Per una storia del presepe. I presepi artistici nel Salento

LA MAGIA DEL PRESEPE DA SAN FRANCESCO AD OGGI 

di Paolo Vincenti

Che Natale sarebbe senza il presepe? Soprattutto nel nostro Meridione, è ancora viva e molto sentita la tradizione di allestire nelle proprie case “o’ presepio”, come lo chiamano a Napoli (come dimenticare quella famosissima scena dell’opera teatrale napoletana “Natale in casa Cupiello”, in cui il grande Eduardo chiede insistentemente al figlio “te piace o’ presepio?”), elemento straordinariamente poetico e romantico, a differenza del più recente albero di Natale, che rimanda all’elemento profano e consumistico della festa. Il presepe è per noi uno dei simboli più cari del periodo natalizio. Storicamente, il merito di avere “inventato” il presepe, viene attribuito a San Francesco il quale si rifece alle sacre rappresentazioni che fin dal primissimo Medioevo venivano inscenate in chiesa durante la liturgia della notte di Natale. Il Santo dei poveri riprodusse la scena della Natività a Greccio, piccolo paesino in provincia di Rieti, nel 1223, secondo la testimonianza di San Bonaventura, con personaggi in carne ed ossa, per rendere più vicino anche alle persone umili e semplici e agli analfabeti, che non potevano leggere le Sacre Scritture, il miracolo della nascita di Gesù.

Molto bella la storia dell’arrivo di San Francesco a Greccio, nel 1209, ancora oggi rievocata nel piccolo paesino montano in provincia di Rieti.

pastorelli in cartapesta leccese

Suggestiva la leggenda della scelta del luogo dove costruire un convento, che venne affidata al tizzone lanciato da un ragazzino, l’incontro di San Francesco con il Signore di Greccio, Giovanni Velita, al quale raccontò di voler rappresentare la nascita di Gesù in una grotta sui Monti Sabini, e quindi l’allestimento del primo presepe vivente della storia, con pastori, Giuseppe, Maria e il Bambino, il bue e l’asinello Il più antico presepe inanimato si deve invece ad Arnolfo di Cambio, che lo scolpì in legno, nel 1289, nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, anche detta “Ad Presepe”, perché conserva i resti della Sacra Culla. Secondo la tradizione, questa Culla sarebbe stata trasportata  da Betlemme a Roma all’epoca di Papa Teodoro I (642-649). L’ usanza  di allestire dei presepi artistici divenne così popolare che presto tante altre chiese vi aderirono. Ognuna creava un proprio presepio particolare ed unico, dove le scene della Natività erano spesso ornate con oro, argento, gioielli e pietre preziose.

Secondo la leggenda, comunque, il Salento vanta un invidiabile primato in fatto di presepi: infatti, il primo presepe artistico del mondo sarebbe stato realizzato a Lecce da San Francesco nel 1222. Il Santo tornava da un viaggio in Oriente e si sarebbe fermato a passare le feste a Lecce. Qui, avrebbe realizzato un presepe artistico con statue in terracotta, un anno prima del “presepe vivente” di Greccio.

Il Salento conserva una tradizione presepiale antichissima. Moltissimi presepi, di tutti i tipi, viventi, artistici, meccanici, piccolissimi ed enormi, sono realizzati in ogni angolo della nostra provincia: nelle chiese, nelle piazze, nelle masserie di campagna, nei “trappeti”, nelle grotte in riva al mare, se non addirittura in fondo al mare. Il termine “presepe”, che vuol dire propriamente “stalla, greppia”, deriva dal latino “praesepium”,  parola composta dal prefisso “prae” che significa “davanti”, e “saepes”, che significa “siepe”, ossia un recinto limitato da una siepe, ad intendere appunto una stalla, o, più specificamente, la “mangiatoia” degli animali, nella quale nacque Gesù. In tutti i presepi sono raffigurati la Madonna, San Giuseppe ed il Bambinello, scaldato dal bue e l’asinello. Fuori dalla grotta, i pastori, vestiti con pelli di agnello, gli zampognari che con le loro cornamuse allietano la fredda nottata, poi il  “guardastelle”, un pastore con lo sguardo rivolto al cielo in cerca della stella cometa.

Un posto d’onore è riservato a  Santu Scilesciu, San Silvestro, un pastore che è sempre raffigurato in ginocchio, con un fagotto sulle spalle che simboleggia l’anno che è trascorso e, quindi, la vicinanza del Capodanno quando, appunto, viene festeggiato San Silvestro.

Poi, i Magi con i loro doni di oro incenso e mirra. Sulla grotta, sono presenti due angeli che reggono un cartiglio con la scritta “Gloria in excelsis Deo”.

Riguardo l’asino e il bue, la leggenda vuole che, nella santa notte, mentre il bue si avvicinò al bambino che aveva freddo per scaldarlo col suo alito, l’asino, invece, stupido e testardo, si mise a ragliare come se fosse estate, impedendo così al bambino di addormentarsi. La Madonna, allora, lo punì, rendendolo rozzo ed ignorante, a differenza del bue che è invece un animale forte ed intelligente.Si deve adOrigene, importante erudito dell’antichità cristiana, aver aggiunto nella grotta le figure del Bue e dell’Asinello.

presepe di Torre Santa Susanna

Se fu San Francesco il primo a dar vita ad una rievocazione della nascita di Gesù, con pastori, bestie e Sacra Famiglia in carne ed ossa, la raffigurazione della Natività ha origini ben più antiche. Infatti, i primi cristiani usavano rappresentare con graffiti la scena della Natività nei loro luoghi di incontri e, successivamente, quando finirono le persecuzioni, anche nelle prime chiese, con rilievi ed affreschi.

L’uso di allestire presepi nelle chiese si diffuse nel Quattrocento, soprattutto nel Regno di Napoli: infatti, molto importante è il presepe di San Giovanni a Carbonara (1484), conservato, sia pure parzialmente, a Napoli, con pregevoli figure lignee.

Ideatore del presepe popolare è invece San Gaetano da Thiene che, nel 1500, immise nel presepe, insieme con i personaggi storici, personaggi secondari, vestiti con gli abiti del tempo, che dovevano fare da contorno alla scena madre della Natività.

Oltre ai francescani, a diffondere la tradizione del presepe furono poi i domenicani e i gesuiti.

Nel Cinquecento,  molti presepi erano allestiti nei conventi romani e, fra questi, particolarmente apprezzato era quello dell’Aracoeli, dove si trovava un Gesù Bambino che un anonimo frate francescano, secondo la tradizione, aveva intagliato direttamente da un tronco d’ulivo del Getsemani, come riferisce il francescano spagnolo Juan Francisco Nuno nel 1581.

Nel Seicento, dalla Toscana e dal Nord Italia, la tradizione si diffuse moltissimo nell’Italia Meridionale e arrivò anche in Campania, in Sicilia, in Molise e in Puglia.

A Napoli, fra i più belli, vi è il presepe che fu realizzato nel Palazzo dei Padri Scolopi e poi, importanti presepi furono realizzati nella Chiesa di Santa Maria in Portico e nella chiesa di San Gregorio Armeno, paese che oggi vanta un indiscusso primato in Italia in fatto di realizzazioni presepiali.

Dopo il 1700, si cominciò ad ammirare il presepe anche fuori delle chiese, nelle case private, e si diffuse l’abitudine di avere nel presepe statuine rappresentanti personaggi appartenenti a tutte le categorie sociali ed anche personaggi contemporanei. In Terra d’Otranto, l’arte presepiale in cartapesta ha avuto una straordinaria fioritura a partire dal Seicento, ma il culto del presepe è molto più antico;  anzi, ormai tutti gli studiosi hanno accertato che questo culto  è antecedente al presepe di Greccio creato da San Francesco nel 1223.

Infatti, in Terra D’Otranto, alla fine del XIII secolo, già questa tradizione è in piena espansione, mentre nelle altre parti d’Italia bisognerà attendere la fine del Quattrocento.

Il culto presepiale salentino si ispirava nella iconografia al modello siriaco, con la Madonna coricata, mentre il modello francescano ha poi proposto la Madonna inginocchiata in adorazione del Figlio.

Gallipoli, chiesa di San Francesco, presepe

Fra i presepi più antichi, in provincia di Lecce, come informa Maurizio Nocera, in un numero di “Il Ponte. Salento- Brianze” (Anno 2004), il presepio del XV secolo, forse il più antico del Salento,  costruito in pietra locale da Stefano da Putignano nella chiesa di San Francesco d’Assisi a Gallipoli Vecchia, e il presepe, pure del XV secolo, costruito da Gabriele Riccardi nel Duomo di Lecce.

Non si possono certamente passare in rassegna tutte le opere esistenti ma accontentiamoci di fare solo un breve excursus fra i maggiori presepi salentini.

Degni di nota sono, a Galatina, nella Basilica di  Santa Caterina d’Alessandria, il  Presepe realizzato da Nuzzo Barba e nella Chiesa del Carmine, il Presepe di Emanuele Manieri del XVIII secolo.

Molto bello è il Presepe della Chiesa del Crocifisso o di San Pasquale, a Parabita, attiguo all’ex Convento degli Alcantarini e confinante con l’attuale Cimitero. Questo presepe, di scuola napoletana, voluto nel XVIII secolo dal Duca di Parabita, Giuseppe Ferrari, fu eseguito in roccia marina e pietra leccese, e le statuine sono per la maggior parte in cartapesta.

A Cutrofiano, molto forte la tradizione dei pupi in terracotta. Nel Museo Comunale della Ceramica si conservano pezzi del presepe del prelato di corte Alemanni e i pupi realizzati dall’artista cutrofianese Vincenzo Galeone, detto Pingisanti.

Nella cripta di Otranto è affrescato il Presepe di Greccio di San Francesco.

A Lecce, si possono citare l’ Altare del Presepe della Chiesa di San Giovanni d’Aymo o del Rosario, opera del barocco leccese, il Presepe allestito dall’Amministrazione Comunale nell’Anfiteatro Romano in Piazza Sant’Oronzo; la  Mostra dei presepi artistici nella pinacoteca francescana del Convento Sant’Antonio a Fulgenzio e le numerose botteghe, sparse nel centro storico, dei maestri pupari; nel Convento dei Teatini, poi, si tiene la Fiera di Santa Lucia, la più importante esposizione di pupi in cartapesta e terracotta dell’Italia Meridionale dopo quella di San Gregorio Armeno a Napoli.

A Squinzano, da segnalare Santa Maria di Cerrate, con il portale del XIII secolo con la raffigurazione della Vergine e dei Magi.

Nel Seicento, quando si diffuse in Terra D’Otranto l’arte presepiale, si crearono tre scuole, cioè quella dei “sammacaleri”, pupari di San Michele, quella dei pastori di Cutrofiano e Ruffano, esperti nella lavorazione della terracotta, e quella dei barbieri leccesi, pupari esperti nella cartapesta.

Copertino, chiesa matrice di S. Maria ad Nives, presepe

ACopertino, presso Santa Maria ad Nives, si può visitare il presepe in pietra fine ‘500-inizio ‘600;  a Corigliano d’Otranto, nella  Chiesa San Nicola, l’ Adorazione dei Magi, tela d’altare del ‘600; a Maglie, l’Arazzo del ‘700 con Natività, donato alla chiesa Matrice da Francesca Capece; a Gallipoli, nella  chiesa di San Francesco, il Presepe di Aurelio Persio da Montescaglioso.

A Salice Salentino, vi è il Presepe in schiuma espansa realizzato da Francesco Spagnolo, tra i più belli d’Italia; a Giuggianello, presso la tenuta “La Cutura”, il presepe con pupi di pezza realizzato da Totò Cezzi;a  Diso, il  Presepe permanente organizzato dall’Associazione culturale  “Diso e futuro”.

Lecce, chiesa di San Giovanni d’Aymo, altare della Natività, particolare

Sempre a Lecce, nella chiesa di San Giovanni Evangelista, l’ “Adorazione dei pastori” di Serafino Elmo.

Per quanto riguarda  la mostra dei pupi che si tiene in occasione della Fiera di Santa Lucia, nel capoluogo salentino, da tempo immemorabile, tutti i pupari leccesi si danno convegno in questa che è per eccellenza la fiera dei pupi, testimoniata già nel XVII secolo da Giulio Cesare Infantino nella sua opera “Lecce Sacra”. La tradizione dei pupari a Lecce è stata in passato veramente rigogliosa. Da una ricerca condotta da Edoardo Foscarini e riportata da Maurizio Nocera ( “Il Ponte. Salento-Brianza” anno 2004) sono venuti fuori i nomi di alcuni pupari leccesi del passato, come Francesco Ingrosso, Ignazio Pietro Sugente, Francesco Calabrese, Vincenzo Oronzo Greco, ecc. Il primo maestro cartapestaio accertato fu Mesciu Chiccu Perdifumu, che modellava le preziose statuette insieme alla moglie Assunta. Questa tradizione, che si rinnova ogni anno in occasione della Fiera di Santa Lucia, è stata molto ben documentata negli ultimi anni da La Fera, storica rivista fondata nel 1984 dal maestro puparo leccese Gino Totaro, che continua le sue pubblicazioni ancora oggi, ad opera di Fulvio Totaro.

Lecce, chiesa di San Giovanni d’Aymo, altare della Natività, particolare

Lo stesso Nocera riferisce poi del bellissimo presepe Gotico di Michele Massari (1902-1954), costruito nel 1947 e ubicato in una delle sale del Castello Carlo V, dove si trovano anche altri importanti presepi leccesi.

Queste mostre ci riportano ad un’altra nota consuetudine di questo periodo, cioè quella dei mercatini di Natale, presenti nei nostri paesi durante il mese di dicembre,  e che, famosi in tutta Europa, sono una tradizione legata ai paesi nordici.

 

Le foto sono della Fondazione Terra d’Otranto.

Ho voglia di malesciana

wilma

di Giuliana Coppola.

Ci sono delle storie che entrano nell’anima e occupano subito un posto che non facilmente abbandoneranno; fanno parte di te, della tua vita, del tuo modo di essere e di pensare; ti danno respiro anche quando pensi che stai per perderlo lungo la strada; riprendi in mano “La Casa del Sale” di Wilma Vedruccio e tu torni a respirare; vai perché è con te la sua scrittura, le sue sillabe, la sue storie; con te anche Idrusa da non  scordare mai.

Dietro di me il “suo” angelo custode; finalmente non mi fa più paura, accompagna i miei passi, non va via se lo faccio arrabbiare; è sereno e sorridente come gioco di metafore e dolcezza di sillabe, appartiene a tutti; sorride, perché, pur nei momenti più difficili, sorride il segno linguistico nelle pagine di Wilma; lei è la maestra delle immagini che si concretizzano in parole, di segni che generano significati e intanto mantengono leggerezza di muschio su pietra.

“ La luce della luna sulla superficie del mare, un firmamento tra le onde”, un cielo che si capovolge per specchiarsi o forse immergersi sono un miracolo di prosa lirica che cattura arcobaleni e ragnatele e d’un tratto ho voglia anch’io di intrecciare sillabe, spago, paglie, fiori zagareddhe, ho voglia di racchiudermi in un profumo di erbe selvatiche e fieno, di ginestrini in fiore. Per sinestesia lo vedo il giallo delle ginestre e lo sento il profumo, un regalo da parola a parola, da immagine ad immagine; ho voglia della Gianna e della Rossa, ho voglia di malesciana, di perdermi in pleniluni e nel volo d’una coccinella, chè non si perda in me il senso di quella mano e quel sorriso di copertina; ho pensato a lungo a questa immagine, nostalgia di granelli di sabbia; ne ho pieno un pugno e loro scivolano via, piano con il ritmo che io imprimo alla loro danza nel vento; ho nostalgia di valle degli Olmi e di canto di sirena su statale 16. Tota pulchra è Maria, e forse un giorno anche Maria sarà stata sirena.

Mano chiusa per ragnatele di arcobaleni e di pensieri, per “grumi di memoria”, già, ma anche e soprattutto per grumi di speranze e di sogni concreti, da realizzare belli come quinta sinfonia di Mahler che è musica dell’anima e di scrittura in quest’altro Salento che non lascerò più andare ora che l’ho scoperto nelle lucide, misurate, calibrate pagine di Wilma che non conoscono refusi.

Ordina le nostre pubblicazioni

copertinadelfino bassa risoluzione

Il delfino e la mezzaluna n°1 – 2012

contributo di Euro 15,00 (comprese spese di spedizione)*

Il Delfino e la Mezzaluna per la Fondazione Terra d’Otranto

Ordina


copertina 02

Il delfino e la mezzaluna n°2 – 2013

contributo di Euro 15,00 (comprese spese di spedizione)*

Il Delfino e la Mezzaluna per la Fondazione Terra d’Otranto

Ordina


copertina 03

Il delfino e la mezzaluna n°3 – 2014

contributo di Euro 15,00 (comprese spese di spedizione)*

Il Delfino e la Mezzaluna per la Fondazione Terra d’Otranto

Ordina


 

copertina 03

La Cattedrale di Nardò – 2012

contributo di Euro 2,50 (comprese spese di spedizione)*

La Cattedrale di Nardò

Ordina


 

copertina 03

Pietro Marti (1863-1933) Cultura e Giornalismo in Terra d’Otranto, Fondazione Terra d’Otranto – 2013

contributo di Euro 13,00 (comprese spese di spedizione)*

Pietro Marti (1863-1933) Cultura e Giornalismo in Terra d’Otranto, Fondazione Terra d’Otranto

Ordina


 

copertina 03

Gli argenti della Cattedrale di Nardò

contributo di Euro 25,00 (comprese spese di spedizione)*

Gli argenti della Cattedrale di Nardò

Ordina


 

copertina 03

Salvatore Napoli Leone. Genio in Terra d’Otranto

contributo di Euro 30,00 (comprese spese di spedizione)*

Salvatore Napoli Leone. Genio in Terra d’Otranto

Ordina


 

copertina 03

La chiesa e la confraternita di San Giuseppe a Nardò

contributo di Euro 20,00 (comprese spese di spedizione)*

La chiesa e la confraternita di San Giuseppe a Nardò

Ordina


 

copertina 03

Ortelle e dintorni. Giorgio Cretì e i suoi Pòppiti

contributo di Euro 22,00 (comprese spese di spedizione)*

Ortelle e dintorni. Giorgio Cretì e i suoi Pòppiti

Ordina


 

copertina 03

Sancta Maria de Nerito. Arte e devozione nella Cattedrale di Nardò (1413-2013)

contributo di Euro 40,00 (comprese spese di spedizione)*

Sancta Maria de Nerito. Arte e devozione nella Cattedrale di Nardò (1413-2013)

Ordina


* la Fondazione reinveste il tuo contributo per altre edizioni a stampa dedicate alla Terra d’Otranto.

Quando “Paisiello” diventava simpaticamente “Paesiello”, ma eravamo ancora un paese serio … (6/6)

di Armando Polito

Ecco l’epicedio di Gabriele Rossetti momentaneamente lasciato in sospeso,con l’aggiunta di qualche mia nota esplicativa.

Per concludere: il mancato Paisiello (che coinvolge un 20% dei documenti che ho potuto esaminare) è venialissimo se confrontato con altri errori di scrittura ben più gravi proliferanti nei nostri tempi, in cui, fra l’altro il paradosso della moneta o del francobollo sbagliato si è esteso all’uomo sbagliato che occupa un posto di potere e che, nonostante gli errori o i risultati deludenti, continua imperterrito ad occupare quel posto in attesa che con un provvedimento sofferto (!) venga trasferito ad altro incarico, naturalmente più importante e, male che vada, altrettanto remunerativo …

Così questa gentaglia, militante ormai da troppo tempo sotto una comune bandiera di un unico colore che meglio di me potrebbe definire un esperto di svuotamento di pozzi neri, ci sta riducendo con le pezze al culo (il nostro), ma è da ascrivere a nostra altrettanto grave colpa (in molti casi essa rasenta la connivenza se non la complicità …) il nostro ritardo nel mandarli via a calci nel culo, il loro …

E c’è chi ancora blatera di gufi (chissà che metterà in campo il prossimo …) fingendo di non vedere le arpie …

Mi auguro, se dell’anniversario celebrazione ci sarà, che la commissione sia formata questa volta da persone competenti, tra le quali non ho certo la presunzione di annoverarmi e non solo perché a quella data potrei non esserci.

Nel frattempo Nerino, il mio gatto, ha elaborato a modo suo due schede che non hanno trovato ospitalità in questo lavoro. Eccole di seguito, tratte, rispettivamente, da https://archive.org/details/scopascopaduetti00pais e da http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ACB0007_MSM_0178203.

Speriamo che, quando e se sarà, il suo suggerimento non venga preso in considerazione, anche se farebbe impallidire la recente Eutopia leccese …

 

(FINE)

per la prima partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/14/quando-paisiello-diventava-simpaticamente-paesiello-e-non-solo-ma-eravamo-ancora-un-paese-serio-16/

per la seconda parte https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/17/quando-paisiello-diventava-simpaticamente-paesiello-ma-eravamo-ancora-un-paese-serio-26/

per la terza partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/18/quando-paisiello-diventava-simpaticamente-paesiello-ma-eravamo-ancora-un-paese-serio-36/

per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/19/quando-paisiello-diventava-simpaticamente-paesiello-ma-eravamo-ancora-un-paese-serio-46/

per la quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/21/quando-paisiello-diventava-simpaticamente-paesiello-ma-eravamo-ancora-un-paese-serio-56/

____________

1  (immagine tratta da http://www.fotonapoli.it/napoliantica/slides/004%20Tomba%20di%20Paisiello.%20Nella%20S.S.%20Immacolata%20Concezione.html).

Il monumento, secondo quanto si legge in Napoli nobilissima, Berisio, Napoli, 1906, p. 62, fu disegnato dall’architetto Giuseppe Campanile ed eseguito da Angelo Viva, Raimondo Bello e Carlo Benali.

 

 

4 P: pasta, pucce, patate e pasticciotti. Un laboratorio per imparare

pucce-006

Domenica 16 novembre presso Le Stanzie ed il frantoio Adamo

Quattro “P” per mettere “Le mani in PAT”:

pasta, pucce, patate e pasticciotti

Laboratori esperienziali a cura della rete informale di 16 aziende “Più Gusto”

nell’ambito del progetto “Discovering Salento”

dell’Agenzia Regionale del Turismo, PugliaPromozione

 

Sorpresa della giornata: la Millefoglie di Capocollo di Martina Franca

 

Prende il via Domenica 16 novembre il primo dei sei appuntamenti previsti dall’originale programma “Le mani in PAT”, laboratori esperienziali di conoscenza, uso e preparazione di alcuni dei Prodotti Agroalimentari Tipici del Salento inseriti nell’Atlante dei PAT di Puglia.

 

“Le mani in PAT” è un’iniziativa condotta dalla rete informale di 16 aziende del territorio conosciuta con il brand “Più Gusto” ed è uno dei tanti programmi del progetto più ampio che prende il nome di “Discovering Salento”, ideato e curato dall’Agenzia Regionale del Turismo PugliaPromozione e conil quale, dal 15 novembre al 6 gennaio, si intende incentivare il turismo destagionalizzato attraverso un ricchissimo calendario di iniziative per i weekend e per le festività. I turisti potranno infatti visitare chiese, castelli, musei, siti archeologici, parchi naturali, borghi rurali, masserie didattiche e potranno partecipare gratuitamente a riti e tradizioni del territorio e a laboratori esperienziali artistici, artigianali e di preparazione del cibo.

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Proprio di quest’ultima categoria è l’esperienza prevista per domenica 16 presso la masseria “Le Stanzie” di Supersano (Le) e presso il frantoio dell’Agricola Adamo di Alliste (Le). Prende il nome di “Le 4 P: pasta, pucce, patate e pasticciotti” ed è una serie di laboratori ad esperienza diretta con cui i turisti potranno prendere confidenza con quattro dei prodotti più caratteristici del Salento inseriti nell’Atlante dei Prodotti Agroalimentari di Puglia. Parliamo di tre tipi diversi di pasta (maccarruni, ricchie e sagne ‘ncannulate), delle tipiche “pucce”, delle patate novelle Sieglinde di Galatina preparate col vincotto e degli immancabili pasticciotti, nelle versioni tradizionale e senza glutine.

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Il programma della giornata prevede la partenza da Lecce in pullman dall’ex Foro Boario alle 9.30 per giungere alla masseria Le Stanzie alle 10.30 e dare inizio ai laboratori (la location può essere raggiunta anche con mezzo proprio). I laboratori termineranno intorno alle 13.00, ora in cui si potrà poi assaggiare il frutto del proprio lavoro, oltre a degustare una miriade di altri prodotti preparati e offerti dalla rete di aziende “Più Gusto” (vini biologici, olio evo, sott’olio, caciocavallo, capocollo, taralli, …). Alle 15 è poi previsto il trasferimento presso il frantoio dell’azienda agricola Adamo di Alliste, dove si potrà conoscere e vedere da vicino il ciclo ed il processo di produzione del principe della tavola, l’Olio extravergine d’oliva, oltre a scoprire alcuni segreti legati alla degustazione del prezioso alimento. Alle 17 si parte e si rientra a Lecce. Per chi volesse comunque visitare la masseria nel pomeriggio e degustare i prodotti della rete, informiamo che Le Stanzie resteranno aperte fino alle ore 18.

 

La sorpresa e la specialità fuori programma per domenica 16 novembre presso Le Stanzie è la Millefoglie di Capocollo di Martina Franca, un delizioso e inimmaginabile sorbetto ideato da Roberto Donno, di cioccolato e capocollo, profumato da gocce di Vincotto Balsamico.

 

I laboratori sono a prenotazione obbligatoria (max 30 partecipanti). Info e prenotazioni: info@arianoa.it – 368.7869686

pasticcio1

Le aziende e le professionalità del circuito “Più Gusto” sono: Agricola Adamo (olio extravergine d’oliva), ArteMea (puccia), Assaggi a Sud Est (e-commerce), Cafè dei Napoli (arte pasticciera), Calemone (pomodori Fiaschetto), Pastificio Cardone (pasta artigianale), DolceArte (arte pasticciera), La Novellina (patata novella Sieglinde), Caseificio Lanzillotti (caciocavallo), Le Stanzie (location e preparazioni), Mandorle e Miele (dolci senza glutine), Masseria Provenzani (location e preparazioni), Mimmo Persano (chef), Casapacella (blogger/fotografia), Preite (forno artigianale), Pro_Salento (comunicazione), Rocco Venneri (vini bio), Salumificio Santoro (capocollo di Martina Franca), Terra Apuliae (vincotto), Vizzino (sott’olio e conserve).

 

Alcuni collegamenti utili:

Guida “Discovering Salento”:click

PugliaPromozione: www.viaggiareinpuglia.it

Pagina su FB: https://www.facebook.com/viaggiareinpuglia.it

L’olivo, l’oliva, l’olio e Plinio

di Armando Polito

Alcuni nostri comportamenti sono atavici e fra questi, purtroppo, rientrano pure quelli indotti dalla furbizia e dalla disonestà, che hanno come fine quello di accumulare facilmente profitto a danno di chi con il denaro ricavato in assoluta correttezza dall’impegno e dal sudore crede di potersi assicurare, magari privandosi di altro, il meglio in campo alimentare ma resta, fra l’altro, vittima di una truffa che può avere conseguenze gravissime sulla sua salute. Succede questo, come la cronaca quasi giornalmente testimonia, anche con il prodotto che, insieme con il vino, era l’emblema della nostra terra: l’olio. E mi riferisco alle sofisticazioni, non solo a quelle autentiche truffe legalizzate che una normativa comunitaria lassista e, diciamolo pure, invidiosa dei nostri prodotti tipici ha consentito da troppo tempo e,  sotto questo punto di vista, continua  a farlo, anche perché i nostri rappresentanti, anzi solo qualcuno di loro e pure sporadicamente, forse ispirato da ragioni elettorali e cavalcando il tema in quel momento messo artificiosamente in vista, si limita ad alzare la voce dimenticando il detto che recita cane che abbaia non morde …

Tra l’altro, poi, abbiamo la presunzione di considerarci superiori agli altri animali  e, se qualcuno sostiene che le bestie non possono sofisticare alcunché perché, essendo prive di ragione, utilizzano così com’è solo quello che trovano in natura, sostanze medicinali comprese, non ho difficoltà a ribattergli che allora sarebbe stato meglio per tutti, sottolineo per tutti (animali, piante e sassi compresi), che noi uomini fossimo rimasti nel cosiddetto stato ferino …

Basta con il pistolotto! Mi vien da dire che non basterebbe nemmeno la bomba atomica, se pistolotto fosse accrescitivo di pistòla e non di pìstola (che è per aferesi da epìstola). E, dopo questa precisazione, non rinnego il nostalgico rimpianto del nostro stato ferino, perché non credo, almeno questa volta, usando la ragione che in concreto è cultura, di aver fatto un danno a qualcuno che del pistolotto, etimologicamente parlando, aveva un’opinione sbagliata.

Sento l’olivo e il suo dono lamentarsi e dire: – Quando ci fai entrare in campo? -. Per farmi perdonare ho assicurato loro i servigi di quello che Nino Frassica definirebbe un bravo presentatore, anche se stagionato: Plinio (I secolo d. C.), che all’ulivo e all’olio dedicò nella sua opera ampio spazio. Mi sono riservato, ospitandolo nel mio studio televisivo, il diritto di interromperlo di tanto in tanto, ma lo farò in modo discreto, cioè nelle note, poi alla fine del primo brano per consentirgli di riprendere fiato e di soddisfare un’esigenza fisiologica (la prostata esisteva anche duemila anni fa …) e, infine, nella conclusione del post. Sono sicuro che con Plinio non farò la stessa figura di quel professore universitario che ha avuto, com’è noto,  la geniale idea di invitare Schettino a parlare della gestione del panico …

Tutto è pronto, Plinio è adeguatamente microfonato, anche il suo look è all’altezza (?) dei nostri tempi, ascoltiamolo!

Teofrasto1, uno dei più famosi autori greci, circa nell’anno 440 dalla fondazione di Roma negò che l’olivo potesse nascere a più di 40 miglia dal mare. Fenestella2 poi dice che mancava del tutto in Italia, Spagna e Africa al tempo del regno di Tarquinio Prisco, 173 anni dopo la fondazione di Roma l’olivo, che passò anche oltre le Alpi in Gallia e al centro della Spagna. Nell’anno 505 dopo la fondazione di Roma, sotto il consolato di Appio Claudio, nipote del Cieco e Lucio Giunio, una libbra d’olio si vendeva a dodici assi e poi nell’anno 680 Marco Seio figlio dell’edile curule Lucio ne diede al popolo romano per tutto l’anno dieci per un asse. Di questo si meraviglierà meno chi sappia che dopo 22 anni nel corso del quarto consolato di Pompeo Magno l’Italia inviò olio alle provincie. Anche Esiodo3, tra i primi a ritenere che si dovesse insegnare l’agricoltura, disse che colui che aveva piantato un olivo mai ne aveva raccolto il frutto: tanto lenta anche allora era la sua crescita. Ora invece li riproducono anche in vivaio e, dopo averli trapiantati, l’anno successivo vengono  raccolte le bacche. Fabiano4 dice che l’ulivo non può crescere nei luoghi molto freddi e molto caldi. Virgilio5 dice che ce ne sono di tre tipi, orchite6, radio7 e pausio8, e che non hanno bisogno di rastrelli, falci o di qualche cura. Senza dubbio in questo molta importanza hanno il terreno e il clima. Tuttavia anch’essi si potano al tempo in cui si potano pure le viti e gradiscono anche di essere diradati. La raccolta delle olive avviene dopo la vendemmia e l’arte di ricavare l’olio non è da meno rispetto a quella dell’estrazione del mosto. Dalla medesima oliva può essere estratto un succo differente. Il migliore fra tutti lo dà l’oliva acerba e che ancora non ha cominciato a maturare; il sapore è insuperabile. Anzi il primo strato che esce dal frantoio è il più apprezzato e poi quello che viene estratto sia che sia spremuto in ceste sia che, come poco fa si è inventato, dalla sansa chiusa in sottili dischi. Quanto più la bacca è matura tanto più l’olio è grasso e meno gradevole. Il miglior tempo poi per fare una raccolta soddisfacente per l’abbondanza e la bontà è quando le bacche cominciano ad annerire. I nostri le chiamano drupe9, i Greci dripetidi10. Del resto c’è molta differenza se la maturazione avviene nei frantoi o sui rami, se l’albero era irrigato o la bacca aveva soltanto il suo succo e non aveva bevuto nient’altro che la rugiada. Il passare del tempo nuoce all’olio, al contrario del vino e il massimo della sua età è un anno; provvida, se si vuol capire, è la natura poiché non è necessario per ubriacarsi bere vini novelli, anzi la piacevole alterazione del gusto per quelli lasciati ad invecchiare invita a conservarlo; la natura non volle concedere questo all’olio e con questa necessità lo rese comune anche per il popolo. Anche in questo bene l’Italia ha ottenuto il primato in tutto il mondo, soprattutto nel territorio di Venafro e in quella sua parte che produce l’olio liciniano, per cui anche l’oliva licinia11 ha grande fama. I profumi hanno conferito questo vanto per l’aroma che si adatta a loro, glielo ha dato anche il palato per il suo gusto alquanto delicato; per il resto nessun uccello gradisce le bacche della licinia. Dopo queste varietà la gara è alla pari tra la terra d’Istria e di Betica12. Per il resto vicina è la bontà dell’olio delle provincie, eccetto il suolo d’Africa che produce messi: qui la natura ha concesso tutto a Cerere, solo non rifiutò l’olio e il vino ma concesse abbastanza fama alle messi. Tutte le altre informazioni sono piene di errori, che dimostreremo non essere più frequenti in nessuna parte del vitto. L’oliva è formata da nocciolo, olio, polpa, morchia. Questa è una sua putredine amara; nasce dall’acqua e per questo nei tempi secchi è minima, abbondante in quelli piovosi. L’olio è il succo proprio dell’oliva e questo s’intende massimamente per quelle acerbe, come dicemmo per l’onfacio13. L’olio cresce dalla la nascita di Arturo14 fino al 16 settembre, poi crescono il nocciolo e la polpa. A questo punto se sopraggiungono anche piogge abbondanti l’olio diventa morchia. Il colore di questa costringe l’oliva ad annerire e perciò all’inizio dell’annerimento c’è pochissima morchia, prima di esso è assente. Ingannevole è l’errore di chi crede inizio della maturazione ciò che è inizio di un difetto, poi perché credono che l’olio cresca dalla polpa dell’oliva, tutto il succo diventando corpo e ingrandendosi il nocciolo. Dunque allora soprattutto si bagnano; quando questo succede per intervento dell’agricoltore o per le molte piogge, l’olio si consuma se non sopraggiunge il sereno che assottigli il corpo. Certamente, come dice Teofrasto, anche dell’olio è causa il calore, per cui nei frantoi e pure nei magazzini  c’è bisogno di molto fuoco. La terza colpa sta nel voler risparmiare a tutti i costi, poiché per evitare la spesa della raccolta si attende che le olive cadano da sole. Quelli che in questo seguono la via di mezzo le scuotono con pertiche con danno per gli alberi e per il raccolto dell’anno successivo. Perciò chi coltiva l’olivo ha una legge antichissima: “Non tagliare e non battere l’olivo”. Quelli che agiscono con cautela battono leggermente con una canna e non percuotono i rami con colpi frontali. Se non si fa così l’albero è costretto a dare il frutto ogni due anni a causa dei germogli spezzati e lo stesso succede se si aspetta che le olive cadano da sole perché rinsecchendo oltre il loro tempo sottraggono nutrimento a quelle che devono venire e ne occupano il posto.  Il fatto è che se non vengono raccolte prima del Favonio15 prendono nuova forza e cadono più difficilmente. Dunque si raccolgono per prime all’inizio dell’autunno per difetto di arte, non di natura, la pausia che ha molta polpa, poi l’orchite che ha l’olio, dopo la radia. Le costringe a cadere, infatti, la morchia che rapidissimamente le invade poiché sono tenerissime. La raccolta di quelle callose, resistenti all’umidità e per questo minute, viene rinviata anche a marzo ed esse sono la licinia, la cominia, la conzia, la sergia16, che i Sabini chiamano regia, le quali anneriscono non prima dello spirare del Favonio, cioè intorno all’8 febbraio. Si crede che maturino allora e poiché da esse si ricava buonissimo olio anche la ragione sembra adattarsi al difetto e dicono che l’asprezza è dovuta al freddo, come l’abbondanza alla maturazione, essendo quelle bontà non del tempo ma della varietà di quelle che tardamente marciscono in morchia. Simile è l’errore dopo averle raccolte di conservarle su tavolati e di non spremerle prima che trasudino, poiché ad ogni indugio l’olio diminuisce e la morchia aumenta. E così dicono comunemente che da ogni moggio17 non se ne ricava più di sei libbre18. Nessuno tien conto della misura della morchia, quanto se ne trova in maggior quantità nella medesima varietà col trascorrere dei giorni. Errore trionfante e comune è quello di credere che l’olio cresca per il gonfiarsi dell’oliva, quando quelle che sono chiamate regie, da altri maggiorine19, da altri ancora babbie20, peraltro grandissime e di poco succo, sono la prova che l’abbondanza dell’olio non è dovuta alla grandezza dell’oliva. Anche in Egitto le più carnose hanno poco olio, in Decapoli di Siria straordinariamente piccole, non più grandi di un cappero, sono tuttavia consigliate per la polpa. Per questo motivo quello d’oltremare sono preferite alle italiche che s’impongono per l’olio e nella stessa Italia su tutte le altre le picene21 e le sidicine22. Quelle in casa si conciano col sale e come le altre con la morchia e con il mosto cotto, nonché altre, le colimbadi23, nuotano  nel loro olio senza pregio ricercato. Le stesse si infrangono e si conciano col sapore di erbe verdi.  Le precoci, sebbene non mature, sono bagnate con acqua bollente ed è strano che le olive bevano il succo dolce e prendano il sapore altrui. Tra le olive ce ne sono pure di purpuree che come le uve passano al colore nero, e sono le pausie. Oltre alle varietà già nominate ci sono anche le superbe. Ve ne sono pure di dolcissime, seccate da se stesse senza concia e più dolci dell’uva passa, assai rare in Africa ed intorno ad Emerita di Lusitania. L’olio si libera col sale dal difetto della grassezza. Se si incide la corteccia dell’oliva essa prende il profumo ma, come per il vino, non fa sentire alcun gusto al palato né le differenze sono numerose e si distingue al massimo per tre qualità. L’odore è più spiccato nell’olio sottile e tuttavia  anche di breve durata in quello di ottimo. L’olio ha la proprietà di riscaldare il corpo, di difenderlo dal freddo e di raffreddare il bollore del capo. I Greci, padri di tutti i vizi, volsero il suo uso verso il piacere rendendolo abituale nelle palestre: è noto che i funzionari di tale incarico hanno venduto per ottanta sesterzi le raschiature dell’olio. La grandezza romana tributò grande onore all’olivo incoronando con esso le schiere dei cavalieri il 15 luglio e allo stesso modo quelli che avevano l’onore dell’ovazione nei trionfi minori. Anche ad Atene incoronano d’olivo i vincitori, la Grecia con l’olivo selvatico ad Olimpia. Ora dirò i principi di Catone24 sugli olivi. Egli prescrive che si piantino in un terreno  caldo e grasso il radio maggiore25, il salentino26, l’orchite, il pausio, il sergiano, il cominisso e l’albicere27 e con singolare accortezza aggiunge anche quale di essi dicono che sia ottimo per i luoghi vicini; dice che invece il licinio va piantato in terreno freddo e magro perché nel grasso e caldo  il suo olio assume difetti e l’albero stesso si consuma per eccesso di fertilità ed inoltre viene infestato dal muschio rosso. Pensa che gli oliveti debbano essere rivolti verso Favonio in luogo esposto al sole e non approva soluzione diversa. Dice che si conservano ottimamente le olive orchite e pausie o verdi in salamoia o rotte nel lentisco e che l’olio è tanto più buono quanto l’oliva è più acerba; che per il resto dev’essere raccolta da terra al più presto e se è sporca va lavata e bastano tre giorni ad asciugarla. Se fa freddo si devo romperla nel quarto giorno e cospargerla di sale. Dice che l’olio conservato diminuisce e diventa peggiore, come avviene nella morchia e nei frammenti – questi sono le polpe e poi le fecce -, motivo per il quale va travasato più volte al giorno, inoltre con un recipiente a forma di conchiglia e in caldaie di piombo; in quelle di rame si guasta. Dice che questo vien fatto nei frantoi caldi e chiusi e quanto meno è possibile in quelli ventilati; perciò ivi non è necessario che si tagli legna; a tal proposito adattissimo è il fuoco che nasce dalla combustione dei noccioli delle stesse olive28. Dice che dalle stesse caldaie l’olio va versato in vasi grandi affinché i frammenti e la morchia si separino; perciò i vasi vanno cambiati abbastanza frequentemente, i fiscoli lavati con la spugna perché l’olio sia al massimo grado puro e genuino. Fu poi inventato che le olive fossero lavate soprattutto con acqua calda e che sode si mettessero subito sotto il torchio – così, infatti, vien fuori la morchia- e che rotte di nuovo fossero pressate nei frantoi. Non consigliano che si premano più di cento moggi, questa quantità si chiama lavorato29. Quello che per primo viene spremuto dopo la molitura si chiama fiore. Di regola in una notte e in un giorno quattro uomini su una doppia piattaforma moliscono tre lavorati.30

A questo punto Plinio ci chiede una piccola pausa per recarsi in bagno (non starò esagerando con questa finzione?). Volentieri gliela concediamo nella speranza che il nostro bagno, ultramoderno,  sia all’altezza di quello antico e che la rubinetteria elettronica  e soprattutto lo scarico, pure lui digitale, montati di recente non facciano le bizze. È andato, tocca a me intrattenervi e spero che il bisogno di Plinio non sia a lungo termine, perché in tal caso mi sentirei peggio di quel lettore del telegiornale che attende invano che la regia mandi in onda un servizio. Lui almeno riesce a mantenere, se è veramente bravo, per una ventina di secondi uno sguardo sufficientemente intelligente e a dire tre o quattro parole sensate; io non saprei farlo nemmeno per tre secondi.

Così sento la mia voce articolare queste alate parole: “ Sarebbe scontato, banale e stupido sottolineare l’importanza dei dati scientifici che il nostro illustre ospite ci ha fornito. Che fosse uno scienziato serio lo sapevamo, e da tempo … Ci sorprende, invece, la sua abilità, diremmo giornalistica, nel proporci lo scoop del funzionario della palestra che vende un certo olio,  non posso dire se a buon prezzo, perché il nostro ospite non ci ha dato notizia della quantità; ma, anche immaginando che il prezzo si riferisca alla quantità accumulata in un solo anno, si tratta di una cifra considerevole. A questo punto la meraviglia diventa schifo non solo per questo atto compiuto da pubblici funzionari (nell’originale magistratus) ma anche perché non si sa se quest’olio asportato con lo strigile dal corpo degli atleti (dunque misto, bene che andasse, a sabbia e sudore) fosse destinato alla plebe che, magari, lo avrebbe usato nelle rare occasioni in cui poteva permettersi una frittura … D’altra parte l’è noto che hanno venduto (notum est … vendidisse) ha tutta l’aria di un riferimento ad uno scandalo imbarazzante, tanto che Plinio, lo ricorda frettolosamente ma, secondo me, incassa un autogol perché vede la pagliuzza nell’occhio altrui (dissolutezza nei Greci) e non vede la trave in casa propria (peculato, piuttosto idiota fra l’altro, dei funzionari delle palestre). Dalla regia mi avvertono che Plinio ha sentito tutto e manda a dire che ho ipotizzato un sacco di stupidaggini e che è già partita una denunzia per calunnia ai danni di pubblici funzionari e che pure il popolo romano si è costituito parte civile. Dal luogo dove si sta attardando ha fatto pervenire un foglietto su cui è scritto ciò che ora vi leggerò”.

Addirittura i ginnasti dei Greci trasformarono in guadagno anche la sporcizia dell’uomo, poiché quelle raschiature rilassano, riscaldano, sciolgono, appianano, fungendo il sudore e l’olio da medicina. Sono applicate sui genitali femminili infiammati e contratti; così agevolano anche il ciclo mestruale, mitigano le infiammazioni e i condilomi del sedere, allo stesso modo i dolori dei nervi, le lussazioni, i blocchi articolari. Per i medesimi inconvenienti sono più efficaci i raschiamenti fatti all’uscita dai bagni e per questo si mescolano con i medicamenti per le suppurazioni. Infatti quelle sostanze, che sono un miscuglio di cera, olio e fango, rilassano appunto le articolazioni, riscaldano, sciolgono più efficacemente ma per altro sono meno efficaci. Supera la credibilità una cura vergognosa in rapporto alla quale autori celeberrimi assicurano di singolare rimedio le sporcizie dell’apparato genitale maschile contro il morso degli scorpioni, ancora credono che nelle donne contro la sterilità viene introdotta nello stesso utero quella sporcizia emessa dall’intestino del neonato; la chiamano meconio. Anzi hanno raschiato anche le stesse pareti delle palestre e dicono che anche quelle schifezze hanno potere riscaldante, eliminano i gonfiori, sono spalmate sulle ferite di vecchi e fanciulli, sulle escoriazioni e sulle ustioni.31 

Ho appena finito di leggere, che già Plinio è pronto a concludere il suo intervento. Prima di sistemargli il microfono (è molto più alto di me, anche in senso fisico, e nel leggere il foglietto sono stato costretto a riposizionarlo) non resisto alla tentazione di fare qualche osservazione. Vorrei tanto chiedergli ragione dei passi oscuri o di dubbia interpretazione presenti nella sua opera ma mi guardo bene dal farlo perché potrebbe benissimo ribaltare l’accusa dicendo che tutto è dipeso dagli amanuensi che hanno letto fischi e trascritto fiaschi, come succede spesso oggi quando l’intervistatore fraintende e trascrive malamente le dichiarazioni dell’intervistato. Mi limito, perciò, a fargli notare che le mie precedenti supposizioni erano sì fasulle, e gli credo sulla fiducia, ma che sarebbe ora di finirla con questa forma di razzismo che vede nei Greci i depositari di ogni vizio e nei Romani di ogni virtù e che, in fin dei conti, l’ultima sua nota proveniente dal bagno ha solo incrementato il senso di schifo. Sul presunto razzismo non mi risponde, si limita solo a dire: – Hai visto mai il bagno di questo studio? -.

Capisco in un attimo che la sua impallinante domanda non è dovuta al mancato funzionamento (o, almeno, solamente a quello) dello scarico ipertecnologico (più che digitale virtuale …) ma piuttosto alle condizioni di tutto l’ambiente in cui l’addetto alle pulizie non mette piede da un mese a causa della notoria crisi; a questo punto non mi resta che aprirgli il microfono; fortuna che la sua pubblicità sul mio studio non è andata in onda…

Non esisteva in passato l’olio fasullo e credo che per questo Catone non ne abbia parlato. Ora ce ne sono di diversi tipi e in primo luogo parlerò di quelli che si ricavano dagli alberi e tra questi prima di ogni altro dall’olivastro. Questo è sottile e molto più amaro di quello dell’ulivo ed utile solo per medicamenti. Molto simile a questo è quello di camelea32, arbusto che prediligi i terreni rocciosi, non più alto di un palmo, con foglie e bacche simili a quelle dell’olivastro. Un altro si ricava dal cici33, albero diffuso in Egitto (c’è chi lo chiama crotone34, chi sibi35, chi sesamo selvatico) ed ivi, non da molto tempo anche in Spagna, rapidamente giunge all’altezza dell’olivo, con un fusto simile a quello della ferula, con le foglie simili a quelle della vite, il seme a quello delle uve più gracili e pallide. I nostri lo chiamano ricino dalla somiglianza del seme. Si cuoce in acqua e si raccoglie l’olio che viene a galla. Ma in Egitto, dove abbonda, viene spremuto senza fuoco e acqua, dopo essere stato cosparso di sale; non è adatto all’alimentazione ma è utile per le lucerne. Quello di mandorle, che alcuni chiamano neopo36, viene estratto dalle mandorle amare secche e pestate fino a diventare una poltiglia che viene cosparsa di acqua, alla quale si aggiungono di nuovo mandorle pestate. Si ricava anche dall’alloro misto ad olio di olive mature; alcuni lo estraggono solo dalle bacche, altri solo dalle foglie, altri dalle foglie e dalla buccia delle bacche ed aggiungono storace ed altri aromi. Particolarmente adatto a questo è l’alloro a foglie larghe, selvatico, dalle nere bacche. Simile è quello che si ricava dal mirto nero ed è migliore quello a larghe foglie. Si pestano le bacche cosparse di acqua calda, poi si cuociono. Altri cuociono le foglie più tenere in olio e le premono, altri le fanno prima maturare al sole e poi le gettano nell’olio. Lo stesso procedimento viene seguito con il mirto coltivato, ma è preferito quello selvatico dal seme più piccolo, che certi chiamano ossimirsine37, altri camemirsine38, altri acoro39 per la somiglianza; infatti è una pianta corta, cespugliosa. Si ricava olio anche dal cedro, dal cipresso, dalle noci e quest’ultimo lo chiamano cariino40, dalle mele, dal cedro e vien chiamato pisseleone41, anche dal chicco cnidio purgato del seme e pestato, allo stesso modo dal lentisco. Di quello ciprino e di quello estratto dalla ghianda egizia per ricavarne profumi si è detto. Si dice che gli Indiani lo ricavano dalle castagne, dal sesamo e dal riso, i popoli che si nutrono di pesce dai pesci. La carestia spinge talora a ricavarne per illuminazione dalle bacche di platano macerate in acqua e sale. Dall’enante42 si ricava l’olio detto enantino, adatto per preparare profumi. Per il gleucino43 si cuoce il mosto a fuoco lento, altri senza usare il fuoco mettono attorno le vinacce e le mescolano due volte al giorno e così il mosto si consuma nell’olio. Alcuni vi mescolano non solo la maggiorana ma anche aromi più ricercati, come succede anche nelle palestre, ma con profumi di scarsissima qualità. Si ricava dall’aspalato, dalla canna, dal balsamo, dall’iri, dal cardamomo, dal meliloto, dal nardo gallico, dalla panacea, dalla maggiorana, dall’elenio, dalla radice di cinnamomo spremendone il succo dopo averli macerati in olio. Così viene estratto pure il rodino dalle rose, il giunchino dal giunco, molto simile al rosaceo, allo stesso modo dal giusquiamo44 e dai lupini, dal narciso. Moltissimo poi se ne estrae in Egitto dal seme del ravanello o dall’erba gramigna e lo chiamano cortino45, allo stesso modo dal sesamo46 e dall’ortica e lo chiamano cnidio47. Si ricava anche altrove dal giglio macerato all’aria sotto il sole, la luna, la brina. Tra la Cappadocia e la Galazia48 estraggono dalle loro erbe un olio che chiamano selgitico49, molto utile ai nervi, come fanno in Italia gli abitanti di Gubbio. Si ricava dalla pece quello detto pissino50 quando viene cotto dopo aver disteso sopra il suo fumo delle lane che poi vengono strizzate. Viene particolarmente apprezzato quello estratto dalla lana calabrese poiché è molto grassa e resinosa. L’olio ha un colore giallo. Nasce spontaneamente nei luoghi marittimi della Siria quello che chiamano eleomele51; stilla grasso dagli alberi, più denso del miele, più sottile delle resina, di sapore dolce, utilizzato in medicina. Viene usato anche l’olio vecchio in alcuni tipi di malattia; si crede pure che sia utile a proteggere l’avorio dal tarlo e certamente la statua di Saturno a Roma all’interno è piena di olio. Catone lodò sopra ogni cosa la morchia. Dice che con essa vengono imbevuti i tini oleari e i barili perché non assorbano l’olio, che con la morchia vengono trattate le aie dove si battono le messi affinché non ci siano né formiche né fessure; che anzi siano trattati con la morchia pure l’intonaco malmesso delle pareti, gli intonaci e i pavimenti dei granai, gli armadi degli abiti contro le tarme e i danni di altri animali, i semi delle messi. Dice che con essa si debbono trattare le malattie dei quadrupedi e pure degli alberi, efficace anche contro le ulcere interne della bocca dell’uomo. Dice che con essa cotta si ungono pure le redini, tutti i cuoi, le calzature, gli oggetti di rame contro la ruggine e perché abbiano un aspetto più elegante, tutti gli oggetti di legno e i vasi di creta in cui si vogliano conservare i fichi secchi o le foglie o le bacche nei rami di mirto o altro dello stesso genere. Dice infine che la legna macerata nella morchia arde senza fare il fastidioso fumo. Varrone afferma che, se una capra leccando con la lingua ha toccato un olivo e ne ha mangiato nel suo primo germogliare, esso diventa sterile. E basti quanto fin qui detto dell’olivo e dell’olio.52

Ringraziamo il gentile ospite del competente intervento augurandoci (quando qualcuno auspica vuol dire che è proprio arrivato alla frutta dopo aver abbondantemente rotto le olive …) che possa da lassù intervenire per intercedere a favore del nostro olio e, vista la tragica situazione fitosanitaria, prima di tutto dei nostri stessi olivi, sempre che qualcuno non sfrutti l’ultimo passo per miscelare la grande partita di olio (minerale!) esausto, appena acquistata per quattro euro, con qualcuno degli oli fasulli di due millenni fa. Ho le prove che qualcuno ha già cominciato a farlo …

Qualcun altro, nel frattempo, ha deciso di sconfessare ogni riflessione sulla bontà dello stato ferino o felino che sia …

 * Basta che il mio padrone piazzi questa partita di olio per assicurarmi crocchette di qualità almeno per due mesi!

___________

1 IV-III secolo a. C.

2 I secolo a. C.- I secolo d. C.

3 VIII-VII secolo a. C.

4 I secolo a. C.-I secolo d. C.

5 I secolo a. C.

6 Dal greco ὄρχις (leggi orchis)=testicolo, orchidea (questo significato traslato è dovuto alla forma del labello). È intuitivo che il frutto doveva essere un’oliva di forma leggermente allungata; non a caso orchite si chiama l’infiammazione del testicolo e orchidea è voce del latino scientifico modellata sul greco ὀρχίδιον (leggi orchìdion)=orchidea, a sua volta derivato dal citato ὄρχις (per la forma di uno dei tre petali inferiori, detto labello, come mostra eloquentemente l’immagine che segue tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/Orchidaceae#Fiore).

7 Credo che sia trascrizione del greco ῤάδιος (leggi radios)=facile, agevole; non a caso è annoverato tra gli ulivi che non richiedono molta cura.

8 Potrebbe essere forma aggettivale dal greco παύσις (leggi pàusis)=cessazione (probabile riferimento, sottintentendo dal lavoro, alle poche cure richieste al pari delle due varietà citate precedentemente.

9 Drupa è dal latino drupa(m), a sua volta dal greco δρύπεπα (leggi driùpepa), accusativo di δρύπεψ (leggi driùpeps)=oliva matura, a sua volta composto da δρῦς (leggi driùs)=quercia, leccio, olivo + πίπτω (leggi pipto)=cadere.

10 L’originale drypetidas (accusativo plurale) suppone un greco δρυπέτις/δρυπέτιδος (leggi driupètis/driupètidos) che, però non esiste; esiste, invece, l’aggettivo δρυπετής/δρυπετές (leggi driupetès/driupetès)=maturato sull’albero, ben maturo (con la stessa origine della voce precedente).

11 https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/24/olive-celline-perche-questo-nome/

12 Andalusia.

13 Succo di uva o di oliva acerba. La voce è dal greco ὀμφάκιος (leggi omfàkios)=non formato, acerbo, da ὄμφαξ (leggi omfax)=uva acerba, probabilmente connesso con ὀμφαλός (leggi omfalòs)=ombelico.

14 Nella graduatoria delle stelle più luminose occupa il quarto posto.

15 Vento caldo di ponente corrispondente al greco Zefiro. La voce, cui corrisponde il nostro dialettale faùgnu, è da favere=far crescere, essere propizio.

16 Difficile individuare l’origine dei nomi. Per licinia vedi la nota 11. Per gli altri si può ipotizzare che derivino da onomastici: la gens Comìnia al pari della Sergia è ben attestata in letteratura e nelle epigrafi. Contia, invece potrebbe essere forma aggettivale da compta, participio passato femminile di còmere=porre insieme, ornare (il riferimento sarebbe al fatto che questo tipo di oliva si presterebbe molto bene alla conciatura).

17 Unità di misura di capacità (corrispondente a l. 8,75) e di superficie (corrispondente a circa 8400 m2).

18 Unità di misura di peso corrispondente a circa 327 gr.).

19 Così chiamate per la loro grandezza, com’è confermato da quel che segue.

20 Non ho nessuna ipotesi da avanzare sull’origine di questo nome nonostante si possa partire dall’idea di grandezza così efficacemente espressa da regie e maggiorine.

21 Emilia centrale.

22 I Sidicini erano una delle popolazioni italiche della Campania.

23 Dal greco κολυμβάς/κολυμβάδος (leggi coliumbàs/coliumbàdos)=da salamoia; la voce è da κολυμβάω (leggi coliumbào)=tuffarsi.

24 III-II secolo a. C.

25 Dev’essere una varietà più grande del semplice radio per il quale vedi la nota 7.

26 Purtroppo per noi gli autori latini su questa varietà non ci hanno lasciato alcun dettaglio significativo.

27 Giallo chiaro; alla lettera bianco come la cera.

28 Chi l’avrebbe immaginato che dopo duemila anni questo combustibile sarebbe tornato in voga come ottima alternativa al pellet? (http://www.prnewswire.co.uk/news-releases/noccioli-di-olive-come-sostituto-di-gasolio-gas-e-pellet-215953081.html).

29 La voce corrispondente dialettale usata dalle nostre parti è macininu.

30 Naturalis historia, XV, 1-7 Oleam Theophrastus e celeberrimis Graecorum auctoribus urbis Romae anno circiter CCCCXL negavit nisi intra [XXXX] passuum ab mari nasci, Fenestella vero omnino non fuisse in Italia Hispaniaque aut Africa Tarquinio Prisco regnante, ab annis populi romani CLXXIII, quae nunc pervenit trans Alpis quoque et in Gallias Hispaniasque medias. Urbis quidem anno DV Appio Claudio caeci nepote L. Iunio cos. olei librae duodenae denis assibus veniere, et mox anno DCLXXX M. Seius L. f. aedilis curulis olei denas libras singulis assibus praestitit populo Romano per totum annum. Minus ea miretur qui sciat post annos XXII Cn. Pompeio III cos. oleum provinciis Italiam misisse. Hesiodus quoque, in primis culturam agrorum docendam arbitratus vitam, negavit oleae satorem fructum ex ea percepisse quemquam: tam tarda tunc res erat. At nunc etiam in plantariis ferunt, translatarumque altero anno decerpuntur bacae. Fabianus negat provenire in frigidissimis oleam neque in calidissimis. Genera earum tria dixit Vergilius, orchites et radios et posias, nec desiderare rastros aut falces ullamve curam. Sine dubio et in iis solum maxime caelumque refert. Verum tamen et tondentur, cum et vites, atque etiam interradi gaudent. Consequens earum vindemia est arsque vel maior olei musta temperandi. Ex eadem quippe oliva differunt suci. Primum omnium cruda dat atque nondum inchoatae maturitatis; hoc sapore praestantissimum. Quin et ex eo prima unda preli lautissima ac deinde per deminutiones, sive in sportis prematur sive, ut nuper inventum est, exilibus regulis pede incluso. Quanto maturior baca, tanto pinguior sucus minusque gratus. Optima autem aetas ad decerpendum inter copiam bonitatemque incipiente baca nigrescere, cum vocant druppas, graeci vero drypetidas. Cetero distat tum, maturitas illa in torcularibus fiat an ramis, rigua fuerit arbor an suo tantum baca suco nihilque aliud quam rores caeli biberit. Vetustas oleo taedium adfert, non item ut vino, plurimumque aetatis annuo est, provida, si libeat intellegere, natura, quippe temulentiae nascentibus vinis uti necesse non est, quin immo invitat ad servandum blanda inveterati caries: oleo noluit parci fecitque ea necessitate promiscuum et vulgo. Principatum in hoc quoque bono obtinuit Italia e toto orbe, maxime agro Venafrano eiusque parte quae Licinianum fundit oleum, unde et Liciniae gloria praecipua olivae. Unguenta hanc palmam dedere accommodato ipsis odore, dedit et palatum delicatiore sententia; de cetero bacas Liciniae nulla avis adpetit. Reliquum certamen inter Histriae terram et Baeticae par est. Cetero fere vicina bonitas provinciis excepto Africae frugifero solo: Cereri id totum natura concessit, oleum ac vinum non invidit tantum satisque gloriae in messibus fecit. Reliqua erroris plena, quem in nulla parte vitae numerosiorem esse docebimus. Oliva constat nucleo, oleo, carne, amurca. Sanies haec est eius amara; fit ex aquis, ideo siccitatibus minima, riguis copiosa. Suus quidem olivae sucus oleum est, idque praecipue ex inmaturis intellegitur, sicut in omphacio docuimus. Augetur oleum ab Arcturi exortu in a. d. XVI kal. oct., postea nuclei increscunt et caro. Tum si etiam copiosi imbres accessere, vitiatur oleum in amurcam. Huius color olivam cogit nigrescere, ideoque incipiente nigritia minimum amurcae, ante eam nihil est. Error hominum falsus existimantium maturitatis initium quod est vitii proximum, deinde quod oleum crescere olivae carne arbitrantur, cum sucus omnis in corpus abeat lignumque intus grandescat. Ergo tum maxime rigantur; quod ubi cura multisve imbribus accidit, oleum absumitur nisi consecuta serenitate quae corpus extenuet. Omnino enim, ut Theophrasto placet, et olei causa calor est, quare in torcularibus etiam ac cellis multo igni quaeritur. Tertia est culpa in parsimonia, quoniam propter inpendium decerpendi expectatur ut decidant olivae. Qui medium temperamentum in hoc servant, perticis decutiunt cum iniuria arborum sequentisque anni damno. Quippe olivantibus lex antiquissima fuit: “Oleam ne stringito neve verberato.” Qui cautissime agunt, harundine levi ictu nec adversos percutiunt ramos. Sic quoque alternare fructus cogitur decussis germinibus, nec minus si expectetur ut cadant; haerendo enim ultra suum tempus absumunt venientibus alimentum et detinent locum. Argumentum est quod nisi ante Favonium collectae novas vires resumunt et difficilius cadunt. Primae ergo ab autumno colliguntur vitio operae, non naturae, posia cui plurimum carnis, mox orchites cui olei, post radius. Has enim ocissime occupatas, quia sunt tenerrimae, amurca cogit decidere. Differuntur vero etiam in Martium mensem callosae, contra umorem pugnaces ob idque minimae, Licinia, Cominia, Contia, Sergia, quam Sabini regiam vocant, non ante Favonii adflatum nigrescentes, hoc est a. d. VI id. feb. Tunc arbitrantur eas maturescere, et quoniam probatissimum ex iis fiat oleum, accedere etiam ratio pravitati videtur feruntque frigore austeritatem fieri, sicut copiam maturitate, cum sit illa bonitas non temporis, sed generis tarde putrescentium in amurcam. Similis error collectam servandi in tabulatis nec prius quam sudet premendi, cum omni mora oleum decrescat, amurca augeatur. Itaque vulgo non amplius senas libras singulis modiis exprimi dicunt. Amurcae mensuram nemo agit, quanto ea copiosior reperiatur in eodem genere diebus adiectis. Omnino invictus error et publicus tumore olivae crescere oleum existimandi, cum praesertim nec magnitudine copiam olei constare indicio sint quae regiae vocantur, ab aliis maiorinae, ab aliis babbiae, grandissimae alioqui, minimo suco. Et in Aegypto carnosissimis olei exiguum, Decapoli vero Syriae perquam parvae, nec cappari maiores, carne tamen commendantur. Quam ob causam Italicis transmarinae praeferuntur in cibis, cum oleo vincantur, et in ipsa Italia ceteris Picenae et Sidicinae. Sale illae privatim condiuntur et ut reliquae amurca sapave, nec non aliquae oleo suo et sine arcessita commendatione purae innatant, colymbades. Franguntur eaedem herbarumque viridium sapore condiuntur. Fiunt et praecoques ferventi aqua perfusae quamlibeat inmaturae; mirumque dulcem sucum olivas bibere et alieno sapore infici. Purpureae sunt et in iis, ut uvis, in nigrum colorem transeuntibus posiis. Sunt et superbae praeter iam dicta genera. Sunt et praedulces, per se tantum siccatae uvisque passis dulciores, admodum rarae in Africa et circa Emeritam Lusitaniae. Oleum ipsum sale vindicatur a pinguitudinis vitio. Cortice oleae conciso odorem accipit medicationis; alias, ut vino, palati gratia nulla est nec tam numerosa differentia: tribus ut plurimum bonitatibus distat. Odor in tenui argutior, et is tamen etiam in optimo brevis. Oleo natura tepefacere corpus et contra algores munire, eidem fervores capitis refrigerare. Usum eius ad luxuriam vertere Graeci, vitiorum omnium genitores, in gymnasiis publicando: notum est magistratus honoris eius octogenis sestertiis strigmenta olei vendidisse. Oleae honorem Romana maiestas magnum perhibuit turmas equitum idibus iuliis ea coronando, item minoribus triumphis ovantes. Athenae quoque victores olea coronant, Graecia oleastro Olympiae. Nunc dicentur Catonis placita de olivis. In calido et pingui solo radium maiorem, Sallentinam, orchitem, posiam, sergianam, cominianam, albiceram seri iubet adicitque singulari prudentia: quam earum in iis locis optimam esse dicent, in frigido autem et macro liciniam. Pingui enim aut ferventi vitiari eius oleum arboremque ipsa fertilitate consumi, musco praeterea et rubore infestari. Spectare oliveta in Favonium loco exposito solibus censet, nec alio ullo modo laudat. Condi olivas optime orchites et posias, vel virides in muria vel fractas in lentisco. Oleum quam acerbissima oliva optimum fieri. Cetero quam primum e terra colligendam, si inquinata sit, lavandam; siccari triduo satis esse. Si gelent frigora, quarto die premendam; hanc et sale aspergi. Oleum in tabulato minui deteriusque fieri, item in amurca et fracibus – hae sunt carnes et inde faeces – ; quare saepius die capulandum, praeterea concha et in plumbeas cortinas; aere vitiari. Ferventibus omnia ea fieri clausisque torcularibus et quam minime ventilatis, ideo nec ligna ibi caedi oportere – qua de causa e nucleis ipsarum ignis aptissimus – ; ex cortinis in labra fundendum, ut fraces et amurca linquantur. Ob id crebrius vasa mutanda, fiscinas spongia tergendas, ut quam maxime pura sinceritas constet. Postea inventum ut lavarentur utique ferventi aqua, protinus prelo subicerentur solidae – ita enim amurca exprimitur – , mox trapetis fractae premerentur iterum. Premi plus quam centenos modios non probant: factus vocatur; quod vero post molam primum expressum est, flos. Factus tres gemino foro a quaternis hominibus nocte et die premi iustum est.

31 Naturalis historia, XXVIII, 13: Quin et sordes hominis in magnis fecere remediis quaestus gymnici graecorum, quippe ea strigmenta molliunt, calfaciunt, discutiunt, conplent, sudore et oleo medicinam facientibus. Volvis inflammatis contractisque admoventur; sic et menses cient, sedis inflammationes et condylomata leniunt, item nervorum dolores, luxata, articulorum nodos. Efficaciora ad eadem strigmenta a balneis, et ideo miscentur suppuratoriis medicamentis. Nam illa, quae sunt e ceromate permixta caeno, articulos tantum molliunt, calfaciunt, discutiunt efficacius, sed ad cetera minus valent. Excedit fidem inpudens cura, qua sordes virilitatis contra scorpionum ictus singularis remedii celeberrimi auctores clamant, rursus in feminis qua infantium alvo editas in utero ipso contra sterilitatem subdi censent; meconium vocant. Immo etiam ipsos gymnasiorum rasere parietes, et illae quoque sordes excalfactoriam vim habere dicuntur; panos discutiunt, ulceribus senum puerorumque et desquamatis ambustisve inlinuntur.

Casualmente mi sono imbattuto in rete (http://books.google.it/books?id=8KpIAwAAQBAJ&pg=PA66&lpg=PA66&dq=funzionari+palestre+olio+atleti&source=bl&ots=M0) in un’affermazione, peraltro posta su carta stampata, che è una delle tante dimostrazioni che prima di poter dire qualcosa che non rientra nella nostra competenza bisognerebbe, quanto meno, chiedere, naturalmente alle persone giuste. Se io sarei stato eventualmente tra quelle lo lascio giudicare a chi legge. In Luca Di Lorenzo, Kos, la guida turistica, un e-book (al posto riservato all’editore vi è l’indirizzo www. isolegreche.com) uscito il 9 aprile u. s., alle pp. 66-67 leggo: L’antico Gymnasium [di Kos], noto anche come Xisto, risale al III secolo a. C.; era la palestra dove si allenavano gli atleti. Il termine Xisto significa in greco antico raschiato, e si riferisce alla pratica degli atleti di raschiare via l’olio dopo aver terminato la loro attività sportiva.

In greco antico ci sono: ξυστός/ξυστή/ξυστόν (leggi xiustòs/xiustè/xiustòn), aggettivo col significato di raschiato, levigato, grattato e ξυστός/ξυστοῡ (leggi xiustòs/xiustù), sostantivo col significato di galleria coperta con fondo levigato, spazio con fondo battuto per esercizi atletici nella palestra. Sarebbe quanto meno strano che Xisto avesse assunto il nome da un participio passato riferito all’atleta (raschiato) e non alla caratteristica fondamentale di un suo componente (fondo battuto).

32 Dal greco χαμελαία (leggi chamelàia)=olivo nano, voce composta da χαμαί (leggi chamài)=per terra + ἐλαία (leggi elàia)=olivo.

33 Dal greco κίκι (leggi kiki)=ricino. La voce, comunque, è di origine egiziana, secondo quanto ci fa sapere Erodoto (V secolo a. C.), Storie, II, 94, 1): Ἀλείφατι δὲ χρέωνται Αἰγυπτίων οἱ περὶ τὰ ἕλεα οἰκέοντες ἀπὸ τῶν σιλλικυπρίων τοῦ καρποῦ, τὸ καλεῦσι μὲν Αἰγύπτιοι κίκι  (Quelli degli Egiziani che abitano presso le paludi si servono di un unguento che estraggono dal frutto dei sillicipri e gli Egiziani lo chiamano kiki). Molto probabilmente l’olivo era molto raro in Egitto tanto che Platone con la vendita di una partita di olio si sarebbe pagato le spese del viaggio in quella terra, stando alla notizia riportata da Plutarco (I-II secolo d. C.) Vite parallele, vita di Solone, II, 5: Καὶ Θαλῆν δέ φασιν ἐμπορίᾳ χρήσασθαι καὶ Ἱπποκράτη τὸν μαθηματικὸν καὶ Πλάτωνι τῆς ἀποδημίας ἐφόδιον ἐλαίου τινός ἐν Αἰγύπτῳ διάθεσιν γενέσθαι (Dicono che pure Talete e il matematico Ippocrate esercitarono il commercio e che per Platone la disponibilità alla vendita in Egitto di un ulivo selvatico fu il prezzo del viaggio). Sul viaggio di Platone in Egitto in generale vedi

34 In greco esiste κροτώνη (leggi crotone) col significato di escrescenza o malattia dell’olivo, a sua volta da κροτών (leggi crotòn)=zecca del cane, ricino. A questo punto l’immagine che segue del seme del ricino (tratta da http://img03.elicriso.it/it/piante_medicinali/ricino/1ricinus.jpg) è oltremodo eloquente.

 

35 Credo che sibi vada emendato in silli sulla scorta del sillicipro erodoteo (vedi nota 33). Infatti σιλλικύπριον (leggi sillikiùprion), di cui σιλλικυπρίων (leggi sillikiuprìon) è genitivo plurale, risulta chiaramente composto da un *σίλλι (leggi silli; l’asterisco indica che non è attestato) + κύπριον (leggi kiùprion)=di Cipro.

36 L’originale neopum quasi sicuramente è lezione corrotta, da emendare secondo me con  metòpium sulla scorta di μετώπιον (leggi metòpion), nome dato all’olio di mandorle da Dioscoride (De materia medica, I, 39); μετώπιον  è voce composta da μετά (leggi metà)=fra e ὤψ (leggi ops)=occhio e il riferimento è alla sua efficacia contro il dolore di testa.

37 Dal greco ὀξυμυρσίνη (leggi oxumiursine)=mirto spinoso, composto da ὀξύς (leggi oxiùs)=acuto e μυρσίνη (leggi miursìne)=mirto.

38 Dal greco χαμαιμυρσίνη (leggi chamaimiursìne)=mirto selvatico, composto da χαμαί (leggi chamài)=a terra e μυρσίνη (leggi miursìne)=mirto.

39 Dal greco ἄκορον (leggi àcoron). La voce potrebbe essere composta da α- (alfa intensivo, leggi a) e κόρη (leggi core)=pupilla, con riferimento alla sua supposta efficacia contro le malattie degli occhi.

40 Dal greco καρύινος (leggi cariùinos)=di noce, aggettivo da κάρυον (leggi càriuon)=noce.

41 Dal greco πισσέλαιον (leggi pissèlaion)=miscela di pece e olio, voce composta da πίσσα (leggi pissa)=pece e ἔλαιον (leggi èlaion)=olio.

42 Dal greco οἰνάνθη (leggi oinànthe)=infiorescenza della vite, voce composta da οἶνος (leggi òinos)=vino e ἄνθος (leggi anthos)=fiore.

43 Dal greco γλεύκινος (leggi gleùkinos)=preparato con vino nuovo, forma aggettivale da γλεῦκος (leggi glèucos)=vino nuovo, a sua volta da γλυκύς (leggi gliukiùs)=dolce.

44 Dal greco ὑασκύαμος (leggi iuaskiùamos), composto da ύς (leggi iùs)=porco e κύαμος (leggi kiùamos)=fava, con riferimento alla credenza che i porci potessero nutrirsene senza pericolo nonostante la sua velenosità.

45 Dal greco χόρτινος (leggi chòrtinos)=fatto di erbe, aggettivo da χόρτος (leggi chortos)=recinto per il pascolo, terreno da pascolo, erba. Sui rapporti tra questa voce greca, corte, coorte e il dialettale curti vedi http://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/02/da-li-curti-alla-monarchia-dallinno-di-mameli-a-roberto-benigni/.

46 L’originale sèsama è ablativo singolare e suppone un nominativo singolare femminile sèsama che è la trascrizione del greco σησάμη (leggi sesame); Columella, contemporaneo a Plinio,  ed altri usano  i neutri sèsamon o sèsamum sìsamum, tutti (il primo più fedelmente) dal greco σήσαμον (leggi sèsamon).

47 Da Cnido, città della Caria, con riferimento alla produzione o all’abbondanza in loco dell’essenza, o ad entrambe.

48 Regioni della Turchia centrale.

49 Probabilmente forma aggettivale da Σέλγη (leggi Selghe), città della Cilicia (Turchia sud orientale).

50 Dal greco πίσσινος (leggi pìssinos)=spalmato di pece, simile a pece; la voce è forma aggettivale da πίσσα (leggi pissa)=pece.

51 Dal greco ἐλαιόμελι (leggi elaiòmeli)=gomma dolce di ulivo; la voce è composta da ἔλαιον (leggi èlaion=ulivo) e μέλι (leggi meli)=miele, gomma dolce. Sulla sua possibile identificazione con la ragia salentina vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/27/giovanni-presta-ovvero-quando-eravamo-noi-a-chiedere-alleuropa/.

52 Naturalis historia, XV, 8-9: Non erat tum ficticium oleum, ideoque arbitror de eo nihil a Catone dictum. Nunc eius genera plura, primumque persequemur ea quae ex arboribus fiunt, et inter illas ante omnes ex oleastro. Tenue id multoque amarius quam oleae et tantum ad medicamenta utile. Simillimum huic est ex chamelaea, frutice saxoso, non altiore palmo, foliis oleastri bacisque. Proximum fit e cici, arbore in aegypto copiosa (alii crotonem, alii sibi, alii sesamon silvestre eam appellant), ibique, non pridem et in Hispania, repente provenit altitudine oleae, caule ferulaceo, folio vitium, semine uvarum gracilium pallidarumque. Nostri eam ricinum vocant a similitudine seminis. Coquitur id in aqua, innatansque oleum tollitur. At in Aegypto, ubi abundat, sine igni et aqua sale adspersum exprimitur, cibis foedum, lucernis utile. Amygdalinum, quod aliqui neopum vocant, ex amaris nucibus arefactis et in offam contusis adspersam aqua iterumque tusis exprimitur. Fit et lauru admixto drupparum oleo, quidamque e bacis exprimunt tantum, alii foliis modo, aliqui folio et cortice bacarum, nec non styracem addunt aliosque odores; optima laurus ad id latifolia, silvestris, nigris bacis. Simile est et e myrto nigra, et haec latifolia melior. Tunduntur bacae adspersae calida aqua, mox decoquuntur. Alii foliorum mollissima decoquunt in oleo et exprimunt, alii deiecta ea in oleum prius sole maturant. Eadem ratio et in sativa myrto, sed praefertur silvestris minore semine, quam quidam oxymyrsinen, alii chamaemyrsinen vocant, aliqui acoron a similitudine; est enim brevis, fruticosa. Fit et e citro, cupresso, nucibus iuglandibus quod caryinum vocant, malis, cedro quod pisselaeon, e grano quoque cnidio purgato semine et tunso, item lentisco. Nam cyprinum et e glande aegyptia ut fieret odorum causa dictum est. Indi e castaneis ac sesima atque oryza facere dicuntur, ichthyophagi e piscibus. Inopia cogit aliquando luminum causa et e platani bacis fieri aqua et sale maceratis. Et oenanthinum fit; de ipsa oenanthe dictum est in unguentis. Gleucino mustum incoquitur vapore lento, ab aliis sine igni circumdatis vinaceis diebus XXI bis singulis permixtum, consumiturque mustum oleo. Aliqui non sampsuchum tantum admiscent, sed etiam pretiosiora odoramenta, ut in gymnasiis quoque conditur odoribus, sed vilissimis. Fit ex aspalatho, calamo, balsamo, iri, cardamomo, meliloto, nardo gallico, panace, sampsucho, helenio, cinnamomi radice, omnium sucis in oleo maceratis expressisque. Sic et rhodinum e rosis, iuncinum e iunco, quod et rosaceo simillimum, item hyoscyamo et lupinis, narcisso. Plurimum autem in Aegypto e raphani semine aut gramine herba quod chortinon vocant, item e sesama et urtica quod cnidinum appellant. E lilio et alibi fit sub diu sole, luna, pruina maceratum. Suis herbis componunt inter Cappadociam et Galatiam quod selgiticum vocant, nervis admodum utile, sicut in Italia Iguvini. E pice fit quod pissinum appellant, cum coquitur, velleribus supra halitum eius expansis atque ita expressis. Probatum maxime e bruttia; est enim pinguissima et resinosissima. Color oleo fulvus. Sponte nascitur in Syriae maritimis quod elaeomeli vocant; manat ex arboribus pingue, crassius melle, resina tenuius, sapore dulci, et hoc medicis. Veteri quoque oleo usus est ad quaedam genera morborum; existimaturque et ebori vindicando a carie utile esse: certe simulacrum Saturni Romae intus oleo repletum est. Super omnia vero celebravit amurcam laudibus Cato. Dolia olearia cadosque illa imbui, ne bibant oleum; amurca subigi areas terendis messibus, ut formicae rimaeque absint; quin et lutum parietum ac tectoria et pavimenta horreorum frumenti, vestiaria etiam contra teredines ac noxia animalium amurca aspergi, semina frugum perfundi. Morbis quadripedum, arborum quoque, illa medendum, efficaci ad ulcera interiora humani quoque oris. lora etiam et coria omnia et calceamina axesque decocta ungui atque aeramenta contra aeruginem colorisque gratia elegantioris et totam supellectilem ligneam ac vasa fictilia, in quis ficum aridam libeat adservare, aut si folia bacasque in virgis myrti aliudve quod genus simile. Postremo ligna macerata amurca nullo fumi taedio ardere. Oleam si lambendo capra lingua contigerit depaveritque primo germinatu, sterilescere auctor est M. Varro. Et hactenus de olea atque oleo.

  

Un villaggio dell’età del bronzo a Torre Suda di Racale

racale

di Francesco Giannelli

 

Questo studio parte da lontano ed è emblematico di come spesso l’attività di ricerca in ambito archeologico possa essere assimilata all’investigazione che le forze di polizia svolgono per dirimere i fatti di cronaca.

Raccogliere indizi, tasselli, che poi magicamente, unendosi, svelano un quadro bellissimo e sorprendente.

Tutto parte da una rivelazione che anni fa mi fece mio padre: non ricordo in che occasione ebbe a parlarmi del famoso “cavallone”, un enorme cumulo di pietre non più esistente che si trovava nella zona della torre della marina di Torre Suda a Racale, a pochi metri dal mare.

 

Le notizie erano scarse, ma il solo fatto che ne venisse perpetuata la memoria mi faceva intuire che doveva trattarsi di qualcosa di anomalo ed inspiegabile agli occhi della gente comune. Non una semplice specchia, di quelle i nostri contadini ne hanno viste tante, né il risultato di un semplice spietramento visto che la zona non è mai stata frequentata dall’uomo ai fini produttivi fino ai primi decenni del XX secolo e poi così vicino al mare….

Comunque l’interrogativo rimase sospeso in attesa di tempi propizi per essere svelato.

torre suda

Fu così che circa un anno fa mi imbattei in un anziano vicino di casa, un vecchietto ultranovantenne con una intelligenza ed una lucidità ancora intatte, un patrimonio di memoria storica, il quale a mia precisa domanda se avesse mai sentito parlare del “cavallone” rispose con entusiasmo di sì, ma non solo, egli aveva partecipato ancora adolescente allo sbancamento dello stesso al fine di utilizzarne il materiale lapideo per la costruzione della litoranea che tutti oggi percorriamo in direzione nord partendo proprio da Torre Suda. Capii subito che potevo trovarmi di fronte ad una svolta. Ne approfittai così per effettuare un vero e proprio interrogatorio al caro amico il quale mi fornì prontamente tutte le informazioni di cui avevo bisogno: lunghezza e direzione del cumulo, altezza, forma e dimensione del materiale litico di cui era composto. Il quadro iniziava a chiarirsi, ma servivano ancora altri indizi per avere la prova che si trattasse di quello che pensavo fosse.

torre suda 1

Prima però di procedere oltre con il racconto degli eventi successivi occorre chiarire, a chi non la conoscesse, la geomorfologia del luogo ove sorge la torre di Suda. Ci troviamo, infatti, in presenza di un vero e proprio promontorio che si eleva 5 mt sul livello del mare e con una forma a semiluna si protende nello ionio per circa 250 mt con a nord e a sud due insenature dai cui anfratti rocciosi scaturisce perennemente acqua dolce. Orbene, in base alla testimonianza orale, il “cavallone” percorreva da insenatura a insenatura tale promontorio in direzione sud – nord per oltre 300 mt. in maniera da “tagliarlo” e isolarlo dal resto del paesaggio circostante. La sua altezza era di circa 4/5 metri con una larghezza alla base di oltre 7 mt ed era composto da una quantità innumerevole di pietre di dimensioni medio grandi, con in basso le più enormi che per essere utilizzate dal cantiere furono frantumate con l’ausilio di cariche esplosive. Il nome “cavallone” quindi era prontamente spiegato: a chi arrivava al mare da Racale, discendendo la serra degli specchi, si presentava di traverso questa enorme onda costituita da pietre, quasi a voler sommergere i visitatori.

Ma a cosa serviva e chi e quando aveva realizzato un’opera così dispendiosa di energie e manodopera?

torre

 

Fonti documentali

Iniziai così le ricerche documentali con l’ausilio dell’associazione culturale A.s.c.Ra. di Racale, di cui mi onoro di essere socio, che mi fornì il materiale che desideravo.

In primo luogo fu di fondamentale importanza la consultazione della tesi di laurea del prof. Dario Morgante dal titolo “Il tratto costiero Ionico – Salentino, Leuca – Gallipoli”, relatore l’illustre prof. Dino Adamesteanu.

In tale tesi vi è un capitolo concernente la marina di Torre Suda in cui sono analizzati alcuni reperti rinvenuti durante i lavori effettuati negli anni settanta per la costruzione di una piazzetta nelle immediate vicinanze della torre. Un frammento di ascia e diversi resti di ceramica ad impasto attribuibili al bronzo recente facevano concludere che il sito era stato con molta probabilità abitato nel 1300 a.c.

Tempo addietro feci un sopralluogo e nelle poche zone non ancora stravolte dall’attività antropica rinvenni diversi frammenti di ceramica dell’età del bronzo a conferma di quanto testimoniato in precedenza.

ok

Il toponimo “Suda”.

E’ ormai unanimemente accettato che il luogo ove sorge la torre ha dato il nome alla stessa e non viceversa.

Le fonti a sostegno di tale tesi sono diverse, la più importante delle quali è del 1154 (quattrocento anni prima della costruzione difensiva) anno in cui fu pubblicata l’opera del geografo marocchino Edrisi dal titolo “Divertimento di colui che desidera viaggiare per il mondo” in cui nel descrivere il periplo della penisola salentina si dice:<<Da Otranto al promontorio della Suda…>>.

Ma da dove deriva l’etimo “Suda”? Rispondendo a questa domanda capiremo il collegamento con il famoso “cavallone”. Come sappiamo siamo in una zona a forte influenza linguistica greca, lo si deduce dai nomi dei paesi vicini, e alla stessa radice non si poteva sottrarre “Suda”. Lo studioso tedesco Gehrard Rohlfs nel suo “Scavi linguistici nella Magna Grecia” riferendosi alla nostra località dice:<<…toponimo di Creta e del Peloponneso, dal greco volgare fossato >>, intendendo per fossato un’opera difensiva in genere.

Così è che, infatti, viene utilizzato tale termine negli “Annales Barenses” di Lupo Protospatario, una cronaca degli avvenimenti storici del medioevo, ove, riferendosi alla discesa di Maniace a Taranto dice:<<… et fecit suda in loco qui dicitur Tara.>>.

Nel “Glossarium mediae et infimae latinitatis” di Charles Du Fresne, la voce suda o zuda indica un accampamento, un fossato, un vallum, comunque una fortificazione.

torre racale

La prova regina.

Un anno fa comprai una pubblicazione sullo sviluppo della marina di Torre Suda nello scorso secolo. Tra le varie foto presenti una mi colpì subito: era ritratta la torre ai primi del novecento. Fin qui niente di straordinario se non per il fatto che la si poteva scorgere solo per la metà superiore. Cosa la copriva nella parte inferiore? Era quello che pensavo? Subito mi prodigai per reperire l’originale, e dopo varie traversie ne venni in possesso, il segreto fu svelato: nella foto originale del 1910, non circoscritta alla sola torre, si poteva ammirare il “cavallone” in quasi tutta la sua estensione e maestosità. Veniva fugato così ogni dubbio sulla sua reale funzione: era una colossale opera difensiva realizzata con il sacrificio di molti uomini e di cui purtroppo nulla è rimasto.

 

Il contesto storico.

“All’inizio del II millennio a.C. lungo le coste e le aree paralitorali della Puglia adriatica e ionica si manifesta l’insorgenza di numerosi insediamenti non di rado provvisti di opere di fortificazione costituite da muraglioni in pietrame a secco e/o terrapieni. Il fenomeno sembra rispondere ad una generalizzata necessità di acquisire il controllo territoriale di posizioni strategiche nelle quali localizzare forme residenziali anche a carattere complesso. Una risposta delle comunità indigene, o di gruppi di esse, agli stimoli provenienti dal mare e portati dai primissimi rapporti commerciali con i navigatori egeo – micenei” che “scatenò una competizione finalizzata all’acquisizione del miglior scalo marittimo possibile” e successivamente “un incremento della conflittualità tra comunità costiere e comunità dell’interno la cui struttura economica e sociale sarebbe invece restata più ancorata allo sfruttamento delle risorse del territorio”[1].

In questo contesto potrebbero trovare spiegazione le specchie monumentali sorte per controllare il territorio e di cui proprio a Racale, sulla sommità della collina che sovrasta il promontorio di Suda, abbiamo un magnifico esempio.

 

Gli insediamenti costieri attestati nella nostra regione sono: Torre Mileto (Lesina,FG), Punta Molinella (Vieste, FG), Punta Manacore (Peschici,FG), Coppa Nevigata (Manfredonia, FG), e nel Salento, Egnazia (Fasano, BR), Torre Guaceto (Carovigno, BR), Scogli di Apani (Brindisi), Roca (Melendugno,LE), Santa Maria di Leuca (Leuca, LE), Torre dell’Alto (Nardò, LE), Torre Castiglione, Bagnara, Torre Castelluccia, Porto Perone e Scoglio del Tonno, in provincia di Taranto.

Al punto A indicato da freccia corrisponde la fortificazione di Torre dell’Alto, nel punto B il muraglione dell’insediamento coevo ma minore di Punta dell’Aspide. La foto aerea è dell’IGM – anno 1943

Nella maggior parte di questi siti si riscontrano le caratteristiche geomorfologiche presenti sul promontorio di Suda, e cioè uno sperone o promontorio che si inoltra nel mare cinto da opere murarie difensive al fine di proteggerlo da eventuali attacchi via terra.

Il villaggio fortificato di Suda si collocava quindi tra quello di Santa Maria di Leuca, e quello di Torre dell’Alto, presso Santa Caterina (Nardò,LE).

Proprio in quest’ultimo sito è ancora possibile ammirare un aggere, o, come chiamato volgarmente a Racale, “cavallone”, in buona parte ancora intatto, elevato a proteggere la penisola su cui sorge la torre.

la foto del 1910
la foto del 1910

 

[1] Teodoro Scarano, Roca. Le fortificazioni della media età del bronzo, pp. 156 – 158, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, serie 5 – 2010, 2/2

Scipione Ammirato il Vecchio e Scipione Ammirato il Giovane: come Plinio il Vecchio e Plinio il Giovane?

di Armando Polito

Comincio dalla coppia certamente più nota. Plinio il Vecchio è servito da fonte con la sua Naturalis historia a parecchi miei pezzi usciti su questo sito. Si tratta del più famoso naturalista latino morto sul campo, cioè durante l’eruzione del Vesuvio del 79 d. C. per essersi avvicinato troppo al fine di studiare meglio il fenomeno. Plinio il Giovane, suo nipote, aveva 17 anni quando il naturalista morì. Di lui ci resta il Panegirico di Traiano e l’epistolario in cui spiccano, per la vivace, direi drammatica, descrizione dell’evento del 79 due lettere (la 16 e la 20 del libro VI) indirizzate a Tacito. Ricordo per completezza d’informazione che entrambi erano nati a Como (secondo alcuni, il Vecchio a Verona).

Scipione Ammirato il Vecchio nacque a Lecce nel 1531 e, dopo aver studiato legge a Napoli, fu un pendolare della cultura fermandosi  prima a Roma, Venezia, Lecce (dove nel 1558 fondò l’Accademia dei Trasformati), poi di nuovo a Napoli e infine a Firenze, dove morì nel 1601 e dove venne sepolto nel duomo, del quale era stato canonico.

Con Lecce ebbe sempre un rapporto conflittuale, come mostra il sonetto da lui inviato ad Angiolo di Costanzo e tramandatoci da Domenico De Angelis ne Le vite de’ letterati salentini, s. n., Firenze, 1710, v. I, p. 71: Nella mia Patria, che brighe, e contese,/nutre mai sempre; fu fatto un Centone,/ che ‘l peccato d’ogn’un facea palese./Subiro immaginaron le persone,/fuor d’alcun buon, cui mia natura è nota;/che quella fosse stata mia invenzione./O come in breve volge la sua ruota/Fortuna! Io ch’ero dianzi a tuti caro,/subitamente ogn’Uom mi punge, e nota./E tal si fù, che del suo onore avaro;/ pensò rendermi pan per ischiacciata,/affin che l’altro, e l’un gisse par paro./Altre cose vi fur, che la turbata,/e stanca mente insbigottiro in guisa,/ che la Patria da me funne lasciata.

In sintesi: lamenta che gli sia stata attribuita la paternità di un componimento contenente frecciate contro i notabili della città, di lui invidiosi e da loro fatto circolare ad arte per suscitargli odio e antipatia; questo ed altri non specificati inconvenienti lo costrinsero ad abbandonare Lecce.

Propongo ora le immagini che di lui son riuscito a  reperire.

Stampe custodite nelle Biblioteca Nazionale di Francia; immagini tratte, rispettivamente, da http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8530374g.r=scipione+ammirato.langEN e http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b85303732.r=scipione+ammirato.langEN); nella prima si legge AMMIRATO SCIPIONE, nella seconda SCIPIONE AMMIRATO DI ANNI LXVIII NEL MDIIC
Stampe custodite nelle Biblioteca Nazionale di Francia; immagini tratte, rispettivamente, da http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8530374g.r=scipione+ammirato.langEN
e
http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b85303732.r=scipione+ammirato.langEN); nella prima si legge AMMIRATO SCIPIONE, nella seconda SCIPIONE AMMIRATO DI ANNI LXVIII NEL MDIIC
Stampa del 1763 custodita nella Biblioteca Nazionale Austriaca (immagine tratta da http://www.bildarchivaustria.at/Preview/7753130.jpg). La didascalia recita: SCIPIONE AMMIRATO DI ANNI CANONICO FIORENT.NO ANTIQUARIO, E SCRITT.RE DELL’ISTORIE FIOREN. E  E D’ALTRE OPERE, nato in Lecce nel MDXXXVIII, morto in FIRENZE nel  MDC. Al merito singolare dell’Ill(ustrissi)mo Sig.re Luigi Tempi Patrizio Fiorentino, e Marchese del Barone. Preso da un Quadro in Tela lasciato dal med.mo Scipione per legato al Car.mo Sig.re Andrea Minerbetti uno degli Esecutori del suo Testamento, oggi appo l’Ill.mo Sig.re Andrea Minerbetti Boni. Nei due angoli in basso i nomi del disegnatore e dell’incisore: Zocchi del(ineavit) Fran(iscus) Allegrini inci(dit) 1763. Da notare le date errate di nascita (1538 invece di 1531) e di morte (1600 invece di 1601).
Stampa del 1763 custodita nella Biblioteca Nazionale Austriaca (immagine tratta da http://www.bildarchivaustria.at/Preview/7753130.jpg). La didascalia recita: SCIPIONE AMMIRATO DI ANNI CANONICO FIORENT.NO ANTIQUARIO, E SCRITT.RE DELL’ISTORIE FIOREN. E E D’ALTRE OPERE, nato in Lecce nel MDXXXVIII, morto in FIRENZE nel MDC. Al merito singolare dell’Ill(ustrissi)mo Sig.re Luigi Tempi Patrizio Fiorentino, e Marchese del Barone. Preso da un Quadro in Tela lasciato dal med.mo Scipione per legato al Car.mo Sig.re Andrea Minerbetti uno degli Esecutori del suo Testamento, oggi appo l’Ill.mo Sig.re Andrea Minerbetti Boni. Nei due angoli in basso i nomi del disegnatore e dell’incisore: Zocchi del(ineavit) Fran(iscus) Allegrini inci(dit) 1763. Da notare le date errate di nascita (1538 invece di 1531) e di morte (1600 invece di 1601).

 

Ritratto di anonimo di ambito fiorentino; Firenze, Galleria degli Uffizi (immagine tratta da http://www.polomuseale.firenze.it/inv1890/scheda.asp?position=1&ninv=228). L’opera è citata come presente nella Galleria degli Uffizi GIà in Gaetano Cambiagi, Descrizione della Reale Accademia di Firenze secondo lo stato attuale, Cambiagi, Firenze, 1792, p. 132.
Ritratto di anonimo di ambito fiorentino; Firenze, Galleria degli Uffizi (immagine tratta da http://www.polomuseale.firenze.it/inv1890/scheda.asp?position=1&ninv=228). L’opera è citata come presente nella Galleria degli Uffizi già in Gaetano Cambiagi, Descrizione della Reale Accademia di Firenze secondo lo stato attuale, Cambiagi, Firenze, 1792, p. 132.

Ferdinando Leopoldo Del Migliore in Firenze, città nobilissima illustrata, Stamperia della Stella, Firenze, 1684, p. 358 scrive che monsignor Mariani, creatore della libreria dell’Ospedale di S. Maria Nuova, dispose che si dovessero collocare  sopra gli Scaffali i ritratti di coloro ch’avessero lasciato Libri per l’accrescimento di essa Libreria, dipinti in tela al naturale con elogi sotto in commendazione della loro virtuosa pietà, e già vi se ne veggon due, quello di Scipione Ammirati il vecchio Canonico Fior.1 e di Lorenzo Pucci affezionatissimo alle lettere, figliuol del Sen. E Balì Giulio e fratello del Marchese Ruberto. Ambidue Benefattori per un numero grande di Volumi lasciativi, fra’ quali furono gli Spogli, e l’Opere MS.2 di esso Ammirato, che furon quelle, sulle quali posa la fama che lo fe celebre Scrittore della Storia di Firenze, degl’Opuscoli, e d’altre non men qualificate, che dotte sue composizioni già pubblicate per mezzo della Stampa.

È il caso di dire: se qualcuno l’ha visto, si faccia vivo.

In Alfred Armand, Les médailleurs italiens des quinzième et seizième siècles, Plon, Nourrit et C., Parigi, 1887, tomo III, p. 297 si legge la seguente scheda:

Purtroppo il catalogo delle medaglie del museo citato è stato sì digitalizzato ma è consultabile solo in loco e previo appuntamento (http://www.comune.bologna.it/archeologico/percorsi/52272/luogo/53905/offset/0/id/49050/).

Nelle immagini che seguono tratte ed adattate da Google Maps: via Scipione Ammirato e quella che in passato era chiamata impropriamente (perché alcune fonti documentarie vorrebbero che sia stata la sede della citata Accademia dei Trasformati) Villa Ammirati in via di Pettorano, 3 a Lecce.

Di seguito il dettaglio dello stemma sul primo portale a partire da sinistra per chi guarda.

Sarà, forse, quello della famiglia Ammirato? Ecco, però, come quest’ultimo esso è descritto nella scheda tratta da G. B. Di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Forni, Bologna, 1886, v. I p. 41:

Tale descrizione appare assolutamente coincidente con il dettaglio, di seguito riprodotto, del ritratto del 1763. Rispetto al ritratto-base il dettaglio si direbbe un’aggiunta; da chiedersi quanto corretta, considerando nella stessa stampa l’errore cronologico di cui ho già detto.

Nulla a che vedere con il nostro stemma nel quale intravedo una torre a due piani e a destra un animale (un leone?) ad essa attorcigliato con la coda che passa prima dalla porta e poi dalla finestra.

Il secondo portale reca un altro stemma ed un’iscrizione sottostante su due linee (immagine tratta ed adattata da Google Maps).

Lo stemma è quello del Della Monica (nel dettaglio sottostante, tratto da http://antoniofebbraro.altervista.org/blog/wp-content/uploads/2014/03/DSCN1478.jpg, quello del Palazzo Fulgenzio Della Monica).

L’iscrizione, purtroppo, mi rimane illeggibile. Se qualche lettore leccese potesse darmi una mano, anzi uno scatto … La compresenza di stemmi diversi sulla stessa fabbrica, comunque, di regola attesta un passaggio di proprietà e la lodevole abitudine del nuovo proprietario di non eliminare la testimonianza di chi lo ha preceduto nel titolo di possesso.

Notevole è il numero delle opere che il letterato leccese scrisse e che godettero anche di numerose ristampe,  lui vivente. Riporto in ordine cronologico i principali titoli, che sono sufficienti a mostrare il suo ampio spettro d’azione: da  curatore di altrui lavori a genealogista, da oratore a storico.

Sonetti del signor Berardino Rota in morte della signora Porta Capece sua moglie, a cura dii Scipione Ammirato, Cancer, Napoli, 1560

Delle egloghe pescatorie del s. Berardino Rota, a cura di Scipione Ammirato, Cacchji dell’Aquila, Napoli, 1572

Due sestine, una del sig. Scipione Ammirati, l’altra del p. Benedetto dell’Uva nel natale del serenissimo gran prencipe di Toscana, Sermartelli, Firenze, 1577

Delle famiglie nobili napoletane, Marescotti, Firenze, 1580

I commentarii delle guerre fatte co’ turchi da D. GioVanni d’Austria, dopo che venne in Italia, scritti da Ferrante Caracciolo conte di Biccari, Marescotti, Firenze, 1581

Opuscoli, Marescotti, Firenze, 1583

Tutti i re di Francia Merovei Carolinghi et Ciappetti, s. n., Firenze, 1586

Orazione del sig. Scipione Ammirato fatta nella morte di don Francesco de’ Medici Gran Duca di Toscana suo Signore, Giunti, Firenze, 1587

Corona alla serenissima Cristina di Loreno [sic], Giunti, Firenze, 1594

Canzone del sig. Scipione Ammirato al beatissimo & santissimo padre et signor nostro Clemente VIII, Giunti, Firenze, 1594

Orazioni a diversi principi intorno i preparamenti, che s’avrebbono a farsi contra la potenza del Turco. Con un dialogo delle imprese del medesimo. Aggiuntovi nel fine le Lettere, & orazioni di monsignor Bessarione cardinal niceno, scritte a principi d’Italia, Giunti, Firenze, 1594

Discorsi sopra Cornelio Tacito, Giunti, Firenze, 1594

Orazione al Re di Spagna Filippo II, Marescotti, Firenze, 1594

Orazione scritta alla nobiltà napoletana confortandola ad andar alla guerra d’Ungheria contra i Turchi, Giunti, Firenze, 1594

Orazione al serenissimo e potentissimo re cattolico suo sig. Filippo re di Spagna etc. intorno il pacificar la cristianità, e prender unitamente l’arme contra gli infedeli, Giunti, Firenze, 1594

Orazione al beatissimo et santissimo padre, et signor nostro Clemente VIII detta Clementina seconda, Marescotti, Firenze, 1595

Della famiglia de’ Paladini di Lecce, Marescotti, Firenze, 1595

Della famiglia Dell’Antoglietta di Taranto, Marescotti, Firenze, 1597

Il Rota overo delle imprese, Giunti, Firenze, 1598

Nella morte di Filippo secondo re di Spagna al potentissimo re di Spagna Filippo terzo suo signore detta Filippica terza, Giunti, Firenze, 1598

Orazione al cristianissimo Enrico quarto re di Francia, et di Navarra dopo la pace fatta con la Spagna, Giunti, Firenze, 1598

Della segretezza, Giunti, Firenze, 1599

Mancano nell’elenco appena presentato alcuni titoli, anche importanti, che uscirono postumi ad opera di Scipione Ammirato il Giovane, il quale spesso aggiunse all’originale sue integrazioni. Di seguito titoli e, laddove è stato possibile, frontespizi:

Vescovi di Fiesole, di Volterra e d’Arezzo, Massi, Firenze, 1637

immagine tratta da http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Abncf.firenze.sbn.it%3A21%3AFI0098%3AMagliabechi%3ATO0E001376

immagine tratta da http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Abncf.firenze.sbn.it%3A21%3AFI0098%3AMagliabechi%3ATO0E001376

Istorie fiorentine, Massi, Firenze, 1647 (la prima edizione senza le sue integrazioni era uscita presso Giunti a Firenze nel 1600)

Frontespizi delle due edizioni; immagini tratte  rispettivamente da http://books.google.it/books?id=3F1TAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=scipione+ammirato+istorie+fiorentine&hl=it&sa=X&ei=N4sZVJb4HYjiPIregegB&ved=0CCMQ6AEwATgK#v=onepage&q=scipione%20ammirato%20istorie%20fiorentine&f=false e http://books.google.it/books?id=FV9TAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=scipione+ammirato+istorie+fiorentine&hl=it&sa=X&ei=64cZVMCQDIL2O82rgKAJ&ved=0CDMQ6AEwAw#v=onepage&q=scipione%20ammirato%20istorie%20fiorentine&f=false
Frontespizi delle due edizioni; immagini tratte rispettivamente da http://books.google.it/books?id=3F1TAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=scipione+ammirato+istorie+fiorentine&hl=it&sa=X&ei=N4sZVJb4HYjiPIregegB&ved=0CCMQ6AEwATgK#v=onepage&q=scipione%20ammirato%20istorie%20fiorentine&f=false
e
http://books.google.it/books?id=FV9TAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=scipione+ammirato+istorie+fiorentine&hl=it&sa=X&ei=64cZVMCQDIL2O82rgKAJ&ved=0CDMQ6AEwAw#v=onepage&q=scipione%20ammirato%20istorie%20fiorentine&f=false

Albero e istoria della famiglia de conti Guidi, Massi e Landi, Firenze, 1640

Poesie spirituali del s. Scipione Ammirato dedicate al ser.mo principe d. Lorenzo di Toscana, Sarzina, Venezia, 1634

Se, come abbiamo visto,  tra i due Plini c’era uno strettissimo rapporto di sangue e di probabile luogo di nascita, lo stesso non può dirsi tra i due Ammirati. Il giovane, infatti, si chiamava Cristoforo Del Bianco ed era nato a Montaione, in provincia di Firenze nel 1582.

Montaione, via Scipione Ammirato (immagine tratta ed adattata da Google Maps)
Montaione, via Scipione Ammirato (immagine tratta ed adattata da Google Maps)

All’età di sedici anni circa entrò in qualità di scrivano al servizio del letterato di origini leccesi e questi lo avviò allo studio delle lettere con tanto profitto da parte del giovane che il vecchio Scipione per testamento poco prima di morire gli lasciò in eredità nome, cognome e gran parte dei beni. Che fosse un giovane di talento lo dimostra non solo la qualità delle aggiunte apportate alle opere del suo benefattore ma anche il fatto  che fu dottore di teologia,  segretario del granduca Cosimo II con incarichi diplomatici in Francia. Morì a Firenze nel 1656.

Tomba di Scipione Ammirato il Giovane a Montaione, chiesa di S. Regolo a Montaione; immagine tratta da http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/a/aa/Montaione%2C_tomba_scipione_ammirato.JPG
Tomba di Scipione Ammirato il Giovane a Montaione, chiesa di S. Regolo a Montaione; immagine tratta da http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/a/aa/Montaione%2C_tomba_scipione_ammirato.JPG

Al di là, comunque, delle differenze emerse, non si può negare il sentimento di rispetto e riconoscenza in entrambi i casi manifestati dal giovane nei riguardi dell’anziano; cosa, ormai, sempre più rara, e non solo tra letterati …

________

1 Abbreviazione di Fiorentino.

2 Abbreviazione di manoscritte.

Quell’annosa vicenda detta “ex Caserma Massa” di Piazza Tito Schipa a Lecce

s-oronzo
ph Giovanna Falco

di Gianni Ferraris

 

Prosegue l’ormai annosa vicenda detta “Ex Caserma Massa” di Piazza Tito Schipa a Lecce. Un cantiere ormai nel degrado assoluto, abbandonato, con una vera e propria foresta sugli scavi e con reperti all’aria aperta. Il progetto di un’azienda privata in projet financing con il Comune di Lecce prevede la costruzione sul sito di un parcheggio sotterraneo e di edifici commerciali, amministrativi, negozi e abitazioni. Dove ora ci sono scavi aperti prima c’era una caserma militare (Massa, appunto) prima ancora un convento quattrocentesco e la chiesa Santa Maria del Tempio. Nel sito si sa per certo che esisteva un cimitero all’epoca “fuori le mura” dove ci sarebbero stati i resti di due sindaci della città oltre a quelli di frati. Contro la realizzazione del progetto è spontaneamente nato un comitato che chiede la salvaguardia degli scavi, la restituzione del sito alla cittadinanza, la creazione di uno spazio verde al posto di parcheggi e centri commerciali, soprattutto in una realtà in cui i negozi sfitti abbondano. Alla base di tutto ciò c’è una scelta politica precisa, si vuole che il centro città continui ad essere assediato dal traffico o che si vada verso una città vivibile, pedonalizzata, ciclabile? Si vogliono auto in pieno centro o sarebbe meglio fare parcheggi di scambio e servizi navetta? Ne abbiamo parlato con l’avvocato Alessandro Presicce del Comitato per la tutela dell’area archeologica e Caserma Massa.

 

Da chi è composto il comitato?

Il Comitato raduna singoli e associazioni che si battono, nella nostra città, per evitare lo scempio derivante dalla distruzione, nella odierna Piazza T. Schipa, delle fondamenta del quattrocentesco convento e chiesa denominati Santa Maria del Tempio. La completa distruzione centralissimo sito archeologico avverrebbe in conseguenza della realizzazione, in project-financing, di un centro commerciale con parcheggio interrato per 500 posti auto proprio sull’area degli scavi.

 

Come si è mosso il comitato fin’ora?

Abbiamo mobilitato l’opinione pubblica cittadina e lanciato una petizione affinché il sito venga tutelato come si conviene ad un bene culturale. La petizione è stata firmata da molti esponenti del mondo della cultura, accademico, da ambientalisti, associazioni tra cui WWF e Legambiente, Italia Nostra, da cittadini e famiglie sensibili, urbanisti, architetti, insomma dal meglio che la città può esprimere in termini di competenze e di amore per il territorio. Ha firmato anche  il Preside della Facoltà di Beni Culturali dell’Università del Salento, il Difensore Civico della Provincia di Lecce, il suo predecessore on. Bray.

 

Con quali esiti?

Il Comune di Lecce intende tener fede alla convenzione di project-financingsottoscritta nel 2010 con la ditta attuatrice (De Nuzzo Costruzioni) e consentire la realizzazione dell’inutile centro commerciale e parcheggio interrato annesso. Il procedimento autorizzativo appare però viziato in più punti e molti passaggi sono stati omessi o posposti rispetto ad un normale iter da seguirsi quando si interviene in una zona che da 500 anni è occupata da strutture storiche di pregio (cfr: delibera GC n. 4/2013)

 

Immagino ci sia stato un parere della soprintendenza ai beni artistici e culturali. 

La Soprintendenza ha inizialmente concesso un parere preventivo “favorevole con condizioni”, ma le condizioni poste non appaiono in alcun modo rispettate nel progetto proposto dal soggetto attuatore! Ora la Soprintendenza deve esprimersi con un parere definitivo sul progetto approvato dalla Giunta Comunale con la citata delibera di Giunta Comunale 4 del gennaio 2013. 

Diciamo inoltre che il convento e la chiesa di Santa Maria del Tempio furono barbaramente abbattuti nel 1971 dall’Amministrazione Comunale dell’epoca, ma – anche grazie al fatto che il piano-strada del 400 è quasi un metro sotto quello attuale – le fondamenta oggi apparse e indagate dall’Università del Salento presentano un elevato che in alcuni punti arriva ad un metro e “presentano caratteri di organicità, unità e buono stato di conservazione che le rendono intangibili ai sensi del Codice dei Beni Culturali” (Dalle Osservazioni ad Assoggettabilità a VIA, punto 3). 

 

I leccesi hanno memoria storica del sito?

Moltissimi, nonostante il tanto tempo trascorso, ne sono affezionati. Lo ricordano come la zona del Tempio, che è stato, oltre che un convento francescano per 500 anni, anche un luogo dove leccesi e forestieri si sono curati nei secoli scorsi.

Il Soprintendente di Lecce, arch. Canestrini, in un intervento pubblico sulla stampa ha definito il progetto del centro commerciale e parcheggio interrato, un “progetto di scarsa qualità”. Per questo speriamo che la Soprintendenza di Lecce, che ha visto alternarsi in questi anni vari dirigenti, voglia bloccare il dannoso e insensato progetto, che peraltro non rispetta le prescrizioni poste.

Un disegno dello Zimbalo e la sua firma finiti in Spagna

di Armando Polito

Dopo le mappe del Blaeu presentate recentemente in https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/18/altro-che-agenda-digitale/ ecco quanto ho trovato sul sito della Biblioteca Nazionale di Spagna all’indirizzo http://bdh-rd.bne.es/viewer.vm?id=0000134875, da cui si può scaricare il tutto in alta definizione. Il documento consta di un’unica carta che reca al retto uno scritto e al verso  un disegno. Li riporto entrambi (in bassa definizione) aggiungendo di mio per lo scritto la trascrizione e qualche nota di commento e per il disegno una sommaria descrizione.

Io Mastro Giuseppe Cimmalo della Città di Lecce faccio fede come il retroscritto

Disegno della Cappella di Santo Antonio sita nella Chiesa di Santa Maria

del Tempio de P.P. Riformati fuori di detta Città di Lecce è stato fatto

da me à richiesta del s.re D. Christofaro Antegnon Enriquez e del s.re D.

Gironimo della Luna, quale Cappella si è posseduta sempre, e possiede

dalli ss.ri di Casa Condò1, et hoggi si possiede dal s(ignore) D. Marino Condò

Marchese di Trepuzze; onde in fede hò fatta la presente sottoscritta di

mia propria mano in Lecce Le vent’uno Marzo 1664.

Io Gioseppe Zimalo

 

Si fa fede per me frat’Andrea da Franca(vi)lla Riform(a)to e Vicario

del Venerabile Convento di S.ta Maria del Tempio nella Città di

Lecce, come nella nostra Chiesa extra menia vi è una Capella (sic!)

amano (sic!) manca sotto il titolo di S.to Antonio conf(orm)e al retrosc[ritto]

disegno, la quale ab’antico (sic!) sempre sé (sic!) posseduta dalli Sig.ri di

Casa Condò1 e hoggi si possiede dal Sig.r D. Marino Condò

Marchese di Tripuzzi, e a richiesta del Sig.r D. Cristoforo

Antegnon Enriquez, e del Sig.r D. Geronimo de Luna ho

fatto la p(rese)nte firmata di mia propria mano è (sic!) suggelata (sic!)

Lecce Le vent’uno Marzo 1664 col proprio suggello del Convento

Io Frat’Andrea da Franca(vi)lla Riform(a)to, e Vicario conf(irm)o ut sup(r)a

 

In basso a destra il sigillo del convento riprodotto nel dettaglio, ingrandito, che segue.

Si riconosce appena, grazie anche al confronto col dettaglio sottostante tratto da un altro documento, l’emblema dell’ordine costituito da due braccia incrociate, uno nudo, l’altro coperto dal saio, emergenti da una nuvola, con i palmi delle mani forati e in alto una croce.

Si tratta di una scrittura privata composta di due parti. Nella prima Giuseppe Zimbalo attesta che è di sua mano il disegno retrostante eseguito su commissione di certi signori e che la cappella è proprietà della famiglia Condò; nella seconda il vicario del convento conferma i nomi dei committenti del disegno senza far menzione dello Zimbalo, perché la parte focale della sua dichiarazione riguarda solo la proprietà della cappella.

Mentre la seconda dichiarazione appare stilata dalla mano del frate, lo stesso non può dirsi della prima, in cui evidentemente è dell’artista leccese solo Io Gioseppe Zimalo, in cui il nome e il cognome, perciò, possono legittimamente considerarsi come la sua firma (nel dettaglio in basso, dopo la “ripulitura”).

Interessantissime, poi, le varianti del cognome: Cimmalo nel testo, Zimalo nella firma (così in tutti i documenti di suo pugno che ho potuto consultare, purtroppo solo in trascrizione). La forma comunemente adottata (Zimbalo), così, appare come una grafia di compromesso perché Z– si rifà a Zimalo ma -mbalo si rifà a Cimmalo (sia pure con dissimilazione –mm->-mb-). A proposito di varianti: sulla statua di S. Giovanni Battista della facciata della chiesa di S. Teresa a Lecce si legge Gioseppe Ximalo (altra variante …) csopiva (sic!). Può darsi pure che tale iscrizione non sia di suo pugno, come altre eventualmente presenti su altri manufatti, ragion per cui non si può parlare di vera e propria firma, anche perché tra una firma vergata a mano ed una tracciata con lo scalpello dalla stessa persona ci sarebbe, comunque, una differenza notevole (un po’ meno notevole, credo, in pittura usando un pennello). Non guasterebbe, però, estendere l’indagine ad atti notarili in cui lo Zimbalo compaia come sottoscrittore e fare così la comparazione tra tutti i dati raccolti. Per Cimmalo, poi, non è da escludere, secondo me, una sorta di italianizzazione, passando attraverso il napoletano cimmalo=cembalo. Vale, infine, la pena ricordare che nell’atto di battesimo di Giuseppe (archivio della Cattedrale di Lecce, Liber baptizatorum, v. VIII, anni 1620-1629) si legge nato da Gesimondo Zingano et Lucretia Leccisa; come nome comune zìngano è variante antica e popolare (come zìnghero e zìngherlo) di zingaro e deriva dal greco bizantino ἀϑίγγανος (leggi athìnganos)=intoccabile, più precisamente dalla sua forma popolare *ἀϑσίγγανος (leggi athsìnganos), a sua volta dal classico ἀ- privativo + ϑιγγάνω (leggi thingàno)=toccare. Per concludere su questo punto: molto probabilmente tutto il percorso che ha portato da Zìngano a Zìmbalo è iniziato al fine di depurare la voce di partenza della valenza dispregiativa che ancora conserva.

I sic! che ho aggiunto in parentesi tonde mostrano come questo secondo testo rispetto al primo mostra una minore padronanza della lingua.

E passiamo al disegno.

La didascalia che nel link indicato accompagna la scheda di catalogazione (in cui purtroppo mancano notizie circa la provenienza della carta e il percorso seguito per giungere fino in Spagna) recita così:

Proyecto para un altar, en el centro ornacina con la figura de San Antonio flanqueada por columnas pareadas, arriba frontón partido que alberga un escudo, abajo basamento (Progetto per un altare; al centro un arco con la figura di S. Antonio, fiancheggiato  da due colonne per lato, in alto frontone ripartito che contiene uno scudo, in basso un basamento).

Ecco, ingrandito, lo scudo:

Lo stemma (scudo troncato, con un pavone ed una rosa) è dei Condò, come mostra quello, evidenziato dalla circonferenza bianca nell’immagine che segue, di Giovanni Battista Condò sulla facciata della chiesa matrice (di Maria Santissima assunta in cielo) di Trepuzzi alla cui costruzione il nobile concorse e che si presenta partito con quello dei Castriota-Scanderberg (aquila bicipite con teste coronate sormontata da una stella ad otto punte). Chiedo scusa per la bassissima definizione del dettaglio che ho tratto da una schermata di Google Maps, ma è il massimo che ho potuto fare. Se qualche gentile lettore di Trepuzzi inviasse alla redazione una foto più decente io gli sarei grato, la sostituzione sarebbe rapidissima e lui qui vedrebbe citato altrettanto rapidamente il suo nome …

Sulla stessa via (Corso Umberto) al civico 59 lo stesso stemma inquartato (immagine successiva tratta ed adattata sempre da Google Maps) con quello Castriota-Scandeberg e due altri [nel quarto inferiore destro (per chi guarda) quello dei Reggio? (ma le due stelle dovrebbero essere di sei raggi e non, come qui, di otto); il secondo quarto controinquartato?

Ecco in dettaglio lo stesso stemma tratto da http://www.nobilinapoletani.it/images/foto/C/CONDO/Stemma%20CONDO.gif

Anche qui confido  nell’aiuto del lettore volenteroso per una foto più definita e in quello di qualche esperto di araldica, il nostro Marcello in primis (al quale chiedo fin da adesso scusa per le più che probabili imprecisioni terminologiche e per le ipotesi anche loro molto probabilmente avventate; per gli altri se ci saranno, lo farò dopo), per l’identificazione di quei due altri.

Nota aggiunta successivamente alla pubblicazione: Il notaio Gianfranco Condò Arena in data 18/2/2015 mi ha gentilmente comunicato quanto segue: “Giovanni Battista I Condò riacquista nel 1602 Trepuzzi e  concorre alla costruzione della Chiesa Madre. G.B. I era figlio di Giacomo II e di Minerva delli Falconi, aveva sposato Aurelia Castriota Scanderbeg: lo stemma dei Condò sulla  facciata della Chiesa è partito a quello dei Castriota Scanderbeg. G.B. I muore nel 1616. Francesco Maria era figlio di G.B. I e di Aurelia Castriota S., aveva sposato Elisabetta Radalovich di Polignano, è morto, ucciso da Francesco Paladini ,nel 1630. Lo stemma sull’arco del Castello Vecchio di Trepuzzi reca , nel lato destro (sinistro per chi guarda) le armi dei Condò e dei Castriota S.;  nel lato sinistro (destro per chi guarda) le armi dei Radalovich marchesi di Polignano.Quindi non si tratta di armi dei Reggio”.

Ritorno alla didascalia della scheda di catalogazione per dire che non può trattarsi di un progetto ma del disegno, fatto dallo Zimbalo (1620-1710), di qualcosa esistente da quasi due secoli.  Me lo fa pensare la data 1433 che nel disegno si legge agevolmente a destra ai piedi del santo e che sembra farne parte integrante.

Aggiungerei che lo stesso scudo non ancora inquartato ne dà conferma. Un’altra prova, ove ce ne fosse stato bisogno, la offre la chiarissima distinzione nella dichiarazione del frate tra sempre sé posseduta dalli Sig.ri di Casa Condò da una parte e hoggi si possiede dal Sig.r D. Marino Condò Marchese di Tripuzzi dall’altra. 

Che poi di tutto, tempio, cappella e quant’altro, sia rimasto solo questa carta, per giunta finita in Spagna, fa parte delle vicende del tempo e in troppi casi (credo che il nostro sia uno di quelli …) dello scarso rispetto, spesso rasentante un folle vandalismo (e magari fosse frutto solo d’ignoranza! …), del nostro passato.

_____________

1 I Condò secondo Amilcare Foscarini (Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto estinte e viventi, Fratelli Lazzaretti di Domenico, Lecce, 1903, vol. I, pp.51-52) sono originari di Parigi e forse discendenti della stirpe dei conti di Ville Conteblas.

Il primo venuto in Terra d’Otranto fu il barone Agostino che ebbe dal 1369 metà dei casali di Castro e di Caprarica di Lecce e quello di Acquarica di Lecce. A lui subentrò prima il figlio Giovanni ed a questi suo fratello Bernardo il quale possedette anche i casali di S. Donato e Trepuzzi col feudo di Terenzano. Giovanni Battista nel 1602 rientrò in possesso del casale di Trepuzzi con Terenzano passato nel frattempo alla famiglia Corciolo; egli concorse, come dirò più avanti, alla costruzione della chiesa matrice di Trepuzzi che reca il suo stemma. Nel 1653 Marino (proprio quello nominato nel nostro atto) è marchese di Trepuzzi. Con una figlia di Marino, moglie di un Acquaviva,  la famiglia si estinse nel XVIII secolo. Va ricordato anche che furono sindaci di Lecce Andriolo nel 1466, Giovanni nel 1570 e Gaspare nel 1568.

 

 

 

Cesare Rao di Alessano e il suo bestseller

di Armando Polito

C’è chi, purtroppo è un italiano, con un’affermazione stupida perché non rispondente in ultima analisi alla realtà di ogni tempo, ha detto che con la cultura non si mangia, dimenticando che il nostro attuale presente è figlio ingrato del nostro passato e padre snaturato del nostro futuro. C’è chi dimentica (o, peggio, finge di dimenticare …) per sua rozzezza, congenita o acquisita, chi preferisce dimenticare per una convenienza (più che convinzione …) ideologica che fatalmente si coniuga con il potere e l’interesse materiale (è il caso dell’autore del sublime aforisma citato all’inizio, autore che, comunque, può vantare un numero staripante di proseliti e, si sa, il numero fa la forza … bruta), c’è chi dimentica semplicemente perché rincoglionito dall’età o perché vittima di qualche malattia degenerativa del cervello,  chi, infine si difende rimuovendo un ricordo traumatico.

In quest’ultimo caso l’oblio rappresenta l’ultima spiaggia sulla quale non è detto che i fantasmi del passato prima o poi non possano ritornare. Se la perdita di una memoria in questo caso è un conforto, in altri è, invece, il suo recupero ad assolvere alla stessa benefica funzione. E, se il presente che viviamo è quello che è, il confronto col passato può essere non un piagnucolante raggomitolarsi sulle comuni miserie del momento in una sterile, qualunquistica lode del tempo che fu, ma una presa di coscienza per incrementare con solide basi e senza presunzione la propria autostima, un motivo, insomma, di rabbioso e orgoglioso riscatto, anche perché ogni rosa del passato ha avuto le sue inevitabili spine: tutto sta nel loro numero, che rende statisticamente più probabile la spiacevole puntura …

Ho avuto già occasione di parlare di qualche illustre quanto dimenticato figlio della nostra terra ed oggi è la volta di Cesare Rao di Alessano,  che fiorì nel XVI secolo1. Il mio scritto ha solo un intento divulgativo e, dunque, la parte del leone, la reciteranno le immagini.

Fa (o dovrebbe fare) un certo effetto, soprattutto ad un alessanese, la copertina della sua prima pubblicazione, L’argute e facete lettere di Cesare Rao di Alessano Metropoli Città della Leucadia nelle quali si contengono molti leggiadri Motti, e sollazzevoli Discorsi, uscita a Brescia (Bressa) per i tipi di Bozzola nel 1562.

L’arguzia e la facezia, ingredienti fissi della produzione del nostro che, unitamente ad una forma ridondante e ad effetto, autorizzano a considerarlo come un precursore della letteratura del secolo successivo, traspaiono  già da alcuni dettagli del titolo: Metropoli sembrerebbe sarcastico se inteso nell’accezione comune, ma ai tempi del Rao Alessano era, e lo sarebbe stata ancora per lungo tempo, centro di diocesi; con Leucadia, invece, più che di ambiguità si deve parlare di equivoco (non so quanto consapevole) perché qui è inteso come territorio attorno al Capo di Leuca, ma la Leucadia attestata è solo quella greca (Tucidide, III, 94, 1 ed altri) e non c’è nulla che provi che Leuca sia stata fondata da coloni provenienti da quella parte della Grecia. Da notare anche la “dialettalità” di Bressa per Brescia e Lisandro per Alessandro che conferiscono a questa prima edizione i connotati di quel prodotto che in dialetto salentino definiamo fattu ‘ccasa (fatto in casa), anche se, come in questo caso, in casa altrui …

Un titolo intrigante può essere il motivo del suo iniziale successo ma non è pensabile che esso continui se in qualsiasi pubblicazione non c’è dell’altro. È il caso di quest’opera del Rao, che conobbe un numero incredibile di ristampe, anche dopo che il letterato di Alessano era sicuramente morto, evento collocato, nella mancanza di dati certi, tra il 1587 e il 1609 da Nicola Vacca nel saggio segnalato col link in nota 1.

Nell’elenco che segue ho raccolto tutte le edizioni successive alla prima del 1562 (dati tratti dall’OPAC) riportando anche il frontespizio e il link quando la relativa edizione  è reperibile integralmente in rete. Per le altre opere vedi la nota 6.

1567, Girolamo Bartoli, Pavia (http://books.google.it/books?id=hRc8AAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:HsI4Krmtm9oC&hl=it&sa=X&ei=6q8yVLfZDaX4yQPw7oKwAw&ved=0CDsQ6AEwAw#v=onepage&q&f=false)

1573, Girolamo Bartoli, Pavia,  1573

1576, Girolamo Bartoli, Venezia

1584, Girolamo Bart(oli), Pavia (http://books.google.it/books?id=FP47AAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:HsI4Krmtm9oC&hl=it&sa=X&ei=6q8yVLfZDaX4yQPw7oKwAw&ved=0CEMQ6AEwBA#v=onepage&q&f=false)

 

1585, Ad istantia di Marc’Antonio Pallazzolo, Trento (http://books.google.it/books?id=Hv47AAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=l%27argute+e+facete+lettere&hl=it&sa=X&ei=fK4yVMyTN-TjywOvy4DoDQ&ved=0CCIQ6AEwAA#v=onepage&q=l’argute%20e%20facete%20lettere&f=false)

 

1585, De Gelmini, Trento, 1585

1585, Perin & Greco, Vicenza,

1590, Giovan Battista & Giacomo De Gelmini, Trento, 1590 (1 esemplare nelle Biblioteca provinciale Nicola Bernardini di Lecce) (http://books.google.it/books?id=ga9dAAAAcAAJ&pg=PP7&dq=l%27argute+et+facete+lettere&hl=it&sa=X&ei=krUyVMH4EMXEygOkxIGIBA&ved=0CCcQ6AEwAQ#v=onepage&q=l’argute%20et%20facete%20lettere&f=false)

1591, Farri, Fano 1591 (1 esemplare nella Biblioteca Marco Gatti a Manduria)

1592, Zenaro, Venezia

1596, Appresso gli Heredi di Perin libraro, Vicenza (http://books.google.it/books?id=nKNRAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=l%27argute+et+facete+lettere&hl=it&sa=X&ei=krUyVMH4EMXEygOkxIGIBA&ved=0CEAQ6AEwBg#v=onepage&q=l’argute%20et%20facete%20lettere&f=false)

Giustamente il Vacca nel saggio citato (p.p. 30-31) ipotizza che la figura che si vede sia il ritratto (sarebbe l’unico giunto fino a noi) del Rao perché né si può opinare che sia una marca tipografica , o ex libris, dell’editore, che quasi sempre si presenta con qualche fregio o figurazione allegorica. Né, d’altra parte, si può pensare ad una generica figura di filosofo: in questo caso – siamo nel Rinascimento, per quanto tardo – sarebbe stato rappresentato dalla figura di un filosofo dell’antichità classica, mentre noi vediamo un uomo cogitabondo in costume del cinquecento e con lunga barba, com’era l’uso del tempo.

1598, Appresso la Compagnia Minima, Venezia (http://www.bsb-muenchen-digital.de/~db/1017/bsb10176047/images/index.html)

1601, Daniel Zanetti, Venezia, 1601 (1 esemplare a Lecce presso la Biblioteca provinciale Nicola Bernardini)

1610, Spineda, Venezia

1622, Giovanni Alberti, Venezia

1622, Ghirardo & Iseppo Imberti, Venezia

A riprova del successo che quest’opera del Rao riscosse anche oltre i confini d’Italia va citata la sua traduzione in francese fatta da G. Chappuys e che ebbe tre edizioni: la prima nel 1584 a Lione per i tipi di Jean Stratius con il titolo Lettres facetieuses et subtiles de Cesar Rao d’Alexan, ville du païs d’Otrante. Non moins plaisantes, & recreatives, que morales, pour tous esprits genereux, la seconda  e la terza a Rouen per I tipi di Le Villain nel 1609 e nel 1610  con il titolo  Lettres subtiles et facetieuses de Cæsar Rao d’Alexan, ville d’Otrante. Tres-utiles & profitables aux esprits genereux.

E, se esiste un aldilà, quale brivido di orgogliosa soddisfazione avrà provato la buonanima di Cesare nel venire a sapere a posteriori che il nostro maggior rappresentante del barocco, Giovan Battista Marino,  avrebbe scimmiottato, sia pure a distanza di poco più di un secolo, proprio il titolo del suo bestseller?

Ed avrà ulteriormente sorriso, nel vedersi accomunato in questo scippo parziale con quello quasi totale subito dal luogo natio, nel constatare che la Alessano della seconda delle tavole di seguito riprodotte è, a poco meno di 70 anni di distanza, sostanzialmente la stessa della prima (per chi fosse interessato a quest’ultima: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/23/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-214-alessano/).

Tavola tratta da Giovan Battista Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva, tomo II, s. p., Parrino, Napoli, 1703

Tavola tratta da Cesare Orlandi, Delle città d’Italia e sue isole adiacenti compendiose notizie, Riginaldi, Perugia, 1770, tomo I, p. 362

Come congedarsi meglio dal lettore se non proponendo un passo dell’opera dell’alessanese di cui mi sono qui occupato esclusivamente, che, pur nella prosa altisonante, gonfia e immaginifica dell’epoca, appare premonitorio perché denunzia, a parte qualche differente dettaglio di ambientazione e denominazione dei protagonisti che ho evidenziato nelle note, un fenomeno che forse ai suoi tempi era solo l’eccezione e che nei nostri è diventato, purtroppo, la regola. Cito dall’edizione Palazzolo del 1585 carta 27r e v (la numerazione delle pagine ricalca ancora quella dei manoscritti); le note esplicative sono mie.

Son venuti in luce hoggi certi cacastecchi2 che non sono buoni se non di stare al fuoco, e cicalar sotto i camini. Son certi giovani spensierati giottoncelli3, capestri da forche, arroganti, superbi, insolenti, lussuriosi, linguacciuti, fastidiosi, noiosi, senza cervello e pieni di presontione, che infettano, ammorbano e uccidono le genti di buona qualità. Son saliti i plebei alle sedie di virtuosi, e gli ignoranti hanno occupati quasi tutti i lochi degni d’onorati personaggi. Il mondo ha messo in riputazione i Marzocchi4, insedia i parasiti, in onore i gnatonici5, in pregio i giottoni, in grandezza i scimoniti, in colmo la gola, in lode le lascivie. 

_____________

1 Per le notizie biografiche e di altra natura vedi http://emeroteca.provincia.brindisi.it/Archivio%20Storico%20Pugliese/1948/1948%20fasc.%201%20articoli/CesareRao.pdf

2 Uomo di poco valore, significato con cui la voce è usata da Machiavelli (Mandragola, atto II, scena III):  In questa terra non ci è se non cacastecchi, non ci si apprezza virtù alcuna. In altri autori ha il significato di avaro o di sofistico.

3 Diminutivo di giottone (che compare verso la fine del brano), voce di uso letterario già in Matteo Maria Boiardo (XV secolo), Orlando innamorato, libro II, canto XI, ottava III, versi 5-8:  Onde di sdegno la donzella acerba/si consumava ne l’animo acceso/poi che con tante beffe e tanto scorno/le gira il capo quel giottone intorno; libro II, canto XXII, ottava LII, versi 5-8: Ma urtò il destrier, gridando: – Aspetta un poco,/giotton giotton, che tua faccia somiglia/proprio al Demonio, mirandoti appresso,/e certamente io credo che sei desso.

Di uso frequente nella commedia del XVI secolo. Alcuni esempi: Ludovico Ariosto ne La Lena, atto V: … questo giotton di  Corbolo/ch’io non intendo che mi stia più un attimo/in casa, io vo cacciarlo come merita; ne Il Negromante, atto V: … pur finalmente raccontoli/quel ch’un giotton m’avea dato a intendere.  Luigi Groto, ne La Emilia, atto III: … se quel giotton mi capita/innanzi o tosto, o tardi io vo’ cantargliela.

Il Vocabolario milanese-italiano di Francesco Cherubini, Stamperia reale, Milano, 1840 al lemma giottòn reca solo i sinonimi astuto e scellerato, senza alcuna indicazione etimologica.

Nel Vocabolario mantovano-italiano dello stesso autore, al lemma giotton si leggono i sinonimi: gittaione, nigella, erba nota. Nel saggio L’economia del cittadino in villa di Vincenzo Tanara, Bertani, Venezia, 1661, a p. 317 il giottone viene citato insieme ad altre piante parassite del grano: La Lichne, over Giottone, di fior rosso doppio, e semplice bianco, le cui foglie secche usavano gli Antichi in luogo di bombace filato nelle lucerne, e perciò è chiamata Lichnis, che in Greco suona Lume. E a p. 26 a proposito del frumento aveva scritto: Per servitio di casa tua capa il più pesante formento, che habbi, e sarà quello che producono i colli, quale se bene non fa così bianco come quello, che nasce alle larghe e in particolare nel Commue di S. Agostino (essendo per far bianco il meglio, di questo Contado) fa però pane saporito, e gustoso, onde fu detto Triticeus panis laeta ex regione salubris. Fallo conciar bene ne li permettere compagnia alcuna, e in particolare di loglio, o ghiottone: se fossi sforzato a comprare o  mangiare pane nel qual sospettasi di loglio o ghiottone tu guardi la crosta di detto pane contro il Sole, se ci vedi certi pelletti, come la prima lanugine de’ putti, è segno che ci è loglio, se nella crosta ci sono macchiette picciole e nere segno  che c’è giottone, se per caso havesti formento solo, ove fosse un poco di vezza, non te ne disgustare, poiché per la famiglia non fa mal pane, et è grave assai.

Il brano appena citato introdurrebbe pure una differenza tra ghiottone e giottone; quest’ultima voce potrebbe essere deformazione di gittaione (o agrostemma), il cui nome scientifico è Agrostemma githago L. Githago (da cui, evidentemente, gittaione) è formazione latina moderna dal classico git che in Celso (I secolo d. C.) è il nome della nitella.

La conclusione, pur ipotetica, è che giottone abbia trasferito dal mondo vegetale a quello umano le sue caratteristiche dannose e che con un ulteriore sviluppo si sia passati dall’idea di parassita a quello di astuto, mascalzone.

4 Marzocco è l’immagine scolpita o dipinta di un leone che, seduto, regge con la zampa destra lo scudo col giglio, insegna del comune di Firenze, dunque del potere popolare che non sembra rientrare nelle simpatie del Rao, essendo in linea, con la sua valenza spregiativa,  con il precedente plebei che dal contesto è in modo evidentissimo legato all’idea, anzi all’ideologia di  una casta inferiore rispetto alla nobiltà che, quasi per definizione (e magari pure con la benedizione del potere religioso …), è considerata come l’unica depositaria della virtù e del connesso merito. L’iniziale maiuscola, uso che poi sarà straripante nel barocco e dal quale, secondo me, nasce la disgraziata abitudine oggi invalsa di abusarne anche quando lo sproposito non trova ombra di giustificazione, qui è giustificata dal probabile etimo della parola (dal latino Martius=di Marte, perché proprio della statua di quest’ultimo, collocata all’imbocco di Ponte Vecchio ed abbattuta dall’alluvione del 1333, avrebbe preso il posto quella del leone; in latino nella pratica corrente si usa l’iniziale maiuscola per ogni parola, anche avverbio, che derivi da un nome proprio) ma anche dal numero plurale e da una valenza che quasi assume di marchio infamante; e i marchi, si sa, sono nomi propri …

5 Sinonimo di compiacente, adulatore, piaggiatore. Gnatonico è aggettivo da Gnatone, il modello dell’adulatore ricordato da Cicerone nel De amicitia, XXV, 97:  Quid enim potest esse tam flexibile, tam devium, quam animus eius, qui ad alterius non modo sensum ac voluntatem, sed etiam voltum atque nutum convertitur? – Negat quis, nego; ait, aio; postremo imperavi egomet mihi omnia assentari -ut ait idem Terentius, sed ille in Gnathonis persona, quod amici genus adhibere omnino levitatis est (Che cosa può essere tanto flessibile, tanto deviato quanto l’animo di colui che cambia non solo secondo il sentimento e la volontà di un altro ma anche secondo l’espressione del volto e un gesto? – Uno nega, io nego; afferma, affermo; insomma ho comandato a me stesso di assentire in tutto – come dice il medesimo Terenzio ma in riferimento alla persona di Gnatone; è certamente una leggerezza accettare questo tipo di amico).

Gnatho (nominativo dello Gnathonis del brano) è dal greco Γνάθων (leggi Gnathon), che ricorre come nome di un parassita in parecchi autori. Sicuramente la voce greca è connessa con γνάθος (leggi gnathos)=mascella (il parassita mangia a sbafo), che ha dato vita ai composti italiani chetognato, gnatodinia, gnatoplastica, gnatostomae prognatismo; tuttavia nel personaggio latino la mascella non è impegnata a masticare ma a far assumere al volto un atteggiamento condiscendente.

6  Oratione di Cesare Rao nella morte dell’illustrissimo S. Don Ferrante Gonzaga, prencipe di Molfetta, s. n., 1558

Il sollazzevol convito del Raho, nel quale si contengono molti leggiadri motti, et piacevoli ragionamenti, Franceschi, Venezia, 1561

Dell’origine de’ monti, Salviani, Napoli, 1577

De eloquentiae laudibus Caesaris Rahi Alexanensis philosophi oratio, Salviano, Napoli, 1577

I meteori di Cesare Rao di Alessano città di Terra d’Otranto. I quali contengono quanto intorno a tal materia si può desiderare, Varisco & C., Venezia, 1582 (http://books.google.it/books?id=uRs8AAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=cesare+rtao+i+meteori&hl=it&sa=X&ei=92s1VNbhNIXYPZ3cgIgP&ved=0CCsQ6AEwAA#v=onepage&q=cesare%20rtao%20i%20meteori&f=false)

Invettive, orationi, et discorsi di Cesare Rao di Alessano città di terra d’Otranto, fatte sopra diverse materie, & à diversi personaggi, Zenaro, Venezia, 1587 (http://books.google.it/books?id=AWdcAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=Invettive,+orationi,+et+discorsi+di+Cesare+Rao&hl=it&sa=X&ei=omw1VJyyKYOsOoGigcgO&ved=0CCAQ6AEwAA#v=onepage&q=Invettive%2C%20orationi%2C%20et%20discorsi%20di%20Cesare%20Rao&f=false)

 

Unum tantum edo, uno e basta! Questo è il corbezzolo

 

Rusciuli del Salento leccese (Corbezzolo Arbutus unedo L.):

ne mangio uno! Uno e basta!


di Antonio Bruno

Il corbezzolo (rùsciulu per il Salento leccese) è un arbusto o alberello sempreverde che può, con una ruvida corteccia scura.
Le foglie sono di colore verde scuro, più chiare nella pagina inferiore, lunghe 4-5 cm., ellittiche, lucide, col margine seghettato. I fiori sono piccoli e a gruppetti, di un colore che va dal bianco al roseo. I frutti sono simili alle fragole, sferici, grandi fino a 2 cm., conuna superficie verrucosa e ruvida.
Di seguito utili notizie su questo frutto del Salento leccese.

“Rusciuli russi, ci òle rusciuli?”

Cantu nna beddha strìa ca’ passa e tice:

“Rusciuli russi, ci òle rusciuli?”

O Lecce t’amu tantu e su’ felice.

Traduzione

Corbezzoli rossi, chi vuole corbezzoli?

Canta una bella ragazza che passa e dice

Corbezzoli rossi, chi vuole corbezzoli?

O Lecce t’amo tanto e son felice

Sarà per il loro colore che mi fa pensare al bel rosso delle labbra di questa donna, sarà che questa bella donna li offre con spensieratezza, ma questi frutti mi mettono allegria e sono stati per tanto tempo mangiati da papà e mamme del Salento leccese. Adesso non li trovi mai!
Scrive Gianni Ferraris in Spigolature Salentine: “Terra di profumi, e di colori il Salento. Il cielo è azzurro intenso, il mare passa dal verde al bianco, al nero. E la campagna ha il rosso della terra e il verde intenso della vegetazione. In queste terre ho mangiato per la prima volta nelle mia lunga vita i corbezzoli raccolti dall’albero (rùsciuli in dialetto), ed ho raccolto rucola spontanea. Ne trovi ovunque qui. Ed ho visto ballare la pizzica. Pizzica e taranta, ritmi simili che hanno contaminazioni africane con l’ossessivo suono dei tamburelli.”
Il Corbezzolo Arbutus unedo L. è un arbusto sempre verde tipico del Salento leccese è una specie appartenente all’ordine delle Ericales, alla Famiglia delle Ericaceae e al genere Arbutus.
Gli antichi lo associavano alla dea Carna, protettrice del benessere fisico, rappresentata con un rametto di corbezzolo tra le mani con cui la dea scacciava gli spiriti maligni.
E’ stato descritto da Aristofane, Teofrasto, Virgilio, Plinio, Ovidio e Columella che hanno descritto l’uso dei frutti della pianta attribuendo il nome latino unum edo (Arbutus unedo).
Se Virgilio nelle Georgiche indica questa pianta semplicemente col nome “arbustus”: arbusto, Plinio il Vecchio era entusiasta di queste bacche rosse o di un bell’arancione solo che ne raccomandava un consumo limitato. Plinio diceva “unum tantum edo”, che tradotto significa “uno e basta”.

Questa cautela deriva dalla circostanza che vede alcuni individui che mangiano anche poche corbezzole soffrono di gravi disturbi gastrointestinali ed ebbrezza, quest’ultima determinata dal fatto che quando “i rusciuli”sono maturi contengono una discreta quantità d’alcol. Se vi avvicinate all’albero di Corbezzolo raccogliete i frutti. Si raccolgono quando sono belli rossi e morbidi al tatto.
Un frutto che ti ci possono mandare a raccoglierlo: “Ane! bba cuegghi rusciuli!! E poi dammeli tutti a mie!” che significa “E vai a raccogliere corbezzoli! E poi dalli tutti a me!”.

i fiori del corbezzolo (ph M. Gaballo)

E’ originario dell’Irlanda dove si trova ancora oggi. I Romani possono averlo introdotto nel Salento leccese. Lu rusciulu è quasi estinto eppure lo sapete che si racconta che il corbezzolo ha ispirato i colori della bandiera italiana?
Bianco, rosso e verde: il bianco dei suoi fiori, il rosso dei suoi frutti ed il verde intenso delle sue foglie, ed ecco che nel Risorgimento Italiano divenne un simbolo patriottico, perchè proponeva i tre colori della bandiera che guidava i nostri antenati desiderosi di unire l’Italia, fu per questo motivo che il corbezzolo divenne simbolo della lotta di indipendenza.
Il corbezzolo compare anche nello stemma della città di Madrid.
Oltre ai frutti che i nostri papà e mamme hanno abbondantemente mangiato la pianta sta riscuotendo un successo per la presenza contemporanea in inverno di fiori bianchi, frutti rossi e aranciati e foglie verdi.
La pianta di corbezzolo può raggiungere dimensioni ragguardevoli con un diametro di metri 2,5 e un’altezza di 5 – 8 metri.
Ha infiorescenze terminali che pendono con 15 – 30 fiori. La fioritura avviene a partire da questo mese di Settembre sino al Marzo successivo, il frutto è una bacca che pesa da 5 a 8 grammi, si può mangiare, ha una polpa ambrata piena di sclereidi (sono quelle parti che formano il guscio di molti semi) con un numero variabile di semi, ed è ricchissimo di zuccheri e vitamina C.
Gli uccelli sono ghiotti dei rusciuli, nutrendosene diventano i responsabili della diffusione di questa pianta, ma è anche riproducibile per parte di pianta visto che la pianta del corbezzolo dopo un incendio ricaccia abbondantemente, facendo questa pianta adatta per l’uso forestale nella nostra zona che è ambiente di macchia mediterranea soggetta agli incendi estivi.

Bibliografia

Pizzi – Gentile: Lecce Gentile
Gianni Ferraris: La torre del Serpe
Federico Valicenti: C’era una volta il Corbezzolo
Nieddu, G.; Chessa, I. : Il corbezzolo [Arbutus unedo L.]
Chessa, I.; Mulas, M: Le specie frutticole della macchia mediterranea: la valorizzazione di una risorsa
Morini, S.; Fiaschi, G.; D°Onofrio, C.: Indagini sulla propagazione per talea di alcune specie arbustive della macchia mediterranea
Chessa, I.; Mulas, M.: Le specie frutticole della macchia mediterranea: la valorizzazione di una risorsa

Tempo di melagrane. Mille motivi per mangiarle

LA MELAGRANA E LE SUE ECCEZIONALI PROPRIETÀ

di Alessandra Mattioni*

Un frutto antico, ma straordinariamente moderno per efficacia e utilità, con un’azione preventiva nei confronti dell’insorgenza dell’arteriosclerosi, attività antibatterica, azione anticancerogena e attività antiossidante.

ph Luigi Panico

La melagrana è un frutto antico al quale numerose civiltà hanno attribuito un importante valore simbolico. Secondo il mito di Persefone, nell’antica Grecia il melograno rappresentava il legame coniugale; nella mitologia persiana, secondo Erodoto, rappresentava l’invincibilità; nella Bibbia e nelle rappresentazioni medioevali è descritto come segno di fertilità e di abbondanza. Per il Buddismo come per l’Islam, la melagrana è considerata un frutto benedetto ed è usato per l’infertilità femminile.

L’immagine della melagrana è presente nello stemma di diverse associazioni mediche a indicare vitalità, fertilità e rigenerazione. Nell’Antico Testamento è citata come uno dei frutti della Terra Promessa, mentre per i cristiani il rosso della melagrana è stato usato per simboleggiare il sangue dei martiri e la carità.

Proprio per il suo valore simbolico i pittori dei secoli XV e XVI mettevano spesso una melagrana nella mano di Gesù Bambino, con allusione alla nuova vita donataci da Cristo.

Presso molte civiltà è stata simbolo di fertilità. Le spose turche, dopo il matrimonio, usavano scagliare a terra una melagrana: più alto era il numero

Supersano e il suo Museo del Bosco

bosco

di Paolo Vincenti

A Supersano è nato il Mubo, ossia il Museo del Bosco, inaugurato nel dicembre 2011. E’ un progetto che viene da lontano e nasce dalla acquisita consapevolezza da parte dei supersanesi della eccezionale portata storica di cui il proprio comune è depositario.

Un progetto che inizia moltissimi anni fa quando gli studiosi locali pubblicavano le ricognizioni storiche sull’antico Bosco di Belvedere, di cui Supersano era parte integrante, sul sito archeologico della zona Scorpo dove sorgeva un villaggio bizantino, sulla Specchia Torricella e sulla chiesa rupestre della Coelimanna.

Un progetto che prende il via a seguito di una importante campagna di scavi eseguiti in località Scorpo dal Laboratorio di Archeologia Medievale dell’ Università del Salento, guidato dal prof. Paul Arthur.

Si è così scoperto che le origini di Supersano risalgono addirittura al Paleolitico e questa zona era frequentata fin dalla notte dei tempi. Il Bosco del Belvedere si può definire un enorme polmone verde dove, fino a poco più di cento anni fa, si estendeva  un’area boschiva che interessava l’agro di ben quindici comuni.

Il Mubo, realizzato con fondi regionali PIS 14, nasce proprio per raccontare la storia di queste eccezionali scoperte e dello specifico ecosistema del Belevedere. Nelle intenzioni dei proponenti, “il Museo vuole porsi come punto di riferimento per un vasto territorio al di là dei limiti comunali di Supersano. L’allestimento coniuga le esigenze didattiche con una attenta ricostruzione ambientale, archeologica e storica, garantita dalla partecipazione al progetto di docenti dell’Università del Salento sotto la direzione scientifica del prof. Paul Arthur.

Le diverse sale espositive, le ricostruzioni grafiche realizzate dallo studio Inklink di Firenze, i reperti archeologici, la riproduzione di manufatti ceramici e degli strumenti litici atti alla loro lavorazione, consentono al visitatore di fruire di un percorso informativo di particolare interesse e suggestione.”  Questo progetto è costato molti sforzi ai suoi ideatori e realizzatori.

Ed ora, a descrivere il frutto del pluriennale lavoro, è stato pubblicato, a cura di Maria A.Bondanese, il Catalogo: “Supersano. Arte e Tradizione, scoperta e conoscenza. Mubo Museo del Bosco”, con il patrocinio del Comune di Supersano, della Provincia di Lecce e dell’Università del Salento. Con i testi di Maria Bondanese e la grafica di Simone Massafra, è un utile strumento di conoscenza(ha anche un sito: www.museodelbosco.it) a vantaggio dei tanti turisti che soprattutto d’estate affollano le nostre contrade ma anche dei salentini che vogliano conoscere le meravigliose ricchezze custodite da questo territorio. Perché di quanto fatto rimanga traccia, perché il comune supersanese venga maggiormente conosciuto ed apprezzato, perché il museo del bosco non sia una cattedrale nel deserto. Ci hanno insegnato infatti che un museo non debba essere solo deposito di conservazione di oggetti del passato ma centro di ricerca attivo, di produzione ed elaborazione di documenti. Del pari, un museo non dovrebbe fare solo una esposizione di materiali e oggetti vari, ma incoraggiare anche una loro riproposizione, non essere solo un museo didattico, luogo di confronto teorico, ma anche didascalico, e svolgere quelle funzioni tecniche che sono date dalla natura stessa degli oggetti musealizzati.

Ci hanno pure insegnato che un museo, ogni museo pubblico, è vincolato alla sua funzione sociale ma anche alle scelte di politica culturale operate da chi deve governarlo. E dunque, se sulla serietà del lavoro condotto fin qui garantisce la direzione scientifica del Prof. Paul Arthur (la cui prestigiosa firma compare in calce alla presentazione del libro), alle diverse amministrazioni comunali che si succederanno spetterà il compito di gestire il Mubo.

ll Museo del Bosco è ospitato nello storico Castello Manfredi, sede del Comune, nel cuore del centro abitato. L’iter espositivo si snoda attraverso sette sale, su due piani, un book shop e la torre medievale. Davvero consigliabile una sua visita.

Il libro che lo documenta è diviso in quattro sezioni tematiche. Nella prima sezione, dopo la Presentazione del Prof. Paul Arthur ed i Saluti dei passati sindaco e consigliera alla cultura del Comune di Supersano, Dott. Roberto De Vitis e Prof.ssa Maria Bondanese, vengono offerte delle tracce sul territorio di Supersano e sulla sua storia, sul Castello Manfredi e sulla Torre Medievale.

Nella seconda sezione, si entra nel vivo della trattazione, con la descrizione particolareggiata del Museo, delle sue Sale e della collezione in esse contenuta. Nella terza sezione tematica, vengono trattati i luoghi di interesse del territorio di Supersano e segnatamente “La cripta della Madonna della Coelimanna”, a cura di Stefano Cortese, “Il santuario della Vergine di Coelimanna”, a cura di Stefano Tanisi, “L’albero della manna”, a cura di Francesco Tarantino, i Menhir, le Masserie, “ I percorsi naturalistici”, a cura di Michela Ippolito, e la Chiesa Matrice.

La quarta sezione raccoglie le Informazioni utili, ricettività, gastronomia, numeri d’emergenza, insomma tutto ciò che il turista che viene a Supersano deve sapere. Al libro, che per essere un opuscolo reca un apparato bibliografico davvero poderoso, si affiancano alcune brochures, anch’esse molto curate dal punto di vista grafico, che offrono uno strumento di più  agile consultazione. Chiaro che il museo, per sua stessa definizione, è un contenitore di reperti del passato, di oggetti che non hanno più vita nel presente. Dunque, per il suo status semiologico, esso non può parlare il linguaggio della vita ma un meta- linguaggio, cioè il linguaggio della riflessione sulla vita. Resta fermo però che, se non “vitalmente”, certo “museograficamente”,  un museo  debba essere “vivo” e parlare ad un pubblico quanto più vasto possibile.

Santi in edicola, edicole di Santi… da salvare

Edicola votiva con San Martino, borgo antico, Tutino
Edicola votiva con San Martino, borgo antico, Tutino

 

di Fabrizio Cazzato

Ambiente e beni culturali, un connubio inscindibile in Italia, eppure troppo spesso non valorizzato  pur se negli ultimi decenni è cresciuta la sensibilità e si sono attivate strategie di tutela anche attraverso le nuove tecnologie. Ma tutto ciò non basta.

Dal Salento  dialoga nel segno della bellezza una civiltà fatta di pietre, di segni e di colori che ha saputo modellare il nostro territorio. Pensiamo alla dolcezza delle Serre Salentine, alle distese di uliveti, agli antichi borghi, alle cripte basiliane e alle grotte che sono diventate abitazioni e chiese.

Ma hanno importanza fondamentale  anche  quelle opere religiose ritenute come “arte minore”, che fanno parte del patrimonio materiale e immateriale del nostro Paese che realizza l’identità di un popolo e ne costituiscono il fondamento e il carattere.

Le edicole votive sparse nel nostro territorio, poste generalmente sugli architravi delle antiche case o  al limite delle proprietà e nei punti in cui le strade di campagna si incrociano, offrono l’opportunità per approfondire la conoscenza di questa forma di devozionismo popolare. Legate soprattutto al mondo contadino, rimandano alle “erme” dell’epoca romana, e forse ai più antichi “menhir”, alle quali è riconosciuto il significato di protezione delle famiglie, degli animali, dei campi, oltre a tenere lontane le calamità naturali.

La maggior parte della popolazione trascorreva buona parte del suo tempo nei campi per svolgere l’indispensabile attività agricola, da cui traeva sostegno per poter vivere. Era quindi naturale che i nostri avi, in maggioranza contadini, volessero erigere nei luoghi frequentati una testimonianza della loro fede e del profondo sentimento religioso di cui era intessuta la loro esistenza. Spesso le realizzavano in ringraziamento per una grazia ricevuta.

Edicola votiva con Santa Cesarea, su via Marina Serra
Edicola votiva con Santa Cesarea, su via Marina Serra

Nelle sere d’estate, dopo la fatica quotidiana, ma anche in occasione di ricorrenze  religiose, quelle edicole diventavano occasione per ritrovarsi a recitare il Rosario, che coinvolgeva il proprietario, le famiglie vicine, se non, in alcuni casi, tutta la comunità del paesello.

La tipologia di queste semplici costruzioni è varia per dimensione e impostazione. Possono essere  ad una sola nicchia concava, protetta da un vetro o da una grata a protezione del dipinto o della statuetta. Ricavate sui muri esterni della casa, talvolta erano piccole cappelle con altarino e quadro  della Madonna o di un santo.

L’iconografia più frequente richiama la Vergine Immacolata, i santi Vito, Rocco e i SS. Medici, le cui immagini erano fatte realizzare da artisti locali e non sempre eccellenti nella pittura.

Di questi manufatti si hanno poche notizie storiche, anche perché poco o niente considerati, ma si è portati a considerarli realizzati tra XVIII e XIX secolo, a causa dello sviluppo rurale e agricolo dei nostri centri, che han dovuto soccombere con lo spopolamento delle campagne e l’avvento dell’era industriale.

 

Edicola votiva, contrada Homo morto, sulla via vecchia per il porto
Edicola votiva, contrada Homo morto, sulla via vecchia per il porto

Tra le tante disseminate nel territorio comunale di Tricase, e che certamente meriterebbero un censimento, si segnala qui una in particolare, sebbene non sia unica, perché meritevole di attenzione per lo stato in cui versa e che l’incuria potrebbe irrimediabilmente compromettere sino alla scomparsa.

Edicola votiva, contr. Homo morto, via vecchia Porto4
Edicola votiva, contrada Homo morto, sulla via vecchia per il porto

Situata in contrada “homo Morto”, la vecchia via che dalla città porta al mare, alle spalle della grande Quercia Vallonea, fu fatta realizzare per devozione di Tommaso Nuccio nel 1850. A forma di edicola con volta a botte, sulla parete frontale interna sono ancora ben visibili tre immagini tirate a fresco, di discreta fattura ma di autore ignoto, raffiguranti al centro la Madonna Immacolata, antica patrona di Tricase, ai lati della quale vi sono San Giuseppe, a sinistra, San Vito Martire a destra, protettore delle campagne e di tutto il territorio comunale. Purtroppo tutte e tre le immagini sono state lievemente sfigurate nel volto.

Madonna delle Grazie, sec. XVIII, Borgo antico, Tutino
Madonna delle Grazie, sec. XVIII, Borgo antico, Tutino

I cenni che ho scritto servono da stimolo per parrocchie, comitati feste patronali, Amministrazione Civica ed associazioni religiose e culturali, ma anche singoli cittadini, perché possano  attivare urgenti piani di recupero e di intervento, mirati alla salvaguardia di queste preziose testimonianze religiose del passato da consegnare alle future generazioni.

Edicola votiva, Tre Santi, via Marina serra
Edicola votiva, Tre Santi, via Marina serra
Madonna di Leuca. Borgo antico, Tutino
Madonna di Leuca. Borgo antico, Tutino

Forse è bene rivolgere uno sguardo alle nostre radici per indurci ad una seria e profonda riflessione sul senso di responsabilità a cui non possiamo e non dobbiamo sottrarci per difendere dall’incuria e dall’abbandono ciò che il passato ci ha gelosamente consegnato.

Se ci soffermassimo a meditare su queste piccole espressioni artistiche del nostro popolo e sui contesti in cui sono inserite, penso troveremmo la sensazione di quiete e di pace che l’aperta campagna offre. Comprenderemmo, forse, i valori essenziali che improntavano la semplice ma ricca vita dei nostri avi, che le vollero ai bordi dei campi perché proteggessero senza disturbare il lavoro, vicino alla strada quasi per ritrovarsi idealmente con i passanti, all’ombra di un albero per riposare dopo aver duramente faticato.

 

Immacolata Concezione, sec.XIX, borgo antico, Tutino
Immacolata Concezione, sec.XIX, borgo antico, Tutino

Quando Nardò era celebrata pure in poesia

di Armando Polito

La celebrazione di cui parlerò non è un semplice ricordo condensato in una sola parola, quasi una citazione toponomastica, come il  … Lacedaemoniumque Tarentum/praeterit et Sybarin Sallentinumque Neretum ( … e oltrepassa la spartana Taranto e Sibari e la salentina Nardò) di Ovidio (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Metamorfosi, XV, 50-51.

Si tratta, invece,  di una poesia in latino (59 esametri) che sarebbe stata composta (il condizionale si capirà, come al solito, alla fine) da Bartolomeo Tafuri1 presumibilmente nella seconda metà del XVI secolo e che fu pubblicata per la prima volta dal suo discendente Giovanni Bernardino (1695-1760)  nel primo capitolo (Testimonianze de’ Scrittori, i quali rammentarono con lode la Città di Nardò) del primo libro di Dell’origine, sito, ed antichità della Città di Nardò in Angelo Calogerà, Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici, Zante, Venezia, 1735, tomo XI, pp. 1-315. Di seguito il frontespizio2.

La poesia nel volume indicato occupa le pp. 9-13; tuttavia mi avvarrò , perché più nitido tipograficamente e più adatto per l’inserimento della mia traduzione (letterale quanto più è possibile) a fronte e delle mie note, del testo in formato immagine tratto da Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Gio. Bernardino e Tommaso Tafuri stampate ed annotate da Michele Tafuri, Stamperia dell’Iride, Napoli, v. I, 18483. In questa edizione Michele Tafuri ripubblicò il saggio del suo antenato (che occupa le pp. 325-543) con l’aggiunta del secondo libro mancante nell’edizione veneziana. Il testo della poesia in questione vi occupa le pagine 330-332 e risulta replicato anche tra le poesie superstiti (due, compresa questa che leggeremo) di Bartolomeo alle pagine, 47-48 che sono quelle da me utilizzate. Chiedo scusa al lettore se il testo apparirà tagliato a destra, ma non potevo, questa volta, ridimensionare ulteriormente l’immagine nativa con la certezza, non il rischio, di renderne impossibile la lettura. A quest’inconveniente, a me non ascrivibile, si rimedia cliccando sull’immagine col tasto sinistro e poi, tornando indietro, potrà essere ripresa la lettura del testo principale laddove era stata interrotta.

 

 

 

 

Mi pare doveroso ricordare, anche per spiegare il condizionale usato all’inizio, che la fama di Giovanni Bernardino Tafuri di Nardò si è un po’ offuscata col passare del tempo, che ha permesso di scoprire in lui il confezionatore, sia pure abile, di documenti falsi; lo scopo era di nobilitare le memorie patrie (con la rivendicazione di privilegi  per questo o quel potere e con tutte le ricadute, anche di ordine economico, che in quei tempi un passato glorioso comportava), ma perseguirlo in questo modo significa violentare le ragioni della scienza che già di suo è  faticosamente alla ricerca della verità.

Però, nel nostro caso, questa poesia, anche se non dovesse essere veramente del suo antenato Bonaventura o un falso, rimarrebbe, comunque, un interessante documento (male che vada, del XVIII secolo) sulla fama, già allora pesantemente ridimensionata (e non solo rispetto ad Ovidio che  non l’avrà citata certo solo per esigenze descrittive), di Nardò. E se la scelta di un galatonese come emblema dei frutti della scuola di Nardò può essere giustificata dallo spessore del personaggio, dalla celebrazione diretta che, come abbiamo visto, egli fece di quella scuola e dalla distanza veramente esigua tra Nardò e Galatone, cosa dire, rispetto al presente che è tanto prosaico da non meritare nemmeno una celebrazione in prosa, di fronte all’augurio contenuto negli ultimi quattro versi, se non un desolante e rassegnato, quasi un’autopresa per il culo, aspetta e spera?

__________

1 Ecco la scheda della famiglia Tafuri tratta dal Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti di G. B. Crollalanza, Presso la direzione del Giornale araldico, Pisa, 1890, v. III, pp. 2-3: TAFURI di Napoli e di Nardò. Originaria di Terra d’Otranto, à goduto nobiltà in Nardò ed in Foggia, ed à posseduto le baronie di Altomonte, Fondospezzato, Grottella, Melignano, Mollone e Persano. ARMA: di verde, alla scala a piuoli posta in banda, col leone saliente, il tutto d’oro, e la crocetta d’argento a sinistra del capo. A meno che il Crollalanza non si riferisca a qualche ramo che io ignoro, non mi risulta che lo stemma dei Tafuri descritto in altri autori sia questo. L’amico Marcello certamente ci illuminerà sul problema, anche in rapporto a quanto si legge in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/13/i-tafuri-senza-peli-sulla-lingua/

2 L’intero tomo è scaricabile da http://books.google.it/books?id=icY-WjftPMIC&printsec=frontcover&dq=editions:mUboXYF_XlIC&hl=it&sa=X&ei=NOkSVMGDK8S_PP_lgVg&ved=0CFUQ6AEwBzge#v=onepage&q&f=false.

3 Scaricabile da http://books.google.it/books?id=icY-WjftPMIC&printsec=frontcover&dq=editions:mUboXYF_XlIC&hl=it&sa=X&ei=NOkSVMGDK8S_PP_lgVg&ved=0CFUQ6AEwBzge#v=onepage&q&f=false

4 https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/12/05/lelogio-di-un-falsario-neretino-esempio-di-pubblicita-editoriale-ante-litteram/

San Giuseppe da Copertino (2/2): due voli offensivi

di Armando Polito

Non sono certamente il più adatto, visto il mio atteggiamento nei confronti di tutte le religioni ampiamente e chiaramente emergente in parecchi miei precedenti contributi, ad affrontare questioni del genere, in cui sarebbe richiesta più che mai un’imparzialità non assoluta (non credo che esista su questa terra) ma appena appena abbozzata. Per questo lascio parlare due documenti quasi coevi limitandomi solo a tradurli e ad aggiungere qualche nota esplicativa e qualche riflessione a corroborare il mio giudizio conclusivo che lascio a quello ben più importante, sia o non sia consenziente col mio,  del lettore.

Il primo, dal titolo La colombe du bienheureux Joseph de Copertino, è a firma di Maxime Du Hoirs ed apparve nel 1900 alle pagine 396-401 del n. 13 (gennaio-giugno) del periodico parigino Le mois litteraire et pittoresque, integralmente leggibile e scaricabile  all’indirizzo http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k5775665k/f7.image.r=copertino.langEN, da cui ho tratto il frontespizio e le pagine di seguito riprodotti. Per poter collocare la mia traduzione a fronte e, dunque, consentire al lettore che ne abbia interesse, il confronto con l’originale disposto su due colonne per pagina sono stato costretto a riportare quest’ultimo ritagliandolo colonna per colonna (consiglio, comunque, per un’agevole lettura di scegliere nelle opzioni del browser una dimensione dei caratteri almeno del 150%).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il secondo documento è tratto dal n. 9280 del 19 settembre 1902 (anno 25°) del periodico parigino La Lanterne, integralmente leggibile all’indirizzo http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k7510505p.r=copertino.langFR, da cui ho tratto ed adattato le immagini del testo originale che seguono.

 

È giunto il tempo di giustificare il due voli offensivi del titolo. Lo scetticismo di fronte a certi fenomeni può anche essere espresso con ironia o, addirittura, sarcasmo, ma ci dev’essere sempre un limite nella critica delle altrui convinzioni che non può essere varcato, anche perché così facendo le parti in conflitto rifiuteranno ogni dialogo e resteranno arroccate l’una nel fortino della cosiddetta ragione, l’altra della cosiddetta fede; e l’aprioristica rivendicazione della propria superiorità, anche morale, slitta facilmente, come si continua a vedere, nella pretesa di esportazione armata della cosiddetta democrazia cui l’interlocutore (si fa per dire …) contrappone quello che può, cioè il terrore …

Per questo non condivido il taglio del pezzo del quotidiano parigino, nonostante io sia un dissacratore di professione. Non rende un buon servizio, però, a parer mio, nemmeno il primo pezzo per i motivi che sto per dire. Se la finzione è un ingrediente fondamentale del romanzo storico diventa, però, un elemento pericolosissimo per chi lo scambia per fonte autentica; il pericolo  è ancora maggiore se ad essere coinvolto è un santo perché già nelle agiografie ufficiali è difficile distinguere l’invenzione dal documentato e, in ultima analisi, ogni aggiunta o elaborazione arbitraria in un circolo vizioso offrirà contemporaneamente il destro agli scettici ed ai fideisti per arroccarsi ancor più ostinatamente sulle loro posizioni. Insomma, secondo me, Maxime Du Hoirs al pari dell’anonimo articolista ha offeso una memoria, soprattutto nel tratto finale, quando ha la spudoratezza, pur consapevole dell’imbroglio di cui è stato autore, di chiedere la preghiera del santo per il lettore e per sé.

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/17/san-giuseppe-da-copertino-12-san-giuseppe-e-dante/    

________________

1 Dipinto attribuito a Giuseppe Cades (1750-1799), custodito nell’Ospedale di Fabriano (immagine tratta da http://www.beniculturali.marche.it/Ricerca.aspx?ids=9675):

 

Domenico Bernino, Vita del venerabile padre Frate Giuseppe da Copertino, Recurti, Venezia, 1726, pp. 30-31:

2 L’incontro con il demonio così è descritto da Giuseppe Ignazio Montanari, Vita e miracoli da San Giuseppe da Copertino, Tipografia Paccasassi , Fermo, 1851, pp. 251-252:

 

 

Il pittore del “Santo dei voli”. Saverio Lillo da Ruffano

1. S. Lillo (attr.), San Giuseppe da Copertino in estasi davanti alla principessa Maria Savoia. Copertino, Santuario di San Giuseppe da Copertino (ph. S. Tanisi)
1. S. Lillo (attr.), San Giuseppe da Copertino in estasi davanti alla principessa Maria Savoia. Copertino, Santuario di San Giuseppe da Copertino (ph. S. Tanisi)

di Stefano Tanisi

Il santuario di San Giuseppe da Copertino conserva i più significativi esempi dell’iconografia josephina di tutto il Salento. Costruito nel 1754, in seguito alla beatificazione di frà Giuseppe (1753), il santuario incorpora la stalla in cui era nato nel 1603. I pellegrinaggi verso la città del “Santo dei voli” furono notevolmente incrementati nel 1767, quando il frate fu iscritto all’albo dei santi. È stato probabilmente in questo periodo che la chiesa fu arricchita da sei grandi dipinti ovali che illustrano scene della vita e dei miracoli dell’umile francescano: “San Giuseppe da Copertino in estasi davanti alla principessa Maria Savoia”; “San Giuseppe da Copertino converte il duca Giovanni Federico di Sassonia”; “Il fanciullo Stefano Mattei riacquista la vista pregando sulla tomba di San Giuseppe da Copertino”; “San Giuseppe da Copertino riceve l’ultima comunione”; “San Giuseppe da Copertino pianta la croce sul Calvario” e “San Giuseppe da Copertino guarisce dalla follia il cavalier Baldassarre Rossi”.

2. S. Lillo (attr.), San Giuseppe da Copertino converte il duca Giovanni Federico di Sassonia. Copertino, Santuario di San Giuseppe da Copertino (ph. S. Tanisi)
2. S. Lillo (attr.), San Giuseppe da Copertino converte il duca Giovanni Federico di Sassonia. Copertino, Santuario di San Giuseppe da Copertino (ph. S. Tanisi)
3. S. Lillo (attr.), Il fanciullo Stefano Mattei riacquista la vista pregando sulla tomba di San Giuseppe da Copertino. Copertino, Santuario di San Giuseppe da Copertino (ph. S. Tanisi)
3. S. Lillo (attr.), Il fanciullo Stefano Mattei riacquista la vista pregando sulla tomba di San Giuseppe da Copertino. Copertino, Santuario di San Giuseppe da Copertino (ph. S. Tanisi)
4. Autore ignoto, San Giuseppe da Copertino riceve l’ultima comunione. Copertino, Santuario di San Giuseppe da Copertino (ph. S. Tanisi)
4. Autore ignoto, San Giuseppe da Copertino riceve l’ultima comunione. Copertino, Santuario di San Giuseppe da Copertino (ph. S. Tanisi)

Queste raffigurazioni devozionali furono identificate nel 2003 da Nuccia Barbone Pugliese. La stessa studiosa attribuiva questi dipinti all’operato del settecentesco pittore Domenico Antonio Carella (cfr. N. Barbone Pugliese, Domenico Antonio Carella mentore dell’iconografia del Santo dei voli in Puglia, in Il ‘Santo dei voli’ San Giuseppe da Copertino. Arte, storia, culto, Napoli 2003).

Un’indagine stilistica approfondita rivela che in cinque dipinti su sei – ad eccezione del dipinto di “San Giuseppe da Copertino riceve l’ultima comunione” d’altra fattura – si possono riscontrare, oltre l’intonazione dei colori, le tipiche fattezze dei volti e le posture dei personaggi presenti nelle opere del pittore ruffanese Saverio Lillo (1734-1796). In queste tele copertinesi il pittore si avvale di bozzetti e cartoni utilizzati in altre opere autografe: nella tela di “San Giuseppe in estasi davanti alla principessa Maria Savoia” troviamo il volto della principessa simile al profilo della donna che regge l’uomo malato nel dipinto di “San Paolo” del 1795 della cappella di S. Paolo di Galatina.

5. S. Lillo (attr.), San Giuseppe da Copertino pianta la croce sul Calvario. Copertino, Santuario di San Giuseppe da Copertino (ph. S. Tanisi)
5. S. Lillo (attr.), San Giuseppe da Copertino pianta la croce sul Calvario. Copertino, Santuario di San Giuseppe da Copertino (ph. S. Tanisi)

La figura del duca in “San Giuseppe converte il duca Giovanni Federico di Sassonia” è la stessa di quella di Salomone nella tela della “Visita della regina di Saba al re Salomone” del 1765 della chiesa matrice di Ruffano. Nel dipinto de “Il fanciullo Stefano Mattei riacquista la vista pregando sulla tomba di San Giuseppe” riscontriamo che la donna inginocchiata a destra ha lo stesso volto e postura della Vergine dell’“Annunciazione” del 1793 della chiesa dei Domenicani di Galatina; mentre le due donne (di cui una tiene in braccio un bambino) della tela di “San Giuseppe guarisce dalla follia il cavalier Baldassarre Rossi” sono pure nel dipinto di “San Nicola abbatte il cipresso di Diana” della chiesa matrice di Maglie.

Sempre a Copertino, nel convento della Grottella, vi è una tela ovale di “San Giuseppe da Copertino che appare a una donna e un bambino”, altro inedito dipinto attribuibile al Lillo. In quest’opera la fisionomia del volto di san Giuseppe è la stessa dei dipinti del Santuario.

6. S. Lillo (attr.), San Giuseppe da Copertino guarisce dalla follia il cavalier Baldassarre Rossi. Copertino, Santuario di San Giuseppe da Copertino (ph. S. Tanisi)
6. S. Lillo (attr.), San Giuseppe da Copertino guarisce dalla follia il cavalier Baldassarre Rossi. Copertino, Santuario di San Giuseppe da Copertino (ph. S. Tanisi)

La presenza di Saverio Lillo a Copertino è avvalorata ulteriormente da un dipinto autografo, collocato nel presbiterio della basilica di Santa Maria della Neve, raffigurante “La Trinità e il trionfo della Fede”, firmato in basso al centro “Xav[erius] Lillo Ruf[fan]o” e commissionato nel 1777 da “D. Thomas Lagheza pro sua devotione”. Di quest’opera, il Lillo, riprenderà la figura di Cristo e la inserirà nell’inedito dipinto della “Trinità e anime purganti” della chiesa matrice di Cutrofiano.

7. S. Lillo (attr.), San Giuseppe da Copertino che appare a una donna e un bambino. Copertino, Convento della Grottella (ph. S. Tanisi)
7. S. Lillo (attr.), San Giuseppe da Copertino che appare a una donna e un bambino. Copertino, Convento della Grottella (ph. S. Tanisi)

 

 

Da: S. Tanisi, Il pittore del “Santo dei voli”. Saverio Lillo da Ruffano, in “Il Paese nuovo”, Quotidiano del Salento, Anno XX, Numero 104, 3 maggio 2012.

 

 

Convegno. Monsignor Belisario Balduino vescovo da Montesardo al Concilio di Trento

stemma balduino larino montesano

di Francesco Greco

“Monsignor Belisario Balduino Vescovo da Montesardo al Concilio di Trento”. E’ il titolo del convegno-commemorazione sulla figura dell’illustre Prelato (in foto il suo stemma) nato in Terra di Montisardui (Lecce) nel 1518 e morto a Larino (Campobasso) nel 1591, passato alla storia per aver istituito il primo Seminario della Cristianità.

Si svolgerà mercoledì 17 settembre.

Ecco il programma dei lavori:

Chiesa Madre (ore 18.30): Santa Messa in suffragio di Monsignor Belisario Balduino a 450 anni (26 gennaio 1564) dalla nascita, a Larino, del primo Seminario, celebrata da S. E. Monsignor Vito Angiuli, Vescovo della Diocesi Ugento – Santa Maria di Leuca, col Coro Parrocchiale di Montesardo diretto da Antonio Torsello e Rossella Torsello.

Alle 19.30 ci si sposterà nei Giardini del Castello (dove ha sede la Residenza Protetta “Gaudium”): dopo i saluti del parroco don Pietro Carluccio, il sindaco del Comune di Alessano Osvaldo Stendardo e Donato Melcarne, assessore al Welfare, seguiranno gli interventi di S. E. Monsignor Vito Angiuli, del Prof. Francesco Danieli sul personaggio e il contesto storico in cui visse e agì, titolo: “Monsignor Belisario Balduino, un Vescovo meridionale pioniere della tridentinizzazione”, di Francesco Calignano, studioso e Giuseppe Mammarella, Direttore dell’Archivio Storico Diocesano (Diocesi di Termoli-Larino):

“Il Seminario di Larino, primo della Cristianità e il suo Vescovo fondatore”.

Intermezzi del M° Doriano Longo (violino) che eseguirà brani di musica barocca. Gli atti del primo Sinodo (ne celebrò altri due, nel 1564 e 1571) tenuto a Larino il 26 marzo 1556 saranno letti dall’attrice Giustina De Jaco.

Moderatore dell’evento (che ha il patrocinio del Comune di Alessano) il giornalista Francesco Greco (info: 328-6457836).

Un libro sulla chiesa confraternale di Spongano

bimba_libro_1__800_800

di Giuseppe Corvaglia

 

Così è finalmente arrivato il nuovo libro di Filippo Giacomo Cerfeda: “Loquar ad cor eius – La chiesa confraternale dell’Immacolata di Spongano e l’omonima Confraternita”.

La passione per la storia e i documenti lo spinge sempre a farci conoscere aspetti della nostro passato che ci fanno sentire più completi e aumentano l’orgoglio di appartenere a questa comunità.

La storia serve a farci capire da dove veniamo, è la radice che ci ancora a questo mondo e che ci rende saldi nel cammino, ci rende forti quando è tempo di spiccare il volo ed è la meravigliosa sensazione che ci fa sentire a casa anche in capo al mondo. La storia dei nostri luoghi è parte fondamentale della nostra identità e dobbiamo ringraziare chi arricchisce questo patrimonio.

Questa volta, però, il lavoro di Cerfeda mi è sembrato particolarmente eccellente perché, oltre a parteciparci dei documenti nascosti in archivi polverosi, ha saputo raccontarci la vita della Congrega dell’Immacolata di Spongano dagli albori della sua esistenza fino ai giorni nostri mostrandocela come una creatura che, nonostante i 360 anni trascorsi dalla sua fondazione, è ancora vitale e pulsante, capace animare l’aspetto devozionale senza far mancare un apporto diverso alla comunità, e a far sentire viva questa vita di fratellanza al lettore.

L’autore, da archivista fine e appassionato, ci mette a disposizione tutti i documenti che ha trovato negli archivi vicini e lontani e anche in quelli smembrati (come quello della diocesi di Castro diviso fra gli archivi parrocchiali di Poggiardo, Castro, Marittima e Diso e l’archivio diocesano di Otranto), ma, da didatta, non tralascia di spiegare il senso e il succo di questi documenti.

Ne restano perciò appagati sia gli estimatori appassionati, che possono gustare i documenti per loro inaccessibili, sia i lettori comuni che vogliono conoscere la storia e il senso attuale di questa Confraternita.

Ma questo libro ha un altro pregio, quello di proporci documenti attinti a fonti diverse: dall’Archivio diocesano, che Filippo Cerfeda conosce bene, agli archivi citati, compresi quello della Confraternita e della Parrocchia. Ci propone, infatti, anche molti documenti notarili che ci spiegano meglio alcuni aspetti frequenti dei tempi andati, quando le Confraternite, oltre alla formazione spirituale e al suffragio dei morti, erano dedite anche al soccorso degli associati concedendo dei prestiti o l’uso dei terreni di loro proprietà.

Il percorso propostoci dall’Autore ci racconta l’evoluzione della confraternita che, nata come associazione devozionale, si trova ad avere a che fare anche con le leggi del mondo per cui verso la fine del 1700, quando la stessa deve essere riconosciuta dallo Stato, si chiede l’assenso del Re per la fondazione e le regole. L’ assenso verrà poi concesso il 15 marzo del 1778.

La supplica al Re è firmata da 67 cittadini, fra cui i sacerdoti della parrocchia, e ci fa vedere cognomi noti e magari anche quelli dei nostri avi.

I tempi cambieranno e altre volte la Confraternita dovrà chiedere il riconoscimento come persona giuridica sia nel 1925 sia nel 1992.

Un altro segno dei tempi che cambiano sarà nel 1820 l’approvazione di una regola, per una Fratellanza inizialmente solo maschile, che consenta di associare anche le donne, ancora oggi una importante parte dell’associazione. Tale disposizione verrà attuata da un decreto del Re del 1830.

Interessante poi l’excursus sulle diverse confraternite laiche della storia di Spongano che, rispetto a precedenti lavori, appare più completo, perché Cerfeda riesce a fare il punto della situazione, integrandolo con altre notizie, come per la Confraternita del Rosario che a un certo punto cessa di esistere, per cui il patronato dell’altare della Madonna del Rosario, restando la devozione, diventa di patronato popolare.

C’è da dire, come riconosce l’autore stesso e sa bene chiunque abbia cercato di interessarsi della materia, che soprattutto le nostre comunità, che facevano parte della diocesi di Castro, hanno patito una dispersione documentaria che per certi aspetti non ha favorito una ricerca mirata e puntuale; questo ha reso ancora più prezioso il lavoro e lo sforzo dell’autore.

Un aspetto, per me, molto interessane e allo stesso tempo sconosciuto è stato la scoperta di aggregazioni con altre confraternite che erano una forma di solidarietà fra confraternite che si scambiavano i suffragi per i propri confratelli defunti. Infatti in base a veri e propri accordi, la Confraternita di un paese ricordava nelle messe di suffragio anche i defunti di altre Fratellanze le quali, a loro volta, ricordavano i defunti di quella confraternita nelle messe di suffragio per i propri morti. Cerfeda ci mostra alcune di queste lettere che rammentano al priore in carica gli accordi chiamati anche alleanze, per meglio rendere l’idea.

Molto interessanti sono le notizie sul culto della Madonna Immacolata. A differenza del culto di Santa Vittoria, il culto mariano, e in particolare dell’Immacolata, lo troviamo già alle origini della comunità. Cerfeda ci ricorda che già nella vecchia chiesa parrocchiale c’era un altare dedicato e che il decreto di fondazione della confraternita intitolata a Maria Immacolata risale al 1653.

Altre notizie ci vengono date sulla cappella vera e propria, dalla sua origine alla sua riedificazione dopo dei danni prodotti verso la metà del 1700 da eventi atmosferici. Dai documenti non si evince chi sia stato il costruttore né colui che l’abbia riedificata, ma Cerfeda fa un lavoro di “investigazione”, riuscendo a formulare un’ipotesi sicuramente attendibile che riferisce alla famiglia Gambino sia l’iniziativa sia proprio la maestranza per la ricostruzione dell’opera.

Anche il capitolo degli arredi ci fa scoprire cose nuove ed inaspettate come il Calvario mobile dipinto da Alessandro Bortone e che speriamo non sia andato perduto.

Altro capitolo curato dall’autore è quello dei privilegi e delle concessioni dove cita e riproduce brevi e documenti papali che definiscono tali privilegi soprattutto nei giorni di festa per la Madre di Dio e per gli altri compatroni della confraternita: San Raffaele Arcangelo e San Luigi Gonzaga, le cui effigi troviamo ai lati del dipinto dell’Immacolata.

Bella poi la spiegazione dell’epigrafe posta sopra lo stesso dipinto che l’Autore utilizza in parte per il titolo di questo libro. Da esperto epigrafista non gli basta tradurre dal latino, ma ci propone alcune spiegazioni esegetiche davvero molto belle e ci fa capire quale poteva essere l’intento dei padri che l’avevano scelta come monito per tutti.

Penso che la spiegazione di Sant’Alfonso Maria de Liguori sia quella più appropriata, perché la preghiera è comunitaria, come quella della confraternita, ma è anche raccoglimento e meditazione di chi si porta in un luogo isolato e cerca un dialogo con Dio che parla al suo cuore.

Altre interessanti notizie Cerfeda ce la dà riguardo ai censi bullari e ai canoni: i primi erano prestiti erogati dalla Fratellanza e regolati da bolle pontificali che evitavano interessi da usura e che diventavano una risorsa specie per i confratelli meno abbienti e più esposti, i canoni erano gli affitti delle proprietà terriere, anche loro a prezzo agevolato.

Entrambe erano una cosa molto seria tanto che per stipularli era necessario un atto notarile e  proprio da questi atti, proposti dall’autore e ritrovati in archivi privati, come quello di casa Bacile, assumiamo tanti particolari che ci danno uno spaccato della vita di quei tempi.

E’ però degna di nota tutta la parte documentale che è apprezzata, per lo più, dagli addetti ai lavori. Qui diventa una lettura molto interessante specie nella parte che ci fa conoscere le regole  sia quelle della prima concessione reale del 1778 sia quelle della seconda concessione, fatta dopo la riforma del diritto canonico del 1925.

Sono regole interessanti da leggere e attualissime  per chi voglia chiamarsi cristiano e devoto ma anche per chi si vuole chiamare persona civile. Gli articoli XIII (Procurino li Fratelli amarsino l’un l’altro nel Signore ed esser fra loro uniti con sincera carità dando buon esempio a tutti con la buona vita e costumi ) e XIV (tutti fuggano con ogni diligenza le mali compagnie, l’ubriachezze, le bestemmie, le mormorazioni ed altri motivi di parole impertinenti e scandalose, schiferanno i giuochi di carte e dadi, e massimamente li luoghi dove si esercitano … e si fanno altre dissolutezze ed eccesso, giocando però per qualche loro onesta ricreazione lo faccino a giuochi leciti e con pochi denari) sono davvero illuminanti, ma anche gli altri non sono da meno.

Possiamo definire questo libro un lavoro bello, edificante e istruttivo, voluto tenacemente dal Priore e da tutti i confratelli che, a vario titolo, hanno contribuito alla sua realizzazione.

Investire, specie oggi, è difficile in tutti i campi, ma farlo nella storia e nella conoscenza è un investimento che non dà apparentemente frutti tangibili immediati, ma che arricchisce l’uomo di oggi e le generazioni future.

Un plauso va anche all’avvocato Paola Vilei per la nota sullo stato giuridico delle confraternite di oggi, semplice, ma molto puntuale ed esplicativa.

La lettura del libro è stata molto gradevole; mi hanno portato a leggerlo, sicuramente, la mia passione per la storia patria e l’attrattiva che da sempre hanno su di me i lavori di Filippo Giacomo Cerfeda, ma forse ha molto contribuito la nostalgia di un chierichetto che serviva messa alla Congrega col suo amico Luigino e si guadagnava un soldino dal priore. Che si confessava al volo prima di entrare per la messa con quel gran sacerdote, innamorato perso della Madre di Dio, che era Don Vittorio Corvaglia, che ti assolveva se volevi comunicarti dicendo:< Che peccati puoi aver fatto?> E aveva ragione: che peccati si possono fare a 10-12 anni?

Nostalgia allora , ma anche sana curiosità, direi anche soddisfatta pienamente, su una delle Istituzioni di Spongano.

La Terra d’Otranto in un portolano del XVI secolo

di Armando Polito

Il documento, che fa parte della sezione dei manoscritti latini (n. 18249) custoditi nella Biblioteca Nazionale di Francia, è integralmente leggibile in http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b550024823.r=puglia.langEN, da cui ho tratto ed adattato le immagini che seguono.

Ê un portolano del XVI secolo1  attribuito a Battista Agnese sulla scorta di quanto si legge annotato a matita nel verso del foglio di guardia superiore (dettaglio in basso).

par Batista Agnese, pilote génois demeurant à Venise (1536-1554) [(realizzato) da Battista Agnese, pilota genovese risiedente a Venezia (1536-1554)].

Data la natura del documento, vi sono registrati solo i toponimi delle zone costiere e qui verranno presi in considerazione solo quelli riguardanti la Terra d’Otranto. Prima, però di iniziare a farlo, vale la pena fare una breve presentazione del manoscritto. Consta di 21 carte; quelle che vanno dalla 4v alla 12r sono mappe nautiche. Le rimanenti sono tavole aventi diverse funzioni, ma sempre attinenti al tema geografico. Le riporto anche per la loro valenza estetica.

1v

Anche se mancano il titolo e le altre indicazioni tipiche, può essere considerato il frontespizio. Nello schematico mappamondo sono rappresentati  l’equatore e due paralleli per ogni emisfero, nonché l’eclittica (cioè il cerchio massimo apparentemente descritto in un anno dal Sole intorno alla Terra).

2r

L’arme rappresentata (di rosso al bue d’argento) e il DOMINICUS DE BOSSIS che si legge nel cartiglio rendono il tutto, a mio parere, equivalente ad una dedica, sia pur di natura esclusivamente iconica. Molto probabilmente, siccome l’Agnese, come, d’altra parte, tanti altri cartografi, lavorò su incarico di personaggi di alto rango, non è azzardato supporre che Domenico De Bossi sia stato, più che il dedicatario, il committente. L’araldica è un campo nel quale solo da poco, grazie anche allo stimolo del competente amico Marcello Gaballo, mi sono avventurato e siccome sulla nobiltà, non quella d’animo, ho le mie riserve, debbo dire che pure essa, per quel poco che ho capito, non è indenne dalle miserie che caratterizzano le altre bandiere con orgoglio sventolate da noi umani. In fondo che differenza c’è tra le rendite ed i privilegi assicurati in passato dal titolo nobiliare (e, in parecchi casi, anche le circostanze e le modalità della loro attribuzione) e quelli oggi garantiti da tanti incarichi pubblici assunti esclusivamente per benemerenze politiche? Tornando all’animale, nella fattispecie debbo dire che il bue è l’elemento caratterizzante anche lo stemma dei Bossi, dei Boassi, dei Boasso, dei Boazzi, dei Boeri, dei Boarelli, dei Boazzi, dei Boetti, dei Boetto, dei Bogetti, dei Boggetti, dei Boggietti, dei Boggio, dei Bollini, dei Bovet, dei Bovetti, dei Boveti, dei Buelli e dei Bosio. Sembra incredibile quanto quest’animale sia araldicamente inflazionato; e pensare che mi sono limitato a riportare solo i nomi a lui chiaramente riconducibili! Insomma, neppure la nobiltà sembra essere indenne dalla scopiazzatura e dal plagio, pur potendo vantare incroci di ogni tipo, anche multipli e, per questi ultimi, penso all’inquartatura dello scudo, vocabolo che, ironia della sorte, indica anche l’aratura del terreno fatta per la quarta volta prima della semina; solo che i signori prima ricordati molto difficilmente hanno avuto a che fare direttamente con l’aratro e con i buoi … Per chiudere: Bossi, nella fattispecie, potrebbe addirittura vantare origini greche perché il dativo della voce greca,  βουσί (leggi busì), gli è più vicino di quanto non gli sia l’ablativo latino bobus o bubus (per sincope dalla forma normale bòvibus che non è attestata). Meglio però, non farlo sapere al fondatore della lega, altrimenti si …imbufalisce.

Torno al nostro Domenico. Dal volume 13 (1971) del Dizionario biografico degli Italiani apprendo che un Domenico De Bossi nel 1590, in procinto di partire per la Boemia per esercitare artem murariam2, fa testamento;  compare anche come teste in alcuni documenti per numerose persone, specialmente muratori e scalpellini italiani ai quali veniva concesso il diritto di cittadinanza; che nel 1606 Domenico e il fratello Maria chiedono di migliorare il loro stemma (un bue bianco in campo rosso e nel cimiero il bue nascente) e di poter mutare il proprio cognome in “von Bossi von den Grünen Dreibergen”, per distinguersi da altri Bossi domiciliati a Praga.

Se il Domenico della dedica è il nostro, per motivi cronologici l’attribuzione del portolano a Battista Agnese mi pare poco condivisibile.

2v

Dalla sequenza di numeri riportata nel dettaglio ingrandito in basso (la numerazione completa di ogni subcolonna delle tre colonne va da 1 a 30, quindi dovrebbe riferirsi ai giorni) si direbbe un calendario con annotazione dell’ora del sorgere e del tramontare degli astri. Sarà estremamente gradita ogni pertinente osservazione da parte del lettore.

3r

Di storia dell’arte non me ne intendo, ma ci vedo nello sfondo un’eco della Crocifissione del Perugino (vedi parte centrale nelle foto sottostante) dell’anno 1495 nel Convento di S. Maria dei Pazzi, a Firenze; mi auguro che anche in questo caso persone di me più competenti mettano in risalto altri influssi che a pelle sento ma che non saprei definire con riferimenti precisi.

immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/Crocifissione_del_Perugino#mediaviewer/File:The_Pazzi_Crucifixion.jpg
immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/Crocifissione_del_Perugino#mediaviewer/File:The_Pazzi_Crucifixion.jpg

3v+4r

Rappresentazione geografica geocentrica con i segni zodiacali. Appaiono inoltre dieci ovali simmetricamente disposti, anche rispetto alla diversa dimensione. Li riporto in dettaglio (ridotti per comodità alle stesse dimensioni) in tre strisce risultanti dalla lettura orizzontale, con le identificazioni che sono stato in grado di fare.


i

1 figura femminile non identificata     2 Mercurio col petaso alato

3 si direbbe ancora Mercurio             figura femminile non identificata

5 Nettuno     6 Anfitrite

L’iconografia di Nettuno coll’ippocampo e di Anfitrite col velo svolazzante è molto antica; in basso un affresco pompeiano (immagine tratta da http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/e/ed/Affreschi_romani_-_nettuno_anfitrine_-_pompei.JPG) e un mosaico del III secolo d. C. dalla villa dell’Uadi Blibane in Tunisia (immagine tratta da http://www.lasiciliainrete.it/STORIAECULTURA/culti_miti_SICILIA/3_cultielleni/poseidone.htm) .

Tale iconografia sarà assunta a modello stereotipo nei secoli successivi e, in particolare nella pittura, dal secolo XVI in poi.

Continuiamo l’esame del nostro documento.

7 figura femminile non identificata      8 figura maschile non identificata

9 figura maschile non identificata       10 figura femminile non identificata

Mercurio ed Anfitrite costituiscono una scelta obbligata per un portolano e rappresentano, direi, il contraltare pagano della Crocifissione precedente. Credo che le figure maschili e femminili (queste ultime in particolare ricordano certi ovali pompeiani) non identificate abbiano un carattere celebrativo della famiglia del commitente/dedicatario (cioè la stessa funzione di un altro manufatto, molto più recente, di cui mi sono occupato in  https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/28/due-variazioni-sul-tema-a-nardo-e-a-s-maria-al-bagno/). Da notare nella striscia 1 e 3 la simmetria data dalla posizione centrale delle figure maschili.

Il motivo floreale molto ricorrente e simmetrico nelle quattro lunette intermedie si fonde con quello zoomorfo, anzi zooteratomorfo  (una sorta di incrocio tra un grifone e un bruco?); il dettaglio,  in basso, risulta ripetuto quattro volte e, per rispettare la simmetria, i due superiori risultano capovolti); anche per l’eco più moderna di questo rinvio al link precedente.

Chiedo, comunque, lumi al lettore esperto perché, da profano, credo che i dettagli che ho descritto possano aiutare nella datazione.

Passo ora, finalmente, alle mappe che ci interessano da vicino.

10v+11r

Segue il dettaglio qui evidenziato in rosso, ingrandito e capovolto per agevolare la lettura dei toponimi.

ouzenti/Ugento   brundisio/Brindisi calipoli/Gallipoli   c. S. maria/Capo S. Maria di Leuca    cataldo/San Cataldo  cavalo/Punta Cavallo   gaucito/Guaceto  otranto/Otranto   p.  cesaria/Porto Cesareo  pedagne/Isole Pedagne  petrola/Petrolla  taranto/Taranto  turre di mar(e)/?   vilanova/Villanova

Debbo ora dare ragione del punto interrogativo che accompagna l’identificazione di turre di mar(e) facendo notare in primo luogo come essa nel dettaglio della mappa risulta più vicina a Taranto che al successivo policor(o); a questo punto cedo la parola alle fonti.

Leandro Alberti (1469-1552), Descrittione di tutta Italia, Ludovico degli Avanzi, Venezia, 1561, p. 226: Poco più avanti (oltre il fiume Vasento) appare Torre di Mare, così addimandata questa Torre dishabitata, ove sono alcune casuzze, pur d’alquante povere persone habitate. La Torre fu fatta per tener buone guardie ne’ tempi che i Pirati discorrono per il mare, et montano a terra a rubbare i luoghi vicini. Ella è presso il mare mezo miglio.

Girolamo Marciano (1571-1628), Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1855, p. 141: Ritornando dunque alla nostra descrizione nella parte d’oriente da Egnazia, e tirando coll’immaginativa una linea, la quale si vada alquanto curvando a guisa di semicircolo, rinchiudendo verso l’ostro il tenimento d’Ostuni, di Martina, di Motula, di Castellaneta, passando per la Taverna di Viglione, termine da questo lato della Provincia d’Otranto, e di terra di bari, il tenimento di Matera e d’Altamura, rinchiudendovisi però dentro quello di Matera e d’Altamura, terminandosi l’estremità della linea alle foci del fiume Vasento, parte occidentale, il quale fiume divide la Provincia d’Otranto dalla Basilicata, e rinchiudendosi con questa linea il braccio della Provincia verso l’ostro e da Oriente, si contano

Da Egnazia a Martina ……………………………………………… Miglia 12

Da Martina a Motula………………………………………………….           16

Da Motula a Castellaneta……………………………………………             6

Da Castellaneta alla taverna di Viglione …………………………..           12

Dalla Taverna di Viglione a Matera ………………………………..             6

Da Matera alle foci del fiume Vasento………………………………          24

Dal fiume Vasento al Castello di Torre di Mare .. ……………… .            1

Dal Castello di Torre di Mare alla Torre del Bradano ……………..           3    

I brani trascritti collocano, dunque, Torre di mare sul confine tra la Terra d’Otranto e la Basilicata, come è agevolmente visibile nel dettaglio (il toponimo riportato, che ho evidenziato in rosso, è Toramare) tratto dalla mappa del 1589  Puglia piana, Terra di Barri (sic), Terra di Otranto, Calabria et Basilicata, di Gerardo Mercatore. In particolare l’Alberti e la mappa la collocano sulla riva orientale del Vasento.

Credo che sia errata la dislocazione del toponimo Torre amaré sulla riva occidentale del fiume nel dettaglio, visibile in basso, della mappa La descriptione della Puglia di Giacomo Gastaldi pubblicata da Ferando Berteli nel 1567.

Lo stesso errore si ripete, visibile  nel dettaglio della mappa, sempre del Gastaldi, Apuliae, quae olim Iapygia, nova chorographia pubblicata da Abraham Hortelius nel 1595.

La dislocazione appare, invece, corretta nel dettaglio seguente dalla tavola che è a p. 119 di Italia di Giovanni Antonio Magini, opera uscita a spese dell’autore a Bologna nel 1620.


L’ errore di dislocazione prima rilevato (questa volta, fra l’altro, il toponimo è T. DI Mara!) torna anche nel dettaglio della mappa dell’Italia  a corredo del IX volume dell’Atlas Maior di Jean Blaeu, volume uscito ad Amsterdam nel 1667. La mappa si trova a pag. 5.

A dimostrazione della scarsa coerenza toponomastica in particolare e topografica in generale, solo parzialmente giustificata dalle dimensioni dell’opera, ecco come il toponimo (questa volta T. di Mare) appare (questa volta correttamente collocato) nel dettaglio di un’altra mappa che è a p. 148 dello stesso volume.

Correttamente e definitivamente ritornato sulla sponda orientale del Basento è nel dettaglio della Carta geografica della Sicilia Prima o sia Regno di Napoli di Giovanni Antonio Rizzi-Zannoni del 1771.

Per quanto fin qui osservato ritengo che turre di mar(e) fosse e sia da ascrivere senz’altro alla Terra di Otranto e, anche se il mio punto interrogativo riguarda l’identificazione con qualche eventuale toponimo attuale, essa doveva trovarsi nella marina di Ginosa (nei pressi dell’attuale Torreserena Club Village?). Ê fuori dubbio che non sia da identificare con l’attuale Torre Mattoni che prima si chiamava Torre del Bradano (chiaramente distinta dalla nostra nel brano del Marciano che ho riportato).

Ripetendo l’operazione fatta con la carta precedente …

 

N. B. Per Petrola vedi la segnalazione del sig.Emilio Distratis nel suo commento leggibile, con la mia risposta, in https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/12/la-terra-dotranto-un-portolano-del-xiv-secolo/

___________

1 Per altri portolani riguardanti, come questo, anche la Terra d’Otranto vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/04/23/la-terra-dotranto-in-due-antiche-carte-nautiche/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/17/a-pesca-in-rotta-verso-punta-palascia-con-a-bordo-una-vecchia-carta-nautica-ma-la-rete-e-di-ultima-generazione/

2 Da intendersi come attività di architetto o, più probabilmente, di imprenditore, non certo di muratore …

Le varie fasi della lavorazione del tabacco

Na chiantazione te tabaccu già fiurutu. Se ccuìja prima lu frunzone (le fòie cchiù basce) e, a manu manu, la quarta, la terza, la seconda, la prima e la primiceddha, ca era la cchiù china te crassu e perciò la mèju ccodda: ca pisava te cchiùi e tenìa cchiù valore.

di Irene Mancini

Didascalie in vernacolo salentino di Alfredo Romano

Le fasi della lavorazione del tabacco richiedono cure scrupolose, abilità ed esperienza non indifferenti, oltre che una gran fatica. I lavori preparatori del terreno, detti comunemente coltivi[1], sono di tre tipi. Il primo viene eseguito subito dopo la prima pioggia autunnale e prima della caduta delle grandi piogge: pressappoco tra la seconda quindicina di ottobre e la prima di novembre. Le radici del perustitza arrivano ordinariamente alla profondità di 25 cm e quindi è sufficiente una profondità lavorativa di 30-35 cm.

La terra viene rivoltata con l’aratro, allo scopo di farla ‘maturare’ sotto l’azione degli agenti atmosferici. Con l’aratura si riesce a sterilizzare il terreno mettendo allo scoperto molte larve, uova di insetti, germi di piante parassitarie e semi di erbacce che vengono distrutti dal freddo e dal gelo. Inoltre molte piante spontanee vengono divelte e muoiono.

Il secondo coltivo viene eseguito sul finire dell’inverno, non più con l’aratro, ma con l’impiego della fresatrice, alla profondità di 20-22 cm, a seconda della natura del terreno: più superficiale per i terreni un po’ sciolti, più profondo per quelli compatti. In questo modo si ottiene il completo spappolamento delle particelle terrose.

Il terzo coltivo, molto superficiale, consiste nel pianeggiare la superficie del terreno alla distanza di 7-8 giorni dal trapianto delle piantine estirpate dai semenzai. Insieme con la fresa, viene impiegato anche l’erpice; nel caso di piccole superfici, invece, è più indicata la zappa. Con quest’ultimo lavoro si ripulisce il terreno dalle erbacce, andando a costituire uno strato superficiale polverulento che va a proteggere gli strati inferiori, impedendo l’evaporazione dell’acqua. Il perustitza entra nelle normali rotazioni agrarie, ma non può aprire il ciclo perché le abbondanti concimazioni che di norma vengono date al terreno che dovrà ospitare la pianta che apre la rotazione, nuocerebbero alla bontà del prodotto. È bene evitare che il perustitza segua una coltura miglioratrice perché troverebbe il terreno eccessivamente ricco di principi azotati; da qui l’utilità di far seguire alla coltura di rinnovo una pianta depauperante, come il grano, capace di utilizzare la fertilità eccessiva lasciata dalla pianta miglioratrice. Quindi: coltura da rinnovo – pianta depauperante (grano) – perustitza.

tabacco21

La prima volta che si coltiva il perustitza in un terreno, non si ha un buon rendimento: lo si ottiene man mano negli anni successivi. In alcune aziende, perciò, la coltivazione del perustitza viene ripetuta sul medesimo terreno per più anni consecutivi. Naturalmente si deve cercare di non incorrere nella stanchezza del terreno a tutto scapito della qualità.

Per quel che riguarda la concimazione, gli elementi minerali su cui si deve orientare la scelta per ottenere buoni risultati sono il fosforo e il potassio, escludendo l’azoto, di cui è sufficiente la quantità presente nel terreno.

tabacco3La stabulatura è la migliore concimazione conosciuta per il perustitza. Essa consiste nel fare stazionare le pecore sul terreno da investire a tabacco durante i mesi invernali e per un breve periodo di tempo. In media è necessaria la permanenza per circa 24 ore (almeno due notti di seguito) di una pecora per metro quadrato.

L’epoca della semina è strettamente legata all’andamento stagionale ed all’epoca del trapianto. Il periodo è quello di febbraio-marzo, per poter eseguire il trapianto a maggio. Si tenga presente che occorrono 12/15 giorni per la germinazione (comparsa delle prime due foglioline), altri 8/10 giorni per la fase di crocetta (prime quattro foglioline), ed ulteriori 30/35 giorni per ottenere le piantine pronte per il trapianto.

Il semenzaio deve trovarsi al riparo dai venti freddi, quindi va formato in vicinanza di muri, abitazioni coloniche, siepi, ecc. In mancanza di queste protezioni si creano ripari artificiali. L’esposizione soleggiata al riparo dai venti freddi è condizione indispensabile per la buona riuscita del semenzaio, in quanto per la germinazione del seme è necessaria una temperatura di almeno 6/8 C° e durante tale periodo non devono verificarsi sbalzi di temperatura molto accentuati. Nella scelta dell’ubicazione del semenzaio è necessario tener presente la disponibilità di acqua occorrente per le annaffiature.

tabacco2

Le aiuole sono larghe 1 m. e lunghe 20/25 m., separate da sentieri di 50/60 cm. Il terreno al quale si affida il seme deve essere sciolto e soffice, fertile, ricco di materiale organico e che assolutamente non faccia crosta quando s’innaffia. Il terreno che forma il letto di semina deve essere immune da insetti e da germi di parassiti. È utile disinfestarlo 15 giorni prima della semina. È inoltre necessario che la superficie delle aiuole sia assolutamente orizzontale, per evitare che il seme con gli innaffiamenti se ne discenda verso la parte più bassa.

Il semenzaio deve essere coperto per favorire la germinazione, proteggere le piantine dal freddo, dalle gelate e dall’azione battente della pioggia. La migliore copertura, adoperata dai coltivatori della zona, è la garza, che meglio di ogni altra copertura assolve al compito di creare le condizioni ottimali di illuminazione, areazione ed umidità.

tabacco-al-sole

Il seme del perustitza è di dimensione minuta; per avere le piantine sane e robuste è necessario che in un metro quadrato di semenzaio ve ne siano qualche migliaio. Per poter distribuire  uniformemente il seme, è bene mescolarlo con cenere ed eseguire la semina a spaglio oppure con un setaccio. La semina si esegue in giornate calme, senza vento e soleggiate, altrimenti cenere e semi facilmente vengono trasportati dal vento, e si ha così una semina disforme. Dopo aver seminato si comprime leggermente la superficie del semenzaio in modo da far aderire il seme al terriccio; questa operazione viene eseguita delicatamente con il dorso della zappa. Dopo la semina il semenzaio viene leggermente innaffiato.

Il semenzaio deve essere oggetto di cure assidue, continue ed incessanti. Fino a che non si è avuta la completa germinazione del seme, il semenzaio viene coperto e mantenuto costantemente umido, affinché ai semi in germinazione non manchi l’acqua che è l’elemento più importante di questa delicata fase. All’inizio si praticano ogni giorno delle innaffiate con acqua non fredda, a meno che il tempo non sia piovoso o umido. Si ridurranno man mano che le piantine crescono. Lo stesso verrà fatto per la copertura, iniziando a sollevare la garza sul tardi nei giorni soleggiati, aumentando la durata fino ad abituare le piantine allo scoperto, anche di notte. È necessario tenere il semenzaio pulito da qualunque erba spontanea che tenda ad usurpare alle piantine di tabacco spazio, luce, calore e nutrimento.

Purtroppo i semenzai vanno quasi sempre soggetti ad attacchi di taluni insetti (le chiocciole o lumache, il grillotalpa, le formiche, i colomboli, detti comunemente pulci di terra) e malattie di natura batterica (la ‘lupa’ o ‘bruciatura dei semenzai’, il ‘marciume radicale’, e la ‘peronospora’).

Li tiraletti misi a llu sole cu ssìcca lu tabaccu.

La grandine, tra le meteore, è quella che maggiormente pregiudica il risultato finale della coltivazione del tabacco. I danni che essa produce non sono costanti, ma variano a seconda dell’intensità di caduta dei chicchi, della loro grandezza e se cadono da soli o frammisti a pioggia. Tutto ciò incide notevolmente sulla gravità del danno, che in alcuni casi può perfino portare alla distruzione completa della coltivazione se la stagione risulta molto avanzata..

L’epoca del trapianto è in relazione all’andamento stagionale (a Civita si effettuava generalmente entro il mese di maggio). Il tempo necessario per il trapianto deve essere di 10/12 giorni. Il terreno viene preventivamente squadrato: si traccia un primo allineamento di base parallelo a una strada poderale o ad altra linea regolare, tenendo sempre conto dell’orientamento che si vuole dare ai solchi (da Ovest verso Est per consentire alle piantine di autombreggiarsi durante la caldissima estate). E poi si scavano i solchetti larghi 15 cm e profondi 10 cm. La distanza di trapianto, 20 cm tra una piantina e l’altra, va scrupolosamente rispettata[2] (in ogni caso, i coltivatori salentini avevano l’abitudine di mantenere le distanze quanto più possibile ravvicinate, perché sapevano, per esperienza, che in tal modo si ottenevano prodotti con foglie di modeste dimensioni, più fini e con contenuto di nicotina più basso). Le piantine si ritengono adatte ad essere trapiantate quando hanno emesso circa 6-8 foglioline ed hanno raggiunto un’altezza di 8-10 centimetri.

famiglie-collemeto-filzano-il-tabacco-a-civita-c-anni-60

Bisogna avere l’accortezza di scartare le piantine sfilate, deboli o malate, e servirsi soltanto di quelle robuste di colore verde cupo. Appena estirpate, le piantine vanno collocate in ceste o cassette a gabbia, bene accostate le une alle altre, tutte dallo stesso verso, senza comprimerle e si ricoprono con un panno di tela umido. Le piantine vanno estirpate nel numero sufficiente per il trapianto che si effettua nella giornata, tenendo presente che, se rimane qualche piantina inutilizzata, non può essere utilizzata per il giorno successivo. L’operazione vera e propria di messa a dimora manuale delle piantine (oggi si adopera la trapiantatrice) si praticava adoperando l’antico e noioso cavicchio, che obbligava i coltivatori a lavorare continuamente con la schiena piegata. Con il cavicchio si praticavano dei fori equidistanti entro cui si infilavano le piantine. Contemporaneamente, con lo stesso cavicchio, si procedeva ad una leggera compressione del terreno. L’ora più adatta per il trapianto (ieri e oggi) è il tardo pomeriggio, per consentire alle piantine, nel loro primo giorno di vita extra-semenzale, di beneficiare della fresca rugiada della notte.

Pe ogni tiralettu te tabaccu siccu se facìanu do chiuppi te dece nserte l’unu. Li chiuppi poi sse ppendìanu susu la volta te lu macazzinu. A ottobre se scindìanu li chiuppi e se ccunsàvanu intra le casce spettandu lu Monupoliu ca ll’ìa rritirare e valutare.

Le cure colturali sono: i rimpiazzi, ossia la sostituzione delle piantine che non hanno attecchito; la sarchiatura, per mantenere smosso e polverulento il terreno, per impedire il disperdimento dell’acqua per evaporazione e per distruggere le erbe infestanti; lo sfrondamento, ossia l’eliminazione delle foglie basilari, per favorire lo sviluppo vegetativo della pianta.

La cimatura, come l’irrigazione, sono vietate, perché si otterrebbe una foglia meno grassa, e perciò, una volta secca, meno consistente, priva delle sue qualità organolettiche e, ai fini del peso, non conveniente neanche per la vendita.

Per la fase di lavoro dei semenzai non erano necessarie molte braccia. Nel caso di famiglie stagionali era il capofamiglia che migrava per primo, nel mese di febbraio, dalla sua terra d’origine a Civita Castellana. Ma in primavera, generalmente a maggio, per la fase del trapianto, sopraggiungeva l’intera famiglia, dal momento che mettere a dimora 100 mila piante per ettaro non era uno scherzo, così come l’irrigazione per ogni singola pianta e la continua sarchiatura.

Le cristiane stìanu ssettate ore su ore cu nfìlanu tabaccu cu la cuceddha e lle mane chine te crassu ca… mancu li cani!

La raccolta inizia quando la foglia ha raggiunto il suo massimo sviluppo e la maggiore ricchezza di sostanze elaborate. Essa va effettuata al giusto grado di maturazione. Questa avviene uniformemente per corone dal basso verso l’alto ed a intervalli di circa 8-10 giorni (prima maturano le foglie basali, poi le mediane ed infine quelle apicali). Di conseguenza anche la raccolta segue questo ordine. Va effettuata, inoltre, sempre a foglia asciutta, quindi possibilmente nelle prime ore del mattino, quando la rugiada si è prosciugata: ne deriverebbe altrimenti un danno per il tabacco nella fase di essiccamento. Nella zona di Civita Castellana la fase di raccolta aveva inizio verso la fine del mese di giugno e si protraeva fino alla prima quindicina di settembre. Allorché cade la pioggia, viene sospesa per due-tre giorni, per dar modo alle piante di asciugarsi completamente. Il perustitza, inoltre, non va raccolto durante le ore di sole, quando le foglie s’ammosciano sulla pianta e non si presterebbero per l’infilzamento, né per una proficua essiccazione. Le foglie appena raccolte vengono sistemate una accanto all’altra con la pagina superiore rivolta sempre da un lato, in ceste o cassette, e trasportate nei locali di cura, dove vengono scaricate e sistemate, ad un solo strato, su teli.

Se prèscianu ‘ste cristiane. E nfilàvanu tabaccu sempre le fèmmane e puru li vagnuni, ca li masculi tenìanu addhu te fare.

L’infilzamento viene effettuato usando aghi schiacciati di acciaio della lunghezza di 20-25 cm. Le foglie vengono infilzate una ad una alla base della costola e tutte nello stesso senso. Si tiene l’ago con la mano sinistra e con l’altra si fanno scorrere le foglie. Quando l’ago è pieno di foglie, queste si fanno scorrere sullo spago. Le filze pronte si sistemano sugli appositi telai, che possono essere orizzontali oppure obliqui. Quelli in uso nel Viterbese erano orizzontali ed erano composti da quattro longheroni formanti un rettangolo di metri 2×1, tenuto sospeso da terra da quattro piedi alti 50 cm. Sui due longheroni lunghi venivano applicati dei chiodini a testa piatta che servivano per attaccare le filze all’estremità. Per ogni telaio venivano applicati quaranta chiodini, venti per lato, per cui ogni telaio conteneva 20 filze. Il numero delle persone occorrenti per l’infilzamento era direttamente proporzionale alla quantità di tabacco raccolto; in ogni caso è necessario tener presente che le foglie venivano infilzate fresche, appena colte, quindi la raccolta veniva regolata in modo tale che alla fine della giornata lavorativa non restasse tabacco da infilzare.

E quandu se ttaccàvanu vinti corde te tabaccu pe’ ogni tiralettu, tuccàa llu cacci a llu sole. Matonna mia quantu pisava lu tabaccu ncora verde! Ca te spezzai le razze e puru le spaddhe.

Il processo di cura, per il perustitza, comprende tre fasi: l’ingiallimento e la fissazione del colore; l’essiccazione dei lembi fogliari; l’essiccazione della costola. L’ingiallimento si ottiene tenendo le foglie lontane dal sole e talvolta, in locali all’oscuro. Durante la seconda e terza fase, i telai vengono esposti all’aria e al sole, riparati dai venti dominanti, sistemati su superfici dure, lastricati di cemento, di pietra o terreni battuti, perché si è constatato che le superfici imbiancate accelerano il disseccamento per il calore riflesso nella parte inferiore delle filze. I telai vengono ritirati nei locali di cura durante la notte, perché siano protetti dalle piogge, nebbie e dalle frequenti rugiade che danneggerebbero il prodotto, macchiandolo, e con marcescenza delle costole e delle nervature. La durata media della cura, con andamento stagionale normale, è di 15/20 giorni. Dopodiché, di primo mattino, si staccano delicatamente le filze dai telai, si riuniscono dall’estremità degli spaghi formando dei cumuli di 20 filze, chiamati, in gergo salentino chiuppi. Questi, appena formati, si sistemano nei locali di custodia appendendoli con degli uncini ai fili di ferro preventivamente tesi.

tabacchine1

Nell’appendere i chiuppi bisogna attenersi rigorosamente all’ordine di raccolta. La foglia di tabacco, dopo la cura, tende ad assorbire una certa quantità di umidità dall’ambiente. Pertanto per la buona conservazione del tabacco curato è necessario che esso venga custodito in locali che rispondano ai principali requisiti tecnici per poter conservare il prodotto all’asciutto e possibilmente alla penombra. Nell’adoperare locali già esistenti, è necessario che il coltivatore eviti di adibire contemporaneamente il locale a diversi usi, perché il tabacco ha la proprietà di assorbire facilmente gli odori, pertanto le foglie possono essere facilmente deprezzate perché puzzolenti di stalla o di altri odori poco gradevoli.

Per tutti i mesi estivi l’intera famiglia, composta in media da cinque persone, era tutti i giorni sui campi dall’alba al tramonto. Si lavorava spesso 16 ore al giorno e per le donne ancora di più, dal momento che la sera per loro iniziava il lavoro di casalinghe.

La stagione lavorativa si concludeva a fine settembre circa, quando le famiglie stagionali potevano tornare nel Salento; restavano soltanto i capifamiglia, fino a ottobre-novembre, per presenziare alla fase di vendita del tabacco. Nella prima decade di ottobre, e, in ogni caso, dopo le prime piogge autunnali, si provvedeva a rimuovere i chiuppi appesi per sistemarli in apposite casse, foderate di carta all’interno, che poi venivano consegnate, per la vendita, ai Magazzini Generali di lavorazione della foglia secca. Nella provincia viterbese c’erano sono tre diversi tipi di consegna: a ballotti provvisori, a casse o gabbie, e a chiuppi, cioè al vero stato sciolto.

Sempre li tiraletti a llu sole, ca eranu cuai ci li pijàva l’acqua te lu cielu. Ca ci se bagnava lu tabaccu, venìa tuttu farfaratu e nnu mbalìa gnenzi.

All’epoca opportuna, che normalmente si aggirava dall’inizio di ottobre alla fine di dicembre, il prodotto allo stato secco veniva venduto alla ditta concessionaria per conto della quale il coltivatore aveva effettuato la coltivazione. Solo allora avrebbe percepito i soldi che gli spettavano e avrebbe potuto stabilire i termini del contratto per l’anno successivo. La determinazione del valore del tabacco veniva concordata tra il coltivatore e l’acquirente, i quali si facevano rappresentare dai periti di loro fiducia. Si trattava di una comune contrattazione tra privati, che aveva come base per l’apprezzamento un prezzo preventivamente stabilito dalle tariffe del Monopolio riferite a delle precise caratteristiche merceologiche. Il valore che veniva determinato in perizia era variabilissimo, strettamente legato alle qualità intrinseche (combustibilità, sapore, forza e aroma) ed estrinseche (colore, ampiezza della foglia, attenuazione delle nervature e integrità) che il prodotto presentava all’atto della vendita.

Con il guadagno dell’annata, il capofamiglia stagionale, prima di raggiungere la sua famiglia nel Salento, avrebbe intanto provveduto a saldare tutti i debiti che aveva accumulato presso i bottegai civitonici e anche presso il padrone della terra.

Tratto da: Irene Mancini, I Leccesi a Civita Castellana: storie di emigrazione e di tabacco. Civita Castellana, Edizioni Biblioteca Comunale, 2008.

Bibliografia.
– Giancane F., La coltivazione del tabacco Perustitza nella Provincia di Viterbo. Viterbo, Quatrini, 1969.
– Barletta R., Tabacco tabbaccari e tabacchine nel Salento. Fasano, Schiena, 1994.

_______________

[1] Coltivo: lett. terreno coltivato.

[2] Era rispettata soprattutto al tempo in cui si produceva tabacco a Civita, per non incorrere nelle penalità amministrative previste dal regolamento sulle coltivazioni del Monopolio di Stato.

N.B. Le immagini delle varietà di tabacco Perustitsa, Ezegovina e Xanthi JaKa erano le più diffuse nel Salento.

La Terra d’Otranto del 1559 in un antico itinerario manoscritto

di Armando Polito

Il documento originale, di anonimo, dal titolo Itinerario di tutto lo circuito del Regno cominciando dalla prima terra di marina, et circuendo tanto il mare come la terra fatto l’anno 1559, integralmente leggibile o scaricabile in http://bdh-rd.bne.es/viewer.vm?id=0000076042&page=1), riguarda l’intero Regno di Napoli. Ho ritenuto opportuno, comunque, dato il suo valore antiquario, riprodurre qui i fogli 56r-59v che riguardano la Terra d’Otranto. Ne ho approfittato per aggiungere in calce ad ogni foglio qualche nota relativa alla toponomastica e, a beneficio del lettore che desideri saper qualcosa in più su qualche toponimo di cui ho avuto già occasione di occuparmi, il relativo link.

Prima di cominciare aggiungo solo che nella scheda di catalogazione è datato così: entre 1501 y 1600? Questo range temporale può essere tranquillamente ristretto per ovvi motivi: siccome il circuito risulta fatto nel 1559, la sua scrittura deve risalire sicuramente a dopo, non prima, tale data. Degna di nota, ancora, la coincidenza (che documenterò puntualmente nel corso dell’esame) nella forma di alcuni toponimi con quella registrata nella mappa Terra di Otranto olim Salentina et Iapigia di H. Hondius risalente alla prima metà del XVII secolo. Non ho ritenuto opportuna la trascrizione del testo perché la scrittura originale non pone alcun problema di lettura. Credo, infine, che la distanza, indicata in miglia, sia calcolata in linea retta e sotto questo punto di vista il documento non serve ad un’eventuale ricostruzione di percorsi antichi.

56r

Motola, oggi Mottola. Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/21/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-914-mottola/.

Per Castellaneta vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/14/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-514-castellaneta/.

56v

La terza, oggi Laterza. Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/05/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-714-laterza/.

Tarento (nel foglio precedente Taranto), oggi Taranto. Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/03/31/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-1314-taranto/.

Palegiano (ma nel foglio precedente Palagiano), oggi Palagiano.

Torre di mare. Il toponimo non è sopravvissuto. In basso a sinistra la sua localizzazione nell’immagine tratta ed adattata da Google Maps  e a destra e nel successivo ingrandimento il toponimo come appare nella mappa dell’Hondius citata all’inizio, dalla quale saranno tratti tutti i successivi dettagli relativi agli altri toponimi.

57r

Gritaglie, oggi Grottaglie, considerato concordemente da un latino *cryptàlia=luoghi cavernosi, forma aggettivale neutra sostantivata da crypta, a sua volta dal greco κρυπτή (leggi criuptè)=cella sotterranea; sostanzialmente è la proposta avanzata da Cataldanton Atenisio Carducci nell’edizione, la prima, da lui curata, di Delle delizie tarantine [opera postuma del tarantino Tommaso Niccolò D’Aquino (1665-1721)], Stamperia Raimondiana, Napoli, 1771, p. 88: Ebbe origine questa Terra dalla radunanza de’Villaggi convicini, distrutti dalle guerre de’ Goti, e dalla invasione de’ Saraceni, circa gli anni di Cristo 962 a tempo di Niceforo Imperatore. Lo stesso nome dinota d’esser’egli questo luogo occulto, e cavernoso; poiché nelle sue grotte incominciarono sul principio ad abitare i popoli là radunati, e tratto tratto vi si accrebbero, avendo sperimentata la feracità del terreno].  Sarà una mia fantasia, ma non escluderei in Gritaglie l’influsso di creta.

Sangeorgio, oggi San Giorgio Ionico.

Brindesi, oggi Brindisi. Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/05/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-314-brindisi/.

Leccie, oggi Lecce. Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/17/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-814-lecce/.

 57v

Santo Vito, oggi San Vito dei Normanni.

Misagne, oggi Mesagne.

Casalnovo, oggi Manduria.

58r

Martina, oggi Martina Franca.

Marugio (nel foglio precedente Maruggio), oggi Maruggio.

La vetrana, oggi Avetrana. La forma attuale deriva dall’antica per errata discrezione dell’articolo: La vetrana>L’avetrana>Avetrana. Discussa è, poi, l’origine di Vetrana: potrebbe essere un prediale (terra di Vetrano, ma le epigrafi ci attestano Vetranius e non Vetranus ) oppure per sincope da veterana (terra antica).

Grittaglie (prima Gritaglie), oggi Grottaglie. Se lo scempiamento di t in Gritaglie mi aveva fatto supporre un influsso di creta, qui me lo devo rimangiare. Quanti danni fa l’incoerenza, anche solo nella grafia!

Monacizo, oggi Monacizzo.

58v

Cupertino, oggi Copertino. Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/08/12/copertino-se-non-ci-aiuta-san-giuseppe/.

Vetrana (prima La vetrana), oggi Avetrana.

59r

Cupertino, oggi Copertino.

Galatola, oggi Galatone.

S(anc)to Pietro gal(atin)o, oggi Galatina. Più avanti S(anct)o Pietro galatino.

Carpignano, oggi Carpignano Salentino.

Solito, oggi Soleto.

Busciardo (si direbbe trascrizione dialettale del Bugiardo della mappa dell’Hondius), oggi Poggiardo.

Corigliano, oggi Corigliano d’Otranto.

Specchia di preiti, oggi Specchia. È la traduzione dialettale di Specla Presbiterorum, forma latina con cui il toponimo compare in alcuni documenti fino al XVIII secolo. Nel dettaglio in basso nella mappa dell’Hondius la forma, sempre dialettale, al singolare nel componente finale, Specchia di preite.

Ungento (credo che sia questa la lettura esatta, nonostante la lettera iniziale sembri più una v che una u, per via del precedente ad), oggi Ugento.

59v

Tre case, oggi Tricase.

Palmarici, oggi Palmariggi.

Burgagne, oggi Borgagne.

Iurdignano, oggi Giurdignano.

Monorbino, oggi Minervino di Lecce.

Bagnolo, oggi Bagnolo del Salento.

Carpigna, oggi Carpignano Salentino. Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/09/la-terra-dotranto-ieri-414-carpignano/.

 

 

 

 

Brigantaggio meridionale. Quintino Vènneri detto “Macchiorru”

Un pericoloso brigante che agiva nel Basso Salento tra il 1861 e il 1865

QUINTINO VENNERI

detto “Macchiorru”1

Insieme con una masnada di delinquenti depredava masserie, rapinava ricchi possidenti, irrideva le autorità che avevano accettato supinamente la monarchia dei Savoia.

di Rino Duma

Premessa

Subito dopo la proclamazione dell’unità d’Italia, in quasi tutti i paesi dell’ex-Regno delle Due Sicilie, si verificarono sanguinose insurrezioni di cittadini fedeli a re Francesco II di Borbone. Nella maggior parte dei casi era il deposto monarca a sobillare e finanziare il brigantaggio per screditare il nuovo governo, rovesciarlo e riappropriarsi del potere.

Anche nel basso Salento si riscontrarono sommosse e scaramucce tra le forze militari e le bande di briganti, che tennero in scacco intere popolazioni, seminando ovunque terrore e morte per diversi anni (1861-65).

Guai a parlar bene e in luogo pubblico dei Savoia: l’imprudente di turno avrebbe corso il rischio di essere malmenato o, peggio ancora, ammazzato dai briganti. Per tale motivo nessuno osava esprimere parole di dileggio contro il vecchio regime o, ancor di più, esaltare il nuovo. Il terrore di una possibile rappresaglia era sempre sovrano e scattava inesorabilmente nei confronti di chiunque. I paesi, che nel basso Salento furono maggiormente colpiti da tali fenomeni malavitosi, erano Poggiardo, Spongano, Ortelle e Diso sul versante adriatico, mentre Melissano, Felline, Alliste, Racale e soprattutto Taviano su quello ionico. In alcuni casi i malviventi occupavano le sedi municipali, bruciavano i ritratti dei sovrani e il tricolore, abbattevano gli stemmi reali e distruggevano archivi e suppellettili di stato. Dopo ogni sortita, i briganti si rifugiavano nelle intricate macchie delle Serre salentine, dove era quasi impossibile scovarli. Per di più questi uomini godevano del pieno sostegno dei contadini, che offrivano loro rifornimenti, riparo e, soprattutto, mantenevano un silenzio omertoso. Il comandante del presidio militare di Terra d’Otranto, Marchetti, interrogato dalla commissione parlamentare sul brigantaggio, dichiarò di non aver mai ottenuto informazioni da chicchessia, neppure dietro pagamento, come se si volesse giustificare di non aver mai catturato un brigante.

un dipinto di Gioacchino Toma
un dipinto di Gioacchino Toma

Il brigante Quintino Vènneri

A parziale differenza dei banditi lucani e dell’alto Salento, che sposarono la causa brigantesca per motivi esclusivamente politici, il nostro Quintino Vènneri imbracciò lo schioppo, insieme con altri malavitosi, soprattutto per procacciarsi da vivere. Il violento personaggio faceva razzie nelle case dei signorotti di stampo chiaramente liberale, ma, alla bisogna, non mancava di colpire benestanti di credo borbonico.

Quintino Ippazio Vènneri nacque ad Alliste il 20 ottobre 1836 da Leonardo e da Raffaela Manni. Di carattere vivace ed estroverso, mal sopportava le ingiustizie e le prepotenze di certa gente; ciò nonostante era sempre rispettoso delle regole ed era un buon lavoratore. La sua condotta morale era ineccepibile, così come quella politica, sempre fedele al governo borbonico. Nel 1859 si arruolò come recluta, prendendo poi parte alla famosa e decisiva battaglia del Volturno, che segnò l’inizio della disfatta borbonica. Alla fine di quell’anno se ne tornò sbandato e molto sfiduciato nella sua Alliste, mantenendo sempre integra la condotta morale.

Con il trascorrere dei giorni si sviluppò nel Salento una reazione sempre più aspra nei confronti dei piemontesi vincitori, rei di aver completamente sovvertito ogni aspetto della vita economica e sociale. Dalla fine del 1860 in poi Quintino abbandonò l’irreprensibile stato sociale di buon cittadino, che nulla più gli assicurava, per darsi al brigantaggio insieme con altri reietti della zona e procacciarsi lo stretto necessario per sbarcare il lunario. Proseguì in questa scellerata vita banditesca sino a quando il 7 aprile 1861 venne arrestato per reiterate rapine e maltrattamenti nei confronti di alcuni possidenti della zona. Durante il periodo detentivo, molto duro e mal sopportato, Quintino giurò di vendicarsi di coloro che lo avevano accusato e di combattere con ogni mezzo l’arroganza e la sopraffazione delle famiglie più abbienti, colpevoli, secondo il suo convincimento, di aver sottratto alla povera gente ogni mezzo di sostentamento. Ritornato in libertà vigilata, l’uomo andò via dal paese per ritornarvi verso la fine del 1862.

Datosi alla macchia, il Vènneri organizzò una banda di briganti, che via via s’ingrossò sino a raggiungere ben 24 elementi, tra cui spiccavano i nomi di Vincenzo Barbaro di Villapicciotti (Alezio) detto Pipirussu, Barsonofrio Cantoro di Melissano, Ippazio Ferrari di Casarano, Ippazio Gianfreda di Alezio detto Pecuraru, Giuseppe Piccinno di Supersano detto Mangiafarina, Angelo Ferrara detto Mustazza, Antonio Sansò detto Ghetta eGiuseppe Tremolizzo (questi tre ultimi di Villapicciotti). Vènneri compì diverse azioni delittuose, la prima delle quali fu quella sferrata alla caserma della Guardia Nazionale di Ràcale, come avvertimento e dimostrazione di forza della sua banda. Seguirono altre numerose schermaglie tra i briganti, sempre più organizzati e baldanzosi, e le forze dell’ordine, che nella maggior parte dei casi subivano attacchi improvvisi e di breve durata. I malviventi, dopo ogni assalto e dopo aver fatto veloce razzia di armi, polvere da sparo e soldi, si rifugiavano precipitosamente nella sicura boscaglia, coperti dai contadini.

La più grave delle azioni delittuose della ormai famigerata banda fu senz’altro quella perpetrata in danno a don Marino Manco, sacerdote di Melissano, il quale fu impietosamente e barbaramente ammazzato in pieno centro cittadino alle due e un quarto di pomeriggio. I motivi principali che indussero i briganti ad accanirsi contro il prete erano riconducibili soprattutto a rancori personali, ma non mancavano quelli di natura politica. Infatti pare che don Marino, in occasione dell’omelia domenicale, avesse inveito aspramente contro i briganti, accusandoli di continue ruberie nel circondario. A conclusione della stessa, il sacerdote invitava i cittadini a denunciarli alle autorità, qualora fossero a conoscenza di eventuali notizie.

Leggendo gli atti processuali del tribunale, emerge chiaramente il succedersi dei fatti contestati al Vènneri.

Alle tre di notte del 24 giugno 1863, un nutrito gruppo di briganti entrò in Melissano alla spicciolata, senza farsi notare. Arrivati nei pressi della piazza, la masnada di malviventi si divise in due gruppi: il primo si attestò nei paraggi della stazione dei carabinieri, a solo scopo di sorveglianza, mentre il secondo si diresse verso la casa del sacerdote. Giuntovi, il Vènneri bussò più volte alla porta.

Apri, don Marino, sono un messo di Gallipoli e vi porto un plico del sottogovernatore” – disse il bandito con voce rassicurante.

Don Marino, data la tarda ora, rifiutò di aprire la porta.

“Perché mai un commesso dovrebbe portare un dispaccio a quest’ora di notte?… Tornatene in pace da dove sei venuto!” – gli ribatté con voce tremula il prete.

I briganti, piuttosto innervositi, iniziarono a battere con violenza con il calcio dei fucili tanto da sfondare quasi la porta.

“Apri, carogna fottuta, altrimenti farai una brutta fine!” – replicarono quelli.

Il sacerdote, per non complicare ancor di più la già grave situazione, a malincuore preferì cedere all’imposizione, nella speranza che i malviventi si sarebbero accontentati delle poche monete d’oro in suo possesso, di vestiario e di cibarie.

Dopo averlo più volte strattonato, Quintino Vènneri pretese da don Marino mille ducati in cambio della sua vita e di quella della perpetua. Non ricevendo una risposta adeguata, i briganti misero sossopra l’intera canonica, impadronendosi di 170 monete da dodici carlini l’una, di due fucili «alla fulminante», di due orologi d’argento, di tredici camicie, di dieci fazzoletti da donna, di tre rotoli di polvere da sparo, di numerose forchette e cucchiai di ferro stagnato e di alcuni candelieri.

“Brutto assassino che sei, ai carabinieri dài da mangiare a volontà e a noi non vuoi dar nulla!” – inveì duramente uno dei briganti.

Non contenti del bottino rimediato, costrinsero il prete a recarsi in casa di alcuni conoscenti per farsi dare delle piastre d’oro, tenendo in ostaggio la perpetua e scortando il prete a debita distanza.

Solo allora don Marino fu liberato, ma dietro giuramento di non denunciare l’accaduto alle forze dell’ordine, pena la sua stessa vita. Come ultimo atto di prepotenza, i briganti distrussero gli stemmi italiani e i tricolori del Municipio e del Corpo di Guardia.

All’indomani, don Marino, scordandosi del giuramento, si recò alla stazione dei carabinieri di Casarano a presentare regolare denuncia, dichiarando di aver riconosciuto il bandito Barsonofrio Cantoro, che era suo compaesano.

Il poverino, però, così facendo, sottoscrisse la condanna a morte.

Le forze dell’ordine iniziarono immediatamente le indagini. A seguito di varie ispezioni, i carabinieri rinvennero in casa dei genitori del brigante, in Alliste, una consistente somma di denaro. Alla richiesta di dare spiegazioni, il fratello di Quintino rispose asserendo che si trattava del ricavato della vendita di orzo, avena e paglia. I carabinieri non credettero alle giustificazioni dell’uomo, per cui lo arrestarono conducendolo dapprima nel carcere di Ugento, per poi trasferirlo nelle prigioni del capoluogo.

Appresa da sua madre la notizia dell’arresto, Quintino Vénneri montò immediatamente in sella e con altri sei malfattori si diresse a Melissano per fare giustizia sommaria.

Don Marino, che mai avrebbe pensato ad una sortita dei briganti in pieno giorno2, usava dopo ogni pranzo fare una rigenerante passeggiata per le strade del paese. Transitando per la piazza principale, si ritrovò di fronte sette persone malintenzionate e con il volto coperto.

“Buongiorno, don Marino, siamo venuti a farti il regalo, come d’altronde t’avevamo promesso!” – sentenziò Ippazio Prete, il quale gli puntò contro il fucile, sparando per primo contro il pover’uomo. Gli altri lo seguirono in rapida successione. In seguito il cadavere fu sgozzato con la punta di una baionetta e fatto rotolare più volte nella polvere.

Il grave fatto di sangue risuonò per tutto il Salento per diverso tempo. Al Vènneri fu data caccia spietata, sin quando non fu arrestato. Ma, dopo poco tempo, riuscì ad evadere, grazie ad un carabiniere amico (?), e a nascondersi nella macchia salentina più folta. Ma non vi rimase per molto tempo, perché, riallacciati i rapporti con alcuni compagni superstiti, ritornò più che mai a delinquere.

Alla testa di un corposo gruppo di malviventi e travestito da militare, Quintino Vènneri bussò una sera al corpo della Guardia Nazionale di Ràcale, asserendo di dover consegnare due detenuti. Aperta la porta, i briganti disarmarono i militari, sequestrando polvere da sparo, tre pistole, alcune sciabole e cinque fucili, per poi darsi precipitosamente alla fuga.

Il brigante continuò per altri due anni nell’azione malavitosa, ma ormai il cerchio gli si stava stringendo attorno. Venne infatti ucciso il 24 luglio 1866 in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine. Gli fu trovato, stretto tra le mani, il fucile di cui andava tanto fiero. Il suo cadavere, posto su di un carro scoperto, fu fatto sfilare per le vie di Ruffano, Casarano, Melissano, Taviano ed infine Alliste, dove fu esposto in piazza per un giorno intero, come avvertimento per gli abitanti.

Furono in pochi a piangerlo, ma il suo nome vaga ancora per le vie di quegli ameni paesi del basso Salento e, se si presta attenzione, si ode ancora il suo grido: Viva Francesco II, abbasso i liberali, viva i piccinni3 nostri!.

1 “Macchiorru” – Il nome sta ad indicare Melchiorre

2 Nota – Il prete, per paura che i briganti lo cogliessero nel sonno, preferiva asserragliarsi di notte in cantina.

3 Nota – …Viva i piccinni nostri – Vuol significare “viva i nostri compagni (di lotta)”.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne

Notte di San Lorenzo. La notte delle stelle cadenti…

Piccole meteoriti per grandi desideri: 10 Agosto la notte di San Lorenzo, la notte delle stelle cadenti…

di Daniela Lucaselli

Nei ricordi più remoti, tra magia e realtà, è sempre presente con il suo intramontabile fascino, lo splendore della notte tra il 9 e il 10 agosto. Un evento, un momento unico ed irripetibile nella grandiosità dell’attimo, dell’istante in cui si avvera e che stupisce gli occhi increduli e sbalorditi di tutti coloro che,  incontrandosi  in spiaggia, in piazze pubbliche, in luoghi all’aperto, con il nasino all’insù, guardano fra la costellazione di Cassiopea e quella di Perseo, attenti  per osservare, ammirare e godere incantati  questo fenomeno spettacolare delle stelle cadenti regalato dal firmamento notturno. Il cielo oscuro si illumina per magia,  la scia luminosa delle stelle si avvicina a noi come per regalarci una speranza di un sogno da realizzare. Le stelle cadenti con la loro luce sanno incantare ed emozionare. L’anima vibra in attesa che l’evento tanto desiderato si realizzi.

Ma le stelle cadono per davvero nella nostra atmosfera? Se ciò fosse malauguratamente accaduto noi oggi non esisteremmo più.  Allora cerchiamo di saperne di più…

Nel periodo estivo, e precisamente dal 25 luglio fino al 18 agosto, l’orbita della Terra , che si trova nella costellazione di Perseo, incrocia frammenti residui di roccia e ghiaccio della cometa Swift-Tuttle ( l’ultimo passaggio vicino al sole è stato nel 1992, osservato da  un astrofilo giapponese che vide un puntino luminoso nella costellazione dell’Orsa Maggiore. Il prossimo appuntamento sarà nel 2126), che penetrano nell’atmosfera e,  a circa un centinaio di chilometri di altezza,  diminuiscono la loro velocità.

Come avviene questo fenomeno?

Le comete durante i loro avvicinamenti al sole evaporano formando una lunga coda di gas e polveri spazzata dal vento solare e sulla stessa orbita lasciano numerosi detriti (pezzettini di ghiaccio, sassolini, polveri). Quando la terra, viaggiando nello spazio, attraversa queste regioni i frammenti più piccoli entrano nell’atmosfera terrestre ad altissima velocità ed evaporano (consumano e bruciano la materia di cui sono composti, in poche parole le loro molecole a contatto con l’aria s’incendiano) a causa del forte attrito e surriscaldamento, producendo reazioni fisico-chimiche che determinano l’affascinante scia luminosa, dovuta alla ionizzazione dell’aria.

La cometa, partendo dai confini del sistema solare, si avvicina verso la terra ogni 130 anni, sciogliendo parte del suo mantello di ghiaccio, nel momento in cui si avvicina al sole. Il tratto di orbita più vicino alla cometa è quello più ricco di polveri e quindi l’attività dello sciame meteorico si accentua negli anni più vicini al transito della cometa.

Nel lontano 36 d. C. i  Cinesi notarono per primi l’evento.  Seguirono i giapponesi, i coreani ed infine gli europei. Ma fino all’inizio dell’800 il fenomeno celeste non destò particolare interesse negli astronomi che ritenevano giustamente che si trattasse di meteore, una particolarità di carattere atmosferico e meteorologico.  Attorno al 1830 si appurò che questo stabiliante avvenimento ricorreva annualmente. Nel 1862 Lewis Swift ed Horace Tuttle  identificarono la cometa per la prima volta, ma fu l’eclettico astronomo italiano Giovanni Virgilio Schiapparelli colui che collegò la scia di polveri alla cometa.

Le stelle cadenti sono gli asteroidi della costellazione di Perseo, dette appunto Perseidi, che vengono attraversate dall’orbita terrestre creando questa vera e propria pioggia meteorica. Le Perseidi ,  uno sciame meteorico tra i più rilevanti tra tutti quelli che incrociano il nostro pianeta nel corso della sua rivoluzione intorno al Sole, sono popolarmente  denominate lacrime di San Lorenzo, in quanto in passato il picco di visibilità avveniva intorno al 10 agosto, mentre ora è  intorno al 12 agosto, a causa della precessione degli equinozi, del variare dell’inclinazione dell’asse di rotazione terrestre (lentissima rotazione dell’asse di rotazione terrestre nello spazio), quando la  pioggia di stelle è visibile ad occhio nudo e a tutte le ore dalla Terra. Questo mutamento si registra  un giorno e mezzo circa ogni 100 anni. Quando poi si è in  presenza di Luna Nuova e la luminosità lunare è inferiore lo spettacolare sciame meteorico ha un fascino che non ha eguali.a

san Lorenzo con la graticola in una rara incisione della fine del ‘400

Di fronte a tanta meraviglia e stupore pochi si ricordano che questa notte, in cui le stelle sono più abbondanti,  è dedicata al martirio di San Lorenzo, avvenuto il 10 agosto del 258 d.C., le cui reliquie riposano  nell’omonima basilica a Roma. Durante la persecuzione dei cristiani, avvenuta durante  il III secolo d. C. da parte dell’imperatore Valeriano,  Lorenzo si rifiutò di adorare le divinità pagane e fu arrestato il 6 agosto dalla Guardia imperiale mentre assisteva Sisto II durante una Messa. Dopo essere stato torturato fu decapitato. La pioggia di stelle sono le lacrime che il santo versò durante il supplizio della decapitazione e che scendono sulla terra il giorno in cui il martire morì. Le stelle sono chiamate anche fuochi di San Lorenzo, in quanto nella tradizione popolare si pensa che il santo fu bruciato vivo su una graticola arroventata da carboni ardenti e i lapilli derivanti da questo atroce e doloroso martirio siano poi volati in cielo e giungono sulla Terra il giorno in cui morì per portare agli uomini la speranza. Infatti in Veneto un detto appunto popolare è San Lorenzo dei martiri innocenti, casca dal ciel carboni ardenti. 

La sfavillante pioggia di stelle è stata evocata poeticamente e tragicamente anche dal grande Giovanni Pascoli, che dedicò un canto, chiamato appunto X Agosto, al padre ucciso in un’imboscata proprio quel giorno. In questi versi il poeta  universalizzava il dolore personale  e, attraverso varie similitudini, evidenzia sensibilmente  le ingiustizie umane di fronte alle quali il Cielo riversa sulla terra, atomo opaco del male,  il suo pianto. Il cielo infinito, immortale, immenso guarda dall’alto con sdegno e amarezza la terra, luogo pieno d’insidie e di contrasti.

Il tempo è trascorso, ma  amaramente persistono ingiustizie e  crudeltà.  Artefice immutabile nei secoli è sempre l’uomo…

X  Agosto

di Giovanni Pascoli

San Lorenzo, io lo so perché tanto

di stelle per l’aria tranquilla

arde e cade, perché sì gran pianto

nel concavo cielo sfavilla.

 

Ritornava una rondine al tetto:

l’uccisero; cadde tra spini;

ella aveva nel becco un insetto:

la cena de’ suoi rondinini.

 

Ora è là come in croce, che tende

quel verme a quel cielo lontano;

e il suo nido è nell’ombra, che attende,

che pigola sempre più piano.

 

Anche un uomo tornava al suo nido:

l’uccisero; disse: Perdono;

e restò negli aperti occhi un grido

portava due bambole in dono…

Ora là, nella casa romita,

lo aspettano, aspettano in vano:

egli immobile, attonito, addita

le bambole al cielo lontano

 

E tu, Cielo, dall’alto dei mondi

sereni, infinito, immortale,

Oh! d’un pianto di stelle lo inondi

quest’atomo opaco del Male!

(da Myricae)

 

Bibliografia:

J. Bellavita, Le lacrime di San Lorenzo, Italiadonna. it;

INAF, Istituto Nazionale di astrofisica, Le lacrime di san Lorenzo, 2007 .

Tre ricette salentine con i ricci di mare

ph Angelo Arcobelli
ph Angelo Arcobelli

di Massimo Vaglio

 

Spaghetti ai ricci 1

Prima di approntare questo piatto, bisogna tenere presente che per condire ogni porzione saranno necessari circa dodici ricci di buone dimensioni e soprattutto, con le gonadi ben sviluppate. Quindi, per condire mezzo chilogrammo di spaghetti occorreranno le gonadi di almeno cinque sei dozzine di ricci. La preparazione è semplicissima: aprite i ricci e serbatene le gonadi in una scodellina. In una capace padella mettete un filo di ottimo olio extravergine d’ oliva e due spicchi d’aglio contusi, fateli scaldare a fiamma bassa in modo che abbiano il tempo di cedere il proprio umore aromatizzando l’ olio e appena saranno imbionditi eliminateli e unite gli spaghetti appena scolati cotti al dente. Mescolate bene, spegnete la fiamma, aggiungete le gonadi dei ricci e, dopo aver mescolato accuratamente, servite subito, aggiungendo una spolveratina di pepe nero macinato al momento e il fatidico prezzemolo tritato.

Spaghetti ai ricci 2

Ingr.: 5-6 dozzine di ricci, ½ kg.di spaghetti, 250 grammi di pomodori, olio extravergine d’oliva, 1 spicchio d’aglio, prezzemolo, pepe nero.

Aprite i ricci, mondateli accuratamente e recuperate le gonadi. Fate riscaldare l’olio con lo spicchi d’aglio contuso e prima che questo imbiondisca unite i pomodori triturati finemente, fate cuocere questa salsetta per una decina di minuti ed aggiungete i ricci. Riportate a calore, regolate di sale, quindi unite un pizzico di pepe nero e una manciatina di prezzemolo tritato. Condite gli spaghetti scolati al dente e servite subito.

Omelette ai ricci

Aprite tre dozzine di ricci, mondateli accuratamente, recuperate le gonadi e qualche cucchiaio dell’acqua salata che troverete al loro interno. Incorporate il tutto a quattro-cinque uova, aromatizzate il composto con del pepe nero e a piacere conditelo con del formaggio grana grattugiato. Versate il composto, un mestolo alla volta, in una padella con olio caldo o burro e realizzate normalmente delle omelette che avranno come si può immaginare, o forse no, un gusto decisamente straordinario

I ventagli di devozione

ventaglio devozione san Pantaleone con sante marine

di Maria Grazia Presicce

 

Attendevano al lavoro cantando per far trascorrere più allegramente il tempo, sedute per terra su delle stuoie nell’androne della Masseria, poi d’un tratto, qualcuna invitava a pregare – dicimu nu paternosciu a santu Pantaleu cu ndi iuta spicciamu prestu[2] – e intanto immaginavano già il giorno festivo, anche se per giungere al paese dove si svolgeva la festa sarebbe molto faticoso. Si trattava, comunque, di compiere un pellegrinaggio in onore del Santo e, quindi, si affrontava il sacrificio di buon grado.

Ehi! Cramatina tutti all’erta prima ti lu sole, ca sapiti quantu strada nci ole cu rriamu![3] – Raccomandava qualcuno.

No ti proccupare, pi divuzione a Santu Pantaleu, quiddru e addru. Santu Pantaleu mia cumpagnande tu[4]. – Terminava un’altra facendosi il segno della croce con le nocche della mano per evitare di sporcarsi il viso con le dita sporche dall’unto nero e appiccicoso delle foglie di tabacco che stavano infilando.

Lavoravano tutti i giorni da mane a sera, ma nella festa di alcuni Santi, in particolare di San Pantalone e dei Santi Pietro e Paolo, e in occasione della festa dell’Assunzione tralasciavano il lavoro per devozione.

Come stabilito, la vigilia della sera prima della festa, andavano a letto presto e prima dell’alba partivano a piedi dalla masseria, iniziando il pellegrinaggio, sarebbero stati di ritorno il giorno dopo la festa.

Famiglie intere partivano, portando con loro solo lu mbile[5] con l’acqua, del pane, un po’ di pomodori qualche pezzetto di formaggio. La strada da fare era tanta e tutta sotto il sole se  ritardavano la partenza. Per raggiungere Martignano[6] dove si onorava San Pantaleone[7] c’era da percorrere decine e decine di chilometri.

Ogni volta che tornavano da queste feste religiose non mancavano di portare a mamma un ventaglio di devozione e a noi bambini le Sante Marine benedette: dei nastrini multicolori che legavamo all’avambraccio per essere protetti dal Santo.

Ecco quanto riporta a proposito di questi oggetti G. Palumbo in un suo brano raccolto in “ Il Salento negli scritti di G Palumbo” del 1943:

 

I VENTAGLI DI DEVOZIONE, G. PALUMBO pag.1 ( testata articolo)

 

“Ho avuto spesso occasione di vedere in vendita in varie sagre che si tengono nei paeselli del Promontorio Salentino per onorare il Santo patrono, altro santo in forma di taumaturgo o la madonna, un caratteristico oggetto di devozione che ha anche una funzione di utilità pratica durante l’affocata stagione in cui appunto dette sagre ricorrono. […] Si tratta di un ventaglio rigido, di costruzione assai semplice, costituito da un rettangolo di cartone  di cm.20×15 e di spessore sufficiente, innestato per uno dei lati lunghi ad una bacchettina di legno di cm. 45 circa, segata in due  per una lunghezza uguale, su per già, a quella del cartone che immesso nella connessura, vi rimane fissato a modo di banderuola  a uno dei suoi bordi come fra una piccola morsa; la quale perché siavi maggiore presa, viene chiusa in cima mediante due o tre giri di spago. Il cartone reca sulla prima faccia l’effigie del Santo o della santa alla devozione dei quali il ventaglio si vuol dedicare, e sulla seconda faccia altra sacra immagine il cui culto è pure in voga fra il popolo. Per fare sì che anche l’occhio resti appagato, entrambe le icone vengono bordare con una riquadratura di carta velina colorata, che, incollata con cura, fa da vivace cornice alle immagini. Ricoperta in massima parte della stessa carta a colori è la bacchetta che sostiene il cartone e che serve principalmente com’è facile immaginare – ad imprimere, con lieve mossa della mano, il movimento che consentirà al possessore di questa specie ventola il refrigerio di un po’ di aria ristoratrice durante le torride giornate dell’estate meridionale.

Le figure che illustrano i ventagli sono delle incisioni su rame o zinco – e qualche volta su legno – alquanto imprecise, essendo le lastre da cui derivano consumate dal lungo uso; ed anch’esse sono assai semplici, rudimentali, quasi schematiche. Trattasi di lavoro tracciato dalla mano poco esperta di un incisore alla buona, cui è piaciuto per lo più rimanere sconosciuto, poiché è raro che le tavole rechino firma. Ma dalla semplicità del disegno, che poco si sofferma ad un efficace sviluppo dei rilievi, sia nella figura del santo che negli attributi del suo martirio o delle sue grazie, traspare una semplicità di concezione che non lascia indifferenti, un’ingenuità interpretativa ed un simbolismo sempre cari all’animo mite del popolano meridionale.

E’ così che queste stampe a tono unico ( inchiostro nero col bianco della carta) rimangono quasi sempre le medesime, o, quanto meno, si studiano di rifare nel modo più perfetto possibile le vecchie effigi; come io stesso ho potuto constatare nelle mie osservazioni dirette, le quali durano purtroppo da quasi  un cinquantennio. Il popolo che vive fra l’altro di ricordi e di tradizioni, specie questo nostro del sud, ha imparato ad amare, a venerare i suoi santi attraverso quelle immagini; e quelle principalmente egli invoca sempre per assistenza, per protezione, per grazia in ogni contingenza della vita familiare o di lavoro. Figurazioni meglio condotte, rese secondo i dettami di un’arte progredita, e magari con l’efficacia del colore che conferisce maggior naturalezza e veridicità, egli non le apprezzerebbe abbastanza; perché non gli parlerebbero direttamente al cuore ed all’anima.

Questi ventagli di devozione trovansi esposti in vendita – alcune volte insieme a qualche altra cosuccia sacra, come per esempio nastrini di seta colorata benedetti o da benedire all’altare del santo, oggettini simbolici di stagno ottenuti a mezzo di stampi rudimentali[9] – di fianco al portale della chiesa paesana, dove la folla si addensa, si accalca, si pigia in un rimescolio che opprime e toglie il respiro. E , le comitive sciolto il voto del pio pellegrinaggio, appena sono fuori dal tempio, passano ad acquistare i ventagli propiziatori; poi con quel segnacolo di devozione e di fede ripigliano la via del ritorno alle case lontane per riporlo di fianco al letto, al di sopra della rustica acquasantiera di terracotta […] “

I ventagli di devozione, grazie ad alcuni artigiani locali, sono sopravissuti alla modernità imperante ed esistono ancora ai nostri giorni. In occasione di importanti festività si possono trovare esposti sulle bancarelle insieme ad altre chincaglierie. Naturalmente, le immagini ed anche la fattura dell’oggetto è stata migliorata, diciamo che sono stati modernizzati. Il più delle volte, infatti, sono immagini stampate a colori; colorata è anche l’intera struttura in legno. Resta, comunque un oggetto di devozione molto piacevole ed unico nel suo genere.

FOTO I VENTAGLI DI DEV. G. PALUMBO

 



[1] I ventagli di devozione, ph di G. Palumbo in “ Il Salento negli scritti di G. Palumbo”, biblioteca prov. N. Bernardini   Lecce.

[2] Diciamo un” Padrenostro” a San Pantaleo così ci aiuta a finire presto il lavoro

[3]  Domattina tutti in piedi prima dell’alba, lo sapete che c’è da fare tanta strada prima di arrivare al Santo

[4] Non ti preoccupare, per devozione a San Pantaleo, questo ed altro, San Pantaleo accompagnaci tu.

[5] Recipiente in terracotta che manteneva fresca l’acqua.

[6] Comune in provincia di Lecce. La festa di San Pantaleone si festeggia a Martignano il 26 – 27 luglio

[7] San Pantaleone o Pantaleo fu medico, subì il martirio perché cristiano durante le persecuzioni di Diocleziano. E’ padrone dei medici e delle ostetriche e viene invocato contro le malattie di consunzione. Una reliquia costituita da un’ampolla contenente il suo sangue è conservata nella chiesa di Martignano (Le).  Notizie da wikipedia

 [8] “ I ventagli di devozione ed alcune stampe popolari della penisola salentina” in Il Salento negli scritti di G. Palumbo vol. II, pag. 3-4 febbraio 1943, Biblioteca. Provinciale  N. Bernardini

[9] Un esempio di oggettino di stagno può essere la chiavetta di San Donato che si può comprare nel comune di san Donato di Lecce

[10] Ventaglio di devozione moderno con nastrini   sante marine. Ph maria grazia presicce

La specchia del cavolo*

di Armando Polito

 

* Ringrazio Paolo Cavone per avermi dato l’opportunità di occuparmi qui dell’argomento, dato che la questione non poteva essere liquidata in poche battute, con l’invito rivoltomi in https://www.facebook.com/203849783159662/photos/a.223441477867159.1073741852.203849783159662/244758789068761/?type=1&comment_id=244810595730247&notif_t=comment_mention

 

Mio caro lettore, ti autorizzo fin da ora ad attribuire al cavolo del titolo il noto uso eufemistico se quanto sto per dire dovesse  sembrarti, sia pure alla fine, completamente campato in aria.

Ma cominciamo da specchia, della quale riporto la definizione fornita dalla Treccani on line:  nella penisola salentina, termine usato per indicare cumuli artificiali di pietre in forma di grandi coni, alti fino a 18 m, circondati da un muro, interpretati come torri di vedetta, e di altri di minore altezza, racchiudenti tombe a cassa e corredo di tradizione appenninica misto a forme della prima età del ferro.

Aggiungo che, a parte Specchia, il comune in provincia di Lecce con lo stesso etimo che fra poco vedremo, come nome comune la voce, oltre che accompagnare come apposizione vari toponimi, tende ad entrare ufficialmente nel linguaggio scientifico come già è avvenuto, per esempio, per uluzziano da Uluzzu (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/22/lasfodelo-uluzzu-erba-degli-eroi/)

Il suo etimo è collegato al concetto di sopraelevazione insito nel cumulo: spècula in latino significa osservatorio, altura, vigilanza. Il concetto di base è quello del verbo spècere=guardare, per cui spècula ha come primo significato quello di osservatorio; poi, siccome si guarda meglio stando in posizione elevata, si è passati ai concetti di altura e vigilanza; da spècula, per sincope di –u– si è avuto specla, attestato, insieme con speccla, da parecchi diplomi normanni, e di cui è rimasta traccia nelle varianti sflega (Soleto) e sfleca (Calimera , Sternatia e Zollino), da cui specchia in virtù di un’evoluzione fonetica normalissima (come in màcula>*macla>macchia). La voce specchia oggi indica qualsiasi mucchio di pietre, anche di formazione recente, qual è quello residuale del dissodamento dei campi.

Per il cavolo debbo scomodare una mappa antica e più precisamente quella, dedicata al Regno di Napoli, facente parte  del Theatrum orbis terrarum di Abraham Ortelius pubblicato ad Anversa da Gilles Coppens de Diest  nel 1570. L’opera è visibile e scaricabile in https://archive.org/details/theatrumorbister00orte, link dal quale ho tratto il frontespizio

e la tavola che ci interessa, dalla quale con zoomate progressive ci avvicineremo ora al toponimo sul quale ci soffermeremo.

Siamo arrivati a destinazione, cioè a Torre del caulo. Ci troviamo esattamente nella zona in cui fino a qualche decennio fa erano visibili i pochi resti della Specchia Caulone (nell’immagine di testa in una foto di G. Palumbo tratta dal contributo di Nicola Vacca Noterelle galateane, per i cui estremi bibliografici rinvio alla nota)1.

Che il degrado della specchia fosse già in stadio avanzato da parecchi secoli ce lo prova la testimonianza del Galateo (1444-1517) che nel De situ Iapygiae, uscito postumo a Basilea per i tipi di Pietro Perna nel 1558, scriveva: A castello divi Cataldi  sex millibus passuum abest castellum in Lupiensi agro, cui nomen Caulon; distat a Monasterio Ceratensi, quod videmus, duobus millibus passuum; videtur ingens structura fuisse, nunc nihil est nisi acervus lapidum, qui exusti videntur, deinde tempore exesi; vix duobus a mari distat stadiis, vestigia quae ad mare procedunt adhuc cernuntur. Nescio si fuerit Caulon, quem, remota C litera, Horatius Aulonem dixit: incolae speculam Caulonis  appellant. In huius peninsulae editioribus locis frequentes sunt cumuli lapidum quos incolae speculas nominant:  has numquam me vidisse memini, praeterquam in hoc tractu. Has congeries non nisi magna numerosae multitudinis manu coacervatas fuisse credibile est. Paucis in locis ubi lapides non sunt (omnes enim colles asperi et lapidosi) ex terra facti sunt cumuli tantae magnitudinis ut aspicientibus montes videantur; quamvis tempus et hominum manus et pecus omne non parvam partem decacuminavit.  Monumenta haec fuisse illustrium virorum existimo; mos enim erat vetustissimorum Graecorum et ante illos forte Iapygum super cadavera clarorum virorum ingentem lapidum, aut arenarum molem accumulare; unde fortasse cumuli, aut tumuli sepulchra dicuntur (Dal castello di S. Cataldo dista sei miglia in agro di Lecce un castello chiamato Caulone; dista dal monastero di Cerrate, che vediamo, due miglia; sembra che sia stato di ragguardevole struttura, ora non c’è nulla se non un cumulo di pietre che appaiono bruciate; dista dal mare appena due stadi. Non so se Caulone sia stato quello che, eliminata la lettera C, Orazio chiamò Aulone: gli abitanti lo chiamano Specchia di Caulone. Nei luoghi alquanto elevati di questa penisola sono frequenti i cumuli di pietre che gli abitanti chiamano specchie: ricordo di non averne mai visti se non in questo tratto. C’è da credere che questi cumuli siano stati ammassati non senza la grande fatica di parecchia gente. In pochi luoghi dove non ci sono pietre ( tutti i colli infatti sono aspri e sassosi) sono realizzati con la terra cumuli di tanta grandezza che a chi li guarda sembrano monti, sebbene il tempo e la mano degli uomini e ogni tipo di bestiame ne abbia privato della sommità buona parte. Credo che questi fossero monumenti di uomini illustri; infatti era costume degli antichissimi Greci e prima di loro forse degli Iapigi di accumulare di accumulare sopra i cadaveri degli uomini illustri una grande massa di pietre o di sabbia; perciò forse i sepolcri son detti cumuli o tumuli).

Intanto il nome latino tramandatoci dal Galateo è Caulon, dal cui accusativo (Caulonem) è l’italiano Caulone. Il Galateo suggerisce pure una prima etimologia ipotizzando che il nome del monte Aulon (in italiano Aulone) ricordato da Orazio derivi, per la perdita della consonante iniziale, proprio da Caulon e corrisponda, quindi, alla nostra specchia.

Vediamo cosa dice esattamente Orazio (Odi, II, 6, 5-21): Tibur Argeo positum colono/sit meae sedes utinam senectae,/sit modus lasso maris et viarum/militiaeque./Unde si Parcae prohibent iniquae,/dulce pellitis ovibus Galaesi/flumen et regnata petam Laconi/rura Phalantho./Ille terrarum mihi praeter omnis/angulus ridet, ubi non Hymetto/mella decedunt viridique certat/baca Venafro,/ver ubi longum tepidasque praebet/Iuppiter brumas et amicus Aulon/fertili Baccho minimum Falernis/invidet uvis (Volesse il cielo che Tivoli  fondata dal colono argivo fosse la sede della mia vecchiaia,  il limite, per me stanco, del mare e dei viaggi e della guerra. Se le Parche ingiuste mi tengono lontano da lì possa io raggiungere la corrente del Galeso dolce per le lanose pecore e i campi su cui regnò lo spartano Falanto. Quell’angolo di terra mi sorride più di ogni altro, dove il miele non è inferiore a quello dell’Imetto e l’ulivo gareggia con quello verdeggiante di Venafro, dove Giove offre una lunga primavera e un tiepido inverno e l’amico Aulone dalla fertile vite per nulla invidia  le uve del Falerno).

A me sembra che l’angolo di terra di cui parla Orazio sia caratterizzato dalla presenza dominante e accentratrice del fiume Galeso, che è ben lontano dalla nostra specchia (di seguito evidenziati entrambi nella mappa antica), in territorio tarentino.

E me lo conferma Marziale, Epigrammi, XIII, 125, che a distanza di poco più di un secolo sembra riecheggiare Orazio:  Tarentinum. Nobilis et lanis et felix vitibus Aulon/ Det pretiosa tibi vellera, vina mihi (Il territorio tarentino. L’Aulone famoso per le lane e fertile di viti dia a te lane, a me vini preziosi).

Molto probabilmente la proposta di identificazione/derivazione di Aulon con/da Caulon nasce nel Galateo anche per suggestione del commento di Pomponio Porfirione (II-III secolo d. C.) ai versi di Orazio appena riportati: Aulon locus est contra Tarentinam regionem ferax boni vini (Aulone è un luogo, di fronte alla regione tarentina, che produce buon vino). Torneremo a breve su quel contra=di fronte.

Non aiuta certo a far chiarezza Servio (IV-V secolo d. C.) che nel suo commento al verso 533 del libro III dell’Eneide virgiliana scrive: CAULONISQUE ARCES. Aulon mons est Calabriae, ut Horatius “et amicus Aulon fertilis Baccho”, in quo oppidum fuit a Locris conditum, quod secundum Hyginum, qui scripsit de situ urbium Italicarum, olim non est. Alii a Caulo, Clitae Amazonis filio, conditum tradunt (Le rocche di Caulone. Aulone è un monte di Calabria, come dice Orazio “e l’amico Aulone fertile di vite”, sul quale fu fondata dai Locresi una città che secondo Igino, che scrisse sul sito delle città italiche, da molto tempo non c’è più. Altri tramandano che fu fondata da Caulo, figlio dell’amazzone Clita).

Al di là del passaggio fatto quasi di soppiatto da Caulonis (genitivo che suppone un nominativo Caulon) ad Aulon, quel Calabriae (già da secoli Calabria era il nome dell’attuale Terra d’Otranto, mentre Brutium era quello dell’attuale Calabria), collocherebbe il monte nel nostro territorio ed escluderebbe Caulonia calabrese, nonostante si dica che su di esso venne fondata una città dai Locresi.

Come abbiamo fatto prima con Orazio, leggiamo ora l’originale virgiliano (Eneide, III, 551-553): Hinc sinus Herculei, si vera est fama, Tarenti/cernitur; attollit se diva Lacinia contra/Caulonisque arces et navifragum Scylaceum (Da qui si vede il golfo dell’erculea, se ciò che si dice è vero, Taranto; di fronte si levano la dea Lacinia e le rocche di Caulone e Squillace famosa per i naufragi). Il contra virgiliano consente di capire meglio il contra Tarentinam regionem di Porfirione, in cui avevo lasciato in sospeso quel contra che, dunque, indica una posizione frontale, anche se un po’ defilata, rispetto a Taranto ma non certo rispetto ad un punto ancor più frontale e lontano, addirittura, sulla costa adriatica.

La testimonianza di Virgilio non lascia adito a dubbi. Le rocche di Caulone si trovano di fronte a Taranto insieme con (il tempio del) la dea Lacinia (da cui Capo Lacinio, oggi Capo Colonna) e Squillace; dunque, siamo nell’attuale Calabria e le rocche di Caulone non sono altro che l’odierna Caulonia in provincia di Reggio Calabria.

E, ove ce ne fosse stato bisogno, ecco la conferma di Ovidio (Metamorfosi, XV, 703-706: Linquit Iapygiam laevisque Amphrisia remis/saxa fugit, dextra praerupta Celennia parte,/Romethiumque legit Caulonaque Nariyciamque/evincitque fretum Siculique angusta Pelori (Lascia la Iapigia, evita virando a sinistra le rocce amfrisie [non identificate] e a destra le scogliere Celennie [non identificate] e tocca Romezio [non identificata] e Caulona [l’originale Caulona per Caulonem è un accusativo alla greca) e Naricia [Locri] e supera lo stretto e le insidie del siculo Peloro).

Insomma il padre dell’ipotesi  di Aulone derivante per aferesi da Caulone sembra, per il momento, essere stato Servio che, a complicare ulteriormente le cose, mette in campo anche Caulo il figlio dell’amazzone. Il Caulo del testo originale serviano è un caso ablativo che suppone un nominativo Caulus e un accusativo Caulum da cui dovrebbe derivare in italiano Caulo; e infatti, nella mappa, per non fare torto a nessuno, compare Torre del caulo, con la preposizione articolata e con l’iniziale minuscola, come se fosse un nome comune, quasi italianizzazione del dialettale càulu=cavolo.

A questo punto, con tutto il rispetto per gli autori antichi e per il Galateo (che, pur non citandolo, mostra di conoscere Servio), esibisco troppa e perversa fantasia se mi viene in mente, anche in base alla descrizione data all’inizio della specchia, che quest’ultima nella forma ricorda tutt’altro che vagamente una testa di cavolo e se dico che, quindi, il toponimo potrebbe essere il frutto di una similitudine popolare  (e non solo, come vedremo, in riferimento all’ortaggio …)?

Al cavolo, in un certo senso mostra di credere pure Girolamo Marciano (1571-1628) che in Descrizione, origine e successi della provincia di Otranto,  uscito postumo nel 1855 a Napoli per i tipi della Stamperia dell’Iride, a pag. 397 così si esprimeva: Tra queste due torri [Rinalda e Spiecchiolla (sic, poco prima)] alquanto infra terra si vedono le rovine di un antichissimo castello detto dal volgo la Specchia di Caulone, dove si vede un grandissimo tumulo di pietre guaste, e corrose dal tempo, e le reliquie di una grossa muraglia, che incominciava da questa parte orientale della marina, e passando per il castello trascorreva sino all’altra occidentale, terminando al porto piccolo di Taranto per ispazio di miglia quaranta, come in molti luoghi tra questo spazio se ne vedono molti antichi vestigi, fatto per quanto si dice dai Japigii, nel tempo che debellarono i Messapi, e si divisero la regione tra di loro. Perciocché i Messapi possedevano la parte boreale della provincia, e gli Japigi l’australe, ed il castello da questa parte posero per termine e guardia del mare orientale, perciocché dalla parte occidentale si guardava dalla città di Taranto, chiamandolo Caulone quasichè estremo capo della divisione, e della lunga muraglia, denotando la voce Καυλός (leggi Caulòs) appresso dei Greci l’estremo capo di qualsivoglia lunghezza. Strabone dice che Caulonia nella Magna Grecia, edificata dai Greci, fu prima detta Aulona, quasi Vallonia, dalla vicina valle; perciocchè la voce Αὺλόν (leggi Aulòn) oltre che dinota valle, significa parimente il tratto di un lungo e stretto mare, come il Jonio che si stringe come un canale tra il capo d’Otranto e i monti Cerauni, nella riva occidentale del quale fu edificato questo castello e nell’orientale la città oggi detta Aulona. Si vedono oltre di questo in molti luoghi della provincia grandissimi cumuli, e montetti di pietre misti con terra, che gli abitatori del paese chiamano Specchie, le quali paiono opere di grandissima potenza, e di numerose mani, con tutto che il tempo le abbia in gran parte spianate. Il Galateo stima essere state queste Specchie sepolture di uomini illustri; il che non è credibile, perchè sebbene quegli antichi Greci facevano simili sepolcri e grandi tumuli agli uomini insigni, non per questo è da credere, che le specchie che si vedono in questa regione siano stati sepolcri. Imperciocchè il nome Specchia, derivante dal verbo latino speculor, non significa altro che luogo eminente, donde è solito farsi le guardie, e le spie a’ nemici.  

Pure per il Marciano tutto si riduce ad un’aferesi di C-, ma all’Aulone oraziano egli sostituisce, con un ragionamento arzigogolato e che mi sembra troppo al servizio di una pur sacrosanta ipotesi di lavoro, nientemeno che la città oggi detta Aulona, cioè l’odierna Valona in Albania. Tutto questo con due pezze giustificative.

La prima è di natura filologica ed è basata su Αὺλόν da una parte e Καυλός dall’altra. Su Αὺλόν debbo preliminarmente dire che in greco esiste αὐλός, di genere maschile, con i significati di flauto, tubo, canale, zampillo, sfiatatoio, imbuto. Il Morciano s’inventa un neutro Αὺλόν senza rendersi conto che Aulona è spiegata meglio dalla voce derivata αὐλών/αὐλῶνος (leggi aulòn/aulònos)=gola montana, canale. Quanto a Καυλός quel denotando la voce Καυλός appresso dei Greci l’estremo capo di qualsivoglia lunghezza mi pare una definizione anch’essa strumentale, tirata per i capelli. Basta, infatti, considerare che Καυλός negli autori greci è usato con i significati di estremità della lancia, fusto di pianta arbustacea o di candelabro, cavolfiore, dotto del pene, collo della vescica, gambo di amo. Perciò l’estremo capo di qualsivoglia lunghezza può andare d’accordo  stentatamente solo con il primo significato che ho riportato, che, essendo di evidente derivazione analogica, non è quello nativo.

Colgo l’occasione per far notare come direttamente da questa voce greca deriva il latino tardo càulus che in Vindiciano, (IV secolo d. C.), Epitome Altera, XXVIII, assume il significato di glande (quasi un parente del quarto registrato per il greco): De veretro. Veretrum est oblungum, natura nervosum, forinsecus venosum, membrano coopertum fortissimo, habens fistolam rectam in medio ab inizio usque ad summum. Cacumen eius dicitur caulus sive dartus2 (Il pene. Il pene è lungo, nervoso di natura, all’esterno venoso, coperto da una membrana resistentissima, ha al centro un condotto diritto dall’inizio fino alla sommità. La sua parte terminale si chiama caulus o dartus3).

Dalla voce del latino tardo, poi, è derivato per epentesi eufonica di –v– l’italiano cavolo (che ha conservato pure il significato traslato che, come abbiamo appena visto, è piuttosto datato; nasce dunque per similitudine e, perciò, in italiano secondo me cavolo per cazzo non ha origini, come si potrebbe pensare, eufemistiche, legate, cioè, alla sostituzione della parola “sporca” con un’altra “pulita” avente in comune con la prima la sillaba iniziale) ed il dialettale càulu (usato per indicare solo l’ortaggio, il che corroborerebbe il mio dubbio precedente sul valore eufemistico fin dall’origine di cavolo per cazzo; infatti, almeno nel dialetto di Nardò, è usato a tal fine non càulu ma cagnu=cane; curioso, poi, è il fatto che cagnu sia usato solo a questo scopo e che per indicare l’animale si usi, come in italiano, cane, nonostante cagnu sia il padre di cagnùlu, a Nardò canicèddhu,=cagnolino). Nel latino classico, invece, sempre connesso con la voce greca, è attestato caulis (anche nelle varianti colis e coles) nel significato generico di fusto ed in quello specifico di cavolo. Dall’accusativo di caulis (caulem), infine, è derivato l’italiano caule.

La seconda pezza giustificativa è di natura letteraria, cioè è utilizzata la fonte Strabone (I secolo a. C. – I secolo d. C. ). Ecco le parole originali del geografo greco (Geographia, VI, 1, 10): Μετὰ δὲ Λοκροὺς Σάγρα, ὃν θηλυκῶς ὀνομάζουσιν, ἐφ᾽ οὗ βωμοὶ Διοσκούρων, περὶ οὓς Λοκροὶ μύριοι μετὰ Ῥηγίνων πρὸς δεκατρεῖς μυριάδας Κροτωνιατῶν συμβαλόντες ἐνίκησαν.  Ἀφ᾽ οὗ τὴν παροιμίαν πρὸς τοὺς ἀπιστοῦντας ἐκπεσεῖν φασιν ‘ἀληθέστερα τῶν ἐπὶ Σάγρᾳ.’ Προσμεμυθεύκασι δ᾽ ἔνιοι καὶ διότι αὐθημερὸν τοῦ ἀγῶνος ἐνεστῶτος Ὀλυμπίασιν ἀπαγγελθείη τοῖς ἐκεῖ τὸ συμβάν, καὶ εὑρεθείη τὸ τάχος τῆς ἀγγελίας ἀληθές. Ταύτην δὲ τὴν συμφορὰν αἰτίαν τοῖς Κροτωνιάταις φασὶ τοῦ μὴ πολὺν ἔτι συμμεῖναι χρόνον διὰ τὸ πλῆθος τῶν τότε πεσόντων ἀνδρῶν. Μετὰ δὲ τὴν Σάγραν Ἀχαιῶν κτίσμα Καυλωνία, πρότερον δ᾽ Αὐλωνία λεγομένη διὰ τὸν προκείμενον αὐλῶνα. Ἔστι δ᾽ ἔρημος· οἱ γὰρ ἔχοντες εἰς Σικελίαν ὑπὸ τῶν βαρβάρων ἐξέπεσον καὶ τὴν ἐκεῖ Καυλωνίαν ἔκτισαν (Dopo Locri il Sagra che ha un nome femminile, sulle cui sponde ci sono gli altari dei Dioscuri, presso i quali 10000 Locresi insieme con Reggini, scontratisi con 130000 Crotoniati, vinsero. Dicono che da questo fatto derivi il proverbio riferito agli increduli “Più vero di ciò che successe sulla Sagra”. Alcuni aggiungono la leggenda che nello stesso giorno, mentre ad Olimpia si svolgevano i giochi, pure lì fu annunziato l’accaduto e la velocità di diffusione ne consacrò la veridicità. Dicono che la disfatta fu la causa per i crotoniati di non poter durare ancora per molto tempo per il gran numero di caduti. Dopo il Sagra c’è Caulonia fondata dagli Achei, prima detta Aulonia per la valle che le giace di fronte. È deserta: gli abitanti infatti furono scacciati dai barbari in Sicilia  e lì fondarono Caulonia).

A questo punto è chiaro che il Caulonisque arces/Aulon di Servio è figlio dell’alternanza Aulonia/Caulonia di Strabone, ma rimane il mistero dell’aggiunta di C- (per la quale il Marciano mette in campo l’incrocio tra Αὺλόν e Καυλός) e la presenza della Caulonia siciliana ultima arrivata; comunque, possiamo affermare che tanto con lei quanto con quella tarentina la nostra specchia non ha nulla a che fare. E poi c’è da mettere in conto il fenomeno antico dell’omonimia di tanti toponimi e, con riferimento alla mappa, la loro deformazione o italianizzazione con effetti spesso esilaranti (per non parlare di errori macroscopici come, sottolineato dallo stesso Paolo nel link indicato, un Aletium collocato pari pari nel posto allora come ora occupato da Lecce), tra cui, tutto è probabile, anche quanto ho avuto occasione di dire sulla possibile responsabilità del càulu, per cui Specchia del caulo potrebbe essere italianizzazione di Specchia ti lu càulu.

E, per chiudere, ora, mio caro lettore, cominci a sospettare che il titolo sia stato particolarmente azzeccato? Continua a sospettare, ma auguriamoci che qualche ricercatore della domenica (e pure degli altri giorni della settimana …), suggestionato da quanto ho scritto, non avanzi l’ipotesi che, dopo il menhir, anche la specchia (e a maggior ragione Specchia Caulone, in cui il secondo componente ha tutta l’aria di essere un accrescitivo …) avrebbe il diritto di vedersi riconosciuto il titolo di simbolo fallico …

_______

1 Caulone e Calone in Cesare Teofilato, Di alcuni Megaliti Sallentini, in Rinascenza salentina, anno I, n. 3 (maggio 1933), XI-XII, pp. 140-150, solo Calone nei pionieri di storia locale: Sigismondo Castromediano, Sulle Specchie di Terra d’Otranto, Lecce, Tipografia Salentina, 1873-74; G. Nicolucci, Brevi note sui monumenti megalitici e sulle così dette Specchie di Terra d’Otranto, Atti dell’Accademia Pontaniana, v. XXIII, Tipografia della Regia Università di Napoli, Napoli, 1893; Charles Lenormant, I truddhi e le Specchie di Terra d’Otranto, in Gazzette archeologique, VII (1881), Parigi, p. 82; L. De Simone, La specchia Calone e L. De Giorgi, Le specchie di Terra d’Otranto in Rivista storica salentina, Lecce, anno II (1904-1905), pp. 313-334 e 481-513; Paolo Dovara, Le specchie della penisola salentina in Corriere meridionale, XXI (1910), Lecce, p. 34; P. Maggiulli, Specchie e trulli in Terra d’Otranto, Tipografia editrice leccese, Lecce, 1909; Calone in altri storici locali  (tutti i contributi di seguito citati sono leggibili in http://www.emerotecadigitalesalentina.it/): Luigi Scoditti, Specchie e Paretoni nel Salento, in La zagaglia, anno II, (1960), v. VIII, pp. 52-56; Nicola Vacca, Noterelle galateane, in Rinascenza salentina, anno XI, 1943, pp. 65-96; Marcellino Leone, Terra d’Otranto dall’origine alla colonizzazione romana, in La zagaglia, anno VII (1965), pp. 308-320; Antonio Franco, Sopravvivenza delle opere d’arte nel Salento, in La zagaglia, anno XVI, n. 56 (dicembre 1972), pp. 292-301; Aldo Caputo, Nella terra dei Titani, in Idomeneo, n. 6, pp. 225-231.

Calone compare in documenti medioevali come nome di un feudo brindisino, ma non so (e vale anche per il Calone del saggio di Primaldo Coco che non ho potuto consultare: Vestigi di vita canonicale in Brindisi sulla fine del secolo XIII e vicende del casale di Calone (presso Mesagne), Tipografia Giurdignano, Lecce, 1913) se corrisponda topograficamente al nostro.

2 Cito  il testo latino da Valentino Rose, Theodori Prisciani Euporiston libri III cum physicorum fragmento et additamentis Pseudo-Theodoreis; accedunt Vindiciani Afri quae feruntur reliquiae, Teubner, Lipsia, 1894, pag. 479.

3 Chiara trascrizione del greco δαρτός (leggi dartòs)=scorticato, scuoiato (fimosi e circoncisione a parte …).

 

 

 

Viaggio a Presicce, città degli ipogei

Piazza Villani

testi e foto di Gianluca Ciullo

I luoghi del cuore sono sempre cari ed appaiono agli occhi di chi li percorre belli e a volte unici, ma obiettivamente il piccolo borgo di Presicce è un prezioso scrigno di architettura gentile come il Basso Salento che lo ospita. Un concentrato di edilizia religiosa, nobile, gentilizia e “a corte” che è difficile riscontrare comunemente in un’estensione di territorio così modesta.

Nulla è casuale, la sua storia l’ha reso possibile.

Palazzo ducale Paternò è stato da sempre la residenza dei feudatari che si succedettero. Dell’antica  torre di difesa è rimasto solo un richiamo nella merlatura neoguelfa che il duca Pasquale Paternò fece apporre sull’ormai residenza gentilizia agli inizi del novecento. Era il 1630 quando la principessa Maria Cyto Moles lo modificò secondo l’attuale fisionomia, arricchendolo di un meraviglioso giardino pensile e della cappella dell’Annunziata.

il giardino pensile del palazzo

I Cyto non godevano di particolari privilegi, spesso oppressivi per la popolazione locale come accadeva nel resto del Mezzogiorno feudale. Liberi erano i mulini, i forni e i frantoi appartenenti ai privati. Ancora libera era l’elezione del sindaco senza il consenso del feudatario così come quella del parroco. Tale assenza di privilegi consentì di creare condizioni particolarmente favorevoli tra ceto popolare e borghese, dediti pertanto, non solo al lavoro dei campi ma anche e soprattutto all’artigianato ed all’arte.

Piazza Villani con la colonna su cui è posta la statua di S. Andrea

Questo consentì di attrarre l’interesse economico di molti nobili, baroni, e ricchi possidenti che immigrarono fornendo al paese giureconsulti, medici, notai e letterati. I Giuranna di origine veneta, i Pepe fiorentini, i Cara foggiani,

Un volto marittimese: Anita, detta Nnita

CAM01142

Racconti salentini

Un volto marittimese: Anita, detta Nnita

Protagonista di queste righe è una compaesana, signora pressappoco a metà tra gli ottanta e i novanta, precisamente della classe 1930, tuttavia dal portamento ancora solido e ben eretto, in certo qual modo figura tipica della comune piccola località natia.

L’ho presente da quando era ragazza e non aveva ancora un “vero” fidanzato, che, poi, alla fine, trovò in un bravo giovane di un paese dei paraggi, al quale andò in sposa – dopo una non proprio insolita, almeno per quei tempi, fuitina – dando alla luce tre figli.

E però, si può dire che A. abbia una storia, piccola quanto si vuole ma pur sempre storia, nel senso che, a modo suo, è conosciuta e fa notizia a partire dalla tenera età, periodo in cui iniziò a distinguersi e ad emergere, nell’ambito della sua leva e anche fra le ragazzine più grandi, per via del carattere esuberante, sempre pronta e incline agli scherzi e alle birichinate, allegra, immancabilmente in primo piano, battuta lesta, peraltro anche disponibile a rendersi utile in ogni occasione.

Genitori contadini, la madre originaria della confinante località di Andrano, un fratello più grande e uno più piccolo.

Iscritta alle elementari, voglia di studiare zero, uno più due, lo ammette candidamente la diretta interessata, erano, nella sua testolina, un’incognita, degli stessi libri, quaderni, penna e calamaio le importava poco e niente.

In classe, il suo posto era, naturalmente, in un banco dell’ultima fila, giacché cresceva alta, in ciò distinguendosi, di gran lunga, dal resto della scolaresca.

A quanto da lei stessa raccontato, la mattina, entrata nell’aula, si preoccupava di adempiere a un preciso compito, auto attribuitosi in esclusiva, cioè a dire di pulire e mettere in ordine la cattedra degli insegnanti: gliene toccarono due, nel corso degli anni, donn’Elvira e don Pippinu.

In aggiunta a tale incombenza, grazie a un rudimentale armamentario ben celato in tasca, fatto di un ago, un batuffolo di bambagia imbevuto d’alcool e piccoli fili di cotone, approfittando di momentanee assenze o distrazioni del maestro, si occupava, si pensi un po’, così come una persona adulta aveva fatto nei suoi confronti, di forare i lobi delle orecchie delle compagne, per quella che sarebbe stata l’eventuale successiva applicazione degli orecchini, così, a crudo, a sangue freddo, suggellando il suo “intervento” con il passaggio, attraverso i buchetti, degli anzi indicati piccoli fili di cotone.

CAM01143

Talora, ovviamente, l’insegnante arrivava ad accorgersi delle sue strane, temerarie e pericolose “distrazioni”, al che, è ovvio, scattava un castigo.

Tiene ancora a memoria, l’amica, in particolare, che in una circostanza, don Pippinu, avendola sorpresa in flagrante, la chiamò intimandole di avvicinarsi alla cattedra e di “stendere la mano” per ricevere la classica, allora purtroppo in uso, bacchettata, mediante una riga di legno che l’insegnante aveva in dotazione, anche se, in occasione delle visite della Direttrice didattica, la faceva sparire.

Correvano altri tempi, in questo caso meno male che son passati e lontani, purtroppo i genitori, benché fossero a conoscenza del “sistema”, occupati come si trovavano in altre faccende, forse più vitali, e nel convincimento, in fondo, che gli scolari dovessero essere educati, pensavano che non fosse il caso di andare tanto per il sottile in merito alle modalità correttive, una sorta di passiva accettazione del fine che giustifica i mezzi.

Ma, anche all’atto dell’anzidetta marachella, ecco scattare l’intraprendenza e prontezza di A.: un istante prima che le arrivasse addosso la riga, fu lesta a tirare indietro braccio e mano, col risultato che il colpo, tutt’altro che carezzevole, finì col riversarsi sulla coscia dello stesso maestro, il quale dolorante, sbottò in una fragorosa imprecazione all’indirizzo dell’alunna: “Nu furmine cu te bruscia!”(che un fulmine ti incenerisca).

In quel mentre, la ragazzina, da parte sua, pensava bene di schizzare via dalla scuola, con la velocità giustappunto di un lampo, incurante di abbandonare libri e quaderni sul suo banco dell’ultima fila.

A., insomma, non scolara modello, da bambina, ragazza, piccola donna e adulta, parimenti, carica d’energia, intraprendente, ardimentosa, sempre pronta a dire la sua, una figura, secondo la felice definizione di un coetaneo, che “voleva paglia per cento cavalli”, a significare che “faceva fuoco e fiamma”.

CAM01144

A tredici anni, A. è fisicamente sviluppata, alta, formosa, capelli neri e lunghi, un viso simpatico incline al sorriso e, soprattutto, un seno fiorente, anzi straripante già allora.

E’ l’età in cui la ragazza viene a trovarsi accanto (eufemismo) il primo fidanzatino, a sua volta appena quindicenne, un ragazzo del paese di nome V. che, in linea con le usanze di allora, tutte le sere, dopo il lavoro e la cena, si reca a casa di A., bravo figlio di temperamento completamente opposto, molto calmo, tranquillo, dotato di scarso spirito d’iniziativa, lo accomuna ad A. solamente la bella voce intonata.

Ricorda, l’A. d’oggi, non senza un pizzico di nostalgia ed emozione, che durante la quotidiana visita, presenti i genitori, il fidanzatino se ne stava seduto immobile vicino al tavolo, le gambe accavallate, non proferiva parola, una scena totalmente muta. La ragazza non gradiva siffatto comportamento dell’aspirante compagno di vita e anche suo padre, a un certo punto, si rese conto che la situazione era proprio da ragazzini, strana e insostenibile, per cui, con garbo, pensò bene di far osservare al giovane che, forse, i tempi non erano maturi e, quindi, a suo parere, si rendeva opportuno rimandare la frequentazione: se si trattava di destino, le cose si sarebbero riprese in mano regolarmente.

Si concluse così, per A., la prima esperienza da fidanzata, negli anni successivi non maturarono ritorni di fiamma formali con V.

Tuttavia, grazie alla sua avvenenza ed esuberanza, le si presentarono una dietro l’altra numerosissime profferte amorose, proposte di fidanzamento, mittenti sia giovani del paese, sia residenti nei centri vicini.

La ragazza, però, preferiva svolazzare leggera e libera da un soggetto all’altro, a guisa di farfalla, posandosi appena su foglie e petali: nel momento in cui dava ai pretendenti l’impressione che stavano per conquistarla e acchiapparla, riprendeva il volteggio, allontanandosi e scansando ogni insistenza.

CAM01145

Le piaceva la frequentazione viva e attiva con coetanei e adulti, uomini e donne, durante i lavori in campagna, quali la coltivazione del tabacco, la raccolta dei frutti estivi, la vendemmia, la raccolta delle olive, facendo scorpacciate di tiri maldestri e/o scherzosi, specie all’indirizzo di determinate figure bonaccione o che erano solite reagire maggiormente alle burle.

In occasione di fortuiti contatti con giovanotti, poteva eccezionalmente succedere che qualcuno, particolarmente intraprendente e brillante, riuscisse a cavar fuori qualcosa di concreto, al di là di uno sguardo e delle parole pronte che, ad A., di certo non mancavano.

Ad esempio, un bel ragazzo dei dintorni, una volta si pose a seguire A. intanto che lei, verso l’imbrunire, si stava recando, insieme con un’amica, a un piccolo vicino cantiere edile con l’intento di raccogliervi un secchio di tufo bianco, derivato dalla segatura dei conci utilizzati per una costruzione abitativa. Detto tufo, sarebbe stato sparso sul pavimento lastricato di casa che, soprattutto quando non c’era il sole, trasudava umidità e si scuriva, e, quindi, la spruzzata del bianco materiale faceva in qualche modo migliorare la situazione di agibilità e di aspetto fra le mura domestiche.

Ora, avvenne che, proprio quando A. era intenta, piegata, a riempire di tufo il suo secchio, nel levarsi e girarsi per rialzarsi, improvvisamente le si accostò la figura del giovanotto in questione, che fu abilissimo a rubarle un bacio intenso sulla bocca, il primo per la diciassettenne, un autentico trauma anziché un piacere o una scarica adrenalinica.

Bisogna, onestamente, tener conto anche della mentalità e dell’educazione sessuale (???) che vigevano in quell’epoca, fondamentali purtroppo rimasti ancorati alle calende greche, addirittura c’era la credenza, maldestra e malsana e coniugata con l’ignoranza, che, attraverso un bacio sulla bocca, una ragazza potesse restare incinta e fare un figlio.

Sia come sia, il “predatore” scappò via in un baleno, e però l’eccezionale scena fu goduta interamente dall’accompagnatrice di A., con l’inevitabile effetto che, a volo, si cominciarono a diffondere in giro voci sull’accaduto. Non n’ebbe notizia unicamente la madre di A. con cui la “vittima”, rientrata di corsa e agitata in casa col tufo, si confidò immediatamente; il mattino seguente, nel magazzino e/o manifattura del tabacco, dove la giovanissima aveva da poco iniziato a lavorare, le colleghe più adulte presero subito a deriderla e sfotterla, tanto che la vittima del bacio rubato proruppe in un pianto a dirotto.

Intanto, con l’avanzare dell’età, per A. cresceva progressivamente anche l’impegno lavorativo.

Non solo durante la stagionale adibizione al magazzino del tabacco, in cui la nostra protagonista, ancora inesperta, era addetta alla prima fase operativa, cioè a spianare e a rendere lisce le singole foglie che, poi, passava a una collega più anziana e pratica la quale le riuniva in piccole balle.

I genitori di A., difatti, conducevano in regime di mezzadria alcuni terreni, in particolare uno denominato “Pastorizza”, che rappresentava una sorta di base d’appoggio per tutte le attività agricole della famiglia, anche perché a breve distanza dal centro abitato.

Lì insisteva una piccola casetta rurale in cui si dormiva molto alla spartana, fra mosche, zanzare e lucertole, tuttavia, fiaccati dalla stanchezza, non si faceva fatica a prendere sonno, gli occhi si serravano quasi automaticamente.

Dalla “Pastorizza”, all’alba, con genitori e fratelli, A. partiva per una “scarpinata” di quattro/cinque chilometri, in genere a piedi scalzi, sino a un altro terreno, in zona “Mito”di Andrano, in cui crescevano, in particolare, numerosi alberi di fico che davano frutti in abbondanza. Si riempivano panare, panari e panareddri, del prodotto raccolto; quindi, nuovamente per quattro/cinque chilometri, con contenitore rapportato all’età di ciascuno caricato sulle spalle, si faceva ritorno alla “Pastorizza”, dove, sullo spiazzo antistante al precario bracchio/ dormitorio, si passava a spaccare i fichi e a spanderli, per l’essiccazione, su stuoie di canne intrecciate: tanta fatica, anche per un’adolescente, del resto, allora, in ogni età arrivavano le fatiche.

Poi, c’erano anche temporanee trasferte di tutto il nucleo, per il tabacco e/o la mietitura e trebbiatura dei cereali, verso le  fertili pianure della Lucania, a Nova Siri, ricorda ad esempio A.

Intanto, il primo fidanzatino V., ormai divenuto giovanotto, si era impegnato con un’altra ragazza del paese, con quest’ultima le cose avevano preso un corso serio, tanto che si approssimavano le nozze e la promessa sposa era finanche arrivata a esporre il corredo che avrebbe portato in dote (in dialetto dota) nella dimora matrimoniale. Ma, evidentemente, nella testa di V. era rimasto un ricordo forte, qualche suggestione incancellabile avente per protagonista la sua prima fidanzatina; sta di fatto che, quest’ultima, mentre i suoi genitori erano in Lucania e lei soggiornava nell’abitazione di una cugina, scorse, appoggiata sull’uscio di casa, una busta contenente un biglietto vergato  dal buon V. che,  più o meno, recitava apertamente: “Senti A., anche se son passati molti anni, anche se io dovrò prossimamente sposarmi con un’altra, se sei d’accordo, io ti voglio sempre, possiamo andarcene via insieme”.

Evidentemente, l’ex giovanissimo fidanzatino quindicenne doveva essere ancora innamorato della ragazza e sperava, o s’illudeva, di poter ricominciare la storia. Così, tuttavia, non fu.

Per la precisione, per opera del medesimo V., c’era stato un episodio precedente, un sussulto sotto forma di serenata.

Una sera, A. se ne stava, in compagnia di alcune amiche, sul terrazzino attiguo al vicoletto della casa dei suoi genitori; ai piedi di una fioca lampadina d’illuminazione pubblica posta in prossimità, s’era contemporaneamente riunito un gruppo di ragazzi e giovanotti paesani e, allora, V., con la sua bella voce, volle dedicare alla morosa d’un tempo alcune brevi strofe speciali in dialetto, tanto semplici quanto indicative:

 

La zita vecchia mia

la tegnu pe riserva

per quannu spunta l’erva

la vado a pascolar.

La vado a pascolare

insieme alle mie caprette

e l’amore con le civette

non lo farò mai più.

 

 

Già si diceva, prima, che ormai A. era divenuta una donna in pieno fulgore, capelli crespi e neri, il seno vistosamente oltre misura.

Successe che, durante i lavori in campagna nella citata Nuova Siri, un giorno ella si vide seguire da un giovanotto del posto, poliziotto in licenza, il quale, evidentemente colpito e ammirato per le fattezze e il portamento della giovane, le rivolse questa “sicuramente” ardita domanda: “Permettimi signorina, ma tu lo porti il reggiseno?” (allora, non era costume, per una giovane contadina, indossare alcunché del genere). Immediatamente, la nostra amica, al solito pronta a rispondere, replicò al giovane: “Ma perché, caro, tua madre lo porta?”

Numerosi continuarono a susseguirsi gli inviti a “fidanzarsi”, con A. nel consueto atteggiamento di farseli scivolare appena addosso, con leggerezza, senza prenderli sul serio per oltre una/due settimane.

Fino a quando non le si presentò quello giusto, per opera di un giovane di Vignacastrisi, il quale, guarda caso, come nome di battesimo faceva proprio Giusto, più giovane di tre anni rispetto ad A.

Dal matrimonio nacquero tre figli, accolti e allevati con amore, cura e sacrifici; purtroppo, il bravo marito della compaesana su cui scrivo non ebbe, personalmente, granché fortuna, andandosene ancora giovane.

A., che ancor prima della scomparsa del suo Giusto,  aveva dovuto subire la dolorosissima perdita del terzogenito Sergio, vittima a soli sette anni di un’accidentale caduta da un casa in costruzione (strana coincidenza, a distanza di decenni: un cantiere in corso come ultimo scenario per un tenero bambino, il tufo bianco  di un altro cantiere edile come scenario del primo vero e traumatico bacio per A.), è quindi rimasta con gli altri figlioli, man mano pure essi cresciuti e sposatisi, rendendo, la genitrice, nonna di nipoti già grandicelli.

CAM01148

Si, A. è nonna, ma, sinceramente, il tempo, per lei, sembra essere trascorso sono sui fogli del calendario; invece, dentro, si è mantenuta una “ragazza” tra gli ottanta e i novanta, vivace, estroversa, che seguita, tuttora, a “volere paglia per cento cavalli”.

Un’esistenza, in fondo, non facile né in discesa, la sua, eppure con accoglimento e accettazione degli eventi secondo la semplicità e il rigore dell’educazione ricevuta da piccola e l’innata rettitudine civile.

Vita intessuta di buoni rapporti con gli altri, A. è conosciuta e si fa ben volere da tutti, nel borgo natio rappresenta un piccolo, umile ma autentico personaggio, con la sua cassaforte di saggezza e l’immancabile parola pronta, accompagnata da un sorriso accattivante, oggi, com’è noto, merce assai rara.

Per terminare, amava tanti decenni addietro, A., e le sono cari anche adesso, i seguenti versi dialettali di un canto contadino della terra prediletta:

 

Quannu lu ceddru pizzica la puma,

la ucca se la sente zzuccarata

 

(in italiano, quando l’uccello imprime col becco un piccolo morso alla mela, avverte in bocca un sapore di zucchero).

 

La masseria Canali… si può fare

masseria canali

di Gianni Ferraris

Fra il 1994 e il 2005 venne decimato il Clan Campana, notissimi esponenti di primo piano della Sacra Corona Unita vennero arrestati. Da quelle operazioni si passò alla confisca dei beni. Colpire le mafie negli interessi, nei loro feudi, espropriare i criminali  nella palese dimostrazione di potenza fatta di terreni, masserie, ville, beni, è il modo più potente per combattere una battaglia che altrimenti non porterebbe da nessuna parte.

E proporre quei beni confiscati ad utilizzi socialmente ed economicamente utili per i territori sottomessi da una criminalità bieca e assassina è uno schiaffo non solo ai mafiosi, ma a tutti coloro che pensano che “mafia è bello”, che dicono che “la mafia dà lavoro” senza tenere conto dei danni sociali, etici, morali ed economici che procura.

Purtroppo ancora oggi assistiamo quotidianamente ad episodi inquietanti: auto e case che bruciano, sparatorie in vie cittadine trafficate, negozi che vanno a fuoco, contrabbando di sigarette e spaccio di stupefacenti organizzato e gestito dai mafiosi, sale per gioco d’azzardo “legale” gestite da prestanome dei mafiosi stessi, che servono per riciclare denaro sporco e per praticare l’usura. Purtroppo assistiamo a collusioni anche con la politica, parlamentari arrestati e condannati, ex ministri che aiutano la latitanza di boss di mafia e via dicendo.

Però esistono persone che credono alla possibilità di un riscatto etico, morale, sociale ed economico, esistono ragazzi che lanciano sfide, e rendono i terreni confiscati veri luoghi di legalità, di lavoro. Producono vino, taralli e  tutto ciò che questa meravigliosa terra offre. La cooperativa Terre di Puglia Libera terra, a Mesagne, è fatta da ragazzi che rischiano, che si vedono i raccolti incendiati dai servi dei boss che poi, magari, si ritrovano al bar sotto casa a vantarsi delle loro gesta.

Però non demordono, i ragazzi, e proseguono a fare impresa pulita, trasparente, tutto alla luce del sole. Così i beni confiscati al clan Campana, la masseria Canali, è diventata Masseria Didattica.

“Abbiamo speso moltissimo per ristrutturare” oltre un milione di euro, ma ne è valsa la pena, ora in quei locali ci sono sale computer, una cucina attrezzata, c’è un orto con essenze mediterranee e campi dove si coltiva grano,  e c’è tutto l’occorrente per accogliere e fare didattica, insegnare ed imparare. Si insegna lavoro pulito e legalità. Il 10 giugno la Masseria Canali è stata inaugurata.

C’erano autorità, forze dell’ordine, c’era Don Luigi Ciotti. “Si può fare” ha detto e ripetuto. Già, si può veramente fare. La mafia può essere combattuta e alla lunga vinta e sconfitta. Oggi che le mafie si sono espanse al nord, che dominano appalti e affari, è più che mai necessario fare dei beni confiscati ovunque regni di legalità.

E sarebbe indispensabile che i legislatori uscissero dal loro opportunismo ed estendessero la confisca dei beni anche ai politici corrotti. Sembra fantascienza, anche allora lo sembrava, si può fare!

Ho a cuore Castro: perciò, osservo e scrivo

800px-castro_panorama1

di Rocco Boccadamo

 

Come è noto, a Castro, la Perla del Salento, si staglia sulla via Vittorio Veneto sboccante nella rinomata e testé ricostruita “Piazzetta” ossia a dire il fulcro pulsante della marina, un imponente edificio risalente agli inizi del 1900 e sorto grazie alle disposizioni testamentarie di un facoltoso e generoso cittadino della vicina località di Ortelle, Francesco De Viti.

La struttura in discorso, denominata, giustappunto, Istituto De Viti, è stata adibita, per circa mezzo secolo a vari servizi di utilità sociale collettiva, in particolare a beneficio dei ragazzi meno abbienti.

Esempio prevalente, l’utilizzo come colonia estiva, dove sono stati accolti, agli inizi, giovanissimi orfani di combattenti della prima guerra mondiale, poi gli ospiti dell’orfanotrofio maschile di Ortelle, quindi gli alunni frequentanti le scuole dell’obbligo del medesimo paese, sempre con priorità per le famiglie in condizioni povere

Servizi, affidati alle cure di un gruppo di suore e di un sorvegliante di sesso maschile.

E però, a un certo punto, vuoi per il cambiamento dei tempi, vuoi a causa di altre più moderne e preferite iniziative similari sorte nella zona, il pur prezioso ruolo dell’Istituto si è andato inaridendo, cosicché il complesso ha finito col chiudere i battenti, rimanendo per diversi lustri abbandonato, con grave rischio di degrado e pregiudizio della sua stessa stabilità e agibilità.

Per fortuna, qualche anno addietro, grazie a un progetto cofinanziato con il Fondo europeo di sviluppo regionale, sono stati avviati consistenti lavori di ristrutturazione radicale dell’edificio, con l’obiettivo di adibirlo, di qui in avanti, all’accoglienza di persone fisiche impedite e versanti in condizioni d’abbandono sociale.

Il relativo cantiere è ormai in stato avanzato, anzi quasi completato.

Nella nuova veste del fabbricato, si pone in risaltò un particolare di carattere estetico ma nello stesso tempo rilevante, cioè il colore utilizzato per tinteggiare le facciate esterne: un giallo “sparato” che, a parere di chi scrive, nulla, proprio nulla, sembra avere a che vedere, né con la tonalità originaria dell’edificio, né tantomeno con il contesto urbano e abitativo in cui la costruzione si trova inserita.

Un non addetto ai lavori potrebbe addirittura avere l’impressione che si tratti di un clamoroso pugno nell’occhio, mentre, verosimilmente, secondo qualche architetto o tecnico o specialista o amministratore, l’accesissimo colore giallo calza a pennello, sia a livello del fabbricato a sé stante, sia in rapporto al panorama e all’habitat circostanti.

In casi del genere, ovviamente, si è di fronte a mere opinioni, rispettabili ma discutibili.

Ad ogni modo, queste note, ispirandosi e ponendosi in ossequio e omaggio al puro e oggettivo senso dell’armonia, si prefiggono essenzialmente di richiamare, sulla realtà di che trattasi, anche con l’ausilio delle immagini allegate, l’attenzione delle istituzioni cui competono la “sorveglianza” e le valutazioni sui luoghi sotto l’aspetto ambientale e paesaggistico.

Si pongono, inoltre, l’obiettivo di conoscere cosa pensano gli altri in generale circa quest’utile insediamento tinteggiato di giallo, in sostanza se l’apprezzano o meno così come si presenta.

La leggenda della pianta delle more

more
Da google immagini: “ fiori e forchette” http://www.fiori-forchette.com/products/piccoli-frutti/

di Maria Grazia Presicce

Pensando alle more mi ritornano in mente gli assolati  e lunghi pomeriggi in campagna che invogliavano alla ricerca delle piante di scrascie[1] , lungo muretti a secco diroccati e  siepi alla raccolta di zezzi[2].  Non era facile raccogliere gli allettanti frutti da quei rami serpeggianti e pungenti e, pur di assaporarli,  qualche graffio eri costretto a subirlo.

Le spine delle scrascie sono ben nascoste dalle foglie e i suoi tralci striscianti e intricanti  non facilitano la raccolta dei frutti.

A questa pianta e alla sua natura  è legata un’antica leggenda[3] che non conoscevo e che mi faceva piacere diramare, sperando di fare cosa gradita a quanti non ne hanno mai sentito parlare.

Si narra che Caino dopo aver ucciso e seppellito Abele, suo fratello, tranquillamente continuasse a pascolare il gregge.

D’un tratto la voce di Dio lo raggiunse e quando gli chiese se avesse visto Abele, lui rispose che non ne sapeva nulla e che di certo non era il suo guardiano.

Il Signore s’avvicinò al luogo dove Caino aveva sepolto Abele e s’accorse che dalla terra smossa spuntava una strana pianta  che Lui non aveva creato. La pianta, invece di innalzare al cielo i suoi rami, li faceva crescere rasenti al terreno.

Tenne d’occhio  la pianta che, nei giorni seguenti, cresceva a vista d’occhio nutrendosi del sangue di Abele.Un giorno, s’avvicinò per meglio osservarla e notò che era una pianta senza fiori né frutti,   aveva solo  tante foglie e tante spine. D’un tratto avvertì una flebile voce. Era la pianta  che lo implorava  di farle avere fiori e frutti come tutte le altre piante, scusandosi per essere nata, senza il suo consenso, dal sangue di un innocente. Iddio, colpito dalla sua gentilezza, le rispose che ci avrebbe pensato e che comunque un giorno il suo desiderio sarebbe stato esaudito.

Il tempo trascorreva e la pianta cresceva e si moltiplicava con facilità, invadendo siepi, anfratti e cortili.

Un giorno in un cortile, vicino ad un cespuglio spinoso di rovi, stava un uomo ad una colonna legato con intorno dei soldati che sghignazzavano deridendolo e ponendogli in mano una canna e sulle spalle un drappo rosso, insultandolo, lo chiamavano Re.

D’improvviso un soldato s’avvicinò al cespuglio di rovi, ne staccò alcuni tralci, li intrecciò a mò di corona e con violenza la conficcò sulla testa dell’uomo legato. Un urlo di dolore uscì dalle sue labbra,  mentre il sangue  scorse a rivoli dalla fronte sul volto e le colò sul corpo e alcune gocce finirono sulle foglie del cespuglio di rovi. Un brivido infuocato percorse la pianta fin nelle radici, mentre una voce mormorava “ sei nato da sangue innocente e sarai rigenerata dal sangue di un giusto”.

Il cespuglio inorridì a quest’ annuncio e guardando il volto insanguinato dell’uomo non voleva  che a prezzo di   tanta sofferenza potesse essere esaudito il suo desiderio. Ma la voce continuò “ non disperarti, quello che accadrà era stato già scritto. Le tue spine hanno incoronato la fronte di un giusto e la tua umiltà sarà ricompensata. Da oggi avrai fiori e frutti. I tuoi fiori avranno il colore delle cose pure e il succo dei tuoi frutti sarà del colore  del sangue versato  per la rigenerazione dell’umanità”.

E così avvenne .I fiori dei rovi son bianchi sfumati di un rosa- violaceo, quel colore che si ottiene quando il sangue si fonde con l’acqua, il succo delle more invece ricorda proprio il colore del sangue.

  Da google immagini: http://www.librizziacolori.it/8%20sentieri/le%20more.htm
Da google immagini: http://www.librizziacolori.it/8%20sentieri/le%20more.htm

 


[1] Forma dialettale salentina  della pianta del rovo

[2] Forma dialettale del frutto delle more

[3] Da google: “la leggenda del rovo” di Mario Cerruti, http://adozionigiuste.datafox.it/leggende.htm

 

“Ride la gazza, nera sugli aranci”

di Armando Polito

immagine tratta da http://www.astea-cidrea.it/pagina%20036.asp
immagine tratta da http://www.astea-cidrea.it/pagina%20036.asp

Finita la festa, gabbato lo santo, recita un vecchio proverbio. Parafrasandolo mi vien da dire: Passata la paura dell’esame, poeta tornato nel dimenticatoio, complice anche la superficialità e lo scarso rispetto che in rete (provare per credere … per una volta non riporto i collegamenti ai siti relativi) si manifesta già con la ricorrente soppressione della virgola dopo gazza e, quindi, col passaggio ad un insulso e banale valore attributivo dall’originario predicativo di nera; non manca neppure E ride la gazza nera sugli aranci, unico dodecasillabo (di una poesia fatta tutta di endecasillabi) diventato tale grazie al trapianto di E preso dall’Ed iniziale del nome della raccolta (Ed è subito sera) di cui la nostra poesia fa parte (meno male che almeno la –d è stata, forse per puro  caso …, eliminata); e che dire del cumulo di banalità e di paroloni tanto altisonanti quanto insensati che scandiscono i numerosi sviluppi del tema ministeriale?     

Poeta nella mia parafrasi sta in senso stretto per Quasimodo, in quello lato per poesia. Non ho la presunzione di proporre strumenti che ridimensionino l’aspetto utilitaristico e, in un certo senso, terroristico del fenomeno (la poesia nelle scuole  non dev’essere una tortura; al contrario, mi si passi l’ossimoro, dev’essere una gioiosa sofferenza della mente e del cuore) ma, nel mio piccolo, tento disperatamente con questo post di ritardare il progressivo affievolimento dei cerchi descritti dal sasso gettato come ogni anno nell’acqua, pur nella ristretta cerchia (i cerchi nella cerchia!) dei miei pochi affezionati lettori.

La gazza nel dialetto neretino è la pica, la ciòla e, per non farci mancare nulla, la pica ciòla. Comincio da pica che, in comune con l’italiano, è pure il nome scientifico del genere ed è dal latino pica(m). Trattandosi di un bisillabo è operazione avventata tentare di scarnificarlo alla ricerca di parentele, sicché potrebbe risultare un’analisi del DNA affrettata o sbagliata mettere in campo (è la prima cosa che mi viene in mente) pix/picis=pece, con riferimento al colore in qualche misura dominante del piumaggio.

Non mi illudo che le cose vadano meglio con ciòla quando nel vocabolario del Rohlfs leggo come proposta etimologica dal nome di donna Ciola? Cerco di spiegarmi non tanto il punto interrogativo finale quanto come sia balenata nella mente del Rohlfs l’idea, un po’ maschilista, della donna che addirittura dà il nome dialettale ad un uccello. Credo di aver trovato la risposta al lemma cola registrato nello stesso vocabolario per Manduria (TA) col significato di gazza ladra e nella forma replicata cola-cola a Palagiano (TA) e a Mesagne (BR) nel significato di gazza e con indicazione etimologica identico a Cola-Nicola. In qualche modo, forse, il Rohlfs considera Ciola femminile di Cola, ma bisognerebbe spiegare lo strano vocalismo –o->-io-. Proprio questa difficoltà di ordine fonetico mi spinge a credere che ciòla non sia altro che deformazione di ciàvola o ciàula (nome regionale centrale e meridionale della gazza). E, bella coincidenza!, se il titolo del post è pure il titolo-verso di una poesia di Quasimodo, Ciàula scopre la luna è il titolo di una famosa novella (fa parte della raccolta Novelle per un anno) di un altro grande poeta siciliano: Luigi Pirandello. E poco importa che Ciàula sia il soprannome di un ragazzo che imitava meravigliosamente a ogni passo il verso della cornacchia, perché il buio di cui ha paura ha lo stesso colore dell’uccello di cui porta il nome ed egli rappresenta, in un certo senso, la metamorfosi dall’attivo (la gazza andrà forse fiera del suo nero, sicuramente non le spiace) al passivo (il nero del buio incute soggezione). Secondo me la trafila sarebbe stata questa: ciàvola (di origine onomatopeica)>*ciàola (sincope di -v-)>ciàula>ciòla. Il passaggio –au->-o-, poi, non pone problemi di sorta, essendo una tendenza  già attestata per il latino, in cui, per esempio, oste è caupo ma anche copo e l’arcaico (di Plauto) ausculare=baciare diventerà il classico osculare.

Annego i dubbi filologici nella nostalgia ricordando che le voci pica e ciòla ai miei verdi tempi erano usate come varianti eufemistiche di pene (una sorta di specializzazione del generico italiano uccello usato nello stesso significato) e che pica era usato pure, questa volta  in totale innocenza, in espressioni affettuose celebranti la loquacità di una bambina, come sinti la pica ti lu nonnu (sei la gazza del nonno); ma pure in nessi del tipo mi pari nna pica (mi sembri una gazza), sinti nna pica (sei una gazza) e simili, espressioni usate nei confronti di una donna pettegola.  Per quanto riguarda quest’ultima immagine non abbiamo inventato nulla, perché la similitudine è già in Petronio (I secolo d. C.), Satyricon, XV, anche se, a parziale compensazione per le donne, riguarda un efebo: … flexit convitium in puerum et -Tu autem – inquit – etiam tu rides, pica cirrata? – (Volse il suo rimbrotto al ragazzo: -Tu poi,  – disse – anche tu ridi, gazza ricciuta? -).

 

Le zucchine e i loro fiori nella cucina salentina

di Massimo Vaglio

Una volta tanto la giustamente avversata globalizzazione ha provocato un effetto collaterale positivo. Infatti, grazie all’acquisizione da parte delle giovani generazioni dell’americanissima festa di Halloween, è tornata un po’ in auge la coltivazione delle zucche, e si rileva anche la riscoperta di tante ricette dimenticate ed un rinnovato  interesse per questi, come vedremo, utilissimi quanto bistrattati ortaggi.

Prima, però occorre fare un po’ di chiarezza nella non sempre semplicissima materia botanica. Facile infatti dire zucca, ma bisogna sapere che sotto questa banale denominazione ricadono ben novanta distinti generi e un numero di specie stimato intorno al migliaio. Negli orti italiani, si coltivano numerose varietà di zucche e zucchette, di cui si utilizzano come ortaggio i frutti quando sono completamente maturi, ossia le zucche; oppure, quando sono ancora teneri e non del tutto ingrossati, ovvero le zucchette meglio note come zucchine.

Si tratta di varietà orticole derivate da alcune specie appartenenti al genere Cucurbita e alla famiglia delle Cucurbitaceae. Le varietà di zucca universalmente più diffuse sono quelle derivate dalla Cucurbita maxima. Si riconoscono per il portamento delle piante che sono sarmentose o rampicanti con frutti generalmente molto grossi, globosi, schiacciati ai poli, lisci, costoluti o bitorzoluti.

Altre zucche molto interessanti e saporite sono quelle derivate dalla Cucurbita moschata, queste sono ugualmente sarmentose e danno luogo all’emissione di frutti molto grandi, cilindrici, diritti o leggermente ricurvi e maggiormente ingrossati all’apice ove sono contenuti i semi.

Le zucchette, sono invece il prodotto della Cucurbita pepo, che si distingue facilmente dalle altre specie per il portamento cespuglioso e i frutti cilindrici e dai piccioli tipicamente quadrangolari che si raccolgono rigorosamente quando sono immaturi, lunghi al massimo 20-25 cm e di 2-4 cm di diametro.

Oggi nel Salento,  un po’ come dovunque, impera la coltivazione delle zucchette, effettuata sopratutto in coltura protetta ossia sotto piccoli tunnel di polietilene o in serra, quindi disponibili ormai tutto l’anno. Ciò, ha portato gradatamente i consumatori ad orientarsi pressoché esclusivamente verso il consumo degli sciapiti frutti di quest’ultima specie di cui sono state selezionate numerose varietà orticole, tutte ugualmente sciapite, indistintamente appellate zucchine anche se  distinguibili fra loro per la colorazione esterna dei frutti che può variare dal verde al grigio nerastro al bianco giallognolo. Una vera rivoluzione nelle abitudini alimentari dei salentini, che sino a qualche decennio addietro non conoscevano affatto le zucchette, ma consumavano in luogo di queste esclusivamente i saporiti frutti teneri della cosiddetta cucuzza te jernu o ‘ngìnuese (genovese), prodotti da antichi ecotipi locali derivati dalla su citata Cucurbita moschata. Questi erano disponibili però solo in estate; in inverno, seguendo i tempi della natura, si consumavano le grandi zucche mature della medesima specie  orticola.

Gli enormi frutti della Cucurbita maxima, l’altra specie tradizionalmente coltivata, erano denominati cucuzze te uei (zucche da buoi) e serbate, come ricorda Vittorio Bodini, sui cornicioni delle bianche case e delle masserie salentine, erano destinate pressoché esclusivamente all’alimentazione del bestiame.

Ma torniamo alle nostre ‘ngìnuesi. Di queste, equivalenti vegetali del proverbiale maiale, non si buttava via nulla: i tralci e i germogli teneri venivano consumati stufati alla stregua delle cime di rapa; i fiori, tanto quelli femminili, quanto quelli maschili (fiuri camaci), anch’essi stufati, in frittata o fritti in pastella. Numerosissimi, gli usi della polpa, ammannita nei più svariati modi compresi dolci e canditi; i semi, salati e tostati, costituivano lu passatiempu, uno snack gradito da grandi e bambini e persino la coriacea scorza veniva utilizzata per  preparare una sorta d’appetitosa scapece autarchica.

Vista la moltitudine di ricette tradizionali che la vedono protagonista, l’apprezzamento dei salentini per la zucca, sembrerebbe un amore storico e incondizionato, se insieme alle ricette non ci fossero pervenuti una serie di folcloristici detti e adagi tutti univocamente poco lusinghiero nei confronti della stessa, tra questi:

–         Ccònzala comu oi, sempre cucuzza rimane.

–         Cucinala comu oi, sempre cucuzza ete.

–         La cucuzza nu ttira e no ttuzza, e se no lla sai ccunzare, no se pote mangiare; ma se la cconzi bona, tira, tuzza e sona, però ci vene unu cu tuzza, no dire ca sta mangi cucuzza.

–         Puru cucuzza, ma ccunzata bbona.

–         La fatia si chiama cucuzza, a tie te fete e a mie me puzza.

La motivazione di quest’insolito sprezzo nei confronti di un così munifico ortaggio, risorsa a dir poco strategica nei magri inverni di una volta, trova giustificazione nel fatto che quando di apriva una grossa zucca, onde evitare che andasse a male, questa ritornava per più giorni sullo stesso desco e il suo sapore dolciastro, certamente grato, ma alla lunga stucchevole, finiva per stancare. Indubbiamente, un peccato d’irriconoscenza nei confronti di questi ortaggi, che offrono eccezionali quantità di carotenoidi, carboidrati complessi, potassio e vitamine de gruppo B. Come altri ortaggi ricchi di carotenoidi le zucche hanno dimostrato un elevato effetto protettivo nei confronti di molti tumori e in particolare di quello ai polmoni. Ma le proprietà salutari non si fermano qui, i semi di zucca infatti sono ricchissimi di elementi nutritivi e sono un’ottima fonte di acidi grassi essenziali, proteine e minerali. Ormai da tempo vengono usati dai naturopati per curare i disturbi della prostata grazie al loro contenuto di acidi grassi e di zinco, mentre la medicina popolare, li ha sempre usati come potenti antielmintici, efficacissimi per espellere i parassiti intestinali, specialmente elminti o vermi. Inoltre, dai semi zucca, e in particolare da quelli prodotti dalla zucca stiriana (Cucurbita pepo L. convar, citrullina var. styriaca), che ha la particolarità di produrre semi senza buccia, si ricava un olio molto interessante, contenente ca. l’80% di grassi insaturi, di cui il 50-60% polinsaturi.

Coltivata in tutto il mondo la zucca trova spesso impiego anche come oggetto divenendo: fiasca, borraccia, salvagente, ciotola, soprammobile, strumento musicale e addirittura spugna (zucca luffa).

E’ l’Italia il paese che rende ad essa maggior onore con una serie infinita di piatti ormai celeberrimi, come i cappellacci ferraresi e i tortelli mantovani che partiti dalle nebbiose valli padane, insieme ai risotti dai cromatismi solari, hanno via via conquistato i palati di mezzo mondo, insieme altre buone quanto misconosciute specialità quali i canditi di zucca, ingredienti insostituibili, della celeberrima cassata siciliana.

Il Salento, che in quanto a fantasia gastronomica non è sicuramente secondo a nessuno, si difende bene con un bel carnet di originali specialità fra le quali la cucuzzata, un gustoso, originalissimo pane condito.

Cucuzzata

Ingr. : 1 kgdi farina di grano duro, 500 g di zucca genovese o di zucchine della stessa varietà, cipolle, olive nere in concia, pomodorini,1 dl d’olio dei frantoi salentini, 2 cubetti di lievito di birra, peperoncino, origano acqua sale.

E’ una specialità originaria di Santa Cesarea Terme e dei paesini del suo interland, soprattutto di Vitigliano, che ogni anno in Agosto gli dedica un’affollata sagra. Preparate un trito con la zucca, le cipolle e i pomodorini, unitelo alla farina e impastate unendo l’olio, tutti gli altri ingredienti  e l’acqua sino ad ottenere un impasto piuttosto omogeneo. Lasciatelo riposare in ambiente tiepido e senza correnti d’aria. Trascorsa qualche ora, rimpastatelo sino a renderlo perfettamente liscio, omogeneo ed elastico. A questo punto staccate dei pezzi di pasta di due- trecento grammi, formate dei panetti e poneteli in forno a legna ben caldo per una ventina di minuti.

Cucuzza a scapece

Ingr. : zucca genovese, pane grattugiato, olio dei frantoi salentini, aceto, aglio e menta.

Nettate la zucca dalla scorza, tagliatela a fette spesse un dito e larghe due e lessatele in abbondante acqua salata. Una volta cotte, ma ancora sode si sgocciolano e sistemano in una terrina, cospargendole a strati con mollica di pane raffermo grattugiata, aglio e foglioline di menta. Lasciate macerare per almeno un paio di giorni prima di servire. Una seconda versione, decisamente meno soft, prevede che la zucca venga fritta invece che lessata.

Cucuzza cu la ricotta schianta

Ingr. : 1 kg di zucca, una manciata di olive Celline di Nardò in concia tradizionale, un pugnetto di capperi sott’aceto, una grossa cipolla,1 dld’olio dei frantoi salentini, tre quattro acciughe, ricotta forte q.b. , peperoncino, sale.

In una casseruola, con un filo d’olio sul fondo, fate  imbiondire leggermente la cipolla, unite la zucca (preferibilmente zucca genovese) nettata e ridotta a dadini, quando questa sarà quasi cotta unite le olive, i capperi e il peperoncino facendo stufare a fiamma bassa, a cottura unite qualche cucchiaino di ricotta forte stemperata in acqua calda, aggiustate di sale se c’è ne fosse bisogno e servitela ben calda.

Fiori di zucca fritti 

Ispezionate e lavate delicatamente i fiori di zucca, lasciateli scolare riponendoli all’ingiù in un colapasta, eliminate il peduncolo e il pistillo e calateli in una pastella preparata con uova e farina o più semplicemente con farina, acqua e lievito. Friggeteli in olio di frantoio bollente e serviteli ben caldi.

.

Fiori di zucca e cozze fritti

Se volete preparare una leccornia buona quanto semplice nettate i fiori di zucca eliminando il peduncolo e il pistillo, calateli nella pastella insieme a delle cozze liberate a crudo dalle valve e spolverizzate di pepe nero macinato al momento e mescolate bene. Versate il preparato a cucchiaiate in olio d’oliva ben caldo sino a quando le frittelle non avranno ottenuto un’invitante colorazione dorata. Ponete le frittelle ottenute su della carta assorbente a cedere l’unto in eccesso e servitele ben calde.

Fiori di zucca farciti 

Scegliete dei fiori di zucca freschissimi e sani, sciacquateli uno ad uno ispezionando l’interno;  farciteli ognuno con una listarella di mortadella o prosciutto cotto e una listarella di caciocavallo o scamorza e friggeteli. Oppure sempre con mozzarella o scamorza insieme ad un filetto di pomodoro pelato condito con olio, sale e origano e un paio di capperi sott’aceto. Quindi immergeteli delicatamente nella pastella e friggeteli in olio vergine di frantoio. Poneteli su della carta assorbente a cedere l’unto e serviteli ancora caldi.

Zucca candita

Ingr. :2 kgdi polpa di zucca,1 kgdi zucchero, 1 lt d’acqua, 15 gr di sale.

Affettate la polpa di zucca ricavandone una decina di pezzi, ponetela cuocere in abbondante acqua.

Intanto, preparate uno sciroppo, mescolando insieme lo zucchero, il sale e l’acqua. Fate bollire lo sciroppo per 5 minuti, appena la zucca sarà cotta al dente, cacciatela dall’acqua di cottura e immergetela nello sciroppo caldo e fate sobbollire il tutto, adagio, in modo che la zucca completi la cottura e allo stesso tempo assorba più zucchero possibile. La zucca sarà pronta quando apparirà quasi trasparente. A questo punto levatela dal fuoco e lasciatela intiepidire nel suo stesso sciroppo. Quando è quasi fredda, togliete i pezzi dallo sciroppo e ponete questo sul fuoco a bollire ancora per qualche minuto. Levatelo nuovamente dal fuoco, unite i pezzi di zucca e lasciateveli raffreddare. Quando saranno freddi, toglieteli dallo sciroppo e fateli asciugare in un luogo arieggiato, per una giornata. Infine tagliate i pezzi di zucca a dadini, a losanghe o in altre forme a piacere e inzuccherateli. Conservate i canditi così ottenuti in vasi di vetro a chiusura ermetica.

 

Un manoscritto per l’estate, ovvero un omaggio del 1615 destinato ad un leccese e finito in America (7/8)

di Armando Polito

Carte 70 e 71.

Onde io già vissi hor me ne struggo et scarno, Petrarca, Canzoniere, CCCVIII, 4.

Impulit. agnosco veteris vestigia flammae (Spinse. Riconosco i segni dell’antica fiamma), Virgilio, Eneide, IV, 23. Qui il nostro frate dev’essersi reso conto che anche per una persona della cultura di Vittorio Prioli sarebbe stato difficile collegare la fine dell’albero con la disperazione e il rimpianto di Didone e perciò ha ritenuto opportuno aggiungere fuori insegna Fosso ove era piantato il cipresso. Così alla precedente immagine dell’albero/Didone si sostituisce molto efficacemente quella del fosso/cartiglio (quasi voce ultraterrena di un animo dolente).

Carte 72 e 73.

Quante speranze se ne porta il vento!, Petrarca, Canzoniere, CCCXXIX, 8

Iam senior sola haec longevae munera vitae (Ormai vecchio questi soli doni di una lunga vita). Il nostro frate attribuisce a Virgilio un verso che, invece, è di  Maffeo Veggio (XV secolo), autore di un supplemento all’Eneide Virgiliana (il verso è il 369 del libro XIII).

Carte 74 e 75.

Deh ristate a veder qual è il mio male, Petrarca, Canzoniere, CLXI, 14.

Quinquaginta illi thalami, spes tanta nepotum (Quei cinquanta letti nuziali, speranza tanto grande di nipoti), Virgilio, Eneide, II, 503.

Carte 76 e 77.

Perch’a sì alto grado il Ciel sortillo/che sua chiara virtù il ricondusse/onde altrui cieca rabbia dipartillo, Petrarca, Trionfi. Trionfo della fama, I, 61-63. Da notare ei per a e lo per il.

Dardaniae. Fuimus Troes, fuit Ilium et ingens (Di Dardania. Fummo Troiani, fu Ilio e la grande), Virgilio, Eneide, II, 325.

Carte 78 e 79.

Che ‘l desir vive, et la speranza è morta, Petrarca, Canzoniere, CCLXXVII, 4.

Urgebam, et tela curas solabar anilis (Mi affaticavo, e con la tela consolavo gli affanni di vecchia), Virgilio, Eneide, IX, 489.

Carte 80 e 81.

Sí che m’avanza omai da disfar poco?, Petrarca, Canzoniere, 220, XI.

Felix morte tua neque in hunc servata dolorem! (Felice per la tua morte né riserbata a questo dolore!, Virgilio, Eneide, XI, 159.

Carte 82 e 83.

S’i’ ‘l dissi, contra me s’arme ogni stella, Petrarca, Canzoniere, CCVI, 4.

Praesentemque viris intentant omnia mortem (E tutto annuncia agli uomini la morte incombente), Virgilio, Eneide, I, 51. Non saprei dire se morte per mortem sia un maldestro adattamento o un errore dovuto alla citazione a memoria.

Carte 84 e 85.

Non vide il mondo sí leggiadri rami, Petrarca, Canzoniere, CXLII, 7

Non aliter Rutuli, licet ingens moeror adhausit (Non altrimenti i Rutuli, sebbene una grande tristezza avesse colpito). Ancora una volta il frate attribuisce a Virgilio un verso che, invece, è di  Maffeo Veggio (XV secolo), Supplemento al libro XII dell’Eneide, verso 19 dell’Argomento. Da notare, inoltre, adauxit (perfetto di adaugere) per adhausit (perfetto di adhaurire). A proposito di questo motto in Emblematica, AMS Press, New York. 1986 si legge: Cuomo’s attribution to Virgil cannot be confirmed or located (L’attribuzione di Cuomo a Virgilio non può essere confermata o localizzata).

Carte 86 e 87.

A le lacrime triste allargai ‘l  freno, Petrarca, Canzoniere, CXIII, 23. Anche qui rilassai per allargai sarà dovuto ad errore di citazione a memoria.

Promeritam, nec me meminisse pigebit Elissae (Benemerenze, né mi rincrescerà ricordarmi di Elissa), Virgilio, Eneide, IV, 335.

Carte 88 e 89.

Mille piacer non vaglion un tormento, Petrarca, Canzoniere, CCXXXI, 4

Vi propria nituntur opisque haud indiga nostrae (Si mantengono per forza propria e non bisognose del nostro aiuto), Virgilio, Georgiche, II, 428. Qui l’eliminazione dell’enclitica que di opisque e la sostituzione di haud con non, senza che per questo la metrica risulti violata nel nuovo verso, mostra come al nostro frate l’orecchio non manca quando cita a memoria.

Carte 90 e 91.

Né contra Morte spero altro che Morte, Petrarca, Canzoniere, CCCXXXII, 42. Evidente citazione a memoria, ma la metrica è salva.

Nec tu carminibus nostris indictus abibis (Né te ne andrai senza essere stato nominato nei nostri canti), Virgilio, Eneide, VII,733

(CONTINUA)

prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/17/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-18/

seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/18/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-28/

terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/20/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-38/

quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/23/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-48/

quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/28/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-58/

sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/02/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-68/

ottava parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/08/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-88/ 

 

 

 

Dall’Accademia degli Affumati di Bologna al Collegio Argento di Lecce. Bernardino Realino

chiave civica di Lecce 

di Piero Barrecchia

Lecce gentile, imponente, cinta dalle sue mura urbiche che si possono, ora, notare a scorci. Lecce, capitale di Terra d’Otranto, briosa, come il suo barocco. Lecce archeologica, restaurata, nobile e popolare, conservatrice. Lecce, antica, innovata e innovatrice. Lecce, Città aperta, invitante ed ospitale, che accoglie nel suo ventre gli innumerevoli visitatori dai suoi varchi più famosi: porta Rudiae, porta S.Biagio e porta S.Giusto (più nota, ora, come porta Napoli).

Da quest’ultima fece il suo ingresso un uomo, al volgere del 1500, la cui fama aveva preceduto la sua venuta ed al quale i leccesi sarebbero rimasti legati, consegnandogli la chiave di quegli accessi e dell’intera Città.

Giace, quella chiave in una tomba, ai piedi del patrono dimenticato.

No, non parlo del trio agostano: Oronzo, Giusto e Fortunato, né della precedente gestione, affidata ad Irene! Per tutti questi elencati vi è la consegna della Città a seguito di interventi attribuiti “post mortem”. Parlo della consegna delle sorti cittadine ad un uomo, in quel tempo vivente, capace di intendere e di volere, non ancora canonizzato. Insomma, una consegna a corpo presente! Parlo di un dialogo tra vivi, anche se uno lo sarà ancora per pochi giorni, al quale gli viene riconosciuto lo sconvolgimento positivo della Città, da quando è arrivato in zona, da quando ha abbattuto ogni tipo di barriera, da quando è presente tra quella gente. A lui, per la Città, il signor sindaco chiede la tutela, gratuita da vivo e promessa da morto!

Un patrono, ora, dimenticato, che, però, è l’unico a detenere la chiave lupiense.

Si chiama Bernardino Realino, padre gesuita. Lui, non ha i natali in queste contrade, viene dal territorio modenese, da Carpi, ma, è  a Lecce che il suo sapiente spirito crea. La sua formazione culturale ed umana lo vide, prima, membro dell’Accademia degli Affumati in Bologna e successivamente, socio della Compagnia di Gesù, che lo destinò al nostro territorio, dove non conobbe limiti nel dialogare, comprendere, studiare e costruire.

lapide commemorativa

Un gran personaggio che andrebbe riscoperto nella fede e soprattutto, nella cultura, che da sempre connota il suo ordine e per quella missionarietà,  peculiare dei gesuiti, che conquistano terre con il sapere (non sempre, ma questo è il caso!), compreso questo lembo salentino.

A Lecce, Bernardino, sovrintende alla costruzione della magnifica Chiesa del Gesù (e del Buon Consiglio) e dell’attiguo istituto, a tutti, successivamente, noto come collegio “Argento”. Non mi dilungherò narrando di biografia ed agiografia, né mi soffermerò sulla fenomenologia del soprannaturale che accompagnarono le vicende del Nostro. Basti pensare al sol fatto che Bernardino operò una scelta fondamentale per la sua vita. Tra i fasti della sua brillante carriera amministrativo-giudiziaria, predilesse la strada che lo condusse alla sequela di Ignazio di Loyola, nella Compagnia di Gesù, che non contemplava, nello statuto, la ricerca di alcuna autorità. Venne, dunque,  a Lecce, che mai più lascerà fino alla morte. Anche se più volte, gli alti vertici stabilirono il suo trasferimento, per la sua chiara fama, un Vertice, ancor più alto, impedì ogni suo spostamento dall’ospitale Città, lacerandolo con febbri improvvise, misteriosamente annullate con la revoca dei provvedimenti.

Tuttavia, consiglio  una sbirciata ad una delle sue tante biografie che non lascerà indifferente il lettore, donandogli, oltre alla narrazione della vita del Nostro, uno spaccato storico di Lecce agli albori del barocco, alla sua conformazione geografica e politica. Ed in quel contesto, la figura carismatica del nostro Bernardino, di levatura spirituale e culturale fuori dal comune. Passa il tempo e gli stili.

operaio è fuori dalle mura di città, intento a terminare il suo operato quotidiano, magari, chinato sulla rubra terra che dissoda, in quel meriggio afoso. unica sua compagnia. Nelle urbiche mura, in uno stabile alle spalle del Gesù, in una galatea stanza, un crocefisso, in cartapesta, riceve gli ultimi sguardi di un moribondo che gli fa da ombra distesa, sul penultimo giaciglio, come fuori fa il sole, calante sulle spighe.

Bernardino riceve le ultime, illustri visite. Sigismondo Rapana, sindaco della Città, accompagnato da alcuni notabili, si reca presso quel corpo, non ancora esanime, per aver il tempo di porgere l’ultimo saluto ad un uomo che tanto ha fatto per Lecce, per tutta quella popolazione. E’ un uomo fortunato, Bernardino! Oltre alle quotidiane e comuni fatiche e dolori, in fondo, a lui non è andata poi così male. Anzi, la sua posizione di riconosciuta integrità, non ha dovuto combattere tanto, contro i poveri diavoli locali e sorprendentemente, mentre altrove si bruciano libri e si stagliano duelli, Bernardino, nella sua umiltà, ha trasformato gli animi. Tutti gli vogliono bene. Può andar via soddisfatto!

cappella con la richiesta del patronato

Si allungano le ombre delle dimore ed un mascherone barocco, apotropaico, cangia il suo aspetto, mentre la luce sfiora il suo profilo e proietta la sua grigia ombra sul pavimento della stanza, preludio alla notte. Ma ancora, in questo tenue bagliore, si intrattengono gli ospiti di Bernardino, forse silenziosi. Mentre il signor Sindaco, implora dal morente la futura protezione sulla Città, così come ha dimostrato da vivo. Un rantolo, un conato assale Bernardino, che, vorrebbe dar risposta certa ma, stenta a parlare quel predicatore di una vita! Allora, con tutta la forza che un agonizzante può avere e con un luccichio negli occhi anziani, che hanno visto anche questa, Bernardino dà la sua rassicurazione! La mano, tremula sul petto, appena sollevata, batte più volte sul cuore! Un sorriso accennato ed appagante; poi, un breve cenno del capo, che a fatica si discosta da quel cuscino ed a stento, si percepiscono alcune parole : “…Signori, ….sì!”.

In quel modo, Bernardino diviene, ufficialmente, figlio onorario e padre dell’amata città di Lecce. Vibra, l’ultimo dardo, il disco infuocato e cala la sera. Torna a casa il forese ed anche il sindaco ed i notabili. Tutti un po’ più soli, attendendo l’estremo e sicuro verdetto, contando le ore che li separano da quella promessa strappata in tempo. Tutti un po’ più soli, tranne Bernardino che, solo in quella stanza, nell’estrema ora, ha tutti i leccesi al suo fianco. Lecce, 1616, vespro del due luglio. Un altro sole tramonta su Lecce. Ormai giace, quel corpo esanime nella sua chiesa del Gesù, tra la sua gente, nel giorno della Visitazione e dell’annuale ricorrenza della traslazione delle reliquie di Irene, patrona, alla quale Bernardino, da non ancora santo, farà compagnia, fino al rinnovato culto oronziano.

Il 22 giugno del 1947, in occasione della canonizzazione, così Pio XII, ufficializzò il forte legame che unì Bernardino Realino e Lecce : “Onore e incoraggiamento si spande anche sopra di voi, cari pellegrini di Carpi, di Modena, di Napoli, e soprattutto figli di quella « nobilissima, devotissima e cortesissima città di Lecce », come il Realino si compiacque di chiamarla. (…) siate ben sicuri che, se egli accolse da vivo la domanda di essere vostro patrono, nella gloria celeste non mancherà di dimostrarsi quello che promise e volle essere, grande intercessore” (ACTA PII PR XII IN SOLLEMNI CANONIZATIONE BEATORUM  IOANNIS DE BRITTO MARTYRIS, BERNARDINI REALINO ET  IOSEPHI CAFASSO  CONFESSORUM  DIE XXII MENSIS IUNII A. MDCCCCXXXXVII IN VATICANA BASILICA PERACTA).

Non si poteva scegliere di meglio. Bernardino Realino, tra un patrono e l’altro, lui sta nel mezzo ed è l’unico a detenere la civica chiave, che, come è sicuro il ritorno dell’alba, ancora è lì, in un’urna, ai piedi di una cornice barocca, immortalante la scena familiare della consegna di Lecce al suo patrocinio, nella sua Chiesa del Gesù, dove i leccesi farebbero bene a tornare, anche per rispolverare un po’ della loro storia, a conoscere quell’instancabile benefattore di Lecce ed a vedere che fine abbia fatto la chiave della loro Città!

Preciso, che, per concordanza delle fonti, non vi è dubbio che la richiesta del patronato sia coeva ai fatti narrati. Non la stessa sicurezza, si può ostentare per quel che concerne la vicenda della chiave. Infatti, i testi consultati, così doviziosi di particolari nelle scene e nella descrizione delle suppellettili, ci privano della visione della chiave.

L’unica testimonianza che ci riporta alla consegna dell’urbica chiave è una memoria marmorea che risale, al 1937.

Peraltro le fonti parlano di un monumento funebre a Bernardino, ma non accennano alla visibilità dei suoi resti mortali, come si possono scorgere adesso. Non si fa menzione inoltre, del simulacro ligneo, ai cui piedi è adagiata, su un cuscino recante lo stemma civico lupiense, la chiave urbica. Tale urna, contenente il simulacro, è anteprima a quella retrostante, contenente i sacri resti, così ricomposti nell’ultima ricognizione del 22.10.1894. In ogni caso, nessun torto a nessuno, se la Città gode di più protettori ed il suo stemma civico è assegnato a tutti!

E mentre Oronzo scruta dall’alto la Lupa ed il Leccio, Irene, a breve distanza , li reca scolpiti sul frontespizio teatino e a chiare lettere ne reclama il patronato, Bernardino, privilegiato nell’essere stato eletto patrono da vivo,  custodisce il civico simbolo forgiato sulla chiave urbica. In questa celeste competizione, appaiono considerazioni molto più umane. Infatti, si può, senza dubbio, affermare che Lecce sia la città sperimentale della “par condicio”, che i leccesi, sapientemente, colgono tutte le occasioni possibili, strappando anche i patronati, che io non abbia mai visto, in qualsiasi parco nazionale, tante lupe e lecci più di quanti ve ne siano in Città e che, infine, Lecce sia un regno dei cieli visto dalla terra!

 

Per ulteriori approfondimenti, segnalo, tra gli altri, i seguenti siti:

https://archive.org/details/storiadellavita00ventgoog

http://www.treccani.it/enciclopedia/santo-bernardino-realino_(Dizionario-Biografico)/.

http://books.google.it/books?id=k65cAAAAcAAJ&pg=PA3&lpg=PA3&dq=sacra+congregatio+rituum+bernardino+realino

http://www.forgottenbooks.org/readbook_text/Storia_Della_Vita_del_Beato_Bernardino_Realino_1300023583/413

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/06/una-sponsorizzazione-femminile-dellanfiteatro-di-rudiae-nella-travagliata-storia-di-una-fantomatica-epigrafe-cil-ix-21-prima-parte

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/31/lecce-e-gli-strumenti-della-passione-di-cristo-araldica-religiosa-e-reliquie

Da punta Palascia a Pisa, ovvero l’ultimo viaggio di un capodoglio.

di Armando Polito

 

Nel Museo di storia naturale e del territorio dell’Università di Pisa, sito nella Certosa di Calci, è custodito nella galleria dei cetacei lo scheletro di un capodoglio … salentino.

Ecco come si presenta nella foto d’epoca pubblicata il 14 giugno u. s.  in https://www.facebook.com/pages/Salento-Come-Eravamo/546048392120110, un sito che si avvia ad essere, a mio avviso, una preziosa banca dati di natura iconografica  del nostro territorio,  grazie al contributo spontaneo di chi, e fa bene, lo segue soprattutto collaborando con l’invio di materiale di gran lunga più importante (e non solo perché testimonianza del passato) di qualsiasi selfie, tanto per citare solo l’ultimo simbolo della dannata voglia di apparire (non essere …) a tutti i costi. In tal senso l’inflazione iconografica consentita dalla tecnologia abbasserà, paradossalmente, la percentuale di immagini che entreranno nella storia: se fino a pochi decenni fa se ne salvava una su mille, ora lo farà solo una su miliardi di miliardi.

La didascalia recita: Il Salentino Liborio Salomi nella foto, ricompose lo scheletro di un capodoglio di 20 metri arenatosi nei pressi di Otranto nel 1902 il mese di Gennaio. Poi acquistato dal museo zoologico di Pisa.

Cerchiamo (non è un nos maiestatis …) di saperne di più, non solo sul capodoglio …

Liborio Salomi (Capignano salentino, 1882- Lecce, 1952), nell’immagine che segue tratta da http://scienzasalento.unile.it/biografie/liborio_salomi.htm , laureatosi a Napoli in Scienze naturali, lavorò presso la Cattedra ambulante per le malattie dell’olivo di Lecce e, quando fu soppressa (alla luce del recente caso della xylella fastidiosa non sarebbe il caso di ripristinarla? …), succedette a Cosimo De Giorgi nell’insegnamento di storia naturale presso l’istituto tecnico O. G. Costa di Lecce, istituto nel quale continuò l’opera di realizzazione di un museo interno avviata dal suo predecessore, del quale provvide a pubblicare la Descrizione geologica e idrografica della Provincia di Lecce per i tipi di Spacciante a Lecce nel 1922.

E a proposito di questo museo non “ufficiale”  non posso perdere l’occasione di ricordare la lodevolissima recente iniziativa di alunni e docenti dell’istituto, il cui resoconto è in http://www.sagreinpuglia.it/puglia-news/news-lecce-e-provincia/39-lecce-news/4485-apertura-a-lume-di-candela-del-museo-di-cosimo-de-giorgi-e-liborio-salomi-lecce-le-25-01-2014.html.

Quando il capodoglio si arenò (così recita la didascalia ma, come vedremo, pare che le cose siano andate diversamente), dunque, il Salomi aveva circa vent’anni.

Per il resto lascio la parola alle immagini che ho tratto dal Catalogo dei cetacei attuali del Museo di storia naturale e del territorio dell’Università di Pisa, alla certosa di Calci, note osteometriche e ricerca storica, a cura di S. Braschi, L. Cagnolaro e P. Nicolosi, in Atti Società toscana di scienze naturali, Memorie,  Serie B, 144 (2007) pp. 1-22 (integralmente leggibile e scaricabile da http://www.stsn.it/images/pdf/serB114/01_braschi.pdf).

Il lettore avrà già notato, a parte il 1802 invece di 1902 nella didascalia, che si tratta dell’immagine speculare della foto precedente; è difficile dire quale sia l’originale, ma non cambia assolutamente nulla.

Nella didascalia si legge il nome scientifico del capodoglio: Physeter macrocephalus L.  (1758). Physeter è trascrizione latina del greco φυσητήρ (leggi fiusetèr)=sifone, sfiatatoio; la voce è da φυσάω=soffiare. Macrocephalus è voce del latino scientifico, dal greco μακρός/μακρά/μακρόν (leggi macròs/macrà/macròn)=grande + κεφαλή (leggi chefalè)=testa. Si direbbe che il profilo delle monoposto di formula 1 abbia tratto da qui ispirazione …

 

Ecco ora la scheda di catalogazione.

La scheda rinvia alla nota storica che di seguito riproduco.

Il Richiardi nominato nella scheda è Sebastiano Richiardi (1834-1904), professore di Anatomia comparata prima a Bologna e poi a Pisa, della cui Università fu rettore dal 1891 al 1893.  Nell’immagine che segue (tratta ed adattata da GoogleMaps) è visibile  tutto il tragitto dal punto di recupero a quello di partenza per Pisa. Debbo dire, infine, che trovo estremamente interessante la nota finale con il costo totale dell’operazione, spese di spedizione comprese, convertito, addirittura, in euro1.

 

Qualche lettore potrebbe dirmi: – Tutto ok, però come mai nel titolo il protagonista è l’animale e non l’uomo, anzi lo scienziato? -.

Risponderei:  – In tempi in cui, se non sei Belen o Balotelli, puoi anche scoprire la cura definitiva di una malattia gravissima e aspirare, tutt’al più, solo all’attenzione di chi ne è affetto e, se ci tengono a lui, dei familiari, il titolo può sembrare sparato, altra piaga del cosiddetto giornalismo di oggi, per avere qualche lettore in più. È vero, un capodoglio, bando alle ipocrisie!, suscita più interesse di Liborio Salomi, cioè della persona senza la quale il mare sarebbe stato per lui, come per tutte le creature che vi vivono, dopo la culla pure la bara. Tuttavia,  la mia scelta non è una forma di scarso rispetto  nei confronti dell’uomo e dello scienziato,  né l’ho fatto per sedurre te o altri ma perché sono certo che Liborio Salomi avrebbe condiviso la mia decisione. Se non ti ho convinto, non me ne faccio una pena, perché ora, come me, forse sai qualcosa in più su di lui avendo letto, era quello che in fondo volevo ma non in base ad un’applicazione privatistica, quella oggi tanto di moda, del machiavellico il fine giustifica i mezzi, queste quattro sgangherate righe. –

__________

1 Notizie leggermente discordanti sulla data e le modalità del ritrovamento e sul prezzo d’acquisto sono in Bollettino del Museo zoologico della regia Università di Genova,  1906, p. 145 (in basso, immagine tratta da http://www.forgottenbooks.org/readbook_text/Bollettino_del_Museo_Zoologico_Della_R_Universita_DI_Genova_1300007799/145).

 

 

Carpignano Salentino. Il Santuario della Madonna della Grotta

Carpignano Salentino (Le), Santuario della Madonna della Grotta (XVI sec.), veduta d’insieme del fianco sud-ovest rivolto verso il paese – (ph Sandro Montinaro)

Carpignano Salentino, 2 luglio 1568. Il Santuario della Madonna della Grotta, un prezioso scrigno di fede e di arte del Salento

 

di Sandro Montinaro

Se i primi di luglio vi capita di passare per Carpignano Salentino non perdete l’occasione per rendere omaggio alla Madonna della Grotta e visitare l’omonimo santuario, eretto nel XVI secolo, appena fuori paese, in contrada Cacorzo, sulla strada che porta a Borgagne.

La tradizione orale, trasmessa fino ai nostri giorni, vuole che il 2 luglio del 1568 al vecchio Frangisco Vincenti, detto Lo Pace – effettivamente vissuto – rifugiatosi per un temporale in una delle grotte presso Cacorzo, apparve in sogno una bella signora con un bambino in braccio che gli disse:

 Io sono la Madre di Dio e questo è il mio figlio diletto.

Qui in questa grotta, io voglio tempio ed altare, ove sia invocato il nome mio: prometto protezione.

Il giorno seguente fra le macerie della grotta, nei pressi fu ritrovata una raffigurazione bizantina della Vergine.

Il contesto in cui si inserisce il nostro santuario, pur se tipicamente salentino, è impreziosito dalla quattrocentesca torre colombaia e dalla presenza di numerose grotte, alcune delle quali trasformate nel corso del tempo nelle utilissime ma desuete neviere.

Sulla cripta, già dedicata a San Giovanni Battista, fu realizzato il nostro santuario per volontà di Annibale Di Capua († 2-IX-1595), allora abate, che una promettente carriera ecclesiastica avrebbe poi portato alla nomina di arcivescovo di Napoli (1579), quindi nunzio a Praga (1576), a Venezia (1577-1578) e in Polonia (1586).

Annibale era figlio di Vincenzo Di Capua, terzo duca di Termoli, e di Maria De Capua, sua nipote, figlia di Ferrante Di Capua e Antonicca Del Balzo (da questi ultimi due era nata anche Isabella, che dopo un matrimonio non consumato con Trainano Caracciolo sposò Ferrante Gonzaga figlio di Francesco II).

Annibale fu dunque amministratore e primo abate, come attesta la bolla di nomina del 1570 tuttora custodita nell’archivio diocesano di Otranto, rilasciata dallo zio Pietro Antonio Di Capua, arcivescovo di Otranto (1536-1578).

Il prelato fece realizzare la costruzione che ancora si vede e la ultimò nel 1575, come si legge sul fregio terminale della facciata principale, in stile rinascimentale, rivolta a nord-ovest. Ma i lavori non furono completati, perché un’altra data, questa volta sul bordo inferiore dell’architrave del portale, riporta 1585, quando finalmente il sacro edificio era stato concluso. Nel frattempo l’abate era diventato arcivescovo napoletano e il presule lo rammentò con l’iscrizione tuttora leggibile incisa sul portale verso sud-ovest:

[H]ANIBAL DE CAP(U)A ARCHIEP(ISCOPUS) NEAPOL(ITANUS) / SUB PON(TIFICE) GREG(ORIO) XIII1579”.

Santuario della Madonna della Grotta (XVI sec.), Facciata sud-ovest con il portale barocco del 1579 – (ph Sandro Montinaro)

 

Sull’architrave del portale appose lo stemma personale con le insegne della potente famiglia Di Capua Del Balzo da cui discendeva, ornandolo con una nappa per lato e con il cappello prelatizio, come si addice allo stemma di uno del suo livello. La presenza, dunque, di entrambi gli stemmi è da ascrivere al fatto che il nonno materno, in seguito a questioni ereditarie, aveva ottenuto da Carlo V l’autorizzazione per sè e la discendenza a chiamarsi Di Capua Del Balzo.

Non è chiaro se le maestranze furono le stesse della fabbrica originaria, ma il risultato fu comunque soddisfacente e in stile con i gusti dell’epoca.

Santuario della Madonna della Grotta (XVI sec.), Facciata nord-ovest (1575) con il portale del 1585 – (ph Sandro Montinaro)

 

La chiesa a croce latina, dalle linee severe ma eleganti, presenta tre entrate. Insolita la soluzione accanto all’austera facciata principale, con l’accesso al cortile interno sul quale si affacciano il lato della chiesa rivolto a nord-est, il portale d’accesso dalla strada per Borgagne con lo stemma Di Capua e il prospetto dell’abbazia, con un elegante loggiato del secondo ordine che risulterebbe assai vicino a quello dell’architetto leccese Gabriele Riccardi.

La facciata verso sud-ovest, ovvero quella di fronte alla colombaia e rivolta verso il paese, si presenta con particolari architettonici che spiccano dalla lineare e calda facciata: un rosone finemente decorato e un elegante portale barocco con due coppie di colonne sostenenti un architrave.

Nella lunetta superiore è dipinto un affresco ormai sbiadito raffigurante la Vergine con il Bambino.

L’interno non delude. Entrando dalla porta principale le statue in cartapesta di San Francesco d’Assisi e di San Luigi, conservate all’interno di due nicchie, ci accompagnano alla scoperta di questo solitario e prezioso scrigno d’arte che contiene opere di un certo rilievo.

Ai lati della navata, dove prima c’erano gli altari, possiamo ammirare le tele raffiguranti episodi della vita della Madonna, realizzate dal pittore Giuseppe De Donno di Maglie in occasione dei lavori di restauro eseguiti nel 1938; a sinistra: l’Annunciazione, la Visitazione, la Nascita della Vergine e la Presentazione di Gesù al tempio; a destra: l’Incoronazione della Vergine, l’Assunzione della Vergine, la Discesa dello Spirito Santo e Gesù tra i Dottori della Chiesa.

Santuario Madonna della Grotta (XVI sec.), cortile interno, stemma dei Di Capua – (ph Sandro Montinaro)

Degni di nota sono i cinque stemmi riprodotti nelle formelle poste sulle chiavi di volta del santuario.

Dalla porta maggiore il primo a comparire è lo stemma cittadino raffigurante un pino sradicato sormontato da una corona marchesale e affiancato dalle lettere C. P. (probabile abbreviazione di Carpiniani Populus). Non è più leggibile, perché abraso, il secondo stemma, verso il transetto; al centro, tra la volta del transetto e quella della navata principale, appare in bella mostra lo stemma dell’arcivescovo.  Infine, sul lato destro del transetto, vi è l’emblema della casa d’Aragona maldestramente ridipinto, mentre sul lato sinistro quello di Geronimo Bardaxy, governatore della Terra di Carpignano tra il 1560 e il 1570.

Nel transetto si trovano gli elementi più antichi della chiesa, la maggior parte dei quali fatti realizzare nel XVI secolo, come attestano gli stemmi del barone Giovanni Camillo Personè e della sua terza moglie Donata Antonia Paladini, genitori del celebre Diego che tanto risaltò nelle arti cavalleresche, nella poesia, filosofia e musica.

Santuario della Madonna della Grotta (XVI sec.), braccio destro del transetto, affresco di Santa Caterina (XVII sec.) – (ph Sandro Montinaro)

 

Nel braccio destro del transetto due piccole absidi sono affrescate con le figure di Santa Caterina di Alessandria e delle Sante Apollonia e Irene, mentre quelle diametralmente opposte, raffigurano Santa Giustina, Sant’Orsola e compagne. A sinistra si vede l’altare dell’Incoronazione di Maria Vergine sulle cui pareti laterali restano solo due affreschi di santi eremiti, dei quali uno individuabile come Sant’Onofrio. Più completa è la decorazione pittorica dell’altare opposto, con l’apparizione della Madonna Incoronata con il Bambino a San Giacinto di Polonia, verso i lati Sant’Antonio di Padova e San Diego d’Alcalà.

Rilevante, per fattura e dimensioni, è la tela posta sul fondo del coro, dipinta nel 1601 da Ippolito Borghese, esponente di spicco del manierismo napoletano. La tela raffigurala Madonna tra i Santi Francesco d’Assisi e Francesco di Paola e nella parte inferiore contiene un inserto con il Battesimo di Gesù nel Giordano, forse collegabile con l’originario culto di Giovanni Battista.

Ancora nel transetto due ingressi conducono alla cripta, ubicata sotto il presbiterio, e nei pressi di quello di sinistra una teca lignea (1937) contiene la statua in cartapesta della Madonna della Grotta (1917), che nella prima metà del Novecento i duchi Ghezzi qui trasferirono dal palazzo ducale.

Santuario della Madonna della Grotta (XVI sec.), tela con i santi Pietro e Paolo (XVII sec.) – (ph Sandro Montinaro)

 

Merita attenzione anche la tela secentesca dei Santi Pietro e Paolo, facilmente riconoscibili per gli elementi iconografici abituali che li accompagnano, oltre che per le quattro scene della vita e del martirio dei santi ritratte nella parte inferiore.

Nella cripta un grande architrave è sostenuto da quattro coppie di colonne doriche e al centro di esso, tra nubi e putti, si staglia ad altorilievo il Padre Eterno, a mezzo busto, con barba fluente, in atto di sostenere il globo terracqueo. Un piccolo altare, riccamente decorato, è anteposto alla miracolosa immagine della Madonna, affrescata su una stele di pietra e protetta da un grata, venerata dal popolo di Carpignano, ormai da 443 anni.

Santuario della Madonna della Grotta (XVI sec.), Cripta, Madonna con il Bambino – (ph Sandro Montinaro)

 

Suggestivo è l’incontro in piazza Duca d’Aosta delle statue di Sant’Antonio da Padova e della Madonna della Grotta, durante il quale avviene, in segno di devozione da parte di tutta la cittadinanza, la simbolica consegna delle “chiavi” del paese da parte del Sindaco. Il giorno dopo le cerimonie religiose del 2 luglio, ecco che Carpignano tiene i festeggiamenti civili con pittoresche luminarie e concerti bandistici.

 

Santuario della Madonna della Grotta (XVI sec.), statua in cartapesta della Madonna della Grotta, autore ignoto, (1917) – (Santino devozionale)

 

 

Bibliografia

E. BANDIERA – V. PELUSO, Guida di Carpignano e Serrano. Testimonianze del passato nella Grecia salentina, Galatina (Le), Mario Congedo Editore, collana “Guide verdi”, 2008.

C. CALÒ – S. MONTINARO, L’uomo: tomoli di terra, pietre di memoria. Paesaggio agrario e società a Carpignano Salentino e a Martano nel ‘700, presentazione di Anna Trono [Biblioteca di Cultura Pugliese, serie seconda, 163], Martina Franca (Ta), Mario Congedo Editore 2006.

L. COSI [a cura di], Diego Personè, La musica, la poesia, la spada, Lecce, Conte Editore, 1997.

E. BANDIERA, Carpignano Salentino. Centro, frazione, casali, Cavallino (Le), Capone Editore, 1980.

A. LAPORTA, Carpignano Salentino, in Paesi e figure del vecchio Salento, vol. II, Galatina (Le), Banca Popolare di Parabita, Mario Congedo Editore, 1980.

Un manoscritto per l’estate, ovvero un omaggio del 1615 destinato ad un leccese e finito in America (5/8)

di Armando Polito

Carte 36 e 37.

Disposto a sollevarmi alto da terra, Petrarca, Canzoniere, CCCLX, 29.

Abstulit atra dies et funere mersit acerbo (Il nero giorno sottrasse e sommerse in morte acerba), Virgilio, Eneide, VI, 429. Qui il nostro frate ha utilizzato il primo emistichio del verso virgiliano; il secondo (con eliminazione di et) sarà  il titolo di una famosa (almeno in passato …)  poesia del Carducci facente parte della raccolta Rime nuove (1887).

Carte 38 e 39.

Chè a mia difesa ardir non ho né possa, Petrarca, Trionfi. Trionfo d’Amore, III, 127.

Inter spemque metumque dubii, seu vivere credant (tra la speranza e la paura dubbiosi se credere di vivere), Virgilio, Eneide, I, 218. Da notare, nella lettura del motto dal basso verso l’alto,  l’inversione di posto, rispetto all’originale, tra spemque e metumque, dovuta molto probabilmente alla citazione a memoria.

Carte 40 e 41.

Ma ragion contro forza non ha loco, Petrarca, Trionfi. Trionfo d’Amore, IV, 111.

Cui tantum de te licuit? Mihi fama suprema (A chi fu lecito fare tanto di te? A me la fama nell’ultima), Virgilio, Eneide, VI, 502. Il nostro frate ha utilizzato il verso virgiliano fino a te (primo emistichio), cui ha aggiunto soevire (per saevire) datur. Traduzione dell’intero verso così rifatto: A chi viene concesso di infierire tanto su di te. La creatura mi appare malformata sul piano metrico (per avere un esametro completo manca parte del  quinto piede e il sesto) e su quello grammaticale (con saevire negli autori classici chi subisce il danno è espresso col dativo o con in+accusativo, non con de+ablativo).

Carte 42 e 43.

Al variar di suoi duri costumi, Petrarca, Canzoniere, CCLVIII, 8.

Iamque dies, nisi fallor, adest, quem semper acerbum,/semper honoratum, sic di voluistis, habebo, Virgilio, Eneide, V, 49-50 (E già, se non m’inganno, si avvicina il giorno che  avrò sempre amaro, sempre onorato, così, o dei, avete voluto). Al nostro frate probabilmente dispiaceva omettere l’acerbum che chiude il v. 49 e perciò ha scritto Honoratum semp(er) acerbum sic dii voluistis habebo. L’inversione di posto tra semper ed honoratum e l’aggiunta di acerbum hanno sconvolto la struttura metrica dell’esametro virgiliano alterando anche i rapporti grammaticali (l’avverbio semper in Virgilio è a corredo di acerbum con replica per honoratum, nel nostro accompagna solo acerbum obbligando a questa traduzione: Onorato, sempre amaro, così, o dei avete voluto, io l’avrò.

Carte 44 e 45.

Da ora inanzi ogni difesa è tarda, Petrarca, Canzoniere, 65, 9.

Et quorum pars magna fui (E dei quali fui gran parte), Virgilio, Eneide, II, 6.

Carte 46 e 47.

Di gioventude e di bellezze altera, Petrarca, Trionfi. Trionfo della Morte, I, 35.

Quam nec longa dies pietas nec mitigat ulla (Che non mitiga né una pietà che dura nei giorni né alcun’altra), Virgilio, Eneide, V, 783.

Carte 48 e 49.

Io mi rimango in signoria di lui, Petrarca, Canzoniere, V, 24.

Hinc mihi prima mali labes, hinc semper Ulixes (Da qui per me il primo colpo di sventura, da qui sempre Ulisse), Virgilio, Eneide, II, 97.

Carte 50 e 51.

Et dissi: – A cader va chi troppo sale, Petrarca, Canzoniere, CCCVII, 7.

Sit vetuisse meum; sacer est post tempora vitae (Sia mio merito averlo vietato; è sacro dopo la fine della vita). Non è di Virgilio ma fa parte di una serie di versi sull’Eneide che nei manoscritti sono attribuiti ad Augusto e che la critica considera opera di qualche autore di epoca tarda. Il riferimento concettuale è alla tradizione secondo la quale Virgilio prima di morire aveva consegnato il manoscritto dell’Eneide agli amici Plozio Tucca e Vario Rufo il manoscritto dell’Eneide perché, pur terminato, non era stato rivisto. I due consegnarono il manoscritto all’imperatore e sappiamo come andò a finire.

Carte 52 e 53

Et mie speranze acerbamente ha spente, Petrarca, Canzoniere, CCCXXIV, 6.

Tam dirum mandare nefas? Ergo ibit in ignes (Allora ordinare una tale nefandezza? Dunque andrà alle fiamme). Fa parte di quei versi attribuiti nei manoscritti ad Augusto [da qui nel cartiglio C(AESAR) A(UGUSTUS) APUD V(ERGILIUM)], di cui ho detto nella scheda precedente.

Carte 54 e 55.

Ch’avria vertù di far piangere un sasso, Petrarca, Canzoniere, CCLXXXVI, 14. Credo che sia stato questo verso petrarchesco ad ispirare al nostro frate, a sua imitazione, quello del cartiglio (Per la pietà farei pianger i sassi) .

Pro talibus ausis (per tale audacia): la locuzione ricorre più volte nell’Eneide di Virgilio:

II, 535:  – At tibi pro scelere – exclamat, – pro talibus ausis (- Ma a te per la scelleratezza- esclama – per tale audacia-).

IX, 251: Quae vobis, quae digna, viri, pro talibus ausis (Quale [compenso] a voi, quale degno [compenso], o uomini, per tale audacia).

XII, 351: llum Tydides alio pro talibus ausis (Quello [fece] il figlio di Tideo per un’altra [ricompensa] in cambio di tale audacia).

Quest’insegna appare la più ambigua proprio perché il motto può essere considerato come un tributo di pietà per l’albero o come un’esaltazione della potenza del vento, a seconda che si faccia riferimento alla citazione virgiliana in cui l’audacia è sinonimo di scelleratezza (la prima) o di eroismo (le altre due).

(CONTINUA)

prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/17/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-18/

seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/18/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-28/

terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/20/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-38/

quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/23/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-48/

sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/02/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-68/

settima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/05/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-78/

ottava parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/08/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-88/

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!