Quella seconda mensola del balcone del castello di Nardò … (5/6)

di Armando Polito

L’iconografia tradizionale si arricchisce di ulteriori riferimenti religiosi cristiani nell’immagine disegnata da Gottofr. Eichler junior facente parte della raccolta pubblicata da Giovanni Giorgio Hertel col titolo Historiae et allegoriae, Ausburg, 1758.

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L’Amicizia ricalca il Ripa (che a sua volta, come abbiamo visto, si era rifatto all’Alciato)  ma l’immagine complessiva conterrebbe secondo la didascalia allusioni alla pacificazione tra i fratelli Giacobbe ed Esaù (Genesi, 33). Io ci vedo pure il cieco ed il paralitico che si aiutano a vicenda (visibili a destra) e, nelle tavola in mano al bambino, le tre Grazie,  dettagli che corrispondono alla penultima ed all’ultima rappresentazione testuale dell’Amicizia nel testo del Ripa e la prima a quella iconografica dell’Alciato dal titolo Mutuum auxilium (Vicendevole aiuto) riprodotta di seguito dalla pag. 16 dell’edizione degli Emblemata, uscita a Parigi per i tipi di Christian Weckel nel 1534.

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Insomma, l’ultima immagine del 1758 sembra riassumere tutti i dettagli delle precedenti rappresentazioni; non manca nemmeno il cuore che aveva fatto la sua comparsa in un repertorio addirittura anteriore a quelli fin qui presi in considerazione: Emblemata di Giovanni Sambuco pubblicato ad Anversa per i tipi di Cristoforo Plantin nel 1564; ne riproduco di seguito  la pag. 16 contenente la scheda Vera amicitia.

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Nonostante questo labirinto di superfetazioni in cui è difficile, anche perché il riferimento alle fonti è piuttosto latitante, distinguere l’autenticodall’inventato1, son riuscito con Holcot ad andare a ritroso nel tempo con certezza fino al XIV secolo e, purtroppo senza riscontri,  al V-VI secolo con Fulgenzio da lui citato.  Per quanto riguarda le raffigurazioni antiche nulla ci è rimasto e per completezza, però, va detto che prima ancora che nel Ripa MORS ET VITA e LONGE ET PROPE sono ricordati anche dal Vasari in Vite de’ più eccellenti pittori, scultori et architettori, la cui prima edizione uscì a Firenze per i tipi di Torrentino nel 1550 (qui cito dall’edizione Giunti, Firenze, 1568, v. VI, pag. 347): Stravagantemente fu poi l’Amicizia, che dopo loro veniva figurata, percio che questa benche in forma di giovane donna, si vedeva havere di frondi di melagrano, & di Mortella, la nuda testa inghirlandata, con una rozza veste in dosso, in cui si leggeva Mors et vita; & col petto aperto, si che scorgevisi entro il quore si poteva; in cui si vedeva similmente scritto LONGE ET PROPE; portando un secco Olmo in mano da una fresca, & feconda vite abbracciato.

E una conferma temporalmente più vicina a noi si ha pure in quanto si legge in Il Buonarroti, una serie di “quaderni” con articoli di vari autori pubblicati a Roma a cura di Benvenuto Gasparoni  per i tipi della Tipografia delle scienze matematiche e fisiche. Nel quaderno II del Febbraio 1866 in un articoletto a firma del curatore dal titolo La casa di Carlo Lambardo architetto (pagg. 51-53) si legge: … egli (Carlo Lambardo) si fabbricò (a Roma) alcune casette nel rione di Colonna, presso S. Maria in Via. Delle quali una, dove egli si riparava, è ancora in essere, e nell’architrave del portone, scolpito di lettere cave nel traverstino, si legge il suo nome –CAROLUS LAMBARDUS-. Questa, come che piccolina e con pochi ornamenti, sendovi ogni cosa accomodata con arte, e con giudicio, lasciasi guardare con piacere; ed ha due ordini di stanze sopra il basamento, dove da un lato s’apre il portoncino, che volgesi in arco, contrassegnato col n° 50. Sonovi in ciascuno ordine tre finestre, se non che quelle di mezzo sono finte; e nel quadro delle luci si vedono dipinte di buon fresco due figure, tenute in pregio da chi conosce di pittura. Delle quali quella di sotto è fatta per l’Amicizia, che ha nella mano destra un cuore, e si tiene abbracciata con la sinistra ad un albero, cui s’attortiglia una vite, ed una fettuccia le esce dal petto dove è scritto un motto che dice “Longe et prope”.

Lo stesso curatore ci fa sapere che l’architetto morì nel 1620 e, a scoraggiare l’eventuale tentazione che possa cogliere qualche lettore, magari romano,  di individuare questa casa, in nota 1 (la riporto integralmente perché contiene la denuncia di un fenomeno che continua ai nostri giorni) a pag. 53 ecco l’infausto presago messaggio:  Affrettisi chi volesse vedere questa casa del lambardo ancora in piedi, poiché fra pochi giorni sarà atterrata, a quanto si può fare giudicio dal vederla disabitata e lavorarvi dentro i muratori. O quando ci torremo noi questo vitupero da dosso, di distruggere quelle cose, che fanno il grido e la fama della città nostra? La quale non solo di storiche memorie va onorata e degna sopra molte, ma veramente si può dire che dal lato delle arti, sia la scuola e l’esempio del mondo. Se non che continuandoci in questo mal giuoco, non passeranno molte diecine di anni, che a così famos città, non rimarrà che il lustro del nome. Dove qui non mi posso ritenere di ricordare cosa, che mi ha fatto fremere di sdegno: dico del mal governo e del guato che di questi dì si è fatto del palazzetto Amici, già Strozzi, in Banchi Vecchi, delle più belle architetture di Jacopo Sansovino;  dove è stata appiccicata al primo piano una ribalda loggia che lo difforma, e scarpellato di oltre due dita, per racconciarlo, il bugnato rustico del basamento, che ne ha perduto di maestà e di bellezza tanto, che questo solo basterebbe a far testimonio della nostra ignoranza e della nostra ignavia. Ma non intendiamo con queste parole recar onta a quel nobile Signore  che lo fece ristaurare, e vi ebbe bonissima intenzione; se non ch’egli fu mal servito.

(CONTINUA)

prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/10/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-16/

seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/11/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-26/

terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/12/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-36/

quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/13/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-46/

sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/20/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-66/

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1 Non a caso la prima edizione dell’opera del Ripa (1593), di cui si è sopra riprodotto il frontespizio, reca il titolo Iconologia overo descrittione dell’immagini universali cavate dall’antichità et da altri luoghi da Cesare Ripa Perugino, mentre quello dell’edizione uscita a Roma nel 1603 per i tipi di Lepido Facii è Iconologia overo descrittione dell’immagini universali cavate dall’antichità, & di propria inventione, trovate, et dichiarate da Cesare Ripa Perugino, Cavaliere dei Santi Mauritio & Lazaro

Emigrazione, la nipote di Nicola Sacco a Specchia

emigrati

 

di Francesco Greco

 

Sarà Fernanda Sacco l’ospite d’onore alla 13ma edizione della Festa degli Emigranti di ieri e oggi di Specchia Preti (Lecce), organizzata dall’Associazione Italiani nel Mondo (presieduta dall’ex emigrante in Svizzera Fernando Villani) in programma il 9 e 10 agosto nella location incantevole di Piazza del Popolo. Si tratta dell’ultima discendente dell’emigrante anarchico pugliese (di Torremaggiore, Foggia), che il 23 agosto 1927 fu giustiziato sulla sedia elettrica negli Usa (a Boston) insieme a Bartolomeo Vanzetti, che invece era piemontese, di Villafalletto (Cuneo). Sulla loro storia di passione politica scrisse una celebre canzone la folk-singer americana Joan Beaz, “La ballata di Nick and Burt” e fu anche girato un film di successo.

Una storia di emigrazione e militanza politica nell’altro secolo che culminò appunto con l’accusa di spionaggio e l’esecuzione. Sacco e Vanzetti furono “riabilitati” solo mezzo secolo dopo (nel 1977). La nipote dell’anachico pugliese (che sul celebre nonno ha scritto un libro) sarà ricevuta in municipio la mattina del 9 agosto alle ore 11 dal sindaco del paese Antonio Biasco. Saranno presenti altre personalità politiche, fra cui il sindaco di Torremaggiore, Costanzo Di Iorio, il primo cittadino di Villafalletto, Ilio Piana, il presidente della Provincia di Lecce Antonio Maria Gabellone, l’assessore regionale Elena Gentile, il vicepresidente del Consiglio Generale dei Pugliesi nel Mondo Gianni Mariella, la presidente del Consolato dei Maestri del Lavoro di Lecce Silvana Malvarosa, il sindaco di Casarano Gianni Stefàno.

La festa è cominciata martedì scorso alla Villa Comunale, dove è stato scoperto il Monumento all’Emigrante, opera dell’artista Giovanni Scupola, realizzata in marmo di Carrara nella “Fonderia Michele Mangiafico” di Modugno (Bari). I bozzetti sono sparsi per il mondo: sono presenti al Senato della Repubblica, alla Camera dei Deputati, a Zurigo, ecc. Dopo la visita di Fernanda Sacco in municipio, la Festa continuerà con la celebrazione della Santa Messa officiata da Monsignor Vito Angiuli, vescovo della Diocesi Ugento-Santa Maria di Leuca. La liturgia sarà animata dal coro “La voce degli angeli” della parrocchia “Presentazione della Vergine Maria” diretto dal m° Deborah De Blasi. Dopo i saluti e gli interventi degli oratori, deposizione della corona di fiori ai piedi del Monumento del Sacrificio del Lavoro italiano nel Mondo alla Villa Comunale. Partecipa il Concerto musicale di Specchia “Giacomo Puccini”. Alle ore 22 concerto dei “Coribanti”, gruppo di musica popolare (pizzica) del Salento che si caratterizza per il profondo rispetto verso il patrimonio musicale e culturale della tradizione più autentica e allo stesso tempo per la ricchezza di sonorità e di energia creativa.

Il 10 agosto il programma della festa prevede un altro dibattito dove interverranno, oltre a Fernando Villani, l’assessore alla Cultura del Comuen di Specchia Giampiero Pizza e il consigliere della Provincia di Lecce con delega alla pubblica istruzione Antonio Del Vino. A seguire il concerto della banda “Giacomo Puccini” e del m° Antonio Pepe, vincitore di un’edizione della “Corrida” condotta da Gerry Scotti qualche anno fa.

L’8 agosto di ogni anno si commemora la Giornata Nazionale del Sacrificio del Lavoro Italiano nel Mondo. Le due serate saranno presentate da Francesca Ruppi. Oltre a Specchia, altre associazioni di emigranti sono presenti nel Salento: a Tuglie, Matino, Casarano (Museo del Minatore fondato dal compianto Lucio Parrotto), Corsano, Presicce, Sogliano Cavour, Nardò, ecc. La manifestazione ha il patrocinio di Regione Puglia, Provincia di Lecce, Comune di Specchia, Associazione Nazionale Comuni Italiani, Puglia Confederazione Elvetica, Regno del Belgio, Bundesrepublik Deutschland.

 

Giuggianello. Un insolito stemma borbonico

giuggianello7

di Lucia Lopriore

 

Sulla facciata della vetusta chiesa sotto il titolo della Madonna Assunta, ubicata nella ridente cittadina di Giuggianello,è affisso un insolito stemma borbonico.

La chiesa, risalente al XVI secolo, è nota anche sotto il titolo della Madonna dei Poveri, per l’esistenza del cimitero che si estendeva intorno, utilizzato fino al 1892, che accoglieva le salme dei cittadini più poveri della comunità, oltre a quelle degli associati alla Confraternita dell’Assunta.

Il prospetto principale, dalle semplici linee architettoniche, presenta un sobrio portale, posto in asse, con una piccola finestra rettangolare. La chiesa subì importanti modifiche nel 1782, quando Ferdinando IV di Borbone, giunto in visita nel Salento, si adoperò affinché fossero consolidate le fabbriche danneggiate dal terremoto del 1743. Al di sotto dello stemma è affissa l’epigrafe che celebra l’evento e recita:

 

D.O.M.

DEI PARÆ IN COELUM ADSUMPTÆ

TEMPLUM HOC, QUOD TUNC CONGRE*NIS

IUJANELLI FRATRES POSUERE,

NUNC FERDINANDI IV BORBONII REGIS

PRIDIE NONAS FEBRUARIAS RELIGIO

 FRATRUM ASSENSU ROBORAVIT

ANNO VULGARIS ÆRE

CD. D. CC. LXXXII.[1]

 

 

L’edificio, inoltre, è dotato di un campanile a vela con due fornici.

L’interno, ad aula unica rettangolare con copertura a stella, è scandito da tre arcate per lato nelle quali si aprono brevi cappelle. Sono presenti alcuni dipinti su tela fra cui una Natività. Sull’altare maggiore campeggia la statua della Madonna Assunta.

 

Descrizione dello stemma:

 

Scudo sagomato in cartiglio.

 

Blasone:  partito di due, troncato di uno: nel 1° d’Angiò; nel 2° ripartito di Castiglia e di Leon, innestato in punta di Granada; nel 3° d’Aragona-Sicilia; nel 4° dei Farnese; nel 5°di  Gerusalemme; nel 6° dei Medici. Sul tutto, di Borbone.

 

Timbro: corona reale di (…) abrasa in cima [di otto fioroni (cinque visibili) sulle punte].

Pende dallo scudo l’ordine del Toson d’Oro.

Il tutto poggiante su mensola sovrastante l’epigrafe.

 

Considerazioni:

lo scudo, ben conservato, al contrario della corona che lo sormonta che si presenta abrasa in cima, è di ottima fattura. Nella quinta partizione presenta un’anomalia derivante dal probabile utilizzo, come modello, del verso delle monete coeve. In queste testimonianze monetali, infatti, appare evidente che lo zecchiere abbia alterato la partizione originaria giacché si osserva l’arbitraria sostituzione della croce potenziata scorciata accantonata da quattro crocette scorciate (Gerusalemme) con una croce accantonata da quattro gigli. Un errore, questo, che modifica ed altera lo stemma borbonico e lo rende insolito.

Circa gli altri ordini cavallereschi, che solitamente pendono dallo scudo, mancano: l’Ordine Costantiniano, l’Ordine dello Spirito Santo, l’Ordine di S. Gennaro, l’Ordine Reale di Carlo III di Borbone.

 

Pubblicato su Il delfino e la mezzaluna n°2.



[1] Trad.: “Quando i confratelli di Giuggianello (si unirono) innalzarono questo tempio alla Madre di Dio Assunta in cielo, ora il 4 febbraio la religiosità di re Ferdinando IV di Borbone lo consolidò con l’approvazione dei confratelli, nell’anno dell’era volgare 1782”.

 

8 agosto. Sant’Agata la buona e Gallipoli

GALLIPOLI, 8 AGOSTO 1126: “D.O.M TEMPLUM HOC QUOD PRIUS BEATO JOHANNI CHRISOSTOMO NUNC DIVAE AGATHAE MIRACULOSA  MAMMILLA INVENTIONE CALLIPOLIS GRATAE SERVITUTIS OSSEQUIUM D.D.D.”

Catania - i devoti

di Pietro Barrecchia

Era l’8 agosto 1126. Sì, ricordo bene, non perché c’ero! Ricordo bene come ricorda l’animo di Gallipoli, perché l’uno sussurra all’altro l’avvenuto. Ricordo anzitutto il  biennio del Ginnasio, frequentato in Nardò, quando,  un professore propinava le così dette lingue morte, che poi tanto morte non erano, visto che il chiarissimo docente, inculcava il gusto della ricerca dell’etimo e dimostrava, ostinatamente, che morto era colui che ignorava di parlare, in era contemporanea, il latino e il greco, con qualche trasformazione, ovvio!  Fu allora che iniziai a comprendere di aver sbagliato, fino ad allora, a deridere i miei anziani, che raccontavano di una leggenda e di una invenzione. Non era dunque un’ammissione di colpa,  ma  un’esattezza di idioma, se  solo avessi inteso l’invenzione narrata quale diretta discendente della latina “inventio”, rinvenimento, cioè.

E dovevo arrivare in quel di Nardò ed apprendere da un suo figlio, che i figli di Gallipoli avevano ragione da vendere,  affermando, in vero, che sulle spiagge del Cotriero, nel dì dell’8 agosto, del 1126, era avvenuto il passaggio di consegne della Città di Gallipoli, tra san Giovanni Crisostomo, antico patrono e la novella amazzone celeste, Agata, la buona.

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Catania-Duomo-il-sarcofago-che-custodisce-le-sacre-reliquie-della-Martire-e-sullo-sfondo-le-sculture-che-narrano-del-suo-ritorno-a-Catania

Non solo gli anziani narrano, anche le tele seicentesche illustrano che quell’8 agosto un vascello dal nome familiare, “Gallipoli”, come nel migliore degli stili dell’epoca,  avrebbe sottratto, per legge di contrappasso, un corpo santo, dal costantinopolitano templio di S.Sofia, per riportarlo nella patria d’origine, Catania.

Sezionato e deposto in faretre, coperto da petali di fiori , quel corpo riprese il viaggio di ritorno per il riabbraccio con la sua Città, con i suoi cittadini, con quei luoghi che lo videro giovinetto, versare il sangue eroicamente ed affermare la sua fede.

Nocchiero di bordo e padrone del vascello è tal Goselmo, di Gallipoli e suo prode compagno, tale Gilberto, gallo, francese, ai quali sarebbero stati rimessi i peccati per il furto compiuto, dal presule catanese, che commissionò il reato, nell’agosto del 1126. Tanto più che la giovinetta martire era apparsa allo stesso Goselmo, presentandosi e richiedendogli un passaggio fino alla sua Città.

Non fu distante dalle coste di Costantinopoli quel corpo santo sottratto, quando i suoi abitanti percepirono la sua mancanza ed invano si precipitarono in mare per riprenderlo.

E quel mare fu provvidenziale, quando la sua brezza sospinse il vascello sulle coste di cui portava il nome, governato da quel Goselmo che lì aveva annunziato la sua nascita e conosceva quella costa come sua madre. Era il meriggio dell’8 agosto 1126.

Gallipoli, Duomo - tela di G.A. Coppola, rappresentante il martirio della santa
Gallipoli, Duomo – tela di G.A. Coppola, rappresentante il martirio della santa

Non poteva andare altrimenti, quando per patrio amore Goselmo stesso, a mio parere con precisa intenzione, lasciò cadere sull’arenaria costa, la reliquia più insigne, la parte sanata dal Principe degli Apostoli, che secoli prima, come altra leggenda narra, aveva calpestato proprio quel luogo, inaugurandovi la stagione cristiana, lì a pochi passi dal Cotriero, ai Samari, che avrebbe visto sorgere, per crociata mano, un luogo di culto dedicato a Pietro dei Samari.

Era l’8 agosto 1126, quando una donna, come la martirizzata, adempiva al suo dovere di madre, lavando i panni e forse, in un frangente, sfamando il suo infante, dal quale non si separava mai, se non fosse stato per quell’improvviso torpore che la assediò e, stanca, chiuse gli occhi al reale, per riposarsi un po’, come le madri meritano, sognando del futuro del suo bimbo. Una donna, giovinetta, gentile nell’aspetto, le apparve in sogno e conoscendo la sensibilità femminile, la avvisò di quel che le sarebbe avvenuto realmente. Non ancora era giunta su queste coste la fama di Agata e la donna non conosceva quel nome. La figura femminile si presentò e le prefigurò ciò che avrebbe visto al suo risveglio. Ma era un sogno, un brutto sogno da cancellare una volta sveglia, perché quel che le era stato prospettato non era certo bello. Al risveglio, avrebbe trovato il suo amato figlio disteso sull’arena, vicino ad un pozzo, nell’atto di succhiar latte da una mammella che non era quella materna e che era stata recisa. Quale madre avrebbe retto a tale scena? Cosa avrebbero fatto le nostre madri? Esattamente quel che fece la madre di quel figlio che allattava ad una mammella che non gli apparteneva. Terribile scena. La donna tentò e ritentò di strappare quella mammella dalla bocca del figlio, ma non ci fu verso. Quella rimase ancorata tra le purpuree  labbra dell’amato infante.

la mammella di S.Agata custodita in Galatina, appoggiata all'originario fusto argenteo custodito in Gallipoli
la mammella di S.Agata custodita in Galatina, appoggiata all’originario fusto argenteo custodito in Gallipoli

Male pensò, quella madre, che per la paura aveva già rimosso la prefigurante visione. Sortilegio. Opera terribile. E se l’umano non riesce ad intervenire, si corre dal divino, a chi ne fa le sue veci, per richiedere intercessione.

Corse dal Vescovo la madre, corse senza sosta, con affanno, verso quella Cattedra così lontana e chiese grazia al presule, il quale si recò sul posto, circondato dal clero ed attonito cedette all’orrendo spettacolo. Qui nulla potè l’umano e se l’opera non fu divina allora appartenne alla concorrenza ed allora, bisognava invocare con forza, bisognava esorcizzare, bisognava richiedere liberazione. Primo passo, richiedere l’intercessione ai Cortigiani dell’Empireo, a quelli reputati più potenti ed a quelli più conosciuti. Si iniziò, rigorosamente in latino, rigorosamente cantando. E sfilarono i nomi santi, per tre volte e seguirono gli “ora pro nobis”. Ma nulla. Incessante preghiera, ma ancora nulla. Da poco inserita nell’elenco degli invocati, il nome santo della catanese vergine e soprattutto martire, la giovinetta Agata, che a dispetto dell’età aveva saputo rispondere al tiranno che aveva ordinato di offenderla nella sua femminilità, recidendo le sue mammelle. Atroce pegno per aver confessato una religione nuova e pacifica. Agata rispose a chi sentenziò quell’ingiusto tormento “Non ti vergogni”, gli disse “ di stroncare in una donna le sorgenti della vita dalle quali tu stesso traesti alimento, succhiando al seno di tua madre? ”.  A chi pensare dopo quelle parole proferite secoli prima, assistendo alla scena di un bimbo che succhia da una mammella recisa, affiorante dalla sabbia? Certo!  Ad Agata!  Allora: “Sancta Aghata  – ora pro nobis!”, cantando per altre due volte, cantando e sperando “Sancta Aghata – ora pro nobis!” ed ancora “Sancta Aghata – ora pro nobis!” Si staccò quella mammella dalle purpuree labbra  del bimbo, accorse la madre che abbracciò suo figlio e raccolse con pietà e devozione la sacra mammella e rivolse un pensiero e la prece salì ad Agata, la Santa buona. Chi pensò al maleficio, dovette far varcare con i sommi onori quella mammella dalla patria porta, in processione, ringraziando Iddio che, con segni e portenti aveva stabilito le modalità dell’evento. E la padrona di quell’insigne reliquia subordinò il culto del Giovanni bocca d’oro, che, da gran cavaliere cedette il posto ad una vergine e martire. Peraltro i due e gli altri, come loro, non sono stati, non sono e non saranno mai in competizione, ma come gli è stato insegnato saranno strumenti verso l’Unico Fine, il Sommo Bene.

Quella mammella divenne il tesoro di Gallipoli, ingraziandosi la novella Patrona, alla quale si consacrò, successivamente la nuova Cattedrale. Tale reliquia divenne simbolo e stemma tra palme e tenaglia dello stesso clero ed il popolo, che aveva rimosso la mammella di Agata dalla bocca del piccolo miracolato, continuò e continua a succhiare la linfa vitale da quella martire insigne, alla quale si rivolge solennemente nel giorno del suo martirio, il 5 di febbraio con il canto del greco e del latino, lingue vive e ripete il rito nel giorno della tutela, l’8 di agosto. Anche se…… anche se, per volere non divino, con abuso di potere, Raimondello del Balzo Orsini, nel 1380, ordinò che la mammella fosse custodita in Galatina, presso la Basilica di S.Caterina Novella, asportandola dal seno di Gallipoli, dove superstite, rimase, come reliquia, quel fusto argenteo che la sorreggeva con le cesellate urbiche mura.  Da allora non vi è stato alcun gallipolino al pari di Goselmo!  Ma se la storia insegna allora è necessario dire l’evento è arido se non suscita effetto ed anche senza mammella, i gallipolini si sentono legati a Sant’Agata, la quale ha assicurato in tempo e modi la sua protezione alla sua seconda patria. L’inno dell’8 agosto ben ricorda la predilezione offerta  “Tu questo ciel purissimo e questo mar ceruleo, che il patrio lido abbraccia, un dì venisti a prendere in tua tutela amabile. Proteggi Tu Gallipoli, che ogn’or s’affida a Te!”.

Ad irrobustire la realtà del rinvenimento vi è il fatto che anche Catania festeggia il ritorno della sua Martire,  il 17 agosto, ricordando quello del 1126, quando sulla sicula sponda giunse, ad opera di Goselmo e Gilberto, quel sacro corpo, privo di una mammella, che da allora riposa nella sua patria, nel sacello del Duomo dedicatogli. Peraltro, non si conosce se Gilberto e Goselmo abbiano ricevuto la corona celeste. E’ certo che sono rappresentati, in un affresco e scolpiti sull’altare del Cappellone di Sant’Agata e furono eletti cittadini onorari della sua Città. Catania custodisce ancora quelle testimonianze storiche, nella Chiesa del Carcere, ove è tutelato il legno con cui fu trasportato il corpo della Martire. Ancora,  in prossimità della marina, vi è un tempietto con una scultura della Martire, al cui basamento, un’epigrafe ricorda il ritorno in patria di Agata, nel dì del 17 agosto 1126. In quel luogo accorsero i catanesi, avvisati notte tempo ritrovandosi in camicia da notte e papalina. In memoria di quell’evento, si mantiene ancora il tipico abito dei devoti: saio bianco, copricapo nero, con aggiunta di guanti bianchi e fazzoletto bianco per salutare Agata, la Santa. Coincidenze a distanza? A proposito di lingue vive, a me sembra che questa invenzione sia proprio un “inventione”!

L’epigrafe di Corsano

Corsano 2

di Armando Polito

 

L’epigrafe era già stata pubblicata in Iscrizioni latine del Salento, a cura di Antonio Caloro, Mario Monaco, Antonio Leonio e Francesco Fersini, Congedo, Galatina, 1998, pag. 199. In questa fase iniziale si terrà conto della lettura lì proposta.

Da un punto di vista di scrittura epigrafica è da notare l’inglobamento di I in DOMINUS e DOMINO e, forse, nel VIS della prima linea, di E in AEDIFICARE, TE, AEDIFICANDI, AEDIFICANDO ed ET, di N in NEC e COHONESTANDA, la presenza di divisione di parole finali nel primo (neces-sitas), terzo (tur-ris) e sesto (do-mino) rigo E. La A assume una forma diversa da tutte le altre in AEDIFICARE della prima linea; questo dettaglio, tuttavia, è insufficiente per attribuire ad una mano diversa le parole successive alle prime tre.

 

SI V(I)S AEDIFICARE DOMUM INDUCAT TE NECES

SITAS NON VOLUPTAS ·CUPIDITAS AEDIFICANDI

AEDIFICANDO I NON TOLLITUR SED ACUITUR : TUR

RIS COMPLETA ET ARCA EVACUATA FACIUNT TARDE SAPERE ·

ORNANDA EST DIGNITAS DOMO NON EX DOMO TOTA

QUAERENDA NEC DOMO DOMINUS SED DOMUS DO

MINO COHONESTANDA · DI(ONYSI)US · B(UFF)E(LL)US ·A(NNO) · D(OMINI) · M·DCCXIV =

 

SE VUOI COSTRUIRE UNA CASA TI INDUCA LA NECESSITÀ,

NON IL PIACERE. LA SMANIA DI COSTRUIRE

IN PRIMO LUOGO NON VIENE ELIMINATA MA ACUITA COSTRUENDO:

LA TORRE COMPLETATA E LA CASSAFORTE SVUOTATA FANNO RINSAVIRE TARDI.

LA DIGNITÀ DEV’ESSERE UN ORNAMENTO PER LA CASA, NON DALLA CASA

DEV’ESSERE TUTTA CERCATA E IL PADRONE NON DEVE ESSERE ONORATO DALLA CASA

MA LA CASA DAL PADRONE. DIONIGI BUFFELLI NELL’ANNO DEL SIGNORE 1714 

 

Le prime quattro linee sono in sostanza un adattamento di alcuni brani di una lettera in passato attribuita con certezza, oggi meno, a S. Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), indirizzata Ad  Raymundum dominum castri Ambruosii (A Raimondo signore del castello di Ambrogio) e contenuta in una pergamena, risalente al XIV secolo, della Biblioteca Medico-Laurenziana.  Nella Patrologia del Migne (da cui si cita, sottolineandoli, i brani utilizzati) è la n. CDLVI e si trova nel tomo 182 col. 650: … Si vis aedificare, inducat te necessitas, non voluntas. Cupiditas aedificandi aedificando non tollitur, nimia et inordinata aedificandi cupiditas parit, et expectat aedificiorum venditionem. Turris completa et arca vacuata faciunt valde tarde hominem sapientem(…Se vuoi edificare, ti induca la necessità, non la volontà. La smania di edificare non si toglie edificando, l’eccessiva e disordinata voglia di edificare genera e aspetta la vendita degli edifici. La torre completa e la cassaforte svuotata rendono troppo tardi sapiente l’uomo …). Il nesso cupiditas aedificandi era stato usato da Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio (III-IV secolo), De mortibus persecutorum, VII, 8, per stigmatizzare la smania di costruire di Diocleziano:… accedebat infinita quaedam cupiditas aedificandi (… si aggiungeva una certa infinita voglia di edificare).

Da notare in questa parte rispetto all’originale:

a) la sostituzione di voluntas con voluptas, molto probabilmente non dovuta ad un errore dello scalpellino o al fatto che il committente o chi per lui gli abbia fornito un testo infedele. La differenza concettuale tra volontà e capriccio non è di poco conto ed è chiara la valenza ancor più negativa del secondo quando entrambi sono indirizzati al conseguimento di un fine propriamente non edificante, tanto che il concetto di capriccio finisce per coincidere, nelle sue manifestazioni estreme, con quello di vizio o perversione. Qui la sostituzione potrebbe essere stata operata consapevolmente o, comunque, sulla suggestione di un passo di S. Anselmo Lucense (XI secolo), Collectio canonica, XIII, 4 (nella Patrologia Latina del Migne tomo 149, col. 533 ): … hostem deprimere necessitas non voluntas debet …(… la necessità, non la volontà deve combattere il nemico …) o, più probabilmente, con un ribaltamento del significato che la contrapposizione tra voluptas e necessitas da una parte e delectatio ed obligatio dall’altra e parallelamente assume in In Joannis Evangelium tractatus CXXIV, 26, 6 di S. Agostino (nella Patrologia Latina del Migne tomo 35 col. 1608): Porro si poetae dicere licuit trahit sua quemque voluptas, non obligatio sed delectatio, quanto fortius non dicere debemus trahi hominem ad Christum, qui delectatur veritate, delectatur beatitudine, delectatur iustitia, delectatur aeterna vita, quod totum Christus est (Inoltre se al poeta fu lecito dire: “Ciascuno è trascinato dal proprio piacere”, non dall’obbligo ma dal diletto, a maggior ragione dobbiamo dire che l’uomo è attratto da Cristo che si diletta di verità, si diletta di beatitudine, si diletta di giustizia, si diletta di vita eterna, il che, tutto, è Cristo).

Va anche detto che il poeta cui allude S. Agostino è Virgilio (Ecloghe, II, 65: trahit sua quemque voluptas), per cui si assiste al fenomeno apparentemente contraddittorio della voluptas pagana recuperata in ambito cristiano con significato positivo e riciclata, infine, nella nostra iscrizione con una connotazione decisamente negativa, a tutto vantaggio della necessitas.

b) l’aggiunta di I (PRIMO o PRIMUM); questa lettera, omessa nella trascrizione e nella traduzione riportate nell’opera citata, probabilmente non è un errore dello scalpellino, indotto dall’asta iniziale della successiva N.

c) la sostituzione di vacuata con il composto evacuata che ne rafforza il concetto; tuttavia va detto che prima dell’edizione del Migne, uscita nel1844-1845 cioè più di un secolo dopo la nostra epigrafe, le due forme si alternavano (per esempio: vacuata nell’Opera omnia, Keerberg, Anversa, 1616, col.1957m e in Lorenzo Stramusoli da Ferrara, Apparato dell’eloquenza, Stamperia del Seminario, Padova, 1700, tomo II, pag. 211; evacuata in Guido Pancirolli, Rerum memorabilium libri duo, a cura di Enrico Salmuth, Forster, Amburgo, 1599, pag. 130 e Baldassarre Bonifacio, Historia ludicra, Baglioni,Venezia,1652, pag. 81).

d) la sostituzione, anzi la sintetizzazione dell’originale faciunt valde tarde hominem sapientem (in cui sapientem è complemento predicativo dell’oggetto, cioè di hominem) con faciunt tarde sapere, cioè un uso fattitivo del verbo mediato non dal latino, che suppone l’utilizzo di ut e il congiuntivo e non dell’infinito, ma dal volgare.

 

La seconda parte, invece, è tratta da Cicerone (De officiis, I, 39): … Ornanda enim est dignitas domo, non ex domo tota quaerenda, nec domo dominus, sed domino domus cohonestanda est …(… La dignità infatti dev’essere ornata dalla casa non cercata tutta dalla casa, né il padrone dev’essere onorato dalla casa ma la casa dal padrone …). Qui la citazione, a parte l’ovvia eliminazione di enim, è fedelissima all’originale.

Quanto a Dionigi Buffelli (questo lo scioglimento delle abbreviazioni operato nell’opera citata, non si dice in base a che), c’è da chiedersi se sia il figlio o un discendente del più famoso Placido (1635-1693) o se, più probabilmente, l’abbreviazione non si riferisca, più che al nome del committente, a quello dell’autore cui appartiene la prima parte del testo, cioè Bernardo di Chiaravalle; in tal caso essa andrebbe sciolta in DI(V)US  BE(RNARD)US (Il divino Bernardo)1 e la diversa grafia della U (simile a V) rispetto a quella adottata nel resto dell’iscrizione si giustificherebbe proprio con la posizione in apice di questo segmento. Ultima proposta di possibile scioglimento: DI(V)US  B(ARTHOLOM)EUS, questa volta con riferimento al dedicatario (S. Bartolo)2 della contigua cappella. Non a caso la cappella e il palazzo mostrano ancora nello zoccolo e nella cornice di coronamento, l’appartenenza ad un’unica fabbrica (vedi nella foto di testa lo zoccolo inferiore e in quella che segue la cornice di coronamento della cappella. che continua ed è ripresa nell’abitazione rispettivamente al piano terra ed al primo) e la collocazione dell’epigrafe sancirebbe il carattere privato dell’una e dell’altro.

Indipendentemente dalla soluzione del problema emerso dallo scioglimento dell’abbreviazione finale, si può concludere sinteticamente dicendo che l’iscrizione costituisce un collage di ispirazione laico-religiosa o, se si preferisce, classico-medioevale (la lettera attribuita a S. Bernardo ebbe nel medioevo enorme diffusione e fu commentata come se si trattasse di un trattato didattico e morale), già perfettamente partecipe della temperie del secolo dei lumi. Appare, perciò, generico, vago e superficiale il commento che si legge nell’opera di riferimento e che risulta così articolato: “Questa iscrizione, incisa su una tabella ansata, è lo sfogo amaro di uno che, sebbene con ritardo, ha compreso che la vanità non paga. Sul piano stilistico, essa è molto accurata, ricca di parallelismi variati da poliptoti”.

Ora, almeno, sappiamo chi sono i padri di quei parallelismi e di quei poliptoti.

Pubblicato su Il delfino e la mezzaluna n°2.

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1 Divus Bernardus è locuzione molto frequente in testi del XVIII secolo; due soli esempi per tutti: Melchioris Cani opera, Tipografia del seminario, Padova, 1720, pag. 220 e Tractatus de studiis monasticis di Joanne Mabillon, Basilio, Venezia, 1770, pag. 10.

2 Anche qui due soli esempi: Divus Bartholomeus in Henri Engelgrave, Caelum Empyreum, Vedova di Giovanni Buseo, Colonia, 1670, pag. 210; Divus Bartolus in Cristiano Tommaso Jcto,  Tractatio juridica de jure statuum imperii dandae civitatis, Grunert, Magdeburgo, 1749, pag. 22.

 

 

 

 

 

I capricci della storia (in margine ad una ricerca d’archivio sulla Salina dei Monaci)

Salina dei Monaci

di Nicola Morrone

Giovedi’ 18 Luglio scorso si è svolta, presso i cortili del Torrione di Avetrana , la  presentazione al pubblico  dell’interessante  volume di P. Scarciglia e L. Schiavoni, intitolato “Cronologia commentata intorno alla questione di Torre Columena”.

Il libro è edito per conto dell’Associazione “Terra della Vetrana”, che ha curato l’evento in tutti i suoi aspetti (compreso il gradito aperitivo finale). In una fresca serata di Luglio, dunque, nella cornice particolarmente suggestiva del fortilizio medievale, Scarciglia e Schiavoni hanno proposto al folto pubblico intervenuto i risultati della loro indagine d’archivio sulla “vexata quaestio” del possesso legittimo delle terre site attualmente nella marina di Manduria, tra Specchiarica e Torre Colimena. Siamo stati invitati a prendere parte all’incontro proprio dagli amici dell’Associazione “Terra della Vetrana “, Pietro Scarciglia, Luigi Schiavoni e Paola Addabbo. Invito accolto con grande piacere, dal momento che la stessa benemerita Associazione  ci aveva invitati , lo scorso 21 Aprile, a tenere una conferenza su “Culto e Iconografia di San Biagio di Sebaste” nell’altrettanto significativo  contesto  della  Chiesa Matrice di Avetrana , ospiti del padrone di casa, il gentilissimo Don Giovanni Di Mauro, parroco della stessa chiesa.

Orbene, questa  meticolosa ricerca d’archivio , si inserisce a pieno titolo nell’ambito della piu’ classica pubblicistica di storia locale salentina. Lo scopo delle  87 pagine del volumetto (distribuito tra l’altro a un prezzo estrememente conveniente, che dovrebbe facilitarne una  più capillare diffusione, almeno presso la popolazione avetranese) è quello di portare il maggior numero di prove documentarie a sostegno della tesi secondo la quale le terre inglobanti la Salina dei Monaci e la Torre Colimena, attualmente ricadenti in territorio di Manduria, sono appartenute in passato, all’opposto, al “tenimento” di Avetrana, rientrando a tutti gli effetti nella sua giurisdizione, se non da sempre, almeno per buona parte della loro storia documentata.

La ricerca si inserisce  in un filone di lavori consimili prodotti dai ricercatori di Avetrana nel  tempo (si ricorda qui soltanto il volume di M.Spinosa-B.Pezzarossa-P.Scarciglia dal titolo “Relazione per la rideterminazione del territorio di Avetrana, Taranto 1995) e si avvale, in particolare, di un ricco apparato documentario, in gran parte inedito, oltre che della riproduzione fotografica (sempre utile ) di molti dei documenti citati.

Come è noto, la “vis polemica” degli amici avetranesi in relazione al problema  è stata rinfocolata dall’affermazione di uno  storico locale manduriano, il quale ha sostenuto anni orsono, in un articolo giornalistico, che il territorio oggetto di indagine, era  “da sempre” appartenuto alle pertinenze di Casalnuovo- Manduria .L’affermazione non è veritiera, dal momento che la fascia territoriale che va da Specchiarica alla Columena non ha storicamente avuto un proprietario fisso. Il territorio in questione, invece, è rientrato, nelle varie epoche per le quali è possibile documentarne la storia (cioe’ dalla fine del sec. XI alla fine del sec.XIX), nelle pertinenze di vari proprietari.

Per la Torre anticorsara della Columena,  è stata dimostrata , con questo volume, l’appartenenza al” tenimento”  di Avetrana nel sec. XVI, dal momento che un  documento (riportato anche in copia fotografica) prova che il comune di Avetrana pagava il personale in servizio alla torre .La  Salina dei Monaci, invece, che di quella disputata fascia territoriale rappresenta un po’ il fulcro (per essere stata  fonte di ricchezza, nel corso dei secoli, oltre che per Manduria e Avetrana,  anche per comunità  vicine, come Gallipoli) dopo essere stata donata alla fine del sec. XI dai Re normanni ai monaci benedettini del Monastero di San Lorenzo d’Aversa (CE) è stata verosimilmente  proprietà  del comune di Casalnuovo (Manduria), per poi passare al demanio regio al tempo degli Aragonesi (sec. XV) e poi di Carlo V, e quindi rientrare fino all’800 , come hanno ampiamente dimostrato con la loro ricerca Scarciglia e Schiavoni, nel “tenimento” di Avetrana.

Come gli amici avetranesi si sono preoccupati di portare le prove a sostegno dell’appartenenza storica ad Avetrana, così noi, in questa sede, vogliamo riassumere i documenti certi che, integrati a quelli citati nel volume ,  riconducono in qualche modo la Salina al territorio di  Manduria –Casalnuovo, ripromettendoci di produrre in futuro più ampi riferimenti documentari relativi alla questione.

Siamo costretti purtroppo, in questo caso, a partire da un documento “fantasma”, cioè un documento citato con estrema precisione da storici locali manduriani del passato, che pur dovette esistere, ma che nessuno si è mai preoccupato di produrre concretamente, e che costituisce, a nostro avviso, l’elemento che per eccellenza proverebbe il possesso della Salina da parte di Casalnuovo-Manduria, almeno alla metà del sec. XV. Si tratta di un diploma, datato in Lecce 8 Dicembre 1463, in cui sono elencate le modalità di cessione delle saline di Casalnuovo al demanio regio, cioè alla Corona Aragonese, probabilmente, come suppone lo Jacovelli, per facilitare l’approvazione da parte del sovrano dei capitoli dell’Universita’, cioe’ dei diritti e delle consuetudini comunali.

Tale documento, citato dagli storici locali Saracino, Ferrari e Da Lama, al punto tale da precisarne con esattezza la data cronica e quella  topica,  a nostro avviso dovette pur esistere, anche se non si è purtroppo conservato nel  Libro Rosso della città di Lecce, che a quella data registra uno sconfortante vuoto . Si spera che, in futuro, prima o poi il documento possa saltare fuori, per dare definitivamente forza di prova alle citazioni degli anzidetti storici locali.

Allo stato attuale, comunque, si può con certezza affermare che a cavallo tra i secc. XV e XVI , e precisamente tra il 1498 e il 1526, le Saline furono di proprietà regia, prima aragonese e poi  vicereale (al tempo di Carlo V). Cio’ si può sostenere sulla base di  quattro documenti, ben noti agli studiosi, e cioè tre facenti parte del Libro Rosso di Gallipoli, e uno pertinente al Libro Rosso di Lecce, entrambi liberamente consultabili rispettivamente nella Biblioteca Comunale di Gallipoli e nell’Archivio Storico del Comune di Lecce.

Il documento del Libro Rosso di Lecce  è datato  Napoli , 27 Gennaio 1498; quelli confluiti nel Libro Rosso di Gallipoli datano invece da Castiglione,  4 e 6 Settembre 1503, e da Granada, 23 Giugno 1526.Quest’ultimo diploma, emesso da Carlo V, è stato  riportato  anche da Bartolomeo  Ravenna nel suo volume “Memorie Istoriche della Citta’ di Gallipoli”, Napoli 1836, alla pag.282. Tutti e quattro i documenti sono citati dalla studiosa Michela Pastore , che nel suo contributo ”Fonti per la storia di Puglia : regesti dei Libri Rossi e delle pergamene di Gallipoli, Taranto, Lecce, Castellaneta e Laterza” , uscito in “Studi Chiarelli”, II, pp.153-295, ne ha fornito appunto i regesti, cioe’ la sintesi del contenuto.Ci ripromettiamo di riprodurne in copia i passi relativi alla  Salina, in  essi  denominata  appunto sempre “di Casalnuovo”. Ma perchè i documenti citati denotano con  l’espressione ”di  Casalnuovo”, una struttura che ricadeva già da tempo nel demanio regio? Riteniamo che ciò sia accaduto proprio perchè, pur possesso ormai del Re , le Saline ricadevano topograficamente, anche se non più  giuridicamente, appunto nel “tenimento” di Casalnuovo-Manduria.

In conclusione, il lavoro di Scarciglia- Schiavoni è sicuramente ben condotto, ma in realtà una completa seriazione cronologica delle vicende che hanno interessato la zona compresa tra Specchiarica e Torre Columena deve ancora essere prodotta. Molti punti restano oscuri. Quando, e perchè le Saline passarono dai Monaci Benedettini d’Aversa all’Università di Casalnuovo? E quando, e perchè, le Saline, dopo essere state  possesso del Re, entrarono nella disponibilità dell’Università di Avetrana? E soprattutto, quando, e con che modalità, la zona in questione passò definitivamente a Manduria?

E’a  quest’ultimo interrogativo che, soprattutto, preme dare una risposta  agli amici avetranesi, e a loro facciamo i nostri migliori auguri per una sua  definitiva risoluzione.

Nell’incontro, infine, si è tornato a parlare anche, e in termini piuttosto decisi, della proposta di rideterminazione dei confini del territorio di Avetrana, legittimata, secondo i ricercatori, proprio dai dati documentari .Come abbiamo affermato quella sera, ribadiamo in questa sede che, a nostro avviso, non ci pare corretto , ne’ utile, utilizzare una ricostruzione storica pur documentata come quella realizzata dagli amici avetranesi allo scopo di far tornare il Comune di Avetrana in possesso  della zona rivierasca. I problemi attuali di quella fascia territoriale , causati senza dubbio (lo diciamo da manduriani) dalla storica indifferenza  del nostro Comune in materia di politiche turistiche, da avviare immediatamente sui 18 Km di costa relativa, vanno risolti con spirito di collaborazione, piuttosto che di contrapposizione, quand’anche essa si fondi su dati storicamente inoppugnabili.

 

La vita sociale a Galatina nell’immediato dopoguerra

Articolo tratto da “Cronache Galatinesi anni ’20-‘40”

La vita sociale a Galatina

nell’immediato dopoguerra

Uno spaccato di vita che in pochi ricordano e che è giusto consegnare ai giovani lettori

centro storico di Galatina
centro storico di Galatina

 

di Carlo Caggia

 

La vita sociale dei contadini si svolgeva (oltre che in Piazza San Pietro, la sera, per trovare “la giornata”) nelle cantine, con solenni bevute di vino e giochi di carte napoletane, tra cui primeggiava il cosiddetto “padrone”.

L’aria, in quei locali, era irrespirabile a causa del fumo acre delle sigarette fatte con cartine che avvolgevano un trinciato di tabacco non lavorato. I più… ricchi fumavano le “Popolari”, le “Indigena”, le “Milit” o addirittura le “Africa”, non certamente le “Serraglio”, le “Principe di Piemonte”, le “Macedonia” o le “Eva”, queste ultime leggerissime e riservate alle poche donne fumatrici del tempo.

Cantine rinomate erano “lu Mùscia”, “l’Ossu”, “lu Rasceddhra”, tutte situate nel centro storico.

Vi era poi una accorsata casa di tolleranza, “la Rosetta”, in Piazza Vecchia, mentre in veri e propri tuguri c’erano prostitute che operavano in proprio.

Artigiani e operai – il ceto medio in genere – avevano come punto di riferimento il Bar Sammartino in Piazza San Pietro; il Bar Càfaro in Via Pietro Siciliani e il Gran Caffè di Gino Sabella, all’inizio di Via Stazione, (o meglio di Corso Re d’Italia – ndr), luogo di ritrovo tradizionale per studenti e professori, data la contiguità con il Liceo Classico “Colonna”.

Il ceto medio-alto conveniva nel Circolo “Savoia” o “Cittadino” o “dei Signori”, di fronte alla Torre dell’Orologio (attualmente è la sede del Corpo di Polizia Urbana – ndr). Essere ammessi a quel circolo, nella mentalità piccolo-borghese del tempo, aveva valenza di una investitura e di promozione del proprio status-symbol.

Nell’immediato dopoguerra, quando le lauree cominciarono a diffondersi tra i figli degli operai, la corsa all’ammissione al Circolo era vissuta dagli aspiranti con veri e propri patemi d’animo. Il vecchio notabilato guardava sempre con sufficienza e con fastidio a questi parvenus.

Il Carnevale era molto sentito sia come tradizione galatinese (le sfilate alla “Via dell’Orologio” – con lancio di “candellini” (sic) – erano state sempre affollatissime) sia come senso di liberazione dopo i tristi anni della guerra, della fame, dell’autarchia, dell’oscuramento e del coprifuoco.

Ne nacquero in gran quantità. Si ballava nel Teatro Tartaro e nella Sala Lillo[1] ma anche nella Camera del Lavoro, nella Società Operaia, in locali improvvisati (Gallo Rosso, Sirenetta, Sala Azzurra[2]…). Le feste più esclusive erano quelle che si svolgevano nel Circolo dei Signori, con il selezionato pubblico delle famiglie dei soci. Il popolino (tabacchine, cameriere, sartine, contadine…) poteva accedere solo dopo mezzanotte e si stordiva per gli stucchi dorati, i grandi specchi, gli sfavillanti lampadari di Murano.

Riprende anche la vita culturale. In questo periodo vedono la luce un periodico – “La voce di Galatina” – diretto dal prof. Giuseppe Virgilio, nonché due valide riviste culturali, “Antico e Nuovo”, diretto dal prof. Enzo Esposito, e il “Saggiatore”, diretto dal poeta Giuseppe Lucio Notaro.

Sugli schermi del cine-teatro Tartaro e della Sala Lillo si proiettano film prevalentemente americani, con attori come Paul Muni (Uragano all’alba); Lucille Ball e George Murphy (Marinai allegri); Mirna Loy e William Powell (Ti amo ancora); Glend Miller (Serenata a Vallechiara). Le attrici italiane che vanno per la maggiore sono Alida Valli e Clara Calamai.

La famigliare “Gazzetta del Mezzogiorno” fa la pubblicità al “Citrato Espresso San Pellegrino”, alla “Lotteria dei Milioni” (primo premio 25 milioni), alla C.I.T. (pullman per Roma, Napoli, Milano), al ricostituente “Ischirogeno”, alle caldaie “Breda”, all’”Idrolitina”, all’”Amarena Fabbri”, al “Rabarbaro Zucca”.

In cronaca, quotidiani rastrellamenti di “segnorine” (sic) e relativa pubblicazione dei nomi, nonché frantoi e mulini per violazione delle leggi annonarie.

 

 

pubblicato su Il Filo di Aracne

[1] Notizia storica – Ai giovani lettori si fa presente che la Sala Lillo era ubicata al piano terra di Palazzo Orsini, esattamente dove oggi si tengono i consigli comunali.

[2] Notizia storica – Si ignora l’ubicazione delle rispettive sedi.

S. Pietro, S. Paolo e il tarantismo

di Sonia Venuti

Molti studi si sono fatti su questo fenomeno che da secoli affliggeva le popolazioni pugliesi e non solo, sul morso della tarantola, e tante ipotesi sul legame che unisce il tarantismo con la devozione alle figure dei  Santi Pietro e Paolo.

Alcuni azzardano che il fenomeno del tarantismo abbia una stretta connessione  con la cultura greca che è sempre stata molto forte in puglia, e che con il culto delle divinità quali quelle di Dionisio, Cibele, Demetra ed altre ancora venivano praticati riti orgiastici di carattere spiccatamente erotico.

La gente danzava follemente al suono della musica, vestita d’indumenti sgargianti con il capo cinto da pampini di vite, agitando il tirso, pronunciando parole oscene, strappandosi gli abiti di dosso, frustandosi l’un l’altro, bevendo vino.

L’analogia tra questi riti e i sintomi del tarantismo è impressionante: qual è dunque il nesso religioso?

Il Cristianesimo giunse tardi in Puglia e s’imbattè in una popolazione primitiva e tenacemente legata ai propri costumi, presso la quale antiche credenze e consuetudini erano profondamente radicati.

In competizione col paganesimo, il cristianesimo dovette cercare in tutti i modi d’imporsi sulla popolazione: le antiche festività religiose pagane furono mantenute, ma intese a commemorare eventi cristiani.

Le chiese erano erette su precedenti luoghi di devozione tra le rovine dei templi, elementi degli antichi culti come le processioni furono accolti nelle modalità cristiane, ma vi erano tuttavia dei limiti che la chiesa non riuscì ad oltrepassare, e non essendo subito in grado di assimilare i riti orgiastici del culto di Dionisio  dovette contrastarli.

Da qui, non sappiamo esattamente in che anno, ma di sicuro nel corso del medioevo, i vecchi riti si trasformarono nei sintomi di una malattia, e di conseguenza la musica, la danza, e l’insieme di quei comportamenti orgiastici di colpo furono legittimati e tutti coloro che indulgevano in queste pratiche non erano più peccatori, ma povere vittime della tarantola.

Il culto di S. Pietro, in questo contesto, nasce innanzitutto dall’ipotesi fortemente indiziaria che il santo sia sbarcato in Puglia dalla Palestina e, dopo essere passato dalla città d’Otranto, dove a testimonianza del suo passaggio, è stata eretta la chiesa di S. Pietro, questi si spostò nel casale galatino, dove “vennero a sentirlo parlare di Dio tutti quasi di quei casali circonvicini”.

Il principale responsabile della sempre più forte idenficazione città-santo protettore la si deve all’arcivescovo Gabriele Adarzo di Santander, che nel corso del suo arcivescovato fece erigere in territorio galatino piccole colonne ed epigrafi, che oggi non esistono più, nei luoghi in cui si ipotizza sia passato o abbia riposato il Santo durante il suo cammino verso Roma.

Per concludere, S. Pietro giunse nel 44 inGalatina e secondo lo storico Da Lama “tutto quel popolo si fece battezzare dalle sue mani  nel nome di Cristo e le donne(….) conforme imprigionasti in piccola rete più pesci, così ti chiamano, aprono la bocca a mille ringraziamenti, vedendosi esenti dal tormento della tarantola, e se in Roma annientasti le magie d’un Simone, in Galatina hai posto in fuga il veleno di questo verme, mago potente, che incanta col bacio, né si scioglie l’incanto se non col ballo. E s’a Paolo in Malta ubidirono gli serpenti, a S. Pietro in Galatina ubbidiscono le tarantole”.

S. Paolo, sempre secondo la tradizione, nella città di Galatina giunse  in incognito, dopo la predicazione di S. Pietro e dopo aver navigato verso i nostri mari, giungendo  al promontorio di Leuca.

Per timore dei persecutori si fermò una sola notte in una casa ancora esistente, di proprietà di un uomo pio, che per questa ragione viene detta casa di S. Paolo.

Il medico non galatinese Antonio Caputi racconta”I Galatinesi raccontano varie storie su questa visita, ma ciò che è più importante affermano che abbia chiesto a Dio, per i meriti di Gesù Cristo, che a quell’uomo pio, per ricompensa della sua pietà, fosse concesso a suo favore o a quello dei suoi discendenti di sanare tutti quelli che fossero stati morsi da animali velenosi come scorpione, vipera, falangi e simili, facendo il segno della croce sulla ferita e facendoli bere al tempo stesso l’acqua di un pozzo lì esistente. Estinta ora la discendenza di quell’uomo pio, gli ammalati morsi dalla tarantola, da uno scorpione o dalla vipera, finchè il veleno è attivo, si conducono a quel pozzo ancora esistente per implorare la guarigione da S. Paolo”

In definitiva, nella casa dove passò prima S. Pietro e poi S. Paolo, come deduzione diretta del Caputi, gli apostoli lasciarono in perpetuo ricordo, agli abitanti di quella casa, la virtù e la grazia di guarire attraverso lo sputo chiunque fosse stato morso dalla tarantola.

Gli ultimi eredi della dinastia dei guaritori sono due sorelle che, per non far andare perduta la virtù e la grazia di guarire, prima di morire sputarono nel pozzo, e da qui, la credenza del “pozzo miracoloso” giunta a valorizzare le “case di S. Paolo”; queste erano le sorelle Farina Francesca e Polisena.

Il culto del santo crebbe molto a metà del ‘700, fino al punto che la famiglia Mory fece erigere un altare, e fu dato inizio alla contestatissima costruzione della cappella, da parte degli allora padroni delle “case di S. Paolo” i conti Vignola.

Le donne chiedevano degli specchi davanti ai quali sospiravano e urlavano con atteggiamenti inverecondi, altri preferivano essere lanciati in aria, o scavavano delle fosse e si rotolavano nella terra come i maiali, e tutti bevevavno vino e danzavano fino a liberarsi dagli effetti del morso, e si dice che se non si faceva in tempo a praticare il rito purificatore della musica, si poteva verificare  anche la morte del tarantato.

Pare solo i frati Francescani fossero immuni dal morso della tarantola, in ragione del fatto che S. Francesco avesse istituito un legame speciale anche con quegli animali, e ogni 29 Giugno in ricorrenza della festività dei Santi Apostoli  convergevano in Galatina tutti i tarantati dei paesi limitrofi, che a suon di tamburelli epuravano il loro corpo e la loro anima.

 

Il luogo della memoria: San Pietro in Bevagna tra storia e antropologia

San Pietro in bevagna

di Nicola Morrone

Da tempo, ormai, ci occupiamo delle varie problematiche connesse al santuario di San Pietro in Bevagna. Questo  piccolo luogo di culto, che meriterebbe certo maggiore considerazione da parte della Curia Vescovile di Oria (in relazione alla sua promozione e all’incremento della sua visibilità sul piano religioso e turistico) ha una importanza che, di fatto, supera quella di molte altre realtà consimili.

Ciò deriva dal fatto che il santuario è il perfetto paradigma del “luogo della memoria”, nel senso che a questa espressione attribuisce lo storico francese Pierre Nora. Questi afferma che un “luogo della memoria” è uno “spazio fisico e mentale che si caratterizza per essere costituito da elementi materiali o puramente simbolici , dove un gruppo, una comunità o una intera società riconosce se stessa e la propria storia con un forte aggancio con la memoria collettiva”.

Il santuario petrino, per questi motivi, si presenta emblematico di questa tipologia. Esistono tre luoghi, a Manduria, particolarmente carichi di significato sul piano religioso. Essi sono la Chiesa Madre, la chiesa dell’Immacolata, e il santuario di San Pietro in Bevagna. Sono i luoghi fisici in cui si conservano i simulacri, rispettivamente, di San Gregorio Magno, dell’Immacolata, e di San Pietro Apostolo, portati in processione in occasione delle varie ricorrenze. Essi sono un po’ la “summa” della religiosità mandurina.

Di questi tre luoghi fisici del culto e della devozione, però, solo il santuario petrino si qualifica come “luogo della memoria”, cioè come luogo (cui sono correlati particolari oggetti) direttamente collegato alla presenza del Santo, nella comunemente acquisita coscienza storico/mitica. Proprio in virtù del leggendario passaggio del Santo, il santuario  petrino presenta  per la coscienza collettiva quella che P. Nora chiama “eccedenza semantica”, in grado di stabilire  e generare delle connessioni con esperienze emotive, mitiche, immaginali, capaci di trasferire nel tempo un contatto con le esperienze e i fatti significativi del passato”.Qual è la differenza  tra il santuario sul mare e  gli altri due importantissimi luoghi del culto manduriano? Si sa che nella Chiesa Madre si conservano le due statue di San Gregorio Magno. Il santo fu invocato, nei secoli passati (l’ultima volta, a quanto pare, nel tardo ‘700) per liberare Manduria dalla peste. Di questa intercessione si è naturalmente persa la memoria, e attualmente il Santo si invoca, immaginiamo, per altri motivi. Il santo, però, non è mai stato fisicamente presente a Manduria, e il cappellone,in quanto tale, non costituisce perciò  un luogo dalla valenza mitica, in grado di stimolare la memoria collettiva. Esso rimane un luogo, dal grande valore artistico, simile a tanti altri luoghi del culto. Allo stesso modo, la chiesa dell’Immacolata, in cui è conservata la statua della comprotettrice di Manduria, non si carica di valenze storiche o mitiche tali da riattivare nella collettività manduriana un meccanismo memoriale condiviso. Nel santuario di San Pietro in Bevagna, invece, è ancora pienamente funzionante il dispositivo memoriale storico/mitico, riattivato di continuo, oltre che dalla memoria diffusa del leggendario passaggio di San Pietro, anche dagli oggetti in esso conservati, nella comune opinione legati comunque al passaggio dell’Apostolo. Ogni volta che i pellegrini e i devoti  osservano quegli oggetti (la pietra d’altare, il fonte battesimale, ecc.) riattivano nella loro coscienza il meccanismo memoriale, e dal punto di vista antropologico , ha un ‘importanza del tutto marginale il fatto che  gli oggetti osservati siano o meno prove autentiche del passaggio di San Pietro su questi nostri lidi. La loro presenza tra quelle mura ha consacrato per sempre il santuario petrino come  “luogo della memoria” di importanza eccezionale soprattutto per la comunità manduriana. Sempre rimanendo sul piano antropologico, tra le problematiche  più macroscopiche  correlate al santuario petrino c’è quella relativa alla processione per la pioggia, sulle cui origini si deve ancora fare pienamente luce. Non è questa la sede adatta per richiamare gli studi più significativi sull’argomento (Cirese, Jurlaro, Tragni, ecc.), ma ci pare importante sottolineare che, per il momento, uno studio di questa ritualità si potrà condurre solo sul piano sincronico (confrontandola, cioè, con il funzionamento di  altre ritualità consimili, caratterizzate dalla presenza dell’elemento arboreo/vegetale), dal momento che un’indagine sul piano diacronico è gravemente ostacolata dalla assoluta  mancanza di documenti  che possano fare luce su come la processione arborea si è strutturata nel corso della sua storia. Rimane aperta, tra le altre, la questione dell’origine storica di questo complesso rituale. Recentemente, uno storico locale ha  affermato , probabilmente con eccesiva leggerezza, che la processione è di età controriformata (posteriore, cioè, al Concilio di Trento, che si concluse nel 1563). Altri affermano che essa è piuttosto recente, addirittura, forse, ottocentesca. Noi riteniamo invece che per questa ritualità non si possa escludere un’origine precristiana, come peraltro adombrato da vari studiosi del fenomeno. L’elemento dominante della processione è il simbolo arboreo, recato un tempo dai pellegrini sulle spalle in segno di penitenza, e al tempo stesso di propiziazione della pioggia. Il tronco, di leccio o di quercia, va quindi letto nella sua duplice valenza di oggetto propiziatorio (aspetto pagano della ritualità) e oggetto penitenziale (aspetto cristiano della ritualità). Ci pare, in sostanza, che non si possa escludere che  la processione possa leggersi come un rito pagano, poi orientato in senso cristiano dalla Chiesa Cattolica. Ma uno studio antropologico organico è tutto ancora da fare.

 

L’inganno

faita

di Antonio FAITA

 

 

«Ci sono degli inganni così ben congegnati che sarebbe stupido non cascarvi».

Charles Caleb Colton (1780 – 1832)

 

Un episodio estremamente singolare avvenuto agli inizi del ‘700, nelle acque antistanti la zona detta “Pietra Cavalla”, narra di un inganno tramato ai danni di un’imbarcazione turca. I fatti che ora riporterò sono veramente accaduti.

Così narrò, nell’anno del Signore 1707, il “Regio Locotenente sostituto del Regio Vicescreto[1] e Regio Portolano di Taranto” signor Francesco Antonio Cariddi, deponendo davanti al notaio Carlo Megha[2] una dichiarazione, in qualità di testimone, per rendere noto lo stato delle indagini, ai fini della verità, di quanto accadde nel mese di ottobre dello stesso anno. Il giorno quattro ottobre, non poco lontano dalle mura della città di Gallipoli, fu avvistata un’imbarcazione «data l’Anchora in mare senza saputa di che natione si fusse». Nel porto vi era ancorato e messo in quarantena il Pinco[3], carico di grano, del Padron genovese Giovanni Ravenna, al quale fu chiesto dal signor Cariddi, su ordine del Governatore di questa città, di andare con uno schifo[4] e con della gente armata, a verificare da lontano l’imbarcazione suddetta. Il Ravenna si apprestò a recarsi col suo schifo e alcuni marinai armati. Giunti ad una certa distanza, «ad auditum vocis» compresero che si trattava di una Peotta[5] turca, perciò di gente «inimica». A questo punto, fu chiesto per dove fossero diretti e dall’imbarcazione risposero «per l’Isola di Taranto e come che correva borrasca di girocco lebecce, per la quale la detta imbarcazione era giunta in questi mari». Incredulo, in quanto frequenti erano le incursioni dei turchi lungo le nostre coste, il Padron Giovanni Ravenna, da esperto navigatore genovese, nonché mercante e sicuramente profondo conoscitore dei nostri fondali per la navigazione costiera, «operò con inganno» indicando loro «che per la via di Tramontana v’era il Canale per portarsi all’Isola di Taranto». L’inganno riuscì: i turchi salparono l’ancora e fecero rotta verso il canale che era, per i pescatori del luogo, un punto di riferimento e di orientamento per l’individuazione di un luogo. Anticamente esso sfociava a mare (in prossimità dell’attuale località Rivabella[6]) dopo aver percorso un lungo tratto dell’agro di Sannicola, per consentire il deflusso delle acque piovane. Così la Peota turca «camminando diede al secco in questa marina in loco detto La Pietra Cavalla, dove si roppe in acqua». Stando tra le due torri costiere denominate “Sabea” e ”Alto lido”, Pietra Cavalla, aliasposto marittimo dei cavalieri”, era un facile luogo di sbarco per i pirati provenienti dal mare; teatro di tristi avvenimenti, fu agevole approdo che andava costantemente sorvegliato dai cavallari[7]. In questo tratto di mare, dove si trovano rocce semisommerse e bassi fondali, la Peota, finì la sua navigazione, rompendo la chiglia tra gli scogli. Mentre il Ravenna, soddisfatto dell’ardita mossa, faceva ritorno in porto per recarsi sul suo Pinco, due barche gli andarono incontro. Su una vi era «il Tenente del regio Castello e tre soldati spagnoli e nell’altra gente che andava alla detta Peotta Torchesca». Dal tenente fu ordinato al Ravenna di seguirlo con i suoi marinai armati, per dare assistenza all’imbarcazione turca. Una volta giunti sul posto, il tenente e i soldati armati salirono a bordo della Peota e «presero li turchi e li legorno annodo dalla gente di detto Padrone armata». Purtroppo, per il Ravenna, la storia non finisce qui. Ritornato sulla sua imbarcazione, gli fu chiesto dal Signor Portolano che andasse a recuperare l’imbarcazione turca «con una sua gumena[8] per dare aggiuto e detta Peotta a salvarla». Senza esitare si recò verso l’imbarcazione ma vano risultò ogni tentativo di recupero. Un secondo tentativo fu fatto portando «una Anchora grossa». Man mano che si cercava di tirarla su,  avendo ormai  l’albero rotto e chiglia sfasciata, la Peota imbarcava sempre più acqua, a tal punto che il Ravenna si arrese e da «prattico marinaro se ne ritornò», mentre l’imbarcazione turca «come rotta sen’andava a pico al fondo e si perdeva il Bastimento e grano». E’ bastato un semplice inganno a far sì che i turchi non proseguissero il loro viaggio ai danni delle popolazioni, che hanno avuto la disgrazia di vivere sul mare, tormentate da incubi, anche quando il pericolo non c’era[9].

 


[1] Cfr., M. SERRAINO, “Storia di Trapani”, Ed. Corrao, Trapani 1976:«La screzia: Quale organo finanziario della regia Corte, la Screzia amministrava il patrimonio demaniale, soprintendeva a tutta la materia dei tributi, appaltava gabelle e dogane, esercitava una funzione anche giurisdizionale su questioni che avevano per oggetto materiali sua competenza», p. 86;  «Vicesecreto dipendeva dal Maestro secreto, che li nominava con la formula regio et nostro beneplacito perdurante», p. 88;

[2] ASL, Notaio Carlo MEGHA, coll. 40/13, Prot. Anno  1707, ff. 257/v – 259/r;

[3] Cfr., Wikipedia.it: Il pinco o pinco genovese fu un tipo di nave mercantile a tre alberi a vela latina con prua a sperone e poppa a specchio. Ebbe larga diffusione nella marineria ligure tra la fine del XVII e l’inizio del XIX secolo. La sua portata andava dalle 50 alle 200 t. Il pinco era dotato di una seconda attrezzatura di vele quadre da sostituire alle vele latine per le andature portanti.

Il nome pinco potrebbe derivare dall’olandese pink che già nel medioevo designava una piccola imbarcazione da trasporto per certi versi simile al pinco e dalla quale quest’ultimo potrebbe essere in parte derivato.

Le ragioni del successo di questo tipo di imbarcazione per un periodo storico così circoscritto vanno ricercate nella sua economicità di gestione, versatilità, velocità e manovrabilità, doti che ne facevano anche un’unità efficace nella lotta contro i corsari barbareschi;

[4] Il termine “schifo” era un tempo comunissimo, ed equivaleva a barca, canotto di servizio, portato sulle galee o sulle navi a vela sul ponte o a rimorchio;

[5] Cfr., Wikipedia.it: La peota era una barca veneziana di media grandezza sontuosamente decorata. Veniva usata anticamente a Venezia per le regate, addobbata con sfarzo e condotta da otto vogatori in costume. Il nome deriva forse da “pedota”, ovvero “pilota”;

[6] Rivabella, prima del suo sviluppo urbanistico era detta “ponticello”, costruito al disotto della litoranea;

[7] Cfr., E. MAINARDI, “Storia Di un luogo. Sannicola versus Gallipoli: la nascita di “Lido Conchiglie””, in Cultura Storia, Ed. Panico, Galatina 2010, p.24;

[8] Cfr., Wikipedia.it: Gómena è il termine nautico con cui si indica una cima, un cavo torticcio di canapa, di adeguata sezione, destinata all’ormeggio delle imbarcazioni.

[9] S. PANAREO, “Turchi e Barbareschi ai danni di Terra d’Otranto”, in “Rinascenza Salentina”, anno I, n. 1 (gen.-febr. 1933), p.4;

24 giugno, festività di San Giovanni Battista. Il solstizio estivo e le erbe di San Giovanni

  

Giugno, il solstizio estivo e le erbe di San Giovanni

di Elvino Politi

Azzate San Giuanni e nu durmire

ca sta bisciu tre nuvole venire,

una te acqua una te jentu una te triste mmaletiempu.

A mare a mare

a ddu nu canta jaddru a ddu nu luce luna

a ddu nu se sente nisciuna criatura.

Tra le antiche tradizioni salentine legate alla terra e all’uso delle erbe c’è in primo piano la tradizione della Notte di S. Giovanni, festa di mezza estate, che ricorre pochi giorni dopo il solstizio d’estate.

Tale giorno era considerato sacro nelle tradizioni precristiane ed ancora oggi viene celebrato dalla religiosità popolare con una festa che cade qualche giorno dopo il solstizio, il 24 giugno, quando nel calendario liturgico della Chiesa latina si ricorda la natività di San Giovanni Battista.

Tutte le leggende si basano su di un evento che accade nel cielo: il 24 giugno il sole, che ha appena superato il punto del solstizio, comincia a decrescere, sia pure impercettibilmente, sull’orizzonte: insomma, noi crediamo che cominci l’estate, ma in realtà , da quel momento in poi, il sole comincia a calare, per dissolversi, alla fine della sua corsa verso il basso, nelle brume invernali.

Sarà all’altro solstizio, quello invernale, che in realtà l’inverno, raggiunta la più lunga delle sue notti, comincerà a decrescere, per lasciar posto all’estate. E’ così che avviene, da millenni, la corsa delle stagioni.

Nella festa di San Giovanni convergono i riti indoeuropei e celtici esaltanti i poteri della luce e del fuoco, delle acque e della terra feconda di erbe, di messi e di fiori. Tali riti antichi permangono, differenziandosi in varie forme, nell’arco di duemila anni, benchè la Chiesa ostinatamente abbia tentato di sradicarli, o perlomeno di renderli meno incompatibili con la solennità.

Molte sono le usanze legate alla Notte di S. Giovanni: nelle campagne l’attesa del sorgere del sole era propiziata dai falò accesi sulle colline e sui monti, poichè da sempre, con il fuoco, si mettono in fuga le tenebre e con esse gli spiriti maligni, le streghe e i demoni vaganti nel cielo. Attorno ai fuochi si danzava e si cantava,

La notte di San Giovanni, notte di prodigi

Moon nymphy, di Luis Ricardo Falero

di Paolo Vincenti

La notte di San Giovanni, la notte delle streghe. In questa notte, è facile vedere, in cielo, volare le streghe che, a cavallo delle loro scope, vanno a partecipare al loro convegno annuale, il Sabba. Questa è la notte più corta dell’anno ma è anche quella più piena di carica simbolica. Appena superato il solstizio d’estate, infatti, il sole comincia impercettibilmente a declinare all’orizzonte.

Questa è la notte dei prodigi. In questa notte magica, consacrata a San Giovanni, il sole si mette a ballare, scende in mare, quando spunta l’orizzonte, e si lava la faccia, anche perché c’è sempre una nuvoletta pronta ad asciugarlo.

Anche la rugiada ha poteri magici:  essa può rendere le donne più desiderabili, può sanare i malati e dona alle erbe poteri miracolosi; infatti, se bagnate dalla rugiada, acquistano proprietà terapeutiche e protettive moltissime specie vegetali, fra cui l’iperico e la lavanda, chiamate, non a caso, “erba” e “spighetta di San Giovanni”. La rugiada però deve essere colta al primo raggio di sole ed ecco che molti trascorrono svegli questa notte, per poter prendere un po’ di quest’acqua magica, nella speranza che possa davvero dar loro beneficio. Anche  i tappeti, le coperte ed i capi invernali vengono esposti cosicché, protetti dalla rugiada di questa notte, possano essere riposti fino al prossimo inverno senza che vi si annidino le tarme.

Daniel F. Gerhartz

In questa notte, si può anche conoscere il proprio futuro, soprattutto per quanto riguarda l’amore. La pratica divinatoria più diffusa è quella che utilizza il bianco dell’uovo. Prima delle ore 24 del giorno 23, si deve buttare in una caraffa o in un bicchiere il bianco di un uovo ed esporlo alla rugiada. Prima dell’alba, la caraffa deve essere ritirata. Al mattino, dalla forma assunta dall’albume, si possono individuare gli attrezzi da lavoro del futuro marito o le iniziali del suo nome. Sarà vero tutto ciò? Sarà falso? Vero e falso si confondono insieme nel Salento, terra di tradizioni, leggende e magie.

Così Carmelina, in una afosa sera di giugno, ritornava a piedi a casa. Era stata far visita ad una vecchia zia, l’unica parente che avesse ancora in vita, alla quale era molto legata, anche se l’anziana donna non aveva mai voluto lasciare casa propria per andare a vivere insieme alla nipote. Più e più volte, Carmelina aveva pregato la vecchia parente di  venire a casa sua, per dividere così insieme gli anni che restavano da vivere ad entrambe e soprattutto quelle lunghe giornate di solitudine e di tristezza: due sentimenti che Carmelina conosceva molto bene da una vita intera. Rimasta orfana giovanissima di entrambi i genitori, da pochi anni era scomparso anche il suo unico fratello, la cui salute era stata sempre cagionevole da quando, poco più che adolescente, aveva contratto una forma patologica di bronchite asmatica poi divenuta cronica. I suoi polmoni avevano retto anche troppo a lungo ma poi, inevitabilmente, era venuto per lui il momento di andare, lasciando quella sorella che tanto amava sola al mondo. Carmelina, cosi come il fratello, non aveva mai voluto sposarsi, forse appagata da quel legame fraterno forte e tenace che sembrava potesse sfidare tutto e tutti. Veramente, in paese non erano mancate delle strane voci, quelle gratuite e maligne che sempre circolano in un paesello di poche anime, secondo le quali in quel menage a due, vi era qualcosa di più di un semplice amore fraterno e che, insomma, fra i due vi fosse del tenero, del perverso ed anche del macabro.. ma queste erano rimaste solo delle voci, ed ora che Cosimo aveva reso l’anima a Dio da due anni, nessuno nemmeno più si ricordava di quelle dicerie.

Daniel F.Gerhartz

L’unica parente rimasta in vita, dunque, era questa vecchia zia, che Carmelina curava amorevolmente e alla quale, ad un certo punto, la donna aveva fatto la più che ragionevole proposta di andare a vivere insieme. Avrebbero in questo modo diviso le spese, dato che le due pensioncine da se stesse non bastavano quasi nemmeno ad arrivare a fine mese ma sommate insieme, e dimezzati i costi di vitto e alloggio, avrebbero certamente reso loro possibile una vita un po’ più agiata. Ma si sa, gli anziani spesso si attaccano alle proprie cose in maniera viscerale e quando si è avanti negli anni le abitudini si radicano a tal punto che non basta più di una qualche disgrazia o morte o malattia, per farle cambiare. Dunque a Carmelina toccava fare ogni giorno il percorso da casa sua a quella della zia e ritorno, per prestarle quell’assistenza che si deve ad una persona molto anziana, dal carattere un po’ difficile, anche se generosa e sempre ben disposta verso quella nipote, alla quale i lunghi anni di nubilato avevano fatto guadagnare quel sempre poco simpatico epiteto di “zitellona”. Quella sera, la donna procedeva più lentamente del solito sulla strada del ritorno, quella strada che avrebbe potuto percorrere ad occhi chiusi e che, portando anche alla piazza del paese, un tempo aveva percorso con animo diverso. Era il tempo in cui Carmelina aveva molti meno anni e molte più speranze, il tempo dell’adolescenza, insomma, e della prima giovinezza, che a tutti gonfia il petto di illusioni; il tempo in cui si fanno progetti per l’avvenire, ignari di quel che verrà, come ignara era allora Carmelina, essendo lontana la tragedia che si sarebbe abbattuta di lì a poco sulla sua famiglia, di quella mano minacciosa che pendeva sulla sua testa,  come una spada di Damocle, come una nuvola di veleno che incombe sulla vita di chi non sa, come un punto interrogativo, come un fosco presagio, come un campanello d’allarme che non suona o suona sempre troppo tardi, come un fulmine a ciel sereno, come l’equazione che non si risolve, la domanda senza risposta, il mistero senza soluzione.

Daniel F. Gerhartz

La donna pensava ai propri sogni, perché anche lei aveva sognato una volta, prima che l’orizzonte di pene e di morte, si dischiudesse sulla sua giovane vita. Pensava a quel tempo in cui era stato bello ballare la pizzica nella piazza del paese, scalza e ebbra di vino e di vita, il cuore gonfio di passione e la testa libera da luttuosi gravami, da neri presagi. Era stato il sogno di un momento, ma quel tempo era stato bello.. poi lo aveva dimenticato, crescendo e invecchiando, fra le contingenze di una vita austera e monotona, come i muri grigi della sua casa che non vedevano da decenni il tocco del pennello. Poi quell’incontro, fatale si direbbe, se non fosse che invece per lei non era stato niente di speciale, solo il piacere di scambiare quattro chiacchiere con una nuova amica e la curiosità di conoscere quelle strane occupazioni nelle quali spesso ella era affaccendata. Quell’amica, Dolores, che aveva conosciuto un giorno in paese, sua quasi coetanea, era una donna magra e sgraziata, che vestiva sempre di nero e dimostrava più anni della sua effettiva età. Era però una persona dolce e disponibile che, con i suoi bei modi di fare, aveva conquistato subito Carmelina affascinandola con le sue conoscenze, che spaziavano dalla storia antica, non solo del paese ma anche dell’Italia e del mondo, alle vite di personaggi famosi, soprattutto filosofi e scienziati, alla magia. Ed erano proprio queste ultime conoscenze che avevano portato la gente del paese a diffidare di lei e ad averne paura, come sempre si ha paura delle cose che non si conoscono, paura del diverso, nostro dissimile, paura dell’ignoto, paura della stessa paura a volte. Dolores aveva fatto degli studi superiori, a differenza di Carmelina che invece si era fermata alla terza media, ed era andata perfino all’Università e questo bastava, nella retriva e un po’ miope mentalità del paese, dove in quegli anni il livello di istruzione era bassissimo e regnava ancora l’analfabetismo, a farne una persona molto al di sopra della media, perché colta, e da trattare quindi con deferenza, se non fosse che la donna aveva indirizzato queste conoscenze e la proprie ricerche ed approfondimenti- in archivi pubblici e anche nelle biblioteca della provincia di Lecce,-  in campi assai poco battuti da una donna in quegli anni: la letteratura, la filosofia, la teologia, le scienze mediche, l’occultistica e, fatalmente,  la magia:  magia bianca, sosteneva Dolores; magia nera, le gridava dietro il paese. Carmelina aveva sempre ascoltato con molta attenzione quelle strane formule che la donna le leggeva e soprattutto le storie e i vari aneddoti che Dolores le raccontava. Ma al di là del mero piacere, del tutto innocente, di trascorrere qualche ora in compagnia dell’amica, non c’era mai stato un effettivo interessamento di Carmelina alla materia della magia e a quelle storie di santoni e diavolesse su cui Dolores si intratteneva con gusto orrido. Carmelina era insomma quel tipo di donna non facilmente suggestionabile e nemmeno intellettualmente predisposta a farsi rapire da quel vortice di macabre sensazioni generate nella sua mente dalla notevole capacità affabulatoria di Dolores. Una donna pratica, si direbbe, un poco indurita dai disagi della vita, certo poco attratta da tutto ciò che non si possa toccare con mano, da tutto ciò che non sia quantificabile e verificabile secondo i normali parametri e quelle sensazioni duravano giusto lo spazio di un racconto, della sua permanenza a casa di Dolores,  per poi scomparire senza lasciar traccia dalla sua mente e dalla sua vita, appena lasciato la casa della donna. Mai che quei resoconti di processi alle streghe, di punizioni e orribili supplizi, la avessero condizionata nel regolare svolgersi della vita quotidiana o avessero disturbato i suoi sogni. Era come se Carmelina chiudesse tutte quelle strane storie in un cassetto insieme con la loro narratrice,e lo riaprisse quando nuovamente andava a farle visita. Negli ultimi tempi, però, la sua frequentazione con Dolores si era molto diradata, un po’ perché le cure della vecchia zia la impegnavano abbastanza, un pò per una certa stanchezza che con l’arrivo dei primi caldi si faceva sentire portandole una maggiore pigrizia, un pò, forse anche, perché si era sentita molto infastidita da quelle voci sul suo conto, che riferivano di Dolores, come di una strega e di lei, come della sua fedele assistente, o peggio erede.

A  R., era la festa di San Giovanni. Da qualche giorno si respirava in paese un’aria di festa ma anche una pesante cappa, di sospetto e di risentimento sembrava avvolgere il paese stesso. Carmelina non riusciva a spiegarsi bene il motivo, troppo poco si intratteneva con la gente del posto o con le comari la mattina a spettegolare, e le sue soste dal fruttivendolo o in farmacia, al tabacchino o alla posta per ritirare la pensione, non le consentivano di essere molto informata sulla vita sociale. Forse il suo era una carattere un pò schivo, forse non era mai riuscita ad uscire da quel guscio nel quale viveva, ad entrare in empatia con la collettività che abitava quel piccolo paese dimenticato da Dio e sconosciuto alle carte geografiche, nel profondo Salento.  A R. c’era una cripta che era legata al culto di San Giovanni. Si trattava di una cripta bizantina, opera degli infaticabili monaci basiliani, che, in illo tempore,  avevano raggiunto le nostre contrade per scappare alle persecuzioni che avvenivano nella loro patria a causa dell’Imperatore Leone III Isaurico. Retaggio della loro presenza nel Salento, queste cripte divennero spesso delle chiesette  e scomparve il rito greco- bizantino introdotto dai monaci orientali. Questo accadde anche alla cripta di R., divenuta una cappella che, con l’avvento del rito latino, fu dedicata a San Giovanni. Questa cripta si trovava su una collinetta poco distante dal centro del paese e lì si festeggiava San Giovanni. Lo spiazzo circostante la chiesetta, per la festa del 24 giugno,  si animava di suoni, balli e colori, poiché, dopo la fine della funzione religiosa e la distribuzione dei prodotti della campagna, tutti rimanevano a ballare e cantare sull’aia, nel segno della tradizione, come usava nei tempi antichi.

Molte volte, negli anni precedenti, alcune ragazze, il giorno della vigilia della festa, si erano recate da Dolores per chiederle preziosi consigli sulle proprie vite. E la donna non aveva fatto mancare loro delle indicazioni su come dovessero comportarsi e su strane pratiche che dovevano mettere in atto, come degli incantesimi, con la manipolazione di certe erbe, per cercare o  recuperare l’amore perduto o per migliorare la propria esistenza. Questo aveva fatto guadagnare a Dolores la fama di santona, maga, “strega”. E ciò non deponeva certo a suo favore, anzi la presenza in quel piccolo paese di un “fenomeno da baraccone” come lei,  si faceva sempre più sgradita, molesta. Infine Dolores venne considerata una creatura delle tenebre, maledetta, senza mezzi termini.

Fatto sta che poco prima di rientrare a casa, Carmelina sentì degli strepiti in lontananza e vide un assembramento di gente proprio vicino alla casa di Dolores. Sembrava che tutto il paese si fosse dato appuntamento in quel posto e ora, fra le alte grida delle donne e gli schiamazzi dei bambini, qualcuno iniziava a picchiare violentemente contro la porta di casa di Dolores e contro i muri esterni con qualche arnese metallico e con pietre e sassi. Poi comparve un tizzone acceso e una catasta di lagna;  Carmelina riuscì a scorgere per un attimo da una finestra lo sguardo terrorizzato di Dolores ma non riusciva a far nulla; era come impietrita dalla paura, raggelata, paralizzata; anzi, per un momento, dallo sguardo inferocito della folla che si accorse di lei, ebbe paura che volessero prenderla e farle fare la stessa fine di Dolores. Era buio inoltrato, si era ormai fatto tardi, il fuoco divampava intorno alla casa della presunta strega e ad un certo punto aggredì anche i muri della casa e si inoltrò all’interno. In pochi minuti, tutta la casa divenne un’enorme pira e si udirono distintamente le grida selvagge di Dolores, imprigionata dentro quella gabbia di fuoco. I suoi lamenti si alzarono al cielo, il cielo di quella notte di San Giovanni in cui l’odio e il fanatismo della gente avevano avuto la meglio sullo studio e sulla conoscenza, sulla apertura mentale e sulla tolleranza, e avevano portato a quell’orrenda devastazione. Avevano scelto simbolicamente proprio quella data per mettere in atto il loro spaventoso progetto di “epurazione”, la loro implacabile, per quanto assurda, vendetta, come per l’espulsione di un corpo estraneo, l’uccisione del capro espiatorio. Con il fuoco, bruciava anche tutto il risentimento di un popolo stanco e abbattuto dalla fame, dagli stenti e dalle miserie di una vita difficile, oppresso dal signoraggio tirannico e dalla paura della diversità, vittima di una sottocultura che dà retta alla superstizione, che altro non è che la malvagità inoculata piano piano dal diavolo nelle vene di un popolo di cui vuole l’anima, fino a farla scoppiare in uno spasmo di follia, ad esplodere  selvaggiamente in uno scoppio di bestiale crudeltà. Così come era successo a Dolores, in quell’anno lontano. A R. si parlò a lungo di quella brutta storia e da quella sera nessuno vide più Carmelina, nemmeno la sua vecchia zia la quale, non potendo uscire da casa per sopraggiunti problemi di deambulazione e non avendo quindi più notizie della nipote, morì dopo poco, forse di crepacuore. Carmelina si barricò in casa, tagliò i ponti con il passato, con quel paese dal quale era stata sempre respinta – ora lo aveva capito- come una indemoniata, un’appestata, come un incubo, una malattia, e si lasciò morire senza chiedere aiuto a nessuno. Doveva essere passata una settimana circa, quando la trovarono, forzando la porta d’ingresso, morta di consunzione.

Antiche preci del popolo salentino a San Giovanni Battista

“Azzate San Giuvanni” in provincia di Lecce

 

di Massimo Negro

s-giovanni-b

 

Iniziata con altre intenzioni, la nota “Azzate San Giuvanni” ha risvegliato in molti che l’hanno letta il ricordo di questa antica preghiera popolare. Si sono ricordati di quando l’hanno sentita pronunciare da piccoli dalle nonne o dalle zie. Alcuni, che hanno ancora la fortuna di avere i propri cari anziani in vita, sono andati da loro chiedendo di risentirla. Molti mi hanno scritto riportandomi la loro versione o preghiere similari.

“Azzate San Giuvanni”, a metà tra filastrocca e preghiera, veniva recitata dai nostri anziani quando il cielo veniva ricoperto da nere nubi e scoppiavano quei temporali i cui tuoni facevano tremare i vetri delle porte di casa, facendo temere per i propri cari ancora fuori per le campagne a lavorare.

E’ così iniziata quasi per gioco una sorta di raccolta delle diverse versioni con cui questa preghiera veniva pronunciata nei paesi della Provincia di Lecce. Un viaggio nella tradizione che è diventato anche un’occasione per apprezzare le diversità di pronuncia e dei vocaboli del nostro ricco dialetto salentino.

Tuglie
Partiamo da Tuglie dove vi sono diverse versioni di questa preghiera.

Azzate, San Giuvanni, e nu durmire,
ca visciu tre nuveje caminare
una te acqua,
una te ientu,
una te triste e mmaletiempu.
Portale addhai ci ni canta caddhu,
addhai ci nu luce luna,
addhai ci nu nasce nuddha anima criatura

Ddisciate San Giuvanni,
c’aggiu vistu tre  nuveje
una te acqua,
una te ientu,
una te triste e mmaletiempu.
Ziccale tutt’etre e mintale intra na crutta scura
Addhu nu vive nuddha anima criatura

San Giuvanni mperatore ci purtasti nostru Signore
Lu purtasti e lu nducisti
lampi e troni nde sparasti
Portali fore fore, addhu nu passa anima te lu creatore.

Vi è poi un’ulteriore preghiera che vede Santa Barbara e non San Giovanni, come santa a cui destinare le proprie invocazioni.

Santa Barbara ca camini a mmenzu a li campi
e nu timi né troni né lampi
pensa a mie e a tutti li addhi
cu lu Padre
cu lu Fiju e
cu lu Spiritu Santu
Casarano
Azzate, San Giuvanni, e nun durmire,
ca s’anu viste tre nuule passare,
una de acqua, una ientu,
l’addha de tristu maletiempu.
Pija la scera e portala a mmare,
addhai ci nu face male.
Addhai ci nu canta gallu,
addhai ci nu luce luna,
addhai ci nu nasce nuddha anima criatura.
Galatina
A Galatina ho raccolto due diverse varianti di questa preghiera.

Azzate Giuvanni e nnu ddurmire
ca visciu tthre nnuveje caminare,
una d’acqua, una de vientu,
una de tristu mmaletiempu.
Portale a quiddhre parti scure
a ddrai cci nu canta gallu,
nu lluce luna,
nu nnave nuddhr’anima criatura.

Azzate San Giuvanni e nu ddurmire
ca visciu thtre nuveje caminare
una de acqua, una de vientu,
 una de tristu mmaletiempu.
Vane addhrai ci nu canta callu e nu lucisce luna,
addhrai nunn’ave addhra anima criatura
ca la Madonna mmienzu llu campu nu time nè tronu nè llampu
Montesano Salentino
Azzate, San Giuvanni,
e dduma le cannile,
ca ieu visciu tre nule vinire:
una de acqua, una de ientu,
una de tristu maletiempu.
San Giuvanni se zzò,
le cannile ddumò,
lu maletiempu passò.

Vernole
A Vernole questa preghiera vede al centro delle invocazioni Santa Rosalia.

Santa Rosalia subbra nnu munte sstia,
tridici pecureddhere sta uardà
idde tre nnule passare,
una te acqua,
una te jentu,
una te tristu maletiempu
addhu le facimu scire?
addhu nu canta caddhru,
addhu nu lluce luna,
addhu nun cce nuddhra anima criatura.
Veglie
Ausate San Giuanni e no durmire
ca sta besciu tre nuegghie ti l’aria inire
una ti acqua, una ti jentu, una te tristu e male tiempu.
A mare a mare a do
no canta iaddhru
a do no luce luna
male nu fare, male nu fare, male nu a fare a nuddhu fiju ti criatura.
Galatone
Asate, San Giuanni, e no durmire,
ca s’onu iste tre nuule passare,
una ti acqua, una ti ientu,
l’addrha ti tristu mmaletiempu.
Pigghia la scera e portala a mmare,
addhrai ci no face male.
Addhrai ci no canta gallu,
addhrai ci no luce luna,
addhai ci no nasce nuddhra anima criatura.

 

San Giovanni Battista nella tradizione popolare salentina

di Giorgio Cretì

In illo tempore, nel Salento che fu, quando la gente viveva sulla terra che coltivava e da essa traeva il proprio sostentamennto, si faceva grande uso di piante spontanee res nullius che prendevano il nome di foje creste ossia di erbe agresti, che non avevano bisogno di essere seminate e coltivate. Era la sapienza della tradizione che permetteva di ricavare da esse alimenti squisiti e anche salutari.

Tra queste erbe erano compresi anche i cardi prima che indurissero e sviluppassero le loro durissime spine. Molto apprezzato era il Rattalùru, ossia il Cardo scolimo (Scolimus hispanicus), che sulle Murge quando muore genera i funghi carduncielli. Ed anche il cardo mariano (Silybum marianum) che veniva impiegato in cucina ed era pure apprezzatissimo per suoi principi attivi riitenuti ancora oggi molto efficaci per l’apparato cardio-vascolare e per la sua funzione epatica.

A Ortelle, ed anche a Vitigliano, che un tempo di Ortelle era frazione, così pure a Vaste che è frazione di Poggiardo, il cardo mariano si chiamava, e si chiama ancora, Spina de San Giuvanni. In altri paesi, come per esempio Spongano, è detto Cardune.

Rosetta basale e capolino di aspraggine (ph Antonio Chiarello)

E’ simile ad una delle tante specie del genere Carduus con foglie spinosissime che avvolgono il fusto ed i suoi capolini isolati di colore purpureo che somigliano ai fiori del carciofo. E’ diffuso nell’Italia Centrale e Meridionale e nelle Isole, più raro è nell’Italia settentrionale dove sopravvive come relitto di antiche colture un tempo tenute solo a scopo medicinale. Nei ricordi della signora ‘Maculata di Vitigliano se ne facevano anche dicotti.

Era credenza molto antica che il cardo mariano, in occasione della festa di San Giovanni dimostrassse particolari virtù divinatorie.

Santina di Vignacastrisi ricorda che la sera della vigilia di San Giovanni gli uomini al ritorno dalla campagna tagliavano gli steli fioriti e li portavano a casa. Le donne li bruciacchiavano alla fiamma del camino e poi li mettevano in un seccchio pieno d’acqua; c’era anche chi lasciava le spine bruciate, o anche altre erbe, semplicemente sulla lamia a prendere la rugiada della notte che così guariva da certe malattie. La mattina dopo, comunque, le spine rifiorivano e questo era sempre e comuque buon segno. Le giovani donne innamorate per sapere se si sarebbero sposate entro l’anno, o per sapere se l’uomo verso il quale spasimavano si sarebbe dichiarato, mettevano le spine bruciaccchiate dentro un bicchiere e le lasciavano sul davanzale a prendere il fresco della notte. Dalla loro posizione traevano i buoni auspici.

Nella notte del 24 giugno in cui gli antichi celebravano il solstizio d’estate, anche nel Salento cristiano, si festeggiava San Giovanni Battista ed era una festa di purificazione in cui si dava fuoco alle stoppie secche. Ma qualcuno per conto suo faceva festa anche con focareddhe vere e proprie ad imitazione dei grandi falò propiziatori fatti in piazza in altri posti e in altre occasioni. Niente a che vedere, comunque, con la “Festa delle Panare” di Spongano che si tiene il 22 dicembre di ogni anno e dove si bruciano le paddhotte, le zolle della sansa dei frantoi.

Focareddha di arbusti

Nella tradizione popolare San Giovanni era venerato come taumaturgo capace di guarire qualsiasi male, ma gli  venivano accreditati soprattutto gli attribuiti del fuoco e dell’acqua ed era a Lui che il popolo si rivolgeva per scongiurare il pericolo dei temporali che incutevano sempre grande paura per i danni che potevano arrecare ai raccolti e alle persone. Ancora a Immacolata De Santis di Vitigliano (‘Macculata) dobbiamo la momoria di alcune invocazioni recitate per scongiurare l’arrivo del maletiempu di ogni genere.

San Giuvanni meu barone

Ka ‘ncoddhu purtavi nostru Signore,

Lu purtavi e lu nucivi

u maletiempu tu  sparivi.

 

E nulla cambiava se a volte era chiamato ad intervenire assieme ad altri santi. In quest’altra composizione il richiedente si rivolge prima a Santa Barbara per poi affidare la parte operativa del miracolo richiesto a San Giovanni.

 Santa Barbara ci sta’  ‘menzu ‘li campi

Nu time acqua, nè troni nè lampi,

Azzete Giuvanni e duma tre cannile 

Ka visciu tre scère(1) ‘quarrittu vinire:

De acqua, jentu e maletiempu.

A mare a mare lu maletiempu,

Addhurca nu  canta gallu,

Addhunca nu luce luna

Addhunca nu passa anima una.

 

(1) Scèra era detta il cumulonembo

E a San Giovanni Battista era affidata anche la responsabilità di proteggere il contratto sociale detto del comparaggio, che non aveva niente a che vedere con il reato previsto dal nostro Diritto, ma era quello del battesimo, in cui i contraenti – di solito parenti o amici – assumevano, appunto, l’appellativo di compari di San Giovanni. Al santo profeta  che aveva battezzato Gesù veniva dedicato un rapporto speciale che si creava e rimaneva sacro per tutta la vita. Tra il padrino e la famiglia del bambino tenuto a battesimo, si instauravano speciali rapporti di amicizia che avevano un valore quasi uguale a quello di parentela. Il bambino figlioccio, fin dalla tenera età, era educato a rivolgersi con affetttuoso rispetto al proprio padrino facendo precedere sempre il suo nome dall’appellativo di nunnu/nunna, anche nell’età adulta. Il padrino/madrina si rivolgeva al figlioccio chiamandolo semplicemente sciuscettu (lat. filius susceptus, figlio adottato) e sullo stessso esercitava quasi la stessa autorità del padre/madre naturale.

Per ultimo non è da dimenticare uno squisiito fico precoce, la cui maturazione avviene a cavallo del soltizio d’estate ed è una varietà di Ficus carica detta fica de San Giuvanni. I suoi fioroni, fichi di primo frutto, puntualmente sono pronti per il 24 di giugno  ed hanno forma di trottola con polpa granulosa, dolce ma non mielosa, ottimi per il consumo fresco. Ed essendo la cultivar bifera produce anche un fòrnito, un fico di secondo frutto, di forma globosa a fiasco allungato con buccia gialla, costoluto e con polpa giallo verdastra. Come per tutti gli altri fichi, se al solstizio di giugno sofffia vento di Scirocco i frutti si gonfiano ed essendo i primi sono molto attesi. Se invece persiste vento di Tramonata la loro maturazione diventa difficoltosa e ntaddhene, fanno il callo, cioè, e sono da buttare.

Fichi di San Giovanni

Una passeggiata a Lecce di fine Seicento. L’abate Giovan Battista Pacichelli descrive la città (terza ed ultima parte)

Basilica_di_Santa_Croce_e_Celestini_Lecce

di Giovanna Falco

 

Considerando l’itinerario percorso il pomeriggio del sabato, dedicato a «la parte di fuori»[i], Pacichelli e De Raho dovrebbero essere usciti da porta Napoli: «un’Arco Maestoso contiguo alla Porta Reale anche detta di S. Giusto»[ii].

Il primo luogo visitato è «l’insigne Monistero già de’ Padri Benedettini neri, oggi degli Olivetani, col titolo de’ Santi Nicola, e Cataldo»[iii], «col Chiostro nobilissimo, Giardino, Massarie e Feudi uniti, un de’ quali frutta solamente 30 carlini, Foresteria da Prencipi, bellissimo quarto dell’Abate, poco anzi Procuratore in Napoli, che volle accompagnarmi, a farmi vedere il vago, e da lui ripolito tempio, con cupola, e torre alta, con le Statue à di Altari in trè picciole navi, e la sepoltura di Ascanio Grandi Poeta»[iv]: il «Mausoleo con statua laureata»[v] in fase di costruzione ai tempi di Infantino. La chiesa prospetta sul cortile illustrato in Lecce sacra, dove «son costituite di fabrica botteghe in gran numero per la Fiera che si disputa nel Regal Consiglio con la Città di Bitonto»[vi]. Pacichelli, inoltre, accenna alla Torre di Belloluogo: «posseggon que’ Monaci la Torre o’l Giardino del sudetto Tancredi»[vii].

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Oltrepassato il convento di Santa Maria di Ognibene degli Agostiniani scalzi, la cui prima pietra era stata benedetta il 18 aprile 1649 dal vescovo di Castro[viii], Pacichelli visita il «vago, e vasto Chiostro de’ Riformati di S. Francesco in numero di 60 ben trattenuti», cioè Santa Maria del Tempio, dove si sofferma a osservare «una Spina insanguinata del Signore, un pezzo del Santo legno della Croce donato ad un de’ loro Frati dalla Principessa Donna Olimpia Panfili, et un Chiodo assai grosso, con la punta tagliata, che sembrava nuovo, del medesimo nostro Redentore, costumato ad infondersi nell’acqua per divotion de gl’Infermi»[ix]. Le reliquie sono custodite «in una Croce di argento frà le suppellettili della Sagrestia»[x]. Nel 1634 Giulio Cesare Infantino aveva accennato a «due pezzotti del legno della Santa Croce»[xi] inoltre, a proposito del reliquiario, aveva affermato: «il sopradetto chiodo stà in un bel vaso d’oro, fatto da una collana d’oro offerta à quest’effetto dal Principe di Taranto la prima volta, che adorò questa Santa Reliquia»[xii].

Colonna di Sant'Oronzo, particolare
Colonna di Sant’Oronzo, particolare

Usciti dal convento dei Riformati, dove Pacichelli ha da lamentarsi per «la poltroneria di un Laico Sagrestano»[xiii] che non gli aveva offerto l’acqua benedetta dal chiodo, esprime parole di spregio per il «Lazzaretto governato dalla Città, ove osservai alcuni sucidi Lebbrosi, da me non mai più veduti»[xiv], già descritto da Infantino con «un gran cortile con stanze à torno, giardini, & altre comodità per servigio de’ Leprosi, che vi dimoravano»[xv]. All’epoca era già presente la colonna di San Lazzaro «innalzata nel 1682 ai 30 di aprile: opera del maestro muratore Giuseppe Bruno»[xvi].

San Francesco della Scarpa, particolare
San Francesco della Scarpa, particolare

I due abati proseguono per «san Giacomo chiesa allegra de’ Riformati di S. Pietro di Alcantara, che sono venti, et hanno bellissime tele à gli Altari»[xvii], all’epoca di Infantino il complesso religioso era dei «Padri Scalzi di San Francesco, i quali hoggi vi dimorano, havendo dato buon principio alla fabrica de’ loro Chiostri»[xviii]. Pacichelli vede nel giardino «una Grotta dedicata hoggi al Santo, e alla sua Statua, già piena di terra, la quale vuotandosi trè anni sono, scoverse, forsi non senza presagio de’ sinistri avvenimenti del Turco nella Pannonia, e Peloponneso, piccioli, e galanti specchi quasi Mosaici nelle mura, e frà essi nel volto, in buon carattere maiuscolo, nel petto di un’Aquila, e sovra una Cometa queste parole: / CUM FONTE, ET ANTRO DOMINUS FRUETUR / OTTOMANI SUPERBIA OCCIDET / Dicono che vi fosse una fonte, vivendo l’accennato Co: Tancredi vicina ad una Chiesetta vecchia»[xix].

Chiesa di Sant'Angelo, particolare della facciata
Chiesa di Sant’Angelo, particolare della facciata

Lasciato il giardino degli Alcantarini, i due abati percorrono il Parco, dove «frà gli alberi, è un delitioso passeggio di carrozze la sera, e fra trè strade, una vaga fontana a forza di argani»[xx]: era quella descritta da Infantino nella piazza maggiore, che aveva sostituito l’altra «fatta da Leccesi à sodisfattione di D. Caterina Acquaviva Duchessa di Nardò moglie di D. Giulio Acquaviva, Duca delle Noci nel 1608, quando fù Preside di questa Provincia»[xxi]. «Dentro al dilettevole Parco», aveva scritto Infantino, ci sono «horti di varij frutti abbondanti, & un bosco d’odorosi aranci con artificiose fontane, che potrebbe esser senza dubbio il poggio Reale de’ Leccesi»[xxii]. Tra il via vai di carrozze, passatempo già in voga al tempo di Infantino, i due abati incontrarono tra gli altri, «il Preside, pure in carrozza, con un de gli Auditori, in questa Residenza, della Provincia di Otranto, e due Alabardieri dietro»[xxiii].

Palazzo Perrone, busto di Sant'Oronzo
Palazzo Perrone, busto di Sant’Oronzo

Pacichelli e De Raho raggiungono il convento di Santa Maria dell’Alto (attuale Principe Umberto) dove i «Cappuccini, al numero di 50, m’introdussero nel lor Convento, sù l’hora dell’Ave Maria, ch’è il primo della Provincia, à veder la Spetiaria, l’Infermaria e la Bibliotheca»[xxiv]. Era stato istituito, aveva spiegato Infantino, nel 1570 dai Cappuccini di Santa Maria di Rugge come loro infermeria, in quel luogo «di miglior aria» scelto da «Teofilo Zimara, & Angelo Suggenti (huomini in quei tempi nella loro professione ta(n)to eccellenti, che i principali Medici del Regno ricorrevano al loro sapere)»[xxv]. Questo «Convento de’ Padri» Cappuccini, spiegò Infantino, «è de’ più belli, che habbiano no(n) solo in Regno, ma in tutta la Religione, no(n) solo capacissimo di potervi habitar più di 100 Padri, ma di bellissimo sito, co(n) spatiosi giardini di frutti abbondantissimi»[xxvi].

Chiesa dei SS. Niccolò e Cataldo, particolare della facciata
Chiesa dei SS. Niccolò e Cataldo, particolare della facciata

Pacichelli lascia: «un miglio fuori i Domenicani nel lor convento col Novitiato e Chiesa grande, offitiata da venti Padri»[xxvii], «per la strada che si và à S. M. di Rugge»[xxviii] (aveva specificato Infantino), e non entra nel castello «con fosso, ponte e presidio spagnuolo, assai valido»[xxix], degno, secondo Infantino «d’esser compareggiato con qualsivoglia altra fortezza del Regno», perché dotato di «commodissime stanze; guarnito con tutti gli arnesi di guerra con Presidio ordinario di Soldati Spagnuoli, stipendiati dal Gran Rè Catolico di Spagna, e di questo Regno»[xxx].

Statua di San Lazzaro
Statua di San Lazzaro

Tornati a palazzo De Raho, nonostante le insistenze del suo ospite che lo avrebbe voluto intrattenere anche la domenica, Pacichelli decide di proseguire il suo viaggio. De Raho omaggia l’abate donandogli un «paio di Guanti di Roma, e alcune Confitture, e volea per lo rinfresco far lavorare un Pastone»[xxxi].

 

Castello, stemma di Carlo V
Castello, stemma di Carlo V

(FINE)

prima parte in:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/05/una-passeggiata-a-lecce-di-fine-seicento-labate-giovan-battista-pacichelli-descrive-la-citta/

seconda parte in:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/07/una-passeggiata-a-lecce-di-fine-seicento-labate-giovan-battista-pacichelli-descrive-la-citta-seconda-parte/

 

pacichelli


[i] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 159.

[ii] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 170.

[iii] Ivi, p. 171.

[iv] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., pp. 167-68.Nella veduta di Pompeo de’ Renzi pubblicata in Lecce sacra, tra le pagine 72 e 73, dietro la chiesa si ha l’impressione di intravedere una costruzione, forse “la torre alta” menzionata da Pacichelli (Cfr. G.C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979).

[v] G.C. Infantino, op. cit., p. 200.

[vi] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 168.

[vii] Ibidem.

[viii] Cfr. M. Paone (a cura di), Lecce città chiesa, Galatina 1974, p. 76.

[ix] Ibidem. (Cfr. G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 171).

[x] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 168.

[xi] G.C. Infantino, op. cit., p. 210.

[xii] Ivi, p. 211.

[xiii] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 168.

[xiv] Ibidem.

[xv] G.C. Infantino, op. cit., pag. 212.

[xvi] A. FOSCARINI, Guida storico-artistica di Lecce, Lecce 1929, p. 180.

[xvii] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 168.

[xviii] G.C. Infantino, op. cit., pag. 213.

[xix] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., pp. 168-169. Nelle altre descrizioni del ninfeo, ricoperto di conchiglie, non si fa alcun cenno a dove la scritta si trovasse, né tanto meno alla presenza della statua di San Giacomo, collocata dai padri Alcantarini, cui furono concessi chiesa e convento nel 1683. Non si sa a quale epoca risalga il ninfeo, noto anche come stanza del Paradiso o bagno di Maria Giovanna.

[xx] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 169.

[xxi] G.C. Infantino, op. cit., p. 214.

[xxii] Ibidem.

[xxiii] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 169.

[xxiv] Ibidem.

[xxv] G.C. Infantino, op. cit., p. 223.

[xxvi] Ivi, p. 225.

[xxvii] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 169. Si tratta del convento della SS. Annunziata sulla strada provinciale Lecce – San Pietro in Lama, adesso di proprietà della Fondazione Memmo.

[xxviii] G.C. Infantino, op. cit., p. 228.

[xxix] Ivi, p. 117.

[xxx] G.C. Infantino, op. cit., p. 213.

[xxxi] Ivi, p. 170.

Il monumentale palazzo Giaconìa in Lecce

testo e foto di Paolo Cavone

 

Nel 1546 il monsignore leccese Angelo Giaconìa, vescovo di Castro (1530-1563), iniziò la costruzione di un palazzo signorile in Lecce,  nei pressi della chiesa di S. Maria degli Angeli e del convento dei Padri Minimi S. Francesco di Paola.

 

Palazzo Giaconìa
Palazzo Giaconìa

 

Il palazzo ha un lunghissimo prospetto con due portoni simili ed ha avuto sicuramente più fasi di costruzione attuate in tempi successivi in relazione ai diversi proprietari che si sono succeduti, ed occupò l’area urbana creatasi dallo sviluppo ed ampliamento delle mura e coeva fondazione del Castello di Carlo V ad opera di Gian Giacomo dell’Acaya nel 1539.

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Una delle due porte del Palazzo Giaconìa

Successivamente il palazzo fu acquistato dall’allora Sindaco di Lecce, Vittorio De’ Prioli che si insediò nel 1593; già allora un ampio impluvium dava nel lungo giardino retrostante con: colonne, bassorilievi, iscrizioni, statue, e quant’altro di antico il prelato raccolse in scavi praticati a Lecce,  Rudiae e Salàpia. Di tutto questo oggi rimane ben poco: un maestoso albero di alloro alto 20 mt, vestigia di un folto laureto e di un bassorilievo in pietra leccese: “Il Duello e il trionfo di David”, attribuiti a Gabriele Riccardi, cui è assegnato anche l’intero edificio.

 

“Il duello e il trionfo di David” sul gigante Golia, bassorilievo del Riccardi.
“Il duello e il trionfo di David” sul gigante Golia, bassorilievo del Riccardi.

 

La formella relativa al trionfo di David, presenta delle analogie con quelle dell’altare di S.Francesco di Paola in Santa Croce. Sull’architrave di una porta murata, nell’atrio d’ingresso, è incisa una frase, di cui sono leggibili le parole: “MIHI OPPIDU CARCER ET SOLITUDO”. Nessuna traccia di un secondo bassorilievo, citato in letteratura, con il “David che scrive”.

I giardini sono limitati dalle mura della città sulla cui sommità trova posto un pergolato in ferro battuto che si poggia su colonne seicentesche.

 

Giardino e lato interno delle mura di Lecce
Giardino e lato interno delle mura di Lecce

 

Dopo la morte del De’ Prioli (1623), gli eredi alienarono l’edificio ai Carignani duchi di Novoli, che vi si stabilirono abitandolo insieme ad altri nobili. Se il De’ Prioli aveva eseguito alcune opere murarie nella parte interna, per arricchire e sistemare, in particolare, il giardino dove vi sono tutt’ora alcune balaustre del 1600, i Carignani completarono la costruzione nell’ala sinistra.

 

Finestre nel cortile del Palazzo Giaconìa
Finestre nel cortile del Palazzo Giaconìa

 

Il piccolo portale dell’attuale cappella su Piazzetta De Summa e le edicole finestrate appartengono, invece, ai primi decenni del XX secolo.

I due doccioni in pietra leccese che si trovano su prospetti, indicano, con il

cornicione terminale, le altezze originali dell’edificio.

 

Uno dei due doccioni del prospetto.
Uno dei due doccioni del prospetto.

 

Nel 1780 i Carignani vendettero il palazzo ai fratelli Michele e Alessandro Y Royo, Duchi di Taurisano, che ritoccarono i portali apportandovi i loro stemmi in marmo bianco, dividendolo , in pratica, in due palazzi. L’abitazione signorile dei Lopez Y Royo si sviluppava al primo piano. All’inizio dell’ottocento, con l’occupazione francese, divenne dimora di alcuni generali delle milizie. Nel 1817 il duca Antonio Lopez Y Royo, figlio primogenito di Michele, che non aveva figli, lo donò al fratello germano Cav. Bartolomeo. Il palazzo si frazionava ulteriormente con gli eredi dei casati: Tresca e Castriota Scanderberg e solo una parte di questo rimaneva ai Lopez Y Royo.

Con decreto prefettizio del 1927 una parte del palazzo passò all’Istituto dei Ciechi, oggi sede dell’Unione Italiana Ciechi ed Ipovedenti.

 

Bibliografia

1)      A. FOSCARINI, Lecce d’altri tempi, in “Iapigia”, Anno VI, Fasc. IV

2)      N. VACCA, Ruderi e Monumenti nella penisola Salentina,  LECCE 1932

Una passeggiata a Lecce di fine Seicento. L’abate Giovan Battista Pacichelli descrive la città (seconda parte)

La veduta di Il Regno di Napoli in prospettiva è tratta da http://www.vecchiaprovinciadilecce.it/
La veduta di Il Regno di Napoli in prospettiva è tratta da http://www.vecchiaprovinciadilecce.it/

di Giovanna Falco

 

Gli appunti contenuti nelle varie opere di Pacichelli sono dettati dal gusto e della curiosità e danno la sensazione a chi li legge di tornare in dietro nel tempo e di percorrere insieme con lui le vie della città e del suo circondario.

Venerdì 17 maggio 1686[i], Pacichelli giunge da Campi a Lecce, «scoverta nella torre quattro miglia avanti, quasi con maestoso invito, ma superiore alla fama che ne corre»[ii], cioè dalla stessa direzione da dove è stata ritratta la veduta pubblicata in Il Regno di Napoli in prospettiva.

«Alle 21 hora» entra «in questa Metropoli della Provincia di Otranto»[iii] in groppa a un cavallo affittato da un soldato ad Altamura: un animale «di buono, e grande aspetto, mà vitioso nell’inciampare ad ogni passo»[iv], tant’è vero che poco prima di entrare a Lecce, gli era caduto addosso[v]. È accompagnato dal suo «Cameriero, accoppiandosi meco per guida à piedi un tale Bello Tonno (sopranomi de’ frequenti ad Altamura) applicato ò correr co’ dispacci per le Provincie»[vi].

Pacichelli si reca presso la chiesa dei Gesuiti ad assistere alla funzione della Buona Morte, quindi incontra l’abate Scipione De Raho che «non permise, che in alcun Chiostro io mi fermassi» e lo «condusse subito in sua casa, che hà forma di palazzo»[vii] in corte dei Malipieri[viii].

Il mattino seguente i due abati escono per visitare la città, ma è improbabile che il loro itinerario sia coinciso con il succedersi dell’esposizione dei luoghi indicati nella lettera del 1686 e in Il Regno di Napoli in prospettiva.

Chiesa del Gesù
Chiesa del Gesù

La prima chiesa a essere illustrata è quella dedicata alla protettrice Sant’Irene, officiata dai padri Teatini, «maestosa, con le cappelle sfondate»[ix], circondata da un largo cornicione, «mà il tetto desidera il volto o’l soffitto»[x].

Nella chiesa Pacichelli si sofferma ad ammirare «presso la porta trè tele di S. Carlo Borromeo, e nella Croce alla sinistra S. Gaetano, dipinti à Parma da un loro Laico»[xi], affermazione che contrasta con l’attribuzione delle quattro tele e con l’ubicazione dell’altare di San Gaetano, situato nel transetto destro della chiesa, di cui Infantino aveva trascritto il testo della lapide in onore del Santo, datata 1630[xii]. Infantino, inoltre, aveva specificato: «habitano in questa Casa per ordinario quaranta Padri»[xiii], mentre Pacichelli accenna solo alla «mediocre Biblioteca»[xiv].

Il «sontuoso Collegio della Compagnia dedicato alla Circoncisione»[xv], ha la facciata che «par che superi quella del Collegio Romano»[xvi]. Pacichelli lo ritiene «sconcio ne’ Dormitori»[xvii], reputati invece nel 1703 «commodi, con le Camere, con Chiostri à basso per passeggiarvi, ove han luogo le vaste Scuole, e la stanza cangiata in Cappella del P. Realino, sepolto ivi, non si sa dove»[xviii], «presso alla Sagrestia, restando finita di corpo grande la Chiesa»[xix], con, descrive Infantino, «bella, signoril, & ampia prospettiva» che si affaccia su una piazza, realizzata dopo aver «buttato à terra un gran Palagio, che stava incontro»[xx].

Il Duomo
Il Duomo

In piazza Duomo, Pacichelli osserva il palazzo vescovile, «veramente Cardinalizio»[xxi], la cui facciata, realizzata dal vescovo Scipione Spina, era stata descritta da Infantino come «una bella Galleria con bellissimo ordine di colonne à torno à torno, con balaustri à basso, e sopra»[xxii]. Pacichelli descrive il «novello tempio», rinnovato «nel 1658 dal Vescovo Monsignor Luigi Pappacoda in forma sì nobil’e vasta, con le cappelle ricche di marmi»[xxiii], tra queste ammira quella «molto vasta di S. Oronzio Vescovo Protettore»[xxiv], e nel 1687, oltre al soffitto, quella del «SS. Crocefisso col sepolcro composto di meravigliosi lavori di quella delicata pietra, per memoria, e per cenno di Monsig. Vesc. Pignatelli»[xxv]. Scende anche nel soccorpo che «apparisce ornato dal fù Monsignor Vescovo Luigi Pappacoda ivi sepolto»[xxvi], ma già «maravigliosamente abbellito», ai tempi di Infantino grazie alle «elemosine raccolte per Gio. Griffoli nobile Senese all’hora Vicario»[xxvii].

5 Basilcia di Santa Croce

Pacichelli reputa «magnifica forsi più di tutte la Chiesa di Santa Croce de’ Celestini vicino alle mura»[xxviii], che «spicca per la facciata nobilissima del Gran Tempio, e per l’architettura del Monistero; v’è in essa frà l’altre un’antica Cappella della Nobil Famiglia Sementi, con un miracoloso Quadro de’ Santi Benedetto, e Mauro, essendo tutta la chiesa adorna di nobili pitture, ed intagli»[xxix]. A proposito di questo altare Infantino aveva scritto: «la Cappella di San Benedetto, sotto la cui regola militano i Padri Celestini, Altar privilegiato de’ Sementi», «è hoggi del Dottor Francesco Maria Seme(n)ti, figliuolo di Gio: Lorenzo, e fratello di Donato Antonio, e Leonardo, di buona memoria, il primo Dottor in Teologia, & in legge, & il secondo Dottor di leggi»[xxx], probabilmente è lo stesso Donato Antonio cui è dedicata la veduta di Lecce di Il Regno di Napoli in prospettiva.

Riguardo alle quattro parrocchiali, istituite nel 1628 dal Visitatore Apostolico Andrea Perbenedetti[xxxi], oltre a quella già illustrata del Vescovado, Pacichelli accenna alla chiesa di Santa Maria della Luce, e menziona quella Santa Maria della Porta, che «hà un’Immagine dispensatrice di Grazie»[xxxii], «che hora si vede dentro quei indorati cancelli di pietra Leccese, fabricata da diverse carità, e limosine»[xxxiii] così come si apprende da Infantino, e la chiesa di Santa Maria della Grazia, di cui Infantino decantò l’ «intempiatura di sì bei lavori, che non credo si trovi simile in tutto quanto il Regno»[xxxiv], e Pacichelli definì «vaghissima nella maggior piazza»[xxxv].

La piazza era stata descritta da Infantino «molto spatiosa, ampia, lastricata, e bella, e circondata anche da ricchi fondachi, portici, e botteghe»[xxxvi], arricchita dalla fontana «con la Lupa insegne della Città»[xxxvii] (ubicata nel 1686 fuori porta San Biagio), dal «superbissimo Seggio di sontuose fabriche di diversi lavori», al quale «s’ascende magnificame(n)te per molti gradi, e su questi vi è una balaustra di ferro alta, e di bel lavoro attorno», sormontato da un «bellissimo Orologio con due statue di pietra Leccese, che sostengono la Campana»[xxxviii] e «all’incontro è il Tribunale della Regia Bagliva»[xxxix]. Dentro alcune botteghe, annotava ancora Infantino, «si veggono le reliquie di antichissimi edificij, detti volgarmente i borlaschi, machina superbissima in forma di Teatro, simili à gli antichi Teatri Romani»[xl]. Nel 1684 Pacichelli aveva sbrigativamente accennato: «la piazza grande hà il Seggio chiuso di ferro, fontana, e piramide, con la statua di Sant’Orontio, sendo sparse le botteghe de’ Negotianti»[xli], mentre nel 1686 oltre a citare la «Statua, e questa di marmo, dell’Imperador Carlo V una fonte artifitiale con quella del Rè di Spagna Carlo II», si sofferma sulla «colonna trasferita da Brindisi, e già ivi consegrata ad Hercole, diminuita però, con la Statua di rame di S. Oronzo valutata 300 ducati, benche tutta la spesa di questa mole, e sua trasportazione arrivi à ventimila. Ne’ quadri più nobili del piedistallo sono incise le Inscrittioni» e «nell’anno 1684 in tempo del Signor Sindico Domenico Stabile che vi cooperò non poco, e ne ritiene dal Signor Costantino Bonvicino dedicata, con altre quattro Statue de’ Protettori non ancora intagliate né fuse à gli angoli della base, e de’ balaustri, l’idea»[xlii]. Pacichelli trascrive nel 1686 il testo di due epigrafi[xliii] e un altro nel 1703[xliv], quando la statua del santo è descritta in bronzo e si legge che il popolo: «per haver dimostrata la presentanea protezzione nel 91 e 92 nel Contaggio della prossima Provincia di Bari, v’impresse nella faccia della base questo Epigrafe; semper Protexi, et Protegam, havendo sempre la sua Patria di Grazie, e di Miracoli arricchita»[xlv].

Chiesa di Santa Maria delle Grazie
Chiesa di Santa Maria delle Grazie

Della chiesa di San Francesco della Scarpa dei Conventuali, Pacichelli menziona la «stanza bassa vicina al Giardino, habitata da S. Francesco»[xlvi], quando, così come riferì Infantino, il santo oltre a mandare a Lecce i suoi frati, «volle con la sua propria persona anche honorarla, nel ritorno ch’egli fece da Soria»[xlvii]. Pacichelli puntualizza, così come si evince anche dalla lettura di Lecce sacra, che la cappella fu «migliorata in un Sagro Oratorio»[xlviii]. Nel giardino l’abate nota l’«Arancio piantato da P. S. Francesco»[xlix], il cui frutto, aveva precisato Infantino «mangiato dagli Infermi con fede, ben spesso si guariscono»[l].

Pacichelli osserva nel complesso monastico di «S. Angelo de gli Agostiniani l’Infermaria e la cappella del Giugno»[li], dove era stato sepolto Giovan Battista Giugni, morto a marzo dello stesso anno, cui era stata dedicata una lapide nel chiostro, di cui riporta il testo. Giugni aveva fiorito «in amendue le Academie di questa Città»[lii], cioè quella dei Trasformati e quella degli Spioni. Pacichelli descrive accuratamente la cappella di questa famiglia, ubicata «nel destro lato della Chiesa, la seconda cappella da lui dedicata alla Reina del Carmelo»[liii], trascrivendo i testi incisi su quattro lapidi. Non fa testo la descrizione di Infantino, perché la chiesa fu ricostruita nel 1663.

«In fine di rado vidi al di dentro, la casa hoggi nobilitata, che dicon già fosse di Sant’Oronzo»[liv]: il palazzo dei Perrone (nell’omonima via), che «furono quelli che si fecero ritenere discendenti da S. Oronzo Protettore di Lecce e che inventarono la leggenda dell’Angelo col tortano cui prestò fede il buon Padre Pio Milesio»[lv].

(CONTINUA)

prima parte:

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terza ed ultima parte:

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[i] La data si desume dalla circostanza che Pacichelli trova la chiesa di Santa Croce «coperta di setini, col Trono dell’Abate per la festa del Santo lor fondatore». La festività di San Pietro Celestino ricorre il 19 maggio, che nel 1686 cadeva di domenica (M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 162).

[ii] Ivi, p. 158. Nel 1686 Pacichelli afferma che la torre campanaria del duomo «costa quindeci mila ducati» (Ivi, p. 185), mentre nel 1703 è «valutata 15 m. scudi » (G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit., p. 169).

[iii] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit.,p. 159.

[iv] Ivi, p. 142.

[v] Cfr. Ivi, p. 159

[vi] Ivi, p. 142.

[vii] Ivi, p. 159.

[viii] Nel 1631 il palazzo ricadeva nell’isola delli Condò della parrocchia di Santa Maria de la Porta, e vi abitavano Mario de Raho con la moglie Andriana Riccio, Leonardo Riccio e una schiava (Cfr. lo Status animarum civitatis Litii 1631, manoscritto conservato presso l’Archivio Vescovile di Lecce).

[ix] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit.,p. 160.

[x] Ibidem.

[xi] Ibidem.

[xii] Cfr. G.C. Infantino, op. cit., p. 35.

[xiii] Ivi, p. 33.

[xiv] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 169. Ritenuta senza rarità nel 1686.

[xv] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 116.

[xvi] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 169.

[xvii] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 160.

[xviii] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 169.

[xix] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 160.

[xx] G.C. Infantino, op. cit., p. 170.

[xxi] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 169.

[xxii] G.C. Infantino, op. cit., p. 10.

[xxiii] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 116. «Gli epitafi» delle cappelle, «con quel della fronte si trascrivon dal Ab. Franc. De Magistris in Statu Rerum Memorab. Neap. I, num. 43, fol. 29 che non cede ad altre di questo Dominio» (Ibidem).

[xxiv] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 169.

[xxv] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 222.

[xxvi] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit., p. 169.

[xxvii] G.C. Infantino, op. cit., p. 7.

[xxviii] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 162

[xxix] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit., pp. 169-70.

[xxx] G.C. Infantino, op. cit., p. 120.

[xxxi] Cfr. F. De Luca, La visita apostolica di Andrea Perbenedetti nella città e diocesi di Lecce, in «Kronos: periodico del DBAS Dipartimento Beni Arte e Storia», n. 8, 2005, pp. 31-68

[xxxii] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 170.

[xxxiii] G.C. Infantino, op. cit., p. 71.

[xxxiv] G.C. Infantino, op. cit., p. 109.

[xxxv] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 162.

[xxxvi] [xxxvi] G.C. Infantino, op. cit., p. 111.

[xxxvii] Ibidem.

[xxxviii] Ivi, p. 112.

[xxxix] Ivi, p. 113.

[xl] Ivi, pp. 111-12.

[xli]  M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., 117.

[xlii] Ivi, pp. 162-163.

[xliii] «Così, dunque, da un alto: columnam hanc, quam brundusina / civitas suam ab ercule ostentans / originem profano olim ritu in sua / erexerat  insignia, religioso tandem / cultu divo subiecit orontio, ut / lapides illi qui ferarum domitorem / expresserant, celamine, voto, aereq; / lupiensium exculto, truculentioris / pestilentiae monstri triumphatore / posteris consignarent. E dall’altro: siste ad hanc metam famae / augustum quondam romani fastus, / nunc eliminatae luis trophaeum / columnam vides, potiori nunc herculi / d. orontio sacrae. non plus ultra / inscribit Orontius Scaglione, patritius / non sine numine primus, hutusce / nominis patriae pater. statua / ab altera basi. illam cum statua / erexit. anno domini salu. mdclxxxiv» (Ivi, p. 163). Il primo testo è inciso alla base della colonna sul lato prospiciente l’anfiteatro, il secondo è sul lato di fronte al Sedile.

[xliv]«in un de’ lati il presente attestato, D. Orontio Protochristiano, Prothopraesuli, Prothomartyri Liciensi ab averuncatam à Patriae solo totaque Salentina Regione pestilentiam in anno MDCLVI Italiam provinciatim desolantem Columnam hanc Clerus Ordo Populisque Lyciensis erexit ut in Columna ad suor um munim Divus ipse excubaret Orontius, habexentique posteri perenne Urbis devictissimae pro tanto beneficio monimentum» (G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 170). Il testo è ancora leggibile alla base della colonna, sul lato addossato all’edicola di giornali.

[xlv] Ibidem.

[xlvi] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 164.

[xlvii] G.C. Infantino, op. cit., p. 47.

[xlviii] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 170.

[xlix] Ibidem.

[l] G.C. Infantino, op. cit., p. 80.

[li] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 164.

[lii] Ibidem.

[liii] Ivi, p. 165. L’altare dovrebbe essere quello ora dedicato alla Madonna del Rosario.

[liv] Ivi, p. 167.

[lv] A. Foscarini, Lecce d’altri tempi. Ricordi di vecchie isole, cappelle e denominazioni stradali (contributo per la topografia leccese), in “Iapigia”, a. VI, 1935, pp. 425-451: p. 430.

Una passeggiata a Lecce di fine Seicento. L’abate Giovan Battista Pacichelli descrive la città (parte prima)

La veduta di Il Regno di Napoli in prospettiva è tratta da http://www.vecchiaprovinciadilecce.it/
La veduta di Il Regno di Napoli in prospettiva è tratta da http://www.vecchiaprovinciadilecce.it/

 

di Giovanna Falco

 

Il Regno di Napoli in prospettiva dell’abate Giovan Battista Pacichelli[i], pubblicato postumo nel 1703[ii], è noto per lo più per le vedute prospettiche delle città che lo corredano e per le tavole delle dodici provincie che formavano il regno[iii]. L’opera si basa su lettere inviate dall’abate ad amici e conoscenti durante i suoi viaggi, pubblicate nel 1685 e nel 1691, in Memorie de’ viaggi per l’Europa Christiana e in Memorie novelle de’ viaggi per l’Europa cristiana[iv].

Le notizie su Lecce, riportate nella Parte seconda di Il Regno di Napoli in prospettiva, nel capitolo dedicato alla settima provincia del Regno di Napoli, cioè Della Japigia o Terra d’Otranto[v], sono state raccolte dall’autore durante tre viaggi compiuti nel 1684, nel 1686 e l’anno successivo e raccolte nelle Memorie anzidette[vi].

Nella primavera del 1684 Pacichelli è a bordo di una feluca e, «scendendo per poche miglia in terra dal mare, ove torna meglio in acconcio»[vii], probabilmente sbarca a San Cataldo: «porto picciolo, verso scirocco, sette miglia da Lecce, col Castello guardato da’ Soldati Italiani e dal Castellano del Rè Cattolico, nominato Porto di San Cataldo, perché in esso approdò quel Santo»[viii]. Nel 1686 l’abate, giunto da Campi a cavallo, si sofferma più a lungo nella descrizione di Lecce: visita la mattina i luoghi all’interno delle mura e il pomeriggio quelli all’esterno. Nel maggio 1687 entra in città dalla via di Lequile e dedica gran parte delle circa ventiquattro ore ivi trascorse «a visitar vari Amici, spiccando frà loro la Cortesia, e la Bellezza nelle Donne» e a intrattenersi con il vescovo Michele Pignatelli, che «raccontò gli sconcerti de’ suoi Diocesani, armati di centinaia di scoppette per resister al sagro Sinodo convocato» e lo invita «alla bella funzione della prima pietra alla Chiesa delle Monache di Santa Chiara»[ix].

Le notizie riportate da Pacichelli, ritenuto da Cosimo Damiano Fonseca un poligrafo «con una spiccata tendenza alla versatilità alla curiosità, al gusto della notazione erudita, senza eccessive pretese di rigore filologico, di verifiche puntuali, di vaglio critico»[x], sono da verificare, così come si evince in particolar modo quando indica le fonti da cui ha tratto le notizie storiche di Lecce. Nel 1684, ad esempio, cita correttamente «l’Infantino in 4 nella Lecce Sacra»[xi], ma nel 1686 si confonde e scrive: «chi vuol saper più, legga la Lecce Sagra del Sig. Francesco Bozi Patritio, e attenda in breve la Lecce Moderna di D. Giulio Cesare Infantino Curato di S. Maria della Luce»[xii], errore riportato anche in Il Regno di Napoli in prospettiva, dove menziona alcuni storici che hanno dissertato sulle antichità di Lecce[xiii]. In alcune note è palpabile l’arguzia che caratterizza l’autore, sia quando si sofferma a descrivere particolari anche superflui, come ad esempio l’abbigliamento di Scipione De Raho quando si accomiatò da lui, accompagnandolo «fuori dalle porte in berrettino, e pianelle»[xiv], sia quando illustra gli usi e costumi dell’epoca.

Sta di fatto che le sue annotazioni, nonostante alcuni refusi e inesattezze (alcuni evidenziati, altri da evidenziare, mettendoli a confronto con studi recenti), sono fondamentali perché descrivono la città a fine Seicento, in particolar modo se si mettono a confronto con Lecce sacra di Infantino, opera pubblicata una cinquantina di anni prima.

Lecce. Palazzo De Raho
Lecce. Palazzo De Raho

Lecce ha le «muraglie sostenute da Torri, Fosse, Cortina, e fortificazioni alla moderna con quantità di Baloardi, e Castello inespugnabile», con le «quattro Porte magnifiche, cioè a dire la Regale, o di S. Giusto, di S. Oronzo, di S. Biagio, e di S. Martino»[xv]. La città ha «trè miglia di giro, con vie larghe, e ben lastricate, giardini, fontane, fabriche nobili della pietra, che si cava nel suo fertile territorio, ch’è dolce e si lavora à guisa di legno con pialla. Non sà invidiar Napoli nello splendore, e magnificenza delle Chiese e de’ Chiostri di tutti gli Ordini»[xvi]. Già Infantino aveva rilevato che Lecce «vien stimata un picciol Napoli»[xvii].

«Le fabriche», dunque, «son di pietra bianca, che nasce là, si lavora con pialla, e riceve impression di figure col coltello, della quale vidi curiose Gelosie. Non si alzan molto, a cagion del peso, che fà cadere spesso le mura ed i Volti»[xviii].

La città è dotata di «trecento Carrozze, mantenute con poca spesa»[xix] (concetto ribadito anche nel 1703) e l’approvvigionamento idrico è dovuto a cisterne e pozzi[xx]. Tra i prodotti manifatturieri sono menzionati le «le belle coperte di bombace per la state»[xxi], i «Forzierini, ò Scrittori di pelle figurata, e dorata nelle coverte» e le «Tabacchiere di paglia historiate, che da 25 carlini son discese al valor di un tarì»[xxii].

La popolazione: «stimasi la più cospicua, e più popolata città del Reame, ove soggiornavan quantità di Nobili e ricche Fameglie, con molto lusso, e con galanteria verso de’ Forestieri, numerandosi à 3300 i fuochi»[xxiii] (declassata a una «delle più popolate del Regno»[xxiv] nel 1703), «inchiudendo non più di nove mil’anime, tutte civili verso il Forastiero, diminuite dopo il contagio, e la mortalità del 1679, con Fameglie antiche e riguardevoli; alcuni Baroni però che col Feudo di pochi carlini, altri col solo Dottorato, han luogo nel Magistrato supremo»[xxv]. Dopo avere affermato che Lecce è stata «Patria di gloriosi Eroi, così in Santità, come in Lettere, & armi»[xxvi], Pacichelli dedica tre pagine di Il Regno di Napoli in prospettiva a personaggi illustri leccesi ed elenca un gran numero di famiglie nobili[xxvii], così come aveva fatto Infantino quando aveva illustrato la chiesa di Santa Maria dei Veterani[xxviii].

Lecce. Chiesa di Sant'Irene, stemma di Lecce
Lecce. Chiesa di Sant’Irene, stemma di Lecce

A Lecce, oltre a risiedere il Preside con il suo Tribunale e il Vescovo che «gode vasta giurisditione in ventisette castelli»[xxix], secondo Pacichelli sono presenti «sette monasteri di Suore, trè spedali, e varie confraternite»[xxx], «la Clausura delle Convertite, e dodeci degli huomini»[xxxi]. Tra i monasteri femminili (tutti già fondati tranne quello delle Alcantarine), nel 1703 l’abate cita quello delle domenicane dei Chietrì[xxxii] e di «Santa Maria Nuova»[xxxiii] e, come si è già detto, nel 1687 quello di Santa Chiara. Non fa alcuna menzione al «refugio di povere verginelle»[xxxiv] di San Leonardo, né può citare il Conservatorio di Sant’Anna fondato in seguito. Si sofferma solo su dieci delle dodici case religiose maschili da lui indicate, accennando solo al domenicano San Giovanni Battista dei padri Predicatori e all’agostiniano Santa Maria di Ognibene (non ancora fondato all’epoca di Infantino). Non include nelle sue dissertazioni, però, i conventi dei Carmelitani (Santa Teresa e Santa Maria del Carmine), dei Fatebenefratelli (San Giovanni di Dio), dei Paolotti (Santa Maria degli Angeli), dei Minori Osservanti (Sant’Antonio da Padova), degli Osservanti (Santa Maria dell’Idria) e dei Cappuccini di Santa Maria di Rugge.

(CONTINUA)

seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/07/una-passeggiata-a-lecce-di-fine-seicento-labate-giovan-battista-pacichelli-descrive-la-citta-seconda-parte/

terza ed ultima parte:

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[i] Giovan Battista Pacichelli (1641-1695) Dottore in Diritto Civile e Canonico e laureato in Teologia, ricoprì l’incarico di Uditore Generale presso la Nunziatura Apostolica di Colonia, da dove intraprese numerosi viaggi in Europa. Ritornato in Italia e resosi conto di non poter fare carriera presso la corte del Papa, si recò a Parma, dove svolse le funzioni di Consigliere del duca Ranuccio II Farnese e di Uditore Civile della Città e dello Stato. Trasferitosi a Napoli, in seguito, nel 1683, rivestì l’incarico di Ablegatus del duca di Parma, da qui intraprese numerosi viaggi in Italia meridionale. Le notizie sulla vita di Giovanni Battista Pacichelli sono tratte dalle opere di Cosimo Damiano Fonseca, Michele Paone ed Eleonora Carriero (cfr. C.D. Fonseca L’Abate Giovanni Battista Pacichelli (1641-1695), in C.D. Fonseca (a cura di), Puglia di ieri. Il Regno di Napoli in prospettiva dell’Abate Gio: Battista Pacichelli, Bari s.d., M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi dell’abate Pacichelli (1680-7), Galatina 1993, E. Carriero (a cura di), Giovanni Battista Pacichelli. Memorie dei viaggi per la Puglia (1682-1687), Edizioni digitali del CISVA 2010).

[ii] Il titolo completo dell’opera è Il Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodeci provincie, / In cui si descrivono la sua Metropoli Fidelissima Città di Napoli, e le cose più notabili, e curiose, e doni così di natura, come d’arte di essa: e le sue centoquarantotto Città, e tutte quelle Terre, delle quali se ne sono havute le notitie: con le loro vedute diligentemente scolpite in Rame, conforme si ritrovano al presente, oltre il Regno intiero, e le dodeci Provincie distinte in Carte Geografiche, / Con le loro Origini, Antichità, Arcivescovati, Vescovati, Chiese, Collegii, Monisterii, Ospidali, Edificii famosi, Palazzi, Castelli, Fortezze, Laghi, Fiumi, Monti, Vettovaglie, Nobiltà, Huomini Illustri in Lettere, Armi, e Santità, Corpi, e Reliquie de’ Santi, / E tutto ciò, che di più raro, e pretioso si ritrova, coll’ultima Numeratione de Fuochi, e Regii pagamenti: con la memoria di tutti i suoi Regnanti dalla Declinatione dell’Imperio Romano, e di tutti quei Signori, che l’han governato. / Con i Nomi de’ Pontefici, e Cardinali, che sono nati in esso; Catalogo de’ sette Officii del Regno, e serie de’ Successori, e di tutti i Titolati di esso, col reassunto delle Leggi, Costitutioni, e Prammatiche, sotto le quali si governa. / Con l’Indice delle Provincie, Città, Terre, Famiglie Nobili del Regno, e quelle di tutta Italia. / Opera postuma divisa in tre parti dell’Abate Gio: Battista Pacichelli / Parte seconda / Consecrata all’Illustriss. Et Eccellentiss. Sig. il Sig. / D. Francesco Caracciolo Conte di Bucino Primogenito dell’Eccellenntiss. Sig. Duca di Martina, & c. / In Napoli. Nella Stamperia di Dom. Ant. Parrino 1703.

[iii]Nella lettera «Al Sig. Michele Luigi Mutii publico Stampatore in Napoli. / Consulta, e Giudizio per la stampa del REGNO DI NAPOLI IN PROSPETTIVA, Opera fresca dell’Autore», inviata da Portici il primo settembre 1691, Pacichelli scrive: «Sua è la cura di promuovere i disegni delle Città e Terre, e di fargli scolpir nel rame, dopo i già incisi delle Provincie: resta à me la sol’operatione, hormai compiuta, nello schiccherarne della sostanza» (G. Pacichelli, Lettere familiari, istoriche, & erudite, tratte dalle memorie recondite dell’abate d. Gio. Battista Pacichelli in occasione de’ suoi studj, viaggi, e ministeri, Napoli 1695, 2 voll., vol. I, pp. 188-9) I dodici “incisi delle Provincie” cui allude l’abate, sono una rielaborazione semplificata di quelle di Francesco Cassiano de Silva, pubblicate nell’Atlante di Antonio Bulifon del 1692 (Cfr. C.D. Fonseca L’Abate Giovanni Battista Pacichelli (1641-1695) cit.) . Riguardo alla veduta prospettica di Lecce non si conosce l’autore. Non può essere Cassiano de Silva perché la veduta prospettica da lui eseguita è differente (cfr. Il delfino e la mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto – luglio 2012, anno I, n. I, p. 90).

[iv] Cfr. G.B. Pacichelli, Memorie de’ Viaggi per l’Europa Christiana scritte à Diversi in occasion de’ suoi Ministeri, 5 vol., Napoli 1685 e  Memorie novelle de’ Viaggi per l’Europa Christiana comprese in varie lettere scritte, ricevute, ò raccolte dall’Abbate Gio: Battista Pacichelli in occasion de’ suoi Studi, e Ministeri, 2 vol., Napoli 1691. Le due opere sono suddivise in singoli capitoli (ognuno per Stato visitato), accompagnati da una lettera dedicatoria ad amici e conoscenti.  La cospicua corrispondenza dell’abate è stata poi raccolta nelle Lettere familiari (Cfr. G.B. Pacichelli, Lettere familiari cit.).

[v] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit., pp. 150-191, e in particolare pp. 167-173. L’incisione in rame della veduta di Lecce è pubblicata tra le pagine 166 e 167.

[vi] La prima è tratta dalle Memorie de’ Viaggi per l’Europa Christiana e precisamente la LXXXIV «Naviagatione dilettevol’ e divota della costa di Amalfi, in Calabria, ed a Brindisi» scritta da Ostuni il 10 aprile 1684 e indirizzata a  monsignor Giacomo de Angelis (Memorie de’ Viaggi, IV, pp. 360-377). Le altre due lettere sono pubblicate nelle Memorie novelle de’ Viaggi per l’Europa Christiana, scritte rispettivamente da Pacichelli da Napoli il 25 ottobre 1686 e indirizzata all’abate Francesco Battistini «Tornando in Puglia, vede il Bello di Capo d’Otranto, Basilicata e Principato Inferiore» (Memorie novelle de’ Viaggi, II, pp. 141-153) e da Altamura il 28 maggio 1687 e indirizzata a padre Tommaso di Costanzo «Pellegrinaggio alla Madonna di Leuca, esponendo le Provincie di Otranto e Lecce» (Memorie novelle de’ Viaggi, II, pp. 154-179) (cfr. C.D. Fonseca L’Abate Giovanni Battista Pacichelli (1641-1695) cit., E. Carriero (a cura di), op. cit.). I viaggi pugliesi sono stati pubblicati anche da Michele Paone, da cui sono stati tratti gli stralci riportati nel testo (Cfr. M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit.).

[vii] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 115.

[viii]G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit.,p. 171.

[ix] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 222.

[x] C.D. Fonseca L’Abate Giovanni Battista Pacichelli (1641-1695) cit.

[xi] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 115. Cfr. G.C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979.

[xii] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 170. In nota Paone rileva l’errore e chiarisce che Carlo Bozzi (e non Francesco) nel 1672 diede alle stampe l’opera agiografica I Primi Martiri di Lecce (Cfr. Ibidem, n. 174).

[xiii] Cfr. G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit, p. 168. Pacichelli Accenna alla storia di Lecce dalla fondazione all’epoca normanna e cita, oltre Bozzi e Infantino, il “Galatea”, Marciano, il “Volterrano”, Giulio Capitolino, Plinio, Antonello Coniger, Antonio Beatillo, P. de Anna (Cfr. Ivi, pp. 167-68).

[xiv] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 176.

[xv] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit, p. 168.

[xvi] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., pp. 115-16. Nel 1686 il giro delle mura diventa di due miglia e mezzo, per tornare di tre miglia nel 1703.

[xvii] G.C. Infantino, op. cit., p. 3.

[xviii] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 160.

[xix] Ibidem.

[xx] Cfr. Ibidem. Anche nel 1703 Pacichelli si sofferma a parlare dei pozzi e cisterne (cfr. G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 169).

[xxi] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 117.

[xxii] Ivi, p. 170.

[xxiii] Ivi, p. 117.

[xxiv] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit., p. 168.

[xxv] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 159. Descrizione simile a quella riportata nel 1703 (Cfr. G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 168).

[xxvi] Ivi, p. 171.

[xxvii] Cfr. Ivi, pp. 171-173

[xxviii] Cfr. G.C. Infantino, op. cit., pp. 126-168.

[xxix] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p 118.

[xxx] Ivi, p. 116.

[xxxi] Ivi, p. 164.

[xxxii] «Peregrina Creti fondò il Convento di S. Maria della Visitazione, detta volgarmente de’ Chieti di Vergini Claustrali, & Educande, e vi si legge su la Porta vecchia del Monistero questa Inscrizzione, Diva Mariae Sacram Edem, cui se devovit Peregrina de Criti Vestalis pia propiis sumptibus erexit pro sua, suorumque salute 1505. Kalend. Julii» (G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 173).

[xxxiii] Ivi, p. 167. Lo cita a proposito del «Marmo colà scoverto nelle fondamenta del Chiostro» trascrivendo due righe del testo riportato anche da Infantino, ma integralmente (Cfr. G.C. Infantino, op. cit., p. 89).

[xxxiv] Ivi, p. 85.

A Specchia Sette volte Lussuria

SETTE VOLTE LUSSURIA

 

PITTURA, SCULTURA, FOTOGRAFIA, VIDEOART, GRAFICA E VARIE INSTALLAZIONI  A SPECCHIA

 

Agnolo Bronzino, La Lussuria Smascherata (1540-1545)
Agnolo Bronzino, La Lussuria Smascherata (1540-1545)

di Paolo Vincenti

 

“SEVEN” – “Lussuria – Lust. I 7 Peccati Capitali come non li avete mai visti”. Imperdibile questa mostra artistica, ospitata dal 25 maggio al 30 giugno 2013, nell’ ex Convento dei Francescani Neri a Specchia. Un viaggio multisensoriale fra i sentieri aggrovigliati del sesto peccato capitale, la lussuria appunto, grazie alle opere di artisti nazionali ed internazionali che espongono in questa grande manifestazione specchiese.

Con il commento critico di Vincenzo Mazzarella, la mostra, a cura di Roberto Ronca di “Spazio-Tempo Arte” , con il patrocinio di: Parlamento Europeo, Regione Campania e Comune di Specchia, consta di pitture, sculture, fotografie, grafica e installazioni interattive, che rendono entusiasmante la sua visita, anche grazie alla prestigiosa cornice dello storico immobile che la ospita, vero valore aggiunto dell’evento.

 

Il Vernissage di presentazione si è tenuto il 25 maggio 2013. Si tratta di una mostra itinerante che, in svariate località d’Italia ha già esposto, con grande successo di pubblico, gli altri peccati di Gola, Invidia, Accidia, Superbia e Avarizia. Sicché questo in corso è il sesto appuntamento di sette (Seven) ed il prossimo sarà quello con l’ Ira.  “SEVEN è un grande evento che vuole attirare l’attenzione dell’artista e dello spettatore sulla complessità di interpretare con immagini attuali, al di fuori della iconografia classica, un pensiero antico”, è scritto nel comunicato stampa di presentazione dell’evento e questo è pure ciò che mi spiega, capitato quasi per caso in un assolato pomeriggio di maggio in quel di Specchia, la brava Debora Salardi, coordinatrice del progetto.  “I 7 peccati capitali possono essere uno stimolo verso l’interpretazione libera”, dice Debora, “e anzi è proprio nell’attualità della visione di artisti contemporanei che si può trovare la vera essenza del peccato, oggi. Seven è una mostra che affronta ognuno dei 7 peccati, uno per volta. Ogni peccato viene sviscerato, osservato, fissato, ricordato.

Gli artisti creano 1 opera per ognuno dei 7 argomenti. 7 eventi, quindi, che nel loro essere parte, creano il tutto”.  Mentre nel dedalo dei corridoi del vecchio Convento ammiro le varie opere visive, il sottofondo musicale che mi accompagna è quello di Fausto Degada tratto dal suo cd “Luxuria”.

Oltre al catalogo che si può acquistare a Specchia, per saperne di più si può consultare il sito www.7sins.it ( ma anche il sito dell’associazione, www.spaziotempoarte.com). Al netto delle polemiche che questo evento ha potuto alimentare (e che non credo abbiano potuto arrecar danno alla mostra, ma semmai a creare ancora più attenzione), bisogna riconoscere che si tratta di una manifestazione di larghissimo respiro che non lascerà certo delusi quanti avranno la ventura di fruirne.

 

Gli artisti  che espongono:

Gennaro Angelino, Riccardo Antonelli, Alfredo Avagliano, Luigi Ballarin, Maddalena Barletta, Fabrizio Bellanca, Claudia Bianchi, Gabriela Bodin, Raffaele Boemio, Veronica Bonini, Matteo Bosi, Brizzo, Veronica Cantero Yanez, Massimo Cappellani e Katia Di Rienzo, Francesco Carbone, Alessandra Carloni, Cosimo Carola, Diego Cautiero, Viviana Cazzato, Sonia Ceccotti, Adele Ceraudo, Elena Cermaria, Gianluca Chiodi, Alfonso Cometti e Paolo Emilio Colombo, Ugo Cordasco, Mariana Cornea , Dario de Cristofaro, Tony De Summa, Mimmo Di Dio, Gerardo Di Salvatore, Djoma Djumabaeva, Dorian Rex, Rita Esposito, Paolo Facchinetti, Nicla Ferrari, Daniele Galdiero, Luisella Gandini, Roberto Girardi, Irene Gittarelli, Lucio Greco, Gruppo Sinestetico, Theo Hues, Gerardo Iorio, Maria Karzi, Agnieszka Kierszstan, Bozena Krol Legowska, Stefanie Krome , Michail Kudinow, Josef Leitner, Odilia Liuzzi, Marla Lombardo, Jeanette Luchese, Luna Hal, Laura Libera Lupo, Mad Alena, Antonella Maggi, Sofia Maglione, Alessandra Mai, Angelo Maisto, Dario Manco, Claudia Mazzitelli, Francesco Mestria, Constantin Migliorini, Fabio Mingarelli, Massimiliano Mirabella, Luca Morselli, Piero Motta, Romano Nannini, Mariangela Neve, Noil Klune, Giulio Orioli, Francesco Paolicchi, Stefano Piancastelli, Azzurra Piccardi, Luca Piccini, Anna Pozzuoli, Penelope Przekop, Alessandro Rietti, Flavio Risi, Enrico Robusti, Fausto Rullo, Rosita Russo, Giuseppe Sassone, Sonikasik, Antonella Soria, Dominik Stahlberg, Meri Tancredi, Nina Todorovic, Ivan Toninato, Elina Tsingiroglou, Veronica Vecchione, Claudia Venuto, Angela Vinci, Johan Wahlstrom, Mari Yamagiwa, Pasquale Zeno, Alessandro Ziveri.

 

 

150 anni fa moriva Don Marino Manco, vittima del brigantaggio (*)

 

Melissano, Piazza del Mercato Vecchio. (foto Velotti)
Melissano, Piazza del Mercato Vecchio. (foto Velotti)

di Fernando Scozzi

 

Terra d’Otranto visse solo di riflesso le vicende dell’unificazione nazionale, ma i problemi di quel difficile periodo (fra i quali il brigantaggio) non mancarono di interessare anche la nostra provincia dove Quintino Venneri,  detto “Melchiorre”, costituì una banda brigantesca della quale fecero parte, tra gli altri, Barsanofrio Cantoro, di Melissano, Ippazio Ferrari, di Casarano, Vincenzo Barbaro, di Alliste e Ippazio Gianfreda, di Casarano.

Una delle vittime di questa banda fu il prete Don Marino Manco, giudice conciliatore della Frazione Melissano e nemico dei briganti sia per la sua adesione allo Stato unitario che per vecchi rancori con il compaesano Barsanofrio Cantoro.  Questi confessò in tribunale: Ce l’avevo con lui da tanto tempo perché prima di andare per soldato, amoreggiavo con una giovane di Melissano ed in cena, don Marino, vedendomi ricevuto in quella casa, mi discacciò.

Per Barsanofrio fu facile convincere gli altri briganti dell’opportunità di colpire quel prete che   aveva cantato due “Te Deum” per Garibaldi, Dittatore delle Due Sicilie  e che, spesso, ospitava nella sua casa i Carabinieri di Gallipoli, i rappresentanti di quello Stato sconosciuto al quale si erano ribellati. Così, verso le ore tre della notte del 24 giugno 1863, i briganti, capitanati da “Melchiorre”, penetrarono a Melissano. Alcuni di essi presidiarono le uscite del paese, altri si fermarono in piazza. L’arciprete, don Vito Corvaglia, intuendo le loro intenzioni e riconosciuto il compaesano Barsanofrio Cantoro gli disse: Guardati che il paese non abbia a soffrire qualche disastro per causa tua – ma questi gli rispose: ritìrati.  I briganti, quindi, bussarono alla porta del Manco. Apri, sono un messo di Gallipoli, porto un plico pressante del Sottogovernatore, disse uno di loro con voce affettata da piemontese.  Don Marino – testimoniò la domestica – ebbe qualche sospetto e non voleva aprire, ma al picchiare violento del culacchio dei fucili da far crollare la porta e alle grida “Apri carogna fottuta”, si alzò e aprì. Otto individui, vestiti alla contadina, armati di fucili, sciabole e pistole, irruppero in casa.  Don Marino – disse “Melchiorre” – mi servono mille ducati ebestemmiava dicendogli: “Assassino che sei, ai carabinieri continuamente dai da mangiare e a noi non vuoi dare nulla? Frugarono in ogni angolo della casa e rinvenute solo 170 piastre minacciarono di morte il malcapitato. Per la Madonna del Carmine, non ne tengo più – diceva il prete – ma  i briganti lo obbligarono a chiedere in prestito altro denaro, scortandolo a casa dei suoi parenti. Lo vidi in piazza, in mezzo a due briganti, scalzo, sconvolto, vestito dei soli pantaloni. “Ho bisogno  di  duecento  piastre, voglio salva  la vita, disse Don Marino a Vincenzo Manco che, insieme a Pietro Paolo Corvaglia e all’arciprete raccolsero la somma richiesta. Mentre “Melchiorre” contava il denaro, Barsanofrio disse ad un brigante che voleva uccidere don Marino: Basta! Che altro pretendi? Allontanandosi da Melissano, i briganti frantumarono gli stemmi dei Savoia posti sul corpo di guardia e sul botteghino delle gabelle.

Ma  don   Marino  non  era  persona  che  subiva  senza  reagire. Il giorno seguente, infatti,  denunciò l’accaduto alla giustizia mandamentale di  Casarano, producendo  formale  istanza di punizione di Barsanofrio Cantoro e della compagnia da lui condotta e riservandosi di costituirsi parte civile nell’eventuale giudizio. In questo modo, don Marino sottoscrisse la sua condanna a morte perché i briganti, venuti a conoscenza della denuncia, decisero di vendicarsi.

Il  loro proposito divenne di pubblico dominio e lo stesso don Marino fu avvertito da alcuni conoscenti  di stare in guardia perché si voleva attentare alla sua vita. Tuttavia, egli non adottò particolari precauzioni e prevedendo un altro assalto notturno, dormì nella cantina della sua abitazione. Ma la morte non arrivò di notte.

L’arresto  del  fratello  di “Melchiorre”, accusato ingiustamente  di essere in  possesso  del  denaro  rubato al prete, determinò il tragico epilogo della vicenda. La madre del Venneri si precipitò presso il nascondiglio della banda per avvertire “Melchiorre” di quanto era accaduto. Questi, propose  di “sollevare” la  popolazione  di  Alliste  e  affrontare la   forza   pubblica.  Partirono   immediatamente  ma,  per strada, “Melchiorre” cambiò idea e disse ai compagni: “Andiamo a saziarci di sangue! Ad uccidere Marino Manco”.

Erano le ore 13 del 27 luglio, don Marino uscì dalla chiesa parrocchiale e rientrò nella sua abitazione  perché – affermò una testimone –  diceva volersi recitare l’ufficio. Verso le ore 14, nella piccola borgata immersa nella calura estiva, si sentì urlare: Dov’è il brigante papa Marino? Il prete aprì la porta: due colpi di fucile lo raggiunsero al volto e al petto. La vittima  cadde a terra in una pozza di sangue, il braccio sinistro proteso, il destro piegato sul torace. Io  sono stato il boia, ho tirato il primo colpo – disse Ippazio Ferrari –  Quintino Venneri, il secondo.

Barsanofrio  Cantoro non partecipò all’assassinio e si rifugiò  in campagna. Lo trovai vicino al mio pozzo – testimoniò un contadino – mi chiese da bere. In quel momento sorse un vento così impetuoso che lo stesso Barsanofrio si sorprese dicendo:” Questa è l’anima di papa Marino”. Io gli chiesi:” L’avete ucciso?” E quegli:”Lo lasciavamo…? Poi, il brigante fuggì verso il bosco del Belvedere. Lì fu catturato il 13 novembre 1863; condannato a 30 anni di reclusione, morì in carcere. “Melchiorre”  riuscì ad evadere dalla prigione e dopo numerose azioni delinquenziali rimase ucciso in un conflitto a fuoco con carabinieri, il 24 luglio 1866, dietro la cappella di Santa Celimanna, nei pressi di Supersano. Il suo corpo fu esposto come monito, per tre giorni, sulla piazza di Ruffano.

 

 

(*) La vicenda è stata ricostruita mediante la consultazione degli atti processuali conservati presso l’Archivio di Stato di Lecce.

La telefonata

I  R A C C O N T I  D E L L A  V A D E A

L A  T E L E F O N A T A

di Pippi Onesimo

Le lampe (bicchieri da un quarto colmi di vino), rappresentavano il baratto privilegiato per pagare la commissione della telefonata.

Ma anche alcune foglie secche di tabacco o un sacchiettino di trinciato, insieme cu nnu pacchettu de cartine (pacchetto di strisce rettangolari di carta velina, lunghe circa sette centimetri, bianche, sottili e trasparenti, gommate su un lembo del lato lungo e adatte per confezionare, al bisogno, sigarette artigianali) avevano lo stesso valore.

A volte l’esigenza di fumare (“mi sigge na tirata”, ripeteva spesso lu Cheròndula) la avvertiva già prima di telefonare, specialmente dopo aver bevuto più di una lampa.

Serviva anche per darsi un tono e un contegno e con studiata teatralità confezionava, all’istante, una sigaretta fatta a mmanu (artigianale).

La procedura del confezionamento era molto semplice, anche se era necessario possedere una certa esperienza, una buona perizia ed una non comune dose di abilità.

Prima estraeva dal pacchetto una cartina e la posizionava, leggermente arcuata per tutta la sua lunghezza, fra il pollice e l’indice della mano sinistra, ai quali rimanevano strettamente collegate alle altre dita, piegate in dentro a mo’ di protezione.

Poi con la mano destra pizzicava del tabacco secco triturato, o del trinciato ricavato da foglie umide finemente tagliuzzate,direttamente dalla tasca dei pantaloni, o dal taschino della camicia, o da un sacchetto di stoffa, disponendolo in quantità sufficiente e distribuendolo in modo uniforme sulla cartina.

A questo punto subentrava la fase più delicata: inumidiva leggermente, ma senza bagnarlo, uno dei bordi lunghi della cartina, passandolo delicatamente sulla punta della lingua e immediatamente lo ripiegava su quello asciutto, arrotolandolo con una leggera pressione del pollice, aiutato dall’ indice e dal medio insieme, di entrambe le mani.

Eliminava, infine, qualche eventuale residuo di tabacco dalle due estremità e la sigaretta era già bella e confezionata, alla faccia dei monopoli di Stato.

Cu nnu pòsparu a tàvula (un fiammifero di legno), sfregato sul muro e tenuto ben saldo fra l’indice e il pollice della mano destra, accendeva la sigaretta delicatamente sorretta fra le labbra, mentre riparava dal vento la tenue fiammella con la mano sinistra, portata vicino alla bocca e arcuata a mo’ di schermo.

Fra una boccata e l’altra, aspirava voluttuosamente il fumo acre e biancastro.

A volte lo arrotolava nella bocca socchiusa a semicerchio, riuscendo abilmente a formare sottili rotelle di fumo.

Con sequenza concentrica il fumo saliva in alto, dondolando leggero e trasparente, mentre i cerchi si dissolvevano nell’aria, creando, così, una disincantata magia surreale.

Con malcelato sussiego, non privo di una certa affettazione di importanza, si conferiva, in quel modo, un tono presuntuosamente dignitoso e altezzosamente sostenuto.

E in questa scenografia, così puntigliosamente costruita, si inseriva la telefonata de lu Cheròndula.

La sua specialità, quasi un copyright, era quella fatta con l’Aldilà, o meju, cu lli morti toi(i tuoi parenti defunti).

Il suo cellulare, senza alcun limite di campo, poteva metterti in contatto con chiunque ed ovunque.

Il rituale della telefonata ( quella più solenne era fatta preferibilmente in piedi ), era molto semplice: lu Pietruzzu si toglieva la coppula, riponendola nella tasca posteriore dei pantaloni, e si addossava al muro di un vicino fabbricato .

Poi dava uno sguardo in giro con fare circospetto, come per conferire più solennità al gesto che stava per fare.

Intanto spegneva la sigaretta, stropicciando la punta accesa col pollice, l’indice e il medio ; poi conservava accuratamente lu muzzone (il mozzicone) nel taschino del gilet.

Insieme alla mano, che poggiava arcuata sul bordo del padiglione auricolare, al fine di amplificarne la ricezione, infine accostava l’orecchio sinistro preferibilmente vicino ad una crepa o ad una fessura, come quella usata per presa d’aria nei cucinini o nei bagni di servizio delle vecchie abitazioni.

A volte, ma solo raramente, se era stanco o più spiritoso del solito, preferiva fare la telefonata sdraiato per terra, a pancia in giù e a gambe divaricate, con l’orecchio leggermente schiacciato su un tombino dell’acquedotto, o lievemente adagiato sul coperchio della condotta della fognatura bianca.

Gli spettatori, intanto, accostati al muro della Chiesa della Purità, prospiciente sull’ansa che si modella fra l’Istituto Immacolata e il Palazzo Vallone, dopo così lunga e paziente attesa, cominciavano a dare segni di insofferenza per il noioso e snervante rituale della preparazione.

Ma era inutile spazientirsi.

Al punto in cui si era arrivati, bisognava prendere o lasciare, avendo commesso l’imprudenza di pagare con largo anticipo la commissione.

Oltretutto l’ebbrezza dell’aleatico de lu Muscia, che aleggiava ancora sorniona su tutta la compagnia, non era definitivamente del tutto svaporata, mentre il nervosismo cominciava a prendere pericolosamente il sopravvento e… si rischiava de ssire alle vigne dell’arciprèvate (uscire fuori strada, scantonare, perdere il senno o la ragione ).

Lu Pietruzzu, vientu de nanzi e tramuntana de retu (impertubabile), continuava a prendersela comoda e, impassibilmente serafico, rimaneva accostato al muro.

Poi, dopo una ennesima pausa, finalmente, con un lento, misurato atteggiamento pontificale allargava il braccio destro, in uno studiato rituale scenico, per dare il segnale d’inizio.

Dopo aver chiesto e ottenuto il silenzio dei presenti, roteava freneticamente il braccio, piegato ad angolo retto, mentre teneva il pugno chiuso come se girasse la manovella di un vecchio apparecchio telefonico, di quelli che la Sip usava allora installare, appendendoli al muro ad altezza d’uomo.

Intanto imitava con leggeri, susseguenti, intervallati e studiati borbottii della bocca il rumore della sua suoneria.

Quindi, finalmente, esordiva: “Prontu, prontu… parlu cu lli morti de mesciu Ntoni Pizzicazzi?“ (pronto, pronto… parlo con i defunti di maestro Antonio Pizzicazzi ?, che era uno dei committenti della telefonata, presente nel gruppo).

I soprannomi o le ngiurie costituivano una anagrafe parallela a quella ufficiale tenuta dal Comune e, a volte, la superavano per la particolarità dei dettagli e per la inappuntabilità dei riferimenti storici e genealogici.

Infatti allora (più di oggi), esse identificavano con precisione quasi maniacale le famiglie galatinesi e, volendo, potevano individuare, senza alcun margine di errore, tutta la relativa strappigna (la discendenza, l’albero genealogico).

L’indicazione del cognome diventava superfluo, anzi inutile.

Dopo una breve pausa, l’espressione del volto con gli occhi pensosi e semichiusi e la fronte corrucciata preannunciavano un improbabile contatto telefonico.

Poi proseguiva: ”Si… si sentìtime sanu: lu Ntoni, lu menzanu de li frati vosci, vu manda a ddire ca li mancati tantu e ca vulia tantu cu bbu viscia” (“ Si, si ascoltatemi con attenzione: Antonio, il mediano dei vostri fratelli, vi manda a dire che gli mancate tanto e che desidererebbe tanto rivedervi).

Cce ttanu dittu “ (che ti hanno detto?), chiedeva mesciu Ntoni, fingendo di stare al gioco.

Ca… se propriu cci tieni tantu cu lli vidi, cce spetti… cu bbai lli trovi!“ (se ci tieni veramente tanto a vederli, sbrigati a partire e quindi a… morire!), era la impietosa risposta fulminante de lu Pietruzzu.

Tutti scoppiavano a ridere, tranne mesciu Ntoni, ca rimania ‘mpalatu (rimaneva di sasso).

Poi, riprendendosi dallo smarrimento, lo rimproverava con tono bonario: “na stu mucculone! (uomo di poco conto) Mo ti cazzu le mpuddhre (adesso ti punisco). A ‘mie, ca taggiu sempre crisciutu a muddhriculeddhre (con le briciole), mi faci sti scherzi!

In altri termini gli traduceva, in modo paterno ma deciso, il suo pacato risentimento: “ingrato, non puoi mancarmi di rispetto, perché sono stato sempre generoso con te!“.

Lu Pietruzzu, impassibile, chiudeva il telefono (cioè abbassava il braccio e toglieva l’orecchio dal muro), mentre si copriva accuratamente il capo cu lla coppula, che recuperava dalla tasca dei pantaloni, dove l’aveva momentaneamente riposta prima della recita.

Con tutta la calma serafica, che la solennità del momento imponeva, si concedeva una breve pausa, come se fosse riportata sul copione di una fantasiosa sceneggiatura improvvisata, mentre aspirava con evidente e studiata voluttà un’altra boccata di fumo, dopo aver riacceso lu muzzone, che aveva recuperato dal taschino.

Intanto la punta del mozzicone, tenuto in precario equilibrio fra le labbra ruvide e screpolate, ad ogni tirata si arroventava ad intermittenza, bruciando parte della cartina e parte del tabacco, mentre liberava nell’aria qualche breve, fugace favilla.

La cenere biancastra, man mano che il fuoco si ritirava consumando la sigaretta, si staccava a grumi compatti e, rotolando giù, pennellava impertinentemente il gilet e la sua camicia con una polverina sottile e irriverente.

Qui, la commedia della telefonata, ben assortita e ottimamente interpretata, si concludeva.

 

 

Infelicità della Stampa ed infedeltà dello Stampatore

Infelicità della Stampa ed infedeltà dello Stampatore

 

A PROPOSITO DELLA ANATOMIA DEGL’IPOCRITI

DI A. T. ARCUDI

 

galatina letterata

di Giovanni Vincenti

Era già stata rilevata l’esistenza di una doppia edizione dell’operetta Galatina Letterata composta dall’erudito galatino fra’ Alessandro Tomaso Arcudi (1655-1718) e pubblicata il 1709. Non si trattò tuttavia «di una prima insoddisfacente sul piano formale seguita da una seconda migliorata e corretta»1, ma di una mera ristampa del solo frontespizio che presentava un evidente errore nel nome del dedicatario: “D. Filippo / Romualdo Orsino, / Duca di Gravina, Prencipe di Solo- / fra, Conte di Muro, e Signore / di Vallato, &c.” [fig. 1], corretto in “D. Filippo / Bernualdo Orsino, / Grande di Spagna di Prima Classe / Duca di Gravina, Prencipe di So- / lofra, Conte di Muro, e Signore / di Vallato, &c.” [fig. 2]. Da una comparazione approfondita, i due testi sembrano perfettamente identici.

Ma simile malasorte pare sia toccata, come si cercherà di dimostrare, al un’altra opera dell’Arcudi, l’Anatomia degl’Ipocriti pubblicata «sotto nome anagrammatico diCandido Malasorte Ussaro». Era stato lo stesso stampatore veneziano Girolamo Albrizzi ad anticipare, il 1697, con una sua nota apparsa ne La Galleria di Minerva, la notizia della imminente pubblicazione della Anatomia opera «di novella invenzione, piena d’erudizione sacra e profana, copiosa di dottrine e di scritture» rivelando altresì che «il vero autore di quest’opera che si trova sotto il mio torchio, sia P. Alessandro Tomaso Arcudi dell’Ordine de’ Predicatori»2.

Un trattato massiccio ed interminabile che, dedicato al teologo e cardinale agostiniano fra’ Enrico de Noris (1631-1704)3, vide la luce il 1699 «non ostante l’infelicità della Stampa, ed infedeltà dello Stampatore»4, nel quale il padre Arcudi distende su un metaforico lettino anatomico l’Ipocrisia e la seziona in ogni sua minima parte. Nell’opera «si rispecchia già tutt’intera una vita, in modo compatto e coerente spesa per il proprio ideale di santità e condotta fra amarezze e delusioni, insofferenze mordaci e inghiottite rassegnazioni, reazioni a mala pena frenate ed esplosioni d’indignazione»5.

Sull’infelicità della stampa già lo stesso autore, nella pagina a chi legge, consapevolmente aveva avvertito: «La Malasorte dell’Autore è stata ereditata dal libro. E’ solito infortunio delle stampe qualche difetto di ortografia, e di sillaba: ma di questo figlio sventurato non può dire il Venusino: Egregio inspersor reprendas corpore naevos: mentre non solo di nei, ma di brutti tagli porta sfregiato il volto, e le membra: più che non ha l’Autore tirati all’Ipocrisia. Il semplice titolo che portava d’Anatomia de gl’Ipocriti, crebbe così ampolloso, e farisaico, che l’Autore à primo aspetto dubitarebbe se questo fusse il suo libro. Si mutino almeno così tre righe del frontespizio. Illustrata colle divine Scritture, Sancti Padri, e Scrittori profani. Il bellissimo fregio dell’Indice, col nome d’Anatomia del Libro, corrispondente a gli numeri, che tu vedi nelle margini in faccia de’ Capiversi, l’è stato tolto non so perché, con non ordinario del Padre suo, la cui lontananza dà Venezia fino all’estrema punta dell’Italia, è stata la cagione d’ogni dissordine. Io compassionando le sue disgrazie, ho medicato le piaghe più ampie, e risarcite le vesti più lacere in tutti quei volumi che sono capitati nelle mie mani. Gl’errori di mano conto non pregiudicano alla sua intelligenza. Prega il Cielo, che l’altre opre dell’Autore non avessero la sempre sua mala sorte»6. E più avanti ribadiva: «Non mi arrossisco confessare molti errori in quest’opra […]. Vero è che molti errori son della stampa, e non minori della mia penna, perché l’intelletto applicato alla sostanza, non ha possuto con accuratezza attendere alle parole»7.

L’espressione infedeltà dello Stampatore usata dall’Arcudi, poco chiara, sin qui, ora assume significato nuovo dopo il rinvenimento di una seconda edizione dell’Anatomia. Consideriamo i due frontespizi, il primo “Anatomia / degl’Ipocriti / di / Candido Malasorte / Ussaro / In Dieciotto Membri Divisa / Opera Nuova / Illustrata col testimonio infallibile del Pentateuco, Santi / Evangelii, Atti Apostolici, e di Moltissimi / Santi Padri Ecumenici. / Utilissima à Predicatori della Verità Evangelica, con varie / e peregrine Interpretazioni de Sacri Testi. / A’ Confusione dell’Ipocrisia de’ moderni Farisei. / Consacrata / All’Eminentiss.mo e Reverendiss.mo Principe, e Sig. / Il Signor CARD. FRA’ ENRICO / DE NORIS / In Venezia , MDCXCIX. / Per Girolamo Albrizzi / Con Licenza de’ Superiori” [fig. 3], mentre il secondo “Anatomia / degl’Ipocriti / di / Candido Malasorte / Ussaro / Opera / Utilissima à Predicatori Evangelici; Illustrata con varie, e / Peregrine Interpretazioni de Sacri Testià confusionedell’Ipocrisia d’Oggidì. / Consacrata / All’Illustriss. e Reverendiss. Sig. il Signor / LIVIO LANTHIERI / Conte del S.R.I. Libero Barone di Schenhaus, e Baum- / chirchenturn; Copiere ereditario di S. M. Cesarea / nell’Illustriss. Contado di Gorizia; Signore / di Vipaco, & Raifemberg, &c. / In Venezia , MDCXCIX. / Per Girolamo Albrizzi / Con Licenza de’ Superiori “ [fig. 4].

Ma le differenze proseguono anche all’interno del libro. Lo stampatore infedele infatti, elimina le cinque pagine dedicatorie All’Eminentiss.mo Signore il Sig. Card. Enrico de Noris firmate dall’«Umilissimo ed Obligatissimo Servo Candido Malasorte Ussaro» e datate S. Pietro in Galatina, li 8 luglio 1699, la nota critica Graziano Dissamato a chi legge e le tre pagine di errata Corrige. Queste vengono sostituite con una lettera dedicatoria al conte Livio Lanthieri con la quale «consacrare à V. S. Illustrissima questa Anatomia degl’Ipocriti, come figlia delle mie Stampe», firmata dall’«Umiliss. Osseq. Riveritisi. Servo Girolamo Albrizzi» e datata Venezia, li 14 luglio 1699, con un Sonetto [fig. 5] ed un Madrigale di un anonimo Accademico Gelato Agli Ipocriti per il viaggio dell’Inferno [fig. 6].

L’Anatomia degl’Ipocriti – scrive l’Arcudi il 1709 – fu «ricevuta con tanta grazia (gloria a Dio) da letterati di Europa: e lo confessano le lettere scrittemi da molte parti d’Italia: e tanto avidamente letta da gl’eruditi: […] comparve appena nella mia Patria, che un nasuto fermando la pupilla su la coperta, cercò censurare la Grammatica del suo titolo: asserendo con pedantesca prosopopea, benché non pedante di professione; ch’io non dovevo scrivere Anatomia, ma Notomia. Se costui fusse stato Cirusico, e non Leggista, accetterei la censura, e ad imitazione di Apelle corretto il titolo: ma nec sutor ultra crepitam. Credendo far il Dottore appresso gl’idioti, si palesò idiota appresso i dotti. Non intese questo novello Asinio quanto più spiegativo, e proprio all’invenzione di quel Volume fusse il vocabolo Anatomia, secondo l’etimologia della Grecia; la quale al Lazio prestò il nome. Non intese, quanto più maestoso era il titolo di Anatomia, che cominciando, e finendo colla più sonora, più squillante, più bella, e perciò prima lettera dell’Alfabeto; e replicandosi nella seconda sillaba: con dar bando alla O, di suono men naturale, e men dolce: empiva l’occhio a vederla, e l’orecchia a sentirla, con maggior simpatia: come primogenito parto dell’anima, (così la chiama l’eruditissimo, ed ingegnoso Tesauro) e prima lezione insegnatagli nascenti bambini dalla natura. Onde questo vocabolo appare sul frontespicio del libro come Re sedente sul Trono: non come Notomia, bastardo fantaccino, che da se stesso si scopre, e si vergogna. Perché il Critico, aveva letto Notomia in qualche moderno: senza penetrar più dentro alla forza, e proprietà della voce; per non avere salutato, che i primi vestiboli della Grammatica; credette aver detto assai, quando sapea tanto poco. Ma la censura non è degna di risposta, ma di risate. Tanto è vero, che il compiacere a tutti chi scrive, non solamente è difficile, ma eziandio impossibile. Né questa è la prima volta, che omnibus, et verbis nostris insidiatus, et sillabis: come appresso l’Angelico mio Dottore, 2.2.q.II.a.2.ad.2. scrisse il Pontefice S. Leone a Proterio Vescovo Alessandrino»8.

Qui emerge prorompente tutta la vis polemica del nostro padre fra’ Alessandro Tomaso Arcudi predicatore.

 

 

1G.L. De Mitri – G. Manna, Presentazione a A.T. Arcudi, Galatina Letterata, Genova 1709, rist. anastatica, Maglie 1993, p. XII.

2 Cfr. G. Albrizzi, Anatomia degl’Ipocriti di Candido Malasorte Ussaro, ne “La Galleria di Minerva”, Venezia 1697, II, p. 306-307.

3A.T. Arcudi, S. Atanasio Magno, Lecce 1714, p. 272.

4A.T. Arcudi, Galatina Letterata, Genova 1709, pp. 12-14.

5 M. Marti, Schizzo di un minore letterato insofferente e geniale: Alessandro Tomaso Arcudi di Galatina, in “Urbs Galatina”, II, 1993, 1 (gennaio-giugno), p. 170.

6A.T. Arcudi, Anatomia degl’Ipocriti, Venezia 1699.

7A.T. Arcudi, Anatomia degl’Ipocriti etc., cit., p. 15.

8A.T. Arcudi, Galatina Letterata etc., cit., pp. 12-14

Leggende salentine tra Giuggianello, Roca e Leuca

ph Donato Santoro
ph Donato Santoro

Il Salento delle leggende.

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

di Antonio Mele ‘Melanton’

 

Quando muoiono le leggende finiscono i sogni.

Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.

 

Ho già scritto, su queste stesse pagine, che “siamo quello che eravamo”.

Noi, che per avere un regalo bisognava aspettare la Befana. Ed essere promossi a scuola. Quando a scuola (come ovunque) si andava a piedi. Con scarpe risuolate, e magari fornite di tacce (sorta di piccole mezzelune d’acciaio, sistemate sotto i tacchi e la punta), a salvaguardia dei punti nevralgici delle nostre preziose calzature. Le quali dovevano durare fino e perfino oltre la crescita di numero del nostro piede!, e che comunque resistevano – mai saputo come – ad ogni più frenetica scorribanda, o alle nostre interminabili partite di pallone fra i pini e sul piazzale della “Stanzione” ferroviaria.

Era quello un tempo contadino, ingenuo e puro, che ora appare anch’esso da leggenda.

I libri, legati con un mollettone di gomma, li avvolgevamo in fogli di carta-paglia, per conservarli meglio, dovendo servire poi ai nostri fratelli minori. Come le giacche, che venivano più volte rivoltate e passate in eredità.

Nessuno spreco insomma. Nessun consumismo. Nessun capriccio. Spesso le nostre merendine erano costituite da una semplice fetta di pane appena irrorata d’acqua e spolverata di zucchero…

Eppure eravamo felici.

Poi siamo pian piano (o forse troppo rapidamente) cresciuti. Da adolescenti, quando il primo sputnik si è levato verso lo spazio, sognavamo che un giorno avremmo percorso distanze enormi in un solo secondo, più veloci della luce. Infatti, dopo più di cinquant’anni, ci troviamo imbottigliati nel traffico, alla disperata ricerca di una via d’uscita o di un parcheggio.

Qualche anno prima dello sputnik, anche a Galatina, in piazza san Pietro, era stata presentata alla popolazione una scatola magica, che si accendeva premendo un pulsante: dentro c’era un uomo che dava le notizie, poi appariva un gregge di pecore con la scritta “Intervallo”, di nuovo un altro signore che spiegava come sarebbe stato il tempo di domani, e un altro ancora che faceva domande come a scuola, a persone adulte, però, che quando sapevano rispondere vincevano un premio in gettoni d’oro…

Ancora non sapevamo che quella scatola, col tempo, ci avrebbe rubato i nostri sogni, e le favole della nonna, e il gioco dell’oca, o il prodigioso ntartieni, che noi pensavamo fosse un oggetto misterioso, ed era invece il segnale segreto, quando ci mandavano a ‘prenderlo’ da una zia o da una cugina più grande, che dovevano appunto intrattenerci, senza darlo a intendere, e lo facevano inventando per noi cunti e leggende, che più belli non si può…

 

 Sono ritornato di recente a Giuggianello, paesino tra i più simpatici del nostro territorio, tra Maglie e Otranto, abitato da gente cortese, e con varie interessanti curiosità.

La più nota è sicuramente l’area primordiale detta dei Massi de la Vecchia, di cui ci siamo fugacemente occupati in altra occasione: un grandioso ‘parco’ naturale, costituito da una serie di blocchi di roccia giganteschi, di età preistorica, ubicato dentro un uliveto appena fuori il paese. Fra tali rocce ce n’è una particolarmente spettacolare, costituita da una sorta di ‘torre’ stratificata, a forma vagamente di fuso, detta per l’appunto lu Furticiddhu (cioè la conocchia, nella parlata locale), culminante con un masso oblungo e schiacciato, che dà l’impressione di vacillare sulla sommità, e che per questo viene anche identificato come “la pietra oscillante”.

Ebbene, in questo posto di per sé molto fascinoso, sono inevitabilmente fiorite alcune leggende. Intanto, qui pare che abiti da tempo immemorabile il famoso Nanni Orcu (che è notoriamente il marito della Vecchia), terribile personaggio dei cunti del Salento, che da bambini ci ha fatto tremare le vene e i polsi (e che anche da grandi è meglio non incontrare).

Ma l’indicazione più interessante riguarda la famosa acchiatura (termine equivalente a tesoro: dal vernacolo acchiare, trovare), composta da dodici lumache d’oro massiccio, deposto in un luogo segreto della campagna, e custodito notte e giorno dalla Vecchia in persona. La quale, se avrete la sfortuna (o fortuna) d’incontrarla il 24 giugno, giorno di san Giovanni, vi potrebbe porre tre semplici domande oscure e misteriose, con queste due opposte conseguenze: rispondendo esattamente ai quesiti, conquisterete la preziosa acchiatura e ve ne tornerete a casa liberi e ricchissimi; in caso contrario, sarete pietrificati per l’eternità, e farete parte anche voi della spettacolare collezione di quei Massi,che adornano le campagne di Giuggianello da tempo immemorabile.

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ph Donato Santoro

 A proposito di acchiatura, bisogna sapere che il tesoro più importante e grandioso del nostro Salento si trova ancora nascosto in un tratto di territorio del versante adriatico, compreso tra Roca Vecchia e Torre dell’Orso, ed è a disposizione di chi abbia per primo la ventura di trovarlo.

Per i ricercatori più audaci e avventurosi, diamo qui alcune utili indicazioni (basate su teorie storiche e scientifiche, che si tramandano di generazione in generazione), augurando che qualche nostro Lettore, dopo secoli di inutili tentativi, porti finalmente a compimento l’impresa, ricordandosi altresì di questo prezioso contributo fornito da Il filo di Aracne.

Va intanto tenuto in conto che la favolosa Acchiatura di Roca è sepolta a sud-ovest della Torre di avvistamento. A nascondere il tesoro, per tener fede ad un voto religioso, fu, nella notte dei tempi, la Regina Isabella, aiutata da sette suoi fedelissimi servitori. Per trovare il prezioso nascondiglio, fate attenzione ad un segnale preciso e inconfondibile: un arco di dodici grosse pietre, attraversato da una specie di freccia in legno d’ulivo. Nella direzione della freccia si conteranno trentatrè passi, dopo di che si potrà cominciare a scavare, fino a raggiungere la profondità di un metro. Se si troverà una croce di ferro, vorrà dire che si è nella direzione giusta, e bisognerà scavare per un altro metro. Dovrebbe a questo punto affiorare una tavoletta di bronzo con l’immagine a rilievo della Madonna di Roca, segno anche questo che il percorso è esatto. Si scaverà ancora per un altro metro, e in fondo al ‘pozzo’ si troverà finalmente un forziere pieno di monete d’oro, gioielli e pietre preziose di inestimabile valore, che potrete riportare in superficie, sempre che, ovviamente, riusciate a dare la risposta esatta ad un arcano indovinello che vi sarà posto dalla solita Vecchia de lu Nanni Orcu, arcigna guardiana anche di questo luogo…

Sempre a Roca Vecchia si narra ancora di una giovane Principessa che ogni giorno, all’ora vicina al tramonto, amava fare il bagno in una grotta, restando in acqua fino al sorgere della luna. Una sera, un Poeta piuttosto timido la vide di nascosto, e se ne innamorò. Così ne parlò con un suo amico, anch’egli poeta, e questi ad un altro, e quest’altro ad un altro ancora, finché tutti i poeti del Regno non accorsero alla Grotta per ammirare la Principessa e comporre i versi più sublimi in onore della sua bellezza.

Ancora oggi, quella grotta è appunto conosciuta come Grotta della Poesia, e si dice che basta che due amanti vi entrino una sola volta per innamorarsi poi eternamente.

 

 Restando in zona, diremo che al Capo di Leuca, fanno… capo diverse leggende particolarmente suggestive, e qualcuna anche piuttosto drammatica.

Una di esse narra che San Pietro, arrivando dall’Oriente, abbia messo piede proprio alla punta estrema della penisola salentina, e da qui abbia poi proseguito verso Roma nella sua opera di evangelizzazione delle popolazioni italiche. A questa sosta del primo Apostolo della Chiesa è strettamente collegata la tradizione che vuole che nessuno possa entrare in Paradiso se, da vivo oppure da morto, non abbia fatto pellegrinaggio per almeno una volta al Santuario di Santa Maria de Finibus Terrae. Sicché, molte anime di buoni cristiani, che in vita non ebbero la possibilità di effettuare tale visita, si fermano a pregare nel Santuario della Madonna prima di volare in cielo.

Sempre nel Capo, dove giocano e più spesso si azzuffano i due mari Adriatico e Jonio, s’intrecciano altre storie fantastiche. Come quelle che riguardano schiere di feroci dèmoni, i quali, per invidia delle bellezze di quei luoghi (che all’origine erano splendidamente rigogliosi), hanno via via sconvolto la costa, erodendo scogliere, o rendendo aspro e spigoloso il paesaggio, o creando infine grotte ed anfratti inaccessibili, che tuttavia, senza volerlo, danno a questi stessi luoghi un’insolita selvaggia bellezza.

Proprio da quelle grotte frastagliate, un’altra leggenda vuole che, durante le notti di tempesta, specialmente in inverno, escano ancora oggi torme di streghe scarmigliate che, sciogliendo i venti di burrasca, agitando le onde e accendendo con le loro fiaccole il cielo di fulmini, si mettono a ballare per ore in un turbinio di canti lamentevoli e cupi, allo scopo di attirare nel loro irrefrenabile sabba qualche solitario viandante.

Per cui, se proprio non se può fare a meno, nelle tempestose notti d’inverno, meglio starsene a casa.

“Strìnculu” & C.: metafore animalesche o idiozia umana?

di Armando Polito

* MENO MALE CHE IO SONO MASCHIO E CON “GATTA” , A PARTE QUELLO CHE VI LASCIO INTUIRE …,  E “GATTAMORTA” NON HO NULLA A CHE FARE!
* MENO MALE CHE IO SONO MASCHIO E CON “GATTA” , A PARTE QUELLO CHE VI LASCIO INTUIRE …, E “GATTAMORTA” NON HO NULLA A CHE FARE!

 

 

Potrei fare innumerevoli esempi di quella presunzione tutta umana che ha spinto noi esseri detti pensanti a pensare (questa figura retorica si chiama tautologia ed è tipica del politichese, ma il mio cognome non è implicato …) di utilizzare i nomi di alcune cosiddette bestie per stigmatizzare alcuni tra i più odiosi (quelli morali) e più odiati (quelli fisici) difetti della nostra specie.

Segue, comunque, un elenco, in ordine alfabetico,  certamente incompleto ma prezioso a fini statistici, come dirò dopo.

Acciuga, allocco, ameba, anguilla, araba fenice, ariete, arpia, asino, avvoltoio, baccalà, balena, barbagianni, becco, bertuccia, biscia, bisonte, bue, bufalo, brocco, cagna, caimano, calabrone, camaleonte, canchero, cancro, cavalletta, cavallo, cane, capra, cavallona, cerbero, chimera, cicala, cimice, cinghiale, ciuco, ciuccio, civetta, cocotte, coniglio, cornacchia, corvo, cozza, elefante, faina, falco, falena, farfalla, farfallone, gallina, gatta, gattamorta, gazza, ghiro, giraffa, gorilla, gufo,  iena, istrice, lucciola, lucertola, lumaca, lumacone, maiala, maiale, mandrillo, manza, marmotta, marpione, marrano, merlo, mignatta, montone, moscerino, mucca, mulo, muschillo, oca, orso, pantera, papera, pappagallo, pavone, pecora, pecorone, pescecane, piattola, pidocchio, piovra, pitonessa, porco, pulce, riccio, rinoceronte, rospo, sanguisuga, satiro, scarafaggio, scimmia, scimpanzé, scoiattolo, scorfano, scorpione, scrofa, serpente, sfinge, squalo, stallone, stoccafisso, tafano, tartaruga, tigre, tordo, toro, torpedine, tricheco, troia, trota, vacca,  vampiro, vipera, volpe, zanzara, zecca, zimbello, zoccola.

Per il significato metaforico specifico rinvio per brevità il lettore ad un buon vocabolario. Io mi limiterò qui solo ad enucleare alcuni gruppi comprendenti voci che hanno assunto un significato più ampio e non solo individuale del semplice difetto o eccesso, fisico o morale che sia, e in alcuni casi sono diventati nomi di uno strumento.

Hanno assunto connotazione politica falco e colomba, militare ariete, torpedine e maiale, spionistica e investigativa corvo, talpa e cimice, eufemistica cocotte (alla lettera gallina) falena e lucciola per prostituta, ha subito un parziale ridimensionamento dell’originario significato negativo gorilla, addirittura canchero ha assunto la valenza di voce offensiva mentre cancro è passato ad indicare addirittura una malattia non da poco; altre voci presentano una serie sinonimica in alcuni casi particolarmente estesa: somaro, ciuco e ciuccio; cagna (senza o con aggiunta di in calore), lupa, maiala, porca, scrofa, troia e zoccola; maiale e porco (senza ombra di accenno alla prostituzione, come, invece, nella serie precedente che, oltretutto è notevolmente più lunga, il che per me è una delle caratteristiche di quel che definisco maschilismo linguistico …); mignatta e sanguisuga; pescecane e squalo.

Mandrillo, montone, riccio, toro e il generico stallone sono altrettanti nomi di animale in competizione fra loro per traslare all’uomo l’idea della loro intensa attività sessuale; per la stupidità gareggiano allocco, merlo, pollo e tordo.

Vantano un’origine mitologica araba fenice, arpia, cerbero, chimera, satiro, sfinge ed una favolistica orco. Un’etimologia insospettabile esibiscono marpione (dal francese marpion=piattola, composto da mords, imperativo di mordre=mordere+pion=soldato a piedi), marrano (dallo spagnolo marrano=porco) e zimbello (dal significato di uccello vivo usato come richiamo, a sua volta derivato dal provenzale cembel=piffero, a sua volta dal latino cýmbalum).

Non mancano le voci gergali: cavallo (piccolo spacciatore di droga) e muschillo (bambino assoldato dalla malavita a Napoli specialmente per lo spaccio di droga).

C’è poi  chi ha visto rinnovati i suoi fasti dall’uso privilegiato fattone da personaggi televisivi (il capra! di Vittorio Sgarbi) e chi da pochi anni ha cominciato a vivere la sua esistenza metaforica (il caimano di Nanni Moretti e il bossiano trota).

Cito solo, sempre per brevità, i nessi lupus in fabula, homo homini lupus, topo d’appartamento, topo di biblioteca, pianto di coccodrillo, cavallo di Troia, iena ridens, etc. etc.

A proposito di cavallo di Troia: meno male che Troia non riguarda il già visto troia (che è voce del latino medioevale, forse di origine onomatopeica), perché quest’animale sembra il più tartassato nei sui vari sinonimi maschili (porco e maiale) e femminili (scrofa, porca e maiala)! Come se non bastasse, poi, c’è da dire che il povero maiale che sembrava in parte nobilitato da meriti militari (maiale fu chiamato per evidente somiglianza di forma  il mezzo d’assalto simile a un siluro, guidato da uomini muniti di attrezzature subacquee, usato dalla Marina Italiana durante la seconda guerra mondiale per colpire le navi nemiche ferme nei porti) finisce per assumersi colpe non sue se si pensa che iena è dal latino hyaena, a sua volta dal greco ὕαινα (leggi ùaina), femminile di ὗς (leggi iùs)=maiale (ancora lui!). La voce greca ὗς aveva in origine un ς iniziale, come dimostra il latino sus=porco, il cui aggettivo derivato suinus/suina/suinum ha dato l’italiano suino.

Quanto a iena ridens (il ridens si riferisce al verso che l’animale emette durante le sue battute di caccia notturne con il muso vicino al suolo e con un suono che da una tonalità grave passa via via ad una più acuta, simile a una risata) una sorta di stupidità (che è sempre figlia di ignoranza) di ritorno, tutta umana c’è, a mio avviso, perfino nella barzelletta che qui riporto, immortalata da Andrea Camilleri in Un mese con Montalbano: due amici vanno allo zoo, uno legge l’etichetta, apposta su una gabbia, che recita Iena ridens. Vive nel deserto, esce solo di notte, si nutre di carogne, si accoppia una sola volta all’anno. Disorientato si rivolge all’altro e dice: – Ma che ride a fare? -.

Laddove, però la nostra presunzione (pure questa figlia di ignoranza) celebra il suo trionfo è nel licantropo e ancor più nel vampiro.

Licantropo [dal greco λυκάνθρωπος (leggi liucànthropos), composto da λύκος (leggi liucos)=lupo e ἄνθρωπος (leggi ànthropos) =uomo]  è termine usato in letteratura e nella novellistica più che nel linguaggio scientifico, corrispondente all’immagine del lupo mannaro nella superstizione popolare, soprattutto ottocentesca.

Vampiro (dal serbo e croato vampir, attraverso il francese vampire) è nelle leggende e credenze popolari dell’Europa centro-orientale, poi nella letteratura fantastica della fine del secolo XIX (celebri i romanzi Il vampiro di John Polidori (1819) e Dracula scritto da B. Stoker nel 1897) e da qui in diversi film horror del XX secolo, una creatura demoniaca, dotata di poteri soprannaturali e forza eccezionale, che torna a rivivere ogni notte e, uscendo dalla propria tomba, aggredisce persone vive (soprattutto giovani donne … mica è fesso) per succhiarne il sangue dal collo attraverso le ferite prodotte dai due canini lunghi e aguzzi, le soggioga e le contagia, sicché morendo queste diventano esse stesse vampiri; incarnazione del male, non sopporta la vista della croce, l’odore dell’aglio e, soprattutto, non può esporsi alla luce del sole: è quindi vulnerabile di giorno, ma può essere ucciso solo con una punta acuminata di legno di frassino conficcatagli a colpi di martello nel cuore. Come termine di zoologia è stato introdotto dal naturalista francese G. L. Buffon nel 1761, con riferimento alle abitudini del pipistrello cui fu dato questo nome. Insomma non fu un pipistrello a trasmettere il suo nome all’essere diabolico (più vicino ad un uomo che ad un animale …) ma viceversa.

Qualcosa di simile, anzi di decisamente più assurdo, è successo con donnola, che è dal latino tardo dòmnula(m), diminutivo del classico dòmina=signora (da cui il nostro donna). Donnola venne adottato in sostituzione del latino classico mustèla in riferimento alle forme aggraziate dell’animale. Gli autori classici ci informano che nelle case la mustela aveva il compito di eliminare serpenti e topi. Topo in latino fa mus e in greco μῦς (leggi miùs) e, sempre in greco, significa tana di topi la voce μυστήριον (leggi mustèrion) composta dal citato  μῦς+la radice del verbo τηρέω=sorvegliare, custodire, aspettare. Il latino mustèla per me potrebbe avere la stessa origine, ma con prevalenza del significato non di custodire  qualcosa o qualcuno (i topi) ma di proteggere qualcosa (la casa) dai topi, aspettarli al varco. Mustela verrà adottato come nome scientifico da Linneo ma nel volgare verrà soppiantato da donnola a partire dal XIII secolo non solo per le forme aggraziate di cui ho già detto ma proprio perché mustela evocava l’immagine indirettamente sgradevole di cacciatrice di topi. Poi si pensò bene di usare zoccola nel significato che tutti conoscono. Ma, siccome zoccola deriva molto probabilmente, secondo l’opinione corrente, da un latino  *sòrcula diminutivo femminile del classico sorex/sòricis=sorcio, ecco che il nostro topo, dopo la momentanea riabilitazione di mustela con donnola, condivide il triste destino di vampiro e maiale,  riprecipitato in basso in questa stupida altalena tutta umana …

Anche cèrbero [dal latino Cèrberu(m), dal greco  Κέρβερος (leggi chèrberos) , nome del mitico cane a tre teste posto a custodia delle sedi infernali] ha mediato il suo significato di persona intrattabile, intransigente e severa dal personaggio mitico e, come già successo per vampiro, è diventato  il nome di un genere di serpenti. E, a proposito di serpenti, nemmeno il pitone scherza avendo dato vita a Pitonessa [nome della maga della Bibbia (Samuele, 28, 7) che Saul andò a consultare e che prediceva il futuro invasata da un demone chiamato Python], divenuto poi nome comune a significare donna che, ritenendosi ispirata da un dio o da forze soprannaturali, presume di predire il futuro, anche, scherzosamente, chiromante, cartomante. Pitonessa è anche il nome alternativo di Pizia, la sacerdotessa di Apollo.

E cosa dire della Chimera, favoloso mostro con la testa e il corpo di leone, una seconda testa di capra sulla schiena e una coda di serpente? L’araldica ne ha ancor più complicato l’iconografia rappresentandola con una testa di donna, petto e zampe posteriori d’aquila, zampe anteriori di leone e coda di serpente. Non è cambiato, purtroppo, il significato che ha assunto come nome comune, oggi addirittura sinonimo di ciò che nel primo articolo della nostra Costituzione è nominato come il fondamento dello Stato: il lavoro.

E come non definire araba fenice (l’uccello mitologico che risorgeva dalle proprie ceneri) ognuno dei tanti politici puntualmente riciclati (altro che rottamazione!) o dei tanti delinquenti, per lo più ammanicati con i politici, che dopo aver dissestato un ente pubblico, per premio, per esempio, viene messo a dirigere una banca che, pur essendo privata, continua a succhiare dalle mammelle sempre più secche di una mucca pubblica sempre più macilenta?

Inqualificabile poi la nostra incoerenza nel definire il cane come il nostro migliore amico e usarlo poi come epiteto offensivo tanto come voce primitiva (cane!) che derivata (canaglia!) e, semplicemente, canaglia; e poi canea, e canizza; e questo dopo esserci serviti della sua compagna (cagna) nel significato già detto e per i derivati cagnara e in cagnesco.

Le voci elencate all’inizio sono 120. E di animali che impersonano pregi umani non ce ne sono? Io ne ho trovati pochissimi e riporto anche questi di seguito.

Agnello, aquila, cerbiatta, chioccia, colomba, colombo (al plurale per coppia di innamorati), cucciolo, drago, fenice, formica, furetto, galletto, leone, libellula, lince, lupetto, micio, micione, micetta, passerotto, piccione,  piccioncino (al plurale per coppia di innamorati), pantera, pesciolino, porcellino, pulcino, scricciolo, sirena, sorcino, tigrotto, topino, topolino.

In parecchi di loro il valore positivo è dovuto al fatto che la forma, diminutiva, è riservata ai bambini, in qualche caso con coinvolgimento dello sport (pulcino) o l’appartenenza a qualche associazione giovanile (lupetto). Per gli adulti rimane solo sorcino che inizialmente rta aggettivo significante del colore del sorcio, passato poi come sostantivo ad indicare il fan di Renato Zero.

Per far rientrare questo post nell’alveo della tematica tipica di questo sito e raccordarmi con il titolo chiudo con strìnculu, voce che definisce l’eccesso di brio dei ragazzi, un’irrequitezza che trova espressione il più delle volte in un riso irrefrenabile e ricorrente senza apparente motivo. La voce è diminutivo di un inusitato strignu, deformazione della variante strignu (non usata a Nardò), che è a sua volta da strignare (nemmeno questo è usato a Nardò) che definisce il corvettare del cavallo e ad Aradeo il nitrire. Strignare si collega al greco στρηνίαω (leggi streniao)=abbandonarsi ad eccessi o intemperanze.

Tante bestie scomodate per stigmatizzare i nostri difetti. Ma, alle bestie, se dovessero farlo con i loro, sarebbe sufficiente fare riferimento, per qualsiasi difetto, fisico e, ancor più,  morale,  ad un unico animale: l’uomo. A tutte loro auguro di cuore lunga vita e in particolare per i veri squali e per i veri caimani che le loro acque si conservino a lungo pulite e trasparenti, indenni dalla merda umana, reale e metaforica.

Dalla fotografia alla pittura, Carlo Casciaro e Ortelle

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di Paolo Vincenti

Ortelle è un giorno di sole e il caldo che ti segue fra le stradine del centro.

Ortelle è la Madonna della Grotta e la Fiera di San Vito.

Ortelle è il culto di San Vito e Santa Marina, testimonianza di quella devozione popolare che impasta la cultura di questi piccoli borghi della nostra penisola salentina.

Ortelle sono i volti allegri spensierati, tristi malinconici, stirati, rugosi, ritratti da Carlo Casciaro. E Ortelle è Carlo Casciaro, che vado a trovare in una mattina in cui schiocca scirocco fra le pieghe delle case calcinate, di un bianco rilucente e abbagliante; e nella mia fantasia , il paese si identifica totalmente con il suo cantore, aedo del pennello, celebratore di  luoghi e persone, pietre e stagioni, percorsi della memoria.

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Dalla fotografia alla pittura, Carlo Casciaro  comunica attraverso la sua arte e mi sembra perfettamente integrato con  il microcosmo di una piccola e fresca cantina nella quale ha ricavato il suo studio e dalla quale osserva il mondo esterno,  senza spostarsi da casa, indagatore dell’anima, collezionista di memorie, archivista di emozioni.

Carlo è un viaggiatore fermo, un nomade stanziale, se mi si perdona l’ossimoro. Da Milano, dove ha vissuto e lavorato diversi anni, è ritornato al paesello, nella sua amata Ortelle, e qui ha ripiantato radici,  la sua è diventata  una scelta di fede, perché è facile essere attaccati al paese dove si è nati, ciò è naturale e scontato, ma quando invece lo si risceglie in piena consapevolezza,  dopo essere stati via per anni, e lo si rielegge a propria residenza,  questo ha un valore raddoppiato. Così  Carlo ha deciso di vivere qui, nell’antica Terra Hydrunti,  a fotografare vecchi e vecchine, parenti, amici, sdentati  e sorridenti personaggi schietti e spontanei  di quella galleria di tipi umani che offre l’ecclesia ortellese, a immortalarli nei suoi ritratti a matita e pastello e ad appenderli con le mollette a quei fili stesi nella sua cantina a suggellare arte e vita, sogno e contingenza. “Anime appese” le chiama Carlo Casciaro, “catturate con armi di matita e passione”, a vantaggio di coloro che possono ammirarli nelle personali che di tanto in tanto egli tiene, come l’ultima sua mostra svoltasi nell’agosto del 2012 e dalla quale ha tratto un piccolo catalogo che mentre torno a casa porto con me, prezioso omaggio amicale. E in questa brochure leggo le osservazioni critiche sulla sua arte ad opera di Paolo Rausa, Nino Pensabene e Raffaella Verdesca, tutti nomi a me noti ed al mio uniti dalla comune militanza nelle file del cenacolo culturale  “Fondazione Terra D’Otranto”.

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E trovo anche fotografata su una polverosa carrareccia a ‘Vignavecchia’ in agro di Vitigliano,  frazione di S.Cesarea Terme, l’anziana madre di Carlo, “Mamma Eleonora” con le sue 90 margherite di giugno. E trovo suo padre, u Totu camillu “sigaretta nturtiiata” una matita su cartoncino : e questo soprannome, che allude all’antica abitudine dei nostri contadini di arrotolare le sigarette artigianalmente o anche di masticare il tabacco, mi riporta sorprendentemente allo stesso Carlo che, come tanti di questa nostra generazione, hanno ripreso ad arrotolare cartine (come dire, laddove non arriva la nostalgia, ci pensa la crisi). L

’oggetto privilegiato dalla pittura di Casciaro, pronipote di ‘Tata Peppe’ , ossia Giuseppe Casciaro (Ortelle 1861-Napoli 1941), pittore di scuola napoletana, è il paesaggio salentino.  Il suo è un naturalismo che richiama quello dei più grandi maestri salentini,  fra tutti Vincenzo Ciardo. Un paesaggismo delicato, abbastanza fuori dal convenzionale, dal naif.

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Scrive Raffaella Verdesca:  “Casciaro ama la sua terra e ce ne regala i colori migliori attraverso immagini che nel passato scovano l’armonia del vissuto, del semplice, di quel palpitare non più ovvio se immortalato nei volti che quelle stesse strade e piazze hanno abitato. Ed ecco affacciarsi i ritratti di personaggi che hanno il sapore della storia, forse della favola. In caso di dubbio sulla giusta direzione, è a loro che Carlo ci suggerisce di chiedere”.

Nelle sue tele, dai vivaci colori, in cui vengono quasi sezionati i reticolati urbani dei nostri paesini, più spesso le aree della socialità come le piazze, gli slarghi, le corti, si ammirano animali come pecore, buoi, galline, gazze, convivere in perfetta armonia con oggetti e persone, in un’epoca ormai lontana, fatta di ristrettezze e di fatica, quella della civiltà contadina di qualche decennio fa. E poi un cielo attraversato da nuvolette dispettose; il  sole non appare mai in tutto il suo splendore ma sempre filtrato dalle nubi passeggere di un cielo velato madreperlaceo, occhieggiante fra le fenditure e i recessi del paesaggio  incantato, così salentino ortellese. Sembra quasi un minuto prima della pioggia, quell’aria di sospensione, in cui gli animali restano assorti immobili nella percezione dell’addiveniente. Oppure, la quiete dopo la tempesta, con quelle strade slavate e quelle pozzanghere ancora imbevute e già il contadino che si mette in cammino per la campagna e l’artigiano che ritorna all’opera usata.

Il segno colore di Casciaro dà ai suoi paesaggi un’immagine di gioia temperata, di una serenità appena percepita, voglio dire non un idillio a tutto tondo, tanto che il cielo incombente sulle scene di vita quotidiana sembra sempre minaccioso e il sole, come già detto, non si mostra mai. Intanto i volti ci guardano dall’acrilico delle sue tele, ci scrutano, mentre chiacchieriamo amabilmente di un tempo perso che più perso non si può, il tempo dell’arte, quello che fuga le mene e le paturnie della  vile quotidianità. I volti di Carlo, a dire il vero, sembra che scrutino più me, che forse ho l’aspetto troppo urbano per stare a mio agio in questo posto così semplice e austero,  ma è solo un pregiudizio, perché io mi trovo bene in ogni luogo in cui si respira arte e cultura,  e ora mi metto anch’io ad arrotolare sigarette con Carlo e a ricambiare quegli sguardi scrutatori dei suoi volti di carta, mentre con l’autoscatto della sua macchinetta fotografica immortaliamo il nostro incontro.

Saluto Carlo che si rammarica perché mi dice che nel paesello non c’è nemmeno un bar dove possa portarmi ad offrirmi un caffè. Io lo ringrazio comunque perché di caffè, a quell’ora della mattina, in genere ne ho già bevuti  di più di quanti magari lui ne berrebbe in tutto il giorno, e lo saluto affettuosamente. Accomiatandomi, mi accorgo che i suoi  volti disegnati non mi guardano più di sottecchi ma iniziano forse a prendere famigliarità con questo cronista che è venuto a rompere la loro calma assidua assorta silenziosa silente. Ma è troppo tardi, perché nel frattempo io sono già sulla mia scatarrante jeep,   “sulle strade di Carlo Casciaro”.

 

 

Galatina. Una lite per la precedenza con la confraternita delle Anime del Purgatorio (1780)

LA CONFRATERNITA DEI SETTE DOLORI

Una lite per la precedenza con la confraternita delle Anime del Purgatorio (1780)

di Giovanni Vincenti

Una clamorosa controversia insorse, il 1780, tra il pio sodalizio laicale della Vergine dei Sette Dolori e quello delle Anime del Purgatorio circa la precedenza delle rispettive processioni. Avvenne infatti, che i primi tenessero la loro processione «in ogni prima domenica di mese, […] con messa solenne coll’esposizione del Santissimo», ma in quel mese di aprile di quell’anno questa cadeva proprio nella Domenica in Albis lo stesso giorno in cui, i secondi, solennizzavano la Festa della Resurrezione con «la consueta processione colla statua del Risuscitato Redentore». Ognuna delle due congregazioni si arrogava il diritto di precedenza in quella pubblica processione adducendo le proprie ragioni: la confraternita delle Anime Purgatorio sosteneva il motivo di anteriorità del suo Regio Assenso sulle Regole, risalente al 30 aprile 1767, mentre quella dei Sette Dolori avanzava lo stesso privilegio in virtù del Regio Assenso, ottenuto il 16 ottobre 1776, sia sulla Fondazione che sulle Regole.

confraternita delle anime

Quella del regio assenso era la condizione necessaria per il riconoscimento giuridico dell’istituzione confraternale secondo la legislazione concordataria del 1741 alla quale fece seguito il real dispaccio del 19 giugno 1769 emanato dal primo ministro Bernardo Tanucci: «Il regio assenso è necessario nella fondazione di qualunque corpo, senza il quale assenso è questo illecito, e dee dismettersi, e riputarsi per non esistente, non bastando l’assenso ottenuto sulle regole, le quali riguardano la qualità, e non l’esistenza del medesimo corpo a rendere legittimo quel, che di principio fu nullo, ed incapace per ogni riguardo, ed a qualunque effetto». A questo seguì un successivo Reale Rescritto del 29 giugno 1776, il quale introdusse il principio secondo cui alle confraternite munite di Regio Assenso sulle regole poteva accordarsi la sanatoria apponendovi la clausola usque ad Regis beneplacitum, senza assoggettarle a nuovo assenso in forma regiae Cancelleriae, ed a quelle sprovviste di assenso era fatto obbligo di richiedere l’assenso sulla fondazione e le regole senza rischiare la nullità e quindi la soppressione, lasciando però illese le ragioni delle parti per gli acquisti fatti precedentemente, e proprio in virtù di questo la confraternita delle Anime del Purgatorio regolarizzerà la sua posizione giuridica, il 19 giugno 1784, inserendo, tra l’altro, anche la clausola «d’ammettere le femmine alla partecipazione de’ benefici spirituali». La precedenza spettava dunque, stando alla normativa, alla confraternita del Sette Dolori tuttavia, poiché la questione, «non edificando il popolo e pugnando alla carità, ed umiltà cristiana, potrebbe divenire pericolosa, e di cattive conseguenze per lo bene spirituale, e temporale di ambidue d.e Congregazioni», si addivenne ad una salomonica soluzione, suggerita dal canonico D. Antonio Tanza, che i Prefetti dei due rispettivi sodalizi, mastro Carmine Antonaci e notaio Giuseppe Costantini, stipularono a futura memoria giungendo ad una amichevole composizione, e concordia.

Erano queste dispute non effimere ove solo si pensi che le confraternite con i loro riti devozionali e funzioni processionali scandivano la vita cittadina a ritmi vorticosi coinvolgendo l’intera società in tutte le sue articolazioni. Si pensi, ad esempio, alle feste e cerimonie solennizzate dalla confraternita dei Sette Dolori: «In ogni prima domenica di mese, e nel giovedì dopo la quinquagesima messa solenne coll’esposizione del Santissimo; Settena colla Esposizione del SS. nella festa della Vergine Addolorata, in cui si recitano ancora i corrispettivi Sermoni col panegirico, alla morte di qualche Fratello o Sorella, oltre la bara, e l’associazione, la Congrega fa celebrare in suffragio del defunto, o defunta, 9 messe basse, ed una cantata, oltre un Rosario, che da tutti si recita nella domenica susseguente la morte; nella prima domenica di novembre si celebra anniversario solenne per tutti i Fratelli, e Sorelle defunti; in tutte le domeniche di Quaresima si fa la Via Crucis». Oppure a quelle solennizzate dalla confraternita delle Anime del Purgatorio: «Messa solenne coll’Esposizione del Santissimo Sagramento in ogni seconda Domenica di Mese; Nella Domenica di sessagesima; in tutto l’Ottavario de’ Morti, nel quale si fanno anche le quarantore, ed i Sermoni; Novena, e festività della Vergine delle Grazie tutelare della Chiesa, Festa della Resurrezione nella Domenica in Albis; Alla morte di ogni Fratello, e Sorella si fornisce la bara, si fa l’associazione, e si celebrano una Messa Cantata di requiem, e dieci Messe piane, oltre la recita del Rosario in Chiesa nella Domenica susseguente alla morte; Nel 2 Novembre, e nell’ottava si celebra l’Anniversario solenne per l’anima di tutti i Fratelli, e Sorelle defunti, ed una Messa in ogni lunedì dell’anno».

Nel verbale del 31 marzo 1780 tratto dal Libro delle Conclusioni, che qui proponiamo integralmente, viene descritta quella vertenza e la sua successiva composizione:«Oggi, che sono li trentiuno Marzo 13.ma Indiz.ne del 1780. Costituiti in pubblico testimonio, e nella pre.za nostra li mag.ci Not.ro Giuseppe Costantini Prefetto della Venerabile Congregazione sotto il titolo delle Anime del Purgatorio di questa Città, aggente in d.o nome, ed interveniendo alle cose infrascribende per se, e per tutti li Prefetti suoi successori di d.a Congregazione, ed in nome ancora dell’istessa a tenore della Conclusione celebrata da’ F.lli di d.a Congregazione la quale infra.ta si inserirà da una parte. E mastro Carmine Antonaci Prefetto della Venerabile Congregazione di questa medesima Città, sotto il titolo della Madonna dei Sette Dolori, aggente in d.o nome, ed interveniendo alle cose infrascribende per se, e per tutti li Prefetti suoi successori di d.a Congregazione, ed in nome ancora dell’istessa a tenore della Conclusione celebrata da’ F.lli di d.a Congregazione la quale infra.ta si inserirà dall’altra parte. Le anzid.e parti hanno asserito, come ne’ giorni passati insorsero fra d.e Congregazioni alcune differenze a cagion, che pretendeva d.a Congregazione delle Anime del Purgatorio nelle pubbliche Processioni, e funzioni la precedenza sopra quella del titolo della Vergine Addolorata, appoggiandosi, fra gli altri motivi, all’anteriorità del Reale Assenso ottenuto su le di lei Regole. Contradicente all’incontro d.a Congregazione de’ Dolori, e pretendendo essa la precedenza fondandosi tra gli altri motivi all’anteriorità del // Reale Assenso ottenuto su la di lei fondazione, quale di fra esse Congregazioni preparata si era una simil contesa, la quale non edificando il popolo e pugnando alla carità, ed umiltà cristiana, potrebbe divenire pericolosa, e di cattive conseguenze per lo bene spirituale, e temporale di ambidue d.e Congregazioni. Hanno asserito parimenti, che mossa una tal differenza si preparò la Congregazione delle Anime del Purgatorio a festeggiare, secondo il solito nel di lei Oratorio la Domenica in Albis, e per fare la consueta processione colla statua del Risuscitato Redentore, avendone a tale oggetto ottenuto le opportune licenze, colle clausole espresse nelle med.me alle q.li. All’incontro la Congregazione de’ Dolori preparata anco era per festeggiare nel suo Oratorio la prima Domenica dell’imminente mese d’Aprile, che in quegli Anni ricade appunto nella seguente Domenica in Albis colla Esposizione del Venerabile, e colla solita processione per ragion di cui, e per gloria maggiore del SS.mo, dalla Curia Arcivescovile d’Otranto ne aveva ottenuto il permesso di fare la processione nel sud.o divisato giorno della Domenica in Albis. In tali circostanze di cose seriamente pensando d.i Sig.ri Prefetti delle anzid.e rispettive Congregaz.ni a’ sconcerti, e gare profane, che potrebbero facilmente avvenire dal proseguimento di d.a lite su la precedenza, ed a’ pericoli di dissordini, che anco avvenire potrebbero dal farsi nell’istessa mattina della prossima Domenica in Albis, le anzid.e rispettive processioni per qual motivo da d.a Curia Arcivescovile si avea disposta la previdenza contro i temuti // moti, o leve che avrebbe con ciò il divin culto dell’adoratissimo Signore a scemarsi, e dividersi; quindi per ovviare ad ogni inconveniente, e per sentirsi, come per lo passato tra d.e Venerabili Congregazioni, la vicendevole carità in edificazione del popolo, e de’ F.lli, col consiglio del Rev.do D. Antonio Tanza, sono venuti nel nome anzid.o, alla seguente amichevole composizione, e concordia. Primo che l’una e l’altra Congregazione cedendo a qualunque suo diritto, titolo, e preminenza, da qui innanzi, et in perpetuum si consederassero in tutte le funzioni pubbliche, ove accadesse, che l’una, e l’altra intervenisse di egual grado, e prerogativa, e perfettamente eguale di modo che l’una all’altra per verun titolo potesse, o dovesse precedere. E se per fatto avverrà, che l’una si ritrovasse, o prendesse luogo dell’altra più degno, con tal atto niuna delle parti pregiudichi dovesse, restando tutte e due nell’istesso suo grado, ed egual prerogativa. E per vieppiù confirmare tale eguaglianza, esse parti si sono concordate, che nelle funzioni accorrende alternativamente ad una volta per cadauna d.e Congregaz.ni dovessero precedere, e la prima volta quella Congregaz.ne precedesse, cui toccarà per sorte. Rinunciando ciò esse parti alla sopra descritta lite, ed a tutti gli altri per avventura formati, da’ quali nium conto si dovesse, né in Giudizio, né fuori. Secondo, che riguardo alle rispettive di sopra descritte funzioni la prossima Domenica in Albis, la d.a Congregazione del Purgatorio, precedente onorevole, ed amichevole invito, si contentasse, siccome promette, di associare in corpore, e con lumi suoi propri la processione, che a maggior gloria del Signore si farà in d.o dì dalla Congregazione sotto il titolo // della Vergine Addolorata nel suo Oratorio, e nella processione, tam quam invitati, avesser d’avere la precedenza i F.lli, e gli Uff.li della Congregazione delle Anime del Purgatorio, la quale nel d.o dì asterrà di far la consueta funzione, e celebrità di Gesù Cristo Resuscitato, posponendo la Processione, e la Festa per questo Anno in altro giorno; nel quale risolvendo detta Congregazione del Purgatorio di fare la sua Festa, si contentasse, siccome promette, d.o Prefetto della Congregaz.ne de’ Dolori di associare in corpore, e con lumi suoi propri la processione di Gesù Cristo Risorto, nella quale siccome ancor dentro l’Oratorio, tam quam invitati, dovessero aver la precedenza i F.lli, e gli Uff.li della Congregazione de’ Dolori, per qual oggetto saranno invitati con onore, e con amicizia ad intervenirci. Terzo, che in ogni futuro senza eccezione alcuna nel giorno della Domenica in Albis, anco se fosse la prima domenica del mese, non potesse la Congregazione sotto il titolo de’ Dolori uscire processionalmente girando porte, o tutta la Città, dovendo in d.o giorno restar libero l’esercizio di sue funzioni alla Congregaz.ne del Purgatorio, la quale trovasi già nel possesso di far la processione, come sopra descritta; e al pari questa Congregazione non mai potesse in ogni futuro tempo uscire processionalmente nella terza Domenica di Settembre, né girare porte, o tutto il paese con processione, mentre in d.o giorno dovrà, secondo il suo solito, farsi da d.a Congregaz.ne de’ Dolori, la sua Processione, e Festa in onore della sua Vergine titolare. E per la osservanza delle anzid.e cose, e a futura loro memoria, esse parti volendo stipulare in pubblico, e sollevare istrumento».

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne

 

Note storiche e descrittive della chiesetta di Santa Maria della Grotta in agro di Nardò

di Marcello Gaballo 

A pochi chilometri da Nardò, in contrada La Grotta, in quello che anticamente era denominato feudo di San Teodoro, sopravvive una interessantissima testimonianza architettonica, a torto considerata tra le chiese minori extra moenia. Ci riferiamo alla chiesetta di S. Maria della Grotta (in catasto al fg. 84, p.lla 68), talvolta denominata anche S. Maria della Grottella.

Un tempo della prebenda della Prepositura, oggi proprietà privata, è soggetta a vincolo con D.M. dell’ 11/11/86, grazie alle pressanti segnalazioni dell’ associazione Nardò Nostra (allora da me presieduta)[1], sebbene fosse stata già segnalata al Ministero dei BB. CC. il 9/9/981 per il riconoscimento di interesse storico-artistico ai sensi della L. n° 1089 del 1/6/939. Difatti “l’edificio sacro riveste notevole interesse storico-artistico, rappresentando un’insigne testimonianza di architettura religiosa campestre legata alle forme liturgiche proprie della cultura contadina dei centri minori del Salento nel XVII sec.”.

Nella successiva relazione del novembre 1986 della Soprintendenza viene descritta quale “tipico prodotto di architettura religiosa del XVII secolo legata ad un contesto economico-sociale non urbano bensì rurale… caratterizzato da peculiarità stilistiche e formali che lo pongono a pieno titolo nel ricco e complesso fenomeno figurativo comunemente definito come barocco salentino. Rispetto a tale fenomeno il piccolo monumento in questione occupa un posto che, sotto il profilo strettamente stilistico, non può dirsi prioritario; dal punto di vista storico e documentario esso è, tuttavia, ugualmente significativo per comprendere la varietà e la molteplicità delle manifestazioni originatesi da un’ unica temperie culturale ed estetica e ciò lo rende, dunque, meritevole di essere tutelato dal vincolo al pari di tanti altri episodi architettonici maggiori”.

la chiesa con la scala di accesso, vista dall’interno

L’ edificio è costituito da due corpi di fabbrica strettamente connessi, dei quali uno è occupato dalla chiesetta e l’ altro da locali di servizio, dei quali almeno uno già esistente nel 1678, come attesta la visita pastorale del vescovo Fortunato, in cui si legge essere  concamerata.

Il prospetto principale presenta un paramento murario, interamente intonacato, provvisto di due aperture e la cortina muraria degli altri tre lati “è realizzata, invece, in conci di pietra calcarea a faccia vista la cui tessitura contribuisce, insieme alla semplice cornice sagomata di coronamento, ad esaltare l’ essenziale volumetria della struttura parallelepipeda, interrotta soltanto dalle finestre a leggero strombo che si aprono sui fianchi”.

Dalla porta di destra del prospetto si accede, tramite una scalinata alquanto ripida, all’interno della chiesa, il cui piano di calpestío è di circa quattro metri più basso del livello esterno del terreno che circonda l’ edificio.

la volta della chiesa

La peculiarità dell’edificio, senz’altro attribuibile alle celebri maestranze neritine, oltre al vano ipogeo, è data dalla volta lunettata e dalla navata unica di notevole altezza. Ancor più caratterizzante il grande festone “a motivi fogliari scolpiti a forte aggetto che la solca longitudinalmente e che si apre in chiave di ogni campata per includere grandi rombi  decorati in forme diverse, a rosette dai petali rilevati o a racemi incornicianti il monogramma di Cristo. Un’analoga ornamentazione plastica segna i reni dei singoli pennacchi della volta, mentre sui blocchi d’imposta degli stessi compaiono lunghe foglie acquatiche dalla punta ricurva. L’insieme è trattato con evidente finezza ed eleganza e conferisce un piacevole aspetto dell’ambiente che doveva essere ulteriormente arricchito dall’ originaria decorazione pittorica di cui sussistono poche tracce nella parete di fondo”.  Inevitabili i richiami di questa decorazione a quelle della chiesa di S. Maria della Rosa e, soprattutto, della chiesa agostiniana dell’Incoronata, sempre a Nardò.

Occorre infine sottolineare che “singolare è il sistema di illuminazione naturale congegnato mediante alte finestre che attingono la luce dal di fuori e la convogliano mediante le doppie unghie sferoidiche all’interno costituendo diversi piani di luce e ombra che vivacizzano la volta. Le unghie sferoidiche della volta si intersecano in chiave  realizzando il singolare disegno del quadrato ruotato a quarantacinque gradi sottolineato da un cordolo di fiori chiusi, che segnano le linee di tensione della struttura voltata”[2].

una delle finestre

La chiesetta aveva un solo altare, distrutto negli ultimi decenni dai soliti “cercatori di tesori”, mentre le pareti retrostanti ospitavano alcuni dipinti a tempera, oggi a stento visibili, dei quali uno forse raffigurante la Vergine o un santo con lunga capigliatura[3], l’altro  una Crocifissione (vi esisteva infatti un beneficio omonimo) ed il terzo un vescovo con i suoi mitra e pastorale, inquadrato in cornice floreale anch’essa dipinta. Quest’ultimo è raffigurato su un ingresso murato della parete sinistra, probabilmente creato nel Seicento, quando fu dato il definitivo assetto alla chiesa, per ostruire una cavità che è riemersa dagli “scavi” dei soliti sciagurati “cercatori”. Risaltano speroni  rocciosi sulla parete sinistra, avanzati da una possibile grotta originaria, che successivamente fu inglobata nell’edificio. Sulla parete di fronte è murato lo stemma del vicario Granafei, con un’ epigrafe datata 1640, dalla quale si evince che l’ attuale chiesa fu ricostruita essendo abate Marcello Massa.

particolare della volta con il monogramma JHS

Quest’ultimo, già rettore nella visita pastorale del vescovo Luigi de Franchis del 1613, risulta ancora beneficiario nel trentennio successivo, come attestano le visite del vicario Granafei e del vicario Corbino, quando gli si  ordina  che facci far l’ astrico. Nel 1678 è rettore l’abate Girolamo delli Falconi. La chiesetta è censita nella visita del vescovo Sanfelice del 1723 come S. Maria de Griptella in feudo di Agnano; in quella del Lettieri del 1830 risulta officiata dal preposito don Pasquale De Laurentis, che forse fu l’ultimo a celebrarvi la Messa domenicale.

L’occasione è utile per ribadire, ancora una volta, che ci troviamo di fronte ad un monumento di grande interesse nel totale abbandono, che non può essere alla mercè di chi voglia accedervi, magari continuando a smantellare le poche parti ancora integre. Facciamo dunque appello ai proprietari, che non sembrano voler recuperare il bene, perché provvedano a impedirne il crollo, come sembrano minacciare le crepe sul lato destro.

Si preoccupino perlomeno di chiudere gli accessi e il cancello esterno, per evitare curiosi intrusi ed ulteriori vandaliche azioni che ci priverebbero, ancora, di parti di un patrimonio collettivo che ci è stato lasciato in consegna e che abbiamo l’obbligo di consegnare integro ai posteri.

dipinto con il santo vescovo
dipinto del santo o santa con corona, bordone e saccoccia. Tutte le foto sono di M. Gaballo

[1] Per le segnalazioni dell’ associazione Nardò Nostra v. “Quotidiano di Lecce”; “La città”, a. V, n°5, giugno 1986; “Il Salento Domani”, maggio 1986. Parte delle notizie le ho riportate in nota alla scheda compilata da Emilio Mazzarella in Nardò Sacra.

[2] cfr G. DE CUPERTINIS-L.FLORO, La chiesa di S. Maria della Grotta, in “La Voce di Nardò”, dic. 1995, p.17.

[3] Il dubbio è legittimo in quanto la figura, coronata, che regge con le mani quella che sembra una lunga croce astile o un bordone da pellegrino, è ben distante dalla nota iconografia mariana. Potrà aiutare nell’identificazione del santo quella che parrebbe essere una bisaccia, tenuta tra le mani.

 

Pubblicata su Il Filo di Aracne

Gallipoli. Uccio di Corte Gallo

Uccio di Corte Gallo.

Un’emozionante scoperta nell’Isola dei tesori

di Antonio Mele ‘Melanton’

 

gallipoli-rivellino

Un luogo non è semplicemente un punto geografico.

È un sedimento di storia. Un magazzino di memoria. Un richiamo di sentimenti e pensieri.

Un luogo è innanzitutto una gente. La sua cultura stratificata. La sua immobile mutazione nel tempo, testimoniata da mirabilie o da scempi. Da amore e furore. Da uomini e donne che hanno vissuto e vivono con le loro radicate passioni.

Un luogo può anche essere un logo, un simbolo, un nome evocativo. Un desiderio di avventura e sorprese. Di incontri e suggestioni.

Ogni luogo, infine, è un’isola. Che in un arcipelago di altri luoghi e altre genti s’identifica e distingue col suo passato e la sua storia come con la sua vita corrente.

 

Isola per antonomasia è Gallipoli.

Kalè Polis, la Città Bella, come molti continuano ancora a chiamarla. Fra le più antiche e nobili del Salento. È la storica Anxa di Messapi e Romani. Da secoli il terminale naturale di commerci e di viaggi. Il fido baluardo difensivo che i D’Angiò contrapposero all’egemonia sui mari della Serenissima Repubblica di Venezia: “Fideliter excubat”, vigila fedelmente, ammonisce il motto del suo stemma civico, segnato in un cartiglio quasi artigliato da un gallo rampante.

Tra la fine del Seicento e l’Ottocento, Gallipoli fu anche la capitale mondiale del commercio dell’olio combustibile “lampante” che raggiungeva tutte le Capitali d’Europa, e il suo porto riconosciuto come uno dei più importanti del Mediterraneo.

 

Gallipoli, dunque. Terra di rinnovate scoperte ed appaganti emozioni.

Come in un viaggio promesso, qui non si arriva: si viene. Si viene per volontà, per curiosità, per sogno, per attrazione o sconfinamento.

La Città Bella vi accoglierà nel sole e nell’ombra della sua corona di case bianche, cinta da bastioni poderosi che sorgono dal mare, vi sorprenderà con i colori delle botteghe, con i profumi del mercato del pesce, con il sorridente vociare dei venditori di ricci e di spugne.

Per questo fascino immutabile – nonostante le molte disarmonie e contraddizioni di una nuova convulsa ‘civiltà’ consumistica e chiassosa, che sempre più assedia la sua fiera identità – Gallipoli è adorata perfino oltre misura dai suoi figli più fedeli, ma anche da schiere di viaggiatori e turisti che non resistono al suo azzurro richiamo.

C’è sempre qualcuno che ne è innamorato perdutamente.

Come Uccio di Corte Gallo.

 corte gallo

Non conosco il suo cognome. Non gliel’ho mai chiesto, né lui me l’ha mai dato. Anche se dal giorno del nostro sorprendente incontro, nella primavera scorsa, siamo diventati indivisibili amici.

Pur nella sua verace schiettezza e autenticità, Uccio di Corte Gallo è quello che si dice un personaggio. Conoscerlo è di per sé una conquista, un segno inequivocabile dell’amore per la tradizione e per la nostra vita di uomini, che è poi un condensato della civiltà di tutti gli uomini.

Intanto, per conoscere Uccio, bisogna andare nel suo piccolo regno. A Corte Gallo, appunto. Che, seminascosta, si trova quasi all’ingresso dell’isola, prima di arrivare alla Cattedrale, tra i vicoli che si snodano verso la Riviera di Scirocco. Fatevela indicare, e andateci. Se non lo trovate, chiedete di lui, e Uccio apparirà come per sortilegio, con il suo sorriso e il suo immenso bagaglio di racconti.

Così è accaduto, quando insieme a mia moglie Teresa (e portandovi poi molti altri amici), nell’abbraccio di questa corte abbiamo scoperto un fantastico museo a cielo aperto, generosamente disponibile a tutti, con le pareti tappezzate di ferri, legni, ceramiche, piatti, vecchie macchine da cucire, nasse e reti da pescatori, e tutti – davvero tutti! – gli oggetti del nostro arcaico vivere quotidiano, ormai dimenticati e dispersi, ma che Uccio ha amorevolmente conservato in bell’ordine, facendoli rivivere oltre il tempo nella loro bellezza artigianale: lu sicchiu per l’acqua del pozzo, li rocci per recuperarlo alla bisogna, lu farnaru per la farina, la crattacasu con il suo solido e armonioso perimetro di legno in cui raccogliere il formaggio, la strattiera per la salsa di pomodoro, li buccacci e li stangati per fichi, friselle, conserve e quant’altro, i misurini d’alluminio per l’olio (chi se li ricordava?), li caddarotti de rame russa, ovviamente anneriti dalla stratificazione di fuliggine, l’altrettanto ‘carbonizzato’ brustulinu per tostare l’orzo (più che il caffè), il termosifone d’altri tempi ossia la brasciera (completa di paletta), un port-enfant di legno, e perfino alcuni attrezzi agricoli come la sarchiudda, lu serrettu pe putare, ola pompa a spalla pe nzurfare le vigne… E ancora: vutti, barilotti, tine pe la scapece, menze, vozze e vucale per l’atavica sete di questa terra, i mitici e ingegnosi trapanaturi de li cconza limbi-e-giustacòfane, e lumi a petroju, spiritiere, scarfalietti, vasi de notte, fusi pe la lana, martieddhi, pinze, tenaje, ssuje de scarparu, staffe de cavaddhu, scale, scaleddhe, ‘mbuti, pignate, chiavi, catinazzi… E pile, stricaturi, limbi e còfani (completi di cenneraturu!) per fare il bucato.

Un’operazione, quella del bucato, che (come descritto magistralmente qualche anno fa su queste stesse pagine da Piero Vinsper) era un vero e proprio evento familiare, e che Uccio – con semplicità e irresistibile fascinazione – vi illustrerà in ogni sua fase, richiamando alla memoria il lavoro, la dedizione e la maestria delle casalinghe di un tempo, alle quali non dovrebbe mancare mai la nostra grata ammirazione.

A Corte Gallo, Uccio continua ad avere le visite di forestieri, turisti e ragazzi delle scuole, ai quali racconta sempre avvincenti episodi di vita vissuta quasi fossero favole da C’era una volta… E se avrete la fortuna di salire le scale insieme a lui per entrare nella sua casa piena di quadri e immagini d’epoca, scoprirete molti altri incredibili tesori, fra cui una rara fotografia dei primi del 1900, dove un gregge di pecore, dal ponte che si congiunge al Borgo, sta entrando nella città vecchia, costeggiando il Castello.

Ma la meraviglia di maggior richiamo – tanto nella sua semplicità quanto nella sua intensa devozione religiosa – resta per me la serie dei pupi di terracotta, che raffigurano le dieci antiche confraternite religiose di Gallipoli.

Realizzate e colorate a mano dallo stesso Uccio, queste piccole opere d’arte naif sono sistemate, una accanto all’altra, sotto la bella edicola con l’immagine di sant’Antonio da Padova che campeggia nella parete centrale di Corte Gallo, di fronte all’arco d’ingresso.

Credo che sia interessante conoscere la denominazione e la Chiesa di appartenenza di ciascuna Confraternita, i colori distintivi dell’abito (composto da una tunica lunga, detto sacco, e da una mantellina, chiamata mozzetta), nonché il legame di devozione con le varie categorie laiche di arti, mestieri e professioni che le hanno a suo tempo fondate.

Eccone la catalogazione fornitami da Uccio, e da me completata, dove possibile, con qualche data storica:

Venerabile Confraternita della Chiesa del Santissimo Crocifisso (sorta nel 1400 sotto il titolo di San Michele Arcangelo). Devoti: Bottai. Sacco di colore celeste, mozzetta di colore rosso. – Confraternita della Chiesa della Madonna del Monte Carmelo e della Misericordia (sorta intorno al 1530): Calzolai. Sacco nero, mozzetta nera. – Confraternita del Santissimo Sacramento (fondata nel 1567),insediata nella Chiesa del Sacro Cuore di Gesù: Fruttivendoli. Sacco bianco, mozzetta rossa. – Confraternita di Santa Maria ad Nives o Cassopo della Chiesa di San Francesco di Paola (istituita nell’aprile 1649): Fabbri ferrai. Sacco avana, mozzetta celeste. – Confraternita della Chiesa di Santa Maria degli Angeli (sorta nel 1662): Pescatori, Contadini, Artisti. Sacco azzurro, mozzetta bianca. – Confraternita della Chiesa della Madonna della Purità (anch’essa fondata nel 1662): Scaricatori di porto oBastasi. Sacco giallino, mozzetta bianca. – Confraternita del Rosario (del 1687): Sarti. Sacco nero, mozzetta bianca.- Confraternita di San Giuseppe e della Buona Morte nella Chiesa dei SS. Apostoli Pietro e Paolo: Falegnami. Sacco giallo, mozzetta bianca. – Confraternita della Chiesa della Madonna Immacolata: Muratori. Sacco celeste, mozzetta marrone. – Confraternita della Santissima Trinità e delle Anime del Purgatorio: Nobili, Dottori. Sacco avana, mozzetta rossa.

Certo, sarà tutta un’altra cosa se descrivere – insieme a molti altri aneddoti – le Confraternite gallipoline  ve le farete illustrare dalla viva voce di Uccio, quando andrete a trovarlo.

Buona passeggiata a Corte Gallo, dunque.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne

Li màrtiri de Utràntu di Nicola G. De Donno

trascrizione a cura di Roberto Panarese

BB Martiri rid

 

Li màrtiri de Utràntu

 

di Nicola G. De Donno

I

Cce sse ne preme a Utràntu de Ferrante

cu tutta la strappina d’Aracona

la ggenticedda, e dde Sistu papante

a Rroma? Nc’ète sí ci se bblasona,

ci essendu casa cusiddetta bbona

– ca poi sbursara lu prontu cuntante

e nnu mmurira – se sente cunsona

cu lli ngranaggi, se stave mpurtante,

e llu vèscuvu an testa Pindinellu,

e lli do’ capitani. Ma la vera

carne de Utràntu, carne de macellu

e dde stanga, furese, sciurnatiera

de putèa, marinara, lu castellu

de la corte sí e nno sapîne cce era.

I martiri di Otranto – I. Alla piccola gente di Otranto, che gliene preme di Ferrante con tutta la prosapia di Aragona, e di Sisto pontificante a Roma? C’è sì chi si blasona, chi essendo di famiglia cosiddetta buona -i quali poi sborsarono per contanti il riscatto e non morirono- si sente in sintonia con l’apparato, se ne sta importante; e in testa il vescovo Pendinelli ed i due capitani. Ma la vera carne di Otranto, carne da macello e da stanga, contadina, bracciante di bottega, marinara, il castello della corte sapevano sì e no cosa fosse.

II

Ma sapîne lu nervu de lu pane,

lu pisu de lu remu a lla paranza,

lu duce de la casa, le campane.

Ste cose èrene iddi, iddi ogne usanza

ntica, era sangu loru, era sustanza

de vita unita ca se sustanziâne

senza llu sannu, na cuncumunanza

soa, de paese de persone umane,

idde, nu àutre, a tterra salentina

cu ddu mare dda chiesa dda campagna

ddi suturi: financu dda catina

de servitú, ca unu se ne lagna

straccu mortu la sira, e lla matina

torna lu sule e llu maru sbafagna.

II. Ma sapevano, il nerbo del pane, il peso del remo alla paranza, la dolcezza della casa, le campane. Queste cose erano essi, essi ogni usanza antica, era sangue loro, era sostanza di vita trascorsa insieme, di cui si sostanziavano senza saperlo, una concomunanza loro, di paese di persone umane, esse, non altre, in terra salentina con quel mare quella chiesa quella campagna quei sudori: perfino quella catena di servitù, di cui uno si lamenta stanco morto la sera, e la mattina torna il sole e l’amarezza svapora.

 

 

III

È ssoa, sta Utràntu, de sta ggenticedda

comu la terra è ssoa de le radici

ca la mprènane. E sse è ca se ncappiedda

cufiu d’ariu lu riccu pe ccurnici

de nnanni e ttarli e ppe pparenti e amici

de Nàpuli; se nu nc’ète cunedda

o de tasse o de bbulli ca ppindici

soi suttauttare nu lli le ncravedda;

se se cua suttarazzi suttarazzi

meju li panzacrandi furestieri

e li bbonzignorini paunazzi:

puru quista ète Utràntu, Utràntu jeri,

Utràntu osci, ncornudate am brazzi

a cci fatica le musche cuccheri.

III. È sua, questa Otranto, di questa piccola gente, come la terra è sua delle radici che la fecondano. E se succede che metta cappello il ricco frollo di alterigia per le cornici di antenati e tarli, e per parenti e amici di Napoli; se non c’è canale o di tasse o di bolli in cui non infogni le sue appendici di tirapiedi; se sempre si cova a braccetto di preferenza i forestieri dalle pance importanti ed i monsignorini paonazzi, anche questa è Otranto. Otranto ieri, Otranto oggi, con le mosche cocchiere sistemate in braccio a chi lavora.

 

 

IV

Poi rria lu Turcu, e ttuzza, e ole cu ttrase,

Cu ttrase a ddune? e dde cce ppizzu ggiunge

de munnu, e dde cce llingua? a cquali case

se curca, ca poi dopu ci se punge

esse fore? cce ccielu è cca li munge

lu dirittu cu nnuce navi rase

rase de scimitarre, e ccu ne sciunge,

senza vulenti, a sta stanga de bbase

ca o rrisistimu e sse face feroce

de stragge, o se li aprimu ne cunzuma

comu cannedda n’àrgulu de noce

crande, ca onza onza lu sfrauma?

Ai! senza scelta è ccalata na croce

su Utràntu, e Utràntu ttocca sse la ssuma.

IV. Poi arriva il Turco e bussa e vuole entrare. Entrare dove? e da che estremo di mondo arriva, e di che lingua? in quali case alloggerà, che poi chi si punge va fuori? Qual è il cielo che gli dà diritto di portare qui navi colme di scimitarre e di aggiogarci non volenti a questa stanga di fondo, che o resisteremo e si farà ferocemente avido di strage, oppure, se gli apriremo le porte, ci consumerà come un albero di noce grande di tarlo, che lo sfrantuma ad oncia ad oncia? Ahi! è calata su Otranto una croce che non lascia scelta, ed Otranto è obbligata ad assumersela.

 

V

E nnu ggiova se Cristu è cchiú pputente

o Allà moi su llu bbílicu sse pisa

de sta bbasculla de distinu ardente,

su sta littera de focu mpruvisa

a ddu Acumàt Utràntu l’ave stisa,

e Utràntu chiama, e Ccristu nu lla sente:

quale città se cangia de camisa

intra na notte, comu nu serpente?

Utràntu rresta Utràntu, è ccosa fatta

senza sse dice, senza ll’àe dicisa

ci cumanna e àve gradu cu ccuntratta

o none: Utràntu se rresta precisa,

precisa Utràntu, puru se Acumàt

sutta le petre soi la lassa ccisa.

V. E non serve, adesso, che si pesi se è più potente Cristo o Allà sul bilico di questa basculla di destino ardente, su questa lettiera improvvisa di fuoco dove Acomat ha stesa Otranto, e Otranto chiama e Cristo non la sente: quale città si cambia di pelle in una notte, come un serpente? Otranto resta Otranto, è cosa fatta senza bisogno di dirla, senza che l’abbia decisa chi comanda ed ha grado di contrattare o non contrattare: Otranto resta identicamente Otranto, anche se Acomat la lascerà uccisa sotto le sue stesse pietre.

VI

È vveru, nc’è nnu filu de speranza

ca rríane juti, e ppuru ne sustenta.

Ma Nàpuli è lluntana, e ll’ura vanza

precipitannu a nnui, ca fore è llenta.

Però, se nefia turca s’argumenta

ca cchiúi ne stringe cu bbumbarda e llanza

e cchiúi lu core nosciu se crapenta

fattu muddisu, e cca Utràntu se mmanza,

ogne spamientu, nvece, ca ne trase

la mitudda de l’osse, ne mbrazzamu

a lli ricordi a lle chiese a lle case

a lli cumpagni. E cchiú ppuntutu l’amu

de l’ure andate tira, e lle rimase

cu cchiú ale de morte fannu ssamu.

VI. È vero, c’è un filo di speranza che arrivino soccorsi, ed anche sostenta. Ma Napoli è lontana, e l’ora, che fuori è lenta, avanza a precipizio su noi. Però se la presunzione turca s’argomenta che più stringe con bombarda e lancia, e più il nostro cuore si crepi, fatto morbido, e che Otranto si ammansi, al contrario ad ogni spavento che penetra il midollo delle ossa ci abbracciamo ai ricordi alle chiese alle case ai compagni. E più puntuto l’amo delle ore passate ci tira, e quelle rimaste fanno sciame con più numerose ali di morte.

VII

 

Ca ggià la morte a Utràntu è lla patruna.

Li capitani e ssíndici ànnu scritte

le parole dovute, ma mancu una

àe rispostu lu Rre. Chiòvene fitte

le palle turche, pàrene marmitte

de nzurfu ca a ddu pàssane scattuna

la sbentura. Le làcrime su’ spritte,

manca mangiare, la carne  mprusciuna

de li ccisi, e nnu nc’ete sibburtura

cu bbasta, mancu lettu a lli feriti.

 Nui finu a cquannu la muraja dura

contru le palle e lli trumenti, uniti

e ddisperati a lla difesa scura

cu ogne arma, cu lle furche, cu lli spiti.

 

VII. Ché già la morte ad Otranto è la padrona. I capitani e i sindaci hanno scritto le parole dovute, ma neanche ad una ha risposto il re. Piovono fitte le palle turche, sembrano marmitte di zolfo, che dove passano germoglia la sventura. Le lacrime sono inaridite, manca cibo, la carne degli uccisi ammuffisce, e non ci sono sepolture che bastino, manca pure un letto ai feriti. Noi fino a quando la muraglia durerà contro le palle e le macchine d’assedio, uniti e disperati alla difesa scura con ogni arma, con le forche, con gli spiedi.

 

 

VIII

 

Ma tuttu frana. Se ne su’ fusciuti

li surdati. Lu Rre nu ss’àve mossu,

lu papa àve bbiundati cuntribbuti

de ndurgenze. Strazzata finu all’ossu,

Utràntu è ssula an facce a llu mulossu.

Sula. L’úrtimi mille su’ ccaduti

su lla muraja a ll’assartu cchiù ccrossu,

l’úrtimu. E ppoi li turchi su’ ttrasuti.

Struncunisciannu Utrantu via pe vvia,

casa pe ccasa, squartannu, rrubbannu,

e ncatinannu la carne cchiú vvia

pe lli riscatti, li letti, lu scannu

de lu remu, e lla meju a lla Turchía

schiava e ttrastullu de lu turcumannu.

 

VIII. Ma tutto frana. I soldati si son dati alla fuga. Il re non si è mosso, il papa ha abbondato in contributi di indulgenze. Lacerata fino all’osso, Otranto è sola di fronte al molosso. Sola. Gli ultimi mille sono caduti sulla muraglia nell’assalto più accanito, l’ultimo. E poi i Turchi sono entrati. Stroncando Otranto via per via, casa per casa, squartando, rubando e incatenando la carne più viva per i riscatti, i letti, lo scanno del remo, e la migliore per la Turchia, schiava e trastullo del turcomanno.

 

IX

Pulmone scusu de la resistenza,

fiòccula e mmamma a ll’àutre abbitazzioni,

la cattedrale a Ddiu ffida clemenza

e rrifuggiu, li vecchi, li vagnoni,

le fímmine, li prèiti nginucchioni

su lle radici loru. La scadenza

se nvicina, nu è ura de llusioni

nè dde paure, è scritta la sintenza.

Nfunna lu turcu su sta fedeltà

la scimitarra cecata. Ssassina,

spacca, prufana. Stave la città

tutta oramài spalangata supina

sutta viulenza. Pare morta ggià,

ggià pare morta l’ànima utrantina,

IX. Nascosto polmone della resistenza, chioccia e mamma alle altre case, la cattedrale affida a Dio clemenza e rifugio, stando ginocchioni sulle radici loro i vecchi, i ragazzi, le donne, i preti. La scadenza si avvicina, non è ora di illusioni, né di paure, la sentenza è scritta. Il Turco affonda su questa fedeltà la scimitarra accecata. Assassina, spacca, profana. La città sta ormai tutta spalancata supina sotto la violenza. Sembra morta già, già sembra morta l’anima otrantina.

X

Ci se penzàa ca ncora nc’è nnu crai?

Sàlene mpasturati a ccentinare

li ncora tisi, trascinati a cquai

susu stu munte Minerva ca pare

Calvariu. Ci se pote riscattare

se squaja. Ccerti sani, a ssette chiài

mmanettati, li tocca straregnare.

Ma li vecchi e mmalati spiccia a cquai

l’esiliu loro. Guàrdane la sorte

senza lamenti, senza tradimenti,

difendènnuse Utràntu cu lla morte.

E Ccristu difendennu parimenti.

Ca Utràntu è Ccristu. E Utràntu su’ lle porte

cilesti ca li nvítane murenti.

X. Chi avrebbe pensato che ancora dovesse esserci un domani? Salgono impastoiati a centinaia quelli ancora in piedi, trascinati qua, su questo monte Minerva che pare Calvario. Chi si può riscattare se la squaglia. Alcuni sani, ammanettati con sette chiavi, li tocca fuori regno. Ma per i vecchi e i malati il loro esilio finisce qui. Guardano la sorte senza lamenti, senza tradimenti, difendendosi la loro Otranto con la morte. E difendendo Cristo del pari. Poiché Otranto è Cristo. E le porte celesti che li invitano morenti sono Otranto.

 

XI

Li morti picca tufu e ccu lli sicca

o quattru petre, ca agostu ristacca

le rètine a llu sule pe rripicca

de vita. E mmentre la pelle se stacca

uddicannu, e a lle chiese se bbivacca

lu turcu, e cquannu fosse èrene picca

pe ttombe a ttanti, le tempie li spacca

rèputu mutu a lle cristiane e nficca

rodde de rèume, nnútichi a llu core

de ci rresta fedele e ffeccattantu

li tocca fare le serve, l’amore;

e a lli mariti, a lli fiji, a ll’Utràntu,

víscere loru, dulore dulore,

dulore uffrire e gnúttere lu chiantu.

XI. Per i morti poco tufo che li dissecchi o quattro pietre, perché agosto scioglie le redini al sole per ripicca di vita. E mentre la pelle si stacca ribollendo, e nelle chiese fa bivacco il Turco, e comunque sarebbero poche per tombe a tanti, alle donne cristiane il muto lamento funebre spacca le tempie e conficca gomitoli di reume, groppi nel cuore di chi resta fedele e intanto gli tocca fare le serve, l’amore; ed ai mariti, ai figli, ad Otranto, loro viscere, offrire dolore, dolore, dolore, ed inghiottire il pianto.

 

 

XII

S’îne pututi sarvare? Cce fforsi

ca se putîne fare musurmani,

cangiare nume, pinzieri, discorsi,

vistiti: e sta piruetta, st’otomani

susu li morti càuti, e ttra lli cani

nsangunisciati, e am piettu cu lli morsi

de terrore e dde raggia, e lli do’ mani

ttaccati comu bbestie? Se succorsi

a sperare nu nc’è de cose umane,

se Utràntu stave morta e ssepelita,

nui dunque cce vvalía se ne ccattâne

e a cquale prezzu nu filu de vita,

pesci fore acqua? No, sulu rrumane

la morte cu ddae senzu a lla partita.

XII. Si sarebbero potuti salvare? Che forse si potevano fare mussulmani, cambiare nome, pensieri, discorsi, vestiti: e questa piroetta, questa prestidigitazione sui morti caldi, e tra quei cani lordi di sangue, e con nel petto i morsi del terrore e della rabbia, e con le due mani legate come bestie? Se non c’è da sperare soccorsi di cose umane, se Otranto sta morta e seppellita, che varrebbe dunque se noi ci comprassimo, e a qual prezzo, un filo di vita, pesci fuor d’acqua? No, rimane solo la morte che dia senso alla partita.

 

 

XIII

A ffilu de sta lama, a stu cunfine

tra ssí e nno, nnanzi a stu passu tristu

se rrestare imu nui stessi, a lla fine,

o rinnegare Utràntu e amparu Cristu,

cce mpòrtane Ferrante o papa Sistu?

Mporta stu lettu de lane e dde spine

ca nci nn’è mmeju forsi, ma nui è cquistu

ca simu nati, e àutru nu nne ulîne.

Lu sangu trova lentu le carrare,

se mmisca cu lla terra a vvina a vvina,

scinne lu cute e sse sposa a llu mare.

Lu turcu ca lu mete nu ndivina

cce bbandiera cumincia a sbentulare

su lla patria ca nasce salentina.

4-12 agosto 1980

 

XIII. Sul filo di questa lama, in questo confine tra il sì ed il no, dinanzi a questo tristo passo, se, in definitiva, dobbiamo restare noi stessi, o rinnegare Otranto ed insieme Cristo, che importano Ferrante o papa Sisto? Importa questo letto di lane e di spine del quale ce n’è forse migliori, ma noi è in questo che siamo nati, e non ne volevamo altro. Il sangue trova lento i sentieri, si mescola con la terra vena per vena, scende le rocce e si sposa con il mare. Il Turco che lo miete non indovina quale bandiera comincia a sventolare sulla patria salentina che sta nascendo.

 

 

La donna nella saggezza popolare salentina

La donna nella saggezza popolare

LU DITTERIU

Il popolo, quando parla, sentenzia

di Piero Vinsper

Unde abii redeo: torno al punto di partenza, cioè riprendo a parlare dei ditteri galatinesi, di quei proverbi che riguardano le donne e mettono in luce le loro virtù, i loro pregi e soprattutto i loro difetti.

D’altra parte

Nuddhra lingua aggiu ‘mparatu

de nuddhra sacciu nienti

ma viddhra de lu tata

sta mi scioca ‘nthr’alli dienti

Non ho imparato nessuna lingua, di nessuna so niente, ma quella di mio padre, in dialetto, mi sta giocando e ballando in bocca tra i denti.

Fèmmana culimpizzata né pe mujere né pe cagnata

Bisogna stare alla larga, ammonisce il popolo, da donne dal sedere a punta, perché oltre ad essere maliziose, sono seminatrici di zizzanie e di calunnie.

Pe’ na bbona maritata né socra né cagnata

La suocera e la cognata spesso sono artefici del cattivo andamento in un matrimonio. Loro peccano di egoismo e non tollerano la presenza di una donna estranea, che considerano come un’intrusa nella loro casa. Perciò è necessario evitarle, rinunciando ad una compagnia, che, quasi sempre, è equivoca.

Fèmmana ca lu susu si pitta è segnu ca lu sotta ffitta

Un tempo si riteneva che la donna la quale si imbellettava il viso e passava il rossetto sulle labbra fosse una donna di malaffare e desse in affitto parte del suo corpo. Immaginate voi se, oggigiorno, avesse riscontro questo proverbio. In che mondo vivremmo?

Signore de li signuri, quante cose sapisti fare! Alla fèmmana la cunucchia, allu masculu lu mmargiale

Mio buon Padre, quante cose hai saputo fare tu! Hai donato alla donna la conocchia per torcere la lana e poi filarla, all’uomo il manico della zappa per dissodare il terreno. Fuor di metafora lascio ai lettori qualsiasi altra interpretazione di questo ditteriu.

L’ommu cu lla pala e la fèmmana cu lla cucchiara

Spesso succede che in una famiglia si invertano le parti: l’uomo vuol vestire la gonnella e la donna pretende di infilare i pantaloni. E’ un controsenso, dice il popolo. Lasciamo le cose come stanno. L’uomo è nato per lavorare e dare sostentamento alla famiglia, la donna è nata per fare la massaia e per attendere alle faccende e alle cure domestiche.

Donna onurata nunn esse mai de lu talaru

Il telaio è una delle più importanti e più assidue occupazioni della donna. Il popolo da questa occupazione fa risaltare l’onestà della donna. Infatti colei che ci tiene al suo onore, che vuol essere rispettata, non fa la pettegola con le altre donne, non prende parte a certi discorsi: bada solo ai fatti suoi. La sua famiglia è tutto, il lavoro è la sua unica occupazione.

Na fèmmana e ‘na pàpara paranu ‘na chiazza

L’oca, quando starnazza, fa un chiasso infernale. Il popolo la mette insieme con la donna; la donna, infatti, per indole, è chiacchierona e troppo loquace. Quindi, unendo l’una all’altra, esse hanno la forza di creare da sole tutto quel chiasso, fastidiosissimo, che tu puoi sentire in piazza nei giorni di mercato.

La fèmmana nasuta ede puntusa, pittècula e cannaruta

Un naso grosso, lungo, appuntito, un naso aquilino deturpa la bellezza del corpo di una donna. Però per rivalsa questa donna, dice il popolo, è puntigliosa, pettegola e golosa.

Fèmmane e sarde su’ bbone quando su’ piccicche

Le donne giovani e le sardine sono molto appetibili e appetitose, mentre la fèmmana de quarant’anni, mènala a mare cu tutti li panni. Questa è una vera cattiveria verso il gentil sesso; ma un tempo, quando la donna raggiungeva quest’età, incominciava a percorrere la parabola discendente verso il tramonto della vita. Le cause erano molteplici: mettere al mondo figli e allevarli, badare alle faccende domestiche, lavorare nei campi, tessere al telaio, scarso nutrimento. Ecco perché invecchiavano precocemente. Però buttarla a mare con tutti panni, in modo che perisca più presto, sarebbe un’infamia!

Fèmmana curta, maliziusa tutta.

Non so perché il popolo si ostini a concentrare tutta la malizia su una donna di bassa statura. Forse vuol compensare la scarsa altezza con una dose abbondante di malizia? Ma se già le donne, in generale, son tutte maliziose, tanto che un altro proverbio recita: la fèmmana la sape cchiù longa de lu diàvvulu! Quest’ultimo potrebbe anche rappresentare un elogio per la donna se si rapportasse alla virtù della prudenza, di cui, è bene confessarlo, spesso le donne sono abbastanza fornite. Si tentano tanti mezzi, anche segretamente, per commettere qualche marachella all’insaputa della donna; ma lei è tanta brava a investigare, è tanta brava a darsi da fare, che scopre tutti gli altarini, viene a conoscenza di tutto e il maschio si trova impigliato nella rete come un pesce, proprio nel momento in cui pensava di averla fatta franca.

Donna bbeddhra e pulita senza dote se mmarita

La bellezza e la pulizia sono le due meravigliose attrattive di una donna. Sia l’una che l’altra sprigionano un fascino e un profumo inebriante, che conquistano i cuori. Non ha importanza se la donna sia povera: essere bella e pulita vale più della ricchezza di questo mondo. I suoi genitori non le hanno dato nulla in dote per il matrimonio? Pazienza! La bellezza, la semplicità, i nobili sentimenti bastano e avanzano.

Né fèmmana né tela a lluce de candela

Non si può esaminare alla flebile luce di una candela la qualità e il colore di una tela; puoi constatarne la consistenza e la fortezza, mai il colore. Lo stesso dicasi di colui che, al buio del tumulto di una passione, voglia giudicare una donna. E la passione per la donna ha tale potenza sul cuore dell’uomo da accecarlo fino all’aberrazione nei suoi giudizi, che meglio si potrebbero definire capricci. Volesse il cielo che i giovani, prima di apprestarsi al matrimonio, studiassero attentamente questo proverbio! Auguro loro, soltanto che li guidi non la pallida e smorta candela della passione ma la vivida luce della ragione.

In conclusione dedico quest’ultimo ditteriu alle donne: La fèmmana ede comu la menta: quantu cchiù la friculi cchiù ndora.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne

 

Amerigo e l’antico mestiere del rigattiere

di Elio Ria

 

AMERIGO

C’era chi raccoglieva lu ferru vecchiu, chi la murga in cambio del sapone; c’erano gli artigiani di arti minori come l’ombrellaru, lu ramaru, lu conzalimbi, lu scarparu, lu farraru, lu seggiaru, lu trainieri e tanti altri che nelle strade strette e nelle corti del paese offrivano con la severità e l’autorità acquisita dall’esperienza piccoli ma utili servizi alla popolazione, quando ancora l’economia non era spregiudicata come lo è adesso, e la finanza non consentiva sprechi di denaro stante la penuria che rendeva prezioso quel poco che si aveva. Un’altra figura popolare era il banditore che informava i cittadini su avvenimenti straordinari, quali ad esempio la vista di un personaggio illustre, iniziative particolari prese dalle autorità cittadine, vendite di prodotti alimentari a prezzi scontati (grano, farina, legumi, ecc.).

C’era sempre a portata di mano lu conzarazze che con la stuppata sistemava le ossa rotte o contuse, senza radiografie e attese presso l’ospedale, che negli anni Sessanta tra l’altro era difficile da raggiungere, considerata la distanza che lo separava dal paese, nonché la scarsità dei mezzi di locomozione.

La comunità era solidale, si muoveva nelle piccole e grandi cose della vita in armonia, produceva e campava, non era vessata dalle tasse. Indubbiamente uno spaccato d’epoca di memoria e non di storia, atteso che il passato e il presente intrattengono dei rapporti essenziali nei due sensi, senza mai sommarsi, mantenendo ognuno per proprio conto l’autonomia d’esistere. Il presente preme sulla memoria che è pura facoltà di conservare il passato, mentre la reminiscenza è la commemorazione sintetica della memoria che non necessita di sacralità.

In questo contesto e partendo dai ricordi che si sono citati, c’è un mestiere che ancora non conosce il declino, il rigattiere, colui che compra e vende roba usata. Nulla di particolare, ma che necessita di intuito e di pazienza per la raccolta degli oggetti. Quest’ultimi non sempre trovano un’adeguata sistemazione sugli scaffali della bottega, spesso vengono posti alla rinfusa con il loro carico di memoria, in attesa che qualcuno li riconsideri e sia preso dal desiderio di possederli. Il rigattiere, a differenza dell’antiquario, non seleziona e non valorizza: tutti gli oggetti sono considerati alla stessa stregua. Un’arte antica tant’è che nel 1291 fu costituita la corporazione dell’Arte dei Rigattieri e quella dei Linaioli. Va precisato che con il termine rigattiere s’intendeva allora il rivenditore di abiti usati, un’attività praticata soprattutto tra le fasce meno abbienti della popolazione, per la buona qualità e il costo modesto dei capi.

Amerigo Falco svolge la sua attività di rigattiere a Tuglie, in via Trieste. Nella sua bottega però non entra molta gente, è chiusa e apre soltanto all’occorrenza quando c’è da soddisfare una richiesta particolare di un cliente: un vestito per carnevale, un macinino, fumetti, macchine da scrivere, quaderni per la calligrafia, sapone e saponette, coloranti per indumenti, bambole, enciclopedie, lampade, cartoline d’epoca, pupi di terracotta, cimeli. Ma una volta dentro si respira il tempo, quello andato che lascia tracce soltanto con le cose, recuperabile con un flasbach di istantaneità.

BOTTEGA AMERIGO

Falco è un settantenne vigoroso, di carattere sbrigativo, con occhi mobili e vivaci, faccia grinzosa, con la barba a tratti tinta di grigio e quella sua gamba “allungabile” in cerca di un appoggio di distensione, frutto di una caduta maldestra in gioventù. In principio esercitava il mestiere di sarto, ma ben presto s’accorse che non faceva per lui: gli aghi, il cotone e le stoffe non gli consentivano di spaziare nei luoghi della spensieratezza. Eclettico, simpatico e disponibile, si muove fra le anticaglie e le modernità con disinvoltura, non mancando mai di stupire con oggetti anche stravaganti.

bottega amerigo 2

Sempre all’erta per approntare una bancarella dei suoi ‘preziosi’ nelle piazze principali dei paesi nelle occasioni di festa nelle quali si mescolano sapori e tradizioni. Nelle ore di libertà si concede al gioco delle carte, con la battuta sempre pronta e la sigaretta fra le dita ingiallite e callose.

Falco è il grossista delle ‘cose vecchie’: sono tanti i rigattieri della provincia che si approvvigionano da lui per le esposizioni nei mercatini.

È l’antologizzatore delle abitudini dell’uomo riducibili e in relazione con le cose che hanno segnato le piccole storie individuali, dalle quali si potrebbe trarre materiale grezzo per costruirci la domanda di ‘come eravamo’, senza retorica o false nostalgie, e la risposta ‘perché non lo siamo più’.

Insomma nel garbuglio delle seducenti sirene della modernità, si può dire, che il rigattiere è il depositario degli oggetti di cui l’uomo si è servito nel corso degli anni e che poi per varie ragioni se ne è disfatto.

Magari con le cose vecchie si può danzare sui ricordi, sui fantasmi del passato trasfigurati in una sorta di modulazione mnemonica del vissuto per una conciliazione con il passato, che solo nei momenti in cui fa comodo si rispolvera e si riutilizza, tralasciando altri dettagli sotto il velo della finzione. Reinventarsi nella memoria è un esercizio utile, in particolare in questo momento di grande confusione sociale, per dare luogo a un ventaglio largo di interpretazioni della memoria di parole e suoni, archivi orali, memorie di cose, oggetti museali.

C’è un mondo che sì è perduto nell’urgenza stessa di esso, e che va recuperato con il dovere di ridefinire e rivitalizzare la memoria collettiva, nonché tutelare, ordinare, classificare il passato che non merita l’oblio.

L’ansia di memoria si traduce nella nascita di musei, biblioteche, archivi per scongiurare appunto i vuoti di memoria. Invece il bisogno di memoria che si sottrae alla tremenda responsabilità della conservazione degli oggetti minimi, quasi insignificanti, privi di valore storico, si concretizza nel lavoro del rigattiere con il significato più intimo del rapporto tra l’uomo e l’oggetto.

Amerigo allora torna simpatico al tempo che delle sue cose spente ricrea nuove forme di utilizzo del ricordo. Un mestiere che resiste alle leggi violente del mercato, imponendosi all’attenzione del tempo che molto spesso scorre e non lascia traccia per una ‘questione di tempo’.

(Pubblicato in “Paese Nuovo”, 08/05/13, p.4)



La luna mascialora (la luna di maggio)

CIVILTA’ CONTADINA DI  FINE OTTOCENTO

LA LUNA MASCIALORA 

(LA LUNA DI MAGGIO)

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) Per chi viveva specchiandosi nei cicli della natura, dire luna nuova equivaleva a tracciare lo stilema della fertilità, quasi un porsi alla radice delle crescite e scandirne i tempi e le misure attraverso l’impinguarsi di quella falce, vista appunto come il correlativo oggettivo di una maternità dal cui cosmico utero prendeva sostanza ogni sviluppo.

“Nfèrrate a ppilu ti luna”  (“Abbarbicati alla radice della luna”), raccomandava il contadino al suo grano, e nel valutarne lo sbucare o l’imbiondirsi si sentiva in  dovere di ringraziare ddhra manu ti mana ca mmocca ti notte (quella mano di madre che imbocca di notte). Che i raggi lunari avessero capacità di alimentare le piante, tanto da poterne all’alba constatare gli effetti di accresciuto rigoglio, era convinzione così ferma da suscitare la voglia di comunicarlo alle bestie quando, a prima luce, si portavano fuori dai recinti o dalle stalle: “Prisciàtibbe, prisciàtibbe, ca erva a pparmu nueu bbi spetta!” (“Rallegratevi, rallegratevi, ché erba cresciuta di un palmo vi aspetta!”), le si incoraggiava quasi a immetterle nel circuito di un positivo che dal crescere dell’erba declinava in una maggiorazione di rendimento. E se si era in  luna mascialòra (luna di maggio) e la bestia era un’asina, calzandole il paraocchi la si apostrofava scherzosamente: “Uàrda sulu a nnanti e fanne la cuntignòsa, ca pi llu prutimiéntu ti basta la crisciùta ti lu erde!” (“Guarda solo avanti e fai la contegnosa, perché ad acquetare il prurito [desiderio sessuale] ti basta la crescita del verde [erba]!”). In maggio infatti le asine entravano in calore, e ciò si credeva coincidesse col proporsi del ciclo lunare, che per essere di ponte fra quello di  aprile, detto “ti la nfiuràta” (“della fioritura”), e quello di giugno, definito “ti la riccòta” (“del raccolto”), si poneva comepunto di passaggio dalle attese alle risultanze, convertendosi in simbolico tempo dimaturità sessuale. Un assunto radicato soprattutto nelle donne che, se madri di ragazze da poco entrate in mestruo, lo attestavano in un esplicito comportamentale classificabile come rito di iniziazione alla femminilità.

Non appena l’addensarsi del crepuscolo rendeva visibile la falce lunare, conducevano la ragazza al centro dell’aia – o, se abitavano in paese, su qualche mignano – e fattala sedere di fronte alla luna le scioglievano la chioma pettinandola a lungo, possibilmente fino alla scomparsa dell’esile falce – considerando che, trattandosi di prima fase, questo avveniva su per giù a ora ti mmasùnu (ora di ritiro delle galline), ossia a buio ancora incerto. Rientrando a casa  la madre, fino a quel momento compiacente pettinatrice, le ingiungeva arcigna: “Nfiéttate e mmùcciate  sti capìddhri, ca tira cchiù mbiùte nnu pilu ti fémmina ca sicchi nnu nsartu ti puzzu” (“Intrecciati e copriti questi capelli, ché attira più bevute [voglie maschili] un pelo di donna di quanti secchi possa tirare una fune dal pozzo”); e quasi a mimare il suo compito di guardiana contro eventuali approcci amorosi, rimaneva piazzata sulla soglia con le mani alla cintola e l’aria bellicosa di chi è pronto al rintuzzo. Una posa da virago che era lesta a sciogliere in un sorriso complice non appena una vicina, già al corrente della situazione, le si accostava offrendole un ciuffo d’erba fresca e ambiguamente invitandola: “Mentila sobbra llu lliàtu cu tti rria a ggiùrnu ti santa timpiràta” (“Mettila sul lievito affinché questo si conservi sino al giorno del santo impasto”).

Per comprendere il valore allusivo del gesto e della frase, occorre sapere che fra i poteri riconosciuti alla luna nuova, mascialòra o non mascialòra, c’era quello – piuttosto scomodo – ti la mpinnàta ti lu lliàtu (dell’impennata del lievito), ossia un’intempestiva messa in attivo degli enzimi. Per conservarne inalterata la potenza fermentativa fino al giorno della panificazione occorreva perciò adottare delle precauzioni, la più usuale delle quali consisteva appunto nel coprire la pallottola di lievito con uno strato d’erba fresca, ritenuta capace di assorbire le sollecitazioni lunari. Il gesto e la frase della vicina nascevano dunque da una realtà oggettiva ma nello stesso tempo perfettamente in linea col voluto significante metaforico: nell’intempestiva fermentazione del lievito s’intendeva simboleggiare lu scarfamiéntu (il bollore sessuale) della ragazza, che se non vigilata avrebbe potuto concedersi prematuramente, cioè prima che avesse a scattare lu ggiùrnu ti lu santu mpastu, dicat il giorno del santo matrimonio, per cui l’offerta dell’erba veniva a porsi in chiave apotropaica, da una parte scongiurando il possibile pericolo, dall’altra propiziando il raggiungimento della meta; prefigurazione di nna bbona sorte che nel minimo di un segno (erba) stabiliva una prismaticità di indizi, non dimenticando che era nell’uso delle madri contadine inserire un mazzetto di erbe negli indumenti intimi delle ragazze durante i giorni di mestruo. Mazzetto assortito la cui composizione, pur se variata in base alle necessità del momento – erbe sedative o emostatiche -, in sostanza si articolava proprio sul principio della propiziazione mediante lo scongiuro del rischio, grazie all’immancabile presenza delle erbe aromatiche deputate a confondere la peculiarità olfattiva del mestruo, che le contadine definivano scamu ti carne (miagolio, richiamo di carne) riconoscendole forza tentatrice e ponendola all’origine di molte intemperanze o addirittura violenze sessuali.

Paure e prevenzioni valevoli in tutti i giorni dell’anno, ma che raggiungevano la linea dell’emergenza nei giorni di novilunio, soprattutto quelli estivi, quando – abbandonati i perimetri distanziati delle case – si viveva all’aperto in totale amalgama con la natura, che circuiva, scaldava e possedeva in un’ellittica di stimoli a volte ubriacanti. Quasi un addensarsi di forze vitali nel cui contesto le ragazze si scoprivano fiori in frenetica attesa di pollini e le giovani donne erano frutti succosi, per così dire appese ai raggi della luna nuova nell’atto volitivo di suggerne la linfa delle crescite.(…)

 

Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi  nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza 1994 , (pagg. 153-156)

Questo brano è stato successivamente pubblicato sul quotidiano “LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO”, martedì 2 dicembre 1997.

Taranto. Il cappellone di san Cataldo, capolavoro dell’arte barocca

di Angelo Diofano

Noti critici d’arte, tra cui Vittorio Sgarbi, sono concordi nel definire così il cappellone di san Cataldo, vero trionfo del barocco, situato a lato dell’altare principale del duomo di Taranto. È un vero trionfo di affreschi e di marmi policromi, con colori e immagini che s’inseguono e si fondono in un turbinio di emozioni.

Molti interrogativi permangono sulle tappe più importanti della sua storia. I primi passi per la realizzazione dell’opera furono mossi nel 1151 con l’arcivescovo Giraldo I che ordinò la costruzione, (nell’area dell’attuale vestibolo) di una cappella quale dignitosa sepoltura al corpo del Patrono. Nel 1598 mons. Vignati ne ideò la trasformazione, sollecitando l’autorizzazione di Clemente VIII e trasferendovi il sepolcro marmoreo rinvenuto ai tempi del Drogone.

Nel 1658 con l’arcivescovo Tommaso Caracciolo Rossi il cappellone iniziò ad avere il suo assetto definitivo così come siamo abituati a vederlo oggi. I lavori furono proseguiti nel 1665 dall’arcivescovo Tommaso de Sarria, con il contributo generoso di tutta la comunità. L’ultimo tocco, nel 1759 con l’arcivescovo Francesco Saverio Mastrilli che fece realizzare l’artistico cancello di ottone.

Alla cappella vera e propria, di forma ellittica, si accede dal vestibolo quadrangolare, in un ambiente reso suggestivo da giochi di marmi verdi e gialli che si alternano alle belle volute bianche ad intarsio delle quattro porticine.

Le statue di san Giovanni Gualberto a destra e di san Giuseppe a sinistra sono opera dello scultore napoletano Giuseppe Sammartino. L’organo, collocato al piano superiore, è del 1790, opera di Michele Corrado, in sostituzione di quello più antico, realizzato dal leccese Francesco Giovannelli, distrutto in un incendio.

Nel cappellone attirano l’attenzione i coloratissimi marmi intarsiati alle pareti, fatti porre dall’arcivescovo Lelio Brancaccio nel 1576, probabilmente ricavati dalle rovine degli edifici classici, sparse in gran quantità nel sottosuolo. Lo sguardo poi si perde in alto, verso l’affresco della cupola, dove il vescovo irlandese è ritratto nella gloria dei santi. Neppure dopo l’ennesima visita è possibile abituarsi a tanta bellezza.

L’opera fu commissionata nel 1713 dall’arcivescovo Giovanni Battista Stella all’artista napoletano Paolo De Matteis, allievo di Luca Giordano, per un compenso di 4.500 ducati. Ne La gloria di san Cataldo (così s’intitola l’opera) il vescovo irlandese appare inginocchiato di fronte a Maria Santissima che lo invita ad accostarsi al trono di Dio; la scena è sovrastata dalla Santissima Trinità attorniata dagli angeli mentre in basso appare la folla dei santi, soprattutto francescani e domenicani, appoggiati su nuvole rocciose nell’atto di scalare la montagna dell’Empireo.

I sette affreschi del tamburo ritraggono, invece, gli episodi più importanti vita di san Cataldo. A partire da sinistra: la resurrezione di un operaio addetto ai lavori di scavo delle fondazioni di un tempio alla Vergine, finito sotto le macerie; il ritorno alla vita di un bambino in braccio alla madre; il cieco guarito all’atto del Battesimo; San Cataldo mentre prega sul sepolcro di Gerusalemme e che riceve l’ordine di recarsi a Taranto; il ritorno della voce a una pastorella muta mentre indica all’illustre pellegrino la strada per la città ionica; la liberazione di una fanciulla indemoniata mentre è in preghiera davanti alle spoglie mortali del santo. L’affresco di fronte all’altare mostra infine san Cataldo mentre predica al popolo tarantino.

Di pregevole fattura anche le dieci statue di marmo, collocate nel in apposite nicchie, di epoche e autori differenti. Da destra a partire dall’ingresso, raffigurano nell’ordine: san Marco, santa Teresa d’Avila, san Francesco d’Assisi, san Francesco di Paola, san Sebastiano, sant’Irene, san Domenico e san Filippo Neri. Ai due lati dell’immagine del Patrono appaiono i simulacri di san Pietro e di san Giovanni. Secondo una suggestiva ipotesi, ancora tutta da avvalorare, pare che questi ultimi due fossero di antica fattura greca (naturalmente in seguito adattati alla fede cristiana) e che rappresentassero rispettivamente Esculapio ed Ercole.

Visibile attraverso una grata marmorea e finestrelle laterali, la tomba del Santo è posta all’interno dell’altare marmoreo. Quest’ultimo fu realizzato nel 1676 da Giovanni Lombardelli, artista di Massa Carrara, impreziosito da madreperle e lapislazzuli. Alzato su tre gradini, ha struttura lineare caratterizzata da un decorativismo dei marmi ora finissimo nei ricami dei gradini del postergale e del paliotto, ora nervoso nelle ornamentazioni scultoree dei putti capialtare.

Le decorazioni marmoree, tutte policrome, hanno temi diversi; sui due pilastrini laterali vi sono gli stemmi, dai vivissimi colori arricchiti da inserti di madreperla, del capitolo e della città di Taranto, committenti dell’opera.

Sul ciborio lo stemma con le tre pignatte del vescovo Francesco Pignatelli, a testimonianza del suo intervento all’abbellimento della cappella avvenuto nel 1703.

Sovrastante l’altare, ecco la nicchia ove è posto l’argenteo simulacro di san Cataldo, il quarto nella storia di Taranto. Di una prima statua di san Cataldo si iniziò a parlare nel 1346 quando l’arcivescovo Ruggiero Capitignano-Taurisano, accogliendo le richieste della popolazione, volle realizzarla con l’argento del sarcofago, ove nel 1151 il suo successore, Giraldo I, volle riporre il corpo del Santo. Il prezioso metallo fu però insufficiente per un simulacro completo, tanto da costringere a ripiegare su un mezzo busto.

Per il completamento della statua si attese il 1465, anno in cui la città fu liberata dal flagello della peste. Il merito fu attribuito all’intercessione di san Cataldo, tanto che l’intera popolazione a gran voce chiese il completamento del simulacro. Il sindaco Troilo Protontino indisse perciò una sottoscrizione che ebbe l’effetto auspicato, con l’allungamento del mezzobusto. La statua fu rifatta ad altezza d’uomo (sette palmi) a spese della civica università con l’esazione del catasto e con il personale contributo dell’allora sindaco Troilo Protontino. Pareri contrastanti, nel tempo, accompagnarono l’esistenza di quella statua. La popolazione vi era affezionata in quanto realizzata con l’argento ricavato dal sarcofago che aveva toccato il corpo del Patrono. Inoltre il volto del Santo era di grande espressione, tanto che i devoti lo credettero finito per mano angelica. Altri però ritenevano l’opera dalle forme troppo rigide e stilizzate, in quanto proveniente da un mezzobusto. Senza contare che le ripetute riparazioni e le aggiunte in breve lo ridussero in condizioni davvero pietose.

Fu così che nel 1891 l’arcivescovo mons. Pietro Alfonso Jorio commissionò la nuova statua d’argento all’artista Vincenzo Catello dell’istituto Casanova di Napoli. L’artista completò il lavoro in appena sei mesi. Furono impiegati oltre 43 kg di argento, di cui 37 provenienti dalla vecchia immagine. La statua era smontabile per facilitare le operazioni di pulitura e lucidatura. Il simulacro giunse il 7 maggio del 1892 alla stazione ferroviaria di Taranto da dove, dopo la solenne benedizione, fu portato in grande processione fino alla cattedrale. L’opera piacque per la perfezione della lavorazione e l’espressione del viso.

Così descrivono le cronache dell’epoca: “L’argenteo simulacro di san Cataldo misura due metri in altezza: il patrono è in atto di camminare, con la destra benedicendo la città che gli è fedele, mentre con la sinistra stringe il pastorale… Indovinatissimi la posa e l’atteggiamento… Assai bello il panneggiamento della pianeta della stola, il merletto del piviale, il camice che sembra cesellato”. Gli occhi, poi, neri e lucenti da sembrar veri; questo grazie alla devozione di una nobildonna tarantina che in periodo più recente donò alla cattedrale due artistici e preziosi spilloni a testa nera (forse di onice) e con al centro una piccolissima pietra preziosa da far pensare a una pupilla. Un’opera, insomma, vanto dell’intera comunità ma destinata a durare non per molto.

Nella notte fra il primo e il 2 dicembre del 1983, mentre imperversava il maltempo, la statua fu rubata assieme a molti altri reperti (candelieri, calici, reliquiari ecc.). Qualche anno dopo, grazie alla soffiata di un recluso tarantino, gli autori del furto (quattro napoletani specializzati in furti nelle chiese) furono arrestati e condannati, ma della statua non fu possibile recuperare nulla in quanto fusa e ridotta in lingotti. Un’impresa davvero poco fruttuosa e per giunta finita male per i malfattori ma ancor più per la comunità, privata di uno dei suoi simboli più importanti.

L’attesa per una nuova statua, la terza della storia, non durò a lungo. Il 14 gennaio ’84 l’arcivescovo Guglielmo Motolese incaricò un apposito comitato presieduto dal priore del Carmine, Cosimo Solito, di provvedere in merito.

Fu contattato l’artista grottagliese Orazio Del Monaco, che approntò in breve il bozzetto in argilla. Valutate alcune proposte, si decise di realizzare il nuovo San Cataldo in ottone e di rivestirlo in argento (tranne testa, mani e braccia che furono interamente di quel metallo prezioso) donato dagli orafi tarantini (in tutto ben 35 kg). Finalmente l’opera fu completata. Il volto era quello felice del pastore che finalmente torna dal suo gregge dopo l’esilio. Molti però non furono d’accordo con quella scelta perché avrebbero preferito la copia conforme a quella derubata. Portata in un furgone a Palazzo del Governo, l’8 settembre del 1984 alla rotonda del lungomare la nuova statua fu ugualmente accolta da una gran folla festante; nella stessa sera si svolse quella processione a mare che non poté aver luogo nel maggio precedente. Ma tanti non si riuscivano a rassegnare, ostinandosi a fantasticare sul san Cataldo di Catello esposto nella residenza di qualche emiro amante delle opere d’arte e chissà un giorno da recuperare: tanto era anche il sogno dell’allora parroco della cattedrale mons. Michele Grottoli.

Ben presto si dovette fare i conti con l’eccessivo peso del manufatto. Le operazioni concernenti lo spostamento dalla nicchia in preparazione ai solenni festeggiamenti di maggio destavano parecchie preoccupazioni per l’incolumità sia degli addetti sia dei preziosi marmi dell’altare. Inoltre ci voleva la gru per le complicate e laboriose operazioni di imbarco e di sbarco sulla motonave per il giro dei due mari. Così dopo vent’anni dall’arrivo dell’opera di Del Monaco si cominciò a pensare a una nuova statua.

L’arcivescovo mons. Benigno Luigi Papa accolse la proposta dell’arcidiacono mons. Nicola Di Comite che, agli inizi del 2001, dette il via all’operazione “Una goccia d’argento per la nuova statua di San Cataldo”, per la raccolta del prezioso metallo. I tarantini aderirono generosamente all’iniziativa, donando medagliette, catenine ed oggetti fra i più disparati. La realizzazione del simulacro fu affidata all’artista Virgilio Mortet, del laboratorio di Oriolo Romano (Viterbo).

Sue opere si trovano nei Musei Vaticani e in chiese, conventi e gallerie d’arte; per la cattedrale di Osimo eseguì un artistico sarcofago per custodire le reliquie di san Giuseppe da Copertino e una sua croce pettorale di ottima fattura fu donata a Giovanni Paolo II. A Mortet fu posta solo una condizione: che le sembianze della statua fossero, finalmente, quanto più possibile simili a quelle dell’opera di Catello. L’iniziativa ebbe buon fine. Così il 4 maggio del 2003 il nuovo san Cataldo (fuso in un unico pezzo) fu pronto e arrivò via mare alla banchina del castello aragonese. Tanta gente, affacciata su corso Due Mari, partecipò alla cerimonia. Ancor più massiccia fu l’affluenza di popolo alle successive processioni a mare e a terra, porgendo così il più caloroso benvenuto alla nuova effige del santo Patrono.

Una grande manifestazione di fede che continua a mantenersi inalterata ogni anno nei tradizionali festeggiamenti di maggio.

Modi di dire salentini

Ancora presenti nella vita di oggi

MODI DI DIRE

 

Espressioni semplici e colorite del linguaggio popolare

 

di Piero Vinsper

Con modo di dire o, più tecnicamente locuzione o espressione idiomatica, si indica generalmente un’espressione convenzionale, caratterizzata dall’abbinamento di un significante fisso a un significato non composizionale (Casadei, 1994: 61; Casadei, 1995: 335), cioè non prevedibile a partire dai significati dei suoi componenti. Di conseguenza una definizione precisa di modo di dire, (e di espressione idiomatica) non è data né accettata in linguistica. E mi fermo qui e non vado oltre.

In altre occasioni, invece, ho sostenuto che i modi di dire rappresentano il senso realistico di un’espressione semplice, chiara, colorita, spesso arguta e a volte canzonatoria, che va aldilà di ogni metafora, di ogni traslato e di ogni similitudine, o di qualsiasi altra figura retorica.

Non vorrei che il nostro dialetto, dal momento che non è ben coltivato, diventi presto erba secca, arida, incomprensibile; altrimenti dovrei ripetere, così come in griko, ma con dovuta differenza, i glòssama, pedìmmu, ine fonì ine fonì monachà (la nostra lingua, figlio mio, è una voce, una lingua unica, oscura).

Noi tutti sappiamo che, un tempo, i bambini, i ragazzini si riunivano nelle corti a giocare. E lì accadeva di tutto: urla, schiamazzi, pianti, litigi. Però, quando si superava il livello di sopportazione, si presentava nel bel mezzo della corte una matrona e con dire imperioso esclamava: Oru, oru, ognunu a casa loru! Ora, ora, ognuno vada alla propria casa. E i ragazzini, scurnusi e alla spicciolata, abbandonavano la corte e si recavano alla propria dimora.

A volte succede che due persone s’incontrino per strada e, dopo i saluti convenevoli, si mettano a parlare della famiglia, dei figli, dei problemi che li assillano quotidianamente. Si trova a passare un terzo incomodo, si ferma ad ascoltare i loro discorsi, ma quando cerca di intervenire si sente spiattellare in faccia: Talìa, talìa, ca è longa la via! Via, via, perché lungo è il cammino. E’ un modo come un altro per dire: vattene, non è gradita la tua presenza!

Dato che all’inizio si è parlato di bambini, rimaniamo in tema. Una madre, dopo aver allattato il figlio, aspetta che questo faccia l’eruttino. Avvenuto ciò, esclama: Mele e manna e zzuccaru ‘n canna, miele e manna e zucchero in gola! E se c’è qualche altra persona presente senti dire: e a cci nu tt’ama fele!, cioè chi non vuol bene a questa creatura possa sempre avere in bocca l’amaro del fiele.

A un bambino cola il muco dal naso; non sa pulirsi oppure non ha un fazzoletto con il quale soffiarsi il naso. Che fa? Aspira dentro il muco in maniera costante e fastidiosa. Allora si ammonisce: rrufa (gr. rofò, aspirare) ‘Ronzo, ca te sazzi. Inspira Oronzo così ti sazi!

Se il bambino non sta fermo, è irrequieto, scorazza da una parte all’altra, va su e giù da una stanza all’altra, il popolo così si esprime: Tene l’artetica oppure l’have pizzacatu l’apu. Artetica (gr. arthriticòs) vale stare sempre in movimento, mentre quando uno è punto da un’ape scappa da una parte all’altra in cerca di un rimedio al dolore provocato dalla puntura.

Una donna è incinta; ha desiderio di qualcosa, ma per diversi motivi non ha la possibilità di soddisfare ciò. Sarà un frutto fuori stagione, sarà qualcosa che è impossibile trovare o comperare? Allora tòccate ‘n culu ca ti passa ‘u spilu: toccati il sedere, così ti passa la voglia. E’ un modo di dire eloquente che va al di là delle credenze popolari.

M’hai scalatu i fianchi è un modo di dire che spesso è rivolto a persone che ti scocciano, che ti infastidiscono, che sono petulanti e attaccaticce. Lo stesso dicasi di m’hai scurciatu ‘u piricocu (lat. persicus praecoquum) o m’hai scasciatu ‘u pasticciottu. Mi hai fatto scendere giù i fianchi può accostarsi al verso latino del grande Orazio: cum sudor ad imos manaret talos (Lib. I, Sat. 9, vv. 10-11), mentre il sudore mi scendeva giù sin sotto i talloni, cioè colavo sudore dalla testa ai piedi.

E prettamente di derivazione latina è stare una, stare d’accordo. Infatti una è avverbio latino e si traduce insieme; perciò esse una, essere insieme, stare d’accordo con qualcuno.

Nu’ stare una cu ciuviddhri (lat. qui velles ) è non sto d’accordo con nessuno.

Quando, invece, una persona si intromette in un discorso senza che le sia stato richiesto il proprio parere, oppure quando s’intrufola in un contesto sociale, senza essere stata invitata, il popolo dice: E’ thrasutu de spichettu, è entrato alla chetichella. Spichettu, a detta delle camiciaie, è il gherone, cioè un pezzo di tela, a forma triangolare, cucito in basso ai due lati da ambedue le parti della camicia da donna, per dare ad essa maggiore ampiezza.

Se un tizio è indifferente, non parla, sta zitto e non proferisce mai una parola è uno che Nu’ ppate, nu’ ccunta, nu’ mmùscia. Lo stesso discorso vale per ste ‘mpalato comu ‘nu sapale: sta lì impalato come un terrapieno. Sapale, infatti, deriva da saeps, saepis, siepe, quindi saepalis è un terrapieno a confine tra appezzamenti di terreno. E viene spontaneo qui citare il proverbio: li pariti tenenu ‘e ricche e li sapali l’occhi. Cioè uno può ascoltare anche se ci sta il muro divisorio quel che si dice nell’altra stanza e può vedere, senza esser visto, mantenendosi nascosto dietro monterozzoli di terra, ciò che succede tutt’intorno.

Un altro simpatico modo di dire galatinese è: è sciùtu ddèscia ‘a manu a ‘u mortu: è andato a dare la mano al morto. Naturalmente stringere la mano al morto è inconcepibile. Sta a significare, invece, che una persona si è recata al funerale per fare le condoglianze ai familiari del defunto.

L’inverno è alle porte; il freddo, presto, si farà sentire e qualcuno potrà affermare: sta mmi rrizzacanu ‘i carni. Rrizzacare (lat. arrigere) significa drizzare. Se il modo di dire è riferito al cambiamento della temperatura, vale sto rabbrividendo, i miei muscoli, le membra si rattrappiscono. Se, al contrario, riguarda un fatto di ineffabile crudeltà, di scelleratezza, si può spiegare con mi viene la pelle d’oca.

Anche il grande Pietro Cavoti è ricordato nei nostri modi di dire. A una persona che ha i capelli lunghi si dice: mi pari ‘nu Cavoti. Molto probabilmente il Cavoti aveva una capigliatura folta, cascante, non curata, arruffata, tipica dei grandi artisti, che non curano l’apparire ma il fare.

E per concludere, se all’opera segue l’azione, se si fa una cosa in quattro e quattr’otto, se un progetto si porta a termine nel più breve tempo possibile, si dice friscendu mangiandu

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne

Arte. I nuovi selvaggi

 

di V. Primiceri

 

Tonino Baldari, Leila Carlyle e Grita : tre dei componenti del gruppo “I NUOVI SELVAGGI” (il cui nome si ispira al noto movimento tedesco comparso sulla scena artistica agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso, emancipandosi tuttavia dall’ideologia da esso perseguita) ha origine da un’ idea di Tonino Baldari, noto al panorama artistico salentino (ma non solo) che coinvolge Leila Carlyle, Francesca Casaluci, Andrea D’alba, Daniele De Pascalis , Isabella Di Cola,Tommaso Faggiano e Grita, in un gruppo aperto e variabile, libero da cliché e da imposizioni che si svincola da qualsiasi tipo di inquadramento sia esso di genere politico, economico o socioculturale. Cosa ne fa un gruppo unitario? La capacità di collaborare e ritrovare comunione d’intenti, pur difendendo il rifiuto per qualsiasi “laccio” di genere.

 

 

Tonino Baldari : Riappropriarsi di un’identità.

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Tonino Baldari ,eclettico artista galatinese, promotore di diverse mostre collettive ed itineranti volte alla promozione del panorama artistico locale : scultura e pittura sono entrambi i campi della sua continua sperimentazione .I NUOVI SELVAGGI_html_m57aa6c51

La sua opera in pietra leccese riecheggia un primitivismo contaminato da incursioni tecnologiche che si insinuano, a volte, nell’espressionismo della sua pittura, fino a raggiungere l’acme con l’ assemblage del “rifiuto urbano” in elaborazioni plastiche.

Il sogno di Baldari attinge a piene mani dall’ ideologia di Joseph Beuys : anela il recupero da parte dell’uomo di una natura ormai persa, dimenticata nella frenesia di quella routine che ormai si nutre di noi stessi.

Recupero materiale, riuso del rifiuto urbano e riciclo diventano così le uniche azioni possibili per riappropriarsi di quell’identità perduta, dell’indole umana sempre più lontana dal concetto di Madre Natura e sempre più vicina a quello di macchina ed efficienza. La radice locale è anche matrice di ogni opera, che ostenta la sua territorialità pur composta da prodotti di scarto della globalizzazione. Come un paradosso, la materia che genera l’opera grida tutta la sua discordanza da ciò che ci resta di una scellerata sovrapproduzione, fondata sul profitto e quasi mai sul bisogno reale; attraverso le sue opere conduce la sua incessante lotta all’inquinamento ambientale e sociale.

La sua esperienza artistica lo vede partecipe anche nella Video Art come collaboratore : nel 2009 partecipa al video “Salento” di manuel Vason ed Helen Spackman, “Un pizzico di pizzica” di Marco Giacometti e “Disastri quotidiani” di Tommaso Faggiano, nel quale è visibile la sua ultima produzione in policarbonato del 2011, nello stesso anno il suo contributo è presente in “Natural Trendy” e “Visio Pandemia” video di Gianni Colombo.

 

Grita : Trappole temporali

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Sin dalla prima infanzia, Grita opera nella sua casa-studio di Galatina .

Il suo percorso, quasi del tutto da autodidatta, parte dallo studio della pittura moderna e in particolare di quella seicentesca italiana e fiamminga, della quale apprezza l’uso del colore a olio con le sue tonalità profonde e brillanti, caratteristica che rimarrà invariata anche nelle opere più recenti. Si avvicina ad un concetto più teorico di colore, disegno e design durante il periodo di frequenza presso l’ISA di Galatina dove consegue la Maturità d’Arte Applicata.

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Con il tempo si allontana, gradualmente, dalla struttura e dalla forma tipicamente figurative e descrittive del periodo che più ha studiato ed amato, per abbracciare una graduale scomposizione che via via colpisce e smaterializza gli sfondi, sino a chiudere il cerchio sempre più intorno al soggetto principale, del quale spesso conserva solo un connotato (di norma occhi o labbra), lasciando che il superfluo si dissolva e si semplifichi in texture e supporti di totale recupero come T.N.T, latta, plastica e cellophane “catturati” dalla quotidianità seguendo quel concetto di Arte povera che Celan individuò nel “ridurreaiminimitermini,nell’impoverireisegni,perridurliailoroarchetipi”.

Ecco che la rete, appesantita da coperchi di latta, rievoca vissute prigioni sociali e “trappole” esistenziali dalle quali sempre si scorge l’idea di un sogno che riporta ad antichi amori mai obliati.

 

 

Leila Calyle : Il tempo diventa un riflesso di colore

Leila Carlyle è stata un’insegnante e un’ editrice. Scrive, pubblica e disegna libri e materiale grafico di vario genere.

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Per diversi anni costruisce opere e mobili usando e lavorando vetro colorato, legno e diversi materiali, spesso di recupero (facendone la sua passione).

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Il suo trasferimento a Galatina dalla città di Londra, dalla quale arriva un anno fa, la avvicina alla cultura e all’arte salentina (dalla quale rimane profondamente colpita) e segnerà il più sistematico e sentito avvicinamento all’arte trasformando la sua passione per vetri e assemblaggio multimaterico, in un percorso intellettuale di riflessione poetica in cui donare una nuova opportunità per guardare meglio dentro le cose e , magari, a sé stessi; questo “riscatto” che ognuno di noi dovrebbe concedersi è chiaramente individuabile nella serie de “Le sveglie”, in cui ingranaggi spesso relegati a mera funzione tecnica, diventano splendide rappresentazioni di spirali che evocano il concetto di infinito.

 

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Leggende del Salento. Gli scogli dannati di Leuca e le macarìe della Grecìa salentina

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Il Salento delle leggende.

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

 

di Antonio Mele ‘Melanton’

 

Quando muoiono le leggende finiscono i sogni.

Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.

 

Ogni terra ha le sue leggende.

Nascono quasi tutte dalla tradizione orale. E a generarle e perpetuarle è soprattutto il popolo, che spesso, e molto più dei dotti e dei sapienti, possiede innato il senso della fantasia, associato all’arte della suggestione e del mito.

Peraltro, come affermava Albert Einstein,“La più bella e profonda emozione che possiamo provare è il senso del mistero: sta qui il seme di ogni arte, di ogni vera scienza”. E per l’abate Jacob Cristillin, “La leggenda non è poi così lontana dalla verità: essa è la storia non ancora messa a punto”. Con il pregio – si potrebbe aggiungere – che, rispetto alla storia, la leggenda ha in più l’irresistibile fascino del verosimile sul vero. Come appunto accade nei vecchi “cunti” e nelle fiabe, ma perfino in alcune cronache di tutti i giorni, che d’istinto preferiamo strabilianti e sorprendenti, quando non addirittura impossibili.

Al popolo infine, si addicono l’incredulità, la magia, il prodigio. Qualità che in qualche misura lo affrancano dalle fatiche e dai dolori della cruda realtà quotidiana, e lo proiettano in una dimensione quasi di sogno, e quindi di riscatto.

Sicché, è dalla notte dei tempi – e la notte certamente più del giorno si confà ai misteri – che le leggende sono parte significante della vita e della storia dell’uomo.

Questa dimensione fantastica è altresì particolarmente appropriata al nostro Salento, terra emarginata e tuttavia densa di movimenti, che il mai dimenticato giornalista, divulgatore ed amico Antonio Maglio, in uno ‘speciale’ sull’argomento, curato per il Quotidiano di Lecce, definì accortamente “crocevia del mondo” (e direi anche del tempo), volendo rimarcare la massiccia congerie di passaggi e presenze, sul nostro territorio, di re e imperatori, di cavalieri ed eroi, di filosofi e crociati, di poeti e monaci sapienti, che hanno stratificato indelebili ed epici segni nella nostra memoria civile.

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Affascinante – e nondimeno un po’ macabra – è la leggenda degli “scogli dannati” di Leuca.

Tutto comincia, nientemeno, che dalla mitica impresa della conquista del Vello d’oro da parte di Giasone, aiutato dagli Argonauti, e con la complicità di Medea, figlia del re della Colchide, esperta di arti occulte e dotata di poteri magici.

È noto che Medea, innamoratasi perdutamente di Giasone, lo sposò ed ebbe da lui due figli. Tuttavia, come spesso accade ai volubili eroi della mitologia greca, dopo alcuni anni Giasone s’innamorò a sua volta di Glauce, figlia del re di Corinto, con la quale si congiunse, abbandonando al proprio destino la sua vecchia sposa.

Sommossa da un furente spirito di vendetta, Medea decise allora di non lasciare a Giasone alcuna discendenza, e con l’intento di sgozzare e fare a pezzi i figlioletti, li portò con sé su una galea, fuggendo per mare.

Allorché Giasone fu informato dagli dei della terribile vicenda, si gettò precipitosamente all’inseguimento della snaturata madre, e stava quasi per raggiungerla, quando, nelle vicinanze della costa di Leuca, Medea diede compimento al suo crudele proposito: trucidò i figlioli e si liberò del lugubre carico, gettando in mare i resti dei corpi. I quali, appena toccata l’acqua, si pietrificarono e si trasformarono in scogli.

Sono appunto gli “scogli dannati” affioranti nel tratto di mare prossimo a Leuca, e precisamente vicino a punta Ristola, dai quali – come testimoniano tuttora i pescatori del luogo – nelle notti di vento e di tempesta si odono risalire vibranti gemiti e lamenti, e si intravedono convulsi movimenti di strane ombre misteriose…

 

Vere o no che siano, è un fatto che di macare e macarìe ancora oggi si parla nelle nostre contrade, e specialmente nella zona della Grecìa salentina, da Soleto a Sternatia a Zollino… Chi non ha qualcosa da raccontare, a tale proposito?

Storie, saghe, canti, filastrocche: sulle macare (o “figlie della notte” come le chiamò poeticamente Petronio) c’è un’ampia letteratura, e moltitudini di testimoni fedeli che possono giurare di averle vedute in azione, quando si riuniscono e ballano al fuoco dei falò nei loro orgiastici “sabba” sotto il magico noce, o nell’atto di attraversare i cieli nei pleniluni d’estate a cavallo di scope, rapide come fulmini, o si trasformano in gatti o volpi o uccelli notturni per spaventare e irretire i comuni mortali…

Ma la loro specializzazione sono le macarìe, le fatture.

Della più semplice e diffusa – infallibile per ritrovare l’amore perduto – vi posso perfino dare la ricetta originale, garantita dalla vecchia zia Teresina, che quand’eravamo piccoli qualche volta ci raccontava, con grave solennità, prima di addormentarci. Con l’effetto, peraltro, che noi non ci addormentavamo più, e se ci addormentavamo era una notte di sogni mirabolanti.

Allora: procuratevi una ciocca di capelli dell’amato (o amata), e un’arancia (simbolo del mondo). Con la cera di una candela accesa fate un buco al centro dell’arancia e dentro sistematevi la ciocca. Avvolgete il frutto con uno spago, e dopo avervi fatto un nodo ben stretto, appendetelo ad un bastone di legno, e finalmente conficcate aghi o spilli sulla buccia, facendo attenzione a declamare ad ogni puntura gli opportuni scongiuri e le  rituali formule magiche. Dopodiché, custodite con cura l’arancia sotto il materasso: essa diventerà un potente talismano, che in poco tempo farà tornare il desiderato (o desiderata) amante, legandolo a voi come lo spago annodato all’arancia.

Sarà infine utile chiarire un piccolo dettaglio: se non conoscete gli scongiuri e le formule magiche da recitare (che la zia Teresina conosceva a menadito, ma che io ho purtroppo dimenticato), l’unica alternativa valida è quella di rivolgervi ad una macara di professione. Con tanti auguri!

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Lecce, San Marco e la colonia veneta

San Marco

testo e foto di Giovanna Falco

 

La festa del santo di oggi è occasione utile per ricordare alcune delle testimonianze della Serenissima nel nostro capoluogo.

La nazione veneta aveva il suo centro operativo nella piazza dei Mercanti (attuale piazza Sant’Oronzo), con alcuni edifici tramandati dalle fonti: oltre all’isolato delle Capande dei mercanti veneziani (che sorgeva dove ora insiste l’ovale con lo stemma di Lecce, abbattuto tra il 1937 e il 1939), altre costruzioni sorgevano nell’area alle spalle della chiesetta di San Marco e del Sedile, che comprendeva le non più esistenti vico Luigi Cepolla[1]e via San Marco[2], dove, sulla finestra della casa del cappellano della stessa chiesa, vi era un altorilievo raffigurante il leone alato[3]. Un altro esemplare dell’emblema era apposto sul prospetto della residenza del console, ubicata nella non più esistente corte dei Ragusei[4] o nella cosiddetta Piazzella, ovvero uno spiazzo a ridosso della Regia Udienza che si apriva nell’area dell’attuale via Salvatore Trinchese.

Fu un veneziano, poi sindaco di Lecce, Pietro Mocenigo a commissionare il Sedile, realizzato tra il 1588 e il 1592[5].

San Marco 1

Ma  l’edificio che più di tutti attestava ed attesta la potenza della colonia veneta è la chiesetta di San Marco, posta a ridosso del Sedile. Nel 1543 il vescovo G.B. Castromediano concesse l’antica cappella di San Giorgio al console veneziano Giovanni Cristino, così come è attestato dall’iscrizione sull’architrave del portale laterale, che ne commissionò la ricostruzione e la consacrò a San Marco Evangelista. Per ricordare questa concessione ogni anno, il 25 aprile, si snodava una processione che portava al Vescovo di Lecce un cero di cinque libbre decorato da un nastro in oro. Sulla lunetta del portale principale è incastonato il leone alato.

La chiesa è stata attribuita a Gabriele Riccardi, così come quella di San Sebastiano in vico dei Sotterranei.

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In passato la certezza della medesima paternità dei due edifici ha condizionato i restauri al monumento in piazza, eseguiti in epoca fascista. Antonio Edoardo Foscarini, in La chiesetta di San Marco in Lecce, riferisce l’andamento dei lavori. Nel 1930 il principe Sebastiano Apostolico Orsini, coadiuvato dall’ispettore Guglielmo Paladini e dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, diresse i lavori di restauro. Dato il pessimo stato di degrado riscontrato sui due portali della chiesetta, gli esperti decisero di riprodurre «in calchi il portale della chiesetta di San Sebastiano e da questi si poté ricavare il modello delle due colonne laterali e del fregio»[6].

A fine Ottocento la chiesetta fu oggetto di accese discussioni. Nel 1897 si pensò di abbatterla per far spazio al Sedile, ma una vera e propria crociata condotta dal professor Cosimo De Giorgi la salvò dalla distruzione. L’illustre studioso, dalle pagine del Corriere Meridionale, s’appellò alla cittadinanza ricordando come il piccolo edificio era testimone della presenza della potente colonia veneta che aveva nella piazza dei mercanti e nei suoi pressi, il quartiere con le botteghe, l’ospedale e la sede del console. Inoltre ricordava come la cappella fosse una delle pochissime dimostrazioni incontaminate dell’arte cinquecentesca. Da qui nacque un acceso dibattito che per più di un anno riempì le pagine dei giornali locali di polemiche, in alcuni casi, abbastanza colorite. Dalle pagine della Gazzetta delle Puglie, ad esempio, si polemizzava la troppa attenzione di Cosimo De Giorgi per «una cappelluccia corrosa e di nessuna importanza architettonica, destinata – fra i tesori del patrimonio artistico di Lecce – a passar senza infamia e senza lode» (Gazzetta delle Puglie del 17 luglio 1897). Il conte di Ugento, invece, sosteneva l’inutilità dell’abbattimento, in quanto «isolando il Sedile lo avremmo imbruttito, perché il lato su cui appoggia la chiesetta, è liscio come il seno d’una signorina inglese» (Corriere Meridionale del 29 luglio 1897). Alla fine Cosimo De Giorgi fu ascoltato dalle autorità competenti e la chiesetta fu restaurata nel febbraio 1899.

Santa Maria degli Angeli

Un’ulteriore importante testimonianza della colonia a Lecce la si ritrova nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, in piazza dei Peruzzi, sul quarto altare della navata destra, sul cui fastigio si vedono due stemmi identici, posti ai lati del Leone di San Marco che tiene il Vangelo con la scritta Pax tibi, Marce Evangelista meus. Lo stemma è considerato dalla storiografia locale della famiglia veneziana Giorgio (d’argento, alla fascia di rosso), secondo altri dei Foscarini (d’oro, alla banda di fusi accollati d’azzurro), anch’essi veneti.

Pur se i tratti stilistici condurrebbero a datare questo manufatto ai primi anni del Seicento, Giulio Cesare Infantino, nella sua opera pubblicata nel 1634, non ne fa alcun cenno, ma menziona altri richiami alla nazione veneta: «una dipintura della Natività di Maria Vergine, venuta in quei tempi dalla Città di Venetia: opera d’esser attentamente considerata»[8], posta nel secondo altare a destra, di patronato dei Rollo; lo stesso scrittore annovera, inoltre, la cappella dei Rivola:

«gentil’huomini della Città di Bergamo, con una dipintura dell’Immacolata Concettione della Vergine molto eccellente opera d’Antonio della Fiore di questa Città di Lecce, sopra della quale si vede la seguente Iscrittione Basilio Rivola frati amatissimo ad amoris monimentum sibi, fuisque ad solatium superstites; Hieronymus, & Benedictus Rivola Patritij Bergamensis PP. A.D. M.DC.XII»[9]

membri della confraternita di San Marco Evangelista, fondata nel 1603[10].

 

 

 

 


[1] Già Ferraria dei manisqalchi e vico dietro il Sedile, corrispondeva agli attuali portici del palazzo dell’INA.

[2] Già strada delle librerie e poi degli Orefici, congiungeva via Augusto Imperatore a piazza S. Oronzo sino all’altezza della chiesa di San Marco.

[3] Cfr. R. BUJA, Dalla strada alla storia. Divagazioni sulla toponomastica di Lecce, Lecce 1994, pp. pp. 336-337.

[4] Già corte Campanella, nella strada Scarpàri, si accedeva da  via dei Templari, a destra, nell’area dove ora sorge il palazzo della ex Banca Commerciale.

[5] Su questo edificio, oggetto di due articoli pubblicati sul sito della Fondazione Terra d’Otranto, Fabio Grasso ha esposto interessanti argomentazioni in L’altra storia del Sedile di Lecce  e della chiesetta di San Marco  (http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/arte_e_cultura/2009/24-settembre-2009/altra-storia-sedile-lecce-chiesetta-san-marco–1601803211199.shtml).

[6] A. E. FOSCARINI, La chiesetta di San Marco in Lecce, estratto da  “Nuovi Orientamenti”, n. 92 – 93, a. XVI, Maggio – Agosto , Taviano 1985.

[8] G. C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979),  p. 94.

[9] Ibidem.

[10] Cfr. G. Barletta, Le conclusioni della confraternita sotto il titolo di s. Marco Evangelista in Lecce (1605-1805), ASP, XLVI (1993), pp. 105-177. La confraternita aveva sede nella chiesetta di San Marco in piazza Sant’Oronzo.

Giuseppe Manzo (1849-1942) e la cartapesta leccese (quinta e ultima parte)

Biglietto da visita del maestro Giuseppe manzo con l’insegna reale concessagli dal re Umberto I
Biglietto da visita del maestro Giuseppe manzo con l’insegna reale concessagli dal re Umberto I

 

di Cristina Manzo

Le statue dei misteri di Taranto

Nell’ottobre del 1900 il consiglio di amministrazione della confraternita del Carmine di Taranto decise di sostituire tre statue della processione dei misteri[1],ormai deteriorate, con tre  nuove raffiguranti gli stessi momenti della passione di Cristo: la Colonna, l’Ecce Homo e la cosiddetta Cascata.

La scelta per l’esecuzione di quei lavori cadde su uno dei più noti artisti cartapestai dell’epoca, già più volte premiato in Italia e all’estero, Giuseppe Manzo, che consegnò personalmente quelle tre statue nei primi mesi del 1901. Il maestro aveva cercato inutilmente di sottrarsi a quell’impegno (viaggiare sino a Taranto per la consegna):

 

“Ill.mo signore – aveva scritto il 15 febbraio 1901 al priore della confraternita – essendo che le statue dei misteri sono per finirsi, e per la fine del mese o forse prima saranno pronte, vi scrivo la presente per sapere se i splendori per le stesse li dovrò far fare io o ve ne occuperete voi stesso. Di più, trovandomi affollato di lavoro vi domanderei se fosse possibile di risparmiarmi la venuta e se al contrario potesse venire qualcuno della commissione per consegnarle, altrimenti sospenderò io e verrò. In attesa di leggervi al riguardo con stima vi saluto.”

 

Manifesto pubblicitario del reale laboratorio di Giuseppe Manzo
Manifesto pubblicitario del reale laboratorio di Giuseppe Manzo

Ma nonostante la richiesta, nessuno si era fatto vivo, sicché imballatele a dovere, il maestro fece trasportare le statue alla stazione di Lecce e da qui, dopo averle fatte caricare su un vagone merci, partì alla volta di Taranto[2]

Per la realizzazione di quelle tre statue il cartapestaio aveva chiesto un compenso complessivo di 650 lire, e  quando il priore e quelli che erano con lui, al momento della consegna ammirarono i capolavori, non si pentirono per un attimo della scelta compiuta. Correvano felici da una all’altra osservando con gioia tutti i bellissimi particolari, che confermavano il capolavoro che il professore aveva compiuto. Qualche giorno dopo, esattamente il 19 marzo 1901, nel redigere il rendiconto degli introiti e delle spese riportate per l’acquisto delle nuove statue, l’allora segretario del Carmine, Luigi De Gennaro, avrebbe infatti testualmente annotato: “Per le nuove statue dei sacri misteri. Costo e spese di trasporto al Prof. Giuseppe Manzo di lecce, giusta sua quietanza, lire 700.”[3]  Leggendo il libro di Caputo, inoltre veniamo a conoscenza di due curiosi aneddoti su questi lavori, che riguarderebbero il Cristo alla colonna. Durante la sua realizzazione in laboratorio, infatti, il Manzo si accorse dell’errore che era stato fatto dai committenti, pretendendo che il Cristo durante la flagellazione dovesse avere la corona di spine in testa, mentre in realtà, questa riguardava una fase successiva, e poiché  era molto preciso sui suoi manufatti, la cosa rappresentava un grosso problema, ma quando anche nella riconferma della commissione del 2 novembre 1900, furono ripetute quelle condizioni, egli decise di rassegnarsi.

La confraternita, sempre per la realizzazione di questa statua, aveva fornito al Manzo un’immagine per altro riuscita piuttosto male e in bianco e nero che illustrava l’originale colonna di santa Prassede a Roma, quella a cui  Gesù, fu legato, nel cortile della fortezza Antonia, il Pretorio di Pilato in Gerusalemme, per la flagellazione.

 

Il Cristo alla colonna di Giuseppe Manzo
Taranto, Cristo alla colonna Giuseppe Manzo, 1901

Non potendo individuare in alcun modo il colore, il Manzo abbondò con il verde, mentre la colonna originale è di marmo diaspro, proveniente da una roccia calcarea che assume colorazioni che vanno dal bianco al bruno. Nella colonna Gesù ha le mani legate dietro la schiena. Una cordicella gli tiene uniti i polsi, che a un primo sguardo non sembrano legati alla colonna, il Cristo dà l’impressione di essere solo poggiato ad  essa, ma così non è. Una colonna bassa che assomigliasse a quella originale così come l’avevano voluta quelli della confraternita, dava non pochi problemi, su come poter legare le mani alla stessa, ed era impensabile che anche all’epoca della flagellazione Cristo non fosse stato legato.

 

“Ecco allora che il Manzo s’inventò letteralmente l’anello di ferro al centro della parte superiore della colonna e attraverso quell’anello fece passare a più giri la cordicella che stringeva i polsi di Gesù. Dico s’inventò, perché il cartapestaio leccese non poteva aver visto su  una figura degli inizi del secolo un anello che nella colonna che si conserva a S. Prassede non è visibile neppure oggi. Ma fece bene il maestro, forse fu l’intuito a guidarlo. Certo non gli mancava la fantasia[…] Due piccoli capolavori impreziosiscono questa statua: quelle mani legate dietro la schiena che sembrano quasi parlare e il merlettino che orna il perizoma di Gesù. Due capolavori firmati Giuseppe Manzo.”[4]

Nella seconda statua realizzata, quella dell’Ecce Homo, ancora una volta il maestro, in maniera impareggiabile, esprime tutta la sua abilità nel catturare la storia e l’emotività del personaggio. Abbiamo un Gesù che, dopo la sofferenza della flagellazione, sa che sta andando incontro alla sua fine, non si aspetta più niente dalla crudeltà degli uomini, non guarda la folla, non guarda Pilato, cammina ad occhi bassi verso il suo destino, i capelli sono intrisi di sangue, che da una spalla, in tante pieghe sapientemente ondulate dal Manzo, cola in rivoli.. Nelle mani legate stringe una canna, lo scettro che gli hanno regalato i soldati. Non gli interessa ciò che accade intorno a lui.

 

Taranto, Ecce Homo, Giuseppe Manzo 1901
Taranto, Ecce Homo, Giuseppe Manzo 1901

 

Ma fu nella Cascata che il maestro raggiunse il massimo della sua arte. Qui non solo era chiamato a modellare un Gesù steso per terra e schiacciato dal peso che portava addosso, ma doveva anche fare i conti con quella tunica, creando ora le pieghe della spalla sulla quale poggiava la croce, ora quelle della spalla libera, poi ancora le pieghe delle lunghe maniche, e infine quelle che scendevano lungo il corpo di Gesù, tenendo presente che la cordicella che stringeva la vita del Cristo, accresceva le arricciature che diventavano piccole, grandi, fluenti…

Il Manzo seppe raggiungere magnificamente lo scopo, ma dovette anche far ricorso alla sua ben nota pazienza, facendo e rifacendo chissà quante volte quelle pieghe e usando continuamente i ferri arroventati per focheggiare, segnare, correggere e perfezionare ondulazioni e arricciature. Gli occhi di Gesù, nella cascata, ricordano molto da vicino quelli della Colonna. Sembrano due sguardi identici, tanto che separando e isolando  gli occhi dal resto dei due volti, si ha difficoltà  a identificare a quale statua essi appartengano. Anche qui, gli occhi sono rivolti a sinistra verso l’alto e sembrano quasi voler esprimere un’invocazione di pietà da parte di Gesù nei confronti dei soldati. Tornano evidenti i segni del dolore fisico, e della fatica già presenti nella Colonna; ma si ha anche l’impressione che nella cascata l’artista abbia voluto mettere sul volto di Gesù più uno sguardo di giustificazione che di pietà. Giustificazione per quella caduta accidentale, avvenuta contro la volontà del Cristo, per aver causato un grattacapo al centurione. Gesù alzando la testa sembra voler chiedere perdono, come a dire che la sua caduta era dovuta alle sue precarie condizioni fisiche, non voleva rallentare, il suo cammino verso la crocifissione.

 

“La statua insomma doveva anche parlare., ed egli in questo senso era un innovatore. Non realizzava soltanto delle figure, ma cercava, nei volti dei suoi Gesù e dei santi, anche la parola, la comunicazione. Chi osservava, non doveva soltanto vedere, ma anche ascoltare, capire sino in fondo il soggetto rappresentato. Con il Manzo possiamo dire che la cartapesta leccese voltò pagina.”[5]

 

Taranto, La Cascata, Giuseppe Manzo 1901
Taranto, La Cascata, Giuseppe Manzo 1901

 

Taranto, Particolare degli occhi del Cristo alla Colonna, Giuseppe Manzo 1901
Taranto, Particolare degli occhi del Cristo alla Colonna, Giuseppe Manzo 1901

 

Oggi, la cartapesta leccese non è più quella di ieri. C’è ancora qualche bottega che resiste qua e là, ma quella lavorazione, scrupolosa, paziente, emotiva, che apparteneva ai cartapestai di una volta non esiste più. Tranne pochissime eccezioni, laddove qualcuno ha appreso la tecnica dal padre o dal nonno, da qualche maestro di una volta, l’arte dell’unicità ha ceduto il passo all’industrializzazione, i santi si fabbricano in serie, con le forme e paiono tutti uguali, senza un’espressione propria che li identifichi, senza un’anima che possa trasmetterci emozioni. Alcuni tra i giovani si sentono protagonisti di una fondamentale operazione di recupero e parlano di una nuova forma di ispirazione, quasi inconscia, dalle loro botteghe nel centro storico della città. Cercano una chiarificazione del proprio ruolo artigianale, dove la cartapesta non rappresenta un inutile revival, ma nemmeno la rottura con la tradizione, ci ricordano che le botteghe artigiane[6],

 

“possono ancora costituire la linfa per la rinascita di un centro storico tra i più belli di tutto il sud, dove i laboratori anche all’esterno, mantengono il rispetto della linea architettonica del vecchio borgo, l’anima della città, la sua filosofia di vita”.[7]

 

Ma c’è anche a Lecce, in Puglia, in Italia, nel mondo, tutto un patrimonio della cartapesta da salvaguardare e da valorizzare. Si tratta di autentici capolavori che hanno segnato un’epoca e dei quali si potrebbe tentare una non impossibile, anche se difficile catalogazione generale.[8]

 

Lecce, centro storico. Il palazzo a due piani, che si affaccia sul monumentale teatro greco, fu l’abitazione di Giuseppe Manzo, a due passi dal suo reale laboratorio, oggi proprietà del nipote Dino Manzo
Lecce, centro storico. Il palazzo a due piani, che si affaccia sul monumentale teatro greco, fu l’abitazione di Giuseppe Manzo, a due passi dal suo reale laboratorio
Lecce, centro storico, la via dell’abitazione che fu di Giuseppe Manzo
Lecce, centro storico, la via dell’abitazione che fu di Giuseppe Manzo

La nostra città, fiera dei suoi artisti e della sua storia, ha inaugurato nel  dicembre 2009, il Museo della Cartapesta.[9] Esso  rispecchia la storia di un’arte che si intreccia con la storia della città, fin dal diciottesimo secolo. La statuaria in cartapesta, nel solco dell’influenza partenopea, è un tratto distintivo della cultura salentina. Nelle diverse sale al pianterreno del Castello di Carlo V, si ripercorrono le tappe di un’arte, a torto, considerata minore.

Come affermava G. Klimt: “Chiamiamo artisti non solamente i creatori, ma anche coloro che godono dell’arte, che sono cioè capaci di rivivere e valutare con i propri sensi ricettivi le creazioni artistiche”.

 

 

Bibliografia

Bambi E., Quando la cartapesta si trasforma in arte, in “Tempo” 20 agosto 1982Da «L’Ordine» – Settimanale Cattolico Salentino, 10 gennaio 1942

Barletta R., Appunti e immagini su cartapesta, terracotta, tessitura a telaio, Fasano, 1981

Bazzarini A., Dizionario enciclopedico delle scienze, lettere ed arti, Francesco Andreola, Venezia 1830-1837

Caputo N., Quei tre fratelli di nome Gesù – le statue di Giuseppe Manzo nella processione dei misteri di Taranto, Scorpione editrice s.r.l., Martina Franca 1991

Castromediano S., L’arte della cartapesta in Lecce, in “corriere meridionale”, IV, n 17, Lecce, 1893

De Marco M., Catalogo delle opere sacre in cartapesta conservate presso la chiesa e il convento dei padri passionisti , in “ I Passionisti a Novoli. 1887-1997”, Manduria, 1987

De Marco M., La cartapesta leccese, Edizioni del Grifo, 1997

I PP. PP. A Novoli 1887-1987, (Lecce) 1894

L’ultima cartapesta, divagazioni su Lecce settecentesca ed una poesia di Vittorio Bodini. Quaderni della banca del Salento, n. 1, a cura di Franco Galli, 1975

Marti P.,  La modellatura in carta, Tip. Ed. Salentina, Lecce 1894. (opuscolo)

Natale, storia, racconti, tradizioni. Paoline,  2005

Lazzari G., in Anxa, anno X, n. 56, maggio-giugno 2012 , Associazione culturale Onlus, Gallipoli (Le)

Ragusa C., Guida alla cartapesta leccese. La storia, i protagonisti, la tecnica, il restauro. A cura di Mario Cazzato, congedo editore,1993

Ròiss (Franco Rossi) Cartapesta e cartapestai, Maestà di Urbisaglia, Macerata 1983

Rossi E., Bruceremo i santi di carta, in “ La tribuna del Salento ” anno 2, Lecce, 1960

Sabato A. (a cura di) Costumi, cartoline, cartapesta, Lecce, 1993

Solombrino O., Serrano Microstorie Ricordi sentimenti a cura di S. Solombrino, Congedo, Galatina 2005

Tragni B., Artigiani di Puglia(con un saggio di A, Contenti) Adda editore, Bari, 1986Rossi E.,Un’arte senza domani vive la sua agonia: la statuaria leccese, in “ La tribuna del Salento” anno I,Lecce, 1959

Valegentina L., La cartapesta leccese e i suoi cultori, in « Il Lavoro Nazionale », Anno I, n. 2-3, Bari, 1915

Valgentina L., Muse, De Agostini, Novara 1965, vol. III

Wikipedia, l’enciclopedia libera

 

Sitografia

Francesco Castromediano, www.antoniogarrisiopere.it

Gli artisti della cartapesta leccese nella pubblicistica salentina www.culturaservizi.it

Il Cristo morto, www.brindisiweb.it

Museo della cartapesta, www.quisalento.it

Santa Trinità, www.sstrinita.manduria.org

Settimana Santa di Taranto, it.wikipedia.org/wiki/Settimana_Santa_di_Taranto


[1] I riti della Settimana Santa di Taranto sono un evento che si svolge nella città a partire dalla Domenica delle Palme, e risalgono all’epoca della dominazione spagnola nell’Italia meridionale. Furono introdotti a Taranto dal patrizio tarantino Don Diego Calò, il quale nel 1603, fece costruire a Napoli le statue del Gesù Morto e dell’Addolorata. Nel 1765 il patrizio tarantino Francesco Antonio Calò, erede e custode della tradizione della processione dei Misteri del Venerdì Santo, donò alla Confraternita del Carmine le due statue che componevano la suddetta processione, attribuendole l’onore e l’onere di organizzare e perpetrare quella tradizione cominciata circa un secolo prima. Nel corso del tempo a queste due statue donate se ne aggiunsero altre sei, per arrivare a un totale di otto statue.( Tre di queste sono quelle rifatte dal Manzo nel 1901. In occasione del centenario della sua realizzazione e consegna, nel 2001, durante la processione dei misteri, fu assegnata una targa in ricordo del grande maestro cartapestaio, al nipote Dino.) Questa processione esce alle cinque del pomeriggio del giovedì Santo dalla chiesa del Carmine, e si conclude alle cinque del venerdì, rientrando nella stessa chiesa, portando le statue che simboleggiano la passione di Gesù. I confratelli sono vestiti con l’abito tradizionale dei Perdoni e procedono a ritmo lentissimo accompagnati dalle marce funebri. La processione è composta dalla Troccola, strumento che apre la processione, il Gonfalone ovvero la bandiera della confraternita, la Croce dei misteri, il Cristo all’Orto, la Colonna, l’Ecce Homo, la Cascata, il Crocifisso, la Sacra Sindone, il Gesù Morto, l’Addolorata (appena essa esce sulla piazza, verso le otto di sera, si chiude il portone del Carmine). È accompagnata da tre bande che suonano marce funebri, ed effettua durante il percorso una sosta nella chiesa di San Francesco da Paola. Vi erano inoltre tre coppie di poste sistemate davanti alle statue, divenute quattro a partire dal 2012 e sette Mazze che hanno il compito di mantenere ordinata la processione e di sostituire i confratelli in caso di necessità. Fonte: it.wikipedia.org/wiki/Settimana_Santa_di_Taranto

[2] Nicola Caputo, Quei tre fratelli di nome Gesù – le statue di Giuseppe Manzo nella processione dei misteri di Taranto, Scorpione editrice s.r.l., Martina Franca 1991, p. 9

[3] Archivio confr. del Carmine, Taranto, fascicolo corr. con G. Manzo, rendiconto 1901, in Nicola Caputo, Quei tre fratelli di nome Gesù – le statue di Giuseppe Manzo nella processione dei misteri di Taranto, Scorpione editrice s.r.l., Martina Franca 1991, p.27

[4] Nicola Caputo, Quei tre fratelli di nome Gesù – le statue di Giuseppe Manzo nella processione dei misteri di Taranto, Scorpione editrice s.r.l., Martina Franca 1991, pp. 39, 41, 51, 53, 107, 110

[5] Idem, p. 120

[6] Bianca Tragni, Artigiani di Puglia (con un saggio di A, Contenti) Adda editore, Bari, 1986, p. 321

[7] Da una intervista di E. Bambi, Quando la cartapesta si trasforma in arte, in “Tempo” 20 agosto 1982, p. 2

[8] Nicola Caputo, Quei tre fratelli di nome Gesù – le statue di Giuseppe Manzo nella processione dei misteri di Taranto, Scorpione editrice s.r.l., Martina Franca 1991, p. 142

[9] Caterina Ragusa, è la  direttrice del Museo, e Tina De Leo, è la  responsabile Eventi del Castello Carlo V. Ci sono sette sale al primo piano, tre al piano terra, tra cui il laboratorio di restauro della cartapesta. Complessivamente la struttura raccoglie 80 opere, tutte d’ispirazione cristiana, realizzate da grandi maestri cartapestai leccesi intorno al 1700. www.quisalento.it

 

Per la prima parte: 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/09/giuseppe-manzo-1849-1942-e-la-cartapesta-leccese-prima-parte/

Per la seconda parte:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/12/giuseppe-manzo-1849-1942-e-la-cartapesta-leccese-seconda-parte/

Per la terza parte:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/15/giuseppe-manzo-terza-parte/

Per la quarta parte:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/18/giuseppe-manzo/

 

Giustiniano Gorgoni e la vita politica a Galatina dopo l’Unità

Piccoli patrioti, di Gioacchino Toma
Piccoli patrioti, di Gioacchino Toma

 

Giancarlo Vallone

La figura del galatinese Giustiniano Gorgoni (1825-1902) torna non di rado nelle pagine di storia regionale ed anche risorgimentale, e direi che si sente ormai l’esigenza d’una messa a punto, che qui non può essere, naturalmente, tentata, ma solo indicata. Si sente cioè l’esigenza di porlo nella giusta posizione se non altro della storia politica cittadina. Il compianto Zeffirino Rizzelli ha dedicato, nel 1999, un saggio al nostro personaggio, che resta il contributo più informato su di lui; ma scritto, come Rizzelli stesso si definisce, da un non-storico, i profili d’errore sono tutt’uno con quelli d’utilità che però è larga, per dovizia di date e per ricerca di precisione.

Che Gorgoni sia stato patriota ed uomo del Risorgimento lo si ricava da vari indizi e da alcuni riscontri; intanto da una lettera sua del 1843 a Rosario Siciliani, sacerdote, e fratello anziano del filosofo Pietro, che fu edita da Aldo Vallone, e che dimostra chiari segni di passione italiana e di sacrificio per la causa. Inoltre nel museo cittadino, si conserva (ed io ho potuto leggerla per la cortesia dell’amico L. Galante) un’importante memoria del gennaio 1886 che Gorgoni scrive per difendersi dalla accuse rivoltegli in un foglio a stampa dall’ex sindaco Viva.

Egli vi narra della sua giovinezza liberale, condivisa col Cavoti, con letture proibite dal Giusti, dal Rossetti e dal Berchet; ricorda che, studente a Lecce, aveva frequentazioni liberali, ed aveva festeggiato in casa dell’ avv. Luigi Falco, con altri giovani, la costituzione del 1848; inserito, perciò, nella lista degli attendibili dalla polizia borbonica, gli è negato il visto per recarsi a Napoli, ed iscriversi alla Facoltà di Giurisprudenza.

G. Toma, O Roma o morte
G. Toma, O Roma o morte

Solo nell’ aprile 1852 gli è concesso di partire, e ottenuta dal Rettore, Gerardo Pugnetti, l’esenzione dall’obbligo di frequenza, è ammesso agli esami, dalla fine di aprile al settembre, e si laurea. Tutto questo dimostra anche altro: se Giustiniano, di antica famiglia del patriziato cittadino, è liberale, c’è anche una frattura dall’osservanza borbonica, che invece resta pertinace ad esempio nel ramo baronale della famiglia, e nel retrivo Giacomo (1780-1858), il teorico dell’ordine sociale o nei parenti baroni Calò; una frattura che spiega il suo legame con esponenti emergenti del ceto mercantile e professionale, come il Siciliani a Galatina, o i Falco, a Lecce. In altri termini, questa antropologia della libertà comincia a creare colleganze intanto ideali in ceti di diversa origine e lo fa proprio quando la diversità cetuale non condiziona più la via al potere: è questo il terreno sul quale va esaminata la continuità o la novità della guida della società in ordine alla sua antica e rigida partizione cetual-giuridica che, l’ho già detto, nell’esser tale, riponeva anche l’assetto del comando e il predominio patrizio.

C’è un altro elemento della vita giovanile di Gorgoni che va posto al centro del quadro: dal novembre del 1852 (e forse prima), già laureato in giurisprudenza, entra nel famoso studio legale, a Napoli, di Liborio Romano, che ne apprezza la capacità tecnica, la conoscenza della lingua francese, l’abilità. Resterà in quello studio pare per sette anni. La notizia era di uso comune, allora, e lo stesso Gorgoni la richiama nella sua memoria; in seguito la ricorda solo un elogio funebre di Giuseppe Panico (Fra i cipressi del camposanto) edito nel 1912. Invece la cosa è di vitale importanza, perché Liborio Romano, oltre ad essere un civilista importante, è una personalità politica di rilievo nazionale.

Nell’estate del 1860 è Ministro degli Interni nel governo costituzionale borbonico, destituisce il 23 luglio 1860 tutti i sindaci eccezion fatta per quello di Napoli, e nomina con decreto quelli nuovi. Aiuta Garibaldi nell’unione di Napoli all’Italia, sarà suo ministro e poi deputato a Torino, ed uno dei capi della Sinistra (storica) fino al 1867, quando morì. Romano nomina sindaco di Galatina, pare al 5 settembre 1860, un Antonio Dolce, suo largo parente (proprio attraverso i Gorgoni) e destinato a restare in carica, come molti dei sindaci romaniani, a lungo. Con grande confusione di idee s’è sostenuto che questa nomina (controfirmata dal Borbone) del 1860 e le successive ratifiche di età sabauda sono “segno di continuità e non di novità democratica”. Intanto questa continuità tra due regimi nella carica di sindaco, è una continuità nell’adesione liberale ed unitaria come mostra la nomina romaniana, e, se pur nasconda profili di opportunismo, si tratta comunque di una novità nel regime costituzionale e politico; certo non una novità “democratica”, chi mai potrebbe dirlo? ma una novità liberale, e, come si vedrà, sociale. Non ogni costituzione né ogni elezione significa democrazia: il suffragio censitario è sinonimo del liberalismo ottocentesco. Non può dirsi propriamente democratico neanche il voto plebiscitario a suffragio universale maschile che si tenne nell’ottobre del 1860 e decise l’annessione italiana dell’antico Regno, con un esito in Galatina schiacciante a favore dell’Unità, grazie all’intervento del medico Nicola Vallone.

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Inizia qui il corso elettorale della nuova Italia. Tra Gorgoni e Dolce, non dovevano esserci rapporti costruttivi: nelle elezioni provinciali del maggio 1861 viene eletto, da Galatina, Nicola Bardoscia, amico e affine di Dolce, proprio contro Gorgoni. Poco dopo, in previsione delle elezioni al Parlamento nazionale del 1865 si progetta la candidatura in area romaniana del filosofo Pietro Siciliani, certo sostenuta dai Vallone, suoi parenti (anche se una polemica ci sarà, nel 1867, al tempo del colera, tra lui e il canonico Carmine Vallone, da me descritta altrove), e dal Gorgoni, ma senza successo, per evidenti resistenze galatinesi, proprio del gruppo Dolce e Bardoscia ( e dei loro amici Mezio, Calofilippi, Angelini, Garrisi, Papadia, come rivela in una lettera il filosofo); ma ognuno di questi gruppi e di questi uomini, in lotta tra loro, si annoda a Liborio Romano.

Ho esposto in ordine cronologico queste vicende perché se ne possono trarre valutazioni poco discutibili: gli uomini capaci di guidare la società galatinese nell’ottobre 1860 (Gorgoni, Dolce, Vallone) sono tutti per l’Unità, qualunque siano state le loro motivazioni. Di più, sono tutti appartenenti all’area politica romaniana, cioè alla Sinistra storica. Tuttavia, come dimostrano le elezioni successive, c’è in corso tra loro una lotta per l’egemonia cittadina: da un canto un gruppo anzitutto mercantile e professionistico raccolto intorno al Gorgoni, e al nucleo parentale Siciliani e Vallone e ad altri. Dall’altra parte il nucleo parentale Dolce e Bardoscia, di cospicua ricchezza agraria, ed altri amici e parenti. E certo si tratta di una duplicità e di un antagonismo destinato a restare dominante, anche se, com’è ovvio, l’ondeggiare della vita amministrativa mostra smagliature e ricollocazioni nelle due aree. La comune adesione romaniana, destinata a dissolversi, ha alle spalle un più profondo elemento comune, perché Vallone, Siciliani, Dolce o Bardoscia, non esprimono storie sociali molto diverse, anche se son diverse le vie di formazione della loro ricchezza: tutti estranei, a differenza del Gorgoni, all’antico patriziato, lo hanno in realtà soppiantato nel corso dell’Ottocento alla guida della città. Per questo fu detto nel 1992, e non può esser detto diversamente, che nel Plebiscito dell’ottobre 1860 la spinta unitaria fu data da “uomini sostanzialmente nuovi alla direzione sociale come Antonio Dolce, Nicola Bardoscia e Nicola Vallone”: uomini nuovi rispetto al secolare dominio patrizio. E questo corrisponde al quadro dell’intero Mezzogiorno, perché la storiografia da tempo sostiene che il vero ricambio sociale della classe dirigente meridionale si concretizza appunto con l’Unità.

Il Gorgoni, reso esperto anche in questo dal magistero romaniano, dal 1862 al 1863 pubblica a Lecce, dove tiene una scuola privata di diritto, e dove per certo ravviva i contatti con Libertini, e con Brunetti, il periodico La Riforma: giornale rarissimo, del quale non si conoscono che un paio di numeri, ma che certamente era ricco di corrispondenze da Galatina. Una lacuna che aggrava la larghissima disinformazione sul periodo, e del resto, di Galatina sappiamo ancor meno per il decennio dal 1866 al 1876: si parla, per quel periodo, di sindaci di “buona fede adamitica”. Il 1876 segna l’avvento alla guida nazionale del Depretis e della Sinistra storica; nello stesso anno ci sono le elezioni amministrative in città; dopo qualche tempo, la nomina a sindaco di Giacomo Viva, genero del Bardoscia, non fa che consolidare nel paese un potere familiare che continua a riconoscersi nell’area della Sinistra e ora si avvale anche di riscontri governativi, mentre in sede provinciale il punto di riferimento è il Brunetti.

Pare sia stato questo un momento di riavvicinamento tra i gruppi: con Viva sono i Vallone e lo stesso Gorgoni, che poi il Viva asserirà, forse infondatamente, eletto in Consiglio comunale (dove sarà anche assessore, come ha ricostruito Rizzelli) per accordo con lui. Tuttavia è proprio il sindaco Viva, che resta a lungo in carica nonostante varie sospensioni ad opera dei Prefetti, a minare la coalizione. Certo è il suocero a sostenerne le sorti: Nicola Bardoscia sarà eletto al Parlamento nazionale nel 1880 contro Oronzio De Donno di Maglie; Gorgoni riesce ad essere eletto al Consiglio provinciale nel 1881.

I due gruppi comunque sono ancora uno contro l’altro nelle elezioni politiche del 1882, quando si candida Pietro Siciliani col sostegno di Gorgoni, di Pietro Cavoti (del quale conosciamo qualche dissapore proprio con Gorgoni), dei Vallone (defilati, ma partecipi): lo stesso gruppo del 1865, ma Bardoscia prevale ancora. La frattura si ripercuote in Consiglio comunale, dove è il sindacato di Viva a non tenere, ad isolare il gruppo familiare, nonostante si conosca, in questo torno di tempo, forse all’inizio dell’estate del 1884, un tentativo di fusione tra i due “partiti”. Nella drammatica sessione consiliare del 21 novembre 1884, per le malversazione del Viva, si dimettono cinque consiglieri comunali: Giovanni Gorgoni, Raffaele Papadia, Giuseppe Venturi, Luigi Vallone senior e Pietro Vallone (in seguito se ne dimetterano altri quattro); dopo pochi giorni viene edito il primo numero del periodico locale lo Sbarbarino (edito dalla fine del 1884 al 29 luglio1886) sul quale non si sa chi abbia scritto: non Giustiniano Gorgoni che apparentemente ne dissente; nemmeno un galatinese dalla penna netta ed incisiva come Antonio Romano (del quale posseggo importanti carte manoscritte); forse Pietro e forse anche Luigi Vallone (don Luigino) ed altri. Viva deve subito dimettersi dalla carica di sindaco, pur restando in giunta; in breve il prefetto Vincenzo Colmayer (poi senatore), nomina una commissione d’inchiesta, insabbiata, si sospettò, dal Brunetti. L’altro gruppo si rafforza costantemente di adesioni significative; nelle elezioni comunali suppletive per 12 consiglieri del (31 luglio ?)1885 sono eletti 12 avversari del Viva (al quale resta una risicata maggioranza) come Luigi Vallone, Giuseppe Siciliani, Antonio Romano, Celestino Galluccio, e poi Venturi, Santoro,Tanza, Mezio, Micheli, Consenti, Capani e Raffaele Papadia, che è indicato come sindaco dal prefetto Colmayer pare ad inizio del 1886. Viva non accetta la sconfitta. Il 25 agosto 1885 diffonde un foglio a stampa, che purtroppo non ho rinvenuto (ma che si legge, per un brano, nel volume del Bernardini sui giornalisti leccesi), nel quale attacca tutti, in particolare i Vallone, il Papadia, Giustiniano Gorgoni: i primi replicano a stampa (fogli del 12 e del 28 settembre, presso di me), il Gorgoni con la memoria citata, e con una querela. Perciò è inevitabile che in prossimità delle elezioni politiche del maggio 1886, si divarichino ancora di più i legami alti: sempre Brunetti (salvo un voltafaccia all’ultimo minuto) per Bardoscia e Viva; mentre non sorprende che l’altro gruppo si appoggi a Giuseppe Romano, fratello minore di Liborio e parlamentare autorevole della Sinistra. Poi nelle elezioni amministrative dell’ estate 1886 il successo di questo gruppo è pieno e definito. Per certo in un volantino del 1894, che fa parte di una mia collezione che definirei importante, Celestino Galluccio indica il 1886 come data della svolta.

L’antico fronte romaniano della Sinistra non esiste più, spaccato nettamente in due parti che si collocano su posizioni politiche del tutto distinte ed articolate, ormai, in una Destra, di nuovo modello “chiusa ed arroccata nell’ amministrazione, di fronte ad una Sinistra aperta socialmente” orientata nel futuro ad una professione socialista, con Paolo Vernaleone, e ad una repubblicana con Antonio Vallone, che è destinato a divenire il leader indiscusso della sua area, ormai, dal 1886, vincente, e del paese. Dopo un salto informativo di un altro decennio, con la tornata amministrativa del 1897, Gorgoni e Vallone sono insieme assessori; quasi a simbolo del passaggio di testimone.

Concludo notando che l’ elenco delle opere a stampa del Gorgoni è certamente incompleto, e contiene forse degli errori; sorprende che non si conoscano sue allegazioni almeno del periodo napoletano, che invece dovrebbero esserci, proprio per la sua riconosciuta capacità, che del resto si riscontra anche nell’attività di amministratore comunale, di cui l’impegno per il Ginnasio e poi Liceo Colonna è solo un aspetto. L’opera più importante è il suo notevolissimo Vocabolario Agronomico…della Provincia di Lecce edito a dispense dal 1891 al 1896, e poi unitariamente a Lecce, con data, forse anticipata, del 1891, e ristampato infine da Forni, a Bologna, nel 1973. Rizzelli si affanna a dire che non è opera di agronomo e nega questa qualifica anche al suo raro scrittarello del 1858 sull’uso dello zolfo in agricoltura, ma se l’agronomia è “scienza e studi dell’agricoltura”, come egli scrive, anche Gorgoni è un agronomo, con inclinazione magari lessicografica, ma anche di scienza applicata, com’è facile riscontrare non solo nello scrittarello, ma in tante pagine dello stesso Vocabolario. In fondo essere stato avvocato, agronomo, giornalista, politico ed amministratore non è ancora aver segnato il massimo della versatilità. Gorgoni muore in Galatina, nel suo palazzo di via Cavour, il 10 marzo del 1902; ma di lui dovremmo cercare di sapere di più.

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Diso. Il culto e la festa dei SS. Apostoli Filippo e Giacomo

 

Il culto e la festa dei SS. Apostoli Filippo e Giacomo, Patroni di Diso (Lecce) : i “Santi nosci”

 

di Rocco Boccadamo

Le celebrazioni espressamente dedicate hanno inizio il 21 aprile con il novenario.

Di buon mattino, a cura ed opera del Parroco e dei priori, questi ultimi intesi come i principali esponenti del comitato festa, le statue di legno dei Santi sono prelevate dalle nicchie appositamente ricavate nelle pareti interne della chiesa, “spogliate”, ossia senza gli ornamenti delle corone e delle insegne (croce e asta), e poggiate su uno scanno in prossimità dell’altare.

In quella fase, il luogo è quasi a porte chiuse, in pratica vuoto, l’azione si svolge in un misterioso silenzio, ammantato di riservatezza e di esclusività.

Il prete e i priori allestiscono, nel consueto angolo del tempio, a sinistra guardando l’altare, il baldacchino o “tosello” in pesante tessuto rosso; quindi prendono,  dalle custodie di sicurezza, le anzidette insegne in argento e le reliquie dei Santi, ponendole addosso ai rispettivi simulacri, in gergo “vestono” le statue.

Contemporaneamente, i rintocchi delle campane fanno giungere alla popolazione l’atteso, immancabile e immutabile avviso.

Fino a qualche decennio fa, la gente era colta dall’annuncio, quando già, dopo la sveglia all’alba secondo le antiche abitudini dei contadini, si trovava da tempo intenta al lavoro; dunque, lasciando di colpo arnesi e occupazioni, accorreva di buona lena, a passo affrettato, direttamente dalla campagna verso la chiesa.

Adesso, invece, nella quotidianità e particolarmente il giorno 21 aprile, nessuno si reca nei campi, anzi le persone si preparano in casa, in un certo senso con abiti di festa, per l’evento.

In tutta la comunità, sembra che sia rimasta solo un’anziana donna, la quale non ha cambiato le usanze e raggiunge la parrocchia così come si trova.

Con il luogo sacro ormai gremito di fedeli, il parroco e i priori intronizzano le statue sul baldacchino.

Nel tardo pomeriggio, in piccola processione, dalla congrega (cappella) della confraternita si preleva il simulacro in cartapesta della Madonna Immacolata – qui conosciuta come Madonna dell’Uragano, giacché la Vergine, stando alla tradizione, tenne indenne Diso da un devastante evento atmosferico – e lo si

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