Certamente i Farbo.Nauti di Massimo Quarta derivano dalla visione del cinema SF, genere che ha distribuito idee e suggestioni a molta arte dei nostri tempi. Pensati come personaggi di una saga, i nuovi Farbo.Nauti sono infatti il seguito dei Farbonauti presentati qualche stagione fa […]. Neppure troppo lontani dai manichini di Jake & Dinos Chapman, non sono però così evidentemente malati o contaminati: insomma, anche se il loro aspetto fisico non è così gradevole, neppure si può dire che siano così cattivi e inquietanti.
Su di loro Quarta non dà nessun giudizio, lascia a noi la possibilità di decidere se sarà possibile averci a che fare e in che modo. Massimo Quarta ha preparato una vera e propria serie di episodi sulla vita dei Farbo.Nauti. in un primo tempo li vediamo a casa loro, in qualche costellazione lontana, che svolazzano tranquilli: qui la pittura è molto pop e grafica, persino tranquillizzante (mi ricordano la cromia dei mondi fantastici di Enrico De Paris). Successivamente i Farbo.Nauti preparano l’attacco via cielo alla terra e allora, alzando le nostre teste, vedremo questo strano esercito colorato munito di strani bastoni da rabdomante e torce luminose che stanno per arrivare, a ancora non sappiamo come dovremo comportarci. Luca Beatrice
Massimo Quarta interroga il presente sullo schermo deformato del fantastico, trasferendo l’esperienza sensibile in un universo di pura invenzione, popolato da umanoidi privi di fisionomia. Il Farbomondo di Massimo Quarta è un meta-luogo, attraversato da forme ellittiche e circolari, da anelli orbitanti e portali ultradimensionali che disegnano psichedeliche texture cromatiche. Tutti gli abitanti di questa dimensione immaginifica, i farbonauti e le loro controparti femminili (le farboline), sono connotati dalla presenza, al centro del volto, di una grande cavità orale, una specie d’incavo labiale o di connettore organico che potrebbe servire per caricare o scaricare ogni genere d’informazione, ma che è evidentemente anche una potente metafora sessuale. Massimo Quarta è forse, tra quelli qui presentati, l’artista più schiettamente chimerico, impegnato com’è nella definizione di un’utopica dimensione parallela, un luogo morbido e accogliente, che egli definisce “non contaminato da immagini mediatiche” e dove, infine, le meraviglie del possibile diventano tangibili eventualità. Ivan Quaroni
Da tempo Massimo Quarta frequenta mondi extraterrestri, anzi ormai i suoi alieni, i Farbo.Nauti, sono del tutto inseriti e naturalizzati tra gli umani: come noi vivono, abitano il pianeta, si vestono, hanno corpi simili ai nostri, le nostre abitudini, frequentano i nostri luoghi […]. Si fondono, nell’originalissima figurazione di Quarta e in una pittura di grande qualità, alcuni dei temi più sentiti del nostro tempo: il tema della post-catastrofe, delle identità mutanti, della natura transgenica, dell’ecologia planetaria, dell’invasione degli alieni (o stranieri o extracomunitari)… Il tutto in immagini di grande effetto provocatorio e insieme divertenti, nate da percorsi labirintici della mente, da flussi incontrollati del pensiero. Immagini costruite secondo la logica dell’accumulo e dell’eclettismo, talvolta glamour e patinate, talaltra fumettistiche e pop, affini senza complessi a quelle cinematografiche, televisive, pubblicitarie. Quarta appartiene a quella genìa di artisti che da sempre hanno sognato di rappresentare l’insolito, di dar corpo alla fantasia, di oltrepassare i confini della realtà e viaggiare verso l’altrove. Solo che oggi il termine fantastico si è sostituito con fantascientifico: i mondi lontani sono sempre più vicini, anzi i Farbo.Nauti sono tra noi. Marina Pizzarelli
FarboSpazio
Via Manifattura Tabacchi 16/B 73100 Lecce
Inaugurazione: domenica 18 maggio, ore 19.00
Dal 18 maggio all’8 giugno 2014
Orari di apertura: tutti i giorni dalle 09.00 alle 12.00 e dalle 17.00 alle 20.00
Premetto (nessuno si preoccupi, non sono un politico …) che la presenza del mio profilo in facebook è dovuta al subdolo intervento delle mie figlie e confesso, senza per questo vergognarmi, che, oltre ad andarci sporadicamente, ho scoperto solo da poco che in alto a destra c’è un pulsante che consente di vedere i messaggi. Chissà quanti non ne avrò letti (sono conosciuto in tutto il mondo … oggi conosciuto) e la mia mancata risposta sarà stata interpretata come un atto di scortese sufficienza anche nei confronti di chi, come il signore il cui nome dirò fra poco, è un affezionato frequentatore di questo sito.
Me ne scuso con tutti e passo al dunque. Ecco in sequenza i tre messaggi del signor Salvatore Calabrese che qualche ora fa (per la storia erano le 15 del 12/5 c. a. …) il pulsante galeotto mi ha permesso di leggere:
6/03/2014 20:41 Gentilissimo Professore. Quotidianamente leggo tutte le pubblicazioni della rivista on line “LA TERRA D’OTRANTO” (della quale mi onoro di essere socio e dove a volte intervengo con mie modeste elaborazioni o, molto più spesso, con miei umili commenti ad altri articoli) e sempre con interesse, leggo i vostri periodici e qualificati interventi. Pertanto, voglio approfittarne della vostra disponibilità per farvi una richiesta su di un termine che, malgrado tante mie ricerche, non sono riuscito a trovare in modo esauriente. Il quesito che mi permetto di porvi è il seguente: PALMENTO. Questo termine si riferisce ai nostri STABILIMENTI vinicoli, dove viene pigiata l’uva e vinificato il relativo mosto. Perchè Palmento? I romani intendevano il pavimento, ma non vedo il nesso tra pavimento e lavorazione dell’uva. Potrebbe avere un nesso con gli alberi delle palme? Nemmeno qua trovo una logica soluzione. A questo punto mi chiedo? Chi meglio del Prof. Polito può darmi la giusta risposta? Nel chiedervi scusa per il disturbo che mi permetto di procurarvi, anticipatamente Vi ringrazio e Vi porgo i miei cordiali saluti. Salvatore Calabrese
25/04/2014 18:21 Mi sarei aspettato almeno una risposta, invece…………
29/4/2014 14:45 Aspetto ancora vostre risposte, grazie
Dopo essermi scusato con il signor Calabrese, faccio una seconda premessa (non sarò un politico, ma mi starò forse, inconsciamente, preparando …?). Chiunque abbia problemi o dubbi del tipo di quello su espresso, può tranquillamente inviare il suo quesito alla redazione, che provvederà a smistarlo. Nel più breve tempo possibile e nei limiti delle mie possibilità tenterò di rispondere.
La questione di oggi, fortunatamente per me, non mi pare troppo complicata, anche se, come fra poco si vedrà, la mia flebile voce può sembrare una stonatura fuori dal coro.
Presento prima il coro:
1) dal Dizionario Pianigiani on line (http://www.etimo.it/?term=palmento&find=Cerca)
2) dal Dizionario De Mauro (schermata tratta ed adattata dalla consultazione della versione su cd)
3) dal Vocabolario Treccani on line (http://www.treccani.it/vocabolario/tag/palmento/)
La proposta ricordata dal signor Calabrese è la più datata e le perplessità da lui manifestate sono anche le mie, nonostante la spiegazione data nel vocabolario del Pianigiani. Io, tutt’al più, avrei messo sì in campo pavio (prima persona singolare del presente indicativo del verbo latino pavìre=battere), ma in riferimento alla pigiatura dell’uva. Ad ogni modo la comune perplessità trova riscontro nell’etimo incerto che si legge nei vocabolari più recenti. E allora?
Nel latino medioevale è attestato un palmentum. Ecco come il lemma è trattato nel glossario del Du Cange (la traduzione a fronte è mia):
Se dobbiamo dar retta all’Ughelli, le palme, dunque, ci entrano; ma non le piante, anche se la parola ha la stessa etimologia per via dell’analogia di forma tra la foglia e una mano o un piede). Oltretutto va ricordato che da principio e fino all’avvento delle moderne tecnologie la pigiatura del vino veniva fatta con i piedi e, nonostante questo, veniva fuori per lo più un buon vino; oggi che la pigiatura viene fatta, in un certo senso, col cervello e che l’operazione non ha certo il fascino rituale e il coinvolgimento sentimentale e, direi, carnale (allora, perché in testa ho messo quell’immagine?) di quella antica, non so se le cose vadano meglio…
Concludo (già c’era nell’aria il terrore di una terza premessa …) dicendo che nella ricetta confezionata dall’Ughelli ci aggiungerei di mio un piccolo ingrediente: non escluderei che la parola sia frutto di incrocio tra le voci latine palma (che significa palma della mano ma pure zampa dell’oca, pala del remo, remo, l’intero albero di palma o la sua foglia, vittoria) e palmes (che significa tralcio, vigna, ramo in genere).
Euippa: il passaggio dal complimento alla calunnia è breve …
A differenza di altri miei post, quello recente su Euippa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/05/07/euippa-la-fantomatica-regina-di-lecce/), che pure toccava molte note dolenti reali o da me presunte, ha registrato un solo commento trasmessomi tramite facebook e da me letto per puro caso dall’autore delle foto, Pietro Barrecchia, che, per chi non lo sapesse, è stato mio alunno.
Riporto, violando volontariamente la riservatezza per la seconda volta …, la parte del suo messaggio che può avere un qualche interesse comune.
Mi scrive Pietro: ” … Una sola cosa mi sorprende. Pensavo che ricamasse di più sull’etimologia di Euippa. Secondo lei potrebbe trattarsi di un appellativo dato alla rappresentata, essendo probabilmente una bella donna? Tipo un modo antico, gentile e greco, anticipatario del romano “Ah bona!”. In fondo potrebbe essere tradotto con bella cavalla! Non crede? A questo punto penserà: ” Ma ione ci aggiu prodottu?“.
Ho gradito, naturalmente, tutto il messaggio, ma in modo particolare la parte finale con la sua autoironia, ingrediente che nella vita per me è già sostanza ma che qui assume connotati ancora più profondi perché mi fa capire che qualcosa di buono, sia pure in quantità non industriale (anche se l’artigianato, almeno per me, è meglio dell’industria …), ho lasciato nell’esercizio della professione non … più antica, ma certamente più bella del mondo.
Confesso che pure a me era venuta immediatamente in mente l’idea della bella cavalla ma mi ero ripromesso di non parteciparla per non essere accusato di quel maschilismo al cui rischio mi esponeva l’ultimo (in realtà il più importante) posto riservato nella trattazione alla regina leccese, per cui mi ero rifugiato nella dimestichezza col cavallo che dei Messapi le fonti ci hanno tramandato1. Prima della decisione definitiva, però, avevo fatto un’indagine in tal senso, i cui risultati, a questo punto, mi pare doveroso esporre.
Se Euippa non è di origine deaggettivale ma denominale bisognerebbe immaginare che l’avverbio εὖ (leggi eu) abbia assunto un valore aggettivale rispetto ad un sostantivo *ἵππα (leggi ippa) o *ἵππη (leggi ippe). Li ho scritti entrambi con l’asterisco perché in greco è attestato, come nome comune, solo ἵππος (leggi ippos), usato tanto per il maschile che per il femminile; unico segno distintivo l’articolo ὁ (leggi o) per il maschile (ὁ ἵππος=il cavallo) e l’articolo ἡ (leggi e) per il femminile. Ci aspetteremmo, perciò, che ἡ ἵππος significasse la cavalla. Proprio questo, che dovrebbe essere il significato di partenza, non è attestato, cosa che non succede con i significati traslati: da quello collettivo (la cavalleria2), a quello dispregiativo (donna di facili costumi3), ad epiteto di Ecate, su cui debbo spendere qualche parola in più.
L’epiteto è attestato in Porfirio di Tiro (III-IV secolo d. C.), De abstinentia, IV, 16: Καὶ θεοὺς δὲ τούτους δημιουργοὺς οὕτω προσηγόρευσαν· τὴν μὲν Ἄρτεμιν λύκαιναν, τὸν δὲ Ἥλιον σαῦρον, λέοντα, δράκοντα, ἱέρακα, τὴν δ’Ἑκάτην ἵππον, ταῦρον, λέαιναν, κύνα (E hanno chiamato così questi dei creatori: Artemide lupa, il Sole lucertola, leone, serpente, sparviero, Ecate cavalla, toro, leonessa, cagna).
Dal contesto è indubbio che ogni epiteto divino è in relazione con i pregi di ciascun animale. Si sa, poi, che nel passaggio dal mondo pagano a quello cristiano molti di questi animali per lungo tempo nei bestiari medioevali ebbero una posizione ambigua (lo stesso animale poteva simboleggiare una virtù o un vizio), terreno che preparò, poi, fra l’altro, i significati legati alla sfera sessuale di vacca, lupa, cavalla, troia e chi più ne ha più ne metta. Ricordo che un altro epiteto di Ecate era Τριοδῖτις (leggi Triodìtis=venerata nei trivi) e che la sua omologa romana era Trivia (protettrice della prostituzione sacra). Nell’iconografia Ecate è spesso rappresentata con tre teste (cane, serpente e cavallo) e con una torcia in mano (era una divinità psicopompa e la torcia le serviva per accompagnare anche i vivi nel regno dei morti).
Detto questo, ritengo utile ribadire, nonostante alcuni si siano spinti, partendo dalla prostituzione rituale che veniva praticata in apposite edicole in prossimità di crocicchi, a tal punto da collegare la torcia con i moderni fuochi con cui le passeggiatrici cercano di mitigare il freddo della notte (!), che nulla autorizza ad attribuire a cavalla l’interpretazione maliziosa che trova il suo peggior acme maschilista nella locuzione correre la cavallina o nella voce neretina spuddhitrina, per la quale chi ne ha voglia può approfondire in https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/08/22/il-centauro-e-la-spuddhitrina/.
Ho detto prima che ἵππα o ἵππη come nomi comuni non sono attestati, ma come nomi propri sì.
Antipatro di Sidone (II secolo a. C.), Antologia Palatina, VI, 276: Ἡ πολύϑριξ οὔλας ἀνεδήσατο παρϑένος Ἵππη/χαίτας, εὐώδη σμηκομένα κρόταφον·/ἤδη γάρ οἱ ἐπῆλθε γάμου τέλος· αἱ δ’ἐπὶ κουρῇ/μίτραι παρθενίας αἰνέομεν χάριτας./Ἄρτεμι, σῇ δ’ἰότητι γάμος θ’ἅμα καὶ γένος εἴη/τῇ Λυκομηδείου παιδὶ λιπαστραγάλῃ (La vergine Ippe dalla folta chioma ha legato i ricci capelli dopo essersi profumato le tempie; infatti è giunto ormai il tempo delle nozze e noi bende poste sull’acconciatura lodiamo le grazie virginali. O Artemide, grazie a te ci siano nello stesso tempo nozze e prole per la figlia di Licomedido che ha finito di giocare con gli ossicini).
Detto che gli ossicini sono gli astragali, strumento dell’omonimo gioco (vedi in https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/23/quando-il-rohlfs-inciampo-in-un-sassolino-del-salento/), mi pare che il brano sia un omaggio alla semplice grazia della ragazza, un tributo puro all’autentica bellezza (che si nutre sempre di qualcosa che travalica, pur non escludendola a priori, la semplice carnalità), che qui esclude totalmente qualsiasi implicazione di natura erotica.
Proclo (V secolo d. C.) ) nel suo Commento al Timeo di Platone II, 124 C-D (cito dall’edizione a cura di Chr. Schneider, Trewendt, Bratislava, 1847, pp. 292-293): Ἡ γὰρ Ἵππα τοῦ παντὸς οὗσα ψυχὴ καὶ οὕτω κεκλημένη παρὰ τῷ θεολόγῳ τάχα μὲν ὅτι καὶ ἐν ἀκμαιοτάταις κινήσεσιν ἐννοήσεις αὐτῆς οὐσίωνται, τάχα δὲ καὶ διὰ τὴν ὀξυτάτην τοῦ παντὸς ϕορὰν, ἧς ἐστίν αἰτία, λίκιον ἐπὶ τῆς κεφαλῆς θεμένη καὶ δράκωντι αὐτὸ περιστρέψασα τὸ κραδιαῖον ὑποδέχεται Διόνυσον (Ippa, che era l’anima di ogni cosa e che era chiamata così da chi degli dei se ne intendeva probabilmente perché i suoi pensieri si realizzano in opportunissimi movimenti, forse anche per la splendido movimento di tutto, di cui è causa, tenendo sulla testa una benda e dopo aver attorcigliato lo stesso ramo di fico ad un serpente, accoglie Dioniso).
Va detto che questo brano ci è giunto con un numero notevole di varianti e di probabili interpolazioni che, però, non intaccano minimamente la sostanza: Ippaè una ninfa e la doppia etimologia del nome fornita, sia pure in forma dubitativa, da Proclo esclude, secondo me, qualsiasi interpretazione maliziosa che pure, la devozione della ninfa a Dioniso, dio della sfrenatezza, avrebbe potuto propiziare.
Ritornando per l’ultima volta all’avverbio εὖ va detto che esso costantemente entra solo nella formazione di aggettivi, come in εὔπους (leggi èupus)=dal piede agile (e non piede agile). Attenzione a non farsi trarre in inganno da sostantivi come εὐθανασία (leggi euthanasia)=facile (o dolce) morte! Infatti questa voce non nasce dalla fusione di εὖ e di un θανασία che in greco non esiste, ma è derivato dall’aggettivo εὔθάνατος (leggi euthànatos)= di bella morte (e non bella morte), composto da εὖ e θάνατος=morte. Lo stesso processo costantemente si ripete in tutti i sostantivi che hanno εὖ come primo componente. Ne consegue che il nome della nostra eroina per significare bella cavalla avrebbe dovuto sviluppare una probabile forma, (derivata dall’aggettivo εὔιππος) Εὐίππίη o Εὐίππία. D’altra parte, chi si sognerebbe di interpretare bel cavallo l’omerico Εὔιππος citato nel post madre?
E, infine, un riferimento all’etimologia appena indicata è presente in Vicolo Cavallerizza, non a caso vicinissimo a Via Euippa.
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1 Ne approfitto per aggiungere altre testimonianze correlate omesse per brevità nel post-madre:
Polibio (II sec. a. C.), Historiae, II, 24, 10-12: Καταγραφαὶ δ᾽ ἀνηνέχθησαν᷾ Λατίνων μὲν ὀκτακισμύριοι πεζοί, πεντακισχίλιοι δ᾽ ἱππεῖς, Σαυνιτῶν δὲ πεζοὶ μὲν ἑπτακισμύριοι, μετὰ δὲ τούτων ἱππεῖς ἑπτακισχίλιοι, καὶ μὴν Ἰαπύγων καὶ Μεσσαπίων συνάμφω πεζῶν μὲν πέντε μυριάδες, ἱππεῖς δὲ μύριοι σὺν ἑξακισχιλίοις, Λευκανῶν δὲ πεζοὶ μὲν τρισμύριοι, τρισχίλιοι δ᾽ ἱππεῖς, Μαρσῶν δὲ καὶ Μαρρουκίνων καὶ Φερεντάνων, ἔτι δ᾽ Οὐεστίνων πεζοὶ μὲν δισμύριοι, τετρακισχίλιοι δ᾽ ἱππεῖς (Furono redatte le liste: di Latini ottantamila fanti e cinquemila cavalieri; di Sanniti settantamila fanti e settemila cavalieri; di Iapigi e Messapi insieme cinquantamila fanti e sedicimila cavalieri; di Lucani trentamila fanti e tremila cavalieri; di Marsi, Marrucini e Frentani e pure Vestini ventimila fanti e quattromila cavalieri).
Festo (II secolo d. C.), frammento del De verborum significatione tramandatoci nell’epitome che dell’opera fece Paolo Diacono nel secolo VIII d. C.: Multis autem gentibus equum hostiarum numero haberi testimonio sunt Lacedaemoni, qui in monte Taygeto equum ventis immolant, ibidemque adolent, ut eorum flatu cinis eius per finis quam latissime differatur. Et sallentini, apud quos Menzanae Iovi dicatus vivus conicitur in ignem (Che poi il cavallo presso molte genti sia tenuto nel novero delle vittime sacrificali lo testimoniano gli Spartani che sul monte Taigeto immolano un cavallo ai venti e lì lo bruciano in modo che col loro soffio la sua cenere si sparga quanto più ampiamente è possibile per i territori. E i Salentini, presso i quali un cavallo consacrato a Giove Menzana viene gettato vivo nel fuoco).
2 Eschilo (VI-V secolo a. C.), Persiani, v. 302; Erodoto (V secolo a. C.), Storie, I, 80, 2; etc., etc.
3 Eliano (I-II secolo d. C.), De natura animalium, IV, 11: Μόνας ἀκούω τῶν τὰς ἵππους καὶ κυούσας ὑπομένειν τὴν τῶν ἀῤῥένων μίξιν· εἶναι γὰρ λαγνιστάτας· διὰ ταῦτα τοι καὶ τῶν γυναικῶν τὰς ἀκολάστους ὐπὸ τῶν σεμνοτέρως αὐτὰς εὐθυνόντων καλεῖσθαι ἵππους (Vengo a sapere che le cavalle sole tra gli animali anche se sono incinte accettano l’accoppiamento con i maschi e che sono infatti le più lascive; che certamente anche per questo le più dissolute delle donne sono chiamate cavalle da coloro che le biasimano in modo piuttosto delicato).
Lascio immaginare quali sarebbero gli epiteti meno delicati. Riporto cosa, a proposito di questo significato di ἡ ἵππος, quello che qualsiasi studente di liceo classico trova in un vocabolario greco antico-italiano, se ancora si usa e lo si sa usare. Nel Rocci si legge: “cavalla, donna scostumata”; nel Montanari: “fig. di donna dissoluta, vacca, troia”. Ho citato fedelmente, scelte grafiche dei caratteri comprese; il lettore noterà la maggiore crudezza di linguaggio del più recente Montanari, cosa che è nello stesso tempo spia dell’evoluzione del linguaggio ma anche dei costumi. C’è, infatti, una bella differenza tra donna scostumata da una parte e troia, vacca dall’altra, slittati nell’uso corrente dal significato di donna dissoluta a quello di prostituta. Ancora un passo ed anche chi è affetta da ninfomania verrà bollata come prostituta, nonostante non ci sia in ballo il denaro o un qualsiasi compenso e nonostante la prostituta, non sia tale per semplice piacere. Che sia un ragionamento maschilista credo sia fuor di dubbio e il brano di Eliano nel tratto finale con quel σεμνοτέρως (=in modo piuttosto delicato) dimostra pure quanto esso sia datato, anche se per trovare il limite estremo bisognerebbe, molto probabilmente, risalire ad Adamo …
Aradeo è un paese pressoché privo di centro storico. Degli antichi monumenti, delle sedi dell’amministrazione civile e giudiziaria, delle vecchie dimore nobiliari e soprattutto delle numerose chiese[1] quasi nulla è rimasto, grazie soprattutto alla scellerata politica edilizia dell’ultimo secolo. Oltre a questa spiegazione legata alla storia contemporanea del paese, è necessario prenderne in considerazione un’altra, derivante dalla storia moderna. La Terra di Aradeo da fine Quattrocento fino al 1806 fu feudo di un ordine monastico (gli Olivetani) che per secoli la governò da lontano, ovvero da Galatina, sfruttandola come fosse una piccola colonia. Tale ordine non dimostrò alcun interesse ad arricchire il feudo con edifici ed opere d’arte di particolare rilievo, fatta eccezione, come vedremo, per un breve periodo intorno alla metà del Seicento, ovvero il periodo del “governatorato”.
Ad oggi, dunque, tra le testimonianze artistiche ed architettoniche più rilevanti del passato cittadino si possono segnalare la colonna dedicata a San Giovanni Battista ed il limitrofo palazzo baronale (attuale palazzo Grassi). Per ironia della sorte i simboli di uno dei momenti più bui della storia cittadina, ossia l’età della totale sottomissione di Aradeo allo strapotere feudale degli Olivetani. Una sottomissione che ebbe il suo momento di non ritorno in un determinato anno: il 1533, l’anno della “truffa”. Ma procediamo con ordine.
In età bizantina (ma anche normanna e sveva) Aradeo fu un chorion (ovvero un centro urbano con proprie mura) culturalmente attivo e vitale. Afferma Hoffmann: “Aradeo fu, a cavallo dei secoli XIII e XIV, un punto di riferimento per la coscienza nazionale dei Greci in Terra d’Otranto, sotto il duplice aspetto di fedeltà al culto bizantino e alla lingua greca, e di ritorno alla letteratura greca classica e profana”[2].
Come molte altre terre fu poi oggetto di spartizioni, cessioni ed infeudamenti. In particolare, ad inizio Quattrocento, Raimondello Orsini del Balzo donò il feudo di Aradeo al monastero ed ospedale di Santa Caterina in Galatina, allora retto dai francescani. Nel 1494 questi ultimi furono estromessi ed il controllo del monastero passò agli Olivetani. Sotto i nuovi feudatari iniziò per Aradeo un lento ma inesorabile declino.
Fino ad allora il “casale” di Aradeo aveva goduto di una notevole autonomia nei confronti dei propri signori. Il riconoscimento dell’autonomia giuridica ed amministrativa dell’Università[3] (concretizzatasi oltre che nella libertà di elezione di sindaci, uditori ed altri amministratori, soprattutto nell’operato di un vero e proprio parlamento cittadino), l’esenzione dal pagamento delle decime alla camera baronale (fatta eccezione per quelle relative al vino, grano ed orzo) ed una serie di altre franchigie avevano garantito lo sviluppo di una marcata coscienza civica e di un forte spirito libertario. Con gli Olivetani tutto ciò venne messo in discussione.
I monaci “servendosi dei loro ministri, si proposero di controllare l’Università, volendo fare riunire le assemblee non più nella chiesa maggiore del casale, ma nella «casa del ditto Monasterio» cioè nella dimora che i monaci possedeva ad Aradeo”[4]. Gli aradeini si opposero fermamente, ma siamo solo all’inizio della lenta opera di erosione delle autonomie cittadine posta in atto da quello che alcuni storici hanno definito lo “Staterello di Santa Caterina”. Ben presto, i monaci ottennero il controllo oltre che della giurisdizione civile (a loro spettante con l’infeudazione) anche di quella criminale (jus gladii) acquistandola nel 1530 dal duca di Galatina. I magistrati, prima dimoranti in Aradeo, ora iniziarono a risiedere nella stessa Galatina e anche la corte e le carceri, ben presto, furono trasferite in questa città[5]. A queste ragioni di contrasto si aggiunsero infine dei motivi economici e fiscali: i monaci cercarono di abolire la libertà di pascolo fuori dalle mura, tentarono di imporre il pagamento dell’erbatico, cominciarono ad esigere dazi sulle strade e altri balzelli, richiesero prestazioni lavorative gratuite nelle proprie terre, ecc… Gli aradeini si opposero con decisione, ma la situazione degenerò nel 1533, annus horribilis per la storia di Aradeo.
Per capire cosa successe, dobbiamo fare un passo indietro di cinque anni. Nel 1528 un tentativo di invasione francese squassa il regno di Napoli: è la cosiddetta guerra di Lautrec. Nel corso delle operazioni belliche ad Aradeo vengono alloggiate delle truppe albanesi a spese del casale. Per far fronte a tali spese la comunità si indebita per 2.217,3 ducati con il notaio gallipolino Gabriele Nanni e per 228 ducati con Giovanni Staivario della Costa: debiti cui l’Università aradeina non può far fronte. È qui che scatta la “truffa” degli Olivetani. Nel 1533, di fronte ad un notaio leccese, i monaci si assumono l’onere del debito contratto dagli aradeini, ottenendo in cambio “la decima delle Olive, Grano, Orzo, Vene, Fructi, invernini, ed estivi, Fagioli, Dolega, Ceci, Cipolla, Agli, Zafferana, Olii, Vini, Musti, Lupini, Fichi, ed erbe, Borracana, ed altro”[6].
Con questo atto notarile gli aradeini di fatto firmarono la rinuncia alla secolare autonomia economica e fiscale nei confronti dei propri baroni. Un clamoroso gesto autolesionistico, insomma. Quando gli aradeini si accorsero dell’errore commesso era ormai troppo tardi. Dopo vani tentativi di recuperare alcune decime ed il controllo di trappeti e masserie, nel 1555, spinti dalla disperazione, decisero di intentare causa agli Olivetani.
Secondo gli storici la risoluzione dell’Università di adire alle vie legali contro i propri baroni è il sintomo di una situazione oramai insostenibile: “gli Aradeini accettarono dunque la lotta per salvaguardare il loro lavoro, per assicurarsi la libertà di commercio, per garantirsi il pieno possesso della terra e dei suoi frutti e per premunirsi dai danni provenienti dal sistema feudale. Essi inoltre agirono, perché la propria università liberamente continuasse a nominare i magistrati, perché la comunità non perdesse il possesso del demanio cittadino e perché non fosse privata di quelle franchigie economiche, che la consuetudine aveva garantite”[7]. L’avvocato nominato dall’Università giustificò la cessione delle decime come semplice donazione (e non vendita come sostenevano i monaci), causata delle incresciose conseguenze della guerra di Lautrec e, soprattutto, dall’opera di estorsione violenta posta in essere dagli abati. Gli Aradeini, quindi, “tentarono di invalidare il medesimo contratto, innanzitutto perché non avrebbe avuto le «solennità» richieste, in quanto non era stato stipulato nell’abitazione che l’ospedale galatinese possedeva nel casale, e poi perché gli olivetani, per estorcere il consenso ai contraendi, avrebbero pigliato «li homini et citatini de ditta terra et li amminaziavano che havessero fatto lo detto contenso Contracto de decime et li carceravano»”[8].
Nel processo che si svolse in territorio neutro, ossia a Parabita, i monaci ottennero che a testimoniare fossero uomini privi di proprietà immobiliari nella terra d’Aradeo, ciò al fine di evitare possibili conflitti di interesse. Nondimeno i testimoni provenienti soprattutto da Seclì, Soleto e Parabita accusarono i monaci di aver danneggiato in vario modo Aradeo, attentando alle sue tradizionali autonomie, minando la stessa economia, danneggiando la proprietà privata[9], maltrattando i cittadini, ecc. Nonostante la forza di tali testimonianze il processo si arenò, tant’è che nel 1753 la causa risultava ancora pendente presso il Sacro Regio Consiglio.
Gli Olivetani poterono quindi assoggettare completamente Aradeo. Essi misero “in atto il loro disegno: quello di ridurre le libertà amministrative e giudiziarie di Aradeo, inasprendo il sistema fiscale e attentando al piccolo Parlamento cittadino”[10]. Gli aradeini cercano di mantenere la propria autonomia politica edificando un sedile (sede del parlamento) fuori dalle mura, ma fu un successo effimero. Gli Olivetani rafforzarono il proprio controllo economico (acquistando tutti i mulini, trappeti e la gran parte della masserie[11]) e amministrativo. A tal fine, dal 1636, si avvalsero di una nuova figura: il governatore. A quest’ultimo il monastero di S.Caterina affittava, con contratto probabilmente biennale, i pieni poteri sul feudo.
Fu proprio il primo di questi governatori, padre Giovanni da Napoli, ad avviare un’eccezionale opera di rifeudalizzazione, che ebbe anche una sua veste artistica ed architettonica. La colonna di San Giovanni ed il palazzo baronale sono per l’appunto i simboli del baronaggio rampante degli Olivetani ad Aradeo. Giovanni da Napoli, infatti, “acquistò diverse abitazioni tra cui alcune dirute, che utilizzò come suolo edificatorio. Nel 1655 innalzò dalle fondamenta la nuova villa baronale, sede del governatorato olivetano, con la sala di rappresentanza, camere, magazzini, stalla, cucina, due cellari, uccelliere e una cappela. Nei pressi del medesimo stabile comprò anche diversi giardini, vigneti e altri terreni, che cinse con un muro di protezione, formando un unico grande giardino […] inoltre di fronte alla nuova sede baronale entrò in possesso di altri caseggiati, che poi fece abbattere per aprire una piazza, «et in mezzo ci hà eretto la statua di Santo Giovanne, et à torno, à fatto fare cornici di pietra di lecciso, et comprate tutte le case che s’includono in detta piazza»”[12]. Un grandioso piano di rinnovamento edilizio che portò anche all’ingrandimento del “vecchio castello” e all’innalzamento della chiesa dello Spirito Santo: un’eccezionale opera edificatoria volta a sancire il trionfo del baronaggio ecclesiastico sulla piccola e oramai completamente assoggettata università aradeina[13].
[1]Ad inizio cinquecento oltre alla chiesa parrocchiale intitolata a San Nicola, erano presenti edifici di culto dedicati a S. Antonio (due chiese), S. Stefano, S. Giorgio, S. Angelo, S. Maria dell’«Annunciata», S. Maria e S. Salvatore. Altre chiese e cappelle si aggiunsero nei secoli a seguire.
[2] P. HOFFMANN, Aspetti della cultura bizantina in Aradeo dal XIII al XVII secolo, in Aradeo in «Paesi e figure del vecchio Salento», vol. III, 1989, p. 65
[3] Per Università, in età medievale e moderna, si intende l’attuale “comune”
[4] B. F. PERRONE, Neofeudalesimo e civiche Università in Terra d’Otranto, vol. II, Galatina, Congedo, 1980, p.74
[5] Una testimonianza aradeina del 1555 riporta “comu li ditti Abate cellari et monaci voleno che il capitanio et Mastro de atti de ditta terra facciano residentia in Santo Pietro in Galatina et voleno che per qual si voglia causa tanto civile come criminale in prima instantia li homini di detta terra vadano adligati in Santo Pietro dove voleno tenere li carcerati” (Archivio di Stato di Napoli, Monasteri soppressi, Ms. 5503, f.169 r. in B. F. PERRONE, Neofeudalesimo e civiche Università, cit., p. 77)
[6] B. F. PERRONE, Neofeudalesimo e civiche Università, cit., p. 80
[7] Ivi, p. 84. La straordinarietà dell’atto del 1555 emerge anche dal modo in cui le fonti descrivono gli abitanti di Aradeo, mansueti e obbedienti ai propri signori: “li citatini et homini della ditta terra di Aradeo sonno stati et sono persone rustice, bonate, e da bene; persone che vanno alla bona et poco prattichi et experti de cautele et scritture persone obedientissime alli superiori loro che mai li contradicono a cosa alcuna” (Archivio di Stato di Napoli, Monasteri soppressi, Ms. 5503, f. 175r, in B. F. PERRONE, Neofeudalesimo e civiche Università, cit., p. 83).
[9] Alcuni testimoni ad esempio accusarono i monaci di aver fatto pascolare le proprie mandrie sui terreni posseduti dagli aradeini senza risarcire i danni procurati dagli animali.
[10] G. PISANÒ, Aradeo dalle origini all’Unità d’Italia, in Aradeo in «Paesi e figure del vecchio Salento», vol. III, 1989, p. 46
[11] Nel 1556 edificano la Corte, probabilmente una vecchia torre bizantina, riconvertita in azienda agricola
[13] Il termine “piccola” non è casuale, visto che nel corso del seicento la popolazione cittadina diminuì considerevolmente passando dai 105 fuochi di fine Cinquecento agli 82 del 1648 e 80 del 1669. Una tendenza di certo in linea con il generale decremento demografico del sud Italia in questi anni, ma che spicca se paragonata ai flussi demografici di altri paesi limitrofi (le cifre relative ai fuochi di Seclì nelle stesse date sono 106, 132, 145). Ciascun fuoco contava circa 4-5 individui. Dati tratti da M. A. VISCEGLIA, Territorio Feudo e Potere locale:Terra d’Otranto tra medioevo ed età moderna, Napoli, Guida, 1998)
Qual è la stravaganza di questo pensiero annuvolato, reciso dal cielo di aprile ancora? Come le corna dei ruminanti sprona la ragione ad un’idiozia arricciata, nociva, impigliata nel da farsi di una sera inconcludente. Questioni intricate condannate al rogo della convenienza si stemprano allorquando il fuoco è ancora nell’idea di una sentenza.
Vi è la fierezza della disperazione che invece di spegnersi in un accomodamento certo, muore nell’ispirazione dello scrittore che da…l pungolo della stravaganza si sottrae per intelligenza e onestà.
Rimane la pioggia di una domenica a significare l’indizio di una teoria sostenuta che ha bisogno di qualcuno che la sostenga.
(…) Per chi viveva specchiandosi nei cicli della natura, dire luna nuova equivaleva a tracciare lo stilema della fertilità, quasi un porsi alla radice delle crescite e scandirne i tempi e le misure attraverso l’impinguarsi di quella falce, vista appunto come il correlativo oggettivo di una maternità dal cui cosmico utero prendeva sostanza ogni sviluppo.
“Nfèrrate a ppilu ti luna” (“Abbarbicati alla radice della luna”), raccomandava il contadino al suo grano, e nel valutarne lo sbucare o l’imbiondirsi si sentiva in dovere di ringraziare ddhra manu ti mana ca mmocca ti notte (quella mano di madre che imbocca di notte). Che i raggi lunari avessero capacità di alimentare le piante, tanto da poterne all’alba constatare gli effetti di accresciuto rigoglio, era convinzione così ferma da suscitare la voglia di comunicarlo alle bestie quando, a prima luce, si portavano fuori dai recinti o dalle stalle: “Prisciàtibbe, prisciàtibbe, ca erva a pparmu nueu bbi spetta!” (“Rallegratevi, rallegratevi, ché erba cresciuta di un palmo vi aspetta!”), le si incoraggiava quasi a immetterle nel circuito di un positivo che dal crescere dell’erba declinava in una maggiorazione di rendimento. E se si era in luna mascialòra (luna di maggio) e la bestia era un’asina, calzandole il paraocchi la si apostrofava scherzosamente: “Uàrda sulu a nnanti e fanne la cuntignòsa, ca pi llu prutimiéntu ti basta la crisciùta ti lu erde!” (“Guarda solo avanti e fai la contegnosa, perché ad acquetare il prurito [desiderio sessuale] ti basta la crescita del verde [erba]!”). In maggio infatti le asine entravano in calore, e ciò si credeva coincidesse col proporsi del ciclo lunare, che per essere di ponte fra quello di aprile, detto “ti la nfiuràta” (“della fioritura”), e quello di giugno, definito “ti la riccòta” (“del raccolto”), si poneva comepunto di passaggio dalle attese alle risultanze, convertendosi in simbolico tempo dimaturità sessuale. Un assunto radicato soprattutto nelle donne che, se madri di ragazze da poco entrate in mestruo, lo attestavano in un esplicito comportamentale classificabile come rito di iniziazione alla femminilità.
Non appena l’addensarsi del crepuscolo rendeva visibile la falce lunare, conducevano la ragazza al centro dell’aia – o, se abitavano in paese, su qualche mignano – e fattala sedere di fronte alla luna le scioglievano la chioma pettinandola a lungo, possibilmente fino alla scomparsa dell’esile falce – considerando che, trattandosi di prima fase, questo avveniva su per giù a ora ti mmasùnu (ora di ritiro delle galline), ossia a buio ancora incerto. Rientrando a casa la madre, fino a quel momento compiacente pettinatrice, le ingiungeva arcigna: “Nfiéttate e mmùcciate sti capìddhri, ca tira cchiù mbiùte nnu pilu ti fémmina ca sicchi nnu nsartu ti puzzu” (“Intrecciati e copriti questi capelli, ché attira più bevute [voglie maschili] un pelo di donna di quanti secchi possa tirare una fune dal pozzo”); e quasi a mimare il suo compito di guardiana contro eventuali approcci amorosi, rimaneva piazzata sulla soglia con le mani alla cintola e l’aria bellicosa di chi è pronto al rintuzzo. Una posa da virago che era lesta a sciogliere in un sorriso complice non appena una vicina, già al corrente della situazione, le si accostava offrendole un ciuffo d’erba fresca e ambiguamente invitandola: “Mentila sobbra llu lliàtu cu tti rria a ggiùrnu ti santa timpiràta” (“Mettila sul lievito affinché questo si conservi sino al giorno del santo impasto”).
Per comprendere il valore allusivo del gesto e della frase, occorre sapere che fra i poteri riconosciuti alla luna nuova, mascialòra o non mascialòra, c’era quello – piuttosto scomodo – ti la mpinnàta ti lu lliàtu (dell’impennata del lievito), ossia un’intempestiva messa in attivo degli enzimi. Per conservarne inalterata la potenza fermentativa fino al giorno della panificazione occorreva perciò adottare delle precauzioni, la più usuale delle quali consisteva appunto nel coprire la pallottola di lievito con uno strato d’erba fresca, ritenuta capace di assorbire le sollecitazioni lunari. Il gesto e la frase della vicina nascevano dunque da una realtà oggettiva ma nello stesso tempo perfettamente in linea col voluto significante metaforico: nell’intempestiva fermentazione del lievito s’intendeva simboleggiare lu scarfamiéntu (il bollore sessuale) della ragazza, che se non vigilata avrebbe potuto concedersi prematuramente, cioè prima che avesse a scattare lu ggiùrnu ti lu santu mpastu, dicat il giorno del santo matrimonio, per cui l’offerta dell’erba veniva a porsi in chiave apotropaica, da una parte scongiurando il possibile pericolo, dall’altra propiziando il raggiungimento della meta; prefigurazione di nna bbona sorte che nel minimo di un segno (erba) stabiliva una prismaticità di indizi, non dimenticando che era nell’uso delle madri contadine inserire un mazzetto di erbe negli indumenti intimi delle ragazze durante i giorni di mestruo. Mazzetto assortito la cui composizione, pur se variata in base alle necessità del momento – erbe sedative o emostatiche -, in sostanza si articolava proprio sul principio della propiziazione mediante lo scongiuro del rischio, grazie all’immancabile presenza delle erbe aromatiche deputate a confondere la peculiarità olfattiva del mestruo, che le contadine definivano scamu ti carne (miagolio, richiamo di carne) riconoscendole forza tentatrice e ponendola all’origine di molte intemperanze o addirittura violenze sessuali.
Paure e prevenzioni valevoli in tutti i giorni dell’anno, ma che raggiungevano la linea dell’emergenza nei giorni di novilunio, soprattutto quelli estivi, quando – abbandonati i perimetri distanziati delle case – si viveva all’aperto in totale amalgama con la natura, che circuiva, scaldava e possedeva in un’ellittica di stimoli a volte ubriacanti. Quasi un addensarsi di forze vitali nel cui contesto le ragazze si scoprivano fiori in frenetica attesa di pollini e le giovani donne erano frutti succosi, per così dire appese ai raggi della luna nuova nell’atto volitivo di suggerne la linfa delle crescite.(…)
Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza 1994 , (pagg. 153-156)
Spesso, laddove l’italiano ha bisogno di una circollocuzione, al dialetto basta una sola parola: è il caso del neretino (nel vocabolario del Rohlfs, però, risulta registrata per il Leccese solo a Castrignano dei Greci e a Lecce) pastiddha, la castagna secca sbucciata. Quanto dopo si dirà varrà pure per le varianti del Brindisino pastiddi (ad Oria), pastigli (a Mesagne) e pasticca (a Francavilla Fontana).
La trattazione del lemma da parte del grande filologo tedesco è piuttosto striminzita e difettosa, nel senso che egli prima si limita ad invitare ad un confronto con il calabrese pastiddha e poi rinvia a pastiddi, lemma inesistente anche nel terzo volume che funge da supplemento.
Pastiddha suppone un *pastilla, diminutivo del latino tardo pasta (da cui la voce italiana), che è dal greco τά παστά (leggi ta pastà)=tipo di farinata, neutro plurale sostantivato dell’aggettivo παστός/παστή/παστόν (leggi pastòs/pastè/pastòn)=cosparso con sale, a sua volta dal verbo πάσσω (leggi passo)=versare sopra.
Ricordo che nel latino classico è attestato pastillus o pastillum col significato di focaccina, panino, pillola (credo superfluo soffermarmi su come i tre significati germoglino da pasta col progressivo passaggio, partendo dalla comune idea di impasto e con le relative differenze dimensionali, da uno stato più umido ad uno più secco, che raggiunge il suo apice nella pillola).
Non è da escludersi che *pastilla non sia altro che il plurale della variante neutra (pastillum), cui è da collegare lo spagnolo pastilla; in tal caso l’asterisco andrebbe eliminato perché la voce (come già successo con pasta), inizialmente neutro plurale, avrebbe assunto, cosa che in questi casi succede molto frequentemente, un valore collettivo che spiegherebbe il suo cambio di numero (dal singolare al plurale) e di genere (dal neutro al femminile).
Siccome il pastilla spagnolo ha il significato generico di impasto e quello particolare espresso dall’italiano pastiglia (con nessun riferimento alla nostra castagna), debbo pensare che pastiddha derivi direttamente, attraverso il processo che ho già descritto, da un latino pastilla.
Il significato latino utilizzato, però, in pastiddha sarebbe quello di pillola, per evidente analogia di forma.
Allo stesso principio mi pare uniformarsi il siciliano cruzziteddi (saranno graditissime altre segnalazioni, anche dal Polo Nord …), secondo me doppio diminutivo di crozza1, corrispondente all’italiano gruccia che è forse dal germanico krukkja, per il quale non mi sentirei di escludere un rapporto di parentela con il latino crux=croce.2
E a proposito di crozza viene immediatamente in mente, almeno a noi salentini, il Vitti na crozza supra nu cannuni (cantuni in altre versioni), primo verso della canzone popolare siciliana portata alla notorietà ed al successo dal Domenico Modugno. Crozza corrisponde all’italiano teschio, ma per arrivare a tale significato partendo da gruccia ha dovuto compiere, secondo me, molta strada, fino a che il teschio e due ossa incrociate non hanno finito per assurgere prima a simbolo della morte, poi di pericolo della stessa. Lo confermerebbe il fatto che il significato di base di crozza sarebbe proprio quello di appendiabiti (mediato da quello di stampella attestato dal Pasqualino, vedi la nota 1), per cui dalla locuzione crozza ru mortu sarebbe nato poi crozza usato assolutamente nel significato di teschio. E non vi sembra che i cruzziteddi evochino tanti piccoli teschi, o calotte craniche che siano? A questo punto confido nell’aiuto di qualche lettore siciliano per avere lumi maggiori.
Tornando alla nostra pastiddha (meglio la pillola del teschio …), debbo aggiungere, alla luce delle osservazioni fin qui fatte, che non mi pare condivisibile la proposta etimologica che emerge da ciò che si legge in Francesco Antonio Angarano, Vita tradizionale dei contadini e pastori calabresi, L. S. Olschki, Firenze, 1973, pag. 201: … le castagne erano così lasciate ad affumicarsi per la durata di un intero mese: dopo questo periodo venivano nuovamente portate all’aperto e qui in un grosso recipiente di rozzo legno scavato nel tronco stesso di un albero erano pestate con una mazza irta di chiodi fino a quando si mondavano della buccia: perciò esse prendevano il nome di pastiddi (pestate) o munnule (mondate).3
Non capisco come, essende pestare in siciliano pistari, da quest’ultimo si possa essere sviluppato con vocalismo diverso pastiddi.
Condivido, invece, quanto leggo in Michele Castagnola, Fraseologia sicolo-toscana, s. n., Catania, 1863, pag. 290:
E ora tutti ad esclamare -Per forza, ti sei lasciato incantare dal cognome!-.
1 Ecco le forme diminutive registrate in Vincenzo Mortillaro, Nuovo dizionario siciliano-italiano, Stamperia di Pietro Pensante, Palermo, 1853, pag. 222:
Così cruzzitèddi dovrebbe essere, con cambio di genere e di numero, diminutivo di cruzzetta, già diminutivo di crozza.
2 Ecco il lemma come è trattato da Michele Pasqualino nel suo Vocabolario siciliano etimologico, italiano e latino, Dalla Reale Stamperia, Palermo, 1785, tomo I, pag. 357:
Il Pasqualino, dunque, distingue quattro crozza, con diverse etimologie:
a) crozza=teschio, dal greco καρος. Va detto, anzitutto, che καρος va scritto καρός (leggi caròs)=testa. Si tratta, comunque, di un peccato veniale perché a quei tempi i caratteri greci con gli accenti non era facile trovarli. Mi pare inaccettabile, invece, quel καρόκιον (leggi caròchion) che nelle sue intenzioni dovrebbe essere un diminitivo di καρός; purtroppo tale diminutivo non è attestato, per cui risultano arbitrari tutti i successivi passaggi, dove egli, fra l’altro, si serve non più di caratteri greci, con l’intento, secondo me, di confondere le carte e a tal proposito faccio un esempio: crocion (che dovrebbe derivare da carokion per sincope) in caratteri greci sarebbe κρόκιον (leggi cròchion) che esiste ma significa nastro di lana.
Quanto al secondo etimo proposto (κράνειον, leggi cràneion) va detto che la voce in greco esiste ed è da κέρας (leggi cheras)=corno, ma designa il frutto del corniolo (evidente la somiglianza). Ora è vero che κέρας, κράνειον e καρός derivano da un’unica radice ma questo legame semantico si sfalda di fronte all’abisso fonetico che separa κράνειον e cranion da crozza.
b) crozza=gruccia, dal latino crux.
c) crozza=crosta (qui si direbbe che il Pasqualino ha pensato a crosta [dal latino crusta(m)]ma non ha avuto il coraggio di scriverlo, per cui l’etimo risulta assente.
d) crozza=misura. A carozzu leggo:
Avrei anche qui qualcosa da ridire ma non lo farò per brevità e, soprattutto, perché gli etimi proposti non hanno nulla a che fare con crozza nel significato che a noi interessa.
Cultura e religione nella Grecìa salentina dal Medioevo a oggi.
Domenica 4 Maggio alle ore 11,00 Biblioteca “Maniglio”, Palazzo Raho, Zollino
Sarà inaugurata domenica 4 maggio alle ore 11.00, la mostra permanente “Cultura e religione nella Grecìa salentina dal Medioevo a oggi. Zollino” allestita presso la biblioteca “Maniglio” a Palazzo Raho. L’installazione voluta dall’amministrazione c…omunale, rientra nell’ambito del progetto Interreg “Pilgrim Tourism Routes in Ioannina and Lecce” (acronimo PILTOUR), Programma di Cooperazione Territoriale Europea, Grecia – Italia 2007-2013, finalizzato all’incremento del turismo religioso tra la Grecìa Salentina, ed in particolare i comuni di Zollino, Calimera, e Carpignano Salentino e Ioànnina, importante città della Grecia situata nella periferia dell’Epiro.
La mostra, seguendo il filo conduttore della religione, raccoglie nelle sette sezioni che la compongono le principali testimonianze e tradizioni che caratterizzano il territorio comunale e la cultura grica; spaziando dal territorio della Grecìa Salentina e le origini del griko, alla fine del rito greco a Zollino, dalla figura del dotto umanista Sergio Stiso alla I Passiuna tu Christù, dall’opera di Domenicano Tondi al villaggio bizantino di Apigliano.
L’installazione vuole essere, quindi, in linea con le azioni previste dal progetto PILTOUR, uno strumento di salvaguardia e valorizzazione del carattere identitario, fortemente influenzato dalla civiltà greco-bizantina. L’isola linguistica ellenofona rappresenta un attrattore turistico importante, soprattutto per i profili legati al culto e ai riti religiosi che nel corso dei secoli hanno legato e messo in relazione la Terra d’Otranto coni vicini paesi della costa orientale dell’Adriatico.
Ai saluti iniziali del vice Sindaco e Assessore alla Cultura del Comune di Zollino, Antonio Chiga e del Direttore della Biblioteca Provinciale di Lecce, Alessandro Laporta, seguirà l’intervento del Dr. Francesco G. Giannachi dell’Università del Salento che insieme alla antropologa Manuela Pellegrino, ha curato i contenuti della mostra.
“Ogni petra azza parite” (ogni pietra concorre alla formazione del muro), recita, in dialetto salentino, un antico proverbio.
E però, a mio modesto parere, le saggezze del passato, quindi consolidatesi, non devono essere intese soltanto in un’ottica specifica e talora minimale, bensì avvalorate indistintamente rispetto alle piccole e alle grandi cose, spaziando sino allo stesso divenire di un’intera comunità nazionale, se non, addirittura, continentale, nel nostro caso, per completezza e precisione, a livello europeo.
Di conseguenza, quando, il giorno d’oggi, ovunque e comunque ci si volga, capita sistematicamente di notare e ascoltare tutt’altra musica, che nulla, proprio nulla, contiene di saggio, sembra il caso di preoccuparsi, alzare le antenne e illuminare le tenebre.
Passando dalla logica pensata e suggestiva ai fatti reali, ecco, fra i tantissimi enumerabili, un esempio concreto, banale, ma pur sempre indicativo.
Com’è possibile che un comunissimo cerotto “Leukopor”, su rocchetto in simil plastica, cinque metri lineari di lunghezza e due centimetri e mezzo di larghezza, prodotto dalla BSN Medical GmbH di Amburgo, Germania, sia posto in vendita, in una farmacia italiana, al prezzo stratosferico, sì più alto delle stelle, di euro 6,80, cifra poi “amorevolmente” scontata alla cassa a euro 6,10?
Davvero, a prescindere dalle problematiche megagalattiche sul tappeto, quali “Job act”, “Fiscal compact”, “vincoli sul contenimento del debito pubblico”, “produttività”, “cuneo fiscale” eccetera, anche i piccoli e singoli atti della quotidianità sono intrisi di manovre, problemi e di veleni e fanno seriamente preoccupare per ciò che riguarda il futuro e il destino dei nostri figli e nipoti.
In seconda elementare, verso la fine dell’anno scolastico, sarà stato aprile o maggio, il maestro decise di assegnarci, fra i compiti da svolgere a casa, un esercizio nuovo, vale a dire un tema, con tre semplici e sibilline parole come titolo: “Chi sono io”.
Lì per lì, in classe, in più della pura e semplice sorpresa, non ci fu un granché di reazione; invece, nel pomeriggio, fra le pareti domestiche, di fronte a quella pagina del quaderno intestata in alto, sopravvenne un autentico mal di pancia.
Difatti, per quanto mi riguarda, non ci volle molto affinché la sensazione d’incapacità a trattare l’argomento si traducesse in pianti, strilli e, alla fine, anche in accorate richieste d’assistenza a mia madre.
La povera donna, essendo, per un verso, di modesta cultura, per l’altro, impegnata dalle ben più impellenti incombenze connesse con il numeroso nucleo familiare, si rammaricava di non potermi venire in aiuto, ma, nello stesso tempo, mi esortava, come solo una mamma sa fare, a pensare, a sforzarmi, ad escogitare qualcosa mettendo in moto la mia testa.
In siffatto clima d’agitazione, giunse il tramonto, il cielo si fece rosso, con sfumature di struggente intensità che pareva mi penetrassero dentro. Finalmente, riuscii a dare movimento all’asticella con pennino intinto nell’inchiostro – all’epoca così era fatta la penna – e presi a scrivere più o meno: “Sono un ragazzino d’otto anni, colorito bruno e capelli neri. Al mattino, quando mi sveglio, spalanco la finestra per ammirare il sole che si è alzato da poco, quindi faccio colazione. Dopo, mi lavo il viso, mi vesto e indosso il grembiule per la scuola, mi pettino guardandomi bene nello specchio per vedere se tutto è in ordine. In questo modo inizia la mia giornata.”
Finito di scrivere, non è che mi sentissi pienamente appagato, però una certa sensazione di tranquillità si fece prevalente sull’ansia e sulla preoccupazione di prima.
La sorpresa, e quale sorpresa, mi colse l’indomani a scuola. Nessuno dei compagni aveva saputo svolgere il componimento, con conseguente vivo disappunto del maestro. Questi si vide insomma portare sulla cattedra unicamente il mio tema, con me vicino lo lesse in un attimo e, in calce al testo, annotò con vigore un vistoso “10” e il giudizio “Bravo”.
Non vi dico che cosa provai e di che genere era l’espressione contenuta negli sguardi dei compagni.
Ho rievocato un piccolo episodio, da seconda classe elementare, che, però, mi è sempre rimasto scolpito dentro; soprattutto, ne ho tratto puntualmente stimolo ideale per affrontare positivamente qualsivoglia impegno.
Le sculture di noce e di ulivo modellate da Vincenzo De Maglie
Le sculture di noce e di ulivo modellate da Vincenzo De Maglie esposte a Poggiardo (Le), dal 17 al 4 maggio
di Paolo Rausa
Minervino di Lecce, 21/8/1937: la data di nascita dello scultore in legno e in pietra leccese Vincenzo De Maglie. Intonacatore e cementista da ragazzo, andava in cantiere dal maestro a imparare l’arte: ‘Il mio maestro Antonuccio Nachira ebbe da riparare nel ’49-’50 il mosaico della Cattedrale di Otranto e mi portò con sé. Si rammentava una buca, si cuciva. Quel mosaico mi dette la grazia di imparare l’arte di scultore. Poi venne l’emigrazione in cinque paesi: in Francia, come minatore di carbone, Belgio, Olanda, Svizzera e Germania (8 anni), in tutto 20 anni.
Tornato nel 1974, ho ripreso l’attività come contadino per hobby e di scultore per passione che prosegue fino ad oggi’. Il primo ricordo importante è la data del 30 maggio 2003, quando la statua che ha modellato ‘Il bello e l’urlo del delirio’, su un’impronta di Polifemo, una sorta di Giano bifronte, viene trasmessa in mondovisione dal giornalista Walter Santillo della RAI. La sua esposizione nelle sale della Casa della Cultura di Poggiardo si compone di numerose sculture in legno di ulivo e noce: quadri scolpiti in noce e incorniciati in legno di ulivo di notevoli dimensioni (cm. 200×100) di argomenti vari. Rappresentano due amanti sulla spiaggia mentre sognano il loro futuro in un immenso ricamo; un altro ‘i futuri mille anni dell’uomo’, una palla rappresenta la terra e il tronco di un albero di ulivo con un uomo per ricreare la vita sulla Luna; il veliero Amerigo Vespucci; le 4 potenze della Terra (potrebbero essere America, Cina, Russia ed Europa), in grado di distruggere la terra con le loro armi e al centro un uomo soprannaturale (il Messia, Madre Natura?) che si risveglia con la sua furia e fa tremare il pianeta per richiamare la responsabilità dell’uomo; un’ultima cena, la corsa al trotto, una scena tratta dalla Norma di Bellini, da regalare la Comune; una volubile Marilyn Monroe generata dalla conchiglia come la nascita di Venere o la Primavera di Botticelli; il volto di una donna violentata che urla mentre viene guardata dagli occhi del popolo compiaciuti. Al centro dell’esposizione due grandi tavoli in noce, scolpiti. Su uno è raffigurato il giorno della felicità, sormontato dal bastone di Mosé, trasformato in serpente per intimidire il faraone. ‘Mosè è l’uomo che dà le leggi, il decalogo, e conduce verso la terra promessa, ma il suo popolo è corrotto, come oggi. La scultura serve per richiamare l’attenzione dell’uomo sul ricorto alla legge corretta’ – commenta lo scultore. L’altro rappresenta l’occhio di Polifemo che si si dilata sui quattro venti. Due consolle, una stile Luigi XV e l’altra sulla violenza rappresentata da una donna al centro che trattiene le spade, simbolo della sopraffazione. Un tavolino rappresenta il desiderio amoroso di una coppia. Numerose statue ritraggono argomenti mitici (Eco), leggendari (il cavaliere e la principessa) e riflessivi (il gemellaggio della sapienza, due uomini saggi, due facce, due protomi). L’uomo degli abissi marini è formato di squame, con delle luci di esplorazione, incassate nel legno fra passato e futuro. Un tavolino rotondo in noce rappresenta 4 donne, come le cariatidi dei propilei, che ai 4 angoli sostengono il cielo ma non riescono a vedersi. Sono destinate all’isolamento. ‘Il Comune ha dato il patrocinio a questa esposizione d’arte – ricorda il sindaco Giuseppe Colafati – per valorizzare l’arte e l’esperienza umana di Vincenzo, in un ambiente come quello poggiardese che ospita il Liceo Artistico, già gloriosa Scuola d’Arte frequentata da Bodini e dai gloriosi professori Nino Della Notte e Mario Pagano’. Gli strumenti usati da Vincenzo sono apparentemente semplici: un taglierino in lama di acciaio di 15 cm. circa per i bassorilievi e poi scalpello, martello e sgorbia di diverse dimensioni, ma soprattutto egli è armato da arte e pazienza. Il pensiero è rivolto ai giovani perché facciano tesoro di queste conoscenze e le mettano a frutto per se stessi e per le generazioni future, senza compromettere le risorse della Madre Terra e concorrendo allo sviluppo del nostro territorio comune, il Salento. Apertura dal 17/4 al 4/5, orari: 9-13; 17-21; 320 4106507, web Scultore naif De Maglie Vincenzo; www.comune.poggiardo.le.it, 0836 909812, 909819.
L’epigrafe di Rudie, ovvero CIL, IX, 23: un maquillage ben riuscito, però …
CIL, IX, 23 non è, come i non addetti ai lavori sarebbero giustificatissimi a credere anche per suggestione del resto del titolo, un prodotto cosmetico di ultima generazione capace di nascondere, fin quasi a farle scomparire, le ineluttabili tracce del tempo. CIL è l’acronimo di CORPUS INSCRIPTIONUM LATINARUM, cioè la raccolta più autorevole e completa che registra tutte le iscrizioni latine (di ogni natura, dall’epigrafe che celebra le gesta del grande imperatore al graffito apposto su un muro magari da uno schiavo destinato per sempre a restare anonimo) rinvenute nel territorio dell’impero romano, ordinate geograficamente (nel nostro caso IX contraddistingue la regio II, cioè l’Apulia e la Calabria) e progressivamente (nel nostro caso 23). Il CIL può essere considerato un’opera destinata a restare incompiuta nel senso più nobile (perché più raro …) della locuzione, dunque lontana anni luce da un’autostrada o qualsiasi altra opera pubblica che attende da decenni di essere completata e resa fruibile; l’unico rialzo, però, che essa conosce è quello della conoscenza e questo rialzo non ammette appalti truccati, variazioni in corso d’opera e tangenti perché è costituito solo dai nuovi dati che fisiologicamente e giorno per giorno entrano a farne parte. Per questo dal lontano 1863, anno di pubblicazione del primo volume, l’opera è giunta attualmente al XVII volume, a parte i continui aggiornamenti inclusi nei supplementi ai singoli volumi. Si tratta, dunque, di un’immensa base di dati, locuzione che evoca immediatamente l’informatica. Come non pensare, dunque, ad un progetto ufficiale1 di informatizzazione del catalogo che costituisca anche l’occasione per integrazioni e aggiornamenti, in tempo più o meno reale, ormai indispensabili, non solo di natura iconica (nel CIL attuale in versione cartacea non compaiono foto delle iscrizioni originali ma solo la loro trascrizione, qualche nota e, qualche volta, disegno dell’intero supporto; andrebbe da sé che laddove nella versione digitale non ci fosse riproduzione fotografica l’originale sarebbe da considerare perduto)?
Dopo questa premessa fatta nella speranza di suscitare curiosità, se non passione, soprattutto in qualche giovane lettore, qui tenterò di stilare una breve storia della nostra epigrafe partendo proprio dalla scheda che appare nel volume appena citato.
Da essa si apprende che l’epigrafe fu rinvenuta (reperta) a Rudie (Rugge) tra Lecce e Monteroni (inter Lecce et Monterone) e che a quel tempo (nunc=ora) si trovava a Monteroni nel palazzo baronale (Monterone in aedibus baronalibus). Dopo aver detto che sempre lì è attualmente custodita, incastrata su un muro, saltandone provvisoriamente il testo, passo alle altre informazioni contenute nelle righe in calce. Apprendiamo così che il Mommsen la trascrisse dall’originale (descripsi ); che Michele Arditi ne aveva mandato il testo al Marini con una lettera datata Napoli, 22 maggio 1790 secondo quanto risulta dall’epistola 40 del codice Vaticano 9140 [Marinio misit Mich. Arditius Neapoli 22 Mai 1790 (cod. Vat. 9140 ep. 40)] in base a due copie del testo che gli erano state mostrate (ad exempla duo sibi exhibita); che l’epigrafe era stata pubblicata dal Marini nel suo volume sugli Arvali a pag. 21 lodando l’informatore (?) Daniele (ed. Marini Arv. p. 21 auctorem laudans Danielem); che il Lupoli l’aveva pubblicata nel suo lavoro sull’iscrizione di Corfinio, seconda edizione, pag. 321, opuscolo pag. 21 (Lupoli insc. Corf. Ed. 2 p. 321, opusc. p. 21); che, infine, era stata pubblicata pure dall’Orelli col numero 134. 3858 (Orelli 134. 3858). L’ultimo rigo della scheda è da interpretarsi così: fine della prima linea (1 fin.) CERI/II nella lettura dell’Arditi (CERI/II Ard.), CER … nella lettura del Marini e mia (CER … Mar. ego).
A dimostrazione dell’interesse suscitato dall’epigrafe debbo qui aggiungere che essa fu pubblicata pure da Pietro Napoli-Signorelli, Supplimento alle vicende della coltura delle Sicilie, Orsini, Napoli, 1793, pagg. 71-73: A rinnovar questa contesa sulla Rudia patria di Ennio interminabile (perché alla fin fine non può trattarsi se non per congetture) sento che surto sia un nuovo atleta nella provincia Idruntina per conservare alla moderna Rugge il vanto di aver prodotto Ennio. Egli è questo l’erudito sig. decano di Maglie don Oronzo Macrì [1738-1827] che dicesi averne distesa una dissertazione latina inviata al degno vescovo di Oria mons. Don Alessandro Kalefati. In sostegno di Rugge adduce il sig. Macrì l’antica tradizione, le monete che tutto dì si scavano in que’ contorni, la via sotterranea che mena da Lecce a Rugge, le lucerne e i vasi che vi s’incontrano, parte de’ quali si conservano in Monteroni dall’erudito nobile uomo don Alessandro Maria Lopez y Royo, e finalmente una iscrizione in marmo de’ tempi dell’imperadore Adriano disotterrato (dicesi) l’anno 1790 appunto nel luogo dell’antica Rudia indicata dal Galateo. In questa lapida che è piaciuto al prelodato sig. decano Macrì di comunicarmi, parlasi di Rudia come municipio, e vi si fa menzione di un Marco Tuccio juniore della tribù Fabia da Adriano dichiarato cavaliere, il quale era uno dei quattro decurioni di Rudia, la cui memoria volendo onorare il di lui padre che gli sopravvisse e pur chiamavasi Marco, stimò di stabilire (in vece del solito banchetto funebre, o viscerazione) un capitale perché della rendita se ne distribuissero in onore della memoria del figlio venti sesterzi ad ogni decurione, dodici agli augustali, dieci ai mercuriali, ed otto a ciascuno del popolo. Io la trascrivo perché ne giudichino gli eruditi leggitori:
Riservandomi di tornare sulle note 1 e 2 procederò ora all’esame comparativo degli autori citati nella scheda del Mommsen informando il lettore che, purtroppo, non mi è stato possibile leggere il testo della lettera del 1790 e che è risultata introvabile la seconda edizione del testo del Lupoli (nella prima non c’è traccia dell’iscrizione); tuttavia, il fatto che il Mommsen citi a proposito della nostra epigrafe il Lupoli (del quale pure aveva smascherato prima la falsificazione di altre epigrafi) depone a favore della sua autenticità (l’archeologia deve fare i conti pure con le miserie o le ricchezze dell’animo umano …).
Il Marini, dunque, si occupò di passaggio della nostra epigrafe inviatagli cinque anni prima dall’Arditi e la utilizzò per documentare che il titolo attribuito ad Adriano in un’altra di sacratissimus princeps non era un apax. Importante, però, quel trovata or ora nelle ruine di Ruge, illustre Patria di Ennio. Non c’è ombra, invece, di auctorem laudans Danielem riferito dal Mommsen nella sua scheda.
Non ci dice nulla in più di quanto sapessimo rispetto a Rugge, ubi fuerunt Rudie, rep. (trovata a Rugge, dove ci fu Rudiae) ma è importantissimo IX 23 vidit Mommsen (IX 23 vide il Mommsen) perché la conferma dell’autopsia è un elemento in più sull’autenticità dopo quanto si è detto a proposito del Lupoli.
Archiviata, si spera definitivamente, l’autenticità non mi rimane che comparare, prima di tradurlo e commentare, il testo letto a suo tempo dal Mommsen e quello che attualmente si legge, evidenziando in rosso le differenze.
Faccio notare come M presenta, tra le differenze grafiche più spiccate, l’apice intermedio meno abbassato di quello di tutte le altre M (certe …) e una curvatura del primo tratto verticale. Confrontando poi la T di TUCCIUS con le rimanenti, non ho difficoltà ad affermare che le due lettere sono state quanto meno integrate nel tratto superiore.
Per LLda notare la leggera curvatura a sinistra della linea verticale della prima L (che fa coppia con la curvatura di M messa prima in luce) e lo spazio eccessivo tra queste due lettere, spazio che avrebbe potuto benissimo ospitare una A (ne vedo, l’ho evidenziato nel dettaglio che segue, la traccia della base della prima linea inclinata proprio nel punto di frattura ed abrasione, condizione antica che appare confermata nella nota 2 della scheda del Napoli-Signorelli) secondo la congettura del Mommsen (per il lettore comune ma interessato mi pare doveroso precisare che nella relativa scheda il minuscolo di al, infatti, ne indica proprio il carattere congetturale).
CERILLI, poi, potrebbe essere solo genitivo della seconda declinazione e supporre un nominativo CERILLUS. Tale cognomen, però, non trova nemmeno un’attestazione, dico una sola, in tutto il CIL. A parte queste considerazioni di natura strettamente epigrafica, ancora più stringente è una considerazione di natura grammaticale perché un genitivo CERILLInel contesto appare come un pesce fuor d’acqua. CERIalI, invece, non solo soddisfa (come dativo da un nominativo CERIALIS) la grammatica ma nel CIL risulta cognomen attestatissimo non solo nelle epigrafi “ufficiali” di tutto l’impero ma anche nei graffiti pompeiani2. Per gli stessi motivi è improponibile la lettura CERI[AT]I riportata nel database cui si accede da http://www.manfredclauss.de/it/index.html e che registra, fra l’altro, la nostra epigrafe come rinvenuta a Lupiae (Lecce) e non a Rudiae (Rudie).
Da notare come la barra superiore (che indica la moltiplicazione per 1000) di LXXX coinvolge in entrambe le immagini pure la successiva N.
Inspiegabilela barra superiore che compare per N nella lettura del Mommsen, tanto più dopo la corretta lettura della N finale della linea precedente.
Valgono, relativamente ad N, le osservazioni fatte per la linea precedente.
Per quanto fin qui detto ecco quella che dovrebbe essere secondo me la corretta lettura con lo scioglimento delle abbreviazioni (ad eccezione di HS che vale SESTERTIORUM):
A [?3] TUCCIO4 CERIALE, FIGLIO DI MARCO, DELLA TRIBÙ FABIA,
FORNITO DI CAVALLO PUBBLICO5 DAL SANTISSIMO
PRINCIPE ADRIANO AUGUSTO,
PATRONO DEL MUNICIPIO, QUADRUMVIRO
EDILE, PARIMENTI EDILE DI BRINDISI.
MARCO TUCCIO AUGAZONTE6
ALL’OTTIMO E PIISSIMO FIGLIO PER LA CUI
MEMORIA PROMISE AI CTTADINI DI RUDIE7
80.000 SESTERZI AFFINCHÉ DALLA LORO RENDITA NEL GIORNO DELLA NASCITA
DI SUO FIGLIO OGNI ANNO A TITOLO DI CELEBRAZIONE FUNEBRE8
SI DISTRIBUISCANO AD OGNI DECURIALE9 20 SESTERZI,
AGLI AUGUSTALI10 12, AI MERCURIALI11 10 SESTERZI.
ALLO STESSO MODO AL POPOLO 8 SESTERZI A TESTA.
SUOLO CONCESSO PER DECRETO DEI DECURIONI.
In sintesi: MARCUS TUCCIUS AUGAZO, liberto di MARCUS TUCCIUS12, in memoria del figlio MARCUS TUCCIUS CERIALIS, che aveva ricoperto cariche importanti, promette ai cittadini di Rudiae 80.000 sesterzi, la cui rendita dovrà essere distribuita ogni anno, in una misura espressamente indicata, a favore di corporazioni politico- religiose e di tutti i restanti cittadini (da notare come l’ordine di citazione corrisponde a quello d’importanza).
Nell’iscrizione mi ha colpito il promisit (perfetto) in correlazione col presente congiuntivo dividatur invece dell’imperfetto (divideretur), regola costantemente rispettata in tutto il CIL. Si tratta, dunque, di un apax che conferisce un tocco di inusitata originalità alla nostra epigrafe (come se il perfetto promisit corrispondesse ad un presente storico promittit e avesse delegato a questo (che, per quanto storico, formalmente sempre presente rimane) il compito di rappresentarlo sintatticamente, col risultato di sottolineare felicemente il permanere nel tempo della freschezza dell’impegno; perciò ho mantenuto nella traduzione questa scelta sintattica. Certo, non sappiamo se il popolo godette effettivamente della generosità di Marco Tuccio Augazonte (e per quanto tempo …), ma quantomeno le sue intenzioni liberali furono preziose perché consentirono di tramandare un documento concreto della memoria di Rudie13. La formula finale L. D. D. D. sembra alludere alla concessione di suolo per collocarvi molto probabilmente la base di una statua o, più semplicemente, un cippo recante l’iscrizione.
Peccato che non sia possibile fare delle deduzioni sulla popolazione di Rudie al tempo dell’impero di Adriano (117-138), perché l’unico dato riguarda la somma donata (80.000 sesterzi), la cui rendita doveva essere distribuita ogni anno nel modo indicato. Ciò autorizza a pensare ad una rendita fissa, come se l’amministrazione cittadina fosse una banca ante litteram. Anche se così fosse, non conosceremmo, comunque, quello che oggi viene detto tasso di interesse attivo e, anche se lo conoscessimo, nessun calcolo attendibile sarebbe possibile perché ignoriamo il numero di decuriali, augustali e mercuriali. Una cosa è certa: la somma promessa era considerevole, anche se è impossibile, almeno per me, dire a quanti euro potrebbe corrispondere oggi.
Sesterzio dell’epoca di Adriano. Al recto: busto drappeggiato dell’imperatore, volto a destra e laureato; legenda: IMP(ERATOR) CAESARTRAIANUSHADRIANUSAUG(USTUS) P(ONTIFEX) M(AXIMUS) TR(IBUNICIA) P(OTESTATE) CO(N)S(UL) III. Al verso: la dea Moneta reggente una bilancia con la destra e la cornucopia con la sinistra; legenda: MONETA AUGUSTI; a sinistra S(ENATUS), a destra C(ONSULTU).
Non mi rimane che tornare al titolo con una considerazione finale: non so quando le integrazioni della prima linea siano state aggiunte ma fortunatamente è principio oggi consolidato, almeno credo …, che, oltre alla imprescindibilità da una documentazione rigorosa del contesto di ritrovamento che la moderna tecnologia consente (va da sé che la tecnologia, quando è usata non dico da un incompetente o da un superficiale ma più semplicemente da chi non si rende conto che i tempi di Leonardo sono solo un pallido ricordo e che l’estrema parcellizzazione del sapere, leggi specializzazione, richiede l’incontro e, se necessario, lo scontro con saperi differenti ma collaterali, può provocare danni immani), anche il più spinto dei restauri non potrebbe permettersi un intervento come quello palesemente operato sulla nostra epigrafe. Esso sarebbe non solo ascientifico ma criminale, perché costringerebbe lo studioso ad una fatica supplementare, come se già spesso non fosse immane quella necessaria per cavar qualcosa di fondato da un manufatto che, come nel nostro caso, paradossalmente, può essere considerato integro se si presenta ai nostri occhi mutilo così come apparve a quelli di chi per primo lo rinvenne e sul quale ogni intervento che non fosse solo rigorosamente anastilotico (consistente, cioè, nella semplice ed esclusiva ricomposizione dei pezzi originali) sarebbe, come secondo me lo è stato nel nostro caso, uno stupro14.
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1 Non sono mancate iniziative meritorie in tal senso, che, pur con i loro limiti (non esclusi, come vedremo, probabili errori di trascrizione), rappresentano l’unico strumento sistematico nel mare magnum di quelli messi a disposizione dalla rete.
2 Solo tre tra i numerosissimi esempi di propaganda elettorale:
IV, 07669: A(ULUM) TREBIUM VALENTEM AED(ILEM) CERIALIS /ACRATOPINON CUM CASSIA ROG(AT)
(Ceriale insieme con Cassia invita a votare Aulo Trebio Valente bevitore di vino puro)
IV, 07670: LOLLIUM/CERIALIS FAC AED(ILEM)
(Ceriale, vota Lollio come edile!)
IV, 076, 71: PAQUIUM IIVIR(UM) O(RO) F(ACIATIS) CERIALIS ROG(AT)
(Vi prego di votare come duumviro Paquio. Ve lo chiede Ceriale)
È la conferma che Cerialis è un cognomen, quasi sicuramente variante di Cerealis=di Cerere; solo che mentre questo è un cognomen latino, Augazo, come vedremo è di origine greca e mostra che colui che lo portava doveva essere un liberto.
3 Il dubbio nasce dal fatto che la lettera mancante, riferentesi al praenomen può essere, per motivi statistici legati alle epigrafi citate nella nota successiva, M (abbreviazione di MARCO=a Marco), Q (abbreviazione di QUINTO=a Quinto) ma anche, più probabilmente per motivi di spazio, C (abbreviazione di CAIO=a Caio). Tuttavia, la tendenza di trasmissione del praenomen di padre in figlio privilegia MARCO.
4 La gens Tuccia nel CIL è ben attestata, particolarmente a Roma, cui si riferiscono tutte le iscrizioni che riporto di seguito:
VI, 01911:[Dis] Manib(us) / [3 Tucciae] Cn(aei) lib(ertae) Doridi / [Cn(aeus) Tucci]us Agathopus / lictor et / Fictoria C(ai) f(ilia) Atticilla / vernae suae fecerunt / et sibi posterisque suis et / Cn(aeo) Tuccio Peplo lictori; VI, 08874: D(is) M(anibus) / M(arco) Ulpio Aug(usti) / lib(erto) Achilleo / praeposito / lecti<c=K>a[riorum] / [6] / [6] / [3] co(n)iugi / fecit // D(is) M(anibus) / C(aio) Tuccio / Cosmo Tuccia / C(ai) f(ilia) Secundina / patri pientis/simo fecit; VI, 10011a: D(is) M(anibus) / M(arco) Tuccio Eutycheti / Ti(berius) Natronius / Honoratus / praeceptori piissimo / b(ene) m(erenti) inscripsit; VI, 11499: D(is) M(anibus) / Alphenia Hygia / L(ucio) Tuccio Corintiano / fil(io) bene merenti fecit / qui vixit ann(os) / XXII m(enses) VII d(ies) V; VI, 27793: D(is) M(anibus) / Cn(aeo) Tuccio Euanthio / permissu [; VI, 27694: D(is) M(anibus) / Q(uinto) Tuccio Felici Q(uintus) Tuccius / Feli[x] patri pientissimo fecit / [et] sibi et suis lib(ertis) libertabusque posteris/que eorum; VI, 27699: M(arco) Tuccio M(arci) l(iberto) Lenaeo / ex testamento arbitratu / Cn(aei) Corneli |(mulieris) l(iberti) Lucini / Tucciae M(arci) l(ibertae) Laudicae / Gessiae A(uli) l(ibertae) Erotinis / M(arci) Tucci M(arci) l(iberti) Philarguri; VI, 27703: M(arco) Tuccio Venusto / M(arcus) Tuccius Faustus / patri; VI, 27712: D(is) M(anibus) / Tuccia / Pannychis / C(aio) Tuccio Primo / patrono dulciss/imo et b(ene) m(erenti) fecit / et sibi et libertis / libertabusque / eorum; VI, 28575a: Dis Manibus / Vergiliae Auctae patr(onae) / M(arco) Furio Clementi / Servilio Eroti coniug(i) / M(arco) Tuccio Amaranto / Vergilia Syntyche / bene merentibus / fecit / et sibi
5 Equus publicus (in contrapposizione all’equus privatus) era il cavallo fornito e mantenuto dallo Stato , privilegio di alcuni cavalieri per diritto ereditario. E, senza escludere nemmeno il diritto ereditario …, chissà perché il mio pensiero corre alle auto blu …
6 Ho conservato la lettura del Mommsen ma secondo me la trascrizione più corretta dovrebbe essere AUGAZO[N] e non AUGAZO, in base a quanto mostrano le altre attestazioni di questo cognomen nel CIL, tutte rinvenute a Roma: VI, 07642: T(ito) Aelio / Augazo[nti] / sum(mae) rud(i) ludi m[agni]; VI, 07895: D(is) M(anibus) / Augazon vixit annis VI / diebus XXVII pater et / mater filio / pientissimo; VI, 34589: Au]/gazon et [3] / Hegemonias [3] / filio piissi[mo 3] / v(ixit) a(nnos) XVII m(enses) [3] / d(ies) XI[
A proposito di questo cognomen Il Napoli-Signorelli nella nota 2 della scheda riprodotta dal suo testo non era andato al di là di una pur valida intuizione, sia pure espressa in forma dubitativa: Parola che non si capisce; e forse qualche cognome male interpretato per la rottura del marmo.
AUGAZON, infatti, è la trascrizione fedele del greco ἀυγάζων (leggi augazon), participio presente di ἀυγάζω (leggi augazo)=illuminare, a sua volta da ἀυγή=splendore. AUGAZO(N), perciò, significa l’illuminatore, a dispetto di quanti, probabilmente, suggestionati dal suono, pensavano chissà a che cosa …
Aggiungo, infine, che, se dalle risultanze epigrafiche fosse emerso accanto ad un Augazon/Augazontis (da cui la mia traduzione con Augazonte) anche un Augazo/Augazonis, avrei potuto parlare di un fenomeno analogico simile a quello che vede il greco λέων/λέοντος (leggi lèon/lèontos) di fronte al latino leo/leonis, avrei letto senza il minimo dubbio AUGAZO e non AUGAZO[N] e tradotto non con Augazonte ma con Augazone, a costo di incrementare il già ventilato rischio di evocazione di altro indotto dal suono. E ora qualcuno si azzardi a dire che non rispetto nemmeno i morti …
7 Ho sciolto in RUDINIS l’abbreviato originale RUDIN sulla scorta della forma aggettivale tramandataci da Cicerone, Pro Archia, 22: Carus fuit Africano superiori noster Ennius, itaque etiam in sepulcro Scipionum putatur is esse constitutus ex marmore. At eis laudibus certe non solum ipse qui laudatur, sed etiam populi Romani nomen ornatur. In caelum huius proavus Cato tollitur: magnus honos populi Romani rebus adiungitur. Omnes denique illi Maximi, Marcelli, Fulvii, non sine communi omnium nostrum laude decorantur. Ergo illum, qui haec fecerat, Rudinum hominem, maiores nostri in civitatem receperunt … (Ennio fu caro all’Africano Maggiore e così si ritiene pure che nel sepolcro degli Scipioni fu posta una sua statua in marmo. Ma grazie a quelle lodi certamente è celebrato non solo colui che è lodato ma anche il nome del popolo romano. Catone, proavo di questi, è innalzato al cielo: un grande onore si aggiunge alle gesta del popolo romano. Infine tutti quei Massimo, Marcello, Fulvio sono esaltati non senza comune lode di tutti noi. Dunque i nostri antenati accolsero in città colui che aveva fatto tutto ciò, l’uomo di Rudie …) e dal famoso frammento del Libro XII degli Annales dello stesso Ennio tramandatoci dallo stesso Cicerone, De oratore, III, 42: Nos sumus Romani, qui fuimus ante Rudini (Noi siamo romani, noi che fummo di Rudiae).
Non mi pare perciò accettabile l’integrazione RUDIN(IBUS) proposta nel database (lo stesso del precedente CERI[AT]I) con accesso da http://www.manfredclauss.de/it/index.html; essa suppone un nominativo RUDINES (della terza declinazione, quando, invece, l’infisso –in– è tipico di forme aggettivali della seconda), ma da RUDIAE mi sarei aspettato, tutt’al più, con un infisso –iens-, RUDIENSES e, quindi, RUDIENSIBUS, come da ATHENAE è ATHENIENSES e, quindi, al dativo, ATHENIENSIBUS e come, per restare in zona …, da LUPIAE è LUPIENSES e, al dativo, LUPIENSIBUS.
8 Livio (I secolo a. C.), Ab urbe condita libri, XXXIX, 46: P. Licinii funeris causa visceratio data, et gladiatores centum viginti pugnaverunt, et ludi funebres per triduum facti, post ludos epulum (In occasione del funerale di P. Licinio fu offerta la visceratio, combatterono centoventi gladiatori, si svolsero giochi funebri per tre giorni, dopo i giochi ci fu un banchetto) .
Servio (IV secolo), Commentarii in Aeneidos libros, I, 211: VISCERA NUDANT: Viscera non tantum intestina dicimus, sed quicquid sub corio est, ut in Albano Latinis visceratio dabatur, id est caro (Mettono a nudo i visceri. Chiamiamo visceri non solo gli intestini ma tutto ciò che è sotto la pelle, come nel territorio di Alba Longa era offerta la visceratio, cioè carne); VIII, 180: VISCERA TOSTA FERUNT: Visceratio est epulum quod fieri solebat in sacrificiis, non ex visceribus tantum, ut vulgus putat, sed ex qualibet carne; nam viscera sunt quidquid inter ossa et cutem, seu sub corio est (Recano visceri arrostiti: La visceratio è un banchetto che soleva avvenire nei sacrifici, non soltanto con visceri, come comunemente si crede, ma con qualsiasi carne; infatti i visceri sono tutto ciò che è tra le ossa e la cute, sioè sotto la pelle).
La visceratio, dunque, originariamente legata ad un rito funebre, è passata nella nostra epigrafe da un carattere contingentemente celebrativo ad uno virtualmente commemorativo. Va da sé che non era da tutti offrire la visceratio una sola volta, figuriamoci una volta all’anno. Molto probabilmente la carne offerta era cruda, come fa supporre la distinzione tra visceratio ed epulum (banchetto vero e proprio) in CIL VIII, 01321: [Pro salute Imp(eratorum) Caes(arum) M(arci) Aureli] / Antonini [[A[u]g(usti) et [L(uci) Aure]l[i] C[om]]]/[[modi]] Aug(usti) totiusq(ue) do/mus eorum C(aius) Volcius Quie/tus aram a solo ex HS D / n(ummum) s(ua) p(ecunia) f(ecit) idemq(ue) dedicavit / et ob dedicatione(m) con/gentilibus et sacerdoti/b[us] viscerationem et epu/[lum dedit (Per la salvezza degli imperatori Cesari Marco Aurelio Antonino Augusto e Lucio Aurelio Commodo Augusto e di tutta la loro famiglia Caio Volcio Quieto eresse dalle fondamenta a sue spese un’ara con 500 sesterzi e lo stesso la dedicò e per la dedica offrì a i familiari e ai sacerdoti la visceratio e un banchetto).
Il virtualmente commemorativo che prima ho usato è riferito al fatto che il denaro ha sostituito la carne (nomine viscerationis), cruda o cotta che fosse.
9 Nel database già citato a proposito di CERI[AT]I la lettura è DECURION(IBUS); detto che nel CIL s’incontra: X, O5348DECURIALIB(US); XIV, 00353 DECURI[…… ] [.. ]RARIS che obbligatoriamente va integrato con DECURI[ALIBUS] [CE]RARIS; XIX, 00642 DEC(URIONI), DECUR[…] da integrare in DECURION(UM) e DECURIONIB(US), DEC[.]RIALIBUS SCRIBIS CERARIS da integrare in DECURIALIBUS SCRIBIS CERARIS, anche per i successivi AUGUSTALES e MERCURIALES che sembrano designare categorie di eligendi più che di eletti, io sarei più propenso ad integrare con DECUR(IALIBUS)=ai decuriali, più che con DECUR(IONIBUS)=ai decurioni. Le epigrafi forniscono esempi di specializzazione dei decuriales: oltre ai già citati DECURIALES CERARII=scribi, in CIL, VI, 01008 i DECURIALES PULLARII=custodi dei sacri polli (questi ultimi anche in Cicerone, Ad familiares, X, 12 e De divinatione , II, 34, 73) e in Livio, Ab urbe condita, X, 40).
10 Gli Augustali erano una sorta di sacerdoti cui era affidato il culto di Augusto. Nei municipi costituirono una vera e propria casta che si interpose tra i decurioni e la plebe cittadina, dunque il loro potere probabilmente era anche politico.
11 I Mercuriales erano i componenti il collegio dei commercianti. Come per gli augustali l’ordine, nato con finalità religiose, finì probabilmente per assumere anche connotazioni politiche. Lo fanno supporre già Tito Livio, Ab urbe condita, II, 27, 5-6: Certamen consulibus inciderat, uter dedicaret Mercuri aedem. Senatus a se rem ad populum reiescit: utri erorum dedicatio iussu populi data esset, eum praeesse annonae, mercatorum collegium instituere, sollemnia pro pontifice iussit suscipere (Sorse una diatriba tra i consoli su chi dovesse consacrare il tempio di Mercurio. Il senato rimise la decisione al popolo: comandò che colui al quale la consacrazione fosse stata attribuita per volere del popolo presiedesse all’annona, istituisse il collegio dei commercianti, si assumesse le celebrazioni al posto del pontefice) e Cicerone, Ad Quintum fratrem, II, 5): … Sed eodem die vehementer actum de agro Campano clamore senatus propr concionali. Acriorem causam inopiam pecuniae faciebat, et annonae caritas. Non praetermittam ne illud quidem. M. Furium Flaccum, equitem Romanum, hominem nequam, Capitolini et Mercuriales de collegio eiecerunt, praesentem, ad pedes uniuscuiusque iacentem (Ma nello stesso giorno si trattò animatamente dell’agro campano con un clamore in senato simile a quello delle assemblee popolari. La scarsezza del denaro e la carenza di viveri rendeva la discussione più aspra. Non tralascerò neppure quanto segue. I capitolini e i Mercuriali cacciarono dal collegio M. Furio Flacco, cavaliere romano, uomo dappoco, mentre era presente e si prostrava ai piedi di ciascuno).
12 Il liberto assumeva il praenomen ed il nomen del padrone, seguito nelle epigrafi dal genitivo del praenomen e da L o LIB (abbreviazioni di LIBERTUS). Il lettore noterà che tra TUCCIUS ed AUGAZO c’è uno spazio eccessivo e che si direbbe abraso,
ma sufficiente a giustificare una linea originaria che di seguito mi son permesso di ricostruire.
Ne approfitto per far notare lo spazio eccessivo esistente pure nella penultima linea tra VIRITIM e HS, integrabile con un LEG(AVIT)=lasciò per testamento, secondo la sottostante ricostruzione virtuale.
13 L’unica altra attestazione epigrafica da me conosciuta è in un’epigrafe rinvenuta a Brindisi (CIL, IX, 00076): [M(arcus) An]tonius / [I]ul(i) l(ibertus) Rud/[in]us / [v(ixit) a(nnos)] XXXVIII / [h(ic)] s(itus) / [3]dia Hygine / [v(ixit) a(nnos)] XXXV h(ic) s(ita)
Nessun contributo serio ma solo amarezza può dare, invece, ciò che si legge in Giovanni Donato Rogadei, Dell’antico stato de’ popoli dell’Italia Cistiberina che ora formano il Regno di Napoli, Porcelli, Napoli, 1780, pag. 240: E nel vero, non può egli dubitarsi, di esservi stata Rudia vicino Lecce per essersi da circa anni cinque addietro rinvenute molte anticaglie, ed infra esse una iscrizione, che favellava di Rudia, la quale fu infranta da coloro, che in Lecce la conduceano.
14 Oggi che stupri di tal genere sono inconcepibili (?) rimane il problema della corretta divulgazione (tanto più in un paese come il nostro che può vantare una ricchezza culturale unica al mondo ma ne esibisce solo vergognosamente l’ignoranza e la connessa incapacità a difenderla e renderla produttrice di ulteriore ricchezza, anche non culturale), che deve fare i conti con le ristrettezze del bilancio. Mentre, paradossalmente, dilaga la moda dei totem elettronici (la loro installazione e manutenzione, quando quest’ultima c’è, è un vero affare …), il problema può essere risolto con costi irrisori col sistema antico, ponendo, cioè, accanto agli originali più importanti sopravvissuti, un modestissimo pannello/copia con tutte le integrazioni possibili e immaginabili.
Coincide con la festa della Madonna degli Angeli, che cade il primo giovedì dopo Pasqua. Solo chi non rispetta le tradizioni altrui potrebbe definirla una Pasquetta a scoppio ritardato. Io nel mio piccolo mi permetto di ricordarla a modo mio presentandovi una poesia sul tema: I Pascarèddha di Cesare De Santis1, tratta dalla raccolta in griko …ce meni statti… e resta cenere2, Amaltea edizioni, Castrignano dei Greci, 2001, pagg. 40-42.
Tutta la poesia di questo autore è frutto della contaminazione operata da un autodidatta che sentiva istintivamente il fascino dell’antico dialetto ed ebbe occasione di intuire i suoi profondi legami col presente grazie all’incontro con un gruppo di greci provenienti da Corfù ed emigrati, come lui, in Germania. Per questo la sua lingua è, come vedremo, un misto di griko, neogreco e voci dialettali di origine neolatina. Insomma, una globalizzazione linguistica ante litteram, molto più nobile, mi permetto di affermarlo ad alta voce, di quella attualmente in atto, collage senz’anima proprio perché non solo le manca l’esperienza e la sofferenza della storia, ma risulta asservita in modo preponderante e prevaricante all’espressione di esigenze puramente materiali.
Per rendere meno complicata la vita al lettore ho riportato, strofa per strofa, nella prima colonna il testo e la traduzione dell’autore, nella seconda, tutto di mio, il corrispondente testo in greco classico (ho lasciato tal quali, evidenziandole in corsivo, le parole di origine neolatina; i puntini, invece indicano le parole intraducibili nel greco classico), la pronuncia e in calce le note di commento.
Alla fine di questo viaggio qualcuno, probabilmente, sarà curioso di conoscere il mio giudizio su questa poesia. Al di là di quanto ho puntualizzato nelle note e al di là dei dettagli descrittivi che ad una lettura superficiale potrebbero sembrare un po’ troppo ingenui e scontati, rimane la testimonianza documentaria e documentata (intendo dire in qualche modo registrata, in questo caso stampata), preziosa per quella entità potente, profonda ma al tempo stesso labilissima che è il dialetto, nei confronti del quale ancora oggi si continua ad assumere uno stupido atteggiamento, se non di disprezzo, di schifiltosa supponenza. Solo rimuovendo questo pregiudizio, in cui ha svolto un ruolo millenario la psicologia (non mi riferisco alla scienza) non disgiunta, e ti pareva!, dall’economia, sarà possibile evitare a qualsiasi lingua la sorte che inesorabilmente le spetta quando non viene usata: la morte.
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1 Sternatia, 1920-Milano, 1986.
2 Già il titolo preannuncia la struttura dell’opera: l’autore ha corredato ogni poesia della sua traduzione in italiano. Anticipando quello che farò per I Pascarèddha dico subito che in greco classico …ce meni statti … sarebbe stato καὶ μένει στακτή (leggi: cai mènei stactè). Chiedo scusa a chi conosce il griko, il greco classico, quello bizantino e il neogreco (fortunati da cui ho tutto da imparare), ma il taglio divulgativo di questo post mi obbliga a registrare la pronuncia di ogni parola greca che vi compare perché a nessun lettore sia preclusa la possibilità di comprendere più o meno agevolmente le pur modeste osservazioni che farò. Sorvolando qui su ce meni, il cui rapporto col greco classico è evidente, mi soffermo su statti per dire solo che la differenza d’accento è dovuta al fatto che la voce non deriva dal classico stactè, aggettivo verbale di στάζω (leggi stazo)=stillare, che alla lettera significa stillato e che con valore sostantivato indica anche la liscivia (dettaglio, come fra pochissimo vedremo, importantissimo); statti deriva dal neogreco στάχτη (leggi stachte) che significa cenere e che non è altro che il classico stactè che ha cambiato accento e registrato uno slittamento di significato per metonimia, cioè dall’effetto (liscivia) alla causa (cenere).
Tanti trucchi salentini per cuocere e gustare le fave
Nonostante tutto e tutti, la fava l’ha fatta sempre da regina, mantenendo pressoché inalterato il suo primato fra tutte le specie di legumi coltivati, ad incidere, oltre alle ottime qualità nutrizionali e organolettiche, anche valutazioni prettamente agronomiche: le buone rese; le limitatissime esigenze colturali; la caratteristica di migliorare la fertilità del terreno (cosa che ne l’ha fatto la principale pianta da rinnovo); l’adattabilità alle varie tipologie di terreno e la bassa incidenza negativa delle basse temperature, come della siccità e della prolungata piovosità.
Un nemico di questa coltura però c’è, ed è l’Orobanca, una pianta parassita che nel dialetto salentino viene appellata “spùrchia”, termine non a caso usato anche come sinonimo di iattura e di sfortuna; un raccolto di fave andato a male a causa dell’infestazione di questo parassita, poteva significare infatti la più grande delle iatture, la fame.
Facendo un po’ di necessità virtù, i contadini hanno nel tempo anche imparato a sfruttare gastronomicamente questo flagello,che nell’aspetto ricorda vagamente gli asparagi, elaborando dei piatti tuttora apprezzati.
Per quanto ci riguarda, le fave cotte in pignatta, hanno costituito un pasto frequentissimo, sino all’ultimo dopo guerra, per la stragrande maggioranza dei salentini ed in particolare costituivano il pasto quotidiano degli alàni (i “salariati” addetti ai lavori di aratura, con le vacche e con i buoi, bifolchi ) impegnati nelle grandi masserie salentine. In questi luoghi, si viveva una condizione straordinariamente simile a quella raccontata dal Verga nel “Mastro Don Gesualdo”, con i ritmi temporali scanditi dalla stessa Puddhrara (Costellazione delle Pleiadi) o dall’ombra disegnata dal sole rovente sulla terra arsa, e con questi legumi, immancabili protagonisti dei servili deschi.
Le fave, prima di essere cotte, devono essere “morsicate”, ossia devono essere private del nasello, operazione che nelle famiglie si effettuava generalmente con un apposito attrezzo (nettafàe), ma spesso anche a suon di canini, da cui il termine.
Poi lasciate a bagno per tutta una nottata, quindi cotte alla stregua degli altri legumi, semplicemente in acqua leggermente salata o con l’aggiunta di un po’ di odori, esponendo la pignatta al fuoco di un camino.
Se sono di buona qualità, ovvero “cottotie”, le fave si cuociono perfettamente presentando anche la cuticola esterna tenera, se invece, nonostante una prolungata cottura, rimangono dure vengono dette “cutrée”; tale condizione, generalmente si verifica se le fave sono state coltivate su un terreno particolarmente calcareo, oppure, se hanno subito dei prolungati stress idrici e in tal caso vengono spesso destinate ad altro uso.
Il rapporto con questo alimento è così stretto che è un po’ come se fosse entrato nei cromosomi dei salentini. Non a caso, mentre circa il 35 per cento delle popolazioni mediterranee soffrono di favismo (grave malattia del sangue scatenata dal mangiare fave o dal respirare il loro polline), l’incidenza di tale malattia fra i salentini è pressoché irrisoria. E’ quindi, più che probabile, che questi, in secoli d’ininterrotto consumo, dopo aver subito una dolorosa selezione naturale, hanno conquistato una pressoché totale immunità. Tuttora, qui le fave trovano ancora moltissimi estimatori, complice una cultura gastronomica che, come poche, è capace di conferire valore aggiunto ai prodotti più semplici e che, associata ad una cultura agricola sapiente, ha saputo affinare le tecniche agricole e selezionare cultivar ed ecotipi di grande qualità, come decine di proverbi e una ricca terminologia specifica rivelano.
Il termine Campiota, per esempio, definisce un ecotipo di fava più genericamente indicato come “curnulara”, particolarmente pregiato per i baccelli lunghi e i semi molto grandi e schiacciati, che si coltiva a Campi Salentina e nel suo hinterland, ove le vengono destinati i terreni più fertili.
Con il termine Cuccìa, invece, si indica un altro pregevole ecotipo di tipo “lupinara”, ossia a baccello corto e con granella di dimensioni medie, che si coltiva a Zollino su appezzamenti ove la terra è talmente poca, che sembra sparsa sul tavolato calcareo come il cacio sui maccheroni.
Le fave verdi, vengono servite accompagnate da del buon formaggio pecorino fresco o dalla marzotica, la tradizionale ricotta erborinata locale.
La preparazione ottimale delle fave secche, si esegue invece in pignatta. La cosiddetta “pignata ti fae”, è un piatto, che come emerge dalla descrizione sopra riportata, semplicissimo, che però rientra nel novero di quelle rare pietanze la cui preparazione può risultare di difficile apprendimento. Per prepararlo bene, bisogna avere un po’ le fave nei cromosomi; infatti, le fave non si cucinano, ma si cuociono, ovvero, risiede semplicemente nel metodo di cottura il segreto della loro preparazione, non a caso, la massaia salentina per dire che deve cuocere i legumi, usa la frase: “devo guardare la pignata”.
Quindi, se volete gustare un piatto di fave come quello che quotidianamente consumavano i nostri progenitori, vi consiglio, almeno per le prime volte, di chiedere aiuto, ad una brava, anziana massaia che ve le cuocerà con gli occhi, ma sicuramente a puntino.
Le fave, vanno servite sempre allagate d’olio di frantoio, in estate accompagnate da peperoni Cornetti fritti e cipolla Barlettana cruda, preventivamente addolcita per qualche ora in acqua e aceto; in inverno invece il loro accompagnamento ideale saranno i cipollotti crudi e le cicoriette di campo lessate.
Umidi e rissosi s’alternano nei giorni di magra, non vi è un grigio che possa compattarli né un celeste che li dipinga.
Eppure negli intramezzi di svago mi è convenevole osservarli, in punta di cielo, allorquando una pagina già scritta si pone all’attenzione del dubbio di credere o non credere al giorno di riflesso che verrà.
Rifugiatomi fra le carte un vento mi scompiglia tanto da esiliarmi in una zona franca di maggio.
Roberto Malerba. L’uomo che sussurrava alle Piante e amava i Gelsi
Roberto Malerba era un uomo gentile e luminoso: occhi piccoli accesi da lampi di trasparenza, sorriso adolescente accompagnato da maturi baffi amichevoli. Era nato il 18 maggio del 1954, viveva a Collepasso e viaggiava nella sua terra e per la sua terra. Aveva studiato da perito agrario e vissuto da amante della flora, compreso ogni suo abito di gala e di stagione. Roberto, conosciuto come ‘Salento Gelsi’, piantava semi per rendere più ricco e rigoglioso quell’armadio regale. In fondo, se ne era dichiarato ‘Custode’.
Devoto rappresentante e servitore della sua terra, già quindici anni addietro aveva importato particolari varietà di gelso dalla Calabria, Mirto Crosia (Cs), fino a stringere un forte legame con i gelsi mori mediterranei e i gelsi bianchi. Se ne occupava a 360 gradi ritenendoli una fonte prodigiosa di rilancio dell’economia salentina se non addirittura nazionale.
Quando la salvezza viene dalla Terra.
‘Salento Gelsi’, quindi, si era ritrovato a spaziare dalla ricerca alla propagazione di numerose piantine di gelso che sovente lui stesso piantava e regalava agli amici; s’interessava dell’alimentazione umana e di quella animale (mangimistica) derivante da questi alberi, studiava la possibile produzione di bioetanolo dalle loro fibre e pensava all’ottimizzazione nell’utilizzo del loro legno. Oltre a questo, si dedicava anima e corpo alla tutela delle biodiversità e del paesaggio storico-naturale del Salento, puntando con forza alla sua conservazione e ricostruzione. Pur in questa frenetica attività ambientalista, Roberto mai trascurava la sua passione per la letteratura. Tempo fa confidò a me che scrivo libri per diletto e leggo pagine per devozione, di amare particolarmente le Metamorfosi di Ovidio e Seta di Alessandro Baricco. E lui di seta e di trasformazioni se ne intendeva! Il suo straordinario e ambizioso progetto consisteva infatti nel promuovere la produzione del prezioso tessuto grazie alla coltura dei bachi da seta. Solo a fine settembre scorso aveva portato con sè da Padova un telaino di bachi (il ‘telaino’ è l’unità di misura internazionale del baco: 20.000 bacolini) per la costruzione di una filiera che va dal bombice, o baco, al capo d’abbigliamento.
Roberto Malerba il Rivoluzionario, Roberto Malerba la Mente del Rinascimento Salentino: un gelso per la vita, una vita per il gelso.
Non più quindi il solito tormentone pubblicitario del “Salento, lu mare, lu sule e lu ientu” (volevano forse intendere, lor signori, la No Tap, i Pannelli Fotovoltaici e le Pale Eoliche?), non più parole e progetti orfani di riscontri, ma finalmente la possibile, reale, felice convivenza tra ombrelloni e patrimonio arboreo, tra pizzica e paesaggio, tra archeologia e nuova identità, tra gelsi e riqualificazione produttiva, tra ulivi e accesso vietato alla truffa.
Ma il 22 aprile 2014, giorno della Festa degli Alberi, alle ore 20 circa, Qualcuno ha voluto riprendersi il Suo e il nostro più caro angelo ‘Custode’: Roberto Malerba è morto sulla strada provinciale Matino-Casarano in un incidente stradale causato da un malore.
Ed eccoci qui stretti nel dolore della tua tragica perdita terrena, Roberto dei Gelsi, inconsolabili in quanto uomini, forti in quanto tuoi eredi.
Sì, vogliamo portare avanti quelle che tu definivi “…progettualità dal sapor d’utopia”, vorremmo impegnarci a far risplendere le tue idee nella realtà, proprio come facevano i tuoi occhi buoni ogni volta che parlavi della tua vita in comunione con la natura.
“Ecco perché mi sento sempre in pace con me stesso” dicevi “ed ecco perché lotto per portare gli altri a vivere questo mio stesso stato di grazia”.
Noi siamo pronti a viverlo, Roberto, perchè siamo della razza di ‘Quelli dei Gelsi’ e per questo porteremo avanti il tuo sogno concreto.
Oggi chiediamo anche alla Fondazione Terra d’Otranto di promuovere un volume di Studi in tua memoria affinché niente delle tue idee, delle tue innovazioni e delle tue ricerche vada perduto.
Allora, da figli della Terra e della nostra terra, non ci resta che amarci e amare tutto ciò che tu ci hai insegnato e lasciato in eredità. Sarà solo così che in questo triste giorno non piangeremo la morte di un umile uomo ma vivremo la ricchezza di un vero eroe della porta accanto.
Il primo risale al XIV secolo (precisamente al 1375) e, noto con il nome di Atlante catalano, è attribuito dubitativamente al cartografo spagnolo Abraham Cresques1.
L’atlante2 si compone di sei mappe (ognuna costituita da due carte in pergamena incollate su legno). L’immagine che segue si riferisce alla prima metà della quarta mappa, in cui ho evidenziato l’Italia con un’ellisse rossa.
Passo ora al dettaglio con i toponimi che ci interessano, dopo averlo opportunamente ruotato per evitare brutte conseguenze alle vertebre cervicali …
Faccio osservare come il colore rosso contraddistingue i centri più importanti (Taranto, Otranto e Brindisi).
Da notare CAP DES LEUQUES anziché CAP DE LEUQUE (come si legge in testi letterari successivi2), probabilmente per suggestione dei Leuci, popolo della Gallia belgica, tra la Marna e la Mosella, presso l’odierna Toul.
Da notare ancora la presenza del toponimo PETROLA, più estensivo della città di Villanova che allora già esisteva, come dimostra un documento della cancelleria angioina (RA, 1276/77, n. 27, f. 147v) datato 20 giugno 1277: … illis qui faciunt opera curie nostre castri Brundisii, turris, que dicitur Lucaballus, et murorum Terre Petrolle, que dicitur Villa nova … (a quelli che fanno per la nostra corte le opere del castello di Brindisi, della torre che è chiamata Lucavallu e dei muri di Terra Petrolla, che è chiamata Villanova …).
Dopo la visione d’insieme con l’Italia evidenziata allo stesso modo
passo, come nel caso precedente, al dettaglio, anche questa volta opportunamente ruotato.
Da notare anche qui il rosso riservato ad Otranto, Taranto e Brindisi.
Questa mappa rispetto alla precedente presenta in più EGNAZIA, ROCA, S. CATALDO e VILLANOVA, in meno GALLIPOLI, UGENTO e LECCE. Considerato che il LEZI (Lecce) della mappa precedente si può considerare, in un certo senso, riassuntivo di ROCA+SAN CATALDO, l’assenza di UGENTO e, più sorprendentemente, di GALLIPOLI autorizzerebbe ad ipotizzare una perdita di prestigio per questi scali a distanza di un secolo.
Per C. LEUQUES vale quanto detto per il CAP DES LEUQUES della mappa precedente. Su Punta Cavallo mi piace ricordare che il toponimo deriverebbe dalla deformazione popolare della locuzione latina caput valli (capo di difesa), legata ad una notizia riferita nelle Cronache dell’ordine domenicano di S. Antonino (1389-1459), vescovo di Firenze, secondo la quale proprio su quella punta fece naufragio nel 1250 la nave che recava a bordo Luigi IX re di Francia. Fu soccorso dall’arcivescovo di Brindisi, Pietro III, che ricevette dalle mani del sovrano, per portarla in città, l’Ostia consacrata che Luigi IX non aveva abbandonato neppure per un attimo nei momenti terribili del naufragio. A questo punto s’innesta una leggenda popolare, riportata da Pasquale Camassa nella sua Guida di Brindisi, Mealli, Brindisi, 1897, secondo la quale lungo la riva dalle orme lasciate dal cavallo dell’arcivescovo durante il trasporto dell’Eucaristia si formarono sorgenti di acqua dolce. E così da caput valli si sarebbe passati a Cavallo e poi a Punta Cavallo. L’antichità della leggenda è dimostrata da Lucaballus presente nel documento di epoca angioina cui si è fatto prima riferimento per PETROLA.
Per PITROLE (Petrolla) e VILANOU (Villanova) vale quanto già detto per la mappa precedente sempre a proposito di PETROLA.
1 Su di esso vedi il saggio di J. A. C. Buchon e J. Tastu, Notice d’un atlas en langue catalane, Imprimerie Royale, Paris, 1839. Nella prima edizione uscita l’anno precedente non risultavano identificate Petrola, Gagiti (Guaceto), Lezi (Lecce), Cap de Leuques (Capo di S. Maria di Leuca), Sorgenti (Augento) e Gallipolli (Gallipoli).
2 Per esempio: Gabriel Chappuys, L’éstat, description et gouvernement des royames et republiques du monde, tant anciennes que modernes, Chaudier, Paris, 1598.
Sotto l’ulivo in difesa dell’agroforesta degli ulivi del Salento
Oggi, domenica 20 aprile dalle ore 18.00 alle ore 22.00 in Piazza Sant’Oronzo a Lecce, sotto l’ulivo, i cittadini coesi in difesa dell’agroforesta degli ulivi del Salento si danno convegno, per informare, coordinarsi, raccogliere le firme che arriveranno nelle mani dei soggetti preposti. La nostra è una mobilitazione civica levatasi al fine di fermare l’eccidio del nostro patrimonio olivicolo. Siamo l’incontro di varie realtà,
agricoltori, imprenditori olivicoli, vivaisti , madri e padri, giovani uomini e donne che amano il territorio nelle sue caratteristiche peculiari ed hanno a cuore la sua preservazione. La grave minaccia della sua cancellazione è costituita oggi dall’irresponsabile azione regionale nel nome del patogeno da quarantena Xylella Fastidiosa.
La Regione Puglia ha inaugurato, all’indomani della domenica delle Palme, la mattanza dei primi 104 esemplari di olivo secolari, la maggior parte dei quali senza alcun sintomo del malanno. Non pochi i dubbi che avvolgono l’intera vicenda, sia sotto la procedura utilizzata per comunicare l’ attuazione delle direttive fitosanitarie, che sotto il profilo della profilassi stessa. Anomalie che si aggiungono alle tantissime accumulatesi nel corso dei mesi intorno alla questione del disseccamento. Inoltre entro la fine del mese di aprile si deciderà dell’assetto del nostro territorio, attraverso la messa “in atto di misure di eradicazione, contenimento e l’ istituzione di una zona tampone”per quanto riguarda la vasta area del Gallipolino, come intimato da Bruxelles al Ministero delle Politiche
Agricole Alimentari e Forestali.
L’incontro è volto a dare voce al territorio rimasto totalmente inascoltato ed a sottolineare l’ importanza e l’urgenza di un’indagine sulla vicenda da parte della magistratura e degli organi inquirenti. Si chiede di fermare gli abbattimenti nonché gli interventi che dovessero prevedere irrorazione di prodotti chimici o di sintesi sempre e comunque nocivi per l’ecosistema e per la salute dei cittadini. Si auspica che l’eco di questa crescente mobilitazione giunga ai commissari europei i quali possano indicare allo Stato membro una via di cura agroecologica dell’intero patrimonio
olivicolo del Salento, poiché le esperienze pregresse hanno dimostrato che eradicare
le piante non serve a debellare il batterio ed inoltre, essendo carenti gli studi in materia, tutti gli istituti di ricerca dovrebbero far luce sulla vicenda. Gli ulivi del Salento sono alberi millenari, patrimonio dell’umanità, non permetteremo che vengano sterminati! Vorremmo che all’incontro partecipassero soprattutto i contadini ed i proprietari olivicoli, perché è bene che siano informati qualora domani, senza preavviso, degli ufficiali preposti dovessero eseguire altre mattanze programmate sul loro terreno, volenti o nolenti presenti oppure no. Oggi è un giorno festivo per tutti. Ma entro 11 giorni potrebbero cambiare totalmente il nostro Dna. Dietro ad ogni olivo c’è il nostro albero genealogico. Un albero che strappa questa terra alla desertificazione e pone vincoli alle numerose speculazioni sul nostro già martoriato paesaggio.
Info:
Associazione Spazi Popolari, associazione per la promozione dell’agricoltura organica rigenerativa e dei principi dell’agroecologia, della sovranità alimentare e del rispetto del territorio.
Coordinamento Civico apartitico per la Tutela del Territorio e della Salute del Cittadino rete d’azione apartitica coordinativa di associazioni, comitati e movimenti locali e non, ambientalisti, culturali e socio-assistenziali sede c/o Tribunale Diritti del Malato – CittadinanzAttiva
Forum Ambiente e Salute del Grande Salento, rete apartitica coordinativa di movimenti, comitati ed associazioni a difesa del territorio e della salute delle persone
Lecce, c.a.p. 73100 , Via Vico dei Fieschi – Corte Ventura, n. 2email:
La prima festa che si tiene a Gallipoli è quella dell’Addolorata. A celebrare l’Addolorata è la confraternita di Santa Maria del Monte Carmelo e della Misericordia. Questa festa ricorda i sette dolori di Maria, nel venerdi precedente la Domenica delle Palme. A mezzogiorno in punto, la statua della Vergine esce dalla sua chiesa per recarsi in Cattedrale e, durante il rito religioso, viene suonato l’Oratorio Sacro. Fra questi, lo Stabat Mater, la cui musica venne composta dal gallipolino Giovanni Monticchio, verso la fine dell’Ottocento: sette terzine, come i sette dolori di Maria, estrapolate dall’opera di Jacopone da Todi. Secondo Cosimo Perrone, studioso di storia locale, l’interpretazione dell’Oratorio Sacro, a Gallipoli, risale al 1697 e fu introdotto dal maestro Fortunato Bonaventura ed eseguito per la prima volta tra il 1733 e il 1740, nella chiesa delle Anime.
Come Oratorio Sacro sono conosciuti anche il Mater Dolorosa, opera del maestro Francesco Luigi Bianco del 1886 e Una turba di gente, dello stesso maestro Bianco su testo di Giovanni Santoro. E’ tradizione, in questo giorno, che le donne recitino mille Ave Maria.
La statua lignea della Madonna è vestita di nero, con veste trapuntata di ricami dorati e una corona d’argento le sormonta il capo, ricoperto da un lungo velo fino alle spalle. Fino a qualche anno fa, la statua veniva vestita dalla nobile famiglia dei Ravenna, nella cappella privata del proprio palazzo, per un antico privilegio di cui godeva questa famiglia.
La Domenica delle Palme si ricorda l’ingresso festante di Gesù a Nazareth, accolto da moltitudine di rametti di ulivo sventolanti al cielo.
Il Mercoledì Santo, vi è la tradizione della vestizione delle Addolorate, da parte di alcune confraternite come, in primis, quella della Misericordia. Vi sono numerose statue dell’Addolorata a Gallipoli e per l’esattezza: quella
La Domenica delle Palme in una stampa francese del XVII secolo
Nel 1636 usciva a Parigi per i tipi di Israel1 Henriet il volume postumo di Jacques Callot2 Les images de tous les saincts et saintes de l’année suivant le martyrologie romain costituito da 124 tavole contenenti ciascuna quattro immagini. L’intero volume è visibile e scaricabile (tavola per tavola …) da http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b84962307.r=Les+images+des+saints.langEN
Dopo la copertina
e il frontespizio
riporto la prima immagine della prima tavola che riguarda il nostro tema.
Il giorno seguente la folla che numerosa era venuta alla festa, avendo sentito che a Gerusalemme veniva Gesù, prese rami di palma e gli andò incontro e gridò: – Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore ed è il re di Israele! – (Vangelo secondo Giovanni, 12, 12-13)2
La folla numerosissima stese i suoi mantelli sulla via, altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla via. La folla che lo precedeva e quelli che lo seguivano gridavano dicendo: – Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli! (Vangelo secondo Matteo, 21, 8-9)3
La rappresentazione è, come si vede, fedele al ricordo evangelico.
Un documento manoscritto relativo alle processioni a Maglie, la domenica delle palme e il venerdì santo, risale alla seconda metà del ‘700[1], ma già prima, nel ‘400[2], il popolo di Maglie col barone e col clero si recava in processione, la Domenica delle palme, presso la chiesetta greca di S. Maria della Scala, dov’era un Osanna o Pasca Sannài o semplicemente Sannà per piantarvi un ramo di ulivo benedetto.
Oggi quell’antica processione non si fa più, ma è rimasto intatto il rito della benedizione delle palme e dei rami d’ulivo.
Dalle prime ore della mattina sino all’ultima messa, sul sagrato della chiesa madre (o della Presentazione del Signore, come oggi è ufficialmente denominata) e delle altre due chiese parrocchiali (del Sacro Cuore e dell’Immacolata), gruppi di contadini, di artigiani e di ragazzi si assiepano con fasci di rami e pallido ulivo e di lunghe foglie di tenera palma.
Una volta benedetti e dopo la messa con il Passio cantato, entreranno nelle case e dei rametti saranno appesi alla cornice di un quadro di un Santo o della Madonna, al capezzale del letto, alla porta d’ingresso, custoditi in mezzo alla biancheria o legati alla rocca del camino oppure torneranno nei campi, in mezzo ai prati, agli orti, alle vigne, su una canna o su un cippo, al centro del fondo, sul portone d’ingresso della masseria o della casa colonica, sui traini, nei pagliai, nelle botteghe, nelle officine, nei negozi.
Sono simboli di pace, a cui sino ad alcuni decenni fa i contadini del Basso Salento, secondo antiche tradizioni preistorico-mediterranee e successivamente romano-pagane[2], attribuivano il potere magico di propiziazione delle divinità contro le insidie del male; contro il Sannà o contro un menhir essi erano soliti sbattere i fasci di palme o di rami d’ulivo, convinti di poter scacciare così il diavolo o le streghe (macàre), che vi erano annidati.
Oggi il magico è solo convenzione, formalismo intellettuale. Quel giorno in segno di devozione i nostri contadini usavano recitare tanti pater noster quante erano le foglioline dei rami benedetti e condire la pasta solo con briciole di pane fritto.
Ma la Domenica delle palme era anche giorno di mercato di ramoscelli di ulivo argentato o dorato, di croci, di panierini.
Si confezionavano questi ultimi con foglie di palma legate otto, dieci giorni prima in un grande fascio (massa) e sepolte, per l’imbianchimento e una maggiore flessibilità, nel tufo o nella terra umida, oppure con foglie strappate dalla cima, dal cuore della pianta, che viene così assai danneggiata: sono queste foglie di un giallo pallido, paglierino, perché non esposte prima alla luce, le più tenere e le più adatte ai lavori d’intreccio tanto delle croci quanto dei panierini. Per fare le croci si prendono due o quattro foglie di palma (spade) e si piegano in modo da formare una croce; al punto di intersezione si fissa l’anellu o circhiu, perché le spade non si spostino.
Ve ne sono di vari tipi: intrecciata (o croce Marta), intarsiata o imperiale (arricchita con rametti d’ulivo benedetto), a stella, di tipo semplice e di tipo ricco, se ornate di nastri rossi (il rosso è il colore dominante nella Pasqua) o di fiorellini o arricchiti di confetti e cioccolatini.
Anche di panierini se ne fanno di vari tipi, di varia forma, di diversa grandezza: a globo (a gglobbu), a pannocchia (a ppupu), a ditale o a piramide (a ddiscitale), che è il più diffuso.
Come per la croce, si prepara prima la piattaforma con le spade divise in quattro fili: due vengono piegati (ggirati) uno sull’altro e sotto di questi si fanno sfilare i rimanenti. Si tirano ben bene tutti i fili e si continua, restringendo via via verso l’alto. Infine si uniscono i quattro capi in un solo nodo. Di panieri se ne fanno pure piccolissimi per chi voglia appenderne uno con uno spillo all’asola del petto della giacca, al posto del fiore o del distintivo. Comune è pure il tipo a forma di globo: le spade, unite in fili sottili, vengono intrecciate (a ttrecciuline) ed unite a forma di globo, sormontato dalle punte sfilacciate della foglia (ciuffi).
I panieri di una certa grandezza serrano, a spazi intervallati, varie ghiottonerie: caramelle, cioccolatini, bonbons, piccolissimi agnelli di zucchero o di pasta reale con la bandierina rossa sul dorso, piccole uova pasquali colorate.
I giovani fidanzati se li scambiano come dono di pace.
Note al testo:
[1]“Le processioni che sogliono farsi in questa parrocchia [di S. Nicola] sono quelle di S. Marco, delle Rogazioni, dell’Ascensione di Cristo, della Pentecoste, della Purificazione di Maria SS.ma, della Domenica delle palme e del Venerdì santo” (Risposta dell’arciprete di Maglie don Nicola M.Leonardo Montagna all’arcivescovo di Otranto Giulio Pignatelli, 1775, A.D.O.).
[2]La chiesa durante i primi secoli della diffusione del Cristianesimo non sempre riuscì a sradicare le inveterate usanze del mondo pagano, anzi a volte, pur modificandole in parte, dovette tollerarle per accelerare la conversione delle masse.
[estr. da “Riti e tradizioni pasquali in un paese del Salento (Maglie)”, Erreci edizioni, Maglie, 1989, 3° vol. della “Collana di saggi e documenti magliesi/salentini” fondata e diretta da Emilio Panarese; e in “Maglie. L’ambiente, la storia, il dialetto, la cultura popolare“, Congedo editore, Galatina, 1995, pp.363-364“]
Lecce. Il sabato delle Palme e la chiesa di San Lazzaro
Nell’arco ionico del Salento[1] nei venerdì di Quaresima è ancora in uso un’antica tradizione: squadre di cantori e musicisti, si aggirano di notte per le strade dei paesi fermandosi davanti alle case e intonando USantu Lazzaru in cambio di doni, poi devoluti in beneficenza[2].
Le strofe del testo, una sorta di cantilena, cambiano nei vari paesi e s’ispirano alla Passione di Cristo, narrandone gli episodi salienti. Il corrispondente nella Grecìa Salentina era I Passiuna tu Christù (o A’ Lazzaro): la cantica della Passione in griko (un canto di questua), messa in scena i giorni a ridosso della Settimana Santa. Tramandata oralmente, era eseguita dai cantori del posto, accompagnati da un portatore di palma. I cantori si fermavano agli angoli delle strade dei paesi, intonando dalle tre alle cinque strofe, per poi proseguire della lunga cantilena, che terminava con il verso ca tue ine mère ma t’à Lazàru (questi sono giorni di San Lazzaro), festeggiato nel calendario bizantino la vigilia della Domenica delle Palme.
Il Sabato di San Lazzaro è la festività che celebra la fine della Grande Quaresima bizantina e l’inizio del periodo della Passione. Secondo il Sinassario «in questo giorno, il sabato prima delle Palme, festeggiamo la resurrezione del santo e giusto amico di Cristo, Lazzaro morto da quattro giorni»[3].
A Lecce le celebrazioni hanno luogo presso la chiesa di rito ortodosso di San Nicola di Myra, in piazzetta Chiesa Greca.
Anche i cattolici leccesi commemorano il Santo: per antica consuetudine, la vigilia della Domenica delle Palme numerosi fedeli concorrono presso la chiesa di San Lazzaro. Questa tradizione ha indotto papa Leone XIII, con bolla del 10 marzo 1897, a concedere a questa chiesa la celebrazione del Santo in questo giorno.
A tale rito è legata la fiera mercato che si svolge nei pressi della chiesa, intorno alla colonna del Santo[4]: è tradizione leccese acquistare alla Fiera di San Lazzaro le croci di palma intrecciata e i rametti di ulivo, benedetti durante la funzione religiosa della Domenica delle Palme.
Si perpetua, dunque, un’antichissima consuetudine, mutuata da quella orientale.
Le origini della chiesa leccese sono legate all’Ordine di San Lazzaro di Gerusalemme (attuale Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro): una delle quattro Compagnie gerosolimitane, al contempo religiose e militari, fondate ai tempi delle Crociate per assistere gli infermi e proteggere i luoghi santi della Palestina[5].
I Lazzariti hanno avuto molte commende, chiese e ospedali sparsi in Europa, molti in Italia meridionale. Una chiesa nelle pertinenze di Lecce, dedicata a San Lazzaro, è annoverata in un documento del 1308 riguardante l’inventario dei beni dei Cavalieri Templari[6]; non si sa, però, se ricadeva nello stesso sito dell’attuale chiesa.
Al tempo dell’Infantino, là dove sorge la chiesa di San Lazzaro, sita al di fuori delle mura cittadine, vi era «un gran cortile con stanze à torno, giardini, & altre comodità per servigio de’ Leprosi, che vi dimoravano, eretto dalla Città di Lecce in beneficio de’ suoi Cittadini, e non altri forastieri; onde havendo permesso una volta Giacomo d’Azia Co(n)sigliere Regio, e precettore dell’ordine di S. Lazzaro, che alcuni forastieri vi dimorassero, ad istanza della medesima Città fù scritto al detto d’Azia dal Re Ferdinando da Foggia sotto il dì 8 di Dicembre 1468. che in niun conto ciò permettesse, che altri che Cittadini Leccesi vi dimorassero; sì perche questi possano più commodamente vivere, sì anche perche la Cittànon portasse pericolo d’infettatione per la moltitudine de’ forastieri infetti»[7].
Il “Giacomo d’Azia” citato, non è altri che il «Generale Mastro e Precettore della Milizia dello Spedale di San Lazzaro Gerosolimitano in tutto il Regno di Sicilia ed oltre il Faro»[8] che ricoprì questa carica dal 1440 al 1498.
Infantino cita anche una fede di beneficio del 1550, in cui si dichiara: «la cura di questo luogo appartenere alla medesima Città, e tutti gli atti fatti di possessione esser stati nulli»[9].
Nicola Vacca, nelle Postille al libro del De Simone, cita un documento da cui si apprende che la gestione era amministrata dal sindaco e da un procuratore eletto nei parlamenti generali, mentre la tutela morale era gestita dall’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro[10].
Ricostruita agli inizi del XVIII secolo, «l’anno 1763 si era accresciuta ed ampliata la chiesa in bella forma»[11], ingrandita ulteriormente nel 1788[12]. La situazione economica dell’ospedale mutò dopo pochi anni. Diminuite, infatti, le carestie e le conseguenti epidemie che per secoli avevano infestato la città, l’istituzione si mantenne di sole elemosine, e con diploma regio del 1793 di Ferdinando IV di Borbone fu permesso, in suo favore, di fare la questua in tutta la provincia e nei due giorni del mercato settimanale di Lecce[13]. Decaduto l’ospedale, nel 1906 la chiesa è stata eretta a parrocchia, inaugurata nel 1907, nel 1916 è stata sottoposta a un ulteriore ampliamento.
Tra i vari arredi sacri della chiesa di San Lazzaro[14], in questo momento, merita particolare attenzione il crocefisso ligneo del presbiterio proveniente dalla chiesa del convento di Santa Maria del Tempio, la grande struttura dei frati Riformati soppressa nel 1864, adibita a caserma e demolita nel 1971.
Nell’area dove sorgeva il complesso conventuale, a breve sarà realizzato un complesso commerciale munito di parcheggi sotterranei: in questi giorni sono in opera scavi archeologici atti a rilevare le fondamenta della chiesa e del convento distrutto.
Il Crocefisso, annoverato tra gli arredi sacri della chiesa di Santa Maria del Tempio in un verbale di consegna datato 1864, fu realizzato intorno al 1693 ed è attribuito al calabrese Angelo da Pietrafitta[15].
Il frate Minore Riformato apprese l’arte della scultura lignea dal Beato Umile da Petralia Soprana, caposcuola degli artisti francescani meridionali e fu maestro, a sua volta, di frate Pasquale da San Cesario di Lecce. Suoi Crocefissi e Calvari sono attestati in Puglia e in particolar modo nella penisola salentina (Ostuni, Presicce, Nardò, ecc.), dove nel 1693 fu chiamato da padre Gregorio Cascione da Lequile, Provinciale di S. Niccolò delle Puglie, per realizzare il Crocefisso ligneo per il convento del suo paese[16].
[1] Il territorio che comprende Aradeo, San Nicola, Alezio, Cutrofiano, Neviano, Galatone, ecc.
[2]In origine i cantori andavano in giro per masserie e borgate con lo scopo di avere in cambio alimenti.
[4] «rimpetto la chiesa si eleva una colonna, probabilmente sostituita ad un’altra più antica, la quale fu innalzata nel 1682 ai 30 di aprile: opera del maestro muratore Giuseppe Bruno e poco dopo la Canonica sorge l’altra colonna che forma il Sannà o Osanna» (. A. FOSCARINI, Guida storico-artistica di Lecce, Lecce 1929, p. 180). L’Osanna, che in passato dava nome a tutta la zona, è stato abbattuto.
[5] Le altre erano: gli Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme (poi di Rodi e ora Sovrano Militare Ordine gerosolimitano di Malta), i Cavalieri del Tempio (Templari), i Cavalieri Teutonici (detti anche di Santa Maria di Gerusalemme). L’Ordine di San Lazzaro fu istituito per curare i lebbrosi, fondato tra XI e XII secolo, fu protetto dai pontefici dal 1227 (Cfr. E. ROTUNNO, Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Dalle origini all’inizio del XX secolo: http://www.amicibbaamauriziano.it/public/ordine%20dei%20ss%20maurizio%20e%20lazzaro.pdf).
[6] Cfr. E. FILOMENA, Le ricchezze, il prestigio, lo splendore e la decadenza delle “domus” temmplari nel triste epilogo del processo di Brindisi. Il passaggio dei beni ai Cavalieri di Malta, in Lu Lampiune, a. V, n. II, agosto 2009, pp. 7-40.
[7] G. C. INFANTINO, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), pp. 212-213. Il proclama di Ferdinando I è trascritto nel Libro Rosso di Lecce (Cfr. M. PASTORE, Fonti per la storia di Puglia: i regesti dei Libri Rossi e delle pergamene di Gallipoli, Taranto, Lecce, Castellaneta e Laterza, in Studi di Storia pugliese in onore di Giuseppe Chiarelli, Galatina 1973, pp. 153-295: p. 253).
[9] G. C. INFANTINO, Lecce sacra cit., p. 213. Infantino ha letto questo documento nel libro 2 dei privilegi di Lecce.
[10] Le poche notizie sulla gestione dell’Ospedale di San Lazzaro sono state apprese da A. MARTI, Gli istituti di assistenza e beneficenza a Lecce nel sec. XVII, in L. COSI – M. SPEDICATO (a cura di), Vescovi e città nell’Epoca Barocca, Galatina 1995, voll. 2: vol. II, pp. 425-439. Nicola Vacca ha citato, invece, un atto notarile datato 1663 (Cfr. N. VACCA, Postille a L. G. DE SIMONE, Lecce e i suoi monumenti.La città, Lecce 1874, nuova edizione postillata a cura di N. Vacca, Lecce 1964, pp. 574-575).
[11] M. PAONE (a cura di), Lecce città chiesa, Galatina 1974, pag. 117.
[13] Cfr. M. PAONE (a cura di), Lecce città chiesa cit., p. 284; A. MARTI, op. cit., p. 430.
[14] Nella chiesa sono presenti opere in cartapesta di Giuseppe Manzo, un Cristo morto ligneo (per tradizione orale attribuito anch’esso a fra Angelo da Pietrafitta), due tele attribuite ad Oronzo Tiso.
[15] Cfr. B. F. PERRONE, I conventi della Serafica Riforma di S. Nicolò in Puglia (1590-1835), Galatina 1981, voll. 2: vol. I, pp. 113-144.
[16] Le opere di frate Angelo da Pietrafitta sono state oggetto di una ricerca di Pamela Tartarelli edita nel 2004 con introduzione di Paolo Maci e foto di Pierluigi Bolognini (Cfr. P. TARTARELLI, I Crocefissi di Frate Angelo da Pietrafitta nella Puglia, Il Parametro Editore, Novoli 2004).
Nell’interessante articolo di Giovanna Falco, Lecce. Il sabato delle Palme e la chiesa di San Lazzaro (https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/04/01/lecce-il-sabato-delle-palme-e-la-chiesa-di-san-lazzaro/), si fa riferimento al tradizionale canto del Santu Lazzaru o Lazzarenu, diffuso nell’arco ionico salentino. Mi piace collegarmi al discorso di Giovanna, per riportare alcune notizie in merito, non tanto legate a studi o letture sull’argomento, quanto all’esperienza personale.
Circa quindici anni fa, ad Aradeo, la tradizione del Santu Lazzaru era ormai data per morente. Una sola famiglia continuava a perpetuarla, portando le note e le voci della canto quaresimale nelle case di amici e parenti.
Avevo poco più di dieci anni e da non molto avevo preso a suonare la fisarmonica. Questo scatenò l’iniziativa di mio zio: perché non formare un gruppo per il Santu Lazzaru? Ci volle più tempo a dirlo che a farlo. La canzone è assai semplice, pienamente alla portata di un fisarmonicista alle prime armi. Come giustamente la definisce Giovanna Falco è una “lunga cantilena” con due strofe che si alternano. Dopo un paio di prove si era pronti. Ed ecco come si svolgeva (e credo si svolga ancora) la notte dei lazzareni.
Intorno alle dieci ci si riuniva per l’ultima prova. Terminata questa e concordato il giro delle case, si usciva intorno alla mezzanotte. Mio padre e mio zio, le prime voci del gruppo, usavano preparare la gola mangiando pane, sarde e ricotta schianta. Non so se questa dieta avesse reali effetti benefici sull’ugola, ma, a memoria mia, i due non hanno mai preso una stecca nel corso delle varie serate.
Con le strade deserte e silenziose, parcheggiata la macchina un po’ lontano per non rovinare la sorpresa al destinatario della serenata, ci si appostava vicino all’ingresso o meglio ancora sotto la finestra della camera da letto. La prima strofa era solo musicale, per permettere agli uomini e alle donne di disporsi ed accordarsi. Quindi partivano le parole. La cantilena si divideva in due macrogruppi: il primo con il saluto e la narrazione dell’ultima cena, fino al tradimento di giuda, il secondo con l’invocazione della protezione dei santi, le richieste di beni al proprietario di casa ed il commiato. Riporto il testo, forse non nella sua interezza, ma basandomi sui ricordi. La seconda strofa è quella ripetuta dal coro delle donne.
Bona sera a quista casa
a tutti quanti, mo l’abitanti (strofa ripetuta dal coro);
Il suono della fisarmonica, l’alternarsi cantilenante delle voci degli uomini e delle donne, creava un effetto molto suggestivo. Ricordo ancora la serenata fatta nei pressi di un istituto per orfani gestito da suore, con le sorelle affacciate alle rispettive finestre e con i fazzoletti agli occhi. La versione aradeina poi, a differenza ad esempio di quella cutrofianese, essendo in LA minore, ancor più si intona al clima quaresimale e alla narrazione della passione di Cristo.
Terminata l’esecuzione, il padrone di casa, che già nel corso della serenata segnalava il proprio gradimento accendendo le luci dell’abitazione, spalancava la porta, accogliendo i musicanti. Il fisarmonicista lo onorava con un’altra canzone, mentre i cantanti ricevevano i doni, consistenti in uova, farina, formaggio, pasta, liquori, vino, soldi ed altro, da spartire alla fine del ciclo di serenate. Salutato il parente o l’amico, si poteva partire alla volta di una nuova casa, fino a che gli occhi reggevano e la voce lo permetteva.
Tra le innumerevoli parole inglesi entrate nella lingua comune gossip è una delle più usate ed è tutt’altro che trascurabile anche la sua rilevanza economica se è vero che i periodici che si occupano di quella che un tempo veniva chiamata cronaca rosa hanno tirature da capogiro.
Mi meraviglio solo che, come da tempo è successo per flirtare e stoppare, non sia ancora nato gossippare.
Non avanzerò, comunque, diritti di paternità se, come credo, sarò stato il primo ad usarlo in questo post; sento, tuttavia, che prima o poi succederà. Nell’attesa faccio presente che già in italiano per esprimere esattamente lo stesso concetto esiste pettegolare. Per me è irrilevante, tra l’altro, che oggetto dell’attenzione sia l’ultimo amorazzo del vicino di casa piuttosto che quello di un cosiddetto vip. Aggiungo, per curiosare in casa nostra, il neretino
La calce, come affermano le fonti antiche di Vitruvio e di Plinio il Vecchio, fu scoperta molto probabilmente per caso a seguito dello spegnimento di un forte incendio di un edificio costruito in pietra calcarea[1]. Già dal IV secolo a.C. era conosciuta da Greci e Fenici che la diffusero attraverso le loro rotte mercantili in tutto il Mediterraneo.
Dagli scavi archeologici risulta che anche i Messapi utilizzarono la calce, sotto forma di malta, per la realizzazione delle proprie abitazioni; anche se per l’edificazione delle cinte murarie a difesa delle polis preferirono impiegare a secco enormi blocchi in calcarenite locale. E’ però con l’ascesa dei Romani che la calce assunse una qualità maggiore, per la realizzazione di infrastrutture ad ampia luce e di edifici mai realizzati fino ad allora. Nel nostro ambito territoriale, la calce, assieme al tufo, estratto nelle tagghiate, costituisce un connubio perfetto che ancora riesce a caratterizzare l’architettura salentina, sia essa aulica o rurale.
La calce e le calcare
La calce viva si ricavava, fino a pochi decenni or sono, in fornaci tradizionali chiamate calcare o meglio carcare nel vernacolo salentino. Queste primitive attività industriali erano localizzate in aree che avevano due caratteristiche imprescindibili: la presenza di boschi o di macchie per la fornitura di combustibile, come legna da ardere e carbone, e la giusta pietra calcarea per la cottura. Quest’ultima doveva essere, tra tutte le rocce del Salento, quella con formazione cristallina tipo pietra viva e dai
La leggendaria incoronazione in Lecce di Isabella del Balzo
La storiografia, purtroppo, è piena di testi che invece di apportare un contributo al passato di un luogo hanno arrecato danno, allontanando dalla verità storica chi in seguito li ha consultati ritenendoli attendibili.
A Lecce, la cui posizione geografica decentrata non ha permesso un’agevole trasmissione delle fonti, in passato i nostri storici si sono dovuti basare sulla consultazione di pochi testi, producendo una storiografia non sempre aderente alla realtà storica, in seguito emersa grazie alla ricerca d’archivio. Si ricorda, inoltre, che Lecce è stata vittima di una sorta di damnatio memoriae: la maggior parte degli archivi cittadini (sia civili, sia religiosi) sono andati perduti, o risultano lacunosi a causa della dispersione di tantissimi documenti.
Un’opera che ha contribuito a questa damnatio memoriae, perché ritenuta attendibile da chi l’ha consultata tra il XVII e il XIX secolo, è la cinquecentesca Apologia paradossica di Iacopo Antonio Ferrari[1]. È pur vero che si ritiene sia stata manomessa in seguito, aggiungendo a sproposito nuove note e codicilli[2], ma se ci si sofferma sulla motivazione della sua stesura, in altre parole quella di provare la supremazia di Lecce rispetto a Capua e Cosenza[3], si capisce perché Ferrari ha romanzato tanti episodi della storia di questa città e ha deliberatamente omesso di ricordare personaggi che avrebbero potuto compromettere il fine del suo lavoro. Non solo sono stati tralasciati e distorti episodi remoti rispetto all’epoca della stesura dell’Apologia, ma anche avvenimenti accaduti a poco più di un settantennio di distanza.
Nel caso specifico ci si riferisce all’inverosimile incoronazione di Isabella del Balzo, moglie di Federico d’Aragona, che sarebbe avvenuta a Lecce nel settembre 1497. Nella consapevolezza che le opere consultate non possono essere considerate attendibili senza un riscontro con i documenti (tant’è vero che si riscontrano differenze di date), si è deciso di mettere a confronto le dissertazioni di Iacopo Antonio Ferrari, con il Balzino del neritino Rogeri de Pacientia[4], testimone dei fatti, i contemporanei Annali del leccese Antonello Coniger[5] e i Giornali di Giuliano Passero[6], e, infine, laStoria civile di Capua di Francesco Granata, perché le motivazioni della sua stesura ricalcano in un certo senso quelle di Ferrari[7].
Prima di confrontare questi testi è opportuno fare una brevissima sintesi storica degli avvenimenti: a distanza di poco più di un mese dall’ascesa al trono di Napoli di Ferrandino, dopo l’abdicazione del padre Alfonso II d’Aragona, il 22 febbraio 1495 il re francese Carlo VIII, grazie all’aiuto di vari stati italiani, entra trionfalmente a Napoli, ma dopo pochi mesi si ritira a causa della formazione della lega antifrancese. Estirpati gli ultimi focolai filofrancesi, Ferrandino muore il 7 ottobre 1496 e gli succede lo zio Federico, incoronato a Capua il 10 agosto 1497.
Isabella del Balzo, moglie di Federico, a causa dell’invasione francese, il 24 febbraio 1495 lascia Andria, dove risiedeva abitualmente, e dopo varie soste si trasferisce nel capoluogo salentino sotto la custodia del viceré di Terra d’Otranto Luigi Paladini. Vi rimane sino all’11 maggio 1497, quando intraprende il viaggio per raggiungere prima Barletta, dove soggiorna al momento dell’incoronazione di Federico, e poi proseguire per Napoli dove fa il suo ingresso il 15 ottobre 1497.
Ferrari menziona l’incoronazione di Isabella in Lecce in due diverse parti del volume:
Libro Primo, a proposito dei Duchi di Calabria pagine 52 e 53:
… D. Federico fatto successore di quello Regno per la morte del Re Ferrandino suo Nipote senza figliuoli, e per essere stato da colui instituito erede universale al suo testamento dell’anno 1448; perocchè essendo egli stato coronato in Capua dal Cardinal Francesco Borgia cugino di Papa Alessandro VI. l’anno medesimo a 10 di Agosto giorno dedicato alla festa di S. Lorenzo, ordinò che fusse dopo lui coronata alla Città di Lecce la sua moglie Isabella del Balzo figliuola del Principe Altamura Pirro, si come fu poi fatto a 29. di settembre giorno della festa di S. Michel Angelo dell’istesso anno 1448, ed alla medesima solennità fu per ordine del Re suo Padre intitolato, e coronato del cierchio Ducale il suo primogenito D. Ferrante d’Aragona, e gridato con gran fausto Duca di Calabria d’anni otto, nato alla medesima Città di Lecce a 25 del mese di luglio a 21 ora 1491 il giovedì, il quale prima si nominava Marchese di Bisceglie, ed a quella doppia solennità l’Eccellentissimo Predicatore del Verbo divino fra ROBERTO da Lecce, detto da’ Sagri Teologi Roberto Liciense vi fece una dottissima orazione…
Terzo Libro. XV Quistione ed Ultima, pagine 811 e 812:
… il suo Zio D. Federico instituito proerede al suo testamento, dal governo di Iapigia, dove steva attendendo all’assedio di Taranto, occupato da Francesi, volendosi coronare da mano di Francesco Cardinal Borgia, mandato legato a Latere da Papa Alessandro, tosto che intese che quel Cardinale era gionto in Capua mandò Gioviano Pontano a fermarlo là, e tutto l’apparato necessario a quell’atto per farlo là, contutto che i Napoletani n’avessero molto esclamato; onde ordinò alla sua moglie D. Isabella del Balzo, che mandasse in Lecce col comune figliuolo primogenito, detto D. Ferdinando di Aragona, Marchese di Bisceglie, ad aspettar il Legato, che coronato che avesse lui, l’anderebbe a coronare. Cosi coronato che fu a 10. di Agosto giorno di S. Lorenzo in presenza di quasi tutti li Magnati del Regno all’Arcivescovado di quella Città, andò in Lecce il Cardinale, e nel giorno della nativita della gloriosa Madre Vergine di Cristo, ch’è alle 8 di Settembre la coronò alla cappella di S. Croce monistero dei monaci Celestini in presenza di tutti li Baroni Pugliesi, ed impose al figliuolo il nome, e’l titolo di Duca di Calabria …
Si notano alcune differenze tra i due brani: nel Primo Libro il giorno dell’incoronazione di Isabella sarebbe stato il 29 settembre 1497, data anticipata all’8 dello stesso mese nel Terzo Libro. È indicata, inoltre, la data sbagliata di nascita del giovane Ferrante, nato ad Andria il 15 dicembre 1488 e non a Lecce il 25 luglio 1491. Fra Roberto Caracciolo, presente all’incoronazione nel Primo Libro, in realtà muore il 6 maggio 1495. Nulla è dato sapere, infine, sulle ultime volontà di Ferrandino datate al 1448 (anno di nascita di Alfonso II) a favore dello zio Federico. Forse Ferrari fa riferimento al testamento di Alfonso, rogato il 27 gennaio 1495, con il quale escludeva dalla successione la figlia Isabella, duchessa di Milano.
Mettendo a confronto le fonti citate si riscontra che non c’è nulla di vero nel racconto del Ferrari: l’unica realtà è che Isabella fu acclamata regina dai leccesi al suo rientro da Carpignano a Lecce. Non fu Francesco Borgia[8], bensì Cesare a incoronare Federico a Capua il 10 agosto, quando Isabella era a Barletta, e dopo la cerimonia, il legato del Papa tornò a Napoli, prima di rientrare a Roma[9]. Nel Balzino, inoltre, non si fa alcun cenno ad altri prelati presenti in Puglia ai tempi dell’incoronazione. Di Francesco Borgia, cugino di Alessandro VI, all’epoca vescovo di Teano, non si fa alcun cenno nel Balzino.
Si ripercorre ora il calendario degli avvenimenti, così come sono stati riportati dalle fonti.
Dagli Annali di Antonello Coniger. 24 marzo 1496. Arrivo di Isabella a Lecce[10]:
Die 24. Marcij venne in Lecce per stanciare la Serenissima Isabella de Baucio Mollierem del signor Don Federico de Aragonia incieme cum li figlioli, & Conte dove fu receputa cum grande honore.
Dal IV libro dello Balzino. Luglio 1495. Arrivo di Isabella a Lecce[11]:
Stando con questo, la cità leccese / lo princepe de gracia supplicarno / che quella princepessa e lo marchese / mandar volesse in Lecce ad abitarno. / Quello signor gentil ce lo concese, / unde a gran gracia tutti el reputarno; / e così el prince ad Isabella scrisse / che a Lecce a starse cum figlioli gisse.
Dai Giornali di Giuliano Passero. 7 ottobre 1496. Muore Ferrandino e Federico è proclamato re[12]:
Lo venerdì alli 7. di ottubro 1496. alle 11. hore lo Sacratissimo, et ben amato Re transio da questo Mondo santo dolcemente…
Lo popolo napolitano stava in gran travaglio non sapendo quello si dovevano fare per fare nuovo Re perche non ce erano figli de lo morto Re Ferrante II. che per questo si fece ordinatione, che havesse a cavalcare la Regina mogliere del d. Re morto; & dopoi si fece un altro consiglio, & determinato, che se mandasse per l’Illustrissimo don Federico d’Aragona quello che in scientia non trova paro: ma non fi di bisogno mandare per lui perche già era in camino et veneva dall’impresa di Gaieta.
In questo medesimo iorno ciò è alli 7. di ottubro 1496. lo signore don Federico d’Aragona se appresentai avante Napoli con circa 20. galere bene e in ordine, & ionto che fo desmontai allo muolo grande, & loco fu receputo da tutti li baruni del regno, & anco da tutti li Eletti di Napoli tanto dalli Jentil’uomini, quanto dallo puopolo, & presentarole le chiavi di Napoli, & dissero; venite signore nostro, & pigliate possessione del regno poiche fortuna ci ha privato de si alto signore e te accettamo come a suo vero frate, & e suo vero herede, & suo successore, & così accettato multo cortesemente, & con gran pianto li ringratiò, & così montò a cavallo con tutti li signuri jenitl’huomini, & napolitani, & così cavalcai per tutta la terra con gran copia de suoni, & trombette, ma / allegrezza poco perche stavano tutti male contenti della morte de si nobile signore, & per questo non potevano pigliare alcuno piacere, et cavalcato, che fo se ne tornai allo castello nuovo, & la reposai con gran pianto pensando alla morte di suo nepote;
Dagli Annali di Antonello Coniger. 5 ottobre. Muore Ferrandino[13]:
Die 5. di Ottobre 15. Inditionis fo morto lo Serenissimo S. Re Ferrante secondo casa de Aragona de età d’anni venti due de fore de Napoli sencia herede, qual fo portato in Napoli morto con gran pianti sotterrato in San Domenico.
Napolitani vedendosi senza Re, & essere divisi li Cetatini delli Jentil’homini chi gridava Francia Francia, chi Spangha Spangha e chi Federico Federico, & tutto Napoli era in arme, el Serenissimo Principe di Salerno subito venne in Napoli, & culla sua prudencia pacificò Napolitani, & Fe invocare per Re Federico de Aragona cum consentimento de legato che era in Napoli de Papa Alessandro sesto, e dell’Ambasciator dell’Imperatore de Romani Maximo, e lo imbasciatore della signoria de Veneccia, e del Duca di Milano, quale invocando Re Ferdinando mandaro per esso, che non era in Napoli Antonello de S. Severino.
Dagli Annali di Antonello Coniger. 7 ottobre. Federico entra a Napoli[14]:
Die 7. 8bre Re Federico entrò in Napoli & cavalcò come he Re facendo a Napolitani & a tutto el Regno infinite gratie.
Dagli Annali di Antonello Coniger. 12 ottobre. Isabella rientra a Lecce da Carpignano[15]:
Die 12 8bre in Lecce havendose saputa la nova della Morte di Re Ferrante omne uno grande, & picciolo, Mascoli, e femine senza intendere altro gridavano viva viva Re Federico, & e quasi tutto Lecce andò a pilliare la Regina da Carpignano ci dimorava, dove se ne tornò in Lecce cum gran triumfo, fece gratie come he Regina.
Dal IV libro dello Balzino. 12 ottobre 1496. Muore Ferdinando II mentre Isabella è in visita a Carpignano e Federico è acclamato nuovo re[16]:
(U)n di fra l’altri, li venne in fantasia / de voler(e) visitare lo suo stato / e con ornata e bella compagnia, / da Carpignano il ebbe accomenzato; / dove ne andäo / una lunedia, / (a) li dudece de ottobro ben notato, / ne’ milli quattrocento novantasei, / che ‘l ciel monstrò sue posse e tutti dei.
Circa due ore opo’ fo arrivata, / venne una nova: «Re Ferrando, è morto!». / La princepessa stava assai turbata, / pigliandone dolore e disconforto, / per dubio ancor(a) de qualche novitate, / che ‘l cose ancor non erano al suo posto. / A meza notte venne / un correro / Cum lettre a lei mandate de lo vero.
Eran lettre del signor Berardino / De Baucio, qual da Napuli scrivia / Como, piacendo a lo voler divino, / morto era Re Ferrando quella dia, / de flusso e rescaldato, lo mischino, / per le fatighe sustinuto avia / de dì, de notte, ognor con tanto ingegno, / per recup(e)rar na volta questo Regno; /
certificando ce, morto Re Ferrante, / tutt’i baroni con signor del Regno / (i)nvocarno Don Fedrico in quello stante / Per loro re pacifico e benegno; / e che spacciarno subito un fante / (a)l princepe in Gaieta, senza retegno, / a farli intender questa bona nova, / che a farlo re, ognun ben se ce trova.
Dal IV libro dello Balzino. 13 ottobre 1496. Isabella ritorna a Lecce ed è acclamata regina, dopo qualche giorno le arriva la lettera del marito che la mette al corrente dei fatti e le annuncia di aver investito il figlio Ferrante del ducato di Calabria. Nei giorni successivi Isabella riceve i tributi di baroni e autorità locali[17]:
Gran dispiacer n’ebbe e cordïale / de questa morte Isabella regina, / considerando ce a sto mundo frale / la natura tal produce e ‘l ciel distina; / videndo po’ che contristar non vale, / pensò de retornar l’altra matina; / e così pöi lo sequente giorno / in Lecce con baroni fe’ ritorno /
Fo receputa in Lecce per regina / Con gran trïunfo e con onor assai; / ciascun regracia la pietà divina / ché più meritamo, lei ce fae. / Chi «Ferro», chi «Federico», chi «Regina», / fino a lo cielo li clamor se dae, / et «Isabella», «Duca» con «Ferrante» / gridare se sentea per tutte cante.…
In pochi dì Fedrichetto arrivao, / mandato da lo novo re Fedrico, / e lettre a la regina assai portao, / narrando el fatto sì como era gito, / (e) como tutt’i baroni lo invocao / Per loro fermo re e signor antico, / (e) como per Napul cavalcao per segno / che de Sicilia ottenuto ha lo Regno.
A ciò che se intendesse, lo scrivea / che regina Isabella sua consorte, / e locotenente general la facea / del tutto el Regno in sì benigna sorte; / e Don Ferrando publicato avea / per Duca di Calabria con gran corte, / e vicario general pronunciato; / (u)nde reputa ciascun esser beato.
…
Ora tornamo a li baron liccesi, / ch’ognuno tal novelle desïava, / e avendole per ferme e chiare intese, / ciascuno a la regina el pie’ basava. / Cità, castelle tutte del paese, / el simil far per sindici mandava, / per modo tal che durao vinti giorni / ch’in Lecce venea in frotta como stormi.
Dal IV libro dello Balzino. maggio 1497. Federico comunica a Isabella che deve partire da Lecce per andare a Barletta[18]:
Lettere venne in questo a la regina, / c’in tutto ben in ordine se metta, / ché a la secunda lettra faza stima / andar a far la stancïa in Barletta; / perché Sua Maiestà llà se avicina, / in pochi giorni per vider se aspetta. / Questa tal nova fo a la corte grata / (e) più a la regina che l’ha desïata.
A li undece de magio fo arrivato / lo signor Galëotto e la mogliere, / a la regina da lo re mandato, / per posser a la partenza providere, / como quel che ne era prattico e dotato / d’ogni virtù repieno e de sapere, / facendo tutto quanto / ordinare / che a li vintidui potesser cavalcare.
Dagli Annali di Antonello Coniger. 1497. Isabella parte da Lecce[19]:
1497. Regina Isabella de Bautio se partette de Lecce per andare in Napoli, dove tutti li Baruni, & Jentil’huomini di di Lecce, & lo Viscopo li fera compagnia per sieni a Barletta ad spese de ditti Baruni, & Jentil’homini.
Dal IV libro dello Balzino. 24 maggio 1497. Isabella parte da Lecce[20].
Quando a lo punto per partire forno, / tutto om montò a cavallo in compagnia; / per ditto de quellor che li contorno, / più de mille cavalli cum lei gia, / e per tre miglia fòr l’accompagnorno / cum soni de trombette e melodia / de pifari e flaùti; e in omne canto / del suo partir se facëa gran pianto.
Dal III Libro della Storia civile della fedelissima città di Capua di Francesco Granata. Papa Alessandro VI invierà il figlio cardinale Cesare Borgia per l’incoronazione[21]:
Or’ amando teneramente Federico la Città di Capua, volle in essa coronarsi Re di Napoli, essendogli stata mandata la corona del Reame per mezzo di Cesare Borgia, Legato Apostolico di Alessandro VI., chiamato il Cardinal di Valenza.
Dal VI libro dello Balzino. Mentre è a Barletta Isabella è messa a conoscenza dell’incoronazione[22]:
Appresso venne nova gracïosa / Che se apparecchia el re per coronarse / Cum festa grande, nobil e suntuosa; / (i)n Capua deliberava omnino farse, / ché per la
peste in Napul non è cosa / per tanta gente avea a retrovarse; / (e) fra pochi dì lo legato verria, / el cardinal de Valencia saria.
Venea omne dì lettre da’ cortesani / De li apparati grandi se facia; / le pompe tanto grande in forge strane, / che nol videndo non se crederia; / reputando tutte l’altre esserno vane, / più bella che tal far(e)se non poria; / de che la regina avea assai allegreza / audir(e) del marito tanta adorneza.
Dai Giornali di Giuliano Passero. 10 agosto 1497. Incoronazione di Federico a Capua[23]:
Alli 10. di Agusto 1497. in dì santo Laurenzo se fece la festa della incoronatione dello signore Re Federico I. di Aragona a Capua, dove ce fo fatta grandissima festa, & con gran cirimonie dove se viddero de molti baroni dello Riame adobbati ddi broccato & gioie, & de adornezza…
Dal III Libro della Storia civile della fedelissima città di Capua di Francesco Granata. 10 agosto 1497. Incoronazione di Federico a Capua[24]:
… già seguì tal coronazione in Capua nella Cattedrale il giorno decimo d’Agosto 1497. di Giovedì su l’ora 17. circa dieci mesi, e tre giorni dopo la morte di Ferdinando II. Vi fu gran pompa ed apparato, essendo decorata la funzione dall’intervento d’un numero grande di Prelati, di tutti i Principi, che si ritrovarono in Regno, dell’Arcivescovo di Cosenza, allora Segretario del Papa…
Dal VI libro dello Balzino. 10 agosto 1497. Incoronazione di Federico a Capua[25]:
Or venne po’ la nova tanto grata / De la felice sua coronacione, / como a dece de augusto fo celebrata / cum gran trïunfo, assai demostracione. / Dal Signor Re e da molti fo avvisata / la pompa che ià fe’ omne barone, / de broccati, rizi, sete e panni de oro, / catene, collane et altro ricco decoro.
[1] Cfr. I.A. Ferrari, Apologia paradossica della città di Lecce (1576-1586 c.a), Lecce 1728 (https://archive.org/details/apologiaparadoss00ferr). La precedente edizione del testo è stata pubblicata a cura di Alessandro Laporta (cfr. A. Laporta, Introduzione, a I.A. Ferrari, Apologia paradossica della città di Lecce (1576-1586 c.a), Lecce 1707 (riedito a cura e con introduzione di A. Laporta, Cavallino 1997).
[2] Domenico De Angelis, ad esempio, nelle sue note sulla vita di Ferrari pubblicate nel 1710, a proposito di quest’opera scrive: “Paradossica Apologia, la quale quanto prima dovrà uscire alla luce, essendosene di già impressa la maggior parte per opera, e diligenza dell’eruditissima Accademia degli Spioni, avendo Giusto Palma onoratissimo gentil’uomo Leccese, e Consolo della medesima, uomo anch’egli quanto saggio, ed erudito, altrettanto amante dell’onore, e della buona fama della Patria, preso la lodevol cura di farla stampare, e per mezzo della diligente attenzione di D. Lazzaro Greco, anch’egli Accademico, di farla riscontrare colle migliori, e più fedeli copie, che ne correvano, riducendola al senso del suo proprio originale, il quale si è trovato in moltissime parti, lacero, guasto, ed alterato, per lo poco intendimento di quei, che vi avevan fatto sopra parecchie aggiunte, discordanti dalla Cronologia de’ tempi, e dalla verità di quella storia; e particolarmente per l’imperizia, e per l’avidità de’ poco accorti, ed ambiziosi annotatori, alcuni de’ quali indotti forse da strabbocchevole desiderio d’ingrandir troppo la fama della loro famiglia, e d’innalzare i fatti degli Avi loro, si studiarono poco felicemente, di accrescerla di notizie stravagantissime, e lontane dalla mente dello Scrittore dell’Opera” (cfr. D. De Angelis, Le vite de’ letterati salentini, I, Firenze 1710, pp. 123-135: p. 130).
[3] E’ esemplificativo, in tal senso, il titolo integrale dell’opera: Apologia paradossica, di M. Jacopo Antonio Ferrari, giureconsulto, e Patrizio leccese divisitata in tre libri nella quale si dimostra la precedenza, che deve avere l’antichissima e fedelissima Città di Lecce né Parlamenti Generali del Regno e come debba essere preposta, non solo alle Città di Capua, e di Cosenza, ma a tutte le Città del Regno, eccetto Napoli.
[4] Cfr. M. Marti (a cura di), Opere (cod. per F 27), Lecce 1997.
[5] Si riporta la copia delle quattrocentesche Cronache di Antonello Coniger trascritte da Aurelio Pelliccia (A. Pelliccia, Raccolta di varie croniche, diarj, ed altri opuscoli, cosi italiani, come latini appartenenti alla storia del Regno di Napoli, Tomo V, Napoli 1782, pp. 5-54) (http://books.google.it/books?id=RhxAAAAAcAAJ&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false).
[6] Cfr. G. Passero, Giornali, a cura di M. M. Vecchioni, Napoli 1785 (http://books.google.it/books?id=OBute-976hIC&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false).
[7]Cfr. F. Granata, Storia civile della fedelissima città di Capua, Libro III, II vol., Napoli 1752 (http://books.google.it/books?id=vKE5PJJ8doIC&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false).
[8] Forse Ferrari fu tratto in inganno dal fatto che partecipò all’incoronazione di Federico il segretario di Alessandro VI e vescovo di Cosenza, Bartolomeo Florido, a cui è succeduto nella diocesi nel 1499 Francesco Borgia.
[9] “… lo signore Re se incoronai, & incoronato che fo se ne tornai in Napoli con lo Cardinale legato, che era venuto ad incoronarlo, & in Napoli se reposaro circa dui iorni, & dopoi se ne andaro in Sorriento, dove stavano le due Regine vedue madre, e figlia, & lo signore Re ce andai insieme con lo sopradetto legato, dove foro benignamente receputi, & la reposaro dui giorni & poi montaro sopra quattro galere, e tornaro in Napoli, & lo detto legato stette cinque iorni in Napoli dopoi cercai licenza allo signore Re Federico per tornare in Roma, & lo signore Re li fece un ricco dono & isso con la sua gente se ne tornai in Roma” (G. Passero, op. cit., p. 115).
[18]Ivi, pp. 138. Il Galeotto inviato da Federico è Galetto Carafa, accompagnato dalla moglie Vittoria Cantelmo, cugina di Isabella. In nota Marti precisa che la data di partenza fu il 24 maggio (cfr. Ivi, p. 327).
Risale a Tito Livio (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Ab Urbe condita, XXII, 61 l’etnico Uzentini1 che suppone un toponimo Uzentum.
La forma greca Οὔξεντον (leggi Ùxenton) è attestata in Tolomeo (II secolo d. C.), Geographia, III, 1, 67.
Nella Tabula Peutingeriana (IV secolo d. C.) la forma del toponimo è Uzintum (evidenziato in rosso nell’ellisse nell’immagine che segue.
In Guidone (XII secolo d. C.), Geographia, in due paragrafi diversi (29 e 71) si legge … Yentos quae nunc Augentum (Yento che ora si chiama Augento).
Tutte le forme fin qui riportate probabilmente sono figlie di ΟΖΑΝ, attestato dalle fonti numismatiche (in basso una moneta del III secolo a. C.).
OZAN (evidenziato con l’ellisse rossa nell’immagine che segue) è attestato anche nella Mappa di Soleto e, se questa fosse autentica, cioè risalente al VI secolo a. C., sarebbe la forma più antica del toponimo.
Quanto all’etimo, Francesco Ribezzo negli anni 30 del secolo scorso mise in campo un *Ausentum da collegare con una radice mediterraneo-indeuropea auso (=chiaro, lucente, aurora, sole) connessa con gli Ausoni, l’antico popolo che insieme con gli Iapigi e gli Enotri popolavano l’Italia meridionale prima dell’arrivo dei coloni greci.
La proposta più recente è di Mirko Urro che nel suo saggio Ugento e il suo Zeus nella Messapia: un viaggio fuori rotta, Barbieri, Manduria, 2005 ipotizza che OZAN derivi da Ὁ (leggi O, nominativo dell’articolo maschile singolare)+ ZAN (leggi ZAN), nominativo dorico per ΖΗΝ (leggi ZEN), per cui OZAN significherebbe alla lettera Lo Zeus. L’ipotesi, indubbiamente suggestiva, mi appare ispirata un po’ troppo dalla statua di Zeus stilita rinvenuta ad Ugento nel 1961.
Pacichelli (A), pag. 178:
Pacichelli, mappa:
4Porta di San Nicola (mappa/immagine tratta ed adattata da Google Maps)
6 Minori Osservanti/S. Antonio da Padova (mappa/http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/e/e8/Chiesa_di_Sant’Antonio_da_Padova_Ugento.jpg)
7 Santa Maria della luce/Santuario della Madonna della Luce (mappa/http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/c/cd/Santuario_Madonna_della_Luce_Ugento.jpg)
9 Santa Maria del Corallo (mappa/https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/04/10/la-chiesetta-della-madonna-del-curato-ad-ugento/)
11 Porta del Paradiso (mappa/immagine tratta ed adattata da Google Maps)
14 Palazzo del Marchese (mappa/http://www.solemare.org/index.php?&set=188&dom_id=&dom_sld=solemare&dom_tld=org&no_tags=1&sito_gratis=&sito=&local_page=foto&left_local_page=&foto_id=528553&seleziona_album=Monumenti)
Stemma: nella mappa compaiono due scudi vuoti; l’attuale nell’immagine che segue tratta http://it.wikipedia.org/wiki/File:Ugento-Stemma.png
Di Piazza Tito Schipa si torna a parlare, il progetto devastante pare in fase avanzata se in noti quotidiani alcune pubblicità a pagamento di una nota immobiliare salentina dice papale papale:
Nel cuore di Lecce si lavora per far sorgere un prestigioso complesso commerciale, nato per la riqualificazione dell’area di Piazza Tito Schipa…
Quindi tutto a posto, tutto in regola. Secondo alcuni non lo è affatto. È di questi giorni la notizia di una petizione sottoscritta da alcuni intellettuali, studiosi e leccesi in genere per scongiurare lo scempio. Partita per iniziativa di:
ADOC, Ass.M. Perrotta, Forum ambiente e salute, Italia nostra, Mov. Valori e rinnovamento, Società di storia patria – LECCE – promotori del COMITATO TUTELA AREA ARCHEOLOGICA EX MASSA
Vede come prime adesioni: Salvatore De Masi, Eugenio Imbriani, Fernando Fiorentino,Guglielmo F. Davanzati, Giovanni Invitto, Bruno Pellegrino, Mario Signore, Woitek. Pankievicz, Mario Spedicato, univ. Salento; Astragali teatro.
per adesioni tel 0832 493673, 347 5599703, 392 8172087
La storia pare infinita, abbattuta la chiesa e l’ex caserma Massa nel 1971 nonostante pareri negativi della soprintendenza, la piazza divenne parcheggio. Da alcuni anni si sono iniziati scavi per costruire l’improbabile centro commerciale e parcheggi sotterranei a gestione mista. Ora, siccome era nota da decenni la presenza in loco di reperti medievali, di una chiesa, di un cimitero, è plausibile lo stupore nel ritrovare reperti ed ossa? Ne ha parlato Giovanna Falco, attentissima appassionata di storia leccese, che già nel 2012 nell’articolo “Santa Maria del Tempio in Lecce. Le ossa dei frati” pubblicato prima sul blog Spigolature Salentine, poi sul sito della Fondazione Terra d’Otranto (https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/01/santa-maria-del-tempio-in-lecce-le-ossa-dei-frati/) ha indicato i servi di Dio e i membri di ordini cavallereschi sepolti nella cripta della chiesa, e che ha continuato a raccogliere notizie storiche di questo pio luogo.
Scrive la Falco:
“Il convento di Santa Maria del Tempio ha rivestito un ruolo di primo piano nella storia di Lecce, non solo dal punto di vista religioso (qui ad esempio si formò nel XV secolo fra Roberto Caracciolo), ma anche civile, basti pensare ad esempio, così com’è raccontato nella cronaca di Antonello Coniger, che vi sono stati incarcerati i nobili leccesi che nel 1495 hanno aderito alla rivolta filofrancese di Carlo VIII, qui, inoltre, erano custoditi alcuni documenti pubblici della città. Durante la seconda guerra mondiale, quand’era stato da tempo adibito a caserma, vi si celebrava la cerimonia della consegna del gagliardetto alle truppe che partivano per il fronte. Nelle fonti della storia di Lecce episodi legato a questa struttura conventuale ricorrono spesso. Riguardo le fondamenta del convento di Santa Maria del Tempio, oltre al loro valore architettonico, hanno custodito per secoli sia vari reperti che testimoniano la vita conventuale, sia i resti mortali dei frati, dei cittadini che morivano fuori città, dei frati ricoverati nell’infermeria provinciale monastica, dei titolari delle cappelle gentilizie nella chiesa, ma anche, nel 1812, i detenuti delle Carceri Centrali ammalatisi di tifo petecchiale e successivamente i cittadini leccesi quando l’area è stata destinata per un periodo a zona cimiteriale. Oltre ai sette servi di Dio inumati nella tomba comune dei frati nel XVII secolo, si ha testimonianza della sepoltura del cavaliere gerosolimitano Giacomo da Monteroni, balì di Venosa e commendatore di Maruggio, voluta nel 1449 da Giovanni Orsini del Balzo. Vi è stato sepolto anche il barone Mario de Raho, morto nel 1678 e sepolto con l’abito dei Cavalieri Regolari della Immacolata Concezione di Maria, un ordine militare seicentesco poco noto. Tra i cittadini illustri sepolti in Santa Maria del Tempio, Bernardino Braccio menziona il medico Scipione Panzera, morto nel 1642 (da cui discesero Saverio e Oronzo, sindaci per il ceto civile nel XVIII secolo). A fine Settecento vi volle essere tumulato Giuseppe Romano, sindaco di Lecce per il ceto nobile dal 1768 al 1770, cui fu dedicato il poemetto satirico La Juneide ossia Lecce strafurmatu. Puema eroecu dedecatu alli Signuri Curiusi”.
Si ha notizia anche di altri sindaci della città di Lecce sepolti, tuttavia sono fonti da approfondire.
Bene, durante gli scavi sono con tutta evidenza state scoperte ossa umane e saranno indubbiamente state, come prevede la legge, accuratamente catalogate e trasportate in luogo idoneo rispettando ogni normativa, in particolare con la supervisione importantissima di antropologi. Non c’è motivo di metterlo in dubbio e sicuramente ci saranno le catalogazioni disponibili per ogni tipo di verifica. La legge in riguardo è giustamente severissima, leggo infatti:
Un particolare obbligo di denuncia viene imposto dal regolamento sulla polizia mortuaria (artt. 3 e 5 D.P.R. 285/90) a carico del Sindaco, per le ipotesi di morte che possono presentare sospetti di reato ovvero per i casi di ritrovamento di cadaveri, resti mortali ed ossa umane. Nel primo caso, quando dalla scheda di morte sorge il sospetto che la morte possa essere stata determinata da reato, il Sindaco ha l’obbligo di darne comunicazione sia all’A.G. che all’Autorità di P.S. . In questo caso permane, a carico del sanitario che ha redatto la scheda di morte, l’obbligo del referto di cui all’art. 365 c.p. Nel caso, invece, di ritrovamento di cadavere, di resti mortali ovvero di ossa umane, chi effettua la scoperta deve darne comunicazione al Sindaco e questi, a sua volta, deve darne comunicazione all’Autorità Giudiziaria, a quella di P.S. ed all’A.S.L..
E certamente i lavori saranno seguiti, come vuole la legge, dalla Soprintendenza, anche se annotiamo che i nomi dei funzionari addetti mancano nei cartelli dei lavori.
In buona sostanza a Lecce manchi un piano di viabilità degno di una città d’arte candidata a capitale della cultura, però qualcuno può mettere in vendita edifici a notevolissimo impatto urbanistico ancora da costruire, e soprattutto per i quali manca ancora, visto che è stata richiesta in questi giorni, la verifica di assogettabilità a VAS (Valutazione Ambientale Strategica). Questo era un atto che doveva precedere tutto il resto, ad oggi, a progettazione già avviata, è veramente strana questa tardiva richiesta. In particolare se si valuta che, trattandosi di project financing, il Comune ha obblighi verso l’impresa la quale potrà rivalersi per eventuali danni. Veramente strani sommovimenti.
Quest’anno, il 19 marzo, a cavallo di una vecchia Tipo con la guida eccezionale del menestrello cantastorie salentino P40, ho avuto la ventura di immergermi nel profondo e inesplorato cuore religioso di questa parte del Salento, che fa della tradizione spirituale un elemento di valorizzazione di credenze e frutti della terra.
Forse doveva essere veramente così, quando a pochi km di distanza i primi abitanti delle Grotte dei Cervi a Porto Badisco imbandivano le loro mense frugali con le primizie che la terra forniva: il prezioso olio, il vino ristoratore, il frumento vitale.
Dalla preistoria ai Messapi e ai greci, i riti trasmigrano, conservando sino a noi l’intensità spirituale, ravvivata dai monaci basiliani che tante tracce della loro arte hanno lasciato nelle cripte e nelle chiesette rupestri disseminate nel nostro territorio.
Proprio da una chiesetta comincia il nostro giro: la Cappella di Sant’Anna del XIII secolo a Specchia Gallone, frazione di Minervino di Lecce, un ciclo di affreschi con scene dell’Antico e del Nuovo Testamento e un Giudizio Universale. La chiesetta a due ambienti è preceduta da un pronao, un battuto su cui il sacerdote e i devoti officiano la messa in onore di San Giuseppe. Alle loro spalle una ambientino contiene in piccolo tutti gli elementi vegetali e animali (il pesce, simbolo cristiano, esclusa rigorosamente la carne), che ritroveremo nelle mense allestite in case private, persino in uno studio professionale a Giurdignano, in una scuola materna, in un palazzo baronale, e in una Fondazione benemerita, Le Costantine, dove ha sede una eccellente scuola di tessitura, a Casamassella.
Ogni luogo ha una storia rurale e religiosa. Con P40 ci interroghiamo sul significato di questa persistenza di riti nella memoria che si riversano nell’onorare un Santo, padre putativo di Cristo. Ci chiediamo come sia possibile conservare questi relitti atavici e semmai come coniugare questi lembi di civiltà con le istanze di un mondo giovanile che inascoltato pressa la società e alla fine, non trovando risposte, fugge via alla ricerca di un lavoro e di una qualche soddisfazione professionale.
Notiamo che quest’anno per la prima volta i Comuni che hanno condiviso il progetto sulle Tavole di San Giuseppe sono quattro: San Cassiano, Minervino, Uggiano e Giurdignano, comprese le frazioni. Casamassella, una frazione forse di mille anime, ci impressiona per il coinvolgimento da parte dei genitori e delle maestre dei 48 santi che hanno partecipato alla tavolata, imbandita ad altezza di bambino.
Fatto molto significativo perché alla preparazione delle vivande (servite e mangiate in ordine: lampascioni, rape, ceci, vermiceddhri, vino, pesce, ronghetto, bucatini, pittule, fritti con distribuzione di finocchio e arancia finale) hanno collaborato tutti, compresi i bambini dell’età max di sei anni che frequentano la scuola.
Che cosa sono in fondo queste Tavole, se non il tentativo di distribuire le risorse del territorio a tutti e in particolar modo ai poveri, sulla traccia dei sacrifici agli dei come distribuzione al villaggio delle carni, rito cui sovrintendeva Zeus Xenio, protettore degli ospiti e dei mendicanti?
Da Casamassella a Giurdignano, il paese degli allineamenti, dei menhir e dei dolmen, e anche delle Tavole di San Giuseppe. Ne abbiamo contate fino a 60 nelle case private, negli studi professionali, nei ristoranti, di tre, cinque, sette, nove santi, ecc. secondo un rigoroso rito che parte dalla Sacra Famiglia, 3 componenti, e poi in numero dispari, a seconda della devozione e della grazia ricevuta, si allarga sino a riempire la sala più grande della casa di primizie della terra e del mare.
In una di queste ci siamo fermati con P40 e abbiamo seguito il rito con un San Giuseppe che arcigno scuoteva la forchetta sul bicchiere e allora tutto si fermava sulla tavola. Si interrompeva l’assaggio che riprendeva con una nenia o una preghiera rivolta ai santi e ai defunti.
Con questo pensiero si chiudeva la tavola, distribuendo il cibo rimasto ai santi invitati, che a loro volta lo distribuiranno ai vicini e ai più poveri del paese, non prima di aver ricordato la funzione di San Giuseppe come psicopompo, che come Ermes ci accompagna nell’ultima dimora.
Il Pisello Riccio di Sannicola, è un pisello nano, dalla pianta rustica folta e compatta, che fiorisce copiosamente, producendo un gran numero di viticci (da cui il nome) e di baccelli, piccoli, cilindrici, con semi verde chiaro, lisci, sferici, talvolta leggermente cuboidi, in quanto leggermente compressi ai poli nel punto di contatto con gli altri semi. Tradizionalmente, questi piselli sono stati sempre coltivati su terreni marginali. La semina veniva fatta precocemente, tradizionalmente, nei giorni immediatamente seguenti la ricorrenza di San Simone (29 ottobre); era infatti la fiera dedicata all’Apostolo nella cittadina di Sannicola l’occasione per approvigionarsi di sementi garantite e selezionate dagli abili coltivatori locali.
A questa coltura venivano destinati terreni poco profondi, sciolti e ricchi di scheletro un po’ in tutto il Salento ed in particolare quelli posti sulle falde dei promontori rocciosi, felicemente esposti a Mezzogiorno, che dalle cittadine di Alezio, Sannicola e Nardò degradano verso lo Ionio. Era proprio da questi terreni che scaturiva la produzione migliore, sia in termini di qualità sia di precocità e già nella seconda decade di marzo si avevano di norma i primi raccolti. Percorrendo la litoranea ionico-salentina poco più a Nord di Gallipoli specialmente intorno all’antica abbazia di San Mauro, si vedono tutta una serie di piccoli promontori che degradano verso il mare, sassi e roccia affiorante, un paesaggio quasi lunare che nessuno penserebbe potesse essere mai stato coltivato. Eppure, sino alla metà degli anni ’60, del secolo scorso, in primavera, quelle rocce brulicavano di persone intente a raccogliere piselli, un duro lavoro che suggellava quello ancora più duro della coltivazione: un vecchio adagio locale recita: “le fave le faccia Dio, che i piselli li fa la zappa”.
Pian piano la coltivazione migrò in terreni migliori ove spesso venivano consociati alla vite e sino ad una trentina di anni addietro nella cittadina di Sannicola si svolgeva un vero e proprio mercato stagionale. Nelle ore serali, le varie partite, man mano che arrivavano dalla campagna, venivano caricate, per giungere come primizie in molti importanti mercati, compresi quelli particolarmente esigenti di Napoli e Roma. hanno portata ad un progressivo declino confinandola negli orti familiari perlopiù per autoconsumo.
Da Casarano a Palmariggi, da Minervino a Diso, da Sanarica a Poggiardo, da Nardò a Giuggianello, dal leccese al brindisino, in tutto il Salento si festeggia San Giuseppe.
San Giuseppe è uno dei santi più amati dalla comunità cristiana. E non potrebbe essere diversamente. L’umile falegname è il padre terreno di Gesù e riassume in sé tantissimi valori cristiani: la fede, la castità, la mitezza e la bontà d’animo, la povertà, l’amore paterno. Marzo è il mese in cui la natura si risveglia dopo il lungo torpore invernale e quindi, fin dalla notte dei tempi, un periodo di transizione, un passaggio fondamentale nel ciclo della natura tra il freddo della stagione che si avvia a conclusione e la dolce brezza portata dalla nuova stagione primaverile. Marzo è il mese di San Giuseppe. Nel Salento, questa festa è molto sentita ed accompagnata da una serie di antiche e coloratissime, oltre che gustosissime, tradizioni culinarie.
La Taulata de San Giuseppe è uno dei riti più diffusi di tutto il Salento. Sono tredici le pietanze che compaiono sulla tavolata e ognuna di queste ha una spiegazione: pittule, pampasciuni, alici marinate, legumi, pesce ( pesce frittu o a sarsa), arance, la cuddhura, l’insalata di San Giuseppe, e ovviamente lu mieru, il vino rosso; ma su tutte, spicca la massa di San Giuseppe. E ancora, peperoni, pezzetti di carne al sugo, le pucce, farcite in diverso modo, i lupini, olive nere, ronghetto o stoccapesce, finocchi, maccarruni cu lu zuccaru, ecc.
Il numero delle portate può variare da tredici, come i discepoli di Cristo, compreso Giuda il traditore, a nove, sette, cinque, a secondo dei paesi; ciò che conta è che sia sempre un numero dispari. Intorno alla tavola, si siedono tredici santi che sono impersonati dagli abitanti del luogo o anche, in alcuni paesi, da altrettanti bambini che devono fare la prima Comunione.
I tredici santi sono: San Giuseppe, la Madonna, Gesù Bambino, San Giovanni Battista, Sant’Anna, San Gioacchino, Santa Elisabetta, San Zaccaria, Santa Maria Maddalena, San Filippo, Santa Agnese, San Giuseppe d’Arimatea, Sant’Antonio, che sono fissi, ai quali poi ogni paese aggiunge i propri santi protettori e altri santi a piacimento, fino ad arrivare al numero di tredici.
San Giuseppe è sempre il primo a sedersi a tavola e, battendo le posate sul piatto, dà inizio al pranzo, anzi alla grande abbuffata. La massa, conosciuta anche come tria, è una pasta ricavata dalla sfoglia di farina impastata con acqua, tagliata a striscioline e mescolata con ceci o cavoli e condita con olio d’oliva e cannella. Che sia con i ceci oppure con i cavoli, non devono mancare sulla massa, come la ciliegina sulla torta, i frizzuli, delle piccole strisce di massa fritta. Il termine dialettale tria è antichissimo e deriva dall’arabo itrya, che significa “pasta secca”.
La cuddhura, dal greco kollura, ha forma circolare, come la sfera dell’ostensorio, e simboleggia, come il serpente che si morde la coda, il cerchio del tempo che si rinnova; ma il pane è anche un elemento fondamentale della Comunione cristiana e rappresenta, come sappiamo, il corpo di Cristo che si è immolato sulla Croce, come il vino ne rappresenta il sangue. Su questa specie di ciambella di pane, sono rappresentate la verga fiorita di San Giuseppe, cioè il bastone, un Rosario, e al centro viene messa una arancia oppure un finocchio; queste forme di pane vengono posizionate ai piedi della statua di San Giuseppe o vicino ad un quadro del Santo.
La leggenda della verga fiorita dice che, quando il Buon Dio cercava un padre putativo per Gesù Bambino, che doveva venire al mondo, inviò un angelo sulla terra; l’angelo convocò tutti gli anziani del paese, i quali si accompagnavano con il bastone, ma solo sul bastone di San Giuseppe fiorirono dei fiori di iris e delle piante di ceci e così Giuseppe fu scelto da Dio come padre del Bambin Gesù. Giuseppe era un umile falegname e, da qui, il suo protettorato sui falegnami e, in genere, su tutti i lavoratori.
Il Santo è, inoltre, protettore dei poveri e delle persone umili ed essendo egli stato sempre casto e morigerato, è anche tutore delle ragazze da marito, che a lui si rivolgono per trovare l’anima gemella . Quando Giuseppe e Maria con Gesù nel grembo ( “Maria lavava, Giuseppe stendeva, suo Figlio piangeva, dal freddo che aveva”, recitava una deliziosa canzoncina che ci facevano imparare a scuola da piccoli), sfuggendo alle persecuzioni di Erode, erano alla ricerca di un posto dove stare, tutti chiusero loro la porta e non riuscirono a trovare una dimora che li accogliesse, se non una fredda ed inospitale grotta di Betlemme. In ricordo di quell’atto di egoismo ed ingenerosità, quasi a consolazione, si allestiscono oggi le tavolate di San Giuseppe, cosicché il Santo possa idealmente trovare accoglienza ed ospitalità.
Le verdure sono un cibo povero, che rimanda alla primitiva economia di raccolta, basata sui vegetali. I legumi, soprattutto ceci e fave, oltre a richiamare la verga fiorita di San Giuseppe, rimandano alla religione pagana quando venivano offerte ai defunti le primizie della terra. Il pesce è un rimando a Cristo che, durante le persecuzioni dei cristiani, veniva disegnato, sulle pareti delle catacombe, proprio con la forma di pesce.
Gli altri simboli legati a questa festa sono: la palma, che si associa alla Madonna, ed è anche un simbolo di pace (nella Domenica delle Palme si ricorda il trionfale ingresso a Gerusalemme di Gesù, accolto da tantissime palme festosamente sventolanti); la mano, il bastone e la barba di San Giuseppe; il serpente, che rimanda al peccato, di cui si macchiò Giuda il traditore; e poi il martello e la scala, che alludono alla Crocifissione. Sulle tavolate, sono offerte anche noci, mandorle, noccioline.
Dovrebbero mancare la carne, i formaggi e le uova, cibi vietati in periodo di Quaresima, caratterizzato dalla penitenza e dalle rinunce, ma non tutti i Comuni riescono a farne a meno sulle loro tavolate.
Immancabili, inoltre, le zeppole. Queste gustose frittelle si associano alla festa di San Giuseppe e sono di origine napoletana.
Inventate dai maestri pasticceri partenopei nel Cinquecento, come dolce del Carnevale, in seguito, nel Settecento, esse si legarono anche ad altre ricorrenze, come soprattutto quella di San Giuseppe, e si diffusero in tutta Italia, quindi anche in Salento.
I fiori che ingentiliscono le tavolate devono essere bianchi e gialli, perché così vuole la tradizione. In molti Comuni, le tavolate, anche dette mattre, sono allestite all’interno delle abitazioni private. Coloro che ospitano le mattre sono fedeli, particolarmente devoti al Santo, magari per avere ricevuto una grazia o perché San Giuseppe è apparso loro in sogno, ed allora enormi tavolate vengono allestite nel locale più ampio della casa e vengono spalancate le porte per permettere a tutti di entrare.
Nel pomeriggio della vigilia, le tavole vengono benedette dal parroco del paese e il giorno dopo, esse possono fare bella mostra di se ai visitatoti che accorrono da tutto il Salento.
In alcuni Comuni, alla festa si associa anche la tradizionale “Cuccagna”, un antico gioco di piazza che consiste nell’arrampicarsi su di un palo, reso scivoloso dall’aggiunta di grasso, in cima al quale si trova un ricco premio.
La sera di San Giuseppe si tiene poi la tradizionale focara. Anche queste focare o focareddhe rimandano a riti pagani antichissimi, cioè ai riti stagionali del fuoco, riti di purificazione agraria. Nella società contadina del passato, si usava bruciare enormi cataste di ramaglie nei campi alla fine della stagione invernale; i contadini accatastavano tutti i residui inutilizzati del raccolto dei campi e appiccavano il fuoco, volendo in questo modo, anche simbolicamente, chiudere una stagione, facendo pulizia, e aprirne un’altra. La festa di San Giuseppe diventava perciò l’occasione più propizia . Recitava un detto del passato: La Madonna ‘mpastava lu pane, l’Angelu li purgia la pasta, a San Giuseppe li vinia la fame; “Maria, se su pronte le cuddhure, sciamu ‘ntaula cu manciamu, ieu, tie e lu Signore; chiama puru Gioacchinu e Anna, cusì se consuma tutta sta manna!”.
Ho iniziato a scrivere queste righe piene di amarezza e nostalgia qualche settimana fa per il solo scopo di esorcizzare una sensazione di vuoto dentro di me che avverto come incolmabile. Uno svuotamento provocato dalla scomparsa del Professore Giacinto De Metrio.
Una serie infinita di emozionanti ricordi si palesano nella mia testa, in forma del tutto disordinata, e in questo breve scritto cercherò di riassumerne qualcuno dei più significativi, per me.
Tutti abbiamo dei punti di riferimento, delle persone che vorremmo imitare; il mio sguardo, in questo senso, è stato sempre rivolto a lui. Ho considerato Giacinto con sincera ammirazione, per la sua passione per l’Arte – che insegnava e praticava – per i suoi riconosciuti successi, i premi internazionali, ma anche il senso di appartenenza verso un paese che spesso lo deludeva. Poi, non ultima, l’accanita voglia di vivere, manifestata con l’arte, nonostante una lunga e progressiva malattia lo avesse reso quasi del tutto cieco.
Devo a lui, senza indugio alcuno, la mia formazione culturale, oltre che la determinante scelta artistico-professionale. Conservo un ricordo etereo di quelle lunghe conversazioni, fatte di riflessioni e di indimenticabili racconti d’altri tempi dei quali fui invidioso.
Come accadde a molti altri ragazzini delle scuole medie che ebbero la fortuna di essere suoi alunni, prima e dopo di me, mi colpì l’approccio non convenzionale con tutti noi, adolescenti e non, coi quali si poneva senza quella specie di barriera fisiologica che ci può essere nel rapporto alunno-insegnante. Il Professore De Metrio parlava schietto, non impersonando un ruolo professionale, ma con la capacità di intendere il proprio interlocutore e trattarlo da pari, spaziando tra argomenti didattici e sociologici che, se vogliamo, non esulavano dalla materia da lui insegnata: educazione artistica. Magari vi sembrerà che io, in questa descrizione, ne stia tessendo le lodi allo scopo di produrre una rievocazione “post mortem” tutta personale, ma non è così: ho ascoltato e letto i commenti che la notizia della sua recente scomparsa ha stillato e mi è parso di intendere che tutti ne tracciassero lo stesso identikit, allineato al mio.
Poi, ovviamente, i rapporti personali sono eterogenei e talvolta prendono delle pieghe inaspettate.
Mi ritrovai a frequentarlo, come altri compagni, anche al di fuori dell’edificio scolastico perché era lui stesso che ci invitava a fargli visita presso il suo personale studio di pittura, per coinvolgerci, per sensibilizzarci all’arte e perché aveva piacere a trascorrere qualche pomeriggio in nostra compagnia. Qualcuno ci andava spesso, qualcun altro non ci è uscito più…
Ricordo che nel suo studio, in via XXIV Maggio, c’era quel tipico odore di vernice e acquaragia. Al primo sguardo i nostri occhi di adolescenti erano attratti dalle figure di nudo, poi le pile di riviste, oggetti di design, trofei, medaglie, targhe, diplomi, inviti (reminescenze di sue mostre). Mi piacquero molto i busti e le maschere in terracotta realizzati da “lu zi’ Michilinu” e credo rappresentarono uno dei primi argomenti di conversazione. Per lo zio Michele Gaballo – noto ai più soprattutto per essere l’autore della Fontana del Toro – Giacinto nutriva un naturale affetto, oltre che per il grado di parentela, anche per aver raccolto da lui la ponderosa eredità artistica.
Dello studio mi rimase impresso perfino quell’enorme ombrello coloratissimo (ogni spicchio una tinta diversa) aperto e sospeso poco sotto il soffitto.
Era una persona ingegnosa oltre che creativa. Un Natale acquistò una specie di rete di luci a led e la posizionò anch’essa sospesa in aria a mo’ di cielo stellato. Pur non essendo un gadget decorativo inflazionato come in questi anni non fu comunque utilizzato per un utilizzo convenzionale. La trovammo una soluzione molto suggestiva.
Per lavorare aveva pochi indispensabili strumenti: la cassettiera colma di tempere, pennelli, la tavolozza e un lavandino che originariamente presumo fosse stato bianco. C’era persino un Dante realizzato da lui, in gesso patinato bronzo, ad altezza naturale, che mi guardava con aria crucciata e io non capii mai per quale ragione, almeno fino a quando non mi sono interessato alla scrittura. Lo donò alla scuola media dove insegnò prima di andare in pensione.
Voi adesso, da questa descrizione, desumerete che si trattasse di un grande locale, uno studio di importanti dimensioni, ma tutta questa roba, e tanto altro, ci rientrava in poco più di venti metri quadri. E quasi dimenticavo i dipinti, dandoli per scontati, dipinti in ogni angolo di muro libero.
Dipinti espressionisti che trasudavano passione, desiderio, malinconia, gioia di vivere.
Io ci andavo finiti (si fa per dire) i compiti. Girato l’angolo si sentiva la musica delle audiocassette – prediligeva cantautrici e quasi sempre Mina – o la telecronaca calcistica la domenica pomeriggio.
Giacinto era sull’uscio e indossava un grembiule blu, prevedibilmente macchiato di tempere, e i suoi occhiali dalle spesse lenti fumé sul naso. In quel periodo, credo di averlo visto pochissime volte senza un pennello tra le dita, come fosse un’estensione naturale del suo braccio, con di fronte a se il suo cavalletto e la tela. Non mi potere sentire ma credetemi, io sospiro troppo spesso da qualche giorno a questa parte.
Quand’ero fortunato la tela la vedevo immacolata, poi i primi tratti di matita a segnare il pensiero, successivamente le tracce di colore e infine, dopo qualche settimana, finalmente l’opera completa.
Di tanto in tanto ho anche visto compiersi il “sacrilegio” del riutilizzo di una tela già dipinta. Mi permettevo di chiederli il motivo, con scherzosa aria di rimprovero, e mi rispondeva che il prossimo sarebbe stato migliore.
A distanza di anni, mi confidò del glaucoma e della decisione obbligata di separarsi dalla pittura; fu un trauma che, in maniera certamente differente, condivisi con lui, viziato com’ero a trascorrere lì parte delle mie giornate.
L’ultimo quadro che gli vidi dipingere ritrae un occhio posto simbolicamente su un pentagramma e circondato da variopinte note musicali. Quasi a rafforzare il senso di gratitudine nei confronti della vista, un ultimo omaggio a quei suoi occhi che lo stavano per abbandonare.
Nei giorni successivi mi trattenni volentieri qualche ora in più del solito e in quell’occasione facemmo una catalogazione, una cernita di tutte le cose presenti: ciò che reputava cianfrusaglia della quale voleva disfarsi gettandola al cassonetto (qualcosa la recuperai), e i ricordi che invece volle riportare a casa per conservarli.
Neppure l’incedere della malattia fermò il suo estro artistico. Ebbe inizio in quel modo un’altra stagione artistica nella quale realizzo delle installazioni con fili e bacchette di ferro: dal cavallo alato “voglia di libertà” alla sagoma femminile “magnetismo” passando per il “torero”.
In quel modo esorcizzava la malattia come a voler dire “ti prendo per le corna!”.
Siamo rimasti sempre in stretto contatto e spesso veniva a trovarmi in studio. Qualche volta siamo usciti insieme per goderci un tramonto sul mare, spettacolo naturale del quale lui scorgeva solo qualche fioco riflesso.
Anche al mare era legato in maniera viscerale; aspettava la primavera come un recluso attende di essere scagionato. Aveva una pellaccia dura che mi faceva rabbia: “il mio medico dice che ho la cervicale annodata come il tronco di un ulivo e che c’è gente con una situazione molto meno grave delle mia che soffre di vertigini e altri mille sintomi. Ma sai che io sto benissimo? Come se non ce l’avessi!”. Io invece, ovviamente, appartengo alla categoria descritta dal suo medico…
L’estate cominciava ad aprile e i bagni terminavano a novembre. Sempre all’ “Ave Mare”: «conosco quegli scogli palmo palmo, anche se non li vedo li conosco!». Un estate si offrì volontario perfino per una simulazione di salvataggio e venne riportato a riva da un cane della Guardia Costiera. Poi, un brutto giorno, uno scoglio gli fece lo sgambetto e decise che non ci sarebbe andato più.
Ci sentivamo spesso soprattutto perché ultimamente la musica era diventata un diversivo indispensabile, compagnia devota con la quale trascorrere lunghi momenti di raccoglimento. Mi domandava di cercargli titoli e canzoni della sua giovinezza (missione impossibile ogni volta), quelle che ascoltava su “Radio Margherita”, legate anche alla sua lunga parentesi fiorentina. In quella maniera rianimava i suoi ricordi e il suo spirito ne traeva giovamento. Ho conosciuto in quella maniera una fetta di cantautorato italiano – e non – a me totalmente sconosciuta che spazia da Narciso Parigi a Gabriella Ferri passando per Charles Aznavour.
Era soprattutto un premuroso amico che si preoccupava di telefonarmi per conoscere le mie vicissitudini, forse più di quanto io non facessi con lui.
Lo mettevo al corrente dei miei alti e bassi, le traversie sentimentali, il lavoro e tutto si racchiudeva in un “insomma, le solite cose”. Lui rispondeva sarcastico: «Uei cu ti cciu? Tu uei cu mueri, di allu giustu!» e ci infilava in mezzo un’imprecazione che mi fa ancora sorridere.
Conservo negli orecchi i “bravo” che mi indirizzava qualora lo mettessi al corrente di una nuova poesia premiata. Glie la leggevo e lui mi rimproverava di non saperla recitare: «la Poesia si declama, non si legge!». Infine, dopo qualche preambolo che trasudava soddisfazione, concludeva amaro: «queste sono le soddisfazioni che riempiono lo spirito e svuotano lo stomaco, le conosco bene».
La notte che ha seguito la notizia della sua morte ho messo a soqquadro lo studio e la casa, con gli occhi pieni di dolore, alla ricerca di suoi ricordi; una serie di movimenti meccanici e convulsi. La cosa è andata avanti per una mezz’ora buona finché non mi sono trovato di fronte le buste contenenti i bigliettini di auguri che mi aveva consegnato in occasioni delle feste.
All’interno di una di esse un biglietto in particolare: mi augurava buon trentesimo compleanno.
Giornata strana oggi. Sole, poi nubi, pioggia, poi un po’ di sereno. Ieri ho voluto fare il turista a breve raggio. Cavallino e Castrì. Il museo diffuso era chiuso. Il castello Castromediano un po’ malandato come molti monumenti qui. Poche persone in piazza il pomeriggio del sabato. Ed uno strano disagio in me. Camminavamo per quelle stradine con lo sguardo ai palazzi, alla chiesa settecentesca, l’ex convento dei domenicani ora sede universitaria. Però ruotavano e guizzavano in testa pensieri che neppure lo stupore e le emozioni per quelle architetture e queste terre riuscivano a far calare. Il monumento a Sigismondo Castromediano in piazza lo rappresenta con un libro, un bimbo accanto e le catene. Perché era stato in galera per amore di libertà. “Perché amava libri ed era un mecenate per i bimbi”, mi si dice. E perché aveva rinunciato ai privilegi dei nobili per rimanere con i suoi compagni di sventura. Altri tempi, altre tempre, altre persone. Già, è una domenica “malata” questa. Per strada alcune masserie abbandonate che mi piace immaginare quando erano nel pieno del loro splendore, proprietari e fattori, forse animali e ulivi tutto attorno. Il mare non troppo lontano. Ci siamo fermati ad osservarne una. Silenzio attorno, solo il rumore del vento. E’ inquietante a volte questa vostra terra. Così piena di cose urlate, così colma di cose mai dette. Guardi il tramonto, ti siedi vicino al mare, e pare che le storie e la storia ti passino accanto. Ci si può sentire risucchiati da tradizioni, canti, sguardi sulla terra di persone che di terra vivono. Il carnevale impazza in questi giorni. Poi sarà quaresima. Le caremme appese fino alla Pasqua che è resurrezione, ed è la fine di ogni quaresima. Perché prima o dopo è indispensabile uscire dall’inverno, perché non possiamo lasciare annientare le intelligenze e le speranze dal gelo che irrigidisce. Non ne abbiamo il diritto. Semplicemente perché abbiamo dei figli a cui dobbiamo provare a lasciare un mondo un po’ meno incivile e dei responsabili della cosa pubblica coscienti di essere servitori anziché proprietari dello stato, delle coscienze, delle sensibilità di tutti e di ognuno. A carnevale al mio paese si brucia un grande falò fatto di paglia, rami secchi e un alto tronco. Qui ho scoperto le focare, ed ho conosciuto la caremma di Gallipoli. Ecco quel che unisce il sud al profondo nord. La sensibilità, la storia diversa ma unificante, le tradizioni che si ripetono, la coscienza di appartenere e di esserci. Quelle masserie così abbandonate ma così piene di storia, i vigneti del Monferrato così rigogliosi, gli uliveti della terra d’Otranto così austeri, le colline della Toscana così dolci e gialle di grano in estate. Tutto questo è Italia, e in ogni luogo, paese, casa, masseria, ci sono Persone…
Il colore, pura emozione nella pittura di Stefania Rizzo
Dal vero al fantastico, e viceversa, l’arte ha il potere di costruire, decostruire, trasformare, attraverso la sensibilità di chi crea. Cerca la sintesi perfetta fra forma e contenuto. Richiede ingegno, ma anche passione, cura, dedizione totale. Mille e diversi sono i percorsi dell’operare artistico, perché essi partono sempre da un personale e misterioso processo creativo, soggettivo per ogni artista.
A volte mi capita di incontrare degli artisti che hanno qualcosa da dire, che a me personalmente dicono qualcosa. La pittrice Stefania Rizzo di Tricase, diploma di disegnatrice di moda, ha partecipato a numerose mostre e i suoi quadri si trovano in diverse collezioni private in Italia e all’estero; espone i suoi lavori pittorici nella sua bottega in via San Demetrio nel centro di Tricase. L’elemento predominante nelle sue opere è il colore che Stefania dimostra di saper trattare con originalità, raffinatezza, facendo propria la lezione del classicismo europeo. Certe intensità e vibrazioni della luce raggiungono lo spettatore, il colore diventa pura emozione.
Partendo da quell’idealismo stilizzato proprio della pittura romantica, di cui è intrisa, l’autrice è adusa ammantare i suoi paesaggi, certe rappresentazioni che altrimenti sarebbero vicine al naturalismo, con una velatura lirica che li rende particolari. Infatti, in molti suoi dipinti, il paesaggio è presente ma trasfigurato in una luce onirica calda e avvolgente come dovrebbe essere la materia dei sogni, per esempio in “Prima di incontrarti”, in “Ci sono notti di luna piena” o in “Ci sono notti di luna piena e di storie mai raccontate”. Il dato reale viene stilizzato, non ci sono quasi mai presenze umane nei suoi dipinti. Accattivante l’utilizzo dei colori primari, rosso, giallo, blu, nero. Il primo ciclo è quello del “Paesaggio”. Come appare chiaro da quanto detto però, la sua è una paesaggistica non stantia, oleografica o naif, pur in presenza di tutti quei connotati archetipici, larici, emblematici del nostro Salento (il mare, la costa, le campagne infinite, i muretti a secco, ulivi e fichi d’india). Ciò perché i suoi luminosi paesaggi sono intrisi di immenso, soffusi di lieve aerea malinconia, sono luoghi dell’anima prima ancora che luoghi reali, le loro geometrie obbediscono ad un moto interiore, sono espressioni di un ideale alfabeto visivo della pittrice, impastati con i colori morbidi e caldi che li sublimano in immagini di sogno.
La luce armonica domina la struttura compositiva. Certo, viva e pulsante la sua salentinità, ma quella di Stefania Rizzo è una appartenenza del cuore, una militanza non urlata o peggio rivendicazionista, ma al contrario pacifica, rasserenata, che usa le armi spuntate della grazia e della bellezza, filtrata come è dalla poesia. La sua è una pittura “donna”, direi, nel senso che promana, da quel che vedo, una sensibilità fortemente femminile, appassionata. Fra le opere di questa prima fase, si segnalano, in una produzione comunque vasta, “Mi incontrerai nel volo della libellula”, “Luce d’estate sulla masseria”, in cui campeggia un magnifico giallo che attrae la nostra attenzione, e poi “Raccontami il tuo sogno” e “Quando tu ancora non c’eri”, che sono olii su antica tavola con cui pressavano il tabacco.
Questo ci porta ad un’altra caratteristica della produzione di Stefania, che è un valore aggiunto, ossia la ricerca di antichi materiali connotativi della civiltà contadina del passato, come queste tavole su cui si lavorava il tabacco, intrise di storia e sudore, come spiega la stessa autrice, in un riappropriarsi della nostra identità di popolo salentino attraverso supporti poveri della cultura della nostra terra. In questo modo, l’autrice fa arte non solo attraverso il contenuto, ma anche attraverso il contenitore, in un tutt’uno armonico, di grande fantasia. Eccola quindi riutilizzare i vecchi materiali, magari di scarto, rielaborare l’esistente, come in “Ed ho messo le parole ad asciugare al sole” o “Una finestra sul mare”, “Un giorno di luce un ricordo di pace”, o “Un silenzio colorato”,o ancora “Raccontami il tuo sogno”.
Scrive Stefania Rizzo in didascalia a “Parlami con il tuo calore”: “sin da piccola mi affascinava mettere da parte ciò che ormai aveva esaurito la propria funzione, ciò che restava di un rotolo di carta o oggetti inutili ormai anche come soprammobili. E tutt’ora mi affascina soprattutto il legno, vecchio, antico, che viene gettato via , abbandonato in qualche stradina di campagna, come un’anta di porta, un coperchio di botte, una trave usata dai muratori, piccole finestrelle…”.
Dunque, sebbene questi quadri nascano da un disegno razionale, ritraggano cose e situazioni reali, tuttavia vengono sorretti da un istinto passionale, da una avvertita, profonda esigenza di andare oltre lo spazio e il tempo contenuti dal quadro, di prendere la via di una destinazione altra, di una mèta sconosciuta, diversa. Ed è questo che mi colpisce nella narrazione pittorica di Stefania Rizzo, il suo essere in fieri, questo essere qualcosa, tanto, ma presupporre tanto altro, tantissimo. Apparentemente lineare ma anche emblematico, il suo percorso, dalla base di partenza che è la tradizione (il figurativismo), passando attraverso l’astrattismo, per puntare con decisione verso una nuova fase (l’informale?) che è il prossimo imminente approdo.
Continuando ad inanellare i suoi quadri come perle di una collana preziosa, ecco il ciclo dei “Silenzi mediterranei”: fiori, coccinelle, lucertole, lumachine, insomma la natura del paesaggio mediterraneo. In questa natura, è il messaggio di Stefania, “Mi incontrerai ogni volta che vorrai chiudere gli occhi e vedermi”. Il ciclo dei “Notturni”è quello che personalmente amo di più. Ecco, “Ci sono notti di luna piena e di storie mai raccontate”, uno dei più belli in assoluto, dove il colore quasi si smaterializza, il rosso tiziano di questo quadro è un soffio caldo. In questo ciclo, sono campagne, boschi, animali, soli e lune trasfigurati da una specie di personale sehnsucht, immagini fiabesche di cieli e memorie arcane, di terre e colori lontani, e la luce parla al nostro inconscio nelle metafisiche atmosfere.
In “Al chiaror di lune” ( acrilico su tavola ), in un paesaggio rosso fuoco, tre alberelli si stagliano sulla superficie liscia e levigata di un pianeta mentre veleggiano nel cielo tre lune che sembrano tre soli, di dimensioni decrescenti, in un’atmosfera rarefatta. In un altro trittico pure intitolato “Al chiaror di lune”, a dominare è il blu e troviamo tre alberelli sormontati da tre lune, crescente, piena e calante. In “Notturno in terra di Puglia”, una torre si staglia alla confluenza fra mare e terra e sembra quasi sentinella del paesaggio, irraggiato dalla rifrazione lunare, e questa sensazione del trascolorare del tempo e delle cose è leit motiv anche di altre pitture di genere fantasy, come “Ti racconto un sogno”, in cui si vede un cielo apocalittico e si percepisce quasi un’aria da tregenda. In un altro dipinto dal titolo “Notturno in terra di Puglia”, in cui dominano i toni del verde e del blu, vediamo un alberello che si alza solitario nel mezzo di un pianeta illuminato dalla luce di una abbacinante luna piena mentre due scabre figure umane si appressano all’arbusto da entrambi i lati ma ognuna seguendo un proprio percorso sconosciuto.
Il ciclo dei Notturni è certamente il compendio di tutta la sua produzione artistica, come scrive giustamente Nicola Cesari: “La spinta lirica dell’autrice trova ulteriore completamento nella terza fase dedicata ai Notturni. Questo momento pittorico potrebbe considerarsi la sintesi delle altre due fasi. Infatti, questa sembra essere la summa della poetica figurativa della pittrice. Nei Notturni troviamo gli elementi iconografici che la Rizzo ha già analizzato nelle precedenti opere ( l’architettura rurale delle masserie e delle torri di osservazione, l’albero simbolo della Natura e le superfici cosmiche ) e quelli cromatici delle due fasi legati a tonalità calde e fredde. Quello che risulta maggiormente indagato è l’aspetto onirico del paesaggio, coperto da una coltre di silenzio. In realtà, osservando questa produzione, si ha l’impressione di vivere ad occhi aperti in un sogno. Gli oggetti presenti sembrano non avere una precisa collocazione spazio-temporale ma paiono come sospesi, come se fossero in uno stato di letargo millenario, in attesa di un accadimento ( probabilmente non umano ) capace di ridestarli.”
In un altro “Notturno in terra di Puglia” (olio su tavola) ammiriamo una bellissima liama, tipica costruzione rurale salentina, e accanto un maestoso albero di ulivo mentre la terra e il cielo si mischiano nei toni del rosso, giallo, ocra. In “ Torre Minervino” (olio su tavola intelata) si erge una masseria in un blu elettrico carico e in un paesaggio silente che invita alla calma e alla contemplazione.
In una sintesi compositiva attraente i colori carichi del suo cromatismo ad effetto danno a queste opere concretezza ed astrazione, razionalità ed istinto, sembra irradiarsi da queste tele una spiritualità evocatrice di una straordinaria potenza, di una sublime alchimia. “Ama l’arte, perché fra tutte le menzogne è quella che mente di meno” recita un aforisma di Flaubert riportato da Stefania Rizzo ,la quale scrive “L’arte, quella vera, ci salva dall’indifferenza e dalla superficialità dilagante, regalandoci emozioni e nuovi trampolini di lancio”. L’ultimo ciclo preso in esame è “Gemme collection” e in questi dipinti, che sono macchie di colore, vi è un’astrazione pura, presagio di quella deriva informale di cui ho detto prima. Termina qui per ora, con un augurio e molti complimenti, il viaggio artistico in compagnia di Stefania Rizzo.
Al centro di un altopiano, tra Taurisano e Specchia, vi è Masseria Curtivecchi, poco a sud della stessa vi è un antico tratturo. Dove oggi regna il religioso e silenzioso asfodelo, cento anni fa uomini e contadini percorrevano queste strade con le loro voci e i carichi di uva appena raccolta venivano portati al palmento.
Questo è una piccola costruzione quadrangolare, rustica, umile. Dal lato opposto alla porta di ingresso, una apertura a finestra dà direttamente su una vasca intonacata che occupa quasi metà del vano. Sul fondo della vasca, nel lato che guarda la finestra, un buco immette in una piccola cisterna sottostante. Sul lato destro, infine, una rientranza del muro accoglieva uno di quei torchi detti “alla calabrese”.
Sulle due mura laterali, per tutta la lunghezza del vano, si riconoscono i grigi segni di una rara letteratura.
Poche scritte sono ancora leggibili e mi sembrano interessanti e meritevoli di essere strappate all’oblio a cui sono altrimenti condannate.
Riporto la trascrizione delle epigrafi di più facile lettura, per le altre si attendono ulteriori studi.
L’amore è quell’umore
che dagli occhi passa al cuore
e per maggior sollazzo
dal cuore passa
al C…..(alcune lettere cancellate ma che si intuiscono facilmente)
Quanto sia tormentato l’etimo lo mostra già nel XVI secolo l’umanista di Leverano Girolamo Marciano che in Descrizione, origine e successi della provincia d’Otranto, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1855(l’opera uscì postuma e questa è la prima edizione) alle pagine 431-432 così scrive: Scrivono alcuni il nome di questa città Hostuni coll’h, ed altri Ostuni senza l’h. Cristoforo Foroliviense nella sua Cronica la chiama Ustonio, e dice che ella fu edificata da Ustonio II figliolo di Diomede, o come altri vogliono suo nipote,… Tutto ciò disse di questa città il Foriliviense, stimando egli che Ostuni sia città antichissima, ed edificata ne’ tempi di Diomede; il che se così fosse, se ne troverebbe senza dubbio qualche memoria appresso degli antichi, come han detto delle altre città edificate da Diomede in queste parti d’Italia. E però si stima che quanto egli dice della sua edificazione, della presa di Annibale, de’ Romani, de’ Goti, e de’ Longobardi, è tutta sua immaginazione …. E secondo quei che ne scrivono il nome Hostuni, si potrà dire che fu così detta ab hosto, verbo latino, che dinota provento d’olio, del quale si fa molta copia nel suo tenimento, il cui oliveto gira da circa miglia 50, poiché hostus ed hostum secondo Marco Marco Terenzio Varrone, significa quella quantità d’olio che si cava da un fatto, ovvero confettura di olive. Chiamano fatto quel provento, o quantità d’olio, che proviene da una confettura che si fa tutta una volta, che noi chiamiamo pasta, ovvero macina, la quale alcuni facevano di moggia 160, ed altri di 120, e d’indi giudicavansi quanti vasi d’olio, o pur quanta capacità dovevasi avere per tal confettura. Altri derivano il significato d’Ostuni ab Ostia, cioè sacrificio, alcuni ab hoste nemico, ed altri ab hostialis, cioè porticelle e finestre, perché stando essa città sopra di un colle di rimpetto alla marina, la moltitudine di finestre le quali fanno meravigliosa vista nelle sue fabbriche, ed altri palazzi, spiegano vaga e riguardevole prospettiva ai riguardanti, di modo che si vede nell’apparenza una città ornata di vaghe e riguardevoli finestre. Ma perché queste latine etimologie sono dell’ultimo effetto, e non della prima causa, ed Ostuni città greca, edificata come si è detto, dai Greci posteriori, non è da credersi che ella fosse da quelli chiamata con nome latino, sì bene greco Ostuneon, senza l’aspirazione, derivando esso nome dalle greche voci ASTY et NEON, cioè Urbs nova, come Neapolis; onde i Latini, come nota Prisciano, mutando la lettera greca Y in U latino, dicono Astu, ei i Greci, come dice Stefano, per dignità principale chiamano ASTY la città di Atene, siccome i Latini la città di Roma. Onde Terenzio nell’Wunuco dice: An in Astu venis? Del che accortosi il dottissimo nostro Quinto Mario, accomodando il nome greco al buon latino, nomina sempre questa città ne’ suoi scritti Astuneum, ed i suoi popoli Astunienses.
Bisognerà attendere tre secoli per una nuova proposta, quella avanzata da Nicola Maria Cataldi (1772-1867) studioso gallipolino, che in Prospetto della penisola salentina, ossia cenno storico degli antichi popoli salentini colla descrizione delle loro città con carta topografica della Iapigia, Tipografia del reale ospizio di S. Ferdinando, Lecce, 1857, pag. 28 identifica Ostuni con l’antica Sturneum o Stuneum, trascrizione latina del greco Στοῦρνοι (leggi Stùrnoi) attestato da Tolomeo (II secolo d. C.) in Geographia, III, 1, 68 e corrispondente, secondo il Cataldi , all’etnico Stulnini attestato un secolo prima in Plinio in Naturalis historia, III, 11; l’archeologo gallipolino, infine, a corroborare la sua tesi, mette in campo la leggenda ΣΤΥ di alcune monete del II secolo a. C. attribuite a Sturnio già da Domenico Sestini (Lettere e dissertazioni numismatiche, Piatti, Firenze, 1819, tomo VI, pagg. 4-5, da cui è tratta l’immagine di seguito riprodotta).
La sufficiente fedeltà del disegno è attestata dalla foto sottostante tratta da http://www.bridgepugliausa.it/articolo.asp?id_sez=0&id_cat=49&id_art=3630&lingua=it
Lo ΣΤΥ (evidenziato con l’ellisse rossa nell’immagine, mia, sottostante) che si legge nella Mappa di Soleto, ammesso che questa sia autentica, cioè risalente al VI secolo a. C., non contribuisce , con la sua posizione, a fare chiarezza.
Pacichelli (A), pag. 177
Pacichelli (C), anno 1686 e 1687
Lasciai appresso il lunedì mattina la via di San Vito, terra del Marchese di questo nome, e in collina, sette miglia lungi da Mesagne, e quella di Ostuni, lunga, sassosa e imboschita, di dove a dieci si passa a Martina. Ostuni da San Vito si discosta otto miglia, ed è città vecchia, di grazios’apparenza al di fuori, mal disposta però di dentro, in sito eminente, ove il solo palazzo è memorabile, fatto edificar già dalla infelice Reina Bona di Polonia, che l’avea inchiuso nel Ducato di Bari.
… in 24 moleste miglia, si ascese ad Ostuni, città senza veruna vaghezza, del Duca Zavaglio, abitante in Madrid. Mi prostrai nel vescovado, di poco elegante struttura, ed accellerata la provista del vino dal barile miserabile, a caso capitato da Francavilla, che tirò a sé, con forma di calamita, sitibondi come mosche, per dubbio di restar in un tratto esausti, quantunque i paesani vantasser copia e sostanza fragrante di quell’umore, a misura dell’olio, che vi abonda; visitai fuori i Carmelitani e i Riformati, posando in un misero albergo.
Pacichelli, mappa
A Palazzo e Chiesa Vescovale (mappa/http://rete.comuni-italiani.it/wiki/File:Ostuni_-_Palazzo_Vescovile_-_Portone.jpg)
B Convento del Carmine (mappa/http://www.brindisiweb.it/arcidiocesi/chiese/ostuni/carmine.htm)
G Francescani (mappa/http://www.brindisiweb.it/arcidiocesi/chiese/ostuni/sanfrancesco.htm)
D S. Francesco di Paula (mappa/http://www.brindisiweb.it/arcidiocesi/chiese/ostuni/sanfrancescodipaola.htm)
E Torre Pizzella/Torre Pozzella (mappa/http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/9/9c/Torre_Pozzelle_Ostuni.jpg)
F Castello di Villanova con il Porto (mappa/http://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/e/ea/Castello_di_villanova.jpg)
Per quanto riguarda lo stemma nella mappa lo scudo è vuoto. Ecco quello attuale (immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Ostuni-Stemma.png):
Credo che la grandezza di un uomo, tanto più di un papa, sia direttamente proporzionale al modo in cui ha gestito il potere, qualunque esso sia, che la sorte gli ha concesso di esercitare e sfruttato, seguendo l’insegnamento di Cristo, per il bene comune il prestigio e l’autorevolezza (non l’autorità che è tutt’altra cosa …) dei vari titoli che nel tempo ha collezionato, più che all’indubbio effetto e alla suggestione che possono suscitare le testimonianze artistiche di cui fu sponsor e pure quelle che post mortem ne hanno perpetuato la memoria1. Nel caso del nostro, poi, esse furono tante che seguono riprodotte solo quelle firmate, tra i vari, dal più famoso artista dell’epoca: Gian Lorenzo Bernini (1598-1680).
Anche se il recentissimo post Alessandro VII papa dal 1655 al 1667 (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/28/alessandro-vii-papa-dal-1655-al-1667/) di Lucio Causo non indulge sfacciatamente a toni apologetici, mi pare doveroso, per amore della storia e ancor più della verità, ricordare, al di là dell’accusa di nepotismo contestastagli e fino ad ora non smentita, tre fatti incontrovertibili ed uno, l’ultimo, con beneficio d’inventario:
1) Com’è noto Fabio Chigi fu nominato vescovo di Nardò l’8 gennaio 1635, consacrato il 1 giugno dello stesso anno e si dimise dalla carica solo il 19 febbraio 1652. Non mise mai piede nella diocesi e delegò subito le sue funzioni a Giovanni Granafei nominato vicario generale l’8 giugno 1635. Domanda: Fabio Chigi, essendo, poco dopo la sua nomina a vescovo di Nardò, impegnato a Malta come generale inquisitore e delegato apostolico ed essendo stato nominato alla fine del giugno 1640 nunzio apostolico a Colonia con potere di legato a latere e successivamente, mentre ancora era a Colonia, prelato domestico ed assistente al soglio pontificio, perché, di fronte ad un siffatto numero di cariche, mantenne formalmente per tanto tempo quella di vescovo di Nardò sapendo che nella sostanza non avrebbe potuto assolverla nemmeno con l’aiuto di Dio?2 C’è da meravigliarsi a questo punto se, in ossequio al proverbio neretino ogni ppetra azza parete (ogni pietra eleva il muro), dal 1643 al 1654 fu pure rettore dell’abbazia di Santa Maria de Cesarea? Se si potesse difendere il buon Fabio oggi direbbe: – E allora, come la mettiamo con Antonio Mastrapasqua? -. Lascio la risposta a Mingo …
2) Durante gli anni del suo formale episcopato ci fu la brutale repressione dei moti del 16473 nel corso della quale né il Granafei né lui mossero un dito a difesa della popolazione e a condanna di tanta brutalità. Lo fecero, forse, per evitare per la popolazione guai peggiori (?) e per loro semplicemente guai?
3) Nel 1666 Fabio Chigi, dal 1655 papa col nome di Alessandro VII, nominò arcivescovo il Granafei. Qui manifestò almeno buon gusto, (non so se calcolato …) nell’attendere che da quello spargimento di sangue innocente passasse quasi un ventennio.
4) In Pier Giacinto Gallizia, Vita di S. Francesco da Sales, Pezzana, Venezia, 1762 (quinta edizione) , pagg. 314-316 si legge quanto segue4: Essendo notissima al mondo la divozione, che professava al sant’uomo Fabio Chigi, ognuno presagiva, che Alessandro VII null’avrebbe risparmiato per canonizzarlo. Ed affinché sappiano i divoti del Santo donde procedesse quella speciale divozione, che gli aveva questo gran Pontefice, raccontandosi variamente da molti, sarà a proposito, che io narri qui ciò, che vi ha di più certo, essendo stato confidato dal Papa ad un gran Personaggio. Deve dunque sapersi, ch’essendo il Chigi partito da Siena sua patria per andare a Roma, ancor irrisoluto sopra lo stato di vita, ch’egli prenderebbe, incontrò a caso Francesco di Sales in un’osteria, dove ritornando da Roma soggiornava quella sera. S’abbattè poi di passare davanti a lui, e di salutarlo nel primo arrivo, il che diede motivo al buon Prelato di dirgli, che dopo, che col riposo si sarebbe rifatto delle fatiche del viaggio, si lasciasse vedere: la benignità, e dolcezza, con cui parlò, l’opinione, che correva per il mondo, della sua santità, la maestà soave del suo sembiante fecero abbracciare al Chigi con piacere l’occasione di trattare seco, e perciò non mancò di portarsi al più tosto da lui, stimandosi fortunato nel suo incontro. Parlarono di cose virtuose, e sante, ed osservò il Chigi, che le sue parole gli penetravano il cuore. Dopo varj discorsi gli dimandò qual fosse il suo fine nell’andare a Roma, n’ebbe per risposta, non avesse alcun disegno fisso, bensì giunto che fosse in Roma pensare di consultarsi co’ suoi amici, per appigliarsi a quella professione di vita, ch’essi giudicherebbe più propria. Allora soggiunse il Santo, se non avere anche preso consiglio da Dio; e senz’aspettare risposta disse, volersi consigliare egli pure per lui, e che se ne conosceva il volere glie l’avrebbe notificato prima di partire. La mattina seguente, visitato di bel nuovo dal Chigi, gli disse chiaramente, ch’abbracciasse pure lo stato Ecclesiastico, e perciò giunto, che fosse in Roma, s’applicasse allo studio della Sacra Scrittura, e de’ Canoni; come egli promise subito di fare. Stando poi per partire, nel licenziarsi, Francesco presolo in disparte, gli disse:- Giacché vel mi promettete d’abbracciare lo stato Ecclesiastico, promettetemi anche una cosa molto necessaria per la vostra salvezza, ed è di non ricercare giammai alcun benefizio Ecclesiastico-. Glielo promise il Chigi, ed allora il Santo abbracciandolo con grande cordialità, soggiunse: -Se voi osservate fedelmente la promessa, che fate presentemente a Dio, vi prometto per parte sua, che averete un dì il più grande benefizio della Chiesa-. Come poi il successo verificasse la perfezione, ognuno le vede. Intanto il Chigi non dimenticò mai più i divoti ragionamenti uditi dal Santo, il quale e con qusti, e con le sue incomparabili maniere gli aveva rapito il cuore: andò in Roma, s’appplicò agli studi, maneggiò quegli affari, che furono commessi alla sua abilità; ma non si smarrì la memoria di Monsignor di Geneva. Tutto questo racconto è dell’Anonimo al c.14 del lib. 5 della vita del Santo. Cita egli in margine chi accertò averlo udito dalla bocca del Papa medesimo, a cui fa dire che riesce di grande consolazione ad un Sommo Pontefice, quando mette nel numero de’ Santi quel giusto, della virtù di cui può egli produrre pruove, e argomentare da ciò che vide, e udì, ch’era ripieno dello Spirito d’Iddio. Eppur è forza di confessare che l’incontro sia seguito altrove che nel ritornare il Santo da Roma: o che siansi mal intese le parole del Papa. Francesco non fu in Roma che prima d’esser Vescovo, ed allora Fabio Chigi appena contava due anni. Ben potrebb’essere che la predizione fosse fatta al padre, e non a lui, come dicono alcuni, e che nel vederlo fanciullo, gli fosse manifestata la sua futura dignità; il che accordò il Signore a S. Vincenzo Ferreri, e a S. Francesco di Paola. Se poi è arrivato in altro tempo l’incontro, devonsi cambiare nel racconto alcune circostanze, e potrebb’esser seguito nel 1613 quando già aveva il Chigi 15 anni, e fece Francesco il viaggio di Milano. E quantunque ben si sappia che da Siena si va a Roma senza toccare Milano, che fa se ivi non aveva il Chigi qualche interesse, oppure che prima di portarsi a quella Città che è Capo del Mondo, non abbia voluto visitare il Sepolcro di S. Carlo canonizzato di fresco, o vedere Milano che con Roma pretese già di gareggiare? Comunque siasi, allorché Fabio ritrovò la Filotea, non cessava di leggerla, e successivamente ne fece altrettanto de’ libri del santo, esaltando fin alle stelle, com’era dovere, la sapienza celeste, che contengono, ed il profitto, che se ne ricava, come si vede da una lettera da me, portata in altro luogo. Fatto poi da Innocenzo X Nunzio in Colonia, ed inviato Plenipotenziario della pace, che si doveva trattare in Munster, passando in Annisi trattò con la madre di Chaugì, la quale gli disse, di sapere, che il suo Venerabile Fondatore gli aveva predetto il Sommo Pontificato, e che sperava di vederne ben presto l’effettuazione col pensiero, che l’avrebbe favorevole per metterlo sugli Altari, soggiungendo, che sperava di più, cioè a dire, che anco prima d’allora si sarebbe degnato di procurare la sua Canonizzazione con tutti quei mezzi, che gli sarebbero stati possibili. Promise il Chigi ogni sua opera, e conchiuse il suo discorso con queste parole: — Se sarò fatto Papa, lo dichiarerò per Santo-. Rinnovò pure la promessa fatta di adoperarsi per la sua Canonizzazione, quando da Munster mandò al Monastero d’Annisi grossa somma di contante per contribuire alla fabbrica della Chiesa, dicendo di avere sperimentati nella propria persona gli effetti dell’intercessione di Francesco, per mezzo di cui era guarito da pericolosa, e mortale malattia, per lo che a titolo di gratitudine inviava quel danaro. Or essendo salito sul trono di S. Pietro, la Chaugì, nel felicitarlo, lo supplicò a degnarsi di aver memoria della sua promessa, ed altrettanto fece la madre di Montmorencì, (già Duchessa, della Casa degli orsini di Roma), e le Religiose d’Annisi; onde il Papa incominciò a pensar seriamente a questo grande affare. Fu poi anche determinato dalle sollecitazioni delle maestà Cristianissime, assicurandolo la Regina Madre, che oltre al dovere a Francesco la guarigione del fu re Luigi XIII di gloriosa memoria, allorché in una sua pericolosa infermità gli fu applicato il suo cuore, gli doveva altresì la vita di Luigi XIV, suo figlio, dicendo, ch’era stato risanato dal vajuolo, e conservato alla Francia per la sua intercessione. Alle sollicitazioni di queste Maestà, unirono poi anche le proprie, Enrichetta Regina d’Inghilterra, il Duca di Savoia, e la Duchessa madre, gli Elettori di Treviri, Magonza, e Baviera, ed altri senza numero, contandosi otto Principi, dieci Duchi, sette Duchesse, quattro Marescialli, venti Titolati, settant’otto Città, venticinque Parlamenti, trent’otto Arcivescovi, e Vescovi, ventinove Collegiate, sette Generali d’Ordini, venti Abati, quaranta case Religiose di varj Istituti, e sessantanove Monasterj della Visitazione. Non poteva un Pontefice sì affezionato al Santo resistere a tante istanze, ma resisteva all’esecuzione di questo, ardirei dire, comune desiderio, il decreto con cui Urbano VIII proibì alla Congregazione de’ Riti il procedere nelle cause della Beatificazione, e Canonizzazione de’ servi di Dio, se non se dopo passato l’anno cinquantesimo dal dì della morte loro. Perciò convenne al Sommo Pontefice di dispensare da detto decreto, per anni quattordici, privilegiando Francesco di Sales, sicché prima di tale scorsa di tempo potesse la Sacra Congregazione aprire i processi, esaminarli, e fare le formalità solite, e necessarie in casi consimili. Ma nel decreto, con cui derogò a quel di Urbano, adduce tali motivi, che facendo molto onore al Santo, devono qui aver luogo. Dice adunque, che si moveva per ragioni efficaci, che forse in altro tempo avrebbe dichiarate: per compiacere il Re, e tutto il Clero della Francia, ed anche molto più per cagione del singolar ossequi professato da Francesco alla Santa Sede, di cui ne’ tempi di Clemente VIII, Paolo V e Gregorio XV aveva eseguiti con tanta puntualità, e giubbilo gli ordini: per li segnalati meriti, che aveva verso la Religione Cattolica, alla quale aveva acquistati settantadue mila seguaci ritolti all’Eresia; e finalmente per avere con la sua pastorale sollecitudine convertiti alla fede Cattolica Borghi, Città, e Provincie confinanti a Geneva. Tal decreto spedito fu a’ 20 di Giugno 16595. Testimonio il Papa nel Concistoro segreto de’ Cardinali, che essendo egli in Munster Nunzio Appostolico, fu tagliato per guarirlo dal male di pietra, e che stando per ispirare, attesa la violenza dell’operazione, col raccomandarsi a Francesco di Sales, lo vide davanti a sé, e ricevutane la benedizione, si ritrovò in un subito risanato.
Ammesso che sia attendibile quanto ho appena finito di citare, mi chiedo: Fabio Chigi avrebbe lo stesso santificato Francesco se quest’ultimo non gli avesse predetto l’ascesa al soglio pontificio, e se, come lui stesso sembrerebbe aver dichiarato, non avesse potuto, voluto o dovuto compiacere una caterva di pezzi grossi, tra cui, come sempre succede, alcuni molto grossi, uno grossissimo? Tralascio il miracolo di cui sarebbe stato beneficiario perché, se non ci fosse stato, certamente non avrebbe potuto proclamare santo nessuno, come per lo stesso motivo sarebbe stato più improbabile poterlo fare se avesse dovuto rispettare il decreto di Urbano VIII (infatti, essendo morto Francesco di Sales nel 1622, avrebbe dovuto attendere il 1672, cioè il suo 73° anno; e non si sbagliava, perché morì nel 1667); si può perciò escludere che il suo decreto ante tempus sia stato pure un egoistico espediente per garantirsi di passare alla storia prima di passare al mondo dei più?
Più avanti, a pag. 318 si legge: Nella chiesa cattedrale poi di Nardò, di cui egli [il Chigi] fu molti anni vescovo fu altresì fabbricata una cappella famosa, in cui si conserva un dito indice della sua [di S. Francesco di Sales] mano é, onde se ne celebra solennemente la festa. È ora quella Chiesa governata da Monsignor D. Antonio Sanfelice…
Di questa cappella6 e della inevitabile epigrafe che avrebbe dovuto accompagnarla, nonché della reliquia, non resta traccia, ma, se la notizia corrisponde al vero, essa fu testimonianza di autentica devozione o personale desiderio di Alessandro VII di essere ricordato nella città di cui era stato il vescovo-fantasma?
Non posso chiudere questo post senza spendere poche parole su Giovanni Granafei al quale il Chigi, in tutt’altre faccende affaccendato, aveva delegato, come s’è detto all’inizio, la funzione vescovile. Nel suo piccolo anch’egli volle lasciare testimonianza visiva del suo passaggio terreno. Tra le tante epigrafi perfettamente conservate che lo riguardano mi piace ricordare, paradossalmente per motivi che saranno chiarissimi solo alla fine, proprio quella malridotta, come il resto della fabbrica che la ospita, ancora visibile nella chiesetta di Santa Maria delle Grotta nel territorio rurale di Nardò (tutte le foto che seguono sono mie)7.
Sulla parete destra della parte ipogea, il cui ingresso è evidenziato dalla freccia e riproposto dall’interno nella foto a fianco, è ancora visibile lo stemma del Granafei e al di sotto di questo l’epigrafe in questione.
D. O. M. JOA(N)NES GRANAFEUS BRU(N)DISINU(S)/U(NUSCUIUSQUE) I(URIS) D(OCTOR) PROT(ONOTARIUS) AP(OSTOLICUS) PRA(EPOSITUS) RE(GULARIS) VIC(ARIUS) G(ENERALIS) HOD(IE)/D(OMINI) FABII CHISII NERIT(ONENSIS) EPI(SCOPI) ET IN GER(MANIA)/HESPERIORI NUN(TII) APOS(TOLICI) HANC ECCL(ESIAM)/[……………/……………/…….] ANNO DOMINI MDCXL
A DIO OTTIMO MASSIMO GIOVANNI GRANAFEI DI BRINDISI
DOTTORE DI ENTRAMBI I DIRITTI PROTONOTARIO APOSTOLICO PREPOSTO REGOLARE VICARIO GENERALE OGGI DEL SIGNOR FABIO CHIGI VESCOVO DI NARDÒ E IN GERMANIA OCCIDENTALE NUNZIO APOSTOLICO QUESTA CHIESA [………./………/……] NELL’ANNO DEL SIGNORE 1640.
L’epigrafe, dunque, fu apposta sette anni prima dell’eccidio ricordato e sicuramente quando il Chigi era stato nominato nunzio apostolico, cioè dopo la fine del giugno 1640. Il suo stato attuale e quello dell’intero fabbricato, mi ricordano lo strazio non di pietre ma di carne umana del 1647. Vandalismo a parte, sic transit gloria mundi….
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1 Oltretutto il personaggio di cui si parla nacque particolarmente favorito, nel senso che apparteneva ad una famosissima e facoltosissima famiglia di banchieri, i Chigi; i suoi nipoti Mario e Agostino acquistarono dagli Aldobrandini quello che sarebbe diventato palazzo Chigi, poi, dopo la vendita allo Stato italiano nel 1916, sede definitiva dal 1963 della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
2 Si legge in Sforza Pallavicino, Della vita di Alessandro VII, Fratelli Giachetti, Prato, 1849, libro I, a pag. 77: Appena il Chigi ritrovavasi a Messin, che seppe essergli stato destinato dal Papa in cambio di Nicastro Nardò, chiesa di congrua dote, la quale poi gli è stata d’opportuno sovvenimento per supplire a’ grossi e necessarj dispendj della straordinaria nunziatura alemanna.
Sempre nello stesso libro alle pagg. 91-92: Con più grave jattura della sua borsa deliberava di far un’altra azione, la qual riputava non di magnanimità, ma di giustizia e di convenienza. Aveva egli posseduta per tre anni la chiesa di Nardò, ma con l’animo, e non col piede, e si vedea destinato ad altra occupazione rimota di luogo, e diuturna di tempo [nomina a Nunzio in Colonia]: gli venne però in animo di rinunziarla, parendogli ingiusto godere i frutti assegnati per ricompensa del servigio, e non prestarlo. Benché l’impedimento fosse legittimo per l’obbedienza debita al superiore, e sincera da ogni sua richiesta ed industria, ciò nondimeno scusarlo bensì dall’adempimento dell’assistenza tacitamente promessa nel matrimonio spirituale, non già dall’obbligazion di riporre, quant’era in lui, la sua sposa in libertà, insieme con la dote, acciocché fosse provveduta d’altro sposo non impedito ed assiduo. Ne prese consiglio da persona religiosa a lui confidente, e questa l’interrogò, se la chiesa, stando egli lontano, pativa molto in quelle cose, in cui non sogliono patire le chiese che hanno presente il pastore; imperocché se ciò era, e non vi fosse rimedio per altra via, doveva egli procurar la rinuncia: ma il Chigi rispose di no. Più oltre fu interrogato, se il suo vicario governava la chiesa punto men bene di quel che sogliono governarla i presenti lor vescovi; perciocché in tale evento, quantunque picciol fosse stato il vantaggio, era opera non già d’obbligazione, ma di perfezione di procurare alla sua chiesa accrescimento di buon governo col rinunziarla; ed anche in questa parte rispose di no; perché egli, non potendo servire alla sua chiesa personalmente avea usate esquisite diligenze per provederla d’un buon vicario, e trovandovelo messo dalla s. Sede, ve lo confermò, facendogli larghe condizioni, onde i popoli, e ‘l clero unitamente n’erano soddisfatti, ed il commendavano assai, e secondo la qualità comune de’ vescovi, che a quella chiesa sarebbono potuti toccare, non era verisimile, ch’ella fosse da loro meglio amministrata, che dal suo presente vicario. Udito ciò, quel religioso il confortò, che la ritenesse con ogni tranquillità di coscienza: e così fece, ma sempre in modo, che non usò mai opera per aver nuovo uffizio, o per continuar nell’antico, sicché la residenza gli venisse impedita; anzi sempre desiderò d’esercitarla disegnado di far vita comune co’ suoi canonici ad uso de’ santi vescovi. E qualora quelli della sua diocesi diedero memoriale al pontefice per riaver o piuttosto per avere una volta il loro pastore sempre assente, egli non solo non contraddisse, ma fe’ rispondere, ch’essi aveano ragione, e che a lui sarebbe piaciuto , che fosse lor fatta.
Nel libro II, a pag. 175: Né il Papa [Innocenzo X] nel dargli questi onorati pesi [dopo la nomina a cardinale avvenuta il 19 febbraio 1652 gli vennero assegnate quattro Congregazioni: del Sant’Uffizio, del De propaganda fide, per l’esame dei vescovi, di Stato] trascurò di sovvenirlo a sostenere altri pesi più molesti, che alla nuova dignità venivano congiunti. Per le spese straordinarie dei primi giorni gli diede un sussidio di tremila scudi e disse al cardinal Pamfilio: – A quest’uomo conviene che pensiamo noi, perché egli niente pensa a se stesso-. Volle anche fornirlo stabilmente d’entrate, e oltre a qualche cosa che gli avea dato innanzi alla promozione, gli aggiunse pensioni e benefici di nuovo. Ma deliberò di sciorlo dal vescovado di Nardò, non gli parendo dicevole, che in quell’abito egli rimanesse vescovo d’una piccola città baronale nel regno di Napoli. Ed in cambio gli offerse ad arbitrio di lui o la chiesa d’Imola assai principale nella Romagna, ovvero in luogo d’essa tanto d’annua ricompensa (come altri per quella mitra esibiva) quanto n’agguagliasse tutte le rendite. E di più gli diè facoltà di nominare chi gli paresse alla chiesa di Nardò con ogni patto a suo favore più vantaggioso. Alla prima parte rispose, che né poteva mostrarsi inclinato a prendere la nuova chiesa, mentre sua Santità non voleva che andasse alla residenza, come per se stesso era pronto; né dall’altra banda gli pareva conveniente quella maniera d’imporre altrui la soma del vescovado, ed accettare la ricompensa di tutte l’entrate costituite dalla pietà de’ fedeli per sostentamento del vescovo. Dover bene le chiese particolari contribuire a mantenere i senatori della chiesa universale, ma non esser equa contribuzione dare il tutto. Le considerazioni contro la seconda parvero più valevoli, che quelle contro la prima. Avvegnaché il cardinale sarebbe stato assente dal vescovado per le ragioni approvate dal concilio di Trento, ed anche da lungi l’avrebbe amministrato meglio, che altri di presenza; e così di fatto il pontefice diede al cardinale la chiesa d’Imola. Intorno a quella di Nardò egli accettò dal Papa il disporne, ma sotto condizione, purché s’inducesse a pigliarla uno a cui pensava, e della cui attitudine era sì certo, che con l’elezione d’esso credeva di rendere qualche gratitudine alla sua sposa, la cui dote avea posseduta molt’anni con trarne opportuno aiuto nelle sue nunziature.
4 Lo trascrivo integralmente per fugare nel lettore qualsiasi dubbio di aver estrapolato ad arte ciò che mi faceva più comodo.
5 La bolla di canonizzazione emessa in data 19 aprile 1665 è riportata integralmente alle pagg. 318-325. Il testo del Gallizia è reperibile all’indirizzo
6 In realtà la cappella fu fatta costruire da Giovanni Francesco Cristaldi, personaggio legato alla famiglia Chigi, che nel 1668 commissionò a Pietro Lucatelli (pittore romano del XVII secolo) proprio per la cappella un dipinto, non più rintracciabile, raffigurante il santo.
DISPOSE NEL 1656 IL TRASFERIMENTO DA FOSSOMBRONE AD OSIMO
DI SAN GIUSEPPE DA COPERTINO
(Prima di diventare Papa fu nominato Vescovo di Nardò nel 1635)
In data 30 dicembre 1973, il quotidiano Avvenire riportò alcune notizie relative alla sede vescovile di Nardò, la quale ha offerto alla Chiesa il pontefice Fabio Chigi, nato a Siena nel 1599 e nominato vescovo dell’episcopio neretino nel 1635 prima di divenire Papa, col nome di Alessandro VII nel 1655, eletto dal Conclave che durò ottanta giorni fra i dissensi violenti del Cardinale Mazzarino.
Fabio Chigi aveva frequentato l’Università della sua città e nel 1628 fu accolto negli Uffici Vaticani da Urbano VIII; fu vice legato a Ferrara (1629), vescovo di Nardò (1635), visitatore apostolico a Malta e nunzio apostolico a Colonia (1639), rappresentò la Santa Sede al Congresso di Munster (1643), ma si rifiutò di firmare i protocolli finali di Westfalia (1648) perché contrari agli interessi della Chiesa; fu Segretario di Stato nel 1651 e Cardinale nel 1652.
Nel 1655, la sua elezione a Sommo Pontefice coincise con il trasferimento a Roma della regina Cristina di Svezia, la quale abbandonò il protestantesimo per convertirsi al cattolicesimo, facendo rilevare a Papa Alessandro una condotta di vita altamente intellettuale, ma priva della giusta disciplina ecclesiastica.
Alessandro VII nel 1656 con un suo decreto permise ai gesuiti della missione cinese di inserire nella liturgia tradizionale alcuni riti locali, fino ad esentare successivamente il clero cinese di celebrare in lingua latina.
Dopo la morte del Cardinale Mazzarino, avvenuta nel 1661, Alessandro VII ebbe violenti contrasti con Luigi XIV. Per volere di quest’ultimo, inasprì la sua condanna al giansenismo, già decretata dal suo predecessore Innocenzo X, e col trattato di Pisa del 1664 fu costretto dal Re Sole ad accettare le sue imperiose condizioni, rimanendo privato di alcuni territori e subendo l’umiliante controllo sulle nomine episcopali.
Papa Chigi fu religiosissimo, devoto di San Francesco di Sales che canonizzò nel 1665; fu protettore di artisti, arricchì la Biblioteca Vaticana ed abbellì la città di molte tra le più significative opere del barocco romano, come il colonnato di Piazza San Pietro, realizzato da Lorenzo Bernini, e le chiese di Piazza del Popolo. Alessandro VII si spense a Roma nel 1667 e fu sepolto in Vaticano.
Il vescovo Giuseppe Maria Palatucci ha scritto che Alessandro VII, nel 1656, dispose che il frate Giuseppe da Copertino fosse trasferito dal Convento di Fossombrone, appartenente ai Padri Cappuccini, al Convento di San Francesco di Osimo; Giuseppe desiderava ansiosamente di ritornare fra i suoi confratelli. D’altra parte il Ministro Generale si era dato un gran da fare per riaverlo nell’Ordine. A tale scopo fu scongiurato anche Innocenzo X, ma inutilmente. Tale desiderio fu esaudito, però, dal successore Alessandro VII, il quale credette opportuno inviare Giuseppe al Convento dei Padri Conventuali, in Osimo, forse come segno di predilezione per il vescovo di detta città, suo nipote.
I salentini ricordano con devozione Papa Fabio Chigi per il trasferimento del nostro Santo al Convento di Osimo, che si realizzò il 6 luglio del 1657 poiché nell’anno precedente si era diffusa la peste. Il nostro Santo, ricevuto dal vescovo Antonio Bichi, nipote di Alessandro VII, giunto ad Osimo esclamò con gioia: “Haec requies mea!” (Questo è il luogo del mio riposo).
In breve periodo di tempo, molti miracoli furono attribuiti all’intercessione di Padre Giuseppe, denominato il Santo dei Voli, per i suoi mirabili voli estatici. Alcuni biografi, come il Montanari, enunciano 69 miracoli. Lo stesso Alessandro VII, sofferente per grave malattia, guarì indossando la tonaca usata da Giuseppe.
Il frate di Copertino si ammalò gravemente il 10 agosto 1663. Poiché non sopraggiunse alcun miglioramento, la mattina dell’8 settembre ricevette il Santo Viatico e nella serata l’Estrema Unzione, chiedendo perdono a tutti con molta semplicità e sincera umiltà.
Alessandro VII, informato dell’infermità di Giuseppe, volle mandargli la sua benedizione che il frate ricevette in piedi in segno di rispetto, meravigliandosi della bontà del Sommo Pontefice verso di lui. Il frate alle ore 23 del 18 settembre 1663 passò dal tempo all’eternità.
La gente di Osimo, conosceva molto bene la santità di Giuseppe e per questo, a gran voce, venne acclamato con l’appellativo di Santo.
La forma più antica in assoluto è la messapica ORRA che si legge su alcune monete (anche se di epoca romana).
La forma greca più antica del toponimo, ῾Υρίη (leggi Urìe), è attestata in Erodoto (V secolo a. C.), Historiae, VII, 170: Λέγεται γὰρ Μίνων κατὰ ζήτησιν Δαιδάλου ἀπικόμενον ἐς Σικανίην τὴν νῦν Σικελίην καλευμένην ἀποθανεῖν βιαίῳ θανάτῳ. Ἀνὰ δὲ χρόνον Κρῆτας, θεοῦ σφι ἐποτρύναντος, πάντας πλὴν Πολιχνιτέων τε καὶ Πραισίων ἀπικομένους στόλῳ μεγάλῳ ἐς Σικανίην πολιορκέειν ἐπ᾽ ἔτεα πέντε πόλιν Καμικόν, τὴν κατ᾽ ἐμὲ Ἀκραγαντῖνοι ἐνέμοντο. Τέλος δὲ οὐ δυναμένους οὔτε ἑλεῖν οὔτε παραμένειν λιμῷ συνεστεῶτας, ἀπολιπόντας οἴχεσθαι. Ὡς δὲ κατὰ Ἰηπυγίην γενέσθαι πλέοντας, ὑπολαβόντα σφέας χειμῶνα μέγαν ἐκβαλεῖν ἐς τὴν γῆν· συναραχθέντων δὲ τῶν πλοίων, οὐδεμίαν γάρ σφι ἔτι κομιδὴν ἐς Κρήτην φαίνεσθαι, ἐνθαῦτα Ὑρίην πόλιν κτίσαντας καταμεῖναί τε καὶ μεταβαλόντας ἀντὶ μὲν Κρητῶν γενέσθαι Ἰήπυγας Μεσσαπίους, ἀντὶ δὲ εἶναι νησιώτας ἠπειρώτας. Ἀπὸ δὲ Ὑρίης πόλιος τὰς ἄλλας οἰκίσαι … (Si dice che Minosse alla ricerca di Dedalo giunto in Sicania, quella oggi chiamata Sicilia, morì di morte violenta. Tempo dopo i Cretesi per istigazione di un dio, tutti eccetto i Policniti e i Presi, giunti in Sicania con una grande flotta, assediarono per cinque anni la città di Camico che ai miei tempi abitavano gli Agrigentini. Infine, non potendo né prenderla né restarvi sopportando la fame, rinunziando partirono. Come navigando furono davanti alla Iapigia una grande tempesta dopo averli sorpresi li sbattè a terra; essendo andate distrutte le navi non si vedeva ormai per loro possibilità di tornare a Creta e lì si stabilirono dopo aver fondato la città di Oria e cambiando diventarono iapigi messapi invece di cretesi e furono continentali invece che isolani. Dopo la città di Oria ne fondarono altre …)
La forma romana più antica (Uria) è in un frammento delle Antiquitates rerum humanarum di Varrone (II secolo a. C.-I secolo a. C.) tramandatoci dallo Pseudo Probo (III secolo d. C.) nel suo commento In Vergilii Bucolica, VI, 31. Ho riportato l’intero frammento in una delle puntate precedenti dedicata a Castro; qui riporterò solo il periodo che ci interessa: Ab eo item accepta manu cum Locrensibus plerisque profugis in mari coniunctus per similem causam amicitiaque sociatis Locros appulit. Vacuata eo metu urbe ibidem possedit aliquot oppida condidit, in queis Uria et Castrum Minervae nobilissimum (Dopo che la città [Locri] per la paura era stata evacuata lì egli [Idomeneo]se ne impadronì e fondò parecchie città tra cui Uria e la famosissima Castrum Minervae).
La variante greca Οὐρία (leggi Urìa), pure con un riferimento al passo di Erodoto prima riportato, è in Strabone (I secolo d. C., Geographia, VI, 3, 6: Τὰ μὲν οὖν ἐν τῷ παράπλῳ πολίχνια εἴρηται. Ἐν δὲ τῇ μεσογαίᾳ Ῥοδίαι τέ εἰσι καὶ Λουπίαι καὶ μικρὸν ὑπὲρ τῆς θαλάττης Ἀλητία· ἐπὶ δὲ τῷ ἰσθμῷ μέσῳ Οὐρία, ἐν ᾗ βασίλειον ἔτι δείκνυται τῶν δυναστῶν τινος. Εἰρηκότος δ᾽ Ἡροδότου Ὑρίαν εἶναι ἐν τῇ Ἰαπυγίᾳ κτίσμα Κρητῶν τῶν πλανηθέντων ἐκ τοῦ Μίνω στόλου τοῦ εἰς Σικελίαν, ἤτοι ταύτην δεῖ δέχεσθαι ἢ τὸ Ὀυερητόν (Si è parlato delle piccole città sulla costa. Nell’interno invece ci sono Rudie e Lupie e più vicina al mare Alezio; al centro dell’istmo Oria, nella quale si mostra ancora la reggia di uno dei dinasti. Quando Erodoto dice che c’è nella Iapigia Oria fondata dai Cretesi erranti dopo la spedizione di Minosse in Sicilia, di certo è necessario che essa sia intesa come tale o come Vereto); VI, 3, 7: … ἐν ταύτῃ δὲ πόλις Οὐρία τε καὶ Ὀυενουσία, ἡ μὲν μεταξὺ Τάραντος καὶ Βρεντεσίου, ἡ …(su questa [la via Appia] vi sono le città di Oria e di Venosa, una a metà strada tra Taranto e Brindisi, l’altra …).
Nella Tabula Peutingeriana (IV secolo), VI, 5 compare la forma Urbius (in basso a sinistra evidenziato nell’ellisse verde).
Nell’Anonimo Ravennate (VII secolo), Cosmographia, IV, 35 è attestata la forma Urias: Item civitas quae dicitur Locupissandas, item Samnum, Urias, Anxia … ( … poi la città che è detta Locupissanda, poi Samno, Oria, Anxia …).
In Guidone (XII secolo), Geographia, 49 è attestata la forma Ories: Ories in qua reliquiae sanctorum martirum Crisanti et Dariae sunt (Oria nella quale ci sono i resti dei martiri Crisanto e Daria).
Dopo questa ubriacatura di varianti sarebbe azzardato proporre l’etimo definitivo del toponimo, anche perché del messapico ORRA non si conosce il significato. Mi limiterò, perciò a riportare le opinioni altrui. Il Pacichelli proprio all’inizio del brano subito dopo riportato, forse condizionato dall’Ories di Guidone, mette in campo un Oreas, cioè la ninfa dei monti Oreade, dal greco Ὁρειάς (leggi Oreiàs), a sua volta da ὅρος (leggi oros)=monte.
Gasparo Papatodero in Della Fortuna di Oria, Fratelli Raimondi, Napoli, 1775 affronta quest’argomento nelle pagg. 1-15 dove preliminarmente passa in rassegna, confutandole, alcune etimologie (peccato che non ne riporti la paternità): Hyria da Iris, iride, arcobaleno che, in aggiunta presso altri, sarebbe apparso ai Cretesi sul luogo dove avrebbero poi fondato la città; Hyria da Iris che in messapico significherebbe pace; Oria da ὅρος (è questa l’etimologia del Pacichelli). A questo punto il Papatodero, partendo dal fatto che un ῾Υρία (la cui trascrizione in latino sarebbe, appunto Hyria), in Omero è una città delle Beozia, in Esiodo moglie di Nettuno, ritiene non improbabile che que’ Cretesi , che fondaron Oria (come a suo luogo vedrassi) abbian dato a quella un nome di qualche oriental paese come ora anche soglion fare nell’America gli Europei; ovvero un nome di qualche loro Dea: poiché i Cretesi, come si vedrà avanti, sbattuti da una fiera tempesta, edificaron Hyria detta forse dalla Dea Hyria moglie di Nettuno, alla quale forse ascrissero la loro salvezza da quell’orrida sofferta tempesta.
Subito dopo l’autore dopo aver fornito convincente ragione fonetica della trafila Hyria>Uria>Oria, avanza un’altra ipotesi: Hyria potrebbe derivare dalla parola Ebrea Hur, che vuol dire excitare, onde i dotti credono esser nata la parola altra Ebraica Hir Civitas. Ed in fatti a tal proposito dice il dottissimo maestro di lingua Ebraica Giovanni Bustorsio nel suo Lessico Ebraico nella suddetta parola “Hir, urbs, Civitas, quidam ad Hur referunt, quod hominum afflictionibus et operis excitata fit”; possiamo dunque credere, che, come attesta Erodoto, essendo stata Oria la prima Città da’ Cretesi fondata; perché quella era il loro edificio, e la loro prima opra, l’avessero perciò detta Hyria, partecipando l’Y dell’U, e dell’I.
Se debbo esprimere la mia opinione, con tutto il rispetto mi vien da dire che questa seconda ipotesi mi sembra un’arrampicata sugli specchi e che il supporto del Bustorsio mi appare come una scala traballante: Come si fa, infatti, a collegare solo in base ad analogie fonetiche, urbs con Hir tentando poi di rimediare con una motivazione semantica che mi appare assolutamente campata in aria quando il Bustorsio afferma che (traduco alla lettera) certi riportano Hir urbs e civitas ad Hur, poiché viene fatta venir fuori dalle sofferenze e dall’opera degli uomini.
Pacichelli (A), pagg. 175-177:
Pacichelli (C, anno 1686)
Era Mandura confederata con Taranto ed Oira, con Roma e con Brindisi. Da Oira (che altri forse meglio dicon Oria, dalla voce latina Uria), della qual città scrive qualche cosa Donato Castiglione, De Coelo Uritano, in sei miglia, mi vidi alla Torre, casale con l’Arcipretura in un bel tempio, e co’ Padri Conventuali.
Pacichelli (mappa)
A Castello (mappa/http://www.toninocarbone.it/2012/08/oria-nei-suoi-monumenti.html)
B Vescovato (mappa/immagine tratta ed adattata da Google Maps)
C Palazzo del Vescovo (mappa/immagine tratta ed adattata da Google Maps)
E S. GiovanniMonastero Celestini/S. Giovanni (mappa/http://eneaportal.unile.it/sul_cammino_di_enea_it/brindisi/media/foto/oria/chiesa-sangiovanni-battista1.JPG/image_large)
F S. Domenico (mappa/http://www.comune.oria.br.it/territorio/da-visitare/item/chiesa-di-san-domenico)
G S. Francesco di Paola (mappa/http://eneaportal.unile.it/sul_cammino_di_enea_it/brindisi/media/foto/oria/chiesa-sanfrancesco-di-paola.JPG/image_large)
H Porta di Taranto/Porta Taranto o Porta degli Ebrei (mappa/http://eneaportal.unile.it/sul_cammino_di_enea_it/brindisi/media/foto/oria/porta-degli-ebrei.JPG/image_large)
K Torre Palomba (mappa/immagine tratta ed adattata da Google Maps)
M S. Francesco d’Assisi (mappa/immagine tratta ed adattata da Google Maps)
Per quanto riguarda lo stemma nella mappa appaiono due scudi vuoti; quello attuale è nell’immagine che segue tratta da http://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/1/17/Oria-Stemma.png
Le recenti osservazioni di alcuni amici, comunicateci sul notissimo social network “ Facebook”, ci hanno spinto, più o meno casualmente, a riconsiderare un aspetto , probabilmente secondario , ma certamente curioso, della nostra storia cittadina.
Si tratta, in sostanza, della corretta lettura e interpretazione, nonche’ contestualizzazione storica, dell’iscrizione collocata su uno dei monumenti piu’ significativi della nostra città, cioè il cosiddetto “Arco di Sant’Angelo”.
L’Arco e’ un monumento realizzato nella seconda metà del sec. XVII, tra i più notevoli dell’ambito urbano, eretto secondo canoni strutturali e decorativi tipicamente rinascimentali. L’opera, secondo recenti ed attendibili studi (cfr. G.Contessa , “Osservazioni sull’Arco di Sant’Angelo”, in “Quaderni Archeo”,1 (1996), p.109-121) fu eretta intorno al 1664-65 su iniziativa dei cittadini di Manduria, e con il concorso (cioè con il contributo economico) di Don Andrea Imperiale, all’epoca Marchese d’Oria e Signore di Casalnuovo.
L’Arco di Sant’Angelo fu eretto per motivazioni essenzialmente devozionali, cioè per impetrare la protezione dell’Immacolata , di San Gregorio Magno e di San Carlo Borromeo sulla città, allo scopo di liberarla dal flagello dei fulmini e dei temporali, le cui conseguenze sull’economia del tempo , che era sostanzialmente agricola,sono facilmente immaginabili.
Sul prospetto ovest del monumento sono raffigurati, procedendo da sinistra a destra, i riferimenti religiosi e devozionali del tempo: San Gregorio Magno, l’Immacolata, e San Carlo Borromeo. Al di sotto del simulacro della Vergine, è posto lo stemma civico.
La statua dell’Immacolata, posta al centro del fastigio, è collocata sensibilmente più in alto rispetto alle altre, perchè la devozione verso la Vergine era allora (come probabilmente anche oggi) in assoluto la più sentita tra i manduriani.
Le tre statue, dunque, rimangono ancora oggi segno tangibile, oltre che del sentimento religioso della comunità manduriana, anche del bisogno di protezione di quest’ultima dalle avversità, naturali e non. Inoltre, i tre simulacri hanno da sempre la funzione ulteriore di “accogliere” idealmente il visitatore, il quale, una volta varcato il monumentale Arco e introdottosi in città, può godere anch’egli della relativa protezione dei suddetti riferimenti religiosi.
Da un punto di vista strettamente artistico, invece, le tre statue, in pietra tufacea, sono un buon esempio di scultura litica della seconda metà del sec. XVII , opera di un ignoto artefice, probabilmente salentino.
Tutto il monumento, nel suo complesso, sia sul piano strutturale che su quello decorativo risulta piuttosto “attardato”, presentandosi come il prodotto di un clima artistico tenacemente ancorato ad una cultura ”conservativa” (cioè di stampo ancora rinascimentale) anche se, di fatto, concepito e realizzato in un momento storico (1664-65) in cui nei grandi centri dell’arte (Roma, Napoli) si erano già da tempo affermate le novità dell’arte barocca.
Anche i semicapitelli, che segnano il passaggio dal registro inferiore al registro superiore del fronte ovest dell’Arco, risultano essere di gusto pienamente rinascimentale, come le rosette che li fiancheggiano, e riprendono i medesimi motivi che ornano alcune finestre del centro storico di Manduria, risalenti appunto al sec. XVI.
Uno degli elementi che caratterizzano il prospetto ovest dell’opera, su cui proponiamo un approfondimento, è l’iscrizione, ancor oggi leggibile, che corre in corrispondenza dell’architrave, immediatamente sopra il fornice dell’arco. Essa è stata incisa, come vedremo, in età posteriore alla costruzione del monumento (circa 120 anni dopo) ed è stata situata in posizione “strategica”, perchè fosse visibile a tutti, in special modo a chi arrivasse a Manduria provenendo da Taranto, o addirittura da Napoli.
L’iscrizione, a lettere incise sulla pietra tufacea, è stata finora letta (tanto dai cittadini che transitano casualmente sotto l’arco, quanto dagli storici locali che ne hanno fatto oggetto di studio) nel seguente modo: “MANDURIA RESTITUTA”.
In realtà, le osservazioni di alcuni storici locali ci portano a non escludere che detta iscrizione, recentemente sottoposta a restauro (anno 2013) insieme all’intero monumento , sia stata originariamente realizzata in altra forma , e cioè: “MANDURIA RESTITUITA”.
L’iscrizione dunque, da tutti letta e citata come latina, potrebbe essere stata in origine concepita, dettata e realizzata in italiano. Quale è il significato del testo? Esso fa riferimento ad un evento di grande importanza per la nostra città: la restituzione, con Decreto del Re di Napoli del 14 Novembre 1789, su formale richiesta degli abitanti, dell’antico nome messapico di “Manduria” al nostro nucleo urbano, che a partire dal 1090, cioè per ben sette lunghi secoli, era stato denominato “Casalnuovo”.
Il dubbio che l’iscrizione in oggetto non sia stata dettata in lettere latine, ma in lettere italiane, e’ generato :
Dalle osservazioni, accompagnate da un meticoloso rilievo grafico (basato probabilmente, a sua volta, su un rilievo fotografico, oltre che naturalmente sull’osservazione diretta) che fece, a suo tempo, il compianto cultore di storia locale Nino Palumbo, in una sua pregevole opera non piu’ ristampata (Cfr.N.Palumbo, Epigrafi Manduriane, Manduria 1993, p.71).
Dalle parole dello storico locale L. Tarentini, il quale, sulla base probabilmente di alcuni documenti consultati, così si esprime: ”L’epoca di questa data memoranda [Il 1789, data della restituzione dell’antico nome messapico] fu festeggiata dall’Università, che fece incidere sulla Porta di Napoli [cioè l’Arco di Sant’Angelo] la seguente scritta, sormontata dallo stemma civico messo a nuovo: “MANDURIA RESTITUITA”. Dal clero, con solenni funzioni, e “Te Deum”, e dal popolo, con segni di pubblica rimostranza.” (Cfr.L.Tarentini, “Cenni storici di Manduria Antica , Casalnuovo, Manduria Restituita” (Cosenza 1901), p.192.
Precisiamo che il significato dell’iscrizione, e il suo valore di testimonianza storica, non mutano nella sostanza, sia che il testo si legga in latino, sia che esso si legga in italiano.
Il punto, allora, ci pare essere il seguente: qual è il testo autentico dell’iscrizione?
Si consideri che le lettere sono state verosimilmente incise alla fine del sec. XVIII, cioè più di due secoli fa. Su di esse hanno esercitato un’implacabile azione di degrado gli agenti atmosferici. All’azione di questi ultimi, si devono aggiungere gli esiti della recente operazione di restauro, risalente appunto al 2013.
Perchè ci pare necessario ricostruire il testo originario dell’iscrizione? Non certo per mero vezzo di erudizione , quanto perchè esso possa essere correttamente letto, e dunque citato, non solo negli studi locali, ma anche, per es. nelle visite guidate, ecc.
In fondo, si tratta di fare corretta memoria del fondamentale momento in cui Manduria riprese l’antico nome messapico, ben sette secoli dopo la sua rifondazione con il nome di “Casalnuovo” (1090).
Invitiamo allora il Comune di Manduria, unitamente magari ai tecnici che si sono occupati del restauro, a fare una verifica diretta sul testo dell’iscrizione, per appurarne finalmente, con un attento studio, la veste originaria, ed eliminare ogni dubbio.
Ci sia consentita, infine, una piccola osservazione di carattere storico. Il testo autentico dell’iscrizione collocata sull’Arco di Sant’Angelo, che a partire dall’ultimo restauro si legge, a tutti gli effetti, “MANDURIA RESTITUTA” (alla latina), e che come tale è riportato anche dagli storici locali più recenti (cfr. P.Brunetti, “Manduria tra storia e leggenda”, Manduria 2007, p.356) potrebbe, in teoria, essere verificato con l’aiuto dei documenti. A partire, cioè, dal testo dalla relativa Delibera Decurionale (prodotta chiaramente dopo il decreto reale del 14 Novembre 1789), attraverso la quale certamente si stabilì il testo esatto, l’artefice e il costo dell’iscrizione da riprodurre sull’Arco.
Tale delibera, come molte altre relative all’attivita’ del nostro Decurionato, è però con ogni probabilità andata perduta. A meno di ritrovarla nell’Archivio di Stato di Napoli, che conserva comunque ben poche carte prodotte dal nostro Comune nel sec. XVIII, essa non è certamente reperibile nell’Archivio di Stato di Taranto, poichè le Delibere del Decurionato di Manduria ivi depositate iniziano con l’anno 1799. Nell’Archivio Storico del Comune di Manduria , infine, si conservano documenti risalenti nella quasi totalità al periodo postunitario.
Un utile ausilio all’ indagine potrebbe provenire, a questo punto, solo dallo studio delle carte custodite negli archivi privati. Della consistenza di questo patrimonio documentario, però, nessuno studioso, nè locale , nè accademico, ha purtroppo la minima cognizione, poichè i documenti stessi, finora, non sono stati resi consultabili. Non è escluso che alcune di queste fonti, se messe a disposizione degli studiosi, chiaramente nel rispetto delle prerogative dei loro legittimi proprietari, possano sostenere concretamente le ipotesi di ricerca, nonchè, forse, dare una risposta risolutiva ai non pochi interrogativi che la nostra storia cittadina ancor oggi pone.
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