Vuoti a Perdere e Viola

Un affresco italiano e salentino di Pervinca Paccini in

VUOTI A PERDERE e VIOLA

 

di Maria Antonietta Bondanese

 

In guerra contro il “mercato del nulla”, il vuoto dei valori, la comunicazione ipertrofica ma illusoria di “estranei viventi tra estranei”, Montale pubblicava nel 1966 la raccolta di saggi Auto da fé, esplicito atto d’accusa di una società tecnologica, mediatica ma senz’anima. Nel solco montaliano, la casa editrice milanese Autodafé, artigianale e di qualità, propone libri di narrativa aperti sulla realtà sociale dell’Italia d’oggi. Realtà che, tra le diverse possibili, trova una rappresentazione ricca di significati nelle opere di Pervinca Paccini, dove al lettore sono dati scenari in cui ricomporre la dispersione irrelata delle cose e rintracciare, tra analogie e differenze, anche la personale esperienza.

Complesso è lo sfondo che l’Autrice ricostruisce nell’antologia di racconti Vuoti a perdere, dando volti, nomi, immagini ad aspetti della vita problematici o marginali, destinati a rimanere muti ma che, grazie alla sua scrittura, diventano invece chiari, eloquenti. Ciò che era messo da parte o sottaciuto è riscoperto e finalmente si riesce a vederlo, ad esserne consapevoli. Funzione, questa, insostituibile del racconto o del romanzo, che lasciano modo a chi legge di trasformare una sensazione, una intuizione in pensiero e conoscenza. Quello che oggi, nell’universo dell’informazione istantanea e globale, finisce con l’essere smarrito. In un tempo che Bauman ha definito “puntillistico”, senza dimensioni, il tempo del web, della gigantesca rete in cui si consuma un’emotività potente ma effimera, crolla l’attitudine alla profondità, alla riflessione. La molteplicità dei contatti dissimula la sommarietà dei rapporti. Così che a rimanere sconosciuto è proprio il mondo abituale, a rimanere sconosciuto è chi ci passa accanto. Attraverso una parola letteraria lucida, a tratti ironica e graffiante, a volte densa di lirismo e di malinconia ma sempre concreta e coinvolgente, Pervinca Paccini inchioda la nostra attenzione sugli altri, sulla umanità in noi e attorno a noi. Umanità ristretta a livello biologico, senza redenzione, nel testo intitolato Carne, dove «fra gli ideali scarnificati e la carneficina degli ideali» di un “io” narrante autocritico e disilluso, monta la nausea per la “carne”, la calca che affolla le metropolitane, gli ipermercati urbani, votata al consumo ma deprivata della solidarietà. Una indifferenza che annienta la giovane rom dagli «occhi di ossidiana», Brenda, la cui vicenda di ordinario razzismo distilla tragica nello spazio bianco su cui amaro si chiude il racconto.

Storie di solitudini, schegge di singole vite vibrano in una pluralità di voci, che parlano di una quotidianità fatta di precarietà e di inquietudine. «Che te ne fai dell’orgoglio? Serve solo a rendere più tagliente il freddo e più densa la solitudine», avvilita se lo chiede la moglie tradita ma rassegnata al perdono, nello sfiorire della femminilità. «Mi sento in colpa perché non voglio ingrassare, perché non sono come vorrei, perché non sono come gli altri, perché mi sento sporca come una fogna», confessa la ragazza anoressica dalla sua spirale d’infelicità. Fra il dramma della coppia che si ama ma che non scorge più futuro «con i piedi ancora nel giorno e il cuore nella notte», il livore reciproco di coniugi anziani ma comunque inseparabili, il malessere si stempera però in gradazioni diverse, dal tragico all’umoristico. Fino al comico, nella vicenda di Gregorio, barista di professione, «ficcanaso» per passione, burlone non meno spassoso di Bruno e Buffalmacco, le simpatiche canaglie di Boccaccio. Figura stravagante, resiliente, attraverso la quale filtra in modo scherzoso l’interesse dell’Autrice al vissuto delle persone, quasi una dichiarazione di poetica sottotraccia: «Mi intrufolo nelle storie che mi raccontano e – quel che è peggio – non mi basta ascoltare. Mi immedesimo. Ci metto il becco. Fatti gli affaracci tuoi!, mi sono più volte minacciato da solo davanti allo specchio mostrandomi i denti e il pugno. Ma che ti frega degli altri?» Sconfitti ed emarginati o caustici ed integrati, i personaggi delle varie storie non sono mai ridotti però a tipi o categorie della commedia umana. Con pochi tratti e mimesi straordinaria, l’Autrice li salva dall’anonimato e li scolpisce nel nostro ricordo.

Intrico di memoria individuale e collettiva, il romanzo Viola si oppone all’ «inedia morale», al «sonno dei ghetti quotidiani», alla stagnazione del senso civico di partecipazione, all’isolamento prodotto dall’individualismo senza misura di oggi. Le speranze di una generazione «figlia dei grandi movimenti, quegli anni settanta così nitidi, così inflessibili nelle loro leggi per le quali si stava da una parte o dall’altra….così sicuri di poter cambiare il mondo», tornano nell’evocazione dei protagonisti che, pur nel disincanto dell’età matura, ancora avvertono «la fame di utopie». La «giovinezza che si riempiva la bocca di slogan gridati come si recitano le preghiere» prorompe di nuovo da queste pagine, con gli eskimo indossati «come una tonaca» e quella intransigenza che «uno dopo l’altro, andava smantellando i dogmi dei padri in nome di altre verità rivelate». La storia si dipana in Viola entro quattro “movimenti” costruiti, con modulato ritmo narrativo, sul rinvio tra passato e presente. La contestazione e i volantinaggi, i collettivi e le manifestazioni di ieri non sono resoconto di cronaca ma azioni e parole di protagonisti in carne ed ossa, che sognavano allora l’esodo da un mondo invecchiato. Oggi, però, ormai adulti, non saprebbero dire perché a quella rivolta etica abbia corrisposto non un disegno diverso di vita ma la rimozione, l’inerzia, o la deriva della violenza e del terrorismo. Interrogativi inespressi ma che il romanzo fa trapelare nel suo vivido affresco di un’epoca controversa che, nel bene e nel male, ha lasciato una eredità con cui dover fare i conti. Immobile, ferma nel tempo, resta soltanto l’immagine di Viola. Una giovinezza spezzata. Una morte improvvisa in circostanze non chiare il cui enigma irrisolto genera tensione, dolore e spinge infine la sorella Giulia alla ricerca della verità. Una ricerca a ritroso, che a tratti si tinge di giallo, a tratti porta a chiedersi cosa si è diventati nella trappola degli anni. Quando, per strada, si sono perduti persone, affetti e «in qualunque direzione si guardi, si vede solo il vuoto». Rimpianto che in Gabriele, a fianco di Giulia nell’indagine, è nostalgia delle origini, della «terra rossa e riarsa del Sud», del cielo del Salento dove «gli ulivi sono sculture antiche che le cicale svegliano ogni giorno». Radici che trattengono Gabriele dal farsi «sopraffare dall’insensatezza» di un presente contraddittorio, dalle domande inevase su Dio e sulla morte, «una bestemmia quando è così bastarda da incapricciarsi della giovinezza». Perché Viola è non solo romanzo di formazione, generazionale, politico ma anche narrazione di una crisi epocale e anelito a spalancare ancora una volta «le porte della speranza».

 

 

 

 

La pratica dell’asta nei riti della Settimana Santa a Gallipoli

La pratica dell’asta nei riti della Settimana Santa della confraternita di Santa Maria degli Angeli di Gallipoli, alla luce di un documento del 1762 *

 

di Antonio Faita

In  “… Animos eorum maceravit…”, pubblicato alcuni giorni fa , illustrai come, nel XVIII sec., la confraternita di Santa Maria degli Angeli curava i riti della Settimana Santa e in particolar modo la processione dei Misteri nei giorni di Giovedì e Venerdì Santo1.

Sulla base delle testimonianze descritte sin dal 1726 ho messo anche in risalto una certa ritualistica penitenziale che si svolgeva all’interno dell’oratorio, fino a produrre negli anni a seguire un cambiamento, sia nella liturgia penitenziale quaresimale che nello svolgimento di questi riti, nei quali prese sempre più corpo la reiterazione di queste pie pratiche2.

Rileggendo attentamente i documenti del “Libro degli Annali e Conclusioni dal 1727 al 1766”, emerge un nuovo particolare, una pratica inedita, forse unica nel suo genere, non solo in Gallipoli ma presumibilmente in tutta la Puglia, riguardante lo svolgersi d’una “gara d’asta” per l’aggiudicazione dei simulacri del Cristo morto e dell’Addolorata. Questa forma d’asta veniva praticata  e lo è tuttora, nel capoluogo jonico, come famosi sono in tutto il mondo i riti della Settimana Santa, unici nel loro genere di maggiore coesione e identità3. Infatti il momento cruciale sia del pellegrinaggio ai sepolcri che delle due processioni è costituito dalle aste, le “gare”, “gli incanti” nel Calabrese, per l’aggiudicazione dei simboli che vede impegnate sia la confraternita dell’Addolorata, sia quella del Carmine.

In realtà le aste sono delle assemblee straordinarie dei confratelli e, pertanto, possono partecipare alle “gare” tutti gli aggregati che mediante libere offerte si aggiudicano i simboli delle due processioni e le varie immagini sacre. Alcuni studiosi, dei riti tarantini ritengono che l’aggiudicazione per asta, da molti contestata, si effettui forse dalla nascita dei riti della Settimana Santa, tra la seconda metà del XVII sec. e i primi del

Musei di Terra d’Otranto. Il museo diocesano di Gallipoli

Musei di Terra d’Otranto. Il Museo Diocesano di Nardò-Gallipoli. Sezione di Gallipoli

di Alessandro Potenza

Il museo diocesano – sezione di Gallipoli è allestito nella sede dell’antico seminario diocesano, realizzato in un lasso di tempo che va dal 1751 al 1759. Si tratta di un immobile architettonicamente pregevole, collocato alle spalle della cattedrale e in contiguità con essa; un edificio  giunto fino a noi pressoché integro e che,  attraverso alterne vicende, perdendo negli anni ’70 del secolo scorso la sua originaria destinazione a causa del calo delle vocazioni ecclesiastiche, oggi accoglie la recente istituzione.

Il museo raccoglie 553 manufatti, comprendenti sculture,  dipinti, argenteria e oreficeria liturgica, paramenti sacri e materiale archeologico.

Le opere esposte provengono in gran parte dal tesoro della basilica concattedrale e dal palazzo vescovile di Gallipoli. Vi sono anche  manufatti provenienti dall’ex-chiesa di Sant’Angelo, dalle chiese della B.V.M. del Rosario e di S. Maria dell’Alizza e dal patrimonio del seminario.

Il museo si sviluppa su tre piani e gli spazi espositivi sono costituiti da 12 sale, quattro saloni, l’ex-cappella del Seminario, l’antico refettorio, per una superficie complessiva di 900 mq circa. Vi è una sala multimediale e un punto di ristoro, collocato sulla terrazza dell’edificio, con uno spettacolare belvedere.

Al piano terra,  oltre ai servizi di accoglienza (biglietteria, bookshop) e  alla  direzione, vi sono: l’antico refettorio del seminario,  rivestito in legno  intarsiato;  un salone occupato da due grandi tele: l’Assunta, capolavoro del 1737 di Francesco De Mura e l’Immacolata del gallipolino Gian Domenico Catalano (1560c.–1624c.); la sala multimediale. Due cippi funerari di epoca imperiale fanno memoria dell’antichità della città. Due tombe bizantine, rinvenute presso la locale chiesa di S.Giuseppe picciccu, rappresentano le più antiche testimonianze monumentali cristiane del territorio. Una serie di campane rievocano l’arte dei fonditori gallipolini (tra i quali i Roscho e Patitari), attestata fin dal sec. XI.

Il primo piano raccoglie i manufatti illustrativi delle devozioni popolari del luogo. Nell’antica cappella del seminario sono esposti i busti argentei dei patroni: S. Agata (1759) e S. Sebastiano (Filippo Del Giudice, 1770), i preziosi

Musei diocesani pugliesi scrigni di ricchezze

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di Giuseppe Massari

Nel panorama culturale pugliese ci sono delle testimonianze e delle realtà che non si può fare a meno di visitare. Tra i tanti doni naturali che la Puglia possiede, e che ha gratuitamente ricevuto in dono,  ci sono quelli costruiti da mani esperte ed umane. Sono immagini sacre, quadri, sculture di santi, reliquiari, paramenti ed arredi sacri. Un corredo enorme che costruisce e ricostruisce la storia della Chiesa pugliese. Che fa da cornice e da sfondo ad una storia scritta, ma non sufficientemente conosciuta. Un bagaglio culturale di enorme spessore, interesse e bellezza attraverso il quale si sono cimentati pittori e artisti di fama mondiale, ripercorrendo in lungo e in largo la sacralità, la spiritualità, la fede della nostra regione.

Questi ricchi contenitori di arte ed espressività, intonati e sintonizzati con le corde del cuore, sono i molteplici musei diocesani sparsi dal nord al sud della Puglia.

Ma in realtà quanti sono? In una prima ricostruzione, fatta alcuni anni fa, dalla Commissione per la cultura della Conferenza episcopale pugliese,  e sfociata in una pubblicazione che ha visto la luce circa cinque anni fa,  “Guida dei Musei diocesani di Puglia”, essi assomano ad un numero pari a 17. Va detto subito che sono fra i più importanti e i più ricchi per contenuti di oggetti espositivi. A questo elenco vanno aggiunti quelli definiti ecclesiatici, cioè sempre di proprietà della Chiesa, ma più, per quanto riguarda la gestione, di natura privata o privatistica.

Tutti, comunque, in ugual misura, contribuiscono ad integrare il già vasto patrimonio architettonico delle nostre chiese romaniche, gotiche e barocche.

Tutti questi cimeli, uniti indissolubilmente alle storie di ogni singola cattedrale o chiesa locale, sono il miglior viatico, il migliore mezzo per portare la Puglia oltre i suoi limitrofi e lontani confini. Essi svolgono una funzione turistica di indubbio valore, se è vero, come è vero, che la sete del sapere e del conoscere non può non passare attraverso le bellezze che racchiudono il sacro, il divino, il trascendente, il culto, la fede, la tradizione, la specificità di un messaggio autentico e non artefatto, in mezzo al confusionismo moderno o della modernizzazione dissacrante, blasfema ed iconoclasta.

Nell’economia di questi tesori viventi vanno aggiunti i cassetti della memoria spolverata o impolverata degli Archivi. Altre miniere di ricchezza di documenti, di racconti particolari, curiosi, metodici, puntuali dello svolgimento della vita della Chiesa, con gli atti ufficiali dei molteplici vescovi che hanno abitato le sedi episcopali. La vita dei Capitoli cattedrale. Le particolarità raccontate dei vari personaggi storici, che hanno contribuito a scrivere ogni fetta e parte di storia locale. Forse, con l’eccezione e la dovuta distinzione, però, va evidenziato come i musei, per la loro capacità di farsi guardare e ammirare sono mete ambite da molti.

Gli archivi, sono luoghi di studio, riservati a pochi, a cultori, ad appassionati di ricerche, e, quindi, meno esposti ai visitatori occasionali e di passaggio. Ma gli uni e gli altri non differiscono dall’ essere punti centrali d’incontro e di partenza per lo studio di ogni realtà particolare. Gli uni e gli altri insieme per assolvere a quella funzione di supporto propagandistico e promozionale del nostro territorio.

Non potendo elencare tutti i tesori contenuti nelle strutture museali diocesane, quanto meno, ci è sembrato opportuno, riportare, grazie all’ausilio di un recente studio, elaborato attraverso una Tesi di Licenza in Museologia, curata dal giovane Giorgio Gasparre e discussa presso il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, presso la Città del Vaticano, nell’Anno accademico 2004 – 2005, l’elenco aggiornato di tutti i musei che insistono nelle varie diocesi pugliesi.

 

 

Provincia di Lecce

Ÿ         Museo Diocesano d’ arte sacra dell’ Arcidiocesi di Lecce: Comune: Lecce- Diocesi: Lecce- Sede: Palazzo del seminario, piazza Duomo- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano di Otranto: Comune: Otranto- Diocesi: Otranto- Sede: palazzo Lopez, piazza della Basilica- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro. 

Ÿ         Museo Diocesano di Gallipoli: Comune: Gallipoli- Diocesi: Nardò-Gallipoli- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto a pagamento. 

Ÿ         Museo Diocesano di Ugento: Comune: Ugento- Diocesi: Ugento- Santa Maria di Leuca- Sede: Palazzo del Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

 

Provincia di Brindisi

Ÿ         Museo Diocesano “Giovanni Tarantini”: Comune: Brindisi- Diocesi: Brindisi- Ostuni- Sede: chiostro del Palazzo del Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In allestimento. 

Ÿ         Museo Diocesano di Oria: Comune: Oria- Diocesi: Oria- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto a richiesta. 

 

Provincia di Taranto

Ÿ         Museo Diocesano di Taranto: Comune: Taranto- Diocesi: Taranto- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra-Proprietà: diocesano. Prossima apertura.

Ÿ         Museo Diocesano di Castellaneta: Comune: Castellaneta- Diocesi: Castellaneta- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

Provincia di Bari

Ÿ         Museo Diocesano della Basilica Cattedrale di Bari: Comune: Bari- Diocesi: Bari- Bitonto- Sede: Arcivescovado- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano: Pinacoteca Mons. A. Marena e Lapidario romanico: Comune: Bitonto- Diocesi: Bari- Bitonto- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Capitolare della Cattedrale di Gravina di Puglia: Comune: Gravina di Puglia- Diocesi: Altamura- Gravina- Acquaviva delle Fonti- Sede: Seminario Vecchio- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: Capitolo della Cattedrale di Gravina di Puglia- Aperto, offerta libera.

Ÿ         Museo Diocesano della Cattedrale di Altamura: Comune: Altamura- Diocesi: Altamura- Gravina- Acquaviva delle Fonti- Sede: Matronei della Cattedrale- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

Ÿ         Museo Diocesano di Monopoli: Comune: Monopoli- Diocesi: Conversano- Monopoli- Sede: Ex Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano di Bisceglie: Comune: Bisceglie- Diocesi: Trani- Barletta- Bisceglie- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Provincia di Barletta- Andria- Trani

Ÿ         Museo Diocesano di Trani: Comune: Trani- Diocesi: Trani- Barletta- Bisceglie- Sede: piazza Duomo- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso.

 

Provincia di Foggia

Ÿ         Museo Diocesano di Foggia: Comune: Foggia- Diocesi: Foggia- Bovino- Sede: Chiesa dell’ Annunciata- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Ÿ         Museo Diocesano di Bovino: Comune: Bovino- Diocesi: Foggia- Bovino- Sede: Castello di Bovino- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano di San Severo: Comune: San Severo- Diocesi: San Severo- Sede: ambiente ipogeo di via vico freddo- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano di Lucera: Comune: Lucera- Diocesi: Lucera- Troia- Sede: Episcopio- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano del tesoro della Cattedrale di Troia: Comune: Troia- Diocesi: Lucera- Troia- Tipologia: artistico- arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Le foto a corredo di questo articolo riprendono alcuni dei beni esposti nel Museo Diocesano di Gallipoli

La coltivazione del tabacco da fiuto e da pipa nel Salento

di Antonio Bruno*

Cade a pezzi a quest’ora sulle terre del Sud
un tramonto da bestia macellata.
L’aria è piena di sangue,
e gli ulivi, e le foglie del tabacco,
e ancora non s’accende un lume.

 

 

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La coltivazione del Tabacco da fiuto “Sun di Spagna”nel Salento leccese

Nel Salento leccese si coltivavano i tabacchi per fiuto che necessitavano di irrigazione quotidiana e si caratterizzavano per avere le foglie con un rachide mediano grosso, fibroso e lungo più di un metro.
Il tabacco da fiuto era una coltura tipica del Salento leccese. Nel 1771, con editto di Clemente XIV, la congregazione dei monaci Cistercensi, con lo scopo  di bonificare i terreni paludosi circostanti il loro convento, iniziarono  a dare le terre in censo ai contadini ed a coloro che colpiti da condanna  si rifugiavano in convento per ottenere l’impunità; con i ricavi  ottenuti i monaci iniziarono la coltivazione di diverse piante e diedero  impulso alla coltura del tabacco.
Nella manifattura i monaci iniziarono la produzione, prima per loro  consumo e poi a scopo di commercio, della famosa polvere «Sun  di Spagna».
A Lecce con privilegio dato a Madrid il 17 dicembre 1682 si nominava un “Credenziere del Fondaco della Città di Lecce”.

Le varietà di Tabacco da fiuto coltivate nel Salento leccese

Nel Leccese, che comprendeva le province di Brindisi e Taranto, si  coltivavano le varietà Cattaro leccese, importato dai Veneziani,  il Cattaro forestiero, proveniente dall’Alsazia, il Cattaro  riccio paesano e il Brasile leccese, importato dalla Spagna  o da Napoli per opera di navigatori.
Le coltivazioni di queste varietà diedero luogo alle prime industrie  manifatturiere private, per la produzione delle polveri da fiuto. I numerosi  conventi nella provincia di Lecce contribuirono alla diffusione delle  polveri, soprattutto del «Leccese da scatola» prodotto  dai frati Cappuccini.

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La prima Manifattura tabacchi da fiuto del Salento leccese

Nel 1752, per editto reale di Carlo III di Borbone, veniva impiantata  a Lecce un’importante manifattura di tabacchi da fiuto in un ex convento  di Domenicani che, impiegando 20 molini «macinini» mossi  a mano, produceva polvere di gran lusso.
La richiesta del Cattaro leccese e del Brasile, utilizzate  nella lavorazione delle polveri, favoriva nella provincia la diffusione  della coltura del tabacco.

La Commissione di inchiesta sul tabacco del 1881

Nel 1881 una Commissione d’inchiesta sui tabacchi levantini coltivati nella Terra d’Otranto, secondo la quale “… se il regime di monopolio fosse assunto dallo Stato, ripartirebbe equamente ai produttori ed all’erario pubblico i vantaggi che oggi rifluiscono agli azionisti della Regìa.”
In quel periodo iniziava a diffondersi nel Leccese il contrabbando di tabacco, favorito in parte anche dal prezzo inadeguato corrisposto per le migliori qualità di tabacco, e dallo scarso numero di spacci presenti che rendevano talvolta difficoltoso il rifornimento di tabacco.

Le prime coltivazioni di Tabacchi orientali nel Salento leccese

Le prime coltivazioni di tabacchi orientali, dopo i campi sperimentali impiantati nel 1885 a Cori (Roma) e Cava dei Tirreni (Salerno), furono effettuate tra il 1890 e il 1898 nel Salento, in Sicilia e in Sardegna (Vizzini, Alessano, Poggiardo, Lecce, Iesi, Sassari, Palermo e Barcellona Pozzo di Gotto).
Le coltivazioni furono eseguite sotto la direzione del Prof. Orazio Comes, illustre botanico, docente di botanica e di patologia vegetale alla Scuola Superiore di Agricoltura di Portici, autore di celebri studi sulla coltivazione e sulla filogenesi del tabacco.

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L’introduzione dei tabacchi orientali nel Salento leccese

Come già scritto nel Salento leccese intorno al 1890 si introdussero le varietà orientali Xanthi Yakà e Erzegovina, provenienti dalla Macedonia e dall’Erzegovina, con risultati positivi. I tabacchi orientali devono avere foglie piccole e con la prevalenza del tessuto cellulare su quello fibroso. Ed ecco che vi è differenza tra il tabacco di varietà Cattaro e Brasile, coltivati per il fiuto, che deve essere irrigato per accelerare la vegetazione, con quello orientale che invece ha necessità di rallentare e ritardare la vegetazione per ottenere foglie piccole, elastiche, quasi trasparenti e molto aromatiche dopo l’essiccamento.
L’altro fattore che decretò il successo dei tabacchi orientali nel Salento leccese è stato il terreno che nel nostro territorio è nella maggior parte dei casi calcareo. Il terreno calcareo anche se di poca profondità risulta più adatto alla coltivazione del tabacco orientale rispetto al terreno ricco di humus.

Il Tabacco Salento da pipa

Dal tabacco Kentucky si ottennero tipi utilizzati per trinciati da pipa, come il Salento (ottenuto dall’incrocio con il Cattaro). Nel 1922 si iniziò la coltivazione sperimentale a Lucugnano (Lecce)

Per non dimenticare

Nelle enciclopedie che consultavamo noi studenti prima dell’avvento della rete, di internet alla voce Provincia di Lecce si leggeva che le colture prevalenti erano l’olivo, la vite e il tabacco. Il tabacco ha percorso le memorie di tutti, è stato presente e la raccolta del tabacco era compito delle donne. Si alzavano prestissimo la mattina per andare a raccogliere le foglie verdi, tutte della stessa misura.
Le foglie, perfettamente ordinate l’una sull’altra, venivano delicatamente poste nelle casse, trasportate dagli uomini con i carri in masseria. Al fresco, sotto i porticati, le donne, sedute in cerchio, infilavano le foglie ad una ad una in lunghi aghi piatti, “acuceddi”, facendoli poi passare sui fili di spago che formavano “li curdati”.
Si mettevano  a seccare su appositi cavalletti di legno (taraletti), da mettere al coperto la notte e portare al sole di giorno, ogni sera, ogni giorno, con gli occhi rivolti al cielo ogni tanto, quando comparivano le nuvole.
Guai se il tabacco si bagnava!  Le foglie, attaccate come erano l’una all’altra, si sarebbero ammuffite!
Era la nostra vita e siccome adesso non c’è più eccola scritta, così come ha fatto Vittorio Bodini…per non dimenticare….

Bibliografia

Giampietro Diana, La storia del tabacco in Italia. I. Introduzione e diffusione del tabacco dal 16° secolo al 1860
Cosimo De Giorgi, La coltivazione dei tabacchi orientali nelle Puglie

Raffaella Verdesca

Raffaella Verdesca è nata a Lecce il 28 settembre del 1969. Conseguita la maturità classica presso il liceo G. Palmieri di Lecce, ha intrapreso gli studi universitari in Medicina e Chirurgia nell’Università di Pisa.

Ha già pubblicato i romanzi ‘Chandra Mahal'(Il Filo, 2005) e ‘Deliri di una verità’ (Gruppo Albatros Il Filo, 2010), oltre alle raccolte di racconti ‘All’ombra dell’Arca’ (Il Filo, 2007) e ‘Racconti per ridere-La lisca’ (Gruppo Albatros Il Filo, 2011). Convinta che le parole siano tavolozze emozionali da cui attingere per rappresentare e regalare i pensieri al lettore, Raffaella ha spesso realizzato le copertine e le illustrazioni di alcune delle sue opere.

Cavallo in cucina ovvero la preistoria a tavola

di Massimo Vaglio

G.D. Ferretti (1692-1766), Arlecchino cuoco, olio su tela, Sarasota (Florida), The John & Mable Ringling Museum

E’ notorio come le carni equine non siano apprezzate univocamente in tutta la penisola italiana, bensì, come il loro uso, sia circoscritto a piccole aree sparse a macchia di leopardo, tanto a Nord, quanto nel Centro-Sud.

Una delle più estese, è senza dubbio il Salento, ove il consumo di carni equine o ferrate, come vengono localmente denominate, è quantitativamente paragonabile a quello delle carni bovine e suine.

Nessuno azzarda a ipotizzare una continuità storica, ma è un dato scientificamente comprovato, che le carni di un piccolo equide: l’Asino Idruntino (Equus asinus hydruntinus), fossero qui, già cospicuamente consumate, sin dal Paleolitico Medio e Superiore, come una grande mole di reperti, ritrovati in molte grotte del Salento testimoniano. Forse, ma è sempre un’ipotesi, l’estinzione di questo simpatico asinello dalla testa di mulo, sopravvissuto persino alla terribile glaciazione wurmiana,

Ricordo di Carlo Barbieri

di Domenica Specchia

Tra i nomi degli artisti italiani della prima metà del Novecento, si può annoverare quello di Carlo Barbieri (San Cesario di Lecce, 1910 – Roma, 1938) ricordato, in queste brevi note, per un vivacizzarsi di quella fiamma che, mai spenta, si rianima quasi all’improvviso, al leggero soffio di un anelito di speranza finalizzato – sic et simpliciter – a ridar la giusta considerazione e la meritata valenza a tanta riconosciuta maestria artistica.

Artista polivalente, Barbieri, nel suo breve, ma intenso itinerario di vita, iniziò a percorrere le strade della poesia e della decorazione per giungere poi all’ambito traguardo di un’arte originale, sintesi di scelte grafico – pittoriche oculate, partorite da una mente, dalle singolari capacità di trasformazione, ed impresse sul foglio da una mano tanto abile da lasciare traccia indelebile di un artista di grande personalità, caratterialmente libero di vivere la propria vita, scevro da condizionamenti di sorta, creativo, appassionato. Durante i ventisette anni della sua breve, ma intensa esistenza – peraltro, conclusasi banalmente, in quella tragica notte dell’11 giugno 1938, con l’annegamento nella piscina allo stadio di Roma – l’allora stadio Mussolini -, Barbieri profuse tutto il suo amore e la sua passione per l’arte. Dal suo paese natale, dove egli aprì gli occhi alla luce il 23 ottobre da Luigi, intagliatore di pietra, e da Giuseppa Paternello; Carlo, insieme ai fratelli Francesco, scultore, e Ugo, musicista, trascorse la sua fanciullezza a Lecce, città dove la famiglia si trasferì quando il padre fu assunto come impiegato al dazio. In questa urbs, di secolare tradizione culturale ed artistica, egli, insofferente ai condizionamenti scolastici, si recò a bottega e, intraprendente qual’era, apprese l’arte del modellare la pietra e del plasmare la cartapesta educando anche, da autodidatta, la sua mano al segno grafico.

Ricco di tali sofferte ed indimenticabili esperienze, ancora adolescente, incoraggiato dal maestro Geremia Re (1894 – 1950), e desideroso di migliorare la propria preparazione culturale ed artistica, si trasferì a Roma, a vivere con la zia, Irene Paternello, illo tempore, governante in casa del poeta Francesco Negro. In questa dimora, Barbieri domiciliò per ben quattro anni e furono questi, come scrisse Francesco Negro “di formazione, di fermenti, di sviluppi eccezionali, man mano che il ragazzo si addomesticava, toccava un libro, assisteva a qualche mia lezione, si commentava un poeta  […]  Al tu per tu poi veniva fuori con un’immagine inaspettata, un paragone, un giudizio, che nell’empiricità e involutezza si faceva apprezzare per qualcosa di acuto e di originale, di penetrante ed inventivo, soprattutto di fantastico”.

A diciannove anni, dopo essersi allontanato da casa Negro, Barbieri cercò in tutti i modi, tra difficoltà e sacrifici, di trovarsi una sistemazione, ma la miseria fu la compagna della sua vita poiché la fortuna – come egli stesso, sovente, ripeteva – non gli arrise mai. Con animo combattivo egli però ironizzava e rideva sulla malasorte come se fosse un meccanismo di autodifesa per allontanarla da sé. Pertanto, ironia, sarcasmo, purezza, dolcezza, sentimento sono gli ingredienti che qualificano le sue composizioni grafiche e pittoriche, tutte così diverse le une dalle altre nello stile, ma altrettanto anticonvenzionali e stravaganti nelle loro peculiari dissonanze. In questo periodo, durante gli anni venti e trenta del Novecento, Barbieri, “fulmineo psicologo e narratore istintivo” – come scrisse di lui, nel 1951, Vittorio Bodini (1914 – 1970), suo parente – si trovò a vivere in un ambiente ricco di fermenti culturali, in cui giunse l’eco della corrente espressionista della Neue Sechlichkeit (Nuova oggettività) di M. Beckmann (1884 – 1950), di O. Dix (1891 – 1968), di G. Grosz (1893 – 1959), artisti impegnati socialmente a decantare, rispettivamente, la caduta apocalittica dell’umanità, la stupidità della guerra, la cupa libidine della violenza e del potere.

I suoi interessi artistici furono vivificati però anche dalla metafisica di G. De Chirico ( 1898 –  1967), artefice di un’arte nuova, intesa come realtà diversa da quella che comunemente si conosce; dal movimento “Valori Plastici” di F. Casorati (1886 – 1963) e di G. Morandi ( 1890  – 1964) i quali, uno con la forma plastico – volumetrica e l’altro, con l’intimismo, vollero ricondurre il linguaggio figurativo moderno alla vera tradizione italiana di Giotto e di Masaccio; dalla poetica di  P. Picasso (1881- 1973)  che non esitò a schierarsi con la democrazia contro ogni forma di dittatura. Ma, in un clima, così dinamico a livello culturale, nella Capitale nacque e si sviluppò anche la Scuola Romana di Scipione (1904 – 1933), di M. Mafai (1902 – 1965), di A. Raphael (1990 – 1975), di M. Mazzacurati (1908 – 1969)  che manifestarono, alla maniera degli esponenti dell’Ecole de Paris, la loro libertà di pensiero e di espressione e l’indipendenza della loro cultura artistica dal potere. Proprio per queste motivazioni Barbieri si può ascrivere in quest’ultimo novero di bohémiens, tutti votati a realizzare un’arte moderna, senza un programma ben definito e ben lontani dal coniugare, a livello artistico, i canoni della tradizione accademica.

Il linguaggio figurativo di Barbieri, agli inizi incerto, si affinò – medio tempore – poiché egli si appropriò di accenti diversi che lo proiettarono in una dimensione in cui aspetti, dell’arte di tutti questi esponenti della cultura artistica della prima metà del Novecento, rimasero da lui comparati e selezionati in uno stile sobrio, tipico di un artista sensibile come fu lui, con l’orecchio e l’occhio sempre tesi a cogliere le novità per rielaborarle poi, in composizioni oscillanti tra influssi della Scuola Romana ed altri provenienti dagli artisti espressionisti, ma con accenti talvolta fantastici, addirittura fiabeschi, resi attraverso un uso del colore peculiare fino a conferire, comunque, al suo lunatico dipingere un carattere originale. Le opere: Incontro di Dante con Beatrice (cm. 16×20, pastello, 1932), Contadine (cm. 18×20, pastello, 1932), Poeta morente (cm. 58×81, pastello, 1935), Satiri  (cm. 48×68, pastello, 1935), denotano un lirismo coloristico che degnamente rende esplicito il sentimento dell’artista palesato, soprattutto, nei volti dei diversi personaggi rappresentati, sospesi tra realtà ed astrazione. Osservando attentamente queste opere è possibile riscontrare che, la sua azione pittorica non fu casuale, ma al servizio dei suoi impulsi interiori: dalle velature espanse e trasparenti che, talora, conferiscono alla composizione il senso di una profondità il più delle volte stratificata, a macchie dense di colore le quali sembrano quasi galleggiare sulla superficie di uno spazio fluido. Tinte calde e fredde che si sommano o si contrastano a seconda degli impulsi profondi dell’autore, artifex di sensazioni tattili in immagini visibili, verseggiate talvolta, qua e là, su fogli ingialliti, inchiostrati di parole, con frammentarietà nella forma e nel contenuto. All’esiguità del materiale poetico – attestante la sua vena letteraria – corrisponde l’altrettanta poca disponibilità nell’applicazione alle “arti decorative” che egli, comunque, praticò, ma si presume per puro guadagno e per soddisfare le esigenze ed i bisogni della committenza del tempo, determinata ad imporre il proprio gusto.

Sicuramente il disegno rimane l’espressione grafica più confacente al carattere schivo e solitario  di questo artista  che riuscì a fissare sul foglio tutte le impressioni del mondo circostante come soldati, saltimbanchi, circensi, nomadi, diseredati, ritratti, nudi, nature morte, paesaggi, soggetti che più lo attraevano, probabilmente perché in essi vedeva riflessa la propria esperienza di vita. Sono disegni che comunicano le sue diverse emozioni rese attraverso un segno talvolta marcato ed incisivo, talaltra leggero o veloce, ma pur sempre sintetico ed espressivo dei suoi stati d’animo e del suo ingegno indiscusso. Lo confermano i ritratti di Francesco Negro, Ritratto di Francesco Negro (cm. 16×21, matita, 1937), in cui egli pose in risalto il poeta,  fotografato, attraverso i tratti inquieti della matita, nella sua assorta pensosità, e quelli del fratello Ugo,  Ritratto del fratello Ugo (cm. 23×31, carboncino, 1931), Il fratello Ugo al pianoforte (cm. 50×75, carboncino, 1936) –  peraltro, venuto a mancare in giovane età – qualificati da una carica di espressività che rimane speculare del suo sentimento angosciato e sofferto.

Le indubbie qualità grafico – pittoriche esaltano l’arte di Barbieri che, a cento anni dalla nascita, rimane una meteora dell’arte salentina, da  riscoprire e riportare in auge per le future generazioni, inconsapevoli, probabilmente, della valenza di uno dei maggiori esponenti dell’arte italiana meridionale, poiché – per dirla alla maniera di J. Winckelmann – “l’umiltà e la semplicità furono le vere sorgenti della sua bellezza” di uomo del Sud e di artista del Novecento.

 

 

Un ringraziamento è rivolto all’amico pittore Lionello Mandorino per le notizie cortesemente fornitemi

L’EMIGRAZIONE DEI MERIDIONALI

Un incontrollato e inarrestabile fenomeno esploso subito dopo l’Unità d’Italia

L’EMIGRAZIONE DEI MERIDIONALI

Il Meridione, violentato e sfruttato in ogni sua parte vitale, reagì alla difficile situazione economica con un esodo di massa in Europa, nelle Americhe e in Australia

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di Rino Duma

Premessa

Quello dell’emigrazione è stato un disastroso e sconvolgente fenomeno che ha interessato l’Italia subito dopo la sua unificazione. Una crisi economica devastante e incontrollabile mise in ginocchio intere popolazioni, a partire da quelle meridionali dell’ex Regno delle due Sicilie, in particolar modo la Campania, l’Abruzzo, la Basilicata e la Calabria, sino a travolgere anche quelle del basso Veneto e del Friuli.

Stranamente il fenomeno risparmiò le zone centro-settentrionali del paese, che furono appena appena sfiorate dall’ondata di carestia, sofferenze, malattie e morte.

Il governo non seppe fronteggiare con opportune e tempestive politiche la preoccupante situazione; tentò di arginarla, ma furono solo interventi di facciata e poco efficaci. D’altra parte cosa poteva mai importare al governo centrale se nel Meridione d’Italia intere popolazioni erano state ‘indotte’ a vivere alla stessa stregua degli animali? o se non trascorreva anno senza che si presentasse a Palermo, a Messina, a Napoli o a Bari il colera, il tifo petecchiale, il morbillo, la scarlattina e quant’altro di peggio? Eppure, durante la presenza borbonica, il Meridione, pur vivendo in condizioni precarie, non aveva mai toccato condizioni di vita così tanto estreme!

La verità – nota solo a pochissimi e che la storia non ci ha mai trasmesso – è che le ricchezze dei Borbone e di altre popolazioni servirono a colmare (solo in parte) l’enormità del debito pubblico piemontese (forse superiore a quello attuale italiano), che di fatto fu poi riversato nel bilancio del nuovo stato unitario ed assunto da tutti gli italiani (ancor oggi stiamo pagando interessi su quel debito sabaudo!). Questo è uno dei principali motivi (se non l’unico) per cui fu fortemente voluta l’Unità d’Italia!

L’inarrestabile emorragia dell’emigrazione

Stante una situazione del genere, l’unico rimedio per le genti disilluse, affamate e sfinite fu quello di abbandonare la propria terra e di migrare in uno stato europeo più ricco o in uno extraeuropeo in via di sviluppo. Inizialmente furono scelte la Francia, la Svizzera, la Germania e l’Austria-Ungheria, mentre in seguito furono preferite le Americhe e l’Australia.

Fu un vero calvario verso cui andarono incontro milioni di contadini di mezz’Italia1, per i quali nulla fu fatto di concreto per scongiurare la tendenza all’espatrio. C’è chi ipotizza che il movimento migratorio fu visto come una panacea dalle autorità politiche dell’epoca e che addirittura fu incentivato. I lorsignori governanti, invece, avrebbero dovuto adoperarsi nelle aree interessate con un’efficace e massiccia politica di rinascita e di sviluppo, in modo da attenuare il divario economico tra le due parti d’Italia. Non lo fecero perché l’unificazione dell’Italia non aveva mai trovato posto nella loro mente, se non per realizzare forti e turpi interessi di parte. Anzi il divario andò via via acuendosi senza alcun controllo.

Perciò si decise di partire “per terre assaje luntane”, dove poter ricostruire pian piano una condizione di vita decente e dignitosa.

Spinti dalla miseria e dalla speranza di un futuro migliore, ma vittime della propria ignoranza ed analfabetismo, molti emigranti (veneti e meridionali) furono facili prede di sfruttatori, la cui propaganda fu spietata e scandalosa, tanto da promettere “ricchezze straordinarie e fortune colossali a quanti si dirigevano in America, dove le strade erano coperte d’oro e si mangiava a sazietà”.

Il lavoro degli agenti d’emigrazione fu impietoso, asfissiante ma anche molto redditizio. Questi uomini, senza cuore e con l’unico intento di ingrossare il portafoglio, arrivarono ad offrire anche il biglietto d’imbarco a quei poveri disgraziati, che furono costretti ad abbandonare la propria terra e gli affetti familiari più cari solo per estrema necessità di vita. Furono perfino consigliati a vendere la casa, le masserizie e il piccolo podere, per procurarsi il denaro per il viaggio e per il primo periodo di soggiorno. L’agenzia di emigrazione era solitamente un’impresa privata che aveva la sede principale nelle città costiere, come Palermo, Napoli e Genova. Gli agenti erano avventurieri che si recavano personalmente nelle zone in cui il tasso di espatrio era consistente per reclutare migranti e indirizzarli verso le compagnie di navigazione, disposte ad offrire provvigioni molto alte per ogni migrante arruolato.

Con la legge del 31 gennaio 1901 la figura dell’agente fu finalmente abolita. Prima di tale legge gli agenti privati dell’emigrazione erano ben 13.000! Il compito di arruolare i migranti fu perciò assegnato a una ventina di compagnie di navigazione, previa autorizzazione ministeriale. Naturalmente, per svolgere il loro lavoro, le compagnie avevano bisogno di subagenti e, soprattutto, di gente molto esperta. Ovviamente fu assunta buona parte di coloro che un tempo esercitavano in proprio la professione di agente. In pratica fu soltanto rivoltato il calzino, ma non sostituito.

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La partenza

I due maggiori porti italiani, Napoli e Genova, si divisero tacitamente i porti di destinazione. Il porto di Genova s’interessava del traffico migratorio verso il Sud America (Brasile, Uruguay, Argentina, Paraguay e Cile). Il porto di Napoli, invece, organizzava i viaggi della speranza verso il Nord America e, successivamente, quelli in Australia.

I primi migranti furono inizialmente rappresentati da persone singole e soltanto verso la fine dell’800 furono raggiunti dai loro familiari.

Le tribolazioni per i migranti iniziavano ancor prima della partenza. Infatti, a differenza dei grandi porti europei dotati di “Ricoveri per emigranti”, quelli di Genova e Napoli non erano adeguati a gestire la grande massa di gente in attesa di imbarco. Infatti, «nelle stazioni marittime gli emigranti sono sottoposti a visita medica e i loro bagagli bonificati. Una volta espletate queste operazioni […] gli emigranti restano sulla banchina in attesa di partire». L’attesa era di non meno di dieci giorni e a volte superava anche il mese.

Con l’entrata in vigore della legge del 1901, le spese ‘in attesa dell’imbarco’ furono a totale carico delle Compagnie di navigazione. Ma anche in questo caso gli agenti, pur disponendo di locande autorizzate al ricovero, preferirono tenerle chiuse ed utilizzare case situate nei quartieri più sudici, ospitando i poveri migranti in ambienti con poca aria e luce, senza acqua, con pochissimi servizi igienici e con la gente che dormiva per terra o su appestati e nauseabondi giacigli. La presenza dello Stato era totalmente assente. Solo nel 1911, dopo il colera di Napoli, fu istituito il ‘ricovero obbligatorio di stato’ presso locande autorizzate, continuamente ispezionate e igienizzate.

Il grande traffico migratorio fu gestito soprattutto dalle compagnie di navigazione straniere, più organizzate e tecnologicamente avanzate, le quali già disponevano di confortanti piroscafi, mentre quelle italiane sfruttavano ancora bastimenti a vela obsoleti e poco idonei alle grandi traversate.

Si trattava di imbarcazioni prossime al disarmo, di vere e proprie carrette del mare. Questi “vascelli della morte” non potevano contenere più di 6-700 persone, ma ne caricavano più di 1.000 e partivano senza la certezza di arrivare a destinazione. Furono in molti a perire in quei tragici viaggi verso la speranza: 576 emigranti, quasi tutti meridionali, nel naufragio dell’’Utopia’, avvenuto nel marzo 1891 davanti al porto di Gibilterra; 549 emigranti, di cui numerosi italiani, nel naufragio del ‘Bourgogne’, avvenuto al largo della Nuova Scozia nel luglio del 1898; 1.198 emigranti, di cui numerosi italiani, nel naufragio dei due ’Lusitania’, avvenuti il primo nelle acque di Terranova nel 1901 e il secondo affondato da un sottomarino tedesco nel 1915; 550 vittime del naufragio del ‘Sirio’, avvenuto nel 1906 sugli scogli della costa spagnola di Cartagena. Ci sono innumerevoli altri casi, ma omettiamo di riportarli per questione di spazio.

In genere i migranti erano stivati in terza classe, in condizioni pietose e con scarsa igiene. In fondo non si trattava che di alcune “tonnellate umane” (così veniva chiamato il carico umano dei migranti) che “accovacciati sulla coperta, presso le scale, col piatto tra le gambe e il pezzo di pane fra i piedi, mangiavano il loro pasto come i poverelli alle porte dei conventi”.

Per dormire, «l’emigrante si sdraiava vestito e calzato sul letto, ne faceva deposito di fagotti e valigie, i bambini vi lasciavano orine e feci; i più vi vomitavano; tutti, in una maniera o nell’altra, l’avevano ridotto, dopo qualche giorno, in una cuccia da cane. A viaggio compiuto, ciò che accadeva spesso, era lì come fu lasciato, con sudiciume e insetti, pronto a ricevere il nuovo partente».

In tali condizioni, contrarre una malattia era molto frequente ed era inevitabile che alla fine di ogni viaggio si contassero diversi decessi.

Si pensi che molti furono i piroscafi a giungere a destinazione con delle perdite umane considerevoli. Il ‘Remo’, partito nel 1893 con 1.500 emigranti, registrò 96 morti per colera e difterite e fu respinto dal Brasile; l’’Andrea Doria’ nel viaggio del 1894 contò addirittura 159 morti su 1.317 emigranti (oltre il 12%); sul ‘Vincenzo Florio’ nello stesso anno i morti furono 120 su 1.321 passeggeri; nel 1894 sul ‘Carlo Riggio’ alla fine del viaggio si contarono ben 206 morti di cui 141 per colera e morbillo.

Oltre alle pessime condizioni igieniche e alimentari dei migranti, va osservato che, durante le avventurose migrazioni, su ogni nave vi era un solo medico, il quale disponeva di pochi medicinali e, paradossalmente, non vi erano né infermieri, né ambulatorio, né farmacia.

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Finalmente l’arrivo!

Una volta giunti a destinazione, i migranti venivano sottoposti a rigorose visite mediche. Quelle effettuate dal personale sanitario statunitense erano accuratissime e prevedevano, inoltre, un periodo di “osservazione” per coloro che non superavano la prima visita medica. La località che ospitava i migranti “rivedibili” era l’isola di Ellis Island, nel golfo di New York. Al termine della “quarantena”, i migranti venivano sottoposti ad ulteriore visita medica e soltanto dopo ricevevano il nulla osta per entrare negli Stati Uniti. Erano in tanti i migranti che non superavano l’ultima visita, per cui erano costretti a tornare in patria. Le donne sole, anche se fidanzate, non potevano essere ammesse e dovevano celebrare il matrimonio con il proprio compagno, con un parente o un conoscente. I minorenni senza genitori dovevano trovare dei garanti e gli orfani dovevano essere adottati, altrimenti erano respinti.

Questo accadeva negli Usa, ma negli altri porti le visite mediche erano fatte con troppa approssimazione, per cui molti migranti portavano con sé a terra malattie gravi che, a volte, creavano veri focolai di epidemie tra le popolazioni locali.

da "Come eravamo"
da “Come eravamo”

In cerca di lavoro

Non appena i migranti toccavano terra, istintivamente erano portati a genuflettersi e ringraziare il buon Dio per averli fatti giungere a destinazione. Anche se affaticati, sporchi e laceri, quei poveri Cristo formavano compatti una sorta di associazione, che, meglio dei singoli, poteva curare i loro interessi e nel contempo difenderli da spregiudicati avventurieri locali. Insieme chiedevano lavoro, insieme si davano da fare per trovare casa e sistemarsi in quartieri dove già era presente una consistente comunità italiana, insieme facevano istanza alle autorità per essere garantiti nei loro principali diritti. Questo tipo di organizzazione diede il più delle volte ottimi risultati. Ed ecco che nelle grandi città americane si formarono spontaneamente le “Little Italy”, come a New York, Chicago, Montevideo, Buenos Aires, Sao Paolo, Sidney, Toronto.

Con pochissimi soldi in tasca ma con la grande voglia di lavorare, gli emigranti italiani non tardarono a trovare impiego. A loro furono riservate le fatiche più pesanti (rifiutate dai residenti), come le grandi opere stradali o ferroviarie, la costruzione di ponti e canali, la perforazione di gallerie, l’abbattimento di intere aree boschive, attività capaci di garantire un guadagno immediato da spedire alle famiglie rimaste in Italia. In questo modo, secondo il Commissariato dell’Emigrazione, negli anni precedenti la Grande Guerra le rimesse degli emigrati, frutto di risparmi, superarono i 500 milioni di lire l’anno (un’immensa fortuna, soprattutto per le banche italiane!).

I primi anni di lavoro furono durissimi, non tanto per il salario inadeguato al lavoro svolto, ma quanto per le assurde spese per acquistare medicinali, per usufruire del servizio medico-sanitario, per procurarsi un adeguato abbigliamento o per riparare la propria casa.

Molti non ce la fecero e s’indebitarono al punto da essere indotti a passare tra le fila dei malavitosi, ai quali si erano rivolti in precedenza per alcuni prestiti. I più continuarono tra mille stenti a portare avanti il lavoro massacrante e a tentare di trovarne un altro meno faticoso. Pochi furono baciati dalla fortuna, forse perché più intraprendenti e più votati al rischio.

Nell’Ovest americano e in Canada l’emigrazione italiana ebbe risvolti positivi in diversi ambiti: dal lavoro nei campi, alla coltivazione della vite e di altra frutta, alla pesca, al piccolo commercio. Nel 1910 le aziende agricole, di proprietà di italiani, erano già 2.500; in California, nel 1908, c’erano già cinque banche italiane, di cui la più famosa era la ‘Bank of America and Italy’.

Anche in Brasile alcuni migranti, dopo un periodo di sacrifici e stenti, riuscirono a costituirsi in cooperativa e ad acquistare la fazenda presso cui avevano lavorato. In pochi anni trasformarono quelle “colonie per dannati” in piccoli paradisi, dotati di ogni comfort, tra cui una chiesa, un piccolo ospedale, una scuola, una piazza in cui ritrovarsi la domenica, un teatro e, in seguito, un cinematografo.

Vi sono anche brutte storie legate ai migranti che racconterò solo superficialmente per non intristire ancor di più il lettore. Voglio soltanto ricordare che il 6 dicembre 1907, nelle gallerie della miniera di carbone di Monongah, cittadina del West Virginia, ebbe luogo il più grave disastro minerario della storia degli Stati Uniti d’America. Vi perirono ben 425 minatori, di cui 171 italiani. Ben più grave di quella di Marcinelle in Belgio (agosto 1956), in cui persero la vita 262 minatori, 136 dei quali italiani (alcuni erano originari di Casarano).

Conclusioni

Mi preme concludere la breve trattazione ricordando che questi “eroi della vita” hanno rappresentato, almeno per chi scrive, la parte migliore degli italiani; è stata gente autentica, fiera, forte, mai rassegnata a subire le sorti della vita, gente che ha osato sfidare “i tempi, il mare, l’uomo con i suoi innumerevoli tentacoli esiziali, un futuro con poche speranze”. Vanno tutti ricordati con grande rispetto e deferenza.

Coloro che rimasero in Italia e nulla fecero per trattenerli sul suolo patrio e farli vivere con dignità vanno messi all’indice, esposti al pubblico ludibrio della storia e… maledetti per sempre!

1 Precisazione – Dal 1870 sino alla Prima Guerra mondiale i migranti italiani furono ben 14 milioni!

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

 

 

Le varie fasi della lavorazione del tabacco

Na chiantazione te tabaccu già fiurutu. Se ccuìja prima lu frunzone (le fòie cchiù basce) e, a manu manu, la quarta, la terza, la seconda, la prima e la primiceddha, ca era la cchiù china te crassu e perciò la mèju ccodda: ca pisava te cchiùi e tenìa cchiù valore.

di Irene Mancini

Didascalie in vernacolo salentino di Alfredo Romano

Le fasi della lavorazione del tabacco richiedono cure scrupolose, abilità ed esperienza non indifferenti, oltre che una gran fatica. I lavori preparatori del terreno, detti comunemente coltivi[1], sono di tre tipi. Il primo viene eseguito subito dopo la prima pioggia autunnale e prima della caduta delle grandi piogge: pressappoco tra la seconda quindicina di ottobre e la prima di novembre. Le radici del perustitza arrivano ordinariamente alla profondità di 25 cm e quindi è sufficiente una profondità lavorativa di 30-35 cm.

La terra viene rivoltata con l’aratro, allo scopo di farla ‘maturare’ sotto l’azione degli agenti atmosferici. Con l’aratura si riesce a sterilizzare il terreno mettendo allo scoperto molte larve, uova di insetti, germi di piante parassitarie e semi di erbacce che vengono distrutti dal freddo e dal gelo. Inoltre molte piante spontanee vengono divelte e muoiono.

Il secondo coltivo viene eseguito sul finire dell’inverno, non più con l’aratro, ma con l’impiego della fresatrice, alla profondità di 20-22 cm, a seconda della natura del terreno: più superficiale per i terreni un po’ sciolti, più profondo per quelli compatti. In questo modo si ottiene il completo spappolamento delle particelle terrose.

Il terzo coltivo, molto superficiale, consiste nel pianeggiare la superficie del terreno alla distanza di 7-8 giorni dal trapianto delle piantine estirpate dai semenzai. Insieme con la fresa, viene impiegato anche l’erpice; nel caso di piccole superfici, invece, è più indicata la zappa. Con quest’ultimo lavoro si ripulisce il terreno dalle erbacce, andando a costituire uno strato superficiale polverulento che va a proteggere gli strati inferiori, impedendo l’evaporazione dell’acqua. Il perustitza entra nelle normali rotazioni agrarie, ma non può aprire il ciclo perché le abbondanti concimazioni che di norma vengono date al terreno che dovrà ospitare la pianta che apre la rotazione, nuocerebbero alla bontà del prodotto. È bene evitare che il perustitza segua una coltura miglioratrice perché troverebbe il terreno eccessivamente ricco di principi azotati; da qui l’utilità di far seguire alla coltura di rinnovo una pianta depauperante, come il grano, capace di utilizzare la fertilità eccessiva lasciata dalla pianta miglioratrice. Quindi: coltura da rinnovo – pianta depauperante (grano) – perustitza.

tabacco21

La prima volta che si coltiva il perustitza in un terreno, non si ha un buon rendimento: lo si ottiene man mano negli anni successivi. In alcune aziende, perciò, la coltivazione del perustitza viene ripetuta sul medesimo terreno per più anni consecutivi. Naturalmente si deve cercare di non incorrere nella stanchezza del terreno a tutto scapito della qualità.

Per quel che riguarda la concimazione, gli elementi minerali su cui si deve orientare la scelta per ottenere buoni risultati sono il fosforo e il potassio, escludendo l’azoto, di cui è sufficiente la quantità presente nel terreno.

tabacco3La stabulatura è la migliore concimazione conosciuta per il perustitza. Essa consiste nel fare stazionare le pecore sul terreno da investire a tabacco durante i mesi invernali e per un breve periodo di tempo. In media è necessaria la permanenza per circa 24 ore (almeno due notti di seguito) di una pecora per metro quadrato.

L’epoca della semina è strettamente legata all’andamento stagionale ed all’epoca del trapianto. Il periodo è quello di febbraio-marzo, per poter eseguire il trapianto a maggio. Si tenga presente che occorrono 12/15 giorni per la germinazione (comparsa delle prime due foglioline), altri 8/10 giorni per la fase di crocetta (prime quattro foglioline), ed ulteriori 30/35 giorni per ottenere le piantine pronte per il trapianto.

Il semenzaio deve trovarsi al riparo dai venti freddi, quindi va formato in vicinanza di muri, abitazioni coloniche, siepi, ecc. In mancanza di queste protezioni si creano ripari artificiali. L’esposizione soleggiata al riparo dai venti freddi è condizione indispensabile per la buona riuscita del semenzaio, in quanto per la germinazione del seme è necessaria una temperatura di almeno 6/8 C° e durante tale periodo non devono verificarsi sbalzi di temperatura molto accentuati. Nella scelta dell’ubicazione del semenzaio è necessario tener presente la disponibilità di acqua occorrente per le annaffiature.

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Le aiuole sono larghe 1 m. e lunghe 20/25 m., separate da sentieri di 50/60 cm. Il terreno al quale si affida il seme deve essere sciolto e soffice, fertile, ricco di materiale organico e che assolutamente non faccia crosta quando s’innaffia. Il terreno che forma il letto di semina deve essere immune da insetti e da germi di parassiti. È utile disinfestarlo 15 giorni prima della semina. È inoltre necessario che la superficie delle aiuole sia assolutamente orizzontale, per evitare che il seme con gli innaffiamenti se ne discenda verso la parte più bassa.

Il semenzaio deve essere coperto per favorire la germinazione, proteggere le piantine dal freddo, dalle gelate e dall’azione battente della pioggia. La migliore copertura, adoperata dai coltivatori della zona, è la garza, che meglio di ogni altra copertura assolve al compito di creare le condizioni ottimali di illuminazione, areazione ed umidità.

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Il seme del perustitza è di dimensione minuta; per avere le piantine sane e robuste è necessario che in un metro quadrato di semenzaio ve ne siano qualche migliaio. Per poter distribuire  uniformemente il seme, è bene mescolarlo con cenere ed eseguire la semina a spaglio oppure con un setaccio. La semina si esegue in giornate calme, senza vento e soleggiate, altrimenti cenere e semi facilmente vengono trasportati dal vento, e si ha così una semina disforme. Dopo aver seminato si comprime leggermente la superficie del semenzaio in modo da far aderire il seme al terriccio; questa operazione viene eseguita delicatamente con il dorso della zappa. Dopo la semina il semenzaio viene leggermente innaffiato.

Il semenzaio deve essere oggetto di cure assidue, continue ed incessanti. Fino a che non si è avuta la completa germinazione del seme, il semenzaio viene coperto e mantenuto costantemente umido, affinché ai semi in germinazione non manchi l’acqua che è l’elemento più importante di questa delicata fase. All’inizio si praticano ogni giorno delle innaffiate con acqua non fredda, a meno che il tempo non sia piovoso o umido. Si ridurranno man mano che le piantine crescono. Lo stesso verrà fatto per la copertura, iniziando a sollevare la garza sul tardi nei giorni soleggiati, aumentando la durata fino ad abituare le piantine allo scoperto, anche di notte. È necessario tenere il semenzaio pulito da qualunque erba spontanea che tenda ad usurpare alle piantine di tabacco spazio, luce, calore e nutrimento.

Purtroppo i semenzai vanno quasi sempre soggetti ad attacchi di taluni insetti (le chiocciole o lumache, il grillotalpa, le formiche, i colomboli, detti comunemente pulci di terra) e malattie di natura batterica (la ‘lupa’ o ‘bruciatura dei semenzai’, il ‘marciume radicale’, e la ‘peronospora’).

Li tiraletti misi a llu sole cu ssìcca lu tabaccu.

La grandine, tra le meteore, è quella che maggiormente pregiudica il risultato finale della coltivazione del tabacco. I danni che essa produce non sono costanti, ma variano a seconda dell’intensità di caduta dei chicchi, della loro grandezza e se cadono da soli o frammisti a pioggia. Tutto ciò incide notevolmente sulla gravità del danno, che in alcuni casi può perfino portare alla distruzione completa della coltivazione se la stagione risulta molto avanzata..

L’epoca del trapianto è in relazione all’andamento stagionale (a Civita si effettuava generalmente entro il mese di maggio). Il tempo necessario per il trapianto deve essere di 10/12 giorni. Il terreno viene preventivamente squadrato: si traccia un primo allineamento di base parallelo a una strada poderale o ad altra linea regolare, tenendo sempre conto dell’orientamento che si vuole dare ai solchi (da Ovest verso Est per consentire alle piantine di autombreggiarsi durante la caldissima estate). E poi si scavano i solchetti larghi 15 cm e profondi 10 cm. La distanza di trapianto, 20 cm tra una piantina e l’altra, va scrupolosamente rispettata[2] (in ogni caso, i coltivatori salentini avevano l’abitudine di mantenere le distanze quanto più possibile ravvicinate, perché sapevano, per esperienza, che in tal modo si ottenevano prodotti con foglie di modeste dimensioni, più fini e con contenuto di nicotina più basso). Le piantine si ritengono adatte ad essere trapiantate quando hanno emesso circa 6-8 foglioline ed hanno raggiunto un’altezza di 8-10 centimetri.

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Bisogna avere l’accortezza di scartare le piantine sfilate, deboli o malate, e servirsi soltanto di quelle robuste di colore verde cupo. Appena estirpate, le piantine vanno collocate in ceste o cassette a gabbia, bene accostate le une alle altre, tutte dallo stesso verso, senza comprimerle e si ricoprono con un panno di tela umido. Le piantine vanno estirpate nel numero sufficiente per il trapianto che si effettua nella giornata, tenendo presente che, se rimane qualche piantina inutilizzata, non può essere utilizzata per il giorno successivo. L’operazione vera e propria di messa a dimora manuale delle piantine (oggi si adopera la trapiantatrice) si praticava adoperando l’antico e noioso cavicchio, che obbligava i coltivatori a lavorare continuamente con la schiena piegata. Con il cavicchio si praticavano dei fori equidistanti entro cui si infilavano le piantine. Contemporaneamente, con lo stesso cavicchio, si procedeva ad una leggera compressione del terreno. L’ora più adatta per il trapianto (ieri e oggi) è il tardo pomeriggio, per consentire alle piantine, nel loro primo giorno di vita extra-semenzale, di beneficiare della fresca rugiada della notte.

Pe ogni tiralettu te tabaccu siccu se facìanu do chiuppi te dece nserte l’unu. Li chiuppi poi sse ppendìanu susu la volta te lu macazzinu. A ottobre se scindìanu li chiuppi e se ccunsàvanu intra le casce spettandu lu Monupoliu ca ll’ìa rritirare e valutare.

Le cure colturali sono: i rimpiazzi, ossia la sostituzione delle piantine che non hanno attecchito; la sarchiatura, per mantenere smosso e polverulento il terreno, per impedire il disperdimento dell’acqua per evaporazione e per distruggere le erbe infestanti; lo sfrondamento, ossia l’eliminazione delle foglie basilari, per favorire lo sviluppo vegetativo della pianta.

La cimatura, come l’irrigazione, sono vietate, perché si otterrebbe una foglia meno grassa, e perciò, una volta secca, meno consistente, priva delle sue qualità organolettiche e, ai fini del peso, non conveniente neanche per la vendita.

Per la fase di lavoro dei semenzai non erano necessarie molte braccia. Nel caso di famiglie stagionali era il capofamiglia che migrava per primo, nel mese di febbraio, dalla sua terra d’origine a Civita Castellana. Ma in primavera, generalmente a maggio, per la fase del trapianto, sopraggiungeva l’intera famiglia, dal momento che mettere a dimora 100 mila piante per ettaro non era uno scherzo, così come l’irrigazione per ogni singola pianta e la continua sarchiatura.

Le cristiane stìanu ssettate ore su ore cu nfìlanu tabaccu cu la cuceddha e lle mane chine te crassu ca… mancu li cani!

La raccolta inizia quando la foglia ha raggiunto il suo massimo sviluppo e la maggiore ricchezza di sostanze elaborate. Essa va effettuata al giusto grado di maturazione. Questa avviene uniformemente per corone dal basso verso l’alto ed a intervalli di circa 8-10 giorni (prima maturano le foglie basali, poi le mediane ed infine quelle apicali). Di conseguenza anche la raccolta segue questo ordine. Va effettuata, inoltre, sempre a foglia asciutta, quindi possibilmente nelle prime ore del mattino, quando la rugiada si è prosciugata: ne deriverebbe altrimenti un danno per il tabacco nella fase di essiccamento. Nella zona di Civita Castellana la fase di raccolta aveva inizio verso la fine del mese di giugno e si protraeva fino alla prima quindicina di settembre. Allorché cade la pioggia, viene sospesa per due-tre giorni, per dar modo alle piante di asciugarsi completamente. Il perustitza, inoltre, non va raccolto durante le ore di sole, quando le foglie s’ammosciano sulla pianta e non si presterebbero per l’infilzamento, né per una proficua essiccazione. Le foglie appena raccolte vengono sistemate una accanto all’altra con la pagina superiore rivolta sempre da un lato, in ceste o cassette, e trasportate nei locali di cura, dove vengono scaricate e sistemate, ad un solo strato, su teli.

Se prèscianu ‘ste cristiane. E nfilàvanu tabaccu sempre le fèmmane e puru li vagnuni, ca li masculi tenìanu addhu te fare.

L’infilzamento viene effettuato usando aghi schiacciati di acciaio della lunghezza di 20-25 cm. Le foglie vengono infilzate una ad una alla base della costola e tutte nello stesso senso. Si tiene l’ago con la mano sinistra e con l’altra si fanno scorrere le foglie. Quando l’ago è pieno di foglie, queste si fanno scorrere sullo spago. Le filze pronte si sistemano sugli appositi telai, che possono essere orizzontali oppure obliqui. Quelli in uso nel Viterbese erano orizzontali ed erano composti da quattro longheroni formanti un rettangolo di metri 2×1, tenuto sospeso da terra da quattro piedi alti 50 cm. Sui due longheroni lunghi venivano applicati dei chiodini a testa piatta che servivano per attaccare le filze all’estremità. Per ogni telaio venivano applicati quaranta chiodini, venti per lato, per cui ogni telaio conteneva 20 filze. Il numero delle persone occorrenti per l’infilzamento era direttamente proporzionale alla quantità di tabacco raccolto; in ogni caso è necessario tener presente che le foglie venivano infilzate fresche, appena colte, quindi la raccolta veniva regolata in modo tale che alla fine della giornata lavorativa non restasse tabacco da infilzare.

E quandu se ttaccàvanu vinti corde te tabaccu pe’ ogni tiralettu, tuccàa llu cacci a llu sole. Matonna mia quantu pisava lu tabaccu ncora verde! Ca te spezzai le razze e puru le spaddhe.

Il processo di cura, per il perustitza, comprende tre fasi: l’ingiallimento e la fissazione del colore; l’essiccazione dei lembi fogliari; l’essiccazione della costola. L’ingiallimento si ottiene tenendo le foglie lontane dal sole e talvolta, in locali all’oscuro. Durante la seconda e terza fase, i telai vengono esposti all’aria e al sole, riparati dai venti dominanti, sistemati su superfici dure, lastricati di cemento, di pietra o terreni battuti, perché si è constatato che le superfici imbiancate accelerano il disseccamento per il calore riflesso nella parte inferiore delle filze. I telai vengono ritirati nei locali di cura durante la notte, perché siano protetti dalle piogge, nebbie e dalle frequenti rugiade che danneggerebbero il prodotto, macchiandolo, e con marcescenza delle costole e delle nervature. La durata media della cura, con andamento stagionale normale, è di 15/20 giorni. Dopodiché, di primo mattino, si staccano delicatamente le filze dai telai, si riuniscono dall’estremità degli spaghi formando dei cumuli di 20 filze, chiamati, in gergo salentino chiuppi. Questi, appena formati, si sistemano nei locali di custodia appendendoli con degli uncini ai fili di ferro preventivamente tesi.

tabacchine1

Nell’appendere i chiuppi bisogna attenersi rigorosamente all’ordine di raccolta. La foglia di tabacco, dopo la cura, tende ad assorbire una certa quantità di umidità dall’ambiente. Pertanto per la buona conservazione del tabacco curato è necessario che esso venga custodito in locali che rispondano ai principali requisiti tecnici per poter conservare il prodotto all’asciutto e possibilmente alla penombra. Nell’adoperare locali già esistenti, è necessario che il coltivatore eviti di adibire contemporaneamente il locale a diversi usi, perché il tabacco ha la proprietà di assorbire facilmente gli odori, pertanto le foglie possono essere facilmente deprezzate perché puzzolenti di stalla o di altri odori poco gradevoli.

Per tutti i mesi estivi l’intera famiglia, composta in media da cinque persone, era tutti i giorni sui campi dall’alba al tramonto. Si lavorava spesso 16 ore al giorno e per le donne ancora di più, dal momento che la sera per loro iniziava il lavoro di casalinghe.

La stagione lavorativa si concludeva a fine settembre circa, quando le famiglie stagionali potevano tornare nel Salento; restavano soltanto i capifamiglia, fino a ottobre-novembre, per presenziare alla fase di vendita del tabacco. Nella prima decade di ottobre, e, in ogni caso, dopo le prime piogge autunnali, si provvedeva a rimuovere i chiuppi appesi per sistemarli in apposite casse, foderate di carta all’interno, che poi venivano consegnate, per la vendita, ai Magazzini Generali di lavorazione della foglia secca. Nella provincia viterbese c’erano sono tre diversi tipi di consegna: a ballotti provvisori, a casse o gabbie, e a chiuppi, cioè al vero stato sciolto.

Sempre li tiraletti a llu sole, ca eranu cuai ci li pijàva l’acqua te lu cielu. Ca ci se bagnava lu tabaccu, venìa tuttu farfaratu e nnu mbalìa gnenzi.

All’epoca opportuna, che normalmente si aggirava dall’inizio di ottobre alla fine di dicembre, il prodotto allo stato secco veniva venduto alla ditta concessionaria per conto della quale il coltivatore aveva effettuato la coltivazione. Solo allora avrebbe percepito i soldi che gli spettavano e avrebbe potuto stabilire i termini del contratto per l’anno successivo. La determinazione del valore del tabacco veniva concordata tra il coltivatore e l’acquirente, i quali si facevano rappresentare dai periti di loro fiducia. Si trattava di una comune contrattazione tra privati, che aveva come base per l’apprezzamento un prezzo preventivamente stabilito dalle tariffe del Monopolio riferite a delle precise caratteristiche merceologiche. Il valore che veniva determinato in perizia era variabilissimo, strettamente legato alle qualità intrinseche (combustibilità, sapore, forza e aroma) ed estrinseche (colore, ampiezza della foglia, attenuazione delle nervature e integrità) che il prodotto presentava all’atto della vendita.

Con il guadagno dell’annata, il capofamiglia stagionale, prima di raggiungere la sua famiglia nel Salento, avrebbe intanto provveduto a saldare tutti i debiti che aveva accumulato presso i bottegai civitonici e anche presso il padrone della terra.

Tratto da: Irene Mancini, I Leccesi a Civita Castellana: storie di emigrazione e di tabacco. Civita Castellana, Edizioni Biblioteca Comunale, 2008.

Bibliografia.
– Giancane F., La coltivazione del tabacco Perustitza nella Provincia di Viterbo. Viterbo, Quatrini, 1969.
– Barletta R., Tabacco tabbaccari e tabacchine nel Salento. Fasano, Schiena, 1994.

_______________

[1] Coltivo: lett. terreno coltivato.

[2] Era rispettata soprattutto al tempo in cui si produceva tabacco a Civita, per non incorrere nelle penalità amministrative previste dal regolamento sulle coltivazioni del Monopolio di Stato.

N.B. Le immagini delle varietà di tabacco Perustitsa, Ezegovina e Xanthi JaKa erano le più diffuse nel Salento.

La fiètta, la ‘nserta e la prèndula

di Armando Polito

Fietta nel dialetto neretino e in quello di altre zone è sinonimo di treccia, in altre ancora di resta, cioè una filza  di agli o cipolle ottenuta  intrecciandone i fusti; sinonimo di resta nel dialetto neretino è ‘nserta1 (di fichi secchi, di tabacco, di mitili o di pesci una volta uniti da un giunco) in cui i componenti della filza sono tenuti insieme da un filo che li attraversa; non bisogna confondere poi la ‘nserta con la prèndula2 (di pomodori raccolti staccando più frutti insieme dal gambo principale in modo che i piccioli restino uniti  e sistemandoli a pila attorno ad un filo o ad un fil di ferro sottile, per sospendere infine il tutto ad un sostegno).

la fiètta
la fiètta

 

li 'serte ti tabàccu       la 'nserta ti cipoddhe
li ‘nserte ti tabàccu                                                                        la ‘nserta ti cipoddhe
la 'serta ti cozze   la prèndula
la ‘nserta ti cozze                                                                                                                              la prèndula

Per il Rohlfs3 fiètta è da un “latino *flecta”, da una voce, cioè ricostruita. In realtà un flecta è attestato nel latino medioevale dal Du Cange4 e la lettura del lemma mi consente di affinarne l’etimologia:

3 b

 

Traduzione:

FLECTA Glossario di Elfrico: graticcio, cioè flecta, Hyrdel Grimlaico in Regola dei Solitari cap. 35: Vide che lo stesso sedeva e confezionava una flecta di palme. Lo stesso che Plecta, [intreccio di verghette, di palme, etc. Nel libro IV de Le cose siciliane di n. 6 di Salla Malaspina nella Miscellanea di Baluzio tomo VI pag. 294: E volendo mostrare l’abbondanza delle loro cose preziose, da una casa a quella posta di fronte gettate a mo’ di arco o di ponte corde e funi velarono lo spazio sovrastante la via non di alloro o di rami di altro albero ma di vesti pregiate e varie pelli, dopo aver sospeso alla corda cinture, flecte, braccialetti, anelli da caviglia, arbitri5 gramate6 etc. Vedi Plecta.

* Ornamento muliebre negli Statuti di Gubbio presso Cl. V Garamp. Nelle note alle leggi della Beata Chiara pag. 53 col. 2: Che nessuna donna … porti qualche cintura, schiagiale7 o flecta nei quali ci sia oro o argento etc.).

 

E al lemma PLECTA:

4

 

Traduzione

Dal greco πλεκτός. Glossario Latino Manoscritto Regio cod. 1197: parma, plecta, clipeo, scudo, riparo. Uguccione: plecta, intrecciata con  verghette. Giovanni di Genova: plecta, qualsiasi intreccio fatto di verghette o di papiro o di carice con cui fabbricavano cestini, da cui questa plectula. Giuseppe lib. 8 C’erano anche coppe fatte da plectule arriciate. Plecta si dice pure il calice che ha due anse, lo stesso che caracter8 secondo Uguccione. Dei re 3 cap. 7, 29: E tra piccole corone e plecte, leoni e buoi e un cherubino. In un’edizione greca: E sui loro bordi in rilievo leoni e buoi e un cherubino. In quel punto una glossa: Erano tavole quadrate su basi, nelle quali c’erano delle formelle rotonde che sono chiamate coroncine o plecte, erano una specie di cerchi. Storia varia lib. 16 pag. 471: Sulla testa poi un panno con gemme avente quattro plecte da entrambi i legacci. Dove Teofane pag. 207 ha quattro  corde. Pelagio nel quinto libriccino sulle vite dei Padri § 5: Faceva pure una plecta dalle stesse palme e lavorava fino a mezzogiorno. Trovi plecta pure nella Vita di Macario egiziano cap. 11, nella Vita di S.Postumio cap. 2 ed altrove non una sola volta.  San Girolamo nell’epistola 4 ordinando un monaco: o intreccia una fiscella di giunco o intreccia un canestro di flessibili vimini. Vedi epistola 114 Iacopo De Cessoli sul Gioco degli scacchi presso Spelmann: ebbe sul corpo una lorica, plecte di ferro sul petto, gambiere sugli stinchi, etc.).

 

Le attestazioni riportate mi consentono di trarre con sicurezza più che sufficiente le seguenti conclusioni:

Fiètta deriva dal latino medioevale flecta ed è una variante di plecta. Entrambe indicano un intreccio e sono (la seconda direi è una trascrizione) dal greco πλεκτή, femminile dell’aggettivo πλεκτός/ πλεκτή/ πλεκτόν=intrecciato, attorcigliato, a sua volta da πλέκω=intrecciare, attorcigliare. La radice, però, è presente già nel latino classico nel vebo plèctere=intrecciare, dal cui participio passato (plexus/plexa/plexum) è derivato l’italiano plesso. Dalla stessa radice del verbo greco (πλεκ-), poi, è derivato il latino classico plicàre, da cui l’italiano piegare e, attraverso il latino medioevale plica, plica e piega. Molti i composti di plicàre: adplicàre (da cui l’italiano applicare), duplicàre (da cui la voce italiana), complicàre (da cui la voce italiana), explicàre (da cui gli italiani esplicare e spiegare), implicàre (da cui la voce italiana), multiplicàre (da cui l’italiano moltiplicare), replicàre (da cui la voce italiana) supplicàre (da cui la voce italiana: chi supplica si piega sotto, cioè si sottomette).

 

Una nota non allegra introduce il dialettale pricàre=seppellire, lemma che il Rholfs nella parte etimologica sviluppa così:  “cfr. il garganico dupricà, foggiano dubbrecà e rubbrecà, irpino roprecà=seppellire (duplicare, nel significato di piegare?), siciliano cruvicari, vurvicari, urricari, calabrese corvicare, orbicari, durvicare, porvicare, rubicare, tutti nel significato di seppellire, deformazioni forse di un *copricare=coprire”.

 

Connesso con flecta è per il Rohlfs gnittàre registrato per Nardò (a me risulta nghittàre) come sinonimo di pettinare. Per lo studioso tedesco è da *flectàre. Preciso che ‘nghittàre molto probabilmente è derivato da ‘nghiettàre che il Rohlfs registra per Aradeo. Dico questo altrimenti non si spiega l’evoluzione fonetica che invece così è parallela a quella che si osserva in nghièta >*bleta>*bètula>beta=bietola; per completare il quadro, infine, va detto che p, b e f sono tutte consonanti labiali e che quindi la loro interscambiabilità è naturale. Se il Rohlfs (anche dopo la mia modestissima integrazione) ha ragione, non è difficile cogliere come l’atto del pettinare fosse connesso con quella che probabilmente fu la prima acconciatura, degna di questo nome, nella storia dell’Umanità: la treccia, appunto.

E con l’immagine di una fietta (nel significato che ha a Nardò), così come l’avevo aperto, chiudo questo post. Vuoi mettere una bella ragazza con una collana di aglio? Contro quest’ultimo, comunque, non ho nulla e, se Dio vorrà, non gli mancherà l’occasione di essere protagonista. E se le ragazze sono tre (la bionda, la rossa e la bruna) è solo per il rispetto della par condicio … E poi, se avessi dovuto tener conto dei tanti colori di capelli strani, variegati e innaturali che oggi è dato di incontrare, unitamente alle acconciature, e non solo nel gentil sesso …, starei ancora alle prese col copia-incolla di immagini.

5_________

1 Dal latino insèrta, participio passato femminile in uso sostantivato da insèrere=intrecciare.

2 Le varianti pèndula e pènnula (la seconda per assimilazione dalla prima) mostrano chiaramente (la prima più della seconda) che si tratta di un uso sostantivato del femminile dell’aggettivo pèndulo (da pendere). La –r-di prèndula può essere dovuta a motivi espressivi o, più probabilmente, ad incrocio con l’italiano prendere.

3 Per tutte le etimologie delle voci dialettali, sia o non sia citato il nome del suo autore, il testo di riferimento è, quando non diversamente indicato:  Gerard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976.

4 Ogni volta che il suo nome sarà citato il riferimento è al suo Glossarium mediae atque infimae Latinitatis, Favre, Niort, 1883.

5 Al lemma arbitrum in questo stesso glossario è scritto solo muliebre ornamentum (ornamento muliebre) ed è riportato lo stesso passo.

6 Al lemma GRAMASIA/GRAMATA in questo stesso glossario è riportato, oltre a questo, un altro  passo di un testo risalente al 1591: Nec in circumferentia manicarum vel Gramasiarum, et aliarum vestium portent (Canonici) circumferentias pellium additarum (E i canonici non portino nella circonferenza delle maniche o gramasie e di altre vesti orli di pelli aggiunte).

7 In questo stesso glossario è definito genericamente come cintura. Corrisponde all’italiano scheggiale che nel Medioevo e nel Rinascimento era una cintura di cuoio o di tessuto pregiato chiusa sul davanti da una fibbia ornata di smalti e gioielli, a cui si appendevano la spada, la borsa o altri oggetti personali.

8 Errore (di stampa?) per crater=cratere

 

 

 

 

 

 

 

Il pittore ruffanese Saverio Lillo (1734-1796) a Galatina

di Giovanni Vincenti

Non è stato ancora raggiunto il momento di sintesi storica relativa alla intensa attività artistica del pittore ruffanese Francesco Saverio Lillo1, fissabile tra il 1765 che è la data delle sue prime opere documentate2 ed il 1796 anno della sua morte, né altresì delineato con compiutezza il suo ruolo nell’ambito della pittura sacra salentina della seconda metà del Settecento.

Considerato «un artista sostanzialmente modesto e incapace di cogliere le novità dei modelli cui si rifece, e di adeguarsi al loro livello qualitativo, fornendone una traduzione del tutto lontana dalla loro modernità»3, il Lillo fu comunque, uno degli ultimi esponenti di quella scuola salentina, l’unica vera scuola pugliese, promotrice della diffusione delle tendenze artistiche napoletane che, proprio nel corso dell’ultimo scorcio del ‘700, con la loro ampia e progressiva capacità unificante eliminarono ogni senso al significato distintivo tra «centro» e «periferia».

Nella sua breve, ma intensa permanenza napoletana – è documentato un suo soggiorno a Napoli dal dicembre 1763 al febbraio 1764 – rimase affascinato dalla pittura di Francesco Solimena (1657-1747) alla quale sembra aver guardato in momenti diversi della sua attività, per alcune versioni di suoi dipinti sino a proporre finanche copie, mentre in loco tenne a modello i lavori di Liborio Riccio (1720-1775) da Muro e dei leccesi Serafino Elmo (1696-1777), forse suo maestro di bottega, e Oronzo Tiso (1720-1800), dai quali desunse il gusto tutto metropolitano delle «larghe composizioni»4.

 

La sua modesta produzione bene si prestava comunque, ad accontentare le esigenze di una committenza, sia laica che religiosa, la quale richiedeva opere che, a più basso costo, potessero riecheggiare in periferia i modelli dei più celebri pittori napoletani.

Fig. 1. Galatina. Chiesa S. Maria delle Grazie. S
Galatina. Chiesa S. Maria delle Grazie

 

Di Saverio Lillo, a Galatina, sono documentate due opere. La prima, una Annunciazione (fig. 1) collocata sull’omonimo altare nella chiesa dei domenicani, datata e firmata XAVERIUS LILLO P. 1793. La tela raffigura la Vergine sull’inginocchiatoio, a corpo chino e con le mani al petto in segno di devozione, nell’attimo in cui l’arcangelo Gabriele le annuncia il concepimento verginale e la futura nascita di Gesù, e lei figurativamente risponde “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1, 38). L’arcangelo, adagiato su una nuvola, porge alla Vergine un giglio, simbolo della purezza e con l’altra mano indica una colomba rappresentante lo Spirito Santo, mentre fa vivace corteo un dorato stuolo dei putti angelici che volteggia nel cielo. Lo schema compositivo, il cui tema è ripreso nell’ovale presente nella collegiata di Maglie5, rinvia, senza mai raggiungerne però il livello qualitativo, al modello solimenesco realizzato nella chiesa di Donnalbina a Napoli.

Fig 2
Fig.2

La seconda, un S. Paolo (fig. 2) nell’altare nella chiesa omonima datato e firmato: FRANC. XAV.US LILLO P. 1795, «qui il santo è rappresentato monumentalmente a tutt’altezza, avvolto da un mantello rosso che superiormente scopre la veste verde. Stringe la spada e con la destra indica un putto che innalza un volume aperto sulle cui pagine è scritto: UNICUIQUE/AUTEM NOS/TRUM DATA/EST GRATIA/SECUNDUM/MENSURAM/DONATIONIS/CHRISTI; sulla pagina di fronte: AD EPHES. /CAP. IV./VERS. 7. ROM. XII. 3./I COR. XII. 11./II COR. X. 13. Alle spalle del santo è raffigurato l’episodio di Malta; c’è la nave a vele spiegate in alto mare e poi l’arrivo sulla costa dove si verifica l’episodio miracoloso della vipera raccontato in Atti: 28, 2-6. Sul lato opposto della marina è raffigurata una città con un profilo montuoso: dovrebbe essere Malta, ma è chiaramente un paesaggio di fantasia, tipico comunque della produzione del pittore. […] Alla destra del santo un gruppo di tre persone inscena un dramma racchiuso tutto nella figura dell’uomo languente, col volto cadaverico, sostenuto da una donna che implora il santo mentre l’altra offre all’ammalato un sorso d’acqua – quella del pozzo – da un contenitore metallico per alleviargli la pena. Ai piedi del santo, messi quasi in riga ai suoi ordini ci sono le cause di quel dramma: la tarantola, lo scorpione, il serpente»6. Qui la raffigurazione assume significati ben più pregnanti di quella che lo stesso Lillo realizzò, ossia l’Avvento di S. Paolo, nella chiesa domenicana di Tricase, il 17697, poiché riassume tutta la tradizione galatina in cui, giammai la musica, ha facoltà risolutrice, la gratia di guarir, dal morso velenoso, bensì l’acqua miracolosa del pozzo sito nelle case dette di S. Paolo8.

Fig 3
Fig, 3

A queste opere mi pare ora si possa aggiungere, in questa sede, un dipinto inedito che va ad arricchire il corpus delle opere del Lillo. Trattasi di una tela raffigurante il Trionfo della Fede sull’Eresia (fig. 3), non datata, ma firmata LILLO P., collocata nella cappella dell’Immacolata nella chiesa matrice di Galatina, ma proveniente dalla chiesa dei cappuccini. E’ questo un documento significativo del costante rapporto che il pittore tenne con i modelli solimeneschi napoletani e qui infatti, è evidente il ricorso del Lillo all’affresco del Trionfo della fede sull’eresia ad opera dei domenicani (1701-1707) realizzato sulla volta della sacrestia della chiesa di S. Domenico Maggiore a Napoli. La raffigurazione allegorica della Fede rievoca il modello realizzato dal Lillo, tra il 1765 ed il 1767, nella Una Fides nell’estradosso della cappella di S. Antonio da Padova della parrocchiale di Ruffano, mentre il corpo dell’eretico sconfitto ha sembianze simili a quelle dei corpi ignudi della tela Eliodoro che ruba i tesori del Tempio, del 1765, nel presbiterio sempre nella parrocchiale di Ruffano.

Fig 4
Fig.4


 

Ma al Lillo attribuirei anche altri due inediti dipinti, presenti a Galatina, che rivelano appieno le caratteristiche tipiche del suo stile. Il primo La fuga in Egitto (fig. 4) che, collocato nella chiesa dell’Addolorata, è opera di notevole qualità realizzata dopo il 1780 quando i confratelli del sodalizio dei Sette Dolori ebbero «l’accortezza di farvi lavorare sei medaglioni di figura ovale […]. Nei loro vuoti adunque vi si collocarono quelle sei tele dipinte di ugual grandezza e figura che tutt’ora si osservano. Queste rappresentano vari episodi della vita di Gesù Cristo. Eccoli: la sua Circoncisione, la Fuga in Egitto, la Disputa coi dottori nel tempio, la Gita al Calvario, la Crocefissione e la sua Sepoltura. Sarebbe stato desiderabile che un altro pennello più diligente e finito si fosse adoperato per queste»9. Tra questi lavori, che costituiscono la Via Matris, solo ne La fuga in Egitto si rileva ben altra mano e altro pennello, tanto da poterla accostare alla ottagona tela de La Natività di Maria Vergine che il Lillo realizzò, prima del 1770, sulla volta del transetto nella parrocchiale di Ruffano.

Fig 5
Fig 5

Il secondo, La sacra famiglia con S. Giovannino, S. Anna e S. Gioacchino (fig. 5),  conservato presso il museo civico “P. Cavoti”, è una composizione di buona qualità per la realizzazione della quale il Lillo si ispirò, ancora una volta, alla omonima tela solimenesca. Al centro della scena, come si ricava dalla descrizione tratta dall’Inventario museale (n. 145), «la Vergine vestita di rosso con manto azzurro che regge il Bambino proteso verso S. Anna ammantata e col capo coperto. Sulla destra, appoggiato ad una roccia, S. Giuseppe che guarda il Bambino, mentre porta la mano destra in alto indicando in lontananza, è vestito di azzurro con manto bruno, ha la verga fiorita poggiata sulla spalla sinistra. S. Giovannino inginocchiato tende la destra verso il Bambinello e regge con la sinistra un’asta con un cartiglio dietro di lui: Ecce Agnus Dei. Sulla sinistra S. Gioacchino vestito di bruno con manto rosso, con le mani giunte sul petto, rivolge lo sguardo verso il Bambino».

 

 

NOTE

1 Su di lui cfr. A. DE BERNART, Saverio Lillo pittore ruffanese del Settecento, in A. DE BERNART – M. CAZZATO, Ruffano una chiesa un centro storico, Galatina 1989, pp. 45-48; A. DE BERNART, Saverio Lillo pittore ruffanese nel bicentenario della morte (1796-1996), in “Bollettino Storico di Terra d’Otranto”, 1996, 6, pp. 81-86.

2 Cfr. M. CAZZATO, Barocco in provincia: la ricostruzione (1706-1712) della parrocchiale di Ruffano. Note e documenti, in A. DE BERNART – M. CAZZATO, Ruffano etc., cit., Documento V, pp. 175-177.

3 Pittura in Terra d’Otranto (secc. XVI-XIX), a c. di L. Galante, Galatina 1993, p. 10.

4 Cfr. C. DE GIORGI, La provincia di Lecce. Bozzetti di viaggio, Lecce 1882, I, p. 157.

5 Cfr. E. PANARESE – M. CAZZATO, Guida di Maglie. Storia, Arte, Centro Antico, Galatina 2002, p. 120, fig. 262.

6 Questa descrizione è tratta da M. CAZZATO, Da S. Pietro a S. Paolo. La cappella delle “tarantate” a Galatina, Galatina 2007, pp. 64-67.

7 Cfr. S. CASSATI, La chiesa di S. Domenico in Tricase, Galatina 1977, tav. XLVII.

8 Per questo ed altro, cfr. M. CAZZATO, Da S. Pietro a S. Paolo. La cappella delle “tarantate” etc., cit., pp. 41-72;  AA. VV., Sulle tracce di S. Paolo. Verità storiche e invenzioni tarantologiche, Galatina 2001; A. VALLONE, Le donne guaritrici nella terra del rimorso. Dal ballo risanatore allo sputo medicinale, Galatina 2004.

9 Cfr. G. VINCENTI, Galatina tra storia dell’arte e storia delle cose, Galatina 2009, p. 165.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Il periodo quaresimale nella civiltà contadina del Salento

Ripercorriamo il periodo quaresimale della civiltà contadina alla fine dell’Ottocento, attraverso il simbolico fantoccio salentino che Giulietta  ci ripropone antropologicamente nel libro “Tre Santi e una Campagna”.

 

Salento fine Ottocento

La Quaremma (prima parte)     

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) Anche alle prime luci del mercoledì delle Ceneri c’era da assistere a uno spettacolo: quello delle quaremme, che i capifamiglia avevano nottetempo issato sui comignoli e che  ora l’incedere dell’alba via via rivelava nel loro orrido quanto caratteristico aspetto: fantocci a grandezza d’uomo, rozzamente approntati con legno, paglia e stracci, riproducenti vecchie megere tetramente vestite con logori indumenti neri, o comunque molto scuri. Sulla fronte, circoscritta da un fazzolettone annodato alla campagnola, una ciocca di lana bianca a simulare capelli, e all’estremità delle braccia – mantenute in posa orizzontale da un manico di scopa – due pale di ficodindia che, a mo’ di mani, reggevano l’una un fuso con alcuni fili di lana  e l’altra  una maràngia (arancia amara) con infilzate sette penne, strappate alla coda di una gallina nera. Tra fuso e arancia, sette fili di lana che, a meglio esprimere la filatura del tempo penitenziale, venivano separatamente annodati alle sette penne, rappresentanti appunto le sette settimane quaresimali.

Rizzare la quarémma sul proprio comignolo o – se questo risultava internato e perciò non visibile dalla strada – sul cornicione della terrazza era testimonianza di religiosità, anzi un porsi nel novero dei cristiani più osservanti, di quelli (quasi tutti), per intenderci, la cui compiacente affermazione “Nui sciàmu all’antica” (“Noi andiamo all’antica”) denunciava fedeltà ai rigorismi medievali.

Il tempo dei pubblici peccatori lasciati in quarantena dietro la porta della chiesa era ormai lontano, ma sia pure in spigolature aneddotiche ne sopravanzava memoria, rinverginando scrupoli – individuali e collettivi – allorché, in vista del rinnovamento pasquale, si entrava nell’apposito clima della contrizione. Una sorta di ricapitolazione delle proprie manchevolezze, peraltro incentivata dai sermoni dei quaresimalisti appositamente fatti inìre ti fore paése (fatti venire da fuori), i quali, calcando sulla necessità dell’espiazione, non di rado arrivavano a

Cognomi e soprannomi salentini di origine greca

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di Piero Vinsper

 

Parlare dell’origine dei cognomi è compito quanto mai arduo e difficile, e comporterebbe un discorso lungo. Molti studiosi hanno affrontato questo problema con zelo, ottenendo degli ottimi risultanti. Dirò solo, e in maniera semplice, che i cognomi derivano da nomi patronimici, matronimici, da qualità e difetti fisici, da animali domestici e selvatici, da insetti, dal nome di giorni e mesi, da numeri, da soprannomi, da sostantivi del sostrato greco, da luoghi, da città e nazioni, da arnesi dell’uso quotidiano, da mestieri e professioni, ecc. Aggiungo anzi che gli studiosi hanno stilato una certa statistica, e non sono le statistiche di stile berlusconiano: quelle sappiamo che vanno sempre nello stesso senso, attratte dall’ago di una politica scialba, vuota, patetica, inconcludente, meschina, retrograda, dannosa e per decoro personale mi fermo qui, basata, beato lui!, su quel vecchio adagio galatinese: “Articulu quintu, ci tene a mmano have vintu!”, strafottendosi delle istituzioni, della nazione e del popolo. Però vorrei ricordare a lui, e lo scrivo con la lettera minuscola, un altro dittèriu nostro: “nu’ bulare throppu ertu mo’ c’hai l’ale, ca sempre si’ suggettu a llu cadire!”.

Dicevo che gli studiosi sono giunti a questa conclusione: i cognomi derivano soprattutto da tre fonti: onomastica, toponomastica, soprannomi. Una piccola percentuale spetta a cognomi di derivazione straniera, un’altra, sparuta, costituisce un nome augurale, che la carità cristiana ha riservato ai trovatelli. Poi il Concilio di Trento del 1564 sancisce l’obbligo per i parroci di aver un registro per i battesimi, sul quale scrivere nome e cognome di una persona, al fine di evitare matrimoni tra consanguinei.

Ebbene, quel che a noi interessa è cercare i cognomi e soprannomi galatinesi che abbiano un sostrato greco. E’ chiaro che prenderemo in considerazione quelli che sono ancora in voga tralasciando, invece, quelli che sono già estinti e quelli che non sono ormai sulla bocca di tutti.

Antonica e Antonaci son formati dall’unione di due sostantivi: anthos + nike e anthos + nake; sicché il primo significa fior di vittoria, il secondo fior di pelle lanosa, di pelliccia. Infatti il termine dialettale naca che deriva da nake o dal neogreco naka non è altro che la culla sospesa, formata di un vello di pecora.

Sambati e Sabato è la stessa cosa, solo che uno è al plurale, sambata (grico sabati) e l’altro al singolare (neogreco sabbata, sabati). Lo stesso si può dire di Stomaci e Stomeo; Stomaci da stomachi, stomaco, oppure dal diminutivo di stoma, stomaki, piccola bocca. Se invece facciamo riferimento al grico stoma, acciaio, come per Stomeo, allora Stomaci sta per piccola tempra di ferro e Stomeo per acciaio. E ciò che avvalora la seconda ipotesi e che la stirpe degli Stomaci erano abili “ferrari”, cioè ottimi maniscalchi.

Colazzo, Cudazzo, Codazzo, Cutazzo sono tutti uguali cognomi che traggono origine da Colazzo. Molto probabilmente, quando le persone si recavano all’ufficio anagrafe per dichiarare il nascituro, vuoi per la cattiva pronuncia del richiedente, vuoi per l’incompetenza dell’ufficiale dell’anagrafe, si incorreva a questi mutamenti di cognome. D’altra parte erano quelli periodi in cui la gente era in massima parte analfabeta, e perciò non poteva rendersi conto di ciò che c’era scritto sul certificato di nascita. Comunque questi cognomi derivano da colazo, io freno, e indica il freno dei guarnimenti da applicare alla coda degli animali da tiro o da soma.

Colaci è un vezzeggiativo di [Ni]kolakis, Nicolino. Però azzarderei un’altra ipotesi: potrebbe avere a che fare con il diminutivo di cholòs, cholàki, un po’ zoppo, claudicante.

Musarò da musaròs, sudicio, impuro, detestabile; Mauro da mauròs, nero. Nel primo caso si fa riferimento a persona trasandata, alla buona, nel secondo a persone dalla carnagione scura.

Spano da spanòs è un uomo privo di barba, sbarbato; Piscopo da [e]pìscopos significa vescovo; Sanzico da sàmpsicon si riferisce, forse, a persona che coltivava in campagna la maggiorana.

Papadia, derivando da papadìa, sta per moglie del prete; Patera, accostato a patèras, sta per padre, ma se lo facciamo discendere dal grico patèra, è il prete.

Ostace e Campa richiamano due simpatici animaletti: ostacòs è il granchio oppure il gambero, kampe è il bruco.

Onesimo si rifà a onèsimon, che si traduce cosa utile, vantaggiosa, benefica, buona. Il termine onèsimos si riscontra nelle opere di antichi scrittori greci: in Sofocle, Antigone v. 995, in Eschilo, Eumenidi v. 924, negli Inni omerici, Mercurio v. 30, e come nome di uomo nell’Antologia palatina. Prendo, così per caso, il verso 995 della tragedia Antigone di Sofocle. Chi parla è Creonte, rivolto a Tiresia: ècho peponthòs martureìn onèsima [posso riconoscere di aver avuto (da te) del bene].

Izzi è una desinenza di origine greca che ha la funzione di diminutivo. Quindi Stefanizzi viene da Stefanitsis, stèfanos + itsis, piccola corona, ghirlanda, oppure dal verbo stefanizo, incorono. Mutatis mutandi il significato è perlopiù identico.

Castriota, Kastriotis, è il signore del castello; Ciriani, Kyr’Jannis, signor Giovanni; Coroneo, da Koronaios, significa abitante di Corone, città del Peloponneso. Marti, Martios o dal grico Marti, è il mese di marzo.

Il cognome Moscara ha a che fare con moschàrion, vitellino; Calso con Kàltios, calzare; Misciali con Michàlis, Michele; Cretì con krytìs, giudice; Mairo con màgeiros, cuoco.

Nei soprannomi, invece, appare più chiaro il sostrato greco; il dialetto, infatti, conserva  la forma più antica del linguaggio.

Sciòi, da skiòeis (leggi sciòis), vale ombroso; pisino, da pisinòs, equivale a culo.

Scuddhrana, figlia de lu Scuddhru, rimarca skulos, codolo della zappa, della scure. E c’è un modo di dire galatinese, vutàmula de lu scuddhru, giriamola dalla parte del codolo, quando non si riesce a dare una spiegazione a qualcosa, oppure non si trova una via d’uscita a una situazione scabrosa.

Canzeddhra è il soprannome dato a una persona di bassa statura, ma nel nostro dialetto rappresenta il tavolo di lavoro del calzolaio. Infatti, kantòs significa cerchio esterno della ruota; ma potrebbe essere un diminutivo di kàmpsos, curvo. Comunque stiano le cose noi sappiamo che la canzeddhra è una specie di mobile molto basso che poggia su tre o quattro piedi. Il Tavolo di lavoro è a forma circolare, diviso in piccole parti, in cui vengono adagiate le semenzelle, le puntine, la tanaja, i capitieddhri, la tavoletta di pece, la ssùja, pezzi di cuoio, ecc. ecc. Lu scarparu, stando seduto può servirsi in maniera maneggevole e degli arnesi e del materiale per riparare le scarpe.

E a proposito di sutor mi torna in mente l’agnomen calopa. Calopa deriva da kalò + pous, forma per le scarpe, “piede di legno”. Quest’attrezzo usato dal calzolaio ha una forma sgraziata e il soprannome riferito a una donna denota trascuratezza nel vestire, impaccio nel portamento e nel camminare.

Panta da pas, pasa, pan, ogni cosa, tutto, sempre, e parà, preposizione greca, ora, mentre, accanto, presso, contro, sono nomignoli appioppati a due rami di una famiglia il cui cognome è molto diffuso qui da noi.

Cista, kiste, è la cesta, il paniere. Famoso a Galatina era Peppinu ‘u cista, gran venditore di ghiaccio. I lettori devono sapere che, un tempo, non esistevano frigoriferi; solo i nobili avevano in casa la ghiacciaia; la povera gente, nel periodo estivo, per far diventare fresca ‘na vucala d’acqua o ‘nu ‘rsulu di vino, possibilità permettendo, mandavano da Peppinu cista i bambini a comprare cinque o dieci lire di ghiaccio. E lui dall’aspetto portentoso e fiero, ma sempre con il sorriso sulle labbra, lasciava cadere un colpo di mannaia sul blocco di ghiaccio e te ne porgeva un pezzo. Poi con un fare bonario, tipico della gente salentina, raccoglieva i pezzettini di risulta e li aggiungeva al ghiaccio comprato esclamando: “Quistu è de cchiùi!”.

Thraca viene da trachùs, duro, violento; calieddhru da kalòs, bello; capasa da kapasa, grande vaso di creta, idoneo alla conservazione delle friselle; soprannome quest’ultimo dato a persona bassa di statura ma dalla pancia prominente.

Chetta deriva da chaite, criniera, chioma: soprannome dato a persona calva; cerasa da keràsion o dal neogreco keràsi, ciliegia; cuja da guion, membro, borsa dei testicoli; cuvizzi da kuix, bulboso.

Panaca da panàke, panacea, è l’agnomen dato, forse, a qualcuno che empiricamente trovava un rimedio per tutti i mali, così come murecca da murèpsos era l’unguentario.

Piricocu risale a berycoca. Alla lettera si traduce albicocca ma nel nostro dialetto equivale a pesca. ‘U piricocu per eccellenza a Galatina era un certo Alfieri, che con due altri amici, Picinera e Naticeddhru, aveva messo su il Carro di Tespi e insieme con loro andava in giro per le piazze a rappresentare il teatrino dei burattini.

Kalès diakopès e a risentirci a presto!

Il patriota Bonaventura Mazzarella

Con il pensiero rivolto sempre alla libertà, all’unità e alla prosperità della patria

BONAVENTURA  MAZZARELLA

Fervente repubblicano e indomito patriota, dopo la sommossa napoletana del 15 maggio 1848, fonda a Lecce, con il Castromediano, il De Donno e altri rivoluzionari, il Circolo Patriottico Salentino, di cui è presidente. È eletto più volte deputato al Parlamento italiano.

 

di Rino Duma

 

Se non gli storici, pochi uomini sanno di Bonaventura Mazzarella e di molti dei suoi compatrioti. La storia, che da centocinquant’anni ci viene insegnata (forse perché di parte), ha inspiegabilmente sottaciuto le eroiche gesta di questo fiero e valoroso personaggio del Risorgimento meridionale.

Bonaventura nasce a Gallipoli il 6 febbraio 1818 (quattro giorni dopo Antonietta de Pace) da Carlo (1773-1854) e da Caterina Forsenito (1787-1850). Secondo di quattro figli [Rocco (medico), Domenico (notaio) e Annunziata Maria (non si hanno notizie di lei)], riceve dai genitori un’educazione esemplare, improntata sul rispetto, sull’impegno e l’amore nei confronti delle persone, soprattutto verso quelle bisognose e  sofferenti.

Della prima parte della sua vita, si hanno brevi e contraddittorie notizie. È comunque uno studente modello e ha sempre nel cuore le sorti della patria.

Da giovane frequenta assiduamente alcuni gallipolini, come Achille Dell’Antoglietta, Emanuele Barba, Epaminonda Valentino, Nicola Massa, Antonietta de Pace e altri giovani salentini, con i quali stabilisce duraturi ed efficaci rapporti d’amicizia. Spesso si riunisce presso la sua abitazione sita all’isola Briganti e qui si discetta su temi di filosofia, storia ma essenzialmente di politica.

In questo periodo va ricordata la partecipazione alla sfarzosa festa tenuta a palazzo Doxi-Stracca dai de Pace per festeggiare il ventesimo compleanno di Antonietta. Alla cerimonia è presente il fior fiore dei nobili della provincia, tra i quali Sigismondo Castromediano, la cui madre, Teresa Balsamo, è imparentata con i de Pace.

Gli anni giovanili di Bonaventura sono molto inquieti e turbolenti per via dei fermenti popolari che si respirano in tutt’Europa. Infatti, grazie alla costituzione di numerose sezioni della “Giovine Italia”, le idee mazziniane cominciano ad affermarsi e prendono piede in ogni angolo del paese, soprattutto nel meridione d’Italia. Gli ideali repubblicani e libertari svegliano dal torpore intellettuale le classi della borghesia e di certa una nobiltà, facendo breccia nel rattrappito pensiero di molte persone. Le varie monarchie europee e nazionali sono ritenute la causa principale delle disuguaglianze e sofferenze umane, per cui i sovrani tentano di arginare e ammansire il movimento liberale concedendo al popolo la “Costituzione”.

Negli anni ’40, il gallipolino si trova a Napoli per completare gli studi universitari [si laurea in legge (in utroque iure)], e qui frequenta circoli politici e salotti letterari e artistici. Con la mente già predisposta per natura ai principi di libertà e di democrazia, Bonaventura sposa con grande entusiasmo la causa mazziniana, sino a esserne convinto sostenitore e a farsi appassionato divulgatore.

Finalmente il 29 gennaio 1848, re Ferdinando II, anche perché pressato da altri sovrani italici e dallo stesso papa Pio IX, concede la tanto agognata Costituzione. Per le città del regno è gran baldoria: si respira un’aria nuova e s’inneggia alla ritrovata libertà.

Solo Bonaventura Mazzarella e Antonietta de Pace sono molto diffidenti, memori anche del voltafaccia di Ferdinando I, il quale, nel 1820, prima concesse la carta costituzionale per poi ritirarla. In effetti, i due non si sbagliano. L’identica situazione si ripete a distanza di quasi trent’anni con il nipote Ferdinando II che, dopo appena quattro mesi, la sospende e poi la revoca definitivamente.

I motivi principali, che inducono il sovrano a rimangiarsi ogni cosa, son dovuti ai conflitti insanabili sorti tra i liberali e lo stesso monarca. Un importante scoglio, che viene solo in parte superato, è rappresentato dalla legge elettorale molto restrittiva e di parte (anche allora, come ora). Infatti, per essere eletto alla camera dei deputati, è necessario possedere una rendita annuale di 250 ducati, mentre per essere elettore bisogna avere un reddito di 20 ducati e aver compiuto venticinque anni. Coloro che non hanno tali requisiti vengono automaticamente esclusi dall’elettorato passivo e attivo. Le donne sono escluse dal voto. Le due imposizioni rappresentano delle grandi limitazioni e, soprattutto, determinano uno sbilanciamento della rappresentatività popolare verso i ceti più alti. Infatti, dopo la prima consultazione elettorale, sono per buona parte eletti personaggi appartenenti alle alte sfere nobiliari (più vicine al Borbone che non al popolo). Altra ristrettezza della neo Costituzione è dovuta al fatto che solo il 4-5% dei cittadini è chiamato a votare: un nonnulla! Tutto ciò, unito ad altre gravi carenze costituzionali, determina un aspro conflitto tra il sovrano e i liberali.

Si arriva al famoso 15 maggio 1848, giorno in cui re Ferdinando è chiamato a pronunciarsi sulla proposta di modifica del giuramento presentata dalla camera dei deputati. Il sovrano tentenna, mentre all’esterno del Palazzo Reale la popolazione inizia a rumoreggiare. Le discussioni tra le parti vanno per le lunghe, sicché durante la notte il sovrano, temendo un colpo di mano da parte dei liberali e della Guardia Nazionale, ordina al ministro dell’interno di dispiegare alcuni battaglioni di polizia e di soldati a protezione della casa reale e delle strade adiacenti. I liberali e i repubblicani non se ne stanno con le mani in mano. In breve tempo in Via Toledo e Via Santa Brigida si ergono delle barricate, dalle quali partono, purtroppo, alcuni colpi di moschetto all’indirizzo dei soldati borbonici. È l’inizio di un’insurrezione che durerà alcune ore, al termine della quale si contano 1.500 morti (c’è chi parla addirittura di quattromila!). Scatta immediata la repressione del sovrano, mentre intanto Antonietta de Pace, Giuseppe Libertini, Achille dell’Antoglietta, Epaminonda Valentino e altri valorosi salentini, che si sono distinti sulle barricate, sono costretti a scappare da Napoli e rientrano nel Salento dopo lunghe traversie.

La notizia giunge a Lecce dopo quattro giorni e suscita nei cittadini sdegno, rabbia ed enorme dolore per i sanguinosi fatti napoletani. I repubblicani e i liberali, capeggiati da Bonaventura, Giuseppe Libertini e Sigismondo Castromediano, si organizzano e in breve tempo destituiscono le autorità borboniche e formano un Governo Provvisorio.

Il Mazzarella, nel frattempo, decide di dimettersi dall’incarico di Giudice Regio a Novoli, indignato e addolorato per quanto accaduto a Napoli. Il 22 maggio scrive al Procuratore del Re, motivando le dimissioni in una lunga e accorata lettera, che termina con la frase “…pertanto, preferisco stare dalla parte del popolo, piuttosto che dalla parte del re traditore”.

A fine giugno si costituisce il Circolo Patriottico Salentino, alla presidenza del quale è chiamato Bonaventura, mentre a vice-presidenti il martinese Michele Santoro (allora come ora un Santoro non guasta mai!) e Camillo Tafuri di Nardò, a segretari Sigismondo Castromediano, Annibale D’Ambrosio, Oronzio De Donno e Alessandro Pino. Ben presto, però, sorgono contrasti tra gli aderenti, alcuni dei quali sono Costituzionali, altri liberali moderati, altri repubblicani e altri radicali oltranzisti. A peggiorare la situazione, da Napoli giungono notizie poco confortanti, per cui, con il passar del tempo, molti iscritti si dimettono dal Circolo.

Ridotti, ormai, a un modesto numero di componenti, nella riunione del 15 luglio Bonaventura, con immensa tristezza e prostrazione d’animo, propone lo scioglimento del Circolo, piuttosto che rimediare una bruciante sconfitta. L’assemblea rigetta la proposta, ma il presidente insiste e presenta le dimissioni. Perdendo l’uomo più rappresentativo, il Circolo rimane acefalo e senza una guida sicura: dopo appena quindici giorni, chiude definitivamente i battenti. Stessa sorte tocca ai tanti circoli patriottici locali disseminati nella provincia, che, per effetto domino, si vedono costretti ad abbassare definitivamente la guardia.

Afflosciatasi la resistenza, le autorità borboniche e i vari Intendenti rialzano pian piano la testa, riprendendosi il potere e lasciandosi andare ad azioni repressive di inaudita violenza, in particolar modo nei confronti dei liberali radicali.

Intanto dalla capitale si muove verso le regioni insubordinate un esercito di quattromila uomini, coadiuvato da un nutrito corpo di cavalleria e da un’efficientissima artiglieria. La resistenza leccese è spazzata via nel breve volgere di poche ore. Scattano numerosi arresti dei vertici rivoluzionari e, tra questi, vi è Sigismondo Castromediano, Nicola Schiavoni Carissimo, Michelangelo Verri, Nicola Brunetti, Gaetano Madaro, Epaminonda Valentino e altri.

Per sua fortuna Bonaventura riesce a mettersi in salvo. Girovaga per alcuni giorni per le campagne salentine e si nasconde nei trulli abbandonati o in anfratti naturali; in seguito raggiunge Monopoli, per poi proseguire ad Ancona e quindi a Roma, dove si unisce ai garibaldini e combatte in difesa della Repubblica Romana. Dopo la disfatta, è costretto ad abbandonare la capitale e si rifugia temporaneamente a Corfù e quindi ad Atene.

Prima di allontanarsi dall’Italia, Bonaventura affida all’amico Angiolo Greco una lettera con la quale scagiona tutti i compagni patrioti impegnati nel Circolo Patriottico Salentino, addossandosi ogni colpa e ammettendo di essere l’unico autore degli atti e dei bullettini pubblicati.

Dopo la cruente repressione, i tribunali militari pronunciano sentenze durissime. Bonaventura viene condannato a morte con il 3° grado di pubblico esempio dal tribunale di Trani.

Per alcuni anni di lui non si hanno notizie. Si rifà vivo soltanto in prossimità della spedizione dei Mille, ma intanto lavora sotto banco in modo da tenere ben salde le fila dei cospiratori.

Finalmente Garibaldi sbarca a Marsala e avanza con speditezza verso la capitale. Bonaventura ne approfitta e rientra clandestinamente nel Salento. Il 7 settembre, dopo che Francesco II ha abbandonato Napoli per la più sicura Gaeta, l’eroe dei due mondi, con a fianco Antonietta de Pace ed Emma Ferretti, entra a Napoli con un seguito di appena ventotto garibaldini. La notizia giunge immediatamente a Lecce, dove la folla si riversa in Piazza Sant’Oronzo e inneggia all’unità e alla libertà. Per prevenire possibili ritorsioni a danno dei filoborbonici e per amministrare al meglio il pericoloso periodo di transizione, si crea immediatamente un Comitato Municipale Provvisorio. Ovviamente, in questo organo è presente anche Bonaventura, il quale redige il comunicato ufficiale della cacciata dei Borbone da Lecce.

Nel gennaio 1861 vengono indette le elezioni per il primo parlamento italiano. Bonaventura è eletto con un grande suffragio di voti nel collegio di Gallipoli.

Il suo impegno politico per la ricostruzione morale, sociale ed economica del Meridione si protrae per altri venti anni. Poi, improvvisamente, a seguito di una brutta polmonite, si spegne a Genova l’8 marzo 1882, lontano dalla sua amata Gallipoli.

Così si esprime Filippo Abignente alla camera dei Deputati per commemorare la scomparsa del patriota gallipolino.

“Nel risveglio nazionale del 1848 egli fu tra i più caldi della sua nativa provincia di Puglia e si adoperò tanto per la libertà che, venuta poi la reazione nell’anno seguente, fu processato e condannato a morte dal Tribunale di Trani. Si rifugiò a Roma, quindi andò in Grecia, e quivi ed emigrando in altri Paesi acquistò tutto quel corredo di cognizioni che rafforzò nell’animo suo l’amore al progresso, l’amore all’Italia. Restituita la patria a libertà i suoi Concittadini lo elessero a loro Rappresentante e dagli elettori di Gallipoli fu mandato Deputato fin dall’ottava Legislatura. Dall’ottava legislatura sino alla quattordicesima, quasi senza interruzione, Egli è stato nella Camera dei Deputati e sempre Egli ha seduto sui banchi della Sinistra, fedele alla Sua bandiera, dando esempio di probità politica superiore ad ogni elogio”.
Nota –  Nella redazione di questo articolo, alcune notizie mi sono state fornite dallo storico gallipolino Federico Natali, che, qui, pubblicamente ringrazio.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Due tele di Sant’Oronzo ed una inedita immagine di Galatina nel Seicento

di Giovanni Vincenti

 

FIG.1. Lecce. Cattedrale. S.Oronzo (G. A. Coppola)
FIG.1. Lecce. Cattedrale. S.Oronzo (G. A. Coppola)

 

FIG.2. Lecce. Cattedrale. S.Oronzo (G.A

FIG.2. Lecce. Cattedrale. S.Oronzo (G.A. Coppola)

La «nuova immagine di S. Oronzio dipinta» [fig. 1] [fig. 2] che, realizzata dal gallipolino Giovanni Andrea Coppola (1597-1659), «medico, musico ed eccellente pittore», quale segno visibile della popolare gratitudine alla scampata epidemia di peste, fu solennemente introdotta nella chiesa cattedrale leccese il 17 dicembre 1656 e risultò talmente aggradita ai devoti che in breve tempo «se ne sono cavate innumerabili copie per diverse città e terre della provincia» nelle quali «parimenti con molta pietà e liberalità sono stati al medesimo Santo eretti altari essendo da esse stato eletto per lo protettore».

FIG.3. Galatina. Chiesa SS.Annunziata (S.Luigi). S.Oronzo.
FIG.3. Galatina. Chiesa SS.Annunziata (S.Luigi). S.Oronzo

FIG.4. Galatina. Chiesa SS.Annunziata (S.Luigi). S. Oronzo
FIG.4. Galatina. Chiesa SS.Annunziata (S.Luigi). S. Oronzo

Anche Galatina non fu esente da questo entusiasmo devozionale. Nella chiesa della SS. Annunziata delle clarisse (S. Luigi) infatti, sulla cantoria lignea nel retrospetto, è collocato un quadro di S. Oronzo Vescovo [fig. 3] [fig. 4] copia coeva di quello del Coppola la quale deriva dalle visioni mistiche del misero pritello calabrese d. Domenico Aschinia, in cui il santo è «vestito delli vescovili paramenti, che portava in mano un bacolo pastorale…..un poco rovesciato dalla parte di sopra, sopra del quale ci era una piccola croce…..aveva in suo capo la mitra, nella quale vi era molto lampeggiante una bianca croce. Era egli pieno di luce, ed aveva tale vaghezza il di lui piviale, che non vi è cosa simile a compararseli. Dà fianchi di costui vi eran due angeli, quasi vestiti con adobbi a color del cielo, e così fieri per una bellezza inesplicabile, avevano vaghi capelli, sopra le fila d’oro». Ad pedes, sulla sua sinistra, il profilo di una città: Galatina [fig. 5], rinserrata dentro una imponente cinta muraria entro cui si apre una delle sue tre porte urbiche cinquecentesche [fig. 6], custodita da due coppie di colonne a fusto liscio poggianti su alti plinti e reggenti una robusta trabeazione che pare raccordarsi con ampie volute alle pareti laterali.

FIG.5. Galatina. Chiesa SS.Annunziata (S.Luigi). S
FIG.5. Galatina. Chiesa SS.Annunziata (S.Luigi). particolare della tela di S. Oronzo

 

 

FIG.6. Galatina. Chiesa SS.Annunziata (S.Luigi). S
FIG.6. Galatina. Chiesa SS.Annunziata (S.Luigi). particolare a maggiore ingrandimento della tela di S. Oronzo

Appena oltre le mura si intravede la presenza di alcune chiese con i rispettivi alti campanili, mentre all’esterno «battenti divoti, che squarciano pienamente le loro membra per amor di Oronzio» il quale con la mano protesa verso la città scaccia la «figuretta nervosa della peste volante nello sfondo lontano». Questa rappresentazione iconografica rievoca alla mente quella di qualche anno posteriore, dopo il 1675, del Patrocinio di S. Pietro su Galatina [fig. 7], opera proveniente dalla chiesa dei domenicani ed ora conservata presso l’episcopio idruntino. Qui è S. Pietro il defensor civitatis: la mano sinistra regge il volumen con su le due chiavi legate da un fiocco rosso, mentre lo sguardo è rivolto in basso alla sua destra a seguire la mano protesa a protezione di Galatina da una «figura ignuda di donna che scappa in direzione opposta alla città, con la testa tra le mani a proteggersi dalle sferzate celesti» di un angelo con la spada fiammeggiante; anche questa è la rappresentazione simbolica della peste.

FIG.7. Otranto. Episcopio. Patrocinio di S.Pietro.
FIG.7. Otranto. Episcopio. Patrocinio di S.Pietro

Ma c’è ovviamente molto di più. Il 20 agosto 1662, D. Francesco Andriani, l’anno seguente nominato procuratore del duca Gio. Maria Spinola, «per la devotione, che dice havere, e portare verso d.a Collegiata Chiesa havere più e più volte pregato d.o Rev.do Capitolo, et Clero che li concedessero una Cappella, seu Altare dentro d.a Chiesa con conveniente loco di potere costruire una sepoltura avanti di quella, offerendo per carità di detta concessione docati trenta cinque». Il Reverendo Capitolo e Clero «fece deliberatione, et conchiuse che si dovesse concedere la Cappella ultima à man destra all’entrar di d.a Chiesa dalla porta maggiore, ch’è la Cappella à canto à S.to Gorgonio con facoltà di fare la sepoltura vicino d.a Cappella», il tutto come da atto rogato il 20 febbraio 1663. L’Andriani fece innalzare in quella cappella un altare dedicandolo al glorioso S. Oronzo e dipingere un Martirio del Santo [fig. 8] [fig. 9] che, il 1760, così sono descritti: «viene l’altare di Sant’Oronzo Vescovo di Lecce, e Protettore della Provincia, e nel quadro vi sta dipinto il martirio di detto Santo, e di Giusto e Fortunato, colli carnefici attorno, e molti angioli, quale altare è de jure patronatus della famiglia Andriani, e ai piedi del medesimo vi è la di loro sepoltura, quale tiene molti oblighi di messe, e sotto l’arco maggiore vicino la fonte della Acqua Santa vi è una sepoltura per la comodità del publico».

FIG.8. Galatina. Museo civico
FIG.8. Galatina. Museo civico

FIG.9. Galatina. Museo civico. Martirio S
FIG.9. Galatina. Museo civico. Particolare della tela precedente

 

A quello stesso altare D. Domenico Andriani, suo nipote, che il 1692 aveva comprato il feudo di S. Barbara per settemila ducati, lega, il 1702, un lascito di «docati cento alla Cappella del Glorioso S. Orontio sita nella chiesa Matrice fondata dai miei Antecessori» con l’obligo per i suoi eredi di far celebrare tante messe nella suddetta cappella per quante derivassero dal censo attivo di quei cento docati. Non solo, ma il 1732, testando le sue ultime volontà «nella sua solita casa d’abitazione sita dentro questa terra nel vicinato della SS. Trinità», l’Andriani, tra le altre, scrive: «inoltre raccomando l’Anima mia a Dio, ed alla protezione della Madonna Santissima, del mio Angelo Custode, de’ miei santi divoti; acciò colla loro protezione m’impartisca dal Signore un felice passaggio, e doppo la mia morte, voglio che il mio cadavere si seppellisse nella Chiesa Collegiata di questa Terra, nella sepoltura della Cappella di S. Orontio de’ miei maggiori e trovandomi morire in Andrano, voglio essere seppellito nel Convento de’ PP. Domenicani di quella Terra, senza alcuna pompa funerale».

 

San Luigi 013

 

San Luigi 012
particolare della tela precedente

 

Pubblicato su Il filo di Aracne.

 

 

Racconti. La capu ti muertu

di Emilio Rubino

 

Questo aneddoto  non è un racconto immaginario, partorito dalla fervida fantasia di un buontempone, ma un avvenimento realmente accaduto nelle campagne neritine all’inizio dello scorso secolo.

Vi era un giovane contadino, che, sobbarcandosi a enormi sacrifici quotidiani, era riuscito a impiantare un orto nel suo piccolo podere. L’uomo, infatti, dopo aver “scapulatu” da altri fondi, cioè dopo aver compiuto una faticosa giornata di lavoro presso terzi, soleva recarsi ogni giorno presso il suo appezzamento di terra. Senza neanche passare da casa a consumare un frugale piatto di legumi, il buon contadino preferiva prendersi cura delle proprie piantine, sarchiarle, annaffiarle, concimarle con del buon letame almeno una volta al mese e farle crescere rigogliose e sane, come se stesse allevando un proprio figliolo.

Ogni giorno la stessa canzone, ogni giorno lavorava per oltre tredici-quattordici ore. Una vita dura, la sua, un’esistenza da povero diavolo!

D’altra parte, che cosa non si fa per la propria famiglia?

Ma una vita così stressante non poteva certamente durare a lungo. Infatti, il bravo contadino, tutto casa e lavoro, ben presto si ammalò gravemente. Il verdetto non poteva che essere infausto: broncopolmonite cronica, giunta ormai all’ultimo stadio! La malattia era stata contratta quasi sicuramente nel suo podere durante le ore di lavoro straordinario. Il poveretto morì in capo a una settimana tra tanto dolore e disperazione della giovane sposa, che portava nel ventre il frutto del loro amore. La donna rimase vedova e sola, senza l’aiuto di parenti (non ne aveva), con quella creatura che stava per nascere e che sarebbe rimasta orfana per tutta la vita, con quel podere abbandonato, con lo spettro della miseria e della solitudine eterna.

Era terribile al solo pensare: una tragedia del genere non poteva finire così. E non finì così, perché ci fu un altro giovane, anch’egli contadino, che, sebbene non avesse mai osato dichiararsi a una donna per via della sua innata timidezza, decise, tra molti tentennamenti e perché spinto da un parente che gli prospettava l’imperdibile occasione, di fare il difficile passo. La donna, pur tra tanto rossore e vergogna, accettò la proposta, giacché il dichiarante era per davvero un bell’uomo.

E “si nsurara” (si sposarono) subito, anche perché a quei tempi, a differenza di quelli attuali, non era necessario attendere che trascorressero i trecento giorni di lutto vedovile. Il matrimonio si poteva contrarre immediatamente con la sola condizione che, qualora entro i predetti trecento giorni, fosse nato un bambino, questo doveva considerarsi figlio del defunto.

Nel frattempo l’orto era stato abbandonato a se stesso, le erbacce lo stavano infestando, le pianticelle stentavano a crescere. Un provvidenziale acquazzone, seguito da un caldo rigenerante, fece rinvigorire meravigliosamente l’orto, tanto che i due sposi previdero un raccolto eccezionale. Quando, poi, i pomodori, le zucche, le melanzane, i peperoni e le angurie iniziarono a ingrossare e a suscitare la meraviglia dei vicini e dei passanti, i due sposi decisero di non limitarsi a sporadiche visite di controllo, ma di stabilirsi definitivamente nel campo, al fine di evitare eventuali furti.

Il giovane sposo, allora, realizzò, nel punto centrale del podere, una “pagghiara” (un pagliaio), dalla quale si poteva controllare l’intera zona.

In quel piccolo ambiente i due coniugi vissero giorno e notte per tutta l’estate, senza mai abbandonarlo un solo istante per non vanificare ogni attesa. Nella pagghiara i due avevano fissato la propria dimora, confortati soltanto dai servizi necessari alla famiglia: due conci di tufo su cui appoggiare la “pignata” o la “firsòra”, sotto alla quale si accendevano dei rami secchi per cuocere i cibi, una fossa rudimentale ove compiere i bisogni più intimi, la “menza” e lu “mbile” (recipienti) per conservare l’acqua, una bottiglia di vino, una di olio, una sacchetta appesa quanto più in alto possibile, dentro cui era custodito il pane, lontano da mosche, lucertole e formiche.

Nel piccolo podere, lavorando duramente per diverse ore al giorno, sotto i raggi martellanti e implacabili del sole estivo, i due vivevano una vita meravigliosa fatta di sudore e di tanto amore.

E intanto le piante crescevano e mettevano in mostra i frutti della loro breve esistenza. Troppi occhi estranei, però, ogni giorno puntavano sempre più vogliosamente lo sguardo verso quelle succulente e invitanti leccornie.

Ci fu chi organizzò con inganno un furto a regola d’arte.

Una notte, mentre i due coniugi dormivano profondamente nella pagghiara, alcuni ladri scesero da due traini e, dopo aver superato il piccolo steccato, s’intrufolarono furtivamente nel podere. Uno di questi raccolse una grossa zucca e con un coltello la svuotò dei semi e della polpa; poi intagliò gli occhi, il naso e la bocca con la perizia del provetto artigiano. Accese una grossa candela e la inserì nell’interno, simulando il volto di una strega o di un fantasma. L’uomo cominciò a dondolarla fra le mani e a emettere con la bocca strani suoni, mentre intanto si dirigeva lentamente, seguito dagli altri ladri, verso la capanna. Dopo qualche minuto i due coniugi avvertirono una voce cavernicola che sembrava giungere dall’oltretomba. Preoccupati, si vestirono in tutta fretta, si affacciarono all’esterno della pagghiara e, sorpresa delle sorprese, videro una testa illuminata ondeggiare lentamente e sempre più avvicinarsi alla capanna. Quando ormai era giunta a pochi metri da loro, ai due sembrò certo che si trattasse di un teschio umano illuminato dall’interno. I coniugi rimasero senza parole per qualche attimo; non sapevano cosa fare, anche perché pietrificati da quell’immagine terrificante. Tutto a un tratto la “la capu ti muertu” (la testa di morto) smise di ondeggiare e di lanciare suoni lugubri e iniziò a parlare, mantenendo alla voce un tono cupo e profondo.

Io so’ lu pathrunu ti l’uertu

no’ mi l’àggiu cututu de vivu

mo’ ‘ògghiu mi lu cotu de muertu!”1

Quella voce lugubre non poteva che appartenere al primo marito, il quale era venuto a vendicarsi con i due: con la moglie, che aveva osato tradirlo subito dopo la sua morte, e contro chi gli aveva usurpato il posto accanto alla sua ex-donna, appropriandosi del raccolto, frutto dei suoi sacrifici. Quindi, non c’era alcun dubbio: quella “capu ti muertu” apparteneva al fantasma del primo marito e quella era la sua voce, che intimava perentoriamente ai due fedifraghi di allontanarsi da quel posto.

Marito e moglie si guardarono terrorizzati per alcuni istanti negli occhi e, senza proferire parola alcuna, se la diedero a gambe levate, maledicendo “l’uertu e cinca l’era chiantatu” (l’orto e chi lo aveva piantato).

Mentre i due lasciavano precipitosamente il podere, i ladri continuavano a ripetere il ritornello con voce sempre più alta e profonda.

Una volta al sicuro, i marioli fecero man bassa di tutto quel ben di Dio, caricandolo sui traini.

Sulla via del ritorno, ormai contenti per il colpo riuscito, uno di loro si mise a cantare.

Io no’ so’ lu patrunu muertu

ma so’ quiddhu ca si mangia l’uertu!”2

1 Io sono il proprietario del podere / non me lo sono goduto da vivo / voglio godermelo da morto”.

2 Io non sono il proprietario morto / ma son quello che si mangia l’orto”.

Un ritratto d’autore a firma di Riccardo Tota nel Museo Diocesano di Taranto

di Nicola Fasano

 

Il Museo Diocesano di Taranto, inaugurato nel 2011, diretto con passione da Don Francesco Simone e gestito dalla cooperativa Custodes Artis, costituita da giovani qualificati, continua a riservarci molte sorprese.

Bernardi

Il museo organizzato in sezioni, presenta in quella dedicata agli arcivescovi, e più precisamente nella saletta dedicata a Ferdinando Bernardi, oltre al rarissimo tessuto in bisso con la raffigurazione del Buon Pastore realizzato negli anni ‘30 del Novecento da Rita Del Bene e donato alla diocesi, un ritratto dello stesso arcivescovo (mis.70 x 61) di elevata fattura.

firma dell'autore

La firma inconfondibile in basso a destra, ci rivela l’autore dell’opera: Riccardo Tota. L’artista (Andria 1899 – Napoli 1998), formatosi presso l’Accademia di Belle Arti a Roma con docenti quali Camillo Innocenti e Giulio Bargellin, era specializzato nella ritrattistica (come conferma il nostro dipinto), nella pittura di paesaggio, riprendendo la tradizione pugliese che ha visto in De Nittis il suo maggiore esponente, e nell’illustrazione rivolta soprattutto a testi scolastici e per l’infanzia, come ad esempio il Pinocchio di Collodi.

Bernardi è ritratto a mezzobusto in abiti vescovili, con straordinaria forza introspettiva e sapiente taglio fotografico. Il volto di una intensa vivezza espressiva è colto con un leggero abbozzo di sorriso, quasi di compiacimento, e una realistica intensità nello sguardo, rafforzata dai riflessi bianchi nelle pupille, e da piccole rughe che gli solcano le borse sotto gli occhi. Un tenue accenno di chiaroscuro lambisce la parte sinistra del volto modellandolo plasticamente; l’incipiente calvizie è resa con crudo naturalismo da una luce proveniente dalla destra dell’Arcivescovo, mentre un timido rossore ne ravviva il volto. Il fondo neutro e la posa a trequarti rende più dinamica la composizione.

Molto probabilmente il ritratto realizzato da Tota, risale ai primissimi anni ‘30 del Novecento, quando l’Arcivescovo di origini piemontesi si insediò sulla Cattedra di Andria ed era naturale che l’artista nativo del posto, si offrisse per realizzare un ritratto della maggiore personalità religiosa.

Successivamente Bernardi avrà portato questo superbo ritratto a Taranto, quando prese possesso della cattedra. A conferma di quanto detto, l’alto prelato dimostra un aspetto fresco e giovanile di età non superiore a 60 anni, non ancora imbolsito dall’avanzare dell’età.

volto Bernardi

Ma chi era Ferdinando Bernardi? Nato a Castiglione Torinese il 10 luglio del 1874, fu nominato vescovo di Andria nel 1931 e il 21 gennaio del 1935 da Papa Pio XI, Vescovo di Taranto. Si distinse per la sua intensa attività pastorale, in particolare si segnala nel 1937 il primo congresso eucaristico diocesano. Nelle attività del congresso, Bernardi, accogliendo un’idea dell’Avvocato Pasquale Imperatrice, costituì nel mese di gennaio un apposito comitato per la realizzazione della storica Prima Mostra Ionica di Arte Sacra. Esposizione che vedeva nel comitato scientifico l’allora direttore del Reale Museo Nazionale di Taranto, l’Onorevole Milziade Magnini, personalità di spicco del Fascismo, Monsignor Giuseppe Blandamura, insigne storico della chiesa tarantina, Vito Forleo, Mario D’Orsi, etc. Nel Palazzo del Governo dove si tenne la mostra, vennero esposte opere dell’Olivieri, del Giaquinto, del Carella, di Luca Giordano e dei Fracanzano, solo per fare qualche nome.

Tornando all’attività di Bernardi, bisogna sottolineare la sua spiccata generosità e il suo altruismo nel mettere a disposizione l’Episcopio, durante il delicato periodo bellico, come centro di informazioni per i prigionieri e i dispersi di guerra, direttamente collegato con l’omonimo ufficio del Vaticano. Nel difficile dopoguerra portò assistenza e conforto ai poveri, agli sfollati e alle tante vittime della atroce guerra. Con lungimirante vaticinio, capendo l’espansione della città sul versante orientale, con la costruzione di nuovi quartieri, fece costruire nuove chiese tra le quali va segnalata quella di Sant’Antonio. Dal 1952 le sue condizioni di salute cominciarono a peggiore, tant’è che un giovane Monsignore Guglielmo Motolese venne consacrato Vescovo e ordinato suo vicario per amministrare la diocesi. Dopo un lungo calvario Bernardi si spense il 18 novembre del 1961. Tornando al nostro dipinto, possiamo osservare la tavolozza imbevuta di luce e la purezza nel colore, segno distintivo del pittore, il quale risponde ad una ritrattistica ufficiale e come tale mette da parte quel tratto rarefatto che lo contraddistingue negli anni ‘30.

Questa mia personale scoperta, cade proprio durante lo svolgimento di un’importante mostra sul pittore, tuttora in corso, allestita nella Pinacoteca Provinciale di Bari ed organizzata dalla direttrice Clara Gelao, che si è avvalsa di un’equipe di studiosi. L’esposizione che gode dell’Alto Patronato del Capo dello Stato e del finanziamento della Fondazione Cassa di Risparmio di Puglia., è stata inaugurata il 14 dicembre del 2012 e si concluderà il 30 aprile 2013.

Gli antichi “ferri del mestiere” della Guida Turistica: simboli di identità

di Daniela Bacca *

Bastone e bacchetta, megafono e bandiera: sono solo alcuni degli antichi strumenti di lavoro ed oggetti di riconoscimento della Guida Turistica, tra questi una parte si sono evoluti nel tempo, adoperati anche oggi durante lo svolgimento delle visite guidate. Affascinanti attrezzi e simboli che, considerati “indizi di identificazione”, rappresentano la professione turistica e documentano la figura del Cicerone nell’esercizio della sua attività nel mondo del viaggio.

4. Royston Robertson, Arte della Guida

Il bastone, tra “ferri del mestiere” più arcaici utilizzati dall’uomo ed in ogni civiltà, è nato con lo scopo di guidare il bestiame, la tribù dei nomadi od i pellegrini, essere un punto d’appoggio, indicare la direzione, segnalare un particolare.

Il bastone rappresenta la prima estensione del corpo, in particolar modo del braccio e della mano, è un efficace dispositivo comunicativo, e “serve come operatore deittico, utensile per mostrare, indicatore semiotico(1). In virtù di queste ed altre specifiche funzioni, lo ritroviamo in mano alle Guide Turistiche fin dall’antichità, come si evince osservando interessanti ritratti, tipiche vedute di viaggio e fotografie dei primi Novecento.

3. Guida Turistica nel sito di Wisconsin Dells, 1930 circa

Nell’ opera Grand Tourists at the Monument of Philopappos, Greece“, realizzata nel 1821 da Louis Francois Cassas, si riconosce un elegante Cicerone nell’atto di impugnare ed alzare il suo bastone, con il quale attira l’attenzione dei viaggiatori ed indica il monumento che sta illustrando (figura 1).

Il bastone, inoltre, assolveva ulteriori compiti, come quello di sostegno mentre si percorrevano lunghe strade o sentieri dissestati, poteva aiutare ad aprire varchi nella selvaggia vegetazione, e costituiva un’arma di difesa. Il Cicerone accompagnatore con l’ausilio del bastone esplorava lo spazio, allontanava oggetti ed animali pericolosi, ed era in grado di difendersi contro gli eventuali malfattori incontrati sul cammino escursionistico. Queste circostanze, infatti, avvenivano all’interno del Grand Tour dei secoli scorsi, considerando che le mete predilette di visita e di viaggio erano le località ricche di pittoreschi ruderi di antichi edifici del passato classico e siti caratterizzati da paesaggi bucolici ed incontaminati.

 2. Guida Turistica nella localit à di Panmunjom, Corea,  1966

La bacchetta o il bastoncino, remoto strumento dai variegati significati, ha sempre rappresentato per la Guida Turistica la funzione di “puntatore”, ossia l’asticella adoperata dai docenti, relatori e conferenzieri per puntare ed illustrare figure, grafici ed immagini. Similmente al bastone, veniva usata per catturare, segnalare ed orientare lo sguardo dei turisti verso un monumento, un’epigrafe, uno scorcio panoramico, un dettaglio artistico od architettonico, un luogo od un oggetto specifico, una strada disegnata su una mappa, ecc..

Una fotografia del 1966 ritrae proprio una Guida Turistica mentre indica e spiega un sito coreano ai turisti con l’ausilio del bastoncino che, ben indirizzato verso l’orizzonte, conduce gli occhi dei visitatori a mirare ed osservare il paesaggio e gli elementi in lontananza (figura 2).

L’evoluzione tecnologica odierna propone la bacchetta anche nella variante di puntatore luminoso che talvolta le Guide Turistiche adoperano con molta parsimonia negli spazi aperti.

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Il megafono è l’antenato delle odierne radioguide o degli amplificatori vocali a batteria portatili, che costituisce il requisito di identificazione visivo più eloquente delle Guide Turistiche contemporanee. Ancora oggi, tra le competenze tecniche della professione, come stabilito nello Standard Europeo sulla Formazione minima richiesta alle Guide Turistiche approvato nel 2008 dal Comitato Europeo di Normalizzazione,viene individuato un buon “uso della voce” da intendersi non solo in merito al “linguaggio chiaro e conciso”, ma anche relativamente al volume, tono ed intensità. Quindi, per un’efficiente tecnica di comunicazione, la voce del Cicerone deve essere limpida, chiara e squillante nei luoghi all’aperto e davanti ad un gruppo numeroso di visitatori.

Il megafono consente di rinforzare il suono vocale verso una determinata direzione; nato con lo scopo di “dirigere la voce, permettendo di trasmetterla a distanze anche notevoli, anticamente era “di metallo o di cartapesta, foggiato a cono e recante un’imboccatura (2).

Quest’affascinante strumento acustico, compagno indispensabile della Guida Turistica, è citato in moltissime memorie e diari di viaggio, come nel libro “Terrasanta: terra di speranza” scritto da Pasquale Bricchi nel 1968, in cui si legge “… un preparatissimo cicerone del luogo, munito del megafono…” e nell’opera “Narratori delle Pianure: novelle” di Gianni Celati, in cui viene descritta “Una guida arringava i visitatori col megafono…”.

Un ritratto fotografico degli anni ’30 del Novecento rappresenta una Guida Turistica che posa con un rudimentale megafono nella località di Wisconsin Dells, uno dei siti maggiormente visitati dai turisti, grazie ai suoi paesaggi ameni ed acquatici (figura 3).

La bandiera è una delle icone fra le più tipiche della Guida Turistica in cammino con un gruppo di visitatori, un vero e proprio “segnale” visivo di comunicazione che indica la direzione del percorso al fine di mantenere uniti i viaggiatori, ed evitare che gli escursionisti possano confondersi e perdersi tra le molte comitive turistiche. Un oggetto talmente tanto diffuso ed importante che l’immaginario collettivo l’abbina nell’immediato alla figura del Cicerone, come dimostrano numerosissime foto di viaggi, immagini grafiche e vignette.

Particolarmente emblematica è l’illustrazione umoristica realizzata da Royston Robertson, raffigurante l’”Arte della Guida”, in cui è presente un attento e sorridente gruppo di turisti nel momento in cui seguono la bandierina che la Guida Turistica professionista con fierezza reca in mano (figura 4) .

In mancanza della bandiera, il Cicerone adoperava ed adopera altri accessori: aste di legno o di metallo, oggi proposte come pennoni telescopici, usate per legare un foulard o un gagliardetto, una coccarda o nastrini colorati; l’ombrellino od una bottiglietta alzata; una girandola colorata ed altri simboli di richiamo e riconoscimento.

La bandiera, inoltre, come nella tradizione marinaresca, può manifestare un “segno distintivo”: indica la nazionalità dei viaggiatori, oppure presenta il simbolo dell’associazione dei turisti, o contiene il marchio del tour operator organizzatore, o reca il logo della compagnia di navigazione promotrice delle escursioni per i propri crocieristi.

*Guida Turistica di Lecce e Puglia – Titolare di “PolisTurismo” – Socio Consigliere di “Associazione Guide Turistiche Regionali della Puglia” – Socio di Associazione culturale “LineaGuida”

NOTE

 

  1. Paolo Fabbri, “La prima protesi”, in “Bastoni. Materia, Arte e Potere”, a cura di Renzo Traballesi, Priuli & Verlucca Editori, Siena, 2006
  2. Voce “Megafono” in Enciclopedia Italiana Treccani, 1934

 

BIBLIOGRAFIA

 

Paolo Fabbri, “La prima protesi”, in “Bastoni. Materia, Arte e Potere”, a cura di Renzo Traballesi, Priuli & Verlucca Editori, Siena, 2006

Daniela Bacca, “Settecento, il secolo delle Guide Turistiche” in Mondointasca.org, 2012

Sergio Baldan, “Ultreya! Suseya! Pellegrinaggio in bicicletta da Venezia a Santiago di Compostela”, 2003

Daniela Bacca, “Breve excursus storico sulla professione della Guida Turistica” in Fondazione Terra d’Otranto, 2011

Voce “Megafono” in Enciclopedia Italiana Treccani, 1934

Pasquale Bricchi, “Terrasanta: terra di speranza”, L’ariete, Milano, 1968

Gianni Celati, “Narratori delle Pianure: novelle”, Feltrinelli Editore, 1988

Voce “Bandiera” in Enciclopedia Italiana Treccani

Lo Tsunami che nel 1743 colpì il Salento

Nardò, la piazza principale con la guglia dell’Immacolata e il Sedile

di Riccardo Viganò

Il 20 febbraio 1743 un terremoto di magnitudo M=6.9 colpì una regione molto vasta, con effetti di danno massimi nella penisola salentina  e nelle isole Ionie al largo della Grecia occidentale. Il terremoto fu chiaramente avvertito anche a Napoli, in Calabria e nello stretto di Messina. L’intensità sismica massima  fu registrata nelle città di Nardò e di Francavilla Fontana, nel Salento, dove la maggior parte degli edifici fu rasa al suolo o danneggiata in modo permanente, e nella località di Amaxichi (isola di Lefkada). Anche le città di Taranto e Brindisi subirono danni rilevanti.

Nella sola Nardò il terremoto provocò più di trecentoquarantanove vittime, la maggior parte bambini, e molte altre vittime si registrarono nella penisola salentina;  circa cento nelle isole Ionie. Il sisma generò anche uno tsunami, riguardo al quale le informazioni contenute nelle fonti storiche sono abbastanza scarse, descrivendo unicamente alcuni effetti nel porto di Brindisi, dove il mare fu visto ritirarsi(1).

Sedile di Nardò, particolare del prospetto con la statua del protettore S. Gregorio Armeno e dei due comprotettori, S. Antonio da Padova e S. Michele Arcangelo. Secondo la leggenda la statua centrale si mosse verso ponente per sedare il sisma

Una cronaca di questo tragico evento, la si ritrova descritta, anche con un occhio agli eventi della fede, con forza e in maniera sintetica nelle copertine degli atti notarili riguardanti gli anni 1742-43 del notaio regio ed apostolico Oronzo Ippazio De Carlo di Nardò.

 

Copertina atti notarili dell’anno 1742 (2).

Nel giorno di mercoledì venti febbraio mille, settecento, quaranta, trè giorno piuttosto estivo del inverno, a circa l’ore 23 e mezza nell’occaso si suscitò un vento gagliardissimo che fece stupire ogni uno fè intimorire, poiché pareva che pe l’aria correvano centinara di carrozze unite, tale era lo strepito, s’offuscò l’aria e pareva che mandasse fuoco, l’acqua nei pozzi saltava e si concentrava: si asciugò il sole, e sopra le ore ventitré e mezza traballo, causa (sic) Nardò tornò a traballare, e finalmente muovendosi la terra a guisa dell’acqua che ferve nella pignata, operò che cascasse dalle fondamenta Nardò. Morirono  trecento quaranta nove cittadini, la maggior parte però furono bambini, rovinò ogli, grani, etc. immobili e suppellettili dall’ingiurie delle pietre e de tempi che susseguirono, restarono (sic) la statua della Beata Vergine Maria al vescovato al titolo dell’Assunta sudò. La statua di San Gregorio Armeno che steva sopra il publico sedile si vidde colla mano far segno al vento di ponente che fiatava, che si quietasse. Le altre statue di san Michele e San Antonio il dano ( sic) ad un millione, cento,settanta,cinque mila Ducati.

Fu inteso il tremuoto da tutto (sic) anzi dal mondo intero.

Nardò, cattedrale, statua lignea dell’Assunta (sec. XVIII) che, secondo la leggenda, trasudò in occasione del sisma del 1743

Copertina atti notarili dell’anno 1743 (4).

Nel giorno venti di  febbraro mille,settecento,quaranta,trè, giorno di mercoledì a ore ventitré e mezzo correndo la sesta indizione, e la domenica di sesta cresima, successe  un ferissimo tremuoto, che durò secondo la comune, sette minuti, e rovinò dalle fondamenta la Città di Nardò senza che fusse  rimasta abitazione alcuna che no fosse ruinata, o tesa di maniera che poi non si fusse, anche d’ordine civile il signor Duca di Conversano preside di Lecce, demolita: morirono duecento, venti, otto persone oltre centinara di figlioli, e quattrocento, di dette persone restarono in gran parte offese, e ferite: quali morti e feriti furono tutte, quasi, persone basse (sic) al Canonico D Tommaso  Abb. Piccione, il Diacono Giuseppe Nociglia e al p(ad)re. F(ra) Michele Salà Carmelitano.

La fedelissima città di Lecce mandò carità a detti infermi con il suo maestro di piazza settecento rotula di pane, quattro castrati. L’eccellentissimo marchese di Galatone ossia il principe di Belmonte con la sua solita petà giornalmente provvede al necessario ai poveri avendo dato ricovero alle religiose, dette a conservatorio a più e a più persone che erano fuggite in Galatone, dove dimora l’eccellentissmo Duca di Conversano preside, e da dove provvede giornalmente ai bisogni di detta Città. Vari furono gli eventi, che precederono  il detto tremuoto. Frà gli altri il Tutelare padre V. Gregorio  Armeno, la di cui statoa di lecciso esisteva sopra il pubblico sedile nella piazza nell’atto, che la terra vi scoteva, invocato dal popolo scivolò visibilmente verso il ponente, dà dove vi sorse il detto tremuoto, e con la mano, e la mano che prima steva in atto di benedire, ora si vede tutta aperta  ed in atto, che impedisce il travello. E continuò a star voltata verso di detto vento di ponente. Avendo perduto la mitra, che era tirata à tutto un pezzo con la statoa, ma no già lo pastorale. Cascarono poi le statoe di S Michele e S Antonio, che tenevano in mezzo detta statoa di esso San Gregorio.

L’immagine  di M. V. e Assunta in cielo, collocata nel mezzo del capo della cattedrale dà monsignor Antonio Sanfelice l’anno 1724 sudò, e continuò a sudare per più giorni;

   
 
Nardò, chiesa di San Domenico (1586). In seguito al sisma dell’edificio restarono integri solo la facciata e il perimetro

avea preceduto un giorno prima un ordine un’orridissima, e ventosissima giornata, e quando successe il tremuoto si ammantò l’aere  di fuoco e fiatò un vento così gagliardo, che in sentirsi spaventava le genti monsignor Dè Pennis di secoli passati, e suor Teresa Adamo  di Gesù, òro Vescovo, e cittadina, predissero tal Tremuoto, cò queste parole pro pater peccato tibi di my nelli principi al seculo ottavo dal tremuoto restava desolata la Città N. N. e molte terre lo di più. e altro accaduto un seculo in Nardò. (sic) memorie storiche neritine di me.

 Notaro Oronzo de Carlo

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1)    http://www2.ogs.trieste.it/gngts/gngts/convegniprecedenti/2007/riassunti/tema-1/1-sess-1/11-armi.pdf

2)    ASL sezione notarile, protocollo 66/17 notaio Oronzo Ipazio De Carlo copertina atti 1742.

3)     Per il culto di san Gregorio Armeno vedere:http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2011/02/20/un-busto-di-san-gregorio-armeno-tra-i-tesori-della-cattedrale-di-nardo/

4)    ASL sezione notarile, protocollo 66/17 notaio Oronzo Ipazio De Carlo copertina atti 1743.

GIROLAMO COMI POETA E BIBLIOFILO

di Maurizio Nocera

 

L’argomento Comi Bibliofilo l’ha affrontato già Alessandro Laporta, direttore della biblioteca provinciale “N. Bernardini” di Lecce il quale, nel bel saggio su Studiae Humanitatis. Scritti in onore di Elio Dimitri (Barbieri, Manduria 2010, pp. 223-228) per la cura di Dino Levante, individua l’attributo ‘bibliofilo’ usato per il Comi come «attento e oculato nelle sue scelte, che ama le raccolte già complete, […] ma che sa anche metterle insieme da sé, volume per volume» in uno libro di Marinella Cantelmo dal titolo Girolomo Comi prosatore (Capone, Cavallino 1990).

Anche per me vale quella sua affermazione messa come incipit dell’introduzione al saggio quando scrive: «Quanto su Comi è stato scritto da Valli e dagli altri offre una tale idea di completezza che è difficile trovare qualche sentiero inesplorato, qualche itinerario nuovo da proporre all’attenzione del lettore» (p. 223). Tuttavia, con il saggio Comi bibliofilo, Laporta trova ancora qualche piccolo sentiero tutt’ancora da sondare, soprattutto nell’indicare un inedito Comi bibliofilo riferito ai libri che il poeta possedeva nella sua rifornita biblioteca lucugnanese consistente per la maggior parte di un nucleo forte di autori francesi. In particolare Laporta cita due libri antichi presenti nel fondo Comi precisando che altri volumi anch’essi di pregio e datati, dopo la ristrutturazione del palazzo, non sono stati più reperibili.

I due libri antichi da lui indicati e analizzati sono:

Imagines illustrium ex Fulvii Ursini biblioteca a Theodero Gallaeo expressae, edito ad Anversa dal Plantin nel 1606;

Le thresor des vies de Plutarque, Lyon, chez Pierre Rigaud, 1611. In particolare, di quest’ultimo volume, il Laporta fa una dettagliata descrizione bibliofilica mettendo il luce la nota di possesso del libro risalente al 1794, e cioè prima che lo stesso volume divenisse proprietà del Comi. Il volume apparteneva a «Ant. Aug. Renouard, autore entrato ufficialmente nella storia del libro per i suoi ancora oggi fondamentali lavori su Manuzio. [… Fu anche] estimatore ed imitatore di Bodoni» (p. 226).

Laporta conclude il suo saggio affermando che, per le note su riportate, sicuramente si può dare a Comi il titolo di bibliofilo e, secondo me, non ha torto, perché è sufficiente andare a vedere la biblioteca del poeta nel palazzo di Lucugnano per accorgersi dell’amore che il poeta riservava per i libri antichi o a lui coevi.

Ma non solo per il motivo indicato dal direttore della biblioteca provinciale, noi possiamo definire bibliofilo Girolamo Comi anzi, secondo me, egli è bibliofilo, e per di più grande, soprattutto per la fattura dei suoi libri e della rivista «L’Albero» che il poeta, in quanto vate dell’Accademia salentina con sede a Lucugnano, fece stampare spesso, per non dire sempre, a sue spese, divenendo, per questo, da benestante che era a un povero in canna.

Mi limiterò quindi a descrivere solo dei libri a firma del poeta che io ho sulla mia scrivania, anche se è noto che i volumi degli altri suoi amici poeti e prosatori soci dell’Accademia hanno tutti le stesse caratteristiche da lui dettate. Ad eccezione della rivista, di cui dirò poi, i libri di Comi che prendo in considerazione sono:

Cantico del Tempo e del Seme, Edizioni Al Tempo della Fortuna // Colophon: «A cura di alcune personalità,/ sotto l’insegna “Al Tempo/ della Fortuna” di questa/ opera – terminata di stampare/ il 25 maggio 1930 presso l’Of-/ ficina Cuggiani in Roma – sono stati tirati: 5 esemplari su carta/ “vélin Marais” numerati da/ 1 a 5; 495 esemplari su carta/ “vergé Fabriano” numerati/ da 6 a 500»;

Spirito d’armonia, Edizioni dell’«Albero» Lucugnano (Lecce) // Colophon: «Finito di stampare il 20 maggio 1954 per i tipi della S. E. T., Bari». Questo libro è interessante perché include in appendice una Notizia Bibliografica (a cura di Vittorio Pagano) con le citazioni di tutti i recensori e commentatori della poesia del Comi;

Canto per Eva (prima edizione, 60 pp.), Edizioni dell’«Albero», Colophon: «Edizione di 432 esemplari/ firmati dall’autore. // Finito di stampare il 20 luglio 1955 per i tipi della S. E. T. – Bari».

Inno eucaristico, Edizioni dell’«Albero», «Colophon: Edizione fuori commercio/ di 500 esemplari/ per gli amici dell’Albero. // Stampato il 30 giugno 1958 per i tipi della tipografia Pajano & C., Galatina»;

Canto per Eva [seconda edizione, 104 pp., con due punte d’argento di Alberto Gerardi (pp. 17 e 33) e una nuova pagina esplicativa dello stesso Comi], Edizioni dell’«Albero», Colophon: «Edizione di 375 esemplari/ firmati dall’autore. // Finito di stampare per i tipi dello Stabilimento Pajano & C., Galatina il 31 luglio 1958».

La descrizione (Titolo, Casa editrice, Stamperia e Colophon) dei quattro libri su indicati dà già l’idea di trovarci davanti a volumi particolari, perché appunto corredati da colophon di cui solo un attento bibliofilo conosce l’importanza; tuttavia a ciò va aggiunto ancora qualche altro elemento per avere l’idea della personalità bibliofilica del Comi. In primo luogo tutti i volumi descritti sono stampati in-16° (20,5 x 14,5 cm) su carte speciali (nel caso del Cantico del Tempo e del Seme sono indicate) del tipo uso-mano o rosa-spina; i bordi quasi sempre non sono rifilati ma intonsi; le copertine sono sempre di cartoncino avoriato spesso e bugnato. Ma la caratteristica fondamentale sono le architetture dei frontespizi e delle copertine: si tratta di calici o coppe perfette quasi sempre composte sulla base di misure auree. Per di più, nel libro Cantico del tempo e del Seme, la composizione delle indicazioni di copertina è inscritta in una doppia e bella cornice rossa. Questo libro è interessante anche per una serie di xilografie che corredano le pagine poetiche. Ma occorre dire che tutte le pagine dei libri di G. Comi hanno un’architettura austera e aurea, esigenza tipica di ogni bibliofilo.

Altro dato importante, che fa di Comi un bibliofilo, è la scelta dei caratteri di stampa usati per i suoi libri. Di solito la scelta dei tipi è dovuta allo stampatore, almeno così era un tempo, cioè quando ancora non esisteva il computer col suo font. Tuttavia non tutti i tipografi sapevano farlo. Interveniva così l’autore, sempre ammesso che egli fosse un esperto in tal senso. Nel caso di Comi, e almeno per i libri a cui io mi riferisco, non ci sono dubbi sul fatto che egli era un esperto anche di caratteri di stampa. Tanto da scegliere il Caslon per il libro Cantico del Tempo e del Seme; il Perpetua Light Titling per il libro Inno Eucaristico; il Baskerville per il libro Spirito d’armonia; ancora il Baskerville per Canto per Eva.

Per quanto riguarda la rivista «L’Albero» non c’è migliore definizione di quella data dalla sua prima e unica segretaria dell’Accademia di Lucugnano, cioè Maria Corti la quale, nella premessa all’Antologia (1949-1954) (Bompiani, 1999) curata da Gino Pisanò, scrive: «è una rivista salentina che ebbe una lunga vita dal 1949 al 1988 […] A Lucugnano, in provincia di Lecce, il barone Girolomo Comi aveva creato il 3 gennaio 1948 nel suo bel palazzo neoclassico un’Accademia Salentina, istituzione aperta e ospitale, che fu subito un richiamo per intellettuali in tutta Italia» (p. XI).

Ma qui, in questo contesto, l’aspetto che ci interessa è quello bibliofilico e, per l’occasione, prendo in esame solo alcuni numeri della rivista. Il primo numero (gennaio-marzo 1949) presenta una splendida copertina con caratteri maiuscoli Bodoniani, al centro campeggia un bellissimo disegno di Vincenzo Ciardo, disegno che, come marchio dell’Accademia salentina, rimarrà impresso sulla copertina per il seguito di tutti i numeri. Fondatore della rivista e primo direttore responsabile è lo stesso Girolamo Comi, la registrazione viene fatta presso il Tribunale di Lecce e risulta essere contrassegnata dal n. 9 del 2 maggio 1949; la stampa e della Tripografia Raeli di Tricase. Nel colophon del primo numero, Comi scrive: «È nelle nostre speranze e nei nostri desideri che ogni “Albero” sorga e cresca come per generazione spontanea e che porti – possibilmente in tutti i rami – il segno e il respiro della necessità e della ricchezza della nostra ansia di operare e di sopravvivere» (p. 79).

Ma ancora più suggestiva è la poesia che lo stesso Comi pubblica come incipit della rivista: «Armonia numerosa: la presenza/ dell’albero nell’alba che lo veste:/ (figura e dono del tempo terrestre/ se il cuore trema di riconoscenza…)// Slancio di un seme che si ricompone/ nella pienezza d’una tessitura/ d’aliti di germogli: carnagione/ di frutto antico e di linfa futura;// dalla radice all’apice, il respiro/ che ogni sua nuova primavera emette/ sazia la zolla e sfiora lo zaffiro// dell’aura delle più tenere vette:/ fremito d’una crescita che vuole/ diventare canto nei cori del sole» (p. 5).

Nulla cambia nei numeri successivi salvo la tipografia, che da Tricase passa a Bari alla Società Editrice Tipografica (fino al n. 19-22 del 1954); poi da Bari ritorna in Salento, a Galatina, prima presso la Tipografia Pajano (fino al n. 30-33 del 1957), quindi presso l’Editrice Salentina (fino al n. 34-35 del 1960); a partire dal n. 36-40 (1962) a stamparla sarà la Scuola Tipografica A. Mele Tarantini di Lecce. Girolamo Comi muore nel 1968 e i numeri successivi della rivista che saranno stampati usciranno come numeri di una nuova serie.

 

Note bio-bibliografiche

Girolamo Comi (poeta) nacque a Casamassella il 23 novembre 1890 e morì a Lucugnano il 3 aprile 1968. Suo padre Giuseppe era di Lucugnano mentre la madre Costanza era sorella di Antonio De Viti De Marco, il noto economista e politico salentino degli inizi del XX secolo. Per i suoi studi, Comi frequentò in un primo momento il liceo “Capece” di Maglie, poi il liceo “Palmieri” di Lecce e, dopo la prematura morte del padre (1908), proseguì gli studi superiori in Svizzera (Ouchy-Losanna) dove frequentò la cattedra del filosofo Rudolf Steiner. È di questo periodo la sua prima raccolta poetica, Il Lampadario (Losanna 1912), successivamente da lui stesso rinnegata. Fu obiettore di coscienza ante litteram, rifiutando di partecipare come milite alla prima guerra mondiale; tuttavia, dopo essere stato catturato, fu costretto ad andarci e, in un primo momento venne inviato persino in prima linea, dalla quale però lo congedarono perché divenuto, secondo le perizie mediche, “matto”. A partire dal 1920 tornò a Lucugnano, ma cominciò anche a frequentare Roma, dove risiedeva lo zio Antonio De Viti De Marco. Nella capitale conobbe altri scrittori e altri poeti, che da quel momento gli divennero amici e frequentatori anche della sua casa salentina a Lucugnano. Fra questi Arturo Onofri, Giuseppe Bonaiuti, Alfonso Gatto, Giovanni Papini, Iulus Evola. In questo momento la sua è una poesia spiritualista e intimistica e tutte le sue iniziative come intellettuale si muovono in un ambito di esaltazione nichilista e niezschiana. Non a caso collaborò alle riviste «Ur», «Krur», «La Torre», «Diorama Filosofico» e fu molto vicino alle idee fasciste sulla concezione dell’essere superiore.  Ad un certo punto della sua vita però avvenne una sorta di conversione/resurrezione, una presa di coscienza potremmo dire oggi, con la quale rivide il suo pensiero iniziale e sentì rinascere in lui una nuova consapevolezza: si avvicinò al movimento simbolista e al fauvismo in pittura, ritornando alle stampe, tra cui una nuova raccolta poetica, alla quale dette il titolo di quella rinnegata, Lampadario (Lucugnano 1920). Seguiranno altre poesie, come I Rosai di qui (Roma 1921). Si tratta di cinque liriche chiaramente ispirate al pittore romano Rosai, nelle quali l’uso delle parole in versi forma sinfonie per musica e pittura con il tutto che sembra ispirato anche al movimento futurista di Tommaso Filippo Marinetti.

Ritorna alle stampe con nuove raccolte poetiche: Smeraldi (Roma 1925), Boschività sotterra (Roma 1927), Cantico dell’albero (Roma 1928), l’antologia Poesia 1918-1928 (Roma 1929), Cantico del Tempo e del Seme (Roma 1930), Nel grembo dei mattini (Roma 1931) con la quale inizia il suo ritorno ad una nuova forma di religiosismo; Cantico dell’argilla e del sangue (Roma 1933). Con Adamo-Eva (Roma 1933), liriche che indagano il peccato originale, si ha il suo pieno ritorno al cattolicesimo; una nuova antologia è Poesia 1918-38 (Roma 1939). Nel 1946, Girolamo Comi fa definitivo ritorno a Lucugnano, dove fonda (3 gennaio 1948) l’Accademia Salentina assieme a Mario Marti, Oreste Macrì, Maria Corti, Michele Pierri, Walter Binni, Luigi Corvaglia, Vincenzo Ciardo, Luciano Anceschi, molti altri intellettuali. L’Accademia ha una sua rivista che, per espresso desiderio di Comi, si chiamerà «L’Albero». Fino al 1968 sarà sotto la direzione dello stesso Comi, successivamente la responsabilità passa a Donato Valli, che di Casa Comi e della sua biblioteca è l’erede spirituale. Da Lucugnano Girolamo Comi ricomincia la pubblicazione di nuove raccolte poetiche: Spirito d’Armonia (due edizioni, una a Lucugnano 1954, con la quale vince il premio Chianciano, e l’altra, postuma, a Trento nel 1999). Altre sue raccolte poetiche sono: Piccolo idillio per piccola orchestra (Lucugnano 1954), Canto per Eva (Lucugnano 1955), Inno Eucaristico (Lucugnano 1958), Sonetti e Poesie (Milano 1960). La sua ultima raccolta è Fra lacrime e preghiere (Roma 1966).

Oltre alle raccolte poetiche, Comi scrisse anche prosa, fra cui una Lettera a Giovanni Papini (Lucugnano 1920); Vedute di economia cosmica (Roma 1920); Riposi festivi (Roma 1921); Poesia e conoscenza (Roma 1932); Commento a qualche pensiero di Pascal (Lucugnano 1933); Necessità dello stato poetico (tentativo di un diario esistenziale) (Roma 1934); Aristocrazia del Cattolicesimo (Modena 1937); Bolscevismo contro Cristianesimo (Lucugnano 1938); Dramma senza dramma (scherzo o giuoco scenico-letterario) (a cura di Donato Valli, Lecce 1971).

Moltissimi sono gli autori che si sono interessati del pensiero e della poesia di Girolamo Comi; l’elenco è molto lungo. Occorre dire che non c’è stato scrittore, poeta, pittore, scultore e tanto altro nel Salento che, nel suo lavoro da intellettuale, non abbia avuto a che fare con l’opera di Girolamo Comi, il quale, per la mole di lavoro fatto ed anche per lo strano caso della sua vita, si erge ad essere monumento letterario della salentinità poetica.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Quaresima e caremme salentine

di Emilio Panarese

La «caremma» o «quaremma» (dal lat. «quadragesima (dies)», fr. caréme, sp. cuaresma, prov. caresma) corrisponde all’italiano «Quaresima»: spazio di quaranta giorni, dal Mercoledì delle Ceneri alla Pasqua, periodo dedicato all’astinenza e al digiuno, in memoria dei quaranta giorni di digiuno osservati da Gesù (Mt. IV, 2) prima di iniziare il suo ministero.

Rappresenta la mortificazione dei sensi, la mestizia, il lavoro, il pentimento che vengono dietro al peccato dopo la baldoria del Carnevale.

Ricorda la Moira, la Parca che filava il destino degli uomini. Nel leccese, sino a poco tempo fa, sulle terrazze o sui balconi delle case, rappresentava la «caremma» un fantoccio di panno vestito di nero, che filava la conocchia. Sotto i piedi aveva un’arancia con tante penne disposte in raggio quante sono le settimane della quaresima. Alla fine di ogni settimana si toglieva una penna. Poi il giorno di Pasqua, quando le campane sonavano a distesa annunziando la gloria di Cristo, la «caremma» detta pure «zzita caremma» veniva sparata col fucile o con un mortaretto.
Secondo S. La Sorsa questa tradizione salentina trova origine nei romani «oscilla», ricordati da Virgilio (Georg., l. 2, vv. 389-390), secondo il quale, in ricorrenza delle feste Liberalia, in onore di Libero o Bacco, i pagani usavano appendere agli alberi certe figurine o ‘immaginette’ di cera, le quali, dondolando al vento, propiziavano il dio ed arrecavano prosperità alle vigne.
«Me pari propriu nna caremma» si dice a donna magra o brutta e fin troppo avvolta nei panni.

Ecco come ci dipinge la «Caremma» Francescantonio D’Amelio, il più famoso dei poeti leccesi in vernacolo, in «Lu carnìali de lu 1829, ci se llicenzia de Lecce »: « … la quaremma già sta trase./ Idda stae sutta alla porta,/ nde sta bisciu già le spie; / e le cose ci sta porta/ tutte su’ cuntrarie a mmie.// Porta prèdeche a nna manu,/ e all’autra li celizzi; / e camina chianu chianul sia ca nc’ede scufulizzi.// Ae deòta, e nnu te uarda,/ tene pura la cuscenzia;// ddemazzuta è comu sarda/ pe lla trroppu penetenzia.//
La sta sècuta lu trenu/ de le proprie mercanzìe: // fàe ngrappate cu llu rienu,/ fiche, passule e bulìe;// migghiu, tòleca e pasùli,/ capetune mmarenatu,/ sarde, alici, pampasciùli,/ baccalà e stoccu seccatu.// Ah! li tiempi su’ rreati/cu mme mintu ntorna a bbiaggiu: / stàtiu bbuèni, se campati/ l’annu entùru tornaràggiu.//»
Ne diamo qui la traduzione, soprattutto per ricordare i «cibi quaresimali» dei nostro avi…
« … già è vicina la quaresima. Anzi è già sotto l’arco della porta, vedo già che piglia le mosse; / e le cose che sta portando son tutte contrarie, poco gradite a me.// Porta predicozzi in una mano, e nell’altra i celizi della penitenza;/ e cammina piano piano/ come se ci fossero «scivolizzi» (bucce o cose umide che fanno scivolare)./ / Cammina devota, e non ti degna neppure di uno sguardo,/ ha la coscienza pura;/ ed è magra come una sarda per l’eccessiva penitenza. // Le vien dietro il carro delle proprie mercanzìe:/ fave secche «ngrappate» con l’origano (alle quali, cioè, coi denti è stato tolto l’occhio superiore per impedirne il germoglio),/ fichi secchi, uva passita e ulive;// miglio (che nel leccese, nel secolo scorso, si mangiava bollito e condito con ricotta e olio, dopo. che era stato leggermente pestato ed infornato), «tòleca» (robiglia o cicerchia, lat. cicercula, legume selvatico rampicante, da non confondere con la veccia, coltivato come foraggio), fagioli, capitone marinato,/ sarde. alici, «pampasciùli» (bulbi, lat. hyacinthus comosus, che si mangiano bolliti con olio e aceto o in agrodolce solo nella Puglia),/ baccalà e stoccafisso.//
Povero me! I tristi tempi della penitenza sono già arrivati/ devo mettermi di nuovo in viaggio: / statemi bene in salute, se vivrete / l’anno venturo, a carnevale, tornerò (a tenervi allegri).//»

 

In «Tempo d’oggi», II (6), 1975. Per gentile concessione dell’Autore e del figlio Roberto Panarese

Santa Maria di Costantinopoli: una devozione dimenticata

Statua

 

di Nicola Morrone

 

Appena distinguibile nella penombra, collocata in una nicchia nella parete di fondo di una delle piu’ belle chiese barocche di Manduria, c’è la statua della Madonna di Costantinopoli.

E’ una delle poche opere di scultura litica policroma che il patrimonio artistico cittadino puo’ annoverare, ma soprattutto è l’unica testimonianza superstite, insieme a non piu’ di un paio di dipinti,  di una devozione dimenticata, alimentata in passato dall’esistenza di  una  specifica  confraternita.

La devozione per la Madonna di Costantinopoli nelle terre del Sud Italia ha origine da un fatto drammatico per la cristianità: nel 1453  i Turchi, di religione musulmana, assediarono e conquistarono Costantinopoli,  cioè il principale punto di riferimento religioso per i cristiani d’Oriente, oltre che la  capitale di un vasto impero (l’impero bizantino) la cui parabola storica era durata quasi un millennio. Gli abitanti di Costantinopoli si rivolsero, in quella triste circostanza, alla protezione della Madonna Odegitria, che  sottrasse  la popolazione a  conseguenze ancora piu’ disastrose.

Il culto per la Vergine, già fortemente radicato in Oriente, si rafforzò dunque  ulteriormente dopo il dramma della conquista musulmana. I Turchi, nell’ambito del loro progetto  espansionistico, arrivarono però ad insidiare anche l’Occidente: presero Otranto nel 1480, e da allora il pericolo  di un assoggettamento  non  solo delle terre meridionali, ma dell’intera penisola, e di tutta l’Europa, si fece terribilmente concreto. Così, la gente meridionale decise  di mettersi sotto la protezione particolare  della Vergine di Costantinopoli, e il clero decise di sostenere questa esigenza collettiva con  l’edificazione di cappelle ed edicole votive dedicate alla nuova patrona.

Questo  si verificò  anche a Manduria. Stando a quanto sostiene  il Tarentini nella sua “Manduria Sacra” (Manduria 1899), ai primi del sec.XVI, cioè  ad appena mezzo secolo dalla caduta della capitale dell’impero bizantino in mano turca, si sviluppò nella cittadina messapica  una devozione specifica per la Vergine  di Costantinopoli. In verità, per il momento non disponiamo di  un riferimento cronologico preciso relativo alla nascita  di questa devozione in ambito locale . Lo stesso  Tarentini, però,  riferisce, su base documentaria,  che nel 1587 esisteva sicuramente un confraternita sotto il titolo di Santa Maria di Costantinopoli, che faceva riferimento ad una cappella, situata  nel sec. XVI nel luogo in cui  attualmente sorge la chiesa di San Leonardo Abate.

Non siamo in grado di sapere, per mancanza di documenti, se oggetto concreto  della venerazione dei confratelli fosse un dipinto (un’opera tardo bizantina?) o una statua: della suppellettile della distrutta cappella non rimane la minima traccia, nè artistica nè documentaria.

La cappella fu distrutta nel 1702  per far posto all’erigenda chiesa di San Leonardo, attualmente visibile, ma il culto verso la Madonna, evidentemente radicato in modo significativo nella popolazione, non si estinse con la distruzione della  vecchia chiesa.

Dopo circa due secoli di permanenza nel luogo di culto originario, infatti,  la devozione “migrò” in un nuovo edificio, già in costruzione, che sarebbe stato intitolato proprio alla Madonna invocata contro il pericolo turco.

Oggi, le uniche  testimonianze visive della devozione per Santa Maria di Costantinopoli  a Manduria sono  costituite da due dipinti e da una statua litica. Nella  Chiesa Matrice si trova  una tela raffigurante  la Madonna di Costantinopoli, San Nicola e il committente (un ecclesiastico non identificato). In Santa Maria , invece, le testimonianze del culto sono due, un dipinto e una statua, rispettivamente realizzate la prima  su impulso privato (nobiliare), e la seconda  su iniziativa  ecclesiastica (ordine degli Agostiniani).

Sono entrambe accomunate  dalla presenza di  un  attributo iconografico particolare, l’unico che di fatto ci permette di ricondurre entrambi i manufatti  ad una devozione per la Vergine  di Costantinopoli. Sia nel dipinto che nel basamento della statua sono raffigurati infatti alcuni soldati  turchi che scappano da un edificio in fiamme, evidente riferimento all’assedio musulmano di Costantinopoli del 1453 e alle probabili profanazioni di luoghi sacri, le cui conseguenze furono mitigate, ma non del tutto impedite, dall’intervento della Vergine .Il dipinto, di intonazione marcatamente devozionale , è probabilmente opera dell’astigiano Secondo La Veglia, che lo realizzò nella seconda metà del sec. XVIII.

La statua in pietra policroma, graziosa, anche se invero collocata in posizione piuttosto appartata, è opera di autore ignoto, forse locale, ed è fatta risalire, col conforto documentario, al 1725, anno della consacrazione della chiesa.

Si tratta di una scultura di intonazione devota: la Madonna,dalle fattezze spiccatamente popolari e dallo sguardo fermo, regge in braccio il Bambino, che si rivolge all’osservatore con gesto benedicente. Ella indossa velo bianco, tunica rossa e mantello azzurro, questi ultimi caratterizzati dalla presenza di una decorazione floreale dorata, che pare  imitare,  in modo semplificato, il ricco “estofado ” delle  coeve sculture lignee barocche, di cui nelle chiese manduriane è apprezzabile più di un esempio.

Dipinto

 

Gli Armeni in Italia

di Boghos Levon Zekiyan

Università di Venezia «Ca Foscari»

Cristo in Trono, dal Vangelo di Etchmiadzin

Le prime vestigia sicure di un’attendibile presenza di armeni nell’Italia medievale si riscontrano nell’Esarcato bizantino di Ravenna. Alcuni degli esarchi erano di origine armena, come il famoso patrizio Narsete (Nerses) l’Eunuco (541-568) e Isaccio (Sahak) (625-644). Di quest’ultimo si trova nella chiesa di San Vitale a Ravenna uno splendido monumento con sculture ed epigrafi che lo proclamano «gloria dell’Armenia». In un mosaico della stessa chiesa è forse lo stesso Narsete che si vede al fianco dell’imperatore Giustiniano. Inoltre si trovava a Ravenna, per la difesa della città, una milizia composta per la maggior parte di armeni, detta perciò «armena» o numerus Armeniorum. Per la stessa ragione anche il quartiere dove dimoravano i militari, la Classis, nella zona litorale della città, fu pure chiamato “Armenia”.

Questo nucleo di Ravenna può essere considerato giustamente come la prima colonia armena dell’Italia medievale. È da rilevare però che quegli armeni erano nel medesimo tempo cittadini bizantini, erano cioè bizantinoarmeni. Nello stesso periodo, oltre a quelli summenzionati, vengono ricordati pure altri nomi di capi armeni in Italia, sotto il comando dei quali combatterono anche numerose soldatesche armene.

Contemporaneamente a questi nuclei di militari e funzionari, non mancarono anche gli uomini di commercio che si sparsero lungo le coste settentrionali dell’Africa, per la Sicilia, fino in fondo all’Adriatico e a Ravenna.

dipinto di Francesco Maggiotto (1750-1805)

Secondo una tradizione, due reliquie di San Gregorio l’Illuminatore sono custodite in Italia: a Nardò le ossa di un braccio e a Napoli il cranio, trasferito qui da Nardò ai tempi di Ferdinando II d’Aragona, nel XV secolo. La tradizione locale, riportata anche da Baronio, afferma che le reliquie del Santo furono trasferite in Italia da monache e fedeli armeni, fuggiti dall’Oriente. Secondo Baronio, ciò dovrebbe essere accaduto ai tempi

Sant’Antoni te le focare oggi a Cutrofiano


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Una tradizione più che centenaria conservatasi intatta nell’alacre cittadina commerciale e artigiana salentina. Ritorna anche quest’anno al centro della vita della comunità cutrofianese la tradizionale ricorrenza di “Sant’Antoni de le Fòcare”, in ricordo del miracolo con cui il santo di Padova salvò gli abitanti di Cutrofiano dal terremoto del 1810 che, a differenza di quello precedente e devastante del 1743, non fece in paese nessuna vitttima. Destata in pieno sonno dal sisma, la popolazione si era riversata nelle strade e aveva trascorso la notte all’aperto. A trovare conforto dalla gelida temperatura notturna, i cutrofianesi avevano acceso dei fuochi nelle strade e nelle piazze.

L’unicità della ricorrenza devozionale cutrofianese sta nel fatto che, nel celebrarla il 17 febbraio di ogni anno, la gente usi accendere dei falò in onore di Sant’Antonio da Padova esattamente come un mese prima, il 17 gennaio, in altre cittadine del Salento il popolo accende fuochi in onore di un altro santo di nome Antonio: Sant’Antonio Abate, figura di eremita e asceta del deserto egizio.

In particolare, il 17 febbraio di ogni anno a Cutrofiano ciascun vicinato accende il proprio falò che scalda e illumina ciascun rione del paese in ricordo degli avi afflitti e spaventati dal terremoto i quali, in occasione del drammatico evento sismico, avevano fatto la stessa cosa per alleviare la notte passata al gelo.

 

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È così, ancor oggi, Antonio da Padova continua a elargire il suo carisma e a meritare l’affetto dei cutrofianesi grati per quel miracoloso soccorso: una devozione condivisa con migliaia di devoti sparsi in tutto il mondo.

Per la verità Cutrofiano consacra al santo padovano due feste all’anno: la prima, questa, nella stagione invernale, il 17 febbraio; la seconda nella stagione estiva, il 13 giugno.

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“Anche quest’anno – ha dichiarato l’assessore alla cultura nonché vicesindaco del Comune di Cutrofiano Nicola Masciullo – abbiamo inteso assicurare il nostro sostegno finanziario e organizzativo alla doppia ricorrenza. L’Amministrazione Comunale ha manifestato la forte volontà di far sopravvivere questa sentitissima festività che valorizza l’identità religiosa e quella culturale dei nostri concittadini”. In effetti, la maggioranza guidata dal sindaco Oriele Rolli vuole accendere, insieme ai falò, una specie di faro per tutto il Salento che voglia recuperare le proprie radici. In margine alle “fòcare”, sarà possibile gustare specialità gastronomicne salentine accompagnate dal buon vino di Cutrofiano. Si tratta di pietanze tipiche preparate dalle varie associazioni culturali attive in città. I festeggiamenti culmineranno proprio con l’accensione delle “fòcare” nei vicinati e con il gran finale della “Fòcara” grande alle ore 19.00 in Piazza Municipio, dove ci sarà il concerto di musica popolare salentina dei “Cardisanti” (gruppo di musica popolare che annovera tra i cantori la figlia dell’indimenticabile Uccio Bandello , Uccio Casarano, ultimo degli Ucci, e il giovane Michele Bianco, grande promessa della fisarmonica italiana). Suoneranno inoltre i gruppi musicali di “Melegari e i suoi Compari” e dei “Calanti”.

Racconti di Galatina. La còcula de l’anime

di Pippi Onesimo

 

La chiesetta delle Anime, in silenziosa contemplazione, sembra riunire insieme, quasi tenendole per mano, due porzioni squarciate di antiche mura, attraverso le quali sfiora, voltando le spalle con comprensibile pudore, Piazza Lillo.

Non vi è più traccia, non solo di queste mura, ma neanche della cosiddetta Porta delle Anime, o meglio, come sembra, di un piccolo varco abusivo aperto fra le mura originarie, molti anni dopo.

E’ sparita anche, come tutte le altre, una delle meravigliose cinque “torri”, che sembra lì si ergesse (come “congettura” la instabile e confusa tradizione popolare) imponente, solenne e severa a difesa della città, prima ancora che via Lillo, da sempre costretta a risalire per via Vignola, avesse la possibilità di affacciarsi sulla l’estrema periferia del paese, scivolando su via Soleto giù e ancora più giù, verso il Rione Italia.

Qui, troviamo la più grande, spettacolare, delittuosa testimonianza di speculazione edilizia, ideata e realizzata in questo comune.

Lo scempio, minuziosamente disegnato in perfetti riquadri simmetrici tutti perfettamente allineati, senza piazze, senza polmoni di verde e senza menamentu, mancu de nu metru quatru, in una scacchiera, che solo la follia del business poteva concepire, allora non era stato ancora compiuto.

Oltrepassata la chiesa, al di fuori delle Mura, precisamente alla destra di chi scende dalla via de lu Cazzasajette, si trova la “Còcula de l’Anime”, che è uno slargo ovale, ora di pochi metri quadri, ma un tempo molto più spazioso.

E’ lievemente ristretto rispetto al suo originale, perché rimodellato dalla strada (via Giuseppina del Ponte) asfaltata per esigenze di viabilità e delimitato da un marciapiede fino a Vico Topazio.

Mattonato con arruffate soluzioni geometriche, e occupato in parte, sino a pochi giorni fa, da una cabina telefonica in indecente stato di abbandono, è arredato con frettolosa approssimazione con una panchina di pietra, mascherata con assi di legno.

Lo custodisce l’ombra fitta e odorosa di un solenne, solitario albero di pino, corrucciato e indispettito per la presenza di due robinie anoressiche, piantumate di recente, che offendono la sua maestosa eleganza

Così come si presenta oggi, la “còcula“ è la dimostrazione concreta della improvvisazione e della confusione culturale, in salsa arruffata, che regna sovrana a Palazzo, quando si affronta il problema dell’arredo urbano.

E Piazza San Pietro è stata anch’essa, sino a ieri, vittima illustre ed incolpevole di quella incoltura, quando è stata offesa e deturpata dal posizionamento scriteriato di alcune cùcume ricolme anche de scisciariculi e marve.

La Piazza grida ancora vendetta con tutta la forza della sua legittima disperazione, perchè ha subito, a memoria d’uomo, il quinto tentativo di violenza : prima le catine pe lli scjurnatieri, poi un albero di abete piantumato al centro della Piazza in occasione di un Natale, poi le palle, poi li sedili e, infine, lo scempio delle cùcume.

Ora, finalmente, è libera !

La còcula, allora, era completamente sgombra, ricoperta solo di ghiaia e di terra battuta.

Era, di sicuro, meno adatta igienicamente ad accogliere le bancareddhre de nuceddhre, de cupeta, de mantaji e zacareddhre cu lle tine de schipece, ma era più familiare e più paesana.

Alcuni pethroji a carburiu, o citilene (lumi ad acetilene), anneriti dal fumo e cagionevoli per l’età, con le loro fiammelle tenaci e resistenti anche alle capricciose e improvvise folate di vento, le illuminavano con luce stentorea e traballante, a tratti intermittente, durante la festa de Cristu Risortu.

Spandevano nell’aria un odore soffusamente gradevole, che infondeva allegria e vivacità alle conversazioni e allo scambio di saluti in un caratteristico, ciarliero brusio di festa paesana, e, in particolare, rionale.

In precario equilibrio, vi sostavano anche sparute combriccole di avventori, vivacemente loquaci, perché “brilli e spiritosi”, di una antica e attrezzata osteria, di cui è rimasta solo traccia in un vecchio portone.

Questa festa, che cade ogni anno la domenica immediatamente successiva a quella della Pasqua, era molto sentita e seguita, anche se… tristemente famosa (a parte i fatti di sangue avvenuti agli inizi del secolo scorso, che hanno tutt’altra matrice e significato sociale) per le risse, a volte violente, provocate per futili motivi, che, a ricorrenza costante, vi accadevano.

Era risaputo che il Rione de l’Anime pretendeva di essere considerato il Rione più capicaddhu (testa calda) del paese, anche se doveva fare i conti con quello della Porta Luce, col quale stava sempre a discrazzia de ddiu (in eterna rivalità).

Comunque, lì convenivano, durante la festa, tutti li sbelisciati degli altri Rioni, in cerca di divertimento, di baldorie o… cu ssi trovanu la zzita (fidanzarsi).

Il campanilismo rionale era ben coltivato e simpaticamente sostenuto. Gli scherzi e i dispetti, a volte pesanti, erano la manifestazione esteriore della loro rivalità.

Adesso non più!

Oltretutto il rione delle Anime, come tutti gli altri del centro Antico, è desolatamente spopolato, nonostante i timidi, sporadici tentativi di rivitalizzarlo attraverso il recupero e la ristrutturazione edilizia di corti e palazzi, finanziata da privati acquirenti, sopratutto stranieri.

Le antiche mura, o meglio quelle virtuali, scendono dalla via de lu Turrione (via D’Enghien) e si accostano delicatamente alla Porta Cappuccini.

Poi proseguendo verso le scaleddhre, cha pòrtanu rretu llu Ràttulu (Vico Dolce, che, dall’imboccatura di C.so G. Del Ponte, si congiunge con Vico Freddo) e superata la chiesa delle Anime, abbracciano, ansimando per la ripida salita, il costone della chiesa della Madonna del Carmine e si ricollegano alla Porta Nova, o Porta San Pietro.

Di quelle vere sono rimaste poche tracce: ad ondate storicamente susseguenti, sin dalla notte dei tempi, hanno subito l’accanimento barbarico di chi, per l’insipienza, o l’assenza, o l’indifferenza del Palazzo, ha sgretolato con rozza spavalderia porzioni di mura, o divelto cornicioni per realizzare vere e proprie abitazioni, o per aggiungere qualche vano a quelle preesistenti.

Altri le hanno violentate con scandalosa impunità per l’apertura di finestre o per il passaggio di canali di gronda.

Le imprese autorizzate (da chi?) per gli allacci della corrente elettrica, acqua, telefoni e gas hanno poi completato l’opera, senza che mai nessuno si sia preoccupato di controllare, di vietare e, al limite, di chiedere conto degli enormi danni procurati.

Oh che bella Città!

Speriamo ca lu Patreternu ce la conservi a lungo, nonostante i barbari e le colpevoli collusioni o insipienze (di ieri, di oggi e di domani) del Palazzo.


Pubblicato su Il Filo di Aracne.

 

Muro Leccese. Santa Marina. Uno sguardo verso Oriente

di Massimo Negro

Con questa nota inizia “casualmente” un percorso  composto da brevi note che riguardano il culto di una santa, Santa Marina, giunto nel Salento secoli e secoli addietro sulle barche che portarono nelle nostre terre la religiosità e l’arte di Bisanzio. Quando l’occidente era avvolto da una grigia coltre e le stelle ad oriente brillavano luminose, i loro riflessi giungevano sino a noi.

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Casualmente, perché nei primi siti da me visitati vi ero andato con altre intenzioni, diverse da quelle di descrivere la vita di questa Santa e le sue numerose tracce nel Salento, così profonde da essere fonte di tradizioni e credenze popolari a me sconosciute.

Devo essere sincero. Di questa santa avevo letto su alcuni libri, anche un po’ vecchiotti, nei quali sono descritti i principali insediamenti rupestri o antiche fondazioni di monaci basiliani nella nostra terra. Ma non pensavo, professo la mia ignoranza, che il culto di questa Santa fosse ancora vivo e partecipato anche ai giorni nostri.

Così quasi senza volerlo, iniziando il mio percorso a Muro Leccese, dove a dire il vero vi andato per i resti messapici presenti in questa cittadina, e grazie a qualche dritta di un caro amico giornalista, mi sono ritrovato a Ruggiano prima e poi a Miggiano. Ma non mi sono fermato qui e con l’occasione ho fatto una capatina a Carpignano Salentino ad una cripta in cui si ricorda il culto della santa. Sempre sulle orme di Santa Marina. Ma a quel punto era diventata una vera e propria ricerca, pur se praticata con i miei limitati mezzi riguardo le fonti storiografiche.

Prima tappa di questa sorta di pellegrinaggio (in fin dei conti parliamo di una Santa) a Muro Leccese, antico centro messapico, ma non solo. Infatti a Muro è presente la piccola ma bellissima chiesetta dedicata a Santa Marina, che viene festeggiata dalla comunità locale nel mese di luglio.

A questa santa si ricorre per diversi motivi. Con questa nota, vi racconto le notizie che ho raccolto per l’occasione della visita a Muro; nelle prossime, seguendo il corso delle mie tappe per il Salento vi racconterò anche di altro e delle credenze popolari che ruotano attorno al culto della santa.

Santa Marina di Antiochia di Pisidia, come tutti i santi sicuramente non ha avuto una vita facile, ma quanto è giunto sino a noi della storia della sua vita sicuramente risente di una certa libertà di prosa da parte della fantasia popolare e della stessa chiesa di allora, che ne ha esaltato le virtù eroiche di martire.

Marina sarebbe stata figlia di un sacerdote pagano. Rimasta orfana della madre, il padre l’affidò ad una nutrice cristiana che la istruì nella fede e poi venne battezzata.
Mentre pascolava il gregge della famiglia che l’aveva adottata, la sua straordinaria bellezza colpì il governatore della provincia, Olibrio, che voleva sposarla. Subito Marina si dichiarò cristiana. Olibrio ben presto la minacciò e infine la sottopose ad una serie di tormenti, facendola rinchiudere in un carcere buio. Qui fu anche tormentata da visioni diaboliche che la martire dissipò con un segno di croce. Il demonio tornò a tormentarla sotto forma di drago che l’inghiottì viva. Marina, servendosi della croce, squarciò il ventre della bestia e uscì indenne. Da questo episodio della fantasia nacque la devozione a Marina quale protettrice delle donne incinte per avere un parto facile. Infine, fu decapitata.

La chiesa è stata eretta intorno al X e- XI secolo, utilizzando dei blocchi trasportati dalle vicine mura messapiche. Al suo interno la presenza di antichi affreschi risalenti al periodo basiliano, alcuni dei quali rinvenuti sotto l’intonaco che era stato utilizzato nel lontano passato per ricoprirli con nuove decorazioni e immagini risalenti al tardo ‘500.

La chiesa ha una sua particolare importanza in quanto al suo interno si trova (o per meglio dire quello che ne resta) il più antico ciclo di affreschi sulla vita di San Nicola di Myra. Alcuni studi fanno risalire la committenza all’Imperatrice Zoe, sposa di Costantino IX Monomaco (1043) come ex voto al Santo di Myra per la sconfitta di un nemico. La chiesa quindi sorge dedicata a San Nicola e solo più tardi, accanto a San Nicola si affianca il culto di Santa Marina, sino a prenderne il posto. Infatti oggi la chiesa è conosciuta come chiesa di Santa Maria.

Nei calendari orientali la sua festa è segnata il 17 luglio. A Muro Leccese, la martire orientale viene festeggiata la seconda domenica di luglio, anche se il calendario occidentale la riporta il 18 dello stesso mese.

Le foto sono state scattate il pomeriggio della festa, passato a gironzolare tra la Chiesa Madre, in attesa dell’uscita della processione, e nei pressi della Chiesa di Santa Marina, ingannando il tempo a veder giocare a “padrone” un nutrito tavolo di signori del luogo. Visto il contesto e qualche ricordo di gioventù che mi era tornato alla memoria rivedendo quel gioco, cari amici, una birretta era d’obbligo.
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Seguendo il link il video con le immagine di quel pomeriggio di luglio
http://www.youtube.com/watch?v=ZmgX5_TjsI4

fonti:
“Santa Marina. Tra Oriente ed Occidente” a cura del Comune di Muro Leccese.

http://massimonegro.wordpress.com/2011/12/06/muro-leccese-santa-marina-uno-sguardo-verso-oriente/

 

Riti e tradizioni salentine dalla Quaresima alla Pasqua

Salento fine Ottocento  

                                     TTACCAMU LI CUCUME  

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) Per non tradire la regola di astinenza  che per tutto il periodo penitenziale bandiva dalla mensa, oltre alla carne, ogni varietà di formaggio, nelle domeniche quaresimali li pizzariéddhri  (pietanza festiva del mondo contadino) non venivano insaporiti con la tradizionale ricotta ‘scante (ricotta piccante), ma approntati col magro condimento di mollica fritta e carrube grattugiate, lomenti che, per essere abitualmente dati in pasto ai cavalli, esprimevano in pieno lo spessore dell’umiltà penitenziale.

Il giovedì santo però, forse perché anticamente dedicato al reinserimento nella Chiesa dei pubblici penitenti, o per essere commemorativo della cena di Cristo e quindi in tal senso esprimente la gioia del convivio, veniva a porsi come giorno di tregua nell’angoscia espiatoria e perciò, in sede culinaria, vissuto alla festiva.

Valendo da una parte la sospensione dello spirito penitenziale e permanendo dall’altra l’ostracismo ai formaggi fino al mezzogiorno del sabato santo, li pizzariéddhri  venivano conditi supplendo alla grattugiata di carrube con un’irrorata di miele fuso con l’aggiunta di semi di finocchio finemente tritati. Un amalgama che conferiva alla rustica pasta – fatta in casa, spesso con farina scura – delicato sapore di marca orientaleggiante, ma il cui uso a livello contadino più che a ragioni di gusto si doveva a dettatura di influenze simbolico-religiose.

Non si può  infatti sorvolare su quanto di appalesato contrasto c’era nel passaggio dalle carrube, mangiare ti éstie (cibo da bestie), al miele fuso, sursàta ti Ddiu (bevanda di Dio); un repentino salto di qualità che spinge a pensare come, almeno in fase di partenza, l’uso fosse nato quale adombratura di un principio di riscatto – da esseri peccaminosi ad anime

San Valentino, protettore di Terni e degli innamorati

di Paolo Vincenti

Copertino, chiesa del Rosario, statua di San Valentino

Il 14 febbraio si rinnova la festa di San Valentino.

San Valentino, nato nel 176 d.C. circa,  fu consacrato bescovo di Terni, di cui oggi è protettore, nel 197. E’ considerato dalla tradizione popolare il fondatore della comunità cristiana di Terni e il suo primo vescovo. Perseguitato per la sua fede cristiana, sotto l’Imperatore Aureliano, fu martirizzato il 14 febbraio del 273 circa. Dopo essere stato decapitato, il suo corpo fu trasportato da Roma a Terni, dove fu sepolto sulla Via Flaminia. Sulla collina dove egli fu seppellito, in seguito, fu eretto, in suo onore, un primo oratorio e, successivamente, la grande basilica a cinque navate, che ha subito molti rimaneggiamenti nel corso del Medioevo, nella quale ancora oggi sono conservate le reliquie del Santo.

Presso la tomba di San Valentino, nel 752, avvenne lo storico incontro di pace fra il papa Zaccaria e l’invasore Liutprando, re dei Longobardi. La basilica fu completamente riedificata nel 1630 e fu costruito l’annesso convento dei Carmelitani, chiamati a Terni per promuovere il culto del Santo. Le reliquie del vescovo, nella basilica di San Valentino, sono conservate in una statua d’argento che si trova dietro una grande teca di cristallo, dove, a grandi lettere, si legge: “San Valentino, patrono dell’amore”.

s. valentino

Molte sono le leggende fiorite sulla sua vita. Una delle più belle narra di un giovane centurione romano di nome Sabino che, passeggiando per una piazza di Terni, incontrò una bella ragazza di nome Serapia, della quale si innamorò follemente. Purtroppo Sabino, che era pagano, non ottenne il permesso di  sposare Serapia dalla famiglia di lei, che era di fede cristiana. Per superare quest’ostacolo, Serapia suggerì al suo amato di recarsi dal loro vescovo Valentino, per ricevere il battesimo e potere così convertirsi alla religione cristiana. In questo modo, la famiglia di lei avrebbe accolto Sabino. Purtroppo, prima ancora che il giovane potesse essere battezzato, Serapia si ammalò di tisi e nel giro di poco fu in fin di vita. Valentino fu chiamato al capezzale della fanciulla, la quale gli manifestò tutto il proprio amore per Sabino; così anche Sabino chiese di essere battezzato e supplicò Valentino di unirlo alla sua amata in matrimonio. Valentino celebrò in tutta fretta il matrimonio ma, mentre levava le mani in alto per la benedizione, il sonno eterno scese ad  avvolgere i due giovani, che furono così uniti per sempre.

L’origine della festa di San Valentino si deve probabilmente al tentativo della Chiesa di arginare un rito pagano. Nel V secolo d.C. , infatti, la Chiesa, per porre fine al culto del dio Lupercus, che veniva festeggiato in febbraio ed era considerato portatore di fertilità, indicò Valentino come protettore degli innamorati.

La data che fu scelta per festeggiare il Santo fu quella della sua morte, il 14 febbraio. Nell’antica Roma, infatti, nella prima metà di febbraio,  si tenevano i “Lupercali”, feste dedicate al dio Luperco, che si riteneva fosse il protettore delle greggi dall’assalto dei lupi. I Lupercali si tenevano nei pressi della grotta sacra a Luperco, che si trovava ai piedi del Palatino, ed era la grotta in cui, secondo la leggenda, la lupa aveva allattato Romolo e Remo. Durante queste feste, i sacerdoti del dio, i “luperci”,  rivestiti solo con delle pelli degli animali sacrificati, correvano per la città e sferzavano con le loro verghe,che erano delle sottili strisce ricavate dalla pelle degli animali stessi ed erano chiamate “februae” (da cui una possibile etimologia per “febbraio”), le donne fertili che, una volta colpite, sarebbero state fecondate entro l’anno. Tutte le celebrazioni a Roma si svolgevano in periodi particolari, sempre legati ai ritmi della terra e della vita agricola, per propiziare qualche evento particolare. Quella dei Lupercali era una festa tesa a propiziare la fecondità della terra, ma anche degli animali e degli uomini, alle porte della primavera, quando tutta la natura si risveglia. In un secondo momento, quando la religione romana venne, in un certo senso, addomesticata, perdendo il  suo carattere primitivo troppo cruento e selvaggio, durante il rito, veniva allestita una grande urna nella quale le donne che erano in cerca di marito depositavano dei bigliettini su cui scrivevano il proprio nome, ed altrettanto facevano gli uomini. Si procedeva poi ad una estrazione e il nome di ciascuna donna veniva accoppiato a quello di un uomo. Queste coppie trascorrevano insieme il giorno di festa, ballando e cantando e, se alla fine dei festeggiamenti essi si fossero innamorati, avrebbero allora passato un intero anno insieme, affinché il rito della fertilità fosse concluso. L’anno successivo si sarebbe ricominciato con altre coppie. Molto spesso, poi, queste coppie si sposavano.

Verso la fine del V secolo, Papa Gelasio I volle porre un termine a questa deleteria usanza e le contrappose la festa di San Valentino, istituita nel 496.

Da allora, San Valentino è considerato il patrono degli innamorati e viene festeggiato ogni anno con gran dispiego di bigliettini d’amore, regali fra i fidanzati e cene a lume di candela. Al Santo martire si è ispirato il disegnatore Peynet per i suoi famosissimi fidanzatini, “Valentino e Valentina”, che rappresentano, nell’immaginario popolare, gli innamorati ideali.

L’amore dormiente, una tela nel Museo Archeologico di Taranto

Un’ ipotesi attributiva per “L’amore dormiente”

di Nicola Fasano

tratta da Storia di una collezione. I quadri donati dal Vescovo Ricciardi al Museo di Taranto

Il dipinto, oggetto del mio articolo, fa parte della collezione che il vescovo di Nardò, monsignor Ricciardi, donò al Museo Archeologico di Taranto[1] tramite un testamento olografo depositato nel 1907[2].

Il documento recita: “Tutti i quadri di qualche merito artistico sia esistenti nel Palazzo di Taranto, che all’Episcopio (di Nardò), voglio che siano depositati nel Museo pubblico di Taranto”.

Le tele in questione sono per la maggior parte opere di scuola napoletana del XVII e XVIII secolo, tra le quali trova spazio il nostro dipinto, raffigurante  “L’amore dormiente”.

L’opera in questione è una teletta (57 x 39) che tradizionalmente viene attribuita alla scuola Andrea Vaccaro; essa trova spazio in un saggio del  Galante[3] che, senza il conforto della fotografia, cita fugacemente l’opera nel passare in rassegna i dipinti della collezione.

La D’Amicis[4] nel catalogo della collezione rimane fedele alla tradizionale attribuzione con la quale la Soprintendenza schedò le opere nel lontano 1908.

La teletta, molto rovinata, raffigura un putto grassottello disteso su un manto azzurrognolo che sorregge il proprio capo con il braccio sinistro, mentre con l’altra mano impugna una freccia. Il tutto si svolge in una

L’amore è l’ossimoro fecondo nell’irrazionale lucidità che l’accompagna

di Pino de Luca

 

14 Febbraio, San Valentino

 

Dice Marcello: è possibile pensare ad un vino che si beve in due? Magari che accompagna un piatto che si mangia in due? Si Marcello, è possibile, possibilissimo, piacevole, piacevolissimo. Non scomodo Apicio e nemmeno Mastro Berardo. Io credo però che dei due bisogna parlare, immaginarli, altrimenti tutto diventa oggetto esanime, merce d’accatto, tintinnar di moneta o, peggio, manifesto di potere.

L’amore è resa, abbandono, rilascio d’ogni resistenza, abbandono d’ogni calcolo e raffronto, sublimazione nel pensiero e nell’immaginario singolo e condiviso.

È ossimoro fecondo nell’irrazionale lucidità che l’accompagna, nel confuso miscelar di membra che assegna nette funzioni ad ogni parte del corpo, nella violenta vitalità che ogni cellula sopita porta al risveglio.

E i due me li immagino maturi, di lunga pezza, che si conoscono bene da tanto e che non hanno perduto la voglia di stupirsi. L’uno con la passione di agghindar la tavola e l’altro con quella di preparar da mangiare. E siccome io prediligo la seconda, della seconda vi dico.

In frigo una bottiglia di Spumante Rosé Rosa del Golfo. Ci si procurano alcune fette sottili di Capocollo di Martina, una dozzina di gamberoni Gallipolini e un avocado sodo e maturo. OEVO, sale nero di Cipro, pepe bianco, erba cipollina e un limone e un’arancia, e della rucola selvatica.

In una bottiglietta come quella dei succhi di frutta ben lavata si mette qualche cucchiaio di OEVO e il succo di mezzo limone, un pizzico di sale e del pepe. I gamberoni si privano di testa e carapace, si dispongono in una terrina e, agitata la bottiglietta, si bagnano con l’emulsione che s’ottiene e si lasciano riposare. Intanto si pulisce l’avocado, si taglia a tocchetti e si dispone in una zuppiera bagnandolo con il restante succo di limone. Quando è tempo di servire disporre su un letto di rucola ben lavata i pezzi di avocado e degli spicchi d’arancia tagliati in due, poi i gamberi scolati e, sopra, le fette di capocollo scottate in un dito di olio bollente.

È un piatto di grandi profumi e grandi contrasti come solo l’amore vero sa essere, e lo spumante fresco è lì, per mediare con le sue bollicine tra il calore del capocollo e il gelo dell’avocado, la dolcezza dei gamberi e il piccante della rucola.

E il sale dev’esser nero e il pepe bianco, perché tutto sia diverso da come sembra che il banale non è per chi si ama. Non importa se siete coniugi o amanti, fidanzati o sposati, eterosessuali o omosessuali, io dedico questa piccola cena a tutti coloro che condividono con me l’idea che “chi s’appaga non paga ma, semplicemente, ripaga (se è in grado di farlo)”.

Buon San Valentino a tutti.

La quaresima nelle tradizioni popolari del Salento. La cinnereddha

Salento fine Ottocento 

LA CINNIREDDHRA

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) A mattutino, circa due ore prima dell’alba, col suono a morto delle campane , il mercoledì delle Ceneri apriva i battenti della Quaresima, stabilendo così il passaggio dai peccati della carne alla purificazione dello spirito.

Le prime a raccogliere l’invito erano le donne, leste a balzare dai loro saccùni ti cacchiàme (materassi di paglia d’orzo) che da quel momento, sino al mezzogiorno del sabato santo, non avrebbero più spisulàtu cu lla furcéddhra (spiumacciato con la forcella) affinché un disagevole riposo notturno fosse di complemento alla penitenza diurna incentrata sul digiuno.

Fossero o non fossero di lutto s’ammantavano di nero, e per non turbare il clima di silenzio succeduto ai clamori del carnevale uscivano dalle case in punta di piedi, muovendosi circospette, quasi stessero a rubare: gli usci li chiudevano piano, con esagerata cautela, e nel riporre, come d’abitudine, la grossa chiave sotto la pietra che fungeva da gradino facevano attenzione a non urtare ai limmi (vaschette di coccio) colmi di panni sporchi,

Pizzichiccio, il brigante buono

Difendeva la sua patria, la sua terra, la sua gente e fu considerato un brigante

 PIZZICHICCHIO

Il brigante buono

di Rino Duma

Premessa

Da sempre il fenomeno del brigantaggio ha interessato e continua ancor oggi a interessare ogni parte del mondo (si consideri ad es. la pirateria somala, bengalese e i predoni maliani, ecc). Anche ai tempi dei Romani la storia ci tramanda esempi eclatanti di scorrerie legate al brigantaggio. Ad esempio, Plinio il Vecchio ci narra le vicende del brigante Corocotta in Cantabria (Spagna), per sedare le quali Ottaviano Augusto fu costretto ad impegnare una delle migliori legioni. Nello stesso periodo storico, molti pastori tarantini, per non pagare i pesanti tributi, preferirono riparare nei vicini boschi, per poi effettuare delle rapide scorribande, attaccare le disorientate milizie romane e fare immediato ritorno nella fitta boscaglia. Dopo alcuni anni, però, furono sconfitti e trucidati senza alcuna pietà: le loro teste, infilzate nelle lance, furono condotte in città come monito. Lo stesso Barabba era considerato un ribelle, un ladro. Nel Vangelo, Giovanni lo definisce un vero brigante, στής, lestés, truffatore, canaglia). Ci sarebbero innumerevoli altri casi di brigantaggio, ma omettiamo di considerarli per evidenti ragioni di spazio.

Il brigante “Pizzichicchio”

Cosimo Mazzeo nacque il 13 gennaio 1837 a San Marzano di San Giuseppe (Ta) da Pasquale e Maria Troilo. Sin da ragazzo dimostrò insofferenza nei confronti delle persone prepotenti, in particolar modo di coloro, come i grandi proprietari terrieri, che sfruttavano sino all’inverosimile i contadini. Questi erano costretti a lavorare dodici ore al giorno, dalla alba al tramonto (“de sule ‘n sule”, cioè di sole in sole, come si usava dire a quei tempi) in cambio di una paga molto modesta, che consentiva di acquistare appena il pane necessario per sfamare le loro numerose famiglie. Cosimo aveva un carattere fermo, deciso, ma era anche generoso e sensibile; si arrabbiava con chiunque usasse maniere forti nei confronti dei deboli e degli oppressi, arrivando perfino a litigare più volte con suo padre, quando questi usava modi molto rudi, soprattutto nei confronti degli altri fratelli. Lavorava duro, sempre profondendo il massimo e il meglio di sé e senza mai approfittarsi di nulla o lamentarsi della dura fatica. Unico difetto, se di difetto si può parlare, era quello di non sopportare le imposizioni e gli aspri rimproveri, al verificarsi dei quali perdeva i lumi della ragione e contestava ogni cosa, schierandosi sempre dalla parte degli umili e degli indifesi. Per questo carattere ribelle e sfrontato era tenuto alla larga dai signorotti del paese, che vedevano in lui un “rivoluzionario”, un uomo dalle “strane idee e modi irriguardosi”. Chi lo conosceva a fondo, però, lo considerava un giovane coraggioso, senza paura, che non si tirava mai indietro di fronte a palesi ingiustizie. Al compimento della maggiore età, Cosimo decise di arruolarsi nel Regio Esercito per venir fuori da quel mondo fatto di continui soprusi, vessazioni ed inganni. Ci rimase per poco tempo, perché venne messo in aspettativa dalle autorità militari, forse per qualche episodio di insubordinazione.

Subito dopo l’Unità d’Italia, il giovane, che inizialmente aveva appoggiato la spedizione di Garibaldi, da molti additato come l’uomo della Provvidenza, dovette subito ricredersi per via della politica molto dura e senza aperture sociali da parte del nuovo governo nazionale. In diverse circostanze manifestò pubblicamente sdegno e rancore nei confronti dei settentrionali, definendoli “sfruttatori senza cuore”. Avendo ricevuto la “chiama obbligatoria alle armi”, non accettò di indossare la divisa di soldato italiano1, per cui fu costretto a latitare, nascondendosi con il fratello Francesco ed altri tre compagni, dapprima nei vicini boschi e poi nelle quasi inaccessibili Grotte del Vallone2, dove vi rimase per un anno, senza mai essere scoperto dai carabinieri. Qui costituì il Nucleo Armato della Resistenza, che andò via via ingrossandosi.

Da quel momento il suo nome di battaglia fu “Pizzichicchio” (non si conoscono i motivi di tale soprannome), la cui fama valicò i confini del tarantino, diffondendosi ben presto nel materano, nelle Murge baresi, nell’alto e medio Salento.

Dalle autorità italiane fu considerato un pericoloso brigante, ma non lo era affatto, perché scelse di difendere con le armi, con l’onore e con il sangue la propria gente, la propria terra. Non fu un bandito comune, ma un “coraggioso partigiano”, reso tale dalle inique condizioni di vita imposte dall’invasore piemontese.

Pizzichicchio fu un uomo buono e generoso con i contadini, ai quali offriva protezione e sicurezza e dai quali riceveva riparo e vettovaglie. Con il passar dei mesi divenne uomo temutissimo da parte dei ricchi possidenti locali che, abiurando il governo borbonico, avevano accettato i “favori” del nuovo stato italiano. Come dire: i furbi, gli infedeli e i voltagabbana montano sempre sul carro del vincitore, chiunque esso sia. Per tale motivo Cosimo reagì con violenza nei confronti di costoro, assaltando le masserie, depredandole ed offrendo ogni cosa alla povera gente. La banda di Pizzichicchio, in meno di un anno, s’era ingrossata al punto da essere temuta dalle pattuglie dei carabinieri, che spesso subivano violenti attacchi.

Per contrastare efficacemente le forze dell’ordine, Cosimo preferì accordarsi con altri capi del brigantaggio meridionale, come Carmine Donatelli “Crocco”, il “Sergente Romano”, “Caruso, “Laveneziana” e “Ninco Nanco”. Queste opportune alleanze gli consentirono di muoversi con maggiore sicurezza nel territorio di sua competenza: il tarantino.

Il suo abbigliamento era sempre impeccabile. Indossava una giacca a doppio petto, una camicia bianca, i pantaloni in velluto nero e un cappello cilindrico con pomello pendente sulla sua destra, al pari del “fez” fascista.

L’episodio, che più d’ogni altro lo ha legato alla storia del brigantaggio, è rappresentato dalla presa di Grottaglie.

Correva l’anno 1862 e, come in molte altre realtà del Mezzogiorno, anche a Grottaglie era in atto una sorta di tacita guerra tra i “legittimisti”, cioè coloro che consideravano legittima la sovranità del deposto Re Francesco II di Borbone, e i “liberali”, ossia coloro che sostenevano strenuamente il neonato governo unitario.

I “legittimisti” erano in maggioranza rispetto ai “liberali”, per cui buona parte del popolo non si riconosceva nel nuovo stato. Anche a Grottaglie il malcontento si faceva sentire fortemente tra i contadini, i braccianti, gli ex-militari borbonici scampati alla deportazione ed i nostalgici di re Francesco II, il quale sosteneva finanziariamente e spronava la gente meridionale alla rivolta da Palazzo Farnese in Roma.

Il motivo che spinse Pizzichicchio ad “attaccare” Grottaglie è legato all’annuncio di “leva obbligatoria” fatto affiggere dalle autorità italiane sui muri del paese. La popolazione si ribellò energicamente, poiché temeva di perdere le forze lavorative più fresche e vigorose, la cui assenza avrebbe determinato un peggioramento delle già grame condizioni di vita. La rivolta fu facilmente sedata dalle forze dell’ordine, il cui duro intervento determinò la morte di due uomini e il ferimento di una decina.

Il 17 novembre 1862, Pizzichicchio, ferito nell’onore e nell’orgoglio, decise di marciare con i suoi uomini verso Grottaglie. All’ingresso in città, il popolo corse loro incontro accogliendoli al grido di “Viva Francesco II, abbasso i liberali, viva li piccinni nuesce”. In poco tempo il gruppo di insorti ebbe facile sopravvento sulle deboli resistenze dei carabinieri. Dopo aver abbattuto lo stemma sabaudo, i briganti fecero razzia di fucili, sciabole, cavalli e muli; liberarono i detenuti, depredarono e bruciarono le case e svuotarono i negozi dei liberali.

Alcuni nobili fecero in tempo a fuggire, altri furono catturati, legati, portati di peso nella piazza principale e fatti oggetto di sputi e sbeffeggiamenti.

Dopo questo grave episodio di guerriglia urbana, Cosimo Mazzeo entrò nella leggenda e divenne uno tra i briganti più temuti del Meridione. Il “patriota” (così venne definito da alcuni storici locali dell’epoca) non si fermò a questa sola azione dimostrativa; infatti anche Erchie, Cellino San Marco ed altri paesi furono visitati e momentaneamente liberati.

Sua madre, Maria Troilo, lo ammirava come se fosse un dio, tanto da sfidare con tono e modi sprezzanti gli agenti della Guardia Nazionale e i carabinieri, definendoli imbelli e avvisandoli che, se l’avessero arrestata, Cosimo li avrebbe bruciati vivi.

Della sua banda facevano parte una quarantina di uomini, tra contadini, pastori e artigiani di età compresa tra i 18 e i 22 anni, i quali vedevano in lui un vero condottiero, abile a muoversi nel territorio ed attaccare nei momenti più opportuni le forze dell’ordine.

La sua bella e appassionante storia finì all’improvviso. I carabinieri, ormai sulle sue tracce, lo pedinavano in continuazione e aspettavano un suo passo falso. In una mattina del giugno 1863, Cosimo con i suoi compagni si mosse dal bosco delle Pianelle, in una località chiamata “Tavola del brigante”, dove la banda aveva il suo quartier generale, per compiere razzie in una zona del Materano. I suoi movimenti, però, furono intercettati prima dal capitano Francesco Allisio, al comando di uno squadrone di cavalleggeri del reggimento Saluzzo, e poi dalla Guardia Nazionale di Taranto. I banditi, braccati per alcuni giorni, trovarono rifugio nella masseria Belmonte, ma furono quasi tutti uccisi. Cosimo riuscì a mettersi in salvo con alcuni fedeli compagni. Ormai, però, il cerchio gli si stava stringendo intorno. Sei mesi dopo fu segnalata la sua presenza nella masseria Ruggiruddo, in agro di Crispiano. Intervenne un folto contingente di carabinieri. Cosimo si nascose in una canna fumaria, ma fu scoperto e consegnato alla Corte marziale di Potenza, che lo condannò a morte. Il 28 novembre 1864, Pizzichicchio, il brigante leggendario, fu fucilato alle spalle, come si faceva con i traditori. Prima della fucilazione, l’uomo chiese ed ottenne di indossare la giacca a doppio petto, la camicia bianca, i pantaloni di velluto e il suo inseparabile copricapo.

A questo “nobile” brigante, a questo “piccolo grande” uomo, che tanto amò e difese la sua terra e che combatté strenuamente ogni prepotenza e sopruso degli uomini, mi sento in dovere di rivolgergli un sentito pensiero di ringraziamento.

È il minimo che si possa fare per lui.

1 Nota storica – Al tempo dei Borbone, il servizio militare era facoltativo, mentre diventò obbligatorio dopo l’Unità d’Italia.

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

 

2 Nota storica – Oggi in queste grotte si celebra il suggestivo presepe vivente, che richiama annualmente un pubblico d’eccezione.

 

Il Salento di Renato Grilli tra bellezza e desolazione

“Io sono un istrione ed ho scelto ormai la vita che farò, procuratemi voi sei repliche in città ed un successo farò Io sono un istrione e l’arte, l’arte sola e’ la vita per me Se mi date un teatro e un ruolo adatto a me il genio si vedra’… si vedra’… “
(L’istrione- Charles Aznavour)

 

di Paolo Vincenti

cocumola2


“Un paese che si chiama Cocumola / è come avere le mani sporche di farina / e un portoncino verde color limone./ Uomini con camicie silenziose / fanno un nodo al fazzoletto / per ricordarsi del cuore. / II tabacco è a seccare, / e la vita Cocumola fra le pentole / dove donne pennute assaggiano il brodo. ” Inevitabilmente mi sovvengono questi versi di Vittorio Bodini mentre mi reco a Cocumola, piccola frazione di Minervino, a trovare l’amico Renato Grilli. In questo borgo incantato, la vita scorre ancora quasi intatta come quando la descrisse il grande poeta leccese. E a Bodini infatti il Comune di Minervino ha pensato di dedicare un premio internazionale annuale, “La Luna dei borboni”, la cui serata finale si è svolta proprio nella centrale Piazza San Nicola di Cocumola. Questo piccolo centro dell’entroterra salentino, appena 1000 abitanti, ha una storia importante che parte almeno dai Greci e dai Romani per poi passare ai Bizantini, ai Normanni e agli Angioini. Antico granaio della messapica Baste, cioè la vicina Vaste, secondo alcuni studiosi, da cui forse il suo toponimo , per la presenza di fogge, dal latino “cumulus”, nel senso di raccolta, accumulo, granaio. Più probabile però, secondo gli storici, che il nome del paese derivi da un’altra parola, “cucuma“, cioè piccolo vaso di creta, supponendo che nel paese in passato vi fossero botteghe artigiane dedite alla produzione di terracotte. Cocumola sul far della sera mi accoglie avvolgendomi con la pace del suo silenzio che rinfranca.

Nella Piazza San Nicola c’è una piccola bottega di barbiere. Ed è lì che mi attende Renato Grilli, che mi saluta, mentre le mani esperte del suo parrucchiere di fiducia acconciano la sua chioma fluente e inargentata, come la luna piena che dall’alto di un cielo idruntino di gennaio ci sorride sorniona. Il barbiere non suona il violino però, come mi sarei aspettato, e dunque appena terminato il suo lavoro, usciamo e ci dirigiamo a casa di Renato, a pochi metri da lì. I gatti, abituali frequentatori delle strade e dei vicoli dei nostri paesi, non si scompongono più di tanto al nostro passaggio, lento e assorto, come la loro calma sonnacchiosa. Renato mi parla ed io non posso fare a meno di restare catturato dal suono della sua voce che fa sentire quegli accenti, quella profondità, quei colori che solo una voce d’attore può assumere.

Renato Grilli, fondatore del “Teatro della voce”, laureato al DAMS di Bologna, attore, regista e autore, ha avuto varie esperienze con compagnie di prestigio, fra cui il “Teatro degli Opposti”, il “Teatro Evento”, “Il Cerchio”, “Salsa Voltaire”, ecc. Lavora da molti anni sulla didattica della Shoah e degli stermini del Novecento. Ha realizzato i percorsi – spettacolo: “Prima della Shoah” 1996 – “La Leggenda Del Golem” 1997 – Canzone del Popolo Rom” 1999, al Museo del Deportato Politico e Razziale di Carpi (Modena) – e “Purim Io vi Racconto” 2006, al Centro Sociale della Comunità Ebraica di Bologna e all’UCEI di Roma. Particolarmente significativo e coinvolgente è stato il progetto “Nigunim- I tal Yà”, partito nel 2007: una serie di recital ispirati alla cultura ebraica, come “Klezmer Meschuge”, “Antiqua Passio Vegetalis”, “Ex Oriente Lux”, “Nigun tradizione orale”, “La pace mediterranea”, “Shalom Tango” e “Rebirthing Memories– Racconti e poesia, musiche e canzoni Klezmer e Sefardite”, con Renato Grilli alla voce, Rachele Andrioli al canto e Rocco Nigro alla fisarmonica. Uno spettacolo sulle tracce delle antiche presenze ebraiche in Salento e in Puglia, una accurata scelta di brani della cultura musicale Klezmer e sefardita alla ricerca dell’incontro tra le lingue e le melodie mediterranee. Penso a quanto importanti siano stati questi incontri, non solo per il pubblico ordinario e variegato delle serate culturali salentine, ma a maggior ragione per gli alunni delle scuole dove questi spettacoli sono stati portati, grazie alla lungimiranza di alcuni dirigenti scolastici illuminati. Del pari interessante l’altro progetto, “Teatro naturale”, con recital come “Viva la luna”, “Omaggio a Salvatore Toma”, “Ruota dei santi”, sempre a cura del trio Grilli-Andrioli-Nigro , con la produzione di Renato Grilli.

Renato ha studiato a lungo l’opera e la figura di Franz Kafka. Ha scritto molti anni fa un monologo, “Sosia”, ispirato dalla curiosa somiglianza che lo stesso Renato da più giovane aveva con una foto dello scrittore da adolescente. Ha poi messo in scena una riduzione dal romanzo “America”(Hamburg – New York, Ravenna, Teatro Rasi, 1982). Nel 1986, a Roma, era il sosia di Kafka nello spettacolo del “Doppio Teatro Sciacalli ed Arabi” di Ugo Leonzio, all’Oratorio del Carovita. Nello stesso anno, venne scritturato da Federico Fellini per il film “Ginger e Fred” in cui interpretava proprio il sosia muto dello scrittore. Qualche anno fa, memore di questa passione letteraria, Grilli ha scritto diretto e interpretato lo spettacolo “Kafka Ridens”, in cui  quel sosia muto del film parlava, liberamente ispirandosi ai Diari e al Libro di preghiere di Franz Kafka, conosciuto come “Aforismi di Zurau”, opera postuma, come quasi tutte le altre, e scampata al rogo dei libri del grande autore praghese. Il “ridens” del titolo indicava una lettura inedita dell’opera di Kafka: cioè, attraverso i riferimenti alla cultura chassidica, al teatro yiddish, alla Kabbalà ebraica, una interpretazione più divertita e ironica . “Teatro della voce”, mi spiega Renato, perché è tutto nella voce e tutto lo sforzo del mio amico sta punto nella voce e nell’interpretazione, a partire da una corretta lettura del testo. Nato in Abruzzo ma emigrato presto a Bologna per motivi di studio e poi di lavoro, in questa città ha pure conosciuto la moglie, con la quale condivide il suo frastagliato percorso di vita. Ha risieduto a lungo a Roma ed ha viaggiato in molte città d’Italia per motivi professionali prima di giungere, ultimo ma non ultimo di una lunga schiera di malati d’amor salentino, in questo eremo di pace e tranquillità, suo approdo forse definitivo, nel Salento cocumolese dove spesso , nelle vuote oziose giornate invernali sferzate dal vento di tramontana, ama raccogliere fiori di campo sui tratturi idruntini che portano al Faro della Palascià o a San Nicola di Casole, fra muschi e licheni, o a Badisco ornata di asfodeli, timo e mortella. Mi fa vedere la sua deliziosa casetta e il giardino retrostante dove vigila in paziente attesa il cane suo compagno fedele, una dolce maremmana di 5 anni. I libri, il computer, i cd , il registratore non possono mancare sulla scrivania di un attore, sono i ferri del mestiere di questo cerusico dell’anima che è l’istrione.

Renato tiene dei corsi sulle diverse possibilità di emissione della voce, nelle tonalità, nei volumi, nelle estensioni, nei ritmi, attraverso esercizi vocali e di respirazione e l’utilizzo di tecnologie foniche. Faro illuminate nella carriera artistica di Renato Grilli è stato ed è Carmelo Bene, con la sua ricerca teorica ed espressiva sulla fonè, Carmelo Bene, “Il talento e la voce”, come recita il titolo di una recente pubblicazione a cura di Antonio Zoretti (per Lupo Editore), Carmelo Bene, con il suo grande talento creativo, al quale Renato deve certo riconoscenza. Penso al recital “Non c’è bene”, dedicata al genio salentino, e al corso “Non c’è bene. Vita, morte e miracoli di C.B.”, tenutosi qualche tempo fa presso la Libreria Universal di Maglie. E’ tutto nella voce, è vero, ma se gli chiedo quale metodo ha fatto proprio, Renato mi risponde di essere figlio dei metodi, scolastici, teatrali, politici, di pensiero, ma che di questi metodi ha conosciuto le poche virtù e soprattutto i molti limiti. Cosicché preferisce dire di avere solo il suo, di metodo, e di esserne spesso anche incerto. Così come se gli parlo di Carmelo Bene, “da lui ho avuto solo maledizioni”, mi dice, “come, per esempio, ‘di qualità si muore’. Me ne sono liberato col titolo di una recente mostra, Freedom Not genius”. Capisco che per un attore come lui, è dura vivere della propria arte, capisco dalle sue parole che la scelta di risiedere stabilmente nel Salento ha le sue luci e le sue ombre, come nella vita di tutti. Il Salento è per Renato bellezza e desolazione, che qui più che altrove coincidono. Capisco che un attore, marionetta comica o tragica sulla scena, una volta sceso dal palcoscenico, è un uomo come tutti gli altri, anzi lo è di più, o di meno, a seconda dei punti di vista, perché possiede in sé una sensibilità profonda che lo stringe con le ansie, con le paranoie, le gioie e i dolori del vivere quotidiano. Un attore, smessi i panni dell’ultimo personaggio interpretato, è un uomo tale e quale a me, con le bollette da pagare a fine mese, le noie e gli affanni di tutti i giorni, le scocciature, le visite parenti, i rompiscatole da evitare, le file alla posta e in banca, la spesa al supermercato con un occhio alle offerte e ai negozi del centro nel periodo dei saldi. E’ vero, la vita è dura, ma riconcilia, magari, il sorriso di un giorno di sole, come pure andare raccogliendo pietre su sentieri di campagna, in questo su del sud, osservare il volo di una tortorella col suo bianco collare, o i volteggi di uno stormo di pettirossi in un mattino di corbezzoli, di rucola o di capperi di scoglio. E a me, umile cartografo di anime e ladro di emozioni, sempre a frugare fra le vite altrui, piace fare mia per un momento, per una sera cocumolese di condivisione artistica ed umana, questa sua vita, ordinaria e al tempo stesso straordinaria, così comune eppure così unica.

 

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I Santi Martiri di Otranto e il 1480 (IV ed ultima parte)

Per merito della guarigione nel 1980 di suor Francesca Levote oggi 11 febbraio 2013 si è tenuto il concistoro per la canonizzazione dei già Beati 800 Martiri di Otranto, che saranno dichiarati Santi il 12 maggio 2013. Benedetto XVI, che a suo tempo ha autorizzato la Congregazione delle cause dei Santi a promulgare i Decreti di nuovi Santi, nominerà dunque Antonio Primaldo e i suoi 800 concittadini uccisi dai turchi durante l’assedio di Otranto del 1480 per aver rifiutato la conversione all’Islam. Ci è sembrato doveroso ricordare quei tristi fatti riproponendo l’ampio studio di Mauro Bortone, riproposto in questi ultimi quattro giorni (NdR).

 

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

 

Cattedrale di Otranto, interno

 

 

L’alibi del nemico turco ed il gioco del sultano

 

Facciamo un passo indietro. Nel maggio 1453, si era verificato, per via degli Ottomani e del loro sultano, Maometto II, un avvenimento di portata mondiale: la caduta di Costantinopoli, che aveva posto fine ad una storia ultramillenaria, gettando il mondo cristiano in una prostrazione profonda, solcata da paurosi lampi apocalittici. Numerose profezie, che avevano attraversato tutto il Medioevo e che ora tornavano più drammatiche, associavano la caduta della nuova Roma all’avvento dell’Anticristo e alla fine dei tempi[1]. La guerra dei Cento anni tra Francia e Inghilterra, che ormai languiva allo stato endemico, si chiuse precipitosamente dinanzi al nuovo pericolo; con la “pace di Lodi” del 1454 si aprì il periodo del cosiddetto “equilibrio”, dove emergeva la preoccupazione, non infondata, che i Turchi sbarcassero davvero in Italia.

In questo contesto, la cristianità occidentale si accorse dolorosamente che il “troppo presto liquidato ecumenismo politico”[2] aveva lasciato un vuoto: con un Sacro Romano Impero, ridotto ad una larva germanizzata, la stessa auctoritas del papato risultava dimezzata: “il pontefice non poteva che ambire ad un ruolo quasi simbolico di una qualche (diciamo così) presidenza della “lega” dei principi e dei popoli cristiani d’Europa, riunita per battere il pericolo turco. Fu quanto s’impegnarono a fare, con differente energia, pontefici quali Niccolò V, Callisto III, Pio II, Paolo II, Sisto IV, cercando disperatamente di metter d’accordo le divergenti idee e gli interessi contrastanti della repubblica di San Marco, del re di Napoli, del re d’Ungheria e di altre potenze: perché, intanto, si era capito molto bene che i turchi erano sì un pericolo, ma potevano essere anche uno splendido alibi

9 febbraio, Sant’Apollonia. La reliquia di Santa Apollonia che si venerava a Gallipoli

di Antonio Faita

Il 9 febbraio, giorno indicato dallo  scrittore cristiano Adone, è stato per secoli dedicato a Santa Apollonia di Alessandria. Anche se al giorno d’oggi questa non è, per così dire, molto celebre. Infatti non è ricordata per  particolari carismi o per opere che abbia scritto, ma è sempre stata molto venerata nella tradizione della Chiesa, soprattutto a livello di devozione popolare. Ne danno testimonianza le innumerevoli sue raffigurazioni e le molte chiese ed oratori a lei dedicati in tutta Europa.

Poche sono le notizie della sua vita, ma il vescovo Dionigi di Alessandria ci descrive, con ammirazione, un breve profilo di una vita donata al Signore nella verginità, nella fedeltà alla celebrazione dei misteri, nella preghiera e nelle molteplici opere di carità. Siamo però bene informati sulla vicenda del suo martirio, grazie alla testimonianza di alcuni episodi avvenuti durante la

Il Carnevale e la Quaresima nella tradizione popolare

Carniale e Caremma, il Carnevale e la Quaresima nella tradizione popolare salentina

 

di Marcello Gaballo

 

Il 17 gennaio, giorno delle fòcare, comincia ufficialmente il Carnevale e molti salentini già pensano a come allietarlo, programmando come divertirsi nei “sabato sera”.

Questo lieto periodo dell’anno si concluderà il martedì antecedente le S. Ceneri, lasciando il posto alle settimane quaresimali.

L’inesauribile fantasia del nostro popolo, un tempo libera dai continui condizionamenti del mass media, identificò questo periodo con due personaggi, l’uno di sesso maschile, Carniale, l’altro femminile, Caremma, sua moglie.

Difatti presso il popolo salentino Caremma si identificava con la Quaresima ed “entrava in scena” subito dopo la morte del coniuge, immaginato come un baldo giovine aduso ad ogni stravaganza. Forte di un’antichissima licenza concessagli dai romani (semel in anno licet insanire– una volta l’anno è consentito uscir fuori di testa) a Carniale era consentito tutto o quasi, a partire dal 17 gennaio di ogni anno, tanto che ancora oggi il termine viene attribuito ad ogni burlone e a chiunque si caratterizzi per la scarsa o nulla credibilità.

L’infelice moglie, le cui limitatissime esternazioni si limitavano al periodo  della Quaresima della religione cristiana, ovvero quel ciclo di quaranta giorni dedicato al digiuno e alla penitenza, poteva esibirsi ed esser notata a partire dal mercoledì delle Ceneri e fino alla domenica delle Palme.

Rispecchiava per certi aspetti quella che era la condizione femminile di decenni fa, alle cui rappresentanti era consentito uscire fuori da casa solo per le spese nel negozietto più vicino, in occasione delle sagre, per andare in chiesa e pochi altri seri motivi (visite di cortesia, funerali, ecc., purchè in compagnia del marito o di altri stretti congiunti, meglio se di sesso femminile). Non era così per il “maschio (màsculu)” di casa, che poteva trattenersi fuori dalla sua abitazione, oltre che per lavorare, per tutto il tempo che gli pareva utile e necessario.

Normalissimo quindi che esso fosse beone e buongustaio, proprio come veniva visto il nostro Carniale, straordinariamente ghiotto di salsiccia e particolarmente attratto dal buon vino, il cui tasso alcoolemico giustificava qualunque colpo di testa e perfino le risapute e mai svelate violenze domestiche.

Caremma veniva raffigurata con le sembianze di una vecchia per niente bella, vestita di nero.

Come accadde fino a qualche decennio addietro, la ricordo ancora nella sua spettrale fisionomia, appesa ad un filo che era teso tra due balconi di vico Moresco a Nardò, nei pressi della cattedrale.

Era stata realizzata sulla sagoma di un pupazzo di paglia, che indossava dismessi e consunti abiti femminili, rigorosamente neri, con capelli ricavati da un pugno di lana di scarto, resa bianca da repentina immersione in candeggina (miticìna di rrobbe).

Il capo era coperto da un fazzoletto nero e i piedi si vedevano racchiusi in due rozze scarpacce. Nella mano destra stringeva una cunocchia, nella sinistra lu fusu, antichi strumenti necessari per la lavorazione domestica della lana, probabile reminiscenza delle Parche latine.

Ricordo bene anche l’arancia fissata sulla conocchia, forse per ricordare la frugalità del cibo da consumarsi nel periodo quaresimale, e sul frutto le cinque penne di gallina, infilzate a ventaglio, per ricordare le cinque settimane quaresimali, e che venivano progressivamente sfilate ogni lunedì. Sull’asta centrale del fuso venivano invece infilati cinque taralli, anche questi eliminati con lo stesso ritmo.

Un fantoccio che era impossibile non scorgere, sempre che si passasse da quella angusta stradina per la quale si giunge in cattedrale. Quelli dotati di buona memoria al suo cospetto sciorinavano la filastrocca trasmessa dalla propria nonna:

Caremma musi-torta

si mangiò na ricotta

e a me non mi ndi tese,

brutta fèmmina ca fuese

(Caremma col labbro storto mangò una ricottina, e a me non ne dette. Che cattiva donna che fu!).

Un coacervo di simboli pagani e religiosi, a costo zero, che stuzzicava la semplice anima di un popolo oramai evoluto, che ha ritenuto utile liberarsi di orpelli cultuali e culturali come questo, per ricercare stimoli e simboli al passo con i tempi.

Carnevali magliesi di fine Ottocento: tonnellate di confetti sulla fame dei poveri

di Emilio Panarese

Nel periodo di Carnevale, a cominciare dalla seconda decade di gennaio, c’era in Maglie, alla fine dell’800 e agli inizi del ‘900, la consuetudine di tenere nelle proprie case delle festicciole con musiche, balli mascherati e rinfreschi o, come si diceva allora, dei pubblici festini. Chi voleva dare queste pubbliche feste doveva chiedere la licenza al sindaco che la concedeva a condizione che non si praticassero giochi di qualsiasi sorta, che non si somministrassero vini o liquori e che i balli non si protraessero oltre la mezzanotte. Il prezzo d’ingresso oscillava da 15 a 20 centesimi.
La media borghesia preferiva, invece, le veglie danzanti, nell’angusto teatro P. Cossa all’extramurale di levante del nuovo borgo (poi Via Mazzini) la cui suppellettile l’intraprendente e coraggioso cittadino Giuseppe Romano (Nnonnu) aveva acquistato dal carpentiere magliese Pantaleo Rainò.
A questi veglioni, di cui era attivo animatore Stefano Ricci, i nostri buoni borghesi accorrevano numerosi, attratti dal buffet squisitissimo e dalle ottime musiche. Per allettare i magliesi a comprare la tessera di lire cinque, che dava diritto all’ingresso al teatro per tutta la durata del Carnevale, don Peppe Nonnu, che nel campo delle iniziative, delle ardite imprese non era secondo a nessuno, aveva escogitato di far girare per le vie della città nelle ore pomeridiane un gran carro, rappresentante il Carnevale, che verso sera faceva il suo ingresso trionfale nel teatro, addobbato elegantemente per l’occasione.
I ricchi proprietari, i professionisti, la gente bene insomma poteva invece sfrenarsi nelle otto sale del circolo (dell’Unione), addobbate per l’occasione con finissimo gusto o, meglio, gustare, i più fortunati, le splendide feste in casa del senatore e della contessa Tamborino-Frisari o in quella di Arcangelina Cezzi e Donato Mongiò: tutte le domeniche essi li accoglievano ospitali nell’ampio salone e nei decorati salotti dove tante belle signore e tante graziosissime elegantissime signorine sino all’alba, mai stanche di intrecciare quadriglie e valzer e polke dopo la succulentissima cena di svariati piatti di ostriche, di pasticcetti di carne, di galantina di tacchino, di arrosti saporiti di vitello innaffiati con Tokaj sincero e di stravecchi vini scelti, di liquori, di champagne e di caffè.

Per qualche altro ricco proprietario il carnevale è anche l’occasione propizia per fare sfoggio di beneficenza come quello offerto l’ultimo giorno del febbraio del 1897 dall’avv. Raffaello Garzia nei locali del’Ospedale M. Tamborino, gentilmente concessi dalla Congregazione di Carità, a ben 200 poveri e servito con squisito pensiero da signore e signorine magliesi.

Nelle ultime due domeniche e nei due ultimi giovedì (dei cumpari e di sciuvedìa crasseddu) ma specialmente nell’ultimo giorno, il martedì, i vicoli della periferia e le vie del centro storico erano attraversati da allegre brigate di cittadini in maschera, da carri graziosamente addobbati, ma anche da rustici carretti con fantocci di paglia e goffe maschere imitanti i mestieri e i personaggi più in vista del paese.

Ma ciò che attirava maggiormente il popolino, assolvendo in un certo qual modo ad una funzione ludico-aggregativa e dando quel qualcosa che doveva sbalordire, era la sfilata degli eleganti carri dei ricchi proprietari del luogo, che dalla periferia richiamavano in piazza una folla numerosa anche dai paesi vicini. Per dare un’idea di come venisse festeggiato a Maglie il Carnevale, alla fine dell’800, abbiamo stralciato da “L’avvenire” del 1 marzo 1897 (I,6) la seguente cronaca:
Verso le 17 si aprì il corso col piccolo ma bellissimo ed elegante carro dei sigg. Gennaro Starace e Pietro Miglietta. Era un canestro di vaghissimi fiori da cui essi uscivano pieni di brio, gettando fiori e confetti. Venne di seguito l’enorme carro rappresentante una corbeille del cav. Oronzo Garzia accompagnato dal notar Gennaro De Donno, Nicolino De Donno, Vittorio Sticchi, Paolo Scarzia e Antonio Cezzi, tutti gettando a profusione confetti ed eleganti bomboniere. Il terzo carro fu quello dell’egregio sig. Vincenzo Tamborino. Rappresentava il ‘corno dell’abbondanza’. Era maestoso addirittura, vestito riccamente di stoffa e guarnito di artistici fiori. Dalla bocca del corno, ch’era in avanti, usciva un nembo di fiori e tra questi si agitavano, quali vispe farfallette, alcuni bimbi dalle guance paffute e rubiconde[…]. Erano seduti sul corno e propriamente al concavo di essi, i sigg. Vincenzo e Salvatore Tamborino, il cav. Egidio Lanoce e il notaio Giuseppe Zocco, che gettavano confetti e bomboniere bellissime.[…]. Seguì il carro dell’avv. Raffaello Garzia, di cui facevano parte i sigg. Nicola De Marco, Nicola Scarzia, il dott. Achille Maggiulli e Filippo Lionetto. Anche questo carro, che rappresentava la stella del nord, fece piovere a dirotto confetti e bomboniere, ricevendo in cambio, come gli altri carri, olezzanti mazzolini di fiori.
Mentre la folla acclamava e teneva dietro, s’intese prima da lontano, poi man mano più da presso, intonare la marcia reale. Era la banda del maestro De Pascalis sopra un carro guarnito di fiori, che precedeva quello dell’avv. Paolo Tamborino, simboleggiante un mulino a vento, lavoro bellissimo e di grande effetto. In esso vi erano, oltre il sig. Tamborino, i sigg. Salvatore Palma di Oronzo, Eugenio Palma di Salvatore, il prof. Pasquale de Lorentiis, Ernesto Sticchi, l’ing. Raffaele Palma, Vincenzo e Nicola Lionetto, tutti vestiti di bianco come altrettanti mugnai. Al loro apparire la folla raddoppiò le acclamazioni, tanto più che giunsero quasi inaspettati, gettando come forsennati fiori e confetti. Ultimo e non meno elegantemente addobbato fu il carro del noto industriale Giuseppe Romano, in cui tra le maschere che gettavano a dritta e a manca confetti eranvi parecchi musici che intonavano marce assai allegre.
Bello era il saluto scambievole dei carri, una vera grandinata di confetti: basti dire che in un paio d’ore ne furono gettati parecchie tonnellate. Il corso si chiuse con una splendida fiaccolata e fuochi di bengala fatta su tutti i carri. Non meno imponente riuscì martedì il corso dei fiori […]
In quei giorni neppure le famiglie più povere sapevano rinunciare alla crapula, ai piaceri della tavola, alle debosce. Si mangiava a crepapelle, si beveva sino all’ubriachezza, si ballava, si cantava, tra risate e scene comiche, tra una quadriglia e l’altra, allietati dal suono di un’orchestrina di pifferi, chitarrini e tamburelli. Il popolino specialmente si divertiva a più non posso, perché dopo la baldoria dell’ultimo martedì, con l’arrivo della quaresima, per molti sarebbero tornati i travagli, la fame, la miseria di sempre: “Carniale meu chinu te doje/ ieri maccarruni e osci foje,/ Carniale meu chinu te mbroje,/ osci maccarruni e ccarne, / e ccrai mancu foje.”

E che fame e che miseria! Gli ultimi anni dell’800 e gli inizi del ‘900 furono a Maglie e nel Salento anni di grave crisi economica, di estrema indigenza, di nera miseria, di continua disoccupazione dei contadini; dietro l’apparente stato di floridezza, dietro la facciata del fasto e dell’opulenza ostentata dai grossi proprietari terrieri il pietoso spettacolo di tanti poveri infelici privi pure di un letto e di una minestra, dei cenciosi scalzi, degli accattoni laceri, denutriti, sostanti ore ed ore presso i portoni delle case patrizie.
All’articolista del giornale borghese questo spettacolo indegno e poco decente degli accattoni ripugna; preferisce non farne menzione e terminare la cronaca con un bravo di cuore a tutti coloro che avevano voluto strappare i magliesi alla monotonia di sempre procurando loro qualche ora di svago, preferisce plaudire ai benemeriti che avevano sbalordito dall’alto dei loro carri elegantemente addobbati col lancio di fiori, di bomboniere, di tonnellate di confetti, che con infinita generosità avevano voluto dare al popolo il panem (il pranzo ai poveri) e i circenses (la sfilata dei carri): la farina e la festa!
Il carnevale è finito – commenta il corrispondente magliese della ‘Gazzetta delle Puglie’, Villanegra – prosit a chi vi ha goduto e a chi non vi ha goduto. E quaresima sarebbe stato tutto il Carnevale se i signori del Circolo non fossero riusciti a tenere qualche festa da ballo. (La Gazzetta delle Puglie, A. III, 10 febbraio 1883).
Quaresima tutto il Carnevale! Ma per questa povera gente la quaresima, una quaresima di fame, di fatica, di lotte e di rinunce continue, non sarebbe fatalmente, senza scampo e senza speranza, tutto l’anno, tutti gli anni, tutta la vita?

In «Tempo d’oggi», V(4), 23 febbraio 1978

Osservazioni sul tarantismo di Puglia

di Paolo Vincenti

“Le Puglie per la posizione ed i rapporti topografici e per la natura del suolo, offrono condizioni interamente proprie, che meritano di essere rilevate. Al Nord un’immensa pianura, nuda di alberi, intersecata da paludosi torrenti nel verno, ed in està fessa in larghi crepacci; nel mezzo sonvi umili colline di una pietra bianca, rossiccia o giallognola, coverte da leggero strato di terra […]; al sud infine seguono le stesse colline, con un pendìo poco rilevante, che per tutto offrono scoverte pietraje o gessaje […]. Quest’ultima parte che forma la Terra D’Otranto, sulla quale Idomeneo e Pirro, le squadre di Augusto e quelle dei Crociati, la baronale potenza e le incursioni dei Saraceni, han lasciate orme incancellabili di gloria e di sventura, ed in cui Taranto, Brindisi e altre città sono ancora per ricordarci quello che fummo; merita più di ogni altra di essere conosciuta. A guisa di promontorio essa si inoltra fra le onde cupamente azzurre di un doppio mare: priva di fiumi e di fonti, colle spiagge contaminate per lungo tratto da impuri ristagni, soggetta a libere e variabilissime correnti atmosferiche che si alternano ora dallo stretto che la divide dall’antica Grecia, ed or dal golfo cui dà Taranto il nome, e ch’è dominato dalle montagne Bruzzi e Lucane, dalle quali irreligiosi torrenti cadono ad interrare gli avanzi di Metaponto, di Sibari e di Eraclea.”

Questa descrizione (un po’ surreale) della nostra regione è opera di un viaggiatore dell’Ottocento, il napoletano Salvatore De Renzi, e costituisce la parte introduttiva della sua opera “Osservazioni sul tarantismo di Puglia- Prolusione accademica recitata nell’ordinaria seduta del 28 luglio 1832 dell’Accademia medico-chirurgica napoletana dal dott. Salvatore De Renzi, socio della medesima” .

Questo saggio viene ora ripubblicato, a cura di Sergio Torsello, dalla casa editrice Kurumuny (2012).

Conosciamo Sergio Torsello come uno studioso attento delle complesse problematiche legate all’antropologia culturale salentina ed in particolare di quel vasto fenomeno che è il tarantismo, del quale si è occupato in numerosissimi saggi e articoli di cui pare arduo dare un sia pur vago cenno di elenco. Giornalista pubblicista, Torsello è parimenti conosciuto per essere consulente scientifico dell’ “Istituto Diego Carpitella” e direttore artistico della “Notte della Taranta” di Melpignano.

Sappiamo bene che l’Ottocento fu un secolo in cui fiorì una enorme messe di studi, soprattutto di carattere medico-scientifico, sul tarantismo pugliese. Ed in questa sezione del sapere rientra il saggio di De Renzi il quale, nella sua dotta dissertazione, descrive il fenomeno dal punto di vista della sua sintomatologia, della diagnosi e della terapia, grazie alle nozioni ricevute da alcuni informatori locali.

Nella sua dettagliata Introduzione, Sergio Torsello, spiega che quella della letteratura medica sul tarantismo è una branca della disciplina molto importante, come confermano le ricognizioni effettuate da Angelo Turchini (nel suo libro “Morso, Morbo, Morte. La tarantola tra terapia medica e cultura popolare”, edito da Angeli nel 1987) e più recentemente da Gino L.Di Mitri ( in “Storia biomedica sul tarantismo nel XVIII secolo”, edito da Olschki nel 2006).

In particolare, nell’Ottocento, il dibattito sul tarantismo vede coinvolti molti medici e scienziati, come Antonio Pitaro, e poi Dimitry, Ferramosca, Costa, Vergari, Carusi, De Martino, Panceri, Cantani, Campelli, De Masi, Carrieri, per citare solo gli studiosi italiani che danno il proprio contributo alla bibliografia medica sul tarntismo. Ad essi si aggiunge l’opera di De Renzi, medico, patologo e storico della medicina, fondatore del giornale scientifico “Il Filiatre Sebezio”, grande erudito e viaggiatore. Il suo interesse per il tarantismo, che si inquadra in una generale riscoperta del fenomeno avvenuta in quegli anni nell’ambiente scientifico accademico napoletano, del quale il medico era esponente di spicco, ci ha portato questo saggio, che è sicuramente un originale contributo rientrante nel clima positivista che animava la cultura italiana in quel periodo. Per maggiore completezza, alla fine del libro, Torsello riporta una interessante bibliografia delle opere pubblicate sull’argomento dal 1800 al 1898.

 

Gallipoli e il suo castello

gallipoli-vincenzo-gaballo
ph Vincenzo Gaballo

di Maurizio Nocera

Ci fu un tempo in cui il luogo che noi oggi chiamiamo Gallipoli, veniva ancora indicato col nome di Anxa, parola che può ritenersi di origine messapico-cretese. Con tale nome la indicò pure Plinio il Vecchio nella sua “Naturalis historia” [Storia della Natura], pubblicata nell’anno 77 della nostra era, dove scrisse: «… in ora vero Senonum Gallipolis, quae nunc est Anxa» [… inoltre sul litorale dei Sènoni Gallipoli, che ora è Anxa]. A sua volta, Pomponio Mela,  nella sua opera “De Situ Orbis” [Del luogo della Terra], scrisse: «Urbs Graia  Kallipolis» (Città Greca Gallipoli), dove “Kallipolis” sta per “Kalé Polis”, che in greco significa appunto Bella Città.

da Wikipedia, sotto la licenza Creative Commons

Ancora prima dei due scrittori latini, i padri della poesia e della storia
dell’antica Grecia, fra cui Esiodo (VIII sec. a. C.), Ecateo di Mileto (VI sec.
a. C.), ed Erotodo (V sec. a. C.), nelle loro opere scrivono anch’essi della
Iapigia-Messapia. Nelle sue “Storie”, Erodoto, a proposito dello sfortunato
viaggio del cretese Minosse il quale, una volta giunto in «Sicania» (Sicilia),
perì di morte violenta, narra di un conseguente viaggio di numerosi cretesi che  lasciarono la loro isola navigando alla volta della Sicilia per riprendersi la salma del loro re. Erodoto scrive: «Quando, durante la navigazione, si
trovarono presso la costa iapigia, una violenta tempesta li avrebbe sorpresi e sbattuti contro terra: sicché, essendosi spezzate le navi, e non vedendosi più alcuna via di ritornare a Creta, fondata in quel luogo la città di Iria, ivi
rimasero e divennero Iapigi-Messapi […] invece di Cretesi, e continentali da
isolani che erano. Da Iria, dicono, fondarono le altre colonie…» [cfr.
Erodoto, “Storie” (a cura di Luigi Annibaletto), Mondadori marzo 2007, I
Classici Collezione Greci e Latini, volume secondo, libro VII, 171, p.
1297].

Sulla Iapigia-Messapia, più particolari ci vengono forniti anche dall’altro
padre della storia greca antica, Tucidide (V sec. a. C.) il quale, nella sua
monumentale opera “La guerra del Peloponneso”, a proposito delle traversie marinare della flotta atenietese diretta a Siracusa, narra di un evento che è lecito interpretare come collegato al luogo Anxa-Gallipoli. Scrive Tucidide:
«Ma i Siracusani, in seguito allo scacco subito con i Siculi, si trattennero
dall’attaccare subito gli Ateniesi; intanto Demostene ed Eurimedonte, dato che le truppe raccolte da Corcira [Corfù] e dalla terraferma erano ormai pronte, attraversarono con tutto quanto l’esercito lo Ionio fino al capo Iapigio; partiti di lì presero quindi terra alle isole Cheradi, in Iapigia, dove
imbarcarono sulle navi dei tiratori iapigi, circa centocinquanta, appartenenti alla stirpe messapica, e rinnovarono con Arta – che aveva tra l’altro procurato loro i tiratori, in qualità di dinasta del luogo – un certo vecchio patto di amicizia, per poi ripartire verso Metaponto, in Italia» (cfr. Tucidide, “La guerra del Peloponneso”, a cura di Luciano Canfora, Mondadori, I Classici Collezione Greci e Latini, Mondadori, giugno 2007, volume secondo, libro VII, 33, p. 969).

Si conoscono le frontiere entro cui era circoscritta l’antica Iapigia-
Messapia, più o meno inscritte nel periplo della costa della punta del tacco d’
Italia, con il confine a Nord-Est, verso l’attuale Bari, non oltre Egnazia, e
il confine a Nord-Ovest, verso Taranto, non oltre Manduria. Le isole Cheradi di cui parla Tucidide non possono non stare che entro questi confini, tanto che al di sopra o al di là di essi, sarebbe stato impossibile al navarchi ateniesi Demostene e Eurimedonte imbarcare i centocinquanta tiratori di «stirpe
messapica», come sarebbe stato impossibile incontrare il dinasta Arta, capo dei curioni dei Messapi, in quel momento residente nella potente città di Alyzia [l’ attuale Alezio], situata nel più vicino entroterra all’approdo marittimo Anxa-Gallipoli. Da ciò è possibile dedurre che le isole Cheradi citate da Tucidide altro non possono essere che le isole dell’arcipelago gallipolino, formato dalla città-isola Anxa-Gallipoli, dall’isola di Sant’Andrea e dagli isolotti Campo e Piccioni; nel tempo antico, accanto a queste isole citate esistevano altri isolotti affioranti, successivamente risommersi dalle acque del mare.

Dopo queste importanti indicazioni il nome di Anxa come pure il nome di Kalè Polis scomparvero per secoli e l’isolotto-città, dopo la definitiva vittoria dei Romani sui Messapi e l’imposizione della nuova lingua latina nella Iapigia, cominciò a chiamarsi – e da allora continua ad essere così –  soltanto col nome di Gallipoli.

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La pubblicazione in due versioni de “Il Libro Rosso di Gallipoli” [quella
curata da Amalia Ingrosso con prefazione di Benedetto Vetere (Galatina, Congedo 2004), e quella curata da Elio Pindinelli (Gallipoli 2003)], con documenti che risalgono fino al XIII-XIV secolo, ci dà l’idea di quanto fosse importante, nel tempo antico, l’isola-città-fortezza di Gallipoli, per cui sono veramente tante le citazioni del suo nome, e in particolare del suo Castello.

Dell’importanza del Castello nei secoli, se n’era reso conto lo studioso
Ettore Vernole, tanto che fu uno dei pochi a visionare e attingere fonti certe
dal “Libro Rosso di Gallipoli”; libro che sicuramente avrà visto anche l’
umanista Antonio De Ferraris, detto Galateo, il quale, il 12 dicembre 1513,
scrisse una stupenda lettera – “Callipolis descriptio” [Descrizione di
Callipoli] – a Pietro Summonte, suo sodale nell’Accademia Pontaniana di Napoli, dicendo che l’isola-città nella quale egli risiedeva in quel momento, aveva «tratto il nome dalla sua bellezza e non senza ragione. Fu città greca: ignoro donde Plinio abbia appreso che qui si fossero stanziati i Galli Sénoni. Questa città, invece, non si chiama Gallipoli, ma Callipolis come recano antichi codici» (cfr. Antonio De Ferraris Galateo, “Lettere”, nella traduzione e commento di Amleto Pallara, Conte editore, Lecce 1996, p. 97). E poco oltre il Galateo continua la sua epistola descrivendo l’ingresso della città: «Davanti al castello, che si erge sulla città, c’è un ponte che lascia congiungere i due tratti di mare, i quali rendono Callipoli non una penisola ma una vera e propria isola. Da quel punto la terra si riallarga a tondo, assumendo la forma di una padella. Il perimetro della città non è molto ampio; a occhio e croce non supera dieci stadi. Callipoli all’epoca in cui fu distrutta non era sufficientemente difesa né da mura né da macchine da guerra né da guarnigione.
Ora, invece, è validamente fortificata e dalla terraferma e dal mare offre di
sé una vista superba, fiera e bellissima per la quale io penso che la
chiamarono Callipoli gli antichi Greci» (op. cit., p. 98).

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Oggi, guardando le antiche piante cartografiche (mi riferisco in particolare a
quelle pubblicate nel libro dello storico gallipolino Federico Natali,
Gallipoli nel Regno di Napoli. Dai Normanni all’Unità d’Italia” (Galatina,
Congedo 2007), inserto iconografico tra le pagine 256-257), alcune della quali  risalgono più o meno allo stesso periodo del Galateo, si vede come fosse Gallipoli nel ‘500-600. Le piante dell’isola-città prese in considerazione sono tratte da antichi dipinti conservati nelle chiese di Alezio e  Gallipoli, che qui cito:
1. Particolare della tela ad olio di “S. Pancrazio”, del pittore Giandomenico
Catalano, dipinta nel XVII secolo ed esposta nella Chiesa di S. Maria della
Lizza ad Alezio;
2. Particolare della tela ad olio de “Il Vescovo Capece implora la protezione
di S. Carlo Borromeo su Gallipoli”, anche questa tela è del pittore
Giandomenico Catalano, dipinta nello stesso secolo ed esposta nelle stessa
chiesa ad Alezio;
3. Particolare della tela ad olio della “Vergine e i Santi Eligio e Menna”,
dello stesso pittore e dello stesso secolo, esposta nella sacrestia della
Cattedrale di S. Agata a Gallipoli;
4. Particolare della tela ad olio di “S. Domenico”, dello stesso pittore e
secolo, esposta nella chiesa di S. Maria del Rosario a Gallipoli;
5. Veduta dell’antico abitato di Gallipoli, dipinta dal pittore Luigi
Consiglio nella seconda metà dell’800, attualmente esposta nel museo di
Gallipoli.

Tutte queste tele hanno in comune un particolare: lo sguardo del pittore che
dipinge è dalla parte del borgo nuovo, per cui l’abitato dell’isola-città
evidenzia  sempre e di primo acchito il Rivellino col Castello in contiguità,
quindi il perimetro delle mura turrite con i fortini, i baluardi, i bastioni e
i torrioni. In questi dipinti altro particolare interessante sono i ponti, non
uno che congiunge la terraferma all’isola-città, ma due, il primo che va verso la città e il secondo che collega la terraferma al solo Rivellino. Un’altra
pianta, sempre leggibile sulle stesso libro del Natali (tra le pagine 128-129)
è quella denominata “Scenografia prospettica della città di Gallipoli” della
fine del XVI secolo (tratta dal Coronelli): in questa veduta a volo d’uccello è
visibile la struttura dell’isola-città-fortezza con i quattro torrioni del
Castello, qui collegato attraverso una terrazza al Rivellino, quindi il
perimetro delle grandi mura turrite intervellate dai fortini di “San Benedetto” e “San Giorgio”; i baluardi di “Santa Vennardia”, “San Domenico o Dell’ Annunziata” e “San Francesco”; le torri di “San Luca”, “Quartararo o degli Angeli”, “Sant’Agata”, “Purità”, “San Francesco di Paola o dello Scorzone” e “Bombarda o San Giuseppe”. Altro particolare interessante, su questa tela il pittore ha dipinto anche lo «Scoglio grande» più altri scoglietti, allora esistenti, oggi non più.

Tutto ciò sta a documetare l’esistenza del castello gallipolino sin da tempi
antichi; sull’isola-città nel IV sec. a. C. vi abitò per un certo periodo anche
il potente Archita, grande curione di Taranto e discepolo prediletto ed erede ideale del vate Pitagora.
Di tutte le antiche e moderne vicende del Castello di Gallipoli, ampiamente ne parla il libro di Ettore Vernole con freschezza di scrittura e di una
straordinaria attualità, soprattutto nella descrizione dello stato del maniero.
Nell’ultimo capitolo, il XIII, Vernole scrive: «Dal 1857 il Castello aveva
socchiuso gli occhi ad un letargo inonorato ch’ebbe apparenze di morte, al
punto che, dopo il Sessanta [Unità d’Italia], per poco non fu venduto a privati per trenta o quaranta mila lire. […] Ma fu di quei primi decenni
l’abbattimento dei baluardi e delle cortine della Cinta bastionata, nelle
strutture elevantisi sul livello della strada perimetrale […] si volle
giustificare la demolizione della Cinta bastionata che oggi (se ancora
esistesse) sarebbe stata un Museo Storico, unico più che raro, pel turismo
moderno. Ma non vuol essere, questa mia, una sentenza di condanna. / Il
Castello, entrato nel Demanio patrimoniale dello Stato, sotto l’Amministrazione del Ministero delle Finanze, fu destinato a sede di Uffici Finanziari: vi si installarono man mano il Magazzino delle Privative, la Dogana, la Regia Guardia di Finanza, poi l’Ufficio del Registro, l’Ispezione Demaniale, l’Agenzia delle Imposte, e fra le mura che risuonarono di armature biascicaron le cifre burocratiche. / Abbattute le muraglie e i baluardi, con l’aria pura marina penetrarono in Città anche i miasmi del malcostume politico. […] Ultimo bagliore di opera durevole fu, nel terzo decennio dopo il Sessanta, la costruzione della galleria del Mercato Coperto sul canale-fosso che separava il Castello dalla Città: fu una di quelle opere necessarie nelle quali non sai trovare il punto di demarcazione tra la lode e la critica, fatto sta che essa formò un sipario dietro il quale la facciata solenne del Castello è nascosta al godimento dei nostri occhi. /

Des Prez - Gallipoli

Contemporanea, verso il 1886, fu la demolizione dell’ultima cortina superstite fra i baluardi Santa Vennardia e San Domenico, e la demolizione dei Fortini San Giorgio e San Benedetto e della Porta Civica: i blocchi ciclopici di calcestruzzo, ricavati da quelle demolizioni, furon
gettati per formare la scogliera protettiva di ponente che in pochi anni fu
inghiottita dal mare».

Altre negative vicende narra poi l’autore, e tutte a sfavore del vecchio
maniero, tanto che egli, rivogendosi alle autorità dell’epoca, le implora
affinché si prodighino per «la restaurazione del Castello “ad pristinum”, con
la destinazione a Sedi che sien degne di un Monumento Storico così insigne».
Fin qui Ettore Vernole e il suo libro “Il Castello di Gallipoli”, pubblicato
nel 1933. A partire da questa data, appena qualche anno fa, nel 2003, a
Gallipoli si è costituita l’Associazione “Anxa” on-lus col suo organo di stampa «Anxa news», sul cui primo numero, il direttore Luigi Giungato apre il suo articolo di fondo con un titolo a tutta pagina: “L’agonia del Castello di
Gallipoli”. Scrive: «Perché il Castello di Gallipoli non deve vivere come
avviene, invece, per gli altri castelli pugliesi, quali quello di Copertino o
il “Carlo V” di Lecce? Sino ad ora, oppresso dall’incuria inflittagli dalle
Autorità preposte e dalla trasformazione in caserma della Guardia di Finanza, è stato relegato a svolgere il pesante ruolo d’ingombrante immobile nel contesto  incantevole della “Città Vecchia”. Eppure è uno dei più antichi castelli dell’ Italia meridionale ricco di momenti storici esaltanti e decisivi per molte vicende della nostra terra». E poco oltre, sempre con tono pacato, il direttore di «Anxa-news», alquanto perplesso, afferma: «Un tempo strano il nostro! A Gallipoli si pavimentano con costoso mosaico i marciapiedi del Corso Roma e non si mostra interesse al recupero funzionale ed alla valorizzazione di una struttura essenziale per un efficiente sviluppo turistico e per una presenza più efficace nel panorama artistico-culturale di Terra d’Otranto, specie ora che è stato liberato dall’utilizzo come caserma della Guardia di Finanza».

Ma il clou dell’articolo di Giungato lo troviamo nel punto in cui fa la
proposta della necessità di «ripristinare la memoria storica e prendere
coscienza dell’importante ruolo [del Castello] vissuto nei secoli. Per
realizzare ciò, bisognerà procedere all’eliminazione del Mercato, alla
valorizzazione e ripristino del fossato o vallo del Castello, ideato dai
Veneziani nel 1484 ed eseguito dagli Aragonesi, evidenziando l’antico
quadrilatero staccato dalle mura civiche e collegato con la Città attraverso un ponte, come nel passato».

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L’appello del prof. Giungato non è stato un fuoco di paglia, no, perché al suo
primo intervento ne sono seguiti altri di gallipolini e anche di fuori. Da quel
momento in poi, e fino ad oggi che scriviamo, sulle pagine di «Anxa-news» ma anche su altri periodici locali e non, alta è stata sempre l’attenzione verso il vecchio maniero gallipolino. Ed anche prima di adesso, tanto che, ancora nel dicembre 1978, un’altra autorevole voce – quella di Antonio Perrella – si era levata alta dalle colonne di un periodico per dire: «I castelli in genere, e quelli di Puglia in particolare, sono stati in passato considerati come manufatti edilizi ingombranti, anacronistici e persino stridenti in un
paesaggio assolato e tranquillo. Invece di essere amati, accolti per lo meno
quali fatti di casa facenti parte a buon diritto dell’ambiente, hanno
rappresentato il simbolo di un medioevo oscuro ed opprimente come il tallone dei conquistatori stranieri che scorrazzavano nel sud. Sono stati considerati testimoni di fosche tragedie e scenari da romanzo nero ed infine degnati di attenzione solo a fini di utilizzo senza cura per le offese che il tempo ad essi riservava. Così, spesso, fenomeni di degrado sono diventati irreversibili (cfr. Antonio Perrella, “Sulla destinazione e l’uso del Castello di Gallipoli”, in «Nuovi Orientamenti», anno IX, Gallipoli, sett.-dic. 1978, n. 52-53, pp. 15-18).

E ancora, appena qualche anno dopo l’intervento del geometra Perrella, un’
altra personalità salentina, lo storico Aldo de Bernart, interveniva sullo
stesso periodico, affermando: «Tra i tanti monumenti di cui Gallipoli va fiera, il Castello angioino merita senz’altro il primo posto. Carico di anni e di
storia, sfila severo a fianco del turista che si accinge ad attraversare il
ponte che congiunge il borgo all’isola. / Abbandonato, dopo gli ultimi sussulti di gloria del ‘500 e gli ultimi aneliti di sfarzo del ‘700, e mortificato dalle costruzioni addossategli nel corso dei secoli, il Castello di Gallipoli,
proprio nel suo declino, ha avuto il suo massimo cantore, scrupoloso e
puntuale, in Ettore Vernole. È stato proprio il Vernole, intorno al 1931, a
mettere piede per primo, dopo anni di abbandono, nella sala poligonale che oggi è l’ambiente più emblematico e più fascinoso dell’antico maniero» (Cfr. Aldo De Bernart, “La Sala Poligonale del Castello di Gallipoli” (cfr. «Nuovi
Orientamenti”, anno XIII, Gallipoli, nov.-dic. 1982, n. 77, pp. 9-12).

Quanta passione, quanto amore per un edificio che rappresenta un passato
secolare di una comunità umana. Meglio di ogni altro sono sentimenti espressi dal canto melodioso di un poeta gallipolino, Luigi Sansò, che li fissò nei seguenti versi: «Il Castello // Nella grommata sua tinta vetusta / sovra l’onde tranquille si riflette / fiero il Castello: di sua luce augusta / indora il
sole al torrion le vette. / Ogni memoria, d’almi fati onusta, / ne’ fossati è
sepolta: da vedette / fan dei secoli l’ombre: la venusta / mantiglia azzurra il
ciel sopra vi mette / come drappo di gloria. E par che dica, / come un dì,
l’ampia mole – Non si varca / l’agil ponte da quei che con nemica / mente
s’accosti. Se anche d’anni carca / risorge a un cenno in virtù mia antica / e
contro l’invasor dura s’inarca».

Oggi, finalmente, dopo più di 70 anni, rivede la luce “Il Castello di
Gallipoli”, pubblicato nel 1933 da Ettore Vernole. La nuova edizione, editata da “Il Frontespizio” di Brindisi, ha il pregio di essere stampata da una tra le
più note Stamperie italiane ed europee, la Valdonega di Verona, che nella sua storia vanta pubblicazioni importantissime, fra cui l’edizione nazionale dell’opera di Gabriele D’Annunzio in 49 tomi, stampata personalmente con il torchio a mano dal grande stampatore Giovanni Mardersteig.
Questo libro, “Il Castello di Gallipoli” del Vernole, ha un frontespizio
stupendo con il suo “calice” perfetto, stampato con due colori (rosso e nero).
In fondo al libro, altro pregio straordinario, il suo colophon, che qui riporto
integralmente: «Composto nel carattere Garamond / vesione Val, questo volume è stato impresso / dalla Stamperia Valdonega di Verona / nel mese di luglio 2008 per conto / de “Il Frontespizio” editore / di Brindisi».

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