METAMOR

Rivisitando Vittorio Bodini

 METAMOR

Ultima raccolta di poesie del grande poeta salentino

220px-Fotovittoriobodini

di Antonio Mangione

Metamor è l’ultimo libro poetico edito, vivente l’autore, da Vanni Scheiwiller, Milano 1967, pp. 45. E’ un titolo sintesi e simbolo di più significati. Si veda la presentazione ch’egli ne faceva alla stampa letterariamente specializzata: “Poesie surrealiste di V. B. – Vittorio Bodini ha consegnato a Vanni Scheiwiller, per uno dei suoi quadratini [della serie il quadrato], un libretto di poesie che vede accentuarsi anche in senso automatico il surrealismo riconoscibile nella sua poesia. E’ un’inchiesta sulla materia e sull’essere, maturata nella Roma dei Monti Parioli dei nights frequentati dalla Cafè-society di Piazza del Popolo e avrà il misterioso titolo di Metamor, a cui l’autore affida ben tre significati: metamorfosi, meta-amore e metà-morto”.

Si tratta di significati coincidenti in un altrove deumanizzato della condizione umana: corpo e mente in disfacimento, linguaggio prosaicamente abbassato, surrealistico a forte presa naturalistica (il surreale parte sempre dalle cose e dalle realtà negate). E con nuovo approfondimento, in una lettera a Oreste Macrì del 10 febbraio 1969: “Io […] considero Metamor e gli inediti un libro traumatico, sostanzialmente e disperatamente teso a denunziare il totale smarrimento del reale o la sua ricerca senza fede. In esso l’elemento ludico non è che un mezzo per tentare di stabilire l’equilibrio sconvolto. O per confortare mestamente il prelinguistico”. L’«elemento ludico» è una forma retorica del paradossale, del «discorsivo» libero e anomalo (cfr. la poesia Innestiamo il discorsivo), evidente dissimulazione di negatività profonda e irrisolvibile.

Metamor contiene 17 poesie con metro libero, tra versi brevi e più frequenti versi lunghi, a volte oltre il rigo della pagina, secondo prassi eversiva della Neoavanguardia. Furono scritte nel quinquennio 1962-1966, ultima epoca particolarmente innovativa della poesia italiana del Novecento. Sparito definitivamente il tema del Sud, primigenio, oltre che culturalmente attraversato, nei precedenti libri poetici (La luna dei Borboni, 1952; Dopo la luna, 1956; La luna dei Borboni e altre poesie, 1962), il poeta è alla ricerca, in Metamor, del proprio essere, dalla sterile e vana evocazione del passato al mortale stillicidio del presente, nel contesto di una estraniante società tecnologica e industrializzata.

Nella prima di esse, che s’intitola Conosco appena le mani, è ripreso il tradizionale tema dell’Ubi sunt? (villoniano soprattutto, della famosa Balade des dames du temps jadis), con un moderno parlarsi da sé a sé, in solitudine ultima e come già senza vita. Oltre se stessi residua un’estrema inconsistenza nominalistica, cui si riducono i “volti amati” (non più persone, ma puri nomi); conclusivamente, il compianto di passioni vissute e fatte vivere, di cui più non si scorge il “senso”.

Nelle spire del boom è una poesia ancorata allo storico boom economico-industriale e urbanistico-sociale del secondo dopoguerra, seguìto da sconvolgimento paesaggistico sostitutivo di una realtà smarrita. Superstiti, “una luce lontana e senza voce” di fronte “a un mare in tempesta, con la quale si misurano i “velieri” solitari e irosi dell’esistenza del poeta, e “una sera ignara”, o dell’inconoscibilità di quella esistenza, come accade di una lettera imbucata.

Innestiamo il discorsivo richiama il discorso corrente, della conversazione allusiva, analogica, anche automatica. Esemplare del caos di una società industrializzata, separata e a se stessa estranea. È descritta “la gazzarra” di giovani scorrazzanti in FIAT-500 ai romani monti Parioli, che irrompono nell’appartamentino del poeta, distruggendo l’armadietto dei medicinali, per sparire poi nella boscaglia di quei monti, di sera, quando si ha paura di sentirsi soli e di morire soli.

Il titolo di Testo a fronte è già l’emblema di una vita cercata e ripensata tal quale fu vissuta, come da originale a traduzione. Donne e animali, alberi, oggetti e cose, momenti felici e occasioni perdute, manie e dissipazioni… entrano nel gioco della ricerca in quanto quotidiane realtà vissute dal poeta nel tempo senza tempo della giovinezza. Ne deriva un testo metamorfico, illudente rifacimento di contenuti primari mai più ripetibili.

Lillemor continua l’assurdo dell’abolizione del tempo (vivere “vent’anni fa”) della poesia precedente, con episodi e figure come se esistessero per la prima volta, e non più si trattasse che di un illusorio escamotage della memoria. Di fulgida bellezza, Lillemor, “disoccupata d’amore”, insultata dalle laide e maldicenti “ciane”.

Nei viali ovali è poesia composta di due strofe antitetiche: una prima, sugli emigranti dal Sud al Nord d’Italia, tra nostalgia dei lontani luoghi nativi e futuro senza speranze; una seconda esprime un bellissimo volto femminile, dai “capelli spavaldi” che intagliano una “lagrima” stellare.

Il miele del dopoguerra declina un puro immaginario surreale. La neve che scende dal cielo come dai piani alti gli ascensori, “candida regina” discesa in tutta la sua bianca purezza (“senz’anello”, al dito), la sera tra i carri degli zingari, sovrastante le chiacchiere delle matercule che lavorano agli arcolai; infine le api che confrontano il loro miele, silenziose come i morti, che s’illudono di usare il telefono, dalle linee sempre occupate, innumerevoli essendo gli utenti morti.

Daccapo? pare un classico epigramma erotico in moderna chiave analogica. Ammirazione e passione del poeta per la nuda bellezza della sua donna, al mare; inondato di sole il suo corpo, dal “pube a filo d’acqua” ai “seni di mercurio”, in una sensuale epifania.

Perdendo quota ripropone, precariamente superstite, il topos dell’«Ubi sunt?» della prima poesia di Metamor; questa volta è il primordiale autobiografismo dell’«insonne adolescente / assetato di sogno e di brutalità».

Nella Canzone semplice dell’esser se stessi figurano esempi della “perdita del reale”, fisico e metafisico. Riguardano l’ontologica dissociazione di nomi e cose, di realtà e conoscenza. Uno scetticismo radicale sta dentro la prosa poetica di questa poesia.

Seguono tre poesie con uno stesso titolo in successione: Night, Night II, Night III; divagatorie invenzioni surreali in un locale notturno romano, dalla bella creola, rinviante a momenti e immagini di vita sudamericana, alla disperata associazione whisky-morte, al maledettismo esasperato, anche macabro, in tema di decadenza fisica e di totale dissoluzione.

Innesto 13 è un desolante quadro della realtà contemporanea italiana degli anni Sessanta: edonismo di massa, scandali, crisi politiche, emigrazioni… I sogni dei cavalli, ricorrenti, come surreale possibilità dell’assurdo. Necessità della conservazione del pianeta Terra e della sua naturale evoluzione.

La tempesta aveva 9 voci è poesia della ricerca del montaliano male di vivere già nelle viziate seduzioni patite dal poeta sin dall’adolescenza. Alle quali è riconducibile la stessa adulta deriva fisica e psicologica, tra alcool e caffè. Anche la bellezza femminile è vista in trasparenza maudite1. Più nessuna bellezza di lei, anzi un corpo scheletrico.

Pseudosonetto s’intitola la penultima poesia, perché a metro libero, senza i tradizionali metri fissi (generalmente endecasillabi). Corrispettivamente, il trend delle invenzioni poetiche è del più raro surrealismo. Si veda l’incredibile fuga del poeta, da un Messico remoto ed esotico ad un altrove dove finire in solitudine, impiccati e accecati.

A chiusura del libro, Tramonto a San Valentino è poesia sintesi intensa di simbolismo nichilistico, divenuto essenza e nitore di canto leopardiano, mai prima raggiunti. Se ne dà una versione totalitaria, assoluta, per via di correlazioni unitarie tra il “proprio deserto” e il morire dell’ingannevole rosso vivo, di fuoco, del tramonto. Poiché non c’è dualismo tra destino umano e destino della natura, entrambi realtà del “nulla”.

1 Maudite, termine francese che significa “maledetta”.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

 

5 febbraio, Sant’Agata. Gallipoli e una reliquia della martire catanese

Frustulum ossium sive digitum Divę Agathę Virginis et Martiris

Ricostruzione storica della reliquia contenente il frammento osseo del dito di Sant’Agata

di Antonio Faita

Particolare del reliquiario con l’osso di Sant’Agata nel museo diocesano di Gallipoli

Per noi cristiani le reliquie sono collegate al culto dei santi, sono segni, simboli, memorie, testimonianze della loro presenza. Reliquia, che letteralmente significa “ciò che resta” di un corpo o di una sua parte o ancora di oggetti appartenuti alla persona, è tutto ciò che ricorda un santo, che lo rende vivo allo spirito degli uomini. Significa anche affrontare i temi della memoria, della testimonianza, del ricordo, disporsi in una prospettiva rispetto ai quali, chiesa e mondo laico, in diversa misura, non possono dichiararsi disinteressati. Il Galateo, nella sua epistola Callipolis descriptio, indirizzata al Summonte tra il 1512 e il 1513, così scrisse riguardo la religione e il popolo di Gallipoli: Hic populus religionis, et divini cultus haud negligens est[1].

Da sempre, il popolo di Gallipoli ha dimostrato una larga ed intensa partecipazione alle testimonianze di fede, di culto e di devozione che hanno scandito l’incedere del tempo. E ancora, prosegue il Galateo: Habent urbis patronam, et praesidem divam virginem Agatham, quam pie venerantur[2].

In effetti, la città di Gallipoli e l’intera Diocesi di Nardò-Gallipoli il 5 febbraio celebrano solennemente la memoria della santa catanese vergine e martire. Sin dal XII secolo il culto della vergine venne introdotto a Gallipoli grazie all’evento straordinario, come vuole la tradizione, del ritrovamento, nell’agosto 1126, di una mammella della santa, giunta sul lido gallipolino durante il viaggio di traslazione da Costantinopoli a Catania.

Come noi tutti sappiamo la reliquia rimase a Gallipoli nella Basilica Cattedrale a lei dedicata, dal 1126 al 1389, fino a quando, purtroppo, il principe Del Balzo Orsini la trasferì a Galatina, dove fece costruire la chiesa di Santa Caterina

LA “PINDANGA”

A lungo andare la natura e il carattere di una persona vengono a galla

 

LA “PINDANGA”

di Emilio Rubino

Quello che stiamo per raccontare è un episodio veramente accaduto a Nardò nel 1865.

Un giorno di quell’anno un tale Mongiò, cittadino della vicina Galatina, assieme alla propria consorte, si recò a Santa Caterina, marina di Nardò, per acquistare del pesce. Una barca aveva da poco attraccato al piccolo molo e il pescatore esponeva con cura il pescato, sistemato in tre ceste. In una vi era del pesce azzurro, in un’altra del buon pesce da zuppa e nell’ultima delle triglie di scoglio di buona pezzatura.

Il Mongiò, dopo aver riflettuto attentamente, decise di acquistare due chili di triglie, scegliendone le più belle e accordandosi, dopo una prolungata contrattazione, per la consistente somma di quattro lire.

Proprio in quell’istante si avvicinò una giovane donna di belle fattezze in compagnia di alcuni baldi giovani, giunti a Santa Caterina per una scampagnata.

La donna, denominata la “Pindanga” (termine che, ancora oggi, sta ad indicare una donna sciatta, trascurata nel vestire e nei comportamenti), era assai nota ai cittadini di Nardò per i suoi facili costumi o, se a voi lettori piace meglio, molto generosa nel “donare” il proprio corpo agli altri in cambio di…

Costei aveva seguito il mercanteggiare tra il galatinese e il pescatore, il quale stava per consegnargli le triglie. La Pindanga, però, resasi conto della bontà e freschezza del pesce, bloccò la contrattazione, sostenendo con voce perentoria.

Fèrmate, fèrmate!… A ’na pezza lu chilu, resta tuttu a me!”1.

A quei tempi, la “pezza” stava ad indicare una moneta d’argento del valore di cinque lire. Perciò, ammiccando un sorrisetto di finto dispiacere, il pescatore si strinse nelle spalle e, rivoltosi al forestiero, si giustificò semplicemente dicendo.

Mi tispiace, ma ci jeri statu tu allu postu mia, jeri fattu lo stesso ti comu sta fazzu iò!”.2

E consegnò alla Pindanga tutte le triglie pescate, circa sei chilogrammi per complessive 6 “pezze”.

Il povero Mongiò rimase malissimo, come se avesse ingoiato del fiele. Purtroppo non poteva farci nulla: l’offerta di quella donna era notevolmente superiore alla sua e perciò dovette rassegnarsi e subire l’affronto, senza proferire parola alcuna. Volle, però, sincerarsi chi fosse mai quella persona così tanto sfacciata, chiedendo informazioni ad alcuni passanti. Apprese che la Pindanga era amica prediletta di un suo intimo amico di vecchia data, il signor Gianvincenzo Dell’Abate, uno dei sette fratelli proprietari della masseria “Brusca”.

Il galatinese, allora, maggiormente mortificato per l’affronto, anche perché subito in presenza di sua moglie, montò sul calesse e ordinò all’imbarazzato cocchiere di dirigersi alla masseria dell’amico, sita in agro di Porto Cesareo. La strada, polverosa e molto accidentata per le numerose buche sparse qua e là, fu percorsa dal veicolo alla massima andatura e tra tanti sobbalzi. Ad alleviare le pene degli occupanti ci pensò lo spettacolo della meravigliosa riviera che da Santa Caterina, attraversando Porto Selvaggio, si protrae sino a Porto Cesareo. All’arrivo, il Mongiò, imbufalito più che mai, raccontò per filo e per segno lo sgarbo ricevuto all’amico Gianvincenzo e non mancò di dileggiare ripetutamente la Pindanga.

Anche il Dell’Abate rimase molto male, non tanto per le ottime triglie che il povero amico non aveva potuto acquistare, ma quanto perché apprese dal Mongiò che la sua “favorita” se la intendeva spudoratamente con altri uomini.

Nonostante ciò il Dell’Abate comprese il dramma che stava vivendo l’uomo e per trarlo dall’impaccio, mandò un suo dipendente in città ad acquistare delle triglie, vino e tarallucci. Ovviamente la coppia rimase a pranzo, cocchiere compreso. In questo modo i galatinesi sbollirono quasi del tutto la rabbia e, prima che facesse sera, se ne ritornarono, a lenta andatura e con l’umore per buona parte ritrovato, a Galatina.

Gianvincenzo, invece, pur avendo gradito l’ottimo pesce, ben preparato dalla governante, non riuscì a mandar giù l’amaro boccone del tradimento della sua “prediletta”. Per tale motivo non chiuse occhio per tutta la notte, tanto da voltarsi e rivoltarsi di continuo tra le lenzuola, senza trovare pace. All’indomani decise di scrivere una dura lettera all’infame traditrice, invitandola a sparire definitivamente dalla scena.

La Pindanga, essendo analfabeta, fece leggere quello scritto ad un tal Pasquale Bruno, guardia municipale di Nardò, suo intimo confidente ed anche suo… Dalle prime righe della lettera emerse subito l’intimazione di definitivo ripudio, il tutto condito con aspri e irriferibili termini di dileggio.

La Pindanga rimase indifferente e non versò, come era facile intuire, neanche una sola lacrima, ma si limitò a fare alcune strafottenti considerazioni, attestanti la sua innata maleducazione e natura.

No’ mmi face né cautu e né friddu!”3.

Se la storia fosse finita qui, non ci sarebbe stato nient’altro da raccontare, ma il guaio è che la lettera andò a finire (non si sa come) nelle infide mani di un certo don Angelo Pinna, un poetastro vernacolare neritino dalla penna, anzi dalla “pinna”, molto mordace e salace. In seguito l’uomo ebbe la bella idea di trasformare il contenuto dello scritto in versi osceni e molto piccanti. Una poesia che, purtroppo, non abbiamo reperito e che in seguito fu “trasformata” in canzone dialettale con accenti e toni ancora più duri. La canzonetta, è ovvio, percorse in lungo e in largo l’intera Nardò e paesi limitrofi e fu canticchiata in tutti gli ambienti del comprensorio, come nei mercati, botteghe, cantine, masserie e perfino sulle spiagge a scherno e scorno della malcapitata Pindanga, che in preda ad una vergogna infinita, decise di non uscire più da casa, se non per accaparrarsi lo stretto necessario a vivere. Durante l’estate, per non esporsi a sberleffi e pettegolezzi da spiaggia, preferì frequentare lidi posti sul versante adriatico, come Otranto e Santa Cesarea terme.

Ogni volta che metteva piede fuori dall’uscio di casa, però, c’era sempre qualcuno che, notando la sua furtiva presenza, intonava ad alta voce la canzonetta, in tal modo richiamando l’attenzione di altre persone presenti nei paraggi e invitandole ad unirsi allo scherno.

La Pindanga, amareggiata e distrutta, era costretta a fare ritorno a casa e ad abbandonarsi ad un copioso e rigenerante pianto.

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

1  “Fèrmati… fèrmati, lo acquisto tutto io ad una pezza al chilo!”.

2  “Mi dispiace, ma se ti fossi trovato tu al posto mio, ti saresti comportato allo stesso modo mio!”.

3Non mi fa né caldo né freddo!”.

 

Iconografia nicolaiana a Manduria (o il santo in trasferta)

1)Morte di San Nicola
Morte di San Nicola

di Nicola Morrone

San Nicola di Bari, si sa, è il patrono di Uggiano Montefusco. Nella frazione di Manduria esiste infatti la cappella del sec. XVIII dedicata al Santo, corredata della statua di cartapesta dipinta del sec. XIX e del relativo reliquiario.E sarebbe interessante che i ricercatori locali precisassero, nei limiti consentiti dalla documentazione disponibile, quando è stato introdotto a Uggiano il culto del Santo. Ma esistono tracce di una devozione per San Nicola anche nella vicina Manduria. Le abbiamo recentemente rintracciate e ricostruite, anche sulla scorta di un interessante documento manoscritto a firma di don Salvatore Greco (1842-1922), arciprete di Manduria dal 1898 alla morte. Tale documento si trova nel Fondo Manoscritti della Biblioteca Comunale di Manduria, recentemente riordinato dallo studioso Elio Dimitri e cortesemente messo a disposizione dei ricercatori di patrie memorie dalla Dott.ssa Carmelina Greco.

Il foglio manoscritto, collocato MS-A-XVII-13, può ben rappresentare, per le notizie in esso contenute, un ragguaglio storico sull’iconografia nicolaiana a Manduria. Lo abbiamo verificato ed approfondito, per avere un’idea complessiva delle tracce superstiti del culto del vescovo di Myra nella città messapica. Di cosa si tratta? Di una lettera, che don Salvatore Greco inviò il 25 Settembre 1898, su richiesta dal vescovo di Oria, fornendo alcune indicazioni storiche sul culto di San Nicola nella nostra città, poco prima che Leonardo Tarentini pubblicasse la sua “Manduria Sacra”, uscita per i tipi della D’Errico nel 1899.

Siamo portati ad immaginare che il Greco si sia consultato con il Tarentini per le notizie storiche da fornire al vescovo: il Tarentini era infatti a quell’epoca il miglior conoscitore delle vicende storiche della chiesa mandurina, nelle sue varie articolazioni.

2)Morte di San Nicola

L’arciprete della chiesa matrice afferma di essersi comunque documentato soprattutto nell’Archivio della Collegiata, che all’epoca del Tarentini rappresentava una vera miniera di notizie, prima delle dispersioni di documenti che ebbero luogo nel sec. XX.Orbene, nella sua notizia il Greco afferma testualmente che “nell’anno 1300 esisteva in questa Collegiata un altare dedicato a San Nicola, di cui si ignora l’origine. Nel 1555 lo stesso altare fu demolito e rifatto immediatamente . Nel 1755 fu assolutamente distrutto per le modifiche avvenute nella chiesa, ma il Capitolo per conservare la memoria del Santo fece scolpire una statua in pietra di Lecce, dorata, che tuttora esiste in una nicchia nell’abside dell’altare maggiore. Nel 1640 esisteva fuori dalle mura di questa città una chiesolina dedicata al Santo, e propriamente sita alla metà di quel viottolo che comincia poco più in là del convento dei Padri Passionisti, e avea detta chiesa un altare ed un affresco rappresentante il Santo Vescovo fra un coro di angeli.[….] Nel 1737 la detta cappella era quasi cadente, tanto che il Capitolo medesimo ne ordino’ la demolizione, e fino a questi ultimi tempi si vedevano gli ultimi avanzi. Nel 1720 la famiglia Arno’-Quattrocchi, devotissima di questo Santo, fece costruire a proprie spese un altare di marmo nella chiesa dei PP. delle Scuole Pie in Manduria, ed ora la Congrega del Carmine, con un quadro di tela rappresentante la preziosa morte del Santo Vescovo. Il bozzetto di detto quadro trovasi nella Chiesa degli ex Cappuccini di Manduria, ora i frati minori di San Francesco, regalato dal sig. Felice Sala. Nella Chiesa dell’Immacolata anche in Manduria nel 1737 esisteva un altare, dedicato al detto Santo fin dal 1667, con un affresco rappresentante il Santo in atto di pregare“.

Fin qui, la notizia di don Salvatore Greco.Ma in effetti cosa resta, allo stato attuale, delle testimonianze materiali del culto di San Nicola elencate scrupolosamente dal Greco nella sua lettera al Vescovo? Esaminiamole partitamente. Chiaramente, non vi è traccia , neanche documentaria, del presunto altare del XIV sec. collocato nella chiesa matrice dell’allora Casalnuovo, spazzato via dalla totale ricostruzione della chiesa effettuata nel sec. XVI.

3) Arc.Salvatore Greco

Sparito anche l’altare rifatto nel 1555, la cui esistenza si potra’ verificare, eventualmente, solo con uno spoglio delle visite pastorali nell’Archivio Vescovile di Oria. Tale altare rinascimentale, verosimilmente “sacrificato” nell’ambito delle varie modifiche che nel corso dei secoli hanno caratterizzato l’assetto della chiesa matrice, non compare comunque nel “Campione “ del 1738, che invece documenta l’esistenza di una reliquia di San Nicola.

In sostanza, oggi l’unica testimonianza visibile della presenza di San Nicola nella Collegiata mandurina ò la statua in pietra leccese dorata, citata dal Greco e collocata ancora al suo posto, cioè nell’abside della chiesa matrice. Essa è stata realizzata, come è noto, dallo scultore Placido Buffelli di Alessano nel sec. XVII. E’ invece del tutto scomparsa la cappella campestre di San Nicolo’, un tempo collocata nei pressi del convento dei PP.Passionisti, e di cui il Tarentini , sul finire del sec. XIX, poteva ancora osservare i ruderi. Del resto, completamente alterato è l’aspetto della cappella di San Nicola che esisteva nella chiesa dell’Immacolata. Essa era caratterizzata dalla presenza di un affresco parietale e del corrispettivo altare, la cui esistenza era ancora verificabile al tempo della Santa Visita di Monsignor Francia (1698). Al posto dell’originaria iconografia nicolaiana, nella chiesa dell’Immacolata c’è ora una tela con la Presentazione di Maria al Tempio.

In conclusione, l’unico elemento superstite di una vera e propria devozione per il Santo Vescovo di Myra a Manduria èattualmente la cappella collocata nella chiesa dei SS. Apostoli (comunemente detta delle Scuole Pie), sul lato destro dell’unica navata. Si tratta di una notevole testimonianza d’arte, di marca schiettamente barocca, costituita da un insieme organico e ben strutturato di elementi architettonici, plastici e pittorici. Essa documenta la presenza di una devozione di segno aristocratico (di cui non possiamo valutare l’attecchimento nella popolazione, per mancanza di testimonianze): l’iniziativa della costruzione della cappella si deve infatti alla famiglia patrizia degli Arno’-Quattrocchi, che nel 1710 (secondo il Tarentini) o nel 1720 (secondo Don Salvatore Greco) vollero finanziare la realizzazione dell’opera, come documentano, tra l’altro, gli stemmi nobiliari posti nei cantonali della macchina d’altare. La cappella è caratterizzata dalla presenza di un sobrio altare, un commesso marmoreo ad intarsio (verosimilmente opera di artefici napoletani), e da una cona poco aggettante , che occupa l’intera parete della cappella, e che è qualificata dalla tela centrale, un dipinto di ambito pugliese raffigurante la Morte del Santo, risalente, secondo la recente catalogazione effettuata da M. Guastella (2002) alla meta’ del ‘700. Ai lati della tela, due interessanti inserti plastici: due putti alati su mensole, che reggono gli attributi iconografici di San Nicola, denotanti la sua dignità episcopale, cioè la mitra e il pastorale (quest’ultimo perduto).

San Nicola  alle Scuole Pie 001

Due maschere antropomorfe, a mo’ di capitelli, chiudono la cona, valorizzata, come tutto l’insieme, anche dalla presenza dei marmi policromi. Arricchiscono la cappella sul piano decorativo anche quattro telette laterali, rappresentanti Miracoli di San Nicola e attribuiti dubitativamente da M. Guastella alla scuola manduriana dei Bianchi. Si è inoltre salvata anche la tela con la Morte di San Nicola, verosimilmente di ambito pugliese della metà del ‘700, custodita presso il convento di Sant’Antonio e riportata fedelmente nella lettera di don Salvatore Greco.

Ci piace infine ricordare che esiste una ulteriore, piccola testimonianza figurativa della presenza di San Nicola a Manduria, rappresentata dal frammento di affresco bizantino collocato sulla scala che conduce alla Biblioteca Comunale. Esso, che raffigura il Santo Vescovo di Myra insieme a San Giacomo Maggiore, riconoscibili dai rispettivi attributi iconografici, faceva parte di una perduta scena di “Dormitio Virginis”, collocata probabilmente in una cappella medievale dedicata alla Madonna. L’affresco e’ databile al sec. XIV.

 

3 febbraio. San Biagio, martire armeno, e il suo culto a Nardò e in Puglia

particolare della statua di san Biagio conservata nella chiesa di Santa Teresa a Nardò

 

di Marcello Gaballo

Ancora un santo armeno nella città di Nardò. Dopo il culto e il protettorato di san Gregorio l’Illuminatore, che si festeggerà il 20 febbraio, i neritini festeggiano oggi il santo medico e vescovo vissuto tra il III e il IV secolo a Sebaste in Armenia (Asia Minore), con la tradizionale benedizione della gola nella chiesa di Santa Teresa da pochi giorni rimessa a nuovo. I sacerdoti infatti per tutta la giornata di oggi benedicono le gole dei fedeli, e dei bambini in particolare, accostando ad esse due candele, recitando: “Per intercessione di San Biagio, Vescovo e Martire, Dio ti liberi dal mal di gola e da ogni altro male. Nel nome del Padre e del Figlio + e dello Spirito Santo. Amen”.

Vetrata con S. Biagio a La Godivelle

Tra i quattordici santi ausiliatori, patrono degli otorinolaringoiatri, i fedeli si rivolgono al santo, che in vita fu medico, per la cura dei mali fisici e particolarmente per la guarigione dalle malattie della gola[1].

Il  martirio di san Biagio, avvenuto intorno al 316, è da ricollegare al rifiuto di abiurare la fede cristiana. La leggenda riporta che fu decapitato, dopo essere stato a lungo torturato con pettini di ferro che gli straziarono le carni. Lo strumento del martirio fu preso a simbolo del santo e poiché simile a quelli utilizzati dai cardatori di lana e dai tessitori, ecco che queste categorie lo vollero designare quale loro protettore.

Tra i diversi miracoli attribuiti il salvataggio di un bambino che stava soffocando dopo aver ingerito una lisca di pesce.

Il corpo del santo fu sepolto nella cattedrale di Sebaste. Nel 732 una parte dei suoi resti mortali furono imbarcati, per essere portati a Roma. Una tempesta bloccò il viaggio a Maratea (Potenza), dove i fedeli accolsero le reliquie, eleggendolo a protettore e conservandone i resti nella basilica sul monte San Biagio. Qui si conserva parte del torace, mentre a Carosino (Taranto), è custodito un pezzo della lingua, conservato in un’ampolla incastonata in una croce d’oro. A Ostuni si conserva un osso, venerato e posto sulla gola di ogni fedele che oggi si reca in pellegrinaggio al santuario dedicato al santo. Nella cattedrale di Ruvo di Puglia si venera una reliquia del braccio del Santo, esposta entro un reliquiario a forma di braccio benedicente, portato in processione dal Vescovo e esposto alla venerazione dopo la messa di oggi  in cattedrale.

san biagioIn provincia di Lecce, oltre al culto riservato a Nardò, è nota la devozione degli abitanti di Salve, nel cui territorio ricade la masseria e la cappella di Santu Lasi, termine dialettale con cui si designa il nostro santo. E’ del 1716 la chiesetta, riedificata sui resti di una costruzione altomedievale che ospita una coeva statua del santo. Nella masseria poco distante lo scorso anno si tenne una interessante mostra dal titolo “Santu Lasi / San Biagio: un santo, una cappella, una masseria” e si tenne la benedizione e la distribuzione dei pani di S. Biagio (provenienti da Ruvo e da Sant’Agata di Puglia, centri nei quali il san Biagio è patrono)[2].

Il motivo dell’antico patrocinio a Nardò non è da ricollegare, a mio parere, alla protezione per banali raffreddori o comuni tonsilliti, quanto per la grave malattia infettiva della difterite[3], di cui sono accertate epidemie nel XVII secolo in città, che procurarono non pochi lutti, specie tra i più piccoli, che morivano per l’asfissia determinata dalle “scrascie a ncanna” (rovi in gola)[4].

Ma ancora un motivo giustifica la particolare devozione dei neritini al santo, ricollegabile alla antichissima e nobile famiglia dei Sambiasi, il cui nome, fino al XVII secolo, era Sancto Blasio, per l’appunto San Biagio. Credo sia stata questa famiglia ad introdurne il culto, anche perché un ramo viveva accanto alla chiesa in cui tuttora si festeggia il santo armeno.

Hans Memling, S. Biagio, 1491, Sankt-Annen-Museum, Lubecca

Altri motivi mi portano a considerare veritiera l’ipotesi, dato che la stessa famiglia edificò ben due chiese in città dedicate al santo. La prima fu fatta costruire nel 1623 dal barone Giuseppe Sambiasi, nelle  vicinanze dell’antica chiesa di S. Nicola del Canneto, poi di S. Lorenzo, tra l’abitazione di Cesare Sambiasi da tre lati e la pubblica via dall’altro.

Figlio di Alessio Sambiasi, Cesare la istituì con atto notarile del 10 aprile, ad laudem et gloria di S. Biagio, sulla via pubblica in qua habet exitus ecclesia predicta, dotandola di 48 ducati di annuo censo. Nella visita pastorale del vicario Granafei (1637) il patronato era del sacerdote  Bernardino Sambiasi, figlio del fondatore. Nella visita del Sanfelice (1723) risultava cappellano Giuseppe Sambiasi ed il sacellum era posto iuxta domos M(agnifi)ci D(omi)ni Fabritio Sambiasi; in quella del Petruccelli (1764) il cappellano era Alessio di Guglielmo Sambiasi.

Il 9 novembre 1756 il barone Nicola Sambiasi vi fondò un beneficio omonimo di jus patronatus laicorum, col peso di sette Messe l’anno in perpetuo a beneficio della sua anima, per 160 ducati. Primo rettore e cappellano fu Vincenzo d’Elia, poi suo fratello Emanuele, apparentati entrambi col fondatore. Nel 1761 la chiesa era del barone di Melignano Giuseppe di Guglielmo Sambiasi, alle cui case era attaccata. Giuseppe nel suo testamento dispose che in essa in ogni domenica, quanto in ogn’altro giorno festivo dell’ anno, dovessero celebrare e far celebrare una Messa colla solita elemosina di un carlino, e ciò voglio che si osservi durante mundo ed in perpetuum e dette Messe le dovessero dire delle Messe del legato del barone Ruggiero Sambiasi

Della chiesa, aperta al culto fino alla metà del secolo XIX, ubicata sull’attuale via De Pandi, oggi non restano che i muri laterali e parte assai ridotta della volta. I fregi e i decori in pietra leccese sopravvissuti documentano quanto fosse graziosa e artisticamente valida.

L’altra chiesetta, comunemente detta di S. Biagio in Via Lata per distinguerla dalla precedente, fu edificata dalla medesima famiglia verso il 1700, nel vicolo omonimo di via Lata, dove risiedeva un altro ramo dei Sambiasi. Di media grandezza, con un solo altare, aveva un grazioso prospetto, reso tale da interessanti fregi e decori sulla porta, che fanno supporre una preesistente dimora cinquecentesca riadattata a sacro luogo. Non era dotata di beneficio ed il cappellano fu sempre della famiglia Sambiasi, cui spettava il diritto di patronato. Anche questa fu aperta al culto fino alla metà del XIX secolo, per essere poi adibita ad usi profani, quindi a civica abitazione. 

 
 
 
 
 

Due preziose testimonianze iconografiche su San Biagio a Nardò

La più celebre raffigurazione del nostro santo è certamente quella di Michelangelo nel Giudizio Universale della Cappella Sistina, con le famose “braghe” di Daniele da Volterra e gli strumenti del martirio; molto bello anche il noto ritratto del Tiepolo, in cui appare come santo vescovo.

Michelangelo, S. Biagio nel Giudizio Universale
Giovan Battista Tiepolo, San Biagio

 

Pur se non frequentissima, l’iconografia a volte lo ritrae come santo guaritore e intercessore, altre ancora nel momento del martirio, più spesso come vescovo, con mitra, pastorale e libro, a mezzo busto o a figura intera.

Ecco che allora gli attributi variano, associandogli ora il pettine di ferro con cui fu torturato, talvolta con la palma del martirio, più spesso con uno o due ceri incrociati, in ricordo del miracolo della guarigione del bambino.
A Nardò ho trovato due belle raffigurazioni del santo armeno, entrambe in cartapesta policroma. Una certamente proviene da abitazione privata, anche se attualmente custodita nella chiesa di S. Giuseppe, forse donata dal proprietario; l’altra è oggetto di venerazione da parte dei fedeli nella chiesa di S. Teresa ed è stata portata in processione il 2 febbraio.

Il gruppo scultoreo, sotto campana di vetro, secondo la tradizione popolare salentina di fine Ottocento, poggia su una base ottagonale di legno dorato, con il margine modanato, poggiante su otto piedini “a cipollina”. Del tutto originale, forse unica, è la campana ellittica in vetro soffiato, terminante a cupola che protegge il manufatto.

Del piccolo capolavoro ne scrissi già nel 1998, in occasione della mostra “Famulos tuos… Immagini della pietas popolare: Madonne e Santi sotto campana”, organizzata dalla parrocchia del Sacro Cuore in Nardò, in occasione della quale fu stampato un succinto catalogo delle opere esposte, introdotto da Mons. Vittorio Fusco[5].

La composizione raffigura il santo in piedi, leggermente proteso verso la donna che, inginocchiata, offre al suo cospetto il figlioletto moribondo. Con la mano destra sollevata impartisce la benedizione, mentre  la sinistra, a ricordo del celebre miracolo, è posta vicino alla bocca dell’infante, evidentemente bloccando il tragico percorso della lisca di pesce conficcata in gola.

Il santo è raffigurato in età avanzata, calvo sulla sommità del capo, con barba grigia fluente che ricade in morbidi riccioli, aureolato. Veste un’ampia tunica azzurra, fermata in vita da un cingolo, con risvolti dorati e bordature rosse, come i numerosi bottoncini. Ai suoi piedi, sul terreno, è posta la mitra dalle fini decorazioni arabescate.

Molto accurato anche il panneggio delle vesti della donna, che indossa una tunica marrone ed un corto mantello azzurro.

La fine esecuzione dei lineamenti e le intense espressioni dei volti, oltre l’estrema accuratezza nell’esecuzione del restante, ne fanno un pezzo di gran pregio, opera di uno dei più validi cartapestai leccesi. La mancanza di firma e data rendono impossibile l’attribuzione.


Di grandezza naturale è invece l’altra eccellente  cartapesta policroma conservata nella settecentesca chiesa di S. Teresa, sempre a Nardò, un tempo annessa al monastero delle carmelitane, in una nicchia addossata a lato del presbiterio. Un’iscrizione sul basamento documenta che fu realizzata a spese dei fedeli neritini (Neritonensium pietas) nell’anno 1888.

Il santo, a figura intera, caratterizzato dalla folta barba grigia, indossa i paramenti vescovili orientali, con la caratteristica mitra sormontata dalla croce, il pastorale dalle estremità ricurve verso l’alto, il classico omoforion o lunga sciarpa ornata di croci.

La mano destra rivolta in alto e l’espressione estasiata del bambino indicano che il miracolo è già avvenuto e il santo, pur continuando a fissare il piccolo, sembra congedarsi, dopo aver ringraziato il Padre per l’evento miracoloso appena compiuto.

L’ampia casula rossa non camuffa le giuste proporzioni corporee e, nonostante il rigido drappeggio, si contrappone molto bene con l’appiombo del camice, per i cui bordi sono state riutilizzate parti di indumento indossato da qualche prelato di alto rango, vista la ricchezza del decoro a motivi eucaristici e la finezza dell’intaglio.

parte inferiore della statua (la parte riutilizzata di un vecchio camice è stata applicata al contrario)

 

La resa plastica, i particolari assai curati e i tratti somatici delle due figure, ma anche l’equilibrio fra le parti e la posa ieratica del santo, portano a considerare anche quest’opera tra le migliori dei più bravi cartapestai leccesi.

La data sul basamento potrebbe rimandare ai validissimi Antonio Maccagnani (1807-1892) o al più giovane Achille De Lucrezi (1827-1913), ma lasciamo agli esperti un’auspicabile attribuzione, trovandoci di fronte ad una delle più raffinate opere in cartapesta presenti in città, ancora a torto considerate “arte minore”.

San-Biagio, immaginetta devozionale C.Poellath, cromolitografia Bayern, fine secolo XIX
San-Biagio, immaginetta devozionale C.Poellath, cromolitografia Bayern, fine secolo XIX

 

[1] dom Prosper Guéranger, L’anno liturgico. – I. Avvento – Natale – Quaresima – Passione, trad. it. P. Graziani, Alba, 1959, p. 784-785.

[2] http://www.salentoproloco.com/forum/viewtopic.php?f=26&t=71.

[3] La difterite è una causata dall’azione di una tossina (tossina difterica) prodotta da batteri che si trasmettono per via aerea. Solitamente la difterite inizia con mal di gola, febbre moderata, tumefazione del collo.
Molto spesso i batteri della difterite si moltiplicano nella gola (faringe) dove si viene a formare una membrana di colore grigiastro che può soffocare la persona colpita dalla malattia. A volte queste membrane si possono formare anche nel naso, sulla pelle o in altre parti del corpo.
La tossina difterica, diffondendosi tramite la circolazione sanguigna, può causare paralisi muscolari, lesioni a carico del muscolo cardiaco con insufficienza cardiaca, lesioni renali, fino a provocare la morte della persona colpita.

[4] In Italia, prima dell’avvento della vaccinazione di massa (al termine della seconda guerra mondiale) si registravano annualmente alcune decine di migliaia di casi di difterite con più di mille morti ogni anno.
I casi di malattia si sono ridotti, fino a scomparire quasi del tutto alla fine degli anni ’70, dopo che la vaccinazione antidifterica è stata praticata in forma estensiva in associazione con quella antitetanica (http://www.levaccinazioni.it/informagente/Vaccinazioni/difterite.htm.).

[5] Famulos tuos… Immagini della pietas popolare: Madonne e Santi sotto campana, a cura di M. Gaballo, Tipografia Bonuso – Nardò, pp.90, fuori commercio.

MASSERIA “SANTU LASI” (SAN BIAGIO): UN’ARCHITETTURA IN MINIATURA

di Vincenzo Cazzato

 

La masseria occupa il punto più elevato dell’estrema propaggine delle serre salentine – 102 metri sul livello del mare – ed è ubicata in una posizione intermedia fra la costa ionica e l’abitato di Salve.

Da un vialetto si accede in un primo recinto con alti muri a secco, alcune mangiatoie ricavate nello spessore murario, una rientranza per il ricovero del calesse; la vegetazione è costituita da mandorli, fichi d’India, melograni e piante aromatiche. In asse con il viale è il palmento, coperto con tetto a doppio spiovente; all’interno, lungo una parete, sono i resti di un apiario.

Attraversato questo primo recinto si perviene nel cortile sul quale prospetta la masseria vera e propria. Perfettamente orientata secondo i punti cardinali, occupa uno dei lati dello spazio di forma pressoché quadrata sul quale si affaccia anche una piccola torre cilindrica. Al centro è una cisterna, rialzata rispetto al piano di calpestìo, il cui orientamento differisce di poco rispetto a quello dei muri di recinzione.

Il fabbricato della masseria, in tufo e pietrame, databile al secolo XVI con aggiunte del XVIII, occupa un lato della corte; è a due piani con caditoie in corrispondenza degli ingressi.

Al pianterreno due arcate, precedute da colonne in pietra destinate a un pergolato, sostengono un balcone continuo al quale si perviene mediante una scala esterna che occupa un altro lato della corte e che, ramificandosi, consente di raggiungere anche il primo piano della torre colombaia.

Il piano inferiore era in origine destinato al massaro e alle funzioni produttive, quello superiore a residenza stagionale del proprietario.

I due ambienti a pianterreno, entrambi voltati a botte al pari di quelli superiori – presentano una originale pavimentazione in pietrame, nicchie scavate nella muratura, un camino con mensole, un angolo per la lavorazione del formaggio.

Il primo piano ripropone l’impianto planimetrico del pianterreno e ha una pavimentazione in battuto, un camino di fattura più raffinata, nicchie e finestre che si aprono su ampie visuali: da un lato verso il mare, dall’altro verso la campagna, i comuni limitrofi e la cappella di Santu Lasi.

Una scala a una sola rampa dà accesso al terrazzo sul quale è un monolite a terminazione piramidale, punto di riferimento trigonometrico e ora satellitare.

La torre cilindrica (1577), in uno degli angoli del recinto, presenta in alto una fascia di archetti che si alternano a mensole con decorazioni a motivi geometrici. L’ambiente a pianterreno, di forma pressoché rettangolare, è a botte; quello al piano superiore, circolare, ha una copertura cupoliforme. La torre ha assolto nel tempo a varie funzioni: torre colombaia e torre di difesa. La prima destinazione è denunciata dalla presenza all’interno di tufi disposti in modo da consentire l’alloggiamento dei colombi; la seconda da tracce di una caditoia sul versante che guarda il cortile.

Su un altro lato del recinto è un ambiente adibito in origine a mangiatoia, con pavimentazione a “chianche” di differenti forme e dimensioni, tetto a una falda con copertura a tegole.

Sul retro della masseria sono altri ambienti destinati al ricovero degli animali con mangiatoie, una “porticina” per l’ingresso delle pecore, un forno. La muratura è costituita da pietrame a secco rafforzato da colonnine di tufo.

Tutt’intorno sono vari recinti destinati al gregge e un frutteto, nel quale è un monolite; un vialetto bordato da grandi pietre si conclude con una cisterna nella quale confluiscono le acque del “chiancaro”, segnato da canali. In un terreno adiacente, accanto a una pajara, in un punto del Basso Salento particolarmente ventilato, sono due aie di forma circolare: una scavata nella roccia; l’altra posta su un terrapieno artificiale.

Con decreto del Ministero per i beni e le attività culturali del 12 maggio 2008 la Masseria Santu Lasi è stata dichiarata “bene di interesse culturale particolarmente importante”.

 

 

Bibliografia:

C. Daquino, P. Bolognini, Masserie del Salento, Capone, Cavallino di Lecce 1994.

A. Costantini, Le masserie del Salento: dalla masseria fortificata alla masseria-villa, Congedo, Galatina 1995.

A. Costantini, Guida alle masserie del Salento, Congedo, Galatina 1999.

Masserie: living & hosting, fotografie di Walter Leonardi, Congedo, Galatina 2007.

Lecce e il culto di San Biagio

Lecce, Porta San Biagio

di Giovanna Falco

I leccesi nel corso dei secoli e per quanto finora è dato di sapere, hanno dedicato a San Biagio, martire e vescovo di Sebaste, un rione, la porta annessa e tre chiese.

Sin dal 1472 la Cabella demanii attesta i quattro rioni di Lecce: i pictagia Sancti Iusti, Sancti Martini, Rudie (o Rugie) e Sancti Blasi[1]. Quello ad oriente fu dedicato a «San Biaggio gentil huomo Leccese, il qual fuggendo la persecutione de’ Tiranni, se ne passò con una nave in Sebaste» dove fu proclamato vescovo e poi martirizzato «e per esser che Sebaste stà nell’Oriente, perciò la Città di Lecce per honorare il suo Cittadino, chiamò la porta della Città, che stà volta all’Oriente, la porta di San Biaggio»[2]. La porta fu fatta ricostruire nel 1774 dal governatore di Terra d’Otranto Tommaso Ruffo, che vi fece apporre la statua del Santo e l’epigrafe che recita: «D.O.M. Quem dignitati parem hinc aditum Cives Convenæque din exoptaverant, tandem excitante D. Thoma Ruffo ex Regni optimatibus Provinciae Moderatore Ing. exercitibus invictissimi Regio Ferdinandi iv Castrorum Praefecto D. Or. Nicolaus Prato gentile. virtuteque clarus Patriae Curator iterum aere pub. extruxit an. dom. mdcclxxiv, ejusdemque tutelari Divo Blasio statuam pos»[3].

Il territorio del portaggio San Biagio, suddiviso nel 1508 in ventisette isole[4], dal 1606 (anno dell’istituzione delle quattro parrocchie leccesi) è coinciso con quello della parrocchia di Santa Maria della Luce[5], così com’è riportato dagli

Salve. Santu Lasi e il restauro “leggero”

di Corrado Cazzato


Masseria Santu Lasi è un cantiere aperto di “pratica” di restauro rurale, per le continue cure di manutenzione ordinaria e straordinaria che periodicamente richiede, necessarie alla sua salvaguardia.

L’ampio e vario repertorio di forme, di materiali e di tecniche costruttive si lega strettamente al paesaggio circostante e alle trasformazioni antropiche di cui il luogo è stato oggetto nei vari periodi sino al giorno d’oggi.

Questa simbiosi ha agevolato il recupero di ogni sua parte; a partire dai muri a secco che, ove diruti, sono stati ricostruiti da mani sapienti con le stesse pietre informi che l’aratro ha rimosso per bonificare il terreno vegetale e con le stesse tecniche costruttive che ne assicurano la statica, mediante la sovrapposizione a incastro del pietrame e la rastremazione della sezione verso l’alto.

La “pratica” del muretto a secco ha consentito non solo il recupero dei recinti, ma anche quello dei paramenti murari – alcuni dei quali in materiale informe sistemato con malta a base di bolo argilloso (voliu), calce, coppi frantumati e paglia – risarciti nei giunti (dopo aver scarnito, rinzeppato con scaglie di pietra e sigillato le connessure con malta di tufina e calce) e poi scialbati, a tre passate di calce, che, come nel passato, assicura, all’interno come all’esterno, protezione, igiene e pulizia degli ambienti. Solo pochi elementi in pietra sono stati lasciati a vista: fasce di coronamento, antiche caditoie e alcuni motivi decorativi.

Frequente è stato il reimpiego di materiali – conci di tufo, pietrame informe e piromafu (pietra calcarea refrattaria) – allettati con malta di calce stilata sottosquadro nei giunti, senza ausilio di cemento.

In alcuni ambienti, come le stalle e l’ovile, particolare attenzione è stata riservata al recupero, funzionale alle attuali necessità abitative, di nicchie e mangiatoie; nel palmento l’antico apiario è stato trasformato in una semplice e discreta fonte di luce naturale.

Se per le coperture a falda delle stalle e del palmento la manutenzione ha richiesto inevitabilmente la rimozione e la sostituzione di puntoni e arcarecci e la riparazione del manto di copertura, per quelle a volta della torre e della masseria ci si è limitati alla revisione dei lastrici solari.

Con la stessa attenzione si è guardato alle pavimentazioni, mediante la posa in opera nelle stalle di basolato calcareo di recupero, il mantenimento del coccio pesto nel corpo principale, la ricerca all’esterno delle quote originarie di calpestìo in pietra affiorante, integrata con terreno vegetale o con ghiaia di varia pezzatura.

Per gli impianti si è optato per soluzioni e materiali rispondenti alle esigenze odierne ma, al tempo stesso, non invasivi; per il riscaldamento degli ambienti sono stati recuperati gli antichi camini. Per gli infissi, ove possibile, si è proceduto al restauro di quelli esistenti.

Masseria Santu Lasi è un piccolo, semplice ma chiaro esempio dell’amore e del rispetto che bisogna avere per la cultura di un luogo, specie se è la propria Terra.

Sentire il dovere di proteggerla; osservarla, in ogni momento, di notte e di giorno, con la pioggia e con il sole, con la tramontana e lo scirocco, in ogni stagione…

Riconoscente, con la sua antica saggezza, questa Terra ricambierà le attenzioni e si prodigherà per aiutare quanti sono interessati a quelle azioni di tutela e di salvaguardia di un territorio, che conferiscono dignità a una comunità e ne arricchiscono la sua storia.

Carosino e il suo patrono san Biagio

reliquia di San Biagio venerata a Carosino

di Floriano Cartanì

Febbraio si conferma un mese ricco di appuntamenti religiosi alquanto significativi per tutta la comunità carosinese, a cominciare da quello di oggi  3 febbraio, nel quale si celebra la festa  in onore di San Biagio patrono della città.

La solennità rappresenta ancora una volta la possibilità per l’intera cittadinanza di  offrire un segnale forte di unità, nella testimonianza del martire armeno, contribuendo a sottolineare quei momenti di profonda e vera fede religiosa che stanno caratterizzando sempre di più l’intera comunità negli ultimi tempi. A rafforzare questi propositi giunge, a poche settimane dall’insediamento in diocesi, la visita pastorale dell’Arcivescovo di Taranto S.E. Mons. Filippo Santoro, il cui incontro vuol rappresentare per l’intera collettività un dono di grazia ed un momento di accoglienza veramente speciali.

Come di consueto questa ricorrenza invernale della festa patronale di San Biagio privilegia la parte religiosa rispetto a quella prettamente civile, tant’è che dagli abitanti locali viene usualmente chiamata “San Biagio piccolo”, per distinguerla da quella più fastosa che si celebra nel mese di ottobre (“San Biagio grande”). Non va dimenticato, inoltre, che finalmente vi è la possibilità

I ricci di mare, gustosissima pietanza del Salento

 

ricci di mare

 

di Massimo Vaglio

Nel Salento, ma pure in molte altre zone d’Italia, per distinguere i ricci commestibili da quelli non commestibili, si parla comunemente di ricci maschi e ricci femmine, ove da retaggio popolare, i commestibili sarebbero, il più delle volte, i ricci maschi, Ma per questa volta non è, come vedremo, una questione di becero maschilismo.
I più perspicaci, invece, indicano come commestibili i ricci femmina,
deducendo per logica, tale circostanza dal fatto che, se le parti edibili sono uova, le uova le fanno le femmine. Invero, si tratta di due specie ben distinte, rispettivamente Arbacia lixula, quella non commestibile e Paracentrotus lividus, quella di interesse gastronomico della quale, badate bene, la parte che consumiamo, sono le gonadi di entrambi i sessi.

Ma come fare a non giustificare questo abbaglio popolare? L’Arbacia lixula, con i suoi aculei lunghi, nerissimi ed elegantissimi, è molto femminile, quasi sensuale, con un po’ di fantasia i suoi aculei rimandano alle lunghe ciglia bistrate delle vestali di un tempio di Venere, niente a che vedere con le fattezze decisamente maschie e più tozze del sedicente compagno edibile, il quale, oltre che irretire i golosi, riesce al massimo, con i suoi colori, a colpire l’estro di qualche pittore.

I Salentini di entrambe le sponde ne sono golosi estimatori e la loro passione è supportata dalla cospicua diffusione di questi Echinodermi su tutti i bassi fondali rocciosi, habitat abbastanza rappresentativo in questa subregione. Inoltre, in diverse zone d’Italia, i ricci in alcuni periodi dell’anno acquisiscono un poco gradevole sapore amarognolo, dovuto probabilmente alla proliferazione stagionale di particolari alghe di cui si pascono. Questo fenomeno è invece sconosciuto nelle acque salentine, dove i ricci sono pescati e consumati tutto l’anno, anche se è in primavera che si presentano nella forma migliore, ossia con le gonadi mature, quindi particolarmente sviluppate e spesso di un’invitante colorazione rosso fuoco.

E’ proprio quest’ultimo il requisito più ricercato ed apprezzato dagli intenditori e ciò non solo per un fattore estetico, ma perché risultano effettivamente più dolci e con un più intenso ed attraente profumo di iodio. Dagli intenditori sono particolarmente ricercati i ricci nati e pasciuti sui bassi fondali rocciosi colonizzati dalla “capezza”, appellativo con il quale nel Salento si indica la Cystoseira, una profumata alga bruna appartenente alla Classe delle Feoficee.

Ovunque, sino a qualche decennio addietro, ma ancora oggi in diverse località, la pesca viene praticata dalla barca con lo specchio e con alcuni rudimentali, ma efficaci attrezzi quali: la  vracioddha e la ranca.

Il primo attrezzo può essere utilizzato solo per pescare su fondali profondi non più di tre metri; consiste in un anello di ferro munito di dente, applicato a 90° all’estremità di un’asta di pick pine. Con il dente, viene staccato il riccio dalla roccia che con un rapido movimento dell’asta viene alloggiato sull’anello e velocemente recuperato salpando la stessa. La cosiddetta ranca, invece, consiste in un ferro ricurvo ed in un batuffolo di brandelli di rete, fissati all’estremità di un’asta. Con
il ferro si staccano i ricci dalla roccia, si fanno impigliare parecchi
per volta nella rete e si recuperano salpando l’asta. Innestando più
aste una sopra l’altra con questo attrezzo si riescono a pescare ricci
sino alla profondità di 12-13 metri.

Oggi, nelle acque salentine, a causa della pesca indiscriminata praticata con gli autorespiratori, la popolazione di ricci si è sensibilmente ridotta, tanto che da qualche anno il loro prelievo viene interdetto, per un certo periodo di tempo, attivando il cosiddetto fermo biologico, nella stagione riproduttiva.

Una caratteristica della zona, inoltre è rappresentata dall’esistenza in varie località marinare di appositi banchetti marmorei ove vengono serviti ricci  espresso, ovvero aperti al momento e serviti con accompagnamento di ottimo e fragrante pane pugliese. Solo a titolo di curiosità ricordiamo che in alcune località marinare, oltre al riccio
comune (Paracentrotus lividus), un tempo era ricercato anche il molto meno comune riccio di prateria (Sphaerechinus granularis), il quale pur avendo gonadi commestibili, anche se piccole e diafane, veniva pescato principalmente per il suo massiccio esoscheletro che essiccato, pestato ed addizionato con olio d’oliva o sego veniva utilizzato in farmacopea al posto dell’ittiolo nella cura di diverse dermatosi.

I ricci vanno gustati appena aperti, intingendovi pane appena sfornato, accompagnando il tutto con un buon Rosato del Salento. Da tempo, i ricci, vengono utilizzati anche nella ristorazione locale che ha saputo elaborare, diversi originali e gustosi piatti.

Spaghetti ai ricci 1
Prima di approntare questo piatto, bisogna tenere presente che per condire ogni porzione saranno necessari circa dodici ricci di buone dimensioni e soprattutto, con le gonadi ben sviluppate.
Quindi, per condire mezzo chilogrammo di spaghetti occorreranno le gonadi di almeno cinque sei dozzine di ricci. La preparazione è semplicissima: aprite i ricci e serbatene le gonadi in una scodellina.
In una capace padella mettete un filo di ottimo olio extravergine d’oliva e due spicchi d’aglio contusi, fateli scaldare a fiamma bassa in modo che abbiano il tempo di cedere il proprio umore aromatizzando l’olio e appena saranno imbionditi eliminateli e unite gli spaghetti appena scolati cotti al dente. Mescolate bene, spegnete la fiamma,
aggiungete le gonadi dei ricci e, dopo aver mescolato accuratamente, servite subito, aggiungendo una spolveratina di pepe nero macinato al momento e il fatidico prezzemolo tritato.

Spaghetti ai ricci 2
Ingr.: 5-6 dozzine di ricci, ½ kg.di spaghetti, 250 grammi di pomodori, olio extravergine d’oliva, 1 spicchio d’aglio, prezzemolo, pepe nero.

Aprite i ricci, mondateli accuratamente e recuperate le gonadi. Fate
riscaldare l’olio con lo spicchi d’aglio contuso e prima che questo
imbiondisca unite i pomodori triturati finemente, fate cuocere questa
salsetta per una decina di minuti ed aggiungete i ricci. Riportate a
calore, regolate di sale, quindi unite un pizzico di pepe nero e una
manciatina di prezzemolo tritato. Condite gli spaghetti scolati al
dente e servite subito.

Omelette ai ricci
Aprite tre dozzine di ricci, mondateli accuratamente, recuperate le gonadi e qualche cucchiaio dell’acqua salata che troverete al loro interno. Incorporate il tutto a quattro-cinque uova, aromatizzate il composto con del pepe nero e a piacere conditelo con del formaggio grana grattugiato. Versate il composto, un mestolo alla volta, in una padella con olio caldo o burro e realizzate normalmente delle omelette che avranno come si può immaginare, o forse no, un gusto decisamente straordinario.

Gli squadristi a Galatina durante il Ventennio fascista

La storia delle “camicie nere” a Galatina

GLI SQUADRISTI A GALATINA

DURANTE IL VENTENNIO FASCISTA

Erano noti come gli squadristi di don Vito

 

di Carlo Caggia1

Quando nel 1967, sollecitato da Tommaso Fiore, pubblicai il mio primo libretto di storiografia politico-sociale – allora completamente estraneo alla tradizione salentina – (“Carlo Mauro, pioniere del socialismo salentino”), venendo a trattare degli albori del fascismo a Galatina, così mi esprimevo: “Galatina non era, non fu e non sarà mai fascista (…). I fascisti furono e rimasero sempre una sparuta minoranza. Solo quando Vito Vallone, fratello di Antonio, aderì al fascismo, subito dopo la marcia su Roma, Galatina fu “fascista”. Tolta però quella minoranza di cui si è detto e che caratterizzò anche qui per la sua violenza e tracotanza, gli altri “fascisti” furono in sostanza dei moderati tanto che il popolo stesso, onde distinguerli, spontaneamente li chiamò “i fascisti di don Vito”.

Questa minoranza di esagitati, però, si coprì di azioni delittuose di notevole gravità, omettendo in questa sede quelle “minori” e cioè “purghe”, bastonate, minacce di incendio delle case dei “sovversivi”. Gli episodi a cui facciamo riferimento sono esattamente tre:

  1. l’incendio della Camera del Lavoro del 23 dicembre 1922;

  2. l’assassinio del giovane Giuseppe Monte del 12 novembre 1922 a Sogliano Cavour (“un gruppo di fascisti di Galatina uccise il giovane Giuseppe Monte “Pietro Refolo, Lecce, Argo, pag. 82);

  3. l’assassinio di Salvatore Campa avvenuto a Noha di Galatina nel febbraio 1923 (“ad opera di una squadra di fascisti di Galatina“).

D’altra parte la formazione del nucleo originario fascista (la sezione del Fascio nacque a Galatina “dopo” la marcia su Roma) fece breccia in alcune famiglie dell’alta borghesia, nella masse piccolo-borghesi rurali ed artigiane con la presenza anche di elementi sbandati.

Naturalmente l’evoluzione del Fascismo nei suoi vent’anni di dominio portò all’adesione di “persone per bene” che trovavano nel fascismo la risposta alle loro esigenze di “ordine”, a cui però sacrificavano il primo diritto dell’uomo, cioè la libertà.

D’altra parte, come ha già ricordato onestamente il presidente della Camera dei deputati, Luciano Violante, in tempi successivi tanti giovani aderirono alla Repubblica di Salò e ciò rende necessario capirne le ragioni.

***

E’ noto che gli squadristi agivano indisturbati perché protetti dalle forze dell’ordine e perciò naturalmente più forti e spavaldi. Qualche scaramuccia ci fu a Galatina, oltre che con i Socialisti, anche con le Camicie Azzurre Nazionaliste e, anzi alcuni Arditi – che erano confluiti nel fascismo – quando questo rilevò il suo volto violento e prevaricatore, si ritirarono a vita privata.

L’episodio più spettacolare e, in un certo senso più drammatico, fu l’incendio della Camera del Lavoro. Tra piazza San Pietro e corso Garibaldi si svolse il grande falò del 23 dicembre 1922 al quale parteciparono venticinque squadristi.

Ciò che colpì e disgustò i galatinesi fu che gli incendiari bruciarono, oltre alle suppellettili, anche “un busto di Edmondo De Amicis, una cassa da morto e la lapide dei morti in guerra”.

L’aver bruciato l’urna dei Muratori fu un gesto considerato sacrilego dalla buona gente di Galatina e il suo ricordo ha accompagnato molte generazioni di galatinesi.

Tanto per concludere, non si può qui omettere che, dopo venti anni di avventure e di ubriacature, di isolamento internazionale, politico e culturale dell’Italia, il 25 luglio del 1943 a Galatina non si trovava più un fascista a pagarlo a peso d’oro.

Lo “squagliamento” fu generale e corale. Solo intorno al 1946, smaltita la paura, fecero la loro ricomparsa i “nostalgici”.

L’epurazione era stata fatta all’acqua di rose e l’amnistia di Togliatti aveva fatto il resto.

1 Questo articolo è stato tratto dalla raccolta “Scritti sparsi di fine millennio”, pubblicato da Arti Grafiche Panico di Galatina nel 2000, con prefazione di Antonio Liguori.

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

 

Le Rose d’Acciaio

Le Rose d’Acciaio

Spettacolo-Documentario che si sofferma sull’universo femminile che vive dentro e intorno l’Ilva di Taranto

le rose d'acciaio

di Paola Bisconti

Parlare del mostro siderurgico che da anni sta distruggendo la vita dei cittadini tarantini a causa di un inquinamento senza limiti è un atto di giustizia nei confronti di tutti coloro che ogni giorno hanno a che fare con le drastiche conseguenze dovute alla produzione dell’acciaio nel più grande polo siderurgico d’Europa che sorge nel cuore della città dei due mari.

Taranto, un tempo capitale della Magna Grecia, merita di risplendere e di tornare a vivere delle proprie bellezze paesaggistiche, del suo incantevole centro storico, del suo splendido mare, delle risorse della sua terra. È da troppo tempo che il capoluogo pugliese ha smesso di sognare a causa di un’acciaieria nata come un’industria statale sotto il nome di Italsider in seguito diventata di proprietà del gruppo Riva.

Oggi Taranto, stando alle statistiche, è una delle città più inquinate d’Italia, e fra chi lotta per tenersi stretto un posto di lavoro e chi combatte ogni giorno contro le malattie tumorali c’è chi ha deciso di far parlare le donne, le “titane” di questa battaglia. L’attrice Roberta Natalini, il giornalista Maurizio Distante e la video maker Silvana Padula hanno realizzato un progetto che presta attenzione alle voci delle madri, mogli, figlie e fidanzate di coloro che lavorano all’interno della mega azienda o che vivono intorno all’impresa.

Tutto ha avuto inizio il 16 ottobre scorso proprio nell’epicentro di questo terremoto mediatico e giudiziario, dove sotto un cielo plumbeo e un’atmosfera quasi surreale sono iniziate le riprese del video. Il percorso si concluderà a marzo con la messa in scena di una pièce teatrale durante la quale i monologhi di Roberta Natalini saranno accompagnati dalla musica del pianista Danilo Leo. “Le Rose d’acciaio” è un’iniziativa che attraverso la pagina facebook: http://www.facebook.com/LeRoseDacciaio?fref=tsive , promuove i passaggi salienti di questo iter sui generis nato dalla volontà di tre ragazzi che pur non essendo originari di Taranto hanno avvertito la necessità di ascoltare le testimonianze delle donne dalle quali emerge una profonda sensibilità. Ecco perché la scelta di usare l’immagine della rosa, simbolo per antonomasia della delicatezza femminile, accostata all’acciaio, materia prima prodotta dall’Ilva.

Lo spettacolo andrà in scena il 7, il 14, il 21 aprile nei teatri delle province di Lecce, Brindisi e Taranto. Per sostenere le spese gli ideatori hanno colto un innovativo metodo di raccolta fondi, si chiama crowd funding, un processo collaborativo che invita chiunque a partecipare al progetto versando una piccola quota attraverso la piattaforma “Produzioni dal basso”: http://www.produzionidalbasso.com/pdb_1908.html. Ciascuno di noi può così diventare co-autore del documentario e ricevere una copia del cd dove comparirà il proprio nome fra i titoli di coda.

Mentre il governo e la magistratura si prodigheranno a risolvere una delle questioni più difficili affrontate fino ad ora, tra chi tenta di far riavere liquidità all’azienda, chi intende attenuare il ricorso alla cassa integrazione e chi ancora garantisce una bonifica occorre ascoltare le voci dei cittadini che attraverso “Le rose d’acciao” parlano e si raccontano per confrontarsi e non essere più vittime di ingannevoli compromessi e speculazioni fondate su “leggi ad aziendam” varate per consentire a chi di giorno fingeva di rispettare le regole e di notte inquinava senza esitazione.

 

AltaRomaAltaModa, Ventura da Taviano a Roma re del fashion per una notte

 

di Francesco Greco

 

Alla fine è magicamente apparsa la donna-ragno, commovente tribute alla sua terra, la demartiniana “terra del rimorso”, o della sete, che ha plasmato il suo dna, il gusto estetico, la sensibilità. Il pubblico ha capito: è stata standing-ovation. E così Antonio Ventura de Gnon, dopo 10 anni di assenza, è stato re di Roma per una notte alla fashion week AltaRomaAltaModa, sfilate primavera-estate 2013. L’emozione era così intensa che ha fatto solo metà passerella, lasciando tutta la scena alla performance demenzial-futurista di Enrico Lucci (Le Iene) in abiti da donna.

lo stilista salentino, a destra (foto di Michela De Nicola)
lo stilista salentino, a destra (foto di Michela De Nicola)

 

E ora la collezione, al grido di “Il mondo ha fame di stile italiano” e citando Dostoevskij (“La bellezza salverà il mondo”), parte alla conquista dei mercati globali, in un momento certo difficile, ma il made in Italy, stile, classe, raffinatezza, hanno storicamente un irresistibile appeal e possono rappresentare la password ideale per far passare, citando Eduardo, la “nuttata”. Se solo fosse sostenuto dalle istituzioni. Non è un caso che la collezione presentata nella deliziosa location delle Officine Farneto, a Roma, si intitola “VolerEssere”, quasi a sostanziare un’autostima necessaria per superare il default, come creativi e come sistema-Paese, coscienti che, come diceva Marguerite Yourcenar “siamo tutti responsabili della bellezza del mondo”. E la fiducia nella sua arte, la coscienza della propria grandezza, la modulazione geniale del suo essere uno stilista famoso nel mondo, caratterizzano la sua avventura sin da quando, ragazzo, lasciò Terra d’Otranto (è nato a Taviano, nel Leccese, unico maschio in un gineceo di sorelle e zie) per intraprendere gli studi universitari.

Da oltre quattro lustri firma collezioni di pret-à-porter che intrigano il jet-set internazionale, ha vestito due Miss Mondo, poi un’intera collezione per la finale nazionale di Miss Mondo (2006), ha firmato un abito che rappresentò l’Italia a Londra (a una kermesse di gioielli). Nel frattempo, dal 2001 è costumista Rai e scrive su prestigiose testate di Alta Moda. Vive fra la Capitale e New York.

A Roma il couturier pugliese è amatissimo e stimatissimo: ha avuto l’ennesima conferma che la sua stella è viva e brilla più che mai in un momento storico caratterizzato da proposte déjà-vu. Un evento (sostenuto da Italian Beauty Line e A&A Italian Fashion, ripreso e trasmesso da Rai2) che ha richiamato, grazie a un prezioso, certosino lavoro di pr di Emilio Sturla-Furnò, oltre 500 ospiti: la Roma-bene che ama il bello, buyers da tutto il mondo. Parterre ricco dove fra gli altri si notavano Valeria Mangani, Stefano Dominella, Ada Alberti, Franco Oppini, Elena Russo, Elisabetta Pellini, Marina Pennafina, Vincenzo Bocciarelli, Rodolfo Corsato, Roberta Beta, l’ambasciatore d’Austria Christian Berlakovitz, i giornalisti Maria Concetta Mattei, Camilla Nata, Antonio Pascotto, l’on. Antonio Paris, gli stilisti Nino Lettieri e Massimo Bomba, Mara Parmegiani, la psicoterapeuta Irene Bozzi, Bianca Maria Lucibelli Caringi, il principe Carlo Giovanelli, il marchese Giuseppe Ferraioli con Olga, il costumista Francesco Crivellini, il principe Guglielmo Giovanelli Marconi, la contessa Alessandra Olga Baglioni, la baronessa Cetty Lombardi Sartriani, lo scenografo Gigi Riggio, ecc.

Amatissimo si diceva: alle modelle si sono mescolate – adottando un format un pò ironico un po’ trasgressivo, un sacco postmoderno – le sue amiche in veste di guest star: da Nadia Bengala a Vira Carbone, da Carmen Di Pietro a Valeria Oppenheimer e Maria Chiara Cudillo. Il pianista Luca Scognamiglio ha accompagnato Juan Odierno col suo repertorio cosmopolita: Mambo Italiano, Nostalgia, Verde Luna.

una proposta primavera/estate 2013 (foto di Mauro Rosatelli)
una proposta primavera/estate 2013 (foto di Mauro Rosatelli)

 

In passerella 30 abiti in lino e seta (resi unici dai “gioielli non gioielli” di Ilaria Pascali, le borse di Eleonora Manara, linea Petronilla, gli insert in pelliccia di Alberto Leonardi, le acconciature di Sergio Valente, il Make Up di Studio 13), e ognuno rappresenta una citazione della sua terra, il Salento, che si porta nei cromosomi, pregno delle insospettate tonalità e solarità della natura: il verde dei campi avvolti nel silenzio dell’abbraccio rassicurante dei maestosi ulivi secolari, opere d’arte, il blu in tutte le sfumature del mare che da Otranto a Gallipoli e Leuca circonda il suo paese, e poi il grigio delle giornate uggiose di scirocco unto di sale e il caldo marrone della terra che in autunno si apre e che nel grembo accoglie il grano. I tessuti si posano dolcemente sul corpo accentuando la morbidezza delle curve: è il trend “scoperto” anche a Londra. Una collezione soirée in seta che dà luce e richiama la luce grazie a un sapiente gioco di contaminazioni giocato su innesti di micro perle, taffetà con richiami cornely, tulle, voile sfumati. Il lino non è il must per la sera, ma è valorizzato da ricami a micro-paillettes e pizzi vintage. Il nero opaco e lucido non può mancare in una collezione che si rispetti, come la sposa, che Ventura “vede” avvolta in una nuvola di pizzi in maglia di lino color avorio. Proposte che sfidano la crisi: gli abiti infatti possono essere facilmente trasformati da giorno a sera con semplici mosse: “In momenti come questi – osserva Ventura – si deve aguzzare l’ingegno: essendo il tessuto dell’abito privo di tagli è possibile disfarlo e ricucirlo: una nuova creazione così prende vita”.

Sorride enigmatico, a metà tra il filosofo ateniese e il guru in un tempio orientale: “Queste proposte sono l’insieme dell’Essere e del Volere”. Altra standing-ovation. Intimidito si rifugia nel backstage. Per la serie: “Eccellenze di Puglia”. Chapeau!

 

Per una storia del Carnevale

di Paolo Vincenti

“Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza.” Questa famosissima ballata di Lorenzo De’ Medici, conosciuta come “Il trionfo di Bacco a Arianna”, è uno di quei canti carnascialeschi che, nel Quattrocento, a Firenze, durante il Carnevale o “Carnasciale”, venivano cantati dalle allegre maschere in coro su dei carri sontuosamente addobbati. Il canto di Lorenzo, canto della gioventù lieta e fuggitiva, è un invito alla gioia e alla festa. E quale migliore occasione, per lasciarsi andare alla gioia e alla festa, del Carnevale?

“A Carnevale ogni scherzo vale”: ma non è uno scherzo provare a ricostruire le origini di questa festa antichissima, sospesa tra sacro e profano. La maggior parte degli studiosi ha visto una continuità fra questa festa e gli antichi “Saturnali”, che si celebravano a Roma in dicembre.

I Saturnali  (descritti da Macrobio nella sua opera “Saturnalia”) erano dei giorni, nel cuore dell’inverno, dedicati al dio Saturno e si tenevano grandi festeggiamenti, durante i quali i romani si travestivano ed accadeva che i nobili indossassero le misere vesti degli schiavi ed i poveri indossassero gli abiti dei nobili. Per andare ancora più indietro nel tempo, si può arrivare alle feste Dionisiache greche, durante le quali, i devoti, invasati dal dio, cantavano, ballavano selvaggiamente e si univano promiscuamente fra di loro. Queste feste sono diventate poi, a Roma, i Baccanali che, ad un certo punto della storia romana, a causa della loro degenerazione, vennero repressi per legge ( 186 d.C.).

Il Carnevale si può anche collegare alle feste in onore del dio Attis, paredro della Grande dea madre Cibele. Il 25 marzo, che era considerato equinozio di primavera, si faceva risorgere il dio dalla morte e questa resurrezione veniva celebrata, a Roma, con alte grida di gioia e scoppi di vera follia: era infatti la festa della gioia, “Hilaria”, e durante questa festa, la licenza era generale; ognuno poteva dire e fare ciò che più gli piaceva e la gente girava mascherata per le strade, in questo Carnevale “ante litteram”.

Durante il regno di Commodo, una banda di cospiratori pensò di approfittare del Carnevale per uccidere l’Imperatore. I cospiratori, indossata l’uniforme della guardia imperiale, si mischiarono alla chiassosa folla e tentarono di pugnalare l’Imperatore, ma il complotto non riuscì.

ph Wanblee da Wikipedia

Alcuni studiosi fanno derivare questa festa dalle grandi celebrazioni che si tenevano a Roma in onore della dea Iside. Il  “Navigium Isidis, “la Barca di Iside”, coincideva, dopo l’interruzione invernale, con la riapertura della

Storia di un prete furfantello alto poco più di un metro e quaranta. “PAPA GIUCCULATERA”

Storia di un prete furfantello alto poco più di un metro e quaranta

PAPA GIUCCULATERA

di Emilio Rubino

 

Il titolo non sta a indicare la marca di un piccolo elettrodomestico, o meglio di un utensile casalingo di uso comune, bensì rappresenta un appropriato nomignolo rivolto a un sacerdote neritino vissuto nella prima metà dell’Ottocento. La sua minuscola statura, neppure un metro e mezzo di altezza, dava l’impressione di trovarsi davanti a quel cosetto metallico che, messo sul fuoco, produce una calda e profumata bevanda, che riscalda le membra e il cuore.

Bastava usare questo soprannome per individuarlo subito, mentre, utilizzando il solo patronimico, difficilmente sarebbe stato identificato.

Il nomignolo “Papa Giucculatera” non era per niente offensivo della persona, ma necessario per qualificare quell’uomo che, intabarrato nel nero abito talare, dava l’immediata impressione, o meglio riportava subito alla mente quel piccolo aggeggio casalingo.

Da seminarista, sempre per la sua modesta statura, era considerato dai suoi coetanei come un giocattolino o, peggio ancora, come un cagnolino con cui trastullarsi e che trasmetteva tanta tenerezza e affetto.

Con il trascorrere degli anni e dopo aver preso gli ordini sacerdotali, il nostro “pretuccio” acquistò la consapevolezza di essere diverso dagli altri, poiché era cresciuto solo in età ma non certamente in altezza e nel fisico. Era rimasto tale e quale, così com’era da bambino: piccolino, bassino, insignificante. Il che, per lui, rappresentava un vero handicap, non solo perché tra la folla in chiesa e nelle processioni, piccoletto com’era, scompariva alla vista di tutti, ma soprattutto perché, nel celebrare la Messa, l’altare della chiesa di San Domenico, ove era stato assegnato, lo nascondeva quasi interamente ai fedeli. Riusciva a leggere il grosso messale solo stentatamente, poiché era posto su un piedistallo molto più alto di lui. Insomma “Papa Giucculatera”, da poco arrivato in quella chiesa, stava vivendo un profondo dramma. Grazie al perspicace intuito del sacrestano, fu rimosso il grosso ostacolo mettendo, alla base del piedistallo, un apposito scannetto che, finalmente, consentiva al pretuccio di celebrare in santa pace le funzioni religiose. Doveva, però, prestare la massima attenzione nel porre i piedi al centro dello scannetto per non correre il rischio di perdere l’equilibrio e rovinare per terra.

Anche nei rapporti interpersonali egli provava non poche difficoltà; infatti, nel guardare in faccia le persone, era costretto a sollevare il capo e… i piedi, mentre i suoi interlocutori rivolgevano lo sguardo all’ingiù.

Tutto ciò lo indispettiva assai, anche perché aveva spesso notato sul viso dei parrocchiani un malizioso risolino di scherno, a dileggio della sua piccola statura, come se volessero insinuare che fosse piccolo… in ogni sua parte fisica.

Anche per strada capitava, a volte, di incontrare qualcuno che, avendo il pensiero rivolto a ben altre cose, tirava dritto senza degnarlo di un semplice sguardo. Il prete, sbagliando, riteneva che la gente lo ignorasse per la sua inconsistenza fisica. Insomma, la sua era ormai una vera fissazione, una malattia che s’aggravava ogni giorno di più, perché ogni giorno riteneva di scoprire negli altri il ghigno della derisione e dello scherno.

Proprio per questo, Papa Giucculatera era sempre arrabbiato con tutti, maggiormente con i santi della chiesa che permettevano una simile insolenza a suo danno.

Per non cadere anche noi nella lugubre tristezza che caratterizzava la sua vita, raccontiamo un episodio che ebbe ad interessarlo direttamente.

Egli era proprietario di un podere appena fuori Nardò, su cui aveva edificato una graziosa casetta. Tale proprietà confinava con un certo don Ciccio e, sempre sullo stesso lato, con un bravo contadino. Proprio ai margini della zona di don Ciccio cresceva una vecchia pergola che ogni anno fruttificava in gran quantità. Don Ciccio faceva dono di quei succulenti grappoli a sua figlia, che, puntualmente, nel mese di settembre veniva a trovare il genitore a Nardò. Don Ciccio si recava spesso al podere a osservare quei bei grappoli d’uva e li “cresceva con gli occhi”, come si usa dire dalle nostre parti. Un bel giorno ebbe l’amara sorpresa di non vederli più: qualcuno aveva fatto man bassa.

E chi poteva essere stato, se non quel rude contadino confinante?

Non avendo le prove, si limitò a mantenere una certa distanza da lui e a non rispondergli neppure quando, incontrandolo, quell’uomo gli rivolgeva un compassato e doveroso saluto.

Il buon contadino colse con amarezza tale offensivo silenzio e ben presto intuì che il motivo dello strano comportamento di don Ciccio era rappresentato verosimilmente dal furto dell’uva.

Mal tollerando l’incresciosa situazione, il contadino decise di affrontare don Ciccio e di raccontargli ogni cosa.

Io so perché non rispondi al mio saluto, ma sappi che non sono stato io a rubarti quell’uva. Io so chi è stato…”.

E allora, che aspetti, dimmelo! – incalzò veemente don Ciccio.

Il contadino allora si sfogò, raccontandogli d’aver visto un meriggio Papa Giucculatera arrampicarsi faticosamente sul muro di confine e, credendosi non visto, raccogliere furtivamente quasi tutti i grappoli d’uva, ormai maturi.

In preda ad una rabbia inconcepibile, don Ciccio stava lì lì per andare in escandescenze, ma si sforzò di restare calmo. Del resto, che poteva mai fare nei confronti di un prete-ladro e, per giunta, per pochi grappoli d’uva? Se avesse denunziato il furto ai gendarmi, avrebbe squalificato il prete e, soprattutto, avrebbe sollevato un polverone inaudito in tutta la città. Perciò, pensò bene di vendicarsi nel momento opportuno. D’altra parte, la vendetta è un piatto che si serve sempre freddo.

Ormai l’estate se n’era quasi andata e il tempo ora prometteva, quasi ogni giorno, pioggia e vento. Una mattina don Ciccio incontrò per strada il prete, il quale, simulando indifferenza e volgendo gli occhi al cielo, nero come non mai, disse innocentemente: “Compare, pensi che piova?”.

E don Ciccio, con il viso pieno di livore e rabbia, gli rispose: “Mi auguro proprio di sì!… Ho pregato tanto in questi giorni perché piovesse…”.

Bravo… bravo, don Ciccio! Bisogna sempre avere il pensiero rivolto a Nostro Signore” – gli rispose il pretuccio, senza sapere che si stava cacciando in un mare di guai – “…Pregherò anch’io per te, in modo che esaudisca le tue preghiere”.

Ma io mi sono rivolto a san Gregorio e non a Nostro Signore!…”.

Beh, se dall’alto dei cieli sono in due a intervenire, sta’ certo che ogni richiesta sarà accolta” – aggiunse amorevolmente il prete.

Mi raccomando, prega quanto più puoi: ho bisogno che si avveri la mia supplica!” – gli ribatté furbescamente don Ciccio.

Puoi star sicuro, grazie alla mia intercessione tutto si avvererà!”.

Speriamo… speriamo di cuore!”.

Ora, posso conoscere il vero motivo che ti spinge a chiedere la pioggia?… ormai piove quasi ogni giorno!… Don Ciccio, non stiamo mica in estate, perché tanto pregare?” – gli domandò dubbioso il sacerdote.

È poca, molto poca l’acqua venuta giù in questa settimana!”.

Ma che dici, don Ciccio!… le campagne sono quasi allagate e tu ti metti ancora a pregare?” – concluse a giusta ragione il pretuccio.

Ho pregato con tutto il cuore San Gregorio perché scatenasse su Nardò, per ore e ore, un temporale d’inaudita violenza, in modo da far venire giù tanta di quell’acqua da superare un metro e cinquanta d’altezza, necessario a far affogare tutte le mezze cannette della città!”.

Papa Giucculatera capì l’antifona, piegò la testa e divenne più pallido che mai, al pensiero che quel metro e mezzo d’acqua lo avrebbe ricoperto interamente… e, forse anche, condannato per l’eternità dalla scure infallibile di Nostro Signore.

Il canestraio: un artigiano contadino

angelo il canestraio 2

testo e foto di Mimmo Ciccarese

 

Il suo nome è Angelo, novantenne, ultimo dei canestrai, superstite di un’antica civiltà, quella che per intenderci ha navigato con doveroso silenzio le difficoltà del periodo fascista e gli anni del dopoguerra lavorando assiduamente senza mai desistere.

Angelo, seduto sul suo panchetto, ha tanto da rivelare mentre ordisce quei fascetti di canna finemente mondati prima di “chiudere” le bordature del paniere e ridefinire la sua simmetria con pochi e rapidi accordi delle dita. Nel frattempo, mi racconta della sua terra d’Arneo, storia vibrante di giovani braccianti in cerca di terre da abitare, spazi dove ci si sostava tra i cespi di macchia e olivastri per realizzare in fretta un pratico cesto di vimini da riempire lungo la via del ritorno con qualcosa di buono. Angelo riesamina la sagoma del suo cesto per assicurarsi che non ci sia altro da spuntare, accorcia qualche aspro spigolo qua e là, lo libera tra la stretta delle sue ginocchia e poi lo ripone lentamente sul ripiano accanto agli altri.

Il doppio intreccio eseguito dalle abili mani di Angelo
Il doppio intreccio eseguito dalle abili mani di Angelo

Ce ne sono decine di diverse dimensioni e sfumature; qualcuno è sospeso alla bacchetta di una vecchia bici, un altro si tiene al cavicchio di una vecchia scala da potatore; tutti dissimili, ogni pezzo è unico e raro, grondante di semplicità e di pregevole tradizione. Nonostante le sue mani nodose non fossero abili come un tempo e la sua vista sia diminuita, Angelo, tesse con tenacia la sua dose giornaliera di vimini e rianima il suo sentimento popolare realizzando cestini con il pensiero di regalarli.

Il suo diletto spiegato dai vecchi cestai di paese, artigiani di professione o afferrato dagli zingari camminanti nelle fiere d’ ottobre, nasce così, in modo semplice, raccogliendo lungo i fossi delle macchie e della campagna salentina, esili rametti di salice chiaro, d’olmo, polloni d’ulivo, di ginestra, di lentisco e di fresche canne.

Il fondo, mi dice Angelo, è l’ossatura a raggiera, una sorta di mandala, che permette di reggere il peso dei frutti; la sua resistenza dipende dal materiale utilizzato e dalla parsimonia spesa per costruirlo e poi aggiunge sottovoce: “con una dose di passione il cesto può venire bene anche nel suo profilo”; quando l’utilità giunge prima del suo aspetto.

Le panare capovolte sull’arco del manico, anche se vuote, sono per me, già ricolme di naturale empatia verso la terra e di nobile cultura popolare che non basterebbe un solo racconto per descriverli. Si riconosce la specie del giunco dal suo profumo, l’elasticità della sua fibra dal momento in cui si coglie, quando è ben lignificata, nel periodo invernale, perché il vimine deve strizzare senza spezzarsi, per essere tessuto, accavallato lungo i lati, sovrapposto o rivoltato tante volte. Spesso, dopo una scrupolosa stagionatura, si ripone il fascetto o il vimine da lavorare, in un bacile d’acqua, per alcuni giorni, per ravvivarlo e ammorbidirlo al punto giusto, prima dell’intreccio che raddoppia la sua compattezza.

la bordatura del canestro
la bordatura del canestro

I salentini lo chiamano panaru (paniere) o panareddrha, quando si tratta di un paniere per la merenda o ancora caniscia, per la raccolta del tabacco o della biancheria, tipico prodotto artigianale della zona di Castrì di Lecce o di Acquarica del Capo dove vi è ancora l’occasione di ritrovare il bravo intrecciatore. L’intreccio delle fibre vegetali si perde nella notte dei tempi, sin dal neolitico ai giorni nostri, il suo utilizzo è unanime, adatto per ogni circostanza: per raccogliere le drupe e i legumi, per lo stoccaggio del grano, per portare cibi caldi ai contadini tra campi o annodato a una fune per salire su il pane.

Lu panaru in particolare era lo strumento che accompagnava le donne “allu rispicu”, cioè alla spigolatura delle ultime olive cadute sottochioma o per la raccolta delle dolci “racioppe” piccoli racemi scordati sul ceppo dopo la vendemmia.

Legati allu panaru sono i cicli della stagione invernale che invita a zappare e potare in gennaio per avere un buon raccolto, “zzappa e puta te scinnaru se uei bbinchi lu panaru”, o che indicano la piovosità di febbraio come buon auspicio, “l’acqua te fibbraru te inche lu panaru”. Pittoreschi invece i detti che ricordano il sentimento non ricambiato e il tradimento continuato, “l’amore luntanu è comu l’acqua intra lu panaru” e “ puerti cchiu corne tie ca nu panaru te municeddrhe!

“Mìntere fiche allu panaru” (aggiungere fichi al paniere) “culare come nu panaru” (fare acqua da tutte le parti) o “perdere filippu e panaru” (perdere il paniere ed altro)  sono ancora modi di dire in grado di rievocare il quotidiano della civiltà salentina. Auguriamoci allora che il valore di questa espressione rurale sia condivisa perché una simbiosi così affettiva con le piante, non può che non essere recuperata e tramandata.

Una dolce storia d’amore realmente accaduta: La falce di luna

Una dolce storia d’amore realmente accaduta

LA FALCE DI LUNA

Le mamme ricorrono a qualsiasi espediente per meglio educare i propri figlioli

di Rino Duma

Il professore Mauro aveva da poco perso la cara mamma e, nonostante avesse chiesto al preside un lungo permesso per riprendersi dallo sconforto, non riusciva a staccarsi da quella figura dolce e amorevole, che lo aveva accompagnato e protetto per tanti anni. Era tornato a far lezione, ma senza impegnarsi con la necessaria serenità e con quel modo di fare premuroso e gentile con cui porgeva l’insegnamento quotidiano.

Di giorni ormai erano trascorsi oltre una trentina, ma Mauro continuava ad essere imbronciato e poco comunicativo, tanto da mettere a disagio persino i suoi amati alunni. In molti avevano cercato di schiodarlo da quella profonda afflizione e di rincuorarlo con le dovute maniere e affettuosità, ma lui non aveva saputo reagire.

Ad alcuni alunni, che cercavano in ogni modo di lenirgli il dolore, rispondeva che sarebbe tornato pian piano ad essere l’insegnante d’un tempo.

Una mattina a scuola, durante l’intervallo, Peppiniello, uno ragazzino napoletano tra i più stravaganti e negligenti di seconda media, che da un anno aveva perso la madre in un incidente stradale, rivolse al suo amato professore un inconsueto invito.

Professò, posso farvi compagnia in questi quindici minuti di ricreazione?… Non mi va di stare con i compagni e di giocare con loro”.

Perché ti rifiuti di stare con loro, perché continui a mantenere questo assurdo distacco?… In fondo sono tuoi compagni e ti hanno accolto molto bene due anni fa”.

No, professò, non ho niente contro di loro, anzi. Il guaio è che, dopo aver perso la mia cara mamma, la parte migliore di me è andata via con lei…” – gli rispose con molta amarezza il ragazzo – “…Professò, per certi versi, noi due siamo uguali: solo io posso capire quanto voi soffriate”.

Nell’ascoltare quelle dolci parole, Mauro gli passò dolcemente la mano sul viso, accarezzandolo più volte e dandogli infine un affettuoso pizzicotto.

Io… io non dormo più la notte, sebbene sia trascorso quasi un anno da quando mi ha salutato…” – continuò il ragazzo nel suo dire – “…Se ben ricordi, professò, m’ero rimesso a studiare di lena, perché soltanto voi eravate riuscito ad infondermi il necessario coraggio e l’amore per lo studio… Papà, d’altra parte, pensa soltanto a lavorare e a tirare innanzi la famiglia. Non posso pretendere da lui di essere amato per come mi amava la mamma. Professò, mi manca tanto il suo amore, ma mi manca anche il vostro!… Vi prego, venite fuori dai vostri tormenti: state spargendo ovunque un malumore esagerato. Vi prego, professò, tornate a sorridere come un tempo!”.

Te lo prometto, Peppiniello…” – rispose Mauro, con un groppo alla gola – “…Sarà questione solo di qualche giorno!”.

Peppiniello riprese fiato e fiducia. Mauro gli si avvicinò, ponendogli il braccio sulla spalla, quasi a volergli manifestare piena gratitudine per le sincere esternazioni.

Professò, vi posso offrire una tazza di caffè?… Non lo prendete da diversi giorni!… Proprio voi che eravate tanto legato al caffè!…” – rispose il ragazzo, ora più rinfrancato – “…Se non vado errato, ne prendevate due-tre qui a scuola, figuriamoci quanti in tutta la giornata!… Allora, mi date quest’onore, professò?… forse vi aiuterà a farvi riprendere!”.

Mauro si fermò all’istante a fissare con dolcezza il ragazzo e a concedergli un sorriso appena abbozzato. Sembrava che quel figliolo fosse stato mandato dalla Provvidenza a strappargli dal cuore ogni pena.

Sì, Peppiniello, lo accetto ben volentieri, ma pretendo da te una solenne promessa!”.

Di che si tratta, professò!”.

Devi promettermi che cambierai subito il tuo modo di essere. Non mi piaci come sei e come ti rapporti con i compagni… Tu sei molto disordinato e arruffone, lasci a desiderare anche sul piano dell’impegno e inoltre non curi molto la tua persona, l’aspetto, il comportamento. Sono dell’avviso che se tu migliorassi, saresti di gran lunga superiore ai tuoi compagni. Grazie a Dio, in quanto ad intelligenza, intuito e sensibilità, tu ne hai da vendere”.

Professò, avete ragione, ma da quando è andata via la mamma, ho una tale malinconia e una sfiducia nella vita, che non mi va di far nulla… Sono un po’ come siete voi adesso…” – rispose il ragazzo con sincerità – “…Se voi foste più vicino a me… io… io vi giuro che sarei più diligente ed educato… sarei il primo della classe!… Professò, vi prometto che cambierò… ma dovete cambiare pure voi!”.

Va bene, Peppiniello, mi sta bene… accetto l’impegno!…” – promise Mauro con tono rassicurante – “…Ora, però, considerato che stiamo parlando delle nostre mamme, intendo raccontarti un aneddoto legato a lei, a mamma Francesca. La singolare storiella che sto per raccontarti è stata per me fondamentale, poiché ha contribuito in maniera determinante alla mia formazione umana e professionale. Perciò, seguimi con molta attenzione!”.

Professò, iniziate pure, sono tutt’orecchi!”.

Quand’ero bambino, t’assomigliavo in tutto… ero confusionario, disobbediente, ribelle, trasandato, superficiale e intento solo ai miei dolci trastulli. Mia madre era sempre in pena per me: mi sgridava, mi metteva in castigo, mi dava qualche ceffone per farmi rinsavire, mi accusava a mio padre, ma io non cambiavo mai nei comportamenti. Poi, modificò completamente tattica. Cominciò ad usare le buone maniere, mi inondò di sorrisi, di carezze e di buoni consigli. Per ammansirmi, farmi studiare e lavare più spesso, mi raccontava che i desideri di ogni bimbo crescono rigogliosi soltanto in mezzo alle stelle, nei giardini di Dio, e si possono raccogliere utilizzando unicamente una falce di luna”.

All’improvviso, qualcosa di diverso e meraviglioso stava sbocciando in me.

Mamma, come faccio ad averne una!” – osservavo candidamente.

Basta sognarla, figlio mio, ma, quel che più conta, è necessario svegliarsi stringendola in mano, a riprova di aver mietuto durante la notte le tue brame, i tuoi piccoli progetti. Essi si avvereranno pochi per volta, a seconda della loro importanza”.

Ma è impossibile!…” – le dicevo incredulo – “…E’ un sogno strano, molto strano… non ci riuscirò mai!”.

Sta’ tranquillo, amor mio… Con un po’ di pazienza e tanta buona volontà, ce la farai. A patto, però, di studiare molto e di lavarti ogni due giorni i capelli per scacciare i pidocchi e i cattivi pensieri. Se coltiverai i buoni sentimenti, la luna non tarderà a calarsi nei tuoi sogni e si avvicinerà tanto, ma così tanto, da poterla afferrare con un semplice gesto di mano. Quindi, stai attento e ricòrdati che nella tua mente non deve esserci neanche l’ombra di una cattiva idea, né il residuo di una piccola bugia o la traccia di una disobbedienza. Promesso, allora?!”.

Sì, mamma, promesso!… Ci tengo tanto che i miei sogni si avverino!”.

Lei non avrebbe mai immaginato che, in cima a miei desideri, ci fosse la voglia ardente d’averla per sempre accanto a me. Per accelerare i tempi, non trascorreva sera senza rivolgere in cielo l’avido sguardo per catturare la virgola d’oro e condurla tra i sogni. Ma invano.

Sei ancora piuttosto monello, devi lavarti a lungo e più spesso!…” – si giustificava quella santa donna di fronte alle mie ripetute lamentele – “…Anzi, làvati tutto, sino in fondo… e studia, studia più che puoi!… Solo se ascolterai i miei consigli, la luna verrà a visitarti in sogno. Ne sono sicura, tesoro mio!”.

Ed io, sebbene fossi diventato un angelo, un candido angelo dall’odor di bucato, uno studente modello, non fui mai premiato al risveglio.

Evidentemente non ti sei impegnato al massimo, oppure ti sei lasciato ammaliare da qualche piccola tentazione…” – concludeva la mamma, quando ormai non bastavano due mani per contare i miei anni.

Le ho sempre creduto… e tuttora mi viene da crederle. Eppure sono convinto di aver mancato per un nonnulla l’aggancio ai miei sogni. Di essi, solo pochi si sono avverati nel tempo.

Perciò, Peppiniello, attendo impaziente e sicuro che un giorno non molto lontano qualcuno mi svegli su uno spicchio di luna, su un mondo diverso, più dolce, più umano, in mezzo alle stelle ad un passo da Dio, per poter finalmente godere dei miei desideri innocenti, rimasti ancora sospesi… lassù!”.

E’ finita, professò?!” – disse mezzo estasiato Peppiniello.

Sì… è finita”.

Quanta è stata bella, professò!… E come avete parlato bene!… L’avete raccontata come se fosse una favola…” – osservò molto intenerito il ragazzo – “…Solo ora riesco a spiegarmi il motivo della vostra tristezza”.

Sai perché ci ho tenuto tanto a raccontarti la storiella su mia madre?”.

Sì, professò, ho capito tutto. Vostra madre vi ha preso continuamente in giro… ma nel senso buono della parola. Vi ha fatto credere che tutti i desideri, anche quelli impossibili, si possono avverare, si possono realizzare, ma a costo di meritarseli. Vostra madre s’è comportata un po’ come la mia, che ha tentato ogni giorno e con ogni mezzo di addolcirmi la vita e di presentarmela non come una stracciona, qual è, ma come un’elegante signora dal volto di Madonna”.

Bravo, Peppiniello, bravo!… Finalmente hai capito perché sono tanto depresso. Dopo la sua scomparsa, mi sono ritrovato immensamente povero, pur vivendo tra tante premure, affetti e attenzioni” – concluse il professore con un filo di voce – “…Credimi, Peppiniello, ogni qualvolta vedo in cielo la falce di luna, è come se vedessi lei… mamma Francesca!”.

Quindi, professò, la falce di luna è vostra madre?!”.

Sì, Peppiniello, è proprio lei!”.

Professò, rispondetemi sinceramente… esiste anche la falce di sole?”.

Sì, solo che non si chiama con questo nome!”.

E con quale, allora?!”.

Si chiama… eclissi di sole… e si manifesta quando la luna s’interpone tra la terra e il sole, lasciando filtrare solo una parte della stella e pertanto si verifica l’eclissi di sole”.

Che brutto termine, professò!… Non mi piace, io la chiamo meglio… falce di sole!”.

Fa’ come vuoi!”.

Ora, professò, perdonatemi se per voi faccio un paragone, un accostamento”.

Quale paragone?!… Peppiniello, non capisco!”.

Professò, se mamma Francesca è stata per voi una falce di luna… voi per me siete un astro più splendente ancora… voi… voi siete… una falce di sole!”.

Stavolta Mauro s’azzittì, piegò la testa, rimise il braccio sulle spalle di Peppiniello ed insieme rientrarono in classe.

La stupenda storiella d’amore era servita ad entrambi.

Oggi Peppiniello è un valente professionista.

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Salvatore Carbone. L’arte come rivelazione

di Eugenio Giustizieri

 

Se, in qualche modo, non si entra nella deliberata ma utile complessità di Salvatore Carbone, si rischia di non intendere il suo magnifico e seducente modo di fare arte. Guardare le opere di grafica, di pittura, di scultura spiega poco dell’unicità e diversità dell’artista, che è rappresentato soprattutto dal metodo, dal processo ideativo, da un sistema tutto personale. Una diversità che ha origini storiche; fra le altre cose, sta dentro la sua formazione da autodidatta, in un atteggiamento “altro”, ancora oggi, rispetto al sistema dell’arte e del suo consumo che pone al centro del proprio lavoro la questione del senso del progetto del mondo contemporaneo, del ruolo dell’artista che sembra debba essere sempre al servizio della collettività. L’artista sottopone alla comune riflessione desuete parole-ideali, come dignità, uguaglianza, necessità di coniugare qualità e produzione artistica.

Salvatore Carbone propone una sfaccettata configurazione dello spazio con l’intenzione di far emergere quanto sta dietro e attorno al lavoro progettuale e produttivo; articola la sua ricerca in tre punti di allegorie, che illustrano rispettivamente il disegno, le riflessioni concettuali, il percorso dell’arte moderna. Tre momenti che in realtà poi s’intrecciano organicamente in una metodologia unitaria. Ne ha collocato il percorso dentro il suo lavoro e le sintesi allegoriche all’interno di una pietra d’ambra, che come la divinità greca della luce Elettra, illumina figure e oggetti svelandone altre implicazioni, diversi possibili livelli di lettura per il fatto che insinua dubbi e propone riflessioni.

La pittura, come la scultura, deve essere soprattutto confessione, diario, mezzo di scandaglio o di protesta, messaggio. Salvatore Carbone elabora un segno che sa cogliere l’attimo fuggente, nel quale profonde il suo coraggio, la sua volontà di parola. Crede in un’arte che sia impuramente compromessa con la vita, testimone delle sue sofferenze, delle sue battaglie, della sua moralità.

Sembrerebbe che obiettivo principale di ogni sua opera sia l’etica. L’artista porta alle estreme conseguenze il suo linguaggio, fatto di archetipi primordiali, in cui la cultura mediterranea e salentina, con i suoi segni severi, si fonde con gli stimoli culturali elaborati nel tempo.

Dagli anni Novanta ad oggi i segni della memoria fluiscono come continuità della vita e attivano all’interno dell’immaginario una sorta di campo sensitivo infinito. Sembra che la pittura non possa più vivere mimando la realtà, si vuole invece un’arte che si fondi sulle ragioni autonome della propria esistenza. Ne escono tele di sofferta concentrazione, mentre nel manto di colore s’inibisce ogni preoccupazione di grazia, s’ascolta quasi la voce d’un animo che vive in una proiezione continua oltre se stesso, finché non si manifesta in un “oltre” che è insieme fisico e concettuale.

Le reminiscenze sono metafore del vissuto, luogo dell’intimo, meccanismi osservatori di immagini che costruiscono il pensiero soggettivo. In questa zona di recessi e delle derive s’incontrano ombre e respiri inquieti, si rivelano e si svelano enigmi imperscrutabili, esplodo desideri ineguagliabili, che diventano passione desiderante, intensità visiva, vertigine visionaria.

Le sue opere raccontano mondi rinvenuti, disegnano corpi in caduta libera, delineando sagome. Il ricordo si scandisce attraverso la durata e la memoria ricompone l’essere, diviene territorio anarchico, una zona di confine, dove immaginazione ed esistente s’intersecano per ricomporre frammenti. È soprattutto l’inconscio che in questo stratificato procedere rende incandescente il ricordo, deopalizzando le immagini di istanti della propria esistenza e costruisce universi nati da sguardi amati, da voci sentite, da umori vissuti che, una volta manipolati dall’effetto decostruttivo del procedimento artistico, modificano la vaghezza del ricordo in disidentità.

L’immagine diventa oggettiva, tende a perdere la familiarità con se stessa, diviene icona inedita e ineffabile. Perché ognuno ha il suo posto e il suo procedere, il mondo è sinfonico e, nelle sfumature cromatiche, la varietà dei destini si placa e riposa. Il verde tenero della primavera, il bianco calcinato delle case e della luna, il rosso acceso del tramonto e, su tutto, la patina di ruggine, che riporta al Sud, ad ogni sud del mondo, al cullare del tempo e della storia.

Credo che Salvatore Carbone veda i colori così come visti dagli antichi Greci, rinviando non al linguaggio della pittura ma a quello della poesia, dove l’oggettivo risponde più a un sentimento che a una percezione. Questo vale anche per l’evoluzione della pittura moderna: perché alle percezioni cromatiche dell’impressionismo, con il suo occhio visivo, è subentrato il sentimento deformante dell’espressionismo, con il suo occhio interiore. Così che i colori irrealistici del linguaggio della poesia greca ritornano, in chiave diversa, nel linguaggio della pittura moderna.

Cosciente del potere dirompente di tale visione, Carbone, forte dei risultati ottenuti con la creatività impiegata nella prima parte della sua parte della sua vita artistica, inventa un secondo momento creativo conseguenza obbligatoria, faticosa, a tratti eccitante. Tutti aggettivi che connotano la libertà stessa.

L’impressione è che l’inventiva dell’artista abbia trasformato, il già labirintico processo mentale, in un percorso in cui perdersi nel continente dei sogni perduti. Il buio, il silenzio e le grandi dimensioni delle immagini contribuiscono a creare un’atmosfera coinvolgente di grande impatto visivo, carica di liricità e introspezione, essenziale e ricercata allo stesso tempo. È come se una geniale teoria cosmologica aprisse la possibilità di un nuovo, immenso universo accanto a quello che si credeva totale.

È questo che sfolgora nell’opera di Salvatore Carbone: l’arte come rivelazione, prima ancora che fonte di nuova felicità. Eppure la voce diventa sempre più roca, flebile quasi, sommessa, venata di malinconia e abitata da un senso di sperdutezza profonda. I personaggi che popolano questi lavori divengono maschere, qua e là bagnate di colore: stanno a testimoniare l’ambiguità, la doppiezza, la vanità che, forse, più ineluttabilmente d’ogni altra condizione, segnano la vita e i suoi rapporti. Né tremende, né profetiche ma soltanto dolenti svelano la realtà d’un Carbone segreto che continua a non perdersi, perché continua a credere.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Dialetti salentini: ‘rrunchiare e ‘rrunciddhare, ovvero il granchio, la roncola e un pizzico di nostalgia … ..

di Armando Polito

Non è il titolo di una favola antica e neppure di una di un autore moderno o contemporaneo o, Dio vi salvi!, mia. È solo un vigliacco espediente per suscitare un minimo di interesse per una materia, la filologia, che a prima vista può sembrare arida e, spesso, aleatoria. Ma quale nostro tentativo di conoscenza, in qualsiasi campo, non è soggetto alla spada di Damocle della provvisorietà del risultato che solo contingentemente appare in esse ma che in una prospettiva nemmeno tanto lontana palesa il suo eterno in fieri? Se pure la filologia è una scienza aleatoria (come tutte le scienze nei risultati, non nel metodo…) essa, tuttavia, si difende molto bene dal rischio di essere arida, perché si occupa della quintessenza della nostra umanità, cioé il linguaggio; e anche solo una parola (talora anche una sillaba o, voglio esagerare, un fonema) può rivelare la fatica del vivere e lo sforzo di tramandarne il ricordo nel tempo. È intuitivo che il dialetto in questa funzione parte, anzi, partiva favorito perché nasceva dall’intrinseca identità territoriale e culturale di una popolazione intesa come maggioranza (sia pure non acculturata e tanto meno letterata), senza il filtro un po’ spocchioso e omologante di una minoranza (acculturata e letterata) che ha guardato da sempre al dialetto con sufficienza, per non dire disprezzo. Mi rallegrerei se l’evoluzione culturale di questi ultimi cinquanta anni avesse portato veramente ad una diffusione della lingua nazionale e, quel che più conta, ad un suo uso corretto e rispettoso della funzione significante. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: da una parte un dialetto che celebra la sua agonia nel successo di poche voci per lo più di significato volgare o di origine gergale, dall’altra un uso arbitrario ed opzionale della lingua nazionale nella violazione inconsapevole, perché frutto di ignoranza, (quella consapevole è riservata, da sempre, solo ai poeti) di ogni norma espressiva. Deliranti, poi, sul piano politico, certe posizioni che vorrebbero addirittura imporre la conoscenza del dialetto locale come elemento pregiudiziale per poter lavorare in quel territorio.

E la scuola? Di questo sfacelo non sarà pure l’autrice ma, per la sua responsabilità indiretta (in quanto deve pur sempre obbedire a direttive calate dall’alto), quanto meno complice e connivente, immersa fino al collo in un piano diabolico sotteso dal principio del quanto più il popolo è ignorante tanto più è servo, spudoratamente seguito da tutti i governi alternatisi negli ultimi decenni.

Certo, mi pare di sentir dire, criticare è facile, teorizzare lo è ancora di più, difficile è proporre. Più che difficile, nella situazione che si è creata (emarginazione e scomparsa del dialetto/ignoranza nell’uso della lingua nazionale, a partire dall’esatto significato delle parole), direi che è quasi impossibile. Posso solo ricordare che finché ho insegnato mi è sembrato criminale, oltre che da stupidi, non approfittare del formidabile substrato culturale che il Salento, da sempre porta del Mediterraneo, ha potuto sedimentare nei millenni, tanto più che oggetto del mio insegnamento erano l’italiano, il greco ed il latino. A dire il vero, insegnavo (o avrei dovuto insegnare) pure storia e geografia, però capitava molto spesso (forse con grande piacere non propriamente culturale dei miei alunni…) che le relative ore andassero sacrificate non per parlare dell’economia della Spagna o dell’abilità strategica di Giulio Cesare ma per approfondire, spesso estemporaneamente ispirato dagli alunni più che guidato da una asettica preparazione pregressa della lezione, l’interpretazione di un passo in italiano, latino o greco,  preventivamente smontato nelle sue componenti strutturali  e analizzato in  ogni singola parola.

In questa metodologia didattica era fatale che l’italiano, il latino o il greco evocassero più di una volta nella stessa giornata una voce dialettale e che il tempo trascorresse in un baleno e quasi senza fatica (almeno per me…).

Ecco perché qui posso solo far finta di rivivere una di quelle giornate e, aggirandomi tra i banchi (salivo in cattedra solo per riposarmi e per scrivere tutto quello che andava scritto sul registro di classe e su quello personale, comprese le osservazioni sul malfunzionamento dell’istituto nello spazio destinato alle note disciplinari, che per tutti i miei allievi, nessuno escluso, sono state, invece, un oggetto misterioso) di vedere Pinco Pallino, ragazzo un po’ troppo sviluppato per la sua età, costretto in un banco non adatto alla sua taglia in un disperato tentativo di coniugare una posizione non sbracata con una sufficientemente comoda. Gli avrei subito detto: “Figlio mio, stiracchiati pure un po’ e, se vuoi, fai pure due passi nell’aula, ma non mi chiedere di andare al bagno!”. E, non appena si fosse alzato, approfittando del fatto che in quell’ora  (ma quando si dice la coincidenza…; sì, però, le coincidenze, se non vengono da sole, un insegnante se le deve inventare) si stava leggendo il primo capitolo de I promessi sposi, avrei aggiunto che stava mettendo innanzi a stento una gamba dopo l’altra, che parevano aggranchiate1. Così avrei preso due piccioni con una fava: l’eventuale risata del ragazzo o della classe sarebbe stata la prova che avevano studiato (per esserne totalmente certo, comunque, avrei fatto ulteriori controlli…) e subito mi sarei precipitato ad approfondire aggranchiate. Uno di loro avrebbe preso dall’apposito armadietto il vocabolario di italiano ed al lemma relativo  (visto che la parola cominciava per a gli avrei concesso massimo cinque secondi per trovarla; oggi non basterebbero due minuti…) avrebbe letto pressappoco così: aggranchiàre: intirizzire, rattrappirsi per il freddo; da ad-+granchio+-are. Vedi aggranchire. E ad aggranchire: rendere intirizzito per il freddo; intirizzire, rattrappirsi per il freddo; da ad-+granchio+-ire. Dopo aver chiarito i rapporti tra il concetto espresso dal verbo e il granchio (non bisogna dare niente per scontato, oltre al fatto che ognuno di noi può incorrere in un momento di scarsa lucidità mentale e vergognarsi di chiedere spiegazioni) e l’assoluta innocenza del freddo nel caso di Don Abbondio, avrei chiesto come lo stesso concetto è espresso nel dialetto locale e probabilmente dieci anni fa (difficilmente oggi…) sarebbe venuta fuori (se non da parte dei ragazzi, da parte mia) la voce ‘rrunciddhàre.  A quel punto sarei stato costretto ad invitare i ragazzi a fare una proposta etimologica motivata e se il tentativo fosse fallito, dopo aver chiarito perché le loro proposte non reggevano, avrei solennemente (ogni tanto bisogna pur fare scena!) detto che ‘rrunciddhàre mostrava anzitutto il raddoppiamento della consonante iniziale, il che in qualche caso è dovuto a motivi espressivi ma nella stragrande maggioranza dei casi ad un’originaria preposizione, nel nostro caso ad (perciò, a mio avviso, la voce va scritta, come ho fatto,  con il segno di aferesi ). Dunque: ad+runciddhàre>arrunciddhàre(assimilazione –dr->-rr-)> ’rrunciddhàre (aferesi di a-). Runciddhàre, poi, è da runcèddha che in italiano sarebbe stato roncella, diminutivo di ronca (dal latino runcàre=sarchiare, ben diverso da rhuncàre=russare; dalla stessa radice di runcàre, sempre in latino, è rùncina=pialla) se non si fosse sviluppata la forma ròncola (tutta questione di suffissi) che è sempre dal latino, ma medioevale, rùncula.

Che attinenza abbia la roncola con il nostro verbo lo lascio dire alla relativa immagine di testa e recepire  dall’immaginazione di ognuno.

A quel punto, sicuramente, non Pinco Pallino ma,  (alla strafaccia della privacy!, principio sfruttato secondo me per proteggere più l’intimità dei disonesti che degli onesti i quali, nonostante il famiferato “registro delle opposizioni” al quale hanno provveduto ad iscriversi, continuano quotidianamente a sentirsi, sia pure telefonicamente, rompere le scatole con allettanti offerte) Pier Paolo Giuri (se sta leggendo, un caro saluto!), che si portava ogni giorno appresso il vocabolario del Rohlfs (in parte nella segreta, legittima, per me simpatica e preziosa speranza di cogliermi in fallo…), avrebbe effettuato il suo controllo e, nella fattispecie, la classe si sarebbe lasciata andare ad un applauso che io avrei bruscamente interrotto, colto dal sospetto che mi si stesse prendendo per il culo…

E subito, per vendicarmi (lo ammetto, sono un sano sadico…), avrei chiesto se ci fosse qualche altro termine dialettale che foneticamente in qualche modo ricordasse ‘rrunciddhàre. Probabilmente qualcuno avrebbe detto (in caso contrario l’avrei detto ancora io) ‘rrunchiàre=rannicchiare, il quale, per farla breve, deriva da ad-+*runculàre e *runculàre dal citato rùncula (adrunculàre>arrunculàre> ’rrunculàre> ’rrunclàre>’rrunchiàre).

Altro controllo di Pier Paolo e constatazione che al lemma il Rohlfs non reca etimologia, ma invita solo ad un confronto con il napoletano arronchiare=raggrinchiare. Che per il Rohlfs ci sia un rapporto tra arronchiàre e raggrinchiare, che è alterazione di raggricciare, da griccio=arricciolato, (forse da riccio) incrociato con granchio? Mi pare inverosimile soprattutto per motivi fonetici, dal momento che perfino a me è chiaro che ‘rrunchiàre ha l’etimologia che ho detto nel periodo precedente. Chiedo a Pier Paolo se ha completato la lettura del lemma (di solito un po’ tutti ci si ferma alla prima taverna…) e lui mi dice che alla fine il Rohlfs rimanda ad arrunchiàre. Ci andiamo e troviamo da un latino *adrunculàre=piegare come una roncola, cioè la conferma di quanto da me sostenuto. Questa volta aspetto un po’ per interrompere l’applauso, anche perché non so se è indirizzato a me o al Rohlfs…

Conclusione: per esprimere lo stesso concetto l’italiano ha messo in campo il granchio, dunque l’attività della pesca; il neretino la roncola, dunque l’agricoltura, attività principe della nostra cultura che, non a caso, è essenzialmente contadina.

Sentiamo che la campanella sta suonando e non c’è tempo per altre considerazioni di natura anche non filologica (che qui non riporto per non rubare altro tempo e non certo per paura di beccarmi qualche denuncia per calunnia, che, fra l’altro, mi sarebbe fin troppo facile rimandare al mittente) e noto con piacere che qualcuno stranamente indugia nel preparare l’occorrente per l’ora di educazione fisica che, ufficialmente, è già iniziata.

Forse, dieci anni fa, non era solo un sogno…e oggi ne rimane la nostalgia in tutta la pienezza poetica del suo significato etimologico: dolore del ritorno.


_____

1 Così il Manzoni dice del procedere di Don Abbondio dopo il suo primo infelice incontro con i bravi.

 

LA SCUOLA A GALATINA NEL 1906

Albert Anker - Passeggiata scolaresca

Scrivevano i nostri padri…

Dal “CORRIERE” del mese di gennaio 1991

 

a cura di Carlo Caggia

Nel mio archivio privato di pubblicazioni antiche galatinesi, esiste un numero di una rivista, “LA SCUOLA PER LA VITA”, datato1 giugno 1906 (anno 1, n. 2).

Il sottotitolo è: Rivista mensile per l’educazione e l’istruzione delle Classi popolari. Redattori i proff. Pietro Papadia-Baldi e Pietro Baldari. Una copia £ 0,15, stampatore “Tipografia economica”.

***

Come ogni conoscitore di cose salentine sa, il 1906 è un anno particolarmente importante per le durissime lotte politico-sociali che si svolgevano nel nostro territorio, in particolare da Galatina sino al Sud del Capo di Leuca, per l’emancipazione delle classi contadine ed operaie che rivendicavano, attraverso le Leghe di Resistenza, condizioni di vita e di lavoro più umane e civili (orario di lavoro, paga, ecc.). Non dimentichiamo che nel 1905 a Maglie e nel 1906 a Galatina si hanno i primi contratti di lavoro stipulati in Italia per i contadini e per le raccoglitrici di ulive.

Le organizzazioni operaie si ponevano però anche il problema dell’istruzione popolare, attivando Scuole serali per analfabeti, con l’aiuto e la collaborazione di maestri e professori la cui formazione culturale era positivistica o (quanto meno) socialisteggiante.

È interessante scorrere le pagine di questa rivista di piccolo formato e di sedici pagine perché si potrà avere uno spaccato di qual era la situazione socio-culturale di Galatina. È di particolare rilievo, a pagina 6, una lettera aperta al Cav. Avv. Pasquale Galluccio, Sindaco di Galatina, dal titolo “Pro analfabetismo”. Da questo articolo si ricava che su di una popolazione di 14.086 abitanti (censimento del 1901), solo 4.000 soggetti sanno leggere e scrivere, mentre gli evasori dall’obbligo dell’istruzione elementare (fanciulli dai 6 a 12 anni) sono ben 1.300.

Dice la rivista: “…ci siamo convinti che la maggior parte dei figli dei lavoratori non vanno a scuola o perché i genitori non hanno denaro per comprare loro il pane, qualche vestitino e le scarpe, o perché essi hanno bisogno di sfruttare il lavoro dei teneri figli per provvedere al gramo sostentamento delle famiglie…”.

E continua: “Gli adulti poi non s’istruiscono perché qui mancano le scuole serali e festive”.

Ed ancora: “Ciò premesso, noi ci rivolgiamo alla S.V. per pregarla di fare le pratiche necessarie per istituire, col concorso dello Stato, nel prossimo mese di novembre, corsi regolari serali e festivi per gli adulti…”.

Ed inoltre: “Costituisca dunque la S.V. un comitato delle principali autorità cittadine, di professionisti, insegnanti, ricchi proprietari, caritatevoli e gentili signore, e vedrà, in poco tempo, sorgere nella nostra città le cucine economiche per gli alunni poveri, la refezione scolastica…”.

Sotto il titolo “La sorte di molte idee-pratiche” (pag.14) si riporta un brano apparso sulla rivista “I diritti della Scuola”, in cui si riprende un’idea dell’on. Luigi Cedraro – ex sottosegretario all’Istruzione – che invitava le Società Operaie e le organizzazioni operaie e contadine a fare “obbligo per statuto ai propri soci di mandare a scuola i figlioli”, pena l’espulsione per “coloro che non si sottoponevano a quest’obbligo”.

A circa cent’anni da allora, possiamo rilevare l’ingenuità (per lo meno) di quest’idea, considerando che l’atteggiamento dei genitori-lavoratori era determinato da ben altre motivazioni.

 

***

Altre notizie si possono ricavare dalla rivista: in incitamento per l’erezione di un monumento a Pietro Siciliani “gran filosofo, gran pedagogista, grande educatore”; una nota circa il servizio automobilistico in provincia di Lecce (Tricase-Galatina-Lecce, ore 8 di viaggio!), una nota per restauri nella chiesa di Santa Caterina, indirizzata all’on. Antonio Vallone; l’istituzione di una Scuola di Recitazione (ad iniziativa dei signori Pietro Cesari, Giacinto Bardoscia ed Emanuele Bernardini); un corso tecnico-pratico di Lingua Francese, tenuto dal prof. Tommaso Luceri; una serie di lezioni teorico-pratiche sulle concimazioni (Prof. G. Ceccarelli); una conferenza “dell’illustre scienziato Cav. Dott. Cosimo De Giorgi” su “I terremoti salentini e le nostre costruzioni edilizie”.

 

***

Ampio spazio viene dato a due scuole superiori: la Scuola Tecnica “P. Cavoti”, con tre sezioni (a tipo comune, commerciale, agrario), con un totale di due classi con 85 alunni, di cui 44 “forastieri” e 25 “giovanette”. Il Consiglio di Amministrazione era composto dal Cav. Avv. P. Galluccio, Presidente effettivo; Cav. Avv. C. Bardoscia, Ing. P. Micheli. Direttore: Prof. Pietro Cesari. Insegnanti: Ceccarelli Giuseppe, Cesari Pietro, Coluccia Maria, Congedo Giuseppe, Leone Emilio, Luceri Pietro, Marra Luigi, Mauro Giuseppe, Panico Giuseppe, Papadia Pietro, Susanna Alessandro.

Il Convitto P. Colonna contava invece 74 convittori, di cui 66 “forastieri” ed era diretto dal Sac. Dott. Rocco Catterina; Censore, Alfonso Castriota, Vice-Censore Ippolito De Maria. I 74 convittori erano divisi in quattro “compagnie” con a testa i relativi “istitutori”.

Circa un secolo è passato da quando si pubblicavano queste cose e si sviluppavano queste tematiche. Quanta acqua è passata sotto i ponti!

Oggi i tempi sono mutati: vecchi problemi sono stati cancellati ma nuovi e più drammatici (basti pensare a droga e disoccupazione giovanile) premono sui nostri giorni.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

VENERINA

 

pizzica

 

di Maria Grazia Presicce

 

Mi disseto al getto fresco della fontana nella piazza e mi ritrovo accanto, lei, la bella ragazza che poco prima avevo ammirato sull’improvvisata pista da ballo.

– Anche voi alla fontana a bere! – Le dico sorridendo.

– Sono assetata e accaldata! – Mi risponde, passandosi una mano sulla fronte imperlata di goccioline luccicanti, sistemandosi delle ciocche che le sfuggivano al controllo.

” VENERINA “, l’avevo soprannominata ed ora Venerina era davanti a me spensierata e aspettava il suo turno per dissetarsi e rinfrescarsi dopo i vorticosi giri di danza.

Per caso, quella sera, mi ero trovata nella piazza prospiciente la Torre a Porto Cesareo: un ritmo musicale a me tanto caro m’aveva attirato e così mi ero avvicinata.

Un Gruppo di musica popolare suonava “la pizzica” su un palco sistemato sulla piazzetta a ridosso del mare e, al di sotto, su una pista delimitata da ” balle” di paglia, la gente ballava al ritmo frenetico di quei suoni.

La fisarmonica e l’organetto aprivano e chiudevano i loro mantici ritmando il respiro della gente e con loro si fondeva e i tamburelli parevano piedi che saltellavano a tempo incuranti della fatica, dell’afa, dimentichi di tutto.

Ero affascinata e sedotta da queste musiche come una calamita e, silenziosa, lasciando indietro gli altri e facendomi largo tra la folla, mi ero portata a ridosso della pista.

L’odore dolciastro della paglia accarezzò le mie nari; rimasi in piedi, qualcuno sedette sul mucchio vicino a me. Per un attimo ebbi la tentazione di gettarmi nella mischia, la pista gioiosa e vibrante pareva invitarmi ma, il mio eterno senso di ritrosia e riservatezza mi trattenne.

Lo supponevo un gesto di sfrontatezza, di disubbidienza.

Avviluppata dalla dolce melodia musicale, guardavo ed ammiravo chi istintivamente e liberamente ballava: gente di qualsiasi età.

Dio, come avrei voluto essere tra loro!

Quel ritmo si dice ” scazzica” chicchessia, ed è vero, bisogna, però avere l’ardimento di lanciarsi nella mischia ed a me quel coraggio mancava.

I miei piedi, però, non riuscivano a trattenersi. Inconsapevolmente accennavano a muoversi furtivamente contro la mia voglia di controllarli, mentre continuavo a guardare estasiata gli altri ballare e gioivo con loro, per loro e per me.

La felicità, l’allegria, la frenesia di quella gente sconosciuta mi contagiava e anche solamente ammirarla mi deliziava, m’inondava l’animo di festosità, facendomi sentire parte di quella marea.

Rimanevo ammaliata: inerte, immobile.

I miei piedi, sotto il lungo vestito, però, tornavano inconsapevolmente a muoversi stuzzicati dal ritmo. Contemplavo tutte quelle gambe saltellanti; il mio sguardo volteggiava festoso con loro. Era come se fossi tra loro e sorridevo compiaciuta, felice inebriata da quei suoni, da quei canti che mi riportavano indietro nel tempo.

Sorridevo a chiunque incrociasse il mio sguardo battendo le mani, allegra come una bimba davanti al suo spettacolo preferito e con la stessa lietezza e schietta naturalezza sorrisi anche a lei che, solitaria, ballava con una grazia e una leggiadria che attrasse la mia attenzione facendo indugiare il mio sguardo.

Bella. Era bella di quella bellezza mediterranea che affascina. Bruna, occhi grandi, vividi, dallo sguardo profondo e spensierato; lunghi capelli neri, lievemente ondulati, le ricadevano sulle spalle incorniciando ed impreziosendo l’ovale del suo volto. Il corpo slanciato e flessuoso era velato da un vestitino aderente, a fiorellini bianchi e blu, con un décolleté che lasciava intravedere il seno sodo. Dietro, il profondo scollo, era ornato da larghe bretelle che s’incrociavano e si chiudevano in vita annodate in un fiocco.

Mi venne spontaneo sorriderle; sorrisi alla sua grazia, al suo fascino, alla sua armoniosità, alla sua semplicità.

Ricambiò il sorriso, compiaciuta e sempre danzando mi si avvicinò e: – Dai!Venga, venga a ballare anche lei -.

-No no grazie! Preferisco guardare – mentii.

Lei, per un po’, continuò a danzarmi vicino. Il caldo umido della sera si faceva avvertire e, sulla pista, attorniata dalla calca, era quasi opprimente. Lei rialzò i capelli con un gesto semplice e consueto e li raccolse in chignon fermandoli non so in che modo e si allontanò.

Era ancora più bella così.

Le sue spalle imperlate di sudore sotto le luci dei riflettori luccicavano. Sembrava ricoperta da piccoli, diafani, diamanti.

I bagliori della luna nuova rischiaravano, di là dalla piazza, i merli dell’alta torre e più in là si riverberavano e s’infrangevano nel mare immoto, che pareva spruzzato d’argento.

E, Venerina, danzava, danzava instancabile: e salterellavano i piedi e volteggiavano le braccia, le mani ed era tutta una movenza che ammaliava e m’inebriava e ogni tanto nel librarsi mi guardava sorridente e, silente, continuava ad invitarmi con un timido cenno.

Ma…. io non potevo raggiungerla.

Volevo, lo desideravo ardentemente, ma rimanevo là, fissa, inchiodata mentre il mio mondo d’immagini si dilatava, si espandeva e il presente ad un tratto si stemperò col passato e: – NO, tu non devi ballare. Non puoi. Le persone perbene non ballano -.

La voce di mio nonno mi ammoniva ed io… rimanevo a contemplare composta, fissa al mio posto.

1 Da Google: Il bosco incantato di Eldy, La Puglia. http://bosco.eldi.it/page/66/?show=gallery&pageid=3803

 

La guerra d’Otranto del 1480/81

turchi a otranto

di Maurizio Nocera

Gennaio 2011: il presidente del Circolo “Athena” di Galatina, prof. Rino Duma, mi dona un opuscolo che cito per intero: “Salvatore Panareo, Trattative coi Turchi durante la guerra d’Otranto (1480-81)”.

Oggi, più o meno, sappiamo quasi tutto sulla guerra di Otranto, e questo grazie alle Memorie di studiosi che si sono interessati e continuano ad interessarsi di quegli eventi. La cronologia essenziale della guerra d’Otranto ci dice che dall’11 agosto 1480 al 10 settembre 1481, gli ottomani tennero occupata la città. Finora gli studiosi ci hanno fatto sapere le stragi e le violenze che essi compirono in Otranto, ma pochi sono stati quelli che si sono posti domande del genere: “Cosa fecero gli ottomani, stando dentro le mura della città? E dopo la tremenda strage degli Ottocento, che tipo di rapporto s’instaurò fra gli abitanti e gli occupanti? Il vettovagliamento come fu organizzato?”.

Salvatore Panareo, nell’opuscolo sopracitato, si pone tali domande precisando che, «malgrado gli sforzi per terra e per mare delle armi cristiane, bisognò tollerare la presenza degl’invasori» (p. 1). Inoltre, egli spiega qual è il motivo della sua indagine: cercare di conoscere quali furono i «tentativi di pace col Turco avvenuti durante la guerra e sulle trattative svoltesi alla fine per il ricupero della città» (p. 3).

Egli ne cita una, questa: «Re Ferrante, allora in Foggia, che, malgrado qualche promessa e qualche sussidio, si vedeva isolato, si aggrappò allora a un disegno che più volte gli s’era affacciato alla mente, quello cioè di ottenere dal Turco pacificamente la restituzione di Otranto» (p. 6).

Furono diversi gli stratagemmi a cui il re ricorse, primo fra tutti quello di servirsi di un ambasciatore ferrarese, che, sia pure conalterne vicende, riuscì ad incontrare, nell’aprile 1481, in Albania (Saseno e Valona), Achmet Pascià e parlargli, magari, come scrive il Panareo, «offrirgli una somma di denaro» come riscatto per la liberazione della città, ma alla fine, tutto sommato, la missione fallì. Questo accadeva prima dell’estate 1481. Dalle cronache, sappiamo che in agosto ci furono gli assalti dell’esercito del duca Alfonso d’Aragona per il ricupero di Otranto, ma senza grandi risultati, che invece arrivarono dopo un altro incontro diplomatico, di cui re Ferrante si servì attraverso tal Dalmaschino, un turco «ritenuto prudentissimo e discreto e fornito anche del privilegio d’intendere e parlare la lingua italiana» (p. 12).

Ci furono ancora altre trattative, alla fine però, scrive il Panareo, ciò che fece precipitare la situazione a favore di Otranto, fu la morte del Sultano Maometto II. Scrive: «Gli assedianti, quantunque avessero i mezzi di resistere ancora qualche mese, pensarono allora a mantenere fedelmente i patti stabiliti e restituirono la città il 10 settembre» (p. 14). Era il settembre 1481, e gli ottomani avevano occupato Otranto per 54 settimane. Oltre che tenere militarmente occupata la città, oltre alle scorrerie fuori dalle mura per rubare e approvvigionarsi dei generi alimentari, cos’altro fecero al suo interno?

Al momento, gli studiosi non hanno approfondito tale tematica, per cui non si conosce molto di quel che accadde durante i 13 mesi dopo il sacco della città. Qualcosa possiamo leggere in alcuni saggi di studiosi stranieri presenti al convegno di Otranto del 1980, le cui relazioni furono pubblicate nel 1986 dall’editore Congedo di Galatina in due tomi intitolati “Otranto 1480. Atti del Convegno internazionale di studio promosso in occasione del V Centenario della caduta di Otranto ad opera dei Turchi (Otranto, 19-23 maggio 1980)”, a cura di
Cosimo Damiano Fonseca. A parere di molti, quello fu il convegno che segnò una svolta negli studi della guerra otrantina del 1480 perché, per la prima volta nella storia, vi presero parte due studiosi turchi, i proff. Sakiroglu e Nejat Diyarberkirli. Dei due, però, conosciamo solo il saggio del secondo, cioè quella del prof. turco Nejat Diyarberkirli, “Les Turcs et l’Occident au XVème siècle”. In essa ci sono alcuni passaggi importanti che ci fanno comprendere da parte turca qual era la situazione politico-militare nel Canale d’Otranto. Eccone alcuni di quei passaggi, ovviamente sommariamente tradotti: «Nel 1479 finalmente, la pace fu segnata tra i Veneziani e gli Ottomani, ma lo stesso anno cominciò la campagna di Otranto da parte degli Ottomani [che] l’11 agosto 1480» (p. 22) assediano la città sotto il comando del’ammiraglio turco Gédik Ahmet Pascià.

assalto-a-otranto

Dopo avere fatto una ricognizione storica sugli avvenimenti collaterali alla guerra di Otranto, Diyarberkirli presenta un percorso che vede «Gedik Ahmed Pascià, prima di mettersi alla testa di questa spedizione [quella di Otranto], conquista le isole di Zacinto, Cefalonia e Aya-Mavra, appartenenti alla famiglia dei Tocco intervenendo così negli affari interni del regno di Napoli. L’anno successivo; Gedik Ahmet Pascià, incaricato di conquistare l’Italia del Sud, vale a dire il regno di Napoli, lascia Valona il 26 luglio 1480 con una forza di 18.000 uomini e 132 navi e arriva l’11 agosto sulle coste della Puglia impadronendosi di Otranto. Costringe poi il principe Alfonso, erede del regno di Napoli, a ritirarsi» (p. 24).

Sostanzialmente, la tesi di Diyarberkirli è che la presa di Otranto da parte degli Ottomani fu il frutto di uno scellerato scambio bellico tra alcuni stati italiani dell’epoca, quali il Vaticano, Venezia e Firenze. Ma oltre a ciò, lo studioso turco nulla aggiunge a quanto già sapevamo dell’occupazione ottomana della città.

Qualcosa in più riusciamo a sapere dalla relazione tenuta quello stesso giorno del convegno dal prof. Charles Verlinden, “La presence turque a Otranto (1480-1481) et l’esclavage”, dalla quale veniamo a sapere qualcosa sul numero degli otrantini ridotti a schiavi e dispersi nell’impero turco. Il dato che a noi interessa è quello che una volta occupata Otranto, ripulite le strade delle centinaia e centinaia di militari e civili morti nella difesa
della città (gli 800 martiri verranno invece ammazzati sul colle della Minerva e lì lasciati a decomporsi), gli occupanti, agli ordini di Achmet Pascià, riducono allo stato di schiavitù i cittadini che si erano salvati. Secondo lo studioso francese in Otranto, all’epoca della tragica guerra, «la popolazione […] non doveva superare le 5.000 – al massimo – 6.000 persone. In effetti, Nicola Sadolet, ambasciatore d’Ercole d’Este a Napoli, informò, attraverso il segretario del re di Napoli, […] che il 16 agosto 1480, Otranto contava 1.000 fuochi e poteva contenere 1.500 uomini armati. Lo stesso Sadolet, dieci giorni più tardi, annota “hanno mandato ala Valona, in una nave più de 500 anime cristiane”. Un altro informatore, Montecatino, parla, il 24, di “dove etiam li
haveno conducte mille anime”. Ammettendo che egli ordinò due invii di prigionieri, ridotti in schiavitù, a Valona e all’interno dello Stato turco e soprattutto verso la sua capitale, complessivamente si arriva ad un totale di 1.500 schiavi. Questa sembra una cifra abbastanza credibile, tenendo conto che ad essa vanno aggiunti gli 800 decapitati e gli uomini uccisi durante i combattimenti e massacrati immediatamente dopo l’ingresso dei Turchi, si arriva sicuramente ad un totale situato tra 2.500 e 3.000 “anime”. […] D’altra parte,
una località di 1.000 fuochi probabilmente si avvicina di più ad una popolazione di 5.000 piuttosto che di 6.000 anime, come dimostra la maggioranza dei dati sui fuochi conosciuti dalla demografia storica, questo sta a dire che i Turchi deportarono ugualmente un certo numero di giovani uomini e donne – sicuramente quelli meglio dotati fisicamente (pp. 148-149).

Secondo me, cogliendo le intuizioni e le domande che si pose a suo tempo Salvatore Panareo nell’opuscolo citato, quasi l’intera popolazione di Otranto del 1480/81 fu estirpata dalla propria città: chi massacrato sotto i colpi delle sciabole ritorte dei giannizzeri; chi invece ridotto alla stato di schiavo e trasferito prima nella città albanese di Valona e dintorni e chi, infine, disperso nel vasto impero ottomano.

Molto probabilmente, all’indomani della partenze degli occupanti, nella città di Otranto non rimase che qualche abitante più la moltitudine dei militari aragonesi. La ricostruzione dei fuochi abitativi di Otranto avvenne sulla base di un sostrato demografico di nuovo e inedito impianto, sicuramente importato da altre zone limitrofe della stessa Terra d’Otranto oppure da altre regioni del regno di Napoli.

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Il fascino della Storia: La donna dei Lumi

 di Giuseppe Magnolo

images

Nella sua terza opera di genere narrativo Rino Duma affronta il romanzo storico incentrandolo su una figura femminile del risorgimento italiano, considerato da un punto di vista prevalentemente meridionalista. La Donna dei Lumi è stato pubblicato da Lupo Editore a marzo del 2012, con un saggio introduttivo da parte di chi scrive, di cui riprendiamo i contenuti essenziali con alcune riflessioni suggerite dal recente evolvere degli eventi nel nostro paese.

Come nelle sue precedenti opere narrative, risulta evidente l’intento dell’autore di fornire una precisa contestualizzazione temporale, che in La Falce di Luna (2004) è costituita dall’impegno sociale del protagonista in una dimensione contemporanea, mentre la palingenesi sociale contemplata in La Scatola dei Sogni (2008) parte dall’attualità per investire addirittura il futuribile. Ma in quest’ultimo lavoro si coglie il bisogno dello scrittore di ritrovare in una dimensione storica un po’ più remota le radici dei propri ideali politici e sociali.

Non è difficile comprendere le ragioni della scelta di Rino Duma di operare nell’ambito di un periodo storico così rilevante riguardo alla genesi ed alle possibilità di tenuta dello stato nazionale italiano, focalizzando la sua attenzione su un personaggio come Antonietta de Pace, donna di forte personalità, che si è battuta per i propri ideali con dignità e fierezza. Va ricordato che l’Ottocento ha rappresentato veramente un periodo di rinascita nazionale. Il grande disegno coltivato dagli spiriti liberi del risorgimento italiano era incentrato sull’amor di patria, incardinato sugli ideali illuministici (libertà, uguaglianza, fraternità), culminati nelle rivoluzioni americana e francese di fine ‘700. Ed anche le imprese napoleoniche avevano contribuito all’esaltazione dello spirito di nazionalismo, già presente in molti stati europei sin dal rinascimento, con l’affermazione di dinastie di sovrani riconosciuti a livello nazionale. La caduta di Napoleone e la conseguente restaurazione dei vari dispotismi non riuscirono tuttavia a spegnere gli entusiasmi rivoluzionari rivolti ad ottenere riforme sociali più democratiche,superando la frantumazione in vari staterelli per giungere all’unità nazionale, e contrastando il potere temporale dei papi nello stato pontificio, che agiva da diaframma fra nord e sud creando forti ostacoli all’unificazione.

E’ su questo sfondo storico-sociale che si svolge l’esistenza di Antonietta de Pace (1818-1893), nata a Gallipoli in una famiglia della ricca borghesia cittadina, che assorbì sin dall’infanzia idee liberali e progressiste, unite ad una particolare sensibilità verso le condizioni di malessere dei ceti sociali più poveri. Non sorprende il fatto che attorno a lei già ruotassero varie figure di aderenti a sette sediziose pronti all’insurrezione (il padre, lo zio, il cognato, vari amici intimi). Sappiamo infatti che dietro ogni grande figura di rivoluzionario esiste spesso un marcato ascendente di origine familiare.Ma è probabile che nel determinare l’abito mentale della giovane de Pace abbiano concorso anche motivazioni di natura psicologica, come il fatto di essere cresciuta in una casa di sole donne (era ultima di quattro figlie), in cui la presenza maschile era o delegittimata (un fratello adottivo dal comportamento assai controverso), oppure improvvida (l’avventata attività finanziaria del padre, morto in circostanze dubbie lasciando la famiglia fortemente indebitata). Si tratta di elementi atti a produrre in lei una forte spinta verso l’autoaffermazione, inducendola ad affiancare gli uomini per cospirare, combattere sulle barricate, affrontare con tenacia e spirito indomito l’arresto e la lunga detenzione.

E’ evidente il grande interesse, ed anche l’ammirazione, dell’autore per questo personaggio, sì da poter vedere in questo intenso e sincero afflato partecipativo, più che nell’innegabile ampiezza e organicità dei riferimenti storici, il principale elemento distintivo di questo romanzo rispetto ad altre opere sullo stesso argomento. La protagonista è sempre rappresentata in modo da non venir mai meno al suo ruolo di eroina positiva, determinata e sprezzante del rischio, al punto da essere tenuta in grande considerazione dallo stesso Garibaldi, che oltre ad essere un condottiero era anche abile stratega e conoscitore delle motivazioni che sottendono l’agire umano. Né è di poco conto il fatto che per la sua scarcerazione dopo l’arresto e durante il processo si mobilitasse non solo una parte consistente dell’opinione pubblica nazionale, ma anche le sedi diplomatiche di molti stati europei.

La valenza esemplare attribuibile alla protagonista peraltro è suggerita dall’autore nel titolo del romanzo. Infatti “la donna dei lumi” è un epiteto che racchiudenon solo un riferimento ai lumi della ragione, ma anche alla intensa passionalità che esaltava nella protagonista l’amor patrio, e al tempo stesso connotava il suo universo affettivo e relazionale. Metaforicamente vi è anche un’allusione al bisogno del personaggio di vivere mantenendo costantemente ‘un lume acceso’, ossia avendo sempre un ideale elevato da coltivare. E non è trascurabile che questa “donna di frontiera”, dopo il compimento dell’unità d’Italia, abbia deciso di non vivere di rendita come un qualsiasi politicante, per dedicare le sue energie alla formazione dei giovani nell’ambito dell’organizzazione scolastica.

Una costante nella scrittura di Rino Duma è costituita da una concezione funzionale del prodotto artistico-letterario, una caratteristica che si riscontra non solo nelle sue opere narrative e teatrali ma anche nella sua ampia saggistica. La sua vocazione letteraria risponde essenzialmente ad una “esigenza di didassi”, sia nel senso dell’autoapprendimento (l’autore che mediante la ricerca conosce, riflette, produce) che in quello didascalico (l’invito al lettore a condividere i risultati della ricerca, a tentare di orientarsi, a maturare il suo senso critico). Pertanto il lettore-target a cui può essere destinata un’opera siffatta è preferibilmente rappresentato dai giovani, spesso in cerca di esempi e contenuti motivanti, che possono fornirgli indicazioni sia di metodo (il rigore nel vaglio documentale) che di merito (l’educazione ai valori condivisi).

Dal punto di vista letterario esce confermata anche la tendenza dell’autore verso la drammaturgia, non per nulla i suoi esordi come scrittore sono avvenuti nell’ambito della produzione di opere teatrali. Questo rende conto del fatto che le parti dialogate in questo romanzo, come nei precedenti, siano così frequenti. Oltre a vivacizzare la narrazione dandole carattere di immediatezza, l’interazione dialogica tra i protagonisti agisce da integrazione (ma anche da contrappunto) ai riferimenti di carattere storico. La storia, come in fondo la vita stessa, altro non è che un grande palcoscenico in cui c’è spazio per i protagonisti (Antonietta, i compagni di fede, i familiari), comprimari e caratteristi (figure di spicco come Garibaldi, e così Sigismondo Castromediano, Liborio Romano, ed altri), semplici comparse (amici, servitori, faccendieri, delatori, funzionari pubblici, opportunisti di turno), sino ai personaggi negativi (Ferdinando di Borbone, Michele de Pace, i giudici che infieriscono con pene esemplari sui presunti cospiratori, i comandanti militari sabaudi che fanno strage di popolazioni inermi).

Su questo scenario dolente lo scrittore proietta la percezione di un’Italia politicamente frantumata, e idealmente divisa in molteplici motivazioni contrapposte: neoguelfi sostenitori del papa contro propugnatori dello stato laico, monarchici contro repubblicani, liberali cavouriani contro mazziniani, borghesi contro popolari, ‘piemontesi’ contro terroni meridionali. Soprattutto egli tiene a far emergere con chiarezza (e con rammarico) l’attuazione di una deliberata politica di spoliazione da parte del nord verso il sud dopo il conseguimento dell’unità, con la sottrazione di ampie risorse le cui conseguenze perdurano a tutt’oggi, nonostante il contributo decisivo dato dalle popolazioni del sud sia con l’impiego di mezzi finanziari (interi patrimoni personali estinti per sostenere logisticamente e militarmente la causa insurrezionale) che con l’enorme sacrificio di vite umane.

Al contrario delle parti espositive dell’opera, scrupolosamente attente alla convenzionalità del linguaggio adoperato con gravitas quasi notarile, le parti dialogate riescono certamente più vivaci e accattivanti, in quanto l’autore dimostra notevole inventività e perizia nell’adottare diversi registri linguistici.Lo stile si mantiene costantemente fedele ad un criterio cartesiano di chiarezza e distinzione, che deriva non solo da personale inclinazione ma soprattutto da un’alta considerazione verso il potenziale lettore, che induce l’autore ad evitare qualunque rischio di fraintendimento. Il modulo narrativo adottato è quello del romanzo realista, rivolto da un lato a fornire riferimenti fattuali ed evidenze che li supportano, dall’altro a presentare i personaggi soprattutto “in situazione”, ossia in circostanze di tipo relazionale che ne esplicitano le convinzioni a livello pratico e comportamentale. Si coglie quindi una cura estrema nell’uso dei mezzi espressivi, che ha come obiettivo prevalente la pregnanza concettuale.

Nello sviluppo complessivo dell’itinerario letterario dello scrittore quest’opera rappresenta un punto di arrivo di rilevanza assoluta. L’intervallo di diversi anni tra questo romanzo e le precedenti opere narrative testimonia il suo enorme lavoro di ricerca e maturazione interiore, finalizzato a definire con fermezza le proprie convinzioni e i principi su cui esse poggiano. In sostanza si può affermare che il timone di Rino Duma come scrittore è sempre orientato nella stessa direzione, quella di voler mettere in discussione l’esistente per operare un cambiamento positivo, ma mantenendo ben salda la consapevolezza delle proprie radici. Sotto questo aspetto è lecito vedere in Mauro De Sica, Joe Harrus e Antonietta de Pace (i protagonisti dei suoi tre romanzi) quasi le tre facce di un prisma triangolare, che però nasconde nella base il profilo dello stesso autore. Il che equivale ad identificarli come espressione delle sue aspirazioni ideali, il prodotto di una pulsione identificativa che ha bisogno di caratterizzarsi con connotati apparentemente diversi ma sostanzialmente identici, e che auspicabilmente ha ancora qualcosa di importante da dire.

Riteniamo opportuno aggiungere qualche considerazione conclusiva, che ci viene suggerita dalle mutate condizioni in cui ci troviamo a scrivere. Infatti a distanza di pochi mesi dalla pubblicazione del romanzo la situazione politico-sociale sembra aver subito un profondo sconvolgimento,e non soltanto in Italia ma anche a livello europeo. Se da un lato questo ha consentito al nostro paese di uscire fuori da uno stato di prostrazione e sconcerto morale, dall’altro ha dato consapevolezza di essere sprofondati in una crisi recessiva così grave come non si registrava dal secondo dopoguerra, con conseguenze che imporranno lacrime e sangue per un lungo periodo a venire. Alle difficoltà economiche si sono poi aggiunti anche gli effetti devastanti recentemente prodotti da una intensa attività sismica, insolitamente protrattasi oltre ogni previsione. Alla luce di tali eventi, è possibile riconsiderare anche gli effetti e la portata che la ricerca storiografica può avere nei mutamenti imposti dalla realtà contingente. Siamo convinti che proprio in tempi problematici come questi occorra ritrovare le giuste motivazioni che possono dare speranza di rilancio, riscoprendo i valori fondanti del vivere sociale, che sono lo spirito di sacrificio, il senso di solidarietà, e soprattutto la capacità di adattamento necessaria a fronteggiare l’emergenza. Ma se proviamo a confrontare le difficoltà presenti con le enormi traversie che la memoria storica può trasmetterci, forse potremo anche recuperare un po’ dell’entusiasmo e dello spirito fattivo che ha contraddistinto chi in passato si è adoperato per porre in essere una patria comune.

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Santa Maria al Bagno e gli ebrei, tra 1944 e 1945

di Paolo Pisacane

Santa Maria al Bagno, frazione di Nardò, non è un grosso centro: d’inverno vi sono soltanto poche famiglie, ma d’estate è un rinomato luogo di villeggiatura.

Nauna al tempo dei Messapi; Portus Nauna per i Romani; abbazia di Sancta Maria de Balneo per i Basiliani, i Benedettini ed i Cavalieri Teutonici. E’ rinata nella seconda metà del 1800.

La spiaggia, anche se piccola, è ben riparata dai venti, specialmente dalla tramontana, mentre caldo è il clima dall’inizio della primavera ad autunno inoltrato. Non a caso i Romani circa duemila anni fa l’avevano scelta per costruirci le loro terme.

automezzi fermi nella piazza di Santa Maria al Bagno all’epoca dei fatti narrati

Il mare, di una trasparenza particolare, visto dalla collinetta denominata Croce, è di una bellezza quasi irreale con tutti i suoi colori che, a seconda del tempo o dei fondali, abbracciano tutte le sfumature dell’azzurro dal più scuro al più chiaro, per non parlare, poi, del colore purpureo che acquista, quando il sole è basso all’orizzonte.

Non è però solo la parte del mare visibile dall’esterno che è così meravigliosamente bello da guardare, ma, per chi ha la fortuna di poterne esplorare i fondali, resta abbagliato dai fantastici colori e dalle moltissime specie di pesci dalle forme più varie e più cromatiche. In questo scorcio meraviglioso la vita scorreva molto tranquilla, soprattutto a partire dagli inizi del ‘900… poi una notte, subito dopo le festività natalizie del 1943, arrivarono i profughi slavi e, dalla mattina dopo, tutto cambiò.

veduta d’epoca di Santa Maria

Tale territorio era stato scelto per ospitare un campo di accoglienza, in quanto vi erano molte abitazioni di villeggiatura e, quindi, non indispensabili per il domicilio dei proprietari. Moltissimi Slavi furono portati nella notte non solo a Santa Maria al Bagno, ma anche a Santa Caterina e alle Cenate, altre due amene località nel territorio di Nardò, mentre si andava definendo l’iter delle requisizioni delle abitazioni.

Scendevano dai camion ed occupavano le abitazioni, molte volte sfondando le porte e trovandovi, in qualche occasione, gli stessi proprietari. Il rumore dei camion, che andavano e venivano, e il vociare della gente non fecero dormire nessuno quella notte rimasta indelebile nella mente di chi la visse.

gruppi di Ebrei all’ospedale alle Cenate

La vita per la gente di Santa Maria al Bagno cambiò subito: si stava meno in giro e i ragazzi non giocavano più in strada. Per la verità, non tutti erano ostili e alcuni di loro, specialmente chi conosceva un po’ di italiano, cercavano di socializzare con i residenti.

Di solito mangiavano cibi in scatola, che venivano loro dati dall’UNRRA, ma qualche volta mangiavano alla mensa che era stata ubicata nella villa Leuzzi, in piazza, dove dagli addetti alle cucine, quasi tutti di Santa Maria al Bagno, venivano preparati i pasti.

gruppo di ebrei in gita a Gallipoli

Poi, pian piano, dopo qualche mese incominciarono ad andare via; ne rimasero solo poche centinaia, quasi tutti Ebrei. Con loro rimasero tutti i soldati. Dopo pochi giorni, riprese il via vai di camion e automezzi vari, che trasportavano profughi, questa volta tutti ebrei. Il campo era aperto, cioè non aveva alcuna delimitazione e si estendeva da Santa Maria al Bagno a Santa Caterina e da queste, nell’entroterra, fino alle Cenate lungo l’asse della strada tarantina.

Era stato organizzato bene, ed i profughi, appena arrivati, venivano presi in consegna dai soldati inglesi, comandati da mister Herman, che era l’assistente di mister J.Bond comandante del Campo. Messi in fila, erano accompagnati da Paolino Pisacane, abitante del luogo, nominato “mayor” dal comando alleato, alle case messe loro a disposizione.

I nuovi arrivati sembravano molto diversi dai precedenti: nella maggior parte erano molto taciturni e tristi e spesso pensierosi e soli camminavano con gli occhi bassi. E non si riusciva ad immaginare il perché. Lo si sarebbe scoperto solo successivamente attraverso i loro racconti. Altra cosa che meraviglia molto era lo scarso numero di bambini e la quasi totale mancanza di vecchi e di famiglie complete. A Santa Maria al Bagno, ormai, c’era tanta gente come in estate.

C’erano molti soldati inglesi e americani, ma anche di altre nazionalità. Tutto funzionava come in una città e molti artigiani, anche dei paesi vicini, specialmente da Nardò, lavoravano nel Campo, come meccanici, falegnami, elettricisti, sarte, calzolai e muratori.

Ai profughi non mancava certo da mangiare. Gli inglesi, deputati alla gestione del campo, tramite gli aiuti americani, non facevano mancare loro la carne in scatola, il pane bianco, il cioccolato, il  formaggio, il latte in polvere, e tutte le altre cose che la gente del luogo, qualche mese prima, poteva solo sognare. Anche i residenti beneficiarono di tanto bene di Dio, che veniva barattato con arance e limoni, di cui gli ebrei andavano alla ricerca.

Già alla fine del 1944, passato il periodo di diffidenza verso i nuovi venuti, tutti si erano resi conto che gli ebrei erano brave persone, tanto che dalla diffidenza si passò all’amicizia, specialmente tra i giovani, vincendo anche la difficoltà delle diverse lingue.

Continuamente sopraggiungevano profughi in un frequente avvicendarsi in base alle scelte di trasferimenti che gli stessi decidevano, in gran parte soddisfatte.

Nel Campo tutto scorreva tranquillo, quando, il 14 dicembre del 1944, si verificò un fatto grave. Qualche notte prima erano state rubate da un deposito dell’UNRRA alcune centinaia di coperte. Il responsabile del magazzino addossò la colpa agli abitanti di Santa Maria al Bagno per cui si pervenne alla decisione di far abbandonare il Campo a tutti gli italiani, compresi i residenti.

Questi ultimi fra sconforto e sgomento cominciarono a protestare finchè non intervennero il sindaco Roberto Vallone e il vescovo Gennaro Fenizia presso il comandante affinché non si desse attuazione alla determinazione.

Intanto era stato predisposto l’elenco delle famiglie che dovevano sloggiare dal Campo: erano 146 per un totale di 733 persone. Era un brutto Natale quello che stava per arrivare!

I capifamiglia si incontrarono di nascosto e decisero di non accettare l’ordine di abbandonare le proprie abitazioni. Infatti scesero in piazza e davanti alla sede del comando alleato protestarono. Il comandante, anche dopo aver sentito le ragioni dei dimostranti, non mutò la sua decisione, anzi fece schierare i soldati con le armi puntate. Ci furono pure degli spari in aria per disperdere la gente. Tuttavia la protesta non cessò.

Finalmente il 29 dicembre, quando ormai si disperava di trovare una soluzione, dopo un incontro tenutosi in Santa Maria al Bagno tra il comandantela Sub-Section N° 1 dell’A.C. Lt. Col. Oldfield, il capitano Fox ed il prefetto, sentito anche il vescovo che intanto aveva informato della situazionela Santa Sede, si comunicò al sindaco di Nardò che le famiglie stabilmente residenti potevano restare. Le altre, che occupavano le case solo per non farle requisire, dovevano andar via, anche perché continuamente giungevano profughi, soprattutto a partire dalla primavera del1945 a seguito della liberazione dai campi di sterminio e, in genere, della fine della guerra. Sul piano umano fu importante non allontanare i residenti, non solo perché non si impose loro la rinunzia alla propria abitazione, ma soprattutto perché questi poterono offrire concretamente solidarietà, tolleranza e collaborazione, facendo scoprire agli ebrei, da anni perseguitati e resi al disotto degli animali da braccare e uccidere, il senso della vita, il rispetto della dignità, la serenità della tolleranza e il gusto della libertà.

I nuovi venuti erano tutti Ebrei di nazionalità polacca, in prevalenza, ma anche greca, albanese, austriaca, macedone, rumena, russa, tedesca, slava e ungherese. Questi avevano anche un proprio corpo di polizia, composto da una quindicina di persone e comandato da un certo Elia, un ebreo di origine greca, molto bravo ed in ottimi rapporti con i residenti.

Nel Campo, la cui punta massima di ospiti fu di oltre 4 mila unità, vi era quanto necessario per   ricordare ai profughi la propria religione e le proprie tradizioni, tra cui la sinagoga, allocata in un locale dell’attuale piazza Nardò, la mensa,  il centro di preghiera per bambini e orfani, il kibbutz “Elia” nella vecchia masseria in località Mondonuovo e, infine, il municipio nella villa Personè (ora villa De Benedittis).

Erano assicurati tutti i complessi servizi necessari alla vita di una comunità  di tali dimensioni, tra i quali l’ospedale e il servizio postale. I ragazzi più piccoli frequentavano la scuola in Santa Maria al Bagno, mentre i più grandi il ginnasio e il liceo a Nardò.

I ragazzi italiani familiarizzavano sempre più con i ragazzi e le ragazze ebree. Erano sempre presenti in tutte le feste, specialmente quando si ballava o c’era la possibilità di assaggiare i saporitissimi ed abbondanti dolci che venivano preparati.

La loro cucina, molto diversa da quella dei locali, incuriosiva non poco quest’ultimi che si meravigliavamo nel veder preparare le polpette con la polpa di pesce cotta nel brodo zuccherato, sempre di pesce; oppure bagnare il pane nel latte preparato con il latte in polvere per essere passato nella farina e, dopo averlo zuccherato, essere usato per colazione con il thè. I dolci erano la loro specialità! Ne facevano di tutti i tipi, forme e sapori.

Durante la loro permanenza si celebrarono, e non solo all’interno della loro comunità, circa 400 matrimoni, uno dei quali tra una ragazza del luogo Giulia My e Zivi Miller, autore dei tre murales, che era scampato, con una fuga rocambolesca durante un trasferimento, dal campo di  concentramento dove aveva perduto la moglie e il figlio.

Nelle ville delle Cenate alloggiarono gli ufficiali inglesi, delegati a gestire il Campo. Nella villa “Ave Mare”, sulla strada per Santa Caterina aveva sede l’alloggio e la mensa delle Crocerossine, e a Villa Tafuri, nelle vicinanze del parco di Portoselvaggio, il club Ufficiali della RAF. In questa villa venivano spesso organizzate feste da ballo, dove si poteva anche mangiare e bere a volontà.

Anche i giovani italiani frequentavano le feste con le loro amiche ed amici ebrei. Non mancarono gli spazi per il divertimento: campo di calcio presso l’Aspide (tra Santa Maria al Bagno e Santa Caterina), spettacoli e feste da ballo presso il circolo delle “Due Marine” a S. Maria al Bagno.

Durante una festa presso Villa Tafuri giovani ebrei dimostrarono tutta la loro amicizia ai coetanei italiani. I soldati inglesi, forse ingelositi perché le ragazze preferivano stare con i giovani italiani, decisero di mandarli via, ma dovettero recedere subito dalla loro decisione non appena si accorsero che anche le ragazze e i ragazzi ebrei in segno di solidarietà stavano  abbandonando la festa.

Gli Ebrei si trovavano bene, ma sapevano anche che un giorno sarebbero andati via: chi in America, chi sarebbe rimasto in Europa e forse in Italia, chi in Australia e chi ancora in Sud America. La meta preferita era però la loro “Terra Promessa”, dove era nato ed era vissuto per millenni il loro popolo. Sapevano, però, che questo non era facile per l’ostruzionismo degli inglesi, filoarabi, sui cui territori avevano il  protettorato.

Contro la posizione inglese, in campo internazionale, era molto attiva la società segreta Betar (B: Brit, patto + Trumpeldor, eroe ebreo), nazionalista, cui aderivano molti giovani, così come alcuni presenti nel Campo.

Pertanto non mancarono aspetti politici né giovani che poi sarebbero stati personaggi importanti per lo stato d’Israele, come Dov Shilanski, deputato al Parlamento d’Israele (Knesset) dal 1977 al 1996, di cui fu Presidente dal 1988 al 1992.

Stando ai ricordi dei residenti del posto, ma per adesso non ancora supportati da alcun documento, furono presenti anche personaggi di rilievo per il futuro Stato d’Israele, come David Ben Gurion,  all’epoca P r e s i d e n t e del l ‘Organizzazione ebraica mondiale e nel 1948 guida politica per la proclamazione dello stato d’Israele, di cui sarà il primo presidente, e Golda Meir, che sarà per molti anni Primo Ministro ed importante punto di riferimento per il suo paese.

Testimonianza dell’attività politica è rappresentata da tre murales, realizzati in altrettanti muri in una casetta, al tempo adibita a deposito. Nel 1947 il campo fu chiuso. Molti ebrei lasciarono con dispiacere i loro amici italiani. Si scambiarono gli indirizzi e si promisero a vicenda che si sarebbero tenuti sempre in contatto.

Successe per un po’ di anni, ma poi i contatti finirono anche se nel cuore rimase sempre il ricordo del tempo passato assieme.

E poi erano e sono lì i murales, anche se anch’essi, lentamente si stanno consumando.

Il murales centrale racconta la storia degli Ebrei, liberati dai campi di concentramento, raffigurati nel disegno dal filo spinato al centro dell’Europa, fino all’arrivo a Santa Maria al Bagno, nel Sud dell’Italia, dove l’identico teorema lunghissimo di persone riprende gioiosamente il cammino versola Terra Promessa, raffigurata dalla stella di David e dalle palme del deserto (le scritte: diaspora, sx, e Terra d’Israele, dx).

Il murales di sinistra evidenzia la religiosità del popolo ebraico, raffigurando il candelabro a sette braccia, posato su un altare con due soldati ebrei ai lati (le scritte: In guardia, sotto, e, ai lati della stella, Tel-Hai, dove fu ucciso il patriota Trumpeldor.

Il murales di destra presenta una madre con due bambini, che, al di qua di un posto di blocco, chiede ad un soldato inglese di poter entrare in Gerusalemme, ma invano: gli Inglesi osteggiavano la costituzione dello Stato di Israele (le scritte: Aprite le porte, tra la donna e il soldato, e Tel-Hai sulle bandiere).

Libri/ Gertrude e Samuel Goetz, sopravvissuti alla Shoah

di Paolo Vincenti

Una drammatica testimonianza di vita vissuta. In due toccanti memoriali,  In segno di gratitudine e Senza Volto , i coniugi Gertrude e Samuel  Goetz ricostruiscono la propria straordinaria esperienza di sopravvissuti alla Shoah. I Goetz, reduci da una delle pagine più dolorose e terrificanti della storia del Novecento, sono stati protagonisti di una serata,  organizzata lo scorso anno dall’Associazione  “Emergenze sud-Presidio del libro di Parabita”, in collaborazione con la Pro Loco di Ruffano e l’Associazione “Soap” di Ruffano, presso il Teatro di Via Paisiello a Ruffano.

Samuel e Gertrude Goetz,  intellettuali  ebrei di origine polacca e austriaca, che oggi vivono negli Stati Uniti, hanno intrecciato il proprio destino con quello  della guerra e della segregazione razziale  e la fuga dall’abominio e dalla repressione di un  regime spietato e violento li ha portati  in Italia dove, durante gli anni della seconda guerra mondiale, si rifugiarono  per scampare alla persecuzione nazista.

Fu proprio il campo rifugiati di Santa Maria al Bagno, Nardò, ad accoglierli.  Qui, i due perseguitati si conobbero e qui nacque il loro amore, prima di essere  separati dalle vicende belliche e ritrovarsi poi nuovamente in America dove si trovano tuttora,  a Los Angeles, California, alla soglia degli ottant’anni, dopo una vita lunga  e intensa ma piena di soddisfazioni. Samuel e Gertrude Goetz sono tornati in Italia per un ciclo di conferenze organizzate dall’Associazione Presidi del Libro e da Besa Editore.  E  Ruffano ha avuto l’onore di ospitarli la sera del 23 aprile, quando i due autori sono stati intervistati da Sonia Cataldo, responsabile del  Presidio del Libro Parabita,  Paolo Vincenti, Presidente Pro Loco Ruffano e Elena Pistone dell’Associazione Soap Ruffano,  per un’iniziativa  promossa dalla Regione Puglia e dall’Associazione Presidi del Libro e  patrocinata dal Comune di Ruffano.

Il primo memoriale è quello di Gertrude Goetz,  “In segno di gratitudine” (Besa Editore), nel quale l’autrice ripercorre la propria dolorosa esperienza di profuga ebrea negli anni della Seconda Guerra Mondiale. Dall’Austria, il paese di origine, che la aveva vista bambina felice e adolescente spensierata, all’Italia dove, insieme alla propria famiglia, compie un viaggio che dal Brennero la porta in Salento, nel campo profughi di Santa Maria al Bagno- Nardò dove, scrive l’autrice nella Prefazione “ all’età di dodici anni, compresi per la prima volta il significato di libertà, sicurezza e di conforto amichevole. Fu lì che io e i miei genitori ci rendemmo conto di non essere più in pericolo, di essere sopravvissuti e di aver riconquistato il diritto di vivere.. . In piedi su un’altura, vidi un paesaggio paradisiaco, una distesa di acqua di mare calma, di colore blu intenso e, sulla riva, un paesino pittoresco, Santa Maria. Fui letteralmente sopraffatta da un senso di rinnovata gioia di vivere e di speranza in un futuro migliore.” Qui, Gertrude conosce anche Samuel,  l’amore della sua vita, prima di partire per gli Stati Uniti, ossia per il viaggio definitivo,  in un paese dove, però, ritrova il suo amato compagno dal quale non si separerà più per tutta la vita. “Santa Maria rappresenta anche il periodo della ripresa degli studi. Iscritta al Liceo di Nardò, vi fui accolta con calore”, scrive ancora Gertrude. “Eravamo sopravvissuti, avevamo un tetto, eravamo provvisti di tutto il necessario e avevamo trovato la calda ospitalità della piccola comunità di Santa Maria. Sulla sua spiaggia conobbi molti italiani e feci amicizia con un giovane più grande di me di tre anni che ancora oggi, a distanza di cinquantacinque anni, è il mio compagno di vita. Ho serbato per me il ricordo dei giorni trascorsi a Santa Maria e l’ho condiviso con i figli e con i miei numerosi nipoti che non vedono l’ora di visitare Santa Maria e ammirare con i loro occhi quel che hanno ascoltato dalle mie parole”. Il libro reca una Prefazione di Fabrizio Lelli e una Postfazione di Paolo Pisacane, presidente Associazione Pro Murales Ebraici Santa Maria al Bagno. E proprio la madre e la zia di Pisacane compaiono, insieme a Gertrude, nella bella foto in bianco e nero che campeggia sulla copertina del libro; una foto che ritrae tre belle ragazze sedute sugli scogli di Santa Maria al bagno con, alle spalle, il nostro inconfondibile Mare Ionio salentino. Nel 1949, Gertrude venne ammessa negli  Stati Uniti d’America e si stabilì a Los Angeles- California,  dove ha conseguito diverse lauree e ha lavorato come bibliotecaria e insegnante in un liceo. Ora è in pensione ma ancora molto attiva sul fronte della promozione culturale e  della memoria storica, come il suo soggiorno di questi giorni in Salento conferma.

“Senza volto “ (Besa Editore) è invece il titolo del libro di Samuel Goetz, ebreo di origine polacca che a differenza della moglie ha vissuto in prima persona l’esperienza di internato in un campo di concentramento nazista, ad Ebensee (Austria) e  a Cracovia.  Nel  suo memoriale  ricostruisce con una lucida analisi gli anni di quel cammino di dolore e poi, capitolo dopo capitolo, tutte le peripezie di un’avventura umana davvero incredibile ma, per un inspiegabile disegno del destino, dal lieto fine; ed è proprio la sua sopravvivenza che lo ha fatto, e lo fa ancora, un privilegiato, una persona diversa, per qualche oscuro disegno del destino, da tante altre come lui che hanno invece trovato la morte nei lager . Dopo la narrazione degli anni bui, di deportato e profugo in Italia, Samuel ricostruisce, nell’ultima parte del libro, gli anni della ritrovata serenità, della nuova vita in America, dove è stato professore alla UCLA, l’Università di Los Angeles, città in cui egli ha vissuto e vive tuttora insieme alla sua numerosa famiglia.

L’autore dice di essersi interrogato spesso sull’utilità di scrivere un libro su quella drammatica esperienza, ferita aperta nel cuore dell’Europa del Novecento, abominio inenarrabile,  che egli stesso definisce  “un tradimento della storia”. Ma gli accadimenti politici degli anni Ottanta e Novanta con quelle ondate di revisionismo storico in cui “pseudo scienziati”, come li definisce Sam , cercavano di negare l’evidenza storica dell’Olocausto e dei campi di sterminio, lo hanno convinto a mettere nero su bianco la propria esperienza,  a futura memoria. La rabbia, la frustrazione, il bisogno di reagire ai negazionisti, unite al desiderio di raccontare ai propri figli ed ai propri nipoti quello che era successo, lo hanno portato a farsi attivista in questa nobile causa di salvaguardia della memoria storica. Ed è proprio la testimonianza diretta dei protagonisti di quegli anni, come Sam e Gertri Goetz , che aiuta anche noi a non dimenticare l’Olocausto, a non dimenticare a quali degenerazioni può arrivare la bestia umana quando è assetata di sangue. E un incontro così emozionante come quello che si è svolto a Ruffano aiuta anche una piccola comunità del nostro Salento a capire che non è solo un mese della memoria che ci  può far riflettere su quello che è stato e su quello che ancora è  la nostra storia.

 

LÀURI, SCIACUDDHI & MUNACIELLI

munaceddhu4
il folletto salentino, visto da Daniele Bianco

LÀURI, SCIACUDDHI & MUNACIELLI

Viaggio nella letteratura d’autore

alla scoperta del mondo fantastico delle leggende del Sud,

tra gnomi, folletti e altre meraviglie

di Antonio Mele ‘Melanton’

 

Di Làuri e Sciacuddhi o Laurieddhi, Monaceddhi, Scazzamurrieddhi, Tiaulicchi, Carcagnuli, Uri e simili, come nelle diverse geografie di Terra d’Otranto vengono chiamati gli gnomi e i folletti che abitano le nostre case (spesso maliziosi, dispettosi e burloni, ma sostanzialmente simpatici e benigni) – questa rivista si è già interessata con un bell’articolo a firma di Rino Duma (vedi n. 1 del 2008), ricco peraltro di preziosi elementi storico-antropologici.

Avendo scorso di recente la storia singolare del ‘cugino’ napoletano di questi piccoli amici, e cioè il famoso (o famigerato) Munaciello, mi piace ritornare sull’argomento, fornendo, con questa ed altre fascinose testimonianze d’autore, un contributo essenzialmente ‘letterario’, che riguarda da vicino l’universo, sempre fecondo di suggestioni, delle leggende popolari del nostro Sud.

Questo viaggio speciale nella letteratura parte appunto da Napoli e da Matilde Serao (1856-1927), che a proposito delle origini de ’o Munaciello scrive: «Nell’anno 1445, regnando Alfonso d’Aragona, una fanciulla a nome Caterina Frezza, figlia di un mercante di panni, si innamorò di un garzone di bottega, Stefano Mariconda. E com’è usanza d’amore, il garzone la ricambiò di grandissimo affetto, e di rado fu vista coppia d’amanti egualmente innamorata e fedele. E ciò non senza molto loro cordoglio, poiché per la disparità delle nascite che proibiva loro il nodo coniugale, grande guerra ferveva in casa Frezza contro Stefano. Fu così che in una notte profonda, mani traditrici afferrarono Stefano alle spalle, e dalla ferriata lo precipitarono a sfracellarsi nella via, mentre Catarinella gridando e torcendosi le braccia, s’aggrappava ai panni degli assassini.

[…] La Catarinella fuggì di casa, pazza di dolore, e fu piamente ricoverata in un monastero di monache dov’ella dette prematuramente alla luce un bimbo piccino piccino, pallido e dagli occhi sgomentati. Le suore la consigliarono di votarsi alla Madonna perché al piccolo desse una fiorente salute; ed ella votossi e vestì il bimbo d’un abito nero e bianco da piccolo monaco. Ma altro aveva disposto il Signore, e la Catarinella non s’ebbe la grazia: il figliuoletto suo, negli anni, non crebbe che pochissimo, e fu simile a quei graziosi nani di cui si allietano molte corti di sovrani potenti. Ma ella continuò a fargli indossare il saio da piccolo monaco; ond’è che la gente, in suo volgare, chiamava il bambino: ‘o Munaciello.

Le monache lo amavano, ma i bottegai, e i paesani, e la gente della via si mostravano a dito quel bambino troppo piccolo, con la testa troppo grande e quasi mostruosa, e talvolta lo ingiuriavano, come fa spesso la plebe contro persona debole ed inerme. […] Ad incontrarlo, la gente si segnava e mormorava parole di scongiuro. Quando ‘o Munaciello portava il cappuccetto rosso che la madre gli aveva tagliato in un pezzetto di lana porpora, allora era buon augurio; ma quando il cappuccetto era nero, allora era cattivo augurio. E siccome il cappuccio rosso compariva assai raramente, ‘o Munaciello era bestemmiato e maledetto. Era lui che attirava l’aria mefitica nei quartieri bassi, che vi portava la febbre e la malsania; lui che faceva imputridire l’acqua nei pozzi, lui che portava la mala fortuna…

[…] Finché una sera ‘o Munaciello scomparve. Non mancò chi disse che il diavolo lo avesse portato via pei capelli, come è solito per ogni anima a lui venduta. Dove è stato vivo, ora s’aggira come spirito; dove è apparso il suo corpo piccino, lì ricompare nella medesima parvenza. Dove lo hanno fatto soffrire, là egli ritorna, malizioso e maligno, nel desiderio di una lunga e insaziabile vendetta. Di tutto è capace il Munaciello, che nella sua strana mescolanza di bene e di male, di cattiveria e di bontà, è rispettato, temuto ed amato…».

Questa la ‘triste istoria’ del Munaciello napoletano. Il quale, oltre ad avere un posto di riguardo nella smorfia e cabala del lotto (al numero 37), da molti secoli è personaggio di fortissima influenza nel vivere quotidiano del popolo partenopeo, tanto che nel Pragmatica de locato et conducto (la raccolta delleleggi e consuetudini che dal 1588 regolavano gli affitti delle case in tutta Napoli), una precisa norma, tradotta qui in italiano corrente, evidenziava che: “…qualora il locatario abbia a subire nella propria abitazione visibili turbamenti dagli spiritelli maligni volgarmente denominati ‘Munacielli’, gli è permesso di abbandonare la dimora affittata senza pagare alcuna pigione”. Incredibile, se non fossimo a Napoli!

il folletto salentino, visto da Daniele Bianco
il folletto salentino, visto da Daniele Bianco

Molto simili nel nome al folletto napoletano, ma vicinissimi nella sostanza agli Sciacuddhi salentini, sono i Monachicchi della Basilicata, dei quali si è interessato nientemeno che il più ‘meridionale’ degli scrittori del Nord, Carlo Levi (1902-1975), il cui nome è fatalmente legato al suo mitico Cristo si è fermato a Eboli, capolavoro letterario e sentimentale che più e meglio d’ogni altro rende ‘nudo e crudo’ il senso della cultura e della civiltà dimenticate del nostro Mezzogiorno (e particolarmente della disperante realtà lucana negli anni ‘30 del secolo scorso, da Levi direttamente conosciuta durante il confino patito per il suo ardimentoso antifascismo). Così egli descrive i Monachicchi di Grassano: “…sono esseri piccolissimi, allegri, aerei, corrono veloci qua e là, e il loro maggior piacere è di procurare ai cristiani ogni sorta di dispetti. Fanno il solleticosotto i piedi agli uomini addormentati, tirano via le lenzuola dei letti, buttano sabbia negli occhi, rovesciano bicchieri pieni di vino, si nascondono nelle correnti d’aria e fanno volare le carte, e cadere i panni stesi in modo che si insudicino, tolgono le sedie di sotto alle donne sedute, nascondono gli oggetti nei luoghi più impensati, fanno cagliare il latte, danno pizzicotti, tirano i capelli, ronzano e pungono come zanzare, e di notte prendono di mira le code e le criniere dei cavalli, che amano intrecciare inestricabilmente”.

Ritornando allo Sciacuddhi di casa nostra, parimenti gradevole è la minuziosa descrizione che ci offre al riguardo l’illustre studioso Sigismondo Castromediano (1811-1895): “…Irritante ed irritabile, danneggia e benefica, secondo capriccio. È il dio Lare di quei tuguri che sceglie a dimora, e dei quali suole impossessarsi scendendo dai tubi fumaioli d’un camino. […] Le cento e più volte l’ho sentito dipingerlo basso, anzi piccin piccino, gobbetto, peloso di tutta la persona, ma d’un pelo morbido e raso. Copregli il capo un piccolo cappelletto a cono e indossa una corta tunica affibbiata alla cintola.

[…] Bazzica volentieri nelle stalle, dove ospitatosi una volta difficilmente ne esce: ed anzi, tosto s’innamora della cavalla o dell’asina che meglio gli garba, e l’assiste e carezza di preferenza, nutrendola della biada sottratta alle compagne, o altrove rubata… e gode inoltre l’alto onore d’essere da lui stesso strigliata, lisciato il pelo ed intrecciati graziosamente i crini del collo e della testa.Di giorno non appare giammai, esercitando di notte le sue trappolerie… Eccolo infatti a metter sossopra masserizie ed annessi, a sparecchiar gomitoli e tele del telaio o a svegliar le persone, rompendo piatti, bottiglie, bicchieri.Guai se è in collera col suo ospite. Se questi dorme i suoi sogni dorati, allora improvviso gli cavalca il petto e glielo calca fino a fargli perdere il respiro”.

Un diavoletto pestifero, insomma! Che ne combina una dietro l’altra…

Ma non è sempre così. A me (nonostante di dispetti me n’abbia fatti d’ogni sorta, e ancora non la smette…), confesso che fa quasi tenerezza. In fin dei conti, può ben considerarsi un giocherellone. Quel che si dice una simpatica canaglia. Chissà che prima o poi non ricambi la simpatia che ho per lui facendomi trovare l’Acchiatura – mitico tesoro di cui dalle nostre parti ancora si favoleggia – o basterebbe che porti bene e mi conservi in allegria.

A tale proposito, va appunto considerato che gli Sciacuddhi si affezionano non tanto alla casa, ma alla famiglia e alla gente che la abita. Per cui, se avviene un trasloco, è sicuro che traslocano anche loro. Mia nonna Anna mi raccontava sempre divertita che un certo Cosimo Sasà e la di lei moglie Concetta, contadini di un paese del Capo, spazientiti dello Sciacuddhi che gliene combinava di tutti i colori, pur di toglierselo dai piedi, avevano deciso di cambiar casa. Caricarono quindi le masserizie su un carretto a mano e si avviarono di buon passo verso la nuova abitazione. Durante il tragitto, la moglie si accorse che aveva scordato di prendere la scopa, che gli sarebbe stata indispensabile per le pulizie: “Nah, Cosiminu – esclamò verso il marito – La scupa mi rescurdai!”. “…Nu te preoccupare! – le fece eco una vocina da dietro – L’aggiu pigghiata ieu!”. Era, manco a dirlo, il loro ineffabile e fedele Sciacuddhi, che li seguiva placido con la scopa sulle spalle…

Al perenne conflitto tra gli Sciacuddhi e le donne di casa rende sorridente testimonianza questa bella filastrocca, raccolta nella Grecìa Salentina: Cu la còppula scattusa / zzumpa ssu lla panza cu tte ncusa. / Uru, Uru malitettu, / a ddhù hai scusu lu scarfaliettu /cu li ori te la sciara? / Nu nc’è cceddhi cu te para…? / Ma se te rrubbu lu scursettu / me l’hai dare lu scarfaliettu!(Col berretto sgargiante / salta sulla pancia per accusarti. / Uru, Uru maledetto, / dove hai nascosto lo scaldaletto / con gli ori della strega? / Non c’è nessuno che possa competere con te – che t’insegni l’educazione? / Ma se ti rubo il berretto / devi darmelo lo scaldaletto!).

E va infine aggiunto, per chi non lo sapesse, che lo Sciacuddhi fu celebrato, nel 1954, perfino dal grande Domenico Modugno (1928-1994) in una delle sue prime incisioni discografiche, intitolata Lu Scarcagnulu, com’è appunto chiamato il prode folletto in tutto il Brindisino.

Nativo di Polignano a Mare, il grande Mimmo (destinato a diventare ben presto famoso in tutto il mondo come Mister “Volare”), visse infatti la propria giovinezza a San Pietro Vernotico, e le sue iniziali produzioni musicali – da Ventu de scirocco a La donna riccia, Lu pisce spada, Sirinata a na dispettusa e altre – ispirate in gran parte ai vecchi “cunti” delle nostre contrade, furono create quasi tutte in dialetto salentino, all’epoca erroneamente scambiato (o forse volutamente strumentalizzato) per siciliano.

Onore quindi a Làuri e Sciacuddhi. Saranno (forse) creature del mondo della fantasia, ma senza fantasia che mondo sarebbe?

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Sull’argomento si veda anche:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/02/27/fatti-e-misfatti-dello-spiritello-domestico-salentino/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/02/23/i-dispetti-del-folletto-domestico-salentino/

 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/07/10/spauracchi-di-ieri-e-di-oggi/

 

 

 

DELL’INNOMINATO, DELL’ODIO ED ALTRO

L’articolo che segue (mai pubblicato) era destinato al periodico cittadino La Gazzetta Falisca (del quale ero redattore) in vista delle elezioni politiche del 2006. Non è comparso per decisione del direttore: censura? Ho ritenuto così di dare le dimissioni dalla redazione e non ci misi più piede. Il mio non era un intervento politico, ma illustrava come con l’avvento del berlusconismo fosse cambiata la natura culturale degli italiani. Ripropongo l’articolo dal momento che dopo 7 anni le cose non è che siano cambiate. Ho ritenuto di non dar nome al personaggio in questione, giacché per me quel nome è divenuto infausto. Giudicate voi.

 

DELL’INNOMINATO, DELL’ODIO ED ALTRO

di Alfredo Romano

Nel 1994, un solo uomo, che aveva 7 mila miliardi di debiti, fondò un partito, si presentò alle elezioni e divenne primo ministro. Oggi, quell’uomo, sempre primo ministro, non solo non ha più debiti, ma è diventato l’uomo più ricco d’Italia per via che le sue aziende, pur in tempi di crisi, sono le uniche che hanno realizzato profitti. Dovrebbe essere contento questo solo uomo, e invece no, si lamenta sempre.

Il solo uomo, che è padrone di televisioni private e controlla quelle pubbliche, padrone di giornali, banche, assicurazioni, case editrici, cinema, eccetera, da anni non fa che lanciare strali contro i giornalisti, i magistrati, gli intellettuali. Ma adesso è andato oltre: ha consigliato agli esponenti di sinistra di andare a fare i commercianti, o i farmacisti, o i pittori o, udite udite, i bibliotecari (proprio così).

Altre categorie sono avvisate, ce ne sarà anche per loro, basta aspettare. Sono un bibliotecario, scusatemi, e dovrei sentirmi offeso, dovrei difendermi con un lungo articolo sulle biblioteche scrivendo che sono un luogo di trasmissione libera della conoscenza e di crescita culturale (lo dice l’Unesco) e via dicendo, ma non ne ho bisogno. Per farlo dovrei pensare a un avversario politico normale, ma così non è: siamo di fronte all’uomo più odiato dagli italiani, sia da quelli di sinistra, che vedono in lui un dittatorello da quattro soldi, ma pericolosissimo, sia da quelli di destra che, se per un verso hanno bisogno dei suoi soldi e della sua potenza mediatica per avere visibilità politica, per l’altro lo disprezzano perché è il loro padre padrone. Mi ricordo dei vecchi democristiani. Li abbiamo contestati, sì, ma mai odiati, perlomeno avevano il senso delle istituzioni.

L’odio collettivo è qualcosa che si riserva a un dittatore, a un despota. E ce ne sono nel mondo. In Italia abbiamo la democrazia, ma… guarda guarda… l’odio collettivo è attecchito anche qui, non vi sembra strano? C’è un solo caso nella storia in cui l’odio collettivo è esploso per tutt’altra ragione. È successo negli anni in cui in America esplose il mito di Rodolfo Valentino, e le donne americane, tutte le donne, impazzivano per lui. Così, tutti gli uomini, dico tutti, presero a odiarlo: e non gli si poteva dare torto. Un solo uomo, in Italia, da 12 anni sta rubando l’anima e la fantasia degli italiani.

Gli italiani si stanno snaturando, forse sono mutati per sempre. Agli occhi degli stranieri poi, la cosa è davvero incomprensibile: come è possibile che gli italiani, così solari, fantasiosi, artisti, intraprendenti, pieni di tanta umanità, si siano lasciati abbindolare da un solo uomo che si è rilevato un incolto, un sospettato di collusione con la mafia, un corruttore di partiti, finanzieri, magistrati, avvocati, uno che ha fatto entrare in parlamento il suo collegio di difesa, un bugiardo che ha negato di essere iscritto alla loggia P2 (soppressa per attività sovversive) e perciò condannato per falsa testimonianza, uno scampato ad altre condanne per prescrizione dei reati e per leggi fatte solo per sé stesso, uno spocchioso, un millantatore, un complessato al punto che ha bisogno di dirsi secondo solo a Napoleone e più sofferente di Gesù Cristo? Eppure è avvenuto. Gli italiani dimenticano, gli italiani sono creduloni, a boccaperta, non sanno, o fanno finta di non sapere degli stravolgimenti che il nostro (l’Innominato) ha portato nelle nostre leggi, nella Costituzione, nell’economia, nell’università, nei beni culturali, nell’informazione, nel nostro vivere civile.

I principi del bene e del male sono stati scardinati, quei principi che, ancor prima delle leggi, stanno nel nostro diritto naturale. Niente più è normale, non si sa più che cosa è vero e che cosa è falso, si dice e poi si smentisce, non si discute più, non si ragiona, in TV vince chi fa la voce più grossa e un confronto con l’avversario diventa un duello. Ciò fa sì che lo spettatore non comprende la realtà del nostro paese, né si fa un’idea di chi meglio lo possa rappresentare nelle istituzioni. Petrolini, a uno in platea che lo infastidiva ridendo arbitrariamente, replicò: “Non me la prendo con te, ma con quello che ti sta vicino che ancora non ti ha mollato un ceffone!”. Insomma, a chi molliamo un ceffone, all’Innominato, oppure a quei milioni di italiani che l’hanno votato? Democrazia? o piuttosto telecrazia? La televisione, ecco, questo vorace mostro dalle sette teste che si nutre delle nostre ore più belle al fine di convertire noi cittadini pensanti in stupidi consumatori. Fa rabbia sapere che i bambini siano i più esposti al totem televisivo, così che il loro cervello viene portato all’ammasso.

Tutto cominciò con la televisione commerciale, negli anni ’80, quando, al fine di aumentare la maledetta audience, entrò in scena la volgarità, fatta non solo di mercificazione di corpi femminili, ma anche di film violenti e programmi di nessun valore, non dico artistico o educativo, ma neanche di intrattenimento, tutto catalogato ormai come spazzatura, di cui ci nutriamo ogni giorno, anche perché la sera siamo stanchi, fragili, senza difese, e siamo disposti a ingoiare tutto quel che ci propinano.

Il guaio è stato che anche la televisione pubblica si è adeguata a quella commerciale e così adesso siamo al disastro: non siamo correttamente informati, ormai i telegiornali sono solo irritanti, non raccontano la realtà, soprattutto devono portare l’acqua al mulino del solo uomo, il padrone unico. In prima serata c’è raramente un programma o un film, che possa solleticare il nostro piacere, la fantasia, l’immaginazione. Non parliamo degli sceneggiati TV dove la trama è quasi scontata, il che significa uccidere un’opera narrativa.

E infine, cosa veramente la più grave, sembra quasi che, se non appari in televisione, non esisti. Il Truman show, appunto. Eppure l’avevamo visto, eravamo stati messi in guardia.

Le elezioni del 9 aprile? Vorrei un paese normale, vorrei avversari da contestare e non da odiare, vorrei uscire da un incubo. Ma poi, più che brindare, bisognerà raccogliere i cocci. E in fretta.

Civita Castellana, 14 marzo 2006

 

I murales ebrei di Santa Maria al Bagno. Per non dimenticare!

di Gianni Ferraris

Prendendo la litoranea da Gallipoli verso nord si passa per alcune frazioni sulla marina. Sono paesini prevalentemente di seconde case. In estate è un pullulare di turisti, di lingue, di culture diverse. Negli altri mesi invece la calma è immensa. Poche persone, il mare che accompagna con il suo sottofondo di rumori più o meno cupi, pescatori in lontananza. Sono luoghi in cui è bello sedersi e guardare il tempo scorrere con i pensieri che lo accompagnano. Posti battuti dal maestrale che porta freddo, a tratti la roccia è stata tagliata per far passare la strada. Si transita fra due muri nella “montagna spaccata” come la chiamano qui.

Ebrei a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

 

E subito dopo il mare riappare. E la storia è passata da qui come da ogni luogo e sono racconti ora, quasi fiabe. Gli abitanti locali li danno per scontati, ma per me che ascolto per la prima volta sono evocativi di come la solidarietà sia ovvia, non derogabile, in queste terre. Lo straniero, il diverso, è accolto e spesso protetto, soprattutto se ha gli occhi colmi di terrore. Non importa da dove venga, né importa il colore della pelle o politico, prima si accoglie, poi magari si discute. Santa Maria al Bagno ti viene incontro con le sue Quattro Colonne. Sono i resti di una grande torre di avvistamento, come le altre voluta da Carlo V, danneggiata forse da un sisma che ne ha demolito il centro, lasciando in piedi solo i quattro angoli. È una frazione di Nardò, in questo piccolo luogo sostò a lungo un pezzo di storia.  

Era da poco passato il Natale del 1943 quando il piccolo sobborgo fu scelto dalle autorità inglesi come campo profughi. Arrivarono i primi camion carichi di persone, erano slavi. Furono requisite le case, furono alloggiati gli sfollati. Ma la diffidenza fra i profughi e quelli che solo pochi mesi prima erano considerati nemici era forte. La difficile convivenza durò pochi mesi. Gli slavi lasciarono il luogo. E spesso lasciarono un ricordo non buono. Non sempre trattarono con cura le cose e le abitazioni che vennero loro affidate. Andarono in altri luoghi i profughi, ma rimasero i soldati inglesi. E poco tempo dopo altri camion arrivarono. Molto più numerosi e con molte più persone.
 
Quando scesero a terra i loro sguardi erano diversi. Timorosi e spesso rivolti in basso. C’era un po’ di diffidenza e paura nei salentini. Ancora le eco dei massacri di ebrei, dei campi di sterminio, non erano arrivate in queste terre, tutto sommato solo sfiorate dalla guerra. Furono sufficienti pochi mesi per sapere, capire, ascoltare storie che si credevano impossibili. E presto nacque quella solidarietà che è spontanea in chi ha conosciuto la fame verso chi ha vissuto gli orrori della storia. Così il cibo dato dall’amministrazione delle Nazioni Unite veniva scambiato dagli ebrei con il pesce dei pescatori locali. Spesso veniva donato in cambio di nulla. 

E i rapporti divennero solidi e solidali. Gli ebrei fecero nascere alcuni negozi, e la vita ricominciò. I bambini andavano a scuola tutti assieme, forse non avevano il grembiulino, però nessuno avanzò mai la pretesa di far frequentare classi diverse a nessun altro. Nonostante si sentisse parlare italiano, salentino, spagnolo, yddish. In quegli anni nel campo passarono circa 100.000 ebrei e furono celebrati circa 400 matrimoni regolarmente registrati allo stato civile di Nardò. In uno di questi la teste fu Golda Meyer. Da qui passarono Moshe Dayan e Ben Gurion. Stavano andando verso quella che sarebbe diventata Israele, ma questa è altra storia.

Nel Salento le esigenze religiose dei nuovi arrivati vennero agevolate. Nacque una sinagoga in alcuni locali sulla piazza, ed un kibbuz poco distante. E ancora sono presenti, fortunosamente salvati dalla distruzione, alcuni murales fatti da Zivi Miller, ebreo polacco che a Santa Maria trovò la compagna della sua vita. Un comitato ne ha preso a cuore la vicenda perché quelle opere erano in una casa abbandonata e fatiscente e si stavano irrimediabilmente danneggiando.

L’amministrazione comunale ha provveduto a staccarli e a dar loro una sede più idonea. Ed è opera meritoria in giorni in cui una destra estrema e quasi eversiva sta rialzando la testa. E lo fa nei modi più criminali. A pochi metri da quella casa e da quella testimonianza è comparsa, a inizio anno, una scritta che dice: 10 100 1000 Anna Frank. L’humanitas trovata nel Salento venne riconosciuta e viene ricordata in Israele. E un riconoscimento è giunto alla città di Nardò dal capo dello stato.

Il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, in occasione del 27 gennaio 2005, ha conferito motu proprio la Medaglia d’Oro al Merito Civile alla città di Nardò
con la seguente motivazione:

«Negli anni tra il 1943 ed il 1947, il Comune di Nardò, al fine di fornire la necessaria assistenza in favore degli ebrei liberati dai campi di sterminio, in viaggio verso il nascente Stato di Israele, dava vita, nel proprio territorio, ad un centro di esemplare efficienza. La popolazione tutta, nel solco della tolleranza religiosa e culturale, collaborava a questa generosa azione posta in essere per alleviare le sofferenze degli esuli, e, nell’offrire strutture per consentire loro di professare liberamente la propria religione, dava prova dei più elevati sentimenti di solidarietà umana e di elette virtù civiche».

murales ebreo a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

 

È il più grande dei due murales realizzati da Zivi. Rappresenta il grande sogno degli ebrei di raggiungere la Terra Santa. Sulla sinistra le vittime scampate all’olocausto si lasciano alle spalle un’Europa disseminata di filo spinato. Attraversano l’Italia e raggiungono il campo di accoglienza di Santa Maria al Bagno. Da qui il viaggio di una moltitudine allegra e festosa che raggiunge finalmente la Palestina, passando simbolicamente sotto un arco a forma di stella di David.

 

murales ebreo a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

Questo è il secondo murales di Zivi. È evidentemente meno gioioso dell’altro. In questo caso la Terra Promessa è un fortino, un castello inaccessibile. La porta e le finestra sono chiuse dalle grate: da lì sventolano i simboli dell’ebraismo. Una mamma e i suoi due bambini giungono da lontano, ma la loro espressione è corrucciata, come se per la difficile strada percorsa per arrivare fin lì avessero perso qualcuno di importante. Ad accoglierli non c’è un arco, né le palme del deserto ma un soldato inglese col fucile in mano.

murales ebreo a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

 

Questo è l’unico murales non realizzato da Zivi. È opera di una ragazza ebrea, anch’essa ospite del campo di Santa Maria. In questo caso, l’accezione dei soldati inglese sembra essere diversa da quella datagli dall’artista rumeno. I militari non bloccano gli ebrei in arrivo, ma custodiscono i simboli della loro religione, rimanendo un gradino più in basso, quasi fossero degli umili e discreti servitori della causa ebraica.

 

Emilio Marsella e Le donne di Maruggio

di Paolo Rausa

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

A Maruggio non fa freddo, a Milano sì. Maruggio, ora in provincia di Taranto a due km dal mareIonio sulla direttiva di Manduria, ricco entroterra agricolo della piana salentina, è il paese natale di Emilio Marsella. La zona Lorenteggio di Milano, dove abita ed esercita le sue arti, era periferica sicuramente quando ci è arrivato Emilio, durante il militare, decantata da Gaber come pullulante di trani, le osteriacce popolari dove veniva mescito il forte vino pugliese, detto m(i)ero, schietto.

Sta in questi due luoghi la vita e l’arte di Emilio Marsella, classe 1929, che ha trascorso la fanciullezza a Maruggio in una famiglia di contadini, privato a 8 anni della madre per una malattia, ed educato dalla nonna, che parlava “la lingua dell’orto”. Appena terminati gli studi inferiori, il padre lo sostiene economicamente e lo manda al Ginnasio-Liceo di Martina Franca, all’interno della Valle d’Itria, oggi famosa per il Festival di Teatro e della Lirica. Non riesce a terminare gli studi perché due mesi prima degli esami è costretto alla interruzione per una malattia.

Questi brevi cenni biografici di Emilio Marsella definiscono già gli elementi essenziali, culturali e umani, della sua avventura artistica e letteraria. Innanzitutto la campagna tarentina, caratterizzata da casupole rurali onnipresenti nei quadri dipinti da Emilio, i campi, i prodotti della terra e le figure di donne, evocate nella loro presenza costante della sua vita – la saggezza della nonna innanzitutto – e nella assenza – la madre -, che lascia un vuoto incolmabile nell’animo del poeta, un vuoto che trova significativa espressione in queste teorie di donne che stanno sempre in vigile attesa. Ritratte per lo più dalle spalle o dal fianco, mai di fronte, esse costituiscono le presenze/assenze in dimensioni notevoli, con gli abiti tipici della cultura contadina, specie di chitoni che coprono la testa in segno di omaggio e di rispetto nei confronti del miracolo della natura che si reifica sotto i loro occhi, rappresentato dagli elementi vegetali o da una insenatura marina con la discreta presenza umana di una o due barchette in riposo sulla riva.

Accanto alle donne ormai mature, forse anziane, delle giovanette alle quali esse affidano le conoscenze e i misteri della vita, a volte delle immagini di animali appena accennate e soprattutto i segni della civiltà contadina nella presenza di una giara destinata a contenere il raccolto o l’olio di oliva che viene spremuto dai frutti dagli alberi contorti che animano il paesaggio, a volte dei piatti di dimensioni ampie che richiamano nella forma la tradizione della ceramica greca e della produzione fittile dello stile di egnathia e poi in primo piano le verdure tipiche del sud, sempre ben ritratte (melanzane, peperoni, ecc.).

Le figure femminili non sono mai evidenziate nei contorni che appaiono quasi indefiniti e lo stesso trattamento Emilio riserva al paesaggio e ai segni dell’uomo, sembrano quasi delle masse che incombono. Il movimento è affidato all’uso sapiente dei colori, a volte volutamente contrastante e vivo proprio per sottolineare la dinamicità della vita rispetto al destino di morte, che ha colpito l’artista negli affetti più cari e soprattutto che sembra lì quasi a ricordare la sorte umana con il suo carico di sconfitte, che solo attraverso l’arte può redimersi. Le sculture di statuine in terracotta e in bronzo seguono lo stesso canovaccio. La sua terra, immersa nella cultura greca della vicina Tάρας e di quella messapica della grande città di Manduria, di cui restano le fondamenta delle mura ciclopiche, insieme agli studi classici forma la cultura umanistica di Emilio, che ritrae nei suoi versi il paesaggio, nostalgicamente inteso e come depositario del nostro passato fiorente, ora rimpianto. Un paesaggio che non può trovare corrispondenze nelle nebbie e nei freddi della pianura milanese. Ecco che l’arte supplisce, per così dire, ai sogni e ricrea atmosfere rarefatte, indefinite ed eteree!

Fresco by Antonio De Vito

foto-1a

di Wilma Vedruccio

Le festività natalizie permettono di rivedere amici, lontani dal Salento.

Così è stato con Antonio de Vito, che avevamo lasciato fra i severi muri della torre Matta ad Otranto, nell’agosto del 2011, volto fra i volti bizantini dei suoi affreschi. Insieme a Lisa Bouvier che nel Salento è ormai di casa.

Chiediamo ad Antonio di aggiornarci sul suo cammino di artista di affreschi, di parlarci dei suoi prossimi impegni e lui, prima di svelare ciò che ha in programma, fa una premessa, ha urgenza di dire…

«Con la nostra forza … bisogna superare la paura e partire con coraggio…

«È una sfida … bisogna affrontare, rilanciare e si riesce… Siamo nella fase della maturità, abbiamo dalla nostra l’esperienza, la capacità di controllo e di risoluzione dei problemi.

«Prendi coscienza di quello che c’è, che puoi fare o, più giusto, di quello che non puoi fare.

«Il materiale c’è, la storia c’è, le opere ci sono … ma per andare avanti, bisogna che si faccia un altro lavoro … economicamente è difficile continuare da soli.

«Io non ho mai creduto nell’intervento delle amministrazioni, a sperare in esse finisce che impigrisci, lamentarsi poi … non lo sopporto…

«Ho la consapevolezza che si può portare quest’arte dell’affresco, molto moderna, arte bizantina, ad una certa appetibilità dei fruitori, il solo modo per non aver bisogno dell’intervento pubblico delle Istituzioni, è creare un interesse verso l’arte in modo che la gente ci vada da sé alle mostre. Manca la promozione dei fatti d’arte. Manca la consapevolezza della loro preziosità.»

Perché dici “moderni” degli affreschi bizantini?

Lisa: «Perché con linee molto elementari riescono a raffigurare financo la spiritualità, ricchi di decorazioni … stilizzati molto. In Matisse una parte della sua arte viene dallo studio sui Bizantini; Chanel, lo stilista, ha messo su una collezione ispirandosi all’arte bizantina.»

Antonio: «A questi motivi si aggiunge il Tempo che è passato e allora, in senso moderno, i segni e i segreti sedimentati nell’arco dei secoli, in essi noi leggiamo scritti, preghiere, forme di devozione … che si sono succedute.»

La premessa, a questo punto, è ormai superata. Superato anche l’inciampo dell’emozione, Antonio de Vito, maestro di affresco, comincia a dirci di ciò che va facendo, a svelare il segreto della sua prossima mostra.

Antonio: «Avevamo fatto un progetto su Michelangelo…»

«Era inevitabile, trattandosi di affreshi, non arrivare a Michelangelo…» commenta Lisa Bouvier

Antonio: «Eravamo in contatto con persone di Taiwan … volevano la mia mostra perché eravamo in grado di offrire la didattica dell’affresco, realizzerò in sede di mostra alcune parti del Giudizio Universale.

«Candidamente ci hanno chiesto se potevamo portare i disegni originali di Michelangelo…

«Fare una mostra con i disegni originali di Michelangelo era assolutamente una cosa inedita … sembrava impossibile … ma poi abbiamo osato.

«Siamo andati direttamente alla Fondazione Buonarroti, per chiedere.

«A Loro è sembrato fattibile ed interessante ed hanno accettato, previa consultazione e previo consenso della Commissione Scientifica della Fondazione. La mostra vedrà ben 14 disegni originali del Maestro.

«Vista corta della gente locale?» Torna a chiedersi Antonio de Vito, pittore di affreschi, nativo di Alessano del Capo.

«La finalità di questo progetto non è cambiata rispetto a quella del progetto salentino sugli Affreschi Bizantini: far conoscere un’Arte che, in realtà, non è complessa per quanto può sembrare e la mostra dà la possibilità di “vedere, toccare, conoscere ed innamorarsi della tecnica dell’affresco” che è poi la finalità didattica.

«Ai promotori della mostra di Taiwan il mio progetto è piaciuto, hanno la necessità di far conoscere Michelangelo e noi andremo a Taiwan, il 26 gennaio ci sarà l’inaugurazione della mostra in cui ci saranno dettagli significativi della Cappella Sistina a grandezza naturale.

«Oltre i miei affreschi, oltre ai disegni originali di Michelangelo, la mostra prevedeva anche la Scultura del Maestro…

«Altro grosso problema … cosa portare? fotografie … non mi convincevano … come fare? abbiamo fatto un altro passo avanti: calchi, calchi originali delle statue! Una nuova avventura…

«Abbiamo cercato i calchi originali fatti nell’ottocento e abbiamo ottenuto che da questi si rifacessero statue per noi. Sono state realizzatele statue del David, la Pietà di Roma, la Pietà Rondanini, il Bacco ed altre più piccole.

«Da un’idea ci siamo trovati a gestire l’universo Michelangelo!

«Cosa succede? Gli interlocutori hanno concordato e le cose si son fatte.»

ignudo 1a

Buone prospettive, aspettative alte, dunque, a Taiwan?

«L’aspetto didattico unito all’aspetto “sacrale” (la presenza dei disegni originali inediti) ha reso la mostra appetibile ad un pubblico eterogeneo e … così lontano. Una nave-container è in viaggio e speriamo che arrivi…»

Ci siamo così ritagliato un ambito nel campo dell’arte, Antonio?

Risponde Lisa: «La sua particolarità è quella di studiare l’arte dell’affresco praticandola, reinterpretando gli affreschi dei Grandi Maestri, tanto da entrare nelle mani e nello spirito dell’artista, si possono carpire così aspetti diversi dell’artista oggetto di studio.»

Antonio: «Non è solo un fatto tecnico, ci si rende conto delle strategie espressive … quell’occhio … quella bocca … ti ritrovi a fare uguali alcune cose non perché stai copiando ma perché la tecnica lo impone.»

Dopo Taiwan?

«Un altro museo, il museo di Kaohsiung, si è fatto avanti per richiedere la mostra, con altri disegni originali.»

E dopo l’Oriente?

«C’è all’orizzonte l’America, dove approderà Michelangelo», secondo il salentino Antonio de Vito.

Il Salento?

«Il discorso, lasciato sospeso, sugli Affreschi Bizantini, sarà ripreso con tutto il bagaglio di esperienze, non solo tecniche ma organizzative, fidando in una maggiore collaborazione. Si può veramente osare.»

Gennaio 2013      

sibilla 2

b18

foto q

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/03/antonio-de-vito-segni-e-segreti-negli-affreschi-del-salento/

 

Al Teatro Paisiello di Lecce lo studioso Paolo Jedlowski

 Paolo Jedlowski

 

PASSAGGIO D’EPOCA. A LECCE PAOLO JEDLOWSKI

Domenica 27 gennaio, 18.30, Teatro Paisiello, l’incontro con una delle voci più significative della sociologia italiana.

Discutono con lo studioso Mariano Longo, Marcelli Strazzeri e Fabio Tolledi

 

In un passaggio d’epoca. La teoria sociale e il senso del futuro: su questo tema si svilupperà l’incontro di domenica pomeriggio al Paisiello, ore 18.30, con Paolo Jedlowski, una delle voci più significative ed autorevoli della sociologia italiana.

Realizzato in collaborazione tra il Dipartimento di Storia, società e studi sull’uomo, Astragali Teatro e il Comune di Lecce, e coordinato da Fabio Tolledi, regista e direttore artistico di Astràgali Teatro, il pomeriggio vedrà lo studioso discutere con Marcello Strazzeri e Mariano Longo (Università del Salento) sul suo ultimo libro In un passaggio d’epoca. Esercizi di teoria sociale, Orthotes, Salerno, 2012.

Paolo Jedlowski è uno tra i più importanti sociologi italiani. Nel suo lavoro, ha affrontato innumerevoli tematiche, tra le quali il racconto, la quotidianità, la memoria.

Oltre all’edizione di alcuni classici della sociologia (Maurice Halbwachs, Peter Berger, Georg Simmel e Alfred Schutz), ha curato un dizionario delle scienze sociali e ha pubblicato un’importante introduzione alla storia del pensiero sociologico (Il mondo in questione, Carocci).

Tra i suoi volumi più recenti, ricordiamo: Sociologia. Contesti storici e modelli culturali (Laterza) Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana (Bruno Mondadori); Un giorno dopo l’altro. La vita quotidiana fra esperienza e routine (Il Mulino).

Il suo nuovo volume In un passaggio d’epoca. Esercizi di teoria sociale è il tentativo di mettere alla prova della realtà contemporanea i concetti che la tradizione sociologica ci ha consegnati. La domanda di partenza è: siamo in grado, come sociologi, di comprendere un mondo in tumultuosa trasformazione? o non dobbiamo adeguare i nostri concetti teorici alla realtà in cambiamento? Jedlowski cerca di rispondere a queste domande partendo da ciò che la sociologia ha prodotto, e mettendo la teoria sociologica in contatto con nuove fonti e nuove voci.

 

ASTRAGALI TEATRO

Via Giuseppe Candido, 23 Lecce Astragali Teatro

Tel. 0832-306194 fax 0832-301823

teatro@astragali.org

www.astragali.org

NELLA CASA DI NOSTRA SIGNORA DEI TURCHI

A dieci anni dalla scomparsa di Carmelo Bene

 

NELLA CASA DI NOSTRA SIGNORA DEI TURCHI

 

di Maurizio Nocera

«Non sono nato per essere nato … L’indecenza della vita mi ha frequentato assidua fin dalla prima infanzia. Malattie d’ogni sorta e degenze, convalescenze continue; ambulatori diagnostici: coronarografie, biopsie, gastroendoscopie, scintigrafie, risonanze magnetiche; astanterie d’ospedali e sale operatorie, broncopolmoniti, paradontologie, odontoprotesi, epatopatie, infarti, accidentacci vertebrali, discopatie, disfunzioni gastrointestinali, anestesie complesse, interventi chirurgici logoranti, disfunzioni oculari, emicranie intollerabili, irriducibili insonnie, complicazioni delle vie urinarie. Non c’è brano di carne che Esculapio non abbia tralasciato».

(Carmelo Bene, Autobiografia di un ritratto, 1995)

Marzo 2012. Il Salento tutto è per Carmelo Bene (Campi Salentina 1 settembre 1937 – Roma 16 marzo 2002). Non solo il Salento però, perché il Maestro viene celebrato anche nel resto d’Italia. L’occasione è dovuta al 10° anniversario della scomparsa. Su di lui quanto non si è detto, quanto non si è scritto. Non pochi intellettuali hanno sentito il bisogno di intervenire per ricordarlo, per omaggiarlo. Non poteva accadere altrimenti e non hanno avuto ragione coloro che si sono lamentati che intorno al suo nome, forse, c’è stato troppo chiasso. Si può forse evitare a qualcuno di dire la sua in fatto di teatro, di letteratura, di poesia, di cinema, di televisione, di altro ancora? Quanto l’umanità non ha sofferto per le tante censure, troppe che, piuttosto che farla crescere, l’hanno condannata ad una perenne peregrinazione e a salti cangureschi?

Una delle iniziative celebrative si è tenuta appunto il 16 marzo a Lecce, nei locali della Tipografia del Commercio, dove il titolare Alberto Buttazzo ha ristampato per l’occasione una cartella contenente una grafica intitolata Gregorio, l’opera teatrale che Carmelo Bene, in un primo momento col titolo Gregorio, cabaret dell’800, e in un secondo tempo col titolo Addio porco, rappresentò a Roma (Ridotto dell’Eliseo) e a Lecce (Teatro Apollo) nel 1961. Di essa, è lo stesso Maestro che ci ha lasciato una testimonianza diretta in Vita di Carmelo Bene, autobiografia scritta assieme a Giancarlo Dotto nel 1998 per la Bompiani, nella quale precisa: «Nella prima parte si facevano a pezzi versacci di libretti d’opera dell’Ottocento. Nella seconda si passava a una specie d’afasia e, quindi, all’ammutolimento generale, ingurgitando cartaccia. Si usava la bocca solo per mangiare, ruttare e deglutire. Quasi sempre si mangiava in scena […] il finale di Addio porco. C’era una tavola apparecchiata, di quelle da osteria. Lui [l’attore Manlio Nevastri, in arte Nistri] faceva da mangiare in scena, in tempo reale, senza dar confidenza (la spesa la faceva il mattino al mercato di San Cosimato) e senza rinunciare al frac e alle ghette, le camicie, mezze maniche sommate. Ci mettevamo così tutti a tavola. Antipasto, primo e secondo. C’era chi mangiava, chi dialogava, chi leggeva un giornale, un altro ruttava./ Succedeva questo. Quelli in platea aspettavano di capire dove andasse a parare. Quale fosse il messaggio» (v. op. cit., II edizione 2006, pp. 125-127). Anche Tonino Caputo ha ricordato in che cosa consistesse lo spettacolo, precisando che finora «nessuno [lo] ha mai nominato nei recenti convegni su Carmelo. Era un delizioso collage di brani poetici tra fine ‘800 ed inizi ‘900, recitati in maniera molto libera e talmente movimentata che alcuni degli attori li proponevano dall’alto di una altalena, il cui dondolio si spingeva sino in testa al pubblico, per poi tornare indietro. Il tutto con i relativi problemi per l’incolumità degli spettatori, ai quali come minimo era assicurato un torcicollo».

Per evitare gli errori del passato, questa volta, gli organizzatori dell’evento di Lecce hanno pensato bene di far intervenire uno dei pochi amici dell’adolescenza del Maestro, fortunatamente ancora in vita: il pittore Tonino Caputo, leccese ma che da decenni vive un po’ nel resto del mondo. Gli altri amici rimasti in vita e che facevano parte della primitiva comitiva, che quasi quotidianamente s’incontrava sulla mansarda dei Bene in via dell’Antoglietta a Lecce, sono Antonio Massari e Ugo Tapparini. Tutti assieme questi amici di Carmelo hanno già scritto una loro testimonianza che figura in un libretto dal titolo Carmelo Bene, i primi passi da gigante (Kurumuny-teatro, Calimera 2004).

È quasi superfluo scrivere della genialità e del talento di questo straordinario figlio del Salento, indubitabilmente un rivoluzionario del teatro, riuscendo a trasformare l’essenza della macchina attoriale, ci preme piuttosto capire qui il suo percorso e, soprattutto quello iniziale attraverso il quale egli si formò. Ed è su questa traccia che si è articolata la memoria di Tonino Caputo, descrivendo un Carmelo Bene inedito per i più, di una sua amicizia durata circa una decina d’anni, in particolare dal 1960 agli inizi degli anni ’70, quando ancora Carmelo Bene non era il Carmelo Bene che noi oggi tutti conosciamo e che, quando nei primi tempi del suo trasferimento a Roma, per vivere decentemente, si dovette appoggiare alla casa del pittore salentino Caputo, il quale ha ricordato: «con Carmelo Bene c’è stato un sodalizio che è durato per alcuni anni. Personaggio geniale, […] ma con una vena di lucida follia e un elevato senso del proprio ego./ L’ho conosciuto a Lecce che aveva circa 16 anni. Mi attraeva quella sua estrema volontà, quel piglio prepotente che metteva nel voler sciogliere, in un corretto italiano, l’accento leccese./ Aveva ricavato un piccolo laboratorio di “posa” dalla lavanderia di famiglia e in quell’antro provava e riprovava al registratore, un piccolo “Geloso”, gli esercizi di dizione. Carmelo è un personaggio che pochi conoscono veramente, lui era un cantante lirico fallito. Noi leccesi nasciamo che vogliamo subito cantare: essere tenori, bassi, baritoni, ma quasi sempre ci scontriamo con la realtà vocale e così uno ci rinuncia. Lui invece non rinunciò e in seguito, anche quando recitava, ha continuato a cantare in prosa. Il suo recitare è il melodramma, che poi in realtà è l’unica forma di teatro vera esistente in Italia dopo la commedia dell’arte. Con il suo genio ha saputo trasferire queste forme artistiche in recitazione. Dopo le frequentazioni giovanili ci perdemmo di vista. In seguito venne a Roma per fare l’Accademia di Arte drammatica. Si trasferì a Genova e Firenze dove fece i primi spettacoli. Nel capoluogo toscano si innamorò di una donna più anziana di lui, l’unica che è riuscita a menare Carmelo e l’unica donna che lui ha amato veramente e con la quale ha avuto un figlio, morto giovanissimo. La sua violenza, anche verbale, si trasformava in bontà assoluta quando vedeva un bambino, un animale. Mentre l’astio verso i preti proveniva dall’aver studiato, in gioventù, presso i “Padri Scolopi”./ Nel 1962 ci ritrovammo a Lecce mentre era in corso un suo spettacolo [Gregorio] e tornammo assieme a Roma. Da quel momento venne a vivere con me aggiungendosi alla schiera dei molti che ospitavo» (per queste notizie più altre v. Caputo/ L’itinerario artistico di un pittore nomade, a cura di Michele Berardo, Canova 2004, Treviso).

Un’altra interessante testimonianza di Caputo l’abbiamo ascoltata quando ci ha detto questo: «vorrei innanzitutto chiarire che per Carmelo Bene, io non ho mai creato nessuna scenografia. Ho fatto invece molte pitture di scena, oltre i murales che decoravano l’intera sala del Beat 72 ed, in particolare, per Nostra Signora dei Turchi, il rosone che a fine spettacolo prendeva corpo sul fondale della scena, grazie ad una luce alogena. A parte, per sei spettacoli, ho disegnato ed inciso una serie di locandine. In ordine cronologico furono: Manon (al teatro Arlecchino, oggi Flaiano), Faust (al teatro dei Satiri), Nostra Signora dei Turchi, Salomè, Amleto (al Beat 72), ed infine Arden of Favershan (al teatro Carmelo Bene) Non di rado quelle locandine, opportunamente messe in vendita, risolvevano in qualche sera particolarmente difficile, la cena della compagnia. Quando gli spettatori variavano dalle 5 alle 10 unità, e non ancora le centinaia del teatro Argentina, tre locandine acquistate da veri appassionati, ci davano la possibilità di riempire lo stomaco, che alla fine di uno spettacolo non era di certo soddisfatto come lo spirito».

Mi piace chiudere questo breve ricordo di Carmelo Bene riportando una poesia di Antonio L. Verri, che gli dedicò pubblicandola nella raccolta Il pane sotto la neve (Lecce 1981): «(A Carmelo Bene)// Otranto ha gustosissimi grumi di neve/ un lungo discorrere della memoria/ vuota silenzio invernale nella mia mano/ bianca di turco spolpato.// È lontano ricordo anche l’aria/ che penetra tutto che tutto riempie/ è ricordo il mare che guarda masse/ corpi d’abbandono, memoria ancora/ – cristalli morbidi mutanti … -/ scrostata pazienza di casucce di storia».

È questo uno straordinario Antonio Verri, interamente versato nell’incanto favolistico di Carmelo Bene.

NdR: Pubblicato nel 2012 su Il Filo di Aracne.

23 gennaio. A Casarano si festeggia San Giovanni Elemosiniere con i suoi panitteddhi

Casarano. Il busto di S. Giovanni Elemosiniere e i “panitteddhi”

di Fabio Cavallo

Nel cuore dell’inverno, si colloca la solennità di San Giovanni Elemosiniere, amato patrono dei Casaranesi, che cade il 23 gennaio.

La festa patronale vera e propria sarà a metà maggio con le sontuose celebrazioni religiose e civili, ma il Martirologio Romano, il grande libro dei Santi della Chiesa cattolica, riporta in questo mese la solennità liturgica del Santo cipriota.

La festa religiosa sarà preceduta dal Novenario in Chiesa Madre, a partire dal 14 gennaio, dove, ogni sera, a partire dalle ore 17 si alterneranno la recita del

RITI E USANZE PER LA NASCITA NEL SALENTO

da Come eravamo
da Come eravamo

 

di Tullia Pasquali Coluzzi e Luisa Crescenzi

 

 

Nell’estesa Puglia salentina che Piovene considerava “il vero fondo dell’Italia”, abbiamo avuto modo di constatare che la maggiore parte dei paesi da cui è costituita è ancora caratterizzata da quell’antico e benefico aspetto della vita di relazione: tutti si conoscono, si incontrano nelle piazze e nelle corti, cortili di alcuni centri storici, specie di quelli dove ancora si parla il griko, con pozzo e granaio sui quali si affacciano varie abitazioni. Le donne si raccolgono e siedono su gradini o sedili fuori dell’uscio chiacchierando con linguaggio semplice e pacato.

Alcune di loro ci hanno aperto con cordiale e grande disponibilità lo scrigno della memoria estraendo da esso perle del loro vissuto e dell’esperienza di mamme abituate a seguire credenze e usanze di molti secoli. Così hanno raccontato che era davvero una fortuna nascere il mercoledì, il sabato e la domenica e, soprattutto, in un venerdì di marzo perché non si può essere stregati, mentre venire alla luce nel giorno della luna, cioè il lunedì, faceva presagire un carattere lunatico. Il mese più propizio per chi si affacciava alla vita era gennaio perché iniziando l’anno apriva anche una vita piena di gioie e di prosperità “non per niente il nome Gennaio deriva da quello di Giano, dio degli inizi”. Giuseppina, una gentile signora di Copertino (Lecce), ha riferito che la gestante non doveva portare anelli o bracciali se non voleva un figlio affetto da malformazioni né appuntare forcine tra i capelli; se, poi, si fosse esposta al soffio del vento il povero piccolo sarebbe rimasto tutta la vita con la bocca aperta.

Per quanto riguardava i pronostici sul sesso del nascituro, si usavano ancora altri stratagemmi oltre a quelli di cui abbiamo parlato: la donna incinta, fatti alcuni passi, doveva poi tornare indietro; se avesse deviato verso sinistra avrebbe dato alla luce un maschio; se verso destra una femmina. E femmina sarebbe nata pure se avesse provato dolore alle gambe: dolore de anca, / sicura figghia ianca (dolore alla gamba, sicura figlia dalla carnagione chiara). La forma del ventre, poi, era di grande importanza per queste semplici forme di divinazione: entre cazzata, pigghia la spata, entre pizzuta pigghia la scupa (pancia schiacciata prendi la spada, pancia pizzuta prendi la scopa). E questo tipo di pronostici non veniva fatto solo per il nascituro, ma anche per colui che sarebbe venuto dopo di lui: un maschietto nato durante la fase della luna calante sarebbe stato seguito da un fratellino; se i suoi capelli fossero terminati a punta sulla nuca, da una sorellina. La campana, in un tempo in cui il campo della comunicazione era molto ristretto, aveva ruoli importanti per annunciare momenti lieti e spesso drammatici per la comunità. Così severi rintocchi, succedutisi a distanza di un minuto, chiedevano ai paesani di pregare per un parto doloroso e difficile; ma poi, se tutto si fosse risolto, suonavano festose con tre rintocchi per un maschietto, due soli per la femminuccia. Ci si aiutava, per sciogliere nodi e cacciare spiriti ostili, togliendo dal dito della partoriente la fede nuziale e ponendole accanto indumenti maschili che da tempi immemorabili si credevano provvisti di un’intensa e misteriosa valenza.

Il bagnetto, fatto alternativamente con acqua fredda e tiepida, occupava la seconda fase della nascita; seguiva una fasciatura ben stretta per impedire danni alla colonna vertebrale secondo l’antico rituale: “Susu lu lettu se mintivene le rrobbe de lu vagnone, la fascia, lu brazzaturu, tre panni de vammace o de cottone, nu pannu de linu o de cannima, lu coprifasce, doi camasedde: una cu le maniche e l’otra senza, lu corpettu e la copuledda. A lu vagnone ca s’era llavatu se ’infilavano le camasedde se ‘nturtjiava ‘ntra panni e poi se ‘nfassava. All’urtimu se mintia lu coprifasce, la coppuledda e, o se corcava, o se mentia ntra lu stompu. Lu vagnone se tenia ‘nfasciatu pe’ tre misi se nascia d’estate, se era de ‘nvernu chiù de cinque. Dopu alla femminedda se mintia la vesticedda e allo masculieddu lu costumino. Se cusia tuttu a mano; la mescia sarta vania chiamata a casa pe’ diversi giorni e cusìa le rrobbe pe’ tutta la famija.

Li pedalini li facia a fierri la nonna e pe’ le scarpe se chiamava lu scarparu”. Infine, il piccolino, introdotto in un sacchetto di stoffa ricamato più o meno riccamente, era deposto, per permettere alla madre di dedicarsi ai suoi lavori, nel “capicarru”, sorta di contenitore imbottito e con poggiatesta usato anche in Campania. Per favorire la secrezione lattea le donne si strofinavano il seno con un fazzoletto prima accostato alla statua della Madonna dell’ Abbondanza di Cursi nel leccese o si recavano in processione al santuario della Madonna della Luce a Scorrano. La signora suddetta ci ha spiegato anche quali rimedi venivano adottati per guarire il piccolo colpito da fascinazione (fascinu): lei portò il suo bambino affetto da mal di testa da una guaritrice, certa Carminuzza. Costei diagnosticò convinta un sabatisciatu, cioè una fattura perpetrata di sabato. La poveretta dovette recarsi, fino alla guarigione del figlio, per tre sabati di seguito da majane diverse, per essere precisi, tre, numero magico. La signora Mimina di Novoli ricorda chiaramente una famosa guaritrice del paese, Lucia Mazzotto, una donna alta e imponente che amava vestirsi con un corsetto (sciuparieddji), un’ampia gonna nera e una cintura; ella interveniva sulle slogature dei bambini recitando una formula magica:

Figliu santu,

te fazzu la croce

cu ll’acquasanta

torna sanu e salvu.

Per mali più leggeri ma fastidiosi, la mamma usava un “fai da te”: riempiendo un piccolo quadrato di tela con semi di bacca di papavero secco bolliti e stringendolo a forma a succhiotto, lo propinava al piccino.

Questa droga casereccia era chiamata lu babbafaru. Quando poi la donna aveva le faccende da sbrigare, metteva il pupo al sicuro, all’interno del capicarru, una specie di contenitore, di cui si è parlato in precedenza, fatto di quattro o sei tavole di legno l’ultima delle quali era più alta e fornita di un poggia testa imbottito per attutire i colpi dati dall’irrequieto e divertito bambino. Ma, poiché i neonati usano piangere spesso, veniva attaccato al bordo del capicarrulu tetè”, giocattolo formato da un lungo bastoncino sulla cui sommità erano nastri colorati e due cerchi di carta velina racchiudenti pietruzze o ceci che roteando producevano un lieto rumore. Così per qualche minuto la vista e l’udito del piccolo annoiato venivano distratti.

La signora Piera di San Pietro Vernotico ci descrive i magici e teneri momenti ludici che le mamme dedicavano ai figlioletti improvvisando giochi e recitando filastrocche senza senso mentre li tenevano in grembo e portavano le loro manine al viso:

Cuncetta, Cuncetta

lu tata vae a la fera

la fera de li mintuni

pisci, carni e maccaruni

(Concetta, Concetta, / papà va alla fiera / la fiera dei montoni / pesce, carne e maccheroni)

oppure:

Manni manni

è sciutu lu Nanni

ha ‘ccattato la cecce

è sciutala muscia

se l’ha mangiata

se l’ha pappata

estì, estì de casa mia

(Manni, manni / è uscito Nanni / ha comprato la carne / è uscita la gatta / se l’è mangiata / se l’è pappata / fuggi, fuggi da casa mia).

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne

 

Forte Laclos, mostra personale di Gianluca Marinelli

 

Immagine

Gianluca Marinelli

Forte Laclos

A cura di Andrea Fiore

Dal 30 gennaio al 2 marzo 2013

G. Marinelli, Forte Laclos (frame), 2012, video, Courtesy Galleria Monopoli

La Galleria Monopoli è lieta di presentare: Forte Laclos, una mostra personale di Gianluca Marinelli (Taranto 1983) a cura di Andrea Fiore. Il percorso espositivo propone una riflessione sul rifiuto dell’oblio, sull’autodeterminazione dell’individuo e sulla libertà del lavoro intellettuale, attraverso la ricostruzione degli ultimi giorni di vita di Choderlos de Laclos (1741-1803), autore del
romanzo Le relazioni pericolose, morto a Taranto nel 1803.
Forte Laclos è un progetto che analizza gli ultimi giorni di vita dello scrittore e ufficiale francese Choderlos de Laclos inviato in Puglia per seguire la costruzione di un forte militare sull’isola di San Paolo, nel golfo di Taranto. La fortezza napoleonica non fu mai terminata e Laclos morì dopo pochi mesi dal suo arrivo.
Marinelli ricostruisce e interpreta le ultime vicende dell’autore francese,  accompagnando il visitatore in una riflessione sull’assurdo e sul senso di precarietà, come le forze che in ogni epoca attraversano la vita dell’individuo, impedendogli di esprimere il proprio potenziale, spesso con esiti tragici.
Un’indagine che lega emotività e sguardo documentarista, esistenzialismo e misura classica. Il progetto rivela la possibilità di far coesistere la figura dell’artista con quella dello storico, dimostrando che una ricerca intellettuale può essere espressa attraverso un solido legame tra produzione artistica e ricostruzione dei processi storici.
Il percorso espositivo prevede la proiezione di un video ispirato ad una lettera inviata dall’autore de Les liaisons dangereuses al comandante della spedizione francese in Italia Auguste Marmont (1774-1852) e la presenza di disegni e opere realizzate attraverso materiali d’archivio rielaborati dall’artista.

GALLERIA MONOPOLI
via Giovanni Ventura 6
20134 Milano
+39 02 36593646
+39 333 5946896

www.galleriamonopoli.com
info@galleriamonopoli.com

Gianluca Marinelli (Taranto 1983). Artista e storico dell’arte. Vive e lavora tra Lecce e Milano.
Tra i suoi ultimi progetti artistici: Scrascia! (mostra personale), performance e installazioni di arte relazionale (Carosino, Castello D’Ayala Valva, marzo 2010); Scipione Ammirato Public Talks, video (Lecce, Ammirato Culture House, luglio 2011, a cura di A.F.A); The Wall, mostra collettiva itinerante (Lecce, Archiviazioni, ottobre 2011, a cura di Pietro Gaglianò); L’ambiente audio/cinetico di Antonio De Franchis, video (Venezia, 54° Biennale -Padiglione Spagnolo-, nell’ambito de Il Museo dell’arte contemporanea italiana in esilio, ottobre 2011, a cura di Cesare Pietroiusti); Open 4, mostra collettiva (Venezia, S.A.L.E., gennaio-aprile 2012); La scelta del presente, mostra personale (Milano,
Galleria Monopoli, marzo 2012, a cura di Andrea Fiore). Collabora con l’ACH (Ammirato Culture House) di Lecce.

 

 

LAVORARE ALL’INFERNO. I dannati nel Giudizio universale affrescato nella chiesa di Santo Stefano di Soleto

soleto

 

di Luigi Manni

 

 

La chiesa di Santo Stefano (XIV-XV sec.) sorge nel centro di Soleto, capoluogo in epoca angioina della contea di Raimondo del Balzo de Courthezon, poi di Nicola Orsini e, fino al 1406, di Raimondello Orsini del Balzo. La contea era unitariamente circoscritta, con i corpi feudali di Soleto, Galatina, Sternatia e Zollino, in una vasta coinè grecanica alloglotta di tradizione bizantina, oggi ridotta ad un’enclave conosciuta come Grecìa Salentina, situata a sud di Lecce, nel cuore del Salento.

Lo scenario artistico del distretto comitale era stato profondamente influenzato dal grandioso cantiere tardogotico di Santa Caterina di Galatina e dal tempietto stefaniano soletano, entrambi allestiti dal conte-principe Raimondello sul finire del Trecento.

Di grande interesse risultano gli affreschi che coprono interamente le pareti della chiesa. Nella prima fase il pittore del Trecento – chiamiamolo così essendo anonimi i frescanti -, riconducibile ad una bottega di artisti locali, epigoni dei noti pittori soletani Nicola e il figlio Demetrio, confermò la tradizione pittorica bizantineggiante di Soleto, soprattutto nel catino absidale, in cui è raffigurato, al centro, il Cristo Sapienza e Verbo di Dio e in altri cartoni campiti sulla fascia inferiore delle pareti. Quest’ultimi, intorno al 1420, probabilmente su commissione della contessa-regina Maria d’Enghien, già vedova di Raimondello e poi di re Ladislao, furono integrati da una nuova teoria di santi stanti, vere colonne della chiesa. Dieci anni dopo, ma entro il 1430, sui registri superiori, privi di immagini, vennero allestiti il Ciclo cristologico (parete settentrionale); l’Ascensione e la Visione dei profeti (parete absidale); la Vita e martirio di Santo Stefano (parete meridionale).

Ma è soprattutto il Giudizio universale, affrescato sul muro di controfacciata, ad attirare la nostra attenzione, in particolare i dannati dell’Inferno che affollano le bolge infernali e che diavoli mostruosi, tenendoli sulle spalle, accompagnano in un macabro corteo fino a gettarli nelle voragini infuocate. Sono rappresentati nudi, senza capelli e in maniera anonima e seriale. E’ evidente che all’ideatore del Giudizio universale non interessava la resa fisionomica dei peccatori, quanto la rappresentazione dei loro peccati.

soleto

Tra gli eresiarchi e i dormiglioni della domenica figurano, quindi, alcuni lavoratori riconoscibili dalle didascalie greche che li accompagnano e dagli arnesi del loro mestiere, evidenziati in primo piano. Tutti sono condannati per l’uso illecito e fraudolento delle loro attività: così il taverniere, con la brocca di vino in mano, per aver frodato sulla qualità del vino; l’usuraio, rappresentato con la borsa dei denari, per i facili guadagni ottenuti con la pratica feneratizia; il macellaio, con la bilancia falsa, strumento della sua frode; il giudice, per le sue sentenze inique; il sarto, identificato dalle forbici, per aver ingannato i clienti sulla qualità dei tessuti. Maria d’Enghien, minacciando pene severe, li diffidava dal “vendere per ragusini, panni vicentini o veneziani o veronesi”.

E poi ancora lo zappatore, che spesso ingannava i proprietari terrieri rubando i prodotti della campagna o spostando i confini durante la zappatura; il muratore, che a volte lucrava sui materiali e sulle prestazioni professionali ed altri peccatori condannati per furto e frode.

Si ha l’impressione, tuttavia che il Giudizio universale di Soleto non sia stato propriamente giusto nella distribuzione del premio e del castigo. Tra le fiamme dell’Inferno, infatti, non troveremo nessun chierico, monaco, vescovo, cardinale, papa, re o regina pur presenti in altri Giudizi universali (per esempio quelli di Giotto o del Beato Angelico), ma solo artigiani, contadini, funzionari, colpevoli dell’uso fraudolento del loro mestiere e condannati, per usare una felice espressione di Chiara Frugoni, per sempre, “a lavorare all’inferno”.

Chi sono gli altri artigiani divorati dalle fiamme nell’Inferno di Soleto? Per saperlo, o ci si reca personalmente nella graziosa chiesetta soletana, o ci si affida, se mi si passa la pubblicità affatto occulta, all’ultimo mio lavoro sull’argomento, il volume La chiesa di Santo Stefano di Soleto, per conto di Congedo Editore di Galatina. Buona lettura.

 

NdR: pubblicato su Il Filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per averne permesso la pubblicazione

La Bottega da Rigattiere di Paolo Vincenti

di Raffaella Verdesca

Paolo conosce bene le rotte del pensare e naviga da tempo nel suo stile a tratti periglioso, a tratti placido. Gioco e abilità. Giustifica il suo modo di scrivere adducendo molta responsabilità ai poeti francesi, proclama la sua rinuncia a farlo a favore invece del citare, riprendere, trascrivere e addirittura copiare brani dalle opere dei grandi scrittori di ogni tempo, se pur compaiano fra i suoi righi anche stralci di canzoni, spot pubblicitari, slogan e frasi di film celebri. E’ un patchwork letterario, un fine manufatto in cui il nostro artigiano usa fili di cultura e di intelligenza per unire diversi frammenti di letteratura al linguaggio comune del quotidiano e del suo sentire. Il risultato finale è un libro, “La bottega del rigattiere” (Lupo Editore 2012), opera in cui risultano impercettibili le cuciture tra i pezzi di pagina tanto è forte la sfumatura passionale e personale che le copre. Lungi dall’esulare dalla tracciabilità artistica propria di Paolo Vincenti, il titolo ci fa pensare al gesto romantico di un uomo che raccoglie per non perdere pezzi di vita preziosi e che ricrea memoria nel lettore attraverso la sua stessa memoria. Quella che chiarisce la scelta di scrivere, per esempio, è la prima ben incastrata nella forte componente dualistica che caratterizza l’autore: Cultura o Finanza? Bivio d’inizio percorso. Seguire il proprio istinto o assecondare quello della propria famiglia? Socrate lo aiuta sottoponendogli le sue idee, quelle contrarie all’antico sentenziare “Primum vivere deinde philosophari” ovvero dello ‘Svuotare il cervello e riempire la pancia’, rincorrere onore, guadagno e potere attraverso lavori mondani: vince alla fine la speculazione intellettuale tanto cara a Socrate, il ‘Cogito ergo sum’ cartesiano, e Paolo sceglie la Cultura. In realtà questa non sarà la prima scelta importante che quello dovrà affrontare. Ecco quindi riaffacciarsi subito il dualismo genetico della sua personalità, lo stesso che sarà protagonista di ognuna di queste pagine: corpo debole e fantasia veloce, andare e tornare, tempo ritrovato – amato – perduto – risarcito – derubato, dolore e gioco, odio e amore, virtù e vizio. Come sempre, il filo conduttore delle esternazioni del Vincenti è il tempo; il tempo diventa il seme prolifico di amori e rimpianti, batte il ritmo della danza, la stessa che mette in luce la passionalità irruenta, anch’essa duale, dell’autore.

In molti suoi passaggi, quest’ultimo descrive il ballo che dal lontano mito di Dioniso arriva a sconquassare gli equilibri del suo vivere presente. Il vino è gioia primitiva che scorre nelle vene e crea euforia, impazzare di ritmi folli, di danze e di urla. “Non c’è Venere senza Bacco” recita l’autore e con una capacità straordinaria riesce a ricostruire attraverso le parole l’immagine in movimento delle Baccanti, allegre diavolesse, donne forsennate in preda al delirio e al furore della carne. Il lettore si trova risucchiato dai suoni assordanti di tentazioni, allucinazioni ed estasi collettiva che altri non sono che i dissidi interiori di chi scrive, di chi mette a confronto l’ebbrezza dionisiaca che fa provare allegria e la vita quotidiana, parca, che ce ne priva con la sua crudele monotonia. La danza è quindi simbolo di riscatto, di corteggiamento, eccitazione, spasimo folle, azimut del piacere, pretesto di sfrenatezze. L’intimo tormentato di Vincenti non fa altro che rivendicare in questo modo il diritto alla libertà, la ribellione di un’anima che si vuole disfare di un corpo-prigione, l’alibi di uno stato di trance usato per soddisfare ogni istinto e perciò illudersi di essere finalmente ciò che si vuole. “Nel debordare c’è la mia voglia d’amare” dice con un fondo d’amarezza l’autore. Se Paolo infatti si sente represso, schiacciato da delusioni passate e presenti tanto da invocare danzanti folleggiamenti tra satiri e baccanti, è segno chiaro di una sua consapevolezza dell’altra faccia della medaglia, ossia quella dell’amore, l’amore perduto, passato, cambiato e pur fissato in eterno nella memoria. Bella e poetica la sua donna, la stessa che si è metamorfizzata nel tempo fino a passare da splendida Afrodite a compagna assente, svogliata, da fuoco di emozioni a oscurità di passioni. L’amata, quella del ballo lento e non dei ritmi indiavolati della taranta e dei baccanali (sacro e profano, San Paolo e Dioniso), è colei che, unica, è in grado di aprire il sipario alle meraviglie del sentimento, alla similitudine sconfinata con il mare, alla verità che piega il tempo e lo addomestica al lento passaggio dell’amore, l’unica passione che scopre, che ricorda, che crea,…che ama. La danza spasmodica dei corpi, la lussuria, possono esorcizzare il lento ed eterno scorrere dell’amore? Può il dolore della sua mancanza invocare il desiderio ancestrale del piacere come droga che lenisca la nostalgia e sbiadisca il ricordo? Esiste davvero il miracoloso passaggio invocato dall’autore, dalla schiavitù dell’amore alla libertà dei sensi? Tutte provocazioni del Vincenti rivolte tanto a se stesso quanto ai lettori. Niente dura per sempre, e questo è un concetto pregnante l’opera di Paolo Vincenti proprio perché appendice del tempo e dell’animo nostalgico che, da buon rigattiere, gli riconosciamo. Ma se da un lato aleggia sulle pagine una vena malinconica, dall’altro l’autore la esorcizza con brillante ironia e toccante poesia, atta a recuperar sogni infranti: giochi di parole e sentimenti in versi. “Ho inventato per te un mondo nuovo, un mondo iperuranio dove tu, bella tra le stelle, delle stelle la più bella,sia soltanto desiderio e nuvole ed io passione…” ( tratto da “Avanza”)Ed ecco scatenarsi in tutto il suo fervore l’attaccamento tormentato dell’autore (ennesimo dualismo) al suo Salento, nero come il cuore della sua rabbia repressa ma anche Paradiso di verde e blu, teatro di immobilismo sociale ma pure invito alla quiete e alla bellezza: le case bianche tra gli ulivi, le litanie dei mandorli e dei gelsi, le luci delle lampare e il canto ininterrotto dei grilli.Potrebbe a questo punto mancare il mare nel cuore di un artista salentino? Niente affatto, e meravigliose gamme di colori e significati vengono infatti attribuite da Paolo a questa familiare distesa azzurra: il mare è orrore nella tempesta ma anche premio di orizzonti infiniti per l’uomo che se ne avventura sfidando se stesso e la propria paura. C’è il mare inteso come noia, ci sono abissi di nostalgia, c’è ‘un mare di affanni’ e un amore grande quanto il mare.Se poi si vuole guardare il mondo dall’alto di un tetto glorioso, Paolo offre al lettore la sua idea di giovinezza divisa tra incoscienza ed entusiasmo, nostalgia di fiori appassiti da un tempo che incalza e potere di un futuro ancora intatto. Non disdegna però neanche i suoi quarant’anni, lo scrittore, per fare autoironia e per affrontare guerra e politica con la crudezza tipica di un uomo cha ha vissuto.Col suo stile a volte macchinoso, eccentrico, a volte lieve, poetico e nostalgico, Paolo Vincenti raccoglie così nella sua bottega di rigattiere letterato e di amante disilluso, la vita in ogni suo più sacro aspetto perché chi condanna crede, chi si ribella soffre, chi odia ama, chi non si arrende spera.

Raffaella Verdesca

 

 

MEMINI ERGO SUM. Percorsi della memoria nella pittura di Nicola Cesari

3

di Giuseppe Magnolo

Nicola Cesari è magliese di nascita, e tale è rimasto per elezione. Un elemento che ha agito profondamente sulla natura e i contenuti espressi dalla sua arte è il forte radicamento alla terra di origine, tale da produrre effetti identitari avvertiti e difesi con estrema tenacia.

Per effetto di tale scelta egli ha costantemente mantenuto una finestra ben spalancata su qualsiasi fatto o evento artistico-culturale che emergesse dalla realtà territoriale, vivendo ed instancabilmente alimentando un rapporto di stretta osmosi, consapevole di quale prezioso contributo l’arte e la cultura possano offrire per promuovere il dialogo e il confronto su argomenti che possono accomunare anche nella divergenza di opinioni. Sotto questo aspetto egli ha ricondotto i dati della sua personale osservazione documentale entro ambiti comunali e cittadini, con proposte operative interessanti, mirate alla valorizzazione e salvaguardia del patrimonio artistico individuabile nei luoghi che tradizionalmente ne sono i depositari.

Al tempo stesso egli ha sempre mirato a circuitarsi anche in ambito nazionale ed extranazionale. Sue esposizioni sono state allestite in importanti città dove la proposta artistica è organizzata mediante modalità che consentono una adeguata possibilità di conoscenza del fatto e del prodotto artistico. La propensione a spaziare oltre la dimensione localistica è attribuibile in Cesari ad una ferma convinzione che il linguaggio dell’arte possa veramente assumere valenza universale, e che i contenuti da essa espressi, pur con diversi linguaggi formalizzati, riescano assolutamente identici dal punto di vista figurativo. In maniera discreta ma costante, egli è giunto a rappresentare un riferimento per molti artisti ed intellettuali esordienti, che apprezzano il suo approccio promozionale, capace di stimolare le loro doti di sensibilità ed efficacia figurativa, valorizzando anche stili e contenuti diversi dai propri, nel presupposto che l’essenza dell’arte sia soprattutto il continuo interrogarsi sulla vita e le sue implicazioni.

Di recente ho potuto visitare il suo studio-atelier e mi ha colpito il fatto che egli abbia scelto di collocarlo tra le mura dell’antica casa paterna, il luogo originario della famiglia, in cui con lo scorrere del tempo tutto parla del passato che non esiste, tranne nella memoria e in ciò che lo richiama. E’ come se per Cesari la creazione artistica per realizzarsi postulasse il bisogno di regredire nel tempo, ritrovando tutti gli stimoli connessi all’infanzia e all’adolescenza. Si tratta di rievocazioni indotte da elementi di forte incidenza sul vissuto di un tempo: il cortile di accesso defilato alla vista, pochi strumenti connessi all’attività dell’opificio paterno, il nero metallico della cucina a legna profilato contro il biancore dell’ambiente, il panorama d’affaccio del piano rialzato che contempla uno squarcio di cielo e qualche spiazzo circostante.

Lo spunto iniziale da cui nasce qualunque fase compositiva nell’esperienza artistica di Cesari è uno stato di insofferenza rispetto alla ovvietà del quotidiano, un pressante stimolo a considerare la suggestione dell’arte come una sfida, un tentativo di penetrare nel vissuto sia soggettivo che superindividuale, incidendo su di esso in modo autenticamente dirompente. Lo sviluppo del processo creativo esita quindi verso un effetto di essenzializzazione, secondo un metodo di reductio ad unum in cui la visione prospettica elude qualunque sincretismo figurativo per addivenire ad una sintesi estrema.

Da questi presupposti sono nati nell’artista l’espressione informale e l’uso sistemico di una sua personale simbologia di riferimento, ma anche il rigetto aprioristico della fisicità totalizzante della percezione. Un esempio significativo di questo aspetto può essere individuato nell’ampia serie di dipinti che presentano forme geometriche, nei quali spesso la sfera, intesa come espressione di ordine e simmetria, viene collocata su un piano inclinato che non può dare né appiglio né certezza di permanenza, oppure in uno stato di sospensione nel vuoto, oppure ancora in contrasto con un’altra sfera e in condizione di equilibrio assolutamente precario.

Altrettanto si può osservare circa l’uso strumentale del paesaggio, che in molte delle sue tele (specie nella fase avanzata del suo percorso artistico) non presenta dei chiari connotati identificativi, ma diventa soltanto profilo, linea di confine rispetto a ciò che lo sovrasta, come una demarcazione rispetto all’ambito della trascendenza, del pensiero puro, della condizione visionaria.

E’ evidente che per Cesari l’opera è concepita al fine di generare nell’osservatore un processo epifanico di reazione a catena, che intacca il vissuto individuale e collettivo. Per conseguire tale scopo, occorre produrre una sorta di abluzione della coscienza, un effetto catartico che non è più strettamente connesso con il dipinto, ma ne costituisce quasi una risultanza collaterale. E’ ciò che l’autore intende nell’affermare la sua intenzione di “gettare la catarsi fuori dall’opera d’arte”, comprendendo in ciò tanto il rifiuto di perseguire qualunque fine espressamente moralistico attraverso l’arte, quanto la possibile limitazione al solo dato visivo che escluda gli effetti suindicati.

Una sollecitazione in questo senso viene offerta attraverso espedienti diversi, ad esempio l’utilizzo di un’immagine ridotta e inclinata rispetto alla superficie totale della tela che la racchiude, quello che si può definire “effetto cartolina”, tendente a presentare il soggetto come parte inserita in un contenitore più ampio, con una tecnica rivolta a creare un senso di relativismo prospettico.

Una forma espressiva particolare è quella adoperata da Cesari per rendere figurativamente la terza dimensione attraverso l’uso di superfici aggettanti, che danno una connotazione spaziale con effetto dinamico. Si noti nell’opera intitolata “Omaggio a Pino Pascali”1, definita una pitto-scultura, come la contaminazione fra le due forme espressive risponda all’intento di conferire alla figura tutta la tragica forza devastante connessa all’evento che ha causato la scomparsa del giovane artista. L’autore utilizza solo il margine inferiore dell’opera per accennare il profilo del manubrio di una moto con il volto dell’artista riflesso come in uno specchio retrovisore, mentre al centro egli crea un effetto che evoca una prorompente forza d’urto a cui il soggetto rappresentato (e di conseguenza anche l’osservatore) si trova fatalmente esposto, e che produrrà lo schianto mortale. E’ veramente intensa ed artisticamente originale la sensazione di ineludibile impatto espressa dall’opera.

Un differente elemento caratterizzante in altri dipinti è invece costituito dalla problematicità della connessione tra i diversi elementi compositivi, spesso ridotta a puro strascico disperso tra le masse. Si pensi alle immagini lunari, con tutto il potere di suggestione prodotto dal satellite con la sua scia luminosa velatamente riflessa in uno specchio d’acqua e poi ascendente a mo’ di frammenti meteorici, quasi un sentiero vago e indistinto per raggiungere nella luna il proprio sogno e la condizione onirica. Analogamente la geometricità delle figure presenti in altri dipinti può rimandare ad un “effetto aquilone”, l’aspirazione a recuperare una immaginaria possibilità di volare, elevandosi al disopra della condizione materiale come avviene nella fase dell’infanzia.

Questo bisogno profondo di ritorno all’adolescenza acquista una dimensione quasi mitica, prospettata come rifugio di innocenza rispetto allo scorrere del tempo che espone l’essere adulto al contatto con il male e il negativo. Per questo l’arte di Cesari talvolta diventa ricerca e manifestazione dell’oggetto-simbolo, in grado di creare quasi un circuito di colleganza con il passato. Ecco l’essenza di un’opera tra le più care all’artista, raffigurante l’iscrizione “Gassosa Cesari”, quella posta sul tappo di chiusura delle bottiglie di tale bevanda che un tempo la piccola fabbrica paterna produceva in quegli stessi ambienti dove egli adesso produce e custodisce i suoi quadri. E’ evidente che non si tratta di manierismo sulla scia di Andy Warhol, ma di un sincero tentativo di recuperare il passato e riconsegnarlo alla memoria.

Sul piano della tecnica espressiva, un aspetto importante nei dipinti di Cesari è costituito da una significativa evoluzione nell’uso del colore, che da una valenza funzionale rispetto alle figureè passato ad avere un ruolo prevalente, nel senso di aspirare a rappresentare di per sé lo stato d’animo o l’emozione generata da una esperienza rilevante. Si pensi alla suggestione di intensa passionalità insita in un rosso dominante, oppure di distaccata contemplatività attribuibile all’azzurro, con le zone intermedie che travalicano dall’uno all’altro. E’ una implicazione che passa anche attraverso l’effetto caldo-freddo fisicamente avvertito grazie all’uso di una diversa gamma di colori che, nelle fasi più esclusive, presentano delle campiture contrapposte.

Da questo studio del colore scaturisce il fascino profondamente avvertito per il bianco, che talvolta permea intere superfici o addirittura le ricopre a mo’ di velo o di sudario, con richiami tanto al candore dell’innocenza, quanto all’idea della morte (il biancore delle ossa, ultimi resti mortali) con tutte le sue implicazioni. In alcuni dipinti si rinvengono anche tracce di figure preesistenti sulla tela poi ricoperte dal bianco pressoché totalmente, con effetti simili alla dissolvenza usata con una telecamera per evitare un’improvvisa interruzione dell’immagine.

L’utilizzo del bianco, oltre alla potenziale inclusività connessa al fatto che esso comprende tutta la gamma dei colori che potrebbero per scomposizione essere ricavati, rappresenta anche un preciso riferimento al carattere di elusiva ambiguità proprio dell’esistenza. Ed è proprio questo, secondo Cesari, il principale motivo per cui l’arte è destinata sicuramente a sopravvivere nel tempo, avendo sempre e comunque qualcosa di nuovo e diversoda dire per rispecchiare contenuti di esperienza che sono costantemente in fieri. Purché non si rinunci a coglierne le antichi radici.

 

1 Pino Pascali, artista assai versatile e poliedrico originario di Polignano a Mare, morì ancor giovane per incidente a Roma nel 1968 mentre era alla guida di una grossa moto.

La chiesa di san Sebastiano in Francavilla Fontana

di Michele Lenti

 

Chi percorre l’antico borgo di Francavilla Fontana, geloso custode di un ricco patrimonio storico – artistico, che si pone come fedele testimone del florido periodo raggiunto dalla città sotto la signoria degli Imperiali può, ad un primo impatto, non essere particolarmente incuriosito da un edificio di culto come la chiesa di san Sebastiano.

Sobria, anzi sarebbe meglio dire austera nelle sue linee esterne, di certo non suscita quello stupore che invece pervade chi ammira l’imponente facciata della chiesa Matrice, che propone le linee di un barocco, disegnato come un fine merletto, su di una struttura la cui grandezza vuole celebrare la profonda devozione francavillese verso la Madonna. Ma la straordinaria

particolare della facciata (ph M. Lenti)

cupola maiolicata, purtroppo ancora coperta da impalcature, e la grande importanza storica e culturale dell’ex Real Collegio Ferdinandeo[1] lasciano presagire quale significativo luogo fosse. In esso si incrociarono storie di vita religiosa e cittadina, di cultura e di arte, ma anche storie di santità come quelle di san Pompilio Maria Pirrotti e del beato Bartolo Longo.

Purtroppo, ancora oggi, è solo possibile presagire un tale ricco patrimonio perché la chiesa è chiusa da oltre vent’anni per restauri iniziati ma mai completati. Per questo, circa dieci anni fa, è nato un Comitato pro chiesa di san Sebastiano[2] che trae ispirazione dagli incoraggiamenti di migliaia di cittadini che visitarono dal 21 dicembre 1998 al 20 gennaio 1999 la mostra fotografica Ottobre 1997 – Ottobre 1998, quattro avvenimenti sacri[3]. Difatti l’istituzionepersegue l’obiettivo del restauro e della rinascita della nostra chiesa, partendo dalla consapevolezza che le segnalazioni d’allarme per la tenuta statica dell’edificio ed i vincoli posti dalla Soprintendenza non hanno finora suscitato quegl’interventi necessari a scongiurare il degrado di questa monumentale testimonianza.

Anche per questo chi scrive vuole, attraverso la sempre più crescente eco di consensi che sta suscitando Spicilegia Sallentina nel mondo scientifico e culturale, ridestare l’attenzione sul possibile recupero dell’edificio, patrimonio della città di Francavilla Fontana e di tutto il Salento.

tela D. O. Bianchi (ph M. Lenti)

Nella seconda metà del XVI secolo la città di Francavilla Fontana e le terre circonvicine, dopo la signoria della famiglia Borromeo e dopo brevi passaggi ad altri casati, fu acquistata dagli Imperiale di Genova, detti poi Imperiali[4], che la possedettero per otto generazioni fino al 1782[5]. Al momento di acquisire il feudo, stando ad una relazione scritta in Napoli negli ultimi anni del secolo XVI per il granduca Ferdinando I, si apprende che gli Imperiali, una volta presone possesso, avevano settantamila ducati di entrata ma ben “settecentomila” di debiti. Nonostante ciò la loro signoria rappresentò una svolta per Francavilla, che osservò una consistente rivoluzione urbana ed un florido periodo economico, sociale e culturale. Così il pistoiese Pacichelli descrive la città durante il suo itinerario per i borghi del Regno di Napoli: Ella è Principato, che col Marchesato d’Oria, un de’ quattro più cospicui del Regno, e Casalnuovo, già Mandria… forma, hoggi lo Stato di un milion di valore, il quale con l’aumento di Marsafra, e della Vetrana, frutta a’ Signori Imperiali trentacinque mila ducati l’anno…Abondante, sempre per più anni, e per più Paesi, di Grano, Vino, Olio, Mandole e altro di delizia… I suoi borghi si posso dire immensi, maestosi, ed à meraviglia ordinati, con le Case commode, e biancheggiate, le botteghe poste in ordine, con gli arnesi, e stoviglie polite, in modo, che sembrano Sagrestie. Non diverso è l’interno, dove comparisce la Via larga, e lunga a tiro d’occhio, nominata Imperiale: si veggono pozzi per riserve del Formento, ha magazeni colmi di Cacio. Il Palazzo, ò Castello in quadro, con fosso di Animali di piuma e Cerviotti, isolato per dimora del Principe e della sua corte è commodo…[6].

In questo contesto sono già inseriti a pieno titolo i padri Scolopi, i quali giunsero a Francavilla, ospiti di casa Imperiali, il 20 gennaio 1682. Essi traggono il loro carisma dall’apostolato di san Giuseppe Calasanzio (Peralta de la Sal, 1558 – Roma, 1648) il quale, una volta giunto a Roma, interpretò in termini più concreti alcune delle istanze pedagogiche promosse dal Concilio di Trento (1545 – 1563), in un secolo socialmente arretrato e maldisposto, in una società in cui nobili e ricchi erano fortemente attaccati ai privilegi di casta e di censo, mentre la stragrande maggioranza della popolazione versava in miserevoli condizioni. In tale contesto il Calasanzio mosse alla conquista della fanciullezza povera col proporle una scuola che avesse finalità di religiosa e sociale elevazione, interessanti non solo lo spirito e la mente, ma la stessa realtà quotidiana della vita e del lavoro; in tal modo, al conseguimento di una retta educazione cristiana veniva aggiunto il beneficio di una educazione civica e di una istruzione umanistica e professionale. Anche per questo immediata fu l’intesa tra i padri Scolopi e la cittadinanza francavillese, se il 19 maggio 1682, a pochi mesi dalla venuta dei frati, fu posta la prima pietra della nuova Casa, costruita a spese dell’università, dei cittadini, dei padri ed in minima parte della famiglia feudataria.

Scrive ancora il Pacichelli che a Francavilla si bandisce l’Ozio con la Negoziazione, e con le scienze, dando opera in una buona casa i Padri delle scuole Pie: tanto che al presente si esercitan nelle Leggi Trenta Dottori, alcuni de’ quali patrocinano in Roma, dodeci nella medicina, e diversi regolari, negli studi Teologici spiccano e ne’ pulpiti[7].

Al collegio dei padri Scolopi, costruito con ordine e buone pietre bianche connesse[8], era stata affiancata la costruzione, voluta e finanziata sia dai padri che dai cittadini[9], della nuova chiesa, di tipo romano, anche se la facciata presenta ascendenze stilistiche più antiche, riferibili all’area abruzzese, in particolare aquilana, ove le facciate delle chiese medievali non hanno timpani, ma sono ornate da partipiani e si concludono, come questa, con cornicioni orizzontali[10].

La cupola, non prevista nel primo progetto, risale al 1728, e si ispira al modello presente nelle chiese romane per quello che riguarda la struttura, specialmente dell’interno, ampiamente sventrato. Essa, primo esempio in Puglia di tal genere, offre, tra l’altro, una decorazione con tasselli di ceramiche policrome, originale, per quei tempi, nel Salento, ma già allora ampiamente in uso nelle coperture delle cupole napoletane e campane. Fu questo, di certo, un significativo apporto dato all’arricchimento del patrimonio ecclesiale della regione da parte dei padri delle Scuole Pie attraverso l’opera dell’architetto manduriano padre Benedetto Margarita, che molto contribuì alla fase operativa riguardante la traduzione materiale del progetto di costruzione della chiesa.

La nuova fabbrica, pertanto, sorta su un precedente luogo di culto, misura trentuno metri di lunghezza e nove di larghezza e, pur essendo a navata unica, si sviluppa a pianta basilicale con ampia aula, completata da tre cappelle su ambo i lati longitudinali, con un ingresso, con l’area presbiteriale e con la sacrestia. Il primo tratto di questo complesso, che misura ventuno metri circa, è coperto con volta a botte lunettata, con quattro lunette per lato, ed ha un’altezza, all’imposta di 11 metri, in chiave di 15,50.

Nella navata si accede tramite un atrio rettangolare, delimitato a sinistra dal vano battistero, a destra da quello di ingresso secondario e, di fronte, da due colonne a bulbo realizzate successivamente. La differenza di volume tra l’atrio e l’aula assembleare, l’abbondanza di luce che filtra dalle ampie finestre, presenti all’interno delle lunette della volta, la considerevole altezza della volta di copertura nonché della cupola, la ritmicità e la snellezza dei pilastri accentuata dalle paraste, caratterizzate da ampie scalanature, conferiscono, a coloro i quali visitano questa chiesa, una intensa sensazione di coinvolgimento spaziale.

La volta, finemente decorata con cornici mistilinee, poggia su una trabeazione aggettante che circoscrive l’intera aula ed è sostenuta da quattro pilastri – contrafforti per lato, di cui gli ultimi due, uno per lato, sono i piedritti dell’arco trionfale. I primi tre pilastri, per lato, hanno dimensioni di metri 1,80 per 0,90 ed altezza di metri 10, coincidente con la chiave dell’arco di accesso delle cappelle. Queste ultime sono incastonate tra pilastri – contrafforti con capitelli compositi che reggono una trabeazione aggettante e proseguono, per breve tratto, a mo’ di pulvino, per definire il piano di imposta della volta di copertura.

Il presbiterio ha forma quadrata, con metri 9,50 di lato, e si sviluppa in altezza per metri 35 tramite pennacchi, tamburo, cupola e lanternino. Il tamburo, elemento elegante e ben ripartito da lesene a quattro finestre ed altrettante finte finestre, raggiunge un’altezza di metri 7,50 con un diametro di metri 9,50 ed uno spessore di cm 80.

La cupola scarica le sue forze su quattro pilastri, due come conclusione della navata, cioè i piedritti dell’arco trionfale, mentre gli altri due sono situati negli angoli opposti. Questi ultimi, essendo staticamente asimmetrici, hanno indotto il costruttore a sovradimensionarli per poter equilibrare le forze.

Il barocco presente all’interno della chiesa si dipana nei minuti particolari degli stucchi eleganti del soffitto e dei cornicioni, dolcemente illuminati attraverso i finestroni, e come risulta dalle vivaci volute dei capitelli compositi.

Partendo da destra di chi entra le cappelle laterali sono dedicate a san Francesco da Paola, san Roberto, sant’Elzeario[11], san Gaetano di Thiene, san Giuseppe Calasanzio e san Giuseppe.

Madonna col Bambino tra i SS. Francesco da Paola e Filippo Neri del Carella (ph M. Lenti)

Di questi sei altari i primi quattro furono realizzati nella seconda metà del ‘700 in stucchi policromi, mentre degni di ammirazione, da un punto di vista artistico, sono gli ultimi due: quello dedicato a san Gaetano da Thiene fu costruito da Brigida Grimaldi, vedova di Michele, secondo principe di Francavilla, come indica l’iscrizione posta su un cartiglio al di sopra della cornice del quadro: Tutelari suo Birgitte Grimaldi Imperiali posuit 1700. L’ultimo, dedicato a sant’Elzeario[12], fu voluto dalla principessa Irene di Simeana, moglie di un altro Michele, terzo principe di Francavilla[1], come indica l’iscrizione posta sulla sommità della cappella: Iren Delphinae sim. In honorem dicavit.

Entrambi gli altari, scolpiti in pietra a Lecce, in quel periodo fiorente cantiere di arte barocca, furono montati in spazi più stretti rispetto all’impianto per il quale erano stati eseguiti, affastellando colonne e nascondendo figure e decorazioni che sembrano pensate e scolpite per spazi più ampi.

Le colonne tortili da cui pendono angeli, fiori ed animali, intrecciati in una fantasia di merletti intricati e perfetti nei particolari, rappresentano un unicum a Francavilla Fontana, dal momento che esecuzioni del genere si preferirono in altre chiese cittadine prettamente barocche.

Le tele di questi due altari raffigurano la Vergine ed il Bambino con san Gaetano da Thiene e la Vergine con i santi Elzeario de Sabran e la beata Delphine de Signe, dipinte da Diego Oronzo Bianchi da Manduria (1683 – 1767). In entrambe sono stati rilevati influssi di Luca Giordano e Francesco Solimena, il primo dei quali si dice sia stato maestro del più insigne rappresentante della famiglia Bianchi, vale a dire l’abate Matteo Nicolò[13].

Sempre Diego Oronzo Bianchi é autore di un’altra tela raffigurante la Madonna col Bambino tra i santi Francesco da Paola e Filippo Neri, risalente al 1723 ed un tempo collocato sul lato destro del presbiterio della chiesa[14]. Anche qui, come nei precedenti quadri, una delle principali caratteristiche è data dall’affollamento dei personaggi, che qui si accompagna alla vivacità sottolineata dal dinamismo degli angeli che sembrano accompagnarsi alla luce che illumina la scena principale, senza dimenticare la plasticità della figura del Bambino Gesù. Soprattutto ritroviamo, qui, quell’armonia delle forme ravvisabile nel volto della Madonna, capace di coniugare, in sé, dolcezza e tristezza. Tra i pittori che hanno arricchito il patrimonio artistico della chiesa di san Sebastiano, vanno annoverati, infine, il Carella ed un certo Todero di Francavilla, maestri di quella scuola pittorica voluta dai feudatari in san Sebastiano e diretta, per un certo tempo, da Ludovico e Modesto delli Guanti, formatisi presso la Casa degli Scolopi. In particolare il Carella ripropone, quasi a distanza di trent’anni, lo stesso soggetto pittorico rappresentato da Diego Oronzo Bianchi, senza aggiungere nulla di nuovo se non una maggiore simmetria e spazialità di cui sembra godere ciascuna figura, avvolta, tra l’altro, in tonalità cromatiche più calde, con tratti più dolcemente sfumati rispetto all’originale.


[1] Michele Imperiali nel 1696 sposò a diciannove anni, Irene, figlia di Giovanna Maria Grimaldi di Simiana, famiglia facente parte della corte Sabauda di Torino. Portò in dote al principe francavillese terre per un valore di 30.000 ducati ed i titoli ereditari di marchese di Piavezza, Livorno, Castelnuovo, Roatto e Maretto, di signore di Capriglio in Piemonte, del Dego, Piana, Cagna e Gesualla in Monferrato” (P. Palumbo, Storia di Francavilla Fontana, Libro IV, I Principi Imperiali, Noci 1901.


[1]Oggi sede della Scuola media statale “Vitaliano Bilotta”

[2] Cf. A.A.V.V. San Sebastiano. Immagini, Architettura e Storia, a cura del comitato “Pro Chiesa san Sebastiano”, 2000, Francavilla Fontana.

[3] Cf. Ibidem.

[4] Il 15 agosto 1579 il feudo di Francavilla Fontana viene acquistato da Davide Imperiali senza ipoteca o limitazione alcuna, e ciò comportava ampi diritti non solo sulla tassazione di ogni attività e reddito, ma anche sulla giurisdizione civile e penale.

[5] Ultimo degl’Imperiali fu Michele IV, che morì senza eredi, lasciando il feudo, per testamento, al marchese di Latiano, Vincenzo Imperiali, suo parente prossimo.

[6] Cf. Pacichelli G. B., Il Regno di Napoli in prospettiva, II, 1703, rist. anast., Bologna 1975, Forni editore, 181–182.

[7] Cf. Ibidem.

[8] Cf. Ibidem.

[9] Anche per questo, probabilmente, l’epigrafe che ricorda l’evento non da merito specifico ad alcuno: Funditus erecta primo lapide solemniter benedicto die XX oct. MDCXCVI. 

[10] Questa particolarità architettonica lega la nascente casa degli Scolopi al celebre studentato che gli stessi padri ebbero a Chieti

[11] Elzeario da Sabrano (in francese Elzear de Sabran, 1285 – 1323), fu un nobile italiano di origine francese che, nel 1299, sposò Delphine de Signe (1283 – 1360). Entrambi i coniugi fecero voto di castità entrando, successivamente, nel Terz’Ordine Francescano. Nel 1312 Elzeario prese possesso dei suoi feudi in Italia e partecipò alla difesa armata degli Stati della Chiesa contro l’Imperatore Arrigo VII di Lussemburgo; nel 1317 fu scelto dal nuovo re, Roberto d’Angiò (1277 – 1343) come precettore del suo erede, il duca Carlo di Calabria: per conto del sovrano, nel 1323, si recò in Francia per trattare il matrimonio della principessa Maria di Valois con il duca Carlo, ma si ammalò durante la missione e morì presso la corte francese. Fu sepolto con l’abito francescano nella chiesa dei Frati Minori di Apt. Papa Urbano V (di cui Elzeario fu padrino di battesimo), ne decretò l’eroicità delle virtù e ne approvò la canonizzazione, che venne ufficialmente decretata dal suo successore, papa Gregorio XI, il 5 gennaio 1371. Elzeario de Sabran non va confuso con il nipote Eleazario da Sabrano (morto il 25 agosto 1380), vescovo di Chieti dal 1373 fino alla nomina cardinalizia nel 1378.

[12] Elzeario era il nome del fratello della principessa Irene di Simeana, la quale aveva, come secondo nome, Delfina, lo stesso della moglie di Elzeario da Sabran.

[13] Cfr. Del Prete P., Una famiglia di pittori pugliesi nel ‘700, in “Iapigia, rivista di archeologia, storia e arte”, Anno V, fascicoli I – II, Bari 1934.

[14] Oggi il quadro è conservato presso la sede della Diocesi di Oria.

pubblicato su Spicilegia Sallentina n° 6

Galatina. La spaccata

la spaccata

di Pippi Onesimo


La sceneggiata de le Signurine coinvolte nel rituale della quindicina della Rusetta si svolgeva con partenza da Piazza San Pietro, dal lato del Castello, e si sviluppava con studiata lentezza, costeggiando tutto il sagrato della Chiesa Madre.

Pare che il Parroco, stando alle male lingue che trasmettevano da “Radio Fante“, avesse più volte tentato di far cambiare piazza e abitudini. Ma invano!

Ingoiò amaro per alcuni anni; ma alla fine (cu llu tiempu e cu lla paja se mmatùranu le nèspule) riuscì a realizzare la sua piccola, silenziosa, sottile rivincita.

Con l’aiuto della politica e… della Democrazia Cristiana, in particolare, ottenne il clamoroso (per quei tempi) risultato di far chiudere la Rusetta, ancor prima che la legge Merlin entrasse in vigore.

Sempre la stessa Radio riferiva che, cercando il pelo nell’uovo, si riuscì a compiere il misfatto con la scusa della carenza di alcuni requisiti igienici riscontrati nei locali della Casa.

Ma, secondo l’ipotesi più accreditata e più attendibile, le fortune della Rusetta finirono quando si scoprì, dopo tanti anni di onorato servizio, che non sapeva leggere.

E, apriti cielo, il suo analfabetismo le fu fatale!

La stessa Autorità che le aveva concesso la licenza, dopo molti anni si accorse misteriosamente (ma non tanto) che la Rusetta non aveva i titoli culturali per esercitare quel mestiere.

Infatti sorse spontanea subito una angosciante domanda: chi controllava i documenti di identità dei clienti per accertare la maggiore età (allora 21 anni), la sola che consentiva l’accesso nelle alcove?

E fu così che anche la Rusetta dovette constatare con profonda amarezza, che quando te pija de punta una triade vincente, e allora lo era veramente, fatta de prèvati, sacristìe e democristiani èranu(?) mari!

In molti sostennero che fu fatta una questione di lana caprina, perché alla Rusetta bastava il naso e l’esperienza per distinguere l’età dei clienti.

Ma la legge è legge, anche per la Rusetta: e, a malincuore, raccozze li fierri (sbaraccò) e chiuse i battenti.

A Lei rimase il sapore dell’affronto, ai clienti solo quello della delusione.

Anche perché non era ancora previsto nel nostro codice penale il reato di sfruttamento della prostituzione.

Oggi, invece, non solo è in vigore, ma è anche balzato prepotentemente agli onori della cronaca, per certe presunte frequentazioni eccellenti, anche col “bunga bunga“, le quali, se vere, al di là dei cavilli procedurali e della loro contestata e disquisita valenza penale, provocano, per l’evidente indecenza dei messaggi che ne deriva, disgusto e imbarazzo.

Comunque sia, qualunque attività, soprattutto economica, ha avuto sempre bisogno di una adeguata pubblicità. Era, ed è, una elementare legge di mercato.

In altri termini, la spaccata (l’attraversamento solenne e pomposo del centro del paese) doveva cominciare proprio da lì. E la Rusetta, che conosceva profondamente il mestiere in tutti i suoi particolari, non trascurava certo nessun pur minimo dettaglio e, quindi, sapeva benissimo come pubblicizzare la sua mercanzia!

Infatti, pe lle Signurine, dopo le prescritte visite mediche presso un medico condotto con bottega nelle immediate vicinanze di Piazza San Pietro, come in un copione non scritto, diventava di rigore fare la spaccata a piedi, accompagnata da brevi bisbigli, velati sorrisi e da occhiate intense ed eloquenti, sulla via de l’Oruloggiu (Corso Vittorio Emanale).

Questa strada, insieme alla via de lu Municipiu (Corso Umberto 1°), alla Chiesa Madre, alla Chiazza (Piazza San Pietro) e alla via de lu Tàrtaru cu lla Chiazza cuperta (il mercato coperto comunale), era veramente, allora, il centro propulsore del tessuto cittadino.

Non a caso si usava dire: “mò vau e bbegnu de la chiazza”, o, ”mò rrivu ‘n attimu alla chiazza“, magari per ascoltare i comizi elettorali (mitici quelli de lu Chirenti, de lu Moru, de l’Onurevule, de lu Petrujaru), o per incontrare gli amici, o per fare acquisti, o intrecciare affari fra Piazza San Pietro, la Pupa e Piazza Alighieri, dove si svolgeva anche il mercato settimanale.

Al loro passaggio, proprio all’imbocco del Corso, i clienti de la piscialora (per lo più vecchietti con problemi di prostata, che visitavano di frequente i gabinetti igienici), costruita dalla Amministrazione comunale con spudorata irriverenza proprio sul lato sinistro della Chiesa Madre e poi demolita verso gli anni ’50, rallentavano il passo.

E, nonostante l’urgenza, si fermavano per brevi istanti, macari thrinchiandu (trattenendo a stento), ma incuriositi, divertiti e… quasi scurnusi per i cattivi, anche se solo platonici, pensieri.

La probabilità di incrociare, qui, qualche terzetto de pizzoche ‘ndolurate (pie donne) non era tanto remota, stante la vicinanza della sagrestia; e, se succedeva, potevi ascoltare un breve, sommesso, velato, appena sussurrato, o quasi biascicato, ma bruciante commento: “nnu bbu scurnati, brutte pulandhre scamuse” (oggi si dice escort con benevola finzione!).

Le Signurine, maliziosamente indifferenti, oltrepassavano, da sinistra, lu stagninu (mesciu ‘Raziu Caballu) che, anche lui frastornato, nonostante l’età, per un attimo riponeva il martello col quale batteva le cazzalore (le pentole) de rame russa per gustarsi il passaggio.

Subito dopo si affacciavamesciu Cici Putenza, trascurando brevemente tarloci e sveje in riparazione, per dare una sbirciata di circostanza, o forse per sbollire un po’ di amarezza e di rabbia per una minaccia di sfratto dall’ angusto sgabuzzinu di proprietà della Parrocchia, prima preannunciata e poi attuata.

Da destra, le putie de ”Caccia e pesca” e de li ”Cappieddhri” de lu Rumanu , a quell’ora, erano quasi deserte.

Subito dopo, sulla sinistra, lu Turicchiu , breve, alto, sottile in camice bianco (il gestore di un noto e attrezzato negozio di generi alimentari) compariva come un’ombra sull’uscio, disinteressandosi della sua “salame allu pistacchiu o allu pepe“ (la mortadella), che solo lui riusciva a tagliare a fette sottili, quasi trasparenti, con una abilità altamente chirurgica, per evitare “menamentu“ (residui invendibili), diceva, manovrando con rara abilità una affettatrice azionata a mano.

Lasciavano, sulla loro destra, la Cartoleria Mengoli, piena zeppa di quotidiani, riviste, giornalini (mitici quelli di Topolino edi Tex), pupazzetti, bamboline, tombole, dadi, dame, scacchi, panarini pe lla mescia, cartelle e valigie di cartone e di stoffa, pennini, calamai, quaderni a righi de prima pe ll’aste, de seconda pe lle vucali e a quadretti, libri di lettura e sussidiari per le scuole elementari, lapis e gomme, modellini di automobili (indimenticabile la serie che riproduceva tutti i modelli Fiat fino allora prodotti ), pipizze e tamburelli, e poi tante altre incredibili, inimmaginabili cianfrusaglie.

Accanto si poneva la Pethrina Nuzzu con le sue indecifrabili chincaglierie, che esercitava di fronte alla putia de lu Scarpa, con la quale duellava in una inevitabile, sottile, rispettosa e leale concorrenza… merceologica, anche se sulu lu Scarpa deteneva, con legittimo vanto, il primato della vendita de li buttuni (di tutti i colori, di tutte le qualità e di tutte le grandezze, ma non quelli foderati, di competenza esclusiva de lu Solidoru).

Spulette, matasse, cumìtuli de cuttone e de lana, bucate de madreperla, buttuni, achi, disciatali pe lle nfiamature , chiusure lampu pe lle gonne e pe lle pitacce, làstiche, ciappe e buttuni automatici pe lle carzunette, nasthri e nashtrini ( compresi quelli tricolori), spille (anche quelle di sicurezza ), spilloni, frange e cordoncini, methri e forbici de sartu ecc… erano le loro armi di battaglia.

Lu Bar de le signurine Ascalone, all’angulu de lu Monte de Pietà, che profumava sempre de crema, pasticciotti e mustazzòli, attirava la loro attenzione, ma…passavano prudentemente oltre, anche perché la cera de la signorina Filomena (zzi’ Nena, per pochi intimi), quasi sempre stirata, con in mano l’immancabile tazzina di caffè e con la testa avvolta in un eterna aureola di fumo di sigaretta, non incoraggiava certo la visita di certe clienti.

Di fronte, ben in evidenza, luccicavano nieddhri, spille, ricchini, tarloci, cuantiere d’argentu e ppendindiffi, (dal fr. pendentif: ciondolo applicato alla collana)esposti, come specchietti per le allodole, nella vetrina della Oreficeria de lu Pignatelli.

Superavano Corte Taddeo, con in fondo, subito dopo la sacrestia, abbastanza defilata la Casa paterna dei “De Maria”, poi la putia de l’Astarìta col suo odore misto di concimi, di spezie e di muffa, e la putia de mobili de l’Angiulinu Belfiume, dove una stanza da letto, allestita ben in vista, ammiccava con inopportuna sfacciataggine.

Inevitabilmente sfilavano de fronteallu Corpu de Cuardia, allora sotta ‘lla Torrre de l’Oruloggiu, da dove il piantone di servizio con la sua candida divisa, lustra ed immacolata, in piedi e a capo scoperto sul portone d’ingresso, osservava il corteo in doverosa compostezza istituzionale.

Accanto alla Barberia Mengoli sostavano in religioso silenzio, in attesa di ricevere ordini dal Capucuardia, lu Ttammone Cchiappacani e lu Cici Schiancatu, i quali, più che incaricati di pubblico servizio, erano due istituzioni civiche: uno addetto al controllo dei cani randagi, l’altro responsabile della nettezza urbana.

Due servizi gestiti direttamente dal Comune, che funzionavano egregiamente (allora) per lo scrupolo ed il senso del dovere degli addetti ai lavori.

L’occhi, però, loru menàvanu spittareddhre, anche se ostentavano una malcelata, diplomatica, marpiona indifferenza.

Don Pantaleo, lu Capucuardia, che aveva osservato tutta la scena, seminascosto nel buio in fondo allo stanzone, li richiamava all’interno degli Uffici per affidar loro qualche mansione.

Forse, era solo una scusa per un scrupolo recondito e inespresso di pudore!

Allora, la dignità e il rispetto per le Istituzioni, quelle che sonointese come espressione democratica della collettività e non come orticello personale,erano due valori che avevano ancora un senso.

Oggi c’è solo avanspettacolo, affarismo e ricerca disperata di visibilità mediatica. Anche a livello locale.

Basterebbe assistere, se si ha stomaco, a qualche seduta delle Camere, o, senza andare lontano, di Consiglio Comunale!

Lu Corpu de Cuardia era accampato, fino a pochi anni fa, a piano terra (ora è a Palazzo e si chiama Corpo di Polizia Locale: come dire, è salito di piano e di… tono) in un solo androne con due stanzette di quattro metri quadri ciascuna adibite, una a Ufficio Comando e l’altra a ufficio amministrativo, poi destinata al vice Capucuardia.

Vi era anche un bagnetto di in…decenza, talmente angusto e ristretto da consentire una sola sconfortante postazione, che si raggiungeva superando un gradino sottoposto.

L’arredo era composto da poche, misere suppellettili: poche sedie, un armadio di legno, due serie di attaccapanni a quattro posti appese al muro, una rastrelliera per le biciclette ed un separé, che delimitava una parte dello stanzone, costruito diligentemente in compensato con sportello e davanzale, sul quale era poggiato il registro degli ordini di servizio e quello di registrazioni delle contravvenzioni.

Al di là, operava il Piantone. Vi sostavano momentaneamente anche le cuardie, che, dopo aver consultato il registro dei servizi, erano già pronte ad andare in strada col passante della visiera della còppula, tirato in giù ed usato come sottogola.

Questo era il segnale che erano comandate in servizio di viabilità.

Tale abbigliamento (il sottogol), semplice e disadorno, era anche il segno delle grandi ricorrenze e delle cerimonie ufficiali: la scorta al Gonfalone, al Sindaco pe llu Còrpusu, ai lati dell’Altare e del Monumento ai Caduti pe lla festa de lu quatthru novembre e pe lla Messa de Santu Sebastianu.

E, a tal proposito, don Pantaleo, le cuardie, lu Sindacu e lu Ucciu De Donnu, quasi nascosti cu quatthru pizzoche nella navata sinistra del Sacramento nella Chiesa Madre, celebravano la ricorrenza del Protettore, partecipando alla prima Messa mattutina e poi, in silenzio, senza clamori e passerelle, ritornavano tutti in servizio.

Una coppia de cuardie, destinata alla perlustrazione delle strade di periferia, intanto trascinava giù dai gradini del portone d’ingresso due biciclette prelevate dal parco ciclomezzi (la rastrelliera), ma si fermava un attimo in attesa che la sfilata finisse.

Già prima, all’interno, avevano accuratamente controllato la pressione delle ruote, utilizzando pompa manuale e curasciùlu ( rigorosamente di dotazione ) e la integrità della borsetta dei ferri, appesa sotto la sella.

Le prime mitiche moto “le Gilera o le Guzzicu lluUcciu e l’Aureliu, che elevavano contramenzioni con inflessibile determinazione, “piacqua o non piacqua “, erano ancora nel libro dei sogni.

Accanto a un armadio, quasi seminascosta, era poggiata al muro una ingombrante pedana per pizzardone, distratta da tempo dal suo compito istituzionale e usata solo il giorno dell’Epifania per ricordare la ricorrenza della “Befana del Vigile“.

Infatti veniva posizionata in Piazza San Pietro, dove cittadini e commercianti depositavano i loro doni.

Quel rito, spontaneo e simpaticamente paesano, che, al di là del suo valore venale, aveva sopratutto il senso di pesare la stima e l’apprezzamento della collettività, andò avanti per alcuni anni; poi si dissolse nel nulla, senza alcun editto, in silenzio così come era nato.

I tempi erano già cambiati!

 

Pubblicato su Il filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per averne autorizzato la riedizione

 

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!