Fare scultura: Donato Minonni

minonni

di Paolo Vincenti

 

Nella sua casa laboratorio nella campagna di Taurisano, Donato Minonni svolge la sua quarantennale attività artistica, intervallando al lavoro la cura dei suoi amati animali e le visite di amici ed estimatori che non gli fanno mancare gratificazione e apprezzamento per i lavori che di volta in volta va eseguendo.

Questo operoso artigiano ed ispirato artista, nato nel 1945, che conosce il valore del sacrificio e della gavetta, fatta durante gli anni della gioventù, è stato per molti anni insegnante di Disegno e Storia dell’Arte negli istituti superiori ed alla pittura e alla scultura ha sempre unito l’hobby della fotografia. La sua attività prevalente però resta quella dello scultore, come la miriade di opere sparse nel Salento testimonia.

Fino a qualche anno fa, suo stretto collaboratore era il figlio Carlo, che ora ha intrapreso nuove strade e si è trasferito a Firenze. In un catalogo o “foto-libro” stampato qualche tempo fa, è tracciata una prima ricognizione della sua carriera, ma molte opere si possono ammirare anche on line, sul suo sito www.cadart.it.  Nel suo laboratorio ha sempre lavorato con le più svariate tecniche come lo smalto, l’argento, il mosaico vetroso, l’intarsio, ecc.

Fra le realizzazioni più importanti, occorre segnalare: il Monumento a Padre Pio, in marmo di Carrara, alto m.2.30 a Taurisano, del 1989; la statua di San Francesco d’Assisi in bronzo patinato verde pompeiano, alta 2 metri e 50, che si trova a Gemini di Ugento, voluta dalla Confraternita Maria Ss. Del Rosario nel 1994; la statua di Santa Lucia in legno di cirmolo, realizzata nel 1998,  che si trova a Brindisi, nella chiesa di San Nicola; l’angelo con un’ala soltanto in marmo bianco di Carrara, a Gallipoli. Bellissima e poetica la scultura “Apollo e Dafne” del 1989. Taurisano è la città di Giulio Cesare Vanini (1585-1619) e dunque fra le realizzazioni di Minonni, non potevano mancare delle opere che all’illustre filosofo del passato rendono omaggio. Fra di esse, un busto in cemento e graniglia del 1969, un timbro con l’immagine del filosofo realizzato in occasione del convegno di studi vaniniani del 1969, un busto del filosofo in cemento, graniglia bianca e polvere di marmo, realizzato sempre nel ’69 per la Scuola Elementare di Taurisano, un busto in bronzo e medaglia per il Liceo Scientifico di Casarano, che è stato  intitolato proprio a Vanini.

Ancora, un busto in bronzo del filosofo del 1995, sempre per il Liceo di Casarano, dove lo stesso Minonni  ha insegnato fino al momento del congedo.  Come dicevo prima, Minonni opera infaticabilmente in vari contesti e in più settori dando man forte a quella schiera di pittori, scultori, grafici, designers che con le arti figurative impreziosiscono il nostro Salento. È proprio il caso di essere d’accordo con  Giorgio Seveso: “come i lavoratori e gli imprenditori danno luogo, con le loro attività, alla ricchezza pubblica di un Paese, così l’operosità degli artisti è uno dei fondamenti dell’immaginario di un’epoca e contribuisce a determinare, in definitiva, quella che si potrebbe chiamare la ‘coscienza poetica’ di una società”.

Notevoli le sue realizzazioni all’interno della Fondazione Filograna a Casarano, come la grande fontana centrale ed i giardini, e poi alcune opere in bronzo per il Calzaturificio Filanto di Casarano. Una delle più recenti realizzazioni in cui è stato impegnato, insieme col figlio Carlo, è quella del sarcofago della serva di dio Mirella Solidoro, molto amata a Taurisano, presso la chiesa Ss. Mm. Maria Goretti e Giovanni Battista. Il foto- catalogo riporta  le varie fasi dell’opera, dal progetto alla scelta dei blocchi di marmo a Carrara, fino alla lavorazione e posa in opera, con l’inaugurazione finale. Nella stessa chiesa, opera di Minonni sono le grandi e bellissime vetrate realizzate in vetri colorati e grisaglia ad alto fuoco.

Nell’antropologia del Salento, che è la patria geografica e dell’anima dell’autore, affondano le matrici artistiche del suo fare scultura. Minonni mi spiega il suo approccio con l’arte e come nascono le opere che gli vengono commissionate. La prima fase è quella degli studi preparatori in cui egli si documenta leggendo tutto ciò che è stato scritto sul soggetto o sul tema che deve essere realizzato, anche con l’ausilio di filmati, ove se ne disponga, documentari e dvd. Quindi procede ai bozzetti preparatori che sottopone all’attenzione dei committenti  e, dopo il placet degli stessi, passa alla all’ultima fase, quella della realizzazione vera e propria.

Perché ciò avvenga però, scoccare la scintilla, la folgore dell’ispirazione. In questo caso, alla technè si unisce la theia dynamis, per dirla con Platone, cioè la magia di quell’ispirazione che ha sempre qualcosa di divino, che irrompe ed invade l’artista, rendendolo “entheos”,  posseduto dal Dio. Forse sarebbe scontato dire che egli non lavora per il presente, seguendo le mode del momento ( non ha forse valore universale la massima oraziana exegi monumentum aere perennius?), ma per  offrire una testimonianza che duri nel tempo,  che parli anche alle generazioni avvenire. Sta di fatto che, contemplando queste opere, si ha davvero la sensazione che il facitore abbia dato ad esse  un che di eternale, sovrastorico.

Uno scultore che lavori su progetti predefiniti infatti ha certamente meno libertà espressiva, per esempio, di un pittore che segua soltanto i ghiribizzi della propria fantasia. Ma, pur nella fedele esecuzione di un preordinato disegno, egli riesce a far sposare insieme cuore e cervello, attingendo dalla propria “visione interiore”, per tornare a Platone, ossia dalla forma ideale di bellezza, la sua rappresentazione materiale, fondendo, nel suo poiein (il “fare” degli antichi greci, da cui “poesia”)la propria interiorità con la matericità dell’opera,   “esprit de finesse e esprit de geometrie”, come dice Pascal.

Una delle opere più imponenti  di Minonni è il Monumento a Padre Pio in bronzo che si trova a Parabita. Il monumento fu voluto dal compianto poeta parabitano Rocco Cataldi, il quale si era adoperato per la costruzione di una piazza proprio dedicata a Padre Pio. A capo del Comitato Promotore, dovette combattere per anni contro la burocrazia, prima di vedere avverato il suo sogno:  una piazza, all’interno della zona di espansione di Parabita, lungo la strada per Collepasso, con al centro una imponente statua bronzea di Padre Pio da Pietralcina, grazie anche alla generosità di tanti concittadini e soprattutto del suo grande amico Raffaele Ravenna. “Un’occasione per contribuire alla crescita spirituale della nostra gente”, scriveva Cataldi in un articolo apparso sulla rivista “NuovAlba” nel marzo 2002, “per guardare in alto, in un momento in cui si è assediati dal materialismo che costringe a guardare in basso” , e pubblicava sulla rivista una poesia inedita scritta in onore del Santo. il monumento scultoreo , realizzato da Donato  insieme al figlio Carlo, venne inaugurato nel giugno del 2002. L’opera, come spiega lo stesso Minonni, “raffigura un grande tronco di ulivo scavato dagli anni nella secolare ricerca della luce. Dalle vecchie radici, come per miracolo, continuano a spuntare sempre nuovi germogli e ramoscelli. Sembrano mani protese verso il cielo in segno di preghiera, auspici di pace e riconciliazione.

Dall’albero, animato da varie figure, emerge il Santo di Pietralcina. La sua mano sinistra si protende porgendo la corona del Rosario a chi la implora, l’altra si alza per benedire due ragazzini intenti a ripetere il rito millenario della piantagione, rimando al culto della Madonna della Coltura di Parabita”.  A Rocco Cataldi, Minonni era legato da profonda amicizia, come testimoniano alcune foto del suo Catalogo e, alla morte del poeta, quando un gruppo di amici volle commemorarlo con un busto ricordo, Minonni fu lieto di assumerne l’incarico che lo portò alla realizzazione di una Stele con ritratto in pietra , posizionata nello stesso spiazzo in cui ha luogo il monumento a Padre Pio.

Fra le opere, occorre aggiungere: la stele funeraria con ritratto di Marcello Lezzi a Matino, del 1997; l’Angelo ad ali spiegate, in marmo bianco di Carrara, a Gallipoli, dl 2001; e fra le più recenti, degna di nota è il Monumento a Papa Giovanni Paolo II, realizzato in marmo bianco di Carrara, alto 3 metri e 15 e posizionato, nella omonima piazzetta, a Casarano, nel 2007. Questa statua potrebbe in realtà definirsi un gruppo scultoreo, dati l’alto contenuto simbolico dell’opera e le diverse serie  allegoriche tracciate nella materia. Infatti, sulle spalle del Papa, vediamo delle colombe e dei ramoscelli di ulivo che il Santo Padre solleva con la mano destra. In basso, sottola sua stola, un nido di pace per l’infanzia; ai piedi del santo, troviamo il gruppo di Solidarietà e Carità, rappresentate con dei giovani che offrono acqua e cibo ad un denutrito; a sinistra in basso è rappresentata l’Accoglienza, con una barchetta carica di disperati che cerca di guadagnare la riva mentre qualcuno da terra tenta di mettere in salvo un bambino; più avanti, un nido formato da ramoscelli di ulivo nel quale sono angioletti e bambini.

Nella parte posteriore invece sono rappresentate scene di guerra, i campi di concentramento, le fosse comuni, le deportazioni e il pianto delle madri che genera un mare di lacrime. Il marmo è il materiale più nobile, difficile da lavorare, secondo l’artista, ma anche latore di grande soddisfazione. “Fare arte” mi racconta il professor Minonni, “ non è riproduzione all’infinito dello stesso tema. Fare arte è invenzione continua, è instancabile, indefessa ricerca, è idea e tecnica; ma l’arte moderna ha imposto all’attenzione generale sedicenti artisti che non hanno tecnica ed anche un gusto che porta inevitabilmente alla moda, alla tendenza del momento” . In questa sua affermazione ritrovo la volontà di ribellarsi alle regole dettate dal mercato, alle mode appunto, che portano sempre ad un appiattimento generale, lasciando poco spazio creativo a chi invece, come il nostro, vuole muoversi in totale libertà.

Ma, a ben pensarci, ciò è sempre successo nel campo dell’arte. Ci sono i ribelli e gli allineati, i conformi e i selvaggi,  bravi, anche ottimi artisti, che seguono le mode e i “grandi”, grandissimi, che le fanno.

“L’arte è l’unica speranza che salva l’uomo dalla violenza, dalla barbarie”, mi dice ancora Minonni. “ L’arte unisce gli uomini e li libera da ciò che è transeunte, facendoli elevare verso l’alto, verso il sublime. Bisogna prendere esempio da Michelangelo,il più grande di tutti, un punto di riferimento imprescindibile, precursore dell’arte moderna. Nelle mie sculture c’è l’umanità che assomiglia all’albero di ulivo che si rinnova sempre su sé stesso, l’umanità che continua ad andare avanti, nonostante le vicende tragiche di questi ultimi tempi”.  La sua ispirazione è classica, la scultura greca il suo modello di riferimento, come confermano l’armonia delle forme, la pulizia, il perfetto equilibrio che trasmette all’osservatore una serenità interiore. Numerose sue realizzazioni decorano tombe private, piazze e luoghi pubblici in tutto il Salento.

Da artista eclettico e curioso,  appassionato anche di architettura e arredamento, ha realizzato opere di restauro di ville, allestimento di negozi, sistemazione di giardini e parchi.  Come grafico, anche alcune copertine di libri quali, ad esempio: “Scuola e cultura nella realtà del Salento” per l’Annuario del Liceo Scientifico Vanini di Casarano;  “Un antico mestiere” di Katia Manni e Silvia Sansone; “Il giovane Gramsci” (Congedo editore) di Luigi Montonato ; “Dal tempo ritrovato” dello stesso autore (Edizioni di Presenza);  “La fatica, l’ingegno, la creatività” di Roberto Orlando (Centrostampa); “Lavoro e proverbi nella società del bisogno. Taurisano tra ‘800 e ‘900” (Congedo Editore) di Vittorio Preite; “Humanitas et civitas. Studi in memoria di Luigi Crudo”, a cura di Giuseppe Caramuscio e Francesco De Paola (Edipan), ed altri ancora. Fra le ultime realizzazioni, un busto marmoreo di Giosuè Carducci, posizionato nel cortile dell’omonimo edificio scolastico taurisanese e  inaugurato nel dicembre del 2011, per i 150 anni dell’Unità d’Italia. In quell’occasione, Aldo de Bernart, che dell’istituto Carducci era stato direttore didattico nei lontani Anni Sessanta, tracciando un parallelo fra la statua carducciana del Guacci (del 1910, presso l’ex Convitto Palmieri di Lecce) e quella  recentissima di Minonni, scrive: “ Da domani gli alunni dell’Edificio Carducci saranno guardati dagli occhi del busto del Minonni, che scava uno sguardo più sereno, più dolce, più tranquillo, forse quello del poeta degli affetti famigliari. È l’arte di questo scultore taurisanese che plasma, accarezza e fa parlare le figure. Ragazzi dell’istituto Carducci, tenete per voi lo sguardo del poeta scolpito da Minonni ed io terrò quello del Guacci.

Solo così potremo ricordare insieme i due artisti, entrati prepotentemente nella nostra vita. E come nel lontano 1910 fu osannato il prof. Luigi Guacci, così noi osanniamo questa sera il nostro prof. Donato Minonni. Grazie professore”.

Il catalogo, nell’ultima parte, riporta anche alcune pitture e litografie di Donato. L’emozione che egli innerva nelle sue opere mi fa pensare ad una semantica  forte di valori che, nella sua visione del mondo e della vita, sostanziano l’opera stessa, ne impastano la materia. E così, specie nelle sculture di arte sacra, la verità della forma e oltre la forma, il bisogno di elevazione,  la spiritualità  che trascende la materia, effusa  nei suoi aerei volumi, costituiscono cifra distintiva e bagaglio poetico del facitore Donato Minonni.

PAOLO VINCENTI

San Francesco e i piedi di Gesù. Brevi osservazioni su una novità iconografica

Crocifisso ligneo in Santa Chiara ad Assisi (sec. XIII)
Crocifisso ligneo in Santa Chiara ad Assisi (sec. XIII)

di Nicola Morrone

 

A metà degli anni ’90 eravamo studenti universitari  a Perugia. Nell’ambito del corso di Storia dell’Arte Medievale, il professore ci suggerì calorosamente di intensificare le nostre visite presso la  Galleria Nazionale dell’Umbria , dove sono conservati, sin dalla fondazione dell’istituzione museale, diversi capolavori della pittura prodotta dai maestri umbri, la gran parte  ivi collocati  per una  più ampia fruibilità.

Durante la nostra visita avemmo modo di osservare per la prima volta un crocifisso ligneo dipinto,  di grandi dimensioni, uno di quelli che, nelle chiese medievali, si appendevano in corrispondenza dell’arco trionfale, cioè nel punto di snodo tra  la navata centrale e il presbiterio. Si trattava , nella fattispecie,  del grande Crocifisso attribuito all’anonimo  “Maestro di San Francesco”, risalente al  1272 e delle dimensioni di cm. 410 X 328.

Di solito, chi osserva dal basso  questi crocifissi di grandi dimensioni, non può averne  una perfetta visione d’insieme: può comunque osservarne  senza particolare sforzo  la parte bassa, e soprattutto  il cosiddetto “suppedaneo”, cioè il tabellone inferiore della croce su cui poggiano i piedi di Cristo crocifisso.

Quel pomeriggio di quasi vent’anni fa, a Perugia, nel contemplare la bellissima opera del pittore umbro ci concentrammo però  su tutto, fuorchè sul suppedaneo, in cui comunque riuscimmo a distinguere la piccola figura di San Francesco d’Assisi pietosamente chino sui grandi piedi di Gesù . La scena  non ci sembrò degna di particolare attenzione: eravamo piuttosto interessati allo stile, potentemente  arcaico , dell’anonimo pittore umbro.

Nel nostro studio manualistico, scoprimmo poco dopo che in  diversi crocifissi lignei del sec. XIII realizzati nell’Italia Centrale (Toscana, Umbria, Marche) nell’ambito della  rivoluzione figurativa che  impose nelle tavole dipinte l’immagine del Cristo Sofferente (Christus patiens) su quella del Cristo Trionfante sulla Morte (Christus triumphans) anche  l’estrema parte bassa della tavola aveva subito delle modifiche. Vi era stata appunto  introdotta l’immagine di  Francesco, il santo di Assisi (1182-1226).

È possibile verificare questo nuovo motivo iconografico , tra le altre opere,  nel Crocifisso ligneo del tipo  “patiens” in Santa Chiara ad Assisi, che nella parte bassa raffigura appunto San Francesco (oltre che Santa Chiara) chino sui piedi di Gesù.

Acquisiamo  però  solo oggi, a distanza di tanti  anni dalla nostra visita alla Galleria Nazionale, la portata rivoluzionaria del motivo iconografico innanzi descritto,  il cui significato , al di là dell’aspetto puramente formale,  si comprende  solo nell’ottica del nuovo approccio mentale e pratico introdotto da San Francesco nell’ambito del Cristianesimo.

L’iconografia conferma  anche in questo caso la sua funzione di “specchio” delle tendenze dottrinali e culturali presenti nella Chiesa, a vantaggio soprattutto degli illetterati.

In cosa consiste la novità iconografica ? Nel fatto che nessun artista orientale o occidentale , forse anche per i limiti imposti dal clero, aveva mai osato rappresentare in modo così “flagrante” e inequivocabile  l’idea della compartecipazione umana alle sofferenze di Cristo. Neanche gli artisti bizantini, che hanno monopolizzato la figuratività occidentale e orientale per un periodo lunghissimo.

D’altro canto, nell’ iconografia classica del Nuovo Testamento, gli  individui che hanno il privilegio di un contatto ravvicinato con il corpo di  Gesù sono San Giovanni Evangelista nell’Ultima Cena (notissimo il suo tenero e fiducioso appoggiarsi alla spalla del  Maestro) e Maria di Magdala  sotto la croce, nell’atto di abbracciare i piedi di  Cristo (ma più con il gesto di chi vuole trarre conforto dal morente, che con quello di chi vuole fornirglielo). Altri ancora toccheranno il corpo di Cristo solo al momento della Deposizione dalla croce.

A partire dal sec. XIII, nei grandi, tradizionali crocifissi lignei  interviene quindi un grande cambiamento: in cima alla grande immagine del Cristo morente resta l’impassibile Dio Padre, in corrispondenza delle braccia rimangono la Madonna e San Giovanni umanamente dolenti, ma in basso,  in posizione defilata, comincia ad apparire un piccolo uomo, che prende nelle sue mani il grande piede di Gesù morente, vi appoggia teneramente il capo,  e lo bacia.

San Francesco abbraccia i piedi di Cristo (Part. del Crocifisso in Santa Chiara ad Assisi)
San Francesco abbraccia i piedi di Cristo (Part. del Crocifisso in Santa Chiara ad Assisi)

Questa scenetta, che i pittori italiani del Duecento si sono inventati di sana pianta, ed hanno realizzato con tutta la loro affascinante carica “primitiva”, testimonia appunto visivamente , senza possibilità di equivoci, la rivoluzione introdotta dal santo di Assisi  nella mentalità del tempo. Grazie a lui si inizia a comprendere che,  evidentemente, non si può essere realmente  cristiani se non si raggiunge  un intimo , fisico contatto con Cristo. Se non si arriva, cioè, a toccarne il corpo (che è, al suo livello più immediato e riconoscibile, quello del fratello a vario titolo bisognoso ) e, se del caso,  a baciargli i piedi. Evidentemente, non come molti  suoi coetanei erano abituati a baciarli , in segno cioè  di totale sottomissione , ai potenti del tempo, ma come sommo atto d’amore, dalle conseguenze immediate,  dirompenti e definitive , sia per l’amante che per l’amato.

Nella tavola dipinta, San Francesco bacia i piedi di Gesù per entrare con lui in quella relazione amorosa che lo sosterrà  nella sua breve e non semplice esistenza. L’illetterato di Assisi, che affermava  che il Vangelo andava accolto “sine glossa”(cioè senza più o meno colti  commenti a margine ) procedette da subito  su una strada diversa rispetto a quella dei fratelli  “colti”. Il suo percorso, dopo la conversione,  non fu quello dell’”itinerario della mente in Dio”. Non fu cioè un’operazione astratta,  ma  si svolse, all’opposto,  all’insegna del contatto amoroso con il Cristo sofferente. La sua resta, ancor oggi l’unica esperienza  in grado,  di dare un senso autentico alla vita umana, e quella più appropriata a ricucirne le lacerazioni , che  a volte  possono  apparire insostenibili.Quanti, sulla soglia del  contatto decisivo con Cristo (da rinnovare comunque  necessariamente, senza sosta, attraverso la preghiera) si sono fermati , volendo appunto  prima capire, studiare, pianificare le  mosse , per poi infine ,annoiati o  logorati, abbandonare  l’impresa? E quanti non ci hanno neanche provato?

Il santo di Assisi arrivò al cuore di Dio e dell’uomo, comunque,  in modo certo  più semplice e diretto di quello dei Dottori della Facoltà di Teologia di Parigi, i cui nomi , e i cui pesanti tomi, sono ricordati , ora , solo nei convegni universitari.

A lui , al di là di ogni pesante mediazione dottrinale e culturale, si deve invece  questa grossa intuizione,  divenuta per molti pratica di vita:  è l’amore che porta alla comprensione,  e non viceversa. La via di Francesco, sempre percorribile, e dai frutti immediati, abbondanti e sicuri, la vediamo oggi rappresentata , a perenne testimonianza, nel “suppedaneo” di quel Crocifisso gigantesco che un giorno osservammo  nella Galleria Nazionale dell’Umbria, pur senza comprenderne , allora, l’autentico significato.

 

 

 

La “cupeta tosta”: fatti e misfatti*

di Armando Polito

* questo lavoro esce in contemporanea su  http://www.vesuvioweb.com/it/ col titolo, leggermente adattato, di La “copeta”: fatti e misfatti.

immagine tratta da http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/0/0a/Cupeta_fresca.jpg
immagine tratta da http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/0/0a/Cupeta_fresca.jpg

 

Amo la cubaita che “ci vuole il martello a romperla”, come scrive Sciascia.

A fatica riesci coi denti a staccarne un pezzetto e non lo devi aggredire subito, lo devi lasciare ad ammorbidirsi un pochino tra lingua e palato, devi quasi persuaderlo con amorevolezza ad essere mangiato.

Certo, per i guerrieri d’una volta era più facile, dato che usavano farsi limare i denti per usarli come arma nei corpo a corpo.

Io, bambino, la scoprii nel cassetto del comodino di mia nonna Elvira, che aveva la curiosa abitudine di mangiarsene un pezzetto a letto prima d’addormentarsi.

“Che è, nonna?”

“Cubaita di Cartanissetta”.

Fu un amore fulmineo. E infatti.

“Ma tu, figlio mio, mangi pietre?” – mi domandò il dentista quando mi ci portarono la prima volta a dieci anni.

“Nonsi, cubaita”.

……………

Ora, vecchio, mi viene assai difficile mangiare la cubaita. Mi con­solo scartandola per offrirla agli amici. Ma la carta me la tengo in tasca. Ogni tanto la tiro fuori e l’odoro. E quell’odore, con l’aiuto della memoria, mi restituisce il sapore impareggiabile della cu­baita.

(Andrea Camilleri, Elogio della cubaita dell’Antico Torronificio Nisseno; integralmente leggibile in http://www.vigata.org/bibliografia/elogiodellacubaita.shtml).

L’etimologia è come l’amore, o, se preferite, la vita: riserva gioie e dolori, conferme e tradimenti, sicurezze che vanno in frantumi quando amaramente ci si accorge di essere stati ingannati (o, meglio, di essersi ingannati) e quel sentimento che condensa in sé la fondamentale contraddittorietà del nostro passaggio terreno, nello stesso tempo espressione della  nostra grandezza ma anche della nostra miseria: il dubbio.

Comincio da Cupido, il dio dell’amore, la cui icona può essere sbrigativamente riassunta così: un fanciullo (va bene che è un dio, ma ‘sto figlio di … Venere poteva pur sempre crescere un po’ … per beccarsi qualche pugno sul muso) alato, armato di arco e di frecce che, come le siringhe, non sempre iniettano un farmaco destinato a far stare meglio …

Esso è la personificazione, anzi la divinizzazione, del nome comune latino cupìdo (genitivo cupìdinis) che significa desiderio. La voce cupìdo nasce dal verbo cùpio/cupis/cupìvi o cùpii/cupìtum/cùpere (=desiderare). È uno dei cosiddetti verbi in io, in passato più o meno noti a qualsiasi studente che tra le materie curricolari avesse il latino (oggi mi sentirei di garantire più il meno che il più che precede noto …).

Il verbo in questione, poi, è anche padre di parecchi figli: l’aggettivo cùpidus/cùpida/cùpidum (=desideroso) e i sostantivi cupìditas= (cupidigia), cupìtor= (chi desidera smaniosamente), cuppes= (ghiottone, dissoluto), cuppèdia e cuppèdium (=ghiottoneria), cuppedinàrius=mercante di cibi raffinati.

Tenendo presente tutto quanto fin qui detto ma soprattutto cuppèdia e che cupìta è pure il participio passato femminile singolare del verbo cùpere, non dovrebbe neppure sfiorarci il dubbio che proprio cupìta (=desiderata) sia all’origine di cupeta. Come si fa, infatti, a non desiderare questo delizioso dolce croccante (nel senso che scricchiola sotto i denti, ma anche in quello che, per la sua durezza, potrebbe farli scricchiolare …) fatto con zucchero (o miele) e mandorle tostate? Anche poi chi, come me, è ormai sdentato, non può resistere alla tentazione della nostra cupeta tosta, in cui l’aggiunta dell’aggettivo [tosta è femminile di tuestu, che significa duro e corrisponde all’italiano tosto che è da tostu(m), participio passato di torrère=tostare; ciò che è tostato perde acqua, diventando più duro; nel tosta che accompagna cupeta, perciò, accanto all’idea di duro sopravvive pure quello di tostato, riferito alle mandorle] la dice lunga sulla consistenza del nostro dolce.

Allora, chiederebbe Gerry Scotti, accendiamo cupèta da cupìta? In questo caso sarebbe come accendere la miccia di una bomba, cosa puntualmente fatta in  http://www.agricoltura.regione.campania.it/tipici/tradizionali/copeta.htm, dove si legge: Nei territori campani di Benevento, Avellino e Salerno si produce ancora oggi un torrone di antichissima tradizione, il cui nome deriva dal latino “cupida” che vuol dire “desiderata”. La copeta “cupida” o “cupita”, che veniva desiderata per la sua bontà, viene citata da numerosi scrittori latini, tra cui Tito Livio, e viene riconosciuta come l’antenato del torrone di Benevento …

Osservo quanto segue:

a) In latino cùpida (attenzione all’accento, e non solo) esiste come femminile del già citato aggettivo cùpidus/cùpida/cùpidum, ma non significa affatto desiderata, bensì desiderosa; dunque, un disinvolto e arbitrario passaggio (a parte l’accento che avrebbe dovuto dare còpeta e non copèta) dal significato attivo a quello passivo.

b) Esilarante, poi, la seconda parte in cui vengono messi in campo i numerosi scrittori latini, fra cui Tito Livio. È normale che cùpida=desiderosa (ripeto, femminile di cùpidus/cùpida/cùpidum) e cupìta (participio passato di cùpere=desiderata), esprimendo concetti comunissimi, ricorrano a tonnellate, ma non c’è un solo esempio, dico uno, in cui la prima, tantomeno la seconda, e tutti gli altri figli di cùpere che ho già citato, compaiano ad indicare, in forma più o meno sostantivata, un commestibile specifico.

A beneficio del lettore non disposto ad accettare per oro colato tutto ciò che trova scritto in rete e non solo, esibirò fra poco le fonti dopo aver detto che, una volta accesa la miccia, la micidiale onda d’urto susseguente all’esplosione tende a propagarsi, dal momento che in http://oggicucinoio.forumfree.it/?t=26850196 leggo: All’inizio della sua [del torrone] lunga storia c’è una delizia di origine araba, la copeta, già ricordata dal poeta latino Marziale.

In http://www.eptbenevento.it/schedaItinerario.php?codice=40#sthash.cLUGqQ6Q.dpuf leggo: La “Cupedia”, ossia il progenitore del torrone, era conosciuta già al tempo dei Romani; la sua paternità è attribuita addirittura ai Sanniti, come dimostrano alcuni scritti di Tito Livio. Per il poeta latino Marco Valerio Marziale è uno dei cinque prodotti che, nel I secolo, rappresentano Benevento, la città delle cinque C, ossia “Carduus et cepae” (cardone e cipolle), “Celebrata” (cervellate), “Cupedia” (copeta) e “Chordae” (corde).

In http://vulvino.wordpress.com/2013/10/27/il-precursore-del-torrone-nei-manoscritti-di-tre-medici-arabi-del-medioevo-2/ leggo (ma sono già stanco …):

Marco Terenzio Varrone nelle Satyre Menippeae cita la “cuppedo”, ghiottoneria a base di semi oleosi, miele e albume: e al di là che il letterato reatino abbia inventato la storia della cuppedo “inventata” dai Sanniti per salvare da una fame autoimposta i romani che dovevano stare al mondo per passare sotto le Forche Caudine, quella delle Satyre è comunque una testimonianza che a Roma doveva già esistere. Tito Livio cita la cuppedo come alimento adatto alle lunghe marce dei legionari per le sue proprietà nutritive e la facile conservazione (una sorta di Enervit del Mondo Antico).

In http://magazine.quotidiano.net/enogastronomia/2010/12/27/il-torrone-alleato-della-salute/ leggo (sono sempre più stanco … ): Le testimonianze della sua lunga vita sono tante. Marziale nei suoi epigrammi scrive che i Sanniti, dopo aver umiliato i Romani con le forche caudine, distribuirono come premio torrone ai loro soldati.

In http://www.apicolturangrisani.it/notizie/992-il-torrone-di-benevento.html leggo …): Il temutissimo condottiero Sannita Gaio Ponzio Telesino, che nel 321 a.C. inflisse ai romani la cocente sconfitta imponendo poi loro l’umiliazione di passare sotto i gioghi delle forche Caudine, era molto ghiotto di “Copedia” (in latino “Desiderata”).

Qui, distrutto, finisco di leggere, anche perché sono convinto che, se continuassi a farlo, verrei a scoprire che il temutissimo Ponzio di prima nel corso della battaglia, a causa di un’improvvisa diarrea provocata dai cinque kg. di Copedia che si era fatto in meno di dieci minuti, era stato costretto a battere, sia pure momentaneamente, in ritirata …

Della copeta, come vedremo, si salverà solo l’origine araba, mentre la sua asserita presenza in Marziale, nelle Satyrae Menippeae di Varrone Reatino1  e in Tito Livio2 tradisce  chiaramente l’esistenza di preziosi manoscritti di cui solo ora si viene a conoscenza …

Credo di poter ricostruire le fasi della propagazione di questa nefasta onda d’urto e procedo a ritroso fino al presumibile (è sempre difficile individuare il padre di una sciocchezza) responsabile della deflagrazione della bomba.

Anno 1921. Sulla Rivista storica del Sannio, VII, 6, alle pp. 178-189 in un suo contributo dal titolo Il torrone di Benevento Costantino Anzovino sostiene che Marziale aveva immortalato Benevento per cinque suoi prodotti: carduus, caepae, cerebrata, cupedia e chordae. L’autore si guarda bene dal citare non dico i versi ma almeno il titolo dell’opera di Marziale da cui avrebbe tratto la notizia.

Anno 1838. Un volumetto-strenna per il periodo natalizio dal titolo Le violette. Strenna pel capo d’anno e pe’ giorni onomastici, anno II, Dalla tipografia del Guttemberg, Napoli  contiene anche uno scritto a firma di Matteo Camera (1807-1891), storico e numismatico nato ad Amalfi, in cui l’autore descrive un suo viaggio compiuto a Benevento proprio nell’anno di uscita della strenna. Alle pagg. 105-106 si legge:  La sua [di Benevento] popolazione attuale ascende a circa 20 mila abitanti. Il suo traffico di cerali è di somma importanza; e la copèta ivi lavorata non è scemata di quel pregio che aveva a’ tempi di Marziale, allorchè  , quali prodotti principali del luogo, siccome scrisse: Carduus, et caepae, cerebrata, cupedia, cordae,/nec non et calices, et calceamenta Vitini. Val quanto dire (Benevento) va decantata per i cardi, per le cipolle, per le cervellate, per la copèta, per le corde, per i calici o vasi, e per le calzature lavorate da Vitinio.

Se Matteo Camera anziché inventarsi Marziale, come dirò, se lo fosse riletto, avrebbe trovato non certo  cupedia ma altro pane per i suoi denti …: Apophoreta (o libro XIV degli Epigrammi), LXIX: Peccantis famuli pugno ne percute dentes: Clara Rhodos coptam quam tibi misit edat (Non percuotere con un pugno i denti del servo che sbaglia; mangi la focaccia specialità di Rodi che ti ho mandato).

Ho tradotto con un generico focaccia il coptam originale ed è doverosa una spiegazione. Copta (di cui il coptam del testo originale è l’accusativo) è trascrizione del greco κοπτή (leggi coptè). La voce compare col significato di focaccia di farina e sesamo in Dioscoride (I secolo d. C.), De materia medica, II, 103): Παρίστησι δὲ καὶ πρὸς ἀφροδίσια μιγέν μέλιτι καὶ πεπέρει ἀντὶ κοπτῆς πολὺ λαμβανόμενον ([Il seme di lino] giova anche ai piaceri sessuali, mescolato con miele e pepe, assunto in gran quantità invece di una focaccia di farina e sesamo). Κοπτή ricorre col significato generico di focaccia (a riprova di quanto sia difficile districarsi sul significato di una parola già nei testi originali) in Ateneo di Naucrati (II secolo d. C.), I deipnosofisti, 648e-649b: Dell’amido ricorda Teleclide in Le cose dure dicendo così: “Amo la focaccia calda, non amo le pere selvatiche, gradisco la carne di lepre servita sull’amido”. Sentito ciò, Ulpiano disse: “Ma poiché chiamate κοπτή (leggi coptè) un  piatto (ne vedo una per ciascuno posata sul tavolo), ditemi, o golosi, chi degli autori famosi ricorda questo nome”. E Democrito disse: “Dionisio di Utica nel settimo libro de L’agricoltura dice che si chiama κοπτή il porro marino. Della focaccia al miele [μελιπήκτον (leggi melipecton)] servitaci ricorda Clearco di Soli nell’opera sulle reti da pesca dicendo così: “A chi gli chiese di dire quali fossero gli attrezzi da cucina elencò: treppiedi, pentole, candeliere, mortaio, scanno, spugna, caldaia, badile, pietra cilindrica, fiasco, cesto, coltello, coppa, vaso; o tra le vivande: passato di legumi, lenticche, carne o pesce sotto sale, pesce, rapa, aglio, carne, tonno, salamoia, cipolla, cardo, oliva, cappero, lampascione, fungo; ugualmente tra le leccornie: focaccia al latte [ἄμης (leggi ames)], focaccia piatta [πλακοῦς (leggi placùs)] , focaccia con filetti di pesce [ἔντιλτος (leggi èntiltos)], torta di miele e sesamo, melagrana, uovo, cece, sesamo, κοπτή, grappolo d’uva, fico secco, pera, persea, mela, mandorla”. Questo disse Clearco: ”Sopatro, autore di tragicommedie nel dramma intitolato Porte dice: Chi inventò la κοπτή di abbondante papavero o mescolò piaceri di farina gialla tra le leccornie?”. Allontana, o mio bel ragionatore Ulpiano, la κοπτή che io ti consiglio di non mangiare. E lui senza indugio dopo averla afferrata la mangiò3.

L’unica certezza che emerge è che κοπτή era un nome generico per indicare la focaccia che poteva essere guarnita, in quelle che molto probabilmente sono solo due delle sue versioni, con semi di senape o di papavero. Tornando al nostro Matteo Camera è facile immaginare che, se fosse venuto a conoscenza della copta di Marziale (figlia della κοπτή), forse non si sarebbe inventato il cupedia dei presunti versi del poeta latino: infatti, per trasformare copta in cupedia bastano pochi (?) passaggi: o>u, inserimento di e, passaggio t>d e, per finire, inserimento di i

Debbo riconoscere, però, che Carduus, et caepae, cerebrata, cupedia, cordae,/nec non et calices, et calceamenta Vitini sono due esametri perfetti o, come dimostrerò, quasi perfetti; peccato, però, che, come ho anticipato, essi non furono scritti né da Marziale né da altro autore e sono un’abile quanto criminale invenzione del Camera, sfruttata poi acriticamente a distanza di 83 anni dall’Anzovino (ma nel 1888 c’era stata pure una ristampa in Arte e storia, Tipografia Domenicana), per riprovevolissimi fini campanilistici. La vera scienza ammette l’interpretazione dei dati, in questo caso delle fonti, non la loro manipolazione o, peggio, falsificazione: ma, prima di accanirci sul passato, siamo veramente sicuri che ancora oggi tutta la scienza rispetti questo sacrosanto principio e che al campanilismo di un tempo non sia subentrato, invece, il condizionamento del profitto innanzi tutto? D’altra parte nel XXI secolo ci sono o non ci sono ancora imbecilli che credono di diventare qualcuno inventandosi o comprandosi un titolo di studio o nobiliare?

Sulle fonti tornerò fra poco perché voglio prima dare ragione della criminale invenzione di cui ho accusato il Camera.

Comincio con calceamenta che negli autori classici ricorre solo in prosa e, per giunta, la seconda a non è breve (tale risulta, per improbabile correptio iambica, nel verso in questione) ma lunga. A chi, poi, dovesse chiedermi come mai affermo che la seconda a è lunga senza il supporto dell’uso poetico (l’unico che consente la ricostruzione della quantità delle vocali) ribatto che nel suffisso -amentum la a è sempre lunga (come in sacrāmentum da sacrāre, in iurāmentum da iurāre etc. etc; perciò pure in calceāmentum da calceāre). Cerebrata, poi, non è attestato neppure una volta, né in prosa né in poesia.

Mi piace ora motivare fino in fondo soprattutto il criminale. Intanto va detto, ad integrazione delle precedenti osservazioni,  che in tutta la produzione di Marziale il cardo (carduus), le cipolle (caepae), la copeta (cupedia), le corde [così traduce la sua stessa invenzione il Camera, dimenticando, forse, che corda (o chorda) in Petronio, Satyricon, LXVI, 7 ha il significato traslato di trippa] non compaiono neppure una volta.

E passiamo ai calici (calices), così come compaiono in Marziale, che ci consentiranno di scoprire ulteriormente gli altarini.

Epigramma XC del libro XIII alias Xenia:

Surrentina bibis? nec murrina picta nec aurum

sume: dabunt calices haec tibi vina suos.

 (Bevi vini di Sorrento? Non usare coppe di murra dipinta né di oro: questi vini ti daranno i loro calici).

Epigramma CII  del libro XIV alias Apophoreta:

Accipe non vili calices de pulvere natos,

sed Surrentinae leve toreuma rotae.

(Accetta questi calici nati da una creta non vile ma elegante prodotto di un tornio sorrentino).

E siamo al dunque: epigramma XCVI dello stesso libro:

Vilia sutoris calicem monimenta Vatini

accipe; sed nasus longior ille fuit.

(Accetta questo calice, vile ricordo del ciabattino Vatinio; ma egli fu un naso più lungo).

 

A comprendere l’ironia un po’ criptica dell’epigramma va detto che Vatinio (e non Vitinio …, ma l’errore di stampa o dovuto a citazione a memoria a questo punto sarebbe oro …) è ricordato da Tacito, Annales, XIV, 34: … apud Beneventum interim consedit, ubi gladiatorum munus a Vatinio celebre edebatur. Vatinius inter foedissima eius aulae ostenta fuit, sutrinae tabernae alumnus, corpore detorto, facetiis scurrilibus; primo in contumelias adsumptus, dehinc optimi cuiusque criminatione eo usque valuit, ut gratia, pecunia, vi nocendi etiam malos praemineret.

(… [Nerone] nel frattempo si fermò a Benevento, dove un famoso spettacolo di gladiatori era dato da Vatinio. Vatinio fu tra le più schifose manifestazioni di quella corte, apprendista calzolaio, dal corpo storto, dalle battute scurrili; assunto in un primo momento per lanciare offese, poi si specializzò nel lanciare accuse contro ogni persona dabbene al punto da superare anche i malvagi in benemerenze, denaro, capacità di nuocere).

Qui, dunque, il riferimento è all’invenzione vatiniana di un calice più lungo del naso del suo inventore. Va da sé che, almeno per Marziale, tale calice non era certo un modello esteticamente eccelso; figurarsi, poi, le calzature uscite dalle mani di un apprendista …

La confusione nel Camera tra calici e calzature è stata più ispirata che indotta proprio dalla consonanza finale del suo calceamenta con l’originale monimenta. E ho detto ispirata, perché simili sviste sono inammissibili in letterati del suo calibro e nella fattispecie la malafede è confermata dalle altre voci spacciate come presenti in Marziale.

Chiudo questa parte dicendo che solo tre sono le attestazioni letterarie di copeta che son riuscito a trovare nella letteratura napoletana e confido nell’aiuto degli amici conoscitori nativi di tale lingua per le inevitabili integrazioni e rettifiche, chiedendo nel contempo scusa per essere stato poco tenero nei confronti del loro conterraneo; ma chi mi conosce bene sa che di regola non lo sono nemmeno con i miei conterranei e, se e quando è necessario, nemmeno con  me stesso.

La prima è in Giambattista Basile, Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de peccerille scritto dal 1634 al 1636 ma pubblicato postumo. Nel Trattenimento III della Jornata I si parla di Peruonto, giovane brutto e sfaticato che la madre Caforia, detta Ceccarella, manda a far legna nel bosco. Qui Peruonto s’imbatte in tre ragazze (figlie di una fata) che dormono in un fiume di sudore per il gran caldo; e lui premuroso costruisce per loro un riparo di frasche. Le ragazze per riconoscenza gli conferiscono il potere di ottenere tutto ciò che avesse chiesto. Peruonto non perse molto tempo e, dovendo portare a casa una sarcina di dimensioni non indifferenti, esprime il desiderio, dopo essersi posto a cavalcioni, che sia essa a portarlo a casa. Nel passare davanti alla reggia è oggetto del dileggio di alcune ragazze tra cui Vastolla, la figlia del re. A questo punto lo strano cavaliere esprime il suo secondo, questa volta vendicativo, desiderio e, cioè che Vastolla resti incinta di lui. La cosa avviene puntualmente. Il re sarebbe disposto anche a far fuori la figlia ma i consiglieri lo dissuadono e lo convincono a rimandare tutto al momento del parto. Vastolla partorisce due bambini e i consiglieri, convocati per la seconda volta, decidono di nuovo di prender tempo in modo da far crescere i bambini e permettere, così, di individuarne più facilmente il padre. Quando i bambini sono sufficientemente cresciuti, per fare l’esame comparativo viene organizzato un solenne banchetto al quale partecipa ogni tretolato (titolato) e gentel’hommo (gentiluomo) della città.  Al termine del convito ognuno di loro sfila davanti ai ragazzini sotto lo sguardo attento del re e dei consiglieri. L’esame così architettato dà esito negativo. Viene perciò organizzato un altro banchetto destinato, questa volta, non più a gente de portata, ma de cchiù bascia mano (gente importante, ma di più basso rango), riservato solo alle donne perché, notano i consiglieri, la femmena s’attacca sempre allo ppeo (la donna si attacca sempre al peggio). La reggia viene così invasa da una pittoresca folla femminile composta di chiaise, siercole, guitte, guzze, ragazze, spolletrune, ciantelle, scauzacane, verrille, spoglia ‘mpise, e gente de mantesino e (potevano mancare?) zuoccole, ch’erano alla Cetate (città). Nel frattempo Ceccarella convince il figlio a recarsi pure lui al banchetto e grande è la meraviglia e poi la rabbia del re nel vedere Peruonto accolto dalla irrefrenabile reazione ormonale delle convitate. Lo re, che vedde ste cose, se scippaie tutta la varva, vedenno ca la fava de sta copeta, lo nomme de sta beneficiata era toccato a no scirpio brutto fatto, che te veneva stommaco … (Il re, che vide queste cose, si strappò tutta la barba, vedendo che la fava di questa copeta, il nome di questa beneficiata era toccato a uno simile a giunco fatto (tanto) male, che ti veniva il voltastomaco …). Nel  Vocabolario domestico napoletano e toscano di Basilio Puoti, Tipografia Simoniana, Napoli, 1841, al lemma SCIRPIA: “Dicesi a femmina brutta e laida. Strega, Befana”. Nel Vocabolario delle parole del dialetto napoletano che più si scostano dal dialetto toscano dei Filopatridi, Porcelli, Napoli, 1789: “SCIRPIA:  Brutta strega. Pare, che venga dal lat. scirpus, e dinotasse primitivamente persona, che avesse i capelli, come i giunchi, irti, e dritti, une tete hersée”. L’etimologia proposta mi pare convincente sul piano fonetico (meglio, secondo me, dall’aggettivo scirpeus/a/um) e su quello semantico (e qui il riferimento potrebbe essere pure alla “macilenza” del giunco), per cui ho reso scirpio con uno simile a giunco.

Il lettore noterà il significato traslato di fava che, per somiglianza di forme, qui allude alla mandorla che del dolce in questione è l’elemento più importante e, non a caso, più costoso. Per chi, poi, è curioso di sapere come andò a finire segnalo il link http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_6/t133.pdf (da p. 30).

Anche la seconda attestazione è nel Basile e precisamente, in una situazione e immagine per certi versi simili alle precedenti, ne Le cinco figlie (Trattenemiento VII della Jornata V). È sempre il re che parla: A quale de vuie aggio da dare Cianna? Chisto non è migliaccio, che se pozza spartire a fella, perzò è forza che ad uno tocca la fava de la copeta, e l’autre se pigliano lo palicco (A chi di voi debbo dare Giovanna? Questo non è migliaccio [torta di farina di mais, ciccioli di maiale e formaggio, tipica della zona di Napoli] (tale) che la fetta possa essere spartita, perciò è fatale che ad uno tocchi la fava della copeta e che gli altri si prendano lo stecchino).

La terza attestazione di copeta è in Giulio Cesare Cortese (1570-1640), Micco Passaro nnammorato. Poema eroico, canto II, ottava 23, v. 7: E pecchè doce fu cchiù de copeta (E perché fu più dolce di copeta).

Torno ora alle fonti, quelle antiche, tempo fa promesse.

Plauto (III-II secolo a. C.), Stichus, atto V, scena IV, vv. 26-34:

Stichus -Bibe si bibis-

Sangarinus -Non mora erit apud me-

Stichus -Edepol convivi sat est, modo nostra huc amica accedat: id abest, aliud nil abest-

Stichus -Lepide hoc actum est. Tibi propino cantharum. Vinum tu habes-

Sangarinus -Nimis vellem aliquid pulpamenti-

Stichus -Si horum, quae adsunt, paenitet, nihil est. Tene aquam-

Sangarinus -Melius dicis; nil moror cuppedia

(Stico -Bevi, se vuoi bere-

Sangarino -Non perderò tempo-

Stico -Per Polluce, sono soddisfatto del convivio, ora venga qui la nostra amica; questo manca, null’altro-

Stco –Sì, già fatto. Brindo con questa coppa. Il vino tu ce l’hai-

Sangarino -Ho molta voglia di un po’ di companatico-

Stico – Se non gradisci quel che c’è, niente da fare. Bevi acqua-

-Sangarino – Dici bene; non perdo tempo con le ghiottonerie-).

Trinummus, atto II, scena I, v. 20: cuppes, elegans, despoliator (ghiottone, raffinato, saccheggiatore [tutti epiteti riferiti all’amore]).

Terenzio (II secolo a. C.), Eunuchus, atto II, scena II, vv.24-28: Dum haec loquimur, interea loci ad macellum ubi advenimus,/concurrunt laeti mi obviam cuppedinarii omnes,/ cetarii, lanii, coqui, fartores, piscatores,/quibus et re salva et perdita profueram et prosum saepe;/salutant, ad cenam vocant, adventum gratulantur (Nel frattempo, mentre così discorriamo, quando giungiamo al mercato del posto, lieti mi vengono incontro tutti i venditori di ghiottonerie, pescivendoli, macellai, cuochi, salsicciai, pescatori, ai quali, a fondo perduto o no, avevo fatto del bene e continui a farlo; salutano, mi invitano a pranzo, si rallegrano del mio arrivo).

Varrone Reatino (II-I secolo a. C.), De lingua Latina, V: … forum Cuppedinis a cuppedio, id est a fastidio; quod multi Forum Cupidinis a cupiditate ( … mercato della ghiottoneria da ghiottoneria, cioè dal gusto difficile; molti lo chiamano mercato del desiderio da desiderio).

Cicerone (II-I secolo a. C.), Tusculanae disputationes, IV, 26: Aegrotationi autem talia quaedam subiecta sunt: avaritia, ambitio, mulierositas, pervicacia, ligurritio, vinulentia, cuppedia, et si qua similia (Sono soggetti alla malattia certi vizi: l’avarizia, l’ambizione, la passione per le donne, l’ostinazione, la golosità, l’ubriachezza, la ghiottoneria e altri simili).

Festo (II secolo d. C.), De verborum significatione4, III : Cuppes et cuppedia antiqui lautiores cibos nominabant; inde et macellum forum cupedinis appellabant. Cupedia autem a cupiditate sunt dicta, vel, sicut Varro ait, quod ibi fuerit Cupedinis equitis domum, qui fuerat ob latrocinium damnatus (Gli antichi chiamavano cuppes e cuppedia i cibi alquanto raffinati; da qui chiamavano forus (=mercato) Cupedinis (=del desiderio) il mercato della carne. Cupedia (=le ghiottonerie) poi sono chiamate così da cupiditas (=desiderio) o, come dice Varrone, perché lì c’era stata la casa del cavaliere Cupedine che era stato condannato per furto).

Gellio (II secolo d. C.), Noctes Atticae, VI, 16: Hanc autem peragrantis gulae et in sucos inquirentis industriam atque has undiquevorsum indagines cuppediarum maiore detestatione dignas censebimus, si versus Euripidi recordemur, quibus … (Riterremo poi degne di maggiore condanna quest’attività della gola che scorazza tra i sapori e li ricerca, queste ricerche di ghiottonerie da ogni parte se ricordiamo i versi di Euripide con cui …).

VII, 13: Factitatum observatumque hoc Athenis est ab his qui erant philosopho Tauro iunctiores; cum domum suam vocaret, ne omnino, ut dicitur, immunes et asymboli veniremus, coniectabamus ad cenulam non cuppedias ciborum, sed argutias questionum … (Questo fu abitualmente e osservato ad Atene da coloro che erano più vicini al filosofo Tauro: quando ci invitava a casa sua, per non venire, come si dice, a mani vuote, preparavamo per il pranzo non ghiottonerie di cibi ma arguzie di argomenti …).

Ammiano Marcellino (IV secolo d. C.), Rerum gestarum libri, XXV, 2: indigenti, pars distributa est magna. Et imperator, cui non cuppediae ciborum, ex regio more, sed sub columellis tabernaculi parvis cenaturo, pultis portio parabatur exigua, etiam munifici fastidienda gregario …(A chi aveva bisogno fu distribuita gran parte [delle vettovaglie]. E l’imperatore, per il quale non si apparecchiavano, secondo il costume regale, ghiottonerie di cibi ma al momento di pranzare sotto i piccoli sostegni della tenda una piccola porzione di farinata che avrebbe fatto schifo ad un soldato addetto ai servizi …).

XXVI, 7, 1: Igitur cuppediarum vilium mercatores, et qui intra regiam apparebant, aut apparere desierant … (Dunque i mercanti di vili ghiottonerie e quelli che servivano a corte o avevano cessato di servire …).

XXX, 1, 20: Cumque apponerentur exquisitae cuppediae (E mentre venivano servite squisite ghiottonerie …)

In tutte le testimonianze riportate cuppedia conserva sempre il valore di nome comune, col significato generico di ghiottoneria e in nessun caso è ipotizzabile l’assunzione del valore di nome proprio, ad indicare la nostra specialità.

La conferma definitiva arriva da uno specialista:

Apicio (I secolo a. C.-I  secolo d. C.), De re coquinaria, V, 1: Pultes cum iure oenogari cocti. Pultes oenogari bene cocti iure condies; copadia, similam, sive alicam coctam hoc iure et cum copadiis porcinis apponis oenogari cocti iure conditis (Farinate con brodo di enogaro5 cotto. Condisci le farinate col brodo di enogaro ben cotto; servi i pezzetti di carne, fior di farina o spelta cotta in questo brodo e con i pezzetti di carne di porco conditi col brodo dell’enogaro cotto).

VII, 6: In copadiis ius album. Piper, cuminum, ligusticum, rutae semen, damascena; infundis vinum; oenomeli et aceto temperabis; thymo et origano agitabis (Brodo bianco per pezzetti di carne. Pepe, cumino, ligustico, seme di ruta, prugne di Damasco6; versa del vino, tempera con vino mielato e aceto, mescola con un ramo di timo e origano).

Aliter ius candidum in copadiis. Piper, thymum, cuminum, apii semen, foeniculum, rutam (alias mentham), baccam myrtae, uvam passam; mulso temperabis, agitabis ramo satureiae (Brodo bianco per pezzetti di carne in altro modo. Pepe, timo, cumino, seme di sedano, finocchio, ruta, altrimenti menta, bacca di mirto, uva passa; tempera con vino mielato, mescola con un ramo di santoreggia).

Ius in copadiis. Piper, ligusticum, careum, mentham, nardostachyon, folium, ovi vitellum, mel, mulsum, acetum, liquamen et oleum: agitabis satureia et porro; amyla ius (Brodo sui pezzetti di carne. Pepe, ligustico, carvi, menta, foglia di nardo, un tuorlo d’uovo, miele, vino mielato, aceto, salsa e olio; mescola con un ramo di santoreggia e un porro, mescola con amido il brodo).

Ius album in copadiis. Piper, ligusticum, cuminum, apii semen, thymum, nucleos infusos, nuces infusas et purgatas, mel, acetum, liquamen et oleum (Brodo bianco sui pezzetti di carne. Pepe, ligustico, cumino, seme di sedano, timo, mandorle macerate, noci macerate e ripulite,miele, aceto, salsa e olio).

Ius in copadiis. Piper, apii semen, careum, satureiam, cnici flores, cepullam, amygdala tosta, caryotam, liquamen, oleum, sinapis modicum: defruto coloras (Brodo sui pezzetti di carne. Pepe, seme di sedano, carvi, santoreggia, fiori di zafferano, cipolla, mandorle tostate, dattero, salsa, olio, un po’ di senape; colora con vino cotto).

Ius in copadiis. Piper, ligusticum, petroselinum, cepullam, amygdala tosta, dactylum, mel, acetum, liquamen, defrutum, oleum (Brodo sui pezzetti di carne. Pepe, ligustico, prezzemolo, cipolla, mandorle tostate, dattero, miele, aceto, salsa, vino cotto, olio).

Ius in copadiis. Ova dura incidis, piper, cuminum, petroselinum, porrum coctum, myrtae baccas plusculum, mel, acetum, liquamen, oleum (Brodo sui pezzetti di carne. Sbatti uova sode, pepe, cumino, prezzemolo, porro cotto, bacche di mirto un po’ di più, miele, aceto, salsa, olio).

Che i copadia non sono altro che pezzetti di carne lo dimostra non solo il porcinis che accompagna la prima ricetta ma soprattutto quelle che seguono.

II, 5: Alicam purgas et cum liquamine intestine et albumine porri concisi minutatim simul elixas. Elixato tolles pinguedinem; concides et copadia pulpae; in se omnia commisces; teres piper, ligusticum, ova tria: haec omnia in mortario permisces cum nucleis et pipere integro. Liquamen suffundes, intestinum imples, elixas et subassas, vel elixum tantum appones (Pulisci la spelta e lessala in salsa di intestini e bianco di porro sminuzzato; taglia anche pezzetti di polpa, mescola tutto; pesta pepe, ligustico, tre uova: mescola tutto in un mortaio con noci e pepe intero. Versa la salsa, riempine un budello, lessa e arrostisci leggermente, oppure servilo dopo averlo soltanto lesso).

VIII, 6: Copadia haedina sive agnina pipere, liquamine coques; cum phaseolis farctariis liquamine, pipere, latere, cum imbracto buccellas panis oleo modico. Aliter haedinam sive agninam excaldatam. Mitte in caccabum copadia, cepam, coriandrum minutim succides. Teres piper, ligusticum, cuminum, liquamen, oleum, vinum. Coques, exinanies in patina, amylo obligas (Cuoci con pepe e salsa i pezzetti di carne di capretto o di agnello; con fagioli disfatti nel farro con salsa, pepe, laser cuoci bocconcini di pane in poco olio. Altrimenti prepara carne di capretto o di agnello riscaldata: metti in una pentola i pezzetti, sminuzza  cipolla e coriandolo. Trita pepe, ligustico, cumino, salsa, olio, vino. Cuoci, versa nel piatto e addensa con amido).

Sull’etimo di copàdia (plurale di copàdium), poi, le opinioni non sono concordi. C’è chi (Papia) a suo tempo (XI secolo) lo interpretò, sulla scorta di antichi glossari, come briciola di carne, collegandolo al verbo greco κόπτω (leggi copto)=spezzare, e chi (Forcellini) in tempi più recenti (XVIII secolo) lo ha considerato variante del citato cuppèdia= ghiottoneria. Per quanto possa valere la mia opinione io non escluderei un rapporto con la serie copa=ostessa, caupo o copo=oste, caupona=ostessa, osteria. In ogni caso i copàdia, come abbiamo visto, non sono nemmeno vagamente dei dolci ma mostrano un rapporto strettissimo e costante con la carne (da qui la traduzione con pezzetti di carne; colgo l’occasione per ricordare che pezzettu, chiara italianizzazione di pezzetto, è a Nardò una corta salsiccia, specialità tipica delle trattorie da tempo immemorabile), dunque tra copàdia e cupèta non ci può essere nessun rapporto di parentela.

Infatti le origini di questa delizia sono arabe, come mostra agevolmente cubaita, la variante siciliana, protagonista dell’inizio di questo post, della nostra cupeta. Cubàita, infatti, come oggi concordano gli etimologisti, non è altro che la trascrizione fedele dell’arabo qubbayt=mandorlato. E da cubaita il cubaydario attestato in un atto palermitano del 1287 (notaio De Citella, I, 127, 360).

Che cupeta fosse di origine araba, però, l’avevano già affermato ai loro tempi i Filopatridi nell’opera prima citata, da cui ho tratto il dettaglio che segue:

E per la par condicio faccio seguire alla carta napoletana una foto, un po’ più recente ma d’epoca, neretina.

Nardò, Piazza Salandra prima e dopo l’installazione della Fontana del Toro (1930) con la demolizione della bottega dei Cupitari.

Spero di aver bloccato, così, l’onda d’urto di quest’altra bomba di superficialità (fanno più danno di quelle di profondità autentiche …) per evitare che cibernauti troppo creduloni, improvvisatisi saggisti, trasformino in breve, grazie al copia-incolla, un’epidemia in pandemia. Ma, nel tempo che ho scritto queste righe, chissà quante altre micce sono state accese …

E, a proposito di fuoco, nonostante tutto questo, non è detto che un bel pezzo di cupeta tosta non scateni Cupido … e che alla famosa locuzione del tempo che fu vieni a vedere la mia collezione di farfalle? non si sostituisca Vieni a vedere la cupeta tosta che ho preparato apposta per te? … Evitare, comunque, di dire Vieni ad assaggiare il mio pezzetto? Non va bene, non tanto perché sarebbe una battuta … da osteria ma perché quel diminutivo sarebbe imbarazzante per lui, inquietante per lei …

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1 Un cuppediarum (genitivo plurale di cuppedia) non compare nell’opera di Varrone ma nelle parole di Gellio che in questo caso non possono neppure costituire tradizione indiretta in quanto chiaramente non citazione  (Noctes Atticae, VI, 16,1-6): M. Varro in satura, quam περὶ ἐδεσμάτων inscripsit, lepide admodum et scite factis uersibus cenarum ciborum exquisitas delicias comprehendit. Nam pleraque id genus, quae helluones isti terra et mari conquirunt, exposuit inclusitque in numeros senarios. Et ipsos quidem versus, cui otium erit, in libro, quo dixi, positos legat; genera autem nominaque edulium et domicilia ciborum omnibus aliis praestantia, quae profunda ingluvies vestigavit, quae Varro obprobrans exsecutus est, haec sunt ferme, quantum nobis memoriae est: pavus e Samo, Phrygia attagena, grues Melicae, haedus ex Ambracia, pelamys Chalcedonia, muraena Tartesia, aselli Pessinuntii, ostrea Tarenti, pectunculus [ …], helops Rhodius, scari Cilices, nuces Thasiae, palma Aegyptia, glans Hiberica. Hanc autem peragrantis gulae et in sucos inquirentis industriam atque has undiquevorsum indagines cuppediarum maiore detestatione dignas censebimus, si versus Euripidi recordemur, quibus …  (Marco Varrone nella satira che scrisse sui cibi parla in versi costruiti in modo simpaticissimo ed elegante delle squisite delizie dei cibi dei pranzi. Infatti espose e condensò in versi senari moltissime cose di questo tipo che questi ghiottoni cercano per terra e per mare. E chi ha tempo libero legga proprio questi versi posti nel libro che ho detto; i tipi poi e i nomi e i luoghi di origine dei cibi che si distinguono su tutti gli altri, che la profonda ingordigia investigò, che Varrone indagò condannando, sono press’a poco queste a mia memoria: il pavone da Samo, il francolino dalla Frigia, la gru da Melica, il capretto da Ambracia, il tonnetto dalla Calcedonia, la murena da Tartesso, gli aselli da Pessinunte, le ostriche da Taranto, il pettine [ …], lo storione da Rodi, gli scari dalla Cilicia, le noci da Taso, il dattero dall’Egitto, la ghianda dalla Spagna. Riterremo poi degne di maggiore riprovazione questa operosità della gola che ricerca e richiede i sapori e queste indagini di ghiottonerie da ogni parte, se ricordo i versi di Euripide con cui …).

Il cuppedo messo in campo nel terzultimo dei links costituenti la lista nera di oggi, dunque, non esiste in Varrone ma anche se, per assurdo, fosse ricorso , essendo della terza declinazione, avrebbe dovuto dare, da cuppèdine(m) non cupèta ma, tutt’al più, cuppètine.

2 Sull’episodio ecco il testo originale perché il lettore si renda conto dell’assurdità di certe affermazioni: IX, 6, 5-7: Quod ubi est Capuam nuntiatum, evicit miseratio iusta sociorum superbiam ingenitam Campanis. Confestim insignia sua consulibus, fasces lictoribus, arma, equos, vestimenta commeatus militibus benigne mittunt; et venientibus Capuam cunctus senatus populusque obviam egressus iustis omnibus hospitalibus privatisque et publicis fungitur officiis (Quando giunse a Capua la notizia [dell’umiliazione delle forche caudine], la giusta pietà degli alleati prevalse sulle superbia congenita ai campani. Subito generosamente mandano le loro insegne ai consoli, i fasci ai littori, armi, cavalli, vesti, vettovaglie per i soldati; e per quelli che giungono a Capua tutto il senato e il popolo venuti incontro assolvono ai doveri dell’ospitalità pubblici e privati). Commeatus (=vettovaglie) si è specializzato prodigiosamente nei links segnalati nella nostra cupèta.

3 Τοῦ δὲ ἀμύλου μνημονεύει Τηλεκλείδης ἐν Στερροῖς οὑτωσὶ λέγων·

 φιλῶ πλακοῦντα θερμόν, ἀχράδας οὐ φιλῶ,

χαίρω λαγῴοις ἐπ᾽ ἀμύλῳ καθημένοις.

Τούτων ἀκούσας ὁ Οὐλπιανὸς ἔφη:  Ἀλλ᾽ ἐπειδὴ καὶ κοπτήν τινα καλεῖτε, ὁρῶ δὲ ἑκάστῳ κειμένην ἐπὶ τῆς τραπέζης, λέγετε ἡμῖν, ὦ λίχνοι, τίς τοῦ ὀνόματος τούτου τῶν ἐνδόξων μνημονεύει. Καὶ ὁ Δημόκριτος ἔφη: Τὸ μὲν θαλάσσιον πράσον κοπτήν φησι καλεῖσθαι Διονύσιος ὁ Ἰτυκαῖος ἐν ἑβδόμῳ Γεωργικῶν. Τοῦ δὲ ἡμῖν παρακειμένου μελιπήκτου μέμνηται Κλέαρχος ὁ Σολεὺς ἐν τῷ περὶ Γρίφων οὑτωσὶ λέγων·

τρίπους, χύτρα, λυχνεῖον, ἀκταία, βάθρον,

σπόγγος, λέβης, σκαφεῖον, ὅλμος, λήκυθος,

σπυρίς, μάχαιρα, τρυβλίον, κρατήρ, ῥαφίς,

ἢ πάλιν ὄψων οὕτως·

ἔτνος, φακῆ, τάριχος, ἰχθύς, γογγυλίς,

σκόροδον, κρέας, θύννειον, ἅλμη, κρόμμυον,

σκόλυμος, ἐλαία, κάππαρις, βολβός, μύκης.

Ἐπί τε τῶν τραγημάτων ὁμοίως·

ἄμης, πλακοῦς, ἔντιλτος, ἴτριον, ῥόα,

ᾠόν, ἐρέβινθος, σησάμη, κοπτή, βότρυς,

ἰσχάς, ἄπιος, πέρσεια, μῆλ᾽, ἀμύγδαλα.

Ταῦτα μὲν ὁ Κλέαρχος· Ὁ δὲ φλυακογράφος Σώπατρος ἐν τῷ ἐπιγραφομένῳ Πύλαι δράματί φησιν·

τίς δ᾽ ἀναρίθμου μήκωνος εὗρε κοπτὰς

ἢ κνηκοπύρους ἡδονὰς τραγημάτων ἔμιξεν;

Ἀπέχεις, ὦ καλέ μου λογιστὰ Οὐλπιανέ, τὴν κοπτὴν ἧς συμβουλεύω σοι ἀπεσθίειν. Καὶ ὃς οὐδὲν μελλήσας ἀνελόμενος ἤσθιεν.

4 Dell’opera ci resta solo l’epitome di Paolo Diacono (VIII secolo d. C.).

5 Oenogarum, una salsa di pesce e vino, è dal greco οἴνος (leggi òinos)=vino e γάρον (leggi garon)=salsa di pesce.

6 Lamàscinu, il nome dialettale salentino della susina, è deformazione di damascènum. La ritrazione dell’accento può essere spiegata come fenomeno analogico rispetto al medioevale damàsticum.

 

Ancora sul “fantomatico Manfredi Letizia”

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di Stefano Tanisi

 

Da assiduo lettore del sito della Fondazione Terra d’Otranto, ho avuto modo di leggere un recente articolo di Luciano Antonazzo dal titolo “Il fantomatico pittore Manfredi Letizia” [cfr. https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/21/il-fantomatico-pittore-manfredi-letizia/].

Nella chiesa matrice di Muro Leccese vi è un dipinto dell’Assunta, inserito nell’altare dell’Annunziata, che la storiografia locale lo ritiene realizzato dal pittore Manfredi Letizia.

Lo studioso Antonazzo, nel riferito studio, afferma che il nome del pittore Manfredi Letizia sia frutto di un equivoco che «si deve ad un refuso di stampa che ha fatto saltare la virgola posta dal Maggiulli [L. Maggiulli, Monografia di Muro, 1857, p. 131] tra i cognomi Manfredi e Letizia», ipotesi questa che potrebbe essere condivisibile.

Che l’autore del dipinto dell’Assunta non fosse il “fantomatico pittore Manfredi Letizia” era già noto in un mio saggio “Nota sui dipinti di Aniello Letizia (1669 ca.-1762) nel convento e nella chiesa della Grazia di Galatone”, pubblicato nel 2009 sulla rivista “Miscellanea Franciscana Salentina”, anno 23, quando nella pagina 118 – nota 14 scrivevo: «vanno assegnati ad Aniello anche i piccoli dipinti dell’Assunta (i volti degli Apostoli trovano conferma nelle altre opere galatee) e dell’Immacolata (gli stessi angeli si possono ritrovare nella tela omonima di Montesano Salentino [cfr. https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/01/aniello-letizia-e-il-dipinto-dellimmacolata-di-montesano/]) che sono altrove segnalati come opere di Manfredi Letizia (il “Manfredi”, pittore forse inesistente, è confuso presumibilmente con il sacerdote-pittore Giuseppe Andrea Manfredi da Scorrano, poiché nella chiesa [matrice di Muro Leccese] si conservano dipinti di questo artista)».

Nel 2012, pubblicavo sulla rivista “Leucadia. Miscellanea storica salentina”  – anno IV, uno studio, dal titolo “I dipinti di Aniello Letizia (1669 ca.-1762) nella Diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca”, dove, a pagina 31, ribadisco «Nella Chiesa Matrice di Muro Leccese, la storiografia locale ha assegnato a Manfredi Letizia i dipinti dell’Assunta e dell’Immacolata: da un confronto stilistico i dipinti in questione vanno invece attribuiti ad Aniello Letizia. Per il momento non abbiamo rinvenuto nessun documento riguardo ad un pittore di nome Manfredi Letizia di Alessano, pertanto è lecito dubitare se tale pittore sia realmente esistito». Nella nota 19 sempre di pagina 31 evidenziavo che «I volti degli Apostoli dell’Assunta trovano confronto con gli anziani raffigurati nelle tele della Chiesa del Crocifisso di Galatone, mentre gli angeli nell’Immacolata sono simili a quelli dei dipinti del Santuario di Leuca».

Ma la presenza del pittore Aniello Letizia nella maggior chiesa murese è confermata dal fatto che gli si possono attribuire anche i dipinti della Sacra Famiglia con i santi Anna e Gioacchino e di Sant’Oronzo (cfr. i miei saggi).

Di questi miei studi, presumibilmente, Antonazzo ne era a conoscenza, poiché nel 2012 la menzionata rivista di Storia Patria “Leucadia” pubblicava sia il mio saggio che quello dello studioso ugentino (L. Antonazzo, Il castello di Ugento e i d’Amore).

Anche nell’affermare che “Oronzo e Aniello Letizia sono cugini” ha dato per scontato che questa notizia sia da sempre conosciuta, non riferendo che questa indicazione è il frutto di mie lunghe ricerche d’archivio che finalmente hanno ridisegnato con maggiore chiarezza il quadro familiare dei pittori alessanesi Letizia, visto dagli studiosi, fino al 2012,  articolato e confuso.

Un altro nodo secondo me è da sciogliere nell’articolo dell’Antonazzo è l’attribuzione del dipinto dell’Assunta: il dipinto nel momento in cui lo attribuisco ad Aniello Letizia cerco di fornire dei possibili confronti stilistici con opere certe o documentate del pittore. Lo studioso attribuisce il dipinto «forse più ad Oronzo che ad Aniello Letizia», aspettandoci il confronto del dipinto murese con opere certe del pittore Oronzo Letizia, cosa che non si evince.

Il citare fonti d’archivio e bibliografiche ci sembra spesso dovuto a una gentilezza che si fa all’amico che ha pubblicato per primo la notizia che per un senso di scientificità del lavoro.

C’è da dire inoltre che, purtroppo, negli ultimi anni si sta verificando una sorta di “svago” nell’attribuire opere di pittura e scultura senza un metodo scientifico. È come i tanti quiz televisivi che ci si avventura a “lanciare” la risposta, senza aver minima cognizione dell’argomento. È questo sta nuocendo molto per la nostra Storia dell’Arte, perché sembra che le inesattezze vadano avanti e diventino difficili da estirpare, mentre gli studi più attenti vanno nel dimenticatoio o ignorati…

 

 

 

In Allegato foto: A. Letizia (attr.), Sacra Famiglia con i santi Anna e Gioacchino. Muro Leccese, chiesa matrice (foto S. Tanisi)

24 giugno, festività di San Giovanni Battista. Il solstizio estivo e le erbe di San Giovanni

  

Giugno, il solstizio estivo e le erbe di San Giovanni

di Elvino Politi

Azzate San Giuanni e nu durmire

ca sta bisciu tre nuvole venire,

una te acqua una te jentu una te triste mmaletiempu.

A mare a mare

a ddu nu canta jaddru a ddu nu luce luna

a ddu nu se sente nisciuna criatura.

Tra le antiche tradizioni salentine legate alla terra e all’uso delle erbe c’è in primo piano la tradizione della Notte di S. Giovanni, festa di mezza estate, che ricorre pochi giorni dopo il solstizio d’estate.

Tale giorno era considerato sacro nelle tradizioni precristiane ed ancora oggi viene celebrato dalla religiosità popolare con una festa che cade qualche giorno dopo il solstizio, il 24 giugno, quando nel calendario liturgico della Chiesa latina si ricorda la natività di San Giovanni Battista.

Tutte le leggende si basano su di un evento che accade nel cielo: il 24 giugno il sole, che ha appena superato il punto del solstizio, comincia a decrescere, sia pure impercettibilmente, sull’orizzonte: insomma, noi crediamo che cominci l’estate, ma in realtà , da quel momento in poi, il sole comincia a calare, per dissolversi, alla fine della sua corsa verso il basso, nelle brume invernali.

Sarà all’altro solstizio, quello invernale, che in realtà l’inverno, raggiunta la più lunga delle sue notti, comincerà a decrescere, per lasciar posto all’estate. E’ così che avviene, da millenni, la corsa delle stagioni.

Nella festa di San Giovanni convergono i riti indoeuropei e celtici esaltanti i poteri della luce e del fuoco, delle acque e della terra feconda di erbe, di messi e di fiori. Tali riti antichi permangono, differenziandosi in varie forme, nell’arco di duemila anni, benchè la Chiesa ostinatamente abbia tentato di sradicarli, o perlomeno di renderli meno incompatibili con la solennità.

Molte sono le usanze legate alla Notte di S. Giovanni: nelle campagne l’attesa del sorgere del sole era propiziata dai falò accesi sulle colline e sui monti, poichè da sempre, con il fuoco, si mettono in fuga le tenebre e con esse gli spiriti maligni, le streghe e i demoni vaganti nel cielo. Attorno ai fuochi si danzava e si cantava,

Antiche preci del popolo salentino a San Giovanni Battista

“Azzate San Giuvanni” in provincia di Lecce

 

di Massimo Negro

s-giovanni-b

 

Iniziata con altre intenzioni, la nota “Azzate San Giuvanni” ha risvegliato in molti che l’hanno letta il ricordo di questa antica preghiera popolare. Si sono ricordati di quando l’hanno sentita pronunciare da piccoli dalle nonne o dalle zie. Alcuni, che hanno ancora la fortuna di avere i propri cari anziani in vita, sono andati da loro chiedendo di risentirla. Molti mi hanno scritto riportandomi la loro versione o preghiere similari.

“Azzate San Giuvanni”, a metà tra filastrocca e preghiera, veniva recitata dai nostri anziani quando il cielo veniva ricoperto da nere nubi e scoppiavano quei temporali i cui tuoni facevano tremare i vetri delle porte di casa, facendo temere per i propri cari ancora fuori per le campagne a lavorare.

E’ così iniziata quasi per gioco una sorta di raccolta delle diverse versioni con cui questa preghiera veniva pronunciata nei paesi della Provincia di Lecce. Un viaggio nella tradizione che è diventato anche un’occasione per apprezzare le diversità di pronuncia e dei vocaboli del nostro ricco dialetto salentino.

Tuglie
Partiamo da Tuglie dove vi sono diverse versioni di questa preghiera.

Azzate, San Giuvanni, e nu durmire,
ca visciu tre nuveje caminare
una te acqua,
una te ientu,
una te triste e mmaletiempu.
Portale addhai ci ni canta caddhu,
addhai ci nu luce luna,
addhai ci nu nasce nuddha anima criatura

Ddisciate San Giuvanni,
c’aggiu vistu tre  nuveje
una te acqua,
una te ientu,
una te triste e mmaletiempu.
Ziccale tutt’etre e mintale intra na crutta scura
Addhu nu vive nuddha anima criatura

San Giuvanni mperatore ci purtasti nostru Signore
Lu purtasti e lu nducisti
lampi e troni nde sparasti
Portali fore fore, addhu nu passa anima te lu creatore.

Vi è poi un’ulteriore preghiera che vede Santa Barbara e non San Giovanni, come santa a cui destinare le proprie invocazioni.

Santa Barbara ca camini a mmenzu a li campi
e nu timi né troni né lampi
pensa a mie e a tutti li addhi
cu lu Padre
cu lu Fiju e
cu lu Spiritu Santu
Casarano
Azzate, San Giuvanni, e nun durmire,
ca s’anu viste tre nuule passare,
una de acqua, una ientu,
l’addha de tristu maletiempu.
Pija la scera e portala a mmare,
addhai ci nu face male.
Addhai ci nu canta gallu,
addhai ci nu luce luna,
addhai ci nu nasce nuddha anima criatura.
Galatina
A Galatina ho raccolto due diverse varianti di questa preghiera.

Azzate Giuvanni e nnu ddurmire
ca visciu tthre nnuveje caminare,
una d’acqua, una de vientu,
una de tristu mmaletiempu.
Portale a quiddhre parti scure
a ddrai cci nu canta gallu,
nu lluce luna,
nu nnave nuddhr’anima criatura.

Azzate San Giuvanni e nu ddurmire
ca visciu thtre nuveje caminare
una de acqua, una de vientu,
 una de tristu mmaletiempu.
Vane addhrai ci nu canta callu e nu lucisce luna,
addhrai nunn’ave addhra anima criatura
ca la Madonna mmienzu llu campu nu time nè tronu nè llampu
Montesano Salentino
Azzate, San Giuvanni,
e dduma le cannile,
ca ieu visciu tre nule vinire:
una de acqua, una de ientu,
una de tristu maletiempu.
San Giuvanni se zzò,
le cannile ddumò,
lu maletiempu passò.

Vernole
A Vernole questa preghiera vede al centro delle invocazioni Santa Rosalia.

Santa Rosalia subbra nnu munte sstia,
tridici pecureddhere sta uardà
idde tre nnule passare,
una te acqua,
una te jentu,
una te tristu maletiempu
addhu le facimu scire?
addhu nu canta caddhru,
addhu nu lluce luna,
addhu nun cce nuddhra anima criatura.
Veglie
Ausate San Giuanni e no durmire
ca sta besciu tre nuegghie ti l’aria inire
una ti acqua, una ti jentu, una te tristu e male tiempu.
A mare a mare a do
no canta iaddhru
a do no luce luna
male nu fare, male nu fare, male nu a fare a nuddhu fiju ti criatura.
Galatone
Asate, San Giuanni, e no durmire,
ca s’onu iste tre nuule passare,
una ti acqua, una ti ientu,
l’addrha ti tristu mmaletiempu.
Pigghia la scera e portala a mmare,
addhrai ci no face male.
Addhrai ci no canta gallu,
addhrai ci no luce luna,
addhai ci no nasce nuddhra anima criatura.

 

Novità in Puglia per chi opera nell’agriturismo e nelle masserie didattiche

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di Mimmo Ciccarese

 

Il giorno del solstizio estivo la Regione Puglia propone la rassegna “ Masseria sotto le stelle” come felice occasione per far conoscere ai visitatori alcune delle fattorie che vi aderiscono.

È una giornata in campagna, dove ogni azienda apre a chi ha il desiderio di scorrere una giornata tra asini, greggi e prodotti tipici, vivere la coltivazione, condividere i laboratori didattici e culturali.

La Puglia promuove diligentemente il suo territorio, riportando sulle tavole imbandite intorno alle aie e sotto le balaustre delle masserie fortificate un modello di consumo e di coltivazione ecocompatibile, un esempio da dimostrare come si svolgono i ritmi rurali.

Un lavoro iniziato alcuni anni fa con le biofattorie didattiche, appreso da altre regioni, amplificato e reso accessibile successivamente con un iter selettivo in grado di garantire competenze e trasparenza.

Tempestivamente qualche giorno prima la Regione Puglia approva in bando con il Piano di Svilupo Rurale 2007/2013 la possibilità per gli imprenditori agricoli e non che intendano aprire un’attività come azienda agrituristica o masseria didattica di specializzarsi con due attività formative che riguardano quelle di” Operatore agrituristico” e di “Operatore di masserie didattiche”.

 

Si tratta di offerte della durata di 90 ore che prevedono un aiuto attraverso un voucher formativo a favore di ciascun destinatario e a copertura del 100% dei costi.

La scadenza del bando è fissata alla data del 10 luglio 2014.

 

Un manoscritto per l’estate, ovvero un omaggio del 1615 destinato ad un leccese e finito in America (4/8)

di Armando Polito

Carte 26 e 27.

Ne l’età mia più verde, a te più cara, Petrarca, Trionfi. Trionfo della morte, II, 68.

Languebam, nec spes ulla salutis erat (Languivo e non c’era nessuna speranza di salvezza), Massimiano, Elegie, III, 44. L’attribuzione a Virgilio è errata, anche se probabilmente indotta dalla frequenza d’uso del nesso estratto (Spes ulla salutis).

Carte 28 e 29.

Per accorciar del mio viver la tela, Petrarca, Canzoniere, CCXXX, 6.

Nec viribus viris (Né alle forze, né agli uomini). Il nesso viene attribuito a Virgilio, ma è introvabile in questo come in altri poeti latini. Esso si ritrova, invece, in prosa, in Riccardo di San Germano, Chronicon ad annum 1191Cumque nec viris, nec viribus pugnando proficeret (E non giovando  col combattere né agli uomini né alle forze). L’inversione tra viris e viribus può essere stata un’operazione inconscia che ha maldestramente trasformato il nuovo nesso nel primo emistichio di un esametro o (dipende dal seguito) di un elegiaco la cui scansione nelle intenzioni del creatore sarebbe stata: Nēc vĭrĭ|būs vī|rīs ||. Peccato che la prima i di viribus è lunga e la prima di viris è breve. Lo spazio eccessivo tra viribus e viris rende legittimo sospettare che lo stesso autore non si fidasse e che probabilmente contava di tornarci su.

Carte 30 e 31.

Non spero del mio affanno haver mai posa, Petrarca, Canzoniere, CLXI, 9.

Terribiles visu formae, Letumque Labosque (Terribili nell’aspetto della forma la Morte e la Pena), Virgilio, Eneide, VI, 277. L’originale Labos è la variante antica di labor (come honos lo è per honor, decus per decor).

Carte 32 e 33.

Miser onde sperava esser felice, Petrarca, Canzoniere, CCX, 8.

Ira dare aut virtus patitur, nec tendere contra (La rabbia o il valore [non] tollera [di dare le spalle] né di scagliarsi contro), Virgilio, Eneide, IX, 794.

Carte 34 e 35.

Che contro il ciel non val difesa humana, Petrarca, Canzoniere, CCXXX, 79.

Delitias domini, nec quid speraret habebat (Gioia del padrone e non aveva di che sperare), Virgilio, Ecloghe, II, 2

(CONTINUA)

prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/17/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-18/

seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/18/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-28/

terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/20/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-38/

quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/28/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-58/

sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/02/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-68/

settima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/05/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-78/

ottava parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/08/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-88/

San Giovanni Battista nella tradizione popolare salentina

di Giorgio Cretì

In illo tempore, nel Salento che fu, quando la gente viveva sulla terra che coltivava e da essa traeva il proprio sostentamennto, si faceva grande uso di piante spontanee res nullius che prendevano il nome di foje creste ossia di erbe agresti, che non avevano bisogno di essere seminate e coltivate. Era la sapienza della tradizione che permetteva di ricavare da esse alimenti squisiti e anche salutari.

Tra queste erbe erano compresi anche i cardi prima che indurissero e sviluppassero le loro durissime spine. Molto apprezzato era il Rattalùru, ossia il Cardo scolimo (Scolimus hispanicus), che sulle Murge quando muore genera i funghi carduncielli. Ed anche il cardo mariano (Silybum marianum) che veniva impiegato in cucina ed era pure apprezzatissimo per suoi principi attivi riitenuti ancora oggi molto efficaci per l’apparato cardio-vascolare e per la sua funzione epatica.

A Ortelle, ed anche a Vitigliano, che un tempo di Ortelle era frazione, così pure a Vaste che è frazione di Poggiardo, il cardo mariano si chiamava, e si chiama ancora, Spina de San Giuvanni. In altri paesi, come per esempio Spongano, è detto Cardune.

Rosetta basale e capolino di Spina di san Giovanni (ph Antonio Chiarello)

E’ simile ad una delle tante specie del genere Carduus con foglie spinosissime che avvolgono il fusto ed i suoi capolini isolati di colore purpureo che somigliano ai fiori del carciofo. E’ diffuso nell’Italia Centrale e Meridionale e nelle Isole, più raro è nell’Italia settentrionale dove sopravvive come relitto di antiche colture un tempo tenute solo a scopo medicinale. Nei ricordi della signora ‘Maculata di Vitigliano se ne facevano anche dicotti.

Era credenza molto antica che il cardo mariano, in occasione della festa di San Giovanni dimostrassse particolari virtù divinatorie.

Santina di Vignacastrisi ricorda che la sera della vigilia di San Giovanni gli uomini al ritorno dalla campagna tagliavano gli steli fioriti e li portavano a casa. Le donne li bruciacchiavano alla fiamma del camino e poi li mettevano in un seccchio pieno d’acqua; c’era anche chi lasciava le spine bruciate, o anche altre erbe, semplicemente sulla lamia a prendere la rugiada della notte che così guariva da certe malattie. La mattina dopo, comunque, le spine rifiorivano e questo era sempre e comuque buon segno. Le giovani donne innamorate per sapere se si sarebbero sposate entro l’anno, o per sapere se l’uomo verso il quale spasimavano si sarebbe dichiarato, mettevano le spine bruciaccchiate dentro un bicchiere e le lasciavano sul davanzale a prendere il fresco della notte. Dalla loro posizione traevano i buoni auspici.

Nella notte del 24 giugno in cui gli antichi celebravano il solstizio d’estate, anche nel Salento cristiano, si festeggiava San Giovanni Battista ed era una festa di purificazione in cui si dava fuoco alle stoppie secche. Ma qualcuno per conto suo faceva festa anche con focareddhe vere e proprie ad imitazione dei grandi falò propiziatori fatti in piazza in altri posti e in altre occasioni. Niente a che vedere, comunque, con la “Festa delle Panare” di Spongano che si tiene il 22 dicembre di ogni anno e dove si bruciano le paddhotte, le zolle della sansa dei frantoi.

Focareddha di arbusti

Nella tradizione popolare San Giovanni era venerato come taumaturgo capace di guarire qualsiasi male, ma gli  venivano accreditati soprattutto gli attribuiti del fuoco e dell’acqua ed era a Lui che il popolo si rivolgeva per scongiurare il pericolo dei temporali che incutevano sempre grande paura per i danni che potevano arrecare ai raccolti e alle persone. Ancora a Immacolata De Santis di Vitigliano (‘Macculata) dobbiamo la momoria di alcune invocazioni recitate per scongiurare l’arrivo del maletiempu di ogni genere.

San Giuvanni meu barone

Ka ‘ncoddhu purtavi nostru Signore,

Lu purtavi e lu nucivi

u maletiempu tu  sparivi.

 

E nulla cambiava se a volte era chiamato ad intervenire assieme ad altri santi. In quest’altra composizione il richiedente si rivolge prima a Santa Barbara per poi affidare la parte operativa del miracolo richiesto a San Giovanni.

 Santa Barbara ci sta’  ‘menzu ‘li campi

Nu time acqua, nè troni nè lampi,

Azzete Giuvanni e duma tre cannile 

Ka visciu tre scère(1) ‘quarrittu vinire:

De acqua, jentu e maletiempu.

A mare a mare lu maletiempu,

Addhurca nu  canta gallu,

Addhunca nu luce luna

Addhunca nu passa anima una.

 

(1) Scèra era detta il cumulonembo

E a San Giovanni Battista era affidata anche la responsabilità di proteggere il contratto sociale detto del comparaggio, che non aveva niente a che vedere con il reato previsto dal nostro Diritto, ma era quello del battesimo, in cui i contraenti – di solito parenti o amici – assumevano, appunto, l’appellativo di compari di San Giovanni. Al santo profeta  che aveva battezzato Gesù veniva dedicato un rapporto speciale che si creava e rimaneva sacro per tutta la vita. Tra il padrino e la famiglia del bambino tenuto a battesimo, si instauravano speciali rapporti di amicizia che avevano un valore quasi uguale a quello di parentela. Il bambino figlioccio, fin dalla tenera età, era educato a rivolgersi con affetttuoso rispetto al proprio padrino facendo precedere sempre il suo nome dall’appellativo di nunnu/nunna, anche nell’età adulta. Il padrino/madrina si rivolgeva al figlioccio chiamandolo semplicemente sciuscettu (lat. filius susceptus, figlio adottato) e sullo stessso esercitava quasi la stessa autorità del padre/madre naturale.

Per ultimo non è da dimenticare uno squisiito fico precoce, la cui maturazione avviene a cavallo del soltizio d’estate ed è una varietà di Ficus carica detta fica de San Giuvanni. I suoi fioroni, fichi di primo frutto, puntualmente sono pronti per il 24 di giugno  ed hanno forma di trottola con polpa granulosa, dolce ma non mielosa, ottimi per il consumo fresco. Ed essendo la cultivar bifera produce anche un fòrnito, un fico di secondo frutto, di forma globosa a fiasco allungato con buccia gialla, costoluto e con polpa giallo verdastra. Come per tutti gli altri fichi, se al solstizio di giugno sofffia vento di Scirocco i frutti si gonfiano ed essendo i primi sono molto attesi. Se invece persiste vento di Tramonata la loro maturazione diventa difficoltosa e ntaddhene, fanno il callo, cioè, e sono da buttare.

Fichi di San Giovanni

La notte di San Giovanni, notte di prodigi

Moon nymphy, di Luis Ricardo Falero

di Paolo Vincenti

La notte di San Giovanni, la notte delle streghe. In questa notte, è facile vedere, in cielo, volare le streghe che, a cavallo delle loro scope, vanno a partecipare al loro convegno annuale, il Sabba. Questa è la notte più corta dell’anno ma è anche quella più piena di carica simbolica. Appena superato il solstizio d’estate, infatti, il sole comincia impercettibilmente a declinare all’orizzonte.

Questa è la notte dei prodigi. In questa notte magica, consacrata a San Giovanni, il sole si mette a ballare, scende in mare, quando spunta l’orizzonte, e si lava la faccia, anche perché c’è sempre una nuvoletta pronta ad asciugarlo.

Anche la rugiada ha poteri magici:  essa può rendere le donne più desiderabili, può sanare i malati e dona alle erbe poteri miracolosi; infatti, se bagnate dalla rugiada, acquistano proprietà terapeutiche e protettive moltissime specie vegetali, fra cui l’iperico e la lavanda, chiamate, non a caso, “erba” e “spighetta di San Giovanni”. La rugiada però deve essere colta al primo raggio di sole ed ecco che molti trascorrono svegli questa notte, per poter prendere un po’ di quest’acqua magica, nella speranza che possa davvero dar loro beneficio. Anche  i tappeti, le coperte ed i capi invernali vengono esposti cosicché, protetti dalla rugiada di questa notte, possano essere riposti fino al prossimo inverno senza che vi si annidino le tarme.

Daniel F. Gerhartz

In questa notte, si può anche conoscere il proprio futuro, soprattutto per quanto riguarda l’amore. La pratica divinatoria più diffusa è quella che utilizza il bianco dell’uovo. Prima delle ore 24 del giorno 23, si deve buttare in una caraffa o in un bicchiere il bianco di un uovo ed esporlo alla rugiada. Prima dell’alba, la caraffa deve essere ritirata. Al mattino, dalla forma assunta dall’albume, si possono individuare gli attrezzi da lavoro del futuro marito o le iniziali del suo nome. Sarà vero tutto ciò? Sarà falso? Vero e falso si confondono insieme nel Salento, terra di tradizioni, leggende e magie.

Così Carmelina, in una afosa sera di giugno, ritornava a piedi a casa. Era stata far visita ad una vecchia zia, l’unica parente che avesse ancora in vita, alla quale era molto legata, anche se l’anziana donna non aveva mai voluto lasciare casa propria per andare a vivere insieme alla nipote. Più e più volte, Carmelina aveva pregato la vecchia parente di  venire a casa sua, per dividere così insieme gli anni che restavano da vivere ad entrambe e soprattutto quelle lunghe giornate di solitudine e di tristezza: due sentimenti che Carmelina conosceva molto bene da una vita intera. Rimasta orfana giovanissima di entrambi i genitori, da pochi anni era scomparso anche il suo unico fratello, la cui salute era stata sempre cagionevole da quando, poco più che adolescente, aveva contratto una forma patologica di bronchite asmatica poi divenuta cronica. I suoi polmoni avevano retto anche troppo a lungo ma poi, inevitabilmente, era venuto per lui il momento di andare, lasciando quella sorella che tanto amava sola al mondo. Carmelina, cosi come il fratello, non aveva mai voluto sposarsi, forse appagata da quel legame fraterno forte e tenace che sembrava potesse sfidare tutto e tutti. Veramente, in paese non erano mancate delle strane voci, quelle gratuite e maligne che sempre circolano in un paesello di poche anime, secondo le quali in quel menage a due, vi era qualcosa di più di un semplice amore fraterno e che, insomma, fra i due vi fosse del tenero, del perverso ed anche del macabro.. ma queste erano rimaste solo delle voci, ed ora che Cosimo aveva reso l’anima a Dio da due anni, nessuno nemmeno più si ricordava di quelle dicerie.

Daniel F.Gerhartz

L’unica parente rimasta in vita, dunque, era questa vecchia zia, che Carmelina curava amorevolmente e alla quale, ad un certo punto, la donna aveva fatto la più che ragionevole proposta di andare a vivere insieme. Avrebbero in questo modo diviso le spese, dato che le due pensioncine da se stesse non bastavano quasi nemmeno ad arrivare a fine mese ma sommate insieme, e dimezzati i costi di vitto e alloggio, avrebbero certamente reso loro possibile una vita un po’ più agiata. Ma si sa, gli anziani spesso si attaccano alle proprie cose in maniera viscerale e quando si è avanti negli anni le abitudini si radicano a tal punto che non basta più di una qualche disgrazia o morte o malattia, per farle cambiare. Dunque a Carmelina toccava fare ogni giorno il percorso da casa sua a quella della zia e ritorno, per prestarle quell’assistenza che si deve ad una persona molto anziana, dal carattere un po’ difficile, anche se generosa e sempre ben disposta verso quella nipote, alla quale i lunghi anni di nubilato avevano fatto guadagnare quel sempre poco simpatico epiteto di “zitellona”. Quella sera, la donna procedeva più lentamente del solito sulla strada del ritorno, quella strada che avrebbe potuto percorrere ad occhi chiusi e che, portando anche alla piazza del paese, un tempo aveva percorso con animo diverso. Era il tempo in cui Carmelina aveva molti meno anni e molte più speranze, il tempo dell’adolescenza, insomma, e della prima giovinezza, che a tutti gonfia il petto di illusioni; il tempo in cui si fanno progetti per l’avvenire, ignari di quel che verrà, come ignara era allora Carmelina, essendo lontana la tragedia che si sarebbe abbattuta di lì a poco sulla sua famiglia, di quella mano minacciosa che pendeva sulla sua testa,  come una spada di Damocle, come una nuvola di veleno che incombe sulla vita di chi non sa, come un punto interrogativo, come un fosco presagio, come un campanello d’allarme che non suona o suona sempre troppo tardi, come un fulmine a ciel sereno, come l’equazione che non si risolve, la domanda senza risposta, il mistero senza soluzione.

Daniel F. Gerhartz

La donna pensava ai propri sogni, perché anche lei aveva sognato una volta, prima che l’orizzonte di pene e di morte, si dischiudesse sulla sua giovane vita. Pensava a quel tempo in cui era stato bello ballare la pizzica nella piazza del paese, scalza e ebbra di vino e di vita, il cuore gonfio di passione e la testa libera da luttuosi gravami, da neri presagi. Era stato il sogno di un momento, ma quel tempo era stato bello.. poi lo aveva dimenticato, crescendo e invecchiando, fra le contingenze di una vita austera e monotona, come i muri grigi della sua casa che non vedevano da decenni il tocco del pennello. Poi quell’incontro, fatale si direbbe, se non fosse che invece per lei non era stato niente di speciale, solo il piacere di scambiare quattro chiacchiere con una nuova amica e la curiosità di conoscere quelle strane occupazioni nelle quali spesso ella era affaccendata. Quell’amica, Dolores, che aveva conosciuto un giorno in paese, sua quasi coetanea, era una donna magra e sgraziata, che vestiva sempre di nero e dimostrava più anni della sua effettiva età. Era però una persona dolce e disponibile che, con i suoi bei modi di fare, aveva conquistato subito Carmelina affascinandola con le sue conoscenze, che spaziavano dalla storia antica, non solo del paese ma anche dell’Italia e del mondo, alle vite di personaggi famosi, soprattutto filosofi e scienziati, alla magia. Ed erano proprio queste ultime conoscenze che avevano portato la gente del paese a diffidare di lei e ad averne paura, come sempre si ha paura delle cose che non si conoscono, paura del diverso, nostro dissimile, paura dell’ignoto, paura della stessa paura a volte. Dolores aveva fatto degli studi superiori, a differenza di Carmelina che invece si era fermata alla terza media, ed era andata perfino all’Università e questo bastava, nella retriva e un po’ miope mentalità del paese, dove in quegli anni il livello di istruzione era bassissimo e regnava ancora l’analfabetismo, a farne una persona molto al di sopra della media, perché colta, e da trattare quindi con deferenza, se non fosse che la donna aveva indirizzato queste conoscenze e la proprie ricerche ed approfondimenti- in archivi pubblici e anche nelle biblioteca della provincia di Lecce,-  in campi assai poco battuti da una donna in quegli anni: la letteratura, la filosofia, la teologia, le scienze mediche, l’occultistica e, fatalmente,  la magia:  magia bianca, sosteneva Dolores; magia nera, le gridava dietro il paese. Carmelina aveva sempre ascoltato con molta attenzione quelle strane formule che la donna le leggeva e soprattutto le storie e i vari aneddoti che Dolores le raccontava. Ma al di là del mero piacere, del tutto innocente, di trascorrere qualche ora in compagnia dell’amica, non c’era mai stato un effettivo interessamento di Carmelina alla materia della magia e a quelle storie di santoni e diavolesse su cui Dolores si intratteneva con gusto orrido. Carmelina era insomma quel tipo di donna non facilmente suggestionabile e nemmeno intellettualmente predisposta a farsi rapire da quel vortice di macabre sensazioni generate nella sua mente dalla notevole capacità affabulatoria di Dolores. Una donna pratica, si direbbe, un poco indurita dai disagi della vita, certo poco attratta da tutto ciò che non si possa toccare con mano, da tutto ciò che non sia quantificabile e verificabile secondo i normali parametri e quelle sensazioni duravano giusto lo spazio di un racconto, della sua permanenza a casa di Dolores,  per poi scomparire senza lasciar traccia dalla sua mente e dalla sua vita, appena lasciato la casa della donna. Mai che quei resoconti di processi alle streghe, di punizioni e orribili supplizi, la avessero condizionata nel regolare svolgersi della vita quotidiana o avessero disturbato i suoi sogni. Era come se Carmelina chiudesse tutte quelle strane storie in un cassetto insieme con la loro narratrice,e lo riaprisse quando nuovamente andava a farle visita. Negli ultimi tempi, però, la sua frequentazione con Dolores si era molto diradata, un po’ perché le cure della vecchia zia la impegnavano abbastanza, un pò per una certa stanchezza che con l’arrivo dei primi caldi si faceva sentire portandole una maggiore pigrizia, un pò, forse anche, perché si era sentita molto infastidita da quelle voci sul suo conto, che riferivano di Dolores, come di una strega e di lei, come della sua fedele assistente, o peggio erede.

A  R., era la festa di San Giovanni. Da qualche giorno si respirava in paese un’aria di festa ma anche una pesante cappa, di sospetto e di risentimento sembrava avvolgere il paese stesso. Carmelina non riusciva a spiegarsi bene il motivo, troppo poco si intratteneva con la gente del posto o con le comari la mattina a spettegolare, e le sue soste dal fruttivendolo o in farmacia, al tabacchino o alla posta per ritirare la pensione, non le consentivano di essere molto informata sulla vita sociale. Forse il suo era una carattere un pò schivo, forse non era mai riuscita ad uscire da quel guscio nel quale viveva, ad entrare in empatia con la collettività che abitava quel piccolo paese dimenticato da Dio e sconosciuto alle carte geografiche, nel profondo Salento.  A R. c’era una cripta che era legata al culto di San Giovanni. Si trattava di una cripta bizantina, opera degli infaticabili monaci basiliani, che, in illo tempore,  avevano raggiunto le nostre contrade per scappare alle persecuzioni che avvenivano nella loro patria a causa dell’Imperatore Leone III Isaurico. Retaggio della loro presenza nel Salento, queste cripte divennero spesso delle chiesette  e scomparve il rito greco- bizantino introdotto dai monaci orientali. Questo accadde anche alla cripta di R., divenuta una cappella che, con l’avvento del rito latino, fu dedicata a San Giovanni. Questa cripta si trovava su una collinetta poco distante dal centro del paese e lì si festeggiava San Giovanni. Lo spiazzo circostante la chiesetta, per la festa del 24 giugno,  si animava di suoni, balli e colori, poiché, dopo la fine della funzione religiosa e la distribuzione dei prodotti della campagna, tutti rimanevano a ballare e cantare sull’aia, nel segno della tradizione, come usava nei tempi antichi.

Molte volte, negli anni precedenti, alcune ragazze, il giorno della vigilia della festa, si erano recate da Dolores per chiederle preziosi consigli sulle proprie vite. E la donna non aveva fatto mancare loro delle indicazioni su come dovessero comportarsi e su strane pratiche che dovevano mettere in atto, come degli incantesimi, con la manipolazione di certe erbe, per cercare o  recuperare l’amore perduto o per migliorare la propria esistenza. Questo aveva fatto guadagnare a Dolores la fama di santona, maga, “strega”. E ciò non deponeva certo a suo favore, anzi la presenza in quel piccolo paese di un “fenomeno da baraccone” come lei,  si faceva sempre più sgradita, molesta. Infine Dolores venne considerata una creatura delle tenebre, maledetta, senza mezzi termini.

Fatto sta che poco prima di rientrare a casa, Carmelina sentì degli strepiti in lontananza e vide un assembramento di gente proprio vicino alla casa di Dolores. Sembrava che tutto il paese si fosse dato appuntamento in quel posto e ora, fra le alte grida delle donne e gli schiamazzi dei bambini, qualcuno iniziava a picchiare violentemente contro la porta di casa di Dolores e contro i muri esterni con qualche arnese metallico e con pietre e sassi. Poi comparve un tizzone acceso e una catasta di lagna;  Carmelina riuscì a scorgere per un attimo da una finestra lo sguardo terrorizzato di Dolores ma non riusciva a far nulla; era come impietrita dalla paura, raggelata, paralizzata; anzi, per un momento, dallo sguardo inferocito della folla che si accorse di lei, ebbe paura che volessero prenderla e farle fare la stessa fine di Dolores. Era buio inoltrato, si era ormai fatto tardi, il fuoco divampava intorno alla casa della presunta strega e ad un certo punto aggredì anche i muri della casa e si inoltrò all’interno. In pochi minuti, tutta la casa divenne un’enorme pira e si udirono distintamente le grida selvagge di Dolores, imprigionata dentro quella gabbia di fuoco. I suoi lamenti si alzarono al cielo, il cielo di quella notte di San Giovanni in cui l’odio e il fanatismo della gente avevano avuto la meglio sullo studio e sulla conoscenza, sulla apertura mentale e sulla tolleranza, e avevano portato a quell’orrenda devastazione. Avevano scelto simbolicamente proprio quella data per mettere in atto il loro spaventoso progetto di “epurazione”, la loro implacabile, per quanto assurda, vendetta, come per l’espulsione di un corpo estraneo, l’uccisione del capro espiatorio. Con il fuoco, bruciava anche tutto il risentimento di un popolo stanco e abbattuto dalla fame, dagli stenti e dalle miserie di una vita difficile, oppresso dal signoraggio tirannico e dalla paura della diversità, vittima di una sottocultura che dà retta alla superstizione, che altro non è che la malvagità inoculata piano piano dal diavolo nelle vene di un popolo di cui vuole l’anima, fino a farla scoppiare in uno spasmo di follia, ad esplodere  selvaggiamente in uno scoppio di bestiale crudeltà. Così come era successo a Dolores, in quell’anno lontano. A R. si parlò a lungo di quella brutta storia e da quella sera nessuno vide più Carmelina, nemmeno la sua vecchia zia la quale, non potendo uscire da casa per sopraggiunti problemi di deambulazione e non avendo quindi più notizie della nipote, morì dopo poco, forse di crepacuore. Carmelina si barricò in casa, tagliò i ponti con il passato, con quel paese dal quale era stata sempre respinta – ora lo aveva capito- come una indemoniata, un’appestata, come un incubo, una malattia, e si lasciò morire senza chiedere aiuto a nessuno. Doveva essere passata una settimana circa, quando la trovarono, forzando la porta d’ingresso, morta di consunzione.

Il sansificio di Spongano. La manna dei cieli maledetti

stabilimentu[1]
ph Giorgio Tarantino
di Corinna Zacheo Campi

 

Era con questa citazione letteraria che noi, scherzosamente, parlavamo della pioggia continua di fuliggine nera  che si posava sulle lenzuola immacolate di bucato, stese ad asciugare; che si infilava in casa da qualsiasi fessura; che forzava il blocco del paravento per disporsi in sottili filari ai lati estremi di porte e finestre.

Te la trovavi dappertutto.

Sulle terrazze poi, si accumulava in tutti gli angoli, dove il vento ci giocava a disegnarvi curiose dune ma che mani irrequiete usavano per tutt’altro divertimento.

Infatti, che ci stava a fare lì tutta quella sabbia nera che sporcava l’acqua piovana che andava dritto in cisterna e serviva a dissetarci e a liberarci dall’arsura di estati torride?

Bisognava far pulizia, e, una volta, ricordo mi misi a scagliare già ripetute manciate di fuliggine.

Il bello o il brutto fu che in quel momento sfilava una squadra di giovani avanguardiste….(1942?) tra le quali c’era mia madre, che, come insegnante, era tenuta a indossare la divisa e a partecipare alle parate del “sabato fascista”.

Successe un po’ di finimondo, perché qualcuna s’accecò e in casa piovvero proteste del gerarca, del podestà, della guardia municipale: che mi tenessero a bada, che non mi permettessi più di compiere simili irriverenze.

Certo è che dovetti prendermi un bello spavento; forse per questo il ricordo è rimasto fisso nella mia  mente, di cui mi vanto, anche perché mi fa testimone di tanta storia.

Erano i tempi in cui frequentavo, forse, ancora l’asilo o le prime classi delle elementari, e, di questa piccola industria, che mi trovavo sotto casa, la “macchina” per antonomasia o lo ”stabilimento”come lo chiamavano i miei compaesani, mi godevo il movimento, il via vai dei traini, che arrivavano dai frantoi dei paesi vicini, e che sostavano sotto le finestre di casa mia.

Mi divertivo ad ascoltare i discorsi dei carrettieri  ed aspettavo con ansia mista a paura, che i cavalli superassero l’ingresso, dal selciato  scivoloso, in salita.

Era un momento difficile e occorreva tutta la perizia del carrettiere, che, a suon di frustate, “aiutava” il cavallo a prendere la rincorsa e a bloccarsi di colpo, subito dopo sulla stadera oscillante. I cavalli sbavavano, annaspavano, e non era raro il caso che qualcuno….cadesse. Allora era un’impresa farlo risollevare con tutto il carico e…. lo spettacolo si faceva interessante.

Intanto sullo spiazzo adiacente, il cumulo di sansa cresceva sempre più e diveniva montagna. Sopra, per tenerla ben pressata, vi facevano passeggiare una coppia di buoi che tirava avanti e indietro una specie di rullo perché schiacciasse e comprimesse il cumulo, che non franasse.

Io controllavo il tutto dall’alto della terrazza; infatti lì vi passavo la maggior parte dei pomeriggi; bastava che non piovesse: studiare in terrazza mi pesava di meno, tanto il diversivo era assicurato. Infatti c’era un continuo andirivieni di gente.

Nelle ore di punta, poi, l’orario in cui il portone s’apriva per il cambio di turno degli operai, era consuetudine vedere gente accalcarsi, far la fila, litigare per qualche precedenza carpita prima del dovuto.

Ciascuno era attrezzato con qualche vecchio secchio ammaccato, con qualche mezzo bidone, o con qualche bacinella di ferro smaltato ai cui bordi era legato un filo di ferro filato per agevolar la presa, a mò di manico… e la genialità del popolo era imprevedibile nel trasformare qualsiasi rudere in un comodo contenitore. Guadagnato l’ingresso a forza di gomitate e qualche volta a suon di “secchiate” o di capase o di qualunque altra ferraglia…. che servisse a farsi largo, il “fortunato” ne usciva e si allontanava orgoglioso, col suo caldo bottino …. di  fuoco … e che importa se procedeva affumicato ed asfissiato? Erano gli scarti della sansa combusta e fumigante, che bisognava lasciar fuori di casa, sul limitare, per strada, perché la brace decantasse e smettesse di fumare.

I più raccomandati, i vicini, perché non reclamassero – c’era già sentore di protesta – avevano un trattamento particolare: ricevevano brace scelta senza fumo e, lì, dove si poteva ricorrere al sotterfugio, riuscivano a farla in barba, magari a chi attendeva da ore e non voleva sentir ragione di cedere il suo turno a chicchessia.

Noi eravamo tra quelli fortunati…, non venivamo respinti in malo modo, ma, ammiccanti, i vari incaricati di aprire e chiudere la porta, ci concedevano favori speciali; una vera fortuna, a detta dell’invidia di certe amiche. Chi invece non aveva voglia di scherzare era mia madre, che, già avanti negli anni, avvertiva più di noi i malefici effetti dell’ossido di carbonio e di altri gas dilaganti nell’aria che, ad aprir porte e finestre si finiva solo ad aggravare la situazione.

< Mi avvelenano, – brontolava –  non posso respirare, altro che fuoco e fortuna!>

E doveva uscire di casa e andare da una sua collega che aveva la buona ventura di abitare più lontano.

Noi non le badavamo gran che e, intanto, su quel ben di Dio rovente ci mettevamo a cuocere di tutto dal pane abbrustolito alla… “pignata”.

Io, nelle lunghe serate d’inverno, temperavo la fatica dello studio col caldo tepore, a pochi centimetri dalla brace.

Di solito smettevo alle 23; avveniva a quell’ora il cambio del turno notturno degli operai .

Il loro vociare, sotto casa, spesso, però, era una sveglia da un comodo sonno sui libri.

Torpore? Forza d’inerzia? Così mi sentivo rimproverare dai miei!

Mi resi conto più tardi, quando cominciai a capire, che ogni sera avevo rischiato un avvelenamento da ossido di carbonio, e… intanto sentivo mia madre lamentarsi  sempre con maggiore insistenza.

Nelle belle giornate di tramontana, quando il vento del Nord, che dava il cambio allo Scirocco che ci aveva inzuppato per settimane di umido e di pioggia, doveva portare aria pulita, fresca, frizzante, invito imperante ad aprire bocca e narici e riempire i polmoni d’aria pura… bisognava chiudere porte e finestre e uscir di casa, andare lontano,  per l’asfissia.

Le lenzuola, nei giorni di scirocco, non si asciugavano e, nei giorni di tramontana si riempivano di fuliggine.

Le donne di casa erano disperate, tutti, del vicinato presero a lamentarsi,  ad imprecare.

Lo stabilimento, si diceva con preoccupazione, era stato ampliato e nuove tecniche e nuovi  solventi chimici ne acceleravano  i processi di lavorazione della sansa e d’estrazione dell’olio combustibile; giacevano grossi depositi di materiale infiammabile.

Correva voce che quello stabilimento, posto lì, al centro del paese, era un serio pericolo per tutti.

Già aveva fatto le sue vittime, al suo nascere. Lo stesso Ingegnere F. Rizzelli, primo proprietario, mi raccontava mia madre, era morto, sepolto da brace rovente, per via dello sportello di una fornace, che si era aperto all’improvviso . La paura cresceva. Qualcuno prese l’iniziativa di un ricorso, non so a chi.

Per tanto tempo non se ne fece niente …. finchè… un giorno … un boato: era scoppiato qualcosa. Un operaio ne uscì quasi torcia umana e…. s’andò a spegnere sotto la fontana vicina. Fu soccorso, portato in ospedale e….  dopo mesi di degenza, vivo per miracolo.

Da quel giorno, però, la preoccupazione per il candore del nostro bucato e per i mal di testa, per l’aria sempre satura di veleni,  passò in second’ordine.

La paura che tutto potesse esplodere si tramutava in ansia quotidiana, d’ogni ora, d’ogni minuto. Il minimo rumore sospetto ci faceva trasalire.

Io, intanto, avevo cambiato casa, ma solo per peggiorare la situazione: mi trovavo in una strada adiacente , larga appena cinque metri e su cui incombeva il muro cieco dello stabilimento alto due piani: quasi addossati al muro le fornaci e i macchinari “ronfanti”. A quel ritmo sordo ci eravamo pur abituati; sapevamo anche che, a certi intervalli, avveniva una specie di decompressione, come nelle vecchie locomotive dei treni all’ingresso della stazione, per chi ne abbia ricordo; era un boato sordo, lungo e , da certi sfiatatoi, finestri grigliati a mezzo metro dal terreno, si spargeva nella strada una nuvola densa di vapore caldo. Ma guai, se questi ritmi subivano la benché minima alterazione.

La paura diveniva incontrollabile: il cuore saltava in gola… si era come nell’ attesa dell’inevitabile.

E… in piena notte, un boato, una fiammata: qualche voce concitata per strada e…. la sentenza : era meglio allontanarsi, l’esplosione poteva propagarsi a tutti i depositi; sarebbe stata la fine…. Meglio non immaginare. Bisognava fare in fretta. Feci scendere dal letto i miei tre figli mezzi addormentati; misi addosso qualche scialle e…. uno in braccio, gli altri per mano li trascinai sonnolenti e piagnucolanti (tutti e tre insieme non dovevano superare i 10 anni) in casa di mia madre, che… distava qualche metro più in là.

Da quel giorno lo Stabilimento non funzionò più. Dopo qualche anno, quando ormai mi ero trasferita altrove, la “macchina” fu demolita a poco a poco: ora sfuggono al mio ricordo le tappe di questa demolizione che, certamente sarà lenta,  lunga e…. anche triste.

In fondo tutto ciò che gli stava intorno ha fatto parte della mia infanzia e della mia giovinezza. Forse, anche pèr questo, la memoria ha rimosso ogni traccia. Adesso, passando per andare a scuola, – percorro sempre la stessa strada, – non vedo più l’alta ciminiera, né i muri ciechi e… mi sembra un sogno guardare l’amena villetta che ha preso il suo posto.

La strada si è raddoppiata, anzi triplicata e fa da comodo parcheggio.

L’aria è pura …. I cieli hanno rotto il maleficio e, se pur non largiscono latte e miele, almeno ci concedono di godere, senza ansie e  paure, del vero colore del volgere delle stagioni.

Passando accanto alla villetta mi piace indugiare tra le aiuole, almeno col pensiero, visto che la frenesia moderna non ci permette soste, incredula quasi di una realtà che , in altri tempi non avrei osato sognare.

 articolo

Pubblicato da Nuovo Spazio il 22 aprile 1995.

Il fantomatico pittore Manfredi Letizia

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ph Stefano Cortese

di Luciano Antonazzo

Luigi Maggiulli nella sua”Monografia di Muro” del 1857, discorrendo della chiesa matrice dedicata all’Annunziata, a pagina 131 scrisse: “Entrando nel tempio il visitatore é sorpreso dalle pitture che lo adornano, e condotte da sì castigati pennelli da non invidiare in questo genere le altre città della provincia: Liborio Ricci da Muro, Serafino Elmo da Lecce, Manfredi  Letizia ed altri ne furono gli autori”.

Cosimo de Giorgi, seguendo il Maggiulli,  riportò che in detta chiesa Liborio Riccio “vi dipinse alcune grandi composizioni su tela, e fu aiutato in questa opera, non di lieve momento, da due altri pittori leccesi, Serafino Elmo e Manfredi Letizia”.[1]

Gli studiosi dell’arte hanno inutilmente cercato di identificare il pittore Manfredi Letizia e recentemente alcuni di loro hanno avanzato perplessità circa la sua esistenza, ipotizzando che in realtà si trattasse del pittore Giuseppe Andrea Manfredi di Scorrano. Questi ultimi hanno visto giusto, ma solo in parte. Infatti dietro Manfredi Letizia si celano due pittori: Giuseppe Andrea Manfredi e Oronzo (o Aniello) Letizia.

L’origine dell’equivoco si deve ad un refuso di stampa  che ha fatto saltare la virgola posta dal Maggiulli tra i cognomi Manfredi e Letizia.

manfredi
ph Stefano Cortese

La riprova si ha nel prosieguo del testo dello stesso Maggiulli. Infatti egli a pagina 32 scrisse: “Sull’altare della passione vi è un dipinto del Manfredi, Gesù nell’orto, che lascia nel cuore alti sensi di religione e mestizia, tant’è divinamente ritratta la rassegnata tristezza del Redentore.

La perla pittorica della nostra chiesa è però un quadretto del Letizia rappresentante Maria Vergine assunta in cielo circondata dagli apostoli, che posto in alto di un altare il visitatore non puo ammirarne il pregio”.

Di tutt’altra opinione circa il valore di detti dipinti fu il de Giorgi, che continuando ad equivocare sentenziò: “Osserveremo infine in questa chiesa il Gesù all’orto ed una Assunzione di M.V. del Letizia, due tele che si elogiano dicendole mediocrissime”.

Per quel che concerne gli autori di detti due quadri, se il primo è indubbiamente ascrivibile a Giuseppe Andrea Manfredi, di Scorrano, il secondo potrebbe attribuirsi forse più ad Oronzo che ad Aniello Letizia, cugini pittori di Alessano. Lasciamo  agli studiosi il compito di sciogliere il dilemma, mentre per parte nostra avanziamo l’ipotesi che, come lo era di Aniello, Oronzo  potrebbe essere stato parente, per parte di madre, anche di Giuseppe Andrea Manfredi.

La nonna materna di Oronzo rispondeva infatti al nome di Elisabetta Manfredi che, coincidenza, contrasse  matrimonio  in Alessano con Marcantoni Biasco,  di Corsano, lo stesso giorno (19 novembre 1654) in cui si sposarono i genitori di Oronzo, Giuseppe Letizia e Giulia Biasco.

 


[1] C- De Giorgi : “La Provincia d Llecce – bozzetti”,  Ed. Spacciante Lecce,vol I, p. 255.  

Leandro Ghinelli: “Disincanti (versi)”

ghinelli

di Paolo Vincenti

Fra la penna e lo scalpello, il fare creativo di Leandro Ghinelli si anima di nuove sinestesie e il suo curriculum  si arricchisce di un altro titolo: “DISINCANTI (VERSI)”,  una piccola silloge pubblicata con l’ultimo numero della rivista “Presenza Taurisanese”, diretta da Gigi Montonato, che firma pure la Presentazione dell’opuscolo (Collana “I Quaderni del Brogliaccio” n.12, aprile 2014).

Nato nel 1925, all’attività di insegnante di Lettere nelle scuole superiori ha unito, a partire dal 1959, quella di scultore autodidatta, con numerose mostre collettive e personali. Ghinelli, nella sua lunga carriera, ha scritto novelle, poesie, racconti e saggi critici; molti suoi contributi sono stati pubblicati proprio su “Presenza Taurisanese”, e poi su “Il Galatino”, “Contributi”, “Espresso Sud”, “Note di storia e cultura salentina” e sulla rivista elettronica  www.Culturasalentina.it.

A distanza di poco più di un anno dalla pubblicazione di “Canti della vigilia (poesie)”, per “I Quaderni del Brogliaccio” (n.10, marzo 2013), ritorna con lo stesso editore e con questa raccolta di componimenti inediti, scritti in vari metri e con un linguaggio piano e discorsivo, vicino al parlato. Alla veneranda età di quasi 90 anni, Ghinelli si dimostra ancora attivissimo intellettuale e addirittura gestisce un sito on line che,  sebbene modestissimo, è comunque una testimonianza di presenza da parte di questo prolifico vegliardo. L’aspetto autorevole nasconde un animo giocoso ed una freschezza di ispirazione che si esprime nei modi del divertissement, ossia del divertimento colto, delle sue dilettevoli poesiole.

La sua musa infatti non si alimenta, almeno nel caso di specie, dei grandi temi epici e civili o dei sentimenti di amore e fede che sorreggevano altre prove dell’autore ma, di fronte allo spaventacchio dei tempi, egli risponde con le armi spuntate dell’ironia e della visione positiva della vita che contrappone ad ogni nefasta tendenza negatrice e distruttrice. Un atteggiamento brioso, vivace, frizzante e a tratti irriverente, quello di Ghinelli, che sarebbe perfino sorprendente se non fosse sotteso di una malinconia, semantizzata da quel sostantivo “disincanti” che titola il libro.

Una mestizia di fondo, cioè, propria di chi non si lascia più avvincere dagli incantamenti del mondo, proviene all’autore dalla riflessione sul presente e sulla vita sociale di questi nostri tempi. E sembra che egli si rifugi nel mondo animale e vegetale, facendo parlare farfalle e chiocciole, bruchi e piselli, colombi e campane, vento e alberi, secondo la lezione di Fedro e di Esopo, come non manca di sottolineare Gigi Montonato.

Il libriccino presenta dunque una serie di componimenti minori, scritti negli ultimi anni, e spesso accompagnati dalle opere in terracotta dello stesso autore, ritratte in calce agli scritti. Molto vicine, queste poesie (bagatelle, scherzi o “nugae”, come le definisce Montonato, volendo scomodare Catullo), alle filastrocche, per una ricerca da parte dell’autore delle rime baciate e della facile cantabilità. Letteratura non engagé  insomma, ma anche fedele al docere et delectare di Quintiliano, ossia alla funzione pedagogica di uno scritto letterario che, pur nella sua piacevolezza, dovrebbe dare degli insegnamenti morali al lettore.

Dagli accenti di più puro intimismo della sua raccolta “Canti della vigilia”, si giunge a queste poesie di  immediata fruizione, dalla spiritualità, a tratti controversa, e dalla dimensione quasi sospesa, rarefatta, in cui vivevano le poesie di quel libro, a quella estrosa e giocosa delle poesie che sostanziano quest’ultimo, in cui la sofferta meditazione  dei moti della propria anima lascia spazio ad una comunicazione più diretta con i lettori, ad un approccio meno pervaso da dolente lirismo.

Nel complesso, un volumetto godibile, lenimento alla noia e agli affanni quotidiani.

Un manoscritto per l’estate, ovvero un omaggio del 1615 destinato ad un leccese e finito in America (3/8)

di Armando Polito

Carte 10 e 11.

Ove suol albergar la vita mia, Petrarca, Canzoniere, CCLXX, ). Solea per suol è un adattamento al rapporto albero (dopo il crollo)-uccello.

Nate, meae vires, mea magna potentia solus (Figlio, mia forza, da solo mia grande potenza), Virgilio, Eneide, I, 664 (Venere parla ad Amore). Qui l’adattamento del significato ha comportato la soppressione di nate e di solus.

Carte 12 e 13.

Che me, e gli altri crudelmente scorza (Petrarca, Trionfi. Trionfo d’amore, III, 129.

Tarda venit seris factura nepotibus umbram (Cresce lento destinato a fare ombra ai tardi nipoti), Virgilio, Georgiche, II, 58. Del verso originale è stato soppresso il primo emistichio.

Carte 14 e 15.

Et ch’esser non si può più d’una volta, Petrarca, Canzoniere, CCCLXI, 10.

Tydides. Equidem credo mea vulnera restant (Il figlio di Tideo. Lo credo di certo, restano le mie ferite), Virgilio, Eneide, X, 29. Qui l’adattamento ha comportato la soppressione anche di credo, prima parola del secondo emistichio.

Carte 16 e 17.

Ove Amor per usanza ancor mi mena, Petrarca, CVI, 8.

In ventis et aqua spes mea semper erit? (Nei venti e nell’acqua sarà sempre la mia speranza?), Ovidio, Eroidi, XVIII, 186. Qui il “dimagrimento” del verso originale è stato meno spinto, essendosi conservato tutto il primo emistichio e spes, prima parola del secondo. Da ora in poi, per non ripetere sempre le stesse cose, sottolineerò soltanto la parte del verso utilizzata.

Carte 18 e 19.

Ne l’età sua più bella et più fiorita, Petrarca, Canzoniere, CCLXXVIII, 1.

Mittimus, o rerum felix tutela salusque ([A te, Domiziano] mando [questo libro], o felice protezione e salvezza del mondo), Marziale, Epigrammi, V, 1, 7.

Non è che mi sia già dimenticato della promessa della semplice sottolineatura fatta nella scheda precedente, ma come faccio a non dire che il motto di questa seconda insegna, corrispondente al primo emistichio del verso originale,  contiene un’allusione al dono e, quindi, una sorta di gemellaggio tra Domiziano e il Prioli?

Carte 20 e 21. Sono le uniche in cui si susseguono due motti latini.

Aliis non mihi (Per gli altri, non per me). Qui credo che il motto non sia una citazione ma una creazione del nostro e che auctor (l’autore) sia la sua firma più che un riferimento a Tacito, lo storico per antonomasia, nel quale, fra l’altro, tale nesso è assente. Fuori dalla prima insegna si legge: Spiantato dal vento, in Roma (rinverdì nella morte di Nerone succedendoli Vespasiano) nel suo giardino. Il riferimento è ad un passo (II, 78) delle Storie di Tacito relativo a Vespasiano poco prima della sua acclamazione ad imperatore: Recursabant animo vetera omina: cupressus arbor in agris eius conspicua altitudine repente prociderat ac postera die eodem vestigio resurgens procera et latior virebat (Gli tornavano in mente vecchi presagi: nei suoi campi un albero di cipresso di notevole altezza era caduto e il giorno successivo risorgendo nel medesimo punto verdeggiava alto e più largo). Se a Vittorio Prioli il vento avesse devastato un intero oliveto probabilmente il nostro frate avrebbe sfruttato Plinio il Vecchio, Naturalis historia, XVII, 245: Super omnia quae umquam audita sunt erit prodigium in nostro aevo Neronis principis ruina factura in agro marrucino, Vectii Marcelli e primis equestris ordinis oliveto universo viam publicam transgresso, arvisque inde e contrario in locum oliveti profectis (Al di sopra di tutto ciò che mai si sentì resterà il prodigio avvenuto nei nostri tempi nell’agro marrucino in occasione della rovina del principe Nerone, quando un intero oliveto di Vezzio Marcello, tra i primi dell’ordine equestre, oltrepassò la via pubblica e al contrario i campi che stavano dall’altra parte si trasferirono nel luogo prima occupato dall’oliveto).

Nox ruit, Aenea; nos flendo ducimus horas (O Enea, la notte avanza; trascorriamo le ore piangendo), Virgilio, Eneide, VI,  539.

Carte 22 e 23

Ch’i‘son d’altro poter che tu non credi, Petrarca, Canzoniere, CCCXXV, 55

Sed cadat ante diem mediaque inhumatus arena (Ma cada prima del tempo e insepolto in mezzo alla sabbia), Virgilio, Eneide, IV, 621. È la maledizione che Didone lancia contro Enea che l’ha abbandonata. Da notare l’adattamento dell’originale cadat (cada) in cadit (cade).

Carte 24 e 25

Il dolce acerbo, e il bel piacer molesto, Petrarca, Canzoniere, CCCXXXI, 19.

Quis strepitus circa comitum, quantum instar in ipso (Quale bisbiglio di compagni ha intorno, quanta maestà in lui), Virgilio, Eneide, VI, 864

 

(CONTINUA)

 

prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/17/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-18/

seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/18/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-28/

quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/23/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-48/

quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/28/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-58/

sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/02/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-68/

settima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/05/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-78/

ottava parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/08/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-88/

 

 

 

 

 

 

 

Acquarica e Caprarica: acqua e capre a volontà (un tempo …)

di Armando Polito

immagine tratta ed adattata da GoogleMaps
immagine tratta ed adattata da GoogleMaps

 

È noto che molti toponimi traggono origine dall’abbondanza in loco di certe risorse, non escluse specie animali e vegetali. Per quanto riguarda il Salento, la cui economia è stata fino a pochi decenni fa se non esclusivamente almeno prevalentemente agricola, le capre non sono mai mancate1, alimentando anche astrattamente, la saggezza popolare come, per esempio, in uno dei tanti proverbi che sottintendevano un rapporto affettivo molto più stretto e, direi, complice tra l’uomo e la bestia, lontano anni luce da  quell’atteggiamento sprezzante che scomoda analogie col mondo animale per stigmatizzare, con un’ignoranza pari alla presunzione, l’infinita gamma dei nostri difetti: ti ddo’ zzumpa la crapa zzumpa la crapetta (alla lettera: dove salta la capra salta la capretta, corrispondente al più lapidario italiano tale madre tale figlia, con particolare riferimento, e ti pareva!, alla vivacità sessuale.

E sul fuoco del sesso getto, è il caso di dire, acqua. Non c’è bisogno di ricordare il siticulosa Apulia2 di Orazio (I secolo a. C.), la quantità di acqua scorrente in superficie è estremamente modesta, direi trascurabile, al contrario dei fiumi sotterranei che scorrono sotto il nostro territorio. Laddove la falda non è molto profonda è stato possibile da sempre sfruttare questa importante risorsa, tanto importante da vivere in due toponimi: Acquarica del Capo e Acquarica di Lecce.

Ecco cosa sull’una sull’altra scrive Giacomo Arditi in La geografia fisica storica della provincia di Terra d’Otranto, Stabilimento tipografico “Scipione Ammirato”, Lecce, 1879-1885:

(Acquarica del Capo)  “Ricco è di acque sorgive, potabili e basse nella zona occidentale, dove sono eccellenti specialmente nei pozzi Longhe e Nocita, non così perfette o a breve profondità nella zona opposta” (pp. 6-7); “Qualcuno l’ha dato come sorto nel IV secolo dell’era volgare pel bisogno delle acque, ma senza fondamento storico …”3 (p. 9). L’Arditi contesta solo la data, tant’è che più avanti (pp. 9-10) afferma: “Le ruberie, i macelli, e le distruzioni dei Saraceni arsero nella nostra Provincia più cruente e feroci dal secolo IX all’XI. Allora, tra tanti altri, credo da quei Barbari invaso e spento anche Pompignano, da cui qualche fiotto di raminghi e miseri avanzi spintosi fin qua e vistasi la bontà ed il profluvio delle acque, che gli antichi consideravano come il quarto elemento, indispensabili quali sono ai bisogni domestici ed industriali, vi si fermarono ed eressero la nuova patria, che da quella specialità appellarono Acquarica, nome composto di due bisillabi, che son acqua ricca. La certezza istorica delle devastazioni barbaresche che, secondo la frase di un dotto amico sono capitoli leggendarii della nostra storia provinciale; la preesistenza e la rovina completa di Pompignano; l’adiacenza e la parte del territorio che colà vi posseggono ancora gli Acquaresi; l’acqua scarsa in quel luogo originario e perciò naturalmente vogliosi di averla abbondante in quest’altro, la tendenza simpatica che essi nutrono ancora per quella contrada quasi arcana radice di affetto per l’antica madre patria, le concordanze topografiche, l’emblema, ed altri dati ed elementi di coerenza, mi han tratto a quella congettura; la quale non mi vien guasta dalla desinenza italiana del nome, perché nei secoli X e XI il volgare italiano si era di già affacciato. Più tardi, poi, i Casali Ceciovizzo e Gardigliano, i loro abitanti vennero ad ingrossare la comunanza di Acquarica, che nelle vecchie carte trovo contrassegnata con l’aggiunta de Lama, voce che nel latino come nell’italiano idioma significa laguna, ristagno d’acqua. Ma se ciò avveniva forse anticamente nel fondo confinante tuttavia denominato Lame, lo sconcio disparve affatto dopo la formazione della Vora che vi sta in mezzo. Chiamossi eziandio Centellas dal cognome del feudatario che n’era il padrone nel 1669, ma cessato appena il breve dominio di costui, ei ripigliò l’avito nome di Acquarica con l’addiettivo del Capo, per distinguersi da una Frazione omonima in Circondario di Lecce. Il paese adunque nacque con la morte di Pompignano, verso il IX e X secolo; crebbe con la caduta di Cecivizzo e Gardigliano; e si chiamò prima Acquarica, poi Acquarica de Lama, indi Centellas, e finalmente Acquarica del Capo”.

(Acquarica di Lecce) “L’aria vi è mala, perché vicine le paludi della massaria Termitito in agro di Vanze, e le Cesine di Acaia … le acque sorgive a circa cinque metri di profondità potabili ma quasi crude” (p. 11); “Acquarica credesi così chiamata dalle acque che vi abbondano nell’abitato e nell’agro, e l’aggiunto “di Lecce” serve per distinguerlo da un Comune omonimo in circondario di Gallipoli. In tal nome stannovi accozzate due parole italiane, acqua ricca, ingentilito l’attributo in rica per togliere l’aspro delle due consonanti. Ciò mi fa credere sorto al secolo X od a quel torno” (p. 12).

Ora metto  da parte provvisoriamente l’acqua e passo alle capre.

(Caprarica del Capo) “… la impresa pubblica che rappresenta una capra con bandiera spiegata” (p. 102); “È vecchia tradizione che quivi in origine esisteva un ovikle di capre, le quali per l’aria ei i prati confacenti davano molto latte. Da ciò una certa agiatezza nei caprari; e perché il benessere invita all’essere e lo moltiplica ei vennero di passo in passo aumentandosi fino a formare un paesello, che dalla natura dell’industria chiamarono Caprarica (capra ricca), seguito poi dall’aggiunto “del Capo” per distinguerlo da un altro villaggio di simil nome sistente in Circondario di Lecce” (p. 103).

(Caprarica di Lecce) “L’impresa civica rivela la storia originaria del paesello, che nacque e fu così chiamato dall’industria che vi prosperava del latte  e delle capre” (p. 104).

Condivido pienamente tutto quello che l’Arditi afferma ma, pur non essendo nemmeno Politi, sono sufficientemente ardito per contestarlo in un solo punto: quel ricca come componente originario dei quattro toponimi (anche se non viene scomodato esplicitamente per Caprarica di Lecce). Oggi la parcellizzazione, per i miei gusti eccessiva, del sapere ha reso indispensabile il confluire di competenze diverse che ai tempi dell’Arditi erano appannaggio di una sola persona; perciò, oggi, un’indagine storica non può prescindere, tanto per risparmiare, dall’apporto, oltre che dello storico, anche dell’archeologo e del filologo; mi meraviglio, perciò, che quanto sto per dire non sia balenato a suo tempo nella mente dell’Arditi, il cui ricca ritengo improponibile per due motivi:

a) sarebbe quanto meno strano il passaggio da ricca a rica (cioè lo scempiamento di –cc-) proprio in un territorio caratterizzato dalla tendenza al raddoppiamento consonantico.

b) ammettendo per assurdo che Acquàrica e Capràrica derivino da Acqua ricca e Capra ricca, non si riesce a capire per quale motivo l’accento si sarebbe ritratto non dando, come ci saremmo aspettati, Acquarìca e Caprarìca, cioè due parole piane che non potevano rinunziare al loro accento perdendo così buona parte di quell’ingentilimento appena appena realizzato con lo scempiamento –cc->-c-. È intuitiva, infatti, la maggiore musicalità di una parola piana rispetto ad una sdrucciola, bisdrucciola o tronca.

È, invece, proprio l’accento sulla terzultima sillaba, a dirci chiaramente che le voci di base sono acqua e capra, cui si è aggiunto un doppio suffisso aggettivale, come per l’italiano coronarica (corona>coronaria>coronarica). Trafila per Acquàrica: acqua>acquàru4>*acquàricu> (terra) acquàrica>Acquàrica; trafila per Capràrica: capra>capràru>capràricu>(terra) capràrica>Capràrica.

Ricca, dunque, è fuori gioco, nonostante allora acqua e capra fossero la ricchezza, più che del capraio, del latifondista di turno …

Ora, per finire, esporrò, brevemente, con l’ausilio preponderante delle immagini (tutte tratte, tanto per cambiare …, dal sito della Biblioteca Nazionale di Francia) ciò che potrebbe aver condizionato l’Arditi (lo storico …) a proporre quel ricca con la vaga giustificazione di concordanze topografiche e, forse, di vecchie carte.

Nel dettaglio di Puglia piana, Terra di Barri, Terra di Otranto, Calabria et Basilicata dell’Atlas sive cosmographicae meditationes de fabrica mundi et fabricati di figura, tavola di Gerardo Mercatore, uscita ad Amsterdam nel 1589, toponimoAQUARICCA.

Nel dettaglio di Terra d’Otranto6 di Antonio Bulifon (seconda metà del XVII secolo), toponimi:

ACUA RICCA DI LECCE     ACQ. RIC. DEL CAPO

Nel dettaglio di Terra di Otranto olim Salentina & Iapigia di Giovanni Antonio Magini (1555-1617), toponimi: CRAPARICA   ACQUARICCA DI LECCIE   ACQUARICA DEL CAPO    CAPRARICCA DEL CAMPO

 

Da notare in CRAPARICA la metatesi capra>crapa (che è poi la forma dialettale salentina).

Nel dettaglio di Terra di Otranto, olim Salentina & Iapigia di Giovanni Giansonio (circa 1660), toponimi:

CRAPARICA  ACQUARICA DI LECCIE  ACQUARICA DEL CAPO   CAPRARICCA DEL CAMPO

Nel dettaglio di Terra di Otranto olim Salentina et Iapigia, tavola del Theatrum orbis terrarum sive Atlas novus di Joan Blaeu, pubblicato nel 16357, toponimi:

CRAPARICA    ACQUARICA DI LECCIA    ACQUARICA DEL CAPO   CAPRARICCA DEL CAMPO; in quest’ultimo toponimo la m si presenta sovrascritta:

L’ultimo toponimo con CAMPO invece di CAPO nelle tre ultime carte appena esaminate mostra la affidabilità non totale di documenti di questo tipo e come spesso il perpetuarsi dell’errore sia dovuto ad una sorta di copia-incolla ante litteram.

 Nel dettaglio della Provincia di Terra d’Otranto già delineata dal Magini e nuovamente ampliata in ogni sua parte secondo lo stato presente e data in luce da Domenico De Rossi e dedicata all’Imparegiabile Virtù e Merito dell’Ill.mo e Rev.mo Sig.re Monsig.re Francesco Maria d’Aste Arcivescovo d’Otranto, Primate de Salentini, Prelato Domestico, e del Soglio Pontificio Vescovo Assistente. Data in Luce da Domenico De Rossi dalle sue stampe in Roma alla Pace con Priv. Del Sommo Pontefice l’Anno 1714, toponimi:

CRAPARICA    ACQUARICA DEL    CAPRA RICCA 

I dettagli che seguono sono tratti dall’Atlante geografico del  Regno di Napoli  di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni con incisioni di Giuseppe Guerra, uscito a Napoli per i tipi della Stamperia Reale dal 1789 al 1808. Toponimi: ACQUARICA  CAPRARICA   ACQUARICA DEL CAPO  CAPRARICA

I nostri due toponimi hanno ormai raggiunto e stabilizzato la forma attuale.

 

__________

 

1 Varrone (I secolo a. C.), De re rustica, II, 3, 10: Contra in Sallentinis et in Casinati ad centenas pascunt (Invece presso i Salentini e nel territorio di Cassino pascolano in greggi di cento capi). Poco prima, parlando di capre, aveva detto che in altre zone le greggi contavano in media cinquanta capi.

2 Epodon libri, III, 15-16: Nec tantus umquam Siderum insedit vapor/siticulosae Apuliae (né mai tanta arsura del cielo calò per la sitibonda Puglia. Altri riferimenti, sempre per la Puglia: Satirae, I, 5, 86-91: Quattuor hinc rapimur viginti et milia raedis/mansuri oppidulo, quod versu dicere non est,/signis perfacile est: venit vilissima rerum/ hic aqua, sed panis longe pulcherrimus, ultra/callidus ut soleat umeris portare viator. Nam Canusi lapidosus, aquae non ditior urna [Da qui siamo trasportati velocemente in carrozza per ventiquattro miglia per restare in una piccola città che non è possibile nominare con un verso ma facilissimo con i dettagli: qui la più diffusa delle cose, l’acqua, viene venduta, ma il pane è di gran lunga il migliore, sicché l’astuto viandante suole portarne oltre in sulle spalle. Infatti a Canosa è duro come la pietra e (la città) non è più ricca di un’urna d’acqua]; Carmina, III, 30, 10-13: Dicar, qua violens obstrepit Aufidus/et qua pauper aquae Daunus agrestium/regnavit populorum … (Si dirà che io, per dove rumoreggia il violento Ofanto e per dove Dauno povero di acqua regnò su popoli agresti …).

 

3 In nota l’Arditi cita Alfano, Istorica descrizione del Regno di Napoli, p. 119.

 

4 Nel dialetto neretino (ma la voce è in uso anche a S. Cesario di Lecce, Galatone, Seclì e Spongano) lacquàru [per agglutinazione dell’articolo, forse per influsso di laccu, che è dal greco λάκκος (leggi laccos)=stagno, da cui il latino lacus e da questo l’italiano lago : l’acquàru>lacquàru>lu lacquàru) è sinonimo di pozzanghera. In provincia di Vibo Valentia c’è il comune di Acquaro.

 

5 Non è da escludere per entrambi un’origine prediale, rispettivamente da Aquàrius e Capràrius, ben attestati nel CIL. I suffissi prediali sono –ànus (prevalentemente) e –icus (quest’ultimo dal greco –ικός (leggi –ikòs). Così si possono ipotizzare degli originari Aquàrica e Capràrica neutri plurali (rispettivamente: cose, possessi di Aquarius e di  Caprarius) o femminili singolari (in tal caso è sottinteso terra). Anche così, però, il ricca è fuori gioco e i nostri due toponimi avrebbero avuto una formazione analoga, giusto per fare un esempio, a Follonica, che molto probabilmente è da fullònica (sottinteso officina)=lavanderia; fullònica, a sua volta è aggettivo femminile singolare da fullo/fullonis=lavandaio. L’origine prediale, però, mal si concilia con la datazione di nascita piuttosto recente (X-XI secolo) proposta dall’Arditi.

 

6 Ecco l’intera tavola ed il dettaglio della dedica a Giuseppe Antonio d’Aragona d’Aijerbe Principe di Cassano, Duca di Alessano etc.

7 Ecco l’intera tavola e il dettaglio della dedica al vescovo di Nardò Fabio Chigi (sul quale vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/03/02/alessandro-vii-un-papa-gia-vescovo-fantasma-di-nardo-e-il-suo-vice/)

 

 

 

Un manoscritto per l’estate, ovvero un omaggio del 1615 destinato ad un leccese e finito in America (2/8)

di Armando Polito

Carte 2 e 3. A partire da queste ne presenterò due per volta. Già si manifesta la sequenza , che poi continuerà regolarmente (con la sola eccezione dei motti entrambi latini delle carte 20 e 21), di un motto in italiano nella carta pari e in latino in quella dispari.

Cominciamo a capire chi è il responsabile della caduta del cipresso: il vento. Cominciamo a capire pure che i motti, sono, com’era quasi doveroso che fosse, dotte citazioni e la parola finale in ogni cartiglio è l’abbreviazione del relativo autore (qui PETRA di PETRARCA e VIR di VIRGILIO).

A le percosse del suo duro orgoglio (Petrarca, Canzoniere, CCXXXV, 8); da notare, però, la sostituzione con a (retto da un sottinteso incapace di resistere) all’originale da (retto da un precedente guarda).

Nella seconda insegna mi sarei aspettato una sequenza iconica più coerente. L’albero, prima sradicato, è tornato in sesto ma il vento questa volta lo ha troncato di netto. Summaque Peliacus sidera tangat apex (La cima del monte Pelio tocchi le stelle), Ovidio, Fasti I, 308 . VIR, come ho detto, è abbreviazione di VIRGILIO e, perciò, il nostro fraticello è incorso in un errore di attribuzione. Del verso originale, poi, è stato utilizzato come motto il secondo emistichio perché l’immagine del monte col suo nome presente nel primo non poteva essere adattata all’albero.

Carte 3 e 4. Nella prima insegna il vento, quasi motosega ante litteram, porta avanti la sua opera di distruzione. È stato insino a qui caggion ch’io viva (Petrarca, Canzoniere, IV, 8). P.

Nella seconda c’è da rilevare la stessa incongruenza iconica prima notata (l’albero presenta prima tre pezzi, poi due). A questo punto, siccome è evidente che questa coerenza non era nelle intenzioni dell’autore, non ne parlerò più. Impulerit. Tantaene animis coelestibus irae? (Abbia spinto. Forse gli animi dei celesti nutrono tanta ira?), Virgilio, Eneide, I, 11. Da notare la particella interrogativa enclitica –ne staccata da tantae e addirittura quasi incollata in testa alla parola successiva; e poi l’omissione del punto interrogativo, indispensabile, qui come nell’originale, poiché si tratta di una interrogativa diretta. Intuitiva, poi, la soppressione dell’Impulerit del verso originale.

Carte 5 e 6.

Onde il principio di mia morte nacque (Petrarca, Canzoniere, XXXVII, 14).

Nella seconda insegna il vento è scomparso e la vita animale è la prima a fare la conta dei danni. Sed si tantus amor casus cognoscere nostros (Ma se tanto grande è il desiderio di conoscere le nostre vicissitudini), Virgilio, Eneide, II, 10.

Carte 7 e 8.

Il vento è tornato a soffiare … Di speranze m’empieste e di desire (Petrarca, Canzoniere, CCXXIX, 12) … poi riscompare e tornano gli uccelli. Tendimus in Latium, sedes ubi fata quietas (La nostra meta è il Lazio, dove il destino sedi tranquille), Virgilio, Eneide, I, 205. Il primo emistichio del verso originale risulta soppresso per le stesse intuitive ragioni già addotte.

Carte 9 e 10.

Finchè mia dura sorte invidia n’hebbe (Petrarca, Canzoniere, CCCXXXI, 38).

Causa mali tanti, oculos deiecta decoros (Causa di tanto male, tenendo bassi i begli occhi), Virgilio, Eneide, XI, 480. Del verso originale è stato utilizzato come motto solo il primo emistichio (il contenuto del secondo non poteva trovare adattamenti di significato nemmeno nella più spinta delle fantasie).

Dalle carte fin qui esaminate è venuta fuori una costante: il verso italiano è citato integralmente, quello latino parzialmente, perché quest’ultimo con la sua maggiore sinteticità contiene situazioni ed elementi che mal si adattano, quando non sono addirittura estranei, all’argomento del nostro scritto.

(CONTINUA)

prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/17/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-18/

terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/20/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-38/

quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/23/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-48/

quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/28/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-58/

sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/02/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-68/

settima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/05/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-78/

ottava parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/08/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-88/

 

 

 

Avetrana e Brembate

AVETRANA: SARAH SCAZZI - CERIMONIA TUMULAZIONE SALMA

di Stefano Manca

Sarebbe stato individuato l’assassino di Yara Gambirasio. Quando venne ritrovato il corpo della ragazza, i genitori chiesero da subito ai giornalisti riservatezza e rispetto, rivendicando con dignità il diritto di vivere il proprio dolore senza “condivisioni” esterne. Giornali e tv, salvo sporadiche eccezioni, in questi anni hanno seguito la “preghiera” dei coniugi Gambirasio. Mi torna in mente un altro omicidio: quello della piccola Sara Scazzi. Ad Avetrana, quanto a mass media, non andò come a Brembate. Mentre scrivo non ricordo come si chiama la madre di Yara ma so perfettamente i nomi dei parenti della piccola di Avetrana. Colpa dei giornali cattivi? Della tv del dolore? Non ci credo! Quasi tutte le interviste a familiari e vicinato di Sara erano concordate con i soggetti intervistati, che ospitavano in casa telecamere e taccuini. Alcuni operatori per riprendere Michele Misseri nel suo giardino salivano sul terrazzo dei vicini di quest’ultimo (con il permesso ovviamente dei padroni di casa, che facevano strada con encomiabile gentilezza). Tralasciando un attimo gli ascolti stratosferici, era la comunità di Avetrana ad alimentare il delitto di Avetrana. Intendiamoci: a chi dice che giornali e tv, alimentati o no, ad un certo punto si sarebbero dovuti comunque fermare o limitare, dico che probabilmente ha ragione. Però mi chiedo: come mai a Brembate l’omicidio di una ragazzina è stato trattato in maniera doverosamente più discreta di Avetrana? Telegiornali e giornali erano e sono sempre gli stessi: a Brembate sono diventati di colpo rispettosi?

Un manoscritto per l’estate, ovvero un omaggio del 1615 destinato ad un leccese e finito in America (1/8)

di Armando Polito

Qualche settimana fa la signora Giovanna Falco mi ha segnalato il link https://archive.org/details/centoimprese00cuom dov’è riprodotto integralmente il volume che mi accingo a presentare. Dalla rete apprendo pure che esso è stato pubblicato a stampa nel 2010 per i tipi di BiblioBazaar e nel 2013 per i tipi di Nabu Press (di seguito le rispettive copertine).

Sempre dalla rete apprendo che nel 2013  il volume è stato stampato anche da ReInkBooks ed è in vendita al prezzo di 17 euro presso una libreria di Nuova Delhi. Il prezzo sarebbe estremamente conveniente, ma rimane l’incognita delle spese di spedizione le cui condizioni sembrano essere state formulate dalla Sibilla (per chi ha interesse: http://www.abebooks.it/servlet/FrameBase?content=%2Fservlet%2FShipRates%3Fvid=8583806).

Qui propongo il manoscritto nella veste originale e, sperando di fare cosa gradita, corredato del mio commento. Il numero notevole di pagine mi costringe a farlo in molte puntate e mi auguro, come, al contrario, credo sia successo in passato a più di un lettore dei cosiddetti romanzi d’appendice esasperato dalla spasmodica attesa, di non provocare nessun attacco di appendicite; tra l’altro, nonostante il titolo che ho dato al post, dubito che possa spopolare come lettura da fare giornalmente sotto l’ombrellone …

Informo, comunque, il coraggioso lettore che volesse andare fino in fondo che trarrò le conclusioni e formulerò un sintetico giudizio nell’ultima puntata. Sarà pure un espediente, una sorta di ricatto, per essere seguito fino in fondo, ma nemmeno il più scalcagnato giudice del nostro paese invia un avviso di garanzia senza avere un minimo straccio, se non di prova, almeno di indizio da mettere nero su bianco …

L’etichetta apposta sulla carta di guardia ci informa che il libro è custodito  nella sezione libri rari della biblioteca dell’Università dell’Illinois a Urbana-Champaign. Ad integrazione di questi dati riporto ora la scheda tratta da Sandra Sider, Barbara Obrist, Corpus librarum emblematum, Bibliographie of Emblematic Manuscripts, McGill-Queen’s University Press, 1997, p. 47:

Noto che le autrici non sono riuscite ad identificare Leccio con Lecce ma forniscono altre notizie che è stata mia cura verificare. Ho fatto bene, perché si afferma che il manoscritto è un dono fatto nel 1982 da Henri Stegemeier;  sul sito della biblioteca, però alla scheda relativa (http://www.library.illinois.edu/rbx/archon/index.php?p=collections/controlcard&id=846&q=cuomo) si legge: Purchased from Prof. Henri Stegemeier, 23 April 1982. Ma purchased from sta nel senso di acquistato a spese sue dal professore e poi donato all’Università oppure acquistato dal professore a spese dell’Università e per conto della stessa? Più in là si legge: Provenance: “Henri Stegemeier” embossed on front pastedown and fol. 1. Infatti la carta di guardia in alto a sinistra mostra il dettaglio di seguito riprodotto.

 

In esso è appena leggibile (l’ho evidenziato in rosso) REIEMEGETS IRNEH speculare all’ HENRI STEGEMEIER che si legge in alto a destra nella carta 1 (dettaglio che segue).

 

Appare evidente che la nota di possesso venne stampigliata in un colpo solo sulle due carte prima che quella di guardia venisse incollata alla copertina. A questo punto propenderei pure io a credere che il manoscritto nato, a quanto fra poco vedremo, come dono, dopo vicende che è pressoché impossibile ricostruire (altri atti di donazione o, piuttosto, di vendita succedutisi nel corso dei secoli?), dono sia destinato a restare per sempre, a meno che l’imperscrutabile volere del destino non gli abbia riservato una sorte diversa; ma siamo in America e non è nemmeno pensabile per questa nazione, a differenza della nostra, mettere in vendita qualche gioiello di famiglia per sanare il debito pubblico …

Ma chi è Henri Stegemeier? Ecco una sua foto tratta ed adattata da http://www.library.eiu.edu/artarch/displayDetailArt.asp?Photo=187A13454_5268.jpg&ArtID=13454

Nacque il 23 agosto 1912 e  per capire la sua appartenenza al mondo accademico  e il possesso del manoscritto, nonché la donazione, basta citare The Dance of Death in Folk-Song, with an Introduction on the History of the Dance of Death (edizione privata del  1939 distribuita dalla biblioteca dell’Università di Chicago) e, usciti sulla rivista JEJP (acronimo di the Journal of English and Germanic Philology) edita dall’Università dell’Illinois, Urbana III, Problems in emblems Literature (v. 45, n. 1, gennaio 1946, pp. 26-37), la ricca appendice bibliografica a corredo di Emblemata. Handbuch zur Sinnbildkunst des XVI. und XVII. Jahrhunderts by Arthur Henkel; Albrecht Schöne (v. 67, n. 4, ottobre 1968, pp. 656-672), Literature in the Light of the Emblem. Structural Parallels between the Emblem and Literature in the Sixteenth and Seventeenth Centuries by Peter M. Daly e Francis Quarles. 1592-1644. Meditativer Dichter, Emblematiker, Royalist. Eine biographische und kritische Studie. Mit einer englischen Zusammenfassung by Karl Josef Höltgen (pp. 122-128)  (v. 80, n. 1, gennaio 1981, rispettivamente pp. 86-92 e 122-128). È morto il 18 gennaio 2001.

Continuando l’esame della scheda 158 di Sandra Side e Barbara Obrist abbiamo la conferma dell’allocazione indicata sulla carta di guardia, anche se il testo è definito uncat (incatalogato). Per quanto riguarda le fonti dei motti che accompagnano le immagini nella scheda si dice che sono per lo più (mostly) Petrarca e Virgilio. Il manoscritto risulta pubblicato da Thomas McGeary col titolo Manuscript Emblem Books at the University of Illinois nel numero 2 (1987) della rivista  Emblematica, alle pp. 360-366 con i motti e la descrizione delle immagini.

Non sono, dunque, il primo ad essersi occupato di questo manoscritto e mi divora la voglia di sapere cosa si legge in quelle sette pagine. Sarò infinitamente grato a qualche lettore, americano (non mi sto montando la testa; è vero o non è vero che queste cose interessano più gli stranieri che gli italiani?) o di altra nazionalità che, imbattutosi in questo scritto, digitalizzando quelle pagine e mettendole in rete renderà possibile a tutti saperne di più; almeno lo spero, perché mi pare che sette pagine siano veramente poche e questo è stato il motivo iniziale che mi ha spinto ad occuparmene; poi ho pensato che nella compilazione della scheda 158 le autrici debbono aver utilizzato la pubblicazione citata del 1987 e che quel Leccio? con  la mancata identificazione potrebbe provenire proprio da lì.

La spinta finale ha continuato a darmela la rete e preciso: Google consente tre tipi di visione dei libri digitalizzati (in generale in rapporto alla data di edizione e, dunque, al rispetto dei diritti d’autore): integrale (il volume è leggibile per intero e per lo più scaricabile), anteprima (sono mostrate solo alcune pagine), snippet (non a caso la parola significa ritaglio; infatti è possibile visionare solo alcuni brevi frammenti ai quali si è avuto accesso digitando da Google libri una parola chiave). In quest’ultimo caso, una volta entrati nel volume in questione (per il lettore che voglia provare: http://books.google.it/books?id=OSUrAQAAIAAJ&q=francesco+Cuomo+cento+imprese&dq=francesco+Cuomo+cento+imprese&hl=it&sa=X&ei=RoaJU8KlNKXJ0QWh0IDADw&ved=0CEIQ6AEwAg), è possibile digitare nell’apposita finestra con la dicitura Dall’interno del libro un’altra parola chiave e con un po’ di fortuna con questo sistema si può giungere a ricostruire intere pagine. Purtroppo non è stato possibile in questo caso, ma dai pochi frammenti catturati son riuscito a capire, comunque, che questa prima ed unica edizione critica presenta lacune di non poco conto, che emergeranno nel corso del nostro viaggio che ora continua con il frontespizio.

Imprese sta nel significato araldico, qui un po’ enfatizzato, di  figura, specialmente accompagnata da una breve frase allegorica, utilizzata come divisa o stemma gentilizio, presente nell’arme e impressa su monete (Dizionario De Mauro).

L’autore delle cento imprese è Fra’ Francesco Cuomo; il motivo ispiratore, quasi un banale pretesto, è la caduta di un albero di cipresso nel giardino di colui al quale è destinato l’omaggio: il leccese Vittorio Prioli; l’omaggio reca la data del 2 marzo 1615.

Per il letterato Vittorio Prioli può bastare quanto di lui ho riportato nella nota 1 di un recente post (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/06/una-sponsorizzazione-femminile-dellanfiteatro-di-rudiae-nella-travagliata-storia-di-una-fantomatica-epigrafe-cil-ix-21-prima-parte/). Più complicata è l’identificazione dell’autore dell’omaggio, il cui cognome di origine chiaramente napoletana rende abbastanza probabile che si tratti di quel Francesco Cuomo riportato in una Nota de’ Fratelli della Congregazione delle Appostoliche Missioni sotto ‘l titolo di S. Maria Regina degli Appostoli nel tempo della sua fondazione come portinaio della congregazione (che era stata fondata agli inizi del secolo XVII) in Giuseppe Sparano, Memorie istoriche per illustrare gli atti della S. napoletana chiesa e gli atti della congregazione delle appostoliche missioni eretta nel duomo della medesima, Raimondi, Napoli, 1768, p. 10.

Inizia da qui la serie delle carte numerate delle quali risulta scritto solo il retto.

La carta n. 1 contiene un sonetto, a firma di Valerio De Palma, che loda l’iniziativa di Fra’ Francesco Cuomo di onorare il cipresso caduto. Nelle opere a stampa relative a questo tipo di produzione letteraria è regola incontrare all’inizio la lettera dedicatoria dell’autore al destinatario o, come nel nostro caso, una sorta di presentazione (per non dire raccomandazione …) dell’autore  fatta da un personaggio più o meno autorevole.

Un Valerio De Palma compare in una Nota de’ Carcerati liberati dalli 19 di Luglio 1585 infino alli 17 di Ottobre 1585 a pag. 476 dell’Historia della citta [sic], e regno di Napoli di G. Antonio Summonte, A spese di Antonio Bulifon, Libraro all’insegna della Sirena, v. IV, Napoli, 1675, p. 476.

Non tragga in inganno la data di pubblicazione dell’opera del Summonte, la cui prima edizione risale al 1602. Un altro Valerio De Palma, napoletano, compare parte in causa di una questione ereditaria in Andrea Molfesio, Commentaria ad consuetudines neapolitanas, Scorigio, Napoli, 1615, p. 154. Sembrerebbe delinearsi, dunque, una comitiva intellettuale ruotante, come c’era d’aspettarsi, attorno all’ambiente culturale napoletano.

(CONTINUA)

seconda parte:  https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/18/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-28/

terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/20/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-38/

quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/23/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-48/

quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/28/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-58/

sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/02/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-68/

settima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/05/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-78/

ottava parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/08/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-88/

Leucasia, una sirena salentina? No, un’altra bufala; e lo dimostro.

di Armando Polito

immagini tratte dalla rete ed adattate
immagini tratte dalla rete ed adattate

 

Dopo la storiella della ninfa Colimena (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/13/torre-colimena-wikipedia-ed-altro/) e quella di Archidamo (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/05/21/manduria-e-cheronea-un-gemellaggio-imperfetto/) mi sono imbattuto in un’altra invenzione che si muove nell’alveo di una malintesa promozione turistica, perché scorretta, ingannevole e truffaldina.

Gli esempi cominciano ad essere troppi, tanto che ormai si può parlare non di esemplari isolati di bufale allo stato brado ma di un vero e proprio allevamento, per la cui emulazione (leggi gara a chi la spara più grossa) la rete funge da formidabile catalizzatore.

Leggo in http://www.terrarussa.it/11378/guida-salento/folklore-e-tradizioni/la-leggenda-della-sirena-leucasia-e-la-nascita-di-leuca/:

Il nome di Santa Maria di Leuca è legato ad una tra le più belle leggende che si narrano nel Salento. Essa racconta una storia di dolore e di vendetta in cui due innamorati vengono divisi per sempre. E’ la storia d’ amore che vede protagonista la fanciulla Leucasia, sirena di Leuca.

Nel tratto di mare che si stende tra Castro e la punta estrema della penisola viveva una bellissima sirena, tutta bianca e il suo nome era Leucàsia.

Il suo canto era particolarmente armonioso e mai nessuno era stato in grado di resisterle finché un giorno, un giovane pastore, non scese sugli scogli per portare le sue pecore a lavare. Si chiamava Melisso, era bellissimo e Leucàsia se ne invaghì.

Subito cominciò a cantare il suo canto più bello ma, Melisso, innamorato della bella e giovane Arìstula, non fece nessuna fatica a resistere alla tentazione dato che il suo cuore batteva solo per la sua amata.

La sirena non accettò il rifiuto, si infuriò e attese con pazienza il momento della sua vendetta. Un bel giorno i due innamorati scesero sugli scogli e subito Leucàsia scatenò una tremenda tempesta; le onde improvvise catturarono i due giovani e la perfida sirena fece in modo che annegassero e che finissero separati per sempre sulle due punte opposte di un ampio golfo.

Dall’alto del suo tempio, la dea Minerva vide tutto questo e si impietosì. Decise allora di pietrificare i corpi di Melisso e Arìstula, dando loro l’eternità: quelle pietre diventarono da allora per tutti e per sempre la punta Meliso e la punta Ristola che, non potendosi toccare fra di loro, abbracciano quello specchio di mare lì dove la terra finisce.

Anche Leucàsia finì pietrificata dal rimorso e si trasformò nella bianca città di Leuca.

Adesso immaginatevi questo scambio di battute tra Maurizio Crozza e la sua spalla Andrea Zalone nella spassosa imitazione del senatore Antonio Razzi:

Zalone Senatore Razzi, cosa ne pensa di questa leggenda?

Crozza/Razzi –Leggere è bello ma è pericoloso

Zalone –In che senso?

Crozza/Razzi –Tante volte ti aspetti d’incontrare una sirena e ti trovi davanti una bufala

Pongo fine a questo scambio di battute perché incredibilmente Crozza/Razzi ha, pur inconsapevolmente, sintetizzato la nostra situazione.

Intanto parto dal lemma leggenda con un copia-incolla dal vocabolario Treccani on line (lo riporto integralmente anche se la cosa è lunga, ma una sua parte mi servirà alla fine):

s. f. [dal lat. mediev. legenda, femm. sing., propr. neutro pl. del gerundivo lat. legendus «da leggersi»; nei sign. del n. 3, sul modello del fr. légende]. –

 1.

 a. In origine, breve narrazione relativa alla vita di un santo, dove l’elemento storico è dalla fantasia popolare deformato o arricchito di elementi irreali, e della quale, a scopo edificativo o esemplare, si dava lettura il giorno della festa del santo: la l. di san Brandano (popolare racconto medievale che narrava la navigazione fantastica del monaco irlandese Brandano il quale, salpando di isola in isola, trova prima l’inferno, poi le isole Fortunate e infine il paradiso terrestre).

b. Per estens., qualsiasi racconto tradizionale di argomento religioso o eroico, nel quale i fatti e i personaggi, sia immaginarî sia desunti dalla storia (ma soggetti in questo caso a un’amplificazione fantastica che altera il dato storico), sono in genere collegati con luoghi e tempi determinati: la l. di Romolo e Remo; le origini di quel popolo si perdono nella l.; l’epopea di Garibaldi ha acquistato nella fantasia del popolo un sapore di leggenda; entrare nella l., di personaggio che, per il carattere eroico e straordinario delle sue imprese, è destinato ad acquistare, nel ricordo e nelle narrazioni, aspetto leggendario, mitico.

c. Cosa inventata, non vera: sono tutte leggende; si vanno spargendo molte l. sul suo conto.

d. Nel linguaggio giornalistico e antropologico, l. urbana (o anche metropolitana), racconto che circola e si diffonde rapidamente per via orale, ambientato in luoghi «comuni» (la città, un appartamento, un negozio, un’autostrada, ecc.) e che riguarda episodî (riferiti come realmente accaduti, ma incontrollabili) il cui nucleo centrale è rappresentato da un incidente, per cui, da un avvio banale, gli avvenimenti si svolgono in modo ora raccapricciante, ora angoscioso, ora misterioso, facendo leva su sentimenti primordiali.

2. In musica, termine a volte usato per designare brani di intonazione epico-lirica il cui soggetto è generalmente di carattere sacro.

3. (anche nella forma lat. legenda)

a. L’insieme delle parole, intere o abbreviate, disposte circolarmente lungo l’orlo del tondino o disco della moneta, al dritto e al rovescio; solitamente in relazione con il tipo figurato, comprende i nomi e i titoli del sovrano o il nome dello stato, nomi di santi, invocazioni, motti, imprese araldiche, ecc.; il complesso della leggenda e del tipo è detto impronta. Analogam., è detta leggenda l’iscrizione che si legge sulle medaglie, e, nei francobolli, quella, per lo più relativa al soggetto grafico, che eventualmente viene stampata oltre alle indicazioni dello stato di emissione e del valore nominale.

b. In araldica, designazione complessiva di tutti i motti, divise o gridi di guerra posti in un’arme.

c. Nelle carte geografiche, atlanti, grafici e sim., titolo sotto il quale sono riportati e spiegati i varî segni convenzionali, e la parte stessa, di solito chiusa entro un riquadro, dove sono date tali indicazioni.

d. Dicitura esplicativa posta sotto un disegno, figura, ecc.; più comunem. detta didascalia. ◆ Spreg. leggendùccia; pegg. leggendàccia.

Inizio dicendo che il leggenda del post incriminato dovrebbe corrispondere come significato ad 1b. Ho detto dovrebbe perché manca l’ingrediente fondamentale della locuzione racconto tradizionale, in cui l’aggettivo vive del lungo, in alcuni casi lunghissimo, respiro del tempo.

Un racconto di recente creazione, dunque, non può essere definito leggenda; infatti il triangolo (quello immortalato nella canzone da Renato Zero) di Melisso, Aristola e Leucasia è una pura invenzione partorita dalla mente di Carlo Stasi e registrata nel suo Leucasia uscito a Presicce per i tipi AGL nel 1993, 1996, 2001 e successivamente in Leucasia e le due sorelle, Mancarella, 2008.

Ora, un poeta può essere responsabile di tutto ma non di ciò che si inventa; è responsabile, invece chi quell’invenzione sfrutta a modo suo, anche se lo fa in buona fede, cioè per ignoranza.

Nulla, perciò, ho da rimproverare a Carlo Stasi per aver messo in piedi una storiella “filologicamente credibile” a cominciare dall’abile trasposizione dei nomi dei protagonisti che vieppiù sembrano recuperare la loro probabile grecità nativa: così Mèliso diventa Mèlisso [così va letto se si vuol conservare l’accento del greco μέλισσα (leggi mèlissa)=ape], Rìstola si trasforma in Arìstula, più diminutivo del latino arìsta=spiga che connesso col greco ἀρίστη (leggi ariste)=la migliore. Va aggiunto che l’onomastico Μέλισσος (leggi Mèlissos), ma non riferito ad un personaggio mitologico, è attestato in parecchi autori tra cui Pindaro (I, 3, 9) e Platone,Teeteto, 183e.

E siamo a Leucasìa, parola piana se vogliamo conservare l’originario accento della corrispondente parola greca. Un Λευκασία, nome di un fiume della Messenia, è attestato in Pausania (Descriptio Graeciae, IV, 33: Per chi procede dalle porte (di Messene) a trenta stadi di distanza c’è la corrente della Balira. Dicono che il nome derivò al fiume quando Tamiri gettò lì la lira dopo l’accecamento, che è figlio di Filammone e della ninfa Argiope, che Argiope per un certo tempo abitò nelle vicinanze del Parnaso e dicono che si trasferì ad Odrisa dopo che rimase incinta, che Filammone non voleva accoglierla in casa. E per questo chiamano Tamiri Odrise e trace. La Leucasia e l’Amfito gettano le loro acque in essa.1

Un Λευκωσία (leggi Leucosìa), invece, è attestato come toponimo di isola in un frammento di Aristotele (IV secolo a. C.) tramandatoci da uno scolio ad Apollonio Rodio (III secolo a. C.), I, 917: La Samotracia prima si chiamava Leucosìa, come racconta Aristotele nella Costituzione di Samotracia.2

Λευκωσία s’incontra anche in Licofrone (IV secolo a. C.), Alessandra, 722-724, dove, parlando della fine delle sirene suicide per non essere riuscite ad ingannare Ulisse, così dice: Leucosìa, gettata sulla prominente sponda dell’Enipeo, occuperà per gran tempo l’isola che ha preso il suo  nome.3

Come nome di una delle sirene è attestato nel De mirabilibus auscultationibus, 103, di un anonimo indicato col nome di Pseudo-Aristotele (IV-III secolo a. C.): Dicono che le isole Sirenuse giacciono in Italia vicino al tratto di mare di fronte allo stesso promontorio, il quale (tratto di mare) giace di fronte al luogo che si protende e divide i due golfi, quello che si trova intorno a Cuma e quello che comprende quella che è chiamata Poseidonia; in esso si trova anche un loro (delle Sirene) tempio ed esse sono onorate oltremodo dai sacrifici (fatti) diligentemente dagli abitanti dei dintorni; ricordandone i nomi chiamano una Partenope, l’altra Leucosìa, la terza Lìgeia.4

Questo brano verrà utilizzato da Stefano di Bisanzio (V secolo d. C.), Ethnikà, lemma Σειρὴνουσαι (Sirenuse): Isole in Italia giacenti intorno al tratto di mare di fronte alla stessa sporgenza del luogo prominente e che divide i golfi, quello che sta intorno a Cuma e quello che comprende quella che è chiamata Poseidonia, in cui vi è anche un loro (delle Sirene) tempio ed esse sono onorate oltremodo. E i loro nomi sono questi: Partenope, Leucosìa e Lìgeia.5

Strabone (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Geographia, II, 5, 19: Restanti più di queste in alto mare Pantelleria, Pianosa, Ischia, Procida, Capri, Licosa e altre siffatte.6; VI, 1, 1: Per chi naviga da qui (da Poseidonia) il tratto di mare (c’è) l’isola di Leucosìa, che ha un piccolo canale di fronte al continente, eponimo di una delle sirene spinta qui dopo il loro leggendario gettarsi in fondo al mare. Di fronte all’isola si stende il promontorio che forma per le Sirenuse il golfo di Poseidonia.7; VI, 1, 6: E Procida e Ischia si staccarono dal continente, come pure Capri, Licosa, le Sirene e le Enotridi.8

Λευκωσία, prima sirena e poi isola, è pure in Eustazio (XII secolo), Commentari all’Iliade e all’Odissea, 358: Poiché secondo Omero le sirene sono due e prive di nome, secondo altri poeti sono tre ed hanno i nomi di Partenope, Ligea e Leucosia; esse, quando Ulisse navigò vicino a loro e non si lasciò incantare dal loro canto, vinte dalla tristezza, si gettarono a capofitto nel mare e dopo essere annegate furono sbattute quale su un lido quale su un altro … Presso la foce di questo fiume (il Silaro, oggi Sele) … a cinquanta stadi vi è il promontorio di Nettuno da dove per chi naviga c’è l’isola Leucosia, staccata dalla terraferma, che prende il nome da una delle sirene.9

Trascrizione del greco Λευκωσία è il latino Leucòsia attestato in Plinio (I secolo d. C.), Naturalis historia, III, 37: Di fronte al golfo di Pesto c’è Leucosia, così chiamata dalla sirena ivi sepolta10 e in Ovidio, Metamorfosi, XV, 708: Raggiunge Leucosia e i roseti della tiepida Pesto.11

Insomma, si parte dalla sirena Leucosìa (pronuncia greca) o Leucòsia (pronuncia latina) attiva in Campania (ma molto probabilmente oriunda greca) e la si trasferisce a Leuca dopo l’opportuno maquillage fonetico della sostituzione della –o– con la –a– (e poi, anche se era un fiume, la prima fonte che ho citato non riporta una Leucasìa?) e, con accento latino, la nostra Leucàsia è bell’e nata. Una leggenda che, dunque, corrisponde al significato peggiore che la voce può assumere: di quelli citati all’inizio, 1c.

Per quanto riguarda l’etimo dell’originaria Leucosìa tutti sono concordi nell’indicare l’aggettivo λευκός/λευκή/λευκόν (leggi leukòs/leukè/leukòn)=bianco (stesso etimo di Leuca); il concetto di bianco, però, per alcuni sarebbe riferito alla schiuma che genera il mare battendo contro l’isola ex sirena, per altri al colore delle ossa dei poveri malcapitati che, a differenza di Ulisse, non seppero resistere al fascino del suo canto e che per lungo tempo imbiancarono la scogliera. Nella leggenda confezionata il sirena tutta bianca evoca certamente Leuca, ma chi ci garantisce che qualcuno non si senta autorizzato  a supporre un caso di albinismo o, peggio, di anemia?

Forse sarebbe stato meglio non dirlo, perché chissà quale fantastico utilizzo ora ne verrà fuori …

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1 Cito il testo originale dall’edizione a cura di L. Dindorf, Didot, Parigi, 1845, p. 221: Σταδίους δὲ καταβάντι ἀπὸ τῶν πυλῶν τριάκοντα τὸ ῥεῦμά ἐστι τῆς Βαλύρας. Γενέσθαι δὲ τὸ ὄνομα τῷ ποταμῷ λέγουσι Θαμύριδος τὴν λύραν ἐνταῦθα ἀποβαλόντος ἐπὶ τῇ πηρώσει· παῖδα δὲ αὐτὸν Φιλάμμωνος καὶ Ἀργιόπης τῆς νύμφης εἶναι, τὴν δὲ Ἀργιόπην τέως μὲν περὶ τὸν Παρνασσὸν οἰκεῖν, ἐπεὶ δὲ εἶχεν ἐν γαστρί, ἐς Ὀδρύσας λέγουσι μετοικῆσαι· Φιλάμμωνα γὰρ οὐκ ἐθέλειν ἐς τὸν οἶκον αὐτὴν ἄγεσθαι. Καὶ Θάμυριν μὲν Ὀδρύσην τε καὶ Θρᾷκα ἐπὶ τούτῳ καλοῦσιν· ἡ δὲ Λευκασία καὶ Ἄμφιτος συμβάλλουσιν ἐς τὸ αὐτὸ τὰ ῥεύματα.

2 Cito il testo originale da Fragmenta historicorum Graecorum, a cura di C. Müller, Didot, Parigi, v. II, p. 158: Ἡ δὲ Σαμοθρᾴκη ἐκαλεῖτο πρότερον Λευκωσία, ὡς ἱστορεῖ Ἁριστοτέλης ἐν Σαμοθρᾴκης πολιτεῖᾳ.

3 Cito il testo originale dall’edizione a cura di G. Kinkel, Teubner, Lipsia, 1880, p. 30: Ἀκτὴν δὲ τὴν προὔχουσαν εἰς Ἐνιπέως/Λευκωσία ῥιφεῖσα, τὴν ἐπώνυμον/πέτραν ὀχήσει δαρόν …

4 Cito il testo originale dall’edizione a cura di Gabriella Vanotti, Edizioni Studio Tesi, Pordenone-Padova, 1997, p. 44: Φασὶ τὰς Σειρηνούσας νήσους κεῖσθαι μὲν ἐν τῇ Ἰταλίᾳ περὶ τὸν πορθμὸν ἐπ’αὐτῆς τῆς ἄκρας, [ὅς κεῖται πρὸ] προπεπτωκότος τοῦ τόπου καὶ διαλαμβάνοντος τὸυς κόλπους τόν τε περιέχοντα τὴν Κύμην καὶ τὸν διειληφότα τὴν καλουμένην Ποσειδωνίαν· ἐν ᾧ καὶ νεὼς αὐτῶν ἵδρυται καὶ τιμῶνται καθ’ὑπερβολὴν ὑπὸ τῶν περιοίκων θυσίαις ἐπιμελῶς· ὧν καὶ τὰ ὀνόματα μνημονεύοντες καλοῦσι τὴν μὴν Παρθενόπην, τὴν δὲ Λευκωσίαν, τὴν δὲ Λίγειαν.

5 Cito il testo originale dall’edizione a cura di A. Meineke, Reimer, Berlino, v. I,  p. 559: Σειρηνούσαι· νήσοι ἐν τῇ Ἰταλίᾳ περὶ τὸν πορθμὸν ἐπ’αὐτῆς τῆς ἄκρας κείμεναι προπεπτωκότος τοῦ τόπου καὶ διαλαμβάνοντος τὸυς κόλπους τόν [τε] περιέχοντα Κύμην [καὶ] καὶ τὸν διειληφότα τὴν καλουμένην Ποσειδωνίαν· ἐν ᾧ καὶ νεὼς αὐτῶν ἵδρυται καὶ τιμῶνται καθ’ὑπερβολὴν. Ὧν καὶ τὰ ὀνόματα ταῦτα, Παρθενόπη καὶ Λευκωσία καὶ Λίγεια.

6 Cito il testo originale dall’edizione a cura di A. Meineke, Teubner, Lipsia, 1852, v. I, p. 164 Πολὺ δὲ τούτων λειπόμεναι πελάγιαι μὲν Πανδατερία τε καὶ Ποντία, πρόσγειοι δὲ Αἰθαλία τε καὶ Πλανασία καὶ Πιθηκοῦσσα καὶ Προχύτη καὶ Καπρίαι καὶ Λευκωσία καὶ ἄλλαι τοιαῦται.

7 Cito il testo originale dall’edizione a cura di A. Meineke, op. cit., p. 346: Ἐντεῦθεν δ᾽ ἐκπλέοντι τὸν κόλπον νῆσος Λευκωσία, μικρὸν ἔχουσα πρὸς τὴν ἤπειρον διάπλουν, ἐπώνυμος μιᾶς τῶν Σειρήνων, ἐκπεσούσης δεῦρο μετὰ τὴν μυθευομένην ῥῖψιν αὐτῶν εἰς τὸν βυθόν. Τῆς δὲ νήσου πρόκειται τὸ ἀντακρωτήριον ταῖς Σειρηνούσσαις ποιοῦν τὸν Ποσειδωνιάτην κόλπον.

8 Cito il testo originale dall’edizione a cura di A. Meineke, op. cit., p. 354: Καὶ γὰρ ἡ Προχύτη καὶ Πιθηκοῦσσαι ἀποσπάσματα τῆς ἠπείρου καὶ αἱ Καπρίαι καὶ ἡ Λευκωσία καὶ Σειρῆνες καὶ αἱ Οἰνωτρίδες.

9 Cito il testo originale da Geographi Graeci minores, a cura di C. Müller, Didot, Parigi, 1861, v. II, p. 280: Ὅτι κατὰ μὲν Ὄμηρον αἱ  Σειρῆνες δύο καὶ ἀνώνυμοι, κατὰ δὲ τοὺς ἄλλους ποιητὰς τρεῖς, καὶ ὀνόματα αὐταῖς Παρθενόπη, Λίγεια καὶ Λευκωσία, αἳ παραπλεύσατος αὐτὰς τοῦ Ὀδυσσέως καὶ μὴ θελχθέντος οἷς ἐμελῴδουν, νικηθεῖσαι τῇ ἀθυμία κατέρριψαν ἑαυτὰς εἰς τὴν θάλασσαν, καὶ ἀποπνιγεῖσαι ἄλλη ἀλλαχοῦ ἐξεδράθησαν … Μετὰ δὲ τὸ τοῦ ποταμοῦ τούτου στόμα … ἐν ν’ σταδίοις ἡ Ποσειδωνιὰς ἄκρα, ὅθεν ἐκπλέοντι νῆσος Λευκωσία ἐστιν, ἠπείρου καὶ αὐτὴ ἀπόσπασμα, ἐπώνυμος μιᾶς τῶν Σειρήνων.

10 Cito il testo originale dall’edizione a cura di Francesco Della Corte, Giardini, Pisa, 1984, p. 150: Contra Paestanum sinum Leucosia est, a sirene ibi sepulta appellata. Va detto che Leucòsia (e non Leucàsia come si legge in alcuni codici) è la lezione oggi generalmente accettata.

11 Cito il testo originale dall’edizione Antonelli, Venezia, 1844, p. 759: Leucosiamque petit, tepidique rosaria Paesti.      

 

Le Cesine: una proposta etimologica e non solo … (2/2)

di Armando Polito

immagine tratta da http://blog.casase.it/wp-content/uploads/2012/05/riserva-naturale-le-cesine-vernole9.jpg
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Cesine per quanto fin qui detto ha tutta l’aria di trarre origine come toponimo da un nome comune e di essere connesso con un’attività che nel tempo ha avuto implicazioni militari (ostacolo rappresentato da cumuli di tronchi e rami che, naturalmente, debbono prima essere tagliati) oppure civili (in agricoltura barriere protettive dei campi coltivati formate da cumuli di rami tagliati o da siepi soggette, comunque, a manutenzione, cioè alla potatura per evitare che la loro ombra faccia danno; lungo le strade necessità di tagliare gli sterpi come misura preventiva contro gli agguati ai viaggiatori). Le nostre Cesine potrebbero anche alludere al legnatico (se non da bosco quanto meno da macchia) o alla raccolta del giunco.

Lo stesso destino potrebbe aver avuto Segine. Ma qui l’indagine etimologica condotta con gli stessi strumenti utilizzati per Cesine  comporterebbe, come vedremo, un indebolimento della teoria di Cesine variante di Segine grazie all’intervento di una semplice metatesi.

Ma, se Cesine rivela un suffisso aggettivale accoppiato al tema (caes-) di caesa (participio passato femminile del ricordato caedere), la stessa tecnica di formazione ha coinvolto pure Segine? Potrebbe essere andata così e tenterò di dimostrarlo.

Dal glossario del Du Cange:

L’italiano seccia (sinonimo di stoppia) secondo gli studiosi probabilmente è ciò che rimane di fenisicia=taglio del fieno, composto da fenum=fieno e dal tema di secare=tagliare. Ritorna, dunque, il concetto del taglio già visto in cesine, questa volta riferito non alla vegetazione spontanea ma a quella che è frutto della coltivazione di un terreno. E non escluderei un rapporto tra seghia/seccia e il classico seges/sègetis, campione di ambiguità, perché può significare terreno o campo non seminato (arato o non arato), campo seminato, campo di biade, e, in senso traslato messe, gran quantità. Come forma aggettivale, però, da un punto di vista formale è più probabile che segine lo sia di seghia e non di seges/sègetis, il cui tema seget– avrebbe dovuto dare un aggettivo segetaris come militaris da miles/militis.

A conclusione di questo impervio cammino ipotizzo, perciò, che Segine e Cesine siano due toponimi ben distinti anche sul piano etimologico e che ognuno di loro contenga il riferimento ad una particolare fase economica del territorio interessato: Segine, più all’interno, con un’economia rurale magari di pura sopravvivenza (il che spiegherebbe l’etichetta di casale) e Cesine una riserva di risorse naturali (raccolta della legna, pesca).

Una riprova di tutto questo può essere il Giegine che si legge in una mappa del 1589 della quale mi sono già occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/24/la-toponomastica-della-provincia-di-lecce-in-una-mappa-del-1589-grazie-francia/:

Pur tenendo conto delle storpiature con cui i nomi compaiono spesso in queste carte, direi che è più facile immaginare che Giegine sia deformazione di Segine (da notare che il nuovo nome, Acaya, al tempo della mappa esisteva già da 54 anni, eppure non compare) piuttosto che di Cesine; faccio notare, ancora, la posizione all’interno, da casale, piuttosto che da zona costiera.

Al limite proprio questa ambiguità semantica avrebbe potuto propiziare il passaggio dal comune e più antico cesine al toponimo Segine e proprio in questo senso forse va sciolta l’ambiguo corrisponde del passo del Bacile di Castiglione citato all’inizio.

Se la mia proposta etimologica, nonostante le prove addotte a suffragio, dovesse sembrare oscena, ne ho pronta un’altra ancora più oscena che senz’altro troverà apprezzamento entusiasta presso certi ambienti (ho detto ambienti, non ambientalisti …).

Tagliamo il verde sopravvissuto, lasciamolo seccare e poi bruciamo il tutto; anzi,  per fare più presto, per la seconda operazione possiamo usare una bella dose di diserbante; se poi vogliamo non perdere stupidamente tempo basterà qualche tanica di benzina …

Dopo di che, la mia fantasia prevede l’abbattimento immediato di ogni invereconda costruzione simile al trullo presente nella foto di testa della prima parte (agli olivi, fortunatamente, ci avrà già pensato il fuoco) e la bonifica tramite riempimento con spazzatura, proveniente anche dall’estero, di ogni parte umida simile a quella della seconda foto. Il tocco finale, in attesa della costruzione di qualche villaggio turistico, sarà costituita da una bella asfaltatura.

Sono certo, però, che per fortuna nostra e dei nostri discendenti, menti ben più sviluppate della mia hanno già pronta una vastissima gamma di progetti alternativi …

Se poi si riuscirà a convincere quelli di Cesena a fare lo stesso con il loro territorio, approfittando del fatto che probabilmente anche questo toponimo ha la stessa etimologia, si potrà celebrare, cosa che non guasta mai, un bel gemellaggio. Il tocco finale, poi, consentirà al toponimo di assumere, con poca fatica (altro che metatesi, basterà una più semplice epentesi o, se preferite, geminazione di -s-) la sua forma, forse definitiva: Le Cessine.

Sentite un po’, per concludere, cosa scriveva poco più di due secoli fa Michele Angelo Manicone sulla zona garganica in La fisica Appula, Sangiacomo, Napoli, 1806, pp. 111-112: L’abate Longano dice, che per le furiose e popolari cesinazioni fatte dopo l’anno 1764, oggi manca agl’Ischitellani il legname infino per brusciare. Fa d’uopo che questo Viaggiatore sia stato mal servito da’ suoi corrispondenti; essendo la sua asserzione un errore non sopportabile.Non sono gl’Ischitani, che non hanno legna per brusciare, ma i Vichesi. Vico, mercè della barbara cesinazione, non ha più boschi; ma ha boschi Ischitella; perché al cominciato disboscamento si è vigorosamente opposta l’Autorità Pubblica. Solo si desidererebbe, che i Vichesi, i Rodiani, i Carpinesi, che di legname abbisognano, gl’ischj, e i boschi d’Ischitella non devastassero. Ma pur troppo ciascuno è soggetto a scrivere delle cose poco esatte: ed io credo di rendere un vero servigio ai leggitori del Longano, avvertendoli di qundo in quando d’alcuni errori di fatto. Ma ritorniamo alle cesine. Perché sono fattesi tante barbare cesine ne’ vetusti ghiandiferi, manniferi, e picei boschi? Per la semina del grano. Oh demenza! Cesinanti, e non sapete voi, che la superstizione consagrò i boschi ai Numi; e che lo spirito di vera Religione dettò ne’ Riti della Chiesa Ambrosiana le preci per la formazione di essi boschi? Non sapete voi, che la natura ne’ monti vuole alberi d’alto fusto, e non punto campi? Non sapete voi, che le alte, sassose e secche terre montane attissime sono a dar solo legna, pascoli e foraggio, e non punto a produrre gentili biade? Finalmente non sapete voi, che su i monti regna il Dio Silvano e non la Dea Cerere? Oh quanto savj erano i nostri avi, che i monti destinarono sempre al bosco, ed al prato; riescendo così a farvi vivere numerose truppe di vacche e buoi, e numerose mandre d’immondi porci! Voi avete bruciato tutto; voi avete voluto seminare su i decorticati monti: ma che ne avverrà egli? La sfaldatura de’ monti restando mercè le alluvioni spolpata della epiderma di terra vegetabile, che le radici degli alberi vi manteneano, il terreno, che per pochi anni darà abbondanti raccolte, diverrà sterile, la fame crescerà ogni anno col disboscamento, ed i coloni s’impoveriranno alla giornata. Cesinanti, voi dalle vostre stolte cesine non otterrete altro tra breve, che una passeggiera e stentata focaccia, e rimarrete senza legne, e senza semina. 

Un nemico del cosiddetto progresso, un coglione ambientalista ante litteram, un maledetto profeta di sventure o, come oggi è di moda dire, un gufo? Sarà. Comunque, per quelle menti geniali di cui ho parlato prima, tanto geniali da saper interpretare, bene che vada, solo alla lettera ciò che leggono e geneticamente non in grado di capire il sarcasmo, dichiaro con fierezza di essere pure io un coglione ambientalista o, se preferiscono, un ambientalista coglione …

Per la prima partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/14/le-cesine-una-proposta-etimologica-e-non-solo-12/

 

 

 

Le Cesine: una proposta etimologica e non solo … (1/2)

di Armando Polito

immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Fiori_gialli,_sasi_e_ulivi.jpg
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immagine tratta da http://video.salento.it/wp-content/uploads/2013/05/Oasi-WWF-Le-Cesine.jpg
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L’opinione corrente sul nostro toponimo, che nei documenti che citerò sarà evidenziato col grassetto, può essere riassunta da quanto si  legge in Gennaro Bacile di Castiglione, Castelli pugliesi, Officina tipografica romana “Buona Stampa”, Roma, 1927, p. 21:

Sul margine di quella triste zona paludosa, che dal porto di S. Cataldo si distende lungo la riva Adriatica, giù giù sino ad Otranto, sorge a tredici chilometri da Lecce, una piccola terra tuttora recinta di profondo fossato, rinchiusa entro la cerchia delle sue mura secolari, dai propugnacoli già formidabili di gagliardia, ora rotti, screpolati, corrosi, coperti di erbe e di licheni. Codesta terra dall’aspetto suggestivo e pittoresco quant’altra mai è la terra d’Acaja. Segine o Secine era l’antico suo nome, che corrisponde, con lieve metatesi, all’altro di Cesine, la vasta palude letifera poco discosta dal villaggio. 

L’equivalenza tra Segine e Cesine viene ripresa da Antonio Costantini in Le masserie del Salento: dalla masseria fortificata alla masseria-villa, Mario Congedo, Galatina, 1995, pp. 70, 73, 74, 141, 178.

Si direbbe che tale equivalenza sia una conclusione moderna formulata tout court sulla base di una semplice assonanza. Per tentare di capirci qualcosa in più occorre andare a ritroso nel tempo.

La prima attestazione da me conosciuta di Segine è contenuta in un diploma emesso il 25 aprile 1197 dalla regina Costanza. Lo riporto integralmente1 (anche perché costituisce uno spaccato interessantissimo dell’economia salentina della fine del XII secolo) con la mia traduzione: Costanza imperatrice dei Romani e regina sempre augusta di Sicilia col favore della clemenza divina. Se l’immensità dell’imperiale liberalità secondo i giusti desideri dei nostri fedeli si vede dalla dovuta equità ed essa fu solita procedere con la favorevole grazia della sua benignità, essa a maggior ragione deve venire incontro ai pii appelli delle chiese e prestare il favore della sua carità. Ne consegue certamente che, applicando alle sacre chiese e ai luoghi della religione destinati al culto la dovuta clemenza della nostra liberalità, per la salvezza nostra e dei nostri eredi nonché per la conservazione del nostro impero, concediamo e confermiamo in perpetuo alla chiesa di Lecce tutte le decime che un tempo Roberto conte di Lecce, nostro fedele, concesse e diede alla medesima chiesa con un suo privilegio, cioè la decima della moneta (destinata ai) ai catapani2, la decima della platea del fiume tanto di moneta quanto di pesci e lino, la decima della zona costiera, la decima della laguna3, tanto di moneta che di pesci e lino, la decima dei redditi delle pecore dei pastori stanziali4 tanto di Lecce quanto dei casali, la decima dei redditi dei contadini di Rudie5, il decimo del tributo6 e delle tasse7 di Corigliano8, Carpignano, Monteroni e Arnesano o se si vuole di tutti i casali che si trovano negli stessi predetti possedimenti, la decima dei giumenti, delle vacche, delle pecore e delle capre tanto di Lecce che dei casali, la decima del cacioricotta, della lana, delle galline e dei polli tanto di Lecce dei casali, la decima delle rendite del casale di Segine tanto del frumento che dell’orzo e degli altri redditi che sono pertinenti al demanio della contea di Lecce, anche la decima di tutti i frutti dei giardini, e delle verdure degli orti provenienti dal demanio della detta contea, come il medesimo conte Roberto, nostro fedele, concesse alla medesima chiesa, secondo quanto è contenuto nominatamente e più distintamente nell’atto redatto dallo stesso conte per la predetta chiesa, tuttavia a condizione che a nessun vescovo o prelato della chiesa leccese sia lecito offrire a qualcuno o in qualsiasi modo vendere alcunché delle predette decime, ma che la medesima proprietà delle decime debba essere sempre conservata a favore della chiesa leccese ed essere detenuta in perpetuo. Affinché poi questa nostra concessione e conferma resti sempre salda e inattaccabile ed a nessuno in alcunché sia lecito contraddire disponemmo che la presente pagina fosse scritta e confermata col nostro sigillo. Se qualcuno poi presumerà di opporsi a questa nostra concessione e conferma, prepari cinquanta libbre di oro purissimo per chi subirà la mediazione della nostra camera e la restante offesa. Nell’anno 1197 dell’incarnazione del Signore, 25 aprile della XV indizione, sotto il regno del signore Enrico VI per grazia di Dio imperatore sempre augusto dei Romani e re gloriosissimo di Sicilia, nel ventisettesimo anno del suo regno, settimo dell’impero, terzo del Regno di Sicilia, felicemente, amen.

Faccio notare che Segine è qualificato come casale, cioè un gruppo di poche case rurali, formatosi, senza carattere o funzione di centro, in zone e per esigenze particolari.

Se dunque Segine è attestato fin dalla fine del XII secolo, altrettanto non può dirsi per Cesine, almeno come toponimo riferito alla nostra zona. Infatti cesine è un nome comune molto ricorrente in statuti medioevali. Eccone qualche esempio:

… Fovee et omnis nostre utilitatis iusta rationem ibidem faciant, et illut ronkare, et cesine faciant, et ipsa terra conciare et seminare et cultare et studiare ipsi lavori per omnes annos …9 (…Fosse e le facciano lì stesso  secondo la misura della nostra utilità e potare quello [il luogo] e facciano cesine e mettere in sesto e seminare e coltivare la stessa terra e dedicarsi allo stesso lavoro ogni anno …).

… Pro vice sua et de consortibus suis tradiderat ad roncandum et cesine faciendum, et lavorandum, et seminandum usque tres frudia, et omne annum dare inde eis terraticum, secundum consuetudinem de ipso loco 10 (Per suo conto e dei suoi compagni aveva ricevuto [il diritto] a potare e a far cesine e lavorare e a seminare fino a[lla raccolta di] tre frutti e ogni anno dare loro da lì il terratico11 secondo la consuetudine dello stesso luogo …)

Ma cosa sono le cesine? Ecco come la voce e quelle a lei collegate, che per comodità ho unito graficamente, sono trattate nel glossario del Du Cange (la traduzione a fronte è mia):

 

 

Cesa 6 non c’è.

 

Il lettore avrà notato che tutte le voci riportate hanno l’iniziale maiuscola; ciò serve solo per evidenziarle, anche perché sarebbe impossibile ipotizzare per tutte un qualche slittamento toponomastico e non è che solo cesine possa sottrarsi a questa regola, anche se la loro naturale tendenza a trasformarsi in toponimo ha lasciato tracce in tutt’Italia12.  Il lettore avrà pure notato che il comune denominatore di tutte le voci è il concetto del tagliare e non a caso la radice da cui esse derivano tutte è quella del verbo del latino classico caedere=tagliare, madre di altre voci, sempre classiche [come caeduus (da cui l’italiano ceduo), cesura (da cui l’analoga voce italiana),  senza contare i composti come decìdere, incìdere, concidere e circumcidere (da cui in italiano decidere, incidere, conciso e circoncidere) e delle medioevali cisoria (da cui l’italiano cesoia) e coincidere (da cui la voce italiana).

(CONTINUA)

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1 Da Theo Kölzer, Die Urkunden Der Deutschen Könige Und Kaiser. Elfter Band Drittel Teil. Die Urkunden Der Kaiserin Konstanze, in MGH (è l’acronimo di Monumenta Germaniae Historica), Hahn, Hannover, 1990, pp. 122-123:

Constantia divina favente clementia Romanorum imperatrix et regina Sicilie semper augusta. Si iusta fidelium nostrorum desideria equitate debita imperialis liberalitatis contuetur immensitas et ea favorabili benignitatis sue gratia prosequi consuevit, multo magis piis debet ecclesiarum petitionibus condescendere et caritatis sue prestare favorem. Inde est utique, quod ad sacrosanctas ecclesias et loca religionis exposita cultibus serenitatis notre debitam clementiam applicantes, pro salute nostra et heredum nostrorum necnon pro conservatione imperii nostri concedimus et confirmamus in perpetuum Lyciensi ecclesie omnes decimas, quas quondam Robertus comes Lycii, fidelis noster, Eidem ecclesie per privilegium suum concessit et dedit, videlicet decimam monete catapanis, decimam platee fluminis tam monete [quam] piscium et lini, decimam maritime, decimam alimine, tam monete quam piscium et lini, decimam reddituum affidatorum stalliatorum ovium tam  Lycii quam casalium, decimam reddituum villanorum Rugie, decimam date et legum Curuliani, Carpiniani, Monteroni et Arnesani [seu] universorum casalium, que sunt in ipsis prenominatis tenimentis, decimam iumentorum, vaccarum, ovium, et caprarum tam Lycii quam casalium, decimam casei recocte, lane, gallinarum et pullorum tam [Lycii quam] casalium, decimam reddituum casalis Segine tam frumenti quam ordei et aliorum reddituum, que ad demanium Lyciensis pertinent comitatus, decimam quoque omnium fructuum iardinorum et olerum ortorum de demanio predicti comitatus, sicut idem Robertus comes, fidelis noster, concessit eidem ecclesie, iuxta quod in instrumento ab ipso comite prefate ecclesie confecto nominatim et expressius continetur, ita tamen quod nulli Lyciensis ecclesie episcopo vel prelato liceat aliquod de predictis decimis in prebenda alicui concedere seu modo quolibet alienare, sed eadem decimarum proprietas debeat semper ad opus Lyciensis ecclesie conservari et in perpetuum detineri. Ut autem hec nostra concessio et confirmatio semper firma et inconcussa permaneat [et] nulli in aliquo liceat contraire, preentem paginam conscribi et nostro sigillo fecimus communiri. Si quis autem huic nostre concessioni et confirmationi obviare presumpserit, quinquaginta libras auri purissimi componat, medietatem camere nostre et reliquam iniuriam patienti. Anno dominice incarnationis M°C°XC°VII°, septimo kalendas Maii XVe indictionis, regnante domino Henrico sexto Dei gratia Romanorum imperatore semper augusto et rege Sicilie gloriosissimo, anno regni eius vigesimo septimo, imperii vero septimo, regni Sicilie anno tertio, feliciter, amen.  

2 Funzionario amministrativo del periodo normanno. Dal latino medioevale catapanu(m), a sua volta dal greco bizantino κατεπάνω=sOvrintendente, a sua volta dalla locuzione avverbiale classica  κατ’ἐπάνω=sopra.

3 Alimine nell’originale. Qui nome comune, confermerebbe l’etimo di Alimini (da La Limini) dal greco λίμναι (leggi limnai), plurale di λίμνη (leggi limne)=palude; ricordo che il toponimo Λίμναι è attestato, fra gli altri, da Aristofane (Rane, 216) da Tucidide (Storie, II, 15, 4) come un quartiere di Atene, da Strabone (Geografia, VIII, 5, 1) come un quartiere di Sparta e da Pausania (Descrizione della Grecia, III, 2, 6) come una località della Messenia.

4 Così traduco stalliatorum sulla scorta del glossario del Du Cange:

5 La citazione di Rudie e dei suo villani (non cives) ci permette di affermare che già alla fine del XII secolo molto probabilmente la città era stata abbandonata.

6

7 Così traduco legum, sulla scorta del Du Cange:

 

8 L’originale Curulianum confermerebbe l’ipotesi dell’origine non prediale, cioè non da un Curulius ma come forma diminutiva (forse di epoca bizantina) del greco classico χωρίον=spazio, luogo, regione, a sua volta diminutivo di χώρα o χῶρος.

9 CDC (acronimo di Codex Diplomaticus Cavensis), VIII,  p. 71,  n. 1272, anno 1058, Salerno.

10 CDC, VIII, p. 161, n. 1321, anno 1061, Salerno.

11 Canone fisso in natura.

12 Per esempio: in Giuseppe Castaldi, Memorie storiche del comune di Afragola, p. 19, a commento di un diploma del 1288 conservato nell’archivio comunale, si legge, in riferimento a cesinas Afragolae presente nell’atto: Esiste tuttora in Afragola una strada chiamata Cesinola, dove sicuramente dovett’essere il feudo chiamato Cesine, che poi fu aggregato all’anzidetto Comune, ritenendo il suo antico nome.

Non so Cesinola è sopravvissuto ma sicuramente ricordo degli antichi tempi è nei toponimi di contrade come Cesinali (Avellino), Cesine (Montecalvo Irpino, Ruoti, San Giorgio del Sannio, Vallata) Cesine di sopra (Cerreto Sannita). Anche il resto d’Italia è variamente coinvolto : La Cesa (a Pergo Cortona in provincia di Arezzo), Incisa (a Prato, a Castel S. Nicolò in provincia di Arezzo, a Montecchio in provincia di Terni, a Castiglion Fiorentino in provincia di Arezzo, a Piteccio in provincia di Potenza), Ciesa a Borgo a Mozzano e a Bagni di Lucca in provincia di Lucca,  Malga Ces a Primiero in provincia di Trento, Cesàre a Gonzaga in provincia di Mantova, Cesina a Dàvoli e a Vibo Valenzia in provincia di Catanzaro nonché ad Altomonte in provincia di Cosenza, Gesina ad Isca in provincia di Catanzaro e, per tornare a zone a noi più vicine, Cesine a Ginosa in provincia di Taranto e La Cesaglia a Minervino di Lecce in provincia di Lecce.

La masseria di Capriglia nell’agro di Ortelle in un documento inedito

Ciò che sopravanza della masseria Capriglia
Ciò che sopravanza della masseria Capriglia

La masseria di Capriglia nell’agro di Ortelle in un documento inedito, un contratto di affitto stipulato a Napoli nel 1918 fra la Duchessa di Nardò e Salvatore Merola di Cerfignano

 

di Paolo Rausa

La masseria di Capriglia è conosciuta per essere stato il luogo in cui Giorgio Cretì ha ambientato il romanzo ‘Pòppiti’, ripubblicato recentemente a cura della Fondazione Terra d’Otranto e rappresentato come dramma popolare al Faro della Palascìa a Otranto e parzialmente nella piazza di Ortelle il 1° giugno. La pioggia ne ha impedito la conclusione. Il testo è di Raffaella Verdesca, la regia di Paolo Rausa.

Capriglia l contratto di affitto

In un documento notarile del 20 febbraio 1918 viene trascritto a Napoli il contratto di locazione della ‘vasta masseria denominata Capriglia’ di proprietà della Eccellentissima Duchessa di Nardò, Donna Maria Zunica, gentildonna e proprietaria, con Salvatore Merola di Cerfignano, agricoltore e proprietario.

Di questo atto, descritto con minuzia di particolari negli elementi costitutivi della proprietà e negli obblighi a cui è tenuto il fittuario, è importante estrarre la componente agriculturale di conduzione dei fondi e di manutenzione dei beni, ben definita sia che si tratti di muri a secco, dei locali della masseria, persino del giardino che abbellisce la Cappella di S. Eligio e degli arredi sacri che vengono ricevuti dal precedente affittuario e perpetuati dal nuovo. Il ciclo dei campi si invera e si comprendono le condizioni sociali e culturali che permangono nelle campagne salentine fino a un secolo fa e forse anche oltre. In premessa l’oggetto del contratto, si descrive la composizione dei fondi indicati coi nomi di Pitria, Capriglia, Chiusura Finocchio, Aia, Ortore limitrofo all’Aia, Giardino della Cappella, Santaloja Vecchia, Masseria Capriglia, Ortore adiacente e contigua, Vignali, Serra pascolosa, Monte e Larghi la Croce, Monte Finocchito, Larghi Pezza li Monaci, Caggiubba e Larghi li Monaci, Chiusura lo Viero, Chiusura la Grotta, Cicirumella, Spitali e Pezza la Casa, giusta le antiche denominazioni dei fondi medesimi.

Capriglia Una masseria della zona

L’intera masseria Capriglia è di circa centosettanta tomolate, cioè di circa 83,30 ettari, considerandovi la consuetudinaria tomolata di circa are 49. Seguono gli altri elementi essenziali per la stipula del contratto: la durata in sei anni, dal 1° settembre 1918 al 31 agosto 1924; l’affitto  annuo in lire 8.600 per la masseria da versare con tempi e modalità prestabilite e lire 400 in compenso della decima e metà del prodotto della vigna. Seguono le descrizioni in dettaglio delle doti di cui dispone la masseria: gli animali bovini ‘di giusta età ed atti al lavoro’, sessanta pecore di corpo, delle quali trentasei di ottima qualità, e ventiquattro recettibili, cioè non cieche, non zoppe e né mancanti di denti, tre montoni e quattro capre, di buona qualità. Dopo gli animali la dotazione dei prodotti di scorta, definiti nella quantità, e degli attrezzi che il fittuario riceve dall’uscente: grano,  orzo,  avena,  fave, lupini, ecc., tutti generi di buona qualità e per uso di semenza – viene specificato -, poi paglia di grano e di orzo,  immesse nella pagliera, una carretta, tre aratri ‘coi rispettivi gioghi buoni e servibili’, due vomeri di ferro ‘con la specifica del peso e servibili’, una madia per la ricotta salata, in buono stato ma senza serratura, un caccavo di rame rosso, otto mangiatoie nella masseria; cinque pile ed un pilone vicino al pozzo, e due altre pile vicino alla cisterna della masseria. Tutto specificato nei dettagli in modo che non sorgano liti o incomprensioni.

Questo tanto per cominciare. Nel caso di maltempo o di malattia delle piante che potessero distruggere in tutto o in parte il raccolto, come  grandine e alluvioni, o la mosca olearia, la filossera, la peronospera, l’oscamorina, la grittogama, ecc. il fittuario non può esimersi dal pagare quanto pattuito.

Tra i vari punti da sottoscrivere alcuni si richiamano alla regola d’arte nella coltivazione dei terreni e secondo gli usi locali, per es. seminando ogni due anni i terreni per la pastorizia, lasciando l’ultimo anno della locazione venti tomoli di maggesi e venti di erba, piantando secondo la volontà tabacco, purché non si rechi danno alle coltivazioni e alle piante esistenti, specie agli ulivi. Altri riguardano il governo degli animali in dote alla masseria e quelli aggiunti dal locatario, l’obbligo a farli dimorare e pernottare nella masseria, e di utilizzare il letame per concimare esclusivamente i terreni della masseria e non altri, altrimenti si incorre in una penale. L’approvvigionamento dell’acqua dal pozzo di Capriglia, che  deve essere mantenuto sgombro da materiali, e la cura dei canali di scolo sono altre prescrizioni contenute nel contratto insieme alla manutenzione dei locali affidati e alla loro riparazione ordinaria.

Capriglia
Pòppiti nel territorio di Capriglia

L’adempimento di tutti i patti e le condizioni sono suggellati e garantiti da una ipoteca che grava a garanzia su tutte le  proprietà del fittuario, compresi case e fondi. Oltretutto sono consentite visite ispettive di personale inviato dalla signora Duchessa di Nardò per verificare l’osservanza delle varie condizioni poste  e sottoscritte.

Ce la farà il povero Salvatore Merola di Cerfignano a lavorare la terra e a rispettare tutte queste clausole contrattuali? Non lo sappiamo. Vedendo le condizioni in cui è ridotta la masseria di Capriglia, ora diroccata, sembrerebbe di no.

Ci ritorneremo con lo spettacolo teatrale ‘Pòppiti’ il 10 di agosto, la Notte di San Lorenzo, riportando vita in un lembo di territorio agricolo, seppure per la durata di questo dramma popolare.

Il ponte tra Otranto e Apollonia, con uno sguardo al presente e, purtroppo, anche al futuro …

di Armando Polito

Plinio (I secolo d. C.), Naturalis historia, III, 11: 100-101: (A partire) da Taranto le città dell’interno sono: Oria cui è il soprannome “di Messapia” (per distinguerla) da quella apula; Alezio; sulla costa invece Seno, Gallipoli, che ora si chiama Anxa, a 75 miglia da Taranto. Da qui a 33 miglia (c’è) il promontorio che chiamano Punta iapigia, dove l’Italia si protende più lontano nel mare. Proseguendo da esso (c’è) la città di Vaste e Otranto a 19 miglia, al confine tra il mare Ionio e l’Adriatico, per dove è più breve il tragitto per la Grecia, intercorrendo un’ampiezza del canale di mare non più ampia di 50 miglia fino alla città di Apollonia che sta di fronte. Per la prima volta Pirro re dell’Epiro progettò di ovviare a questa interruzione con un transito a piedi grazie a ponti gettati; dopo di lui Marco Varrone quando era a capo della flotta di Pompeo nella guerra contro i pirati, ma altre preoccupazioni legarono le mani all’uno ed all’altro.1

 

Dal naturalista latino, apprendiamo, dunque, che già con Pirro (III secolo a. C.) e poi con Marco Varrone [le cui competenze di comando nella guerra contro i pirati (67 a. C.), riguardavano il basso Adriatico] era stata progettata una di quelle che oggi definiamo pomposamente grandi opere e che alcuni indicano come l’unico rimedio per scacciare la crisi. Di fronte al ponte Otranto-Apollonia quello sullo stretto di Messina sembra cosa da nani (forse un po’ di tempo fa qualche comunista avrebbe detto da nano …), 

ma non posso non pormi alcune domande destinate, purtroppo, a restare senza risposta: se il progetto di Pirro prima (povero re, non bastava la sua proverbiale vittoria?) e di Varrone poi fosse andato … in porto, ci sarebbero stati rinvii di sorta nel completamento dell’opera? Di quanto i costi sarebbero lievitati in corso d’opera? Che dimensioni avrebbe assunto il fenomeno della tangente?

Una cosa è certa: se il ponte fosse stato realizzato, molto probabilmente dopo più di duemila anni sarebbe ancora visibile; lo stesso non mi sento di affermare, sempre se fosse stato o fosse realizzato, per il ponte sullo stretto di Messina e, se mai verrà completato, il MOSE, acronimo, per chi non lo sapesse, di MO(dulo) S(perimentale) E(lettromeccanico). M’inquieta tremendamente lo sperimentale (ottima giustificazione per qualsiasi tipo di insuccesso nel funzionamento …) ma ancor di più il fatto che in MOSE basta spostare l’accento sull’ultima sillaba per sperare in un altro miracolo delle acque …

___________

1 Oppida per continentem a Tarento Uria, cui cognomen ob Apulam Messapiae, Aletium, in ora vero Senum, Callipolis, quae nunc est Anxa, LXXV a Tarento. Inde XXXIII promunturium quod Acran Iapygiam vocant, quo longissime in maria excurrit Italia. Ab eo Basta oppidum et Hydruntum decem ac novem milia passuum, ad discrimen Ionii et Hadriatici maris, qua in Graeciam brevissimus transitus, ex adverso Apolloniatum oppidi latitudine intercurrentis freti L non amplius. Hoc intervallum pedestri continuare transitu pontibus iactis primum Pyrrus Epiri rex cogitavit, post eum M. Varro, cum classibus Pompei piratico bello praeesset; utrumque aliae impedivere curae.

Una sponsorizzazione femminile dell’anfiteatro di Rudiae nella travagliata storia di una fantomatica epigrafe (CIL IX, 21)? (Seconda ed ultima parte)

di Armando Polito

immagine tratta da http://viverelecce.altervista.org/html/immaginimie/anfiteatro.jpg
immagine tratta da http://viverelecce.altervista.org/html/immaginimie/anfiteatro.jpg

 

Torniamo all’epigrafe. Essa è registrata nel CIL con l’emendamento del Mommsen:

OTACILIA M. F. SECUNDILLA

       AMPHITEATRUM

(Otacilia, figlia di Marco, l’anfiteatro)

All’ultima parola leggibile doveva certamente seguire un nesso contenente il ricordo di una costruzione o di una ricostruzione. Secondo il consueto formulario epigrafico nel primo caso ad AMPHITEATRUM doveva seguire un nesso del tipo SUA PECUNIA FECIT (fece a sue spese), nel secondo un nesso del tipo CORRUPTUM RESTITUIT (restaurò dopo che si era rovinato).

A prima vista potrebbe sembrare inverosimile che una donna si sia assunto un impegno così prestigioso, usurpando gloria ad un uomo, ma anche così oneroso dal punto di vista finanziario. In realtà nel mondo romano non mancano esempi in tal senso. Per restare, per così dire, in famiglia (un puro modo di dire, perché la loro gens è diversa) Otacilia Severa, eretta al rango di Augusta quando, nel 244, il marito Filippo l’Arabo divenne imperatore col nome di Filippo I, sponsorizzò i ludi saeculares (nel nostro caso il primo compleanno millenario di Roma) del 248 come attestano le due monete che seguono.

 

Leggende: MARCIA OTACIL(IA) SEVERA AUG(USTA)/MILLIARIUM SAECULUM

 

Leggende: MARCIA OTACIL(IA) SEVERA AUG(USTA)/SAECULARES AUGG

Certo, dirà qualcuno, era la moglie di un imperatore …

Ѐ vero, sarà stato un omaggio dell’imperatore alla moglie ma non mancano esempi di sponsorizzazioni che vedono protagoniste donne senz’altro facoltose ma non così potenti:

CIL IX, 22 

PUBLICIAE M(ARCI) F(ILIAE)/FIRMILLAE/LOCO DAT(O) D(ECRETO) D(ECURIONUM)/M(ARCUS) PUBLICIUS QUARTINUS/CUIUS DEDICATIONI DATI/SUNT AB EA DECURIONIB(US)/SING(ULIS) HS VIII N(UMMUM) MUNICIPI/BUS ET INCOLIS SING(ULIS) HS III N(UMMUM)

(A Publicia Firmilla figlia di Marco, donato il luogo [di sepoltura] per decreto dei decurioni. Marco Publilio Quartino, per la cui consacrazione furono donati da lei ai singoli decurioni otto seterzi e ai singoli abitanti tre)

L’iscrizione appena riportata fu rinvenuta proprio a Rudiae e Publilia Firmilla può essere considerata solo una collega minore di Otacilia Secundilla. Ma ecco altre donne che allentarono i cordoni della borsa proprio come la nostra:

CIL IX, 1156

TI(BERIO) CLAUDIO/TI(BERI) FIL(IO) TI(BERI) NEPOTI/COR(NELIA) MAXIMO Q(UAESTORI)/IIVIR(O) QUINQ(UENNALI)/HIC CUM AGERET AE/TAT(IS) ANN(OS) XX IN COLON(IA) AECLAN(ENSI) MUNUS EDIDIT/IMPETRATA EDITIONE AB IMP(ERATORE)/ANTONINO AUG(USTO) PIO IN QUO/HONORE SEPULTUS EST/CUIUS MATER GEMINIA M(ANI) FIL(IA)/SABINA OB HONOREM EIUS IN/VIA DUCENTE HERDONIAS/TRIA MILIA PASSUM EX D(ECRETO) D(ECURIONUM) IN/TRA LUSTRUM HONORIS EIUS RE/PRAESENTATA PECUNIA STRAVIT

(A Tiberio Claudio figlio di Tiberio, nipote di Tiberio, della tribù Cornelia, questore massimo, duumviro quinquennale, qui [morto] a venti anni nella colonia di Eclano, preparò l’onoranza funebre  dopo aver ottenuto il permesso dall’imperatore Antonino Augusto Pio, onore col quale fu sepolto, sua madre Geminia figlia di Mabo della tribù Sabina. In suo onore lastricò tre miglia sulla via che conduce ad Erdonie per decreto dei decurioni essendo stato fornito il denaro entro cinque anni dalla concessione di quell’onore)

E se Gemina Sabina lascia il ricordo del suo nome in questa epigrafe rinvenuta ad Aeclanum (oggi Mirabella Eclano in provincia di Avellino)  per aver sovvenzionato la lastricatura di parte di una strada, ecco due altre rappresentanti del gentil sesso emulare la nostra Otacilia e lasciarne memoria in due epigrafi rinvenute, rispettivamente, a Cassino e ad Assisi:

CIL X, 5183

UMMIDIA C(AI) F(ILIA)/QUADRATILLA/AMPHITHEATRUM  ET/TEMPLUM CASINATIBUS/SUA PECUNIA FECIT

(Ummidia Quadratilla figlia di Caio realizzò a sue spese l’anfiteatro e il tempio per gli abitanti di Cassino)

CIL XI, 5406

PETRO[NIA C(AI) F(ILIA) GALEONIS …]/IN FID[EICOMMISSO SOLVENDO (?) ]/DECIAN[I FRATRIS NOMINE … OPUS (?)]/AMPHPH[ITHEATRI CUM … ORNAMENTIS (?)]/QUOD EX [TESTAMENTO ]/PERFIC[IENDUM CURAVIT ]

(Petronia figlia di Caio Galeone … nello sciogliere (?) un fidecommesso … in nome del fratello Deciano l’opera (?) dell’anfiteatro con … ornamenti (?) il che secondo il testamento curò che fosse portato a termine)

 

Ritornando per l’ultima volta alla nostra Otacilia Secundilla, va detto che la gens Otacilia era ben diffusa, anche se non nel Salento (ma non è detto che la sponsorizzazione debba essere locale). Nel CIL, infatti, si contano 83 Otacilius in Italia1 e 44 fuori; 45 Octacilia in Italia2 e 17 fuori, escludendo, oltre alla nostra Secundilla anche Marcia Otacilia Augusta, la già nominata moglie di Filippo I, che compare 5 volte in Italia3 e 56 fuori. Per completare il quadro va ricordata una villa Otaciliana4, una Otaciliorum area5 e, derivato evidentemente da Otacilius, l’onomastico Otacilianus6.

Un altro nome, però, ben più importante, anche se non è quello di una donna,  emerge da un’altra iscrizione rinvenuta nel 19557 a Rudiae:

EAOR-03, 00083=AE 1958, 00179:

EX IN[SIGNI INDU]LGENTIA/[OP]TIM[I MAXIMI FORTIS]SIMIQUE/[PR]INC[IPIS]/[IMPERATORIS] CAESARIS [COMMODI]/[ANTONINI] AUG(USTI) [GERMANICI]/[AMPHITEATRUM] PEC(UNIA) PUBL(ICA) REFECTUM

(Per straordinaria benevolenza dell’Ottimo Massimo e tenacissimo principe imperatore Cesare Commodo Antonino Augusto Germanico l’anfiteatro fu ricostruito col pubblico denaro).

Secondo me, tuttavia, le notevoli lacune proprio nei punti cruciali (nome del dedicatario e tipologia del refectum) rendono molto dubbio il fatto che l’epigrafe si riferisse veramente all’anfiteatro.

Non va dimenticata, infine, quest’altra iscrizione, registrata come rinvenuta a Rudiae 8:

AE 1988, 00387 = AE 1991, 00516

[IMPP(ERATORIBUS) CAESS(ARIBUS?) DD(OMINIS)] N(OSTRIS) VALENTINIAN[O]/[ET VALENTE VICTORIO]SISSIMIS SEMPER/[AUGG(USTIS)]/[3]NUS V(IR) C(LARISSIMUS) CORR(ECTOR)/[SE]CRETARIUM TRIBUNAL/USQUE AD CONSUMMATIONEM/STUDIIS CURIAE FLORENTIS EXTRUXIT

(Sotto gli imperatori Cesari nostri signori Valentiniano e Valente Augusti sempre vittoriosi  …no uomo illustrissimo governatore imperiale costruì fino al compimento il tribunale segreto grazie alle cure della corte fiorente).

Mi congedo dal lettore con l’auspicio che la ripresa degli scavi porti alla luce anche altre testimonianze epigrafiche e chissà se con un colpo di fortuna qualcuna di loro non consenta di sapere di più della nostra Otacilia e non solo …

 

Per la prima partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/06/una-sponsorizzazione-femminile-dellanfiteatro-di-rudiae-nella-travagliata-storia-di-una-fantomatica-epigrafe-cil-ix-21-prima-parte/

____________

1 2 (Preneste) 4 (Terracina) 5 (Buccino) 40 (Roma) 1 (Montecassino) 2 (Pompei) 1 (Grumentum) 1 (Atena lucana) 1 (Erbalunga) 1 (Pisa) 2 (Firenze) 1 (Chiusi) 1 (Spello) 1 (Assisi) 10 (Ostia antica) 1 (Tarquinia) 1

(Paestum) 1 (Potenza) 7 (Naro).

2 33 (Roma) 1 (Terracina) 1 (Salvetella) 2 (Pozzuoli) 1 (Nepi) 5 (Ostia antica) 1 Porto Torres 1 (Atena lucana) 1 (Caggiano).

3 1 (Albano laziale) 3 (Roma) 1 (Urbino).

4 CIL, VI, 36126 (Roma)

5 CIL, VI, 23606 (Roma).

6 VI, 23626 (Roma)

7 Così si legge in una relazione a firma, secondo lo stile epigrafico …  di m(ario) b(ernardini), leggibile all’indirizzo  http://emeroteca.provincia.brindisi.it/Studi%20Salentini/1958/Articoli/Notiziario%20Studi%20Salentini%201958.pdf

Non riesco a capire, poi, come, sempre nello stesso testo, l’epigrafe sia interpretata come una damnatio memoriae, quando la sua riduzione in frammenti può essere più ragionevolmente attribuita alla lunga attività di saccheggio esercitata per secoli nel fondo Acchiatura.

8 In Francesco Grelle, Canosa Romana,  L’Erma di Bretschneider,  Roma, 1993, pag. 181 si legge, invece, che l’epigrafe è stata rinvenuta una quindicina di anni fa, in occasione di lavori agricoli, nel territorio del comune di Torremaggiore, al confine con quello di Lucera, in una località dove emergono resti di un insediamento tardo antico e forse alto medioevale. Ora è custodita nei depositi del Museo civico di Foggia.

Una sponsorizzazione femminile dell’anfiteatro di Rudiae nella travagliata storia di una fantomatica epigrafe (CIL IX, 21)? (Prima parte)

di Armando Polito

immagine tratta da http://www.leccesette.it/archivio/img_archivio1682013151042.jpg
immagine tratta da http://www.leccesette.it/archivio/img_archivio1682013151042.jpg

 

Prima che le risultanze archeologiche ne dessero conferma, l’unica notizia  sull’esistenza di un anfiteatro a Rudiae era quella lasciataci da Girolamo Marciano (1571-1628) nella sua Descrizione, origine e successi della provincia d’Otranto uscita postuma a Napoli per i tipi della Stamperia dell’Iride nel 1855, dove, a pag. 502, si legge: Io ho visto e letto un instrumento mostratomi dal curiosissimo Francesco Antonio De Giorgio mio amico, nel quale si legge che l’anno 1211 a 10 di dicembre Gaita moglie di Orazio Ruggiero di Rudia dimorante in Lecce donò un pajo di case al monastero di S. Niccolò e Cataldo. Dal quale si raccoglie che sebbene la città di Rudia fu distrutta l’anno 1147 da Guglielmo il Malo, tuttavia insino al detto anno 1211, e forse più se ne mantennero in piedi gli avanzi, dappoichè gli abitatori non si ridussero totalmente dentro la città di Lecce. Delle reliquie di questa città oggi non si vede altro che rottami di pietre ed il sito dell’anfiteatro, in cui non sono molti anni fa fu ritrovato un marmo, che oggi si conserva in casa del signor D. Vittorio Prioli1 in Lecce con questa iscrizione:

OTTACILLA M. F. SECUNDILLA

       AMPHITEATRUM

Non si legge altro che questo nel marmo, non essendo intero, ma in molte parti spezzato.

Da quanto appena riportato risulta che l’epigrafe era viva e vegeta fino a buona parte della prima metà del secolo XVII e che il suo rinvenimento, a Rudiae, doveva essere avvenuto presumibilmente (altrimenti, come intendere non sono molti anni fa?) nella seconda metà del secolo XVI2.

Pellegrino Scardino, Discorso intorno l’antichità e sito della città di Lecce, Stamperia G. C. Ventura, Bari, 1607, pag. 12: Fuori della Città presso le mura, in un luogo, dove oggi si vede il convento dei Frati Scalzi di San Francesco, era a’ tempi passati l’Anfiteatro per gli spettacoli del Popolo, del quale, benche oggi nessuna parte ne sia in piedi, nientedimeno fra le cose guaste, e rovinate ne appariscono alcuni segni. Acquista di ciò fede al vero un Marmo ritrovato fra gli edifici sotterranei con inscrittione che comincia OTTACILLA M. F. SECUNDILLA/AMPHITEATRUM non si legge più di questo nel Marmo, non essendo intero; ma in molte parti spezzato e lacero, mercè degli anni che a lungo andare rodono a guisa di tarlo ogni cosa.  Conservava gli anni a dietro questo picciolo Marmo nel suo leggiadretto Museo, degno di vedersi per la varietà dei libri e di molte cose antiche, il signor Ottavio Scalfo, medico e filosofo singolarissimo, la cui acerba ed immatura morte oscurò in buona parte non solo la gloria delle Muse, ma tolse ancora al Mondo la maniera dei più nobili e cortesi costumi. Oggi, fra la compagnia d’altri marmi si vede ricoverato dal signor Vittorio de Priuli, gentiluomo Leccese, sottile investigatore delle cose antiche, il quale, infiammato di ogni virtuoso pensiero, si rende huomo singolare in ogni maniera di alto e liberale mestiere.  

Nonostante l’ambiguità di edifici sotterranei lo Scardino collega senza esitazione il marmo all’anfiteatro di Lecce e in più ci fornisce la notizia che il marmo era stato custodito prima da Ottavio Scalfo3 e poi, confermando il Marciano, da Vittorio Prioli.

Giulio Cesare Infantino (1581-1636), Lecce sacra, Micheli, Lecce, 1634 (cito dall’edizione anastatica Forni, Sala Bolognese,1979, p. 213): Fuori le mura della Città di Lecce, e propriamente nel Parco, è l’antica, e Regia Cappella di S. Giacomo Apostolo, Protettore delle Spagne: la qual Cappella in questi ultimi anni, cioè nel 1610 fù conceduta insieme con un giardino, e parte delle stanze a’ Padri Scalzi di San francesco, i quali hoggi vi dimorano, havendo dato buon principio alla fabrica de’ loro Chiostri. E Cappella assai divota, massime dapoi che i detti Padri vi vennero ad habitare, per essere molto assidui alle confessioni, & altre loro religiose osservanze. Quivi era ne’ tempi antichi un’Amfiteatro per gli spettacoli del popolo, del quale benche hoggi niuna parte ne comparisca, pure frà le cose guaste, e rovinate ne compariscono alcuni segni. Testimonio ne fa un marmo antico, ritrovato sotterra, se ben spezzato, e lacero,che gli anni à dietro conservava appresso di sé con molt’altre cose antiche, degne da vedersi, Ottavio Scalfo Medico in questa Città, e Filosofo singolarissimo, honor di questa Provincia: hoggi si conserva in casa di Giovanna Paladini che fù moglie di     D. Vittorio Prioli, gentil’huomo Leccese, Conte Palatino, & à suoi tempi diligente investigatore delle cose antiche, il cui principio è questo

Ho riportato in formato grafico il resto del testo4 riguardante proprio la nostra epigrafe perché il lettore comprenda più agevolmente come la questione, già complicata di per sé, deve fare i conti con problemi accessori. Un esempio per tutti: quell’Amphiteatrum riportato in tal modo fa pensare che fosse leggibile (da chi?) solo la A e che il resto fosse integrazione (di chi?). In più compare un RE. P. R. che, come vedremo nella prossima puntata, non è presente nella trascrizione del CIL.

Giovan Battista Pacichelli (1634-1695), Il regno di Napoli in prospettiva, Parrino, Napoli, 1703, v. II, pag.. 167 e 168: Accenna Livio, che Lecce, detta ancor Licia, e Lupia, doppo il dominio de’ Salentini, ubbidì al Senato di Roma, e Colonia de’ Romani la testifica Plinio, & un Marmo ritrovato nelle rovine della distrutta Rudia l’autentica.

C. Claudio C. T. M. N. Neroni Cos./ob rem felicissime in Piceno adversus Poenorum/ducem Asdrubalem gestam Sen. Pop.& militum/statio Lupien. A. H. P.5

 [Lecce] esperimentò le vicende della fortuna con l’altre Città distrutte dal re Guglielmo il Malo l’anno 1147, come nota Antonello Coniger nella sua Cronica6 , assieme con la sua Compagna Rudia fabricate ad un tempo dal sudetto Malennio, che per somministrarsi scambievolmente i soccorsi, le congiunse con una strada sotterranea7 , che anche ritiene il nome di Malenniana e se ne scorgono alcuni vestiggi.

Trascurando l’ultimo autore che, fra l’altro, crea un po’ di confusione mettendo in campo l’epigrafe rudina di cui mi sono occupato non molto tempo fa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/05/01/lepigrafe-di-rudie-ovvero-cil-ix-23-un-maquillage-ben-riuscito-pero/), un bilancio potrebbe così essere stilato: non sappiamo se la testimonianza del Marciano fosse stata già redatta alla data di pubblicazione del lavoro dello Scardino, ma anche se così non fosse stato è da presumere che un umanista del calibro del Marciano abbia trascritto de visu il testo dell’epigrafe ed è difficile immaginare che si sia inventato la contestualizzazione del reperto che, comunque, risulta, come s’è visto, meno generica di quella dello Scardino. Quando, poi, all’assenza o ai dubbi di contestualizzazione si aggiunge pure la scomparsa del reperto, la frittata è fatta.  Così passano i secoli e le memorie spesso sono costrette ad intrecciare le loro nebulosità  non per colpa loro ma degli uomini. Ѐ il caso della nostra epigrafe che, nel frattempo dimenticata e pure fisicamente perduta, ritorna in auge nel 1938 quando, durante la risistemazione dell’anfiteatro di Lecce (Lupiae), venne rinvenuta un’iscrizione oggi, anch’essa, scomparsa:

TRAIANI

IMP III CO

PATRE LIBE

Da allora la costruzione dell’anfiteatro di Lecce, che prima quasi concordemente era stata attribuita ad Adriano, fu da parecchi studiosi attribuita a Traiano. Ci fu pure chi si spinse oltre: G. Paladini8 e R. Bartoccinila considerarono in relazione con la nostra. L’operazione apparve arbitraria già al Susini (Fonti per la storia greca e romana del Salento, Tipografia della S.T. E. B., Bologna, 1962, p. 107) e M. Bernardini (La Rudiae salentina, Editrice salentina, Lecce, 1955, pp. 37-38) dal canto suo rivendicò la probabile provenienza rudina della nostra epigrafe; anche a me pare un’operazione discutibile sul piano metodologico ma alla resa dei conti inaccettabile perché non tiene in alcun conto la testimonianza del Marciano nella quale più chiara non poteva essere la contrapposizione tra Lupiae e Rudiae, tanto più che il brano citato fa parte del capitolo XXIII che ha per titolo Della città di Rudia, sua origine e distruzione. Tuttavia, per onestà intellettuale e prima che qualcuno me lo faccia presente, debbo dire che il lavoro del Marciano fu pubblicato, come s’è detto, postumo con aggiunte del filosofo e medico Domenico Tommaso Albanese di Oria (1638-1685), come recita il frontespizio; secondo me è piuttosto improbabile che una delle aggiunte abbia riguardato, integralmente e pesantemente, proprio questo capitolo.

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/09/una-sponsorizzazione-femminile-dellanfiteatro-di-rudiae-nella-travagliata-storia-di-una-fantomatica-epigrafe-cil-ix-21-seconda-ed-ultima-parte/

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1 Nelle immagini sottostanti uno scorcio dell’omonima via, Palazzo Prioli al civico 42 (settembre 2011; oggi, dopo il restauro, è sede del resort Mantatelurè)  e il dettaglio dello stemma della famiglia Prioli.

 

Vittorio Prioli, appartenente ad una famiglia di origini venete, fu una delle figure di spicco della cultura leccese tra XVI e XVII secolo. Fu sindaco nel 1593; il suo nome compare più volte negli atti del processo di beatificazione del gesuita Bernardino Realino di Lecce (Sacra rituum congregatione Eminentissimo et Reverendissimo Domino  Cardinali Pedicini relatore Neapolitana seu Lyciensis beatificationis et canonizationis venerandi servi Dei Bernardini Realini Sacerdotis Professi Societatis Jesu, Summarium super virtutibus, Tipografia della Reverendissima camera apostolica, Roma, 1828, passim) come donante di una cassa di cipresso foderata di tela d’oro in cui fu trasferito il gesuita a due mesi dalla morte avvenuta, appunto, il 2 luglio 1616. Egli  era sicuramente vivo alla data del 1627 perché nel catasto di Monopoli di quell’anno, carta 489 v.,  Giovanni di Francesco Palmieri risulta debitore di ducati 233, 1, 13 nei confronti del monastero di San Giovanni Evangelista  di Lecce e di ducati 116, 3, 6 a don Vittorio Prioli della stessa città).

Per le sue mani potrebbe essere passato, oltre alla nostra epigrafe, anche il manoscritto delle Cronache di Antonello Coniger (Ferdinando Galiani, Del dialetto napoletano, Mazzola-Vocola, Napoli, 1779, p. 109: … si conserva ms. presso del Signor Conte D. Vittorio Prioli; per motivi temporali dovrebbe trattarsi di un discendente del nostro).

E proprio nelle  Cronache del Coniger all’anno 1511 si legge: In questo anno alo primo de maggio fo morto mio fratello Gio. Francisco Coniger, & per non haver fillij lecitimi ho successo io Antonello Coniger, & alla Baronia. In questo anno alle 29 di Maggio lo dì della Sensa (?) venne uno Corsaro de Turchi cum dui barcie, una Galera e cinq. fusti  in San Cataldo pigliò la Turre per forza, amazò tutti trovati dentro, mise foco a magazeni, & pigliò più di cento butti pieni di Oglio di Citatini di Lecce, tra li quali Messer Vittorio de prioli ncinde ebbe cinquanta, & cinq. Molto probabilmente il Vittorio de prioli qui nominato era il nonno del nostro.

C’è da pensare che mai il Prioli sospettò che l’iscrizione da lui custodita potesse riferirsi all’anfiteatro di Rudiae leccese, se è attendibile quanto afferma Jacopo Antonio Ferrari (1507-1587) nell’ Apologia  paradossica (Mazzei, Lecce, 1707; cito dalla seconda edizione, stesso editore, stesso luogo, del 1728, p. 141) : Rodia è quella che scrisse Strabone d’essere situata meno di diece miglia lontana da Brindisi, le cui vestigie essendo per molti secoli a pochissimi note, per trovarsi tra la terra di Misagne ed il Castello di Latiano, li signori Claudio Francone Signore di detto Castello di Latiano, e ‘l Signor Vittorio Prioli suo affine nostri Patrizj Leccesi dottissimi, essendo insieme andati a ritrovare tra quei boschi di olive, che ora l’hanno coverte, l’hanno parimente vedute, e chiaritisi d’essere quella, per ritenere quel deserto luogo il suo antico nome di Rodia presso de’ popoli vicini e de’ pastori, che là pascono la loro gregge.

Un’altra notizia sugli interessi antiquari del nostro è contenuta in Girolamo Marciano, op. cit., p. 28: Si conserva un marmo di queste antiche lettere [messapiche] nella città di Lecce in casa del chiarissimo e diligentissimo investigatore delle memorie antiche dott. Vittorio Prioli con una sottoscrizione di suo zio dott. Scipione De Monti, dal quale furono ritrovate in un antico muro della città di Lecce, e dal medesimo con diligenza conservata.  

Per le mani del Prioli dovette passare anche un manoscritto realizzato appositamente per lui; esso sarà oggetto di studio in un prossimo post ispiratomi da una segnalazione di Giovanna Falco, che qui pubblicamente ringrazio.

2  Non  riesco a capire, anche per l’esplicito riferimento al Marciano nella stessa edizione da me utilizzata per la citazione,  la datazione proposta da Mariagrazia Bianchini in Diritto e società nel mondo romano, 1. Atti di un incontro di studio, Pavia, 21 aprile 1988, New Press, Como, 1988, pag. 83, nota 40: Si ha notizia che l’iscrizione (CIL IX, 21), rinvenuta a Rudiae sulla fine del XIV secolo nel “sito dell’Anfiteatro” (vd. G. MARCIANO, Descrizione, origine e successi della terra d’Otranto, Napoli, 1855, 502) …

3 Una scheda dedicata ad un Ottavio Scalfi, letterato, poeta, dedito agli studi filosofici e medici nato a Galatina è presente nel Dizionario Biografico degli Uomini Illustri di Terra d’Otranto di Francesco Casotti, Luigi De Simone, Sigismondo Castromediano e Luigi Maggiulli, Lacaita, Manduria e Roma, 1999; essendo vissuto dal 1539 al 1612 sarà stato un omonimo parente del nostro per il quale lo Scardino parla di morte acerba ed immatura. Quest’ultima non può essere considerata neppure una formula di cortesia a sottolineare il fatto che sempre acerba e prematura è la morte di un uomo di grande levatura, perché l’Ottavio della nostra scheda era ancora in vita quando (1607) uscì il lavoro dello Scardino. Non è da escludere, tuttavia, che la data di morte nella scheda sia da correggere in 1602, anche perché il resto della stessa così prosegue: Riunì in un museo privato varie antichità della provincia che dopo la sua morte passò nelle mani del Conte Vittorio de Priuli. Nella bibliografia che correda la scheda è citato il testo Galatina letterata di Alessandro Tommaso Arcudi, uscito per i tipi di Giovan Battista Cilie a Genova nel 1709, testo chiaramente utilizzato nella compilazione della scheda ed al quale, perciò, è ascrivibile l’errore, se di errore  si tratta, prima ipotizzato. D’altra parte non dovrebbe essere l’unico se alla fine della trattazione della vita di Ottavio Scalfo (pp. 130-131) l’Arcudi, che all’inizio aveva indicato come data di nascita il 1539, scrive:  Nella quale città [Lecce] sodisfece al comune tributo della natura nel 1612 all’età di 65 anni.

4 Ringrazio la signora Giovanna Falco (la stessa di prima …) per avermi segnalato la testimonianza dell’Infantino ed avermi fornito la copia fotostatica del brano riguardante l’argomento.

5 Questa iscrizione non è registrata nel CIL (a suo tempo il Mommsen la giudicò falsa). Il Pacichelli molto probabilmente la trae dal Marciano (op. cit., pag. 520) che scrive:  E così anche si legge in alcuni marmi, come in uno ritrovato secondo il Ferraris (non si tratta di Antonio De Ferrariis più noto come il Galateo, ma di Iacopo Antonio Ferrari che nella sua Apologia paradossica, Mazzei, Lecce, 1707,  la riporta così: C CLAVDIO C. F. M. N./NERONI COS./OB REM FELICISSIME IN PICENO/ADVERSVS POENORVM DVCEM/ASDRVBALEM GESTAM , SEN./POP. ET MILITVM STATIO LVPIENS./A. H. P.) tra le rovine di Rugge, città distrutta a sé convicina, che dice così:

C. Claudio C. T. M. N. Neroni Cos. ob rem felicissime/in Piceno adversus Poenorum/ducem Asdrubalem /gestam Sen. Pop.& militum statio Lupien. A. H. P.

Da notare come i tre testi differiscono nella disposizione delle linee.

6 A voler essere precisi nel Coniger si legge: 1157 Rugieri Duca di Calabria primo genito de Re Gullielmo per non li haver voluto dare obedienza la Cità di lecce, e tutte le altre Terre del Duca di Athena, & Conte de lecce; ne ad Re Rogieri, ne a Re Gullielmo suo padre, per retrovarse in Francia detto Duca di Athena, venne in campo ad Lecce cum molto esercito dove la tenne assediata anni tre, infine la pilliao per tradimento chi fe lo Camberlingo, entrò dentro, el Duca di Calabria ditto Rogieri jettao le mura, & tutte le case atterra reservato quell l’adomandao di gratia, & a lui li fe talliare la testa, pillao tutte altre terre, & fe jettare case, & mure chi erano del Duca de Athena, como ad Rugge, Balisu, Vste, & Colomito, & fe bandoZenerale, che nisciuno possa fare case in ditta Cità, & Terre se non alte da terra una canna & mezza al più, e le porte fossino senza archi, & quelle de legname ad stantoli, & questo che le casamente alte chi erano in Lecce li fero …. Essendo dentro che non da faci.

7 Già il Galateo nel De situ Iapygiae aveva scritto:  Duas urbes idem populus habitat, ut de Neapoli dicunt, & Palepoli; quin etiam inter ipsas fama est subterraneas fuisse specus, per quas mutua auxilia sibi invicem cum opus erat, praestabant. Inter has urbes minus quam duorum millium passuum spatium interiacet. Rhudiae, seu Rhodeae, & a Stephano Ρόδαι, seu Rui, per literam I vocalem, sive per j literam consonantem crasso quodam, ut mos est, regionis sono Rugae dicuntur: unde Lupiarum porta, & quarta pars urbis, quam Pittacion Graeco nomine appellant, Rhudiarum dicuntuur. Hae penitus interiere, ut vix cognoscas quo loco fuerint, tantum nomen restat inane … harum aedificia tempus obruit, & rusticus antiquitatum omnium eversor eversat aggeres. Alicubi murorum cernuntur sepulchra innumera fictilibus vasculis, & ossibus plena. Huius urbis nomen & fama apud complures homines, ut & ipsa, cecidit; nunc tota aut feritur, aut oleis consita est …(Lo stesso popolo abita due città [Lecce e Rudie], come dicono di Napoli e di Palopoli; anzi si dice che tra le stesse ci siano state cavità sotterranee attraverso le quali si davano aiuto l’un l’altra all’occorrenza. Tra queste città c’è uno spazio di meno di due miglia. Si dice Rudie o Rodee, e secondo Stefano Ρόδαι [leggi Ròdai], o Rui, Rute per mezzo della i vocale o della consonante in un  suono grossolano  della regione, com’è costume; perciò la porta di Lecce e il quartiere della città che con parola greca chiamano pittagio sono dette di Rudie. Essa è completamente perduta, sicché a stento riconosceresti in quale luogo si trovasse e ne resta solo il vuoto nome …  il tempo ha sotterrato i suoi edifici e il contadino distruttore di ogni antichità rivolta i terrapieni. In qualche luogo si scorgono innumerevoli sepolcri in muratura pieni di piccoli vasi di terracotta e ossa. Il nome e la fama di questa città presso molti uomini, come essa stessa, decadde; ora viene tutta vandalizzata o coltivata ad oliveto …).

8 Guida storica ed artistica della città di Lecce, 1952. L’autore giunge alla conclusione che Otacilla Secundina eresse la fabbrica di Lecce sotto Traiano.

9 All’epoca della scoperta dell’anfiteatro (1929) il Bartoccini era sopraintendente e la primitiva attribuzione della costruzione ad Adriano porta la sua firma (Il teatro romano di Lecce, estratto da  Dioniso, XIII, 1, 1935) anche se era stato Cosimo De Giorgi (Lecce sotterranea, Stabilimento tipografico Giurdignano, Lecce, 1907, pp. 193-197) il primo ad ipotizzarlo. Dopo la scoperta del 1838, però, il Bartoccini, considerando la nuova epigrafe integrazione della nostra, attribuì a Traiano l’edificazione della fabbrica (Apud Susini, op. cit, p. 107) e a Otacilia Secundilla solo il ruolo di intermediaria nella sovvenzione.

La taranta del Caucaso

di Armando Polito

Può darsi pure che il titolo sia interpretato come una sorta di reazione alle vistose storture che in nome del business hanno contaminato, col pretesto di conservarne il ricordo, il fenomeno antico diventato, forse più del sole, del mare e del vento, l’emblema del Salento nel mondo. Può darsi pure che in me l’inconscio abbia sopraffatto per un attimo la razionalità, ma, tutto sommato, credo che anche il lettore più raffinato alla fine riconoscerà che questo post non poteva avere altro titolo.

Ho trovato l’immagine di testa sul sito della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, come, d’altra parte, mostra la filigrana, espediente protettivo di una malintesa interpretazione del diritto d’autore; in questo caso, tutt’al più, si potrebbe parlare di diritto di digitalizzazione derivante, a sua volta, da un diritto connesso con la custodia di un bene, non della sua proprietà, essendo la Marciana, come lo stesso Nazionale dice, un’istituzione pubblica e non privata. Avrò pure una visione comunista della cultura e non voglio attardare il lettore su un problema secondo me gravissimo che nessuno sembra aver voglia di cominciare ad affrontare e al quale ho dedicato più di un post; dico solo che, se avessi voluto spacciare l’immagine come mia  (nel senso di da me digitalizzata e non, magari!,  di da me posseduta) per me, che pure non sono un mago del pc, sarebbe stato uno scherzo, senza neppure scomodare Photoshop, eliminarla senza che ne restasse la minima traccia. Roba di una decina di minuti, secondi, non primi.

La tavola consta di una prima immagine in cui si vede un uccello, la cui identificazione lascio a qualche lettore ornitologo o, al limite, cacciatore (a meno che la specie raffigurata non sia da tempo estinta …), nell’atto di avventarsi su due tarantole (lo conferma la scritta Tarantula in basso). A questo punto diamo inizio alle telefonate: su quale delle due per prima, secondo voi, si avventerà l’uccello battagliero?

Lasciando da parte il paesaggio, sul quale ritornerò alla fine, passo alla seconda immagine.

Spicca in primo piano un ricino. Inutile fare l’ipocrita: prima o poi, forse, l’avrei riconosciuto ma, senza l’aiuto determinante del Ricinus che si legge in alto a destra, forse questo post sarebbe ancora in gestazione e avrei dovuto affrontare un parto distocico …

A sinistra, invece, si legge Wonder boom. Qui sono cominciati i dolori, per i quali, come si sa, non è certamente indicato l’olio di ricino…

Escluso il toponimo sudafricano Wonderboom, non mi è rimasto che considerare il significato letterale e distinto delle due voci: wonder=meraviglioso, boom=esplosione. A questo punto si è accesa la lampadina (quando ero più giovane era ad incandescenza, ora è a led, cioè a luce fredda, ma non so se l’aggiornamento tecnologico mi abbia giovato …) e il pensiero è volato agli effetti … meravigliosi dei semi della pianta, che vanno dalla morte per avvelenamento a quella per dissenteria …

Anche qui bando all’ipocrisia: senza la rete, da cui ho appreso che wonderboom è il nome inglese del ricino, non ci sarebbe stata conferma alla mia rozza e quasi meccanica ipotesi etimologica, sia pur con l’aggiustamento dell’ultim’ora per cui secondo me, per quanto riguarda l’esplosione, il riferimento è solo allo spettacolo offerto dalla pianta alla fioritura …

La terza immagine della tavola è in realtà una tabella.

Vi è riportato l’alfabeto georgiano (sul quale, fra l’altro, ho scritto e pubblicato una dozzina di saggi; purtroppo non me ne ricordo gli estremi bibliografici …). Anche qui senza l’ABC des Géorgiens che si legge all’inizio sarei sicuramente in alto mare e probabilmente questo post non sarebbe esistito o non gli avrei dato il titolo che sapete.

Le montagne, infatti, che in entrambe le immagini si vedono sullo sfondo, appartengono, guarda caso, al Caucaso. Se, infine, state morendo dalla voglia di scoprire se e quanto col Caucaso ci azzecchi la nostra taranta e questa col ricino, sapete a chi rivolgervi in quest’Italia dei valori …

 

 

La devozione per la Madonna di Lourdes a Spongano

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di Giuseppe Corvaglia

La devozione mariana a Spongano cambia nel tempo aspetti ma resta una costante dell’impianto devozionale, un pilastro per la fede degli Sponganesi come ci ricorda Filippo Casarano in un articolo pubblicato sul giornale del Comune qualche anno fa (Il culto della Madonna – Note di storia locale. Spongano periodico dell’Amministrazione Comunale – Anno V 25 aprile 2001).

Il patronato di Spongano viene chiesto per Santa Vittoria nel 1766 e non è stato mai richiesto per la Madre di Dio, ma è evidente una grande devozione per essa.

Intanto ce lo testimonia già agli albori del paese la presenza di una chiesa dedicata alla Madonna delle Grazie, che ospita una confraternita dedicata alla Madonna Immacolata, e la devozione per la Madonna del Buon Consiglio (festeggiata nei tempi andati il 26 aprile).

Alla Vergine con questo titolo, che ricorda il miracolo di Genazzano, in chiesa è dedicato un altare e si può vedere la statua processionale conservata sopra la porta della sacrestia. In paese, poi, non è raro trovare testimonianze di devozione popolare, come le edicole poste all’angolo fra via S. Leonardo e via Fulvio Bacile e via S. Angelo e via Montegrappa.

Ma verso la fine del 1800 un nuovo impulso viene dato da monsignor Gaetano Bacile dei Baroni di Castiglione, ancora giovane parroco del paesino natale, che, dopo un pellegrinaggio a Lourdes, viene affascinato dagli eventi che ivi sono accaduti e che hanno sconvolto il mondo intero, non solo religioso.

Il mondo è cambiato. Il Positivismo e la scienza vagliano con attenzione gli eventi miracolosi e anche la Chiesa deve mostrare cautela. Ma di fronte a quella contadinella ignorante che parla di una Signora che prega insieme a lei con il Rosario e che si definisce Immacolata Concezione non si riesce ad archiviare tutto come allucinazione, visione o frottola.

Poi ci sono i miracoli che mettono in crisi anche i medici e gli scienziati più laici, quando non atei.

In questa temperie il giovane parroco di Spongano sente che la devozione alla Madonna di Lourdes è la modalità più bella per incanalare la sincera, filiale devozione degli Sponganesi per la Madre celeste.

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Così mette in campo entusiasmo, fede, estro creativo, cultura e conoscenza e progetta un percorso che vede ancora gli Sponganesi in cammino.

Il progetto prevede l’acquisto di una statua, la costruzione di un santuario e l’elaborazione di uno strumento per elevare lo spirito come un libretto di preghiere.

La statua viene commissionata nel 1876 allo scultore napoletano Reccio che a maggio di quell’anno la ultima e la fa arrivare a Spongano. In  seguito la pregevole opera verrà allocata in una nicchia sopra l’altare del cappellone decorata come se fosse la grotta di Massabielle.

Anche il santuario vedrà la luce con la costruzione del cappellone posto a sud e inaugurato dallo stesso monsignor Bacile, diventato Vescovo di Castellaneta, nel 1884.

L’altro punto il curato lo realizza sempre nel 1876 prestissimo stampando un libretto di preghiere a lei dedicato, che contiene anche un Inno che ancora oggi viene cantato solennemente dalle Figlie di Maria (associazione di preghiera) durante il momento topico della festa religiosa.

 

L’inno

L’inno “Orsù dunque festosi e giulivi” penso che abbia suggestionato e continui a suggestionare gli sponganesi di tutte le età. Viene cantato durante la processione della vigilia quando la statua giunge in piazza Vittoria, dove si ferma la processione.

E’ un omaggio alla Madonna ma anche un modo di affidarsi a Lei come madre ed assume lo stesso significato che in altri paesi ha la consegna delle chiavi della città.

La voce di tutta la comunità è quella delle giovani Figlie di Maria, che per l’occasione si vestono con gonna blu, camicetta bianca e foulard azzurro.

Ma a rendere particolarmente solenne il momento è la strumentazione per banda che accompagna l’inno sacro. La banda prova al mattino con le Figlie di Maria e, quando si arriva in piazza ci si ferma, ci si dispone e poi si attacca. Dopo un’introduzione solenne parte il coro di giovani donne che viene accompagnato dalla musica e, davvero, sembra sgorgare dal cuore.

L’inno comincia con un’esortazione a venerare la Diva di Lourdes decantandone i miracoli fatti ma, soprattutto, esaltandone i pregi del suo amore verso di noi.

Ella infatti per le tribolazioni (plaghe) del genere umano (dei fidi Adamiti, figli di Adamo) fornisce un rimedio meraviglioso (dolce medela): quello di manifestarsi e dire agli uomini che Lei è con loro e che le loro preghiere possono essere ascoltate.

Così Monsignor Bacile cerca di sbalordirci come lo è Bernadette al momento dell’apparizione.

Dice: squarcia il monte e se  stessa rivela a Bernarda dal candido cor.

In realtà la roccia non si apre, la grotta di Massabielle esiste già e Bernadette non sente rumori ma solo un soffio di vento. Ma quella Signora luminosa (dal suo volto raggiante fulgor), vestita di bianco con una fascia azzurra (ceruleo color) in vita, che ha fra le mani un rosario e sui piedi due rose dorate è più eclatante di un tuono, più roboante di un terremoto per quella semplice fanciulla.

Il ritornello è un’accorata preghiera ad accogliere il devoto omaggio della popolazione che viene esaltato dagli ottoni e dalle percussioni, così da diventare un grido liberatorio che si alza in cielo e si chiude con il punto coronato della banda.

E’ questo l’acme della festa, il momento principale che corona le preghiere, la processione, i fuochi, le luminarie, la banda. Senza questo momento di affidamento la festa non sarebbe la festa de la Madonna.

Questo momento negli anni è stato preparato molto spesso dal Prof. Antonio Rizzello, maestro di rango, che sa sempre guidare le giovani voci coordinandole con i musicanti che, da professionisti, ogni anno con poche prove riescono ad offrire un momento davvero emozionante e unico.

 

Orsù dunque festosi e giulivi

La gran Diva di Lurd veneriamo

I prodigi di lei ricordiamo

E i suoi pegni più cari d’amor.

Alle piaghe dei fidi Adamiti

Ella appresta una dolce medela;

squarcia il monte se stessa rivela

a Bernarda dal candido cuor.

                    Ritornello : O Vergin di Lurd

                              Regina d’amor

                              Accogli l’omaggio

sincero del cuor!

 

Questa ascolta e guardando sorpresa

La rimira di neve vestita,

ampia zona le cinge la vita

di un vivace ceruleo color.

Un Rosario la Diva ha fra le mani

Ai suoi piedi germoglian le rose

E rivela le grazie nascose

Dal suo volto raggiante fulgor.

                    Ritornello : O Vergin di Lurd

                              Regina d’amor

                              Accogli l’omaggio

                              sincero del cuor!

 

Per ascoltarlo in una esecuzione pubblica diretta dal Prof. Antonio Rizzello

Antonio Scarnera: imprenditore salentino a 16 anni

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 a cura di Pro_Salento Grandi Valori

Ancora un caso nella “Salento Valley”. E’ stato uno dei protagonisti del Next di Lecce

Antonio Scarnera: imprenditore a 16 anni

con una startup informatica in piena crescita

Lo studente leccese ha implementato sul web “Island of Host”

e ha trovato nella sua scuola l’ “acceleratore” di cui aveva bisogno

 

 

«Ho inventato un modo per vendere servizi web, domini e server dedicati

a prezzi accessibili. Non dico mai la mia età, perderei di credibilità»

 

 

Lecce – Si chiama Antonio Scarnera, ha 16 anni e già da alcuni mesi è un vero e proprio imprenditore del settore ICT (Information and Communication Technology – Tecnologie dell’informazione e della comunicazione), ha implementato una sua start up, il servizio “Island of Host”, con cui, grazie ad una raffinata tecnica di parcellizzazione, riesce a fornire ai suoi clienti domini, server dedicati e altri servizi web a prezzi assolutamente accessibili. E’ uno studente dell’indirizzo informatico dell’Istituto “Galilei – Costa” di Lecce e nella sua scuola non ha trovato soltanto i piani formativi a lui più congeniali, ma ha anche trovato quello che in gergo viene chiamato un “incubatore” o “acceleratore” di start up, ossia una struttura che incentiva la creazione di piccole nuove imprese e si adopera affinché possano realizzarsi al meglio e al più presto. Ricordiamo che già l’anno scorso un altro studente della stessa scuola, il 18enne non vedente Vincenzo Rubano, ha attivato un progetto informatico tutto suo denominato “Ti tengo d’occhio”, un servizio di controllo e denuncia di programmi e siti web poco o per nulla accessibili per le persone cieche e ipovedenti.

 

Per quanto concerne “Island of Host”, anche se Antonio Scarnera e la sua giovane impresa sono “sul mercato” da pochi mesi, il ragazzo salentino è stato già notato da chi ha l’occhio lungo per le giovani promesse, come Alessandro Delli Noci, Salvatore Modeo ed il giornalista Riccardo Luna. Quest’ultimo, ritenendo questo caso assolutamente emblematico, ha invitato Antonio lo scorso 8 maggio a salire sul prestigioso palco del “Next” di Lecce per raccontare al pubblico la sua storia di start up, in maniera tale da diffonderne l’esperienza in tutta Italia e da stimolare altri giovani a prendere esempio e a fare altrettanto.

 

«Island of Host è un sito con cui offro servizi web ad imprese e ad altri startupper a prezzi inferiori a quelli di mercato. – racconta Antonio –  E’ nato da un problema che ho avuto io la scorsa estate quando cercavo degli spazi web e server dedicati per un mio progetto ma erano tutti prezzi proibitivi per me che ero un semplice studente delle superiori. Così mi è venuto in mente di creare un qualcosa che in realtà in Italia non c’era ancora. Il primo ostacolo è derivato dalla mia età, troppo poca per avere un’azienda a proprio nome, ed è in questo che ho trovato supporto a scuola. Oggi ho questa mia impresa e ogni mese faccio bilanci e previsioni e non nascondo che l’azienda è sempre in continua crescita. Fornisco assistenza 24h a clienti molto più grandi di me e la gestisco direttamente io. Ai clienti non dico mai la mia età perché siamo in Italia e perderei di credibilità. Pensi che qualcuno voglia affidare i propri affari ad un sedicenne?»

 

Cosa aggiungere? Nulla se non un grosso in bocca al lupo ad Antonio e a tanti altri giovani che nella “Salento Valley” e nel resto d’Italia vogliano cimentarsi in nuove e innovative attività di business.

 

Alcuni collegamenti utili:

Il servizio Island of Host: www.islandofhost.com

L’intervento al Next:  http://video.repubblica.it/next/rnext-professore-e-allievo-per-una-startup/165305/163793

Per contattare Antonio:supporto@islandofhost.com

Ricette con i ceci. Il ciambotto

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di Massimo Vaglio

 

Ceci al sugo di ciambotto

Questo è un antico piatto ancora in auge in alcuni porti pescherecci pugliesi che si prepara con pesci di poco valore, il risultato migliore si ottiene appunto con il ciambotto, o mangia, ovvero con quelle miscellanea di  pesci di scarso valore economico che vanno a costituire  molto spesso la parte di ricompensa in natura, che spetta ad ogni componente dell’equipaggio. In una casseruola, con un filo d’olio di frantoio sul fondo fate imbiondire leggermente due-tre spicchi d’aglio, unite della passata di pomodoro, una manciatina di prezzemolo e fate cuocere per una ventina di minuti. Calate nel sugo i pesci ben puliti, aggiustate di sale e portate a cottura. Togliete i pesci, che possono essere consumati a parte, passate il sugo attraverso un colino, versatelo nuovamente nella casserola, allungatelo con un po’ d’acqua e mettetevi a cuocere i ceci che avrete messo a bagno dalla sera precedente. Serviteli ben caldi spolverizzateli di pepe nero macinato al momento.

 

 

Dal paesello, boccioli d’antiche stagioni

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di Rocco Boccadamo

 

Giulia C. era giunta a Marittima, da un paese vicino, sposando Fortunato e, a distanza di circa un anno, aveva messo al mondo Teresa.

Purtroppo, la buona donna, ancora giovane, incominciò a scivolare in condizioni di salute precarie, con problemi di rilievo, e in progressivo aggravamento, all’apparato respiratorio, non mi è dato di sapere se in collegamento ai bronchi o ai polmoni o ad altro.

Spesso, sia di giorno sia di notte, in taluni momenti pareva che le mancasse il fiato, a poco o niente valevano le visite del medico condotto e i farmaci che il medesimo le prescriveva.

Ricordo che, nelle fasi maggiormente critiche, se ne usciva da casa e si portava in un vicino slargo, dove c’era più aria e soffiava diritta la tramontana, restandosene lì per ore, magari al freddo, seduta sugli scalini di chianche della casa di Siveria, pur di respirare, si consolava. Pian piano, era divenuta, Giulia, una sorta di lumicino vie più vacillante e, difatti, non ci volle molto tempo perché, un certo giorno, la fiammella arrivasse a spegnersi definitivamente.

°   °   °

Toti, anzi cumpare Toti, atteso che i miei genitori avevano tenuto a battesimo un suo figliolo, vicinissimo di casa, era un contadino, sposato, con a carico la moglie Cesira, sei figli e la suocera, finché è campata.

Un buon uomo, ma non un grande lavoratore, si limitava a eseguire saltuarie incombenze per conto di compaesani, piccole riparazioni, del resto, non aveva terreni da coltivare, salvo il piccolo orto confinante con l’abitazione. Di conseguenza, tra le sue mura domestiche, non regnava benessere, si avvertiva, al contrario, una sensazione di fame, il pane si mangiava quando c’era, sulla tavola, appena una minestra di verdura, se di stagione e coltivata nell’orto.

Tuttavia, nonostante le accentuate ristrettezze economiche e i correlati disagi, il nucleo famigliare andò avanti, i figli crebbero e divennero adulti. In parallelo, cumpare Toti giammai intese rinunciare ad allevare un uccellino, ora un canarino ora un cardellino; a tal fine, aveva costruito una gabbietta in legno, una “dimora” decorosa per l’amato minuscolo volatile, a beneficio del quale una fogliolina verde o qualche seme dovevano immancabilmente esserci.

In un’annata, anche la famiglia di cumpare Toti, sospinta dal bisogno, decise, al pari di tanti paesani, di lasciare Marittima ed emigrare, per cinque o sei mesi, nelle pianure della Basilicata, intorno a Metaponto, dove coltivare, in regime di mezzadria, estensioni di tabacco: in tal modo, perlomeno il cibo sarebbe stato garantito.

Ora, avvenne che, all’atto di caricare l’autovettura a noleggio che doveva trasportare la famiglia e le suppellettili dal paese natio alla Lucania, cumpare Toti si distinse, particolarmente, per la ferma volontà di issare a bordo anche la gabbia con l’uccellino. Obiettivamente, era un problema trovare per l’aggeggio uno spazio nell’abitacolo, gli stessi famigliari e l’autista protestavano e, però l’uomo alla fine s’impose con una frase rimasta famosa: “Sentite, a me può mancare il pane o un pasto, ma non consento di privarmi della gabbia con l’uccellino”.

Adesso, al posto della povera casa e dell’orto di cumpare Toti, sorge una grande e confortevole abitazione costruita dal suo ultimogenito D., ormai da decenni emigrato in Svizzera e avente una propria famiglia: i figli, sono titolari di un’attività di riparazione e vendita di autoveicoli, come si evince dalle scritte pubblicitarie impresse sulle fiancate delle vetture personali, con cui, d’estate, arrivano, per le vacanze, da Zurigo, nel Basso Salento delle origini.

 

Gallipoli, 18 aprile 1948: una scrutatrice d’eccezione!

manifesto di propaganda elettorale tratto dal sito www.cronologia.leonardo.it

di Piero Barrecchia

1948– Da circa cento anni, un simulacro aveva preso possesso della devozione dei gallipolini. Da circa cento anni, confidenzialmente, quel popolo invocava, nel mese di maggio, “l’augustissima Regina dè Fiori” e si deliziava nell’elencare le più disparate specie florensi, in una nenia incessante, cingendo idealmente il capo, il seno, la chioma, le mani, i piedi e le vesti, della “bella Figlia di Gioacchino” e puntualmente, dopo aver posato quel fiore, sul posto recitato, non contento, quello stesso popolo diceva :“…ma il fiore a Te più grato è l’Ave Maria!”.

Così, all’infinito, dall’inizio!

Da quando il presule dell’epoca, Mons. La Scala, volle quel simulacro, di fattura romana, ispirato alla Madonna di Francia. Ma, se già i danteschi versi : “… qual vuol grazia ed a Te non ricorre sua disianza vuol volar senz’ali” anticiparono la potenza di Maria, non si conosceva, fino al 1948 la sua influenza politica. Quella statua, tra le navate della Cattedrale gallipolina, assisteva ogni giorno al via vai dei fedeli ed ascoltava dal popolo, oltre alle preghiere rivoltele, le considerazioni sulle imminenti elezioni, tra un’Ave Maria ed un’altra!

Quella statua fu anche testimone della preoccupazione di un Pastore, che non riusciva proprio a concepire la sostituzione del simbolo sturziano, con una falce ed un martello. Ci sarebbe stato questo rischio, da scongiurare a botta di preci, intronizzando anticipatamente quel magnifico simulacro, al quale il popolo si rivolgeva, concludendo le sue preghiere con la provvidenziale frase “… i fiori della campagna Ti salutano…”.

Ed a chi ci si poteva rivolgere, allora, se non a chi di campagna si intendeva? Certamente, la prece non precisava di qual tipo di campagna si trattasse e proprio l’imprecisione delle iniziali ispirazioni, non poteva escludere la Campagna elettorale!

il simuacro della Madonna dei Fiori nel Duomo di Gallipoli
il simuacro della Madonna dei Fiori nel Duomo di Gallipoli

Fu allora che la Regina della campagna (elettorale) non disdegnò di farsi presente, di confortare il preoccupato presule (all’epoca del fatto Mons. Nicola Margiotta) e di guardare, con pietà, quei poveri figli, combattuti tra il simbolo dello spirito e quello riportante arnesi di lavoro, contrastati sul come portare a casa quel necessario pane quotidiano.  E miracolo fu!

Gli occhi del simulacro si mossero, più volte, alla vigilia del 18 aprile 1948 e ne fu testimone tanta gente, mentre Togliatti, da Milano, si scagliava contro il vescovo di Gallipoli, che a suo dire, tra le litanie, inseriva gli elogi sull’onorevole Codacci-Pisanelli. Inutile soffermarmi sull’esito (scontato) tra divino ed umano.

Né entrerò nel merito del soprannaturale. Anzi, 66 anni dopo il primo sacro intervento, alla vigilia di nuove elezioni, in presenza di tanti fiori di Campo, apparendo la scelta più difficoltosa, sarebbe auspicabile un vero miracolo!!!

La bicicletta

di Maria Grazia Presicce

 

bici

 

                              […]    Ti consegno la bicicletta / me la devi conservare / te ne prego mia cara Antonietta / a nessuno la devi dare!/ Se Qualcuno te la domanda / tu gli devi dire di no: / non ha freni ai pedali / nemmeno fanali / avanti non andrà!/ […]

                

Pensando a questo, ancora, tanto utile mezzo di trasporto, mi è sovvenuto quest’antico motivetto che tante volte, da bambina, ho sentito cantare da mamma.

Per lungo tempo lo ascoltavo senza capirne il vero senso, finché , lei un giorno non mi spiegò che si trattava della raccomandazione che  un  innamorato suggeriva   alla sua ragazza.

I due fidanzati abitavano in paesi  vicini e, data la distanza non riuscivano a vedersi spesso. Il ragazzo, sicuramente, con enorme sacrificio era riuscito ad acquistare una bicicletta che le consentiva di giungere più rapidamente dalla sua bella, ma l’improvvisa chiamata alle armi ruppe l’incanto e procurò nel giovane, oltre al dolore del distacco, la preoccupazione della custodia della bicicletta durante la sua assenza. Per cui decise di affidarla alla fidanzata esortandola a non farla usare a nessuno.

La bicicletta, così, divenne per loro anche pegno d’amore!

Non sappiamo se il giovane tornò mai dalla guerra, lo speriamo però!

bici albero

Di un altro giovane che partecipò a quel conflitto e che aveva affidato ad un albero la sua bicicletta incatenandola al tronco, sappiamo che non è più tornato. La sua bici, però, è ancora lì e lo aspetta e l’albero testimone, protettivo e protettore continua a custodirla gelosamente, tenendola sempre più stretta al suo cuore. Meravigliosa natura sempre più maestra di vita e d’amore!

Durante una ricerca ho ritrovato su un vecchio settimanale del 1937 quest’articolo legato alla bicicletta. Leggevo e sorridevo considerando l’evolversi del tempo e le sue “ metamorfosi”.

Lo propongo ai lettori immaginando di fare cosa gradita.

bici l'ordine, la bicicletta delle donne, 16 apri, 1937

LA BICICLETTA DELLA DONNA E LA DONNA IN BICICLETTA

E chi non lo sa; oggi la bicicletta rappresenta un utile e pratico mezzo di trasporto e di piacevole svago, quando è usata con discrezione dagli uomini e con giudizio dai giovani.

Per le donne la cosa cambia un poco, quel telaio ricurvo, quelle ruote raggiate, quella comoda sella, per la donna, meglio ancora per la giovane, oggi così evoluta, libera in ogni suo capriccio, rappresenta l’occulto pericolo fisico e l’evidentissimo morale.

La scienza medica ha già opportunamente dato l’allarme, avvertendo che il prolungato uso della bicicletta è per la donna essenzialmente antigienico.

Nessun scalpore, signorine egregie … !!!

A quanto i medici hanno scientemente stabilito per cognizioni d’effetti, le signorine in modo speciale, non devono restare insensibili, sia per il danno che recano a loro stesse, sia per evitare il rimorso di far scontare ad altri esseri le conseguenze della loro trasgressione.

Ma oltre a questo che per qualcuno potrebbe passare fra le considerazioni secondarie , vi è un altro fattore ed è il più assillante, quello morale.

Basta uscire sulla strada per avvistare subito la frequenza di donne in bicicletta, le quali con quei dieci centimetri di sottana e due di corpo (?)[4], che oggi rappresentano l’ultimissima moda, offrono un aspetto indecoroso, talvolta persino schifoso che diventa un vero attentato al pudore.

C’è da supporre che tale offensivo indecente ed osceno spettacolo non sia del tutto a cognizione delle pedalatrici impenitenti, perché se si vedessero, per quanto vane e pervertite, loro stesse ne avrebbero vergogna.

L’ipocrisia, il falso pudore della moda, porta a continui e disperati ( quando sinceramente sono tali) atti di modestia da parte delle cicliste, per stendere i ruderi delle falde della gonna e coprire superiormente le gambe, almeno per nascondere ai loro stessi occhi, pur restando in mostra al pubblico, il quale è condannato ad assistere al movimento di due arti calzati di ragnatele, che si agitano continuamente seguendo il movimento dei pedali, e buttando in aria un gonnellino, che ad onor del vero nasconde nulla, proprio nulla.

Povere farfalle inconsce, si circondano di disonore, condannando il loro sesso.

E tutti devono godersi il vergognoso spettacolo, che ripugna e nausea, ad eccezione fatta dei soliti allocchi, ai quali si allunga il collo, ed un sorriso idiota sboccia sulle loro labbra.

Questo per quanto succede nella strada, che è la carrozza di tutti, ma se poi penetriamo nell’intimità familiare, ed allora la bicicletta è causa di ben altre più gravi conseguenze.

Dare una bicicletta ad una giovane, è come liberare una farfalla dalla rete che la tiene prigioniera.

Libera ai venti, vola, vola, vola senza stancarsi mai: ma dove vola?

Rispondano le mamme a questa domanda.

La macchina non servirà solo per i brevi percorsi dalla casa all’ufficio, allo stabilimento, ma investirà invece la signorina da smania di indipendenza, che la porterà ai lontani solitari luoghi, ai ritrovi fuori le mura, alle passeggiate con compagnie promiscuo, ed ancora… porterà l’inferno nella famiglia .

Ah! Mamme, mamme, in cuor vostro piangete e pensate al candore dei vostri anni di gioventù, alla semplicità della vita, al pudore ed al rispetto di tutto il vostro corpo, della vostra anima, a quella riservatezza che non permetteva alla donna, alla giovinetta specialmente,di uscire sola di casa, invece le vostre figlie, emancipate volano…e poi ogni giorno assistiamo a catastrofi sempre più frequenti che fanno rabbrividire.

Ma le responsabili di quelle catastrofi siete voi mamme e non le biciclette, perché vi è diminuita la forza vivificatrice della grazia di dio, e quindi l’Autorità. Avete incominciato col disinteressarvi del primo atto, che è il segno della fede, della obbedienza, il segno della Croce che ogni mattina e ogni sera i vostri figli e tutti dobbiamo fare quale saluto al Sommo Iddio; avete concesso un primo passo libero, non siete state rigide al primo capriccio, siete scese, ed avete dato e donato senza ritegno, siete giunte senz’avvedervene alla libertà assoluta, avete perso la testa, temendo che le vostre figlie restassero escluse dalla velocità del vizio, dai divertimenti,restassero appiedate, ed a tutto avete aggiunto la libertà della bicicletta.

Bisogna frenare, bisogna risalire la corrente, se non volete che il fango sprizzato dall’innocente macchina delle vostre figliole nella vertiginosa corsa ai piaceri, imbratti la vostra coscienza. ( s. f.)



[1]  Da google immagini: Scrambler:ottobre 2011: http://romhero.blogspot.it/2011_10_01_archive.html

 

[2] Da google: C:\Users\Computer\Documents\Twitter _ MayaDjordjevic  Nel 1940 un ragazzo, partendo.htm

[3] Biblioteca Provinciale “ S, Castromediano” lecce, L’Ordine, settimanale cattolico, lecce 16 aprile 1937- XV, Anno XXXII, num.16,”La bicicletta della donna e la donna in bicicletta”. PH maria grazia presicce

[4] ???è riportato in questo modo. Non è molto chiaro…

L’arte per Vito Russo: “far pensare e parlare la materia”

"Uomo con cane" di Vito Russo
“Uomo con cane” di Vito Russo

di Paolo Vincenti

 

“Raccogliere le antiche esperienze insieme alle nuove tecnologie, ritrovare la forza delle proprie mani. Con la mente scavare nell’anima, riprendersi i simboli dei linguaggi universali e con essi superare i limiti dell’incomprensione. Realizzare il proprio immaginario con il proprio saper fare, confrontarlo con tutti per capire e capirsi, intuire le verità estreme. L’arte non avrà mai fine finché l’uomo, incontrando i materiali che gli stanno intorno o creandosene di nuovi, saprà trasmettere loro, con la sua manualità, le forme del proprio pensiero.” Così scrive Vito Russo, affermato  pittore e scultore salentino, nella presentazione del suo sito on line  www.vitorusso.it . L’arte di Vito Russo è stata al centro della mostra “Unì la terra ed il cielo”, tenutasi dal 23 al 27 aprile 2014 presso l’Atrio  della Casa di Betania Hospice Onlus – Tricase ed organizzata dall’Associazione taurisanese “Arte in Terra” insieme con Casa di Betania Hospice. “Annunziata” (terracotta policroma),” In un frammento… la luce” (calcite e pietra di Pescoluse), “Battesimo, porta della fede” (legno di frassino),” Unì la terra e il cielo” (legno di tiglio ed eucalipto), “Volto di Cristo” (bronzo), “Spiritualità e materia” (calcare e pietra di Pescoluse): sono alcune delle opere esposte nella mostra in oggetto.

Vito Russo, nato nel 1948, vive ed opera a Salve ed è stato titolare della cattedra di Scultura presso l’Istituto Statale d’Arte di Lecce. Fra le opere d’arte sacra, ambito in cui il professor Russo si è particolarmente specializzato, voglio segnalare i ritratti in alto rilievo dei parroci Don Nicola e Don Palmiro Corciulo, nella Scuola Materna “Don Palmiro Corciulo” di Salve, del 1979; la Vergine Maria, in pietra leccese, per la Chiesa di Torre Vado, del 1991; “I Santi, la Chiesa ed il Popolo”, cinque pannelli dipinti in olio su legno, per la Chiesa di San Giovanni Elemosiniere di Morciano di Leuca, del 1992; l’ “Annunciazione ed Assunzione della Vergine”, due tele dipinte ad olio per la Chiesa della Madonna di Depressa, frazione di Tricase, del 1994; il grande Monumento marmoreo a Padre Pio nella Piazza Unità d’Italia di Andria,del 1997.  Sempre nel 1997, ha partecipato al Concorso Nazionale “Art in ice”, organizzato a Livigno (So), in cui dieci squadre di artisti affermati dovevano realizzare originali sculture di neve senza l’apporto di mezzi elettrici. Il vincitore del 1° premio avrebbe poi rappresentato l’Italia ai Giochi Olimpici di Nagano, in Giappone, dell’anno successivo. La scultura realizzata dalla squadra salentina guidata da Vito Russo ebbe nome “L’artista e la Musa”: due figure, l’Artista, che aveva le sembianze di Michelangelo, e la Musa, dalle sembianze di una donna sognante, che si sviluppavano in un movimento a spirale così da dare l’idea che si abbracciassero. Questa scultura vinse il Primo Premio e quindi, in virtù di questa importante affermazione, l’anno successivo, la squadra salentina di scultori (insieme al prof.Russo, il figlio Dario e Giovanni Scupola) rappresentò l’Italia ai giochi olimpici di Nagano, dove si classificò seconda, con l’opera “La sirena”, dopo la Finlandia, e prima degli Stati Uniti. Vito Russo, “uno scultore che onora il Salento”, come dicono Sandra Sammali e Marco Cavalera in un bel profilo dell’artista pubblicato su www.salogentis.it, ha tenuto moltissime mostre nel corso della sua lunga carriera, non solo nel Salento ed in Italia, ma anche all’estero: in Norvegia, in Belgio, in Germania e in Spagna.
Fra le sue opere, occorre ancora ricordare: le due bellissime tele conservate nella Parrocchiale di Salve, dedicata a San Nicola Magno, ossia la “Moltiplicazione dei pani e dei pesci”, olio su tela di mq 12, del 1988, e “Le nozze di Cana”, olio su tela di mq 12, del 2000; la statua di San Martino, nella piazza omonima di Taviano, del 1997, e una terracotta policroma, “Verso l’infinito”, esposta in occasione del Congresso nazionale dei Padri Trinitari per l’Ottavo Centenario della fondazione dell’Ordine, presso l’Università Urbiniana di Roma, nel 1998; il gruppo scultoreo di S. Giuseppe da Copertino, S. Benedetto, S. Basilio e S.Teresa, in pietra Leccese (2000), presso la Cattedrale di Nardò; un busto di Don Salvatore Martella di Castro, del 2000, un busto della Dott.ssa Monteduro di Gagliano del Capo, del 2000, il gruppo scultoreo della Pietà, realizzato in pietra leccese, per il Cimitero di Morciano di Leuca, del 2001; e inoltre, l’Altare della chiesa Santi Medici, in biancone di Apricena, a Galatone (2008), il Portale  per la Chiesa S. Giovanni XXIII,  nella marina di Pescoluse, Salve (2009), ed altri.
Fra le ultime realizzazioni, è il bellissimo Portale in bronzo della Chiesa dei Santi Martiri Giovanni Battista e Maria Goretti di Taurisano, città nella quale ha realizzato anche il busto del compianto Peppino Scarlino, collocato nello spiazzo della fabbrica dell’illustre concittadino e benefattore taurisanese.
A Salve, la sua amata cittadina, Russo è stato anche tra i fondatori di “Annu novu Salve vecchiu”, annuario di storia e cultura salvesi (la cui pubblicazione è ferma da qualche anno) sul quale sono comparsi spesso suoi contributi. L’artista sa lavorare con identica maestria materiali molto diversi fra loro, come l’ulivo, la quercia, la terracotta, la pietra salentina, il marmo e il granito. Una sensazione di grande armonia ci colpisce nell’osservare le sue sculture, realizzate con un forte senso di eleganza e pulizia formale.
Le opere di Russo contengono in sé, potrei dire, la cultura e la storia del Basso Salento ma, al tempo stesso, sono state definite “mediterranee”. Assistere alla sua esposizione dà delle emozioni intense; non si può, di fronte alle sue opere, fare a meno di toccare con mano per capire l’importanza e al tempo stesso la semplicità dei materiali usati. E questo è confermato da  Luigi Sergi, curatore della mostra “L’intervento della carezza”, tenuta a Novara nel 2009, il quale scrive nella presentazione: “Sono opere che creano equilibrio e armonia: la loro forma plastica spinge ad avvinarsi per stabilire un contatto, sfiorarle con una carezza”. L’arte di Vito Russo è una suggestione che coinvolge tutti i sensi in un’esperienza profonda, quasi mistica, totalizzante.

Personalmente sono affascinato dalle sue sculture in legno (soprattutto d’ulivo) e in terracotta. Ma Vito Russo, come già detto,  utilizza molto la pietra locale, in un riappropriarsi delle matrici materiche della nostra terra che è sempre stata la prima fonte di ispirazione per la sua arte . Egli coniuga tradizione e sperimentazione nei suoi manufatti dalle forme e dai colori più disparati e questo aspetto delle sue creazioni è stato sottolineato da tutti coloro che le hanno recensite. “In ogni materia che incontri ci sono infinite forme, tante quante la mente ne sa creare e quante le mani ne sanno trovare”, dice lo stesso Vito Russo, il quale, che lavori la creta, il legno, oppure il marmo o il bronzo, sa infondere alla materia quella lievità che rende le sue opere aerodinamiche, leggere, e sembra quasi che esse si stacchino dalla base cui sono fissate e prendano il volo per i cieli tersi dell’arte. La spinta verso il sublime connota tutta la sua produzione, animata da quell’intimo impulso spirituale che modella le sue figure.  Il classicismo che la sottende (nel quale,  è evidente, affonda le radici la sua formazione) è temperato, bilanciato  direi, dalla tensione evolutiva del suo percorso creativo. Il processo di levigatura e di lucidatura (secondo la tecnica degli antichi maestri liutai ) certo mette in risalto la composizione della materia usata, come si può notare anche nelle opere presenti nella personale di Tricase.  “L’arte è anche realtà, materialità, non solo concetto”, spiega  il maestro, “oggi, dietro il concettualismo, in tanti nascondono il fatto che non sanno fare niente”.  Da una vita, a cercare e poi lavorare pietre e tronchi, Vito Russo non si adagia sugli allori di una affermazione personale innegabilmente raggiunta ma continua a sperimentare nuovi miscugli e traiettorie. Sue opere si trovano presso numerose collezioni, pubbliche e private, in tutto il mondo.

 

Salento, Marittima: gente della mia Ariacorte

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 di Rocco Boccadamo

 

Stamani, il pensiero è improvvisamente stato preso dal paesello natio, per la precisione si sono parati nella mente e dinanzi agli occhi i contorni del minuscolo, caratteristico, antico e popolare rione in cui sono venuto al mondo e ho vissuto i miei primi diciannove anni: l’Ariacorte, una specie di piccola isola, delimitata e racchiusa da tre o quattro brevi e strette vie, nell’ambito della già minuscola località di Marittima.

L’immagine, o immaginazione se si preferisce, era riferita non allo stato d’oggi del quartiere in questione, bensì alla conformazione, ai dettagli urbanistici e, in speciale modo, all’universo e alle singole figure dei residenti, quali lo animavano intorno alla metà dello scorso secolo.

Nell’Ariacorte, un tempo, era concentrata una quantità cospicua di nuclei famigliari, per di più, in linea con le abitudini e i costumi di allora, ciascuno comprendente, in genere, sette – otto componenti.

Sin dall’età giovanissima, tutti i soggetti erano chiamati a svolgere un lavoro, un’attività, sicché, in pratica, restava poco tempo da dedicare a giochi, a svaghi e/o a conversazioni distensive.

Qualche riferimento agli abitanti dell’Ariacorte, che conservo particolarmente vivo.

*****

marittima castello

La famiglia Mariano, Trifone a capo, la moglie Elisa e quattro figli, si distingueva per la bella abitudine della preparazione annuale, nella ricorrenza del 19 marzo festa di S. Giuseppe, di un pentolone di “massa”, tagliolini fatti in casa, piatto tipico di quel giorno, a beneficio delle famiglie meno abbienti del paese; allestiva, in altri termini, una tavolata, detta giustappunto, di San Giuseppe.

Di fronte a loro, viveva, invece, una signora anziana e vedova, Pippina ‘a Raula (per dire Peppina nata da Laura), con una figlia, non a caso di nome Lauretta, poi sposatasi nella vicina Andrano.

A pochissimi metri di distanza, le abitazioni, attaccate, di Vitale Coluccia, soprannominato “quendici”, vedovo di Donata, quattro figli e del fratello Ciseppe, detto pizza d’oro, ammogliato con Nicolina, andranese, soprannominata ‘a sciarpa, cinque figli, di cui la primogenita Valeria, sarebbe mancata, purtroppo, giovanissima, qualche tempo dopo.

Giovanni ‘u Pativitu, che divideva il tetto con la consorte ‘Ndolurata, era contadino e, a tempo perso, fabbricante di panieri e cesti in giunchi e vimini.

Suo unico discendente maschio, compare Chiaro, marito di comare Donata, due figli, il quale soleva, saltuariamente, allestire, in un giardino di proprietà, una rudimentale trappola, con cui riusciva a catturare esemplari di volpe, resisi artefici e responsabili di stragi di galline. ”Legittima difesa”, diceva l‘uomo.

Marta, moglie di Vitale, tre figli, prima del matrimonio, era stata la zita di mio nonno Cosimo.

‘Ndolurata ‘a pisatura, abitava da sola in una casetta con cortiletto; il suo nomignolo misterioso era forse collegato all’azione della pisatura (battitura) del grano e dei cereali in genere, successivamente alla mietitura, mediante un maglio in legno, oppure a un’attività di pisatura (pesa pubblica) con bilance o bascule, espletata a beneficio dei compaesani.

Giorgio ‘u cacasiu, la moglie Peppi giunta da Andrano e quattro figli, seduto fuori dall’uscio nelle serate estive, durante i giochi di noi ragazzi, aveva l’abitudine di chiamarmi, dicendomi “senti, vieni qui, colomba tutta pura”, così, forse, copiando il passaggio di un canto religioso, evidentemente imparato a memoria, che, in una strofa, recitava:

 

Ti salutiamo o vergine,

colomba tutta pura,

nessuna creatura

è bella come te.

Prega per noi, Maria,

prega per i figli tuoi,

madre che tutto puoi

abbi di noi pietà.

 

Peppe ‘u tappa, o Peppeu cardillu, era un anziano di bassa statura, sposato con Consiglia, tre figli. Buono e scherzoso, ogni tanto preso di mira da noi bambini, che gli cantavamo:

 

Zzumpa cardillu,

mmemzu sti fiuri,

zzumpa cardillu,

lalleru lallà. .

 

Cosimo maccarrune, vedovo di Elvira e risposato con Nena originaria di Castiglione, tre figlie, al contrario, si offendeva sentendosi appellare col nomignolo di maccarrune e, quindi, bisognava contenersi.

Tore ‘u torci o ‘u casinu, era ammogliato con ‘Ntogna (Antonia), nativa di Andrano, tre figli di cui il più piccolo, Vitale, mio compagno di scuola, nato a molta distanza dal fratello e dalla sorella più grandi, forse perciò eccessivamente mmammatu, cioè legato alla madre, addirittura pretendendo, sino all’età di cinque – sei anni, di attaccarsi al di lei seno.

Zia Amalia, vedova di Luigi ‘u Minicone, fratello a sua volta della mia nonna paterna Consiglia ‘u Minicone (quel soprannome, derivava da Domenico, loro genitore, un uomo molto alto), aveva nel cortiletto di casa uno stompu, grande parallelepipedo di pietra, scavato all’interno, dentro il quale, con una grossa mazza di legno, si frantumava il grano,

per, poi, poterlo cuocere in minestre.

Per la festa del Corpus Domini, alcune padrone di casa realizzavano, per devozione, l’altarino dell’Ariacorte, una specie di grande tenda o capanna di forma cubica, fatta di coperte ricamate e colorate e lenzuola, al cui interno, durante la processione per le vie del paese, il parroco si fermava ed esponeva il Santissimo Sacramento.

Rosaria ‘u fusu, era rimasta vedova con la responsabilità di una folta prole. Ricordo il matrimonio del primogenito Andrea, in un giorno d’inverno in cui a Marittima capitò una nevicata eccezionale e l’episodio in cui un altro giovane figlio, Vitale, rimase vittima di un incidente sul lavoro, procurandosi un taglio, forse mal curato, che generò un’infezione di tetano: urla, strilla e pianti, in accompagnamento alla corsa verso l’ospedale più vicino, da cui per fortuna l’interessato ritornò guarito.

*****

Così, verso il 1950.

Adesso, di quella Ariacorte, residuano pochissime tracce in senso demografico, le famiglie e le persone si contano sulla punta delle dita, per fortuna sono rimaste aperte tutte le case, in parte ristrutturate, però gli occupanti sono in larghissima maggioranza turisti forestieri che le aprono per brevi periodi, durante le vacanze estive o in occasione di altre fugaci puntate.

Ciononostante, per il ragazzo di ieri che vi è nato ed è autore delle presenti note, l’anima dell’Ariacorte non è cambiata, mantiene una sua intensità profonda e un po’ magica, fra le sue viuzze circola un venticello particolare, mentre in alto quasi sempre campeggia un cielo dal fondo d’intenso azzurro, esclusivo o appena inframmezzato da bianche nuvole: è questo miscuglio di connotazioni che, stamani, mi si è riaffacciato dinanzi alla mente e agli occhi.

La spurchia, acerrima nemica dei contadini, ma buona da mangiare

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di Massimo Vaglio

Spùrchia, è l’appellativo dialettale delle orobanche (Orobanche spp.), piante saprofite delle fave e dei piselli. Acerrime nemiche dei coltivatori di queste leguminose perchè suggono la linfa  dalle radici delle stesse facendole deperire. Un tempo, i coltivatori di fave e piselli, conducevano una strenua lotta manuale contro queste piante che venivano estirpate prima che fiorissero, propagando i semi, quindi lasciate essiccare e bruciate.

E’ così che qualcuno, in tempi in cui le genti erano alla continua ricerca di qualcosa con cui riempire lo stomaco, ha pensato di poterne ricavare del cibo, inizialmente si cominciò a lessarla per consumarla come verdura e poi man mano sono stati elaborati tutta una serie di piatti oggi ritenuti prelibati e spesso serviti come golosa specialità nei giorni festivi.

In ogni caso, prima di qualsiasi tipo d’impiego, la “spurchia” va preventivamente lessata, previo diligente risciacquo, necessario per rimuovere a fondo gli eventuali residui di terra trattenuta dalla peluria che la ricopre ed eliminando il tallo ossia la parte inferiore, generalmente più dura e fibrosa.

 

Spurchia in insalata

Fate bollire le orobanche dopo averle lavate e nettate, per circa cinque minuti, ponetele in una ciotola con acqua fresca e procedete per un paio di giorni a frequenti ricambi d’acqua in modo che per osmosi eliminino la linfa che le rende e particolarmente amare. Infine, strizzatele delicatamente onde eliminare l’acqua trattenuta. Conditele, quindi con aglio fresco, alcune foglioline di menta, sale ed olio extravergine d’oliva.

Sempre previo trattamento di deamarizzazione possono seguire la stessa sorte  gastronomica degli asparagi e sono particolarmente apprezzate fritte o al gratin, in frittata e conservate sott’olio.

Manduria e Cheronea, un gemellaggio imperfetto …

di Armando Polito

immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Manduria-Mura_messapiche_08.JPG
immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Manduria-Mura_messapiche_08.JPG

 

Ecco la definizione che di gemellaggio dà il Vocabolario De Mauro: legame simbolico stabilito tra due città di nazioni diverse, atto a stabilire o sviluppare più strette relazioni economiche, politiche e culturali; la cerimonia che lo sancisce.

Condivido pienamente, anche se con amarezza, il primo posto assegnato, tra tutte le relazioni, a quelle economiche. Nell’era della concretezza e del profitto sarebbe da idioti negare una realtà che più di fatto non può essere. Un’amarezza ancor più grande mi assale, però, quando sono costretto ancora una volta a notare che, per un malinteso senso del prestigio e della nobiltà culturale, si mistifica la storia ricorrendo a presunte coincidenze temporali che non stanno né in cielo né in terra. E poco conta la paternità della mistificazione perché chiunque utilizzi qualsiasi informazione ha l’obbligo, prima di spacciarla come sua, di controllare la validità della fonte o, se non è in grado, di non fare ulteriori danni contribuendo, per quanto in buona fede, alla propalazione di una stupidaggine. È il caso, questa volta, di quanto affermato in http://www.parcoarcheologico-manduria.it/cennistorici/cennistorici.php,  dove leggo: E Diodoro Siculo (Biblioteca Storica, libro XVI, cap.62) narra che si avverò una circostanza singolarissima, perché nello stesso giorno e nella stessa ora in cui si combatté a Cheronea (3 agosto 338 a.C), un’altra battaglia avvenne in Italia, fra i Tarantini e i Lucani, battaglia nella quale morì Archidamo, re di Sparta, che si era recato a portare aiuto ai Tarantini.

Chiedo scusa al lettore se ora mi attarderò a riportare in ordine cronologico tutte le fonti a me note su Archidamo. Per rendere più snello il lavoro procederò direttamente con la mia traduzione ma in nota brano per brano riporterò il testo originale e l’edizione da cui l’ho tratto, in modo da mettere a suo agio chiunque volesse operare un controllo e dire la sua.

Teopompo (IV secolo a. C.): Nel 52° libro [Teopompo] dice che lo spartano Archidamo dopo essersi allontanato dal modo di vivere patrio assunse abitudini straniere ed effeminate; per questo non era capace di vivere in patria ma si dava da fare sempre a soddisfare all’estero la sua dissolutezza. Ed avendo i Tarantini mandato ambasciatori per un’alleanza si affrettò ad andare da loro come soccorritore e stando lì e ucciso in guerra non fu degnato neppure di sepoltura anche se i Tarantini avevano promesso ai nemici grandi ricchezza per la restituzione del suo corpo.1

Diodoro Siculo (I secolo a. C.): Intorno a questi tempi, mentre i Tarantini combattevano contro i Lucani e avevano inviato agli Spartani che erano loro antenati ambasciatori per chiedere aiuto, gli Spartiati, che in virtù della comune origine erano ben disposti ad allearsi con loro, subito raccolsero una grande forza terrestre e navale e nominarono comandante di questa il re Archidamo; mente erano sul punto di salpare per l’Italia, gli abitanti di Licto ritennero opportuno che prima fossero aiutati da loro; gli Spartani convinti e dopo aver navigato verso Creta vinsero i mercenarie salvarono la patria agli abitanti di Licto. Dopo di ciò Archidamo avendo navigato verso l’Italia ed avendo lottato a fianco dei Tarantini morì eroicamente in un combattimento, uomo lodato per l’abilità di comandante e per altri aspetti della sua vita, criticato solo per la sua alleanza con i Focesi soprattutto per essere stato causa della caduta di Delfi. Archidamo regnò sugli Spartani 23 anni, il figlio Agide dopo aver assunto il potere ne regnò 15. Inoltre i mercenari di Archidamo furono uccisi dai Lucani poiché avevano preso parte al saccheggio dell’oracolo.2

Da notare, prima di passare al secondo brano, il ribaltamento completo dell’impietoso giudizio morale espresso quattro secoli prima da Teopompo.

Avvenne che ci fosse qualcosa di particolare nel corso di questi tempi. Durante il tempo in cui ci fu la battaglia di Cheronea un altro scontro ci fu in Italia nello stesso giorno e stagione, mentre i Tarantini combattevano contro i Lucani  ed era alleato dei Tarantini Archidamo re di Sparta, quando avvenne pure che lo stesso Archidamo fosse ucciso. Questi dunque fu re degli Spartani per 23 anni e il figlio Augide, dopo aver assunto il regno, per nove.3

Pompeo Trogo (I secolo a. C-I secolo d. C.): Nel dodicesimo libro sono contenute le guerre battriane e indiane di Alessandro Magno fino alla sua morte con l’aggiunta delle gesta condotte in Grecia del suo prefetto Antipatro e da Archidamo, re degli Spartani e da Alessandro il Molosso in Italia, dove furono annientati entrambi insieme con il loro esercito.4

Strabone (I secolo a. C.-I secolo d. C.): Furono straordinariamente potenti un tempo i Tarantini democraticamente governati; e infatti avevano la più grande forza navale tra quelle del tempo e scchieravano trentamila fanti, tremila cavalieri e mille capitani di cavalleria. Accolsero la filosofia pitagorica, soprattutto Archita che resse la città per molto tempo. Poi prevalse la mollezza a causa del benessere sicché ogni anno da loro si celebravalo le feste pubbliche più numerose degli (altri giorni); per questo vennero pure governati peggio. Un segno della spregevole condotta politica fu il servirsi di comandanti stranieri; e infatti contro i Messapi e i Lucani inviarono Alessandro il Molosso e ancora prima Archidamo figlio di Agesilao e successivamente Cleonino e Agatocle, poi Pirro quando si allearono contro i Romani.5

Plutarco (I-II secolo d. C.): Era figlio di Agesilao Archidamo, che morì per mano dei Messapi nei pressi di Manduria d’Italia.6

Al contrario Metagitnione, che i Beoti chiamano Pànemo, non fu benigno per i Greci. Infatti nel settimo giorno di questo mese sconfitti in battaglia a Cranone furono annientati completamente da Antipatro e prima combattendo  a Cheronea contro Filippo non ebbero miglior fortuna. In questo stesso giorno a Metagitnione nel corso dello stesso anno quelli che con Archidamo erano passati in Italia furono annientati dai barbari che vi abitavano.7                                                                                                                                                         

Metagitnione  era il secondo mese del calendario attico. Più avanti riprenderò, sviluppandola, questa scarna informazione.

Pausania (II secolo d. C.): [Archidamo] in seguito passò pure in Italia per portare insieme con i Tarantini la guerra contro i barbari loro confinanti; e morì lì per mano dei barbari e che il morto restasse privo di sepoltura fu la conseguenza del risentimento nutrito da Apollo.8

Riporto ora, in formato immagine per fare più presto, la traduzione del secondo brano di Diodoro Siculo presente in Biblioteca storica di Diodoro Siculo volgarizzata dal Cav. Compagnoni, Sonzogno, Milano, tomo V, pag. 261.

Per comodità del lettore riproduco ora, affiancati, il testo originale, la mia traduzione, quella del cav. Compagnoni e il testo che si legge al link segnalato all’inizio.

Ho sottolineato ed evidenziato con colori diversi le parole-chiave, che ora passerò ad analizzare singolarmente, per dimostrare, oltretutto, quanto sia importante la loro analisi isolata prima ancora di passare a quella contestuale:

ἴδιον è un aggettivo, qui attributo di τι, di grado positivo e non superlativo, per cui la traduzione singolarissima appare infedele.

καιρὸν può significare misura giusta, opportunità, occasione, tempo fissato, circostanza, periodo di tempo. Da notare come quello da me reso con periodo di tempo è stato saltato nelle altre traduzioni.

ὤρᾳ è dativo di ὤρα che ha il significato generico di stagione. Le stagioni all’origine erano tre (ἔαρ=primavera, θέρος=estate, χειμὠν=inverno; poi quattro con l’aggiunta dell’autunno e poi sette (con l’aggiunta di tre stagioni intermedie). Fra poco, probabilmente, saremo costretti al processo inverso e ridurremo ufficialmente le stagioni a due: estate e inverno. Ritorno intanto al passato ricordando che i Greci avevano divinizzato le tre stagioni in quelle figure mitiche, chiamate appunto Ore, figlie di Zeus e Temi e sorelle, non a caso, delle Moire.  Le  Ὧραι erano Εὐνομία=Legalità, Δίκη=Giustizia, Εἰρήνη=Pace e, se i Greci le avevano divinizzate, non mi si venga a dire che noi non teniamo in alcun conto i valori da esse rappresentati …

La nostra voce assumerà il significato di ora come oggi lo intendiamo (ma il ricordo di quello vecchio è rimasto in espressioni del tipo è ora di cambiare ma anche nel greco moderno ώρα) solo successivamente e negli autori greci è presente a partire dal I secolo d. C., con la voce accompagnata da un aggettivo numerale ordinale.

Ne consegue che sarebbe stato molto strano che Diodoro Siculo avesse anticipato di un secolo tale uso, per cui l’ora del cav. Compagnoni non è proponibile, anche se l’autore dell’ultimo testo mostra di averla accolta enfatizzandola col superlativo singolarissima. Giacché ci sono:  la data del 3 agosto, aggiunta in parentesi tonde insieme con l’anno, e che in rete viene disinvoltamente palleggiata (insieme con quella del 2 dello stesso mese),  ha la sua paternità in Manuale di scienze ed arti ossia repertorio metodico di storia universale, usi e costumi, mitologia, archeologia, numismatica, blasone, geografia, storia naturale, fisica, geometria, chimica, geometria, delle arti etc. etc. adatto alla comune intelligenza. Per cura di una società, volume unico, A spese di una società editrice, Firenze, 1846, p. 349. Chiedo scusa al lettore ma sono stato costretto a riportare gli estremi bibliografici che, secondo me, da soli la dicono lunga sull’attendibilità dei dati contenuti nel volume. La cosa più esilarante, però, è che tale data verrà ripresa da: F. C. Marmocchi in Corso di geografia storica antica, del medio-evo e moderna, Società Editrice Italiana, Torino, 1856, v. I, parte II, p. 738; daTommaso Sanesi (in Storia dell’antica Grecia, Le Monnier, Firenze, 1859, p. 450); da Cesare Cantù (Storia della letteratura greca, Le Monnier, Firenze, 1863, p. 310); superfluo dire che tutti gli autori appena nominati si guardano bene dal citare al riguardo qualsiasi fonte, come era già avvenuto nel precedente manuale tuttofare …

In realtà l’unica fonte è costituita dal secondo brano di Plutraco già citato: Al contrario Metagitnione, che i Beoti chiamano Pànemo, non fu benigno per i Greci. Infatti nel settimo giorno di questo mese sconfitti in battaglia a Cranone furono annientati completamente da Antipatro e prima combattendo  a Cheronea contro Filippo non ebbero miglior fortuna. In questo stesso giorno a Metagitnione nel corso dello stesso anno quelli che con Archidamo erano passati in Italia furono annientati dai barbari che vi abitavano.

Avendo già anticipato che Metatgitnione era il nome del secondo mese del calendario attico, debbo ora aggiungere che la struttura di quest’ultimo non è affatto chiara. perché secondo alcuni certi mesi erano legati alla  luna, certi altri al sole.   Le conclusioni non concordi tratte dagli eruditi rinascimentali sono riportate da Edoardo Corsini nella seconda dissertazione (pp. 53-111) di Fasti Attici, Giovannelli, Firenze, 1744 (per chi volesse rendersi conto personalmente di quanto sia difficoltosa la soluzione:  http://books.google.it/books?id=bJ5BAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=corsini+fasti+attici&hl=it&sa=X&ei=prd5U5eQHs6k0AW44IDADg&ved=0CEIQ6AEwAQ#v=onepage&q=corsini%20fasti%20attici&f=false).

Qui basterà dire che risale a quegli studi l’opinione più diffusa, la quale vuole che in raffronto al nostro calendario, Metagitnione vada pressappoco dalla metà di luglio alla metà di agosto. Nell’Enciclopedia Treccani on line leggo che questo mese va dalla seconda metà d’agosto alla prima metà di settembre. A questo punto, sfruttando le indicazioni di Plutarco, il settimo giorno di Metagitnione dovrebbe corrisponderebbe nel primo caso,  più o meno, al 22 luglio, nel secondo, più o meno, al 22 agosto. Non capisco, perciò, come sia venuta fuori la data del 3 o 2 agosto.

Inoltre, per quanto s’è detto dell’evoluzione storica del significato di ὤρα, la presenza nel secondo brano di Diodoro Siculo di αὐτῇ (=stessa) non può essere considerata sostitutiva di un aggettivo numerale ordinale e, quindi, sottintendere il riferimento da parte di Diodoro Siculo ad una fonte a lui precedente o contemporanea (oltretutto nella parte iniziale del capitolo, che costituisce la fonte più estesa che abbiamo sulla battaglia di Cheronea, Diodoro non fornisce alcun dato cronologico) in cui l’ordinale compariva.

E poi: già il fatto che due avvenimenti importanti avvenissero nel corso dello stesso giorno della stessa stagione dello stesso anno non costituiva di per sé qualcosa di particolare?

Il rischio è che prima o poi la notizia dell’ora (magari con un’indicazione meno vaga di stessa e con l’aggiunta pure dei secondi …)   si intrufoli, quando già quella del giorno e del mese sembra quanto meno discutibile, in qualche appendice di qualche moderno manuale di storia dal titolo: mentre a Cheronea succedevano queste cose a Manduria …, ridicolizzando, così la visione sincronica della storia che di per sé  è ineccepibile.

Intanto beccatevi questo gemellaggio: sono nato, a Manduria,  il 17 marzo 1945, anche se anagraficamente risulto nato il 18; e il 18/3/1945 risulta nato Bobby Solo. Comunicazione di servizio per i più giovani: Bobby Solo non è il soprannome di un cane abbandonato ma il nome d’arte di uno dei cantanti di maggior successo dei mitici anni ’60 …

__________

1 Si tratta di un frammento tramandatoci da Ateneo di Naucrati (II secolo d. C.) ne I deipnosofisti (XII, 51): Ἐν δὲ τῇ νβ᾽ φησὶν ὡς Ἀρχίδαμος ὁ Λάκων ἀποστὰς τῆς πατρίου διαίτης συνηθίσθη ξενικῶς καὶ μαλακῶς· διόπερ οὐκ ἠδύνατο τὸν οἴκοι βίον ὑπομένειν, ἀλλ᾽ ἐσπούδαζεν αἰεὶ δι᾽ἀκρασίαν ἔξω διατρίβειν. Καὶ Ταραντίνων πρεσβευσαμένων περὶ συμμαχίας ἔσπευσε συνεξελθεῖν αὐτοῖς βοηθός κἀκεῖ γενόμενος καὶ ἐν τῷ πολέμῳ ἀποθανὼν οὐδὲ ταφῆς κατηξιώθη, καίτοι Ταραντίνων πολλὰ χρήματα ὑποσχομένων τοῖς πολεμίοις ὑπὲρ τοῦ ἀνελέσθαι αὐτοῦ τὸ σῶμα. (da Athenaeus, The Deipnosophists,  Cambridge, MA. Harvard University Press. London. William Heinemann Ltd. 1927, p. 423)

2 Bibliotheca historica, XVI, 62-63: Περὶ γὰρ τοὺς αὐτοὺς χρόνους Ταραντίνων διαπολεμούντων πρὸς Λευκανοὺς, καὶ πρὸς Λακεδαιμονίους, ὄντας προγὁνους ἑαυτῶν, πεμψάντων πρέσβεις περὶ βοηθείας, οἱ μὲν Σπαρτιάται διὰ τὴν συγγένειαν προθύμως ἔχοντες συμμαχῆσαι, ταχέως δύναμιν ἤθροιζον πεζικἡν τε καὶ ναυτικὴν, καὶ ταύτης στρατηγὸν ἀπἑδειξαν Ἀρχίδαμον τὸν βασιλέα· μελλόντων δ’ἀπαίρειν εἰς τὴν Ἰταλίαν, ἠξίωσαν οἱ Λύκτοι πρῶτον αὐτοῖς βοηθῆσαι· οἱ δὲ Λακεδαιμονίοι πεισθέντες, καὶ πλεύσαντες εἰς τὴν Κρήτην, τοὺς μισθοφόρους ἐνἰκησαν, τοῖς δὲ Λυκτίοις ἀνέσωσαν τὴν πατρίδα. Μετὰ δὲ ταῦτα ὁ μὲν Ἀρχίδαμος πλεύσας εἰς τὴν Ἰταλίαν, καὶ συμμαχήσας τοῖς Ταραντίνοις, ἔν τινι μάχῃ διαγωνισάμενος λαμπρῶς ἐτελεύτησεν, ἀνὴρ κατὰ μὲν τὴν στρατηγίαν καὶ τὸν ἄλλον βἱον ἐπαινούμενος, κατὰ δὲ τὴν πρὸς Φωκεῖς συμμαχίαν μόνην βλασφημούμενος, ὡς μάλιστα αἴτιος γεγονὼς τῆς τῶν Δελφῶν καταλήψεως. Ἀρχίδαμος μὲν οὖν ἐβαυσίλησε τῶν Λακεδαιμονίων ἔτη τρία πρὸς τοῖς εἳκοσι· τὴν δ’ἀρχὴν διαδεξάμενος Ἂγις ὁ υἱὸς ἐβαυσἱλησεν ἔτη πεντεκαίδεκα. Ἔπειτα οἱ μὲν Ἀρχιδάμου μισθόφοροι, μετεσχήκοτες τῆς  τοῦ μαντείου συλήσεως, ὑπὸ τῶν Λευκανῶν κατηκοντίσθησαν. (da Bibliothecae historicae quae supersunt, a cura di O. Holtze, Metzger & Wittig, Lipsia, 1872, tomo III, p. 228)

3 Op. cit., XVI, 88: Ἴδιον δέ τι συνέβη γενέσθαι κατὰ τοὺς ὑποκειμένους χρόνους. Καθ’ὅν γὰρ καιρὸν ἠ περὶ τὴν Χαιρώνειαν ἐγένετο μάχη, ἑτέρα παράταξις συνέστη κατὰ τὴν Ἰταλίαν τῇ αὐτῇ ἡμέρᾳ καὶ ὤρᾳ, διαπολεμούντων μὲν Ταραντίνων πρὸς Λευκανούς, συναγονιζομένου δὲ τοῖς Ταραντίνοις Ἀρχιδάμου τοῦ Λακεδαιμονίων βασιλέως, ὅτε συνέβη καὶ αὐτὸν ἀναιρεθῆναι τὸν Ἀρχίδαμον. Οὗτος μὲν οὖν ἦρξε τῶν Λακεδαιμονίων ἔτη τρία καὶ εἳκοσι, τὴν δὲ βασιλείαν διαδεξάμενος ὁ υἰὸς Ἂγις ἦρξεν ἕτη ἐννέα. (da Bibliothecae historicae …, op. cit., p. 262) 

4 Historiae Phiippicae, Prologi, XII (dell’opera ci restano il compendio e i sommari dei vari libri (prologi) fatti da Marco Giuniano Giustino nel II-III secolo d. C.): Duodecimo volumine continentur Alexandri Magni bella Bactriana et Indica usque ad interitum eius, dictaeque in excessu res a praefecto eius Antipatro in Graecia gestae, et ab Archidamo, rege Lacedaemoniorum, Molossoque Alexandro in Italia, quorum ibi est uterque cum exercitu deletus. (dall’edizione a cura di I. Ieep, Teubner, Lipsia, 1859, p. 224)

5 Geographia, VI, 3, 4: Ἴσχυσαν δέ ποτε οἱ Ταραντῖνοι καθ᾽ ὑπερβολὴν πολιτευόμενοι δημοκρατικῶς· καὶ γὰρ ναυτικὸν ἐκέκτηντο μέγιστον τῶν ταύτῃ καὶ πεζοὺς ἔστελλον τρισμυρίους, ἱππέας δὲ τρισχιλίους, ἱππάρχους δὲ χιλίους. Ἀπεδέξαντο δὲ καὶ τὴν Πυθαγόρειον φιλοσοφίαν, διαφερόντως δ᾽ Ἀρχύτας, ὃς καὶ προέστη τῆς πόλεως πολὺν χρόνον. Ἐξίσχυσε δ᾽ ἡ ὕστερον τρυφὴ διὰ τὴν εὐδαιμονίαν, ὥστε τὰς πανδήμους ἑορτὰς πλείους ἄγεσθαι κατ᾽ ἔτος παρ᾽ αὐτοῖς ἢ τὰς ἡμέρας· ἐκ δὲ τούτου καὶ χεῖρον ἐπολιτεύοντο. Ἓν δὲ τῶν φαύλων πολιτευμάτων τεκμήριόν ἐστι τὸ ξενικοῖς στρατηγοῖς χρῆσθαι· καὶ γὰρ τὸν Μολοττὸν Ἀλέξανδρον μετεπέμψαντο ἐπὶ Μεσσαπίους καὶ Λευκανούς, καὶ ἔτι πρότερον Ἀρχίδαμον τὸν Ἀγησιλάου καὶ ὕστερον Κλεώνυμον καὶ Ἀγαθοκλέα, εἶτα Πύρρον, ἡνίκα συνέστησαν πρὸς Ῥωμαίους. (dall’edizione a cura di A. Meineke, , Teubner, Leipzig, 1877, v. I, p. 385).

6 Vite parallele. Vita di Agide e Cleomene, III, 2: Ἦν  γὰρ Ἀγεσιλάου μὲν Ἀρχίδαμος ὁ περὶ Μανδόνιον τῆς Ἰταλίας ὑπὸ Μεσσαπίων ἀποθανὡν. (dall’edizione a cura di T. Doehener, Didot, Parigi, 1862, v. II, pag. 949)

7 Vite parallele. Vita di Camillo, XIX, 5: Ἀνάπαλιν δ᾽ ὁ Μεταγειτνιών, ὃν Βοιωτοὶ Πάνεμον καλοῦσιν, τοῖς Ἕλλησιν οὐκ εὐμενὴς γέγονε. Τούτου γὰρ τοῦ μηνὸς ἑβδόμῃ καὶ τήν ἐν Κρανῶνι μάχην ἡττηθέντες ὑπ᾽ Ἀντιπάτρου τελέως ἀπώλοντο, καὶ πρότερον ἐν Χαιρωνείᾳ μαχόμενοι πρὸς Φίλιππον ἠτύχησαν. Τῆς δ᾽ αὐτῆς ἡμέρας ταύτης ἐν τῷ Μεταγειτνιῶνι κατὰ τὸν αὐτὸν ἐνιαυτὸν οἱ μετ᾽ Ἀρχιδάμου διαβάντες εἰς Ἰταλίαν ὑπὸ τῶν ἐκεῖ βαρβάρων διεφθάρησαν. (dall’edizione a cura di C. Sintenis, Teubner, Lipsia, 1852, p. 271).   

8 Graeciae descriptio, III, 10, 5: Διέβη δὲ καὶ ἐς Ἰταλίαν ὕστερον Ταραντίνοις βαρβάρων πόλεμον συνδιοίσων σφίσιν ὁμόρων· καὶ ἀπέθανέ τε αὐτόθι ὑπὸ τῶν βαρβάρων καὶ αὐτοῦ τὸν νεκρὸν ἁμαρτεῖν τάφου τὸ μήνιμα ἐγένετο ἐμποδὼν τὸ ἐκ τοῦ Ἀπόλλωνος. (dall’edizione a cura di G. Siebelis, Reimer, Lipsia, 1823, v. II, p. 50)

Diversità culturali e conquiste civili delle donne nel Mediterraneo

Diego De Razza presenta
DIVERSITÀ CULTURALI E CONQUISTE CIVILI DELLE DONNE NEL MEDITERRANEO…

iniziativa promossa con il contributo e la collaborazione di
Comune di Nardò – Assessorato alla Cultura, Comune di Taranto – Assessorato alla Cultura, Stazione ICS (Nardò), Associazione Culturale Art & Show (Nardò), Abusuan Centro Interculturale (Bari), Calliope Comunicare Cultura (Lecce), Parco Culturale Giovanile “La Saletta” (Nardò)

(24-25 maggio Nardò) (29-30 maggio Bari) (31 maggio Taranto) (1 giugno Bari)

Una retrospettiva sulla storia di un movimento che ha segnato le tappe più significative della Rivoluzione dei Gelsomini

Le fave bianche o fave nette

fave1

di Massimo Vaglio

 

Le fave bianche, conosciute anche come fave nette, sono le comuni fave secche private del tegumento esterno, costituiscono tuttora uno dei più amati piatti tradizionale. Vengono cotte semplicemente in acqua leggermente salata; se sono di buona qualità (cottotie) si disfano completamente con la cottura, tanto da assumere la consistenza di una purea, una perfetta omogeneizzazione si ottiene immergendo nelle fave un cucchiaio di legno e facendolo ruotare velocemente sfregando il manico tra le palme delle mani, se invece, nonostante una prolungata cottura rimangono dure (cutree), devono essere passate, a cottura ultimata, con un passaverdura. Possono quindi essere consumate semplicemente condite con abbondante olio di frantoio oppure mescolate caldissime con dadini di pane casareccio fritti dorati in olio di frantoio e con cicorie di campagna lessate e tritate grossolanamente. A Gallipoli, la verdura adoperata come accompagnamento è costituita sovente da cime di finocchio lessate e tagliuzzate.

Fave bianche, riso e patate

Ingr.: 300 g di fave secche private del tegumento, 200 g di riso arboreo, 6-700 g di patate pasta gialla, una grossa cipolla, 3-4 pomodori pelati, una costa di sedano, olio extravergine d’oliva, sale.

Pelate le patate, fatele a tocchetti e ponetele in una pignatta insieme alle fave che avrete tenuto a bagno in acqua salata per una nottata, coprite il tutto d’acqua e ponete a cuocere accostando la pignatta al fuoco del camino. Quando inizia a bollire schiumate ripetutamente e quando le fave saranno quasi cotte, unite il riso, la costa di sedano tritata finemente, i pomodori pelati tagliati a filetti e un mestolino d’olio. Aggiustate di sale e portate a cottura, aggiungendo altra acqua se necessario.

 

Zuppa di fave verdi e carciofi

Ingr.: 8 carciofi, 500 g di fave verdi già privata del baccello, 3-4 cipollotti, olio extravergine d’oliva, pepe nero, sale.

Nettate i carciofi, eliminando le brattee più dure e spuntandole, divideteli in quarti e poneteli in una ciotola con acqua acidulata con limone. Versate un filo d’olio sul fondo di una casseruola, unite i cipollotti tagliati a julienne, i carciofi e le fave. Salate, unite un pizzico di pepe e versate acqua sino a ricoprire a filo il tutto e fate cuocere a fiamma bassa e a casseruola coperta sino a completa cottura.

 

Gnòcculi con le fave verdi

350 g di gnòcculi (pasta corta tipo ditali), 1 kg di fave verdi private del baccello, 200 g di pancetta salata, 1 cipolla, olio extravergine d’oliva, pecorino grattugiato, peperoncino, sale.

Fate rosolare la cipolla nell’olio, unite le fave la pancetta e il peperoncino. Continuate la cottura rimestando, aggiungete un po’ d’acqua calda e portate a cottura. Nel frattempo lessate al dente i ditali, scolateli e mescolate il tutto, tenete ancora sul fuoco per qualche minuto. Servite cospargendo di pecorino grattugiato.

La menza e Giove Menzana, altre perle dalla rete.

di Armando Polito

 

La tecnologia ha reso obsoleti parecchi utensili trasformandoli, anche per le loro dimensioni variabili, da strumenti di lavoro in oggetti da museo, di antiquariato, da collezione e, in alcuni casi, di arredamento, sia per interni che per esterni. Di quest’ultimo destino hanno goduto in modo particolare oggetti prima destinati a contenere o a travasare solidi e liquidi; tra questi ultimi recita la parte della star indiscussa la capasa1 , ormai immancabile, anche in esemplari di moderna produzione, in qualsiasi agriturismo che si rispetti, soprattutto dalle nostre parti.

Diversa sorte è toccata alla menza, contenitore di circa 10 litri, usato, fra l’altro, per il trasporto del prodotto finale negli stabilimenti vinicoli e oleari fino agli anni sessanta-settanta del secolo scorso. All’origine era in terracotta ed aveva forme più aggraziate (quasi da anfora). Come qualsiasi oggetto in questo materiale era, però, sensibile agli urti e il tempo sempre più tiranno e la necessità, dunque, di non perderne in accortezza nel maneggiarla, la costrinse ad assumere una veste di lamiera che nulla conservava dell’antica linea, essendo formata in pratica, partendo dal basso,  da un tronco di cono capovolto chiuso alla base, da un secondo tronco di cono, appena più alto della metà del primo, dal quale partiva un collo un po’ più corto dell’altezza della prima sezione; il tocco finale era costituito da due manici ognuno dei quali (almeno in questo c’era coerenza stilistica) formato da quattro sezioni cilindriche opportunamente posizionate e saldate. L’invenzione della plastica segnò la terza sua mutazione e la malleabilità del nuovo materiale le consentì, comunque, di conservare abbastanza fedelmente l’aspetto dell’antenata di lamiera.

L’avvento impetuoso della tecnologia, con macchinari rivoluzionari rispetto al passato, segnò la sua fine senza appello ed ora è possibile vederne qualche raro esemplare solo in qualche museo della civiltà contadina.

Menza è la deformazione dell’italiano mezza. Premesso che il sistema di pesi e misure in passato non era uniforme ma variava in rapporto al territorio (anche tra luoghi distanti pochissimo tra loro), non c’è ombra di dubbio che menza tra il nome dal fatto che essa come capacità corrispondeva a metà barile, che la precedeva nella scala gerarchica. E siccome il barile dalle nostre parti corrispondeva, più o meno, a 18 litri, la menza aveva una capacità di circa 9-10 litri. Menza, dunque, sarebbe forma sostantivata dell’aggettivo menza, femminile di mienzu, da cui deriva minzanu (corrispondente all’italiano mezzano), che con valore sostantivato indica il piano ammezzato e l’intermediatore (quest’ultimo altrimenti detto zzinzale, corrispondente all’italiano sensale), nonché minzettu che a Nardò  indica la mezza suola e a Gallipoli la metà di un tomolo. Al precedente maschile minzanu corrisponde ad Oria per il Brindisino ed a Grottaglie per il Tarantino il femminile minzana (recipiente per il trasporto dell’acqua, della capacità di circa 20 litri). Per completare il quadro vanno ricordate altre voci per le quali per brevità riporto quanto presente nel vocabolario Treccani on line:

meżżina s. f. [der. di mezzo1; cfr. mezzetta]. – Recipiente di terracotta invetriata, della capacità di circa mezzo boccale, usato in passato generalmente per contenere vino. In Toscana, la brocca di rame per attingere l’acqua alla fonte o per tenere l’acqua in casa. Dim. meżżinina, recipiente rotondo, panciuto, a bocca stretta, destinato a contenere vino o acqua, fornito di piede e dotato di un beccuccio alla bocca o alla pancia e di un manico all’altezza della pancia oppure, nei tipi per attingere acqua, al di sopra della bocca.

meżżétta s. f. [der. di mezzo1, perché equivalente, come misura per liquidi, a mezzo boccale]. – Antica unità di misura di capacità, usata in alcune regioni d’Italia prima dell’adozione del sistema metrico decimale, di valore diverso a seconda dei luoghi.

Il lettore non dimentico del titolo a questo punto si sarà chiesto più volte se io non sia stato colto da un attacco di schizofrenia, visto che di Giove non si è visto ancora nemmeno l’ombra.

È tempo di scoprire le carte dicendo preliminarmente che questo post mi è stato ispirato da ciò che occasionalmente ho letto in http://itcmesagne.altervista.org/letimologia_di_mesagne.html e che, per comodità del lettore, riproduco di seguito integralmente e fedelmente (tanto per intenderci con un copia-incolla che più passivo non si può …).

L’etimologia di Mesagne

Una interessante ricerca etimologica è stata condotta dagli studenti dell’Istituto tecnico commerciale di Mesagne che attraverso uno studio storico hanno avanzato una suggestiva, quanto credibile, ipotesi di lavoro circa l’origine lessicale di Mesagne che deriverebbe da “Menzana” antica divinità messapica. Gli studenti, guidati dal loro docente di storia, francesco Campana, hanno partecipato al convegno sui Messapi che si è svolto a Mesagne e al termine hanno ufficializzato la loro tesi. Nuova asserzione storica che è illustrata dal professore Francesco Campana. Giove Menzana – dice – dovrebbe essere l’antica divinità femminile dei cavalli e proprio a Menzana Pluvio i Messapi, nel mese di ottobre, bruciavano un cavallo vivo nel fuoco. Questi indomabili domatori di cavalli che nessuno, né col ferro né col fuoco, riuscì ad abbattere, hanno sempre avuto grandi problemi nell’approvvigionamento dell’acqua. Evidenzia come a Pilo, nel periodo miceneo, è presente una divinità simile a Menzana che si chiama Hippios. Questo dio, che donava la vita – continua il docente – era il nome tutelare delle sorgenti e delle acque sotterranee e, per fecondare, si accoppiava con una dea con la testa di cavallo. Infine, sia il dialetto che la tradizione orale parlano ancora di Menzana, tanto che i nostri anziani chiamano tutt’oggi il recipiente di “creta” che contiene la preziosa acqua: la “menza” o la “minzana”. Non è tutto, poiché gli studenti spiegano che in una radura al centro di un bosco sacro (locus), vicino ad una sorgente d’acqua, gli antenati officiavano i loro riti per propiziarsi la divinità. Altrove si preoccupavano di mantenere acceso il fuoco sacro pubblico, come nella leggenda del trono di Rustem di Shahariyar.

Veneravano le forze della natura come l’acqua e il fuoco – continua il professore Campana – e cercavano i luoghi sacri presenti sul territorio: le sorgenti e le grotte “bucate” e “a cupola” dove il fuoco miracoloso poteva bruciare quasi senza essere alimentato. Sicuramente individuarono le grotte ma anche le fonti migliori presenti sul nostro territorio e vicino costruirono i loro Temenè. Ma i romani, dopo le guerre sannitiche, li assoggettarono e i loro luoghi sacri probabilmente divennero “castella acquarum” cioè i serbatoi sotterranei dell’acqua, dell’articolato e complesso sistema di alimentazione e fruizione idrica della città di Brundisium e delle sue campagne, grazie alla concretezza romana e alla loro consapevolezza dell’importanza politica della cultura dell’acqua. Sito che probabilmente oggi si potrebbe riconoscere nella zona agricola di “Castello Acquario” nelle cui vicinanze c’è un lussureggiante bosco. Per dare certezza a tale ipotesi di lavoro mancano solo degli scavi archeologici ricognitivi.

«Probabilmente lo stesso Federico II – conclude Campana – quando nel 1220 promulgava “le Costituzioni di Capua” con una famosa bolla parlava di non abbattere “castrum mezzaneum” riferendosi proprio a “castella Menzanae” cioè ai serbatoi dell’acqua presenti nel suburbio di Mesagne, pertanto parlava, probabilmente, della necessità di sistemare i serbatoi sotterranei dell’Acquaro così utili non solo alla sussistenza umana, ma anche prezioso elemento di celebrazione del potere imperiale».

Riporto, come è mia abitudine, le fonti (almeno quelle che conosco io e della cui attenta lettura da parte degli autori dell’ipotesi ho più di un motivo per dubitare profondamente) perché il lettore si renda conto da solo fino a che punto ne è legittima la libera interpretazione e quando, invece, in virtù di un’ipotesi troppo cara, si aggiunge qualcosa, nell’intento riprovevole, perché in un certo senso truffaldino, di corroborarla. Non è questo, comunque, il caso del prof. Campana che usa ripetutamente l’avverbio a me più caro: probabilmente. Esclusa, perciò, la malafede, tenterò ora di spiegare perché, secondo me, l’ipotesi non sarebbe praticabile. Tutte le traduzioni sono mie.

1) FESTO (II secolo d. C.); scrisse il De verborum significatione, opera andata in gran parte perduta, ma di cui ci resta l’epitome che ne fece Paolo Diacono nel secolo VIII  d. C., oltre a frammenti contenuti in diversi manoscritti. Cito i due brani originali (le traduzioni sono mie) che ci interessano da Sexti Pompei Festi De verborum significatu quae superstunt cum Pauli epitome, a cura di Emilio Thewrewk De Ponor, Accademia delle Lettere Ungherese, Budapest, 1889, parte I, pagg. 194-196.

October equus appellatur qui in campo Martio mense Octobri Marti immolabatur. De cuius capite magna erat contentio inter Suburranenses et Saeravienses, ut hi in regiae pariete, illi ad turrem Mamiliam id figerent. Cuius cauda, ut ex ea sanguis in focum destillaret, magna celeritate perferebatur in regiam (Si chiama cavallo di ottobre quello che viene sacrificato a Marte nel Campo Marzio nel mese di ottobre. La sua testa era oggetto di una grande contesa tra gli abitanti della Suburra e quelli della Via Sacra, perché l’affiggessero  questi sul muro della reggia, quelli sulla torre Mamilia; e la sua coda a gran velocità veniva portata nella reggia).

October equus appellatur, qui in campo Martio mense Octobri immolatur quod annis2 Marti, bigarum victrigum3 dexterior, de cuius capite non levis contentio solebat esse inter Suburanenses et Sacravienses, ut hi in regiae pariete, illi ad turrim Mamiliam id figerint4; eiusdemque quod5 atanta6 celeritate perfertur in regiam, ut ex ea sanguis destillet in focum, participandae rei divinae gratia; quem hostiae loco quidam Marti bellico deo sacrari dicunt, non, ut vulgus putat, quia velut supplicium de eo sumatur, quod Romani Ilio sunt orundi7, et Troiani ita effigie mequi8 sint capti. Multis autem gentilibus equum hostiarum numero haberi testimonio sunt Lacedaemoni, qui in monte Taygeto equum ventis immolant, ibidemque adolent, ut eorum flatu cinis eius per finis quam latissime differatur. Multis autem gentibus equum hostiarum numero haberi testimonio sunt Lacedaemoni, qui in monte Taygeto equum ventis immolant, ibidemque adolent, ut eorum flatu cinis eius per finis quam latissime differatur. Et Sallentini, aput9 quos Menzanae Iovi dicatus vivus conlicitur10 in ignem et trodi11, qui quod annis2 quadrigas soli consecratas in mare iaciunt, quod is12 tali curriculo fertur circumvehi mundum (Si chiama cavallo di ottobre quello che viene sacrificato ogni anno a Marte nel Campo Marzio nel mese di ottobre, quello destro delle bighe vincitrici; la sua testa soleva essere oggetto di una contesa non di poco conto tra gli abitanti della Suburra e quelli della Via Sacra, perché l’affiggessero questi sul muro della reggia, quelli sulla torre Mamilia; e la sua coda viene portata nella reggia con tale velocità in modo che il sangue goccioli nel fuoco al fine di godere del favore divino; alcuni dicono che il cavallo viene consacrato come vittima a Marte dio della guerra non, come il popolo crede, perché da esso si compia il sacrificio, ma poiché i Romani sono oriundi di Ilio e i Troiani sarebbero stati presi dall’immagine di un cavallo.  Che poi il cavallo presso molte genti sia tenuto nel novero delle vittime sacrificali lo testimoniano gli Spartani che sul monte Taigeto immolano un cavallo ai venti e lì lo bruciano in modo che col loro soffio la sua cenere si sparga quanto più ampiamente è possibile per i territori. E i Salentini, presso i quali un cavallo consacrato a Giove Menzana viene gettato vivo nel fuoco e gli abitanti di Rodi che ogni anno gettano in mare le quadrighe consacrate al sole perché si dice che da queste il mondo è portato in giro con tale corsa).

Dopo la lettura, almeno credo, di questi due brani (il secondo, presente in un manoscritto delle Biblioteca Farnesiana, probabilmente è il brano festiano originale sintetizzato nel precedente da Paolo Diacono) cosa fa il professore Campana? Giove Menzana – dice – dovrebbe essere l’antica divinità femminile dei cavalli e proprio a Menzana Pluvio i Messapi, nel mese di ottobre, bruciavano un cavallo vivo nel fuoco.

Saldando malamente quanto arbitrariamente le due testimonianze, il sacrificio ottobrino del cavallo a Marte viene attribuito a Giove Menzana che, non si sa in base a che cosa, viene assimilato a Giove Pluvio e diventa, così, Menzana Pluvio, divinità indispensabile per completare l’ipotesi che a questo punto chiama in causa la seconda fonte13. Prima di passarvi, però, debbo far notare  Hippios presentato come una misteriosa divinità micenea dalle abitudini sessuali particolari (finché non viene citata la fonte non ci credo, anche se questi dei erano capaci di tutto; d’altra parte, che dei sarebbero stati?). Hippios è semplicemente l’epiteto di diverse divinità, tra cui spicca Poseidone (ma non Zeus/Giove), che notoriamente ha a che fare con l’acqua e con il cavallo …

2) Pausania (II secolo d. C.), Graeciae descriptio, VIII, 10, 2: Παρὰ δὲ τοῦ ὄρους τὰ ἔσχατα τοῦ Ποσειδῶνός ἐστι τοῦ Ἱππίου τὸ ἱερόν, οὐ πρόσω σταδίου Μαντινείας (Ai piedi dei monti vi è il tempio di Poseidone Hippio, non lontano dallo stadio di Mantinea); VIII, 14, 5: Καὶ Ποσειδῶν χαλκοῦς ἕστηκεν ἐπωνυμίαν Ἵππιος, ἀναθεῖναι δὲ τὸ ἄγαλμα τοῦ Ποσειδῶνος Ὀδυσσέα ἔφασαν· ἀπολέσθαι γὰρ ἵππους τῷ Ὀδυσσεῖ, καὶ αὐτὸν γῆν τὴν Ἑλλάδα κατὰ ζήτησιν ἐπιόντα τῶν ἵππων ἱδρύσασθαι μὲν ἱερὸν ἐνταῦθα Ἀρτέμιδος καὶ Εὑρίππαν ὀνομάσαι τὴν θεόν, ἔνθα τῆς Φενεατικῆς χώρας εὗρε τὰς ἵππους, ἀναθεῖναι δὲ καὶ τοῦ Ποσειδῶνος τὸ ἄγαλμα τοῦ Ἱππίου (Dicono che Ulisse pose la statua di Poseidone, che cavalli erano stati perduti da Ulisse e che egli, dopo aver percorso tutta la Grecia alla ricerca dei cavalli, innalzò un tempio di Artemide, e chiamò la dea Eurippa, in quella parte della regione feneatica in cui aveva trovato i cavalli e che innalzò anche una statua di Poseidone Hippio); VIII, 25, 7: Τὴν δὲ Δήμητρα τεκεῖν φασιν ἐκ τοῦ Ποσειδῶνος θυγατέρα, ἧς τὸ ὄνομα ἐς ἀτελέστους λέγειν οὐ νομίζουσι, καὶ ἵππον τὸν Ἀρείονα· ἐπὶ τούτῳ δὲ παρὰ σφίσιν Ἀρκάδων πρώτοις Ἵππιον Ποσειδῶνα ὀνομασθῆναι (Dicono che Demetra generò da Poseidone una figlia il cui nome ritengono da non dirsi in presenza di non iniziati, e il cavallo Arione; e che per questo Poseidone fu chiamato Hippio da loro per primi tra gli Arcadi);    VIII, 25, 5: Πλανωμένῃ γὰρ τῇ Δήμητρι, ἡνίκα τὴν παῖδα ἐζήτει, λέγουσιν ἕπεσθαί οἱ τὸν Ποσειδῶνα ἐπιθυμοῦντα αὐτῇ μιχθῆναι, καὶ τὴν μὲν ἐς ἵππον μεταβαλοῦσαν ὁμοῦ ταῖς ἵπποις νέμεσθαι ταῖς Ὀγκίου, Ποσειδῶν δὲ συνίησεν ἀπατώμενος καὶ συγγίνεται τῇ Δήμητρι ἄρσενι ἵππῳ καὶ αὐτὸς εἰκασθείς (Dicono che Poseidone inseguiva Demetra, che vagava in cerca della figlia, desiderando accoppiarsi con lei e che essa trasformatasi in cavalla si nascose tra i cavalli di Onchio;  Poseidone però si accorse di essere stato ingannato e si accoppiò con Demetra dopo aver assunto le sembianze di un cavallo); VIII, 42, 1-5: Ὅσα μὲν δὴ οἱ ἐν Θελπούσῃ λέγουσιν ἐς μῖξιν τὴν Ποσειδῶνός τε καὶ Δήμητρος, κατὰ ταὐτά σφισιν οἱ Φιγαλεῖς νομίζουσι, τεχθῆναι δὲ ὑπὸ τῆς Δήμητρος οἱ Φιγαλεῖς φασιν οὐχ ἵππον ἀλλὰ τὴν Δέσποιναν ἐπονομαζομένην ὑπὸ Ἀρκάδων· τὸ δὲ ἀπὸ τούτου λέγουσι θυμῷ τε ἅμα ἐς τὸν Ποσειδῶνα αὐτὴν καὶ ἐπὶ τῆς Περσεφόνης τῇ ἁρπαγῇ πένθει χρωμένην μέλαιναν ἐσθῆτα ἐνδῦναι καὶ ἐς τὸ σπήλαιον τοῦτο ἐλθοῦσαν ἐπὶ χρόνον ἀπεῖναι πολύν. Ὡς δὲ ἐφθείρετο μὲν πάντα ὅσα ἡ γῆ τρέφει, τὸ δὲ ἀνθρώπων γένος καὶ ἐς πλέον ἀπώλλυτο ὑπὸ τοῦ λιμοῦ, θεῶν μὲν ἄλλων ἠπίστατο ἄρα οὐδεὶς ἔνθα ἀπεκέκρυπτο ἡ Δημήτηρ, τὸν δὲ Πᾶνα ἐπιέναι μὲν τὴν Ἀρκαδίαν καὶ ἄλλοτε αὐτὸν ἐν ἄλλῳ θηρεύειν τῶν ὀρῶν, ἀφικόμενον δὲ καὶ πρὸς τὸ Ἐλάιον κατοπτεῦσαι τὴν Δήμητρα σχήματός τε ὡς εἶχε καὶ ἐσθῆτα ἐνεδέδυτο ποίαν· πυθέσθαι δὴ τὸν Δία ταῦτα παρὰ τοῦ Πανὸς καὶ οὕτως ὑπ᾽ αὐτοῦ πεμφθῆναι τὰς Μοίρας παρὰ τὴν Δήμητρα, τὴν δὲ πεισθῆναί τε ταῖς Μοίραις καὶ ἀποθέσθαι μὲν τὴν ὀργήν, ὑφεῖναι δὲ καὶ τῆς λύπης. Σφᾶς δὲ ἀντὶ τούτων φασὶν οἱ Φιγαλεῖς τό τε σπήλαιον νομίσαι τοῦτο ἱερὸν Δήμητρος καὶ ἐς αὐτὸ ἄγαλμα ἀναθεῖναι ξύλου. Πεποιῆσθαι δὲ οὕτω σφίσι τὸ ἄγαλμα καθέζεσθαι μὲν ἐπὶ πέτρᾳ, γυναικὶ δὲ ἐοικέναι τἄλλα πλὴν κεφαλήν· κεφαλὴν δὲ καὶ κόμην εἶχεν ἵππου, καὶ δρακόντων τε καὶ ἄλλων θηρίων εἰκόνες προσεπεφύκεσαν τῇ κεφαλῇ· χιτῶνα δὲ ἐνεδέδυτο καὶ ἐς ἄκρους τοὺς πόδας· δελφὶς δὲ ἐπὶ τῆς χειρὸς ἦν αὐτῇ, περιστερὰ δὲ ἡ ὄρνις ἐπὶ τῇ ἑτέρᾳ. Ἐφ᾽ ὅτῳ μὲν δὴ τὸ ξόανον ἐποιήσαντο οὕτως, ἀνδρὶ οὐκ ἀσυνέτῳ γνώμην ἀγαθῷ δὲ καὶ τὰ ἐς μνήμην δῆλά ἐστι· Μέλαιναν δὲ ἐπονομάσαι φασὶν αὐτήν, ὅτι καὶ ἡ θεὸς μέλαιναν τὴν ἐσθῆτα εἶχε Τοῦτο μὲν δὴ τὸ ξόανον οὔτε ὅτου ποίημα ἦν οὔτε ἡ φλὸξ τρόπον ὅντινα ἐπέλαβεν αὐτό, μνημονεύουσιν· ἀφανισθέντος δὲ τοῦ ἀρχαίου Φιγαλεῖς οὔτε ἄγαλμα ἄλλο ἀπεδίδοσαν τῇ θεῷ καὶ ὁπόσα ἐς ἑορτὰς καὶ θυσίας τὰ πολλὰ δὴ παρῶπτό σφισιν, ἐς ὃ ἡ ἀκαρπία ἐπιλαμβάνει τὴν γῆν· καὶ ἱκετεύσασιν αὐτοῖς χρᾷ τάδε ἡ Πυθία· “Ἀρκάδες Ἀζᾶνες βαλανηφάγοι, οἳ Φιγάλειαν/νάσσασθ᾽, ἱππολεχοῦς Δῃοῦς κρυπτήριον ἄντρον,/ἥκετε πευσόμενοι λιμοῦ λύσιν ἀλγινόεντος,/μοῦνοι δὶς νομάδες, μοῦνοι πάλιν ἀγριοδαῖται./Δῃὼ μέν σε ἔπαυσε νομῆς, Δῃὼ …(Tutto quello che dicono gli abitanti di Thelpusa circa l’unione di Poseidone e Demetra lo ritengono accettabile gli abitanti di Figalea, ma questi ultimo dicono che da Demetra fu generato non un cavallo ma la dea chiamata Padrona dagli abitanti dell’Arcadia; dopo questo dicono che, presa dall’ira contro Poseidone e dal dolore in seguito al rapimento di Persefone, indossò una veste nera e ritiratasi in questa spelonca fu assente dal cielo per lungo tempo. Così tutto ciò che la terra produce deperiva e pure il genere umano in gran parte moriva per la fame senza che nessuno degli altri dei sapesse dove Demetra si nascondeva; ma che Pan venne in Arcadia e, lì cacciando ora su un monte ora su un altro, giunto vicino all’Elaio riconobbe Demetra sotto l’aspetto e il vestito che aveva indossato, che Giove seppe ciò da Pan e così da lui furono inviate le Moire e queste placarono lira e allontanarono il dolore. Per questo gli abitanti di Figalea dicono di considerare sacro quest’antro di Demetra e di avervi posto una statua di legno. Dicono che da loro era stata raffigurata seduta su una pietra e che somigliava in tutto ad una donna eccetto la testa; che aveva la testa e la chioma di una cavalla e che immagini di serpenti e di altri animali feroci le uscivano dalla testa, che indossava una tunica che le arrivava ai piedi. Aveva un delfino su una mano, una colomba sull’altra. È chiaro a qualsiasi uomo che abbia un minimo d’intelligenza e di memoria perché la statua era stata fatta così: dicono di averla chiamata Nera poiché anche la dea aveva un vestito nero. Non ricordano di chi fosse opera né come il fuoco la distrusse. Distrutta l’antica statua, gli abitanti di Figalea non ne dedicarono un’altra alla dea e venne trascurato da loro  quanto riguardava le feste e i sacrifici, per cui l’infertilità assalì la terra; e ad essi che avevano consultato l’oracolo questa fu la risposta della Pizia: “Abitanti Arcadi di Azania mangiatori di ghiande, che abitate Filagea, antro nascosto della divinità mutata in cavalla, venite a domandare la fine della fame che vi tormenta, solo due volte nomadi, solo per la seconda volta ridotti a nutrirvi di frutti selvatici. Demetra ti ha tolto il pascolo, Demetra …).

Come andò a finire? Naturalmente, ripristinato il culto per Demetra, la carestia cessò.

Ho detto che l’attributo Ippios ricorre per molte divinità e in modo particolare per Poseidone. Ad onor del vero ci sarebbe pure un Giove Ippio (Ζεῦϛ Ἵππιος), dubbio per due motivi, in Esichio di Mileto (V-VI secolo d. C.), autore di una Storia universale. Il primo dubbio è legato al modo in cui ci è giunto il testo di Esichio che appare come una sua elaborazione fatta da Giorgio Codino, scrittore bizantino del XV secolo col titolo Πάτρια Κωνσταντινουπόλεως κατὰ Ἡσύχιον Ἲλλούστριον (Costumi di Costantinopoli secondo Esichio l’Illustre). Cito il testo originale da Corpus historiae Byzantinae a cura di G. B. Niebhur, Weber, Bonn, 1843, p. 12:  Παυσαμένης δὲ τῆς ὀργῆς τοῦ Σεβήρου αὖθις τοῦτον ἔσχον εἰς βασιλέα, ὅς καὶ εἰς μείζονα καὶ περιφανῆ κόσμον ἐπανήγαγε τὸ Βυζάντιον. Λουτρὸν μὲν μέγιστον κατὰ τὸν τοῦ ἱππίου Διὸς βωμόν, ἤτοι τὸ Ἡρακλέους καλούμενον ἄλςος, ἀνήγειρεν, ἔνθα δὴ καὶ τὰς Διομήδους δαμάσαντες ἵππους Ζεύξιππον τὸν τόπον ὠνόμασαν (Ebbero questo a vantaggio del regno una volta  cessata l’ira di Severo, il quale pure elevò Bisanzio ad un decoro più grande e visibile da ogni parte. Realizzò infatti un grandissimo bagno presso l’altare di Zeus Ippio e quello chiamato bosco sacro di Eracle, dove pure quelli che avevano domato i cavalli di Diomede chiamarono il luogo Zeuxippo).

Il secondo dubbio è di natura più strettamente filologica ed è legato al toponimo Ζεύξιππον (leggi Zèuxippon) attestato nell’Antologia Palatina (compilazione bizantina risalente alla metà del X secolo) e in particolare inserito nel titolo (Ἔκφρασις τῶν ἀγαλμάτων τῶν εἰς τὸ δημόσιον γυμνάσιον το ἐπικαλουμένον τοῦ Ζευξίππου=descrizione delle statue che ci sono nei pressi del ginnasio pubblico detto di Zeuxippo) di un componimento in esametri di Cristodoro Tebano (sec. V d. C.). In esso nessuna statua di uno Zeus Hippios è registrata presente nel ginnasio e tantomeno descritta; si può immaginare, se veramente Zeuxippo fosse composto da Zeus e hippos che mancasse proprio quella che aveva dato il nome allo stesso ginnasio, mentre sono presenti, tra le divinità, Poseidone, Eracle, Ermes, Artemide, Apollo ed Afrodite (questi ultimi due addirittura con tre statue ciascuno)? E perché Ζεύξιππον e non Ζεύσιππον (leggi Zèusippon)?

Secondo me tutto sta proprio in –ξ– invece di –σ e, siccome tale passaggio non sarebbe giustificato da nessuna regola fonetica, credo che il primo componente non sia Ζεῦϛ ma la radice [ζευγ– (leggi zeug-)] del verbo ζεύγνυμι (leggi zèugniumi)=aggiogare. Ciò è in linea non solo con l’azione operata sui cavalli di Diomede da Eracle ed Abdero ma anche, foneticamente parlando, con formazioni analoghe [ζευξίγαμος (leggi zeuxìgamos)=che unisce in matrimonio; ζευξίλεως (leggi zeuxìleos)=soggiogatore del popolo]. Lo confermano gli onomastici (non teonimi) Ζεύξιππος (leggi Zèuxippos)=Zeusippo e Ζευξίππη (leggi Zeuxìppe)=Zeusippa, attestati, il primo, fra gli altri, in Platone (Protagora, 318 b) e il secondo in Alcmane, 71 ed in Apollodoro, III, 14, 8. Non c’è ombra di dubbio, pure qui, che il primo componente non è certamente Zeus.

Un’altra spia è data dall’assenza di –ι– in Ζεύξιππος e la sua presenza, invece, (mi riferisco alla seconda) in Ἵππιος, che come aggettivo comune deriva dal sostantivo ἵπποϛ (=cavallo) e significa, perciò, equino. Si ripete, cioè, la tecnica di formazione (radice verbale+sostantivo) presente, guarda caso, nell’Εὑρίππα  che poco fa ho citato da Pausania e che è formato da εὑρ– (radice del verbo εὑρίσκω=trovare)+ἵπποϛ (adattato al femminile). Insomma: Εὑρίππα si chiama così con riferimento al ritrovamento dei cavalli, il luogo Ζεύξιππον con riferimento al loro aggiogamento. 

Tenendo conto della cronologia degli autori per questa questione citati non è azzardato supporre che il Codino per salvare capra e cavoli abbia mixato la corretta etimologia esichiana con una paretimologia di epoca posteriore. Credo che questo, unito al riferimento del bagno e del bosco sacro, abbia autorizzato il professor Campana (a meno che non abbia ripreso una tesi altrui) a conferire a Zeus caratteristiche idriche sovrapponendole alle originarie equine.

3) Si tratta di un repertorio di Statuta officiorum (statuto dei doveri), in pratica un elenco di toponimi riferentisi a vari centri di ciascun distretto (iustitiariatus) degli undici, previsti dalle Costituzioni di Melfi ed istituiti dopo la loro emanazione (1231), con annotazione dei soggetti aventi l’obbligo o la facoltà di provvedere al restauro o alla manutenzione delle fortezze regie.   Riporto integralmente in formato immagine per fare più presto, sempre con la mia successiva traduzione13, la parte relativa al giustiziariato di Terra d’Otranto citandola da E. Winkelmann Acta imperii inedita sec. XIII, Verlag der Wagner’Schen Universitats Buchhandlung, Innsbruck, 1880, pp. 773-775:

2

Nomi dei centri fortificati e delle case del giustiziariato imperiale di Terra d’Otranto e nomi delle terre del medesimo giustiziariato, che sono deputate al rifacimento dei centri fortificati e delle case imperiali.

In primo luogo il centro fortificato di Otranto può essere rifatto dagli uomini della medesima città, della chiesa otrantina e delle altre chiese della medesima terra che hanno ivi feudi e dai baroni della medesima terra e dagli uomini e chiese aventi feudi con dignità di centro fortificato.

Il centro fortificato di Lecce dagli uomini di Lecce.

Il centro fortificato di Nardò può essere rifatto dagli uomini della medesima terra e di Cesarea.

Il centro fortificato di Gallipoli deve essere rifatto dai baroni di Nardò, dall’abate di Nardò con il feudo di Soleto e di Ugento, e della chiesa di Ugento, che hanno feudi e casali della stessa terra e gli uomini di Gallipoli possono rifare con gli stessi il centro fortificato.

Il centro fortificato di Brindisi deve essere rifatto dagli uomini del casale di San Pietro di Ypsale, del casale di Campi, di San Vito e dagli uomini di Brindisi e delle chiese che hanno feudi in Brindisi e dal feudo di Ruggero di Mayfino e gli uomini di Lecce e delle chiese della medesima terra che hanno feudi in Lecce possono rifare il medesimo centro fortificato insieme con i predetti.

Il centro fortificato di Mesagne può essere rifatto dagli uomini della medesima terra.

Il centro fortificato di Oria deve essere rifatto dai sottoscritti uomini per motivi precisi, cioè il feudo di don Ioto de Divente deve dare per il rifacimento dello stesso centro abitato cento moggi di calce e venti travi, il feudo di donna Claricia cinquanta moggi di calce e trenta travi, l’abate di S. Andrea cento moggi di calce e trenta travi, dal possedimento di Oria il vescovo di Ostuni cinquanta moggi di calce e dieci travi, il vescovo di Lecce venti moggi di calce e cinque travi, il vescovo di Ugento trenta moggi di calce e dieci travi, Roberto di Mostacia cinquanta moggi di calce e trenta travi, l’abate di Vaniolo venti moggi di calce e cinque travi, Ugo di Lucone quaranta moggi di calce e dieci travi, don Ruggero cinquanta moggi di calce e venti travi, Oliviero Grimmamala centocinquanta moggi di calce e cinquanta travi, Stefano Pagano di Benevento cento moggi di calce e cinquanta travi, l’arciprete di Oria duecento moggi di calce e sessanta travi, Leone di Palagana venti moggi di calce e due travi, Adenolfo di Aquino cinquanta moggi di calce e venti travi, donna Dyatimia moglie di Ruggero di Flandines deve dare la calce e le travi per il possedimento di Oria, il priore di Santa Cecilia cinque moggi di calce  e due travi, Ruggero Scannacavallo quaranta moggi di calce e dieci travi, S. Maria di Grana cinque moggi di calce e due travi, Ceglie e Gualda centocinquanta moggi di calce e cento travi, il priore di Casavecchia cento moggi di calce e cinquanta travi, Potente cinquanta moggi di calce e venti travi. E il resto del medesimo centro fortificato possono restaurarlo e rifarlo gli uomini di Oria. Il centro fortificato di Ostuni può essere rifatto dagli uomini di Ostuni, Carovigno e Petrella. Il centro fortificato di Taranto deve essere rifatto dagli uomini sottoscritti per motivi precisi, cioè la sala grande la debbono fare ed allestire gli uomini di Taranto dal demanio del signor imperatore, gli uomini di Castelluccio e di Mottola debbono rifare il giro nel prospetto e coprire sette canne. Nella sala del principe sono necessarie quattro travi, otto capriate e una delle sale dev’essere impalcata e dev’essere impalcato il portico davanti alle medesime sale, cosa che deve fare l’arcivescato. Sul barbacane dalla parte del grande muro un’apertura alla base di cinque canne e sopra un’apertura dall’angolo del muro di cinque canne, il che deve fare il priore di Franganone e il priore di S. Ronzo e deve fare la parte mediana e l’abate di Tripiano deve dargli l’ausilio di undici salme di calce. Le quattro torri, che sono dalla parte della città, sono da lastricare e in esse devono essere fatte scale di legno e la parte esterna del muro dev’essere fatta di pietre e dev’essere cementata, il che debbono fare gli uomini di Taranto. La torre che è sopra la grande porta del castello la deve allestire Guglielmo Maletto, nonché il ponte e il parapetto che è da una parte e dall’altra della stessa torre. La porta di S. Benedetto de Caveis deve farla il priore del casale Ruito, al quale il priore di Asano deve dare l’aiuto di venti salme di calce. La porta di Celo la devono fare gli abati dell’Isola grande e piccola e gli uomini di Murugliano debbono aiutarli e il priore di S. Pietro Imperiale deve fare la metà della stessa porta e deve avere l’aiuto degli affidatari di Lanzano. La torre della torre di Pilato la deve fare Lando di Aquino e deve rifare il muro dritto che è presso la stessa torre. Guglielmo Maletto deve porre in alto nella cappella di Santa Maria cinque travi e sopra le stesse fare il pavimento. E il resto del medesimo centro fortificato lo possono rifare gli uomini di Taranto. Il centro fortificato di Massafra può essere rifatto dagli uomini della medesima terra e dagli uomini che la chiesa di Moculo ha a Massafra e dai baroni di Massafra. Il centro fortificato di Moculo può essere rifatto dagli uomini della medesima terra e dagli uomini che la chiesa di Moculo ha a Moculo e dai baroni di Moculo. La casa del signor imperatore che è a Castelluccio può essere rifatta dagli uomini della medesima terra e dagli uomini del casale di Palagiano. Il centro fortificato di Ienusa può essere approntato dagli uomini della medesima terra e dagli uomini di Laterza. Il centro fortificato di Matera può essere approntato dagli uomini del corpo della città di Matera e di Sasso Barisano della medesima terra. La casa di Girofalco può essere rifatta dagli uomini di Sasso Carioso di Matera e dai Saraceni del casale di San Iacopo.

Punti cardine del testo latino sono quattro verbi, dei quali gli ultimi tre riassumono quella che oggi è chiamata manutenzione ordinaria e straordinaria: facere  (=fare), riservato alla realizzazione di parti prima inesistenti; reparare (=riparare); reficere (=rifare, ripristinare, restaurare); preparare=organizzare l’esecuzione dei lavori. Colpisce anche la descrizione dettagliata di alcuni interventi, di chi deve fornire i materiali (sostanzialmente calce e travi) e in quale quantità. Tutti gli interventi, comunque, riguardano fabbriche dell’imperatore che costituiscono il cuore del castrum, ribadisco castrum e non castellum14. Ecco, allora, la seconda disinvolta forzatura: si passa dal castrum Meyani di questo documento al  castrum mezzaneum (che in realtà compare nel diploma del 1221 di cui parlerò fra pochissimo) perché mezzaneum (dopo un’ulteriore capriola che, con l’assimilazione, arbitraria, di castrum a castellum, ha dato vita a castella Menzanae)  si mostra più adatto per la messa in campo, dopo Giove Menzana,  della menza o minzana.

Su quest’ultima mi riservo di tornare per la botta finale. Intanto sottolineo come nel repertorio appena analizzato alcuni lavori, certamente meno importanti del rifacimento o della non distruzione di un castellum (inteso come serbatoio), sono descritti dettagliatamente per altri castra che non siano Mesagne. Vista l’importanza di immagine (con tutti i connessi aspetti politici, strategici , propagandistici) che una qualsiasi struttura idrica (naturale o artificiale che fosse) poteva avere, come pure, questa volta giustamente, sottolinea il Campana, è mai pensabile che tale dettaglio potesse essere omesso?

In realtà la possibilità di reparatio concessa a castrum Meyani è frutto di un calcolo politico, magari già maturato in occasione della promulgazione delle Costituzioni di Capua e che nella fattispecie trova la sua attuazione appena un anno dopo in diploma emesso a Taranto nell’aprile 1221 (custodito nell’Archivio di Stato di Napoli, del quale riporto i brani che ci interessano da Historia diplomatica Friderici Secundi, a cura di J. L. A. Huillard-Bréholles,Fratelli Plon, Parigi, 1852, tomo II, parte I, pagg. 163-165). Con questo diploma l’imperatore Federico ripristina un privilegio già concesso ai cavalieri Teutonici da suo padre Enrico VI: …  quod predictus dominus pater noster pia liberalitate concesserat et donaverat eidem domui Mezzaneum castrum, videlicet in terra Ydronti, quod est inter Brundisium et Oriam cum omnibus justis tenimentis et pertinentiis suis, et quod priuvilegium imperatoris ejusdem adveniente casu fuerat amissum, tempore videlicet quo Brundusini contra eamdem domum insultum temerarium facientes in ipsam et bona ejus nequiter et rapaciter irruerunt, intuitu retributionis eterne et pro remedio animarum divorum augustorum parentum nostrorum volentes quod idem imperator fecerat de liberalitate munifica innovare, castrum [……] cum omnibus justis tenimentis et pertinentiis suis eidem domui hospitalis et fratribus supradictis donamus, concedimus et in perpetuum confirmamus … (il luogo fortificato di Mesagne che il predetto padre nostro con pia generosità aveva concesso e donato alla medesima casa, cioè in terra d’Otranto, quello che si trova fra Brindisi ed Oria con tutti i suoi possedimenti e le sue pertinenze, privilegio del medesimo imperatore che era stato perduto per sopraggiunte vicende, cioè nel tempo in cui i Brindisini facendo un temerario attacco contro la medesima casa si scagliarono ingiustamente e rapacemente contro di essa ed i suoi beni, con l’intento di eterna ricompensa e a suffragio delle anime dei nostri divini augusti genitori, cosa che lo stesso imperatore aveva fatto istituire con munifica liberalità, doniamo, concediamo e confermiamo in perpetuo alla stessa casa dell’ospedale e ai suddetti frati il luogo fortificato [….] con tutti i suoi giusti possedimenti e pertinenze …).

Appare evidente che solo un pazzo autolesionista e con nessuna vocazione politica avrebbe potuto ordinare la distruzione di un bene che aveva intenzione di donare (non certo o, almeno, non solo per suffragio delle anime di un genitore per quanto augusto …) e che, dunque, la possibile reparatio dell’atto precedente riguarda senza dubbio alcuno il castrum Meyani (qui castrum Mezzaneum) e non i fantomatici castella Mezzanae.

Non commento la banalità di Non è tutto, poiché gli studenti spiegano che in una radura al centro di un bosco sacro (locus), vicino ad una sorgente d’acqua, gli antenati officiavano i loro riti per propiziarsi la divinità e voglio attribuirla al maldestro intervistatore, come attribuisco pure a lui Temené per Temène (per chi non conosce il greco: significa recinti sacri).   

Tornando agli autori dell’ipotesi (e continuo a limitarmi al solo recipiente perché mi occuperò dell’etimo di Mesagne solo se questo post susciterà qualche interesse o, meglio, qualche rabbiosa reazione …) : pretendere, poi, che Menzana abbia dato origine a minza e minzana sarebbe come dire, per restare in loco, che castello deriva da castellana e non viceversa.

Sarebbe bastata questa considerazione [al di là delle incongruenze di carattere metodologico che ho appena finito di provare e pure al di là del fatto, anch’esso di natura linguistica, che concordemente si considera menzana forma aggettivale dell’illirico *menza/mandia (cfr. albanese mes/mezi=muletto, mezat=torello, mezore=vitella; la continuazione nel latino mannus15 (da *mandus)=puledro e nel diminutivo mànnulus16] a distogliere dal formulare l’ipotesi di lavoro e, addirittura, ufficializzarla in un convegno. Non so quali siano state le reazioni di altri addetti ai lavori o presunti tali. So solo che quest’ipotesi non poteva non trovare accoglimento, dopo aver subito un’ulteriore mutazione in dato certo, da parte di una persona di mia conoscenza adusa alla latitanza delle fonti ed a collage di ogni tipo, in un improbabile quanto confuso e ricorrente (per usare due eufemismi …) sincretismo di forze naturali e non;  ma,  perché egli ne abbia contezza, propongo per brevità al lettore interessato ad un controllo, nel mentre mi scuso con gli altri per aver fatto, probabilmente, già perdere loro troppo tempo, il link http://www.iltaccoditalia.info/sito/index-a.asp?id=24755.

Vi troverà il povero Iuppiter Menzana (per quanto s’è detto Giove signore del cavallo) diventato nel Campana Menzana Pluvius (signore del cavallo propiziatore della pioggia), che ha subito un imprevisto cambiamento di sesso, cui allude il nuovo nome Menzana pluvium (Pluvius è di genere maschile, pluvium di genere neutro e neppure sotto tortura potrebbe accordarsi con Menzana che neutro non è, nonostante i variabili gusti sessuali degli dei pagani …); siccome, poi, le varianti, soprattutto quelle inventate, fanno comodo, ecco comparire Minzana pluvium in http://mobile.virgilio.it/micro/canali/search/dettaglio.jsp?nsid=41029690&ncid=00&qrs=magia+rituale&ofsp_back=0&eng_back=3&fromhp=yes

Infine, per chi, non pago, non volesse farsi mancare proprio nulla (tra l’altro il carattere prezioso di tutti i contributi segnalati in questo gran finale è dimostrato dal fatto che essi appaiono, postati da chi? …,  in un numero considerevole di altri links): http://www.frequency.com/video/campane-salentine-minzana-pluvium-giove/23070372.

__________

1 Per la capasa ed altri contenitori in terracotta vedi: https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/03/capasone-e-il-capofamiglia-capasa-la-mamma-capasieddhu-il-figlio/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/11/12/a-proposito-di-cumitati-ecco-le-terracotte-salentine/

2 Quod annis per quotannis.

3 Per victricium.

4 Per figerent.

5 Per cauda.

6 Per tanta.

7 Per oriundi.

8 Per equi.

9 Per apud.

10 Per conicitur.

11 Per Rhodii

12 Per his.

13 Finché non sarò smentito riterrò il periodo conclusivo attribuito al professor Campana Probabilmente lo stesso Federico II quando nel 1220 promulgava “le Costituzioni di Capua” con una famosa bolla parlava di non abbattere “castrum mezzaneum” riferendosi proprio a “castella Menzanae” cioè ai serbatoi dell’acqua presenti nel suburbio di Mesagne, pertanto parlava, probabilmente, della necessità di sistemare i serbatoi sotterranei dell’Acquaro così utili non solo alla sussistenza umana, ma anche prezioso elemento di celebrazione del potere imperiale una trascrizione passiva e strumentale di quanto si legge in Domenico Urgesi, Il castello di Mesagne nelle fonti storiche e documentarie, Mesagne, Flash, 1998: … il castrum (o la rocca) di Mesagne viene menzionato in un documento federiciano del 1220 [non so in base a che viene recuperata questa data, visto il range temporale ascritto al repertorio] sul quale non pesa alcun’ombra di dubbio; in esso si dice che: Castrum Mejanii [ovvero Meyani] reparari potest per homines eiusdem terre. Nel momento in cui Federico II emanava le Costituzioni di Capua (tese a recuperare al sovrano il suo demanio) e, con esse, ordinava la demolizione di numerosi castelli costruiti durante la sua minore età, quello di Mesagne veniva invece preservato: il castello [la rocca o il semplice luogo fortificato) può essere riparato dagli uomini della sua Terra (e quindi non va distrutto]. Si noti che il termine “castrum” viene utilizzato nei documenti svevi ed angioini, per indicare fortificazioni in cui si insediava solo una guarnigione militare.

Anche qui la definizione di castrum [per la quale l’autore cita in nota E. Sthamer, L’amministrazione dei castelli nel regno di Sicilia sotto Federico II e Carlo I d’Angiò, Adda, Bari, 1995; molto più illuminante, invece, mi pare Jean- Marie Martin, I castelli federiciani nelle città del Mezzogiorno d’Italia, in Castelli e fortezze nelle città italiane e nei centri minoro italiani (secoli XIII-XV), a cura di Francesco Panero e Giuliano Pinto, Centro Internazionale di Ricerca sui Beni Culturali, Cherasco, 2009, pp. 251-269)] mi pare riduttiva, anche alla luce del ripristino di un privilegio riguardante proprio Mezzaneum castrum cum omnibus justis tenimentis et pertinentiis suis contenuto in un diploma del 1221 del quale parlerò poco più avanti.

14 Già nel latino classico (Virgilio, Georgiche III, 475) indica una borgata posta in altura  e in Vitruvio un serbatoio per l’acqua. Questo secondo significato continuerà nel latino medioevale come voce giuridica: ecco come il lemma è trattato nel Glossarium mediae et infimae latinitatis del Du Cange: “Receptaculum quod aquam publicam suscipit, quae ducitur ad aliquod praedium irrigandum, in veteri utriusque Juris vocabulario” (Serbatoio che riceve l’acqua pubblica che viene condotta per irrigare un fondo, in un vecchio vocabolario di entrambi i diritti).

15 Lucrezio (I secolo a. C.), De rerum natura, III, 1062: currit agens mannos ad villam praecipitanter (corre spingendo precipitosamente i puledri verso la fattoria).

16 Plinio il giovane,  (I-II secolo d. C.), Epistulae, IV, 2, 3: Habebat puer mannulos multos et iunctos et solutos (Il fanciullo aveva molti puledrini e legati e liberi).

 

Massimo Quarta. Psicofarboci

farboci invito

PSICOFARBOCI

Personale di Massimo Quarta 

Certamente i Farbo.Nauti di Massimo Quarta derivano dalla visione del cinema SF, genere che ha distribuito idee e suggestioni a molta arte dei nostri tempi. Pensati come personaggi di una saga, i nuovi Farbo.Nauti sono infatti il seguito dei Farbonauti presentati qualche stagione fa […]. Neppure troppo lontani dai manichini di Jake & Dinos Chapman, non sono però così evidentemente malati o contaminati: insomma, anche se il loro aspetto fisico non è così gradevole, neppure si può dire che siano così cattivi e inquietanti.

Su di loro Quarta non dà nessun giudizio, lascia a noi la possibilità di decidere se sarà possibile averci a che fare e in che modo. Massimo Quarta ha preparato una vera e propria serie di episodi sulla vita dei Farbo.Nauti. in un primo tempo li vediamo a casa loro, in qualche costellazione lontana, che svolazzano tranquilli: qui la pittura è molto pop e grafica, persino tranquillizzante (mi ricordano la cromia dei mondi fantastici di Enrico De Paris). Successivamente i Farbo.Nauti preparano l’attacco via cielo alla terra e allora, alzando le nostre teste, vedremo questo strano esercito colorato munito di strani bastoni da rabdomante e torce luminose che stanno per arrivare, a ancora non sappiamo come dovremo comportarci. Luca Beatrice

farboci

Massimo Quarta interroga il presente sullo schermo deformato del fantastico, trasferendo l’esperienza sensibile in un universo di pura invenzione, popolato da umanoidi privi di fisionomia. Il Farbomondo di Massimo Quarta è un meta-luogo, attraversato da forme ellittiche e circolari, da anelli orbitanti e portali ultradimensionali che disegnano psichedeliche texture cromatiche. Tutti gli abitanti di questa dimensione immaginifica, i farbonauti e le loro controparti femminili (le farboline), sono connotati dalla presenza, al centro del volto, di una grande cavità orale, una specie d’incavo labiale o di connettore organico che potrebbe servire per caricare o scaricare ogni genere d’informazione, ma che è evidentemente anche una potente metafora sessuale. Massimo Quarta è forse, tra quelli qui presentati, l’artista più schiettamente chimerico, impegnato com’è nella definizione di un’utopica dimensione parallela, un luogo morbido e accogliente, che egli definisce “non contaminato da immagini mediatiche” e dove, infine, le meraviglie del possibile diventano tangibili eventualità.         Ivan Quaroni

 

farboci1

Da tempo Massimo Quarta frequenta mondi extraterrestri, anzi ormai i suoi alieni, i Farbo.Nauti, sono del tutto inseriti e naturalizzati tra gli umani: come noi vivono, abitano il pianeta, si vestono, hanno corpi simili ai nostri, le nostre abitudini, frequentano i nostri luoghi […]. Si fondono, nell’originalissima figurazione di Quarta e in una pittura di grande qualità, alcuni dei temi più sentiti del nostro tempo: il tema della post-catastrofe, delle identità mutanti, della natura transgenica, dell’ecologia planetaria, dell’invasione degli alieni (o stranieri o extracomunitari)… Il tutto in immagini di grande effetto provocatorio e insieme divertenti, nate da percorsi labirintici della mente, da flussi incontrollati del pensiero. Immagini costruite secondo la logica dell’accumulo e dell’eclettismo, talvolta glamour e patinate, talaltra fumettistiche e pop, affini senza complessi a quelle cinematografiche, televisive, pubblicitarie. Quarta appartiene a quella genìa di artisti che da sempre hanno sognato di rappresentare l’insolito, di dar corpo alla fantasia, di oltrepassare i confini della realtà e viaggiare verso l’altrove. Solo che oggi il termine fantastico si è sostituito con fantascientifico: i mondi lontani sono sempre più vicini, anzi i Farbo.Nauti sono tra noi.                                                      Marina Pizzarelli

 

FarboSpazio

Via Manifattura Tabacchi 16/B  73100 Lecce

 

Inaugurazione: domenica 18 maggio, ore 19.00

Dal 18 maggio all’8 giugno 2014

Orari di apertura: tutti i giorni dalle 09.00 alle 12.00 e dalle 17.00 alle 20.00

Inaugurazione: domenica 18 maggio 2014, ore 19.00 

Catalogo: in galleria

Info: 328.7027609

massimoquartart@gmail.com

www.massimoquarta.net

 

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