, Capo-polo Francesco Maramonte – In Brindisi, il malcontento generale, serpeggiante fin dal passato giugno, sfocia nella tremenda sollevazione del 5 agosto, al grido: “ Abbasso le gabelle!” Capi-popolo: Donato e Teodoro Marinazzo. Il 21 luglio si solleva Nardò per mancanza di pane: Capo-popolo il soldato Paduano Olivieri. – Il 25 luglio Ostuni è orrendo teatro di sollevazione antifiscale: Capo-popolo il barbiere Francesco Antonio Turco. – Si ha notizia dei tumulti di Taranto, Capo-popolo Matteo Diletto; di Massafra, di San Vito, di Ceglie Messapica; di Francavilla Fontana, di Latiano. – In Grottaglie la sollevazione assunse carattere di vera carneficina». (N. Vacca, L’interdetto contro la città e la diocesi di Lecce in una relazione inedita della sua Università, in Rinascenza salentina, A. 3, n. 4 (lug-ago 1935), XIII, pp. 189-204:, p. 197).

xxi A. Foscarini, Guida… cit., p. 110 (88).

xxii L. G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti. La città, Lecce 1874, nuova edizione postillata a cura di N. Vacca, Lecce 1964, p. 299. De Simone, in nota rimanda alla pagina 310 dell’opera di Beatillo (Cfr. A. BEATILLO, Historia della Vita, Morte e Miracoli e Traslazione di Santa Irene da Tessalonica Vergine e Martire, Patrona della Città di Lecce in Terra d’Otranto, Bari 1609 (riedito a cura di G. Barichelli Bresciano, Lecce 1714).

xxiiiG. Falco, Arcu te Pratu, in Notes – Appunti dal Salento, a. XIII, n° 9, 2 – 8 marzo 2002, p. 5.

xxiv L. G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti… cit., p. 299.

xxv Cfr. M. Paone, Palazzi di Lecce, Galatina 1979, p. 92

 

E i Re Magi continuano a portar doni…

 

di Paolo Vincenti

Chi erano i Re Magi? Da dove venivano? La leggenda dice che, nel IV secolo, Elena, madre dell’Imperatore Costantino, avrebbe portato da Costantinopoli le spoglie dei Re Magi a Milano. Da lì, nel 1164, Rinaldo di Dassel, cancelliere del Sacro Romano Impero e arcivescovo di Colonia, ricevette le ossa dei Magi da Federico Barbarossa, dopo la conquista di Milano. Lo scrigno dei tre re cela, però, le ossa di tre fanciulli: il loro sarcofago recava, un tempo, l’iscrizione “Tres Coronati”, che fece pensare alla corona di tre re, piuttosto che alla corona del martirio o della vita eterna, come probabilmente intendeva chi aveva posto quell’epigrafe.

In ogni caso, la figura dei Re Magi è da sempre viva nell’immaginario collettivo, nonostante documenti e ricerche storiche portino ad escludere assolutamente la loro esistenza. Innanzitutto, la Bibbia non ne parla. Dei Vangeli Sinottici, solo quello di Matteo ne parla molto incidentalmente. Luca e Marco non ne fanno menzione e così nemmeno Giovanni. Compaiono invece nei Vangeli apocrifi, come il Papiro Bodmer, sulla nascita di Maria, il Protovangelo di Giacomo, i Codici di Hereford e il Codice Arundel, il cosiddetto Vangelo arabo dell’infanzia e, soprattutto, il Libro della Caverna dei Tesori, arabo-siriano, e la Historia Trium Regum di Giovanni da Hildesheim, che raccoglie insieme più testi apocrifi.

Ma anche questi testi danno notizie molto frammentarie e disordinate. Alcuni studiosi hanno identificato i tre magi in Hormidz, re di Persia,  Jazdegerd e Peroz, re vissuti circa duemila anni fa, che vedendo passare la stella cometa cominciarono a seguirla, fino a raggiungere la capanna del Bambino. Il viaggio, secondo la leggenda, durò due anni e durante questo tempo, miracolosamente, i tre non sentirono né la fame né la sete, grazie all’astro, finchè non furono giunti a destinazione.

Il numero di tre è puramente simbolico (Matteo non cita quanti sono) e venne fissato da San Leone Magno, per rappresentare le tre età dell’uomo, la fanciullezza, la maturità e la vecchiaia, e le tre razze, semitica, camitica e giapetica.

Anche sui loro nomi, Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, non c’è concordanza. Baldassarre deriverebbe da “Balthazar”, mitico re babilonese; Melchiorre deriverebbe da “Melech”, che significa “Re”; Gaspare, invece, dal greco “Galgalath”, signore di Saba. Anche Marco Polo, nel Milione, parla di una città in Persia, Saba, o meglio Sawa, dalla quale partirono tre re che andarono ad adorare Dio quando nacque. Secondo numerose leggende, i Magi giunsero a Betlemme 13 giorni dopo la nascita di Gesù;  il 13 è un numero sacro: 13 erano gli apostoli, prima del tradimento di Giuda, 13 erano i cavalieri di Re Artù, prima del tradimento di Mordred, e forse per questo successivamente il numero 13 venne demonizzato. Gesù viene fatto nascere in una grotta. Questo elemento riporta alle credenze pagane: oltre ad essere legata all’utero, dalla grotta nascono Minosse, Dioniso, Mitra.

Inoltre a Bethelem, il villaggio a pochi passi da Nazareth, dove nacque Gesù, si adorava Adone-Tammuz, divinità arborea legata alla grotta e al ciclo di morte-resurrezione che richiamava la vicenda terrena di Gesù stesso. Per quanto riguarda la stella che guida i Magi, questa è presente nella Bibbia. Nel Libro dei Numeri, viene preconizzata la vera stella che nascerà da Giacobbe e quindi dal popolo di Israele. Questa stella può senza dubbio essere Gesù, la stella del mattino. Ma, per quanto riguarda la stella dei Re Magi, si potrebbe trattare di una Supernova, fenomeno di straordinaria luminosità ma molto breve. Altri studiosi hanno ipotizzato si trattasse della cometa di Halley, che si ripropone ogni 76 anni e sarebbe passata, allora, intorno al 12 a.C., data piuttosto tarda rispetto a quella indicata da Dionigi il Piccolo per la natività.

Altri hanno affermato che si trattasse di una congiunzione fra Giove e Saturno avvenuta nella costellazione dei Pesci. Secondo i calcoli fatti da Keplero, nel Seicento, questa congiunzione si sarebbe verificata nel 7 a.C., data molto vicina a quella del 6 a.C., quasi unanimemente riconosciuta come quella della nascita di Gesù. Il pesce, poi, ricorre come simbolo in codice che i primi cristiani usavano, durante le persecuzioni romane. Per riconoscersi fra loro, uno  tracciava con un labys metà disegno e l’altro lo completava. Questo disegno era appunto il pesce poiché lo stesso nome  con cui veniva chiamato Gesù, cioè  “Nazareno” significava “piccolo pesce”.

Curiosamente, all’ingresso di Gerusalemme, Cristo fu accolto al grido di “Oannes”, poi corrotto in “Osanna”: ebbene, gli Oannes erano proprio divinità medio- orientali, rappresentati metà uomini e metà pesci.

Fu Giotto, nella Natività degli Scrovegni,  il primo a rappresentare la stella cometa come guida del viaggio dei Magi, forse ispirato da quella di Halley del 12 a.C..

Dopo morti, i Magi pare che furono seppelliti, in un’unica tomba, a Costantinopoli. Elena, la madre dell’Imperatore Costantino, li ritrovò e  da Costantinopoli furono affidati al vescovo Eustorgio per portarli a Milano. I resti mortali di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, diventati per i milanesi Dionigi, Rustico ed Eleutero, furono seppelliti nella chiesa sorta dove il carro con le loro spoglie, condotto da Eustorgio, si era fermato perché non riusciva ad attraversare la Porta Ticinese. In questa chiesa, poi chiamata di Sant’Eustorgio,  il “Sepulchrum Trium Magorum” rimase dal 325 al 1164. Federico Barbarossa, vittorioso sui Milanesi, trafugò i resti dei Magi per tumularli nella cattedrale di Colonia, dove si trovano ancora oggi. I Milanesi continuarono, invano, a richiedere i resti ma ottennero soltanto, nel 1904, qualche frammento delle reliquie, custodito sopra l’Altare dei Magi, in Sant’Eustorgio. Ma fin dal Medioevo, con una lunga interruzione dal 1630 al 1962, anno in cui il Cardinale Montini ripristinò la tradizione, il giorno dell’Epifania è celebrato a Milano con il corteo dei Magi.

In conclusione, possiamo affermare che sembra abbastanza sconcertante l’apparizione della stella misteriosa  e molto strano come i Re Magi potessero comprendere il suo messaggio e seguirla fino al luogo dove era il Fanciullo. Strano, inoltre, che tutti gli abitanti di Gerusalemme, che odiavano il re straniero e dispotico Erode e che aspettavano un liberatore, un salvatore, il cui arrivo  da lungo tempo era stato vaticinato dai profeti, non si mettessero in cammino alla volta della grotta di Betlemme per salutare questo nuovo re che li avrebbe salvati.

Tutti questi interrogativi valgono ad avvalorare la convinzione che, quando Gesù nacque, ai tempi di Erode, non ci furono dei Magi che dall’Oriente si recassero a Betlemme e neanche dei visitatori dalle zone limitrofe. Gesù fu conosciuto dai suoi conterranei solo quando iniziò a predicare una nuova dottrina e la storia che si trova all’inizio del Vangelo di Matteo sembra puro frutto di fantasia. Ma, se è vero che nella fantasia dell’uomo, che ha elaborato questa ricostruzione, c’è una scintilla divina, ecco allora che il falso storico diventa ancora più vero del reale.

La paparìna (il papavero) (III parte)

di Armando Polito

TERZA ED ULTIMA PARTE: LE TESTIMONIANZE DEGLI AUTORI GRECI, QUALCHE IMMAGINE DI IERI E DI OGGI, UNA SORPRESA FINALE…

Aristofane (V-IV secolo a. C.), Gli uccelli, vv. 159-160: E becchiamo nei giardino i bianchi sesami e i mirti e i papaveri (nel testo originale mèkona, accusativo plurale di mekon) e i sisimbri.

Callimaco (III secolo a. C.), Inno a Demetra, vv. 44-45: Subito, dopo aver assunto le sembianze di Nicippa che la città stessa aveva fatto sua sacerdotessa, prese in mano la fascia sacra, il papavero (nel testo originale màkona, accusativo singolare di makon, forma dorica per l’attica mekon) e aveva la chiave appesa in spalla.

Teocrito (III secolo a. C.), Idilli, VII, vv. 255-257: …che io possa ancora piantare nel mucchio [di grano] la mia grande pala e che lei [Demetra] sorrida tenendo nelle due mani fasci di spighe e papaveri (nel testo originale màkonas, accusativo plurale di makon, forma dorica corrispondente all’attica mekon).

Dioscoride Pedanio (I secolo d. C.)

Il papavero in una tavola dell’opera di Dioscoride contenuta nel Codex Vidobonensis (VI secolo), custodito nella Biblioteca Nazionale Austriaca di Vienna, che costituisce il più antico erbario giunto fino a noi

Il papavero rhoeas (nell’originale greco mekon rhoiàs1) ebbe questo nome dal fiore che cade precocemente (alcuni lo chiamano oxytono (nell’originale greco oxýtonon2), i Romani papaverale (nell’originale greco papaberàlis), gli Egizi nanti). Nasce nei campi in primavera, periodo in cui viene pure raccolto. Le foglie sono simili a quelle dell’origano o della rucola o della cicoria o del timo, sono pennate ma lunghe e ispide. Ha il gambo esile,

Il Salento è un’immensa partita a scacchi in fondo

Nardò. Torre Squillace (ph Maria Aurora Trentadue)

 

di Gianni Ferraris

“Il gioco degli scacchi è il gioco della vita, il re ha un potere solo apparente, è la donna, la regina che decide le sorti della sconfitta o della vittoria, però è lui, alla fine, a capitolare” mi diceva in parte scherzando Giovanni, il mio maestro di scacchi. E mi raccontava di quella guerra sciagurata, della ritirata dalla Russia così lontana, così ghiacciata. E delle donne russe che lo hanno accolto nella loro casa e lei, la più anziana, che gli tolse scarpe e calze e mise i suoi piedi sul suo seno per farli rivivere. Poteva perderli. Non avevano abbigliamento adatto. Giovanni, bravo sarto e improbabile pittore che spiegava la sua filosofia in quei dipinti quasi infantili. E gli scacchi come gioia e simboli della vita stessa.  Si faceva serio quando ne parlava come “la battaglia, forse la guerra della vita”.

I quadri e i pezzi. Bianco e nero. La vita contro la morte, il caso contro la ragione, l’autodeterminazione contro la predestinazione, eros e thanatos.  Il bianco ha la prima mossa sempre. E’ la regola, è la vita che muove i suoi passi.  E la strategia è la speranza.

“Il settimo Sigillo”, con il cavaliere che si gioca la partita contro la morte. Quasi a significare la ricerca del senso della vita, di Dio, dell’uomo.    La vittoria non esiste, non può esistere.  Però il tempo lo si ruba con il tempo delle mosse. Non c’è possibilità di passare il turno, però si può azzardare, osare. Il cavaliere incontra la signora nel bosco (apertura), poi il pasto con fragole e latte (partita), poi la foresta, prima del temporale (il finale).

Nato forse in India, forse in Cina, e portato da noi nel medio evo, il gioco degli scacchi ha da sempre significato un unicum in cui si muovono emozioni e ragione. Probabilità e fato.  Strategia e tattica contro l’alea della fortuna cieca delle carte o dei dadi. I pezzi come gli arcani dei tarocchi, ognuno con un suo significato ed un suo ruolo preciso, colmo di misterioso fascino, unico.  Ci sono le truppe leggere, quelle da mandare avanti per aprire varchi, spesso carne da macello, i pedoni. Le torri, in origine carri da guerra possenti e potenti. Gli alfieri, nell’antichità erano elefanti usati in combattimento e per gli spostamenti. I cavalli, immutati e indispensabili. La regina e il re. Il generale e il suo consigliere e protettore. Tutti i pezzi possono cadere ed essere ammazzati, presi, eliminati. Tutti tranne il Re. A lui si può dare solo “Scacco matto”. Shah (re) dal persiano,  mat (è morto) dall’arabo. Solo quando gli scacchi arrivano a noi il re si dice “morto”, non prima.  Perchè nessuno può osare tanto. Si imprigiona, gli si impedisce di muoversi ulteriormente e deve capitolare, cedere le armi, però non muore. Deve essere pronto ad un’altra partita, un’altra guerra. Quando un re morirà sarà per sempre.

Vuole la leggenda che l’inventore della scacchiera e del gioco degli scacchi chiedesse al re un chicco di grano per la prima casella, due per la seconda, quattro per la terza e così via. Sarebbe arrivato alla cifra di 18.446.744.073.709.551.616 chicchi di grano.

Matematica e geometria si fondono nel gioco degli scacchi, a simbolismo e fato. Nelle case si muovono filosofia e pensiero. Bianco e nero. Le 64  case derivano forse dagli 8 trigrammi commentati nell’I-Ching. Il visibile, spirito e divino. In altri luoghi si parla del simbolismo 8 x 8 come iconografia sacerdotale per i brahamani.

Perché è utilizzata nell’arte, cosa rappresenta, a chi parla la scacchiera? In quella battaglia c’è l’essenza dell’essere, la contrapposizione stessa fra divino ed umano. Angeli e demoni che si scontrano, confliggono, periscono. Ed è ammessa la promozione, solo per i più umili pedoni però. Quando  uno arriva in ottava si trasforma in qualcosa di più grande, importante. Può diventare tutto tranne il re. Solo lui, il sovrano, il generale, non è mutuabile. L’esercito si può rinnovare e sostituire. La caduta del re è l’impero che si dissolve, senza possibile rinascita.

La scacchiera è l’otto per otto,   la forma ideale di una casa, un villaggio, una città, un mondo.   E’ il luogo per eccellenza. Nascita, vita e morte, tutto dentro quel quadrato e quelle case. Fuori solo il nulla. E il nulla è impensabile, troppo lontano e non immaginabile dalla mente umana, come l’infinito. Come quel numero di chicchi di grano.

Nardò, Torre di Santa Caterina (ph Maria Aurora Trentadue)

Giovanni, grande sarto passato dalla Russia non per turismo. Amante della vita e della pittura. Occhiali con spesse lenti, strano nodo alla cravatta. Ha trascorso tutta la vita fra case bianche e nere. Non era, in fondo, un buon giocatore. Lui la studiava la scacchiera, la viveva come filosofia. Però, a pensarci bene, era un ottimo giocatore. Sapeva che il re non muore. E sapeva che la regina, la donna, il consigliere del re è il vero stratega. Perché lui, il re, ha il cammino limitato, una casa per volta. Lei può correre fin dove c’è spazio aperto, tramare in ogni direzione. Amava, Giovanni, il pedone che non diventerà mai re. Al massimo una seconda regina, un secondo consigliere. Le torri di guardia della costa salentina stanno ad aspettare e proteggere il re. Come macchine da guerra in attesa della mossa avversaria.  Sono torri bianche. Forse così le avrebbe intese Giovanni se fosse arrivato fin qui.  Se il re nero muove le sue navi le torri riparano i pezzi bianchi. Arrocco, difesa. Il nero vince sempre?  A volte no, si può rimandare. Il Salento è un’immensa partita a scacchi in fondo. Forse la più grande che io conosca.  Nei paesi si muovono le pedine della vita e della morte. Ci sono anime di mille re (baroni?) sconfitti che vagano nelle piazze, con la rabbia per la sconfitta o pacata rassegnazione. E ci sono orgogliosi vincenti nei secoli. Hanno lasciato tutti un segno de loro passaggio. Dolmen e menhir. Palazzi baronali e chiese contrapposti che si guardano nelle piazze. Masserie fortificate con alte mura di cinta.  E’ un campo di battaglia, orgogliosamente chiuso in case bianche e nere. Fuori c’è altra vita, ma è, appunto, altra. La vita si combatte solo dentro quelle case. I neritini se la sono giocata con la “libera repubblica di Nardò” e prima ancora, nel 1647 con la rivolta vinta dal re nero. E si combatte a Calimera  :“Zeni su en ise ettu s ti kalimera”, dove vince il bianco, la morte per ora non arriva.

La paparìna (il papavero) (seconda parte)

di Armando Polito

SECONDA PARTE: LE TESTIMONIANZE DEGLI AUTORI LATINI

Le proprietà soporifere del papavero sono note da tempi antichissimi, perciò non fa meraviglia che esso sia presente, con tale particolare riferimento, nelle opere scientifiche e letterarie greche e latine. Comincerò da queste ultime e precisamente da Plauto (III-II secolo a. C.)  e dalla sua similitudine: [Il denaro] finisce subito, come se tu gettassi semi di papavero alle formiche1.

Più fortuna ha avuto, invece, un aneddoto (da cui è nato per papavero il significato traslato di persona di grande importanza che occupa un posto di primo piano nella vita pubblica di un paese) riportato dallo storico Tito Livio (I secolo a. C.-I secolo d. C.): Presso i soldati poi, [Sesto, figlio di Tarquinio il Superbo] condividendo con loro pericoli e fatiche, elargendo il bottino con tanta generosità, aveva accresciuto il suo carisma al punto che il padre Tarquinio non era a Roma più potente di quanto lui lo fosse a Gabi. E così, quando vide che aveva radunato uomini sufficienti per ogni tentativo, mandò a Roma uno dei suoi per chiedere al padre che cosa voleva che lui facesse, visto che gli dei gli avevano concesso il potere assoluto a Gabi. A quel messaggero poiché sembrava, credo, poco credibile, nulla fu risposto a voce; il re come se volesse riflettere si recò nel giardino del palazzo seguito dal messaggero del figlio e qui passeggiando si dice che col bastone abbia percosso in silenzio le alte teste dei papaveri. Il messaggero, stanco di porre domande e non ottenere risposta, credendo che la sua missione fosse fallita, se ne tornò a Gabi e riferì quello che aveva detto e quello che aveva sentito e che il re o per ira o per odio o per congenita superbia non aveva detto una sola parola. Quando a Sesto fu chiaro che cosa il padre voleva con il suo oscuro comportamento, eliminò i più importanti cittadini discreditando alcuni presso il popolo e approfittando dell’invidia che era nutrita nei loro confronti. Molti furono uccisi direttamente, altri, contro i quali non poteva essere formulata un’accusa specifica, di nascosto. Fu concessa ad alcuni che lo volevano la fuga o furono mandati in esilio e i beni degli assenti e degli uccisi furono spartiti. Così il sentimento del male pubblico fu lenito dalla dolcezza della elargizione e della preda e dell’interesse privato finché Gabi, privata di potere e di aiuto, passò nelle mani del re romano senza alcun contrasto2.

Se la soluzione appena vista non fosse il classico cadere dalla padella (del figlio) nella brace (del padre) essa sarebbe l’ideale per risolvere i tanti problemi attuali causati dai moderni papaveri. Mi resta, però, un dubbio atroce, cioé che veramente pappa, con stabilizzazione del significato con riferimento esclusivo al mondo degli adulti (compreso il pappa in cui la forma abbreviata per pappone certamente non ha comportato una parallela riduzione della voracità), sia l’etimo di base di papavero

In fondo, alle stesse conclusioni era giunto il testo della canzone Papaveri e papere di Panzeri3, Rastelli e Mascheroni classificatasi al secondo posto al Festival di Sanremo del 1952 nell’interpretazione di Nilla Pizzi, testo inteso da alcuni, nella sua apparente demenzialità, come allusivo agli esponenti del partito allora dominante, la Democrazia Cristiana; da quest’ultima la risposta non si fece attendere poiché i suoi comitati civici  per le elezioni di quell’anno idearono un manifesto in cui campeggiavano papaveri (simboleggianti, questa volta, il Partito Comunista Italiano) svettanti in un campo di grano e attraversati da un grande paio di forbici nell’atto di tagliarli.

È meglio tornare ad un passato più remoto…

La coltivazione del papavero (è il colmo per una specie infestante…) e il suo uso culinario sono attestati da Marco Porcio Catone il Censore (III-II secolo a. C.): Se non potrai vendere la legna e i ramoscelli e non hai pietre da

L’ abitudine al gioco offende Sua Divina Maestà e l’ onore del suo nobile vivere

 Sfogliando nell’ Archivio

 

 

di Marcello Gaballo

Più volte abbiamo ho modo di riferire su  fatti e cronache di qualche secolo fa, che il solito prodigo Archivio di Stato di Lecce ci propone nella ricerca tra i suoi atti notarili.

Buona parte di questi generalmente tratta di compravendite, concessioni, donazioni ed altri atti più o meno interessanti, ma di uno sono rimasto particolarmente colpito, se non altro per la sua assoluta originalità.

Mi piace riproporlo ai lettori di “Spigolature Salentine”, giusto perchè abbiano modo, come lo è stato per me, di conoscere come i tempi cambino, ma le passione e vizi umani restino sempre gli stessi, anche se adeguati ai costumi dell’ epoca in cui si vive.

I protagonisti della vicenda interessano una delle famiglie nobili più  ragguardevoli nel 1621, anno a cui risale l’ atto notarile di cui ci interessiamo, riguardante i baroni Personè, un ramo dei quali si erano portati da Lecce a Nardò.

Per amore paterno nei confronti del figlio Diego, Lucantonio Personè “è obligato dare et pagare ogn’ anno ad esso Diego ducati seicento terzo terzo”. Il padre è tenuto a versare ogni quattro mesi “la terza parte di detti ducati seicento, per vitto et alimenti”, come da accordo stabilito tra i due con pubblico atto notarile.

Ma qualcosa ha turbato la regolarità della “paghetta” quadrimestrale, visto che “insino al presente have atteso esso Diego al gioco, con disgusto di esso barone Lucantonio suo padre, del che esso Diego havendosi accorto del disgusto di suo padre, sotto della quale obedienza vole sempre vivere, come è tenuto”, contrasta col parere paterno che “dal gioco non ne può nascere se non disordini gravi”.

Oltre a tale rischio il padre è fermamente convinto che l’ abitudine al gioco è solita “offendere sua Divina Maestà, come anche circa l’ onore del suo nobile vivere”.

Per cercare di frenare la passione infrenabile del gioco, Lucantonio porta allora il figlio davanti al notaio Santoro Tollemeto e gli fa sottoscrivere un accordo: ’tutte le volte che esso giocarà… sia lecito al detto barone

E’ tempo di anguille. Cosa bisogna sapere e come prepararle

da: http://www.afyacht.com/pesce_mediterraneo

di Massimo Vaglio

Uno dei più grandi misteri della natura è custodito proprio dalle anguille (Anguilla anguilla L.). Infatti sul loro ciclo vitale sono state formulate solo ipotesi, una delle quali è stata forse troppo presto, quasi universalmente accettata dalla comunità scientifica internazionale. Secondo questa ipotesi, elaborata negli anni Trenta, sulla scorta di laboriose ricerche sul campo dal biologo danese Schmeidt, le anguille, raggiunta la maturità sessuale, intorno ai dodici anni d’età, abbandonerebbero laghi, fiumi paludi e lagune per andare a riprodursi tutte nel Mar dei Sargassi a 1000 metri di profondità. Le larve impiegherebbero tre anni per ritornare nel Mediterraneo. Tuttavia sulla biologia dell’anguilla restano ancora da verificare tutta una serie di incognite. La loro reale diffusione è amplissima, essendo presente anche in America, in Africa, nel Nilo, in alcune regioni settentrionali dell’Asia e più giù sino in India. In Italia sono presenti in tutti i fiumi, in quasi tutti i laghi, in larghi tratti di costa marina e specialmente in quelli di basso fondale ove sfociano acque di falda.

In Puglia ne sono ricche le acque del porto di Brindisi, quelle del Mar Piccolo di Taranto, i Laghi Alimini e quasi tutti i bacini e canali di bonifica presenti in tutte le vaste ex zone paludose della regione, ma sono soprattutto i laghi-laguna di Lesina e di Varano, con i loro ben 112 chilometri quadrati, la più famosa e tradizionale fonte di anguille della Puglia e di tutta l’Italia meridionale. A quanto emerso dagli archivi storici, le anguille furono addirittura causa di aspri contenziosi fra alcune comunità monastiche. Per lo sfruttamento del lago di Lesina e della sua risorsa primaria, appunto le anguille, i monaci di Monte Cassino e quelli delle Isole Tremiti litigarono per secoli. E per lo stesso motivo ossia per la pesca delle anguille nei canali Delta e Luciana, ovvero gli attuali Fiume Grande e Fiume Piccolo di Brindisi sorse un contenzioso che si trascinò per secoli tra l’arcivescovo di Brindisi e i monaci

Tra le verdure più gustate dai Salentini: li paparine

LA PAPARÌNA (il papavero)

di Armando Polito

PRIMA PARTE: NOMENCLATURA ED ETIMOLOGIE

Un campo di papaveri costituisce ancora oggi, fortunatamente, almeno nel Salento, uno di quei fenomeni naturali che, al pari del sorriso di un bambino, della sensibilità di un animale, della bellezza di un tramonto e di una donna non ritoccata (ormai il come mamma l’ha fatta è stato soppiantato da come il chirurgo estetico l’ha trasformata e, in più di un caso, ridotta…), mi emozionano e mi commuovono.

Claude Monet, Musée d’Orsai, Parigi

Questo lavoro vuole essere, perciò, un omaggio a questo nostro compagno di avventura sulla Terra e solo alla sua varietà innocua, con tutto il rispetto per le altre (mi riferisco a quelle da oppio) che la perversione umana, in una delle sue innumerevoli contraddizioni (in cui, nonostante la loro da noi presunta inferiorità non incorrono le restanti specie animali) ha fatto assurgere da un lato a rimedio del dolore (e chi, meglio degli animali, conosce le proprietà terapeutiche delle piante?), dall’altro a folle evasione nel tentativo disperato di superare la propria debolezza. Se però, qualcuno conosce il caso di un solo animale non umano morto, dico morto, per aver abusato di qualche erba, me lo faccia sapere. Quella delle droghe è una piaga antica quanto l’uomo e tra le testimonianze del passato sulle innumerevoli varietà del papavero non è azzardato supporre che più di una faccia riferimento proprio a quelle con proprietà profondamente e in qualche caso irriversibilmente stupefacenti. Io mi limito solo a riportarle, lasciando a chi ha la preparazione scientifica, che io non ho,  il compito di riconoscerle.

nome  scientifico: Papaver rhoeas L.

famiglia: Papaveraceae

nome italiano: papavero rosso, rosolaccio

nome dialettale: paparìna

Papaver e rhoeas erano i due nomi usati dai Romani per indicare la nostra pianta (vedi più avanti le relative testimonianze).

Comincio dal primo. Papaver è troppo lungo perché non sia un nome

Gedik Ahmet Pascià e Giulio Antonio I Acquaviva. Breve profilo storico di due uomini l’un contro l’altro armati

Gedik Ahmet Pascià il rinnegato cristiano che divenne Gran Visir alla corte di Mehmet II il Conquistatore

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Ritratto di Gedik Ahmet Pascià detto Giacometto

 

di Romualdo Rossetti

 

Il nome di Gedik Ahmet Pascià (… – Edirne, 18 novembre 1482) è tristemente ricordato in terra d’Otranto per la ferocia con la quale il 14 Agosto del 1480 ordinò ai suoi uomini di decapitare gli 800 prigionieri idruntini sul colle della Minerva, dopo aver fatto stuprare fanciulle, sgozzare inermi uomini di fede, donne, vecchi e bambini, abbattere ed insozzare i più importanti luoghi di culto cristiani come la chiesetta di San Pietro, la cattedrale e l’antico cenobio basiliano di San Nicola di Casole, segare in due il comandante della guarnigione cristiana Francesco Zurlo, e fatto impalare il boia Berlabei che colpito dal coraggio e dall’eroica e soprannaturale morte di Primaldo Pezzulla, il primo degli ottocento martiri, si era rifiutato di decollarne altri.

Ma chi era in realtà Gedik Ahmet Pascià? Secondo alcune fonti il comandante in capo dell’armata turca conosciuto anche con gli appellativi di Giacometto o Gedik lo sdentato pare non fosse altro che uno dei tanti rinnegati cristiani di origini serbe o greco-bizantine che si erano votati per codardia alla causa dell’Islam. Altre fonti invece, lo dichiarano di discendenza albanese visto che durante una manovra bellica si rifiutò di prendere parte ad una ritorsione nei confronti della città di Scutari che molti cedettero fosse la sua città d’origine. La sua folgorante carriera politica ebbe sicuramente inizio in ambito militare quando in qualità di stratega riuscì a sconfiggere l’ultimo karamanide che ostacolava l’avanzata di Mehmet II in Anatolia, principato islamico che resisteva alle mire espansionistiche degli Ottomani da più di duecento anni.

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Stemma del Gran Visir della “Sublime Porta”

La sua vittoria contro i Karamanidi nel 1471, permise all’Impero della “Sublime Porta” di conquistare la strategica regione costiera che si affacciava sul Mediterraneo e che aveva reso prospere con le sue rotte commerciali e vie carovaniere le città di Silikke, Mennan ed Ermenek. Ebbe anche numerosi scontri con la flotta veneziana stanziata nel Mediterraneo orientale e fu inviato nel 1475 dal Sultano ottomano Mehmet II a dar manforte al Khanato di Crimea contro le forze genovesi che lo assediavano da tempo. In Crimea conquistò le città di Sudak, Balaclava e Caffa insieme a molte altre fortezze e roccaforti genovesi. Per opera sua capitolarono il Principato di Teodoro con la sua capitale Mangup e le regioni costiere della Crimea. In un’occasione mise in salvo inoltre, Mengli I Giray, il Khan di Crimea dagli attacchi dei Genovesi. Conquistò al soldo del suo sultano la Crimea e la Circassia. Nel 1479 il Sultano Mehmet II gli ordinò di porsi alla guida della flotta ottomana nel Mediterraneo nella guerra contro il Regno di Napoli ed il Ducato di Milano.
Durante questa campagna, si appropriò delle isole di Cefalonia, Santa Maura (Leucade) e Zante (Zacinto).
Dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, Mehmet II volle considerarsi il legittimo erede dell’Impero Romano, cosa che gli fece credere di poter intraprendere la conquista della penisola italiana per riunire i territori romani sotto la sua dinastia. Dopo un tentativo non riuscito di strappare l’isola di Rodi ai Cavalieri dell’Ordine dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, nel 1480 riuscì a conquistare la città portuale di Otranto.
Nel frattempo, nel 1474 Gedik Ahmet Pascià, uno dei primi fra coloro che avevano istruito i Turchi sull’arte della navigazione, era stato da nominato dal suo amato sultano Sadrazam (supremo Visir, carica che terrà fino al 1477) successivamente retrocedette alla carica di “Sançak Bey”, ovvero governatore del sangiaccato di Valona.

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Ritratto di Maometto II di Giovanni Bellini

La flotta messagli a disposizione per la conquista dell’Italia era imponente. Stando alle varie fonti storiche pare fosse composta da un numero compreso tra le 70 e le 200 navi nominalmente capaci di trasportare tra i 18.000 e i 100.000 uomini: cifre però queste non storicamente confermate ed in continua oscillazione. Per approssimazione, la flotta doveva disporre in fatto di navi da guerra di 90 galee, 40 galeotte e altre 20 navi, per un totale quindi di circa 150 imbarcazioni. È ipotizzabile che la flotta turca trasportasse un esercito di 18.000 uomini. Presa Otranto ordinò ai suoi uomini svariate incursioni lungo la penisola salentina ai danni di numerosissimi villaggi e casali non trascurando di attaccare però città di notevoli dimensioni come Galatina che sotto i suoi assedi rovinò il 7 febbraio del 1481.

La presa di Otranto e le scorribande nel Salento durarono in realtà pochi mesi perché gli assedianti si trovarono, ben presto, senza vettovagliamenti e ripiegarono in Albania con l’intento di riprendere l’assedio con l’arrivo della buona stagione. La morte improvvisa di Mehmet II il 3 maggio del 1481 causata da un complotto di palazzo orchestrato con buona probabilità dal figlio Bayezid II pose Gedik Ahmet Pascià in una posizione abbastanza scomoda tanto che fu posto dal nuovo sultano agli arresti e dopo nemmeno diciannove mesi la morte del suo grande benefattore, fu fatto uccidere ad Edirne il 18 novembre del 1482.

Giulio Antonio I Acquaviva lo sfortunato “defensor fidei” di Don Ferrante d’Aragona che perse la testa per la causa cristiana

Ritratto di Giulio Antonio Acquaviva in veste di condottiero conservato nella sala consiliare del Municipio di Giulianova
Ritratto di Giulio Antonio Acquaviva in veste di condottiero conservato nella sala consiliare del Municipio di Giulianova

 

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VII Duca d’Atri, I Duca di Teramo, XIII Conte di Conversano e di Castro San Flaviano e Signore di Forcella, Roseto e Padula, Giulio Antonio Acquaviva I nacque in Abruzzo nel 1425. Figlio di Antonella Riccardi Migliorati dei signori di Fermo e di Ortonae del famoso capitano di ventura Giosia Acquaviva, VI duca d’Atri.

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Le famiglie di entrambi i suoi genitori appartenevano al più antico patriziato napoletano. Suo padre Giosia aveva ereditato vasti territori lungo il litorale adriatico da parte dei propri predecessori che erano scesi in Italia dalla Baviera con gli Ottoni nel corso del X secolo. Questi vasti possedimenti avevano il loro centro d’irradiazione nel feudo della città di Acquaviva Picena, graziosa città in Abruzzo Ultra, da cui la famiglia acquisì il nome a partire dal regno dell’imperatore Federico II di Hohenstaufen.Gli Acquaviva ricoprirono le più alte cariche sia in campo militare che in quello civile ed ecclesiastico. Le prime scritture risalgono al 1195 con tal Rinaldo sposato a Foresta, figlia di Lione signore d’Atri.

Stemma ducale della Casata Acquaviva
Stemma ducale della Casata Acquaviva

Gli Acquaviva parteciparono, con le proprie milizie alla Crociata del 1185 e, con propri navigli, alla guerra contro l’Imperatore d’Oriente. L’antica prossimità degli Acquaviva con la casata sveva rese inevitabile il forte contrasto con gli Angioini ed i loro vassalli. Un suo avo , Antonio Acquaviva nel 1376 riuscì a sottomettere gli Ascolani che si erano ribellati e fronteggiò con successo anche Lodovico d’Angiò tanto che per riconoscenza, re Carlo III di Durazzo lo nominò suo ciambellano donandogli i possedimenti di San Flaviano e di Montorio col titolo di Conte.Con un’abile strategia e manovra militare, nel 1390 riuscì a penetrare di notte nella città di Teramo uccidendo Antonello della Valle che dormiva nella sua dimora. Il 20 giugno del 1393 ottenne da re Ladislao di Durazzo, dietro pagamento il riconoscimento del possesso di Atri e Teramo. Suo padre Giosia intraprese la stessa strategia alleandosi con Alfonso d’Aragona nella lunga, drammatica contesa per il trono di Napoli. Per questa netta scelta di campo, egli dovette subire periodiche devastazioni delle sue terre da parte degli Sforza, alleati degli Angioini, venendo persino preso prigioniero da questi ultimi dopo la sanguinosa battaglia di Ortona del 1440. Cresciuto in un contesto così violento ed infido il giovane Giulio Antonio I non potette che farsi strada con l’astuzia e la forza delle armi, militando con onore nell’armata del principe di Taranto Giovanni Antonio Orsini del Balzo.

La sincera devozione verso il suo signore – dimostrata in molti campi di battaglia tra Marche, Abruzzo e Puglia – gli portò in dote la contea di Conversano, acquisita tramite il matrimonio che si celebrò nel 1456 con Caterina Orsini del Balzo, Contessa di Conversano, Signora di Turi, Noci, Castellana, Casamassima, Bitetto e Gioia del Colle, nonché figlia naturale del suo amato principe. Affiancando la politica del suocero, prese parte alla prima congiura dei baroni sconfiggendo il 22 luglio del 1460 presso il proprio feudo di Castello S. Flaviano le guarnigioni reali anche se non potette gioire della vittoria perché ostacolato dalle forze di Giorgio Castriota Scanderbeg. Passò poi a prendere parte all’assedio di Troia e quindi a quello di Andria insieme con Niccolò Piccinino col quale si sforzò di piegare ma invano la resistenza di Francesco del Balzo, padre di Raimondello e fedele a Ferrante d’Aragona. Presa infine la città di di Andria ma fu però sconfitto nel 1462 a Troia.

Successivamente Giulio Antonio I Acquaviva negoziò un trattato di pace tra il suocero e gli Aragonesi, riuscendo ad instaurare così un buon rapporto personale con il nuovo sovrano Ferrante. Nel 1463 tale simpatia gli permise di recuperare alcuni possedimenti di famiglia a Montepagano, e di imporre alla città di Bari un esoso tributo ammontante ad oltre 4000 ducati. Nel 1463, una volta deceduto il suocero, capo ed organizzatore principale della rivolta dei baroni, passò senza preavviso dalla parte del re Ferrante d’Aragona, al quale da allora in poi serbò fede fino alla morte. Ferrante lo accolse con ogni onore, concedendogli il 30 aprile del 1469 la restituzione dei possedimenti di Atri e di Teramo, che erano stati privati a suo padre Giosia.

 Busto in ceramica policroma di Re Ferdinando I d’Aragona detto “Don Ferrante”
Busto in ceramica policroma di Re Ferdinando I d’Aragona detto “Don Ferrante”

Nel 1473 ebbe l’incarico di scortare a Ferrara Eleonora d’Aragona, che andava in sposa ad Ercole d’Este. L’anno successivo fece parte del corteggio di Federico d’Aragona nel viaggio verso la Borgogna, per chiedere la mano di Maria, figlia di Carlo il Temerario. Il 16 settembre del 1477 accompagnò Giovanna d’Aragona da Castelnuovo alla chiesa dell’Incoronata, dove doveva aver luogo la cerimonia della sua incoronazione.

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Con l’interdizione della carriera militare ai nobili, decisa da don Ferrante, il maturo condottiero si stabilì definitivamente nei suoi possedimenti abruzzesi dove pose in essere un’intensa attività artistica e culturale.Questo ritiro fu interrotto per poche settimane solo dalla guerra di Toscana del 1479. Ormai sicuro dei propri diritti feudali, Giulio Antonio I Acquaviva progettò la ricostruzione di molte località del ducato di Atri, diroccate durante le precedenti ostilità tra Aragonesi e Angioini.La prima località ad essere soggetta a tali interventi urbanistici fu la città di Conversano, dove venne ristrutturato l’antico castello medievale che fu arricchito con un’ampia torre a base decagonale e lunghe mura a scarpata, particolarmente ardite dal punto di vista ingegneristico. Il resto del maniero fu invece fortificato con parapettie bastioni a pianta cilindrica che lo fecero divenire un vero e proprio capolavoro dell’architettura militare del tredicesimo secolo. Subirono importanti restauri anche la Cattedrale e il Monastero di San Benedetto, governato spesso nei secoli seguenti da badesse appartenenti alla famiglia ducale Acquaviva d’Aragona.

Giunse poi il tempo della ricostruzione di Atri, con l’edificazione della chiesa di San Liberatore che era stata originariamente cappella votiva degli Acquaviva e l’ampliamento di quella di San Nicola.Fu però l’antico borgo di Castel San Flaviano ad assorbire le massime attenzioni del duca mecenate. Posto sul litorale adriatico dopo la famosa battaglia del Tordino del 25 luglio del 1460 tra le truppe di Francesco Sforza e quelle Niccolò Piccinino, Castel San Flaviano, la residenza degli Acquaviva, fu saccheggiata dai soldati di Matteo di Capua e ridotta in un cumulo di macerie.Invece di ricostruire la città, Giulio Antonio I preferì costruirne una nuova a settanta metri sul livello del mare vicino alla città antica romana denominata Castrum Novum Piceni.

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Stemma d’Aragona

Il 31 maggio1471 Ferrante I re di Napoli emise un proclama mediante il quale autorizzava Giulio Giulio Antonio I Acquaviva a riedificare Castel San Flaviano sul luogo che egli stesso aveva prescelto. Il nuovo nucleo prese da lui il nome di Julia e più tardi quello di Julia nova. Il progetto della cittadella fu affidato dal duca ai famosi architetti Leon Battista Alberti e Francesco di Giorgio Martini che lo terminò nel 1472, ispirandosi agli antichi modelli vitruviani ed ai nuovi criteri di prospettiva e razionalità propri dell’età rinascimentale. I lavori di edificazione si protrassero per più decenni e si presentarono come un’impresa titanica, fortemente voluta dallo stesso duca che più di una volta s’interessò personalmente dell’opera, anche con l’aiuto di persone di sua fiducia, come il suo legittimo primogenito Giovanni Antonio, e Sulpizio altro suo figlio naturale. Il centro abitato originario era racchiuso per intero entro una possente cinta muraria della forma di un quadrilatero irregolare, difeso da otto torrioni di cui uno inserito nel palazzo ducale. L’impianto dell’urbe era di tipo radiocentrico imperniato su un nucleo monumentale costituito dal Palazzo degli Acquaviva, dalla fontana pubblica e dal Duomo di forma ottagonale che dominava l’Adriatico.

Stemma Acquaviva d’Aragona
Stemma degli Acquaviva d’Aragona

La cittadella, progettata per accogliere non più di un migliaio di residenti, ebbe al principio una scarsa popolazione, composta per lo più da immigrati di altri stati italiani o provenienti da alcuni paesi dell’Europa orientale. Nel primo censimento comparivano dieci Albanesi, quattro Croati non ben identificati e tre Greci mentre per quanto concerneva gli Italiani si segnalavano la presenza di ben quindici Lombardi oltre ad alcuni Veneti e Romagnoli, un Ragusino, un Marchigiano ed un solo Abruzzese. La città di Jiulia nova fu il definitivo trionfo di Giulio Antonio I Acquaviva, ormai acclamato non solo per le diverse battaglie sostenute ma anche per le grandiose opere artistiche realizzate durante il suo lungo ritiro professionale.

Uomo d’arme e d’ingegno fu utilizzato più volte da re Ferrante per i suoi fini politici. Nel 1478, riprese le armi e comandò la flotta che sosteneva l’esercito napoletano di Ferrante d’Aragona, che si era unito alla coalizione costituita dal papa Sisto IV contro Firenze e nel luglio dello stesso anno partì alla volta di Genova alla testa di una spedizione armata, in occasione della ribellione genovese contro gli Sforza, di lì attraverso la Lunigiana transitò in Toscana con Roberto Sanseverino, combattendo sotto le mura di Pisa e passando poi a sostenere nel 1479 i Senesi ribelli contro Firenze.

Una volta ritornato alla corte di Napoli per aver guidato e consigliato il duca di Calabria, fratello del re, venne insignito dell’Ordine del Ermellino. Inoltre con privilegio del Re di Napoli del 30 aprile 1479, ricevette l’onore di poter aggiungere al suo cognome il nome di Aragona e di inserire nel blasone di famiglia i colori della nobile casata regia. Una volta occupata Otranto dai Turchi di Mehmet II, fu posto a capo della prima spedizione di millecinquecento soldati mandata per recuperare la cittàportuale salentina.

Stanziatosi con le sue truppe nella piccola città di Sternatia, il 7 febbraio del 1481 saputo della caduta in mano musulmana della roccaforte di Galatina cercò di inseguire le retroguardie turche che ritornavano ad Otranto ma alla guida di un manipolo di suoi fedeli, s’impantanò nelle terre paludose e boschive nei pressi dei casali di Acquarolo (oggi località “Laccu”) e Pulsanello (oggi località “Pulisanu”) a poche miglia dai centri urbani di Muro Leccese e Giuggianello cadendo in un agguato dei Turchi che lo decapitarono in battaglia. La sua testa fu dapprima issata su di una picca e mostrata a sfregio durante gli scontri poi successivamente fu inviata a Costantinopoli come trofeo di guerra.Nonostante vari tentativi diplomatici non fu mai riportata in patria ad alcun prezzo. La leggenda racconta che una volta decapitato rimase in arcione sul suo cavallo che lo riportò privo di testa a Sternatia nel fortilizio da dove era partito con le sue truppe.A vendicarlo ci pensò il figlio Andrea Matteo, che condusse il lungo assedio delle posizioni turche nel Salento sino alla loro resa definitiva.

Il suo corpo fu sepolto, assieme a quello della moglie, nella chiesa di Santa Maria dell’Isola a Conversano, in un momumento funebre opera dello scultore galatinese Giulio Barba.

Ancora dolci salentini. La torta di pasta di mandorla

 

di Massimo Vaglio

 

Ingredienti: 1 kg. di mandorle dolci pelate, 50 gr. di mandorle amare, 800 gr. di zucchero, la buccia di un limone, il succo di un limone, 1 bustina di vanillina pura, uova q.b.

Per il ripieno: savoiardi, elisir San Marzano o similare, cioccolato fondente, marmellata d’arance.

 

Macinate le mandorle insieme alla buccia del limone unitele con tutti gli altri ingredienti e amalgamate il tutto con delle uova, sino ad ottenere un composto facilmente lavorabile. Ricoprite una teglia con carta da forno e fate uno strato sottile con una metà della pasta ottenuta; disponetevi sopra un leggero strato di marmellata d’arancia, il cioccolato fondente sbriciolato ed infine uno strato di savoiardi bagnati nel San Marzano allungato al 50% con acqua. Ricoprite il tutto con il restante strato di pasta e pennellate la torta con un po’ di uovo sbattuto, ponete in forno a 180° finché non vedrete la superficie ben dorata. Fatela raffreddare, quindi toglietela dalla teglia e cospargetela di zucchero a velo.

Lu sanapùddhu (la senape selvatica)

di Armando Polito

nome scientifico: Sinapis arvensis L.

nome italiano: senape selvatica

nome dialettale: sanapùddhu a Nardò, rapèsta a Calimera, Cutrofiano, Galatone, Galatina, Poggiardo, Seclì, Vernole e Veglie; rapìsta ad Aradeo, Bagnolo e Sogliano; lapìstra a Castro e Squinzano; laprìsta a Calimera e Parabita.    

famiglia: Brassicaceae

Tra le specie vegetali spontanee commestibili del Salento occupa un posto privilegiato per il sapore particolare, esaltato da diverse opzioni di preparazione, su cui non sono assolutamente all’altezza per soffermarmi. Con la culinaria (attenzione agli errori di battitura…perché basta che ti sfuggano due spazi  in più  per trovarti in situazioni, almeno per chi, come me, ha ancora gusti “tradizionali”, spiacevoli…) non ho un buon rapporto; sono, però, almeno così dicono, un’ottima forchetta. Ogni tanto indosso pure i panni del divulgatore, come faccio ora, sperando che il Padreterno me la mandi buona. E lo faccio non per apparire come il “dotto” invocato nel post Torre Inserraglio, Salento.  I sanàpi e una ricettina sciuè sciuè del 7 settembre u. s., a firma di Tommaso Esposito, che ho letto solo qualche giorno fa. La sua pubblicazione, evidentemente, era avvenuta in un periodo in  cui il pc era andato in tilt e non ho potuto disporne se non dopo quattro o cinque giorni, un periodo breve ma sufficiente per non tenermi aggiornato con Spigolature salentine, il che la dice lunga sulla sua prodigiosa funzione di sviluppo della cultura non solo salentina. Poi il caso ha voluto che mi imbattessi nel post citato e…eccomi qui.

Cominciamo con l’etimologia. Una volta esclusa la possibilità da parte della pianta di sanare qualche malattia dei polli (i miei polli e galline, per esempio, neppure la guardano) e che, dunque, sia un termine composto da sanare  e puddhi1  (=polli), bisogna enucleare –ùddhi  che è un suffisso diminutivo, come succede, per fare un solo esempio, in crucùddhu=cavalletta, deformazione di *brucùllus, diminutivo del greco brykos, che ha lo stesso significato (il passaggio b->c– dovrebbe essere stato indotto per influsso della c della seconda sillaba).

La voce primitiva, infatti è sanàpi che, a quanto ne so, è usata da alcuni come sinonimo di sanapùddhi (senape selvatica, arvensis nel nome scientifico, da arva=campi), da altri per indicarne la varietà coltivata, entrambe della famiglia delle Brassicaceae (da bràssica=cavolo).

Sènape è uno dei rari esempi di parola italiana che ha conservato l’ accento della parola greca di origine (sìnapi o sìnapu o sìnepu o sìnepi), mentre la dialettale sanàpi ha seguito l’accentazione latina (siccome la della voce greca è lunga, in latino è sinàpi o sinàpe o sinàpis). Il sanare, infine, cacciato, a proposito della forma dialettale,  dalla porta potrebbe rientrare dalla finestra, a spiegare, per incrocio, il passaggio –e->-a-.

Tutte le altre denominazioni dialettali sono figlie del latino rapìstrum=rapa salvatica.

Passo ora agli autori antichi che di quest’erba si sono occupati, cominciando da quelli greci. Le testimonianze più remote, purtroppo, sono costituite per lo più da frammenti giunti fino a noi per tradizione indiretta2, il che pone spesso problemi interpretativi, come di norma succede, in qualsiasi campo,  in assenza di un adeguato contesto. La miniera più ricca in tal senso è certamente l’opera I deipnosofisti (I dotti a banchetto) di Ateneo di Naucrati (vissuto probabilmente tra il II e il III secolo) in cui lo stesso titolo è tutto un programma, perché il banchetto non è assolutamente da intendersi in senso metaforico, sicché si è davanti ad un immenso trattato di culinaria in cui gli chef sono autori di cui non sapremmo pressoché nulla se Ateneo (a loro posteriore di almeno cinque secoli) non avesse genialmente pensato di riunirli per l’occasione e sui vari argomenti non li avesse fatti intervenire con citazioni tratte dalle loro stesse opere. Le erbe in questa piacevole e dotta conversazione hanno, come di dovere, un posto privilegiato e alla nostra è dedicato un lungo passo (IX, 366): “ Essendo stati serviti dei prosciutti e avendo detto uno che sono freddi Vipiano disse:- Dove questo sta scritto e chi ha chiamato la senape (sìnapu) napi (napy)?  Perchè vedo che viene portata nei piatti insieme con i prosciutti (kolèa, di genere femminile)?  So che il prosciutto è chiamato anche così, coscia (koleòs, di genere maschile), con nome maschile e non , come i nostri compaesani ateniesi, solo con un nome femminile. Epicarmo in Megaridecosì dice: -Salsiccia (chordé, di genere femminile), piccola forma di formaggio, vertebre e tra i cibi neppure un prosciutto indicato con un nome maschile  . E nel Ciclope : -Intestini, cibo soave, per Giove!, e la coscia-. O sapientissimi, sappiate da me pure questo, che Epicarmo  diede il nome di salsiccia (chordé) a quello che allora di solito chiamava prosciutto (orýa, di genere femminile). E vedo il sale come condimento in altri cibi…Così nominò la senape (sìnepu) Nicandro di Colofone in Antidoti:  -o anche limatura di rame o senape (sìnepu)-. In Georgiche: -I semi piccanti di senape- e di nuovo: -La senape che ha le foglie nere…-. Crates nei libri sulla lingua attica presenta Aristofane che dice: -Vide la senape (sìnepu) e contrasse il volto-, come disse Seleuco nei libri sul corretto uso della lingua greca. Ci resta poi un carme de I cavalieri che dice: -E vide il napi (napy)-. Nessuno degli abitanti dell’Attica disse senape (sìnapu). Ognuno dei due termini ha la sua ragione. Infatti napi (napy) è come nafi (nafy) poiché è privo (afyès) della natura, insignificante e piccolo, come anche l’acciuga (afýe)4.  (Si dice) senape (sìnapu) poiché nuoce (sìnetai) agli occhi (opas)5col suo olezzo, come fa anche la cipolla, poiché restringe le pupille (koras)6. Il commediografo Senarco in Sciti disse: -Questo male non è ancora un male. La mia figliola è irritata (sesinàpike)7 a causa di una straniera-”8.

Più avanti nello stesso libro Ateneo fa parlare Antippo che ne L‘uomo che si nasconde, da altri autori attribuito non senza dubbi ad Anasippo (IV-III secolo a. C.), così dice: “Il palato dei vecchi ha una differenza: è molto più tardo di quello dei giovani. Ai vecchi servo la senape e  preparo succhi dal gusto aspro perché dopo averli eccitati li riempia di aria“.9

Nicandro di Colofone10  (II secolo a. C.) nel suo Alexiphàrmaca (Antidoti) propone questo rimedio contro l’avvelenamento da funghi che, secondo lui,  sono diventati nocivi per essere venuti a contatto con una vipera o per averne assunto il fiato: “Prendi la testa di un sinuoso cavolo, oppure recidi un rametto di ruta, prendi se è il caso un pizzico di limatura di vecchio rame, getta un po’ di cenere di clematide nell’aceto e trita il tutto; aggiungici piretro o nitro o una foglia di nasturzio, il medo e la piccante senape (sìnepu).“11

Dopo i poeti è la volta dei medici. Dioscoride Pedanio (I secolo d.C.) che così parla dell’olio di senape (sinapèlaion) nel capitolo 38 del libro I della sua opera: “L’olio di senape si prepara dopo aver tritato la senape (sìnepu) ed averla fatta macerare in acqua fredda, con l’aggiunta successiva di olio e spremitura; giova contro i dolori cronici come componente “.12

Oribasio (IV secolo d. C.) dedica al senapismo (vedi nota n.7) l’intero capitolo 13 del libro X della sua opera scritta in greco ma giuntaci nella traduzione latina del V o VI secolo: ”Il cataplasma che si prepara con la senape (sinàpi)  è alquanto efficace perché è consigliato non solo nelle malattie acute. Lo usiamo da solo  nei casi di fiacchezza e stordimento, nelle malattie croniche, per quasi tutte le infermità di lunga durata;  laddove abbiamo constatato che più debole è l’efficacia degli altri rimedi e non in grado di opporsi alla malattia, il senapismo (nel testo sinapìsmus) è efficacissimo. Ma tuttavia in presenza di pus e perdita di liquidi da una lesione che riguardi il fegato non consigliamo il senapismo, neppure in qualche altra ulcerazione che riguardi le parti intime, appunto perché diventano acuti e sono resi feroci dall’asprezza della senape; anzi bisogna guardarsi dall’usarla nelle parti cartilaginee, come nelle orecchie e nelle narici infiammate e ogni qual volta quelle che sono prive di carne e le parti cartilaginee siano annerite;  invece tutte le altre parti del corpo e le malattie croniche traggono giovamento da questo rimedio. I rilassamenti del pene e della vescica ne hanno un grande aiuto e allo stesso modo tutte le parti rilassate. Anche nell’intestino retto rilassato si introduce una pallottola di senape. A coloro che hanno difficoltà di udito un unguento preparato con la senape pestata viene applicato alle orecchie e una volta che la parte abbia in qualche modo percepito l’effetto del preparato, tolto con un panno l’unguento, si lava la parte con idromele. Nel caso in cui la parte è carnosa o meno sensibile si ponga fine  al trattamento solo quando l’infermo sente un violento dolore, la carne è diventata un po’ nera e sollevata rispetto a quella circostante e le vesciche sono leggermente sollevate; per le malattie e per le parti facilmente sensibili bisogna usare la senape più moderatamente, finché la carne non diventi un po’ rossa. Quest’uso moderato non sarà vano se si sarà usato il senapismo sempre un giorno sì e uno no oppure per due giorni, affinché l’uso continuato abbia l’efficacia di un unico robusto trattamento. Certamente c’è un limite per l’uso continuato,  quando le parti trattate e spamate col sinapismo non hanno alcuna senzazione di dolore. Nelle malattie acute raramente applichiamo questo tipo di rimedio: solo in caso di catalessi e in tutti gli altri casi di eccessiva tendenza al sonno, come succede in caso di febbre e di catalessi e di escoriazione che bruci dolorosamente. Procuriamo col senapismo contrazioni alle gambe di coloro che sono eccessivamente soggetti al sonno e in coloro che sentono molto freddo alle gambe e alle braccia. Per il resto la senape vada applicata in uno strato sottile a tutti gli altri dopo aver coperto la parte con un panno di lino. Il senapismo si prepara in questo modo: bisogna il giorno prima macerare fichi secchi in acqua tiepida; il giorno successivo dopo aver strizzato con forza  l’acqua vanno pestati energicamente; a quel punto prendere senape pungente, come è quella della Siria e dell’Egitto, e pestarla da sola versando poco a poco l’acqua in cui sono stati macerati i fichi perché così si amalgama meglio. Poi si formino due ammassi , uno di fichi, l’altro di senape. Il senapismo sarà più energico se aggiungeremo due parti di senape ad una di fichi,di media forza se sarà preparato con due parti uguali; se poi riesce poco forte aggiungeremo un terzo di senape due terzi di fichi. Si usa spalmato sul lino o su un panno qualsiasi. La parte cui si deve applicare il senapismo prima dev’essere prima spalmata di nitro, poi va applicato il cataplasma e il tutto va protetto con una fascia. Il senapismo va usato al sole o in una casa esposta al sole e preferibilmente prima del bagno. Non si può determinare a priori quanto deve essere lasciato poiché alcuni ne sentono l’efficacia prima, altri dopo. Perciò spesso bisogna osservare la parte per vedere se si è sufficientemente arrossata. Se dopo un lungo tempo  il senapismo applicato non agisce, imbevuta di acqua calda una spugna e collocatala nel panno in cui c’è il cataplasma, bisogna riscaldare la parte. Una volta usato più che a sufficienza il senapismo, il malato sia condotto al bagno e, lo si bagni tutto perchè si rilassi moderatamente, comprese preferibilmente le parti alle quali è stato applicato il senapismo; queste però non siano unte e se il malato sembra sopportarlo lo deve sopportare ed entrare di nuovo nel bagno ed essere bagnato senza, beninteso, essere unto neppure allora. Laviamo pure parecchi senza ungerli fino al giorno seguente. Dopo l’ultimo bagno ungiamo le parti con olio di rose. Se il dolore diventa violento e si sono formate pustole: le parti devono essere trattate con lana imbevuta di acqua e di olio di rose o anche con olio di mandorle misto ad acqua, meglio ancora se invece dell’acqua si usa succo di malva. In coloro che il dolore tormenta, la parte va spalmata con malva ben cotta o da sola o con pane; quando il dolore sarà cessato useremo  un cerotto all’olio di rose con biacca. Gli affetti da sonnolenza e quelli che soffrono di malattie acute devono essere lavati, gli altri ai quali è stato applicato il senapismo li ungiamo con olio e lo stesso facciamo con quelli che hanno carni estremamente delicate. In quelli per i quali usiamo il senapismo non per le parti più superficiali ma per quelle che stanno vicino alla pelle va mescolato alla senape pane reso liscio invece dei fichi. Bisogna sapere anche che se si macera la senape nell’aceto vien fuori un cataplasma più debole, se nell’acqua meno pungente. Coloro che applicano il senapismo alle orecchie devono fasciarle con un panno o con una doppia fascia di lino; se viene applicato ai malleoli bisogna prima ungerli con olio, poi fasciarli con un doppio strato di lino”.13

Passo alle più significative testimonianze degli autori latini. La nostra erba ha l’onore della citazione in due commedie di Plauto (III-II secolo a. C.): “Si macina la scellerata senape (sinàpis) che fa lacrimare gli occhi ancor prima di macinarla”; “Se, per Castore, quest’uomo si ciba di senape non credo che possa essere tanto triste”14.

Ampio spazio le dedica, pure con riferimento alla sua coltivazione, Columella (I secolo d. C.): “In periodo non diverso si piantano anche il cappero, merce da conserviere, le amare enule, le minacciose canne, i serpeggianti cespi di menta e si spargono i fiori dell’aneto dal gradito profumo…“; “La senape (sinàpi) e il coriandro nonché la rucola e il basilico rimangono al loro posto come furono piantati e non bisogna fare altro che letamarli e sarchiarli…Anche le piantine della senape trapiantate all’inizio dell’inverno sviluppano più cime”;  ecco come la senape entra nella preparazione, credo a lunga scadenza, delle rape: “Raccogli rape quanto più rotonde, se sono sporche lavale, con un coltello affilato elimina la corteccia superficiale; poi, come sono soliti fare i conservieri, con una mezzaluna  fa un taglio ad x facendo attenzione a non trapassare la rapa da parte a parte. A questo punto spargi del sale non troppo fino nel taglio e sistema le rape in una catinella o in un vaso di terracotta e, dopo averle cosparse abbondantemente di sale, lasciale trasudare per tre giorni. Al terzo giorno assaggia un pezzo interno di rapa per controllare se il sale ha fatto effetto;  poi, quando ti sembrerà che ciò sia avvenuto, toglile tutte e lavale una per una col loro stesso liquido, oppure, se non ce n’è molto, aggiungi salamoia concentrata e così lavale e poi sistemale in una cesta quadrata di vimini che sia fatta a maglie nontroppo strette ma robuste. Allora posaci sopra una tavola tale che possa arrivare, se è necessario, al fondo della cesta; mettici sopra un grosso peso e lasciale ad asciugarsi per un’intera notte e per un giorno. Fatto questo sistemale in un contenitore di terracotta impeciato o di vetro e spargi senape e aceto fino a che non siano coperte”; ed ecco, infine, la ricetta per preparare un aceto particolare: “Lava accuratamente e passa al setaccio il seme della senape; poi lavalo con acqua fredda e quando sarà ben pulito lascialo a mollo in acqua per due ore, quindi toglilo e pestalo in un mortaio nuovo e ben pulito. Quando sarà stato sminuzzato raccoglilo tutto al centro del mortaio e comprimilo col palmo della mano. Fatto ciò, fai delle incisioni e, messici pochi carboni vivi, versa acqua nitrata perché vadano via il sapore amaro e il color giallo. A questo punto inclina immediatamente il mortaio perché tutto l’umore scorra via, poi aggiungi aceto bianco forte, batti col pestello e filtra. Questo succo è splendidamente adatto a condire le rape. Del resto, se vuoi prepararlo per ogni uso, una volta fatta scolare la senape, aggiungi pinoli freschissimi e amido e pesta accuratamente dopo aver versato dell’aceto. Fa’ il resto come ho detto prima. La senape così trattata potrai adoperarla non solo come salsa piccante ma come qualcosa di particolare; infatti è di una bianchezza eccezionale se è fatta con cura”15.

Per non fare io stesso, oltre che farla fare al fin qui paziente lettore,  indigestione di senape, chiudo con il principe dei naturalisti,  Plinio (I secolo  d. C.): “Nell’equinozio di autunno…si seminano il coriandro, l’aneto, l’atriplice, la malva, il lapato, il cerfoglio che i Greci chiamano pederoto e la senape (sinàpi) dal sapore piccantissimo, effetto di fuoco e molto salutare per il corpo; non ha bisogno di alcuna coltura anche se la cresce meglio quando è trapiantata. Al contrario, una volta che sia stata seminata, non è più possibile eliminarla dal campo perché il seme, che cade subito, subito nasce. La si usa come vivanda cotta in padella in modo che appena si senta il suo sapore piccante. Si cuociono anche le foglie, come per le altre erbe. Ce ne sono tre specie:  una sottile, l’altra simile nelle foglie alla rapa, l’ultima alla rucola. Ottimo seme è quello egizio. Gli Ateniesi la chiamarono napi, altri tapsi, altri ancora saurio”; “La senape, della quale nominammo tre specie tra le erbe coltivate, secondo Pitagora detiene il primato tra quelle la cui forza sale in alto, poiché nessuna più di essa penetra nel naso e nel cervello. Pesta con l’aceto viene applicata ad empiastro contro i morsi dei serpenti e degli scorpioni.  Neutralizza il veleno dei funghi. Contro il raffreddore si tiene in bocca finché non si scioglie o si fa il gargarismo con acqua mista a miele. Viene masticata contro il mal di denti, in caso di malattia all’ugola viene gargarizzata con aceto e miele. È utilissima contro tutte le malattie dello stomaco e dei polmoni. Assunta col cibo rende facile l’espettorazione e viene somministrata anche agli asmatici, nonché col succo di cocomero negli attacchi di epilessia. Purga i sensi e con gli starnuti il capo, mollifica l’intestino, stimola il ciclo mestruale e la diuresi. Si somministra agli idropici, pesta con fico e cumino nella dose di un terzo. Giova all’epilessia e mescolata con aceto e col suo odore rianima le donne soffocate da un attacco isterico, allo stesso modo giova ai letargici. Si aggiunge il tordilio che è il seme del sesili. Se un sonno profondo ha preso i letargici, si spalma con fico ed aceto sulle gambe e sulla testa. Con il suo potere caustico cura i vecchi dolori del torace, dei fianchi, delle gambe, degli omeri e i disturbi che vanno eliminati dal profondo, creando, dopo che è stata  spalmata, delle vesciche. Se la parte è molto dura si applica senza fico e se si ha paura di ustionarsi si utilizza un doppio panno. Si usa contro l’alopecia  insieme con l’argilla rossa, contro la rogna, la lebbra, la ftiriasi, l’impetigine, l’opistotono. La spalmano pure col miele sulle guance screpolate o sugli occhi offuscati. Si estrae il succo in un vaso di terracotta e lo si lascia riscaldare al sole moderatamente. Dal gambo fuoriesce un succo simile al latte che, una volta indurito, cura il mal di denti. Il seme e la radice dopo che sono stati immersi nel mosto vengono pestati e bevuti nella dose che sta in una mano per tonificare la gola, lo stomaco, gli occhi, il capo e tutti i sensi e sono efficaci anche contro la stanchezza femminile. La senape bevuta nell’aceto elimina pure i calcoli. Si applica con miele e grasso d’oca o cera di Cipro come cataplasma sui lividi. Dal seme macerato nell’olio e spremuto si ricava un olio che viene usato contro l’irrigidimento dei nervi e per frizionare i fianchi e le gambe”16.

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Puddhu [dal latino pullu(m)=animale giovane, da cui l’italiano pollo] nel dialetto salentino esiste ma a seconda delle zone designa la larva delle api oppure il salvadanaio di creta (per la somiglianza con la testa di un bambino), non il pollo adulto (jàddhu; per la par condicio, la femmina è iaddhìna) o giovane (jaddhùzzu e , sempre per la par condicio,  puddhàscia).

2 Cioè non presenti in manoscritti recanti parte dell’opera di un autore o la sua opera intera (tradizione diretta), ma solo grazie a citazioni tramandateci da altri autori.

3 Traduco dal testo originale dell’edizione Fragmenta comicorum Graecorum  a cura di A. Meineke, Reimer, Berlino, 1840, vol. III, pag. 624

4 Qui viene stabilito un parallelo etimologico tutto da verificare tra l’aggettivo afyès (da privativo+fyo=produrre, a sua volta connesso con fysis=natura) e il sostantivo afýe.

5 Altra etimologia tutta da verificare: sìnapu sarebbe parola composta dalla radice sin– del verbo sino=nuocere e dalla radice op– di ops=occhio; come proposta sarebbe perfetta se si fosse sviluppato sìnopu e non sìnapu.

6 Approfitto dell’occasione per mettere in risalto un concetto comune al mondo greco e a quello romano. Kore in greco significa ragazza e, per traslato, bambola, figurina, pupilla (per la figurina che vi si vede riflessa); il latino pupìlla(che è diminutivo di pupa=fanciulla, bambola) significa fanciulla minorenne,orfanella, pupilla. Inutile dire che le voci italiane pupillo e pupilla (quest’ultima nel doppio senso di minorenne sottoposta a tutela o soggetta a particolare predilezione,  come per la voce maschile, e di parte dell’occhio).

7 Da sinapìzo=applicare dei senapismi (cataplasma fatto con farina di senape nera impastata con acqua e, per traslato, cosa assai molesta o persona intollerabile). Sui senapismi, comunque, vedi più avanti nel testo.

8 Traduco dal testo originale dell’ edizione Athenaei Deipnosophistai libri XVuscita a Lipsia nel 1868 per i tipi di Tauchnit, pagg. 262-263.

Athenaei…, op.cit., pag. 333.

10 È lo stesso autore prima citato in Ateneo, uno dei pochi del quale abbiamo anche l’opera per tradizione diretta. Facendo il confronto tra il testo originale e la citazione il lettore si renderà conto di quanto sia pieno di rischi, per non dire aleatorio, il campo in cui la filologia si muove. Meno male che almeno la voce che ci interessa è riportata in entrambi i casi nella stessa forma (sìnepu).

11 Vv. 527-533; traduco dal testo originale dell’edizione a cura di M. Bandinio, Ex officina Moückiana, Firenze, 1764, pagg. 238-240

12 Traduco dal testo originale dell’edizione Pedanii Dioscoridis Anazarbei De materia medica tres, a cura di C. Sprengerl, Cnobloch, Lipsia, 1829, tomo I, pag. 52.

13 Traduco dal testo originale dell’edizione a cura di G.B. Rasatio Oribasii Sardiani collectorum medicinalium libri XVII, Aldo, Parigi, 1555, pagg. 174-175.

14 Pseudolus, atto III, scena 2, v. 28; Truculentus, atto II, scena II, vv. 60-61. Traduco dal testo originale dell’edizione M. Accii Plauti comoediae superstites viginti, Davison, Londra, 1823, pagg. 109 e 55.

15 De re rustica,  X, 117; XI, 29; XII, 56; XII, 57. Traduco dal testo originale dell’edizione a cura di G. Scheider, Antonelli, Venezia, 1846, pagg. 601, 679, 803 e 804.

16 Naturalis historia, XIX, 54 e XX, 87.Traduco dal testo originale dell’edizione a cura di L. Domenichi, Antonelli, Venezia, 1844, vol. I, pag. 1799 e vol. II, pagg. 91-93.

Giovanni Antonio Colicci maestro di legname

di Maura Sorrone

 

Figura 1. Nardò, Cattedrale, G. A. Colicci, Madonna Assunta, 1714 (foto V. Giorgino)

Recentemente, gli studi sulla scultura in legno, sostenuti da numerosi interventi di restauro, ci hanno permesso di aggiungere ulteriori tasselli allo sterminato e immenso patrimonio di opere presenti sul territorio salentino; ed è proprio grazie a ciò che altri nomi si aggiungono a quelli dei più conosciuti artisti del legno, svelando intrecci e legami che i documenti finora conosciuti avevano solo suggerito.

È proprio il restauro delle opere che può compensare le lacune documentarie, permettendo, spesso a distanza di molto tempo, di chiarire importanti vicende stilistiche1.

Negli ultimi anni, si è cercato di utilizzare al meglio le nuove tecnologie nel campo della diagnostica2, ma quando ciò non risulta possibile, anche solo un corretto intervento di restauro può permettere una lettura omogenea dell’opera e il più delle volte salvarla dall’incuria e da metodi di scarsa manutenzione utilizzati di frequente in passato.

Tra i casi più noti ci sono le vicende artistiche di scultori come Nicola Fumo e Giacomo Colombo, ai quali spesso, vengono attribuite opere sulla base di una somiglianza stilistica con opere certe, dimenticando però che tale somiglianza è frutto di restauri poco corretti. Ciò ha portato ad accrescere inevitabilmente il catalogo di alcuni artisti a scapito di altri, ancora poco conosciuti, che meritano le dovute attenzioni.

È il caso di Giovanni Antonio Colicci3, scultore di origini romane, documentato negli anni 1692 – 17404, autore di due opere in legno custodite ancora oggi a Nardò, negli ultimi anni recuperate e ripulite da interventi che ne occultavano il valore.

Prima di soffermarci sulle due opere in questione è necessario spendere alcune parole sul Colicci e sulle vicende che lo avvicinarono all’ambiente napoletano.

Il nostro artista, sembra appartenere ad una famiglia di intagliatori romani, che negli anni Novanta del XVII secolo, lavorano nell’Abazia di Montecassino collaborando alla realizzazione del coro ligneo della basilica5.

In questi anni i lavori nel cantiere cassinate impegnano importanti artisti napoletani, tra cui Luca Giordano, Francesco Solimena e Francesco De Mura; dunque la famiglia Colicci era già ben inserita nell’ambiente artistico napoletano; infatti come ha evidenziato Filippo Aruanno, già nel 1699, Giovanni Antonio Colicci realizza due angeli che reggono uno stemma per la Chiesa degli Incurabili di Napoli6.

I documenti pubblicati da Gian Giotto Borrelli7 testimoniano, inoltre, Giovanni Antonio attivo a Napoli a partire dal 1712 come scultore de legnami8, perfettamente inserito nella società napoletana.

E dalla sua bottega sita ante largum Archiepiscopalis Ecclesia9 due anni più tardi, nel 1714, partirono le due belle statue, quella della Madonna Assunta (fig. 1) e il busto di San Filippo Neri (fig. 2) che giungeranno a Nardò per volontà del Sanfelice10. Dunque un’ incarico illustre per il Colicci, al quale, proprio in questi anni, verranno commissionati arredi lignei per monasteri e chiese, e diverse statue, tra cui quella di San Benedetto per la badessa del monastero di San Giovanni a Capua11.

Figura 2. Nardò, Seminario Diocesano, G. A. Colicci, San Filippo Neri, 1714

Tutto questo mentre Antonio Sanfelice aveva già dato inizio all’opera di restyling dell’intera diocesi salentina.

Scontato ricordare l’attività di grande mecenate che il vescovo intraprese, i cui segni, ad ogni modo, sono tuttora visibili12. Interessante porre attenzione sui rapporti del vescovo – committente con gli artisti che da Napoli inviavano le proprie opere nella provincia salentina. A tal proposito, ricordiamo che intenso doveva essere il rapporto del vescovo Sanfelice, tramite il fratello, con Francesco Solimena o comunque con artisti della sua cerchia13, che fruttò alla città di Nardò diverse opere. Proprio questa potrebbe essere la stessa strada che ha portato Giovanni Antonio Colicci, a ricevere degli incarichi da parte del vescovo Sanfelice, mediante l’intervento, anche in questo caso, del fratello architetto14, al quale forse, come ipotizza Borrelli, spetta il disegno delle due opere neretine15.

Purtroppo le sostanziose visite pastorali sono avare di notizie riguardanti i nomi degli artisti, ma è indicativo ricordare che proprio al 1714, anno di commissione delle due statue, risale il rifacimento dell’altare maggiore e l’intero presbiterio della Cattedrale che verrà dedicato alla Vergine Assunta16 mentre a San Filippo Neri, già da tempo venerato in città17, fu intitolato il Seminario diocesano18.

Questi segni testimoniano l’intenzione del vescovo di attuare un vero programma politico19, che anche per la scultura sembra seguire la stessa linea che Galante ha ipotizzato per le pitture dell’Olivieri nella chiesa della Purità20.

Chiarito a grandi linee il clima culturale e accennato ai proponimenti del Sanfelice, possiamo ora soffermarci sulle statue oggetto della questione.

Le due opere sono state di recente restaurate21, e ciò ci permette di avere una lettura omogenea dei manufatti.

Figura 4. G.A. Colicci, Madonna Assunta, 1714, part. della pulitura durante il restauro (foto di Valerio Giorgino)
Figura 3. Nardò, Cattedrale, G. A. Colicci, Madonna Assunta, 1714, prima del restauro

L’intervento effettuato sulla statua dell’Assunta ha ripristinato quella che sembrerebbe essere la policromia originale dell’opera: la tunica rosso – arancio con piccoli motivi floreali, il manto blu che dalla spalla sinistra scende sulla figura, il copricapo color avorio a strisce rosse, che dalla spalla destra scivola con un delicato movimento sulla sinistra.

Prima del restauro la statua si presentava completamente modificata nella cromia (fig. 3 e 4), al rosso della tunica era stato preferito l’avorio, mentre uno spesso strato di sporco e vernice ossidata ricopriva l’intera superficie.

Per realizzare l’opera lo scultore ha utilizzato diversi masselli di legno, lavorati e poi assemblati insieme; con il restauro, è stato possibile constatare la situazione compromessa di tutta la struttura e capire in quali punti sono stati assemblati i pezzi (fig. 5).

L’intera figura, piuttosto grande, presenta la Vergine assisa su una nuvola circondata da teste alate di cherubini, ha le braccia aperte e lo sguardo rivolto verso l’alto.

Il pessimo stato in cui versava l’opera aveva finanche nascosto completamente la delicatezza dell’intaglio, alquanto profondo nelle pieghe del vestito e più dettagliato e minuzioso per ali dei puttini.

Figura 5. G. A. Colicci, Madonna Assunta, part. masselli danneggiati (foto di Valerio Giorgino)

Sappiamo bene che, soprattutto le sculture in legno, sono dei veri e propri oggetti di culto legati alla devozione. Inoltre il legno stesso non aiuta la conservazione e così le statue nel corso dei secoli hanno subito integrazioni e ridipinture. Per questo, molte volte sembra essere inutile e dannoso tentare di riportare le opere al loro stato originario. Per esempio, sul manto blu della Vergine Assunta, si vedono delle stelle, che in origine sicuramente erano realizzate con la foglia oro, forse anche leggermente in rilievo.

Durante l’intervento di recupero della cromia, sono invece state semplicemente dipinte, perché la materia originale era andata perduta totalmente e si dovuto tenere conto del ruolo che l’opera doveva svolgere: cioè quello di essere esposta al culto dei fedeli.

Per quanto riguarda la scultura in legno, infatti, più che per altri manufatti, ci troviamo di fronte quasi sempre a dei veri e propri simulacri, ancora oggi utilizzati come tali.

Il busto di San Filippo Neri, collocato nel Seminario Diocesano, è stato restaurato dalla Soprintendenza BAAAS per la Puglia, anche in questo caso il lavoro di restauro, ha permesso di recuperare interamente la policromia dell’opera.

Il santo, vestito con una dalmatica verde, cosparsa di roselline rosse, ha al centro del petto un incavo che custodisce la reliquia. È raffigurato in una posa alquanto ieratica mentre regge nella mano sinistra il libro della Sacra Scrittura.

La totale compostezza della figura si allenta soltanto in un movimento delle pieghe, che cadono leggere, andando a coprire una parte della base realizzata in finto marmo.

Le ridipinture precedenti occultavano quest’importante particolare che, com’è stato scritto, è un rimando ad una tipologia tipica di tutto il Settecento, che si vede già in un disegno del Solimena per una statua d’argento, raffigurante San Matteo22. Inoltre, anche il modo di realizzare la base a finto marmo è una pratica piuttosto diffusa nel Settecento; ritroviamo precise indicazioni a riguardo in un documento per la commissione di una statua di San Francesco di Sales scolpita da Giovanni Antonio Colicci23.

Gli studi, soprattutto negli ultimi anni, hanno ricostruito la biografia dell’artista, ampliando il catalogo con opere certe24.

Questo ci permette almeno di abbozzare e riconoscere i dettagli stilistici che egli sembra ripetere nelle sue sculture. Oltre a quel <<lieve e distaccato sorriso>>25 e ai volti ovali, ritroviamo panneggi morbidi e raffinati, che sembrano adagiarsi con delicatezza sulle immagini scolpite quasi a circondarle di grazia leggera, come per esempio nei busti di San Francesco di Paola e di San Giuseppe col Bambino conservati nella Chiesa Madre di Savoia di Lucania (Pz), e di recente pubblicati26. Qui, come già abbiamo visto nel San Filippo Neri di Nardò, lo scultore ripete la particolarità del panneggio che scende fino alla pedagna.

Anche l’intaglio della barba si ripete, nelle diverse opere, piuttosto simile con linee fitte e regolari, ma ad un esame più attento delle opere, notiamo che la maestria dell’artista permette di caratterizzare al meglio i personaggi scolpiti. Infatti, per quanto riguarda il busto di San Francesco citato in precedenza, Giovanni Antonio Colicci, oltre ad evidenziare <<la condizione di eremita del Santo con rughe profonde>>27, rende la barba con linee più nervose e ondulate che terminano in ricci mossi e vivaci, differente dall’intaglio che vediamo nella barba di San Giuseppe o di San Filippo Neri: qui entrambe le figure mostrano un intaglio della barba più regolare e ordinato.

Come abbiamo accennato in precedenza, Colicci, non è da annoverare tra gli scultori più conosciuti, per diverse vicende, tra cui la trascrizione, spesso scorretta, del suo cognome che ha generato non poche confusioni tanto da intendere la firma sul busto di Sant’Antonio da Padova (figg. 6 e 7) della Parrocchiale di Lequile28 frutto di una inesattezza nel ridipingere l’intera opera29.

Il busto del santo di Padova, è citato da Foscarini che nel 1941 ne riporta nome dell’autore e data di esecuzione30.

Purtroppo l’opera non è in buone condizioni: la delicatezza dell’intaglio è vistosamente occultata da numerose ridipinture e anche il legno è danneggiato dai tarli, per questo è difficile poter fare un confronto critico con altre opere dello scultore. Ciò nonostante, possiamo riconoscere anche in quest’opera particolari che sembrano ormai essere tipici del Colicci: il solito lembo di panneggio che scende fino al basamento, anche qui realizzato a finto marmo, e più in generale le fattezze delle mani, il volto tondo, gli occhi grandi e le pieghe morbide del saio, sebbene il tutto appesantito dalle ridipinture. Elementi che si ripetono in un’opera pubblicata di recente. Mi riferisco al San Filippo Neri di Cassano Murge, segnalato nel 2010 da Clara Gelao31.

Il santo è rappresentato qui a figura intera e sulla base sono presenti firma dell’autore e data di esecuzione.

Ad ogni modo, sembra essere giunto il momento di dedicare a Giovanni Antonio Colicci studi più ampi, per il cospicuo numero di opere firmate e datate, che permettono appunto di valutare meglio la sua crescita artistica e i contatti che egli ebbe con artisti e committenti.

Si ringrazia il restauratore Valerio Giorgino per le informazioni fornitemi riguardo il restauro della Madonna Assunta e per le foto numero 1, 4 e 5

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1 A tal proposito si ricorda il saggio di R. Casciaro, Due botteghe a confronto: intaglio e policromia nelle sculture di Gaetano Patalano e Nicola Fumo, in La statua e la sua pelle, Galatina 2007, pp. 221 – 245, p. 226 – 227: “[…] l’apporto personale dei singoli maestri è un elemento imprescindibile nella comprensione delle opere d’arte e l’individuazione di tale apporto nelle opere autografe […]è l’unico modo per risalire anche ai processi produttivi, all’organizzazione delle botteghe, alla sequenza modello – opera – copia – imitazione”.

2 R. “B. Minerva, Strati pittorici e tecniche esecutive nel restauro di alcune sculture lignee napoletane di età barocca, in Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e la Spagna, catalogo della mostra, Lecce 2008, pp. 339 – 349.

3Oltre a problemi di attribuzione dovuti a restauri pesanti, il nome di Giovanni Antonio Colicci non ha avuto fortuna anche perché spesso trascritto in modo errato generando ulteriore confusione.

4 G. Filangieri, Documenti per la storia, le arti e le industrie delle provincie napoletane, vol. 5, Napoli 1891, “Colicci Domenico Antonio di Roma, scultore in legno. Operò nel 1696. Fece lavori di sculture e di intagli all’Organo della Chiesa di Monte Cassino […] . Questi aveva con sé due suoi figli, Giuseppe Salvatore e Giovanni Antonio, il quale ultimo nella sedia all’angolo destro intorno allo scudo, che un guerriero tiene levato, incise il suo nome Jo. Ant. Coliccius faciebat aetat XV.1696”, con bibliografia precedente: A. Caravita, I codici e le arti a Monte Cassino. Monte Cassino, pei tipi della badia, 1869 – 1870, vol. III, p. 391 e segg.

5 A. Caravita, I codici…,1869 – 1870, op. cit. in nota prec., Vol. III, p. 395

6 si veda A. Caravita, I codici… cit. pp. 394 – 395. Il Colicci è poi ricordato in un documento del 1722 come membro della Congregazione dell’Assunta, in G. G. Borrelli, Sculture in legno di età barocca in Basilicata, Napoli 2005, doc.37, pp. 109 – 110.

7G. G. Borrelli, Sculture in legno di età…cit. in nota prec., pp. 109-110.

8 G. G. Borrelli, Sculture…cit., doc. 36, p. 109 “Intus apotheca Gio. Antonio Coliccio sita ante largum Archiepiscopalis Ecclesia eius civitatis [Neapolis], costituiti il canonico Galeotto Gignano patrizio capuano[…] e Giovanni Antonio Colicci scultore de legnami”.

9 G. G. Borrelli, cit. in nota precedente.

10 V. Rizzo, Scultori napoletani tra Sei e Settecento. Documenti e personalità inedite, in Antologia di Belle Arti, Nuova Serie, nn.24 – 25, 1985, p. 29, doc. 11: “A Don Ferdinando Sanfelice, Ducati 15 a Gio. Antonio Celucci, a saldo e final pagamento di una Statua della SS. Vergine Assunta e un mezzo busto di S. Filippo Neri, fatte per il Vescovo di Nardò secondo il pattuito. 27 febbraio 1714”; riguardo la commissione della Statua dell’ Assunta, la notizia è riportata anche nel primo testamento del Vescovo, pubblicato da M. Gaballo, Antonio Sanfelice Vescovo della diocesi di Nardò, in M. Gaballo, B. Lacerenza, F. Rizzo, Antonio e Ferdinando Sanfelice il vescovo e l’architetto a Nardò nel primo Settecento, Galatina 2003, p. 35: “Doniamo alla nostra S. Cattedrale l’altare di marmo che abbiamo fatto lavorare in Napoli con la statua della SS. Vergine Maria Signora Nostra, che aspettiamo da Napoli…” il documento è datato 6 Marzo 1714; e ancora R. Casciaro, Ex vario rum colorum selectis lapidibus: le opere in commesso marmoreo di Ferdinando Sanfelice a Nardò, in Antonio e Ferdinando Sanfelice… cit, Galatina 2003, p. 117 (l’altare maggiore) era tutto di pietre nobili commesse di verde e giallo antico, con una statua di nove palmi della Vergine S. ma assunta in cielo” con riferimento alla Visita Pastorale del Sanfelice, anno 1719, p. 220.

11 G. G. Borrelli, cit… doc. 36, p. 109. Recentemente è stata pubblicata una scheda biografica del Colicci, si veda F. Aruanno,Giovanni Antonio Colicci, in E. Acanfora (a cura di), Splendori del barocco defilato, catalogo della mostra, Firenze 2009.

12 Cfr. M. Gaballo, B. Lacerenza, F. Rizzo, Antonio e Ferdinando Sanfelice, cit… Galatina 2003.

13 B. De Dominici, Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani, 1846, tomo IV, Vita del Cavalier Francesco Solimena… e de’ suoi discepoli, pp. 405 – 630.

14 L. Galante, Antonius Sanfelicius Episcopus Neritinus Quo Facilius Posteritati Commendaret Pennicillo Esprimi Curavit Anno Domini MDCCXVIII, in Saggi di Storia dell’arte,Roma 2005,pp. 281 – 287, p. 281: “Orientata verso Napoli fu l’azione di Antonio Sanfelice. Pesarono in ciò naturalmente le sue origini napoletane con le inevitabili relazioni che egli intrattenne con l’ambiente artistico della città campana […] il fratello Ferdinando, allievo di Solimena, aveva intrapreso la carriera artistica.

15 G. G. Borrelli, Sculture barocche e tardo barocche in Calabria. Un percorso accidentato, in Sculture in legno in Calabria dal Medioevo al Settecento, Napoli 2009, p.72.

16 E. Mazzarella, La cattedrale di Nardò, Galatina 1982, pp. 72 – 73 “il presbiterio era circondato la balaustra in marmo e terminava con cinque gradini marmorei[…]su ciascuno dei quali si leggeva un rigo della seguente iscrizione: Ad pedes Dominae suae et vivere vult et mori cupit Antonius Sanfelicius dictus neriton. Episcopus Beatissimae Virginis Cappellanus anno a partu Virginis MDCCXIV”; e R. Casciaro, “Ex vario rum colorum selectis lapidibus… cit., in M. Gaballo, B. Lacerenza, F. Rizzo, Antonio e Ferdinando… cit, p. 117.

17 A Nardò esisteva una chiesa dedicata a San Filippo Neri, E. Mazzarella, Per la storia degli istituti di formazione per gli ecclesiastici in Puglia: il seminario di Nardò (1674), in Studi di storia pugliese in onore di Giuseppe Chiarelli, Galatina 1974, p.493 – 525, p. 509 “la chiesa era vicina alle carceri del governatore e alla chiesa di San Giovanni Battista, esattamente nel luogo dove sorgono la chiesa e il conservatorio della Purità”.

18 E. Mazzarella, cit. Per la formazione degli istituti… in Studi di storia pugliese…, op. cit. p. 512 “si giunse al 27 febbraio 1674, quando, essendo già pronti i locali e l’occorrente per la dimora… il vescovo emise la Bolla di costruzione del seminario diocesano sotto il titolo di San Filippo Neri”.

19 Si deve ricordare inoltre, la volontà del Vescovo di riportare nelle Visite Pastorali “epigrafi, stemmi, decori e sculture rinvenute nella diocesi”. M. Gaballo, Antonio Sanfelice vescovo…, in Antonio e Ferdinando Sanfelice…, op. cit. p. 15. Dunque il Sanfelice scelse di rinnovare la diocesi, ma anche di mantenere un legame con il passato, tutelandone le tracce.

20 L. Galante, Antonius…cit p. “Più verosimile è che Sanfelice avesse ritenuto Olivieri, meglio il suo modo di dipingere, soprattutto per quel giusto tono nobilitante, idoneo a dare veste alla sua visione <<politica>> proprio per la vicinanza al Solimena, che evidentemente restava il referente culturale forte”.

21 Rispettivamente il busto di San Filippo Neri dalla soprintendenza BAAAS di Puglia e la statua a figura intera della Vergine Assunta da Valerio Giorgino nel 2000.

 

22 E. Catello, Francesco Solimena e la scultura del suo tempo, in Ricerche sul ‘600 Napoletano, Saggi e documenti 2000, Rubrica per Luca Giordano, Napoli 2001, pp. 7- 17, p. 14 e fig. 10 a pag. 13.

23 G. G. Borrelli, Sculture di età…, cit. p. 110, doc. 39 “A Giuseppe Cuomo doc. dieci per esso al canonico don Nicola Rocco per alt.ti; e per esso a Gio. Antonio Colicci[…]per prezzo e final pag.to di una statua intiera fattali di San Francesco di Sales… con vestito di prelato […] e d.ta base scorniciata in ottangoli con due pezzi d’intaglio inargentati[…]ed il rimanente di color marmoresco[…]”.

24 G. G. Borrelli, Sculture in legno di età…, p. 31 e docc. Nn. 36 – 39, pp. 109 – 110;F. Aruanno, in E. Acanfora (a cura di), Splendori del Barocco…; schede opere n. 82 – 83, p. 158; biografia dell’artista pp. 277 – 278; G. G. Borrelli, Sculture barocche… cit., in Sculture in legno in Calabria… cit. p. 72; C. Gelao, Un’aggiunta alla scultura del Settecento in Puglia: il San Filippo Neri di Giovanni Antonio Colicci a Cassano Murge, in Kronos 13 speciale 2009, scritti in onore di Francesco Abbate, vol. 2, pp. 41 – 48.

25 G. G. Borrelli, Sculture barocche… cit., in Sculture in legno… cit., p. 72.

26 F. Aruanno, schede opere Nn. 82 e 83, p. 158, in Splendori del barocco… op. cit.

27 F. Aruanno, scheda op. n. 83 p. 158, in Splendori del barocco, catologo della mostra, Firenze 2009.

28 Ringrazio il parroco Don Luciano Forcignanò che mi ha permesso di vedere e fotografare l’opera.

29A. Foscarini, Lequile. Pagine sparse di storia cittadina, pubbl. a cura di Gioacchino Ruffo, principe di Sant’Antimo, con illustrazioni di Gino Bolzani, Lecce, Tip. La Salentina, 1941, in 8°, II ed. a cura di M. Paone, Galatina 1976.

30 A. Foscarini, op. cit. in nota precedente, II ed. p. 59 nota 1: Giovanni Antonio Colicci scolpì in legno nel 1726 il busto di Sant’Antonio di Padova, opera che firmò e datò (I altare a sinistra).

31 Gelao, Un’aggiunta alla scultura…, in Kronos 13/2009 op. cit. pp. 41 – 48.

Le quattro stagioni del Salento: un invito a visitarci tutto l’anno

di Pier Paolo Tarsi

Le virtù della terra e della bellezza salentina si possono declinare in modo plurimo, inseguendo il naturale ciclo di stagioni sempre miti e dolci nel corso dell’anno; allo stesso modo si devono delineare possibilità, diverse e alternative, di apprezzare, come viaggiatori o semplici turisti, questo estremo lembo d’Europa. Questo vuole essere un invito a visitarci tutto l’anno, non solo in…

Estate

Verso Sud, assillati dalla calura estiva cittadina, accorrono masse di turisti alla ricerca di refrigerio su soleggiate coste bagnate da mari purissimi, sedotte e incoraggiate da una fresca accoglienza che ha il colore di rosse angurie e di gialli fichi d’india, il ritmo allegro e vitale di notti che pulsano ovunque all’eco dei tamburelli. Le selvagge vibrazioni dei suoni fuggono propagandosi nell’oscurità, al di là delle luci dei falò, presso anfratti di spiagge gialle come il grano e scogliere severe sorvegliate da malinconiche torri, confondendosi infine con i riflussi delle onde quasi placide, nella cui immensità mediterranea si esauriscono placando così l’orgiastico furore da cui sono generate.

Il nostro Presepio

di Emilio Panarese

Il Natale, allora, si sentiva nell’aria e nel cuore, quasi due settimane prima, sin dalla festa dell’Immacolata.
Sin da questa festa – ricordo – io e mio fratello andavamo già raccattando qua e là, negli angoli più remoti della spaziosissima bottega artigiana di mio padre, assicelle di legno e ritagli di compensato di varia forma, e, di soppiatto, occultavamo tutto anche i chiodi, una piccola sega, il martello e le tenaglie in un cantuccio del lungo capannone, dove mesciu Totu Pàssaru se ne stava chino, ore ed ore, diligentemente assorto a verniciare i calessini leggeri come piume.

Bisognava subito darsi da fare, perché in dicembre, nel mese di Natale, i giorni camminano lesti e sono scarsi di luce.

Il presepio grande, che occupava tutta una stanza, quello che nostro padre con quattro colpi di martello magistralmente ci allestiva, quello ricco di pastori alti quanto un braccio, e vivi e parlanti, scintillante di luci e di colori, ci sembrava troppo bello, quasi irreale; noi gli preferivamo quello rustico, fatto con le nostre mani inesperte, sconnesso e traballante e miseruccio, con la sola capanna della nascita, la via tortuosa dei Magi, con le montagne di sprùscini (carbone bruciato) e i pupi de crita, il venditore di fichidindia, la lavandaia, il pastore con le pecore zoppe, il massaru con le ricotte.

Ci attraeva perché era il “nostro” presepio, un presepio fatto di niente, che alle deboli luci di due lumini, con quei rametti di mortella e di ginepro, coi pani di molle muschio, assumeva l’aspetto di un paesaggio vero, l’aspetto delle umili cose godute con trepida gioia.

Stavamo a contemplarlo, specialmente la sera della vigilia, incantati, trasognati nell’ora favolosa della nascita del Bambino, quando con candido, innocente fervore noi si canticchiava giulivi il noto ritornello: «Eccu è nnatu lu Mamminu,/ jancu e rrussu comu milu,/ cu lli rasci de lu sule,/ li dicimu ttre palore…».

Poi di colpo il sogno del viaggio a Betlemme veniva infranto dalla voce della mamma che ci invitava a rientrare, noi riluttanti, in casa… nella casa fragrante di miele e di vaniglia… di fumanti pìttule d’oro e di cartellate cosparse di zucchero e cannella…

 

In «Tempo d’oggi», II (26), 1975

Il latte di mandorla, per palati fini

di Massimo Vaglio

 

Il latte di mandorla, è un’emulsione acquosa ricavata dalle mandorle pelate e triturate con l’aggiunta di zucchero.

È un prodotto tipico diffuso, con qualche piccola variante, un po’ in tutta la Puglia, si consuma quasi esclusivamente nelle vigilie di Natale e in altre feste particolari. E’ tradizione, in queste occasioni, recare in omaggio a qualche famiglia amica o vicina di casa, una scodellina di vermicelli con il latte di mandorla fumanti, che vengono presentati, come l’atmosfera festiva conviene, ben apparecchiati, in una salviettina ricamata. La sua tradizione è antica, e nei secoli scorsi, fra i ceti più abbienti, veniva consumato normalmente a colazione in sostituzione del latte, considerato un alimento plebeo e forse non a torto, viste le precarie condizioni igieniche considerato un alimento igienicamente poco raccomandabile, il suo uso decadde intorno al primo ventennio del secolo scorso, quando venne soppiantato nella colazione delle ragazza bene, dal Vermut o dal Marsala all’uovo con i savoiardi.

Importantissimo fu il suo ruolo nell’evoluzione del gelato, attraverso di questo si passò dai primitivi sorbetti di frutta al biancomangiare, da cui, per arrivare al gelato come lo conosciamo oggi il passo fu breve.

Preparazione

2 Kg di mandorle sgusciate, zucchero q. b. , 5 l d’acqua una stecca di cannella.

Mettete a bagno le mandorle, cambiando spesso l’acqua sino a quando si riescono a pelare con una certa facilità. Tritatele finemente, ponete la pasta ottenuta un poco per volta in un telo a trama larga, fatene un fagotto e immergetelo in una casseruola contenente cinque litri d’acqua molto calda. Lasciatelo per qualche minuto, quindi ritiratelo e strizzatelo per bene. Ripetete l’operazione sino all’esaurimento della pasta di mandorle. Portate ad ebollizione il latte ottenuto zuccheratelo, a vostro gusto e aromatizzatelo con la stecca di cannella. Tradizionalmente  si adopera per cuocervi, in alcune ricorrenze i vermicelli pugliesi, che sono un formato di pasta simile a chicchi d’avena…

 

Bianco mangiare

1 kg e 1/2 di mandorle, 1kg di zucchero, 350 gr d’amido di frumento, 1limone non trattato, 1 stecca di cannella.

E’ una crema, d’antica origine, il cui uso, un tempo molto diffuso è andato via, via perdendosi venendo sostituita dalla più pratica crema pasticcera. La sua riscoperta potrebbe rivelarsi utile nei sempre più frequenti casi d’intolleranza al latte. Utilizzando la tecnica descritta nella ricetta precedente ricavate 4 litri di latte di mandorla. Ponete in una casseruola lo zucchero e l’amido, mischiateli per bene, versate a filo il latte di mandorla, ponete sulla fiamma  e girando di continuo lasciate addensare unendo la scorza del limone. Versate la crema ottenuta in coppette monoporzione e spolverate in superficie con cannella in polvere.

Un antico piatto salentino per la vigilia di Natale

LETTERATURA GASTRONOMICA  

IL BIANCO MANGIARE,

 antica ricetta salentina

 

Nel latte ricavato dalle mandorle, la vigilia di Natale, si cuocevano li  passaricchi di pasta, aggiungendo zucchero e insaporendo, a cottura avvenuta, con molta cannella e manciate di canditi.

collezione privata, ph Nino Pensabene (riproduzione vietata)

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Venivano nei giorni precedenti il Natale, avvolte nei lunghi scialli e dondolando i fianchi, diventati enormi per via delle gonne arricciate. Arrivavano di prima mattina, ciarliere come le gazze, con un sorriso appena accennato sul viso cotto dal sole: Peppa, Cìa e Ssunta, le tre contadine che, nei periodi di maggiore lavoro, venivano ad aggiungersi alle due domestiche.

Appena arrivate, sgusciavano oltre il cortile, in una stanza grande dalla volta bassa sagomata a spigoli, tanto da sembrare una stella. Più che una stanza poteva dirsi un salone, anche se i lunghi tavoli appoggiati al muro e le vasche di pietra allineate al centro ne limitavano lo spazio.

“San Martino ti cresca il lavoro” si auguravano in dialetto  l’un l’altra prima di cominciare, e si segnavano col pugno chiuso, quasi per completare una cerimonia, un rito che per me, rimasta a curiosare sull’uscio, aveva un certo che di misterioso, un fascino che si sommava a quello del Natale vicino.

Rimanevo con loro, accoccolata su uno sgabello, con la bambola in grembo e gli occhi fissi al loro sfaccendare. Avevo poco più di cinque anni e non mi badavano mentre si raccontavano le loro pene. Parlavano in fretta, quasi a sincronizzare il suono delle parole con i colpi di martello, battuti con decisione sulla corteccia dura delle mandorle.

Quando i tavoli risultavano sommersi da una massa di mandorle schiacciate, si sospendeva il ticchettio, per separare il gheriglio dalla corteccia e versarlo, a larghe manate, nelle vasche di pietra. Poi, attinta l’acqua con le giare di coccio, colmavano le vasche, lasciando le mandorle a gonfiarsi.

collezione privata, ph Nino pensabene (riproduzione vietata)

Uscendo, chiudevano a chiave la porta, come a tutelare una congiura e, a fila indiana, si avviavano in cucina, dove un mucchietto di farina bianchissima era già pronta sulla piattaforma di marmo. Sistemata a cono, con un pozzetto nel centro a forma di cratere, mi dava l’idea di un vulcano pronto per l’eruzione ma, al posto della lava, scorreva acqua tiepida, mentre le mani di Cìa, a scatti nervosi, impastavano a lungo.

Ne veniva fuori una palla di pasta molto densa, dalla quale, con una lestezza invidiabile, a pizzicotti, le donne traevano dei pezzettini che, strofinati fra pollice e indice, assumevano la forma di sottilissimi pinoli. Una specie di chiodini che le donne chiamavano “passaricchi” e che disponevano in un grande staio per farli asciugare.

antiche lucerne, collezione privata, ph Nino pensabene (riproduzione vietata)

Dopo due giorni di sospensione si riprendeva il lavoro, togliendo le mandorle dalle vasche per sgusciarle. Dalla loro camicia marroncino saltavano fuori bianche, lucide, e ammucchiate davano l’idea di una risata aperta, incontenibile. Anche le donne apparivano meno addolorate e attendevano, con una specie di euforia, l’ingresso di Gaetano.

antica bilancia da tavolo, collezione privata, ph Nino Pensabene (riproduzione vietata)

Arrivava sul mezzogiorno, con il suo berretto da campagnolo e la giacca scura dei giorni segnati; se ne liberava subito, arrotolando le maniche della camicia a quadri e sistemando – operazione preliminare – il grande mortaio di marmo sul tavolo centrale. Con un peso di bronzo, si dava poi a pestare le mandorle sino a ridurle in poltiglia. E man mano che il lavoro andava avanti, le donne raccoglievano la poltiglia in sottili fazzoletti bianchi che immersi, così pieni, nell’acqua fresca e strizzati, davano fuori un latte bianchissimo.

In quel latte, la vigilia di Natale, si cuocevano i pinoli di pasta, aggiungendo zucchero e insaporendo, a cottura avvenuta, con molta cannella e manciate di canditi.

Ne veniva fuori un dolce cremoso, gustosissimo, che, certo per via del suo colore, si chiamava “Bianco mangiare”.

Se ne preparava in abbondanza, giacché era uso della famiglia riunire, la notte di Natale, contadini e giardinieri per il consueto cenone di mezzanotte.

Il ritrovo avveniva nella cantina più vasta, quella sottostante al salone delle feste, dove fra botti piene di malvasia e orci ribollenti di “aleatico” si preparava un tavolo lunghissimo, magicamente illuminato da lanterne.

I natali della mia infanzia sono rimasti caratterizzati da quella cena e dal “bianco mangiare”. Più volte, trascinata dal ricordo nostalgico, ho ridato vita alla vecchia ricetta, anche se la turbinosa realtà dell’oggi non consente lunghe soste in cucina.

L’ultima volta l’ho preparato per Peppa. Tornata nella mia terra salentina, me la vidi venire incontro con il viso incartapecorito e negli occhi la distaccata lontananza di chi sta per andarsene. Era la sola a portare ancora la lunga gonna arricciata e a vederla camminare tra lo sfrecciare dei motori e l’irrompere delle ragazze in minigonna, dava l’idea di un fantasma, risvegliato per il compimento di chi sa quale missione.

Mi abbracciò piangendo e continuò a piangere, mentre rivangava i natali del passato. “Vorrei riviverli”, ripeteva.

Non era Natale, ma io volli preparare ugualmente una scodella di “bianco mangiare”, con tanta cannella e tutto un ricamo di canditi.

“Cìa, Ssunta e Ccaitànu no nci sontu cchiùi” (“Lucia, Assunta e Gaetano non ci sono più”) diceva piano “sono morti e io, soltanto io sono rimasta…”!. E si annodava più forte il fazzoletto e si segnava, guardando il “Bianco mangiare” così come si guarda la foto dei propri morti.

Da “L’APOLLO BONGUSTAIO”, ALMANACCO GASTRONOMICO PER L’ANNO 1970, a cura di Mario Dell’Arco (Dell’Arco Editore in Roma).

La Via dicembrina e natalizia a Lecce e nel Salento

 

di Daniela Bacca*

Gli itinerari dicembrini e natalizi a Lecce e nel Salento, sono tra i percorsi più ammalianti ed evocativi della cultura locale.

Ci si incammina nell’intimità dei borghi antichi e dei luoghi di culto, alla scoperta dei simboli e delle tipicità rituali e artistiche, sociali e religiose che fin dall’antichità raccontano il ciclo del calendario liturgico e tradizionale natalizio.

I percorsi tematici seguono originali atmosfere invernali riscaldate da immagini festose ed avvolgenti: la “via delle opere d’arte” che illustrano le storie dei tanti Santi celebrati nel mese di Dicembre ed il “ciclo della natività” di Gesù Bambino; la “strada dei presepi” culturali ed artigianali, di cartapesta, pietra e terracotta, tematici e viventi; il “calendario delle feste” nutrite da riti religiosi e pagani e degustazione di prodotti enogastronomici tipici preparati durante l’inverno ed in occasione delle festività.

Lecce è la “regina” salentina: il suo centro storico sembra un presepe blasonato, addobbato a festa con le sue delicate e raffinate luminarie lungo le strade e le piazze, e con le ghirlande ed i capitelli barocchi che arricchiscono i prospetti dei palazzi nobiliari e le facciate delle Chiese; esposizioni artigianali, mostre tematiche ed eventi musicali e teatrali impreziosiscono le sue scenografie urbane e culturali; le botteghe di cartapesta immerse a modellare e fuocheggiare “pupi” e presepi,  e le prelibatezze dolciarie di pasta di mandorla e cotognate leccese sui banconi dei forni e delle pasticcerie, sprigionano i profumi ed i colori della bontà di un tempo che puntualmente si rinnova ogni anno con  tradizioni storiche e culinarie. Barocco e balocco di gioie autentiche evocano le percezioni  della bellezza e della nascita natalizia.

La Grecìa Salentina è il Natale contadino, un presepe sentimentale che richiama il ritorno ed il ritornello delle storie paesane e fiabesche, delle misteriose leggende folcloristiche e dei “cunti” delle donne con in mano il ricamo del bisogno e del passatempo: suggestivi centri storici e minute “case a corte” ospitano i presepi viventi, animati dai mestieri domestici intorno al focolare dove si impastano la pasta, il pane locale ed i dolci della festa, si cucina la “pignata” e si friggono le “pittule”; nei conventi si respira la spiritualità della Nascita, meditazione candida tra presepi artistici, storici e francescani che si incontrano tra aulici altari, silenziosi chiostri, verdeggianti giardini e sontuose navate; nelle stradine c’è il profumo del fuoco scoppiettante, ancora propiziatorio dei riti simboleggianti il nutrimento ed il rinnovamento, la purificazione e la speranza.

Il Sud Salento ricorda il presepe arcaico incastonato tra le tortuose stradine a labirinto dei centri storici, i muretti a secco e le pietre affioranti delle campagne, ed i belvedere paradisiaci dei “due mari”: incantevoli scorci paesaggistici su pendii e colline, pittoreschi borghi urbani e rurali, e deliziosi angoli marini ospitano rappresentazioni magiche degli uomini sapienti e laboriosi, impegnati nei dolci e faticosi mestieri agresti ed artigianali salentini ; tra i vicoli si respira il clima del silenzio e del lavoro offerti a Dio; nelle Chiese si intonano inni e canti gioiosi tra le immagini dipinte e modellate che narrano le storie evangeliche di Maria e del Bambinello.

 

INFO: PolisTurismo – itinerari tematici e visite guidate

polisturismo@libero.it – cell. 340/4054179

* Progettista di itinerari tematici, turistici e culturali; Guida Turistica di AssoGuide regionali di Puglia;  Titolare della Polis Turismo – percorsi a tema e visite guidate

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