La Pasqua è una festa mobile perché legata alla luna piena di marzo. Agli albori del Cristianesimo, la Resurrezionedi Cristo veniva celebrata ogni domenica. Successivamente, la Chiesa volle celebrare la Pasqua in un periodo dell’anno ben definito e, dopo molte dispute, si stabilì che fosse il Concilio di Nicea del 325 d.C. a fissare la data di questa ricorrenza. Partendo dalle norme del Concilio di Nicea, per le quali la Pasqua doveva cadere la domenica seguente la prima luna piena di primavera, la data venne calcolata sulla base dell’equinozio di primavera e della luna piena, utilizzando per il computo il meridiano di Gerusalemme, luogo della morte e resurrezione di Cristo.
La parola Pasqua viene dall’ebraico “Pesach” che significa “passaggio” ed indica quindi una transizione dalla vita alla morte, dalla condizione di peccato alla purificazione, ma anche, nel particolare periodo dell’anno in cui è festeggiata, passaggio dall’inverno alla primavera.
La data della Pasqua ortodossa non coincide con quella cattolica, perché la chiesa ortodossa utilizza il calendario giuliano anziché quello gregoriano. Perciò, la Pasqua ortodossa cade circa una settimana dopo quella cattolica. Il Giovedì Santo, si ricorda l’istituzione del Mistero dell’Eucarestia. Il rito dei “Sepolcri” è un atto di devozione antichissimo. Probabilmente, fu avviato a Roma, nel 1500, da San Filippo Neri. Questo atto di devozione consisteva nella visita a sette chiese e altrettanti sepolcri: sette come i sacramenti. Fin dal Medioevo, infatti, si avvertì l’esigenza di far visita , durante il periodo pasquale, ad un luogo in cui simbolicamente trovare Cristo morto e fargli la veglia. Questa consuetudine si trasformò in un atto penitenziale, nel Cinquecento, con la visita appunto ai Sette Sepolcri ed è giunto fino a noi, con il pellegrinaggio che si tiene, nella notte del Giovedì Santo, nelle varie chiese per partecipare così, con la preghiera e la contrizione, alle ultime ore di vita di Cristo. Nella messa del Giovedì Santo, in Coena Domini, si tiene la lavanda dei piedi, ovvero il sacerdote lava i piedi a dodici persone, sempre uomini, che simboleggiano i dodici apostoli ai quali Gesù volle lavare i piedi durante l’Ultima Cena.
Un’altra usanza liturgica che avveniva più spesso in passato, in questa giornata, era quella di legare le campane delle chiese. Anzi, un tempo, le campane, durante tutta la Quaresima, dovevano restare legate, così come restavano muti anche i campanelli delle case e le sonagliere dei cavalli, e al loro posto suonavano le tròzzule.
Le tròzzule sono un curioso arnese di legno costituito da un manico che termina con una ruota dentata e una linguetta che, sbattendo con un movimento rotatorio sui denti della ruota, faceva un grosso baccano. Le tròzzule sono uno strumento antichissimo, usato prima dell’introduzione delle campane. I primi cristiani se ne servivano per chiamarsi a raccolta nei luoghi di preghiera. A partire dal Quattrocento, vennero usate dai Benedettini nei conventi, per poi passare nelle chiese.
Il giorno del Venerdi Santo è dedicato all’adorazione della Croce e nelle chiese molti anziani e anziane si raccolgono in contemplazione, sgranando il rosario.
Durante il periodo pasquale, fanno la loro comparsa numerose specialità gastronomiche, alcune strettamente legate alla nostra tradizione salentina, altre invece di portata nazionale o anche internazionale. Pensiamo alle uova di cioccolato, ormai onnipresenti.
L’uovo è un simbolo di fecondità; dall’uovo inizia la vita e, come abbiamo già detto, è chiaro il riferimento alla purificazione e alla rinascita in senso cristiano. Delizia per il palato sono anche le colombe pasquali che rimandano all’uccello simbolo della pace.
L’agnello di pasta di mandorla, detto pecureddhu, farcito con la crema faldacchiera o con la marmellata, allude all’Agnus Dei, l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Un tempo, l’agnello di pasta di mandorla era preparato solo dalle suore Benedettine del Convento di San Giovanni Battista, ora lo si può trovare in tutte le pasticcerie di Lecce e provincia. Spesso, è impreziosito da cioccolatini che sono posti sopra l’impasto e da bandierine, simbolo della Resurrezione e del trionfo di Cristo sulla morte.
I quaresimali sono speciali biscotti per i quali Martano detiene l’esclusiva in provincia di Lecce: sono fatti con mandorle, zucchero, farina, uova e possono essere ben accompagnati da un vino moscato. I taralli sono biscotti al forno preparati con zucchero, uova, strutto e farina. La scarcella, dallo spagnolo “escarcela”, è un dolce comune a tutta la Puglia, ed è un pane fatto con zucchero, farina, uova e vaniglia, che assume le forme più disparate. Queste forme avevano tutte dei significati particolari. A completare questo dolce, un uovo crudo, nel centro, fissato con una croce di pasta.
La scarcella è basata su una antica tradizione germanica. Negli anni, l’addobbo della scarcella si è arricchito e si diffuse l’abitudine di ricoprirla di naspro ed è diventata così una delle maggiori specialità dei pasticceri pugliesi. Già nel Settecento, il gastronomo salentino Vincenzo Corrado elencava ben venticinque ricette diverse per realizzarla. Può prendere la forma di staffa, di paniere, di pupa, di stella, di cuore, di uccello, di galletto, di colomba, di tartaruga, di fischietto, di tromba.
Sulla tavola il giorno di Pasqua, non può mancare l’agnello. L’agnello, che deve essere da latte e provenire dagli allevamenti locali (ma molto buoni oggi sono anche gli agnelli di importazione) viene cotto sui carboni, oppure in casseruola al forno con funghi e patate, o lampascioni. A volte, alla carne di agnello, che è poco digeribile, specie se l’animale non è molto giovane, si preferisce quella di capretto. In passato, quando a causa delle ristrettezze non ci si poteva permettere l’agnello, si compravano solo le interiora e si preparava lu nturtijiatu al forno con le patate. Nella zona di Lizzanello, in sostituzione del tradizionale agnello, si usava lu chinu, cioè un piatto a base di pollo, con uova, pane e formaggio, passato al forno. I più poveri, che non potevano permettersi neanche questo, usavano la trippa al posto del pollo.
Non può mancare neanche la pasta al forno, piatto molto ricco, con polpettine, uova sode, scamorza affettata e pezzetti di salumi. In molti centri, come a Tricase, vi è ancora l’usanza di grattugiare del pane e poi friggerlo, per condire la pasta, la cosiddetta muddhica.; a volte, viene aggiunto anche miele e ricotta per rendere ancora più gustosa questa specialità.
La ricotta marzotica è realizzata facendo maturare la ricotta e aggiungendo erbe di campagna, e la si può mangiare da sola o grattugiata sulla pasta. Il benedetto funge da antipasto: in un unico grande vassoio, sono contenuti fette di salumi, uova sode non ancora sgusciate, carciofi tagliati in quattro e fette di arancia. I turcineddhi sono degli involtini realizzati con le interiora e cotti rigorosamente alla brace, accompagnati dalle patate.
A Gallipoli, poi, un “must” sulla tavola pasquale è la scapece, specialità tutta gallipolina. Nel periodo di Quaresima, protagonista è anche la cuddhura. Dal greco “kollura”, ha forma circolare, come la sfera dell’ostensorio, e simboleggia, come il serpente che si morde la coda, il cerchio del tempo che si rinnova; ma il pane è anche un elemento fondamentale della Comunione cristiana e rappresenta, come sappiamo, il corpo di Cristo che si è immolato sulla Croce, come il vino ne rappresenta il sangue. Essa può essere dolce o salata e al centro di questa specie di ciambella si mette un’arancia o un finocchio. Fra cuddhure e puddhiche non c’è molta differenza, ma mentre le cuddhure, sia dolci che salate, si realizzano solo a casa, oggi le puddhiche si possono trovare anche nei bar e spesso, invece che con pane artigianale, sono fatte con pan brioche.
Fra i dolci , immancabili i mustazzoli, così chiamati perché un tempo erano preparati con il mosto cotto. Oggi sono realizzati con farina, mandorle tostate e sbriciolate, zucchero, olio d’oliva, cannella, bucce d’arancia, chiodi di garofano e gileppu, ovvero una glassa al cacao prodotta amalgamando sul fuoco zucchero acqua e cacao.
A Pasquetta, nelle scampagnate per tutto il Salento, gli alimenti che caratterizzano la cosiddetta colazione al sacco, sono la parmigiana di melanzane, le polpette, la carne fritta e panata, le uova sode e spesso anche la pasta al forno avanzata dal pranzo pasquale oppure preparata apposta, le frittelle con i carciofi e le immancabili uova sode. Ma per non essere troppo lunghi, facciamo terminare qui questa tappa del nostro viaggio pasquale, fra storia e tradizioni gastronomiche salentine.
Sono loro, le perdùne (i perdoni) – a incarnare l’anima più profonda e autentica dei riti della Settimana Santa tarantina, almeno per quanto riguarda le processioni portate avanti dalla Confraternita del Carmine. A tal proposito corre l’obbligo di precisare che col termine perdùne si indicano solo i confratelli di questa congrega, mentre i membri di tutte le altre confraternite sono chiamati più comunemente le fratelle (i fratelli). Fedeli alla vecchia regola dei Carmelitani scalzi, essi solo percorrono l’intero tragitto del Pellegrinaggio ai Sepolcri e della Processione dei Misteri a piedi scalzi, quasi a voler rimarcare con questo sacrificio il loro intento penitenziale; in tutte le altre occasioni invece i confratelli del Carmine indossano scarpe bianche con coccarda blu sul dorso e calze nere.
L’abito di rito si compone di un ampio camice bianco, detto anche sacco, stretto in vita da un cordoncino e lungo fino a metà gamba, per rendere ben visibile i piedi nudi. Infilati sul camice, due grandi scapolari o abitini di panno nero o blu scuro recano la scritta, ciascuno, o Decor o Carmeli. Della coppia di confratelli, il più anziano – per anzianità è da intendersi qui quella di appartenenza alla Confraternita – sarà sempre quello disposto a destra (a sinistra per chi guarda) e porterà sul davanti lo scapolare con su scritto Decor e sul di dietro quello con su scritto Carmeli. L’altro confratello, per consentire a chi guarda di poter leggere sempre la scritta Decor Carmeli sia che si ponga di fronte sia che si ponga dietro la coppia, avrà gli scapolari invertiti: Decor sul di dietro e Carmeli sul davanti; il Priore e gli assistenti indossano, a ragione del loro ruolo, scapolari ricamati con fregi dorati e argentati.
A ricordo del flagello che percosse il Cristo scende, a sinistra dello scapolare anteriore, una cinghia scura, mentre a destra si può osservare un ricco medagliere e una lunga corona del rosario. Una mantellina color crema detta mozzetta – formata da un unico pezzo di lana di forma circolare e chiusa sul davanti da 22 bottoni ricoperti di stoffa nera – viene posta sul camice fino a ricoprire interamente il busto e il dorso del confratello. In occasione dei riti della Settimana Santa un lungo cappuccio bianco con due minuscoli forellini all’altezza degli occhi è calato interamente sul volto del confratello, mentre in tutte le altre manifestazioni è portato alzato sulla testa. L’abito è completato da un cappello nero – orlato con un nastro azzurro che scende da entrambi i lati del cappuccio – da un paio di guanti bianchi e da una lunga asta, bianca anch’essa, sormontata da un pomello nero, detta mazza o bordone.
Durante il rito del Pellegrinaggio ai Sepolcri il cappello è portato in testa, per la Processione dei Misteri è calato invece dietro le spalle, ad eccezione del troccolante – il confratello che si è aggiudicato l’ambito simbolo della troccola e probabilmente il più significativo di tutta la Processione – che lo indossa sempre. Il rito della vestizione si svolge nell’oratorio della confraternita, sotto lo sguardo attento dei responsabili e dei fratelli più anziani, pronti a curare ogni minimo dettaglio. Compiuti gli ultimi preparativi la posta – ossia le coppie di perdoni che partecipano ai riti, ad eccezione dei portatori dei simulacri e dei singoli simboli – chiamata da un membro del consiglio di amministrazione del sodalizio, si appresta ad uscire, non senza aver reso prima omaggio alla Croce dei Misteri posta in un angolo dell’oratorio.
Le poste sono numerate – prima, seconda, terza, e così via – per stabilire l’ordine di uscita dalla Chiesa del Carmine in occasione del Pellegrinaggio ai Sepolcri e per indicare la loro giusta collocazione in seno alla Processione dei Sacri Misteri; il tutto si svolge in una composta atmosfera di intima commozione e partecipazione sincera. A’ prima posta – letteralmente: la prima posta, ancora oggi la più ambita – diretta ai Sepolcri della città vecchia, come quella diretta ai Sepolcri della città nuova, si appresta così ad uscire dalla Chiesa del Carmine.
Sono le 15 del Giovedì Santo, il Pellegrinaggio ai Sepolcri ha inizio e con esso si aprono i riti della Settimana Santa di Taranto.
(Fine terza parte)
Testo e foto di:
Francesco Lacarbonara – MMXI – tutti i diritti riservati –
Continuiamo il nostro viaggio alla scoperta dei riti e delle tradizioni della Settimana Santa tarantina con la descrizione di uno dei suoi momenti più significativi: le “gare”.
Il privilegio di portare in processione i simulacri, o di ricoprire un ruolo attivo durante le stesse, doveva essere particolarmente ambito se già a partire dai primi anni del XIX secolo si ha notizia di “offerte” o di “pie oblazioni” da parte dei confratelli. Contributi, questi, ben accetti dalle congreghe se si decise, considerato anche l’aumentare dei confratelli che facevano richiesta di partecipazione ai riti, di procedere a vere e proprie “gare” o “aste”. Da allora la tradizione si è trasmessa fino ai giorni nostri e il termine con cui sono indicate queste assemblee è rimasto immutato.
Il meccanismo è quello di una vera e propria asta con aggiudicazione finale al miglior offerente e viene indetta sia dalla Confraternita del Carmine sia da quella dell’Addolorata per coprire i notevoli costi che le processioni comportano (tra bande musicali, addobbi floreali, artigiani per l’allestimento del Sepolcro e la manutenzione dei simulacri ecc.). Oltre a ciò l’offerta in denaro viene impiegata anche per iniziative benefiche di varia natura a favore del sodalizio e della parrocchia di appartenenza. Dal 1979, per rispetto nei confronti dei luoghi sacri, le “aste” non hanno più luogo in chiesa ma in altri locali. Le assemblee, che per tradizione si svolgono sempre la sera della Domenica delle Palme, sono riservate ai soli confratelli (anche se c’è sempre qualcuno che riesce a intrufolarsi vinto da insanabile curiosità) e vengono convocate dai rispettivi priori.
Dietro un lungo tavolo sul quale è appoggiata la troccola – strumento di legno finemente lavorato e intarsiato che, se opportunamente agitato, produce il caratteristico suono, simbolo dei riti della Settimana Santa tarantina – siedono il Padre spirituale, che apre la “gara” con una orazione, il Priore della congrega e gli altri componenti del consiglio di amministrazione. Oltre alla troccola, sul tavolo, sono disposte anche due candele accese e un campanello che, agitato dalla mano del Priore, sancirà l’aggiud
icazione del simbolo o del simulacro, messi in “gara” uno per volta. Il segretario della congrega scandisce a voce alta le varie offerte e per le statue, che sono portate a spalla da quattro persone, è un confratello che si fa portavoce in rappresentanza del suo “gruppo”. Le offerte si susseguono una dopo l’altra fino a quando viene annunciata l’ultima chiamata in cui vengono scanditi:
1. nome del simbolo o del simulacro
2. nome e cognome dell’offerente
3. la somma che l’offerente dichiara di essere disposto a versare.
A questo punto, se non vi sono altre offerte, un vigoroso scampanellio da parte del Priore sancisce l’aggiudicazione della statua o del simbolo messo in “gara”. Il confratello del Carmine dovrà versare subito un congruo anticipo per poi saldare il tutto entro e non oltre il Venerdì Santo, giorno dell’uscita della processione, mentre nel caso delle “aste” indette dalla Confraternita dell’Addolorata, i confratelli dovranno versare seduta stante la somma offerta.
Terminate le “gare” e aggiudicati i simboli e i simulacri, l’attesa dei confratelli e di tutti i devoti è ormai rivolta al primo pomeriggio del Giovedì Santo, quando dalla chiesa del Carmine l’uscita delle prime poste di perdoni segnerà l’inizio dei riti della Settimana Santa tarantina.
(Fine seconda parte)
Testo e Foto di:
Francesco Lacarbonara – MMXI- tutti i diritti riservati –
Ricette per la Pasqua, la Pasquetta e “Lu Riu de li leccesi”.
Lo devo proprio ammettere, durante le festività religiose sono sfiorata da un alone di languida malinconia, che non mi consente di goderne mai a pieno… un giorno o l’altro vi spiegherò, tra le righe, il perchè… ma ora vorrei parlarvi delle ricette per la Pasqua, la Pasquetta e “Lu Riu de li leccesi”.
Piatti importanti e ricchi per quei tempi andati, fatti di ristrettezze e sacrifici, che purtroppo si stanno ripresentando anche oggi!
Con molta cura veniva preparata la cuddhrura o puddhrica per il Sabato Santo, sempre di pane si trattava, ma, con le uova sode, bandite per tutto il periodo della Quaresima insieme a carne e formaggi, confezionato con forme particolari intrise di significati religiosi o credenze popolari. Ricordo la pupa con un uovo per le bambine, simbolo di fecondità e l’addhruzzu per i bambini, con due uova come auspicio di virilità.
Non si poteva allestire, poi, il pranzo della Domenica di Pasqua senza l’immancabile pasta fatta in casa, le sagne ‘ncannulate o torte o ritorte (quelle preparate tanto lunghe da poterle avvolgere su se stesse per ben due volte) condite con il sugo di carne o di polpette e con la ricotta forte, sapore indescrivibile ed inimitabile. In alternativa si preparava la pasta al forno non con le lasagne all’uovo precotte ma con ” zite o menze zite” o penne o rigatoni, con polpettine e mozzarella ma rigorosamente senza besciamella e…. “Peccè sta besciamella face male”… mi diceva la nonna.
Poi c’era l’agnello, il tanto discusso e bandito agnellino da latte, ucciso pochi giorni prima, di cui si mangiava praticamente tutto; le interiora con cuore, fegato e polmoni servivano a preparare turcinieddhri e ‘mboti, la capuzzeddhra veniva divisa in due, cosparsa con una generosa spolverata di pangrattato e pecorino ed un poco di prezzemolo, veniva gratinata nel forno, le costolette e le parti avanzate invece venivano arrostite oppure preparate al forno con le patate, le mie preferite, o sempre al forno con i “pampasciuli” anche questi, che la mia pancia non riusciva proprio ad ignorare.
Dai grandi il tutto veniva generosamente bagnato con un, anche più di un, buon bicchiere di rosato dell’ultima vendemmia ed almeno portava un po’ di allegria.
Per fine pranzo il dolcissimo agnello di pasta di mandorla, farcito con cotognata e pan di spagna imbevuto nella Strega di Benevento, un liquore che, oltre al San Marzano Borsci, non mancava mai a casa mia.
Di uova al cioccolato non ne ricordo, prima dei miei dieci anni.
Il Lunedì dell’Angelo si faceva riposare lo stomaco con il classico brodo, in cui si tuffavano i triddhri sempre fatti in casa con un po’ di formaggio sopra, e si mangiavano gli avanzi del giorno prima.
Il Martedì, ovvero la Pasquetta dei leccesi, c’era la scampagnata vera e propria con tanto di pic nic e di giochi all’aperto, dal gioco del fazzoletto, a palla prigioniera, al gioco con i tuddhri equante ore passate a far saltare in aria quei cinque sassolini.
E favevano capolino sulle tovaglie scozzesi le fave con la ricotta marzotica e ancora il risotto alla prigioniera, alias sartù di riso e, cosa alquanto strana, con un accoppiamento che ancora oggi non mi spiego, fatto da fette di salame e uova sode (forse quelle avanzate dalle puddhriche). Una focaccia ricordo con l’acquolina in bocca, quella della nonna Francesca, non era la mia di nonna ma di due cugini, una nonna acquisita, diciamo, che aveva origini napoletane e preparava, tra le tante prelibatezze, questa ricca focaccia farcita con tre o quattro tipi di salumi, formaggio e tante uova sbattute….una delizia ancor più buona il giorno dopo, credo, non mi sembra fosse mai avanzata.
Per dolce si preparava la crostata con la marmellata o se si poteva un pan di spagna altissimo con crema pasticcera e la classica spolverata di zucchero a velo. Ho ancora negli occhi la scena che vedeva nella cucina della nonna, tre zie, le sorelle di mio padre, rimaste zitelle per ovvi motivi (sempre in una prossima puntata vi spieghierò) che con tanta vivacità ed energia sbattevano, a turno, le uova con lo zucchero nella ciotola con il solo ausilio di due forchette, prima dell’era dello sbattitore manuale e di quello elettrico poi. Eppure vi posso garantire che il pan di spagna riusciva ogni volta alto e soffice come uscito dalla planetaria e la crema aveva sempre il profumo di limone per la scorza lasciata in infusione nel latte.
Ma di tutto ciò conservo un caro ricordo……
Spazi e luce. Appunti sull’attività artistica di Natalino Tondo
Il Salento, si sa, ha spesso recepito, con più o meno tempismo, tendenze e scenari dell’arte contemporanea in tutto il secolo scorso, dal Futurismo al Novecento, dal Neorealismo all’Arte povera, all’Informale, dalla Poesia verbo-visiva all’Astrazione, senza dimenticare l’arte propriamente concettuale, e talvolta è stato tra i centri propulsori di alcune tendenze tramite l’attività di collettivi o laboratori d’avanguardia che, mediante attività editoriali e/o espositive, hanno condotto ricerche di ampio respiro (Gruppo Gramma, Movimento di Arte Genetica, Laboratorio di Poesia di Novoli…).
Tra gli operatori che nel corso degli anni sessanta e settanta, e almeno fino agli anni ottanta, hanno condotto una ricerca coerente, Natalino Tondo è probabilmente uno dei più qualificati, per il bagaglio della sua ricerca e per tutta un’attività espositiva – non scevra di ampi riscontri di critica (Lea Vergine, Franco Sossi…) – che l’ha visto protagonista di mostre in numerosi spazi espositivi in Puglia e nel resto d’Italia.
Nato nel 1938 a Salice Salentino, si forma presso l’Istituto d’arte e l’Accademia di Belle Arti di Lecce – dove si diploma con una tesi su Pollock –, città in cui ha sempre lavorato e in cui ha esordito con una mostra personale allestita nel 1964 negli spazi della Società Operaia di Mutuo Soccorso “E. Maccagnani” – allora vetrina per giovani promesse dell’arte contemporanea del territorio, visto che nello stesso anno ha ospitato la mostra inaugurale del collettivo artistico White and Club e che negli anni successivi ha visto gli esordi di molti giovani operatori –, che anticipa la sua prima partecipazione collettiva di rilievo, quella al “Maggio di Bari”, la mostra biennale allestita al Castello Svevo del capoluogo pugliese a cui aderisce con due opere: Racconto di un ricordo e Ricerca di un’immagine.
Tre anni dopo Tondo è pronto per ordinare una mostra personale negli spazi della galleria d’arte “3a” di Lecce, con una nota di Franco Sossi, tra i critici e gli storici meridionali più attivi in quegli anni, e tra i pochissimi in Puglia in grado di teorizzare linee di tendenza specifiche, lontano da una scrittura critica meramente legata alla cronaca. Tondo presenta delle opere composte dall’assemblaggio di elementi tridimensionali – porzioni di legno sottili di varie dimensioni affiancate tra loro – che si contendono in maniera ordinata la superficie, poi pervasa da monocrome strisce di pittura che movimentano l’opera creando delle tensioni strutturali. Sono opere che l’artista titola appunto Tensione strutturata, aggiungendo a ogni singolo lavoro un numero progressivo di riferimento, quasi a sottolineare la continuità di una riflessione che è anzitutto teorica. Sossi in occasione di questa mostra leccese nota un particolare fondamentale, ossia l’interesse dell’artista per l’architettura, che egli condensa sulle superfici bidimensionali delle proprie opere. Non a caso nella successiva produzione sarà evidente l’influsso concettuale di altre discipline. Oltre all’architettura, la musica e, soprattutto, la scienza che nelle sue opere raccontano la contemporaneità anzi, per dirla con lo stesso Sossi, la “civiltà d’oggi”, in una direzione “razionale” e “tecnologica” che lo avvicina alle ricerche condotte in quel torno di anni anche dai pugliesi, di nascita o d’adozione, Pietro Guida, Rino Di Coste, Boniello e Gelli (F. SOSSI, Luce, Spazio, Strutture, Taranto, 1967).
Negli anni settanta Tondo partecipa attivamente a dibattiti legati ai problemi progettuali dello spazio fisico e dello spazio dell’arte e analizza i nessi tra la realtà sensibile e l’infinito operando con tecniche e medium differenti, dalla serigrafia alla pittura, dalla fotografia all’installazione. Nella sua operatività concettualmente nomade non tralascia i temi legati all’antropologia – come in Il Sud: un progetto negato – e alla ‘misurazione’ del territorio (Rilevamenti Salentini). Propone poi riflessioni sulla filosofia e sulla letteratura, che talvolta si traducono in elencazioni di nomi e luoghi-simbolo. In Interazione plastica proposta agli inizi del 1970 negli spazi della galleria d’arte “Carolina” di Portici, accanto alle opere di Renato Barisani, Franco Gelli, Mario Persico e di altri nomi della scena artistica meridionale di quegli anni –, dimostra attenzione per l’utilizzo di materiali industriali e per lo sconfinamento della composizione dalla bidimensionalità del “quadro”, che a questo punto diventa installazione e invade, non solo concettualmente, lo spazio fisico.
È una rarefazione di forme e materiali (qui Tondo ha accantonato irrimediabilmente i suoi timidi esordi gestuali) – proposte sempre in porzioni semplificate – che nel decennio successivo esplodono per farsi cromie e segni ‘spruzzati’ con più strati di pittura su grandi fogli di carta o su grandi tele. Ancora una volta è lo spazio a interessare Natalino Tondo; questa volta però l’accezione scientifica del termine prevale e l’artista avvia un’indagine sulle galassie che nelle denominazioni ricordano quella sorta di catalogazione – quasi scientifica, appunto – delle opere degli anni ’60.
In Criptico, un volumetto stampato dalle Edizioni Milella nel 1984, attraverso le letture di Ilderosa Laudisa, Arcangelo Izzo e Roger Dadoun, è stata interpretata l’esperienza concepita dall’artista in una cripta basiliana salentina nel 1981 in cui è andata in scena un’affascinante visione “galattica”.
Su queste pagine Tondo ha pubblicato le opere di quegli anni: riporti fotografici modulari di grandi dimensioni che ribadiscono gli interessi per lo spazio stellare, e grandi squarci luminosi dipinti con pigmenti puri per affreschi su fogli di carta, come Oltre il nero (1981), in cui ritorna l’aspetto modulare – figlio della temperie artistica vissuta negli anni sessanta – accostato a sempre ‘controllate’ porzioni cromatiche. Giallo monocromo, rosso monocromo, blu monocromo. La stesura è ben meditata, quasi scientifica. Non c’è posto per il caso.
Ma gli anni ottanta per Tondo sono fondamentali anche per altre esperienze e per le partecipazioni a mostra collettive di ampio respiro. Con l’artista Nicola Sansò fonda il gruppo Intra che avrà un ruolo di rilievo all’interno di una delle mostre collettive più importanti ordinate nel Salento negli ultimi decenni, Dentro Fuori Luogo, allestita proprio nel 1980 a Casarano all’interno di Palazzo D’Elia grazie al contributo organizzativo di Arcangelo Izzo. La mostra è una sorta di resoconto delle esperienze in progress nel Salento artistico più vitale di questi anni, la prima dopo quel fondamentale regesto che fu Verifica ’76 a Lecce.
Non si tratta della tradizionale esposizione che propone opere a parete, bensì di un vasto contenitore di proposte multidisciplinari avanzate dagli operatori più attivi e aperti alle emergenze artistiche contemporanee. Da Francesco Saverio Dòdaro e al resto degli operatori del suo Gruppo di arte genetica – Ilderosa Laudisa propose una performance in pieno gusto ‘genetico’ e alcuni seminari sull’arte d’avanguardia –, alle esperienze concettuali e ‘mediterranee’ di Fernando De Filippi, alle installazioni ricche di riferimenti concettuali dello stesso Tondo. Quest’ultimo l’anno successivo è presente anche ad altre due mostre: Presenza e memoria. Sette artisti gli inizi degli anni ottanta, allestita nel Palazzo Ducale di San Cesario di Lecce da Antonio Del Guercio – allora docente presso l’università salentina – e Lucio Galante e a Ab Origine. Presenze pugliesi nell’arte contemporanea, ordinata presso lo Studio Carrieri di Martina Franca, una mostra che ha avuto il merito di documentare numerose ricerche dell’area pugliese.
Con il tempo le striature di colore si sono geometrizzate, intorno al 1986 Tondo inizia a realizzare grandi tele, in genere delle stesse dimensioni (1.70 x 2 m). Strisce verticali, orizzontali e diagonali, invadono la superficie dell’opera. S’intrecciano tra loro, sempre in maniera assolutamente ordinata, in un cammino complesso che non è solo astrazione fine a se stessa ma, ancora una volta, riflessione estrema sullo spazio, sull’essenzialità di un campo cromatico. È come se i nastri che caratterizzavano le installazioni degli anni sessanta-settanta, si fossero rimpadroniti dello spazio bidimensionale, rinunciando alla verifica ‘ambientale’ dello spazio fisico.
Il resto è storia recente. A parte qualche rara presenza in mostre collettive regionali, Tondo opera in maniera appartata, lontano dal ‘sistema dell’arte’. Accatastate le opere di grande impegno, rielabora e approfondisce teorie care al suo percorso intellettuale e personale e, servendosi del computer, scrive sintetiche frasi, appunta citazioni, ribadisce ‘a parole’ linee teoriche e operative. Niente di estetico, nessuna ricerca di carattere ‘formale’. Delle parole accostate non interessa l’aspetto visuale ma quello prettamente teorico, concettuale.
La prima festa che si tiene a Gallipoli è quella dell’Addolorata. A celebrare l’Addolorata è la confraternita di Santa Maria del Monte Carmelo e della Misericordia. Questa festa ricorda i sette dolori di Maria, nel venerdi precedente la Domenica delle Palme. A mezzogiorno in punto, la statua della Vergine esce dalla sua chiesa per recarsi in Cattedrale e, durante il rito religioso, viene suonato l’Oratorio Sacro. Fra questi, lo Stabat Mater, la cui musica venne composta dal gallipolino Giovanni Monticchio, verso la fine dell’Ottocento: sette terzine, come i sette dolori di Maria, estrapolate dall’opera di Jacopone da Todi. Secondo Cosimo Perrone, studioso di storia locale, l’interpretazione dell’Oratorio Sacro, a Gallipoli, risale al 1697 e fu introdotto dal maestro Fortunato Bonaventura ed eseguito per la prima volta tra il 1733 e il 1740, nella chiesa delle Anime.
Come Oratorio Sacro sono conosciuti anche il Mater Dolorosa, opera del maestro Francesco Luigi Bianco del 1886 e Una turba di gente, dello stesso maestro Bianco su testo di Giovanni Santoro. E’ tradizione, in questo giorno, che le donne recitino mille Ave Maria.
La statua lignea della Madonna è vestita di nero, con veste trapuntata di ricami dorati e una corona d’argento le sormonta il capo, ricoperto da un lungo velo fino alle spalle. Fino a qualche anno fa, la statua veniva vestita dalla nobile famiglia dei Ravenna, nella cappella privata del proprio palazzo, per un antico privilegio di cui godeva questa famiglia.
La Domenica delle Palme si ricorda l’ingresso festante di Gesù a Nazareth, accolto da moltitudine di rametti di ulivo sventolanti al cielo.
Il Mercoledì Santo, vi è la tradizione della vestizione delle Addolorate, da parte di alcune confraternite come, in primis, quella della Misericordia. Vi sono numerose statue dell’Addolorata a Gallipoli e per l’esattezza: quella
I riti della Settimana Santa di Taranto, tra fede, storia e tradizione popolare
di Francesco Lacarbonara
Raccontare i riti della Settimana Santa di Taranto, per chi a Taranto è nato è vissuto come me, non è impresa facile. Basterebbe poco, infatti, per lasciarsi trascinare dai ricordi delle tante processioni alle quali si è assistito fin da bambino, col rischio di scivolare così in un nostalgico sentimentalismo che, seppur onesto e legittimo in quanto espressione di un sano attaccamento alle proprie origini, non renderebbe ragione della complessità del fenomeno che stiamo per trattare.
Non sarebbe però neppure corretto ridurre il tutto a una mera, e alquanto asettica, operazione di ricerca storico-antropologica (con i relativi risvolti sociali e psicologici) nel tentativo, forse vano, di analizzare razionalmente un evento che, a ventunesimo secolo ormai avanzato, continua a riproporsi con lo stesso immutato carico di coinvolgimento emotivo, vuoi per chi del rito è protagonista, vuoi per chi al rito partecipa come semplice, ma mai indifferente, spettatore.
Proveremo allora ad accostarci al rito della Perdonanza tarantina con la giusta dose di curiosità per una “sacra rappresentazione” che torna ad inscenarsi nuovamente tra le vie del borgo e della città vecchia di Taranto. Ma lo faremo anche con il dovuto rispetto per coloro che vivono la Settimana Santa con spirito di fede e devozione e, anche se solo per pochi giorni, si apprestano a trascendere i confini della quotidianità per affacciarsi, con un sentimento misto di timore e tremore, nella dimensione del sacro e del mistero. Seguiremo in particolare il rito del Pellegrinaggio ai Sepolcri, oggi svolto solo dai confratelli della Confraternita di Maria SS. del Monte Carmelo. Ci occuperemo in un secondo momento del rito della Processione dei Sacri Misteri (condotto anch’esso dai confratelli del Carmine) e di quello della Processione della B.V. Addolorata, tanto cara a tutti i tarantini e portata avanti, con devozione sincera e immutato attaccamento alle tradizioni, dai confratelli della Confraternita di Maria SS. Addolorata e San Domenico. Tale confraternita fu fondata nel 1670 dai Padri Domenicani che prestavano servizio nel Tempio di San Domenico, situato nella parte più alta della città vecchia di Taranto; il Tempio fu edificato nel 1302 sulle fondamenta di una Chiesa probabilmente sorta agli inizi del XIII secolo e fu solo a partire dal 1870 che la Confraternita assunse il titolo di San Domenico e dell’Addolorata.
Le origini
Occorre risalire al XVI secolo, periodo che vede Taranto sotto la dominazione spagnola, per ritrovare le prime tracce dei riti della Settimana Santa tarantina. Le numerose e nobili famiglie spagnole residenti in città introdussero e diffusero tra la popolazione locale usi e costumi importati dalla madre patria, anche a carattere religioso. Nascono così le prime confraternite e hanno inizio i primi pellegrinaggi, come avveniva già da diverso tempo in molte città della Spagna, quali, ad esempio, Siviglia, Saragozza, Malaga e Barcellona.
A questo periodo però si deve far risalire solo il rito del Pellegrinaggio ai Sepolcri, che si svolgeva la mattina del Venerdì Santo da parte delle confraternite già allora esistenti in città. È probabile però che forme di devozione nei confronti dei sepolcri fossero diffuse già da prima, sulla scia di quanto raccontato nella Peregrinatio Aetheriae, nota anche come Itinerarium Egeria. Eteria, o Egeria – probabilmente una donna facoltosa di origine spagnola vissuta tra il IV e il V secolo – descrive in una lettera, scritta in un latino colloquiale, i luoghi da lei visitati durante un suo pellegrinaggio in Terrasanta. Dal suo racconto, ricco di particolari curiosi, si sarebbe iniziato a rappresentare nelle chiese scene riproducenti i luoghi santi, con il chiaro intento di riproporre i momenti più significativi della Passione e della Morte di Cristo, il tutto offerto alla devozione popolare.
Per le processioni dell’Addolorata e per quella dei Misteri si dovrà invece aspettare la metà del XVIII secolo, ma per raccontarne le origini occorre fare prima un piccolo passo indietro. Tra la fine del 1600 e gli inizi del 1700 Don Diego Calò, discendente della omonima famiglia giunta a Taranto nel 1580, ordinò e fece venire da Napoli due statue, di cartapesta e di autore ignoto, quella dell’Addolorata e quella di Cristo Morto, per essere custodite nella cappella gentilizia del suo palazzo. In occasione del Venerdì Santo venivano invitate dal patrizio tarantino tutte le confraternite per portare in processione i suddetti simulacri tra le vie della città vecchia che a quel tempo, ma sarà così fino a ben oltre metà ottocento, rappresentava la sola area urbanizzata. La pia tradizione famigliare si trasmise fino al 1765, allorquando un suo discendente, Don Francescantonio Calò, fece dono delle due statue alla Confraternita Maria SS. Del Monte Carmelo, fondata ufficialmente il 10 Agosto del 1675 con un decreto dell’allora Arcivescovo di Taranto Mons. Tommaso Sarria. Diversi documenti riportano invece come data di fondazione il 1577, anno in cui la comunità dei frati Carmelitani si trasferì dalla Chiesa della Madonna della Pace, nella città vecchia, alla Chiesa di Santa Maria extra moenia, detta Chiesa della “Misericordia”, e per l’appunto nel 1577 dedicata alla Vergine del Carmelo.
Fu così che il Venerdì Santo del 1765 i due simulacri varcarono per l’ultima volta il portone di Palazzo Calò per raggiungere in processione quella che diventerà la loro sede definitiva, la Chiesa del Carmine extra moenia, ovvero in aperta campagna, in quello che è diventato adesso il cuore del borgo di Taranto, nella città nuova.
Questi due simulacri, più volte restaurati nel corso degli anni per ovviare all’inevitabile usura del tempo, sono gli stessi che vengono portati in processione ancora oggi dalla Confraternita del Carmine, insieme ad altre statue che si sono aggiunte nel corso degli anni, a completare il racconto plastico della Passione e Morte di Gesù mediante la raffigurazione dei suoi momenti più drammatici e significativi.
(Fine prima parte)
Testo e Foto di:
Francesco Lacarbonara – MMXI- tutti i diritti riservati –
25 marzo. Annunciazione di Maria Vergine. Una tela a Maruggio
L’Annunciazione, tema caro alla pittura italiana (si pensi alle celebri tele di Simone Martini, di Antonello da Messina e di Lorenzo Lotto), rappresenta il momento in cui l’arcangelo Gabriele annuncia a Maria il concepimento di Gesù e la sua incarnazione (Luca 1:26-38).
La ricorrenza dell’evento cade il 25 marzo, precisamente nove mesi prima della Natività di Cristo. Iconograficamente la composizione vede protagonisti la Vergine, la colomba dello Spirito Santo e l’angelo annunciante. Nel corso dei secoli è cambiato il modo di rappresentare il tema; molto spesso i pittori hanno colto nell’Annunciazione il “pretesto” per raffigurare sfarzosi interni, si pensi ai fiamminghi quali Van der Weyden, Campin, i quali dipingono la Vergine colta nella sua quotidianità domestica all’arrivo dell’angelo Gabriele. In altri casi, rimanendo in ambito quattrocentesco, l’ambientazione risulta semplice e spoglia come in Beato Angelico del chiostro di San Marco a Firenze o nel Domenico Veneziano del Fitzwilliam museum di Cambridge.
Nel ‘500, senza fare fuorvianti generalizzazioni, la scena può essere ambientata in esterni (è il caso del Leonardo degli Uffizi) o al chiuso di una stanza che presenta un’apertura (finestra, arco) dal quale si intravede il paesaggio; non raro è il caso dell’ambientazione in cortili, in porticati o in terrazze con il paesaggio sullo sfondo e la balaustra a delimitare l’avvenimento sacro.
Nell’arte della Controriforma, quella che ci interessa per il dipinto che andremo a trattare, lo sfondo architettonico viene progressivamente abbandonato a favore di un fondale neutro che vede il cielo abbacinante sul quale si staglia la colomba dello Spirito Santo. L’Angelo annunziante può essere accompagnato da un seguito di cherubini a testimonianza della presenza divina; poca concessione invece, viene lasciata al superfluo, ai dettagli che non siano utili all’identificazione della Sacra rappresentazione: il giglio, il cestino da lavoro di Maria, il libro che racchiude la profezia di Isaia sul concepimento della Vergine. Sono questi i rigidi dettami preconizzati dal cardinale Paleotti sulle immagini sacre, le quali dovevano suscitare pietà nello spettatore.
Il nostro dipinto proviene dalla parrocchiale di Maruggio, un paese ad una trentina di chilometri da Taranto. La tela raffigura la Vergine seduta sull’inginocchiatoio, a capo chino e con il braccio destro sul petto in segno di devozione, nell’atto di ricevere Gabriele portatore del lieto annuncio. L’Annunciata maruggese risponde figurativamente al tipo della humiliatione[1] secondo quanto scritto da Luca (Lc,1,38) “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga in me quello che hai detto”. L’arcangelo adagiato su una nuvola e accompagnato da una genia di cherubini, reca il giglio simbolo di purezza; chiude la scena al di sopra del gruppo la colomba dello Spirito Santo che spicca dal fondo dorato. Il dipinto inganna, ad osservarlo attentamente non si esiterebbe un attimo ad attribuirlo a Paolo De Matteis e l’ubicazione di Maruggio tra Taranto e Lecce, centri (soprattutto quello ionico), dove il pittore campano fu operoso, non farebbe altro che confermare (ingannevolmente) questa ipotesi.
Invece a pochi chilometri da Maruggio, a Manduria precisamente, sorge nel ‘700 una importante bottega di pittori, i Bianchi, che monopolizza la committenza nobiliare e religiosa, “permettendo” di fare entrare nella cittadina messapica solo dipinti di pittori del calibro di un Trevisani e qualche altro dipinto solimenesco proveniente da Napoli. Tutto ciò a conferma del fatto che a Manduria non si trovano tele del francavillese Carella, del martinese Olivieri, o tele dei più quotati pittori leccesi.
Questo in un certo senso ha appiattito il livello qualitativo della pittura manduriana. Non avendo infatti concorrenti, il “clan” dei Bianchi si adagia su una pittura edificante e convenzionale che riprendendo stilemi solimeneschi, maratteschi o del De Matteis accontenta una committenza provinciale senza grandi pretese.
In realtà, due della stirpe dei Bianchi, i più dotati Diego Oronzo Bianchi e il fratello più piccolo Matteo Bianchi, sono pittori che non sfigurano in un discorso generale sulla pittura salentina del Settecento. Non si spiegherebbe altrimenti come i loro dipinti siano presenti nel leccese, a Taranto, a Brindisi, in terra di Bari e nel territorio lucano (Pasquale Bianchi), questo a conferma della richiesta di loro opere al di fuori del territorio messapico.
Tralasciando l’Olivieri “raccomandato” del Solimena, è difficile trovare un’altra bottega attiva in buona parte del territorio pugliese e nei territori limitrofi[2].
La tela maruggese è opera autografa di Matteo, il più dotato tecnicamente della famiglia. Fino a pochi anni fa si conosceva poco delle sue opere, e l’Annunciazione maruggese ne è la più celebre e la più nota alla critica. Grazie al lavoro di schedatura fatto da Massimo Guastella[3], sono emersi altri dipinti e si è fatta luce sulla vita del pittore e tesoriere della Collegiata manduriana.
Anzitutto è emersa una notevole perizia tecnica nel disegno, testimoniata da alcuni fogli in collezione Arnò ed è stata evidenziata l’abilità nel trascrivere con facilità brani pittorici di maestri affermati quali il Solimena, il Maratta e il dipinto in questione ne è la riprova.
L’opera portata all’attenzione dalla Pasculli Ferrara[4] e accennata da M. D’Elia[5], viene studiata da Galante[6] che la ritiene copia di un’altra opera del De Matteis di collocazione ignota. Entrambe le opere secondo lo studioso, sono riprese da un analogo soggetto nel Museum of Art di St. Louis, già nella collezione della duchessa di Laurenzano, la quale aveva commissionato il dipinto all’artista cilentino.
La tela del Bianchi trova visibilità nella mostra del 1995 sul Barocco a Lecce e nel Salento, nel cui catalogo Guastella[7] ritiene il dipinto tratto da un cartone del più quotato maestro sulla scorta del dipinto già accennato da Galante di ubicazione ignota. Lo stesso studioso che colloca la tela attorno al secondo-terzo decennio del ‘700, non esclude un rapporto indiretto con il De Matteis attraverso le opere tarantine. A tal proposito invito a confrontare l’Annunciata maruggese con la Vergine dipinta dal campano nel Carmine di Taranto e quella della Matrice di Grottaglie.
La monumentale opera di schedatura sul patrimonio pittorico manduriano curata da Guastella e fotografata da La Fratta nel 2002 non aggiunge nulla di nuovo sul dipinto in questione[8], ma come già ricordato in precedenza, analizza criticamente la produzione pittorica di questa importante famiglia e “apre” al pubblico le collezioni private, altrimenti inaccessibili, che raccolgono disegni inediti di Matteo.
Infine nel 2009 in uno studio condotto da Don Pietro Pesare[9], si acquisiscono nelle note a margine altre interessanti informazioni sul dipinto. La tela agli inizi del ‘900 fu spostata dalla Chiesa Madre del piccolo comune nella cappella cimiteriale di Santa Maria del Verde insieme ad altre tele. Per un fortuito caso l’Annunciazione si salvò dal furto sacrilego perpetrato da ladri il 4 novembre 1975, in quanto il religioso aveva portato la tela in Soprintendenza, per il quanto mai provvidenziale restauro[10].
Attualmente la tela è tornata a Maruggio ed è stata collocata nel presbiterio della Matrice. Il dipinto commissionato dalla famiglia Covelli[11], di cui il Pesare riconosce lo stemma nobiliare (il sole rosso nascente e l’agnello in basso), probabilmente proveniva dall’altare eponimo della Matrice e sostituiva una precedente tela commissionata dalla famiglia Maldonata-Carrone, imparentata con gli stessi Carrone[12]. Lo studioso inoltre aggiunge che il dipinto maruggese è esemplato dalla tela del De Matteis conservato in San Michele Arcangelo ad Anacapri.
L’impaginazione spaziale a sviluppo verticale della scena richiama la celebre Annunciazione di Nancy dipinta dal Caravaggio, così come la direttrice diagonale che taglia idealmente il dipinto facendo dialogare l’Angelo e la Vergine; alle spalle della stessa un tendaggio verde circoscrive il letto a simboleggiare il Thalamus Virginis che, insieme al poggiapiedi, rafforza il clima intimità domestica della scena. L’indirizzo classicista e accademizzante desunto dal De Matteis, si manifesta attraverso l’assetto bilanciato della raffigurazione, in cui i protagonisti si distinguono per grazia e bellezza, come ricordato da Galante[13]. Il classico pulviscolo dorato nella parte superiore della composizione si stempera nella luce diffusa che solidifica le forme e risalta il preziosismo serico, esaltando il manto azzurro della Vergine, il panno bianco e il drappo arancio di Gabriele.
[1] Papa R., Caravaggio l’arte e la natura, Firenze, 2008, p. 204
[2] Forse solo la bottega dei Carella fu così operosa.
[3] Guastella M., Iconografia Sacra a Manduria, Manduria, 2002.
[4] Pasculli Ferara M., Contributi a Giovan Battista Lama e a Paolo De Matteis, in Napoli Nobilissima vol. XXI, fasc. I-II, Napoli, 1982, p. 49, fig. 9.
[5] D’Elia M., in AA.VV. La Puglia tra Barocco e Rococò, Milano 1982, p. 285, fig. p. 286. Curiosamente nella riproduzione fotografica l’immagine è speculare.
[6] Galante L., Qualche considerazione sul De Matteis in Puglia, in Questioni artistiche pugliesi, Galatina, 1984, p.13, tav. III fig.3.
[7] Guatella M. in AA.VV. Il Barocco a Lecce e nel Salento, Roma, 1995, p. 84 cat.79. Anche in questa riproduzione l’immagine è stata riportata specularmente.
Un documento manoscritto relativo alle processioni a Maglie, la domenica delle palme e il venerdì santo, risale alla seconda metà del ‘700[1], ma già prima, nel ‘400[2], il popolo di Maglie col barone e col clero si recava in processione, la Domenica delle palme, presso la chiesetta greca di S. Maria della Scala, dov’era un Osanna o Pasca Sannài o semplicemente Sannà per piantarvi un ramo di ulivo benedetto.
Oggi quell’antica processione non si fa più, ma è rimasto intatto il rito della benedizione delle palme e dei rami d’ulivo.
Dalle prime ore della mattina sino all’ultima messa, sul sagrato della chiesa madre (o della Presentazione del Signore, come oggi è ufficialmente denominata) e delle altre due chiese parrocchiali (del Sacro Cuore e dell’Immacolata), gruppi di contadini, di artigiani e di ragazzi si assiepano con fasci di rami e pallido ulivo e di lunghe foglie di tenera palma.
Una volta benedetti e dopo la messa con il Passio cantato, entreranno nelle case e dei rametti saranno appesi alla cornice di un quadro di un Santo o della Madonna, al capezzale del letto, alla porta d’ingresso, custoditi in mezzo alla biancheria o legati alla rocca del camino oppure torneranno nei campi, in mezzo ai prati, agli orti, alle vigne, su una canna o su un cippo, al centro del fondo, sul portone d’ingresso della masseria o della casa colonica, sui traini, nei pagliai, nelle botteghe,
La Domenica delle Palme in una cornice particolare
Quest’anno, l’osservatore di strada che scrive, ha espressamente rinunciato a presenziare alla rituale processione con palme e rami d’ulivo per le strade del quartiere in cui abita, orientandosi, invece, ad assistere alla celebrazione eucaristica in un sito e in un’atmosfera dall’impronta speciale. Il riferimento è alla Parrocchia di S. Nicola di Mira, nota, soprattutto, come Chiesa Greca, situata nell’omonima piazzetta nel centro storico di Lecce, a poche centinaia di metri di distanza dalla più famosa Basilica di S. Croce e dagli adiacenti Palazzo dei Celestini e Palazzo Adorno.
Per chi non conoscesse il monumento, si tratta di un piccolo, sfavillante gioiello, nella vasta collana di tesori d’architettura religiosa che si spande nel capoluogo salentino. L’aria che vi si respira è d’autentico misticismo, induce ad una profonda introspezione interiore.
L’edificio, di origini antiche, fu ricostruito ex novo in epoca neoclassica, dal 1765, a beneficio della colonia di mercanti greci e albanesi che risiedeva in città.
La facciata si staglia semplice e, insieme, elegante; all’interno, invece, spicca una pregevole iconostasi, transetto o parete divisoria – una volta presente in tutte le basiliche cristiane, ora rimasto solamente nelle chiese ortodosse e in quelle cattoliche di rito greco – che separa il presbiterio dalle navate.
L’iconostasi era ed è ancora destinata, anche, all’esposizione delle immagini devozionali; con riferimento specifico alla chiesa greca di Lecce, la struttura appare tempestata di pregevoli pitture su legno, con quattro tavole, a fondo d’oro, effigianti la Vergine col Bambino, Cristo Sommo Sacerdote, S. Giovanni Battista e S. Nicola di Mira.
In omaggio e in aderenza alla nazionalità dei primi utilizzatori del tempio, i riti si celebrano soprattutto in lingua greca, però con l’uso dell’italiano in taluni, fondamentali passaggi. Rispetto ai testi adoperati nelle chiese cattoliche di rito romano, qui, si succedono formule più articolate e complete; da osservare, inoltre, che, alle letture, si alternano, sovente, canti e invocazioni in greco e che, nelle fasi maggiormente solenni, si aggiunge, da parte del celebrante e/o dei ministri officianti, una gestualità sui generis, quale, ad esempio, il librare, sopra l’altare, di una tovaglietta a modo di colomba (Spirito Santo) o lo sventolio di una sorta di ventaglio.
La stessa dispensa domenicale per i fedeli è composta non in italiano, ma, su tre colonne, in greco, albanese e italiano. Dal foglietto relativo alla Domenica delle Palme 2011, giorno in cui si fa pure memoria di S. Simeone ieromartire, vescovo di Seleucia – Ctesifonte in Persia, sottoposto a martirio nel Grande e Santo Venerdì del 341 d.c. insieme con 1150 altri cristiani, sono tratti, in greco e in italiano, i seguenti tre versetti introduttivi:
Ebbi fede perciò parlai a Dio, ma ero afflitto oltremodo.
to Exomologhìsthe Kirìo, òti agathòs, òti is ton eòna to èleos aftù.
Celebrate il Signore perché egli è buono, perché in eterno è la sua misericordia.
Notazione peculiare, la parrocchia di S. Nicola di Mira di Lecce non è incardinata nella locale arcidiocesi, bensì nella diocesi, anzi eparchia, di Lungro (Cosenza), retta, fino a poco tempo fa, dal vescovo Monsignor Ercole Lupinacci, andato in pensione recentemente, e, quindi, affidata, al momento, alle cure di Monsignor Nunnari, Arcivescovo di Cosenza, in veste d’ Amministratore Apostolico. Responsabile della parrocchia, è il proto presbitero Nik Pace, originario di Frascineto (Cosenza), a Lecce, ormai da diversi anni, e quindi ben conosciuto, anche per il suo ruolo d’insegnante di religione in alcune scuole cittadine.
Sinceramente, la Chiesa Greca di Lecce merita una visita, magari accompagnata, perché no, da una pausa di concentrazione spirituale.
È giovane l’Italia, appena 150 anni di unità e appena 65 di Repubblica. Italia perennemente divisa nella quale l’abulìa dei suoi abitanti, la sostanziale abdicazione all’esercizio della cittadinanza, lascia pascere gruppuscoli di sguaiati urlanti e li fa credere davvero “rappresentanti dl popolo” in nome del quale litigano e bisticciano per spartirsi privilegi e prebende. Una fisarmonica stonata di sentimenti da grande paese e di piccoli egoismi per piccole patrie. Ci fu anche un tempo nel quale si dibatteva sulla lingua da parlare. La caduta dell’impero romano e del suo latino apriva la stura ad altri modi di comunicare, quelli del volgo. Il volgare stava per affermarsi. Si scontrarono in molti, fra i più fieri la scuola siciliana e la scuola toscana. S’affermò quest’ultima anche grazie al genio del sommo poeta. Tra l’altro, fu proprio un Venerdi santo che Dante si ritrovò nella selva oscura. E si decise la lingua. Fino a Bembo e Castiglione. Ma le le lingue son sempre pronte a risorgere, incrociarsi e contaminarsi, e il volgare d’allora impallidirebbe senza alcun dubbio al cospetto dell’odierna volgarità, imperante in ogni girone…
Le parole sono pensieri resi fruibili agli altri e cose che, prima o poi, si materializzano. Il culto dell’uovo nei giorni di Pasqua ha radici remote, legate alla fecondità e alla ripresa della vita. La storia d’Europa e del Mediterraneo ne è pregna. La parola si è poi materializzata nelle endemiche “uova di cioccolata”, a volte ottima e spesso pessima.
Anche nei dolci simbolici e ancestrali c’è stato il culto dell’uovo. La tradizione scandita dai nomi sopravvive in Sicilia: campanaruo cannatunia Trapani, pupu ccù l’ovua Palermo, cannileri nel nisseno, panareddaad Agrigento e a Siracusa, cuddura ccù l’ovua Catania, palummeddanella parte sud occidentale dell’isola. Qualunque sia la forma e il nome si tratta di pasta di dolci impreziositi da uova intere cotte nel forno.
Ne abbiamo pure nel Salento, con nomi simili in qualche caso e completamente diversi in altri. I più interessanti sono la “Panareddhra” (dolce) e il “Puddhricasciu” (salato).
Quasi sperduti nella notte dei tempi, ancora qualche forno di paese continua a farli e a sentirsi chiedere cosa siano. La panareddhra ha la medesima radice e formulazione del corrispondente Sicano. Più interessante è la storia del “puddhricasciu”. Almeno nel mito, di incontrovertibili origini leccesi.
… Il Fatalò narra che dimorando San Francesco d’Assisi in Lecce, nel 1219, «giva, secondo il solito dei mendicanti religiosi, limosinando per la città, giunse dinanzi al palazzo di un patrizio (oggi si possiede dalla nobile famiglia dei Perroni ed è immemorabile tradizione dei leccesi che questo fosse stato il palazzo del nostro primo vescovo Santo Oronzo) vi picchiò la porta e chiese per amor di Dio la limosina ; in un subito vaghissimo un paggio diedegli un bianco e grande pane e disparve. Al picchiarvi della porta ere accorso un famigliare della casa a cui San Francesco rendè le grazie in nome di Dio per il pane già ricevuto e che fino a quel punto teneva in mano. Disse colui non essere pane di loro casa, onde, conosciutosi da San Francesco il tratto della divina provvidenza e da quelli della casa il miracolo ne diè i ringraziamenti all’Altissimo e gli altri conservar ne vollero perpetua la memoria, mentre fecero sull’arco della porta scolpire un angelo in atteggiamento di scendere dal cielo ed offrire un pane. Questa memoria sin oggi in quel palagio si vede.» …N. Vacca
Il passo è tratto da Rinascenza Salentina – Anno II, 1934 – pp 207-208.
Quel pane fu nominato “puddhricasciu” e quel rione prese il nome di Pollicastro, per la tendenza a toscaneggiare che s’aveva in quel tempo. Vi sono alcune imprecisioni ovviamente. L’angelo di cui si parla è tipico del 1500 piuttosto che del 1200 e probabilmente quel palazzo non vide mai Sant’Oronzo abitarvi. Ma il rione Pollicastro esisteva per davvero e doveva il suo nome ad una forma di pane bianco con le uova dentro che si portava allu riu …. ma questa è un’altra storia.
La ricetta oggi non c’è, solo l’invito a cercare ancora l’antico “puddhricasciu”, a consumarlo con gli amici sorseggiando un vino nuovo, nuovissimo: il Merlot del Salento della cantina Santi Dimitri. Il primo merlot salentino in assoluto, siamo qui a testimoniarlo come fece il Fatalò per il “pollicastro”, sperando che qualcuno, un giorno, se ne ricordi.
Un piccolo rettile al centro di una stupida credenza neritina dei secoli scorsi
ATTENTI AL BASILISCO!
Chiunque avesse incrociato il suo sguardo, sarebbe rimasto paralizzato o morto all’istante
di Emilio Rubino
Il basilisco (vasiliscu per gli amanti del dialetto salentino), nome di derivazione greca (βασιλίσκος), è un piccolo rettile che a malapena raggiunge i 50 cm. di lunghezza. Oggi è quasi del tutto scomparso. I pochi esemplari superstiti s’incontrano immobili sulle pietraie o nei campi incolti a godersi il caldo sole d’estate. A vederli, sembrerebbero delle bestiole insignificanti per le modeste dimensioni e per l’innata paura dell’uomo.
Avevano tutt’altra opinione i popolani di Nardò dei secoli andati, molti dei quali prestavano fede ciecamente a una stupida credenza, che dipingeva l’animaletto come un’orrenda bestia da cui stare alla larga. La leggenda nasce, presumibilmente, per via dell’ispida cresta che, partendo dalla testa dell’animale, si protrae per tutto il dorso, sino ad arrivare in prossimità della coda, e per gli occhi un po’ sporgenti e arrossati. Per tali caratteristiche, il basilisco sembra un piccolo drago, pronto a sputare fuoco e a creare seri problemi a chi ne venga investito. E invece, si tratta di una bestiola timida e inoffensiva che ama vivere nei luoghi isolati. Come tutti i rettili, va in letargo durante il periodo invernale e si risveglia in primavera ai primi tepori del sole d’aprile, uscendo di tanto in tanto dalla tana per brucare la tenera erba o cibarsi di qualche incauto insetto. La sua attività più intensa è svolta d’estate, sia per fare un carico di sole sia per dedicarsi, come ogni specie vivente, all’accoppiamento.
Ma torniamo alla leggenda neritina.
Pare, secondo la superstizione popolare di quel tempo, che la bestiola nasca da un uovo.
Beh!… su questo non ci piove, considerato che i rettili sono animali ovipari. La stranezza sta nel fatto che l’uovo è deposto, non già da una “basilisca”, ma… udite, udite… da un gallo!
No, non mi sto sbagliando!…
Qualcuno potrebbe obiettare che non dovrebbe trattarsi di galli, ma, al limite, di galline, giacché sono queste a deporre le uova. E invece, no: si tratta proprio di galli!
Ma di quali galli?!…
Stando sempre alla leggenda neritina, gli unici a deporre uova così strane, sarebbero i galli di età superiore ai sette anni, i quali, per uno strano e incomprensibile sortilegio, una volta superata quest’età, sono condannati da Madre Natura a una pesante punizione, cioè procreare basilischi. Perché ciò avvenga è necessario che il gallo deponga l’uovo sul letame e che in seguito sia fecondato da un rospo. Dopo pochi giorni di incubazione, nasce il basilisco, una creatura con la testa di gallo, dalla cresta squamosa rossa, grandi ali spinose e coda di serpente. Il suo sguardo incenerisce, secca le piante, contamina le acque; il suo alito uccide, brucia l’erba ed è velenoso. Il basilisco può autoincenerirsi, se, per sua sfortuna, si guarda in uno specchio. Questa figura, per certi versi mitologica, ha due nemici mortali: le donnole e i galli, il cui canto le è letale. Stando a questa nefasta credenza, avevano ben ragione i salentini, e maggiormente i neritini degli anni andati, ad aver enorme paura dei basilischi.
Proprio per questo motivo tutti i galli prossimi ai sette anni venivano ammazzati e mangiati; anzi, per non correre troppi pericoli, i contadini li uccidevano ancor prima dei cinque anni. Capitava, però, che qualche imprudente neritino, non sapendo far la conta, lasciasse superare all’animale i fatidici sette anni e allora… apriti cielo!
Se in una determinata zona della vasta campagna neritina morisse qualcuno in circostanze misteriose o per cause ignote, allora c’era sempre un Tizio o un Caio che tirava in ballo la storia del basilisco.
“Sapiti comu è muertu cumpare Gricoriu?…E’ muertu ca l’ae sfiatatu ‘nu vasiliscu!”1.
E tutti a diffondere la notizia per la città. Sta di fatto che erano in molti a non avvicinarsi più alla campagna di Gricoriu, per non fare la sua stessa fine.
Perciò in ogni famiglia si badava bene a non far sopravvivere un gallo oltre il settennio per non incorrere nel malefico mostriciattolo e creare un’infinita serie di luttuosi accadimenti.
Narra una leggenda nella leggenda che, alla fine del Settecento, nella masseria Tagghiutisu, in agro di Nardò, della quale oggi non si ha più notizia (forse per la strana storia del basilisco), la massara ebbe a dimenticarsi dell’età di alcuni galli (forse perché colpita da un’incipiente forma di Alzheimer), per cui un bel giorno uno dei pennuti, avendo superato il limite d’età, depose il “fatale” uovo, ma non nel pollaio, bensì su un mucchio di letame. La sfortuna volle che un rospo se ne accorgesse e lo fecondasse. Il nuovo “nato”, per non incappare nel canto malefico di altri galli, preferì allontanarsi in tutta fretta dalla masseria e nascondersi nelle vicine pietraie. Il basilisco crebbe sino a raggiungere l’età matura. Con fare baldanzoso e prepotente, decise di abbandonare il sicuro ricovero della tana e visitare la masseria. E’ inutile dirlo che, una volta entratovi, l’animale fece strage di tutti coloro, uomini e bestie, che sfortunatamente lo incrociarono con lo sguardo. In un primo momento si pensò che un’improvvisa malattia si fosse abbattuta in quel luogo, ma, dopo che alcuni contadini superstiti rinvennero le impronte e gli escrementi dell’orrenda bestia, tutti abbandonarono la masseria, ormai ritenuta luogo maledetto, per non farvi più ritorno.
E così, divulgatasi di bocca in bocca la ferale notizia, la gente, annichilita e terrorizzata, non osò per molti decenni frequentare quella contrada, mantenendosi alla larga per un raggio di un chilometro.
Quelle terre, abbandonate per tanti anni, non furono più coltivate e si inselvatichirono al punto da essere considerate come luoghi preferiti dai basilischi. Solo dopo oltre mezzo secolo qualcuno cominciò a ricredersi.
“Salvatò, sta’ bbìndinu la massaria “Tagghiutisu”!”2– ebbe a dire una giovane moglie al marito, alquanto danaroso.
“E cce bbuei cu ndi la ccattamu?!3”.
“Salvatò, ‘òlinu picca ducati!… Ete ‘nu veru affare!4”.
“Ci no’ nc’eranu li vasilischi, la ccattava subbitu!…” – gli rispose quello – “…None Cuncettina, nu’ mbògghiu cu ffazzu la fine c’hannu fattu tanti cristiani!”5.
In seguito, grazie all’incidere della civiltà e dopo ripetute visite di alcuni uomini coraggiosi in quella masseria, si intuì che la storia del “micidiale basilisco” fosse soltanto frutto di una stupida superstizione popolare. Finalmente, all’inizio del Novecento, quei luoghi ritornarono a essere frequentati e coltivati come un tempo.
Perciò, meditate gente, meditate!… e ricordate che soltanto grazie a un’adeguata istruzione è possibile abbattere l’ignoranza e, soprattutto, la stupidità delle super- stizioni.
Da allora i basilischi vissero felici e contenti, ma i galli, sebbene fosse stata sfatata la superstizione, continuarono a essere ammazzati, così come gli agnelli, le anguille, i capitoni e altri animali, che, per altre incrollabili credenze, subirono e subiscono tutt’oggi, in certi periodi dell’anno, un’inconcepibile mattanza.
Bisogna lavorare tanto per sconfiggere definitivamente le lucide pazzie dell’uomo moderno… moderno per modo di dire, perché, a mio modesto avviso, si vive ancora nell’Alto Medioevo, nonostante le numerose conquiste mediche, scientifiche e tecnologiche.
Una probabile nuova specchia in territorio di Alliste
La passione e lo studio del territorio vengono spesso gratificati da chi sa ben porsi nei confronti del nostro paesaggio, mai sufficientemente studiato e valorizzato.
Una terra generosa, plurimillenaria, che porta ancora in sé i segni dell’uomo antico, almeno fino a quando si cercherà di tutelarla e difenderla dai numerosi tentativi di antropizzazione, non sempre leciti e rispettosi.
In una delle mie recentissime escursioni, questa volta sulla Serra “Calaturo” di Alliste, credo di essermi imbattuto in una presunta specchia o fortificazione di epoca remota. Mi pare che essa sia sconosciuta ai più, e non la ritrovo tra quelle censite dal De Giorgi in Alliste, che in questo comune classificò solo Specchia Sciuppano e Specchia dell’Alto. Per quel che ne so il felice mio ritrovamento non mi pare sia stato censito da altri studiosi locali e sono ben lieto di renderlo noto ai lettori di questo sito e a quanti si interessano di questo argomento.
Alla segnalazione aggiungo anche qualche dato, per supportare la notizia e per coinvolgere gli esperti, sebbene stia per inviare dovuta comunicazione alla Soprintendenza.
Ciò che mi ha colpito sono state soprattutto le dimensioni notevoli della costruzione, circa 24 mt di diametro, con un muro perimetrale che in alcuni punti dell’alzato registra un’altezza compresa tra i 2 e 2,5 mt.
Costruita con massi non perfettamente squadrati, colpisce la dimensione notevole di alcuni di quelli incastrati in più punti e soprattutto di alcuni massi che formano il basamento, almeno per quello che si riesce a intravedere.
La mia inadeguata formazione archeologica mi impedisce di formulare ipotesi fondate, ma non risulta insufficiente a ritenere l’affascinante costruzione un’opera di fortificazione o forse anche solo di avvistamento, considerando la strategica posizione, ad un’altitudine di 61 mt s.l.m., che permette di godere di una meravigliosa vista panoramica del territorio circostante, compresi, a sud, il tratto di costa prospiciente Ugento e fino a Torre Pali, ad est tutta la vallata fino alla serra di Casarano e di sant’Eleuterio (Parabita). Un’ulteriore, inevitabile, considerazione riguarda il collegamento a vista tra la nostra e la nota Specchia dell’Alto in direzione nord, quasi anticipasse la collaudata comunicazione tra le torri costiere meridionali che sarebbero sorte qualche secolo dopo.
Si raddrizza con forza il gambo del fiore vessato dall’Inverno. Il risveglio è nell’aria nuova. Il sole in gioventù muove da Oriente, giungerà temprato e ben fatto. Non deluderà i fichi d’india, né gli ulivi, né la terra. Darà ombre e calore, addomesticherà i venti, racconterà fiabe.
Si adagerà nelle ore del meriggio sulle acque del mare di Castro e di Gallipoli.
È dunque Primavera!
Vorrei indossare un vestito nuovo e andare per sole e per luna. Non posso. Non voglio. Non so cosa. In confusione di me e di tempo rinnovo la Primavera del mio pensiero.
Etimologie: tralasciando per un attimo il nome dialettale dirò che caprifico è dal latino caprifìcu(m), composto da caper=capro1 e ficus=fico; passando al nome scientifico il primo componente (ficus) è di origine preindoeuropea (cfr. il greco sukon che, oltre al significato di fico, ha anche quello di vulva), per carica vedi sul sito il mio post Ficus si capisce, ma carica? del 16 gennaio u. s. http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2011/01/16/i-fichi-secchi-dei-botanici-greci-e-latini/; per caprificus vale quanto detto per la voce italiana; Moraceae è forma aggettivale dal latino morus=gelso.
Per quanto riguarda la voce dialettale Il Rohlfs si limita a registrare le varianti bbrufìcu (Alessano) e mbrufìcu (Vernole) con in coda il significato di caprifico. L’illustre studioso fa sempre così quando per lui la voce dialettale è una semplice deformazione di quella italiana, con la quale, dunque, avrebbe in comune l’etimologia. Se fosse vero bisognerebbe immaginare questa trafila: caprifico>prifìco (sincope di ca– di problematica spiegazione)>prufìco>profìco>brofìco> brufìcu. Credo che le cose stiano diversamente e per me la spia ne è proprio la variante mbrufìcu: se, infatti, le cose stessero come nella trafila prima supposta, non si capisce perché dopo la sincope di ca– la voce di Vernole avrebbe dovuto aggiungere in testa m– che, di regola, è ciò che rimane di un’originaria preposizione in, preposizione che semanticamente mal si legherebbe con fico del capro che è la diluizione concettuale di caprifico.
Una conferma sembra venire dal napoletano mprofecare registrato nel Vocabolario napoletano-toscano degli Accademici Filopatridi3 da cui è
Il Salento delle leggende. Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto.3
Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto
di Antonio Mele ‘Melanton’
Quando muoiono le leggende finiscono i sogni.
Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.
I più grandi piaceri della vita sono certamente quelli più piccoli.
Un bicchiere di vino fresco con gli amici, ad esempio. Magari in una sciroccosa sera d’agosto, preferibilmente in campagna, con stelle e lune rosse sul capo, e baluginio di paesi lontani all’orizzonte.
O rivedere un vecchio film – comico, romantico, d’avventure –, di quelli legati ad un momento speciale della nostra adolescenza (stagione della vita in cui peraltro ogni momento è speciale), ritrovandosi a ridere, o perfino a piangere da soli.
O ancora di più quando, in una benefica sosta dalla frenesia moderna che tutto divora, ci accade di leggere i vecchi cunti della nostra tradizione più terrigna, popolati di magiche figure e luoghi fiabeschi e irraggiungibili: Papa Caiazzu, lu Nanni Orcu, lu Mamau, li Sciacuddhi, le case sperdute nei boschi (identificate da una “luciceddha ca se vide luntanu luntanu”), o le lande spaurenti e misteriose dove “nu canta caddhu e nu luce luna”…
Se poi li cunti si ha la ventura d’ascoltarli direttamente dalla voce delle nostre antiche nonne (specie ormai assai rara ma che sempre riaffiora nelle incantate contrade salentine) allora si viaggia davvero sulle nuvole.
Le nonne. Quante ne abbiamo avute, noi piccoli d’altri tempi? Ogni vicolo, corte, strada o viuzza del quartiere brulicavano di queste splendide fate vestite di nero e di rughe, coi candidi capelli raccolti ad arte sotto fazzoletti di primavera. Sferruzzavano per lo più sulla soglia di casa, quando non sistemavano pochi panni ad asciugare su una breve corda tenuta distante dal muro tramite una piccola canna, oppure controllavano i pomodori distesi a seccare al sole sui marciapiedi, fra graticci di fichi e talaretti di foglie di tabacco.
Se le avvicinavi senza timore, allora tiravano fuori dalle tasche del grembiule inenarrabili meraviglie in regalo: rocchetti di filo colorato, foglie inebrianti di menta e di basilico, fichi tostati, pesciolini di liquirizia, frammenti di taralli o mostaccioli, mandorle bianche, qualche lupino. E il loro caldo sorriso.
Non è appunto al sorriso e al buonumore che muovono molte delle leggende salentine, tanto fantastiche da sembrare vere?
Se Soleto (come abbiamo letto nella prima puntata di questo nostro fantastico viaggio) può in un certo senso vantarsi che la sua celebre “guglia di Raimondello” fu costruita in una sola notte dal mago Matteo Tafuri di concerto con diavoli e streghe, pochi forse sanno che anche a Tricase la cosiddetta Chiesa Nuova fu opera del Maligno. Il quale, parimenti, la eresse nell’arco di un’unica nottata, dopo un patto con il cosiddetto “Principe vecchio”, che la tradizione popolare identifica in messer Jacopo Francesco Arborio Gattinara, marchese di San Martino, personaggio realmente esistito.
Secondo la leggenda, i fatti si svolsero in questo modo. Intorno alla fine del XVII secolo, messer Jacopo decise di favorire i numerosi contadini che lavoravano e vivevano nelle campagne (e volevano scacciare le Malumbre ossia gli spiriti maligni), costruendo fuori Tricase, sulla via verso il mare, una nuova chiesa, storicamente ultimata nel 1685, a pianta ottagonale, e dedicata alla Madonna di Costantinopoli. A tale scopo – attraverso il fatato “Libro del Comando” – pensò bene di evocare il Diavolo in persona, peraltro con il segreto intento di prendersi beffe di lui, come vedremo.
La sfida proposta dal nobile di Tricase, che contemplava la costruzione dell’edificio sacro in una sola notte, fu accolta dal Diavolo, a condizione però che, nella stessa chiesa, a offesa e scherno di Dio, il Principe vecchio avesse poi offerto l’ostia consacrata ad un caprone, simbolo di Satana. Per tale impegno, in aggiunta, il Signore delle Tenebre avrebbe lasciato nella nuova chiesa un forziere pieno di monete d’oro.
Sancito il patto, ed eretta la chiesa, la mattina del giorno dopo il Diavolo ricordò la promessa al Principe vecchio, il quale negò di avergliela mai fatta. Sentendosi beffato, e non avendo più il potere di distruggere l’edificio sacro appena eretto, il Diavolo sfogò allora la sua collera aprendo nei pressi un canalone d’acqua (chiamato dai tricasini Canale del Rio) e gettandovi dentro le campane della chiesa, che ancora oggi, nei giorni di tempesta, sembra facciano sentire, risalenti da sottoterra, i loro cupi rintocchi.
E il forziere con le monete d’oro? Il Principe vecchio ebbe modo di trovarlo ed aprirlo, ma dentro – di beffa in beffa – pare che vi si trovassero delle insignificanti monete di metallo vile o (secondo altre versioni) addirittura dei sassi.
“È natu nu stregone a la casa mia!” pare che gridassero un tempo i padri di bimbi maschi nati nella notte fra il 24 e il 25 dicembre. In quella data fatidica – la santa Notte di Natale – non si ammetteva infatti che potessero venire al mondo altre creature all’infuori di Gesù Cristo. Sicché, quando succedeva, era credenza diffusa che gli “sventurati” maschietti ereditassero una doppia natura, quella umana e quella bestiale, e non c’era altra soluzione di esorcismo che salire sul tetto della casa, a mezzanotte in punto, e gridare al vento la notizia, in modo che il vento stesso la potesse disperdere.
La leggenda s’intreccia con altre leggende, che vogliono la Puglia e il Salento (soprattutto nelle zone tra Nardò e Avetrana, e più a sud-est, verso il litorale idruntino) sono state per secoli considerate terre di lupi mannari. Alcuni antropologi sostengono anzi che la licantropia abbia avuto le sue origini proprio nella nostra regione.
Secondo il mito, Licaone, re dell’Arcadia e padre di cinquanta figli, ne sacrificò uno a Zeus per ingraziarselo. Ma il Padre degli dei, inorridito dall’empietà del gesto, inseguì il re fino in Puglia, dov’era riparato, e qui lo trasformò in lupo, lasciandogli tuttavia assumere alternativamente tanto la natura umana (visibile quasi sempre di giorno) quanto quella belluina (manifesta di notte, ed in particolare nelle notti di plenilunio).
La più antica storia di lupi mannari la troviamo addirittura nella Bibbia, e riguarda il famoso re Nabuccodonosor che, per la sua vanità, fu trasformato in lupo da Dio. Anche nella mitologia egizia, il dio Ap-uat che traghettava i morti nell’aldilà aveva sembianze di uomo-lupo. Fino ad arrivare al periodo fra il 1500 e il 1600, in cui in tutta Europa la “caccia ai licantropi” era addirittura diffusa quanto e più di quella alle streghe.
A tale proposito, sentiamo il dovere di fornire ai nostri lettori alcuni utili consigli, nel caso dovessero incontrare qualche lupo mannaro, e volessero metterlo in fuga. La prima e più sicura precauzione è posizionarsi al centro di un incrocio, perché questi esseri hanno terrore delle croci. Tuttavia, se nelle vicinanze con ci fosse un incrocio disponibile, basterà salire sopra un gradino e aspettare tranquilli che il lupo mannaro se ne vada: è noto infatti che i lupi mannari sono del tutto incapaci di salire le scale, e perfino un solo gradino.
Se per colmo di sventura non disponeste neanche di gradini, allora spargete per terra del sale grosso (tenetene sempre prudentemente una piccola scorta nelle tasche): il nostro avversario, in tal caso, si fermerà a raccogliere e contare ad uno ad uno i granelli di sale gettati per terra, lasciandovi tutto il tempo per svignarvela alla chetichella.
Infine, se nessuno degli antidoti di cui sopra fosse a vostra disposizione, recitate con fiducia una preghiera, e sperate ardentemente che il lupo mannaro di fronte a voi abbia già fatto per suo conto un’abbondante colazione…
A proposito di streghe, lo sapete che nel nostro Salento ce ne sono ancora tantissime? No, non ci riferiamo alle varie megere di più o meno diretta conoscenza, tipo suocere e affini: parliamo veramente di striare e macare, le streghe originali di Terra d’Otranto, che zòmpano, ballano e cavalcano scope volanti.
Uno dei luoghi deputati per i famosi (o famigerati) sabba stregoneschi è il cosiddetto “noce del mulino a vento” in agro di Uggiano La Chiesa. Quest’albero magico pare sia ubicato nei pressi di un antico frantoio ipogeo d’epoca seicentesca (recentemente restaurato), ma nessuno ne conosce esattamente il sito, o lo tiene prudentemente segreto, per evitare malocchio e sfortuna.
I paesani comunque sostengono che ancora oggi, in alcune notti di luna piena e fino all’alba, in un’ampia zona della campagna tra Uggiano e il vicino borgo di Casamassella si diffondono nell’aria suoni indistinti e spaventevoli, inframmezzati da alte grida, canti e risate oscene, che terrorizzano perfino gli animali domestici e la selvaggina.
Se, vostro malgrado, vi dovesse capitare di trovarvi coinvolti in un sabba, e volete evitare di essere risucchiati in aria, rischiando poi di ballare freneticamente per una notte intera e di morire stremati, imparate e recitate all’occorrenza, per tre volte consecutive, questa filastrocca scaccia-guai: “Zzumpa e balla, pisara, zzumpa e balla forte, se scappi de stu chiacculu non essi cchiui de notte… Sutta l’acqua e sutta lu jentu sutta lu noce de lu mulinu a jentu”.
Sgombriamo il campo, senza perdere tempo, da ogni possibile equivoco; i cumitàti, cioè gli oggetti di creta (dai vasi ai fischietti alle statuine del presepe), protagonisti, insieme con il santo, di una fiera un tempo attesissima da ogni famiglia per rinnovare soprattutto il corredo di stoviglie, non hanno niente a che fare con comitati, voce alla quale il pensiero subito vola in un paese (e ci riferiamo all’Italia) che prolifera di delegazioni, commissioni e chi più ne ha più ne metta, le quali, dopo aver proliferato, prolificano poco, anzi, il più delle volte abortiscono (e forse è un bene, visti, quando ci sono, i risultati…).
Cumitàtiè una di quelle parole che nel corso del tempo hanno subito un vero e proprio terremoto; e questo fenomeno, si sa, colpisce più violentemente le zone vicine all’epicentro, nel nostro caso Nardò.
Se paragoniamo la nostra voce ad un edificio lo troveremo perciò meno malridotto man mano che ce ne allontaniamo. Fuor di metafora, lo studio
In occasione della ricorrenza di San Giuseppe presenterò per gli amici e lettori alcune opere artistiche sul Santo presenti nel territorio tarantino. Nell’iconografia barocca (quella da me presa in esame) lo sposo di Maria Vergine, nonché padre putativo di Gesù, è raffigurato come uomo anziano con barba bianca nell’atto di sorreggere in braccio Gesù Bambino.
I suoi attributi principali sono gli attrezzi da falegname e la verga fiorita. Anteriormente al periodo barocco il Santo appariva in episodi legati all’infanzia di Cristo o in scene dedicate alla vita della Vergine e solo dopo la Controriforma, quando il suo culto fu promosso da Santa Teresa di Avila, il falegname potè godere di una raffigurazione autonoma.
A Taranto nella chiesa dedicata a Giuseppe (già Santa Maria della Piccola) è collocato nel controsoffitto un dipinto mistilineo di notevoli dimensioni raffigurante il Dubbio di San Giuseppe. L’autore dell’opera è il celebre pittore napoletano Paolo De Matteis, artista molto richiesto dalla committenza nobiliare ed ecclesiale tarantina. Formatosi presso la scuola Luca Giordano, passò in seguito a Roma per comprendere la lezione del classicismo marattesco.
Le opere tarde come quella in questione, databile al secondo decennio del settecento, registrano uno stanco irrigidimento nelle posizioni classiciste, oltre un appiattimento qualitativo forse dovuto a commissioni meno prestigiose e in territori provinciali.
Il soggetto della tela tarantina fa riferimento all’episodio narrato dal Libro di Giacomo, ovvero la rassicurazione portata dall’arcangelo Gabriele a Giuseppe sul concepimento divino di Maria.
Isolata dalla Sacra Famiglia, è la figura in abiti nobiliari settecenteschi che prega guardando lo spettatore. Ritenuta erroneamente autoritratto del pittore, è più probabilmente il committente dell’opera (il priore della confraternita ? un nobile devoto al Santo ?).
Purtroppo alcune infiltrazioni di umidità dal soffitto (denunciate da anni senza risultati) hanno causato la caduta del colore, impedendo la piena leggibilità del dipinto.
Altra opera degna di menzione è il Transito di San Giuseppe, facente parte della collezione di quadri che il Vescovo di Nardò e Taranto Ricciardi donò al museo archeologico nazionale nel 1907, tramite legato testamentario.
L’opera dopo notevoli vicissitudini e spostamenti, è finalmente fruibile al pubblico dopo il nuovo allestimento e la riapertura del M.AR.TA nel 2007.
Il soggetto del dipinto tratto dalla biografia apocrifa, raffigura la morte di Giuseppe all’età di 111 anni, assistito dalla Vergine, dagli angeli e dal figlio al capezzale del letto. Alle spalle del Santo morente l’Arcangelo Gabriele, abbigliato con armatura seicentesca, veglia sulla scena. La tela attribuita (generosamente, secondo il parere dello scrivente) dalla soprintendenza a Luca Giordano è probabilmente opera di Andrea Vaccaro (autore del bellissimo Salvator Mundi conservato nella stessa collezione museale).
Non bisogna farsi trarre in inganno dalla gamma cromatica dorata, dalla luminosità dei veneti cara a Rubens e ai cortoneschi, ripresa dal Giordano in dipinti di composizione simile, come la celeberrima Deposizione di Pio Monte della Misericordia o il Lot e le figlie di Dresda. La figura patetica di San Giuseppe ci conduce ad Andrea Vaccaro, pittore che lavorò a stretto contatto con Giordano negli affreschi di Santa Maria del Pianto a Poggioreale. Il dipinto quindi, testimonierebbe la congiuntura del Vaccaro con alcune prove giovanili del più celeberrimo e quotato pittore napoletano quali appunto la Deposizione del Pio Monte e quella di soggetto analogo della Gemaldegalerie di Oldenburg (come giustamente rileva il Prof. Galante)
Il terzo dipinto è un gioiellino di Corrado Giaquinto raffigurante il Sogno di San Giuseppe conservato nel palazzo arcivescovile di Taranto[1] e proveniente dalla chiesa di San Domenico della città ionica.
L’angelo che irrompe sulla scena scuote il clima di intimità domestica, ordinando a Giuseppe di fuggire in Egitto con Maria e il Bambino a causa della persecuzione di Erode. Il pittore molfettese di educazione napoletana e romana, era presente a Taranto con un’altra tela di ragguardevoli dimensioni raffigurante la Natività di San Giovanni Battista. Quest’ultima opera conservata nella pinacoteca provinciale di Bari (a titolo di deposito…perenne, aggiungo io, se le istituzioni preposte non si attivano per chiederne la restituzione) fu commissionata da una nobildonna tarantina, per l’altare maggiore di San Giovanni Battista, chiesa poi abbattuta dal discutibile piccone risanatore negli anni ’30 del Novecento.
L’opera custodita nell’episcopio testimonia la maestria del pittore molfettese nei dipinti di piccolo formato, caratterizzati da delicate e cangianti sfumature pastello, dall’azzurrino, al rosa-lilla, al turchese, che apportano alla scena quella trasognante atmosfera onirica.
Il dipinto costituisce il modello per il bozzetto conservato nella pinacoteca di Montefortino (vero must per gli amanti del maestro) e nella collezione della Baronessa de Maldà a Barcellona, testimonianza del soggiorno spagnolo di Corrado.
Un altro protagonista del ‘700 napoletano presente a Taranto è lo scultore napoletano Giuseppe Sanmartino, il maggiore esponente della plastica a Napoli in età borbonica tra tardo barocco, rococò e protoneoclassicismo[2].
La statua di San Giuseppe presa in esame chiude in ordine cronologico, insieme al San Giuseppe Gualberto, l’importante ciclo di sculture che l’artista realizzò per il cappellone di San Cataldo, nella Cattedrale ionica. L’opera di marmo, collocata nel vestibolo della cappella, fu commissionata nel 1790 dall’arcivescovo Capecelatro, il cui stemma è effigiato sul basamento. L’artista per l’approvazione della statua aveva inviato al presule un modellino di creta che, ratificato, perfezionò il contratto con la cifra pattuita di 700 ducati. Una probabile riproduzione in ceramica del bozzetto preparatorio è conservata al Getty Center di New York ed è stata attribuita a Gennaro Laudato[3].
San Giuseppe appoggiato ad un blocco roccioso regge Gesù Bambino con fare protettivo, afferrandogli delicatamente il piedino sinistro; il fanciullo sembra indicarlo o piuttosto fargli il solletico, senza però scomporre il padre putativo. Nonostante l’impronta personale del maestro, si nota l’apertura verso le già diffuse istanze neoclassiche, la scultura sembra affine alla pittura accademica dell’ultimo De Mura.
Passando in provincia, va segnalata a Manduria la statua lignea di San Giuseppe col Bambino Gesù conservata nella chiesa eponima. La statua portata alla ribalta nella mostra leccese sulla scultura barocca del 2008, è opera dello sculture Vincenzo Ardia che si firma sul retro della pedagna.
Dello scultore vissuto a cavallo fra il 1600 e il 1700 è conosciuta in Italia soltanto un’altra statua, il San Francesco Saverio di Ghemme presso Novara (che ironia della sorte si lega alla cittadina messapica anche per l’ottima produzione di vini), esposta anch’essa alla mostra per fini comparativi.
San Giuseppe regge amorevolmente Gesù con la mano sinistra, mentre il fanciullo protende le braccine verso il padre quasi a chiedere protezione; il tutto è rafforzato da un complice gioco di sguardi[4]. Con il braccio destro il falegname regge il bastone da cui, secondo la tradizione agiografica, sbocciano fiori di mandorlo simboleggianti la scelta divina. Secondo altre interpretazioni il mandorlo in ebraico “shaked” presenta una forte assonanza con la parola “shakad”, che significa “vegliare”, come Giuseppe fece con Maria e Gesù; il frutto poi, duro esternamente e tenero e dolce internamente richiama il carattere protettivo del falegname.
L’accento plastico della statua è caratterizzato dall’incedere del Santo e dallo strabordante panneggio, che a fatica si raccoglie intorno alla vita. Il recente restauro curato dal laboratorio del museo provinciale di Lecce, ha messo in luce la ricca decorazione floreale che riveste il manto e la tunica; un vero e proprio campionario floreale che va dai tulipani, agli anemoni ai nontiscordardime, raro a vedersi nella scultura napoletana del periodo .
[1] In occasione delle giornate FAI di primavera, 26-27 marzo 2011, il palazzo arcivescovile di Taranto sarà aperto al pubblico. All’interno dell’edificio, oltre la tela del Giaquinto, sono conservati dipinti di Nicola Malinconico e altre tele di scuola napoletana e locale.
[2] Tengo a sottolineare come lo studioso Catello, nella sua godibile descrizione monografica sul Sanmartino, dedica la copertina al San Francesco del cappellone di Taranto. Scelta coraggiosa ma apprezzabile, rispetto al bellissimo e celebre Cristo velato della cappella Sansevero a Napoli, a testimonianza del valore e della bellezza del ciclo scultoreo tarantino.
[3] Scultore coroplastico, molto rinomato nella Napoli borbonica.
[4] In origine il Bambino Gesù reggeva il globo terrestre.
Da Casarano a Palmariggi, da Minervino a Diso, da Sanarica a Poggiardo, da Nardò a Giuggianello, dal leccese al brindisino, in tutto il Salento si festeggia San Giuseppe.
San Giuseppe è uno dei santi più amati dalla comunità cristiana. E non potrebbe essere diversamente. L’umile falegname è il padre terreno di Gesù e riassume in sé tantissimi valori cristiani: la fede, la castità, la mitezza e la bontà d’animo, la povertà, l’amore paterno. Marzo è il mese in cui la natura si risveglia dopo il lungo torpore invernale e quindi, fin dalla notte dei tempi, un periodo di transizione, un passaggio fondamentale nel ciclo della natura tra il freddo della stagione che si avvia a conclusione e la dolce brezza portata dalla nuova stagione primaverile. Marzo è il mese di San Giuseppe. Nel Salento, questa festa è molto sentita ed accompagnata da una serie di antiche e coloratissime, oltre che gustosissime, tradizioni culinarie.
La Taulata de San Giuseppe è uno dei riti più diffusi di tutto il Salento. Sono tredici le pietanze che compaiono sulla tavolata e ognuna di queste ha una spiegazione: pittule, pampasciuni, alici marinate, legumi, pesce ( pesce frittu o a sarsa), arance, la cuddhura, l’insalata di San Giuseppe, e ovviamente lu mieru, il vino rosso; ma su tutte, spicca la massa di San Giuseppe. E ancora, peperoni, pezzetti di carne al sugo, le pucce, farcite in diverso modo, i lupini, olive nere, ronghetto o stoccapesce, finocchi, maccarruni cu lu zuccaru, ecc.
Il numero delle portate può variare da tredici, come i discepoli di Cristo, compreso Giuda il traditore, a nove, sette, cinque, a secondo dei paesi; ciò che conta è che sia sempre un numero dispari. Intorno alla tavola, si siedono tredici santi che sono impersonati dagli abitanti del luogo o anche, in alcuni paesi, da altrettanti bambini che devono fare la prima Comunione.
I tredici santi sono: San Giuseppe, la Madonna, Gesù Bambino, San Giovanni Battista, Sant’Anna, San Gioacchino, Santa Elisabetta, San Zaccaria, Santa Maria Maddalena, San Filippo, Santa Agnese, San Giuseppe d’Arimatea, Sant’Antonio, che sono fissi, ai quali poi ogni paese aggiunge i propri santi protettori e altri santi a piacimento, fino ad arrivare al numero di tredici.
San Giuseppe è sempre il primo a sedersi a tavola e, battendo le posate sul piatto, dà inizio al pranzo, anzi alla grande abbuffata. La massa, conosciuta anche come tria, è una pasta ricavata dalla sfoglia di farina impastata con acqua, tagliata a striscioline e mescolata con ceci o cavoli e condita con olio d’oliva e cannella. Che sia con i ceci oppure con i cavoli, non devono mancare sulla massa, come la ciliegina sulla torta, i frizzuli, delle piccole strisce di massa fritta. Il termine dialettale tria è antichissimo e deriva dall’arabo itrya, che significa “pasta secca”.
La cuddhura, dal greco kollura, ha forma circolare, come la sfera dell’ostensorio, e simboleggia, come il serpente che si morde la coda, il cerchio del tempo che si rinnova; ma il pane è anche un elemento fondamentale della Comunione cristiana e rappresenta, come sappiamo, il corpo di Cristo che si è immolato sulla Croce, come il vino ne rappresenta il sangue. Su questa specie di ciambella di pane, sono rappresentate la verga fiorita di San Giuseppe, cioè il bastone, un Rosario, e al centro viene messa una arancia oppure un finocchio; queste forme di pane vengono posizionate ai piedi della statua di San Giuseppe o vicino ad un quadro del Santo.
La leggenda della verga fiorita dice che, quando il Buon Dio cercava un padre putativo per Gesù Bambino, che doveva venire al mondo, inviò un angelo sulla terra; l’angelo convocò tutti gli anziani del paese, i quali si accompagnavano con il bastone, ma solo sul bastone di San Giuseppe fiorirono dei fiori di iris e delle piante di ceci e così Giuseppe fu scelto da Dio come padre del Bambin Gesù. Giuseppe era un umile falegname e, da qui, il suo protettorato sui falegnami e, in genere, su tutti i lavoratori.
Il Santo è, inoltre, protettore dei poveri e delle persone umili ed essendo egli stato sempre casto e morigerato, è anche tutore delle ragazze da marito, che a lui si rivolgono per trovare l’anima gemella . Quando Giuseppe e Maria con Gesù nel grembo ( “Maria lavava, Giuseppe stendeva, suo Figlio piangeva, dal freddo che aveva”, recitava una deliziosa canzoncina che ci facevano imparare a scuola da piccoli), sfuggendo alle persecuzioni di Erode, erano alla ricerca di un posto dove stare, tutti chiusero loro la porta e non riuscirono a trovare una dimora che li accogliesse, se non una fredda ed inospitale grotta di Betlemme. In ricordo di quell’atto di egoismo ed ingenerosità, quasi a consolazione, si allestiscono oggi le tavolate di San Giuseppe, cosicché il Santo possa idealmente trovare accoglienza ed ospitalità.
Le verdure sono un cibo povero, che rimanda alla primitiva economia di raccolta, basata sui vegetali. I legumi, soprattutto ceci e fave, oltre a richiamare la verga fiorita di San Giuseppe, rimandano alla religione pagana quando venivano offerte ai defunti le primizie della terra. Il pesce è un rimando a Cristo che, durante le persecuzioni dei cristiani, veniva disegnato, sulle pareti delle catacombe, proprio con la forma di pesce.
Gli altri simboli legati a questa festa sono: la palma, che si associa alla Madonna, ed è anche un simbolo di pace (nella Domenica delle Palme si ricorda il trionfale ingresso a Gerusalemme di Gesù, accolto da tantissime palme festosamente sventolanti); la mano, il bastone e la barba di San Giuseppe; il serpente, che rimanda al peccato, di cui si macchiò Giuda il traditore; e poi il martello e la scala, che alludono alla Crocifissione. Sulle tavolate, sono offerte anche noci, mandorle, noccioline.
Dovrebbero mancare la carne, i formaggi e le uova, cibi vietati in periodo di Quaresima, caratterizzato dalla penitenza e dalle rinunce, ma non tutti i Comuni riescono a farne a meno sulle loro tavolate.
Immancabili, inoltre, le zeppole. Queste gustose frittelle si associano alla festa di San Giuseppe e sono di origine napoletana.
Inventate dai maestri pasticceri partenopei nel Cinquecento, come dolce del Carnevale, in seguito, nel Settecento, esse si legarono anche ad altre ricorrenze, come soprattutto quella di San Giuseppe, e si diffusero in tutta Italia, quindi anche in Salento.
I fiori che ingentiliscono le tavolate devono essere bianchi e gialli, perché così vuole la tradizione. In molti Comuni, le tavolate, anche dette mattre, sono allestite all’interno delle abitazioni private. Coloro che ospitano le mattre sono fedeli, particolarmente devoti al Santo, magari per avere ricevuto una grazia o perché San Giuseppe è apparso loro in sogno, ed allora enormi tavolate vengono allestite nel locale più ampio della casa e vengono spalancate le porte per permettere a tutti di entrare.
Nel pomeriggio della vigilia, le tavole vengono benedette dal parroco del paese e il giorno dopo, esse possono fare bella mostra di se ai visitatoti che accorrono da tutto il Salento.
In alcuni Comuni, alla festa si associa anche la tradizionale “Cuccagna”, un antico gioco di piazza che consiste nell’arrampicarsi su di un palo, reso scivoloso dall’aggiunta di grasso, in cima al quale si trova un ricco premio.
La sera di San Giuseppe si tiene poi la tradizionale focara. Anche queste focare o focareddhe rimandano a riti pagani antichissimi, cioè ai riti stagionali del fuoco, riti di purificazione agraria. Nella società contadina del passato, si usava bruciare enormi cataste di ramaglie nei campi alla fine della stagione invernale; i contadini accatastavano tutti i residui inutilizzati del raccolto dei campi e appiccavano il fuoco, volendo in questo modo, anche simbolicamente, chiudere una stagione, facendo pulizia, e aprirne un’altra. La festa di San Giuseppe diventava perciò l’occasione più propizia . Recitava un detto del passato: La Madonna ‘mpastava lu pane, l’Angelu li purgia la pasta, a San Giuseppe li vinia la fame; “Maria, se su pronte le cuddhure, sciamu ‘ntaula cu manciamu, ieu, tie e lu Signore; chiama puru Gioacchinu e Anna, cusì se consuma tutta sta manna!”.
Da queste parti, in occasione della festa di S. Giuseppe, il 19 marzo, vige la tradizione di servire a tavola, fra le altre rituali pietanze, anche i “lampasciuni”, ossia i bulbi globulosi dell’omonima pianta erbacea della famiglia delle Liliacee. I prodotti della terra in discorso crescono a 10 – 15 centimetri circa nel sottosuolo, si presentano simili a piccole cipolle dal sapore amarognolo e sono ricchi di sali minerali.
Nell’approssimarsi della ricorrenza, alcuni sono soliti portarsi in giro per campi, campicelli, colline e collinette, aree non sempre di proprietà, e con l’ausilio di una minuscola zappa scavano in corrispondenza dell’infiorescenza della pianta, per cercare i “lampasciuni” proprio all’origine, nella loro dimora naturale.
Il raccolto è poi ripulito e lavato, sottoposto a bollitura e conservato sott’aceto o sott’olio.
Qualcun altro, per così dire meno “Cincinnato”, al fine di levarsi lo sfizio della leccornia di S. Giuseppe, si limita a recarsi al supermercato dove trova i “lampasciuni” già cotti e in olio al modico prezzo di € 22 al chilogrammo.
Suvvia, cosa sarà mai, l’importante è rispettare la tradizione, o no?
Le Tavole di San Giuseppe: una tradizione ancora viva a Minervino di Lecce
di Mino Presicce e Loredana Cocola De Matteis
Nella tradizione religiosa San Giuseppe sposo di Maria, è il santo tutelare della casa e della famiglia.
Un’antica tradizione salentina vuole che il 19 marzo le famiglie benestanti facessero il “banchetto di San Giuseppe” (la taula ti San Giseppu) al quale venivano invitate le famiglie bisognose.
Con questa usanza il popolo suscitava e manteneva nel cuore degli uomini il dovere della carità e del rispetto per gli umili.
Nel corso degli anni in alcuni paesi, forse perché è cambiato il legame sociale e il rapporto con gli altri, questa tradizione è andata un po’ scomparendo; in altri piccoli centri, invece, questa usanza è ancora viva e le famiglie devote a san Giuseppe la preparano tutti gli anni in segno di ringraziamento delle
Non ci si può sottrarre ad alcuni eventi, tanto sono antichi e tanto perpetuati che fanno parte integrante delle nostre cellule. Da tempo immemore le Idi di marzo rappresentano un momento di passaggio importante nella cultura italica. Il 17 di marzo ricorrevano i “Liberalia” oltre al compleanno della Patria Unita, erano i giorni nei quali “insanire licet.” E in onore di Bacco e Sileno si dava fondo al vino e si cuocevano frittelle di frumento che si condivano con il miele in onore dell’uno e dell’altro operando una sorta di “captatio benevolentiae”.
Da li sembra derivino i dolci tipici del 19 marzo, San Giuseppe Lavoratore. Dolci alteri e aristocratici che, come regine, vestono in questa data gli scaffali delle pasticcerie. Qualcuno ne attribuisce la paternità al convento di San Gregorio Armeno, altri a quello di Santa Patrizia. Altri ancora alle Lucchesi monache della Croce o a quelle dello Splendore.
La prima ricetta trasmessa ai posteri la dobbiamo ad un personaggio della cucina Napoletana: Ippolito Cavalcanti duca di Buonvicino. Così lui
Monteparano (Taranto). Tavolate e fucarazzi per la festa di San Giuseppe
Da tempo immemorabile il 19 marzo costituisce per Monteparano, in provincia di Taranto, un appuntamento da non mancare, per godersi i tradizionali festeggiamenti che si svolgono in onore di San Giuseppe e che culminano nei tipici “altarini” e “tavolate”, oltre i classici “fucarazzi”.
Ma a Monteparano c’è molto di più. La ricorrenza, infatti, nei contenuti essenziali, è riuscita a mantenere ancora intatta sino ai nostri giorni le passate usanze di questo antico casale albanese le quali, a loro volta, rappresentano con molta probabilità un vero e proprio crogiolo delle culture paleo-cristiane (il cenacolo, le tavolate) e di vecchi riti pagani (festeggiare col fuoco l’arrivo della primavera).
Tutto questo, insomma, rende testimonianza ad un momento locale impregnato di devozione ma anche di tradizione, che esprimono meglio di ogni parola il senso di appartenenza alla realtà monteparanese.
L’arrivo della festa di San Giuseppe mette in moto tutta una serie di preparativi che coinvolgono l’intero paese. Quest’anno c’è da dire che l’aria è sembrata ancora più elettrizzata delle altre volte. Chi è passato in questi giorni per le stradine del paese, si è certamente imbattuto in un via vai di donne, intente a preparare gli ingredienti delle tavole devozionali. La cosiddetta “massa”, i “virmicieddi” e le immancabili “carteddate”, tutte pietanze che vengono preparate con appositi riti e lasciate poi stese ad essiccare su “cannizzi”, “tavulieri” e “spunlatore” nei giorni che precedono la festa. Gli uomini, invece, dal canto loro, sono impegnati a preparare la struttura degli altarini (una specie di scalinata rivestita di lenzuola o teli di finissima fattura).
Con l’avvento dei tempi moderni, poche famiglie di devoti avevano in tutti questi anni con umiltà e sacrificio, “mantenuto” questa fascinosa
La chiesa di San Giuseppe, posta a metà strada fra Santa Maria di Leuca e Castrignano del Capo, costituiva un’antica tappa per i pellegrini che dai paesi dell’entroterra erano diretti al Santuario di Leuca.
I lavori di costruzione iniziarono nel 1617, interrotti con l’arrivo a Leuca degli algerini, tanto da rimanere in abbandono fino al 1630, quando furono completati dai cittadini di Castrignano e Salignano nel 1630. L’impianto assai semplice, ad unico ambiente, è caratterizzato da alcuni fregi e ornamenti lapidei sul portale d’ingresso e sulla finestra del prospetto.
La chiesa è immersa in una pineta recintata, aperta in occasione della festa di San Giuseppe, il 19 marzo.
La chiesa, posta sul confine tra il casale di Salignano e quello di Castrignano del Capo, fu per molti secoli contesa fra le due comunità, che per molti secoli ne rivendicarono la paternità della fiera del santo.
Una curiosa leggenda racconta dell’assegnazione dei diritti della fiera agli
S. Giuseppe e la sua festa, fra “Tavole” e “Tavolate”, tradizioni sacre, credenze e devozioni
19 marzo, antivigilia della primavera e, soprattutto, giorno in cui, per i cattolici, si celebra la festa di S. Giuseppe, sposo della Vergine Maria e padre putativo di Gesù.
Il culto e la venerazione verso il Santo Patriarca per eccellenza, capo terreno della Famiglia di Nazareth, sono diffusi in tutto il mondo e numerosi e capillari si contano gli edifici religiosi a lui espressamente dedicati.
A prescindere dalle anzidette notazioni sul piano della fede e di un credo specifico, vale la pena di ricordare che il 19 marzo, in Italia, è stato a lungo considerato “giorno festivo” anche agli effetti civili, una regola abolita con legge del 1977.
Nel Salento, la ricorrenza in discorso contiene e abbraccia pure peculiari usi, costumi e consuetudini d’altro genere, datati e rigorosamente tramandati fra generazioni. In concreto, siffatto capitolo verte sulla preparazione e l’allestimento, in omaggio al Santo, di un pasto, meglio dire un pranzo, conforme e fedele a un menù tanto ricco, quanto indicativo.
L’articolata gamma di piatti e pietanze, ivi compresi dessert e dolci, svaria non a caso, ponendosi anzi agli antipodi rispetto ai frugali e semplici pasti d’ogni giorno nella realtà e nella storia delle famiglie contadine, ma recando insieme, in pari tempo, un connotato morale, intriso e insaporito di generosità, considerazione, altruismo e rispetto nei confronti del prossimo, inteso specialmente nel senso dei più poveri. Presupposto basilare e di principio, è l’invito ad Ospiti, sempre in numero dispari, da un minimo di tre sino a tredici, insieme ai quali condividere il piacere e la gioia della mensa imbandita.
Il tavolo intorno a cui sedere ha la denominazione specifica, giustappunto, di Tavola di S. Giuseppe.
Al centro della “Tavola”, ornata con fiori e ricoperta da tovaglie finissime, campeggia un quadro del Santo e, intorno, sono allineate grosse pagnotte ad anello, impreziosite, al centro, da un’arancia.
Ritornando al tema degli Ospiti o Santi, i primi tre, secondo credenza, s’identificano con la Sacra Famiglia (Gesù, Giuseppe e Maria, quest’ultima deve essere una ragazza nubile).
Quanto al menù e ai piatti, le voci principali sono:
– la “massa” (tagliolini di farina di grano fatti in casa), cotta con ceci e teneri broccoletti di cavolo, servita dopo avervi sparso sopra i
Le fascine di San Marzano di San Giuseppe (Taranto)
Le fascine di San Marzano di San Giuseppe: il fascino di una festa antica, ma sempre viva nel suggestivo mondo di una comunità albanofona
di Giuseppe Massari
A San Marzano di San Giuseppe, piccolo centro cittadino della provincia di Taranto, la festa patronale, in onore del santo falegname di Nazareth, è vissuta ancora oggi come un appuntamento corale importantissimo che si esprime essenzialmente con i riti devozionali della processione delle legna, dell’esposizione delle tavolate e delle “ mattre” e della benedizione del pane, chiamato di S. Giuseppe.
Questi antichi riti risalgono, almeno nelle forme vigenti, da una data importante e storica che è entrata nella vita di questa comunità. Era il 7 settembre del 1866 quando il sindaco di San Marzano, Francesco Cavallo, deliberò che al nome del paese fosse aggiunto il suffisso “San Giuseppe “ esprimendo con questo atto la volontà unanime dei concittadini che tributavano al Santo solenni festeggiamenti con una devozione antichissima.
Infatti il culto a San Giuseppe risale, nella comunità albanofona di San Marzano, già al XVII secolo, portato dalla madrepatria dai profughi albanesi, di rito greco-ortodosso, che qui si stabilirono nella prima metà del 1500. Ed è appunto da quella data che S. Giuseppe, già protettore della famiglia, dei
Il Salento delle leggende. Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto. 2
Siamo stati fortunati, quelli della nostra generazione.
L’ultima della millenaria civiltà contadina, la prima di quella spaziale e tecnologica. A cavallo – e il gioco di parole è qui davvero inevitabile – tra i cavalli che scalpitavano sulle strade di polvere bianca e le astronavi che sono sbarcate sulla luna.
Una generazione passata dalla povertà al benessere economico. Dalla semplicità alla smoderatezza. Una generazione che ha conosciuto i lumi a petrolio e le luci fatue della televisione, l’analfabetismo diffuso e il precariato per i laureati, la felicità dell’attesa per le piccole cose e l’insostenibile insoddisfazione del tutto e subito…
Siamo stati fortunati perché possiamo confrontare, capire, e fors’anche spiegare, quanta ricchezza ed amore avevamo. Quando noi siamo stati piccoli, le nostre famiglie erano tutte numerose. Ai genitori, e fratelli, e sorelle, si accompagnavano nonni, nonne, zii, cugini, amici, conoscenti, persone di passaggio, vicini di casa. Un tesoro di umanità inestimabile. Forse mai più ripetibile. Sicuramente mai dimenticabile.
Non sembra, ma sono trascorsi secoli. Anni-luce, anzi. La gente – ciascuno di noi – viveva con naturalezza nelle case e nelle strade, e dividevamo le stesse emozioni.
I racconti, ad esempio. Quel fascinoso momento, soprattutto in estate, quando le sere all’aperto – seduti con gli occhi curiosi intorno ai nostri maestri di vita – si affollavano di orchi, di draghi, di figlie del re, di misteriosi tesori nascosti… Le nostre fantasie ci accompagnavano verso eroi temerari e invincibili che attraversavano boschi e montagne, e cammina e cammina, superando insuperabili prove e rompendo incantesimi, sempre arrivavano in quell’indefinibile e magico confine del mondo, al di là di tutti i possibili orizzonti, “dove non canta gallo e non luce luna”…
Siamo stati fortunati. Perché quella nostra generazione ha saputo comunque tenere viva la memoria e trasferire qualcosa di quei vecchi tempi che i tempi nuovi non potranno più disperdere: la purezza dell’essere, il senso dell’identità e dell’appartenenza, l’orgoglio delle ‘radici’.
Valori autentici. Resistenti. Inalterabili. Ovunque e con chiunque si concerti la propria esistenza. E che il Salento in buona parte conserva e sa trasmettere ancora, grazie anche (e soprattutto) attraverso la cultura e le salde tradizioni popolari.
Autentico marchio di fabbrica della civiltà salentina sono alcune leggende come questa, riguardante la famosa “pietra miracolosa” della cappella di San Vito a Calimera.
Vi si va obbligatoriamente nel giorno della Pasquetta, e si accede al tempietto – ubicato appena fuori dal paese, ad est del cimitero, sulla strada che conduce a Martano – per il rito propiziatorio “della fertilità e della salute”, arcaico e pagano, ma cooptato nella religione cristiana.Al centro dell’unica navata spunta dal terreno un masso forato, preesistente alla chiesa stessa.
L’apertura nella ‘pietra miracolosa’ pressoché circolare, è alquanto stretta. E tuttavia, appiattendosi sul pavimento, stirandosi e contorcendosi all’occorrenza, una moltitudine di pellegrini (di varia e diversa età, sesso, peso, volume e statura) si provano tenacemente ad attraversare questo monolite d’epoca preistorica, redimendosi e assorbendo dalla magica petra de santu Vitu ogni proprietà benefica e rinnovate energie.
Un’impresa, come si può facilmente intuire, inconsueta e per nulla agevole, ma che – come vuole la leggenda – avrà un esito immancabilmente positivo per chi sia animato da purezza di spirito e da una fede solida e profonda, elemento essenziale perché il prodigioso ‘passaggio’ purificatorio si verifichi.
Se la fede muove le montagne, qui nella chiesetta di san Vito le attraversa.
Ci sono altre “pietre” che continuano a solleticare la fantasia del popolo salentino.
Fra queste, le più misteriose e spettacolari sono sicuramente quelle che si trovano (da secoli, ed anzi da millenni) nelle campagne fra Minervino e il comune più piccolo e anche più grazioso della provincia di Lecce, Giuggianello.
Benché di dimensioni eccezionali, non è facile trovarle, dissimulate come sono fra le vaste distese di ulivi che ricoprono le serre del luogo. Una volta reperite, però, la fatica cederà il passo alla meraviglia e al piacere della scoperta, e la sorpresa e l’ammirazione saranno assolute. Non è neanche facile descriverle in tutta la loro completa magnificenza: bisogna insomma pazientemente cercarle, vederle, e toccarle (davvero) con mano. Un’emozione unica e stupefacente.
Nell’area in questione, a poca distanza gli uni dagli altri, si trovano i massi più imponenti, ai quali la tradizione popolare ha assegnato nomi favolosi come lu Furticiddhu (arcolaio) de la Vecchia (cioè della Strega, moglie de lu Nanni Orcu),lu Liettu de la Vecchia, o lu Pede d’Ercule (a forma di un piede gigantesco).
Per convincimento del celebre archeologo franceseFrançois Lenormant (1837-1883), che intorno al 1866 fu in Italia per esplorare anche le regioni salentine, lu Furticiddhu (cheha la forma di un colossale fungo pietrificato, ed è anche conosciuto come il Masso oscillante) sarebbe nientemeno che la prova fisica del famoso “mito di Ercole” narrato da Aristotele e riportato nel De Mirabilis Auscultationibus.
Secondo tale mito, Ercole rincorse i Titani fin nella Japigia meridionale (la nostra Terra d’Otranto), lanciando contro di loro dei massi enormi nello scontro decisivo, avvenuto appunto nella zona fra gli attuali centri abitati di Giuggianello e Minervino. Uno di questi massi ricadde poi su un cumulo di altre pietre colossali, posizionandosi in un tale equilibrio che il semplice tocco del dito di un bambino basterebbe per farlo rimuovere…
Sempre a proposito dei Titani, va ancora detto che essi, spinti da Ercole verso il mare, finirono poi per annegare, e la decomposizione dei loro corpi diede origine alle acque sulfuree delle terme di Santa Cesarea.
Ma questa è un’altra storia. Anzi, un’altra leggenda.
E le storie d’amore? Eccone una, particolarmente curiosa: è quella della bellissima Principessa di Brindisi e dell’intraprendente Cavaliere misterioso venuto dall’Oriente.
Le nonne dell’alto Salento narrano ancora del nobile don Alfonso, signore brindisino al tempo della dominazione spagnola il quale, essendo giunta la sua unica figlia, fanciulla di rara bellezza, in età da marito, era pronto a concederla in sposa, e con una ricchissima dote, al cavaliere che più d’ogni altro avesse dimostrato di essere forte, audace, e massimamente ingegnoso.
Per questo, ricorse ad un astuto stratagemma. In un’ala del tuttora esistente castello-fortezza posto sull’isola di sant’Andrea, in gran segreto, e in tredici stanze diverse, fece alloggiare la figlia ed altre dodici fanciulle della stessa età, abbigliate tutte allo stesso modo, sfidando gli aspiranti mariti ad indovinare il nascondiglio, e identificando poi, senza alcun indizio particolare, chi fra le tredici fanciulle fosse la vera Principessa.
Aperto ufficialmente il bando, numerosi contendenti si cimentarono nell’impresa, ma dopo molte settimane nessuno fu in grado di risolvere l’arcano. La Principessa, peraltro, si stava letteralmente ammalando di noia. Finché, a bordo di un grande veliero, giunse dall’Oriente un giovane e nobile cavaliere il quale, venuto a conoscenza della singolare ed enigmatica competizione, si fece costruire dal più valente cesellatore della città, con la massima riservatezza, una grande aquila d’oro, capace di nascondere all’interno una persona, e dotata altresì di un meccanismo che, facendo muovere le ali, diffondeva nell’aria un profumo soave, e una musica attraente e melodiosa.
Incuriosito dallo straordinario gioiello di cui parlava ormai tutta la città, don Alfonso chiese all’orafo di poterlo avere in prestito, con l’intento di mostrarlo alla figlia e, se di suo gradimento, di fargliene dono. Il gioielliere naturalmente acconsentì e l’aquila d’oro (nella quale si era preventivamente nascosto il giovane cavaliere d’Oriente) fu portata con ogni cautela nella stanza della Principessa.
Il seguito è di facile intuizione: andati via tutti dalla stanza segreta, il misterioso e scaltro cavaliere – che era peraltro di aspetto affascinante, e figlio di un ricco Sultano – uscì dal nascondiglio, si presentò alla bella Principessa, le raccontò le sue ardimentose imprese, e si dichiarò innamorato perdutamente di lei. Anche per la Principessa si trattò di un autentico colpo di fulmine: così, la storia si concluse con il primo di un’infinita serie di baci.
Superfluo aggiungere che, come in tutte le storie d’amore dei vecchi tempi, la Principessa di Brindisi e il prode Cavaliere d’Oriente vissero per sempre felici e contenti…
Auguri e figli maschi!
Pubblicato su Il Filo di Aracne.
Il Salento delle leggende. Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto
A casa mia, come in molte altre case del Salento,in un tempo non poi così lontano, e tuttavia remotissimo da quello di oggi, era abbastanza ricorrente un gesto, anzi un autentico ‘atto d’amore’, che mi torna spesso alla mente (e al cuore) quando si ripresenta una similare situazione.
Succedeva quando avanzava del cibo, e specialmente un po’ di pane. Magari un piccolo tozzo ammuffito, rinsecchito, raffermo, che doveva essere necessariamente buttato via, e quando si era proprio costretti a farlo, lo si faceva con una certa contrizione, quasi fosse peccato. E in segno di rispetto, chiedendo tacitamente perdono alla sempre sacra ‘provvidenza’, lo si baciava con devozione sincera. Una specie di liturgia, un rito spontaneo, insomma, che nell’epoca attuale, così esasperatamente consumistica, può perfino far ridere o sorridere, ma che la dice lunga sui valori fondanti di civiltà, che abbiamo ereditato insieme alle solide ‘radici’ contadine.
Non aveva molto pane, racconta la leggenda, una donna nelle campagne dell’Alto Salento. E neppure, come si dice, gli occhi per piangere, tant’era povera e sola. Rimasta prematuramente vedova, viveva in una piccola grotta a ridosso di un bosco, e per tirare su la sua bambina andava ogni giorno a far legna, con grande fatica e miseri ricavi.
Siamo agli albori della civilizzazione salentina. In quella zona, sulle coste vicine, a causa di una furiosa tempesta, riparò un folto gruppo di navigatori Cretesi. Il loro valoroso comandante – che alcuni vogliono discendente dal dio Oronte – stabilì di fermarsi definitivamente in quei luoghi, sopra una collina in evidente posizione strategica, a cavallo fra il mare Adriatico e lo Jonio.
Iniziò così la fondazione di una nuova città, che i Cretesi chiameranno Hyria (oggi Oria).
Durante i lavori di costruzione, però, le poderose mura, erette per più di cento piedi, non erano ancora del tutto ultimate, che improvvisamente, e inspiegabilmente, crollarono e rovinarono al suolo. E poiché tale infortunio si ripeté per ben tre volte, si decise di interrogare l’Oracolo, il quale rese infine questo drammatico vaticinio: «La nascita della nuova città impone di onorare gli Dei con il sacrificio di una vergine!».
L’impresa si rivelò tutt’altro che facile. Informati tempestivamente del responso, i contadini dei dintorni nascosero infatti in siti inaccessibili tutte le loro bambine e le giovani fanciulle. Tranne una, però: la piccola figlia della vedova, anche quel giorno rimasta sola in casa, mentre l’ignara madre continuava a tagliare legna nel bosco.
Così, presa la piccola, il terribile sacrificio ebbe il suo crudele compimento, e le mura non caddero più.
Al suo ritorno, la povera donna fu subito informata della tragedia, e per quanto confortata da alcune pietose vicine, distrutta dal dolore si gettò in un precipizio, non senza aver prima maledetto la nuova città: «Possa tu, Oria, fumare nei secoli come arde e brucia oggi il mio cuore!».
Da qui nasce il famoso detto: Oria fuma e Francavilla guarda.
Infatti, dal vicino paese di Francavilla Fontana, che fronteggia per l’appunto Oria, si può ancora oggi notare, sulla collina dov’ebbe origine, come una nebbiolina fitta di lacrime che avvolge le mura della città.
È successo qualche tempo fa, a Sternatia, in una sera di primavera.
Nessuna leggenda, in questo caso. Ma un omaggio dovuto alla bellezza delle immortali tradizioni della nostra terra, e della Grecìa salentina in particolare.
Con mia moglie Teresa tornavamo da Cavallino, dov’eravamo stati per salutare alcuni suoi parenti, e avevamo preso la superstrada Lecce-Maglie, tagliando per l’appunto da lì, con destinazione Galatina. Era una di quelle sere di fine aprile, che vorresti non finissero mai: calda eppure ventilata, con profumi d’erbe e di terra sparsi nell’aria, il cielo nero e stellato, luci di campagne e paesi palpitanti sugli orizzonti lontani, voglia di volare e di sognare…
Senza quasi sapere come, a Sternatia ci siamo trovati intorno ad una piazzetta, mescolati con un folto gruppo di paesani che l’assiepavano, del tutto affatturati dai canti e dalle musiche che alcuni giovani avevano improvvisato, ballando a piedi nudi al frenetico ritmo della ‘pizzica’. Un’anziana signora, di tanto in tanto, gridava strane parole e sorrideva. Parlava evidentemente in griko, ed era felice come una bambina.
Quando i ragazzi hanno sospeso di ballare, l’ho avvicinata e le ho chiesto se mi recitava qualcosa – qualsiasi cosa: una preghiera, una poesia, un proverbio… –, purché me la raccontasse in quella sua arcaica e affascinantissima lingua, della quale (lo confesso senza pudore) ho sempre compreso solo pochissime parole, ma starei per ore ad ascoltarla, perdendomi.
Allo stesso modo di quando, mille secoli fa, mi capitava di andare in Corso Re d’Italia a trovare zio Nino nella sua rinomata “Casa del Cacciatore”, specialmente di giovedì, giorno di mercato, e vedevo tornare verso la stazione ferroviaria donne e uomini quasi di un altro mondo, che parlavano quella lingua incomprensibile ma di scintillante armonia.
Così, la vecchietta (mi sembra di ricordare che si chiamasse Maria Donata) è stata al gioco, ci ha fatto cenno di accompagnarla in una corte vicina, e dopo aver chiamato a gran voce due sue “cummari”, ci ha invitato a sedere, sistemandoci in circolo. Tra un bicchiere di krasì (vino) e friselline con pomodoro, capperi e rughetta, mentre la pizzica sulla piazzetta riprendeva e ci rapiva con toni ovattati, siamo rimasti per un tempo infinito ad ascoltare leggende e ‘cunti’ in lingua grika, per nostra fortuna (e maggiore delizia) tradotti in simultanea da una delle tre divertite signore.
Tenera e dolce mi sembra questa filastrocca (che trascrivo in dialetto ‘volgare’), riguardante la Quaremma o Curemma: «Cara Curemma, Curemma cara,/ cu la veste nivvra e mara,/ sempre all’erta, nfacciata a ddha susu,/ pe ci vai girandu lu fusu?». «Spettu Pasca, a tutte l’ore/ cu resuscita nostru Signore». «Curemma ci fili la lana bianca/ cce nci porti de Pasca santa?». «Vu portu pane, vu portu fatìa,/ cu stati a mpace, e cusì sia».
Delle tante leggende di quella magica sera, la più romantica e avvincente – presa peraltro in prestito da un celebre mito della Grecia classica – è sicuramente quella che ha come protagonista Proserpina, la figlia di Cerere, dea dell’abbondanza.
Le nostre “cummari” di Sternatia, nella loro suggestiva versione popolaresca, raccontavano dunque che il Diavolo in persona (nel mito originale è il dio Plutone), costretto a vivere in eterno nel mondo profondo delle tenebre, riuscì un giorno a risalire e a sporgersi fin sulla terra degli uomini. Fece molta fatica a vincere la luce del sole che gli feriva gli occhi,e infine, girando intorno lo sguardo con eccitata curiosità, scoprì le verdi distese dei campi, rigogliose d’erba e di nascente frumento, con gli alberi colorati a festa, e voli gioiosi di rondini che traversavano il cielo. Ma più di ogni altra meraviglia vide una bellissima fanciulla che raccoglieva fiori, e cantava con voce soave, tanto che egli, il più terribile di tutti i dèmoni, diventava docile come un agnellino. Di quella giovane donna anche il nome era bello e gentile: Mirodìa, che in griko – mi dicono – significa Fragranza.
Inutile aggiungere che il Diavolo se ne innamorò istantaneamente, e prima che il sole gli bruciasse del tutto la vista, la rapì e la condusse con sé negli inferi.
La madre della fanciulla, che era la Fata Agapòs, custode e protettrice di tutte le terre e dei loro prodotti, non vedendo la figlia tornare a casa, cominciò a disperarsi, e dopo tre giorni e tre notti di vane ricerche impazzì per il dolore, senza più curarsi dei fiori, dei frutti e della fecondità dei campi, e provocando così un drammatico periodo di siccità e carestia.
Commosso dalla disperazione di Agapòse dalle suppliche della popolazione (che per la totale mancanza di cibo si ammalava e rischiava di morire in breve tempo) il potente Mago Kalò che regnava in quelle contrade, riuscì, con il consenso della stessa generosa Mirodìa, a fare un patto col Diavolo: per i primi tre mesi dell’anno, la fanciulla sarebbe rimasta con lui, mentre per gli altri nove mesi, da aprile in poi, sarebbe tornata da sua madre, e questa, dopo il temporaneo e sofferto periodo di gelo e aridità, avrebbe rigenerato la Primavera e le altre belle stagioni, facendo rifiorire tutti i campi, e ordinando alle piante e agli alberi di dare i frutti più belli e saporosi.
Buona Primavera, dunque! E alla prossima.
Pubblicato su Il Filo di Aracne
Il monachesimo bizantino e i suoi lasciti in Terra d’Otranto
Monasterium sine libris est sicut civitas sine opibus, castrum sine numeris, coquina sine suppellectili, mensa sine cibis, hortus sine herbis, pratum sine floribus, arbor sine foliis…
(Un monastero privo di libri è come una città senza lavoro, un accampamento senza esercito, una cucina senza suppellettili, una mensa senza cibi, un giardino senza erbe, un prato senza fiori, un albero senza foglie…)
L’Abate Abbone1
“In omnibus requiem quaesivi, et nusquam inveni nisi in angulo cum libro.”
Cercai riposo ovunque, e in nessun luogo lo trovai se non in un angolo con un libro.
Tommaso da Kempis2
Il Salento, conosciuto in passato come Terra d’Otranto, ha rappresentato per millenni un’ambita meta di conquista da parte di numerose civiltà. Tutta la penisola salentina, anticamente chiamata Messapia, ovvero terra tra due mari, fu abitata prima di tutto dai Messapi. La dodecapoli messapica, (le città da loro fondate) era costituita da: Lecce, Otranto, Brindisi, Gallipoli, Alezio, Ugento, Ceglie Messapica, Oria, Vereto, Cavallino, Muro Leccese, Vaste, Soleto, Manduria, Egnazia, Roca Vecchia e Nardò. Nel terzo secolo a. C. si passò al dominio dei Romani, poi fu la volta della lunga contesa tra Longobardi e Bizantini che con la loro religione, i loro costumi e la loro lingua avvicinarono molto il Salento a questa nuova cultura greco-orientale. In questo periodo l’impero d’Oriente diede il via a una forte immigrazione dei greci nei territori salentini, anche per assicurarsi un valido appoggio nella guerra ai Longobardi. Furono moltissimi i religiosi che in conseguenza della lotta all’iconoclastia voluta da Leone III Isaurico decisero di trasferirsi nella penisola meridionale, bagnata dal mare Adriatico, così vi sorsero tantissime abbazie. La Terra d’Otranto si ritrovò a partire dal VI secolo profondamente legata all’oriente e a Bisanzio. In questo periodo, giunsero nel Salento, i monaci basiliani, che furono molto importanti sia dal punto di vista religioso, sia dal punto di vista economico-sociale.
Il monachesimo (dal greco monachos, persona solitaria) fu forse la più importante fase costruttiva di una nuova società, che si possa riconoscere, tra le tante fasi distruttive, delle invasioni subite. C’erano tanti tipi di monaci, gli eremiti e gli anacoreti, che vivevano completamente isolati nelle zone montuose o nei deserti, e c’erano i cenobi, che vivevano nei monasteri sotto la guida di un abate. Il monachesimo della nascita si fonda sulla libertà individuale del monaco, che sceglie di sua volontà una vita monastica fatta di ritiro, una vita isolata, con le ore della giornata divise tra preghiera e lavoro ( la famosa regola benedettina ora et labora).
S. Antonio Abate, nato nel 251 circa, nel deserto della Tebaide, è considerato il padre del monachesimo e il primo ad averlo fatto conoscere in Italia, durante un suo viaggio a Roma, nel IV secolo. Il monastero diventa un nuovo tipo di società basata sul concetto cristiano della solidarietà. I monaci costruivano il loro monastero al centro di una radura che poi coltivavano per la produzione di cibo ed erbe medicinali, e tutto quanto era utile al loro fabbisogno. Essi si industriavano per la loro esistenza, divenendo agricoltori, fabbri, artigiani e grandi oratori. Ma soprattutto, abili e preparati insegnanti. Fu S. Basilio, che nella città di Otranto fu anche un valente innografo (compositore di inni poetici e musicali religiosi) a introdurre la novità delle scuole, costruite accanto ai monasteri, dove i monaci potevano insegnare. In un contesto societario di grande ignoranza, infatti, loro sempre dediti alle letture di testi antichi, diverranno gli unici grandi mediatori di cultura. Avevano delle biblioteche con manoscritti e testi preziosi, e si dedicavano alla trascrizione e spesso alle illustrazioni di importanti opere antiche, dei padri filosofi.
Nel canale di Otranto si mescolano le acque del mar Adriatico e del mar Jonio, per poi essere immesse nel Mediterraneo. Nella terra hydruntina si ha la convergenza delle culture, la pluralità delle lingue, la convivenza di antichi popoli. Essa è il punto d’incontro nella mediazione tra Oriente e Occidente. Nella prima metà del IV secolo l’imperatore Costantino fece realizzare la via Roma-Otranto-Costantinopoli facendo di Otranto una vera città cosmopolita. Il Marciano, a proposito del monachesimo in Otranto, scrive: “Quivi, poco infra terra, si vede sopra la schiena del monte Idro l’antico monastero di S. Nicola di Casole, edificato nei tempi di Teodoro imperatore.”3. In Oriente l’ordine basiliano ebbe subito grande sviluppo; in Occidente fu dapprima trapiantato in Sicilia e Puglia, poi in Calabria e poi nel resto d’Europa. Molto rilevanti nella regola basiliana, sono il lavoro manuale, che rafforza il corpo, la preghiera, che rinfranca lo spirito, e lo studio della Sacra Scrittura, che illumina la mente. L’intenzione di S. Basilio era quella di conferire una dimensione familiare alle strutture monacali, e questo fu uno dei motivi che determinò la scelta di non isolarsi, come gli anacoreti, ma di scegliere luoghi silenziosi e solitari, che fossero però vicini ai centri abitati. In base alla regola dettata da San Basilio, la giornata dei suoi seguaci, indipendentemente dallo specifico ordine di appartenenza, dovrebbe essere scandita dalla preghiera in comune recitata sette volte al giorno: da mezzanotte all’alba, poi alle ore 9.00, alle 12.00 e alle 15.00, quindi alla “Terza”, “Sesta” e “Nona”; al tramonto del giorno “l’azione di grazia dei lucernari”, caratterizzata dall’inno “Gioiosa luce”, tipico nella Chiesa bizantina. Poi all’ora di andare a letto Compieta, con il Salmo 90. Non è fissato un tempo di meditazione. L’altra occupazione rilevante del monaco basiliano è, come già accennato, il lavoro manuale artigianale spesso consistente in: tessitura; calzoleria; muratura; falegnameria; agricoltura. Quello dei basiliani è uno stile frugale con una sostanziale semplicità nell’abbigliamento, costituito spesso da una semplice tunica. Tuttavia, quando i monaci basiliani cominciarono ad affluire sulle coste salentine in gran numero durante la persecuzione di Leone Isaurico III, furono costretti a nascondersi in luoghi solitari come grotte, foreste e sulle pendici delle colline, che divennero luogo d’alloggio e di preghiera. A volte, quando non potevano adattare grotte naturali, scavavano nella roccia più friabile, dove creavano dei rifugi simili a pozzi. Questi rifugi naturali, adattati a dimore, furono chiamati “laure”. Qui i monaci continuarono a praticare il loro culto. All’ingresso delle laure c’era sempre un’immagine della Madonna detta “Vergine Portinaia” destinata, secondo i monaci, a custodire il rifugio. Le celle erano piccole grotte scavate nella roccia più friabile, nelle quali si entrava dall’alto attraverso una cavità; all’interno c’era il “giacitoio”, dove riposavano i monaci, e la cripta con parete affrescata destinata alla celebrazione della messa. I paesi intorno a Leuca, facenti parte dell’impero bizantino, furono i primi ad ospitare i monaci basiliani perché erano i primi ad essere avvistati dalle navi che li portavano verso la penisola; della loro presenza sono rimasti i segni, anche se sono passati dieci secoli. Terminate la persecuzione iconoclasta nell’843, i monaci abbandonarono a mano a mano i loro rifugi e innalzarono, nei paesi più importanti, chiese e monasteri, che divennero ben presto importanti centri culturali e sociali: si occupavano dell’istruzione dei fanciulli e degli adulti, insegnavano le tecniche della pesca e dell’agricoltura, dissodavano la terra, rendevano fertili le paludi e le affidavano alla gente del posto per coltivarle. Importarono varie piantagioni nel Salento: la quercia Vallonea, dalle grosse ghiande dalle quali ricavava la farina per il pane, il gelso, il carrubo, il pino d’Aleppo e incrementarono la coltura dell’olivo. Grazie all’opera costante dei monaci l’agricoltura risorse.
Giuseppe Gabrieli, studioso del periodo bizantino, nel 1936 classificava così le costruzioni basiliane in Terra d’Otranto: Cripte- celle eremitiche; Cripte- cappelle; Cripte- Chiesa; Cripte- basiliche; Cripte-pozzi; Cripte con laura o monacali, costituite da alcune celle e da una chiesa.4 Laura in siriaco vuol dire strada costellata di grotte.
Ad Otranto sembra che le grotte di S Nicola, S. Angelo e S. Giovanni facciano parte di altrettante laure e che esse siano le grotte-chiese dei monaci, dove il sabato sera e la domenica si riunivano per i servigi liturgici o il pranzo in comune. Inserite in un ambiente ricco di piccole grotte scavate nella roccia tufacea, poste quasi al centro di villaggi rupestri, si affacciano su strada e servivano certamente per il culto, mentre le piccole grotte venivano usate dai monaci come luogo di preghera e di riposo durante la settimana. Queste infatti sono prive di ogni conforto umano; molto indicate per esercitare la virtù della penitenza e praticare l’ascesi. Sembra (a chi conosce la zona) di essere come sul monte Athos o come in Nitria: esse sono la Tebaide di Otranto.
Per quanto riguarda il monastero di S. Nicola di Casole, di cui sopra, citato dal Marciano, posto pochi chilometri a sud di Otranto, rappresenta uno dei luoghi più importanti del Salento, a livello storico, artistico e culturale, di esso si parla più volte anche nel film Il nome della rosa, tratto dal romanzo omonimo di Umberto Eco. L’abbazia rappresenta il momento più alto della diffusione nel Salento del monachesimo basiliano. Alcuni studiosi ritengono che il monastero dedicato a San Nicola sia stato il più ricco dell’Europa di allora (il suo massimo splendore lo raggiunse tra l’XI ed il XIII secolo) così come la sua biblioteca la più grande e fornita di testi del Mondo dell’epoca. Tradizione vuole che il monastero fosse fondato nel 1098 da Boemondo I d’Antiochia. Sul luogo esistevano altari, cripte e casupole dove i monaci andavano a pregare (casole, in dialetto salentino, da qui il nome S. Nicola di Casole). Successivamente Boemondo lo donò ad un gruppo di basiliani guidati da Giuseppe, che fu primo abate del futuro monastero. Esso ospitò un circolo di poeti in lingua greca, guidato dall’abate Nettario, a cui appartennero, oltre allo stesso Nettario, Giorgio di Gallipoli, Giovanni Grasso e Nicola di Otranto.
Il monastero di Casole è stato dal secolo XI centro propulsore di cultura e di civiltà, anticipando e poi affiancando la famosa scuola siciliana di Federico II da cui ha avuto inizio, nel ‘200, quel processo linguistico da cui sarebbe derivata la lingua italiana. Infatti, qui, tra gli scogli più ad est d’Italia, nascono alcuni tra i primi componimenti in poesia della letteratura nazionale. Nella Terra d’Otranto, nell’Età oscura, la lingua greca, quella parlata oltremare, nelle terre di Bisanzio, è la lingua con la quale si esprime la maggior parte della popolazione e con la quale si esprime pure la comunità italo-greca dei monaci basiliani che ha dato vita all’abbazia di Casole. Il Circolo Poetico di Casole, che si poneva sotto l’ala protettrice di Federico II, e che aveva come guida l’abate Nettario, si proponeva di trattare sia temi religiosi sia temi profani. Esso promosse un vero e proprio umanesimo italo-bizantino in Terra d’Otranto che determinò la sopravvivenza della lingua greca come lingua letteraria del Salento in un’età in cui invece a Palermo, alla corte del grande Federico II, l’italiano volgare prevaleva sulle lingue classiche. Nella penisola salentina, dunque, che stava con Bisanzio, vi era arte e cultura mentre il centro-nord d’Italia era attraversato dalle invasioni barbariche e segnato dalle lotte intestine tra guelfi e ghibellini e dalle conseguenze di un marcato analfabetismo6. “Fu proprio l’abate Nettario, che in modo preminente, cercò di fare della sua abazia un ponte, tra la Roma dei pontefici e la Roma di Basileus”7. Il connubio oriente e occidente, è completo: in Otranto e nella sua terra, codici, liturgia e arte hanno un volto ben definito. Indica che tra il Salento e la Grecia non ci fu rottura ma complementarietà, unione, convergenza, e creò l’umanesimo salentino8.
1 Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano, 2004
2 idem
3 Gianfreda G. Il monachesimo italo greco in Otranto, Edizioni Del Grifo, Lecce, 1994, p.31, cfr in Marciano G. Descrizione origine e successi della provincia di Otranto, I ediz., Napoli, 1855, p.375
4 it.wikipedia.org
5 Gianfreda G. Il monachesimo italo greco in Otranto, Edizioni Del Grifo, Lecce, 1994, p. 75
L’artista toscano ebbe continui rapporti di lavoro con il conte di Soleto Raimondo Del Balzo
di Angela Beccarisi
Galatina possiede un tesoro inestimabile di storia, cultura e pittura. Parliamo ovviamente della chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, eretta nel 1385 da Raimondo Orsini del Balzo, principe di Taranto e marito di Maria d’Enghien Brienne.
Tanto è stato scritto su questa figura di grande condottiero ed abile politico vissuto tra XIV e XV secolo, ma solo negli ultimi anni le ricerche hanno raggiunto importanti risultati, tra cui, non ultimo, quello di fare finalmente chiarezza sulla famiglia di Raimondo Orsini del Balzo ( che per facilità di comprensione in questo testo chiameremo Raimondello) e sui suoi effettivi genitori, vale a dire Niccolò Orsini, conte di Nola, e Giovanna de Sabran (e non Maria del Balzo, come ha sempre erroneamente riportato per secoli una tradizione).
Eppure Raimondello unì alla casata Orsini anche quella del Balzo, proponendo uno stemma composto dai due rami.
Per comprendere questo passaggio bisogna leggere nell’albero genealogico degli Orsini di Nola. Niccolò Orsini, infatti, era figlio di Roberto e Sveva del Balzo, sorella di Raimondo del Balzo, I conte di Soleto (1351). Raimondo del Balzo era prozio di Raimondello, come riportato nella sottostante tabella.
Ugo del Balzo – 1266Signore di Soleto e capostipite
Raimondo del Balzo
(1351, conte di Soleto)
sposa
Isabella d’Eppe
Sveva del Balzo
sposa
Roberto Orsini
(conte di Nola)
↓
Niccolò Orsini
(conte di Nola e 1375 Soleto)
sposa
Giovanna de Sabran
↓
Beatrice del Balzo
sposa in seconde nozzeFrancesco della Ratta
(conte di Caserta)
Raimondello Orsini
(poi del Balzo)
(conte di Soleto e principe di Taranto)
sposa
Maria d’Enghien Brienne
(contessa di Lecce)
In questa sede sottolineeremo il ruolo e la figura di Raimondo del Balzo che viene ricordato nella chiesa di santa Caterina d’Alessandria nel bell’epitaffio affrescato nell’ambulacro destro. Epitaffio che era presente e ancora visibile nel XVIII secolo nella chiesa francescana di Santa Chiara a Napoli, cappella reale degli Angiò, fatta erigere da re Roberto e dalla regina Sancia de Mallorca nel 1310 e affrescata da Giotto dal 1328 al 1333. Nella chiesa napoletana sono ancora conservati i sarcofagi di Raimondo del Balzo e della moglie Isabella d’Eppe, perduti sono i dipinti giotteschi. Tutti elementi che ci fanno comprendere lo spessore di Raimondo del Balzo, gran camerlengo del Regno di Napoli, ma soprattutto conte di Soleto come viene ricordato nell’epitaffio: Soletique comes.
Raimondo non fu solo un abilissimo soldato a capo delle truppe reali, ma si fece anche promotore della costruzione di una chiesa a Casaluce, vicino Aversa, intitolata a Santa Maria ad Nives anche nota come chiesa dei SS. Filippo e Giacomo. Una chiesa sorta per conservare le idrie che furono utilizzate da Gesù nelle nozze di Cana, come riporta una leggenda del luogo.
Una chiesa che venne definita splendida per gli affreschi che Raimondo fece realizzare da diverse maestranze di altissimo livello e dove di recente lo storico dell’arte Riccardo Prencipe ha rinvenuto un’iscrizione medievale in cui è presente il manifesto ideologico di Raimondo e sua moglie Isabella, l’origine del nome del Balzo e la volontà di erigere “templi come dono ai poveri”, poiché i due coniugi erano rimasti privi di quattro figli, morti tutti in giovanissima età.
Per la chiesa di Casaluce, Raimondo del Balzo nel 1365 circa commissionò un polittico andato smembrato nel corso dei secoli, firmato da Andrea Vanni pittore ( Siena 1333-1414).
Andrea Vanni (era di Siena) fu un personaggio politico di primo piano, ma anche eccellentissimo pittore di quei tempi che, secondo i documenti, soggiornò a Napoli, presso la corte reale di Giovanna I negli anni Sessanta e, successivamente, negli anni Ottanta del Trecento. Alcune fonti ci tramandano che a Napoli realizzò diverse opere. Oggi di certa attribuzione è solo il polittico smembrato di Casaluce, voluto da Raimondo del Balzo.
Ma Andrea Vanni fu anche pittore di fiducia di Urbano VI (il pontefice che Raimondello liberò dall’assedio di Nocera), il quale emanò una bolla nel 1385 con cui autorizzava Raimondello ad avviare i lavori di costruzione della chiesa sub vocabulo Sanctae Catherinae a Galatina. Lo stesso anno in cui Urbano VI veniva liberato da Raimondello ed emanava la suddetta bolla in suo favore, Andrea Vanni era presso di lui, come si evince dal carteggio che l’artista intrattiene da Nocera con il comune di Siena, pubblicato per la prima volta nel 1839. Un carteggio che riguarda gli anni 1383 e 1385 in cui risulta evidente il rapporto di fiducia e di lavoro tra Urbano VI è Andrea Vanni e la presenza del conte di Nola Niccolò Orsini.
Per questo motivo ho avanzato una diversa lettura degli episodi galatinesi relativi al grande complesso di Santa Caterina d’Alessandria.
La presenza di una piccola chiesa intitolata a Santa Caterina, precedente all’attuale complesso, individuata nelle visite pastorali come Santa Caterina de Veterjis, molto probabilmente era stata realizzata da Raimondo del Balzo per i motivi evidenziati prima e trasformata nel grande edificio orsiniano dal pronipote Raimondello.
Al grande complesso cateriniano di Raimondello ho ipotizzato che l’opera di Andrea Vanni non fosse estranea, essendo il pittore di riferimento del prozio e del pontefice a cui la famiglia Orsini aveva garantito il proprio aiuto. Maestranze che orbitarono attorno al pittore senese potrebbero aver lavorato a Santa Caterina a Galatina e non escludo un viaggio di Andrea Vanni nella contea di Soleto.
Naturalmente sono ipotesi di lettura storico-artistica degli avvenimenti galatinesi, alla luce delle vicende nel Regno di Napoli e dei tanti protagonisti di quel periodo e mi auguro che vi siano in futuro più elementi a suffragio di questa ipotesi.
Bibliografia
Beccarisi A., Nel segno della stella a sedici punte. Vicende della famiglia dl Balzo nella terra di san Pietro in Galatina, Galatina, 2012.
Cassiano A., Vetere B., Dal Giglio all’Orso. I Principi d’Angiò e Orsini del Balzo nel Salento, Galatina, 2006.
Strinati T., Casaluce, un ciclo trecentesco in terra angioina, Milano, 2007.
di Franco Corlianò
Al solo sentire la parola “Cuturùsciu”, mi basta socchiudere gli occhi per ritornare bambino, per rivedermi correre scalzo e felice e sentire nell’aria i profumi della mia infanzia …
… che gioia all’apparire dei primi temporali d’autunno ! L’aria profumava di erba secca bagnata e noi bambini già pregustavamo i giochi da fare nelle pozzanghere e nei rigagnoli d’acqua piovana, non appena avesse smesso di piovere. Con dei vecchi fogli di giornale costruivamo le nostre barchette di carta e, scalzi e felici, guazzavamo nelle pozzanghere sognando oceani lontani. Posavamo delicatamente le nostre barchette nei rigagnoli d’acqua e queste partivano veloci, spinte dalla corrente e cariche dei nostri sogni e delle nostre speranze .
E poi, all’improvviso, interrompevamo i nostri giochi per seguire la scia di un dolce profumo che, come una farfalla, aveva sorvolato le nostre narici: odore di fumo di fascine d’ulivo misto al profumo di pane caldo, di fichi secchi appena sfornati, di focacce, di “cuturùsci” (ciambelline di pane all’olio e pepe) … Annusando l’aria, seguivamo quel profumo come i re Magi seguirono la cometa, camminavamo guardinghi per le viuzze del paese e poi, all’improvviso, ecco il forno! Eravamo giunti alla nostra Betlemme. Ci affrettavamo a spezzare un fuscello dalle fascine e a porgerlo al fornaio con fiduciosa speranza:
“ Ah, ci v’ha ccriàti … rrivàstive? Siti comu li musci! Beh! … Pe’ sta fiàta venìti qquài … nah!” (Ah, benedetto chi vi ha creati … siete arrivati? Siete come i gatti! Beh! … Per questa volta venite qua … to’) E così, ci arruffava i capelli sorridendo, infilava sul nostro fuscello un “cuturùsciu” e ci metteva in tasca qualche fico secco ancora caldo…
Ma cos’è un “cuturùsciu”? E’ una specie di ciambellina, un tarallino morbido che le donne calimeresi realizzavano recuperando la pasta che restava attaccata alla madia quando facevano il pane. Non si buttava via niente!
Una volta recuperati i residui di pasta ormai indurita, questa veniva fatta rinvenire aggiungendoci un po’ d’acqua e qualche filo d’olio d’oliva e, dopo averla insaporita con del sale grosso ed una manciata di pepe, si realizzavano queste ciambelline già pronte per essere infornate.
Questo sito, per chi non se ne fosse accorto, è diventato in breve un laboratorio in cui l’attività non conosce un attimo di tregua, in cui nessuno è dirigente e tutti sono operai (sarà per questo che, almeno fino ad ora, ha funzionato così bene?) che fanno a gara ad aiutarsi e ad ispirarsi reciprocamente. Così eccomi oggi a ringraziare, come successo prima con altri autori e anche con i semplici lettori che hanno degnato di un commento un qualche mio scritto, Franco Corlianò che col suo post di oggi sull’argomento ha colmato una delle mie infinite lacune (ad ogni modo: ogni ppetra azza parète=ogni pietra innalza il muro), dal momento che di cuturùsciu ignoravo perfino l’esistenza, figuratevi il significato!
Il Rholfs nel v. I, pag. 198 del suo vocabolario al lemma cuturùsci registrato per Martano: “ciambella col buco; nel dialetto italiano1 cuturùsciu”; nel v.II, pag. 943: “cuturùsci: tarallo, biscotto fatto a ciambella”. Il primo lemma reca a sinistra in alto un punto, simbolo grafico adottato per indicare “parola non attestata (congetturale)”; il secondo un punto, sempre a sinistra, ma a mezza altezza, per indicare “parola usata soltanto nei dialetti greci di Terra d’Otranto”. Molto probabilmente il secondo lemma è la rettifica del primo. Stupisce, però, che pure per il secondo manchi qualsiasi indicazione etimologica. Ritengo che l’insigne maestro si sia semplicemente dimenticato di aggiungerla.
Si tratta del greco κοτυλίσκiοv usato da Aristofane (V-IV secolo a. C.) nel significato di coppetta in Acarnesi, 4592.
Κοτυλίσκiοv è diminutivo di κοτυλίσκος, che compare, ad indicare un tipo di focaccia, in Ateneo di Naucrati (II-III secolo d. C), Deipnosofisti, XIV, 647b: “COTULISCHI. Eracleone di Efeso dice che si chiamano così certe focacce ricavate da un terzo di pasta”.
Con cotulischi ho reso la trascrizione fonetica dell’originale greco (κοτυλίσκοι, plurale di κοτυλίσκος) con conservazione fedele del vocalismo, a differenza dell’italiano cotilisco, voce usata in archeologia per indicare le ciotoline, contenenti prodotti del suolo o altre offerte per le divinità, collocate in cerchio intorno ad un vaso più grande detto cerno (in greco κέρνος). Direi che è abbastanza evidente lo slittamento metonimico (dal contenente al contenuto) che ha implicato una sopravvivenza, per quanto sbiadita e inconsapevole, di un’originaria sacralità. Questo fino a qualche anno fa. Oggi, a parte il fatto che nessuna donna o quasi è in grado di lavorare la pasta e tantomeno utilizzarne i resti, non è raro assistere al sacrilegio del pane (non parlo certo di quello raffermo o ammuffito) gettato nella pattumiera.
Ritornando all’etimologia, la madre di tutto è κοτύλη=piccolo vaso, tazza, coppa (solo che nel passare ad indicare la ciambella in κοτυλίσκος bisogna immaginarne la scomparsa del fondo), cavità in cui si inserisce un osso (generalmente il femore), ventosa dei tentacoli del polpo, unità di misura per solidi e liquidi corrispondente a l. 0, 273 nel sistema attico e a l. 0, 205 in quello tolemaico; κοτύλη ha dato vita in latino a còtula o còtyla=metà di un sestario, da cui in italiano il termine scientifico còtile, sinonimo di acetabolo3 (cavità dell’osso iliaco, in cui ruota la testa del femore). Dal latino còtula, forse con l’influsso di cýathus=bicchiere, è nato l’italiano ciotola e, dunque, anche il suo diminutivo ciotolina prima usato come sinonimo del tecnico-specialistico cotilisco.
Da notare, infine, che la cuddhùra (che ad Alessano, Galatina, Maglie e Parabita indica un tipo di ciambella), nonostante una certa affinità fonetica, non ha alcun collegamento, filologicamente parlando, con cuturùsciu, derivando da una parola, sempre greca, diversa: κολλούρα o κολλύρα=pagnotta.
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1 Nota non presente nella citazione ma mia: da intendersi italianizzato.
2 Nonaltro, dammi un vasetto (κοτυλίσκiοv) con l’orlo scheggiato.
3 Dal latino acetàbulum=vasetto per l’aceto; come si vede, viene conservata l’immagine già presente in còtile, ereditata dalla madre greca, mentre còtula e còtyla si erano concesse, come aveva già fatto sempre la madre greca, una sorta di vacanza assumendo la parte di unità di misura: mezzo sestario; il sestario, a sua volta indicava in generale la sesta parte di qualcosa, in particolare un sesto del congio (misura per i liquidi corrispondente a mezzo litro circa) o un quarto di moggio (misura di capacità soprattutto per il grano, corrispondente a l. 8,75 e misura di superficie equivalente ad un terzo di iugero, ossia a circa 840 m2).
Brigantaggio meridionale. Quintino Vènneri detto “Macchiorru”
Insieme con una masnada di delinquenti depredava masserie, rapinava ricchi possidenti, irrideva le autorità che avevano accettato supinamente la monarchia dei Savoia.
di Rino Duma
Premessa
Subito dopo la proclamazione dell’unità d’Italia, in quasi tutti i paesi dell’ex-Regno delle Due Sicilie, si verificarono sanguinose insurrezioni di cittadini fedeli a re Francesco II di Borbone. Nella maggior parte dei casi era il deposto monarca a sobillare e finanziare il brigantaggio per screditare il nuovo governo, rovesciarlo e riappropriarsi del potere.
Anche nel basso Salento si riscontrarono sommosse e scaramucce tra le forze militari e le bande di briganti, che tennero in scacco intere popolazioni, seminando ovunque terrore e morte per diversi anni (1861-65).
Guai a parlar bene e in luogo pubblico dei Savoia: l’imprudente di turno avrebbe corso il rischio di essere malmenato o, peggio ancora, ammazzato dai briganti. Per tale motivo nessuno osava esprimere parole di dileggio contro il vecchio regime o, ancor di più, esaltare il nuovo. Il terrore di una possibile rappresaglia era sempre sovrano e scattava inesorabilmente nei confronti di chiunque. I paesi, che nel basso Salento furono maggiormente colpiti da tali fenomeni malavitosi, erano Poggiardo, Spongano, Ortelle e Diso sul versante adriatico, mentre Melissano, Felline, Alliste, Racale e soprattutto Taviano su quello ionico. In alcuni casi i malviventi occupavano le sedi municipali, bruciavano i ritratti dei sovrani e il tricolore, abbattevano gli stemmi reali e distruggevano archivi e suppellettili di stato. Dopo ogni sortita, i briganti si rifugiavano nelle intricate macchie delle Serre salentine, dove era quasi impossibile scovarli. Per di più questi uomini godevano del pieno sostegno dei contadini, che offrivano loro rifornimenti, riparo e, soprattutto, mantenevano un silenzio omertoso. Il comandante del presidio militare di Terra d’Otranto, Marchetti, interrogato dalla commissione parlamentare sul brigantaggio, dichiarò di non aver mai ottenuto informazioni da chicchessia, neppure dietro pagamento, come se si volesse giustificare di non aver mai catturato un brigante.
Il brigante Quintino Vènneri
A parziale differenza dei banditi lucani e dell’alto Salento, che sposarono la causa brigantesca per motivi esclusivamente politici, il nostro Quintino Vènneri imbracciò lo schioppo, insieme con altri malavitosi, soprattutto per procacciarsi da vivere. Il violento personaggio faceva razzie nelle case dei signorotti di stampo chiaramente liberale, ma, alla bisogna, non mancava di colpire benestanti di credo borbonico.
Quintino Ippazio Vènneri nacque ad Alliste il 20 ottobre 1836 da Leonardo e da Raffaela Manni. Di carattere vivace ed estroverso, mal sopportava le ingiustizie e le prepotenze di certa gente; ciò nonostante era sempre rispettoso delle regole ed era un buon lavoratore. La sua condotta morale era ineccepibile, così come quella politica, sempre fedele al governo borbonico. Nel 1859 si arruolò come recluta, prendendo poi parte alla famosa e decisiva battaglia del Volturno, che segnò l’inizio della disfatta borbonica. Alla fine di quell’anno se ne tornò sbandato e molto sfiduciato nella sua Alliste, mantenendo sempre integra la condotta morale.
Con il trascorrere dei giorni si sviluppò nel Salento una reazione sempre più aspra nei confronti dei piemontesi vincitori, rei di aver completamente sovvertito ogni aspetto della vita economica e sociale. Dalla fine del 1860 in poi Quintino abbandonò l’irreprensibile stato sociale di buon cittadino, che nulla più gli assicurava, per darsi al brigantaggio insieme con altri reietti della zona e procacciarsi lo stretto necessario per sbarcare il lunario. Proseguì in questa scellerata vita banditesca sino a quando il 7 aprile 1861 venne arrestato per reiterate rapine e maltrattamenti nei confronti di alcuni possidenti della zona. Durante il periodo detentivo, molto duro e mal sopportato, Quintino giurò di vendicarsi di coloro che lo avevano accusato e di combattere con ogni mezzo l’arroganza e la sopraffazione delle famiglie più abbienti, colpevoli, secondo il suo convincimento, di aver sottratto alla povera gente ogni mezzo di sostentamento. Ritornato in libertà vigilata, l’uomo andò via dal paese per ritornarvi verso la fine del 1862.
Datosi alla macchia, il Vènneri organizzò una banda di briganti, che via via s’ingrossò sino a raggiungere ben 24 elementi, tra cui spiccavano i nomi di Vincenzo Barbaro di Villapicciotti (Alezio) detto Pipirussu, Barsonofrio Cantoro di Melissano, Ippazio Ferrari di Casarano, Ippazio Gianfreda di Alezio detto Pecuraru, Giuseppe Piccinno di Supersano detto Mangiafarina, Angelo Ferrara detto Mustazza, Antonio Sansò detto Ghetta eGiuseppe Tremolizzo (questi tre ultimi di Villapicciotti). Vènneri compì diverse azioni delittuose, la prima delle quali fu quella sferrata alla caserma della Guardia Nazionale di Ràcale, come avvertimento e dimostrazione di forza della sua banda. Seguirono altre numerose schermaglie tra i briganti, sempre più organizzati e baldanzosi, e le forze dell’ordine, che nella maggior parte dei casi subivano attacchi improvvisi e di breve durata. I malviventi, dopo ogni assalto e dopo aver fatto veloce razzia di armi, polvere da sparo e soldi, si rifugiavano precipitosamente nella sicura boscaglia, coperti dai contadini.
La più grave delle azioni delittuose della ormai famigerata banda fu senz’altro quella perpetrata in danno a don Marino Manco, sacerdote di Melissano, il quale fu impietosamente e barbaramente ammazzato in pieno centro cittadino alle due e un quarto di pomeriggio. I motivi principali che indussero i briganti ad accanirsi contro il prete erano riconducibili soprattutto a rancori personali, ma non mancavano quelli di natura politica. Infatti pare che don Marino, in occasione dell’omelia domenicale, avesse inveito aspramente contro i briganti, accusandoli di continue ruberie nel circondario. A conclusione della stessa, il sacerdote invitava i cittadini a denunciarli alle autorità, qualora fossero a conoscenza di eventuali notizie.
Leggendo gli atti processuali del tribunale, emerge chiaramente il succedersi dei fatti contestati al Vènneri.
Alle tre di notte del 24 giugno 1863, un nutrito gruppo di briganti entrò in Melissano alla spicciolata, senza farsi notare. Arrivati nei pressi della piazza, la masnada di malviventi si divise in due gruppi: il primo si attestò nei paraggi della stazione dei carabinieri, a solo scopo di sorveglianza, mentre il secondo si diresse verso la casa del sacerdote. Giuntovi, il Vènneri bussò più volte alla porta.
“Apri, don Marino, sono un messo di Gallipoli e vi porto un plico del sottogovernatore” – disse il bandito con voce rassicurante.
Don Marino, data la tarda ora, rifiutò di aprire la porta.
“Perché mai un commesso dovrebbe portare un dispaccio a quest’ora di notte?… Tornatene in pace da dove sei venuto!” – gli ribatté con voce tremula il prete.
I briganti, piuttosto innervositi, iniziarono a battere con violenza con il calcio dei fucili tanto da sfondare quasi la porta.
Il sacerdote, per non complicare ancor di più la già grave situazione, a malincuore preferì cedere all’imposizione, nella speranza che i malviventi si sarebbero accontentati delle poche monete d’oro in suo possesso, di vestiario e di cibarie.
Dopo averlo più volte strattonato, Quintino Vènneri pretese da don Marino mille ducati in cambio della sua vita e di quella della perpetua. Non ricevendo una risposta adeguata, i briganti misero sossopra l’intera canonica, impadronendosi di 170 monete da dodici carlini l’una, di due fucili «alla fulminante», di due orologi d’argento, di tredici camicie, di dieci fazzoletti da donna, di tre rotoli di polvere da sparo, di numerose forchette e cucchiai di ferro stagnato e di alcuni candelieri.
“Brutto assassino che sei, ai carabinieri dài da mangiare a volontà e a noi non vuoi dar nulla!” – inveì duramente uno dei briganti.
Non contenti del bottino rimediato, costrinsero il prete a recarsi in casa di alcuni conoscenti per farsi dare delle piastre d’oro, tenendo in ostaggio la perpetua e scortando il prete a debita distanza.
Solo allora don Marino fu liberato, ma dietro giuramento di non denunciare l’accaduto alle forze dell’ordine, pena la sua stessa vita. Come ultimo atto di prepotenza, i briganti distrussero gli stemmi italiani e i tricolori del Municipio e del Corpo di Guardia.
All’indomani, don Marino, scordandosi del giuramento, si recò alla stazione dei carabinieri di Casarano a presentare regolare denuncia, dichiarando di aver riconosciuto il bandito Barsonofrio Cantoro, che era suo compaesano.
Il poverino, però, così facendo, sottoscrisse la condanna a morte.
Le forze dell’ordine iniziarono immediatamente le indagini. A seguito di varie ispezioni, i carabinieri rinvennero in casa dei genitori del brigante, in Alliste, una consistente somma di denaro. Alla richiesta di dare spiegazioni, il fratello di Quintino rispose asserendo che si trattava del ricavato della vendita di orzo, avena e paglia. I carabinieri non credettero alle giustificazioni dell’uomo, per cui lo arrestarono conducendolo dapprima nel carcere di Ugento, per poi trasferirlo nelle prigioni del capoluogo.
Appresa da sua madre la notizia dell’arresto, Quintino Vénneri montò immediatamente in sella e con altri sei malfattori si diresse a Melissano per fare giustizia sommaria.
Don Marino, che mai avrebbe pensato ad una sortita dei briganti in pieno giorno2, usava dopo ogni pranzo fare una rigenerante passeggiata per le strade del paese. Transitando per la piazza principale, si ritrovò di fronte sette persone malintenzionate e con il volto coperto.
“Buongiorno, don Marino, siamo venuti a farti il regalo, come d’altronde t’avevamo promesso!” – sentenziò Ippazio Prete, il quale gli puntò contro il fucile, sparando per primo contro il pover’uomo. Gli altri lo seguirono in rapida successione. In seguito il cadavere fu sgozzato con la punta di una baionetta e fatto rotolare più volte nella polvere.
Il grave fatto di sangue risuonò per tutto il Salento per diverso tempo. Al Vènneri fu data caccia spietata, sin quando non fu arrestato. Ma, dopo poco tempo, riuscì ad evadere, grazie ad un carabiniere amico (?), e a nascondersi nella macchia salentina più folta. Ma non vi rimase per molto tempo, perché, riallacciati i rapporti con alcuni compagni superstiti, ritornò più che mai a delinquere.
Alla testa di un corposo gruppo di malviventi e travestito da militare, Quintino Vènneri bussò una sera al corpo della Guardia Nazionale di Ràcale, asserendo di dover consegnare due detenuti. Aperta la porta, i briganti disarmarono i militari, sequestrando polvere da sparo, tre pistole, alcune sciabole e cinque fucili, per poi darsi precipitosamente alla fuga.
Il brigante continuò per altri due anni nell’azione malavitosa, ma ormai il cerchio gli si stava stringendo attorno. Venne infatti ucciso il 24 luglio 1866 in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine. Gli fu trovato, stretto tra le mani, il fucile di cui andava tanto fiero. Il suo cadavere, posto su di un carro scoperto, fu fatto sfilare per le vie di Ruffano, Casarano, Melissano, Taviano ed infine Alliste, dove fu esposto in piazza per un giorno intero, come avvertimento per gli abitanti.
Furono in pochi a piangerlo, ma il suo nome vaga ancora per le vie di quegli ameni paesi del basso Salento e, se si presta attenzione, si ode ancora il suo grido: “Viva Francesco II, abbasso i liberali, viva i piccinni3 nostri!“.
1 “Macchiorru” – Il nome sta ad indicare Melchiorre
2 Nota – Il prete, per paura che i briganti lo cogliessero nel sonno, preferiva asserragliarsi di notte in cantina.
3 Nota – …Viva i piccinni nostri – Vuol significare “viva i nostri compagni (di lotta)”.
Pubblicato su Il Filo di Aracne
Quelli di Brioni… i figli degli anni terribili. Ovvero come dare senso didascalico alla memoria
Avvocato ed intellettuale valoroso, caratterizzato da uno streben che a tutto antepone il rigore della necessità etica e l’impegno nei fatti umani, Maurizio Fumarola-Mauro presenta l’ultima sua fatica letteraria, collaborante la professoressa Simonetta Ghezzi.
Copia del libro fu a me recapitata, giorni or sono, con una dedica colma d’affetto, ennesima dimostrazione di quanto sia importante l’amicizia per questo galantuomo, al quale si addice l’aforisma di Alexander Pope: “un uomo onesto è l’opera più nobile di Dio”; e, dopo aver letto le pagine, ho maturato l’idea di scrivere poche noterelle di commento, modesto omaggio alla magnificenza espositiva ed ai densi concetti di una persona da me stimata quanto il figlio Vincenzo che ha calamitato tutte le virtù paterne.
Premetto che non ho l’onore di conoscere la professoressa Ghezzi e dunque, pur non dubitando del suo importante contributo all’economia dell’opera, ella mi perdonerà se, esponendo le mie considerazioni, mi rivolgerò prevalentemente a Maurizio Fumarola, le cui memorie sono la struttura portante del testo, chiedendo altresì venia agli Autori se non sono riuscito a renderne appieno l’ampio respiro né la marea di emozioni e rivelazioni che la lettura ha provocato in me; tuttavia, si parva licet componere magnis, ho tentato almeno di sistematizzarle, pur sapendo che magnum et arduum conatur opus.
Non intenso privare il lettore del gusto della scoperta, quindi mi limito a pochi accenni relativi ai contenuti. L’opera fotografa l’odissea del diciannovenne Maurizio, allievo ufficiale di Marina, destinato all’Accademia Navale di Brioni – isole dell’alto Adriatico a nord di Pola – sorpreso con centinaia di commilitoni dall’armistizio dell’8 settembre 1943 ed internato in alcuni campi di concentramento nazisti, subendo privazioni ed umiliazioni sino alla disfatta della Germania ed al ritorno in Italia, anch’esso non privo di difficoltà, problemi, sospetti.
Orbene, il libro è innanzitutto scrupolosa, equilibrata, quasi castigata autobiografia di quel periodo (alla cui stesura concorrono gli appunti che l’Autore sistematicamente vergava), la quale agglutina tutta la temperie del giovane Maurizio e del successivo, maturato chiosatore: una sorta di sacerdozio letterario fatto di purezza e di laconicità espressive alle quali la guerra, prigionia, sacrificio offrono qualità di discrimine letterario e vocazione etico-politica; uno spaccato di storia “vera” narrata con lessico di sostenuto decoro e la cui vera ambizione sembra essere, paradossalmente, l’atemporalità.
Un’opera attraente, in quanto espressione dell’etica di un ragazzo costretto ad esperienze adulte e che si riempie, nel suo dipanarsi, di passione umana e politica attraverso vigorosa aristocrazia descrittiva la quale nobilita la materia dura, opaca di cui deve occuparsi, le ricorrenti insorgenze di contenuti non domi, i naturali squilibri di un giovane che nopn conta più sulla sapienza omogenea dell’umanità ed affida ai suoi diari ed ai pensieri la speranza di una società migliore; in tal modo anche le miserie del lager, la rozzezza degli aguzzini, incastonate in precisi ragionamenti, si attenuano, sono esse stesse attenuazione, litote, addirittura rifugio per le meditazioni di Maurizio.
Il libro, in sostanza, pur lontano dal <<pollói de mémnanthai kalón ei ti ponethé>> di Pindaro, è intensa esperienza umana e letteraria che apre orizzonti a chi voglia seguirne gli sviluppi, l’ininterrotto dialogo con la propria coscienza e con i personaggi che affollano un palcoscenico costruito sugli umani squallori e sulla speranza, sentendo amica la voce del protagonista, il quale mai si nasconde dietro groll, unglück, los (lamenti, sfortuna, sorte), anzi esorta a dividere con lui le sue esperienze, le sue parole in cui si consuma una struggente passione per la natura e le cose degli uomini ma anche l’imperativo di comprendere ciò che sembra ovvio ed è tenacemente oscuro.
Del resto, solo chi ha varcato i confini dell’Ade ha imparato a colloquiare con i morti e con << i guardiani feroci o sgarbati o incomodi, latratori >> noti già a Niccolò Tommaseo ed ha superato le acque torbide di quell’esperienza può ridisegnarne i contorni e le difficili figure senza perdersi nelle angosce personali, anzi conscio che invulnerabile non est quod non feritur, sed quod non laeditur. E chi comprende la tensione morale, quasi socratica, che anima le pagine comprende che esse – bilderbuch a metà tra l’euschemosúne di Alcesti e preziosi rilievi pascoliani – sono atto di profonda adesione ai valori dell’esperienza terrena come scuola di dolore e speranza, poiché narrano di sangue, mortificazioni, avvilimenti ma anche di immagini terse e corporee, di fanciulle ridenti, morbide, appassionate, di mattini e boschi di cui la natura si imbelletta, a testimoniare la forza e la perseveranza di un uomo che viaggiò in un mondo difficile e constatò la verità del pensiero di Elio Aristide: <<taúta túche dídosi kai paraireítai pálin>>.
Un libro, dunque, senza scorie o fogli rotti, una storia nella Storia, la cui prima giustificazione intellettuale è il fondarsi su appunti, memorie, sistemi fusi; e se le cose più giovanili sono affidate a schemi meccanici, se all’inizio dell’opera è evidente la tmesi fra gli avvenimenti e le faticose risposte, il seguito è progressivo liberarsi ed adeguarsi della parola ad immagini prima tanto ingrate, così pervenendo ad una diallage che consente all’Autore, quasi allievo di Hölderlin, di spregiare epifonemi, disfemismi, facili polemiche, comodi abbandoni ai colori più foschi ed a sataniche visioni.
Saggista dotato di sensibilità visiva ed introspettiva tale da restituire al vocabolo “scrittore” – insudiciato dall’abuso che soprattutto oggi se ne fa a causa di decadenti intellettualismi – il primigenio significato (colui che lascia un segno), Maurizio Fumarola scava, ancora una volta, una precisa nicchia in cui collocare il suo gusto letterario, nicchia lontana da falsi cerimoniali, intonazioni salottiere, abusate stilizzazioni. E tratta una materia ricca, varia, naturale, adottando un tónos ed un particolare equilibrio a metà fra il cronista e le reminiscenze del Coro greco, il quale si identifica con i pensieri ed i commenti – deplorazione, rabbia, compassione, rassegnazione – dei suoi compagni e delle persone che, man mano, entrano in contatto con lui, in alternanza di úbris ed anánke.
L’esposizione immediata, sapida, asciutta, monda da orpelli e ridondanze aggettivanti racchiude tesori di quotidiana esperienza, consentendo all’Autore di esplicitare tutto il suo talento drammatico (nel significato greco di azione), nel quale fluiscono natura, sentimenti, chiaroscuri, wahre e falsche, furcht e hoffnung (vero e falso, paura e speranza), inni al dolore, alla vita, all’amore: poche parole bastano a creare l’impressione di un’esistenza piena, trasparente, quella che, per dirla con Renato Serra << non si confonde con nessun’altra >> e la cui descrizione è pregna della più nobile narrativa di discendenza naturalistica, corroborata e circoscritta dalla particolare realtà di quegli “anni terribili” dall’agriotes dell’uomo, dalla consapevolezza che il <<dos moi pou sto kai kinó then ghen>> di Archimede era – ed è – di là da venire.
Tuttavia la lebendigkeit (vivacità) di fisonomie, gesti, espressioni, tutti soggiogati dall’angoscia dell’impotenza quotidiana, la filigrana descrittiva di atmosfere cupe non allontanano il giovane Maurizio da un tenace ottimismo: anche se, apparentemente, nostalgia e lontananza dagli affetti sembrano piegarsi alla realtà, egli non si estrania mai dai suoi incentivi mentali né dalle favole melodiose in cui un diciannovenne istintivamente si rifugia e nelle quali non esistono l’emozione del distacco e le dissonanze della vita; anzi l’assenza degli affetti gli permette sublimarne gli echi, le voci, servendosi di intonazioni veristiche ed impressionistiche le quali disegnano bozzetti di vita, predilezioni miniaturistiche, parole che diventano sensazioni fisiche e rendono l’opera di ogni tempo e di ogni luogo aristocratica e popolare insieme, certificazione di una adolescente ma già complessa personalità i cui penetrali non è semplice violare.
Dunque, opera come architettura di ingegno e semplicità – artigianale e creativa – aderente al precetto di Thomas Huxley, secondo il quale <<le verità accettate irrazionalmente possono fare più danni degli errori ragionati>> ed il cui erzälhen (dire) “si contenta” di non far passare inosservato almeno l’afflato didascalico e di ribadire che anche nei momenti più bui il sapore della vita non deve essere mai abbandonato: confidenze, giudizi, emozioni, interni quasi negligentemente rappresentati, tutto concorre a palesare la congenita e mai tradita saldezza d’animo di questo dotto indagatore dell’umana polisemia, capace di rendere affascinanti temi che quasi nessuno studioso è mai riuscito a sottrarre alla monotonia ed al tedio del piatto cronachismo, appena contrappuntando la materia storica di – rari – licambei personali, la cui iterazione avrebbe guastato l’eleganza espositiva.
Sono questi alcuni dei motivi i quali mi inducono ad affermare come certo l’interesse per l’opera e l’intelletto di un uomo le cui ragioni di speranza sembrano riproporsi nei versi di Trakl: <<Balde an verfallener Mauer blühen/ die Veilchen/ ergrünt so stille die Schläfe des Einsamen>> (Balde fioriscono su pareti fatiscenti, viola, verde diventa cosi ancora il tempio del solitario).
Il lavoro di Maurizio Fumarola e Simonetta Ghezzi si fonda non soltanto sui ricordi ma anche su vasta e penetrante documentazione storica, la quale fa il punto su varie e controverse questioni, illuminandone altre mai affrontate o addirittura ignorate: lo scavo documentario, operato in varie direzioni, consente di ricostruire temi sui quali pochi si sono soffermati o che sono sfuggiti all’attenzione degli “addetti ai lavori”, così inzeppando più di una lacuna riguardante il secondo conflitto mondiale.
E tre aspetti mi sembrano particolarmente importanti nell’economia della ricostruzione: i rapporti con i tedeschi, l’atteggiamento degli italiani circa l’intervento bellico, il confronto con i nuclei partigiani e l’ideologia comunista. Pertanto l’opera non è una delle tante tessere del mosaico guerresco né uno dei momenti di ricerca (apparentemente) particolare, periferica, ma concorre, per la sua parte, ad illustrare con originalità un compatto quadro della politica dell’epoca e delle vicende militari non solo ricco e dettagliato ma altresì in grado di argomentare e prospettare tesi di fondo – storiografiche, etiche, culturali, politiche – utili per chi voglia comprendere fatti sepolti dall’oblio o dall’indifferenza nonché l’abito socio-politico dell’Italia nel momento immediatamente successivo alla Liberazione, attraverso gli occhi disincantati di ragazzi prima tacciati di tradimento dai tedeschi, poi guardati con diffidenza e rancore dai partigiani, in quanto militari, dunque “fascisti”.
A tal proposito giova rammentare che la memorialistica dell’immediato dopoguerra e la successiva storiografia relativa alla partecipazione dell’Italia alla seconda guerra mondiale sono state dominate – tranne rare eccezioni – da una serie di luoghi comuni esibenti la visione di un apparato militare specchio della classe dirigente e dei suoi orientamenti politico-sociali. Tuttavia, pur essendo noti gli obblighi cui la divisa è sottoposta – soprattutto in un regime totalitario – è comunque fuor di dubbio che la Marina (l’Arma in cui il giovane Maurizio servì la patria) fu molto meno “fascista” di altri settori militari e ciò anche a causa di tradizioni, educazione familiare, legami interpersonali, conoscenza delle realtà di altri Paesi. Senza dimenticare che i rapporti tra Marina e fascismo non potettero mai prescindere dal sostanziale parallelismo con la Corona, alla quale la Marina, come l’Arma dei Carabinieri, fu legatissima.
Orbene, le notazioni di Maurizio Fumarola sono preziose anche perché accendono nuova luce sui legami tra fascismo e Forze Armate, tra fascismo ed i veri sentimenti nazionali, tracciando le linee di molte, nuove relazioni ed evoluzioni politiche ed istituzionali – italiane ed europee dell’epoca – proponendosi al di là di pregiudizi e schieramenti di parte che avrebbero limitato la libertà di ricerca e della memoria: il tono pacato, sostanzialmente equidistante del libro non vuole offrire una chiave di lettura personale ma “si limita” a non nascondere nulla, senza cercare di influenzare il lettore bensì offrendogli elementi perché si formi una sua opinione attraverso ragionamenti sul dipanarsi storico dei regimi i quali, pur nelle loro diversità, traevano ragion d’essere nel rifiuto del sistema democratico; fermo restando che le pagine collocano – giustamente – l’”alleato” germanico prima in una sorta di terra incognita, autoriproducentesi in forme via via sempre più degradate, a dimostrazione che mai gewalt geht vor recht ( mai la ragione è del più forte).
A questo punto – tra suggestioni, memorie di vita, sintesi complessive, analisi particolareggiate e comparate, ricostruzioni storiche – la qualità dell’opera non può e non deve meravigliare in quanto ulteriore frutto del nóus di un uomo di cultura (dello storico, in questo caso) il cui compito è acquisire ed esibire nuove conoscenze, compendiandole in un pantheon interpretativo organico, attraverso una “vulgata”storiografica la quale, senza essere revisionismo storico, indaga le ragioni di una certa politica (compreso il “comunismo realizzato”) e riflette su temi quali rimozione, demonizzazione, relativismo.
In tale contesto, secondo la mia opinione, il taglio dato al racconto è quello più giusto, tanto scientificamente quanto in riferimento al lettore: di fronte ad una messe di libri quasi sempre a carattere memorialistico/apologetico o auto difensivo, comunque di parte o di tipo pubblicistico più o meno scopertamente politico esso si presenta per ciò che è: autobiografia messa davanti agli occhi di chiunque voglia vedere (senza tuttavia rimanere prigioniera di un genere biografico tutto risolto nell’uomo) e sistematico lavoro di esegesi storica, la quale riflette sulle conseguenze inattese delle azioni umane, coglie la peculiarità delle varie posizioni, il loro evolversi, convenendo, alla fine, che die zeit heilt alle wunden ( il tempo è il miglior medico), quel tempo che <<ci opprime e ci redime>> come nota Shakespeare.
Ad oltre settant’anni dall’entrata in guerra dell’Italia il libro di Maurizio Fumarola e Simonetta Ghezzi testimonia che la storiografia di quel periodo non è affatto conclusa anzi importa conoscerne sempre più e meglio gli avvenimenti e le verità, soprattutto se consideriamo le attuali e nuove battaglie – pure economiche e sociali – che il mondo sta combattendo: dunque, memoria del passato come monito per il futuro, al fine di capire perché certi fatti, individuali e collettivi, siano potuti accadere ed affinchè non accadano più. Questa, mi sembra, è l’unica vera funzione della storia – maestra di allievi poco diligenti – perciò auguro al libro, che ci ha donato ancora una volta la voce feconda di uno scrittore di razza, le migliori fortune di ogni genere.
Intanto godiamoci le pagine, cras iterabimus aequor, come dice San Bernardo.
M. Fumarola-Mauro, S, Ghezzi, Quelli di Brioni… i figli degli anni terribili, Besa, Nardò 2011
Sulla bacheca di LECCE SI’ – LECCE NO (immagini dal Salento), una pagina di Facebook dedicata alle minuzie di Lecce e del Salento, Daniele De Giorgi ha lanciato un appello per l’Arco di Prato, ubicato nell’omonima piazzetta di Lecce, perché versa in un avanzato stato di degradoi.
L’appello è stato raccolto da Valeria Taccone, che ha proposto di coinvolgere chiunque abbia competenze in materia, per far sì che si discuta di questa situazione e si porti all’attenzione di tuttiii. Da qui la decisione di scrivere qualche nota su questo Monumento.
Da una rapida analisi delle fonti a disposizione per conoscerne la storia, è venuta fuori una ridda d’informazioni tali, da poter definire l’Arco di Prato una sorta di Bignami della storia di Lecce. La sua presenza testimonia il passaggio dei romani, dei normanni, degli aragonesi, la visita di Ferdinando di Borbone a Lecce, quell’ancora viva nell’immaginario comune grazie alle note di Arcu te Pratu l’inno popolare leccese di Bruno Petrachi.
Qui visse e si spense il 2 dicembre 1922 Cosimo De Giorgi, l’appassionato studioso e promotore della tutela del patrimonio storico, artistico e ambientale di Lecce e della sua grande provincia. Fortuna volle che nel 1874, mentre si costruivano le fondamenta della sua casa, al numero civico dieci di Via Arco di Prato – ubicata all’interno del cortile oltrepassato l’arcoiii -, gli operai portarono alla luce delle grandi lastre di calcare compatto bianco, De Giorgi fece ampliare lo scavo e venne fuori un tratto di strada romana «in tutto simile alle antiche vie che partivano da Roma ed ai resti della “Via Appia” trovati presso Brindisi», sulla cui superficie era presenti «solcature longitudinali prodotte dalle ruote dei carri e dirette da NW a SE cioè verso la Piazza S.a Chiara»iv.
Secondo Giulio Cesare Infantino «i Capi» dell’esercito romano «e più Veterani di questi soldati havevano in Lecce publiche stanze con privilegio della francheggia, & il luogo particolare era dov’è hoggi l’Arco di Prato, con la Chiesa di Santa Maria de’ Veterani»v. Per questo motivo Teodora, sorella del conte normanno Goffredo, nel 1118 volle dare questa intitolazione al pio luogo da lei fondato «per certa pace conchiusa in quelle stanze fra i suoi parenti, fratelli, & altri Signori di molto conto»vi.
Sempre nella prima metà del Seicento Nicola Fatalò: nella sua serie dei vescovi, deputava l’intitolazione della chiesa fondata da Teodora, ai «soldati, tenuti in presidio della Città dal Conte Goffredo», i quali «per la loro libertà militare alle Donne, si che moltissime trattenevansi in casa, con non poterne meno frequentar liberamente la Chiesa», la nobildonna normanna «ordinò per tanto, che si fabricasse, con dedicarlo alla stessa gran Regina del Cielo, imponendo sotto pene rigorosissime à soldati, che non ardissero frequentar altre Chiese che questa: onde a tal fine volle, che si chiamasse la Chiesa di Santa Maria de’ Soldati Veterani»vii. Fatalò, conclude «sta nel suo essere, e nella sua francese architettura sin’oggi questa Chiesa»viii. Jacopo Antonio Ferrari ha tramandato una sommaria descrizione dell’interno della chiesa, dove era posto il «maggiore altare tra i due ordini delle colonne, sopra delle quali furono le due sue ale construtte»ix. Le visite pastorali, probabilmente, la descrivono più dettagliatamente.
Non rimane più nulla della “francese architettura”, al suo posto sorge, in via Santa Maria dei Veterani, un anonimo edificio la cui porta d’accesso è sormontata dallo stemma della famiglia Fonsecax. Ma era quello il sito originario o la chiesa confinava con l’Arco?
Il pio luogo nel corso dei secoli ha assegnato il nome a un isolato del portaggio San Martino: Ste Me de la Vetrana del 1508xi e Veterane nel 1606xii, nel 1631 lo stesso comprensorio di case era denominato isola dell’arco di Prato e ricadeva nella parrocchia della Madonna de la Porta.
Imboccando via Santa Maria dei Veterani, si vede il fianco dell’arco dov’è apposta una tabella lapidea con tre esemplari dello stemma della famiglia Prato.
La lapide con gli stemmi affissi rappresenta un’importantissima testimonianza per gli araldisti, fu considerata da Filippo Bacile di Castiglione, nel 1894, «ragguardevolissima» perché «sono in essa incorniciati due stemmi a cuore (tipo Angioino, come vedesi in Santa Caterina di Galatina); ed un terzo scudo, in mezzo, più piccolo ed inclinato, con elmo e mantellina, e, per cimiero, due lunghe ali». Il barone blasonò gli stemmi «di oro, a tre pali vajati di argento, e di azzurro» e suggerì di «sorvegliarne la conservazione, con le altre, ma che più specialmente possono riuscire grate a chi s’interessi della famiglia Prato, essendo state le armi sue dovunque deformate, per la falsa interpretazione dei pali e del vajo araldico»xiii. Purtroppo l’attuale stato di questa lastra, permette a stento di leggere quanto descritto da Bacile.
Versano in condizioni peggiori, tant’è vero che non sono più leggibili a causa dell’erosione e dello smog, le figure araldiche poste ai lati dell’arco, i cui scudi sono sormontati, ognuno, da una figura antropomorfa.
La famiglia Prato – i cui membri sin dall’epoca normanna hanno dato lustro alla casataxiv – ha ininterrottamente abitato questo palazzo nel corso del Cinquecento, così come riportato in svariati atti notarili. Nel 1631, nell’Isola dell’arco di Prato, Gualtieri Prato risiedeva in casa di Aloisio Baglivo, mentre nella limitrofa Isola di San Leonardo abitava Francesco Prato con il chierico Francesco e quattro figliexv.
Non si sa quando i Prato diventarono proprietari del luogo dove è stato eretto l’Arco: nel 1508 lo erano sicuramente, dato che nel grandioso palazzo abitava la vedova di Guglielmo con i figlixvi. L’entrata principale del grandioso edificio, passato poi ai Bozzicorso, è al numero civico 40 di via Degli Antoglietta l’arco nell’omonima piazzetta «serviva d’ingresso a un grande atrio, con giardini, nel quale era forse l’accesso al Pal., prima che si fosse fatto l’ingresso principale nella V. degli Antoglietta»xvii,
Il possente arco cinquecentesco che immette nell’attuale corte, presenta sul lato sinistro due nicchie nel cui coronamento Bacile trovò assonanze con alcuni ambienti del castello: «dal cortile si discende, con pochi gradini, in un vano, sotto il Maschio. Ha un carattere speciale: si direbbe a due navi; e gli archi per i quali queste si comunicano son coronati d’un motivo, che si riscontra nei due di ogni lato, che si hanno ai fianchi passando lungo l’Arco di Prato»xviii.
Dalla descrizione di Bacile, parrebbe di capire che anche lungo il lato destro dell’arco, in passato si aprissero delle nicchie, ma la cornice continua posta al disotto dell’imposta della volta a botte, non dà riscontro all’asserzione dello studioso.
Su questa parete, così come già notato nella Guida della Lecce Fantasticaxix, inoltre, sono presenti svariati graffiti che attestano la datazione di questo muro. Mario Cazzato nel 1991 ha individuato un 1647, anno della rivolta di Masaniello, il cui strascichi causarono morti e distruzioni anche a Lecce e in Terra d’Otrantoxx.
Oltre al non più leggibile 1647, sulla parete sono incise altre date, compaiono, inoltre, una croce greca e altri graffiti di difficile interpretazione.
Che cosa indicano? Segnalano luoghi di sepoltura? Sono stati incisi da chi si rifugiò nell’arco? Secondo la tradizione chi oltrepassava questa struttura acquisiva l’immunità, perché «alcuni cronisti asseriscono che Leonardo Prato padrone del Pal., ottenne, a questo, molti privilegi e, fra gli altri quello che non si potesse arrestare chi entrasse nell’atrio da quell’arco»xxi, privilegio ottenuto dagli aragonesixxii.
A fine Settecento l’arco fu protagonista di un famoso aneddoto: «Ferdinando IV di Borbone giunse in visita a Lecce il 22 aprile 1797. Il sovrano volle visitare le chiese e i conventi della città e dei dintorni. In queste lunghe escursioni era accompagnato dal sindaco Oronzo Mansi, autore di una cronaca di quelle giornate: il “Ragguaglio”. Il re non aveva nulla da fare, gli unici diversivi erano i ricevimenti organizzati ogni sera in suo onore. Per ragioni di etichetta, il sovrano non poteva sottrarsi ai noiosi concerti, né tanto meno all’elucubrazioni artistiche dedicategli dai nobili leccesi. Doveva, inoltre, sottoporsi ai convenevoli del vescovo Spinelli, che lo ospitava nel suo palazzo. Questa serie di circostanze rendevano Ferdinando IV sempre più nervoso. Il 3 maggio Ferdinando IV, solitamente affabile, era di pessimo umore. Il programma prevedeva una visita al monastero della Nova, dove partecipò alla funzione religiosa. Uscito dalla chiesa, il corteo reale imboccò via Leonardo Prato. Giunti nei pressi dell’Arco, il sindaco disse: “Maestà, questo è l’Arco di Prato”. Ferdinando IV rispose: “Me ne strafotto, io, dell’Arco”. Nel frattempo i leccesi avevano mal sopportato la lunga permanenza del re in città e il conseguente rincaro dei generi alimentari. Finalmente giunse il momento della partenza: la mattina del 8 maggio. Piazza Duomo, però, era deserta. Ferdinando IV chiese spiegazioni al sindaco. Il Mansi, che non aveva dimenticato l’affronto subito, rispose: “Maestà, Lecce è città te l’arte: se nde futte te ci rria e de ci parte”»xxiii.
Riguardo allo stato di degrado di questo Monumento, già nel 1874 Luigi De Simone, accennò al «magnifico Arco, che nominarono dei Prato, e che si sarebbe voluto abbattere con molta leggerezza tre anni or sono; ma ne abortì il desiderio: e spero, dopo la pubblicazione di queste notizie, che non si abbatterà più»xxiv. Speranza esaudita quella di De Simone, ma ora l’arco si sta sgretolando, e con esso i suoi tanti elementi che ne raccontano, anzi, ora come ora, ne sussurrano la storia, poiché ormai poco o nulla si riesce a leggere dal vivo. L’arco già restaurato nel 1979xxv, recentemente è stato sottoposto ad un intervento di “ripristino” in facciata, ma avrebbe bisogno di nuovi interventi.
Come rispondere alle proposte su LECCE SI’ – LECCE NO (immagini dal Salento), andando oltre queste poche note?
Questo monumento merita approfondite ricerche: è una preziosissima fonte per gli studiosi di araldica, genealogia, archeologia, storia, storia dell’arte, storia dell’architettura e dell’urbanistica. È uno dei monumenti tra i più rappresentativi di Lecce, perché abbandonarlo al suo destino? Pur se privato, non è patrimonio dei leccesi? È possibile che sia vittima del suo stesso sinonimo, giacché a Lecce si usa manifestare il proprio disinteresse per una cosa o una persona, declamando “Arcu te Pratu”?
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i «Una proposta: dedichiamo un po’ di attenzione all’Arco di Prato, che si sta letteralmente sbriciolando. E’ uno dei luoghi più simbolici della nostra tradizione, ma l’amministrazione lo lascia in malora, forse perché è meno sotto gli occhi dei turisti di tanti altri capolavori leccesi. La struttura e la corte nella quale l’arco immette sono corrose e preda del degrado. Ogni volta che ci passo, mi si stringe il cuore».
ii «Ho da fare un appunto (e una proposta) riguardo alla situazione dell’Arco di Prato: se aspettiamo che “chi di competenza intervenga”, purtroppo abbiamo poche probabilità che qualcosa si realizzi, che qualcuno si accorga di ciò che va fatto e che scelga di intervenire. Il patrimonio culturale della nostra città è un bene comune, e come tale merita competenze e attenzione da parte di ognuno di noi. Mobilitiamoci seriamente noi per primi, proviamo ad usare il web come uno strumento per cambiare le cose e non solo come mezzo di indignazione. In questo caso ad esempio, potremmo fare un piccolo report, approfittando del periodo natalizio delle vacanze natalizie e raccogliere le firme per sollecitare un intervento da parte dell’amministrazione. Portiamo seriamente l’attenzione su questo pezzo di storia, da questa pagina web alla piazza e al palazzo comunale. Incontriamoci e discutiamo, se qualcuno di noi è un’architetto, un restauratore, un fotografo, un giornalista, uno scrittore si senta doppiamente chiamato in causa per dare una mano, come cittadino e come professionista. Per chiunque condivida la mia opinione e voglia accordarsi per fare insieme qualcosa, lascio la mia mail: valeria.taccone@libero.it.».
iii Cfr. A. Foscarini, Guida storico artistica di Lecce, Lecce 1929 (Ristampa a cura e con note di Antonio Eduardo Foscarini, Lecce 2002), p. 110 (88).
iv C. De Giorgi, Lecce sotterranea, Lecce 1907, p. 80. Tra fine Ottocento e Novecento in questa area della città ci sono stati svariati ritrovamenti di epoca messapica e romana (Cfr. L. Giardino, Per una definizione delle trasformazioni urbanistiche di un centro antico attraverso lo studio delle necropoli: il caso di Lupiae, in Studi di Antichità, 7, 1994, pp. 137-203).
v G. C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. A cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), p. 168.
viIvi, p. 126. Nelle lapidi apposte sulle due porte di accesso all’edificio sacro, si faceva menzione di quest’avvenimento (Cfr. Ivi; Pietro De Leo, Contributo per una nuova Lecce Sacra. I. La serie dei vescovi di N. Fatalò. Testo e note critiche. Parte Seconda, dalla conquista normanna al concilio tridentino, in La Zagaglia: rassegna di scienze, lettere ed arti, A. XVII, nn. 65-66 (gennaio-giugno 1975); J. A. Ferrari, Apologia paradossica della città di Lecce (1576-1586 ca.), Lecce 1707) .
ix J. A. Ferrari, Apologia paradossica… cit., p. 339.
x Cfr. P. Bolognini – L. A. Montefusco, Lecce Nobilissima, Lecce 1998, pp. 191-192.
xi Cfr. A. Foscarini, Lecce d’altri tempi. Ricordi di vecchie isole, cappelle e denominazioni stradali (contributo per la topografia leccese), in “Iapigia”, a. VI, 1935, pp. 425-451.
xii Cfr. Cfr. N. Vacca, Lecce nel ‘600. Rilievi topografici e demografici. I gonfaloni dei quattro «pittagi» che componevano la città, in “Rinascenza Salentina”, VII, 1939, 1, pp. 91-95.
xiii F. Bacile, Scritti varii di arte e storia, Bari 1915, p. 63.
xiv Giulio Cesare Infantino nella sua Lecce sacra dedica due pagine alle gesta dei membri della famiglia Prato (Cfr. G. C. Infantino, op. cit., pp. 141-143). Le gesta dei Prato sono state ripetutamente descritte anche nell’Apologia paradossica. Il loro nome compare ovunque nei testi che trattano della storia di Lecce e non solo.
xv Cfr. lo Status animarum civitatis Litii 1631, manoscritto conservato presso l’Archivio Vescovile di Lecce.
xvi Cfr. A. Foscarini, Lecce d’altri tempi… cit. p. 441.
xix Cfr. M. Cazzato, Guida della Lecce Fantastica, Galatina 1991, pp. 140-141.
xx «Anno 1647, 7 luglio – Sincronismo storico: Masaniello – Insurrezione partenopea contro i balzelli imposti dal Duca d’Arcos, vicerè spagnolo, alla città di Napoli. Per le ripercussioni in Terra d’Otranto è utile ricordare che la città di Lecce tumultua contro le tasse e il malgoverno, Capo-polo Francesco Maramonte – In Brindisi, il malcontento generale, serpeggiante fin dal passato giugno, sfocia nella tremenda sollevazione del 5 agosto, al grido: “ Abbasso le gabelle!” Capi-popolo: Donato e Teodoro Marinazzo. Il 21 luglio si solleva Nardò per mancanza di pane: Capo-popolo il soldato Paduano Olivieri. – Il 25 luglio Ostuni è orrendo teatro di sollevazione antifiscale: Capo-popolo il barbiere Francesco Antonio Turco. – Si ha notizia dei tumulti di Taranto, Capo-popolo Matteo Diletto; di Massafra, di San Vito, di Ceglie Messapica; di Francavilla Fontana, di Latiano. – In Grottaglie la sollevazione assunse carattere di vera carneficina». (N. Vacca, L’interdetto contro la città e la diocesi di Lecce in una relazione inedita della sua Università, in Rinascenza salentina, A. 3, n. 4 (lug-ago 1935), XIII, pp. 189-204:, p. 197).
xxii L. G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti. La città, Lecce 1874, nuova edizione postillata a cura di N. Vacca, Lecce 1964, p. 299. De Simone, in nota rimanda alla pagina 310 dell’opera di Beatillo (Cfr. A. BEATILLO, Historia della Vita, Morte e Miracoli e Traslazione di Santa Irene da Tessalonica Vergine e Martire, Patrona della Città di Lecce in Terra d’Otranto, Bari 1609 (riedito a cura di G. Barichelli Bresciano, Lecce 1714).
xxiiiG. Falco, Arcu te Pratu, in Notes – Appunti dal Salento, a. XIII, n° 9, 2 – 8 marzo 2002, p. 5.
xxiv L. G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti… cit., p. 299.
xxv Cfr. M. Paone, Palazzi di Lecce, Galatina 1979, p. 92
« Noi fummo i gattopardi, i leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene; e tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra. »
(Principe Don Fabrizio Salina)1
« Ribellarsi e ribellarsi ancora, finché gli agnelli diverranno leoni. »
(Robin Hood)2
Utopia, si chiamerebbe il luogo della nostra esistenza, se non ci fossero ingiustizie, se la vita fosse felice, e se esistessero sul serio i valori di Liberté, Égalité, Fraternité, che definivano la Rivoluzione Francese. Utopia, come l’isola-regno immaginaria di Tommaso Moro, abitata da una società ideale. Ma così come l’etimologia del nome che dal greco antico Moro derivò con un gioco di parole, tra ou-topos cioè ( non-luogo) ed eu-topos (luogo felice); utopia è quindi, letteralmente un “luogo felice inesistente”. La storia ci dimostra che ripetutamente, la disparità sociale è stata presente nella vita dell’uomo, così come l’ ingiustizia, e dovunque esse regnino, non può non generarsi il malcontento e il bisogno anche nascosto di opporvisi. Ora la domanda è, “la storia riesce ad essere super partes? Se la storia è scritta da chi vince, che non sempre equivale a essere anche nel giusto, è possibile che vengano sovvertiti e ravvisati gli ideali e i principi degli sconfitti?”
Il Robin Hood della moderna leggenda e del folklore, il principe dei ladri, ripreso da Alexandre Dumas (padre) nel suo romanzo postumo Robin Hood il proscritto, viene privato delle sue terre dallo Sceriffo di Nottingham e diventa un fuorilegge. “in quel periodo, tra coloro che erano stati privati dei loro possedimenti si sollevò il celebre bandito Robin Hood, (con Little John e i loro compagni)”3 Nelle versioni moderne della leggenda, Robin Hood si rifugia nella Foresta di Sherwood, nella contea del Nottingham. Attorno a lui si forma uno stuolo di uomini, anch’essi afflitti dall’ingiustizia che vige nel regno, poveri contadini privati delle loro terre e di ogni possedimento, con tante bocche da sfamare, che non riescono a fronteggiare in alcun modo le angherie e l’esoso aumento delle tasse, che il principe Giovanni, impostosi sul trono, in assenza del re Riccardo Cuor di Leone, partito in terra santa per la crociata, che invece regnava con rispetto e giustizia, impone per le continue guerre e le lotte di dominio. Persino un sacerdote si unisce a loro, Little John, le donne portano nella foresta i viveri e li aiutano come possono, tutto il paese li appoggia, perché essi sono diventati fuorilegge, ma per una giusta causa.
Molto probabilmente, è questo che accadde in riferimento al fenomeno del brigantaggio, nell’Italia meridionale, nel passaggio di regno che avvenne tra i Borboni e i Savoia. “Chi sono i Briganti? Lo dirò io, nato e cresciuto tra essi. Il contadino non ha casa, non ha campo, non ha vigna, non ha prato, non ha bosco, non ha armento; non possiede che un metro di terra in comune al camposanto. Non ha letto, non ha vesti, non ha cibo d’uomo, non ha farmachi. Tutto gli è stato rapito, dal prete al giaciglio di morte, o dal ladroneccio feudale o dall’usura del proprietario o dall’imposta del comune e dello stato. Il contadino non conosce pan di grano, nè vivanda di carne, ma divora una poltiglia innominata di spelta (farro), segale, omelgone, quando non si accomuni con le bestie a pascere le radici che gli dà la terra matrigna a chi l’ama. Il contadino robusto e aitante, se non è accasciato dalle febbri dell’aria, con sedici ore di fatica, riarso dal sollione, eivolta a punta di vanga due are di terra alla profondità di quaranta centimetri e guadagna ottantacinque centesimi, beninteso nelle sole giornate di lavoro, e quando non piobe, e non nevica e non annebbia. Con questi ottanticinque centesimi vegeta esso, il vecchio padre, spesso invalido dalla fatica già passata, e senza ospizio, la madre, un paio di sorelle, la moglie e una nidiata di figli […] il brigantaggio non è che miseria, è miseria estrema, disperata: le avversioni del clero, e dei caldeggiatori il caduto dominio, e tutto il numeroso elenco delle volute cause originarie di questa piaga sociale sono scuse secondarie e occasionali, che ne abusano e la fanno perdurare.”4
Il brigantaggio fu una risposta del popolo scontento e sobillato, dagli stessi regnanti sconfitti, all’invasione dei Savoia ed alla fine del Regno delle Due Sicilie. Si sviluppò tra il 1860, con l‘’annessione’ al Regno d’Italia, che si andava costituendo e il 1866 quando migliaia di soldati savoiardi, che nulla sapevano del meridione, furono inviati sulle terre del sud a presidiare.
Il brigantaggio ebbe inizio storicamente proprio con la partenza per l’esilio del Re Francesco II di Borbone, il 13 febbraio 1861. Così il popolo ribelle, venne marchiato con la parola “Brigante” che deriva dal termine francese brigant, cioè delinquente, bandito. Il 13 febbraio 1861 è il giorno in cui i vincitori, ovvero chi ha scritto la storia, dando la sua versione dei fatti, ha marchiato i contadini meridionali con questo nome. Coloro che dominarono con la forza e con la repressione, un popolo affamato, povero e scontento, sconvolto dall’aumento delle tasse e dei prezzi sui beni primari, costretto alla leva obbligatoria, privato della propria dignità, che con giusta ragione iniziò a rivoltarsi, provando rancore verso il nuovo regime e soprattutto verso gli strati sociali che giocando su questa sciagura, si avvantaggiarono degli avvenimenti politici riuscendo ad ottenere cariche, onori e vantaggi economici.
Nacquero bande di briganti, a cui aderirono non solo contadini disperati ma anche ex soldati borbonici, ex garibaldini e banditi comuni. Il governo delle Due Sicilie facendo leva sulla disperazione del popolo tentò di riprendersi il regno sfruttando il malcontento e la disperazione generale. Il popolo disperato ascoltò le parole del vecchio regime e si lasciò suggestionare dalle sue proposte e, nella speranza di poter ottenere benefici, appoggiò la causa di una restaurazione borbonica.5
Ci fu un proliferare di nuove bande di briganti, sparse in tutto il Mezzogiorno, tra Campania, Lucania, Puglia, Calabria e Sicilia. I componenti delle bande più combattive, venivano considerati, dalle folle, come veri e propri eroi che lottavano contro i nemici Cavour e Vittorio Emanuele. Questi personaggi, dotati di grande tempra e di carisma, e le loro imprese: la continua latitanza; i pasti frugali; le grandi distanze da percorrere, spesso tutte in una volta e quasi sempre di notte; l’uso delle tattiche militari della guerriglia per tenere testa ad un esercito formato da migliaia di uomini ed armato fino ai denti, sono divenute mito. L’ottima conoscenza del territorio era un’altra delle caratteristiche fondamentali che permise a pochi uomini di resistere per lungo tempo agli assalti militari. Tanto fra i boschi e le montagne, luoghi che facilmente si prestano alla mimetizzazione, all’organizzazione di agguati e di scorrerie, quanto sui campi aperti, come gli altipiani, i briganti erano in grado di mostrare una perfetta padronanza delle tattiche militari, grazie alle quali, spesso costringevano la cavalleria sabauda ad impegnarsi in lunghi scontri frontali dall’esito quasi sempre incerto.6
Essi avevano tutti un inno,che cantavano durante le loro riunioni segrete, in mezzo ai boschi e alle montagne, ed erano tutti fedeli ad un giuramento. Inno dei briganti: “ Ammu pusato chitarra e tammure pecche’ sta musica s’adda cagna’ simmo briganti e facimmo paure e cu’ ‘a scuppetta vulimmo canta’ E mo’cantammo ‘na nova canzona tutta la gente se l’adda ‘mpara’ nuie cumbattimmo p’ ‘o rre burbone e ‘a terra nosta nun s’adda tucca’ Chi ha visto ‘o lupo e s’e’ miso paure nun sape buono qual e’ ‘a verita’ ‘o vero lupo ca magna e criature e’ ‘o piemuntese c’avimm’ a caccia’ Tutte ‘e paise d’ ‘a Basilicata se so’ scetate e vonno lutta’ pure ‘a Calabria s’e’ arrevotata e stu nemico facimmo tremma’ Femmene belle ca date lu core si lu brigante vulite aiuta’ nun lo cercate, scurdateve ‘o nomme chi ce fa guerra nun tene pieta’ Ommo se nasce, brigante se more e fino all’urdemo avimm’ a spara’ ma si murimmo menate nu sciore e ‘na preghiera pe sta liberta”7
Il giuramento dei “briganti” “Noi giuriamo davanti a Dio e dinanzi al mondo intiero di essere fedeli al nostri augustissimo e religiosissimo sovrano Francesco II (che Dio guardi sempre); e promettiamo di concorrere con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze al suo ritorno nel regno; di obbedire ciecamente a tutti i suoi ordini, a tutti i comandi che verranno sia direttamente, sia per i suoi delegati dal comitato centrale residente a Roma. Noi giuriamo di conservare il segreto, affinchè la giusta causa voluta da Dio, che è il regolatore de’ sovrani, trionfi col ritorno di Francesco II, re per la grazia di Dio, difensore della religione, e figlio affezionatissimo del nostro Santo Padre Pio IX, che lo custodisce nelle sue braccia per non lasciarlo cadere nelle mani degli increduli, dei perversi, e dei pretesi liberali; i quali hanno per principio la distruzione della religione, dopo aver scacciato il nostro amatissimo sovrano dal trono dei suoi antenati, Noi promettiamo anche coll’aiuto di Dio di rivendicare tutti i diritti della Santa Sede e di abbattere il lucifero infernale Vittorio Emanuele e i suoi complici. Noi lo promettiamo e lo giuriamo”8
Lo storico più coraggioso, spirituale e anticonformista del nostro secondo Novecento, l’etrusco Giordano Bruno Guerri, celebra con la disorientante onestà di sempre i 150 anni dell’Unità d’Italia pubblicando Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio, (Mondadori, Milano, 2010).
I briganti «immaginiamoli magrissimi, di statura bassa, membra grosse, capelli ruvidi e irti, denti guasti, scuri, mancanti. Mani come pale, grosse di calli, dita non fusellate, corte, unghie nere. I pidocchi fanno parte della vita quotidiana, come l’aria». E Guerri parla dei contadini, non di quelli che sono andati alla macchia. In quel frangente le cose peggiorano con una certa facilità7 Nella scuola italiana, dalle università alle elementari, i fatti sono stati distorti nell’interesse della cultura delle classi dominanti.” Il popolo meridionale è stato privato della vera memoria storica, nascondendo e distruggendo quanto ritenuto inopportuno, con la conseguenza che esso «ancora oggi paga lo scotto economico e politico di un’unità nazionale che esiste solo sulla carta, imposta con l’inganno e la violenza e mantenuta con l’astuzia”, scrive nella premessa di Il Brigantaggio in Terra d’Otranto, Ribellione popolare e repressione militare dal 1860 al 1865 Carlo Coppola.9
I “pennivendoli” Croce, Gentile, De Amicis, Carducci, Verga, D’Annunzio, Fucini e un’intera schiera di loro epigoni hanno imposto una storia del Meridione che non è quella vera. Il Brigantaggio, dice Coppola, anche con i suoi errori e le sue storture, fu l’ultimo tentativo del popolo meridionale di rimanere libero. Il Brigantaggio, che fu resistenza contro gli invasori piemontesi, ha interessato tutto il Meridione d’Italia e quindi anche il Salento.
Briganti salentini furono Pasquale Romano di Gioia del Colle ricordato come il “Sergente Romano”, Cosimo Mazzeo di San Marzano soprannominato “Pizzichicchio”, Rosario Parata “Lo Sturno” di Parabita, Quintino Venneri “Melchiorre” di Alliste. Il Salento, che costituiva la Provincia di Terra d’Otranto, si estendeva dal Capo di Leuca fino al Golfo di Taranto con parte dell’odierna Basilicata, comprendeva un territorio di circa 6.500 chilometri quadrati suddivisi in 130 comuni e 70 borgate con una popolazione di circa mezzo milione di abitanti.
Nel Salento diffusissime erano le banche, esistevano ben 145 istituti di credito tra banche agricole, monti di pegno e monti frumentari. Con l’arrivo dei piemontesi fu tutto smantellato e rapinato. Il territorio salentino non ha mai avuto una vera e propria tradizione brigantesca. Tuttavia, in molti, dovettero ricredersi quando il giornale “La tribuna del Salento”, nel 1971, cominciò a pubblicare a puntate “Brigantaggio e reazione nel Salento dopo il 1860”. Il fenomeno Scoppiato dapprima nella Basilicata, si estese, poi, a quasi tutte le province del Salento. Ma la figura più caratterizzante fu senza dubbio quella del “brigante letterato”, Giuseppe Valente, chiamato così per la sua spiccata capacità dialettica e stilistica; fu, infatti, uno dei pochi briganti a non essere analfabeta. Egli redigeva personalmente le “missive” che, poi, inviava alle famiglie più ricche per estorcere loro denaro. La banda del Valente ebbe un’attività impressionante.10
Come in tutto il Regno, anche nel Salento, pur se con minore intensità essendo la proprietà fondiaria molto più frammentata rispetto al resto del meridione, esisteva l’eterno dissidio tra i feudatari proprietari terrieri e i contadini che lavoravano le terre. La dinastia Borbone, in questa lotta, era schierata con il popolo contro i cosiddetti “galantuomini”. Attraverso una mirata legislazione venivano difesi i diritti di chi nei fatti possedeva e lavorava la terra. L’avventura garibaldina e la conseguente unità d’Italia rompe questo delicato equilibrio. Il popolo meridionale, privato dell’alleato Borbone, rimase alla mercé degli eterni nemici “galantuomini”. Tutte le promesse garibaldine sulle quotizzazione delle terre non vengono mantenute. I contadini vengono ridotti alla fame. Non resta che la rivolta.
Dopo il plebiscito-truffa le masse contadine in tutto il Meridione ed anche nel Salento si mettono in subbuglio. A cominciare dagli ultimi mesi del 1860 scoppiano tumulti contro i piemontesi, con sorti alterne, a Tuglie, a Sava, a Surbo, a Matino, a Parabita, a Sternatia, a Poggiardo, a Marittima, a Oria, a Taviano, ed in tantissimi altri centri. Il governo di Torino avrebbe potuto cercare la pacificazione, attraverso una vigorosa riforma agraria e un approccio moderato. Risponde invece con i fucili, spostando nel Meridione la maggior parte dell’esercito “italiano”, e con la leva obbligatoria. E’ l’innesco del grande brigantaggio. La maggior parte dei giovani meridionali arruolabili si da alla macchia e si unisce agli sbandati del disciolto esercito borbonico. Nascono tante bande, capitanate da uomini valorosi. Cosimo Mazzeo di San Marzano, detto “Pizzichicchio”, acquisterà grandissima fama per essere riuscito per un lungo periodo a tenere in scacco e a battere ripetutamente le truppe regolari. Nell’agosto 1862 tutti i principali capibanda di Terra d’Otranto si riunirono nel bosco della Pianella, vicino a Taranto, per concordare una strategia comune. Pasquale Romano viene nominato capo supremo, riuscendo ad avere a disposizione circa 700 uomini a piedi e 300 a cavallo. La rivolta diventa guerra civile, il Salento e l’intero Meridione sono in fiamme. La spietata repressione che si abbatté su tutto il Meridione ebbe ragione della ribellione.11
Si promulga così la cosiddetta “Legge Pica“, dal nome del deputato abruzzese che la formulò, che per oltre due anni trasformò le regioni meridionali in un immenso campo di combattimento, o meglio ancora in un enorme lager dentro il quale i soldati del re sabaudo, i “piemontesi”, con la scusa della lotta al brigantaggio uccisero, stuprarono, squartarono, sgozzarono, misero a ferro e fuoco interi paesi causando migliaia e migliaia di morti innocenti.12 La Pica, scrive Coppola, non fu una legge, fu un’infamia.13
Nella seduta parlamentare del 29 aprile 1862, il senatore Giuseppe Ferrari affermava: « Non potete negare che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi. »14
Il Salento in appena 5 anni, scrive ancora Coppola, arretra economicamente di 50 anni.15Tra i capi briganti più temuti, e di cui si parlò di più nel Salento, vi erano Ciro Annicchiarico, e il già citato Cosimo Mazzeo, meglio conosciuto come Pizzichicchio.
Ciro Annicchiarico detto Papa Ciro o Papa Ggiru (Grottaglie, 15 dicembre 1775 – Francavilla Fontana, 8 febbraio 1817) è stato un presbitero e brigante pugliese. Vissuto all’inizio del XIX secolo, della vita di Papa Ciro da religioso non si hanno molte notizie, eccetto che fu prete a Grottaglie e dopo essere stato accusato di un omicidio per motivi passionali, avvenuto il 16 luglio 1803, si diede alla macchia al fine di sottrarsi all’arresto. Al termine delle scorribande, don Ciro riparava sulle alture boschive del territorio di Martina Franca, spesso sul monte o all’interno di una caverna che ancora portano il suo nome.16
La setta che il brigante Ciro Annicchiarico fondò nel mese di ottobre del 1817, era diversa da tutte le altre per la sua atrocità, si chiamava “la setta dei decisi”. “ Gli iniziati in questa società furono i più insigni assassini della provincia, ma specialmente quei di Grottaglie, Francavilla e Martina, i quali furono riuniti in una setta, organizzati e patentati come “decisi” e l’assemblea o seduta loro, invece di essere chiamata campo o squadriglia, si chiamava “decisione.” 17 Ad ognuno degli iniziati veniva rilasciato un diploma con il sigillo della società.
Il brigante Cosimo Mazzeo detto “Pizzichicchio”, nato a San Marzano nel 1837, fu uno dei signori più temuti e importanti del brigantaggio meridionale. Leader incontrastato di una vasta zona del tarantino, era circondato da un gruppo di fedeli come Francesco Maniglia, Tito Trinchera (insieme ad una cinquantina di fedelissimi). La banda Pizzichicchio era adorata dai contadini poveri e temuto dai possidenti, il Pizzichicchio era considerato un bandito paterno verso gli oppressi e gli sfruttati, collaborò con Romano e Lavaneziana alla presa dei comuni di Carovigno, Erchie e Cellino San Marco. La caverna è stata individuata nella primavera del 2000 dai soci del Centro Speleologico dell’Alto Salento (ex C.D.G.M.) e si apre sul versante orografico orientale della gravina di S. Elia in territorio di Massafra (Grotta S. Elia – sin. Grotta del brigante Pizzichicchio Pu. 1651). Si presenta con un’ampia apertura larga 13 metri e alta 5,5 che conduce in una cavità profonda 16 metri che si restringe progressivamente ad imbuto. Dai pastori del luogo è conosciuta con sinonimo di “Grotta Coppolecchia” per differenziarla da un’altra distante 500 metri denominata “Coppola grande”18
Un altro luogo molto caro ai briganti, fu quello di Cellino S. Marco, esattamente nei territori che appartengono alla famiglia di Albano Carrisi, si trovava il loro nascondiglio. Del brigantaggio a Cellino San Marco ci informa anche lo storico cellinese Enzo Gambardella: “Già sin dal 1842 i briganti scorazzavano nel nostro agro e dal vicino bosco di Curtipetrizzi, dove si erano stabiliti, assaltavano le diligenze, svaligiavano i malcapitati viaggiatori e non mancavano di penetrare di tanto in tanto nello stesso paese, dove, spargendo il terrore, non lievemente danneggiavano nelle persone e nei beni la già immiserita popolazione.”
I briganti oltre a rifugiarsi nel bosco di “Curtipetrizzi” usavano come covo segreto la famosa “Rutta dei Briganti” (Grotta dei Briganti) che si trova nella campagna antistante al menzionato bosco a circa 400 m. in linea d’aria. Questo covo ben si prestava ad essere un nascondiglio poiché l’ingresso della grotta sotterranea era completamente coperto dalla fitta vegetazione di macchia mediterranea ancora oggi presente. I più anziani del paese, che a loro volta hanno sentito dai loro nonni, raccontano che la grotta era collegata con il vicino bosco tramite dei “camminamenti” (tunnel) sotterranei da dove i briganti potevano passare e sfuggire facilmente alla Guardia Nazionale, nascondendosi nella fitta vegetazione boschiva.
I briganti vestivano come contadini; qualcuno di loro portava in testa un berretto con fiocco rosso; d’inverno si avvolgevano in grandi cappe scure. I capi-banda avevano la barba ed il cappello all’italiana. L’animatore delle imprese del Brigantaggio nel Brindisino fu il bandito Romano di Gioia del Colle.
Più volte intervenne anche la banda dello spietato Carmine Crocco, il capo esponente del brigantaggio tra le montagne della Basilicata Altri personaggi di spicco furono: Cosimo Mazzeo detto “Pizzichicchio”, Giuseppe Nicola La Veneziana, Antonio Lo Caso detto “Il Capraro”, Giuseppe Valente detto “Nenna-Nenna“.
Nell’organizzazione generale del Brigantaggio brindisino vigeva un sistema simile a quello militare. Il La Veneziana che conosceva perfettamente ogni zona del circondario, fungeva da coordinatore tra le varie bande. I briganti provvedevano alle proprie necessità mediante l’opera di alcune persone chiamate manutengoli. Questi erano i fornitori volontari, sostenitori del Brigantaggio. Tutte le volte che i soldati della Guardia Nazionale penetravano nei nascondigli, nei covi dei Briganti, vi trovavano ogni sorta di provvigioni e squisitezze: carni, pane, formaggio, vini, liquori, medicinali. Manutengoli erano preti, monaci, parenti dei briganti, contadini.
A confermare è Don Carmelo, padre di Franco Carrisi il quale racconta che suo nonno Antonio lavorava nel bosco come carbonaio. Aveva contatti diretti con i briganti, tanto da meritare la loro fiducia. A lui, infatti, si rivolgevano per avere vettovaglie e tutto ciò di cui avevano bisogno. L’anziano carbonaio, temendo i disertori non poteva sottrarsi al suo compito di “corriere”. La sera del 24 luglio 1861, dopo un conflitto a fuoco, la Guardia Nazionale comandata dal cap. Luigi Lupinacci riuscì a catturare gli undici briganti nascosti nel bosco di Curtipetrizzi; furono, poi, condotti a Brindisi e fucilati il 26 luglio del 1861.19 All’incirca quattro mesi prima, era stata proclamata la tanto attesa Unità d’Italia. Ma invero le incomprensioni tra le “due Italie” esistono ancora ai nostri giorni.
1 Il Gattopardo è un film drammatico del 1963 diretto da Luchino Visconti, tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, vincitore della Palma d’oro come miglior film al 16º Festival di Cannes
2 Robin Hood film del 2010 diretto da Ridley Scott
3 Secondo The Annotated Edition of the English Poets – Early ballads (Londra, 1856, p.70)
4Da uno scritto di F.S Sipari di Pescasseroli ai censurari del Tavoliere, Foggia 1863, Cfr. B. Croce, Storia del Regno di Napoli Oggi anche di Laterza, Bari, 1966, pp.337-339
10 Carlo Coppola, Il Brigantaggio in Terra d’Otranto, Ribellione popolare e repressione militare dal 1860 al 1865, Associazione Culturale Area, Circolo di Matino “Raffaele Gentile”, Matino (LE) 2004
Rovistando tra i materiali non catalogati della Biblioteca Comunale “M.Gatti, cortesemente messi a disposizione dalla Direttrice Dott.ssa Carmelina Greco, ci è recentemente occorso di trovare alcune interessanti testimonianze dell’attivita’ culturale cittadina dei tempi passati. E ci siamo non poco sorpresi nello scoprire che quarant’anni fa, sicuramente tra il 1973 e il 1978, fu attiva a Manduria addirittura una galleria d’arte contemporanea.
Non abbiamo ricordi personali di quel periodo storico, ma, in astratto, eravamo portati a pensare che il fermento culturale cittadino di quarant’anni fa fosse piu’ limitato rispetto a quello attuale, che di per se stesso già non è particolarmente significativo. Questa nostra impressione si basava su assunti di tipo sociologico: minor livello generale di scolarizzazione, piu’ bassa quantita’ di stimoli culturali offerti dai media, ecc.
Chi ha vissuto personalmente quella temperie sociale e culturale, invece, concordemente afferma che Manduria, quarant’anni fa, era senz’altro più vivace di oggi , anche dal punto di vista del fermento artistico. Ci siamo allora messi sulle tracce di quella piccola ma singolarissima esperienza rappresentata dal Centro artistico culturale “Galleria d’arte Pliniana”, cercando di riassumerne la storia, breve ma intensa, raccogliendo informazioni , per quanto possibile, da coloro che da vicino condivisero quell’avventura.
Un’avventura che, non lo nascondiamo, vorremmo si ripetesse ancora una volta, come per magia, animando con il suo soffio il desolante panorama culturale cittadino.
La “Galleria d’arte Pliniana”, come riferisce la Sig.Rita Stranieri, fu fondata nei primissimi anni ’70 da due privati cittadini, cioe’ la Prof.ssa Marisa D’Aloisio (ideatrice) e il Sig. Giuseppe Stranieri (principale collaboratore). Fu una iniziativa eminentemente privata, legata all’attivita’ di pittrice della Prof.ssa D’Aloisio, e non ebbe alcun contributo dal Comune di Manduria, se si eccettua il sostegno finanziario per l’allestimento della mostra collettiva “Incontro di pittori salentini”, che si tenne nei locali della Galleria dal 24 Marzo al 2 Aprile 1973.La Galleria , inizialmente ubicata in via Cesare Cantu’, si sposto’ poi sulla via per Maruggio.L’esperienza espositiva manduriana si concluse dopo circa un quinquennio (1973-1978), perchè i Sig.ri D’Aloisio e Stranieri decisero di aprire a Taranto la galleria d’arte “Diesse”.
Sulla base delle testimonianze raccolte, non siamo in grado di accertare quanto la Galleria Pliniana abbia stimolato il mercato dell’arte, che a Manduria è stato sempre oltremodo asfittico, ma pare sicuro che quello spazio espositivo rappresentasse un punto di riferimento per la locale borghesia colta.
La galleria promosse nomi famosi della pittura dell’epoca , come Armando Pizzinato, ma anche iniziative rivolte ai giovani artisti, come documentano i vari cataloghi delle mostre, stampati in un formato e con una grafica moderni. Erano, a quanto pare, anni fortunati:a Taranto e a Lecce esistevano due attivi Licei Artistici, e vari giovani manduriani li frequentavano, creando automaticamente un’osmosi tra quegli ambienti e la situazione cittadina.
La Sig.ra Patrizia Tatullo, nipote della Prof.ssa D’Aloisio, ricorda chiaramente il fermento di quegli anni lontani, e in particolare evidenzia che nella casa tarantina della Prof.ssa D’Aloisio (che rimase sempre il vero motore dell’iniziativa) si riunivano i pittori che , prima di esporre in Galleria, discutevano appassionatamente dei principali problemi artistici contemporanei.
Il Prof. Enzo De Cillis, da sempre inserito nell’ambiente artistico cittadino, ricorda l’atmosfera degli anni della “Pliniana”,alla cui esperienza partecipo’ direttamente, e ci tiene a sottolineare con chiarezza che , rispetto ad oggi, c’era in generale piu’ interesse intorno all’arte contemporanea. E aggiunge che , in ogni caso, l’esperienza della Galleria Pliniana, per la professionalità dei gestori e il livello degli espositori, non si può paragonare a cio’ che e’ venuto dopo, cioè ai piccoli tentativi di aprire spazi espositivi (privati) tutti destinati ad esaurirsi subito.
Da quello che emerge, insomma , l’esperienza della Galleria Pliniana, anche se breve , è stata significativa. Appartiene però, ormai, al passato.
La situazione attuale, invece,almeno in relazione alla quantità e qualità degli spazi espositivi per i giovani ( e meno giovani) artisti contemporanei è francamente desolante. Una città delle dimensioni di Manduria non offre, allo stato attuale, alcuno spazio pubblico per l’esposizione e la fuizione di opere d’arte contemporanea.
La nostra realtà, quando ne è in grado, esibisce (giustamente) le glorie artistiche di un passato più o meno lontano (a volte lontanissimo) ma è totalmente sorda al riconoscimento dei valori artistici contemporanei. Il prof. Pietro Guida (artista che non ha certo bisogno di presentazioni) ribadisce senza mezzi termini che il contesto manduriano è ” totalmente inerte” di fronte alle sollecitazioni dell’arte contemporanea.
E il prof. Aldo Pezzarossa, anch’egli da tempo impegnato, con significativi risultati, sulla scena artistica contemporanea , sottolinea i limiti che da sempre caratterizzano il contesto locale, in special modo rimarcando , oltre che il ridotto coinvolgimento dell’Ente Pubblico rispetto al passato,la totale, storica assenza di sostegno dell’imprenditoria privata nei confronti degli artisti.Quali sono, in questa situazione, le prospettive per il futuro?
Difficile dirlo.
A nosto avviso, se i creativi locali , vecchi e nuovi (alcuni dei quali, purtroppo, patologicamente centrati solo su se stessi) volessero iniziare un’avventura comune, si potrebbe ripartire dagli spazi pubblici.
In particolare, dal Monastero delle Servite, che dopo la felice esperienza della mostra “Numero Zero” non ha più ospitato eventi artistici di rilievo. Ma occorre una progettualita’ chiara e collettiva, oltre che il coinvolgimento dell’Ente Pubblico. Per Manduria,comunque, uno spazio espositivo dedicato al’arte contemporanea non esaurirebbe la sua funzione solo come contenitore d’arte, ma costituirebbe soprattutto un centro d’aggregazione permanente.
E Dio solo sa quanto si ha bisogno di questi spazi, alle nostre latitudini…
Cronistoria sui riti della Settimana Santa della confraternita Santa Maria degli Angeli di Gallipoli
di Antonio Faita
La processione, in ogni religione, è uno dei riti liturgici ove maggiormente si estrinseca la fede del credente e la partecipazione a essa è uno dei modi di attestare e manifestare il legame che unisce l’uomo alla Divinità, quasi verifica della propria fedeltà a Dio. E’ quindi un atto sentito e non vera ostentazione folkloristica, atto di fede e non di esibizionismo di cui dobbiamo, quasi, provare disagio o insofferenza.
Per la Chiesa Cattolica le più importanti processioni furono le Rogazioni, quelle del Venerdì Santo e del Corpus Domini.
La processione del Venerdì Santo aveva lo scopo di far rilevare ai fedeli il dolore della Chiesa per la passione e morte di Gesù Cristo.
In seguito, anche per l’influenza dei vicerè Spagnoli, regnanti nel napoletano, cominciarono a comparire gli strumenti della passione, con il preciso scopo di far meditare sia gli incappucciati che il popolo sulle sofferenze patite da Cristo.
Questo nuovo genere di processioni era stato importato dalla Spagna nel secolo XVI e molto propagandato nel regno di Napoli dai padri Gesuiti che, nel pieno della controriforma e all’alba della crisi del Seicento, elaborarono forme di pietà e devozioni, destinate a rimanere, indelebili nel tempo, in una realtà urbana e di civiltà, della cultura del Mezzogiorno(1).
Una grande importanza ai modelli devozionali e ascetico-penitenziali proposti dai padri Gesuiti ricoprono le associazioni di vita cristiana e confraternale in cui, al di là dei titoli, il culto della passione e morte di Gesù occupa un posto centrale tra le pratiche devozionali sia individuali e private che comunitarie(2).
La presenza e il ruolo svolto dalle confraternite laicali nella città di Gallipoli, nel corso dei secoli(3),inizia dal secolo XVI; purtroppo non si dispone di documenti anteriori al Cinquecento, per poter ricostruire la storia del fenomeno confraternale gallipolitano(4).
Puntualmente, ogni anno, a Gallipoli si rivive la passione e morte di Gesù Cristo attraverso le pratiche penitenziali, che vanno dai digiuni, alle mortificazioni corporali, alle discipline. Queste ultime, specie in tempo di
Soleto. Tra le meraviglie di Santo Stefano (I parte)
Siete mai stati colti in qualche occasione da una sensazione di inadeguatezza?
A me capitava sistematicamente ogni volta che, aprendo il mio archivio fotografico, osservavo le foto degli affreschi della splendida Chiesa di Santo Stefano a Soleto. E questo per un po’ di anni. Le foto sono così rimaste silenti per lungo tempo a causa di questo mio timore.
A dire il vero non c’è una ragione precisa per cui oggi, a distanza di anni, decido di affrontare l’argomento. Forse un pizzico di incoscienza. Chissà! Fatto sta che l’ora è giunta e le mani hanno iniziato a muoversi sulla tastiera. Vedremo un po’ alla fine che ne uscirà.
Premessa strana la mia, per chi non conosce e, soprattutto, non ha avuto modo di visitare la Chiesa. Stato d’animo comprensibile per chi, invece, ha già avuto modo di osservare la ricchezza, la varietà e la complessità del ciclo pittorico all’interno. Per cui corre l’obbligo specificare in questa sede quanto già scritto in altre occasioni. I miei racconti sono frutto di osservazione e non di studio approfondito, per quanto ogni notizia riportata sia frutto di ricerca bibliografica.
Il mio racconto su questo sito sarà articolato in tre note. Questa è la prima.
Ma andiamo per gradi e, percorrendo le stradine del piccolo ma ben conservato centro storico di Soleto, giungiamo dinanzi alla facciata di questo inestimabile gioiello, incastonato tra le mura bianche della stretta via su cui si affaccia.
La strada è stretta e si fa una certa fatica ad abbracciare con un unico sguardo la pur piccola facciata dell’edificio religioso. Il piccolo portale in stile romanico è sormontato da un piccolo rosone dello stesso stile e, in cima, un campanile a vela.
Parte delle decorazioni in pietra leccese non si possono più ammirare. E’ probabile che questo sia semplicemente dovuto alla friabilità della pietra adoperata, ben visibile in particolare intorno all’architrave.
Per avere traccia dei committenti occorre volgere lo sguardo in alto. Al di sopra del rosone che sovrasta il portale d’ingresso con molte difficoltà si possono notare due piccoli scudi araldici. Quello più visibile lascia intravedere i lineamenti dell’arma dei Del Balzo. Infatti nei due inquartamenti superiori dello scudo, a fatica si può notare la stella a sedici punte e il corno da caccia dei principi d’Orange. Del secondo è giunto sino a noi ancor meno e gli studiosi hanno potuto lavorare solo su delle ipotesi. Seconda una di queste, si potrebbe scorgere un corno di luna calante, iconografia tipica delle armi delle famiglie che pretendevano di discendere dai Magi. Seguendo questa interpretazione giungiamo alla famiglia nobiliare provenzale dei De Baux, i signori di Baux che pretendevano di far risalire le proprie origini a uno dei tre Magi, Baldassare. De Baux che nel giungere in Italia a seguito di Carlo I D’Angiò mutarono il loro nome in Del Balzo.
Ancorché ormai poco visibili, questi due scudi araldici hanno il pregio di poter collocare temporalmente la costruzione del piccolo tempio ai tempi di Raimondello Del Balzo Orsini, che resse le conte di Soleto e di Lecce tra il 1384 e il 1391. Comunque non a data più remota come alcuni studiosi hanno tentato di fare.
Proprio riguardo la data di erezione dell’edificio vi è un piccolo mistero. All’esterno non vi è alcuna data incisa nella pietra. Mentre all’interno, sulla parete settentrionale, vi è quel che resta di una iscrizione dedicatoria sulla quale, con notevole difficoltà, è possibile leggere solo quanto segue – “Fu eretta …” – null’altro.
La cosa strana, fonte questa di mistero, è che la scritta pare essere stata cancellata scientemente e in modo uniforme, come se qualcuno, in un qualche periodo della storia non abbia voluto che venisse ricordata la data di costruzione e il committente. Una sorta di damnatio memoriae.
Dall’800 una sorta di lettura di poco più completa di questa iscrizione è giunta sino a noi. Ci arriva dal Diehl che sosteneva di essere riuscito a decifrare il numero 6855, corrispondente all’anno 1346/47. Gli studiosi sono poco propensi a dargli fiducia, in quanto in altre occasioni pare che ci abbia tramandato delle interpretazioni cronologiche non veritiere o comunque smentite da studi successivi.
Ci sono tornato qualche mese addietro. Non sono entrato perché la porta che nel passato, ahimè, era sempre aperta, oggi è finalmente chiusa e l’accesso avviene solo con guida, scongiurando in tal modo eventuali atti di vandalismo. Riguardo questo punto mi permetto di dare un suggerimento all’Amministrazione di Soleto. Ancorché ritenga che, data la bellezza del sito, lo stesso non possa rimanere aperto senza alcuna vigilanza, sarebbe molto suggestivo se l’attuale portone fosse sostituito da una struttura con vetri che possano far vedere l’interno anche nelle ore in cui la chiesa non è visitabile. Si può ben immaginare la bellezza della visione dell’interno nel camminare lungo la stradina del centro storico ove è sita, nelle calde serate d’estate.
Ma prima di entrare, come per altri siti, è di sicuro interesse leggere quello che Cosimo De Giorgi scrisse nei sui Bozzetti (1888) quando giunse a visitare il luogo.
“Il più importante monumento di questo paese [Soleto] per le pitture che contiene è la chiesina di S. Stefano, la quale fu edificata nel XIV secolo … e fu una di quelle che mantennero il rito greco fino al 1600 … Fino ai primi di questo secolo [‘800] fu isolata da tutti i lati, mentre oggi è chiusa tra abitazioni e giardini [ndr. In effetti all’interno è possibile notare due porte ora murate sul lato settentrionale e su quello meridionale].
La facciata è in parte sciupata. Mancano le colonne sulle quali poggiavano i leoni che si vedono ancora sum mensoline confitte nel muro, nei due lati dell’architrave, mutilati e corrosi dal tempo [ndr. dei leoni che nota il De Giorgi resta quasi nulla]. Il fregio di quest’architrave e il fresco della lunetta sono anche perduti.”
La facciata nel passato era sicuramente affrescata. Solo alcune tracce di intonaco sono giunte sino a noi. In buona sostanza poco rilevanti e a riguardo, già al tempo, il De Giorgi non scrisse nulla.
Entrare nella chiesetta è come immergersi nella storia. Ancor prima del fatto artistico in se di gran valore, guardare gli affreschi ci apre un ampia finestra sui costumi dell’epoca in cui furono realizzati. Vestiti, corazze e persine una tavola imbandita. Dal punto di vista religioso una sorta di stupefacente “Biblia pauperum” in cui, dalla rappresentazione del maligno alla risurrezione del Cristo, tutto trova sintesi e compimento. Si può solo immaginare l’impressione che doveva suscitare nel tardo Medioevo la figura del Diavolo che ingurgita le anime dei dannati.
La prima sensazione che mi coglie immancabilmente ogni volta che entro, è una sorta di smarrimento. La ricchezza della decorazione paretale mi fa quasi venire le vertigini. Ho quasi l’impressione che tutte le figure ritrarre sulle pareti si volgano a guardarmi. Con il tempo mi sono dato un metodo di lettura; perché proprio di lettura si tratta.
Parto dalla parete ove è posizionata l’abside.
All’interno della catino absidale posto al livello dell’altare, nella parte inferiore sono ritratte cinque figure. Al centro un giovane Cristo e ai lati, due per lato, delle figure di Santi Vescovi. Di questi solo uno è stato attribuito, il primo alla destra del Cristo, e si tratta di San Giovanni Crisostomo. Per gli altri, nonostante la presenza di cartigli non è stato possibile attribuire un nome.
Nella parte superiore del catino è rappresentata la Trinità e la discesa dello Spirito Santo, la Pentecoste, su Maria e sui dodici Apostoli, che danno le spalle alle mura di Gerusalemme. Degli Apostoli è stato possibile identificare Pietro, alla destra di Maria, e Giovanni, Mattia e Giacomo alla sua sinistra.
Di particolare importanza sono i cartigli bianchi con delle iscrizioni in greco, che hanno in mano i dodici. Hanno un significo ben preciso e sono concatenati tra loro: sono i dodici articoli del Simbolo degli apostoli. Una rappresentazione molto importante e rara, soprattutto se si considera che fece la sua comparsa nel XV secolo. Da alcuni fonti pare invece che il Simbolo degli apostoli fosse conosciuto sin dal XIII secolo. Nello specifico, la versione soletana pare che debba le sue origini al modello niceno-costantinopolitano.
Ma cos’è questo Simbolo apostolico? Riporto la traduzione dal greco dei primi articoli per rendere più comprensibile quanto scritto sin d’ora:
Credo in un solo Dio Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra,
E in un solo Signore Gesù Cristo, suo Figlio unigenito
Che si è incarnato per opera dello Spirito Santo nel seno della Vergine Maria
Patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso e fu sepolto
….
Non lo riporto per intero per non annoiare il lettore. Dei cartigli solo l’articolo 7 e 8 non solo leggibili.
Si tratta in buona sostanza di quello che noi oggi chiamiamo “Credo” e che viene recitato durante la messa subito dopo la Liturgia della Parola. Le origini di questa preghiera sono antichissime e, secondo le ipotesi di studio prevalenti, potrebbe avere le sue origini proprio negli Apostoli. Ecco perché è molto suggestivo vederlo rappresentato in questi termini all’interno di Santo Stefano.
Spostando lo sguardo più in su, lungo la parete dell’abside, si giunge ad uno degli affreschi più suggestivi presenti all’interno dell’edificio: l’Ascensione e la Visione dei Profeti.
L’artista in questa sua opera ha saputo sapientemente miscelare due eventi molto importanti raccontati all’interno della Bibbia, fondendone alcuni dei loro elementi costituenti in modo eccellente. Ecco quindi che l’Ascensione di Cristo si fonde con le visioni dei profeti Ezechiele e Daniele, anticipando i contenuti rappresentati nell’altra grande e maestosa opera pittorica presente all’interno, quella del Giudizio Universale. Per cui l’Ascensione di Cristo diventa messaggio di annuncio del suo secondo ritorno alla fine dei tempi.
Dall’abside volgo lo sguardo verso la parete settentrionale. Su questa parete è presente una porta murata, sull’architrave della quale era posta l’iscrizione dedicatoria il cui contenuto è stato cancellato. La porta a detta del De Giorgi conduceva verso l’attiguo locale della sagrestia (ora non c’è più). Dell’iscrizione perduta riporto quanto scrisse il De Giorgi:
“Fu distrutta da un impiastriccione microcefalico il quale la ricoprì di uno strato di cerussa sciolta nell’olio di lino.”
La parete settentrionale è divisa in quattro sezioni orizzontali. Dall’alto in basso, le prime tre sono dedicate al Ciclo Cristologico, mentre nell’ultima sezione in basso, la più larga, sono rappresentate figure di santi e sante. Ciascuna sezione è articolata in riquadrati affrescati. Vista l’impossibilità di soffermarmi su ciascun riquadro, concentrerò la mia attenzione solo su quelle da me ritenuti più significativi. Per approfondimenti, consiglio testi specializzati.
La prima sezione orizzontale del Ciclo, posta in lato, va dal ritorno dei Magi sino al battesimo di Gesù. Una prima particolarità è riscontrabile nell’assenza della Natività. L’autore subito dopo il riquadro dei Magi, parzialmente perduto, rappresenta infatti la Fuga in Egitto. Di questa colpisce il viso triste e preoccupato della Vergine Maria che più che abbracciare il Bambino, pare quasi che si pieghi su di lui con l’obiettivo di proteggerlo e rassicurarlo con il proprio corpo. Le movenze immaginate del Bambino rafforzano questa sensazione di timore perché, come si può notare, Gesù, volto verso il viso della Madre, cerca di aggrapparsi al suo collo, proprio come fanno tutt’oggi i bambini quando hanno paura.
Timore ben fondato in ciò che possibile vedere nel riquadro successivo, la tristemente nota Strage degli Innocenti. I soldati, contestualizzati nelle loro divise all’epoca di realizzazione dell’affresco (cioè con equipaggiamento tipico angioino), sono pronti a scagliare i bambini in terra per ucciderli, mentre un terzo cerca di strappare il figlio ad una madre. Dalla loggia del palazzo si vede Erode impartire l’orrendo ordine.
Della prima sezione, l’ultimo commento riguarda il riquadro successivo, che precede i due successivi dedicati al battesimo. Il riquadro in questione introduce la figura del Battista in fasce con sua madre Elisabetta, rappresentati nel Miracolo della Montagna. E’ un episodio narrato nel Protovangelo di Giacomo, secondo il quale la montagna si aprì per nascondere al suo interno madre e figlio per sfuggire ai soldati.
Passiamo ora alla seconda sezione orizzontale della parete settentrionale. Il primo riquadro è molto suggestivo. Narra la Tentazione nel deserto ad opera del diavolo. Diavolo che, come si può osservare, decide di assumere, per mezzo delle intenzioni dell’artista, una particolare sembianza: quella di un frate francescano. E tale rischia di apparire se non si presta attenzione ad un particolare: i piedi. Infatti la figura tentatrice al loro posto ha delle zampe palmate di rapace.
Subito dopo sono raccontati due miracoli compiuti dal Cristo. Il primo a destra è la guarigione del cieco, mentre il secondo si riferisce al miracolo della guarigione dell’indemoniato. Un elemento di particolare suggestione è presente nel secondo riquadro nel quale, osservando la figura del miracolato, si può notare che dalla bocca dello stesso fuoriesce una piccola figura nera. Questa altri non è che il diavolo. La figura del maligno, rappresentata poco sopra la testa, è molto simile a quella che è possibile scorgere nella Chiesa di San Mauro a Lido Conchiglie all’interno della rappresentazione del battesimo del Cristo.
Nel riquadro successivo è collocata la Risurrezione di Lazzaro. Le figure coinvolte sono quelle presente nei racconti evangelici. Faccio solo notare come l’autore ha voluto rappresentare l’agire degli amici di Lazzaro che sembrano per certi versi infastiditi nel dover aprire il sepolcro a causa del fetore che da lì emana. Questo stato d’animo è rappresentato molto bene nei loro atteggiamenti; infatti si può notare come si portino un po’ tutti la mano a coprire naso e bocca.
Segue poi l’Ingresso a Gerusalemme che costituisce l’ultimo dei riquadri chiaramente visibile della seconda sezione. Infatti i riquadri successivi sono molto compromessi; si possono intravedere i contorni delle figure ma, ahimè, la colorazione è andata quasi del tutto persa.
Della terza sezione orizzontale mi soffermo solo sul riquadro in cui sé rappresentata la comparizione davanti a Pilato. Qui si può notare come Pilato abbia un’espressione sorridente, quasi benevola sul viso. Appare invece chiaramente chi è il grande accusatore del Cristo, ritratto con le caratteristiche sembianze degli ebrei dell’epoca e con una borsa di denari in mano. Una rappresentazione in linea con la normale credenza che voleva che fossero gli ebrei i veri ed unici colpevoli della sua crocifissione.
I riquadri successivi continuano con altri momenti della Passione del Cristo, sino al riquadro della sua Resurrezione. Di quest’ultimo rimane ormai ben poco.
Nell’ultima sezione orizzontale, che si sviluppa in modo uniforme su tre lati dell’edificio (ad eccezione dell’abside), sono rappresentati una serie di figure di Santi e Sante.
Da sinistra le sante Tecla, Maria Maddalena e Caterina d’Alessandria.
A seguire San Simone e l’Arcangelo Michele.
Termina così la prima delle tre note. Per ovvie ragioni di tempo e di spazio non tutti gli affreschi sono stati riportati e commentati, come non lo saranno per le prossime. D’altro canto questo non vuole essere un trattato, non ho i mezzi e la voglia per farlo. E’ un invito rivolto a tutti quelli che leggeranno questa nota. Un invito a completare questa ricerca e a contemplare la bellezza del ciclo pittorico, recandovi personalmente a Soleto in questo piccolo ma mirabile gioiello.
di Massimo Negro
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Cosimo De Giorgi. La Provincia di Lecce. Bozzetti. 1888.
M. Berger – A. Jacob. La Chiesa di S. Stefano a Soleto. Argo 2007.
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Note correlate: – Soleto. Tra le meraviglie di Santo Stefano (II parte).
Al primo tocco della campana di mezzogiorno uomini, donne e bambini erano lesti a confluire al centro della strada, vicolo o corte dove abitavano, ordinatamente sistemandosi a largo cerchio, come a tracciare un perimetro sacrale. L’officiante della cerimonia, scelto nella persona del residente più anziano, era l’ultimo ad arrivare, scenograficamente sbucando dal punto più lontano e avanzando lentamente, quasi volesse, nel suo passo stanco, materializzare il senso della mortificazione. Al suo apparire le donne nascondevano le mani sotto il grembiule in segno di compunzione, mentre gli uomini, scopertosi il capo e deposte a terra le coppole, gli si facevano incontro per scortarlo onorevolmente fino al centro del cerchio, da dove, appena giunto, invitava i presenti a segnarsi di croce e ringraziare il Padreterno pi llu tiémpu utu a ssardàre li cunti e scansare lu fuécu (per il tempo avuto a saldare il debito facendo penitenza ed evitare così l’inferno). A un suo triplice schioccare di dita, poi, i ragazzi prescelti a fare la spinnàta (la spennata), e che fino a quel momento erano rimasti in attesa ognuno sulla soglia della propria casa, partivano a razzo, sveltamente arrampicandosi sobbra lli scale lliatìzze (su delle lunghe scale a pioli) precedentemente disposte in corrispondenza di ogni quarémma. Dopo aver raggiunto il culmine dei comignoli e aver sostato un attimo pi ddare tiémpu a llu celu cu lli éscia (per far sì che il cielo avesse il tempo di notarli), sfilavano una delle penne confitte nell’arancia, contemporaneamente staccandone il filo di lana che lasciavano penzoloni nel vuoto. Dal basso intanto li raggiungeva un coro di voci, capeggiate da quella tremula del vecchio:
Passàu nn’àura simàna e cchiù bbicina ddirlàmpa la croce: Cristu, pirdòna a lli piccati nuésci! Ti lu circàmu cu lla facce an terra: Cristu, pirdòna a lli piccati nuésci!
“E’ passata un’altra settimana e più vicina lampeggia la croce: Cristo, perdona i nostri peccati! Te lo chiediamo con la faccia a terra: Cristo, perdona i nostri peccati!”.
A guardarla dall’alto, quella manciata di penitenti che si battevano il petto con i pugni doveva essere più che pittoresca, ma i ragazzi non avevano tempo alla riflessione: dovevano affrontare la discesa, e madri e nonne erano state chiare nel metterli sull’avviso:
Pinsàti a lla penna… mi raccumànnu… cu nno bbi scappa ti manu… ricurdàtibbe ca sempre s’à ddittu: centu spintùre pi nna penna persa e mmuzzicàte ti la mala sorte pi nna ruculàta ti maràngia!
“Pensate alla penna… mi raccomando… che non vi sfugga di mano… ricordatevi che si è sempre detto: cento (molte) sventure a causa di una penna persa e morsicature della cattiva sorte per la rotolata di una maràngia!”.
Questo associare nei segni nefasti della discesa tanto la perdita della penna quanto la ruzzolata dell’arancia, autorizza a credere che, originariamente, alla mano della quarémma ne venivano appese sette di marànge , ognuna con la sua brava penna infilzata; uso probabilmente soppresso a causa della difficoltà incontrata nel far reggere i sette pesanti frutti, non dimenticando al proposito che i fantocci rimanevano per ben quaranta giorni esposti alle intemperie, per cui bastava un più gagliardo proporsi di vento a mutilarne le orpellature. A ulteriore avallo dell’ipotesi sta il fatto che i ragazzi, appena toccata terra, ricevevano, ognuno dalla propria madre, una maràngia da consegnare insieme alla penna al vecchio, ai cui piedi c’era un paniere nel quale depositare i frutti. Un’operazione alla quale non si dava importanza, concentrando l’attenzione unicamente sulle penne, rette con solennità quasi fossero trofei e che il vecchio, dopo averle accuratamente sistemate a ventaglio, deponeva sobbra’a nnu quatiéddhru o nna liccìsa (su una pietra – tufacea o leccese – squadrata) precedentemente sistemata al centro del cerchio dal più autorevole dei capifamiglia presenti, affinché servisse come improvvisato piano di ara.
Ormai si era nell’ultima fase del rito espiatorio, ma prima di procedere alla bruciatura delle penne, valevole appunto come simbolica cancellazione delle colpe, si chiedeva al cielo un segno di accettazione, implorando coralmente: “Nfàcciate Ddiu, e ll’uégghiu pi bbrusciàre mànnalu cu nna manu ca sta ffiùra” (“Testimonia la tua presenza, o Dio, facendo sì che a portarci l’olio per bruciare sia la mano di una creatura in fioritura”). Detto questo, i presenti rompevano il cerchio, disponendosi in due file compatte, e dal fondo, con l’aria liliale di una comunicanda, si faceva avanti una donna visibilmente gravida: “Simente minàu ratìci, e ssontu terra ca ngrossa la spica” (“Il seme ha messo radici, e sono terra che ingrossa la spiga”), attestava ponendosi alla sinistra dell’officiante, subito aggiungendo con maggiorata enfasi: “Ndegna jò, ma l’ànima nnucénte ca bbi nnucu pote tare uégghiu a lli piéti ti Ddiu” (“Io sono indegna, ma la creatura innocente che vi porto può permettersi di offrire l’olio da bruciare ai piedi di Dio”). Cavata dalla tasca del grembiule una bottiglietta di olio, la svuotava sulle penne, tracciando segni di croce e intonando un “Credo” al quale tutti facevano coro, pronti a ricomporre il cerchio non appena il vecchio, accostando un tizzone acceso,dava fuoco alle penne.
Non rimaneva che sbucciare le marànge: un compito svolto dalle donne, anche se era pur sempre l’officiante a distribuirne gli spicchi, a uno a uno, religiosamente come fossero ostie, e non senza aver prima raccomandato: “Ci bbi rrappa la lengua, pinsàti a llu fele ti Cristu!” (“Se vi si inasprisce la lingua, pensate al fiele che ha dovuto bere Cristo!”).
Allo sgradevole odore dell’olio bruciato, per un attimo si sovrapponeva quello amarognolo emanato dalle bucce delle arance, subito fatte oggetto di spartizione – qualche volta di contesa – da parte delle donne: se le dovevano portare a casa, e come teste dell’avvenuto rituale e come esca profumata da usare nel mezzogiorno del giovedì santo, quando, ormai finita la quarantena, le quarémme venivano rimosse dalle loro postazioni aeree e, in un crescendo di selvaggia euforia, buttare abbasso per essere bruciate in un unico falò, sul quale si lanciavano appunto le bucce di maràngia unitamente a manciate di sale.
Anche se c’era ancora da scontare il “pane e acqua” del venerdì santo e piangere il Cristo morto correndo di chiesa in chiesa dietro la statua dell’Addolorata al lugubre suono ti la fròttula (del crotalo), già si respirava aria pasquale: issati al posto delle quarémme folti rami d’ulivo benedetto tenuti appositamente in serbo fin dalla domenica delle Palme, e nell’euforica attesa di potere ammirare a sera li santi sipùrchi (i sacri sepolcri, cioè le reposizioni del Santissimo Sacramento), i cui caratteristici piatti di ranucìgghiu (germogli di grano) trasformavano gli altari in altrettanto campi primaverili, tutti rientravano nelle loro case, pronti a prendere d’assalto la mminisciàta ti pizzariéddhri ndurcinàti (scodellata di maccheroncini addolciti), tanto più calamitanti in quanto alla loro insolita proposizione infrasettimanale assommavano un’altrettanto insolita manipolazione gastronomica.
* La gallina nera, essendo usata dalle fattucchiere nell’orditura dei loro malefici, veniva guardata dal popolo con sospetto: sentirla cantare da gallo (verso emesso spontaneamente di tanto in tanto) era annuncio di morte. Anche le sue penne rientravano nell’alone della negatività: trovarsele sul proprio cammino o, peggio ancora, sulla soglia di casa, era simbolo dell’avventarsi di una disgrazia, per cui, a neutralizzazione, occorreva raccoglierle e bruciarle in un determinato modo.
Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari, 1994 (pagg. 252-258)
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