Il titolo che ho scelto allude alla manifestazione di piazza contro la minaccia di trasferimento (anche se non all’estero …) del tabacchificio dell’ACAIT (acronimo di Azienda Cooperativa Agricola Industriale di Tricase). Non saprei dire, però, se l’articolo, che oggi propongo, di un giornale francese dell’epoca alluda a questo episodio (credo di sì) oppure ad un suo prodromo. Comunque, l’avvenimento del 15 maggio 1935 (con un bilancio più pesante: i morti sarebbero stati cinque) è ricostruito, con l’imparzialità che il trascorrere del tempo aiuta a raggiungere1, in Tabacco e tabacchine nella memoria storica: una ricerca di storia orale a Tricase e nel Salento, a cura di Vincenzo Santoro e Sergio Torsello, Manni, Lecce, 2002.
Segue la terza, in cui dell’articolo ho evidenziato il passo riprodotto nel dettaglio sottostante, al quale ho aggiunto la mia traduzione.
Il titolo dell’articolo L’opposition du peuple italien grandit contre la guerre impérialiste (L’opposizione del popolo italiano cresce contro la guerra imperialista) e il suo cappello Mussolini, sabotateur de la paix est pret à tout in Afrique, mais … (Mussolini, sabotatore della pace è pronto a tutto in Africa, ma …) è senz’altro sparato e pure di parte (la stampa indipendente, evidentemente, non è mai esistita e non esisterà mai) perché la collocazione in coda di contre la guerre impérialiste fa pensare che quasi tutto il popolo italiano fosse già contrario al fascismo e che l’opposizione crebbe successivamente di fronte alle velleità imperialistiche del regime. L’opinione che mi son fatto dalle poche letture delle fonti più che dalle loro interpretazioni (tale opinione sarà semplicistica ma, comunque, tien conto del fatto che, se non bisogna trascurare le eccezioni, è necessario pure non attribuire ad esse un valore statistico che fisiologicamente, altrimenti non sarebbero eccezioni, non possono avere) è questa: finché le cose andarono bene, anche sull’onda emozionale ad arte suscitata dai media e dalla propaganda del tempo, per lo più, a guerra avviata, si inneggiò al regime ogni volta che qualche sperduto e inerme villaggio africano veniva conquistato e, al contrario, una frenetica mutazione antifascista si verificò quando fu abbastanza evidente che si stava andando incontro allo sfacelo.
Condivido, però, la schematica analisi fatta dal giornalista francese e, soprattutto, la conclusione che è poi quella che la storia insegna da millenni e che, sempre attuale, è davanti ai nostri occhi in tutta la sua drammaticità: la vera rivoluzione può nascere, purtroppo, solo dalla fame…
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1 Giuseppe Di Vittorio in un suo articolo dal titolo enfatico di La rivolta di Tricase, uscito su Stato operaio nel luglio del 1935, celebrò l’evento solo come manifestazione antifascista.
La forma più antica è greca, cioè Λουπίαι (leggi Lupìai), ed è attestata in un frammento della Vita di Cesare di Nicola Damasceno (I secolo a. C.): Cesare [Ottaviano] salpò con le navi che aveva a portata di mano mentre era ancora in corso pericolosissimamente l’ inverno e, attraversato il mare Ionio, raggiunse il più vicino promontorio della Calabria dove nulla di chiaro era stato annunziato agli abitanti sulle ultime novità da Roma [l’uccisione di Giulio Cesare]. Sbarcato dunque lì, proseguì a piedi verso Lecce.1
Λουπίαι continua in Strabone (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Geographia, VI, 3, 6: Si è parlato sufficientemente delle piccole città sulla costa; nell’interno si trovano Rudie, Lecce …2
La forma latina esatta trascrizione della greca è Lùpiae, la cui attestazione più antica è in Pomponio Mela (I secolo d. C.), Chorographia, II, 66: … in Calabria Brundisium, Valetium, Lupiae … (… in Calabria Brindisi, Valesio, Lecce …).
In Giulio Capitolino, uno dei sei storici della Historia Augusta (compilazione del IV secolo d. C.), ricorre la forma Lòpiae3.
In Tolomeo (II secolo d. C.), Geographia, II, 12 ricorre la forma Λουππίαι (leggi Luppìai).
Tutte le forme fin qui riportate sono di numero plurale.
La trascrizione latina al singolare della variante tolemaica si ha nella Tabula Peutingeriana (copia del XIII secolo di un originale del IV secolo d. C.), VIII, 7, dove compare Luppia (da leggere Lùppia), evidenziato in rosso nell’immagine sottostante.
Nella Cosmographia dell’Anonimo Ravennate (VII secolo d. C.) ricorre il singolare Lùpia in IV, 31 e il plurale Lupiae in V, 1.
Nei Geographica, di Guidone (XII secolo d. C.) ricorre in 28 Lictia4 e in 71 Liccia5.
Questa forma antica che cronologicamente è la più vicina appare come la madre di Lecce e consente di tracciare la seguente probabile trafila: Λουπίαι (Nicola Damasceno)>Lùpiae (Pomponio Mela)>Liccia [Guidone, con passaggi –u->-i– e –ppi->-cci– come in sacciu (io so) dal latino sapio]>*Liccie (recupero dell’originario numero plurale)]>Lecce.
Per completare questa sezione va detto che Lupia venne associato a lupa da Iacopo Antonio Ferrari (XVI secolo) che in Apologia paradossica, Mazzei, Lecce, 1702 (cito dalla seconda edizione, stessi editore e luogo, uscita nel 1728, pagg. 253-255) così scrive: Che dunque la Città di Lecce sia, Signor Eccelso, stata una delle tre stazioni d’Italia, noi ne crediamo d’averlo assai ben provato con quel testimonio di C. Plinio, che ‘l disse più chiaro dell’altre6, a cui noi ci aggiugneremo il conghietural giudizio delle sue antichissime insegne della lupa fosca posta sotto l’ombra d’una gran quercia verde carca di ghiande d’oro in campo bianco, animal imperioso, e non soggiacente, dedicato dalla cieca antichità a Marte, e così parimente lo arbore della quercia, per esser durissima, di lunga vita, e che non fa punto stima del furor de’ venti, portatale questa insegna dalli suoi antichi Triumviri nel vessillo, con cui condussero la sua Colonia de’ Cittadini Romani, secondo l’antico costume Romano, e lasciatala per sua perpetua insegna; conciossiecchè i Romani, quando mandavano le lor Colonie o de’ lor propri Cittafini, o de’ Sotj loro del nome latino eliggevano prima i loro Triumviri cioè tre commissarj, i quali eseguendo il mandato d’un consiglio de’ diece uomini, a chi era del Senato, o dalla plebe Romana questa partenza per una antica legge data, riferita da Cicerone in tal sentenza: Decem viri quae municipia, quasque colonias velint, ducant colonos, quos velint, et eis agros dividant quibus in locis velint. Che al volgar dice: I Decemviri tutti quei municipij, e tutte quelle Colonie, che a loro piacerà, le conducano, li Coloni che vorranno, e loro spartino li terreni, che vorranno, andavano dove erano da questi mandati alli territorj descritti propri del popolo Romano, e vi conducevano quei poveri Cittadini Romani, overo i di loro compagni del nome latino, ed a quei designavano le nove Città per abitazioni, e spartivano per iugeri, cioè per tumoli, o moggi di terra i loro territorj, acciocchè con quei avessero essi potuto, ed i loro figlioli vivere, e campare; e perché soleva essere a loro frequente l’uso dei vessilli, con cui conducevano le Colonie, mentre alcune volte portavano in quelli dipinto un Leone, altre volte un Dragone, e spesso un Tauro, alla nostra Città vi portarono la Lupa dipinta sotto quella quercia, fosse per rendersi conforme al nome della Città, che LUPIA era quella, e la quercia per dimostrare con quel gieroglifico di quella, e di questa che la natura della nostra Città sia imperiosa, e che più presto elle comandi all’altre Città che obbedisca altrui, per essere natuuralmente inchinata al mestiere dell’arme, e per l’albero, che quanto più si cerca di sbatterlo con tagliarli li rami, tanto più ingrandisce, e fassi ricco di rami, di fronde, e di frutta. Ed ecco il testimonio infallibile, che Lecce fu Colonia de’ Romani, di quella marmorea iscrizione ritrovata in Napoli , la quale la portò il Galateo alla sua Iapigia, e che ora sta a Santa Maria della Libera7.
Antonio De Ferrariis detto il Galateo nel De situ Iapygiae pubblicato la prima volta a Basilea per i tipi di Perna nel 1558: Solum pingue et frugum omnium ferax, unde fortasse Lupiae, ab eo quod est LIPARON8, id est pinguae, dictae sunt (Il suolo è pingue e ricco di ogni frutto, donde forse fu detta Lupiae dal fatto che è fertile, cioè pingue). Senza scomodare LIPARON, che comporterebbe la spiegazione non facile dell’evoluzione fonetica, è strano che l’umanista di Galatone non abbia pensato direttamente al primitivo λίπος.
Ci fu poi chi pensò bene di arcaicizzare la congettura del Ferrari a meno di 150 anni dalla sua formulazione, molto probabilmente partendo dall’idea (ancora oggi comune a molti pseudostudiosi …) che più antico è più bello; solo che bisogna provarlo, almeno citando uno straccio di fonte e senza confondere le idee al lettore sprovveduto o semplicemente troppo fiducioso . Ecco cosa Luigi Tasselli (1630-1694) scrive in Antichità di Leuca, II, XV, Eredi di Pietro Micheli, Lecce, 1693, pag. 240: … se io volessi scrivere, chi fu il vero, e germano fondatore di questa Illustrissima Città, mi arriva in questo Pomponio Mela, Mario Massimo suo commentatore, Giulio Capitolino, Eutropio, e Antonio Galateo de situ Iapygiae, che mi accertano essere stata fondata e Lecce, e Rugge da Malennio Re 107 anni prima della guerra di Troia in quel luogo dove si vede9; e perché nel luogo disegnato s’incontrò disgratiatamente Malennio Re con una Lupa stesa sotto una Quercia, quindi si fu, che le diede per sua impresa una Quercia con di sotto una Lupa, Lupas, Lypias, Lopias, Lupium, Lyspiam, Lypiam e Aletium10ancora, hebbe su quei principii a chiamarsi Lecce; la quale poi da Licio Idomeneo fu amplificata; onde n’hebbe ancora il titolo di quasi Fondatore.
La lupa si avviava ad essere una fissa perché venne ripresa dal dottissimo Alessio Simmaco Mazzocchi che in Commentariorum in Regii Herculanensis Musei aeneas tabulas Heracleenses pars I, Gessari, Napoli, 1754, pag. 524, partendo dall’affermazione di Pausania (II secolo d. C.) secondo la quale il nome più antico di Lecce era Sibari11, realizza una cucitura, di cui non sarebbe capace il più disinvolto dei sarti, solo sulla base di alcune assonanze: Scitum est Lupum Hebraice Zeeb, sive contracte Zeb vocari. Usitatum est autem ferarum animantium vocabulis addi Bar, hoc est Agri sive Saltus aut Silvae. In Paraphrasi Chald. Psalmi L. 10 Thor bar est Taurus saltuum sive taurus silvestris, de quo ibidem subjicitur: Qui depascit unoquoque die montes mille. Pari ratione Zeb-bar sive (lenita scilicet Z in pronuntiatione) Sebbar erit lupus saltuum. Tyrrhenis autem (qui aevo antiquissimo tota Italia dominabantur) nulla amicior vocalis quam U fuit. Itaque ex Sebar fecere Συβαρ, Sybar. Cetera vocabulo addita ad Graecae terminationis modulum pertinet (È noto che in ebraico lupo si dice zeeb o, in forma contratta, zeb. Si usa poi aggiungere ai nomi degli animali bar , cioè campi o balze o selve. Nella parafrasi di un salmo caldeo alla line 10 thor bar equivale a toro delle balze o toro selvatico, intorno al quale ivi è aggiunto: Quello che in ciascun giorno pascola in mille monti. Per un simile motivo Zeb-bar oppure, lenita Z nella pronuncia, Sebbar corrisponderà a lupo delle balze. Ai Tirreni poi che da età antichissima dominavano in tutta l’Italia, nessuna vocale fu più gradita della u. E così da Sebar fecero Συβαρ, Sybar. Le restanti lettere sono pertinenti al modello della terminazione greca).
Riassumo quanto fin qui detto dal Mazzocchi: da un orientale Zeb-bar si sarebbe sviluppato prima il tirrenico Subar che in greco sarebbe diventato Σύβαρις (leggi Siùbaris). Riassumo ora per brevità pure la conclusione lasciandola al giudizio del lettore: nel passaggio dal mondo greco a quello romano sarebbe stata operata una sorta di traduzione del primo originario componente, favorita dal fatto che in greco lupo è λύκος e in latino lupus; e così si sarebbe passati da Sibari a Lecce, sempre terra di lupi.
Chiudo questa parte con la segnalazione, mio malgrado, del link http://www.iltaccoditalia.info/nws/?p=11431 dove il lettore potrà trovare nel periodo conclusivo del post un esempio eloquente di quanti danni possa fare col trascorrere del tempo una notizia campata in aria e maldestramente manipolata, lascio giudicare al lettore se in buona o in mala fede.
Di buon grado, invece, segnalo l’ottimo lavoro di Giovanna Falco; il lettore troverà le tre parti in cui esso si articola in
Qui et a Lecce a’ preti si dà titol di papa: per esempio papa Francesco, e così ciascun del suo nome, forsi alludendo alle lor comodità e benefici, mentre son ricchi almen di circa a dugento ducati di rendite.
Più avanti nella stessa provincia, scendendo per poche miglia in terra dal mare, ove torna meglio in acconcio, andai a vedere la bellissima e real città di Lecce, ne’ Salentini, fondata da Malennio, re loro, ed accresciuta da Littio Idomeneo, conforme stima il Padre Antonio Beatillo Giesuita nella Vita di Sant’Irene, e il Padre De Anna in quella del venerabile Padre Bernardino Realino. Più a lungo però scrivon il Galateo, con le antichità della provincia De situ Japigiae, e l’Infantino in 4 nella Lecce sacra. Ivi la fede si radicò per le gloriose operazioni di Sant’Oronzio, suo cittadino, oggi gran protettore, e Fortunato, di lui fratello, allievi di San Giusto, un de‟ discepoli del Signore, e Vescovi successivamente. Ha ella tre miglia di giro, con vie larghe e ben lastricate, giardini, fontane, fabriche nobili della pieta, che si cava nel suo fertile territorio, ch’è dolce e si lavora a guisa di legno con pialla. Non sa invidiar Napoli nello splendore e magnificenza delle chiese e de’ chiostri di tutti gli ordini, col sontuoso collegio della Compagnia dedicato alla Circoncisione, e il tempio vaghissimo de’ Teatini a Sant’Irene protettrice, con sette monasteri di Suore, tre spedali e varie confraternite. La Catedrale, col titolo della Vergine Assunta e piazza avanti, è stata rinovata nel 1658 dal Vescovo Monsignor Luigi Pappacoda, in forma sì nobile e vasta, con le cappelle ricche di marmi, gli epitafi delle quali, con quel della fronte, si trascrivon dal Abate Francesco De Magistris In Statu Rerum Memorab. Neap. I, numero 43, foglio 29, che non cede ad altre di questo dominio. La piazza grande ha il Seggio chiuso, di ferro, fontana e piramide, con la statua di Sant’Oronzio, sendo sparse le botteghe de’ negozianti. Poco discosto è il castello con fosso, ponte e presidio spagnuolo, assai valido. Han concetto le sue belle coperte di bombace per la state. Stimasi la più cospicua e più popolata città del reame, ove soggiornavan quantità di nobili e ricche fameglie, con molto lusso e con galanteria verso de’ forestieri, numerandosi a 3300 i fuochi. Vi risiede il Preside col suo tribunale, il Vescovo gode vasta giurisdizione in ventisette castelli, de’ quali Squinzano si appressa ad ottocento case, e Campiano a mille, in clima abondante e salubre. È munita ancor con la fossa, e ben regolate mura con varie torri.
Volle vedermi cavalcare il medico, ed io, ringraziatolo, me gli offersi, sollecitando per nove miglia di aggradevoli oliveti e di qualche minor casale l’arrivo a Lecce, scoverta nella torre quattro miglia avanti, quasi con maestoso invito, ma superiore alla fama che ne corre. Alle 21 ora, entrato in questa metropoli della Provincia di Otranto, fei cercar dell’Abate Don Scipione de Raho, cui recava lettere da Taranto. E mentre nel venerdì, alla funzion della Buona Morte, presi la benedizzione a caso da’ Padri della Compagnia, lo rinvenne il mio cameriere ne’ Teatini. Egli non permise che in alcun chiostro io mi fermassi, conforme l’avea fatto richiedere, ma mi volle e condusse subito in sua casa, che ha forma di palazzo, chiamando l’unico suo nipote, ritornato dalla Laurea Legale di Roma, e mi offerse cioccolata, o vin fresco, o acqua e conserve, mostrandomi (con intendimento discreto) le altre comodità. Gustai del vin rosso con due biscottini e, perché il cavallo poco prima e in pianura mi era caduto addosso, mi fei fare una chiarata, non permettendo ch’ei chiamasse chirurgo, sì come volea. Si cenò per tempo, seco solamente, in quella stessa stanza terrena, del pesce tonno, apparecchiato in varie guise con sollecitudine, dandomi luogo da giacere con libertà, e col camerieri nella contigua. Fattami rader la barba la mattina e trovandomi alleggierito nella gamba (ch’era la destra), uscii seco in carrozza. Guardammo l’interiore la mattina e la sera la parte di fuori, accorciando io la dimora mentre si riscaldava la stagione. Di due miglia e mezo si misura il giro di questa città, con quattro porte, buona cortina di mura e castello, inchiudendo non più di nove mil’anime, tutte civili verso il forastiero, diminuite dopo il contagio e la mortalità del 1679, con fameglie antiche e riguardevoli, alcuni Baroni però che col feudo di pochi carlini, altri col solo dottorato, han luogo nel Magistrato supremo. Vi ha trecento carrozze, mantenute con poca spesa. Le fabriche son di pietra bianca, che nasce là, si lavora con pialla e riceve impression di figure col coltello, della quale vidi curiose gelosie. Non si alzan molto a cagion del peso, che fa cadere spesso le mura ed i volti. Son provvedute di giardini di agrumi quasi tutte, e di cisterne per l‟acqua, sendo questo liquore in molti pozzi salmastro e in varie sorgenti profonde caldissimo, e scarseggiandosi di neve, che vien da Martina, 20 miglia lontano, a prezzo talvolta di un carlino il rotolo. Ogni chiesa ha la facciata, ed alcune bellissima, di pietra con le statue e cornici alla romana. Quella di Santa Irene, protettrice della città, offiziata da’ Padri Teatini, è maestosa, con le cappelle sfondate, in una delle quali presso la porta tre tele di San carlo Borromeo e, nella croce alla sinistra, San Gaetano, dipinti a Parma da un loro laico, ha un cornicione largo, ma il tetto desidera il volto o ‘l soffitto. Nell’abitazione una picciola libreria senza rarità. Vasto è il collegio de’ Pagri Giesuiti, con la fronte di grata apparenza, ma dentro è sconcio ne‟ dormitori, non piacendo che alcuni camerini nuovi, i passeggi ne’ chiostri da basso con la stanza cangiata in cappella dal Venerando Padre Realino da Carpi, sepolto ivi non si sa dove, presso alla sagrestia, restando finita di corpo grande la chiesa, nella piazza della quale il palazzo di buon’aspetto del fratello dell’Abate Cristalli di Nardò, già crocifero di Papa Alessandro VII. Bellissimo è il monastero e magnifica, forsi più di tutte, la chiesa di Santa Croce de’ Celestini, vicino alle mura, che vidi coperta di setini, col trono dell’Abate per la festa del Santo lor fondatore. Osservai quattro parochiali, una delle quali vaghissima nella maggior piazza, che ha la statua, e questa di marmo, dell’Imperador Carlo V, una fonte artifiziale con quella del Re di Spagna Carlo II, e una colonna trasferita da Brindisi, e già ivi consegrata ad Ercole, diminuita, però, con la statua di rame di Sant’Oronzo, valutata 300 ducati, benché tutta la spesa di questa mole e sua trasportazione arrivi a ventimila. Ne’ quadri più nobili del piedestallo sono incise le inscrizzioni, che riferisco. E ultimamente, nell’anno 1684, in tempo del Signor sindico Domenico Stabile, che vi cooperò non poco e ne ritiene dal Signor Costantino Bonvicino dedicata, con altre quattro statue de’ protettori non ancora intagliate, né fuse a gli angoli della base, e de’ balaustri, l’idea. Così, dunque, da un lato:
COLUMNAM HANC, QUAM BRUNDUSINA
CIVITAS SUAM AB ERCULE OSTENTANS
ORIGINEM PROFANO OLIM RITU IN SUA
EREXERAT INSIGNIA, RELIGIOSO TANDEM
CULTU DIVO SUBIECIT ORONTIO, UT
LAPIDES ILLI QUI FERARUM DOMITOREM
EXPRESSERANT, CELAMINE, VOTO, AEREQ;
LUPIENSIUM EXCULTO, TRUCULENTIORIS
PESTILENTIAE MONSTRI TRIUMPHATORE
POSTERIS CONSIGNARENT
E dall’altro:
SISTE AD HANC METAM FAMAE
AUGUSTUM QUONDAM ROMANI FASTUS,
NUNC ELIMINATAE LUIS TROPHAEUM
COLUMNAM VIDES, POTIORI NUNC HERCULI
D. ORONTIO SACRAE. NON PLUS ULTRA
INSCRIBIT ORONTIUS SCAGLIONE, PATRITIUS
NON SINE NUMINE PRIMUS, HUTUSCE
NOMINIS PATRIAE PATER. STATUA
AB ALTERA BASI. ILLAM CUM STATUA
EREXIT. ANNO DOMINI SALU. MDCLXXXIV
Si denominan le accennate parrocchiali il Vescovado, Santa Maria della Porta (che ha una Vergine devotissima), Santa Maria della Grazia in piazza, e Santa Maria della Luce.
Sette sono i chiostri delle donne, oltre la Clausura delle Convertite, e dodeci degli uomini, ciascun de’ quali osservai e spezialmente la cappella ne’ Conventuali, o stanza bassa, vicina al giardino, abitata da San Francesco, e la memoria di lui in marmo, con un albero di melangoli che piantò.
In Sant’Angelo de gli Agostiniani l’infermaria e la cappella del Giugno, autor del bel libro degli epigrammi che intitola Centum Veneres, mancato nel marzo dell’anno corrente 1686, soggetto che fioriva in amendue le Academie di questa città, cioè a dire ne’ Trasformati, che han per simbolo Dafne, e negli Spioni, che portan per impresa il cannocchiale con le parole Scrutabor Naturalia, e spiegano materie meteorologiche. Di lui si legge nel chiostro così:
D.O.M.
VENERAB. D. AUGUSTINI FRATRES
HUIC MOLI AEGROTANTIUM INFIRMANTI
SI QUI HYGEAE AUT MACHAO ARTE EGERENT
NOSOCOMIUM AERE SIBI SUFFECTO
A IO: BAPT. IUNIO I.C. LYCIEN. PATRITIO
PRO EIUS ARAE DEIPARAE AC SANCT. DICATAE
CENSU, DOTEQ; COLLATA
PACTO MISSARUM PROVENTU
IUNIOR. FAMIL. PIETAT. ERGO
SUPPOSUERE ANNO DOMINI M.D.C. LXXXII.
Nel destro lato della chiesa, la seconda cappella da lui dedicata alla Reina del Carmelo esponea fronte un’aquila con doppia corona su le due faccie coronate con un diadema, sotto la quale Pietas et Iustitia, et appresso così:
D.O.M.
AETER. NUM.
DIU TANTUM UT SAPERET PRORSUSQ. DEDISC. HUMANA
CASURA AETHE. SUB SOLE UNIVERSA
AEVITER UBI SINE DEO NIHIL
ALCYON VEL MAGNI NEUTIQ. DIES
RELIGI. ITAQ. IPSE MERITO PERAM. UNUS COLEN. UNA
GENS HIC IUNIA
AEDIC. HANC SACR. OB PIET. EXTRUCT. SCITEQ. ERECTAM
PEC. SANE SUA INNOC. AT TAM PARTA.
FOR. TAM. ADUOC. QUAM IN MAGIST. MUN
FID. QUIP. IN CULP. PROFESS. HAUD ELOQUENT.
AVERRUNC. EXTERNOR. AFFECTIB.
OPTAT. SUPPLEXQ. LIT. EXORAT.
ANNO DOM. MDCLXXVII.
Dentro la cappella, ch’è molto vaga e divota, si legge a destra in un marmo:
QUOUSQUE TREMESCES VIATOR?
MORTALES ETENIM AEQUE OMNES
DIU SANE VIXIT QUI BENE. QUI MALE, NEC VIXIT DIU
VIRTUTE TANTUM VIVITUR. SUA QUISA; MORITUR
MORTE.
IUNIORUM TAMEN, EN HIC OSSUA, EN HIC CINERES
INEVITABILI HUMANAM IN SORTEM EDICTO
OMNIUM CUI PRORSUS INTEREST PARENDUM
NATUS ES? NIL NISI MORIENDUM RESTAT.
NULLI NAMQ. DETUR MISSIO. MIGRANDUM OMNINO
TIBI HINC SAPIS NON IMMEMOR AT SIBI
SUISQ. IO. BAP. IUNIUS I.V.C. LYCIENS. PATRITIUS
HOC QUIDEM VIVENS PROSPEXIT SEPULCHRO
ANNO SAL. HUM. M. DC. LXXVII.
A sinistra in questa forma:
DEO UNI AC TRINO
CARMELITARUM DEIPARAE COELITIBUS UNA
SOCIATIS
NOMINE NON IMPARIBUS. DISPARIBUS MINUS
VIRTUTE
INULTA UTERQ; ADEO EXECRATUS EST FLAGITIA
MINOR UT ALTER FIT CAPITE. EX FORO ALTER
EX TORRIS
UNIUS ITAQ, AEMULATUS EXEMPLAR
ELIMINATIS ALTERIUS NEC. MORIBUS
PERTICOSAM QUO ABIGERET. TUNICATAM QUO
INDUER. QUIETEM
FORENSI HAUD EXOCULATUS PULVERE
CAUSAR. VELUT MILES CAUSIDIC. PROTINUS
EXESSIT. ABSTI. ARENA
HINC SACELLUM HOC. DIC. DOT. IO. BAPT. IUNIUS
I.C. LYC. PATRITIUS
SUI SUORUMQ, PIETATIS ITEMQ; RELIGIONIS
TESTIM.
A.R.H.M. MDC. LXXVII
Nel pavimento, poi, che cuopre il sepolcro:
ACCOLAE CIVES ADVENAE
OSSUA EN HIC TAND. UNA ET CINERES
PATRITIAE IUNIOR. LYC. FAMILIAE
QUORUM TOT SANE VIVORUM
SCITUS UBIQ; QUISQ; EMICUIT. LIT. AMUSUS NEMO
ADEO QUOD PRAETER VIRTUTEM
NEMINEM SIBI MERITO SCRIPSIT HAEREDEM
LITARUNT AT UT CAETERIS.
GRAPHIARIO IURIS ERGO HOC HUMANUM LAPIDE
SUA ETENIM QUEMQ; VICISSIM OPPRIMIT DIES
QUORS. TERRA ET PULU NUNC SUPERBITIS AD VANA?
NOSTRO QUAM NIL SUMUS QUISQ; VESTRUM EDISCAT
EXEMPLO
DEO VIVENDUM DECUSQ; NAM CUIQ; SUUM.
POSTERITAS DUBIO PROCUL REPENDET, ET
AETERNITAS
AN. SAL. HUM. MDCLXV.
In fine, di raro vidi al di dentro la casa oggi nobilitata, che dicon già fosse di Sant’Oronzo. Passai quindi a veder fuori, dopo desinare e preso riposo, il magnifico monastero de’ Padri Olivetani, col chiostro nobilissimo, giardino, massarie e feudi uniti, un de’ quali frutta solamente carlini, foresteria da prencipi, bellissimo quarto dell’Abate, poco anzi Procuratore in Napoli, che volle accompagnarmi e farmi vedere il vago e da lui ripolito tempio, con cupola e torre alta, con le statue a di [sic] altari in tre picciole navi, e la sepoltura di Ascanio Grandi poeta, gli antenati del quale servirono in primo luogo nella Segreteria del Conte Principe Tancredi. Avanti la sua facciata, son costituite di fabrica botteghe in gran numero per la fiera, che si disputa nel Regal Consiglio con la città di Bitonto. Posseggon que’ Monaci la torre o ’l giardino del sudetto Tancredi. Passai dopo al convento e alla bella chiesa de gli Scalzi di Sant’Agostino: ha quella per nome il tempio, con vago e vasto chiostro de’ Riformati di San Francesco in numero di 60 ben trattenuti, che mi mostrarono una spina insanguinata del Signore, un pezzo del Santo Legno della Croce, donato ad un de’ loro frati dalla Principessa Donna Olimpia Panfili, et un chiodo assai grosso con la punta tagliata, che sembrava nuovo, del medesimo nostro Redentore, costumato ad infondersi nell’acqua per divozion de gl’infermi, non però datasi a me questa a gustare per la poltroneria di un laico sagrestano, il tutto custodito in una croce di argento fra le supellettili della sagrestia. Al Lazzaretto, governato dalla città, ove osservai alcuni sucidi lebbrosi, da me non mai più veduti. A San Giacomo, chiesa allegra de’ Riformati di San Pietro di Alcantara, che sono venti et hanno bellissime tele a gli altari. Ameno e vasto è il lor giardino con una grotta dedicata oggi al Santo e alla sua statua, già piena di terra, la quale vuotandosi tre anni sono, scoverse, forsi non senza presagio de’ sinistri avvenimenti del Turco nella Pannonia e Peloponneso, piccioli e galanti specchi, quasi mosaici nelle mura, e fra essi nel volto, in buon carattere maiuscolo, nel petto di un’aquila e sovra una cometa, queste parole:
CUM FONTE, ET ANTRO DOMINUS FRUETUR
OTTOMANI SUPERBIA OCCIDET
Dicono che vi fosse una fonte, vivendo l’accennato Conte Tancredi, vicina ad una chiesetta vecchia, e molti bell’ingegni han preso quinci a poetare della prossima distruzzione della tirannia de’ musulmani. Io, quantunque in Napoli avessi giudicato spurio et imaginario questo concetto, lo conobbi per legitimo, deducendosi dal tempo, che si vede esser lontano dalla memoria, e da’ registri anche de’ nostri vecchi. Qui, fra gli alberi, è un delizioso passeggio di carrozze la sera, e fra tre strade una vaga fontana a forza di argani. V’incontrai fra molti il Preside, pure in carrozza, con un de gli Auditori, in questa residenza, della provincia di Otranto, e due Alabardieri dietro. I Cappuccini, al numero di 50, m’introdussero nel lor convento, su l’ora dell’Ave Maria, ch’è il primo della provincia, a veder la speziaria, l’infermaria e la biblioteca. Lasciai un miglio fuori i Domenicani nel lor convento col noviziato e chiesa grande, offiziata da venti Padri, restandone un altro dentro. E non entrai nell‟accennato castello fabricato da Carlo V, che passò in città per la porta chiamata Reale. Ma chi vuol saper più, legga la Lecce Sagra del Signor Francesco Bozi, patrizio, e attenda in breve la Lecce Moderna di Don Giulio Cesare Infantino, curato di Santa Maria della Luce. Doleasi il Signor Abate de Raho che io non volessi dimorar seco la domenica, e di non aver pronta qualche galanteria da donarmi, sì come sarebbe stato un de’ forzierini, o scrittori di pelle figurata e dorata nelle coverte o tabacchiere di paglia istoriate, che da 25 carlini son discese al valor di un tarì. Pur donommi un paio di guanti di Roma e alcune confitture, e volea per lo rinfresco far lavorar un pastone. Mi fé veder l’abito e il medaglione dell‟Ordine della Milizia Cristiana dell’Immacolata Concezzione, fondato in tempo e co’ privilegi di Papa Urbano Ottavo, conforme al bollario, non ammesso da que’ censori che supponeano tali esenzioni diminuisser in sommo il regal vassallaggio. Portommi nel quarto superior della casa a vedere i ritratti al vivo e in piedi de’ suoi genitori, cioè del Signor Mario de Raho, nobile antico, che, senza curarsi di que’ seggi, riseder volle in Lecce, ed era vestito col robbone di quella milizia. Egli, con dispensa pontificia, vi professò e fu promosso al sacerdozio, restando viva la Signora Andriana Ricci, sua consorte, in quello stesso quarto, disgionta da lui, che soggiornava di sotto, avendo ella votato castità perpetua nelle mani di Monsignor Girolamo de Coris, Vescovo di Nardò, ginocchiata avanti di lui e del suo intiero capitolo, con le mani giunte. Qualche volta si parlavano, e mangiavano insieme per la Pasqua.
Osservai dalle sue stanze (non curando riposarmi per profittar nel discorso) in quattro aspetti vaghissimi, molte città, fino il campanil di Lecce, che costa quindeci mila ducati.
Pervenni a Lecce in tre altre. Ivi fu la mia pausa, fino alla metà del giorno seguente, in casa del compitissimo Abate Don Scipione de Raho. Con esso lui tornai a visitar vari amici, spiccando fra loro la cortesia e la bellezza nelle donne. Mostrommi egli di nuovo il soffitto nella chiesa Madrice, e la cappella del Santissimo Crocefisso, col sepolcro composto di meravigliosi lavori di quella delicata pietra, per memoria e per cenno di Monsignor Vescovo Pignatelli. Seco io andai a rallegrarmene, scusandolo della restituzion della visita, con gradir le più benigne offerte, mentre mi raccontò gli sconcerti de’ suoi Diocesani, armati di centinaia di scoppette per resister al Sagro Sinodo convocato, e m’invitò alla bella funzione della prima pietra alla chiesa delle Monache di Santa Chiara.
Pacichelli, mappa
A Duomo e Vescovato (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Puglia_Lecce1_tango7174.jpg)
B Regio Castello/Castello di Carlo V(mappa/http://www.mondimedievali.net/castelli/puglia/lecce/lecce.htm)
C Piazza, Colonna con S. Oronzio, statua di Carlo V a cav., e fontana con altra statua del Re/Piazza s. Oronzo (mappa/adattamento da http://farm3.staticflickr.com/2427/3556658537_7380b5809a_o.jpg)
Da notare nel dettaglio della mappa le due statue equestri: la prima dell’imperatore Carlo V, la seconda, con fontana, di Carlo II (Nostro Signore è detto nella didascalia e Carlo II morì nel 1700, il che dovrebbe render certa la presenza delle due statue nella piazza almeno fino alla metà del XVIII secolo). Memoria di una fontana ancora più antica e funzionante ad energia animale (e agli animali in questione, come si vedrà, non si faceva mancare il biscottino …) è nelle Cronache di M. Antonello Coniger (vissuto tra il XV ed il XV secolo; cito dall’edizione apparsa in Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura Gio. Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò ristampate ed annotate da Michele Tafuri, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1851, v. II, pag. 512):
1498 … In questo anno ne la Cetà de Lecce uno ammaistrò dui cani de manera, che soli tiravano acqua a la fontana de la Piazza de Lecce in abondancia, ben vero l’huomo le dava le Calette.
D Seggio/Sedile (mappa/http://mw2.google.com/mw-panoramio/photos/medium/5332140.jpg)
E S. Irene (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Lecce_Chiesa_di_Sant%27Irene_dei_Teatini.jpg)
F Colleggiata de’ Gesuiti/Palazzo di giustizia(mappa/immagine tratta da http://www.arte.it/foto/500×375/9e/5114-038.jpg)
G Mo di S. Croce/Palazzo dei Celestini/S. Croce (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Basilica_di_Santa_Croce_e_Celestini_Lecce.jpg)
H Sp(eta)le della Trinità/S. Nicola(mappa/immagine tratta ed adattata da Google Maps)
I Porta Reale/Porta Napoli (mappa/immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Porta_Napoli_a_Lecce.jpg)
K Porta di Rugge/Porta Rudiae (mappa/immagine tratta da http://www.isoladipazze.net/images/lecce_portarudiae.jpg)
Stemma di Lecce (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Lecce-Stemma.png)
D’argento alla lupa passante di nero, attraversante il fusto di un albero di leccio di verde, sradicato e ghiandifero d’oro (D.P.R. 20 aprile 1942)
Da notare la diversa direzione di marcia della lupa. Lo stemma, comunque, sembra il frutto di un’ambiguità glottologica, dal momento che l’etimo, di cui si è parlato, di Lupiae da lupa, tenendo conto della variante è foneticamente sovrapponibile a quello da leccio. Quest’ultima proposta, comunque, a mio avviso, dev’essere considerata come paretimologica, propiziata, cioè dalla sovrapposizione popolare, probabilmente antica, di lezza/lizza nome dialettale del leccio: infatti, tenendo presente che leccio è derivato dal latino ìlìceu(m)=della quercia, aggettivo neutro da ilex=quercia, la congruenza fonetica di quest’ultimo con la forma latina di partenza Lupiae mi appare di problematica dimostrazione. Ad ogni modo: è evidente come nella creazione dello stemma l’autorità presunta o reale del Ferrari prima e del Tasselli poi abbia avuto un peso determinante.
3 Vita di Marco Aurelio Antonino (I, 8): Cuius familia in originem recurrens a Numa probatur sanguinem trahere ut Marius Maximus docet; item a rege Sallentino Malemnio, Dasummi filio, qui Lopias condidit (Si accetta che la sua [di M. Antonino] famiglia andando a ritroso nell’origine traesse il sangue da Numa, come insegna Mario Massimo; parimenti dal re salentino Malennio, figlio di Dasummo, che fondò Lecce]). Lopias è accusativo di Lopiae.
4 Dehinc urbs Lictia Idomenei regis … (Poi la città Lecce del re Idomeneo …). Peccato che nella Mappa di Soleto la posizione geografica non coincide con quella dell’attuale Lecce, perché il ΛΙΚ (leggi LIK) evidenziato in rosso nell’immagine sottostante sarebbe stato l’abbreviazione perfetta di Lictia.
6 Qui il Ferrari non so se volutamente o meno si lascia prendere la mano dagli intenti apologetici e confonde Lecce con Alezio, con una forzatura che potrebbe pure essere accettabile se fosse corroborata (ma così non è) dalla tradizione manoscritta. Ecco il brano originale di Plinio (Naturalis historia, III, 11): Oppida per continentem a Tarento Uria, cui cognomen ib Apulam Messapiae, Aletium, in ora vero Senum, Callipolis, quae nunc est Anxa, LXXV a Taranto, inde XXXIII promuntorium quod Acran Iapygiam vocant, quo longissime in maria excurrit Italia. Ab eo Basta oppidum et Hydruntum … (Città interne [a partire] da Taranto: Oria detta di Messapia per l’omonima apula, Alezio; sulla costa invero Seno, Gallipoli, che ora è Anxa, a 75 miglia da Taranto, quindi a 33 miglia il promontorio che chiamano estremità iapige, dove l’Italia si protende più lontano nel mare. Da esso la città di Vaste e Otranto …).
7 Ecco il testo dell’iscrizione che fu rinvenuta a Pozzuoli (CIL, X, 1795):
M(arco) Bassaeo M(arci) f(ilio) Pal(atina) / Axio / patr(ono) col(oniae) cur(atori) r(ei) p(ublicae) IIvir(o) mu/nif(ico) proc(uratori) Aug(usti) viae Ost(iensis) et Camp(anae) / trib(uno) mil(itum) leg(ionis) XIII Gem(inae) proc(uratori) reg(ionis) Cala/bric(ae) omnibus honorib(us) Capuae func(to) / patr(ono) col(oniae) Lupiensium patr(ono) municipi(i) / Hudrentinor(um) universus ordo municip(um) / ob rem publ(icam) bene ac fideliter gestam / hic primus et solus victores Campani/ae preti(i)s et aestim(atione) paria gladiat(orum) edidit / l(ocus) d(atus) d(ecreto) d(ecurionum)
Traduzione: A Marco Basseo Axio, figlio di Marco, della (tribù) Palatina, patrono della colonia, curatore dello stato, duumviro generoso, procuratore di Augusto per la via Ostiense e Campana, tribuno militare della XIII legione Gemina, procuratore della regione calabrese, con tutti gli onori designato a Capua patrono della colonia dei Leccesi, patrono del municipio degli Otrantini, tutto l’ordine dei concittadini per il potere pubblico bene e fedelmente esercitato. Qui primo e solo. I Vincitori. Con l’apprezzamento e la stima della Campania allestì gli spettacoli dei gladiatori. Il luogo fu dato per decreto dei decurioni.
A Lupiensium, genitivo plurale, corrisponde un nominativo plurale Lupienses, a sua volta forma sostantivata di un aggettivo Lupiensis/Lupiense. Tenendo presente che Athenienses deriva da Athenae va da sé che Lupienses suppone una derivazione da Lupiae attraverso un originario *Lupiienses con la naturale contrazione delle due vocali simili.
A proposito di etnici va ricordato che un Lyppiensie e un Lyppiensis (che suppongono un Lyppia o un Lyppiae) sono presenti, rispettivamente, nella prima redazione (IV secolo d. C.) e nella seconda (IV-V secolo d. C.) del Liber coloniarum (in F. Blume, K. Lachman e A. Rudorff, Die Römische Feldmesser, Reimer, Berlino, 1848, pagg. 211 e 262).
8 È la trascrizione del greco λιπαρόν (leggi liparòn) neutro dell’aggettivo col significato di grasso, ricco. La voce, a sua volta, è derivata dal sostantivo λίπος (leggi lipos)=grasso (dal quale in italiano il segmento lipo– che entra in molti composti, nonché, con lo stesso significato, il salentino lippu/llippu).
9 Fin qui andiamo bene; però, tutto ciò che segue, come il lettore sarebbe indotto a credere, non è da ascrivere a nessuno degli autori appena citati ma è pura invenzione (in assenza di riferimento a qualsiasi straccio di fonte, magari orale, sono obbligato a pensarlo) del Tasselli.
10 La serie toponomastica è tratta quasi tal quale dal De situ Japygiae del Galateo dove si legge: Urbem hanc alii Lupias, alii Lypias, alii Lopias, alii Lupium, alii Lispiam, alii Lypiam, alii Aletium, alii Licium, alii Lictium a Lictio Idomeneo, alii Liceam.
11Graeciae descriptio, VI, 19, 9: Ὁπόσοι δὲ περὶ Ἰταλίας καὶ πόλεων ἐπολυπραγμόνησαν τῶν ἐν αὐτῇ, Λουπίας φασὶ κειμένην Βρεντεσίου τε μεταξὺ καὶ Ὑδροῦντος μεταβεβληκέναι τὸ ὄνομα, Σύβαριν οὖσαν τὸ ἀρχαῖον (Quanti si sono occupati dell’Italia e delle sue città dicono che Lecce sita tra Brindisi ed Otranto ha cambiato nome, essendo anticamente Sibari).
La toponomastica della provincia di Taranto in una carta del 1589
Dopo le province di Lecce e di Brindisi1 è la volta di quella di Taranto ad essere analizzata toponomasticamente in base ai dati forniti dalla stessa carta utilizzata per le indagini precedenti. I tre contributi resteranno visibili per un mese, passato il quale saranno incorporati in uno solo che accoglierà le integrazioni e correzioni che ho già messo da parte, nonché quelle che nel frattempo il benevolo lettore avrà voluto comunicare.
Il lettore perdoni la mia debolezza, ma, essendo io nato a Manduria, mi piace dedicarle un po’ più di tempo. Nella mappa si legge un Casalnovo che nella prima stesura di questo ho erroneamente considerato corrispondente a Casalnuovo, nome che Manduria assunse quando venne rifondata nell’XI secolo dopo la distruzione da parte dei Saraceni. Così continuò a chiamarsi fino al 1789, quando per volere di Ferdinando I di Borbone riassunse l’antico nome, del quale riporterò le fonti dopo aver ringraziato Mimmo Ariano, il cui commento inserito nel lavoro relativo alla provincia di Brindisi è stato, sotto questo punto di vista, prezioso perché mi ha fatto notare che, quanto a coordinate geografiche, Casal è più compatibile con Manduria di Casalnovo, che probabilmente è da identificarsi con Torre S. Susanna, in provincia di Brindisi).
Ed ecco le memorie antiche del toponimo:
Tito Livio (I secolo a. C.- I secolo d. C.), Ab urbe condita, XXVII, 15, 4: Q. Fabius consul oppidum in Sallentinis Manduriam vi cepit; ibi ad tria milia hominum capta et ceterae praedae aliquantum. Inde Tarentum profectus in ipsis faucibus portus posuit castra (Il console Quinto Fabio prese con la forza la città di Manduria nei [popoli] salentini; ivi furono catturati circa tremila uomini e fatta altrettanta altra preda. Poi, partito per Taranto pose l’accampamento proprio all’imboccatura del porto).
Plinio (I secolo d. C.), Naturalis historia, II, 103: In Sallentino iuxta oppidum Manduriam lacum ad margines plenus neque exhaustis aquis minuitur neque infusis augetur (Nel [territorio] salentino presso la città di Manduria [dicono che c’è] un lago pieno fino all’orlo e non si abbassa quando le acque vengono attinte né s’innalza quando vengono versate). Sul Fonte pliniano: https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/07/17/il-caldo-lacqua-e-il-motore-di-ricerca-terza-ed-ultima-era-ora-parte/
Tabula Peutingeriana (IV secolo d. C.),VII,2: Manduris.
Stefano Bizantino (V-VI secolo d. C.), Ἐθνικά (leggi Ethnikà, lemma Μανδύριον (leggi Mandiùrion): Μανδύριον πόλις Ἰαπυγίας. Ὁ πολίτης Μανδυρῖνος ὡς Λεοντῖνος (Manduria città della Iapigia. Il cittadino [è detto] mandurino come leontino [da Leontini].
Anonimo Ravennate (VII secolo d. C.), Cosmographia, V, 1: Et si amat lector vel auditor et volunt subtilius scire totas civitates circa litora totius maris magni positas … minutius designemus… Ignatiae, Speluncas, Brindice, Baletium, Lupias, Idrontum, Minervium, Veretum, Baletium, Neretum, Manduris, Tarentum … (E se chi legge o ascolta vuole anche conoscere più precisamente tutte le città poste intorno alle coste di tutto il grande mare … le indicheremo più dettagliatamente … Egnazia, Spelunca, Brindisi, Valesio, Lecce, Otranto, Castro (?), Vereto, Alezio, Nardò, Manduria, Taranto …)
Guidone (XII secolo d. C.), Geographia, 72: Valentium, Lubias ubi nunc est Calipolis, Amandrinum, Saturum, Mesochorus, Tarentum, Metapontus … (Alezio, Lubias dove oggi è Gallipoli, Manduria, Saturo, Mesocoro, Taranto, Metaponto …
L’esistenza di saline a Tarantoè attestata in Plinio (I secolo d. C.), Naturalis historia, XXXI, 27: Siccatur in lacu Tarentino aestivis solibus, totumque stagnum in salem abit, modicum alioqui, altitudine genua non excedens, item in Sicilia in lacu qui Cocanicus vocatur et alio iuxta Gelam. Horum extremitates tantum inarescunt sicut in Phrygia, Cappadocia, Aspendi, ubi largius coquitur et usque ad medium. Aliud etiam in eo mirabile quod tantundem nocte subvenit quantum die auferas ([Il sale] viene seccato nel lago tarantino dal sole d’estate e tutto lo stagno si trasforma in sale, peraltro in modica quantità non superando in altezza le ginocchia; parimenti in Sicilia nel lago che è chiamato Cocanico ed in un altro nei pressi di Gela. Le loro superfici seccano come in Frigia, Cappadocia, Aspendo, dove il calore del sole è notevole e penetra nel mezzo. Altra cosa portentosa in questo sale è che di notte se ne riforma tanto quanto ne hai tolto durante il giorno).
XXXI, 29: Marinorum maxume laudatur Cyprius a Salamine, at e stagnis Tarentinus ac Phrygius, qui tattaeus vocatur. Hi duo oculis utiles …Salsissimus sal qui siccissimus, suavissimus omnium Tarentinus atque candidissimus, sed de cetero fragilis qui maxime candidus … ad medicinae usus antiqui Tarentinum maxime laudabant … (Tra i sali marini viene apprezzato massimamente il ciprio da Salamina ma dai bacini stagnanti il tarantino e il frigio, che si chiama tetteo. Questi due sono utili per gli occhi … È salatissimo il sale che è il più secco, gradevolissimo fra tutti e bianchissimo il tarantino, ma del resto friabile quello che è bianchissimo … gli antichi raccomandavano per uso medicinale soprattutto il tarantino …).
Immutati: GROTTAGLIE, SAN VITO (frazione di Taranto), TARANTO.
Non identificati: BAVANIA, LEORTAIA, LEPURANO (per posizione, non può essere LEPORANO; probabilmente, al pari del successivo PURZANO, si tratta di un errore), MORVIGGIO, ORTAIA, PURZANO (per posizione non può essere PULSANO), RUDIA, USANO (SAVA?), P. S. ANDREA (in altre carte S. ANDREA è il nome della più piccola di due isole antistanti il porto; l’altra è indicata con il nome di S. PELAGIA).
E,dopo il parziale ravvedimento (eccezionale in passato …) per una severità sentita, forse, eccessiva e il conseguente zuccherino della concessione di uno strascico festivo alle ragazze (i ragazzi, invece non erano mai camascima, tutt’al più ca…maschi), passiamo alle previsioni del tempo con un iniziale invito a non farsi troppe illusioni metereologiche.
E poi:
Qui il principio che la moderna climatologia chiama persistenza del fenomeno viene annientato da quello dei contrari, forse nato dalla considerazione consolatoria: peggio di così non può andare, perciò domani il tempo sarà senz’altro migliore. Ma il principio dei contrari viene applicato parzialmente, cioè solo quando fa comodo pensare ad un futuro climatico più favorevole, perché ignoro l’esistenza del gemello Candilora chiara, mese trubbu che, fra l’altro, sarebbe stato stata quasi una parafrasi dei latini (di origine, comunque, non classica) Palmae ut plurimum in nivibus, si purificatio in floribus4 (Le Palme tanto più nella neve se la purificazione [la Candelora] tra i fiori) e Sole micante/die purificante,/peior erit hiems quam ante5(Sole splendente nel giorno che purifica [la Candelora], l’inverno sarà peggiore di prima).
Che i salentini siano più furbi dei loro progenitori latini e degli inglesi per i quali, a scanso di equivoci, reticenze e omissioni, If Candelmas Day be fair and bright/winter will have another fight,/if Candelmas Day bring clouds and rain/winter is gone and won’t come again6 (Se il giorno di Candelora sarà chiaro e luminoso tornerà di nuovo l’inverno, se il giorno di Candelora porta nuvole e pioggia l’inverno è oramai finito)?
Nel proverbio finale che segue tra gli uccelli sono comprese pure le galline, anche se i mutamenti climatici da qualche anno a questa parte le hanno scombussolate, a meno che i problemi di … ovulazione non riguardino solo le mie.
Nel dialetto neretino candilora indica pure la parte apicale, formata da tre foglioline, del lampascione7, quando essa è appena emersa dal terreno (seconda foto: le tre foglioline evocano i tre bracci di un candeliere, la parte sotterranea il fusto): è quello il momento di raccoglierlo, anzi cavarlo …
Chiudo ricordando che Candelora è pure il nome di un menhir nei pressi di Melpignano (terza foto).
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1Camàscia potrebbe essere forma aggettivale dal greco κάματος (leggi càmatos)=spossatezza.
2 Alla lettera: servizi.
3 Mancano più di quaranta giorni all’arrivo della primavera. Il quarantale era propriamente un’estensione di terreno pari a circa 913 m2 e traeva il nome dal fatto che esso costituiva un appezzamento quadrato con quaranta viti per lato (1600 in tutto, ad una distanza l’una dall’altra di circa 75 cm.). Qui mi pare che la voce presenti uno slittamento dal concetto di spazio a quello di tempo.
4 In Odilo Schreger, Studiosus iovialis, seu auxilia adiocose et honeste discurrendum, Gafil, Monaco, 1749, pag. 652
5) In Giuseppe Toaldo, Completa raccolta di opuscoli, osservazioni e notizie diverse contenute nei giornali astro-meteorologici dall’anno 1773 sino all’anno 1798, Francesco Andreola, Venezia, 1802, v. III, pag. 60. Al proverbio in questione sembra alludere, dimostrandone l’inadeguatezza, un passo della Cronaca di Fra Salimbene de Adam (alias Adami) da Parma (cito dall’edizione a cura di Ferdinando Bernini, Laterza, Bari, 1942, v. II, pagg. 357-358 : Anno Domini millesimo CCLXXXVI, indictione XIIII, facta sunt hec subscripta. In isto anno fuit inordinata hyems. Nam omnia proverbia antiquorum falsa reperta sunt preter unum, quo consuevit dici: “Febrarius curtus, peior est omnibus” (subintelligitur “mensibus anni”; proverbium hoc verissimum fuit hoc anno, plus quam viderim toto tempore vite mee. Nam in isto Februario septem vicibus dedit Deus nivem sicut lanam, et nebulam sicut cinerem sparsit; et fuit validum frigus et gelu, ita ut illud propheticum putares impletum Zacharie ultimo: “In die illa non erit lux, sed frigus et gelu”…. Revertamur ad principium hyemis, quae tota fuit pulcra et temperata a principio usque ad Purificationis festum, quo die descendit pluvia grandis, nec sic proverbium antiquorum locum habere potuit, ut dici posset illud Cant. II: “Iam hyems transiit, hymber abiit et recessit” sed magis illud Ps.. “A facie frigoris eius quis sustinebit?”. Et in vere isto anno optime arbores floruerunt, sed descendit pruina, que flores amigdalarum et aliarum arborem pomiferarum nec non et palmites vinearum in multis locis pro magna parte destruxit. Et ita spes de fructuum abundantia quasi frustrata et desperata fuit (Nell’anno del Signore 1286, indizione XIV, avvenne quanto di seguito è descritto. In quest’anno ci fu un inverno straordinario; infatti tutti i proverbi degli antichi si rivelarono falsi eccetto uno col quale si soleva dire: “Febbraio corto è peggiore di tutti” (sottinteso: i mesi dell’anno). Questo proverbio fu verissimo in quest’anno più di quanto abbia visto in tutto il tempo della mia vita: infatti in questo febbraio Dio diede sette volte neve come lana e sparse nebbia come cenere e furono intensi il freddo e il gelo, sicché avresti pensato che si fosse compiuta la profezia finale di Zaccaria: “In quel giorno non ci sarà luce ma freddo e gelo” … Ritorniamo al principio dell’inverno che fu tutto bello e temperato dall’inizio fino al giorno della purificazione, nel qual giorno discese una gran pioggia e così il proverbio degli antichi non potè avere conferma, sicché non si sarebbe potuto citare quel cantico II: “Ormai l’inverno è passato, la pioggia si è ridotta ed è cessata” ma piuttosto quel salmo: “A questa specie di freddo chi resisterà?”. E quest’anno in primavera gli alberi fiorirono ottimamente, ma discese il gelo che in molti luoghi distrusse in gran parte i fiori dei mandorli e degli altri alberi da frutto, nonché i tralci delle viti. E così la speranza di frutti abbondanti fu quasi frustrata e delusa).
6 In George Latimer Apperson, Dictionary of proverbs, Wordshort Editions limited, Londra, 2006, pag. 82.
Sikalindi è un nome che sa di esotico, lo ascolti e ti sembra di poter volare lontano, invece rimani con radici (nel senso più letterale del termine) ben piantate in Salento. Sikalindi è il fico d’India detto in grico. Fare mobili col fico d’India? In Salento si può!
L’azienda che aggredisce il mercato con l’intelligenza e la capacità, questa si tutta salentina, di saper ricavare il bello dal consueto si chiama proprio così: Sikalindi.
È pianta infestante, cresce ovunque, fra le rocce, negli uliveti, in ogni pezzo di terra dove può mettere radici. A volte può diventare fastidiosa per i contadini che la debbono tenere a bada, controllare, ripulire, potare. E le “pale” tagliate debbono essere fatte a pezzi e poggiate sui muretti a secco per appassire e poter esere smaltite. “Se le lasciamo a terra immediatamente radicano e tornano ad infestare più di prima” dicono i contadini.
Nasce da un’intuizione la produzione di mobili e complementi d’arredo della Ditta Sikalindi, condotta da Marco e Marcello Rossetti. Mobilieri di seconda generazione, ad un certo punto dovettero prendere atto che l’affollamento dei concorrenti in Italia lasciava poco da dividere, il mercato era saturo, occorreva distinguersi, trovare nuove forme di produzioni, nuovi materiali.
“Abbiamo messo assieme due peculiarità, da una parte la capacità ereditata di costruire mobili, dall’altra la necessità di distinguerci e la conoscenza del nostro territorio, la passione per la natura. Abbiamo iniziato a testare i materiali del nostro territorio alla ricerca del valore aggiunto” dice Marco.
Salentini di Casarano non volevano andare lontano a trovare materiali da lavorare, “abbiamo provato con tutto, anche con la pietra leccese, con l’ulivo, qualcosa che non funzionava c’era sempre, nè volevamo aggredire l’ambiente con il taglio di alberi preziosi. Nella nostra campagna c’erano molti fichi d’India, più che un’intuizione è stato un lavoro di ricerca pignolo, metodico. Dovevamo sfruttare il reticolo legnoso che è all’interno delle foglie, che poi abbiamo battezzato fibra di fico d’India. Abbiamo lavorato anni sul capire come lavorarlo, come toglierlo dalle foglie prima che l’acqua contenuta lo macerasse, alla fine ci siamo riusciti con un processo che ora è coperto da brevetto ed è vero legno dopo la stagionatura. Due anni di lavoro intenso, poi nel 2006 il brevetto e nel 2011 abbiamo aperto questo show room che per noi è vetrina indispensabile, i turisti passano da qui si fermano e apprezzano.” I mobili e i complementi d’arredo prodotti ed esposti nello show room di via Libertini, a Lecce, sono veramente innovativi e belli nel design. “E il meglio deve venire”, è orgoglioso Marco quando parla della produzione prossima ventura in collaborazione con Sandro Santantonio, un design milanese di fama che collabora ora stabilmente con Sikalindi nella creazione di nuove collezioni.
Prima di aprire il negozio ovviamente alcuni clienti privati già avevano in casa pezzi che potremmo definire unici.
“La fibra di fico d’India esiste come legno in formazione, è una sorta di cartilagine. Non lignifica in quanto si decompone con l’acqua contenuta nelle foglie. Quello che abbiamo fatto è stato di separare la parte molle dalla dura quando la foglia è ancora verde. Poi si stagiona, come ogni legno che deve perdere la parte umida. Non parliamo di una fibra, è vero e proprio di legno. Contiene moltissima lignina, più di altri vegetali. E’ vero che ci sono in commercio piccoli oggettini di fibra di fico d’India, orecchini e ninnoli, però chi li crea utilizza piccole parti diventate legnose, il brevetto che noi abbiamo creato consente invece di utilizzare tutta la fibra nella foglia. Dopo la stagionatura, con opportune resine, lo applichiamo su supporti multistrato di betulla. Anche qui la nostra attenzione per l’ambiente, non cerchiamo legni diversi che implicano la distruzione di foreste e di boschi, la betulla è invece coltivata per fare mobili e riforestata di continuo. Utilizziamo solo legni certificati. Se parliamo di legni nobili come l’ebano, il mogano ed altri, ovviamente, parliamo di deforestazione, noi vogliamo distinguerci anche in questo. Inoltre noi con il fico d’India utilizziamo scarti di potatura. I contadini, per evitare il troppo infittimento delle pale, le tagliano, quindi debbono farle seccare sui muretti ed eliminarle, noi le ritiriamo senza abbattere nulla ed evitando un lavoro suppletivo ai contadini, non a caso Coldiretti ci ha riconosciuto questo lavoro.
Ovviamente la materia prima per noi è gratuita, il costo è la lavorazione che segue, non utilizziamo truciolati, solo multistrati come base per i mobili. Anche le resine sono di ultima generazione. Prossimamente, grazie ad una sinergia che abbiamo creato con Unisalento, si stanno testando resine ad impatto zero”.
“La domanda si pone naturalmente, durano a lungo i vostri mobili?”
“La fase di sperimentazione è durata 5 anni ed è terminata nel momento stesso in cui abbiamo aperto il negozio (tre anni fa). In quel momento oramai eravamo certi che la tecnica era stata perfezionata ed il prodotto era assolutamente affidabile. E così è stato”.
“Il vostro mercato?”
“Lecce è città turistica, vendiamo parecchio tramite il passaggio anche di molti stranieri e su internet. In Italia l’e commerce sta decollando, all’estero funziona alla grande. Abbiamo prodotto merce per gli USA, li hanno acquistati vin Internet”
“Un’azienda in contro tendenza, voi date lavoro”
“Non abbiamo grandi numeri, la crisi si sente, però abbiamo numerosi terzisti che lavorano per noi. In azienda ci occupiamo della parte più delicata, il resto tentiamo di creare lavoro anche fuori. Però siamo in controtendenza e in espansione”.
“Mi dice del rapporto qualità prezzo dei vostri prodotti?”
“Il materiale costa, il mobile può costare poco in rapporto. Abbiamo pezzi di punta che sono comunque pezzi unici e tutta una serie di prodotti a costi sostenibili, dall’oggettistica a tavolinetti. Abbiamo soprattutto una clientela che comprende ed apprezza, soprattutto che conosce, generalmente con un livello socio culturale medio alto. Questo ci conforta molto, non parliamo di fasce altissime di reddito, ma di persone che scelgono il nostro prodotto come unico. Non è un caso che molti nostri clienti siano sensibili all’arte e al bello”.
“Siete anche stati premiati”
“Certo, siamo segnalati per il premio sviluppo sostenibile 2013, dell’omonima fondazione che ha come presidente Edo Ronchi. Siamo fra le prime dieci aziende nel settore eco design. Siamo stati premiati nell’ambito di Oscar Green di Coldiretti. Abbiamo partecipato a trasmissioni su TV 2000 di Avvenire, su UnoMattina, prossimamente saremo a Geo & Geo.”
Credo che Wikipedia sia più consultata della versione on line della Treccani. È questo un altro segno di quella globalizzazione culturale resa possibile dalla rete e le cui conseguenze epocali sono state delineate nel recente post Tra globale e locale: riflessioni su diritti e mutamenti partendo da Rodotà(https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/11/tra-globale-e-locale-riflessioni-su-diritti-e-mutamenti-partendo-da-rodota/) a firma di Leonardo Gatto. Così, può sembrare paradossale, tanta parte di conoscenza di realtà locali, prima immeritatamente e superficialmente bollata spesso come manifestazione di provincialismo, ha trovato nella rete il suo veicolo di diffusione e discussione (oltre che di aggiornamento e integrazione continui) e Wikipedia è diventato un contenitore globale, mentre le enciclopedie tradizionali anche nella loro versione digitale rischiano di diventare non solo statiche ma, in un certo senso, locali. Se, però, alcune smagliature possono anche comparire sulla Treccani (mi limito a risegnalarne una che è ancora lì a far bella mostra di sé all’intero globo: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/26/lettera-aperta-a-massimo-bray-titolare-del-mibac1/), il rischio in Wikipedia è di gran lunga più spinto, perché ho l’impressione che poco efficace sia, sul piano scientifico, il controllo della validità di certe schede. Non è la prima volta che faccio osservazioni del genere (non aggiungo altri links per non obbligare il volenteroso di turno a consumare un’intera giornata per leggere fino in fondo questo post …) e questa volta sono incappato in rete in Colimena, il nome della torre costiera in territorio di Manduria in provincia di Taranto.
Il significato del nome di questa località è ancora piuttosto incerto.
Tuttavia, l’etimologia del nome è di evidente derivazione ellenica, risalente al periodo della Magna Grecia.
Probabilmente il nome Colimena è dovuto alla contrazione di καλή λιμένων (kalì limènon, buoni porti), oppure da κολλημένα (kollimèna, attaccati), in quanto la baia di Torre Colimena e l’attuale Salina dei Monaci apparivano agli occhi dei navigatori come due sicuri porti attaccati, attigui.
O, ancora, il nome potrebbe essere la contrazione di κολύμπι μέρη (kolympi mèri, luoghi per nuotare).
Altri, invece, ritengono che il nome derivi dal latino columna (colonna) in quanto, sul luogo, sono state reperite diverse colonne risalenti al periodo romano.
Pur mantenendo la sua inequivocabile origine greca, il nome Colimena è ricorrente anche nella letteratura spagnola come nome proprio femminile che si rifà, secondo alcune altre fonti, presumibilmente al nome della ninfa Colimena, una nereide marina della mitologia greca.
Direi che le cose vanno male già dall’inizio con quella derivazione ellenica risalente al periodo della Magna Grecia, in cui l’ambiguità di quel risalente serve solo a giustificare tutte le locuzioni subito dopo messe in campo, che sono neogreche e che servono solo a bypassare le anomalie di ordine fonetico riguardanti l’evoluzione vocalica. Nonostante questa contraddizione iniziale che da sola basterebbe a smontare tutta la costruzione, passo ora ad esaminare le varie ipotesi facendo preliminarmente notare come non risultano citati i riferimenti alla fonte, neppure laddove questa viene genericamente messa in campo (debbo pensare che quando neppure genericamente si parla di fonte il padre dell’etimo sia lo stesso autore della scheda?).
1) καλή λιμένων (kalì limènon) In greco classico sarebbe stato καλοί λιμένεϛ (leggi calòi limènes). Facile notare come Colimena rispetto alla locuzione neogreca come a quella classica presenta una –o– che deriverebbe (e come?) da –α-(leggi –a-), nonché la –a che deriverebbe (e come?) da –ω(ν) [leggi -o(n)].
2)κολλημένα (kollimèna)Qui il vocalismo sarebbe compatibile ma risulterebbe molto strano lo scempiamento –λλ– (leggi –ll-)>l di fronte alla tendenza alla geminazione caratteristica del nostro dialetto. In greco classico è κολλωμένα (leggi collomèna) e rispetto a colimena bisognerebbe giustificare lo stesso presunto scempiamento di prima e il vocalismo –ω– (leggi –o-)>-i-.
3) κολύμπι μέρη (kolympi mèri) La presunta trafila sarebbe: κολύμπι μέρη>κολύμμιμέρη (assimilazione –μπ->-μμ-; leggi coliùmmi meri)>κολύμμιμένη (leggi coliùmmi meni). Peccato, però, che bisognerebbe giustificare nel primo componente lo scempiamento –μμ– (leggi –mm-)>–m- e nelsecondo il passaggio -ρ->-ν-. In greco classico la locuzione sarebbe stata κολύμβῳ (leggi coliùmbo) μέρη e anche per questa valgono le stesse incongruenze appena rilevate per la neogreca.
4) columna Sarebbe interessante conoscere il nome degli altri che hanno formulato l’ipotesi etimologica che l’anonimo autore della scheda riporta dopo quelle che ritengo essere le sue. Intanto non sono al corrente di ritrovamento di colonne romane in loco e, oltretutto, se il toponimo fosse legato al latino columna, sarebbe stato culonna (forma unica per tutto il Salento) e non certo colimèna che supporrebbe l’inserimento di una –e– eufonica secondo la trafila: columna>columèna>colimena. Se così fosse stato colonna in salentino sarebbe stato non culonna ma columèna.
5) Pur mantenendo la sua inequivocabile origine greca, il nome Colimena è ricorrente anche nella letteratura spagnola come nome proprio femminile che si rifà, secondo alcune altre fonti, presumibilmente al nome della ninfa Colimena, una nereide marina della mitologia greca.
Siamo alla botta finale con la consueta genericità di secondo alcune altre fonti e il presunto rifacimento della voce spagnola alla nereide Colimena. Lasciando da parte la letteratura spagnola e guardando in casa nostra, dico che nessun autore ha mai attestato l’esistenza di Colimena ma che questa presunta ninfa diventa l’emblema di quel pressappochismo interessato (dunque, non sempre legato all’ignoranza) che non perdono nemmeno agli artisti. Le cose stanno così: si prende il nome di Climene [attestato, in riferimento non sempre alla stessa divinità, nella forma greca Κλυμένη (leggi Cliumène) nell’Iliade (XVII, 47), nell’Odissea (XI, 326), in Esiodo (VIII-VII secolo a. C.), Theogonia, 351, nello Pseudo-Apollodoro, Bibliotheca (compilazione del I-II secolo), II, 1, 5; nella forma latina Clymene in Igino (II secolo d. C.), Fabulae, praefatio, VIII], si aggiunge una –o-, si cambia la terminazione da –e in –a e il gioco è fatto. Ecco scodellata la ninfa Colimena pronta, addirittura, a diventare protagonista di uno spettacolo, la cui recensione dal titolo Sal Salina Salento a firma di Paolo Vincenti chiunque abbia interesse potrà leggere in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/05/sal-sal-ina-sal-ento/.
Sarebbe stato preferibile che il nome della nostra gente non fosse derivato dal sale ma che ne avessimo conservato in testa un pizzico in più …
Tornando al nostro etimo: come uscire dal pantano? Io credo che, senza considerare il Rohlfs un evangelista, chi affronta una questione etimologica riferita al salentino non possa prescindere, laddove essa esista, dalla proposta avanzata dallo studioso tedesco e almeno citarla, poi confutarla, se si è in grado.
Io nel mio piccolo mi limito alla prima azione: dal greco κωλυμένος=scostato. Poi, illudendomi per un istante di essere meno piccolo, mi avventuro ad aggiungere una correzione ed una glossa. Κωλυμένος (leggi coliumènos) nelle intenzioni del Rohlfs sarebbe dovuto essere il participio presente mediopassivo maschile del verbo κωλύω (leggi coliùo)=dividere. La forma corretta, però, è κωλυόμενος (leggi coliuòmenos). A questo punto qualcuno dirà che, per l’accento, al nostro toponimo è più vicino κωλυμένος di κωλυόμενος. Osservazione ineccepibile e, giacché ci siamo, faccio notare pure che se il nostro toponimo fosse derivato da κωλυόμενος sarebbe stato Coliòmeno, se, per assurdo(visto che, come ho detto, non esiste) da κωλυμένος sarebbe stato Colimèno.
Per risolvere il problema dobbiamo considerare non il maschile ma il femminile singolare del participio presente di κωλύω, che è κωλυομένη (leggi coliuomène). Da questo a Colimèna (attraverso *Coliomèna) il passaggio è immediato e la terminazione in -a del nostro toponimo (mentre la voce greca termina in –η) potrebbe riferirsi ad una forma dorica *κωλυομένα.
Da escludere una derivazione dal neutro plurale dello stesso participio che è κωλυόμενα (leggi coliuòmena) e avrebbe dato Colìmena (attraverso *Coliòmena).
Non escluderei, invece, κεκωλυμένη (leggi kekoliumène), nominativo femminile del participio perfetto mediopassivo dello stesso verbo; in questo caso, però, dovrei supporre l’aferesi di κε-, caratteristica del raddoppiamento tipica del perfetto, intesa quasi come inutile ridondanza sillabica.
Dopo aver fatto notare come in etimologia anche un accento ha la sua importanza e che il κωλυμένος del Rohlfs va corretto in κωλυομένη oin(κε)κωλυμένη, sul piano semantico la nostra voce, che alla lettera significherebbe impedita, potrebbe contenere un riferimento alla pericolosità (malaria?) e/o difficoltà di accesso (bosco, palude?) alla zona. Se è così, il luogo avrebbe prestato il suo nome alla torre e non viceversa.
E al fascino dei paraggi della torre e delle sue creature (troppo facile ambientarvi qualsiasi rappresentazione …) vi lascio grazie alle foto che, come le due precedenti, ha realizzato appositamente per me Corrado Notario, al quale va il mio ringraziamento.
La pittura di Ezio Sanapo ha la sfumatura del sogno
Conoscere la storia di un artista contemporaneo, le vicissitudini private oltre che pubbliche è, dunque, fondamentale. Di Giotto, per citare un nome, o di altri artisti, anche anonimi ma, storicizzati attraverso le loro opere, non sappiamo nulla, molto spesso, della loro vita privata.
Ciò nonostante, le loro opere continuano a comunicare in maniera indipendente poiché sono, fondamentalmente, il risultato di almeno tre elementi, separati o compresenti, generanti l’opera d’arte oltre la necessaria sapienza dell’artista stesso:
Il primo elemento è quello della interpretazione letteraria, il secondo quello della traduzione in immagini dei testi sacri per consentire al popolo, un tempo incolto, la comprensione del messaggio biblico-evangelico. Terzo, ma non ultimo in termini di importanza, quello di una committenza, ricca e agiata, (non sempre necessariamente colta), la quale spesso entrava a piè pari, anche, anche nella progettazione della stessa opera.
Oggi non è più così. Non ci è dato comprendere l’arte contemporanea fino in fondo se non conosciamo le intime motivazioni che hanno indotto l’artista a realizzarla. Anche perché, molto spesso, rappresenta il mondo interiore, dunque uno stato psichico e pertanto invisibile.
E’ priorità insostituibile e necessaria conoscere le esperienze di vita vissuta dell’artista, per trovare la chiave di accesso alla lettura dell’opera d’arte e, di conseguenza, alla comprensione del messaggio artistico.
La pittura di Ezio Sanapo ha la sfumatura del sogno. Sembra essere pensata di notte e realizzata di giorno.
L’esperienza della vita dovrebbe imporgli una pittura espressionista accesa, fatta di colori forti e svelte pennellate. Di colori primari squillanti e secondari contrastanti. Ed invece adatta toni sommessi, quasi sempre sussurrati, rare volte accesi.
Sanapo sceglie di usare colori tenui, lievi tonalità quasi incipriate, impalpabili. Dando vita ad una gamma cromatica morbida, vellutata che par di sentire Haydin piuttosto che Beethoven.
Sceglie di essere autodidatta assoluto, abbiamo detto. Una decisione che rischia di essere il suo limite ma dalla quale ne consegue un risultato originale e una cifra stilistica riconoscibile. Sceglie cioè di agire lontano dal riferimento all’operare di altri artisti modernisti o post-modernisti del novecento i quali ricercarono nuove forme espressive raggiungendo, a volte, risultati originalissimi, oltre invece, concludendo con un approccio a tutta la storia palesemente eclettico.
Il suo alto senso della tradizione lo dissuade dall’effettuare sperimentazioni nell’ambito di correnti artistiche più o meno originali, più o meno criticamente fortunate.
Resta profondamente ancorato a una pittura figurativa descritta da formule tonali personali e da rappresentazioni dal carattere indiscutibilmente intimista.
E’ bene ricordare che l’arte, in tutte le sue manifestazioni, reali o illusorie che siano, non prescinde mai dalla rappresentazione di due tipi di spazio: lo spazio pieno, rappresentato dalla forma e quello vuoto che la contiene. Nelle opere di Sanapo, molto spesso, lo spazio vuoto assume predominanza fino a diventare soggetto esso stesso. Distanza incommensurabile dalla forma. Spazio entro il quale assistiamo alla sospensione del tempo. Rappresentazione drammatica e metafisica insieme.
Scorgiamo affiorare persino l’idea dello spazio che avvolge le scene dei ricordi d’infanzia. A volte i due spazi, pieno e vuoto, interagiscono. La stessa fissità, stabilità e rigidità delle architetture è messa in discussione. E queste divengono morbide, animate, fino a sembrare quasi che respirino. Come nel ciclo di opere “Coppia in interno con sottofondo musicale”, nelle quali le architetture trasmettono il senso ritmico della musica divenendo corpi sinuosi e molli come corpi danzanti, forse più della coppia stessa.
Il modo di Sanapo di affrontare lo spazio determina una rappresentazione ipnogocica, costruita cioè con figure che paiono provenire da una condizione di dormiveglia.
Pur essendo preminente la forma emerge un senso di vuoto e di solitudine in uno spazio dove qualcosa è accaduto o sta per accadere. Una sorta di sospensione del tempo su una soglia che determina l’inizio o la conclusione di un evento in un’atmosfera tutta surreale.
La luce è pensata come forza che sublima il reale invalidandone la consistenza e la concretezza della materia.
Sembra continuamente stimolato a rappresentare il reale attraverso il surreale. Ci invita a riflettere sui motivi ricorrenti della nostra tradizione culturale con la consapevolezza di quanto e come i valori etico-sociali si sono trasformati se non addirittura perduti. Cercando di recuperare le valenze positive della tradizione con i suoi valori. Prendendo in esame una rivalutazione critica del passato per comprendere consapevolmente il presente.
La sua è una figurazione solo in apparenza semplice poiché e fondamentalmente criptica e simbolica.
Ci sono dettagli singolari nelle sue opere, che comunicano una intensa riflessione esistenziale ed immagini generali a cui affida le sue emozioni più recondite, espresse da tematiche come l’emarginazione o la solitudine, la paura ansiogena che il male possa vincere sul bene, la preoccupazione di dare un’altra chance all’amore.
Senza perdersi mai d’animo nutre l’embrione della speranza: enigmatico e chiaro allo stesso tempo, quanto coinvolgente, è il dipinto “ Il mare di Addolorata la goffa”, nel quale una figura femminile, sulla riva, attende dal mare l’arrivo della nave che porterà il suo corredo e si potrà avverare il sogno che le consentirà di intraprendere il percorso di iniziazione verso il riscatto della propria condizione umana. La scena è pervasa da un surreale senso di immanenza e di immutabilità delle cose. Drammatico è qui lo spazio vuoto, più del pieno, più della forma.
E’ costantemente immerso invece nella dimensione spirituale, con le Opere del ciclo “Una Donna di Nome Maria”, che potrebbe essere dedicato a Don Tonino Bello e a i suoi scritti mariani. In esse la luce è pensata come forza che sublima il reale invalidandone la consistenza e la concretezza della materia. L’opera “Natività” l’idea di una Donna-Madonna che potrebbe addirittura risultarci blasfema per la libertà del gesto con cui si priva dell’aura sacrale. Esprime senza falso pudore, tutta la gioia per la maternità e per la nascita del figlio: la Madre è veramente Madre e, davvero, Cristo si è fatto uomo.
Generalmente gli spazi e gli orizzonti sono indefiniti, sfumati. Diafane le figure. Le forme, a tratti evanescenti e pronte a dissolversi nell’aria se non ci fosse il disegno a descriverle e sottoscriverle, chiamato a contenerle e sostenerle. E dunque a strutturare e reggere la composizione tutta.
Costruisce le immagini con colori pastellati e una materia pittorica che non prevarica la forma ma la supporta, sfumandola, stando un passo indietro.
Favorisce l’aspetto emotivo e poetico collocandolo in uno spazio onirico e applicando forse inconsapevolmente, il dettato surreale di Breton: “automatismo psichico puro mediante il quale ci si propone di esprimere…il funzionamento reale del pensiero…con assenza di ogni controllo esercitato sulla ragione…”.
Oggi l’arte ha acceso i riflettori su tematiche come, il disagio sociale, la quotidiana sofferenza dell’umanità. La necessità improcastinabile di un ritorno alle origine delle cose del pensiero, alla purezza, per rifondare un ordine sociale che sia più giusto, equo, meritocratico. Per riscrivere le regole di una civile convivenza interculturale. L’inutilità delle guerre per risolvere i conflitti. Il disastro ambientale perpetrato senza fine e impunemente.
Queste ed altre ancora sono le tematiche affrontate dall’arte contemporanea. Problematiche che non si possono risolvere senza un processo di recupero dei valori e dell’identità, che collochi gli stessi nell’alveo della conoscenza, della cultura e della loro praticabilità. Ed è esattamente ciò che motiva l’asserzione iniziale: “ Ezio Sanapo è un artista contemporaneo”, perché recuperando valori e tradizioni e attingendo al ricordo di un mondo che non esiste più poiché cancellato, travolto da un progresso molto spesso ingannevole e fraudolento, l’artista ci restituisce immagini colme di poesia e di struggente bellezza.
Ma quale capitale della cultura, cari amministratori
Con questa vorrei segnalare lo strano e stridente accostamento leccese tra il dirsi “Capitale della Cultura” e un “Capodanno dei Popoli” boicottato, respinto alle periferie, ridotto quasi al silenzio, privato dei profumi dei piatti del mondo, delle luci dei banchetti d’artigianato, delle note delle tradizioni musicali e delle voci della gente, delle possibilità di incontri proficui che quell’evento generava. Nel caos mondano di veglioni, petardi, abbuffate, traffico e nottate nei locali o in discoteca, il capodanno (o Festival Internazionale) dei Popoli era negli anni andati una delle rare occasioni culturali leccesi sensate e costruttive, una festa condivisa, aperta a tutti, a persone di ogni età, ceto sociale, provenienza culturale. L’evento rappresentava con semplicità oltre che un momento di piacevole divertimento anche e soprattutto un invito a concreti e pacifici propositi culturali costruttivi per l’anno che sarebbe iniziato. I suoi valori erano evidenti, schietti e da tutti condivisibili, pienamente radicati nell’ideale universale dell’incontro e in quelli salentini dell’ospitalità per l’altro: ideali incarnati con semplicità e freschezza da una festa che accomunava culture e genti che da ogni dove giungono o transitano in questo porto del Mediterraneo.
Alla festa tutti erano invitati a contribuire, apportando un tassello delle proprie tradizioni culinarie, della propria musica, del proprio artigianato, insomma una porzione qualunque di sé da offrire agli altri in un processo di immediato incontro e conoscenza reciproca, al fine di delineare un mosaico di fratellanza che avrebbe arricchito tutti in modo piacevole ed autentico, senza retoriche, senza bandiere di fazioni e senza tediose teorie dell’integrazione professate da questo o quel cattedratico, da questo o quel politico di ogni colore. Non è certo sufficiente un momento del genere per rispondere a quelle ardue problematiche attuali – se non cronachistiche – che l’incontro interculturale pone. È ovvio. Tuttavia è un grave errore credere che non sia anche necessario.
Proverò a mostrarlo con un semplice esempio. Il I gennaio 2014, al capodanno pur mesto e scuro dei Popoli, mia figlia, che ha solo 13 anni, ha potuto fare la conoscenza di Halima, una giovane marocchina (che di lavoro fa l’ottico); ha così potuto parlare in inglese con qualcuno che non fosse la sua insegnante di scuola, comprendendo, sulla propria pelle e per esperienza in prima persona, quanto sia veramente utile studiare altri idiomi per rapportarsi a chi non parla la sua lingua. Alla fine lei ed Halima si sono scambiate le mail, e forse con ciò la mia piccola ha sperimentato anche il fatto che internet non serve solo a chattare e condividere foto con le proprie amichette sui social networks, potendosene fare spesso pure un uso migliore.
Tutto ciò non sarà certo sufficiente perché lei possa comprendere la rilevanza dell’incontro e della conoscenza dell’altro o la ricchezza posseduta da Halima, ma è un passo necessario, fatto con naturalezza, con la piacevolezza di un momento festoso ed autentico, senza dispositivi pedagogici artificiosi, senza le mie ciance paternalistiche che avrebbero forse solo risuonato come un vociare noioso rispetto alla conoscenza diretta di una persona.
Non si sottovaluti poi l’importanza del connotarsi come momento di festa di un evento del genere, un evento che in quanto simbolico e festoso trascende l’ordinario, il quotidiano.
Gli incontri con l’altro in un mondo globalizzato sono di certo giornalieri, ed è ovviamente nella quotidianità che gli amministratori devono profondere i maggiori sforzi politici per agevolare la maturazione di un processo interculturale costruttivo; tuttavia la dimensione extra-ordinaria di una festa comune predispone ad un contatto di per sé gioioso, senza barriere, incline alla possibilità di una fratellanza di fondo, qualcosa che l’ordinario spesso non può concedere con altrettanta facilità.
Ecco, è senza retorica e con la forza di un esempio piccolo ma, credo, importante che vorrei difendere la rilevanza di un momento come questo, praticamente ormai cancellato dall’agenda “culturale” leccese. Un’occasione di incontro, perché possa essere tale, va fortemente sostenuta dagli amministratori: costoro non possono e non devono pretendere che siano solo i volenterosi a cercarla, hanno il dovere di fare in modo che l’occasione si offra di per sé ai più, se non addirittura fare in modo che i meno disposti al dialogo ci incappino: a questo servono le azioni politiche! Non ha alcun senso pertanto smobilitare dal centro cittadino un evento culturale del genere (culturale, e non puramente festaiolo, ossia privo di contenuti civili, come tanti se ne vedono sotto la pasticciata e abusata etichetta del “culturale”).
Non ha senso relegarlo a condizioni destinate a pochi volenterosi, magari in periferia, per la semplice ragione che proprio chi non è disposto pregiudizialmente al dialogo non avrà così modo di incontrare una Halima. Del resto, non ha senso nemmeno per Halina, me lo ha detto lei stessa, fare nuovamente un lungo viaggio a proprie spese per essere avviata verso un appartamento nella provincia (ad Aradeo) in cui vengono stipati in pochi metri quadri tutti gli artisti e gli assistenti provenienti dal suo Paese, venuti qui per offrire un assaggio della loro antica arte, dei loro costumi tradizionali, dei loro strumenti e canti a sparute persone. Le ho chiesto se sarebbe mai più tornata a Lecce, mi ha risposto che lo avrebbe fatto al massimo come turista, ed un attimo dopo, ripensandoci, ha invitato mia figlia e me ad andare a trovarla con la motivazione che forse sarebbe stato più semplice rivedersi e approfondire la conoscenza reciproca in Marocco!
E come darle torto in quel contesto? Su quali altri fatti evidenti avrei potuto contraddirla in quel momento? Tutto ciò mi è pesato come un macigno, sentendomi profondamente offeso dalla circostanza proprio in quanto salentino, ossia persona orgogliosa della radicata disposizione storica all’ospitalità della mia gente, abitante di una terra che è per definizione ponte tra i tanti popoli che nei millenni vi hanno transitato disseminando tracce confluite nella ricchezza culturale di cui oggi noi possiamo godere. Mi auguro – ed è un augurio di un buon anno di lavoro rivolto a tutti gli amministratori chiamati in causa – che questi vogliano assumersi le proprie responsabilità nell’impegno di non far morire quel che di buono questa città già aveva da offrire. Fa parte del lavoro di coloro che sono al servizio dei cittadini anche questo, così come fa parte del loro lavoro costruire e far nascere ex novo quel che di buono in questa città è sempre mancato. Vivere in una Capitale della Cultura è per noi leccesi una meta al momento remotissima, più remota di quanto lo sia mai stata francamente, non certo una realtà. E il perché di questo può mostrarlo anche un semplice esempio come l’incontro tra Halima e mia figlia, un incontro che molte ragazze leccesi non hanno avuto modo di vivere.
Buon anno di lavoro, cari amministratori, vi sono cose perdute da ricostruire, prima ancora che nuove da edificare.
Da quando sono ritornato nel Salento ho sentito parlare di don Tonino Bello da gente di varie estrazioni sociali ma principalmente da gente comune, quella che fino a pochi decenni fa era una immensa classe sociale rappresentata da quel ceto notoriamente e storicamente ai margini della società, dove si coltivavano e nascevano non solo sogni e speranze ma anche cultura e solidarietà. Quel ceto è stato frantumato e disperso con l’illusione di un benessere sociale che non c’è stato e che si trova oggi, senza più nessuna identità a raccogliere frammenti di una comunità che non c’è più, scavando a fatica nella sua memoria più recente, alla ricerca delle proprie radici per far germogliare nuove speranze.
Alle radici di questa speranza c’è la figura mitica di don Tonino Bello, mitica perché alimentata dalla tradizione orale, da un Racconto Popolare che si tramanda di generazione in generazione, indipendentemente dai mezzi di comunicazione di oggi e tutto ciò assume una dimensione favolistica, poetica e sacrale:
“…al Mito viene attribuito il ruolo di rinforzare la coesione sociale, l’unità funzionale del gruppo, in una forma gradevole da ascoltare, facile da tenere a mente e da trasmettere alle generazioni future (una sorta di “carta costituzionale”di una comunità e di una società che può fare riferimento a un suo vissuto mitico e sacro) “ ( Malinowski).
Fiodor Dostoevskij diceva: “Quando gli adulti hanno grossi problemi devono rivolgersi ai bambini, sono loro a possedere il sogno e la libertà.”
Nel XVII secolo il filosofo Gianbattista Vico asseriva che il Mito fosse nato dalle caratteristiche proprie delle persone simili a “fanciulli”, secondo una visione del mondo in funzione poetica.
Don Tonino oltre ad avere l’animo puro di un fanciullo era infatti un Poeta e come i Poeti aveva sufficiente lungimiranza per prevedere il disagio sociale dei nostri giorni. Don Tonino infatti predicava e pregava instancabilmente a salvaguardia della sua gente, quelli che la società opulenta di allora teneva nascosta ai margini, la stessa povera gente alla quale speculano molti esponenti politici ancora oggi.
Oggi a ventanni dalla sua scomparsa, le singole voci di ognuno di quella gente stanno diventando un coro sempre più affiatato e non è il canto di serafici cherubini ma segni umani di ricomposizione di una comunità che vuole ritrovarsi e riconoscersi all’insegna di un Valore vero ed essenziale rappresentato da una figura umana che travalica questa nostra realtà materiale. Nasce così un mito e don Tonino Bello, prima ancora di diventare un Santo per Decreto di Santa Madre Chiesa, è stato già per intercessione della sua amata gente, Beatificato.
La Chiesa per decretare una santità, non si basa soltanto sulla sostanza poetica della persona, né sui ramoscelli di alloro che cingono la sua testa, per la Chiesa occorrono Miracoli.
Don Tonino Bello pregava per la sua gente con tutte le sue forze e sognava una comunità forte e unita, una comunità che per salvarsi doveva necessariamente ricomporsi e riscoprire le proprie radici, così come sta facendo ventanni dopo Papa Francesco entrambi consapevoli che, quelle, sono le radici stesse della Chiesa. Prendere coscienza di tutto ciò è il Miracolo più grande che don Tonino, Persona Pura, Umile e Semplice, poteva fare.
Il delfino “stizzoso” dell’antico stemma di Terra d’Otranto
Comincio della stizza che traspare dalla relazione (è la n. XVII) che Sigismondo Castromediano presentò al Consiglio provinciale nel 1871: Se nella Relazione ultima fu rettificato lo stemma di detta Città, ora è opportuno occuparci di quello ancor più importante della Provincia; ora, che l’Onorevole Deputazione Provinciale avvertita dallo scempio che se n’è fatto, volle sapere veramente qual fosse, prima che avesse a riprodurlo nell’aula del Consiglio Provinciale, e ordinarlo per ogni dove appartiene e deve apparire. Il nostro stemma adunque è fra i più cospicui e più onorevoli di quanti se ne abbiano. Il Delfino che assume ci venne dai nostri vetustissimi padri, come si osserva nelle loro monete di taranto, Brindisi, ecc. e, dinota la via del mare da essi valicata, quando le colonie qui giunsero da prima, ed il mare stesso che a simiglianza d’isola questa nostra carissima terra circonda. Le armi degli Aragonesi ne formano il campo, che quei reali di Napoli per privilegio e gratitudine concessero ai nostri padri men lontani, i quali diedero loro aiuti, prima nel farli conseguire pacifico il dominio dell’eredità e delle ricchezze di Giovanne-Antonio del Balzo-Orsini, Principe di Taranto e Conte di Lecce, fatto morire soffocato; secondo per aver contribuito moltissimo col proprio valore e coi propri sacrifizi a che Alfonso Duca di Calabria, figlio di Ferdinando I d’Aragona discacciasse i Turchi da Otranto, i quali espugnata l’avevano nel 1480. Perc iò stesso venne ordinato pure che la mezza luna venisse morsa dal Delfino onde avvertire che qui una volta fu doma la potenza ottomana, e l’Italia salvata da un’altra barbarie. Quanta splendida e veneranda moria! E pure da men di quarant’anni a questa parte l’altrui ignoranza, o lo spirito dissennato di novità ebbe ad alterare e modificare, se non del tutto, a trasformare cotanta memoria. Del Delfino ne fecero un mostro tra il pesce e la serpe, della luna le sue zanne, ed il campo armarono di tre mazze nerborute ed a schiancio distese. L’arma stessa scolpita per quattro volte e dai suoi quattro lati, nella guglia fuori Porta di Napoli, è una scempiatezza (1). Il nostro stemma dev’essere il seguente: Delfino stizzoso di colore naturale con mezza luna in bocca e verticalmente guizzante sui pali vermigli d’Aragona, anch’essi verticali in campo d’oro. Lo scudo che ciò racchiude può essere il sannitico, ma la corona che lo sormonta dev’essere la turrita d’oro sopra cerchio d’oro, quale l’assegnò la Consulta Araldica del Regno nel suo regolamento; avvegnacchè la corona sugli stemmi, non formando parte intrinseca dei medesimi, ad altro non serve se non a indicare il titolo della persona, o dell’ente cui quelli appartengono. E se pel passato Provincie e Comuni adottarono corone reali e feudali fu per adulare i propri Re e i propri feudatari, e così loro testimoniarsi sudditi e vassalli. Ma oggi cotale abuso è bandito, oggi che con la libertà della patria le leggi concessero autonomia alle Provincie e ai Comuni (2).
(1) Questa guglia innalzata a memoria di Ferdinando I di Borbone rimpetto ad un arco di trionfo dedicato a Carlo V serve ad indicare il principio delle tre vie principali, che vanno a Brindisi, Taranto, a Gallipoli, e la sua composizione venne ideata da Luigi Coppola. Dotto costui nelle antichità della Provincia alla maniera del secolo passato, ma più che dotto strano, servendosi di alcuni motti latini e della mitologia creò in quel monumento uno dei più intricati geroglifici, che anche leggendo la memorietta spiegativa da lui stesso stampata al proposito, nemmeno s’intende. Altre sue indecifrabili stramberie si scorgono nei brevi e pochi opuscoli da lui pubblicati.
(2) Ѐ buono notare, ch’io errai nella Relazione dell’anno passato quando dissi, che la corona del Comune di Lecce fosse la comitale. Allora ignorava le disposizioni del regolamento sopracitato. La corona dello stemma per Lecce è ivi medesimo indicata, quella della Città; cioè la murale con cinque torri e quattro guardiole di oro, fuori i muriccioli d’argento che le uniscono.1
In sintesi il Castromediano mostra di non gradire le metamorfosi mostruose subite dal delfino e lancia i suoi strali contro l’ideatore dell’obelisco di Porta Napoli con tanta rabbia che ne altera, non so se volutamente, pure il cognome, che è Cepolla e non Coppola. Per farla completa, poi, estende la sua stroncatura pure all’opuscoletto2 in cui il Cepolla dà ragione delle sue scelte. Io l’ho letto e debbo dire che una certa valenza esplicativa, pur nella sua stringatezza, esso è in grado di esercitare, anche se non con sufficiente profitto per un lettore comune che avrebbe bisogno di essere accompagnato passo passo con un commento aggiuntivo. Insomma, non potrebbe essere utilizzato nemmeno a stralci in un saggio-guida sul monumento, la cui lettura, assolvendo oggi esso più di prima alla funzione di rotatoria, non può essere effettuata senza seri rischi per la propria incolumità e senza l’ausilio, comunque, di un buon binocolo.
Ad ogni buon conto il Castromediano non fu l’unico a dare un giudizio negativo sul nostro.3 Quanto ai pali verticali non adottati nel monumento e da lui definiti tre mazze nerborute ed a schiancio distese (nell’uso del regionale toscano schiancio, parente dell’italiano sguincio, cui corrisponde il salentino sguinciu, trovo un’ulteriore nota spregiativa) credo che sia stata una scelta consapevole e dettata dall’esigenza di dare un continuum alla rappresentazione, cosa impossibile se i pali fossero stati verticali e, per giunta, inglobati nello scudo.
Condivido, invece, integralmente l’opinione del Castromediano sull’inopportunità di far assumere al delfino sembianze più o meno mostruose (chi, pur non essendo un mostro, addenta un braccio dell’avversario non ha certamente un’espressione pacifica …). Credo, tuttavia, che abbia giocato un ruolo determinante una lunga tradizione iconografica relativa ai mostri marini, adottata subito, come vedremo, nelle rappresentazioni dello stemma, non senza qualche sorpresa, a meno che io non abbia bisogno urgente di nuovi occhiali …
Ѐ tempo di passare ora al delfino e alla sua stizza reale o presunta. La prima descrizione araldica che io conosco dello stemma, concordemente ripresa in seguito non senza una fedeltà che per me è plagio, è quella di Scipione Mazzella in Descrittione del Regno di Napoli, Cappello, Napoli, 1601, dove a pag. 188 si legge: Fa per insegna questa Regione quattro pali vermigli per lungo in campo d’oro, sopra de’ quali è posto un Delfino stizzoso, che tiene in bocca una mezza Luna. L’origine della quale arme fu posta in uso l’anno 1481, al tempo che Alfonso d’Aragona Duca di Calavria figliuolo di Ferdinando I Re di Napoli discacciò i Turchi dalla città d’Otranto, e dagli altri luoghi; onde volendo gli huomini di questa Provintia mostrare il grandissimo servitio, che ‘l suo Re fatto haveva loro in liberarli dalle mani dell’empio tiranno Maumet II Re de Turchi, per questo fecero la già dett’insegna, mostrando per li quattro pali vermigli in campo d’oro l’arme del Re Ferd. D’Aragona. Il Delfino non fu cosa inventata, già che anticamente, per quanto le medaglie chiariscono, il Delfino con Nettuno erano proprie insegne del paese de’ Salentini. Ma v’aggiunsero solamente la meza Luna in bocca del Delfino. Volendo dinotare, che la nuova Signoria, che ‘l tiranno Maumet s’haveva ingegnato d’occupare di sì bella Regione, gli fu per la sollecitudine del valoroso Alfonso, e virtù de’ proprii habitanti, tolta.
Il testo appena riportato è preceduto a pag. 81 dall’immagine di seguito riprodotta.
Siccome prima ho parlato di una fedeltà di alcuni autori che per me è plagio lascio alle considerazioni del lettore quanto scrive Enrico Bacco in Il Regno di Napoli diviso in dodici Provincie, Gio. Giacomo Carlino e Costantino Vitale, Napoli, 1609, pagg. 61-62: Fa per arme quattro pali vermigli per lungo in campo d’oro, sopra de’ quali è posto un Delfino stizzoso, che tiene in bocca una mezza Luna. L’origine di questa insegna fu nell’anno 1481, al tempo, che Alfonso d’Aragona Duca di Calabria, figliuolo di Ferdinando primo Re di Napoli discacciò i Turchi della città d’Otranto, e da gli altri luoghi convicini; onde volendo gli huomini di questa Provincia mostrare il gran beneficio, che il suo Re fatto loro havea in liberargli dell’empio Tiranno Maumetto secondo Re de Turchi, alzarono la già detta Insegna, mostrando per li quattro pali vermigli in campo d’oro l’arme del Re Ferdinando d’Aragona. Il Delfino non fu cosa novamente inventata, già che anticamente, per quanto si scorge nelle medaglie, il Delfino con Nettunno erano proprio insegne del paese de’ Salentini, ma vi aggiunsero solamente la mezza Luna in bocca del Delfino, volendo dinotare, che la nova Signoria, che ‘l Tiranno Maumetto s’havea ingegnato di occupare di sì bella regione, gli fu per la sollecitudine del valoroso Alfonso, e virtù de i proprii habitanti tolta.
Il testo appena riportato è preceduto a pag. 60 dalla tavola di seguito riprodotta.
Ingrandisco ora la parte dello scudo per far notare come ad una descrizione accurata dello stemma non corrisponda un disegno altrettanto agevolmente leggibile, tant’è che distinguere chiaramente la mezzaluna è impresa improba e non manca anche l’ambiguità (assente nella precedente rappresentazione) delle due protuberanze sulla testa del delfino, la prima evocante una corona, la seconda la parte terminale di una tromba (e il pensiero va al potere e alla guerra). Il corpo del delfino, poi, appare ricoperto di squame (dettaglio mostruoso sì, ma questa volta il pensiero va alla corazza, dunque una seconda volta, alla guerra).
Premesso che il lavoro del Bacco ebbe moltissime edizioni, mi soffermerò su quella corretta ed accresciuta da Cesare De Engenio, uscita per la prima volta a Napoli per i tipi di Scoriggio nel 1620. A pag. 129 c’è la tavola che riproduco di seguito e al suo fianco replico quella del 1609 per un più agevole confronto.
I cambiamenti hanno coinvolto solo le figure di contorno; lo scudo è rimasto immutato. Tuttavia questo rispetto del disegno originario nel dettaglio non viene mantenuto quasi un secolo dopo, quando il testo di questa edizione viene inserito nel nono tomo del Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae uscito a Lione per i tipi di Vander Aa nel 1723, a cura di Giovanni Giorgio Grevio e Pietro Burmanno. A pag. 17 di quest’ultima edizione c’è la tavola che riproduco di seguito.
Ingrandisco lo stemma che ci interessa e replico quello del 1609 (ripreso, come abbiamo visto, tal quale nel 1629.
Qui non solo della mezzaluna non c’è nemmeno l’ombra ma la testa del delfino è diventata quella di una donna. Una personificazione della (madre) Terra d’Otranto frutto della fantasia del disegnatore?
Col tempo non ci furono solo cambiamenti di natura iconografica ma anche descrittiva.
Il delfino è definito stizzoso dal Mazzella e dal Bacco ma in Placido Troyli, Istoria generale del Reame di Napoli, s. n., Napoli, 1747, a pag. 460 si legge: Fa per sua Impresa quattro Pali rossi in un Campo d’Oro, con al disopra un Delfino squamato, colla mezza Luna in bocca. Sono i Pali le Armi Gentilizie di Aragona, il Delfino l’antica Insegna de Salentini, e la mezza Luna quella della Porta Ottomana, mercè il valore di Alfonso d’Aragona Duca di Calabria, e Figlio di Fernando Re di Napoli, secondo Arrigo Bavo (a) nella sua Brieve descrizione della Provincia d’Otranto.
Il delfino da stizzoso è diventato squamato e Arrigo Bacco è diventato Arrigo Bavo.
Trascrivo ora la nota (a) e verrà fuori un’altra sorpresa: Arrigo Bavo in descript. Reg. Neapol.: “Insigne eius sunt Trabae quatuor rubrae in Campo aureo per longitudinem extensae. Super illas cernitur Delphinus squamatus, qui Lunam dimidiatam ore tenet. Origo huius Insignis referenda venit ad Annum 1481, quo tempore Alphonsus Aragonensis, Dux Calabriae, Ferdinandi I Regis Neapolis Filius, ab Urbe Otranto repulit Turcas, ut et ab aliis in vicinia Locis. Cives itaque, et Incolae, in testimonium accepti tanti a Rege suo beneficii, qui eos ab impia Mahometi II Turcarum Imperatoris tyrannide liberavit, hoc sibi Insigne assumpserunt. Quatuor nam illae Trabes rubrae in aureo Campo, Insigne exprimunt Regis Ferdinandi Aragonensis. Delphinus res nova haud est. Iam olim enim, prout ex vetustis discimus Numismatibus, Delphinus enim cum Neptuno Insigne fuit Salentinorum. Verum accessit illi modo Luna dimidiata, quam ore tenet: qua innuitur Imperium Turcarum, quod hic stabilire Tyrannus Mahometes voluit, fortiter et feliciter ab Alphonso et Incolis a tam populata Regione propulsum”.
Questo testo in latino, attribuito dal Troyli al Bavo (leggi Bacco; l’errore può essere stato di lettura, propiziato dalla scarsa nitidezza dei caratteri o, più probabilmente, dovuto a svista nella loro composizione), corrisponde esattamente, tradotto, al testo italiano del Bacco riportato all’inizio, che per me, come ho detto, è parafrasi, se non plagio, dal Mazzella.
Riassumendo: il delfino è stizzoso nel testo italiano del Mazzella (e poi del Bacco), sarebbe squamatus in quello latino dello stesso Bacco; ho usato il condizionale perché non sono riuscito a trovarne l’edizione latina per così dire “nativa”, ammesso che essa sia mai esistita. Suppongo perciò che il Troyli abbia attribuito al Bavo (Bacco) quella che in realtà è la traduzione latina fedele del testo originale in italiano del Bacco fatta qualche anno prima da Sigeberto Avercampo e pubblicata nel nono tomo del Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae, Lione, Vander, 1723, come chiaramente si legge (Ex Italicis Latina fecit, Praefationem atque Indicem adiecit SIGEBERTUS HAVERCAMPUS) nel frontespizio della sezione relativa, che riproduco di seguito.
Credo, così, di aver individuato il responsabile del delphinus squamatus, che probabilmente sarà stato indotto a tanto proprio dalle rappresentazioni iconografiche che abbiamo visto.
Il fascino dell’horror, però, era destinato a continuare ad esercitare la sua azione perché la locuzione è una costante di tante pubblicazioni successive. Ne cito, tra le tante, due: Giuseppe Maria Alfano, Istorica descrizione del Regno di Napoli diviso in dodici provincie, Manfredi, Napoli, 1798, pag. 118: Per sua impresa fa quattro Pali rossi in campo d’oro con un Delfino squamato di sopra colla mezza luna in bocca; Martino Marinosci, Flora salentina, Tipografia editrice salentina, Lecce, 1870, pag. 7: … ha per sua impresa quattro pali rossi in campo d’Oro con un delfino squamato avente in bocca una mezzaluna ….
La storia iconografica dello stemma registra anche un cambio di orientamento del delfino, come si può osservare nella tavola di seguito riprodotta tratta da Giovan Battista Pacichelli, Il regno di Napoli in prospettiva, Parrino, Napoli, 1703, v. II, pag. 150.
Mi rimarrebbe un dubbio sulla paternità di stizzoso. In Descrizione, origini e successi della provincia d’Otranto del filosofo e medico Girolamo Marciano di Leverano. Aggiunte del filosofo e medico Domenico Tommaso Albanese di Oria, prima edizione del manoscritto, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1855, pagg. 126-127 si legge: Fa oggi per arme ed insegne la Provincia di Otranto quattro pali vermigli per lungo in campo d’oro, sopra de’ quali è posto un delfino stizzoso, che tiene in bocca una mezza Luna. L’origine di questa impresa fu nell’anno 1481 nel tempo che Alfonso d’Aragona Duce di Calabria, figliuolo di Ferdinando I Re di Napoli, discacciò il Turco dalla città di Otranto, e dalla Provincia. Onde volendo gli uomini del paese dimostrare il gran beneficio ricevuto dal loro Re, per averli liberati dalle mani dell’empio tiranno Maometto II Re de’ Turchi, alzarono le già dette insegne, dimostrando per i quattro pali vermigli in campo d’oro l’arme del Re Ferdinando d’Aragona, e vi aggiunsero il delfino, antica insegna del Paese, con la mezza Luna in bocca, volendo intendere che la nuova signoria, che il tiranno Maometto si aveva occupata di sì bella Regione, fu a lui per la sollecitudine del valoroso Alfonso, e per la virtù de’ propri paesani tolta, e discacciatine via i Turchi.
Scipione Mazzella visse dalla metà del XVI secolo fino ai primi anni del successivo, Girolamo Marciano dal 1571 al 1628, Domenico Tommaso Albanese dal 1638 al 1685. L’unica cosa certa è che non è possibile distinguere nella pubblicazione appena indicata se il pezzo citato sia da ascrivere al testo originale del Marciano o alle aggiunte dell’Albanese ma, siccome esso appare come una parafrasi di quello del Bacco (da sempre è più facile allungare che sintetizzare …), a sua volta parafrasi di quello del Mazzella, ritengo, non fosse altro che per motivi cronologici, quest’ultimo il padre di stizzoso.
Concludo dicendo che la sfuriata del Castromediano fu accolta perché direi che il delfino dell’attuale stemma della provincia di Lecce (prima immagine in basso) ha perso molto della sua squamosità, pur conservando l’atteggiamento stizzoso. Ed è anche, sia pur dall’alto in basso (era il contrario nell’iconografia precedente), verticalmente guizzante, così come appare, sia pure orizzontalmente invertito, a partire dal 1498 nella marca tipografica di Aldo Manuzio (seconda immagine in basso), alla quale il Castromediano non poteva non riferirsi, quasi un ritorno alle origini polemicamente ricordate con Il Delfino che assume ci venne dai nostri vetustissimi padri, come si osserva nelle loro monete di Taranto, Brindisi, ecc. (terza e quarta immagine in basso).
1 Relazione della commissione conservatrice dei monumenti storici e di belle arti di Terra d’Otranto per l’anno 1871 al Consiglio provinciale relatore duca Sigismondo Castromediano, Tipografia editrice salentina, Lecce, 1872, pagg. 22-23.
2 Illustrazioni degli emblemi mito-istorici seguiti d’alcuni motti indicanti le prime tre epoche degli antichi popoli salentini figurati nella nuova aguglia eretta fuori della Porta di Napoli in Lecce del Sig. L. Cepolla, autore della formazione iconografica, ed epigrafica di tutta la storia Antiquario Numismatica della Provincia Salentina, Tipografia di Agianese, Lecce, 1827.
3 Il Mommsen in Annali dell’istituto di corrispondenza archeologica, 1848, volume 20, pagg. 80-81 proposito di alcune presunte iscrizioni messapiche mostrategli dal Cepolla così scrive: Fra le carte di Luigi Cepolla di Lecce, chè molto si diletta di studiare e tradurre le iscrizioni messapiche, rinvenni la seguente….non debbo tacere che di altre due iscrizioni che il Cepolla mi diede…l’una si trovò essere una nota iscrizione osca capovolta, l’altra…contiene un alfabeto greco antico. Tanto questo però che l’iscrizione capovolta furono credute cose messapiche, e come tali tradotte e spiegate. Di una terza iscrizione…lascio volentieri il giudizio ai lettori se sia vera o falsa, messapica o cristiana, e conclude impietosamente: Che disgrazia di dover attingere notizie importanti da così torbidI fonti!.
L. G. De Simone in Di un ipogeo messapico scoperto il 30 agosto 1872 nelle rovine di Rusce e delle origini de’ popoli della Terra d’Otranto, Tipografia Editrice Salentina, Lecce, 1872, pag. 25 lo definisce un dotto ma strambo archeologo leccese.
Dello stesso parere Luigi Maggiulli e ancora Sigismondo Castromediano che in Iscrizioni messapiche, Tipografia Editrice Salentina, Lecce, 1871, pag. 3 così lo giudicano: Tuttoché dotto fu strambissimo interpetre delle antichità, i documenti della quale storpiava a piacere, per poscia interpetrarli a piacere.
Amleto Sozzo mi ha fatto leggere, su mia richiesta, 101 fogli di poesie, più un abbozzo di copertina dove è scritto: Un uomo è bello nel perdono.
Premessa doverosa: non sono critico letterario, sono solo una persona a cui piace leggere poesie quindi non farò una lettura ermeneutica delle sue poesie ma ne farò un florilegio, una scelta personalissima di versi e immagini.
Appena ho letto quelle pagine ho pensato che in quelle pagine era l’uomo Amleto. Lo conosco da circa un anno, l’ho incontrato in una situazione anomala, cioè quella di un café-philo. Non so se ha studiato filosofia a scuola,ma ho visto che ha sicuramente una sensibilità filosofica, perché filosofia non è conoscenza di sistemi e di cattedrali del pensiero, ma è ricerca di senso. Tra l’altro, potremmo avere in quei versi anche alcune indicazioni di fonti filosofiche: «figli di parmenide e zenone/ cantati da euripide e sofocle/ quanta bellezza avete creato/ con le vostre vanghe». Filosofia e lavoro, filosofia e scrittura e lavoro materiale, lavoro sulla natura. Ma, per non farsi scambiare per filosofo, Sozzo ci avverte subito che «l’ironia è la parte nobile della filosofia».
Lo stesso autore, quindi, spiega le proprie motivazioni: «canto per chi è triste/ e canto anche per me/ canto per chi ha paura/ e questo vale anche per me». Come si vede, questa poesia non nasce con presunzioni sacerdotali ma nasce con funzioni laiche e, perché no?, liberatorie per lo stesso soggetto che la declina.
Anche il dialetto è usato, ma con estrema discrezione e misura, quasi come una cadenza che serve a ricondurci in contesti esistenziali antichi e, talvolta, si coniuga in composizioni che in gran parte sono nell’idioma italiano.
Nei suoi versi ho ritrovato la sua casa, che è il suo mondo, il suo amore per i viaggi, non come divertissement, ma come occasione per conoscere le altre terre, le altre culture, gli altri uomini, anzi: l’uomo. Quelle pagine sono un’autonarrazione. Anche per questo mi hanno sorpreso e le ho apprezzate perché io sono convinto che l’esistenza di ognuno di noi sia un’autonarrazione.
Non manca, in queste composizioni, la presenza della sua compagna spesso a cui si allude talvolta in maniera diretta: «Dirò a tutti quanto sei bella/ dirò a tutti quando vedrò una stella/ del nostro mandorlo in fiore».
Una formula che Amleto usa spesso è la ripetizione o di singoli termini in sequenza o di assonanze. Diamo solo due dei molteplici esempi che si dovrebbero fare: «terra piena» che introduce tutti i nove versi di Terra della mia infanzia e beddha che apre i quattro versi della poesia che ha lo stesso aggettivo per titolo, come Quando che è titolo e primo termine dei sei versi.
Ma qual è il ruolo della scrittura? Chi scrive? Perché si scrive? Leggiamo: «poesia e fiocchi di neve sul davanzale/ scrivere è una professione/ il poeta non sa scrivere/chi percepisce ha tanti modi per comunicare/ verso il finire della giornata». Qui il racconto, l’autoracconto è un consuntivo della singola giornata come dell’intera esistenza. In questa logica è anche Nessuno mi detta, dove leggiamo, tra l’altro: «verso tanto per dire/ parole ne ho già sentite tante/ quasi sempre ero assente/ assenteista di professione». Ma assente da che, da cosa? Non certo da una vita piena di poche amicizie ma vitali, di colori, di presenze di animali e di piante, di pochi affetti ma profondi e decisivi.
C’è sicuramente l’esigenza di una confessione o autoconfessione laica che non può non richiamare, in chi legge filosofia, l’impegno della spagnola Maria Zambrano che dedicò buona parte del proprio impegno alla «Confessione come genere letterario».
E qui, in queste poesie, il tessuto e la trama sono un modo per «capire chi siamo in un solo momento! distrarsi per chiacchierare con un amico/ vicino o lontano o se arriva con qualcuno/ tanto per non stare a digiuno/ seguire i consigli di chi è nato per parlare».
Troviamo spicchi di saggezza umile, termine che non vuoi catalogare la qualità dello scritto, ma lo uso perché non ci sarebbero quei versi se non parlassero della terra, cioè dell’humus che la costituisce e ci costituisce: «ho visto terre umili piene di poesia/ curate dai nostri padri/ ho percorso sentieri di rovi fioriti/ che hanno rallegrato i miei pensieri».
Il rapporto con gli altri, mediato dalla propria coscienza, è fondamentale e riconosciuto: «bussa continuamente/ porta dopo porta/ speranza dopo speranza// bussa continuamente/ coscienza dopo coscienza/ strada dopo strada».
Come idea finale io metterei questa che dice tutto dell’uomo Amleto Sozzo: «ma come faccio a dire a mia madre/ che invece di poesie produco melagrane?/ lei amava tanto vedermi sistemato come un poeta». Naturalmente il «sistemato» sta ad indicare la condizione economica. Ma anche Quasimodo, premio Nobel per la letteratura, aveva scritto una poesia/lettera a sua madre e aveva parlato della povertà dei poeti: «So che non stai bene, che vivi/ come tutte le madri dei poeti, povera/ e giusta nella misura d’amore/ per i figli lontani».
La povertà dei poeti può essere povertà materiale, ma è soprattutto quella humilitas di cui la poesia di Amleto ci ha fatto parlare prima.
La terminazione in -ano rende molto probabile che si tratti di un nome prediale e che quindi il toponimo sia collegato con la centuriazione romana e con l’attribuzione del territorio ad un Alexus; un Iunius Alexus è attestato in parecchie iscrizioni provenienti da ogni parte dell’Impero: AE 1966, 00609d e 00614a; AE 1998, 01228f; CAG-11-01; CCCA-05, 00044; CIL 02, 04970,247; CIL 08, 10478,18; CIL 08, 10478,18b-e,; CIL 08, 22644,159; CIL 08, 22644,159a-z; CIL 10, 08053,102°; CIL 10, 08053,102a-z; CIL 11, 06699,111; CIL 13, 10001,171e; CIL 15, 06501,1; CIL 15, 06501,7; EE-08-01, 00243,5; un Caius Iunius Alexus è attestato in CIL 15, 06501,6.
Mi pare quanto meno discutibile l’ipotesi che vorrebbe la città fondata dall’imperatore bizantino Alessio I Comneno non tanto per l’assenza di documenti che la suffraghino ma perché supporrebbe un eponimo greco con una desinenza tipicamente latina. All’obiezione che anche Alexus nasce dalla radice di ἀλέξω (leggi alexo=proteggere) ribatto che rispetto al Comneno (1056-1118) è uno dei tanti nomi latini di origine greca sui quali si è innestato il suffisso tipicamente latino di cui ho detto, a parte il fatto che Ἀλέξιος (leggi Alèxios) avrebbe dovuto dare Alexianum, che, infatti, è attestato come aggettivo riferito ad Alessio ma mai come toponimo. E poi, sembra plausibile che la cittadina abbia una fondazione così “recente?”.
Non manca pure la proposta di qualche buontempone (a meno che non vada applicato il rasoio di Hanlon, discendente, filosoficamente parlando, dell’altro … barbiere, cioè Occam; però, se diamo retta ai due barbieri, in quale sgabuzzino della loro bottega andrebbe gettato e chiuso A pensar male si fa peccato, ma quasi sempre si indovina portato poi a maggior fortuna, tant’è che quasi tutti sono convinti che ne sia il padre, da Giulio Andreotti?) pullulante in rete grazie al copia-incolla e “ratificata” da wikipedia (la nota 6 avverte che questa che sto per riportare e le altre sarebbero strate tratte dal sito del Comune, dove, però, manca proprio quella che ora sto incriminando): La leggenda vuole che Dedalo, atterrato nella zona dopo il suo famoso volo, abbia esclamato “Alae Sanae!” in riferimento alle sue ali artificiali ancora intatte, e da questa locuzione deriverebbe il nome del paese. Nemmeno Nino Frassica sarebbe stato (lui, comunque, consapevolmente) capace di tanto!
Pacichelli(A),pagg. 163-164:
Pacichelli (C, anni 1686 e 1687):
Resta alla punta la città picciola di Alessano, di 239 fuochi, già Vescovado di Monsignor Agostino Barbosa, Ducato oggi di Don Gioseppe di Aragona, Principe di Cassano, che ha stato grande e sposò la nipote del fu Cardinal Trivulzio.
Contan sei miglia per Alessano (città e Ducato della nobilissima Casa Aierbi del regal sangue di Aragona, ricco di casali e forte di torri), che io misuro almen a dieci, e divennero assai moleste dal replicato nostro fallar delle vie, tralasciando presso i Minimi una ricca libreria.
E dopo aver venerata a mille passi e sotterra un’imagine di Nostra Signora, assai corrosa dal tempo, stentai fra vie larghe e assai comode fabriche di pietra, nella piazza abondante, per colpa del sindico, a trovar pane, che da quattro giorni non si vendea in Alessano, dove unito alle mura vidi, senza nulla di curioso, il Vescovado. E, fuori veduta, per amene vie passeggiar quella Principessa ch’è di rare maniere, della Casa Trivulsia di Milano, con la sua prole ben instituita dal savio genitore, e in carrozza il gentilissimo Vescovo Monsignore Don Andrea Tontoli, che s’intitola ancor Vescovo dell’unita e descritta chiesa del Capo di Leuca.
Ne’ Conventuali, già fondati dal loro Santo Padre, presi comodo alloggio, regalato dal Padre Lorenzo di erbe e di vino, supplendo io la mattina, e vincendo le sue scuse con la limosina, nel far celebrare da lui e ricever la Sagrosanta Eucaristia, al caso del giorno antecedente, il che imitò ancor con pietà il mio cameriero.
Pacichelli (A)
Ora sulla mappa originale evidenzio i dettagli citati nella didascalia che preliminarmente trascrivo. Tale operazione sarà ripetuta ogni volta per le mappe degli altri centri di Terra d’Otranto che corredano il volume del Pacichelli.
A Vescovato/Chiesa madre del SS. Salvatore e palazzo vescovile rispettivamente abbellita e ricostruito dal vescovo Andrea Tontoli, vescovo di Alessano dal 1667 fino alla morte avvenuta nel 1695; il tutto poi ricostruito nel 1755 (mappa/immagine tratta e adattata da Google Maps)-
B Palazzo del Prencipe/Palazzo ducale (mappa/http://rete.comuni-italiani.it/wiki/Alessano)
Duca di Alessano ai tempi del Pacichelli doveva essere Giuseppe di Aragona, stando a quanto scrive, partendo da molto lontano, Luigi Tasselli (1622-1694) in Antichità di Leuca, Eredi di Pietro Micheli, Lecce, 1693, pagg. 560-5611.
Mi soffermo brevemente su un’iscrizione posteriore di quasi un secolo presente all’interno: Haec domus odit, amat, punit, conservat, honorat/nequitiam, pacem, crimina, iura, probos. A. D. 1794. Si tratta di un distico elegiaco in cui, però, i versi non sono normali ma, come tecnicamente vengono definiti, rapportati o correlativi, perché ogni verbo del primo nell’ordine, regge, sempre nell’ordine, il complemento oggetto del secondo, sicché la traduzione è obbligata a seguire questi accoppiamenti e, anziché (quale sarebbe quella lineare) Questa casa odia, ama, punisce, conserva, onora l’ingiustizia, la pace, i crimini, il diritto, gli onesti, sarà: Questa casa odia l’ingiustizia, ama la pace, punisce i crimini, conserva il diritto, onora gli onesti. Nell’anno del Signore 1794. Quest’iscrizione è particolarmente ricorrente in tutta Europa in molte fabbriche del XVII, generalmente prigioni, come a Glasgow in Scozia, a Delft in Olanda, a Praga nella Repubblica ceca.
D Torre antica della famiglia de San Giovanni/Palazzo Sangiovanni (mappa/http://www.bebsalentopittoresco.com/luoghi.asp?vacanze=Alessano)
I Cappuccini/Chiesa e convento dei Cappuccini (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Chiesa_dei_Francescani_Alessano.jpg)
K Conventuali/Chiesa di S. Antonio (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Chiesa_di_Sant%27Antonio_Alessano.jpg)
Chiudo con lo stemma che rispetto all’attuale presenta solo due festoni laterali invece dei rami di alloro.
Abbiamo visto come pochissimi dettagli sono ancora, pur con difficoltà e dubbi, riconoscibili nello stato attuale dei luoghi. Ciò è dovuto non solo alle trasformazioni sovente radicali succedutesi nel tempo ma anche al fatto, comune a tutte le mappe antiche, che non sempre la fedeltà del dettaglio è rispettata. Il Pacichelli, poi, era uno storico, per cui non è da escludersi, come vedremo per Brindisi, che le sue mappe nascano dalla rielaborazione di precedenti di epoca medioevale e che, quindi, non rappresentino i luoghi quali erano agli inizi del XVIII secolo). Tra le fabbriche perdute per sempre le porte (la mappa mostra solo Porta Nova, l’ho evidenziata nella prima delle due immagini che seguono; mi pare inverosimile, però, che la città avesse una sola porta, tanto più che il nome fa intuire che essa fu l’ultima costruita e probabilmente l’ultima ad essere demolita; infatti, oltre a Porta Nova, ce n’erano altre tre: Porta La Terra, Porta Castello e Porta Lo Chiuso e nella mappa ne è visibile una (Porta La Terra?) nella parte anteriore della cortina muraria, ievidenziata nella seconda immagine), le torri (nella mappa ne sono visibili dieci, ma, supponendo un intervallo regolare fra l’una e l’altra, non dovrebbero essere state teoricamente meno di diciotto) e il resto delle mura, il tutto abbattuto (secondo quanto si legge in http://www.borghiautenticiditalia.it/assobai/i-borghi/puglia/consintercomcapo-sm-di-leuca-le/874-alessano-le.html) nel 1867.
1 Qui mi torna pure in acconcio a mostrarvi la divotione, che hanno professato à Maria gli altri figli, che hebbe Giacomo I Rè di Aragona da D. Teresa Viduaura [si tratta della terza moglie; il nome esatto era Teresa Gil di Vidaure], e tutti i loro Posteri, poiche [sic] essendo questi due Pietro, e Giaxomo, Gicomo lo volle il Rè Conte di Zerica in Valenza, e Pietro lo instituì, e dichiarò Signore, e Conte del Contado di Ayerbo nel Regno di Aragona. Lasciando da parte la Posterità di Giacomo, e parlando de’ soli Posteri di Pietro: trovo, che à Pietro successe Giacomo il figlio, à Giacomo successe Michele, à Michele Garzia, à Garzia Sancio primo suo figlio, à questo sancio II, ed altri figli. Sancio II, divotissimo della Beata Vergine fù [sic] quello, che venne in Regno con Alfonso il Savio I Rè di Napoli, e militando à suo favore, ne ottenne dal figlio Rè Ferrante I l’esser Conte di Simari in Calabria, ed altre preminenze. In Simari poi sancio guidato dalla Beata Vergine, fondò ub Monastero de’ Padri Domenicani sotto il titolo di S. Caterina Vergine, e Martire, dove elesse per sè [sic], e suoi figli la Sepoltura; à Sancio II successe Alfonso, ad Alfonso successe Michele II suo figlio, celebre, e celebrato Cavaliere, che per la Moglie venne ad essere nipote di Alessandro VI e Callisto III ed arrivò ad altre preeminenze in premio della divotione, che haveva della Beata Vergine; à questo successe Alfonso II ed altri suoi figli, il quale Alfonso II ottenne da Filippo II l’essere Marchese della Grotte … [resto della parola illegibile]; all’accennato Alfonso successe Pietro III ed à Pietro III Gasparo, che per la Moglie Donna Girolama De Curtis, divenne Prencipe di Cassano, di cui essendo figlio Don Filiberto divoto di Santa Maria di Leuca, e questi havendo avuto in Moglie D. Laura Guarini Duchessa di Alessano, coll’essere Prencipe di Cassano divenne anco Duca di Alessano, da’ quali nato Don Giuseppe, hoggi vivente, Prencipe di Cassano, e Duca di Alessano, imitando i suoi Antenati, frequenta ogni Sabbato a riverire Santa Maria di Leuca, dalla quale ne ha avuto in premio per adesso l’essere felice Padre di numerosa prole, con certa speranza, che se peerseverarà nella vera divotione della Beata Vergine, sarà da questa riconosciuto con prosperità, e contentezza in questa vita, e col premio della futura gloria nell’altra, perche [sic] essa è quella gran Signora del Mondo, che …
1. Liturgia dell’evento nell’idea di un rinvio
C’è il solito viaggio da intraprendere, con la solita stella. C’è da scrivere una storia, ancora. Il viaggio è lungo. Tre re avanti con gli anni. Tre cammelli acciaccati, indisponibili, in pensione da un po’. Una stalla a Betlemme da ristrutturare. È un evento ancora da celebrare?
L’impresa non è semplice, poiché tutto è irrimediabilmente perso. I magi adesso sono dediti agli affari di governo e quell’evento di natività, di cui si resero protagonisti negli anni passati, agli occhi del presente appare come un’estensione del tempo che non vuol cedere il passo al futuro. I magi hanno raccolto in tanti anni onori e fama. Non hanno voglia di riprendere il cammino. In fondo di quel piccoletto conoscono quanto basta, poi il suo regno non avrà fine, seppure successivamente egli avrà a dire che il suo regno non è di quaggiù. Ma loro, i re, in quella circostanza di crocefissione non erano presenti. Un po’ strani questi magi che dopo aver reso omaggio al bambino non si preoccuparono di nulla. La loro fu un’apparizione magica per irrobustire la trama dell’evento. Partirono dalla Persia, come ci raccontò Marco Polo, per adorare Dio, ben tredici giorni dopo la nascita di Cristo. Poi non ci fu da parte loro nessun interesse, come se tutto avesse dovuto compiersi in quel fatidico incontro di adorazione e prostrazione: un atto singolare di riconoscimento ma non di appartenenza o meglio di condivisione, o ancora di accettazione del disegno divino. Probabilmente anche i cammelli rimasero stupiti dei propri re; né sappiamo cosa i magi si dissero dopo l’incontro con il bambino. Melchiorre il più anziano, quest’anno, difficilmente sarebbe propenso a donare oro, mala tempora currunt. Baldassarre ritiene ormai fuori moda regalare incenso, e nel tormento di un nuovo regalo da scegliere preferirebbe non decidere. Gaspare è il più ingenuo e pensa che la sua mirra possa essere ancora gradita.
Poi c’è lo sgarbo fatto a Pilato da rimediare. Meglio soprassedere ed evitare di esporsi al pericolo. Vadano altri a rendere omaggio al Bambino.
Tutto ruota intorno alla crisi del momento, anche la nascita più importante della storia è soggetta alla spending review, le risorse finanziarie non ci sono; nuovi balzelli sarebbero controproducenti. Dio sa qualcosa di quanto stia accadendo quaggiù? I suoi consiglieri lo informano? Maria e Giuseppe accetterebbero un rinvio? Stante le difficoltà economiche, ci vorrebbe un decreto legge per finanziare le spese dell’evento, nonché della fuga in Egitto della famiglia.
Certamente il Natale subirebbe notevoli danni non solo di natura economico-finanziaria, ma anche sul piano psicologico dei protagonisti. Si pensi al bue e all’asino, che sarebbero privati dell’unico momento di gloria di cui potrebbero vantarsi. E l’uomo che guarda le stelle? Poverino. Nessuno a immortalarlo nella sua posa di osservatore incantato. Che dire dei pastori? e delle pecorelle? Smarrite, senza un belato di felicità. In fondo la Natività è cosa che riguarda più i soggetti del presepe che gli uomini, i quali alla religiosità dell’evento antepongono l’euforia del divertimento, con conseguenziale spreco di una enorme quantità di buoni propositi caramellati in parole di bontà. Povero Babbo Natale, vittima dell’invenzione della Coca Cola. Icona dell’inganno. Non merita nessuna considerazione la vecchia Befana, che della giustizia conosce la cenere e il carbone, ignorando o facendo finta d’ignorare la fame e il disagio di molti bambini. I preti si agghindano di stole e d’incenso per finte liturgie.
Benedetti Magi! I soli capaci di mettere ordine. Ripartiranno per un seguito della storia?
2. Il silenzio di Maria
Intanto Maria attende. La dolce e ubbidiente Maria sine macula, della quale ci dà una testimonianza Fichte: Ci sembra poco che fra tutti i milioni di donne della terra soltanto Maria fosse l’unica eletta che doveva partorire l’Uomo-Dio Gesù? Ci sembra poco l’essere madre di Colui che doveva rendere felice l’intero genere umano e grazie al quale l’uomo sarebbe divenuto un’immagine della divinità e l’erede di tutte le sue beatitudini?
Sartre nel 1940, internato in un campo di prigionia tedesco, compone un racconto da recitare nella baracca: ‘Bariona o il figlio del tuono’. Un passo significativo: Cristo è suo figlio, carne della sua carne e frutto delle sue viscere. Ella lo ha portato per nove mesi e gli darà il seno e il suo latte diventerà il sangue di Dio. Ella sente insieme che il Cristo è suo figlio, il suo piccolo, e che egli è Dio. Ella lo guarda e pensa: Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. Egli è fatto di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Egli mi assomiglia. È Dio e mi assomiglia.
Nessun’altra donna ha avuto tanto privilegio e onore: possedere, avere e coccolare Dio fra le braccia, ma è anche donna che soffre, che vive il dramma della morte del proprio figlio. Papa Francesco: Maria è Donna che non vive di fretta, con affanno, non si ferma a riflettere sulla decisione di Dio, non si lascia trascinare dagli eventi, non evita la fatica della decisione, non indugia, non ritarda. Una donna straordinaria che nei Testi sacri compare marginalmente, tant’è che di lei si sa ben poco. La Chiesa ha messo ordine su di lei a partire dal Concilio Vaticano II, che esorta caldamente i teologi e i predicatori della parola divina ad astenersi con ogni cura da qualunque falsa esagerazione, come pure dalla grettezza di mente nel considerare la singolare dignità della Madre di Dio («Lumen Gentium», cap. VIII).
Ciò che più colpisce di Maria è il silenzio. Un silenzio mai eccessivo o irriguardoso nei dialoghi con l’angelo e con Gesù, ma neanche silenzio di sottomissione, piuttosto un silenzio di ascolto, riflessivo, che non si lascia trascinare dall’euforia per la scelta di Dio di essere madre di Gesù, né rabbioso quando raccoglie nelle sue braccia il corpo di Cristo crocifisso. Un silenzio che proviene da Dio, non soggetto all’usura del tempo. Non è assenza di voci: è carne del verbo. È pienezza di Dio. Lei, che è il Silenzio ed è nel Silenzio di Dio, è la Madre buona deputata all’ascolto delle istanze che le provengono dai fedeli da ogni parte del mondo, con un vaniloquio interminabile, eccessivo, fastidioso. Il Silenzio di Maria è conoscenza. Ella non ha la responsabilità della ricerca; ha ricevuto la generosità di Dio per la completezza della conoscenza. L’artificio della parola non le appartiene, attraverso il silenzio restituisce la verità delle cose immateriali nel luogo della contemplazione dell’eternità, che non è un’immagine mobile, ma è corpo costruito con la sostanza del tempo. Il silenzio di Maria è l’involucro della memoria, che preserva dall’usura della nostalgia e della speranza i ricordi, certificandone per alcuni il peccato per altri la verità. L’Eternità è abbondanza di tempo che non si congiunge con le simmetrie della realtà, e non riesce a liberarsi dalla gabbia dell’obbligazione e dell’ubbidienza a se stessa, muore e vive ciclicamente in ogni suo frammento. Il tempo è guardiano e servitore del silenzio che non si oppone a Dio. Il tempo, il silenzio, l’eternità sono strumenti nelle mani di Maria, ricevuti da Dio. È questa la Maria secondo il volere di Dio?
La Maria degli uomini è invece la Madonna che ascolta le preghiere, intercede, fa miracoli, è a favore degli oppressi, dei poveri, dei disprezzati, tanto da essere presentata come la Madre della misericordia, la Speranza dei disperati, la Regina dei miseri, la Mediatrice di tutte le grazie, Refugium peccatorum. Maria è tutto ciò che gli uomini hanno voluto che fosse. Non sappiamo se Lei se ne compiaccia. Forse avrebbe voluto per sé una vita più tranquilla, dedita alle faccende di casa e all’amore per il suo sposo. Invece ha dovuto accettare il ruolo della star, di colei che non può sottrarsi alla devozione e alla venerazione dell’umanità, vestendo i panni della donna che è madre ma anche figlia del suo figlio, donata agli uomini per farli sentire più vicini al suo figlio.
Di Maria si sono occupati poeti, letterati, pittori, scultori, teologi e filosofi. C’è da chiedersi se durante la sua vita terrena fosse stata colpita da un tentennamento, o da un dubbio sulla sua condizione d’essere Madre di Cristo. Il suo approccio alla fede in Dio può ritenersi non dogmatico o fideistico? Raggiunto con un’adesione incondizionata alla Verità, ma che non può né possederla né dominarla?
I Magi, rappresentanti autorevoli del pensiero filosofico e scientifico dell’epoca, le resero omaggio, intravedendo in lei una donna diversa e semplice, con le idee chiare che non si contorcono nei dubbi della filosofia e della coscienza: Lei è piena di conoscenza, avulsa alle costruzioni intellettuali e dogmatiche semplicistiche. C’è allora da pensare se sia stato di suo gradimento il dogma dell’immacolata concezione.
Di Maria c’è tanto da scoprire e da capire, a condizione che la mente sia sganciata dalla fitta rete devozionale. Ancora, bisognerebbe liberare la Natività dalla costruzione fantastica che la società ne ha voluto fare per meri scopi economici per raddrizzarla su una ricerca non solo filosofica e teologica, ma d’interesse generale. Va scardinata la ragione dalle imposizioni dogmatiche smantellando il silenzio irragionevole del mondo, che è fastidioso esempio dell’inconoscibilità. Fare chiarezza su cosa sia davvero Maria e la storia della Natività, nonché sulle ragioni di una celebrazione ciclica dell’evento nel rispetto dell’uomo. L’uomo non può adagiarsi sulle concezioni fatalistiche, clericali e squisitamente confezionate su false e ingenue credenze in un sistema sociale che incomincia ad essere assillato da urgenze immediate e materiali.
Il silenzio di Maria tematizza un punto centrale della Natività e non può essere considerato un atto di asservimento a Dio, ma qualcosa di più importante da decifrare e riconsiderare, non per togliere ma per aggiungere significato e valore all’atteggiamento di Maria. Attraverso un metodo che non si deve basare su principi fermi, immutabili e vincolanti, piuttosto su criteri di assoluta libertà che violano le norme metodologiche “ovvie” , “teoretiche” e volutamente “vessatorie” di ricerca filosofica e scientifica. Maria va ben oltre il contesto religioso di cui da secoli è relegata. La sua vita e la sua condotta sono da riconsiderare, anche per un rinnovamento della sua immagine di Madonna ma soprattutto di donna.
3. Come stanno le cose?
L’inquietudine dell’uomo proviene da Dio, che non ha voluto svelare i segreti della vita. Ogni spiegazione o interpretazione in tal senso dimostrano la loro vacuità e resta in piedi sempre l’atroce interrogativo di sempre. L’uomo chiede, domanda, interroga, formula concezioni senza il piacere del contraddittorio con il creatore. Secondo la tradizione biblica solo a Giobbe Dio consentì il confronto. Poi Giobbe s’inchinò a Dio e disse: Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono. E tutto gli fu chiaro. Buon per lui.
Al comune mortale rimane ancora tanta fatica da fare senza posa per affrontare il dramma della fede, la sua necessità. Se almeno si potesse chiamare a giudizio Dio, tutto sarebbe più chiaro, a meno che non si avvalesse della facoltà di non rispondere. Cosa davvero probabile. E allora? Rimane Maria e l’oralità del suo silenzio.
Chiedo scusa per l’immagine di testa (foto dell’autore e non di autore …) che non è certamente il massimo della raffinatezza. Tuttavia consiglio anche ai delicati di stomaco di continuare nella lettura, perché mi auguro che essa possa essere come una sorta di vaccino che al posto di virus attenuati oggi propone piccole (nonostante le apparenze) dosi di lucida (nonostante le apparenze) rabbia in cui ognuno può riconoscersi e placare, per quanto è possibile, quel vomito metaforico che ci angustia ormai da troppo tempo, mentre i più sfortunati non possono permettersi neppure quello reale perché non hanno da vomitare più nemmeno i succhi gastrici …
Se la voce dialettale del titolo si fosse limitata ad essere trascrizione dell’italiano creanza, questo post non avrebbe avuto ragione di esistere. Il significato di base, infatti, coincide nell’uso delle due lingue, intendendo l’insieme dei modi di comportamento che si convengono a una persona ben educata nei rapporti con gli altri (la definizione è tratta dal Dizionario italiano De Mauro).
Comune è, naturalmente, l’etimologia: dallo spagnolo crianza, da criar=allevare, educare, a sua volta dal latino creantia, participio presente neutro plurale sostantivato (alla lettera: cose che fanno crescere) di creare=far crescere, produrre, eleggere. Il primo significato (far crescere) mostra la sua stretta connessione con i concetti di allevare (da ad=verso + levare=innalzare) e di educare (da e=da + dùcere=guidare).
Succede spesso, però, che la parola dialettale rispetto all’omologa italiana acquisti un ulteriore significato traslato e che per associazione di idee ispirate dai tempi correnti travalichi i suoi consueti confini d’uso; la cosa avviene puntualmente nel nostro caso e, al di là della suggestività insita in ogni metafora, vedremo come qualsiasi retaggio possa diventare di un’attualità sconcertante piegandosi ad esprimere un nuovo modo di sentire.
Norma consolidata del galateo è che si pranzi gustando il cibo piuttosto lentamente, non solo perché, come sanciva il Regimen sanitatis Salernitanum (trattato latino in versi redatto nell’ambito della Scuola medica salernitana nel XII-XIII secolo) , prima digestio fit in ore (la prima digestione avviene in bocca), ma anche perché non ha certo un alto valore estetico una bocca umana in frenetica attività.
Non so poi se il galateo ufficiale raccomandi anche di lasciare nel proprio piatto una piccola porzione di cibo, cioè di abbandonare nel piatto l’ultimo boccone intonso e intatto, gesto che avrebbe, a parer mio, la duplice funzione di non dare l’impressione ai commensali di essere reduci da un digiuno più o meno lungo e di non insinuare nei padroni di casa l’atroce sospetto che la porzione fosse piuttosto striminzita; però, a pensarci bene, potrebbe anche essere interpretato come un sintomo di scarso gradimento. Insomma, comu la faci la sbagli (comunque tu faccia, sbagli). Questo rischio interpretativo non si pone quando a restare desolato in un vassoio è, per esempio, un cioccolatino che nessuno prende perché il gesto gli appare scorretto; eppure, questo non succedeva in uno spot televisivo che ha imperversato per parecchio tempo e in cui il classico terzo, tornato dopo una festa sui suoi passi per recuperare le chiavi della macchina, godeva tra i due litiganti mancati, marito e moglie indecisi su chi dovesse far fuori l’unico cioccolatino sopravvissuto alla golosità degli invitati.
So, però, ed è un ricordo di quand’ero bambino, che quell’ultimo boccone si chiamava proprio crianza1 e il vocabolo, con riferimento un po’ ironico ad una realtà allora già del passato, ricorreva in nessi del tipo cce, ha llasatu la crianza? (che, hai lasciato l’ultimo boccone?). C’è da notare, comunque, che quell’espressione un po’ fuori moda contrastava con l’imperativo categorico la crazzia ti Ddiu no ssi mena! (la grazia di Dio non si butta!) riferito anzitutto al cibo per eccellenza, al pane; e poi c’era da augurarsi , nonostante certi scrupoli igienici allora non fossero particolarmente sentiti (oggi, invece, cambiamo, per esempio, il bicchiere nel corso dello stesso pranzo ad ogni nostra stessa bevuta … e il giorno dopo, sempre per esempio, ci ritroviamo in bocca un’afta), che l’insieme dei bocconi rimasti fosse destinato al cane …
Poi, col sopraggiungere del benessere materiale e poco dopo del consumismo, la crianza, da simbolo di buona educazione e di rispetto per gli altri, divenne segnale che lo strafogamento aveva raggiunto i massimi livelli; così venivano buttate nella pattumiera intere bistecche mentre contemporaneamente gli occhi si riempivano di lacrime (il cervello, invece, continuava a restare tragicamente vuoto) nel vedere al tg l’immagine di un bambino africano ridotto ad una larva a causa della fame.
Non so cosa quale sarà il nostro futuro ma nel presente mi piace chiudere riflettendo sul nesso ci t’ha ccriatu! (chi t’ha creato!), usato bonariamente (l’uso offensivo prevede la sostituzione del verbo originale con un altro sempre iniziante per c, connesso con la creazione sì, ma di letame …) all’indirizzo di una persona della quale ci ha colpito, magari, un’elegante stilettata affettuosamente ironica.
Non saprei dire se in quest’uso criatu equivalga alla sua origine etimologica più antica (latina) che lo renderebbe sinonimo di generato oppure alla più recente (spagnola) come sinonimo di allevato, educato. In un caso e nell’altro, comunque, direi che la categoria genitoriale sia direttamente coinvolta, sia pur con gradazioni diverse non solo temporalmente.
Quando, però, uso la stessa espressione nei confronti, per esempio, di un presidente del consiglio (la strana scrittura è dovuta al fatto che le subminuscole non sono ancora state inventate ma il pedice o deponente rende perfettamente il mio pensiero …) che annunzia, per esempio, in ridicolo ossequio all’urgenza del fare, l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti a rate o, come dicono i burocrati ghiotti di Nutella probabilmente mai pagata …, spalmata o, termine, forse, più consono alle condizioni in cui si è ridotta quella che continuiamo a chiamare democrazia, a regime, come faccio a non operare la sostituzione del verbo di cui ho parlato prima ed usare la nuova espressione, per come è stata data la notizia, anche nei confronti della tv di stato (meglio, di regime) che, tra i tanti diversivi, ultimamente s’è inventato anche una questua benefica al giorno (per il periodo natalizio prevedo un incremento del fenomeno per cui al mattino, al mezzogiorno e alla sera bisognerà inviare un sms a tre numeri diversi …), volendo far credere che stia assolvendo ad una nobile funzione di solidarietà e di servizio?
Eppure, resistendo anche io ai conati di vomito, dovrei apprezzare in questo caso la coerenza, sia pure anacronistica, di chi decide del nostro destino, visto che anche gli aumenti contrattuali (quando ero ancora in servizio, tredici anni fa) venivano erogati a me e agli altri lavoratori, per giunta a contratto abbondantemente scaduto, a rate, a regime o spalmati. Perché, allora, pretendere che non obbedisca allo stesso canone la soppressione, se mai ci sarà …, di questo come degli altri privilegi? Ho definito, però, anacronistica questa coerenza perché attualmente le retribuzioni e pensioni dei comuni mortali (parlo dei fortunati che continuano a percepirle …), non delle loro, sono da tempo bloccate; e la coerenza, quando è anacronistica, diventa privilegiata incoerenza.
E che dire, poi, dell’altrettanto ridicola vicenda della legge finanziaria con l’indecoroso e demenziale balletto di gabelle decise poco prima della tradizionale data di scadenza con gli annessi codici e modelli regolamentari, tra i quali spicca l’F24 più inquietante e pericoloso di un F35, diventato famigerato, quest’ultimo, prima ancora di entrare in servizio? Se i responsabili della gestione di una famiglia si comportassero anche nell’affrontare e risolvere i problemi più semplici come gli attuali politici (tutti, dico tutti, perché anche chi con faccia da prostituto si atteggia a verginello invitando a non fare di ogni erba un fascio, se resta nella fogna o non fa nomi e cognomi o non si dimette, è come tutti gli altri, anzi peggiore , perché ancor più ipocrita di loro), dovrebbero essere immediatamente dichiarati interdetti (altro che interdizione perpetua dai pubblici uffici per chi ne ricopre già uno! Scommetterei che è già pronto un disegno di legge per comminarla sì all’interessato, ma post mortem). Perché, allora, il logoro paragone dello stato con una grande famiglia non si spinge fino alle estreme conseguenze?
Come si fa ad avere fiducia in uno stato che non onora tempestivamente i suoi debiti ma pretende alla scadenza i suoi crediti da parte del cittadino? Ѐ giusto, ammesso che il principio sia applicabile al caso appena prospettato, che l’interesse pubblico prevalga su quello privato (lo diceva pure Machiavelli); allora perché si parla, senza puntualmente fare nulla, di conflitto d’interessi?
Come si fa a restare indifferenti rispetto alla pletora di pseudodirigenti , pseudomanagers e pseudoconsulenti (dico pseudo pensando ai risultati …) di nomina politica, parecchi dei quali, visto il numero di incarichi ricoperti contemporaneamente o alternativamente, costituiscono sì un colossale scandalo, ma solo perché … gli si sarebbero dovuti assegnare altrettanti premi Nobel?
Tutto ciò angustia e penalizza, anche psicologicamente, soprattutto chi, allergico ad ogni riflettore, a manifestazioni esibizionistiche (altro che uomo dell’impermeabile!) e a reciproche complicità autoreferenziali, ha fatto sempre il suo dovere di cittadino e contribuente, con l’orgoglio del merito, per quanto modesto, e non con quello fasullo, peraltro spesso esibito senza pudore, della raccomandazione, dell’intrallazzo, dell’imbroglio, della conoscenza e dell’ammanicamento. Sarei un ipocrita se non confessassi di riconoscermi nel primo modello che credo di aver sempre personalmente rispettato e lascio a chi è in grado di farlo l’onere della prova del contrario; spetterà, poi, a me, se ne sarò capace, sconfessare il mio accusatore.
Può darsi che oggi sia stato più presuntuoso e screanzato del solito ma, se moriremo civilmente (quanta speranza ed ottimismo in un semplice se, pur essendo il baratro vicino!), quelli di noi che ancora conservano in corpo un minimo di spirito critico e, in fondo, di libertà, almeno non morranno come vittime inconsapevoli, e perciò contente, dell’interessata coerenza altrui. E il loro ultimo grido non sarà un vaffa!, voce ormai inflazionata; non sarà neppure ci t’ha ccriatu! (in cui criatu, magari, sia usato nel senso di eletto, in conformità al significato di eleggere che, come ho detto all’inizio, può assumere il latino creare) omologo, un tantino più rispettoso, del romanesco li mortacci tua!; il loro ultimo gridosarà la variante coprologica, che prima ho ricordato, di ci t’ha ccriatu!, in attesa che l’italico stellone (lo stallone appartiene ormai alla preistoria …), volgarmente detto culo, non a caso comune denominatore di due degli improperi ipotizzati, manifesti i suoi benefici effetti. E ora, se qualcuno volesse dirmi che mi manca la creanza, si faccia avanti e lo dichiari pubblicamente con il suo nome autentico. Gli risponderò, firmandomi, a breve giro di post …
Debbo confessare, comunque, che la crianza della foto, anche se costituita da un boccone di “umilissimi” fagioli, è sparita nelle mie fauci qualche secondo dopo lo scatto. In vista della mia partecipazione alle prossime, immancabili manifestazioni di protesta, non essendo mai stato abile a fare le pernacchie, ho intrapreso un allenamento intensivo con i fagioli …
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1 Si tratta di una metonimia (l’effetto per la causa o, se si preferisce, il concreto per l’astratto). Il napoletano, invece, in questo caso non mostra con il suomuorz r’a crianza(morso della creanza) la stessa sinteticità.
Fiaba di Natale in lingua galatinese per bambini da 1 a 101 anni
Fiaba di Natale in lingua galatinese per bambini da 1 a 101 anni
Lu Vagnone Sbelisciatu e li Gnomi Sonatori
di Antonio Mele ‘Melanton’
C’era nu Vagnone tantu sbelisciatu, ca nu se recurdava mancu quand’era natu.
E se la mamma lu mandava cu ccatta li samienti, rrivava a la chiazza e turnava senza nienti. E se la nonna lu mandava a la cummare Lucia, partìa de sabatu e turnava de sciuvidìa. E se lu zziu lu mandava de cquà, poi stare sicuru ca se ne scìa de llà.
Nu giurnu se perse.
Sbelisciatu com’era, se truvau intru a nu boscu neru neru ca parìa nu cimiteru. Poi vitte na luciceddha luntanu luntanu, e se mise a cridare: «Ehi, voi, che vivacchiate in quella vanda, mi sapite dire chi cumanda, in dentro a quisto boscu neru neru, che rassomiglia a un tristo cimiteru?».
Ciuvieddhi li rispose. In primissi, percè lu Nanni Orcu (ca dopu lu Re e la Regina era quiddhu ca cumandava cchiui de tutti), a ddhu mumentu sta durmìa. E poi percè, in quella ‘vanda’ sperduta, addhài ci nu canta gallu né luce luna, nisciunu capìa bonu l’italianu. Ca invece, lu Vagnone sbelisciatu l’ia mparatu a la Scola, palora pe palora.
A studiare l’ìanu mandatu percè foe raccomandatu. E difatti nu canuscìa né la storia né la geografia. Tantu pe dire, confundìa Giuseppe Caribaldi cu mesciu Peppinu lu scarparu, e era cunvintu ca la capitale de la Francia era Palmariggi.
Le tabelline, poi, si le recurdava tutte sbajate, e scìa a seconda de le sciurnate. Tre per sette facìa vintisette. Ma se era dumenica: vintottu.
A parte qualche picculu difettu, ddhu Vagnone però tenìa nu grande affettu pe lu Paese e pe tutti l’abitanti, ca nun eranu mancu tanti: sì e no nu centinaru de cristiani, più nu ciucciu, tre mùsci, e quattru cani.
A ci cchiui e a ci menu, li iutava a li lavori de campagna, li pijava l’acqua a la funtana, e na fiata la settimana li facìa scola serale, ‘mparanduli tale e quale a iddhu. Putiti immaginare cce putìa capitare…
A lu Paese c’eranu quattru casiceddhe e quattru famije povereddhe: quiddha de la Crata, de la Ndata, de la Vata, e de la cummare Lucia, spusata cu lu cumpare Ucciu, ca tenìa nu vecchiu ciucciu, ca nu li cuddhava de faticà.
La Crata era vèduva, e tenìa quattordici fij, ca cu si li recorda tutti l’ia chiamati cu li numeri: Primu, Secondu, Terzia, Quattrinu, Cinquinu, Sestina, Settiminu, eccetera eccetera… La Ndata ne tenìa addhi quattordici (sette soi, e sette de sòrusa, ca poverieddha stia sempre a la fatìa intru na crande Massarìa). La Vata, invece, de fiji ne tenìa trìdici sultantu, ma nu se lamentava tantu…
Poi c’era don Liberatu, lu prèvate mandatu de la curia de San Dunatu; nu Vigile urbanu cu la paletta a manu (ca sperava cu passa qualche machina pe cumbinazzione, cusì li facìa contraminzione); nu Medicu cundottu, ca era meju cu stai bonu e mai malatu, (ca ti dava nu decottu de limone rresciuncatu); don Peppinu lu scarparu (ca ggiustava puru còfane e cumbò, senza dire mai de no); li tre vacabondi Roccu, Lia e Manicadesicchiu ca nu tenìanu arte né parte e sciucàvanu sempre a carte; e infine, na caterva de piccini piccicchi, ca parìanu passaricchi, e ‘vulavanu’ de cquà e de llà.
A lu Paese, sia li piccinni ca li loru genitori, nu tenìanu propriu nienti, e menu ca menu divertimenti. Pe quistu motivu, lu Vagnone sbelisciatu s’ia ‘nfilatu a ddhu sentieru ca purtava a lu boscu neru: cu bbìscia se putìa truvare qualche cosa de speciale pe Natale…
«Allora, – cridau novamente, cu la voce cchiù potente – voi che state in questa vanda, me lo dite chi cumanda, che sia Ciucciu oppur Duttore, per richiederli un favore?».
E de novu, nisciunu li rispose. Mancu lu Sciacuddhi, ca era sempre curiositusu, ma ‘sta fiata rimase scusu.
Quandu ìa persu ogni speranza, de retu a n’alberu siccu siccu, li ssiu nu Gnomu picciccu picciccu. Lo quale disse: «…Ma se po’ sapire cce bbai truvandu, ca de continuu ni vai ddisciatandu, cu ‘ddha voce de cristarieddhu ca batte e sona quasi a martieddhu? Simu Gnomi sonatori, e non puoi fare cusì: ci disturbi tutte le note, ci confondi lu fa col mi!».
E siccomu li Gnomi sonatori nu l’ia visti mai (ma però li putìanu servire), lu Vagnone replicau: «Se siete persone generose, come dispero che siete voi, vi debbo chiètere belle cose, per far felici molti di noi: una gran festa musicale che porti gioia al nostro Natale! In tutti li libri che non ho letto, risulta ca siete ventuno in tutto: vulìte venire a lo mio Paese, che non è bello ma manco brutto?».
E lu Gnomu rispose: «Ti sarò molto sinceru: generosi noi lo siamo, ma se ci dai nu pocu de mieru, cchiù fuscendu ti accontentiamo!». «Iu lu mieru te lo do, ma bisogna fare veloce, perché sai che il tempo passa, e la fava poi se coce!». «E va bene facimu de pressa, ma lu mieru dove sta?…». «Sta là sotto a la rimessa de lu vecchiu nonnu miu. Mèna, vieni, beddhu miu, e lu mieru ti darò!».
E cusì foe ca se mìsera d’accordu.
Sulamente ca però, pe l’articulu numeru 3, de lu Re controfirmatu, lu Vagnone sbelisciatu, de vintunu Gnomi ca eranu, sulu cinque poteva scucchia’.
«Comu fazzu cu li mbestu, quelli che pensu che servono a me? Mi serve na tromba e nu viulinu, nu tamburieddhu sopraffinu, la chitarra e la batteria, pe rallegrare la cumpagnia! E se infine sbaglierò, che ficura poi farò?…».
Ma li vinne na bella idea, e senza tanta prosopopea, si fece dire, unu per unu, tutti li nomi, finu al ventunu.
Li nomi de li Gnomi eranu: Andirivieni: ca sunava la batteria, e de nanzi a rretu scìa e bbenìa. Ballaballa:ca de la matina versu le sette cuminciava a fare piroette. Calamita:ca de sulu s’attirava le stonature, e se rraggiava. Dopodomani:ca rimandava sempre a lu buscrai quiddhu ca ìa sunare osce o crai. Elettrico: ca cu la chitarra era na spitta de focu e nu stìa fermu mancu nu pocu. Forseschesìforsecheno: ca lu vidivi tisu tisu, ma nun era troppu decisu. Grancassa: ca tenìa l’anche storte, ma sunava bellu forte. Holapertosse: ca quando s’ia straccatu, facìa finta ca stava malatu. Imprevisto: ca se li girava storta, se ne scìa sbattendu la porta. Licantropo: ca parìa nu lupu mannaru, ma era sempre bonu e caru. Mortadella: ca a ballare era uno spassu, tuttu rosa e beddhu crassu. Nonò: ca se nu li cuddhava, nun c’era versu ca sunava. Obelisco, ca era longu longu e finu finu, gran campione de viulinu. Piricòco: ca de pesche nu stava mai senza, ma sbajava la cadenza. Quaresima: ca sunava ma mai ridìa de lu sabatu a lu venerdìa. Ricreazione, ca ogni tantu se straccava, e a nu pazùlu se ssettava. Spinterogeno: ca facìa sempre scintille e girava a mille a mille. Triccheballacche: ca sunava in modu stranu lu strumentu napulitanu. Undicienagazosa: ca de quandu ccuminciava, subitu subitu se mbriacava. Vapensiero: ca pe nienti de capu partìa, e tra le nuvole se ne scìa. Zzacca-e-pija: ca cu lu passu de nu cavaddhu, de nu strumentu passava a l’addhu.
Mancu spicciau la presentazione,ca lu Vagnone sbelisciatu s’ìa già scucchiatu li cinque Gnomi, che in Paese voleva portà.
Quandu rrivara a lu Paese, era già scurùtu, ma pe la crande curiosità la chiazza se ‘nchìu subitu de gente. Era propiu la sera della vigilia de Natale, e de lu cielu cuminciava chianu chianu a nnevicare. Ma nnevicava caramelle, giocculate, cunfetti, candellini, licurizie, cupèta, mendule ricce, taraddhi zuccherati, pìttule, e perfinu qualche pasticciottu cu la crema…
Intantu li cinque Gnomi ìanu già fattu conoscenza cu tutti, e salutavanu la Crata, la Ndata, la Vata, la sòru de la Ndata, la cummare Lucia, lu cumpare Ucciu cu lu ciucciu ca nu li cuddhava de faticà… E via via, tutti l’addhi, specialmente li piccinni piccicchi, ca parìanu passaricchi, cu la vucca ‘perta e l’occhi spalancati pe la meraviglia.
Poi se mìsera tutti a ballare. E fìcera menzanotte. E brindara cu lu spumante, ca ciuvieddhi l’ìa mai ssaggiatu a ‘nvita soa.
Foe allora ca lu Vagnone sbelisciatu chiamau li cinque Gnomi sonatori e li fice schierare su lu palcu. E tutti li cinque Gnomi – ca pe magia eranu diventati cinque Giganti erti erti , e se vidìanu de tre mije de via – s’ìanu vestutu tutti cu delle belle magliette russe, e a’mpiettu tenìanu l’iniziale fosforescente de lu propriu nome. Lu Vagnone sbelisciatu li sistemau in quest’ordine: Andirivieni, Mortadella, Obelisco, Ricreazione, Elettrico. Di modu ca tutti li cristiani e puru la gente de Pizzurruggiatu e de li paesi cchiù luntani, attraversu le cinque iniziali, putìanu leggìre la parola: A-M-O-R-E.
Allora tutti cercara lu Vagnone sbelisciatu cu si lu mbràzzanu, e cu lu bacianu, e cu lu ringrazzianu cu tuttu lu core.
Ma nu lu truvara cchiui. E qualcunu dicìa ca s’ìa persu de novu a qualche via.
Poi, all’impruvvisu, lu vìttera rrivare sottubbracciu a l’innamurata soa, ca era nientidemenu ca la fija de lu Re. E rrivara lu Re stessu e la Regina, cu lu Magu e la Fatina, lu Nanni Orcu e lu Sciacuddhi, lu barone Pizzicuddhi, e nu corteu de Cavalieri col pennacchio rosso e blu.
Allora se mìsera tutti a ballare de novu, e la festa continuau pe tre giurni e tre notti.
E alla fine, l’innamurati, li cumpari, l’amici e li parienti – comu dicìa la nonna mia (e pensu puru le nonne vosce) – vìssera tutti felici e cuntenti, cu tanti Auguri de bona salute!
Lu cuntu nu foe cchiui, diciti n’addhu vui.
Il quadriportico di S. Caterina d’Alessandria a Galatina
Molti studiosi si sono interessati alla Basilica di S. Caterina d’Alessandria a Galatina ma, pochi hanno focalizzato il proprio interesse sul quadriportico annesso all’edificio. Tra questi è da annoverare padre Benigno Francesco Perrone (1914-1995) che, per anni condusse la sua ricerca sui conventi francescani disseminati sul territorio pugliese.[1] Una monografia dedicata esclusivamente al quadriportico è stata pubblicata nel 2007, opera di Domenica Specchia.[2]
Mi permetto in questa sede di tracciare un quadro d’insieme dal carattere storico-artistico a seguito dei miei studi universitari sull’argomento.
La storia dell’ordine francescano, custode del complesso cateriniano,[3] è segnata negli ultimi decenni del XVI secolo da un profondo ripensamento spirituale e dall’esigenza di una più rigida osservanza della regola, in ragione del rinnovamento interno alla chiesa avviato durante la controriforma. Il convento galatinese fu aggregato nel 1597 al novello istituto della Serafica Riforma di San Nicolò.
«Sessanta e più anni»[4] dopo che i Riformati se ne erano impossessati, fu demolito il convento orsiniano e si diede inizio alla costruzione della nuova dimora.
Il quadriportico seicentesco a pianta quadrata, a due ordini e di dimensioni maggiori rispetto all’architettura trecentesca segue a grandi linee lo schema adottato negli altri conventi della Serafica Riforma.
I frati riformati, che verso il 1657 avevano innalzato il nuovo convento, nell’ultimo decennio del XVII secolo, affidarono al confratello Giuseppe da Gravina la decorazione degli ambulacri superiori e del quadriportico. Il pittore appose sulle superfici parietali istoriate del chiostro la scritta «Frater Ioseph a Gravina Reformatus pingebat Anno Domini 1696».[5] Documento visibile, nell’angolo di sinistra, entrando nel chiostro dalla portiera della dimora minoritica.
Il ciclo pittorico si dispiega sui quattro lati del quadriportico, con scene coordinate ma indipendenti. Con il suo linguaggio felicemente narrativo e cromaticamente intenso affresca “in versi” l’epopea del francescanesimo intrecciando insieme gli eventi e le figure più rappresentative dell’ordine, la salmodia cromatica delle virtù morali, cristiane e francescane, e le insegne araldiche in ricordo della generosità dei benefattori.
Gli affreschi del quadriportico, in sintonia con la tendenza storiografica del XVII secolo che risaliva agli Annales Minorum del frate e studioso irlandese Luca Wadding e ripresa da padre Diego Tafuro da Lequile nella Hierarchia Franciscana, innanzitutto pongono in evidenza il concetto che san Francesco d’Assisi e l’ordine minoritico insieme a san Domenico di Guzmàn e all’ordine dei padri predicatori sotto lo sguardo della Vergine costituiscono i pilastri, su cui si regge la Chiesa di Dio. A tal fine, a Galatina, negli angoli interni del quadriportico, fra Giuseppe da Gravina dipinse i padri fondatori dei due ordini, riconosciuti Salvezza dell’Umanità e nel gesto di Sostenere la Chiesa Vivente. Nell’altro le Stigmate e l’Apparizione della Vergine a san Francesco d’Assisi. Quest’ultimo episodio, da me ricondotto al legittimo partecipe, è uno dei temi nuovi dell’iconografia francescana inaugurato dalla controriforma.[6]
Sulla parete, che fiancheggia il vecchio refettorio, ora adibito a museo della Basilica, sono narrati gli eventi della vita di san Francesco d’Assisi. Il padre fondatore è colto nella sua piena maturità religiosa. Come cronista attento hai particolari, fra Giuseppe da Gravina, con passo lento e cadenzato in tre pannelli mette a fuoco il Perdono d’Assisi. Segue il Miracolo del bambino resuscitato e San Francesco davanti al Sultano. L’endecasillabo che accompagna quest’ultimo evento paragona «l’e[roe] d’Assisi» al «gra[n] duce Goffredo». Il trionfo del santo, che termina con l’episodio delle Stigmate, è un tema ricorrente dell’iconografia barocca.
Sarebbe tuttavia azzardato far corrispondere alla visione estetica del barocco imperante alla fine del XVII secolo l’esecuzione del frate gravinese che si mostra per certi versi arcaica. Nella sua opera di divulgazione si coglie una linea stilistica ma soprattutto una linea iconografica. Nella raffigurazione di San Francesco riceve le Stigmate ad esempio, rimane ancorato alle pitture medievali e in aderenza con le fonti francescane dipinge un serafino alato che imprime nel corpo del santo i segni della passione. Nel medesimo pannello si avverte una spiccata sensibilità per l’elemento paesaggistico che è propria del gusto del tempo.
Elemento ricorrente in tutto il ciclo è l’introduzione di elementi estranei e decorativi. Nell’Apparizione di Gesù Bambino a sant’Antonio di Padova, eseguita nel lato prospiciente palazzo Orsini, ora sede del Comune, e narrante eventi della vita del grande taumaturgo, si nota un gatto accucciato sullo sgabello in primo piano a sinistra e dietro una porta socchiusa, è raffigurato il conte Tiso di Camposampiero, stupefatto nell’assistere al miracoloso evento.
Un’altra costante è costituita dal gusto per i costumi esotici, che compaiono spesso nelle scene dedicate ai martiri dell’ordine che coprono il lato del quadriportico parallelo alla strada. La derivazione iconografica degli eroi minoriti trae spunto dai martirii subiti da san Bartolomeo apostolo, san Sebastiano e via enumerando. Il riflesso esecutivo appare evidentissimo.
Con ricchezza inventiva i grandi pannelli sono scanditi da nicchie, nelle quali fra Giuseppe da Gravina esegue emblematiche figure, che simboleggiano le virtù cristiane e minoritiche, ispirandosi iconograficamente al testo Iconologia dell’erudito e letterato Cesare Ripa.[7] Nella parte inferiore una serie di medaglioni accolgono le effigi di sante e santi appartenenti all’ordine francescano e figure di dottori minoritici.[8]
Il risultato finale dell’opera pittorica del quadriportico della Basilica di S. Caterina d’Alessandria a Galatina è di una “galleria” delle glorie francescane, destinata quale luogo di raccoglimento, meditazione e preghiera.
[1] PERRONE B.F., o.f.m., I conventi della Serafica Riforma di San Nicolò in Puglia (1590- 1835), 3 voll., Galatina Congedo, 1981-1982; ID. Storia della serafica riforma di S. Nicolò in Puglia, 2 voll., Bari, Grafica Bigiemme, 1981-1982; ID. La regolare osservanza francescana nella Terra d’Otranto, 2 voll., Galatina, Congedo, 1992-1993.
[2] SPECCHIA D., Gli affreschi del chiostro. Basilica di S. Caterina d’Alessandria Galatina, Galatina, ed. Salentina, 2007
[3] La Basilica di S. Caterina d’Alessandria a Galatina, voluta dai del Balzo Orsini fu custodita dai frati minori fino al 1494. Da tale anno la reggenza del complesso cateriniano passò, per volere del re Alfonso II d’Aragona, ai monaci olivetani e quindi riaffidata agli stessi minori nel 1507.
[4] Padre Bonaventura Quarta da Lama, rievocando l’avvenimento, riporta tale dato. Perrone B.F., I conventi … op. cit., vol. 1, p. 249.
[5] La data è la stessa apposta nell’iscrizione «Del sig.r d.r gio: andrea mongiò sindico 1696» ai lati dello stemma dei Mongiò dell’Elefante.
[6] I primi sviluppi iconografici dell’Apparizione della Vergine a san Francesco d’Assisi sono individuabili ad esempio tra Orazio Borgianni custodito nella chiesa del Cimitero a Sezze del 1608. L’opera è formulata secondo un’accezione di trascrizione del pensiero religioso in termini di affettuosa vita familiare destinati a grandi sviluppi futuri.
[7] Il testo ha ispirato, inoltre, la decorazione delle facciate del Palazzo Ducale a San Cesario di Lecce, del Castello de’ Monti a Corigliano d’Otranto e la galleria del Castello ducale Castromediano-Limburg a Cavallino. Ne troviamo traccia, in forma miniaturizzata, in altri contesti religiosi e profani.
[8] I medaglioni ovali erano un tempo dotati tutti di didascalie in prosa. Oggi permangono solo sotto gli ovali con le immagini del Beato Giovanni Duns Scoto, Guglielmo di Occam e San Ludovico re di Francia.
La taranta: mi sta bene quasi tutto, ma da dove viene “taranta”?
Come in Puglia si fa contro il veleno/di quelle bestie, che mordon coloro,/che fanno poi pazzie da spiritati,/e chiamansi in vulgar tarantolati./E bisogna trovar un, che sonando/un pezzo, trovi un suon che al morso piaccia;/sul qual ballando, e nel ballar sudando/colui da sé la fiera peste caccia.
Mi ero ripromesso di angustiare il lettore con un post sull’argomento ad agosto, quando il nostro simpatico animaletto è ogni anno oggetto, inconsapevolmente (e, forse, almeno per lui è una fortuna …), di attenzione mondiale. Tuttavia, il recentissimo bel lavoro di Daniele Vigna fruibile, per chi se l’è perso, al link https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/12/la-scherma-il-codice-la-ronda-nella-notte-di-san-rocco-a-torre-paduli/, mi ha ispirato e indotto a bruciare i tempi, anche per non suscitare il sospetto di sfruttare l’evento della stagione per qualche contatto in più …
Quanto sia grande il quasi che nel titolo precede tutto lo lascio intuire al lettore (anche se l’ho anticipato con la dichiarazione d’invidia nei confronti dell’incolpevole protagonista) dichiarando apertamente che ciò che mi sta bene (cioè il fenomeno antropologico e, ancor più, il simpaticissimo presunto responsabile) è ormai un dettaglio fagocitato dal modo perverso di agire del nostro tempo che crede di fare opera meritoria contaminando artificiosamente la memoria storica col businnes1 (e questo non mi sta bene) …
Il lettore avrà pure intuito che qui non troverà clamorose ipotesi ad effetto sull’origine, magari aliena, della taranta ma solo osservazioni di natura etimologica che inizieranno dopo una parentesi iconografica.
Tavola tratta da Attanasio Kircher (1602-1680), Magnes sive de arte magnetica, Ludovico Grignano, Roma, 1641, pag. 874. Il cartiglio superiore contiene l’Antidotum tarantulae (L’antidoto della tarantola), cioè la composizione musicale con finalità terapeutica2; quello centrale reca la scritta Tarantulae Sive Phalangÿ Apuli Vera Effigies (Vera immagine della tarantola o falangio di Puglia); in quello inferiore si legge: a sinistra: Inferior pars Tarantulae Ventrem Exhibens (Parte inferiore che mostra il ventre della tarantola); al centro: Musica sola mei Superest medicina Veneni (Resta la sola musica come medicina del mio veleno); a destra: Superior pars dorsum Tarantulae exhibens (Parte superiore che mostra il dorso della tarantola). I tre cartigli, insieme con tre tarantole, hanno come sfondo una carta della Puglia in cui dall’alto in basso si leggono i toponimi: Bari, Bitonto, Polignano, Conversano, Aquaviva (Acquaviva delle fonti), Gravina (Gravina di Puglia), Cassano (Cassano delle Murge), Martina (Martina Franca), Cisternino, Taranto, Oria, Brundusi (Brindisi), Usano (Uggiano Montefusco), Scelino (Cellino San Marco), Maliano (Magliano), Maruzo (Maruggio), Lecce, Otranto, Nardo (Nardò), Galipoli (Gallipoli), Alesano (Alessano).
Tavola tratta da Attanasio Kircher, Phonurgia nova, R. Dreherr, Campidona, 1673, pag. 206. Nella parte superiore il titolo Typus Tarantiacorum saltantium (Tipo di tarantati che ballano) che mostra la danza delle spade o pizzica-scherma che l’autore, evidentemente, assimila alla pizzica terapeutica (notare in alto a sinistra la tarantola; non giungo ad affermare che lo sfondo potrebbe rappresentare Torrepaduli, però l’ho pensato …).
Tavola tratta da Kaspar Schott (1608-1666), Magia universalis naturae et artis, Herbipoli, s. n., 1657, tomo II, pag. 239. È l’evidente ricalco di quella del Kircher che dello Schott fu il maestro. C’è anche qualche differenza nei toponimi riportati che sono: Bari, Bitonto, Polignano, Conversano, Aquaviva (Acquaviva delle fonti), Gravina (Gravina di Puglia), Cassano (Cassano delle Murge), Martina (Martina Franca), Taranto, Oria, Cisternino, Unsano (Uggiano Montefusco), Maruzo (Maruggio), Brundusi (Brindisi), Nardo (Nardò), Otranto, Aresano (Alessano).
De Apula Aranea sive Tarantula ad Musicum subsiliens sonum (Sul ragno pugliese o tarantola che salta fuori al suono della musica). Tavola tratta da Cornelis Stalpart Van Der Wiel, Observationum rariorum medicarum anatomicarum chirurgicarum centuria prior, Petrum Van Der Aa, Leyde, 1687, pag. 439.
Tavola tratta da Wolferdus Senguerdius, Rationis atque experientiae connubium, Bos, Rotterdam, 1715, pag. 277. È evidente il plagio, sia pur parziale, dalla tavola precedente.
Tavola tratta da Antonio Pitaro (1767-1832), Parallèle physico-chimique entre le calorique, la lumière, l’électricité, le magnétisme, le galvanisme animal et le galvanisme métallique, ou Introduction à la théorologie galvanique, suivi de trois autres mémoires, dont un sur le tarentulisme, Giguet e Michaud, Parigi, 1805, pag. 72.
Le didascalie: 1 Tarentule de Baglivi prise dans les campagnes de Lecce (Tarantola di Baglivi3 presa nelle campagne di Lecce); 2 Tarentule de Valletta prise dans les campagnes de Nocera de Pouille (Tarantola di Valletta4 presa nelle campagne di Nocera di Puglia); 3 Tarentule de Pitaro prise dans les campagnes de Squillace (Tarantola di Pitaro presa nelle campagne di Squillace); 4 Tarentule d’Albin existante dans la collection de Sir Hans Sloanès prise dans le campagne d’ Otranto (Tarantola di Albin5 esistente nella collezione di sir Hans Sloane6 presa nelle campagne di Otranto). Didascalia dell’immagine in alto a destra senza numero: Tarentule vue en dessous ou par le ventre (Tarantola vista da sotto o dalla parte del ventre).
Da notare come in tutte le tavole riportate (altre non ne conosco) compaiono la tarantola e i musici terapeuti, mai il tarantato o la tarantata; tuttavia, nella tavola di Cornelis Stalpart Van Der Wiel vista precedentemente in taranta subsiliens (tarantola che salta fuori) taranta può essere inteso in doppio passaggio metaforico come veleno della taranta che salta fuori dal corpo del tarantato.
Termina qui la digressione iconografica e inizia la trattazione etimologica.
Mi piace iniziare riportando le parole di un grande conterraneo (in senso stretto, neretino), cioè il medico Achille Vergari che al tarantismo dedicò il saggio Tarantismo o malattia prodotta dalle tarantole velenose, uscito per i tipi della Società Filomatica a Napoli nel 1859.7
Proprio la parte iniziale del lavoro reca un sintetico elenco di proposte etimologiche. Per poter inserire le mie note di commento ho preferito riportare in formato testo e non immagine la parte che ci interessa (pagg. 5-6): “L’etimologia della Tarantola8, chi la crede derivata da θηράνθορα9 , θηρ fera – ἄυθορα venenum – animale velenoso. Chi da terrentula, pel terrore che produce la sua veduta10, o perché in terra latitat11. Chi da tarantin12, commovere grandemente; fenomeno proprio dell’animale e de’ morsicati dallo stesso, quando dall’azione del suono armonico vengono attivati. Chi da Taranto13, luogo nelle cui vicinanze più abbonda. Chi da Tarando14, animale di vari colori proprio della Scizia. Serao credeva che il vocabolo tarantola avesse potuto derivare da tara tara replicato, espresso nelle modulazioni musicali adatte a curare i tarantolati”.
Il Serao citato dal Vergari è Francesco Serao (1702-1783), medico, fisico e geologo napoletano e il Vergari sostanzialmente ha tratto tutte le notizie etimologiche prima riportate (eccetto quelle riguardanti θηράνθορα, terrentula e tarantin) dalla prima delle due lezioni universitarie che lo studioso napoletano dedicò all’argomento (Della tarantola ossia falangio di Puglia, s.n.,Napoli, 174215). Dopo aver motivato la scarsa attendibilità della derivazione di tarantola da Taranto e, secondo me arrampicandosi sugli specchi, il suo favore a Tarando (vedi la mia nota n. 9), il Serao a pag. 35, quando si accinge a passare ad altro, ha un sussulto che registra nella nota o che riproduco di seguito: “Prima di uscir di questo proposito (che io non intendo avvolgermi di più in queste seccaggini) mi si permetta ch’io accenni un altro mio pensiero, sovvenutomi improvvisamente a favore di una nuova etimologia; che io non voglio proporre ad altro fine, se non per far vedere, che quando si tolga di mezzo l’originazione insipidissima presa dalla città di Taranto, qualunque altra cosa avrà più colore e grazia. Potremmo immaginarci, che i Pugliesi fossero stati usi di chiamare o tutte, o una sola particolar canzone, Taranta, o Tarantara, o Taratantara (voce, come ognun sa, usata già da Ennio16, Pugliese anch’esso, per esprimere il suono della trombetta, imitandone in certo modo lo strepito): e perciò quella famosa volgarissima canzonetta, chiamata Tarantella, sarebbe stata così chiamata da principio per questa guisa. Or poiché cominciarono i Pugliesi a sperimentare che il fuoco facesse tanto strano effetto in coloro, cui essi credevano morsi dal Falangio del lor paese; potrebbe esser vero, che eglino avessero voluto chiamar a quel modo il Falangio, come quello che avea tanta alleanza col suono per conto de’ mortificati da lui: nel qual caso la prima origine della voce Tarantola, della quale si quistiona, sarebbe da riferirsi al Tara replicato, e variamente profferito, per esprimere il suono di qualunque musico istrumento, o di alcuno in particolare, e di qualunque aria, o di alcuna certa e determinata. Torno a dire: io non mi fermo in questa conghiettura; contro di cui non mancherebbe che dire: ma pure ella mi sembra più naturale e giusta, che non è la comune degli Etimologisti”.
Accanto al taratàntara (con questo accento va letto per motivi metrici) di Ennio (III-II secolo a. C.) che rivendicherebbe l’origine antica di taranta c’è un altro taratàntara, sempre di natura onomatopeica, attestato in epoca medioevale. Ecco come il lemma è trattato nel Glossario del Du Cange (la traduzione a fronte è mia):
Non saprei dire se alla comune origine del taratantara enniano (suono della tromba di guerra) e di quello medioevale (rumore prodotto dal setaccio) corrisponda un rapporto di parentela o se l’uso della stessa voce sia puramente casuale. Se non è casuale ciò è un dettaglio non di poco conto, anche ai fini di risalire alle origini del fenomeno da cui siamo partiti, che in passato si ritenevano medioevali17 e per le quali recentemente è stata ipotizzata una drastica retrodatazione18. E se il suono sincopato della tromba di guerra ben si adatta a quello altrettanto sincopato della pizzica, come non pensare alla suggestiva somiglianza di forma tra il tamburello e il setaccio e, più che al rumore che lo strumento produce, al movimento regolare e cadenzato cui è (meglio, era) obbligato chi lo usa (meglio, usava)? Ma né la storia né l’antropologia culturale possono lasciarsi condizionare più di tanto dalla suggestioni che nell’impervio cammino della conoscenza sono sempre a tendere insidie dietro l’angolo. Insomma, come sempre, la ricerca della verità continua …
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1 Questa mia valutazione, della cui smentita sono da qualche anno in ansiosa quanto vana attesa, non riguarda solo l’evento Notte della taranta ma pure la saga di romanzi storici sui Messapi di Fernando Sammarco e la saga di fesserie su questo argomento ed altri di Tania Pagliara che chiunque può leggere in rete nella rubrica La lupa che tesse de Il tacco d’Italia all’indirizzo http://www.iltaccoditalia.info/sito/index.asp?s=4&t=82. Il fenomeno è particolarmente pericoloso se si pensa che ai romanzi del Sammarco è attribuita quella dignità che io ero abituato ad ascrivere solo alle fonti storiche; e non è attribuita da uno qualunque ma da Maurizio Nocera, docente di antropologia culturale dell’Università del Salento, in un suo post leggibile all’indirizzo http://www.unigalatina.it/index.php?option=com_content&view=article&id=608:salento-terra-che-un-tempo-aveva-nome-messapia&catid=37:sallentina&Itemid=61.
Se l’operazione del Nocera può essere definita quantomeno avventata, gli scritti della Pagliara, frutto di letture superficiali e di un raffazzonato copia-incolla, costituiscono un vero e proprio atto criminale, perché è un crimine costruire delle fandonie sapendo (ma forse l’autrice non si rende conto neppure di questo …) che i fruitori superficiali (magari fossero la minoranza …) della rete ne faranno man bassa e provvederanno a loro volta a diffonderle; e sarà il trionfo della scemenza fatta verità agli occhi degli ignoranti creduloni , complici anche le implicazioni e le suggestioni magico-religiose di certi argomenti.
2 Il Kircher in occasione di un suo viaggio in Puglia fatto nel 1630 per approfondire le sue teorie sul ruolo terapeutico della musica nei culti dionisiaci raccolse questa e le altre melodie che pubblicò nello stesso testo (pagg. 975-876) e che di seguito riproduco.
Una rielaborazione non filologica ma reinterpretativa dell’Antidotum tarantulae è nel brano Antidotum (S. Di Lauro-P. Mastronardi) incluso nel cd La favola di Bellafronte e altre storie uscito nel 2009 per l’etichetta Ph musica Worx. Di taglio filologico, invece, l’omonimo brano, eseguito da L’arpeggiata diretta da Christina Pluhar, che fa parte del cd, corredato di un corposo, non convenzionale libretto, La tarantella. Antidotum tarantulae uscito nel 2004 per l’etichetta Alpha.
3 Giorgio Baglivi (1668-1707), autore di De anatome, morsu et effectibus Tarantulae, D. A. Ercole, Roma, 1696. L’immagine che segue, tratta dalla pag. 270 dell’edizione di tutte le opere per la quale vedi alla fine della nota 13, ricalca lo schema grafico delle tavole di Kircher prima e Scott poi con qualche differenza solo nei toponimi che qui sono: Bisceglie, Bari, Monopoli, Conversano, Ostuni, Rutigliano, S. Vito, Brindesi (Brindisi), Gravina, Matera, Mottola, Oria, Otranto, Lecce, Taranto, Noha, Nardò, Gallipoli, Alessano, S. Maria (S. Maria di Leuca).
4 Ludovico Valletta, autore del De phalangio Apulo, De Bonis, Napoli, 1706, da cui è tratta l’immagine che segue.
5 Eleazar Albin, autore di Insectorum Angliae naturalis historia, 1731, testo integralmente consultabile e scaricabile da
6 Hans Sloane (1660-1753), questa è l’esatta grafia del nome, fu un medico e naturalista inglese; dal 1727 al 1741 successore di Isacco Newton alla guida della Royal Societ, fin da giovanissimo manifestò passione per il collezionismo.
8 L’italiano taràntola (dal latino medioevale taràntula) rispetto al salentino taranta mostra la stessa tecnica di formazione del toscano formìcola (furmìcula in salentino) rispetto a formica, dell’italiano spìgola rispetto a spiga e, per fare un esempio relativo al mondo vegetale, del salentino irdìcula rispetto all’italiano ortica. A proposito di taranta (probabile madre di tarantola) l’attestazione più antica che io conosca del vocabolo è contenuta nel De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis fratris eiusdi Goffredo Malaterra (XI secolo) che così ricorda per l’anno 1064 (cito il testo originale da E. Pontieri, Rerum italicarum scriptores 2, v. I, 1928; la traduzione che segue, come tutte le altre, è mia): … Panormum usque perveniunt; atque in monte, qui postea Tarantinus [dictus est] ab abundantia tarantarum, a quibus ibidem exercitus eorum plurimum vexatus est, iubente duce – quem postea poenituit -, tentoria fixa sunt. Nam mons totus insitus tarantis, viris et mulieribus inhonestum, quamvis iis qui evaserint, ridiculosum hospitium praebuit. Taranta quidem vermis est, araneae speciem habens, sed aculeum veneni ferae punctionis omnesque, quos punxerit, multa et venefica ventositate replet: in tantumque angustiantur, ut ipsam ventositatem, quae per anum inhoneste crepitando emergit, nulla modo restinguere praevaleant et, nisi clibanica vel alia quaevis ferventior aestuatio citius adhibita fuerit, vitae periculum incurrere dicuntur. Tali inhonestate nonnulli nostrorum vexati, tandem locum mutare coguntur … (… alla fine giungono a Palermo e le tende furono fissate, per ordine del duca che dopo se ne pentì, sul monte che poi fu chiamato Tarantino dall’abbondanza di tarante dalle quali il loro esercito lì fu molto tormentato, Infatti tutto il monte è disseminato di tarante, ripugnante per uomini e donne, sebbene esso abbia offerto un risibile riparo a coloro che vi erano saliti. La taranta è un verme avente l’aspetto del ragno ma un pungiglione velenoso dalla dolorosa puntura e infonde in tutti coloro che ha punto una diffusa e venefica flatulenza e sono tormentati a tal punto che non sono in grado in nessun nodo di placare la stessa flatulenza che vergognosamente crepitando esce attraverso l’ano e si dice che corrono pericolo di vita se non viene applicato al più presto il calore di una teglia o qualsiasi altro che riscalda piuttosto energicamente).
Lo stesso autore per l’anno successivo: Antequam iret versus Panormum dux Robertus, et in monte Tarantarum, iuxta Panormum, tentoria fixisset, dux et comes Rogerius … (Prima che il duca Roberto andasse verso Palermo e ponesse le tende sul monte delle tarante presso Palermo, il duca Ruggero …)
Un tarentum (ma questa volta si tratterebbe di un serpente, a meno che nel testo serpentibus non debba intendersi nel suo valore originario di ablativo plurale di serpens, participio presente di sèrpere=strisciare (in tal caso a serpentibus andrebbe inteso da animali striscianti;va ricordato a tal proposito che serpens può avere anche il valore specifico, oltre che di serpente, anche di verme) fu il responsabile di altri guai, si direbbe ben più gravi, per i crociati secondo la testimonianza di Alberto d’Aix (XII secolo) nella sua Historia Hyerosolimitana expeditionis (cito dall’edizione della Patrologia Latina del Migne, v. 166, libro V, capitolo XL, colonna 534): Illic plurimos acervos lapidum repererunt, inter quos infinita manus debilis et pauperis vulgi dum fessa quiesceret et accubaret, a serpentibus, quos vocant Tarenta, quidam percussi, interierunt tumore, et prae intolerabili siti inaudita inflatione membris eorum turgentibus (Lì trovarono parecchi mucchi di pietre; mentre stanca si riposava e giaceva l’infinita schiera della gente debole e povera, alcuni, morsi da serpenti [o da animali che strisciavano?] che chiamano Tarenti morirono per il gonfiore e per via dell’intollerabile sete a causa dell’inaudito rigonfiamento mentre le loro membra si inturgidivano).
A distanza di due secoli da Goffredo Malaterra e di uno da Alberto d’Aix s’incontra un darentarum (genitivo plurale di darenta), con riferimento allo stesso fatto storico, nella cronaca del XIII secolo del frate domenicano Corrado (in Giovan Battista Carusio, Bibliotheca historica regni Siciliae, tomo I, Francesco Cichè, Palermo, 1723, pagg. 47-50); il passo sembra la sintesi e il ricalco del primo malaterrano e darentarum è da leggere tarentarum o da valutare come una sua variante: … item anno 1064 iverunt ad obsedendum Panormum, et nihil fecerunt ex abundantia darentarum, a quibus exercitus fuit valde vexatus … (… parimenti nell’anno 1064 andarono ad assediare Palermo e non fecero nulla per l’abbondanza di tarante dalle quali l’esercito fu molto tormentato).
Gilberto Anglico nel settimo libro del Compendium medicinae tam morborum universalium quam particularium nondum medicis sed et cyrurgicis utilissimum scritto nella prima metà del XIII secolo (cito dall’edizione De Portonaris, Lione, 1510, pag. 316): Taranta animal est parvum habens sex pedes, tres hinc et tres inde … (La taranta è un piccolo animale che ha sei zampe, tre da una parte e tre dall’altra …)
Nel bestiario di Leonardo da Vinci (1452-1519) si legge (cito da Augusto Marinoni, Leonardo da Vinci. Studi letterari, Fabbri, Milano, 1996, s. p.): TARANTA: il morso della taranta mantiene l’omo nel suo proponimento, cioè quello che pensava quando fu morso. Qui Leonardo riprende sinteticamente il concetto di “congelamento” delle condizioni psichiche del paziente, quali erano prima del morso, già espresso da Sante Ardoini, per cui vedi la nota 8.
9 Non so chi sia il chi citato dal Vergari. So solo che θηράνθορα in greco non esiste e, quindi, si tratterebbe di una parola ricostruita, perciò oggi andrebbe scritta correttamente preceduta da un asterisco. Tuttavia, se il primo presunto componente (θήρα=bestia, corrispondente al latino fera) va bene, il secondo (ἄυθορα), che si fa corrispondere al latino venenum=veleno, in greco non esiste. Insomma, questa etimologia, tutt’al più, avrà il capo ma non la coda …
10 Secondo questa anonima proposta, dunque, terrentula deriverebbe dal verbo latino terrère=atterrire.
11 Il chi questa volta dovrebbe essere Giulio Cesare Scaligero (1484-1558) che in Exotericarum exercitationum liber XV de subtilitatead Hyeronimum Cardanum, Eredi di Paul Wechel, Francoforte, 1582, pag. 611, così scrive: Alia est ab hac diversa, quippe lacerti facie, quam, quod sub terra lateat, a Romanis putant Terrentulam nominari. Eam non vidi. Si est, ut aiunt, nigra, luteis maculosa notis, Stellionem puto (Ce n’è un’altra diversa da questa [dalla tarantola propriamente detta], a dire il vero con l’aspetto di lucertola, che, per il fatto che si nasconde sotto terra, si crede che dai romani sia chiamata terrentula).
Terrentula, dunque, deriverebbe da terra ma secondo lo stesso Scaligero è da identificare con lo stellione (una specie di geco) e non con la nostra tarantola. Insomma, il Vergari ha attribuito allo Scaligero, sia pure senza citarne espressamente il nome, un etimo da lui mai proposto.
12 Questo tarantin, anch’esso di anonimo padre, per la definizione che subito dopo viene data (commovere grandemente) dovrebbe essere un infinito presente, ma in quale lingua?
13 La prima proposta è di Thomas Moffet (1553-1604) in Insectorum sive minimorum animalium theatrum , Cotes, Londra, 1634, pag. 219: Ultimum appulum vocamus, vulgo tarentulae nomine, non incelebrem, a Tarentino agro in Appulia, ubi frequentiores vivunt, cognominatam. Eius hic iconem … exhibemus … ecce vobis lentiginosum et verum Tarantulam, a nemine, quod sciam, hactenus vere descriptum (L’ultimo lo chiamiano appulo, popolarmente detto tarentula, non infrequente, così chiamata dalla campagna di Taranto in Puglia, dove questi animali vivono più numerosi … Qui … mostriamo la sua immagine [riprodotta in basso] … ecco a voi, cosa vera e lentigginosa, la tarantola, da nessuno finora, a quanto sappia, descritta).
Prima di lui Sante Ardoini così si era espresso nel capitolo 5 (intitolato De tarantula) del libro VIII del suo De venenis (opera, composta tra il 1424 e il 1426 e pubblicata la prima volta per i tipi di Scoto a Venezia nel 1492; qui cito dall’edizione Pietro Perna, Basilea, 1562, pag. 482): Et in quibusdam locis, utputa in Apulia, et praesertim in Tarento a quo forte nomen unum ex praefatis assumpsit, accidit ex puntura eius quod vir vel mulier punctus vel puncta ab ea efficitur melancholicus vel melancholica, adeo ut perseveret illa melancholia cum illa phantasia et appetitu et cogitatione cum quibus tempore punctionis erat, quousque venenositas resolvatur (E in certi luoghi, per esempio la Puglia e soprattutto a Taranto dalla quale per caso assunse un unico nome tra quelli che ho detto prima, succede che un uomo o una donna punto o punta dalla sua puntura vien reso [dalla tarantola] malinconico o malinconica a tal punto che permane quella malinconia con quell’aspetto e inclinazione e immaginazione che aveva al tempo della puntura, finchè l’avvelenamento non si risolva).
Se il forte (per caso) è un semplice intercalare e non esprime un’ipotesi di genesi casuale l’Ardoini è da considerare il primo che abbia avanzato l’ipotesi della derivazione di Taràntula da Tàranto.
L’ultimo in ordine di tempo fu Giorgio Baglivi per cui vedi la nota 3 (cito da Opera omnia, G. Girardi, Venezia, 1761, pag. 271): Vocatur Tarantula, non quia Tarenti hoc animal virulentius fit, quam in reliquis Apuliae Regionibus; sed forsan quia Graecorum, et Romanorum temporibus, Civitas illa caeteris erat, aut frequentior, aut nobilior, et ideo existentibus ibidem maiori numero aegrotis hoc veneno laborantibus, nomen exinde animalculum desumpsisse non inficiarer (Si chiama tarantola non perché questo animale diventa più velenoso a Taranto che nelle altre zone della Puglia ma forse poiché quella città ai tempi dei Greci e dei Romani era o più frequentata o più nobile e perciò, essendoci in maggior numero malati sofferenti per questo veleno, non negherei che l’animaletto da ciò abbia preso il nome).
14 Il chi è proprio il Serao citato poco dopo, che nell’opera che successivamente indicherò così si esprime (pag. 30): “… volgendo io alcuni degli Storici naturali per lo mio intendimento, e Greci, e Latini, mi avvenni appresso tutti costoro nella descrizione uniforme di un animal esotico, nativo della Scizia, chiamato da’ Greci τάρανδος, e così pure da’ Latini tarandus, il cui carattere, e singolar proprietà è quella, di cambiar colore in tutte le occorrenze, quando cioè gli torni in bene de’ fatti suoi. Dicono adunque, che essendogli dato la caccia per prenderlo, ed egli adattando il colore della sua pelle (anzi della sua lana, o peli; ciò che fa maravigliar doppiamente Plinio al colore delle cose, che gli sono più vicine, venga con questo artificio a deludere la vista de’ cacciatori, ed a campare perciò dalle lor mani. Or da questa voce τάρανδος o tarandus, cambiando con naturalissimo e facil passaggio il D in T, sarà nato tarantus, e quindi taranta … e poi o per diminuzione , o per modulazione dissoluta e sdrucciola dell’ultimo suono della parola, tarantolo, o tarantola.
17 E. De Martino, La terra del rimorso. Il Sud tra religione e magia, Il Saggiatore, Milano 1961.
18 R. Rossetti, Nel nome di Asclepio. Il Tarantismo oltre la lettura di Ernesto De Martino, in Segni e comprensione (rivista telematica quadrimestrale), anno XXVI nuova serie, n.76, Gennaio Aprile 2012, pagg. 88-118.
“La scherma, il codice, la ronda” (…nella notte di San Rocco a Torre Paduli)
La processione è finita, i pellegrini si radunano sul sagrato della chiesa.
Vengono a piedi dai paesi vicini e dormiranno all’aperto questa notte.
Qualche fuoco prende vita e scalda le pelli dei tamburi, le rami dei cimbali
brillano e già cominciano a fremere.
Ci si ritrova dopo un anno ed è naturale salutarsi con rispetto prima di
entrare nella chiesa del santo a inginocchiarsi e a pregare con devozione.
Il segno della croce, un ultimo sguardo e si lascia l’altare alle spalle
insieme all’odore d’incenso e di cera misto alle voci cadenzate dei rosari.
Dirimpetto c’è il clamore della festa che comincia a prendere vita con i suoi
grandi cerchi fatti di uomini e di tamburi: le ronde.
Ci si raduna, qualche frase per definire i ruoli sostituita, a volte, solo da
uno sguardo, tanto lunga è ormai la conoscenza. In mezzo a centinaia di persone
sbocciano i cerchi. “A nome te Diu!” grida un anziano, il pollice comincia a
battere la pelle del primo tamburo e gli altri lo seguono; il cerchio, come una
rosa, fiorisce, si allarga e comincia a srotolarsi un ritmo lento e regolare,
possente, lo si sente vibrare nei piedi e salire nel ventre, nel petto.
Tthumm! Tthumm! Tthum tthum tthum!
I primi due sfidanti fanno un cenno, prendendosi per mano si fermano, si
guardano negli occhi, presentano simbolicamente le armi: l’indice e il medio
distesi e il pollice chiude le altre dita. Le gambe sono flesse e leggere, il
baricentro basso, la colonna distesa, le spalle dritte e lo sguardo fermo. Si
gira ancora, studiandosi e aspettando il momento giusto per cogliere una
breccia nella difesa dell’avversario. A turno una volta si attacca, una volta
si difende, muovendosi e respirando assieme al ritmo del suono. Secondo il
codice antico, chi viene colpito più volte esce fuori dalla ronda. Il rituale
lentamente comincia a rivivere svelandosi e i tamburi battono la cadenza
catturando il pulsare del cuore: tthum! Tthum! Tthum tthum tthum!
Un altro cenno, altri due avversari si prendono per mano e inizia una nuova
sfida: il codice vuole che ogni attacco venga presentato e sferrato sull’ultimo
accento della terzina assieme al battere sonoro del piede al suolo. Nessuno può
trasgredire, mancare di rispetto all’avversario significa offendere la ronda e
con forza essere cacciati via tra il disprezzo di tutti.
Nessuno può disturbare la ronda, “Ci nu ssai ‘soni statte ccasa!”, e per farne
parte bisogna conquistarsene la fiducia e il rispetto anno dopo annno. Ogni
gesto si impara bene osservando e affrontando l’avversario, ogni regola viene
compresa dopo ogni sbaglio e ancor più attraverso i consigli preziosi dei
maestri, festa dopo festa, anno dopo anno, a patto di saperli sedurre col
rispetto, la perseveranza e la misura. Una volta fatto questo, però, nella
sfida si è soli, in nessun caso è consentito trasgredire le regole o il maestro
sarà il primo a punire gli sciocchi cacciandoli via con sdegno e disonore. Non
è ammesso colpire il viso, è segno di stupidità e di arroganza; mai voltare le
spalle allo sfidante, ne si ferirebbe l’orgoglio; mai in nessun caso viene
tollerata la violenza, il corpo dell’avversario deve essere solo sfiorato, non
colpito, e se ciò accade accidentalmente, le scuse vengono immediatamente
presentate con un cenno della mano destra.
Le sfide si avvicendano nei cerchi che si allargano e gli occhi soggiogati
dalla luce febbrile dei cimbali, osservano inebriati la danza dei corpi e dei
tamburi.
Nel piccolo esercizio con l’insegna “Alimentari e altro”, al paesello, l’amico Orlando, classe 1927, agricoltore in servizio attivo e, a tal fine, quotidianamente in sella al suo vecchio scooter oppure al volante del suo motocarro Ape, ha stamani ordinato un misto di mortadella, prosciutto e provola, per complessivi duecento grammi di peso.
Non c’è che dire, nella semplicità e in economia, buongusto a tavola.
° ° °
Nella capitale del Barocco, esiste da secoli un monastero di suore, già rigorosamente di clausura, adesso un po’ meno. Dette religiose, oltre ad attendere alle pie pratiche di riflessione, meditazione e servizio liturgico, si interessano, per antica usanza, della produzione artigianale di dolci in pasta di mandorla, in gergo dialettale definiti “duci te li signori”.
Invero, non v’è leccese o salentino che non conosca o, quanto meno, non abbia sentito parlare delle specialità preparate fra le mura del convento, leccornie che, negli ultimi decenni, sono arrivate a farsi apprezzare anche fuori regione, in particolar modo nel nord Italia, e pure all’estero. Piccola nota al riguardo, le suore, su richiesta, si occupano finanche della spedizione, per posta o via corriere, dei loro dolci.
Un segmento preponderante dell’attività in questione è rappresentato dai generi preparati nelle cucine del monastero in prossimità del Natale e della Pasqua, rispettivamente sotto forma di pesci e di agnellini, con confezioni che vanno dai cinquecento grammi ai due chili e mezzo: su ciascun involucro, l’indicazione chiara degli ingredienti, ossia zucchero, mandorle, acqua e marmellata di pera.
Questo delle monache, è fuor di dubbio un prodotto molto ambito e che si distingue nettamente rispetto alle specialità similari che si trovano nei bar e nelle pasticcerie. Si dice che ciò dipenda da una ricetta di lavorazione segretissima, mai uscita fuori dalle mura del monastero e quindi, a tutt’oggi, detenuta e adoperata dalle suore in assoluta esclusiva.
Chi scrive è un acquirente assiduo e puntuale di pesci e agnellini in pasta di mandorle – che è solito far pervenire, in occasione delle feste, a una serie di familiari, parenti e amici – e, insieme, un estimatore delle monache che li fabbricano. Altro piccolo e affascinante particolare, il ritiro delle confezioni acquistate avviene esclusivamente tramite una ruota, sì, proprio una bussola ruotante, così da non intaccare il regime di clausura dei soggetti che vendono, con l’immancabile accompagnamento dell’invito della suora, di volta in volta addetta, a mettere i soldi corrispondenti al conto all’interno della medesima ruota.
Sennonché, quest’anno, nel corrente periodo prenatalizio, in seno al tradizionale e consolidato quadro, si è registrata una novità, che, di primo acchito, sembrerebbe non trascendentale, mentre, oggettivamente, è assai indicativa.
In sostanza, in confronto ai listini del Natale 2012 e della Pasqua 2013, il prezzo dei “sacri” dolci in pasta di mandorle è aumentato del dieci per cento, passando da venti a ventidue euro al chilogrammo; una bella botta, anche tenendo conto dell’inflazione.
Accanto alla lievitazione oltre misura del corrispettivo da pagare, è emersa la novità costituita dall’emissione, per la prima volta, dello scontrino fiscale. E, però, la concomitanza fra l’intervento sul listino e lo stacco del dovuto scontrino con lampante diretta ricaduta sull’acquirente, la dice lunga.
Chissà che cosa osserverebbe al riguardo Papa Francesco, il quale, a quanto letto sulla stampa, conversando con il proprio Monsignore Elemosiniere, ha con candore affermato che, personalmente, nelle tasche non ha mai neppure cinque euro.
Forse, nella fattispecie, il Pontefice non sarebbe portato a complimentarsi con le suore di clausura leccesi.
Vieni a ballare in Puglia, qui troverai accoglienza, mare, sole e divertimento. Già, ma non è tutto. Qui troverai anche la più alta emissione di anidride carbonica d’Italia, ossia il 21,23 %, una regione come la Lombardia ne produce solo il… 13,24% ,una come il Lazio il 6,07%. Qui troverai anche il 91,96% di tutte diossine prodotte in Italia.
Si, hai letto bene: il 91,96% della TOTALITA’ prodotta in Italia! In Lombardia solo il 4,32%. Ed ancora in Puglia troverai il 95,48% di IPA, seconda l’Umbria col suo 2,98%. Hai letto bene? Rileggi per favore! Non ti basta?
Bene, allora preparati, perché siamo solo all’inizio: emissioni di Monossido di Carbonio, 81,11% in Puglia, seconda la Lombardia con il 3,69%. Capito? Lo 3,69% la Lombardia! Emissioni di Particulate Matter: Puglia 62,23%, seconda classificata la Sardegna, con il 7,91%.
Emissioni di Benzene: prima classificata la Puglia, col 46,13%, segue la Sicilia col 26,16%, terza la Lombardia col 9,87 %. Ossidi di azoto: prima la Puglia, col 19,63%, seguita da Sicilia, con l’11,65%. Ossidi di zolfo, chi sarà prima?
Indovinato! La Puglia ovviamente, con il 23,27%. E visto che ti piace il Salento, sappi che la provincia più devastata non è Taranto, ma quella leccese: qui si supera oltre ogni limite che tu possa immaginare la media nazionale del numero di tumori che colpiscono i polmoni e le vie respiratorie.
Ti stupiscono questi dati? Beh, anche a me, eppure pare sia da vent’anni che alcuni eroici signori ignorati da tutti (leggi, ad esempio, l’oncologo Serravezza) lo denunciano, il problema è che nessuno li vuol sentire nelle grandiose regie delle Istituzioni dello Stato Italiano. Qua ci stanno ammazzando da decenni, altro che rifiuti tossici interrati e quel maledetto ethernit con cui riempiono le campagne migliaia di ignoranti figli di p.!
Ovviamente troverai dei geni che attribuiscono lo stato di salute dei salentini al fumo di tabacco. Se avrai avuto la capacità di leggere questo articoletto, avrai anche quella di giudicare tu certe espressioni di genialità!!!
Al primo link i dati ufficiali che ho usato, il secondo link per gli amanti di Lecce!
La chiesa madre di Casarano, dedicata a Maria Santissima Annunziata, è da annoverarsi tra i monumenti più rilevanti del barocco salentino.
Tra gli studi sulla chiesa, si ricordano soprattutto le pubblicazioni inerenti le opere pittoriche: il saggio di Mimma Pasculli Ferrara che ha analizzato le sei tele di Oronzo Tiso[1], quello di Michele Paone del 1980[2] e l’inventario dei dipinti curato da Lucio Galante nel 1993[3].
La chiesa fu edificata tra la fine del XVII e i primi decenni del secolo successivo, in seguito all’abbattimento di un edificio precedente, scelta da imputarsi probabilmente alla crescita demografica del paese.
Il progetto, o quantomeno l’esecuzione materiale dei lavori, in precedenza attribuiti ipoteticamente al clan dei Margoleo[4], sembra invece da riferirsi più correttamente alla famiglia De Giovanni, costruttori originari di Galatina. Infatti fu Angelo De Giovanni, ha lasciare il suo nome in un epigrafe ben in vista sulla facciata principale della chiesa.[5] La scelta di maestranze galatinesi ci autorizza a ritenere ancora una volta questo paese del Salento tra i centri più significativi per l’edilizia barocca della provincia[6]. Sicuramente, le tante botteghe presenti sul territorio[7] furono in grado di favorire, in modo diverso, la diffusione di modelli che dai centri principali ben presto entrarono a far parte della cultura architettonica delle periferie, facendo così diventare il barocco da leccese a salentino[8].
La chiesa, a croce latina, ha una pianta longitudinale. La facciata principale, alquanto semplice, presenta il portale arricchito da una decorazione a punta lanceolata, motivo utilizzato di frequente da Giuseppe Zimbalo e con lui entrato nella cultura tipica dell’arte salentina fino al Settecento inoltrato[9].
All’interno si possono ammirare opere risalenti a periodi diversi quasi a testimoniare il cambiamento di gusto e le scelte operate dai diversi committenti. Innanzitutto, come accennato in precedenza, la chiesa attuale ha sostituito quella precedente, ma alcune opere realizzate per la vecchia matrice furono trasferite nella nuova costruzione. Hanno generato maggior confusione le poche e scarne notizie su un probabile acquisto fatto a Lecce nel 1874 dal Reverendo don Giuseppe De Donatis[10] che portò a Casarano diversi altari provenienti dalla chiesa di San Francesco della Scarpa a Lecce[11]. Anche se non abbiamo forti testimonianze documentarie che ci permettano di attestare certamente quali siano le opere provenienti dalla vecchia chiesa e neppure precise carte documentarie che attestino l’acquisto del 1874, i restauri degli ultimi anni sembrano dare corpo ad alcune ipotesi, in questa sede soltanto brevemente segnalate[12].
Ponendoci di fronte all’altare maggiore è facile percorrere con lo sguardo l’intera navata. A sinistra, vicino al portale d’ingresso è collocato l’Altare di Sant’Antonio di Padova (primo decennio del XVIII secolo), nel quale vi è la statua lapidea del santo. Durante gli ultimi lavori di restauro è stata scoperta un’iscrizione prima d’ora completamente sconosciuta. Si tratta di un’epigrafe per ricordare Giuseppe Grasso che restaurò quest’altare, un tempo dedicato ai re magi, intitolandolo al santo di Padova[13]. Nessuno conosceva queste parole completamente nascoste dal responsorio latino, (si quaeris miracula), che si ripete nella preghiera dedicata al santo di Padova e trascritto in un clipeo dell’altare.
A mio avviso, Giuseppe Grasso è lo stesso benefattore che nel 1713 ha lasciato il suo nome sull’altare dell’Immacolata nella matrice di Ruffano. Com’è stato ricordato di recente[14] si tratta di un noto personaggio appartenente ad una famiglia di medici. Da Ruffano ben presto egli si trasferì a Lecce diventando, a quanto ci dicono le fonti, il medico di fiducia del vescovo Pignatelli[15].
È piuttosto insolito che un’ epigrafe in memoria di un illustre benefattore, tanto generoso da impegnarsi a finanziare un intervento di restauro, sia stata volutamente coperta mentre di solito è consuetudine ricordare gli interventi di restauro con epigrafi e iscrizioni ben visibili sulle pareti delle chiese salentine, sugli altari e sulle tele dipinte. Credo che sia più corretto leggere la scelta di modificare l’iscrizione nell’ottica di un vero e proprio riutilizzo dell’altare che, provenendo da un’altra chiesa, doveva essere adattato a un altro luogo entrando nella vita di una nuova comunità di fedeli. Inoltre, nelle carte documentarie dell’archivio parrocchiale non sembrano esserci riferimenti a questo facoltoso medico. Dunque, l’altare potrebbe essere uno di quelli provenienti dalla chiesa di San Francesco della Scarpa. Anche per quanto riguarda l’intitolazione originaria non sembra esserci stato nelle diverse chiese matrici di Casarano alcun altare dedicato ai Magi né al Presepe. Tematiche più solitamente vicine alla religiosità francescana. È possibile dunque che l’epigrafe modificata e la statua di Sant’Antonio siano state assemblate al nuovo altare dopo il 1874[16].
Per cercare di capire le scelte fatte, in assenza di precise carte documentarie, credo che si debba considerare la tematica del riutilizzo di parti o intere strutture d’altare che, entrate in questa chiesa devono aver integrato o rinnovato gli altari che qui già esistevano o che si scelse di creare ex novo perché segno di una particolare devozione del territorio, come abbiamo visto per Sant’Antonio.
Tornando alla nostra breve visita in chiesa, segue all’altare del Santo di Padova, quello dedicato all’Immacolata e poi ancora il pulpito ligneo del 1761 e l’organo a canne realizzato dieci anni dopo[17].
Nella navata destra si susseguono l’Altare dell’Incoronazione della Vergine, quello del Rosario che al centro conserva la tela omonima dipinta da Gian Domenico Catalano[18] e l’altare dedicato alle Anime del Purgatorio. Quest’opera, realizzata entro il 1660[19] fu voluta dal Chierico Giovanni D’Astore.
Sebbene realizzato per la chiesa precedente, quest’altare insieme al dipinto posto al centro, è frutto di una scelta unitaria da parte del committente e, nonostante i diversi spostamenti subiti all’interno della chiesa, il dipinto e la struttura architettonica sono state mantenute insieme. I lavori di realizzazione furono affidati a Donato Antonio Chiarello per la scultura e a Giovanni Andrea Coppola per la tela dipinta[20].
Ricordiamo tra l’altro che lo scultore copertinese in questi stessi anni realizza a Casarano l’altare maggiore nella chiesa della Madonna della Campana.[21]
Altri tre altari sono posti nel transetto: quello dell’Annunciazione, realizzato entro il 1829 dal capomastro Vito Carlucci[22] (a destra), e a sinistra quello dedicato a San Giovanni Elemosiniere, mentre l’Altare dell’Assunta è collocato in cornu epistolae.
L’Altare dedicato al protettore del paese, è frutto di diversi adattamenti. La nicchia posta al centro è stata modificata dall’aggiunta di due colonne, accorgimento utilizzato probabilmente per adattare lo spazio, in precedenza destinato ad ospitare un dipinto, alla statua ottocentesca (fig. 7). Nelle visite pastorali e nello scrupoloso lavoro fatto da Chetry, si cita più volte un altare dedicato al Crocifisso, presente in chiesa dal primo decennio del XVIII secolo fino al 1799[23]. Quest’intitolazione certamente sembra essere più consona agli angeli scolpiti in basso che reggono i simboli della Passione.
L’altare dedicato all’Assunzione della Vergine, datato 1740, appartiene invece a un altro ramo della già citata famiglia D’Astore[24]. Questa struttura ha sostituito un’altra più antica attestata in chiesa fin dal 1719. L’altare, bell’esempio di scultura barocca, si caratterizza per gli angioletti scolpiti che letteralmente invadono lo spazio della scena, dipinta quasi due secoli prima dal pittore neretino Donato Antonio D’Orlando (fig. 9). La tela sicuramente fu richiesta da un’altra committenza data la discordanza degli emblemi visibili. Quello dei D’Astore presente nella macchina d’altare, precisamente nei plinti alla base delle colonne, è diverso da quello visibile nel dipinto (fig. 10).
Al 1634 risale la tela del Miracolo di San Domenico di Soriano. Essa è parte restante di un altare documentato in questa chiesa fino al 1910. L’opera è adesso collocata nel transetto sinistro, di fronte all’altare dell’Assunta. L’anno di esecuzione e il monogramma del pittore[25] sono stati recuperati durante il recente restauro. Nel transetto destro, di fronte alla cappella novecentesca in cui è riposto il SS. Sacramento, vi è la tela raffigurante la Pentecoste, attribuita ad un pittore di cultura emiliana[26] probabilmente del XVII secolo.
A questa veloce descrizione si vuole aggiungere la segnalazione di alcune sculture e architetture attualmente collocate nel cimitero comunale. Si tratta precisamente di due trabeazioni decorate con motivi fogliati e di quattro statue. Non c’è dubbio che le due trabeazioni siano parte dell’architettura di un altare così come una delle statue, raffigurante Sant’Oronzo. Quest’ultima, come possiamo vedere dalle fotografie, sembra essere stata staccata da un altare. Infatti, la figura, anche se è molto danneggiata, mostra un intaglio carico di particolari nella parte frontale, a differenza del retro, in cui la pietra, piatta, è lasciata completamente allo stato grezzo.
Si può ipotizzare che, in seguito alle modifiche di fine Ottocento, l’altare sia stato smembrato e alcune parti siano state trasportate nel cimitero comunale edificato proprio alla fine di questo secolo.
Ad ogni modo, dopo i recenti interventi di restauro si spera che un nuovi studi possano chiarire le vicende storico – artistiche di una delle principali chiese del Settecento in Terra d’Otranto[27].
Pubblicato su Il delfino e la mezzaluna n°2, cui si rimanda per la bibliografia, fonti archivistiche e sitografia
[1] Oltre alle sei tele conservate nella matrice, la studiosa ha analizzato quelle conservate nella chiesa confraternale dell’Immacolata e quelle della cappella della famiglia Valente. M. PASCULLI FERRARI, Oronzo Tiso, Bari 1976.
[2] M. PAONE, I Tiso di Casarano, in A. DE BERNART, Paesi e figure del vecchio Salento, Casarano, vol. I, Galatina 1980, pp. 258 – 272.
[3] Regione Puglia Assessorato Pubblica Istruzione C.R.S.E.C. LE/46 Casarano, Pittura in Terra d’Otranto, (secc. XVI – XIX), Inventario dei dipinti delle chiese di Acquarica del Capo, Alliste, Felline (fra. di Alliste), Casarano, Matino, Melissano, Parabita, Presicce, Racale, Ruffano, Torre Paduli (fraz. di Ruffano), Supersano, Taurisano, Ugento, Gemini (fraz. di Ugento), a cura di L. Galante, Galatina 1993.
[4] Questa ipotesi probabilmente nasce per la somiglianza della chiesa casaranese con la vicina chiesa madre di Ruffano realizzata dai fratelli Ignazio e Valerio Margoleo. Sulla chiesa di Ruffano: A. DE BERNART – M. CAZZATO, Ruffano: una chiesa, un centro storico, Galatina 1989; V. CAZZATO – S. POLITANO, Topografia di Puglia:atlante dei monumenti trigonometrici : chiese, castelli, torri, fari, architetture rurali, Galatina 2001, cit. p. 238.
[5]M. L. SORRONE, Alcune note sulla chiesa madre di Casarano, in “Fondazione Terra d’Otranto”, 23 novembre 2012 https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/11/23/annotazione-sulla-chiesa-madre-di-casarano/.
[6] M. CAZZATO, L’area galatinese: storia e geografia delle manifestazioni artistiche, in: M. CAZZATO, A. COSTANTINI, V. ZACCHINO, Dinamiche storiche di un’area del Salento, Galatina 1989, pp. 260 – 366.
[7] Si ricordano tra gli altri: l’artista neretino Giovanni Maria Tarantino che nel 1576 firma il portale della chiesa di San Giovanni Elemosiniere a Morciano, Pietro Antonio Pugliese, che lavorò alla chiesa di Santa Caterina Novella di Galatina intorno al 1619 e l’architetto leccese Giuseppe Cino, autore di numerose opere a Lecce e nel Salento che, a quanto dicono i documenti, aveva stretti legami lavorativi con i suoi fratelli, che ricoprivano il ruolo di <<costruttori>>, cfr. M. PAONE, Per la storia del barocco leccese, estr. da “Archivio storico pugliese”, 35 (1982), fasc. 1, cit. p. 141.
[9] F. ABBATE, Storia dell’arte Meridionale, Il secolo d’oro, Roma 2002, p. 267.
[10] Il Reverendo Giuseppe De Donatis commissionò anche il restauro della tela di Oronzo Tiso, San Giovanni che distribuisce l’Eucarestia ai fedeli, (a sinistra, dietro il presbiterio). Intervento ricordato da un’iscrizione posta in basso a sinistra sulla tela, si veda: L. GRAZIUSO – E. PANARESE – G. PISANO’, Iscrizioni latine del Salento. Vernole e frazioni, Maglie, Casarano, Galatina 1994, p. 139.
[11] G. BARRELLA, La chiesa di San Francesco della Scarpa in Lecce, Lecce 1921, p. 28; C. DE GIORGI, La provincia di Lecce – Bozzetti di viaggio, Galatina 1975, vol. II, p. 153; A. CHETRY, Spigolature casaranesi, I, La chiesa matrice di Casarano, ed. a cura dell’Amministrazione comunale di Casarano, Casarano 1990, p. 11.
[12] Queste brevi segnalazioni vogliono essere un preambolo ad un lavoro più dettagliato che chi scrive sta svolgendo.
[13] <<DANT. O PATAVINO/ SERAFICA FAMILIAE P.P SIDERI FULGENTISS.O/ SACELLUM OLIM REGIBUS AD PRAESEPE VENIETIB(US)/ SACRUM IOSEPH GRASSUS VETUSTATE COLLAPS(US)/ DICAVIT: UT SI ILLI QUONDAMSTELLA DUCE IAM/ DEUM HOMINEM NORUNT: TANTI NUNC/ SIDERIS LUMNEM DEUM SIBI NOSCAT/ PROPITIATOREM>>, trad. <<A Sant’Antonio di Padova astro fulgentissimo tra i presbiteri della famiglia serafica Giuseppe Grassoha dedicato questo altare rovinato dagli anni un tempo (dedicato) ai re (magi) diretti al presepe affinché come loro un tempo guidati dalla stella hanno già conosciuto il Dio uomo, così ora alla luce del Santo Astro, Dio gli si mostri propizio>>. Traduzione a cura di G. Pisanò, F. Danieli e don Agostino Bove. In queste sede voglio ricordare con affetto il mio prof. Gino Pisanò scomparso nei giorni di revisione di questo saggio.
[14] A. DE BERNART, I Grassi di Ruffano: una famiglia di medici, estr. da “Nuovi Orientamenti”, 12 n. 71, Cutrofiano 1981, A. DE BERNART – M. CAZZATO, Ruffano…, Galatina 1989, p. 37.
[15] S. TANISI, Visita alla chiesa della Natività della Vergine di Ruffano, in “Fondazione Terra d’Otranto”, 17 luglio 2012,
[16] A Casarano è ben documentato il culto di Sant’Antonio da Padova, al quale era intitolata una cappella, cfr. ACVN, Atti delle visite pastorali, Mons. Antonio Sanfelice, anno 1711, A/52. È probabile che una volta dismessa questa, la statua in pietra del santo sia stata trasferita nella chiesa madre.
[17] Al centro si legge: D.O.M. / A. D./ MDCCLXXI.
[19] <<[…] per sua devott.ne a sue proprie spese novam.te have eretto, et edificato una cappella sotto il titulo dell’Anime del Purgatorio dentro la Matrice chiesa di […] Casarano dalla parte destra nell’entrare dalla porta grande d’essa chiesa et proprio dove stava prima il quadro di s. Trifone, nella quale anco a sue proprie spese vi ha fatto un quadro delle dette Anime del Purgatorio…>>. ASLe, Protocolli notarili, notaio Marc’Antonio Ferocino, anno 1660, f. 138, 20/3, Archivio di Stato, Lecce.
[20] V. CAZZATO, Il Barocco leccese, Bari 2003, p. 99; V. CAZZATO – S. POLITANO, L’altare barocco nel Salento: da Francesco Antonio Zimbalo a Mauro Manieri, in Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e la Spagna, Roma 2007, catalogo della mostra, pp. 107 – 129, cit. pp. 113 – 114. La tela fu inizialmente commissionata a Giovanni Andrea Coppola, ma egli non riuscì a portare a termine l’opera che dopo la sua morte fu completata dal pittore Fra’ Angelo da Copertino. Il dipinto è stato restaurato dalla dott.ssa Luciana Margari. Sulla vicenda si segnala un recente articolo di S. TANISI, La tele delle Anime del Purgatorio di Casarano: due autori per un dipinto, in “Fondazione Terra d’Otranto”, 10 gennaio 2012, https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/01/la-tela-delle-anime-del-purgatorio-di-casarano-due-autori-per-un-dipinto/.
[21]V. CAZZATO – S. POLITANO, L’altare…, cit. p. 114.
[22] Sull’altare si legge: Vito Carlucci e figli (Muro leccese) mentre sulla tela è presente l’anno di esecuzione: 1829.
[23] ACVN, Atti delle Visite Pastorali, mons. Antonio Sanfelice, anno 1719, b. A/77; A. CHETRY, Spigolature…, cit. p. 27 e p. 41. Anche quest’altare, nella sua architettura originaria, fu commissionato dalla famiglia D’Astore.
[24]L. GRAZIUSO – E. PANARESE – G. PISANO’, Iscrizioni …, cit. p. 127: << Gentilicium familiae de Astore sacellu[m] hoc/ deiparae in coelum evectae dicatum ac benef[icio]/ [a] notaro qu[o]nda[m] Antonio Vergaro fu[n]d[a]tore donatum/ cl. Vitus Antonius De Astore ex matre pronep.[os]/ excitandu[m] curavit anno reparati orbis/ MDCCXL>>, <<Questo altare gentilizio della famiglia d’Astore, dedicato alla Madonna Assunta in Cielo e dotato di un beneficio dal defunto notaio Vergari, il signor Vito Antonio d’Astore, pronipote da parte di madre, fece erigere nell’anno della redenzione del mondo 1740>>.
[25]ORT. BR. NER. 1634, (Ortensio Bruno Neritonensis). Altri dipinti sono accompagnati da questo stesso monogramma, pensiamo alla tela dell’Immacolata nella chiesa di Santa Lucia a Taviano e al dipinto raffigurante il Miracolo di Soriano nella chiesa matrice di Racale. In queste opere per l’abbreviazione della provenienza si legge “N. US” e non “NER.” (neritonensis), cfr. L. GALANTE, Pittura…, cit. p. 11 e nota n. 23 a p. 20. Si veda anche: A. SERIO – G. SANTANTONIO, Racale: note di storia e costume, Galatina 1983.
[26] L. GALANTE, Pittura…, fig.74 senza numero di pagina.
[27] Ringrazio sentitamente il parroco, don Agostino Bove, per la disponibilità e per avermi permesso di fotografare la chiesa.
All’interno dell’oratorio di san Giovanni Bosco a Taurisano (Lecce), in fondo a destra, si notano i ruderi di un’antica chiesetta dedicata a san Donato, probabilmente edificio di culto non di un insediamento specifico, ma punto di riferimento per un popolamento sparso[1].
Oggi è del tutto scomparsa la facciata dell’edificio, mentre rimangono in piedi parte dei muri perimetrali e soprattutto la zona absidale, elemento che ci consente di datare l’impianto originario della fabbrica. L’abside, infatti, si presenta di forma semicircolare all’interno e poligonale all’esterno, proprio come nelle chiese costruite intorno al VI secolo, di chiara derivazione costantinopolitana (tra tutte, la chiesa del monastero di san Giovanni in Studion o Studios, edificata nel 463 a Costantinopoli). Per avere un esempio, basta percorrere qualche chilometro e notare l’abside rettangolare, decisamente aggettante, di santa Maria della Croce (conosciuta come Casaranello) a Casarano, oppure, per un confronto più aderente, la chiesa di santa Eufemia a Specchia, sul sito dell’antico insediamento romano di Grassano. Con quest’ultima, grazie all’ausilio di vecchie foto, possiamo riscontrare altre analogie, tra cui la copertura a doppia falda con embrici e il fronte molto affine (forse leggermente più dilatato a Specchia), caratterizzato dalla bifora con colonnetta al centro, sopra la porta di ingresso. Le differenze sembrano minime: il portale lunettato e le dimensioni generali leggermente ridotte a Taurisano, tanto che nell’abside è presente una finestra con arco a tutto sesto (arco identico alla bifora in facciata). Possiamo supporre che anche l’interno dovesse essere simile, con la variante che in pieno medioevo la chiesa di santa Eufemia da navata unica divenne a tre navate, con l’aggiunta di quattro serie di triplici arcate[2]. Altro elemento peculiare è il reimpiego di materiale di spoglio proveniente da edifici antichi, adoperato nell’inquadramento del portale sino ai grandi blocchi perimetrali.
Nella piccola chiesa di Taurisano, pur essendo andata distrutta la facciata, sono ancora visibili dei grandi conci che costituiscono i cantonali della struttura, qui collocati per evidenti fini statici; è chiara, tuttavia, l’irregolarità della tessitura muraria, come in numerosi edifici di culto coevi (solo Casaranello pare avesse conci cavati ad hoc e non di reimpiego), mentre solo nella zona absidale il tessuto murario si rende più regolare ed uniforme.
Non può mancare un cenno su quanto è dipinto nell’abside taurisanese e soprattutto sull’iscrizione che corre sotto il catino della chiesa paleocristiana, in ogivale maiuscola di color rosso, non esegetica di un santo campito, bensì del committente; Marina Falla Castelfranchi[3] la segnala, confrontandola con i soli due casi analoghi in Italia. Probabilmente la datazione dell’iscrizione di Taurisano va dal XII al XIII secolo, lo stesso periodo cui può farsi risalire la figura del possibile committente, che appare di dimensioni ridotte, in ginocchio, con le braccia sollevate verso l’alto.
Una più facile lettura consente l’ultimo strato campito, delimitato da cornice floreale, che nella parte più alta mostra l’Eterno Padre, assiso su nubi, che regge con la mano sinistra il globo; a destra del Padre si intravede un santo con mitra e pastorale, riproducente con molta probabilità il titolare san Donato. Più in basso è visibile, su di uno strato presumibilmente cinquecentesco, una chiesa, forse residuo iconografico di una Madonna di Costantinopoli o di Loreto; altri due strati sono visibili in prossimità della finestra absidale, su cui si intravedono alcune lettere.
Le tracce degli affreschi documentano l’importanza nel corso dei secoli dell’edificio, fortemente tenuto in considerazione dalla popolazione locale che qui eseguiva le inumazioni dei morti per pestilenza o altre malattie infettive[4].
L’augurio è che si intervenga quanto prima per consolidare i ruderi, magari favorendo scavi sistematici che consentano di conoscerne la storia.
Sempre nel centro storico di Taurisano, nel vico Risorgimento, Salvatore Rocca[5] ha riportato l’esistenza dell’ex edificio sacro intitolato a san Nicola, segnalando le condizioni deplorevoli. L’esterno presenta una copertura a due falde coperte da coppi, mentre l’interno custodisce delle pitture sotto l’intonaco. È riconoscibile la Vergine che indossa il maphorion, col capo reclinato in prossimità dell’apertura originaria, probabilmente un’Annunciazione da ascrivere al XIV secolo; a sinistra della Vergine infatti, leggermente più in basso, si intravede un altro nimbo, che fa pensare all’Arcangelo. Situazioni similari si sono ritrovate in edifici coevi come la cripta di sant’Antonio Abate a Nardò, quella di san Marco a Ruffano e il santuario di santa Maria della Lizza ad Alezio. Altre tracce pittoriche sono visibili in prossimità dell’abside, forse un santo vescovo. La cappella, di proprietà privata, è stata interessata di recente dal parziale crollo della copertura.
Pubblicato su Il delfino e la mezzaluna n°2.
[1] P. ARTHUR (et alii), La chiesa di Santa Maria della Strada, Taurisano (Lecce). Scavi 2004, in «Archeologia medievale», a. XXXII, 2005, p. 173.
[2] G. BERTELLI, Santa Eufemia a Specchia, in «Puglia Preromanica», 2004, pp. 276-277.
[3] M. FALLA CASTELFRANCHI, La pittura bizantina in Italia meridionale e in Sicilia (secoli IX-XI), in «Historie et culture dans l’Italie byzantine: acquis et nouvelles recherches», a cura di A. Jacob, J. M. Martin e G. Noyè, Roma 2006, p. 212.
[4] S. A. ROCCA, Il cimitero di Taurisano, Taurisano, 2009, p. 12.
[5] ID., Le cappelle di san Nicola di Bari e la presenza dei Francescani in Taurisano, Taurisano, 2011.
Non bisogna mai abbandonarsi alle proprie certezze o non bisogna mai abbandonare le proprie certezze?
Tra questi due estremi millantate possibilità si aprono nella facile dimostrazione che ad aderire con alterigia al secondo estremo si rischia di rinunciare a occasioni di revisione delle proprie conoscenze e, ovviamente, di crescita. E tuttavia anche una eccessiva genuflessione al dubbio può comportare una perdita di tempo causata a cercare inutili conferme a cose che sono intrinsecamente insulse.
Certo può esser l’adiaforìa a dominare alcune notizie, ma se un amico ti chiama e ti manda sollecito non puoi astenerti, astensione e amicizia sono tra loro incompatibili.
E dunque i fatti: Una azienda vinicola siciliana, data la posizione dovrei dire sicula come s’ha da dire della parte occidentale dell’isola mentre il termine sicano dovrebbe essere riservato alla sua parte orientale, L’azienda Calatrasi dei fratelli Micciché è locata nella valle dello Jato, la fertile zona intorno ai comuni di San Giuseppe Jato e San Cipirello.
Tra quest’area e la Puglia esiste un antico legame, le antiche città di questa valle (Giato ed Entella) avevano predominanza musulmana e si opposero agli Svevi nel XIII-esimo secolo. Federico II, che era buono ecaro manon aveva grande pazienza con gli oppositori, le distrusse completamente deportando tutti gli abitanti a Lucera, appunto in Puglia. E, ad abundantiam, popolò di lombardi guidati da Ottone di Camerana un importante comune vicino: Corleone.
Gli anni passarono e le terre finirono n mano a nobili spesso incapaci e dissoluti che stipulavano contratti di enfiteusi con i fattori o i contadini che portavano avanti la terra. Fu così che la famiglia Micciché si ritrovò una certa quantità di terreni e i fratelli Giuseppe e Maurizio Micciché ci troveranno la forza e la passione di tirare su una ormai famosa cantina. Era il 1980.
Successivamente l’azienda approda nel Salento, alla Tenuta di Casalbaio nel feudo di Mesagne e nel Comune di San Pietro Vernotico come luogo di produzione vinicola.
Naturalmente producono vini tipici dell’area geografica con vitigni storici come primitivo e negro amaro. Non è qui il luogo nel quale si discuterà del valore dei vini ma la sollecitazione mi è giunta relativamente al naming dei medesimi.
Uno dei quali si chiama Zambro per scelta non so di chi. Vorrei suggerire, con molta umiltà, che a Brindisi e area connessa non è precisamente un complimento quella parola. Diciamo che quel termine ha un sinonimo, e siamo buoni, nel “burino” romanesco, nel “truzzo” dello slang dei giovani.
La spiegazione prodotta in etichetta relativa ad un Brigante, assai probabilmente ha a che fare con Antonio Angelo Del Sambro, detto ‘u Zambr’, famoso brigante, pugliese si ma del Gargano, nato a San Marco in Lamis il 24 marzo 1827 e passato per le armi in pubblica esecuzione il 29 giugno 1862 in località Noce del Passo. ‘U Zambr’ ha partecipato ad azioni di brigantaggio a Ischitella, Vieste, Poggio Imperiale, Torremaggiore, Rignano Garganico e San Marco in Lamis ma con il Salento non ha mai avuto a che fare e, date le sue umili origini e la sua storia, del Salento non conobbe nemmeno l’esistenza geografica.
Del Salento o Sallento che dir si voglia, financo Calabrie siamo stati in alcune mappe storiche ma, a mia memoria, mai ci siamo chiamati Salenzio come riportato da una seconda etichetta della medesima casa. Non è per pignoleria ma non vorrei che, leggendo le etichette di due vini, qualcuno credesse per davvero a quello che c’è scritto.
Trovarsi di colpo discendenti di Zambro e Salenziani sarebbe davvero difficile da digerire, per fortuna le panzane son scritte solo per darsi qualche cm di nobiltà ma hanno gambe mignon.
Tanto per precisare.
Nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di Nardò
Da sempre gli archivi degli antichi notai rappresentano una fonte indispensabile per ricostruire le vicende relative ad artisti e alle opere da essi realizzate e di cui si era persa memoria, permettendo di individuare momenti importanti delle relative carriere, di valutarne la fortuna critica presso i contemporanei e di ricavare importanti informazioni circa i rapporti con la committenza. Per quanto riguarda poi in particolare gli studi di storia dell’arte nel Mezzogiorno d’Italia, si deve aggiungere il formidabile contributo, probabilmente unico al mondo, fornito dall’Archivio Storico del Banco di Napoli che, con il suo patrimonio quasi intatto di volumi provenienti dai sette Banchi principali del Regno rappresenta, grazie alla registrazione di milioni di documenti di pagamento, una vera e propria miniera di notizie in un arco temporale che va dagli ultimi decenni del XVI fino all’XIX secolo.
Proprio grazie a queste fonti documentarie, recentemente è stato possibile individuare gli autori della statua bronzea dell’Immacolata posta a coronamento della omonima guglia della città di Bitonto[1]. Da uno strumento notarile ritrovato da Gian Giotto Borrelli, datato 2 giugno 1733, scopriamo che il padre Michele Gentile della Compagnia di Gesù su incarico di padre Michele Calamita[2] di Bitonto aveva affidato allo scultore ed orefice napoletano Carlo Schisano[3] il compito di realizzare entro il 10 novembre dello stesso anno una statua di rame di sette palmi d’altezza su disegno di Domenico Antonio Vaccaro[4]. Il compenso, condizionato all’approvazione finale dello stesso Vaccaro, ammontava a 550 ducati. Il ritrovamento anche delle polizze di pagamento emesse dal Banco dei Poveri in numero di sette fra il 3 giugno del 1733 e il 13 gennaio 1734 conferma che tutti i termini del contratto vennero rispettati[5].
Ma tra i vari strumenti di indagine a disposizione degli studiosi, oltre agli archivi e le fonti bibliografiche, vi sono anche gli antichi giornali, già ampiamente diffusi nei secoli XVII e XVIII. Pur essendo non sempre facilmente fruibili in quanto dispersi in modo lacunoso in varie biblioteche, non solo napoletane, essi rappresentano una fonte meno conosciuta di notizie spesso inedite e di grande importanza per la storia politica ed artistica del Regno di Napoli.
Utilizzati inizialmente soprattutto dai musicologi, solo più di recente sono stati oggetto di attenzione da parte degli storici dell’arte. Un esempio della loro importanza è rappresentato dai notevoli contributi ricavati dai cosiddetti Avvisi di Napoli[6], ancora una volta per lo studio di alcune delle diverse guglie erette per devozione popolare non solo a Napoli, ma anche in varie cittadine campane e pugliesi, nel corso del XVIII secolo[7].
Già nel 1976 Teodoro Fittipaldi traeva dal numero 10 di Avvisi dell’8 febbraio 1746 il giorno in cui veniva posta la prima pietra della guglia dell’Immacolata costruita di fronte alla chiesa del Gesù Nuovo di Napoli su iniziativa di padre Francesco Pepe, i cui lavori vennero solennemente iniziati il 1 febbraio di quell’anno[8]; l’interessante documento correggeva così la data erronea del 7 dicembre 1747 dovuta ad un refuso di Pietro degli Onofri che aveva, fino ad allora, rappresentato l’unica fonte per la datazione dell’avvenimento[9].
Più recentemente, sempre dallo stesso giornale, veniva ricavata la notizia dell’inaugurazione del medesimo monumento avvenuta, in perfetta concordanza con i documenti di pagamento relativi alla sua costruzione, tra il 6 e l’8 dicembre 1754[10].
E ancora da un numero di Avvisi veniamo a conoscenza dell’inaugurazione avvenuta nel mese di agosto del 1738 (probabilmente in occasione della festa patronale) della piccola e meno conosciuta guglia di S. Rocco, eretta nella frazione Penta di Fisciano (in provincia di Salerno)[11].
Ma la notizia più interessante sull’argomento e, per certi versi sorprendente, la ricaviamo dal n. 42 del 16 settembre 1749 del medesimo giornale[12]. Essa fa riferimento ai festeggiamenti celebrati alla presenza del vescovo Francesco Carafa per l’arrivo da Napoli della statua marmorea dell’Immacolata Concezione destinata ad essere posta in cima alla guglia eretta in suo onore nella piazza principale di Nardò.
“Dalla città di Nardò siamo ragguagliati, qualmente erettosi nella Piazza principale di quella un nobile, e magnifico Obelisco, in onore della SS. VERGINE IMMACOLATA di pure limosine spontaneamente offerte, e non richieste; giunse ivi ultimamente da questa Capitale una statua di marmo finissimo di palmi nove della stessa GRAN VERGINE IMMACOLATA, di eccellente Scoltura, da mettersi nella cima di detto Obelisco. Ricevuta processionalmente in una delle porte della Città da Mons. Vescovo D. Francesco Carafa, e da lui Pontificalmente vestito ancor benedetta fu condotta in trionfo per le principali strade riccamente adobbate, seguita dal Capitolo, Mansionarj, e Clero; coll’intervento ancora degli Ordini Regolari, di tutto il Magistrato, Nobiltà, e Popolo innumerevole tra le pubbliche acclamazioni, e continovi Viva di giubilo, tra le armoniche Melodie di ben concertati istrumenti, e tra un continuo sparo di mortaretti, e fuochi artificiali; e giunti nella pubblica Piazza fu depositata la Statua vicino all’Obelisco, ed intonato il Te Deum in rendimento di grazie si proseguirono le Feste di sparo, ed illuminazioni fino alle molte ore della Notte. Detta Statua è stata scolpita da D. Matteo Bottigliero Scultore Napolitano”[13].
L’importanza del documento si fonda principalmente su due dati, fino ad oggi ignoti alla critica.
Il primo è che la statua di marmo posta a coronamento dell’obelisco, costruito interamente in pietra di carparo[14], venne realizzata dal napoletano Matteo Bottigliero[15], allievo di Lorenzo Vaccaro nonché figura fondamentale nel panorama artistico napoletano di metà del XVIII secolo, negli stessi anni in cui lo scultore lavorava insieme a Francesco Pagano alla decorazione marmorea della Guglia dell’Immacolata di Napoli[16]. L’artista aveva inoltre già operato in Puglia cinque anni prima per la cattedrale di S. Eustachio ad Acquaviva delle Fonti, come attesta un documento di pagamento emesso dal Banco dello Spirito Santo il 18 luglio 1744 ritrovato da Eduardo Nappi[17], grazie al quale si trae che lo scultore riceve da tal Francesco Molignani, 235 ducati per l’esecuzione, su disegno del pittore Nicola Maria Rossi, delle statue marmoree di Santa Theopista (moglie di S. Eustachio) e dei due suoi figli; la suddetta somma, da corrispondersi solo dopo giudizio favorevole dello stesso Nicola Maria Rossi[18], comprendeva anche il loro trasporto via mare da Napoli alla marina di Bari. Oltre alle sculture di Acquaviva, è stato ipotizzato da parte di Mimma Pasculli Ferrara, sulla base di considerazioni di carattere stilistico, un possibile intervento del Bottigliero anche per i putti capo altare nelle chiese di Santa Croce a Lecce e di San Domenico a Martano[19].
La seconda notizia, non meno importante della prima, riguarda la datazione del monumento che, per quanto in maniera controversa, veniva fino ad oggi ritenuta dalla maggior parte degli studiosi di epoca successiva alla guglia napoletana dell’Immacolata (i cui lavori si conclusero come già si è detto in precedenza nel 1754) sulla base di un resoconto del vescovo Luigi Vetta sui festeggiamenti celebrati a Nardò l’8 dicembre 1854, in occasione dell’introduzione da parte di Pio IX del dogma dell’Immacolata Concezione; questi infatti affermava che in quei giorni “Nella piazza principale faceva vaghissima mostra la guglia, che, innalzata molti anni prima, ad imitazione di quella eretta nel largo della trinità maggiore di Napoli, appariva con un bel disegno illuminata, per gran numero di lumi che splendevano in vetri colorati”[20].
Per la verità, nonostante l’affermazione del Vetta, che va oggi considerata erronea alla luce dei nuovi elementi a nostra disposizione, i primi autori che si erano occupati del monumento nerentino individuavano nella fine del XVII secolo l’epoca della sua costruzione[21]. In seguito l’unico studioso a dimostrarsi concorde con tale datazione sarà Giuseppe Palumbo che nel 1953 lo definisce «opera del XVII secolo» e ne attribuisce la paternità, sebbene dubitativamente, all’architetto Giovan Bernardino Genoino di Gallipoli, già artefice della cattedrale di Sant’Agata nella sua città natale[22].
Tuttavia nel 1930 Francesco Castrignanò affermerà, senza fornire alcuna prova a sostegno, che la cosiddetta “colonna” venne edificata nel 1769 su iniziativa dell’Abate Francesco Antonio Giulio, sotto il vescovato di Marco Aurelio Petrucelli, come ringraziamento per lo scampato pericolo dal terremoto del 1743[23]. Da questo momento in poi, il 1769 sarà pedissequamente indicato come anno di costruzione della guglia da quasi tutti gli studiosi che ritorneranno successivamente sull’argomento. Fra questi Giovanni Siciliano[24], Michele D’Elia e Luciano Zappegno[25], Pantaleo Ingusci[26], Emilio Mazzarella[27], Benedetto Vetere e Salvatore Micali[28], Mario Manieri Elia[29], Stefano Leopizzi e Giovanni Vernich[30], Mario Mennonna[31], Mimma Pasculli Ferrara[32] ecc. Solo Antonio Castellano nel 1976 posticiperà ulteriormente al 1775 l’anno di costruzione del monumento, anch’egli astenendosi dal riportare prove a supporto di quanto dichiarato [33], mentre Pietro Marti nel 1932 l’aveva definita “opera settecentesca di ornamentazione esuberante fino al delirio”[34].
La data del 1749 riapre anche nuovi scenari circa l’attribuzione dello spettacolare monumento. Se da un punto di vista cronologico la già citata assegnazione a Giovan Bernardino Genoino da parte di Giuseppe Palumbo può essere considerata ancora plausibile, più problematica appare invece l’ipotesi avanzata da Mario Cazzato[35] e sostenuta anche da Mimma Pasculli Ferrara[36], di riferire l’opera all’architetto copertinese Adriano Preite (1724 – 1804) la cui lunga carriera si svolse fra il 1747 e il 1797; facendo i debiti conti dovremmo accettare la difficile anche se non del tutto impossibile eventualità che un’impresa di tale portata fosse stata affidata ad un architetto non ancora venticinquenne e comunque agli inizi della carriera.
La retrodatazione di circa vent’anni della “colonna” nerentina rispetto all’anno 1769 accettato finora come riferimento dalla maggior parte degli studiosi, induce a considerare con maggiore insistenza il possibile coinvolgimento di Ferdinando Sanfelice nel progetto dell’opera. L’importante architetto napoletano, fratello di Antonio, vescovo di Nardò dal 1708 al 1736[37], sarà presente più volte in quegli anni nella città pugliese ridefinendo l’assetto urbanistico dell’area circostante il duomo con una serie di interventi, non solo nella cattedrale, ma anche nei vicini edifici del vescovato e del seminario, nonché nel monastero di Santa Chiara. Non si può escludere quindi, che già prima del terremoto del 1743 sia maturata l’idea di realizzare nel cuore della città un’opera analoga a quella sorta all’inizio degli anni Trenta a Bitonto, il cui duomo, al pari di quello di Nardò, è consacrato alla Vergine Assunta. Un eloquente indizio a sostegno di tale ipotesi, come suggerisce Giovanni De Cupertinis[38], è rappresentato dallo Studio preliminare per una guglia dell’Immacolata, schizzo a penna inserito nel Corpus Sanfeliciano del Gabinetto disegni e stampe del Museo di Capodimonte; il disegno raffigura una struttura a sviluppo verticale che racchiude allo stesso tempo elementi architettonici tipici della guglia e della colonna e che potrebbe essere espressione di un preliminare momento progettuale, poi ampiamente modificato in fase di realizzazione.
Un rinnovato interesse da parte degli studiosi supportato dall’auspicabile ritrovamento di nuovi documenti potranno in futuro fornire una risposta definitiva anche a questo interrogativo.
Pubblicato integralmente su Il Delfino e la Mezzaluna n°2.
Non avremo più passi da fare finché chiederemo soltanto spicchi di sole.
E la luna non avrà cielo. E le stelle fioriranno. E nei deserti un sole rabesco darà nuova vita e s’insedieranno nuove genti. E nuovi scrittori scriveranno le storie che appariranno all’orizzonte limpido. E nuovi poeti verseggeranno. E forse ci salveranno. Immagineranno incanti. Suoneranno la lira. Metteranno in subbuglio gli animi. Navigheranno oceani quieti e racconteranno lo stupore per il plenilunio bianco. E non mentiranno. E andranno con il tempo a cercare il tempo. E rinunceranno alla tentazione della superbia. Non profaneranno nessun pulpito. Non rimugineranno parole. Diranno ciò che vedranno.
La nave dei poeti è nel porto. Il viaggio abbia inizio!
Il tempo però non acceleri oltre l’infinito e non ne ostacoli la navigazione. Dia moderazione al travaglio per la conclusione di un sogno. Non abbia fretta, ma sappia ingannare l’immobilismo dell’eternità.
Nella stiva vi è la biblioteca: i libri attendono vento per sfogliarsi senza pudore: liberi per essere letti e raccontati.
I poeti preparino, dunque, nuovi passi. Fra poco il loro mondo dovrà muoversi. Non dovranno deludere. Sapranno, ancora, raccontarci qualcosa: un’unica versione di ciò che pure è raccontabile altrimenti; volta ad accertare la legittimità delle pretese, avanzate dall’incessabile voglia di compendiare e significare parole e sentimenti, parole e realtà, parole e immaginazione.
Un tentativo emblematico per scovare ovunque lo spirito e condurlo alla luce dei confini di albe. La parola seduce il poeta, lo affascina a tal punto che prima o poi lo uccide affinché la fine del poeta sia la continuità della parola. Ed è pura idolatria per la scrittura che consente ciò che al pensiero è negato, di rendere singolare il plurale, di riscattare il dettaglio, di affrontare ciò che viene immediatamente prima del dopo.
Maledetti poeti che non sanno mai dove andranno a finire, che non disdegnano malizie e approcci incipriati di passioni.
Maledetti poeti che ogni giorno siedono alla mensa della poesia a consumare pasti d’immaginazione che non danno sazietà.
Maledetti poeti, navigatori esperti di mari, creduloni che non abitano luoghi né città e stanno dappertutto.
Maledetti poeti dediti al vizio di verseggiare, imparentati con le parole di ogni ordine.
Poeti che aggrediscono i misteri, combattono il disordine per strapparne un ordine, ascoltano il silenzio per estrarne un brandello di suono per costruire, sempre. Non danno urgenza al loro daffare, pigri e indecisi e lenti molestano le parole, le aggiustano e le inventano.
Maledetti poeti che non sopportano i giorni lunghi e noiosi, e nelle notti di luna assente dormono e lacerano fogli bianchi d’insonnia, stufati come sono dalla voglia di essere poeti.
Poeti, io vi voglio bene. E del mio affetto questa sera ho voluto parlare, magari esagerando parole; ma in quel libro immenso della poesia, della grande poesia, che voi possedete vorrei esserci. Intanto nell’attesa dello strappo decisivo io vi leggo. E quando davvero il sacrificio dell’olocausto delle parole sarà compiuto – senza equivoci – io diventerò muto, procedendo all’inevitabile da-farsi affinché si compia il dire ulteriore di ciò che ancora non è.
Aggiunta a Leonardo Antonio Olivieri e tre proposte per Domenico Antonio Carella
L’inaugurazione del Museo Diocesano di Arte Sacra[1] di Taranto nel 2011 ha finalmente aperto alla città un patrimonio storico e artistico di notevole valore. La struttura, infatti, si presta ad essere uno dei punti cardine della vita culturale tarantina. Grazie alla disponibilità del suo direttore, Don Francesco Simone, molto sensibile alla promozione e alla divulgazione dell’arte sacra, possiamo annoverare nel suddetto museo alcuni gioielli pittorici sconosciuti agli studi e finalmente esposti alla pubblica fruizione.
Il primo dipinto preso in considerazione ha come soggetto San Francesco. Si tratta di una tela centinata di grandi dimensioni (320 x 214), raffigurante la Visione di San Francesco alla Porziuncola, tema caro ai francescani, collocata nella sezione museale dedicata alla Cattedrale. In questa sezione sono esposti dipinti e sculture che adornavano le cappelle barocche, abbattute in seguito ai discutibili restauri dell’architetto Schettini nel 1952[2], per riportare il duomo alla sua originaria facies romanica.
L’unica segnalazione del dipinto è contenuta nella catalogazione curata dal C.R.S.E.C. (Centro Regionale di Servizi Educativi e Culturali) Iconografia Sacra a Taranto, volume in cui il dipinto viene presentato con una piccola foto in bianco e nero e schedato come Visione di San Gaetano di anonimo autore settecentesco, conservato in episcopio[3]. San Francesco era confuso con il santo teatino e la Vergine con Dio Padre[4]. Dalla riproduzione fotografica dell’epoca, la tela presentava una lacuna nella parte alta.
Il recente restauro del 2010, curato dalla Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici della Puglia con l’esposizione nel museo, ha potuto fugare ogni dubbio dal punto di vista iconografico e stilistico.
L’iconografia riprende liberamente la vicenda della visione di san Francesco alla Porziuncola, quando in una notte del 1216, Francesco immerso nella preghiera all’interno della chiesa, vide stagliarsi nella luce accecante Cristo e la Vergine, circondati da un nugolo di angeli. Alla divina apparizione il santo chiese il perdono e la remissione dei peccati per chiunque visitasse quel luogo. La richiesta fu accolta dal gruppo divino, a patto che Francesco la indirizzasse al Papa Onorio III.
Il dipinto, per fugare ogni dubbio sulla questione iconografica, è molto affine alla tela di Francesco De Mura riprodotta nel prezioso archivio fotografico di Federico Zeri[5]. La composizione, resa dinamica da un impianto compositivo impostato sulle diagonali, vede san Francesco in basso a destra colto nel tipico atteggiamento estatico, con le braccia allargate mentre rimira il Salvatore, controbilanciato a sinistra dalla presenza dell’angelo, che reca nella mano destra i simboli del martirio di Cristo e nella sinistra l’indulgenza della Porziuncola, chiave di lettura del nostro dipinto.
Più in alto, Cristo assiso su una nube e circondato da cherubini, regge la croce e indica con la mano destra la Vergine che irrompe in alto a destra dominando la composizione. Ad arricchire il dipinto, oltre a gruppi di cherubini, un angelo sospeso a mezza altezza e dal fluente panneggio rosso, che si avvinghia sicuro alla croce, mentre un altro sembra dispettosamente scoprire Gesù afferrandone il drappo.
La tela, può attribuirsi al pittore martinese Leonardo Antonio Olivieri di formazione solimenesca per una serie di motivi. In primo luogo palesi sono i rimandi al maestro nei panneggi accartocciati che avviluppano le figure, e nei cherubini paffutelli, sigla distintiva di molte sue opere. Vera cifra stilistica del maestro è il Cristo, tornito plasticamente da trame chiaroscurali, che nell’indicare la Vergine Madre, richiama le figure del Salvatore e del Battista nel Battesimo, dipinto da L. A. Olivieri per la cattedrale di Nardò[6].
Lo stesso Cristo nell’indicare con l’indice destro la Madonna, riprende la santa Rosa da Lima nella Vergine e sante domenicane della chiesa tarantina di san Domenico[7]. Modelli questi, desunti dal San Clemente di Francesco Solimena nella pala di Sarzana[8]. Il celebre e richiesto pittore napoletano faceva esercitare i suoi allievi nel riprendere alcuni brani delle sue opere, replicando gesti, posture, secondo una consolidata tradizione, per adattarli a nuove soluzioni iconografiche, come nella tela del museo tarantino.
Non è da escludere, inoltre, che lo stesso Leonardo si sia ispirato all’illustre precettore studiando la Trinità in Gloria con San Filippo Neri e Santa FrancescaRomana del museo di Oxford[9], databile intorno al 1725-1730. Se questo non bastasse ad ascrivere l’opera all’Olivieri, è sufficiente confrontare l’angioletto che guarda in basso ai piedi della Vergine e che riprende quello di un altro dipinto di soggetto francescano: la Gloria di santa Chiara di Aversa[10] e quello gemello dell’Apparizione di san Giovanni Evangelista[11]nella Cattedrale neretina.
L’angelo svolazzante con l’avviluppante panneggio rosso fiammante, altro non è che lo stesso in posizione speculare che rimira dall’angolo sinistro in alto l’Adamo ed Eva dell’Eden della collezione D’Errico[12]; dipinto quest’ultimo che Galante aveva dubitativamente attribuito all’Olivieri[13].
La stessa figura verrà replicata con esiti manieristici da Domenico Carella, come si può evincere nella Vergine del Rosario in san Domenico a Martina Franca[14]. Il pittore francavillese avrà potuto osservare le tele del più affermato Olivieri e prendere a proprio piacimento le figure, dando avvio ad un “solimenismo” di maniera.
Per finire e fugare ogni dubbio attributivo, potremmo mettere a confronto l’Eterno Padre che spicca nella Sacra Famiglia attualmente conservata in San Pasquale di Baylon a Taranto[15], con la Vergine del dipinto del museo tarantino.
Lo stemma nobiliare in basso a destra sormontato da corona marchesale, presenta dei porcospini in processione, emblema della famiglia nobiliare dei La Riccia, committenti di un altro dipinto oggi esposto nello stesso museo e proveniente dalla cattedrale di Taranto, raffigurante la Visione di san Filippo Neri[16]. L’opera si può attestare intorno agli anni ‘40 del Settecento nella fase tardo-solimenesca in consonanza con il Trionfo dell’Ordine Francescano, tela attribuita all’Olivieri[17] e proveniente dalla cattedrale. In entrambi i dipinti menzionati assistiamo ad una ripresa pittorica in chiave neo-barocca[18], condotta da saldi contrasti chiaroscurali di stampo “pretiano”, che drammatizzano la scena, stemperata da una luce soffusa e ravvivata da bagliori, che rendono la composizione trasognante e mistica, come richiesto da un’opera devozionale barocca che descrive l’evento miracolistico. La tela è animata dai rialzi cromatici delle vesti dei protagonisti; spicca su tutti il panneggio accartocciato rosso fuoco con cui l’angelo focalizza la composizione.
Altri inediti arricchiscono le sale del Museo Diocesano di Taranto; nella sezione dedicata ai santi, si segnala una tela mistilinea raffigurante il Martirio di santa Lucia, proveniente da una delle stanze del palazzo arcivescovile, fatta affrescare dall’Arcivescovo Capecelatro e ricordata nei documenti come “seconda stanza” piena di quadri piccoli e grandi[19].
La forma e le dimensioni fanno pensare ad un dipinto collocato altrove e successivamente portato nella residenza vescovile, dove è rimasto fino alla nuova collocazione museale.
L’opera ritrae la vergine martire di Siracusa mentre si appresta a ricevere la palma del martirio e una corona di fiori da un gruppo di angioletti che irrompono dall’alto. Suoi attributi iconografici sono gli occhi che Lucia si accinge ad adagiare sopra un piatto sorretto da un angelo in basso a destra; sullo sfondo, a sinistra, la santa stessa viene ritratta durante le persecuzioni contro i cristiani mentre stoicamente prega. A sottolineare il vero supplizio di Lucia è, tuttavia, la ferita inferta al collo che evidenzia lo sgozzamento della santa e non l’estirpamento degli occhi.[20].
Si tratta di un’opera di Domenico Antonio Carella, tipica di quel “solimenismo” mediato da Giaquinto, come felicemente ha sottolineato Galante[21]. Il ductus pittorico, nell’utilizzo di colori dalla stesura liquida, nelle pose languide e nel modo di condurre i cherubini a punta di pennello, riporta alla mente il dipinto di soggetto mitologico collocato sul soffitto centrale del tarantino palazzo Pantaleo[22], raffigurante La Partenza di Achille da Sciro.
A rafforzare questa ipotesi, basta confrontare il volto di Achille con quello della santa, o lo stesso soldato a cavallo con gli eroi omerici ritratti nella stanza dell’edificio nobiliare. A questo si aggiunga l’angelo colto di profilo, mentre regge il piatto, che riecheggia il san Giovanni evangelista del Compianto su Cristo morto nella chiesa del Purgatorio a Fasano[23].
Altre due tele mistilinee dal medesimo formato (154 x 227) ed ascrivibili al pittore, sono esposte nella sezione “cattedrale” del museo[24] e in origine collocate sulle pareti laterali della cappella di santa Maria della Pietà.
Si tratta di un breve ciclo della Passione che comprende la Flagellazione di Cristo (Matteo, 27, 26; Marco, 15, 15; Luca, 23, 16 e 22; Giovanni 19, 1) e l’Incoronazione di spine (Matteo, 27, 27-31; Marco, 15, 16-20; Giovanni, 19, 2-3). I dipinti presentano un’inquadratura dal taglio ravvicinato, espediente che doveva coinvolgere emotivamente il fedele, il quale si immedesimava nelle sofferenze del Salvatore.
Nella Flagellazione il Cristo al centro della tela viene suppliziato da tre sgherri, caratterizzati dalla brutalità dei gesti, mentre un soldato, colto in controluce sulla sinistra, assiste vigile alla tortura. In basso a destra un carnefice si volge verso la scena e con un accenno di sorriso, sembra compiacersi del dramma di Cristo; l’altro aguzzino in primo piano è intento a preparare un nuovo fascio di rami per lo strumento di supplizio.
Nell’episodio dell’Incoronazione di spine i carnefici in abiti seicenteschi dominano la scena; il primo, inginocchiato, sbeffeggia Cristo in maniera irriverente, tirando fuori la lingua e porgendogli uno scettro di canna, mentre un soldato con intenti retorici, indica il dramma del Salvatore[25]. Rispetto ad altre opere del pittore, nelle due tele di argomento cristologico si evince un robusto contrasto chiaroscurale, un senso della forma nitido e deciso oltre ad un vibrante cromatismo dato dall’utilizzo di colori vivaci e di rispondenze cromatiche nei panneggi che animano le tele.
Non mancano incertezze nella resa “stilizzata” del corpo di Cristo, riscontrabile anche nella summenzionata tela di Fasano. Qualora le opere venissero confermate a Domenico Carella, anche attraverso una fortunosa ricerca d’archivio, saremmo in presenza di prove fra le più riuscite in termini di qualità, che confermerebbero quella vocazione eclettica dell’artista fatta in primo luogo di prestiti e richiami alla pittura napoletana e romana della seconda metà del Settecento.
[1] Sul museo diocesano di Taranto cfr. D. Padovano (a cura di), Guida dei Musei Diocesani di Puglia, Fasano 2005, p. 51; F. Simone – G. Tonti , Il Museo Diocesano di Arte Sacra di Taranto, Mottola 2011.
[2] P. Belli D’Elia, La Cattedrale di Taranto : un problema storico architettonico aperto, in P. De Luca, La Cattedrale di San Cataldo, Mottola 2000, p. 58.
[3] AA.VV., Iconografia Sacra a Taranto I, Mottola 1986, scheda A2.25, p. 45/ II, tav. 25.
[4] Questo ha creato ulteriore confusione in quanto il dipinto inventariato come Art. 19 è stato schedato come Trinità e san Francesco d’Assisi di ambito napoletano.
[5] Cfr. www.fondazionezeri.unibo.it, catalogo fototeca, numero scheda 63758, serie “Pittura italiana”, numero busta 0589, intestazione busta “Pittura italiana sec. XVIII. Napoli 2”, Numero fascicolo 5, intestazione fascicolo “Francesco De Mura: Nunziatella2.
[6] F. Semeraro, Leonardo Antonio Olivieri (1689-1752), Martina Franca 1989, p. 16.
[12] Galante nel descrivere il dipinto parla di accentuazione di contrasti chiaroscurali e di luminismo neopretiano che ricorrono nel nostro dipinto.
[13] L. Galante, I Dipinti napoletani della collezione D’Errico (secc. XVII-XVIII), Galatina 1992, pp. 126-129.
[14] L. Galante, La pittura a Martina Franca, in AA.VV., Martina Franca un’isola culturale, Martina Franca 1992, pp.174-175.
[15] V. Vantaggiato, La vita e le opere di Leonardo Antonio Olivieri. in AA.VV., Studi di storia pugliese in onore di Giuseppe Chiarelli, vol. V, Galatina 1980, p.358.
[16] G. Blandamura, Il Duomo di Taranto nella storia e nell’arte, Taranto 1923, p. 64.
[17] F. Semeraro, Leonardo Antonio Olivieri, cit., p. 49.
[19] V. De Marco, D. Mancini, Il Palazzo Arcivescovile di Taranto, da mille anni con la città, Mottola 2010, p. 197.
[20] J. Hall, Dizionario dei soggetti e dei simboli nell’arte, Milano 1983, p. 249.
[21] L. Galante, Domenico Antonio Carella: un pittore del Settecento pugliese, Martina Franca 1978, p. 3.
[22] O. Sapio, R. Cofano, Il ponte, l’altare, il barone e altre storie. Cronache tarantine fra ‘600 e ‘900, Taranto, 1997, p.55. Per una più approfondita analisi del dipinto cfr. V. Farella, Il Palazzo Pantaleo. Una singolare residenza aristocratica nella Taranto del Settecento, in AA.VV.,“Kronos” n. 10, Galatina2006, pp. 207-210 fig. 2.
[23] M. Guastella, Opere d’arte pittorica nella chiesa del Purgatorio di Fasano, in AA.VV. La Chiesa del Purgatorio di Fasano, arte e devozione confraternale, a cura del Centro Ricerche di Storia Religiosa in Puglia, Fasano 1997, pp. 165-166.
[24] Inventariati come Art. 03 e Art.04. L’originaria collocazione si deve ad una relazione di V. De Marco che ricostruisce gli antichi arredi delle cappelle smembrate nel duomo di San Cataldo.
[25] Certe caratterizzazioni dei volti in chiave quasi caricaturale richiamano la pittura di Traversi e Bonito, con una ripresa seicentesca nell’utilizzo di effetti chiaroscurali, volti a sottolineare il naturalismo drammatico dell’evento. Inoltre proprio un pittore come Bonito è stato chiamato in causa da Galante (La pittura a Martina Franca, cit., p. 177.) per gli affreschi di Carella nel palazzo ducale a Martina Franca, per sottolineare un’attenzione di tipo realistico del francavillese, che si esprime attraverso un naturalismo più accomodante, dato proprio dal più quotato pittore napoletano della seconda metà del Settecento.
pubblicato su Il delfino e la mezzaluna n°2.
Un inedito dipinto ugentino attribuibile a Giovanni Andrea Coppola
Nell’Archivio dell’Ufficio Beni Culturali Ecclesiastici della Diocesi di Ugento, nel riordinare dei fascicoli contenenti delle stampe fotografiche degli anni Settanta del secolo scorso, è stata rinvenuta una foto in bianco e nero di una tela, in cattivo stato di conservazione, raffigurante un’interessante figura femminile (fig. 1), opera di cui sembrerebbe aver perso le tracce. Poiché il dettaglio fotografato non riprende attributi iconografici, è difficile risalire con esattezza all’identità del soggetto raffigurato. Bisogna pur notare che il volto e il corpo di questo personaggio femminile sono impostati nella direzione del braccio sinistro in tensione e sembrerebbe che nella mano poteva reggere qualche peso: alla luce di queste considerazioni si potrebbe trattare di Giuditta con la testa di Oloferne o di Salomè che mostra la testa del Battista.
Nel retro della foto è annotata a matita “Ugento – esistente in soffitta chiesa…”, indicazione che purtroppo non ci dice in quale chiesa ugentina la tela era un tempo ubicata, né tantomeno ci specifica l’autore, la dimensione e l’epoca di realizzazione del dipinto.
Esaminando questa inedita immagine dal punto di vista stilistico appare chiaro il modellato assai plastico e solido, un disegno incisivo nei contorni e nei tratti fisiognomici. La ripresa fotografica infatti ci restituisce l’ottima definizione pittorica di questo dipinto: la dettagliata descrizione del volto e dei capelli denota una finezza esecutiva che s’incontra nelle opere certe del seicentesco pittore gallipolino Giovanni Andrea Coppola (1597-1659). Difatti la stessa levigatezza del volto la si può notare nelle molteplici figure femminili e negli angeli adulti che il Coppola ha realizzato in diverse sue opere, in cui emerge una chiara elaborazione del viso su un modello classico di bellezza. Il volto (fig. 2) in questo inedito dipinto ugentino, ad esempio, pare molto simile a quello di una delle figure (fig. 3), il probabile san Giovanni Evangelista, che appare a destra, accanto all’anziano Apostolo, nel bel dipinto dell’Assunta (fig. 4) della Cattedrale di Gallipoli. Mettendo a confronto i due volti, infatti, ci accorgiamo subito delle molteplici affinità tanto da ritrovare gli stessi lineamenti (come il profilo del naso, la bocca carnosa, il mento affilato) e lo stesso trattamento delle ciocche dei capelli, ma anche il medesimo modo di concepire le luci che sembrano ripetersi in entrambi i dipinti nella zona retroauricolare, in quella periorbitaria e alla base del collo.
«Picturae perquam studiosus» con queste parole, spigliatamente si firmava il Coppola nella nota tela delle Anime purganti della Cattedrale di Gallipoli. Da queste parole cogliamo un uomo-artista probabilmente compiaciuto dal suo diletto per la pittura. Un artista che non smette mai di deliziarci come in questo sconosciuto dipinto di Ugento, la cui ubicazione attuale ci è ignota, che si spera di recuperare e di restituirlo alla collettività.
sapessi quanto mi è difficile scrivere queste righe. Riuscirò a dire l’amaro che lasci andandotene così? Riuscirò a colmare con le sole parole il vuoto in cui l’animo scosso sprofonda? Macché amico mio, la penna non va oggi, non scorre nulla da queste mani. “Il peggio è passato” mi hai detto al telefono l’ultima volta, con una voce finalmente allegra che annunciava un imminente ritorno dalla capitale e dall’incubo in cui l’improvvisa malattia ti aveva condotto, un incubo da far annegare e cancellare definitivamente in quel primo caffè che avremmo dovuto goderci al tuo ritorno. Sappiamo entrambi come sarebbe dovuta andare poi, tu dopo il caffè avresti preteso una camminata, ed io avrei preteso un sigaro al sole, Marcello, invece, la sua bionda multifilter. E alla fine, come sempre, saremmo giunti al solito tacito compromesso, avremmo cioè camminato per poche decine di metri fino al muretto che circonda il castello e lì, per un’ora o fino all’imbrunire, avremmo parlato di Giulietta, dei vostri anni romani, delle ricerche etnografiche a cui avete dedicato la vostra intera esistenza, avvolta in quella condivisa e laboriosa solitudine. Mi avresti poi parlato delle tue e delle sue poesie, e di queste ultime mi avresti recitato qualche verso a memoria, fino al verso che, così ogni volta, ti avrebbe fatto piangere. Con quale fulmineo rivelarsi sarebbero sgorgate quelle lacrime, e quanto rapidamente le avresti asciugate, con pudore, come a chiedere scusa, tirando fuori un fazzoletto dalla tua borsetta scura. Poi mi avresti guardato con un sorriso tra quella tua barba lunga di cui andavi così fiero, vanitoso e buffamente dandy come sapevi essere, e che solo la malattia impietosa ti avrebbe potuto sottrarre; a quel punto avremmo iniziato a guardare come sempre al futuro e ai progetti da realizzare, ai meravigliosi inediti di Giulietta da far conoscere al pubblico, alle trascrizioni e alle ricerche da farsi su quei dannati fogli ingialliti che custodivi con l’amore di marito e con la cura di un padre. Invece no, amico mio, nulla di tutto ciò ci è stato concesso. Non tornerai mai più da noi, nemmeno per farti condurre al tuo sepolcro, accanto alla tua Giulietta come credo tu avresti preferito. Andrai nella tua città natale ci hanno fatto sapere, la Reggio Calabria dei tuoi sereni ricordi d’infanzia, a dormire per sempre cullato dal dondolio del mare che si frange sullo stretto. Forse è giusto così, o forse no, non saprei, ma quaggiù, noi, Marcello, Giovanna, Fabrizio e tutti gli altri amici che ti hanno voluto bene, dove mai potremo andare a riporre un fiore per te? Sai Nino, mi ha chiesto Marcello, per telefono, nel pomeriggio – dopo avermi annunciato quanto non avrei mai voluto sapere – di scrivere un doveroso necrologio da pubblicare sul sito. Certo, ho compreso subito quanto fosse doveroso, ma in quel momento non ho potuto immaginare quanto sarebbe stato doloroso. Me lo hai sempre rimproverato che sono troppo facilone nel prendere gli impegni, e devo darti ancora una volta ragione. Ogni lettera e ogni parola, mentre scrivo, si trasformano in uno scenario, un’immagine, un ricordo preciso collocato nel tempo trascorso con te, e questo soffermarsi consapevole e lento sui ricordi a cui mi costringe la scrittura si sta rivelando uno strazio. Sono passate sei o sette ore da quella telefonata, ed eccomi ancora qua a tentar di dire malamente, a balbettare parole che non potrai mai leggere. Un’ora fa ho dovuto prendere la macchina, così ne ho approfittato per svoltare nella piazza dove si affaccia il vicolo che porta a casa tua. Tra i rumorosi bar frequentati da ciurme di ragazzi e ragazze pieni di vita e di speranza, solo uno scorcio di veduta sul vicolo di casa tua, avvolta dal buio e dal silenzio greve, forse lambito soltanto dai sospiri di qualche coppia di giovani innamorati nascosti all’oscurità. Ci hai lasciato da quasi due giorni a quanto mi dicono, ma non un manifesto ancora, né un fiore ho intravisto per te. Mi è venuta in quell’istante in mente l’immagine che ci fece incontrare la prima volta, quell’affresco della Madonna del Buon Consiglio che io mi ero avvicinato incuriosito a guardare, affissa lì, proprio in quel vicolo, accanto all’ingresso di casa tua, la casa dei Poeti. Ripensare oggi a quel momento non è stato facile Nino, accidenti! Ricordo che d’un tratto poi fuoriuscisti dal monumentale portale d’ingresso, con una pesante vestaglia rosso porpora, una lunga barba da eremita, la faccia tanto severa da intimorire, il volto scuro, impenetrabile e pensieroso di chi non è più abituato alle persone da anni. Don Nino, o il Professore, come ti chiamano ancora in questo paese, in tutta la sua (presunta) austerità e nel suo alone misterioso si rivelò in carne ed ossa di fronte a me, ed io ero imbarazzato come un mocciosetto scoperto a curiosare in casa altrui. Chissà quanti anni erano trascorsi dall’ingresso di qualcun altro prima di me nel tuo palazzo. Vi entrai verso le tre di pomeriggio credo. Me ne andai di sera, dopo le nove. Ci mettemmo un attimo a riconoscerci già amici, e dopo due attimi eravamo addirittura in cucina (il posto vietato da sempre a qualunque ospite), dove mi recitasti poesie e mi leggesti lunghe pagine delle vostre ricerche. Ricordo che stetti tutto quel tempo senza osar fumare, e quando mi offristi un bitter non ce la feci proprio più, azzardai la richiesta di un accendino. Con un sorriso mi dicesti “Perché non l’hai chiesto prima? Chissà come avrai sofferto tutto questo tempo, anche io fumavo sai?!…”. Quella cucina, così modesta al cospetto delle antiche sale del palazzo, non ti serviva tanto a preparare pietanze, ma a lavorare, era divenuto il tuo studio da quando Giulietta se n’era andata. Ricordo che rimasi di stucco nel vedere che trascrivevi i manoscritti giallastri e dal forte odore di umido con quella Olivetti nera. Non vedevo una macchina da scrivere da quando ero ragazzino. Chi l’avrebbe mai detto che ti avrei convinto mesi dopo a comprare un pc? E chi l’avrebbe detto che ti saresti trasformato addirittura in un vero e proprio smanettone in grado di usare posta elettronica, social network, forum e tutto il resto? Ricordo quando andammo a comprare il mobile per il pc e, tornati a casa tua, montai e collegai monitor, stampante e tutto il resto. Finalmente eravamo pronti per iniziare il tuo battesimo nella nuova era. Accesi il pc, aprii una pagina bianca del programma di scrittura e ti chiesi di prendere il mouse. Lo stringesti in mano intimorito e quando ti chiesi di provare a muovere il cursore sollevasti al cielo entrambe le braccia e mi guardasti con una faccia da pesce lesso: me la feci quasi addosso dal ridere, e al contempo mi disperai, pensando a quale lungo tirocinio informatico ci avrebbe atteso.
Caro amico, nella tua vita romana che tanto amavi raccontarmi, hai conosciuto grandi poeti, famosi scrittori e dottissimi professori, una folla che avrebbe saputo davvero scrivere un necrologio all’altezza dei tuoi meriti e della tua persona, una massa di maestri della parola che avrebbero saputo soffermarsi con freddezza, perizia e con dovuti dettagli sui tuoi lavori, sulla intensa attività culturale svolta negli anni vissuti con Giulietta nella capitale, sui riconoscimenti ottenuti con le poesie, sui risultati delle vostre successive ricerche etnografiche. E invece nulla, accidenti, è toccato a me questo compito, che non sono né grande né dotto ed anzi non riesco oggi nemmeno ad organizzare il pensiero per tratteggiare che so, almeno una pallida idea della persona, dello studioso e del poeta che sei stato. Mi spiace Nino, ma certe responsabilità non dovrebbero toccare agli amici intrappolati dal dolore e faciloni, questi, al più, ti sanno scrivere un’ultima lettera. Oggi vorrei solo abbandonarmi al ricordo del tuo sorriso quando si andava a spasso o per i caffè pomeridiani, quando ti liberavi per qualche momento del peso di quelle tue carte e inspiravi profondo come a fare scorta di ossigeno prima di tornare allo sfibrante lavoro in quel tuo amato e odiato antico palazzo, il santuario polveroso della memoria della tua Giulietta, custodita con quasi ossessa pignoleria. Non stare in pena per il vostro lavoro, non preoccuparti per quel mondo di memorie faticosamente consegnate alle lacere carte, Marcello ed io non le lasceremo sprofondare in quell’oblio che tanto ti atterriva pensando a cosa sarebbe successo dopo la fine dei tuoi giorni. Te lo prometto amico mio, faremo di tutto per portare avanti il tuo progetto, custodirlo e rinnovarlo, se soltanto ce ne daranno modo. Sarà questo il fiore che noi vorremmo portare un giorno sulla sua tomba, il fiore più gradito e importante per te, come ben sa chi ti è stato accanto, il fiore che tu e Giulietta avete curato fino all’ultimo respiro e che noi tutti ci sentiamo in obbligo di tenere in vita e portare allo splendore della luce che merita. Tu, intanto, pensa a riposare in pace amico mio, quel caffè ce lo berremo quando sarà tempo, semmai vorrai affacciarti a trovarmi nel bar dei dannati, sulla terra c’è ancora molto da fare per me e per gli altri nel tuo nome e in quello di Giulietta. Spero che esista davvero quel dio di cui pure mi parlavi ogni tanto, spero che esista soprattutto quel suo paradiso, lo spero per te Nino, perché vorrei saperti finalmente stordito, invasato, posseduto e ubriaco fradicio di quella felicità che soltanto l’abbraccio della tua Giulietta potrebbe donarti. Ciao Nino.
Tuo Paolo
Antonio-Maria, il pescatore-etimologo di Punta Palascìa
Tra gli uomini c’è chi diventa importante per la sua posizione economica (e per questo qualcuno viene pure condannato ingiustamente …), tra i capi (quelli geografici; gli umani, tutti quelli che hanno presunto, presumono e presumeranno di esserlo, si sono rivelati, si rivelano e si riveleranno solo mezze cartucce) quello d’Otranto lo è da molto tempo (e non mi riferisco solo al geologico), per la sua posizione, questa volta, geografica. È, infatti, la parte d’Italia più ad est, record che non solo le è valso nelle convenzioni nautiche il ruolo (irrilevante o quasi da un punto di vista giuridico, almeno finché l’Italia resterà unita …) di punto di separazione tra l’Adriatico e lo Ionio ma anche quello di offrire il privilegio a chi calca il suo suolo di poter contemplare l’alba prima degli altri abitanti della penisola. A chi ama poltrire, probabilmente, questo non interessa minimamente ma vallo a dire a chi trae beneficio, questa volta economico, dalla tradizione invalsa, che attira la notte di San Silvestro anche un numero non trascurabile di turisti, di assistere per primi al sorgere della prima alba del nuovo anno, il che, è superfluo aggiungerlo ma sono costretto a farlo (altrimenti come faccio a dire che è superfluo?), porterà fortuna per l’anno intero!
Capo d’Otranto è chiamato anche Punta Palascìa (nell’immagine di testa il faro sorto dopo che nel 1869 venne rasa al suolo l’omonima torre ormai ridotta ad un rudere). Un giorno, forse, sarà la location di un film, per ora deve accontentarsi di lapidarie apparizioni in questo o quel romanzo: Aveva davanti due ore vuote e non se la sentì di passarle in giro per città, inseguita da ricordi che le andavano di traverso. Così, senza che ci avesse pensato prima, prese un taxi e decise di andare a far visita al vecchio fattore, che ormai si era ritirato e viveva in una casetta poco fuori Otranto, verso Punta Palascia. (Pier Luigi Celli, Il cuore ha le sue ragioni, Piemme, Milano, 2011, pag. 59);La traversata di quel canale, appena 72 chilometri di mare dalle coste albanesi al luogo più orientale della penisola, Punta Palascia, collocato praticamente sulla longitudine di Budapest come ricordammo nella prima conversazione (lo so, ma se un professore non rompe un po’ l’anima ai propri studenti, che professore è?), è ancora più agevole da fare di quei 90 chilometri infestati dagli squali famelici che separano Cuba dalle Key West della Florida. (Vittorio Zucconi, Il caratteraccio. Come (non) si diventa italiani, Mondadori, 2010, s. p.
Va aggiunto che semplicemente Punta si chiama uno sperone rocciso che chiude l’insenatura portuale antistante Otranto. A questo punto è doverosa la citazione dal romanzo L’ora di tutti di Maria Corti, uscito per la prima volta per i tipi di Feltrinelli a Milano nel 1962 e ristampato da vari editori (nell’immagine in basso l’edizione Tascabili Bompiani del 2011): Quelle giornate erano lunghe; giravo per casa, uscivo in cortile, rientravo in casa, uscivo sulla porta verso la strada. Un giorno vi trovai mastro Natale che puliva ricci. – Sono ricci della Palascia – disse, offrendomene uno. – Perché della Palascia’ – chiesi. – Sono diversi? -. – Non hanno sabbia come quelli della Punta – disse – e la carne è più rossa; li chiamano i ricci dell’arciprete e costano due soldi più degli altri alla dozzina, per la rarità -. Io non sapevo nulla di ricci della Palascia e di ricci della Punta, perché Antonio sprezzava la pesca di scoglio e si metteva in mare solo per andare al largo.
La citazione era doverosa non solo perché vi è la contrapposizione, tramite le parole del pescatore, tra Punta e Punta Palascìa ma anche per ricordare a chi non lo sapesse che Maria Corti è stata, oltre che autrice di romanzi, anche una filologa di prim’ordine. Tuttavia, a quanto ne so, credo che mai si sia interessata dell’etimo di Palascìa. Eppure, appena ho letto quelle poche righe, ho sentito a pelle l’eco di una inconscia ricerca etimologica espressa poeticamente. Cercherò di amplificarla passando brutalmente a dire la mia sull’etimo; vi prego, però, di non dimenticarvi di Antonio …
La brutalità non sta bene, perciò rendo più indolore il passaggio alla farina del mio sacco proponendovi prima il fior fiore di quella del sacco (e che sacco!) del Rohlfs (Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo, Galatina, 1976, II volume, pag. 444): deformazione di Παναγία [leggi Panaghìa]=la Madonna?
Secondo il Rohlfs, dunque, la voce sarebbe (quanto mi piace quel punto interrogativo finale! …), per antonomasia, il nominativo femminile singolare dell’aggettivo greco a tre uscite πανάγιος/παναγία/πανάγιον (leggi panàghios/panaghìa/panàghion). L’aggettivo appena citato [composto dall’avverbio πᾶν (leggi pan)=completamente+ἁγία (leggi aghia), femminile dell’aggettivo ἅγιος/ἁγία/ἅγιον (leggi àghios/aghìa/àghion)=sacro] supporrebbe, dunque un’origine devozionale del toponimo.
Dal mio sacco tirerò ora, con la mano tremante di chi è consapevole che potrebbe, alla resa dei conti, aggiudicarsi, nonostante ogni probabile apparenza, il campionato mondiale di ignoranza e stupidità, due conigli, pardon, due proposte:
1) da πελαγία (leggi pelaghìa), femminile dell’aggettivo πελἀγιος/πελαγία/πελἀγιον (leggi pelàghios/pelaghìa/pelàghion)=marittima. Se quel marittima sembra banale e scontato per la nostra torre, ricollegandomi all’ipotesi devozionale, faccio presente che l’aggettivo in questione in greco è l’epiteto di Afrodite (Artemidoro II, 37; Pausania, II, 4, 6) e degli dei in genere (Plutarco 13, 161c). Aggiungo che esso deriva da πέλαγος (leggi pèlagos)=mare aperto, alto mare, passato con lo stesso significato nel latino pèlagus.
2) da πελασγία (leggi pelasghìa), femminile dell’aggettivo πελάσγιος/ πελασγία/πελάσγιον (leggi pelàsghios/pelasghìa/pelàsghion)=dei Pelasgi, da Πελασγός=Pelasgo , mitico progenitore degli Enotri, anche se non è ben chiara l’estensione e la dislocazione della parte del meridione d’Italia da loro occupata e neppure è certo da dove provenissero. Per questo qualsiasi ipotesi può suscitare altre suggestioni; ad esempio, se è vero, come ipotizzavano Gianna G. Buti e Giacomo Devoto (in Preistoria e storia delle regioni d’Italia, Sansoni, Firenze, 1974), che gli Enotri hanno un’origine balcanica proto-illirica, potrebbe, addirittura, non essere casuale il fatto che si chiami Punta Palascìa la parte d’Italia più orientale d’Italia).
Vi ricordate di Antonio e della sua contrapposizione tra i ricci sabbiosi (presumibilmente biondi) della Punta e quelli della Palascia, detti dell’arciprete, soprannome che la dice lunga su certi privilegi che ancora oggi stentano ad estinguersi?
E vi ricordate la narratrice che in prima persona confessa di non intendersene di ricci e di non sapere perché Antonio sprezzava la pesca di scoglio e si metteva in mare solo per andare al largo? Antonio, l’esperto pescatore di ricci, forse, non conoscendo né il greco, né il latino e neppure l’italiano, non poteva sapere che Palascìa potrebbe essere connesso con il πέλαγος (l’alto mare, teoricamente più profondo di quello sotto costa), Maria Corti, forse ignorante di pesca, e non solo di ricci, ma grande filologa, non poteva non saperlo. Così, dall’incontro fra due ignoranze specifiche (o, se preferite tra due conoscenze parziali delle quali solo quella del pescatore si palesa), Antonio/Maria Corti, pur senza dirlo espressamente, magari senza neppure pensarci, ci ha lasciato l’etimo di Palascìa. A questo punto diventerei veramente un monumento vivente alla stupidità se dicessi di non simpatizzare per la prima delle ipotesi espresse, tra l’altro, da me stesso…
Una conferma a questa etimologia sembra venire dalla Breve descrittione del Regno di Napoli di Ottavio Beltrano, opera uscita a Napoli per i tipi di Beltrano nel 1640, in cui a pag. 278 nell’elenco delle sei torri nel territorio della città d’Otranto compare al primo posto Torre d’Orto, seguita da Torre pelagia, Torre di S. Stefano, Torre S. Milano, Torre dell’Arteglio in territorio di Galatea e Torre di Buracco in territorio di Marugio. E cosa sarebbe quel pelagia se non l’italianizzazione di Palascìa?
Dopo aver passato in rassegna nella precedente puntata le testimonianze numismatiche, è la volta ora di quelle letterarie. Lascio, perciò, la parola agli autori antichi, dando la precedenza a quelli greci.
Omero, Odissea, VII, 115-117, descrizione del giardino di Alcinoo: “Là erano nati grandi alberi rigogliosi, peri e melograni e meli dagli splendidi frutti e dolci fichi e lussureggianti olivi.”. La forma usata è ῥοιαί (leggi roiài) nominativo plurale di ῥοιά (leggi roià).
Empedocle di Agrigento (V° secolo a. C.) in un frammento così si esprime: “[…] perché le melagrane maturano in ritardo e i frutti sono succosi […]”. La forma usata è σίδη (leggi side).
Callimaco (III° secolo a. C.) nell’inno Per il lavacro di Pallade: “O fanciulle, il rossore corse quale ha colore o rosa mattutina o chicco di melagrana”. La forma usata è σίβδα (leggi sibda).
Nicandro (II° secolo a. C.) in Theriacà, vv. 72 e 870-871: “Ancora così dopo aver tagliato dal melograno uno spinoso ramo”, “(Prendi) i calici rosso scarlatto del melograno che si piegano in uno stretto collo dove i fiori bianchi tutt’intorno rosseggiano”. La forma usata è σίδη (leggi side).
Erifo e Agatarchide (sicuramente anteriori al II° secolo a. C.) costituiscono due testimonianze indirette, cioè di loro è rimasta la citazione che ne fa Ateneo di Naucrati (II°-III° secolo d. C.) rispettivamente nel capitolo 27 del libro III e nel capitolo 64 del libro XIV de I deipnosofisti (=I saggi a banchetto).
Erifo ci dà notizia dell’origine divina della pianta (il brano è in forma dialogica e A e B sono gli interlocutori): “B -Ma queste melagrane [nell’originale ῥοαί [leggi roài, plurale di ῥοά (leggi roà)] quanto sono nobili!-. A -Dicono infatti che Afrodite a Cipro piantò quest’albero, uno solo, Berbea-. B -Prezioso!-.
La testimonianza di Agatarchide è inserita in un passo successivo più ampio, interessantissimo per i molteplici riferimenti alla nostra pianta che esso contiene; ragione più che valida per riportarlo integralmente: “Le melograne [nell’originale ancora, come sopra, ῥοαί]. Dicono che tra le melagrane alcune sono senza seme, altre con semi duri. Quelle senza semi sono ricordate da Aristofane ne Gli agricoltori. Lo stesso nell’Anagiro dice: – Eccetto la farina e la melagrana [nell’originale ῥοάς (leggi roàs, genitivo singolare di ῥοά (leggi roà]. Lo stesso in Geritade. Ermippo nei Cercopi dice: – Hai visto già nella neve un seme di melagrana [nell’originale ῥοάς, come sopra]?-. Piccola melagrana [nell’originale ῥοίδιον (leggi ròidion)], come piccolo bue [nell’originale βοίδιον (leggi boìdion], è il diminutivo. Antifane ricorda le melagrane [nell’originale ῥοῶν (leggi roòn) genitivo plurale di ῥοά] dal seme duro in Beozia: – Portarmi dal campo alcune melagrane [nell’originale ῥοιῶν (leggi roiòn) genitivo plurale di ῥοιά (leggi roià), variante di ῥοά] dal seme duro. Epilico a Foralisco: – Dici mele e melagrane [nell’originale ῥοάς (leggi roàs), accusativo plurale di ῥοά]-. Alessi ai fidanzati: – Dalla loro mano una melagrana [nell’originale ῥοάν (leggi roàn), accusativo singolare di ῥοά]-. Agatarchide nel decimo libro delle Cose d’Europa così scrive sul fatto che i Beoti chiamano side [nell’originale σίδας (leggi sidas), accusativo plurale di σίδη (leggi side) o σίδα (leggi sida)] le melagrane [nell’originale ῥοιάς (leggi roiàs) accusativo plurale di ῥοιά (leggi roià) variante di ῥοά]: Litigando gli Ateniesi con i Beoti circa il territorio che chiamano Side [nell’originale Σίδας (leggi Sidas)accusativo plurale come il precedente σίδας ma usato come toponimo], Epaminonda per esprimere il suo giudizio, dopo aver estratto all’improvviso una melagrana [nell’originale ῥοάν, come sopra] che teneva nascosta nella mano sinistra e dopo averla mostrata, chiese agli Ateniesi come la chiamavano. Rispose che la chiamavano roà [nell’originale ῥοάν, come sopra]. Al che ribattè che loro [i Beoti], invece, la chiamavano sida [nell’originale σίδαν (leggi sidan), accusativo singolare di σίδα (leggi sida)]. Infatti quel territorio ha abbondanza di questa pianta dalla quale fin da principio prese il nome. E così [Epaminonda] risolse la disputa. Menandro nel Punitore di se stesso le chiama piccole melagrane [nell’originale roìdia, accusativo plurale del roìdion già visto] con queste parole: Dopo il pranzo nello stesso tempo misi in tavola mandorle e gustammo piccole melagrane [nell’originale ῥοιδίων (leggi roidìon), genitivo plurale del ῥοίδιον già citato]”; subito dopo apprendiamo quanto segue: “Si chiama side (nell’originale σίδη, come sopra) anche una pianta simile alla roia [nell’originale ῥοιᾷ (leggi roià) dativo del già citato ῥοιά], che nasce nella palude intorno ad Orcomeno nella stessa acqua, le cui foglie mangiano le pecore, i germogli i maiali, come tramanda Teofrasto nel quarto libro sulle piante”.1
E infatti Teofrasto (IV°-III° secolo a. C.) a questa pianta chiamata pure essa σίδη (leggi side) dedica un lungo brano nel capitolo 10 del libro IV della Historia plantarum, che non riporto perché questa specie acquatica non rientra nella nostra trattazione.
Lo stesso autore, però, nella stessa opera dedica ampio spazio in ordine sparso alla nostra pianta, per la quale usa il nome, già incontrato, di ῥοά e ῥοιά; riporto i passi più notevoli: “Altre piante hanno poche radici, come il melograno (nell’originale ῥοιά); “Né il pero né il melograno (nell’originale ῥοιά) né il melo sembrano avere per natura un unico ceppo nè emettere esclusivamente polloni dalle radici, ma sono resi tali dall’intervento dell’uomo con la potatura. Talora per l’esilità della pianta lasciano il melograno [nell’originale ῥοιά] e il pero con più ceppi”; “Pochi alberi e in pochi luoghi sembrano mutare sì che la specie diventi domestica da un seme selvatico o migliore da una peggiore; sappiamo che questo è avvenuto solo nel melograno [nell’originale ῥοά] in Egitto e in Cilicia; che quello amaro piantato e seminato in Egitto assume un po’ di dolcezza e di sapore di vino, in Cilicia vicino al fiume Pinaro, dove si combattè contro Dario, tutti nascono dando frutti senza seme”.
La carrellata sugli autori greci si chiude con Dioscoride (I° secolo d. C.): “Ogni melagrana [nell’originale ῥοά] è di sapore gradito ed utile allo stomaco, ma è di scarse capacità alimentari. Tra di loro quelle più dolci sono ritenute più utili allo stomaco, ma intorno ad esso generano alquanto calore e leggera flatulenza, per cui non giovano ai febbricitanti. Quelle amare giovano allo stomaco infiammato e lo contraggono di più e stimolano meglio la diuresi ma sono poco gradite alla bocca e astringenti. Quelle dal sapor di vino hanno proprietà intermedie. Il grano di quelle amare essiccato al sole e cosparso sulle pietanze e pure cotto con esse blocca la diarrea e i movimenti dello stomaco; macerato in acqua piovana e bevuto giova a chi sputa sangue e si usa nei semicupi dei dissenterici e in caso di diarrea. Il succo dei grani cotto e mescolato col miele giova alle ulcerazioni della bocca, dei genitali e del sedere, nonché ad eliminare le escrescenze carnose delle unghie, le ulcere che consumano e quelle che si sviluppano nelle carni, parimenti al dolore di orecchi e alle malattie delle narici, soprattutto se tratto da melagrana amara”.
Fin qui è emerso che la pianta di cui si sta trattando nel mondo greco ora è chiamata sida/side/sibda, ora roà/ròa/roià/roiè, con ulteriore sviluppo del diminutivo ròidion).
Nella prossima puntata protagonisti saranno gli autori latini.
Subito dopo la putia (l’esercizio) de la Bòmbana, si svolta a sinistra (per chi dall’Orulogiu scinde versu l’Anime) per salire dalla via de leMoniceddhre (via Scalfo), che, snodandosi in tutta la sua lunghezza, supera la strada de lu Spitale vecchiu (via Siciliani) e si ferma su via Turati, affacciandosi con candido stupore sul balcone dell’arcu de la Porta Nova.
Poco prima, la chiesa della Purità, posta proprio sulla strozzatura di Palazzo Vallone, segnala la presenza di una delle più vecchie e nobili Opere Pie operanti in Galatina: l’Istituto Immacolata.
Qui le Figlie della Carità di San Vincenzo de Paoli hanno gestito, fino a parecchi decenni fa, un apprezzato educandato, che ospitava prevalentemente le orfanelle, ma anche, a proprie spese, altre fanciulle provenienti da famiglie agiate, tanta era la rinomanza, la notorietà e la considerazione per la saggia e oculata conduzione del Convitto.
Chicco percorreva quella strada per tornare a casa, pedalando lentamente anche perché in leggera salita.
Arrivato in fondo, veniva attratto, però, dal vociare divertito di un capannello di gente, fermo nel piccolo spiazzo fra via Orfanotrofio e la Chiesa.
Nonostante avesse fretta di tornare a casa (lo aspettavano per la merenda e… per ‘nfilaretabacco), qui si fermava, reggendo la bicicletta col manubrio, dal quale penzolava, ciondolando, la borsa della spesa.
La curiosità, fortemente solleticata dagli atteggiamenti allegri, divertiti e stravaganti della combriccola ferma al centro della strada, convinse Chicco (nonostante sapesse di rischiare, al ritorno, qualche sostenuto e pericoloso rimprovero per il ritardo) ad assistere alla sceneggiatade lu Pietrùzzu Chiaròndula.
Avevano di fronte un innocuo e simpatico ometto, forse un finto tonto per studiato opportunismo o forse effettivamente nu pocu de la ‘buccàta (un po’ svanito), come sostenevano in tanti.
Chicco intuì facilmente che tutti i presenti erano pervasi da una leggera e soffusa estasi e che il loro allegro vociare era dettato, più che altro, dai ritmi avvolgenti dell’ ebbrezza… spiritosa di qualche lampa, (ma certamente più di una) che era, ed è, un robusto e spesso bicchiere di vetro a spigoli arrotondati, usato nelle osterie, e può contenere circa un quarto di vino.
Non era nemmeno difficile capire che la comitiva era partita da la putia de lu Muscia (una famosa, storica osteria galatinese, ora dismessa) posta allora sulla vicina via de lu Cazzasajette, fra llu Giuliu Tecu (una delle più antiche edicole di giornali e barberia di Galatina, ora solo edicola) e ll’angulu de la Gilli (Arco Andriani).
Le lampe si consumavano preferibilmente in questa osteria, perché lu Muscia disponeva sempre di ottimi vini paesani, certamente i migliori, prodotti dalla antica, saggia e eccellente maestria vitivinicola dei sapienti contadini salentini.
Vi trovavi un sincero, robusto e corposo “negroamaro” d’annata, che accompagnava sempre pezzetti di carne di cavallo cotti alla pignata (piccolo tegame di terracotta, prodotto, come tanti altri utensili, dalla antica e affascinante arte figulina della vicina Cutrofiano).
Oppure la faceva da padrone il malizioso e vellutato “aleatico” simpaticamente vivace, leggermente abboccato e invecchiato almeno da un anno, perché era il vino più richiesto e apprezzato, ma che diventava pericolosamente malandrino, se bevuto a digiuno.
A lui si deve il primato di lunghe sbornie e innocui, quasi amichevoli, innocenti litigi.
Quante notti insonni ha procurato a diversi incauti avventori !
Quante ne hanno passate all’addiaccio, per non aver saputo trovare, offuscati dai fumi dell’alcol, la strada di casa !
Non si poteva neanche fare a meno dell’ astringente “primitivo” rosso cardinalizio, che si gustava prevalentemente cu nnu nzurtu de casu, assaggio di formaggio pecorino, o vaccino appena nceratu (stagionato da pochi mesi), come antipasto.
Ma, fra tutti, non poteva mancare “la lacrima”, il vero nettare degli Dei, un vino diafano, trasparente, dal rosa al giallo paglierino con lievi riflessi dorati, delicatamente frizzante, secco, imperioso, ma prepotente e traditore.
Questo accompagnava sempre il passatempo preferito da tutti gli avventori de lu Muscia: mangiare lentamente, uno ad uno, schiattuni crudi de cicora (polloni), appena, appena spolverati, dal lato reciso, col sale finemente triturato e intervallati con fave e ciciari rrustuticu llu brustulinu, a focu lentu cull’asche de vulia (fave e ceci arrostiti col tostacaffè, fatto girare lentamente sulla fiamma bassa, tenuta accesa nel camino e alimentata con legna ricavata da tronchi di ulivo).
Erano, e sono tutt’ora, alcuni dei vecchi, vigorosi, nobili vini salentini, che da molti anni hanno già superato orgogliosamente, e a pieni voti, anche i confini nazionali, spinti dalla competenza, dalla passione, dalla intelligenza e dalla intraprendenza di alcuni pionieri della viticultura locale.
Sotta llu Muscia, u Pietruzzu stazionava abitualmente anche di mattina, come se fosse la sua seconda casa.
Ma di sera, e fino a tardi, diventava il suo regno, dove aspettava che qualcuno gli commissionasse una delle sue speciali e singolari telefonate.
Qui trascorreva il suo tempo, fra nnu Solitario o na manu de Patrone, cercando in tutti i modi di non rimanere all’urmu (senza bere, con la bocca asciutta).
Questi sono giochi che si effettuano con le carte napoletane.
Il primo è un ingenuo passatempo che si svolge con un solo (solitario) giocatore: si adagiano sul tavolo trentasei carte coperte, disponendole per nove su quattro fila e trattenendone quattro coperte, dalle quali si pesca (si estrae la carta).
Poi si scopre una carta per volta cercando di ricomporre correttamente i quattro “pali” (bastoni, coppe, spade e denari), partendo dall’asso fino al “re”.
Il gioco del Patrone è più complesso e articolato e si svolge in compagnia… anche di bottiglie di birra o, preferibilmente, de lampe de vinu.
E’ un gioco rumoroso, simpatico e divertente, dove si cerca di far rimanere all’urmu (senza bere) un giocatore avversario predestinato (la vittima sacrificale).
Ma può diventare pericoloso se l’ebbrezza raggiunge un certo… livello e se il malcapitato lassatu sempre all’urmu perde la pazienza per l’accanimento dei giocatori avversari, pe llu scornu (la vergogna) e sopratutto… per l’arsura.
Lu Chiaròndula non aveva di questi problemi: all’urmu non rimaneva mai.
Anzi, durante il gioco, i compagni tentavano di fargli bere quanto più vino possibile (“beva !” , gli imponevano, nel rispetto rigoroso di una delle tante regole del gioco) per renderlo alticcio al punto giusto e prepararlo così alle telefonate… spirituali dell’oltre tomba.
Non era facile mbriacare (ubriacare) lu Ntoni, perché era una spugna naturale e riusciva ad assorbire allegramente tutto: non solo i fumi dell’alcol, ma anche gli scherzi di cui inevitabilmente era oggetto.
Tutto questo, perché lui era, allora, l’inventore, in assoluto al mondo, del primo telefono senza fili, una specie di cellulare senza batteria e senza scheda, sicuramente il più economico e il più efficace mezzo di comunicazione.
Tutti lo conoscevano bene, come il re di denari.
I ragazzini, incontrandolo per strada, lo seguivano a frotte e, fra scherzi e lazzi, passavano il loro tempo, in mancanza d’altro, a prenderlo in giro, o a tentare di scroccare (senza mai riuscirci) una telefonata a sgrascju (gratis).
Lu Ntoni non si sottraeva al gioco, non si infastidiva, non si arrabbiava; sembrava, quasi, li incoraggiasse con la sua indifferenza, o li assecondasse col suo comportamento rimesso e passivo.
Anzi, in fondo in fondo sembrava compiacersi per tanta notorietà, quasi ne andava orgoglioso, anche se non lo dava ad intendere, come una star navigata e furbescamente sorniona.
Gli adulti, invece, sapevano di poterlo rintracciare più facilmente in qualche putia de vinu (osteria), quando avevano intenzione di organizzare la sceneggiata della telefonata.
Pubblicato su Il Filo di Aracne
Quell’indimenticabile spettacolo audace nella controra
Altro che la mitica “Malizia” in celluloide, con un’avvenente Laura Antonelli intenta a sfaccendare in sommità ad una scala e un imberbe coprotagonista intensamente preso a coglierne e catturarne, dal basso verso l’alto, le intime meraviglie!
V’è una scena assai più antica, vera e reale, qui si proverà a inquadrarla e fissarla alla stregua di flash rinnovato e attuale, con interpreti in carne ed ossa e d’intensità che, senza alcun dubbio, regge appieno al confronto.
Corre l’anno 1954, si faccia il conto, da poco è stata inaugurata la sala cinematografica “Excelsior” a Marittima, circolano pellicole made in USA con la bellissima attrice e campionessa di nuoto Ester Williams, statuaria e formosa ma, al massimo dell’osé, con, indosso, costumi da bagno interi modello olimpionico e, ricordo particolare, un film italiano “Violenza sul lago”, interpretato dalla bellissima giovane attrice marchigiana Virna Lisi, purtroppo destinata, secondo quello specifico copione, ad una fine tragica.
In piena estate, temperatura caldissima, subito dopo mezzogiorno, un peperino adolescente di 13 anni o poco più, finito di pranzare con i familiari nella piccola casetta al mare, è già schizzato via, intenzionato a scansare l’obbligo del riposino pomeridiano, trasmigrando nel fondicello retrostante, fazzoletto di terra e pietrame e muretti a secco, riparandosi alla buona dai raggi solari a picco seguendo le strie d’ombra dei fronzuti rami d’un alberello.
Legge un fumetto, fra il calmo e lieve cinguettio di qualche passero assetato e il contrapposto sballo dell’esibizione di gruppi d’indefesse cicale.
Sennonché, ad un tratto, il ragazzo, attraverso l’eco del calpestio sulle foglie secche che ricoprono il terreno, percepisce dei passi, un movimento di persona, alle spalle di una casetta di pietra (caseddra) che insiste sul campetto adiacente e dove villeggia, per prendere i bagni nella vicina insenatura dell’Acquaviva, una famiglia del paese.
Quel movimento è animato da una ragazza, sui 15 o 16 anni e tuttavia già piena di forme come donna fatta, molto bella, peraltro ben conosciuta all’involontario testimone. Elisa, il suo nome.
Ella, appena risalita in casa, giustappunto, dall’Acquaviva, si è spostata in disparte allo scopo di cambiarsi, nel senso di togliersi il costume da bagno, beninteso intero, e indossare la normale biancheria intima.
Orbene, dovrebbe trattarsi di un attimo, di una sequenza fugace, e però l’azione, per il modo in cui si svolge e il pathos che contiene, è come se fosse un film intero.
Nota, infatti, l’adolescente in prima fila, che la protagonista sembra quasi voler rallentare la scena, addirittura interrompersi nella sequenza, in particolar modo allorquando la bellissima “attrice” si trova esattamente nello stato in cui è stata fatta da sua madre.
E, nello stesso tempo, lo spettatore avverte la sensazione, netta, che avendo, l’altra, colto la sua presenza, le esitazioni e il protrarsi temporale non sono propriamente casuali.
Ad ogni modo, non è arduo immaginare quali pensieri, fantasie e voli si formino, maturino e montino nella mente e nell’animo del tredicenne spettatore di cinquantasei estati fa.
Non c’è che dire un concentrato, una valanga d’emozioni che sopravvivono nitide anche nell’attuale stagione dei capelli bianchi.
Questa volta mi soffermerò solo sul toponimo ricordando che le forme antiche nelle quali ci è stato tramandato sono Sancta Maria de Balneo e Sancta Maria ad Balneum.
La traduzione che, poi, ha dato vita al toponimo attuale, secondo me è un po’ infedele e, come dirò alla fine, pericolosa…
Partiamo dal primo dei due toponimi antichi (Sancta Maria de Balneo). La preposizione de in latino regge il complemento di moto da luogo, quello di argomento e quello di materia. Scartati a priori gli ultimi due, rimane il primo. Neppure esso convince completamente, perché nella locuzione il de ha ormai assunto a tutti gli effetti il valore della preposizione italiana di che da lui, non a caso, deriva. Gli onomastici composti da De e un ablativo singolare (per esempio: De Metrio) o plurale (per esempio: De Pascalis) sono un esempio illuminante del fenomeno: siamo in presenza di un complemento di origine o provenienza (che, nella fattispecie, del complemento di modo da luogo è, per così dire, la specializzazione umana; anche il complemento di materia può essere considerato figlio dello stesso padre e, quindi, fratello di quello di origine o provenienza) ma esso ormai indica anche l’appartenenza: nel primo caso discendente da (dunque figlio di) Metrio, nel secondo discendente (dalla famiglia) dei Pasquali. E il concetto di appartenenza è strettamente connesso con quello di possesso, valore che nel passaggio finale assumono gli esempi citati. D’altra parte, se in passato era Leonardo da Vinci e così è rimasto, oggi Pinco Pallino da Nardò si alterna a Pinco Pallino di Nardò e la domanda del curioso di turno è di dove (e non da dove) sei?
Questo passaggio finale rivive in Sancta Maria de Balneo a significare l’appartenenza della santa al luogo, per ora diciamo, genericamente, una marina che nella locuzione è diventata Balneum per antonomasia, sicché non sarebbe stato fuori posto, anzi più rispettoso dei valori semantici originali, tradurre Santa Maria del Bagno, in cui, fra l’altro, non sarebbe stato improprio intendere sottinteso protettrice (e in questo caso del Bagno diventa genitivo oggettivo).
Ciò vale per l’omonima pieve di Santa Maria al Bagno (ma anche Santa Maria del Bagno) nel Casentino (in provincia di Arezzo), solo che qui balneum è riferito ad una sorgente ritenuta miracolosa e vicino alla quale venne eretta la fabbrica. Stessa storia per la romagnola Santa Maria in Bagno o Santa Maria del Bagno e, per mostrare come il dilemma della traduzione non sia cosa di oggi, riporto le forme antiche di questo toponimo:
Ugolino da Montecatini (XIV secolo), Tractatus de balneis, (a cura di Michele Giuseppe Nardi), Leo S. Olschki, Firenze, 1950, pag. 113: In Romandiola sunt balnea in loco qui dicitur Sancta Maria de Balneo (In Romagna ci sono bagni in un luogo che è detto Santa Maria del Bagno).
Gentile da Foligno (XIV secolo), citazione tratta da Didier Boisseul, Marilyn Nicoud, Séjourner au bain: le thermalisme entre médecine et société (XIVe-XVIe siècle), Presses universitaires de Lyon, 2010,pag. 29: Sulphurea balnea, quae iudicio meo et omnium qui experti sunt ea, sunt balnea Sanctae Mariae in Balneo (Bagni sulfurei che a giudizio mio e di tutti coloro che li hanno provati sono i bagni di Santa Maria in Bagno).
Michele Savonarola (1385-1468), Practica canonica de febribus, Apud Iuntas, Venetiis, 15521, s. p.: Castrum est in Romandiola, Sancta Maria in Balneo, apud quod balnea haec tria sunt de quibus statim: quorum minera a praedominio sulphurea scribitur, alumine, ferro ac aere participantia [C’è una città in Romagna, Santa Maria in Bagno vicino la quale ci sono queste tre sorgenti delle quali (parlo) immediatamente: il loro complesso minerale viene descritto in prevalenza sulfureo ma presenta tracce di allume, ferro e rame].
Andrea Bacci (XVI secolo) nel De thermis, Valgrisio, Venezia, 15882, pag. 218 ad un intero capitolo dà il titolo Balneum Sanctae Mariae in Balneo (Bagno di S. Maria in Bagno) e nel primo periodo spiega la ripetizione della voce: Ad viam Aemiliam, prope Sarsinam et Cesenam extat balneum cognomento Sanctae Mariae, quod assiduo commeatu ac frequentia quotannis hominum ad balnea, in castellum eius cognomenti evasit (Sulla via Emilia, nei pressi di Sarsina e Cesana c’è un bagno col nome di Santa Maria che, per il passaggio e la frequentazione assidui degli uomini ogni anno, finì per dare alla città quel nome).
Nell’immagine che segue, tratta dalla pag. 443, la raffigurazione di un ambiente termale. Ho ritenuto opportuno aggiungere una traduzione esplicativa.
Tria vasa miliaria quae, influente a perenni ductu aqua et igne subiecto vasi adhibito, indeficientes universo populo lavando praeberent aquas frigidas, tepidas, calidas (Tre pentole che, mentre l’acqua scorre da un corso perenne e il fuoco è stato posto sotto ad un vaso, fornissero a tutto il popolo per lavarsi acque calde, fredde, tiepide).
FRIGIDARIUM i Romani usavano la voce nel significato di ghiacciaia per cibi (Lucilio) o di bagno freddo (Vitruvio).
TEPIDARIUMstanza per bagni tiepidi (Vitruvio e Celso).
CALIDARIUM caldaia o stanza per bagni caldi (Vitruvio).
PRAEFURNIUM bocca del forno (Catullo), stanza calda (Vitruvio).
HYPOCAUSTUM [dal greco ὑπό (leggi iupò)=sotto + καίω (leggi càio)=bruciare] camera calorifera sotterranea a volta alimentata dall’hypocausis (fuoco sotterraneo) e trasmettente il calore agli appartamenti.
Antonio Targioni Tozzetti (XIX secolo) a questa fonte dedicò il saggio Storia ed analisi chimica delle acque termali dette di S. Agnese nella Terra di S. Maria in Bagno, Galletti, Firenze, 18283.
Balneum4 per i Romani era quella che noi chiamiamo stanza da bagno, ma anche bagno pubblico, momento non solo di rilassamento ma anche d’incontro; estensivamente, poi, la voce poteva assumere anche il significato di terme. E che pure nella nostra Santa Maria ci fossero sorgenti termali è fuori discussione per la nota testimonianza che ci ha lasciato Antonio De Ferrariis detto il Galateo nel De situ Iapygiae (scritto tra il 1506 e il 1511, pubblicato postumo a Basilea nel 1558): Inde vicus Divae Mariae ad Balneum, derelictus, et ipse ob piratarum, ut puto, et Saracenorum incursiones. Hic scaturigines erant calidarum aquarum: ruinae cernuntur aedificiorum, aquae sulphureae odor sentitur. Sed an aqua illa multis morbis salubris alio verterit suos cursus, an incuria hominum et ruina tectorum meatus obstructi sint, incertum est. Has thermas multis mortalibus utiles Belisarius Aquaevivus, vir magni animi, qui Nerito dominator, instaurare cogitate (Poi il villaggio della Divina Maria al Bagno, abbandonato, anche questo, come credo, per le incursioni dei pirati e dei Saraceni. Qui c’erano sorgenti di acque calde: si vedono rovine di edifici, si sente odore di acqua sulfurea. Ma è incerto se quell’acqua salutare contro molte malattie abbia volto altrove il suo corso oppure i passaggi sono rimasti ostruiti per l’incuria degli uomini o per il crollo delle fabbriche. Belisario Acquaviva, signore di Nardò, uomo di grande animo, pensa di ripristinare queste terme utili a molti).
Passo a Sancta Maria ad Balneum. La preposizione ad in latino introduce il complemento di moto a luogo con l’idea di avvicinamento, non di ingresso (per il quale è riservata la preposizione in); introduce pure il complemento di fine o scopo che può essere inteso come la trasfigurazione astratta di quello di moto a luogo (il fine rappresenta la meta alla quale io tendo, ma non è detto che la raggiunga). Se ad Balneum attribuisco un valore locativo la traduzione letterale sarebbe (L’abbazia dedicata a) Santa Maria presso il Bagno; optando per il valore finale avrei: (L’abbazia dedicata a) Santa Maria per (la protezione de) il Bagno.
Concludendo: credo che i due toponimi originali sarebbero resi più fedelmente da Santa Maria del Bagno, anche perché, visto l’abbrutimento culturale in atto, sono convinto che Santa Maria al Bagno spingerà prima o poi qualche sedicente ricercatore a ricostruire le probabili date e circostanze in cui la Santa avrebbe immerso il suo corpo nelle nostre acque o, peggio ancora, sarebbe stata colta da un bisogno più o meno improvviso.
Sotto questo punto di vista Santa Caterina, l’altra vicinissima marina, può dormire sonni tranquilli e non recriminare sul destino che la volle priva di fonti termali.
E ora, se qualcuno dovesse sentirsi toccato nella sua sensibilità religiosa, mi dimostri in cosa sarei stato blasfemo; dopo averlo fatto, mi potrà pure mettere a … bagnomaria5.
4 Balneum nasce per sincope da balìneum e questo è dal greco βαλανεῖον (leggi balanèion)=bagno, voce su cui gli etimologi si sono sbizzarriti. Solo due delle proposte avanzate:
a) la voce sarebbe composta dal verbo βάλλω (leggi ballo)=gettare + ἀνία (leggi anìa)=afflizione, sulla scorta di quanto affermano S. Agostino [(IV-V secolo d. C.), Confessiones, IX, 12: Visum mihi est ut irem lautum, quia audieram inde balneis nomen inditum quod anxietatem pellant ex animo (Mi sembrò opportuno andare a lavarmi poiché avevo sentito che ai bagni il nome fu dato poiché scaccerebbero l’ansia dall’animo)] e, quasi parafrasando, Isidoro di Siviglia [(VI-VII secolo d. C.), Etymologiae, XV, 2, 40: Balneis nomen inditum a levatione moeroris; nam Graeci βαλανεῖον dixerunt quod anxietatem animi tollat (Fu dato il nome ai bagni dall’eliminazione della tristezza; infatti i Greci dissero βαλανεῖον poiché eliminerebbe il tormento dell’animo)].
b) la voce deriverebbe da βάλανος (legi bàlanos)=ghianda, sulla scorta di Quintiliano (I secolo d. C.), Institutio oratoria, I, 9: Accedimus ergo illorum sententiae qui τὸ βαλανεῖον a graeco ἡ βάλανος, quod est glandis genus [Aderiamo dunque all’opinione di coloro che (fanno derivare) τὸ βαλανεῖον (il bagno) dal greco ἡ βάλανος (la ghianda), che è un tipo di ghianda] e della Suda (enciclopedia del X secolo in greco bizantino, che, però, contiene voci tratte da fonti antiche oggi perdute e delle quali, perciò, è impossibile ricostruire la cronologia): (al lemma Βαλανειομφάλους): Βαλανεῖον δὲ ἐκλήθη, διότι τὰς βαλάνους ἐσθίοντες τὰ κελύφη ἔκαιον [Il Βαλανεῖον è chiamato (così) perché dopo aver mangiato le ghiande bruciavano le bucce].
Come se la questione non fosse complicata, mi permetto di aggiungere alle fonti già citate (attenzione a quel ἡ βάλανος, quod est glandis genus diQuintiliano) Teofrasto (IV-III secolo a. C.), De odoribus, IV: Χρῶνται δὲ μάλιστα τῷ ἐκ τῆς αἰγυπτίας καὶ συρίας, ἥκιστα γὰρ λιπαρόν· ἐπεὶ καὶ τῷ ἐκ τῶν ἐλαιῶν μάλιστα χρῶνται τῷ ὠμοτριβεῖ τῆς φαυλίας δοκεῖ γὰρ ἀλιπέστατον ἔχειν καὶ λεπτότατον· καὶ τούτῳ νέῳ καὶ μὴ παλαιῷ· τὸ γὰρ ὑπὲρ ἐνιαυτὸν ἀχρεῖων, παχύτερον καὶ λιπαρώτερον γενόμενον. Ἔλαιον μὲν οὖν τοιοῦτον οἰκειότατον, ἀλιπέστατον γάρ. Φασὶ δέ τινες καὶ ἐν τῷ χρίσματι τὸ ἐκ τῶν πικρῶν ἀμυγδάλων᾿ πολλὰ δὲ γίνεται περὶ Κιλικίαν καὶ ποιοῦσιν ἐξ αὐτῶν χρίσμα. Φασὶ δέ καὶ εἰς τὰ σπουδαῖα τῶν μύρων ἁρμὁττειν ὥσπερ καὶ τὸ ἐκ τῆς βαλάνου καὶ τοῦτο. Ποιεῖ δὲ τὰ κελύφη αὐτῶν εὔοσμον εἰς τὸ ἔλαιον ἐμβαλλόμενα· ἐπεὶ καὶ τὰ τῶν πικρῶν (Usano moltissimo l’unguento ricavato da quella (ghianda) d’Egitto e di Siria poiché è poco grasso. Poi usano soprattutto quello spremuto dalle olive verdi, poiché sembra essere fluidissimo e delicatissimo, e questo fresco e non vecchio; infatti quello che supera un anno è inservibile essendo diventato troppo denso e troppo grasso. L’olio che risponde ai requisiti detti è adattissimo in quanto è poco grasso. Alcuni dicono pure che per la preparazione dell’unguento è adatto quello estratto dalle mandole mare. Ne nascono molte in Cilicia e ne ricavano un unguento. Dicono ancora che anche questo sia adatto per la preparazione dei migliori tra gli unguenti, come pure quello estratto dalle ghiande. La loro scorza gettata nell’olio lo rende profumatissimo; lo stesso per le mandorle amare).
Che la ghianda abbia a che fare col bagno perché le sue bucce fungevano da combustibile per riscaldare l’acqua o perché nel bagno facevano la stessa fine che nei cinema dopo più di un millennio avrebbero fatto le bucce del passatiempu (costituito soprattutto da semi di zucca tostati dei quali ci si riforniva prima di entrare nel locale)oppure perché il loro olio entrava nella preparazione degli unguenti abbondantemente usati dopo il bagno non è chiarissimo; ciò che è chiaro, invece, è che i Romani dovevano essere degli emeriti zozzoni se importarono questa pratica, igienica prima ancora che rilassante, dal mondo greco insieme con la parola …
5 Dal latino medioevale balneum Mariae (bagno di Maria). Chi sia questa Maria è controverso: per alcuni sarebbe Miriam, l’alchimista sorella di Mosè, altri sono propensi ad accettare l’identificazione, tramandataci da Zosimo di Panopoli (IV secolo d. C.), con Maria la Giudea .
Sabato 31 agosto, nel corso di una bella serata avente per cornice la piccola e graziosa Piazza S. Nicola di Cocumola (Lecce),si è svolta l’ottava edizione del Premio “La luna dei Borboni”, dedicato alla figura e all’opera del poeta salentino Vittorio Bodini.
L’ambito riconoscimento è andato, quest’anno, a Guido Davico Bonino, critico letterario, storico e teatrale.
In aggiunta, targhe col simbolo “La luna dei Borboni” sono state consegnate a Luciano De Rosa, già redattore della rivista “L’esperienza poetica” fondata e diretta da Bodini dal 1954 al 1956, al poeta e critico Antonio Mangione e all’ex rettore dell’Università del Salento Donato Valli. Infine, un riconoscimento postumo anche per Oreste Macrì, fra i maggiori ispanisti italiani del Novecento.
La manifestazione, condotta dal giornalista Beppe Stallone, redattore del giornale telematico GO.Bari.it, è stata impreziosita attraverso la recita di alcune composizioni bodiniane per opera dell’attrice leccese Carla Guido, l’esecuzione, da parte del maestro pianista Andrea Padova, di una serie di brani originali da lui composti, traenti ispirazione sempre da poesie di Bodini e, da ultimo, due brevi rappresentazioni teatrali, su temi del medesimo autore letterario, proposte da gruppi d’attori salentini, con il coordinamento di Antonio Minelli, regista di eventi ed esperto di comunicazione.
E’ intervenuta la figlia dell’intestatario del Premio, nonché Presidente dell’omonima Fondazione, Valentina Bodini.
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Così, lo scenario, la scaletta e il contenuto dell’evento.
E, però, mai come in questa circostanza, al centro dell’atmosfera tutt’intorno e di fronte al palco, nella stessa aria respirata gradevolmente grazie a leggeri refoli di tramontana, a cominciare dai preamboli dell’arrivo delle autorità, degli ospiti e degli spettatori e sino al saluto conclusivo del conduttore, si è costantemente avvertita, nel cuore di Cocumola, la presenza, idealmente viva e intensa di lui, Vittorio Bodini.
Nato casualmente a Bari nel 1914, da genitori salentini, rientrato in tenera età a Lecce e quindi cresciuto in stretta comunione con queste terre e con la gente locale, laureatosi in filosofia nell’Ateneo del capoluogo regionale e nuovamente lì, dopo una parentesi di tre anni di studio, approfondimento, esperienze e frequentazioni culturali a Madrid, in qualità di professore ordinario di letteratura spagnola. Morto a Roma nel 1970.
E’ notevole la sua produzione letteraria e soprattutto poetica, dal primo manifesto futurista a diverse raccolte di versi succedutesi nel tempo.
Ma, a prescindere dalla mole, nell’opera dell’autore in discorso, colpisce e impressiona la peculiarità qualitativa che trasuda pressoché da ogni rigo o dettaglio, le parole non sono isolate, bensì hanno un anima, fatta di volti, ambienti, situazioni ed eventi.
E’, in particolare, il Salento, con la sua tipica espressività esistenziale e le consuetudini sociali, ad emergere da numerose poesie di Bodini.
Elementi e/o compagni di vita ormai da qualche tempo desueti, del genere, solo per citare, del tabacco (una campionatura di foglie in corso d’essiccazione è stata felicemente posta sul palco, sabato 31), oppure dei traini dalle alte ruote a raggiera e corredati di lanterna, in viaggio di notte, con pesanti carichi di tufi estratti dalle immense cave diffuse nella zona.
Cave, a guisa di paradisi a rovescio di sudore, trasferte con i traini, di sovente simboleggianti, oltre che disagi, incertezze e ansie. Altro lato della medaglia, d’impronta positiva, quanti edifici, quanti sposi accasati e quanti nuovi nidi ne sono nati o derivati!
Un paese che si chiama Cocumola / è / come avere le mani sporche di farina / e un portoncino verde color limone. / Uomini con camicie silenziose fanno un nodo al fazzoletto / per ricordarsi del cuore. / Il tabacco è a secare, / e la vita cocumola fra le pentole / dove donne pennute assaggiano il brodo».
Sarà, forse, azzardata e approssimativa la mia idea di accostamento, tuttavia la figura di Vittorio Bodini, col suo bel volto pacato da signore nell’animo, mi fa venire alla mente l’ape, il minuscolo insetto che, in genere, passa per noioso, fastidioso. A voler meglio riflettere, invece, tale creatura va attingendo nettare dai fiori e/o dalle piante, che qui profumano anche di salsedine per il mare non lontano, per poi rendere il frutto della sua attività sotto forma di miele e, al caso, con una successiva lavorazione, di pappa reale, nutrimento fra i più eccellenti per gli umani.
E, in fondo, si può definire in certo qual modo similare il processo di ideazione e di elaborazione delle sue composizioni poetiche, da parte del Bodini: egli assimila paesaggi, terre, abitudini, volti e genti, natura, fiori, frutti e piante e ne fa la base per liriche che fanno vibrare le menti e gli animi di chi si accosta, leggendole e meditandole.
Qui non vorrei morire dove vivere / mi tocca, mio paese, / così sgradito da doverti amare; / lento piano dove la luce pare / di carne cruda / e il nespolo va e viene fra noi e l’inverno.// Pigro / come una mezzaluna nel sole di maggio, / la tazza del caffè, le parole perdute, / vivo ormai nelle cose che i miei occhi guardano: / divento ulivo e ruota di un lento carro, / siepe di fichi d’India, terra amara/ dove cresce il tabacco. / Ma tu, mortale e torbida, così mia / così sola / dici che non è vero, che non è tutto. // Triste invidia di vivere, in tutta questa pianura / non c’è un ramo su cui tu voglia posarti».
Da non addetto ai lavori e soprattutto da non esperto, penso che l’opera dell’autore salentino non sia soltanto esempio di fine arte poetica, ma anche connubio sublime e straordinario fra il momento e i contorni dell’ispirazione e l’opera successiva di trasposizione del relativo contenuto in versi e strofe.
In fondo, senza ombra di partigianeria o spirito campanilistico, il patrimonio poetico lasciato dal Bodini sembra di livello assolutamente e indubbiamente eccelso; l’autore di cui parliamo non può definirsi semplicemente e riduttivamente di rango locale o regionale, ma può stare degnamente a fianco dei più grandi poeti italiani e finanche europei.
Verrà un giorno in cui, nelle raffigurazioni intorno alle maggiori eccellenze in campo poetico e letterario, insieme con l’ermo colle, i cipressi e la magia composta di Santa Croce, figurerà anche il Salento e in particolare la minuscola Cocumola (frazione con appena mille residenti), grembo e patria di Bodini.
Un autore, a tutt’oggi scarsamente apprezzato rispetto alla sua grandissima opera, ma che, v’è da credere, troverà rapidamente ampia rivalutazione.
A tal fine, sarà un’importante pietra miliare l’ormai prossimo 2014, centenario dalla nascita del poeta.
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Intanto, per giusto omaggio e per riservare a lui l’onore dell’intera scena, nella sera di sabato 31 agosto, la luna che sovente s’affaccia in alto, fra astri e pianeti, se n’è stata da parte, lasciando in prossimità del nostro sguardo una sua omonima, vale a dire “La luna dei Borboni”, intitolazione del premio dedicato a Bodini.
Progetto Turismo Rurale Salento. Da Londra al Salento in cerca della sua anima
I love Salento: da Londra in Puglia, dove il melting-pot è un archetipo. Incrocio e fusione di popoli, culture, affabulazioni, epopee, miti, straniante bellezza dove lo sguardo si posa. In cerca della sua anima profonda, sfuggente, le radici del passato, la memoria stratificata, i riti immutati nel tempo, le infinite contaminazioni che s’irradiano sull’antica terra dei Messapi, elfi e briganti, “cafoni” e formiche: un fiore dai mille petali.
Il giornalista inglese Patrick Darryson, world tourism directory, sulla rivista “Rural Tourism International” (sedi a Londra e Monaco di Baviera), mette in rete fascinosi percorsi del turismo rurale planetario (Olanda, Grecia, Spagna, ecc.) che parte dalle bellezze naturali per addentrarsi sulle tracce del passato, gli antichi percorsi, la cucina, le colture, l’architettura, i personaggi storici, miti e riti, ecc.
Londra è una capitale del mondo dove i trend nascono sin dal tempo di Oscar Wilde e s’irradiano al pianeta. Da anni va il business degli orti fuori città (a New York sulle terrazze dei palazzi, in Svezia le fattorie verticali e le città per maiali). Si affittano e si coltiva il cibo per la propria mensa, il resto sul mercato. Moda al top: orti non se ne trovano più. Questa tendenza, che identifica un ritorno al passato, quasi all’autarchia dei tempi di guerra, ne ha innestata un’altra: lo dice Jojo Tulloh in “The Modern Peasent”. Le famiglie riscoprono il piacere del pane fatto in casa, le confetture di frutta, le salse, ma anche i lavori artigianali sono trendy.
Un’idea della vita “nature”, prodotti a km zero, opposta alle sofisticazioni alimentari, i veleni nella terra, le resse ai centri commerciali, ecc. Che si trasfigura in un modello esistenziale alternativo a quelli del XXI secolo. Dopo una sosta in Valle d’Itria per un reportage, con la moglie, la ph Elizabeth Keiler che collabora a prestigiose agenzie mondiali, cercava una dimensione del turismo alternativa, più istintiva, umana, per avvicinarsi all’anima profonda di una terra antica colma di bellezza e tesori, ricca di essenze, aromi, armonie.
Sul sito www.pugliaholidays.it ha contattato il manager Pierluigi Damiani, che lo ha invitato a Finisterre per mostragli le facce del Salento arcaico, nascosto, contadino, autarchico, dove il tempo pare fermo in una dimensione sospesa, e tutto attinge alla memoria, le radici: dal sapore ritrovato delle interiora di agnello cotte alla brace, i “gnommareddhi” (copyright della Polis pagana), i “pezzetti” di carne di cavallo, le “pìttele” (frittelle cotte nell’olio d’oliva), ai “cummarazzi”, cetrioli indigeni coltivati dagli antenati sin dai tempi dei Messapi, che gli inglesi hanno gustato ospitati in una pajara (trullo a tolos, in altre zone del Salento caseddhri, lamie, liame) dalla famiglia Cosi, nei campi fra Morciano e Torre Vado.
4 giorni molto intensi: Damiani ha fatto da “cicerone” inventando un percorso che ha messo in rilievo il Salento del passato (la mitica “Centopietre”, la grotta “Cipuliane”, ecc.), dell’identità, la memoria, le radici, i sapori, gli odori, le essenze. Dopo la campagna dei Cosi, che a inizio estate emana una possente energia vitale e sorprende con i colori dei frutti che maturano (le dolcissime “culummare”, i fioroni), oltre a pomodori, peperoni, melanzane dell’orto cucinati alla maniera antica dalla signora Cosi col sottofondo delle cicale, i due inglesi dallo Jonio sono passati all’Adriatico, la terra sospesa fra Oriente e Occidente nel morbido abbraccio degli ulivi secolari.
Altri due giorni in una pajara alla “Vardiola” (Marina di Corsano), ripide scogliere a strapiombo su un mare di cristallo da cui si vede nascere il sole, impregnata dall’odore del timo, la salvia, il rosmarino portati dal grecale unto di sale. Nei giorni d’inverno appare magicamente la costa albanese al confine con la Grecia (Saranda) e a sud l’isola di Fanos e Corfù. Il loro sguardo incontra l’antica rotta delle navi che in passato portavano olio, vino, grano, ecc. in un intenso interscambio.
“Gli inglesi – osserva il manager – si sono innamorati del luogo: la sera adoravano la frescura, guardavano le costellazioni e ascoltavano il rumore del mare in compagnia di una bottiglia di Negroamaro”. Al porticciolo di Novaglie, dai pescatori che pulivano e rammendavano le reti un regalo inatteso: una stella marina e una conchiglia rimaste impigliate. Incantati dal senso dell’ospitalità delle genti del “Capo”, come dai centri storici di Gagliano, Alessano e Specchia e dall’incantevole location di “Pozzo Pasulo” (Patù). “Avete gioielli che dovete far conoscere”, esclamavano i reporter. Curiosi, facevano domande su usanze, costumi, dialetti, personaggi, fatti storici, piante selvatiche, cibi, fiori, a cosa servivano le pajare e la tecnica di costruzione.
Must: una visita alla grotta delle “Cipuliane” (Porto Vecchio, Novaglie), a respirare la preistoria. I reperti in selci emersi negli scavi sono nei musei di Lecce e Firenze. E la sosta pregna dei sapori antichi in una trattoria tipica di Lucugnano e un’altra fra Patù e San Gregorio. Sorpresi dalle tipicità sopravvissute: la delizia della “scapece” (pesciolini marinati con aceto e zafferano), l’olio extravergine di Presicce (nell’Ottocento questo lampante illuminava le vie di New York), i “panari” di canne e “vinchi” di Acquarica, i cesti dei maestri di Morciano, ecc.
I reporter sono così diventati “testimonial” del Salento: torneranno in un tour con esperti di turismo rurale. Hanno svelato ai nostri occhi ciò che si sospettava: il turismo nel Salento è all’anno zero, impantanato fra sole e mare. Ignora, sottovaluta le potenzialità inespresse di chi vuole immergersi nel passato. Lo aveva scoperto anni fa “Le Quotidièn de Tourism” con un’inchiesta: il Salento scarseggia di strutture ricettive: ne potrebbe avere molte di più per la morfologia territoriale. E’ vero anche per quello termale: le richieste per Santa Cesarea sono di gran lunga superiori all’offerta. Ciò provoca anche una questione di fidelizzazione: molto bassa.
E dire che potrebbe “coprire” la bassa stagione, dall’autunno alla primavera: mettere in rete masserie, trattorie tipiche, modulare percorsi fra pajare e muretti a secco. I turisti sono interessati alla raccolta delle ulive, la coltivazione delle patate, del grano e i cereali, i pomodori, le verdure, ecc. “Col progetto Turismo Rurale Salento – spiega Damiani – vogliamo valorizzare le testimonianze del passato, la vita, i valori, le tradizioni ampliando l’offerta del territorio. Cerchiamo collaborazione ma c’è una resistenza culturale degli imprenditori”. Uno scarto nel futuro che tocca, oltre a loro, alle istituzioni, in sinergia: ne saranno capaci?
Due variazioni sul tema a Nardò e a S. Maria al Bagno?
Chi è di Nardò ma anche chi, pur non essendolo, ne è stato visitatore attento può immediatamente riconoscere nella foto di sinistra il Palazzo Personé, attuale sede del Municipio, e in quella di destra Villa Leuzzi a S. Maria al Bagno che, per chi non lo sapesse, di Nardò è una frazione.
Non è necessario essere un critico o uno storico dell’arte per cogliere le differenze stilistiche tra le due fabbriche, anche se il rifacimento della facciata di Palazzo Personé e la costruzione di Villa Leuzzi sono contemporanei, essendo stati realizzati tra la fine del XIX secolo e gli inizi del successivo.
Cosa, allora, mi ha spinto ad occuparmene in questo post? Il dettaglio che in basso riproduco, il primo del palazzo, il secondo della villa sulla facciata prospiciente il mare. Preliminarmente, però, voglio ringraziare due persone: Corrado Notario per le foto in alta definizione di Villa Leuzzi, espressamente fatte per me, dalle quali ho tratto il dettaglio insieme con gli altri riprodotti in questo post, e Giovanna Falco per avermi dato con alcune sue foto dello stesso soggetto precedentemente postate in facebook l’occasione e l’ispirazione per scrivere quanto segue; senza Giovanna questo post, per quanto modesto, non sarebbe esistito, senza Corrado sarebbe nato difettoso proprio nella parte più importante, quella che fornisce l’immediato riscontro a quanto si afferma o ipotizza; tutte le altre foto, a parte quelle d’epoca e quelle recanti una diversa indicazione di provenienza, sono mie.
Parto dal dettaglio della villa e per rendere più agevole il raffronto lo inverto orizzontalmente, operazione, questa, che in ricerche del genere costituisce più che altro un trucchetto visivo che, però, non incide minimamente sulle conclusioni.
Grazie a questa operazione la figura maschile (a destra) e quella femminile (a sinistra) hanno una perfetta corrispondenza con la rappresentazione del palazzo. Notiamo la comune postura distesa ma nella villa è come se si fossero avvicinate e come se la decorazione traforata che nel palazzo le divide fosse stata travasata lateralmente in modo simmetrico e il traforo si fosse “rimarginato”. Insomma ho l’impressione che elementi compositivi assolutamente uguali siano stati abilmente adattati alla struttura del supporto. Così il braccio destro della figura femminile è ripiegato nella villa, teso a toccare il margine superiore della balaustra del balcone nel palazzo; ancora nel palazzo, quello sinistro è perfettamente aderente alla cornice superiore del traforato, cosa che avviene simmetricamente per il destro della figura maschile, mentre il sinistro nel palazzo tocca la gamba sinistra e nella villa impugna un tridente.
Questo dettaglio consente di affermare senz’ombra di dubbio che si tratta della rappresentazione di Poseidone (per i Greci, Nettuno per i Romani) e Anfitrite (Salacia per i Romani), sua moglie. Da un punto di vista iconografico il tema mi pare trattato originalmente poiché, a quanto ne so, rare sono le rappresentazioni, antiche e moderne, in cui compaiono entrambi e, comunque, mai, esclusi forse il secondo e il terzo degli esempi che seguono, nella postura che assumono nel nostro caso.
Anfitrite, Ebe e Poseidone in uno στάμνος (leggi stamnos, un tipo di vaso) attico del pittore di Syleus datato al 480 a. C. circa, conservato nel Museum of Art di Toledo (Ohio, Usa).
Qui la coppia fa parte della decorazione di un ῥυτόν (leggi riutòn; un contenitore per versare vino o acqua; in questo caso ha la forma della testa di un cerbiatto) datato tra il V e il IV secolo a. C. e custodito nel Civico Museo di storia e arte di Trieste.
Le due foto rappresentano altrettanti dettagli della cosiddetta Ara di Domizio Enobarbo (si tratta di quattro lastre, conservate in parte al Louvre, in parte, è il caso delle nostre, nella Gliptoteca di Monaco) databile alla fine del II secolo a. C.; esse mostrano un θίασος (leggi thìasos, corteo sacro) celebrante le nozze di Nettuno e Anfitrite seduti (nella prima raffigurazione) su un carro trainato da tritoni e accompagnati (nella seconda) da pistrici (mostri marini). In base ad un passo di Plinio1 si è ipotizzato che siano copia da Scopa (IV secolo a. C.).
Anfitrite e Nettuno in un affresco del I secolo d. C. proveniente da Pompei (IX, V, 14) ed ora custodito nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Questo mosaico in pasta vitrea del I secolo d. C. è il pezzo forte della Casa di Nettuno ed Anfitrite ad Ercolano. Fu portato alla luce nel 1928 e perciò il dettaglio evidenziato a sinistra dalla circonferenza in rosso non può aver ispirato i fregi floreali tipici dell’art nouveau ed è pure poco probabile che lo abbia fatto con quelli che accompagnano la coppia in entrambe le rappresentazioni moderne qui esaminate, di seguito evidenziati2.
Comunque siano andate le cose, credo di poter affermare che l’autore nella villa tenne presenti, comunque, gli stili di pittura pompeiani, direi il primo e il quarto, nella foto in basso così evidenziati: in giallo quelli che evocano il primo (meglio: la sua fascia mediana, l’antenato pittorico dell’architettonico bugnato liscio, qui “continuo”3), in bianco quelli che evocano il quarto che, com’è noto, non disdegnò di riprendere elementi degli stili precedenti, soprattutto i tralci vegetali del secondo e i πίνακες (leggi pìnakes=quadretti) del terzo4.
La struttura compositiva della decorazione si ripete tal quale nella facciata prospiciente la piazza:
e in quella, sempre, perpendicolarmente rispetto all’ultima nostra, prospiciente la piazza, in un’altra fabbrica (foto successiva) a poco più di cinquanta metri di distanza, soprattutto nella parte superiore.5
Colgo l’occasione per dire come il progettista di Villa Leuzzi si trovò a dover risolvere il problema di impostare un edificio che mantenesse la stessa struttura nei due prospetti principali, quello prospiciente il lungomare e quello, perpendicolare al primo, prospiciente la piazza. La forma della copertura, però, nonché la suddivisione degli interni, secondo me lo obbligò ad una soluzione di compromesso che privilegiò il prospetto volto verso la piazza condannando l’altro all’asimmetria con l’estrema parte destra che appare piuttosto estranea al resto della fabbrica; il colpo finale, poi, almeno per i miei gusti, venne dato con l’aggetto del balcone (se non fosse perfettamente visibile nelle foto d’epoca che seguono si sarebbe detto superfetazione recente; in particolare le strutture metalliche, siano esse pezzi di ringhiera o di ponteggi, poggiate sul muretto e il materiale da costruzione collocato piuttosto disordinatamente poco distante, visibili nella prima foto, inducono a credere che essa si riferisca ad un tempo in cui i lavori erano in fase di ultimazione).
In questa seconda foto, probabilmente più antica di qualche anno della precedente, il dettaglio ingrandito consente di distinguere agevolmente il balcone con la sua ringhiera.
La foto che segue ci conduce ancora più a ritroso nel tempo, quando villa Leuzzi era ancora di là da venire (sarebbe sorta più o meno nello spazio evidenziato in rosso) ma del palazzo prima citato a raffronto c’era già la struttura originaria (evidenziata in celeste).
Torno al balcone: esso appare come un corpo estraneo in un corpo estraneo, anche se ingentilito dalle esili colonne che lo reggono richiamanti l’inedita decorazione pentafora cieca (nella foto sottostante evidenziata in rosso) della parete in cui si apre la porta-finestra, decorazione che a sua volta richiama la bifora senza colonna centrale (evidenziata in bianco) della restante parte della facciata; inoltre, mentre la cornice superiore della porta finestra si raccorda con quella del sottostante ingresso secondario (entrambe evidenziate in giallo), la finestrella superiore presenta una cornice a sesto acuto (evidenziata in nero) e nel suo complesso sembra riassumere la forma di questa parte destra in cui i richiami evidenziati con il resto non mi sembrano sufficienti a produrre un esito pienamente convincente.
Rimane il continuum nella lettura del tetto che, procedendo da sinistra a destra e continuando dopo aver voltato l’angolo, presenta il seguente profilo complessivo dei due prospetti principali: __/\__/\__/\__
Non sono un architetto, ma credo che uno studio preliminare adeguato della superficie a disposizione avrebbe consentito una soluzione più armonica delle facciate conservando il continuum del tetto (il cui profilo questa volta sarebbe stato ___/\_____/\___ ) e rivedendo e adattando la disposizione degli interni e delle aperture.
Riprendo ora, dopo questa lunga parentesi, la cui parte iniziale ha inquadrato questa villa in quel contesto eclettico di citazioni ed echi, classici e non (tra questi soprattutto la decorazione nei motivi floreali mostra l’adesione alla contemporanea art nouveau; tra quelli classici non manca neppure il rosone quasi cieco, evidenziato in celeste, con le sue numerose evocazioni in tutto o in parte consapevoli: dalla ruota di un timone ad un’elica o ad un oblò, dal quadrante di un orologio ad una croce greca, da una ruota della Fortuna ad una rosa dei venti), che ispirarono, con esiti complessivamente felici (in fondo anche una poesia è fatta di parole per lo più già in uso e una composizione musicale è pur sempre basata sulle solite note …), anche le numerose altre costruite in quegli anni in località Cenate, la carrellata sulle rappresentazioni antiche della coppia Anfitrite e Nettuno. E quella delle ville signorili sorte tra la fine del XIX secolo e gli inizi del successivo fu un fenomeno che accomunò Nardò e S. Maria di Leuca, che in quelle ville ospitarono i profughi ebrei scampati alla follia del nazismo.
Il Trionfo di Anfitrite e Nettuno in un mosaico della prima metà del IV secolo d. C. rinvenuto a Costantina in Algeria nel 1842, custodito al Louvre.
Denario serrato datato 72 a. C.; nel recto busto drappeggiato di Anfitrite con testa volta a destra, a sinistra simbolo di controllo (detto spugna) e a destra simbolo di comtrollo H; nel verso Nettuno in biga trainata da cavalli marini tiene le redini e il tridente; legenda Q(UINTUS) CREPEREI ROCUS.
Non c’era da aspettarsi certo di trovare su una moneta, in cui i soggetti principali di norma vengono ripartiti nel recto e nel verso, Nettuno ed Anfitrite rappresentati insieme, nella posa che definirei “fotografica” del palazzo e della villa.
Passano i secoli e anche l’iconografia si rinnova. In questo dettaglio della decorazione della Sala del Fregio nella Villa della Farnesina a Roma, eseguita intorno al 1510 da Balsassarre Peruzzi, vi è raffigurata la coppia in cocchio, col figlio Tritone6 sulla gamba destra della madre. Da notare come l’aggiornamento iconografico ha comportato la sostituzione dei cavalli marini con cavalli normali montati, però, da due creature metà uomo e metà pesce, cioè due tritoni (e tritone, come nome comune, deriva proprio da Tritone).
Chiudo la carrellata con questo imponente bronzo collocato nel parco della reggia di Versailles, opera (1735-1740) di Lambert-Sigisbert Adam.
È tempo di tornare alle nostre due rappresentazioni. Nonostante i punti di contatto messi, spero sufficientemente, in luce, c’è da osservare che se Nettuno ed Anfitrite erano perfetti per una fabbrica che volge lo sguardo al mare7, altrettanto non lo erano per il palazzo. Ecco, allora, che nella decorazione di quest’ultimo, come ho notato all’inizio, Nettuno non ha il tridente. Qui la coppia si è spogliata dei panni divini conservando, però, l’eco lontana del mito nella trasfigurazione tutta umana riferita, credo, alla coppia baronale.
Lascio ad altri più qualificati di me valutare se è praticabile l’ipotesi, prospettata nel titolo sia pure limitatamente alla decorazione presa in esame, che progettista di villa Leuzzi sia stato quello stesso Generoso De Maglie che realizzò il rifacimento della facciata di palazzo Personè e se, dunque, il dettaglio oggi esaminato possa essere ragionevolmente considerato come la sua “firma”, sia pur apposta nel caso del palazzo su una scultura, in quello della villa su una pittura.
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1 Naturalis historia, XXXVI, 25: Scopae laus cum his certat. Is fecit Venerem,et Photon, et Phaethontem, qui Samothrace sanctissimis caerimoniis coluntur. Item Apollinem Palatinum, Vestam sedentem laudatam in aSevilianis hortis, duasque chametaeras circa eam, quarum pares in Asinii monumentis sunt, ubi et Canephoros eiusdem. Sed in maxima dignatione delubro Cn. Domitii in circo Flaminio Neptunus ipse, et Thetis, atque Achilles, Nereides suora delphinos et cete et hippocampos sedentes. Item Tritones, chorusque Phorci, et pristes, ac multa alia marina, omnia eisdem manus, praeclarum opus, etiam si totius vitae fuisset (La fama di scopa gareggia con quella di questi [altri scultori nominati prima]. Egli fece Venere e Foto e Fetonte che sono onorati in Samotracia con santissime cerimonie. Parimenti l’Apollo Palatino, nei giardini serviliani l’apprezzata Vesta sedente e inservienti vicino a lei come nei monumenti di Asinio dove ci sono anche portatori di ceste anche loro di sua mano. Ma nella massima considerazione sono nel tempio di Gneo Domizio nel Circo Flaminio lo stesso Nettuno e Teti E Achille, le Nereidi che siedono su delfini, balene e ippocampi. Parimenti i Tritoni e il corteo di Forco e pristici e molte altre creature marine, tutti di sua mano, opera tra le più famose anche se fosse stata l’unica di tutta la sua vita).
2 La stessa tipologia di fregio ricorre anche nello stemma della famiglia Leuzzi posto in un riquadro che sormonta l’ingresso non costituito dal solito solenne portale ma da un’apertura poco più grande degli altri due accessi laterali della facciata.
3 E, aggiungerei, “ornato”; questa caratteristica, purtroppo si può cogliere solo ad una visione ravvicinata, come si può agevolmente notare nel dettaglio.
4 Sono quattro grandi e quattro piccoli, replicati sulle due facciate; sono meglio conservati quelli della facciata prospiciente il mare. l componenti di ciascun gruppo sono assolutamente uguali fra loro. Il soggetto trattato è di natura floreale nei grandi, mentre la decorazione dei piccoli riprende quella dei fascioni che sottolineano le facciate. Segue un esempio per ogni gruppo (la fascia nera a sinistra della prima foto è dovuta ad un’anta aperta della contigua finestra).
5 Questo motivo decorativo non di dettaglio ebbe particolare successo in quegli anni. Ulteriore esempi a Leuca da Villa Sangiovanni e Villa Meridiana (foto tratte da Wikipedia).
6 Secondo il mito Anfitrione diede a Nettuno tre figli: un maschio, Tritone appunto, e due femmine, Roda e Bentesicima. Come padre di due figlie e come, almeno credo, nemico del maschilismo, mi sarebbe piaciuto non identificare il figlio della coppia con Tritone, ma avrei commesso un errore storico … anche nel senso di destinato a passare, pur nel ristretto entourage di chi mi legge, alla storia.
7 Si adegua all’ambiente, fino ad apparire come un granchio o, se si preferisce, ad un’aragosta, anche un dettaglio floreale della decorazione sovrastante.
La commistione floreal-marina trova forse la sua espressione più felice nello stemma, che ho già avuto occasione di presentare e che di seguito replico evidenziando i dettagli in causa, in cui il rosone è diventato parte integrante della coda di un delfino e tre lunghe foglie le sue pinne.
Qualcosa di analogo è presente nel dettaglio, di seguito riprodotto, della decorazione della fabbrica poco distante prima ricordata.
Troppo poco per ipotizzare che l’autore dei cartoni sia stato unico? E se avesse a che fare con quella che sembra proprio la sua firma apposta in un angolo di un particolare decorativo del primo piano?
Troppa carne al fuoco non può essere adeguatamente assistita e rischia di restare cruda o di andare in fumo …
Perciò, tornando a villa Leuzzi, si direbbe quasi che la rappresentazione della coppia divina abbia assolto ad una funzione apotropaica più efficace sulla facciata prospiciente il mare che sull’altra prospiciente la piazza, dove la coppia non sarebbe ricostruibile se tutta la decorazione non fosse la perfetta replica di quella del versante marino; infatti l’unico lacerto ancora leggibile (parte della gamba destra di Anfitrite) non sarebbe certo stato sufficiente per l’identificazione. Sorprende di fronte a tanto sfacelo che si sia conservata molto meglio la decorazione che guarda il mare (nelle foto successive la comparazione tra le due), teoricamente più soggetta all’azione diretta della salsedine; è come se per il Tempo un Nettuno ed un’Anfitrite che guardano una piazza, se si fossero perfettamente conservati, sarebbero stati due … pesci fuor d’acqua.
E in un’epoca di divismo insulso e fasullo mi piace chiudere proprio con i dettagli delle due nostre divinità, anche perché solo il teleobiettivo consente di coglierne la finezza nella rappresentazione.
Ci sono modi di dire che si utilizzano per abitudine, spesso per convenzione, “Il mondo è piccolo”, ad esempio. A volte poi ti accorgi che la tradizione orale, la cultura popolare, spesso tramandano verità. E’ piccolo il mondo se mia figlia, alessandrina che studia all’università a Pavia, ha una “collega” salentina che la invita a Tricase per l’estate, successe nell’agosto 2012, ed è piccolo se a distanza di un anno incontro Costantino, il padre della ragazza salentina, nella piazza di Diso ed iniziamo a parlare accorgendoci di avere in comune amici e interessi, oltre che di trovarmi davanti ad un raffinato scrittore. Diso è un paese tranquillo, poca gente per strada, seggiole in piazza martedi 6 agosto fra i tavolini del bar, un palco, una bandiera italiana ed una della CGIL. C’è la proiezione di un documentario che per varie vicissitudini ancora non avevo visto: Arneide. Passano su quel piccolo schermo e con un audio improbabile le immagini e le testimonianze dei protagonisti delle lotte a cavallo fra il 1950 e il 1951, quando le terre vennero occupate, quando la polizia di Scelba caricava donne e uomini che volevano solo e banalmente lavorare un pezzo di terra, che chiedevano di poter sopravvivere.
Anche Costantino Nuzzo era in piazza a Diso, e mi ha sorpreso regalandomi un libro che aveva scritto nel 2010: Trainella. Non è romanzo, non è saggio, è un racconto di vita vissuta fra Marittima, Diso e Tricase. Lui nacque a Marittima, ora vive e lavora a Tricase. Già direttore di Radio Salento popolare e collaboratore di riviste, ha voluto mettere su carta i suoi ricordi, che sono quelli della sua generazione. L’ha fatto perché occorre ricordare, avere memoria di come eravamo per comprendere cosa siamo. E l’ha fatto perché gli spiriti più attenti della nostra generazione si rendono conto che il filo della memoria è esageratamente esile e fragile. Cito un passaggio della sua presentazione del libro: quella attuale, per Costantino “è una società senza chiari modelli diriferimento, confusa e smarrita, che si concentra […] sull’insano culto dell’io senza lasciare spazio al noi… Una società concentrata nel quotidiano individuale, che vive alla giornata. Senza passato, senza storia e senza alcun progetto di futuro[…]”
Forse una visione ecessivamente pessimistica, che tuttavia ha ragion d’essere se valutiamo la deriva sociale e politica in cui siamo stati risucchiati tutti quanti, e della quale la mia generazione, che è anche quella di Costantino, ha qualche responsabilità. Consideriamo le lotte dell’Arneo, quando una classe di “ultimi” chiese, pretese ed ottenne in parte di avere un pezzo di terra che desse loro dignità di esseri umani, che facesse uscire il Salento dal feudalesimo crudele dei baroni e dei proprietari terrieri che utilizzavano centinaia di ettari di terreni coltivabili come riserva di caccia, e vediamo oggi, a distanza di oltre cinquant’anni, nuovi “baroni” tanto simili a quelli antichi che vengono incarcerati perché riducono in schiavitù altri “ultimi”, i ragazzi che arrivano con scafi di fortuna. Le domande sorgono spontanee, le conquiste di un tempo, quanto valgono oggi? Soprattutto, perché la cosiddetta “società civile” consente questi ignobili comportamenti? Perché un conclamato razzista ricopre importanti cariche in parlamento? Perché i diritti conquistati nel tempo sono stati tutti risucchiati e negati da un capitalismo globalizzato che si ritiene invincibile? E potremmo proseguire a lungo, ma torniamo a Trainella. Il libro è di agilissima lettura, scritto in modo asciutto, riporta episodi, guaches di personaggi e comportamenti di Marittima e Diso degli anni fra il 1957 e il 1967, quando la guerra finita sembrava lasciare posto alla rinascita, ma che vedeva i contadini, i mezzadri fare una vita meno che dignitosa, spaccarsi la schiena e lottare ogni giorno per sopravvivere. E lo fa senza enfasi e senza cadere nel tranello del “Mulino Bianco”, quando i mulini erano bianchi, ben lo sappiamo, i poveracci crepavano di fame. Racconta, anche con simpatica ironia, la quotidianità di una famiglia con molti figli, del parto provocato da un ribaltamento del “traino”, racconta del contrabbandiere, della festa patronale con gli abiti buoni, della raccolta del tabacco, del trasferimento della famiglia intera, compreso il nonno fumatore incallito, a Ginosa per la raccolta sulla “millequattro” con autista che stipava tutto l’occorrente per la sopravvivenza di alcuni mesi e oltre 9 persone a bordo. Un viaggio di ore e ore, sempre che non ci fossero guasti e che la polizia stradale non fermasse quella strana auto stracarica per la multa di ordinanza. E ricorda, Costantino, del daziere che potremmo definire gabelliere, di come il “Don” precedesse il nome dei figli laureati dei possidenti terrieri. Quelli che studiavano anche se “ciucci”. E poi il cinema Excelsior dove occorreva andare alle tredici per prendere posto, ed era indispensabile andarci perché anche le ragazze potevano, con il beneplacito dei genitori e del prete, recarsi. E ancora, i matrimoni mai fatti perché dalla dote mancavano i materassi, o della “fusciuta” (scappatella) di chi non poteva permettersi la dote e giustificava in questo modo un matrimonio improvviso. Acquarelli leggeri nella loro pesante realtà, che fanno sorridere con tristezza. Accompagna per mano a capire, fa vedere con occhi diversi le bellezze di queste terre e la durezza del lavoro. Soprattutto si comprende meglio la trasversalità delle storie degli “ultimi”, quelle descritte da Nuto Revelli nel suo stupendo ed irrinunciabile libro che conserverò accanto a Trainella: “Il mondo dei vinti” che racconta la vita dei contadini di Langa, costretti ad emigrare per fare “la stagione” in Francia da clandestini ovviemente, costretti a nutrirsi di castagne e a comprare il sale di contrabbando dagli “acciugai”, tutto ciò per poter dire di avere vissuto. Il mondo, in fondo, è veramente piccolo.
Tra i culti approvati dalla Chiesa della Controriforma quello dell’Angelo Custode vide la propria ufficializzazione nel 1608, con l’autorizzazione da parte della Congregazione dei Riti alla diffusione dell’ Officium Angeli custodis dei cardinali Roberto Bellarmino e Ludovico De Torres, e l’introduzione di uffici e messe dedicate al divino compagno e confidente. Quattro anni dopo, le prediche del gesuita Francesco Maria Albertini “fatte nella Chiesa della Casa professa di Napoli” confluivano nel Trattato dell’Angelo Custode,in cui si sviluppavano le raccomandazioni a venerare gli angeli e ad affidarsi al loro sostegno nelle faccende spirituali e secolari[1]. Tali concetti erano già stati espressi da Francesco di Sales nell’Introduction à la vie dévote (1608), in cui il santo vescovo di Ginevra ricordava, tra le altre cose, come il gesuita Petrus Faber, percorrendo “le rudi montagne savoiarde” in cui aveva attecchito il protestantesimo, fosse “quasi fisicamente” protetto dagli angeli negli “attacchi degli eretici”, e che le celesti creature lo aiutassero “a fecondare molte anime dalla dottrina della salvezza”. Ben si comprende, dunque, come il dilemma del fanciullino sperduto “come il giovane Tobia, quando s’incamminò a Rages”, diventi il simbolo dell’anima incerta nella scelta tra cielo e inferno, e che l’iconografia dell’Arcangelo Raffaele che indica la via del paradiso possa essere letta in chiave di ammonimento a seguire, lungo il sentiero della vita, l’ortodossia degli insegnamenti della Chiesa cattolica e a rifuggire ogni pericolosa tentazione protestante.
Sebbene inizialmente diffuso in ambito gesuita, il culto non poteva rimanere estraneo all’ordine dei Chierici Regolari Teatini, fondato assieme a san Gaetano di Thiene da quel Gian Piero Carafa che, salito al soglio di Pietro col nome di Paolo IV, avrebbe imposto il suo programma di riforma e lotta contro gli eretici. Si giustifica così la presenza dei due dipinti gemelli dell’Angelo Custode issati nelle chiese teatine di Napoli (Santa Maria degli Angeli a Pizzofalcone) e di Lecce (Sant’Irene), entrambi opera di Giovan Bernardino Azzolino (Cefalù, 1582? – Napoli, 1645) e databili al terzo decennio del Seicento[2].
Il tema dell’Angelo Custode sarà più volte ripreso dal pittore siciliano anche per la committenza francescana, per esempio in uno degli elementi del polittico di Manfredonia[3] e, come parte di un insieme più complesso, nell’inedita Madonna delle Grazie rinvenuta da chi scrive nella chiesa dei santi Martino e Lucia di Apricena, ma proveniente dalla locale chiesa dei Cappuccini, dove era addossata “sulla parete, in fondo, della più grande delle due navate”[4]. La tela rappresenta una commistione di temi iconografici, primo fra tutti quello della Virgo lactans, il cui latte è di ristoro per le anime dei purganti e fonte della grazia che ricade sui santi che si affollano ai suoi piedi[5]. A questo tema principale si uniscono quelli della Regina Angelorum, cui allude il turbinio di angioletti che circondano la Vergine incoronata, e della Immacolata, cui si riferiscono la palma, il ramoscello d’olivo, il serto di rose e gigli che recano i due angeli maggiori[6].
La parte mediana della tela è invece occupata dai difensori delle anime contro le insidie diaboliche: i due arcangeli, Michele, titolare dell’omonima Provincia Minoritica in cui insiste il convento apricenese, ritratto come guerriero e psicopompo, e, per l’appunto, Raffaele, nelle vesti dell’Angelo Custode che indica al fanciullo la via del cielo.
In posizione leggermente più rilevata è la figura del san Giuseppe il cui culto, diffuso tra i Francescani da Pietro d’Alcantara, fu sancito definitivamente da papa Gregorio XV nel 1623. Qui è raffigurato come un vegliardo che con una mano regge il bastone fiorito, simbolo di verginità, con l’altra indica in basso, ritratti di tre quarti, i santi Francesco d’Assisi, Bonaventura da Bagnoregio, in abito cappuccino, mozzetta cardinalizia e libro in mano, e Maria Maddalena, coi capelli sciolti e il vasetto dell’unguento, suo principale attributo iconografico. Sullo sfondo, un breve lacerto di paesaggio montano che verso l’alto lascia il posto ai densi nimbi su cui poggia il gruppo della Vergine col Bambino, circondato da un affastellamento di putti e testine cherubiche.
L’opera, che per le traversie cui andò incontro l’edificio primigenio da cui proviene è databile alla metà degli anni trenta del Seicento, è stata restituita dalla scheda della Soprintendenza a un generico ambito meridionale (OA 1600036159) e da Di Iorio alla cerchia di Andrea Vaccaro[7], quando invece rappresenta una crestomazia di temi ed elementi formali riferibili all’ Azzolino. Vi si rinvengono entrambi i filoni sottesi alla sua poetica: quello devozionale e controriformato, di marca prettamente manieristica, con le sue immagini commoventi e bamboleggianti[8], e quello naturalistico che si esplica attraverso una predilezione per i fondi scuri, gli effetti luministici e la diligente resa anatomica dei modelli rappresentati[9]. Tanti i confronti che si potrebbero istaurare con altre opere del siciliano, per esempio la Madonna e Santi della parrocchiale di Montefalcone del Sannio[10] o la Madonna del Carmine e Santi, a quanto mi risulta inedita, nella chiesa di Sant’Onofrio a Casacalenda[11]. Con entrambe il quadro apricenese condivide l’impostazione della parte superiore della tela, le fisionomie di alcuni angeli e santi, e alcune soluzioni compositive come quella dei cherubini reggicorona e delle testine angeliche ritratte a lume di candela.
Ritornando all’iconografia dell’Angelo Custode, alla quale attinge l’artista siciliano per il quadro ai Teatini di Lecce e per il particolare di quello apricenese, essa è quella ben collaudata ai piedi del Vesuvio tanto nell’ambito della scultura – si pensi alla molteplicità di Angeli Custodi usciti in quegli anni dalla bottega di Stellato e sparsi nelle chiese del Viceregno[12] – tanto in quello della pittura, con alcuni pregevoli numeri di Borghese, Sellitto, Vitale e Pacecco De Rosa. Ma è al pittore di Montemurro e al suo chiaroscurare “che tornisce le forme e vi infonde consistenza plastica” che si dovrà guardare, nonostante sia oramai superata la soglia degli anni ’30, per trovare un riferimento stilistico dei due quadri. Sulla scia di quanto già opinato dal Pugliese, è possibile, infatti, istaurare confronti tra i due fanciulli azzoliniani col putto della Santa Cecilia di Capodimonte, o col Tobiolo (o animula, che dir si voglia) nell’Angelo Custode di ubicazione ignota[13], sebbene il quadro salentino abbandoni i catramosi fondi sellittiani “che corrodono i contorni e risucchiano intere parti di figure”[14] a favore di un ampio paesaggio di sfondo, in un avvicinamento alla tendenza classicista, “quasi accademizzante”, solo accennata nella Santa Cecilia di Sellitto e che è invece più convinta nell’Azzolino più maturo[15], tanto da lambire “le correnti del purismo secentesco che fanno capo al Sassoferrato e al primo Cozza”[16]. Tale avvicinamento, che farà spesso confondere i testi più avanzati del siciliano con oleografie ottocentesche[17], è forse il motivo per cui una non sufficientemente aggiornata scheda ministeriale (OA 1600117773) dati ancora il dipinto leccese al XIX secolo, restituendolo a un non meglio precisato ambito salentino.
Pubblcato su “Il defino e la mezzaluna” n°2
[1] P. Pirri, voce Albertini Francesco Maria, in Dizionario Biografico degli Italiani I, Roma 1968, pp. 725-726.
[2] V. Pugliese Pittura napoletana in Puglia I, in Seicento napoletano. Arte, costume e ambiente, a cura di R. Pane, Milano 1984, p. 214; P. Leone de Castris, Pittura del Cinquecento a Napoli. 1573-1606. L’ultima maniera, Napoli 1991, p. 318 nota 42.
[3] N. Barbone Pugliese, A. Simonetti, Giovan Berardino Azzolino: inediti napoletani del Seicento a Manfredonia, in Angeli stemmi confraternite arte, a cura di M. Pasculli Ferrara, D. Donofrio Del Vecchio, Fasano 2007, pp. 435-443.
[4] N.Pitta, Apricena. Appunti di storia paesana con disegni dell’autore e con prefazione di Michele Vocino, Vasto 1921, p.112. L’opera è citata, seppur con l’improprio titolo di Madonna del Carmine, nell’inventario dei beni stilato nel 1811 a seguito della soppressione napoleonica (Archivio di Stato di Foggia, Amministrazione Interna, F. 145, f. 126)
[5] F. Strazzullo, L’iconogrqfia della “Madonna delle Grazie“ tra il ‘400 ed il ‘600, Napoli 1968.
[6] Il riferimento alla Tota pulchra si giustifica con la dedicazione della chiesa conventuale alla SS. Concezione, che mutò in Madonna delle Grazie subito dopo il terremoto del 1627 quando l’edificio cappuccino, che aveva subito dei notevoli danni strutturali, fu riedificato secondo il corrente gusto barocco. Si spiega così anche la presenza della chiave dorata nella mano di uno dei due angeli a cospetto di Maria, simbolo della presa di possesso del rinnovato tempio da parte del nuovo nume tutelare.
[7] E. Di Iorio, I Cappuccini della religiosa provincia di Foggia o di S. Angelo in Puglia (1530-1986), Tomo I-II, Campobasso 1986, pp.145-147.
[8] P. Leone de Castris, Pittura del Cinquecento a Napoli. 1573-1606. L’ultima maniera, Napoli 1991, p. 311.
[10] P. Leone de Castris, La pittura del Cinquecento nell’Italia meridionale, in La pittura in Italia. Il Cinquecento, Milano 1987, p. 510.
[11] Non intendo approfittare ulteriormente dell’ospitalità di Marcello Gaballo, che ringrazio, per approfondire la trattazione di questa tela che esula dai confini pugliesi, quando già il quadro apricenese esulava da quelli salentini. Sarà altra la sede per farlo. Ringrazio anche Alessandro Colombo per avermi procurato una fotografia del dipinto molisano.
[12] P. Leone de Castris, Angelo Custode, in Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e Spagna, catalogo della mostra (Lecce 2007), a cura di R. Casciaro e A. Cassiano, Roma 2007, pp. 160-161.
[15] F. Ferrante, Giovan Bernardino Azzolino tra tardomanierismo e protocaravaggismo. Nuovi contributi e inediti, in Scritti di storia dell’arte in onore di Raffaello Causa, Napoli 1988, p.139.
[16] R. Lattuada, Un nuovo dipinto di Giovan Bernardino Azzolino, in “Kronos“, n.13, 2009, p. 149.
[17] P. Leone de Castris, Pittura del Cinquecento a Napoli. 1573-1606. L’ultima maniera, Napoli 1991, p. 311
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