Diso. Il culto e la festa dei SS. Apostoli Filippo e Giacomo

 

Il culto e la festa dei SS. Apostoli Filippo e Giacomo, Patroni di Diso (Lecce) : i “Santi nosci”

 

di Rocco Boccadamo

Le celebrazioni espressamente dedicate hanno inizio il 21 aprile con il novenario.

Di buon mattino, a cura ed opera del Parroco e dei priori, questi ultimi intesi come i principali esponenti del comitato festa, le statue di legno dei Santi sono prelevate dalle nicchie appositamente ricavate nelle pareti interne della chiesa, “spogliate”, ossia senza gli ornamenti delle corone e delle insegne (croce e asta), e poggiate su uno scanno in prossimità dell’altare.

In quella fase, il luogo è quasi a porte chiuse, in pratica vuoto, l’azione si svolge in un misterioso silenzio, ammantato di riservatezza e di esclusività.

Il prete e i priori allestiscono, nel consueto angolo del tempio, a sinistra guardando l’altare, il baldacchino o “tosello” in pesante tessuto rosso; quindi prendono,  dalle custodie di sicurezza, le anzidette insegne in argento e le reliquie dei Santi, ponendole addosso ai rispettivi simulacri, in gergo “vestono” le statue.

Contemporaneamente, i rintocchi delle campane fanno giungere alla popolazione l’atteso, immancabile e immutabile avviso.

Fino a qualche decennio fa, la gente era colta dall’annuncio, quando già, dopo la sveglia all’alba secondo le antiche abitudini dei contadini, si trovava da tempo intenta al lavoro; dunque, lasciando di colpo arnesi e occupazioni, accorreva di buona lena, a passo affrettato, direttamente dalla campagna verso la chiesa.

Adesso, invece, nella quotidianità e particolarmente il giorno 21 aprile, nessuno si reca nei campi, anzi le persone si preparano in casa, in un certo senso con abiti di festa, per l’evento.

In tutta la comunità, sembra che sia rimasta solo un’anziana donna, la quale non ha cambiato le usanze e raggiunge la parrocchia così come si trova.

Con il luogo sacro ormai gremito di fedeli, il parroco e i priori intronizzano le statue sul baldacchino.

Nel tardo pomeriggio, in piccola processione, dalla congrega (cappella) della confraternita si preleva il simulacro in cartapesta della Madonna Immacolata – qui conosciuta come Madonna dell’Uragano, giacché la Vergine, stando alla tradizione, tenne indenne Diso da un devastante evento atmosferico – e lo si

Don Tonino Bello, vera sciabolata di luce viva

di Gianni Ferraris

Ricordare certe figure è un obbligo morale, una questione etica e socialmente non prescindibile.

Ci sono uomini che travalicano le loro appartenenze religiose, politiche, culturali. Che parlano all’umanità intera i linguaggi più consoni e che raggiungono le coscienze in modo diretto. Ci sono sguardi che trafiggono per la loro intensità.

Pensiamo al Dalai Lama che porta in giro per il mondo il suo esilio. Al Mahatma Gandhi che invocava la pace con messaggi di una coerenza difficilmente riscontrabile da altre parti. Pensiamo a figure di statisti come Pertini, Moro e molti altri potrei citarne, sicuramente scordandone molti altri ancora.

Sono figure di fronte alle quali ogni essere umano si sente in dovere di esprimere riconoscenza. Cattolici, atei, laici, di religioni diverse, però con un univoco modo di essere eticamente, moralmente, socialmente preziosi per gli insegnamenti che ci hanno donato.

Così anche un non credente si sente in forte debito nei confronti di un sacerdote, un vescovo in questo caso, che ha aperto uno squarcio nella pochezza di alcuni linguaggi o, peggio, nelle nefandezze che sono di strettissima attualità in ogni ordine di gerarchie, siano esse laiche o religiose.

Sono voci fuori da questi cori così poveri, e sono vere sciabolate di luce viva, fari di coscienza e di consapevolezza. Hanno sguardi penetranti, hanno parole che commuovono come l’estrema coerenza sa commuovere. Aiutano a guardare e vedere, invitano a non spegnere mai la luce.

Tonino Bello nacque ad Alessano (Le) il 18 marzo del 1935. Finite le medie, venne mandato in seminario prima ad Ugento (Le) , poi a Molfetta (Ba). Ordinato sacerdote a 22 anni, si occupò della rivista “vita nostra”. Poi, negli anni 70, fu parroco a Tricase (Le). Qui incontrò e conobbe gli ultimi: i poveri, i disoccupati, gli emarginati. Nel 1982 venne nominato vescovo di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi e nel 1985 presidente di pax Christi.

Fra i molti suoi scritti ed interventi, mi piace citare quello del grembiule e della stola, che forse contribuisce a comprenderne la statura:

“…Forse a qualcuno può sembrare un’espressione irriverente, e l’accostamento della stola col grembiule può suggerire il sospetto di un piccolo sacrilegio. Si, perchè di solito la stola richiama l’armadio della sacrestia, dove con tutti gli altri paramenti sacri, profumata d’incenso, fa bella mostra di sè, con la sua seta ed i suoi colori, con i suoi simboli ed i suoi ricami… Il grembiule, invece, ben che vada, se non proprio gli accessori di un lavatoio, richiama la credenza della cucina, dove, intriso di intingoli e chiazzato di macchie, è sempre a portata di mano della buona massaia. Ordinariamente non è articolo da regalo: tanto meno da parte delle suore, per un giovane prete. Eppure è l’unico paramento sacerdotale registrato dal vangelo. Il quale vangelo, per la messa solenne celebrata da Gesù nella notte del Giovedì Santo, non parla nè di casule, nè di amitti, nè di stole, nè di piviali… La cosa più importante, comunque, non è introdurre il “grembiule” nell’armadio dei paramenti sacri, ma comprendere che la stola ed il grembiule sono quasi il diritto ed il rovescio di un unico simbolo sacerdotale. Anzi, meglio ancora, sono come l’altezza e la larghezza di un unico panno di servizio: il servizio reso a Dio e quello offerto al prossimo. La stola senza il grembiule resterebbe semplicemente calligrafica. Il grembiule senza la stola sarebbe fatalmente sterile…”

Servizio. E’ stata questa la grandezza di Tonino Bello.

L’umiltà di essere servitore del suo Dio e delle persone, al di là ed oltre il loro credo. Persone e basta. Aprendo le porte del suo vescovado agli operai, ai disoccupati. Andando con la sua utilitaria la notte nei quartieri degradati per aiutare un tossicodipendente, una prostituta, un clochard. Indossava il solo grembiule in quei momenti, ma quanto era luminoso, sembrava una stola di seta dorata! E come vescovo inizia un percorso che lo vede a fianco degli operai delle acciaierie di Giovinazzo che difendono il posto di lavoro. Soprattutto lo si vede a Comiso con i pacifisti a sfilare contro l’installazione dei missili. E aprirà le austere porte del vescovado per accogliere gli sfrattati, sostenendo con forza che non risolverà lui il problema degli sfrattati, non è compito suo. Lui intende semplicemente istigare le istituzioni a fare il loro lavoro.

“…io ho posto un segno di condivisione che alla gente deve indicare traiettorie nuove (…), insinuare qualche scrupolo come un sassolino nella scarpa.”

E ancora, nella consapevolezza di essere personaggio scomodo, crea centri di accoglienza per i tossicodipendenti, per immigrati. E fa nascere una moschea per “i fratelli mussulmani”.

Integrazione, accoglienza, solidarietà nei fatti, sono le parole d’ordine che lo guidano e il suo essere pastore. La pace e un pacifismo “militante” furono le sue battaglie più aspre. Quelle che lo portarono addirittura ad essere accusato di incitare alla diserzione quando in una lettera ai parlamentari nel gennaio 1991, disse che era possibile: “esortare direttamente i soldati, nel caso deprecabile di guerra, a riconsiderare secondo la propria coscienza l’enorme gravità morale dell’uso delle armi».

Prima aveva lottato contro gli F16 a Crotone, contro gli Jupiter a Gioia Del Colle. Aveva promosso campagne per il disarmo e l’obiezione fiscale alle spese militari.

Immediato viene il paragone con un altro vescovo. Oscar Romero infatti invitò i militari salvadoregni ad opporsi a ordini di pena di morte. E immediato viene il parallelo con la teologia della liberazione. Romero venne trucidato da un tiratore scelto delle squadracce del dittatore mentre elevava l’ostensorio in una cattedrale affollata di campesinos impauriti e sgomenti.

Il culmine dell’impegno per la pace di Tonino Bello furono quei 500 che partirono da Ancona per la marcia per la pace in una Sarajevo martoriata dalla guerra, era il 7 dicembre 1992.

E lui, già malato, terminò la sua omelia con queste parole: “…Gli eserciti di domani saranno questi: uomini disarmati”.

Alexander Langer, suo estimatore ed amico, ricordò con queste parole un dialogo fra loro dopo il ritorno da quella marcia: “Tornò pieno di dubbi, e non li nascose: aveva vissuto con acuto dolore l’impotenza della pura proclamazione di pace, non se la sentiva di dare o escludere indicazioni operative, ma era sicuro di una cosa, come nei giorni della guerra del Golfo: che la pace, per affermarsi, ha bisogno innanzitutto di persone pacifiche e di mezzi pacifici”.

Tonino Bello morì il 7 aprile 1993 per cancro.

Alcune sue citazioni sono rimaste impresse come scritte indelebili. Una sua frase ricordo in particolare: «Dicono che gli uomini sono angeli con un’ala soltanto, devono tenersi abbracciati per poter volare».

E ancora nel corso di un incontro che ebbe con i ragazzi di una scuola media, disse parlando a braccio: “…Abbiamo sentito una canzone qualche sera fa nella cattedrale di Terlizzi ad un incontro per i giovani… facemmo mettere una canzone di Zucchero che diceva: “… voglio amare fino a che il cuore mi faccia male…”. Io vi auguro, ragazzi, che voi possiate essere capaci di amare a tal punto che il cuore veramente vi faccia male! Lo dico a tutti, indipendentemente dalla vostra esperienza religiosa… anche se c’è qualcuno, qualcuna che è molto lontana… sono convinto che è una cosa che tocca anche loro… starei per dire… soprattutto loro! Vi auguro che possiate veramente amare, amare la vita, amare la gente, amare la storia, amare la geografia, cioè la Terra… a tal punto che il cuore vi faccia male… e ogni volta che vedete non soltanto queste ignominie che si compiono, queste oppressioni crudeli, queste nuove Hiroshima e Nagasaki, questi nuovi campi di sterminio, vedrete fra 5 o 6 anni come i momenti che stiamo vivendo oggi passeranno davvero nella storia con una gravità più grande di quella che avvolge gli episodi di Hiroshima, di Nagasaki, dei campi di concentramento, dei campi di sterminio… quello che si sta compiendo oggi… nel silenzio generale di tutti… questi curdi massacrati, come gli iracheni massacrati, come le guerre che hanno mietuto iracheni, americani, europei… ma che c’importa della bandiera? Quando muore un uomo è sempre una tristezza incredibile. Io penso che quando voi vedete queste cose vi dovreste sentire il cuore che vi fa male… Ma noi il cuore ce lo sentiamo triste soltanto quando vediamo le cose epidermiche… Perché vedere la moglie di un marinaio che ieri è morto nell’incidente di Livorno che viene ripresa dalle zoomate impietose della tv e che piange, che singhiozza… anche te ti senti il cuore che ti fa male… ma poi dopo passa… e la televisione ci sta abituando a girar pagina subito. Però il grido violento che si sta sprigionando dalla Terra, soprattutto dalle turbe dei poveri, quello lì deve risuonare costantemente dentro di voi… vi auguro, dicevo, che il cuore vi faccia male, come anche il cuore vi dovrebbe far male quando vedete lo sterminio della natura… Sentiremo fra poco che cosa significa la fiumana di greggio che si è sprigionata nel Golfo Persico… ”.

Gli auguri scomodi di Tonino Bello ai suoi fedeli:

Non obbedirei mai al mio dovere di vescovo, se vi dicessi “Buon Natale” senza darvi disturbo. Io, invece, vi voglio infastidire. Non posso, infatti, sopportare l’idea di dover rivolgere auguri innocui, formali, imposti dalla “routine” di calendario. Mi lusinga, addirittura, l’ipotesi che qualcuno li respinga al mittente come indesiderati. Tanti auguri scomodi, allora! Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali. E vi conceda la forza di inventarvi un’esistenza carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio. Il bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finchè non avrete dato ospitalità a uno sfrattato, a un povero marocchino, a un povero di passaggio. Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la carriera diventa l’idolo della vostra vita; il sorpasso progetto dei vostri giorni: la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate. Maria, che trova solo nello sterco degli animali la culla ove deporre con tenerezza il frutto del suo grembo, vi costringa con i suoi occhi feriti a sospendere lo struggimento di tutte le nenie natalizie, finché la vostra coscienza ipocrita accetterà che lo sterco degli uomini o il bidone della spazzatura o l’inceneritore di una clinica diventino tomba senza croce di una vita soppressa. Giuseppe, che nell’affronto di mille porte chiuse è il simbolo di tutte le delusioni paterne, disturbi tutte le sbornie dei vostri cenoni, rimproveri i tepori delle vostre tombolate, provochi cortocircuiti allo spreco delle vostre luminarie, fino a quando non vi lascerete mettere in crisi dalla sofferenza di tanti genitori che versano lacrime segrete per i loro figli senza fortuna, senza salute, senza lavoro. Gli angeli che annunciano la pace portino guerra alla vostra sonnolenta tranquillità incapace di vedere che, poco più lontano di una spanna con l’aggravante del vostro complice silenzio, si consumano ingiustizie, si sfrutta la gente, si fabbricano armi, si militarizza la terra degli umili, si condannano i popoli allo sterminio della fame. I poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell’oscurità e la città dorme nell’indifferenza, vi facciano capire che, se anche voi volete vedere “una gran luce”, dovete partire dagli ultimi. Che le elemosine di chi gioca sulla pelle della gente sono tranquillanti inutili. Che le pellicce comprate con le tredicesime di stipendi multipli fanno bella figura ma non scaldano. Che i ritardi dell’edilizia popolare sono atti di sacrilegio, se provocati da speculazioni corporative. I pastori che vegliano nella notte, “facendo la guardia al gregge” scrutando l’aurora, vi diano il senso della storia, l’ebbrezza delle attese, il gaudio dell’abbandono in Dio. E vi ispirino un desiderio profondo di vivere poveri: che poi è l’unico modo per morire ricchi. Sul nostro vecchio mondo che muore nasca la speranza!!!  don Tonino Bello.

Bibliografia:

– “Alla finestra della speranza” Ed. S. Paolo, Cinisello B., 1988.

– “Sui sentieri di Isaia” Ed. La Meridiana, Molfetta, 1990.

– “Scrivo a voi… lettere di un vescovo ai catechisti” Ed. Dehoniane, Bologna 1992.

– “Pietre di scarto” Ed. La Meridiana, Molfetta, 1993 – “Stola e grembiule” Ed. Insieme, Terlizzi, 1993

Salve. La Grotta Montani e le stalle dei Neanderta(ita)liani

Complesso di pajare con forno (foto nicola febbraro)
Complesso di pajare con forno (foto nicola febbraro)

 

 di Marco Cavalera

 

Le pietre raccontano storie millenarie di epoche remote in cui l’uomo raccoglieva i doni della terra e combatteva contro gli animali battaglie quotidiane per la sopravvivenza, mentre le donne svolgevano le faccende domestiche e, come oggi, nutrivano di amore materno la prole.

L’Uomo di Neandertal, il predecessore di Sapiens, non era molto diverso dall’uomo moderno; la corporatura più bassa e tozza gli consentiva di svolgere lavori più fisici che intellettuali.

La forza fisica l’aveva ereditata dall’Homo heidelbergensis ma, allo stesso tempo, aveva sviluppato un cervello più grande che gli permetteva di comunicare, usare il fuoco e scheggiare la dura pietra che utilizzava per molteplici attività. Aveva evoluto anche una buona capacità di pianificazione delle operazioni, ossia poteva immaginare che da un ciottolo informe di materia prima si potevano produrre tanti strumenti di più ridotte dimensioni.

Circa 70mila anni fa una lunga stagione calda stava gradualmente lasciando il posto ad una molto  fredda e rigida. Neandertal, avvezzo a non subire i mutamenti della natura, non aveva sofferto particolarmente questo cambiamento climatico. Anche la corporatura si era adattata al clima più freddo con un accorciamento degli arti superiori e inferiori.

Prima che il suo ramo evolutivo si estinguesse definitivamente, aveva convissuto una decina di migliaia di anni con il nostro predecessore Homo Sapiens. Ci fu convivenza, non promiscuità.

Sarebbe mai riuscito l’uomo moderno, autodefinitosi impropriamente Sapiens Sapiens, a convivere con i membri della stessa specie oltre 10mila anni?

Immaginiamoci se fosse esistito già 40mila anni fa: altro che 10mila anni (secolo più secolo meno) di vita in comune, sarebbe riuscito ad eliminare il suo coinquilino in pochi decenni, così come è successo – ad esempio – alle tribù indigene della foresta amazzonica o dell’Africa equatoriale.

Ma la presunta superiorità intellettuale dell’Uomo (in)Sapiens in(Sapiens) ha colpito, a distanza, anche i suoi più antichi antenati. L’arma è stata la più micidiale: l’oblio della Memoria attraverso la distruzione di interi siti archeologici in nome di un progresso che è regressione della civiltà umana, incapace di guardare al futuro (consumo sfrenato di risorse naturali) e ugualmente miope nei confronti del passato.

Facciamo un passo indietro nel tempo di 70mila anni. Nel deserto roccioso e boschivo della penisola salentina, Neandertal aveva scelto Salve.

Il territorio, infatti, presentava tutte le caratteristiche che gli garantivano una sicura sussistenza: ruscelli di acqua dolce, caverne e ripari sotto roccia con vista mozzafiato, tanta selvaggina. Elefanti, iene, rinoceronti, cervi e altre specie di mammiferi ed ungulati scorrazzavano su e giù tra canali e pianori, facendo letteralmente impazzire il povero neandertaliano. La madre dei suoi figli aspettava impaziente l’arrivo del “marito” con la succulenta cena.

grotta Montani (foto Nicola Febbraro)
grotta Montani (foto Nicola Febbraro)

Grotta Montani a Salve, così denominata in epoca moderna per il diffuso affioramento di roccia (“munti”), era nel Paleolitico Medio un ottimo rifugio per neandertaliani. Si trattava di un complesso di cavità costituito da un ambiente centrale, da cui si diramavano quattro cunicoli lunghi e stretti, all’interno dei quali il nostro ominide si riparava dal freddo e consumava i pasti.

Il primo ambiente aveva un’enorme apertura rivolta verso il mare, ampio e bene illuminato dalla luce del sole che entrava copiosa nelle ore centrali del giorno. Qui Neandertal scuoiava gli animali e scheggiava meticolosamente nuclei di selce, giunta fino all’estrema propaggine del Capo di Leuca da chissà dove attraverso chissà quali scambi e baratti, da cui ricavava strumenti di pietra di piccole e medie dimensioni che utilizzava per le sue attività quotidiane.

pietra zoomorfa (foto marco cavalera)
pietra zoomorfa (foto marco cavalera)

Rinvenire tracce, dirette o indirette, del passaggio dell’Uomo di Neandertal è come trovare un ago in un pagliaio. Nel Salento meridionale, ad esempio, sono state individuate alcune cavità frequentate dai primi uomini della Preistoria salentina: grotta del Bambino a nord – ovest di Santa Maria di Leuca, grotta del Cavallo e di Capelvenere presso Nardò.

Grotta Montani, 40 anni fa (nel 1973), fu oggetto di scavi archeologici che avevano messo in luce una notevole quantità di strumenti in selce e calcare utilizzati da Neandertal, associata ad un numero elevato di frammenti di ossa alcuni dei quali appartenenti ad elefanti, rinoceronti, iene, cinghiali e conigli. Prelibate prede che, probabilmente, insieme ad altre peculiarità come la presenza di sorgenti di acqua dolce per dissetarsi e distese boschive per la raccolta di frutti spontanei, hanno contribuito alla scelta del luogo.

Migliaia di anni dopo sono state altre caratteristiche geo-morfologiche ad attirare l’uomo: la sabbia dorata finissima e il mare turchese limpido, paragonati a celeberrime isole esotiche dell’Oceano Indiano.

stalle neandertal (1)
stalle neandertal (1)

Sul pianoro che sovrasta la grotta – recentemente – sono state realizzate delle abitazioni in funzione di “case agricole”, “stalle” per animali di grossissima mole, con vista mare mozzafiato.

stalle neandertal (2)
stalle neandertal (2)

Alcuni “ambientalisti” hanno ritenuto che le case siano state realizzate come residenze per turisti danarosi, sfruttando dei regolamenti provvisori (da 30 anni) che permettono di costruire “stalle” e depositi di attrezzi agricoli anche laddove non vi sono terreni utilizzabili a questi scopi ma, guarda caso, distanti solo un chilometro e mezzo dalla sabbia finissima e dal mare limpidissimo.

Non dubitando della buona fede dei costruttori, verrebbe a questo punto da pensare che le abitazioni di località Montani siano state realizzate per ospitare la famiglia di Neandertal, con i suoi elefanti e rinoceronti…vissuti però, a Salve, oltre 70mila anni fa.

 

stalle neandertal (3)
stalle neandertal (3)

 

Bibliografia di riferimento:

Arsuaga J. L., I primi pensatori e il mondo perduto di Neandertal, Milano 2001.

Febbraro N., Archeologia del Salento. Il territorio di Salve dai primi abitanti alla Romanizzazione, Tricase 2011.

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/11/18/grotte-nel-territorio-di-salve-lecce/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/27/dalluomo-di-neanderthal-allhomo-insapiens-il-triste-destino-di-localita-montani-salve/

 

“Una poesia tra le carte d’archivio”, ovvero curiosando in casa altrui non mancano le sorprese, neppure quelle finali …

di Armando Polito

In http://culturasalentina.wordpress.com/2013/04/16/una-poesia-tra-le-carte-darchivio/ mi sono imbattuto nel post fresco fresco (16 aprile 2013) di Riccardo Viganò Una poesia tra le carte d’archivio, che di seguito riporto fedelmente e integralmente:

“Tra i protocolli notarili conservati nell’Archivio di Stato di Lecce si trova, all’interno degli atti del notaio neretino Michele Bona che rogò a Nardò dalla prima metà del Settecento, una breve composizione poetica che, nostro malgrado, ci è giunta incompleta. Il testo è vergato da mano elegante ed è ignoto l’autore ma, molto probabilmente, fu il notaio stesso a scriverlo. Si riporta di seguito il componimento affinché qualcuno, ritenendolo interessante, proceda ad un approfondimento.

qual chì pel la via tenebrosa oscura s’affretta i passi alla stagion nevosa

se tigre incontra che lasci sdegnosa l’usato bosco, o scenda alla pianura.

Tanto il core gli incombra altra paura.

Che mentre ancora in sua magion riposa, dalla fiera terribil furiosa.

La rabbia lo spavento e la sicura tal io, che appresso il viver mio rammento veggo il peccato starsi ammè d’intorno col brutto ceffo, e recarmi spavento.

Questo miro la notte e questo il giorno.

Quest’è la mia pena e il mio tormento e sempre fuggo e sempre [ill]” 

Non ho lasciato cadere nel vuoto l’invito, ed eccomi qui.

Di seguito ho trascritto il componimento (e a fianco ho aggiunto la mia parafrasi) per renderne immediatamente fruibile la struttura metrica e mi son permesso pure di ipotizzare l’integrazione della parte mancante alla fine dell’ultimo verso. Il lettore noterà che anche  la punteggiatura ha subito delle modifiche, indispensabili perché il testo, pur coincidendo con la lettura fattane, avesse un senso.

testo

Si tratta di un sonetto (con rime ABBA, ABBA, CDC, DCD) che è in pratica una gigantesca similitudine, la cui prima parte (parola iniziale: Qual) occupa le quartine, la seconda (parola iniziale tal) le terzine. Se dovessi esprimere un giudizio sintetico direi che si tratta di un’abile esercitazione che potrei intitolare Collage di echi. Il ricalco in poesia è un fenomeno antico ed oggi gli strumenti informatici (dalla digitalizzazione al riconoscimento dei caratteri e ai motori di ricerca) danno un formidabile aiuto a chi non si limita solo al conteggio statistico delle ricorrenze. Sono, perciò, lontani, i tempi in cui per rinvenire echi petrarcheschi nel Leopardi bisognava sorbirsi la lettura di tutte le opere di entrambi, mentre oggi basta solo approfondire l’analisi dei brani segnalati dal pc. Insomma, di fronte a questo testo  trent’anni fa mi sarei limitato a dire che sentivo echi danteschi e petrarcheschi, in pratica solo quello riportato nelle prime due note e nell’ultima.

A proposito di ricalchi: essi vanno distinti dal vero e proprio plagio, in cui c’è la consapevolezza, colpevole, del copia-incolla. Per lo più il ricalco, quello innocente, è involontario e frutto, in fondo, della sedimentazione di cultura che ad un certo momento, senza che ce ne rendiamo conto, riemerge. A ben pensarci, in fondo, scrivere una poesia è come comporre un pezzo musicale: i componenti dell’una e dell’altro (le note e le parole) esistono già, bisogna inventarsi le combinazioni.  Da un punto di vista esclusivamente matematico direi che la poesia sembrerebbe favorita, visto che il numero delle note è fisso e quello delle parole in continuo aumento (e non tengo in considerazione i neologismi di politici e politologi che mi sembrano esclusi a priori dalla possibilità di esprimere afflati poetici …). Tuttavia la quantità a disposizione non sempre è sinonimo di qualità e il proverbio dice che il bisogno aguzza l’ingegno, per cui l’incontro (e non lo scontro) tra musica e poesia segna uno 0/0 o, più verosimilmente un 1 (seguito, senza virgola, da un numero infinito di zeri)/1 (seguito anch’esso, senza virgola, da un numero infinito di zeri).

Alcune combinazioni possono anche essere utilizzate, consapevolmente (allora si chiamano “citazioni”) o inconsapevolmente; nell’uno o nell’altro caso, però è indispensabile, perché si possa parlare di poesia e non di componimento in poesia, che ci sia come valore aggiunto qualcosa di diverso, spesso indefinito e misterioso, ma sempre originale.

Il titolo Collage di echi era già un’anticipazione del giudizio, che ora integro dicendo che, secondo me, siamo in presenza di una dignitosa esercitazione letteraria sul tema del peccato (genericamente inteso, senza ombra di coinvolgimento della donna quasi sempre presente nei modelli di riferimento), niente di più.

Qui la mia fatica, note comprese, poteva dirsi conclusa, quando, in un ultimo, poco speranzoso tentativo di aggiungere qualche altro probabile ricalco, dopo aver digitato nel motore di ricerca “veggo il peccato” (attenzione, le virgolette in molti casi fanno la differenza!) all’indirizzo

http://books.google.it/books?id=qMY_GufWO2oC&pg=PA291&dq=%22veggo+il+peccato%22&hl=it&sa=X&ei=SuBuUYuAPZOy7Aam9YHwCw&sqi=2&ved=0CEsQ6AEwBA#v=onepage&q=%22veggo%20il%20peccato%22&f=false

mi son ritrovato alla pagina 291 del libro Memorie de’ religiosi per pietà, e dottrina insigni della congregazione della Madre di Dio raccolte da Carlantonio Erra milanese della medesima congregazione dedicate all’Eminentissimo Principe Flavio Chigi Diacono cardinale di S. Maria in Portico, tomo II, Per Giuseppe e Niccolò Grossi nel Palazzo de’ Massimi, Roma, 1760.  Ecco cosa in quella pagina è riportato:

p

L’autore del componimento è, dunque, Sebastiano Paoli (1684-1751), al quale l’autore del libro dedica le pagg. 282-291  e nel presentare il sonetto così si esprime: Avendo fatto il suo ultimo Quaresimale in Turino, tornato a Napoli fu assalito dalla idropisia; che essendosi aggravata nel Novembre del 1749 lo minacciò della vita. Sopravvisse nondimeno quasi due anni, impiegando più ore del giorno, e talvolta ancor della notte in qualche occupazione di studio. E perché anche in quello stato cotanto compassionevole si sentiva quanto infiacchito di membra, altrettanto vigoroso di mente, consagrando interamente a Dio gli ultimi suoi pensieri, cercò di dare un sollievo a’ suoi acerbi dolori, col parafrasare in verso alcuni passi della Sagra Scrittura: la qual parafrasi fu scritta da lui medesimo con mano moribonda e tremante. Ecco fra i molti, che andaron dispersi, un Sonetto, fatto da lui due o tre giorni prima della sua dipartenza dal Mondo, sovra il passo del Salmo 50 Peccatum meum contra me est semper.

La scrittura segnalata da Riccardo Viganò ha tutta l’aria di essere una trascrizione del testo originale fatta a memoria. Lo dimostrano le varianti: pel la via/per selva; s’affretta/affretta; tanto il core gli incombra altra paura/tanto il cuore l’ingombra atra paura; dalla fiera/della fiera; la rabbia, lo spavento non sicura/la rabbia lo spaventa e la figura; tal io che appresso il viver mio rammento/tal io che spesso il viver mio rammento; ammè/a me; e sempre fuggo e sempre io li ho attorno (io li attorno era la mia integrazione)/e sempre fuggo, e sempre a lui ritorno.

Il recupero del testo originale ridimensiona nelle note solo le osservazioni relative a incombra, a  ammè e a altra; resta immutato il mio giudizio complessivo sul componimento, con tutto il rispetto per Sebastiano Paoli, figura di spicco dell’erudizione del XVIII secolo, dai molteplici interessi, come testimoniano le sue pubblicazioni (alcune postume) delle quali riporto di seguito il repertorio in ordine cronologico;  ho evidenziato sottolineandole le due riguardanti Nardò e di queste e di alcune altre ho riprodotto i frontespizi, mentre mi chiedo se chi scrisse o inserì quel foglietto ebbe modo di possederne o leggerne qualcuna …; comunque, è molto probabile che il foglietto sia stato inserito dopo il 1760, anno in cui fu pubblicato il testo di Carlantonio Erra.

Disquisizione istorica della patria, e compendio della vita di Giacomo Ammannati Piccolomini, cardinale di S. Chiesa, detto il Papiense, vescovo di Lucca, e di Pavia, Frediani, Lucca, 1712

7

Della poesia de’ santi padri greci, e latini, ne’ primi secoli della Chiesa, Raillard, Napoli, 1714

Della vita e virtù della serva del Signore Elisabetta Albano, Roselli, Napoli, 1715

10

Difesa delle censure del sig. Lodovico-Antonio Muratori bibliotecario dell’alt. sereniss. di Modena, contro L’Eufrasio dialogo di due poeti vicentini, Nasi, Napoli, 1715

Della vita del venerabile Monsignore F. Ambrogio Salvio dell’ordine de’predicatori. Eletto Vescovo di Nardò dal Santo Pontefice Pio Quinto, Roselli, Napoli, 1716; Stamperia Arcivescovile, Benevento, 1716

6

De ritu ecclesiae Neritinae exorcizandi Aquam in Epiphania dissertatio, Mosca, Napoli 1719

12

 

Distinta descrizione de’ funerali celebrati nella Real Cappella per la Difonta Augustissima Signora Imperadrice Eleonora Maddalena Teresa di Neuburgh Vedova dell’Imperador Leopoldo Primo, Ricciardi, Napoli, 1720

5

Ragionamento sopra il titolo di divo dato agli antichi imperadori, Cappurri, Lucca, 1722

De nummo aureo Valentis imperatoris dissertatio, Cappurri, Lucca, 1722

A sua eccellenza il signore Giovanni Priuli cavalier, e procurator di S. Marco, Maldura, Venezia, 1723

Funerali per l’illustrissima ed eccellentissima signora D. Giovanna Pignatelli d’Aragona, duchessa di Monteleone e di Terranova, Mosca, Napoli, 1723

Pro illustrissimo, ac reverendissimo domino Hieronymo Alexandro Vincentino archiepiscopo Thessalonicensi, ac in Neapolitano regno nuncio apostolico laudatio funebris habita Neapoli in aede D. Dominici Majoris die 9 Augusti 1723, Ricciardo, Napoli, 1723

Orazione in lode di S. Caterina da Bologna detta il di 9 marzo 1729, Stamperia bolognese di S. Tommaso d’Aquino, Bologna, 1729

Orazione in lode di S. Petronio vescovo e protettore di Bologna detta il di 19 aprile 1729, Stamperia bolognese di S. Tommaso d’Aquino, Bologna, 1729

Annotazioni critiche sopra il nono libro del tomo II della Storia civile di Napoli del sig. Pietro Giannone, s. n., s. l., 1730 (?)

Orazione in lode di S. Giovanni Nepomuceno detta in Roma nell’imperial chiesa di S. Maria dell’anima della nazione tedesca per ordine dell’eminentissimo cardinale Alvaro Cienfuegos, Stamperia del Komarek, Roma, 1733

Orazione in lode del glorioso S. Paterniano vescovo, e principale protettore della citta di Fano, Fanelli, Fano, 1735

Solenni esequie di Maria Clementina Sobieski regina dell’Inghilterra celebrate nella chiesa di S. Paterniano in Fano dall’ill.mo, e r.mo monsignor Giacomo Beni li 23 maggio 1735, Fanelli, Fano, 1736

Codice diplomatico del sacro militare ordine gerosolimitano oggi di Malta, Marescandoli, Lucca, 1737

8

Orazione in lode di santa Caterina da Genova detta nella Chiesa della Santissima Annunziata il 2 maggio 1738, Marescandoli, Lucca, 1738

Modi di dire toscani ricercati nella loro origine, Occhi, Venezia, 1740

3

 

Orazione in lode di S. Giovanni Nepomuceno detta nella chiesa parrocchiale, e collegiata di S. Paolo in Venezia e consagrata alla serenissima reale altezza di Federigo Cristiano principe reale di Pollonia, Occhi, Venezia, 1740

Orazioni sacre, Bettinelli, Venezia, 1740

Orazioni, Cappurri, Lucca, 1724; Marescandoli, Lucca, 1738; Bettinelli, Venezia, 1743

9

Orazione in lode di S. Filippo Neri recitata alli 13 marzo 1741 nella insigne chiesa de’ pp. dell’oratorio di Palermo, s. n., s. l. , 1743(?)

De patena argentea forocorneliensi, olim (vt fertur) S. Petri Chrysologi, dissertatio, s. n., Napoli, 1745

1

Discorso sopra la vesta inconsutile di Nostro Signore recitato nella chiesa di S. Mose, Bettinelli, Venezia, 1743 e 1746

Ne’ funerali dell’illustrissimo, e reverendissimo monsignore Michele Talenti prelato domestico della Santità di Nostro Signore Benedetto 14 Votante di segnatura, eletto governatore di Rieti celebrati in Lucca nella chiesa de’ SS. Simone e Giuda il giorno immediato alla sua morte 17 settembre 1746, Benedini, Lucca, 1746

Orazione in lode del beato Girolamo Miani fondatore de’ padri della Congregazione di Somasca, Bettinelli, Venezia, 1748

Prediche sacro-politiche, Bettinelli, Venezia, 1754

Prediche quaresimali, Bettinelli, Venezia, 1762

Opere predicabili, Dorigoni, Venezia, 1762

Commento e note alla tragedia Merope di Scipione Maffei, Stamperia Reale, Torino, 1765

 

11

Va ricordato che le sue schede vennero utilizzate da Giacomo Racioppi nella stesura di Iscrizioni grumentine inedite, in Archivio storico per le provincie napoletane, anno 9 (1886), pagg. 660-669 , che collaborò anche alla stesura del testo di Bartolomeo Beverini Syntagma de ponderibus, et mensuris antiquorum, Frediano, Lucca, 1711 e Mosca Napoli, 1719.

2

Il Paoli curò pure le allegorie del Bertoldo con Bertoldino e Cacasenno in ottava rima con argomenti, allegorie, annotazioni, e figure in rame, Storti, Venezia, 1739 (edizione condotta su quella di Lelio Dalla Volpe, Bologna, 1736, cui si riferisce il frontespizio, alla quale il Paoli non aveva collaborato).

13

A questo punto qualcuno potrebbe osservare che avrei fatto meglio a ridurre il post a questa seconda parte. Non l’ho fatto per due buoni motivi: anzitutto perché non sarebbe stato corretto nei confronti del lettore e di me stesso spacciare come risultato ottenuto al primo colpo ciò che in realtà è emerso, è il caso di dire in tutti i sensi per fortuna, solo alla fine; poi per deformazione exprofessionale, direi quasi per ragioni umilmente didattiche, tese solo a far comprendere a chi non è addetto ai lavori come indagini di questo tipo, nonostante l’ausilio determinante oggi offerto dal pc, siano sempre legate nei loro esiti all’aleatorietà delle nostre ipotesi e interpretazioni. Il pc, comunque rimane un cretino velocissimo; noi, per quanto lentissimi, un po’ più intelligenti di lui, almeno si spera …

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1 L’immagine della via tenebrosa e oscura, metafora del peccato, è di ascendenza antica: è già in Salomone (da Luigi Granata, Opere spirituali, Giunti, Venezia, 1644, pag. 542): …la via dei cattivi è oscura, e tenebrosa. Scontato ricordare, poi, la selva oscura dantesca e le sue presenze animali.

2 Francesco Petrarca (XIV secolo), Canzoniere, L, 1-6 : Nella stagion che ‘l ciel rapido inchina,/verso occidente, e che ‘l dì nostro vola/a gente che di là forse l’aspetta,/veggendosi in lontan paese sola,/la stanca vecchierella pellegrina/raddoppia i passi, e più e più s’affretta

3 Si tratta di un nesso molto comune, tanto che ricorre più volte in autori di ogni tempo; un solo esempio per tutti: Giovan Battista Marino (XVI secolo), Adone, XVI, 188, 3: … nata colà nela stagion nevosa; XX, 501, 5-6: Suda, e anela alla stagion nevosa,/quando adusta da Borea il verno coce …

4 Antonio Cutrona, La conquista del Mindanao, overo il Corralat, Dragondelli, Roma, 1674, pag. 52: atto III, scena VIII: … che, qual tigre sdegnosa,/sfogarà sovra lui l’ira de l’alma.

5 Torquato Tasso (XVI secolo), Le sette giornate del mondo creato (giornata V), : fugge del bosco usato il dolce albergo.

Pietro Metastasio (XVIII secolo), traduzione della satira 6 del libro II delle Satire di Orazio (ultimi due versi): Alla buca ritorno, al bosco usato, ai miei legumi, alla mia pace: addio.

6 Non è che i notai, anche se scrivevano di proprio pugno, fossero tutti indenni da veri e propri errori di ortografia: se, però, l’autore della poesia è lo stesso notaio (nel post originale si formula questa ipotesi ma non si accenna neppure ad un’avvenuta comparazione calligrafica ed ai suoi esiti), vista l’abile costruzione della stessa poesia, credo che incombra non sia un errore ortografico  ma un vezzo etimologico, ricalco dal francese encombrer, da cui è derivato ingombrare; anche se ammè, che s’incontra più avanti, risolleva qualche dubbio.

7 Non escluderei la lettura alta, voce che, però, avrebbe meno pregnanza di significato.

8 Dante Alighieri, Vita nuova, sonetto Amore e ‘l cor gentil sono una cosa, vv. 5-7: Falli Natura quand’è amorosa,/Amor per sire e il cor per sua magione,/dentro la qual dormendo si riposa …

9 Non escluderei che il notaio, o chi per lui, si sia lasciato prendere la mano dal raddoppiamento sintattico (frutto della assimilazione della d in ad che è il padre del nostro a) presente nel dialettale a mme e pure, anche se solo a livello fonetico e non grafico, nell’italiano a me (provare a pronunziarlo per credere …).

10 Pietro Metastasio (XVIII secolo), La corona, scena I: Rammento che della Dea di Delo seguace io son; che la terribil fiera; aggiungo che fiera furiosa è un nesso molto frequente in opere religiose (per lo più panegirici) del XVIII secolo.

11 M. Panfilo di Renaldini, Lo innamoramento di Ruggeretto, Giovanni Antonio Della Casa, Venezia, 1555, pag. 70, XIII, 95: Sfocando il mio tormento, e la mia pena

Camillo Scrofa (XVI secolo), alias Fidentio Glottogrysio Indimagistro, Capitulo I, 36: il mio tormento et la mia pena amplifica.

Torquato Tasso (XVI secolo), Rime amorose, 114, 1-2: Dolce mia fiamma, dolce/mia pena, e mio tormento.

Carlo Goldoni, Dalmatina, atto II, scena XIV: Ecco a che mi condanna barbara cruda sorte:/è il mio tormento in vita, è la mia pena in morte. La commedia fu rappresentata per la prima volta a Venezia nell’autunno del 1758.

Euripilo Naricio (pseudonimo arcadico di Francesco Zacchiroli) Losanna, Martino, 1776: Il sogno, XII, 5: Ma qual fu la pena, il mio tormento.

12 Si direbbe un ribaltamento della situazione cantata dal Petrarca in Canzoniere, XXXV (celeberrimo sonetto il cui verso iniziale è Solo e pensoso i più deserti campi), dove il poeta cerca la solitudine per evitare la vergogna che gli altri si accorgano della sua pena d’amore che continua imperterrita a tormentarlo; qui, invece, le mura domestiche non bastano a far sentire al sicuro il nostro impegnato inutilmente in una fuga che non è fisica ma esclusivamente mentale.

Giuseppe Manzo (1849-1942) e la cartapesta leccese (quarta parte)

di Cristina Manzo

 

Tra i cartapestai leccesi della seconda metà dell’Ottocento e del primo Novecento Giuseppe Manzo fu il meno predisposto all’industrializzazione dell’arte appresa nella bottega del De Lucrezi.

Il successo riscosso dalle sue statue in tutte le esposizioni  nazionali e internazionali dal 1885 alla vigilia della prima guerra mondiale, in concorso con le statue dei cartapestai suoi giovani discepoli e coetanei, premiò la sua fedeltà all’ideale artistico-artigianale che più tardi decadde violentato dalla istituzione di stabilimenti, in cui si modellò la cartapesta quasi alla maniera del cartone romano o del carton pierre francese.

Significativa è la medaglia d’oro che gli fu assegnata nel 1898 alla esposizione internazionale di Torino. Nella stessa esposizione, le statue del De Lucrezi, suo maestro,  furono premiate con l’unica medaglia d’argento di prima classe messa a disposizione della Giuria dal Ministero della Pubblica Istruzione. Questo un brano della relazione che il barone Sebastiano Apostolico tenne a chiusura della Esposizione di Torino del 1898, quale presidente effettivo del comitato provinciale leccese.[1]

Giuseppe Manzo “I nostri bravi operai hanno creato un’arte di cui ormai la fama varca i due mondi. Pregevoli riescono generalmente i loro prodotti, e tanto più destano ammirazione a noi che conosciamo che nessuna preparazione di scuola si è loro apprestata; tutto essi producono col loro ingegno volenteroso, col loro innato senso artistico. La sola medaglia d’oro destinata dalla Giuria per tal genere di lavori la ottenne il nostro bravo Giuseppe Manzo. Gli altri espositori di lavori di cartapesta furono anch’essi premiati e cioè: il signor Achille De Lucrezi, con l’unica medaglia di argento di prima classe messa a disposizione della Giuria dal Ministero della pubblica istruzione; il signor Raffaele Carena ebbe la medaglia di argento; e medaglia di bronzo i signori Fratelli Caprioli, Domenico Pisanelli, Isacco-Longo De Pascalis, e “l’istituto di arti plastiche”. Questa [arte] della cartapesta, conosciuta in  tutto il mondo, non è organizzata coi sistemi di “réclame” che usan tutti; non ha largo stock di esemplari, pronti a soddisfare le richieste, non vi sono depositi nelle città di consumo, ma si aspetta che vengan fatte le commissioni prima di intraprendere il lavoro. Organizzando questa arte originale, impartendo una istruzione tecnica agli operai che vi si dedicano, potrebbe, anzi dovrebbe, addivenire una grande industria da dar lavoro rimuneratore magari a migliaia di operai. Ecco la strada che bisogna battere.[2]

 

Ed ancora:

 

Il barone Sebastiano Apostolico di Lecce è uno dei maggiori trionfatori dell’esposizione per aver fatto principalmente concentrare gli sguardi di tutta la nazione convenuta a Torino, sulla simpatica e verace terra di Puglia. Avviene così di rado il miracolo della immediata rivelazione delle virtù d’una regione, che quando avviene, si resta lieti e lusingati. E lieti debbono esserne i pugliesi. Diciamolo subito: Giuseppe Manzo di Lecce, premiato all’Arte Sacra con l’unica medaglia d’oro concessa all’ industria della cartapesta religiosa, fra dieci espositori, tra cui uno importante di Roma, il Rosa, con i suoi lavori ha attratto i visitatori a migliaia, incantandoli, più di quello che abbiano saputo fare alcuni veri artisti. Che volete! Il Manzo fa dell’industria, ma egli è artista nell’anima. Senza ciò non si può spiegare il mistico rapimento operato sulla folla, colta e incolta, intendente e non intendente d’arte e d’arte applicata. Il Manzo, valentissimo e misurato artefice della gentile città di Puglia, della terra, dalla quale, come dice il Boito, le grandi città, Roma sopra tutte, dovrebbero imparare l’arte industriale delle suppellettili sacre, è stato il prediletto espositore che destò il più grande interessamento nei critici, negli artisti, nei fedeli, nei sacerdoti, nei Sovrani, nel pubblico tutto. La Regina d’Italia, la Principessa Letizia, la Duchessa d’Aosta, diligenti ammiratrici del bello, più volte si son fermate davanti ai bei lavori della nobilissima arte industriale leccese, una vera gloria meridionale, per rivedere e lodare i lavori geniali e semplici del sig. Manzo che, in quei momenti di trionfo, per lui inconsapevole, lavorava nella sua bottega, dalla  quale partono per viaggiare fino in America, in Inghilterra e perfino sulle cime delle nostre Alpi nevose, vergini, santi, angeli, ecc. La medaglia d’oro ottenuta dal Manzo per i suoi bei lavori, tanto ammirati, e concessa da una competentissima giuria composta di artisti e d’industriali, l’unica per tale arte applicata, ricrea lo spirito di quanti hanno buone speranze in Italia per il risorgimento prossimo dell’arte industriale, una delle nostre glorie passate.[3]

 

una delle opere di Giuseppe Manzo
una delle opere di Giuseppe Manzo

Le sue pale per altari ed i suoi gruppi statuari sono caratterizzati da una certa austerità e da un verismo impeccabile. I suoi altorilievi e bassorilievi  sono impareggiabili nella perfezione. Non si potrà  riuscire a rintracciare tutte le sue opere, in special modo quelle che appartengono a collezioni private, o che sono sparse per il mondo, ma ve ne sono di grande bellezza e prestigio sparse nelle chiese di tutta la puglia, noi parleremo di alcune di queste:

– nella chiesa di S. Vito a Surbo fu commissionata al maestro Manzo, la statua della Madonna del Carmine, realizzata nel 1899.

– Nello stesso anno, la chiesa madre di Mesagne commissionò una bellissima statua del sacro Cuore di Gesù. La statua raffigura Gesù ritto sulle nuvole, scalzo e coperto da una tunica rossa sostenuta alla vita da una cintura, ed un mantello blu con decori dorati. La mano sinistra, aperta, è tesa all’ingiù, come per evidenziare la piaga del crocifissione. La mano destra indica il cuore che, coronato di spine e sormontato da una croce, campeggia sul petto. I capelli, lunghi e ondulati, scendono sulle spalle e sul petto. Le pieghe della tunica fanno intuire in modo realistico il corpo e danno all’insieme un aspetto armonioso e gradevole. La statua ordinata dall’Arcivescovo Salvatore Greco, costò 243 lire.  Per la stessa chiesa in quegli anni, egli realizzò anche gli Angeli osannanti con apparato decorativo, nonché un Crocifisso (cartapesta policroma cm 48 x 37 x 8.5).

– A Ruvo di Puglia, nell’Ottocento, si dirottò il culto della Vergine dalla pala d’altare alla statuaria con la presenza nella chiesa di un simulacro vestito, prima, e di una statua in cartapesta leccese poi.

ruvo

Nel 1897 venne acquistato dal Manzo, il nuovo gruppo statuario, realizzato seguendo il quadro della Madonna del Rosario di Pompei. Ancora a Ruvo di Puglia, gli fu commissionato l’attuale gruppo statuario della Pietà, che rappresenta la Madonna con gli abiti del lutto ai piedi della croce nuda e con in grembo il corpo senza vita del figlio. L’opera, in cartapesta, porta la data del 1901. Le chiese di Ruvo di Puglia, commissionarono molti lavori al maestro salentino. Per la realizzazione di S. Anna,  per esempio, un parroco interessò la nobile famiglia Spada, che finanziò la realizzazione da parte del leccese Manzo, autore anche della statua di S. Giuseppe, del Redentore e di altri simulacri, in altre chiese ruvesi.

dal blog sulla settimana santa a Ruvo
dal blog sulla settimana santa a Ruvo

-Nella cappella del Santissimo, a Cavallino di Lecce, sopra l’altare maggiore c’è un elegante ciborio e, al posto dell’antica tela, alta e luminosa si staglia la bella statua in cartapesta del Sacro Cuore di Gesù, suo pregevole lavoro. Nella stessa chiesa, l’altare odierno è dedicato alla Vergine Maria del Monte ed è stato rifatto nel 1921: tra due colonne a sezione quadra, ornate con un elegante tralcio, è collocato il plastico in cartapesta che rappresenta il ritrovamento del dipinto su pietra sotterrato della nostra Madonna del Monte. Qui, il  maestro, realizzò ad altorilievo la Vergine con il Bambino, che si staglia nel cielo celeste festeggiata dai Cherubini; giù, l’ignaro contadino strattona uno dei buoi che è intento a scovare… una icona celata nella grotta. Lo sguardo dell’osservatore è pure piacevolmente attratto dallo scorcio del paesello di Cavallino riprodotto sullo sfondo con il suo tipico campanile svettante in prospettiva.

-A Lecce, il  terzo altare di Santa Teresa del Bambin Gesù nella chiesa del Carmine ospita una sua statua in cartapesta.

– A Manduria, nella chiesa della santissima Trinità, vi è la bellissima statua della Madonna dei Fiori, realizzata dal Manzo nel 1898. La scultura raffigura la Madonna che regge sul braccio sinistro il Bambin Gesù, coperto solo da un panno bianco dai bordi dorati, nell’atto di porgerle la manina. L’affettuoso gesto è ricambiato dalla Vergine che, in posizione eretta, ha il capo appena inclinato e contornato da dodici stelle, simbolo del popolo di Dio. Lo sguardo è rivolto in basso e i piedi posano su un semi globo terrestre. Indossa una tunica beige con bordura dorata e un mantello azzurro, simbolo di verità celeste, che l’avvolge quasi per intero e anche questo riccamente decorato ai bordi. A sinistra, due sorridenti angioletti sospesi, le rivolgono lo sguardo; così un terzo in basso a destra. La buona fattura del simulacro, costato allora 150 lire, comprova ancora una volta la perizia del consumato artefice. Il cartapestaio infatti, nonostante replicasse, per ovvi motivi commerciali, i simulacri maggiormente in voga, comunque realizzava opere che, per impianto compositivo, plasticità e ricercate decorazioni, si differenziavano l’una dall’altra.[4] Questa circostanza, suffragata peraltro dalla pubblicistica di quegli anni, gli consentì di accrescere sempre più la  fama, acquisita sin dall’adolescenza nei laboratori degli artisti di grande calibro dove aveva appreso l’arte. Il brevetto assegnatogli da Umberto I nel 1890, con la facoltà di inserire lo stemma reale nell’insegna del suo laboratorio di sculture in cartapesta e i numerosi premi e riconoscimenti in Italia e all’Estero, testimoniano la predilezione per questa forma d’arte e, soprattutto, la passione per l’arte sacra. Giuseppe Manzo non usava le  forme, per le sue state, e quelle poche volte che gli accadeva di farlo (peraltro si trattava sempre di forme che realizzava egli stesso con la creta), distruggeva subito ogni cosa. Cercava sempre il nuovo, il perfetto, e osservava, scrutava, studiava con ogni attenzione possibile le opere classiche dell’arte sacra; aveva, sia nel laboratorio che in casa, le riproduzioni di quasi tutti i capolavori dei maggiori pittori e scultori italiani e stranieri; acquistava testi anche costosissimi, studiava le forme e i colori. Possedeva persino alcuni testi di medicina che gli permettevano di approfondire la conoscenza dell’anatomia umana. Per i Gesù da raffigurare nei diversi episodi della via crucis (come vedremo nelle meravigliose e inimitabili tre statue dei misteri di Taranto che egli realizzerà nel 1901) tutto ciò era assolutamente indispensabile. Un corpo piegato in avanti, un altro pendente da una croce, un altro carponi, i volti segnati dalla sofferenza e dal dolore,  muscoli contratti, tutto doveva essere realizzato alla perfezione e, per farlo bisognava conoscere i segreti dell’arte plastica figurativa. Se si aggiunge poi che il Manzo “sentiva” sempre il soggetto attorno al quale lavorava, si può anche spiegare la naturalezza con la quale dirigeva le sue mani e l’esatta, rigorosa forma che riusciva a dare ai contorni, ai manti, alle pieghe, alle chiome.[5]  Anche il già ricordato Oronzo Solombrino, nelle sue memorie, racconta del maestro come di un artista che, pur seguendo personalmente nel suo laboratorio i vari stadi di realizzazione di un’opera, riservava a sé il compito di modellare le parti anatomiche.

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“Una volta lo trovai che guardava una statua del Sacro Cuore, quasi terminata, ne fissava gli occhi, la cui collocazione evidentemente non era perfetta. chiese allora una sedia, essendo la statua ancora sul cavalletto, per giungere all’altezza della testa e con delle stecche rimosse gli occhi dalla sede e li ricollocò come riteneva più giusto.[…] Un altro pomeriggio, nell’esaminare una statua della Vergine del Rosario, notò che il drappeggio del manto non andava bene; nonostante che la statua fosse ultimata, volle da me un foglio di carta straccia, preparata a più strati e la modellò sul manto, eliminando così l’imperfezione notata”.[6]

cartapesta

-Nella chiesa della  beata Vergine a  Casarano, le opere in cartapesta sono quasi tutte del maestro.

casarano 016

– A S. Pietro Vernotico, nella diocesi di Lecce, uno dei paesi più estremi del sud brindisino, sorge in pieno centro storico la settecentesca chiesa Matrice al cui interno si possono ammirare, tra le altre, le statue in cartapesta dell’Immacolata del 1900, e del Cristo  Risorto datata 1906, sempre sue celebri opere. Inoltre è presente a S. Pietro Vernotico con due statue rappresentanti S. Rita di Cascia, eseguite quasi contemporaneamente ed esposte nella chiesa di S. Pietro apostolo (1941), e in quella della Madonna di Sanarica (1940).

-A giugno del 2008, nel museo «Sigismondo Castromediano» di Lecce, si inaugurò una mostra: «La scultura in cartapesta: Sansovino, Bernini e i maestri leccesi tra tecnica e artificio», curata dal dott. Raffaele Casciaro. È in questo suggestivo contesto, posta in posizione d’onore, ai piedi della bellissima Addolorata di Antonio Maccagnani, che si inserisce la statua in cartapesta raffigurante il Cristo Morto, proveniente dalla chiesa del Purgatorio di Ostuni. Il simulacro, realizzato dai maestri leccesi Andrea De Pascalis  e Giuseppe Manzo, fu commissionato dal priore della confraternita delle Anime Sante del Purgatorio don Giuseppe Trinchera nel 1888 e consegnato nel 1889. Notevolissimo esempio della perizia raggiunta dai maestri cartapestai leccesi, la statua sfila, sotto gli occhi ammirati dei fedeli, per le vie di Ostuni, durante la commovente processione del Venerdì Santo. La statua del Cristo Morto ha accenti di grande realismo; osservandola, ci si sente quasi trasportati in una dimensione trascendentale e spirituale. Essa misura m. 1.77 circa di lunghezza, è a grandezza naturale e rappresenta con dovizia di particolari Gesù sul suo letto di morte. Il corpo è in posizione distesa, leggermente roteato sul lato destro; in esso è percepibile la sofferenza che Nostro Signore ha vissuto negli ultimi attimi della sua vita. L’addome incavato e il capo reclinato danno quasi l’idea dell’istante in cui l’ultimo alito di vita ha abbandonato il Corpo Divino dopo una lunga e sofferta agonia; lo stesso può dirsi volgendo lo sguardo alle piaghe, simbolo della sua Passione, rappresentate con molta attenzione sulle mani, sui piedi e sul costato. Molto naturalistico è l’incarnato, dalla tonalità fredda e marmorea, che rappresenta la morte in modo fedele al reale. Desta grande emozione l’espressione del volto del Signore, incorniciato dai morbidi riccioli di capelli castani; se ne può quasi percepire la consistenza tattile che esprime al tempo stesso tristezza e serenità tramite la bocca semiaperta e lo sguardo intenso, allegoria del viaggio di un’anima che ha appena lasciato le sue spoglie mortali e sta per ricongiungersi con il Padre Celeste. Se, dopo centoventi anni, è possibile ammirare in perfetto stato di conservazione questo capolavoro, lo si deve alla cura e all’attenzione che la confraternita ostunese da sempre dedica al proprio patrimonio artistico.[7]

 

(continua)


[1]   Gli artisti della cartapesta leccese nella pubblicistica salentina, Provincia di Lecce, Mediateca, Progetto Ediesse (Emeroteca Digitale Salentina) a cura di Imago, Lecce.

[2] La relazione del barone Apostolico fu stampata e pubblicata in opuscolo dalla Tipografia Cooperativa, in Lecce, via Giuseppe Palmieri.

[3] La statua artistica in cartapesta, raffigurante S. Antonio Abate,  è conservata nella chiesa parrocchiale di Avetrana, ne è autore Giuseppe Manzo che la realizzò nel 1944. Ha subìto un restauro nel 1988 ad opera del maestro cartapestaio cav. Pietro Indino di Lecce. Un ultimo restauro conservativo è stato operato nel 2006 dall’artista leccese S. Merico. Essa fu realizzata in sostituzione di un’altra statua del santo andata distrutta da un violento temporale nel corso della processione dedicata al medesimo.

[4] www.sstrinita.manduria.org/index.php?menu=arte-menu&pagina

[5] Nicola Caputo, Quei tre fratelli di nome Gesù – le statue di Giuseppe Manzo nella processione dei misteri di Taranto, Scorpione editrice s.r.l., Martina Franca 1991, p.99

[6] O. SOLOMBRINO, op.cit., pp. 32-33

Medico, naturalista, poeta, letterato, patriota. EMANUELE BARBA

gallipoli

Medico, naturalista, poeta, letterato, patriota

 

EMANUELE BARBA

 

Seppe coniugare l’amore per la cultura con l’amore per la Patria. Impegnò ogni suaenergia nella crescita umana della povera gente e ne condivise ogni affanno e sofferenza.

 

di Rino Duma

Ci sono pochissime figure elette nel Salento che possono gareggiare con quella di Emanuele Barba. Il gallipolino ereditò dai genitori, gente brava e onesta, i migliori valori e sentimenti umani, quali l’umiltà, la probità, l’impegno, il rispetto e, soprattutto, l’amore per il prossimo. Fu grande assertore e divulgatore dei principi libertari ed educò i giovani a impegnarsi nel lavoro, a migliorare le fortune della propria terra, a battersi per i valori fondanti della società degli umani e a reclamare i diritti indispensabili per una vita dignitosa. Per tutto ciò fu amato e quasi venerato dai gallipolini.

Sin da fanciullo, Emanuele si prodigò con ogni mezzo per creare situazioni di benessere rivolte soprattutto ai ragazzi di strada, che frequentava con regolarità e nei confronti dei quali si sentiva più legato. La sua colazione o merendina, fatta di fichi secchi o di fette di pane raffermo con alici, spesse volte era condivisa con amichetti bisognosi, che non avevano di che sfamarsi.

Il padre Ernesto era un bravo sarto, ma, nonostante s’impegnasse al massimo nel lavoro, non riusciva quasi mai ad assicurare alla famiglia una vita agiata.

La madre, oltre ad allevare con cura i figli e a trasmetter loro la migliore educazione, aiutava il marito nel faticoso lavoro, sostenendolo spiritualmente e materialmente.

Emanuele nacque a Gallipoli l’11 agosto 1819 da Ernesto, uomo laborioso e onesto, e da Pasqualina Manno. Condusse gli studi primari nella cittadina ionica, riportando un’ottima valutazione in ogni disciplina. Il giovane Emanuele aveva un notevole interesse per il sapere, non disdegnando mai di leggere e di nutrirsi di ulteriori conoscenze, per cui pregò più volte il padre di iscriverlo nelle scuole superiori di Napoli o di Lecce. Vi era, però, un gravissimo impedimento: Ernesto non aveva le possibilità economiche necessarie per accontentarlo e se ne dispiaceva non poco di declinare la richiesta del figliolo prediletto. Ma la divina provvidenza era pronta ad intervenire. Appena adolescente, di Emanuele si presero cura due parenti napoletani, dopo le ripetute lamentele espresse dal ragazzo, in occasione di una loro visita a Gallipoli.

Uno era lo zio materno Gaetano Brundesini, che ricopriva l’importante carica di Consigliere della Suprema Corte di Giustizia, l’altro lo zio paterno Tommaso Barba, che era Presidente della Gran Corte. Dopo le iniziali difficoltà di ambientamento, Emanuele frequentò a Napoli le scuole Medie Superiori di Grammatica, dove si distinse come migliore studente, e in seguito proseguì gli studi letterari e filosofici nella scuola del famoso professore Basilio Puoti, poi diventato membro dell’Accademia della Crusca. Anche qui il gallipolino si distinse per dedizione allo studio e intelligenza, tanto da meritarsi la frequenza gratuita per cinque anni nell’ateneo napoletano. Nel 1838 conseguì, a soli diciannove anni, la laurea in lettere e filosofia.

Mai sazio di sapere e di migliorare ulteriormente la sua già brillante preparazione culturale, continuò a studiare e s’iscrisse alla facoltà di medicina nel Reale Collegio Medico-Cerusico, laureandosi nel 1842 con il massimo dei voti e la lode accademica.

La sua prima importante conferenza da medico ebbe come titolo: “Sui mezzi per evitare i falsi ragionamenti in Medicina“. Grazie a questo molto apprezzato intervento, gli fu assegnato l’incarico di assistente alla Cattedra di Anatomia nel Real Collegio.

Se a livello professionale si sentiva pienamente appagato e realizzato, non altrettanto lo era a livello umano, anzi Emanuele era continuamente turbato e tormentato dalle condizioni misere, e a volte disumane, in cui versavano molte famiglie del regno, soprattutto quelle lucane e salentine. Spesso, commentando con amici l’allarmante situazione in cui versavano i ceti popolari, sosteneva appassionatamente l’urgenza di intervenire con un’adeguata politica per migliorare, anche se di poco, le condizioni sociali delle plebi, per poi programmare con molta attenzione una politica tesa ad un definitivo riscatto delle stesse.

Solo con un’istruzione scrupolosa e mirata, si può combattere l’ignoranza, la sottomissione, l’abbandono, il fatalismo e la rassegnazione. Solo le genti istruite maturano la consapevolezza dei loro diritti e l’impegno per poterne usufruire, sino alla lotta più dura” – era l’opinione ricorrente di Emanuele, in linea con quella del Mazzini.

A Napoli frequentò assiduamente il Caffè Letteriario, dove si ritrovavano eminenti figure, come Luigi Settembrini, Francesco De Sanctis, Basilio Puoti, Carlo e Alessandro Poerio, Bonaventura Mazzarella, Epaminonda Valentino. Qui si discettava di tutto: dalla necessità di garantire il purismo alla Lingua Italiana, alla critica rivolta agli emergenti scrittori e poeti del momento, come il Manzoni e il Leopardi, sino ad interessarsi di politica, di economia e di rinnovamento sociale. Emanuele non mancava mai di intervenire nelle varie discussioni, argomentando con argute e singolari riflessioni, che quasi sempre ricevevano il plauso dei presenti, soprattutto quando il dibattito era improntato su tematiche socio-politiche.

A metà anni ’40, sollecitato dalla nostalgia per la sua città natale, dalla quale giungevano notizie poco buone, decise di rinunciare alle ottime prospettive di vita nella capitale e di far ritorno tra la sua gente. A Gallipoli conobbe e sposò Addolorata Bono, una donna pia e molto premurosa, che gli diede ben sei figli: Ernesto, Carmelo e Gustavo, che divennero bravi avvocati, Ettore medico, Antonietta (non si hanno notizie di lei) ed infine Egildo, che morì all’età di sette anni, colpito da una grave malattia.

A Gallipoli, pur guadagnando il minimo indispensabile per vivere, svolse contemporaneamente due attività professionali: quella di insegnante e quella di medico, che gli occupavano gran parte della giornata. L’aspetto, però, che più di ogni altro merita di essere ricordato è che Emanuele esercitava gratuitamente entrambe le professioni, campando di sussidi comunali e di elargizioni volontarie. Poi, finalmente, fu nominato docente di Scienze e Lettere nel Ginnasio e nella Scuola Tecnica di Gallipoli, e, successivamente, fu Soprintendente scolastico e Assessore delegato alla Pubblica Istruzione della città ionica.

Nonostante i numerosi impegni, continuò ad insegnare, sempre gratuitamente, nelle Scuole Tecniche serali, svolgendo anche le funzioni di Direttore delle Scuole serali festive degli Adulti, istituite dal Governo. Non aveva un solo attimo di risposo. La sera, quando rientrava stanco a casa, sul viso affaticato portava sempre un sorriso di compiacimento per l’impegno quotidiano, svolto con cura e dedizione.

La nomea di valente professore e di ottimo medico ben presto valicò i confini del Salento, tanto che gli furono conferite diverse attestazioni di stima e di solidarietà per lo spirito di abnegazione e di generosità con cui si donava ai bisognosi. Gli fu assegnata dal Consiglio scolastico provinciale di Bari la nomina di professore di letteratura nel Ginnasio di Trani. Emanuele ringraziò di cuore le autorità scolastiche baresi, ma rinunziò all’allettante offerta per non abbandonare la sua gente, che tanto bisogno aveva di cure e di sostegno.

La sua preparazione culturale era talmente vasta da parlare correttamente l’inglese e il francese, ed essere un ottimo conoscitore della lingua latina e un rinomato purista della lingua italiana.

Nel 1848 Emanuele si distinse per l’assidua assistenza prestata ai tantissimi ammalati di febbre tifoidea, epidemia che improvvisamente si diffuse in tutto il Salento per via delle scarsissime condizioni igieniche e la situazione miserevole di vita in cui versavano i ceti popolari più bassi. Il morbo fece una mattanza di vite umane in ogni ceto sociale. Anche il vescovo di Gallipoli, Mons. Giuseppe Maria Giove, accorso al capezzale degli infermi per portare aiuto e conforto spirituale, ne pagò le conseguenze. Nella circostanza, Emanuele fu nominato direttore provvisorio dell’ospedale di Gallipoli e si avvalse dell’aiuto del dott. Emanuele Garzya e dei farmacisti Giuseppe Sogliano e Saverio Greco, nonché di Antonietta de Pace. Grazie al loro intervento furono salvate numerose vite.

Anche successivamente nel 1866, in occasione della diffusione del colera, Emanuele intervenne drasticamente, scongiurando la propagazione e la falcidia del morbo. Non mancarono attestazioni, onorificenze e una medaglia d’oro, conferitagli dall’amministrazione comunale.

In occasione dell’abrogazione della costituzione da parte di re Ferdinando II, Emanuele criticò duramente l’illiberalità del sovrano e si schierò a difesa dei liberali, condividendone gli ideali e le azioni. Per questo fu processato, condannato all’esilio e in seguito incarcerato per tre anni dalla Gran Corte di Terra d’Otranto. In carcere non mancò di propagare le idee liberali ai compagni detenuti, intervenendo, durante l’ora d’aria, con accorati comizi che gli crearono ulteriori punizioni. Sempre in carcere, scrisse e pubblicò il Proclama agli Italiani, che fu distribuito clandestinamente in quasi tutte le carceri del regno.

Dopo il periodo detentivo, crebbe ancor di più in lui il “dovere” di schierarsi al fianco delle classi più umili e più deboli, divenendo il loro strenuo difensore.

Nel 1861, subito dopo l’unificazione del paese, Emanuele avvertì il bisogno di fondare a Gallipoli la Società di Mutuo Soccorso ed Istruzione degli operai. Mai domo di iniziative a favore del popolo, fondò il periodico popolare Il Gallo, su cui venivano trattati i problemi legati agli operai e alle masse popolari.

Per pubblico concorso vinse il posto di Bibliotecario comunale, pubblicando immediatamente un bollettino bibliografico. Ma le sue “imprese sociali” non erano certamente finite. Qualche anno dopo fondò il Museo di Storia naturale e di Archeologia.

Non bisogna dimenticare, però, che Emanuele, oltre ad essere naturalista, medico e patriota, era anche un letterato e un valente poeta, anche vernacolare, di cui si serbano alcuni simpatici proverbi e poesiole. Tra i tanti suoi componimenti, scrisse “Un sospiro di Garibaldi” (versi di ispirazione patriottica, stampati e pubblicati nel 1875) e il “Sonetto all’Italia”.

Non mancò di delineare i tratti biografici dei personaggi gallipolini più illustri. Inoltre, di grande importanza sono alcuni lavori, mai pubblicati, sui Canti popolari e Proverbi gallipolitani e un Vocabolario del dialetto gallipolitano, tradotto in lingua italiana, francese e inglese.

Tra tanti onorificenze e riconoscimenti, Emanuele visse sino all’età di 68 anni, meritandosi le premure dei figli e dei suoi amati gallipolini, ai quali donò l’essenza prima della sua vita.

Il 7 dicembre 1887 si spense serenamente, non prima di aver raccomandato i suoi familiari ed amici di continuare ad adoperarsi per il bene e la felicità di tutti, in particolar degli ultimi.

Così scrisse lo “Spartaco” alla sua morte: “In tempi in cui l’Umanità con uno sforzo titanico aveva dato al mondo una generazione di giganti, Egli lavorò per la Scienza, per la Patria e per l’Umanità“.

Sulla parte alta della camera ardente, gli amici gallipolini affissero il memorabile distico
Nato dal popolo
Per il popolo si adoperò.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Sigismondo Castromediano

SIGISMONDO CASTROMEDIANO

di Lymburgh

Nella storia del Risorgimento salentino Sigismondo occupa un posto preminente

di Rino Duma

il monumento a Sigismondo Castromediano (ph Giovanna Falco)
il monumento a Sigismondo Castromediano (ph Giovanna Falco)

Sigismondo Castromediano nasce a Cavallino il 20 gennaio 18111 da Domenico, marchese di Cavallino e duca di Morciano, e da A. Teresa dei marchesi Balsamo. Consultando le memorie della famiglia, si legge che essa discende da Kiliano di Lymburgh della Franconia, sceso in Italia, nel 1155, alla testa di un consistente esercito in aiuto di Guglielmo il Malo contro il pontefice Adriano IV.

Della sua adolescenza si conosce molto poco. All’età di otto anni, inizia a frequentare gli studi presso il Real Collegio di Lecce, situato nell’ex Convento di San Francesco della Scarpa; poi, a 18 anni, forse per motivi familiari, è costretto ad abbandonare la scuola, senza conseguire alcun titolo di studio.

Tra gli anni ’30 e ’40, Sigismondo trascorre la sua giovinezza tra tanta noia e con poco entusiasmo. Si legge nelle sue Memorie “…Della mia prima età, e sino alla mia prigionia, dirò poco, assai poco, quanto nulla, come quella che, passata nel silenzio e nelle meditazioni, altro non merita”.

Si dedica alla campagna per curare gli interessi di famiglia, ma, nei momenti di riposo, compone poesie, scrive novelle, si diletta a riportare su fogli di carta riflessioni sul momento politico poco felice in cui versa il Salento e il Regno delle Due Sicilie.

Meritano giusta menzione i sonetti “Per Ippolita Colonna Principessa di Francavilla” (1832), sonetto; “Marco Giunio Bruto” (1835), sonetto; “Bambino sognante” (1836), breve lirica in versi doppi senari.

Tra i lavori in prosa, invece, si ricorda lo “Schizzo del mio carattere” (1839), breve scritto autobiografico; “Caballino – Cenno panografico” (1839); “Carità italiana” (1846) breve racconto storico.

Nel 1839, dopo anni e anni di continui litigi tra i vari eredi, il palazzo feudale di Cavallino viene diviso per sentenza del giudice in numerose quote, cosicché Sigismondo è costretto ad abbandonare l’antica dimora insieme alla madre e ai fratelli. Il padre, inetto e poco di buono, abbandona la famiglia e va a vivere a Napoli. Gli anni che seguono sono molto tristi e segnati dalla morte del fratello Gianbattista (1840) e la sorella Gaetana (1845).

sigismondo_castromediano

Comincia ad interessarsi con maggiore continuità di politica; frequenta salotti letterari e politici a Lecce, conosce molti esponenti liberali salentini, tra cui il medico Gennaro Simini, i gallipolini Bonaventura Mazzarella, Epaminonda Valentino, Emanuele Barba e Antonietta de Pace, i leccesi Salvatore Stampacchia e Giuseppe Libertini, il manduriano Nicola Schiavoni Carissimo, il magliese Oronzo De Donno ed altri. Nella mente cominciano a lievitargli i primi pensieri liberali, ma è ancora incerto e titubante se sposare la causa monarchica costituzionale o quella repubblicana. Alla fine propende per la prima e s’impegna con ogni forza per diffonderla.

A fine gennaio 1848, re Ferdinando II, pressato dal popolo, che invoca a gran voce la Costituzione, dagli altri regnanti italiani, che l’hanno ripetutamente promessa ai propri cittadini, e dal pontefice Pio IX, concede la tanto agognata Costituzione, pur tra tante limitazioni.

I liberali e i repubblicani ritengono che sia poco democratica e liberale, cosicché, tramite i propri rappresentanti in seno alla camera dei Deputati, reclamano importanti modifiche, che sono immediatamente respinte dal monarca.

Dopo i duri alterchi tra le parti, si arriva all’ineluttabile sommossa del 15 maggio tra i repubblicani e la guardia nazionale da una parte e la polizia borbonica dall’altra. Quest’ultima, meglio armata e ben organizzata, ha facile sopravvento sulle masse popolari, attestate sulle barricate di Via Toledo e Via Santa Brigida. La repressione di Ferdinando è immediata e spietata.

A questo punto, scatta nella mente di Sigismondo l’idea di combattere con ogni energia il dispotismo del re borbonico, reo di non aver mantenuto le promesse e di aver sospeso sine die la Costituzione.

Rientrato a Lecce, Sigismondo, insieme ad altri patrioti, sceglie di onorare e servire sino in fondo l’ideale democratico e libertario per il quale si era da sempre battuto. Nel mese di giugno viene costituito nel capoluogo salentino il Partito Patriottico Provinciale, alla cui presidenza è eletto il gallipolino Bonaventura Mazzarella, mentre come segretari sono scelti Annibale D’Ambrosio, Oronzo De Donno, Alessandro Pino e Sigismondo Castromediano. Questo incarico, insieme a quello di redattore del giornale salentino di ispirazione repubblicana il “Troppo Tardi”, gli costerà molto caro.

Informato che i gendarmi gli stanno dando la caccia, Sigismondo, grazie all’aiuto di alcuni parenti, si nasconde in una casetta di campagna. Nel mese di settembre sono catturati Nicola Schiavoni Carissimo, il sacerdote don Nicola Valzani, l’operaio Michelangelo Verri e lo studente Leone Tuzzo. Purtroppo anche per lo stesso Sigismondo scattano le manette il 30 ottobre 1848.

Così il duca di Cavallino descrive, nelle Memorie, il suo arresto: “Ad esular quindi mi decisi anch’io, e non potendo dal mio covo ricercare i mezzi, fu giocoforza andarli a rinvenire in Lecce. Ma quando un imbarco per l’Albania erasi convenuto, fui tradito, e al terzo giorno arrestato…” con la pesantissima accusa di «cospirazione commessa in illecita associazione per più giorni dal 29 giugno suddetto in poi, ad oggetto di distruggere il Governo e di eccitare i sudditi e gli abitanti del Regno ad armarsi contro l’autorità reale».

Il processo si protrae per lungo tempo ed è una disgustosa farsa. L’avvocato difensore Pasquale Ruggieri, dopo avere scagionato il suo assistito fornendo evidenti prove, esalta, con un’appassionata arringa difensiva, la figura del Castromediano, definendolo “uomo ineccepibilmente onesto e cittadino lealmente liberale, privo di qualsiasi colpa, se non quella di aver amato fortemente e sinceramente la Patria”.

Il Pubblico Ministero Chieco, un ex carbonaro, chiede per il Castromediano, lo Schiavoni, il Verri e il Tuzzo la pena «dell’ultimo supplizio», cioè l’impiccagione “al laccio col terzo grado di pubblico esempio, cioè da trascinarsi sul luogo del patibolo a piedi nudi, coperti di tunica nera, col velo sul volto e alle spalle una tabella d’infamia”.

Purtroppo, la richiesta di pena capitale è pronunciata, non tanto per le colpe a lui addebitate, ma quanto perché Sigismondo è un nobile, un discendente dei baroni, marchesi, duchi Castromediano, signori feudatari sempre privilegiati, sempre favoriti dai Sovrani napoletani. Il Pubblico Ministero, infatti, chiede la massima pena adducendo le seguenti motivazioni: “… È comprensibile la ribellione di un civile, di un intellettuale borghese, ammissibile pure la rivolta di un popolano, ma non è immaginabile, e perciò stesso maggiormente punibile, il tradimento di un nobiluomo!”.

Buon per Sigismondo che il Tribunale trasformi la condanna a morte in un una detenzione ad anni trenta.

Il cavallinese, dapprima viene rinchiuso nelle carceri dell’Udienza a Lecce, dove assiste impotente alla morte dell’amico carissimo Epaminonda Valentino, e poi trasferito nelle luridi prigioni di Montefusco prima e Montesarchio poi, dove vi rimane sino al 1859. Molto emblematica è la scritta che campeggia all’ingresso del primo carcere.

Chi trase a Montefusco e poi se nn’esce
po’ di’ ca ‘n terra ‘n’ata vota nasce”.

Qui le condizioni degli incarcerati sono estremamente inumane: le celle sono molto umide e prive di finestre; la luce filtra attraverso lo spioncino della porta. I detenuti sono legati a due a due per le caviglie, con una catena a sedici maglie, lunga tre metri e mezzo, pesante dieci chilogrammi, cosicché ogni movimento dell’uno, deve essere necessariamente fatto dall’altro, anche durante i momenti intimi dei bisogni fisiologici. I pagliericci sono pieni di parassiti, le muffe inverdiscono le pareti e nell’ambiente numerosi topastri scorazzano liberamente, infastidendo i detenuti, soprattutto durante le ore notturne, con dolorosi morsi che provocano incurabili ulcere e piaghe. Le razioni alimentari sono scarse e poco energetiche, il clima è estremamente insalubre e freddo, sicché le condizioni di salute dei reclusi scadono di giorno in giorno, divenendo molto precarie. Alcuni amici di Sigismondo muoiono di stenti o si ammalano gravemente; lui stesso soffre maledettamente di reumatismi agli arti.

Finalmente, l’8 gennaio 1859, Ferdinando II concede la grazia a tutti i condannati del processo di Lecce, con l’obbligo dell’esilio negli Stati Uniti d’America. Il bastimento Stromboli che trasporta gli esiliati, dopo aver varcato lo stretto di Gibilterrra, si dirige, grazie ad un abile stratagemma, in Irlanda. In seguito Sigismondo si reca con gli altri profughi in Gran Bretagna e poi a Torino. Qui viene ben accolto dal Cavour e qui rimane sino alla proclamazione dell’Unità d’Italia.

Nel 1861 si presenta come candidato nel collegio di Campi Salentina al nuovo Parlamento italiano ed è eletto, riportando un gran numero di preferenze. Si trasferisce a Torino e vi rimane sino al 1865. Risiedendo nella capitale, Sigismondo prende a frequentare il salotto della famiglia Savio di Bernstiel. Ben presto la baronessa Adele Savio, giovane di vent’anni, è toccata da spontanei impulsi di ammirazione e di stima per il cinquantaduenne di Cavallino. Più volte il duca, innamorato della giovane nobile, pensa di manifestarle il proprio amore, ma, essendo molto più anziano di lei, soffoca il desiderio e rinunzia all’idea del matrimonio. L’amore tra i due rimane sempre puro e ideale.

Scaduto il mandato parlamentare, si candida nuovamente, ma questa volta non viene eletto. Egli non si amareggia più di tanto per l’insuccesso, anzi, scrivendo a un amico, gli dice: ”…del resto vengano i nuovi, e, se sapranno fare meglio di noi, siano i benvenuti”.

Rientra nel Salento quando ormai il suo organismo è cagionevole: la lunga detenzione, infatti, ha lasciato un segno evidente sia nel corpo sia nello spirito. L’uomo non ha più i grandi entusiasmi d’un tempo, ma, ciò nonostante, si distingue come consigliere provinciale.

Nella sua Cavallino ora può riprendere a vivere come ai tempi giovanili, curando i grandi interessi per l’archeologia, dilettandosi a seguire le colture campestri dei vecchi contadini e dedicandosi alla stesura definitiva delle sue “Memorie”, dove emerge un commovente spaccato delle condizioni di vita dei detenuti nelle orribili carceri borboniche. Nel 1868, su sua istanza, è fondato il Museo archeologico per la tutela, la raccolta, la conservazione, l’esposizione dei reperti e degli oggetti rari, preziosi e interessanti.

Con l’approssimarsi della vecchiaia, la salute è sempre più precaria: ha molta difficoltà nel deambulare, la vista peggiora di giorno in giorno, il suo corpo si spegne lentamente.

Il 26 agosto 1895, nell’antico palazzo paterno, l’insigne patriota serenamente chiude gli occhi al sonno della morte tra le amorevoli premure dell’inseparabile baronessa Adele Savio, unico suo grande amore.

1 Alcune fonti asseriscono che sia nato il 22 gennaio.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

 

La dieta mediterranea nel Salento leccese del 1873

 

di Antonio Bruno

 

Le esposizioni universali nel secolo XIX contribuirono a facilitare ed innescare lo scambio culturale tra i diversi Paesi partecipanti. Il “Prater” di Vienna è sempre stato un luogo di divertimento per i viennesi, ma nella primavera del 1873 il parco venne completamente ripulito e rinnovato e divenne un luogo di incontro ancora più affascinante grazie all’Expo, la prima Esposizione Universale che si è svolta in un Paese di lingua tedesca. In questa nota le comunicazioni di Cosimo De Giorgi sulle produzioni agricole del Circondario di Lecce al Ministro di Agricoltura, Industria e Commercio del Regno d’Italia.

 

I produttori agricoli del Salento Leccese parteciparono all’ Esposizione Universale di Vienna del 1837 e il dott. Cosimo De Giorgi relazionò sull’agricoltura del Circondario di Lecce in una nota indirizzata al Comm. Avv. Stefano Castagnola che ricopriva l’incarico di Ministro di Agricoltura, Industria e Commercio del Regno d’Italia e che, in forza di tale incarico, era il Presidente della Commissione Reale per l’esposizione universale di Vienna.

Nella presentazione di tale lavoro il dott. Cosimo De Giorgi precisa che il circondario di Lecce non differisce molto dai circondari di Gallipoli, Brindisi e Taranto nei prodotti agrari e nelle caratteristiche generali tanto che ciò che vale per Lecce è estensibile agli altri tre circondari dell’allora Terra d’Otranto .

Il circondario di Lecce contava 43 Comuni, divisi in una prima zona che ricade in un primo altopiano ondulato che confina con il Mar Adriatico e che nel 1873 si presentava malsana in molti punti. Tale prima zona si stendeva da Nord verso Sud passando dai comuni di San Pietro Vernotico sino a giungere ad Otranto. La seconda zona era più salubre rispetto a quella Adriatica e partendo da San Donato di Lecce e Galugnano arrivava sino a Bagnolo. Nel 1872 in questi Comuni vivevano 127mila abitanti.

Le osservazioni effettuate da Oronzo Gabriele Costa nel 1813 portarono a calcolare che sul Salento leccese cadeva una quantità di 818 millimetri di pioggia distribuiti per ¾ nelle stagioni autunno e inverno e ¼ nelle stagioni primavera ed estate e, secondo il dott. Cosimo De Giorgi, la violenza disseccativa dei venti australi era la causa di una grande siccità. Il vento Ostro  che viene dal latino Auster, vento australe, è il vento che spira da sud nel mar Mediterraneo. Nel Salento leccese il De Giorgi sottolinea che il vento è generalmente secco e tale fatto è spiegabile in quanto è associato all’espansione dell’anticiclone subtropicale africano verso nord; ed è per questo che essendo apportatore di onde di calore che possono essere anche durature, tende a favonizzarsi. Il favonio (detto anche Föhn in tedesco o “faugnu” in dialetto leccese) è un vento di caduta caldo e secco che si presenta quando una corrente d’aria, nel superare una catena montuosa, perde parte della propria umidità in precipitazioni (pioggia, neve o altro). Insomma il Salento del 1873, così come oggi, era terra arsa e siccitosa, che per questo motivo necessitava dell’apporto di acqua.

La grande siccità del Salento leccese era mitigata attraverso l’irrigazione che utilizzava la falda superficiale, infatti in uno studio durato sei anni Cosimo De Giorgi aveva osservato la profondità della falda che andava da 4 metri a San Pietro Vernotico e Squinzano a 65 metri a San Donato di Lecce. La profondità media dai rilievi effettuati era opinione del De Giorgi che fosse di 30 – 40 metri.

De Giorgi nella sua nota auspica l’utilizzo di pompe idrauliche e di Norie per portare in superficie e spingere nei campi l’acqua della falda..

Nel 1873 De Giorgi rileva che le osservazioni metrologiche nel Salento leccese erano scarse a cui fanno eccezione i già citati lavori del Costa e le sue stesse prime osservazioni.

Voglio riportare le annotazioni del De Giorgi su Grandine, bufere, uragani e trombe terrestri che attraversavano il circondario dei 43 Comuni del Circondario di Lecce. Lo studioso di Lizzanello del Salento leccese aveva osservato la direzione che andava dal Sud – Ovest al Nod – Est. Secondo le sue osservazioni questi eventi catastrofici sono prodotti dall’incontro e urto violento delle due correnti d’aria dirette in senso inverso e opposto, una delle quali proveniente dal Mare Adriatico direzione Nord – Est e l’altra dal Mar Ionio direzione da Sud – Ovest.

L’osservazione dello studioso era in funzione dei danni rilevati sulle colture di Olivo, Vite e Tabacco tutte nei Comuni di Copertino, Monteroni, Arnesano, Carmiano e Novoli che si trovano in quella direzione e nel punto d’incontro delle correnti d’aria.

Nel 1873 l’estensione media dell’azienda agricola nel circondario di Lecce era di 4 – 6 ettari, ma lo stesso De Giorgi citava la tenuta di “Frassanito”, presso il Lago Alimini, che era di mille ettari e della stessa grandezza, se non superiore,  l’Azienda denominata “Mollone” in agro di Copertino.

Davvero interessante l’annotazione dello studioso del Salento leccese riguardante la prima zona, cioè quella Adriatica,  dove la proprietà rimaneva di grandi dimensioni e quindi molto concentrata mentre nella zona della “Grecia salentina” , già da allora, la proprietà risultava frammentata.

Annotava il De Giorgi che nel 1873 dominava nella zona la piccola coltura fatta da cereali e da civaje (termine agronomico delle leguminose da granella che sono coltivate per il seme proteico). Nel Salento leccese questi semi erano quelli del fagiolo, del pisello, del cece, della fava e della lenticchia. Erano coltivate anche la cicerchia, il lupino e il favino. Nel 1873 questi semi proteici avevano un ruolo complementare ai cereali nell’alimentazione delle popolazioni del Salento leccese grazie all’elevato contenuto in proteine (20-38%).

Nel nostro territorio nel 1873 la carne scarseggiava e chi se la poteva permettere sapeva che era sinonimo di abbondanza e di prosperità. I pochi animali domestici che c’erano erano considerati bestie da fatica, essenziali per svolgere il gravoso lavoro nei campi.

Ecco il perché del consumo di cereali tanto che il termine companatico, sta a indicare il condimento, ciò che accompagna il pasto basato quasi esclusivamente sul pane. Ma le proteine erano essenziali nella dieta e, come abbiamo visto, nel Salento leccese abbondavano grazie alla coltivazione della civaje! Insomma gli abitanti del Salento leccese nel 1873 non mangiavano molta carne.

C’è un popolo che oggi vive come si viveva nel Salento leccese, che è quello indiano. Nel suo libro Jeremy Rifkin riporta gli studi dell’antropologo Marvin Harris, secondo il quale in India, dopo il 600 a. C., i signori ariani, che avevano sottomesso le popolazioni indigene, cominciarono ad avere qualche problema nel procacciare carne sufficiente per nutrire l’intera popolazione in forte crescita. I pascoli si convertirono in colture di cereali, miglio e legumi e gli indiani, non potendo permettersi di mangiare l’unica fonte di energia motrice, si avvicinarono al buddismo che propugnava il rispetto di tutti gli esseri viventi.

Penso che quanto ho scritto possa essere uno spunto per la nostra riflessione, per lo stile di vita che conduciamo che non è l’eredità che ci hanno lasciato i nostri padri. Noi come dei robot viviamo obbedendo come automi alle leggi dal mercato che ha fatto del consumo a tutti costi la regola da seguire. E non ci svegliamo da questo torpore che ci porterà alla distruzione anche se tutti sappiamo che tale regola non ha alcun rispetto per il nostro territorio e che comporta la conseguenza di farci sguazzare in una vita disordinata che si svolge senza alcuna preoccupazione per ciò che lasceremo in eredità ai nostri figli. Forse vale la pena tornare alla dieta mediterranea del 1873, non trovi?

 

 

Bibliografia

De Vincenti, Relazioni per le strade Comunali obbligatorie pel 1871; Vol. 1 pag 453

Cosimo De Giorgi, Cenni di stratigrafia ed Idrografia Salentina considerate nel loro rapporto colla nostra Agricoltura; Lecce 1871

Cosimo De Giorgi, Lecce e il suo territorio. Meteorologie. Bari 1872

O.G. Costa, Osservazioni Meteorologiche fatte a Lecce, Napoli 1834

Marvin Harris, Buono da mangiare –  Einaudi 2006

Jeremy Rifkin, Ecocidio. Ascesa e caduta della cultura della carne; Mondadori  (collana Oscar bestsellers)

Giuseppe Manzo (1849-1942) e la cartapesta leccese (terza parte)

di Cristina Manzo

Giuseppe Manzo (riproduzione vietata)
Giuseppe Manzo (riproduzione vietata)

… Nel suo laboratorio l’orario di lavoro era dalle otto alle quattordici; non si lavorava mai di pomeriggio o  di sera. Ai clienti che entrando nel negozio lo salutavano era solito rispondere “viva Gesù, e viva Maria”. Dalla sua bocca non è mai uscita un’imprecazione; l’unica cosa che ogni tanto era solito dire era “pe’llu sangu de Giuda”. Il rapporto fra tutto il personale era improntato sulla correttezza e l’onestà. Il sabato era il giorno dei poveri e il maestro incaricava gli operai più vicini alla porta d’ingresso di distribuire, un po’ di spiccioli (da due a quattro soldi).

Il martedì, giorno di S. Antonio, c’era la distribuzione dei buoni per il ritiro del pane, uno o due chili, dal forno detto sciascià, delle sorelle Pinto, che poi il maestro passava a pagare. Il sabato era anche giorno di pagamento degli operai. Lui compilava l’elenco indicando accanto a ogni nominativo l’importo spettante, che io pensavo a consegnare. Attilio dell’Anna e io eravamo i più piccoli d’età e percepivamo una lira al giorno. Però c’era un’altra entrata per noi, per ogni cassa di prodotto spedito tramite ferrovia, egli metteva da parte in un cassetto cinque lire. Ogni quattro mesi, in occasione delle solenni festività di Natale, Pasqua e S. Oronzo, patrono della nostra città, ci divideva l’importo accantonato…[1].

 

Pagina del registro di pagamento degli operai del reale laboratorio di Giuseppe Manzo
Pagina del registro di pagamento degli operai del reale laboratorio di Giuseppe Manzo

 

Pagina del registro di pagamento degli operai del reale laboratorio di Giuseppe Manzo
Pagina del registro di pagamento degli operai del reale laboratorio di Giuseppe Manzo

Nello statuario nulla era legato all’improvvisazione e alla convenienza. Lui tenne fede alla cartapesta anche quando, per svariate vicissitudini storiche ed attacchi istituzionali, si verificò un forte indebolimento nelle commissioni, al punto da determinare licenziamenti e la chiusura di vari laboratori. Celebri negli anni Trenta restano gli attacchi a livello nazionale e locale di Giovanni Papini e del vescovo di Otranto frà Cornelio Sebastiano Cuccarollo.[2] Pare infatti che in tale periodo, proprio mentre era nel pieno della sua fioritura artistica, la cartapesta si trovò al centro di un’accesa polemica e di pesanti persecuzioni. I cartapestai venivano accusati di sacrilegio perché usavano per le loro poltiglie carta “scomunicata”: i fogli di giornali, come l’Avanti, l’Unità, e persino le carte da gioco.[3]

Uso che non era solito appartenere al nostro Manzo:

“Nelle statue del Manzo nulla di manierato, nulla di esagerato, ma una precisione perfetta in tutto; dalla modellatura, alla linea, all’atteggiamento, ma più che tutto all’espressione che sintetizza e manifesta il carattere e la vita.- Egli lavorò con le più pure tecniche della cartapesta e mai usò la carta dei giornali, perché, diceva[4], – i santi non si vestono con le notizie[5]”.

“Bruceremo i santi di carta?”

“Un’arte senza domani vive la sua agonia: la statuaria leccese[6]”.

Questi, due dei titoli apparsi sui giornali salentini, circa trent’anni dopo una violenta campagna denigratoria nei confronti della cartapesta, iniziata nel 1933, dall’arcivescovo di Otranto, cadorino, che vietò l’uso della cartapesta per il culto, imponendo l’uso del legno nella statuaria sacra. Monsignor Francesco Cornelio Sebastiano Cuccarollo[7], inizialmente ammiratore delle statue di cartapesta, avendo ricevuto una sollecitazione di pagamento di due crocifissi da parte di Giuseppe Manzo, cominciò (pare da quel momento) a osteggiare con tenacia la produzione statuaria leccese, in nome di una difesa della “dignità e decoro” dell’arte destinata al culto.

Per le botteghe leccesi fu il dramma, senza risparmio per alcuna di esse, dalle più umili alle più famose.

In risposta alla polemica che dilagava, dopo la lettera denigratoria di monsignor Cuccarollo, in occasione della “seconda settimana per l’arte sacra per il clero”, a Roma, lo stesso vescovo di Lecce, Alberto Costa, spenderà delle parole in difesa di quest’arte: “Non si parli di ostracismo alla cartapesta, si cerchi piuttosto di conoscerla per non confonderla, […] e ammirarne i capolavori che sfidano i secoli”.

Anche la Pontificia Commissione interviene in difesa dell’ arte leccese, ma sarà solo nel 1939, alla vigilia della seconda guerra mondiale, che si spegnerà l’aspra polemica sulla cartapesta, travolta nella crisi generale che investe ogni settore economico[8].

una delle opere di Giuseppe Manzo
una delle opere di Giuseppe Manzo

Il figlio Antonio, per diversi anni, dopo la morte del padre Giuseppe cercò di mantenere in piedi il reale laboratorio, continuando a tenere in bottega i suoi lavoranti. Alla morte di Antonio, lo stesso provò a fare il nipote Dino, attaccatissimo al nonno Pippi e alla sua meravigliosa arte, infine si dovette rassegnare a chiudere battenti, agli inizi degli anni Sessanta.

Portò via molto materiale, tra cui cassette che contenevano registri, fatture, corrispondenza, note di ordini fatti da tutto il mondo per le sue statue, biglietti di encomio e di ringraziamenti, materiale pubblicitario, (poiché anche le antiche botteghe di cartapesta, ad un certo punto usarono farsi pubblicità) listini dei prezzi delle opere in base alle misure di realizzazione, foto, opere rimaste in laboratorio, e persino le lastre fotografiche delle statue modellate, poiché il maestro aveva la buona abitudine di fotografarle sempre, prima di ogni consegna. Ed è proprio da questo prezioso archivio, che abbiamo potuto visionare alcuni antichi documenti, del reale laboratorio appartenuto al Manzo, grazie alla gentile concessione del nipote Dino.

Biglietto da visita del maestro  Giuseppe manzo con l’insegna reale concessagli dal re Umberto I
Biglietto da visita del maestro Giuseppe manzo con l’insegna reale concessagli dal re Umberto I
Manifesto pubblicitario del reale laboratorio di Giuseppe Manzo
Manifesto pubblicitario del reale laboratorio di Giuseppe Manzo

 

Listino dei prezzi delle opere del reale laboratorio di Giuseppe Manzo
Listino dei prezzi delle opere del reale laboratorio di Giuseppe Manzo

 

Morì il 7 gennaio 1942, a Lecce, dove ancora è sepolto, nella tomba di famiglia del cimitero monumentale, all’età di 93 anni.

Nel suo necrologio fu scritto:

“Chi ha conosciuto la modestia di questo “Maestro” non può non ricordare la sua schietta semplicità, le sue abitudini modeste, l’affabilità del suo tratto. Fu spesse volte, dalla stima degli ammiratori e degli operai, chiamato a coprire cariche amministrative nel Consiglio Comunale e nella Società Operaia[9]. Era un “buono” che nella sua vita non ebbe nemici, un onesto che riscosse fiducia illimitata, un “credente” senza infingimenti nella sua fede”.[10]

 

Alte e significative furono le onorificenze conseguite da Giuseppe Manzo pei suoi lavori pregiati.[11]

È del 25 maggio 1890 il «Brevetto Reale » n. 729, registrato a corte n. 296, in cui si legge: “S. M. il Re Umberto I° volendo dare al Signor Giuseppe Manzo, modellatore in cartapesta nella città di Lecce, uno speciale e pubblico contrassegno della sua benevola protezione, ci ha ordinato di concedergli, a titolo di incoraggiamento, la facoltà di innalzare lo Stemma Reale sull’insegna del suo laboratorio.”

L’insegna è rimasta sino al dicembre 1959, circa 70 anni, mese in cui la «bottega» sulla via Paladini (sotto il palazzo Romano) chiuse per sempre i battenti.

Nel 1889, in occasione della venuta a Lecce di Umberto I°, il cartapestaio aveva fatto omaggio alla Regina d’una statua in cartapesta di Santa Margherita, ricevendone in dono un artistico orologio d’oro con brillanti e catena.[12]

Il maestro orgoglioso dell’onore ricevuto, di poter esibire l’insegna reale, in quello che diventerà il suo reale laboratorio, farà uso dell’effige anche sulla sua carta da corrispondenza, pregiandosi di questo alto onore. In seguito a questo episodio rimarrà per sempre una rispettosa e sentita amicizia, tra il Manzo e il sovrano Umberto I, nonché una costante corrispondenza, con la casa reale, come dimostra una delle tante lettere ritrovate nei documenti che il maestro conservava nel suo laboratorio.

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Lettera scritta dalla segreteria reale del re Umberto I a Giuseppe Manzo

Un’altra prestigiosa onorificenza, che gli fu concessa fu quella di Cavaliere, “Pro Ecclesia et Pontifice”[13].

Al Manzo la prima medaglia d’oro fu assegnata il 3 giugno 1877, in occasione del Giubileo Episcopale di Pio IX. Successivamente partecipò alla Esposizione di Palermo, per due anni consecutivi, conseguendo la medaglia d’argento nel 1891 e quella d’oro nel 1892. Altre medaglie d’oro gli furono assegnate: nel 1899 all’Esposizione Internazionale di Torino, all’Esposizione Campionaria mondiale di Roma e all’Esposizione industriale e commerciale di Poitiers; nel 1900 alle sposizioni internazionali di Londra, Parigi e Bordeaux; nel 1901 ancora all’Esposizione campionaria mondiale di Roma, dove si riaffermò nuovamente nel 1911 conseguendo un’altra medaglia d’oro.

A queste vanno aggiunte altre medaglie d’oro, quali, per esempio: quella che gli fu conferita dall’Accademia di Parigi degli «inventeurs industriels et expositeurs» e quella ricevuta dalle Missioni Opere Cattoliche di Torino nel 1898.

Tutto questo oltre le medaglie di bronzo e d’argento, le coppe, i numerosi «Diplomi » e le croci al merito, la più prestigiosa delle quali è forse quella conferitagli dall’Accademia di Belle Arti di Parigi.

 


[1]  O. SOLOMBRINO, Serrano Microstorie Ricordi sentimenti, Congedo, Galatina 2005, pp.30,32,33

[2] Gianluigi Lazzari, in Anxa, anno X, n. 56, maggio-giugno 2012 , Associazione culturale Onlus, Gallipoli (Le) pp. 11,12

[3] Nicola Caputo, Quei tre fratelli di nome Gesù – le statue di Giuseppe Manzo nella processione dei misteri di Taranto, Scorpione editrice s.r.l., Martina Franca 1991, p.142

[4] Mario De Marco, La cartapesta leccese, Edizioni del Grifo, 1997, p. 33

[5] Il convento dei P.P. di Novoli possiede una cospicua produzione statuaria del Manzo. Cfr., M. De Marco, Catalogo delle opere sacre in cartapesta conservate presso la chiesa e il convento dei padri passionisti , in “ I Passionisti a Novoli. 1887-1997”, Manduria, 1987, pp. 105

[6] E. Rossi, Un’arte senza domani vive la sua agonia: la statuaria leccese, in “ La tribuna del Salento” anno I, n. 27, p.2 Lecce, 1959 / E. Rossi, Bruceremo i santi di carta, in “ La tribuna del Salento ” anno 2, n. 32, 33, 34, 35, 36, 37, p. 4, Lecce, 1960

[7] Nato nel 1870 a Casoni di Mussolente, alle falde del monte Grappa, da famiglia di contadini, direttore per 10 anni del Bollettino del Terz’Ordine  Francescano a Padova, nel 1931 si insedia  nell’arcidiocesi di Otranto, divenendo così Primate del Salento. Solo nel 1952 si trasferirà altrove.

[8] Bianca Tragni, Artigiani di Puglia(con un saggio di A, Contenti) Adda editore, Bari, 1986, pp.295-301

[11] LEONE VALGENTINA, La cartapesta leccese e i suoi cultori, in « Il Lavoro Nazionale », Anno I, n. 2-3, pag. 28, Bari, Marzo-aprile 1915.

12 L’orologio in dono fu inviato a Giuseppe Manzo da Umberto I a mezzo della sua «Segreteria Particolare», accompagnato da una lettera datata, Monza 22 ottobre 1889, col numero di protocollo 4684. Questo, il testo della lettera: «Sua Maestà il Re compiacevasi  accogliere assai benevolmente l’omaggio di una statuetta rappresentante Santa Margherita di Savoia rassegnatoGli da V. S. durante il recente soggiorno della Maestà Sua in codesta Città. Compio quindi ora ad un grazioso incarico Sovrano porgendo a V. S. l’unito orologio con catena ed esprimendo alla S. V. il gradimento e i ringraziamenti Reali per la cortese offerta che attesta la affettuosa di Lei devozione alla Dinastia dei Savoia. Mi si offre propizia la circostanza per porgerle, Preg.mo Signore, gli atti di mia distinta stima».

13  La Croce pro Ecclesia et Pontifice (ovvero “per la Chiesa e per il Papa”) è una onorificenza della Santa Sede. È un distintivo d’onore. La medaglia è stata introdotta da Leone XIII il 17 luglio 1888 con la lettera apostolica “Quod singulari Dei concessu”, per commemorare il suo cinquantesimo anniversario di sacerdozio e, inizialmente, venne conferita a quelle donne e quegli uomini che avevano aiutato e promosso il giubileo o vi avevano collaborato attraverso altri mezzi. Oggi invece viene conferita, sia ai laici (uomini e donne) che agli ecclesiastici, che si sono distinti per il loro servizio verso la Chiesa.

 

Il Salento dei Malladrone, Pappamusci, Patipaticchia, Battilocchio e delle Caremme

Il Salento delle leggende.

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

 

di Antonio Mele ‘Melanton’

Quando muoiono le leggende finiscono i sogni.

Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.

 

Siamo quello che siamo stati.

Quello che ogni giorno proviamo e sentiamo dentro di noi, l’abbiamo già vissuto mille volte. Da bambini. Da adolescenti. Da ragazzi. Da piccoli uomini o piccole donne. Poi, siamo entrati nel pieno della vita.

Quello che siamo stati è il nostro futuro. Sempre. Anche quando il futuro ci sembra lontano e irraggiungibile. O ha tutta l’aria di essere passato.

Siamo la nostra memoria. Fatta di giorni o di semplici momenti che ci hanno fatalmente segnato. Giorni e momenti indimenticabili. Impossibili da raccontare se non a se stessi, nell’intimo del proprio ricordo, della propria emozione, che calda rivive nei sensi e nell’anima.

Non è soltanto nostalgia né un rifugio né una fuga dal tempo. È il sogno concreto della nostra condizione di esseri intelligenti e sempre un po’ romantici, della nostra piccola personale epopea. E non importa davvero come essa sia stata. Perché sappiamo assai bene – ognuno a suo modo, e nonostante tutto – che è stata bella e completa. Perché sappiamo che in quel tempo reale e ideale siamo cresciuti giorno dopo giorno, assaporando i misteri e la bellezza della vita, cominciando a conoscere, a scoprire, a soffrire, ad amare, a sperare, a combattere, a vincere, e qualche volta a perdere, senza che nessuna ferita ci sia mai apparsa irrimarginabile. La vita ci voleva forti e sereni.

Più tardi, quando saremmo diventati ‘grandi’, il nostro tempo primordiale avrebbe assunto le dimensioni del sogno. Così, quando ci capita di guardare indietro, spesso ci sembra di rivederci come se fossimo ‘altri’, come se la nostra infanzia e adolescenza fossero irreali, raccontati o dipinti dalla nostra o dall’altrui immaginazione.

Ecco allora che in nostro soccorso, per non disorientarci più di quanto dovremmo, viene la visione custodita con cura di quel tempo non lontano e tuttavia remotissimo. Una visione che assume i contorni del racconto, della poesia, della leggenda.

 

Siamo stati anche noi parti attive delle leggende salentine. Di certo, da bambini, abbiamo vissuto in un’aura fantastica, talora fors’anche spaventevole ma che oggi ci appare semplicemente magica. Di volta in volta, a seconda delle occasioni, i nostri genitori e i nostri nonni o i compagni più saputi e più grandi ci facevano ‘toccare con mano’ i personaggi e i luoghi concreti dove i racconti favolosi della nostra terra avevano avuto origine, e noi stessi li abbiamo poi tramandati ai nostri figli e nipoti. Com’è nell’ordine delle cose del mondo.

Il Malladrone di Gallipoli
Il Malladrone di Gallipoli

Il Malladrone di Gallipoli, per esempio. Figura spregevole, degna del più assoluto disprezzo. L’incarnazione del male, della cattiveria, dell’empietà. Occhi iniettati di sangue, riso beffardo, sguardo sprezzante, e denti rabbiosi, in una verosimiglianza terribilmente sbalorditiva. Oggetto e soggetto di leggende raccapriccianti, come quella che lo vogliono pronto a scendere dalla croce e vagare nottetempo nei vicoli della Città Vecchia, per il semplice e perfido piacere di spaventare a morte i nottambuli solitari. O l’altra, ancora più nota, che parla delle sue vesti sempre lacerate e cenciose: ogni qualvolta vengono restaurate o rifatte ex novo, il giorno dopo ridiventano squarciate e disfatte: i gallipolini dicono che è egli stesso a strapparle e dilaniarle coi suoi denti mostruosi.

Il famigerato Misma (nome del Malladrone) non si pentì mai dei suoi orrendi misfatti, nonostante sul Calvario fosse stato accanto a Gesù Cristo, il quale nella sua somma misericordia lo perdonò d’ogni colpa. Non lo perdonò mai il popolo. Tant’è che la statua lignea in un’ala della chiesa di san Francesco d’Assisi che lo rappresenta con un ghigno feroce in tutta la sua scelleratezza – opera del XVII secolo del frate Vespasiano Genuino – è continuamente visitata a simbolo e a ludibrio perpetuo della malvagità umana.

Nell’estate del 1895 fu ‘ammirata’, fra i tanti, anche da Gabriele D’Annunzio. I gallipolini, e non solo, continuano a portare i propri figli al cospetto di un simile crudele personaggio per suscitaresentimenti frammisti di esecrazione e pietà, o di vergogna e apprensione, come testimoniano questi versi, tratti dalla tradizione popolare: «Pùh, ci sì bruttu, cu te càscia ‘utta! / Ci te vitia de notte, largu sia / cu sta facce rrignata e cusì brutta / sarà ca me cacava pe la via!».

Anche a Galatina, nella chiesa dell’Addolorata, c’era un’analoga statua (in cartapesta) che suscitava ribrezzo e timore: era quella di Patipaticchia, lo spietato flagellatore di Cristo, che veniva esposta al furore dei fedel nel periodo della Settimana Santa dedicato alla visitazione dei Sepolcri: chiunque vi si avvicinasse – uomini, donne, vecchi o bambini – si scagliava contro questa trista figura, e si ‘vendicava’ (in una sorta di inconscio esorcismo e affrancamento espiatorio dei propri peccati), conficcandovi spilli e chiodi, o graffiandone il corpo in un frastuono di urla e imprecazioni.

 

Tra la fine del Carnevale e la Pasqua intercorrono, com’è noto, i quaranta giorni della Quaresima. È altresì noto che in questo periodo, e già dal mercoledì delle Ceneri, in molti paesi del Salento dove la tradizione è ancora radicata – si pensi al territorio intorno a Gallipoli, ai comini del Capo di Leuca o alla Grecìa Salentina –, appare appesa ai crocicchi delle strade la tipica Quaremma o Caremma, un fantoccio raffigurante una vecchia brutta e sdentata, vestita di abiti scuri, che in una mano tiene il fuso e la conocchia, e nell’altra un’arancia amara, simbolo di afflizione e pentimento, con sette penne di cappone o gallina conficcate, che vengono poi sfilate una alla volta per ogni settimana di Quaresima, fino all’ultima, levata a mezzodì della domenica di Pasqua, ora in cui la Quaremma verrà definitivamente bruciata, in un rito salvifico da colpe e peccati.

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Probabilmente ispirata alle famose Parche della mitologia greca, e precisamente a Cloto, che filava il destino degli uomini, la nostra Quaremma serviva soprattutto a monito del periodo di lutto, penitenza e sacrificio che tutti i cristiani dovevano osservare tra le Ceneri e la Pasqua, richiamandoli non soltanto ad una severa osservanza morale, con le varie liturgie religiose e la recita del Rosario, ma anche ad un comportamento di igiene alimentare, che prevedeva fra l’altro il mangiare di magro e, in alcuni giorni, l’obbligo dell’astinenza e del digiuno.

Ancora oggi, le maggiori solennità della Quaresima si svolgono il Giovedì e il Venerdì Santo: dapprima con la visita ai Sepolcri, in un’atmosfera di commossa partecipazione e di silenzio assoluto (anche le campane vengono legate per non fare il minimo rumore, e l’unico suono udibile è quello stridulo del tipico attrezzo in legno detto tròzzula o tròccula); poi con la mesta e affollatissima processione dei Misteri, che assume il valore di una spettacolare sacra rappresentazione, particolarmente in alcune città come Taranto, Gallipoli, Grottaglie o Francavilla Fontana (qui con la famosa processione de li Pappamusci, di derivazione spagnola).

 

Da Pasqua a Pasquetta ovvero dal divino al terreno. Se per un verso l’uomo sente di dover rispettare e onorare le leggi etiche e religiose, egli ha altresì il bisogno naturale di esprimere la propria gioia di vivere. E una delle occasioni più festose dell’anno è certamente quella del Lunedì dell’Angelo o in Albis, che prende nome dall’incontro che le pie donne giunte al Santo Sepolcro ebbero con un Angelo ”in albis vestibus” (con bianche vesti), che le avvertì che Cristo era risorto.

In questo giorno, in molti paesi si festeggia appunto la “Pasquetta”, con la tradizionale gita fuori porta, che esalta il piacere della convivialità. La maggior parte dei salentini ama riversarsi sulle marine: Gallipoli, Porto Cesareo, Torre dell’Orso, Otranto, Santa Maria di Leuca, Castro… Quest’ultima meta, in particolare, offre anche la possibilità di una visita alla famosa Grotta Zinzulusa, il cui nome sembra derivare da una suggestiva leggenda.

Si narra infatti che un certo Battilocchio, barone di Castro, uomo di estrema crudeltà, essendo assai geloso della bella moglie Rosaura, un giorno la uccise, costringendo peraltro la loro giovane figlia Margherita a vivere di stenti e a vestire di stracci. La buona fata Amelinda, scoperto l’intrigo e mossa a pietà, liberò la giovane da quella schiavitù e la diede in sposa al principe Bellomo, dopo aver gettato le vesti lacerate che fino a quel momento l’avevano a malapena ricoperta. Portati via da un vento particolarmente impetuoso, gli stracci o zìnzuli, nel dialetto salentino, andarono a pietrificarsi sulle pareti di una grotta, che da allora venne appunto chiamata Zinzulusa.

E lo snaturato barone Battilocchio? Il meno che gli poteva capitare fu di sprofondare nei meandri più lugubri della stessa grotta, facendo scaturire il laghetto Cocito, che alcuni dicono sia l’anticamera dell’Inferno.

Certo, viene da pensare che se anche al mondo d’oggi ci fossero le buone fate come Amelinda certe prepotenze e ingiustizie, forse, non ci sarebbero più…

Alla prossima.

 

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne

Giuseppe Manzo (1849-1942) e la cartapesta leccese (seconda parte)

di Cristina Manzo

 

Giuseppe ManzoDal principio Giuseppe mise su bottega in società col De Pascalis ( esattamente l’anno dopo il suo incarico di insegnamento) poi questi lo abbandonò dopo appena cinque anni di lavoro in comune per mettere su bottega da solo, poiché era profondamente convinto che “la vera opera d’arte dev’essere espressione di un solo pensiero e di una sola volontà” [2].

 

Quando ciò avvenne fu il De Pascalis a trasferire la sua attività, mentre il Manzo rimase nei locali originari.

Il laboratorio era incorporato nel palazzo del conte Romano, che sorge nell’omonima piazzetta adiacente all’ingresso posteriore del Duomo. Aveva due ingressi: il principale dalla piazzetta e il secondario da via degli Ammirati; attualmente è il negozio di abbigliamento della ditta Andretta.

Il grande locale era diviso in tre settori: modellatura delle teste, armatura e vestitura della statua […] il laboratorio era un cenacolo d’arte frequentato da amici e da clienti del maestro Manzo […] fervente religioso, il maestro prima di iniziare il lavoro si segnava con la croce.[3]

Se per l’artista De Pascalis, che ebbe vita breve ( morì a soli trentatré anni), si deve parlare di un’attività artistica limitata nel tempo,  non fu così per il maestro Manzo che morì all’età di 93 anni. “Trascorse la sua lunga vita, – si legge in una cronologia del tempo – nell’adempimento dei suoi doveri religiosi, nei santi affetti della famiglia, nell’estasi dell’arte di cui fu sommo maestro.”[4]

 

Foto di Giuseppe Manzo davanti al suo reale  laboratorio, in piazzetta Romano, con tutti i suoi amici e discepoli,  scattata nel 1898 (collezione privata. riproduzione vietata)
Foto di Giuseppe Manzo davanti al suo reale laboratorio, in piazzetta Romano, con tutti i suoi amici e discepoli, scattata nel 1898 (collezione privata. riproduzione vietata)

 

Nel 1890, un po’ avanti nell’età, a 41 anni sposò l’omonima ma non parente Giuseppina Manzo. Da quest’unione nacquero quattro figli, Bartolo e Francesco che morirono in tenera età, e Anna e Antonio, che sarà il padre di Dino. Quando la moglie del maestro, Giuseppina, morì in giovane età, le sorelle di lei Rosaria e Chiara, che restarono nubili, aiutarono Giuseppe a crescere i  due figli.

Oronzo, fratello di Giuseppina, aveva una merceria in piazza S. Oronzo, che poi lascerà in eredità al nipote Antonio, che a sua volta la lascerà al figlio Dino, nipote di Giuseppe, che oggi gentilmente ci concede parte dei suoi ricordi per meglio conoscere la vita del nonno.

Giuseppe Manzo a Lecce veniva chiamato da tutti don Pippi.

“Don Pippi – si legge in una bella pubblicazione  dei padri passionisti di Novoli- era di media statura, tarchiato ed era solito lavarsi il viso con acqua e aceto. Era un uomo buono, semplice e disponibile. Per due anni fu presidente della leccese Società Operaia di Mutuo Soccorso (1902.1903).[5]

Le responsabilità familiari e civili non lo distoglieranno però dalla sua arte, anzi costituiranno per essa stimolo e ricerca, giacché l’arte, a nostro parere non dovrebbe mai esser disgiunta da un impegno sociale e umano.  E Giuseppe Manzo incarna anche la figura ideale di artista che traduce in azione politica e culturale l’operosità del suo genio.

Inizia così la sua intensa attività, che per circa un cinquantennio lo vedrà produrre opere commissionate alla sua bottega da enti pubblici e privati, ecclesiastici per lo più, dalle più svariate parti del mondo.

Sue sculture sono infatti documentate e presenti a Londra, Parigi, Tokio, il Cairo, New York, Rio De Janeiro, Melbourne, oltre che in tutt’Italia, e naturalmente nel Salento. Nella sua bottega presero forma opere meravigliose, e non solo a carattere religioso, e qui la cartapesta diventerà emozione e arte, impareggiabile per maestosità, teatralità, bellezza e sentimento.

“Quando dava l’espressione ai volti si appartava ed entrava quasi in estasi. Ciò faceva non perché era geloso dell’arte, ma poiché aveva bisogno di isolarsi, di entrare in sintonia con il soggetto, con lo spirito che il tema e il simulacro dovevano manifestare.”[6]

 

——————————

[2]  P. Marti, La modellatura in carta, Lecce 1984,  p. 40.

[3] Ivi, pp. 29-30.

[4]   Nicola Caputo, Quei tre fratelli di nome Gesù – le statue di Giuseppe Manzo nella processione dei misteri di Taranto, Scorpione editrice s.r.l., Martina Franca 1991, p. 6.

[5] Idem, pp.19,21.

[6] I Padri Passionisti a Novoli, 1887-1987, (Lecce) 1894, p. 128.

 

Per la prima parte: 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/09/giuseppe-manzo-1849-1942-e-la-cartapesta-leccese-prima-parte/

Per la terza parte: 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/15/giuseppe-manzo-terza-parte/

Per la quarta parte:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/18/giuseppe-manzo/ 

Per la quinta parte:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/24/manzo-ultima-parte/

 

Il “Cavallino Bianco” di Galatina

La struttura fu progettata e costruita dall’ing. Armando Stasi

 

Il “Cavallino Bianco”

il teatro dei veglioni e degli spettacoli

 

La cerimonia d’inaugurazione avvenne il 3 febbraio 1949 alla presenza dei proprietari, del sindaco Carmine D’Amico e di un folto e qualificato pubblico

di Giorgio Lo Bue

 

Il Teatro Cavallino Bianco fu inaugurato il 3 febbraio ’49, con l’opera il Rigoletto di Giuseppe verdi, alla presenza dei proprietari e del sindaco di Galatina dott. Carmine D’Amico.

verdi-rigoletto

La costruzione fu progettata dall’ingegnere Armando Stasi, ma va anche detto che il primo progettista fu il barese Giuseppe Basile.

Il nome al cinema fu dato dalla moglie del socio Attilio Distante, dopo aver assistito, a Bari, a una commedia, dove vi era un piccolo cavallo bianco.

Il progetto architettonico non fu studiato nei minimi particolari, tant’è vero che, solo dopo averlo inaugurato, ci si accorse della poca profondità del palcoscenico, per cui si decise di ampliarlo sottraendo quattro-cinque metri alla strada.

L’entrata del cinema era alle spalle di quella attuale, esattamente in via Vallone. Durante l’estate i film erano proiettati nell’attigua Arena, avente una capienza di oltre trecento posti. Attualmente c’è un enorme palazzo, che soffoca la restante struttura e ne oscura la sua maestosità.

Un’altra curiosità era rappresentata dal ristorante-albergo adiacente al cinema, dove pernottavano artisti, cantanti e rappresentanti di commercio.

Anche il Cavallino Bianco, dopo gli anni 1970, subì la crisi epocale del cinema ma, nonostante il trend negativo, la struttura galatinese continuò a vivere grazie alla sua storia e alle numerose attività di intrattenimento, come le serate danzanti, gli indimenticabili veglioni, lo spettacolo del Living e altre interessanti manifestazioni pubbliche. All’inizio del nuovo millennio le attività sono andate via via scemando, cosicché è calato, tra la delusione generale della città, il definitivo sipario.

A voler fare una breve carrellata delle attività cinematografiche, culturali e di spettacolo più importanti, non possiamo non ricordare i grandi kolossal del cinema degli anni ’50, come “Ulisse”, “I dieci comandamenti”, “La Tunica”, “Ben Hur”, il “Re dei Re” e altri, che erano proiettati per diverse serate e ai quali assisteva un pubblico proveniente dai tanti paesi limitrofi.

Il fiore all’occhiello, però, è senz’altro rappresentato dai numerosi veglioni organizzati durante il carnevale. Chi non ricorda il Veglionissimo della Stampa, del Tennis, dello Studente, Azzurro, della Caccia, della Croce Rossa e altri minori? Il primo, organizzato da alcuni esperti giornalisti galatinesi, dalla metà degli anni ’50 e fino ai primi anni ’70, esibiva ogni anno la presenza di grandi cantanti, tra quali ricordiamo Domenico Modugno, Peppino di Capri, Mina, Ornella Vanoni, Tony Renis, Fred Bongusto, Rita Pavone, Alighiero Noschese  e altri non meno importanti. Quello della Caccia era il veglione del Circolo dei Cacciatori (alla fine della serata solitamente si sorteggiava un cinghiale o un daino), mentre quelli dello Studente e dell’Azzurro erano veglioni organizzati dagli studenti del Liceo Classico “Colonna” e dell’Istituto Tecnico Commerciale “Laporta”, mentre quelli del Tennis e della Croce Rossa rispettivamente dai soci del Circolo Tennis e dagli iscritti alla Croce Rossa.

Non va sottaciuto il Veglioncino dei Bambini, in auge dagli anni ’50 agli anni ’70, al quale partecipavano un mondo di bambini e di… genitori.

Non sono mancati i concerti di musica leggera e classica, le attività teatrali, i festival di voci nuove, come quello presentato dal popolare Pippo Baudo il 7 e l’8 giugno del 1969, così come non sono mancati appuntamenti culturali importanti, dei quali il più rilevante è stato senza dubbio quello del 1985 in cui ha visto il prof. Zichichi, celebre astronomo, trattare l’argomento “Scienza e fede al servizio della pace”.

Tra le altre attività culturali menzioniamo l’indimenticabile serata del 12 febbraio 1980. Un avvenimento eccezionale, forse il più importante della seconda metà del Novecento.

A Galatina giunse il “Living Theatre” per rappresentare il musical Antigone di Sofocle di Bertolt Brecht, per la regia di Judith Malina e Julian Beck.

Antigone

Lo spettacolo fu organizzato dall’indimenticata Preside Paola Calabro, allora presidente del Circolo A.R.C.I. galatinese.

La tecnica usata dal Living era quella dello straniamento totale e assoluto e dell’interpretazione di un lavoro veramente originale e libero, che, oltre a ricevere un unanime apprezzamento dei numerosi spettatori, determinò una rivoluzione nelle loro menti, abituate a un tipo di spettacolo asfittico e stagnante e non educate alla decodificazione del linguaggio gestuale degli attori.

Gli attori del Living concepivano la vita strettamente connessa all’attività teatrale, il gruppo continuava a fare spettacoli per esplicitare la rivoluzione non violenta. D’altra parte la risposta che essi avevano dato agli studenti universitari prima di venire a Galatina era stata: «La rivoluzione passa attraverso una scelta individuale intima ma anche estetica: quella della vita, della poesia e dell’amore». Essi, quindi, intendevano per rivoluzione anche lo spettacolo nel quale l’attore e lo spettatore vivevano le stesse emozioni.

Insomma, attore, testo e pubblico si fondono insieme e realizzano, anche se per la sola durata dello spettacolo, il sogno e il modello di una società più libera e più giusta.

Un’altra presenza molto significativa a Galatina, è stata quella della Compagnia Teatrale Scenastudio, operante nella nostra città dal 1988 fino a giugno 2000. In questo periodo sono stati programmati importanti progetti teatrali, che hanno coinvolto il pubblico con spazi e linguaggi eterogenei e con spettacoli che sono andati dal teatro drammaturgico a quello comico o musicale. Questi progetti teatrali sono stati realizzati in collaborazione con il Teatro Pubblico Pugliese, l’ETI, l’AGIS-CTA, con l’Amministrazione Provinciale di Lecce e con i Comuni di Galatina, Lecce, Calimera, Galatone, Gallipoli, Maglie, Melendugno, Nardò e Taviano.

Proprio per questo motivo, l’Amministrazione galatinese, sollecitata dall’interesse sempre più crescente dei suoi cittadini, istituì, nel 1987, la “Stagione Teatrale” annuale in collaborazione con la Cooperativa Teatrale Scenastudio, il cui direttore artistico era Antonio De Carlo.

La prima stagione teatrale ebbe inizio il 14 gennaio 1988 con la rappresentazione di nove famosi spettacoli. I prezzi furono molto contenuti per incoraggiare la gente a parteciparvi.

Gli spettatori non delusero l’attesa degli organizzatori: cominciarono a rispondere all’appello in duemilacinquecento, numero che andò aumentando negli anni successivi.

La prima opera rappresentata fu “Fatto di cronaca” di R. Viviani, regia di M. Scaparro e messa in scena dalla cooperativa “Gli ipocriti”.

Fra le altre opere presentate ricordiamo:

– “Lazzaro” (31.3.’89) e “Il berretto a sonagli” (14.4.’93) di Pirandello;

– “Le troiane” (29.1.’90) di Euripide;

– “Mandragola” (6.4.’90) di Machiavelli;

– “Sogno di una notte di mezza estate” (28.1.’91) di Shakespeare;

– “L’impresario delle Smirne” (8.1.’92) di Goldoni;

– “La scuola delle mogli” (7.4.’92) di Molière;

– “L’importanza di chiamarsi Ernesto” (20.1.’93) di Wilde.

L’ultima, organizzata in ordine di tempo e datata 3 aprile 2000, è stata “Due dozzine di rose scarlatte”.

Un’ultima annotazione. Il 6 giugno 2000 i maturandi dell’ITC “M. Laporta” di Galatina si esibirono, sotto la mia direzione, in uno spettacolo di teatro e pizzica.

Da questa data in poi il Cavallino Bianco è stato abbandonato all’incuria del tempo e, nonostante qualche anno fa sia stato acquistato dall’Amministrazione Comunale, nulla è stato fatto per ristrutturarlo, ammodernarlo e adeguarlo alle norme di sicurezza.

Ancor oggi, ahinoi, il Cavallino Bianco continua a poltrire e a dormire, aspettando che qualcuno con un miracoloso “bacio” lo svegli dall’ignavia umana e lo faccia risplendere come ai bei tempi, quando la sua fama di centro di cultura e di spettacolo si diffondeva in ogni angolo del Salento.

Noi siamo qui ad aspettare, nella speranza che quanto prima accada un miracolo. Ma si sa che i miracoli son fatti dai santi e non certamente dagli uomini, a meno che…

 

Pubblicatu su Il Filo di Aracne.

Nardò. Torre Tèrmide, la masseria degli olivi selvatici

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La masseria Termide vista da ovest (ph. F. Suppressa)

 

di Fabrizio Suppressa

 

La masseria fortificata Torre Tèrmide o Termite è situata a pochi chilometri a nord-ovest dal centro abitato di Nardò[1], nell’agro denominato Arneo, il vasto e fertile territorio posto lungo l’insenatura jonica della penisola salentina. Secondo il Costantini, la costruzione appartiene alla tipologia delle “Torri a base scarpata con scala esterna”, conformazione questa tipica dell’area di “affittimento neretina”, in cui la stessa è inserita[2].

L’impianto agricolo, dalla conformazione quadrangolare del suo recinto, ha fondamento su una lieve asperità rocciosa del terreno. Al centro del complesso vi è l’elemento fortificato, il nucleo originario del complesso, databile alla prima metà del XVI secolo[3] e caratterizzato dall’aspetto severo della mole bruno-scura dei suoi conci tufacei. La torre è dotata di due accessi, quello inferiore è costituito da una piccolo passaggio, probabilmente successivo, posto nel basamento del fronte nord. Quello superiore, sempre sul medesimo prospetto, è garantito da una ripida e stretta scala in muratura al cui termine vi è un pianerottolo d’arrivo sostenuto da una volta a botte. Questo originariamente era formato da un ponte levatoio in legno movimentato manualmente in caso di necessità. Il sistema difensivo era inoltre dotato di quattro caditoie poste in asse con le principali aperture e di cinque feritoie adatte all’uso di artiglieria di piccolo calibro, come moschetti e archibugi. Dall’ampio terrazzo, la torre comunicava a vista con le limitrofe masserie fortificate di Abbate Cola, Corsari, Agnano e con la torre costiera di S. Isidoro.

La torre al centro della masseria, parte della scala è recentemente crollata (ph. F. Suppressa)
La torre al centro della masseria, parte della scala è recentemente crollata (ph. F. Suppressa)

 

Piuttosto scarne sono le fonti storiche relative al piccolo insediamento agricolo. Dalle pergamene della Curia e del Capitolo di Nardò emerge come la masseria nel giorno del 6 dicembre 1619 sia soggetta ad un nuovo proprietario. Alessandro Vernaleone di Nardò vende infatti a Lupo Antonio Coriolano e ai suoi figli Lucio, Orazio, Cesare e Gerolamo, per 1000 ducati il complesso agricolo[4]. Dagli stessi documenti emerge anche il nome del primo proprietario di cui si hanno notizie: un tal Ottavio figlio di Giovanni Pietro de Vito di Nardò, da cui Alessandro Vernaleone aveva acquistato anni prima la masseria per lo stesso prezzo di 1000 ducati[5].

Gli affari non sembrano andare bene ai nuovi proprietari; pochi anni dopo, il 12 gennaio 1622, un nuovo soggetto entra in società con i Coriolano. Vengono venduti all’Abate Domizio, procuratore del Capitolo di Nardò, al prezzo di 220 ducati, 19 ducati sulle prime rendite annuali della masseria e altri beni stabili “a scelta del Capitolo[6].

Nella prima metà del XVII secolo la masseria passa alla nobile famiglia neretina dei Sambiasi-Massa (per il matrimonio di Ottavio di Pietro Massa con Veronica Sambiasi) come emerge dallo stemma nobiliare posto sul fronte nord della torre[7].

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Stemma della famiglia Sambiasi Massa (ph. F. Suppressa)

Altrettanto interessanti risultano le cartografie storiche che inquadrano l’area in esame. Un primo documento di estrema rilevanza è certamente l’atlante del 1806 detto del Rizzi Zannoni[8], qui infatti la masseria Termide appare rappresentata immersa in un territorio prevalentemente impervio ed incolto, tra le folte macchie dette di Villanova e di Carignano, a non poca distanza dalla via di comunicazione che parallela alla costa da Taranto conduce a Gallipoli.

 

Stralcio del foglio 22 dell’Atlante Rizzi Zannoni
Stralcio del foglio 22 dell’Atlante Rizzi Zannoni

 

Un territorio dalle caratteristiche estremamente differenti da quelle attuali, che giustifica il toponimo “Tèrmide”. Tale vocabolo indica infatti nel dialetto locale l’olivastro, pianta tipica della macchia mediterranea impiegata anticamente per le proprietà di resistenza al clima e alle patologie come portainnesto per gli ulivi da coltivazione; una vera e propria risorsa per la florida olivicoltura di Terra d’Otranto.

Macchie che venivano impiegate anche per il pascolo allo stato brado di ovini e caprini, attività specifica delle masserie dette da “da pecore”, come la nostra in esame, nei cui capienti ricoveri, ingranditi nel corso dei secoli, poteva senz’altro ospitare numerosi capi di bestiame. Anche la cappella dedicata a Sant’Antonio da Padova, protettore degli animali domestici, adiacente al complesso ne è una forte testimonianza di questa importante attività agropastorale.

 

Masseria Termide, cappella di Sant’Antonio Abate (ph. F. Suppressa)
Masseria Termide, cappella di Sant’Antonio Abate (ph. F. Suppressa)

 

Attorno al 1870 la torre della masseria Tèrmide diviene vertice trigonometrico di seconda categoria, per la nascente rete cartografica nazionale redatta dall’Istituto Topografico Militare, viene per questo motivo costruito sul terrazzo, all’angolo di nord-est della torre, un pilastrino in muratura con un centrino in acciaio atto ad ospitare la strumentazione topografica.

Verso la fine dell’Ottocento la masseria risulta accatastata[9], compare l’impianto originario, in cui sono ben individuabili i vari corpi facenti parte dell’insediamento agricolo, i vani accessori, un’aia, una cappella e un cisternone per la raccolta delle acque piovane.

Alla fine della II Guerra Mondiale proprietario del complesso risulta essere il botanico napoletano Gioacchino Ruffo, Principe di Sant’Antimo e Duca di Bagnara e Baranello. Alla morte di costui nel 1947, la proprietà transita alla figlia Maria Lucia, e tale rimane fino al 6 settembre del 1952, quando per decreto dell’allora Presidente della Repubblica[10] Luigi Einaudi, le proprietà (assieme ad altre masserie del Salento, quali Ascanio, Pittuini, Rauccio, Scorpo e li Ronzi) vengono espropriate per 8.347.889,30 di Lire e affidate al neonato Ente per la Riforma Fondiaria di Puglia, Lucania e Molise. Il vasto latifondo[11] dai circa 630 ettari (uno dei più estesi della provincia), viene dapprima dissodato e bonificato, ed inseguito frazionato in “poderi” e “quote” venduti ai contadini assegnatari con patto di riservato dominio.

l vasto latifondo di 630 Ha prima dell’esproprio dell’Ente Riforma
l vasto latifondo di 630 Ha prima dell’esproprio dell’Ente Riforma

La masseria divenne invece un centro di servizio per il patrimonio zootecnico[12] e per questo motivo alcune parti furono demolite per far spazio a nuovi fabbricati e a case coloniche di tipo “Arneo”. Con il fallimento della Riforma Fondiaria, tutto il complesso è entrato in un lento ed inesorabile declino; attualmente di proprietà demaniale, la masseria è saltuariamente occupata da coloni. Lo stato di conservazione è pessimo.

La masseria in una foto degli anni ’70 del Novecento
La masseria in una foto degli anni ’70 del Novecento

[1] La masseria è rintracciabile su Google maps al seguente link: http://goo.gl/maps/kHwTX

[2] A. COSTANTINI, Le masserie fortificate del Salento meridionale, Adriatica, Lecce 1984, p. 30

[3] Ibidem, p. 272

[4] M. PASTORE, Le pergamene della Curia e del Capitolo di Nardò, Centro Studi Salentini, Lecce 1964, p. 28.

[5] Ibidem

[6] Ibidem, p. 30.

[7] M. GABALLO, Araldica civile e religiosa a Nardò, Nardò Nostra, Lecce 1996, p. 65.

[8] G.A. RIZZI ZANNONI, Atlante geografico del Regno di Napoli delineato per ordine di Ferdinando IV Re delle Due Sicilie, Stamperia Reale, Napoli 1789-1808, Foglio 22.

[9] Comune di Nardò, Foglio XLVII, Particella 9 – ringrazio Francesco e Tonino Politano per il prezioso aiuto e per il reperimento delle cartografie catastali

[10] D.P.R. n. 1369 del 6 settembre 1952 e G.U. n. 260 del 10-11-1952

[11] I confini sono così descritti: “A nord, con il limite dei fogli nn. 33 e 34, ad Est, con strada comunale Masseria Console, ad Ovest, con strada vicinale Sant’Isidoro e strada vicinale La Lucia. Sono intersecati nel senso nord-ovest, sud-est dalla strada provinciale Manduria-Nardò e dalla strada comunale Tarantina” G.U. n. 260 del 10-11-1952

[12] A. COSTANTINI 1984, op. cit., p. 102.

Salento, tra diavoli, streghe e lupi mannari

Il Salento delle leggende.

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

di Antonio Mele ‘Melanton’

 

Quando muoiono le leggende finiscono i sogni.

Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.

 

I più grandi piaceri della vita sono certamente quelli più piccoli.

Un bicchiere di vino fresco con gli amici, ad esempio. Magari in una sciroccosa sera d’agosto, preferibilmente in campagna, con stelle e lune rosse sul capo, e baluginio di paesi lontani all’orizzonte.

O rivedere un vecchio film – comico, romantico, d’avventure –, di quelli legati ad un momento speciale della nostra adolescenza (stagione della vita in cui peraltro ogni momento è speciale), ritrovandosi a ridere, o perfino a piangere da soli.

O ancora di più quando, in una benefica sosta dalla frenesia moderna che tutto divora, ci accade di leggere i vecchi cunti della nostra tradizione più terrigna, popolati di magiche figure e luoghi fiabeschi e irraggiungibili: Papa Caiazzu, lu Nanni Orcu, lu Mamau, li Sciacuddhi, le case sperdute nei boschi (identificate da una “luciceddha ca se vide luntanu luntanu”), o le lande spaurenti e  misteriose dove “nu canta caddhu e nu luce luna”…

Se poi li cunti si ha la ventura d’ascoltarli direttamente dalla voce delle nostre antiche nonne (specie ormai assai rara ma che sempre riaffiora nelle incantate contrade salentine) allora si viaggia davvero sulle nuvole.

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Le nonne. Quante ne abbiamo avute, noi piccoli d’altri tempi? Ogni vicolo, corte, strada o viuzza del quartiere brulicavano di queste splendide fate vestite di nero e di rughe, coi candidi capelli raccolti ad arte sotto fazzoletti di primavera. Sferruzzavano per lo più sulla soglia di casa, quando non sistemavano pochi panni ad asciugare su una breve corda tenuta distante dal muro tramite una piccola canna, oppure  controllavano i pomodori distesi a seccare al sole sui marciapiedi, fra graticci di fichi e talaretti di foglie di tabacco.

Se le avvicinavi senza timore, allora tiravano fuori dalle tasche del grembiule inenarrabili meraviglie in regalo: rocchetti di filo colorato, foglie inebrianti di menta e di basilico, fichi tostati, pesciolini di liquirizia, frammenti di taralli o mostaccioli, mandorle bianche, qualche lupino. E il loro caldo sorriso.

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Non è appunto al sorriso e al buonumore che muovono molte delle leggende salentine, tanto fantastiche da sembrare vere?

Se Soleto  può in un certo senso vantarsi che la sua celebre “guglia di Raimondello” fu costruita in una sola notte dal mago Matteo Tafuri di concerto con diavoli e streghe, pochi forse sanno che anche a Tricase la cosiddetta Chiesa Nuova  fu opera del Maligno. Il quale, parimenti, la eresse nell’arco di un’unica nottata, dopo un patto con il cosiddetto “Principe vecchio”, che la tradizione popolare identifica in messer Jacopo Francesco Arborio Gattinara,  marchese di San Martino, personaggio realmente esistito.

Secondo la leggenda, i fatti si svolsero in questo modo. Intorno alla fine del XVII secolo, messer Jacopo decise di favorire i numerosi contadini che lavoravano e vivevano nelle campagne (e volevano scacciare le Malumbre ossia gli spiriti maligni), costruendo fuori Tricase, sulla via verso il mare, una nuova chiesa, storicamente ultimata nel 1685, a pianta ottagonale, e dedicata alla Madonna di Costantinopoli. A tale scopo – attraverso il fatato “Libro del Comando” – pensò bene di evocare il Diavolo in persona, peraltro con il segreto intento di prendersi beffe di lui, come vedremo.

La sfida proposta dal nobile di Tricase, che contemplava la costruzione dell’edificio sacro in una sola notte, fu accolta dal Diavolo, a condizione però che, nella stessa chiesa, a offesa e scherno di Dio, il Principe vecchio avesse poi offerto l’ostia consacrata ad un caprone, simbolo di Satana. Per tale impegno, in aggiunta, il Signore delle Tenebre avrebbe lasciato nella nuova chiesa un forziere pieno di monete d’oro.

Sancito il patto, ed eretta la chiesa, la mattina del giorno dopo il Diavolo ricordò la promessa al Principe vecchio, il quale negò di avergliela mai fatta. Sentendosi beffato, e non avendo più il potere di distruggere l’edificio sacro appena eretto, il Diavolo sfogò allora la sua collera aprendo nei pressi un canalone d’acqua (chiamato dai tricasini Canale del Rio) e gettandovi dentro le campane della chiesa, che ancora oggi, nei giorni di tempesta, sembra facciano sentire, risalenti da sottoterra, i loro cupi rintocchi.

E il forziere con le monete d’oro? Il Principe vecchio ebbe modo di trovarlo ed aprirlo, ma dentro – di beffa in beffa – pare che vi si trovassero delle insignificanti monete di metallo vile o (secondo altre versioni) addirittura dei sassi.

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“È natu nu stregone a la casa mia!”  pare che gridassero un tempo i padri di bimbi maschi nati nella notte fra il 24 e il 25 dicembre. In quella data fatidica – la santa Notte di Natale – non si ammetteva infatti che potessero venire al mondo altre creature all’infuori di Gesù Cristo. Sicché, quando succedeva, era credenza diffusa che gli “sventurati” maschietti ereditassero una doppia natura, quella umana e quella bestiale, e non c’era altra soluzione di esorcismo che salire sul tetto della casa, a mezzanotte in punto, e gridare al vento la notizia, in modo che il vento stesso la potesse disperdere.

La leggenda s’intreccia con altre leggende, che vogliono la Puglia e il Salento (soprattutto nelle zone tra Nardò e Avetrana, e più a sud-est, verso il litorale idruntino) sono state per secoli considerate terre di lupi mannari. Alcuni antropologi sostengono anzi che la licantropia abbia avuto le sue origini proprio nella nostra regione.

Secondo il mito, Licaone, re dell’Arcadia e padre di cinquanta figli, ne sacrificò uno a Zeus per ingraziarselo. Ma il Padre degli dei, inorridito dall’empietà del gesto, inseguì il re fino in Puglia, dov’era riparato, e qui lo trasformò in lupo, lasciandogli tuttavia assumere alternativamente tanto la natura umana (visibile quasi sempre di giorno) quanto  quella belluina (manifesta di notte, ed in particolare nelle notti di plenilunio).

La più antica storia di lupi mannari la troviamo addirittura nella Bibbia, e riguarda il famoso re Nabuccodonosor che, per la sua vanità, fu trasformato in lupo da Dio. Anche nella mitologia egizia, il dio Ap-uat che traghettava i morti nell’aldilà aveva sembianze di uomo-lupo. Fino ad arrivare al periodo fra il 1500 e il 1600, in cui in tutta Europa la “caccia ai licantropi” era addirittura diffusa quanto e più di quella alle streghe.

A tale proposito, sentiamo il dovere di fornire ai nostri lettori alcuni utili consigli, nel caso dovessero incontrare qualche lupo mannaro, e volessero metterlo in fuga. La prima e più sicura precauzione è posizionarsi al centro di un incrocio, perché questi esseri hanno terrore delle croci. Tuttavia, se nelle vicinanze con ci fosse un incrocio disponibile, basterà salire sopra un gradino e aspettare tranquilli che il lupo mannaro se ne vada: è noto infatti che i lupi mannari sono del tutto incapaci di salire le scale, e perfino un solo gradino.

Se per colmo di sventura non disponeste neanche di gradini, allora spargete per terra del sale grosso (tenetene sempre prudentemente una piccola scorta nelle tasche): il nostro avversario, in tal caso, si fermerà a raccogliere e contare ad uno ad uno i granelli di sale gettati per terra, lasciandovi tutto il tempo per svignarvela alla chetichella.

Infine, se nessuno degli antidoti di cui sopra fosse a vostra disposizione, recitate con fiducia una preghiera, e sperate ardentemente che il lupo mannaro di fronte a voi abbia già fatto per suo conto un’abbondante colazione…

 

A proposito di streghe,lo sapete che nel nostro Salento ce ne sono ancora tantissime? No, non ci riferiamo alle varie megere di più o meno diretta conoscenza, tipo suocere e affini: parliamo veramente di striare e macare, le streghe originali di Terra d’Otranto, che zòmpano, ballano e cavalcano scope volanti.

Uno dei luoghi deputati per i famosi (o famigerati) sabba stregoneschi è il cosiddetto “noce del mulino a vento” in agro di Uggiano La Chiesa. Quest’albero magico pare sia ubicato nei pressi di un antico frantoio ipogeo d’epoca seicentesca (recentemente restaurato), ma nessuno ne conosce esattamente il sito, o lo tiene prudentemente segreto, per evitare malocchio e sfortuna.

I paesani comunque sostengono che ancora oggi, in alcune notti di luna piena e fino all’alba, in un’ampia zona della campagna tra Uggiano e il vicino borgo di Casamassella si diffondono nell’aria suoni indistinti e spaventevoli, inframmezzati da alte grida, canti e risate oscene, che terrorizzano perfino gli animali domestici e la selvaggina.

Se, vostro malgrado, vi dovesse capitare di trovarvi coinvolti in un sabba, e volete evitare di essere risucchiati in aria, rischiando poi di ballare freneticamente per una notte intera e di morire stremati, imparate e recitate all’occorrenza, per tre volte consecutive, questa filastrocca scaccia-guai: “Zzumpa e balla, pisara, zzumpa e balla forte, se scappi de stu chiacculu non essi cchiui de notte… Sutta l’acqua e sutta lu jentu sutta lu noce de lu mulinu a jentu”.

Buona fortuna.

 

Il Salento delle leggende. Tarante e tarantate

Il Salento delle leggende.

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

 

 

di Antonio Mele ‘Melanton’

Quando muoiono le leggende finiscono i sogni.

Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.

 

Si può dire tutto della gens salentina, meno che non ami la propria terra.

Siamo, sostanzialmente, un popolo d’irriducibili nostalgici, forse anche perché siamo a lungo stati (e in parte lo siamo ancora) un popolo di emigranti. Anche chi scrive lo è. Pur potendo convintamente affermare che “risiedo” da molti anni a Roma, ma “vivo” nella mia Galatina.

Tra la fine dell’800 e il preludio all’orribile tragedia della Grande Guerra, un’immensa legione di disperati compatrioti, giovani e meno giovani, per lo più meridionali – da Puglia, Basilicata, Campania, Calabria, Sicilia –, ma anche piemontesi, veneti e friulani, invase il Nord e Sud America, imbarcandosi sugli accidentati piroscafi che salpavano dai porti di Napoli, Genova o Palermo, stipati fino all’inverosimile. Un movimento globale di decine di milioni di persone!

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A quella prima ondata ne seguì un’altra, negli anni ’50 del secolo scorso, questa volta sui cosiddetti “treni della speranza”, caracollanti verso i Paesi più emancipati del Nord Europa: Svizzera, Belgio, Francia, Germania. Un’autentica epopea, che investì anche le nostre province, e che molti ricordano ancora.

Di questi nostri fratelli salentini, non pochi tornavano periodicamente nei propri paesi (a volte in estate, più spesso a Natale), per partire nuovamente all’estero col cuore sospeso tra gioia e malinconia. Il nuovo addio era, se possibile, più cocente del primo, ma intanto quei pochi giorni del ritorno, rivissuti tra mani e occhi conosciuti, e affetti riacquisiti, e desideri finalmente appagati, ‘ricostruivano’ rapidamente l’amore per la propria piccola patria, evidenziato anche attraverso romantiche e ingenue esternazioni di fierezza. Come quella di sfoggiare orgogliosamente la nuova automobile (spesso affittata a caro prezzo, pur di fare bella figura), o regalando in abbondanza a parenti e amici pacchetti di sigarette e stecche di cioccolato.

Difficile, poi, che si mancasse alla festa del Santo Patrono – in luglio e agosto per lo più –, mossi da devozione sincera per il proprio Protettore: da Santu Roccu a Santa Cristina, da Sant’Antoniu a li Santi Medici, o alla Madonna dellaLizza, e Santu Ronzu, e innumerevoli altri… Per secoli, e per un preciso motivo, sconfinante tra il religioso e il pagano, la più importante di tutte è stata sicuramente la festa de Santu Paulu, a Galatina: il Santo delle tarantate.

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Il fenomeno delle tarantate – ampiamente studiato (e illuminato) da Ernesto De Martino – è rimasto per almeno mille anni avvolto nel mistero e nella leggenda.

Nell’ambito della comunità contadina, la manifestazione dell’evento, com’è noto, nasceva dalla credenza popolare che in campagna, nel mese di giugno, ed in particolare durante la mietitura del grano, un ragno velenoso (la tarantola o taranta) potesse “pizzicare” le persone – peraltro quasi esclusivamente di sesso femminile – provocando con il suo morso una serie di crisi isteriche, espresse poi in balli frenetici, e prolungati fino allo sfinimento. Queste danze convulse erano accompagnate ed esorcizzate con la musica (prodotta soprattutto da tamburelli e violini), e infine guarite bevendo l’acqua miracolosa del pozzo della cappella di San Paolo, in Galatina.

Perché San Paolo? Semplicemente perché l’Apostolo, durante i suoi viaggi, fermandosi nell’isola di Malta, fu qui morso da un serpente, ma sopravvisse al veleno, protetto dalla fede e dall’intercessione divina.

Le tracce più remote del tarantismo si perdono nei culti dionisiaci e nella mitologia greca, con varie leggende, delle quali s’interessò anche Ovidio. In una delle sue suggestive narrazioni, il poeta racconta di Arakne, una giovane e bellissima fanciulla, nota in tutta la Lidia per la sua arte della tessitura: produceva infatti tele ricamate di straordinaria bellezza, tanto che la stessa Pallade Athena, scesa dall’Olimpo, la sfidò a misurarsi con lei. Quasi inutile aggiungere che la gara fu vinta alla grande da Arakne, provocando naturalmente l’invidia e le ire della dea, che in un moto di stizza la tramutò in ragno, destinandola così a tessere in eterno i suoi fragili (ma pur sempre meravigliosi) lavori.

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Strettamente collegata alla devozione per San Paolo è anche quella per San Donato,

al quale peraltro molti paesi della Penisola sono dedicati: da San Donato Milanese a San Dona’ di Piave, San Donato Val di Comino, San Donato di Ninea, e altri ancora, fino al nostro San Donato di Lecce…

L’elemento che in qualche modo accomuna i due Santi è per l’appunto la danza convulsa ed eccitata, il ballo di natura isterica, che si manifesta sia con le tarantate –, di competenza, per così dire, di San Paolo –, sia con i soggetti fragili o malati di mente, generalmente colpiti da nevrastenia e epilessia, che sono devoti a San Donato. Non va infatti dimenticato che, essendo morto per decapitazione il 7 agosto 304, su ordine personale dell’imperatore Diocleziano (altri spostano l’evento ai tempi di Giuliano l’Apostata), San Donato vescovo e martire è il protettore dell’epilessia: malattia un tempo assai diffusa, e popolarmente conosciuta come ”male di San Donato”.

Più in generale, la protezione di San Donato (che nel nostro territorio è patrono anche di Montesano Salentino) riguarda tutti i danni e le complicazioni che interessano la testa e la mente. Tant’è che nei mercatini della festa patronale si usava, e in parte si usa anche oggi, comprare come talismano una piccola chiave benedetta, che porta riprodotta l’effigie del Santo: chiave da custodire gelosamente, in quanto capace di “aprire” la mente per liberarla dal demonio e preservarla da ogni male.

Si dice, infatti, che in tempi non lontani, i malati di epilessia fossero considerati invasati da spiriti maligni, per scacciare i quali si procedeva talvolta al seguente rituale di espiazione ed esorcismo: il malato e un suo accompagnatore (di solito la madre, un fratello o una sorella) entravano in chiesa inginocchiandosi, e sempre in ginocchio, baciando continuamente per terra e recitando le orazioni, procedevano fino alla statua del Santo, chiedendogli la grazia.

Nel Medioevo, invece, per curare l’epilessia si faceva uso di una rara erba selvatica, vagamente somigliante alla rùcola o al taràssaco (in dialetto chiamato pisciacane), che veniva disposta su un letto di foglie di fico o di piccole canne, sulla quale, a sua volta, veniva posato il Vangelo, mentre le donne, sedute in circolo, recitavano brevi preghiere e invocazioni. Dopo il rituale, si riprendeva l’erba e la si lavorava fino a formarne una collana, destinata ad essere sistemata al collo del malato, e da questi indossata dall’alba al tramonto per nove giorni, in attesa che dal decimo acquisisse i primi segni di guarigione.

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Tornando alle tarantate, resta da chiedersi per quale ragione gli abitanti di Galatina – loro, e soltanto loro! – non siano mai stati morsicati dal ragno fatale, mantenendosi così immuni dalle conseguenti crisi epilettiche.

Ebbene, tale miracoloso privilegio risale al tempo della predicazione di Gesù Cristo, allorché i discepoli Pietro e Paolo giunsero nel Salento, e si fermarono ad evangelizzare, fra le altre, anche le popolazioni del luogo dove sarebbe poi sorta Galatina. Qui, grazie alla generosità di una donna, che offrì loro del cibo e un giaciglio per dormire, i due affaticati Apostoli si poterono rifocillare, e san Paolo, come ringraziamento, benedisse la donna e i suoi familiari, esentandoli – anche per tutte le generazioni future – dalla contaminazione di qualsiasi genere di veleno, e concedendo altresì il potere di aiutare a guarire chiunque fosse stato morso da ragni, scorpioni o altri pericolosi animali.

Per rafforzare tale potere, san Paolo consacrò infine l’acqua di un pozzo adiacente alla casa della donna, proclamando che alle persone “pizzicate” sarebbe bastato bere quell’acqua, per annullare definitivamente ogni malefico effetto di tossicità. E intorno a quel pozzo, secondo una vecchia leggenda, fu poi costruita quella che è ancora oggi la Cappella de Santu Paulu de le tarante.

Tarantate, di Luigi Caiuli
Tarantate, di Luigi Caiuli

Va per ultimo aggiunto che alla fenomenologia della pizzica molti artisti si sono variamente ispirati, primo fra tutti, io credo, il maestro Luigi Caiuli, con il suo impetuoso e sanguigno ciclo pittorico sul tarantismo, donato al Museo Cavoti di Galatina; ed anche letterati come il poeta dialettale lizzanese Salvatore Fischetti, che in una sua appassionante poesia dedica alla pizzica versi di grande incanto: «…Ttacca, viulinu, tàgghia cu llu suènu / tagghiènti comu filu ti rasùlu, / la tantazziòni e la malincunia! / A sta carusa mia talli rifìna, / falla ballà cu ccàccia fuècu e raggia! / A bballa, beddha, comu mai facisti, / no ti ppuggiàri: bballa, bballa, bballa! / ddurmisci la taranta tantatrici,/ a cantu e suènu: bballa, bballa, balla!… (Attacca, violino, taglia con il suono, / tagliente come filo di rasoio, / la tentazione e la malinconia! / A questa ragazza mia ridona pace, / falla ballare, ché scacci fuoco e rabbia! / Balla, mia bella, come mai facesti, / non ti fermare: balla, balla, balla! / Addormenta la taranta tentatrice, / a canto e suono: balla, balla, balla!…».

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

 

 

CODICE “C” COME CARTESIO CODEX CAMILESS

di Maurizio Nocera

Nell’ottobre scorso Lecce ha visto nascere una nuova casa editrice, la “léndaro g. càmiless &dizioni clandestine” con un originalissimo logo: una spirale impressa a secco con i caratteri del nome dello stesso artista poeta fondatore. Il primo libro editato – codice “C” (Galatina, 2011) – è una preziosità bibliofilica sia nel formato (cm 15,5 x 29, ¼ mezzo quadrato) sia nei contenuti (testi + immagini).

L’autore, Léndaro G. Càmiless, ha lavorato alla produzione dei testi, suoi e dei “privilegiati” coinvolti, per tre anni (2009/11) partendo dalla pubblicazione di un «libro-progetto speciale – singhiozzo francese / pause cartesiane [n. b.: deliberatamente l’autore ha scritto tutte le iniziali in minuscolo e, qualche volta, a cascata] – formato in-8° medio, brossura: in prima di copertina c’è un disegno […] che raffigura una carta stropicciata, sulla quale si intravedono alcune mezze parole e lettere sparse che richiamano il titolo del libro; in quarta di copertina c’è uno dei ritratti classici di René Descartes, il cui volto è stato sezionato a finestra, nella quale si vede il teschio, mentre la parte staccata, quella vera (frangetta, occhi e naso) è spostata più in basso».

Di questo libro-progetto speciale, stampato su carta pergamenata, facsimilare del famoso Discorso sul Metodo cartesiano, è stata fatta una tiratura di soli cinquanta esemplari numerati e dedicati ad personam «con il privelegio di: Giorgio Antinori – Antonio Basile – Fernando Bevilacqua – Toti Carpentieri – Manuel Blazquez – Alberto Buttazzo – Giacinto Cargnoni – Giorgio Celli – Franco Contini – Mauro De Giosa – Marcello Diotallevi – Tiziana Dollorenzo Solari – Nunzio Fiore – Giovanni Laforge – Alessandro Laporta – Gabriella Larinà – Giuseppe Lisi – Doriano Longo – Grazia Manni – Federico Martino – Luigi Mastromauro – Maurizio Nocera – Michele Provenzano – Giampiero Quarta – Massimo Quarta – Teresa Romano – Autore Sconosciuto – Donatella Stamer – Enrico Tallone – Giovani Turria».

In una prima introduzione (scritto, cancellato e scritto di nuovo), l’autore scrive che «rené descartes è il nostro convitato di pietra. […] il mio viaggio è iniziato leggendo e osservando le immagini contenute nel discours de la methode, una rieditata pubblicazione anastatica del filosofo francese, un breve trattato del 1637./ ho percorso tutta l’opera, cancellato alcuni periodi, nascosto altri, evidenziato alcuni passi, commentato periodi adottando a volte la forma poetica che mi è propria, e redatto pagine utili a stimolare la creatività dei “privilegiati” coautori».

È interessare sapere com’è nato CODICE “C”. Scrive Càmiless: «tutto ha inizio con un’asta pubblica e l’acquisto da parte di un privato per due milioni di dollari, di un libro di preghiere medievale, scritto in greco nel 1229 forse a gerusalemme: la vendita avvenne il 29 ottobre 1998. il testo dal titolo “euchologion” si compone di 174 “fogli” di pergamena e nelle mani di un gruppo di esperti si scopre presto che sotto queste preghiere si intravede un testo originariamente cancellato o meglio raschiato. una pratica molto diffusa nel medioevo per riutilizzare un supporto non facilmente reperibile. il testo in questione (quello cancellato) da ben otto anni viene studiato con mezzi altamente sofisticati e tramite un intenso fascio fluorescente a raggi X di imaging – generati presso l’acceleratore lineare della stanford university – si scopre la presenza di una documentabile serie di trattati del matematico [Pitagora] di samo. Scritto come già ho detto in greco e risalente a tre secoli prima della datazione delle preghiere, ovvero nella seconda metà del X° secolo, appunti vergati certamente a costantinopoli. sette sono i trattati pitagorici che figurano: […] nel 1998 l’opera venne chiamata semplicemente palinsesto […] praticamente dal semplice riusco del supporto e della superficie nacque nell’anno 1229 il nuovo testo composto da numerose preghiere medievali e l’amanuense inserì persino due immagini a colori illustranti scene liturgiche. questa riscrittura non è così invasiva rispetto la precedente e tramite l’attuale tecnologia, molto sofisticata, è stato possibile recuperare questi trattati pitagorici cancellati e risalenti al X° secolo. con la riproposizione digitale ancora una volta s’è riscritta una pagina che si pensava perduta. le analogie non sono poche con l’operazione curata nel mio “singhiozzo francese”: recupero un testo originale e una sua riproduzione anastatica, cancello e riscrivo alcuni brani e in digitale ripropongo il tutto su un nuovo supporto cartaceo. un saggio che si specchia nella pratica degli antichi manoscritti, i cosiddetti “volumen” (pergamena o papiro), e se successivamente copiato dai monaci medievali lo immagino scritto su “fogli” (ancora animali o vegetali) ma che chiamerò “codex”, utili ad ospitare la scrittura sia sul verso che sul recto./ credo oramai sia palese l’esistente relazione fra “euchologion”, “palimsestos” e il neo “codice”. è con la lettera C che si rafforza il comune denominatore: Cartesio Codex Càmiless». Questa la radice di codice “C”. Dell’autore e del suo “singhiozzo francese” ho scritto, dei suoi “privilegiati” coinvolti ho citato i nomi. Aggiungo solo che stupenda è la parte relativa all’immaginario, con un ruolo importante svolto dall’artista Donatella Stamer, della quale è stata allegata per ogni testo e per ogni “privilegiato” un’incisione originale intitolata “stegobium paniceum”.

Giuseppe Manzo (1849-1942) e la cartapesta leccese (prima parte)

Giuseppe Manzo (riproduzione vietata)
Giuseppe Manzo (riproduzione vietata)

di Cristina Manzo

 

Tantissimi furono gli artigiani che si distinsero per la loro bravura e i loro lavori. Ttra questi alcuni di loro ebbero anche la fortuna di diventare più noti di altri, di veder commissionati i propri lavori al di fuori del Salento e dell’Italia e di ottenere grandi riconoscimenti. Il più celebre tra tutti sarà sicuramente Giuseppe Manzo. Inoltre, cosa molto importante da notare, esiste una precisa sequenza cronologica della loro storia rintracciabile attraverso l’usanza di mandare i ragazzini, ancora giovanissimi scolari, di sette o otto anni, a imparare l’arte alla bottega dei maestri; così abbiamo il Maccagnani che sarà allievo del Surgente, e il De Lucrezi che uscirà dalla scuola del Maccagnani, il Manzo che comincerà a modellare nella bottega del De Lucrezi, il Guacci che lavorerà nella bottega di Giuseppe Manzo e via di seguito, tenendo presente tuttavia che la tecnica artistica di ognuno di loro si evolverà poi in maniera originale, e secondo una direzione propria.

Giuseppe Manzo  (1849-1942)

Nacque a Lecce il 17 marzo 1849, figlio d’arte di Orazio, muratore e scalpellino, e Natalizia Romano. Ebbe una sorella di nome Addolorata e quattro fratelli: Carlo, Domenico, Bartolo e Luigi. In tenera età il padre, essendosi accorto che il figliuolo aveva la propensione all’arte, lo mandò presso Luigi Guerra, un figaro che nel retrobottega, si dedicava alla costruzione di maschere e pupi in cartapesta. Dopo un po’ di tempo, il piccolo Giuseppe si trasferisce nel laboratorio di Achille Castellucci, per poi passare allo stabilimento di ceramica Paladini in S. Pietro in Lama. E’ qui che apprende i primi insegnamenti di modellatura e disegno dai maestri Tobia Strino e Anselmo De Simone,(1875-85). Qui conosce anche  l’amico Andrea  De Pascalis  e insieme cominceranno a modellare in cartapesta nella bottega di Achille De Lucrezi. Nel 1887, conclusasi ormai l’esperienza presso lo stabilimento di Antonio Paladini in San Pietro in Lama, che fu per molti una vera e propria scuola, il Manzo ebbe l’incarico d’insegnare modellato presso la Scuola d’arte applicata all’industria di Maglie, diretta allora dall’esigente Egidio Lanoce. La scelta di quest’ultimo appare alquanto indicativa, considerato il numero dei cartapestai contemporanei del Manzo, che avrebbe potuto fornire un’ampia scelta. La quinquennale esperienza d’insegnamento fu il suo trampolino di lancio.

Nella pubblicistica salentina mancano le tracce necessarie alla ricostruzione della biografia d’uomo e d’artista di Giuseppe Manzo, vista e raccontata dai suoi contemporanei, ma fortunatamente abbiamo la preziosissima testimonianza di suo nipote Dino. Possiamo inoltre desumere importanti particolari da  alcuni libri, come quello scritto da Nicola Caputo a proposito delle statue dei misteri di Taranto, realizzate proprio dal nostro grande cartapestaio, per il quale lo scrittore in questione  nutriva una vera adorazione. Assai utile anche il libro curato da Salvatore  Solombrino, che riprende le memorie di suo padre, Oronzo Solombrino, che fu discepolo del Manzo per tanti anni.

Oronzo Solombrin, nel ricordare  la propria storia (nei primi anni Ottanta), rende note anche importanti notizie sulla vita giornaliera del maestro, che si svolgeva tutti giorni, dalle otto di mattina alle due del pomeriggio nella sua bottega sempre piena di giovani discepoli desiderosi di apprendere la sua arte. Ne ebbe veramente tanti, e tra i sui più bravi  allievi si ricordano Egidio e Attilio dell’Anna, Oronzo Manzo, (omonimo ma non parente) Luigi Guacci, Gabriele Capoccia e lo stesso Solombrino. Questi dice :

“Riuscii, grazie ai buoni uffici interposti da un fratello del titolare, a frequentare il primo di tutti i laboratori di Lecce, quello del cavaliere Giuseppe Manzo (benemerito dei Reali d’Italia, pluridecorato in numerose esposizioni in Italia e all’estero),  il quale, aborrendo la lavorazione della cartapesta su scala industriale, fu sempre proteso a farne un fatto artistico, evidentissimo nei suoi alti e bassorilievi, dove scultura, scenografia e pittura sono le componenti fondamentali.”[1]

 

 


Per una storia della cartapesta leccese. Come nasce la cartapesta

cartapesta

di Cristina Manzo

 

Lecce, in su l’estrema punta d’Italia, è una piccola città molto interessante: belle chiese si ammirano di stile barocco, negozi eleganti risplendono come in una capitale e, quello che è più strano, vi suona una parlata che non è pugliese: pare toscana, ma senza aspirazioni. Che strano negozio è questo? Era la bottega di uno statuario. Per chi lo ignorasse, come io lo ignoravo, le statue delle immagini sacre sono una specialità di Lecce, che data da qualche secolo. Esse vanno per tutte le parti del mondo, Italia, Francia, Spagna, America. Così mi diceva con un certo orgoglio lo statuario. Altrove hanno provato a farle, e non sono riusciti. Sono quelle statue alla grandezza quasi naturale, ben drappeggiate, colorite splendidamente, ben fiorite. Sono quelle che noi vediamo sugli altari, specie delle chiese campestri. Questi santi e sante, immersi nella contemplazione del cielo, evidentemente ignorano i progressi dell’arte. Forse altri pensa, come io pensavo, che fossero di gesso. Macché! Sono di carta, e perciò molto commerciabili per la loro leggerezza, e nel tempo stesso resistentissime per anni ed anni. Nulla di più resistente della cartapesta, diceva lo statuario.”[…] Dunque santi di carta! E lo statuario mi indicava risme di carta grigiastra come quelle dei pacchi, che poi si mutano in statue dei santi. Con speciale processo questa carta diventa pastosa come creta; e si plasmano manti, chiome, come si vuole. Ho visto santi e sante in perfetto nudismo grigio, che poi vengono accuratamente vestiti e coloriti come in un istituto di bellezza.”[1]

 

Così si esprimeva Alfredo Panzini a proposito dell’arte della cartapesta leccese, un’arte le cui origini restano incerte e si perdono nella notte dei tempi.[2]

cartapesta

Di fatto, come sostiene Panzini, non possiamo stabilire con estrema precisione quando, e chi,  iniziò a produrre la cartapesta nel Salento, anche se  parrebbe che alcune statue di cartapesta esistessero in Terra d’Otranto già attorno al quindicesimo secolo. Si potrebbe parlare quindi della prima metà del seicento. Infatti Sigismondo Castromediano, così ci tramanda:[3]

Se dovessi credere a certa tradizione caballinese, la quale asserisce che la madonna che ancora conservo in questo mio avito palazzo, venne ordinata da una mia avola, donna Beatrice Acquaviva, moglie del duca, Francesco de’ Castromediano Sanseverino Marchese di Caballino, direi che già esistesse fin dal secolo diciassettesimo, giacché la nobildonna morì nel 1647.”[4]

La giovane e gentile signora marchesa “donna Bice” aveva portato nel cuore da Napoli a Cavallino un particolare fervore devozionale per S. Domenico di Guzmàn, e facilmente convinse il marito a includere nei progetti edilizi anche la fondazione di un convento per ospitarvi i monaci Domenicani. Subito fu iniziata la costruzione del chiostro con licenza del padre rrovinciale dei Padri Predicatori, con consenso del Rev. Capitolo di Cavallino, con beneplacito di S. E. mons. Scipione Spina vescovo di Lecce. La chiesa del convento fu eretta sullo stesso sito della vecchia cappella di S. Nicolò; contiguo fu costruito il chiostro sul luogo di un vecchio palazzo e al posto di alcune casupole e nell’area di un cortile, di una stalla e di un pozzo. La facciata è piuttosto semplice, decorata da un gruppo scultoreo, ai lati del portale, raffigurante S. Omobono e S. Francesco di Paola, attribuibile all’artista salentino Mauro Manieri da Lecce. L’interno è a croce latina con una sola navata voltata a crociera. Accanto all’altare principale il marchese Francesco Castromediano, feudatario di Cavallino, nonché duca di Morciano e Cavaliere dell’Ordine di Calatrava, fece erigere nel 1637 una cappella di famiglia in origine dedicata a S. Benedetto. Al suo interno è ancora visibile il monumento sepolcrale del marchese e di sua moglie Beatrice Acquaviva d’Aragona. La leggenda narra che alla morte di Beatrice, Francesco decise di seppellirla nella cappella dei Castromediano all’interno della chiesa parrocchiale. In segreto, tuttavia, e d’accordo, con il parroco, ordinò che le fosse estratto il cuore per conservarlo in una grossa urna d’argento fino alla propria morte, quando i loro cuori sarebbero stati racchiusi in un’unica urna.[5] Ora, proprio questa piccola parentesi storica, legata al Salento, di cui siamo a conoscenza, parrebbe suffragare maggiormente, l’ipotesi secondo cui  Lecce acquisì la  preziosa e sublime tradizione  della cartapesta proprio da Napoli, tra il ‘600 e soprattutto il ‘700. Mentre a fondamento della veridicità del periodo, riscontriamo la stessa notizia che riguarda la statua posseduta da donna Bice, anche in uno scritto a cura di Franco Galli, “L’inizio della lavorazione della cartapesta leccese potrebbe risalire al secolo diciassettesimo, infatti, Castromediano riferisce che intorno al 1646, donna Bice Acquaviva possedeva una Madonna in cartapesta.”[6].

Una delle attrattive maggiori di questo nuovo materiale, era rappresentata dal fatto che la cartapesta riusciva ad apparire esteriormente alla stregua di materiali pregevoli, rari e costosi., ma al tempo stesso era facilmente maneggevole e plasmabile, cioè si modellava con estrema facilità, ed aveva un peso specifico a lavoro ultimato, molto inferiore agli altri materiali conosciuti ed usati sino ad allora, come la pietra, il marmo e il legno.

cartapesta

A Napoli, dove era in uso già da tempo, veniva impiegata anche per le maschere, durante le recite teatrali, ed è  sempre qui che  nascono le numerose figure sacre di Santi, che ancora oggi si possono ammirare all’interno delle chiese o durante le processioni. Inoltre Napoli risulta essere stata la patria per eccellenza dei presepi in cartapesta. Il figuraro e il madonnaro nel diciassettesimo secolo erano diventati lavoratori specializzati incoraggiati dallo stesso re di Borbone, Carlo III, mentre la regina Amalia di Sassonia faceva lei stessa gli abiti per le statue.[7]

Ma sul rapporto con Napoli torneremo.

Tuttavia ci si potrebbe chiedere, per quale motivo i leccesi avvertirono l’esigenza di interessarsi a quest’arte? “La cartapesta – sosteneva Vittorio Bodini – è figlia della noia leccese. Basta solo vedere dove è nata, nelle botteghe dei barbieri…A Lecce il più glorioso capitolo scritto dai barbieri è la cartapesta.”[8]

Non possiamo negare che ciò corrisponda in parte a verità, perché furono davvero i barbieri a lavorarla tra i primi. I figari salentini ne fecero ben presto il passatempo preferito.

Ma è anche credibile quello che si domanda  il Ròiss, quando scrive “ Verso il 1841 la classe dei barbieri aveva preso a imitare e a copiare i lavori dei cartapestai, interessata ai guadagni  che essi procuravano?”[9]

In effetti uno dei motivi fu sicuramente questo; le richieste aumentavano, i guadagni non mancavano, i pagamenti erano in contanti e alla consegna, così molti furono i barbieri che diedero una svolta alla loro arte, cambiando attrezzi e mestiere. Era il periodo aureo della cartapesta, quello che il Ròiss chiama “dell’artigianato artistico, il più lungo, che va dalle origini sino al 1915.[10]

cartapesta

Da alcune fonti storiche sembrerebbe che la cartapesta sia stata impiegata per la realizzazione degli archi eretti in onore della consorte di Ferrante Gonzaga, quando nel 1549 arrivò a Lecce, così come sembrerebbe essere stata impiegata ripetutamente per l’allestimento di addobbi e strutture apposite durante tutte le feste e le cerimonie  che popolavano anticamente la nostra Lecce Barocca.

Ma, anche in questi casi non si ha ancora una tecnica autonoma. Possiamo tuttavia affermare che a livello di domanda sociale c’erano invece tutte le condizioni affinché una tecnica del genere si sviluppasse: tra le fine del sedicesimo e per tutto il diciassettesimo secolo; infatti, la città diventa, dopo Napoli, il centro del Mezzogiorno più ricco di insediamenti religiosi.[11]

La definizione più esatta, di questa materia plastica, come la chiamano alcuni, continua ad essere quella più antica rinvenuta in un dizionario enciclopedico edito a Venezia nel 1830, “carta macerata in acqua e ridotta liquida o in pasta”[12].

In tutti i  dizionari linguistici: inglesi, francesi e tedeschi essa viene definita con un unico termine, uguale per ogni idioma: papier maché.

La cartapesta è nata come espressione di arte povera, essa infatti utilizzava solo materiali di scarto che non potevano influire in nessun modo sull’economia già povera degli umili artigiani che la lavoravano. I materiali erano la vecchia carta, il filo di ferro, la segatura, la paglia, stracci, colla fatta in casa e gesso.

La colla si otteneva mescolando in un pentolino acqua e farina, e cuocendo il miscuglio a fuoco lento fino ad ottenere un liquido trasparente. Una volta costruita l’anima del pupo e avergli dato forma con gli strati di carta pressata e la colla, si poteva decidere o di fiammeggiarne l’esterno, lasciando così l’opera al naturale, che assumeva una colorazione tra il verdastro e il marrone, oppure di colorarla con più colori.

cartapesta

I coloranti erano ricavati da sostanze naturali, soprattutto di origine vegetale e animale che si trovavano e si trovano tutt’ora in natura, ma i costi erano molto elevati e la preparazione lunga e laboriosa, così come l’applicazione. Uno dei più costosi era  il colore blu. I pigmenti blu erano due: l’oltremare, che veniva ottenuto dai lapislazzuli, quindi molto prezioso, e l’azzurrite. Esso veniva usato maggiormente in quadri religiosi per rappresentare il cielo e la Madonna o le sante, e  la chiesa, a causa dei costi proibitivi era davvero l’unica a potersi permettere una tale spesa.

Le tonalità della  terra: ocre, marroni, giallini e un po’ di rossi, si  potevano creare con pochi elementi naturali facilmente reperibili e quindi erano nell’uso della tinteggiatura quelli più diffusi.

Per ottenere la brillantezza del colore si ricorreva a  piccoli frammenti di conchiglie, che venivano polverizzate e mischiate al pigmento colorato.

Con tali semplici e umili ingredienti artistici, quest’arte, oramai importantissima, è riuscita ad  acquisire un prestigio autorevole riconosciuto ormai in tutto il mondo. Abbiamo già detto che le chiese sono state per lungo tempo le maggiori istituzioni committenti delle opere di cartapesta. Uno dei motivi è sicuramente la leggerezza del composto, che diminuiva di molto il peso delle statue rispetto a quelle realizzate in legno, in ferro o in bronzo, e sicuramente anche la dolcezza delle espressioni dei volti e delle fattezze, che si potevano ottenere con un materiale così morbido da lavorare, così plasmabile. Gli artigiani, dunque, facendo di necessità virtù, cominciarono a specializzarsi, e ad affinarsi nella loro sottile maestria, per la realizzazione di statue di santi.

Negli animi dell’epoca, l’arte del sacro in cartapesta nasce come impegno religioso, come contributo personale al fiorire di un sentimento  che trova nelle nuove chiese cristiane il luogo privilegiato di espressione.

La realizzazione di numerosi lavori sacri in cartapesta ebbe la funzione di richiamo al culto dei fedeli attratti da vere e proprie opere nelle quali si riflettevano i tratti caratteristici della religiosità salentina.

Sin dai tempi più remoti l’uomo ha avvertito il bisogno di esternare il proprio credo  attraverso i riti e la realizzazione di simulacri con effigi di divinità alle quali veniva spesso attribuito un aspetto antropomorfo.

Con l’’iconoclastia  (dal greco εἰκόν – eikón, “immagine” e κλάζω – klázo, “distruggo”) che è stato un movimento di carattere politico-religioso sviluppatosi nell’impero bizantino intorno alla prima metà del secolo VIII, la cui base dottrinale era l’affermazione che la venerazione delle icone spesso sfociasse in una forma di idolatria, detta “iconolatria”[13], ci fu la convinzione di dover necessariamente distruggere tutto il  materiale iconografico. Solo in tempi più recenti, la chiesa cattolica ha fatto sì che arte e religione, bellezza e fede fossero  interdipendenti, e possiamo  ipotizzare che in occidente difficilmente avremmo avuto uno sviluppo dell’arte, una storia dell’ arte, una disciplina chiamata estetica, se il secondo concilio di Nicea[14] nel 787 non avesse approvato il culto delle immagini. Le immagini sacre non sono destinate, però, ad essere venerate come degli idoli, ma servono per richiamare alla memoria e per venerare il santo rappresentato. Bisogna pensare che una statua sacra, qualsiasi santo essa rappresenti, non possiede in sé la sacralità; è il rapporto tra essa e il credente che fa sì che l’oggetto, il simbolo, realizzato in un qualsiasi materiale acquisti contenuto spirituale. Non è, perciò, una questione di materia, o di struttura, ma di relazione tra il credente e la statua, tra l’uomo e l’oggetto che, senza la presenza del primo, non avrebbe alcun significato. Il simulacro in questo modo diventa l’oggetto che media, che si fa carico delle sofferenze e delle attese di quell’ umanità che ripone la speranza in esso, per un riscatto terreno e per una sopravvivenza eterna.

cartapesta

La statua considerata così come confine di varco, come limes, diventa finestra tra visibile e invisibile, appartenendo a  due mondi: l’aldiquà e l’aldilà, è posta tra il tempo e l’ eternità.

Naturalmente, la maestria dell’artista sta nel far sì che l’immagine da lui plasmata riesca a rendere, espressivamente, il più possibile quei sentimenti idealizzati dal credente. Le effigi religiose perciò costituiscono oggetto di studio nel quale si intersecano aspetti e contenuti diversi.

Così la cartapesta, materia povera, si affermò come alternativa economica alle costose statue in legno o in pietra e, nelle mani degli artisti dell’Ottocento e del Novecento, assunse grandi possibilità plastiche e consentì la realizzazione di grandi opere ancora visibili in moltissime chiese della zona.

Molte furono le botteghe artigiane aperte nel capoluogo salentino a seguito del diffondersi della fama di quest’arte, e molte furono le zone dove gli artigiani del posto furono chiamati a fare dimostrazione della loro abilità.

All’inizio, parlando di territori al di fuori dell’Italia, fu l’Inghilterra il paese dove questo materiale riscosse maggiore successo, a partire dalla seconda metà del Settecento. Infatti, da quel momento, la cartapesta venne impiegata al posto dello stucco nelle decorazioni di soffitti e muri. Intorno al 1760, per i lavori di costruzione e rifinitura della chiesa di West Wycombe vennero chiamati operai italiani e questo evento fu una delle saldature fra la tradizione italiana più antica e le nuove diramazioni che l’attività sviluppò in Inghilterra successivamente[15].

Tornando  nel Salento, i primi tangibili riconoscimenti di quest’arte  si hanno alla fine del Seicento, quando in città viene realizzato in cartapesta il controsoffitto della chiesa di Santa Chiara, ad imitazione di quello in legno, più pesante e oneroso. Il soffitto di Santa Chiara fu realizzato in vari pezzi che vennero poi montati sul posto, nel 1738. Diverse fonti attribuiscono questo soffitto a Mauro Manieri che in quegli anni operava per conto del vescovo di Lecce in Piazza Duomo.

Abbiamo poi un’opera antica del  1782, firmata Pietro Surgente (1742-1827), detto mesciu Pietru te li Cristi, un nomignolo  che gli fu attribuito proprio per la sua attività: è un S. Lorenzo ubicato a Lizzanello nell’antica chiesa dedicata al Santo. Gli storici seriori, tra i quali Nicola Vacca (Appunti storici sulla cartapesta leccese, 1934), non riuscendo a collocare la cartapesta in contesti più generali, hanno cercato di nobilitare la materia rintracciandone gli incunaboli[16], ora in questa, ora in quest’altra opera seicentesca. Furono sforzi destinati al fallimento, minati alla base, non tanto da un inconcludenza metodica, quanto da errori valutativi veri e propri, perché, a scorrere gli inventari delle istituzioni ecclesiastiche o quelli post mortem dei salentini del diciassettesimo secolo, non si trova il minimo accenno a statue in cartapesta.[17]

Anche Pietro Marti avanzò l’ipotesi secondo la quale le origini della cartapesta leccese possono esser fatte risalire ai primordi del secolo diciassettesimo, quando il moltiplicarsi dei templi e delle fraterie e la universalità della Compagnia di Gesù, volendo dare sviluppo al culto esterno, domandarono alle arti una miriade di lavori, dovunque e comunque concepiti[18].

 


[1] Cit. da  Costumi, cartoline, cartapesta, a cura di A. Sabato, Lecce, 1993, pp177-18

[2] Mario De Marco, La cartapesta leccese, Edizioni del Grifo, 1997, pp.5,6

[3] Idem, p.9

[4] Cit. da Sigismondo Castromediano, L’arte della cartapesta in Lecce, in “Corriere Meridionale”, IV, n 17, Lecce, 1893, p.2 ( la Madonna in cartapesta di donna Bice Acquaviva, di delicatissima fattura, è tutt’ora conservata nel palazzo ducale di Cavallino).

[5]  Don Francesco (1598-1663), segnò l’epoca più splendida del casato de’ Castromediano del ramo cavallinese, progredito con lo sfruttamento delle vaste proprietà terriere e dei residenti vassalli d’ogni ceto. Egli sin da giovane si esercitò con passione nell’equitazione competitiva e nell’uso delle armi.,dimostrò la sua abilità e perizia dapprima nel corso del servizio militare prestato con il grado di Capitano nell’esercito di re Filippo IV di Spagna, e poi nei tornei e nelle giostre che si organizzavano a Lecce, a Nardò, a Gallipoli, a Conversano, a Bari; alcune volte si recò sino a Napoli per cimentarsi a singolar tenzone con altri cavalieri in spettacolari incruenti duelli; e alla presenza di nobiluomini boriosi, di dame vanitose, di donzelle ammirate, il prode baroncino cavallinese si esaltava e riusciva molto spesso vincente. Era un giovane aitante e altero don Francesco, orgoglioso delle prerogative feudatarie, geloso dei privilegi della casata, fiero delle benemerenze degli avi, superbo della propria discendenza paterna e ora pure di quella materna, tanto che volle prendere per sé i due cognomi Castromediano e Sanseverino, e anche nello stemma di sua famiglia volle inquartare gli emblemi delle due casate. L’anno 1627 i residenti cavallinesi assistettero impressionati e compiaciuti a un avvenimento memorabile. Le settimane precedenti, guidati dai fattori del marchese, avevano ripulito le strade e le piazzuole del casale e incalcinato le facciate delle case; diretti da un architetto, avevano appeso ghirlande di fiori per le vie e innalzato archi di trionfo. Tutti vestiti a festa poterono vedere arrivare tutta la nobiltà di Terra d’Otranto: principi, conti, duchi, marchesi, baroni, cavalieri, con le rispettive consorti, che venivano a Cavallino per partecipare alle feste organizzate in occasione delle nozze di don Francesco Castromediano Sanseverino con la nobile damigella Beatrice, figlia diciottenne di don Giovanni Acquaviva d’Aragona dei Conti di Conversano e Duchi di Nardò. Notizie storiche tratte dal sito “ www.antoniogarrisiopere.it/28_c22_I—-Castr—–.html”

[6] L’ultima cartapesta, divagazioni su Lecce settecentesca ed una poesia di Vittorio Bodini, “Quaderni della Banca del Salento”, n. 1, a cura di Franco Galli, 1975.

[7] Natale, storia, racconti, tradizioni, Ed. Paoline,  2005, p. 105.

[8] Cit. da R. Barletta, Appunti e immagini su cartapesta, terracotta, tessitura a telaio, Fasano, 1981, p. 4

[9] Ròiss (Franco Rossi) Cartapesta e cartapestai, Maestà di Urbisaglia, Macerata 1983, cit. p.117

[10] Idem, cit. p. 84

[11] Caterina Ragusa, Guida alla cartapesta leccese. La storia, i protagonisti, la tecnica, il restauro, A cura di Mario Cazzato, Congedo editore,1993, pp.6,7

[12] A. Bazzarini, Dizionario enciclopedico delle scienze, lettere ed arti, Francesco Andreola, Venezia 1830-1837.

[13] Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.

[14] Il secondo concilio di Nicea fu convocato nel 787, su richiesta di papa Adriano I, dall’ imperatrice d Oriente Irene, per deliberare sul culto delle immagini, proibito nel 726 da un editto imperiale di Leone III l’Isaurico e dal concilio tenutosi a Costantinopoli nel 754, nonostante l’ opposizione di papa Gregorio III, che fu costretto a recarsi a Bisanzio e ritrattare. Il concilio negò l’ ecumenicità del concilio del 754 e dichiarò la liceità del culto delle immagini.

[15] L. VALGENTINA, Muse, De Agostini, Novara 1965, vol. III, p. 120.

[16] Con il termine incunabolo (o incunabulo) si definisce convenzionalmente un documento stampato con la tecnologia dei caratteri mobili e realizzato tra la metà del XV secolo e l’anno 1500 incluso. A volte è detto anche quattrocentina.

[17] Caterina Ragusa, Guida alla cartapesta…, cit., pp.5,6

[18] P. MARTI,  La modellatura in carta, Tip. Ed. Salentina, Lecce 1894. (opuscolo)

La poesia in dialetto di Giuseppe Greco

la spaccata 

L’ULTIMO AEDO:

La poesia in dialetto di Giuseppe Greco

ripropone figure e cadenze foniche del passato

 

di Giuseppe Magnolo

Sfogliando il volume di poesie Traini te Maravije (Martignano Ed., 2008) di Giuseppe Greco, viene subito in mente sin dal titolo un richiamo a Giambattista Marino, che nel Seicento condensava in un famoso distico la sua concezione della poesia, affermando: “E’ del poeta il fin la meraviglia //chi non riesce a stupir vada alla striglia”. Il senso di meraviglia implicava non solo un modo nuovo di concepire la funzione poetica, ma anche l’effetto prodotto sul lettore-ascoltatore, che doveva essere affascinato dalla complessità e sottigliezza dei concetti espressi, e soprattutto dall’arditezza delle metafore. Questo intento avrebbe indotto una parte consistente dell’arte barocca verso una deriva di artificiosità immaginifica, che se da un lato esalta l’estro inventivo dall’altro diventa puro gioco verbale, avulso dalla pregnanza emotiva che nasce dalla riflessione sul proprio vissuto.

Più pertinente ai fini della nostra valutazione interpretativaci sembra quindi un richiamo agli scrittori romantici degli inizi dell’Ottocento che, volendo liberare la poesia dal didatticismo moralistico prevalente nel secolo dei lumi, le affidavano il compito di esprimere il fascino della natura primitiva osservandola con lo sguardo estatico delle persone semplici ed istintive, che specie nella fase dell’adolescenza riescono a mantenere vivo in sé un rapporto di interesse partecipativo sia con gli esseri umani che verso gli elementi naturali che li circondano. Sulla stessa linea si poneva in fondo anche Pascoli con la sua teoria del “fanciullino”, rivolta ad attribuire un approccio emozionale ed istintivo all’esperienza poetica, anche se gravandola di un fatalismo che inesorabilmente destina gli esseri umani all’infelicità.

Questi riferimenti di natura accademica permettono di stabilire in esordio un nesso di ideale continuità sul piano motivazionale, per poi cogliere l’essenza intima del modo di poetare di Giuseppe Greco, che si distingue per alcuni aspetti fondamentali che lo caratterizzano, dandogli una connotazione che lo rende originale proprio riportandolo alla tradizione. Questo dato è congruente con gli orizzonti esistenziali e culturali di una persona affabile e solerte, assai sensibile agli stimoli dell’arte, che vive a Parabita nel sud del Salento, dove opera professionalmente nel locale istituto d’arte come docente di geometria descrittiva e rilievo architettonico, ed è delegato per la Puglia Sud dell’Associazione Italiana Poeti e Scrittori Dialettali.

Il primo elemento della sua poetica che si può mettere in evidenza è di ordine prospettico, e riguarda il modo gioiosamente positivo di guardare alla vita. L’esperienza quotidiana si presenta al poeta come una cornucopia di sensazioni bellissime, suggestioni indotte da figure umane, squarci di paesaggio, colori, profumi, suoni che non solo affascinano ma creano immediatamente una colleganza con il passato e la memoria, permettendo una proiezione atemporale che tesorizza il vissuto antico e lo riattualizza con fresca ed ammaliante immediatezza.

Se la spinta vocazionale verso l’espressione poetica in forma dialettale si avverte prepotentemente nei versi di Giuseppe Greco, altrettanto rilevante appare la concezione di oralità che distingue la genesi della sua poesia, facendone un fluire inventivo che nasce prevalentemente riecheggiando il “sentito dire”, tanto nei termini quanto nelle cadenze sentenzianti tipiche di un tempo, e che ormai spesso si rifugiano in motti e proverbi dialettali, che quasi hanno il gusto di una formula magica oppure di una citazione sacra. Questo aspetto di oralità concerne anche le modalità di fruizione di questa poesia, che non è precipuamente destinata ad essere letta quanto invece ascoltata, costituendo essa di fatto non solo un diario personale ma ancor più una sorta di copione, o meglio un canovaccio, che permette al poeta di riprodurre all’impronta i suoi momenti di ispirazione di fronte ad un pubblico che lo ascolta.

Si spiega in tal modo l’annotazione in calce ad ogni componimento non soltanto della data, ma anche dell’ora esatta di composizione (talvolta in ore notturne), quasi che le circostanze dell’atto creativo siano importanti non solo per il risultato artistico in maniera assoluta, ma per un bisogno ulteriore di circostanziare il componimento nel momento di riproporlo a chi ascolta. Non stupisce che l’autore si imponga di declamare le sue poesie senza leggerle, avendo ormai assimilato a tal punto i testi da poterli riattualizzare con controllato “mestiere”, e soprattutto con piena ed appagante libertà espressiva che lo rende estremamente efficace. Ecco perché il suo modo di “porgere il componimento” avviene sempre con un timbro di voce assai calibrato, che elude ogni accento di squillante assertività, optando invece per un effetto in sordina e lievemente nasalizzato, che può prolungare una sonorità intenzionalmente ovattata. Insomma l’intento del poeta è quello di porsi come declamatore di sé stesso secondo il modo degli antichi aedi, che con i loro versi sapevano farsi interpreti di un sentire comune, fino a rappresentare quasi la memoria storica della loro comunità di appartenenza, grazie alla loro particolare capacità di intendere ed esprimere esperienze, ricordi e sentimenti condivisi.

L’evidenza e la spontaneità delle immagini rivelano pertanto un senso di fine percettività da parte dell’autore, che tende ad esaltare gli aspetti potenzialmente visivi di questa poesia, rivolta come già detto a focalizzarsi sulla bellezza dello scenario naturale, elevandolo dalla quotidianità verso una dimensione di universale armonia. La qualità visiva dei singoli componimenti è ulteriormente messa in risalto mediante il loro accostamento a figure ed immagini che li affiancano o li includono a mo’ di cornice, come se le parole poetiche avessero bisogno di confluire ed integrarsi in segni diversi tracciati con pastelli colorati. In questo felice connubio si coglie la convergenza delle risorse espressive dell’autore, che è anche scenografo, e si muove con criteri di stretta corrispondenza tra forme diverse di espressione artistica che possono interagire operando sullo stesso motivo ispiratore.

E’ possibile notare che attualmente l’accostamento tra poesia e pittura non è infrequente in alcune operazioni di vernissage artistico, per le quali è stato anche coniato il termine ibrido “poesipittura”, anche se in verità i risultati appaiono spesso alquanto velleitari e ben lontani da una vera simbiosi. In realtà pochissimi artisti sono riusciti ad integrare le due forme espressive, rendendole simultanee e complementari. L’esempio più cospicuo di tale tentativo è forse rappresentato dal preromantico inglese William Blake (1758-1821), che, essendo pittore ed incisore oltre che poeta, riusciva anche visivamente a rendere con finezza ed efficacia i motivi poetici che lo ispiravano.

Le figure tematiche di Giuseppe Greco sono sempre strettamente connesse al vissuto quotidiano, di cui riproducono dettagli importanti sia di tipo realistico che allusivo o simbolico. Troviamo infatti forme con effetto di aquilone, scie di comete, gambi di infiorescenze, specchi che sdoppiano l’immagine, velature, archi e cornici, oppure grandi macchie di colore che vanno dal giallo oro al rosso intenso oppure al verde, e ancora piccoli squarci di cielo stellato oppure uno strascico di arcobaleno. Appunto un tripudio di colori che riveste il percepito di uno sfolgorio che ne esalta la smagliante e variopinta bellezza, quasi riconsegnando alla nostra percezione uno scenario che esiste da tempi immemorabili, e di cui non sempre le nostre distratte e frettolose facoltà senso-percettive riescono ad accorgersi.

Tutto ciò si innesta su un attento e paziente lavoro di indagine e centratura linguistica, che valorizza al massimo la capacità suggestiva e connotativa dei termini dialettali impiegati. Questi molto spesso diventano per l’ascoltatore un’occasione di riscoperta di quanto ha sentito e conosciuto in circostanze più o meno remote, ma che ora gli viene riproposto con effetti sonori ed implicazioni semantiche che danno il sapore pregnante dell’immediatezza, e sono assai distanti dalla fredda e convenzionale ufficialità della lingua italiana.

Sul piano letterario si può esemplificare l’efficacia espressiva di Giuseppe Greco, partendo da alcuni tratti coloristico-descrittivi che riescono di indubbia evidenza. Ecco che il sole “ncaddara te culori tutt’e cose1; il vento “scumpija i capiddhri e lu core2; le margherite “se pìttene l’occhi3; le foglie di fico “càtene bbabbate / quandu ‘ncora sta bàllane turmendu4; le nuvole bianche appaiono “nziddhrisciate te sule5; le onde del mare “a secuteddhri / zzùmpane all’aria ‘janche te cammace6. A volte accade anche che lo scenario reale lieviti verso l’allusione simbolica: la luna [l’anima che soggiace all’amore] “bbabba a ‘nnanti ‘u sule ca la dduma7; le nuvole nello spazio celeste “a ffiate ddisègnene àngili8; gli aquiloni [che adombrano i sogni] portano in giro “pansieri te cacchiame, te sbrèje e dde lumini9 ossia desideri irraggiungibili; le parole, quando tutto passa, “rrimanene ‘ncuddhrate a ‘nna cumeta10, cioè restano sospese ad un filo di speranza. Un altro tratto interessante è costituito dall’accentuazione dell’intensità concettuale mediante l’uso della metafora: l’amore che nasce improvviso è “nu scarcagnizzu ca te ceca l’occhi / ‘na crandanata mentru sta ddalluja11; il vecchietto che si sente accarezzato dalla compagna “tira cu nu se stuta‘a pippa12; la donna trasandata tra le mura domestiche “raccoje madreperle te pansieri13, ma solo per buttarle al vento. Anche la funzione ispiratrice della poesia viene resa attraverso il riferimento ad immagini di luce con effetti di folgorazione meteorica: “Tie Musa me ‘llucisci / lu ‘jaggiu ‘ntornisciatu te cumete14.

Per quanto concerne l’aspetto metrico-ritmico l’autore si affida disinvoltamente al suo estro, che lo svincola da qualunque schema precostituito. Va comunque segnalato l’effetto icastico che egli riesce ad ottenere attraverso la vigorosa modulazione del verso endecasillabo (a volte liberamente alternato a settenari oppure a versi ancora più brevi), che associa la pregnanza di significato ad una cadenza piuttosto lenta e solenne. Lo si può constatare anche semplicemente operando delle estrapolazioni, per dimostrare come, con la loro incisività sottolineata dalle sillabe toniche (solitamente la seconda, sesta e decima), esse siano in grado di condensare in modo netto e penetrante gli esiti prodotti da una situazione di trasporto contemplativo che emerge a coronamento della fase di ispirazione. Ne riportiamo qualcuna:

La lùce ca schiattùna te ogni bànda”15(pag. 26);

Lu còre se ‘mpalétta te sciurnàte”16(pag. 32);

Cu ll’òcchi ca rrapézzene memòrie”17(pag. 13);

Cumète nturtijàte te paròle /

pittàte cu la pènna e cu llu còre”18 (pag. 8).

Il verso del poeta diventa essenzialmente un inno di fede nella vita, che gli permette di motivarsi in un rinnovato slancio di estatica contemplazione delle meraviglie che i suoi viaggi di esperienza (ossia le tappe del suo itinerario poetico) sono costantemente in grado di presentargli, in modo che egli sappia coglierne il fascino e palesarlo a chi vuole prestargli ascolto. E’ questa la sollecitazione più intensa che rimane dal contatto con questa poesia, che, seppur consapevole di quanto le durezze e le asperità della vita (“la ‘nchianata”) quotidianamente impongano in termini di sopportazione e sacrificio, riesce a preservare e trasmettere una visione provvidenziale dell’esistenza, come si può constatare anche nei versi di chiusura della lirica “Salentu”:

“’Sta terra benatitta

ca ‘mbrazza cinca vene

e ‘mpuza a lla ‘nchianata

pe’ la clòrria te Cinca l’ha ‘nventata.

1 Traduzione: “riveste di colori tutte le cose”;

2 “scompiglia i capelli e il cuore”;

3 “si dipingono gli occhi”;

4 “cadono incantate mentre ancora ballano dormendo”;

5 “intrise di goccioline di sole”;

6 “inseguendosi saltano in aria bianche come bambagia”;

7 “si incanta davanti al sole che la accende”;

8 “a volte disegnano angeli”;

9 “pensieri di paglia, di foglie di granturco e di lumini”;

10 “rimangono incollate ad una cometa”;

11 “un refolo di vento che ti acceca gli occhi, una grandinata mentre sta diluviando”;

12 “tira per non far spegnere la pipa”;

13 “raccoglie madreperle di pensieri”;

14 “Tu Musa mi illumini il viaggio contornato di comete”;

15 “la luce che germoglia da ogni parte”;

16 “il cuore si riveste di giornate”;

17 “con gli occhi che rattoppano memorie”;

18 “aquiloni intrecciati di parole / dipinte con la penna e con il cuore”;

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

 

Tommaso Cavazza (1540-1611) alchimista di Galatina

La pietra filosofale quintessenza della chiave del sapere

INEDITI SU GIOVAN TOMMASO CAVAZZA (1540-1611) ALCHIMISTA DI GALATINA

Circolazione in area meridionale di scritti alchemici del ‘500

"L’Alchimista" di David Teniers il Giovane (1610-1690)
“L’Alchimista” di David Teniers il Giovane (1610-1690)

 

di Luigi Manni

Il beneventano Nicolò Franco, finito sulla forca dell’Inquisizione l’11 marzo 1570, durante il processo accusò Girolamo Santacroce, suo avversario, di aver conosciuto il “mago di Soleto”, l’astrologo Matteo Tafuri (1492-post 1584), in quel periodo processato per eresia e incarcerato nelle galere romane della Santa Inquisizione. Il Santacroce, su chi poteva aver notizia della scarsa religiosità del Tafuri, indicò, tra gli altri, “don Gio. Thomaso Caruso de Taranto”, poi, una seconda volta, come “Capato de Taranto”, che altri non è che il galatinese Giovan Tommaso Cavazza, “scholaro” appunto del Tafuri.

La certezza della patria tarantina ci viene da due inediti rogiti nei quali Joanne Tomasio Cavazzade civitete Tarenti era ad presens (1594) comorante (abitante) dicte terre Sancti Petri (Galatina). Giovan Tommaso ha due fratelli, Donato Antonio, sinora sconosciuto, e Mario, sposato nel 1560 con Giovanna, figlia naturale del duca Castriota Scanderbeg. La madre Joannella Galiota (Giovanna Galeota), nel 1595 risulta vidua relicta quondam magnifici domini Caroli Cavazza (vedova di Carlo Cavazza, padre del nostro). Dal testamento di Mario, sappiamo che i fratelli ereditarono tutti i suoi beni mobili, stabili, oro e argento.

Ora, oltre le date 1568 e 1570, da me individuate, che testimoniano la presenza a Galatina di Giovan Tommaso, disponiamo di un profilo del Cavazza, o Cabazio, curato nel 1679 dal domenicano galatinese Alessandro Tommaso Arcudi nella sua Galatina Letterata,da recepire, in qualche caso, con le dovute cautele, se non la si libera da tare e invenzioni.

Firenze, Palazzo vecchio, Francesco I nel suo studio di alchimia (Stradano, 1570)
Firenze, Palazzo vecchio, Francesco I nel suo studio di alchimia (Stradano, 1570)

Giovan Tommaso Cavazza, dottissimo nella lingua greca, ebrea e latina, non ebbe “eguali nella teologia, filosofia, matematica, cosmografia, astrologia, alchimia, retorica, poetica, come appare dalle tante opre, che scrisse in queste materia”. L’Arcudi lamentava la dispersione delle sue opere: “La maggior parte delle fatighe di questo ingegno grande l’ho andato io raccogliendo manuscritte, eziandio i medesimi originali, benché alcune con mio rammarico le ritrovai poscia consumate da vermi e dall’acqua, che distillava sopra per negligenza ed ignoranza de’ miei domestici”. Il domenicano afferma che il Cavazza aveva “non poca cognizione della magia naturale e fece prove mirabili di chimica, investigatore acuto de’ profondi secreti della natura”. Pensava di “mandar alla luce le sue dotte e degne fatighe, ma cedendo in quella deliberazione troppo tarda alla comune nemica, nel 1611 terminò settant’uno anno di vita”. Il poeta Silvio Arcudi invitò tutti quanti a leggere “del gran Cavazza i dotti fogli”.

Tra i tanti scritti Del Cavazza, ci è rimasta, in volgare, un’opera alchemica intitolata Della pietra filosofale, overo della quinta essenza, che oggi sappiamo conservata nella Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli. Il trattato, incompleto, inserito in un codice miscellaneo già noto agli studiosi, ci riporta direttamente agli ambienti dei neoplatonici salentini, raccolti intorno al “protosavio del mondo”, il “philosopho, matematico et medico” soletano Matteo Tafuri. Ed è proprio dal Tafuri che Giovan Tommaso, suo allievo, trasse la linfa vitale per gli esperimenti alchemici di trasmutazione, condensati appunto nel suo Della pietra filosofale, nel quale è citato ripetutamente un altro allievo di messer Matteo Tafuro, il matematico galatinese Giovan Paolo Vernaleone (1527-1602), la cui specifica fama come alchimista è ricordata nella Operatie elixirisphilosophici, un manoscritto polacco attribuito all’alchimista Michele Sendivogio, in cui è citato “un gran’uomo di Napoli”, tal Wernalcon, corruzione di Vernaleone, che avrebbe compiuto a Roma un tentativo mal riuscito di trasmutazione. Ma il Vernaleone fu attivo principalmente nella Napoli tardo-rinascimentale.

Come argomenta Massimo Marra, tutto il trattatello alchemico del Cavazza appare debitore degli scritti dell’alchimista friulano Giulio Camillo (1485-1544), soprattutto il De Transmutazione e l’Interpretazione dell’Arca del Patto. Il galatinese, attingendo come fonti Omero e Virgilio, “utilizza ripetutamente l’ermeneutica alchemica di miti classici”. Tutto ciò testimonia, da una parte, la circolazione in aree meridionali degli scritti camilliani e, dall’altra, come rovescio della stessa medaglia, la produzione e la circolazione di trattati meridionali come quello del Cavazza, che risulta una miscellanea di alchimisti di area meridionale. Viene ribaltata così la convinzione che in Italia l’alchimia fosse un fenomeno essenzialmente settentrionale.

Cavazza esordisce nella sua opera dissertando su un concetto base della dottrina ermetica, cioè sull’Anima del mondo, dalla quale uno spirito vitale, “prodotto come un suo lume, un fiato, uno spirito, un vehicolo di lei”, si congiunge con il “corpo mondano”. La sua speculazione filosofica conclude che da questo “generativo spirito di tutte le cose, et che da questo celeste spirito habbia origine l’essere, la vita et la generazione di tutte quelle (parti dell’Universo)”, per cui “gli elementi, le pietre, l’herbe, le piante e gli animali per quello (spirito) sono, vivono et si generano”. L’alchimista, nella solitudine e segretezza della sperimentazione, agendo “sotto certe costellazioni”, aveva il compito di portare al di fuori della materialità delle cose mondane, “le virtù di questo mondano spirito (…) in tutte le parti del mondo diffuso et nascosto”. Gli obiettivi erano nobili e alti, forse troppo alti: la ricerca della quintessenza della vita, della pietra filosofale, della trasmutazione di un elemento in un altro, della possibilità di trasformare la materia e lo spirito.

(E’ utile consultare: L. MANNI, La guglia, l’astrologo, la macàra, Galatina 2004, pp. 114-8; G. VALLONE, Restauri salentini, in “Bollettino Storico di Terra D’Otranto, 1 (1991), p. 158; A. T. ARCUDI, Galatina Letterata (a cura di G. L. DI MITRI e G. MANNA), Aradeo (Le) 1993, pp. 47-54; M. MARRA, Il discorso sopra il lapis philosophorum del signore Giovan Thomaso Cavazza, in Alchimia (a cura di A. DE PASCALIS e M. MARRA), “Quaderni di Airesis”, Milano 2007, pp. 213-54).

 

 

Un profilo di Luigi Massimo Grande

 

di Lorenzo Madaro

Uno studio giovanile 3
Uno studio giovanile

Tra gli artisti di Terra d’Otranto attivi tra Otto e Novecento quasi misconosciuti – probabilmente per la mancanza di un’ampia fortuna critica rispetto ai contemporanei più celebri, e per l’assenza di un sostanzioso corpus di opere – vi è Luigi Massimo Grande, nato a San Pietro in Lama il 23 ottobre 1871 da «Don Oronzo Grande fu Antonio di anni Cinquatotto di professione proprietario domiciliato in San Pietro in Lama [e da] Donna Filomena Cagnazzo fu Vito»[i].  La vicenda biografica e artistica di Grande è stata prontamente registrata dallo studioso Amilcare Foscarini nel suo manoscritto Arte & Artisti di Terra d’Otranto, anche se va riconosciuto che il primissimo riordino biografico si deve a Colamussi che, in un articolo apparso su “La Gazzetta del Mezzogiorno” nel novembre 1933, a cinque anni dalla morte dell’artista, ha tratteggiato gli essenziali momenti della sua esistenza[ii]. Sia Colamussi, che Foscarini – e di seguito tutti gli altri autori che si sono occupati dell’artista –, l’hanno chiamato Grandi e non Grande, come invece risulta dal suo atto di nascita; d’altronde è lo stesso Luigi a firmarsi con continuità Grandi solo dopo il 1892, visto che a questa data risale un ritratto di Angelantonio Paladini firmato, appunto, Luigi Grande.

Foscarini all’inizio della sua biografia fa immediatamente riferimento alle radici culturali e visive dell’artista, asserendo che «non è esagerazione il dire che, forse, nella stessa sua patria, schiuse l’animo suo sensibile allo studio di quelle due arti nelle quali dette prove della sua genialità.

Uno studio giovanile 2
Uno studio giovanile

Chi sa, giovanetto, quante volte ebbe agio di penetrare nello Stabilimento di ceramica che un nobile gentiluomo leccese vi aveva fondato e che una vera tempra di artista degnamente dirigeva. Tra statue in creta, tra’ vasi dipinti e circondati da fiori, tra quelle colonne scanalate in creta e dipinte color bronzo, tra’ mille gingilli che la valentia del direttore vi faceva eseguire, l’occhio suo spaziava fra quelle, per lui, meraviglie e ne traeva alimento pel suo spirito»[i]. Naturalmente lo studioso leccese si riferisce alla Manifattura Paladini, dove evidentemente Grande ha appreso la prima formazione nel disegno e nella decorazione della ceramica che, come si scorgerà, risulterà il biglietto da visita necessario per l’accesso all’insegnamento nella scuola d’arte applicata alla ceramica di Castelli, in Abruzzo.

Uno studio giovanile
Ancora uno studio giovanile dell’artista

Quella che Foscarini propone come una sorta d’ipotesi – ovvero la frequentazione della Manifattura Paladini – è un dato da ritenere certo; il citato ritratto di Angelantonio eseguito da Grande (Lecce, coll. privata), testimonia una vicinanza con la famiglia Paladini, e l’intercessione dell’onorevole Bernabei – già in contatto con  Paladini nel 1878, anno in cui la manifattura ha partecipato alla mostra internazionale di Parigi[ii] – per l’incarico d’insegnamento nella scuola di Castelli, ribadisce un rapporto diretto con quel «nobile gentiluomo leccese». A prescindere da questi elementi, è chiaro che all’epoca un ragazzo di San Pietro in Lama con il talento per l’arte non poteva non avvicinarsi a quella straordinaria fucina di creatività e ingegno che fu la Manifattura Paladini, all’interno della quale, negli anni, sono passati e si sono formati talenti dello spessore di Giuseppe Manzo, Andrea De Pascalis, tra i più autorevoli cartapestai leccesi, e dello scultore, poi trapiantato a Napoli, Francesco De Matteis. Quella, per Grande, fu una vera scuola, e non solo perché lì ha acquisito importanti competenze tecniche, ma per gli stimoli che ha ricevuto, visto che la Manifattura Paladini «non solo divulgò attraverso copie e rielaborazioni la ceramica antica locale, [ma] propose la scultura contemporanea, ma contribuì a introdurre il gusto orientalista nel Salento nelle cosiddette “arti minori”, in perfetta sintonia con la vasta e suggestiva fioritura architettonica»[iii].

Scultura
Una scultura dell’artista

A detta di Colamussi la prima opera proposta in pubblico da Grande, siamo nel 1894, è Giosuè che fa scaturire l’acqua dal monte, un pastello esposto, così com’erano soliti fare i pittori del tempo, in una vetrina di un negozio di Lecce. Sono certamente precedenti al suo apprendistato presso la Manifattura Paladini, e quindi da leggere come prime esercitazioni di un adolescente, gli schizzi disegnati a matita su due piccoli album (Lecce, collezione privata) che testimoniano un interesse verso la ritrattistica, anche se non mancano altri soggetti come caricature, puttini e immagini sacre, oltre che esercitazioni di calligrafia, una disciplina allora molto ammirata. Appunti visivi, schizzi veloci che dimostrano dimestichezza con il disegno, ma al contempo, anche se non in tutti i casi, una certa difficoltà del giovane nell’impostazione e nella resa delle anatomie. Sono degne d’interesse le teste virili conservate in questi due album; si tratta di disegni che dimostrano un’espressività notevole nella resa dei tratti del viso, gli stessi che ritroveremo in un gesso, eseguito probabilmente nei primissimi anni del Novecento, conservato a Lecce presso una collezione privata. Sono evidentemente esercitazioni, non a caso in alcuni fogli si scorgono più soggetti sulla stessa facciata; in uno di questi, oltre a un putto visto di spalle, Grande ha disegnato un giovane dai lineamenti molto caratterizzati e dai ciuffi ribelli; forse uno dei suoi primi ritratti.

Sicuramente insoddisfatto delle possibilità che il territorio era in grado di offrire a un giovane artista, e probabilmente per la volontà di proseguire la sua formazione presso un istituto artistico qualificato – evidentemente qualcuno, può darsi lo stesso Paladini, gli aveva suggerito di conseguire un titolo accademico per inseguire la strada dell’insegnamento –, Grande decide di stabilirsi altrove e tentare la fortuna, come d’altronde avevano fatto o stavano per fare molti altri giovani artisti conterranei.

Al 1898 – all’età di ventisette anni – risale il suo trasferimento a Roma; qui s’iscrive ai corsi di decorazione plastica del Museo Artistico Industriale (M.A.I.), una tappa fondamentale per chi all’epoca intendesse studiare e approfondire il “mestiere” dell’artista; nell’istituto, inaugurato nel 1873 per «raccogliere i prodotti delle arti industriali»[iv], «l’attività [degli allievi] fu […] soprattutto diretta al recupero e alla conservazione di un lessico desunto dalla tradizione classica, così presente in tutti i circuiti della cultura ufficiale e in particolar modo a Roma, neo capitale e città guida e custode del patrimonio culturale nazionale»[v]. È quindi palese che all’intero di questo istituto non abbia ricevuto stimoli particolarmente innovativi, ma insegnamenti rigorosamente legati allo studio dei canoni basilari della scultura, della pittura e del disegno. Al M.A.I. insegna un autorevole scultore salentino, Eugenio Maccagnani (Lecce, 1852 – Roma, 1930)[vi] che, da quanto testimonia Colamussi, gli procura un sussidio economico dal Consiglio Provinciale di Lecce[vii]. Nonostante l’apprezzamento di Maccagnani, Grande si lega piuttosto a un altro maestro allora attivo nella capitale, Valerio Laccetti (Vasto, 1836 – Roma, 1909)[viii] – a sua volta allievo di Filippo Palizzi –, che ha influito certamente per quell’attenzione costante al paesaggio campestre, così profondamente analizzato da Grande soprattutto intorno agli anni Venti, e per una forte dose di incoraggiamento se, come riportato da Colamussi, asserì che «i suoi lavori di pittura e di scoltura sono fatti con gran criterio d’arte e con molta accuratezza»[ix].

Durante la permanenza romana, Grande frequenta poi la Scuola libera con “modello vivente” annessa al Regio Istituto di Belle Arti, dove perfeziona le sue competenze nel campo della ritrattistica, il tema prediletto della sua prima attività, anche se il citato ritratto di Paladini (1892) già rivela ottime doti da ritrattista.

Ritratto di Vincenzina Caretti
Ritratto di Vincenzina Caretti

Sono gli anni in cui si distingue come autore di ritratti «somiglianti» e «riuscitissimi», come quello che effigia il Duca Sigismondo Castromediano (1897) realizzato con pastelli su carta (oggi a Lecce in una collezione privata) e i ritratti del colonnello Bellisario Colamussi e della moglie, Vincenzina Caretti, che dimostrano un’aderenza quasi fotografica al soggetto, in linea con certa ritrattistica del tempo che nello stesso Salento troverà ampio riscontro nell’attività di artisti come, per esempio, Realino Sambati.

Ritratto di Paladini
Ritratto di Paladini

Per Grande segue un periodo di temporaneo ritorno nella sua terra, dove tra il 1901 e il 1902 espone alcuni pastelli a Lecce. Nel 1906, probabilmente per i “soliti” motivi legati alla mancanza di buone prospettive lavorative, rientra a Roma e su proposta di Raniero Mengarelli, direttore del Museo di Villa Giulia, restaura alcuni stucchi antichi lì conservati. In questo periodo esegue poi i busti di Costanza, Ricciotti, Bruno e Costante Garibaldi, allora ospitati, insieme ad alcuni suoi pastelli, nella raccolta d’arte di Costanza Garibaldi. Nella sua produzione legata al ritratto, vanno poi annoverati: il busto di gesso dell’avvocato salentino Nicola Bruni e il Busto di un Giovine ungherese. Foscarini, citandolo, definisce quest’ultimo superbo, e lo stesso Colamussi – cui è appartenuta l’opera da individuare con certezza con la scultura oggi conservata in collezione Lorenzo Carlino a Lecce – dimostra di apprezzarla molto. Il Busto di un Giovine ungherese è stato esposto a una biennale romana e ed è stato recensito sulle colonne del “Messaggero”; per Colamussi era l’opera più amata dallo stesso artista, magari per «il particolare incanto ottenuto con la figura che nel fresco sorriso della giovinezza coglie l’ombra imminente della morte»[x].

Grande - paesaggio
Paesaggio

In seguito Grande è chiamato a insegnare disegno presso la “Scuola di Arte applicata alla Ceramica” di Castelli, in provincia di Termoli[xi], su proposta del già citato onorevole Bernabei, presidente del consiglio direttivo. Qui dal 1906, anno del decreto del Ministero di Agricoltura Industria e Commercio[xii], si dedica con impegno alla didattica riscuotendo ampi consensi, ma la permanenza abruzzese dura poco visto che nel 1909 torna definitivamente nel Salento. Dimora a San Cesario di Lecce, presso la sorella, e insegna per un breve periodo alla Regia Scuola Artistica-Industriale “Gioacchino Toma” di Galatina[xiii], fino a ritirarsi definitivamente dal mondo dell’insegnamento per dedicarsi all’attività artistica.

Nel 1921 partecipa, accanto a Cesare Augusto Lucrezio, Agesilao Flora, Pietro Baffa e altri esponenti della scena artistica regionale, alla Mostra di Artisti Pugliesi ordinata nel Regio Museo Nazionale di Taranto, dove espone ben undici dipinti raffiguranti dei paesaggi pugliesi[xiv]. È proprio il tema del paesaggio a interessare l’artista in questi anni. A giudicare dalle recensioni e dai cataloghi delle mostre cui partecipa dal 1921, in questi anni sembra che abbia tralasciato l’interesse per la scultura per dedicarsi pienamente alla ricerca pittorica.

Dalle opere, tutte databili intorno agli anni Venti, visionate in alcune collezioni private, emerge un’attenzione costante, quasi ossessiva, per il paesaggio. Dipinti e pastelli, di grandi e piccole dimensioni, eseguiti su supporti diversi – dalla tela, alla carta, alla faesite –, in cui ritornano, con più o meno differenze, le stesse porzioni di paesaggio. Grande schiva una visione molto rigogliosa del paesaggio salentino, scansa attentamente luoghi riconoscibili e, in linea probabilmente con un carattere riservato, si sofferma su angoli misconosciuti, forse addirittura inventati e mixati, a metà strada tra la visione intima e la riproduzione cartolinesca. La costruzione del dipinto è relativamente semplice. Spesso in primo piano campeggiano due o più alberi – Grande ha una predilezione per i mandorli in fiore –, che scandiscono il ritmo dell’inquadratura e della resa del resto del panorama. Non c’è attenzione per i particolari e, a differenza dei citati ritratti a pastello realizzati a cavallo tra Otto e Novecento, l’artista rinuncia ai margini ben definiti per abbandonarsi a un controllato, ma al contempo intenso, rapporto con la natura. In secondo o terzo piano il più delle volte tratteggia con pochi colpi di colore dei caseggiati semplici, quelli della tradizione contadina, per poi far emergere alcuni frammenti di vegetazione con segni solcati con la punta del pennello. È un dialogo perpetuo con la natura, qualcosa di molto privato e intimo. Ma è anche uno studio continuo, un vero e proprio confronto, come si evince da una serie di dipinti a olio su faesite di piccole dimensioni, conservati in una raccolta privata, in cui si ravvisa anche un gusto per le colorazioni rosate, cromìe quasi inedite per la pittura salentina di paesaggio e invece per lui fondamentali.

Paesaggio
Paesaggio

Talvolta, come nel Grande paesaggio (Lecce, coll. privata), la composizione si fa più complessa, ma sempre sotto la “guida” di uno studio cromatico; sono difatti i colori – tracciati con piccole pennellate rapide – e i segni del pennello che, sostituendo il disegno, scandiscono le porzioni di vegetazione, gli arbusti grandi e piccoli, e definiscono sinteticamente la prospettiva dei caseggiati che si stagliano sullo sfondo a contatto con un cielo così dinamico e gravido di sussulti da ricordare quelli di Giovanni Segantini. Rimane la luce l’interesse predominante dell’artista in questa serie di paesaggi che – pur ricordando la campagna salentina, come si legge anche in alcune “cronache” degli anni Venti – potrebbero ricordare anche la campagna abruzzese, quella osservata durante la sua permanenza del 1906-1909.

Non è forse l’Impressionismo, la base su cui Grande ha improntato la sua ricerca sul paesaggio sotto il profilo formale e stilistico? Naturalmente meditato e rielaborato, per certi versi anche combinato alle sue radici visive e culturali, in altre parole l’Ottocento napoletano assorbito dai Paladini a San Pietro in Lama e in seguito a Roma sotto la guida del pittore Valerio Laccetti. È naturalmente Roma l’unico centro più aperto alle tangenze contemporanee da lui visitato, prima del definitivo ritorno in patria, il teatro in cui lui viene in contatto con le “novità” dell’Impressionismo e del Post Impressionismo. Non sono forse Pierre Bonnard o Vincent Van Gogh due probabili punti di riferimento? Si pensi agli Albicocchi in fiore del 1888 di Van Gogh, oggi ad Amsterdam. Naturalmente Grande non raggiungerà mai quei risultati di estrema sintesi formale e non proporrà mai quell’energia così palpabile, anche sotto il profilo cromatico, dei dipinti dei due artisti citati, ma questa è probabilmente una delle chiavi di lettura per comprendere le sue opere. C’è stato poi – e mi riferisco a Pietro Marti – chi ha proposto un altro tipo di legame con la pittura francese dell’Ottocento. Nel 1924, in occasione della I Mostra d’Arte Salentina di Lecce, passando in rassegna gli artisti presenti in mostra – da Raffaele Maccagnani a Mario Palumbo e Rita Franco – a proposito della presenza di Grande, Marti ha asserito, infatti, che «un artista che passava quasi inosservato era Luigi Grande; e ciò costituiva una ingiustizia, perchè a parte la tecnica quasi divisionista e la uniformità cromatica dei cìeli e dei piani nei suoi paesaggi si notava un completo trionfo di luce ed un sicuro studio della prospettiva. E poi, nelle sue tele vi erano due note caratteristiche: la sincera visione dell’ambiente, e la spontanea rivelazione del carattere personale. Siamo certi che il Grande saprà prendersi presto o tardi la rivincita»[xv].

Prendendo in considerazione la produzione pittorica analizzata, l’artista s’inserisce a pieno titolo nell’alveo della pittura di paesaggio di Terra d’Otranto. A tal proposito Antonio Cassiano ha osservato che «scegliendo il paesaggio salentino come protagonista, [gli artisti] non correvano alcun pericolo di perdita di identità culturale», aggiungendo, a proposito di Grande, che il suo paesaggio è proposto con «manierata ripetitività»[xvi]. Questa «ripetitività» è una ricerca perpetua, uno studio continuo. Oltre agli aspetti cromatici – i suoi rosa non esistono nel paesaggio salentino –, e all’utilizzo del segno inciso sulla superficie dell’opera, nei dipinti abbandona il descrittivismo fine a se stesso, evita di soffermarsi su inutili particolari, come invece aveva fatto nei ritratti giovanili, e, soprattutto, ignora totalmente la presenza umana e la vita che dovrebbe scorrere in quei campi. Questo non vuol dire che sublimi il paesaggio per farlo divenire una sorta di luogo mitico lontano dalla realtà; quella di Grandi, anzi, è un’indagine sulla “sua” realtà, e in tal senso pare che faccia propria l’idea di Francesco Netti, ovvero che il compito dei pittori dell’epoca «era far di una tela una finestra dischiusa sui campi»[xvii].

Il paesaggio diviene per Grande il “soggetto” da proporre in tutte le mostre collettive di questi anni, dove certamente ha avuto un bel riscontro in termini di collezionismo, visto che si trattava di opere abbastanza appetibili. Nel 1925 partecipa alla III Mostra Biennale di Gallipoli con otto dipinti a olio: sei Paesaggi, Mandorli in fiore e Pergolato che suscitano un discreto interesse di Elia Franich, organizzatore della mostra, che si limita difatti a citare «otto quadretti dalla caratteristica tecnica miniata e il tono lilla favorito»[xviii], cinque dei quali sono oggi conservati in una collezione privata leccese. Con la partecipazione alla II Biennale di Lecce del 1926, accanto a Giulio Pagliano, Antonio Bortone, Gennaro Fantastico e altri, Grande termina la sua attività espositiva[xix]. Due anni dopo, il 12 marzo, muore a San Cesario di Lecce.

Da questo momento, se non fosse per la presenza di una sua opera alla Mostra d’Arte Salentina ordinata nel 1946 dall’Associazione della stampa – Paese, un dipinto a olio, è presentato nella sezione “Retrospettiva” accanto alle opere di Francesco De Matteis, Luigi Guacci, Stanislao Sidoti, Gioacchino Toma e di altri maestri scomparsi –, nella pubblicistica salentina e nell’attività espositiva del territorio si perdono le tracce dell’artista. La “rivincita” di Grande, auspicata nel 1924 da Pietro Marti, è un fatto recente e, per ora, episodico. Si deve alla recente mostra Arte in Terra d’Otranto tra Otto e Novecento, ordinata negli spazi del Museo Provinciale “Sigismondo Castromediano” di Lecce, la “riscoperta” dell’opera di Luigi Grande. All’interno di questa ampia rassegna sono stati proposti sei suoi paesaggi di medie dimensioni dipinti tra il 1916 e il 1928 e, per l’occasione, Michele Afferri ha redatto una biografia, ricca di rinvii all’emerografia dell’epoca, dedicata al maestro nativo di San Pietro in Lama[xx].


[i] A. FOSCARINI, Luigi Grandi, in Arte e Artisti di Terra d’Otranto tra medioevo ed età moderna (Lecce Bibl. Prov. «N. Bernardini», Sez. Mss, ms n.329), a cura di P.A. VETRUGNO, Edizioni del Grifo, Lecce 2000, pp. 29-31.

[ii] Bernabei è autore di una positiva recensione dell’attività della Manifattura Paladini. Cfr. F. BERNABEI, Ceramica, in catalogo dell’Esposizione del 1878, Relazione dei giurati italiani, Roma 1879, p. 4. Il volume è citato da I. LAUDISA, “Capitani d’industria” nel Salento post – unitario, (ceramica, cemento e cartapesta), in Fiscoli e muscoli, Archeologia industriale nel Salento leccese, testi di AA.VV., Capone, Lecce 1998, che ringrazio.

[iii] Cfr. I. LAUDISA, “Capitani d’industria”…cit.

[iv] G. RAIMONDI, Un regesto del M.A.I. tra storia e cronaca, in del M.A.I., Storia del Museo Artistico Industriale di Roma, a cura di G. BORGHINI, introduzione di G. Muratore, Istituto Arti Grafiche Mengarelli, Roma 2005, p. 37.

[v] G. RAIMONDI, Le opere e i giorni, in del M.A.I.…cit., p. 74.

[vi] Per biografia e riferimenti bibliografici essenziali sull’artista cfr. M. TENI, Eugenio Maccagnani (1852-1930), in Artisti salentini dell’Otto e Novecento. La collezione del Museo Provinciale di Lecce, a cura di A. CASSIANO, R&R Editrice, Matera 2007, pp. 135-136.

[vii] F. COLAMUSSI, Luigi…cit.

[viii] Cfr. La Pittura in Italia. L’Ottocento, tomo 2°, Electa, Milano 1990, pp. 876-877.

[ix] Il giudizio è riportato da F. COLAMUSSI.

[x] Cfr. F. COLAMUSSI, Luigi…cit.

[xi] Sull’istituto cfr. G. BAITELLO, La Regia Scuola d’arte ceramica Francesco Grue di Castelli, Le Monnier, Firenze 1942. Ringrazio Lorella Ranzi della biblioteca del Museo internazionale delle ceramiche di Faenza per avermi messo a disposizione il volume.

[xii] A. FOSCARINI, Arte…cit., p. 127.

[xiii] Sull’istituto cfr. R. D’AMBROSIO, G. CONGEDO VANTAGGIATO, La R. Scuola d’Arte G. Toma di Galatina, Le Monnier, Firenze 1942.

[xiv] Cfr. Mostra di Artisti Pugliesi, catalogo della mostra (Taranto, R. Museo Nazionale, febbraio-aprile MCMXXI), s.n.t., Taranto 1921, p. 8.

[xv] P. MARTI, Prima mostra salentina di arte pura e applicata, in “Fede”, a. II, Lecce 30 novembre 1924, p. 269. Sulla mostra cfr. T. GENOVESI, Note ed appunti sulla I Mostra d’Arte Salentina in Lecce, catalogo della mostra (Lecce, 1924), Lecce 1924, pp. 10-11; ELLENIO [P. MARTI], Prima Mostra Salentina d’arte pura ed applicata in Lecce, in “Fede”, a. II, Lecce 31 agosto 1924, p. 219. Per una contestualizzazione di questa e delle successive mostre citate e della situazione culturale in cui hanno operato gli artisti nominati si rinvia a I. LAUDISA, Arte, in Profili produttivi delle Province Italiane, Bari, 1981, pp. 267-327.

[xvi] A. CASSIANO, La pittura, in Arte in Terra d’Otranto tra Otto e Novecento, catalogo della mostra (Lecce, Museo Provinciale “S. Castromediano”, 9 dicembre 2007 – 31 marzo 2008), a cura di A. CASSIANO, M. AFFERRI, R&R Editrice, Matera 2007, p. 10. Sulla pittura di paesaggio in Puglia cfr. P. MARINO, Il luogo e la contrada. Arte e natura in Puglia. 1950/1990, Edizioni Laterza, Roma-Bari 1990.

[xvii] F. NETTI, Scritti critici, antologia a cura di L. Galante, De Luca, Roma 1980.

[xviii] Cfr. E. FRANICH, L’arte pugliese alla mostra di Gallipoli, in III Mostra Biennale d’Arte moderna in Gallipoli, catalogo della mostra (Gallipoli, 1925), Premiata Tipografia Guido, Lecce 1925, p. 4. Sulla mostra cfr. Amatori d’Arte Gallipoli. III Mostra d’Arte, depliant della mostra, s.n.t., s.l., s.d. [ma 1925], p. nn. [ma 5]. Cronache d’arte e di cultura. Esposizione d’arte in Gallipoli, in “Fede”, a. III, n. 10, Lecce, 5 luglio 1925, p. 156. La III Mostra d’arte a Gallipoli, in “Corriere Meridionale”, a. XXXVI, n. 28, 6 agosto 1925. La Terza Biennale d’Arte Moderna in Gallipoli, in “Fede”, a. III, n. 11, Lecce 13 agosto 1925, p. 173.

[xix] Cfr. II Biennale Leccese d’Arte Pura ed Applicata, catalogo della mostra (Lecce, agosto-settembre MCMXXVI), Lecce 1926; La II Biennale Leccese, in “La Voce del Salento”, a. 1, n. 29, Lecce 28 agosto 1926, p. 1. La II Biennale Leccese, in “Corriere Meridionale”, a. XXXVII, n. 34, Lecce 30 settembre 1926.

[xx] Cfr. M. AFFERRI, Luigi Grandi (San Pietro in Lama 1871–San Cesario di Lecce 1928), in Arte in Terra d’Otranto…cit., pp. 76-77. Ringrazio Michele Afferri per alcuni suggerimenti concernenti la vicenda biografica di Grande. Un sintetico e recente profilo biografico dell’artista (sprovvisto di apparati iconografici) inserito in un excursus sugli scultori di Terra d’Otranto attivi tra Otto e Novecento, si rintraccia in M. GUASTELLA, Scultori in Terra d’Otranto delle generazioni del secondo Ottocento, in Raffaele e Giuseppe Giurgola, “tradizione salentinità ironia”, a cura di L. PALMIERI, introduzione di L. Galante, Editrice Salentina, Galatina s.d. [ma 2010], p. 35. L’excursus di Guastella è stato ripubblicato, con qualche modifica, nel suo Edgardo Simone Scultore (1890-1948), Congedo, Galatina 2011.

 

 

C’era una volta l’Amore…

A volte i miracoli s’avverano anche senza l’intervento divino

C’era una volta l’Amore…

 

di Mauro De Sica

Ero un ragazzetto di quasi otto anni, quando mia nonna mi raccontò l’indimenticabile favola sull’Amore.

Solitamente la nostra famiglia trascorreva la vigilia di Natale, così come il giorno di Pasqua e del santo patrono, in casa di nonna Giuseppa per festeggiare insieme il lieto evento.

Nell’autunno del 1950 la nonna era stata poco bene per via d’un raffreddore che l’aveva costretta a starsene sempre tappata in casa. Per tale motivo mio padre aveva stabilito un turno quotidiano d’assistenza tra tutti i nipoti galatinesi. Ogni giorno uno di noi doveva trascorrere un paio d’ore per tenerle compagnia e sbrigarle qualche faccenda domestica.

Nel primo pomeriggio di quella memorabile vigilia di Natale toccava a me andare a trovarla. Ero per strada a giocare in tutta libertà con gli amici di via XX Settembre, quando mia madre, con voce perentoria ma amorevole, mi ricordò che s’erano già fatte le tre e dovevo recarmi da lei.

Un improvviso gelo scese dentro di me. Facendomi forza ma anche con tanta rabbia in corpo, salutai mal volentieri i compagni di gioco e rientrai in casa.

Lei, mia madre, aveva capito il grande dramma che stavo vivendo, per cui mi carezzò più volte la guancia, per poi donarmi dieci lire.

“Passando dalla piazza, còmprati quel che vuoi…” – mi disse dolcemente – “…Suvvia, Mauro, non fare quella faccia truce: fra un paio di ore saremo tutti a casa della nonna e insieme gusteremo una cena succulenta, giocheremo a tombola ed infine aspetteremo la nascita del bambin Gesù”.

Malvolentieri e con il cuore a pezzi, lasciai gli amici e mi avviai lentamente in via Gallipoli, dove lei abitava da sola.

In quella casa, che odorava di antico e di chiuso, il tempo sembrava non trascorrere mai, cosicché, dopo appena mezz’ora, la noia e la tristezza mi aggredirono, spazientendomi.

“Cosa hai, Mauro, ti trovo alquanto silenzioso e imbronciato!” – disse la nonna, molto preoccupata.

“Ho freddo e poi…”.

Mi bloccai di colpo.

“E poi cosa?!”.

“E poi mi mancano tanto i miei compagni di gioco!…” – le risposi con un pizzico d’amarezza – “…Se almeno mi raccontassi una delle tue favolette, non mi annoierei e tutto passerebbe”.

“Prendi un po’ di legna dal cortile, aiutami ad accendere il camino e poi mettiti a sedere accanto a me. Però, promettimi che mi presterai attenzione e, soprattutto, che non dimenticherai la storiella che sto per raccontarti”.

“Brava nonnina, ti giuro che la porterò per sempre nel cuore”.

Dopo un buon quarto d’ora, il caldo tepore cominciava già a diffondersi nell’ampia stanza.

“Nonna, cosa stai per raccontarmi di tanto importante, da non doverlo dimenticare?”.

“Ti parlerò dell’Amore e dei miracoli che fa in continuazione”.

“Sono tutt’orecchi, nonnina!”. E mi predisposi all’ascolto con molta curiosità ed attenzione.

C’era una volta…  – cominciò a raccontare quella brava donna –  …un’isola dove vivevano tutti i sentimenti, buoni e cattivi. C’era il Buon Umore, la Tristezza, l’Invidia, la Vanità, il Sapere, la Saggezza ed anche l’Amore.

Un giorno venne annunciato ai “sentimenti” che l’isola stava per sprofondare. Allora tutti prepararono le loro barche e partirono. L’Amore, però, volle aspettare fino all’ultimo momento. Solo quando l’isola fu sul punto di sprofondare, l’Amore decise di chiedere aiuto.

La Ricchezza passò nelle vicinanze dell’isola su una barca lussuosissima.

“Signora Ricchezza, mi puoi portare con te?” – le chiese l’Amore.

“Mi dispiace tanto ma non posso, c’è molto oro e argento sulla mia barca e non ho posto per te”.

“Potresti buttare in acqua una minima parte delle tue monete d’oro: a me basterebbe un cantuccio!”.

“Non sia mai detta una cosa del genere!…” – le rispose quella, impettita e quasi offesa – “…Non baratterei mai una sola moneta d’oro con un poveraccio come te!”.

E se ne andò.

L’Amore decise allora di rivolgersi all’Orgoglio, che stava passando nei paraggi su un magnifico e lustrato vascello.

“Signore Orgoglio, ti prego, accogli la mia richiesta d’aiuto!”.

“Se posso, lo farò con piacere” – gli ribatté quello.

“L’isola sta sprofondando e, se qualcuno non mi presta soccorso, rischio di andare giù!”.

“Mi dispiace, Amore. Sul mio vascello tutto è in ordine, perfetto e pulito: potresti sporcare dappertutto e rovinare ogni cosa!”.

L’Amore era disperato ed intanto l’isola iniziava pian piano ad andare giù. Proprio in quei momenti di disperazione gli passò accanto la Tristezza.

“Tristezza, dolce Tristezza, lasciami venire con te!” – supplicò l’Amore, rivolgendole un accorato appello.

“No, Amore, non mi è possibile!… Sono così triste e desolata che ho bisogno di starmene da sola. Se salissi sulla mia barca, troverei un compagno e smetterei di essere triste, cosicché ogni uomo si rallegrerebbe!”.

L’Amore non sapeva più a quale santo rivolgersi: ormai la sua fine era segnata.

Gli passò a fianco il Buon Umore e, nonostante l’Amore si sgolasse a supplicarlo, se ne andò senza neanche accorgersi di lui, perché si beava tra le sue eccessive contentezze.

L’Amore era disperato e paventava una fine imminente, quando gli passarono accanto l’Invidia e la Vanità su una barca splendente e profumata.

“Perché ti disperi così tanto, buon uomo?!” – chiese una delle due.

“Fatemi salire sulla vostra barca, fra poco l’isola sprofonderà e mi porterà via con sé!”.

“Ti ospiteremo solo se t’imbelletterai così tanto da far invidia alla mia compagna di viaggio!” – gli rispose perentoriamente la Vanità.

“Non basta!…” – replicò l’Invidia, con un pizzico di orgoglio – “…Metterai piede sulla barca solo se diventerai più bello e fascinoso di sorella Vanità, tanto che io possa leggerle negli occhi un sentimento profondo e traboccante d’invidia”.

“Ma è tutto contro la mia natura!…” – ribatté l’Amore, alquanto mortificato.

“E allora, visto che non ti pieghi, sprofonda pure nelle fauci della terra!” – conclusero quelle all’unisono.

L’Amore, affranto e scoraggiato, osservava con molta mestizia che la terra s’apriva lentamente sotto i suoi piedi.

“Cosa accadrà agli uomini, ora che sto per andarmene?…” – pensava con rassegnazione l’Amore – “…Sono già abbastanza superbi, cattivi e violenti, nonostante mi dia un gran da fare per calmarli e abbonirli. Dopo la mia scomparsa diverranno ancora più malvagi e crudeli, tanto da annientarsi vicendevolmente!”.

Pensava e ripensava, ma intanto l’isola sprofondava sempre più, sino ad abbassarsi al livello del mare.

“Addio, vita mia!… addio progetti per i quali ho impegnato ogni mia stilla di bene!… Addio… addio per sempre!”.

Ormai l’acqua gli era salita al livello delle ginocchia, quando…

“Vieni, Amore… ti prendo con me!” – disse stentoreamente una voce, spuntata all’improvviso chissà da dove.

Era un vecchio, che indossava un lungo abito bianco, aveva la barba incolta e dei capelli fluenti.

L’Amore si sentì attrarre da una sensazione piacevole e smisurata da dimenticare di chiedere al vecchio il suo nome. Quando approdarono sulla terraferma, ormai lontani dall’isola e dal pericolo, il vecchio salutò sorridendo e proseguì il viaggio.

Dopo una buona mezz’ora, l’Amore si rese conto di aver commesso una grave manchevolezza. Non aveva ringraziato il vecchio, né tanto meno gli aveva chiesto il nome.

Si rivolse al Sapere, che passava in quel momento nei paraggi.

“Signor Sapere, sai dirmi chi mi ha aiutato?!”.

“È stato il Tempo…” – gli rispose quello.

“Il Tempo?!…” – s’interrogò l’Amore – “…Perché mai mi ha aiutato il Tempo?”.

“Perché solo il Tempo è capace di comprendere quanto l’Amore sia importante nella vita degli uomini” – gli rispose il Sapere, compagno inseparabile della Saggezza.

Da allora l’Amore si è impegnato di gran lena per aiutare gli uomini ed affrancarli da ogni sentimento cattivo.

La nonna, commossa, piegò la testa.

“È finita, nonna!” – le dissi con un pizzico di rammarico.

“Sì, Mauro, è proprio finita. Mi auguro che abbia fatto presa nel tuo cuore”.

“Certo, nonna, ti prometto che non mi stancherò mai di amare e di fare del bene”.

E mi passò la mano vellutata sul viso.

“Mauro, hai capito la morale della favoletta?”.

“Sì, nonna!”.

“Solo se la racconterai ai tuoi figli e a tutti i ragazzi che incontrerai, e se altrettanto faranno i figli dei tuoi figli e di quei ragazzi, l’Amore si rafforzerà a tal punto, da sconfiggere tutti i mali del mondo”.

Quel Natale fu per me il più bello.

Perciò, voi ragazzi, ma anche voi adulti, che mi avete letto con molta pazienza, continuate a credere nell’Amore e a sognare di averlo accanto: vi aiuterà a vivere meglio e a desiderare il bene proprio e degli altri.

Solo in questo modo la vostra “isola” non sprofonderà mai e mai ricorrerete all’aiuto di quegli ingannevoli e illusori sentimenti, che da sempre abbagliano e seducono l’uomo, conducendolo, il più delle volte, verso il Male.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Un’ inedita veduta settecentesca di Taranto in un dipinto di Paolo De Falco

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di Nicola Fasano

La Casa professa dei Gesuiti a Grottaglie custodisce numerosi dipinti di eccezionale pregio. Alcuni di essi, come lo Sposalizio mistico di Santa Caterina di Andrea Vaccaro, sono un prezioso dono di Ferdinando II di Borbone che visitò i luoghi in cui era nato e cresciuto San Francesco De Geronimo. Altre tele provengono, invece, dal santuario della Madonna della Salute, chiesa per lungo tempo retta dall’ordine. Tra queste, oltre ai dipinti del celebre Paolo De Matteis, bisogna soffermarsi su una tela poco studiata, firmata da un allievo del pittore Francesco Solimena: Paolo De Falco.

Il quadro di grande formato (236 x 195), collocato in un corridoio della dimora gesuitica, raffigura L’Assunzione di Maria. Il tema iconografico è incentrato sul rapimento in cielo di Maria, in anima e corpo, tre giorni dopo la morte. Il termine (dal latino “adsumere”) indica che fu portata in cielo dagli Angeli, come mostra la tela.

L’Assunzione non trova basi nelle Sacre Scritture, ma soltanto negli scritti apocrifi del III-IV secolo e, nella tradizione della Chiesa cattolica. Solo nel 1950, l’Assunzione venne proclamata articolo di fede da Papa Pio XII. Il nostro dipinto riprende l’iconografia controriformistica, che avrà il suo apice in epoca barocca, con alcune varianti significative che andremo a descrivere. Nella parte superiore della composizione Maria, con il braccio destro sul petto e lo sguardo rivolto in alto, assume l’atteggiamento estatico di devota fiducia nella volontà divina. Intorno, paffuti angioletti sospingono senza alcuno sforzo i nembi sui quali si erge la Madonna, mentre un altro angelo solitario si appresta a coronarla con una ghirlanda di rose.

La composizione, smorzata da tinte basse, si accende con gli incarnati dei putti, il fluente mantello  azzurro della Vergine che contrasta con la veste rosacea, e gli svolazzanti panneggi degli angeli. Le figure sono risaltate da delicate trame chiaroscurali che lambiscono i volti e torniscono plasticamente i corpi. L’Assunta con il gruppo di angeli è stata replicata scolasticamente in un dipinto di fine XVIII sec. raffigurante l’Immacolata e Santi, custodito nella Matrice di Montemesola. Quest’ultima tela, commissionata probabilmente dai Saraceno, feudatari di Montemesola, si accomuna al nostro dipinto, per una interessante veduta del paese.

Infatti nel dipinto grottagliese, al posto del sarcofago aperto, dal quale la Vergine viene rapita per essere portata in cielo, si dispiega la vista di una città e sull’estrema destra un picco roccioso in primo piano, consente al pittore di apporre la propria firma : P. De Falco P. (..ingebat).

firma del pittore

Paolo De Falco nativo di Napoli nel 1674, secondo il biografo degli artisti napoletani Bernardo De Dominici, fu “degnissimo sacerdote”. Il pittore, infatti, fu un chierico che aveva seguito studi di logica presso i Gesuiti,  per poi dedicarsi all’arte pittorica presso la prestigiosa scuola di Francesco Solimena. Un pittore diligente che si distingueva in termini celebrativi e puristici, come si evince dal nostro quadro, al quale era difficile chiedere temi di carattere laico e profano. La sua produzione artistica, secondo il Prof. Pavone, si concentrò nei centri periferici tra i quali Taranto, dove il De Dominici registra una “Sant’Irene, che il pittore mandò nella città di Taranto”, che il  Pavone giustamente riconosce nella nostra tela. Lo studioso attesta l’opera intorno ai primi anni ‘30 del Settecento, “in quel processo di ridefinizione in chiaro delle forme” che fa dell’opera una composizione devota e “pulita” in linea con i dettami dei Gesuiti, committenti dell’opera.

Pavone, inoltre, riconosce nel pittore la nettezza delle forme, la pacatezza nei gesti e nei volti che aderiscono al clima arcadico del Solimena dei primi del Settecento, mettendo in relazione l’Assunta tarantina con il San Martino e la Madonna di Cerreto.

Sul dipinto interviene anche il Prof. Galante, che nel volume “Questioni Artistiche Pugliesi”, nell’introdurre la figura di Giovan Battista Lama, accenna fugacemente al nostro dipinto, il quale, insieme a quelli del Lama e del De Matteis, costituivano il patrimonio pittorico della chiesa di Monteoliveto, poi Madonna della Salute.  Sia Galante, sia Pavone, non accennano minimamente al paesaggio in basso a sinistra, e solo nella scheda di catalogazione del quadro per i volumi di Iconografia Sacra a Taranto, dopo avere fornito i dati essenziali dell’opera, chi redige la scheda, si sofferma brevemente sulla veduta.

altra veduta

Analizzando il paesaggio, emergono novità che possono essere molto interessanti. La tela molto rovinata nella parte inferiore, mostra una città che sembra essere Taranto, e quale migliore occasione se non quella di farla proteggere dall’Assunta, patrona di Taranto, a cui è dedicata la Cattedrale, insieme a San Cataldo?

A conferma di questa tesi, concorrono una serie di fattori che andremo a descrivere.

particolare

La città presenta una veduta dal Mar Piccolo inquadrata nel tradizionale N-W (nord-ovest),  similare alla descrizione calligrafica del pittore Coccorante nella pala di Mastroleo in San Domenico. Facilmente riconoscibile all’estremità  destra, il ponte del fosso dalle quattro arcate e il castello aragonese con le sue torri. Nella parte centrale si distingue a fatica l’abitato costituito da  casupole con tetti spioventi, alcune chiese con campanili svettanti, tra le quali il Duomo con il tiburio circolare e il campanile romanico visto su due lati. Nell’estremità destra si scorgono la cittadella fortificata, la torre di Raimondello Orsini e il ponte di Porta Napoli con cinque arcate, invece delle sette tradizionali.

particolare della veduta con la torre di Raimondello
particolare della veduta con la torre di Raimondello

Non mancano le relative fortificazioni sul Mar Piccolo, con la cinta muraria e il torrione. Naturalmente il pittore, anche con qualche incongruenza, dà una visione idealizzata della città, con i ponti di accesso, le chiese, le torri, le cose essenziali che caratterizzano l’abitato settecentesco. Non meno significativa è la presenza dei due vessilli sulle torri, che con un po’ di immaginazione si può pensare recassero lo stemma degli Asburgo, attestando il dipinto agli anni precedenti al 1734.

Purtroppo, la fotografia e il pessimo stato di conservazione del dipinto non rendono giustizia alla veduta, che prosegue sulla destra per interrompersi con la roccia sulla quale il pittore appone la propria firma.

La scoperta di questa veduta inedita di Taranto è di per sè interessante, ma ancora più importante sarebbe la datazione, che, stando a quanto riportato dal  Pavone, si  attesterebbe intorno ai primi anni ‘30 del Settecento, precedente quindi alle più celebri vedute del Coccorante: quella in San Domenico a Taranto e quella conservata nel Museo San Martino a Napoli, realizzate intorno al 1738-40.

veduta estesa

Da dove avrà preso spunto il nostro pittore? Da qualche dipinto precedente? Dalle celebri vedute del Pacichelli che circolavano nel Regno di Napoli? Non è dato sapere. La veduta, ignorata dagli studi, non è stata censita nella mostra sulle vedute relative a Taranto e al suo golfo del 1973, tantomeno nella mostra tenuta al castello aragonese di Taranto sul finire del 1992. L’unica esposizione alla quale il dipinto ha partecipato è stata quella del 1937, in occasione della Prima Mostra Ionica di Arte Sacra, nel cui catalogo il dipinto si fa apprezzare per il buon sapore decorativo.

Visto che la Madonna della Salute è chiusa da tempo, non rimane che fare una passeggiata a Grottaglie, andare al “Monticello”, dai Gesuiti, e gustarsi questa inedita veduta di Taranto, oltre ai dipinti di Paolo De Matteis, che un tempo decoravano la chiesa di largo Monteoliveto.

Lettere inedite tra Gioacchino Toma e Pietro Cavoti

 

di Luigi Galante

Rarissimo ritratto fotografico di GToma Foto LGalante
Rarissimo ritratto fotografico di G.Toma. Foto L.Galante
Pietro Cavoti
Pietro Cavoti

 

 

Nel convegno di studi tenutosi a Galatina da valentissimi Professori dell’Università del Salento, in chiusura del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, è stata rievocata la figura del patriota garibaldino e pittore galatinese Gioacchino Toma. Ad ogni relatore è stato concesso uno spazio per delineare la figura artistica del Nostro. Molto apprezzati sono stati gli interventi dei Professori, che hanno tracciato perfettamente chi la figura umana, chi ha descritto i dipinti, chi la sua vita napoletana, chi invece ha rievocato la triste e dolorante adolescenza, generata dai suoi stessi parenti, che è stata forse il periodo più tormentoso dell’orfano, e che lo ha spinto poi alla fuga da Galatina. Ma tutto questo è assai noto, perché descritto con precisa memoria nel suo unico libretto dei Ricordi di un orfano. Rammento che il Prof. Vallone durante il suo intervento, sollevò dei punti interrogativi. Perché vi è stato tanto silenzio del pittore sulla sua Galatina? Perché parla pochissimo del suo paese dopo la sua giovinezza? Perché dopo il suo involontario e profondo distacco da Galatina, non vi è traccia di un suo ritorno e tanto meno di una sua possibile corrispondenza con alcuni personaggi galatinesi? A queste domande posso oggi dare risposta. La curiosità di poter trovare qualche possibile traccia epistolare mi ha spinto a cercare null’unico luogo possibile: il Museo Cavoti di Galatina. Mi sembrava impossibile che due personaggi quasi del tutto coevi, entrambi artisti e concittadini non fossero in relazione. E poi Cavoti, amava Galatina in modo profondo, ne ha custodito con disegni ogni possibile memoria, come quelle fondamentali della casa Arcudi, perché non sperare in un suo legame anche al Toma? Nei primi giorni di gennaio, intento a consultare uno dei tanti raccoglitori, la mia attenzione fu attirata da un foglio con la quale Cavoti aveva annotato alcune famiglie importanti di Galatina, con relativa posizione sociale. In questo curioso appunto, figura anche il nome di “Gioacchino Toma – Belle Arti…Medico (il padre) – Onore”.

Studio in gesso del volto di G Toma custodito nel Museo  Cavoti - Galatina
Studio in gesso del volto di G. Toma custodito nel Museo Cavoti – Galatina

Quel piccolo ritrovamento accese in me la speranza, di poter trovare ancora dei documenti riconducibili al pittore. E ancora, un’altra annotazione cavotiana, riconduce sempre al pittore di Galatina “Gioacchino Toma mi scrive per ricevere la mia visita in casa sua a Napoli. Gli risposi il 14 settembre 1861”i. Di questa lettera non ho potuto trovare copia.

Museo Cavoti Nannina
Museo Cavoti Nannina
Museo Cavoti Schizzo a matita del palazzo Arcudi oggi demolito
Museo Cavoti Schizzo a matita del palazzo Arcudi oggi demolito

 

La mia convinzione che tra Cavoti e Toma ci fossero legami amichevoli, e forse anche degli incontri, era però confermata. Lo seppi ancor meglio quando in un taccuino rintracciai l’indirizzo di Gioacchino Toma a Napoli, che Cavoti aveva diligentemente annotato. “Prof. Toma Gioacchino, via della Valle 43 Napoli”.ii Da quell’istante la certezza era realtà. Ed ecco venir fuori un altro scritto di enorme interesse, perché ci racconta in pochissimi righi lo stato d’animo in cui era Gioacchino Toma nell’ottobre del 1864. Scrive Cavoti: << N.B.-Incontro. Incontrai Gioacchino Toma in Napoli il dì 18 ottobre 1864. Lo vidi assai magro e pieno di ansia, ma in ottima salute. Mi salutò piangendo e promisi di rivederlo. Lo supplicai (venire) a Firenze e poi a Galatina, ma mi rispose tosto >>iii. La conferma di quell’incontro tra i due artisti galatinesi mi portò a cercare con estrema attenzione tra le carte cavotiane, traendo da un altro taccuino lo schizzo a matita del ritratto di una giovane donna. In basso al disegno Cavoti annota <<Nannina. Mi si offrì volentieri a posare nello studio dell’amico Gioacchino Toma. Napoli 15 aprile 1863.>>iv . Una nuova conferma della loro amicizia e del loro contatto nella casa napoletana di Toma. La scoperta poi del bellissimo ritratto di Nannina eseguito dal Cavoti, fornisce con esatta precisione quel volto di donna che per molti anni aveva posato per il Toma, come confermato dallo stesso, nei Ricordi di un orfano.v Le scoperte più importanti sono arrivate nei giorni successivi. Dopo un’ accurata analisi di tutto il Fondo cavotiano, sono emerse tre lettere, dai contenuti di intensa amicizia. Una era indirizzata da Cavoti all’amico, e due del Toma a Cavoti. Il ritrovamento, fino ad oggi sconosciuto a tutti gli studiosi che si sono interessati scrupolosamente del Toma, danno luce al legame con “l’unico amico vero” rimastogli a Galatina. In una delle due intense lettere, scrive: << Ed è perciò che io piango e nell’interno sanguino sfortunatamente avermi allontanato da Galatina…..Perché turbi il cuore colla nostra Galatina? >> E ancora << Tu solo conosci il mio dolore, il mio lamento, la mia triste lontananza la mia Galatina… Mai ho dimenticato il natale a cui appartengo. >> Frasi forti, fortissime, che traboccano di immenso sentimento per Galatina che Toma non vedrà mai più. Questo segreto nascosto, ed oggi riemerso, lo dobbiamo sempre e solo al nostro Pietro Cavoti. Lascio ora ai lettori di questa rivista che spesso ospita miei saggi, il piacere di gustare le splendide ed inedite lettere tra due illustri che in passato fecero grande Galatina.

Lettera autografa di G Toma
Lettera autografa di G. Toma

 

lettera autografata di G. Toma
Museo Cavoti Ritratto di un giovanissimo Toma
Museo Cavoti Ritratto di un giovanissimo Toma
Lecce Festa e Busto al Pittore Gioacchino Toma Immagine estratta dalla rivista Illustrazione Popolare-1898
Lecce Festa e Busto al Pittore Gioacchino Toma Immagine estratta dalla rivista Illustrazione Popolare-1898
Napoli Monumento a G .Toma villa Comunale Opera di Francesco Ierace- 1922
Napoli Monumento a G .Toma villa Comunale Opera di Francesco Ierace- 1922

 

 

Lettera da Toma a Cavoti

 

viNapoli da casa 12 Gennaio 1862

Pietro Cavoti

Caro fratello mio

Di quanto sollievo, di quanta consolazione sia stata la tua amabilissima a me che vivo vita da te divisa, vorrei dirtelo con parole; ma temendo che io non possa appieno manifestare tutto quel che sento, lo lascio alla tua immaginazione. Ne’ tuoi caratteri ho veduto a chiare note scolpita la tua chiara affezione verso di me, ho ritrovato io la vera immaginazione del tuo cuore sempre tendente al bene, e mi son rallegrato moltissimo d’aver finalmente rinvenuto un caro amico che mi parlasse veramente da fratello. Oh! Pietro mio, quanto è difficile cosa ritrovar a dì nostri un’anima che a fronte aperta ti sollevasse di cuore. La vil turba dei gonzi che s’incalza e preme ha fieramente profanato il santo simulacro d’amicizia; ed è perciò che io piango e nell’interno sanguino sfortunatamente avermi allontanato da Galatina, ma fortunatamente trovato in tal epoca costà. Di qui è che se vedo un cuore il quale si confaccia alla mia tempra ardo di cuore per quello, lo desidero, lo bramo fortemente, e vorrei seco menare i miei giorni. Oh! Quanto dura mi è quindi la lontananza mio caro Pietro che mi divide in te, io avea già ritrovato il mio Duce, il mio amico, il mio tutto. Ma ciò è finito. Pazienza. Mi domando Pietro mio che fò? Perché mi turbi il cuore colla nostra Galatina? Il ritornare è morire. Meno i miei giorni con la mia tavolozza. Credi forse ch’io mi sia dimenticato de’ nostri amici? No, certo di no. Su di questo particolare parleremo a lungo di presenza. Amami come io ti amo e ricordati del

Tuo Affezionatissimo Amico e fratello

Gioacchino Toma

N.B. Gli amici napoletani Michele Simonetti, Gennaro Spasiano e Antonio Migliacci ti bramano ardentemente qui. Tutti ti salutano.

 

Napoli -1874

Mio caro Pietro

Ho ricevuto la tua ultima lettera del dì 11 novembre. Scrivente di questa mia è il caro amico Giuseppe Boschetto,viii non potendolo fare di proprio pugno perché affetto da forti dolori alle povere braccia e al costato. Pietro mio caro, tu mi fai il dono a quante volte mi torni alla mente i nostri discorsi ed i nostri lamenti soavi alla mia memoria. Tu solo conosci il mio dolore, il mio lamento, la mia triste lontananza la mia Galatina. Nelle tue letterine trabocca la mia mente al passato ai giorni giocondi di giovane fanciullo con gli amici oramai perduti. Quante fiate trafiggi la mia anima, non torturarmi ancora amico mio. Piango. Piango. Piango sempre la mia Patria. Mai ho dimenticato il natale a cui appartengo. Tu fratello mio provasti le mie stesse sofferenze, ma il debole destino ti ha riportato soave alle tue belle e dure faccende della Commissione Conservatrice di belle Arti. Le ore per me più care sono qui , quelle che io consacro allo incantesimo della mia tavolozza, dei miei colori, le mie tele adorate da me sempre, e tu che hai l’anima fatta ad amarle; e forse più che la mia , non crederai esagerato quanto ti dico? Tempo addietro in un momento di dolce ricordo menai in fretta sulla tela quello che i miei piccoli occhi videro la prima volta, la mia tanto amata casa e la bella Chiesa di Santa Caterina, ma non distò due giorni che l’animo mio era in triste subbuglio, e i ricordi diventarono inferno, e in un attimo di pazzia distrussi quello che era l’unico ricordo della mia Galatina. Oh! Caro Pietro, scrivimi, scrivimi sempre, fammi toccare le tue belle lettere che giungono da colà, ma non fare verbo con nessuno, te ne prego. Tu solo sai la nostalgia che meno. Non indebolire la mia forza. Basta, Basta, Napoli è la mia pace. Perdonami Pietruccio mio, ma sono lacerato da forti dolori. Non ti soggiungo altro. Amami molto chi ti ama assaissimo.

 

Ti abbraccio mille e mille volte e siati sempre caro

Il tuo costante Amico vero

Gioacchino Toma

ixGalatina li 15 Ottobre 1874

Gioacchino mio caro

Ebbi la tua aspettata e bella lettera il di 21 scorso. Mi dici nella tua che assai ti pesa la lontananza degli amici cari, ma che l’ami, non però. Oh quanto sei lodevole per ciò. Come dice il Pellico all’oggetto <<per esercitar bene la divina scienza della carità con tutti gli uomini, bisogna farne il tirocinio in famiglia >>. Siamo figli della stessa Patria caro Gioacchino. Qual dolcezza nell’aver trovato appena venuti al mondo gli stessi oggetti da venerare con predilezione. Ma passiamo ad altro. Leggo che sei tornato sulle tue care tele dopo lunga assenza, e di questo son contento. Non cader più allo sconforto degli anni passati, cancella dal tuo cuore i nostri ricordi che oggi ancor ti affliggono. Lavora le tele, guardati dall’egoismo; proponiti ogni giorno nelle tue fraterne relazioni desser generoso. Che debbo dirti di più? Io non vorrei finirla mai. Fratello mio, non lasciarmi privo di tue nuove ad ogni tanto che potrai. Scrivi un rigo e mettilo alla posta, che io l’avrò assai assai. Ossequia per me la tua famiglia. Che Dio benedica sempre noi nel suo amore. Accetta, o fratello un bacio di cuore, e ricorda che il tuo caro Pietro ti annovera tra i più cari al cuore. Da casa L’Amico tuo vero

 Pietro Cavoti.

————————————

i* Per la consultazione dei testi, delle immagini riprodotte in digitale e dei doc. cavotiani, ringrazio il Comune di Galatina e tutto il personale della Biblioteca P.Siciliani e del Museo Cavoti di Galatina. Le foto sono di Luigi Galante.

** Per la prima volta in assoluto, viene pubblicata l’unica fotografia poco nota di G. Toma. Vedi G. Calò, Gioacchino Toma pittore, Biblioteca P. Siciliani Galatina, – Firenze : G. C. Sansoni, 1923, coll. D II Cart. Q / 22.

*** Il disegno cavotiano del giovane Toma, fu da me individuato nel luglio 2008 e pubblicato in copertina al Bollettino Storico di Terra d’Otranto n. 15. Si noti, al centro in basso del ritratto, oltre alla firma autografa di Cavoti, lo scritto del nome di “G. Toma”

 Album 3380, teca mobile sala 3, foglio 81

ii Racc. 4023/4262, teca blindata1 sala 2, inv.4150

iii Racc. 4023/4262, teca blindata1 sala 2, inv.499, sala 3, teca blindata 2

iv Racc. 3411, teca mobile sala 3, foglio 22

v Vedi G. Toma, Ricordi di un orfano, a cura di Aldo Vallone, Congedo Ed., Galatina 1973, pp. 91,93. <<…posai gli occhi su di una graziosa ragazza vestita tutta di nero. Pensai di fare un grazioso quadretto con quella bella figurina, e fattole domandar s’ella volesse prestarmi a farmi da modella, avendo accondisceso, dipinsi con essa un’orfana.>>

vi Racc. 1858/2063, sala 3, teca blindata 2, inv.1926. Da una attenta indagine , è stato possibile individuare l’attività degli amici di Toma che salutano a chiusura di lettera P. Cavoti. Si tratta di Michele Simonetti – architetto, Gennaro Spasiano – Dott. Fisico, e Antonio Migliacci – pittore.

vii Racc. 34(?)2/34(?)3, sala 2, teca blindata 1. La lettera è custodita nei “Documenti proprietà Cavoti e Torricelli” identificata con il n° 13

viii G. Boschetto, pittore. Napoli 1841/1918. Fu ammesso giovinetto nello studio di G. Mancinelli; seguì gli studi artistici sotto la guida di D. Morelli.

ix Racc. 955/1500 teca blindata, sala3. La lettera risulta mancante di numero di inventario perché collocata dopo 2 pagine bianche dal n° di inv. 1217.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne

“IMPERARE SIBI MAXIMUM IMPERIUM EST”: ipotesi su un emblema a Cannole

 

di Marcello Gaballo e Armando Polito

1

 

Si desidera segnalare un portale ubicato nel cuore della cittadina di Cannole (Lecce) in via Corsica n. 27, caratterizzato da un arco in stile catalano-durazzesco e, pertanto, databile intorno alla metà del XVI secolo. Esso immette in una corte all’interno della quale prospettano fabbriche largamente rimaneggiate, che conservano solo parte delle strutture originarie.

A destare il maggiore interesse è soprattutto l’emblema con cartiglio  inscritto all’interno della greca che sovrasta l’arco. Risalta, in particolar modo, l’epigrafe contenuta nel cartiglio1, i cui bordi laterali sono affiancati da due figure di animali alati (si direbbero grifoni passanti)2, posti di profilo a mo’ di guardiani dei contenuti moraleggianti espressi nel testo inciso.

Dell’iscrizione risulta agevolmente leggibile solo l’ultima riga in basso: MAXIMUM IMPERIUM EST.

2

 

Per la lettura integrale del testo dell’epigrafe si è pertanto fatto ricorso al metodo induttivo che ha portato a ricollegare subito il motto in oggetto ad un passo di Seneca3:  … O quam magnis homines tenentur erroribus qui ius dominandi trans maria cupiunt permittere felicissimosque se iudicant, si multas per milites provincias obtinent et novas veteribus adiungunt ignari quod sit illud ingens parque dis regnum. Imperare sibi maximum imperium est. Doceat me quam sacra res sit iustitia alienum bonum spectans, nihil ex se petens nisi usum sui.4

La parte del testo sottolineata coincide con l’ultima riga della nostra iscrizione, dalla quale sembrerebbero assenti le due parole imperare sibi che la precedono e che sono parte integrante della proposizione alla quale conferiscono senso compiuto.

Ad un’analisi più attenta dell’epigrafe in oggetto, sembra di riconoscere traccia del pronome personale riflessivo sibi (evidenziato in rosso nella foto in basso), la cui posizione centrale induce a ritenere che anche il verbo imperare (evidenziato in nero) dovesse essere collocato nella prima riga, in asse con sibi .

3

Al fine di rendere intelligibile l’intero testo dell’epigrafe (IMPERARE/SIBI/MAXIMUM IMPERIUM EST5), nella foto che segue lo abbiamo sottoscritto parola per parola.

4

 

Una volta decifrato il testo dell’iscrizione, ci si è posto l’obiettivo di chiarire gli eventuali rapporti che verosimilmente intercorrevano tra l’edificio, la massima di Seneca e, più estesamente, l’abitato di Cannole.

L’osservazione dello stato di conservazione dell’iscrizione consente di ravvisare un degrado progressivo che essa ha subito dalla prima all’ultima riga, il che autorizza a pensare che dopo la terza riga (maximum imperium est) non ne seguisse una quarta (magari con l’indicazione di una data).

L’altro elemento significativo è rappresentato dal soprastante medaglione6 che, rispetto alla targa epigrafica, denota uno stato di conservazione migliore. Racchiuso entro una cornice stilisticamente affine a quella del sottostante cartiglio, reca raffigurata una figura maschile in atto di protendere un braccio verso un albero, per raccoglierne i frutti. In basso, disposta su due righe, si legge la frase Calami partus (la generazione di Calamo). L’ipotesi che possa trattarsi di una rappresentazione del mito di Calamo e di Carpo non è peregrina.

5

Calamo era figlio del fiume Meandro e in greco κάλαμος (leggi càlamos) significa canna; la sua personificazione è già presente in Pausania, geografo greco del II secolo d. C.7, oltre che in Servio, autore latino del IV-V secolo d. C.8.

Carpo, invece. era figlio di Zefiro e di una delle Ore (o Stagioni). Il nome in greco (κάρπος, leggi carpos) significa frutto e, come per Calamo, anche la sue personificazione risale a Pausania9 e a Servio10.

Autore del mito che racconta la tragica storia d’amore dei due amanti è Nonno di Panopoli, poeta bizantino vissuto tra il IV e il V secolo11.

La favola di Calamo e Carpo è narrata nell’undicesimo canto delle Dionisiache: i due giovani amanti erano soliti giocare lungo le rive del fiume, ma un giorno Carpo, durante una gara di nuoto, cadde nel fiume Menandro, annegando. Calamo, disperato, pregò Giove di privarlo della vita per conseNtirgli di riunirsi al suo amante. Commosso da tanto dolore, il re degli dei lo mutò in una pianta che, ordinariamente, cresce sulle sponde dei fiumi: la canna. Per completare l’opera, Giove mutò Carpo in frutti d’ogni specie, affinché potesse riprodursi perpetuamente.

Tornando al nostro emblema, alla base di quanto esposto si è portati a credere che, per efficacia rappresentativa, l’artista abbia voluto sostituire i frutti con un albero che, ad uno sguardo più attento, sembra recare frutti di differenti specie.

È opinione corrente12 che il toponimo Cannole tragga origine dal latino cànnula=cannuccia, diminutivo di canna=canna (dal greco κάννα, leggi canna, con lo stesso significato). E, appunto, una canna è raffigurata nell’attuale stemma civico di Cannole13.

La voce greca κάννα non ha diminutivi (se non, probabilmente, κάννιον, leggi cànnion, =tazza); è dunque evidente che il toponimo deriva dal latino cànnulae, plurale del già ricordato cànnula. La presenza di Calami (dal latino càlamus, trascrizione del già citato κάλαμος) nel medaglione apre nuovi scenari in merito all’ipotesi di un collegamento non solo semantico ma anche di successione toponomastica tra càlamus e cànnulae. Il medaglione sembrerebbe, dunque, testimoniare questa consapevolezza semantica.

Se tale ipotesi fosse corretta, quanto finora esposto autorizzerebbe a ritenere che l’edificio sul quale è apposto l’emblema con il cartiglio rivestisse una precisa funzione istituzionale, come sede dell’Universitas.

Se ulteriori dati dovessero confermare questa attribuzione, si potrebbe supporre che il medaglione ne rappresenti proprio lo stemma e che l’iscrizione nel cartiglio ne costituisca il motto, con il quale il potere cittadino (o comunale), pur non rinunciando alle sue prerogative (posizione centrale e isolata del sibi), sottolinea quello che, in fondo, è il principio fondamentale del buongoverno.

______

1 La forma del cartiglio dello scudo rende plausibile datarlo alla seconda metà del XVI secolo; se fosse possibile fissare la data con maggiore precisione, si potrebbe valutare l’ipotesi che la citazione da Seneca abbia una valenza più spiccatamente politica, eventualmente da avvalorare con riscontri su altre fonti circa la percezione del potere centrale che veniva avvertita a Cannole.

2 Ci sembra di poter escludere che si tratti di leoni. La testa dei due animali presenta infatti un rostro aquilino e orecchie prominenti; la presenza delle ali, visibili solo in parte e sicuramente separate dalle volute del cartiglio, caratterizza i mitici animali. Il modellato delle zampe, più simili a quelle di leone che ad artigli di aquila, fa pensare ad una grossolana esecuzione del lapicida. Tuttavia sembra possano individuarsi tre dita anteriori ed uno posteriore, il che confermerebbe tale ipotesi. Il nostro animale, in quanto con le zampe destre più in avanti e più in alto, può essere considerato passante.

3 Lettere a Lucilio, XIX, 4.

4 Traduzione: Ahimè, da quanto grandi errori sono posseduti gli uomini che desiderano ardentemente estendere al di là dei mari il diritto di dominare e si giudicano infelicissimi se ottengono con la forza dei soldati molte provincie e ne aggiungono nuove alle vecchie, non sapendo che quel sogno è grande e adatto agli dei. Comandare a se stessi è il potere più grande. [Questo mi insegni quanto sacra cosa sia la giustizia che guarda al bene altrui, null’altro chiedendo a s<è stessa se non l’uso di se stessa.

5 Traduzione: Comandare a se stessi/è il potere più grande.

6 L’osservazione diretta, anche se non ravvicinata, del manufatto induce a considerarlo coevo con il cartiglio. Tuttavia, tenendo in conto della diversa tonalità della formella sulla quale è montato e che è inserita nella cortina muraria, non si può escludere che esso sia stato apposto successivamente all’epigrafe, magari in sostituzione di un preesistente stemma nobiliare, quasi una sorta di damnatio memoriae.

7 Hellàdos perièghesis, IX, 35.

8 Commentarium in ecl. 5 Vergilii (v. 48).

9 Idem, IX, 33.

10 Idem (v. 48)

11 Dionisiache, XI

12 In realtà è Luigi Maggiulli che, per primo, scrive: … et quia ager conterminus ferax erat cannis Cannulae fluxit (e poché la campagna circostante era rigogliosa di canne, venne fuori Cannole).

13 Lo stemma di Cannole è stato riconosciuto con D.P.R. del 27/7/1987, trascritto dall’originale trasmesso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri-Gabinetto, con nota DSA/4057/6/ar del 16/10/1987 e protocollato al n. 5885/v-2-b del 10/10/1987. Esso così recita: D’oro, alla canna fogliata di sette, quattro a destra, tre a sinistra, di verde. Ornamenti esteriori da Comune.

 

 

Pubblicato su Il delfino e la mezzaluna, anno 1, n. 1, luglio 2012.

Racconti a Galatina. La quindicina

I RACCONTI DELLA VADEA

 

LA Q U I N D I C I N A

centro storico di Galatina
centro storico di Galatina

di Pippi Onesimo

Il sig. Cheròndula aveva appena chiuso il telefono e, visibilmente soddisfatto, abbandonava la scena, mentre una risata generale e un fragoroso battimani lo accompagnavano in segno di appagato compiacimento.

Lui, però, incurante, serio e impettito, quasi indifferente, schivo come un attore esperto, reduce da tante battaglie affrontate su immaginari palcoscenici incantati, imboccava via Orfanotrofio.

Questa stradina, breve e sottile comu nu vermecòculu (come un lombrico), annaspa a doppia ansa, schiacciata dall’imponenza del palazzo signorile dei “Vallone“ e dall’arroganza del palazzo Stasi, i quali con malcelata prepotenza sembrano toglierle il respiro.

Poi, dopo pochi passi, quasi schizzando via con un balzo liberatorio, si dissolve su Piazzetta Arcudi.

Qui, lu Pietruzzu, oltrepassata la putia de lu Scjancatu, si fermava un attimo per bere un sorso d’acqua da una antica fontanina pubblica, che non sempre riusciva, come nemmeno oggi, ad assolvere il suo istituzionale compito… dissetante, per l’incivile offesa de li cuastasi (ragazzacci di strada) e per la scarsa manutenzione pubblica.

Subito dopo, in tutta fretta, si incamminava su via Vignola per scendere giù, verso Chiazza Vecchia (Piazza Vecchia).

E, mentre incedeva con passo svelto e sostenuto, sembrava avere l’aria austera e solenne di un personaggio greco, accidentalmente scivolato giù da una tragedia di Sofocle.

Forse è successo per la disattenzione di una antica Antologia di classici greci, che da sempre aveva custodito le sue opere gelosamente.

Ma non questa volta, perché era stata lasciata per un attimo negligentemente aperta sulla panchina cosparsa di foglie, in un giardino silenzioso e assolato.

E certamente quella imprudenza ha esposto involontariamente una di queste opere alla curiosità del vento.

Questo, soffiando per gioco o per dispetto, in un andirivieni divertito e illogicamente confuso e irreale di mulinelli, ha sfogliato il libro, sollevando a tratti la copertina e rigonfiandole irriverentemente la custodia di carta oleata che la proteggeva.

Poi la ribaltava e la richiudeva con ritmi imprevedibilmente capricciosi .

Così il vento si divertiva, trascorrendo il suo tempo, mentre il sole filtrava, attraverso le foglie di un antico salice, con sottili, tremuli coni di luce polverosa obliquamente infissi nel soffice prato delle aiuole sottostanti.

Di tanto in tanto, con soffi improvvisi e intermittenti, smuoveva le foglie giallo oro appena cadute e frusciava fra le pagine ingiallite del libro, mentre scorreva le sue righe con indiscreta ma delicata circospezione .

E ciò, fino a quando il sole non si adagiava, sbadigliando stanco e scapigliato, dietro un muro di cinta, dopo aver abbozzato col suo faccione largo e rubicondo un fugace sorriso, quando era ancora seminascosto dietro l’antico, imponente, irsuto campanile del paese.

Salutava anche, con cortese e gentile discrezione, le ultime rondini, che garrivano, roteando con ampie, fantasiose, veloci evoluzioni, o con placidi, piccoli cerchi asimmetrici, che sembravano sfiorare, planando, i rossicci tetti ad embrice di vecchie case, che, timorose e spaventate, si stringevano attorno, come arroccate e raccolte in un antico e assonnato presepe.

Forse questi eccellenti, infaticabili, puntuali migratori inseguivano, come sempre, i loro sogni, capricciosamente fluttuando nel cielo azzurro appena, appena cangiante nel grigio, per l’avanzare del tramonto, che lentamente cominciava a velare la campagna circostante.

Intanto, come ad un segnale convenuto, si davano appuntamento, radunandosi a ranghi compatti sui fili d’alta tensione e formando, da palo a palo, una lunga catena, a più strati, di puntini neri strettamente collegati come in una immensa collana.

centro storico di Galatina
centro storico di Galatina

Era già settembre e le rondini si preparavano a levarsi in volo per far ritorno a casa; prima, però, garrivano per qualche istante, quasi volessero scrivere nel cielo un cordiale ringraziamento per l’ospitalità ricevuta ed un rumoroso, vivace arrivederci alla prossima primavera.

Subito dopo, finalmente, avevano via libera le ombre della sera, che, sempre irriverentemente pettegole e sospettosamente curiose, invadevano in tutta fretta la scena, accasandosi senza perdere un attimo di tempo, perché visibilmente affaticate dopo tanto girovagare.

E mentre il vento si acquietava, tutt’intorno rimaneva solo il rumore impercettibile, rispettoso e solenne, ma delicatamente discreto, del silenzio della notte .

A qualcuno che gli chiedeva perché aveva tanta fretta di raggiungere Chiazza Vecchia, il sig. Cheròndula rispondeva sorpreso e meravigliato: “comu ? … ‘nu ‘lu sai, ca oscje cade lu jurnu de la quindicina de la Rusetta ? ”(Come ?… non lo sai che oggi arrivano da Rusetta le nuove signorine, per il cambio quindicinale?).

Poi, con un sorriso ammiccante e malizioso, appena abbozzato, continuò a scendere per via Vignola.

Chicco non fece caso, più di tanto, a quel discorso, anche perché non ne afferrava il senso.

Solo qualche anno più tardi, amici più anziani, più esperti e più navigati gli spiegarono il significato di quel rituale.

Gli riferivano che il cambio arrivava preciso, regolare e puntuale, come i trionfali, imbandierati e vanitosi treni del Ventennio, ogni quindici giorni e si svolgeva fra i complimenti e gli ammiccamenti a volte gentili, a volte volgari, ma… sicuramente interessati dei passanti, qualcuno dei quali potenziale, se non sicuro, cliente.

Le Signorine, alcune in gruppo, altre in fila, comunque in ordine sparso, vistosamente imbellettate e incipriate spargevano dietro di loro una ubriacante, avviluppante e sbarazzina carrara (scia) di profumo e di curiosità.

Si radunavano in Piazza San Pietro, fra il portone d’ingresso del Castello e il bar Sammartino, dove erano giunte con automobili di servizio, messe a disposizione dall’Organizzazione.

Camminavano a piedi con studiato, lento e cadenzato portamento, ancheggiando sulle chianche con impercettibili movimenti ondulatori del bacino, elegantemente accentuati con capricciosa e ricercata movenza .

Ottenevano questo effetto morbido e vellutato, quasi provocatoriamente signorile, con ricercata e ostentata vanità, ma senza scadere mai nella volgarità o nella sguaiata e grossolana sciattezza .

Le gambe erano la loro arma migliore, la loro punta di diamante, il loro manifesto pubblicitario, specie se avvolte in calze a rete sottili e quasi invisibili, …se non fosse per una cucitura nera che verticalmente attraversava il polpaccio ben modellato, esaltandone le fattezze.

Ma l’effetto scenografico diventava speciale, quando incedevano con alti e pericolosi tacchi a spillo, che solo la loro navigata e sperimentata esperienza riusciva a tenere sempre perfettamente diritti, senza mai deragliare di un millimetro.

Vestivano vistosi, policromi e attillati tailleurs parzialmente sbottonati con sbarazzina, contenuta civetteria.

Evidenziavano così candide camicette con i colletti arricciati, come se fossero festose ghirlande di fiori posate sui loro colli diafani e vellutati.

Queste erano poco trasparenti, se non quel tanto per renderle maliziosamente appariscenti.

Le scollature erano sapientemente controllate, appena, appena ammiccanti, ma mai volgari, offensive, o irriverenti.

La pubblicità era anche allora, come oggi e come sempre, l’anima del commercio.

E quella vera, che alimenta la concorrenza, se condotta con lealtà, trasparenza e rispetto delle regole, è la sola capace di esaltare il confronto e la libertà di scelta.


Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Il Risorgimento a Ruffano e Torrepaduli

 

di Paolo Vincenti

Il Risorgimento nella periferia del Mezzogiorno. Ruffano e Torrepaduli dalla rivoluzione giacobina all’Unità (1799-1861), per la collana “Cultura e Storia” della Società di Storia Patria – Sez. di Lecce, è l’ultima fatica dello studioso Ermanno Inguscio (Edipan 2011).

Dedicato al “maggiore pilota Michele Cargnoni, comandante degli ‘Otto Angeli Azzurri’ dell’84° S.A.R. Aereo Aereonautica Militare Italiana”, il libro vanta una Prefazione del professor Mario Spedicato, Presidente della S.S.P.- Lecce nonché docente di Storia Moderna presso l’Università degli Studi del Salento, e una Postfazione dello studioso ruffanese Aldo de Bernart, decano degli storici salentini, maestro e donno del Nostro. Nell’anno delle celebrazioni per l’unità d’Italia, quindi, un ulteriore tassello, nel grande mosaico della conoscenza storica del Risorgimento locale, che tanti studiosi hanno contribuito a comporre. In effetti, mai c’è stata messe più foriera di nuovi spunti e stimoli di dibattito e ricerca storica nell’ambito degli studi salentini, della copiosa produzione editoriale del 2011, grazie alla quale le vicende politico-amministrative che interessarono Terra D’Otranto durante gli anni dell’unificazione sono state a lungo lumeggiate.

Il volume che qui si presenta va appunto in questa direzione, vale a dire cerca di far luce su fatti e personaggi minori del periodo risorgimentale, nello specifico dei due paesi Ruffano e Torrepaduli, nella ormai consolidata e condivisa consapevolezza che la microstoria sia intrecciata indissolubilmente alla macrostoria, nel tessuto connettivo della nostra storia nazionale.

Dopo la Prefazione di Spedicato, nel libro compare una Premessa dell’autore e quindi il corpus della narrazione storica, suffragata da documenti d’archivio, nella compulsazione dei quali Inguscio è un esperto, come dimostrano i suoi numerosi precedenti lavori editoriali, tutti mirati alla conoscenza storica e all’approfondimento delle principali tematiche sociali, economiche, politiche e culturali che hanno interessato le nostre comunità d’appartenenza nei secoli andati.

Il libro di Ermanno Inguscio ci dimostra ancora una volta che il Risorgimento italiano non fu fatto solo dai grandi nomi che abbiamo imparato a conoscere sui libri di scuola , ma anche dal contributo di tanti e tanti uomini e donne i cui nomi sono meno noti, conosciuti solo a livello locale o, a volte, del tutto ignorati, ma che hanno partecipato fattivamente, spesso dando la propria vita, alla causa nazionale. Così anche nell’ambito degli studi storici di Terra D’Otranto, ai nomi tanto celebrati di Sigismondo Castromediano, Liborio Romano, Antonietta De Pace, Giuseppe Libertini, e via dicendo, dovremmo aggiungere quelli dei tanti sconosciuti eroi che, in ogni piccola o grande municipalità della nostra provincia di Lecce, si spesero per la giusta causa e sui quali nomi, libri come questo che abbiamo tra le mani, fanno luce, meritoriamente.

Patrioti come Giuseppe Marti, Antonio Leuzzi, Francesco Villani, Vito Santo, Vincenzo Marchetti, Samuele Gaetani, Raffaele Viva a Ruffano, e Delfino Caretta, Piacentino Occhiazzo, don Antonio De Giorgi a Torrepaduli, vengono messi in risalto in questa pubblicazione, e tornano a parlarci della storia della nostra comunità che anch’essi hanno contribuito ad edificare, con la loro idea forte di patria unita, di nazione. Questo libro potrebbe costituire il prequel, come si direbbe con un termine tratto dal linguaggio televisivo delle fiction, dell’altro libro di Inguscio, “La civica amministrazione di Ruffano. Profilo storico 1861-1999” (Congedo Editore, 1999), nel senso che approfondisce il periodo storico immediatamente precedente a quello trattato in quel libro. Ciò offre una visione d’insieme sulla storia ruffanese degli ultimi due secoli Ottocento e Novecento.

Nella sua Premessa, Inguscio spiega quali sono le fonti (tantissime) da lui consultate per la redazione di questo volume e quali anche le difficoltà incontrate nel percorso di studio a causa della mancata reperibilità di alcuni documenti fondamentali. Nella Prima Parte (“Il 1799 tra rivoluzione e restaurazione”), Inguscio si occupa dei riflessi della Repubblica Partenopea del 1799 in Terra D’Otranto, nello specifico con riferimento alle “Università” di Ruffano e Torrepaduli, e ci parla delle mortalità e natalità nel nuovo stato civile di Ruffano e Torrepaduli (che, all’epoca era aggregata a Supersano). Nella Seconda Parte ( “Decennio francese, Nonimestre, Società segrete”), si occupa delle riforme che avvennero in Terra d’Otranto dalla Rivoluzione Partenopea all’eversione della feudalità (1799-1806), sempre con specifico riferimento al nostro comune, quindi dell’istituzione delle Conclusioni Decurionali di Ruffano e della nascita delle società segrete.

Passa poi ad occuparsi dei demani, dei catasti e del contenzioso amministrativo nel comune di Torrepaduli in età murattiana (1806-1808), della carboneria torrese di Antonio De Giorgi, con la “vendita” di Torrepaduli nell’ex Convento dei Carmelitani , e delle vicende amministrative che interessarono Ruffano durante quegli anni davvero “caldi” per il nostro Paese. Si fanno i nomi di diversi settari ruffanesi, con il movimento carbonaro nell’ex Convento dei Cappuccini.

Nella Terza Parte (“ ll 1848. Fermenti e sommosse”), Inguscio si occupa del periodo che va dal 1830 al 1840, con il propagarsi delle idee mazziniane in Terra D’Otranto, focalizzando le figure di alcuni liberali ruffanesi fra i quali in primis il patriota Raffaele Viva.

Con l’Unificazione, e siamo nella Quinta Parte del libro, anche a Ruffano e Torrepaduli si tiene un Plebiscito per l’Unità, con ben 877 “si” all’Italia unita.

Una parte dello studio è riservata ai mercati e fiere, fra cui la Fiera di San Marco a Ruffano e l’altrettanto nota e antica Fiera di San Rocco a Torrepaduli. Nel biennio decisivo per l’Unità d’Italia (1859-1861), viene approfondito il fenomeno del legittimismo reazionario, in particolare con lo scontro, a Torrepaduli, fra le figure dell’arciprete Caracciolo e del Sindaco D’Urso. In effetti furono molte le manifestazioni filo borboniche nel nostro comune e disordini, in quegli anni agitati, se ne registrarono in tutto il Salento , con processi politici che interessarono anche il Circondario di Ruffano.

E con le Conclusioni, termina il libro, che riporta una serie di fotografie dei più importanti monumenti, palazzi e strade di Ruffano. Dopo la Postfazione di Aldo de Bernart, in “Appendice” vengono riportati: una tavola sinottica delle cose più notevoli in età preunitaria (fatti, luoghi e nomi) di cui si è parlato nel libro, e l’intero elenco degli 877 elettori del plebiscito del 21 ottobre 1860 a Ruffano e Torrepaduli.

Lascio che a chiudere questo pezzo siano le significative parole dell’autore stesso: “Nell’anno delle mille celebrazioni, giustamente programmate nella Penisola, in occasione del 150° dell’Unità D’Italia, nel pieno fiorire nel contesto globale della realtà dell’Europa Unita, è parso utile dotare il lettore di una minuscola tessera di riappropriazione storica d’identità, di due piccole comunità… che, con l’umile contributo dei propri antenati (patrioti, liberali, legittimisti e diffidenti), hanno contribuito al raggiungimento di un’unica patria, dove ciascuno sia protagonista della propria esistenza e della ricerca collettiva del bene.”

Nc’era ‘na fiata… a proposito di stupidi e creduloni

La gente stupida e credulona la si trova dappertutto

di Emilio Rubino

C’era una volta un signore che aveva due figlie. Un giorno, all’ora di pranzo, il padre chiese alla più piccola di scendere in cantina a prendere un po’ di vino. Mentre riempiva il boccale, la giovane ebbe a pensare che era giunto il tempo di trovarsi un fidanzato, amoreggiare con lui, sposarsi e poi avere un figlio. Ma, mentre così fantasticava, le sorse un dubbio atroce.

E ci poi more?”.

E si sciolse in un pianto incontenibile.

Ahi, ahi, fìgghiu mia… ahi, ahi, fìgghiu mia!”.

E rimase a lungo in cantina a piangere a dirotto.

Il padre, molto preoccupato, allora mandò in cantina la seconda figlia per sincerarsi di cosa stesse succedendo. Giuntavi, trovò la sorella che piangeva, singhiozzava e si disperava. Ovviamente la giovane chiese spiegazione di cosa le fosse accaduto. La sorella minore le spiegò che avrebbe voluto fidanzarsi, sposarsi ed avere un figlio. Non fece in tempo di finire il discorso che la sorella maggiore s’interrogò preoccupata: “E ci poi more?”.

Ed iniziò a piangere anche lei e a ripetere con voce tremula: “Ahi, ahi, nipote mia… Ahi, ahi, nipote mia!”.

Poiché le due giovani tardavano a salire, il padre scese in cantina a farsi spiegare il motivo di tanto ritardo. Quando fu ragguagliato sul perché di quei pianti, l’uomo si mise le mani tra i capelli e concluse: “Chiù fesse de li fili mia no’ nd’aggiu ‘iste a nuddha parte ti lu mundu!”. Così dicendo, prese i suoi effetti personali e andò via di casa per sincerarsi se da qualche parte del mondo ci fossero persone più sciocche e grulle delle sue figlie.

Cammina e cammina, l’uomo arrivò in un paese sconosciuto. Si fermò in un angolo di strada a riposare, quando scorse, non molto distante da lui, un gruppo di persone che si davano un gran da fare e si disperavano, implorando l’intervento divino. Vi si avvicinò e vide un ragazzetto che tentava inutilmente di estrarre un braccio infilato in una piccola giara, inthra ‘na capaseddha come diciamo noi a Nardò. Perciò, tutta la famiglia e i conoscenti più stretti inveivano contro la malasorte.

Sorte noscia, cce piccatu, l’imu tagghiare lu razzu!… Cce discrazia, sorte noscia, cce discrazia!… Fanni ‘na cosa ti li mani tua, Ggessu mia!”.

Tagliare il braccio?” – si domandò l’estraneo – “Ma è da pazzi tagliare il braccio per un motivo così banale!”. Perciò, dopo aver chiesto permesso ai familiari, l’uomo si avvicinò al ragazzo e gli chiese: “Cce puerti a manu?”.

Sei nuci” – rispose subito quello.

Lassande toi e tira fore lu razzu!”.

Il ragazzetto ubbidì, ma il braccio continuava a rimanere incastrato nella giara. Peggio di peggio: i familiari erano ancor di più disperati.

Cce discrazia, sorta noscia, cce discrazia!” – continuavano quelli, afflitti e disperati più che mai. L’uomo riparlò ancora al bimbo.

Quanti nuci tieni ‘ncora a manu?”.

Toi!” – rispose secco il fanciullo.

Lassande unu e tira lu razzu fore!”.

Anche questa volta il ragazzo ubbidì e, meraviglia delle meraviglie, il braccio venne fuori dalla giara per la gioia di tutti i presenti.

Miraculu, miraculu!… Quistu è nu santu, quistu è nu santu!”. – gridarono tutti all’unisono. E così dicendo colmarono di doni il forestiero, che andò via nella convinzione che gente stupida ci fosse dappertutto.

Cammina e cammina, arrivò nei pressi di una chiesa di un altro paese. Tutt’intorno vi erano molte persone che si lamentavano e piangevano per un problema che ritenevano di difficile soluzione.

Piccatu, piccatu!… l’imu tagghiare l’anche, se no nu’ trase!” – imprecavano alcuni.

“…oppuru l’imu tagghiare la capu!” – suggerivano altri. Ed era un pianto generale.

Era successo che una sposa, data la sua notevole altezza, non riusciva ad entrare in chiesa, la cui porta d’ingresso era più bassa di lei. Da qui il dilemma: o tagliare le gambe della sposa oppure la testa.

L’uomo allora, facendosi largo tra la gente, si avvicinò alla sposa e, allontanati i presenti, le disse: “Piècate nu picca… nu picca ancora… ancora ‘n addhu picca. Eccu, mo’ poti trasire!”.

E la donna riuscì ad entrare in chiesa. Gli applausi fioccarono da più parti, tanto che l’uomo fu preso, sollevato e portato in trionfo come un vero eroe.

Comu ha’ fattu, comu ha’ fattu!Tu si nu santu, si nu santu!” – si compiacquero tutti quanti.

Colmatolo di doni e di denaro, lo ossequiarono ripetutamente con inchini regali.

Il forestiero riprese la strada e, cammina e cammina, entrò in un altro paese. Si accorse subito che una donna, pensosa e triste, se ne stava seduta sul limitare di casa. L’uomo salutò e tirò dritto, ma quella lo bloccò immediatamente.

Tu nu’ ssi di qua, veru?!… Mi pari tantu stranu, come se sta bbeni de l’addhu mundu!… Me ssamiji a ‘n’anima bbona!” – suppose la donna.

Quello istintivamente annuì.

Oh, cci bellu!… Addhra ssobbra ha’ bbistu pe’ ccasu l’anima ti la figghia mia?!… Dimme, l’ha’ bbista?!”.

L’uomo assentì una seconda volta.

T’ha dittu ca ‘ole quarche cosa?… Timme, cci t’ha dittu la figghia mia?!”.

L’uomo, avendo intuito di trovarsi di fronte a persona molto credulona, le rispose: “Ha’ dittu ca li sèrvanu moti sordi, percè ‘ole cu ssi ccatta l’indurgenza ti li santi”.

Subito la donna si precipitò in casa, prese trenta monete d’oro e le consegnò al forestiero, il quale ringraziò, assicurandola che le avrebbe date… all’anima della figlia.

L’uomo andò via, gongolando dentro di sé e pensando che quanto più si gira per il mondo tanto più emergono ed aumentano gli sciocchi. Per tale motivo decise di ritornare a casa, convinto più che mai di non essere l’unico ad avere delle figlie stupide e tonte.

Come dire… “mal comune mezzo gaudio”.

2 aprile. San Francesco da Paola. Lecce devota al santo calabrese

di Giovanna Falco

All’indomani della disfatta della Repubblica partenopea per opera di don Giovanni d’Austria – avvenuta il 6 aprile 1648 -, il 29 dello stesso mese il Capitolo Cattedrale confermò il protettorato di San Francesco da Paola su Lecce, già in precedenza deliberato dal parlamento cittadino[1].

Lecce, chiesa di San Francesco da Paola (ph Giovanna Falco)

Gli storici hanno letto in questa decisione, sia una volontà di pacificazione sociale dopo i violenti moti scoppiati in quegli anni, sia un tributo a Filippo IV[2]. La scelta ricadde sul Santo di Paola, anche perché il 2 aprile ricorreva la sua festa.

Eppure San Francesco in molte sue prediche aveva difeso i più deboli contro la tracotanza dei potenti, tant’è vero che in un primo momento fu ritenuto pericoloso da Ferrante d’Aragona. Costui in seguito si ravvisò e nel 1482, quando Francesco transitò da Napoli per recarsi in Francia presso la corte di Luigi XII, lo volle conoscere.

Si narra che Ferrante cercò di conquistare la simpatia del frate offrendogli un piatto di monete d’oro, da adoperare per costruire un convento in città. Francesco ne spezzò una: ne scaturì del sangue e ammonì il re perché lo ritenne quello dei sudditi tiranneggiati. Questo episodio potrebbe indicare la volontà del vescovo di Lecce, Mons. Luigi Pappacoda, di rassicurare la popolazione ricaduta sotto il giogo del potere spagnolo, proponendo come patrono di Lecce proprio il difensore degli oppressi.

Lecce, particolare della facciata della chiesa di San Francesco da Paola (ph Giovanna Falco)

A Lecce, com’è già stato scritto in Piccoli tesori nascosti nel centro storico di Lecce: un’edicola di San Francesco da Paola [3], la venerazione per il Santo è stata molto intensa. Nel 1524 la città «ricevè … con molta divotione, e particolare affetto» i «Religiosi dell’Ordine de’ Minimi di S. Francesco di Paola»[4]. Erano passati solo cinque anni dalla solenne Canonizzazione proclamata da papa Leone X, quando Giovanna Maremonte, su disposizione testamentaria del marito Bernardo Peruzzi, fece realizzare chiesa e convento dedicati a Santa Maria degli Angeli.

Sulla facciata e lungo il fianco sinistro della chiesa è scolpita una teoria di testine: si ritiene che raffigurino personaggi legati alla vita di San Francesco e dei committenti del complesso religioso. All’interno della chiesa ben due altari sono dedicati al Santo: in uno è riposto un busto ligneo, nell’altro una statua lapidea.

Le colonne che fiancheggiano l’altare della Natività di Maria Vergine presentano bassorilievi che ritraggono simbologie legate al Santo, così come la volta del presbiterio raccoglie quattordici affreschi raffiguranti episodi della sua vita.

Lecce, palazzo Adorno, capitello con l’effigie del santo (ph Giovanna Falco)

Lo stesso tema si riscontra nella basilica di Santa Croce: «A man destra dell’Altare maggiore vi è la Cappella» dedicata a San Francesco di Paola, eretta dal barone di Sternatia Gio. Carlo Cicala nel 1615, «co(n) una sua divota, e bella statua in Pietra, e dentro la medesima Cappella à torno à torno è scolpita di mezo rilievo tutta la vita di detto Santo e miracoli, opera di Francesc’Antonio Zimbalo buonissimo scultore di nostri tempi»[5]. Il busto del Santo è ritratto a tutto tondo anche su un capitello di una colonna nel portico di palazzo Adorno (su quello di fronte è scolpito il busto di San Francesco d’Assisi), anch’esso proprietà del barone di Sternatia[6].

Si riscontrano simulacri di San Francesco da Paola nelle chiese francescane di Santa Chiara (una statua lapidea nell’altare dell’Immacolata Concezione) e di Sant’Antonio della piazza (o San Giuseppe), dove nell’omonimo altare è riposta una statua in legno datata 1581.

Il Santo è venerato anche nella chiesa del Carmine, dove gli è stato dedicato lo splendido altare del transetto a destra: qui tra un tripudio di decorazioni, intercalate da statue di sante dell’Ordine carmelitano, emerge dalla nicchia la statua in cartapesta del Santo, ritratto anche nell’edicola tonda del fastigio.

Il secondo altare a sinistra della chiesa di Sant’Anna, infine, è stato dedicato a San Francesco da Paola, racchiude un busto molto simile a quello conservato presso la chiesa di Santa Maria degli Angeli.

Purtroppo può essere soltanto citata la chiesa dell’Annunziata, annessa al convento di Santa Maria degli Angelilli del Secondo Ordine dei Minimi fondato nel 1542 dai fratelli De Marco. La comunità delle Paolotte, composta nel corso del Seicento da una sessantina di suore (tra cui le figlie di Gerolamo Cicala), fu soppressa nel 1814. Dopo varie vicissitudini, nel 1895 l’edificio diventò di proprietà comunale e nel 1913 la chiesa fu abbattuta per realizzare una nuova ala di palazzo Carafa, dov’è stata realizzata l’aula consiliare.

Lecce, edicola in p.tta Lucio Epulione (ph Giovanna Falco)

Come si è già accennato nell’articolo di Spigolature Salentine, pubblicato il 30 dicembre 2010, la devozione per San Francesco da Paola continua a essere fortemente perpetuata: lo denotano le cinque edicole dedicate al Santo sparse nel centro storico di Lecce, riconducibili alla prima metà del Novecento[7]. L’articolo era dedicato al simulacro del Santo in piazzetta Scipione De Summa. Nel frattempo una staccionata ha ostruito l’accesso al giardino dov’è riposta l’edicola, quindi non è più possibile osservarla.

edicola in p.tta De Summa (ph Giovanna Falco)

[1] Cfr. M.R. TAMBLÈ, Strategie cultuali e controllo sociale in Terra d’Otranto nel Seicento, in B. PELLEGRINO – M. SPEDICATO (a cura di), Società, congiunture demografiche e religiosità in Terra d’Otranto nel XVII secolo, Galatina 1990, pp. 399-440.

[2] La rivolta antispagnola scoppiata a Napoli nel 1647, a causa dell’aumento delle gabelle per far fronte alle spese di guerra e, poi combattuta contro chi defraudava il popolo (nobili esattori e clero) si diffuse in modo preoccupante anche nel Salento (Brindisi, Lecce, Nardò e Muro). Sta di fatto che, dopo la pacificazione fu proprio il clero a trarre vantaggio dal consolidamento del potere spagnolo. Contemporaneamente al Santo di Paola, fu proclamato protettore di Lecce anche San Francesco d’Assisi. Il culto ufficiale fu approvato dalla Sacra Congregazione dei Riti nel 1689, unitamente a quello di altri santi. In quegli anni reggeva la diocesi di Lecce Mons. Luigi Pappacoda che, grazie a queste strategie cultuali, conquistò una forte egemonia in città, culminata nel 1658 con la proclamazione di Sant’Oronzo a principale protettore.

[4] G. C. INFANTINO, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), p. 93.

[5] Ivi, p. 219. Nelle dodici formelle sono rappresentati: la liberazione di un’ossessa dai demoni, l’attraversamento dello stretto di Messina, la resurrezione di un fanciullo, la guarigione del barone di Belmonte, l’intercessione per la liberazione di Otranto, la distribuzione del cero alle truppe, la sua nascita, l’abbraccio alla vita claustrale, il suo eremitaggio, il miracolo della fornace ardente, il momento in cui dà la regola dell’ordine dei Minimi, la resurrezione di un assiderato.

[6] I capitelli, simili a quelli della navata centrale di Santa Croce, risalgono al 1568 e sono riconducibili a Ferrante Loffredo, governatore di Terra d’Otranto, legato da una profonda stima a Giovanni Matteo Adorno, primo proprietario del palazzo (Cfr. M CAZZATO, La storia e le famiglie tra XVI e XVII secolo, in R. POSO (a cura di), Palazzo Adorno. Storia e restauri, Matera 2000, pp. 31-51).

[7] Le nicchie sono in: p.tta Lucio Epulione 1, via dei Figuli 24, corte dei Buccarelli, via Sferracavalli 1 e in p.tta Giorgio Baglivi 18 (Cfr. G. DE SIMONE, Lecce. Le edicole sacre del borgo antico, Lecce 1991, pp. 54-55, 78-79, 96-97, 126-127, 160-161).

La statua di san Francesco da Paola a Ruffano

di Paolo Vincenti

Sarà bene il caso di ricordare che la statua di San Francesco di Paola, che campeggia al centro della nostra bella piazza ruffanese, dedicata proprio a questo santo, compie 300 anni. Ebbene si. Come ci ricorda con solerzia  Aldo de Bernart, quella statua venne costruita all’inizio del Settecento, per la precisione nel 1711, quando, giunta la venerazione di San Francesco di Paola nel Salento e anche a Ruffano, venne costruita la chiesetta intitolata al Santo , per volere dell’allora arciprete don Antonio d’Alessandro, nello stesso periodo in cui era anche in costruzione la Chiesa Madre intitolata alla Beata Maria Vergine. Aldo de Bernart, pochi anni fa, ha ricordato in un suo opuscoletto auto distribuito, la figura del Santo di Paola e la chiesetta in parola che, nell’Ottocento, divenne l’oratorio privato di Mons. Francesco D’Urso, Vescovo di Ugento dal 1825 al 1826. Questa chiesetta e la statua, opere di Valerio Margoleo, sono oggi di proprietà della famiglia Pizzolante- Leuzzi, ma  versano purtroppo in uno stato di profonda incuria  e richiederebbero  un urgente restauro, come lo stesso de Bernart da più tempo denuncia. Anche perché la statua lapidea di San Francesco di Paola, come si può capire, ha per il nostro paese un valore devozionale e  storico se è vero che a questa è stata intitolata la piazza, che alcuni ruffanesi ritengono superficialmente sia intitolata  al più noto  San Francesco D’Assisi. Trecento anni, dunque, per uno dei manufatti artistici che compongono il patrimonio culturale della nostra Ruffano e per una testimonianza importante della nostra storia.

 

Per grazia ricevuta

Gallipoli, chiesa di San Francesco di Paola

di Antonio Faita

Due anni fa si è celebrato il trecentenario della statua lapidea di San Francesco di Paola che campeggia nel centro della piazza di Ruffano, realizzata nel 1711, con la relativa chiesetta omonima, ad opera del martinese mastro Valerio Margoleo. Nel 2007 se ne occupò lo studioso Aldo de Bernart in occasione del V centenario (1507-2007) della morte di San Francesco di Paola[1], nel 2011 lo studioso Paolo Vincenti con un saggio pubblicato sul blog “Spigolature Salentine” dal titolo “La statua di San Francesco di Paola a Ruffano”, una sorta di cronistoria sino ai giorni d’oggi con lo scopo di sensibilizzare gli enti preposti ad intervenire per un urgente restauro.

La statua fu realizzata agli inizi del ‘700, quando nel Salento si propagava il culto e la venerazione del Santo di Paola. Oltre a essere il protettore della città dei martiri di Otranto, che ne predisse con precisione la caduta sotto i turchi nell’eccidio del 1480, varie chiese furono erette a suo nome,  ma la città dove il culto per il Santo calabrese è molto sentito, è la nostra Gallipoli, tanto che noi gallipolini gli abbiamo assegnato l’appellativo di “Santu Patre”.

Il patrono della gente di mare è venerato nella piccola e splendida chiesa (1630) che affaccia sul porto, affiancata da quel che ne resta del vecchio convento seicentesco (1613) dei frati Paolotti (qualche colonna e tracce di affreschi sulla storia dell’ordine), oggi in rovina. Per tale ricorrenza, rovistando tra i miei appunti d’archivio, ho reperito alcune notizie che sono a loro volta tratte da un regesto notarile del 1711, che illustrano un singolare episodio di grazia ricevuta a intercessione di San Francesco di Paola che, con i suoi miracoli, meravigliò il mondo intero e il suo culto dilagò prepotentemente. Inoltre, dal regesto, emergono alcuni aspetti storici del nostro paese durante la guerra di successine spagnola (1701-1713/14)[2].

Dal documento veniamo a conoscenza che il 19 gennaio 1711 (in quest’anno, Carlo III venne incoronato Imperatore del Sacro Romano Impero[3]), il reverendo don Giuseppe Bitonte, sacerdote della “Cattedrale Chiesa di Gallipoli”, dichiarava “per chiarezza della verità accerta, certifica et attesta[4], quanto segue: nell’anno del Signore 1707 un esercito austriaco “de tedeschi”, comandati dal Conte Wirich Philipp Lorenz Daun[5], discese la penisola, attraversando lo stato pontificio  e passando per Caianello e Mugnano, per espellere dal napoletano le deboli guarnigioni spagnole che vi erano rimaste[6]. Giovedì 7 luglio, 20.000 uomini “In nome dell’Invitissimo e Cattolico Gran Monarca delle Spagne e di Napoli Carlo III d’Austria che Dio lo guardi” fecero il loro ingresso a Napoli, città che cadde senza opporre nessuna resistenza. L’esercito austriaco fu accolto da un incredibile plauso popolare e mentre usciva l’ultima fila delle guarnigioni spagnole, con onore e bandiere spiegate, i “tedeschi” entravano e il popolo che in gran numero era presente, cominciò a sventolare i fazzoletti e a gridare «Viva L’Imperatore, viva Carlo III»[7].

Il passaggio della città dal Viceregno spagnolo a quello austriaco avvenne come un semplice avvicendamento. Nella stessa giornata Georg Adam von Martinitz, primo Vicerè austriaco venuto al seguito dell’esercito Imperiale, prese possesso del Palazzo Reale, sede del governo, che fino al giorno prima (6 luglio) aveva ospitato l’ultimo Vicerè spagnolo. Infatti, durante il governo di Juan Manuel Fernández Pacheco, “Duca d’Ascalona[8] e ultimo Vicerè spagnolo, il nostro reverendo don Giuseppe Bitonte, che copriva la carica di cappellano di un “Reggimento de soldati Napoletano[9], assistette alla presa forzata, su ordini del Vicerè, di “Isidoro Leonardo Andriolo di Gallipoli che si trovava In Napoli per servire In detto Reggimento da Sargente”, per farlo imbarcare e deportarlo “nella piazza di Longone[10], in quanto non “voleva militare (combattere) contro l’Armi del Re nostro Signore Carlo Terzo”.

In effetti, già mesi prima si avvertiva l’avanzamento dell’esercito austriaco verso Napoli, mentre il Viceré sottraeva soldati dalla capitale, inviandoli di rinforzo a Capua, a Gaeta e in Abruzzo e lasciando pertanto i castelli di Napoli pressoché sguarniti[11]. Tra confusione, mancanza di competenza militare e soprattutto di coraggio, tutto doveva andare ancora avanti come al solito e il popolo napoletano non doveva nemmeno lontanamente sospettare che la situazione stesse – come in effetti stava – precipitando.

Nel sentire che gli ussari austriaci erano così vicini, i napoletani erano già palesemente disponibili ad acclamare un nuovo sovrano[12]. Così avvenne anche per il sergente Isidoro Andriolo che non riconosceva più Filippo V come suo Re, rifiutandosi di combattere contro il nuovo sovrano Carlo III. Perciò, imbarcato con forza assieme al cappellano Bitonte, due ufficiali del “detto Reggimento” ricevettero l’ordine dal Vicerè che il suddetto Andriolo dovesse essere deportato per cinque anni presso la fortezza di Longone e alla prima “occasione et intoppo lo passassero per l’armi (di fucilarlo)”.

La mattina di mercoledì 6 luglio, mentre gli austriaci arrivavano ad Aversa, il “Duca d’Ascalona”, aveva provato inutilmente un’ultima volta a incitare alle armi il popolo. Utilizzando una scala segreta, che dagli appartamenti reali portava al mare, s’imbarcò con la sua famiglia su una gondolae lasciarono Napoli per Gaeta, accompagnati da un convoglio formato dalle sei migliori galere e da sette tartane[13] e, sicuramente, su una di queste galere fu imbarcato il sergente Andriolo, il quale, in prossimità di “Monte Circello[14] e “tenendo a vista due soldati di guardia, si buttò in Mare”. Dato subito l’allarme, furono calate “la felluca[15] delle Galere e lo schifo[16] della Tartana di Padron Pietro Moresca”, ma la ricerca fu vana: il sergente riuscì a nuotare sott’acqua e non vedendolo riemergere lo diedero per morto. Ma, per intercessione o per “miracolo di San Francesco de Paula”, in quanto devoto al santo di Paola, “si salvò la vita, avendo perduto tutte le sue robbe e vestito di buona qualità e nudo fù a terra”.

statua di San Francesco da Paola nell’omonima chiesa di Gallipoli

Il gesto che compì il sergente Andriolo, lo fece “per voler esser fedele soldato e sargente delli Regimenti d’Armi di detta Maestà di Carlo III, che Dio lo guardi”. Anche il reverendo don Giuseppe Bitonte lo dava ormai per scontato di “essersi annegato”. Dopo due giorni, e precisamente il 9 luglio, tre delle tartane del convoglio del Vicerè ancora bordeggiavano nel golfo in cerca di vento, s’inviarono delle filluche per intimare a quei padroni che non proseguissero il loro viaggio verso Gaeta, mentre  due delle suddette galere non arrivarono a Gaeta perché, nel corso di quel breve tragitto, tornarono a Napoli per offrire al nemico subentrante il loro carico di munizioni[17]. Probabilmente fu quella l’occasione in cui il reverendo don Giuseppe, tornato a Napoli, rivide il sergente D’Andriolo che, non credendo ai suoi occhi, esclamò: « certo figliolo voi per Miracolo avete la vita » e così il reverendo Giuseppe attestò il tutto.


[1] A. De BERNART, “In margine al V centenario (1507 – 2 aprile – 2007) della morte di San Francesco di Paola”, Tip. In guscio e De Vitis, Ruffano 2007;

[2] www.wikipedia.it: La guerra di successione spagnola fu combattuta tra il 1701 e il 1713/1714 e vide schierati da una parte la Francia, la Baviera, con il suo principe elettore Massimiliano II Emanuele e l’arcivescovato di Colonia, dall’altra l’Inghilterra, l’Austria e gli altri stati tedeschi del Sacro Romano Impero, tutti uniti nella cosiddetta Grande Alleanza o Alleanza Imperiale. Dopo lunghe e laboriose trattative, protrattesi per circa un anno, il 13 luglio del 1713 fu firmato il trattato di pace di Utrecht tra la Francia, da una parte, e l’Inghilterra, il Portogallo, la Prussia, l’Olanda e la Savoia, dall’altra, che metteva, così, fine alla guerra di successione spagnola. Per poter mettere definitivamente la parola fine alla guerra di successione spagnola, era necessario, però, che anche l’Austria sottoscrivesse il trattato di pace con la Francia: ciò avvenne il 6 marzo 1714 nella città di Rastatt;

[3] www.wikipedia.it: Nel 1711, si registrò una svolta politica inaspettata e decisiva per le risoluzioni del conflitto. Moriva, infatti, l’Imperatore Giuseppe I e gli succedeva il fratello già pretendente al trono di Spagna, l’arciduca Carlo d’Asburgo, col nome di Carlo VI ovvero Carlo III;

[4] ASLecce, Not. Carlo Megha, Anno 1711, coll.40/13, “In Dei nomine amen”, ff. 15/v-16/v;

[5] www.treccani.it: Daun (o Dhaun), Wirich Philipp Lorenz, conte di Teano, marchese di Rivoli. – Feldmaresciallo (Vienna 1669 – ivi 1741), divenne maggiore generale dell’esercito austriaco nel 1701 e difese, durante la guerra di successione spagnola, Torino assediata dai Francesi, fino all’arrivo del principe Eugenio. Occupò il Regno di Napoli (1707). Promosso feldmaresciallo, ebbe il titolo di grande di Spagna. Viceré di Napoli (1713), fu poi luogotenente dei Paesi Bassi austriaci (1725) e governatore di Milano (1728);

[6] Cfr., J. S. BROMLEY, “Storia del Mondo Moderno”, Vol.6, Ed. Garzanti 1971;

[7] G. PERICE, “Le cronache militari del regno di Napoli e l’evoluzione tecnico-tattica della guerra verso il declino dell’egemonia spagnola (1668-1707)”, 2008, pp. 390-391;

[8] Juan Manuel Fernández Pacheco y Zúñiga (1650-1725); Duca d’Escalona (comune spagnolo situato nella comunità autonoma di Castiglia-La Mancia) e Marchese di Villena (comune spagnolo situato nella comunità autonoma Valenciana), nominato Vicerè, da Filippo V di Spagna, il suo periodo fu, dal 15 febbraio 1702 al 6 luglio 1707;

[9] Cfr., G. PERICE, “Le cronache militari del regno di Napoli….”: nella lista dei reggimenti di fanteria spagnola, risultavano due corpi sicuramente napoletani o comunque di chiara origine partenopea; quello del colonnello aquilano Biase Dragonetti, il quale si era chiamato prima Visconti e ancor prima Armada viejo o meglio Tercio viejo del mar Océno de infanteria Napolitana, era stato uno dei terzi più antichi e gloriosi della Corona e aveva per lo più sempre fatto da fanteria di marina dell’armata oceanica spagnola, prenderà ora il definitivo e perpetuo nome di Nápoles, mentre quello del colonnello Ferdinando Caracciolo si chiamerà da questo momento Basilicata, p. 383;

[10] www.wikipedia.it: Il Forte di Longone, è una fortificazione costiera situata nel comune di Porto Azzurro, lungo la costa sud-orientale dell’Isola d’Elba rivolta verso il Canale di Piombino. La sua ubicazione è sul promontorio che domina da est la baia del porto. L’imponente complesso fortificato venne edificato dagli Spagnoli all’inizio del Seicento, per potenziare il sistema difensivo costiero dello Stato dei Presidii, il cui territorio inglobava anche parte della costa orientale e meridionale dell’isola. L’intera struttura fortificata fu realizzata in soli due anni, tra il 1603 e il 1605. Le originarie funzioni di avvistamento e di difesa furono svolte fino alla metà dell’Ottocento, quando gradualmente la struttura militare fu dismessa per essere convertita in carcere, funzione che svolge tuttora;

[11] Cfr., G. PERICE, “Le cronache militari del regno di Napoli….”, p. 390;

[12] Cfr., Ibidem, p.389;

[13] Cfr., Ibdem, p.390;

[14] www.wikipedia.it: Il Promontorio del Circeo è un piccolo e isolato massiccio montuoso che si erge sul Mar Tirreno, insieme al promontorio di Gaeta, come estrema propaggine meridionale della provincia di Latina. Insieme all’Isola d’Ischia e all’arcipelago ponziano racchiude le acque del golfo di Gaeta. Fra le cime principali la più alta è il Monte Circeo (541 m s.l.m.), detto anche Monte Circello;

[15] Feluca: un bastimento di piccolo cabotaggio, pontato, con una vela latina, a volte con una seconda vela latina più piccola all’estrema poppa (mezzanella) e il polaccone: da30 a 50 ton;

[16] Schifo: Piccola imbarcazione leggerissima, stretta e lunga, a un vogatore, fornita di due remi situati sulle scalmiere e fuori del bordo, con sedile scorrevole e senza timoniere;

[17] Cfr., G. PERICE, “Le cronache militari del regno di Napoli….”, p. 390.

pubblicato su Anxa,  Anno IX-2011, luglio agosto.

Cosimo De Giorgi, Pascareddha, lu riu, l’urteddha

di Maria Grazia Presicce

 

Il giorno dopo la santa Pasqua, nel giorno del Lunedì dell’Angelo, i salentini amano trascorrere una giornata all’insegna del divertimento e della baldoria. I paesi salentini, come ben sappiamo, sono tantissimi e, naturalmente, ogni luogo ha una sua tradizione riguardo questa ricorrenza che, comunque, al di là delle usanze culinarie e religiose, è sempre volta allo svago in compagnia.

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La Pasquetta, di solito, si trascorre in campagna o vicino al mare  e in quasi tutti i paesi si svolge  sempre il lunedì dopo la Pasqua. In alcune località, però, la Pasquetta si festeggia anche il  martedì e pare nel Capo si svolgesse anche il giovedì, in  un luogo prestabilito dove la gente ama radunarsi.  A Copertino si va alla Grottella, nei pressi del Santuario della Madonna  e perciò la pasquetta si chiama la Urteddha, a Lecce ci si raduna vicino alla chiesetta della Madonna di Loreto ( XII secolo, feudo di Surbo, vicinissima a Lecce) che i leccesi hanno sempre chiamato la chiesa della Madonna d’Aurìo[2], che in forma dialettale è divenuta lu riu dando così il nome alla giornata di festa.

La chiesa della Grottella a Copertino
La chiesa della Grottella a Copertino

Il progresso e la vita moderna hanno dato un’altra veste a questa ricorrenza e quindi la pasquetta o il giorno dopo adesso si svolgono all’insegna di varie manifestazione musicali popolari, di visite ai parchi e di pranzi  luculliani nei ristoranti. Comunque, non manca chi ancora predilige la semplice scampagnata all’aria aperta con amici e parenti portandosi da casa il pranzo da gustare sui prati o vicino al mare o vicino ai luoghi di tradizione religiosa..

Naturalmente, decenni fa, la gente trascorreva questa giornata in modo molto semplice  e lo stare insieme consisteva solo nel consumare quello che ogni partecipante preparava, il tutto accompagnato da un bicchiere di vino o…anche di più.  Tutto si risolveva, quindi in un pic-nic in compagnia e in allegria. Tutto ciò lo riscontriamo in questo articolo di Cosimo De Giorgi  riportato su “ La Democrazia” Lecce 9-10 Aprile 1904, anno VI n°3   e che restituisco ai lettori  grazie alla  “Fondazione Terra d’Otranto”

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Testata della” Democrazia” periodico politico amministrativo commerciale letterario del 1904

 

 

Lu riu

Ogni anno, il martedì o il giovedì dopo Pasqua, ogni buon leccese non può fare a meno della solita scampagnata e, per conseguenza, della solita manciatina sull’erba fresca, profumata dai primi fiorellini. Dico ogni buon leccese, intendendo parlare di quasi tutti i paesi della Provincia, poiché l’usanza tradizionale si estende generalmente, e quasi sotto la medesima forma. Di consueto, poiché la stagione è fiorente, una gaia mattinata piena di sole invita ai campi e alle rive del mare.

E lì  si corre allegri, come ad una grande festa, dopo lunghi preparativi di pranzetti succulenti, portando l’immancabile pirettu del vino e spesso… la ozza.

“ Parbleu!, mi osserverà qualcuno, un’ozza piena? Possibile!”

Possibilissimo, signori miei; anzi vi aggiungo che è cosa mirabile osservare come quel giorno si vuotano i recipienti.

Basta dire che lu riu è tutta una festa consacrata all’epicureismo, e in ispecial modo a quel buon Iddio che è il Bacco.

E scommetterei tutti i miei cento milioni che forse l’unico santo che dal cielo può guardare con occhio benefico i buoni leccesi al ritorno dalla campagna è l’esilarante S. Martino!

Però, da parte gli scherzi, la festa de lu riu  regna da noi come il principio della stagione estiva, l’inizio dei divertimenti villerecci, la prima spinta alle scorrazzate pei campi, all’idillio, all’egloga passionale, al flirt estivo, in mezzo ad un boschetto di piante, dove ci è, forse, solo l’occhio di Dio che vede…

La chiesa di S. Maria d'Aurio
La chiesa di S. Maria d’Aurio

O rus, o rus! Se poteste parlare, casine biancheggianti e quiete ombre pagane; se poteste parlare, onde glauche dell’Adriatico!…

I leccesi, per lo più, usano festeggiare lu riu  nella campagna di Surbo, un paesello limitrofo; ma alcuni paesi, specialmente del Capo, hanno l’abitudine o il gusto di fare lu riu a mare.

Il giovedì dopo Pasqua, tre paeselli bianchi, perduti nel verde degli ulivi, e che, se non avessero la discordanza del dialetto, sarebbero come tre fiori d’un medesimo stelo, emigrano, starei per dire, per un sol giorno, e trapiantano le tende sull’amena spiaggia di Roca.

Per chi non lo sa, Roca, anticamente era un’allegra cittadella sull’Adriatico, fiorente di vita e di commercio. La distrussero i Turchi, che in quell’epoca infestavano quelle spiagge, ed ora Roca non è che un mucchio di macerie, dove il viandante, volentieri, resta un momento a meditare.

In un tempietto romito, parte intagliato nella roccia, una Madonnina bruna sorride e i fiori marini le fanno vaga corona.

I tre paeselli bianchi di Melendugno, Vernole e Calimera, ogni anno nel mese di Maggio fanno la festa a quella Madonna, ed è perciò che anche lu riu amano passarlo

Su quella spiaggia amena quasi come un anticipo dell’imminente festa maggiolina.

E corrono tutti lì, a Roca; e la bella spiaggia deserta sempre si ravviva e sembra quasi che un flutto di vita antica passi ancora sui ruderi della vecchia città.

E le memorie ritornano e la storia s’eterna e la poesia si riaccende!

E le forosette, vestite di festa, dai seni ricolmi e con le punte dei fazzoletti svolazzanti alla brezza marina, si rincorrono sull’erba fresca, rugiadosa, qua e là, a comitive allegre come numerose famiglie di passere.

L’idillio antico si rinnova, l’egloga si perpetua e l’eco ripete tra le rocce e le macerie le grida dei gaudenti e l’idioma neo-ellenico delle belle ragazze calimeresi.

Poi a sera ritorna la calma, l’abituale calma, sull’amena spiaggia, l’idillio e l’egloga passano e l’epopea rimane…

I tre paesi bianchi si ripopolano e la festa de lu riu è passata.

 


 

[2] Da google: wikipedia.org/wiki/Chiesa­ _di_Santa_Maria_d’Aurìo : Il toponimo d’Aurìo potrebbe derivare dalla voce greca Layrìon, ovvero piccolo cenobio. Laure si chiamavano infatti le cripte ipogee dove i basiliani veneravano i Santi.

Copertino. Il santuario della Madonna della Grottella

 

di Fabrizio Suppressa

Una strofa della pizzica copertinese “lu sciallabbà” recita così: “Gira, gira bella come il vento della Grottella”. Poche semplici parole, cariche di bellezza e di sensualità, descrivono con un colpo di pennello un luogo caro alla memoria degli abitanti di Copertino: il Santuario della Madonna della Grottella.

Santuario della Grottella (ph F.Suppressa)

L’attuale chiesetta sorge nei pressi dell’antico casale di Cigliano, uno dei tanti distrutti durante le invasioni dei Goti e dei Saraceni. Il luogo fu frequentato fin dall’epoca romana, come attesta l’origine prediale del toponimo, ma le uniche tracce antiche rintracciabili sono quelle relative all’epoca dei monaci basiliani. La leggenda narra come nel 1540 un pastorello avendo smarrito un vitello, incominciò in lungo e largo a cercarlo in questa antica terra; lo ritrovò tra cespugli e rovi, inginocchiato davanti l’ingresso di una grotta, dove all’interno due misteriosi ceri accesi  rischiaravano il volto affrescato della Vergine. Il pastore, dopo un attimo di smarrimento, corse subito al vicino paese per annunciare il ritrovamento al Capitolo della Collegiata e a tutta la cittadinanza, che una volta accertata la verità, si recò in processione a venerare la sacra immagine.

Affresco raffigurante il ritrovamento miracoloso

Dietro autorizzazione di Mons. Giovanni Battista Acquaviva, in quel periodo Vescovo di Nardò, fu costruita una piccola cappella; probabilmente si trattava di una piccola costruzione che custodiva l’ingresso del vano ipogeo. In pochi anni dal ritrovamento fortuito dell’immagine, crebbe in tutto il territorio della Terra d’Otranto la devozione verso la Madonna della Grottella. Occorreva quindi un luogo di culto più capiente e dignitoso.

Per questo motivo attorno al 1578 fu costruita per volontà di Mons. Cesare Bovio, Vescovo di Nardò, l’attuale chiesa. Infatti in un manoscritto del 1700 è possibile leggere “l’immagine fu venerata con molte particolari processioni dal clero, e crescendo tuttavia li miracoli, e la di lei fama, si rese in tal maniera celebre non solo in tutta la provincia, ma ancora nel Regno che da per tutto venivano genti a tributarla di doni” e ancora “coll’autorità, e pia munificenza di Monsignore Cesare Bovio (…) fu dalli fondamenti eretta la nuova Chiesa in quella forma, e magnificenza che hora si vede.”

La nuova fabbrica, costruita in piena Controriforma, segue molto dettagliatamente le nuove linee dettate nel 1577 da San Carlo Borromeo e presenti nel suo libro intitolato “Instructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae” ovvero le istruzioni per l’assetto di nuovi edifici di culto. Infatti la chiesa si caratterizza in pianta dalla croce latina a navata unica, con piccoli altari intitolati ad alcuni santi situati lateralmente al posto delle navate laterali. Ed ancora, per garantire un’ottima acustica durante le omelie e le predicazioni, la navata è coperta da una poderosa volta a botte così come prescrivevano le nuove regole. L’unica eccezione è data dal livello del pavimento della chiesa; San Carlo Borromeo stabiliva che le nuove costruzioni fossero elevate di almeno tre gradini al di sopra del piano stradale, la nostra chiesa invece è posta quasi un metro e mezzo al di sotto, e per accedervi dall’esterno, una volta varcata la soglia, è necessario scendere una decina di gradini. Probabilmente questa deroga è dovuta all’antico livello dell’ipogeo, ampliato nel friabile tufo in modo da far poggiare l’altare direttamente sull’antica area sacra e soprattutto per non compromettere la stabilità delle possenti mura perimetrali.

Navata centrale (ph F. Suppressa)

Molto più semplice e pulita la facciata dai lineamenti cinquecenteschi, composta da un profilo a capanna con al centro un ampio rosone decorato con putti, foglie e fiori, e un portale in pietra leccese sormontato da una piccola statua raffigurante la Madonna con Bambino.

All’interno della chiesa non mancano pregevoli testimonianze artistiche, sulla sinistra si susseguono gli altari intitolati a San Leonardo, San Francesco, Sant’Eligio e Sant’Antonio, mentre sulla destra sono presenti gli altari dedicati al Calvario e San Giuseppe Sposo; quest’ultimo attribuito con certezza allo scultore barocco Giuseppe Longo di Lecce. L’altare privilegiato è invece opera dello scultore Donato Chiarello, realizzato in pietra leccese con alcune parti in rilievo dorate e presenta al centro l’affresco ritrovato dal pastorello della leggenda.

Particolare del portale in pietra leccese

Interamente affrescata è la parete dell’abside sinistra, in alto, nel catino, troviamo Santa Cecilia che suona e canta con gli angeli la gloria di Dio, immediatamente sotto vi è la scena del ritrovamento miracoloso, e infine nella parte inferiore vi sono gli affreschi di San Francesco che riceve le stimmate e accanto il mistero della Visitazione.

Come ci ricorda la strofa della pizzica, il luogo è caratterizzato da un particolare venticello, fresco e asciutto nel periodo estivo, costantemente in rotazione da tutti i quadranti. Questa peculiarità avviene grazie alle caratteristiche geografiche dell’area, posta infatti su un piccolo poggio a spartiacque tra la Valle della Cupa e la piana di Copertino. Per questo motivo l’area fu la sede prediletta per la villeggiatura estiva di nobili e prelati e nel 1579 il Vescovo di Nardò, Mons. Cesare Bovio vi aggiunse “un comodo, et opportuno Palazzo fabbricatovi (…) attaccato alla chiesa medesima per divertimento e soggiorno de’ Vescovi Suoi Successori”.

Il 23 Febbraio 1613 la chiesetta passò sotto la tutela dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali grazie all’intercessione di Padre Donato Caputo di Copertino e nel 1618 si diede vita ad una piccola comunità monastica dipendente dal Convento di San Francesco intra moenia. In quegli anni, durante i lavori di ingrandimento del complesso monastico, vi lavorò come manovale il quindicenne Giuseppe Desa che tra quelle pietre maturò l’idea di farsi frate. Qui visse per circa 17 anni prima da oblato, poi da novizio, in seguito da diacono e infine fu ordinato sacerdote a Poggiardo il 18 Marzo 1628. La devozione alla Madonna della Grottella era talmente intensa da portare il frate in estasi; davanti alla sacra immagine, che lui amava chiamare “la Mamma mia”, volava “come ape che coglie il nettare dai fiori”. La fama del frate che volava, aumentò la mole di devoti che accorrevano al santuario, ma insospettì anche la Santa Inquisizione e il 21 ottobre 1638 Padre Giuseppe dovette lasciare la sua amata Grottella per recarsi alla volta di Napoli per comparire dinnanzi al tribunale del Sant’Uffizio. Non tornò più nei suoi amati luoghi, e dopo un lungo peregrinare tra Roma, Assisi, Pietrarubbia e Fossombrone, approdò a Osimo dove morirà il 18 settembre 1663.

Altare Privilegiato, affresco della Madonna della Grottella

Nel 1753, in occasione della Beatificazione di Fra Giuseppe da Copertino, fu demolita l’abside destra e vi fu aggiunta la cappella in onore del novello Beato, dove qualche anno dopo fu posta sotto l’altare la cassa mortuaria, donata per l’occasione dai confratelli di Osimo.

Il lento declino del Santuario iniziò dapprima nel 1810 con le leggi napoleoniche; i frati continuarono in ogni caso ad officiare e a vivere in convento fino alla definitiva chiusura del 1867, causata dalla legge di soppressione degli ordini monastici. I beni mobili furono incamerati e venduti dal Regio Demanio, mentre tutto il complesso andò lentamente in rovina fino agli anni ’50 del Novecento, quando i Frati Minori Conventuali ritornarono in possesso del Santuario e si poterono apprestare i primi urgenti lavori di restauro.

Un discorso a parte merita la storia della Grottella durante la Seconda Guerra Mondiale. L’intero complesso fu requisito dalla Regia Aeronautica e trasformato in deposito di munizioni e ordigni a servizio dei vicini aeroporti di Galatina e di Leverano. A partire dal 1940, durante i bombardamenti da parte degli Alleati sui cieli salentini, molti copertinesi venivano a rifugiarsi in questo luogo nonostante la pericolosità e la sensibilità dell’area, probabile obiettivo dell’aviazione nemica.

Le fonti orali narrano di come gli Alleati non bombardarono volutamente il facile bersaglio del Santuario poiché molti piloti italoamericani erano devoti a San Giuseppe da Copertino, Santo protettore degli aviatori. Infatti, tra leggenda e realtà, molti contadini delle nostre campagne sostenevano di aver visto tra le lamiere di alcuni aerei abbattuti medagliette o santini raffiguranti il Santo, come altrettanto riferirono alcuni soldati americani dopo gli sbarchi del 1943.

Ed è così che il “santuario dei copertinesi” entrò a far parte della storia anche in questa occasione.

 

Bibliografia:

P. Bonaventura Popolizio, La Grottella, Santuario mariano del Salento, Copertino, Ed. Il Santo dei Voli, 1958.

F. Verdesca, M. Cazzato, A. Costantini, Guida di Copertino, Galatina, Congedo Editore, 1996.

 

Particolare del rosone (ph F. Suppressa)

La notte de li lazzareni

Lazzareni a Sannicola (da: http://www.piazzasalento.it/)

di Alessio Palumbo

Nell’interessante articolo di Giovanna Falco, Lecce. Il sabato delle Palme e la chiesa di San Lazzaro (https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/04/01/lecce-il-sabato-delle-palme-e-la-chiesa-di-san-lazzaro/), si fa riferimento al tradizionale canto del Santu Lazzaru o Lazzarenu, diffuso nell’arco ionico salentino. Mi piace collegarmi al discorso di Giovanna, per riportare alcune notizie in merito, non tanto legate a studi o letture sull’argomento, quanto all’esperienza personale.

Circa quindici anni fa, ad Aradeo, la tradizione del Santu Lazzaru era ormai data per morente. Una sola famiglia continuava a perpetuarla, portando le note e le voci della canto quaresimale nelle case di amici e parenti.

Avevo poco più di dieci anni e da non molto avevo preso a suonare la fisarmonica. Questo scatenò l’iniziativa di mio zio: perché non formare un gruppo per il Santu Lazzaru? Ci volle più tempo a dirlo che a farlo. La canzone è assai semplice, pienamente alla portata di un fisarmonicista alle prime armi. Come giustamente la definisce Giovanna Falco è una “lunga cantilena” con due strofe che si alternano. Dopo un paio di prove si era pronti.  Ed ecco come si svolgeva (e credo si svolga ancora) la notte dei lazzareni.

Intorno alle dieci ci si riuniva per l’ultima prova. Terminata questa e concordato il giro delle case, si usciva intorno alla mezzanotte. Mio padre e mio zio, le prime voci del gruppo, usavano preparare la gola mangiando pane, sarde e ricotta schianta. Non so se questa dieta avesse reali effetti benefici sull’ugola, ma, a memoria mia, i due non hanno mai preso una stecca nel corso delle varie serate.

Con le strade deserte e silenziose, parcheggiata la macchina un po’ lontano per non rovinare la sorpresa al destinatario della serenata, ci si appostava vicino all’ingresso o meglio ancora  sotto la finestra della camera da letto. La prima strofa era solo musicale, per permettere agli uomini e alle donne di disporsi ed accordarsi. Quindi partivano le parole. La cantilena si divideva in due macrogruppi: il primo con il saluto e la narrazione dell’ultima cena, fino al tradimento di giuda, il secondo con l’invocazione della protezione dei santi, le richieste di beni al proprietario di casa ed il commiato. Riporto il testo, forse non nella sua interezza, ma basandomi sui ricordi. La seconda strofa è quella ripetuta dal coro delle donne.

 

Bona sera a quista casa

a tutti quanti, mo l’abitanti (strofa ripetuta dal coro);

Gesù Cristu scia cu li santi,

ne dese aiutu e salvazione;

Sciamu a casa mo de Simone,

ca addhrai c’è Cristu pe fare la cena;

Addhrai cumpare la Madalena,

con le sue lacrime li piedi bagnava;

Con le sue  lacrime li piedi bagnava,

coi sui capelli ne li ssucava;

Coi capelli ne li ssucava,

ca addhrai purtava lu grande amore;

Giuda foe lu traditore,

tradiu Cristu nostru signore;

Trenta denari vindiu Cristu

cu sacerdoti e farisei;

Sacerdoti e farisei

ne lu minara mmienzu alli ulei;

Oci oci se fa  missione,

mo ci Lazzaru è suscitatu;

Santu Lazzaru essi qua fore,

ca si chiamatu de nostro signore;

Nui pregamu mo l’Annunziata,

mo cu te manda na bona annata;

Nui pregamu santu Trifone,

ci cu te carica, mo lu cippone;

Na bona sera, na bona Pasca,

ne dati l’ove de la puddhrascia

Compare Ucciu[1] nu fare mosse,

ca l’ove n’ha dare de le chiu grosse;

Nu dicu trenta, né na vintina,

ne bastane pur una quindicina;

Ci nu tieni cu ne le mandi,

te mandu doi de sti chiu grandi;

Ci nu poti cu ne le nduci,

te mandu doi de sti carusi;

Santu Lazzaru mo l’imu dittu,

e sia lodatu lu Gesù Cristu.

 

Il suono della fisarmonica, l’alternarsi cantilenante delle voci degli uomini e delle donne, creava un effetto molto suggestivo. Ricordo ancora la serenata fatta nei pressi di un istituto per orfani gestito da suore, con le sorelle affacciate alle rispettive finestre e con i fazzoletti agli occhi. La versione aradeina poi, a differenza ad esempio di quella cutrofianese, essendo in LA minore, ancor più si intona al clima quaresimale e alla narrazione della passione di Cristo.

Terminata l’esecuzione, il padrone di casa, che già nel corso della serenata segnalava il proprio gradimento accendendo le luci dell’abitazione, spalancava la porta, accogliendo i musicanti. Il fisarmonicista lo onorava con un’altra canzone, mentre i cantanti ricevevano i doni, consistenti in uova, farina, formaggio, pasta, liquori, vino, soldi ed altro, da spartire alla fine del ciclo di serenate. Salutato il parente o l’amico, si poteva partire alla volta di una nuova casa, fino a che gli occhi reggevano e la voce lo permetteva.


[1] Il nome cambia a seconda del destinatario

Da Sabato Santo a Pasquetta. La gran settimana a Maglie e nel Salento

di Emilio Panarese 

Sabato santo

Alcuni anni fa la cerimonia della Resurrezione, che oggi si celebra a mezzanotte, si anticipava al mezzogiorno del sabato.

Si disfa il Sepolcro e, se i fiori sono ancora freschi, si adoperano per ornare l’altare maggiore. Chi ha portato il piatto di grano tallito, va in chiesa a riprenderselo: lo seppellirà tra la terra dell’orto o del campo o lo brucerà in casa, perché altrimenti, se profanato, gli sarà negato un buon raccolto. Ma oggi nessuno più è succube di questa superstizione.

Al resurrexit era una gran festa: si sonavano a distesa le campane (se scapulâne: dal lat. excapulare,”si liberavano dal cappio”), si sparavano i fucili in aria o contro la caremma[1]); in chiesa, in casa, per le strade si batteva con gran rumore sulle panche, alle porte, ai portoni, contro le spalliere dei letti e venivano ridotte in più cocci le vecchie stoviglie di casa.

Il fracasso era veramente infernale: tutti si picchiavano a vicenda con forza, de santa raggione, così che, a furia di pacche, molti si snervavano, col vantaggio però di essersi scrollati di dosso, con quei colpi …lustrali, anche i più grossi peccati:

Lu sàbbatu de Pasca a mmenzitìe,

ca te lu campanaru scapulâne

tutte quattru mpacciute le campane,

ci cchiù se scia mbrazzannu a mmenzu vie

e a botta de papagne se sciummâne.

(Nicola G. De Donno)

 

Anche gli apprendisti (discìpuli) le prendevano dal maestro di bottega e le discìpule dalla sarta o dalla maestra ricamatrice e così forte da piangere veramente (cu ttuttu lu core) come nei seguenti quattro endecasillabi a rima baciata:

Sàbbatu santu, currennu currennu

ca le carúse vannu chiangennu,

vannu chiangennu cu ttuttu lu core,

sàbbatu santu cuddure cu ll’ove.

Era ritenuto fortunato chi nasceva o era battezzato in questo giorno, tanto che se era maschio o figlio di povera gente, una volta adulto, veniva incamminato al sacerdozio a spese del Capitolo, perché essere sacerdote in un paese rurale come Maglie significava un tempo godere di franchigie fiscali, del beneficio ecclesiastico, di immunità e sicura promozione sociale.

Anche il sabato santo c’era la processione: durante l’ultima guerra alcune truppe polacche dislocate a Maglie solevano festeggiare la festa di Cristo risorto, portando per le vie del paese su un carro di guerra, seguito da molti fedeli, la statua del Redentore.

Ma il giorno di sabato santo è soprattutto il giorno della cuddura, una delle poche tradizioni magliesi ancora in uso.

La cuddura[2] (dal greco kollùra) è un grosso tarallo o dolce di pasta frolla, intrecciato o no, cotto nel forno, con una o più uova sode in numero dispari[3] nel mezzo o tutt’intorno, che una volta si consumava solo il lunedì o il giovedì in Albis.

 

Anche l’origine di questa tradizione forse è pagana e continuerebbe l’usanza che avevano le cestefore di portare oggetti mitici dinanzi alle statue di Cerere e di Proserpina nelle processioni di febbraio, luglio e novembre, come pagano era l’uso di mangiare, il 17 marzo, nella sagra di Libero Bacco (Liberalia) l’uovo sodo, immagine del mondo, inizio di tutte le cose.

Agnello pasquale di pasta dolce – Santa Cesarea Terme: sagra della cuddura (coll. priv. Nunzio Pacella)

 

Le cuddure hanno forme e nomi vari; appena uscite dal forno, si nascondono in casa per la scampagnata del lunedì. Se ne fanno rotonde, intrecciate, a forma di delta, di staffa, di paniere, di pupa, di stella, di cuore, di angelo, di margherita, di uccello, di galletto, di colomba, di tartaruga, di fischietto, oppure a forma di tromba, con due protuberanze laterali e l’uovo nel mezzo, come quelle, magistralmente lavorate, che si sono esposte nella Mostra della cuddura a S. Cesarea Terme[4].

Molto diffusi a Maglie la pupa e il campanaru.

cuddura con pasta dolce

 

La pupa è una cuddura a forma di bambolina con le treccine di pasta, con due chicchi di caffé e due acini di pepe al posto degli occhi, grani di riso e senape al posto della bocca e del naso. Ha le braccia incrociate nell’atto di portare un uovo sodo che fa capolino dalla pancia; mentre il campanaru ha forma cilindrica e due uova alla base.

Non manca chi ancora si diverte ad ornare agnelli, galletti e colombe con nastrini colorati o con ritagli di panno rosso tagliuzzato (viddusi, “vellosi”) al posto di creste o di ali.

In quanto alla qualità, vi sono quelle di tipo rustico e quelle di tipo dolce. La prima, secondo un’antica tradizione magliese, si fa in questo modo: si prende della farina di grano, si scalda un po’ d’acqua e vi si scioglie un po’ di lievito di birra, si aggiunge un pizzico di sale e si lascia lievitare per circa un’ora. Dopo che la pasta è ben lievitata, si passa all’impasto e, dopo aver dato la forma voluta, dentro si mette un uovo sodo con tutta la scorza. All’ impasto alcuni aggiungono olio e cipolla tritata.

Cuddure magliesi

 

La cuddura di tipo dolce, di pasta frolla, si ottiene invece mescolando farina di grano, strutto, uova, lievito e zucchero. Si lavora bene la pasta, a cui si possono aggiungere pezzi di noce, si dà la forma desiderata e si mette nel forno sino a completa cottura.

Un secolo fa le giovanette solevano donarle ai fidanzati nel giorno di Pasqua.

Se ne vannu prima le cuddure ca lli panetti si diceva una volta per significare che a volte muoiono prima i giovani che i vecchi.

 

Pasqua

Per evitare le più gravi sventure è obbligo per tutti ascoltare la messa e divieto assoluto di recarsi al lavoro: bisogna ad ogni costo intervenire alla benedizione e vestire gli abiti più belli; persino le umili fornaie, per le quali tutti i giorni sono uguali, s’agghindano.

De la strina se mmuta la ricina,

de la Bbifania se mmuta la signurìa.

de Pasca e de Natale se mmútane le furnare.

 

Anche qualche albero, spoglio per tutto l’inverno, ora che è venuta la Pasqua, se mmuta, indossa un nuovo vestito di foglie:

A fica nu ffila e nnu ttesse,

ma te Pasca vistuta se nn’esse.

Tutti, nessuno escluso, in chiesa quel giorno, anche le bestie, se è possibile: Porci a mmissa la mmane de Pasca!, proverbio che si usa anche per indicare un fatto straordinario, inconsueto.

Assai gradita è ai contadini la Pasqua d’aprile (Pasqua alta) [5], specialmente quella rugiadosa o piovosa che fa sperare in un buon raccolto; come nei seguenti ditteri distillati dalla secolare clessidra del tempo:

Natale ssuttu e Ppasca muttulusa.

se oi cu bbegna l’annata graziusa;

Natale lucente e Ppasca scurente,

se oi cu bbegna bbona la simente;

o come in questi altri con qualche piccola variante:

Ci oi cu bbiti l’annata cranosa,

Natale ssuttu e Ppasca muttulosa;

ci oi cu bbegna na bbona ‘nnata,

Natale ssuttu e Ppasca mmuddata.

Se invece essa cade di marzo (Pasqua bassa), quando i terribili danni delle gelate e delle grandinate fanno temere per il raccolto futuro e quando la terra ha pochi frutti da offrire, porta carestia, fame e morte:

Pasca marzotica, o murtalità o famòtica.

 

A mezzogiorno tutti a tavola per gustare l’agnello di pasta di mandorla. Tanto Natale tanto Pasqua, i due giorni più solenni dell’anno, vanno goduti nell’intimità familiare:

De Natale e dde Pasca cu lli toi,

de Carniale cu cci oi.

Bisogna godersela questa festa eccezionale, perché il giorno dopo si tornerà al travaglio usato; i giorni lieti sono fugaci e assai rari e non sempre ci si può godere né astenere dalla dura fatica:

Ca nu ssempre è Ppasca.

 

Finita a llu Riu

Le feste pasquali si concludono, in tutto il Salento, con una scampagnata, una colazione all’aperto, il lunedì o il martedì o il giovedì dopo Pasqua, ai confini del paese o poco fuori, detta finita (dal lat. fines, “confine”), com’erano chiamate le grosse pietre informi che segnavano il confine tra due feudi o tra due estese proprietà.

Una finita

 

Qualche decennio fa i magliesi erano soliti il lunedì di Pasqua fare la finita (talvolta oggi si preferisce darsi appuntamento in qualche ristorante della costa) in alcune campagne o a mezzo miglio da Maglie, sulla via per Gallipoli, in un boschetto posto in una lieve salita, detto lu Riu (Riu, Rio, Ria, Vria, Uria, lo Ria, Loria in loco detto lo Monterone o lo Montarroni, in antichi documenti) [6].

Agli inizi del secolo scorso invece la mangiata o finita o paneiri si faceva, non il lunedì ma il giovedì dopo Pasqua, in un luogo poco distante da lu Riu, sempre in località Muntarrune e precisamente a llu Frabbàlli (dal nome di una cappelletta rurale o grancia di S. Giuseppe, vulgo detto lo Balli de jure patronatus del Rev.do Capitolo di Maglie). L’agiotoponimo Frabballi è poi passato a significare, nel dialetto magliese, ” luogo segreto, nascosto”: “A ddu a teni scusa, ssutta lu Frabballi?”.

 

note al testo 

[1]La caremma o quaresima, dal lat. quadragesima dies, spazio di quaranta giorni dal mercoledì delle ceneri alla Pasqua, immagine della Moira, della parca Cloto, che fila il destino degli uomini, simbolo della penitenza quaresimale, della mestizia, della mortificazione dei sensi, del digiuno, del duro lavoro, viene bruciata in questi ultimi anni su una fascina di sterpi al Largo Madonna delle Grazie. È un fantoccio riempito di paglia coperto da una maglia scura o da un panno nero e da un fazzoletto che fa vedere solo la faccia. Ha in mano il fuso e la conocchia ed è intenta a filare la lana. Sotto i piedi le si mette un’arancia con sette penne infilzate a raggiera quante sono le settimane della quaresima. Alla fine di ogni settimana se ne toglie una. Il giorno di Pasqua, quando le campane suonano a distesa, “annunziando Cristo tornante ai suoi cieli”, la caremma detta pure zzita caremma, viene bruciata o sparata col fucile. Questo fantoccio, che viene sparato o arso al rogo, non vuole essere altro che l’esorcizzazione, in luogo pubblico, dal male, la ritualizzazione della liberazione di tutto ciò che è simbolo di sterilità della terra, di privazione, sofferenza, carestia, miseria, fame.

Me pari propriu na caremma si dice a donna magra e brutta o fin troppo avvolta nei panni (Emilio Panarese, Folclore Salentino. La Caremma, in “Tempo d’Oggi”,II,6).

[2]In alcune zone intorno a Lecce, ma anche nel brindisino e nel tarantino la cuddura è chiamata puddica dal deverbale puddicare che è il lavorare la pasta coi pugni, premendo col pollice (pollex); mentre nel barese, ma anche in alcuni centri del brindisino e del tarantino, è detta scarcedda, avendo questo pane dolce con l’uovo nel centro la forma di una borsa per denaro (cfr. it. scarsella e fr. escarselle).

[3]In numero dispari, 5 o 7 o 9 o 11 o 17 o 21, perché i numeri in caffo hanno virtù propiziatoria e procurano prosperità e fortuna, essendo graditi agli dei: numero deus impari gaudet.

[4]L’Azienda di soggiorno cura e turismo di S. Cesarea Terme, che nel 1978 aveva patrocinato la Sagra della cuddura, organizzò nel 1987, nella decima edizione della sagra, nel ristorante Lu marinaru, la Mostra della cuddura, a cui parteciparono i più noti panificatori salentini di Maglie, Lecce, Vignacastrisi, Poggiardo, Vitigliano, ecc.

[5]La Pasqua è una festa mobile e cade nella prima domenica dopo il plenilunio equinoziale di primavera; non può cadere mai prima del 22 marzo (Pasqua bassa) né dopo il 25 aprile (Pasqua alta).

[6]Il toponimo Riu/ Ria/ Urìa è senza dubbio un oronimo, indica cioè un “luogo posto su un’altura”, anche modesta, com’è quella in questione (la città di Monteroni, a pochissimi km. da Lecce, non si trova forse ad un’altitudine di 35 m.?), come provano del resto due altri oronimi, vicinissimi a llu Riu, Monterone crande e Monterone Piccinnu (in origine Mont-Oriu, raddoppiamento del lessema oronimico, come Mongibello in Sicilia dal lat. mons e dall’arabo gebel). L’Oriu, diventato per deglutinazione ortoepica e ortografica (v. in it. l’usignolo da lusignolo) lo Riu/ lu Riu, non ha nulla a che fare né con rio “ruscello”, né con brio, né con layrìon, “cenobio brasiliano” (l’autore di un recente ricettario di cucina ruscìara sostiene addirittura che siano stati i leccesi ad estendere il segno lu riu a tutta la provincia!), né tanto meno è da accostare al toponimo surbense Aurìo, che R. Buya, attraverso una serie di strampalate congetture, fa derivare nientemeno, spostando l’accento, dal lat. haurio, “assorbo”, “ingoio”. Ignotum per ignotum!

 

[estr. da “Riti e tradizioni pasquali in un paese del Salento (Maglie)”, Erreci edizioni, Maglie, 1989, 3° vol. della “Collana di saggi e documenti magliesi/salentini” fondata e diretta da Emilio Panarese; e in “Maglie. L’ambiente, la storia, il dialetto, la cultura popolare”, Congedo editore, Galatina, 1995, pp.371-375 –  
 
Bibliografia consultabile alla pagina http://emiliopanarese.altervista.org/pg015.html]

Copertino. Antichi riti nella notte di Parasceve anticipando la Risurrezione di Cristo

CULTI MAGICO-RELIGIOSI

NEL SALENTO FINE OTTOCENTO

LA NNUCCICATA TI CHIASCIONE

 

 

Nella notte di Parasceve

 i pastori copertinesi anticipavano la Risurrezione di Cristo

celebrando un loro rito simbolico sul sagrato della chiesa matrice.

 La “Nnuccicata ti chiasciòne” (“Piegatura di lenzuolo”)

era la cagliata ivi approntata:

simboleggiando la sindone e quindi l’avvenuta risurrezione

la distribuivano gratuitamente ai poveri e ai derelitti

sicuri che  fosse apportatrice della benedizione di Cristo,

riconducibile ai doni della salute, della prosperità, della pace.

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Nel contesto di un dettato storico-sacrale che la figura del Cristo fondeva al costrutto sacrificale degli agnelli nell’insistita cornice di simbolici pascoli e altrettanto simboliche premure per il gregge, i pastori salentini vedevano nella Pasqua non solo la ricorrenza liturgica più importante ma anche il figurativo convenzionale del loro vissuto, che pertanto ne usciva avvalorato nei termini di un’autoidentificazione per rispecchiamento.

Partendo da questa piattaforma di credute equivalenze – comodo strumento di mediazione nel disagio provocato dalle inevitabili contraddizioni insorgenti fra l’investimento metaforico di un privilegio categoriale e la realtà del quotidiano individuale – si sentivano autorizzati ad esprimersi in chiave di libere interpretazioni e rappresentazioni. Con la scusa della loro impossibilità a partecipare alla Messa di resurrezione – in quanto, all’epoca, liturgicamente Cristo risorgeva il mezzogiorno del sabato santo, ora di pascolo per le greggi e quindi di loro impegno nella sorveglianza – si arrogavano il diritto di anticiparne i tempi di proclamazione. Priorità nell’enunciazione peraltro espressa attraverso una ritualità per così dire autonoma, cioè discostata da quelli che erano gli ufficiali canoni ecclesiastici, pur se, in definitiva, a questi si rifaceva traducendone in proprio la manifestazione simultanea dell’emozione, dell’azione e della trasmutazione. Emozione come adesione affettivo-memoriale dell’evento messianico; azione come riconoscimento interpretativo del sublime nella donazione – insito nella passione, morte e deposizione del Cristo -; e trasmutazione nel senso celebrativo di quell’energia vitale che si era appalesata nel momento della risurrezione; energia che loro, arbitrariamente accostando al misterioso intervento divino il tentato parametro di una possibile rappresentazione umana, prefiguravano nel processo enzimatico del latte. Un assunto la cui peculiarità costitutiva si imperniava su una voluta esaltazione dei significanti, primo fra tutti quello di una presunta complicità di Dio, che nella compiacenza di un’elezione a beneficio categoriale, li voleva nelle vesti di fervorosi pur se anomali ministri.

Da ciò si può evincere come nell’ambiente pastorizio vigesse il legame con un arcaismo di marca ebraica attestante, nella strutturazione mentale del divino privilegio, l’implicito riporto a Israele, popolo eletto per antonomasia, gratificato dalla facilitazione  a un esodo tanto storicamente liberatorio quanto miticamente consolatorio. Popolo dedito appunto alla pastorizia, organizzato in tribù i cui vertici patriarcali avevano non solo il diritto al comando ma anche il permesso all’officiatura, da intendersi come rapporto diretto conla Divinità al di fuori di ogni intermediario.

Sarebbe certo di troppo affermare che, nel compiere la loro ritualità pasquale, i pastori fossero consapevoli dell’originaria matrice e di riflesso agissero in netta funzione rievocatoria di quello che – nella loro misura cognitiva – si poneva come il più remoto degli atavismi. Col trascorrere del tempo e più che altro con l’avvenuta sovrapposizione del Cristianesimo si era determinata un’intersecazione di moduli fideistici per cui anche le suggestioni evocative dell’eredità arcaica ne uscivano commiste venendo a creare nella dominante simbolica un’interscambiabilità di applicazioni. Nel momento che si accingevano a dare corpo alla ritualità pasquale avveniva un’assunzione globale di moventi che, scartando ogni differenza o incidenza cronologica, flettevano fra la visita al sepolcro di Cristo e il cammino versola Terra Promessa, antonomastica meta del celebrato esodo. Due elementi fusi in un’unica funzione liberatoria, perché se l’esodo biblico era valso ad affrancamento dalla schiavitù egiziana e contemporaneamente dal nomadismo – grazie ai pascoli opulenti di una terra dove scorreva latte e miele -, l’andata al sepolcro di Cristo valeva la remissione delle colpe commesse e quindi ad accaparrarsi la promessa del paradiso. Un senso di rinascita spirituale che prendeva corpo dal loro raccogliersi in gruppi sotto la guida degli anziani per subito uscire dall’abituale dimora e affrontare a piedi il lungo cammino nella notte, eloquente figurale e della dolorosa Via Crucis e della faticosa marcia nel deserto.

Sul calare della notte di Parasceve infatti, nelle masserie sparse nel profondo della campagna copertinese, si avvertiva un clima frenetico e insieme sofferto, quasi aleggiasse nell’aria la consapevolezza di una imminente partenza sospesa alla dialettica di una necessaria reintegrazione morale ottenuta attraverso l’offerta olocaustica. Un procedere alla cancellazione di ogni colpevolezza – singola e collettiva – che prendeva avvio nel momento che si provvedeva a trasferire il bestiame, togliendolo dagli abituali stazzi esterni per ammassarlo intr’a lla curte ti lu mmàsunu, ovverosia lo spiazzo situato all’interno dell’arco d’ingresso e di solito prospiciente la casa del massaro. Un provvedimento che si offriva a ulteriore chiarificazione di quello che era l’atavico nucleo ideologico che governava l’agire: nella spontaneità delle equivalenze non elaborate mentalmente ma avvertite sensibilmente quale frutto di avvenute sedimentazioni, quel cortile, così invaso di pecore e agnelli, veniva a rapportarsi ai recinti del tempio di Salomone dove i pellegrini israeliani ammassavano i capi del  bestiame in offerta, subito abbandonandoli per recarsi il più vicino possibile all’Arca e attendere alla propria depurazione.

Quasi vedessero rinsaldare il circuito delle affinità, anche i nostri pastori si comportavano allo stesso modo: non appena si assicuravano di aver convogliato nel recinto tutti i capi di bestiame, si estraniavano da ogni immanenza di cure terrene, cercando integrazione solo nell’urgenza di raggiungere il sepolcro di Cristo, dove di lì a poco, nel contesto della loro ritualità a nette scansioni testamentarie, la vita avrebbe trionfato sulla morte.

Sbarrato il portone d’ingresso, legato ai battenti due cani scelti fra i più svegli e aggressivi e accesa la linterna ti lu camìnu (la lanterna da viaggio), mmassàru, picuràri e ppicurasciùli (massaro, pastori e pastorelli), lasciando le donne nella masseria, a gruppo stretto e a marcia serrata si avviavano frettolosamente verso il paese, ad ogni curva o bivio invocando l’aiuto di Santu Ggiuànni ti lu picurièddhru, cioè San Giovanni Battista che, per essere appunto iconograficamente raffigurato con in un braccio un agnello, consideravano loro particolare protettore.

Quella notte, nel desiderio di renderne concreta la presenza e quindi ottenere il desiderato aiuto, il capogruppo simbolicamente ne assumeva l’identità facendo – per così dire – piovere dall’alto ogni sua parola, incitamento o raccomandazione, cioè intercalando nel dialogo un’autoritaria declinazione di accredito: “Cu lla occa mia stà cconta lu Ggiuanninu” (“Con la mia bocca sta parlando Giovannino=San Giovanni Battista”). Curioso scambio di oggettività nel linguaggio, per di più adottato non soltanto nei confronti degli altri componenti il gruppo, ma addirittura usato con il mulo che li accompagnava trasportando sulla groppa nnu cutrùbbu (un recipiente di zinco della capacità di cinque litri) pieno di latte e nna mmarzàta, ossia un secchio di legno provvisto di coperchio, normalmente usato per il trasporto delle marzòtiche (pezzotte di formaggio fresco impastato con erbe aromatiche) ma che quella notte si portavano dietro vuoto, più esattamente con all’interno un rametto verde di mortella.

Punto di convegno dei vari gruppi era il sagrato della chiesa matrice, a quell’ora già chiusa e perciò emanante una gelosa accumulazione di trascendenza che la rendeva dolorosamente fusa all’atmosfera di quella notte già di per sé stessa satura di mistero. Notte sacra che sembrava trasformare gli umidori del selciato in lacrime rapprese e rimandare in permanenza di echi i singulti della Vergine Addolorata, la cui statua poche ore prima era stata portata in processione per le vie del paese, passando da chiesa a chiesa, da cappella a cappella nell’affannata ricerca del Figlio crocefisso. Un peregrinare sincopato dal rullìo funebre dei tamburi e convertito in assillo umano dal coro lamentoso delle donne che interpretando, da madre a madre, lo strazio della Madonna, chiedevano a gran voce, spesso roteando su sé stesse:

Fìgghiu, fìgghiu mia!… a ddò stàe lu fìgghiu mia?!… Lu stà ccercu e nno llu ttròu!… Fìgghiu, fìgghiu mia!… Ticìtime a ddò stàe lu fìgghiu mia!…

Richiesta tanto umanamente delirante quanto spiritualmente ancorata ai sensi di una catarsi la cui certificazione si era esplicata a processione conclusa, su quel sagrato appunto, quando il padre quaresimalista, rimasto ad attendere in chiesa, aveva spalancato la porta facendo portare all’aperto e proprio ai piedi dell’Addolorata l’urna di vetro con dentro la statua del Cristo morto: “Ecco tuo figlio”, aveva esclamato con voce accorata, e cincischiando un rettangolo di lino bianco a simbolica testimonianza del sudario, aveva precisato: “E’ morto Maria, è morto in croce per i nostri peccati!”.

Cadendo in ginocchio e battendosi il petto a pugni chiusi, il popolo aveva singhiozzato:

Pi’ lli piccati nuésci è mmuértu… pi’ lli piccati nuésci è mmuértu an croce!… Pirdònane, Maria, comu nn’à ppirdunàtu Iddhru!…

Come fosse doverosa assimilazione di un sollecito al pentimento, anche i pastori, salendo i gradini del sagrato, proiettavano sul metafisico schermo di quella notte la loro dolorosa considerazione, ripetendo – ognuno per suo conto e tutti insieme – “E’ mmuértu an croce pi’  lli piccati nuésci… pi’ lli piccati nuésci è mmuértu an croce…”.

Un intrecciarsi di voci basse, di parole sussurrate che si interrompeva di colpo non appena raggiunta la porta della chiesa, ai cui stipiti i componenti dei vari gruppi si addossavano in silenzio nell’attesa che lu nannimmassàru (il nonno massaro, ossia il più anziano fra di loro) li raggiungesse. Questi infatti non saliva subito e insieme agli altri i gradini del sagrato: si attardava sulla strada prospiciente la chiesa al fine di dare previa sistemazione al rituale che nel suo svolgimento non doveva essere turbato da distrazioni o preoccupazioni di ordine materiale.

Coadiuvato da due giovani aiutanti agiva con decisione, e nell’impartire i suoi ordini spesso preferiva al suono delle parole l’eloquenza dei gesti, quasi volesse accreditare una sorta di iniziatico misterioso cifrario. Bisognava infilare il muso dei muli dentro li puppàri (i sacchetti di iuta dentro i quali a ristorazione delle bestie si mettevano manciate di biada), scegliendo il punto più riparato dove farli riposare; bisognava trasportare sul sagrato li cutrùbbi pieni di latte e li mmarzàte con dentro il rametto di murtèddhra; e infine si doveva accendere nel mezzo della strada un piccolo falò di ramaglie d’ulivo, cosa che si faceva battendo forte l’acciarino sobbra’a nna èsca ti pirnacòcchia (su un’esca ricavata dal tronco marcito di un albicocco) cosparsa di salnitro.

Al primo divampare del fuoco lu nannimmassàru si chinava a baciare per terra e subito dopo, tracciando nell’aria un grande segno di croce, dava il via allo svolgimento della cerimonia schioccando la lingua contro il palato e ricavandone quel suono caratteristico che era il loro abituale richiamo delle mandrie. Da quel momento non si poteva pronunciare parola che non fosse di preghiera, e anche nel muoversi si doveva  fare attenzione a non suscitare rumori capaci di incrinare il silenzio o, come usavano dire, nfastitiàre lu ssignùttu ti l’Angilu ca stàe ncucculàtu nnanzi a lla petra ti lu santu sipùrcu (infastidire il singhiozzare  dell’Angelo che sta accoccolato davanti alla pietra che ottura l’ingresso del santo sepolcro).

Era perciò con mosse lente, quasi timorose, che i pastori si staccavano dalla porta della chiesa per convenire l’uno dopo l’altro al centro del sagrato e deporre a terra i loro bastoni, sovrapponendoli a forma di croce in chiaro riferimento all’avvenuta deposizione di Cristo. Un gesto che, al di là di ogni valenza memoriale, veniva assunto attivamente come doverosa risposta all’appello da parte dei capifamiglia, la cui singola identità  si intendeva appunto dichiarata e testimoniata dalla presenza del bastone.

L’ultimo a declinare – si fa per dire – le proprie generalità era lu nannimmassàru, che dopo aver salito lentamente i gradini del sagrato, deponeva il suo teste al vertice della piccola catasta calcandolo con le mani a più riprese, quasi volesse mettere in risalto l’ipotetica apposizione di un sigillo di compatibilità fra la suggestione di un figurato rievocatore e la tangibilità del quotidiano. Un gesto di qualificazione sociale esercitato non come semplice potere acquisito con l’età, bensì come frutto di un’avvenuta elezione nel cui conferimento era sottinteso un preciso privilegio divino, oseremmo dire una predestinazione a condottiero di popoli. Legittimazione che acquistava sostanza  di convincimento ideologico sovrapponendo alla realtà dell’azione l’allegoria di un immaginario ambientale triangolato fra il divampare delle ramaglie nel mezzo della strada – riporto al mitico roveto ardente –,  la nudità del sagrato simboleggiante il deserto, e la presenza dei bastoni valevole tanto come certificazione di cammino, quanto come dichiarazione di arrivo nella terra promessa. Arrivo come sospensione di penitenza, come conquista di potere, come affermazione di spettanza.

Con il lento spegnersi del piccolo falò scattava infatti la tacita comunicazione di un mutamento in atto, ovverosia cessava quello che poteva intendersi come scenografico riporto alle mitiche radici bibliche immettendo, sia per completamento sia per superamento, in un pregnante clima neotestamentario. A chiave di svolta del graduale passaggio veniva eletto il latte, più precisamente le sue proprietà enzimatiche, proprietà che, come abbiamo già detto, nel processo ideativo dei pastori ben si comparavano a quella combustione di energie vitali che aveva determinato la resurrezione di Cristo. Ne conseguiva un’immediata parificazione fra i pastori presenti sul sagrato, quale trasformazione della patriarcalità nei ritmi indifferenziati di una collettività che  annullava la privativa del geloso “io” nell’amplificazione di un “noi” tanto più valevole quanto maggiormente espresso nell’uniformità dell’agire.

Smessi i panni di Mosè – figura antonomastica del celebrato esodo – lu nannimmassàru rientrava nel gruppo, assieme agli altri intonando a mo’ di preghiera:

“Lu fuécu s’à stutàtu

e cce gghète… e cce nno gghéte…

lu santu patriarca nduliràtu

si nn’à sciùtu rretu a llu parète.

 

Stà spètta la nzuppittàta

ti l’àunu mmaculàtu

ca intr’a lla rutta mpitràta

si nni stàe mpannàtu”.

 

“Il fuoco si è spento / e cosa succede… e cosa non succede…/ il santo patriarca addolorato / se n’è andato dietro al muro. // Sta aspettando il risveglio / dell’agnello immacolato / che dentro la grotta ostruita da una grossa pietra tombale / se ne sta addormentato”.

A “grotta ostruita da una grossa pietra tombale” veniva focalizzata la porta della chiesa, a ridosso della quale i pastori allineavano li mmarzàte, pronti a riempirli con il latte trasportato nei capaci cutrùbbi. Un travaso che eseguivano con religiosa delicatezza, attenti a sincronizzarne il flusso affinché simultaneo risultasse il momento delle varie colmature e altrettanto simultanea l’immissione dei pizzichi di caglio che, a travaso avvenuto, lasciavano cadere nel latte, a questo amalgamandoli con un lungo tramestio circolare eseguito con i rametti verdi di mortella. Il tutto in una crescente assimilazione di solleciti emotivi, sicché quella che di base voleva essere motivazione mitico-allegorica si trasformava in tensione oggettiva, sorpassando il compiaciuto senso di partecipazione al rito in favore di una profonda immedesimazione. L’iniziale misura di memento cedeva infatti il passo all’azione del momento, e i convenuti sul sagrato non si consideravano semplici coadiutori al buon andamento della celebrazione: si sentivano protagonisti nella totalità del significato, e accoccolati sui talloni – ognuno accanto  il più possibile alla propria mmarzàta – attendevano in religioso silenzio il concretizzarsi dell’evento, convinti che lo stesso potesse trarre forza di esplosione anche dalla loro affettuosa presenza.

L’àngilu à nnuccicàtu lu chiasciòne!” (“L’angelo ha ripiegato il lenzuolo!”), proclamava lu nannimmassàru non appena constatava il definitivo indurimento della cagliata; e questa volta, non essendo in clima di passione e morte e quindi non più vincolato alla mortificazione e al silenzio, batteva forte le mani, palma contro palma, incitando i presenti: “Asàmu a nterra e spartìmune lu bene ca Cristu nn’à rricalàtu” (“Baciamo a terra e scambiamoci il bene che Cristo ci ha regalato”).

Se baciare per terra era gesto di ringraziamento e lode a Dio, spartirsi il bene ricevuto significava mettere in atto il comandamento dell’amore fraterno, per prima cosa cancellando dal proprio animo ogni eventuale dissapore nei confronti del prossimo. Un invito che nel contesto del rito celebrato nella notte di Parasceve, non si poneva come frutto di vana retorica, essendo più che risaputo come, fra pastori, spesso e volentieri si entrasse in rivalità: per la contesa di un pezzo di pascolo, per la perdita di un capo di bestiame o sia pure semplicemente per gelosia connessa alla maggiore o minore fortuna nello smercio dei prodotti.

Quali che fossero i motivi del risentimento, questo non poteva e non doveva permanere fra i convenuti sul sagrato: all’invito del nannimmassàru dovevano subito riconciliarsi, tant’è che, a segno tangibile del ritrovato sentimento fraterno, usavano scambiarsi i secchi con le relative cagliate: “A tte la nnuccicàta mia, a mme la nnuccicàta tua”.

Traendo spunto dal passo evangelico che racconta come nel sepolcro scoperchiato fu rinvenuta soltanto la sindone ripiegata, la cagliata preparata sulla soglia della chiesa veniva detta “nnuccicàta ti chiasciòne” (“piegatura di lenzuolo”), intendendo con tale denominazione alludere alla sua simbologia e sottolinearne le proprietà sacre che aveva sviluppato. Metaforicamente elevata a sudario di Cristo non poteva infatti non rappresentarlo e quindi essere vista come apportatrice della sua benedizione riconducibile ai doni della salute, della prosperità, della pace.

Affinché il rito avesse, oltre all’equivalenza mitico-psicologica, la concretezza di un tracciato informatore, il principio – fino a quel momento perseguito idealisticamente o al massimo come cementazione di rapporti categoriali –  doveva attuarsi a livello comportamentale più vasto, ovverosia ricondotto alle radici primarie dell’amore fra tutti e per tutti. La cagliata approntata sulla soglia della chiesa nella notte di Parasceve – simbolicamente eletta a testimone del trionfo nel conflitto fra la dualità morte-vita, tenebre-luce, condanna-redenzione – andava perciò distribuita gratuitamente, destinando a fruitori di tanto dono i più poveri e derelitti.

Ancor prima che l’alba schiarisse il cielo, i pastori, con appese al braccio le loro mmarzàte colme di cagliata, si sparpagliavano per il paese, percorrendone il dedalo di viuzze e vicoli alla ricerca di usci filtranti luce, segno convenzionale che in quella casa si poteva fare l’opera di misericordia: c’era un ammalato, una partoriente, un orfanello o più comunemente un vecchio.

Chiasciòne ti Cristu!…” (“Lenzuolo di Cristo!…”), annunziavano con voce cantilenante, e battendo con un cucchiaione di legno sulla fiancata del secchio, attendevano che la porta venisse aperta e nel tenue fiotto di luce si delineasse l’orlo di un piattino entro il quale deporre tre cucchiaiate di cagliata: “Quista comu pruitènzia ti lu Patre, quista rricàlu ti lu Fìgghiu, quista asu ti lu  Spìritu Santu” (“Questa come provvidenza del Padre; questa, regalo del Figlio; questa, bacio dello Spirito Santo”).

Così di strada in strada, di vicolo in vicolo, di porta in porta, finché nei secchi non rimaneva che un sottile strato di cagliata, capace appena di coprirne il fondo: era lu rispìcu ti la ràzzia (il racimolo della grazia), ossia la porzione di benedizioni che i pastori trattenevano a beneficio delle proprie famiglie, nonché del gregge a loro affidato. Una volta tornati nelle masserie – il che avveniva subito dopo l’alba – si premuravano infatti di versare questo residuo dentro nnu fiscariéddhru (un piccolo cestello di giunchi intrecciati usato per sgrondare la ricotta), ricavandone  una pezzotta di pseudoformaggio che poi seccavano rigirandola quotidianamente nel sale, accorgimento reso necessario dal fatto che, essendo il composto a base di latte non cotto, tendeva a inacidire. E se per qualsiasi prodotto caseario l’inacidimento rappresentava un pericolo da evitare, nel caso specifico sarebbe stato recepito come il peggiore degli accadimenti, in quanto superstiziosamente interpretato come presagio di sventura per la masseria: le persone che vi abitavano si sarebbero di certo ammalate; il gregge sarebbe stato decimato da qualche morìa; i pascoli distrutti dalla grandine; e c’era il rischio che financo le opere murarie avrebbero accusato un improvviso deperimento. Questo perché la piccola forma di formaggio ricavata dai residui della nnuccicàta ti chiasciòne non veniva vista alla stregua di un qualsiasi prodotto destinato al normale consumo, bensì ritenuto elemento apotropaico, tanto più efficiente in quanto commestibile.

Una volta indurita, infatti, la si metteva gelosamente da parte, se possibile addirittura sotto chiave, ricorrendovi solo in caso di bisogno, cioè quando occorreva sventare una minaccia, arginare un pericolo, combattere una malattia, ristabilire la pace in una famiglia lacerata da gravi discordie.

Se in famiglia scoppiavano liti o si temevano delle infedeltà, le donne ne grattugiavano un pezzettino e lo mescolavano alla pasta del pane, sicure di esorcizzare in tal modo lo spirito della discordia e riavere integro l’amore del marito; sempre grattugiata e sempre a parsimoniosi pizzichi, veniva aggiunta alle minestre degli ammalati per affrettarne la guarigione, al pancotto degli anziani per salvaguardarli dal micidiale risintèriu (dissenteria) e financo inserita nelle pupatelle (succhiotti) degli infanti, soprattutto nel periodo critico della dentizione, spesso costellato da febbri e deperimenti. Né da tanta panacea venivano escluse le bestie, ché anzi si può dire ne fossero le maggiori fruitrici: nessun massaro dimenticava di elargirla alle sue pecore gravide, certo di aiutarle in tal modo a partorire agnelli sani e di vello bianco; con la stessa premura ne assicurava una porzione ai capri e ai tori da monta per regolare la pericolosa violenza, così come non mancava di somministrarla ai puledri per renderli docili alla domatura. Si può ben dire che financo i cani riuscivano ad assaggiarla, anche se, in verità, solo di traverso e cioè quando, nell’incalzare di una tempesta, il massaro, per placare la furia degli elementi, ne gettava un pezzettino all’esterno, certo di salvaguardare così i campi dalla grandine e a tenere lontane eventuali trombe d’aria.

Tutte queste credenze sui poteri “soprannaturali” della nnuccicàta ti chiasciòne derivavano dal fatto che le benedizioni assorbite durante il rito nella notte di Parasceve erano state determinate dalla forza enzimatica del latte, principio base dell’operato-vissuto pastorizio (riportabile all’agricolo impinguarsi della spiga) e quindi anche fulcro di tutta una formulazione di implicazioni superstiziose. Il positivo o il negativo di una masseria, infatti, si decretava in base alla maggiore o minore riuscita del caglio giornaliero, ché se questo accidentalmente (imperizia nella preparazione, condizioni atmosferiche sfavorevoli o anche difetto di pascolo) per più giorni sortiva male, non si esitava a parlare di malocchio e di conseguenza  richiedere con urgenza un intervento esorcistico, non dissimile da quello richiesto per una scarsa fermentazione del vino o per un  insolito inverminirsi del grano.

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Nino Pensabene, quale collaboratore ed erede dell’autrice, si riserva tutti i diritti.

Pasqua, festa dei macigni rotolati

di don Tonino Bello

Vorrei che potessimo liberarci dai macigni

che ci opprimono, ogni giorno:

Pasqua è la festa dei macigni rotolati.

E’ la festa del terremoto.

La mattina di Pasqua le donne, giunte nell’orto,

videro il macigno rimosso dal sepolcro.

Ognuno di noi ha il suo macigno.

Una pietra enorme

messa all’imboccatura dell’anima

che non lascia filtrare l’ossigeno,

che opprime in una morsa di gelo;

che blocca ogni lama di luce,

che impedisce la comunicazione con l’altro.

E’ il macigno della solitudine,

della miseria, della malattia, dell’odio,

della disperazione, del peccato.
Siamo tombe alienate.

Ognuno con il suo sigillo di morte.
Pasqua allora, sia per tutti il rotolare del macigno,

la fine degli incubi,

 l’inizio della luce,

la primavera di rapporti nuovi

e se ognuno di noi,

 uscito dal suo sepolcro,

si adopererà per rimuovere il macigno del sepolcro accanto,

si ripeterà finalmente

il miracolo che contrassegnò

la resurrezione di Cristo.

La processione del venerdì santo a Maglie

di Emilio Panarese

 

Alla cara memoria di mio padre,

che per molti anni diresse

la processione del Venerdì santo

La cerimonia più interessante, che fa più folclore e colore e richiama a Maglie molti abitanti della provincia, è, senza dubbio, la processione del venerdì santo, una processione tipica, che non ha l’eguale nel Salento e che nell’arco di un secolo ha subito parecchie modifiche e rimaneggiamenti.

Della processione di ottanta anni fa ci è rimasta la descrizione di A. De Fabrizio; l’aprivano una ciurma di fanciulli scapestrati, coronati di spine, urlanti l’Ave Maria/ ora pro nobbi/ nobbi/ nobbi o tirantisi dietro un carro col calvario e tre croci.

Il gruppo dell’ora pro nobis (foto di Emilio Alessandrì,1908)

 

Un cenno relativo a questo primo gruppo della processione si trova pure in un giornale magliese del 10 aprile 1893 (Il sabato, A. I, n.l): “Aprivano come al solito il funereo corteo mattutino del venerdì santo teneri fanciulli con la corona di spine sulla testa. Alcuni si battevano le reni con funi, altri trascinavano pesanti croci sulle spalle […], ripetuta tre volte la cara invocazione dell’Ave Maria, li ho visti, dinanzi al piazzale di una chiesa, genuflessi a gruppi sull’erba verde, e aspettare il passaggio del resto del corteo”.

Fanciulli genuflessi con croci (foto dell’inizio del secolo scorso)

 

Dietro, a lenti passi, “come i superbi del Purgatorio dantesco”, venivano dei giovani, curvi sotto il grave peso “di grosse pietre o di pesantissime croci o muniti di discipline[1] di ferro: [erano] peccatori pentiti, che un tempo, nudati fino alla cintola, s’insanguinavano le spalle a furia di battiture”; una manifestazione di spettacolo pubblico costituente un momento rituale di risposta alle incertezze della vita quotidiana da parte degli umili, che, “esasperando i concetti di penitenza e di umiltà, giungevano all’autoflagellazione” [2].

Del gruppo cicalante e scomposto dei fanciulli col capo coronato di rovi o di edera, da pochissimi anni, non è rimasto più nulla:

Ma petre a mmanu e nzarti, e ncurunati

d’edere torte, mandra de vagnoni

fiji de maramaja scarrufati

fàcune li ggiudei e li mallatroni

(Nicola G. De Donno)

che, muniti di sassi, battono forte, passando, a tutte le porte e ai portoni dei ricchi, ribelli ai comandi del capogruppo, il banditore Picci:

Lu Picci te cumanna li vagnòni

ca ncurunati cu lle corde a mmanu

vannu bbattènnu a ttutti li purtuni.

(Nestore Bandello)

Il gruppo dell’ora pro nobis (foto di Roberto Panarese, 1980)

 

Dopo il vivace, festoso frastuono, a passi gravi, misurati, solenni, incedeva il secondo tronco: “due lunghe file di confratelli con le statue dei Misteri; indi una schiera di fanciulli, vestiti d’angeli, recanti gli strumenti della Passione, e di fan-ciulle che cantano, accompagnate dalla musica, un inno d’occasione; infine la bara di Cristo e la statua della Madonna [Addolorata] intorno a cui si affolla una moltitudine di donne velate di nero”.

 

Il gruppo dell’ora pro nobis (foto di Roberto Panarese, 1984)

 

Questo secondo tronco ha subìto nel tempo notevoli modifiche: sono rimasti tra l’una e l’altra statua, i bambini e le bambine, che con passo incerto e traballante e con viso smarrito, procedono, imitando momenti della Passione o sotto il peso di lignee croci:

La croce an coddu ca pisa pisàra,

li carniceddi cuperti de sacchi

russi, li peticeddi intru lli lacchi,

de spine vere la curona mara.

(Nicola G. De Donno)

Fanciulli con i simboli della passione (foto di Roberto Panarese, 1985)

 

Gruppo delle coriste (foto di Roberto Panarese, 1985)

 

Le fanciulle, invece, velate di nero, che, accompagnate dalle note della banda, cantano il monotono, struggente ritmato lamento, riecheggiante il celeberrimo preludio intensamente melodico del 3°atto della Traviata verdiana, diventate giovanette, e passate dietro la bara di Cristo, rievocano l’abitudine dei virgines lectas puerosque castos, che cantavano il carme in onore degli dei.

Gruppo delle coriste, primo piano (foto di Roberto Panarese, 1985)

 

Delle parole dell’Inno[3]  (…È morto il mio Dio!/ È morto il ben mio!/ Un popolo rio/ tal morte gli die’/. Piangete, o pietre,/ spezzatevi al duolo/ [ … ] Quel sole che in cielo/ fa tanto splendore/ la morte l’ha reso/ già tutto squallore!) fu autore, stando alla testimonianza orale dell’avv. Guido Colucci, il prof. Gioacchino Pelegalli, che negli anni 1885-’86 insegnava nella 3a classe ginnasiale ed era prefetto o istruttore nell’annesso convitto. Luigi Visconti[4], immigrato a Maglie con la famiglia dal Salernitano, compositore e valente direttore d’orchestra della vecchia banda di Maglie, appassionato pucciniano, vi adattò abilmente la musica.

Le statue dei Misteri: Cristo all’orto, Cristo alla colonna, Cristo e Pilato, Ecce homo (opera del noto scultore leccese Eugenio Maccagnani), Cristo sotto il peso della croce incontra la madre, Cristo in croce, introdotte via via, col passare degli anni,

Parrocchia della Purificazione: le statue attendono di essere trasportate in processione; in primo piano La Pietà (foto di Roberto Panarese, 1984)

 

Gesù alla colonna (foto di Roberto Panarese, 1984)

 

Gesù condotto al giudizio tra Pilato ed un pretoriano (foto di Roberto Panarese, 1984)

 

Statua dell’Ecce homo dello scultore leccese Eugenio Maccagnani (foto di Roberto Panarese, 1984)

 

Gesù incontra la Madre (foto di Roberto Panarese, 1984)

 

Gesù in croce (foto di Roberto Panarese, 1984)

 

sono portate a braccio dai soci dell’Associazione per la processione per il venerdì santo (più semplicemente oggi Organizzazione del venerdì santo), i quali, per l’occasione, indossano nere eleganti giacche da cerimonia sulla camicia inamidata e il cravattino nero a farfalla, così come nei versi del sonetto “La purgissione de li misteri” di Nicola G. De Donno:

Ggente tirata a ccira, ncravattata

e ttreppizzi de prèiti a ssimetrìa

[. .. ]

“ttreppizzi de prèiti a ssimetrìa” (foto di Roberto Panarese, 1985)

 

E Ccristu, e sette spade de Maria,

cantilenati a nnenia scunzulata

su nn’aria a vvalzerlentu de Traviata

su’ rreliggione e ssu’ bburgheserìa

 

La Madonna Addolorata all’uscita dalla settecentesca chiesa (foto di Roberto Panarese, 1987)

 

La Madonna Addolorata (foto di Roberto Panarese, 1987)

 

 

o di Nestore Bandello

 

Cunfraternite in luttu e statue sacre

purtate da Majesi stracallati,

angileddi, cuperte funerarie,

la Croce de Gesù – chiangi ca pati-

Piccoli angeli (foto di Roberto Panarese, 1985)

 

Piccole Veroniche (foto di Roberto Panarese, 1985)

 

e di Orlando Piccinno

Pàssane stendardi tutti mbardati,

pàssane fratellanze (.)

visciu pòsima, forkrore paisànu

mistu a ccose sante: imu sbajatu?

No! la ggente se carca ai marciapieti,

li bbasta cu sse custa. Pia canzone

le caruse càntane, citti li preti! …

 

La banda della processione al passaggio dalla piazza (foto di Roberto Panarese, 1987)

 

 

e, infine, nel suggestivo quadro di Rina Durante:

[…] “questi ex contadini, con la faccia cotta dal sole, si calano dentro elegantissimi smokings, e sfilano tra due ali di popolo inginocchiato. tra i merletti neri delle donne, i gigli degli angeli e degli aspiratangeli, portando a spalla le figure della passione, livide, allucinate che sembrano uscite dalla fantasia di Goya, con i maggiorenti che marciano avanti, la banda che accompagna il Cristo, che ondeg-gia tra le ali degli angeli e i pennacchi dei carabinieri in alta uniforme, e non sembra più di stare a Maglie, ma a Siviglia. una Siviglia di molti secoli fa”.

La bara di Gesù scortata da quattro carabinieri in alta uniforme (foto di Roberto Panarese, 1986)

 

La processione[5], che nei primi anni del secolo, sotto la gestione di alcuni mercantuoli o ambulanti, era assai scomposta, divenne invece, una volta affidata alle vigili ed attente cure di un Comitato [6]  per la processione del venerdì santo, la più ordinata e la più importante delle processioni magliesi, la più popolare manifestazione della religiosità magliese insieme con quella dei SS. Medici, specialmente quando a dirigerla trovò abili ed esigentissimi presidenti come il maestro artigiano Giuseppe Panarese (padre di chi scrive), che, tranne i dieci anni passati in Africa orientale, fu presidente dal 1924 al 1968, e fu chi introdusse nella processione la divisa di cerimonia: smoking con petti lucidi, colletto inamidato, gilet bianco, cravattino nero a farfalla, bottone gemello, guanti di pelle bianchi, calze nere e scarpe nere lucide[7].

Il gruppo dei soci dell’Associazione della processione del Venerdì santo, che il 20 aprile 1924 firmò la scrittura privata col priore dell’Arciconfraternita delle Grazie (in basso al centro il presidente Giuseppe Panarese)

 

Questo innesto di matrice borghese nel folclore pasquale – come bene ha colto Nicola De Donno – fu storicamente significativo e non violento; un modo nuovo – secondo noi – di continuare e di aggiornare una tradizione e un tentativo, ben riuscito, di nobilitare con l’abito elegante, la scomposta processione di un tempo, di darle dignità e decoro, ed anche una rara occasione, concessa a contadini e ad artigiani e a commercianti, di ostentare la loro ascesa socio-economica con l’ap-propriazione di strumenti borghesi. La compostezza dignitosa dello smoking diventa parte integrante dell’esibizione, dello spettacolo.

Il presidente Giuseppe Panarese precede i soci che portano la bara di Gesù (1962)

 

L’incedere lento e compassato degli attori in abito nero, tra un silenzio funereo, che il lamento ritmato della banda rende estremamente solenne e carico di spetta-colarità, altro non vuole essere che una simbolica esegèsi della gestualità essen-ziale, della muta recita collettiva, della spontanea drammatizzazione popolare, una mimata decodifica dell’esasperata tensione religiosa per la morte di Cristo.

 

Alcune delle usanze magliesi del secolo scorso o dei primi decenni di questo sono cadute ormai in disuso.

Qui ricordiamo quella della sacra rappresentazione in piazza secondo antiche consuetudini diffuse in Umbria e in altre regioni d’Italia nel XV secolo, come riferisce il De Fabrizio: “Molti anni fa la processione si fermava in piazza, e il predicatore della quaresima faceva rappresentare una devozione, che per lo più terminava con una disputa tra l’arcangelo Michele e il demonio”.

Di questa usanza è rimasto il ricordo in un antico strambotto popolare di Muro, tramandata e raccolta da Piero Pellizzari, direttore del Ginnasio Convitto Capece tra il 1879 e 1’84 (La canzune de Vennardìa santu, “Lo studente magliese”, IV, 6-7, dic. 1882).

 

A mmenzu chiazza se cercâa piatate,

mancu la purgissione nci capìa.

Puggiara Ggesù Cristu cu ssoa Matre,

ogn’àngiulu lu jersu sou dicìa.

Sant’Àngiulu s’ìa misu pe’ ‘ucatu

la parte te lu populu facìa:

“Satana, nu ttantàre le persone,

cu nnu ffaci difridda la diuzione!”.

 

Frammento di quest’antica devozione o rappresentazione drammatica (su un palco o talamo, su cui si erigevano le mansioni, costruzioni di legno indicanti i vari luoghi dell’azione) doveva essere pure – secondo noi – il seguente canto popolare magliese, anonimo, in endecasillabi, pubblicato ne ”Lo studente”, III, 6 (4.4.1881), che vuole essere racconto, dramma e preghiera insieme:

 Na chiterra se fice lu meu Diu,

cu quattru corde la ncurdàau,

la prima e la seconda nu ttinìu,

la terza e la quarta se spezzàu.

La prima foe Giuda e llu tradìu,

la seconda foe Pietru e llu nagàu,

la terza foe Toma e nnu cridìu

ci nu vvitte le piaghe e lle tuccàu.

***

Chiange mo’ la Maria, pòara donna,

ca lu fiju è ssciutu a lla cundanna.

Nu llu spettati cchiùi ca nun ci torna,

è ssciutu sse prisenta a ccasa d’Anna.

Mo se partìa chiangennu la Madonna.

cu bbiscia ci lu tròa a quarche bbanna;

lu scìu cchiàu ttaccatu a nna culonna.

cu lla cruna de spine e corde ncanna.

Quattru palore disse la Madonna:

“Fiju, nnu tte canùsce cchiùi la mamma!”.

 

Un’altra usanza magliese scomparsa, forse perché in stridente contrasto con la mestizia e l’ora di penitenza della processione, era quella di esporre la merce davanti all’ingresso delle botteghe durante il passaggio della processione. Anche i macellai, che per tutta la quaresima erano stati costretti a tener chiuso il locale per la prescritta rigorosa astinenza, come nel detto Duminica su lle parme e all’autra duminica pane e ccarne, e che fin da quel giorno, cioè da venerdì, avrebbero potuto macellare la carne, che si sarebbe venduta non prima della resurrezione, ne mette-vano “in mostra  i tagli, fregiati di stellucce e di carta dorata”.

Pure caduto in disuso, nel primo decennio di questo secolo, fu il cosidetto trapasso, “per cui – riferisce sempre il De Fabrizio – si deve star digiuni da giovedì a sabato santo, con questo patto non molto lusinghiero: chi ci  lascia la pelle, si danna l’anima; chi la scampa si guadagna non so quali indulgenze”.

 

note al testo:

[1]Quest’usanza di far penitenza e di espiare le proprie colpe nel giorno di venerdì santo, con la flagellazione ritmica delle spalle con le discipline (cordicelle nodose a forma di frusta che avevano all’estremità stelle taglienti di rame o di acciaio o, come a Maglie e a Muro, anelli di ferro con punte) era assai diffusa in quasi tutta la Terra d’Otranto e risaliva a certe antiche ed insane pratiche dei Flagellanti o Battuti (Vattenti) o Saccati: E ppoi ncìgnane cu sse dèscene cu lle discipline a rretu le spadde, ca le pòrtane tutte spujacate, e ogne bbotta ca se dàune se zzumpane la carne e ssanguinìsciane tutti. E se pe ccasu c’è quarche nnamuratu e ppassa de nanzi a lla zzita, e nnu lu vite bbonu sanguinisciatu, scumbìnane, nu sse òlune cchiùi, ca dice ca nu ss’ave fattu ‘nore, percé ci cchiùi se scorcia, cchiùi ede bbrau. Per questo i Flagellanti, giunti sotto le finestre della loro innamorata, raddoppiavano vigorosamente i colpi, volendo provare che erano disposti a spargere tutto il sangue in suo onore; “Un colpo per il cielo e un altro per la terra!” (cfr. “Lo studente magliese”, IV, 6-7, Archivio Biblioteca Maglie).

[2]Carmelo Caroppo, Lo spettacolo subalterno nel Salento, in “Tempo d’oggi, IV (19)

[3]L’inno, di sedici versi senari, non sempre rimati, è diviso in due parti. Povero e inconsistente il contenuto, ma intensamente drammatica la musica. Dopo un “adagio quasi lento”, seguito da un “crescendo” di ottoni e percussioni e da un angoscioso ritornello, si conclude con malinconici squilli di ottone.

[4]Luigi Visconti, compose in musica nel 1888 anche i versetti dell’ Inno di Natale per la Congregazione di Maria SS.ma delle Grazie. Fu socio onorario, nello stesso anno, della Società operaia magliese “Patria e progresso”. Nel 1893 aprì in Maglie “una scuola di musica” assai frequentata. (Cfr. Emilio Panarese, Ottocento filarmonico magliese, in “Tempo d’oggi”, VII, 5)

[5]Stando ai documenti dell’archivio dell’Arciconfraternita delle Grazie, che si riferiscono agli anni 1849, 1850, 1876, 1906 e 1907 (per i quali rimandiamo all’Appendice), assai semplice è stata sempre la processione del venerdì santo sino al 1924: il trasporto della sola “barella di Cristo morto secondo l’antica consuetudine” e quello, nel 1850, della statua di Cristo all’orto era affidato per pochi ducati a dei devoti. Nel 1901 compaiono, per la prima volta, “quattro splendidi lampioni fatti costruire a Milano, del valore di L. 400” e, nel 1907 , una banda ben organizzata diretta dal maestro Giuseppe Miglietta.

[6] Secondo lo statuto, i soci eleggono il comitato, il quale, a sua volta, si sceglie il presidente, che dura in carica cinque anni e che può essere anche rieletto più volte. I soci, che negli anni 1924-30 erano solo 30, sono oggi 101. Ad essi si sono aggiunti 35 piccoli soci. Dal 1924 ad oggi il Comitato ha eletto come presidenti Giuseppe Panarese (anni 35), Ettore Morelli (anni 10), Otello Spertingati (anni 7), Oronzo Piccinno (anni 8), Mario Puzzovio (anni 5). I soci hanno partecipato, meno che negli ultimi anni, anche alla processione del Giovedì santo (visita ai sepolcri). In questa occasione usavano il cravattino bianco. La processione del venerdì santo si è svolta sempre di mattina; di pomeriggio, dal 1951 in poi. Da alcuni anni al gruppo delle statue si è aggiunta quella di Cristo e Pilato.

[7]Cfr. la scrittura privata del 20.4.1924, firmata dal priore della Confraternita delle Grazie, Augusto De Donno, e dai trenta soci dell’Associazione della processione del venerdì santo: i firmatari si obbligavano dal 30 aprile 1924 sino al venerdì santo del 1930, senza interruzione “di portare il simulacro di Cristo morto, di lasciare a beneficio dell’Arciconfraternita un obolo annuale di L. 300 nella prima domenica di quaresima, di donare tutta la cera portata in processione e la bara nuova montata al completo in quell’anno”. Si addossavano inoltre tutte le spese occorrenti “per la musica e il canto, secondo l’antica tradizione”.

[estr. da “Riti e tradizioni pasquali in un paese del Salento (Maglie)”, Erreci edizioni, Maglie, 1989, 3° vol. della “Collana di saggi e documenti magliesi/salentini” fondata e diretta da Emilio Panarese; e in “Maglie. L’ambiente, la storia, il dialetto, la cultura popolare”, Congedo editore, Galatina, 1995, pp.366-371 – Bibliografia consultabile alla pagina http://emiliopanarese.altervista.org/pg015.html]

Il pane dell’abbondanza

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di Giuseppe Virgilio

Fino a quando la società galatinese ha conservato il carattere della ruralità, è stato uso corrente fare il pane casareccio nel forno rionale, una costruzione a volta con un’apertura (la bocca) verso l’esterno. Il pane casareccio ha comportato l’impiego di tutte le componenti del frumento e non della sola farina. A Galatina hanno una tradizione il forno de la Nunna Cia presso l’arco della Porta Luce, il forno de lu Cuncertu alla via Ottavio Scalfo, e quello de lu Turinu rretu lu Parma presso la stazione.

La fornaia ha fatto anche da bracina, per usare un termine toscano, cioè ha venduto per pochi soldi al vicinato la brace e la cenere per l’imbiancatura dei panni col ranno, il cosiddetto bucato, che si è fatto versando l’acqua bollente sulla cenere. Per la famiglia contadina galatinese il giorno del pane è stato un momento tolto alla monotonia e all’oppressione del quotidiano. Esso ha fatto saltare il continuum della storia in quanto tempo comunitario. Nei locali del forno, in un’economia povera di scambi, si è celebrato l’incontro di molte famiglie contadine, che si sono date reciproco aiuto nell’impastatura e nella confezione del pane. Appena il pane è sfornato, ancora odoroso e fumante, un ragazzo, per commissione del capo famiglia o della moglie di questi, ne distribuisce a prova uno o due pezzi tra i parenti e nelle famiglie del vicinato, in proporzione di quanto a suo tempo gli attuali donatori hanno ricevuto. È come il compimento di un rito, un modo di rispettare il diritto di ciascuna famiglia e le leggi stabilite dal mos maiorum, ed anche un momento in cui si afferma la solidarietà comunitaria della classe subalterna. Nella società arcaica rurale, in forza del principio della ripartizione comunitaria, questo fenomeno culturale, dall’importante funzione simbolica socializzante, acquista il significato antropologico di equa distribuzione del pane casareccio tra i parenti e le famiglie del vicinato, così come presso le società primitive si distribuiva equamente il prodotto della raccolta fra tutti i membri della comunità, come garanzia contro il rischio di carestie collettive derivanti o da scarsa raccolta di cibo o da altre circostanze avverse.

Il significato socializzante del pane si configura perciò come una difesa culturale di fronte al rischio della miseria, sicché mantenere e rafforzare i legami sociali è diventato in questo caso compito di primaria importanza. Da ciò deriva che al consumo del pane si connette una sua funzione rituale. Si ricordi il divieto di buttare via persino una briciola, l’obbligo di mangiare anche il pane col verde della muffa, quand’è stato vicino a corrompersi. Ed è ancora empietà lasciare sul desco il pane capovolto.

Ricordiamo poi l’opposizione tra il mestruo e la manipolazione del cibo, per cui nella cultura contadina la donna, durante la mestruazione, è tabuizzata, cioè è sottoposta all’interdetto magico-religioso di compiere alcune azioni, ed in particolare di manipolare il cibo, poiché, cucinando in quello stato, poteva anche avvelenare il marito. Il pane viene quindi confezionato in uno stato di assoluta “purezza”, che nobilita ancor più dal punto di vista simbolico il gesto del dono.

Per il rito della cena, durante la settimana di Pasqua, viene distribuito il pane azzimo, cioè impastato senza lievito. Il contadino di Galatina lo tiene in serbo e lo utilizza soltanto in occasione di violenti temporali, allorché ne getta un pezzo nella bufera recitando la preghiera corale:

Àzzate San Giuvanni e nun durmire

ca visciù ttre nuveie caminare:

una de acqua, una de vientu,

una de tristu maletiempu.

Nella sfera cristiana è stata traslata una forma pagana di vita religiosa, allorché gli dei sono stati sottoposti all’ordine del cosmo, ed i rituali hanno stabilito un legame di reciprocità fra la divinità e gli uomini. E così la tempesta si placa perché l’uomo ha spartito con gli dei o col santo il pane che protegge e scampa da ogni pericolo, e da questo reciproco rispetto è derivata anche l’aspettativa dell’abbondanza, più che dal lavoro e dallo sforzo individuale e collettivo.

Durante il fascismo a Galatina, essendo accentuato il contrasto tra il ceto contadino e la classe dominante, il dono del pane assume il significato profondo della coesione del ceto subalterno contro due classi sociali: quella dei signori e quella dei mercanti. I primi sono gli appartenenti al ceto agrario, ed hanno costruito la loro egemonia attraverso la scuola, la religione, la pubblica amministrazione ecc.. I signori possono anche essere di origine contadina, purché abbiano perduto la loro originaria forma di moralità e sappiano adeguarsi allo stile di vita della classe egemone. I secondi, i mercanti, noi li ricordiamo durante il fascismo, il giovedì, durante una tappa dei loro traffici. Hanno esposto la mercanzia davanti alla chiesa dell’Immacolata. Hanno avuto volta a volta i modi del signore e quelli del villico, ma ai contadini hanno dato sempre l’impressione di essere venuti a rastrellare sistematicamente le risorse locali. Si fa riferimento al commerciante di cereali e di legumi, di carni e di altri prodotti dell’allevamento. Il commerciante locale di derrate alimentari e di altre merci non prodotte in loco, il bottegaio, è già una figura diversa, benché simile, ma più domestica, più su misura locale, più controllabile e prevedibile. Certamente quella del bottegaio è stata una categoria più vicina ai signori ed ai mercanti che al contadino, il quale non ha mai compreso né ammesso che il denaro, comunque anticipato ed investito, possa riprodursi su se stesso con l’usura. La stessa compravendita è sempre apparsa al contadino un’imposizione simile a quella dei prelievi baronali, signorili, fiscali e decimali.

(tratto dal libro “Memorie di Galatina…)

Il cammino dei Perdoni (quarta ed ultima parte)

Il Pellegrinaggio ai Sepolcri

Posta di perdoni in adorazione davanti al repositorio

 

Sono le 15 del Giovedì Santo, il Pellegrinaggio ai Sepolcri sta per avere  inizio e con esso si aprono i riti della Settimana Santa di Taranto.

Dal portone principale della Chiesa del Carmine, in piazza Giovanni XXIII, escono le poste dirette a far visita ai Sepolcri allestiti nelle chiese della città vecchia; le poste dirette ai Sepolcri della città nuova escono invece dall’ingresso della sagrestia, in via Giovinazzi. L’uscita della prima posta, è fissato per le ore 15 del Giovedì Santo, seguono poi a intervalli regolari le altre coppie di perdùne – in tutto sono circa cinquanta. I confratelli avanzano a passo lentissimo, alzando quel tanto che basta, ora l’uno, ora l’altro piede, per farlo ricadere quasi sullo stesso punto della strada, accompagnandosi con un tipico, estenuante, dondolio  chiamato ‘a nazzecàte. Il completamento dell’intero percorso può richiedere così diverse ore – pur essendo relativamente breve – e il Pellegrinaggioprosegue per tutta la serata fino alla mezzanotte, per riprendere poi la mattina presto del Venerdì Santo e concludersi intorno alle undici. Può capitare, la mattina del Venerdì Santo, che i confratelli del Carmine incrocino quelli dell’Addolorata, ancora intenti nella loro Processione, uscita la mezzanotte del giorno prima dal Tempio di San Domenico nella città vecchia; quando ciò avviene si genuflettono in segno di riverenza davanti alla Croce dei Misteri e alla statua dell’Addolorata.

L’ultima posta ad uscire dalla Chiesa del Carmine nella tarda serata del Giovedì Santo prende il nome di ‘u serrachiése ad indicare il compito di chiudere, serrare, le chiese per l’approssimarsi della notte. Nicola Caputo – noto studioso e appassionato cultore delle tradizioni tarantine, che ai riti della Settimana Santa ha dedicato numerose opere – avanza a tal proposito una suggestiva ipotesi: il termine serrachiése potrebbe derivare anche da “serraschiere” con il quale si indicava nell’impero ottomano il comandante supremo delle forze armate che ordinava l’uscita e, per l’appunto, il rientro delle truppe; così da serraschiere si sarebbe passati, nel nostro caso, aserrachiese (Cf  N. Caputo, I giorni del Perdono, Taranto 1995, 40).

Chiesa del Carmine, particolare del campanile

 Le chiese da visitare nel giro della città nuova sono: San Francesco di Paola, SS. Crocifisso e San Pasquale. Le poste dirette ai Sepolcri della città vecchia visitano invece le chiese di San Giuseppe, San Domenico, Basilica cattedrale (San Cataldo) e Sant’Agostino. Il loro numero si è notevolmente ridotto rispetto al passato, molte di esse infatti sono state distrutte o trasformate in Rettorie, per le quali non è concesso allestire il Sepolcro. A partire dagli anni sessanta discutibili scelte di politica industriale a livello nazionale e una certa miopia da parte degli amministratori locali nel valutare il peso delle loro decisioni in fatto di gestione del territorio, hanno determinato lo spostamento in massa della popolazione tarantina dalla città vecchia verso aree periferiche, del tutto anonime e prive delle necessarie strutture di carattere associativo – i famosi “quartieri dormitorio”. La città vecchia, abbandonata da gran parte dei suoi abitanti, ha subito così un lento e inesorabile declino, il cui esito è ancora oggi davanti agli occhi di tutti, nonostante i numerosi progetti di recupero urbanistico e i tanti cantieri aperti nel corso degli anni. Gli ultimi importanti interventi di risanamento e riqualificazione urbana del centro storico di Taranto fanno però sperare in una sua rinascita, ne è esempio la riapertura, anche se non ancora al culto, di molte delle sue splendide chiese.

Cambio delle poste per l’adorazione

Attualmente è solo la Confraternita del Carmine a compiere il Pellegrinaggio ai Sepolcri, ma in passato esso veniva svolto da tutte le confraternite tarantine ancora attive. Facilmente i numerosi e colorati cortei si incontravano lungo il percorso, e quando ciò avveniva i confratelli si salutavano con ‘u salamelìccheil salamalecco –  parola di origine araba che si rifà all’espressione al-salām ʿalaykum – “la pace sia con voi” – che in ambito islamico costituisce la maniera appropriata di salutare un proprio correligionario. Una sorta quindi di omaggio reciproco ancora oggi praticato dalle poste quandosi incontrano nelle chiese o per le strade della città: nell’incrociarsi le coppie di perdùne si tolgono i cappelli e si salutano sbattendo contro il petto i rispettivi rosari e medaglioni.  Se si considera poi che ogni sodalizio portava in processione la troccola – strumento di legno finemente lavorato e  intarsiato che, se opportunamente agitato, produce il caratteristico suono, vero e proprio simbolo dei riti della Settimana Santa tarantina – si può ben immaginare il frastuono che si poteva avvertire per i vicoli e le stradine della città vecchia. A tal proposito in un atto notarile del 1708 si legge che il Vicario Capitolare fu addirittura costretto a proibirne l’uso (Cf Caputo, I giorni della Perdono, cit.). Nel 1875 fu invece l’allora sindaco f.f. Domenico Sebastio  ad intervenire con un’ordinanza, ma non ne cavò nulla in quanto quell’anno la troccola uscì regolarmente (ivi.).

Per antico privilegio, sancito addirittura da sentenze di tribunale, ai confratelli del Carmine spettava – e spetta tuttora considerato che tale diritto non è mai stato abolito – la “dritta”, le poste del Carmine avevano cioè la precedenza su tutte le altre per quanto riguardava l’adorazione davanti al Sepolcro: al solo affacciarsi in chiesa dei confratelli del Carmine le coppie delle altre congreghe, anche se assorte in adorazione, si sarebbero dovute prontamente alzare per lasciare loro il posto.

I Sepolcri sono impropriamente chiamati così: infatti non rappresentano il luogo in cui fu deposto il corpo di Gesù la sera della sua crocifissione – che avvenne di venerdì – ma vogliono ricordare l’istituzione del sacramento dell’Eucarestia da parte del Cristo durante l’Ultima Cena  – per l’appunto il Giovedì Santo. Tutto intorno agli altari delle chiese che li ospitano vengono preparate importanti scenografie, utilizzando per lo più fiori freschi, candele, stoffe colorate, fondali dipinti, piccole statue in cartapesta ecc. In passato non era raro l’uso della cera che, abilmente modellata,  donava all’insieme un’atmosfera più calda e di maggiore suggestione. Non mancano i cosiddetti piatti del Paradiso: bassi contenitori in cui sono stati fatti germogliare, al buio, grano, orzo e, a volte, leguminose. Le pallide, esili, piantine vengono poi avvolte da fogli di carta crespa colorata e collocate sugli altari. In passato, trascorsa la Settimana  Santa,  le mogli dei contadini passavano in chiesa a riprendersi i piatti benedetti e le piantine, sbriciolate nei campi, avrebbero dovuto garantire, o almeno così si sperava, una stagione favorevole e un abbondante raccolto.

Saluto tra i confratelli anziani

 

 

 

 

Al centro del Sepolcro viene posto il Repositorio che contiene l’Ostia consacrata, davanti alla quale i confratelli, con il cappuccio alzato, si inginocchiano per l’adorazione. Al sopraggiungere della coppia che segue alle loro spalle, questi si abbassano il cappuccio mentre quelli appena giunti, dopo una breve genuflessione, si portano sul lato destro dell’altare. Il confratello più “anziano” della coppia appena arrivata si avvicina al più “anziano” di quella ancora inginocchiata e gli sussurra in un orecchio: “Sia lodato Gesù e Maria”, al quale viene risposto al medesimo modo: “Sempre sia lodato”. Segue l’abbraccio tra le due poste, entrambe si genuflettono davanti al Sepolcro e per i confratelli appena giunti, dopo essersi inginocchiati e aver alzato i cappucci, può iniziare il momento di adorazione. Il Pellegrinaggio prosegue e le coppie si alternano regolarmente fino a concludersi, come abbiamo visto, nella tarda mattina del Venerdì Santo, con il rientro di tutte le poste alla Chiesa del Carmine.

Poche ore ci separano dall’inizio della Processione dei Sacri Misteri, ma sono ore di calma apparente. Fedeli, turisti, semplici curiosi, confluiscono da ogni dove nelle vie del centro, per accalcarsi di fronte all’ingresso della chiesa. Tutta la città sembra ora fermarsi, quasi a voler trattenere il respiro, nell’attesa che il portone principale si riapri e lasci intravedere la sagoma del troccolante. Il lungo corteo dei confratelli incappucciati, uniti in un silenzioso raccoglimento, lentamente andrà sgranandosi tra le vie del borgo: i riti della Settimana Santa tarantina stanno per rivivere uno dei suoi momenti più intensi ed emozionanti.

(Fine)

 

Informazioni, notizie storiche, aneddoti e curiosità sui riti della Settimana Santa di Taranto, contenuti in questo e nei precedenti articoli, sono stati tratti in massima parte dalle opere di Nicola Caputo al quale rivolgiamo un doveroso ringraziamento per l’infaticabile lavoro di ricerca e conservazione delle tradizioni popolari tarantine.

Per le indicazioni bibliografiche e le note al testo ci permettiamo di rinviare a:

F. Lacarbonara, Il cammino dei Perdoni. Il Pellegrinaggio ai Sepolcri nei riti della Settimana Santa di Taranto, in «Spicilegia Sallentina», 7 (2010), 87-96.

 

Testo e foto di:

Francesco Lacarbonara – MMXI – tutti i diritti riservati –

 

Per la prima parte vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/25/taranto-il-cammino-dei-perdoni-prima-parte/

Per la seconda parte vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/26/taranto-il-cammino-dei-perdoni-seconda-parte/

Per la terza parte vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/27/taranto-il-cammino-dei-perdoni-terza-parte/

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