Rachele Andrioli pluripremiata alla diciannovesima edizione del Premio Nazionale Città di Loano per la Musica Tradizionale Italiana
di Giuseppe Corvaglia
L’anno scorso è stata premiata Alessia Tondo, nel 2018 il Canzoniere Grecanico Salentino, di cui Alessia Tondo era la voce, e quest’anno Rachele Andrioli ha ricevuto ben due premi a questo Premio Nazionale Città di Loano per la Musica Tradizionale Italiana: quello come migliore artista giovane e quello come miglior disco.
Giovane lo è ma esprime tanto di quel sapere antico e tanto estro musicale che produce una musica nuova, particolare, molto gradevole e viene da chiedersi se questa sia musica popolare, musica contemporanea o musica elettronica. C’è poco da discutere: è musica, anzi a me sembra buona musica.
La musica, come la vita deve evolversi, questo vale per la musica tradizionale e per la musica moderna e contemporanea, che inevitabilmente si evolverà. La musica tradizionale poi deve comunicare emozioni e sentire comune con la consapevolezza di quella che è la cultura del passato, ma deve pure fare uno sforzo a interpretare in maniera originale il presente, certo sempre nel rispetto della tradizione.
Già nel 2018 al festival si parlava di “Rigenerazione” perché la musica deve rigenerarsi. Poi c’è la riproposta filologica o, comunque, più tradizionale “classica”, ma il percorso deve essere quello di un progredire.
Questa di Rachele Andrioli è musica nuova che usa la tecnologia, inflessioni, suggestioni nuove, ma con una voce salentina popolare con i suoi fraseggi, i suoi timbri, il suo vigore, la sua dolcezza… e poi il tamburo a cornice che, quando attacca col suo ritmo, ti cattura.
Nel pomeriggio del 27 luglio il Premio ha incontrato l’artista ai Giardini del Principe; l’ha intervistata il giornalista Sergio Albertoni e Rachele con grande semplicità si è fatta conoscere come donna, come cantante e come musicista, anche se questi due aspetti poi ce li ha disvelati compiutamente la sera sul palco.
Il CD “Leuca” è un bel disco. Rachele si racconta. Non racconta solo la sua storia, ma anche altre storie e, forse inconsapevolmente, un po’ racconta la storia.
Mi riferisco ad Amareggiata dove la tristezza e la disperazione si fondono in un termine che rievoca la partenza e il distacco, la furia del mare la disperazione legata a un esile filo di speranza per il futuro e la dipartita.
In quella canzone si parla di emigrazione, di paura, di voli più arditi e rischiosi di quello di Icaro ed infine di morti per annegamento. E questa è storia di oggi. Come storia di oggi, quella della convivenza e della multiculturalità che ormai è un dato di realtà, come racconta la canzone “Tutt’eguale song’ e criature” presa da Enzo Avitabile …
In queste storie la cantante, spesso, racconta il suo vivere in una terra vista da sempre come terra di frontiera, “Finibus terrae” e racconta anche la sua storia, la storia di una bambina che voleva andare a giocare sotto un grande noce e non poteva raggiungerlo perché l’albero stava in un giardino segreto, inaccessibile a lei (Dove cresce il noce è nata la mia voce). Allora decide di comunicare con lui cantando dalla finestra e canta le canzoni che la circondano, quelle che sente dalla zia, dai vicini di casa, da chi le sta intorno.
Da allora quella bambina è cresciuta, ma continua a comunicare col mondo cantando.
Come dice lei, quando ha preso consapevolezza di questo suo dono, che fosse per gioco o che fosse per comunicare qualcosa, ha assorbito melodie, parole, tecniche e modi di porgerle e le offre agli altri.
Il giornalista insisteva nel voler sapere chi fosse stato o fossero stati gli alberi del canto all’ombra dei quali lei fosse cresciuta e Rachele non comprendeva a cosa si riferisse. Lui pensava a Officine Zoè, Cesare Dell’Anna o a Uccio Aloisi, ma, per quanto quando la cantante interagiva con loro fosse giovanissima, lei ha vissuto questi personaggi importanti della musica popolare salentina come compagni di viaggio generosi più che come “maestri” perché lei si sentiva come un’ape laboriosa che suggeva nettare da tutti i fiori, da tutte le piante di quel giardino che era il mondo popolare salentino, che fossero Uccio Aloisi o la zia, Zimba o i vicini di casa attempati che cantavano per diporto o per sfogarsi, per stare insieme a divagarsi o per esprimere il proprio stato d’animo: non c’era solo un albero del canto, ma un giardino segreto del canto e in questo giardino ogni fiore, ogni albero, forniva quel nettare che produceva miele, che è quella musica, e consentiva e consente quell’impollinazione che genera vita, piacere, godimento al giardino stesso fatto di compagni di viaggio illustri, ma anche di vicini di casa, compagni di gioco, zie accoglienti, amici…
Certo affettuosa riconoscenza per tutti e consapevolezza di quanto ha ricevuto che la porta, per esempio a fare un omaggio a Rina Durante proponendo in maniera originale una canzone, “Luna Otrantina”, musicata da Daniele Durante e proposta dal Canzoniere Grecanico Salentino.
Mi è piaciuta la parentesi sulle ninne nanne. Nel disco ce ne propone una bellissima e struggente, “Te spettu”, che parla della partenza dell’amato, del distacco, dell’attesa, ma nell’incontro pomeridiano ce ne propone una molto bella e a una domanda del pubblico che chiedeva cosa significassero i primi versi “Nanu, nanu, nanu” o “Nellu, nellu, nellu”, spiega che quei versi non hanno un significato proprio, ma servono da introduzione che consentirà di legare con una rima la strofa che è il nucleo del brevissimo racconto.
Per esempio, dico io, di un bimbo bellissimo agli occhi della madre
“e nazzu, nazzu, nazzu
Tantu beddhru ce ne lu fazzu
Mo venine le Fate
Ne lu portane an Palazzu”
(Cosa ne farò di questo bimbo bellissimo che per essere tale sarà rapito dalle Fate) dove non è la paura del rapimento che si esprime, ma il compiacimento per la bellezza di quella creatura.
Oppure la narrazione di una storia d’amore infelice
“E none, none, none
No’ mannare ca no te ole,
l’aggiu mannatu ieu
e aggiu perse le parole”
(Non dichiarare il tuo amore che è tempo perso. Io l’ho fatto e sono state parole sprecate) intendendo che quella donna ha un cuore duro.
Il fatto è che la ninna nanna è “terra franca” serve a far addormentare il bambino che fatica a prendere sonno con il canto dolce e le parole, che l’infante non può comprendere, sono solo un pretesto, ma quelle parole non devono essere ordinarie, devono essere speciali e più che raccontare una storia devono evocarla lasciando spazio alla fantasia.
La ninna nanna che ha proposto Rachele nel pomeriggio recita:
“E none none sia
Ddurmiscimelu tie Madonna mia
… E sole sole sole
Sole ingannatore
Durmiscimelu tie nu paru d’ore
E nanu, nanu nanu
Quannu lu nzuru lu mannu luntanu…”
Questo è uno sfogo di una mamma che non riposa più perché il figlio non dorme e si rivolge alla Madonna che lo faccia dormire o anche al sole che lo tiene sveglio (sole ingannatore) e la mamma vorrebbe che dormisse almeno per un paio d’ore per fare qualche faccenda o riposare lei stessa.
Mi sembra di vederla la mamma che dice queste cose, se vogliamo con una punta di fastidio, ma che non può fare a meno di dirle con un sorriso amorevole.
Arriva la sera e Rachele sale sul palco apparentemente fragile con un flauto armonico (zumpettana) dal suono ancestrale, quasi precario, impreciso eppure molto evocativo. Poi attacca a battere il tamburo a cornice e la voce che si era presentata come discreta quasi in sordina esce con tutta la forza accompagnata dal ritmo incalzante del tamburello.
A quel punto non servono le parole, parla la musica di Rachele che racconta le sue radici salentine ma anche la ricerca e l’incontro con le culture del mondo, in particolare di quelle terre di confine, come la sua “finis terrae”.
Ed ecco “Leuca” un concerto molto bello che evoca sonorità accattivanti e gradevoli servendosi degli strumenti citati e di una loop station che ripete suoni e inserisce anche quel coro che ha costruito Rachele e che si chiama Coro a Coro (evocando “core a core”, una frase che fa pensare a unità, sintonia, vicinanza, complicità, terapia, mettersi in gioco, comunità … stare bene.) presente nel disco e da considerare come un’esperienza, che nel tempo si è estesa numericamente e geograficamente, davvero interessante, non solo per quello che produce, ma proprio per quello che è.
Alla fine, non solo la giuria, ma anche il pubblico ha apprezzato quest’artista salentina che ci riserverà di sicuro altra musica eccellente.
Uno dei problemi ancora irrisolti dello studio dei dialetti riguarda la fase principale, cioè quella della trascrizione, dalla quale tutto muove. Pur tenendo conto delle difficoltà che nella raccolta del materiale orale sono connesse con differenze più o meno percettibili nella pronuncia, spetta allo studioso registrare e trattare il lemma senza, possibilmente, ricorrere a forzature semantiche o fonetiche o a comode quanto dubbie attribuzioni di marca grammaticale. Sono dell’avviso che, finché un fenomeno è interpretabile col già noto, è inutile ricorrere a giustificazioni che ben poco hanno di scientifico e sanno di espediente più o meno autoritariamente furbesco.È il caso dei due nessi di oggi, soprattutto del primo, dal quale comincio. E lo faccio riportando, e potevo fare altrimenti?, il trattamento riservatogli dal Rohlfs.
Jatu, dunque, ha il suo esatto corrispondente nell’italiano beato, rispetto al quale mostra l’aferesi di b-, fenomeno normalissimo (bilancia/iḍḍanza; botte/otte; bocca/occa, etc. etc.). Mi permetto di non condividere quel jata forma invariabile quando è in composizione con la preposizione a: nella pronuncia dei parlanti una differenza più o meno percettibile (come succede nel caso di un’elisione) può indurre a grafie diverse e nel nostro caso le grafie jat’a ttie (beato a te), jat’a iddu (beato a lui) e jat’amme (beato a me, sottinteso in tutti dico) come, invece, è avvenuto in iat’a iḍḍhu, non avrebbero costretto a ricorrere a quel comodo jataforma invariabile. Ne approfitto per precisare che la forma con aferesi a Nardò ricorre solo nel nesso del quale stiamo trattando; le forme puramente aggettivali, invece, sono biatu/biata/biati/biate.
Sulle orme del Rohlfs si muove il Garrisi.
Negli esempi riportati al n. 1 del lemma iatu è chiaro il valore aggettivale in perfetta concordanza con il sostantivo che l’accompagna. Al n. 2, invece, si parla di aggettivo indeclinabile, dicitura omologa al formainvariabile. Osservo anche qui che iata alle soru toi! vale dico (sottinteso) beata alle tue sorelle! e la mancata concordanza al plurale per iata è dovuto al fatto che il beata è detto a ciascuna delle sorelle. Di conseguebza, gli esempi del lemma iata per me vanno scritti così: iat’a ddi frati toi!, iat’alli ii e no alli muerti!, iat’a dde case a ddu na chierica nci trase.
Ora, per quanto il Rohlfs sia un indiscusse ed indiscutibile maestro e, pur ipotizzando che i dati fornitigli dai suoi informatori locali siano attendibili (cosa che non sempre avviene), c’è una sensibilità, direi genetica, legata alla terra d’origine ed al dialetto in essa parlato. Sotto questo punto di vista il suo vocabolario ha del miracoloso, ma niente è perfetto. E se un tedesco ha dato vita ad un’opera monumentale, sarebbe opportuno che qualche salentino ogni tanto, pur pigmeo di fronte ad un gigante, si ponesse qualche dubbio, sfruttando proprio una, almeno teoricamente, sufficiente dimestichezza con il proprio dialetto. Le osservazioni che ho fatto hanno bisogno di un corollario, costituito da quanto mi permette di far notare l’esatto opposto del lemma finora oggetto del contendere: maru (amaro) anch’esso con aferesi (ma è una semplice coincidenza) come iatu rispetto a beatu.
Maru, intanto, è in uso come aggettivo, ma ricorre pure in locuzioni esclamative come mar’a tte! (guai, alla lettera, amaro per te!), mar’a llu muertu ci non è cchiantu allora! (guai per il morto che non è pianto al momento!). Anche qui mar’ (da maru con elisione) mi appare come aggettivo sostantivato (cosa amara) o ellittico del sostantivo (destino).
Il lemma è trattato dal Rohlfs nel modo che segue.
In la maru ciucciu la testimonianza è letteraria e, come spesso succede nella letteratura dialettale la scrittura può risente delle ridotte capacitò filologiche degli autori; in questo caso, però,l’autore (Francesco Morelli, Canti invernacolo, Lecce, 1935) ha al suo attivo parecchie altre pubblicazioni1 e, anche se questo non è garanzia di affidabilità, è più probabile che si tratti di un errore di stampa (nella pubblicazione originale 2 o nella citazione) per lu maru ciucciu più che per l’amaruciucciu.
Passo ora al rimando che ci riguarda più da vicino.
In tutti gli esempi riportati (tranne due, in cui la diversa grafia può essere legata, come detto, alla pronuncia) compare mar’, per il quale, a differenza di jata non si parla minimamente di forma aggettivale invariabile e il guai a della definizione potrebbe tradire una valutazione, non dichiarata, di mar’ come aggettivo sostantivato.
Vediamo ora cosa si legge nel Garrisi.
I due lemmi dimostrano emblematicamente come la pronuncia può indurre a valutazioni grammaticali errate e ad una altrettanto errata riproduzione grafica: nel secondo lemma Mmara ddu muertu ci nun ete chiantu all’ura e non Mmar’a … ha obbligato ad inserire nella triade , stavo per dire ammucchiata, delle varianti del secondo lemma un mmara (aggettivo famminile, che mal si legherebbe al resto anche sottintendendo il sorte che il Garrisi ha messo in campo nel primo lemma; se se ne fosse ricordato l’avrebbe messo in campo pure per iata? …). D’altra parte non si comprende come un semplice, quasi fisiologico per il salentino, raddoppiamento della consonante iniziale in mmara avrebbe comportato la soppressione della preposizione a richiesta, invece, da mara.
In conclusione: le grafie iat’a e mar’a del titolo rispecchiano, secondo me, il valore grammaticale nativo (aggettivo sostantivato) del quale il parlante sarà pure inconsapevole, ma la cui individuazione da parte dello studioso è doverosa per evitare bizantinismi interpretativi, dimenticando che l’eeccezione cinferna la regola, proprio
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1 Liriche, L’italia Meridionale (Tip. G. Garrisi), Lecce,1934
Saggio delle nuove poesie in vernacolo, Scorrano, Lecce, 1936
Poesie in vernacolo: secondo saggio, Cafaro, Lecce, 1936?
Poesie in vernacolo: terzoo saggio, Cafaro, Lecce, 1936?
Liriche: saggio del primo volume, Cafaro, Lecce, dopo il 1936
Fiori e sorrisi: versi giovanili, R. Tipografia Editrice Salentina, Lecce, 1909
2 Sarei grato a chiunque potesse comunicarmi l’esito di un controllo, magari occasionale, che non ho potuto fare.
20 agosto
Furono archibugiati il 20 agosto 1647 alle odierne ore 15 (anticamente ore 19) in località “Ranfa”, in un canneto dietro la chiesa dei Paolotti, ove oggi vi è Via Umberto Maddalena. Dopo archibugiati gli furono tagliate le teste. “…detti preti non mancarono, da che uscirono dal Castello, dove stavano carcerati, in sino all’ ora della morte salmeggiare e dire diverse divozioni, dandosi animo uno con l’ altro, e dicendo di continuo Pater ignosce illis quia nesciunt quid faciunt, nec statuas illis hoc peccatum, tra li quali D. Francesco Maria Gaballone, non cessò mai di dire Conceptio Tua Dei Genitrix Virgo gaudium annuntiavit Universo Mundo, ed essendo quasi morti si sentivano flebilmente dire delle parole. Questo fatto fu ad ora circa nove… Nell’ istessa notte fu ammazzato il barone Pietro Antonio Sambiasi a pugnalate, essendo questo di anni novantasette; morto che fu l’ appesero per piedi alle furche in mezzo alla piazza e le teste delli preti le misero sopra il Seggio e gli corpi distesi a terra nella Piazza, attorno allle furche…”
(cfr. De Simone, in “appunti da servire per la storia di Nardò; appunto I”, in vol.20 sez. Manoscritti Bibl. Prov. Lecce. I fatti sono tratti da un manoscritto di G.B. Biscozzi che, secondo quanto sostiene il De Simone, si conserva in casa degli eredi del Not. Francesco Bona).
“…circa le ore 20 de’ venti agosto fece appiccare ad un palo per piede sotto dell’ orologio il detto Baroncello Sambiasi, e circa le ore 23 del detto giorno fece archibugiare nella strada detta Ranfa l’ abbate Donantonio Roccamora, l’ abbate Giancarlo Colucci, l’ abbate Gianfilippo de Nuccio, don Francesco Maria e chierico Giandomenico Gaballone, alli cadaveri de’ quali erano rimasti insepolti, fu data sepoltura a ventidue del detto mese. Assisteva all’ infelici da Confalone l’ abbate Benedetto Trono; il quale quando vidde che stava per essere archibugiato l’ ultimo de’ suddetti preti, che fu l’ abbate Roccamora, alzò le voci al cielo, e piangenndo disse: Signore lava da questa terra tanto sangue innocente e sacro, e ciò dicendo, stando il cielo sereno, subito cominciò a piovere, e piovve solamente per detta sola strada di Ranfa. Avuta la notizia il Conte della morte de’ detti preti, e del Baroncello, e fatto certo del miracolo occorso con detta pioggia, fece arrestare l’ abbate
Benedetto Trono, e col medesimo fu carcerato D. Filippo de Nuccio, che d’ ordine del Conte fu legato nudo ad un palo dentro il giardino del detto Casino, esposto alli cocentissimi raggi del sole, unto di mele alle morsicature delle mosche e vespe, e da un soldato gli venivano tirati ad uno ad uno i peli della barba che portava lunga, per essere un Prete di Santa Vita, e perciò detto volgarmente il Prete peloso. All’ abbate Benedetto Trono vari e molti furono li tormenti che li si dettero sotto de’ quali a 28 agosto se ne morì.
L’ anzidetto abbate Gian Filippo de Nuccio che fu archibuggiato era fratello cugino al mentovato D. Filippo che morì esposto al sole, e questo era stato lo scrittore del detto memoriale.
L’ abbate Trono non aveva altro delitto che d’essersi concertato e scritto in casa sua lo detto memoriale. Corsero la medesima fortuna due fratelli Sacerdoti di famiglia Pomponio per aver pigliato le difese dell’ abate Trono. Il solo bombardiere fiammingo fuggì la morte, giacchè nel suo esame disse che con arte avea fatto fallire il colpo, e ne fece le pruove; poichè posto nel medesimo luogo ove stava il Conte quando il tirò la bombarda ad un uomo di paglia con in capo la berretta del Conte, il fiammingo tirò dove avea tirato la prima, e gli fe’ volare da testa la barretta; indi li tirò nel petto, li riuscì felicemente e tirata la terza volta, con la prevenzione, che dovea colpirlo in fronte, li riuscì con molta ammirazione de’ circostanti. Allora il Conte li donò la vita, lo regalò, e lo tenne sempre presso di sè, e lo casò in Nardò…”
(cfr. De Simone, in “appunti da servire per la storia di Nardò; appunto II”, in vol.20 sez. Manoscritti Bibl. Prov. Lecce).
La stupida divaricazione esistente tra la cultura scientifica e quella umanistica si è, a mio avviso, accentuata da quando la scienza cosiddetta pura ha ceduto il passo a quella applicata, per cui la stessa ricerca può contare quasi esclusivamente su sponsorizzazioni pubbliche, e ancor più private, se il campo d’indagine è promettente in vista di uno sfruttamento economico dei suoi risultati. Non auspico certamente che pure quella umanistica diventi schiava del profitto ma che almeno vitalizzi con la pratica una teoria altrimenti destinata a restare stucchevole, noiosa e, purtroppo, sterile sotto tutti i punti di vista, non escluso quello economico. Che senso ha, ad esempio, in un liceo classico studiare il latino ed il greco e, sfruttando il laboratorio d’informatica e la versione elettronica dei vocabolari delle due lingue (per non dire delle risorse reperibili in rete), non dare agli allievi un’idea, almeno quella, delle enormi potenzialità offerte dall’informatica, senza, per questo, però, trascurare di parlare delle velleità della linguistica computazionale col connesso rischio che dall’IA (‘intelliggenza artificiale) si passi all’IA (idiozia acquisita)? Che ci sarebbe di strano, poi, se già a partire dalla fine del biennio, si mettessero gli allievi in contatto guidato se non con un manoscritto antico, almeno con un’epigrafe? Purtroppo temo che ancora oggi nello studio della letteratura la sezione antologica del manuale sia la cenerentola, oppure che avvenga il contrario, illudendosi che la lettura possa prescindere dalla conoscenza della grammatica o, peggio, che quest’ultima possa essere bypassata.
Oggi ci si lacera le vesti e ci si scompiglia i capelli sciacquandosi la bocca con fenomeni come la dispersione scolastica. I pochi benemeriti come Lorenzo Milani, purtroppo, non fanno testo, perché dovrebbe essere lo stato a farsi carico di portare la scuola nella strada, visto che la strada tiene lontano dalla scuola. Sotto questo aspetto pure il passato può insegnarci qualcosa e per questo entro in argomento.
Le cattedre ambulanti d’agricoltura hanno portato la scuola sul camo, visto che il campo, per una serie di motivi facilmente intuibili (e non per la congenita impossibilità a muoversi …), non poteva andare a scuola.
La prima in Italia nacque ad Ascoli Piceno nel 1868. Via via seguirono le altre, tutte come associazioni private gestite da figure di grande prestigio in campo agrario. La loro diffusione, proprio per il loro carattere volontaristico, era limitata alle aree in cui l’agricoltura era più avanzata e le amministrazioni locali più attive e lungimiranti. Solo il 13 luglio 1907 con la legge n. 513 esse saranno istituzionalizzate con normativa statale riguardante all’assetto giuridico, la costituzione delle commissioni interne di vigilanza e lo svolgimento dei concorsi per l’attribuzione della carica di direttore. il compito primario delle cattedre era quello di diffondere le più avanzate pratiche di agricoltura attraverso una adeguata serie di conferenze da tenere nei vari paesi, seguite da libere discussioni, con dimostrazioni pratiche in sede o in aperta campagna e con la pubblicazione di un bollettino quindicinala o mensile, oggi documento prezioso per la ricostruzione delle attività ma anche dell’organigramma. La cattedra ambulante di agricoltura di Terra d’Otranto (comprendente all’inizio le sezioni di Brindisi, Taranto, Gallipoli, Tricase e il Comizio agrario di Lecce, nacque (o, quanto meno, iniziò a pubblicare il suo bollettino, L’agricoltura salentina, nel 1902. L’immagine che segue riproduce il frontespizio del primo numero del 1904 e l’analisi che farò, integrata con i dati registrati da altre pubblicazioni ufficiali può dare concretamente un’idea dell’importanza documentaria della quale ho detto prima.
A tale scopo basterebbe solo soffermarsi sui nomi citati ed è quello che farò nelle schede che seguono, anticipando solo che essi, i più non salentini (in quanto la mobilità dell’insegnante, occasione di nuove esperienze e, dunque, di miglioramento professionale, era all’epoca considerata come un fenomeno normale e non una iattura, qual è oggi per l’insegnante che vorrebbe il posto di lavoro a pochi metri da casa sua …), rappresentano, com’è naturale quando è la competenza a prevalere nell’attribuzione di un qualsiasi incarico, la crema della scienza agraria di allora.
FERDINANDO VALLESE
Non sono riuscito a reperire nessuna nota biografica, anche se la sua carriera iniziò a Lecce, continuò a Sassari, per concludersi ancora a Lecce. Il fatto che in quest’ultima città una strada è intitolata al suo nome indurrebbe a supporre, rischi connessi con l’omonimia a parte, che fosse, quanto meno, salentino. Un altro indizio è dato dal suo articolo La coltivazione della Batata a Calimera pubblicato sul n. 23 del 15 dicembre 1902 debollettino; il tema appare troppo legato al territorio [la patata zuccherina di Calimera oggi risulta inserita nel PAT (Prodotti Agroalimentari Tradizionali)] per essere oggetto di studio da parte di uno straniero. Quasi sterminata è la serie delle sue pubblicazioni1.
GIOVANNI MOLÈ
Nessuna notizia biografica; tuttavia, il cognome e il territorio prevalente oggetto di studio dei suoi lavori2 autorizzano ad ipotizzare un’origine siciliana.
GIOVANNI D’AMBROSIO
Il prevalente luogo di pubblicazione dei suoi lavori3 (Casalbordino) induce a pensare che fosse di origine abruzzese.
GIOVANNI DONINI
I primi dei suoi lavori4 risultano pubblicati a Gallipoli, ma questo da solo non basta per ipotizzare la sua origine salentina.
GIUSEPPE GRAVINA
L’unica sua pubblicazione5 non aiuta a individuarne l’ origina.
FEDERICO SOLERI
I luoghi prevalente delle sue pubblicazioni6 indurrebbero a pensare ad un’origine toscana.
Da notare come nel frontespizio del bollettino riprodotto tra le sezioni (Brindisi, Taranto, Gallipoli e Tricase) manca Nardò. Evidentemente alla data del 15 gennaio 1904) la sua sezione non era stata ancora istituita, mentre risulta presente alla data del 1927, come riportato dall’ Annuario del Ministero dell’economia nazionale, 1927-V – 1928 VI, Libreria Provveditorato Generale dello Stato, Roma, 1928, p. 206, dal dettaglio di seguito riprodotto.
Naturalmente molti altri prestarono la loro opera nella cattedra ambulante di Terra d’Otranto fino al 1928, anno in cui furono tutte soppresse7. Solo pochi nomi:
LUIGI SCODITTI (1896-1973) Iniziò la sua carriera professionale presso le Cattedre Ambulanti di Agricoltura (gli attuali Ispettorati Provinciale dell’Agricoltura). Prestò servizio dapprima a Lecce, poi a Gallipoli, Francavilla Fontana, Cerignola. Fu autore molto prolifico e dai molteplici interessi8.
LIBORIO SALOMI (Carpignano Salentino 1882 – Lecce 1952). Subito dopo la laurea lavorò presso la “Cattedra ambulante per le malattie dell’olivo” di Lecce e quando questa cessò di esistere passò ad insegnare Storia Naturale presso l’Istituto Tecnico “Oronzo Gabriele Costa” di Lecce, succedendo a Cosimo De Giorgi. Non ha lasciato nessuna pubblicazione, ma non è questo, soprattutto per quei tempi …, l’unico metro del valore di un uomo di scienza.
ATTILIO BIASCO (1882-1959) di Presicce. Scienziato principe dell’olivicoltura, come dimostra la maggior parte dei titoli delle sue numerosissime pubblicazioni9. Diresse L’agricoltura salentina dal 1923.
Oggi il PSR (Piano di Sviluppo Rurale) di ogni regione prevede la rinascita in chiave moderna delle cattedrev ambulanti, ma, pur non mancando le risorse, è indispensabile la volontà politica, al momento latitante, di realizzarla.
Tutte le cattedre all’epoca si avvalsero del veicolo pubblicitario all’epoca più potente e in pratica tutte dettero la loro intestazione a cartoline postali, oggi ricercate dai collezionisti. Per risparmiare spazio mi limito a riportare ub solo esempio che ci riguarda più da vicino.
La cartolina, spedita da Lecce il 25/10/1926 e incredibilmente giunta nello stesso giorno a Trani, è indirizzata All’Ill.mo Sig. Conte Pasquale Romano, Palazzo Antonacci, Trani.
I bollettini mensili, che le cattedre, come s’è detto, erano obbligate a pubblicare, sono preziose fonti d’informazione e ricostruzione storica. Nel nostro caso, invece, un aiuto ci viene dall’ Annuario del Ministero dell’economia, op. cit. nel dettaglio prima riprodotto e che, per comodità del lettore, replico.
Apprendiamo così non solo che il conte Pasquale Romano era un avvocato ma pure che alla data del 1928 ricopriva ancora la carica di presidente, mentre direttore era Attilio Biasco.
Lo stesso numero ci dà notizia delle cattedre delle altre provincie (Per Brindisi a p. 203 e per Taranto a p. 210).
Ho l’impressione che negli ultimi tempi le cattedre passarono, almeno per quanto riguarda la presidenza, dal controllo dei professori di agraria, vantanti, come abbiamo visto, numerose pubblicazioni, a quello dei latifondisti (conte Pasquale Romano, barone Giuseppe Pantaleo) e di Mosè Stefanelli, che non pubblicarono nulla mentre che non pubblicarono nulla. Sorprende, per la provincia di Brindisi l’assenza del direttore, ma, in compenso, di quello della provincia di Taranto, Aurelio Bianchedi, si registra un numero apprezzabile di pubblicazioni10 .Su Giuseppe Pantaleo riproduco quanto si legge nella Rassegna puglese dfi scienze, lettere ed arti, anno XXX, v. XXVIII, nn. 6-7-8, Trani-Roma, Giugno-Luglio-Agosto 1913, p. 284
È certo, però, che nel meridione le cattedre non si distinsero per attivismo e spirito d’iniziativa, mentre le provincie settentrionali pubblicarono, oltre al bollettino periodico previsti dalla legge, anche alcune delle lezioni.
Non poche coniarono pure medaglie commemorative, con esiti esteticamente apprezzabili grazie alle allusioni a modelli del passato remoto o recente, come volta per volta dirò.
Al dritto lo stemma della provincia di Cuneo e legenda PROVINCIA DI CUNEO; al verso CATTEDRA AMBULANTE DI AGRICOLTURA MOSTRA DI FRUTTICOLTURA OTTOBRE 1928
Al dritto un seminatore; al verso un fascio di spighe a destra ed a sinistra un ramo di pianta di difficile, almeno per me, identificazione, replicata in esergo, e legenda CATTEDRA AMBULANTE DI AGRICOLTURA PROVINCIADI COMO. La raffigurazione del seminatore sembra essere sta ispirata dal famosissimo Seminatore al tramonto di incent van Gogh (ne riporto il dettaglio per comodità di confronto).
Al dritto la dea Fortuna seduta in trono regge con la sinistra la cornucopia, simbolo dell’abbonsanza e con la destra il timone dell’aratro; legenda NIHIL MAIUS MELIUSVE TERRIS (Niente è maggiore e migliore delle terre) FERRARIA; al verso in campo vuoto CATTEDRA AMBULANTE DI AGRICOLTURA MDCCCXCIVFERRARAMCMXXIV. NIHIL MAIUS MELIUSVE TERRIS è citazione da Orazio (Odi, IV, 2, 37). La medagli celebra il trentesimo anniversario anniversario dalla fondazione della cattedra (1894-1924) La raffigurazione appare ispirata a quella che nelle monete romane di epoca imperiale è uno dei due stereotipi (l’altro prevede la Fortuna seduta non sul trono ma sulla ruota. Di seguito due dei tantissimi esempi delle due varianti.
Asse: nel dritto testa laureata di Adriano (fu imperatore dal 117 al 138); al rovescio la Fortuna, nell’iconografia sopra descritta.
Al dritto testa di Aureliano (fu imperatore dal 270 al 275); al rovescio la Fortuna seduta sulla ruota.
Il piccolo repertorio di medaglie delle cattedre ambulanti fin qui presentato termina con due ultimi esemplari.
Al dritto testa di Mussolini rivolta a sinistra e legenda DUX con una fiamma a destra; al verso CATTEDRA AMBULANTE DI AGRICOLTURA DI LUCCA COMM(ISSIONE) PROVINCIALE GRANARIA, in esergo una spiga di grano
Al dritto testa di Mussolini rivolta a sinistra e legenda PIÙ FONDO IL SOLCO PIÙ ALTO IL DESTINO e in basso al centro DUX e una fiamma; Al verso in alto un aratro e legenda CATTEDRA AMBULANTE AGRICOLTURA PADOVA GARA DISTRETTUALE 1930 e al margine intorno COMMISSIONE PROVINCIALE GRANARIA. La medaglia attesta apertamente con GARA il clima di competizione tra le varie cattedre nel quadro della cosiddetta Battaglia del grano, caposaldo del programma autarchico del regime fascista.
Da notare nei due dritti l’utilizzo dello stesso modello iconografico, molto simile ad uno dei due (prima immagine sottostante) utilizzato in altre medaglie, in alternativa all’altro (seconda immagine).
Se le medaglie potevano costituire motivo di orgoglio per le cattedre, un carattere più peronale e privatistico avevano i diplomi rilasciati per aver partecipato con profitto ai corsi.
CATTEDRA AMBULANTE DI AGRICOLTURA
DI MODENA
ISTRUZIONE PROFESSIONALE DEI CONTADINI
ANNO 1930-1931-IX
CONCORSO GENERALE DI CAMPOSANTO
Si certifica che Moprselli M.O Luigi figlio di Giuseppe
nato a Camposanto il giorno 16 del mese di ottobre dell’annp 1869
ha frequentato regolarmente il suddetto corso professionale con esito ottimo.
Modena, li 30 giugno 1931
IL DIRETTORE L’ISTRUTTORE DEL CORSO
della cattedra ambulante di agricoltura
Diplomi erano previsi anche per i partecipanti ai concorsi, ma in questo caso, naturalmente, il premiato non era un contadino ma un produttore, che spesso poteva vantare il titolo di dottore.
CATTEDRA AMBULANTE DI AGRICOLTURA DI FANO
CONCORSO DI FORAGGIERE LEGUMINOSE
4° PREMIO
Diploma di Medaglia di Bronzo
Al Signor
Giovannelli Dott. Alberto
Fano, Giugno 1906
In tempi molto recenti, poi, c’è chi ha pensato di sfruttare l’improbabile suggestione alimentata dal ricordo di questa istituzione: Giovanni Gregoletto (a cura di), Viti ambulanti. Nuove cattedre di enologia e viticultura, Edizioni SUV, s. l., 2014.
L’autore, nato a Conegliano nel 1963, vive a Premaor di Miane in provincia di Treviso. Viticultore, ha promosso la realizzazione in località Pedeguarda di Follina, sempre in provincia di Treviso, di un luogo museale che ospita gli oggetti che compaiono nel libro. Non a caso SUV è l’acronimo di Spazio dell’Uva e del Vino.
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1
Brevi norme pratiche per riconoscere, prevenire e combattere alcuni nemici della vite, s. n., Lecce, 1884
La cantina sperimentale di Lecce nel 1886, Lazzaretti, Lecce, 1887
Le viti americane nella provincia di Sassari, Dessi, Cagliari, 1894
Le viti americane e la viticoltura moderna, Vallardi, Milano, 1896
Nuovo vivaio di viti americane nel podere della Scuola pratica di agricoltura in Sassari, Rizzo, Catania, 1898
La regia scuola pratica di agricoltura in Marsala nel suo primo bienno di esistenza, Giliberti, Marsala, 1900
Il presente e l’avvenire della viticoltura marsalese, Giliberti, Marsala, 1900
La caprificazione in Terra d’Otranto: osservazioni ed esperimenti, Tipografia cooperativa, Lecce, 1904
La cattedra ambulante di agricoltura per la provincia di Terra d’Otranto nel suo primo biennio di esistenza, Regia Tipografia Editrice Salentina, Lecce, 1904
Le cause certe o probabili dell’improduttività degli oliveti leccesi, Tipografia Giurdignano, Lecce, 1907
Gelsi e bachi: istruzioni pratiche per gli agricoltori salentini, Tipografia Giurdignano, Lecce, 1907
ll trifoglio alessandrino o bersim (trifolium alexandrinum lin.) in Terra d’Otranto : esperimenti culturali eseguiti durante l’anno 1909-1910, Regia Tipografia Editrice Salentina, Lecce, 1910
Il gelso: nozioni pratiche di coltivazione, con speciale riguardo al Mezzogiorno d’Italia, Battiato, Catania, 1912
Esperimento contro la mosca delle olive, (dacus oleae gml) col metodo delle capannette dachicide, Tipografia Editrice Salentina, Lecce, 1913
La gelsicoltura e la bachicoltura in Terra d’Otranto nel 1913-14, Regia Tipografia Editrice Salentina, Lecce, 1914
2
Studio scientifico-economico sull’ex feudo Bosco di S. Pietro con speciale riguardo sulla coltivazione ed utilizzazione della sughera in Sicilia, Stabilimento tipografico vesuviano, Portici, 1902
La terra ai contadini, Industrie grafiche romane “ars nova”, Roma, 1924
Perfosfati o fosforiti macinate? Problemi agrari, Stamperia della Libreria italiana e straniera, Sassari, 1926
L’ irrigazione ed il latifondo in Sicilia, s. n., Milano, 1926
Studio-inchiesta sui latifondi Siciliani, Tipografia del Senato, Roma, 1929
Contributo allo studio dell’emigrazione in rapporto alle condizioni dell’agricoltura in Sicilia, Lucci, Roma, s. d.
3
L’innesto erbaceo delle viti, Tipografia Nicola De Arcangelis, Casalbordino, 1903
Concimi di origine organica e concimi di origine inorganica. Istruzioni pratiche sul loro uso, sul loro commercio e sul loro controllo, Tipografia Nicola De Arcangelis, Casalbordino, 1905
L’olivicultura nella zona adriatica brindisina, Tipografia Nicola De Arcangelis, Casalbordino, 1905
La nostra vigna nei riguardi ai concimi e alle concimazioni, Tipografia del commercio, Brindisi, 1913
Potatura dell’ulivo : norme da servire di guida ai pratici ulivicultori, Tipografia del commercio, Brindisi, 1915
Protezione degli animali utili all’agricoltura, Fratelli Puglisi, Ragusa, 1932
4
Come si dovrebbe coltivare il castagno nell’alta zona santafiorese, Stefanelli, Gallipoli, 1904
Parassitismo o Saprofitismo dello Agaricus Melleus? Appunti e ricerche, Stefanelli, Gallipoli, 1904
La questione fillosserica e le viti americane nel territorio di Sansevero, Stefanelli, Gallipoli, 1904
Bisogna mutarsi!…,Stefanelli, Gallipoli, 1905
Per una scuola d’agricoltura nel canton Ticino, Tipografia della Camera dei Deputati, Roma, 1910
Ancora della scuola agraria F. Gigante di Alberobello, Cressati, Noci, 1912
grani Strampelli e Todaro nel Fabrianese, Tipografia Federazione Consorzi Agrari, Fabriano, 1921
Della ginestra spartium junceum L., Gentile, Fabriano, 1937
Della ginestra, Arti grafiche Gentile, Roma, 1938
5
Sunto sull’attività della cattedra dal 1 ottobre al 30 giugno 1905, Tipografia L. Caforio, Taranto, 1905
6
Guida e norme per l’acquisto e Controllo delle materie utili in agricoltura, Tip. Rusconi-Gavi-Nicrosini Succ. Gatti, Voghera, 1902
Relazione sulla attività della cattedra ambulante per la provincia di Massa-Carrara dal Maggio 1904 al Dicembre 1905, Massa, Tipografia E Medici, 1906
Guida pratica per l’applicazione dei concimi artificiali : Esperienza di concimazione su lupini diretta dal prof. Federico Soleri, eseguita nel 1905 nella tenuta del Conte a. Guerra, Soc. Tip. Già Compositori, Bologna, 1906
Relazione sugli esperimenti di concimazione istituiti sui Prati e Pascoli Montani in provincia di Massa e Carrara, Massa, Tipografia E Medici, 1908
L’attività della Cattedra nel primo sessennio, Poligrafica Stagi, Conti & C., Livorno, 1910
Si può aumentare la produzione granaria in prov. Di Massa-Carrara? : Dati e risultati degli esperimenti di concimazione Chimica del grano istituiti dalla cattedra ambulante di agricoltura, Massa, Tipografia E Medici, 1922
Per le prossime semine del grano : Consigli pratici agli agricoltori apuani, illustrati dai risultati di alcuni esperimenti di concimazione chimica del grano istituti per conto del Ministero di agricoltura, Massa, Tipografia E Medici, 1923
7
Oggi il PSR (Piano di Sviluppo Rurale) di ogni regione prevede la rinascita in chiave moderna delle cattedrev ambulanti, ma, pur non mancando le risorse, è indispensabile la volontà politica, al momento latitante, di realizzarla.
8
La lotta contro le principali malattie delle piante. Note pratiche per gli agricoltori del Salento, Tipografia Guido, Lecce, 1927
Note storico-rurali su Mesagne nel Salento, Atel, Roma, 1962
Le origini di Latiano patria di Bartolo Longo. Arti Grafiche Ciccolella, Bari, 1964
Numerosissime sue monografie dattiloscritte sono custodite nella Biblioteca Nicola Bernardini di Lecce:
Origine e fine dei casali medievali del Salento, s. d.
L’ attività agricola dei monaci basiliani nel Salento nello alto medio evo, s. d.
Le incursioni turche nel Salento, 1950
La patria di Ennio era presso Francavilla Fontana?, 1953
I templi di Minerva ed il porto in cui sarebbe sbarcato Enea sulla costa sud-orientale del Salento, 1955
Tre piazzeforti messapiche tra Oria e Brindisi, 1955
Note storico-rurali sul Salento, 1958
L’ antica via Appia nel Salento, 1959
Specchie e paretoni nel Salento, 1959
I Messapi e le guerre dei Messapi con Taranto, 1959;
Le origini ed il nome di Lecce, 1959
I nomi dialettali salentini dei fioroni di fico, 1959
L’ origine e la denominazione dei centri abitati della provincia di Brindisi, 1959
Il Limitone dei greci e la muraglia confinaria messapica nel Salento, 1959
Le città dell’antica Messapia, 1960
Torri della Regina Giovanna nel Salento, 1960
L’origine del tratto Monopoli-Lecce dell’odierna strada statale adriatica, 1961
La congetturata città di Sibari nella Messapia, 1962
Le origini e la denominazione di Otranto, Gallipoli e Leuca, 1962
Le famose lane tarantine dell’epoca romana, 1962
Fabbricati rurali fortificati del Salento e le loro origini, 1962
Oria fumosa, 1962
Tracce di aziende agrarie e colonizzazione agraria nel Salento dell’epoca romana, 1962
Le antiche diligenze e l’antica strada di Puglia da Napoli a Lecce, 1962
Neviere e neve nel passato a Mesagne a Francavilla Fontana ed altrove, 1962
L’agro di Arneo nel passato nel Salento, 1963
Le masserie del Salento e le loro vicende, 1963
Ancora sulla località in cui sarebbe sbarcato Enea nel Salento, 1963
Antichi passaggi sotterranei nel Salento con particolare riguardo a Mesagne, 1963
Chi era la regina Donna Sabetta del canto popolare di Melendugno nel Salento?, 1963
Centri balneari nel Salento nel penultimo decennio dell’ottocento, 1963
Il culto di Santa Cesaria nel Salento, 1963
Le origini e la denominazione di Santa Cesarea e di Porto Cesareo nel Salento, 1963
Le antiche vie Appia e Traiana Appia nel Salento, 1963
Note critico-storiche su Oria nel Salento, 1964
L’ origine e la denominazione di Campi Salentina e di Carmiano nel Salento, 1965
Aggiunte e modifiche alla nota n. 8 del mio opuscolo “L’origine e il nome di Campi Salentina e di Carmiano nel Salento, 1966
Le antiche numerazioni dei fuochi e l’entità della popolazione nel Regno di Napoli, 1966
Note critico-storiche sulle origini del Vescovato di Oria nel Salento, 1966
La chiesa di S. Maria della Mutata in agro di Grottaglie ed il suo nome, 1967
La popolazione di Mesagne dal 1378 al 1961, 1968
Brindisi non è la città di Temesa citata da Omero, 1968
9
L’ olivicoltura nel basso leccese : memoria monografica, Giannini, Napoli, 1807
La brusca nel mandorlo e nell’albicocco; sulla distanza degli alberi negli oliveti leccesi , R. stabilimento tipografico Francesco Giannini & figli, Napoli, 1908
Ricerche anatomo-patologiche sul roncet della vite, Stabilimento tipografico vesuviano, Portici, 1909
La coltivazione dell’asparago, Stabilimento tipografico Giordignano, Lecce, 1909
La quercia vallonea, Tipografia editrice salentina fratelli Spacciante, Lecce, 1912
Notizie intorno alla Quercia Vallonea (Quercus Aegilops L.), Premiato stabilimento tipografio Ernesto Della Torre, Portici, 1914
Sulla improduttività degli oliveti : cause, rimedi, Editrice salentina, Lecce, 1915
Per il miglioramento dei tabacchi levantini nel Salento : note sulla concimazione, Tipografia sociale G. Oronzo, Lecce, 1924
Per l’incremento della cerealicoltura salentina : a proposito della battaglia del grano, Tipografia sociale, Lecce, 1925
Fattori ambientali e concimazione nella coltivazione dei tabacchi da sigarette, Tipografia Edoardo Pizzi, Milano, 1926
Acqua del sottosuolo ed irrigazione nel Salento, Tipografia O. Guido, Lecce, 1928
L’ asparago : generalità, coltivazione ordinaria, coltivazione forzata, parassiti, commercio, F. Battiato, Catania, 1928
Relazione sull’attività della cattedra ambulante d’agricoltura di Terra d’Otranto : dalle sue origini a tutto il 1927, Guido, Lecce, 1928
Nuovo orientamento dell’agricoltura salentina: conferenza agli agricoltori (Federazione dei Sindacati fascisti degli agricoltori, Commissariato di zona di Gallipoli), Tip. E. Stefanelli, Gallipoli, 1931
Progetto di massima per la trasformazione fondiaria dell’Arneo, Editrice Salentina, Lecce, 1932
Granicoltura salentina, 1925-1932 : Commissione provinciale per la propaganda granaria, Lecce, Tip. Salentina, Lecce, 1932
La gallina leccese selezionata, Editrice salentina, Lecce, 1933
La tabacchicoltura salentina, Editrice salentina, Lecce, 1933
La trasformazione fondiario-agraria dell’Arneo, Stabilimento tipografico Scorrano, Lecce, 1934
La trasformazione agraria nel Comprensorio di bonifica di Ugento : consorzio per la bonifica di Ugento : paludi Mammalie-Rottacapozza e Pali, R. Tip. Edit. Salentina, Lecce, 1934
Per la fertilizzazione dei terreni in Provincia di Lecce, Editrice salentina, Lecce, 1935
Saltuarietà di produzione dell’olivo e concimazione ad alte dosi, Favia, Bari, 1935
L’ olivicoltura salentina attraverso i secoli, Tipografia degli agricoltori, Roma, 1937
La concimazione dell’olivo, Istituto Italiano Arti Grafiche, Bergamo, 1939
La regione salentina, Tipografia Editrice salentina, Lecce, 1946
Una antica pratica che ritorna agli onori della ribalta, Editrice salentina, Lecce, 1958
Che cosa si e fatto in provincia jonica per la battaglia del grano, Tipografia delle Terme, Roma, s. d.
Appunti di analisi chimica qualitativa, ad uso degli studenti del 4. Corso d’Istituto tecnico, Cooperativa Tipograica Forlivese, Forlì, 1912
l tabacco sostituisca la barbabietola, Cooperativa Tipografica Forlivese, Forlì, 1915
Gelsicoltura moderna. I prati di gelso, Cooperativa Tipografica Forlivese, Forlì, 1919
Corso pratico di viticoltura. Lezioni svolte agli agricoltori ex-combattenti, Stabilimento Tipografico Editoriale Romano, Roma, 1925
L’attivita della cattedra nel triennio 1927-1929, Arti grafiche A. Dragone & C., Taranto, 1930
La razza asinina di Martina Franca, Arti Grafiche A. Dragone & C., Taranto, 1930
L’uva da tavola tardiva Saint Jeannet, Gandolfi, San Remo, 1932
L’allevamento del coniglio e le sanzioni economiche : norme pratiche ad uso dei volonterosi, Gandolfi, San Remo, 1935
Direttive per un maggior consumo di fiori, Gandolfi, San Remo, 1936
Disciplina dei mercati di produzione per la vendita all’ingrosso dei fiori, Gandolfi, San Remo, 1936
Le armi della vittoria contro le infami sanzioni, Gandolfi, San Remo, 1936
Il garofano e la floricoltura italiana, Tipografia San Bernardino, Siena, 1937
L’allevamento del coniglio : norme pratiche ad uso dei volenterosi, Gandolfi, San Remo, 1940
L’ importanza del lavoro nella floricoltura : primo contributo sulle aziende floreali della provincia di Imperia, S.A.I.G.A., Genova, 1940
La lavanda, Ramo editoriale degli agricoltori, Roma, 1940
L’allevamento familiare della pecora : norme pratiche ad uso dei volenterosi, Gandolfi, San Remo, 1940
I mais ibridi in provincia di Treviso : Pubblicato in occasione della Mostra provinciale del granoturco. 25 settembre-2 Ottobre 1951. (Ispettorato provinciale dell’agricoltura, Treviso), Tipografia Longo e Zoppelli, Treviso, 1951
Quintali di granoturco per ettaro : Altri 18 concorrenti hanno superato I 100 quintali, Tipografia Longo e Zoppelli, Treviso, 1953
I radicchi di Treviso: storia, coltivazione, forzatura, commercio, Ramo editoriale degli agricoltori, Roma, 1961
BIBLIOGRAFIA
Come s’è detto, fondamentali sono le pubblicazioni periodiche (bollettini ed annuari). quasi sempre di difficile reperibilità. Per quanto riguarda L’agricoltura salentina, fornisco di seguito un quadro della sua dislocazione con relativa consistenza:
Biblioteca dell’Accademia nazionale di agricoltura – Bologna 1907 (6), 1910 (9), 1916 (15); lacunosi 1907 (6), 1913 (12), 1916 (15)
Biblioteca nazionale centrale – Firenze 1902 (1), 1905 (4), 1907 (6), 1910 (9), 1917 (16), 1919 (18), 1939 (32) in gran parte lacunosi
Biblioteca di scienze tecnologiche – Agraria – Università degli studi di Firenze – Firenze 1914) (13); lacunosi 1914 (13)
Biblioteca della Camera di Commercio – Lecce 1902 (1), 1915 (14); lacunosi 1902, 1909
Biblioteca delle Civiche raccolte storiche – Milano 1909 (8 n. 3)
Biblioteca Fondazione Banco di Napoli – Napoli 1925 (18), 1929 (22) tutti lacunosi
I titoli che seguono possono aiutare nella ricostruzione storica.
Tito Poggi, Le cattedre ambulanti di agricoltura in Italia, Società editrice Dante Alighieri, Roma, 1899
Tito Poggi, Le cattedre ambulanti d’agricoltura in Italia: loro origine e scopi, Officine grafiche di C. Ferrari, Venezia, 1903
Enrico Fileni, Elenco completo delle cattedre ambulanti d’agricoltura o speciali con l’indicazione del loro personale tecnico e dell’ammontare e provenienza dei loro bilanci preceduto da brevi notizie sull’Associazione Italiana delle cattedre ambulanti d’agricoltura, Tipografia operaia romana cooperativa, Roma, 1906
Cattedre ambulanti di agricoltura. Disposizioni legislative e regolamentari, Tipografia G. Brunello, Vicenza, 1908
Dino Sbrozzi, Riordinamento delle cattedre ambulanti di agricoltura, Tipografia A. Nobili, Pesaro,1911,
Pietro Zambrini, Le cattedre ambulanti di agricoltura italiane, Tipografia E. Cattaneo, Novara, 1923
Luigi Pagani, Della ricostruzione delle cattedre ambulanti di agricoltura, Arti Grafiche Esperia, Venezia, 1946
A. Bianchi, Dalle cattedre ambulanti agli ispettorati provinciali dell’agricoltura, Centro studi agricoli Shell, Borgo a Mozzano, 1960
Mario Zucchini, Le cattedre ambulanti di agricoltura, G.Volpe, Roma, 1970
Franco Antonio Mastrolia, Istituzioni e conoscenze agrarie in Terra d’Otranto (1910-1930), Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 2018
Tra le innumerevoli figure che gli Evangelisti hanno scolpito nel vivo dell’umanità, Maria Maddalena è forse una di quelle che hanno esercitato la maggiore suggestione. Non poteva accadere diversamente, sia per la sua palpitante e sofferta realtà, sia perché il peccato, perdonato e redento dallo stesso Salvatore per forza di amore, fa di lei quasi un simbolo dell’intero genere umano.
Mentre nelle più antiche raffigurazioni orientali Maria Maddalena appare soltanto in funzione del racconto evangelico e, in prevalenza, fa parte, con le altre Maria e con Marta, del gruppo delle pie donne, in Occidente l’arte la distinse e la volle bellissima di aspetto. Anche questo si spiega sia sul piano trascendentale sia sul piano umano.
L’iconografia di Maria Maddalena si dispiega con una ricchezza senza pari. La suddivisione convenzionale tra figure isolate della Santa o narrate nei cicli non ci aiuta molto per fare un rendiconto esauriente. E nemmeno si possono distinguere le immagini della tradizione evangelica da quella della successiva leggenda provenzale, perché in gran parte strettamente commiste.
Molti sono gli artisti che hanno immaginato Maria Maddalena come mirrofora, sull’esempio delle più antiche raffigurazioni, sola o in compagnia di altri santi e sante, recando l’attributo della teca o del vaso contenenti il balsamo da spalmare su Gesù.
Per quanto riguarda i cicli che narrano i fatti della vita e della leggenda, bisogna ancora una volta ricordare che alla già ricca e palpitante narrazione evangelica, con gli episodi della cena in casa del fariseo, del perdono del Redentore, della presenza alla resurrezione di Lazzaro, del “Noli me tangere” , si aggiungono le suggestive tradizioni provenzali: il viaggio dalla Galilea alle coste francesi, l’arrivo e lo sbarco a Marsiglia, l’evangelizzazione della Provenza, il più raro episodio del principe che, ritornando, ritrova a Marsiglia, miracolosamente vivi, la moglie e il figlio lasciati cadaveri su di un’isola, durante un pellegrinaggio a Roma.
Nel ciclo pittorico di Santa Maria Maddalena del pittore leccese Oronzo Tiso (1726-1800), nelle otto tele collocate all’interno della navata centrale della parrocchiale di Uggiano la Chiesa[1] (17), abbiamo:
La cena in casa di Simone (olio su tela cm 375 x 450)
l’unzione di Gesù a Betania (olio su tela cm 208 x 310)
la resurrezione di Lazzaro (olio su tela cm 208 x 310)
l’angelo annuncia le donne la resurrezione di Gesù (olio su tela cm 208 x 310)
il Noli me tangere (olio su tela cm 208 x 310)
Maria Maddalena giunge a Marsiglia (olio su tela cm 208 x 310)
Maria Maddalena nella grotta di Sainte-Baume (olio su tela cm 208 x 310)
la glorificazione di Santa Maria Maddalena (olio su tela cm 208 x 310)
A completamento poi del ciclo del Tiso abbiamo la tela di Francesco Calò, datata 1858, e raffigurante Gesù con Marta e Maria (olio su tela cm 208 x 310).
Nella cappella dedicata alla Santa, in Castiglione d’Otranto, poi abbiamo due analoghe raffigurazioni, raffiguranti lo sbarco di Santa Maria Maddalena nel portodi Marsiglia:
un affresco, raffigurante l’arrivo della Santa nel porto francese. Tale affresco è inserito tra le colonne dell’unico altare, della parete di fondo, della cappella. Dall’analisi stilistica si potrebbe inserire il dipinto in ambito culturale salentino.
La medesima immagine è dipinta a tempera su un paliotto di legno, custodito nel piccolo vano-ripostiglio, nel lato sinistro della cappella. La tavola è datata 1750, in alto al centro.
Le due immagini sintetizzano quasi come una raffigurazione plastica la Legenda Aurea di Jacopo da Varazze (1230-1298) che esercitò un influsso molto profondo e durevole sulla storia della pietà cristiana e sull’arte sacra.
Rispetto all’affresco, dove l’immagine che illustra l’episodio dell’arrivo nel porto provenzale è più contratta con una predominanza i colori giallo senape e turchese, quella del paliotto si presenta più effusa e delicata ed i particolari della città più nitidi e distesi. Sventola, su entrambe le immagini, la bandiera rossa triangolare, mentre sul paliotto sono presenti quattro colombe (nell’affresco vi è una sola colomba) che solcano il mare marsigliese.
La Santa è sola nella barca sul punto di approdare nel porto. L’unico osservatore è una guardia armata che vigila sul torrione del castello.
Nel testo della Sebastiani, nel capitolo dedicato ai luoghi magdalenici, si dice chiaramente che:
“I dati della Legenda Aurea riappaiono, ripresi in certi punti quasi alla lettera. Nella Cronica del frate parmense Salimbene de Adam[2], a proposito dell’anno 1248 (l’autore riferisce di un suo soggiorno nel convento di frati minori di Aix) e poi dell’anno 1283; tra i fatti dell’anno assumono importanza capitale il reperimento a St. Maximin del corpo allora fermamente creduto quello della Santa, integraliter totum, excepto uno crure. Nel paragrafo successivo si parla della Sainte Baume. L’autore realizza qui, in modo del tutto involontario, un discorso amenissimo, proprio in quanto in spirito, alieno da suggestioni mistiche e “preromantiche” e scarsamente fornito di sensibilità estetica, descrive la grotta servendosi di esempi molto emiliani e a portata di mano. Dedica inoltre molta attenzione alla questione dell’autenticità delle reliquie e racconta estesamente un sollecito miracolo ad confirmationem.
Un giovane beccaio devotissimo della santa, di ritorno da un pellegrinaggio a Saint Maximin, ha un diverbio con un conoscente poco devoto, che gli rimprovera la sua credulità affermando che l’osso di tibia da lui baciato appartiene certamente a qualche giumenta e che i monaci lo esibiscono solo per far denaro. Ne nasce un duello “per l’onore della Maddalena” (o dei monaci di St. Maximin?). L’idea di questo duello per l’onore della Santa più sistematicamente disonorata di tutto il calendario è esilarante quasi quanto l’idea di un onore che si identifica con l’autenticità di un osso annerito dal tempo. Il devoto, assistito dalla Maddalena, ha la meglio nel duello: al primo colpo uccide l’altro (“involontariamente e malvolentieri” specificherà Salimbene più di una volta) e si tratta, come fa a capire l’autore fra le righe – ma neppure tanto -, di una punizione divina.
L’omicida involontario, fugge, ma viene scovato, messo in carcere e condannato all’impiccagione. Le cose sembrano dunque essersi messe molto male; in quella che dovrebbe essere la sua ultima notte, però, il condannato ha una visione della Maddalena e da lei riceve l’assicurazione di un celeste patrocinio. A questo punto il lieto fine è d’obbligo.
“[…] Quando poi il giorno dopo fu posto sulla forca, non sentì nessuna lesione del corpo e nessun dolore. Ed ecco all’improvviso, sotto gli occhi di tutti quelli che si erano riuniti per vedere, scese dal cielo una colomba bianchissima, come neve, velocissima nel volo, e si posò sulla forca e sciolse il laccio dell’uomo impiccato e suo devoto e lo fece scendere a terra senza nessun danno.” La Maddalena agisce sotto forma di una colomba albissima tamquam nix: un’immagine tipica di femminilità e di intercessione. Piuttosto strano risulta invece il fatto che, dopo un miracolo così eclatante in suo favore, il buon omicida sia sul punto di venir impiccato meglio una seconda volta e che a salvarlo definitivamente non sia un intervento del Cielo, ma la protesta armata della sua corporazione.[3]
Alcuni elementi del miracolo del giovane beccaio, salvato dalla forca, citato nel racconto del frate Salimbene, sono presenti sull’affresco della parete di fondo dell’unico altare della cappella della Maddalena in Castiglione.
Tra questi elementi possiamo individuare la colomba bianca come la neve (albissima tamquam nix), velocissima nel volo e diretta verso la guardia armata del castello ossia nella stessa direzione della Santa. Si comprende chiaramente come l’intercessione della Maddalena agisca sotto forma di colomba. Si può legittimamente supporre che l’autore dell’affresco o il suo committente conosceva molto bene il racconto del miracolo citato dalla Cronica del francescano parmense.
La realizzazione del paliotto, secondo la datazione certa, vergata a mano con vernice nera, è anteriore di soli due anni la concessione del privilegio della Fiera e, certamente, tale data sarà coeva con la costruzione della cappella.
Attualmente sia l’affresco che la pittura sulla tavola risultano fortemente compromessi, come del resto l’intera struttura della cappella. È auspicabile un serio intervento di restauro ed un totale recupero delle immagini e della tradizione fieristica.
Castiglione può benissimo andare orgogliosa per il suo passato, per le sue gloriose tradizioni e le manifestazioni di fede e pietà che hanno caratterizzato il vissuto sociale e religioso.
*Dal libro Andrano e Castiglione d’Otranto nella storia del Sud Salento, a cura di Filippo G. Cerfeda, Salvatore Coppola e Luigi Moscatello. Ed. Pubbligraf, Alessano 2010.
Le foto sono di Gregorio Chiarillo a parte la foto del palliotto e dell’affresco che sono di Filippo Cerfeda.
Note
[1] Sento il dovere di ringraziare cordialmente il parroco di Uggiano la Chiesa, Don Luigi Toma, l’ins. De Benedetto Eugenia e la d.ssa Giunco Rossella per la disponibilità dimostrata nella ricerca bibliografica sulla Santa e sugli aspetti iconografici presenti nella Parrocchiale di Uggiano. Ringrazio, inoltre, per la loro presenza al Convegno e la proiezione di diapositive sul ciclo pittorico della Maddalena di Oronzo Tiso e Francesco Calò.
[2] Salimbene da Parma (de Adam), dell’ordine dei Frati Minori, morto dopo il 1288. L’opera di Salimbene porta il titolo “Chronica”. Si rimanda però il lettore alla “Cronica” Nuova Edizione critica, a cura di G. Scalia, Vol I, Ed. Laterza, Bari 1966.
[3] L. SEBASTIANI, Tra/Sfigurazione – Il personaggio evangelico di Maria di Magdala e il mito della peccatrice redenta nella tradizione occidentale, Ed. Queriniana, Brescia 1992, pagg. 138-140.
Come cultori delle nostre radici, nell’avvicinarsi della ricorrenza dell’anno centenario dalla morte di Armando Perotti (26 giugno 1924-26 giugno 2024) ne ricordiamo la figura di alto umanista, poeta storico ed intellettuale di Puglia, proponendo alle Istituzioni della Repubblica l’idea di un convegno di studi ed onoranze commemorative.
Armando Perotti nasce a Bari il 1° febbraio del 1865 da Camillo, colonnello del genio militare, e dalla contessa Fulvia Miani. A Bari compie gli studi conseguendo la licenza liceale a soli sedici anni nel 1881. Successivamente si trasferisce a Roma dove intraprende gli studi giuridici e poi a Firenze dove si diploma in materie letterarie. In seguito, a Perugia, si laurea in Legge.
Nel 1900 si trasferisce a Castro, nel Vico tempio della Minerva, per restarvici per circa un decennio, cittadella che lui amò sopra ogni cosa di profondo e sviscerato amore, al punto da definirla poeticamente “Ultima terra di poesia” e “…dilettissima ed eterea…”. Sono di questo periodo le ricerche etimologiche, filologiche e storico archivistiche su Castro, tutte pubblicate sul “Bollettino del Santuario della Madonna del Rosario di Pompei” diretto dall’allora parroco don Gabriele Ciullo. Al 1904 risale la pubblicazione della raccolta poetica “Castro”.
Nel 1910 il poeta abbandona definitivamente questa città in seguito alla distruzione dell’antica “Porta terra” che segnava l’ingresso nella città antica, la cui piazza antistante è a lui oggi meritatamente dedicata.
Il 14 settembre 1913 è a Spongano a tenere il discorso commemorativo sul barone Filippo Bacile di Castiglione, suo confidente ed amico.
Rientrato dunque a Bari viene eletto consigliere comunale, e, dopo aver sposato a Bisceglie Maria Fortunata Consiglio, nel 1913 è nominato direttore della Biblioteca “Sagarriga-Visconti -Volpi” ora Biblioteca Nazionale.
Nell’avito palazzo Miani, in Cassano Murge, si spegne il 26 giugno del 1924 all’età di soli 59 anni, mandando di certo il suo ultimo pensiero a quel mare di Castro che aveva tanto cantato ed amato.
Il 7 settembre dello stesso anno un gruppo di suoi cari amici, tra i quali vanno ricordati Pasquale de Lorentiis, Andrea Tronci, Filippo Bottazzi, Domenico e Giovanni Bacile di Castiglione, Luigi Schifano, Gabriele Ciullo ecc., con tutta l’amministrazione comunale di Diso a cui Castro apparteneva sin dal 1806 e con le deputazioni provinciali e regionali, ne vollero onorare la memoria con un rito celebrativo durante il quale venne scoperta l’epigrafe marmorea posta sulla casetta dal poeta abitata e poi intitolata la piazza che da allora porta il suo nome.
Ne “La letteratura della nuova Italia” così lo ricorda il suo amico Benedetto Croce: “…Non so veramente quali altre regioni d’Italia abbiano avuto la fortuna di un illustratore che all’affetto per le memorie della sua regione congiungesse un pari cuore umano ed un così nobile intelletto…”.
Questa nostra riflessione sia da sprone a noi tutti nei rispettivi ruoli sociali e culturali.
Castro, luglio 2023
Giovanni Giangreco
Vincenzo Capraro
Antonio Silvano Lazzari
Rosanna de Donno
Giacomo Massimo Ciullo
Fabio Bacile di Castiglione
Sotirios Bekakos
Gianluigi Lazzari
Il testo, riportato su manifesto, affisso nelle bacheche pubbliche del Comune di Castro (Le), è stato spedito a mezzo lettera al Presidente della Regione Puglia, ai Rettori delle Università pugliesi, ai Vescovi di Bari e di Otranto, ai Presidenti della province di Bari e Lecce, ai direttori di tutte le biblioteche regionali e provinciali ai Sindaci di Bari, Cassano Murge e Castro, con la speranza ed il desiderio di interagire tutti e di organizzare per tempo un incontro o un convegno di memoria sulla figura di ARMANDO PEROTTI, un gigante della letteratura, della storiografia e della poesia pugliese e non solo.
A tal fine comunichiamo ciò anche alla FONDAZIONE DI TERRA D’OTRANTO.
Gino Pisanò (1947-2013), importante figura di riferimento negli ambiti della filologia, della critica letteraria, della storia culturale, è insieme a tante altre grandi figure autorevoli, esponente di un Umanesimo meridiano, che dal Salento, estrema terra del Sud, furono in grado di irraggiare il proprio pensiero grazie alle ferventi attività didattiche, culturali ed editoriali; e furono grandemente studiosi e critici attenti, che non sempre la marginalità del territorio periferico di cui erano espressione, ne ha ben premiate le ottime qualità sul piano nazionale della storia della letteraria[1].
Oggi più che mai queste figure meritano la nostra attenzione. Senza di esse non si sarebbe formata quella coscienza collettiva del territorio, che l’uomo non dovrebbe mai trascurare, ma anzi conoscere, valorizzare, tramandare, facendo giungere a un prossimo domani ciò che è racchiuso nei gesti e nelle parole di uno ieri talvolta remoto, in altri casi non così troppo aggrovigliato tra le pieghe del tempo.
Fortunatamente e in maniera doverosa, allo studioso di origini casaranesi, sono stati dedicati, come omaggio, numerosi studi e pubblicazioni, nonché alcune manifestazioni di pubblico ricordo.
La finalità di questo scritto è di gettare la luce su un aspetto meno noto della figura di Gino Pisanò, uomo di fondamentale raffronto nell’ambito delle Humanae litterae contemporanee, critico e saggista dalla vasta produzione bibliografica. Come ben annota Paolo Vincenti in suo articolo[2], cui rimando per un esaustivo ricordo dell’intellettuale:
“Pisanò era anche poeta. Clematides[3], la sua esordiale raccolta poetica, è anche una delle sue prime opere e [rappresenta] un unicum nella sua carriera […]”.
Ed è proprio su questa silloge poetica che vogliamo soffermare la nostra attenzione, poiché essa fornisce la preziosa possibilità di cogliere quell’humanitas profonda di un intellettuale sì riservato, ma esplicitamente amante dei propri lavoro e territorio, dei libri da egli stesso pubblicati. L’opera è attraversata da un senso di calda tenerezza che certamente ha connotato il suo agire e il suo sentire.
La raccolta di versi Clematides, con una nota introduttiva di Aldo de Bernart[4], viene pubblicata dalla casa editrice Congedo di Galatina nel 1984, e presenta la dedica ai figli Attilio ed Enrico da parte dell’autore.
La nota introduttiva si apre con la spiegazione del titolo: le Clematides[5], cioè le vitalbe, sono piante che di frequente possono incontrarsi nei boschi, data la loro natura spontanea. Secondo de Bernart, Pisanò aveva potuto osservarle nel Bosco Belvedere[6], durante alcune sue passeggiate. Osservando poi il loro comportamento, esse sono rampicanti, capaci di superare i venti metri in altezza e di sviluppare forti fusti legnosi e ramificati che avviluppano gli alberi. Esse tendono alla luce e questa loro peculiare caratteristica botanica, suggerì senza dubbio a de Bernart l’espediente per tessere una meravigliosa similitudine, che spiega la visione della poesia da parte di Pisanò:
“Come le Clematides, nella sua poesia [Pisanò] cerca il sole, l’azzurro mare, la bellezza, in una sintesi di antico e di nuovo, tesa al recupero di forme classiche, limpide e perfette, con spunti originali, spesso autobiografici […]”[7], che vanno a porsi in una relazione tensiva e continuativa con il tempo vissuto dall’autore nella dimensione del ricordo, quello appartenente al momento della stesura delle liriche e quello che oggi a noi si rivela.
Più avanti, nella stessa nota introduttiva, de Bernard dirà ancora:
“Pisanò […] radica le sue liriche nella memoria, come la vitalba i suoi fiori nel bosco. A lui basta, perciò, raccogliere vitalbe andando per boschi, così come si accontenta di scrivere liriche andando a ritroso nel tempo per contemplare la bellezza classica del passato che fa da sfondo, a volte angoscioso al vissuto, quasi sempre doloroso, del poeta. […]”[8]
A questa concezione di sotteso pessimismo, evidenziata giustamente dal curatore della nota, si aggiunge una fascinazione per l’antico che si può cogliere all’interno dei componimenti: il poeta desidera fare in modo che le memorie antiche dei luoghi vivano ancora per narrare storie, miti, leggende, potendo così infrangere la barriera del tempo.
Le liriche, infatti, sono intrise di un profondo amore per la propria terra e il poeta paragona la sua vita al mare[9] che, mediante l’andirivieni delle sue onde, scandito dal vasto e “altisonante” dispiegarsi delle ali dei grandi volatili che s’infrangono sulla sua spuma, è riuscito a donare “il ciottolo e la conchiglia” a nuova luce.
Il mare, tra le tante immagini che riesce a suscitare e che sospingono lo spirito creativo dell’uomo, spesso lo si associa ai principi di casualità e di imprevedibilità accidentale della vita di ognuno, concezioni anch’esse fortemente sostenute da Pisanò, come vedremo tra poco. In questo caso, oltre a tale interpretazione, potremmo leggere nell’immagine del mare che restituisce i suoi oggetti alla terra, quella dello studioso impegnato nel valorizzare momenti e figure di un tempo che attendevano rinnovato interesse; e ancora questa analogia è indicativa del sentire la poesia come ricerca, a partire dal proprio mondo interiore, con un verticalismo ascendente e proteso verso un’esteriorità che attende di poter nuovamente prendere la parola.
Dopo la pregevole nota introduttiva di de Bernart e poco prima di entrare nel vivo della raccolta, il lettore è invitato a soffermarsi sulla lettura di un frammento[10] della tradizione lirica greca.
Pisanò, infatti, cita in esergo alla sua silloge il poeta lirico greco, Simonide di Ceo, vissuto tra il VI e il V sec. a.C.:
“Tu che sei uomo non dire mai
ciò che sarà domani,
né se vedi un altro felice
per quanto tempo lo sarà.”
Il componimento simonideo, collocato precisamente in tale punto dell’opera, ci fornisce una prima chiave di lettura, o meglio, una prima luce interpretativa che lo stesso autore diffonde sulle proprie liriche.
Il messaggio, quasi un discreto monito pronunciato a bassa voce, si concentra su un errore spesso commesso dall’uomo: scambiare l’oggi con un postulato, con un dato leggibile aprioristicamente. Come può farlo, in bilico com’è nell’attesa del domani? Così la felicità individuale e quella dell’altro divengono effigi transitorie, indecifrabili e in mano all’arbitrio dell’azione disgregatrice del tempo.
Seguendo tali coordinate, leggiamo la poesia in endecasillabi Segno del tempo[11]di Pisanò, che si disvela in aperta connessione con il frammento di Simonide, scelto dall’autore per inoltrarci nel proprio orizzonte poetico:
Al ficodindia abbarbicato al muro
d’arcane latomie l’ulivo greco
contorto nello spasimo somiglia.
Segno del tempo, immobile ed uguale,
che a rompere la terra ci consuma,
fingendosi diverso nell’attesa.
Tutto il tessuto testuale della lirica si concentra su immagini paesaggistiche tipicamente meridionali, che possono con certezza essere ricondotte a quelle del paesaggio salentino.
Due piante, profondamente diverse nella loro conformazione botanica, il ficodindia e l’ulivo, vengono qui accomunate da un medesimo destino ineffabile e universale.
Il ficodindia è spesso posto in una posizione di sacrificata marginalità, adiacente a quei tradizionali muretti a secco, formati da pietre d’arcane latomie; l’ulivo, definito greco per la derivazione, l’ampio impiego simbolico di questa pianta nella storia letteraria della civiltà ellenica e la sacralità da essa tributatagli, si presenta contorto, come se fosse dolorante e in preda a uno spasimo lancinante. Ne consegue che le due piante, seppur profondamente diverse nell’estetica e nella biologia, appaiono di sembianza simile per il disporsi irregolare dei loro rami.
Questa disarmonia nella forma diviene allora il pretesto per chiamare l’uomo nel campo aperto del confronto ed evidenziare che anch’egli, al pari di ogni ente naturale e pur nella propria diversità, appare simile al ficodindia e all’ulivo dinanzi al segno del tempo, forza disgregante di eventi e di certezze, che vede nell’attesa la facoltà di creare incrinature e increspature nel mare della vita.
Ecco come, partendo da due immagini determinate ma diverse, coesistenti però in uno stesso tipo di paesaggio, Pisanò giunge a formulare un principio di universale valenza, che racconta e racchiude l’uomo e le sue istanze.
Sempre immerso nell’inappagabile sete dell’attesa, egli dimostra i segni della sua finitudine e i limiti della propria terrestrità.
Se già quanto esposto lascia intravedere la bellezza della silloge, non esaurisce il campo visivo-tematico esplorato dall’autore in Clematides.
Infatti, come accennato, è fortemente presente una focalizzazione sui luoghi e sulle strutture che li abitano (si pensi ai componimenti Presso una torre costiera del XVI secolo, al Frammento n.1), nonché un’attenzione ai riferimenti letterari paradigmatici di alcune suggestioni del gusto dell’autore (Sopra un verso di Quasimodo), all’omaggio alla melanconica incisività dei generi letterari del frammento e dell’epitaffio (Frammenti n. 2 e 3, Epitaffio in morte di A. Rampi), al gusto classico per la traduzione (si pensi ad Aurea mediocritas dal greco di Archiloco e al distico elegiaco latino dell’epistola dedicata da Pisanò al gesuita P. Antonio Chetry[12]).
Nell’indice, inoltre, accanto ai titoli di ciascun componimento, c’è l’indicazione della struttura metrica adoperata (rispettivamente: endecasillabi, verso libero, strofa saffica, novenari, esametro, distico elegiaco), dato che evidenzia non soltanto la sapiente conoscenza di Pisanò dei metri della tradizione letteraria antica, moderna e contemporanea, ma anche le consapevoli destrezza e leggiadria nell’impiegarli. Tutto ciò impreziosisce la concezione della poesia, che, Per Pisanò, è espressione di un misurato e tacito approssimarsi alla parola, l’eco di una memoria che vuol rivivere, proprio come quel mare, narrato dall’autore, profondamente lungisonante e conducente chi vi alberga a nuova luce.
Note
[1] Per approfondire la questione circa la marginalizzazione della letteratura del sud, si suggerisce la lettura del recente saggio di Simone Giorgino, che affronta ampiamente il problema:
S. Giorgino, Carta poetica del sudpoesia italiana contemporanea e spazio meridiano, Musicaos editore, Neviano 2022.
Si propone un brevissimo estratto dal testo già indicativo della reiterata affermazione della questione: “La letteratura del Sud appare non come parte integrante e imprenscindibile di un percorso di studio, serio e omogeneo sulla letteratura nazionale […]. La discriminazione della letteratura del Sud […] [è] conseguenza di un diffuso atteggiamento, iniziato fin dai tempi del Risorgimento.” (Giorgino, op. cit. pagg. 9-10).
E ancora, per un ritratto di Pisanò, si veda l’intervento dello storico dell’arte Paolo Agostino Vetrugno dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose Metropolitane di Lecce, relazione tenutasi nell’ambito del seminario del 17 marzo 2023, nella Sala Teatro dell’ex convitto Palmieri a Lecce, nel decimo anniversario della scomparsa di Gino Pisanò. L’iniziativa è avvenuta, con la promozione da parte della Società di Storia Patria di Lecce. Il testo della relazione è consultabile al seguente link https://www.spazioapertosalento.it/news/gino-pisano-ed-il-libro-come-bene-culturale/ .
[4] Aldo de Bernart (1925-2013), studioso salentino e importante punto riferimento per molti intellettuali. Particolarmente sensibile alla valorizzazione dell’aspetto culturale del patrimonio salentino. Per un profilo biografico e umano si consiglia la lettura del seguenti contributo di Paolo Vincenti, sempre fruibile in rete:
[5]Clematis (Clematides nella forma plurale), è una specie di piante appartenente alla famiglia delle Ranunculaceae. L’etimologia deriva dalla radice greca klema – “viticcio” o anche “pianta volubile” o “legno flessibile”. La nomenclatura scientifica del genere si deve a Carl von Linné (1707-1778), biologo e scrittore svedese, ritenuto pietra miliare della moderna classificazione scientifica degli organismi, in particolare per l’opera Species Plantarum del 1753. In italiano il termine viene tradotto con il lemma “vitalba”;la specie si presenta molto diffusa in Italia e in Europa. Il fusto è perlopiù erbaceo o legnoso, con inclinazione rampicante. I fiori, di varie tonalità, presentano diverse vivaci gradazioni (verde-giallognolo, rosso, viola o bianco).
[6] Oggi quest’area è nota con il toponimo di Paduli e si trova tra Scorrano e Miggiano (LE); in passato si chiamava Bosco di Belvedere, una foresta risalente al periodo post-glaciale, con un’estensione di circa settemila ettari e una superficie di trentadue km. Area ricca di ecosistemi (per la coesistenza del bosco, della palude, dello stagno e della macchia mediterranea), i primi documenti storici che ne certificano l’esistenza risalgono al 1476, quando il bosco era annoverato nell’inventario del feudo di Supersano, ad opera dei principi Gallone di Tricase, che ne detennero la proprietà per quasi trecento anni. Nel 1851, però, il patrimonio boschivo venne suddiviso tra i vari comuni e ciò sancì la distruzione del sistema preesistente della foresta, per dar luogo alla cultura dell’olivo, destinata a divenire nucleo portante dell’economia locale. Nel 1877 Cosimo De Giorgi annotava: “Non è senza il massimo dolore ch’io osservo di anno in anno cadere atterrate al suolo quelle querce maestose che hanno sfidato per tanti secoli le ingiurie del tempo, dell’atmosfera, degli uomini e degli animali. La falce e la mannaia livellatrice del boscaiolo segnano intanto, inesorabili su questa via di distruzione […].” Oggi l’associazione per la tutela dell’ambiente “manu manu riforesta!” si occupa di ricreare la biodiversità preesistente nella zona, contrastando il fenomeno della desertificazione, in luogo dei tanti ulivi devastati dalla Xylella. Si segnala, inoltre, il sito dell’associazione https://www.manumanuriforesta.org/.
[9] Il riferimento è alla lirica Sopra a un verso di Quasimodo, presente nell’op. cit., pag. 15.
[10] Pisanò menziona buona parte integrante del frammento PMG 521 di Simonide (D.L. Page, Poetae Melici Graeci, Oxford 1962), del quale può risultare interessante ripercorrere l’antefatto e il contenuto. Cicerone, nel De Oratore (II, 351-360), narra l’aneddoto secondo cui il poeta di Ceo, invitato a cena a casa di Scopas, signore di Crannone (antica città della Tessaglia), avrebbe iniziato a cantare un elogio in suo onore, essendogli stato dallo stesso commissionato. Simonide, però, diede più ampio spazio alla celebrazione del mito di Castore e Polluce, piuttosto che allo stesso Scopas. Allora quest’ultimo, profondamente irritato, affermò che avrebbe dimezzato la paga al poeta, dovendo egli stesso chiedere la restante parte ai Dioscuri. Così si tramanda che, poco tempo dopo, Simonide fu chiamato da due giovani misteriosi a uscire dalla sala. Uscito fuori, il soffitto della casa crollò, travolgendo Scopas e gli altri convitati. Simonide ebbe salva la vita, grazie alla chiamata dei due giovani misteriosi, nei quali il poeta di Ceo riconobbe i Dioscuri. La parte mancante del frammento, e non citata da Pisanò, continuava a soffermarsi sulla labilità del tempo; paragonato al volo effimero dell’ala di una mosca, esso muta imprevedibile la direzione del suo volo.
[12] È una nota esegetica al componimento che conclude Clematides, a fornirci alcuni cenni su questo nome. Rileggendo la nota a pag. 22: “P. ANTONIO CHETRY S. J., umanista, filologo, storico, autore di numerose pubblicazioni, ha composto un’operetta singolare breve e bizzarra; Il gioco del calcio in latino, cui fa cenno G. Pisanò nella breve epistola.”.
Ernesto De Martino nel suo celebre e importante libro sul tarantismo, La Terra del Rimorso del 1961, non faceva alcun riferimento a Giulio Cesare Vanini il quale, proprio in virtù della propria, per così dire, “salentinità” scrisse qualcosa da non trascurare, riguardo al tarantismo, difatti Andrzej Nowicki, uno dei massimi studiosi del filosofo taurisanese, nel 1964 rimproverava bonariamente al De Martino tale mancanza1. Tuttavia, a distanza di tanti anni, ancora oggi, nell’imponente mole di studi folklorici e antropologici sul tarantismo, sovente (soprattutto nella guidistica) si trascura di menzionare il Vanini, perdendo o rinunciando a un particolare punto di vista storico sull’argomento.
Il Filosofo
Lucilio Vanini, filosofo libertino e pre-illuminsta, nacque a Taurisano nel 1585, nei suoi scritti, firmandosi Giulio Cesare, teorizzava un mondo meccanicisticamente strutturato e senza provvidenza, nel continuo ed eterno fluire dei fenomeni naturali. Alle soglie della rivoluzione scientifica, per il Vanini tutto l’universo è costituito di corpi, non vi sono quintessenze, esistono solo le coordinante logiche di causa – effetto, esperienza ed osservazione (sebbene ancora entro schemi concettuali tomisto-aristotelici). A causa di queste idee, accusato di ateismo e blasfemia, fu arso vivo a Tolosa nel 16162. Ma oltre alle speculazioni teoretiche, il Vanini si occupò anche di vari e comuni argomenti, tra i quali il tarantismo o tarantolismo salentino. Del filosofo si conoscono solo due opere scritte in latino: l’Anfiteatro dell’eterna Provvidenza (del 1615) e il dialogo IMeravigliosi segreti della natura regina e dea dei mortali (del 1616).
Il Tarantismo
I protagonisti del dialogo 57 IV 3 dei Meravigliosi segreti della natura regina e dea dei mortali sono lo stesso Giulio Cesare, in veste di sapiente divulgatore della conoscenza e l’interlocutore di fantasia Alessandro. Il Vanini, con un approccio critico e causalistico, pone la questione del tarantismo, indagando la ragione del fenomeno, per quelli che erano i criteri epistemologici dei primi anni del Seicento. Generalmente, come altrove, lo stile narrativo si fonda su ciò che il protagonista apprende da sconosciuti o da quello che gli viene riferito “da alcuni amici” tutti non identificati, un espediente cautelativo, giusto per evitare possibili procedure inquisitorie.
Domanda Alessandro: – “Perché coloro che sono morsi dal falangio (animale che dalla città di Taranto è detto tarantola) sono incitati dalla musica a saltare tanto da stancare gli occhi degli spettatori? G.C: – forse perché (per non parlare del furore di Saul che fu chetato dal dolce suono della cetra di Davide) nel frattempo in dolore si attenua”. Con il movimento, prosegue Giulio Cesare, il veleno si allontana dal cuore, fluisce altrove, si diluisce e la mente si distrae, tuttavia la sensazione di malessere si ripresenta gradualmente quando la musica cessa e pertanto occorre ricominciare 4. In questo passaggio il Vanini accenna al celebre episodio biblico in cui si narra che “lo spirito del Signore si era ritirato da Saul e uno spirito malvagio da parte del Signore lo colmava di terrore, tanto che i servi di Saul gli dissero: «Ecco dunque uno spirito maligno da parte del Signore che ti agita»”. Davide entrato nelle grazie di Saul divenne suo scudiero e “quando lo spirito divino infieriva sopra Saul, Davide prendeva la cetra e suonava con le sue mani; ciò sollevava Saul e gli faceva bene, poichè lo spirito malvagio si allontanava da lui” 5.
Ma a differenza dell’episodio di Saul che mitiga la propria sofferenza solo con l’ascolto della cetra, Giulio Cesare osserva che la “malattia velenosa” può essere attenuata grazie all’eccitamento degli spiriti6, causato dalla musica, ma “ Forse più correttamente dirò che la cura è data non dalla musica, ma dalla faticosa danza stimolata dalla musica ed affermerò fiducioso che tale veleno, certamente freddissimo è vinto ed espulso dal sudore”7, quasi a voler dare una spiegazione fisica, ipotesi, peraltro, già sostenuta da Giulio Cesare Scaligero (1484-1588)8. Quindi il filosofo arriva ad una comprensione ragionevole del fenomeno tossico e, a conferma della tesi movimento/sudore, cita il Fedone di Platone nel dialogo9 in cui a Socrate fu vietato qualsiasi movimento dopo aver bevuto la cicuta, per non sminuire l’efficacia del veleno10.
Si potrebbe aggiungere tra gli scritti di Platone, l’Eutidemo dove si parla degli speciali canti per debellare il veleno dei ragni e qualcosa di simile si trova nei versi di Euripide che riguardano il mito di Demetra nella delirante e disperata corsa alla ricerca della figlia Persefone.
La casistica comportamentale dei tarantati pugliesi è varia: “taluni piangono”, “altri ridono”, “alcuni corrono”, “c’è chi suda”, c’è chi si abbandona nel torpore o vomita, altri impazziscono ed Alessandro pensa che questa varietà di comportamenti, sia superstiziosamente in rapporto al succedersi dei giorni della settimana, mentre per Giulio Cesare è la specificità della tarantola che genera effetti molteplici, a seconda delle caratteristiche degli individui un po’, come accade per gli ubriachi, ognuno reagisce in maniera diversa al vino 11 o, per meglio dire all’ubriachezza: si ride, qualcuno piange o blatera, altri dormono ecc.12, in sostanza dall’indagine induttiva vaniniana risulta che gli effetti del morso velenoso dipendono perlopiù dal grado di predisposizione psicofisica dell’individuo.
Molti, apparentemente guariti dal veleno della tarantola, puntualmente a distanza di un anno ricadono nello stesso malessere, analogamente ci sono piante che fioriscono nello stesso giorno ogni anno o, come osserva, Girolamo Cardano (1501-1576, citato dal Vanini)13, alcuni alberi di noci mettono il fogliame sempre il 24 giugno (proprio in concomitanza con il convegno di streghe sotto il noce di Benevento14). Questo accade anche per le febbri coleriche e atrabiche15 che hanno ricadute puntuali, sempre nello stesso periodo, tutto ciò farebbe pensare, agli influssi astrali, considerata la regolarità del fenomeno. Inoltre, bisogna considerare che la sofferenza del tarantato dura finchè vive il “falangio” e guarisce quando questo muore, perché probabilmente i due eventi sono correlati e influenzati dalla stessa costellazione (stando al determinismo aristotelico – averroistico da motori immobili sul mondo sub-lunare). E come vanno “vociferando i contadini pugliesi diremmo che è una proprietà del falangio che la sua vita e i suoi morsi abbiano la stessa durata, perché sono prodotti dalla stessa costellazione” 16, riprendendo il Vanini la tesi del filosofo rinascimentale Pietro Pomponazzi (1462-1525)17.
Il protagonista del dialogo Giulio Cesare non trascura, sicuro delle proprie analisi induttive, a suo modo scientifiche, ironicamente di segnalare quali potrebbero essere i rimedi e gli intrugli popolari contro il veleno del falangio, quindi riferendosi ad Alessandro soggiunge ironicamente: “perdonate, o canoni pontifici, ad un prete che scrive di medicina!”, proponendo poi uno strano elenco di erbe e terre rare, mosche che si nutrono di insolite piante ecc.18, tutta roba ripresa dallo Scaligero (vedi nota 7).
Quando Giulio Cesare era a Lione, qualcuno gli raccontò di un “lacchè” o “fannullone” alloggiato presso un albergo e, nonostante l’ottimo trattamento ricevuto, ritenne a torto, esoso il conto da pagare. Andando via, questo fannullone, lasciò la propria stanza piena di fumi, provocati da qualcosa disciolto in un vaso d’argilla. I camerieri che vi entravano, subito dopo ne uscivano saltellando e ballando. “Tutti, non solo i cattolici, ma anche gli Ugonotti attribuirono la causa di ciò ad un artifizio diabolico. Giulio Cesare, invece, si fece beffe di tali simile storielle ed ascriveva ogni cosa alla causa naturale”19 (sottolineando con la garanzia del proprio nome l’assurdità dell’episodio).
Evidentemente il lacchè versò polvere di falangio nel vino e, chi saliva in camera, bevendo qualche sorso, ne usciva saltellando. Anche i fumi sparsi nella stanza erano stati prodotti dalla polvere di falangio combusta e chi vi entrava inalando il miasma, cominciava a ballare e saltellare, anche senza aver bevuto il vino. “Così tutti in quella sorta di sala da ballo erano indotti a danzare. Perfino una cagnetta si era data alle danze”20. Quindi il veleno della tarantola e la sua esalazione prodotta dalla combustione provocano malessere e, su scala più vasta, è ciò che accade quando si inalano i vapori di “un corpo appestato” e con la peste “non solo vanno in rovina intere famiglie, ma addirittura grandissime città”21.
Insomma dal fenomeno raccontato con un certo brio popolaresco e spiegato in maniera logicamente verosimile, si hanno di fatto drastiche e nefaste conseguenze che generano anche manie o fissazioni esagerate. A tal proposito, “In Germania – racconta Giulio Cesare – ho conosciuto un cattolico che nella settimana santa non visitava le pubbliche chiese, ma assisteva alle cerimonie sacre in una cappella privata” per non infettarsi “dai vapori molesti” e nocivi emessi dai cristiani proprio in quel periodo di particolare mestizia che predispone alle melanconia22 (secondo la medicina ippocratica a cui il Vanini fa riferimento)23.
Ricapitolando: Cardano e Pomponazzi sostenevano, per il tarantismo il determinismo astrologico e lo Scaligero attribuiva al movimento e al sudore l’espulsione del veleno dell’aracnide, ma tutti sono d’accordo, compreso il Vanini che si tratti oggettivamente di una “malattia velenosa” dovuta al morso del ragno o falangio. La danza dei tarantolati è prodotta da qualche sostanza insita nel falangio, come conferma la storiella dello sfaccendato di Lione, secondo l’elementare schema esplicativo vaniniano e, proprio nel raccontare in modo ironico e popolaresco:“così tutti in quella sorta di sala da ballo erano indotti a danzare” o della fobia del tedesco24, sta a dimostrare che per questi fatti apparentemente inspiegabili, non vi sono cause sovrannaturali o qualcosa di demoniaco, come pensavano cattolici e ugonotti. Si tratta solo di cause materiali che hanno una spiegazione logica e fisica, come accade, secondo quanto raccontano gli storici, nella diffusione della peste, cioè basta qualche esalazione di un corpo infetto a mandare in rovina intere comunità25. Ovviamente dal Vanini non ci si può aspettare una moderna analisi socio – antropologica di difesa magica della personalità (a quei tempi gli studi etnografici e folklorici erano agli inizi), ma una condanna a quelle che erano le superstizioni o gli errori dell’intelletto umano, la ragione dovrebbe essere la guida dell’agire umano in cui ogni cosa viene pensata e appresa direttamente per ciò che è, mentre la verità o la conoscenza sostanziale si sviluppa attraverso la riflessione26.Tuttavia l’uomo non è Dio, né possiede verità eterne, noi dice il Vanini conosciamo in modo indeterminato perché siamo “circoscritti e definiti dai limiti del tempo e dello spazio”, delle cause che si presentano volta per volta “possiamo fare una congettura […]. Perciò ora siamo incerti e dubbiosi, ora certi”27. Le cose perdono la loro valenza essenzialistica e aristotelico – metafisica28, per assumere un significato logico di comprensione graduale, ma non definitiva della realtà. E quando ciò non si verifica, l’errore o la superstizione e l’ignoranza prendono il sopravvento. All’uomo appartiene la capacità di decifrare le molteplici cose mondo e comprenderle con la logica dell’intelletto.
Attualità della questione
Alla fine degli anni ’50 il De Martino studiò la magia meridionale29 come fatto storico -culturale, interessandosi della prassi terapeutica musicale e cromatica connessa al tarantismo, ad iniziare da Pitagora, Ippocrate, Platone, proseguendo nella letteratura greca antica, nella mitologia di Dioniso30, Orfeo, Demetra ecc., via via, fino alla vicenda di San Paolo a Malta31 e alle varie interpretazioni di epoca medievale e moderna. Riguardo al Santo il Vanini accenna al suo potere terapeutico e dice che “ci sono tra noi quelli che si vantano di essere muniti della grazia paolina; infatti, curano rapidamente coloro che sono morsi da serpenti. Tale facoltà donò ad essi la natura generatrice di tutte le genti e talvolta ho scorto sotto la loro lingua una minuscola immagine di serpente impressa dalla stessa natura”32 (con un tono un po’ canzonatorio).
Nel tarantismo il magico svolge una funzione protettiva (risalente al mito di Aracne), di soccorso psicologico dell’individuo proprio nei periodi precarietà e sofferenza esistenziale. La tarantolata (e sono perlopiù donne, chiara dunque la significato erotico), vittima presunta di un morso di tarantola, simula con una frenetica danza la lotta contro il veleno dell’animale che, chiamato con vari nomi di persona, viene identificato con il negativo da esorcizzare.
La donna, in questo rituale, si libera, dalla soffocante oppressione quotidiana contadino – patriarcale e, al ritmo incalzante dei musicanti33 con violino tamburello, fisarmonica e chitarra si lascia inconsciamente trasportare nell’arcaico menadismo coreutico, ora pizzica.
La donna agita convulsamente nastri e fazzoletti colorati, perché vuole eliminare con la danza dal proprio corpo il veleno, identificato con un colore particolare, cioè quello della tarantola (terapia coreutica-musicale e cromatica), riconosciuto tra i vari fazzoletti o nastrini colorati o panni esibiti dai presenti (o chissà nel vestito di un giovane che da lei viene fissato e ammiccato) e, per il momento, il male scompare34.
Il tarantato o, più spesso la tarantata, secondo una fonte secentesca del De Martino si agitano“come se fossero travagliati da follia amorosa, la bocca spalancata, le braccia aperte, gli occhi lacrimosi, il petto ansante, stringono infine in amoroso amplesso il panno colorato e sembrano fingere una ardentissima unione, per così dire una identificazione con esso”35. Quindi i colori acquistano una valenza simbolica durante l’esorcismo coreutico in correlazione all’inclinazione della tarantata verso un determinato colore. Il De Martino, pone la questione “se sia pensabile una connessione fra simbolismo cromatico del tarantismo e simbolismo cromatico medievale” e se fosse vero che “il verde sia da interpretare come il colore dell’amore nuovo […] e il rosso […] dell’aggressività e del furor, della passione ardente armata”36.
Studi più recenti sul tarantismo pongono l’accento sul concetto di possessione o di trance37, sulla modifica della coscienza, tratto comune con i riti mediterranei della Grecia antica, un criterio d’indagine che deborda nel culto orfico – dionisiaco, fino a risalire alla civiltà protostorica dell’Italia meridionale38. Tuttavia le nuove prospettive di studio pur integrando la speculazione demartiniana, ne riconoscono la validità dell’impianto epistemologico di fondo.
Note
1 Andrzej Nowicki, Curiosità vaniniane. Vanini e le tarante, “La Zagaglia”, n. 42, Giugno 1969, p. 163.
2 Mario Carparelli, Il Più Bello e il più maligno spirito che io abbia mai conosciuto. Giulio Cesare Vanini nei documenti e nelle testimonianze, I Cento Talleri Prato, 2013.
3 Cfr. Giovanni Papuli, Francesco Paolo Raimondi, Giulio Cesare Vanini, Opere, Congedo Galatina, 1990, pp. 108-110.
4 Giulio Cesare Vanini, I Meravigliosi segreti della natura regina e dea dei mortali (1616) IV, 57, p. 444, in Giulio Cesare Vanini, Tutte le Opere, Monografia introduttiva, Testo critico e Note di Francesco Paolo Raimondi; traduzione di Francesco Paolo Raimondi e Luigi Crudo, appendici di Mario Carparelli, Bompiani Milano, 2010. D’ora in avanti tutti passi citati, sia da I Meravigliosi segreti della natura regina e dea dei mortali (1616), sia dall’Anfiteatro dell’eterna provvidenza (1615), sono tratti dall’opera citata e i titoli abbreviati in Meravigliosi e Anfiteatro.
6 Si tratta di particelle, secondo l’antica medicina galenica che regolano meccanicamente la fisiologia dell’individuo. Quindi si ha uno spirito naturale nel fegato che regola il metabolismo e l’alimentazione, quello vitale nel cuore che soprintende alla circolazione del sangue e quello animale nel cervello che controlla la percezione e i sensi (Cfr. Galeno, Opere scelte, a cura di I. Garofani, M. Vegetti, Torino, 1968). Si tratta di una metodologia medica, al pari di quella ippocratica che sopravvive fino in epoca moderna, trattata da Telesio, Bacone e Cartesio. Secondo quest’ultimo, gli spiriti vitali (dotati di estensione e movimento) sono entità fisiche che fanno d’unione tra intelletto e le azioni del corpo e realizzano l’unità psicofisica dell’essere vivente. Questi spiriti (parti più sottili del sangue), attraverso i nervi causano nell’anima le passioni (sentimenti, emozioni, percezioni ecc.) che possono essere soppresse, rigettate, accolte (quelle giuste) o moderate (Renè Descartes, Discorso del Metodo(1637), prefaz. Di Giovanni Reale, traduz. di Monica Barsi e Alessandra Preda, Rcs Milano 2010, p. 53 e, Renè Descartes, Le passioni dell’anima (1639) a cura di Salvatore Obinu, Bompiani Milano, 2003, art. XXXVI)
8 Nota 399 a cura di F.P. Raimondi p.1803, in G.C.Vanini, Tutte le Opere, cit.
9 Critone rivolgendosi a Socrate dice: “ bisogna che io ti avvisi di parlare pochissimo; perché, dice egli (cioè il carnefice che somministrerà il veleno), quelli che parlano, si riscaldano di troppo, e ciò non è bene avendo a bere il veleno; se no, ci è caso di averlo a bere due e anco tre volte. E Socrate: – lascialo andare; digli che badi a sé, che s’apparecchi a darmelo due volte, se bisogna; e anco tre” Platone, Fedone, in Dialoghi, (I Classici del Pensiero), a cura Carlo Carena, traduz. Francesco Acri, Appendice Mari Vegetti, Einaudi – Mondadori Milano, 2008, VIII.
11 Come nel veleno (naturale) del falangio non vi è alcuna manifestazione diabolica, così anche riguardo al vino il Vanini ne smitizza la valenza cristiano-dionisiaca, facendone una bevanda dagli affetti naturali positivi, una specie di toccasana fisico-morale (Mario Carparelli, Giulio Cesare Vanini: il Filosofo del Vino, in “Alceo Salentino” del 01.11.2005 www.alceosalentino.it/giulio-cesare-vanini-filosofo-del-vino.html)
14 Intorno a un grande albero di noce (già sradicato in epoca medievale) nei pressi di Benevento si davano convegno in determinati periodi (es. San Giovanni) tutte le streghe o janare (Alfredo Cattabiani, Calendario, Rusconi Cde Milano, 1988, pp. 242 – 246).
La cosiddetta Janara nel Beneventano e nell’area campana (forse da sacerdotessa di Diana, oppure Ianua da Giano bifronte, effige del nume posto sugli ingressi dei fabbricati) sarebbe una delle tante specie di streghe appartenenti al folklore agreste (cfr. Benevento le Janare attorno al Noce, in Palumbo Murizio Ponticello, Misteri Segreti e Storie Insolite di Napoli, Newton Compton Roma, 2015 e Maria Pia Selvaggio, L’Arcistea. Bellezza Orsini e la sua Janara, Spring Caserta, 2008)
15 La febbre atrabiliare, secondo la medicina umorale di Ippocrate, deriva dall’umore della bile nera posta nella milza, il soggetto è debole, pallido, triste e avaro (Nicola Ubaldo, Atlante Illustrato di Filosofia, voce Umori, Giunti Firenze, 2000; cfr. Walter Bernardi, Fisiologia e Mondo della Vita, in Storia della Scienza, a cura di Paolo Rossi, vol. I Utet /Espresso, 2006, pp. 375 – 377
17 C’è una zona della Puglia dove abbondano i falangi, un tipo di ragno che noi chiamiamo tarantola. Chi viene morso da questo ragno, si agita al punto da non riuscire a star fermo e sembra quasi che balli” e ciò dipende dagli influssi delle costellazioni (a conferma di ciò che dicono i contadini pugliesi) e la terapia musicale, in questo caso, non serve nulla, il soggetto morso soffrirà finché il ragno sarà in vita. Quindi “dalla proprietà naturale del falangio deriva che tanto l’animale, quanto l’efficacia del suo morso durino lo stesso tempo, perché entrambi sono sostenuti dalla stessa costellazione […]: pertanto muoino insieme”. Insomma per il filosofo mantovano ogni evento può essere compreso il proprio svolgimento, perché condizionato dagli astri, identica cosa accade come nel tarantismo (Pietro Pomponazzi, Il Fato, Il Libero Arbitrio e la Predestinazione, saggio introduttivo, traduz. e note di V. Perrone Compagni, Nino Aragno, Torino, 2004 II, 7, p. 441-445, in Maurizio Cambi, Tommaso Campanella, Il Morso della Tarantola e la Magia Naturale, in Antropologia e Scienze Sociali a Napoli in Età Moderna, a cura di Roberto Mazzola, Aracne Editrice Roma, 2013, p. 16 – 17)
23 Ippocrate concepisce la salute come l’equilibrio tra freddo, caldo, asciutto e umido e ai quattro umori corporei, il terzo di questi è flegma che ha a che fare con l’acqua e la sua sede è nella testa, il carattere è malinconico, vale a dire magro, emaciato, debole, scarno, avaro, triste. Lo squilibrio fisiologico avviene quando un agente esterno per ingestione o per caldo o per il freddo o per una malattia altera gli umori. Al medico spetta il compito di ristabilire gli equilibri assecondando la natura. Questa teoria, attraverso Galeno arriva al Rinascimento ed era ancora di moda nel Seicento (Giorgio De Santillana, Le origini del pensiero scientifico, traduz. Giulio de Angelis, Sansoni Firenze, 1966, pp. 140 – 142. cfr. Ludovico Geymonat, Gianni Micheli, Corrado Mangione, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. I Garzanti, 1970, pp. 380 – 381.
29 Ernesto De Martino, La Terra del RimorsoContributo a una storia religiosa del sud (1961), presentaz. di Clara Gallini Il Saggiatore, Milano, 2015. E. De Martino, Sud e Magia (1959), Feltrinelli Milano, 1979, pp. 140-144.
30 Cfr. Paolo Pellegrino, Il Ritorno di Dioniso, Il Dio dell’Ebbrezza nella Storia della Civiltà Occidentale, Congedo Galatina, 2003 pp.109-134,
31 Luca (Atti degli Apostoli 28) racconta durante il viaggio verso Roma l’apostolo Paolo fece naufragio a Malta . Su quell’isola neutralizzò una vipera velenosa tra lo stupore generale di chi gli stava intorno. Da quell’episodio nacque la tradizione popolare legata alla figura del Santo vincitore degli animali velenosi. Leggenda vuole che San Paolo in questo viaggio fece tappa a Galatina durante la sua opera di evangelizzazione, da qui il culto di San Paolo nella città salentina, zona franca per i tarantolati, area, per dirla eufemisticamente, esorcisticamente protetta, benché questa tradizione, come osservano alcuni, risale al secolo XVIII. Nelle tarantate non manca mai l’immaginetta di San Paolo e le relative invocazioni.
33 Cfr. Pierpaolo De Giorgi, L’Estetica della Tarantella, Pizzica, Mito e Ritmo, Congedo Galatina, 2004, pp. 34 e sgg. La musica diviene uno strumento terapeutico e nel rituale del tarantismo, come sostiene il De Martino, sono le tarantate a imporre il ritmo della danza vitale su mondo oscuro e negativo della taranta, così la guarigione può avvenire e la malattia essere sconfitta (Ernesto De Martino, La Terra del Rimorso, (1961) Il Saggiatore Milano, 1968, in P. De Giorgi, op. cit. p. 43)
34 Giuseppe Gigli, Superstizioni, pregiudizi e tradizioni in Terra d’Otranto (1893), A. Forni Edizioni Bologna, 1970, p. 71
37 Gilbert Rouget, Musica e trance. I rapporti tra musica e i fenomeni di possessione traduz. e cura di G. Mongelli, Einaudi, Torino, 1986; Georges Lapassade, Saggio sulla trance, traduz. e cura di G. De Martino, Feltrinelli, Milano 1980; G. Lapassade, Intervista sul tarantismo, Madona Oriente Maglie 1994 in P. De Giorgi, op. cit. p. 37
Armando Perotti (Bari 1 febbraio 1865- Cassano Murge 1924) fu un poeta, uno studioso di storia locale e un assiduo collaboratore della Gazzetta di Puglia[1] (oggi Gazzetta del Mezzogiorno), testata giornalistica che, dopo la morte dell’autore, intraprese l’iniziativa di divulgarne l’opera scarsamente conosciuta, raccogliendo e pubblicando i vari scritti che potevano riscontrarsi in maniera non sistematica e sparsa in giornali, riviste letterarie e di storia locale, nonché in copie tipografiche numerate e difficilmente reperibili, essendo state prodotte in tiratura limitata.
Pertanto, grazie all’impegno della Gazzetta, di colleghi ed estimatori, nonché della casa editrice Giuseppe Laterza & figli, venne pubblicato il volume Poesie[2], che funge a noi da stella polare nel fugare la memoria dell’autore dalle ombre del passato.
L’opera, che ha visto all’attivo un organico comitato[3] di studiosi adoperarsi per la sua pubblicazione, in particolare nella persona di Giuseppe Petraglione[4] , ha visto la luce nel 1926 (due anni dopo la dipartita terrena del Nostro) e offre un profilo biografico e bibliografico sommario con delle linee di poetica dell’autore.
Essa accoglie due raccolte poetiche di Perotti. La prima, Il libro dei canti (prima edizione 1890) venne scritta dall’autore all’età di venticinque anni e riflette una chiara adesione al modello carducciano, molto in voga negli autori di quegli anni, per il fascino classicheggiante su di essi esercitato dal poeta di Valdicastello.
Nel volume confluiscono poi numerose liriche pubblicate in vari periodici tra il 1882 e il 1888; un dato di non trascurabile importanza è che, dopo la pubblicazione del Libro dei Canti, Perotti si dedicò meno all’attività poetica, prediligendo l’attenzione per gli studi di storia locale e patria.
Dovremo attendere i primi del Novecento per un ritorno alla lirica da parte dell’autore, dimostrata nelle intenzioni per la volontà di pubblicazione della seconda raccolta di liriche Or da pioggia or da orza.
Il progetto editoriale fu iniziato, ma non portato a compimento dallo stesso, a causa della sopraggiunta morte, che lo colse nel 1924.
Disponendo del disegno dell’opera, i curatori del volume di liriche, hanno cercato di attenersi il più possibile fedeli alla progettualità dell’autore, aggiungendo alle quarantatré poesie manoscritte e selezionate dal poeta quando egli era ancora in vita, altre venti, tratte dalla sterminata e disseminata produzione a cui si poteva facilmente accedere, proprio per la notorietà del Nostro.
Inoltre tale integrazione fu dettata dalla presupposta incompletezza del manoscritto di partenza, al cui interno erano state lasciate volutamente alcune pagine bianche tra una lirica e l’altra, nonché nell’indice; tali dovevano essere probabili sedi di ulteriore aggiunte sulle quali l’autore si era riservato di riflettere.
I curatori del volume, come dichiarano apertamente nello scritto in forma di postfazione Notizia intorno alla presente edizione[5], sono ben consapevoli che loro scelte integrative forse non sarebbero state pienamente condivise dall’autore, presentato come un uomo dal carattere schivo e fortemente critico, specie nei confronti dei propri scritti. Pertanto, nel porgere l’opera ai lettori, i curatori hanno avvertito l’esigenza di giustificare le motivazioni di una scelta, che potrebbe sembrare ai più azzardata e arbitraria senza una resa formale delle volontà dell’autore:
“E tra il pericolo di essere più severi dell’autore stesso, e quello di essere più indulgenti, si è ritenuto di dover protendere verso l’indulgenza e includere anche qualche lirica un po’ sfiorita dall’ala del tempo, e qualche breve composizione occasionale scritta forse per condiscendere a un’amichevole richiesta, o per adempiere un dovere di cortesia”[6].
Prendendo atto di tali parole, la scelta dei curatori ci risulta più chiara e oculata, adottata ai fini di conferire al progetto una veste di completezza e in adesione quasi filologica all’intenzionalità del suo autore, della quale il comitato di redazione poteva avere contezza e diretta conoscenza, dato il rapporto di consolidata stima nei riguardi dell’autore.
Inoltre le aggiunte si presentano opportunamente collocate, all’interno del nucleo originale dell’opera, ed esplicitamente segnalate nella sede indicata e nel criterio dell’ordinamento adoperato:
“Le poesie aggiunte a quelle raccolte dall’autore sono quindi – come si è già detto – venti, e corrispondono ai numeri VI, VII, VIII, IX, X, XI, XII, XV delle Intime, XII, XIII delle Nereidi, I, II, III, IV, V, VI, VII, IX, X e XIII delle Varie”[7].
Le Intime e le Varie seguono quasi sempre l’ordine cronologico, permettendosi il margine di qualche deroga, secondo un consueto modus operandi dell’autore, nel tentativo di adeguarsi a una più vicina affinità tematica con le altre liriche.
Il manoscritto, lasciato da Perotti, fu ritrovato in uno stato lacunoso: talvolta c’erano la mancanza di un verso o di una parola. Le varie omissioni si presentavano o perché alcune liriche furono trascritte mediante l’esclusivo ausilio della memoria, e quindi senza un possibile raffronto con una fonte fissata su un supporto scrittorio oppure perché lo stesso autore avrebbe voluto apportare lievi correzioni o variazioni al testo.
In questo caso i curatori hanno opportunamente emendato i testi, risalendo alle prime redazioni degli stessi, tenendo ovviamente conto del materiale già edito e delle esplicite correzioni dell’autore, ai loro occhi fruibili e accertate. Ad ogni modo il volume Poesie ha cercato di rispettare metodicamente e dal punto di vista testuale quelle che risultavano essere le ultime intenzioni dell’autore.
Sulla produzione poetica di Perotti, torneremo in alcuni prossimi scritti per meglio esplorarne i camminamenti, volendoci soffermare specialmente su come egli abbia saputo cantare in versi il territorio salentino e i suoi paesaggi. Basti pensare che, proprio per tali meriti, la città di Castro(LE) gli ha dedicato una piazza con un suggestivo affaccio sul mare e vicina al Castello Aragonese e al Museo Archeologico.
Intanto, per dare un assaggio dell’abilità poetica dell’autore e per un liminare approccio alla sua poetica, leggiamo il testo Lasciateci sognare: noi viviamo di sogno[8], che di seguito riporto per intero con l’aggiunta di alcune brevi note di natura esegetica ed editoriale, e di un commento.
Volendo effettuare una comparazione di natura linguistica e stilistica tra la prima redazione del testo apparsa sui periodici La battaglia bizantina e il Corriere delle Puglie (entrambe risalenti al 1888) con la seconda e definitiva stesura, pubblicata prima ne Il libro dei canti (Perotti A., ed. Vecchi, Trani 1889-90) e poi in Poesie (Perotti A., op. cit., 1926), è possibile riscontrare pochi ma interessanti cambiamenti ed emendamenti, voluti dall’autore.
Complessivamente, in tutto il testo, c’è una revisione generale della punteggiatura, atta a rendere il ritmo poetico più fluido e lineare, senza spezzare la sintassi e ostacolarne la lettura; l’interiezione vocativa “o” viene preferita a “oh” probabilmente per una lettura più agevole e meno enfatica; all’arcaismo “ch’anno” del v.13 viene privilegiata la forma corrente “che hanno”; è mantenuto, invece, l’arcaismo di natura latina “ei”, indicante il pronome di terza persona singolare maschile e riferito al “poeta”, proprio per lasciare anche nella sintassi una patina linguistica di classicità, che è ben congeniale se la si correla al soggetto cui si riferisce. Il lessico è perlopiù medio con l’impiego talvolta di arcaismi e di vocaboli specialistici, come abbiamo già notato, e ancora l’uso di raffinate allusioni e perifrasi.
Tra l’iniziale redazione e quella definitiva si riscontrano due significative variazioni lessicali:
al v. 14 il termine “preludii” viene sostituito con “accordi”; al v. 24 l’espressione verbale “fissarvi” viene preferita a “tradurvi”.Si può brevemente congetturare sul perché di queste scelte.
Nel primo caso bisogna far riferimento all’area semantica della musica, per cui è possibile definire il preludio come un’introduzione strumentale a un componimento musicale, mentre l’accordo è l’esecuzione armoniosa e simultanea di tre o più suoni appartenenti a una stessa tonalità, stando alle norme dell’armonia classica.
Sicuramente Perotti ha preferito il lemma “accordi”, proprio per dare alle “mandole” del v. 14 una capacità espressiva già in sé unitaria e portatrice di un messaggio originario e compiuto. All’armonia dei suoni potrebbe corrispondere quella della natura da cui essi stessi vengono generati. Il termine “preludii”, infatti, non rendeva pienamente l’immagine dell’unità primordiale che il poeta è in grado di cogliere, ma agli altri passa inosservato. Per quel che concerne la revisione del v. 24, il poeta avrà certamente preferito “fissarvi”, poiché in esplicita connessione semantica con “le ferma” del v.8. Tale variazione lessicale non si discosta troppo dal messaggio iniziale e dal lemma di partenza, anzi potremmo dire che lo inglobi: si potrebbero fissare parole in “non mortali rime” senza un processo di traduzione aprioristico? Cos’è la traduzione se non il voler cercare di fissare, in maniera goethiana, l’attimo mediante la parola?
Il testo appare come un’esplicita richiesta, una rivendicazione del desiderio di libertà nel dispiegare il proprio animo al sogno. L’io lirico si fa portavoce e carico non solo delle sue stesse esigenze, ma anche di quelle di ogni poeta, poiché egli necessita “di tutto ciò ch’è inutile alla gente volgare”.
E in questo punto si fa riferimento a tutto ciò che cattura l’attenzione della propria anima sensibile, ciò che sfugge ai più e che invece egli non solo vede, ma chiama (e dunque riconosce) e ferma.
Questa precisazione, quest’accostarsi di parole così accurate e definitorie della natura dell’azione, costituisce un vero e proprio climax ascendente, che rammenta ai lettori il carattere specifico della poesia, e dunque, una delle funzioni della letteratura: fissare, attraverso le parole, ciò che vuol fuggire, quell’attimo che trascolora nell’aria di un paesaggio, in un campo aperto e preda della distrazione.
Ecco rivelarsi il compito del poeta: catturare tali visioni, parvenze di per sé sfuggenti ed effimere. Il poeta le stringe tra le sue “braccia tenaci”, cerca un dialogo con gli uomini. Il suo sguardo guarda lontano per poter realizzare un fine di più alta aspirazione, “un lavoro sublime”.
Tradurre tali “parvenze fugaci” in “non mortali rime”, fermare per poco il corso della realtà e renderlo eternamente poesia.
Note
[1] Per inciso, ma non in maniera superficiale, si ritiene utile ricostruire il rapporto tra tale testata giornalistica e Perotti. La sua collaborazione, infatti, è già documentabile dal 1887, come attestano i dati presenti nell’Archivio storico della Gazzetta del Mezzogiorno. Proprio nel 1887, infatti, Martino Cassano (1861-1927), già fondatore del periodico settimanale La settimana, edito in Bari, aveva fondato il Corriere delle Puglie, con il quale Perotti inizia subito a collaborare in qualità di articolista, critico, poeta. Il quotidiano voleva colmare la mancanza di un mezzo mediatico di tale impianto strutturale nel capoluogo pugliese; e sebbene, in quegli anni il tasso di alfabetizzazione fosse ancora piuttosto basso, nel 1890 il quotidiano riuscì a espandersi e ad aprire una filiale a Lecce. Successivamente il 26 febbraio 1922, nel panorama dell’editoria dei quotidiani pugliesi, esce La Gazzetta di Puglia a firma del giornalista Raffaele Gorjux (1885-1943). È il 1923 e il Corriere delle Puglie cessa le sue pubblicazioni; l’anno successivo, La Gazzetta di Puglia aggiunge, sotto il nome della propria testata, la testatina Corriere delle Puglie, ereditando così tutti gli anni di vita editoriale del Corriere, attribuendo alla nuova testata un carattere di continuità e di autorevolezza per la sua rete di diffusione. Infine, dal 26 febbraio 1928, appare la nuova testata La Gazzetta del Mezzogiorno, che reca in piccolo i nomi delle due testate precedenti, quasi a voler essere memore del proprio punto di partenza. Ecco, dunque, ricostruita, sulla base delle fonti a nostra disposizione, la collaborazione di Perotti con la Gazzetta di Puglia (già Corriere delle Puglie).
[2] Perotti A., Poesie, Gius. Laterza & figli, Bari 1926.
[3] Prima dell’indice, presente nella parte finale dell’op. cit., sono presenti, in una pagina a parte, i nominativi del comitato per la pubblicazione delle opere di Perotti. Esso fu formato da Giuseppe Petraglione, Presidente e curatore della postfazione indicante le principali informazioni sulla biografia, sull’attività letteraria dell’autore e sui criteri di ordinamento filologico dell’edizione delle Poesie dagli stessi curata e, in questa sede, presa in esame; Francesco Colavecchio, Segretario; e ancora gli altri componenti: Luigi De Secly, Francesco Nitti, Filippo Petrera, Nicola Tosti, Michele Viterbo.
[4] Giuseppe Petraglione (Lecce 1872- Bari 1947), docente di Lettere negli istituti di Milano e Bari; attivo intellettuale, collaboratore di numerose testate giornalistiche, studioso di storia locale e letteraria; scrittore di prose e versi.
[8] Il componimento preso in esame, venne pubblicato dapprima in un numero della rivista letteraria La battaglia bizantina di Bologna nel 1888; successivamente replicato sul Corriere delle Puglie, Bari 6 maggio 1888, anno II, n. 125, pag. 2.
Lo stesso sarà incluso nella prima edizione de Il libro dei canti, stampato dall’editore Vecchi a Trani in una pregiatissima edizione a stampa in tiratura limitata e recante la data 1890, ma effettivamente pubblicata già nel 1889 (per tale nota di carattere editoriale, si veda lo scritto a mo’di postfazione a cura di Petraglione G. nell’op. cit. di Perotti A., 1926, pag. 256). E ancora la lirica si ritrova nel volume Poesie (Perotti A., 1926), all’interno della riproduzione fedele de Il libro dei canti, costituente la prima parte dell’opera.
[9] Il riferimento è al pittore italiano Pietro di Cristoforo Vannucci (1448-1523), noto anche con gli appellativi di “Perugino” o di “divin pittore”. Perotti, in questo verso, associa i dettagli sopraffini, percepiti dal poeta, alla purezza formale che impernia le opere dell’artista, dove i personaggi appaiono svestiti della loro terrestrità in una veste angelicata e sublimata.
[10] Il termine, come aggettivo e sostantivo, deriva dal latino medievale carminium e significa “scarlatto”.
[11] Termine specialistico che indica un raggruppamento di navi sotto un solo stesso comando.
La cappella di Santa Maria Maddalena. Alcuni riferimenti archivistici
Non conosciamo ancora con esattezza la data di fondazione dell’antichissima cappella tardo medievale dedicata a Santa Maria Maddalena. Le preesistenze architettoniche e costruttive nonché le tracce ancora evidenti di antichi affreschi murali lasciano favorire e sostenere l’ipotesi di un complesso tardo quattrocentesco.
Le prime notizie sulla chiesetta risalgono alla metà del secolo XVII e precisamente da fonti vescovili degli Atti Visitali. Delle sei Visite Pastorali conservate nell’Archivio storico parrocchiale di Poggiardo solo quella di Monsignor Sillano del 1655 spende un brevissimo riferimento alla cappella:
De Ecclesia Santae Mariae Maddalenae
Ecclesia ipsa est de libera Collatione. Caret onera et redditum
Poche ma preziose informazioni che ci danno l’idea dei caratteri beneficiali della cappella. In essa, infatti, vi era un Beneficio Semplice di libera collazione, non dotato né gestito da famiglie cospicue o gentilizie del luogo (come lo erano i Benefici di Jus Patronatus laicorum) ed essendo carente di oneri di messe e, quindi, di reddito, era abitualmente disertato dai cappellani. Nelle libere collazioni generalmente era l’Ordinario del luogo o la civica Amministrazione che aveva lo “jus eligendi et nominandi”. Poiché la cappella non veniva officiata, il Vescovo Monsignor Sillano ordina che si dovesse sempre tenere chiusa la porta con la chiave.
Negli anni 1750-1752 la cappella fu ricostruita sullo stesso luogo utilizzando probabilmente le stesse fondamenta.
In un documento d’archivio del 1785 riguardante la descrizione della “Terra e Feudo di Castiglione” si legge:
“Fuori dell’abitato di quel Paese sulla Strada detta San Giovanna a tramontana vi è la cappella sotto l’istesso titolo di San Giovanna senza veruna dote, ed alla strada del Pendino nel luogo detto le Pozze, distante dall’abitato istesso circa duecento passi, verso ponente vi è l’altra cappella intitolata di Santa Maria Maddalena, anche senza veruna dote e tutte e due si appartengono all’Università. Avanti a tale ultima cappella, e propriamente nel luogo detto lo Trice, alle 22 di Luglio di ciascun anno in vigore di Regio assenso si tiene abbondante e popolata fiera di animali bovini e di altra specie e cominciando dalle prime vesperi del giorno antecedente, dura per tutto il giorno de’ 22 presiedendo il mastro di fiera consultore e mastrodatti che si eliggono dall’Università e però amministrandosi da medesimi giustizia, rimane sospesa, e cessa in detto tempo la giurisdizione del Governatore locale”.[2]
Un altro documento coevo ci dà le stesse informazioni:
“Fuori l’Abbitato di detto luogo (Castiglione) vi è un’altra Cappella sotto il titolo di Santa Maria Maddalena, laicale, la quale non ha Procuratore, né rendite.” [3]
Le costanti e difficili situazioni nelle quali aveva sempre versato la cappella (libera collazione, priva di oneri e redditi nonché la posizione geografica periferica) la portarono necessariamente ad essere di Patronato Comunale dopo la soppressione dei benefici nel terzo-quarto decennio dell’Ottocento. L’Amministrazione cittadina, in assenza del cimitero comunale, utilizzerà successivamente la cappella come luogo di sepoltura. La necessaria riparazione e ripristino del culto l’avrebbero fatta uscire da un luogo periodo di silenzio e di inutilità.
Le Visite Pastorali di quel periodo ci aiutano a tracciare un quadro completo della situazione. A partire dalla terza visita di Monsignor Grande abbiamo cronologicamente delle informazioni molto dettagliate.
“Cappella S. Maddalenae pro nimia humiditate, e ornamentorum defectu interdicta est.” [4]
Nella quarta visita si ripresenta analoga situazione:
“Cappella Sanctae Maddalena ad populum pertinet, et manet interdicta sicut in praecedenti visitazione, eoquod reparata non fuit.” [5]
Necessitava, come si è detto, di un restauro radicale, capace di sottrarla ad una continua e abbondante aggressione di umidità. L’assenza, inoltre, dell’altare portatile spinse l’Arcivescovo di Otranto a dichiararne l’interdizione al culto.
Il passaggio dai due luoghi di seppellimento, ossia dalla chiesa matrice alla cappella fuori l’abitato, avvenne in maniera graduale e non senza difficoltà e malcontenti.
Nel 1845 per “gli inconvenienti osservati nella Chiesa matrice di Castiglione”[6] e comunicati da Monsignor Grande all’Intendenza di Terra d’Otranto, furono emanate questa da questa alcune disposizioni
“…onde al più presto che sarà possibile venissero tolti per la decenza dovuta alla Casa del Signore, e per la tutela della pubblica salute scavarsi le sepolture alla Cappella di Santa Maddalena, oggetti che mi sono molto a cuore e per lo che le rendo i miei distinti ringraziamenti per la scienza datamene.” [7]
La proposta dell’Arcivescovo aveva trovato piena e forte accoglienza presso l’Intendenza, al punto che il Segretario Generale ringrazia l’Eccellenza per avere il presentato un problema tanto a cuore per la pubblica salute.
Le direttive dell’Ufficio Intendenziale di Lecce però non trovarono consenso presso l’Amministrazione Comunale.
In una lettera indirizzata a Monsignor Arcivescovo, il barone Luigi Massa di Andrano scriveva che:
“quei Naturali (cittadini di Castiglione) cechi nel di loro operato, e poggiati su quanto Vostra Signoria espose al Signor Intendente han fatto e fanno delle forti istanze presso il lodato Superiore, il quale minaccia questo Sindaco di Commissari ed altro se non occupasi pressantemente far la perizia per Santa Maria Maddalena, che da Lei fu progettata per il Seppellimento anzidetto. In tale stato di cose, se Vostra Signoria lo stima, attesa era comune cecità! Bisognerebbe compiacervi dirigere altro immediato suo foglio ad detto Signor intendente; facendole a conoscere che fusse più regolare di meno spesato pulirsino le Sepolture della Madrice Chiesa; le quali non sono tutte colme, come si è fatto equivocamente supporre; e poi vi sono le Carnacie ancora per ciò eseguirsi. Questo Suo foglio dovrebbe correre a più presto al detto Signor Intendente per sedare i ricorsi e le disposizioni già date.”[8]
Si evince chiaramente che la volontà degli Amministratori comunali era quella di continuare le sepolture nella matrice parrocchiale poiché per adibirsi la cappella di Santa Maria Maddalena a cimitero occorrevano pesanti sforzi economici, difficilmente sostenibili dalla stessa Amministrazione. Ascoltato il parere degli Amministratori, Monsignor Grande si prodigò per far accettare una soluzione temporanea ossia la “politura de’ sepolcri destinata alla provvisoria tumulazione in Castiglione” [9]. Per detta soluzione il Signor Intendente diede “in giornata gli ordini in coerenza”.
Solo a distanza di due anni (1848) si pose fine a quella provvisorietà accettata dal clero e dagli Uffici civili. In assenza del cimitero comunale la cappella fuori da abitato diventò a tutti gli effetti luogo di sepoltura:
“Cappella Sanctae Magdalenae pertinens ad Populum demum perfecta est quoad aedificium, et in ea effossa sunt sepulchra ad fidelium humationem: interdum in ipsa celebratur Missa.” [10]
Le proposte e le scelte di Monsignor Grande si erano concretizzate: la Cappella di Santa Maria Maddalena diventò luogo cimiteriale e ciò consentì di riaprire al culto l’edificio interdetto per la celebrazione saltuaria delle messe di suffragio dei defunti.
Nella seconda metà dell’Ottocento abbiamo le medesime informazioni.
La “Cappella di Santa Maria Maddalena penitente è senza beni, e s’ignora la fondazione. È stata ristaurata dal Comune ed al presente si seppelliscono i Cadaveri.” [11]
*Dal libro Andrano e Castiglione d’Otranto nella storia del Sud Salento, a cura di Filippo G. Cerfeda, Salvatore Coppola e Luigi Moscatello. Ed. Pubbligraf, Alessano 2010.
Note
[1] ARCHIVIO PARROCCHIALE POGGIARDO, Serie Visite Pastorali, Santa Visita di Mons. Annibale Sillano, 1655, aprile 10.
[2] L. PALUMBO, Descrizione della Terra e Feudo di Castiglione (1785), in “Note di Storia e Cultura salentina”, Società di Storia Patria per la Puglia- sez. di Maglie-Otranto, Vol. VIII, 1996, Ed. Argo, Lecce 1996, pagg. 249-260.
[3] ARCHIVIO DIOCESANO DI OTRANTO (= ADO), Fondo Ex Diocesi di Castro, carte non inventariate, documento del 1780.
[4] ADO, Fondo Atti Visitali, terza visita Pastorale di Mons. Grande, 1842, settembre 25, fol 91v.
[5] ADO, Fondo Atti Visitali, quarta visita Pastorale di Mons. Grande, 1845, ottobre 15, fol 56v.
Quando si opera un’indagine etimologica bisogna anzitutto considerare il significato della parola, compreso, eventualmente, quello o quelli con slittamento metaforico, senza lasciarsi suggestionare più di tanto da sirene fonetiche, che, magari, indurrebbero a credere che due parole con più suoni in comune abbiano lo stesso etimo. Questa premessa non è casuale, perché le tre voci del titolo sono adattissime a spiegarlo in concreto.
Cominciamo, dunque, con le definizioni.
Giuncare esprime l’irrigidimento o il blocco di un’articolazione: m’hannu ggiuncatuli tèscite (mi si sono anchilosate le dita). La voce ha il suo esatto corrispondente italiano in ciocare, sinonimo di tagliare, mozzare, che è da cionco (di etimo incerto, anche se da alcuni connesso col latino truncus=pezzo di legno tagliato, da cui, con leggero slittamento semantico, tronco), che come aggettivo è sinonimo di mozzato, ma in valenza sostantivata di storpio, sciancato.
Giùnculu è lo spicchio d’arancia o di melagrana (di questa voce dirò più estesamente alla fine).
Risciuncare esprime il rammollimento, soprattutto di un alimento che ha perso la croccantezza a causa dell’umidità: ‘sti friseddhe so’ risciuncate (queste friselle si sono rammollite, hanno perso la croccantezza).
Ma il dialetto (beninteso, non solo quello salentino) è capace delle più ardite metafore: cce aria rrisciuncata! (che afa!).
Risulta chiaro dalle definizioni che le due voci si riferiscono a due concetti opposti: giuncare all’irrigidimento e rsciuncare al rammollimento, come anche i risvolti erotici della vignetta indicano inequivocabilmente …
Rimane da individuare l’etimo di risciuncare, in cui a prima vista, appare chiaro solo il prefisso ripetitivo ri-. Resta sciuncare, che non dovrebbe avere nulla a che fare con giuncare, perché, a parte quanto già detto sul piano semantico, se così fosse stato, non si capirebbe per quale motivo non avremmo dovuto avere rigiuncare e non risciuncare.
Il segmento –sciuncatu mi fa venire in mente sciuncata l’esatto corrispondente salentino all’italiano giuncata, latte rappreso con caglio, non salato, messo a scolare, in passato, in cestelli o su piccole stuoie di giunco.
L’adeguamento linguistico imporrebbe che oggi questa prelibatezza venisse chiamata plasticata, dal momento che in virtù (?) delle direttive europee cestelli e stuoie in giunco sono stati banditi per motivi igienici e sostituiti da quelli in plastica, grazie ai quali il tifo o malattie simili sarebbero nell’immediato scongiurate, salvo, poi, morire di cancro, magari a distanza di qualche anno.
Meglio tornare alla nostra sciuncata, participio passato sostantivato di un sciuncare, verbo totalmente inusitato per quanto riguarda tutti gli altri modi, se la sua presenza non emergesse nel composto, per ora solopresunto, risciuncare.
Ma, per far fuori la presunzione, che legame ci può essere tra questo verbo e la sciuncata? Per ora vi invito solo a pensare alle sue caratteristiche organolettiche, con particolare riguardo alla sua consistenza.
Nel frattempo faremo un’incursione tra coloro che hanno affrontato il problema e vedremo che le sorprese non mancano. La prima è che proprio il più qualificato a dire la sua, cioè il Rohlfs1, non propone alcunché, etimologicamente parlando.
Il Garrisi2 tratta il lemme nel modo che segue.
Viene proposto uno dei soliti, disinvolti incroci, che in più di un’occasione ho definito pericolosi. Qui, addirittura, si sarebbero incrociati gli opposti (cedevolezza del giunco da una parte e rigidità del cionco dall’altra), come risulta dal lemma giuncare.
La contraddizione tra i significati 1 e 2 riportati per rresciuncare è insanabile e può essere soppressa solo collegando etimologicamente 1 a sciuncu e 2 a cionco e non privilegiando quest’ultimo, per cui 1 appare come suo figlio bastardo. E tutto perché ci si è intestarditi sull’esito sc– che il salentino mostra rispetto all’italiano g– seguito da e o da i (sciardinu/giardino; sciuncu/giunco; sciùu/giogo; sciurnata/gioornata; scelu/gelo, etc. etc.). Lo stesso non avviene rispetto all’italiano c-, sempre seguito da e o da i), che rimane tal quale (cirieddhu/cervello; ciùcciu/ciuco, etc. etc.). Tutt’al più c– può diventare g– (ggimentu/cemento; giintare/cimentare, etc. etc.), cosa, questa, successa pure proprio al cionco di giuncare e, come vedremo tra breve, di giunculu.
Passiamo a Giuseppe Presicce3.
Stesso riferimento alla cedevolezza del giunco già vista nel Garrisi, attraverso una strada che non presenta intersezioni con incroci di sorta. Tuttavia, a me pare che la caratteristica del giunco sia la sua elasticità, ben diversa dalla cedevolezza, tant’è che in passato esso era utilizzato pure come rudimentale legaccio, in omaggio alla probabilissima parentela del latino iuncus (padre di giunco) con iùngere (=unire, da cui giungere e composti), da una radice iug– condivisa pure da iugum (da cui giogo)..
La confusione concettuale e quella fonetica (relativa all’esito sc-), prima abbondantemente rilevate con le conseguenti acrobazie etimologiche, permangono e raggiungono il parossismo in Ciarfera-Mennonna4, con in più una serie di snervanti e distraenti rimandi, che riporto integralmente, mettendomi a disposizione del lettore che avesse eventualmente bisogno di orientarsi in simile labirinto nella ricerca disperata di una via d’uscita diversa dalla mia.5
risciuncare: verbo intransitivo [da sciuncare, vds. voce, con il pref. ri-]. Rattrappirsi o rammollirsi del pane per l’umidità; avvizzirsi delle verdure o dei legumi. Lu pane s’è risciuncatu tuttu: questo pezzo di pane si è tutto rammollito. Si dice anche ggiuncare (vds. voce).
sciuncare: verbo transivo/intransitivo [dall’aferesi di giuncare, vds. voce, con il prefisso s-1].Atrofizzare; paralizzare;afflosciarsi sulle gimocchia. Il termine potrebbe derivare dal fatto che il giunco è debole, pieghevole e privo di forza.
ggiuncare verbo transitivo [da ggiuncu, vds. voce]. Atrofizzare; paralizzare: addormentare un arto; afflosciarsi sulle ginocchia. Il termine può derivare dal fatto che il giunco è debole, pieghevole e senza forza.
Ora non mi risulta per Nardò sciuncare come variante di giuncare, ma, anche se così fosse, sarebbe voce d’importazione dal tarantino, dove sciuncà, in forma riflessiva, significa non svilupparsi più e acciuncà, sempre in forma riflessiva, è usato come invito a sedersi ad un bambino irrequieto, invito decisamente non beneaugurante, pensando al significato di partenza; e poi, nel brindisino, acciungà, sempre riflessivo, sinonimo di rattrappirsi. La valenza semantica, ancora una volta, risulta determinante per l’etimo del presunto neritino sciuncare, che sarebbe, comunque, da cioncare (a sua volta da cionco) con prostesi di s– intensiva; e a tal proposito non posso non ricordare pure il calabrese ciuncare, sinonimo di storpiare.
Per farla finita: secondo me la metafora sta sì nel giunco, ma in forma mediata, cioè in riferimento alla sciuncata, grazie alla quale è nato, con l’aggiunta di un prefisso, un verbo che ancora una volta prova, laddove ce ne fosse stato bisogno, quant’era poeticamente fervida la fantasia popolare.
Era rimasto in sospeso giùnculu. Di seguito il lemma com’è trattato dal Rohlfs.
Come già per risciuncare, non compare proposta alcuna di etimo. La variante figghiùnculu farebbe pensare ad un diminutivo-dispregiativo di fìgghiu (figlio) con l’aggiunta a quest’ultimo del suffisso, di origine latina, presente in italiano in foruncolo, ladruncolo, omuncolo, peduncolo, ranuncolo, mentre fuggiùnculu appare deformazione di figghiùnculu. Nel primo dettaglio riportato spicca l’attestazine di giùnculu solo per Nardò e Galatone, mentre le altre varianti riguardano il Brindisino ed il Tarantino, ad eccezione di fungiùnculu attestato per Lecce (lo riporta anche il Garrisi, ma senza etimo; nel Presicce il lemma è assente). Questo autorizza a supporre, pur con prudenza, che giùnculu sia voce, per così dire, autoctona, non derivata da figghiùnculu per aferesi e per strana perdita del suono gutturale di g, ma diminutivo di cionco (quello stesso di giuncare), con l’aggiunta del suffisso già visto per figghiùnculu. Certo, l’immagine poetica del parto plurigemellare dell’arancia non può competere con quella prosaica in cui uno spicchio evoca un pezzo del frutto separato per natura dagli altri che lo costituiscono, ma nulla è perfetto, nemmeno la fantasia …
4 Enrico Ciarfera-MarioMennonna, Il Vulgare Neritino, Congedo, Galatina, 2020
5 Eppure, sarebbe bastato, forse, a gettare un po’ di luce, che gli autori avessero tenuto conto del trattamento da loro stessi riservato ai due lemmi che riproduco:
ggiùnculu sostantivo maschile [da ggiuncu, vds. voce, con suffisso -ulu]. Spicchio di agrumi; seme di fava. Il termine può derivare dal fatto che lo spicchio diventa tale se separato e che il seme di fava è tenuto stretto nel baccello.
ggiuncu: aggettivo [cfr. it. cionco, dal lat. truncu(m): tronco, mozzato]. Storpio, sciancato; rattrappito nelle membra; attrappito; paralitico.
D(EO) O(PTIMO) M(AXIMO) /CAROLUS BORBONIUS UTRIUSQ(UE) SICILIAE ET JERUSALEM REX / CONCESSIT PRIVILIGIU(M) (NU)NDINARU(M) UNI(VERSI)TATI CASTILIONI PRO DIE 22/ MENSIS IULII IN PERPETUU(M) CUM FACULTATE ELIGE(N)DI MAGISTRUM / NUNDINARUM UNDE PRO MEMORIA POSTERUM ANNO / (Q)UO PRIVILEGIUM CONCESSU(M) 1752 HIC LAPIS POSITUS EST/
Traduzione
A Dio Ottimo Massimo. Carlo di Borbone, re delle due Sicilie e di Gerusalemme, concesse il livello della fiera alla cittadinanza di Castiglione per il giorno 22 del mese di luglio in perpetuo con facoltà di eleggere il Maestro della fiera. E da allora per la memoria dei posteri è stato collocato questo marmo nel 1752, anno in cui il privilegio è stato concesso.
Ubicazione
L’iscrizione è collocata sopra l’architrave della porta d’ingresso della chiesetta dedicata a Santa Maria Maddalena, sulla strada per Montesano Salentino.
Stato di conservazione
Mediocre.
Note:
l’iscrizione, in alcune parti stata deturpata e addirittura presa a bersaglio con fucili da caccia, mutilando non poche parole.
Dall’istruzione Latina si evince che l’Universitas di Castiglione aveva la facoltà di eleggere il Magister Nundinarum capace di dirimere gli affari civili e religiosi della comunità.
Per quella di Nardò con il trascorrere degli anni (o meglio, dei secoli), almeno per quanto attestato in un documento proprio del 1787, pur risultando ancora in vigore l’istituto del Magister Nundinarum, la funzione di giudice nelle controversie dei laici doveva essere, per ordini reali, un secolare come avveniva per Castiglione chiamato Assessore o semplicemente Giudice, sempre, però, designato dai canonici. Da ciò si evince che la giurisdizione non era più ad esclusivo appannaggio per clero.
E questo può ben rientrare nella politica illuministica di Ferdinando IV, re di Napoli (1759 1799) e futuro re delle Due Sicilie (1816-1825) tendente ad un ridimensionamento del potere feudale e della potenza del clero nel suo regno.
Sempre citando l’Incoronata di Nardò, non si sa con certezza quando sia definitivamente scomparsa. Allo stesso modo anche a Castiglione si ignora quando tale Magistratura abbia avuto fine, ma si presuppone che la politica riformatrice di Ferdinando IV e, maggiormente, la politica francese d’inizio secolo, abbia eliminato qualsiasi residuo, così come fu successivamente interdetta al culto la stessa cappella di Santa Maria Maddalena.
*Dal libro “Andrano e Castiglione d’Otranto nella storia del Sud Salento”, a cura di Filippo G. Cerfeda, Salvatore Coppola e Luigi Moscatello. Ed. Pubbligraf Alessano 2010.
[1] Questa epigrafe è stata già pubblicata dallo scrivente nel Corpus Inscriptionum di Castiglione d’Otranto, in Iscrizioni latine del Salento, Associazione Italiana di Cultura Classica – Lecce, Vol. V, Congedo Editore, Galatina 2000, pagg 149-150.
Ricorre quest’anno l’80° Anniversario della caduta del fascismo, che la Storia fa coincidere con l’approvazione dell’ordine del giorno presentato da Dino Grandi nella seduta del Gran Consiglio (iniziata nella tarda serata di sabato 24 luglio) e con il successivo arresto di Mussolini nel pomeriggio del giorno successivo. Questa la nuda cronaca dei fatti.
Una fonte (inedita) dell’Archivio Vaticano ci informa che Monsignor Luigi Maglione, segretario di Stato di Pio XII, appresa la notizia dell’arresto di Mussolini, si adoperò per chiedere garanzie sull’incolumità del prigioniero e della sua famiglia. Il potente segretario di Stato, interessato a conoscere lo stato d’animo dell’uomo che per più di vent’anni aveva guidato il paese, riuscì a sapere qualcosa grazie alle informazioni “riservate” del medico che, nella tarda serata del 25 luglio e nella mattina del 26, visitò Mussolini in una cella della Caserma degli Allievi Carabinieri di Prati.
Seppe così che egli aveva chiesto di far pervenire al nuovo capo del governo Pietro Badoglio l’augurio di «riuscire nel gravissimo compito affidatogli».
Mussolini (che era «molto pallido, affaticato, lo sguardo morto, che di tanto in tanto diventava fisso») chiese al medico se nella città di Roma fosse accaduto qualcosa dopo la notizia del suo arresto («accade niente in città»?). Alla risposta negativa, Mussolini si lasciò andare ad alcune riflessioni sulla natura del popolo italiano che il medico riferì puntualmente a monsignor Maglione («è un popolo superficiale in tutte le sue manifestazioni anche quelle religiose, crede al santo solo quando gli faccia la grazia che chiede, applica il do ut des, si copre di una vernice che non approfonda e che non lascia nessuna traccia. Non è ancora un popolo maturo e unito, su questo ha avuto la sua azione negativa lo Stato Pontificio che è stato come un tumore maligno nel corpo dell’Italia; nel 1919 ho cercato di isolare il neoplasma. Anche ora col pretesto del bombardamento di Roma, centro del mondo cattolico, il clero ha cercato di gettare il seme di una ricostituzione del potere temporale che potrà dare il suo frutto a distanza di 20-30 anni»). Se Mussolini avesse chiesto «accade niente in Italia?», con riferimento a reazioni, da parte fascista, alla notizia della sua destituzione, la risposta negativa sarebbe stata uguale per tutte le città e tutti i borghi d’Italia.
Nel Salento, delle decine di migliaia di fascisti iscritti alle diverse organizzazioni che facevano capo alla Federazione provinciale non ci fu un solo segretario politico, una sola fiduciaria dei Fasci femminili, un solo presidente dei Dopolavoro o delle sezioni comunali della Gioventù Italiana del Littorio, non ci fu un milite, un capomanipolo, un centurione, un seniore, un console della Milizia a scendere nelle piazze per manifestare la propria solidarietà al duce.
Una sola voce, fuori dal coro, si materializzò con un editoriale che doveva essere pubblicato su Vedetta Mediterranea (settimanale politico e culturale della Federazione provinciale dei Fasci di Combattimento) del 26 luglio. Il direttore Ernesto Alvino, che, la sera di domenica 25, aveva appreso per radio la notizia dell’arresto di Mussolini, nell’articolo che preparò per il numero che, come ogni lunedì, sarebbe stato distribuito nelle edicole e spedito agli abbonati, espresse i sentimenti di sgomento, ma anche di orgoglio, dei fascisti della prima ora, ovvero di coloro che – come lui – i Fasci li avevano fondati nel 1919/1920 e che nel regime avevano creduto fino in fondo («Vogliamo ignorare gli “uomini furbi” che si sono arricchiti in questi tre anni di guerra e adesso sputano nel piatto ove hanno mangiato. Vogliamo non accorgerci di quanti oggi cercano un istituto di bellezza che rifaccia la loro verginità politica perduta. Ce ne freghiamo, infine, di quanti avranno già fissate, sulla nostra testa di fascisti che non vogliono pentirsi, taglie e ipoteche. Noi siamo sempre quelli di prima. Quelli della passione del 1919-1922. Quelli che dal partito non hanno ricevuto altro che dispiaceri e mai un sorriso. Che dal 1922 al 1943 si sono dilaniati a vicenda per una smania di perfezione ideale ed hanno per ciò solo permesso a quello che oggi tradisce, d’inserirsi come il proverbiale “terzo che gode” fra i due litiganti. Noi ci manteniamo fedeli a noi stessi e non ci aspettiamo né il primo, né il secondo e nemmeno il terzo canto del gallo per tradire Benito Mussolini. Ora sarai tu, popolo italiano, disposto a farti “liberare”? E allora arrenditi, ma non eviterai di veder continuare la guerra a tue spese e sul tuo suolo, fra tedeschi e loro e tuoi avversari»).
A Lecce, nel pomeriggio del 26 luglio scesero in piazza per festeggiare la ritrovata libertà gruppi di antifascisti che sventolavano il tricolore inneggiando alla pace. Non si registrarono plateali forme di vendetta contro elementi del cessato regime (a parte qualche lieve “incidente”) ad opera di antifascisti che avevano pagato con il carcere, il confino e altre misure repressive la propria fedeltà agli ideali democratici. Il vescovo di Lecce monsignor Alberto Costa, considerato – per le sue prese di posizione ufficiali – uno dei più prestigiosi punti di riferimento del fascismo salentino, attese qualche giorno prima di far conoscere ai fedeli, dalle pagine del settimanale L’Ordine, la propria posizione. Egli lanciò un appello a far prevalere «l’ordine, la concordia, la disciplina» e ad assecondare «le tappe della nuova era della Patria». Nella prima pastorale pubblicata dopo il crollo del regime, il vescovo Costa rivolse ai fedeli l’invito ad essere «ossequienti e ubbidienti all’Autorità, che doveva essere considerata un’emanazione del potere di Dio».
I funzionari pubblici (prefetto e questore) si premurarono, nei giorni seguenti, di comunicare al Ministero dell’Interno che la popolazione del Salento dimostrava di avere «piena fiducia nel Nuovo Ordine Nazionale», segnalando, al contempo, che non si era registrato alcun episodio di vendetta o ritorsione nei confronti dei gerarchi che avevano fino ad allora spadroneggiato in ogni paese della provincia, essendo invece prevalso in tutti «un certo desiderio di pace». Quanto agli elementi del disciolto Partito Nazionale Fascista, gli stessi funzionari statali (mantenuti tutti al loro posto), assicurarono che nessuno di loro voleva «contrastare il nuovo ordine». Nel breve volgere di pochi mesi, infatti, la stragrande maggioranza dei fascisti si sarebbe riciclata all’interno dei ricostituiti partiti democratici.
Il Regno di Napoli nella seconda metà del Settecento [1]
Alla morte di Carlo II, avvenuta nel 1700, il Regno di Napoli restò unito al trono di Madrid, al quale nello stesso anno ascese Filippo V. Nel 1707 passò sotto la sovranità dell’imperatore Giuseppe I, e dal 1711 al 1734 sotto quella del successore Carlo IV. In questo periodo il governo era esercitato da un Vicerè residente a Napoli.
Dal 1734 alla fine del secolo il Regno ebbe due sovrani: Carlo di Borbone, che nel 1759 divenne re di Spagna, e il figlio Ferdinando IV, che gli succedette non ancora novenne, e che, fino al raggiungimento della maggiore età (1768) fu sostituito nella gestione degli affari da un Consiglio di Reggenza. La prima parte del Regno di Ferdinando IV si concluse con la sua fuga in Sicilia (23 dicembre 1798) – incalzato dalle truppe francesi- cui fece seguito la proclamazione dell’effimera Repubblica Partenopea (23 gennaio-22 giugno 1799), e successivamente la prima Restaurazione borbonica.
Il Regno di Carlo di Borbone
tra quelli che Carlo dovette affrontare dopo il suo avvento al trono di Napoli, tre punti si distinguevano per la loro importanza ed urgenza:
stabilire una linea politica nei confronti della Curia romana, e più in generale dell’autorità ecclesiastica;
arbitrare lo scontro tra il ministero in carica e la nobiltà di Piazza, ansiosa di sbarazzarsi del pericoloso rivale e di riappropriarsi negli antichi privilegi;
riorganizzare il sistema finanziario ed amministrativo del Regno.
Nonostante i suoi limiti Carlo di Borbone nel 1759 lasciò il Regno in condizioni migliori di quelle in cui l’aveva trovato 25 anni prima.
Napoli era divenuta la capitale funzionale e sede di una fioritura musicale senza precedenti.
Carlo diede impulso anche nel campo architettonico (vedi Reggia di Caserta) ed artistico (vedi Francesco Solimena, protagonista dell’evoluzione della pittura napoletana, dal naturalismo caravaggesco alla razionalizzazione del barocco).
Inoltre, fu promotore nel campo archeologico, aprendo una nuova stagione di scavi archeologici ad Ercolano e Pompei.
L’istituzione della fiera
Quella di Santa Maria Maddalena, in Castiglione, non è l’unica o una delle poche fiere del Basso Salento istituite nell’antichità. Molte di esse, infatti, traggono origine fin dal periodo bassomedievale e vengono rivitalizzate o re istituite in epoca moderna, soprattutto dai sovrani borbonici.
Le fiere che più di altre presentano caratteri di analogie e somiglianze con quella di Castiglione sono quella di “San Vincenzo” in Giurdignano[2] (LE) e la “Fiera dell’Incoronata” di Nardò[3] (LE). Al di là della funzione prettamente religiosa, la chiesa dell’Incoronata per la comunità neretina aveva rappresentato un punto di riferimento anche civile, sì che nella parte antistante, partire dal XVII secolo fin oltre il secolo successivo, si teneva, nella prima settimana di agosto, la Fiera, che prima si svolgeva nei pressi della chiesa della Carità, fuori la Porta San Paolo (attuale piazza Osanna) con un cerimoniale tutto particolare.
Per la gestione della Fiera da parte del Vescovo veniva investito un canonico, nominato dagli stessi canonici della Cattedrale, come Magister Nundinarum, cioè il Maestro del Mercato, la cui giurisdizione aveva la durata di otto giorni consecutivi a partire dalla prima domenica di agosto, successivamente anticipata al sabato precedente, e riguardava qualsiasi attività cittadina sia civile che religiosa, compresi i matrimoni, anche nella fase degli atti relativi alla dote e qualsiasi tipo di contenzioso.
Scrive Mario Mennonna, in un suo prezioso contributo storico sulla Fiera dell’Incoronata, che “…non si conosce l’anno di riconoscimento di tale magistratura all’Università di Nardò. Il primo elemento storico è dato dal privilegio Regio concesso da re Ludovico nel 1397, riguardante, appunto, la franchigia per otto giorni della festività e della fiera, che si svolgevano nei pressi della chiesa della Carità, fuori Porta San Paolo, indicata anche, nella tradizione popolare, come porta dei mercanti”.
Quella di Santa Maria Maddalena presenta molte analogie con quella di Nardò:
per molti decenni ha rappresentato un punto di riferimento anche civile per la popolazione di Castiglione;
la fiera si teneva nella parte antistante o adiacente la cappella dedicata alla Santa, quindi un po’ distante dal paese, in un luogo ampio ed aperto denominato “lo Trice”, tale da consentire la realizzazione del mercato con una notevole partecipazione di genti vicine e lontane;
l’elezione del Magister Nundinarum, ossia del Maestro del Mercato una speciale di magistratura, che, a differenza di Nardò, non era assegnata ad un canonico della Curia di Castro, ma ad un civile cittadino e da esso esercitata a pieni poteri e nel pieno rispetto delle norme istitutive;
la data certa della sua istituzione, proprio come risulta dall’iscrizione su lastra lapidea collocata sull’architrave della Chiesa. Rispetto a quella dell’incoronata di Nardò, certamente istituita circa due secoli prima, la fiera di Castiglione risale al 1752, ad opera del Sovrano Carlo di Borbone.
Non sappiamo quali furono i prodromi che portarono alla concessione del Privilegio reale e nemmeno le motivazioni sociali, economiche, politiche tali da spingere un sovrano verso così tanta benevolenza. Nel momento stesso in cui la vita civile napoletana toccava il fondo della sua crisi (fine del 1746), l’assetto tradizionale delle forze cittadine si ricostituì contro il governo degli ecclesiastici e contro la stessa Corte. Quella rivolta aprì un periodo nuovo. Rivelò per la prima volta la sua presenza una forza che avrebbe progressivamente assorbito in sé le energie migliori della società, contro gli ecclesiastici troppo fedeli alle direttive di Roma, contro il baronaggio e contro il ministero: la nascente cultura illuministica.
Ma il tentativo più meritorio di Carlo di Borbone fu quello di trasformare nella coscienza dei sudditi il “Regno” in una “Patria”.
Tutte queste azioni possono per ascriversi tra le ragioni di fondo di una politica tesa a favorire lo sviluppo e il commercio nelle zone più meridionali del Regno.
Se a ciò si aggiunge la presenza di dotti e letterati, nella Castiglione del XVIII secolo, e la frequente transizione del feudo da un feudatario ad un altro, allora il quadro si fa sempre più realistico e si individuano delle linee di tendenza rivelando uno scenario prima oscuro e senza interpretazioni. Le molte famiglie che si sono avvicendate nel governo del feudo hanno cercato di impostare una politica di equilibrio all’interno della società, favorendo magari piccole concessioni per non incontrare malcontento popolare ed infine per incrementare l’economia.
*Dal libro Andrano e Castiglione d’Otranto nella storia del Sud Salento, a cura di Filippo G. Cerfeda, Salvatore Coppola e Luigi Moscatello. Ed. Pubbligraf, Alessano 2010.
[1] Sulla situazione del Regno napoletano del XVIII secolo si rimanda al prezioso conttributo di Giuseppe ORLANDI, Il Regno di Napoli nel Settecento, Spicilegium Historicum Congregationis SSmi Redemptoris, Annus XLIV, Collegium S. Alfonsi de Urbe, Roma 1996.
[2] L’antica fiera di San Vincenzo si svolgeva in via Pendino (attuale via San Vincenzo). L’inizio della fiera veniva precedutp dalla cerimonia del Mastro Mercato da parte del feudatario del luogo (Barone Alfarano-Capece)
[3] Per la fiera dell’Incoronata di Nardò si veda il prezioso contributo di Mario Mennonna, La cavalcata storica e la Fiera dell’incoronata, in “Lu Lampiune” Quadrimestrale di Cultura Salentina, Anno XIV – n°2, Ed. Grifo Periodici, pagg. 17-25. Alla fine del saggio viene riportata una ricca bibliografia sul munus del Magister Nundinarum.
L’identità di Santa Maria Maddalena [1]. Il Vangelo
Alcuni dati fondamentali
L’identità di Santa Maria Maddalena, così come si rappresenta generalmente, è costituita dagli elementi complessi che si trovano sparsi qua e là nel Vangelo.
PECCATRICE ANONIMA
San Luca narra la conversione di una donna, di cui non fa il nome, la quale durante il banchetto offerto al Signore in Galilea da Simone il Fariseo, entrò nella sala per ungere i piedi del Maestro, asciugarli con la copiosa capigliatura e riceverne in cambio la remissione dei peccati (Lc. 7, 36-50).
MARIA DI BETANIA
C’è poi una Maria, sorella di Marta, che contrariamente a questa, affaccendata nei lavori materiali, si preoccupa unicamente della parola del Maestro ed è da questo lodata per aver scelto la ”parte migliore” (Lc. 10, 38-42). È la stessa Maria, sorella di Lazzaro, dolente per la morte del fratello, che sparge in un omaggio solenne alla sua morte futura, un prezioso profumo sul capo del Signore nel corso della cena a Betania.
MARIA DI MAGDALA
C’è anche una donna che si chiama Maria Maddalena, “liberata da sette demoni” (Lc. 8,2; Mc 16,9), che si mise al servizio del Salvatore, seguendolo fino in Giudea per assistere alla sua morte, e, alla mattina di Pasqua, venuta con le compagne per imbalsamarne il cadavere trovo il sepolcro vuoto e meritò di essere la prima a vedere il Risorto e di informare gli Apostoli.
Queste informazioni evangeliche si riferiscono tutte alla stessa donna o invitano a distinguerne diverse? La questione è controversa e diverse sono le soluzioni proposte nel corso dei secoli; infatti, i Padri della Chiesa e gli autori ecclesiastici non hanno dato al problema una risposta uniforme e universale.
I Padri, la liturgia e gli autori greci e orientali, fino ai giorni nostri, tendono a distinguere tre donne diverse, mentre nella Chiesa latina, il papa Gregorio Magno fu il primo a identificarle in una sola che chiama Maria Maddalena e tutti gli autori latini dipendono da lui.
Lidia Sebastiani, nel fare una conclusione provvisoria del primo capitolo del suo libro, relativo ai dati evangelici sulla Maddalena, dice: “Che cosa sappiamo veramente della Maddalena?”, sintetizzando in alcuni punti le scoperte più essenziali:
Maria di Magdala è la donna più importante più presente nei Vangeli.
Veniva come Gesù dalla Galilea.
È discepola di Gesù fin dai primi tempi del ministero.
Prima di incontrare Gesù era stata vittima di misteriose sofferenze psicosomatiche.
Si ha l’impressione che Maria di Magdala non avesse una situazione familiare regolare (nel senso di “tipica” per il suo tempo).
È possibile, anche se non certo, che appartenesse ad una famiglia molto agiata.
Dopo la conclusione della vicenda terrena di Gesù, la vicenda della Maddalena è avvolta nel mistero.
Maria Maddalena e discepola ed Apostola del Maestro Salvatore e, adottando a un criterio paolino, dovremmo ammettere che nessuno è tanto apostolo quanto Maria di Magdala che per prima vede Gesù Risorto, che lo riconosce quando è da lui chiamata per nome, che è incaricata di recare l’annuncio della risurrezione al gruppo degli Undici ancora in preda all’incredulità e alla paura.
Maria Maddalena la “mirrofora”
Il più antico culto della Maddalena non è individualizzato. Si svolge all’interno della memoria pasquale. I greci ricordavano nella seconda domenica dopo Pasqua, chiamata appunto domenica delle mirrofore (= portatrici di unguento), l’apparizione di Gesù Risorto alle sante donne che andavano al sepolcro. Lo stesso si faceva anche in Occidente nell’ottava di Pasqua. Nel sinassario costantinopolitano la notizia del giorno 30 giugno (dedicato alla memoria della Santa) è dedicata a una commemorazione collettiva dei dodici apostoli e dei settanta discepoli ed è ispirata dal libello apocrifo dello pseudo-Doroteo: in appendice a questo elenco, l’autore aggiunge l’elogio delle mirrofore.
Ad un osservatore distratto può sembrare non esserci relazione tra la cripta dello Spirito Santo di Castiglione e la erezione della cappella quasi adiacente dedicata a Maria Maddalena, la Mirrofora. Alla luce di queste poche riflessioni, però, ci accorgiamo che il legame oltre che intimo ed intrinseco è quasi consequenziale. Maria di Magdala è tra quelle donne che si recano al sepolcro per ungere con la mirra il cadavere di Gesù. Ma proprio da quel sepolcro si manifesta la potenza e la gloria del Risorto che promette di inviare lo Spirito capace di rendere nuove tutte le cose.
CONCLUSIONE PRIMA PARTE
Da quanto finora detto risulta quindi che Santa Maria Maddalena è una santa autentica, la cui figura è stata però travisata dagli esegeti e dagli agiografi. Per renderle la sua vera fisionomia, occorre, pertanto, liberarla da tutte le aggiunte dei commenti omiletici o dei racconti agiografici. Ella riapparirà allora come la donna privilegiata, che vide per prima il Signore Risorto e lo annunziò agli Apostoli. È questo ancora oggi il suo titolo di gloria.
(segue)
*Dal libro Andrano e Castiglione d’Otranto nella storia del Sud Salento, a cura di Filippo G. Cerfeda, Salvatore Coppola e Luigi Moscatello. Ed. Pubbligraf, Alessano 2010.
[1] Per tutti i riferimenti evangelici e un approfondimento biblico e teologico sulla figura della Santa rimando ai pregevoli contributi di Victor SAXER, Santa Maria Maddalena, in Biblioteca Sanctorum, Istituto Giovanni XXIII, Roma 1968; Lilia SEBASTIANI, Tra/Sfigurazione – il personaggio evangelico di Maria di Magdala e il mito della peccatrice redenta nella tradizione occidentale. Ed. -Queriniana, Brescia 1992
I cambiamenti climatici sono destinati ad influenzare pure la lingua, tant’è che non è difficile immaginare la rapida obsolescenza della voce dialettale del titolo e del suo esatto corrispondente italiano, che è gelare.
Da notare nella voce dialettale l’esito sc– di g– seguito da e o da i, come in sciurnata/giornata (ma giurnu/giorno) e, per restare alla voce primitiva, in scelu/gelo (ma gelone, e non scilone, /gelone).
L’afa soffocante di questi giorni ci fa rimpiangere tutte le voci attinenti al concetto di freddo finora riportate, ma non è sufficiente a farmi desistere dal chiedermi il perché del comportamento piuttosto capriccioso dell’esito sc-. Mi rendo perfettamente conto che la lingua, essendo lo specchio della stessa vita, è soggetta a fenomeni talora non facilmente spiegabili o perché affondano le loro radici in un passato troppo antico perché possa essere analizzato o, addirittura, nell’irrazionale. In casi simili, purtroppo, formulare ipotesi è come tentare di arrampicarsi sugli specchi, mentre la scienza richiede di stare con i piedi ben piantati per terra.
Munito di un paio di ventose che si chiamano l’una incoscienza e l’altra presunzione, inizio la scalata a caccia di quello che in questi giorni è l’oscuro oggetto di un desiderio che non può essere certo soddisfatto da qualcosa destinata a scomparire al massimo dopo qualche minuto: il gelato..
Participio passato sostantivato di gelare, la voce rimane tal quale nel salentino gelatu, nel quale, da scilare (corrispondente a gelare, come scelu a gelo) ci saremmo aspettato scilatu. Che il mancato esito sc– dipenda da motivi di differenziazione semantica, peraltro poco spinta, per cui scilatu è riservato all’esclusivo uso verbale (m’ha scilatu=ho sentito freddo) e gelato a quello sostantivato? Difficile attribuire all’uso dialettale la capacità di operare una distinzione di marca grammaticale. E allora? Io non escluderei che gelatu sia entrato nel salentino in tempi relativamente recenti, cioè da quando pure il mondo contadino ha potuto conoscere l’esistenza di questo prodotto e a gustarlo. Lo stesso può essere successo per gelone, che certamente è stato da sempre più democratico di gelato, per cui, pur conoscendolo da sempre, il mondo contadino non poteva barattare il suo poeticissimo pruticeddhu (privilegiante l’effetto, cioè il prurito e non la causa, icioè l freddo) con una voce anch’essa nata in tempi relativamente recenti (il dizionario De Mauro daia gelone al 1822; ma con queste date bisogna andare molto cauti).
Sento che una ventosa, quella della presunzione, emette uno strano scricchiolio; basterà quella dell’incoscienza a riportarmi indenne a terra? Posso sperare che nel frattempo qualcuno stenda un bel telone di salvataggio (leggi interpretazione più attendibile)?. E, se pensate che il caldo mi abbia dato alla testa, pensate al personaggio della vignetta e, se vi resta un briciolo di lucidità, comunicatemi la soluzione della sciarada …
Il passato ha sempre registrato l’attività truffaldina (altro attributo non so riservarle) di non pochi storici, soprattutto locali. Nardò può vantare un campione probabilmente insuperabile, Giovanni Bernardino Tafuri, la cui attività di produttore di documenti falsi è ben nota agli studiosi. Un falsario può essere spinto ad esercitare la sua nefasta attività da una miriade di motivi, tutti, però, riconducibili ad un illecito profitto, non necessariamente da identificare nel denaro. Quest’ultimo nel caso del Tafuri non gioca un ruolo diretto e personale (non ne aveva certamente bisogno); sono piuttosto altre le motivazioni, forse un pizzico di narcisismo (che manca solo nelle cosiddette bestie, nei vegetali e nei minerali …), la frequentazione di cattive compagnie (il compagno di merende Pietro Polidoro), l’intento di nobilitare le memorie patrie col fine di accrescere il prestigio della chiesa neritina, con tutti i vantaggi, anche economici, connessi. Siamo alla prostituzione più vergognosa di ciò che ci distingue, si dice, dalle cosiddette bestie, la conoscenza, quella autentica, che parte da dati reali, non inventati, anche se, poi, la loro interpretazione, sempre operata in buona fede …, resta, deve restare, libera.
Sistemati gli storici, passo ai divulgatori, che hanno una responsabilità di cui spesso, soprattutto quelli sedicenti, non si rendono conto.
E siamo ai letterati, intesi in senso ristretto, nella cui produzione la fantasia e, dunque, la finzione e l’invenzione hanno un ruolo fondamentale.
Ho lasciato per ultimi i lettori, destinatari, in fondo (è proprio il caso di dirlo, dell’attività dei primi tre e sempre più esposti al rischio di essere presi, questa volta ancora più in fondo, per i fondelli.
Tutti, però, si avvalgono, giustamente, degli strumenti che il loro tempo offre, per cui, se fino al recente passato la realizzazione e diffusione (e, dunque, la lettura) delle opere a stampa era molto limitata, oggi i mass media, nel bene e nel male e soprattutto con l’avvento della rete, hanno drasticamente contratto i parametri del tempo e dello spazio nella diffusione della conoscenza, ma, nel contempo, hanno dilatato in maniera esponenziale le possibilità di errore, equivoci, ambiguità e truffe.
Questa premessa è indispensabile per comprendere correttamente il titolo di questo post, quanto sto per argomentare e per collocare i protagonisti al posto giusto.
Qualche giorno fa, avendo incontrato il toponimo Tre casi nella lettura di un manoscritto (autentico ed inedito) del XVI secolo (nell’immagine di testa il ritaglio della carta dell’originale, al quale ho aggiunto il rettangolo evidenziatore del toponimo qui coinvolto), ho avvertito la necessità di aggiornare le mie conoscenze circa il suo etimo. Chiunque utilizzi la rete per le sue indagini sa benissimo che i motori di ricerca in casi simili ti portano dritto dritto, bene che ti vada …, a Wikipedia, a meno che uno non punti, subito dopo la comparsa del primo link, al filtro Libri.
” Tricase, anticamente forse denominato Treccase, poi Trecase, successivamente Tricasi o Tricasium, dovrebbe il suo nome all’unione di tre casali differenti che, unendosi, avrebbero dato origine ad un unico nucleo abitativo[7]. L’etimologia più accreditata tuttavia traduce il nome Tricase come inter casas, vale a dire, un paese formatosi in mezzo ad altri casali[8]. Secondo una nuova tesi, sostenuta dai documenti portati in luce dal ricercatore in studi Bizantini Giovanni U. Cavallera, l’origine del nome non avrebbe un’etimologia latina bensì greca, facendonerisalire la genesi a Demetrios Tricás, giovane funzionario dell’Impero Romano d’Oriente, incaricato di monitorare la situazione del Capo di Leuca[9].“
Per farla completa, riporto di seguito anche il testo delle note:
“[7] Secondo gli storici Tasselli, Micetti, D’Elia e Marciano.
[9] Cavallera U. Giovanni, Il viaggio di Tricàs, 2018”
Senza perdere tempo con le due precedenti (peraltro, la prima chiaramente incompleta nella sua sommarietà, oltre al fatto che gli autori risultano citati non in ordine cronologico, in parole povere, alla rinfusa) mi soffermo sulla nota 9 connessa con la parte di testo che ho colorato in rosso, evidenziato col grassetto e sottolineato (se potevo fare di più, fatemelo sapere …). Lì per lì mi sono pure vergognato di non essere a conoscenza di questa nuova tesi (!). Siccome non mi fido nemmeno di me stesso, ho voluto, come al solito, controllare e ho trovato in rete la riproduzione del libro citato (https://www.google.it/books/edition/Il_viaggio_di_Tric%C3%A1s/QhZpDwAAQBAJ?hl=it&gbpv=1&dq=IL+VIAGGIO+DI+TRICaSE&pg=PA4&printsec=frontcover). Nonostante fosse parziale (le prime 22 pagine e l’ultima, la 91, contenente l’indice), essa ha fatto diventare quasi certezza i pesanti dubbi (a cominciare da quello iniziale sul passaggio Tricàs>Tricase) che via via emergevano. Mi hanno colpito, nell’ordine:
1 Il sottotitolo Un inedito bizantino dell’XI secolo, in cui spicca quell’intrigante inedito, che evoca subito l’idea di un manoscritto antico.
2) Il fatto che la stampa è stata curata da una di quelle aziende, spuntate come funghi in questi ultimi anni, grazie alle quali chiunque può pubblicare qualsiasi cosa, purché paghi. Ma, in riferimento al punto 1, se si fosse trattato di un saggio, perché l’autore, non nuovo a pubblicazioni scientifiche, avrebbe dovuto operare una scelta editoriale che condannava questo suo lavoro a non comparire registrato, come gli altri, in OPAC e, tutt’al più, godere dell’effimera gloria delle solite passerelle (https://www.facebook.com/photo/?fbid=1947615412021901&set=il-viaggio-di-tricas-di-giovanni-u-cavalleria-sabato-1-dicembre-scuderie-di-pala&locale=it_IT)?
3) Un’intera pagina ospita la pubblicità di un’azienda con il contributo della quale è detto chiaramente essere stato realizzato il libro.
4) La presentazione, in cui si fa una frittura mista, molto indigesta già al primo assaggio, di Romei, imperatore Basilio, un Giovanni, magistros e didaskalos, ultimo fra i grammatici (che si presenta come traduttore del testo in greco del manoscritto) e un Alessandro, gloria dei Domenicani. Chi, come me, ha avuto la fortuna di vivere in tempi in cui a scuola era obbligatorio leggere I promessi sposi, ricorderà senz’altro che il Manzoni nella parte introduttiva s’inventa l’esistenza di un dilavato e graffiato autografo, dal quale avrebbe poi deciso di tratto le vicende del suo romanzo.
5 L’attacco del testo vero e proprio, il cui stile e lessico Giovanni, per rendere più credibile per qualche secondo in più il tutto, avrebbe dovuto antichizzare: Il sole sorgeva dietro i monti dell’Epiro delineando lo scuro profilo della rocca di Dyrrachion …
Nonostante fossi più che certo delle mie conclusioni tutt’altro che benevoli per il furbesco sottotitolo, la mia, forse congenita, peccaminosa e perversa mania di accuratezza e precisione ha finito ancora una volta per prevalere. Così, pur non nutrendo nessuna speranza di trovarvi non dico la riproduzione di qualche carta dell’inedito bizantino, ma almeno qualcosa di vero, come la confessione dichiarata, sia pure alla fine, di un’invenzione, nelle Annotazioni e nella Nota storica che si leggono nell’indice, ho comprato il libro, la cui lettura integrale ha ulteriormente confermato ciò di cui ero più che certo. In aggiunta debbo dire che l’autore avrebbe fatto meglio, ma si tratta di un gusto mio personale, a chiarire da subito la natura del lavoro (onde diradare la nebbia del sottotitolo) nella controcopertina, occupata dalla solita, stucchevole scheda personale, che ormai accompagna tutte le pubblicazioni col pretesto di presentarsi educatamente prima di entrare in casa altrui, in realtà con finalità autoreferenziali e pubblicitarie. Per quanto riguarda, infine, il dotto corredo delle note, peraltro puntuale ed esaustivo, mi permetto di osservare circa quella dedicata a Trikàs , che sarebbe quanto meno strano che non sia sopravvissuto della famiglia proprio il nome di colui che avrebbe potuto aver dato il nome alla città, a parte il fatto che basare un etimo sulla coincidenza parziale o totale dei fonemi è pericoloso e fuorviante. Questa precisazione mi è sembrata doverosa solo in riferimento a quella velleità etimologica che certamente l’autore non ha, ma che, pur inconsapevolmente (leggi per leggerezza), Wikipedia gli attribuisce.
Il libro, comunque, vivrà, difficile dire per quanto tempo, il suo momento di fasulla gloria scientifica su questa che, purtroppo, è l’enciclopedia più consultata di tutte le altre (compresa la Treccani) disponibili (da un po’ di tempo, però, col ricatto dell’accettazione dei biscotti; io, che non so parlare, chiamo così i cookies. E poi qualcuno ha detto che con la cultura non si mangia e parecchi ingenui ci hanno pure creduto …) in rete, grazie alla dabbenaggine di chi ha compilato la scheda relativa a Tricase. Tutto questo, lo ribadisco, sicuramente senza che lo volesse l’autore e a tal proposito debbo supporre che alla data odierna egli non ne sia a conoscenza, non essendo intervenuto, se non per una querela, almeno per una richiesta di rettifica, prima che a qualche laureando o a qualche aspirante accademico di ultima generazione venga la tentazione di fare scellerato uso di simile ghiottoneria. Insomma, un caso di malarete, simile a due altri dei quali mi ero occupato alcuni anni fa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/16/leucasia-una-sirena-salentina-no-unaltra-bufala-e-lo-dimostro/ e https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/13/torre-colimena-wikipedia-ed-altro/) e che, per restare nell’ambito salentino, espone agli stessi rischi della saga su Arthas di Fernando Sammarco. Per Leucasia all’epoca non lessi (né comprai …) il libro: ero meno rincoglionito o sono oggi più dotato di spirito critico, che si nutre di dubbi, suscettibili di diventare certezza o, per quanto umanamente possibile, verità, dopo aver superato i vagli più disparati?
E mi piace chiudere, a dimostrazione che nemmeno a me manca la fantasia, certamente meno raffinata di quella esibita dal creatore di Tricàs, con un messaggio all’estensore della voce wikipediana, che potrà aggiornare pure la scheda relativa a Nardò, aggiungendo, a proposito dell’etimo del toponimo, queste poche righe, possibilmente, se ne è capace, con un copia- incolla, per evitare errori che nel campo della divulgazione, soprattutto scientifica, sono esiziali : Secondo una nuova tesi il toponimo non avrebbe un etimo latino o greca o messapico, e pure tutta l’acqua messa in campo con la radice nar- è, ormai, acqua passata sotto i ponti, per giunta sporca, ragione per cui va buttata, mentre il bambino, cioè l’etimo, è tra le braccia sicure di Armando Polito il (ri)cercatore, per qualcuno presto ricercato(re), abitualmente di funghi e casualmente di manoscritti, come quello dell’età della pietra da lui rinvenuto in una caverna. Esso conserva il ricordo di Odràn (i genitori l’avevano chiamato Udràn, ma era stato proprio lui a cambiarlo in Odràn perché il suono della u gli sembrava più cavernicolo di quello della o), giovane cavernicolo dotato di capacità profetiche, appassionato di enigmistica, nonché di italiano antico e poetico (odràn), come mostra il suo nome, udite!, udite! (l’aveva pronosticato …), letto all’incontrario.
A breve, non appena avrò trovato uno sponsor all’altezza per la pubblicazione del saggio già pronto, sarà mia cura inviare tutti i dati necessari per la doverosa integrazione con una nota bibliografica.
Pronuncia sempre con riverenza questo nome – maestro – che dopo quello di padre, è il più nobile, il più dolce nome che possa dare un uomo a un altro uomo.
(Edmondo De Amicis, Cuore, 1886)
Ancora qualcuno, degli amici più giovani o a lui più lontani, mi chiede incredulo: “ma è vero, il professore de Bernart è scomparso?”. E’ passato un decennio dalla dipartita di Aldo de Bernart ma il vuoto che ha lasciato in chi, come me, lo ha conosciuto, frequentato, amato, è incolmabile.
Il 1 marzo 2013 il maestro de Bernart è passato nel mondo dei più, seguendo di circa un anno, la sua compagna di vita, donna Maria Pia Castriota Scanderbeg. Gli amici e tutti collaboratori si sono stretti attorno alla sua famiglia, la figlia Aida ed il figlio Mario, e la comunità salentina di studi umanistici è rimasta orfana di così alto nobile esempio. Noblesse oblige, mi veniva da dire spesso, pensando al caro Aldo, ma nel suo caso questa non era una formula vuota o di circostanza, ma manifesto di vita di chi aveva fatto dell’eleganza e dell’aristocrazia dei modi il proprio tratto distintivo.
Quando se ne va un personaggio del calibro di de Bernart, capita spesso di fare solenni encomi pubblici, caricando di retorica i propri interventi, facendosi prendere, pure in buona fede, dall’enfasi che trasporta anche chi, in genere, mantiene uno stile severo e sorvegliato. L’aggettivo più usato negli interventi fatti nelle immediatezze della scomparsa è stato: maestro. E quale miglior aggettivo può riassumere la missione di una vita, l’alto magistero che de Bernart ha portato in tutti i consessi, negli studi, nei convegni, ed anche negli incontri informali nei quali si trovava?
Egli si è guadagnato sul campo la stima e finanche la riverenza perché, oltre a sapere molto per avere tanto studiato, fino all’ultimo continuava ad imparare. E credo che sia proprio questo a trasformare un insegnante elementare in guida spirituale ed esempio da seguire, ovvero un “maestro” in un “Maestro” .
A pochi mesi dalla sua comparsa già diverse iniziative si sono svolte nel nome di Aldo de Bernart. Nel numero di marzo 2013 della rivista “Presenza Taurisanese”, il direttore Gigi Montonato dalle pagine del Brogliaccio Salentino ha dedicato a de Bernart un breve ricordo, scrivendo di lui: “un autentico signore, nel senso più tradizionale ed ampio del termine”. Non poteva mancare un omaggio dalla rivista “NuovAlba” con la quale de Bernart ha avuto un lunghissimo e proficuo rapporto di collaborazione. Nel numero del marzo 2013 della rivista parabitana, un bell’editoriale, a firma di Serena Laterza, ricorda “Il nobiluomo dal cuore grande”, e un articolo di Ortensio Seclì, “Non è più con noi”, traccia anche un excursus bibliografico con tutti gli scritti di de Bernart apparsi su NuovAlba, dal primo numero del 2001 fino all’ultimo del dicembre 2012. Sul numero del 4-7 aprile 2013 della rivista a diffusione locale “Piazza Salento”, compare un ricordo di de Bernart a firma di Aldo D’antico, il quale scrive: “ Se ne è andato un altro. Un altro di quelli che non solo hanno dedicato la propria vita alla produzione culturale, ma hanno avuto ruoli definitivi nello sviluppo delle conoscenze storiche di questa terra. Aldo de Bernart, scomparso lo scorso marzo a 88 anni, ha attraversato tutto lo scorso secolo con uno spettro ampio di impegno, approfondimento, produzione..” Sulla rivista “Il Galatino” di Galatina, del 26 aprile 2013, è riportato uno scritto di Paolo Vincenti dal titolo “Aldo de Bernart, storico e poeta raffinato”.
Sabato 18 maggio 2013, nell’Aula Magna del Liceo Classico “Francesca Capece” di Maglie, è stato ufficialmente presentato il numero XXIII della miscellanea della Società di Storia Patria per la Puglia, sezione Basso Salento, “Note di Storia e Cultura Salentina” (Edizioni Grifo 2013). Nel libro, dedicato alla memoria del socio de Bernart, centrale è il saggio di Paolo Vincenti “La figura e le opere di Aldo de Bernart (con Bibliografia)”, già pubblicato da Vincenti in “Di Parabita e di Parabitani” (Il Laboratorio Editore 2008).
A Ruffano, la sua città adottiva, non si poteva mancare di ricordare il maestro. E infatti, in occasione dei festeggiamenti civili e religiosi in onore del patrono Sant’Antonio da Padova, sabato 8 giugno, nella Chiesa Parrocchiale “B.M.Vergine”, su impulso del parroco Don Nino Santoro, si è tenuto un convegno su “La Chiesa Natività di B.M.V. – a 300 anni dalla sua riedificazione”, con una “Memoria del prof. Aldo de Bernart”, da parte di Alessandro Laporta e Giovanni Giangreco. Inoltre, martedi 11 giugno 2013, organizzata dalla Biblioteca Comunale di Ruffano, si è tenuta una serata dedicata a “Pietro Marti. La figura di un intellettuale poliedrico”, per celebrare un personaggio di spicco del passato ruffanese, ovvero il testé citato Marti, storico, giornalista e operatore culturale, in occasione del 150° della nascita e dell’80° della morte. Dopo gli interventi del Sindaco Carlo Russo e del prof. Orlando D’urso, in rappresentanza della Società di Storia Patria sezione Basso Salento , gli interventi di Alessandro Laporta, direttore della Biblioteca Provinciale di Lecce e di Ermanno Inguscio, principale conoscitore della figura del Marti (al quale ha dedicato un libro monografico).
Paolo Vincenti ha letto un intervento di Aldo de Bernart tratto dalla sua recente plaquette “Cenni sulla figura di Pietro Marti da Ruffano”, perché del Marti de Bernart è stato il primo biografo. E il ricordo di de Bernart ha fatto da leit motiv fra i vari interventi della serata. Infine, sul numero 63 della rivista gallipolina “Anxa News” ( maggio-giugno 2013) è riportato un bellissimo scritto di Alessandro Laporta, “Ritratto di Aldo de Bernart”. Queste le prime intraprese, ma credo siano ancora tante le iniziative in cantiere nei prossimi mesi per ricordare il maestro gentiluomo.
L’invito è rivolto direttamente a coloro ch , avendo pressappoco la mia età (78 anni),presumibilmente hanno avuto la fortuna di conoscere il nonno, ma è aperto a tutti coloro che, coinvolti direttamente o no, vogliano collaborare a questa piccola, ma non insignificante per gli interessati, ricostruzione di un pezzo di storia, ormai non più recente di Nardò, per ora attraverso i soli nomi, nella speranzosa attesa che qualche lettore ci renda partecipi di documenti, aneddoti, foto. – Va bene cercare il nonno, ma la nonna no? – dirà sommessamente qualcuno giustamente assertore della par condicio o, se preferitre, delle pari opportunità, mentre qualche femminista dal dente avvelenato, non potendo mordermi, mi avrà già mandato al soggiorno sdoganato dai grillini. Già, le pari opportunità oggi sono almeno oggetto di discussione e rivendicazione, ma quasi un secolo fa non esistevano nemmeno come concetto astratto. Questo spiega la ricerca del solo nonno, perché nelle tabelle che seguono non compare nemmeno un nome, dico uno solo, che sia femminile. Molto probabilmente sarebbe accaduta la stessa cosa se i dati si fossero riferiti non a notai, medici e simili ma a pittori, scultori, letterati e simili. Fra un secolo, forse, qualcuno farà, utilizzando strumenti ben poù abanzati della rete, dei blog e dei social, la stessa mia operzione utilizzando i dati di oggi e, magari, non lo dico per conforto vanamente compensativo, ma come sincero auspicio, la situazione risulterà parzialmente o totalmente ribaltata, anche se il secondo esito mi pare quasi impossibile, essendo improbabile che un costume millernario possa così radicalmente cambiare nell’arco di un secolo.
Nelle tabelle, estrapolate ma fedelmente riprodotte da Il Salento, rassegna abbuale della vita e del pensiero salentino, v. VII compilato da Gregorio Carruggio per l’anno 1933, Editrice “L’talia Meridionele”, Lecce, 1933, ho evidenziato, aggiungendo all’originale la sottolineatura, i nomi dei neritini, tra i quali l’unico che ho conosciuto personalmente è il dottore oculista Crispino Vetere, padre del professore Benedetto, cuche mi prescrisse il mio primo paio di occhiali. Io ho iniziato; e voi?
“Il tempio parrocchiale di questa terra di Presicce che nel giorno 10 giugno 17881 , ricorrendo la domenica della S.S. Trinità, fu benedetto con l’acqua santa; ora arricchito con nuove magnifiche opere ornamentali e con l’altare consacrato principalmente con le reliquie dei martiri S. Andrea Apostolo, S. Vittore Papa e S. Pacifico Martire, con la presenza dell’Illustrissimo Reverendissimo Vescovo di Ugento Giuseppe Corrado Panzini, accompagnato dai dignitari della Cattedrale e del Reverendo Capitolo di Salve, Acquarica e Presicce e anche dei Padri Carmelitani dello stesso paese, dal tramonto fino al sorgere del sole, cantando devotamente e con salmi all’eterna gloria di Dio e perenne onore del Patrono S. Andrea Apostolo e le acclamazioni continue della popolazione, con solenni e augurali riti religiosi, con ammirevole esempio di pietà: giorno 6 luglio, domenica, dell’anno 1794”.
Questa nota, conservata nell’archivio parrocchiale della chiesa matrice di Presicce ci ricorda che il 6 luglio ricorre la data di consacrazione dell’edificio.
La chiesa matrice, intitolata a Sant’Andrea Apostolo, fu costruita nel 1778, sul vecchio edificio cinquecentesco poiché, secondo l’Arditi, quest’ultimo non era più né degno né adatto alla popolazione ricrescente e che per questo motivo si volle nuova, tanto che in diciotto mesi fu completata, benedetta e inaugurata nel 1781. In realtà, da questa nota si apprende che i lavori di completamento (gli stucchi, i marmi, le tele) durarono diversi anni dopo la costruzione del tempio.
La chiesa, considerata una delle più belle della provincia, ha un importante prospetto, splendido esempio di architettura tardo-barocca, scandito da paraste di ordine corinzio. Il ricco fastigio caratterizza l’edificio sacro tanto da renderlo subito individuabile da vari punti della città.
L’imponente torre campanaria è ciò che resta della vecchia chiesa cinquecentesca: si sviluppa su tre registri e presenta decorazioni fitomorfe e mascheroni di scuola neretina.
La chiesa ha un impianto a croce latina e ha il pregio di essere molto luminosa. All’interno vi sono otto altari laterali arricchiti da decorazioni in stucco e da pregevoli dipinti su tela. I quadri presenti in Chiesa sono attribuite a celebri autori locali, come il Catalano (che è l’autore del grande quadro del presbiterio rappresentante il martirio di Sant’Andrea e datato al 1601), e ancora Oronzo Tiso, Diego Pesco, Saverio Lillo, Giuseppe Sampietro, ecc.
L’altare maggiore, in marmi policromi, come anche la balaustra, il fonte battesimale e le pile lustrali sono di scuola napoletana: recenti ricerche, svolte da Maura Sorrone, ne hanno individuato l’autore in Baldassarre Di Lucca. Tuttavia, gli elementi figurativi (angeli, cherubini e il bassorilievo del santo patrono) provengono con tutta probabilità dalla bottega con il quale il Di Lucca collaborava frequentemente: quella del celeberrimo scultore Giuseppe Sammartino, autore fra gli altri del Cristo Velato.
Importante il complesso di statue presenti nella chiesa, tanto in cartapesta, quanto lignee. Queste ultime, come pure i preziosi manufatti di argenteria, di importazione napoletana, oltre ad essere emblematici esempi di devozione, raccontano del vivace rapporto tra l’aristocrazia locale e la capitale del Regno.
Adiacente al lato destro dell’edificio, esiste una cappella denominata “Chiesa dei Morti”; infatti, i numerosi sepolcri ipogei hanno svolto la loro funzione fino alla fine dell’Ottocento. Il piccolo ambiente voltato a crociera è costituito da due campate e sulla parete di fondo vi è un altare in stucco, coevo alla riedificazione settecentesca di tutta la chiesa. Sull’altare è collocato un prezioso ciborio del Seicento, di scuola francescana e in legno policromo, proveniente dal precedente edificio.
I recenti restauri, preceduti da un’indagine stratigrafica delle superfici murarie, hanno riportato alla luce sia gli antichi fornici che connettevano ciascuna cappella alla navata centrale dell’antica chiesa matrice, sia consistenti porzioni di affreschi e decorazioni pittoriche che la interessavano, la cui datazione varia tra il XV ed il XVI secolo.
I dipinti conservano ancora i vivaci colori, nonostante gli strati di calce, gli intonaci e, in alcuni casi, la muraglia, che li hanno celati per secoli. La scoperta dei dipinti consente di comprendere la successione cronologica dell’intero edificio: è possibile, infatti, distinguere tre chiese, sovrapposte e stratificate l’una alle altre.
Su una delle eleganti serraglie rinascimentali che chiudono le volte, è emersa la probabile firma del capo mastro
<< + SALVATORE . CARILLI . M . + 1575 >> , che realizzò le volte e probabilmente l’imponente torre campanaria.
Risale alla fine del Cinquecento il dipinto rinvenuto nell’abside della seconda campata: Madonna col Bambino, racchiusa in una mandorla, circondata da cherubini che sormonta una grande chiesa con campanile, mentre il Bambino benedicente stringe in mano un uccellino (Madonna di Loreto). Alla stessa epoca risalgono i dipinti del vano retrostante l’altare. Sono emerse diverse figure di santi vescovi, di S. Vito, un’abside con lacerti pittorici. Questo ciclo pittorico si stratifica su di un ciclo più antico superstite e ben visibile in un altro piccolo ambiente adiacente, in parte demolito nel Settecento; si tratta di una cappella con volta costolonata, che anticamente si connetteva al resto dell’edificio mediante un grande arco a sesto acuto. Attualmente, l’ambiente conserva una buona porzione della decorazione pittorica che interessava le pareti nella loro interezza. Nel complesso pittorico sono raffigurati San Sebastiano, San Rocco e San Pietro, una bellissima Imago Pietatis dal paesaggio surreale, e nella sommità, racchiusa in un clipeo, l’immagine di Cristo Pantocratore. Tutte le scene sono raccordate da una partitura architettonica dipinta. Al di sotto di quest’edizione pittorica, è visibile una decorazione a bicromia di gusto ancora gotico, probabilmente databile al XV sec.
A seguito degli interventi di restauro, l’altare settecentesco presentava tre grandi cornici vuote e delle antiche tele non vi era più memoria, ma per esigenze di culto si è resa necessaria la collocazione di nuovi dipinti: la visione delle ossa inaridite del profeta Ezechiele, il Cristo pantocratore e il martirio di padre Pasquale D’Addosio, sacerdote presiccese martirizzato a Pechino nel 1900.
Non si finisce mai di indagare e conoscere la creatività dei salentini, che nella terra natìa e in tutto il mondo hanno lasciato il segno delle proprie capacità manuali, artistiche, scientifiche e letterarie.
Questa volta, grazie ad una provvidenziale segnalazione, focalizziamo l’interesse su Francesco Toto, nato a Lecce nel 1972, che per giusto merito è stato inserito nel Libro d’Oro del MAM – Maestro d’Arte e Mestiere, promosso dalla Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte. In questo speciale registro sono inseriti i Maestri d’Arte italiani ritenuti dai maggiori esperti come “eccellenti”, individuati in 23 diverse categorie dell’artigianato artistico italiano: dalla ceramica alla gioielleria al legno e arredo, dai metalli alla meccanica al mosaico, dalla pelletteria alla stampa d’arte al restauro, dalle professioni del teatro al tessile.
Francesco Toto consegue il diploma presso l’Istituto Statale d’Arte “G. Pellegrino” di Lecce, dove acquisisce una formazione di base apprendendo la manualità per la lavorazione del legno. Inizialmente interessato agli strumenti a corda, e soprattutto alle chitarre, che suona con discreta abilità, comincia a studiare gli strumenti ad arco e ad affascinarsi alla loro tecnica costruttiva.
E’ Cremona la città che può formarlo in tale predisposizione ed interesse, essendo questo centro da sempre legato alla tradizione musicale e liutaria. Ed è qui che si trasferisce dopo il diploma, ma non trovandola pienamente aderente alle sue aspettative decide di trasferirsi in Germania, per frequentare con buoni risultati una scuola di restauro di questi strumenti.
Tornato a Cremona, qui vuole arricchire il suo bagaglio formativo, assimilando la tecnica costruttiva degli strumenti ad arco, come tramandato per secoli dai grandi maestri liutai. Qui finalmente, presso la Scuola Internazionale di Liuteria, si specializza nella costruzione di strumenti ad arco di alta qualità (violino, viola, violoncello e basso), acquisendo le tecniche costruttive tradizionali dei grandi liutai cremonesi, compresa la loro manutenzione e riparazione.
Appreso il metodo, grazie alla competenza di vari maestri che ha frequentato e alla sua dedizione, non tarda a trasformare il suo talento in professione producendo violini, viole e violoncelli. Per i violini si ispira ai modelli storici Guarneri e Stradivari, mentre per i violoncelli utilizza un modello disegnato da lui, che poi propone agli allievi italiani e stranieri che oramai da tempo lo seguono.
Il suo laboratorio, caratteristicamente ricolmo dei tanti attrezzi da lavoro e di sagome di strumenti, ha sede nel cinquecentesco palazzo Barbò-Meroni, nel centro storico di Cremona, e qui il maestro riceve gli esigenti committenti desiderosi di poter avere uno strumento personale.
Toto costruisce anche quartetti d’archi come, ad esempio, quello realizzato nel 2016 per il grande baritono Maestro Leo Nucci.
Impossibile elencare le diverse mostre che hanno ospitato le sue opere. Basti ricordare che nel 2018 Francesco Toto viene invitato alla Tokyo Stradivarius festival exhibition, la più importante mostra mai realizzata su Antonio Stradivari in Oriente, nella quale sono state esposte 21 opere del Maestro Antonio Stradivari e un suo violoncello in rappresentanza della liuteria contemporanea Italiana.
Arduo anche elencare i riconoscimenti ottenuti, tra i quali senz’altro il prestigioso certificato di merito rilasciato nel 2002 al XV Concorso Internazionale della Violin Society America e la medaglia d’argento concessa nello stesso anno al Concorso Internazionale di Mittenwald. Nel 2006 ha ottenuto il primo premio per la sezione violoncelli all’XI Concorso Triennale Internazionale degli strumenti ad arco di Cremona e la medaglia d’oro del Centro di Musicologia “Walter Stauffer”.
Francesco Toto è stato presidente dell’Unione Liutai Cna e membro del Comitato Scientifico del Museo del Violino di Cremona, mentre attualmente è rappresentante nazionale strumenti musicali Cna Artigianato Artistico.
Nonostante la sua lontananza resta sempre viva la sua “salentinità e, non a caso, su ogni sua “creatura” applica un’etichetta quantomai esplicativa: “Francesco Toto il Salentino”, come ama definirsi.
Insomma, un altro importante tassello per “Leccellenza” e per quel genio salentino che abbiamo il dovere di conoscere e del quale possiamo e dobbiamo sentirci fieri.
Moltissimi vocaboli dell’uso comune assumono spesso una valenza semantica specialistica con la loro adozione, accompagnati o no da un altro, da parte di un settore specialistico, per lo più scientifico. Talvolta, poi, il vocabolo appare proteiforme grazie all’evoluzione del costume, e non solo di quello..
Così, per fare un esempio legato all’attualità, surrogato lo si incontra come participio passato con valore aggettivale nel settore burocratico e giuridico, come aggettivo sostantivato in quello della lingua comune con riferimento ad un cibo che sostituisce un altro, ma, essendo di qualità inferiore, appare come un ripiego, con tutte le connotazioni negative che tale concetto comporta. Gli ultimi sviluppi di tale processo sono rappresentati dalla locuzione maternità surrogata, sulla quale sorvolo per non uscire dal seminato …
Un cammino simile ha percorso parlante, normalissimo participio presente di parlare, che, usato al plurale usato al plurale con valore sostantivato designa coloro che usano una determinata lingua per le normali esigenze espressive, distinti, forse con un pizzico di spocchioso razzismo linguistico, dai letterati. Ma parlante, conservando la sua valenza originaria di participio presente, ha un impiego anche in epigrafia e in araldica con le locuzioni, rispettivamente, di iscrizione parlante e di stemma parlante.
Tutte le epigrafi, in fondo, parlano, ma quelle definite tecnicamente parlanti dannoi un’informazione diretta sul supporto che le ospita. Una delle epigrafi parlanti più famose è la fibula prenestina, una spilla in oro risalente al VII secolo a. C. rinvenuta a Preneste. Vi si legge, procedendo da sinistra verso destra, quella che è considerata la più antica testimonianza conosciuta fino ad ora del latino: MANIOS MED FHE FHAKED NVMASIOI, che nel latino classico sarebbe stato MANIUS ME FECIT NUMERIO (Manio mi fece per Numerio). L’epigrafe qui ci fa conoscere il nome dell’artista lche creòa spilla e quello del destinatario, probabilmente il committente, anche se non sapremo mai se l’oggetto era per uso personale o destinato ad essere donato.
Lo stesso vale per lo stemma parlante, in cui lo scudo mostra un dettaglio strettamente connesso con il nome della famiglia.
È il caso dei tre stemmi che seguono, relativi a famiglie con le quali, nella persona di un loro appartenente, il Salento ebbe a che fare nel corso del XVII secolo il Salento, nel bene e nel male e, in quest’ultimo con gli ultimi due, Nardò in particolare.
Duomo di Lecce, dettaglio dello stemma arcivescovile di Luigi Pappacoda (in carica dal 1639 al 1670)
Nardò, Stemma di Giovanni Granafei nella chiesetta (sconsacrata) di S. Maria della Grotta e, per agevolarne la lettura, di seguito lo stemma della famiglia del palazzo Granafei Nervegna a Brindisi.
Le primissime informazioni su Raffaele Monteanni possiamo recuperarle in un lungo articolo di Pietro Marti sugli architetti, pittori e scultori leccesi, pubblicato nel 1927 nella rivista “Il Salento”. L’autore, nel tracciare le qualifiche professionali del Monteanni, come “intagliatore in legno e artefice d’intarsi” ne esprime anche un giudizio: “modesto ma infaticabile”.
Per lo scrittore Marti egli è un frate, generando quell’errore che si riscontra anche in numerosi cronisti e studiosi del Salento nei decenni successivi. Merito di Marti però è quello di una prima segnalazione di alcune opere del maestro, realizzate tra il 1793 e il 1797. Ma riportiamo fedelmente la presentazione del Marti:
Modesto ma infaticabile frate. Intagliatore in legno e artefice d’intarsi, nato in Lequile nella seconda metà del secolo XVIII. Portano il suo nome: il Coro in noce della Chiesa di S. Domenico Maggiore in Taranto, il Coro della Parrocchiale di Copertino (1793), il Pulpito della Parrocchiale di Tricase (1795), il Coro della Parrocchiale di Uggiano (1797) [1].
Diverso parere, in merito al giudizio, è quello registrato nelle “pagine sparse di storia cittadina di Lequile”, scritte nel 1933 da Amilcare Foscarini e pubblicate nel 1941. Il Foscarini, nel tracciare brevemente tutti gli uomini illustri della città, annovera anche Raffaele Monteanni, definendolo “Intagliatore di molto merito, nato nella seconda metà del sec. XVIII. Empì di suoi lavori tutta la provincia di Lecce. Intarsi, cori, pergami, ed altro, trovansi sparsi a Taranto, Copertino (1793), Scorrano (1790 e 1801), Tricase (1795), Uggiano La Chiesa (1796) ed altrove” [2]. Ma è soprattutto nella ristampa di questo prezioso contributo che emergono interessanti informazioni sul Nostro artista.
Il curatore della ristampa, Michele Paone, in una ricchissima nota, riprende e illustra brevemente i risultati della tesi di laurea sul Monteanni discussa da Enzo Rizzato, a cui si deve una diligente e laboriosa ricerca biografica sullo stesso Monteanni sostenuta da imponente documentazione archivistica [3].
Notevoli quindi sono i contributi aggiuntivi alla prima edizione del Foscarini, debitamente inseriti nelle note dal curatore Paone e corredati da una ricchissima bibliografia. Lequile può certamente vantare di aver dato i natali a numerosi personaggi, in tutti i campi, soprattutto in quello artistico. Per tale ragione nelle pagine relative a Lequile, pubblicate nel volume sull’edilizia domestica e architettura religiosa nell’area della Cupa, il curatore Antonio Costantini scrive:
La vicinanza al capoluogo, la presenza di due noti ed operosi architetti, come Salvatore Miccoli e Fra Nicolò da Lequile, di artisti, come lo scultore e pittore Francesco M. da Lequile e Oronzo Rossi, e dell’intagliatore Raffaele Monteianni, hanno fatto di Lequile uno dei principali centri del barocco salentino. [4].
Il De Dominicis, nella sua corposa monografia su Spongano, sostiene che
Raffaele Monteanni è figlio di Lucio, originario di Lequile, vicino Lecce, accasato a Spongano con Maddalena, figlia di Andrea Marzo. Realizza l’artistico coro in legno con la tecnica della tarsia nel 1795 [5].
Elementi sobri ed essenziali quelli riferiti al maestro intagliatore nel descrivere gli stalli in legno della parrocchiale di Spongano. Ed è proprio in questo luogo che Monteanni stabilisce la sua dimora, fino alla morte, dopo aver contratto un secondo matrimonio con Maddalena Marzo, proveniente da una ricca e cospicua famiglia del paese.
Ma ritorniamo alle diligenti ricerche di Enzo Rizzato, magistralmente sintetizzate da Paone e inserite nella nota di approfondimento del profilo di Monteanni. Dalla dissertazione di laurea si ricava che Raffaele Monteanni
nacque in Lequile il 20 ottobre 1754 dal bracciante agricolo Ciro Monteanni e da Caterina Sciombovuto e fu battezzato il giorno successivo, ricevendo, oltre il nome di Raffaele, gli altri di Giosuè, Lazzaro e Gaetano. A ventidue anni, il 10 agosto 1776, sposò in Martina Franca la trentenne Angela Aversa da Cisternino, vedova di Donato Olivieri, dalla quale ebbe quattro figli: Maria Caterina, nata il 14 agosto 1776, Beatrice Maria Chiara, nata il 12 agosto 1780 e morta in Spongano il 1833, Benedetta Giuseppa, nata il 27 luglio 1784 e Benedetto Giuseppe, nato il 24 marzo 1787. La moglie morì quarantacinquenne il 23 febbraio 1791 e fu seppellita nella suburbana chiesa di S. Stefano. Trasferitosi in Spongano, vi sposò il 4 ottobre 1792 Maddalena Marzo, dalla quale ebbe: Maria Giuseppa Domenica Leonarda, nata il 3 giugno 1794 e morta il 1820, Francesco Antonio Maria Giuseppe Cornelio Tiziano Giorgio Raffaele, nato il 16 settembre 1800 e morto il 1823, Michele Angelo Pietro Toma Pascale, nato il 6 marzo 1802, Caterina Vita Rosa Raffaela e morta il 16 febbraio 1815, Epifania, morta diciassettenne, Giorgio Maria Raffaele, nato il 22 aprile 1807, morto novizio, il 1828 e Maria Vittoria Vincenza, nata il 3 settembre 1811 e morta il 1829. La moglie morì cinquantottenne il 23 luglio 1827. Deputato del sale (1807), ternato (1808) per la carica di sindaco di Spongano, Surano ed Ortelle, Raffaele Monteanni è, il 1815, sindaco di Spongano, Surano ed Ortelle e, l’anno successivo, deputato annonario. Muore in Spongano nella sua casa in via S. Leonardo il 7 agosto 1835. [6].
La nota prosegue con un interessante aggiornamento delle opere del maestro ebanista, compreso quelle che andrebbero espunte dal suo catalogo per una scorretta o presunta attribuzione.
Negli anni 1788-1789 realizza egregiamente gli stalli in legno nel coro retrostante l’altare maggiore della chiesa parrocchiale di Spongano, secondo il progetto realizzato dallo stesso Monteanni e consegnato al clero locale.
Le vicende della realizzazione del coro ligneo di Spongano sono illustrate in un atto notarile inedito del 1788 che qui di seguito si espongono.
L’ALBARANA DEL 1788
Grande la nostra soddisfazione nell’aver individuato nei protocolli notarili di Giovanni Stasi di Diso del 1788 l’albarana di Spongano*, ossia la convenzione tra la civica amministrazione di Spongano ed il maestro Raffaele Monteanni per la realizzazione degli scanni in legno del coro della novella chiesa parrocchiale, solennemente benedetta nel 1770. Grande fermento c’era in quegli anni successivi alla riedificazione del nuovo edificio, sia per la realizzazione degli altari laterali sia per il loro abbellimento e decoro, attraverso i dipinti, le suppellettili e gli arredi sacri.
Ci è gradito consegnare ai lettori la sintesi di un lavoro di ricerca più ampio e articolato sulla chiesa parrocchiale, sull’albarana degli scanni e sul maestro artista Raffaele Monteanni.
Il rogito notarile è del 24 aprile 1788 ed è stato stipulato nella Terra di Spongano [7].
Davanti al notaio Giovanni Stasi di Diso si presentano Raffaele Monteanni, definito “magnifico” maestro, originario della Terra di Lequile, sposato e domiciliato nella città di Martina Franca, Girolamo Scarciglia e Giuseppe Maria Ruggeri, “deputati” ossia gli eletti dalla civica Amministrazione per gli abbellimenti e adornamenti che necessitano nella nuova chiesa parrocchiale insieme con Simone Lecci di Spongano, Regio Giudice ai Contratti, ed i sacerdoti di Spongano don Pietro Paiano, don Vito Spagnolo e don Casimiro Marzo.
Tra le parti si trattava e conveniva che il maestro Monteanni a sue spese e fatica dovesse costruire gli stalli in legno dentro il coro della chiesa parrocchiale, “secondo il disegno più moderno che apparisce nelle quattro figure, e proprio quello di basso del lato sinistro, formato detto disegno da esso magnifico Rafaele, e lasciato in possesso di detti Signori Deputati … di noce massiccio“.
Il costruttore aveva a disposizione due anni e mezzo di tempo utile, calcolato a partire dalla data dell’atto notarile. Per il lavoro il maestro Raffaele si rimetteva alla generosità e gentilezza dei signori “deputati” dal governo cittadino. Nell’albarana si stabiliva che il maestro falegname doveva mettere tutto il legname necessario per la costruzione degli stalli in legno. E tutto questo per il prezzo convenuto tra loro di 300 ducati, sia per il materiale, sia per la fatica, pagabili a rate.
Ma quali caratteristiche tecniche doveva avere l’intero complesso del coro? Si stabiliva, in particolare, che gli stalli dovevano essere realizzati in noce massiccio; le spalliere, i pilastri e ogni genuflessorio dovevano essere impellicciati, consistenti in noce, ulivo e lestinco romano; l’ossatura delle spalliere, i pilastri e il genuflessorio dovevano essere tutto di abete veneziano; il pavimento che sostenevano gli stalli e il sedile dovevano essere di larice, mentre il sedile del piano basso di legno di noce. In sostanza dovevano essere impiegate ben cinque qualità di legno.
La convenzione prevedeva anche la quantità e le forme di pagamento. A conclusione del rogito notarile dovevano essere sborsati immediatamente i primi venti ducati; altri ducati quaranta alla fine del mese di settembre 1788; altri ducati quaranta alla fine di gennaio 1789; altri ducati cinquanta dopo il primo fissaggio degli stalli nel coro; altri ducati cinquanta alla fine dell’opera. I restanti cento ducati, per il completamento dell’intera somma di 300 ducati, dovevano essere liquidati nel termine di un anno esatto dopo la definitiva collocazione degli stalli. Queste somme rateali dovevano essere consegnate brevi manu direttamente al maestro Monteanni se si trovava a Spongano, altrimenti nella città di Lecce nelle mani di una persona fidata.
I due “deputati” Scarciglia e Ruggeri promettono e si obbligano di somministrare al maestro Raffaele ed ai suoi aiutanti, per quel tempo che dimoreranno a Spongano per l’installazione degli scanni, l’uso di una abitazione privata, fornita di cucina, secondo il costume praticato in simili circostanze.
L’ultima parte dell’albarana è dedicata a tutte quelle situazioni avverse ed inaspettate che potevano verificarsi nel tempo concordato, tali da vanificare il progetto originario. Si pongono quindi delle condizioni affinché l’impegno civile e morale dei deputati, dell’amministrazione civica e della cittadinanza, e la spesa materiale non venissero a mancare nel caso di gravi situazioni di salute o di morte.
L’opera viene egregiamente portata a termine ed installata nel coro retrostante l’altare maggiore, secondo il progetto realizzato dallo stesso Monteanni e consegnato al clero di Spongano nel 1795, come attesta l’intarsio.
Purtroppo, quel disegno e progetto originario non esiste più nell’archivio parrocchiale, ma il ritrovamento dell’albarana del notaio Stasi sostituisce ed illumina le vicende di una lunga trattativa conclusasi felicemente con la consegna di una pregevole opera d’arte.
Il maestro intagliatore continuerà la sua attività con la produzione di altre meraviglie: il coro della chiesa di San Domenico Maggiore in Taranto (1787-1788); il coro della cappella dell’Immacolata in Martina Franca (1791); il coro della Collegiata di Copertino (1793); il pulpito della chiesa matrice di Tricase (1795); il coro della chiesa matrice di Uggiano la Chiesa (1796); il pulpito (1799) e il coro (1801) della chiesa degli Agostiniani in Scorrano ma avrà stabile e fissa dimora a Spongano dove risiederà fino alla morte.
Ai tempi di Monteanni l’Europa è percorsa da importanti novità quali le leggi eversive della feudalità promulgate dalla Francia rivoluzionaria e poi divulgate in tutti gli stati conquistati. Così anche in Italia e nel Salento.
Tra le riforme attuate da Giuseppe Bonaparte, una delle più significative è quella del 2 agosto 1806 che, abolendo gli ordinamenti feudali, poneva fine alla giurisdizione baronale sui comuni (le antiche Universitas) e ai diritti sulle persone.
Non ci furono i benefici sperati per le classi subalterne, sul frazionamento dei latifondi e sulla concessione delle terre con contratto di enfiteusi ai contadini e ai fittavoli; tuttavia questo nuovo ordinamento, favorì nei Comuni la formazione di una nuova classe dirigente chiamata a svolgere funzioni di governo sulla base non più degli antichi titoli nobiliari, ma del censo; e così professionisti (come notai, medici, avvocati), commercianti artigiani e proprietari terrieri potranno ricoprire la carica di sindaci e decurioni nei Comuni, di consiglieri distrettuali e provinciali nei rispettivi organismi.
Il decurionato comunale era un organo amministrativo i cui membri venivano sorteggiati tra i cittadini benestanti che possedevano un reddito annuo non inferiore a 25 ducati nei Comuni fino a 3.000 abitanti, a 48 ducati nei Comuni maggiori; il presidente dell’assemblea, il sindaco e i suoi più stretti collaboratori (gli eletti e i deputati) venivano scelti dagli stessi decurioni, la cui nomina era vincolata al beneplacito dell’intendente provinciale, che aveva altresì il potere di revocarli dalla carica nel corso del mandato. I decurioni (o almeno un terzo di loro) dovevano saper leggere e scrivere.
La ristrutturazione amministrativa attuata dal re Giuseppe Bonaparte interessò anche le Universitas della ex contea di Castro. Con queste norme i conti di Castro che avevano per secoli tenuto sotto il loro dominio le comunità di Diso, Marittima, Vignacastrisi, Ortelle, Spongano e Castro, i baroni Spinola e i principi Caracciolo (feudatari di Andrano), i baroni Ventura, Maramonte e i marchesi Castriota (feudatari di Castiglione), lasciarono il posto ai rappresentanti della classe borghese nell’assunzione delle funzioni del governo locale e consentiranno a un artigiano di rango come Raffaele Monteanni di diventare Sindaco di Spongano.
Nonostante la prima deliberazione in assoluto, quella cioè relativa all’istituzione del Decurionato di Spongano, non sia giunta fino a noi, disponiamo, però, della conclusione decurionale successiva (la prima dal punto di vista archivistico), datata 11 dicembre 1808, sindaco Francesco Marzo, che riguarda la proposta della terna di amministratori per il 1809. Non bisogna dimenticare che per i primi anni del Decurionato i sindaci duravano in carica solo un anno, come nel vecchio regime.
Per Spongano vengono scelti, a maggioranza, lo stesso Marzo, Raffaele Monteanni e Pasquale Paiano; per Surano, ad unanimità, Domenico Cutrino, Saverio di Giuseppe Galati e Vito Galati; per Ortelle, sempre ad unanimità, Paolo Vito De Luca, Fedele De Luca e Vincenzo Abate.
Nel 1815 Raffaele Monteanni, che pure negli anni precedenti aveva svolto ruoli istituzionali, è Sindaco e ne troviamo traccia nell’atto notarile del 28 gennaio 1815, rogato dal notaio Francesco Fello di Poggiardo, riguardante l’assegnazione del patrimonio sacro al novizio di Spongano Giuseppe Rini da parte del padre Antonio Rini. Nel rogito vi è il certificato del Comune di Spongano con la firma del sindaco di Spongano Raffaele Monteanni [10].
Segue un altro atto dello stesso notaio Fello del 22 aprile 1815. Gennaro Rizzo, contadino di Spongano, abitante nella strada detta dello Putriso, vende e cede a Paolo Donato Rizzo di Spongano, abitante in strada del “puzzo d’avanti”, due fondi semenzabili siti nel Campo di San Vito a Ortelle. Anche in questo rogito leggiamo la firma del sindaco di Spongano Raffaele Monteanni, negli ultimi mesi del suo mandato amministrativo [11].
Nel mese di novembre Monteanni non è più Sindaco, infatti, tale carica è ricoperta dal De Micheli, come chiaramente appare in un allegato dell’atto notarile del 6 dicembre 1815 [12] e del 12 dicembre 1815 [13].
Il cospicuo patrimonio economico di Raffaele Monteanni, il radicamento nel tessuto sociale di Spongano e la sua intensa devozione verso la Vergine Immacolata, venerata soprattutto dai confratelli della locale Congregazione, lo porteranno ad offrire alla chiesa confraternale “un apparato fatto nuovo”. Certamente il riferimento è di un apparato d’altare ma la telegrafica segnalazione del redattore dell’inventario non consente di fissare con precisione la natura di questo “apparato” [14]. Un apparato nuovo, donato alla Confraternita dal “Maestro Rafaele Monteanni”. Vogliamo pensare che lo stesso falegname, nel ruolo di confratello dell’Immacolata, abbia realizzato anche i telai dei dipinti del presbiterio e delle pareti laterali, ma senza una documentazione certa tutto ciò resta una mera supposizione.
Raffaele Monteanni muore a Spongano nella sua casa in via San Leonardo il 7 agosto 1835 all’età di ottanta anni. Nell’atto di morte, redatto l’otto agosto 1835, Raffaele Monteanni viene registrato come “falegname intagliatore” ed anche il figlio Michele, che davanti al sindaco Luigi Paiano ne dichiara la morte, viene registrato “di professione falegname” [15].
La famiglia è ormai ben radicata a Spongano e qui vivono ed operano i figli dell’artista.
Benedetto Giuseppe Monteanni è il quarto figlio di Raffaele, avuto dal primo matrimonio con Angela Aversa. Gli viene attribuito lo stesso nome della sorella nata tre anni prima, Benedetta Giuseppa, morta quasi certamente in tenera età. Nel corso della sua vita Benedetto Monteanni eserciterà il mestiere del padre, conquistando lo stesso prestigio paterno sia nel campo sociale che in quello economico. Ciò risulta evidente in numerosi atti notarili, rogati nel primo ventennio dell’Ottocento, nei quali Benedetto compare come testimone e proprietario di beni fondi nel territorio di Spongano [16].
Diversa affermazione sociale viene raggiunta da Giuseppe Monteanni, figlio di Benedetto e nipote di Raffaele, che nella seconda metà dell’Ottocento ricopre un ruolo di prestigio sociale come “capo musico” della locale banda musicale di Spongano [17]. Le recenti operazioni di riordino e di inventariazione dell’archivio confraternale “Maria SS. Immacolata” di Spongano, hanno messo bene in evidenza numerosi mandati di pagamento a favore di Giuseppe Monteanni, coinvolto con la sua banda nelle maggiori festività promosse dalla locale Congregazione e soprattutto nelle processioni religiose durante i riti della Settimana Santa. Nel Mandato di pagamento dell’otto dicembre 1861 si fa esplicito riferimento al capo musica della banda musicale di Spongano, impegnata nelle festività civili e religiose dell’Immacolata Concezione [18]. Nel Mandato di pagamento del 26 marzo 1869 troviamo Giuseppe Monteanni che riceve dalla Confraternita ducati 7 per essere capo della compagnia musicale di Spongano, impegnata nella processione del Venerdì Santo [19]. Nel Mandato di pagamento datato 2 maggio 1870 si dispone la somma di lire 31 e centesimi 66 (pari a ducati 7 e grana 45) al signor Giuseppe Monteanni, capo musico di Spongano, per la processione del Venerdì Santo [20].
* Nel Grande Dizionario della lingua italiana del Battaglia il termine “albarana” deriva dall’antico sostantivo femminile “albarà” col significato di polizza, quietanza, ricevuta di pagamento (che attestava la tassa pagata per la merce importata, ed esentava il mercante da ulteriori obblighi doganali). Nello spagnolo antico il termine è attestato già nel 1039 nelle diverse forme di albarà, albaran e albalà, col significato di “cedola regia”. Nella lingua araba il termine al-barà’a aveva il significato di “ricevuta di pagamento” e perciò “esenzione”. Dal latino medievale albaranus si è avuto il volgarizzamento siciliano albarà e poi alberanu con il significato di “scrittura privata”. Entrato nel linguaggio giuridico e notarile il termine è stato utilizzato nel significato di “convenzione”, “accordo tra due parti” e nei rogiti notarili appare indifferentemente nelle due forme: maschile (albarano) e femminile (albarana).
NOTE
MARTI PIETRO, Elenco di Architetti, Pittori e Scultori fioriti in Provincia di Lecce fino a tutto il secolo XIX e novero delle loro opere principali, in IL SALENTO, Almanacco 1927, compilato da Gregorio Carruggio, Lecce, Stabilimento tipografico Giurdignano, 1926, p. 47.
FOSCARINI AMILCARE, Lequile. Pagine sparse di storia cittadina, a cura di Michele Paone, Galatina, Congedo editore, 1976, p. 84.
FOSCARINI, op. cit., pp. 84-85.
COSTANTINI ANTONIO (a cura di), Edilizia domestica e architettura religiosa nell’area della Cupa, Regione Puglia assessorato Pubblica Istruzione C.R.S.E.C. LE/39 San Cesario di Lecce, editrice Salentina, Galatina, 1999, p. 52.
DE DOMINICIS FERNANDO, Spongano da villa a Comune. Storia e documenti, Capone Editore, Lecce 2003, vol. I, pp. 395-396.
FOSCARINI, op. cit., pp. 84-85.
ARCHIVIO DI STATO DI LECCE (d’ora in poi ASL), fondo Protocolli notarili, Protocolli di Giovanni Stasi di Diso, 35/4, anno 1788, atto notarile del 24 aprile 1788, foll. 83r-85v (in lapis), 70r-72v (cartulazione coeva).
ARCHIVIO DIOCESANO DI OTRANTO (d’ora in poi ADO), fondo Curia arcivescovile, sez. I, serie Sacre Ordinazioni, sottoserie Spongano, anno 1808, fascicolo personale di Michele Marzo, Fede di verità del luogotenente di Spongano Giuseppe Alemanno.
ADO, fondo Curia arcivescovile, sez. I, serie Sacre Ordinazioni, sottoserie Spongano, anno 1808, fascicolo personale di Raffaele Corvaglia, Fede di verità del luogotenente di Spongano Giuseppe Alemanno.
ASL, fondo Protocolli notarili, Protocolli di Francesco Fello, 76/5, anno 1815, atto notarile del 28 gennaio 1815, foll. 16r-21r.
ASL, fondo Protocolli notarili, Protocolli di Francesco Fello, 76/5, anno 1815, atto notarile del 22 aprile 1815, foll. 65r-67r. Al folio 67r vi è la firma del sindaco di Spongano Raffaele Monteanni.
ASL, fondo Protocolli notarili, Protocolli di Francesco Fello, 76/5, anno 1815, atto notarile del 6 dicembre 1815, foll. 130r-132r. Al folio 132r vi è la firma autografa del sindaco De Micheli.
ASL, fondo Protocolli notarili, Protocolli di Francesco Fello, 76/5, anno 1815, atto notarile del 6 dicembre 1815, foll. 130r-132r.
ARCHIVIO CONFRATERNITA IMMACOLATA DI SPONGANO (d’ora in poi ACS), serie Corrispondenza e carteggio, unità archivistica n.3, “Inventario de’ Sacri Arredi, ed utensili della Congrecazione di Spongano”, doc. non datato ma post 1830-ante 1863. Questo inventario è stato integralmente pubblicato da CERFEDA FILIPPO GIACOMO, Loquar ad cor eius. La chiesa confraternale dell’Immacolata di Spongano e l’omonima Confraternita, Edizioni Giorgiani, Castiglione d’O. 2014, pp. 234-235.
ARCHIVIO COMUNALE DI SPONGANO, Registro degli atti di morte del 1835, foglio n. 6, atto di morte n. 11 dell’otto agosto 1835 di Raffaele Monteanni. Ringrazio Gino Tarantino e Virgilio Corvaglia per la piena disponibilità nel recuperare l’atto di morte di Raffaele Monteanni presso l’archivio comunale di Spongano. Il documento, finora inedito, viene quindi a pieno titolo recuperato e inserito nel presente saggio.
Nell’atto notarile del 24 dicembre 1811, redatto a Spongano dal notaio Francesco Fello di Poggiardo, foll. 61r-72r, troviamo i contraenti: Giuseppe Nicola Scarciglia e Maddalena Scarciglia; i due testimoni: Benedetto Monteanni, figlio di Raffaele Montejanni e Simone Lecci. Si segnala ancora l’atto notarile del 26 settembre 1816, rogato dal notaio Francesco Fello di Poggiardo, foll. 85r-89r. In questo atto di acquisto tra i testimoni vi è anche Benedetto Montejanni, falegname, figlio di Raffaele.
GIUSEPPE CORVAGLIA, Zinnananà. Storie di bande e musicanti, Edizioni Youcanprint, Lecce, 2020, pp. 18 e 205.
ACS, serie Mandati di pagamento, anno 1861, Mandato di pagamento 8 dicembre 1861.
ACS, serie Mandati di pagamento, anno 1869, Mandato di pagamento 26 marzo 1869.
ACS, serie Mandati di pagamento, anno 1870, Mandato di pagamento 2 maggio 1870.
Ad integrazione delle due mappe riportate tempo fa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/24/gallipoli-e-taranto-in-due-mappe-del-xvii-secolo/) ne segnalo altre due facenti parte di una collezione custodita nella Biblioteca Nazionale di Francia (collocazone: Bibliothèque nationale de France, département Cartes et plans, GE DD-2987 (5656). Lo faccio a beneficio di chi volesse fare un esame comparativo anche sul piano grafico, tenendo presente che, quando , come nella cartografia, dev’essere rappresentato fedelmente lo stesso soggetto, tutto si gioca sui dettagli. Poi ci sono gli scopiazzamenti spudorati, che coinvolgono pure nomi di cartografi ed editori famosi del passato (solo di quello?…), ma questo è un altro discorso.
Non avrei avuto nessun motivo per porre il dilemma se fossi stato disponibile ad accettare come corretta pignatta, a quanto registrano tutti i dizionari. Unica eccezione il GDLI (Grande dizionario della lingua italiana), che al lemma pignata e derivati rinvia a pignatta e derivati, dove all’inizio pignata è riportato tra le forme antiche insieme con pegnata, pegnatta, pigniacta, pigniata e pigniatta).
Al di là delle altre considerazioni che via via farò, ricordo che in campo linguistico, volenti o nolenti (e io mi pongo tra questi ultimi), è l’uso che decide la sopravvivenza di un forma su un’altre e in non pochi casi è quella pIù corretta a lasciarci le penne.
Ad ogni buon conto, pur rispettando l’autorevolezza di chi senza dubbio ne sa più di me, non ho mai confidato nell’ipse dixit, locuzione che nel nostro caso, vista l’unanimità di opinioni, sarebbe opportuno cambiarla in ipsi dixerunt. Tuttavia, anche un povero e sconosciuto ille come me ha il diritto di fare le sue osservazioni; e non è detto che alla fine si levino tanti illi a sostegno del primo ille che osò lanciare la sfida.
Ma procediamo con ordine, cercando di individuare, pur con tutte le riserve del caso, la data di nascita delle due voci, non senza aver detto che nel Dizionario De Mauro per pignatta (pignata, come prima detto non è registrato) si legge av. 1342, il che dovrebbe stare a significare che era quella la data più antica conosciuta al momento della pubblicazione (2000) o, per essere generosi, fino a qualche anno prima.
Sorprende, però, che un testo lanciato come Il dizionario della lingua italiana per il terzo millennio e compilato in tempi in cui già la ricerca testuale poteva fruire dell’aiuto fondamentale dell’informatica, mostri di ignorare l’esistenza di attestazioni più antiche, molto più antiche e, aggiungo, pubblicate, cioè non ancora disperse in carte antiche e destinate a restare sconosciute per chissà quanto tempo.
Come si sa, l’italiano che oggi parliamo è, in fondo, frutto della lenta evoluzione del latino, arricchita nel tempo da molteplici entrate da altri ambiti culturali. Tuttavia, almeno fino ad oggi, la maggior parte del nostro lessico mostra origini latine e a questo non si sottraggono pignata/pignatta né deve suscitare meraviglia o essere considerato come una riduzione dell’attendibilità delle conclusioni alle quali perverrò, il fatto che i primi documenti, dei quali riporterò solo i dettagli che ci interessano, sono in latino.
Il primo1 è custodito nell’Archivio pubblico di Bologna (Reg. Gross. v. I, p. 94) ed è un atto del 14 maggio 1200. Nel lungo elenco di oggetti risulta anche pignatam de cupro plenam de ferro extimatam cum ferro … (pignata di rame piena di ferro stimata col ferro ).
Il secondo riguarda un episodio riportato da Fra Salimbene Adami (1221-1288) nella sua Cronica, episodio tanto simpatico che mi piace riportarlo tutto, citandolo dall’edizione che ancora oggi è il testo di riferimento.2
Item tempore illo, procurante ministro, Rex Hungariae misit Assisium magnam cuppam auream, in qua caput beati Francisci honorabiliter servaretur. Cum autem portabatur, et in conventu senesi quodam sero in sacristia ad custodiendum ponetur, quidam fratres, curiositate et levitate ducti, optimum vinum biberunt cum ea, volentes in posterum gloriari quod cum cuppa Regis Hungariae ipsi bibissent. Sed guardianus conventus senensis, qui magnus zelator erat justitiae et honestatis amator, nomine Johannettus, qui etiam de Assisio fuerat oriundus, cum cognovisset haec omnia, praecepit refectorario, qui similiter Johannettus de Belfort dicebatur, ut in sequenti prandio poneret coram quolibet illorum, qui cum cuppa biberat, unam ollam parvulam, nigram et tinctam, quam pignattam dicunt, in quibus oportuit eos bibere, vellent nollent, quatinus si vellent in posterum gloriari quod cum cuppa regis Hungariae quinque jam biberant, possent similiter recordari quod propter illam culpam cum olla tincta bibissent.
(Parimenti in quel tempo, per interessamento del ministro il re d’Ungheria mandò ad Assisi una grande coppa di oro perché vi fosse conservata con tutti gli onori la testa del beato Francesco. Però, mentre la si trasportava e per un certo ritardo la si poneva, perché fosse custodita, nel convento di Siena in sagrestia, certi frati, spinti dalla curiosità e dalla leggerezza, bevvero con quella dell’ottimo vino, volendo in seguito vantarsi di aver bevuto proprio loro con la coppa del re d’Ungheria. Ma il guardiano del convento di Siena, che era gran assertore della giustizia ed amante della correttezza, di nome Giovannetto, che era anche oriundo di Assisi, essendo venuto a conoscenza di tutto questo, ordinò all’addetto alla refezione, che similmente era chiamato Giovannetto Belfort, che nel pranzo successivo mettesse davanti a ciascuno di quelli che avevano bevuto con la coppa una piccola pentola1, nera e sporca, che chiamano pignatta, in cui dovevano bere, volenti o nolenti, perché se in futuro avessero voluto vantarsi del fatto che cinque avevano già bevuto con la coppa, del re d’Ungheria, potessero allo stesso modo ricordare che per quella colpa avevano bevuto con una pentola sporca)
Per il momento, dunque, in anzianità, per quanto riguarda le forme latine, pignata (nominativo del pignatam del documento datato 1200) batte largamente pignatta (nominativo del pignattam della Cronica del Salimbene).
E per il volgare, le cose come stanno? Direi allo stesso modo, visto che per pignata la più antica attestazione è in una ricevuta di pagamento di affitto dell’anno 1315.3 e per pignatta nella novella IV de IITrecentonovelle di Franco Sacchetti (1332-1499), che era nato in Croazia ma che visse prevalentemente a Firenze: Son io così dappoco, ch’io non vaglia più d’una pignatta? Ho volutamente precisato l’ambito culturale del Sacchetti, il toscano, come faccio ora per quello del documento del 1200 (l’emiliano) e per quello del 1315, il veneto, mentre un caso a sé stante, di problematica classificazione mi sembra quello del Salimbene, che era nato sì a Parma, ma che si mosse in Emilia, in Toscana, oltre che in Francia.
Quanto fin qui riportato m’indurrebbe a supporre che pignatta sia la correzione toscana del veneto pignata, forma che, però, risulta presente nei testi a stampa di ogni argomento (letterario, religioso, scientifico) a partire dal XVI secolo. La cronologia escluderebbe la possibilità che la voce sia entrata con lo spagnolo piñata, che al pari della voce salentina, ma con reciproca autonomia, sembra confermare l’ipotesi di chi propone come etimo il latino medioevale pineata(m)=simile a pigna4, con esito –nea– largamente collaudato nel nostro dialetto (p. e.: staminea>stamegna).
Questo sarebbe sufficiente, forse, per chi si occupa della compilazione dei vocabolari, quanto meno di registrare pignata, anche se con il marchio, ancora quasi infamante, direi forma di razzismo linguistico, di voce regionale, per non dire, poi, di voce meridionale. Non ho nulla contro Dante & C., però continuare a manifestare ossequio al fiorentino e tollerare, se non favorire, la proliferazione infestante dell’inglese anche quando non c’è nessun motivo per farlo, mi sembra contraddittorio, per non dire stupido. A tal proposito sfido chiunque si occupi, spero seriamente, di queste cose a citarmi un solo testo di culinaria, ripeto, uno solo, in cui compaia pignatta e non, come puntualmente ho rilevato, pignata.
E la voce evoca o, almeno spero che ancora lo faccia, ambienti, colori, profumi sapori e perfino saperi della nostra terra, in cui la pignata è ancora insostituibile per cuocere, come natura e saggezza antica hanno consigliato da millenni, i legumi, la carne di cavallo e il polpo, tutti, appunto, a pignatu. Non deve sorprendere in pignatu il cambio di genere, perché pignato è attestato oltre che in altri autori meno famosi, nel Candelaio di Giordano Bruno, che uscì nel 1582. Bisogna, però, rivendicare al salentino una maggiore creatività per via del diminutivo pignatieḍḍu, che in triplice esemplare celebra il suo trionfo nello stemma parlante della famiglia Pignatelli, con il massimo della coerenza in Iacopo (1625-1698), nato a Grottaglie …
(Tavola tratta da Consultationes canonicae, De Tournes, Lione, 1775)
E mi piace chiudere con un’informazione destinata a quell’unico lettore che ha avuto l’eroica (per me, per altri perversa) perseveranza di seguirmi fin qui e che, preso dall’entusiasmo (!) ha intenzione di comprarne una per farle vivere nuove, calde esperienze: la pignata non serve a preparare la frittata, anche se uno dei tanti sedicenti esperti e, nel nostro caso di linguistica, prima in circolazione solo la domenica, oggi tutta la settimana, è riuscito con la pignata a fare l’esilarante frittata che di seguito vi servo insieme col suo prezioso link (affrettatevi a controllare, perché blog di questo tipo hanno fiutato l’affare, ma, nel momento in cui lo sponsor li abbandona in quanto non più produttivi, improvvisamente scompaiono), dopo aver osato evidenziare anche con la sottolineatura il fuoco d’artificio degno finale di un simile spuntino …
1 Pubblicato in Annali bolognesi, s. n., Bassano, 1789, v. II, p. II, p. 220
2 Chronica Fr. Salimbeni Parmensis Ordinis Minorum ex codice Bibliothecae Vaticanae nunc primum edita, Ex officina Petri Fiaccadorii, Parmae, MDCCCLVII, p. 407
3 Alfredo Stussi, Testi veneziani del Duecento e dei primi del Trecento, Nistri Lischi, Pisa,1966, doc. n. 77 a p. 124)
4 Per alcuni la somiglianza riguarderebbe l’intero contenitore, per altri il coperchio col suo pomello terminale; a nessuno è venuto in mente che la disposizione delle brattee sembra aver ispirato la messa in opera delle tegole e, se si pensa che pignata in salentino è anche la tegola (mentre l’italiano pignatta designa un laterizio differente), il passo dalla pigna alla pignata/pignatta è veramente breve. Breve, come il passaggio dalla vita alla morte, se si pensa che tegola (insieme con teglia) è dal latino tegula(m)=padella, tegame, pentola, casseruola, a sua volta dal verbo tègere Iil cui participio passato, tectum, ha dato vita a tetto; tetta ha altro etimo …)=coprire, per cui ricordo che una sola tegola fungeva spesso da piccola bara nelle sepolture infantili. Per completezza d’informazione dico pure che la pigna non è la sola indiziata di aver messo alla luce la pignata: per esempio, Giovanni Battista Pellegrini mette un campo un’altra trafila che, parte dall’aggettivo latino pinguis=grasso, attraverso una seconda tappa il cui arrivo per me resta sub iudice, giunge a pignatta: pinguis>*(ollam) pinguiottam (pentola per conservare il grasso)>pignatta (Archivi Glottologico Italiano,61, 1976, pp. 165-172). Infine non va dimenticato il coppo, che della tegola è il sinonimo, imparentato semanticamente con la pignata, nonché figlio di coppa, che è dal latino tardo cuppa(m), di cui coppola è il diminutivo, as ua volta dal classico cupa(m), di cui cupola è il diminutivo, che poi ha trovato ridimensionamento opposto nella cupola per antonomasia, quella di S. Pietro, il Cupolone.
In questi giorni si è finalmente dato inizio al restauro del monumentale organo a balcone della Cattedrale di Nardò, del 1897, che da decenni è rimasto inattivo a causa di una grave infestazione di termiti, che avevano gravemente intaccato e corroso in più parti la struttura in legno di noce di sostegno, compreso il balcone e le parti scolpite di ornamento. Da anni si parlava dell’urgente azione di recupero, al fine di non perdere una delle opere più significative del massimo tempio presente in città.
Un po’ di storia
Nel corso degli importanti lavori di restauro eseguiti tra il 1892 e il 1899 nella Cattedrale, il vescovo tarantino monsignor Giuseppe Ricciardi (1890-1908) si preoccupò di dotare il sacro tempio di un nuovo organo polifonico a canne, per dare solennità alle cerimonie di inaugurazione e quelle che si sarebbero succedute nel tempo. Tutta la città contribuì alle ingenti spese dell’edificio, ma fra tutti si distinsero i fratelli De Pandi, che fecero realizzare a proprie spese il pavimento, la famiglia Vaglio, che offrì la balaustra del presbiterio, e Luigi Antico che fece restaurare a sue spese l’altare di S. Michele.
Dopo un primo preventivo dell’organaro barese Luigi Mentasti di Paolo, datato 1895, la scelta ricadde sulla ditta del cremasco Pacifico Inzoli, già impegnata per altri organi pugliesi e che lo realizzò nel 1897: PREMIATA E PRIVILEGIATA FABBRICA D’ORGANI/ CREMA/ INZOLI CAV. PACIFICO, come si legge sulla placchetta posta al disopra delle due tastiere.
La trattativa andò a buon fine anche per l’intermediazione del vescovo di Crema Ernesto Fontana (1830-1910), amico del nostro vescovo Ricciardi, del quale si conservano alcune lettere nell’archivio storico diocesano, in cui lo rassicurava circa il valore e la fama goduta dalla Casa d’organi “Pacifico Inzoli” di Crema: “…Fabbricatori d’organi a Crema si trovano quattro; ma Inzóli e Tamborini la vincono sugli altri: Inzoli poi credo che la vinca su tutti e che siasi acquistata una fama molto estesa e molto meritata. Egli è passionato dell’arte sua e costruisce gli organi secondo le esigenze delle leggi liturgiche e della musica sacra… Inzoli è uomo bravo, onesto e cristiano”.
La Casa era stata fondata in Crema nel 1867, premiata con medaglie d’oro e diplomi d’onore (all’Esposizione di Bologna nel 1888 e all’Esposizione Eucaristica di Milano nel 1895) e aveva già realizzato oltre 200 organi, tra i quali i monumentali per la Cattedrale di Cremona, per S. Ignazio in Roma, per il Santuario di Pompei.
In un vano ricavato nella struttura muraria perimetrale della navata destra, accanto alla cappella della Madonna delle Grazie o della Sanità, fu collocato l’organo a balcone su sue piani, dei quali il vano superiore fu riservato ai corpi fonici e la consolle, l’inferiore per la manticeria. L’elegante prospetto in legno di noce, la cassa e la cantoria, furono intagliati in stile neogotico, dagli stessi ebanisti della Scuola d’Arte di Maglie (LE), diretta da Egidio Lanoce (1857-1927), che avevano realizzato il seggio vescovile, le ante dell’altare delle reliquie e i battenti lignei della porta che dalla cattedrale immette alla scala dell’episcopio.
Un’epigrafe marmorea in latino, posta nel 1898 sulla parete muraria, al lato destro della facciata dell’organo, ricorda come l’opera fu donata alla città dalla nobildonna Clementina Personè (1840 ca.-1899), moglie del barone Giovan Bernardino Tafuri di Melignano (1827-1900), che può essere così tradotta: “In questa chiesa dedicata alla Vergine, recentemente riportata al suo primigenio splendore, affinché le divine lodi risuonino alte e muovano i cuori dei fedeli di Cristo ai pietosi affetti, Clementina Personè, moglie di Bernardino Tafuri, curò a sue spese questo campione della musica e della cosa sacra, con solerzia, nell’anno 1898” (traduzione di Elsa Martinelli).
Primo organista del nuovo organo accordato sotto la diretta revisione dell’Inzoli fu il neritino Giovanni Boccardo, conosciuto col cognome di Manfroci perché allevato ed educato dalla famiglia Manfroci, poco noto ma organista di grande livello. Non da meno fu il successore Maestro Egidio Schirosi (1895-1991), che fu anche direttore e compositore, che amava definirsi “organista dell’insigne Basilica Cattedrale”.
Note tecniche dell’organo di Nardò
L’organo, entro tre campate in altrettante cuspidi (7/7/7), mostra n. 21 canne in zinco dalle bocche non allineate, con andamento contrario a quello delle sommità, con labbro superiore a scudo. Nota della canna maggiore: Do1 del Principale 8. Due tastiere originali, a finestra, di n. 58 tasti (Do1-La5): diatonici ricoperti in osso, cromatici in ebano. Trasmissione meccanica a bilico. Gran’Organo al manuale inferiore, Espressivo al superiore. Pedaliera originale, diritta, di n. 27 pedali (Do1-Re3). Trasmissione meccanica con leva pneumatica Barker. Registri azionati da pomoli, a tiro, in quattro colonne ai lati delle tastiere: 5+4 pomoli a lato sinistro, 4+5 pomoli a lato destro.
In questi giorni, dopo una lunga sofferenza, Filippo Giacomo Cerfeda ci ha lasciato.
Lo chiamavano Professore e, per quanto avesse insegnato Religione nella scuola primaria, era un titolo che meritava a pieno, anche senza aver avuto incarichi accademici, non solo per la laurea magistrale in Lettere e quella in Scienze religiose, non solo per il diploma in Archivistica, ma per la sua grande cultura, la sua notevole competenza nello studio degli archivi, la sua capacità di inquadrare una notizia, pescata nelle polverose carte, dandole la giusta dignità.
Chi lo ha conosciuto non potrà mai scordare il garbo della relazione, la generosità nel mettersi a disposizione, la lealtà e la profondità della sua amicizia, per chi ha avuto il privilegio di goderne. Ma quello che mi ha sempre colpito di lui, da quando quasi cinquant’anni fa ci conoscemmo, era la grande passione che metteva in quello che faceva.
Frequentavamo una palestra di karate e lui, persona mite, non incline alla violenza, sapeva cogliere dell’arte marziale il senso del controllo, la disciplina e la concentrazione e ci metteva tutta la passione che poteva, passione che, nella nostra lunga frequentazione, ho potuto sperimentare in tutte le cose che faceva e che trasmetteva a chi lavorava con lui e a chi gli stava vicino.
L’anno scorso abbiamo pubblicato con Gino Tarantino un libro sulle iscrizioni epigrafiche a Spongano. Riprendeva un progetto giovanile, ma sembrava difficile, se non impossibile da realizzare: lui a Padova per curarsi, io a Loano, Gino a Lecce. Eppure, lui c’era sempre, nonostante il progredire della malattia, e quando la spinta propulsiva si assopiva, con la sua passione ci scuoteva e ci ridava uno stimolo a proseguire e aveva nuove idee, nuove proposte.
Diplomatosi presso l’ITIS capì presto che il suo talento non era in quell’ambito e dopo essersi laureato in Scienze religiose per dedicarsi all’insegnamento, continuò a studiare per laurearsi in Lettere, genuino punto d’approdo e riconoscimento di quei meriti non solo accademici, ma conseguiti faticosamente sul campo.
Era vicepresidente e fondatore della Sezione Sud-Salento della Società di Storia Patria, apprezzato dai soci e dai lettori, e membro del Consiglio Nazionale del Centro Studi Storici e Socio-religiosi. Tutte cariche prestigiose, ma di lui non ricordiamo la vanagloria o il compiacimento, quanto il lavoro duro con le maniche rimboccate a produrre una mole di scritti rigorosi e sempre molto interessanti, tutti intesi come dono: dono a noi lettori che aspettavamo quelle chicche che ci hanno fatto scoprire e riscoprire la nostra storia e la nostra memoria.
Per anni ha collaborato alla custodia dell’Archivio Diocesano di Otranto con discrezione e disponibilità, raccogliendo il plauso della Curia e degli utenti, acquisendo competenze ed esperienze che sarebbero state il veicolo di tante scoperte.
Negli ultimi anni non aveva smesso di ricercare negli archivi curiali, ma aveva orientato le sue ricerche anche verso gli Archivi di Stato ed in particolare verso quei fondi notarili che, fra atti apparentemente freddi talvolta insignificanti, parlano della vita di tutti i giorni fatta di proprietà, liti, doti, trapassi… che ci fanno conoscere un mondo ormai scomparso, come una macchina del tempo.
Particolare attenzione aveva posto alle Confraternite, templi spirituali fatti di uomini e così aveva prodotto pubblicazioni sulle Antiche Confraternite di Ortelle, di Giuggianello (Mater pauperum: la cappella della Madonna dei poveri e la Confraternita dell’Assunta a Giuggianello), della sua Diso (Luoghi di sepolturadella Confraternita Maria S.S. Immacolata di Diso) e l’amatissima Confraternita dell’Immacolata di Spongano a cui aveva dedicato un bellissimo volume: Loquar ad cor eius.
Ogni volume era una fonte di informazioni, di storie e di storia, un racconto di uomini che con le loro opere e le loro preghiere, si elevavano verso Dio, ma erano anche un modo per farci comprendere quali erano i meccanismi burocratici e spirituali che queste pratiche comportavano e come quei sodalizi diventassero relazione stretta al punto da portare gli associati a chiamarsi confratelli. E dietro a ogni volume c’era un lavoro di ricerca, di studio approfondito e un’analisi dei documenti, con quel rigore da storico di rango e studioso scrupoloso che gli era proprio.
L’ultima sua pubblicazione, Iscrizioni latine a Spongano, nasceva, come ho detto, da un progetto giovanile messo da parte e ripreso. In questa occasione io e Gino abbiamo potuto sperimentare quella disciplina che non poteva mai mancare, sia che scrivesse per un giornale locale, sia che scrivesse per una rivista di rango, sia che pubblicasse un libro prestigioso.
Nel preparare le schede delle epigrafi volle che ognuna fosse catalogata e presentata secondo le disposizioni date dalla Società di Storia Patria, e lo faceva senza sicumera, senza alterigia, ma con dolce e garbata benevolenza e, anche se il compito diventava più faticoso, non potevi far altro che ammettere che aveva ragione. Un’esperienza davvero edificante e importante per la formazione di chi, come me, ha avuto il privilegio di farla.
Per non parlare poi delle pubblicazioni uscite su riviste prestigiose come gli Annali sella Società di Storia Patria o l’Idomeneo.
Ogni documento, che ritrovava negli Archivi diocesani, di Stato, delle parrocchie, negli archivi comunali, privati o notarili, diventava fonte di interesse e potenziale storia da raccontare con la sua scienza archivistica e con la sua arte pedagogica, capace di arrivare sia a un pubblico di lettori di alto livello sia a una platea meno colta.
Era per questo che tutti lo cercavano e lui, di buon grado, non si sottraeva a questo compito.
Molti Comitati hanno potuto inserire suoi scritti nei libretti che, come unico scopo avevano quello di presentare il programma della festa e spesso diventavano un ricettacolo di reclame; quegli articoli diventavano regali preziosi da godersi e ogni anno li si attendeva con ansia. Se il Comitato era lungimirante, allora poteva nascere un libretto come Civium Patroni che parla dei protettori della sua Diso, o il volumetto scritto con don Adelino Martella Sacre Reliquie: culto e storia nella Chiesa e in Diso che, insieme, tracciano una storia civica davvero fondamentale per quella comunità.
Seppure la sua ambizione e il suo livello potessero consentirgli di collocarsi, di buon grado, in riviste importanti, non disdegnava di scrivere per pubblicazioni locali dove sapeva di trovare sinceri estimatori che trattava con lo stesso riguardo di lettori più importanti. Credo che quell’affetto popolare, genuino e sincero fosse gradito come i premi che aveva ricevuto (Premio Nazionale Foglia di Tabacco e Premio Spighe di grano nel 2007).
Lo cercavano anche le istituzioni che capivano che la memoria è parte fondamentale di una identità comunitaria e che una memoria raffazzonata non solo non serve a nulla, ma può fuorviare. Da questa consapevolezza sono nati libri come Andrano e Castiglione d’Otranto nella storia del sud Salento, curato con Salvatore Coppola e Luigi Moscatello, dove trova posto un suo scritto molto interessante su Il culto di Santa Maria Maddalena e l’istituzione della fiera, oppure un convegno sulle Vicende politiche e la vita religiosa a Diso e Marittima nell’età moderna curato con Salvatore Coppola e dedicato al suo compianto Maestro monsignor Vittorio Boccadamo, con un suo contributo molto importante sui conventi francescani di Diso e Marittima e il corposo capitolo di iscrizioni epigrafiche di Diso, Marittima, Andrano e Castiglione nel libro edito da Congedo nel 2002 di Iscrizioni latine nel Salento.
Ricordiamo anche Presente!, un libro sui militari disini caduti nella Prima guerra mondiale e le loro imprese significative, scritto con Salvatore Coppola, o come, Luci nel silenzio di Dio, la biografia di don Vittorio Corvaglia, patrocinata dal Comune di Spongano e curata da lui con la collaborazione di Cristina Alemanno e Nicola Alemanno, dove lo storico raccoglie documenti e li presenta non senza far trasparire un tenero ricordo; ma non va dimenticato anche il libro su padre Francesco Marti, scritto con M.Vittoria Marti.
Rilevante poi il volumetto che raccoglie gli atti del convegno fatto per celebrare i 230 anni dalla costruzione di uno dei luoghi più cari del nostro cuore, come la cappella di San Vito a Ortelle, Vitus colitur coliturque Marina, oppure ancora il volumetto Il tesoro nascosto della Cattedrale di Castro…e non finiremmo più di elencare, perché anche l’articolo su monsignor Gorgoni, o quello su mons. Cuccarollo, vescovo buono, o quello su Depressa o quello su Tisi polmonare e Cholera morbus… sono delle vere e proprie monografie.
Oggi restiamo attoniti, scossi, per quanto la notizia non fosse inaspettata, e penso: se noi restiamo smarriti cosa provano la moglie Grazia, i figli Donato, Chiara, Antonio Maria, il fratello Luigi e tutti i suoi cari, cui mancheranno le amorevoli cure, la saggezza antica, la dignitosa accettazione delle avversità, la sua presenza attenta e affettuosa?
Certo oggi è il tempo del dolore, della perdita, ma quella sua resilienza, che è fare cose buone anche nelle avversità, quell’esempio di onestà e di lavoro che non si arrende alle scorciatoie, quella fedeltà ai principi di carità e umanità, quella lealtà, quell’amore e quella vicinanza… la ritroveranno ogni giorno e quando avranno un dubbio il pensiero di lui li aiuterà a trovare la risposta e anche le generazioni future lo conosceranno attraverso le loro e le nostre parole.
Non resta che stringerci a loro con affettuosa vicinanza e riprometterci, come dicono gli amici della Società di Storia Patria, di mantenere vivi il ricordo, la memoria, la consapevolezza del suo valore e l’affetto che ci hanno legato a lui. Non lasceremo che la sua eredità spirituale di impegno e di studio, vada dispersa e i suoi valori traditi.
Anche io sono convinto, come gli amici della Società di Storia Patria, che Filippo sarà, come sempre, accanto a noi, quando lo cercheremo, così come noi saremo sempre, con il cuore, accanto a lui.
A dicembre dello scorso anno rispondendo a una lettera sul bilancio dell’Associazione Panara Antica, diceva: “… Che dire! Sei stato molto preciso e dettagliato nel riferire ogni singolo aspetto delle attività svolte in questo anno che ormai volge al termine. Sono contento e onorato di ciò che ho potuto fare ed offrire alla stessa Associazione ed alla Comunità di Spongano. Spero che tutto sia di tuo gradimento. Meriti tutto questo. Con te e con Gino Tarantino ho lavorato intensamente e cordialmente. Per il prossimo anno 2023 rinnovo il mio ADSUM (Eccomi, ci sono, sarò con voi, al vostro fianco) sperando che il Signore mi dia salute e lucidità di mente.
Mi vengono in mente le parole dell’apostolo Pietro all’uscita dal Tempio di Gerusalemme quando incontra un povero malato e paralitico: “Non ho né oro né argento, ma tutto quello che ho te lo do: alzati e cammina”. E la fede dell’apostolo lo guarì.
Anche io non ho né oro né argento, ma tutto quello che ho l’ho messo a vostra disposizione. Saluti a tutti voi.”
Ci hai amorevolmente illuso, amico caro, anzi noi abbiamo voluto illuderci, ma resterai vicino a noi, comunque, e il tuo ricordo sarà per noi risorsa e stimolo, perché i beni materiali si perdono, ma quello che ci hai dato non lo perderemo mai.
Brindisi arcaica: i miti di fondazione e le origini ateniesi*
di Nazareno Valente
Per i Greci non tutti i barbari erano valutati alla stessa stregua, nel senso che c’era, tra coloro che parlavano un idioma diverso dal loro, chi si distingueva potendo contare su antiche origini in un qualche modo riferibili a quelle greche. È il caso, ad esempio, degli Etruschi e dei popoli che risiedevano in Calabria che, ricordiamo, era la denominazione geografica data dai nostri antichi conterranei alla penisola Salentina — più comunemente chiamata Messapia, in onore del coronimo prescelto dagli “invasori”venuti dalla Grecia e che a quel tempo era abitata dai Calabri (residenti nell’Alto Salento e nella costa adriatica sino ad Otranto) e dai Sallentini (nel Basso Salento e in parte della costiera ionica).
Per Erodoto, i Calabri ed i Sallentini erano ritenuti discendenti dei Cretesi che, sorpresi da una tempesta, erano stati scagliati sulla costa salentina dove, non avendo più le navi per tornare in patria, avevano deciso di rimanere1. Con qualche variante, lo stesso mito era riportato da Conone2, e le stesse origini cretesi venivano assegnate agli abitanti del Salento da Strabone3, da Ateneo4 e da Solino5, Varrone6 e Verrio7 prevedevano, oltre ai Cretesi, il concorso di gente proveniente dall’Illirico e dalla Locride ed infine Plutarco8 aggiungeva ai Cretesi il solo apporto degli Ateniesi. In controtendenza con queste tesi il solo Nicandro di Colofone, il quale assegnava agli indigeni un’origine illirica. Raccontava appunto che Licaone, giunto sulle coste adriatiche con un esercito in gran parte formato da Illiri guidati da Messapio, aveva scacciato chi vi risiedeva e assegnato agli Illiri la regione della Messapia9.
Occorre in aggiunta premettere che le coste del Basso Adriatico erano rimaste estranee all’attività colonizzatrice dei Greci, non già perché questi non ci avessero provato, quanto piuttosto per il fatto che non erano riusciti a prevalere. I Calabri ed i Sallentini s’erano sempre saputi far rispettare ma ciò nonostante avevano dovuto subire l’influsso del mondo greco con cui avevano instaurato un rapporto prevalentemente di carattere commerciale. La via settentrionale, com’era chiamata la rotta che portava i Greci nel Mediterraneo occidentale, toccava pure i centri costieri dell’allora Calabria e, soprattutto, Otranto e Brindisi. Ed era forse da queste frequentazioni che trovavano alimento le leggende di fondazione via via confezionate. Far passare che un certo luogo aveva antiche origini assimilabili alle proprie, era in effetti un modo come un altro per i naviganti di metterci il cappello sopra e di potersi così servire di approdi più affidabili e sicuri. E forse proprio per questo aspetto, Brindisi, allora città di gran lunga la più rinomata della zona, fruiva di un particolare privilegio nella creazione dei racconti di fondazione che utilizzavano per altro anche figure mitiche e non solo generici coloni.
Una delle più fantasiose viene desunta da Stefano Bizantino10, un grammatico di Bisanzio, che faceva derivare il nome di Brindisi («Βρεντέσιον», Brentesion), oltre che dalla classica configurazione del suo porto simile alla testa d’un cervo, da Brento, figlio di Ercole («ἀπὸ Βρέντου Ἡρακλέους»). Quello stesso Brento che incontrollate dicerie vorrebbero addirittura in competizione con il padre nella costruzione delle Colonne, posizionate sulla collina settentrionale della città. Colonne che, in aggiunta, ancora adesso sono spacciate per terminale simbolico della via Appia. Ora, sebbene nessuna fonte narrativa antica dia per esplicito che Brento sia mai stato fondatore della nostra città, lo si vocifera, e la cronachistica locale lo reputa addirittura con certezza tale, ricavandolo in maniera forse sin troppo azzardata dalla sola ricostruzione dell’etimo compiuta da Stefano Bizantino.
Diomede e Teseo tra i possibili fondatori di Brindisi
In quel periodo Brindisi non era un porto molto disponibile agli approdi ed ai commerci generalizzati, malgrado ciò la presenza soprattutto ionica vi era tuttavia evidente, rinvenibile per l’appunto nel patrimonio leggendario d’un lontano passato. E forse proprio questa assiduità delle popolazioni ioniche rappresenta di fatto una delle poche, se non l’unica, verità contenuta in questi miti delle origini, insieme alla propaganda di carattere politico e sociale di cui essi si facevano probabilmente strumento. Collegandosi ad età molto indietro nel tempo, i racconti prevedevano infatti il coinvolgimento di personaggi più mitici che storici, per cui per la fondazione di Brindisi gli autori antichi erano dibattuti se assegnarne il merito a Diomede o, addirittura, al leggendario Teseo. Per quanto riguarda il primo, occorre dire che il suo rapporto con Brindisi era però alquanto controverso.
Presentato come eroe civilizzatore, Diomede ricopre il ruolo di ecista in molte leggende delle città della costa adriatica sino all’estremo e misterioso Timavo, per quanto il suo culto era particolarmente vivo in Daunia. Brindisi, se fosse stata da lui effettivamente edificata, risulterebbe la città più a sud della costa occidentale e, in aggiunta, alquanto lontana dalle zone in cui l’eroe comunemente operava in queste vesti. Sebbene siano due le testimonianze che lo vogliono fondatore della nostra città, la più tarda di esse — quella di Isidoro — non è altro che un copia ed incolla succinto della versione di Trogo, pervenutaci tramite Giustino, che è quindi l’unica ad avere un certo valore documentario.
Nella sua epitome di Trogo, Giustino narra appunto che, «durante la spedizione compiuta in Italia da Alessandro il Molosso, il condottiero epirota fece per prima guerra agli Apuli. Tuttavia dopo aver saputo di quanto era avvenuto in passato alla loro capitale, decise di fare pace e di stipulare accordi con il loro re. Allora, infatti, capitale dell’Apulia era Brindisi, città fondata dagli Etoli guidati da Diomede, condottiero assai stimato e noto per la fama delle imprese compiute a Troia; costoro scacciati dagli Apuli, s’erano recati a consultare gli oracoli, ottenendo il seguente responso: il luogo che avessero chiesto in restituzione, sarebbe rimasto in loro possesso in eterno. Essi dunque tramite gli ambasciatori e dietro minaccia di guerra, intimarono agli Apuli di restituire loro la città. Ma quando gli Apuli vennero a conoscenza dell’oracolo, massacrarono gli ambasciatori e li seppellirono nella città, che divenne così per essi una perpetua dimora. E così, morti, possedettero a lungo la città, come previsto dal responso. Venuto a conoscenza di questa vicenda, Alessandro, in piena osservanza degli antichi fati, si astenne dalla guerra con gli Apuli» («Igitur cum in Italiam venisset, primum illi bellum cum Apulis fuit, quorum cognito urbis fato brevi post tempore pacem et amicitiam cum rege eorum fecit. Erat namque tunc temporis urbs Apulis Brundisium, quam Aetoli secuti fama rerum in Troia gestarum clarissimum et nobilissimum ducem Diomeden condiderant; sed pulsi ab Apulis consulentes oracula responsum acceperant, locum qui repetissent perpetuo possessuros. Hac igitur ex causa per legatos cum belli comminatione restitui sibi ab Apulis urbem postulaverant; sed ubi Apulis oraculum innotuit, interfectos legatos in urbe sepelierant, perpetuam ibi sedem habituros. Atque ita defuncti responso diu urbem possederunt. Quod factum cum cognovisset Alexander, antiquitatis fata veneratus bello Apulorum abstinuit»11)..
S’è riportato per intero il racconto di Giustino per consentire a chi lo desideri di analizzare in maniera del tutto autonoma il pezzo che contiene un possibile evidente errore. Brindisi era infatti al tempo in cui scrivono i due storici una località della Calabria e non dell’Apulia che, a grandi linee, corrispondeva all’attuale Puglia centro-settentrionale. Non solo, essi la indicano capitale (urbs) dell’Apulia. Ora, salvo che Giustino non abbia travisato il pensiero di Trogo sulla collocazione e sulle funzioni di Brindisi — ma parrebbe alquanto strano trattandosi d’una città tra le più famose e rinomate del tempo — l’unica possibilità è che abbia riassunto il passo in maniera troppo sommaria. Nel senso che abbia tralasciato di riferire, forse considerandole informazioni scontate per i lettori, perché mai Brindisi fosse considerata in quel contesto facente parte dell’Apulia, nientemeno poi nelle vesti di città principale, e come mai si trovasse ad esercitare una simile egemonia. In effetti, come vedremo in uno dei prossimi interventi c’è una possibile risposta a queste apparenti incongruenze, che indurrebbe a credere che con ogni probabilità non si ha a che fare con una svista o, peggio ancora, con un banale errore ma con un’incomprensione dovuta ad un eccesso di sintesi.
Altro aspetto interessante da rimarcare è che in genere erano i barbari a fare le spese di certi sofismi, sopraffatti dall’acutezza e furbizia dei Greci, mentre questa volta sono proprio gli indigeni che mettono in campo in modo perfido l’astuzia, sfruttando a proprio vantaggio il responso degli oracoli e rendendo così vani i tentativi degli Etoli di riappropriarsi della città. In ogni caso, questo fa capire ad Alessandro il Molosso che non si sta rapportando con degli sprovveduti, e ciò lo convince a scendere a più miti consigli ed a desistere dal condurre una strategia troppo aggressiva.
Tranne Trogo ed Isidoro, che però come già riferito non fa altro che copiarlo, nessun altro considera Diomede fondatore di Brindisi, che anzi il più delle volte si trova schierata in campo avverso e viene citata come città a lui ostile.
È per esempio il caso degli “Excerpta Politiarum” di Eraclide Lembo, dove Diomede combatte al fianco dei Corciresi contro i Brindisini12, oppure delle “Metamorfosi”, dove Antonino Liberale, forse ripetendo Nicandro di Colofone, fa intervenire l’eroe greco in aiuto dei Dauni impegnati a guerreggiare con i nostri concittadini ed i Messapi tutti13. In questo secondo caso, è ricordato il mito di Diomede che, di ritorno ad Argo dalle imprese compiute a Troia, viene a sapere dell’infedeltà della moglie Egialea, cosa che lo spinge a partire per l’Etolia. Qui giunto, dopo avervi compiuto l’impresa di rimettere sul trono il nonno Oineo, nel frattempo spodestato da Agrio, decide di ripartire per Argo. Una tempesta lo spinge però sulle terre dei Dauni ai quali dà appoggio nella guerra che stanno appunto sostenendo contro i Messapi, in cambio d’una parte del territorio che sarebbe stato conquistato14. Sbaragliati i nemici, Diomede riceve la terra promessa che distribuisce ai suoi compagni di viaggio15. Sicché più che da fondatore, Diomede si comporta da conquistatore ai danni dei Messapi e, quindi, dei Brindisini.
È da sottolineare che anche in questa occasione, i Brindisini parrebbero trovarsi fuori dal loro habitat usuale, perché occupano, all’arrivo dell’eroe greco, il territorio che in epoca storica era dei Peucezi, e non dei Messapi.
A parte questo, messi insieme i vari racconti, si può evidentemente desumere che Diomede strappò ai nostri concittadini parte del loro territorio, dove ebbero modo di stanziarsi gli Etoli che l’accompagnavano nelle sue peripezie; in seguito, tuttavia, i Brindisini si riappropriarono delle zone perdute riuscendo a scacciare gli invasori.
Molto più accreditato come fondatore appare così Teseo, sia per numero di testimonianze, sia per l’approccio che egli mostra d’avere con il territorio che intende colonizzare.
Il primo a parlarne è Strabone il quale ricorda che anche Brindisi, come altre città dell’allora Calabria, fu fondata dai Cretesi, solo che per essa giravano due diverse versioni: la prima rinviava a Cretesi giunti da Cnosso con Teseo; la seconda a quelli che ritornavano dalla sfortunata spedizione condotta da Minosse in Sicilia («Βρεντέσιον δ᾽ ἐποικῆσαι μὲν λέγονται Κρῆτες οἱ μετὰ Θησέως ἐπελθόντες ἐκ Κνωσσοῦ, εἴθ᾽ οἱ ἐκ τῆς Σικελίας ἀπηρκότες μετὰ τοῦ Ἰάπυγος (λέγεται γὰρ ἀμφοτέρως)»16). In entrambi i casi, però, questi Cretesi non rimanevano a Brindisi ma finivano per abbandonarla intenzionati a dirigersi verso la Bottiea («οὐ συμμεῖναι δέ φασιν αὐτούς, ἀλλ᾽ ἀπελθεῖν εἰς τὴν Βοττιαίαν»17).
In altra parte della sua opera Strabone precisa che non tutti, ma solo alcuni (τινὰς) di essi avevano poi raggiunto a piedi la Macedonia, dopo aver fatto il giro della costa adriatica, e si erano stabiliti lì assumendo il nome di Bottiei18.
In maniera molto più poetica il fatto è narrato anche da Lucano il quale, riferendosi a Brindisi, la dice «città un tempo posseduta dai coloni Dittei che, profughi da Creta, navi cecropie trasportarono attraverso il mare, quando le vele diedero la falsa notizia che Teseo era stato vinto» («urbs est Dictaeis olim possessa colonis, / quos Creta profugos vexere per aequora puppes / Cecropiae victum mentitis Thesea velis»19). Ora i Dittei, non sono altro che i Cretesi — Ditte è infatti l’antico nome di un monte di Creta — e, con la locuzione navi cecropie, il poeta intendeva indicare navi ateniesi, essendo Cecrope il mitico primo re di Atene. In pratica Lucano inserisce la fondazione di Brindisi da parte di Teseo all’interno della leggendaria impresa da questi compiuta per sconfiggere il Minotauro e, di conseguenza, liberare Atene dal tributo dovuto a Creta.
Più esplicito in tal senso è l’anonimo Secondo Mitografo Vaticano il quale narra20 che Atene, sconfitta da Minosse, era stata costretta a consegnare ogni anno ai Cretesi sette fanciulle e sette giovani perché fossero abbandonati nel labirinto di Cnosso e servire da pasto del Minotauro. Nel quarto anno, quando la nave che doveva trasportare le vittime era già pronta nel porto, Teseo, figlio del re ateniese Egeo, decise d’imbarcarsi a sua volta per risolvere la questione. Invano il padre cercò di dissuaderlo dall’impossibile impresa; ottenne solo di poter consegnare al nocchiero un nero vessillo da mettere sull’albero più alto della nave, con l’intesa, che qualora avessero sconfitto il Minotauro, sarebbe stato sostituito da una bandiera bianca. Teseo, con l’aiuto di Arianna, riuscì nell’impresa ma nessuno si ricordò di sostituire il vessillo, sicché, al loro ritorno, Egeo, trovandosi su un altissimo scoglio, vide sventolare la bandiera nera e, credendo che Teseo fosse stato ucciso dal Minotauro, per la disperazione si precipitò nel profondo del mare. Per questo quel mare prese da lui il nome di Egeo, e Teseo, a sua volta, «navigando via dalla patria venutagli ad odio, giunse in Italia e fondò Brindisi» («Theseus vero odio loci inde navigans; ad Italiam venit, et Brundusium condidit»21).
L’alleanza tra Brindisi ed Atene
L’aspetto più interessante da cogliersi nella versione inaugurata da Lucano è che la fondazione di Brindisi da parte dei Cretesi rende più esplicito il collegamento della città con Atene. Per tale motivo, è da ipotizzarsi che questa leggenda di fondazione faccia parte della propaganda ateniese per avanzare un qual certo diritto di possesso del luogo o, quantomeno, una priorità nell’uso del porto brindisino. Si deve infatti considerare che, almeno sino a quando le loro attenzioni non si volsero verso la Sicilia, gli interessi prevalenti ateniesi verso l’occidente erano i più remoti siti dell’Alto Adriatico che presupponevano, per giungervi, di poter fruire della ospitalità dei pochi scali certi che la costa occidentale dell’Adriatico offriva. La propaganda serviva inoltre a dare luce alla città di Brindisi, fiera antagonista di Taranto, a sua volta colonia di Sparta acerrima rivale di Atene, e darle un alone di nobiltà.
Il che manifesta in maniera evidente l’esistenza di un’alleanza tra Brindisini ed Ateniesi, avviata già in epoca arcaica, che con ogni probabilità permetteva a questi la certezza dell’uso dell’approdo brindisino nei loro viaggi commerciali verso l’estremo nord ed a quelli di godere, quando occorreva, dell’aiuto militare nello sforzo bellico compiuto per limitare l’espansione territoriale di Taranto e delle altre città italiote ad essa ostili.
Alleanza a livello istituzionale — occorre ricordarlo — per lo più negata dagli storici che, al massimo, la connettono a casuali accordi stipulati da qualche dinasta calabro, come avvenne nel caso di Artas, facente parte di una preziosa testimonianza tramandata da Tucidide nel contesto della spedizione decisa da Atene per soccorrere la propria armata impegnata con poca fortuna nell’assedio di Siracusa.
Siamo nel 413 a.C. quando Demostene e Eurimedonte conducono la flotta di soccorso raggiungendo le Cheradi, isole dette della Iapigia, dove imbarcano sulle navi centocinquanta lanciatori di giavellotto messapi, forniti appunto dal dinasta Artas, dopo aver «rinnovato un antico patto di amicizia» («ἀνανεωσάμενοί τινα παλαιὰν φιλίαν»)22.
Il passo di Tucidide ha dato origine ad un ampio dibattito esegetico e topografico, in particolare su come debba essere inquadrata cronologicamente la palaià philia (antica amicizia) citata nel testo, e sulla possibile identificazione delle citate isole Cheradi.
Per quest’ultimo aspetto, considerato che nella penisola salentina vi sono solo due gruppi di isole che fanno al caso nostro — o quello di fronte al Mar Grande di Taranto o le Pedagne di fronte al porto di Brindisi — non ci dovrebbe essere grande imbarazzo nella scelta che sembrerebbe obbligata per il piccolo arcipelago brindisino. Le isole tarantine si trovavano infatti in una zona preclusa sia agli Ateniesi sia ai Calabri di Artas, per le ovvie ragioni che la città ionica era nemica giurata di Brindisi e parimenti ostile ad Atene, in quanto colonia spartana e in più alleata a Siracusa. Pertanto le uniche isole adoperabili per l’incontro erano le attuali Pedagne, in territorio calabro. Al contrario gli storici, in maniera forse azzardata, valutano che l’abboccamento e l’accordo tra Artas e gli Ateniesi sia avvenuto in territorio dichiaratamente nemico, tanto è vero che, proprio in base a questa loro certezza, all’arcipelago tarantino è stato attribuito poi il nome di Cheradi. Appare, però, di fatto bizzarro che Artas e gli Ateniesi, pur disponendo di altri luoghi da utilizzare per avere un vertice, abbiano deciso di farlo proprio in territorio nemico. Ne consegue che parrebbe del tutto scontato che le isole citate da Tucidide non possano che essere le Pedagne.
Tale ipotesi è tra l’altro confermata dal fatto che, in un precedente passo, lo storico dichiara espressamente che Taranto e Locri non fecero entrare gli Ateniesi nel loro abitato, né accordarono loro acqua e ormeggio23, e in definitiva impedirono anche il semplice approdo nel territorio di loro competenza. A maggior ragione, appare improbabile che potessero consentire lo scalo ai Calabri di Artas, loro tradizionali nemici.
Altra strana interpretazione viene data in merito al termine “antica” adoperato da Tucidide nell’indicare il patto di amicizia in atto tra Ateniesi e Messapi. A tale termine non viene infatti assegnato il significato che gli è più proprio, vale a dire di qualcosa di avvenuto in epoca remota, quanto piuttosto in un periodo vicino ai fatti narrati. Di conseguenza gli storici sono per lo più categorici nel negare la possibilità che i patti richiamati fossero stati stipulati in un lontano passato. Eppure le poche prove di cui si è in possesso indurrebbero a credere esattamente il contrario.
È storicamente accertato che anche nei secoli precedenti Atene aveva interessi commerciali nelle città dell’Alto Adriatico e, quindi, la necessità di trovare sicura ospitalità nelle poche strutture portuali disponibili sulle coste del versante italiano. Ed in tale ottica grande importanza rivestiva appunto la costa salentina del Basso Adriatico, dove si arrivava dopo avere affrontato il mar aperto: l’impossibilità di fruire di approdi certi in quel luogo avrebbe potuto mettere a repentaglio una navigazione, allora prevalentemente basata sul cabotaggio, e costituire un rischio talmente elevato da precludere ogni possibile viaggio in quella zona. Per cui parrebbe evidente che gli Ateniesi si siano dovuti premunire esercitando un controllo di un qualche tipo sui principali approdi calabri ed in particolare su quello di Brindisi, essendo essenziale per la buona riuscita della loro attività mercantile. Dal momento poi che Brindisi e le località calabre e salentine con essa alleate, seppure influenzate dal mondo greco, non subivano egemonie politiche di sorta, un tale controllo poteva essere attuato solo venendo ad accordi pacifici con la gente del luogo. Per evitare infine brutte sorprese, è evidente che non poteva trattarsi di accordi presi di volta in volta, oppure lasciati al caso o alla volontà di singoli dinasti, quanto piuttosto di intese attuate in maniera organica ed a livello istituzionale.
Ci sono pure riscontri concreti che valorizzano una simile ipotesi.
L’intenso commercio avviato da Atene con Adria e Spina è già di per sé un importante dato di fatto, ma anche il ritrovamento nelle coste adriatiche del Salento e nelle zone limitrofe di ceramica protocorinzia e ionica, rende manifesta la penetrazione culturale greca nella zona e, al tempo stesso, è un chiaro indice di come gli intensi commerci nell’Alto Adriatico non potevano prescindere da una assidua frequentazione dei punti più strategici del Basso Adriatico. C’è poi da rilevare che Thurii, unica colonia della Magna Grecia di ispirazione ateniese, è anche la sola tra le città italiote ad essersi alleata formalmente con Brindisi, come attestato dal caduceo conservato al Museo Nazionale di Napoli. Il fatto che nel V secolo a.C. ci fosse un unico caduceo, e quindi uno stesso araldo, del δαμόσιον Θουρίων (popolo dei Turi) e del δαμόσιον Βρενδεσίνον (popolo brindisino) testimonia di come si fossero subito istaurati buoni rapporti tra le due comunità. In maniera talmente spontanea da lasciare intuire preesistenti e operativi accordi tra Brindisini ed Ateniesi.
In definitiva, i miti di fondazione collegati alla figura di Teseo, eroe di chiara matrice ateniese, rendono evidente come Brindisi ed Atene trovarono naturale allearsi tra loro, condividendo una evidente e comune inimicizia per il mondo spartano.
I miti di fondazione che si rifanno a Diomede fanno invece presagire che forse la storia arcaica di Brindisi vada in parte riscritta. Diversamente da quello che in genere si racconta, prima della colonizzazione greca, l’egemonia esercitata dalla città non si limitava alle località a sud dell’istmo che la unisce a Taranto ed i suoi possedimenti erano, con ogni probabilità, ben più consistenti. Cosa questa che analizzeremo in futuro rivalutando alcuni frammenti narrativi cui la critica storica ha concesso in passato poco credito o scarsa importanza, oppure li ha ritenuti talmente oscuri da alterarne i contenuti, emendandoli.
* Tratto da N. Valente, Brindisi sconosciuta, Grenzi editore, 2023 (in vendita su Amazon https://amzn.eu/d/gmSjIxJ)
Note
1 Erodoto (V secolo a.C.), Storie, VII 170.
2 Conone (I secolo a.C. – I secolo d.C.), fr. 1. XXV, apud fozio (IX secolo d.C.), Biblioteca, 186, 25.
3 Strabone (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, VI 3, 5.
4 Ateneo (II o III secolo d.C.), Deipnosofisti, XII 24 523a.
5 Solino (III secolo d.C.), Raccolta di cose memorabili, 2, 10.
6 Varrone (II secolo a.C. – I secolo a.C.), Antiquitates rerum humanarum, III fr.VI Mirsch, apud ps –probo (…), in Vergilii Bucolica, VI 31.
7 Verrio Flacco (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Sul significato delle parole, fr. apud festo (II secolo d.C. – …), Sul significato delle parole libri XX, in Dacier, vol. II, Londra, pp. 807-808.
8 Plutarco (I secolo d,C. – II secolo d.C.), Moralia, 298-299.
9 Nicandro di Colofone (…),fr. 47 Schneider, apud antonino liberale (…), Metamorfosi, XXXI 1/3.
15Ibidem, XXXVII 3. Il mito prevede anche conclusioni meno a lieto fine: in una addirittura Dauno contravviene ai patti e, dopo aver consegnato la terra concordata, se la riprende. In questa versione Diomede muore, ucciso da Dauno, ed i suoi compagni vengono trasformati in uccelli simili ai cigni, in Tzetze (XII secolo d.C.), Scholia in Lycophronis Alexandram, vv. 594/632.
16 Strabone, Geografia, VI 3, 6.
17Ibidem.
18Ibidem, VI 3, 2.
19 Lucano (I secolo d.C.), La guerra civile, II vv. 610/612.
20 Secondo Mitografo Vaticano (tra il IX e il XIII secolo), II 124-125.
21Ibidem, II 125.
22 Tucidide (V secolo a.C.), La guerra del Peloponneso, VII 33, 3-4.
Sullo strano caso di tarantolismo esaminato dall’illustre medico cerusico Giuseppe Ferramosca in quel di Muro in Terra d’Otranto il 3 Giugno 1834
di Romualdo Rossetti
Nato a Muro[1] in provincia di Terra d’Otranto il 20 aprile del 1780 da Antonio Ferramosca, di professione medico-cerusico e speziale come lo era stato anche suo nonno Luca, e dalla nobildonna Teresa Foscarini, Giuseppe Ferramosca dimostrò fin da fanciullo di possedere lo sguardo di Asclepio[2] e quell’inclinazione all’esercizio dell’arte lunga ereditata dai suoi avi, tanto da decidere d’intraprendere gli studi medici a soli quindici anni d’età. Nel 1801 si trasferì nella capitale del suo Regno per perfezionarsi nella disciplina medica presso l’Università Regia degli Studi di Napoli. Lì divenne allievo del celebre medico filosofo massafrese Francesco Nicola Maria Andria[3] che lo orientò verso studi di carattere fisiologico che lo avrebbero più tardi avvicinato alla nuova concezione medica, per certi versi rivoluzionaria per l’epoca, legata alle concezioni di Philosophia Naturalis del medico scozzese John Brown che a partire dal 1778 aveva cominciato a elaborare una teoria iatrica detta “brownismo”o “eccitabilismo” basata sull’eccitabilità del cervello e delle fibre muscolari da parte dell’ambiente esterno.
Il medico scozzese si palesò sicuro delle sue tesi al punto da essere convinto che se gli stimoli esterni fossero venuti meno, si sarebbe configurata, conseguentemente uno qualsivoglia patologia fisica. Teorie, le sue che vennero combattute dai maggiori medici inglesi dell’epoca. Nonostante ciò si può affermare che il successo lo ricevette con gli interessi altrove, Italia compresa. Così, sulla scia del medico patologo parmense Giovanni Rasori, che nel 1792 aveva tradotto e divulgato in Italia gli Elementa Medicinae di John Brown, nel 1803, a Napoli, Ferramosca diede alle stampe la sua prima opera scritta intitolata: Il sistema di Medicina di Brown[4].
Secondo il “Brownismo” la vita nella sua essenza non era affatto uno stato normale e spontaneo ma, al contrario, andava concepita come fosse quasi uno stato artificiale, costretto e mantenuto da continui stimoli, per cui le condizioni di salute o di malattia dipendevano dalla dosatura degli stimoli, ovverosia dal grado di eccitabilità dei vari organi. Tuttavia, la pratica browniana palesava, di fatto quanto fosse arduo diagnosticare uno stato di astenia o di iperstenia e eventuali gradi eccitabilità in un paziente. L’accertamento dello stato di salute di un malato si basava principalmente su un’anamnesi di stimoli patiti in precedenza che erano inseriti in una vasta gamma di variabili, come potevano essere: le condizioni climatiche del luogo, il regime alimentare dell’individuo esaminato insieme al suo stile di vita, sulla misurazione del polso e soprattutto su “prove terapeutiche”, atte a esaminare la reazione fisica all’introduzione di sostanze stimolanti leggeri o forti. Secondo terapia browniana era necessaria una stretta e continua osservazione del paziente che di fatto risultava difficile da effettuare tanto in clinica quanto in ambito domiciliare. Oltretutto i trattamenti con stimolanti risultarono ben presto essere molto esosi per tutti quei malati non facoltosi. Anche il problema della dipendenza dalle droghe rischiava di divenire sempre più evidente. Alcuni commentatori contemporanei denunciarono alcuni eccessi di utilizzo di oppio e di alcol che finirono col nuocere ai pazienti. In ogni caso, con la sua enfasi sui trattamenti stimolanti e rinvigorenti il brownismo aveva generato anche dei seri dubbi sul valore della terapia evacuante classica costituita da prescrizioni di salassi, di purghe e di sostanze emetiche. Per molti pazienti indeboliti non solo dalla loro malattia, ma soprattutto dalla classica applicazione della dottrina galenica, risultò senza ombra di dubbio alcuno più vantaggioso un trattamento secondo i nuovi principi browniani. Fu proprio la vicinanza teorica all’eccitabilismo che fece diventare il Ferramosca un attento osservatore dei tanti casi di tarantolismo che ciclicamente affliggevano i contadini della sua terra, come vedremo più avanti nel dettaglio. L’anno seguente, nel 1804, a dimostrazione, del suo interesse per la scrittura e la ricerca medica pubblicò, sempre a Napoli un Trattato teorico-pratico sulla Podagra[5], male che affliggeva prevalentemente la classe agiata.
Al ritorno dalla sua parentesi universitaria partenopea, per la stima dei suoi concittadini divenne sindaco del suo paese dal 1827 al 1831e operò a favore delle politiche igieniche acquisite con l’abnegazione allo studio. Durante il suo mandato amministrativo individuò quale potesse essere migliore area dove erigere lontano dall’abitato il nuovo cimitero. Si scelse l’area adiacente al vecchio monastero basiliano di Santo Spirito che, ripristinato al culto cattolico e affidato alle cure dei Padri Predicatori dal feudatario Giovan Battista I° Protonobilissimo nel 1561[6], tanta fama aveva avuto in passato per la diligenza negli studi teologici e filosofici così come fedelmente ebbe modo di riportare lo storico Luigi Maggiulli nella sua Monografia di Muro Leccese:
Alla parte del Nord di questo diruto Convento si costruì il pubblico Cimitero, e quest’opera che tanto interessa la pubblica salute, la religione e la mesta memoria dei nostri che furono, venne eseguita non appena gli Amministratori Comunali ne compresero l’importanza e l’utilità. Governava nel 1830 il Distretto di Gallipoli il Sottintendente Filangieri ed il Comune Giuseppe Ferramosca, ed in quell’anno appunto si gettarono le fondamenta del Cimitero.[7]
La dedizione all’arte medica fece sì che intorno alla figura del dottor Ferramosca si consolidasse una sorta di legenda aurea tanto da farlo paragonare a una specie di medico anargiro di antico stampo. Circolava voce che un giorno, udendo per caso, il canto cristallino di un suo emaciato compaesano carrettiere, avesse inviato una sua donna di servizio a fermarlo e a invitarlo nel suo studiolo. Una volta giunti in loco il dottor Ferramosca lo avrebbe invitato a chiudersi in uno stanzino e a defecare in un alto pitale in cui precedentemente aveva disposto sul fondo del latte di mucca insieme ad altre non meglio specificate sostanze. Alle rimostranze dell’uomo, il dottore gli avrebbe imposto la sua volontà riuscendo a liberare gli intestini del malcapitato da un lungo creatura serpentiforme che non si sa come avesse trovato in quelli collocazione. Con gli occhi di oggi, molto più disincantati di quelli del popolino agricolo di quel tempo, quel lungo essere serpentiforme altro non sarebbe stato che una taenia che da parassita naturale aveva colonizzato, a causa delle scarse condizioni igieniche alimentari, l’intestino del malcapitato carrettiere.
Fu presumibilmente intorno alla prima estate del 1834 o alla mezza estate precedente[8], che giunse a Muro presso il suo ambulatorio una donna proveniente da Otranto che lamentava varie tipologie di sofferenze, in primis un forte bruciore alla laringe. Il dottor Ferramosca ebbe modo di annotare tutto ciò che accadde in sua presenza per pubblicarlo poi presso una prestigiosa rivista medica milanese a cura di Carlo Giuseppe Annibale Omodei intitolata Annali Universali di Medicina. In quella sua nota diligentemente descrisse quanto segue:
Maria Penna, di Otranto, da più giorni soffriva una straordinaria malattia nervosa, consistente in convellimenti generali, maggiori negli arti toracici, che alternavano con una specie di epistotono; la pupilla era mobile: si affacciavano vomiti con impeti continui di tosse, dietro la quale cacciava poco moccio, né vomitava sostanze alimentari, perché l’ammalata non prendeva cibo. Dopo breve tranquillità era presa da somma difficoltà di respiro, e di uno sospiro particolare indefinibile, e chiesta del suo stato, non potendo articolar parola, atteggiavasi in modo da esprimere il dolore, indicando la gola come sede di sua sofferenza. Le sostanze fetide aggravavaano le sofferenze, le quali non si calmarono dietro i bagni generali, i narcotici, i nervini. La musica consigliata da un altro medico, otto giorni dopo il principiar del male, indusse la inferma a danzare, dietro di che migliorò sorprendentemente il suo stato, rimanendo superstiti il cennato sospiro, la tosse ed i frequenti conati al vomito. Dopo sei giorni di miglioramento, ad un tratto dietro uno sforzo di vomito e di tosse si vede uscir dalla bocca dell’inferma una tarantola argentea attaccata al suo filo di ragnatela, ciò che fu seguito dalla guarigione di quella donzella. Sorpreso il dottor Ferramosca, cominciò ad indagare in qual modo la tarantola potè cacciarsi nella gola di quella donna, e rilevò, che la vigilia dello sviluppamento della malattia, erasi essa recata ad un vigneto con alcune sue giovani compagne, e colà avendo la prima trovato un grappolo di uva primáticcia già quasi maturo, pompa avendone fatto, accorsero le compagne perché di mano glielo togliessero, ed ella fuggendo a morsi a morsi ne trangugiò buona parte, senza aver tempo di ben frantumare gli acini masticandoli, ed in tal modo avea potuto ingollarsi quella tarantola che doveva trovarsi appiattata fra gli acini d’uva. Il carattere dignitoso e grave del signor Ferramosca, già noto qual distinto pratico per varj suoi medici articoli, non permette che abbia a ritenersi questo fatto come immaginato per esaltare gli animi degli appassionati del tarantismo.
Il singolare caso esposto dal Ferramosca sugli Annali Universali di Medicina del 1835 sollevò la critica dell’opera di Carlo Giuseppe Annibale Omodei che ebbe modo di addurre alcune interpretazioni divergenti, proprie del mondo medico di altre zone della penisola italiana, riguardo l’effettiva utilità di quella terapia coreutica (il ballo) da sempre ritenuta dai medici pugliesi come l’unica capace di placare le sofferenze dei tarantolati. Si esibì come riprova anche la testimonianza del dottor Migliari che esaminando un caso di morsicatura da tarantola nel bolognese ebbe modo di osservare una ben diversa evoluzione della malattia che non vide certo il malcapitato ballare come accadeva invece nel Salento, il che lasciava supporre che la terapia coreutico-musicale appartenesse proprio all’etnos dei pugliesi e non a quello di altri popolazioni:
Cosi ancor la pensa il chiarissimo cav. Migliari, il quale per altro lungi dall’accreditar l’opinione volgare, che la tarantola costringe a ballare coloro che ne sono morsicati, inclina a credere, che la danza sia l’effetto di quell’atrocissimo dolore, di quella indescrivibile smania, che al pari di quanto accade in altre malattie di cruccio, obblighi li pazienti a varj non indifferenti movimenti, che col saltellamento incominciano onde ritrarre dal dolore qualche sollievo. Inclina altresì a credere, che il ballo sia in tali casi l’effetto delle preconcepite idee dei pugliesi, e non del morso della tarantola, e che il suono sia il rimedio di quelle contrade e non della malattia. Confermasi egli in questa idea nel riflettere, che nel giovine morsicato dalla tarantola nel Bolognese (di cui esso parlò a pag. 99 del suo Osservatore Medico per l’anno 1825) si riscontrò in vece irresistibile tendenza al sonno ed estrema prostrazione di forze, e che senza ricorrere, anzi neppur pensare alla musica, guarj con rimedj tolti alla farmacia…
Nell’articolo degli Annali si rincarò la dose di deplorazioni riguardo quella terapia antiscientifica adducendo come riprova altre prestigiose testimonianze che ne smentivano, di fatto, l’efficacia:
…nel riflettere al coraggio del dottor Sanguinetti, che osò farsi dalla tarantola mordere nella più ardente stagione, senza riportarne alcun male: nel riflettere , che li due infermi ( O. M. pag. 144 , 1827 ) del dott. Spizzirri, di Marano, in Calabria, risanarono senza liuti, senza chitarre e senza medico, avendo ad essi un di quei ciurmadori apprestato un bagno coi vapori di vino aromatizzato; nel riflettere, finalmente, che il Wirtzmann in Odessa, ove si trovano molte tarantole, osservò pure, che i morsicati provavano del sollievo nell’eseguire un moto che ha qualche analogia col ballo. – Non volendo però noi defraudare i nostri leggitori della conoscenza di altri aneddoti, che hanno avuto luogo sul proposito, diremo, che il chiarissimo prof. De Renzi[9], nei 45 giorni, pei quali s’intertenne nella capitale della Francia, eccitato da lettera d’invito del dotto Segretario dell’Accademia di Medicina di Parigi, comunicò a questa il suo lavoro, di cui rendemmo conto nel cennato vol. LXVIII di questi Annali. Nel che la prelodata Accademia adottando un dottissimo rapporto dei suoi commissarj Andral e Virey, trovò riprensibile e quanto era stato detto circa talune particolarità nella storia naturale della tarantola, e riguardo alla etimologia di una tal voce, che intorno alle mediche conchinsioni da lui dedotte. Opinarono li valenti Commissarj Virey ed Andral Seniore (Numero XII 1834 dell’O. M. del chiarissimo cav. Migliari, e. num. XLIV. Agosto 1834 del Filiatre Sebezio), che gli aragni arabi comunicano nel morso un veleno col quale uccidono anche dei piccoli vertebrati, ma ch’essi fuggono l’uomo;
2.º che in niun’altra regione la tarantola è pericolosa;
3.º che i sintomi, che attribuisconsi alla tarantola, si debbano ripetere dall’amore, dalle passioni ardenti, ecc.
Al che anzi ne aggiugne il De Renzi, che il sig. Delle Chiaje non ha trovato nelle tarantole un apparecchio ghiandolare proprio per segregare un veleno, ma soltanto l’apparecchio ghiandolare comune. Li giornali francesi han trattato l’argomento, ciascuno secondo la sua opinione, senza tutti pro nunziarsi per la negativa assoluta. Resa poi di pubblico di ritto la istoria del dottor Ferramosca nel num. XII dell’O. M., di cui è qui parola, venne al prof. De Renzi drizzata una lettera anonima, che fu da lui nel quaderno di agosto 1834 del suo Filiatre originalmente trascritta, ed in cui figuravano alcune riflessioni critiche sulla Memoria del dottor Ferramosca.
Ma in risposta a queste critiche osservazioni altra lettera anche anouima è stata spinta al medesimo signor De Renzi, il quale bramoso di letteraria discussione che tenda alla ricerca della verità, bramoso di preferire i fatti alla sua propria opinione ed il bene della umanità al suo amor proprio, si è tosto dato premura inserirla nel fascicolo di gennajo corrente anno 1835 del suo Filiatre senza comento alcuno , riservandosi (son sue parole) di trattare più lungamente a suo tempo questo argomento.
Or delle due Note degli Anonimi in censura ed in apologia del Tarantismo, non che in censura ed in apologia del fatto riferito dal Ferramosca si avrebbe qui ora a tenere ragionamento critico. Siccome per altro ognun vede, che trattasi di un fatto, in cui non può portarsi giudizio senza dipendere dalle osservazioni altrui, cosi amando di rimetterci a chi voglia e sappia consultare con sana filosofia l’istoria dei fatti nella patria del tarantismo, attenderemo la novella gita, che colà si propone di fare sul subbietto il prof. De Renzi; ovvero attenderemo che per opera di chicchessia istituite vengano e rese di pubblico conto 320 imparziali osservazioni, ed in buon numero, e nelle debite norme dell’autenticità.
Troviam plausibili i dubbj, e giudizîose assai le riflessioni del chiarissimo estensore dell’Osserv. Medico, l’amico cav. Magliari ed i leggitori nostri il decidano. “Per comun consentimento di tutti si conviene, che il morso della tarantola comincia dal destare un atrocissimo dolore, una indescrivibile smania: ciò posto, qual meraviglia se colui che ne viene affetto cominci dal saltellare pel dolore e con qualche sollievo? E non è questo quanto avviene a chiunque è improvvisamente colpito da un vivissimo dolore? … e dimostra forse tranquilli nel loro letto coloro che sono vessati da forti dolori, specialmente intestinali? Non si vedono essi con sollievo aggirarsi per le loro camere?
Se dunque molte altre malattie spingono gli infermi a non indifferenti movimenti, perché far di questi movimenti un esclusivo fenomeno de’ tarantolati? … In Calabria in Odessa, ecc., il morso della tarantola non è innocuo, spinge gli infermi ad un movimento, ma non al ballo dei pugliesi, e guariscono senza la loro musica: non potrebbe forse star dunque, che il ballo sia l’effetto delle preconcepite idee dei pugliesi e non del morso della tarantola, e che il suono fosse il rimedio di quelle contrade e non della malattia?
D’altronde, quantunque sia ben vero, che il chiarissimo Compilatore del Filiatre-Sebezio l’amico prof. De Renzi, appoggiato a due casi non caduti sotto li suoi occhi e che non escono dalla sfera dei già osservati, si mostri nel suo primo lavoro piegato alla conchiusione di riconoscere il tarantismo, nulla di manco confessar fa d’uopo, ch’egli non mira ad accreditare in tutta la estensione loro i pregiudizj del volgo pugliese. Egli vi riconosce la prevenzione, l’esaltamento cerebrale, il prestigio della fantasia la dubbiezza di buona fede bene spesso dei pazienti, l’età della maggiore energia delle passioni. Così non è raro, che l’amore rappresenti la parte essenziale del dramma, e che vezzose forosette si mostrino attarantate per nascondere più grave ferita che le fa delirare. Ma ben plausibili troviamo li raziocinj di lui, e soddisfacentissima la spiegazione, che da suo pari ci offre dei fatti medesimi, siccome già facemmo riflettere in questi Annali (pag. 337, e seg. del vol. LXVIII).
Dopo le cose fin qui dette, ci asterremo dal portar giudizio qualsiasi sulle Note degli Anonimi più sopra enunciate, e che aggiransi a squittinare e la condizione della tarantola nel caso del sig. Ferramosca, e la condizion dell’esofago, e’ l modo onde in questo s’introdusse, e l’esistenza del veleno tarantolino, e la maniera con cui venne questo innestato nel caso in questione. Ma nella ipotesi di potersi ammettere con sobrietà casi ben rari di tarantismo, e di ammetterli modificati senza l’intervento di veruna moral passione, astenerci dovremo dall’esprimere con ingenuità le nostre dubbiezze sulla essenza del fatto riferito dal sig. Ferramosca? sulla essenza di un fatto, in cui non parlasi di alcun mal essere della paziente , dal sabato (in cui ingoliò il grappolo di uva con la presupposta tarantola) fino all’epoca del seguente giorno in cui venne scossa dal suon dell’organo della chiesa ed in citata al ballo? sulla essenza di un fatto, in cui , per tal modo di riflettere, si svolse la malattia dopo una lunga incubazione della causa ed in un ordine inverso di quadro fenomenologico? sulla essenza di un fatto, in cui sembra desiderarsi l’annunzio di sintomi indicanti il continuato morso o almen più volte ripetuto dal falangio ancor vivente? sulla essenza di un fatto, in cui non manca la prevenzione, essendasi il medico ordinario della famiglia più fiate impegnato a persuader di tarantismo il sig. Ferramosca ? in cui non manca l’energia di una passione amorosa (benchè forse destramente occultata) per tradimento di un amante, che venne pur chiamato a far parte del dramma? in cui da ultimo non mancano perciò i giuochi d’ illusione?
Dir forse non potrebbesi, che la inferma del sig. Ferramosca risanasse per una sagace destrezza della sua familiare in quel modo appunto, in cui risanò quel tale, di cui parla il Muratori (nel suo Trattato della forza della fantasia umana), e che avendosi fitto in mente gli fossero nate le corna saltò guarito dal luogo della magnifica operazione di seghe eseguita da un medico, ANNALI. Vol. LXXIV che gli fe’ veder le sue corna ai piedi? Dir non potrebbesi, che il buon uomo, il sig. Ferramosca (di cui d’altronde apprezziamo i talenti e le cognizioni) siasi questa volta fra l’oscurità delle tenebre lasciato illudere da una fantesca, e che per tal modo (come suol dirsi) abbia stretto al seno una nuvola invece di abbracciar Giunone? (Osserv. Med., Giugno , 1834). (Tonelli).
A ben vedere la stroncatura da parte della rivista omodeiana dell’insolita testimonianza del Ferramosca, nella quale si individuava il nesso scatenante il malessere della giovane donna idruntina nel morso di un ragno sopravvissuto alla masticazione del grappolo d’uva, e la risoluzione dello stesso, tramite l’espulsione fortuita dell’aracnide dalla laringe per mezzo di un colpo di tosse, fosse dipesa dal brownismo del medico murese malamente applicato al caso in questione oltretutto senza l’ausilio di alcun farmaco o terapia idonea e basato solo con l’eliminazione della causa materiale senza aver tenuto in debito conto il coinvolgimento socio-etno-psicologico come, invece aveva suggerito il De Renzi.
Va però, altresì ricordato che, qualche anno dopo la pubblicazione della nota del Ferramosca sugli Annali Universali di Medicina, sul famoso Dizionario Classico di Medicina Interna ed Esterna edito a Venezia dall’editore Giuseppe Antonelli nel 1839 alla voce Tarantismo, tra le varie ipotesi inerenti alla presunta fattibilità terapeutica coreica e iatromusicale[10] adoperata nel Salento insieme ai riferimenti disincantati del De Renzi che giustamente pose la sua attenzione agli effetti propri del latrodectismo sulla ritualità propria del tarantismo, non mancò di venire riportata per intero la vicenda descritta dal dott. Giuseppe Ferramosca precedentemente trattata dalla rivista di Omodei a dimostrazione che l’opinione medica del tempo non fosse del tutto concorde sulla vexata quaestio. Alla voce Tarantismo quel dizionario riportò:
TARANTISMO, s. m. Indicasi con tal nome una malattia cui dicesi endemica della Puglia, e prodotta dalla morsicatura della tarantola, la quale risulta comune in quelle contrade. Siffatta malattia, aggiungesi essere caratterizzata principalmente da irresistibile tendenza al ballare, o dallo sfrenato desiderio di udire musica. Altri, all’opposto, asserirono che siccome il tarantismo o l’affezione pro dotta dalla morsicatura della tarantola, che consiste talvolta nella sonnolenza, fu vinta dalla musica, così formossi la volgare opinione che la musica fosse necessaria per combattere il veleno della tarantola che veniva espulso mediante il sudore provocato dalla danza. Comunque siasi la cosa, esperienze positive dimostrarono la innocenza della tarantola; forse che, nei paesi meridionali, essendovi certa predisposizione particolare, avvengano alcuni accidenti cerebrali in conseguenza della morsicatura di tale specie di aragno; è però avverato che se esistette od esiste nella Puglia una monomania endemica il cui straordinario bisogno di danzare costituisce il principal sintomo, non la si può attribuire ad un preteso veleno della tarantola. Le osservazioni sul tarantismo di Puglia, formarono argomento pel dottor Salvatore de Renzi di una sua Produzione recitata nell’ordinaria seduta dell’accademia medico-chirurgica di Napoli il giorno 18 luglio 1832. L’egregio autore diede principio a questo lavoro con una breve, ma elegantissima descrizione topografica delle Puglie, della terra d’Otranto, e singolarmente di Taranto. Colà recatosi per accompagnare da medico un rispettabile personaggio, volle trarre dalla sua itinerazione un profitto per il pubblico. Tra le numerose osservazioni che gli si offersero, trovò più degne della sua dotta, tenzione il costipo ed il tarantismo. Per costipo ivi intendesi qualunque reumatica affezione acuta, e le malattie di petto acute dal catarro alla polmonia. Vengono in quella regione favorite oltre modo siffatte affezioni per la variabilissima temperatura di quel clima, in cui ciascheduno mira a cautelarsene, tanto più che spesso prendono ivi tai morbi lo stato cronico, tal che le reumatalgie e le tisi, conseguenze di essi, sono fatalmente comuni della Provincia, ed un quarto di quei che scendono alla tomba vi trapassa per tisi in Lecce e Taranto.Stagion non era, in cui potesse l’autore esser testimone degli effetti che produce il morso del phalangio di Aristotele; ma usò ogni cura per prenderne indagini da persone degne di fede, e raccolse numerose spezie dell’animale istesso. È questo un insetto appartenente alla famiglia dei ragni, che presenta l’esterno di diversi coloriti. Ve n’hanno dei neri che sono più temuti, e di maggior volume, e portano la voce comune di saetlone; ve ne sono di bigi, giallicci e variegati. La più bella tarantola presenta l’addomine ed il dorso di un rosso vivo con un solco nero sul dorso; il rimanente del corpo e la grossa testa sono dipinti da una lucida vernice nera, segnata alla parte superiore da due linee bianche; nere sono le antenne, e la proboscide è nera, ma degli otto suoi piedi, i due anteriori terminano con bianco pelame, i quattro seguenti hanno la penultima maggior falange di un rosso di carne, ed i due ultimi sono di color cinerino. Posseggono esse otto occhi, dei quali quattro ne sono invisibili ad occhio nudo, e tengono inoltre due maggiori e due minori mascelle, fra le quali evvi nuda proboscide. Ma egli: “è vero, che il morso della tarantola produca gli effetti che comune mente le si attribuiscono, che non si curano che ballando al suono di dati accordi? Ripiglia l’autore, da pochi porsi in dubbio quel che il filosofo del pari che l’idiota assicura no, e che testimonj si presentano quei medesimi, che vi andarono soggetti.Ritiene il volgo muoversi ciascuna tarantola ad un accordo particolare, e che li morsicati abbisognano di quella data melodia per muoversi; e che gli atteggiamenti che colle mani accompagnano il ballo, sono quei medesimi che la tarantola eseguisce colle sue falangi nell’intessere la sua tela. Riferisce l’autore il caso narra togli in Novoli di una bambina, che al terzo mese della età sua venne morsicata dalla tarantola. La bambina ne diviene in sulle prime inquieta, manifesta quindi un inceppamento nel respiro, ed un acuto pianto ed uno stridulo lamento caccia fuori fra le forti inspirazioni. Sintomi soffogativi, vomito, lassezza e celerità di polso, non che gl’indizj della flogosi locale nel sito del morso, confermano gli afflitti genitori sulla natura della malattia. Si tenta il suono consueto, e la bambina si agita, si dimena come in una forte convulsione; si fa muovere allora per lungo tratto, finché a bondevole sudore viene a manifestar si sulla cute, e l’innocente fanciulla n’è defaticata, oppressa, avvilita. Coricata, si abbandona ad un sonno che diviene riparatore, e dal quale torna quasi sana ai teneri amplessi materni.Fa per altro osservare l’autore, che sono si oggidì diminuiti nel numero i fatti in confronto di quello narravasi per lo addietro, e che avvengono per lo più i medesimi in persone, della buona fede delle quali può talora dubitarsi, ed in età in cui sogliono le passioni spiegare maggiore intensità. Così non è raro, che l’amore rappresenti la parte essenziale del dramma, e che vezzose forosette si mostrino attarantolate per nascondere più grave ferita[11] che le fa delirare. Altro fatto interessante ci riferisce l’autore cui venne narrato da un colto medico di Lecce, che molto studio ha fatto sull’argomento, e che si diè perfino a pericolosi esperimenti. Egli avvicinò al piede di un mietitore dormiente una tarantola di quelle cui si attribuisce più efficace veleno, ed uccise poi e nascose l’insetto per non dar campo a riscaldamento di fantasia. Svegliasi il mietitore, e sentesi addolorato nel piede, ove osserva un circolare induramento di color fosco-bruno e del diametro di un pollice circa. Fermossi col pensiero che fosse stato ferito da un’ape. Uno stordimento di testa, una specie di affanno, un abbattimento in tutto il sistema nervoso, furono i sintomi che tosto si annunziarono. Oppresso, abbattuto, delirante, trovavasi nello stato il più miserandu, allorchè si tentarono i soliti accordi, i quali svegliarono il ballo consueto, che diè all’infermo compiuta e subita guarigione. E qui avvertasi non esser in tutto lieve cosa il distruggere gli effetti di questo veleno, poiché sovente la vita ne viene tratta all’estremo. Quindi è, che il saggio autore non arridendo all’opinare di alcuni scrittori francesi, che pretesero essere un tessuto di favole quel tanto si narra sul veleno della tarantola, invita a giudicarne partendo dall’esame dei fatti, che devonsi in tali quistioni unicamente consultare, e consultare con sana filosofia. Nè sembrano privi di solidità i raziocinii del dottissimo De Renzi, il quale di questi fatti medesimi emette una soddisfacentissima spiegazione, da suo pari; il veleno della tarantula sembra agire sul sistema nervoso; e quantunque per analogia di effetti possa assomigliarsi a quello della vipera, pur ne offre dei suoi propri e distinti, che annunziano l’azione sua più diretta sul nervo trisplancnico e sue dipendenze; da che le funzioni del respiro ne sono lese fino dal principio, ed una specie di torpore nel sistema muscolare sembra essere la conseguenza immediata del virus. Egli è, ripeto, sul sistema nervoso che si produce una specie di esaltamento, il quale, unito alla prevenzione, ne aumenta la intensità. Riunito per tal modo l’effetto reale del veleno, e l’esaltazione cerebrale, ne insorgono tutti gli effetti nervosi che hanno dello stravagante. Una energia suscitata nel sistema nervoso medesimo mercè della musica, il violento moto che attiva la circolazione ed apre la diaforesi, sono al certo i mezzi di cui la natura si serve per distruggere il morbo. Potrebbe l’arte a tali mezzi sostituirne degli altri, e specialmente de’ farmaci tratti dalla classe dei diaforetici; ma perché mancanti del prestigio della fantasia, sarebbero di minor efficacia di quelli che sogliono d’ordinario in quel paese adoperarsi, ove è uopo curare l’effetto fisico del morbo, e quello che ne riceve il morale. Fiancheggia il chiarissimo autore un tale asserto con richiamar l’attenzione agli effetti della musica in sul sistema nervoso. E qui, con fino criterio e scelta erudizione, rammenta di volo, che fatti ne possiede la storia sacra e profana, non che la mitologia. Rammenta i numerosi esempi raccolti da Lictenthal nella sua opera “Sull’influenza della musica sul corpo umano”, ove apparisce essersi con dati accordi calmate e guarite date malattie convulsive; rammenta gli speciali accordi della musica, con che Drahonnet, ed il professor Ruggieri videro risanati li loro infermi. Onde poi corroborare il concetto di analogia del veleno della tarantola con quello della vipera, accenna trovarsi in San Pietro a Galatina un pozzo, che, secondo la credenza degli abitanti, contiene un’acqua portentosa a guarire gli effetti del morso del falangio. Nè la utilità di quest’acqua si ripete dall’autore dalla sola influenza morale della bevanda, e dalle conseguenze del vomito che quell’acqua vi spiega, ma più dall’ammoniaca, di cui è pregna la medesima, perché raccoglie le acque imputridite della città, e perché ricca di sostanze animali putrefatte. Quindi è chiaro come siasi utilmente amministrata l’ammoniaca da alcuni nel morso della vipera, e come nel morso della tarantola sia stata con vantaggio prescritta dal dottor Giri. Conchiude quindi il nostro autore potersi con ragione affermare, che il veleno della tarantola sia vero e reale; che agisca sul sistema nervoso e sanguigno; che i suoi effetti non sono quasi mai mortali, e che sgombrar si possono mediante un trattamento energicamente diaforetico.
Seguì per intero, poi, la sovramenzionata nota del Ferramosca a dimostrazione della sua importanza sebben non certo del tutto accettata, in ambito medico:
Sul tarantolismo, comparve una nota del dottor Giuseppe Ferramosca, scritta da Muro nella terra di Otranto li 3 giugno 1834. Per riferire in compendio il fatto da essa esposto, ne toglieremo la breve de scrizione dal fascicolo gennajo 1835 del Giornale napolitano il Filiatre Sebezio, «Maria Penna, di Otranto, da più giorni soffriva una straordinaria malattia nervosa, consistente in …convellimenti generali, maggiori negli arti toracici, che alternavano con una specie di epistotono; la pupilla era mobile…
Dopo la dibattuta esperienza del tarantolismo ivi descritta, il dottor Ferramosca non concluse la sua indagine medico-sociale ma, al contrario, proseguì gli studi su altre patologie permanendo fedelmente nel suo indirizzo di ricerca. Dopo la sua nota sul tarantolismo pubblicò un trattato intitolato Sulla Speronetta[12] sul famoso giornale di scienze mediche edica Filiatre Sebezio nel 1842, un saggio sull’Avvelenamento per morso di vipera[13] nel 1834. Sempre per il “Filiatre Sebezio”, nel 1844 una Monomania ugarita per lo sviluppo di un tumore sull’omoplata destro[14]. Molti altri suoi opuscoli vennero stampati su giornali medici francesi.
Il dottor Ferramosca perì in quel di Muro, circondato dai suoi affetti più cari il 16 aprile 1867. Lo storico murese Comm. Luigi Maggiulli, come riportato a pag. 152 della sua Monografia di Muro Leccese, lesse un elogio funebre dato poi alle stampe presso la tipografia Garibaldi di Lecce nel 1867 a cura del nipote del valente medico il Sig. Ettore Ferramosca.
L’autore ringrazia sentitamente il Dott. Antonio Basurto, suo fratello Avv. Alvaro Basurto – ultimi eredi del dottor Ferramosca -, il Dott. Marco Imperio, la Dott.ssa Angelica Serra, la Dott.ssa Emanuela Zitti e il Sig. Gigi Montinaro per la gentile collaborazione che ha permesso la realizzazione del presente lavoro di ricerca.
[2] Particolare attitudine innata a cogliere a prima vista la condizione di salute dei malati, un tempo considerata una caratteristica ereditaria dei discendenti del nume greco Asclepio.
[3] Francesco Nicola Maria Andria fu un medico e un filosofo italiano. Egli nacque a Massafra nell’odierna provincia di Taranto, il 10 settembre 1747 e morì a Napoli, dove visse fin al 1814. Tre anni dopo la sua morte il suo nome apparve nella Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli. Studiò a Napoli giurisprudenza, pubblicando nel 1760 un Discorso politico sulla servitù. Decise, poi, di proseguire i suoi studi orientandosi verso la medicina. Allievo di Domenico Cotugno e Giuseppe Vairo, a soli 23 anni aprì a Napoli una scuola privata. Ad appena 27 anni concorse con il medico e patriota partenopeo Domenico Cirillo per l’ottenimento della cattedra di medicina pratica, che fu poi conferita a quest’ultimo. La sua attività di cattedratico, si svolse tra ‘700 e ‘800, nel contesto di un particolare periodo storico politicamente molto dinamico. Presso l’Università Regia degli Studi di Napoli Andria ricoprì vari incarichi d’insegnamento. Detenne la cattedra di storia naturale, di medicina teoretica e pratica, e di agricoltura. Pubblicò diverse opere ad uso degli studenti di medicina molto apprezzate in diverse parti d’Europa. Nel 1808 prese a impartire lezioni di medicina teoretica e poi, nel 1811 di patologia e di nosologia. Malato ed ormai quasi del tutto cieco, venne congedato dall’insegnamento agli inizi del 1814, e insignito del titolo di Cavaliere dal Re di Napoli Gioacchino Murat. Il 9 dicembre morì di tifo a Napoli, dove venne seppellito nella chiesa di Santa Sofia insieme al collega Antonio Sementini.
[4] John Brown (1735-1788) che fu allievo di William Cullen ideò un vero e proprio sistema medico nel quale intese la vita come una conseguenza degli stimoli interni di origine viscerale ed esterni provenienti dall’ambiente e delle risposte date dalla eccitabilità dell’organismo. Quando la risposta allo stimolo era eccessiva si formava uno stato di malattia che definì “iperstenico” e quando la risposta era troppo debole lo definì “astenico”. Le astenie erano di due tipi: diretta se la eccitazione mancava per carenza di stimolo, indiretta quando l’organismo stimolato in eccesso esauriva la sua capacità di rispondere eccitandosi. Una “omeostasi” tra fra eccitamento ed eccitabilità rappresentava per lo scozzese lo stato di salute ideale. Ebbe l’ardire di esprimere Il grado di eccitamento matematicamente per mezzo di una scala che andava da zero a ottanta, con quaranta gradi che rappresentavano lo stato di salute. Forti stimolanti utilizzati in quella terapia furono l’oppio e l’alcol, generalmente somministrati in combinazione con laudano. Stimolanti alternativi furono invece l’etere, la canfora, l’ammoniaca e il muschio. Una dieta proteica ricca di carne era da Brown spesso prescritta come misura “di sostegno”. Anche i metodi decongestionanti ‒ come la flebotomia, le purghe e gli emetici, che erano indicati nelle malattie steniche ‒ erano considerati come degli stimolanti blandi. Cfr. E. Frasca, L’eco di Brown. Teorie mediche e prassi politiche (secoli XVIII-XIX), Roma, Carrocci Editore, 2014.
[5] Nella vecchia terminologia medica, lo stesso che gotta, considerata nella sua forma clinica più tipica, con interessamento iniziale e prevalente all’articolazione tra metatarso e falange dell’alluce. Cfr. G. Ferramosca, Trattato teorico-pratico sulla Podagra, Napoli 1804.
[6] Cfr. R. Rossetti, Il complesso conventuale dei padri Domenicani di Muro Leccese, Fondazione Terra d’Otranto, pubblicazione on-line del 17 settembre 2012.
[7] L. Maggiulli, Monografia di Muro Leccese, Lecce, Tipografia Editrice Salentina, MDCCCLXXI, p. 147.
[8] Periodo in cui maturerebbe l’uva “primaticcia” presente nel racconto della donna.
[9] Illustre medico e storico della medicina (Paternopoli 1800 – Napoli 1872), professore a Napoli, prima di Patologia generale e Igiene, poi di Storia della medicina. A lui si debbono, tra l’altro, una Storia della medicina in Italia (1845-48), una Storia documentata della Scuola Medica di Salerno (1857) e l’importante raccolta documentaria Collectio Salernitana (5 voll., 1852-59).
[10] Nel lemma in questione si riportarono a favore della terapia tradizionale salentina dei casi particolarissimi di tarantolismo come quello di una infante di Novoli che, a causa della sua tenerissima età mal avrebbe potuto risentire psicologicamente del coinvolgimento socioculturale dei suoi prossimi. Si cercò, poi, di comprendere, anche, le ragioni chimiche ed emetiche dell’acqua del miracoloso Pozzo di San Paolo di Galatina da sempre ritenuta curativa nei casi di tarantismo
[11] Riferimento esplicito alla lacerazione dell’imene da primo rapporto sessuale al di fuori, o precedentemente al matrimonio religioso, che in un contesto rurale rappresentava una grave onta gravante sulla donna che lo aveva subito e che poteva emarginarla dal proprio contesto sociale di appartenenza con tutte le conseguenze del caso. A tal proposito si consiglia l’interessante interpretazione dello studioso magliese Oreste Caroppo intitolata Tarantismo e perdita del primus e della verginità. Alla ricerca del vero profondo rimorso della tarantata. http://naturalizzazioneditalia.altervista.org/
[12] G. Ferramosca, Sulla Speronetta, “Filiatre Sebezio”, Anno XII, Napoli 1842, p.129..
[13] G. Ferramosca, Avvelenamento per morso di vipera, “Igea Salentina”, Volume I, Napoli 1843, p. 216.
[14] G. Ferramosca, Monomania ugarita per lo sviluppo di un tumore sull’omoplata destro, “Filiatre Sebezio”, Anno XIV, Napoli 1844, p. 65.
Dopo una lunga malattia che ne aveva fiaccato il fisico ma non certo lo spirito, ha terminato la sua avventura terrena giovedì 25 maggio 2023, all’eta di settant’anni, con il coraggio e la serenità che lo ha sempre contraddistinto, Luigi Chiriatti.
Autore, tarantologo di fama nazionale e internazionale, musicista-cantore, fondatore della casa editrice Kurumuny, nonché direttore artistico del festival “Notte della Taranta” del quale dal 2015 era diventato co-direttore artistico insieme al compianto Daniele Durante, deceduto nel giugno 2021.
Già presidente dell’associazione culturale “Ernesto De Martino – Salento” era divenuto anche direttore scientifico dell’Istituto “Diego Carpitella” e dal 2003 al 2009 e nel 2014 e direttore artistico del festival “Canti di Passione”.
Nato a Martano da padre artigiano e madre contadina, saggiò fin dalla più tenera età da entrambi i genitori, dal padre “muratore girovago” la diversità e la complessità culturale del territorio salentino e dalla madre contadina quel complesso sapienziale mitico rituale intriso di magismo. Frequentò con profitto le scuole medie presso il seminario Arcivescovile di Otranto e poi il liceo classico Capece di Maglie, successivamente quello di Lecce. Dopo il diploma s’iscrisse alla facoltà di Filosofia che lo invogliò verso l’indagine etnografica sul territorio salentino nella quale potette approfondire gli studi sui canti alla stisa, sugli scazzamurreddhi o sciacuddhi, sulle opere malefiche delle striare e soprattutto sulle tarantate e i tarantuni.
Kurumuny, il podere dei nonni, dove una variegata umanità di quasi venti anime aveva dato vita ad una colonia culturale e sociale autonoma, si trasformò nel suo punto cardinale tanto che più tardi lo avrebbe scelto come nome per la sua casa editrice. A Kurumuny vivevano le prefiche di Martano e alcuni dei grandi cantori che erano stati contattati dall’antropologia audiovisiva nazionale e internazionale dell’epoca. Vi era anche chi per mestiere incideva le mammelle delle donne afflitte da mastite o operava per slegare i vermi che affliggevano i più piccoli. Fu lì che apprese anche l’arte di raccogliere i funghi, passione che lo avrebbe accompagnato fino alla fine dei suoi giorni. A Kurumuny era presente anche sua zia Pascalina che durante i mesi di fine primavera ed estivi suonava un enorme tamburo che serviva tanto a divertire e donare un momento ludico quanto per cercare di alleviare le sofferenze delle donne pizzicate dalle tarante.
Delle tarantate conobbe le storie che le donne gli raccontarono in prima persona e che amplificarono il suo interesse per il misterioso fenomeno coreutico-musicale, soprattutto quando suo padre lo accompagnava a visitare la cappella di San Paolo a Galatina durante la festa dei Santi Pietro e Paolo. Fu partendo proprio da Kurumuny, durante i suoi studi universitari, che cominciò a prendere in considerazione l’idea di approfondire, tramite una ricerca sul campo, la storia del tarantismo salentino del suo tempo, una ricerca che potesse divenire una prosecuzione di quella intrapresa da Ernesto De Martino negli anni ‘60.
Partecipò in prima a due terapie domiciliari molto differenti fra loro: una suonata e una sonante. Una taranta “ballerina” sensibile alle note dell’armonica e una taranta “sorda” in cui la donna si auto-induceva la trance tramite una nenia. Contemporaneamente cominciò a documentare negli anni settanta la giornata delle tarantate a Galatina, luogo di culto per eccellenza delle spose di San Paolo; in un primo momento con una macchina fotografica con obiettivo fisso di 50mm (Ferrania) e successivamente con macchine da presa.
Fu quello il periodo del suo primo incontro con Gigi Stifani, il “dottore delle tarantate”, musico e terapeuta neretino che tramite il suo violino e la sua presenza costante sul territorio aveva curato decine e decine di donne in preda alle problematiche della morsicatura della taranta. Gigi Stifani gli raccontò del fatto che a suo dire le donne risultavano essere più soggette al morso perché avevano nel sangue “una gradazione in meno” rispetto all’uomo. Il neretino gli disse di credere nell’intercessione del santo di Tarso e ai suoi miracoli così come gli confidò di essere consapevole del suo importante ruolo di “guida sciamanica” nel rituale di liberazione dalle afflizioni del tarantismo. Tutte quelle storie, tutti quei racconti, tutte quelle dicerie delle comari del paese unitamente alle teorie dei medici, dei sacerdoti, costituirono il corpus della sua tesi di laurea dibattuta nel 1978 presso l’insegnamento di Sociologia dell’Università di Lecce perché nessuna altra cattedra “filosofica” avrebbe mai accettato una tesi sul tarantismo in quanto considerato ancora, crocianamente parlando, un argomento tabù di scarso interesse culturale, una specie di infimo fenomeno da baraccone non degno di nota. Nel 1977, prima di laurearsi, aveva inciso con il Canzoniere Grecanico Salentino il disco “Canti di terra d’Otranto e della Grecìa salentina”, fondando successivamente diversi gruppi di riproposizione e recupero delle tradizioni musicali popolari come il famoso Canzoniere di terra d’Otranto e Aramirè.
Considerevoli furono le sue ricerche sul tarantismo pugliese vissute pienamente all’interno della più ortodossa interpretazione gramsciano-demartiniana che supportò con altri importanti spunti ermeneutici.
Memorabili rimangono alcune sue opere di antropologia culturale come il saggio “Morso d’amore. Viaggio nel tarantismo Salentino”, edito nel 1995 da Capone Editore e successivamente dalle Edizioni Kurumuny, dove presentò la sua inchiesta sul tarantismo in collaborazione con le registe Annabella Miscuglio, Maria Grazia Belmonte, Ronny Daoupulo, ricerca finalizzata alla realizzazione di un documentario dallo stesso titolo uscito nelle sale cinematografiche nel 1981. Nel saggio l’autore si soffermò a raccontare con una scrittura avvincente ma anche molto intima la propria esperienza di libero ricercatore, nato e cresciuto nei luoghi in cui quella cultura ancora si manifestava seppur sempre con minore vigore.
Si offrì, quindi, ai propri lettori in veste di protagonista di una ricerca volta a ritroso nel tempo e costituita da simboli e luoghi “magico-rituali” da lui frequentati e vissuti in gioventù. Altra sua memorabile fatica fu il saggio storico locale Terra Rossa d’Arneo edito da Kurumuny nel 2017 dove indagò l’imponente movimento di lotta per la terra, culminato nelle occupazioni delle terre d’Arneo del ‘49-51.
In quasi cinquant’anni di ricerca sul campo riuscì a realizzare un autorevole archivio di etnomusicologia e tarantismo con più di 1600 documenti di vario genere tra video, interviste, fotografie e materiale sonoro. Numerose sono state le sue collaborazioni culturali che lo portarono a conoscere personaggi di primo piano della ricerca etnologica ed etnografica come Vittoria De Palma, seconda moglie di Ernesto De Martino, della quale raccolse inedite testimonianze di vita.
Lascia la moglie Marisa Palermo, i figli Salvatore, Anna, Giovanni, Francesca, Fabio e Paolo. Al figlio Giovanni e alla nuora Alessandra Avantaggiato e agli alti figli spetta ora l’onere e l’onore di portare avanti le Edizioni Kurumuny nel solco da lui creato.
Qualcuno, leggendo le prime cinque parole del titolo, si sarà aspettato un prosieguo all’altezza, infarcito di ingiurie e parolacce, come la corrente pratica più o meno giornalistica e televisiva impone per scopi ben diversi dall’interpretazione per quanto è possibile corretta (e urbanamente, lo dico con il massimo rispetto per chi non vive in città) di ciò che istante per istante accade. Sempre quel qualcuno sarà rimasto deluso nel leggere la determinazione temporale delle successive cinque parole, non certo perché fosse chiaro che non potevo essere stato io a tirare le orecchie a Francesco Castrignanò, ma per il fatto che acqua passata non macina più e, se di fronte ad un rimprovero pur non privo di fondamento più o meno tutti reagiamo, se siamo educati, con un’alzata di spalle, senza usare locuzioni in cui la parola finale della proposizione precedente mostra la perdita di s-…, figurarsi quanto può incuriosire l’annunciata, addirittura doppia, tirata d’orecchi fatta tanto tempo fa. Non è questo un gossip che si rispetti! E poi, Francesco Castrignanò, almeno dalla foto allegata, non sembra che fosse un attore, un cantante, un atleta o qualcuno (stavo per dire, forse più opportunamente … qualcosa) di simile. Infatti era un letterato e, forse m’illudo, le cose per il lettore cambiano. La categoria dei cosiddetti intellettuali non gode, molto spesso a ragione, specialmente ai nostri tempi, di grande considerazione e noi, cosiddetti comuni mortali (sicuramente siamo mortali, ma, se non lo fossimo, ognuno di noi potrebbe discutere per secoli sul comuni), non possiamo rinunziare a quel pizzico di soddisfazione che si prova quando qualche personaggio meritatamente o no in vista viene colto in fallo, soprattutto se quest’ultimo riguarda il campo per il quale e nel quale ha acquisito la notorietà. Forse, allora, mio unico lettore ancora rimasto, questa è un’occasione da non perdere.
Non ho nulla contro Francesco Castrignanò e l’alta considerazione, che di lui ho mostrato di avere parlandone ripetutamente su questo blog1, non è minimamente cambiata e le due tirate d’orecchi che sto per documentare hanno il solo scopo di scuotere quell’aureola di superiorità che noi stessi poniamo sulla testa di qualcuno un po’ per invidia suscitata dalla consapevolezza dei nostri limiti o, al contrario, da un’eccessiva autostima.
Comincerò dalla testimonianza di Nicola Vacca (1899-1977), storico salentino (era nato a Squinzano). Una delle sue innumerevoli pubblicazioni riguarda il Libro d’annali de’ successi accaduti nella città di Nardò, una cronaca dal 1632 al 1656, il cui manoscritto autografo sembra perduto, anche se, per fortuna, esistono alcune copie. Nel fare la collazione di quelle a sua conoscenza il Vacca incappò nell’inconveniente che così racconta: Una copia fatta su quella del De Michele, o essa stessa, fu soltanto vista da me, in Nardò presso il Sig. Francesco Castrignanò che non me la volle affidare neanche con deposito cauzionale! È la prima volta che mi succede un fatto simile nel corso – ormai non breve – dei miei studi patri
Non è per giustificare il concittadino, ma è chiaro che per il Castrignanò quel manoscritto, pur se copia, aveva un valore inestimabile, anche se è facile dire, per chi ne è al di fuori, che le ragioni della cultura e della conoscenza non debbono essere prevaricate dalla paura del rischio. Tutt’al più il neritino, anche per evitare qualsiasi rischio di essere accusato di temere, in un cero senso, la concorrenza7, avrebbe fatto molto meglio a proporre al Vacca di studiare sul posto il manoscritto ospitandolo per il tempo necessario, senza, naturalmente, sorvegliarlo a vista, quasi avesse a che fare non con un cartografo, quale il Vacca in un certo senso pure era, ma con un cartofago …
Non so se il Castrignanò lesse mai quanto appena riportato o come reagì essendone eventualmente venuto a conoscenza anche per via indiretta. Certo è che, se avesse potuto sentirla, la seconda tirata d’orecchi sarebbe stata avvertita molto dolorosamente, non solo perché coinvolgeva il letterato ma anche per la statura mondiale del suo critio. Quella tirata d’orecchi non potè sentirla perché era morto quasi vent’anni prima che Gerhard Rohlfs pubblicasse la sua opera ancora oggi fondamentale per chiunque si approcci seriamente, e con la dovuta competenza filologica, allo studio dei dialetti del nostro territorio. Due neritini ebbero l’onore di esservi citati tra le fonti scritte di cui lo studio, oltre quelle orali ricercate personalmente sul campo, si avvalse: Luigi Maria Personè per le sue Etimologie neritine, apparse a puntate sul quindicinale napoletana Giambattista Basile dal 1888 al 1889, e Francesco Castrignanò per il citato Cose nosce e, in particolare, per il vocabolarietto di voci dialettali posto in appendice. Se per il Personè l’unico appunto che si può fare al maestro tedesco è il fatto di aver citato solo il suo primo contributo (lacuna giustificata dalla reperibilità già allora difficile della rivista), pur dando il dovuto risalto ai lemmi in esso trattati, nulla si può obiettare a quanto si legge a proposito del Castrignanò: (il dizionarietto che segue le poesie) è molto incompleto e contiene parecchi errori.
E questa volta osservo che, se il buon Francesco, pur essendo un letterato, non aveva specifiche competenze filologiche, in tempi recenti, molto recenti, è uscito un vocabolario etimologico del dialetto neritino, in cui la trattazione di moltissimi lemmi, e non solo per quello che riguarda gli etimi, ha scombussolato me e, credo, farebbe sobbalzare le spoglie del Rohfs, anche se posto a decine di km dalla sua tomba …
5 Fiori di neve: versi, Tipografia neritina, Nardò, 1897
In morte di Giuseppe Garibaldi, Tipografia Garibaldi, Lecce, 1882
Antonio Caraccio: cenno biografico-critico,Tipografia Garibaldi, Lecce, 1895
Per il 1° cinquantenario dell’unità d’Italia, Mariano, Galatina, 1911
Un saluto a la R. Scuola tecnica gallipolina ospitata in Nardò, Tipografia Emilio Pignatelli, Nardò, 1913
L’alleanza de’ popoli, Bortone, Lecce, 1915
Triste novembre, s. n., Nardò, 1921
A proposito del risultato della recente e rifatta graduatoria del concorso alla cattedra di lingua francese presso la scuola pareggiata di Nardò: abbasso il favoritismo, s. n. Nardò, 1921
Patria mia: rime, Vergine, Galatina, 1923
Per le nozze della sig.na Maria Zuccaro di Giacinto con l’avv. sig. Antonio de Mitri, Guido, Lecce, 1923
Il libro degli Acrostici (A’ turisti d’italia), Carrà, Matino, 1926
Lo Czar e il chimico: novella in versi e liriche sacre, Vergine, Galatina, 1926
A Benito Mussolini, Mariano, Galatina, 1928
La storia di Nardò esposta succintamentre, Mariano, Galatina, 19030
L’acquedotto pugliese e il duce: canzone in dialetto, Mariano, Galatina, 1930
Nel solenne ingresso a Castellaneta del suo novello vescovo mons. Francesco Potenza da Nardò, Tipografia R. Antonaci & C., Nardò, 1932
Per l’eccezionale festa a S. Antonio dopo eseguiti in gran parte i restauri della sua Chiesa in Nardò (19 giugno 1932), s. l., s. n., 1932
Nozze Nisio-Giubba, s. n., Nardò, 1933
Omaggio d’un settantenne a Mussolini, Gioffreda, Nardò, 1934
Vesi, Mariano, Galatina, 1935
Tirar dritto, resistere, vincere, Ferrari & C., Palermo, 1935
Ode, Ferrari & C., Palermo, 1935
Siam tutti eroi, s. n. Nardò, 1936
Acrostici ì: Francesco Castrignanò a un suo concittadino, s. n., Nardò, 1936
6 Nicola Vacca, G. Battista Biscozzi e il suo “Libro d’Annali” in Rinascenza salentina, n. 1, 1936, p.
7 Ricordo, già citato in nota 5, La storia di Nardò esposta succintamente, Mariano, Galatina, 1930
8 Gerhard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto). Verlag der Bayer. Akad. d. Wiss., München, 2 volumi (1956-1957)
Nel 2016 in un articolo su Presenza Taurisanese[1] attribuii lo stemma scolpito sulla finestra del palazzo di via Isonzo in Taurisano, ai Montano (o Montani) di Terni, in base alla sua somiglianza con quello di detta famiglia riportato in disegno dallo Spreti nella sua Enciclopedia Storico-Nobiliare e blasonato “d’azzurro alla pianta di rosa al naturale fiorita di tre pezzi di rosso, nodrita sulla vetta di un monte all’italiana di tre cime, di argento, movente dalla punta”.
Mi fu ribattuto che, stante la data 1578 riportata su detta finestra, lo stemma non poteva appartenere ai Montano, che sono attestati a Taurisano solo dalla seconda o terza decade del 1600[2] e ciò nonostante che, come si è già avuto modo di rilevare, da un atto del notaio di L. De Magistris di Casarano del 12 settembre 1594, risultino come taurisanesi i chierici Annibale e Francesco Antonio Montano.
Che non si trattasse di un refuso del notaio lo confermano due distinti atti del 1599 di un altro notaio, Antonio Romano di Montesardo, nei quali come testimone è menzionato il “cl. Anibal Montanus terrae Taurisanii”[3].
È senz’altro vero che essi sono attestati in Taurisano solo nell’ultimo decennio del ‘500, ma è molto probabile che se ci fossero pervenuti documenti anteriori qualche loro traccia si sarebbe comunque trovata, se non altro tra le carte attinenti al clero di Taurisano. Mi è stato ribattuto anche che “lo stemma dei Montano di Terni non risulta creato” e che rimane “complessa la questione” sulla loro origine nobiliare, “tutta da dimostrare”[4].
Torno sull’argomento per cercare di approfondire il discorso e dimostrare che quanto meno alcuni dei Montano presenti nel Salento, erano originari del ternano.
I Montano (o Montani) sono attestati sin dal Medioevo in diverse regioni d’Italia e le varie famiglie si fregiarono tutte di uno stemma proprio, come i Montano di Genova, Milano, Bologna, Pesaro, Terni, Spoleto, ecc.
Per rimanere ai Montano di Terni (e dell’Umbria in genere), alcune vicende delle loro fortune sono ampiamente esposte in un saggio di Filippo Orsini e Nadia Bagnarini[5], mentre dei loro stemmi si tratta in “Araldica di Terni” di Luigi Lanzi[6]. In questo manoscritto del 1902 (ca), l’autore ripropone, disegnandole con propria mano, le diverse armi civiche, vescovili e gentilizie di Terni, desunte da raccolte custodite presso il Municipio di Terni (Raccolta I e II), l’Archivio di Stato di Roma e presso privati, nonché da affreschi e monumenti presenti in diverse chiese [7].
A corredo degli stemmi egli riporta dei cenni genealogici tratti da un quadernetto compilato nel 1640 dal cap. Francesco Simonetta, al quale viene ascritta anche la Raccolta Municipale I.
Nel documento del Lanzi ritroviamo che lo stemma (partito o meno), raffigurante tre monti con fiori, viene alzato da diverse famiglie, mentre quello raffigurante tre monti (o un monte a tre cime) con tre steli con altrettante rose rosse partenti dalla cima centrale lo troviamo attribuito sia ai Montano che ai Nicoletti, altra antica famiglia che, diramatasi in diverse regioni d’Italia, è attestata in Terni dal XIII secolo. E proprio per la loro assoluta somiglianza, in diverse occasioni l’autore mostra delle titubanze per l’attribuzione dell’arma all’una o all’altra delle due famiglie, preferendo nel dubbio attribuirla ai Nicoletti (che quest’arma però adottarono solo verso il 1600[8]), come evidenziato dai due stemmi che si riportano.
Gli stemmi delle famiglie Montano e Nicoletti, che dal Lanzi sono dati per certi e che sono riportati assieme a pagina 69 del suo opuscolo[9] (v. sotto), sono entrambi stati tratti dalla Raccolta Cittadini che, compilata nel 1851, a dire dello stesso Lanzi, non era molto affidabile in quanto le armi non sempre erano disegnate con sufficiente chiarezza e i motti che le accompagnavano erano spesso incompleti o errati.
Le figure dei due stemmi sono del tutto simili. L’unica differenza riscontrabile è costituita dallo smalto dello scudo: d’azzurro il primo, d’oro il secondo.
Lo stemma dei Montano è riprodotto partito con quello dei Leoni, come specificato dalla didascalia Montanus-Leo[10] che accompagnava l’originale e nella cui blasonatura i tre monti risultano “di verde”, mentre lo Spreti li dice “d’argento”.
Ma, come per quello identico adottato dai Nicoletti[11], quello su riportato dei Montano doveva appartenere ad un ramo secondario della famiglia dato che nella stessa raccolta del Lanzi si trova un altro loro stemma recante al posto dei tre steli con rose rosse, tre stelle in capo, sempre su fondo azzurro (st. n. 266). Peculiarità di questo stemma è che nel documento originale, dal quale è tratto, è corredato dell’iscrizione “Montanus – Tantum”, quasi a significare che lo stemma era proprio dei Montano, senza commistione con quello di altre famiglie.
Questo stemma ha certamente attinenza con quello che, alquanto stilizzato e schematizzato (st. n. 308), il Lanzi attribuisce dubitativamente ai Nicoletti, ma che è da attribuirsi anch’esso ai Montano. In quest’ultimo, troncato, al posto dei tre monti sembrano potersi individuare tre foglie di un quadrifoglio, mentre al posto delle tre stelle presenta le corolle di tre fiori rossi. Questi due ultimi stemmi sono presenti nella chiesa madre di Tricase intitolata alla Natività della Vergine.
Quello con tre monti e tre stelle in capo, si rinviene sulla tela dell’altare della Madonna del Carmine nella chiesa madre di Tricase[13] intitolata alla Natività della Vergine, ed in modo identico è replicato sulla tela di Santa Domenica posta sul fastigio e sulle due tele ovali raffiguranti Santa Apollonia e Santa Lucia. Quello più stilizzato, si trova scolpito sui fusti delle due colonne anteriori che sorreggono l’altare[12].
Questo altare fu eretto nella seconda metà del ‘700 dai Montano e precisamente da Raffaele e dalla figlia Maria Domenica, in sostituzione di quello sotto lo stesso titolo che, come compatroni con i Papini, possedevano nell’antica parrocchiale.
Dalla disamina e dal confronto degli stemmi su esposti si può ragionevolmente sostenere che i Montano di Tricase[14] erano originari di Terni (o comunque dell’Umbria) e che un ramo della stessa famiglia si fregiava di uno stemma con gli stessi tre monti ma con tre rose rosse, il tutto sempre su campo azzurro.
Agli esponenti di quest’ultima, ribadisco, doveva appartenere lo stemma scolpito come un fregio sulla finestra del palazzo di via Isonzo a Taurisano, che si è ipotizzato potesse essere stata la dimora della famiglia del filosofo Giulio Cesare Vanini.
Certamente il manufatto esula dai canoni classici della rappresentazione di un’arma (a cominciare dalla sua sagoma), ma che si tratta di uno stemma lo confermano i dodici fori presenti ai lati degli steli delle rose esterne (6 per parte). Si tratta di bisanti[15] la cui rappresentazione simboleggia la ricchezza e la generosità della famiglia titolare dello stemma.
Questi elementi, che non compaiono nell’arma riprodotta dal Lanzi, con molta probabilità furono aggiunti dai titolari per sottolineare il grado di agiatezza a cui erano pervenuti nel Salento.
Si è sostenuto anche che detto stemma non corrisponde alla presunta arma dei Montano poiché alla base dello stesso non vi sarebbero raffigurati tre monti (o un monte a tre cime), ma una quarta rosa[16], scambiando per questa la parte inferiore del manufatto che, come è evidente, risulta fratturato all’altezza delle due cime laterali. Ad indurre in errore è stato verosimilmente il fregio alla base del monte centrale. Potrebbe effettivamente richiamare le rose sovrastanti, ma in realtà si tratta della parte finale superstite delle due spirali che fungevano da cornice esterna.
La conferma si ha dal confronto di detto stemma con quello della famiglia Montana di San Gemini (Tr) che riproduco in disegno da quello esistente in detta cittadina, scolpito su pietra con sottostante l’iscrizione MONTANA[17].
Purtroppo, non si è in grado di appurare quale grado di parentela eventualmente intercorresse tra i Montano di Tricase e i Montano di Taurisano e né, allo stato dei fatti, si può stabilire se sia gli uni e gli altri avessero avuto qualche legame con i Montano documentati a Montesardo fin dalla fine del XV secolo[18], o con i Montano di Salve, dei quali ci è pervenuto il complesso residenziale sovrastato da una torre di difesa circolare[19].
Si ritiene, a proposito di questi ultimi, che in un primo tempo eressero la torre recante la data 1562, apponendo al di sotto di una caditoia uno stemma in altorilievo; stranamente però sullo scudo non compare alcun simbolo: forse non vi fu raffigurato alcunché per cause che non conosciamo o forse le figure appostevi furono rimosse.
Si ritiene ancora che alla stessa torre venne addossata la loro abitazione nel 1617, data che si trova scolpita sulla trabeazione di una finestra al primo piano; ma forse il loro primo nucleo abitativo venne realizzato un secolo prima. Lo fa ipotizzare una possibile lettura dell’iscrizione presente al di sopra del portone di accesso all’antica abitazione che recita:
Per tentare di interpretare l’ultima parte dell’iscrizione azzardo l’ipotesi che (sottintendendo “A”), la “S” e la “M” stessero per “SALUTIS MUNDI”[21] e che “I” e “D” stessero rispettivamente per i numeri romani “1” e “500”, sicché l’insieme potrebbe leggersi “(nell’anno) della salvezza del mondo 1517”. La stessa interpretazione sarebbe da darsi alle lettere “S” ed “M” che si trovano incise nello scudetto sull’orlo della torre in corrispondenza del millesimo “1562”[22].
Note
[1] L. ANTONAZZO, L’antica finestra con stemma ed iscrizione in via Isonzo a Taurisano, Presenza Taurisanese, anno XXXIV, n. 4, Aprile 2016.
[2] F. DE PAOLA, Noterella sulla “vexata quaestio” della casa di Vanini, in “Presenza taurisanese”, anno XXIV, n. 6/7, giugno-luglio 2016, p.6; F. P. RAIMONDI (a cura), Taurisano e il monumento a Giulio Cesare Vanini, Taurisano – Edizioni Odigitria MMLXVII, p. 174.
[3] ARCHIVIO DI STATO di LECCE (ASLe), Sez. Not., not. A. Romano, 63/1, protocolli del 21 aprile 1599, cc. 27v – 28v.
[4]F. P. RAIMONDI (a cura), Taurisano e il monumento a Giulio Cesare Vanini, … cit. p. 174.
[5] F. ORSINO – N. BAGNARINI, I Montani, Storia Genealogico-Documentaria di una Nobile famiglia Umbra XVI e XX Secolo, in https://www.academia.edu
[6] Reperibile in: http://www.bctdigitale.comune.terni.it Per gli stemmi di detta raccolta qui riprodotti, si ringrazia la Biblioteca Comunale di Terni per l’autorizzazione alla loro pubblicazione.
[7] Il Lanzi precisa che nel 1564, con la repressione cruenta della rivolta popolare da parte delle truppe di Pio IV, Terni fu sottomessa al papato e venne soppresso il Consiglio di Credenza costituito da 24 nobili e 24 popolani, o banderari. Andarono così perse tutte le tracce del passato comprese le bandiere del popolo e il novero dei nobili che avevano fino ad allora avuto il diritto a governare la città. Riferisce ancora che dette due classi avevano lentamente nel tempo ripreso il loro posto, ma che nel 1798 un Proclama al Popolo Ternano della Repubblica Romana imponeva ai cittadini di abolire ogni tipo di stemma e livrea di Ordini Cavallereschi di cui si era fregiata fino ad allora l’Aristocrazia. Lamenta quindi l’autore che l’ordine fu eseguito pedissequamente sicché vennero distrutti tutti gli stemmi e dato alle fiamme il Libro d’oro della città.
[8] Quella dei Nicoletti era un’altra antica e nobile famiglia diramatasi in diverse regioni d’Italia. A Terni è attestata dal XIII secolo e riguardo la sua origine risulta dalle note genealogiche del capitano Simonetta che capostipite ne era stato tale Leonardo di Mazzarone, vissuto nel XIV secolo. Da Leonardo, dice il Simmonetta, “nacque Nicoletto auttore del cognome moderno padre di Leonardo juniore che cresciuto di condittione e di ricchezza generò, perché augmentar la dovesse Xforo (Cristoforo) che dalla milizia che haveva in gioventù professata, ridottossi in patria ad avantaggiar la sua famiglia, la costituì di ricchezze superiore ad ogni altra. Ma li suoi figli e nipoti, divenuti fatiosi et adescati da Camporeali, furno di sommo giovamento ai Ghibellini. Portorno in perpetuo nome gentilizio il paterno nome di Ser Xforo che fu in uso per 150 anni, riassumendo prima del 1600 i loro pronipoti quello di Nicoletto che pur oggi continuano”.
[9] Sono riportati anche tra le “Armi Gentilizie dei Benefattori” della Congregazione di Carità di Terni. (V.: L. LANZI, Congregazione di Carità – Araldica, 1890, in http://www.bctdigitale.comune.terni.it)
[10] Alla famiglia Montano – Leoni apparteneva il palazzo eretto nel 1584 dalla famiglia Fazioli ed oggi sede della Fondazione della Cassa di Risparmio di Terni e Narni. Alla stessa famiglia apparteneva dal 1600 il palazzo Mazzancolli, eretto poco dopo la metà del XV secolo da Ettore, Uditore della Camera Apostolica.
[11]Il Lanzi, a proposito dell’arma dei Nicoletti, riferì che accanto alla sua riproduzione nella Raccolta Cittadini leggeva: “Vi è piccola differenza tra li due stemmi di detta famiglia, proveniente dal medesimo stipite; il ms. accenna il campo dai monti in giù bianco, nei fiori d’oro e sopra azzurro”. Precisò quindi a sua volta che nella R.A.S (Raccolta Archivio di Stato) si trovava invece l’indicazione: “rose bianche, monti verdi, campo turchino- ed è accompagnato dal seguente distico: Turba minutato divi decorata Barensis – De patronali nomine lecta sinit ”. Anteriormente sembra che l’esametro dicesse così: Turba sub hoc signo minutato Barensis”. Uno stemma dei Nicoletti con rose bianche su campo turchino, in decusse su quello dei Camporeali, è riportato dal Lanzi che lo copiò da un dipinto sul soffitto della sala maggiore di un loro antico palazzo, mentre si rifà in parte alla seconda blasonatura quello stilizzato sopra descritto con le tre corolle di fiori che egli desunse dalla Raccolta Municipale I e dubitativamente attribuì ai Nicoletti. Riferisce il Lanzi che ad accompagnare questo scudo vi era un motto corroso di cui si leggevano soltanto le parole “…. ET PARVA ……(BA)RENSIS”. Dai succitati motti che accompagnavano gli stemmi, si ha la conferma che i Nicoletti di Terni discendevano dai de Cristofaro di Corato o Giovinazzo (Ba), dove sono attestati tra il XII ed il XV secolo. (V.: G. RECCIA, STORIA DELLA FAMIGLIA de CRISTOFARO alias de RECCIA – profili di ricerca genealogica e di storia locale – Istituto di Storia Atellana, 2010, 99 e ss.).
[12] Le due colonne posteriori recano lo stemma dei Pisanelli ai quali nel 1786 passò l’altare dopo il matrimonio di Maria Domenica Montano con Vincenzo Pisanelli.
[13] Stemma tratto da Guida di Tricase, di M. PELUSO-V. PELUSO, Congedo Editore, Galatina 2008, p. 168.
[14] A Tricase i Montano sono attestati già nel 1455 (V.: E. MORCIANO, Famiglie, devozioni e carità a Tricase in età moderna, Congedo Editore, Galatina 2006, p. 51) e nel corso del XVII secolo risultano possessori di diversi terreni in diverse località.
[15] Il bisante era una moneta d’oro dell’Impero bizantino che verosimilmente comparve nelle armi con la presa di Costantinopoli da parte dei Crociati. Negli stemmi i bisanti vengono rappresentati con figure tonde e piatte senza impronta, mentre se sono colorati prendono il nome di torte. I bisanti erano di forma concava-convessa (ed erano detti scifati) e perciò negli stemmi scolpiti, quando non sono in bassorilievo, vengono raffigurati con dei fori circolari. Il loro significato simbolico varia a seconda degli autori, ma per la maggior parte di essi i bisanti denotano ricchezza, generosità e liberalità.
[16] F. P. RAIMONDI (a cura), Taurisano e il monumento a Giulio Cesare Vanini, … cit., p. 174.
[17] Tratto da: F. ORSINO – N. BAGNARINI, I Montani, Storia Genealogico-Documentaria …, cit., p. 128. Nel testo è precisato che questo stemma, che si trova anche nella chiesa di S. Nicolò in Sangemini, è identico a quello che si trova nell’angolo inferiore sinistro della tela del 1632 raffigurante l’Annunciazione esistente presso l’Oratorio della Santissima Annunziata di Portaria, frazione di Acquasparta (Tn). Identico stemma si trova inoltre sulla porta della cappella privata (dedicata alla Madonna del Carmine) del castello di Arrone, da dove i Montano si diramarono a Piediluco e Terni. Ed ancora detto stemma, che viene blasonato dallo Spreti: “d’azzurro alla fascia d’oro accompagnata in capo da una stella a sei raggi d’argento, e da un monte a tre cime dello stesso, movente dalla punta”, è identico anche a quello dei Montano di Spoleto che, assieme a tutti i Montano dell’Umbria, potrebbero essere stati originari dell’antica Carsulae. (V. F. ORSINO – N. BAGNARINI, I Montano …, cit.).
[18] Tra i Montano che si distinsero in Montesardo nella seconda metà del XVI secolo sono da annoverare l’ U.I.D Pompeo Montano e Vespasiano Montano.
[19] Tra i Montano che si distinsero in Salve a cavallo tra il XVI e il XVII secolo è da menzionare il notaio Francesco Montano
[20] L’intera struttura è stata restaurata ma al di sopra della “E” di “DIE” non è stato evidenziato quel segno a forma di “3” (richiamante una “M” come per “OMNEȜ ”) che il lapicida aveva apposto, riportando esattamente il motto di Orazio Flacco Quinto che tradotto recita: “Pensa che ogni giorno che sorge per te sia l’ultimo”.
[21]Salus mundi (Salvatore del mondo) era definito il Cristo e l’espressione “salutis mundi” equivaleva a “A N. C.” (A nativitate Christi = dalla nascita di Cristo),“A.D” (Anno Domini= nell’anno del Signore) e a “A.R.S.” (Anno Reiparatae Salutis = nell’anno della riconquistata salvezza).
[22]Le immagini relative all’abitazione dei Montano in Salve, sono disponibili sul sito https://www.salentoacolory.it
Ciò che sto per dire non ha a che fare, almeno direttamente, con gli argomenti qui di solito trattati. Tuttavia riguarda una spiacevole situazione destinata, a parer mio, ad aggravarsi sempre più.
Ho certamente esagerato nel titolo con l’attribuire all’esito dell’incontro un divario più che stratosferico. Restando coi piedi su questa terra e pensando alla caducità umana, ben poco cambia nella sostanza. Parecchi frequentatori del web avranno notato da tempo un fenomeno, del quale ho sottovalutato lì per lì la negatività, finché non ho constatato di averci rimesso le penne o, forse, pur nella modestia delle mie scritture, la penna.
Nella stesura di un lavoro del quale mi sto occupando, nel rivedere qualche mio contributo pubblicato su questo blog, ho constatato con disappunto (anche se, e sono sincero, in misura enormemente inferiore a quello provato quando l’inconveniente si è verificato, in tutto il web, con i contributi altrui) che solo qualche link, dei numerosi che avevo inserito, prima attivi, non conducevano da nessuna parte. Infatti, quando non si tratta di una interruzione provvisoria dovuta ad una momentanea disfunzione della rete (e non è questo il nostro caso), si resta con l’amaro, più che in bocca, nel cervello, per aver perso, molto probabilmente, un’occasione per soddisfare, quanto meno, la propria curiosità.
In fondo, cos’è un link se non la versione moderna, a video, forse più dispersiva, della nota di un libro a stampa? Siamo abituati, ormai, ad osannare le nuove tecnologie come la panacea di tutti i nostri mali, ma la cecità, che per compensazione esalta gli altri sensi, è forse peggiore dell’allucinazione, tanto più se essa è continua. Può darsi che un tempo anche i libri a stampa non fossero insensibili alle sirene del profitto fine a se stesso, ma oggi, e qualcuno mi dimostri che non è così, la maggior parte dei siti nascono e si sviluppano, sperando (speranza tutta calcolata nella prospettiva di realizzazione …) di non imbattersi in qualche novello Ulisse.
Nascono, si sviluppano e solo qualcuno muore, troppo tardi per i miei gusti. Difficilmente sopravvive, comunque, quello che, in qualche modo, non generi profitto e lo spettacolo diventa ancor più desolante quando, tanto per fare un solo esempio, pure con l’Enciclopedia Treccani on line, per avere una fruizione indenne da finestre che si aprono in continuazione facendoti correre il rischio di beccarti una polmonite informatica, sei costretto ad accettare i biscottini, trattato, in forma ricattatoria, peggio di un animale , il quale di solito lo riceve come premio dopo l’esercizio …..
Nei condizionamenti e nell’aleatorietà che contraddistinguono il nostro passaggio terreno, i supporti informatici, ai quali affidiamo ciò che di noi potrebbe restare a futura memoria, non hanno ancora dimostrato di avere un’affidabilità e, soprattutto, una longevità superiore a quella, non dico dei manoscritti (non mi riferisco a quelli antichi, che, pure, sono giunti fino a noi, anche perché, pur volendolo, chi, come me che in questo momento sto freneticamente pigiando tasti manco fossero grappoli d’uva, scrive manualmente?) ma delle opere a stampa. Così basta solo che un dominio non sia più redditizio o le spese per la sua gestione non siano più sostenibili, oppure, nel caso di quelli non nati a scopo di lucro o per soddisfare idioti narcisismi, che il titolare passi a miglior vita senza che gli eventuali eredi ne continuino la meritoria e disinteressata iniziativa, perché tutto scompaia. Un solo topo (o, al limite, un vandalo umano non tempestivamente bloccato) basta per distruggere più o meno rapidamente un’intera biblioteca, basta un solo sbalzo incontrollato di tensione dell’energia elettrica o il sadismo, più o meno prezzolato, di un solo novello pirata per distruggere in un attimo un intero archivio.
Ben venga, dunque, la digitalizzazione, anche quella che permette di copiare fedelmente testi antichi, consentendone a tutti la fruizione virtuale e, per limitarne l’usura, riservare quella diretta solo a studi sofisticati e specialistici, ma non facciamone un idolo, se non vogliamo che l’esito dell’incontro diventi, anche se per la definizione corrente di infinito appare impossibile, ancor più pesante, naturalmente a vantaggio della cara, vecchia ma sempre viva, stampa. Non è vedo, forse, che dopo decine di secoli possiamo ancora ammirare piramidi ed acquedotti, mentre strade, ponti e viadotti costruiti pochi lustri fa sono già, errori di progettazione, scarsa qualità dei materiali utilizzati e insufficiente manutenzione a parte, pericolanti?
Il documento più importante sull’arte di Antonio Massari è probabilmente il libro Massari, pubblicato per le Edizioni D’Ars, Milano, nel 2010. La mole imponente del libro e il prezzo elevato ne fanno una rarità, un oggetto da collezione, e infatti esiguo è il numero di copie stampate dalla Tipolitografia Gamba (di Verdello-Bergamo) su prospetto grafico dell’architetto Monia Gamba.
Un progetto ambizioso, voluto da un artista di fama internazionale, leccese di origine e lombardo di adozione, Antonio Massari appunto, anche per celebrare la propria famiglia, dal padre Michele, noto e apprezzato pittore ed eclettico artista, alla madre Antonietta Milella, fino alla sorella Anna Maria, artista anch’ella.
Il libro infatti – un pregiato manufatto che è stimolante maneggiare, con un’opera di Massari del 1975, Onde, sulla prima di copertina, e sulla quarta una foto del 1973 che ritrae lo stesso Massari con Pierre Restany e Oscar Signorini – , reca come sottotitolo Sull’acqua… e sulla terra, e ci offe un focus sulla figura, la vita e le opere di Antonio Massari, attraverso gli interventi critici, di quanti lo hanno conosciuto e apprezzato, disposti in ordine sparso nella prima sezione, e numerosissime foto, nella seconda sezione.
Dopo una Presentazione di Antonio Cassiano, all’epoca Direttore del Museo Sigismondo Castromediano di Lecce, compare il primo di una serie di interventi sulla pittura di Massari da parte di Pierre Restany, il quale coniò per lui la definizione più nota, cioè “il meccanico delle acque”, con riferimento a quegli arditi esperimenti delle carte assorbenti che pure rappresentano soltanto una fase, per quanto celebrata, della sua intensa carriera. Un creativo infatti compie un cammino di continua evoluzione e si spinge verso sempre nuove realizzazioni, coltiva poco il ricordo delle gesta passate ma è invece proiettato per indole verso il futuro; appena terminata un’opera, ne progetta un’altra, e lascia ai critici e ai biografi, ai galleristi e ai mercanti d’arte il compito di analizzare, raccogliere, selezionare, compendiare, valutare, catalogare. Nel caso specifico di Antonio Massari questo assunto è ancor più vero, essendo egli perennemente in transizione, mai la sua arte adagiata sui risultati raggiunti o atrofizzata in un assolutismo che escluderebbe ogni novità. Nel libro, troviamo un testo critico poetico di Grazia Chiesa, un altro di Rina Durante, e numerosi interventi di Massimo Jevolella, il quale definisce Massari “operaio di sogni”, parafrasando Quasimodo sui poeti. Per Massari, il quadro nasce da un’esigenza forte, insopprimibile, che ha ben poco di programmato e di teoretico ma che affida molto, quasi tutto, al caso.
Lorenzo Madaro scrive delle note sulle opere più recenti di Antonio Massari, poi un intervento di Mario Marti, diversi scritti dello stesso Massari, come il bellissimo “Stelle-acqua-stelle”, poi di Ercole Pignatelli, di Giovanni Rizzo, di Lino Paolo Suppressa, di Antonio Verri e di Maurizio Nocera, vero deus ex machina di questa operazione editoriale.
Interessante, da un punto di vista bibliografico, alla fine del libro, la Nota autobiografica e l’elenco cronologico di tutte le realizzazioni del pittore, dalle Microonde alle Carte geometriche, dalle Carte di Giotto alle Carte del Cinema, da Entropia alle Acque rampicanti. Massari ha esposto per personali e collettive in moltissime città italiane e all’estero.
Fra i protagonisti dell’avanguardia artistica salentina degli anni Settanta, avendo aderito, insieme a F.Gelli, I.Laudisa, T.Carpentieri, A.Marrocco e V.Balsebre, al Movimento di Arte Genetica fondato da Francesco Saverio Dodaro, nella prima parte della sua carriera, ha praticato le tortuose strade dello sperimentalismo, con le famose Carte assorbenti. Ma, come spiega Maurizio Nocera in una poetica nota, “esaurite tutte le possibilità delle carte assorbenti (mille anni in avanti), può prendere tre diverse vie: insistere e diventare il falsario di se stesso, farla finita con tutto, o ritornare alla pittura figurativa (cento anni indietro)”. Massari ha scelto quest’ ultima strada. La prima carta assorbente, come spiega lo stesso autore, era nata nel 1963 a Clusone, sulle Alpi di Bergamo, seminando gocce di inchiostro direttamente sull’acqua, dopo l’esperienza dei Frammenti, delle Onde e delle Macchie; e da allora “per trentacinque anni ho dimenticato di togliere la polvere”, scrive, ed ha continuato con la sua ricerca che ha portato alle Carte elettriche, con le sfere di polistirolo espanso; poi ai Frattili o Carte di Mozart, con gli schermi di carta velina, alle Carte di Turandot, con gli schermi di spago o di nastro, alle Carte di San Pietro, all’ Omero di Raffaello, alle Carte di Aloysia Carmela, alle Pulsar, con gli schermi di borotalco, alle Carte Genetiche, ai Capelli di Milvia, con capelli umani, ai Percorsi spaziali, ecc.. Si trattava di “poemi sperimentali”, come li ha definiti Ercole Pignatelli, che costituivano “la silente rivoluzione di Massari”.
E dopo questo lungo periodo di pittura “transurrealista”, come la definisce Giovanni Rizzo (facendo riferimento alla poesia di Tristan Tzara, anticamera del surrealismo, insieme al realismo magico e alla pittura metafisica), dopo una lunga e stimolante fase affidata ad una casualità dirompente, che portò alle “opere figurative involontarie”, Massari passa alla pittura figurativa e in essa riemergono i ricordi di una vita intensamente vissuta. In queste composizioni pittoriche, diciamo tradizionali, c’è spazio per la propria infanzia e adolescenza trascorsa a Lecce, per i volti degli amici perduti, dei suoi famigliari. Infine, l’ultimo periodo della sua carriera è caratterizzato dai Collages, composti su piccoli cartoni, che rappresentano come i pezzi di un puzzle, che è la vita. “Il resto è silenzio”, con le parole dello stesso artista, che si autodefinisce “ la persona sbagliata al posto sbagliato, sempre”.
Artista di fama internazionale, dicevamo, ma dal carattere fortemente schivo, Massari non è solo pittore, ma anche scrittore. Pensiamo ai libri Les buvards se chès, con Prefazione di Pierre Restany (Parigi 1980), Edoardo(Edizioni D’Ars, 1998), sulla figura dell’amico Edoardo De Candia, Io sono straniero sulla terra(Edizioni D’Ars ,1999), 29 giugno 2000 , scritto insieme a Grazia Chiesa, Maurizio Nocera, Mario Marti e Pierre Restany (2000).
In quest’ultimo libro, l’esperienza umana di Massari si intreccia con quella di un altro Antonio, ovvero de Sant Exupèry, autore del Piccolo Principe, opera molto amata da Massari. Nel 2001 inoltre, il racconto C’era una volta Palazzo Costa, vincitore del premio “Perbacco” assegnato dall’editore Manni. Meravigliose le foto che danno gran valore a questo libro e che testimoniano più e meglio delle parole la parabola umana e artistica di un creativo sempre attento e curioso. Testimoniano anche quella temperie culturale che alcuni anni fa interessò il Salento, e, in scatti tolti alla realtà di tante sere di amicale convivialità, troviamo, insieme a Massari, personaggi come Maurizio Nocera, Ada Donno, Edoardo De Candia, Antonio Verri, Fernando De Filippi, Ercole Pignatelli, Anna Maria Massari, Grazia Chiesa, Rina Durante, Vittore Fiore, Aldo D’Antico, Franca Capoti, Massimo Melillo, Sergio Vuskovic Rojo, Silvio Nocera, Salvatore Luperto, e tanti altri.
Foto in bianco e nero della prima giovinezza di Massari, trascorsa nella sua amata Lecce, nella casa di Contrada Rapesta, Sant’Oronzo fuori le mura, con la sorella Anna Maria, Grazia Chiesa, Rita Guido, Gigi Giannotti, e poi foto delle sue opere, tante, dei Frammenti, delle Onde, delle Macchie, foto prese da varie esposizioni e del pubblico che vi ha partecipato, molte dallo Studio D’Ars di Milano con il grande amico Oscar Signorini, delle copertine dei suoi libri e dei manifesti pubblicitari delle sue mostre, della sua casa studio di Milano, foto con Pietro Martino e Ilderosa Laudisa, Mimmo Caramia, Caterina Ragusa, Marisa Romano, Lino De Matteis, Luigino Sergio, a casa di amici come Luigi Chiriatti e Marisa Palermo, foto dei suoi dipinti, ecc.
Per concludere con le parole di Maurizio Nocera, “il cammino di Massari è tortuoso, di sofferenza, sì, ma occorre andare oltre le porte del nulla, sui piccoli mondi appesi alle stelle per uscire dal vuoto(spinto), e cercare, e trovare il sorriso di una cometa”.
Il Consiglio Comunale di Patù con Deliberazione n. 2 del 11.04.2023 ha disposto la TUTELA E VALORIZZAZIONE DELL’AREA ARCHEOLOGICA DI VERETO.
Si rende noto che il Consiglio Comunale di Patù ha approvato la Deliberazione n. 2 del 11.04.2023, pubblicata all’Albo Pretorio il 13.04.2023, avente ad oggetto “TUTELA E VALORIZZAZIONE DELL’AREA ARCHEOLOGICA DI VERETO. DETERMINAZIONI”, con la quale ha stabilito di attivare la procedura prevista dall’ articolo 104 delle Norme Tecniche di Attuazione del PPTR al fine di inserire la perimetrazione dell’area archeologica Abitato antico di Vereto nella cartografia del Piano Paesaggistico Territoriale Regionale (PPTR) negli “Ulteriori contesti riguardanti le componenti culturali e insediative Testimonianze della Stratificazione Insediativa” attivando, così, la specifica normativa di salvaguardia e di conservazione paesaggistica del PPTR prevista per dette aree.
La delibera e i relativi allegati sono depositati presso l’Ufficio Tecnico Comunale e pubblicati sul sito istituzionale dell’Ente www.comune.patu.le.it.
Un ricordo non superficiale merita l’artista salentino ma milanese di adozione Cosimo Sponziello. Nato a Tuglie nel 1915 da padre salentino e madre lombarda, dopo essersi dedicato per un certo periodo all’attività di fotografo in quel di Gallipoli, nel 1941 si trasferisce a Milano dove segue la sua vera vocazione, cioè la pittura, frequentando la Scuola degli Artefici ed entrando subito nel vivo e attivissimo mondo della pittura lombarda. Tornato nel Salento nel 1943, consegue da privatista il diploma di licenza della Scuola D’Arte “G.Pellegrino” di Lecce. Suoi maestri furono Gino Moro, a Milano, e Vincenzo Ciardo, nel Salento. Dalla pittura del Ciardo, Sponziello è fortemente influenzato nella prima parte della sua carriera, distaccandosene poi, man mano che conquistava una propria cifra stilistica e personale.
Dei rapporti di Sponziello col maestro Ciardo si è occupato Luigi Scorrano nel suo Cosimo Sponziello salentino a Milano, del 1988.[1] Dei rapporti fra Sponziello ed i principali animatori di quell’importante stagione culturale fra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, ci ha dato testimonianza Antonio Lucio Giannone nel suo saggio L’itinerario pittorico di Cosimo Sponziello. La strada del timo e del pettirosso (il cui titolo è mutuato da una celebre opera dell’artista) del settembre 1992.[2]
Oltre che con Ciardo, Giannone fa luce su rapporti del pittore con Paolo Lino Suppressa, testimoniati da un proficuo scambio di lettere fra i due, e con Vittorio Bodini che, nel 1950, tracciando un panorama delle arti e delle lettere pugliesi, lo cita come uno dei migliori paesaggisti pugliesi: “Due paesaggisti delicati ha la provincia, verso il Capo di Leuca: sono Cosimo Sponziello, un discepolo di Ciardo, con un suo esile filo di poesia, e Luigi Gabrieli”[3].
E con queste parole di Vittorio Bodini, nel 2006 , l’associazione culturale “Incontri” apriva il quadernetto dal titolo Cosimo Sponziello. L’uomo, l’artista, a cura di Luigi Scorrano, con il quale volle ricordare il fotografo e pittore tugliese.[4]
Ma procediamo con ordine. Sponzielo si impone facilmente all’attenzione nazionale, grazie alle mostre che tiene in tutta Italia, come quella di Legnano, nella Galleria “La Cornice” (1974), quella di Milano, nella “Galleria Borromeo” (1976), e poi a Tuglie, nell’Aula Consiliare (1983), ancora a Milano, nella Galleria Carini con la mostra “Il mio Salento”(1987), a Tuglie, nel 1996, nella Biblioteca Comunale, con la mostra su “Cosimo Sponziello fotografo”, organizzata dal Gruppo Incontri, nella quale vengono esposte “le più belle immagini della terra natale dell’artista, i paesi, gli alberi, i volti, le testimonianze della vita e della cultura del Salento”;[5] nel 1998, nella Biblioteca del Comune di Sannicola, con la mostra “Cosimo Sponziello. I sogni della luce”, nel 1999, ancora nella Biblioteca Comunale di Tuglie, con la mostra “Omaggio al pittore Cosimo Sponziello”, a cura del Gruppo Incontri.
Molti i premi da lui vinti, come il Premio “Comune di Castellone” (1960), il I° Premio “Valli Bergamasche” (Milano 1962), la medaglia d’oro “Colori della Lunigiana” (Sarzana 1964), la medaglia d’oro del Comune di Milano alla mostra “Il nostro Po” (1969), ecc. Ancora sotto l’influsso di Ciardo, Sponziello realizza opere come Calda luce al tramonto in estate, Salento, campagna in autunno, Dalla mia finestra, in marzo, Luce d’inverno, in cui c’è una forte, intensa e calda policromia e mai personaggi in carne ed ossa.
Sponziello lascia che sia il paesaggio a parlare della sua terra e del suo popolo, come in Salento: profili e memoria o in Un pomeriggio d’autunno. “Sponziello tende a scoprire in ciò che vede e dipinge l’essenziale sia nel senso formale che in quello poetico”, scrive Vincenzo Ciardo.[6] “Da lodare Cosimo Sponziello per la sua pittura tenuta sul colore e disegnante col colore”, scrive Mario Portalupi.[7]
E Raffaele De Grada: “Io vedo i paesaggi e le nature morte di Sponziello come un nostalgico ripensamento della stagione felice del postimpressionismo, un’idea del passato, quando le spiagge erano libere, dilatate in profonde lontananze, inserita in una dolce ma rassegnata coscienza del presente, sempre ispirato dalle sue fonti primarie del Salento”.[8] “Ha sempre cercato solo liricità interiore. E ciò ha sempre conferito nobiltà alla sua opera”, scrive Antonio Imperiale.[9] Ma di lui scrivono anche Lino Paolo Suppressa,[10] Toti Carpentieri,[11] Piero Antonio Toma.[12]
Nel 1945, Sponziello si trasferisce a San Simone, frazione di Sannicola, e qui resterà fino a giugno del 1953. Poi parte a Monza per insegnare disegno al Liceo Artistico di quella città e successivamente alla “Scuola Libera del Nudo” dell’Accademia di Brera.
Ma lasciamo che a parlare sia lo stesso pittore: «Mi è stato chiesto: la pittura è stata di aiuto al fotografo e la fotografia al pittore? Certamente sì. Alla base delle due attività c’è la luce. Per la pittura e la fotografia è sempre la luce che “rivela”, modella, contrasta, attenua, modula la linea di un paesaggio, quella di un volto femminile che si affaccia seducente…. ».
E continua: « ho iniziato con la fotografia che avevo 16 anni – ritoccatore da Stefanelli a Gallipoli… a 19 anni volontario in aviazione… fino al ’40. Ritorno a casa; ma mi interessa Milano: e nel ‘41-‘42 e parte del ’43 frequento la Scuola degli Artefici dell’Accademia di Belle Arti di Brera. Scuola serale; di giorno fotografo. Dal ’43 in poi pittore e fotografo… a Brera mi sono maestri Gino Moro e Umberto Lilloni. Conosco Arturo Tosi e i “Chiaristi” lombardi. … La guerra mi costringe a ritornare al “paese natio”.
Qui il felicissimo incontro con Vincenzo Ciardo mi porta alla scoperta del “mio Salento”. Che cosa sia stata la pittura per la fotografia e la fotografia per la pittura proprio non so dirlo. Però posso affermare che tra le due attività, sempre amate, il confine con il “filo spinato” non è mai esistito ».[13]
Come detto, nell’ultima parte della sua vita, ritorna nel Salento, a San Simone, dove muore il 7 marzo 2005. Salento settembrino, La piazza è come una madre, sono i titoli di alcune sue opere, di un postimpressionismo che convince. Il silenzio dei suoi paesaggi si fa intenso, vibrante, è un silenzio carico di significati, di aspettative, e sul paesaggio spesso scarno, brullo, incombono sempre dei cieli immensi: a volte nebulosi, dai quali si apre uno squarcio di luce, a volte invece luminosissimi, con qualche nuvoletta minacciosa. I suoi paesaggi, comunque, che si ripetono apparentemente uguali ma presentano invece infinite minime variazioni, sono intrisi di grande emozione, come tutta la critica specializzata ha sottolineato. “Il continuo e sapiente smaterializzarsi del segno-colore fa memoria, luce, atmosfera dell’oggetto-paesaggio-persona raffigurati. L’artista vince la materia. Questa non oppone più resistenza alla sua volontà creativa. I colori sono quelli dell’anima. Occorrono anni e anni di accurata ricerca, ma più ancora di folgoranti intuizioni compositivo-espressive per farli vibrare sulla tela così come sono sedimentati nell’anima”, scrive molto opportunamente Franco Ventura.[14]
Nel 2006, l’associazione culturale “Incontri” volle dedicare al fotografo e pittore tugliese una serata commemorativa a cura di Luigi Scorrano, Antonio Lucio Giannone e Massimo Melica, pubblicando il già citato quadernetto. “ Cosimo Sponziello: un ritratto cordiale dell’uomo e dell’artista. La sua voce. La voce dei suoi Maestri. Quella degli amici. Delicatezza e forza d’una pittura nata nel Salento, maturata nel fervore culturale del secondo dopoguerra. Una pittura ancora da scoprire. O da rileggere. Per farne storia”[15]: così si legge nella quarta di copertina dell’opuscoletto, che riporta il giudizio dei critici che hanno scritto sullo Sponziello, e anche, nell’ultima parte, il ricordo dello Sponziello da parte dei suoi allievi, soprattutto pittori milanesi.
Un’altra mostra, “Sogni di luce”, sulla figura e le opere di Cosimo Sponziello, si è tenuta a Lecce, presso l’associazione culturale Arca, in via Palmieri, nel maggio 2007, curata da Maurizio Russo. Oltre alle mostre e ai cataloghi citati, l’auspicio è che anche questo piccolo contributo serva a far scoprire o riscoprire l’opera di un artista che merita certo tutta la nostra attenzione e il grato riconoscimento.
Note
[1] Luigi Scorrano, Cosimo Sponziello, salentino a Milano, in “Nuovi Orientamenti Oggi”, XIX, n.106-111, 1988, pp. 45-62.
[2] Antonio Lucio Giannone, La strada del timo e del pettirosso – L’itinerario pittorico di CosimoSponziello, in “Sudpuglia”, XVIII, n.3, settembre 1992, pp.127-138.
[3] Vittorio Bodini, Lettera pugliese, in Panorama dell’arte italiana, a cura di M.Valsecchi e U.Apollonio, Torino, Lattes, 1951, p.170.
[4]Cosimo Sponziello. L’uomo, l’artista, a cura di Luigi Scorrano, Gruppo Incontri, Tuglie, Tip.5emme, 2006, p.5.
[5] Luigi Scorrano, Cosimo Sponziello fotografo, Catalogo della mostra, Manduria, Barbieri Editore, 1996.
[6] Vincenzo Ciardo, Presentazione della “Mostra personale del pittore Cosimo Sponziello”, Circolo Cittadino Lecce, 6-21 marzo 1947.
[7] Mario Portalupi, Rassegna delle Mostre d’arte. Premio La Spezia a tema libero, in “La Notte”, 26 luglio 1954.
[8] Raffaele De Grada, Presentazione nel catalogo della mostra “Il mio Salento”, Galleria Carini, Milano, 5-24 febbraio 1987.
[9] Antonio Imperiale, Un allievo degno del maestro, in “La Tribuna del Salento”, 9 novembre 1972.
[10] Lino Paolo Suppressa, Mostre d’arte. Il pittore Cosimo Sponziello al Circolo Cittadino, in “Libera Voce”, 14 marzo 1947.
[11] Toti Carpentieri, Il grigio e la luce, in “Quotidiano”, 20.8.1983
[12] Piero Antonio Toma , Il passo della calandra, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1993, pp.267-268.
[13]Cosimo Sponziello. L’uomo, l’artista, a cura di Luigi Scorrano, Gruppo Incontri, Tuglie, Tip.5emme, 2006, p.13.
[14] Franco Ventura Presentazione della Mostra “I sogni della luce”, Sannicola, 3-18 ottobre 1998, in Cosimo Sponziello. I sogni della luce, Sannicola, Tip. F.lli Piccione, 1998, p.6.
[15]Cosimo Sponziello. L’uomo, l’artista, a cura di Luigi Scorrano, Gruppo Incontri, Tuglie, Tip.5emme, 2006.
Lo storico e giornalista parabitano Daniele Greco ha pubblicato un nuovo lavoro di ricerca, frutto di una ormai ultratrentennale passione per la scrittura.
In “1920-1946 – Parabita dal biennio rosso alla Repubblica“, Greco ripercorre un viaggio lungo quasi un secolo nella storia parabitana, condensato in 232 pagine ed oltre 80 fotografie.
Scopriremo cosa è accaduto a Palazzo e nella vita sociale del paese dal 1920 al 1946, partendo dal governo rosso dei socialisti di Raffaele Pisanello per giungere a quello della Liberazione e della Repubblica di Alfredo Pisanello, dopo aver attraversato il ventennio in camicia nera dei podestà Giuseppe Vinci e Bartolomeo Ravenna.
Al corpo principale del libro si associano un interessante Preambolo (del quale qui pubblichiamo l’introduzione), per raccontare cronaca e vicende politiche parabitane dall’Unità d’Italia fino all’avvento dei “rossi”, ed una Appendice con l’elenco dei sindaci e dei consigli comunali che hanno governato il paese dal 1861 al 1946.
Un lavoro certosino e puntuale di ricerca che attraverso documenti inediti dell’archivio storico del Comune e le cronache dei giornali dell’epoca consegna uno spaccato di storia, di vita collettiva, politica e sociale di Parabita.
Preambolo
Prima di addentrarci nei capitoli e nei paragrafi che argomentano il titolo ed il presente lavoro, è opportuno tracciare, seppur brevemente, il percorso amministrativo e sociale che Parabita ha compiuto sin dalle origini della storia politica cittadina “moderna”, partendo dall’Unità d’Italia per giungere a ridosso del 1920.
A cavallo tra i due secoli, si inserisce un periodo di alti e bassi, caratterizzato dalle gesta di assidui inquilini e nuovi frequentatori del Palazzo. Più di mezzo secolo di vita collettiva, che è oltremodo importante riassumere negli eventi principali, per creare l’antefatto, il preambolo appunto.
Non sono mancate crisi amministrative sorte dal nulla e di colpo ricomposte e momenti di pura esaltazione sociale che soprattutto sul finire dell’Ottocento hanno segnato indelebilmente su più fronti lo sviluppo e la crescita di Parabita. Un paese capace di istituire ben due banche, la Popolare e la Agricola Commerciale; di dare alle stampe un rinomato giornale, l’Alba, che è anche strumento di lotta politica; di far nascere laboriose industrie; di fondare una Scuola di Disegno applicata alle Arti; di costruire una nuova chiesa da dedicare alla sua protettrice e monumenti di pregiato valore artistico ed architettonico; di garantire lo sviluppo urbanistico e territoriale dettato dai tempi e dalle esigenze che cambiano.
È grazie alla operosità, all’intelligenza ed alla lungimiranza di coloro che in questo arco di tempo hanno governato, che Parabita, dal tramonto dell’Ottocento all’alba del Novecento, è diventata una cittadina opulenta, socialmente e culturalmente attiva, tanto da essere unanimemente considerata tra le più importanti dell’intera Terra d’Otranto.
Fratello del più noto Pietro Marti, fu scienziato e letterato di non poco momento. Raffaele Marti nacque a Ruffano nel 1859 da Elena Manno e Pietro. Suoi fratelli accertati: Luigi Antonio, nato nel 1855, Francesco Antonio, nato nel 1856, Maria Domenica Addolorata, nel 1858, Pietro Efrem (che morì dopo 3 mesi) nel 1861, Pietro Luigi, nel 1863[1]. Tuttavia, sappiamo da alcuni fogli autobiografici di Pietro Marti, ritrovati in una biblioteca privata, che erano quindici i fratelli, di cui Pietro, l’ultimo[2]. Fra questi, anche Giuseppe, al quale il poeta Luigi Marti dedica la sua opera, Un eco dal Villaggio (“Alla memoria di mio fratello Giuseppe morto giovanissimo vissuto a bastanza per conoscere e patire”), ma su di lui, fino ad ora, alcun riscontro.
La notorietà di Raffaele, probabilmente, fu offuscata da quella di Pietro Marti.[3] Nella prima parte della sua vita, il suo percorso si intreccia strettamente con quello del più illustre fratello, per formazione e per le prime esperienze lavorative. Ma è giunto il momento che anche Raffaele raccolga la messe che i suoi indiscutibili meriti hanno prodotto.
Come i fratelli Pietro e Luigi, anch’egli frequentò il corso primario inferiore e quello superiore, a costo di grandi sacrifici per la madre, per altro vedova. Come i fratelli, fu maestro elementare a Ruffano, e poi a Lecce, dove fondò, insieme a loro, nel 1884, un istituto secondario di istruzione privato, che era uno dei due ginnasi privati leccesi insieme a quello del Padre Argento.[4] Come Pietro, si trasferì a Comacchio, dove insegnò per alcuni anni.
Raffaele, insigne scienziato, doveva godere della stima della comunità scientifica dell’epoca se il grande Cosimo De Giorgi scrive anche una Presentazione della sua opera Golfi di Taranto, Napoli e Valli di Comacchio, definendolo “un benemerito della scienza e della nostra provincia”.[5] “Il prof Marti, il matematico insigne, che per tanti anni ha illustrato la scuola, s’appalesa oggi uno scienziato di alto valore”, scrive di lui Don Pasquale Micelli, recensendo l’opera Le coste del Salento su “L’Ordine” (Lecce, 9 maggio 1924), e continua “Il recente lavoro è un insieme armonico di tutto ciò che forma una solida cultura moderna; la Geologia, la Fisica, la Litologia, l’Idrografia, la Flora, la Fauna, la Mineralogia, la Storia, la Preistoria, la Politica, la Letteratura, l’Arte, l’Agraria, la Pesca, ecc. sono trattate con pennellate da maestro”[6].
Nel 1894, pubblica L’acquaconferenza letta nella sala del consiglio comunale di Norcia e Operazioni del calcolo e loro analogia.[7] Nel 1896, pubblica Golfi di Taranto, Napoli e Valli di Comacchio(loro produzione alimentare),[8]con Presentazione di Cosimo De Giorgi, in cui si occupa della fauna marina nei due golfi tarantino e napoletano e nelle valli di Comacchio: uno studio approfondito sulle specie ittiche che vivono nei tre mari Ionio Adriatico e Tirreno. Inoltre pubblica Elementi di Algebra.[9] Nel 1907, pubblica Dalla P. della Campanella al C. Licosa[10]e, nello stesso anno, Foglie sparse[11]. Nel 1913, dà alle stampe Gli acari o piaghe sociali. Dramma in quattro atti e cinque quadri.[12]Quest’opera viene premiata dalla Reale Accademia Filodrammatica di Palermo nel 1910 e dal Teatro Italiano di Roma il 31 luglio 1911, come opera edificante e di elevata valenza sociale[13].
Lunga fu la collaborazione di Raffaele come pubblicista nelle riviste fondate o dirette dal fratello, l’infaticabile promoter Pietro Marti. Pietro, infatti, diresse, fra gli altri, i periodici “L’Indipendente”, nel 1891, “Il Salotto” di Taranto, nel 1896, “L’avvenire”, di Taranto, nel 1897, e sempre nella città ionica collaborò a “Il lavoro” e “La palestra”; inoltre a Lecce fondò e diresse “La democrazia”, dal 1893 al 1896, poi divenuto “Il corriere salentino”, dal 1902 al 1920, “Fede”, dal 1923 al 1926, “La voce del Salento”, dal 1926 al 1933, per citare solo i più importanti. In particolare, su “La voce del Salento”, Raffaele collaborò con articoli di carattere storico e archeologico e recensioni di libri.[14]
Se con Pietro condivideva l’amore per il patrimonio artistico della nostra terra d’Otranto e la necessità di una sua strenua difesa (Pietro fu anche Regio Ispettore ai Monumenti della Provincia di Lecce, dal 1923 al 1929, nonché Direttore della Biblioteca Provinciale “Bernardini”), quindi un interesse di carattere più erudito, con l’altro fratello, Luigi, (1855-1911), condivideva l’amore per la poesia e le belle lettere.[15] Ma, come detto, gli interessi culturali in casa Marti coinvolgevano tutti i fratelli maschi. Infatti, anche Antonio (1856- 1926) fu un letterato.[16]
Raffaele scrive anche diverse commedie, a conferma della poliedricità e della varietà dei suoi interessi, come: Un’ora prima di scuola. Commedia in un atto; Patriottismo. Commedia in un atto; Il ciabattino di Sorrento. Dramma in tre atti; Gli orfani del vecchio impiegato. Queste composizioni, a quel che ci risulta, restano manoscritte e non trovano sbocco editoriale. Non sappiamo neppure se esse siano state rappresentate in teatro ma è certo che vengono fatte circolare in versione manoscritta, se ricevono alcuni premi e menzioni d’onore, come si rende noto nell’opera Le coste del Salento, che riserva una pagina alle “Opere di stampa del Prof. Raffaele Marti”, ossia una sintetica sua bibliografia degli scritti. Ed è appunto del 1924 Le coste del Salento Viaggio illustrativo, per i tipi della Tipografia Conte di Lecce:[17] un excursus storico- letterario fra le coste della penisola salentina, condito anche dalle tante leggende che avvolgono queste contrade. Nella sua nota iniziale, Marti si rivolge “Ai giovani”, invitandoli a trarre profitto da questo suo lavoro di “Geografia fisica, della Fisica terrestre, della Mineralogia, della Geologia, della Paleontologia, della Fauna, dell’Ittiofauna e della Malacologia, della Flora terrestre e marina”. Un programma certo ambizioso, forse troppo, che si propone anche di parlare delle torri, dei castelli, dei villaggi e della varia architettura salentina sparsa fra i due mari Ionio e Adriatico. Occorre però rapportare questo pur vasto programma alle conoscenze del tempo, che erano certo più scarse, per cui certe ricerche apparivano quasi pionieristiche, ed inoltre occorre tener conto dell’intraprendenza con cui taluni eruditi dagli interessi universali quale Marti si aprivano alla conoscenza. Il libro dimostra di essere molto apprezzato dalla critica. Se ne occupano tutti i giornali locali, da “La Provincia di Lecce” a “Il Nuovo Salento”, da “La Gazzetta di Puglia” a “La Freccia”, periodico di Palermo. “In una sintesi mirabile”, scrive Pasquale Micelli su “L’Ordine” (Lecce, 9 maggio 1924), “egli ha saputo raccogliere, in poco più di 100 pagine, quanto riguarda la penisola salentina, nella varietà delle coste bagnate dall’Adriatico e dallo Ionio, l’origine, la storia e l’antico splendore delle città sparse su di esse o nell’immediato hinterland, i costumi dei popoli, che la abitano, lo sviluppo intellettuale e commerciale, la natura e la fertilità del terreno […] In tutto il libro si trova mirabilmente concentrato quanto moltissimi scrittori hanno diluito in vari poderosi volumi”[18].“Il libro ci fa tornare alla memoria i magnifici prodotti della letteratura storica e scientifica francese, che tende a popolarizzare l’arte ed il pensiero”, scrive un articolista (probabilmente Pietro Marti) su “Fede” (Lecce, 20 giugno 1924)[19].“Mai mi era capitato di leggere un libro in cui fossero fermate tutte le espressioni del Salento”, sostiene Pietro Camassa sul periodico brindisino “Indipendente” (ottobre 1924), “Vi si parla di mitologia, di preistoria, di letteratura, d’arte, di storia militare, civile, politica, di pesca, di caccia, di industria…”[20]. Gli scrive anche il famoso archeologo Luigi Viola, in una lettera che Marti inserisce nel libro L’estremo Salento, insieme ai giudizi critici di cui stiamo riferendo.[21] Nel 1925 è la volta di Lecce e i suoi dintorni.[22] Anche questo libro è accolto molto bene dalla critica di settore. Ne scrive “L’Indipendente” di Brindisi (11 luglio 1925) come di un libro molto riuscito e interessante, giudizio condiviso da Nicola Bernardini su “La Provincia di Lecce” del 24 maggio 1925[23]. E sul “Corriere Meridionale” (Lecce, 20 agosto 1925), afferma Francesco D’Elia: “il presente volume del Prof. Marti ha un carattere popolare, in quanto le principali notizie storiche dei luoghi, esposte in forma spicciola, sono fuse insieme con numerose indicazioni delle varie forme di attività cittadina, culturale, artistica, industriale, che crediamo utilissime perché ci dimostrano il progresso raggiunto nella civiltà dei nostri luoghi, e quel migliore avvenire che attendono di raggiungere”[24]. Anche in questo libro Marti dà cenni di Geografia, idrografia, si occupa di storia e di arte dei principali centri dell’hinterland leccese, come Surbo, San Cataldo, Acaia, Strudà, Pisignano, San Cesario, Monteroni, Novoli, Campi, Trepuzzi, oltre naturalmente al capoluogo di provincia.
Nel 1931 esce L’estremo Salento,[25] con Prefazione di Amilcare Foscarini, il quale afferma che “se i precedenti libri di questo benemerito ed instancabile autore sono riusciti dilettevoli e istruttivi per la generalità dei lettori, quest’ultimo li supera per un maggiore interesse, poiché tratta di una contrada incantevole, lussureggiante, ricca di memorie, di terreni fertilissimi e di prodotti commerciali, cinta da ridenti marine, da stazioni balneari e termo-minerali di eccezionale importanza, poco apprezzata perché poco conosciuta”[26]. Come recita il titolo, l’opera si occupa dell’estrema propaggine del Salento, il Capo di Leuca, ovvero il Promontorio Iapigio, che divide l’Adriatico dallo Ionio. Parte dalla preistoria, citando le fonti greche e latine e passando in rassegna tutte le più svariate e oggi abusate ipotesi sulle origini del nostro popolo.
Si occupa della storia antica del Salento, della storia medievale e moderna, delle famiglie gentilizie e dei grandi personaggi del passato, secondo uno schema paludato che se oggi è superato, ai tempi di Marti era ancora in auge e anzi era l’unico metodo storiografico in uso. Si può dunque apprezzare lo sforzo profuso dal Nostro, in questa notevole attività pubblicistica e nel suo impegno nella scoperta e parimenti nella valorizzazione dell’enorme portato culturale di cui è depositaria la terra salentina.
Pur essendo uno scienziato, di robusta formazione positivista, Marti fu amato dalla Musa e seppe coltivare generi letterari così diversi con immutata partecipazione. Ulteriori approfondimenti potranno rendere più nitida una figura così interessante.
Raffaele Marti morì a Lecce il 5.2.1945, all’età di 86 anni.
Note
[1] Devo queste e le successive notizie anagrafiche all’amico studioso Vincenzo Vetruccio, il quale ha condensato le sue ricerche sulla famiglia Marti in un “Discorso Su Pietro Marti pronunciato il 19 febbraio 2015 presso la scuola primaria Saverio Lillo” Inedito.
[2] Si tratta di opera inedita, lasciata incompleta e segnalata da Alfredo Calabrese, Le memorie di Pietro Marti, in “Lu lampiune” n.1 Lecce, Grifo, 1992, pp.27-34.
[3] Sulla figura dell’erudito Pietro Marti (1863-1933), storico, giornalista, conferenziere, illustre concittadino di Ruffano, esiste una cospicua bibliografia. Tra gli altri:
Carlo Villani, Scrittori ed artisti pugliesi antichi, moderni e contemporanei, Trani, Vallecchi, 1904, p.578 (nuova edizione Napoli, Morano, 1920, pp-137-138); Domenico Giusto, Dizionario bio-bibliografico degli scrittori pugliesi (dalla Rivoluzione Francese alla rivoluzione fascista), Bari, Società Editrice Tipografica, 1929, pp.187-188; Aldo de Bernart, Nel I centenario della nascita di Pietro Marti, in “La Zagaglia”, Lecce, n. 21, 1964, pp.63-64; Pasquale Sorrenti, Repertorio bibliografico degli scrittori pugliesi contemporanei, Bari, Savarese, 1976, pp.375-376; Ermanno Inguscio, La civica amministrazione di Ruffano (1861-1999). Profilo storico, Galatina, Congedo Ed., 1999, pp.174-175; Paolo Vincenti, Pietro Marti da Ruffano, in “NuovAlba”, dicembre 2005, Parabita, 2005, pp-17-18; Aldo de Bernart, In margine alla figura di Pietro Marti, in “NuovAlba”, aprile 2006, Parabita, 2006, p.15; Ermanno Inguscio, Vanini nel pensiero di Pietro Marti, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie, n. XX, Lecce, Argo, 2009, pp.137-148;Idem, Pietro Marti direttore di giornali, in “Terra di Leuca. Rivista bimensile d’informazione, storia, cultura e politica”, Tricase, Iride Edizioni, a. VII, n. 39, 2010, p. 6; Idem, L’attività giornalistica di Pietro Marti, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie, n. XXI, Lecce, Argo, 2010-2011, pp.227-234;Idem, Il giornalista Pietro Marti, in “Terra di Leuca. Rivista bimensile d’informazione, storia, cultura e politica”,Tricase, Iride Edizioni, a.VIII, n.40, 2011, p.7;Idem, Liborio Romano e le ragioni del Sud nel periodo postunitario. Il contributo di Pietro Marti sul patriota salentino, in “Risorgimento e Mezzogiorno. Rassegna di studi storici”, n.43-44, dicembre 2011, Bari, Levante Ed., pp.147-161; Idem, Pietro Marti e la cultura salentina. Apologia di Liborio Romano, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie, n. XXII, Lecce, Grifo,2012, pp.164-185;Aldo de Bernart, Cenni sulla figura di Pietro Marti da Ruffano, Memorabilia 35, Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis,2012; Ermanno Inguscio, Pietro Marti, il giornalista, il conferenziere, il polemista, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie, n. XXIII, Lecce, Argo, 2013, pp.40-58; Idem, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013.
[4] Ermanno Inguscio, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013, p.34.
[5] “…imitate questo vostro compagno di studio, che ha scritto il suo libro raccogliendone gli elementi dalla natura vivente e reale […] Fate, fate, fate voi come ha fatto lui, e vi renderete benemeriti, non solo alla scienza, col contributo che darete, ma anche alla nostra provincia” (Cosimo De Giorgi, Prefazione, in Raffaele Marti, Golfi di Taranto, Napoli e Valli di Comacchio(loro produzione alimentare), Lecce, Tip. Lazzaretti, 1896, p.6.)
[6]Giudizi sopra alcune opere del Marti, in Raffaele Marti, L’estremo Salento, Lecce, Stabil. Tipografico F.Scorrano e co., 1931, pp.8-9.
[7] Raffaele Marti, L’acquaconferenza letta nella sala del consiglio comunale di Norcia e Operazioni del calcolo e loro analogia , Lecce, Tip. Cooperativa, 1894.
[8] Idem, Golfi di Taranto, Napoli e Valli di Comacchio(loro produzione alimentare), Lecce, Tip. Lazzaretti, 1896.
[9] Idem, Elementi di Algebra, Taranto, Tip. Latronico, 1896.
[10] Idem, Dalla P. della Campanella al C. Licosa, Taranto, Tip. Spagnolo, 1907.
[12] Idem, Gli acari o piaghe sociali. Dramma in quattro atti e cinque quadri, Lecce, Tip. Conte, 1913.
[13] Ermanno Inguscio, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013, p.195.
[14] , Ermanno Inguscio, Letteratura arte e storia nel periodico “La voce del Salento”, in Idem, Pietro Marti (1863-1933), op.cit.., pp.149-160.
[15] Luigi, sposato a Pallanza, in provincia di Novara, anch’egli firma de “La voce del Salento”, fu apprezzatissimo poeta e scrittore. Fra le sue opere, per citare solo qualche titolo: Un eco dal villaggio, Lecce, Stab. Tip. Scipione Ammirato, 1880; Manfredi nella Storia e nella Commedia dell’Alighieri, Lecce, Tipografia Salentina, 1887; Liriche, Lecce, Tipografia Garibaldi, 1889; La verde Apulia, Lecce, Tipografia Salentina, 1889; Napoleone e la Francia nella mente di Foscolo, Pallanza, Tipografia Verzellini, 1891; Un secolo di patriottismo, Pallanza, Tipografia Verzellini, 1891; Il Salento, Taranto, Editore Mazzolino, 1896; Dalle valli alle vette, Milano, La Poligrafica, 1898; ecc. Luigi morì improvvisamente a Salerno nel 1911, all’età di 56 anni.
[16] Fra le opere di Antonio Marti, basti citare: il volume di poesie Povere foglie, Lecce Tip. Editrice Sociale- Carlino, Marti e Cibaria, 1891, e Scritti vari – Novelle e Viaggi, Intra, Tipografia Bertolotti Paolo e Francesco,1893
[17] Raffaele Marti, Le coste del Salento Viaggio illustrativo, Lecce, Tip. Vincenzo Conte, 1924.
[18]Giudizi sopra alcune opere del Marti, in Raffaele Marti, L’estremo Salento, Lecce, Stabil. Tipografico F.Scorrano e co., 1931, p.8.
Il lungo periodo che va dal Carnevale alla Pasqua nella città di Gallipoli è caratterizzato da una ininterrotta serie di riti in cui più che altrove il sacro si mischia col profano, in una straordinaria sintesi che dimostra quanto sia stato operante nel passato il fenomeno che gli studiosi chiamano sincretismo.
Non si può parlare delle manifestazioni di culto a Gallipoli senza fare un raffronto fra il passato ed il presente perché la modernità ha trasformato molto, in certi casi tutto, di quel complesso di rituali e tradizioni che costituiscono il patrimonio demo etno antropologico della terra salentina. Una volta, il tempo di Carnevale a Gallipoli iniziava esattamente il 17 gennaio, festa di Sant’Antonio Abate, detto “Sant’Antoni de lu focu”, quando si accendevano tantissime “focareddhe” e si bruciavano per la città enormi cataste di gramaglie d’ulivo, dando così l’avvio alla festa con canti e balli per le strade ed i vicoli[1]. Era il suono della pizzica pizzica ad allietare i festivi ritrovi mentre il fuoco scoppiettava alzando nel cielo le sue scintille. Una tradizione, questa, che affonda le radici in un passato pagano quando la funzione apotropaica del fuoco veniva esaltata dai riti di purificazione. Il periodo di festa dunque iniziava significativamente con un battesimo di fuoco, nell’evento di Sant’Antonio Abate – al quale il rito, una volta cristianizzato, fu dedicato -, e terminava con un funerale, quello di Teodoro, la maschera popolare del carnevale gallipolino, la cui morte segnava l’avvio del periodo di mestizia consona alla Quaresima.
Teodoro, il protagonista del carnevale gallipolino d’antan, viene chiamato confidenzialmente “lu Titoru”. Come riferisce lo studioso Elio Pindinelli, la leggenda vuole che il giovane soldato, trattenuto lontano dalla sua terra, desiderasse ardentemente tornare in patria almeno per il Carnevale, nel periodo, cioè, in cui tutti potevano godere dell’abbondanza del cibo e divertirsi, prima dell’avvento della Quaresima. Anche la madre di Teodoro, la “Caremma”, in pena per il figlio, pregava perché Dio potesse concedere qualche giorno di proroga del Carnevale, e le sue suppliche furono ascoltate. Si allungò così la festa di due giorni (detti “li giurni de la vecchia”) e Teodoro poté arrivare a Gallipoli in tempo per i festeggiamenti. Era un martedì e Teodoro, per recuperare il tempo perduto, si diede a gozzovigliare partecipando della crapula insieme ai suoi compaesani e mangiando quintali di salsicce e polpette di maiale, tanto da rimanerne strozzato. Così, la festa si trasformava in funerale perché con Teodoro moriva anche il Carnevale, nella disperazione della madre e fra le urla di dolore delle vicine e comari[2].
La bara di Teodoro veniva portata in processione per le strade della città: un carro, allestito coi paramenti funebri, trasportava un pupo di paglia che raffigurava lu Titoru, fra i pianti delle prefiche (le “chiangimorti”) e i frizzi e lazzi del popolo; infatti, essendo il cadavere di Teodoro abbigliato elegantemente, con frac e cilindro, questo suscitava l’ironia dei suoi amici e compagni di bevute, straniti nel vedere un pezzente acconciato in siffatto modo. Così le imprecazioni e le battute di spirito dei partecipanti al funerale andavano avanti fino a mezzanotte quando il suono delle campane segnava la fine della crapula, cioè del divertimento matto e volgare. La rappresentazione teatralizzata della morte del Carnevale ha origini antichissime, che risalgono almeno al Medioevo, come dimostrano gli studiosi di tradizioni popolari. Nel Medioevo venivano allestite delle sceneggiate in cui era fatto morire il Re Carnevale, il quale rappresentava il sovrano di un immaginario Paese della Cuccagna, dove tutti potevano bere e mangiare a sazietà. “Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza.” Chi non conosce questi versi della ballata di Lorenzo De’ Medici, Il trionfo di Bacco a Arianna? È uno di quei canti carnascialeschi che, nel Quattrocento, a Firenze, durante il Carnevale venivano cantati dalle allegre maschere in coro su dei carri sontuosamente addobbati. È il canto della gioventù lieta e fuggitiva, un invito alla gioia e alla festa, portata dal Carnevale. Molti studiosi hanno visto una continuità fra questa festa e gli antichi “Saturnali”, che si celebravano a Roma in dicembre. I Saturnali (descritti da Macrobio nella sua opera Saturnalia) erano dei giorni, nel cuore dell’inverno, dedicati al dio Saturno e si tenevano grandi festeggiamenti, durante i quali i romani si travestivano ed accadeva che i nobili indossassero le misere vesti degli schiavi ed i poveri indossassero gli abiti dei nobili con una confusione di ruoli che è tipica della festa, ossia del tempo straordinario. Ma avventurarci nelle svariate ipotesi sull’origine del Carnevale e sulla stessa etimologia del nome ci porterebbe lontano dal tema del presente contributo. In Puglia, il Carnevale più antico è quello di Putignano, ed anche il più lungo perché i festeggiamenti cominciano il 26 dicembre, con la cosiddetta “Festa delle Propaggini”, in concomitanza con la ricorrenza di Santo Stefano, patrono della cittadina. Nel Salento, quello di Gallipoli, oltre ad essere uno dei più antichi, è certamente il più spettacolare. In passato, per le strade del borgo antico, le maschere, a gruppi, scorrazzavano per le strade invase dalla gente, fra gli applausi, i coriandoli, i confetti e l’euforia generale. Con l’inizio del Novecento, il Carnevale gallipolino si spostò nella città nuova, ma sempre “lu carru te lu Titoru” rimaneva protagonista assoluto delle sfilate. Cominciava, in quel periodo, la tradizione dei carri allegorici, sull’esempio degli altri e più rinomati Carnevali nazionali. Fu dopo la seconda guerra mondiale che questa tradizione prese piede a Gallipoli, ed ogni anno di più si allestivano enormi carri colorati, realizzati dalle sapienti mani degli artigiani locali[3].
Finiva di impazzare il carnevale nella città vecchia per spostarsi su Corso Roma, nelle nuove forme codificate dagli operatori culturali e la modernità prendeva il sopravvento sulla tradizione. Gli imprenditori gallipolini capirono di potere sfruttare meglio dal punto di vista turistico l’attrazione del Carnevale e da allora questo ha avuto un tale successo da non temere rivali nella provincia di Lecce, con una massiccia affluenza di visitatori da ogni dove. Certo, lamenta lo storico Cosimo Perrone, si è perso lo spirito originario della festa, quello che animava, almeno fino agli anni Settanta, il popolo gallipolino nel periodo carnascialesco. Purtroppo la tradizione si perde anche perché scompaiono coloro che ne erano i depositari, i vecchi maestri cartapestai gallipolini, che ormai non sono più. Quando rintoccava il campanone di San Francesco d’Assisi, spiega Perrone, tutti si mettevano in ginocchio e manifestavano la propria compunzione; cominciava così, dal Mercoledì delle Ceneri, la penitenza, che si protraeva per quaranta lunghi giorni, ovvero i giorni della Quaresima.
Dopo il Mercoledì delle Ceneri, il giovedì della settimana successiva, si festeggia la Pentolaccia, che dà la possibilità di consumare gli ultimi strascichi del Carnevale ormai concluso. Si tratta di una grossa pentola, una pignatta, nella quale sono contenuti confetti e dolciumi di ogni tipo che i bambini devono rompere, per potere venire in possesso del prezioso contenuto. Ma questa tradizione un tempo era molto più sentita: gli ultimi momenti di divertimento, prima della penitenza quaresimale di preparazione alla Santa Pasqua[4]. La Quaresima, dal latino quadragesima dies, è il lungo periodo di preparazione all’Avvento del Signore e dura appunto quaranta giorni, dal Mercoledi delle ceneri al Sabato Santo, e ricorda il periodo trascorso da Gesù Cristo nel deserto ad imitazione del quale i fedeli in passato facevano penitenza attraverso il digiuno rituale e la mortificazione della carne.
In queste settimane faceva e fa tuttora la sua comparsa sui balconi delle case non solo gallipoline la maschera della “Caremma”. Questa usanza, molto diffusa in passato, si era quasi del tutto persa ma negli ultimi anni, grazie alle associazioni culturali di molti centri salentini, è stata ripresa ed oggi nei nostri paesi tanti vicoli e cortili, balconi e palazzi espongono la simpatica vecchina di pezza[5]. La Caremma o Quaremma (secondo altre versioni Coremma) è la madre del Carnevale e, con la sua bruttezza, rappresenta simbolicamente la Quaresima, il periodo dell’astinenza e del digiuno canonico. È raffigurata da un fantoccio a forma di donna, vestita di nero e in posizione seduta: in una mano ha un fuso con un filo di lana e nell’altra una arancia trafitta da sette penne di gallina. Questo strumento rappresentava, nella società contadina di un tempo, un improvvisato calendario quaresimale che, settimana dopo settimana, veniva aggiornato, strappandole una penna per volta, fino all’ultima domenica di Pasqua quando, al suono delle campane, le si dava fuoco nelle pubbliche piazze. Il colore nero dei suoi vestiti esprime il lutto per la perdita del figlio, Teodoro. La canocchia e il filo rimandano ad una tradizione antichissima. Infatti, già nella religione dei romani, una delle mitiche Parche, Cloto, filava la trama e nelle sue mani scorreva il filo della vita degli uomini. L’arancia rappresenta il frutto selvatico originario da cui si erano riprodotti i vari innesti e il suo succo amaro è segno di sofferenza. Nei tempi passati, a mezzogiorno di Sabato Santo, si sospendevano tutte le attività e si cominciava a fare un rumore enorme; in campagna, i contadini alzavano le zappe in aria e le battevano fra di loro, le campane suonavano a festa, i ragazzini ruotavano le loro “trozzule” e le madri davano due scappellotti ai propri figli. In quel momento la Caremma (detta Saracosteddha o Saracostì nella Grecìa Salentina) esauriva il proprio compito ed allora veniva tolta dal terrazzo, appesa ad un palo e, a mezzanotte, incendiata con scoppi di mortaretti. Finiva così il periodo di Quaresima ed iniziava, con la Resurrezione del Signore, il tempo della purificazione e della salvezza. Questo antichissimo rito pagano, che coincide con l’inizio della primavera, venne assimilato dal Cristianesimo nella propria cultura. L’usanza di rappresentare con fantocci vari il periodo fra Carnevale e la Pasqua è comune a tutta Europa, sia pure con modalità diverse. Aldo D’Antico fornisce una delle spiegazioni del termine “Caremma”: questo deriverebbe dal francese “Careme”, che significa Quaresima, e si deve all’invasione delle truppe francesi nel Meridione nel XVI secolo. I soldati francesi presenti nel Salento, infatti, incuriositi da quel fantoccio simile ad una strega messo sulle terrazze delle abitazioni, gli attribuirono il significato che loro davano a “persona vestita stranamente”, altra variante del termine francese careme, anche associandola al periodo pasquale. Il dialetto salentino, poi, così pieno di francesismi, ha fatto proprio questo termine, che è diventato Caremma[6].
Ma facciamo un passo indietro. I riti della Settimana Santa a Gallipoli iniziano il venerdi precedente la Domenica delle Palme, quando si festeggia la Madonna Addolorata.
A celebrare l’Addolorata è la Confraternita di Santa Maria del Monte Carmelo e della Misericordia, ma non c’è chiesa o confraternita a Gallipoli che non esponga una effige della Vergine. Questa festa ricorda i sette dolori di Maria. A mezzogiorno in punto, la statua della Vergine, pregevole opera lignea del XVIII secolo, esce dalla sua chiesa per recarsi in Cattedrale e durante il rito religioso viene suonato l’Oratorio Sacro. Fra questi, lo Stabat Mater, la cui musica fu composta dal gallipolino Giovanni Monticchio, verso la fine dell’Ottocento: sette terzine, come i sette dolori di Maria, estrapolate dalla celebre opera di Jacopone da Todi. Alternativamente vengono suonate le Frottole.
Secondo Cosimo Perrone, l’introduzione dell’Oratorio Sacro a Gallipoli risale al 1697 e fu introdotta dal maestro Fortunato Bonaventura ed eseguita per la prima volta tra il 1733 e il 1740, nella Chiesa delle Anime. “Svariati sono stati i maestri che nell’ultimo secolo l’hanno diretta. Da Angelo Schirinzi, Gino Metti, al maestro Giorgio Zullino, il quale insieme a Metti, ha composto un preludio dedicato alla Madonna, al maestro Gino Ettorre, francescano, professore nel Conservatorio di Lecce”. Negli ultimi anni “è toccato anche alla maestra Gabriella Stea e al maestro Enrico Zullino”[7]. Come Oratorio sacro sono conosciuti anche il Mater Dolorosa, opera del maestro Francesco Luigi Bianco del 1886, e Una turba di gente, dello stesso maestro Bianco su testo di Giovanni Santoro.
La Frottola è una composizione musicale di origine popolare che risale al Settecento ed è caratterizzata da un alternarsi di toni lenti e veloci e, applicata ai sacri riti, con l’accompagnamento del canto, conferisce alla celebrazione un forte pathos[8]. È tradizione, in questo giorno, che le donne recitino mille Ave Maria. La statua lignea della Madonna è vestita di nero, con veste trapuntata di ricami dorati e una corona d’argento le sormonta il capo, ricoperto da un lungo velo fino alle spalle. Sino a qualche anno fa, la statua veniva vestita dalla nobile famiglia dei Ravenna, nella cappella privata del proprio palazzo, per un antico privilegio di cui godeva la famiglia[9]. I confratelli in abito nero e con la candela a quattro luci accompagnano la processione, insieme al Vescovo, ai sacerdoti e alle autorità civili e militari. Essi inoltre, in coppie di due, portano la Croce dei Misteri, una croce molto particolare che reca in sé tutti i simboli della Passione e Morte di Cristo, come la lancia che ferì il costato, la tenaglia, il boccale pieno di fiele, l’amaro calice bevuto nell’Orto degli Ulivi, il sudario, la corona di spine, la mano che simboleggia gli schiaffi dati a Cristo dal centurione romano, la scritta INRI apposta sulla Croce, il gallo, che rimanda al tradimento di Pietro, il martello, i chiodi, la colonna della flagellazione, la scala, la canna con la spugna imbevuta di aceto, i dadi, la tunica rossa tirata a sorte dai soldati, la sacca con i trenta denari del tradimento di Giuda e la lanterna, che simboleggia il lume portato dai soldati del Sinedrio quando andarono ad arrestare Gesù nell’Orto degli Ulivi. Colpisce, nella processione, l’immagine piangente e contristata della Madonna Addolorata e spiccano la sua veste riccamente decorata, il fazzoletto e il cuore trafitto.
Durante la cerimonia, si tiene anche la Benedizione del mare in cui la Madonna, dal bastione della Bombarda, comunemente detto di San Giuseppe, di fronte al porto mercantile, benedice l’elemento più importante per una città rivierasca, il mare, preziosa fonte di reddito per moltissimi gallipolini dediti alla pesca. L’incontro fra le due Confraternite viene detto “Ssuppiju”, termine dialettale con cui si indica propriamente l’andare incontro di una Confraternita all’altra. Ciò avviene quando nella processione la Confraternita della Misericordia si incontra con quella di Santa Maria delle Neve o del Cassopo e in segno di ospitalità sosta per alcuni minuti di fronte alla Chiesa di San Francesco di Paola, sede di detta confraternita. Come si diceva, sono numerosissime le statue dell’Addolorata presenti a Gallipoli; fra le più importanti: quella dell’Oratorio di San Luigi, quella dell’Oratorio di San Giuseppe, quella dell’Oratorio del Rosario, l’Addolorata dell’Oratorio dell’Immacolata, quella dell’Oratorio di Santa Maria degli Angeli, la Vergine del Suffragio dell’Oratorio delle Anime, l’Addolorata della Cattedrale, quella dell’Oratorio di Santa Maria del Cassopo, dell’Oratorio del Ss. Crocifisso, la Desolata dell’Oratorio di Santa Maria della Purità, l’Addolorata dell’Oratorio del Carmine e un’altra lignea sempre dell’Oratorio del Carmine[10].
Il primo venerdì di Quaresima poi a Gallipoli inizia l’ostensione nella Cattedrale di Sant’Agata della Sacra Sindone, che finisce il Venerdì prima della Domenica delle Palme. Essa è una riproduzione della Sindone del Duomo di Torino, una delle poche copie esistenti al mondo, portata a Gallipoli nel Cinquecento dal Vescovo Quintero Ortis[11]. “Nell’Oratorio dell’Immacolata, tutti i venerdì di Quaresima si è soliti fare la pia pratica delle cinque piaghe del Signore. I confratelli, partendo dalla porta d’ingresso, caricati della croce o delle grosse pietre appese al collo, salmodiando e recitando le preghiere, raggiungono in ginocchio l’altare”[12].
Luigi Tricarico riporta il modo di dire, diffuso a Gallipoli, “le uci, le cruci, le parme e a Pasca pane e carne”, con cui si fa riferimento alle domeniche di Quaresima precedenti la Pasqua e caratterizzate ciascuna da una espressione di religiosità popolare, ovvero: le voci delle Anime del Purgatorio (uci) a cui è dedicata la quarta domenica di Quaresima; le croci che vengono coperte con del panno viola (cruci) la quinta domenica di Quaresima (il velo viene tolto alle croci durante la Messa sciarrata del Venerdi Santo ed esse sono restituite all’adorazione dei fedeli); la Domenica delle Palme (parme); e quindi la fine delle restrizioni e del digiuno penitenziale (pane e carne) nella Domenica di Pasqua[13].
La Domenica delle Palme si ricorda l’ingresso festante di Gesù a Nazareth, accolto da moltitudine di rametti di ulivo sventolanti al cielo. Oggi non si tiene più la sacra rievocazione storica della Passione e Morte di Gesù curata per molti anni dalla Comunità del Canneto.
I riti pasquali hanno inizio il Mercoledi delle Ceneri, che era detto in latino caput quadragesimae, ossia inizio della Quaresima, o caputi ieiunii, inizio del digiuno. Le ceneri sono quelle dell’ulivo benedetto nella Domenica delle Palme e la loro riduzione in polvere simboleggia la più estrema mortificazione dell’uomo, secondo il detto evangelico: “ricordati che sei polvere e polvere ritornerai” (dal Libro della Genesi). Il Giovedì Santo è il giorno dedicato ai Sepolcri. In realtà, in questo giorno si ricorda l’istituzione del Sacro Mistero dell’Eucarestia e durante la Messa, in Coena Domini, che si tiene la sera, viene rievocata l’Ultima Cena di Cristo con gli Apostoli. Al termine della messa, le sacre ostie sono esposte su un altare addobbato per l’occasione, in modo da poter essere adorate dai fedeli fino all’indomani pomeriggio. E’ tradizione portare sull’altare fiori e piatti di grano germogliato al buio. Questo grano, che adorna l’altare della Reposizione, è stato fatto germogliare dalla quarta o quinta domenica di Quaresima fino al Mercoledì Santo, in una stanza completamente buia ed è offerto simbolicamente a Cristo, che, chiuso nell’Urna, risorgerà come il grano alla luce. Questi piatti di grano sono ornati con nastrini colorati e immaginette sacre[14].
Come informa Luigi Tricarico, in passato, a partire da questo momento, le campane venivano legate in segno di lutto ed era vietato persino ridere, scherzare o cantare per strada come forma di rispetto per Cristo morto e di partecipazione al dolore[15]. La sera viene fatta visita ai Sepolcri, sia dai fedeli che dalle varie Confraternite cittadine. Queste sono annunciate da tromba, tamburo rullante e “trozzula” e procedono alla visita a passo lento e in orari distinti. La trozzula è un curioso arnese di legno costituito da un manico che termina con una ruota dentata e una linguetta che, sbattendo con un movimento rotatorio sui denti della ruota, fa un grosso baccano: uno strumento antichissimo, di cui si servivano già primi cristiani per chiamarsi a raccolta nei luoghi di preghiera (la “troccola” è detta a Taranto e apre la processione del Venerdi). I confratelli indossano il saio, la mozzetta e il cappuccio completamente calato sulla faccia per mantenere l’anonimato e sono chiamati per questo, Mai, una parola che probabilmente deriva dal termine mago, forse scaturita dalla paura che un tempo il loro aspetto sinistro incuteva nei bambini.
La ritualistica dei Sepolcri, i “Sabburghi” in dialetto, commemora l’inizio della Passione di Cristo nell’orto di Getsemani. Come riferisce Cosimo Perrone, questo rito ebbe inizio a Gallipoli nella prima metà del Settecento, ad opera, probabilmente, della Confraternita di San Giovanni Battista, ora scomparsa, nella chiesetta dove oggi si venerano i Santi Cosma e Damiano.
A Gallipoli più che altrove infatti si è diffusa la devozione confraternale ed ogni sodalizio – sono dieci in tutto – è contraddistinto da propri colori e particolari privilegi ottenuti. Sfilano, sotto gli occhi dei fedeli e dei curiosi turisti, le Confraternite della Misericordia, di Santa Maria del Rosario, di Santa Maria della Neve, di San Giuseppe, del Ss. Sacramento e del Canneto, dell’Immacolata Concezione, della Ss. Trinità e delle Anime del Purgatorio.
Esse discendono dalle medievali corporazioni delle arti e mestieri e la loro composizione interna va dai muratori ai sarti, dai pescatori agli scaricatori di porto, o bastagi, dai fabbri ai falegnami, e via dicendo. Ognuna ha una chiesa propria e una propria divisa ma solo tre confraternite possono aggiungere al saio, alla mozzetta e al cappuccio, il cappello a larghe tese e il bordone da pellegrino: quella di Santa Maria della Neve e San Francesco da Paola, quella della Misericordia e quella della Santissima Trinità. Un tempo, era tradizione che nella giornata del Giovedi Santo si tenessero delle vere e proprie processioni ai Sepolcri da parte di alcune confraternite che portavano la statua di Cristo morto e dell’Addolorata[16].
Lasciamo la parola allo storico: «Anticamente, prima della riforma liturgica, quando cioè Cristo risorgeva il mezzogiorno di sabato, la funzione del Giovedì Santo cominciava fin dalla mattina presto. A mezzogiorno in punto, “per privilegio secolare” usciva la processione della Confraternita della SS. Trinità e Purgatorio (dei nobili) poi di Sant’Angelo (dei nobili patrizi), indi seguivano quelle del Rosario, Santa Maria del Cassopo, Sacro Cuore, San Giuseppe, San Luigi, Santi Medici. Alle 17,30, usciva la processione della Confraternita degli Angeli “lunghissima e ricca di simbolismo col gruppo statuario di Cristo morto fra gli Angeli, impugnanti gli arnesi del martirio”»[17]. Prima della riforma liturgica del 1957, “alle primissime ore del Venerdi Santo, ancora prima dell’alba, la Confraternita di S.Maria della Purità (la Confraternita te liVastasi, cioè degli scaricatori di porto o bastagi) attraversava con la statua di Cristo morto […] e con quella della Vergine Desolata […] le strade di tutta la città…”[18]. Oggi si tiene invece la semplice visita.
Nel pomeriggio, in tutte le chiese e chiesette viene allestita la Deposizione. Il Mistero è aperto all’adorazione del pubblico a partire dalle ore 15 fino a mezzanotte, quando la Chiesa si chiude per consentire la preparazione della Processione del Venerdi Santo. Se, nella visita ai Sepolcri, succede che due coppie di confratelli diversi si incontrino, nel già citato “Ssuppiju”, il diritto di passare spetta alla Confraternita più antica.
Un tempo, quando i sensi della religiosità popolare si esprimevano in maniera più vibrante, nella società contadina del passato, così lontana dagli stimoli e dalla moderna tecnologia, la contrizione da parte del popolo si allungava in tutto il tempo della Quaresima. Davvero uomini e donne mortificavano la propria carne con digiuni e astinenza sessuale. Oggi, per i fedeli, il periodo del rigore abbraccia la sola settimana santa, con il cosiddetto “precetto pasquale”.
Il Venerdi Santo si celebra la “Messa sciarrata”, cioè errata, sbagliata, perché esce fuori dai canoni liturgici, quasi che il sacerdote, colpito e frastornato dal lutto, non si ricordasse più come celebrarla. La Processione del Venerdi Santo è anche detta “Te l’Urnia” (ossia della Tomba) e viene organizzata dalla Confraternita del Crocefisso, a cui una volta appartenevano i bottai, che hanno l’abito rosso, la mozzetta celeste e una corona di spine sulla testa e che portano i Misteri della Passione di Cristo, e da quella degli Angeli, i cui appartenenti, ovvero i pescatori, indossano l’abito bianco e la mozzetta celeste e portano la statua della Madonna Addolorata. Questa processione si ferma davanti al parapetto che si affaccia sul mare, presso il Bastione di San Francesco di Paola e da qui la Vergine dà la sua benedizione ai pescatori, che ringraziano suonando le sirene delle loro imbarcazioni; poi si prosegue fino all’arrivo in Chiesa, intorno alle 24[19]. Questa processione, una delle più suggestive di Puglia insieme a quella di Taranto (coi famosi Perdùne), rappresenta il culmine delle celebrazioni pasquali gallipoline ed è largamente conosciuta in tutta Italia. Del resto, il movimento dei “flagellanti” ha origini antichissime: questo moto di devozione penitenziale iniziò a propagarsi in Italia fin dal Duecento. Oltre al Cristo morto, opera lignea del XIX secolo, sfilano molte statue in cartapesta realizzate su commissione del sodalizio organizzatore. La sacra manifestazione è ricca di fascino, grazie ai Penitenti, cioè confratelli che, per espiazione dei peccati, si autoflagellano ad imitazione di Cristo.
Essi sono anonimi e utilizzano per questo rito alcuni speciali strumenti, come la “tisciplina”, che consiste in lamine di ferro di varia grandezza con cui il penitente incappucciato e a piedi scalzi si percuote con la mano sinistra, mentre tiene nella mano destra un crocefisso; alcuni utilizzano un più semplice cilicio; un altro strumento di tortura è la “mazzara”, o zavorra, cioè due grosse pietre legate ad una corda che il penitente si appende al collo sempre come punizione corporale, e poi la “Croce”, i cui portatori sono detti Crociferi. Inoltre sul cappuccio, i penitenti portano la corona di spine. Questa è fatta con una pianta selvatica di asparago, raccolta in campagna le ultime settimane di Quaresima e viene chiamata “sparacine” o “spine te Cristu”.
Molto lunga e laboriosa è la preparazione dell’Urnia, cioè della Tomba di Cristo, che è portata in processione: poche ore prima di uscire dalla Chiesa, vengono cosparse sulla Tomba delle gocce di una essenza profumata che richiama gli odori tipici della vegetazione medio-orientale, e alcuni confratelli particolarmente devoti fanno arrivare questo profumo addirittura dalla Terra Santa[20].
Molte sono le statue del Cristo Morto e tutte bellissime: il Cristo Morto della Confraternita del Crocefisso, quello della Confraternita di Santa Maria degli Angeli, quello ligneo della Chiesa di San Francesco D’Assisi, opera dell’artista spagnolo Diego Villeros, del 1600; quello della Confraternita di Santa Maria del Monte Carmelo e della Misericordia, quello della Confraternita di Maria Ss. Della Purità, che è racchiuso in un’urna dorata; inoltre, il Cristo Morto con l’Addolorata della Confraternita di Santa Maria della Neve o del Cassopo[21]. Alcune Confraternite, come quelle del Carmine, della Purità, di San Giuseppe, e dell’Immacolata allestiscono anche il Mistero della Deposizione, comunemente chiamato Calvario, esponendo le statue dell’Addolorata e del Cristo Morto all’adorazione dei fedeli. Il più bello, che si poteva ammirare fino agli inizi degli anni Novanta del Novecento, era quello della Confraternita dell’Immacolata, opera dei fratelli pittori Nocera. Ma Calvari e Ultime Cene vengono allestiti anche nelle case dei privati per essere esposti, soprattutto a Gallipoli vecchia, durante il pellegrinaggio dei Sepolcri o durante la Processione del Venerdi Santo. Molte famiglie, infatti, posseggono proprie statue inerenti la Passione, anche a grandezza naturale, che abbelliscono con fiori, ceri e grano germogliato al buio. Alcune sono davvero spettacolari e scenografiche ed attirano l’attenzione degli incuriositi turisti. Durante la Processione della Tomba, aperta dal suono della “trozzula”, i confratelli si dispongono in tre coppie per ogni statua più un Correttore, senza cappuccio, che disciplina l’andamento della processione e tiene in mano un bastone di legno, il “bordone”, che reca scolpito in cima il simbolo della statua che accompagna. Tra i confratelli, uno ha in mano il bastoncino, un bastone più piccolo degli altri, ed è colui che riveste la più alta carica della Confraternita, dopo il Priore. Ogni confraternita espone i “Lampioni”, portati da quattro confratelli, e che sono un elemento caratteristico della Settimana Santa gallipolina: essi sostituiscono, nella processione del Venerdi Santo, il cosiddetto “Pannone”, cioè la lunga asta drappeggiata con i colori della Confraternita che apre le processioni ordinarie. La Tomba di Cristo viene portata a spalla dai “fratelli della bara”, che sono confratelli in borghese o semplici devoti. Un lungo serpentone di gente si snoda per le principali strade del paese, nel segno della tradizione, fra la commozione dei tantissimi devoti che affollano la città, in ispecie emigranti tornati a casa per le festività. “È come una ferita sempre aperta, per un po’ sembra rimarginarsi ma torna, sempre, profonda e lancinante. In questa città si compie il dolore, l’agonia, la morte del figlio di Dio che fu poi la salvezza dell’uomo… Gallipoli in questi giorni è Passione e Mistero, Gesù muore e la città si ferma”[22]. A processione terminata, ai confratelli vengono distribuite le tradizionali “pagnotte”, panini conditi con tonno e capperi[23].
Nella notte, invece, si tiene la processione della Desolata, organizzata dalla Confraternita di Santa Maria della Purità. Questa suggestiva cerimonia del Sabato Santo prende l’avvio intorno alle tre antelucane, quando la città è ancora avvolta nel buio. I confratelli della Purità o dei “Vastasi”, cioè gli scaricatori di porto, che indossano l’abito e il cappuccio bianco e la mozzetta color giallo paglierino, conducono la statua di Cristo Morto adagiato in un’urna dorata e la statua di Maria Desolata, che risale al Settecento, la quale, coperta da un manto nero, siede ai piedi della Croce. Il sacerdote, con il priviale rosso, che dirige la processione, reca in mano la reliquia della Croce. Dietro, vanno tutti i civili e i bambini e le bambine vestiti in abiti della Prima Comunione. Il procedere lento e cadenzato degli incappucciati, il loro salmodiare e il religioso silenzio che avvolge la cerimonia procurano negli astanti un senso di sospensione del tempo e dello spazio e non pochi sono coloro che rompono in pianto per la forte emozione di una simile esperienza. “Un’intera città avvolta da un silenzio così intenso e profondo da poterlo vedere. È il silenzio che ha il volto coperto da un cappuccio, come i confratelli che nella settimana santa rendono onore al Signore”[24]. In passato, le statue in questa processione erano portate in spalla da un gruppo di Ebrei stanziati a Gallipoli fin dal Cinquecento, detti in dialetto “Sciutei” (come i pesci). Essi abitavano nel quartiere Purità che perciò era detto Giudecca e con questo loro sacrificio volevano simbolicamente riparare al peccato di aver condannato a morte Gesù[25].
Quando i confratelli della Misericordia si incontrano con quelli della Purità, avviene “lu Ssuppiju” e vi è il saluto dei due correttori delle Confraternite. “Queste due processioni” scriveva Giuseppe Albahari qualche anno fa, “che gli ospiti stanno scoprendo sempre più numerosi, hanno […] un posto speciale nel cuore dei gallipolini, soprattutto in relazione ad alcuni momenti: il passaggio nei vicoletti del centro storico che fa quasi toccare con mano ogni statua, la lunga teoria di figure che si staglia contro il cielo chiaro del primo mattino sul ponte secentesco, la benedizione che, sul bastione della Purità, conclude il rito. E per la gente, prima mesta, è già tempo di scambiarsi gli auguri per l’incombente Resurrezione”[26]. Negli ultimi anni sulla spettacolare processione dei Misteri si accendono anche le luci dei riflettori, venendo trasmessa in diretta sui network locali, come Studio 100 e Telerama, e sul web, con la diretta streaming per i salentini nel mondo. Il suono degli strumenti di rito e l’atmosfera generale di lutto in passato si stemperavano poi a mezzogiorno quando si diceva “scapulane le campane”: allora le campane tornavano a suonare, si scoppiavano mortaretti e fuochi d’artificio e si dava fuoco alle caremme; nelle case si battevano le mani sui muri, sui mobili, sui tavoli e tutti potevano finalmente festeggiare la fine della penitenza e delle privazioni, ripetendo il detto “Essi tristu e fanne trasire Cristu” (“ esci anima cattiva e fai entrare Gesù Cristo”), a significare il rinnovamento che il giorno di Pasqua porta con sè[27]. Oggi questo succede a Mezzanotte quando, durante la solenne Veglia Pasquale, si toglie il lenzuolo che copriva il Cristo Risorto sugli altari, e si dà l’avvio alla Pasqua. Una trattazione a parte meritano le preghiere gallipoline del periodo quaresimale, i modi di dire del linguaggio popolare e i canti, di cui in questa sede non ci possiamo occupare[28].
Finalmente la Domenica di festa si possono gustare i tipici dolci pasquali, come “la pupa”, “lu caddhuzzu” e “lu panaru” che sono fatti di pane. Sulla tavola pasquale dei gallipolini di un tempo non potevano mancare “lu benadittu”, un piatto contenente un uovo sodo, un finocchio, un’arancia e un pane che era stato benedetto durante la Messa, e l’agnello, preparato come spezzatino (“lu spazzatu”). Un pezzettino di pane benedetto veniva conservato in casa per scongiurare le tempeste, quando lo si buttava nel mare dall’alto delle mura invocando la fine dei marosi e la salvezza dei naviganti[29].
A queste specialità tipicamente gallipoline si aggiungono l’agnello di pasta di mandorla, detto “pecureddhu”, farcito con la crema faldacchiera o con la marmellata, che allude all’Agnus Dei, l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Spesso, è impreziosito da cioccolatini che sono posti sopra l’impasto e da bandierine, simbolo della Resurrezione e del trionfo di Cristo sulla morte. Nel periodo di Quaresima, protagonista è anche la “cuddhura”, di cui la pupa e lu caddhuzzu sono delle varianti. Dal greco kollura, ha forma circolare, come la sfera dell’ostensorio, e simboleggia, come il serpente che si morde la coda, il cerchio del tempo che si rinnova; ma il pane è anche un elemento fondamentale della Comunione cristiana e rappresenta, come sappiamo, il corpo di Cristo che si è immolato sulla Croce, come il vino ne rappresenta il sangue. Essa può essere dolce o salata e al centro di questa specie di ciambella si mette un’arancia o un finocchio. Una volta, il pane utilizzato era rigorosamente azzimo. Fra “cuddhure” e “puddhiche” non c’è molta differenza, ma mentre le cuddhure, sia dolci che salate, si realizzano solo a casa, oggi le puddhiche si possono trovare anche nei bar e spesso, invece che con pane artigianale, sono fatte con pan brioche[30]. Ancora, le uova, simbolo di fecondità, e a Gallipoli, poi, un “must” sulla tavola pasquale sono la “scapece” (la “salsa di Apicio”), cioè pesce in aceto avvolto con pane grattugiato imbevuto di zafferano, e i “mustazzoli”, così chiamati perché un tempo erano preparati con il mosto cotto, oggi realizzati con farina, mandorle tostate e sbriciolate, zucchero, olio d’oliva, cannella, bucce d’arancia, chiodi di garofano e “gileppu”, ovvero una glassa al cacao prodotta amalgamando sul fuoco zucchero acqua e cacao[31].
Il giorno di Lunedi dell’Angelo, Pasquetta, a Gallipoli detto “Pascone”, i fedeli non rinunciano alla tradizionale scampagnata con colazione al sacco, come succede in tutto il resto del Salento. Le vivande che caratterizzano la scampagnata sono la parmigiana di melanzane, le polpette, la carne fritta e panata, e spesso anche la pasta al forno avanzata dal pranzo pasquale oppure preparata apposta, le frittelle con i carciofi e le immancabili uova sode[32].
Il ciclo di morte e rinascita, la resurrezione a nuova vita, il rigoglio della natura a primavera dopo i rigori dell’inverno, rappresentano i cosiddetti riti di passaggio delle antiche civiltà contadine e pagane, collegati cristianamente al ciclo pasquale, e su di essi si sono intrattenuti gli antropologi con una ricca messe di studi ai quali in questa sede si può solo rimandare.
Le sacre celebrazioni descritte sono oggigiorno meno radicate di una volta nella devozione popolare ma rappresentano un momento fortemente simbolico nella vita di una comunità locale. “Nei nostri Misteri”, scrive Cosimo Damiano Fonseca, “c’è una dialettica profonda tra antico e moderno”[33]. I cerimoniali della Settimana Santa che raggiungono il culmine nella Processione dei Misteri rinnovano a Gallipoli e in tutto il Meridione d’Italia un atto di fede che resiste ancora negli anni Duemila venti, in tempi di relativismo e massificante potere delle comunicazioni di massa. Certo, prevale l’elemento folclorico, perché si è capito che questi cortei sono veicoli straordinari di attrazione turistica, come lamenta Raffaele Nigro, il quale tuttavia, ammette che “riemerge comunque una palpabile voglia di contrizione e, allo stesso tempo, di purificazione. È qualcosa che persiste, a dispetto di ogni fragile certezza di questo nostro Medioevo contemporaneo”[34]. La danza dei penitenti che percorrono autoflagellandosi le storte e le stradine del borgo “umilia la velocità”, come scriveva Carlo Belli nel 1959, assistendo alla processione dei Perduni di Taranto, guardando quegli uomini incappucciati simili a fantasmi dondolanti nell’oscurità: “in un muto cammino fantasmi immobili espiano i loro peccati”[35].
Questo fascino antico è forse uno di quei portati del patrimonio immateriale di un popolo bello da tramandare alle giovani generazioni.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
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Associazione Gallipoli Nostra, La Settimana di Passione a Gallipoli, a cura di Cosimo Perrone, quinta ristampa, Alezio, Tip. Corsano, 2011.
Note
[1] Elio Pindinelli, Le focareddhe, in «Almanacco gallipolino 1995», Gallipoli, Grafiche Sud Pacella, 1995, p. 6.
[2] Idem, Lu Titoru –La Caremma, in «Almanacco gallipolino 1995», cit., p. 10 e p. 14.
[3] Idem, A Gallipoli un Carnevale d’altri tempi, in «Almanacco gallipolino 1996», Gallipoli, Grafiche Sud Pacella, 1996, p. 17.
[4] Regione Puglia, Crsec Le/48- Gallipoli, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli Tra storia mito e leggenda, a cura di Cosimo Perrone, Alezio, Tip. Corsano, 2003, p. 40.
[5] Loredana Viola, Prima di Pasqua si darà fuoco alla “Curemma”, in «Quotidiano di Puglia», 12 marzo 2006; Misteri e Caremme, così si celebrano i riti della Passione, in «Quotidiano di Puglia», 7 aprile 2006.
[6] Centro Solidarietà Madonna della Coltura Parabita, La Caremma, a cura di Aldo D’Antico, Parabita, Il Laboratorio, 2002. Elio Pindinelli, La Caremma, in «Almanacco gallipolino 1995», cit., p. 14. La vecchietta brucia nel rogo e le feste possono cominciare, Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 7 aprile 2004. Maria Claudia Minerva, Con l’arrivo di Pasqua finisce l’astinenza: fuoco alle Caremme, in «Quotidiano di Puglia», 12 marzo 2007.
[7] Regione Puglia, Crsec Le/48- Gallipoli, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli Tra storia mito e leggenda, a cura di Cosimo Perrone, cit., pp. 51-91.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem. Si veda inoltre Luigi Tricarico, Te le “Cennereddhe”…a Pasca (riti, tradizioni e suggestioni della Quaresima gallipolina) Con la collaborazione di Cosimo Spinola, Santuario Santa Maria del Canneto, Alezio, Tip. Corsano, 2004.
[10]Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit.,passim.
[11] Ibidem.
[12] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim.
[13] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit.,passim.
[14] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim. Si veda inoltre: Associazione Gallipoli Nostra, La Settimana di Passione a Gallipoli, a cura di Cosimo Perrone, quinta ristampa, Alezio, Tip. Corsano, 2011.
[15] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit.,passim.
[16] Ibidem.
[17] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim.
[18] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit.,passim. Si può anche utilmente consultare: Un anno a Gallipoli (tra sacro e profano), in Comunità del Canneto, Perle di ieri, a cura di Luigi Tricarico, Alezio, Tip. Corsano, 2002, pp. 97-114.
[19] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim.
[20]Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit.,passim.
[21] Ibidem.
[22] Cinzia Di Lauro, Gallipoli Passione e mistero nel borgo del mare e del vento, in «Qui Salento», Lecce, Guitar Edizioni, aprile 2005, p. 62.
[23] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit.,passim. Si veda anche G. F. Mosco, Gallipoli – Venerdì Santo. Moviola per una processione, Ed. Ass. L’Uomo e il mare, Tuglie, Tip. 5emme, 2003, passim.
[24] Serena Mauro, Il silenzio della Passione tra incappucciati e penitenti, in «Qui Salento», Lecce, Guitar Edizioni, aprile 2006, p. 60.
[25] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim.
[26] Giuseppe Albahari, Sfilano i Misteri e il mare fa da sfondo, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 10 aprile 2009.
[27] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit.,passim. Si veda inoltre Mistici silenzi nella processione dei Misteri, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 6 aprile 2007.
[28] Ibidem. Inoltre: Un anno a Gallipoli (tra sacro e profano), in Comunità del Canneto, Perle di ieri, a cura di Luigi Tricarico, cit.; Ettore Vernole, La passione di Gesù nelle tradizioni popolari salentine, in «Archivio per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari italiane», a. XIV, fasc. III-IV, Catania, 1939, pp. 143-155.
[29] Elio Pindinelli, Il pranzo pasquale, in «Almanacco gallipolino 1995», cit., p. 16. Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 7 aprile 2004. Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 23 marzo 2005.
[30] Si veda: Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 5 aprile 2007.
[31] Elio Pindinelli, La salsa di Apicio, ovvero la scapece, in «Almanacco gallipolino 1996», cit., p. 18.
[32] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim. Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit.,passim.
[33] Antonio Di Giacomo, I giorni della Passione. Cortei e penitenti incappucciati “Una gran voglia di Medioevo”, in «La Repubblica-Bari», 8 aprile 2004.
[34] Ibidem
[35] Carlo Belli, La notte dei Perdoni, ovvero la velocità umiliata, Roma, Tip. Pedanesi, 1974, p.42.
Non è la prima volta che mi interesso di Arte Digitale, lo faccio stavolta raccontando un altro poliedrico personaggio che da decenni segna il Salento col suo simbolismo figurativo, un artista che si ispira a Magrittè e Dalì, ma che anche attraverso rappresentazioni teatrali, grafica pubblicitaria e tanto altro ha saputo affermarsi nello scenario contemporaneo. Sto parlando di Piero Schirinzi che ho conosciuto a Tuglie grazie alla Compagnia Teatrale Calandra di cui è storico componente.
L’idea di intervistarlo nasce da prima della pandemia ma per forza di cose solo ora siamo riusciti a incontrarci nel suo studio a Collepasso. L’ambiente mi si presenta come una sorta di galleria sulle cui pareti si alternano luoghi surreali e figure fantastiche. Dopo un caffè e una riassuntiva descrizione dei luoghi in cui tutto nasce, tra postazioni Apple e tavoli da disegno, ci accomodiamo alla grande scrivania che domina la sala.
Mi incuriosisce sempre conoscere gli albori di chi ha scelto l’arte come strada per la propria carriera, com’è stato per te?
La mia è quella che si definirebbe una “dote innata”, sin da bambino alle scuole elementari ho sempre saputo di poter contare su questa qualità, forse più che su altre. Alle medie ebbi la fortuna di avere come insegnante Lionello Mandorino, importantissimo esponente della pittura salentina del Novecento, il quale mi diede dei consigli che ricordo tuttora e che alla fine della terza media fu lui stesso che mi indirizzò verso il Liceo Artistico di Lecce.
Ho letto però che hai frequentato il Tecnico per Geometri.
È esatto anche questo, o almeno in parte. Dopo tre anni lasciai il Liceo perché il mondo del lavoro mi imponeva un “pezzo di carta” e io nei cinque anni successivi, mentre lavoravo come disegnatore da tecnigrafo presso lo studio di un architetto che si trova proprio qui di fronte (indica una finestra nel palazzo dall’altra parte della strada), frequentai un corso accelerato per Geometri. Anche se poi alla fine quel diploma mi è servito a poco, considerato cosa faccio oggi. Ciononostante continuo a ritenere quella gavetta professionale davvero formativa, in quanto ho avuto modo di affinare con l’esperienza le nozioni che avevo studiato al Liceo Artistico.
Devo ammettere che sono affascinato dal fatto che a questa tecnica tu ci sia arrivato partendo dalla più classica pittura.
Sì, certo! È di tutta evidenza che nel mio percorso l’arte digitale non poteva assolutamente essere il punto di partenza, se non altro per ragioni squisitamente anagrafiche dato che sono nato nel 1960 e negli anni ’80 il computer non era esattamente lo strumento versatile che tutti conosciamo oggi. Il modo di creare arte che attualmente mi rappresenta è invece il risultato di varie tecniche che ho sperimentato nei corso dei decenni. Per dipingere all’epoca utilizzavo olio, matite, qualche acquerello, ma ti dico come la penso: più importante della tecnica è sempre il messaggio. Inoltre, pur riconoscendo lode e merito a certi virtuosisti della pittura che arrivano a riprodurre persino i pixel, io francamente non li capisco, raggiungono livelli di precisione nei dettagli che al giorno d’oggi l’uso della fotografia semplifica di molto.
Com’è avvenuto il passaggio al digitale?
La pittura per me aveva dei tempi troppo lenti e volendomi dedicare a temi surrealisti che implicano un indiscutibile livello di concentrazione, in quegli anni ero alla ricerca di mezzi che mi agevolassero non solo in ciò che facevo per diletto ma soprattutto nel lavoro.
Nel ’92 mi proposi, a titolo gratuito, come disegnatore alla tipografia Aluisi di Collepasso, una delle prime in zona ad aver investito nei computer per la grafica: i primi Macintosh. E fu proprio lì che incontrai per la prima volta nella mia vita tastiera e monitor: amore a prima vista che non si è ancora interrotto. Ho iniziato così a trasfondere tutto ciò che sapevo nel digitale e confondevo spesso, come mi capita ancora, il lavoro col piacere.
Quindi, per sintetizzare, possiamo dire che la migliore caratteristica dell’Arte digitale è l’immediatezza tra pensiero e realizzazione?
È decisamente questa la caratteristica migliore, sì. Poi va detto che, a seconda della complessità del soggetto, parto diverse volte da un bozzetto preparatorio a matita, ripreso, ritoccato, sistemato fino a ottenere una base soddisfacente, dopodiché si passa alla scansione e alla vettorializzazione. È su questo principio che nasce l’intera costruzione dell’immagine digitale, che non è mai assolutamente elaborazione di immagini o ritocco fotografico, ci tengo a questa precisazione. Ed è una tecnica per la quale vengo persino chiamato a relazionare in workshop organizzati in tutta Italia.
Quando hai iniziato a capire che le tue opere piacevano al pubblico?
Sarà perché non tocco i pennelli dal lontano 2000, ma parto col dire che non mi sento un pittore, piuttosto un illustratore. Non lo dico per declassare quello che faccio, figuriamoci, sottolineo che amo il mio lavoro e per molti versi lo considero un’arte ma ancora oggi, così come quando ho iniziato a vendere le illustrazioni che realizzavo esclusivamente per il mio piacere, mi sorprendo del fatto che la gente possa pagare per una stampa perché, a rifletterci, l’originale in questo campo non esiste materialmente. Nel 2010, per mezzo di una mia amica e collega, fui invitato in Calabria ad esporre alcune mie tavole e accettai persuaso dal pretesto di trascorrere cinque giorni in vacanza. Con mia enorme sorpresa la mostra fu un successo e alla sua conclusione avevo persino venduto le locandine che mi ero portato a corredo del mio curriculum. Da quel momento ebbi la certezza che esisteva un pubblico interessato alla mia arte.
Riguardo la riproducibilità delle stampe ti hanno mai chiesto l’esclusiva di un’immagine?
Chiaramente sì. Intanto diciamo che come avviene per le copie di litografie, dove l’artista a un certo punto riga la matrice, anche io m’impongo un definito numero di copie, cinquanta per ogni opera, oltre il quale non andrei. Poi può accadere, come è effettivamente successo con la SEA, importante azienda a livello nazionale che si occupa di servizi ecologici ambientali e che ogni anno seleziona illustratori per il suo calendario artistico, che proprio per l’edizione 2023 abbia acquistato l’esclusiva di dodici mie opere.
So che hai avviato nel tempo importanti collaborazioni anche con case editrici.
Per mestiere tratto spesso con editori, realizzando copertine, illustrazioni e altro. Attraverso i libri ho avuto l’occasione di allacciare proficue collaborazioni con autori brillanti i quali, prendendo spunto da alcune mie creazioni, hanno imbastito brevi racconti o realizzato interi libri. Un esempio del genere è accaduto durante il lockdown quando la Morganti Editori, del Friuli Venezia Giulia, propose a trentadue suoi autori di lasciarsi ispirare dai miei disegni tra cui un Cupido obeso e posto arbitrariamente sotto una campana di cristallo a simboleggiare l’isolamento. Quasi contemporaneamente è successo ancora con un’altra autrice che ne ha tratto un nuovo libro. Ho trovato questi esperimenti intriganti e insoliti perché loro offrivano a me, che ne sono il creatore, chiavi di lettura introspettive e psicologiche mentre le facevano proprie dando sfogo alla loro di arte: la scrittura.
Altri incarichi in questo settore?
Non posso non citare la Rizzoli Education la quale, sempre durante l’ormai tristemente celebre pandemia del Covid, mi ha selezionato affinché mi occupassi del settore testi scolastici, in particolare mi è stato affidato il compito di illustrare le favole dell’antologia per ragazzi delle scuole primarie “Lettura Oltre” di Rosetta Zordan. È forse uno dei lavori più prestigiosi che abbia svolto sino ad oggi, se non altro l’orgoglio di essere stato scelto tra professionisti di tutta Italia e forse anche fuori dai confini nazionali.
Mi sembra di capire che l’editoria ti ha offerto l’occasione per puntare su sempre nuove sfide.
È proprio così, e ogni nuovo incarico è sempre più avvincente. Ultimamente mi è capitato persino di lavorare insieme a Roberto Marius Treglia come coautore per le illustrazioni del romanzo interattivo Brilla edito da Vesepia edizion, le cui illustrazioni, attraverso un’applicazione scaricabile sullo smartphone, si animano magicamente. Ma non solo, l’audiolibro è recitato da attori, quindi non una semplice lettura.
Come si coniuga tutto questo con la passione per il teatro?
Inizialmente il mio vero interesse era la scenografia e credo di aver raggiunto buoni livelli anche lì. Non cambia molto dal trasporto che nutro per l’arte figurativa che mi ha influenzato per tutta la vita. Più della messa in scena ciò che mi ha affascina da sempre è la costruzione dello spettacolo perché, come nella grafica, non guardo all’opera finita ma al percorso. Oggi mi trovo a far parte di una bella famiglia che è la Compagnia Teatrale Calandra per la quale realizzo locandine, scenografie, varie ed eventuali.
E reciti anche.
Quando si fa parte di una squadra come la nostra bisogna mettere in conto la versatilità, diciamo così, ma non mi sognerei ad esempio di affrontare l’interpretazione un monologo. Il ruolo di scenografo piuttosto mi ha dato ben altre soddisfazioni. Ricordo per l’appunto due primi premi per la miglior scenografia e miglior locandina teatrale, entrambi per il nostro Don Chisciotte Sancio Panza.
Cosa vedi nel tuo futuro?
Proprio in queste ultime settimane sta prendendo piede il tema che riguarda una nuova tecnologia, che sta spaventando non solo artisti, grafici e fotografi ma che sta sconvolgendo anche altri settori come la letteratura, il giornalismo, lo spettacolo, ecc., un argomento che merita un’attenzione e un approfondimento principalmente etico. Sto parlando dell’intelligenza artificiale. Le possibilità di questo nuovo prodotto sono incredibili ma se c’è una cosa che forse ho capito è che, anche in questo caso bisognerebbe adoperarlo invece che farsi usare. Alla fine è sempre l’uomo che introduce le informazioni, le indicazioni e la propria cultura.
È davvero utile tutto questo all’uomo?
In questo momento ci sono trilioni di persone in tutto il mondo che stanno immettendo nell’intelligenza artificiale una banca dati di incalcolabili proporzioni. Io so solo che non la possiamo fermare e allora dico a me stesso che è meglio approdare a questa tecnica prima degli altri. In fondo quando è arrivata la fotografia i pittori la temevano, poi col tempo proprio le foto hanno favorito la pittura.
Forse il vero problema dell’uomo rispetto alla tecnologia è l’impigrimento ma in fin dei conti tutto dipende da quale profondità si decide di pescare.
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