I castelli di Terra d’Otranto tra il 1584 e il 1610 in una relazione manoscritta del 1611: OTRANTO (3/6)

di Armando Polito

21 r

1 Velona nell’originale.

2 Sessenta per sesenta nell’originale.

3 Assi per asì nell’originale.

4 Cuydado per cuidado nell’originale.

5 Vedi la nota 2 della prima parte.

6 Vedi la 3 della prima parte.

7 Vedi la nota 4 della prima parte.

Ho evidenziato con la circonferenza in rosso il nostro castello nella tavola che segue, tratta dal Regno di Napoli in prospettiva del Pacichelli.

 

per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/11/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-taranto-16/

per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/18/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-gallipoli-26/

per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/05/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-lecce-46/

Per la quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/16/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-torre-di-san-cataldo-56/

Per la sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/25/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-brindisi-66/

 

La ‘mbruffalora (l’innaffiatoio)

di Armando Polito

Immagine tratta da http://www.subito.it/arredamento-casalinghi/annaffiatoio-antico-trento-89081980.htm
Immagine tratta da http://www.subito.it/arredamento-casalinghi/annaffiatoio-antico-trento-89081980.htm

Era uno degli attrezzi indispensabili del contadino di un tempo ma anche dell’ortolano dilettante, quando i prodotti della terra avevano un altro sapore, e non solo perché erano frutto di un impegno personale anche fisico, a differenza di oggi, in cui l’unico impegno che conta è quello finanziario …

Così, dopo che la zappa aveva provveduto a rivoltare il terreno, liberandolo dalle erbacce ed ossigenandolo, dopo che lu rrumatu1 curatu (lo stallatico adeguatamente stagionato)  gli aveva dato nuovo vigore, si preparavano le roddhe2 (i semenzai) e una volta al giorno si ‘ddacquava3 (bagnava) con la ‘mfruffalora che consentiva di continuare a fare quell’operazione con estrema delicatezza anche quando le tenere piantine, che di lì a poco sarebbero state trapiantate, avevano fatto capolino annunziando la loro felice nascita.

Poi vennero i moderni sistemi di coltivazione ed irrigazione e la ‘mbruffalora subì un inesorabile declino diventando un oggetto da museo della civiltà contadina e, nonostante sopravvivesse come una componente fissa della triade (secchiello, paletta ed innaffiatoio, peraltro rigorosamente in plastica dai colori sgargianti …) che ha accompagnato al mare fino a poco tempo fa (almeno credo …) i bambini, essa aveva perso l’anima, come succede quando un bagaglio di memorie inesorabilmente scivola via.

Immagine tratta da http://www.spaziomamma.com/gallery-photo.php?p=5&art=31626&lang=it
Immagine tratta da http://www.spaziomamma.com/gallery-photo.php?p=5&art=31626&lang=it

Di tutte le parole in corsivo ho dato prima l’etimologia. Ho lasciato a bella posta per ultima la sua, come se bastasse questo espediente per rallentare, non dico impedire, la progressiva riduzione delle vibrazioni sentimentali del tempo che fu della mia generazione.

La voce, stranamente, non è registrata nel vocabolario del Rohlfs ed è come se questa fortunata coincidenza mi consentisse meglio di manifestare un astratto atto d’amore, per quanto astratta possa mai essere una riflessione di natura etimologica.

‘Mbruffalora è per metatesi da ‘mbruffarola, deverbale da ‘mbruffare (bagnare spruzzando); la metatesi -rola->-lora-, come ho avuto occasione di dire più volte, è un fenomeno consueto nel dialetto salentino, tant’è che le due varianti convivono, ed essa è  propiziata dalla stessa natura, sono due liquide, delle consonanti coinvolte.

Nemmeno ‘mbruffare è registrato dal Rohlfs ma mi accingo a procedere a testa bassa con la stessa sicurezza con cui il presidente del consiglio dei ministri ha tracciato di recente su una lavagna non rottamata, nonostante la quasi quotidiana esaltazione del digitale, della banda larga e simili, la mappa mentale, peraltro molto scarna perché non c’era nemmeno un link …, della buona scuola; insomma, più che una mappa mentale, una mappa-mentina, in cui il secondo componente, a scanso di equivoci, non è diminutivo di menta … e, se non coinvolge il relatore, lo fa certamente con il redattore o, più probabilmente, con i redattori, cioè con quella caterva di burocrati, consulenti, esperti, addetti, in primis alla comunicazione, ai quali, in definitiva, chi vota affida oggi il proprio destino. Fossi stato io Renzi a quest’ora li avrei già licenziati tutti in tronco per l’occasione ignobilmente sprecata. Pensate di che rabbia sarebbe schiattato Salvini se avesse letto sul nero-funerale (per la scuola e per la cultura in genere) della lavagna non CULTURA UMANISTA ma CULTURA  UMANITARIA …4

Come se non bastasse l’ignoranza della lingua italiana, qualche giorno dopo eccolo (o, per quello che ho detto prima, eccoli?) risolvere a modo suo (o loro …) un problema che io mi vergognerei di porre anche ad un deficiente integrale: Se sono condannato a restituire, diciamo,  duemila euro in media ad un certo numero di creditori, quanto tocca, in media, ad ognuno? Ecco la soluzione: anzitutto dichiaro che nessun creditore (nella fattispecie pensionato) perderà un centesimo e subito dopo noi scriveremo una nuova norma rispetto al blocco dell’indicizzazione che restituirà in tasca a quattro milioni di italiani il 1 agosto 500 euro a testa e immediatamente a seguire: ovviamente non sarà un rimborso totale. Ma ci sono 2 miliardi che mi ero tenuto per le misure contro la povertà.

Al di là della contraddittorietà di nessun pensionato perderà un centesimo rispetto ad ovviamente non sarà un rimborso (e nemmeno un rimorso …) totale, per ragionare non con i supporti della cultura umanista ma con quella della cultura scientista …, da oggi: -2000+500=0.

In attesa della prossima renziata4, come se non bastassero le razziate …, torniamo a noi.

‘Mbruffare potrebbe (qualcuno mi chiederà, per questo condizionale, dov’è finita la sicurezza appena appena millantata; pensava veramente che io fossi come Renzi?) corrispondere all’italiano sbruffare (ometto ogni considerazione sul suo derivato sbruffone e sul parzialmente omofono buffone …), considerato da tutti di origine onomatopeica, con sostituzione di s- con ‘m-. Ora questa sostituzione sarebbe giustificabile se s- di sbruffare derivasse dalla preposizione latina ex, cosa inammissibile se la voce è veramente di origine onomatopeica, mentre è certo che ‘m- di ‘mbruffare deriva per aferesi dalla preposizione latina in. Allora? Non è improbabile che la s- di sbruffare sia stata intesa come residuo di una s- intensiva come se derivasse da ex e il fonema non fosse parte integrante dell’onomatopea; da qui la sua sostituzione con ‘m- (da in) per introdurre rispetto al presunto valore rafforzativo o di provenienza (idea dell’uscita dell’acqua dal recipiente) quello di destinazione (arrivo sulla pianta).

Meno probabile, anche se molto suggestiva, mi pare una derivazione dal latino imbrìfera (da imber=pioggia+la radice di ferre=portare) con aggiunta di un suffisso diminutivo –èola (lo stesso del citato arèola). La trafila sarebbe stata: *imbriferèola>*imbriffèreola>*imbriffàreola>*imbriffaròla (è vero che in latino la o di –ola è breve, ma lo era anche quella di arèola che poi in italiano ha dato aiòla e non aìola e, d’altra parte in italiano tutti i diminutivi terminanti in -olo/-ola, esiti dei latino -èolum/-èolam, sono piani)>’mbruffalòra (la metatesi -rola->-lora-, fenomeno molto frequente nel dialetto salentino, tant’è che le due varianti convivono, è propiziata dalla stessa natura, sono due liquide, delle consonanti coinvolte.

La nostra ‘mbruffalòra, così, alla lettera significherebbe piccola portatrice di pioggia. Bello, no? Sì, ma io, onestamente, mi sento un po’ come il chirurgo estetico che ha sottoposto una paziente a più di un ritocco. Sarà pure più bella, ma quasi sicuramente meno vera …

Comunque stiano le cose rimane il fatto che anche l’etimo meno suggestivo (da ‘mbruffare) è di gran lunga più espressivo e semanticamente coerente rispetto a quello dell’italiano innaffiatoio. Innaffiare, infatti, deriva da in+ad+flare e flare in latino significa semplicemente soffiare: non c’è l’idea dell’acqua presente in ‘ddacquare e del liquido orale o nasale presente in sbruffare.

_________

1 Per l’etimo vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/12/lu-rrumatu-e-altre-zozzerie-antiche-e-moderne/.

2 Roddha suppone un latino *arulla(m), dal classico arèola, diminutivo di area.

3 ‘Ddacquare è dal latino adaquare=abbeverare, composto da ad (verso)+aqua (=acqua).

4 Sulla CULTURA UMANISTA della lavagna renziana la rete ha registrato un numero impressionante di interventi, per cui si è passati dalla stigmatizzazione dell’errore (perché di errore si tratta) alle giustificazioni più assurde, anche da parte di, secondo me sedicenti (almeno voglio sperare …), docenti di liceo classico, mentre lascio volutamente da parte quelli in cui l’acribia, già di per sé ridotta ad una larva, si è lasciata abbagliare dall’amore o dall’odio politico. Se mi sarà richiesto, in tempo quasi reale spiegherò con un post dedicato perché CULTURA UMANISTA, in quel contesto (e ancor più in riferimento a LA BUONA SCUOLA …), non è errore grave, è errore gravissimo. Così, senza che nessun addetto alla comunicazione me l’abbia suggerito (mi comunico da solo …), spero di raddoppiare il numero dei lettori senza essere ricorso all’espediente furbesco di intitolare questo post: La ‘mbruffalora e la buona scuola renziana.

Bisogna riconoscere, però. che anche il ministro Franceschini ha dato il suo freschissimo contributo all’evoluzione della lingua italiana con l’attribuzione del titolo di capitale italiana della cultura ad ognuna delle candidate trombate nella corsa al titolo europeo, tra le quali, com’è noto, Lecce ha brillato di oscurità propria. Il ministro è pregato, perciò, di intervenire sulla Treccani on line (http://www.treccani.it/vocabolario/capitale2/) per emendare l’attuale trattazione del lemma che è

capitale2 s. f. [uso sostantivato dell’agg.]. – Città sede del capo dello stato e degli organi supremi di governo: Roma è la c.d’Italia; assol., la C., Roma: lasciare la C., partire per la C., e sim. In usi estens.: la c. economica di un Paese, la città di maggiore sviluppo economico, la c. della cultura, la c. dello sport, ecc.; c. morale, la città che, pur non essendo la capitale ufficiale di un Paese, ne è il centro più attivo sotto varî punti di vista.    

con le dovute integrazioni (le ho sottolineate), per cui sarà:

capitale2 s. f. [uso sostantivato dell’agg.]. – Città sede del capo dello stato e degli organi supremi di governo: Roma è la c.d’Italia; assol., la C., Roma: lasciare la C., partire per la C., e sim. In usi estens.: la c. economica di un Paese, la città di maggiore, ma anche quelle di immediatamente minore, sviluppo economico, la c. della cultura, la c. dello sport, ecc.; c. morale, la città che, pur non essendo la capitale ufficiale di un Paese, ne è il centro più attivo, ma anche immediatamente meno, sotto varî punti di vista.

E, giacché c’è, raccomandi pure ai redattori della stessa (oppure faccia pressione sulla sua collega ministra responsabile, perché sia lei a farlo) di non far scomparire i monaci brasiliani che ancora, nonostante tutto (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/26/lettera-aperta-a-massimo-bray-titolare-del-mibac1/), fanno bella mostra di sé …      

Visto, poi, che fregiarsi del titolo di capitale italiana della cultura costituisce per gli amministratori locali un’ottima occasione per pavoneggiarsi, per l’anno prossimo suggerisco di mutarlo in capitale italiana della scultura; e, nell’empito di creatività linguistica che sembra aver preso in questi ultimi tempi tutti i politici, si ometta, però, di dire che la s- iniziale di scultura è di natura estrattiva …

Repressione del contrabbando nella Gallipoli del ‘700

Repressione del contrabbando nella Gallipoli del ‘700:

il caso delle galere della Sacra Religione di San Giovanni Gerosolimitano

di Antonio Faita

 

faita

Gallipoli vantava una lunga tradizione nel commercio oleario in terra d’Otranto. Dal XVII secolo, come ci tramanda il Vernole «non più era Gallipoli l’Emporio principale del Salento,  ma ormai  ne era l’unico Emporio, ed era uno dei più pingui Empori di tutte le Puglie: il suo nome, che prima echeggiava qua e là nel Mediterraneo, nel Seicento varcò gli stretti e richiamò nel porto gallipolino vascelli dai cui pennoni sventolavano le Bandiere Nazionali di tutto il mondo»[1].

Lo sviluppo di attività artigianali e lapresenza di una popolazione di passaggio, che importava beni di vario tipo venuti da lontano, (i pesci in sale o disseccati di Terranova, della Norvegia o dell’Inghilterra; le manifatture di Francia e Germania; i legnami di Trieste, Fiume e Venezia; i coloniali di Malta; le pietre da molino delle Isole Greche; i giunchi secchi delle isole Ionie e i tanti articoli e manifatture delle principali città)[2], migliorarono il benessere economico e la qualità della vita.

Nel Settecento, nel Regno di Napoli, i movimenti mercantili erano selezionati e spesso impediti dalla situazione negativa di una viabilità frammentaria, trovando uno sfogo soltanto parziale nell’organizzazione portuale e nei traffici marittimi, in quei litorali che assunsero man mano una precisa fisionomia di centri di importazione e di esportazione di prodotti.

Anzitutto va rilevato come il genere predominante nei traffici via mare, all’interno del Regno e non solo, fosse senza dubbio il frumento oltre all’olio, al vino e altre mercanzie che, da mercanti speculatori e compagnie commerciali di diverse nazionalità, venivano imbarcati per i porti del proprio paese e per quelli di altre nazioni. Infatti la maggior parte dei carichi di frumento e, in genere, di “grani” provenivano da Taranto, Crotone, Barletta, Manfredonia e Trani, senza trascurare anche l’apporto della costa settentrionale.

Se si tiene presente che sulla costa jonica erano attivissimi i porti di Taranto, Gallipoli e Crotone, rimane confermata in pieno l’impressione di una struttura distributiva fortemente concentrata nei traffici marittimi [3]. Grandi quantitativi di grano continuavano ad essere esportati dalla Puglia, dalla Sicilia, dalla Calabria, verso Napoli, Malta e Genova [4].

Dal porto di Gallipoli, specie tra il 1707 ed il 1722, partiva, per raggiungere i porti del Regno e quelli esteri, un gran numero di convogli di grano che, assieme agli orzi ed ai legumi, rappresentavano il genere che dava luogo ad una cospicua corrente di traffico ed inoltre ad una fonte di entrate notevoli, sia pure incostante, per il fisco regio, attraverso il pagamento dei diritti di tratta [5].

Rivestendo un ruolo cruciale per l’alimentazione e per il settore primario, il grano era oggetto di costanti attenzioni da parte delle autorità. Gli uffici annonari si occupavano di assicurare il pane e i generi alimentari di sussistenza alla popolazione, specialmente a quella delle città, per evitare sommosse e tumulti. I prezzi del grano rimasero piuttosto alti fino al 1700.

Ma il fatto decisivo, di carattere meteorologico, si verificò nel gennaio 1709. Una gelata del tutto eccezionale, arrivata all’improvviso, distrusse ogni speranza di salvare il raccolto. Subito si diffuse il panico. Quasi dappertutto i prezzi del grano raggiunsero o superarono le cifre record della primavera del 1694, e al rincaro seguirono inesorabilmente gli stessi disastrosi effetti. Perfino a corte si mangiava pane cattivo. Fino all’inizio dell’estate 1710 si visse col cuore sospeso. Pochi raccolti nella storia d’ogni paese hanno avuto tale importanza come quello dell’anno 1710 [6].

In questo scenario, diffusissimo era il contrabbando, sostenuto dalla solidarietà o addirittura dalla connivenza della Popolazione. Forme di commercio illegale, atti di banditismo e vari fenomeni criminosi si intrecciavano sempre più organicamente da connotare in maniera negativa non solo l’ordine pubblico, ma anche l’equilibrio delle forze sociali egemoni. Soprattutto nel ‘600 e nel primo ‘700 pezzi della feudalità regnicola e salentina si davano al contrabbando dei generi di prima necessità, lucrando profitti enormi, per mano di un banditismo endemico al servizio ora dell’una, ora dell’altra casata aristocratica, generando una sorta di guerra per bande che spinge l’autorità centrale ad intervenire militarmente con maggiore determinazione[7]. Anche a Gallipoli si tentò di punire chi violava le rigide prammatiche [8] nel commercio interno ed esterno. Non sfuggirono al controllo neanche numerosi ecclesiastici e patrizi che esercitavano e favorivano il contrabbando.

Uno di questi episodi viene riportato dallo studioso Federico Natali nel suo lavoro Gallipoli nel Regno di Napoli. Dai Normanni all’Unità d’Italia, in cui  racconta come nel dicembre del 1709, in piena guerra di successione spagnola, il regio Governatore Don Saverio Rocca, intervenne contro alcuni patrizi locali, inquisendo Silvio Zacheo, Marcello D’Elia e Maurizio Stasi, per aver fornito grano di contrabbando, alle galee della Sacra Religione di San Giovanni Gerosolimitano o meglio conosciuto come Ordine di Malta [9], sottraendolo all’Annona della città. Secondo Natali, dunque, fu il Governatore a infierire con persecuzioni contro quei cittadini che aiutarono i cavalieri di Malta, a tal punto da provocare le rimostranze del Gran Maestro Raimondo Perellos y Roccafull, a scrivere al vicerè di Napoli, il cardinale Vincenzo Grimani.

Ben diverso è il parere dello storico Ettore Vernole [10], facendo ricadere le colpe sul Castellano Don Emanuel Alveres y Valdes [11] che «infierì con persecuzioni e perquisizioni contro gli ospitali cittadini e il Sindaco ne fece rapporto al Gran Maestro dell’Ordine» [12].

Grazie all’apporto di due atti notarili, rogati dal notaio Carlo Megha di Gallipoli, datati 6 agosto 1710 e con l’attenta lettura di una copia di provvisione, ma che in realtà trattasi di una citazione del 24 luglio 1710, ci aiutano a capire come realmente si svolsero i fatti.

Nel primo documento abbiamo la testimonianza spontanea dei signori: «Donato Ferandeles, Francesco del’Acqua, Orontio Pugliese, Tomaso Bellone ed Angelo de Marco Caporali della Compagnia del Battiglione a piede di questa città» [13] i quali con giuramento, attestavano, dichiaravano e facevano fede «come nel passato Anno 1709, Sindicato del Signor Francesco Roccio, a tempo furono Le Galere della Squadra della Sacra Religione di Malta, furono chiamati da detto Signor Sindico che zelassero a non farsi commettere estortione  de grani».

Da questa prima ricostruzione si evince che fu il Sindaco a impartire gli ordini ai Caporali suddetti che si adoperassero a non farsi estorcere il grano dai “militum christi”. Inoltre, ordinò di vigilare rigorosamente e a fare la guardia «così di giorno come di Notte, tanto per dentro La Città rondando le moraglie, quanto per fori d’essa nelle capistrade per la Comunicatione de lochi Convicini a questa città». I Caporali, con i loro soldati eseguirono gli ordini perlustrando e facendo la guardia giorno e notte per tutto il tempo che le galee rimasero ormeggiate nel porto. Si divisero, alcuni dentro la città, altri nella strada di «Santo Leonardo» e altri ancora nella zona conosciuta come «Conella delle Rene», facendo in modo che si impedisse di condurre il grano per caricarlo alle dette galee. Per tale compito, i militari «vennero pagati a spese della Magnifica Università di questa Città e n’appariscono le ricevute de loro giornate».

Nel secondo documento, a testimonianza dei fatti accaduti, sono «Domenico de Pandis, e Tomaso Ruberto, Guardiani del Porto di questa predetta Città di Gallipoli» [14]. Essi attestarono e confermarono della presenza nel porto di Gallipoli, nell’anno 1709 delle «Galere della Sacra Religione di Malta» e, il Signor Sindaco Francesco Roccio, fece mettere «di custodia alla Porta di detta Città Marco Rosano e Nicolao Rontio Soldati del Regio Governatore della Città, con ordine che quelli non permettessero far uscire grani ed imbarcassero sopra le dette Galere». Di fatto, i suddetti soldati «assistirono nella Porta di detta Città esequendo con puntualità l’ordine di detto Signor Sindico a non far uscire grani». Per lo svolgimento di tale compito, i due militari vennero pagati dal «Signor Sindico».

Sulla base e a conferma di quanto detto sopra, interessante è invece l’atto di citazione del Tribunale della Sommaria, dal quale si evince non solo che ad accusare i tre cittadini, il Dott. Silvio Zacheo, il Dott. Marcello D’Elia, rispettivamente, già Sindaci negli anni 1699-1700 e 1703-1704,  Maurizio Stasi appaltatore, fu il Sindaco Francesco Roccio, ma emergono anche tanti altri particolari utili alla vicenda.

Intanto c’è da precisare che i fatti si svolsero nel mese di settembre e che le galee maltesi (triremi) erano cinque «Cum in mense septembris anni elap[si] pervenerint ad portum dictæ Civitatis Gallipolis quinque triremes dictæ Religionis Hyerosolimitanæ» [15]. La squadra delle galee maltesi [16], che molto spesso scortava i mercantili cristiani, cacciava le flotte musulmane durante la stagione della navigazione, che durava da aprile a ottobre di ogni anno, poiché l’Ordine era de jure e de facto in costante guerra con il mondo musulmano[17]. La stessa squadra, comandata dal commendatore Fra Ludovico Fleurigny, era stata protagonista sia nell’inseguimento di quattro Sultane e un Brigantino che stentavano una discesa sulle coste della Calabria [18], sia nella clamorosa vittoria nelle acque dello jonio attaccando congiuntamente ai vascelli comandati dal Cav. Giuseppe de Langon, la Capitana di Tripoli, incendiandola [19].

A seguito di questi eventi, il servizio di pattugliamento nel Mediterraneo, per scongiurare l’invasione turca, portò più volte le galee maltesi nelle acque del Golfo di Taranto.

Molta cura era riservata dal Capitano delle galee ai rifornimenti e alla conservazione del cibo durante gli estenuanti mesi di navigazione.La possibilità di approdare in paesi amici e imbarcare anche cibo fresco come frutta e verdura aveva completamente scongiurato tra i cavalieri e la ciurma malattie quali lo scorbuto molto diffuso all’epoca negli equipaggi delle navi. Oltre a cibi freschi, carne, pesce, olio, aceto, vino, zucchero, caciocavallo e frutta secca a bordo delle galee non poteva mancare il biscotto, sorta di galletta di grano consumata in notevole quantità per sfamare e dare energia all’equipaggio di ogni unità, in genere costituito da un numero di persone che oscillava dalle 360 alle 550 [20].

Per questo motivo, la squadra giunse a Gallipoli per rifornirsi di grano. Il Sacro Ordine, legava, con Gallipoli, un rapporto molto stretto sin dal 1523, quando i nostri antenati dimostrarono un atto di cordiale e fraterna ospitalità nei confronti dell’Ordine in un momento doloroso della loro storia, guadagnandosi la gratitudine del Gran Maestro Villiers [21].

A seguito di questo episodio si intrapresero scambi commerciali con Malta. Infatti, nella vicenda del 1709, i gallipolini «furon solleciti di assistenze e di onori di casa agli equipaggi» [22], i cui uomini, aggirandosi abitualmente tra i cittadini gallipolini si procuravano frumento acquistato di contrabbando, caricato e ammassato sopra le dette galee «homines quarum familiariter convers[os] Inter cives Gallipolitanos procurabant emptiones frumentorum (…) controbandi et incontrobannum super dictis triremibus»[23]. Qui l’intervento del Sindaco Roccio, il quale fece promulgare un “banno” giuntogli dal Vicerè, in cui si vietava la vendita di frumento da caricare sulle galee «nullus ex Civibus aut Advenis in dicta Civitate (…) frumentum vendidisset ad onerandum illud in dictis triremibus» [24]. Fu assegnato ai soldati «vulgaliter de Battiglione» la custodia della porta della Città per impedire il contrabbando di cereali in modo da evitare un rialzo dei prezzi, carestie e tumulti popolari. In quell’anno all’annona, il grano era venduto per dieci carlini e, nonostante ciò, gli uomini di dette galee lo pagarono al prezzo di tredici carlini per ogni tomolo «non obstante quia homines dictorum triremium solvebant frumentum predictum pretio terdecim carolenorum pro quolibet tumulo» [25].

Da molte persone furono venduti centinaia di tomoli e caricati sulle suddette galee e nello specifico «vendidit Marcellus d’Elia tumola centum quinquaginta, Silvius Zacheo tumola quinquaginta circiter et Mauritius Stasi centum vicinti circiter frumenti ad dicta rattionem Carolenorum terdecim proquolibet tumulo»[26] con le seguenti modalità: il grano, venduto da Marcello D’Elia nella sua casa, veniva messo in dei sacchi e con l’aiuto dei servi, caricato su una mula e trasportato presso la spiaggia del porto con ripetuti viaggi. Qui veniva consegnato agli uomini delle galee che, a loro volta lo travasavano in dei catini di creta, caricato su piccole imbarcazioni e trasbordato sulle suddette galee «Dictus Marcellus d’Elia asportando ea ad litus portus Civitatis repetitis vicibus super [quadam] eius mula quam sic oneratam a mancipiis ex gentibus dictorum  triremium conducere fuit cum dicto frumento vendito in sacchis (…) a sua domu venduto pro illo exstruendo estra Regnum in dictis triremibus et traiecto intus parvula liimbam vulgaliter schifo quæ manebat in litore predicta» [27].

Allo stesso modo fece anche Silvio Zacheo, il quale vendette una quantità di frumento, all’incirca tomola cinquanta, e con il suo servo, seguiva tutte le fasi di trasporto per tutto il tempo occorso «et eadem modo similiter estraere fecit dictus Silvius Zacheo quantitutem frumenti ab ipso praedictos homines empti et tempore trasportationis dicti frumenti ibat et redibat eam associando quidam eius famolus» [28].

gallipoli-fontana-alta-definizione

Quanto al frumento, venduto da Maurizio Stasi, uno degli appaltatori delle decime della città, veniva sottratto impropriamente e stipato nella sua casa, affittatagli da Tommaso Antonio Raimundo. In catini di creta veniva trasportato a bordo delle galee «et respectu frumenti venditi a Mauritis Stasi ut supra, prefatus Mauritius erat unus ex appaltatoribus decimarum dictæ Civitatis et idem collectum erat a supradictis decimis quod frumentum repositum reperiebatur in domo Tomæ Antonii Rahimundo locata dicto Mauriti Stasi illud cum limbis dictarum triremium venditum et asportatum fuit in eisdem etiam incontrobannum» [29].

Considerando la gravità dei fatti, i sopraddetti Marcello D’Elia, Silvio Zacheo e Maurizio Stasi, quali principali inquisiti di traffico di contrabbando di frumento ritennero opportuno rivolgersi al Gran Maestro dell’Ordine, Raimondo Perellos, scrivendo una lettera in data 29 ottobre 1709, sollecitandolo di intervenire in loro aiuto. Il Gran Maestro si attivò scrivendo al Vicerè, cardinale Vincenzo Grimani, informandolo dei fatti successi nei confronti delle sue galee e invitandolo a prendere qualsiasi provvedimento a far cessare  ogni procedimento nei confronti di quei cittadini e di far riconoscere la loro innocenza. Successivamente, in data 31 dicembre 1709, da Malta inviò una lettera indirizzata al Sindaco e agli eletti scrivendo quanto segue:

Spettabili Signori,

            Ha tardato à giungermi la lettera di Loro Signori delli 29 ottobre, dalla quale ho sentito con dispiacere che il Governo praticasse perquisitioni contro alcuni loro cittadini per l’assistenza d’alcune provisioni date alle mie Galere, mentre si sono trattenute scorrendo codesta costa. Per secondare le loro richieste hò scritto subito all’Emimo Signor Cardinale Vice Rè et ho data Commissione al Ricev.te della mia Religione, perché passi colla viva voce tutti l’Offici necessarj, ad effetto di far cessare ogni procedimento e spero, che si conseguirà dalla Giustizia di S. Em.za, quando non s’havessero ottenuto anche prima, perché fusse stata conosciuta la loro innocenza. Conchè stimando al maggior segno le riprove della loro amorevolezza, gl’auguro dal Cielo ogni bene.

            Malta, 31 Xbre 1709 Al piacere delle SS. VV, il Gran Maestro: Perellos»[30].

Nel frattempo, gli inquisiti furono portati davanti alla Regia Corte del Governatore e condannati in primo grado di giudizio. Ciò avveniva nonostante l’assenza del Governatore Don Saverio Rocca, che si era recato a Barcellona dal Re Carlo III per il nuovo incarico di Preside di Lecce [31] ed era ignaro dei fatti accaduti. La questione andò avanti per mesi senza mai attenuarsi, fino ad arrivare a essere sottoposta alla Regia Camera Abreviata di Napoli.

In data 24 luglio 1710, alla presenza di Don Cesare Michele Angelo D’Aquino D’Aragona Preside della Regia Camera Abreviata, , dei mastrodatti  Don Michele Vargas Macuccha e Eufebio Girardo e dell’attuario Gaetano Foglia, vista l’accusa nei confronti dei signori Marcello D’Elia, Silvio Zacheo e Maurizio Stasi e le pene in cui incorrevano, si decise di far recapitare nel termine di dieci giorni, la citazione con le pene stabilite dal diritto per tali casi «personaliter si ipsos personam reperiri contigerit sin autem domi eorum solitæ hoc citationis ad penam in talibus a iure statutam quatenus infra die  decem post presentium intimationem»[32]: di presentarsi entro un mese di tempo presso la Regia Camera Abreviata di Napoli e qui ricevere ciascuno di essi la copia dei capitoli della speciale inquisizione formata contro di loro stessi e, per mancata presenza, la Regia Camera Abreviata si riservava di far decidere al Re, circa ogni delitto e pena. Purtroppo, in assenza di  documentazione, non sappiamo in pratica fino a che punto si estese il processo e quali risvoltipratici ebbe successivamente. Una cosa è certa che il dottor Marcello D’Elia e il dottor Silvio Zacheo continuarono a comparire tra  i “Magnifici” dell’Università di Gallipoli fino al 1721.

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[1] Cfr. E. Vernole,   Il Castello di Gallipoli, Tip. La Modernissima, Lecce 1933, p.236

[2] Cfr. P.  Maisen,  Gallipoli e suoi d’intorni, Tip. Municipale, Gallipoli, 1870, p.58

[3] Cfr. A. Faita,  Grano e corsari, in IL BARDO, Anno XVI, n.1, novembre 2006, p.2

[4] Cfr. G. Cirillo,  Alle origini di Minerva trionfante. Protoindustrie mediterranee: città e verlagssystem nel Regno di Napoli nell’età moderna, Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Tip. Gutenberg, Fisciano (SA)2012, p.44

[5] Cfr. F. Natali, Gallipoli nel Regno di Napoli. Dai Normanni all’Unità d’Italia, Tomo I, Galatina, Ed Congedo 2007, p.321

[6] Cfr. J. Meuvret, La Francia dal 1688 al 1715,  trad. di Carlo Capra, capitolo X, in CAMBRIDGE UNIVERSITY PRESS, Storia del mondo moderno. L’ascesa della Gran Bretagna e della Russia 1688-1713, vol. VI, Ed. Garzanti, Milano 1972, p.384

[7]  Cfr. S. Muci, Note sul contrabbando sulle coste ioniche-salentine in età moderna (secc. XVII-XIX),in L’Idomeneo, Rivista della sezione di Lecce, Società di storia patria per la Puglia, Galatina, Ed. Panico 2004, p.180

[8] Cfr. aslecce, Scritture delle Università e Feudi: Atti diversi, Fasc. 36 (6), c.183/v : «Regia Prammatica n.20 edita e pubblicata per ordine dell’Eccellentissimo Conte De Olivares già Vicerè sotto la data del 27 novembre 1597 nella quale fu ordinato che simili delinquenti, oltre che nelle pene corporali incorrono anche nell’altra pena dell’ammissione (sequestro) dei beni subito commesso il contrabbando, nonché nell’altra Regia Prammatica n. 50 edita e pubblicata per ordine dell’eccellentissimo signor Marchese De Los Vales già Vicerè sotto la data del 27 settembre 1679 che non solo conferma la sopradetta Regia Prammatica, ma ordina anche che tali conclusioni ricadono nella pena di morte naturale e contro simili delinquenti sia possibile procedere alla sentenza di fuorgiudica dal giorno della contrazione dell’ultima contumacia nel corso dell’anno»

[9] Cfr. F. Natali, Gallipoli nel Regno di Napoli. Dai Normanni all’Unità d’Italia, pp.325-326

[10] E. Vernole,  Il Castello di Gallipoli, p.258

[11] Ivi, il 24 novembre 1706, giunse in città Don Emanuel Alveres y Valdes, prendendo il comando del castello e rimpiazzando il vecchio Capitano di Artiglieria Don Domenico Perez che vi risiedeva sin dal 1691, p. 257; Ciò non trova riscontro nelle cronache manoscritte di Antonello Roccio, “Notizie memorabili dell’antichità della fedelissima città di Gallipoli. Con molte altre memorabili curiosità così antiche che come moderne” (1640) in BCG, dal quale si evince che nel 1660 venne come Castellano, all’età di 25 anni Don Giuseppe della Cueva. Dopo la sua morte,avvenuta nel 1705 (APSAG, Registro dei defunti 1702 – 1719: «Nell’Anno del Signore mille settecento e cinque à di venti due di Novembre Don Giuseppe della Cueva da Santa Maria del Porto in Spagna d’anni settanta sei in circa, e Castellano di questo Reggio Castello di Gallipoli nella Comunione della Santa Madre Chiesa rend’è l’anima à Dio, il corpo à di detto fù sepelito nella Chiesa di Sto Francesco d’Assisi, fù confessato da Fra Tommaso da Casalnuovo Riformato, fù comunicato da me D. Nicolò Lopez Parroco sostituto à dì deci otto di detto», c. 36), arrivò come Castellano Don Emanuel Alveres y Valdes, il quale nel 1709 fu deposto dal castello per via dei suoi rivali e sostituito da Don Francesco Duvalles arrivato a Gallipoli nel 1710. Nel frattempo (1709), Don Emanuel Alveres y Valdes si recò a Barcellona da sua Maestà Carlo III per reclamare e ottenne il Governo come Castellano di Gallipoli, mentre Don Francesco Duvalles, divenne Castellano in Brindisi, c.335;

[12] E. Vernole,  Il Castello di Gallipoli, p.258

[13] Cfr. ASLecce, Not. Carlo Megha, coll. 40/13, Protocollo, anno 1710, cc. 230/v-231/r

[14] Ivi, cc. 231/-231/v

[15] Cfr. aslecce, Scritture delle Università e Feudi: Atti diversi, Fasc. 36 (6), c.183/r; e. pindinelli, L’Archivio delle scritture antiche dell’Università di Gallipoli, Alezio, Tip. Corsano 2003, pp. 222-223

[16]Cfr. F. Frasca  “Il potere marittimo in età moderna. Da Lepanto a Trafalgar”, Cromografica Roma per Gruppo editoriale l’Espresso, Roma 2009 : L’equipaggiamento delle galere maltesi era eccellente. L’Ordine iniziò le sue attività marittime con una squadra di tre galere, divenute otto nel 1685 per far fronte all’aumento delle necessità belliche contro i pirati barbaresci.  Alla fine del XVIII secolo, con l’inizio del declino dell’Impero ottomano, la squadra fu ridotta a cinque galere.  Il numero delle galere venne ridotto a quattro nel 1725, numero che rimase immutato fino al 1798. pp. 31-32

[17] Ivi, p.32

[18] Cfr. “Storia Universale dal principio del mondo sino al presente, scritta da una compagnia di letterati inglesi, Vol. XXXIII, Amsterdam 1789, p. 123

[19] Cfr. S. Bono, I corsari barbareschi, Ed. Eri, Torino 1964, p.123; e. rossi, Il sovrano militare dell’Ordine di Malta, Roma Libr. Romana 199?, p.40

[20] Cfr. O. V. Sapio, Presenza delle galere giovannite nel porto di Taranto in etá moderna, conferenza tenuta il 25 giugno 2007 presso il Castello Aragonese di Taranto promossa dal Gran Priorato di Napoli e Sicilia, p. 5

[21] Cfr. A. Roccio, Memorie di Gallipoli, (trascritto e annotato dal parroco D. Carlo Occhilupo), 1752, MS in BPLecce, c. 55/r: «Nel 1523 verso l’ultimi di Marzo fù nella Città di Gallipoli il Gran Maestro Frà Filippo di Vigliers Sedisladamo co tutti quei Cavalieri ch’avanzarono dal crudelissimo assedio di Rodi, dove essendo arrivato co dieci Vascelli da remo, fra quelli vi erano tre Galere fù co so modo honore ricevuto e di ogni cosa necessaria abbondantemente provisto, e perchè dimorò in Città da un mese in circa per ristorare quelli ch’erono sani, e per medicare gli infermi, che per la lunghezza del viaggio e per li molti patimenti sofferti nella sua armata, si trovavano curandone lasciati parte di quelli nella Città, partì poi per Messina, dove arrivò nell’ultimo d’Aprile»; b.ravenna, Memorie istoriche della Città di Gallipoli, Tip. Miranda, Napoli 1836, pp.279-280; E. Vernole,   Il Castello di Gallipoli, pp. 137-138

[22] E. Vernole,   Il Castello di Gallipoli, p.258

[23] Cfr. aslecce, Scritture delle Università e Feudi, cc.183/r – 183/v

[24] ivi

[25] ivi

[26] ivi

[27] Ivi

[28] ivi

[29] ivi

[30] Cfr. aslecce, Scritture delle Università e Feudi, c. 182/r; E. Vernole, Il Castello di Gallipoli, p. 258; e. Pindinelli, L’Archivio delle scritture antiche dell’Università di Gallipoli, p. 222;  F. Natali, Gallipoli nel Regno di Napoli. Dai Normanni all’Unità d’Italia, p. 326

[31] Cfr. A. Roccio, Notizie memorabili dell’antichità della Fedelissima Città di Gallipoli, 1640, MS in BCGallipoli, c.365/v «D. Xaverio Rocca il quale non finì il Governo per andare a Barcellona alli piedi di Carlo 3 il venne per preside in Lecce» (D. Saverio Rocca prese possesso in Lecce il 21 marzo 1709, mentre la carica di Governatore di Gallipoli passò al fratello Francesco Rocca nel 1710)

[32] Cfr. aslecce, Scritture delle Università e Feudi, c.184/r

 

Un ringraziamento doveroso all’amico Daniele Librato, per la sua speciale e cordiale collaborazione.

 

 

Le origini antiche di una poesia popolare gallipolina

di Armando Polito

Lo spunto per questa ricerca mi è stato dato da un post apparso qualche giorno fa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/12/la-sua-falce-non-risparmia-proprio-nessuno/), in cui l’autrice riproduceva il testo della poesia riportata da Ettore Vernole nel suo La morte nelle tradizioni popolari salentine, piccolo saggio apparso  in Rinascenza salentina, anno V (1937) n. 1, pp. 65-75 (http://www.culturaservizi.it/vrd/files/RS37_tradizioni_popolari_salentine.pdf). Non sarei sincero se dicessi che, dato il mio interesse per l’etimologia, la parola scardallàsciu che vi compare è stato l’elemento unico e determinante che mi ha spinto a scrivere queste righe; quello iniziale, però, sì. Così mi son ritrovato, dopo la lettura integrale al link appena segnalato del lavoro del Vernole, a pormi altre domande, perché soprattutto alla mensa della conoscenza la fame è sempre in agguato e l’appetito vien mangiando, anche quando, a differenza, forse, della mensa normale, il cibo è indigesto. ..

Comincio, però, proprio da scardallàsciu riproducendolo nel suo contesto. Come, infatti, in archeologia per interpretare un reperto è indispensabile lo studio dell’ambiente circostante in cui è stato trovato, in filologia è altrettanto importante in fase preliminare comprendere anzitutto  il significato, particolare o generico, della voce oggetto di studio.

………….

Addai nc’era na Rigina ‘ncurunata

tra musiche, trionfi e scardallasciu

………….

Risulta evidente che scardallàsciu, strettamente unito com’è a musiche e trionfi, esprime una situazione di allegra celebrazione. Sul piano semantico, dunque, nessun dubbio. E nessun dubbio mostra di avere il Vernole anche su quello etimologico quando nel presentare la poesia scrive a p. 71 parola strambottesca “Scardallàsciu” (la quale allude allo “scardare” delle dita sulle corde della chitarra, ed allo “sciare” dei piedi nella danza, per cui vuol significare musiche e balli).

Mi ha meravigliato come un ricercatore della levatura del Vernole (basta dare una rapida scorsa alla sua bibliografia, senza tener conto degli innumerevoli scritti apparsi in varie riviste1) non solo non abbia usato avverbi come probabilmente o forse, ma abbia utilizzato anche l’aggettivo strambottesca. Tale parola è equivoca, cioè può assumere più di un significato: tipica dello strambotto (poesia popolare di contenuto per lo più amoroso), oppure, collegandosi all’antico significato di strafalcione che strambotto poteva avere, può significare nata da deformazione dovuta all’ignoranza del popolo.

Ora nella poesia in questione non è l’amore, come vedremo, l’elemento dominante e, secondo il Vernole scardallàsciu non sarebbe neppure una deformazione di parola già esistente ma formazione, sia pur popolare, di una parola composta. E per le due presunte componenti vengono formulate due proposte certamente suggestive ma che mi convincono poco per il collante che le lega (lla) e perché il musiche della definizione (musiche e balli) sarebbe una ripetizione di quello iniziale del verso. Io credo che musiche, trionfi e scadallàsciu rappresentino, invece, un climax, cioè una serie di concetti posti in ordine crescente d’intensità, in cui trionfi ha il significato pagano di canto bacchico ma si collega in qualche modo a quello di carro allegorico rappresentante divinità o personificazioni di virtù, in uso nel carnevale fiorentino specialmente nei secoli XV  e XVI. E scardallàsciu? Potrebbe essere, sottolineo potrebbe, deformazione di carnasciale o carnesciale, voce obsoleta dal latino carnem laxare=togliere la carne, sostituita, come si sa, da carnevale (da carnem levare).

Comunque stiano le cose con scardallàsciu2, debbo dire, però, che la maggior meraviglia mi ha destato il fatto che ad uno studioso del folclore quale è stato l’illustre gallipolino sia sfuggito un nesso che avrebbe dovuto trovare, secondo me, individuazione più puntuale che non nelle affermazioni che si leggono nelle pp. 73-74, sulla cui genericità lascio al lettore giudicare.

Per sintetizzare al massimo: io vedo nella poesia il ricordo preciso della cosiddetta danza macabra, tema moraleggiante caro al tardo medioevo e che trova la sua rappresentazione iconografica in una danza che vede protagonisti uomini appartenenti alle varie categorie sociali ed altrettanti scheletri rappresentanti la morte livellatrice. Lo stesso tema, insomma, cantato sublimemente dall’immenso Totò in ‘A livella; per chi non la conoscesse e per i più giovani ne segnalo la lettura, insuperabile, fatta dallo stesso autore, in https://www.youtube.com/watch?v=AZ8mrzSKzQs).

Negli esempi pittorici, essendo maggiore lo spazio a disposizione,  vi è una pluralità di personaggi e di scheletri. Nell’immagine che segue un frammento (l’opera all’origine era lunga trenta metri circa) del pittore tedesco  Bernt Notke (1435 circa- 1509) presente nella basilica di S. Nicolò a Tallin (Estonia). Una visione più dettagliata è possibile al link http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/5/58/Bernt_Notke_Danse_Macabre.jpg

Per i più pigri:

 

La pubblicizzazione dell’intento moraleggiante raggiungeva il massimo nelle opere pittoriche che, collocate nelle chiese, erano visibili da tutti; ma esso trovò espressione, come ho accennato, anche nella scrittura, pur partendo sfavorito dalla visibilità privata di questo supporto e, soprattutto,  dalla modestissima circolazione delle prime opere a stampa. Probabilmente, però, la ridotta superficie a disposizione, obbligando a rappresentare su ogni facciata  solo una coppia uomo/Morte, favoriva da un lato una maggiore riflessione sul destino del singolo (tanto più di quello che si vedeva in qualche modo rappresentato), dall’altro lì per lì precludeva quella sul destino comune, o, quanto meno, la rinviava a lettura conclusa.

Le due immagini che seguono, che non ho scelto a caso perché riguardano i due protagonisti della poesia (rispettivamente  la Morte/il Papa e la Morte/la Regina), sono tratte da un codice miniato del XV secolo custodito (manoscritti francesi n. 995) nella Biblioteca Nazionale di Francia, integralmente leggibile all’indirizzo  http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b9059983v/f3.image.r=LA%20DANSE%20DES%20MORTS.langEN.

La fortuna di questo tema continuò nelle opere a  stampa e la struttura della pagina è conforme a quella della rappresentazione pittorica già vista. Le tre immagini che seguono sono tratte da un incunabolo di anonimo pubblicato da Guy Marchand a Parigi nel 1486, custodito nella stessa biblioteca e integralmente leggibile all’indirizzo http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b2200008n.r=dance+macabre.langEN.

La prima contiene un riferimento al contesto ambientale della nostra poesia, cioè danza, canto e ballo (ma qui gli orchestrali sono degli scheletri).

La seconda presenta le coppie Morte/Papa e Morte/Imperatore.

Nella terza vediamo le coppie Morte/Cardinale e Morte/Re.

Il Re sarà sostituito dalla Regina (la par condicio non è un’invenzione di oggi …) in una pubblicazione, sempre di autore anonimo, dello stesso Marchand del 1491 (anch’essa integralmente leggibile in http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b2200006t.r=dance+macabre.langEN) nella tavola che rappresenta, la coppia Morte/Regina insieme con quella Morte/Duchessa.

In questa pubblicazione sono assenti pure le coppie Morte/Papa, Morte/Imperatore e Morte/Cardinale e, comparendo personaggi minori e in prevalenza femminili, si ha il sospetto che la par condicio di prima sia andata a farsi fottere …

La fortuna di questo tema continuò nel secolo successivo e anche lo scopiazzamento, a parte trascurabili dettagli, come mostra l’edizione uscita a Parigi nel 1531 per i tipi di Troyes Nicolas Le Rouge (http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b2200042p/f97.planchecontact.r=dance%20macabre%201531.langEN), da cui riproduco la tavola che segue.

Seppur con frequenza minore il tema continuò ad essere trattato anche nei secoli successivi. Le tavole che seguono (rispettivamente: Morte/Papa e Morte/Regina), tratte da http://www2.biusante.parisdescartes.fr/img/?refphot=CISA0383, sono incisioni di Jacques Antony Chovin (1720-1776).

 

Se nella pittura e nella letteratura le coppie, pur con i limiti rappresentativi imposti, come s’è detto, dal supporto, sono plurime, nella nostra poesia popolare compare prima la coppia Morte/Papa e subito dopo quella Morte/Regina, con la stessa connotazione cristiana ma con un qualcosa in più che non esiterei a definire di natura politica. La Morte che fa fuori i due sommi poteri (almeno allora …), quello religioso e quello politico, quello spirituale (anche allora non sempre …) e quello materiale è un’immagine, non so quanto inconsciamente, di rivincita per chi in un modo o nell’altro a quei poteri è stato soggetto, magari con esiti non propriamente felici …

La danza macabra medioevale, tuttavia, costituisce il punto di arrivo di un lungo processo. Per ora affronto il punto di arrivo che è nello stesso tempo un dato etimologico e storico. Nel Glossarium mediae et infimae Latinitatis del Du Cange (riporto il dettaglio in formato immagine tratto dall’edizione per i tipi di Favre uscita a Niort nel 1883; la traduzione a fronte e le note in calce sono mie) si legge:

Se il manoscritto di Besançon ci dà notizia che il murale del Cimitero degli Innocenti venne realizzato nel 1424 significa solo che questa è la rappresentazione pittorica più antica che conosciamo della danza, la cui “istituzione” avvenne probabilmente in epoca precedente.

Me lo fanno supporre alcuni indizi che qui riassumo andando a ritroso nel tempo.

Guglielmo Durando (fine del XIII secolo): In quibusdam quoque locis hac die, in aliis in Natali, prelati cum suis clericis ludunt, vel in claustris, vel in domibus episcopalibus, ita ut etiam descendant ad ludum pilae, vel atiam ad choreas et cantus, quod vocatur libertas dicembrica, quia antiquitus consuetudo fuit apud Gentiles quod hoc mense servi, pastores et ancillae quadam libertate fruerentur, et cum dominis suis dominarentur, et cum eis facerent festa et convivia, post collectas messes; laudabilius tamen est a talibus abstinere.3 (Pure in certi luoghi in questo giorno [Pasqua], in altri a Natale i prelati con i loro chierici scherzano o nei conventi o nelle dimore vescovili, tanto da abbassarsi anche al gioco della palla o anche a danze e a canti, il che è chiamato libertà di dicembre, poiché anticamente fu consuetudine presso i pagani che in questo mese i servi, i pastori e le ancelle godessero di una certa libertà e comandassero insieme coni loro padroni e con loro facessero feste e banchetti, dopo il raccolto delle messi; tuttavia è più lodevole astenersi da tali comportamenti).

Un decreto emesso dal concilio romano sotto il papa Eugenio II (824-827) dà la seguente disposizione … sacerdotes admoneant viros et mulieres, qui festis diebus ad acclesiam occurrunt, ne ballando et turpia verba decantando choros teneant, ac ducant, similitudinem Paganorum peragendo4 (… i sacerdoti ammoniscano uomini e donne che nei giorni di festa accorrono in chiesa, a non partecipare a cori e condurli ballando e cantando turpi parole ad imitazione dei Pagani).

In un sermone attribuito a Sant’Agostino (354-430): Isti enim infelices et miseri homines, qui lalationes et saltationes ante ipsas basilicas sanctorum exercere nec metuunt nec erubescunt, etsi christiani ad ecclesiam venerint, pagani de ecclesia revertuntur; quia ista consuetudo balandi de Paganorum observatione remansit5 (Infatti questi infelici e miseri uomini che non temono né si vergognano di abbandonarsi alle cantilene e ai balli davanti alle stesse basiliche dei santi, sebbene siano venuti in chiesa come cristiani, dalla chiesa se ne tornano come pagani; poiché questa consuetudine di ballare è rimasta dall’osservazione dei pagani).

Basta ed avanza per considerare la danza macabra come la discendente cristiana di quella pagana, nella quale, però, ogni debolezza umana (anche il diritto alla gioia …) vive all’ombra incombente della Morte. E così la poesia gallipolina non è altro che la versione popolare di questo genere letterario che fu particolarmente in voga, come abbiamo visto,  nei secoli XV e XVI; e la parte dialogata ricalca il commento testuale corredante il codice miniato e le opere a stampa prima presentati.

Le fa degna  compagnia un canto popolare di Maglie registrato da Saverio La Sorsa in Tradizioni popolari pugliesi, v. II, Casini, Bari-Roma, 19346, sempre in forma dialogata, con la Morte (M.) interlocutrice fissa, mentre il secondo interlocutore è un cavaliere (C.) nella prima parte e una vecchierella (V.) nella seconda. Non mi sono lasciato sfuggire l’occasione di aggiungere di mio a fronte la traduzione e in calce qualche nota.

Mi piace ancora ricordare che il tentativo di corrompere la Morte operato nel componimento gallipolino dal Papa [Lu Papa me ‘mprumise grandi cose/lu lassu n’addu picca a quistu mundu (Il Papa mi promise grandi cose purché lo lasciassi un altro poco a questo mondo)] e dalla Regina del Portogallo7 [Sùbitu me tirau na seggia ‘ndurata:/ –Sèttate, cuntamu, lu tiempu passa …/Tegnu na quantitate de danaru/ci gnòrima8l’ha ‘cquistatu cu’ suduri:/o Morte te lu ‘oju regalare/cu te faci camise e muccaturi9! (Subito mi accostò una sedia dorata: /- Siediti, parliamo , il tempo passa …/Ho una quantità di denaro/che mio padre ha messo da parte coi sudori:/o Morte, te lo voglio regalare perché ti compri camicie e fazzoletti!)] e in quello magliese dal cavaliere (ca jeu mille ducati te darìa) è, in un certo senso, un topos perché ricorre in un’altra poesia popolare registrata per Lecce e Cavallino da Antonio Casetti, Canti popolari delle provincie meridionali, v. II, p. 260 (fa parte del volume III di Canti e racconti del popolo italiano, a cura di Domenico Comparetti e Alessandro D’Ancona, Loscher, Roma- Torino-Firenze, 1872). Anche qui ho pensato bene di aggiungere per i non salentini  la mia traduzione a fronte. Originalissima mi è parsa, inoltre, in questa poesia, rispetto al canto gallipolino, l’inversione dei ruoli: il vivo (e non si tratta certamente di un potente ma di una giovane popolana) che, disperato per le condizioni di salute della persona amata, va a cercare la Morte per farla fuori!10

a Da notare nell’originale stile, forma obsoleta per stilo.

b Nell’originale carusieddhu, diminutivo di carusu, per il cui etimo vedi la nota 29 in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/28/lunes-dla-marenda-e-pascaredda-torino-chiama-nardo-risponde/

c Scenca è, come l’italiano giovenca, dal latino juvenca(m) ma con sincope di –v– e normale esito in sc– di j seguito da vocale; trafila juvenca(m)>juenca>sciuenca>scienca>scenca, come, con sincope di –g-, in jugu(m)>juum>sciùu (=giogo).

d Natale, Carnevale, Pasqua: Natale e Pasqua le abbiamo già incontrate; il Carnevale è del tutto irrilevante quale indizio confirmatorio dell’etimo che ho proposto per scardallàsciu?

Chiudo con il dettaglio dell’affresco di un anonimo del 1485 visibile sulla facciata dell’Oratorio dei Disciplini, a Clusone, in provincia di Bergamo (di seguito nell’immagine tratta da http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/2/24/Triumph_death_clusone.jpg).

La corona che la Morte esibisce in testa, il sarcofago ai suoi piedi con i cadaveri di un papa e di un imperatore,  le armi, un arco e un archibugio, con cui i suoi assistenti colpiscono a destra e a manca potenti e meno che inutilmente offrono tesori, il Gionto la morte piena de equaleza sole voy ve volio e non vostra richeza e digna sonto di portar corona p(er) che signorezi ognia p(er)sona (Io sono la Morte piena di uguaglianza; solamente voi voglio e non la vostra ricchezza e soni degna di portare la corona per signoreggiare ogni persona), due coppie di endecasillabi a rima baciata, che campeggia nel cartiglio che la Morte sventola vittoriosamente con la mano sinistra, sintetizzano, in un modo che non riesco ad immaginare più efficace, il tema fin qui trattato.

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1 Un poema di folclore : la Mammella di Sant’Agata per le feste gallipoline nell’ottavo centenario dell’invenzione, Stefanelli, Gallipoli, 1926

Il paganesimo nel folclore salentino, Tipografia  Classica, Firenze, 1929

Giovanni Andrea Coppola, pittore e dottor fisico gallipolino del Seicento, Stefanelli, Gallipoli, 1930

Gli Ebrei nel Salento, La Modernissima, Lecce, 1933

I marchi di fabbrica nei vasi italioti, La Modernissima, Lecce, 1933

Il castello di Gallipoli : illustrazione storica architettonica, La Modernissima, Lecce, 1933

Il dopolavoro e i cori tradizionali del Salento, La Modernissima, Lecce, 1934

... E torna masciu … : bozzetto drammatico folcloristico, La Modernissima, Lecce, 1937

Tombe preistoriche nel Salento, Tipografia salentina, Lecce, 1938

La Passione di Gesù nelle tradizioni popolari salentine, Prampolini, Catania, 1939

Tra scogli e riviere: miti e leggende, Editrice salentina, Lecce, 1942

Giuseppe Castiglione e il folclore nei suoi romanzi storici, Editrice salentina, Lecce, 1942

Il mito di Apollo e di Admeto nel folklore salentino, Cressati, Bari, 1944

Ricordi storici ancor vivi nel folclore salentino, Cressati, Bari, 1945

Il porto di Gallipoli, Tipografia Pizzino, Lecce, 1947

Un canto gallipolino su Giuseppe Ribera (Lo Spagnoletto), Laterza, Bari, 1967 [Estratto da Archivio storico pugliese, 19 (1966), nn. 1-4]

Un patriota gallipolino: Francesco Patitari, Cressati, Bari, 1952

2 Qualcosa avrei pure da ridire anche a proposito della serpentana, una medicina dell’antica farmacopea, ricordata ancora da qualche vecchio speziale, a base di erbe, di effetto vermifugo e soporifero, forse l’erba serpentaria (Aristolochia) dal sugo letale pei rettili e salutare contro le morsicature di essi. Anche se il forse che accompagna il tentativo di identificazione non può farmi che piacere, debbo, però far notare che qualcosa non torna. Non so da quale autore il Vernole abbia tratto l’informazione sull’aristolochia letale pei rettili. Lasciando da parte la considerazione che difficili sono negli animali gli avvelenamenti, per giunta mortali, provocati da erbe (in quanto le conoscono molto meglio di noi), debbo dire che non conosco (prudentemente non dico non si conosce; se qualcuno lo trova me lo faccia sapere) autore, antico o moderno, che abbia attribuito all’aristolochia tale potere. Nella Naturalis historia a quest’erba Plinio dedica l’intero capitolo 54 del XXV libro. In esso distingue cinque specie di Aristolochia e all’inizio ne fornisce l’etimo: Inter nobilissimas aristolochiae nomen dedisse gravidae videntur, quoniam esset ἀρίστη λεχούσαις (Tra le [erbe] più nobili sembra che le gravide abbiano dato il nome all’aristolochia, poiché sarebbe ottima per le puerpere). Preciso che aristolochia è trascrizione del greco ἀριστολoχία (o ἀριστολὁχεια), parola composta da ἄριστος=ottimo+λόχια=parto. Subito dopo ne distingue cinque specie dalle generiche proprietà medicinali, ma per tre di loro è più preciso. Così afferma che quella descritta tuberibus radicis rotundis (dalla radice rotonda a forma di tubero) è contra serpentes (contro il morso dei serpenti) e che piscatores Campaniae radicem eam … venenum terrae vocant, coramque nobis contusam mixta calce in mare sparsere. Advolant pisces cupiditate mira statimque exanimati fluitant (i pescatori della Campania chiamano quella radice veleno di terra e in mia presenza dopo averla pestata la sparsero in mare dopo averla mescolata con la calce. Con incredibile avidità i pesci accorsero e subito galleggiarono boccheggianti). La oblonga (dalla radice allungata) in summa tamen gloria est ea, si modo a conceptu admota vulvis in carne bubula mares figurat, ut traditur (tuttavia è la più apprezzata, se, come si dice, accostata dopo il concepimento alla vulva avvolta in carne di bue, fa nascere maschio). Quella che polyrrhizos cognominatur convulsis, contusis, ex alto praecipitatis radice pota ex aqua utilissima esse traditur, semine pleuriticis et nervis, confirmare, excalfacere, eadem satyrion esse (è chiamata polirrizo si dice che è utilissima in caso di strappi, contusioni e cadute dall’alto bevuta con acqua, che il seme giova a chi è affetto da pleurite ed ai nervi e che essa rassoda, riscalda, è afrodisiaca).

Nel capitolo successivo, nel quale parla delle erbe utili contro il morso dei serpenti, si legge questo a proposito anche a proposito del polirrizo, che precedentemente aveva detto esser chiamato da alcuni plistolochia (anche questa, come aristolochia, dal greco πλειστολόχεια, con in comune il secondo componente mentre il primo è πλεῖστος=grandissimo) : Cantabrum, dictamnum, aristolochia: radicis drachma in vini hemina saepius bibenda. Prodest et illita ex aceto; similitere plistolochia. Quin et omnino suspensa supra focum fugat e domibus serpentes (La cantabrica, il dittamo, l’aristolochia: da bersi ripetutamente una dracma di radice in mezzo litro di vino. Giova anche empiastrata con l’aceto; allo stesso modo la plistolochia. Anzi senza dubbio sospesa sopra il camino tiene lontani i serpenti dalle case).

Concludendo: l’aristolochia potrebbe essere identificata nella serpentana della poesia, ma a condizione che serpentana sia deformazione popolare di serpentaria non perché letale per i rettili ma per la sua proprietà di neutralizzare i morsi dei serpenti e di tenerli lontani dalle case. Tenendo conto della sua ulteriore proprietà di agevolare il parto io non escluderei che la stessa somministrata in anticipo rispetto al lieto evento abbia un effetto abortivo e comunque, assunta anche da una non gravida in dose eccessiva, potrebbe essere causa di gravi disturbi e, in soggetti particolarmente sensibili, anche di morte. Non mi spingo ad invocare probabili collegamenti, per quanto riguarda il primo effetto, con la morte per parto (o aborto procurato in avanzato stadio di gestazione?) della regina Giovanna (vedi nota n. 7). Per chiudere in bellezza, anzi a modo mio, mi pongo solo una domanda e se la serpentana, a differenza della serpentaria, non fosse un’erba (a questo punto mi viene in mente l’aro detto anche pan di serpe; vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/01/10/gichero-pan-delle-bisce-calla-selvatica-per-i-salentini-recchia-ti-prete-o-ua-ti-scursuni/) ma una pozione a base di veleno di serpente?       

3 Rationale divinorum officiorum; cito dall’edizione Dura, Napoli, 1859, p. 571

4 Barbarorum leges antiquae, III, 84, Coleti e Pitterio, Venezia, 1785

5 Sermones, 265 (a), 4; cito dall’edizione dell’opera omnia a cura dei Benedettini, s. n., Parigi, 1841, colonna 2239

6 Ma era apparsa già in Apulia, Apulia, Martina Franca, v. II, 1911, pp. 110-111. Per una versione in pizzica: https://www.youtube.com/watch?v=y_jqfs7xtaU

7 Le uniche regnanti della storia portoghese furono Maria I (1734-1816) e sua nipote Maria II (1819-1853). Nella prima la morte, data l’età, poteva essere considerato un fenomeno fisiologico e, dunque, non sfruttabile per ammonire sulla caducità della vita e su quella, ad essa connessa, del potere. La seconda, invece, morì di parto a 34 anni; incoronata nel 1826 a soli 7 anni, poco dopo era stata detronizzarta e infine reincoronata nel 1834. Credo, perciò, che non sia neppure lei la Rigina ‘ncurunata della poesia gallipolina. D’altra parte, siccome è ipotizzabile che la composizione sia più antica del XIX secolo, il Portogallo diventa una determinazione fittizia (dello stesso valore del nome di un paese immaginario, tanto per intenderci), senza alcun riferimento storico, come, secondo me, vale pure per il Papa, nonostante la bellicosità faccia venire immediatamente in mente Giulio II, alias il papa guerriero o il papa terribile.

8 Composto da gnore (per aferesi da signore)+l’aggettivo possessivo di prima persona singolare enclitico –ma; quello dell’aggettivo possessivo enclitico è nel dialetto salentino un dettaglio tipico dei rapporti di parentela, per cui vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/wp-admin/post.php?post=24488&action=edit. Quanto al fatto che il padre avrebbe guadagnato il denaro coi sudori, credo che la regina l’abbia detta veramente grossa …

9  Dal latino medioevale mucatorium, da mucare=espellere il muco; di mucare, sempre nel latino medioevale esiste la variante muccare, da muccus, che è dal classico  mucus=muco. Proprio dal participio futuro di muccare (muccaturus) è derivata la voce salentina che, dunque, alla lettera significa destinato ad espellere il muco.

10 In tempi più vicini a noi né alla corruzione né alla violenza, ma ad una partita a scacchi affiderà la sua sfida alla Morte il cavaliere Antonius Block nella piéce teatrale Trämålning (Pittura su legno) scritta nel 1955 da Ingmar Bergman e trasposta l’anno successivo nel film Det sjunde inseglet (Il settimo sigillo) da lui diretto. E un’incisione di Albrecht Dürer (1471-1528), Il piccolo cavallo, del 1513, di seguito riprodotta da http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b6951300k.r=Albrecht+D%C3%BCrer+.langEN, campeggia allusivamente sulla scrivania del coraggioso, contro i delinquenti e la malattia, commissario Vice, il  protagonista de Il cavaliere e la morte di Leonardo Sciascia.

La culia (lo spicchio)

di Armando Polito

Mi è capitato spesso di non poter rispondere nello spazio riservato ai commenti a qualche gentile lettore che si è degnato, suscitando in me una gratitudine di gran lunga superiore a quella che di solito accompagna un mi piace facebookiano, di fare le sue critiche e fondate affermazioni o di dare il suo prezioso contributo integrativo. Anche questa volta sono costretto a ricorrere ad un post ad hoc non solo e soprattutto perché il tema che ora svilupperò richiedeva adeguata riflessione e qualche indagine, in parole povere un po’ di tempo, ma anche perché esso meritava, almeno, credo una visibilità, che mi auguro comporti ulteriore partecipazione, difficilmente assicurabile da una semplice risposta ad un commento.

Per chi fosse interessato segnalo come punto di partenza la lettura (o rilettura) del post in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/03/23/lu-giunculu-lo-spicchio/ dove troverà il commento che di seguito riproduco in formato immagine.

Dato per scontato che il signor Fernando non è un buontempone che vuole divertirsi alle spalle del sottoscritto e che la voce nevianese esiste veramente, la prima tappa, scontata o quasi, per chi si occupa di queste cose è consultare il Vocabolario dei dialetti salentini del Rohlfs. Ed è stata la prima doccia fredda: nell’opera citata la voce è assente. Ma, si sa, le docce fredde sono estremamente stimolanti …

Il secondo passo è consistito nel prendere in mano il vocabolario di greco. Seconda doccia fredda (nessun vocabolo che potesse candidarsi come padre di culia), ancora più stimolante della prima …

Infatti di colpo mi è venuto in mente che parecchie parole dialettali (ma anche italiane, per esempio rena da arena) sono il frutto di un’aferesi (perdita della sillaba iniziale) dovuta ad un’errata discrezione dell’articolo (per rena: l’arena>la rena>rena). Immaginando che culia sia frutto dello stesso processo, verrebbe fuori un originario *aculia, il quale, a sua volta, fa pensare immediatamente all’italiano aguglia (il pesce) che è dal provenzale agulha, a sua volta dal latino tardo acùcula, diminutivo di acus=ago (evidente il riferimento alla forma del muso). E proprio da aguglia, per aferesi dovuta all’errata discrezione dell’articolo, si è sviluppato in italiano guglia: l’aguglia>la guglia>guglia.

Che il corrispondente italiano del nevianese culia sia proprio guglia? Sul piano semantico tutto procede perfettamente. Ogni spicchio, infatti, ha non una ma addirittura due estremità appuntite. Sul piano fonetico, però, se culia derivasse direttamente da guglia, mi sarei aspettato un cugghia, come in magghia da maglia.

Cerco aiuto nel glossarro del Du Cange, dove per il latino medioevale vedo registrato il lemma acùlea che di seguito riproduco in formato immagine con a fronte la mia traduzione.

Il nostro culia potrebbe più agevolmente sul piano fonetico discendere da aculea (anche lui da acus).

Più in basso nello stesso glossario vi è registrato il lemma aculium.

Per completezza di documentazione riporto pure beccusfredus.

 

Al di là della traduzione leggermente differente dello stesso testo per via di marinus nel lemma precedente accordato con ferrus, qui diventato marinas che si accorda con naves, il beccusfredus (parola composta da beccus=becco e fretum=mare) sembra essere la versione manuale e portatile del rostro.

Ritornando al nostro culia, esso potrebbe derivare da acùlia, plurale di acùlium; la conservazione fonetica sarebbe più spinta ed il plurale spiegherebbe il doppio becco che ogni spicchio presenta.

Tutta questa ricostruzione che ha coinvolto aghi, pesci e macchine da guerra sarebbe perfetta se, segnando l’accento (che con le parole dialettali andrebbe sempre posto, anche quando si trova sulla penultima sillaba, il culia del gentile lettore dovesse leggersi cùlia e non culìa. In quest’ultimo caso in riferimento a quanto fin qui (spero chiaramente …) esposto e, in particolare, alle aguglie nominate all’inizio, sarei il primo ad esclamare: – Certi pesci! -.

I castelli di Terra d’Otranto tra il 1584 e il 1610 in una relazione manoscritta del 1611: GALLIPOLI (2/6)

di Armando Polito

19r

Come già fatto per Taranto, chiudo questa parte con una mappa3 che, questa volta, è cronologicamente in linea perfetta con la relazione, essendo stata pubblicata a Roma nel 1591 da Nicolas van Aelst. L’autore è il gallipolino Giovan Battista Crispo, del quale ho avuto occasione di occuparmi recentemente (https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/13/giovan-battista-crispo-lillustre-gallipolino-che-secondo-wikipedia-avrebbe-trovato-e-salvato-a-napoli-larcadia-del-sannazzaro-12/).

Per la prima partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/11/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-taranto-16/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/30/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-otranto-36/

Per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/05/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-lecce-46/

Per la quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/16/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-torre-di-san-cataldo-56/

Per la sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/25/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-brindisi-66/

______________

1 assi per asì nell’originale.

2 Per questa voce vedi la relativa nota nella prima parte.

3 Per questa e per altre mappe antiche di Gallipoli fruibili in alta definizione: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/03/gallipoli-in-otto-mappe-antiche/

Vocazione e mestiere dello scrittore

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di Paolo Vincenti

 

Il profumo greve di tabacco si mischia all’aroma del caffè nella mattina dal sorriso aperto in verginale aspetto, quando balugina l’idea e la creazione prende forma sullo schermo del pc. La sua faccia si contorce in un lieve spasmo, mentre lo sforzo del parto tende i suoi nervi in un momento sospeso, che sarà fermo a jamais nel ricordo. L’aria carica di elettricità nella tensione del fiat, la luce del lampadario che tremola nell’istante supremo in cui l’idea risplende, ambigua, femminea, sensuale, plastica, lussureggiante, prima di esplodere e disperdersi in tanti rivoli. Ma egli questa volta l’ha colta, torrenziale, vorticosa, travolgente, impetuosa, e l’ha piegata nelle proprie mani fabbrili alla fiamma accesa dell’ingegno.  Fulmen in clausola, stoccata finale, momento magico, calce viva ribollente, bilanciamento  di fiele e miele, aprosdoketon, tinnire di campane a festa, exultet che dalla pergamena prende il volo per cieli salvifici e immensi.

Lo scrittore, in vestaglia  da camera blu, ora si accende un’altra sigaretta e guarda ispirato fuori dalla finestra. Ai nuovi lucori del giorno, quello che si presenta ai suoi occhi poco prima sgranati in cauda venenum è uno spettacolo ancestrale di luce che Mater Matuta effonde sul mondo. E luce sia.

E la scrittura è un pensiero che marcia sempre, che cammina insieme da mattino fino a mezzogiorno e poi di nuovo da pomeriggio fino a sera. Un tarlo che non l’abbandona, un pungolo, un alibi, un’ipoteca sul futuro, il sale quotidiano, un grillo, un biglietto che gli ha impedito di spararsi una revolverata, una polizza sulla vita, al limite. Al limite di un giorno cremisi di ricordanze, di ansiti leggeri e rondini che svolazzano disordinatamente, c’è quel pianto sottile che attende al varco dei sogni, sul bordo del letto, al limitare di un ingresso che non attraversa due volte chi lo oltrepassa. Lo scrittore, mentre si prepara un altro caffè, guarda verghiano fuori dalla finestra.

Due nerboruti contadini portano a far riferrare il cavallo in una vicina mascalcia, ma intanto l’equino sgancia sulla strada i suoi maleodoranti bisogni che diverranno concime fertile di altre vite. Ciuffi di margherite ondeggiano nel grande campo screziato di giallo e di bianco che, al soffio dell’ostro, sembra quasi un mare fatato. Lontano, le ubertose colline e le valli in fiore festeggiano il giugno con un trionfo di odori e colori che sembrano inventati. Ora lo scrittore, dopo aver risposto al telefonino, si porta sull’altro lato dell’abitazione che si affaccia sul panorama di un orto concluso. Mentre bombiscono le api sulle ortensie e sugli agapanthus di cui gelose suggono il polline, ammira le insalatine e le patate, e già sente un languorino nello stomaco.

Più lontano dalla bassa cancellata del giardino partono dei sentieri di campagna, che si perdono nell’indefinito. Al poco vento, i cardi disperdono i loro semi e cicaleggianti contadine, appoggiate a grigie biciclette, invadono parlottando quei percorsi. Lo scrittore risponde ad un’altra chiamata e poi inforca gli occhiali borca lozzo che aveva posato su un tavolino e si rimette a lavorare sedendo allo scrittoio. Un uzzolo, un arabesco, un vagabondo pensée lo fanno di quando in quando rinterrogare su quali aeree aspirazioni, quale ghiribizzo, dalla sua terra di origine, al Nord, lo abbiano portato a trasferirsi nell’Ausonia, fra casette e stradine di campagna, veloci lucertole e muretti a secco, gente affabile e cordiale e ritmi di vita più lenti e umani. I raggi del sole riempiono la stanza e tutto brilla, come stillasse una pioggia di diamanti mandati dall’aldilà; il posacenere conta già dieci mozziconi  e la tazzina è di nuovo piena di caffè. Il rincorrere dei pensieri tiene dietro al sentimento indifeso, fra provvidenziali resipiscenze e malvagie recrudescenze.

Lo scrittore guarda di nuovo fuori e il cielo d’Ausonia si riempie di presagi,  segni dell’infinito,  e il facitore compone l’opera armonica, come il ritocco del tempo, un avviso da oltre mondi, un incanto, uno scialo di luce, un portento. E su tutto questo, e su altro ancora, egli scrive.

La storia infinita. Vicende antiche e recenti del quadro di San Pietro in Bevagna

pietro

di Nicola Morrone

 

Il 14 Marzo u.s. è stato portato solennemente in processione  a Manduria  il quadro di San Pietro Apostolo, collocato tutto l’anno nell’omonimo  Santuario di Bevagna. Esso rimarrà nella chiesa Matrice per otto giorni, insieme ai simulacri dell’Immacolata e di San Gregorio, e al termine dell’ottavario sara’ processionalmente riportato nella sua dimora. Il quadro ha una storia del tutto particolare, che in questa sede ripercorreremo brevemente, sulla base delle testimonianze a nostra disposizione. Come è noto, quello che si puo’ ammirare in questi giorni in Chiesa Madre non è il primitivo dipinto del santo , ma un’ennesima, recente copia.

In relazione alle vicende, antiche e recenti, riguardanti la venerata e taumaturgica immagine, proponiamo la seguente cronologia. In epoca altomedievale (secc.V-X), nel primitivo sacello di Bevagna, officiato dai monaci italo-greci (i cosiddetti  “basiliani”) era certamente presente un’icona su tavola, in stile bizantino, definitivamente perduta. Di essa non è in alcun modo possibile ricostruire l’aspetto originario: si può solo ipotizzare, per analogia con i tanti manufatti coevi presenti in chiese dell’ecumene cristiano sia occidentale che orientale, che presentasse San Pietro in posizione frontale, con atteggiamento ieratico, alla maniera di tante altre icone.

Nel Bassomedioevo, dopo l’affidamento del  santuario al clero benedettino ad opera dell’autorità politica normanna, in un periodo  imprecisato (ma verosimilmente nel sec. XVI) l’originaria “tavola picta” bizantina venne sostituita con un’altra tavola, di stile e iconografia completamente differenti. L’immagine rappresentata nel dipinto, come direbbe Cennini, muto’ di greco in latino”, assumendo un impianto stilistico e compositivo moderni, che l’avrebbero contrassegnata fino ai giorni nostri.

Su questi aspetti si è soffermata la studiosa B.Tragni [Cfr.G.Lunardi-B.Tragni, San Pietro in Bevagna nella storia e nella tradizione (Manduria 1993), pp.74-75]. Il nuovo schema figurativo, fissato non anteriormente al sec. XVI (nelle province meridionali, infatti, gli schemi bizantini prevalsero in pittura fino al sec.XV) propone un’immagine del Santo piuttosto insolita, molto lontana dalla nota  tipologia. San Pietro, qui rappresentato  a mezzo busto e con gli attributi iconografici specifici, non porta il consueto abbigliamento (tunica azzurra e mantello giallo), ma indossa vesti dalle tonalita’ più scure. Nella sua Manduria Sacra il Tarentini riporta che nel 1854 fu effettuato una sorta di “restauro al dipinto petrino, ad opera delpittore Semerano, al quale fu dato agio di richiamare alcune linee già sbiadite [Cfr.L.Tarentini, Manduria Sacra (Manduria 1899), p.42].

Chi era questo pittore? Si trattava con ogni probabilità di Antonio Vito Semeraro, pittore di Locorotondo, che in quello stesso anno 1854 firmava la tela con San Rocco e gli appestati, tuttora collocata nella chiesa di San Rocco a Locorotondo. Gli abitanti di Locorotondo avevano infatti uno storico legame con il Santuario di Bevagna: vi si recavano in pellegrinaggio, insieme ad altri cittadini del barese, il giorno della festa del Santo (29 Giugno) e per le “Perdonanze” (1, 2 e 3 Aprile), come testimoniato ampiamente da ex voto, documenti e ricordi personali.

Non è da escludere che il “restauro” del quadro di San Pietro, che segui’ di due anni il ritocco della tempera con i SS.Pietro, Andrea e Marco ad opera del pittore calabrese F.A.Lupi, sia stato finanziato proprio da uno dei tanti pellegrini di Locorotondo, che probabilmente contattò personalmente il pittore suo compaesano. Ieri come oggi, infatti, tutto ciò che è legato al Santuario, oltre che il clero, vede sempre in primo piano i devoti.

Come è noto, il quadro del sec.XVI fu rubato nella notte tra il 13 e il 14 Settembre del 1914, ma fu ridipinto “ a memoria” dalla pittrice manduriana Olimpia Camerario, e reso disponibile gia’ dal 24 Dicembre dello stesso anno.

Il quadro della Camerario fu sostituito con in altro dipinto, realizzato nel 1972 dal pittore maltese Oscar Testa su commissione dell’allora vescovo di Oria Mons. Semeraro, mentre quello attuale, se non andiamo errati, dovrebbe essere opera del pittore ungherese F. Miklos, che vi ha apposto la sua firma in basso a destra, appena leggibile poichè coperta dalla cornice lignea. Insieme alla firma, si indica anche che il quadro è copia da Olimpia Camerario.

Il dipinto attuale è dunque totalmente moderno, anche come valori luministici: il soggetto, chiaroscurato, è infatti colpito da una lucemistica che ne illumina il volto. L’immagine è inserita in una ricca cornice che rappresenta anch’essa un piccolo capolavoro di artigianato, corredato, in alto, dai segni della potestà pontificale di Pietro e, in basso, da tre ex voto argentei, che testimoniano l’attaccamento al Santo da parte della comunità.

 

Cronaca relativa al quadro di San Pietro in Bevagna

(Archivio Vescovile Oritano, Fondo San Pietro in Bevagna,“Libro de’ conti” del Santuario di San Pietro in Bevagna, compilato dal rettore Venusto Pezzarossa)

 

Anno 1914

“Il 26 Giugno si ebbe la nuova cornice per il quadro di San Pietro, fatta per desiderio espresso dal popolo, il quale si era dispiaciuto della cornice che c’era anche nuova, fatta a spese del divoto Cosimo Tatullo.Questa cornice non fu eseguita secondo il sistema della prima ed  e’ percio’ che il popolo non vedeva bene cio’ che si allontanava dal tipo antico. Il cappellano, incoraggiato da alcuni divoti, cercò di appagare il desiderio popolare, dandone l’incarico a Vincenzo Digiacomo di Michele da Manduria, e dimorante in Napoli. Questo esegui’ il lavoro d’intaglio per la somma di lire 300,00; lire 150,00 furono spese per la doratura, e lire 35,75 per imballaggio, cassa, viaggio, ecc, ecc.Per questa cornice quattro divoti hanno dato la somma di lire 330,00…” [e segue con i nomi dei devoti che hanno finanziato la realizzazione dell’opera]

[………..]

“La sera del 13 Settembre, data memoranda, fu rubato dal Santuario il quadro di San Pietro; i ladri, compiendo un atto di vero vandalismo, bruciarono la parte inferiore della porta secondaria e riuscirono cosi’ a poter entrare per compiere l’orrendo sacrilegio. Il popolo rimase addoloratissimo; l’arma dei reali carabinieri fece delle indagini, se ne interesso’ molto lo stesso Ministero, trattandosi di un quadro pregevole per antichita’ del 1500 e per il suo valore di lire 2000,00. Fatto sta che, per quante ricerche si potettero fare, non si venne a capo di nulla.”

[……….]

“Il 24 Dicembre si acquisto’ il nuovo quadro di San Pietro per la somma di Lire 500,00, quadro dipinto dalla concittadina Olimpia Camerario fu Giovanni.La pittrice seppe molto bene imitare il quadro rubato e il popolo ne rimase oltremodo contento.Il 29 dello stesso mese monsignore D.Antonio di Tommaso venne per benedire il detto quadro, e la sera del 30 se ne fece l’inaugurazione nella Chiesa Collegiata.Il denaro per l’acquisto del quadro fu versato dal vescovo e preso dalla somma che lo stesso vescovo si ebbe dal dottor Tommaso Massari e che gia’ aveva impiegato per culto del Santuario.”

Giovan Battista Crispo, l’illustre gallipolino che, secondo Wikipedia, avrebbe trovato e salvato a Napoli l’Arcadia del Sannazzaro (1/2)

di Armando Polito

La biografia di Giovan Battista Crispo occupa il primo posto in Le vite de’ letterati salentini di Domenico De Angelis, Raillard, Napoli, 1713, seconda parte, pp. 43-56. Il lettore curioso troverà l’opera al link https://books.google.it/books?id=SHEOAAAAQAAJ&printsec=frontcover&dq=le+vite+de%27+letterati+salentini&hl=it&sa=X&ei=4U5OVY3VHMH2UPukgcAN&ved=0CCAQ6AEwAA#v=onepage&q=le%20vite%20de’%20letterati%20salentini&f=false

Le pagine indicate sono precedute dal ritratto, che di seguito riproduco,  del letterato gallipolino in un’incisione di anonimo.

A distanza di più di un secolo da quella del leccese un’altra biografia del Crispo, che nulla aggiunge alla precedente, fu scritta dal gallipolino Giovan Battista De Tomasi. Essa fu inserita nel tomo IV della Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, Gervasi, Napoli, 1817 (lo stesso lettore di prima troverà il tomo in http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ASBLE017073&teca=MagTeca+-+ICCU). Le pagine non sono numerate ma le biografie sono in ordine alfabetico; ad ogni buon conto riproduco la parte testuale che ci interessa insieme con l’immagine che, anche qui, la precede.

Il lettore noterà come questa incisione rechi la firma del Morghen. Quasi sicuramente si tratta di Raffaello (1758-1833), figlio di Filippo, incisore pure lui e discendente di una famiglia di incisori. Non mi pare il caso di soffermarsi sulla derivazione (e poteva essere altrimenti?) di questo ritratto dal precedente anonimo.

Volutamente, perché non contiene nulla di utile per il tema trattato, tralascio la biografia più antica, quella scritta dal gallipolino Stefano Catalano (1553-1620), pubblicata da Michele Tafuri in J. Baptistae Pollidori Frentani et Stephani Catalani Callipolitani opuscola nonnulla, Vesino, Napoli, 1793, pp. 79-100 (https://books.google.it/books?id=8f63xFDdBo0C&pg=PA86&lpg=PA86&dq=baptista+pollidori+frentani&source=bl&ots=k4VQyHeZKG&sig=pkz7CToI69Jln1cQ5SYEq6WCrRU&hl=it&sa=X&ei=HGZQVbraG8jjU4zBgcgI&ved=0CCEQ6AEwAA#v=onepage&q=baptista%20pollidori%20frentani&f=false).

 

Perseverando nel taglio, almeno fino ad ora, iconografico di queste note riproduco i frontespizi delle opere che del Crispo furono pubblicate, con in calce il solito link per il solito lettore portatore sano di voyeurismo, anzi, portatore di sano voyeurismo …

http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ABVEE041864 (è stata digitalizzata, come si evince dal bollo sovrimpresso, la copia presente nella  biblioteca Pietro Siciliani di Galatina).

https://books.google.it/books?id=yRyQGqLaCs4C&printsec=frontcover&dq=de+ethnicis+philosophis&hl=it&sa=X&ei=lNdNVeeMIcHuUImegMgE&ved=0CC0Q6AEwAg#v=onepage&q=de%20ethnicis%20philosophis&f=false

https://books.google.it/books?id=yF4BwV_aJZUC&printsec=frontcover&dq=giovan+battista+crispo&hl=it&sa=X&ei=_NhNVYCTNofTU_LcgIAM&ved=0CCYQ6AEwAQ#v=onepage&q=giovan%20battista%20crispo&f=false (ristampata nel 1593 a Roma per i tipi di Zannetti e a Napoli per quelli di Scorigio; per Scorigio ancora nel 1633).

https://books.google.it/books?id=LRo8AAAAcAAJ&pg=PT8&dq=giovan+battista+crispo+due+orationi&hl=it&sa=X&ei=6NtNVbfeEoHfU7GVgbgC&ved=0CCAQ6AEwAA#v=onepage&q=giovan%20battista%20crispo%20due%20orationi&f=false

A questo punto qualche lettore non solo curioso ma anche impaziente sbotterà, forse a ragione: – Che il Crispo fosse famoso lo sapevo e mi pare che quanto fin qui hai riportato (leggi copia-incollato) lo confermi più che a sufficienza. Ma che fine ha fatto il riferimento iniziale a Wikipedia? –

Avrà pure ragione, ma, se vuole, deve seguire i miei tempi, altrimenti interrompa la lettura. Sembra un espediente per suscitare ulteriore curiosità. Sarà, ma non posso non ricordare che il poliedrico gallipolino1 fu anche cartografo. Ecco la sua mappa di Gallipoli, dal titolo La fedelissima città di Gallipoli, pubblicata nel 1591 da Nicola van Aelst.  Qui l’ho dovuta riprodurre per ovvi motivi in formato ridotto ma al link segnalato in calce può essere fruita in alta definizione.

https://www.raremaps.com/gallery/enlarge/23679

Comunque, siccome tra le tante gradazioni di curiosità esiste anche quella pigra, per il lettore pigramente curioso (direi proprio che è un ossimoro …) riproduco, leggibili, la didascalia e la dedica a Flaminio Caracciolo, che appaiono agli estremi in basso; volutamente trascuro (sennò addio Wikipedia …)  l’immagine del gallo ripresa, con la parafrasi del titolo della mappa, nello stemma cittadino ove, com’è noto, il motto è Fideliter excubat (Veglia con fedeltà), mentre qui è Nec animus fato minor (E il coraggio non è inferiore al destino).

– È tempo di passare a Wikipedia? -.

Non ancora. Approfitto della soddisfazione che certamente questa mappa avrà procurato per far notare come quella di Braun-Hogenberg pubblicata nel 1598 (già presentata in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/03/gallipoli-in-otto-mappe-antiche/) ricalca sfacciatamente, pure nella didascalia, quella del Crispo.

– Va bene, è successa esattamente la stessa cosa già vista per i due ritratti; puoi passare, per favore, a Wikipedia? -.

D’accordo, ma prima debbo fare una comunicazione di servizio: tra le mappe di Gallipoli visibili in alta definizione partendo dall’ultimo link segnalato mancava proprio la più datata, cioè quella del Crispo, che all’epoca non ero riuscito a trovare nella definizione adeguata; ho già colmato la lacuna.

– Hai fatto pure la comunicazione di servizio; ora passa a Wikipedia! -.

Debbo prima far notare come il legame del Crispo con Gallipoli non traspare solo dalla mappa ma anche dal fatto che nei frontespizi che delle opere ho riprodotto c’è il riferimento alla città d’origine, fatta eccezione per le Due orationi, dove esso, forse per non dare impressione di parzialità, è sostituito dal titolo professore di filosofia.

E Gallipoli? Ha fatto il minimo, gli ha, cioè, intitolato una via che non so se per caso o consapevole volontà s’incrocia con un’altra intitolata a Giovan Battista De Tomasi, cioè al suo secondo biografo.

Per chiudere questa parte: incrociati non dalla vita ma dalla via.

– Ora che col tuo solito idiota gioco di parole hai esibito tutto il miserabile repertorio a tua disposizione, confrontati con Wikipedia! -.

Sì, ma dopo la pubblicità … scusate la perversione di ascendenza televisiva, volevo dire nella prossima puntata. Così lascio ammutolito l’impaziente lettore di prima, mentre in lui si è già fatto strada il sospetto che io voglia solo guadagnare tempo più che suscitare o, meno ancora, soddisfare curiosità …

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/15/giovan-battista-crispo-lillustre-gallipolino-che-secondo-wikipedia-avrebbe-trovato-e-salvato-a-napoli-larcadia-del-sannazzaro-22/

_______

1 Della sua produzione in versi restano solo componimenti pubblicati in questa o quella raccolta: una corona (cioè un insieme di componimenti, nel nostro caso sono otto, dello stesso tipo metrico e sullo stesso argomento) di sonetti è in In funere Sigismundi Augusti regis Poloniae, Napoli, Cacchio, 1576, cc. 89r-91v (http://babel.hathitrust.org/cgi/pt?id=ucm.5320231068;view=1up;seq=193). Un sonetto è in Rime et versi in lode della Illustrissima et Eccellentissima S. D. Giovanna Castriota Carrafa, Cacchi, Vico Equense, 1585, p.83 (https://books.google.it/books?id=abQXHUOkMowC&pg=PA141&dq=scipione+de+monti+rime+e+versi+in+lode&hl=it&sa=X&ei=uOJMVfCzL4P8UoDGgKAK&ved=0CCEQ6AEwAA#v=onepage&q=scipione%20de%20monti%20rime%20e%20versi%20in%20lode&f=false).

I castelli di Terra d’Otranto tra il 1584 e il 1610 in una relazione manoscritta del 1611: TARANTO (1/6)

di Armando Polito

Amicizia significa pure disponibilità a mettere al servizio le proprie conoscenze, anche casuali, quando sappiamo che esse possono rivestire un’importanza particolare agli occhi di qualcuno di nostra conoscenza. Debbo, perciò, qui ringraziare l’amico campano Aniello Langella che qualche giorno fa mi ha segnalato un link, sicuro che l’esplorazione dopo la navigazione e l’approdo mi sarebbe stata senz’altro gradita ma molto probabilmente pure gradevole. Così è stato, ma sarebbe stato un peccato, intraprendere un nuovo viaggio e lasciar annegare nell’oceano dell’egoismo qualcosa di interessante senza renderne partecipi gli altri. Eccomi così a parlare di un documento manoscritto (è il n. 1933) della prima metà del XVII secolo conservato nella Biblioteca Nazionale di Spagna e interamente leggibile al link http://bdh-rd.bne.es/viewer.vm?id=0000044505&page=1.

Los Castillos del Reyno de Napoles Manuscrito

Si tratta di una relazione sui castelli del Regno di Napoli redatta da un anonimo nel 1612. Particolarmente interessante il fatto che essa in pratica è basata sul confronto tra due precedenti resoconti, rispettivamente del 1584 e del 1611, come si evince da ciò che si legge in 1r.

Avendomi vostra Eccellenza ordinato che gli faccia relazione dei castelli del regno e di questo si potrebbe loro dare avvertimento per servizio di Sua Maestà, per cui ho visto quella che fece Juan Vasquez de Acuña capitano generale di artiglieria in questo regno, per ordine del signor Duca di Ossuna nell’anno 1584, che con permesso di Vostra Eccellenza mi ha dato, tratta dall’originale che si conserva nella reale cancelleria, il segretario D. Andres de Salazar, e che inviò a Vostra Eccellenza l’anno scorso 1610, la Scrivania di razione1 presenta la seguente.

Ora riprodurrò  le carte relative, nell’ordine, ai castelli di Taranto, Gallipoli, Otranto, Lecce, alla Torre di San Cataldo e, infine, al castello di Brindisi; li ho corredati, volta per volta, della mia traduzione (qualche voce dello spagnolo di allora, se non è obsoleta, si differenzia in qualche dettaglio fonetico da quella attualmente in uso; sarei grato a chiunque, conoscendo bene lo spagnolo, anche di oggi, mi segnalasse qualche, tutt’altro che improbabile, errore) e di qualche nota esplicativa (almeno spero …).

TARANTO

c.17r

c. 17 v (riproduco solo la parte scritta)

Chiudo questa prima parte (la successiva riguarderà Gallipoli) con una tavola di Taranto (della quale già mi sono occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/03/31/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-1314-taranto/) tratta dal secondo volume dell’opera di Giovan Battista Pacichelli (1634-1695)  Il regno di Napoli in prospettiva pubblicato postumo (nel 1703) per i tipi di Perrino a Napoli. Nonostante tutti i limiti di fedeltà rappresentativa che simili mappe mostrano e nonostante la sua cronologia, non è da escludersi che l’aspetto della città nel range temporale delle due relazioni (1584-1610) fosse molto simile a quello che qui appare.

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/18/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-gallipoli-26/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/30/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-otranto-36/

Per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/05/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-lecce-46/

Per la quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/16/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-torre-di-san-cataldo-56/

Per la sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/25/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-brindisi-66/

__________

1 Organo amministrativo del regno di Napoli, incaricato di tenere i conti e di provvedere ai pagamenti per conto dello Stato.

2 Colubrina: dal provenzale colubrina, a sua volta diminutivo del latino còluber=serpente, per la forma analoga. Bocca da fuoco ad avancarica entrata in uso nella seconda metà del sec. XVI. Impiegata sia in mare sia in terra, la colubrina è caratterizzata da una lunghezza notevole rispetto al calibro e conseguentemente da una gittata molto superiore agli altri tipi di cannoni . Il tipo più comune pesava 18 q., aveva un calibro di 14 cm e una lunghezza di 4,5 m, sparava palle da 32 libbre a una distanza variabile tra i 400 e i 2500 m. Pezzi analoghi erano le mezze colubrine, più leggere, e le doppie colubrine, più pesanti e usate come artiglieria d’assedio e da fortezza.

3 sagre (o sacre, come subito dopo nella pagina che segue): pezzo d’artiglieria corrispondente ad un quarto di colubrina e che tirava palle variabili da 8 a 20 libbre.

4 Traduco così esmeril che è dal francese antico esmeril che alla lettera significava sparviero; era un pezzo di artiglieria di importanza secondaria,  un po’ più grande del falconetto ( nella foto) che era  pezzo di artiglieria simile al falcone ma di calibro più piccolo).

 

Il Salento nei ricordi e nella fantasia di un invidiabile ottantenne: intervista a Ercole Pignatelli

1

di Gianluca Fedele

 

Che gli avvenimenti casuali siano i migliori nella vita è proprio vero, come d’altronde lo è stata l’occasione di realizzare questa intervista del tutto inaspettata quanto desiderata.

Lunedì 27 aprile, presso I Teatini a Lecce, si è inaugurata l’esposizione temporanea “1953-2015 Un lungo viaggio ininterrotto” dedicata al maestro Ercole Pignatelli. Il mio amico Davide Sambati, suo grande estimatore, mi propone di accompagnarlo e io accetto di buon grado.

Parcheggiamo l’auto e in leggero ritardo rispetto all’orario di inizio ci avviamo attraversando Porta Rudiae. Quando ci accingiamo a entrare nella sala che ospita l’evento è Paolo Perrone, da buon padrone di casa, che sta introducendo la mostra e inoltre facciamo in tempo ad assistere a un simpatico siparietto tra pittore e sindaco sulla scottante questione dell’ingresso veicolare all’interno del centro storico di Lecce, dove persino gli astanti non fanno mancare i loro vivaci interventi.

Terminata la presentazione in molti accerchiano l’artista per un saluto o un autografo mentre altri si dissolvono per osservare le opere esposte. Tra gli intervenuti riconosco l’assessore del mio paese, Maurizio Leuzzi, e quasi scherzando gli domando: “Secondo te il maestro me la rilascia un’intervista?”. Non ho quasi terminato la domanda che ho già un appuntamento. Nel frattempo a noi si erano uniti lo stesso Pignatelli e Claudio Quarta; quest’ultimo propone la sua azienda vitivinicola quale location per l’incontro e anche se ci capisco poco annuisco soddisfatto.

Il giorno dopo, alle 17:00, siamo a Guagnano (LE) presso Cantina Moros dove a minuti sarà presentata la nuova collezione delle pregiate etichette “Vite d’Artista” realizzate in edizione limitata con logo disegnato proprio da Pignatelli. Successivamente un rinfresco per celebrare anche l’ottantesimo compleanno dell’artista che qui sembra essere di casa, tant’è vero  che i quadri a sua firma presenti nella prestigiosa struttura sono diverse decine. Per gentile concessione di seguito potremo ammirarne alcuni. Inoltre nella sala convegni di questa ex cantina sociale ha realizzato l’enorme murale “Germinazioni 3”.

Terminato il ricevimento, e dopo un calice di ottimo vino rosso, finalmente ci isoliamo dalla calca e iniziamo a chiacchierare.

 

Funambolo (coll. priv.)
Funambolo (coll. priv.)

D.:

Non vorrei avviare questo incontro con una domanda ma con una riflessione che talvolta faccio con me stesso e cioè questa: ho come l’impressione che chi ha vissuto il dopoguerra abbia respirato un’aria differente rispetto a quella degli anni successivi dove l’arte non era finalizzata a se stessa ma complementare ad altri interessi culturali e soprattutto fermenti sociali. È così?

R.:

Ciò che avviene oggi qui, nel Salento, oramai non mi appartiene in quanto mi sono stabilito a Milano e da decenni non leggo più il polso della vostra realtà locale. Di sicuro, da quello che posso percepire durante le mostre che organizzo, la provincia di Lecce si è evoluta sotto l’aspetto artistico e culturale rispetto al passato e io di quel passato posso raccontarti le mie esperienze; dalla famiglia alla scuola, dal bar alla piazza.

Provengo da un’ottima famiglia e anche grazie a mio nonno, che era medico, da ragazzo ho avuto la fortuna di avere dei rapporti assidui con artisti di notevole calibro quali Lino Suppressa – che ritengo essere stato uno dei maggiori talenti del Salento – Nino Della Notte, Luigi Gabrieli e Aldo Calò. Quest’ultimo è stato anche mio insegnante di scultura.

Ma il sodalizio più intenso e importante l’ho avuto col mio coetaneo di Trepuzzi (LE) Bruno Orlandi.

 

Germinazioni 3 (sala convegni cantina Moros)
Germinazioni 3 (sala convegni cantina Moros)

D.:

Ho già letto di questa intensa amicizia tra voi due. Un artista scomparso giovanissimo, tra l’altro. Che ricordi conservi di lui?

R.:

Orlandi è morto a Udine, appena ventiquattrenne. Come accadeva a tanti, me incluso, che durante il servizio militare dichiaravano di essere pittori, egli venne sfruttato come imbianchino. Purtroppo soffriva di otite, con conseguenti vertigini, e un brutto giorno cadde da una finestra del quarto piano dove stava lavorando.

Di tutti i personaggi che ho sin qui menzionato Bruno Orlandi aveva sul serio la stoffa per diventare un grandissimo pittore; aggiungo senza riserve che, pur essendomi coetaneo, lo percepivo già allora come maestro per me. A sedici anni sapeva disegnare come un antico e se non avesse avuto questo infame destino chissà cosa sarebbe stato in grado di fare in età più matura.

 

Nocturn lucent - particolare (coll. priv.)
Nocturn lucent – particolare (coll. priv.)

D.:

Dove si riunivano gli artisti leccesi in quegli anni?

R.:

Ricordo che in Piazza sant’Oronzo c’era il “Cin Cin Bar” dei fratelli Guido ed era un posto ben frequentato. In quel luogo si riunivano Della Notte, Calò, Gabrieli ma anche Raffaele Giurgola, mio docente all’Istituto d’Arte della materia di “disegno ornato”. Suppressa invece si aggiungeva alla comitiva quasi sempre nei fine settimana perché gli altri giorni lavorava, essendo impiegato presso la Banca d’Italia.

Io, ragazzino rispetto a loro, restavo affascinato dai discorsi che si facevano e dai commenti alle notizie che provenivano dal settentrione d’Italia e dall’Europa in merito ad alcuni nomi già noti come Guttuso o Picasso. Altre volte venivano anche a casa mia per trovare mio nonno e osservando le mie opere non si sottraevano nel dare giudizi o suggerimenti.

 

Paesaggio leccese (coll. priv.)
Paesaggio leccese (coll. priv.)

D.:

Tra questi artisti qual è quello per il quale conservi un ricordo particolarmente felice?

R.:

Non posso scordare i commenti sempre benevoli di Luigi Gabrieli nei miei confronti e nei confronti del mio amico Bruno Orlandi quando sosteneva di averci presi entrambi sotto la sua ala protettiva. Ho sempre ritenuto importanti i suoi giudizi perché venivano da un artista che ammiravo; non esagero asserendo che se Gabrieli fosse vissuto a Milano sarebbe stato considerato ai livelli di Carrà. E non scordo neppure la sua disponibilità nel foraggiare i nostri talenti quando, in orario extrascolastico, riapriva le aule di disegno solo per noi, per permetterci di usufruire dell’attrezzatura dell’istituto, che non potevamo permetterci in casa, e dipingere liberamente. Slanci di generosità che probabilmente nessun altro ci avrebbe concesso.

 

Paesaggio incandescente (coll. priv.)
Paesaggio incandescente (coll. priv.)

D.:

Non si era “liberi” durante le ore di insegnamento?

R.:

Purtroppo per noi in quegli anni avevamo un preside che definire un tiranno è riduttivo, ma cosa peggiore non capiva nulla di pittura. E anche alcuni maestri di materie importanti come “Figura” e “Decorazione” erano decisamente mediocri; nelle loro ore di lezione eravamo infatti costretti a riprodurre continuamente gli stessi soggetti – il più delle volte sculture anonime in gesso – come se ritrattistica e chiaroscuro fossero l’unica cosa importante nell’insegnamento dell’arte. Io e Orlandi vivevamo malissimo questa situazione e così, durante l’ultimo anno, decidemmo di andare a dipingere per conto nostro: armati di fogli, colori, pennelli e panini con la frittata partivamo a piedi per le campagne di San Cataldo dove trascorrevamo l’intera giornata realizzando acquerelli. Un po’ come faceva Edoardo De Candia.

 

D.:

Un personaggio controverso, De Candia. Lo conoscevi?

R.:

Era un vagabondo! Nel ’54 lo portai con me a Milano per cercare di risollevarlo dai suoi guai. All’epoca avevo preso in affitto una stanza in via Munzio Clementi, lo stesso appartamento dove poi venne a fotografarmi Ugo Mulas. Ti dico solo che quando andai alla Biennale di Venezia lo invitai ad accompagnarmi ma non volle venire; un’opportunità sprecata la sua perché io lì conobbi Virgilio Guidi. Al rientro la padrona di casa mi minacciò che avrebbe sfrattato anche me se non lo avessi fatto andare via.

Aveva delle ottime qualità ma anche tanti vizi.

 

Nudo nell'interno - 2002 (coll. priv.)
Nudo nell’interno – 2002 (coll. priv.)

D.:

La scelta di Milano, come città per favorire la carriera artistica, è stata casuale?

R.:

Già Suppressa mi aveva paternamente esortato a trasferirmi fuori; mi disse che se fossi rimasto a Lecce avrei rischiato, nella migliore delle ipotesi, di imboccare la strada dell’insegnamento. Fu un pronostico agghiacciante per me che non avevo neppure voglia di pigliarmi il diploma, figuriamoci diventare insegnate. Così partii prima per Roma, ma non mi piacque. A Milano invece trovai tutto ciò che andavo cercando. Il resto della storia la conoscete già…

 

D.:

Anche se da decenni non vivi più a Lecce si percepisce un legame importante con la tua città di origine e lo vediamo nei motivi architettonici e vegetali che ritornano frequentemente. Che vuol dire avere origini salentine?

R.:

Sono via da sessant’anni ma ritorno di continuo nel Salento perché tutto sommato sono un romantico. Se sei nato qui il sangue nelle vene è quello; anche se vai a New York non cambi. E l’ho avuta la possibilità di andarci in America quando Franz Kline mi disse: «Vieni! Ti porto a conoscere i miei galleristi della “Sidney Janis Gallery”». Poi lui morì dopo un paio d’anni ma io non fui comunque allettato dalla proposta. Sapevo che mi sarei dovuto snaturare seguendo ciò che avrebbe preteso da me quel tipo di mercato che osannava Andy Warhol. Io dipingo masserie circondate dal mare, palme e melograni così come da ragazzo dipingevo l’ex liceo Palmieri dal terrazzo della mia abitazione. Anche questo sono io!

 

Pergolato - 1955 (coll. priv.)
Pergolato – 1955 (coll. priv.)

D.:

Anche quei serpenti che affiorano dalle viscere della terra appartengono alla simbologia rurale?

R.:

Dobbiamo contestualizzare un elemento così evocativo e pregno di significati in una terra come la nostra che è il risultato di millenni di stratificazioni evidentissime, persino nelle cosiddette “tagghiate”, e che è stata oggetto di importanti studi; addirittura il De Nittis nell’Ottocento scrisse di quella tragedia che fu la siccità e la conseguente moria delle vacche. Il mio paesaggio, che è un luogo ideale posto su una zolla di terra e protetto anche da una campana di vetro, è minacciato dal serpente che, uscendo alla ricerca dell’acqua, dall’esterno tenta di lesionare questa difesa per distruggerlo.

 

D.:

Questi paesaggi “ideali” sono spesso ingentiliti dalla presenza di palmizi ma nella realtà il punteruolo rosso oggi ha stuprato in maniera irreversibile il panorama di molte città. Qual è il tuo pensiero a tal proposito?

R.:

Purtroppo questo fenomeno non è circoscritto solo alle palme ma vale la stessa cosa per gli ulivi con la Xylella o per gli agrumi con la Fumaggine. La colpa è di chi dovrebbe garantire il controllo dell’ingresso di prodotti alle frontiere perché ormai è risaputo che i parassiti responsabili di queste epidemie sono stati importati dall’estero. Pur non simpatizzando per il movimento della Lega Nord oggi posso confermare che Bossi aveva ragione quando ammoniva sul non aprirsi troppo.

 

Proliferazione (coll. priv.)
Proliferazione (coll. priv.)

D.:

Ieri sera, durante la presentazione della mostra, ho assistito a un divertente scambio di opinioni tra te e il Sindaco Perrone: lo redarguivi sulla questione della viabilità. Gli artisti, secondo te, dovrebbero essere coinvolti dalle amministrazioni nella progettazione delle città?

R.:

Gli artisti da questo punto di vista sono una risorsa e avrebbero tanto da dare ma purtroppo non vengono ascoltati. In quel caso mi sono permesso di avanzare una battuta per via dei rapporti personali di stima e amicizia che coltivo sia con Paolo Perrone che con Raffaele Fitto. Raffaele lo tenevo per mano quando aveva nove anni e io andavo a Maglie a trovare il padre, il caro amico Totò Fitto. Ma oggi, che sono degli amministratori, più che appuntargli la mia personale visione delle cose non posso fare. Ci sarebbero tante idee da mettere in piedi per esaltare quel meraviglioso centro storico e far guadagnare alla città di Lecce dei bei soldini, oltre che adeguarla del punto di vista della vivibilità. Ora, pur rendendomi comunque conto delle diverse difficoltà che sicuramente esistono, specie quando si tratta di cambiare le abitudini di quindicimila persone – tanti sono gli abitanti del borgo antico leccese – non posso non pensare alla realtà di città come Zurigo, che conosco benissimo e dove ho realizzato delle lunghe mostre. Lì le auto che si vedono in circolazione sono veramente pochissime e l’uso dei mezzi pubblici e delle biciclette è molto diffuso. È quindi solo una questione di cultura ed educazione al bello.

 

Siccità - Oasi (coll. priv.)
Siccità – Oasi (coll. priv.)

D.:

Io sono di Nardò come il pianista Francesco Libetta. Con quest’ultimo so che hai partecipato a un Music Action Painting. È importante l’interazione tra le arti?

R.:

Francesco è un carissimo amico; in quell’occasione eravamo ospiti di Nicola Montinari nella sua villa. Da quando dipingo ho sempre un sottofondo musicale. Pur conoscendoli a memoria i miei preferiti restano Bach, Beethoven, Vivaldi, Stravinskij e non oltre. Sono amante della musica seria, quella che l’ascolti e ti trasmette qualcosa.

 

D.:

Di alcuni dipinti mi attraggono certe cromie quasi fluorescenti. Quanto conta la materia per la buona riuscita dell’opera?

R.:

Nel ’58 smisi di dipingere a olio per una serie di motivi sia pratici che estetici: in primo luogo perché mi dava fastidio e mi danneggiava la salute e poi perché il colore asciugava male. Inoltre c’è che l’olio di lino col tempo ingiallisce e l’esempio viene dalle opere del 1700 ormai annerite. Se invece prendiamo il Cristo morto del Mantegna, realizzato tre secoli prima, noteremo immediatamente delle tinte perfette poiché si utilizzavano tempere all’uovo e colla di coniglio. Personalmente, essendo meridionale, da sempre nella mia pittura e nella conseguente ricerca della gamma cromatica tendo a dare la massima luce e le massime ombre.

 

Logo Vite d'Artista
Logo Vite d’Artista

D.:

Sul tuo ultimo catalogo ho visto una cosa che mi ha fatto sorridere e cioè dei modelli F24 sui quali hai dipinto dei vasi di fiori. Da dove viene la scelta di utilizzare questi atipici supporti?

R.:

Molto semplice: il mio gallerista gli ha venduti tutti a commercialisti!

 

D.:

Veramente divertente! Consiglieresti a un ragazzo che intraprende la carriera artistica di affidarsi a un gallerista?

R.:

Certamente! Direi che è fondamentale, almeno per incominciare a muovere i primi passi. Il mio primo gallerista l’ho avuto a diciott’anni ed era il veneziano Carlo Cardazzo, il più grande col quale io abbia mai collaborato. Subito dopo ho avuto Giorgio Marconi, Tega, Sapone. Attualmente non sono legato a nessuno da questo punto di vista ma comunque le mie opere sono trattate da diverse pinacoteche a Milano, Nizza, Zurigo, etc..

 

D.:

So che anche i tuoi figli sono dei creativi, in particolare Luca che ha seguito pienamente le orme paterne. Come hai reagito quando ti hanno comunicato di voler lavorare nel campo artistico 

R.:

Per risponderti avrei bisogno di molto più tempo. Posso solo dirti che personalmente sono stato felice per loro; oggi più di allora perché mietono successi in tutto il mondo e mi  fanno sentire estremamente orgoglioso. Daniele, il primogenito, dopo aver fatto ventisei esami alla Bocconi per fare Economia e Commercio ora è regista e filmmaker per inseguire il sogno di fare cinema; Luca è un brillante pittore della sua generazione; Francesco si occupa di fotografia. Non potevo sperare di meglio.

 

D.:

Quali sono i tuoi propositi per il futuro?

R.:

Oggi compio ottant’anni e come si fa di solito a quest’età ho iniziato a scrivere un libro di memorie curato da Sebastiano Mondadori per l’editore Johan & Levi. Dovrebbe uscire a novembre. Nello stesso periodo, finito l’Expo, sarò anche impegnato alla Triennale di Milano dove avrò a disposizione la Sala Impluvium.

Dopo, francamente, non lo so cosa farò.

9 maggio 2015

nuovologo21

di Pino de Luca

Sono trascorsi 37 anni da quando l’Italia cambiò verso per davvero. Nello stesso giorno due assassinii: Aldo Moro a Roma, in via Caetani e Peppino Impastato a Cinisi in una stazioe abbandonata. Storie avvolte sempre in mille ombre p’er il grande pubblico. In realtà limpide e chiarissime per chi ha voglia di comprendere e di leggere i fatti. Peppino assassinato dalla Mafia per ordine di Tano Badalamenti (Tano Seduto) morto in carcere in Spagna senza che a Giovanni Falcone fosse stata data la possibilità di interrogarlo. Eppure Don Masino Buscetta ebbe a dire a Falcone: “io so l’ABC di Cosa Nostra, zù Tanu è l’enciclopedia.” Indagini depistate da quell’Antonio Subranni indicato da Agnese Borsellino come “punciutu”. Accusa archiviata ma depistatore di sicuro. Se non per dolo per manifesta incapacità. Ed è strano che un maggiore incapace si ritrovi Generale di Corpo d’Armata.
Sul caso Moro molto è stato raccontato (grandissime falsità) e molto è stato ricostruito, indagini vere e concrete fatte di prove e di testimonianze riscontrate e riscontrabili (ne sanno tanto Manlio Castronuovo e Alessandro Forlani e a depistare, imbrogliare e inquinare sempre gli stessi …
Ma siamo nel 2015, cito le vicende solo perché qualche giovane non perda la memoria, noi sappiamo bene come sono andate le cose …
E allora questo nove di maggio sia lieto a tutti, in fondo è sabato e bisogna goderselo. Stamane, dopo un cattura lentissima e lunghissima, i “pezzetti” sono stati “tirati” con il negroamaro rosso di Cantina Coppola 1489, alzarsi alle cinque per tirare i pezzetti credo che sia un atto di amore unico. alle sette, ovvero tra dieci minuti, si aggiunge il pomodorino e, sempre lentamente, si cuoce per altre sette ore. Saremo ippofagi, ma per noi i “pezzetti” sono un rito e un mito … chissà quanti ne entrano in una “conca”!!!
Un saluto a tutti gli amici e a Pasquale Martinelli che racconta la Puglia migliore nel modo migliore: anche Paul McCartney vittima degli spaghetti alla sangiuannidd … Grazie Pasquale per aver capito che nella semplicità c’è la chiave della porta dell’universo.

P.S.
Nel Regno Unito hanno votato e hanno vinto i conservatori e gli indipendentisti scozzesi. In Italia non abbiamo votato e il risultato è stato uguale. Ora che voteremo che sceglierà il popolo? Un tempo poteva scegliere tra Gesù e Barabba e scelse Barabba. Adesso può scegliere tra Barabba1, Barabba2, Barabba3, … Paperino. I sondaggi dicono, al solito, il contrario di quello che accadrà.

La tela delle Anime Sante nella chiesa madre di Tricase

Tricase

di Luciano Antonazzo

Il dipinto delle Anime Sante che nella chiesa matrice di Tricase adorna l’omonima cappella, di ex patronato della Confraternita dei morti, apparteneva alle monache Benedettine di Ugento. Fu da queste venduto nel 1796 a don Pasquale Piri (procuratore  della stessa confraternita) in seguito alla ricostruzione della loro chiesa (ultimata nel 1793)  intitolata, come il monastero, alla Visitazione della Vergine.

Dai documenti  pervenutici risulta che nell’antica chiesa, tra gli altri, oltre l’altare intitolato alla Visitazione e quello dedicato al fondatore dell’Ordine, vi erano le cappelle  della Madonna di Costantinopoli e quella di s. Anna,  erette entrambe (coi relativi benefici) a cavallo dei secoli XVI e XVII, da Donna Anna Fernandez Pandone, nipote del conte di Ugento, Vincenzo[1], e quella della Madonna del Carmine, fondata nella prima metà del ‘600 da Donna Maria Vaaz de Andrada[2].

Nella rinnovata chiesa di fine ‘700 furono riedificati gli altari della Visitazione, di s. Benedetto e della Madonna del Carmine ed eretto quello della Madonna delle  Vittorie. Per decorarli furono commissionate nuove tele, alcune delle quali furono realizzate dal pittore Onofrio Messina[3]. Quella del Carmine, firmata e datata 1793[4] andò a sostituire  quella originaria che adornava l’antico altare eretto da Donna Maria Vaaz de Andrada.

Quest’ultimo dipinto si era portati a credere che  fosse quello che le Benedettine vendettero alla   Confraternita dei morti di Tricase, mentre, dato che non se ne trovava traccia, si riteneva fosse andato perso il dipinto dell’altare della Madonna di Costatinopoli dell’antica cappella eretta da Donna Anna Fernandez Pandone.

Sembre invece che il dipinto delle Anime Sante di Tricase fosse proprio quello della Madonna di Costantinopoli e che solo successivamente lo stesso fosse stato sottoposto a un rifacimento della parte inferiore, con l’aggiunta delle anime purganti, che lo ha commutato nella raffigurazione della Madonna del Carmine.

Nella tela, recentemente restaurata senza che venisse alla luce alcuna data o firma, è raffigurata la Vergine assisa su un trono di  nubi che con la mano destra stringe la mammella corrispondente dalla quale sprizzano gocce di latte. Sul suo ginocchio sinistro è in piedi il Bambino nudo, con una folta chioma di capelli ricci e biondi, come quelle delle teste alate dei putti che contornano la Madre. La sua mano destra è in atto benedicente, mentre la sinistra regge il globo imperiale.

Nella parte superiore sono effigiati due angeli in atto di posare sul capo della Madonna una corona  con  incastonate delle pietre preziose, mentre in basso sono raffigurati altri due angeli che tendono la mano alle anime purganti sottostanti, rappresentate in primo piano da quattro figure femminili ed un ragazzino, nonché da un quinto volto, sempre femminile, in secondo piano. Al cantone inferiore sinistro del quadro (visto di fronte) si osserva la figura del presunto committente, che si accompagna ad una bastone, con lo sguardo rivolto verso la Madonna e l’indice destro proteso ad indicarla.

Manca nel quadro un elemento classico della rappresentazione della Madonna del Carmine, vale a dire lo scapolare (o abitino) che di norma la Vergine ed il Figlio porgono alle anime sottostanti; al suo posto il Bambino sorregge invece, come detto, il globo imperiale, di solito presente nell’iconografia della Madonna di Costantinopoli.

L’analisi della parte inferiore del dipinto denota una  tecnica ed una cromia diverse rispetto a quelle della parte superiore, come ha evidenziato anche Giuseppe Maria Costantini che ha ne curato il recente restauro.  Egli data la tela al XVII secolo, pur non escludendo la sua risalenza al XVI secolo, e nella relazione finale scrive che la parte superiore è di “buona fattura”, mentre “la fascia inferiore con anime purganti, appare meno accurata e felice rispetto al testo seicentesco, nonché di mano e tempi realizzativi eterogenei”[5].

La pulitura della tela ha evidenziato  che il presunto committente indossa l’abito della Confraternita dei morti, come si evince dal simbolo sodale sulla manica destra raffigurante  il teschio e le due tibie incrociate.  Verosimilmente si tratta del priore, come si evince dal bastone[6], mentre le teste maschili che lo attorniano (nonchè quelle all’altezza della cornice inferiore) sproporzionate e sgraziate, probabilmente raffigurano dei suoi confratelli. Se così è ne deriva che tali figure  non possono che essere state dipinte dopo l’acquisto della tela nel 1796.

Anteriore alla raffigurazione del priore e dei confratelli, ma posteriore alla rappresentazione della Vergine col Bambino e degli angeli, è invece la raffigurazione delle donne e del bambino che fungono da anime purganti. Lo si desume da  quanto riportato nel fascicolo di un processetto del 1670 istruito per l’attribuzione dello ius patronatus del beneficio della Madonna di Costantinopoli, fondato da donna Anna Pandone in contemporanea con l’erezione dell’altare sotto lo stesso titolo[7].

Donna Anna, figlia di Carlo, rivestì ininterrottamente per un decennio la carica di badessa prima che mons. Guerrerio nel 1602 le facesse subentrare una consorella,[8] ed è documentato che assieme a lei, almeno dal 1598, dimoravano nel monastero le sorelle Massimilla, Geronima, Costanza e Beatrice[9]. Nel 1603 il fratello Pietro Antonio, UID in Napoli ed erede universale del padre Carlo, mediante procura a Ferdinando Pandone jr., figlio del conte di Ugento, assegnò loro il censo di dieci ducati annui dovuto al suo defunto padre da Marcello de Letteris e Francesco Antonio Rovito, di Ugento, per il capitale di 100 ducati. Stabilì in detta donazione anche che alla morte di una di loro dovessero subentrare le sorelle superstiti e che alla morte di tutte e cinque i dieci ducati dovessero andare a chi si fosse preso cura della cappella della Madonna di Costantinopoli ed impiegarli in “ annuo introito in favore di detta cappella construtta in detto monasterio”[10].

Nel 1608 troviamo ancora come badessa Donna Anna ma tra i nomi delle consorelle elencati nel documento non ritroviamo più quello di sua sorella Beatrice[11]. Questa era evidentemente deceduta, come ci conferma un altro documento del 1615 (contenuto in detto processetto) e  dal quale risulta che  Donna Anna, il 3 marzo del 1610, aveva chiesto ed ottenuto da mons. Guerrerio che alla propria morte il ius patronatus passasse alle sole sorelle Massimilla, Geronima e Costanza e che alla morte di costoro lo stesso ricadesse al monastero[12].

Donna Anna morì probabilmente nel 1629, anno in cui la troviamo menzionata nei documenti per l’ultima volta, ancora nella veste di badessa[13], mentre l’ultima delle sue sorelle rese l’anima a Dio poco prima del 1649, anno in cui furono la badessa, donna Petronilla D’Urso, e le consorelle a  nominare, come cappellano del beneficio di S. Maria di Costantinopoli, l’arciprete di Salve don Tommaso Carluccio, vicario generale[14].

Da allora in poi, nella vacanza della cappellania, si ebbero diversi contenziosi circa la titolarità del ius patronatus del beneficio, tra cui quello che oppose le monache al marchese di Ugento Don Carlo Pandone e conclusosi nel 1653 in favore delle prime.

Ma fondamentale per il nostro assunto riguardo la ridipintura della tela con l’aggiunta delle figure muliebri è quanto riportato in una vertenza che si tenne nel 1711 e che vide contrapposte le monache al procuratore fiscale della Curia, che sosteneva non spettare al monastero alcun diritto in quanto da tempo, a suo dire, il beneficio e le rendite della sua dote erano state devolute alla Mensa vescovile. Il procuratore delle monache, don Mario Gigli, produsse documenti inoppugnabili  e chiamò a testimoniare su diversi articoli, alcuni anziani, laici ed ecclesiastici.

Nel quarto articolo, oltre a dimostrare che la cappella ed il beneficio erano stati fondati da Donna Anna e che il diritto di patronato era successivamente passato alle sue sorelle e quindi al monastero, il procuratore chiedeva conferma di quanto correva per pubblica voce, cioè che “nel quadro dell’altare di S. Maria di Costantinopoli, vi sino pittate tutte dette Signore Pandone”[15].

La conferma la forniva il  settantenne dottore fisico Michele Memmi il quale nella sua testimonianza dell’11 luglio affermava: “nel quadro di S. Maria di Costantinopoli, vi sono pittate alcune figure, che dicono essere le sorelle Bandone”.

Se dunque le sorelle Pandone furono immortalate nel dipinto della Madonna di Costantinopoli è impensabile che i loro volti potessero essere stati ritratti tra i fuggitivi della canonica casa (o città)  in fiamme di norma dipinta ai piedi della Vergine. Da qui l’idea di ridipingere la parte inferiore della tela e raffigurare le sorelle tra lingue di fuoco richiamanti l’originale edificio in fiamme. Fu in seguito a questo intervento che  venne snaturalizzata la rappresentazione originaria del dipinto e, data  l’impressione che si trattasse di una raffigurazione delle anime purganti, ciò che indusse la Confraternita di Tricase ad acquistare la tela per la propria cappella.

E’ impossibile stabilire l’epoca del ritocco del dipinto, ma il fatto che una delle sorelle fosse stata raffigurata in posizione più defilata potrebbe stare a significare che la stessa fosse già defunta. Si tratterebbe allora della rappresentazione di Beatrice[16] deceduta tra il 1603 ed il 1608, mentre i volti in primo piano riprodurrebbero i lineamenti reali del viso delle sorelle sopravvissutele[17]. Se così effettivamente fosse il ritocco del dipinto non dovrebbe essere avvenuto dopo il 1629, stante la presunta morte di Donna Anna in tale anno.

Ancora più arduo risulta risalire all’autore del ritocco del dipinto; un indizio però potrebbe essere rappresentato dal fatto che tra il 1616 ed il 1618 è documentata la realizzazione di alcuni quadri per il monastero ad opera del pittore di Nardò Donato Antonio d’Orlando, tra cui quello raffigurante s. Maria Maddalena e s. Francesca Romana, commissionatogli nel 1618 da Donna Massimilla Fernandez Pandone, sorella di Donna Anna[18].

S. Maria Maddalena e s. fracesca romana - 1618

 

[1] I conti di Ugento non discendevano direttamente dai Pandone conti di Venafro ma da tale Diego Fernandez (giovane spagnolo venuto in Italia al seguito di un non meglio precisato capitano)  che fu adottato dall’ultimo cavaliere della nobile famiglia Pandone.  Questi alla sua morte (sul finire del XV secolo) lasciò come suo erede il giovane adottato, il quale prese per proprio nome quello della sua famiglia, Fernandez, e per cognome  assunse quello dei Pandone. I suoi successori adottarono il doppio cognome Fernandez Pandone. (Cfr. B. ALDIMARI, Memorie historiche di diverse famiglie, così napoletane come forastiere , Napoli 1691, p. 114.

[2] Maria Vaaz de Andrada, verosimilmente primogenita di Michele, conte di Mola, barone di S. Donato e Signore di S. Michele Salentino, la troviamo ancora in vita nel 1657, nella veste di vicaria del monastero (v. ASLE, Sez, notai, 20/3, not. Marco Antonio Ferocino, protocollo del 17 marzo 1657, cc. 10r-12r).

Per quel che concerne l’erezione dell’altare della Madonna del Carmine in un atto di proprietà privata, del notaio Francesco Carida (di Morciano ma rogante in Ugento) del 16 agosto 1687, troviamo specificato che Donna Giovanna Bartirotti Piccolomini d’Aragona chiese ed ottenne di accrescere la dote della Cappella della Madonna del Carmine fondata nel monastero dalla defunta monaca Donna Maria Vaaz de Andrada “sua zia”.

[3] Pittore quasi del tutto sconosciuto la cui patria, Molfetta,  risulta da un suo quadro autografo raffigurante il vescovo di Ugento mons. Giuseppe  Corrado Pansini (1792 -1811). Nel dipinto  il vescovo  tiene fra le dita della mano sinistra un foglietto sul quale é scritto: Anno 1792Onofrio Messina da Molfetta». Il vescovo, anch’egli molfettese, ricorse verosimilmete al pittore per conoscenza diretta.Di questo pittore  abbiamo rinvenuto una nota biografica in cui si dice: «Egregio pittore che da maestro aveva lo studio. Molti quadri dello stesso sono in Roma onorati di plauso. E’ egli tra viventi; ma da molti anni è cieco». (Cfr. M. ROMANO, Storia di Molfetta – dall’epoca dell’antica Respa sino al 1840, parte sedonda, Napoli 1842, p. 88). [ da Google libri].

[4] Alla base del quadro  si legge: Onofrio Messina / Fece l’Anno 1793. Per lo stesso monastero il Messina realizzò anche il dipinto della presentazione di Gesù al tempio  alla cui base si legge: Onofrio Messina / copiò l’anno 1793.

[5] G.M.COSTANTINI, Tricase, Chiesa Matrice Natività B.M.V., Restauro Madonna Del Latte (olio su tela – ca. cm 240 x 160 –sec. XVII-), Consuntivo Tecnico-Documentario con Piano Manutenzione, pag.37 – 25/10/2013 (Depositato presso: MiBAC-SBSAE PUGLIA, Bari; PARROCCHIA NATIVITÀ B. M. V., Tricase; DIOCESI UGENTO – S.M. di LEUCA, Ugento).

[6] Un segno distintivo del capo della confraternita era il cosidetto “bastone del priore”

[7] Cfr. ASDU, Benefici – Ugento/18 (ben. Madonna di Costantinopoli – 1670). Nel fascicolo, con carte non numerate, la documentazione ultima è della fine del 1700.

[8] Cfr. ASDU, Visite ad limina (mons. P. Guerrerio 1603).

[9] Le cinque sorelle le troviamo menzionate precedentemente in un atto del 1598 (cfr. ASLe, Sez. notai, 96/1, notaio P.Orlando, protocollo del 14 luglio 15987, cc. 38v- 41v.

[10] ASLe, Sezione Notai, 78/1, not. N. Pici, protocollo del 3 febbraio 1603, cc. 11r-13v.

[11] ASLe, Sezione. Notai, 78/1, not. N. Pici, protocollo del 2 novembre 1608, cc. 75r-76r.

[12] ASDU, Benefici, Ugento/18, cit. In un atto del 1615 col quale le suore accettano la devoluzione del ius patronatus è detto che  Donna Anna aveva  eretto e dotate le due cappelle “di robbe proprie d’essa ab estra della monicatione e fatighe sue”. Questa espressione fa ipotizzare che la stessa Donna Anna fosse stata un tempo sposata dato che la sua disponibilità economica, indipendente dalla dote monacale, non poteva che derivarle dalla dote matrimoniale o dall’antefato.

[13] ASLe, Sez. Not., 20/1, not. L. De Magistris, protocollo del 9 febbraio 1629.

[14] ASDU, Benefici, Ugento/18, cit.

[15] Ivi.

[16] La sua raffigurazione con i capelli cortissimi fa supporre che fosse deceduta poco dopo aver preso i voti, occasione in cui si procedeva al taglio della chioma dell’ex novizia.

[17] Per quel che riguarda poi la raffigurazione del bambino, inusuale nella rappresentazione delle anime purganti, verosimilmente si tratta, se non di un figlio di Donna Anna (v. sopra nota 10) di un nipote delle stesse sorelle Pandone.

[18]S. LANCILLOTTI, “Mercurio Olivetano – ovvero la Guida perle strade d’Italia per le quali sogliono passare i Monaci Olivetani”, Perugia 1628. [Cfr. P. P. DE LEO (a cura), Viaggi di monaci e pellegrini, Ed. Rubettini, Soveria Mannelli 2001, p. 45, nota 4)].

 

 

La chiave

Traini

di Alessio Palumbo

 

Da piazza della Repubblica fino a via Belvedere era (ed è) tutta una salita. Sulle pendici di quella che fino alla fine dell’Ottocento era stata una bassa collina tutta ulivi, vigne, mandorli e pietre più o meno accatastate a formare muri e casupole, la mano dell’uomo aveva disegnato, nel giro di una cinquantina di anni, un dedalo di vicoli stretti, slarghi, corti, viuzze delimitate da basse case dalle pareti di calce o al più tinteggiate con cupi rossi e pastosi gialli ocra.

Dal punto di vista urbanistico, piazza della Repubblica rappresentava l’unica vera piazza del paese, una sorta di lago rettangolare,limitato da quattro vialoni a due a due paralleli. Le viuzze della serra si tuffavano come tanti torrenti disordinati su una delle due direttrici che andavano da sud a nord, denominata via Collina. Gli altri viali segnavano invece il confine tra il paese e la campagna. Una campagna ricca, punteggiata di masserie e villini di nobili e commercianti gallipolini. Il borgo dunque si era sviluppato sull’altura, cercando frescura, brezze marine e piacevoli vedute: dalla cima, il mare e la città di Gallipoli si stagliavano nitidi subito dopo la vasta distesa di campi. Il dedalo di stradine che incideva il lato della collina si faceva un po’ più regolare sulla vetta, pur accrescendosi la ripidità. Via Belvedere rientrava tra queste strade di recente tracciato: rette asfaltate che si inerpicavano sull’ultimo tratto collinare per sfumare negli uliveti.

Dall’inizio del tragitto alla fine, da piazza della Repubblica a via Belvedere appunto, correvano (e corrono) un paio di chilometri, una mezza dozzina di strade, a voler fare il percorso breve, ed un dislivello di una trentina di metri. Raffaele Caputo, per tutti mesciu Rafè, percorreva lo stesso medesimo tragitto ogni sera che Cristo mandava in terra: andata e ritorno, col caldo o col freddo, d’inverno e d’estate, con il cielo terso o sotto il diluvio. Le mani ben salde l’una nell’altra dietro la schiena, la testa pesantemente piegata in avanti e il passo malcerto, soprattutto al ritorno. In alcuni momenti del suo andare, specialmente a metà delle salite più ripide, le gambe sembravano perdere sicurezza: mesciu Rafè ondeggiava, faceva un paio di passi all’indietro, un paio di lato e poi, riprendendo la camminata, riavviava anche il borbottio che accompagnava le sue passeggiate serali. Un borbottio regolare, con un volume che variava dall’intensità del sugo che sobbolle, a quella di una vespa col carburatore ingolfato. Un soliloquio quasi ininterrotto, se non per una scatarrata di tabacco di tanto in tanto.

Ecco, un altro elemento che non poteva mancare nelle scarpinate serali di mesciu Rafè: il sigaro. Non fumava mai da seduto o da fermo; lo faceva solo in movimento, masticando con rapidi movimenti delle labbra un mezzo toscano immarcescibile: accesso, fumante ma, chiunque lo avrebbe giurato, sempre della medesima lunghezza. In realtà, il sigaro di mesciu Rafè lo avevano visto in pochi: tra il buio della notte e la testa chinata nella tipica andatura, si poteva individuare giusto la brace della punta e le piccole nuvolette di fumo che circondavano il testone ingombro di mille pensieri.

Pensieri confusi, inutili, raramente consequenziali l’uno all’altro: pensieri ispirati dal vino. Del resto quali altri pensieri, nel senso di preoccupazioni, poteva avere mesciu Rafè: non aveva moglie, né figli, né parenti abbastanza prossimi; di salute stava più che bene e in quarant’anni di carrettiere aveva messo da parte una buona cifra, si era costruito una casetta su via Belvedere ed un’altra sulla parallela, via Trieste, che ora affittava ricavandone la rendita necessaria per mangiare, pagare le tasse e bere, ovviamente. Altre esigenze non ne aveva.

Quella sera di fine giugno, vuoi il caldo, vuoi l’eccezionale carico di vino che trasportava nell’otre che il padreterno gli aveva impiantato al posto dello stomaco, impiegò più tempo del solito per raggiungere casa. Arrivò all’imbocco di via Belvedere che i lampioni erano già spenti e per strada non c’era nessuno. La sua casa era la seconda sulla sinistra e la raggiunse con un ultimo sforzo. Piazzatosi a gambe larghe di fronte alla porta di legno pesante che lui stesso aveva dipinto di verde, si mise a trafficare con la serratura. Al buio rischiarato a tratti da una mezzaluna che entrava ed usciva dalle nuvole sfilacciate, cercò, senza successo, di far scattare la serratura. Non ci fu nulla da fare. Il meccanismo non girava. Il borbottio di mesciu Rafè si fece più intenso e cominciò a condirsi di bestemmie via via più articolate. In una sorta di crescendo rossiniano cominciò a chiamare in causa San Rocco con relativo cane, San Nicola, tanto quello dei paesi vicini quanto quello di Bari, quasi fossero tanti fratelli sparsi per la Puglia, madonne di vario tipo, esistenti e non. Niente: la porta rimaneva chiusa.

Spossato dal caldo Valentino, detto Ndinu, sedeva al centro del camerone che dava sulla strada. La stanza era grande e vuota, non avendo ancora nulla con cui arredarla, per questo l’aveva momentaneamente adibita a deposito. Valentino era il dirimpettaio di Raffaele, carrettiere anche lui, ma relativamente giovane e soprattutto in attività. All’indomani sarebbe dovuto uscire di casa alle quattro, ossia da lì a cinque ore, ma il sonno non veniva e per non disturbare la moglie incinta si era messo a sedere nel magazzino, visto che a restare steso nel letto non aveva ottenuto altro che un’accresciuta agitazione. Il borbottio di Raffaele, percepito da lontano, gli aveva fatto capire che oramai si era fatta sera tarda e ciò lo aveva reso ancor più nervoso. Figurarsi poi la litania di bestemmie recitata ad alta voce che aveva preso il posto dei mugugni. Non riuscendo più a sopportare la voce greve del dirimpettaio si rizzò in piedi, aprì con foga la porta e balzò fuori casa.

Ora bisogna sapere che, per quanto Valentino possa essere un nome delicato, con richiami poetici con corredo di brocche di biancospini, o cinematografici grazie al celebre Rodolfo, il Valentino in questione non aveva nulla di tutto ciò. Alto poco più di un metro e sessanta, massiccio come un macigno nei suoi centoventi chili, forte come un bove, gli occhi perennemente arrossati da una congiuntivite mal curata, un immancabile fazzoletto rosso attorno alla gola e la testa tonda e calva, non aveva nulla di poetico.

Attraversò con due balzi il breve tratto di strada che lo separava da mesciu Rafè. Questo, intento a lottare con la serratura, non percepì la presenza del dirimpettaio, che quindi lo afferrò di sorpresa per le spalle, lo fece ruotare violentemente e lo scosse ben bene, come un albero di gelsi.

“Mesciu Rafè, pe la culonna, ce sta faci?”

“Nu se apre?” fece il carrettiere ingenuamente, indicando la serratura.

Ndunu lo mollò sgarbatamente, lo scansò, si avvicinò alla porta e, dopo aver osservato con attenzione la serratura, estrasse da questa un mozzicone di sigaro oramai quasi distrutto del tutto. Lo sollevò incredulo e voltandosi lo mise sotto il naso dell’ubriaco. La luna illuminò l’oggetto piazzato ad un centimetro dal naso rubizzo del vecchio carrettiere.

Valentino non parlava, ansimava per la rabbia. Mesciu Rafè guardava un po’ lui un po’ il sigaro: anche lui boccheggiava, ma soprattutto sembrava pervaso da un’eccezionale stupore. Poi un barlume attraversò gli occhi acquosi del vecchio

“Compare Valentino” disse placido “o’bbiti ca m’aggiu fumatu la chiave?”

Tradizioni salentine: 28 aprile, S. Vitale a Marittima, con Salvatore da Castro

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di Rocco Boccadamo

 

Martedì 28 aprile, a Marittima, rituali festeggiamenti in onore del protettore S. Vitale.

Come da tradizione, luminarie lungo le vie principali, cassa armonica in piazza, due complessi bandistici di cui uno con abbinata cantante lirica, fuochi d’artificio.

Scadute di qualità rispetto al passato, purtroppo, e, perciò, poco invitanti, le bancarelle e/o baracche che propongono, soprattutto, inutili paccottiglie e articoli e oggetti vari palesemente taroccati in confronto alle rispettive griffe autentiche in auge e di moda. Esercizi, ormai interamente in mano a immigrati extra comunitari che cercano, con molta fatica, di arrangiarsi in ogni modo per riuscire a sbarcare il lunario.

Unica eccezione a livello d’attività commerciali, l’immancabile bancarella di Nico, figlio di Gino e nipote di Nicola, situata sempre al medesimo posto, su cui si vendono, da generazioni, nei classici cartocci color marrone, arachidi, noccioline, mandorle e pistacchi, dal gustoso e apprezzato sapore grazie a una sapiente operazione di tostatura.

Festa, quella di S. Vitale, invero non tra le più conosciute e sfarzose della zona e, tuttavia, che travalica, sul piano della frequentazione, gli stretti confini della piccola località d’appartenenza.

Nota di concreta testimonianza a tale ultimo riguardo, la presenza sul far della sera, nella strada principale del paese verso la piazza con la cassa armonica e la banda che va esibendosi in opere sinfoniche, di Salvatore, ultrasessantenne, già operatore ecologico e tutto fare, da poco in pensione, arrivato da Castro, la splendida Perla del Salento, dove è nato e vive, distante circa tre chilometri.

Naturalmente a piedi, come faceva più di mezzo secolo addietro, giacché l’amico Salvatore non ha mai posseduto né un’autovettura, né una moto, né una bicicletta.

 

Il Museo Faggiano di Lecce in prima pagina sul New York Times

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di Gianni Ferraris

Toh il caso. Vuoi mai che arrivi a Lecce un giornalista americano e si faccia un giretto nel centro storico?  Non è che ci sia passato per caso, a Lecce occorre volerci venire, il finibus terrae è questo, un luogo dove non si passa di sfuggita. Da Brindisi si può prendere l’aereo o il traghetto per andare altrove, poi c’è il Salento leccese e la fine dell’Italia intera. Lecce e i suoi paesi ti accolgono con le loro chiese barocche, i palazzi baronali, tutti luoghi dignitosamente pieni di storia e storie da raccontare. Spesso palazzi antichi hanno  mura sbrecciate o infissi pericolanti, ma mostrano una dignità e fierezza che raccontano fasti passati.  Forse anche da qui, dalla consapevolezza di vedere arrivare solo chi sceglie di farlo, l’accoglienza leccese, il benvenuto che abbraccia lo straniero.

Quindi il giornalista non era qui per caso, forse si aggirava nelle “giravolte” perdendosi, guardava i palazzi del centro storico leccese, fotografava, si scansava per evitare il traffico caotico delle viuzze e si faceva uno slalom fra le auto parcheggiate in Piazza Castromediano e nella prima parte di Piazza Sant’Oronzo, girava e rigirava per quei vicoletti pieni di vita, negozi di souvenir, pub, ristoranti, ancora auto parcheggiate, e arrivava, forse per caso, in un museo non/museo. Una casa privata che il proprietario voleva ristrutturare per farne forse una trattoria, ma che si è scoperta miniera del passato remoto leccese. Il Museo Faggiano, di cui ampiamente e bene disse Giovanna Falco in queste pagine nella sua veste di ricercatrice attenta e precisa, si trova in Via Ascanio Grandi, 56  ed è tenuto aperto dalla famiglia Faggiano. Vale la pena vederlo, chiamarlo museo forse può parere accessivo, è “solo” una casa che racconta storie antiche e meno vecchie, sovrapposizione di strati di epoche passate, come tutto il centro storico leccese si dimostra ad ogni incursione nelle sue viscere.  Il Faggiano, come dice il giornalista: “…Trovò un mondo sotterraneo risalente a prima della nascita di Gesù: una tomba messapica, un granaio romano, una cappella francescana e anche incisioni dal Cavalieri Templari…” recuperò il recuperabile e la casa divenne museo.

Interessante a questo punto è vedere come il proprietario, snobbato o guardato, se non con sospetto, quanto meno con sussiegoso distacco da molti leccesi, diventi uomo da prima pagina del New York Times e come la sua storia venga ripresa dalle TV di tutto il mondo, oltre che da migliaia di “mi piace” sulle pagine facebook, facendone, per un giorno almeno, il personaggio forse più nominato al mondo.

L’interesse di quel giornalista americano potrebbe parlare, chissà se ascoltato, ai nervi scoperti delle amministrazioni locali, quelli dell’incuria, di un centro storico senza uno straccio di piano viabilità, quelli dell’ex caserma Massa sacrificata a divenire parcheggio sopra la sua antica chiesa, il suo convento, il suo cimitero.

Ci fu un notissimo ex ministro della Repubblica italiana che disse “la cultura non si mangia”. Per chi ama il conoscere, l’affermazione equivale a dire “l’aspirina fa bene ma costa e non fa ingrassare, quindi lo Stato non la passa”.  Ora, a prescindere dal fatto che la cultura è in sé un valore e che per lei si deve anche stanziare denaro, rimane evidente come questo giornalista dimostri quanto torto aveva quell’ex ministro, basta vedere la risonanza che ha avuto il suo pezzo nel mondo intero, e la ricaduta di turisti sarà inevitabile.

Ora la domanda è sempre quella: rende più dignitosa la città di Lecce un parcheggio sull’ex Massa o la rivalutazione di quello che si è scoperto scavando per farlo?

In questi giorni vediamo sciami di turisti girovagare per la città e vediamo l’ovale di Piazza Sant’Oronzo offrire loro pagodine che vendono “coglioni di mulo” e “palle del nonno”. Dignità, perbacco, il Santo guarda dalla colonna e forse si inalbera. L’idea di museo diffuso proprio non ha sede in questi vicoli?

Trasformare una casa in museo è emblema di come uno sforzo anche minimo (di un privato ovviamente) può rendere grande, immensa una città che di suo è già immensa e grande. E forse proprio questa grandezza è una parte del problema, avere tutto questo patrimonio en plein air induce a darlo per scontato, valorizzare ed offrire ad un turismo attento tutto questo nel modo migliore, invece, potrebbe essere il valore aggiunto.  Fare del centro storico patrimonio veramente comune, un salotto, non potrebbe essere un nuovo modo di concepire non solo il turismo, ma la vita stessa dei cittadini leccesi? Forse, chissà, con più attenzione collettiva forse anche gli imbecilli che scrivono sui muri antichi frasi senza senso starebbero più attenti. Mentre il museo Faggiano tornava a nuova vita, il teatro Apollo, dopo anni di impalcature che lo ricoprivano completamente, è stata semicoperto da una palizzata con bei disegni, certo, pur sempre un teatro rigorosamente con lavori in corso. E Santa Croce, dopo anni di lavori dichiarati finiti, è stata frettolosamente ricoperta di nuove impalcature per finire i lavori “finiti”.

Ben sappiamo il mantra che recitano gli amministratori:  “mancano i soldi”,  “i governi nazionali tagliano i fondi”. E’ talmente infinita questa litania che ormai sembra far parte del gossip istituzionale.

Comunque oggi Lecce ha l’onore di essere un poco più conosciuta a livello internazionale. Grazie al Sig. Faggiano questa volta.

Una nota di colore, pare che i salentini leggano molto il New York Times. Il Faggiano dopo l’articolo ha avuto un’impennata di visite di cittadini leccesi. Ad averlo saputo  prima andava a finire che con la giusta campagna stampa votavano  anche da New York per Lecce Capitale di cultura!

 

Alcuni interventi su internet dopo l’uscita dell’articolo su NY Times:

http://www.artribune.com/2015/04/finisce-sul-new-york-times-il-museo-archeologico-di-lecce-che-doveva-essere-una-trattoria-il-proprietario-aggiustava-dei-tubi-emersero-resti-di-valore/

http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-aa96fce3-4278-43c1-9a6d-aa63335075bf-tg1.html

http://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/chi-trova-fogna-trova-tesoro-finisce-nytimes-trattoria-98749.htm

http://www.rainews.it/dl/rainews/media/Dagli-scavi-per-la-trattoria-al-tesoro-archeologico-La-storia-del-Museo-Faggiano-sul-New-York-Times-9a3ba256-a4f7-4b8c-a08d-8a2790f3e786.html

http://www.ancient-origins.net/news-history-archaeology/man-intent-fixing-toilet-uncovers-centuries-old-subterranean-world-020299#ixzz3YPkAHrNj

http://www.mirror.co.uk/usvsth3m/man-digs-hole-fix-toilet-5524122

http://www.quotidianodipuglia.it/cultura/il_museo_faggiano_di_lecce_finisce_sul_new_york_times/notizie/1299483.shtml

http://www.pugliareporter.com/lecce-museo-faggiano-sulla-prima-pagina-del-the-new-york-times/

http://www.bbc.co.uk/mundo/noticias/2015/04/150415_sociedad_historia_lecce_museo_faggiano_amv

http://www.nytimes.com/2015/04/15/world/europe/centuries-of-italian-history-are-unearthed-in-quest-to-fix-toilet.html?_r=0

http://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/2015/4/123932.html

‘Mia madre’ un film di Nanni Moretti con Margherita Buy

Shots from "Mia Madre"

di Paolo Rausa

 

Già nel film ‘La messa è finita’ del 1985 Nanni Moretti aveva introdotto la figura della madre, che non sopporta l’abbandono del marito per una giovane donna e decide di togliersi la vita. In ‘Mia madre’ riprende quel filo interrotto, ampliandolo. Tutto confluisce nella vicenda della esistenza  materna che, ormai vecchia e malata, si avvia a concludere la sua esperienza terrena. Questa condizione interseca la vita dei figli, orfani del sentimento e in difficoltà nel districarsi dai fallimenti dei rapporti affettivi. Alter ego di Moretti è Margherita, che nel ruolo di regista sovrappone i piani esistenziali a quelli professionali, confusa e insoddisfatta della vita. Ricorre così ad un grande attore americano, John Turturro, per dare valore al film sulla occupazione della fabbrica decisa dagli operai per rispondere alle minacce di licenziamenti, ma neppure questa scelta rasserena l’animo. Anzi. La regista fatica a imporre la sua visione sullo svolgimento delle scene e sul ruolo che devono ricoprire gli attori, incapaci di comprendere il senso delle sue raccomandazioni: non confondere il ruolo del personaggio con quello di attore. ‘Lucrezio, Tacito… che ne faremo di tutti quei libri, che ne sarà di tanti anni di studi?’ – così riflette sulla vita spesa dalla madre mentre si preoccupa delle riprese sul set. Il riferimento è alla attività di docente della madre, benvoluta dagli allievi e maestra di vita. Margherita esprime il senso di abnegazione e di incrollabile fede nella volontà di lotta per affermare le ragioni della vita. L’affetto e la tenerezza verso la madre restano le uniche modalità di fronte alla incomprensione della realtà. Il film, come rivela la regista durante una conferenza stampa, non  si pone l’obiettivo di dare risposte alle domande della società, né indica soluzioni di fuoriuscita dalla crisi economica ed esistenziale. Il grande attore americano incespica beffardamente sull’italiano e dimentica le battute, cosicché in uno scatto d’ira impreca di voler uscire dalla finzione del film per essere riportato alla realtà. Ma quale realtà? Sullo sfondo ecco la grande umanità della madre sofferente, che conserva fino alla fine la lucidità, infonde alla giovane nipote barlumi di traduzioni dal latino ed è capace di leggere nel cuore  irrequieto di una adolescente. La vediamo lì, ‘mia madre’, nel letto di malattia, mentre dispensa parole di ingenuità e di amore  senza chiedere contropartite. Il film è un grande omaggio a chi ci ha generato e ci ha insegnato a donare senza nulla pretendere. Questa è la lezione del film, l’amore, come speranza di salvezza dell’umanità forse non ancora irrimediabilmente perduta.

Torrepaduli, Petrus e l’Ariosto

di Armando Polito

Poco prima che andassi in pensione uno dei miei migliori allievi, Luigi Scarlino, approfittando della mia passione per le scritture antiche, volle farmi uno scherzo invitandomi a tradurre, davanti al resto della classe, un testo in latino, manoscritto,  che sosteneva di aver trovato per caso, non ricordo più dove. Se la carta mi sembrò a prima vista autenticamente antica, altrettanto a prima vista non mi apparvero tali la grafia e il colore troppo vivo dell’inchiostro. Fu, però, la lettura del testo a smontare definitivamente lo scherzo (molto simpatico, lo ammetto e ancora oggi rimane come uno dei più grati ricordi della mia vita professionale): troppi erano gli errori grammaticali ed alcuni di loro troppo pesanti perché il testo potesse risalire al XVIII secolo, come mi si voleva far credere. Meno male per lui che nel mio sistema di valutazione le prove di traduzione dall’italiano in latino non avevano nessun peso, considerandole io, per motivi, anche scientifici, che qui sarebbe troppo lungo spiegare, un semplice allenamento. Luigi ammise di aver barato e si beccò pure un pesantissimo rimprovero quando confessò di aver strappato quel pezzo di carta da un libro antico. Nemmeno su quella mi ero sbagliato, ma la soddisfazione di averle imbroccate tutte fu soffocata dalla rabbia suscitata dall’atto vandalico, convogliata in una conversazione di educazione civica; e la denunzia?, si chiederà qualcuno. Ma quale denunzia! Sarebbe stata la scelta educativa più fallimentare. Ad ogni buon conto:  credo che il reato (se di reato vero e proprio si tratta, dal momento che il libro in questione poteva pure essere stato posseduto da qualche suo antenato e trasmesso alla famiglia per eredità) sia ormai abbondantemente prescritto e mi viene da sorridere pensando a certi collezionisti illustri che ogni tanto vengono alla ribalta della cronaca come ispiratori e destinatari di certi trafugamenti, per giunta a titolo gratuito …

A quei tempi, parlo del 2001, il pc non era così diffuso domesticamente da consentire a Luigi di realizzare virtualmente il suo scherzetto. Oggi, si sa, basterebbero pure a me, che non sono certo un mago della grafica, pochi movimenti del mouse per rendere più sexy, per esempio, la mia testa; cambiare, invece, quello che c’è dentro (in primis la cocciutaggine e il culto del dubbio; lo so, sono due concetti antitetici, ma solo quando si manifestano contemporaneamente …) non credo che sarebbe in grado di farlo il pc più potente del mondo.

E se ieri fu Aloisius, oggi potrebbe essere Petrus (anche lui tra gli allievi migliori) a mettermi, magari involontariamente (esiste uno più fesso di colui che volontariamente, come il sottoscritto, si caccia nei guai o si espone al rischio di fare una magra figura?) e a scoppio ritardato in difficoltà e, nonostante il nome, rovinarmi la digestione …

Oggi (mentre scrivo è il 18 aprile del 2015; può darsi che questo post non vedrà mai la luce, può darsi che la redazione decida di pubblicarlo subito o fra qualche settimana e la precisione cronologica è funzionale alla convalida  storica (!) di una di queste due ultime possibilità) ho trovato al link https://www.facebook.com/petrus.barrecchia l’accoppiata che ho riprodotto in testa.

Ho scritto accoppiata perché le due foto distinte, pur appartenendo inequivocabilmente alla stessa fabbrica, sono state strumentalmente affiancate per dare continuità di lettura a PARVA SED APTA MIHI (Piccola ma adatta a me).

La locuzione latina (molto frequente su alcune case datate) è la parte iniziale del distico elegiaco che si legge sul marcapiano della casa di Ludovico Ariosto a Ferrara al civico 67 della via a lui intitolata e che, perciò, risale al  XVI secolo.

PARVA SED APTA MIHI, SED NULLI OBNOXIA, SED NON SORDIDA, PARTA MEO SED TAMEN AERE DOMUS

(Piccola ma adatta a me, ma non soggetta a nessuno, ma non spregevole, ma casa tuttavia nata a mie spese)

Di seguito, forse a rievocare qualche ricordo, la scansione metrica:

Pārvă sĕd | āptă mĭ|hī || sēd | nūlli ōb|nōxĭă | sēd nōn

sōrdĭdă | pārtă mĕ|ō ||sēd tămĕn | aērĕ dŏ|mūs

Può suscitare meraviglia che l’Ariosto definisse parva domus (piccola casa) quello che già allora poteva tranquillamente esser chiamato palazzo. Sarà per ignoranza del latino che a distanza di quasi mezzo millennio qualcuno ha dichiarato di essere diventato a sua insaputa proprietario di una casa (non casetta), non a Ferrara, ma a Roma? …

L’Ariosto, però, conosceva il latino e l’arcano è subito spiegato. Ecco, infatti, cosa riporta Giovanni Andrea Barotti che dell’Ariosto scrisse la biografia1 citando e commentando (di seguito, rispettivamente, testo principale e note) manoscritti in suo possesso di Virginio,  il figlio del poeta:

XVII. Ebbe la Casa del Padre (74); e poi si ridusse ad abitare in una Casetta (75), ove sovra l’entrata erano scritti questi versi: Parva, sed apta mihi etc (76): Nella Loggetta: Sis lautus licet (77). Desiderava di accomodarla con fabbriche, e tutto quello che poteva ritrarre dalle sue rendite, spendeva. Ma perché nel principio, che cominciò a fabbricare, l’intenzion sua non era di stanziarvi; ma avendo poi preso amore a quel giardino , si deliberò di farvi la Casa (78). E perché male corrispondevan le cose fatte all’animo suo, solea dolersi spesso, che non gli fosse così facile il mutar le fabbriche come li suoi versi, e rispondeva agli uomini, che gli dicevano, che si meravigliavano, ch’esso non facesse una bella Casa, essendo persona, che così ben dipingeva i palazzi: a’ quali rispondeva, che faceva quelli belli senza denari.

(74) Nella Divisione tra esso, e i suoi Fratelli toccò a Lodovico la Casa, dove abitava il loro Padre; quella precisamente, che è sulla strada già detta di Bocca Canale, ed oggi comunemente di Santa Maria di Bocche; e vi si vede ancor di presente sopra la porta lo stemma in marmo degli Ariosti.

(75) Casetta era in fatti quando l’Ariosto ne fece acquisto da Ercole Pistoia li 30 giugno 1526 e li 2 Gennaio 1528. Fatta poi compra di diverse pezze di terra all’ intorno, e che stendevano di rincontro alla Chiesa vecchia di S. Benedetto, vi fabbricò sopra la Casa.

(76) Nello scritto di Virginio non si legge il restante del Distico, che si trova appresso il Pigna, e il Garofalo in questi termini: sed nulli obnoxia, sed non sordida, parta meo sed tamen aere Domus. E il suddetto Garofalo se ne serve per opporsi al Giovio, e al Fornari, e a quant’altri aveano detto, e scritto, che la liberalità del Duca gliela fabbricasse. Questo distico, che fino a’ tempi del Garofalo si leggeva nel fregio dell’entrata della stessa Casa (cioè la Casa, che l’Ariosto fabbricò, e non la Casetta, che comperò) è un gran pezzo che non v’è più. Oggidì non vi resta che la seguente iscrizione scolpita in mattoni, già posta da Virginio sopra la cornice, ed ora incastrata nella facciata tra le due finestre di mezzo nel secondo Piano: Sic Domus haec Areosta propitios habeat Deos olim ut Pindarica2.  

(77) Questi nove versi3 si trovano nel secondo libro delle Poesie dell’Ariosto, sotto il titolo: De paupertate.

(78)  Ridotto ch’ebbe o in tutto, o in parte a giardino il terreno, che acquistò da diversi all’intorno della Casetta, che fu del Pistoia, fabbricò l’Ariosto sulla strada di Mirasole la Casa, di cui si è parlato , e che di presente sussiste.  

Nel 1771, dunque, stando a quanto afferma il Barotti, sul palazzo era visibile solo l’iscrizione più breve.

a

Quella più lunga che oggi si legge sul  marcapiano sarebbe stata apposta, allora, dopo il 1771?

Anche le iscrizioni di Torrepaduli  pongono degli interrogativi riguardo al contesto e, dato per scontato (sto azzardando troppo?) che non si tratta di un fotomontaggio, mi accontenterei di avere conferma che siamo in presenza di un ingresso scandito da due colonne notevolmente diverse dalle solite, le cui caratteristiche strutturali paragonabili a due garitte giustificano, indipendentemente da quello che c’è oltre (a proposito, che c’è?), l’iscrizione, anche se i piccoli ambienti sono due; ma, d’altra parte, parvae domus sarebbe stata citazione infedele …

__________

1 Vita di Lodovico Ariosto  e dichiarazioni all’Orlando furioso con li testi del poema in questa novissima edizione, corrette ed accresciute dall’autore, Ferrara, Stamperia Camerale, 1771, pp. 56-57  (integralmente scaricabile da https://books.google.it/books?id=RvA4YZA9Uj8C&pg=PA17&lpg=PA17&dq=Vita+di+Lodovico+Ariosto+e+dichiarazioni+all%27Orlando+furioso+con+li+testi+del+poema+in+questa+novissima+edizione,+corrette+ed+accresciute+dall%27autore&source=bl&ots=uQHVTHrWUK&sig=q-Lk02gCaV_jRI1i3t50k_YhLxs&hl=it&sa=X&ei=hFkyVYnAJsLU7AbcyYCICQ&ved=0CCkQ6AEwAQ#v=onepage&q=Vita%20di%20Lodovico%20Ariosto%20e%20dichiarazioni%20all’Orlando%20furioso%20con%20li%20testi%20del%20poema%20in%20questa%20novissima%20edizione%2C%20corrette%20ed%20accresciute%20dall’autore&f=false)

2 Così questa casa degli Ariosto abbia propizi gli dei come un tempo quella di Pindaro.

3 Da intendersi: Sis lautus licet è la parte iniziale del primo verso del componimento che consta di nove versi.

I tre Briganti di Gallipoli, ovvero buon sangue non mente (2/3)

di Armando Polito

Dopo Tommaso Briganti del quale ho parlato nella precedente puntata, è la volta di suo figlio Filippo. Come già fatto per il padre riproduco da Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli (questa volta, però, dal tomo II), il ritratto (incisione di Morghen)  e la biografia (a firma di Giuseppe Boccanera da Macerata).

Se Tommaso si era distinto come giurista, Filippo aveva fatto dell’economia l’oggetto privilegiato dei suoi studi, senza elucubrazioni teoriche ma con osservazioni oggettive e proposte pratiche. Lo spazio e il tempo tiranni mi costringono a riportare solo pochi e brevi brani della sua opera maggiore, Esame economico del sistema civile uscito a Napoli nel 1780 per i tipi della Stamperia Simoniana, un testo attualissimo e che, secondo me, sarebbe opportuno leggesse più d’uno degli strambi economisti dei nostri giorni1, e non solo lui …

I bisogni eccitati dalla fame, dalla sete, dal freddo, dal caldo, si riparano con facilità dalla beneficenza della natura e dalla vigilanza dell’uomo; ma i bisogni eccitati dalla vanità, dal fasto, dall’orgoglio, dall’ambizione, dalle passioni imperiose e dai vizj ragionati son voragini immense, capaci di assorbire tutti i beni della terra.

Se non è questa un’analisi lucida, spietata, definitiva dei guasti che il profitto ad ogni costo e il consumismo avrebbero di lì a poco provocato, dite voi cos’è.

L’antichità ebbe in pregio l’olio della Magna Grecia e commendò il prodotto di Turio (Ateneo, I deipnosofisti, libro II) come eccellente; ma soprattutto la penisola Salentina, per l’abbondanza e la squisitezza di questo genere, diede il nome (Plinio, Naturalis Historia, Libro V, capitolo V) ad una specie di ulivi non ignorata da’ Romani. Infatti par che la natura abbia destinato alla riproduzione degli ulivi le fertili colline della Japiggia, ove tutto ciò che rimane abbandonato alla spontanea vegetazione della terra, si vede ricoperto di olivastri, che innalzano le fruttifere chiome al par degli alberi più spaziosi: segno evidente che la forza produttrice del suolo non adotta, ma genera queste piante.  

Anche queste parole, purtroppo, appaiono profetiche e l’amare revisione del periodo finale, alla luce della calamità in corso e tenendo nel dovuto conto l’incertezza della sua eziologia, potrebbe suonare così:  … ove tutto ciò che rimane desolato dall’avvelenamento chimico della terra fa morire olivi, olivastri e non solo: segno evidente che la vilentata fertilità del suolo non solo non accetta altre forme di vita ma genera la morte di quelle che ci sono.

Quanta rabbia, poi, nel pensare ad un primato, si può dire, mondiale che proprio Gallipoli deteneva: La zappa ed il concime son le cause determinanti di quella perfezione, per cui l’olio della Japiggia ha il merito dell’incorruttibilità che mai non ebbe l’olio de’ Romani, qual non fu possibile conservar oltre lo spazio di un anno (Plinio, Naturalis historia, libro XV, capitolo III). E questo merito lo fa divenire prezioso e desiderato dalle nazioni Settentrionali, che giustamente attribuendo più valore alle derrate men domabili dalla corruzione, concorrono a gara a farne l’acquisto nell’emporio più ricco che abbia in tal genere la penisola Salentina.

Poteva immaginare Filippo che le nostre (vale come italiane, non esclusivamente salentine) derrate sarebbero diventate più domabili dalla corruzione proprio in virtù di una legislazione europea penalizzante con le sue disposizioni burocratiche a tratti ridicole, se non demenziali, contro cui ben poco hanno fatto e continuano a fare i nostri rappresentanti?

E che le sue non fossero solo teorie lo dimostra il fatto che quando nel 1763 era stato eletto sindaco in un periodo caratterizzato dalle lotte cittadine dei contrapposti interessi e, per giunta, dalla carestia, egli provvide, con la collaborazione del fratello Domenico che era stato eletto giudice, ad operare, in concorrenza con gli incettatori napoletani, tempestivi acquisti di grano e riduzione delle gabelle sulla farina a vantaggio soprattutto dei ceti meno abbienti. E tre anni dopo l’amministrazione dell’ospedale cittadino, a lui assegnata, fu improntata alla repressione degli abusi delle gestioni precedenti e, soprattutto, alla cura degli infermi.

E ancora: nel 1771 indirizzò una Memoria  a Ferdinando IV per esporre al sovrano la necessità della collaborazione del governo centrale nella costruzione a Gallipoli di un porto adeguato dopo gli innumerevoli naufragi subiti dai mercantili e a tal fine proponeva di porre fine ai privilegi fiscali degli ecclesiastici e dei nobili proprietari di oliveti, di sottoporre ad  un’equa tassa i mercanti e di mettere a disposizione le somme inutilizzate dei luoghi pii.

A difesa, poi, della tonnara di Gallipoli, della quale si era già occupato quando era sindaco, tornò nel 1785 quando il conte di Conversano, duca di Nardò, ne aveva installata una propria su un tratto di costa attiguo a Gallipoli. Insomma, un assolutista illuminato, altro che il principe azzurro (residui del patto del Nazareno …?; ho scritto  Patto e non patto per paradossale rispetto al Nazareno, quello autentico) che annunzia a Washington di voler svegliare la bella addormentata nel bosco …! (http://www.corriere.it/esteri/15_aprile_16/renzi-genocidio-armeni-la-turchia-deve-rispettare-valori-comunita-ue-f10c7e02-e47f-11e4-868a-ccb3b14253dc.shtml). Ma non doveva prima portarci fuori dalla palude che, nel frattempo, ha assunto le sembianze e, purtroppo, gli effetti delle sabbie mobili?

http://www.rockol.it/testi/50753259/romina-falconi-un-attimo?refresh_ce (l’immagine di base è una tavola di Gustave Doré del 1867)

Poteva un uomo simile, mi riferisco a Filippo Briganti …, trascurare le lettere? E infatti, come ricordato dal suo biografo, non le trascurò; aggiungo e preciso che soprattutto negli ultimi decenni della sua vita coltivò intensamente a poesia e fu socio dell’accademia dell’Arcadia col nome arcadico di  Rosmenio Tiriense. Dalle pagine 56-95 (parte intitolata Frammenti poetici) di Miscellanea di Filippo Briganti Patrizio Gallipolitano preceduti dall’elogio storico del medesimo scritto da Giovanni Battista De Tommasi de’ conti Paladini di Gallipoli, Porcelli, Napoli, 1818 riproduco tre suoi sonetti in stretta attinenza con Gallipoli. Il primo è di carattere religioso (come molti altri della raccolta), gli altri due sono elogi funebri. Ad ogni testo in formato immagine dalla pubblicazione originale ho aggiunto in calce qualche link o a fronte qualche mia nota per il lettore, anche salentino, desideroso di approfondimenti.

Su Sant’Agata e Gallipoli:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/08/8-agosto-santagata-la-buona-e-gallipoli/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/02/05/5-febbraio-santagata-gallipoli-e-una-reliquia-della-martire-catanese/

g

CARLO MUZIO: giureconsulto gallipolino appartenente a nobile famiglia (di seguito il portale di Palazzo Muzio in cui nacque e visse per qualche tempo Carlo, a Gallipoli), fu presidente togato della Regia Camera della Sommaria, cioè di quel supremo tribunale  competente ad esaminare e a decidere nella cause feudali in cui  fossero coinvolti gli interessi del regio fisco.

Sebeto: nome del fiume che bagnava l’antica Napoli.

al ferètro:  (diastole per esigenza metrica)=nella bara.

Temide: o Temi, dea delle acque e della giustizia.

Timiami: incensi; la voce è dal latino tardo thymiama, che è trascrizione del greco ϑυμίαμα (leggi thiumìama), a sua volta da ϑυμιάω (leggi thiumiào)=profumare.

Partenope: nome della sirena sul cui luogo di sepoltura, secondo la leggenda, sorse Napoli.

la Patria: Gallipoli.

involarmi=sottrarmi.

alma=anima.

onta=dispetto (alla lettera: vergogna, offesa).

Gallipoli, portale di Palazzo Muzio. Da notare lo stemma: braccio con nella mano un pugnale e steso su un braciere ardente, allusione alla leggenda di Gaio Muzio Scevola). Di seguito lo stemma visibile nella parte denominata Palazzo piccolo.

GIOVANNI PRESTA (1720-1797): https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/26/un-grande-medico-al-servizio-degli-ulivi-secolari/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/27/giovanni-presta-ovvero-quando-eravamo-noi-a-chiedere-alleuropa/

Pallade: Pallade Atena (Minerva per i Romani) nell’assegnazione dell’Attica si aggiudicò la vittoria donando ai suoi abitanti l’olivo e battendo Poseidone che con un colpo di tridente aveva fatto venir fuori il cavallo.

dei Re le ricompense: allude al medaglione d’oro donatogli da  Caterina II di Russia, cui il Presta aveva dedicato la sua opera.

Il lettore avrà notato come nel primo sonetto sono totalmente assenti i riferimenti mitologici (o delle religioni pagane) presenti, invece, progressivamente, negli altri. Spiego il progressivamente: nel secondo sonetto dopo Sebeto (che in alcune monete del V secolo a. C. è rappresentato come una divinità fluviale), Temide e Partenope, Dio chiude il componimento; nel terzo unica protagonista mitologica è Pallade. Insomma un uso modulare di uno degli elementi caratterizzanti la poesia arcadica con la sua assenza nell’agiografia e la sua graduale, come s’è visto, ricomparsa nei due elogi funebri che valgono come sintetiche biografie.

Non posso in chiusura non ricordare cosa scrisse Henry Winsburne nella prefazione del suo Travels  in two Siciles, Esmsly, Londra, 1783:  I am particularly indebted to Monsignor Capecelatro, Archbishop of Taranto; Counsellor Monsignor Galiani; D. Filippo Briganti Patrizio di Gallipoli; D. Pasquale Bassi; D. Domenico Cirillo; George Hart, Esquire; Padre Antonio Minasi of the order of St. Dominick; D. Domenico Minasi, Arciprète of Molocchio; and D. Giovanni Presta of Gallipoli (Io sono particolarmente grato a Monsignor Capecelatro, Arcivescovo di Taranto; Guida Monsignor Galiani; Don Filippo Briganti Patrizio di Gallipoli; D. Pasquale Bassi; D. Domenico Cirillo; George Hart,  accompagnatore; Padre Antonio Minasi dell’ordine di S. Domenico; D. Domenico Minasi, Arciprete di Molocchio; e D. Giovanni Presta di Gallipoli).

(CONTINUA)

Per la prima partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2015/04/16/i-tre-briganti-di-gallipoli-ovvero-buon-sangue-non-mente-13/

Per la terza partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2015/04/26/i-tre-briganti-di-gallipoli-ovvero-buon-sangue-non-mente-33/

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1 Per chiunque ne abbia interesse: http://books.google.it/books?id=2rMvAAAAYAAJ&printsec=frontcover&hl=it#v=onepage&q&f=false

Il conventino e la chiesa dei Carmelitani di Torrepaduli

 Frontespizio Conventino

Con la stampa de Il conventino e la chiesa dei Carmelitani di Torrepaduli  (Ruffano, 2015,Tipolit. Inguscio&De Vitis, pp. 40)  Ermanno Inguscio ha posto l’attenzione della comunità  di Torrepaduli sulla necessità della riscoperta e riappropriazione dell’identità cristiana dei nativi, posti nel difficile contesto di un mondo globalizzato, insidiato da pericoli di tipo consumistico, edonistico e, purtroppo, in diverse parti del mondo, da gravi fenomeni di integralismo, che rendono dura ancora oggi la testimonianza cristiana, sottoposta ad attacchi di ogni genere. A tali gravi difficoltà del cristianesimo moderno fanno riferimento gli accorati appelli del Pontefice, Papa Francesco, all’intera Comunità internazionale per contenere i ricorrenti fenomeni di cieca insofferenza religiosa.

Su iniziativa di Franco Melissano, priore  per un decennio (1995-2015) della Confraternita “Madonna delle Grazie e SS.mo Sacramento”, Torrepaduli ha voluto approfondire la conoscenza delle proprie tradizioni storico-religiose, affidando allo storico Inguscio la stampa de  Il conventino e la chiesa dei Carmelitani di Torrepaduli, che mette a fuoco l’importanza della presenza dell’Ordine dei Carmelitani in un centro della vecchia Terra d’Otranto. Risale al 1550, infatti, anno della fondazione di quel convento carmelitano a Torrepaduli, come quelli di Morciano di Leuca,  di Presicce e Miggiano, la presenza di quei religiosi nel Basso Salento. Soppresso nel 1652, per ordine di Papa Innocenzo X e riaperto sette anni più tardi, convento e chiesa hanno rappresentato un simbolo dell’operosità carmelitana  tra i nativi e del processo di cristianizzazione di quelle genti, almeno sino alla soppressione napoleonica delle leggi sulla feudalità e alla tempesta risorgimentale.

L’opuscolo, che sarà presentato ai Soci e al pubblico sabato 2 maggio 2015, proprio nella Chiesa del Carmine, alla presenza di Autorità religiose e civili, prende le mosse dalle fonti della storia, oggetto degli studi di settore di M. Ventimiglia, di E. Boaga, di B. Pellegrino,  di F. Gaudioso e dello stesso mons. Salvatore Palese, cui espressamente l’autore fa riferimento, per descrivere il contesto della Provincia Carmelitana di Puglia nei secoli XVI-XIX e la loro successiva diffusione geografica nella Regione e in Terra d’Otranto.  Si sottolineano poi  i principali aspetti religiosi e sociali della vita in convento ( lo studio, la preghiera, l’apostolato, la severità di “Ordini e Statuti”), l’osservanza della “Regola” e le animosità nei secoli per la nomina dei Padri provinciali. Si descrive l’impegno dei religiosi carmelitani e di quelle popolazioni nel privilegiare innanzitutto l’erezione della struttura dell’edificio sacro, la chiesa, e poi del convento, fatto di biblioteca, foresteria, orto, chiostro e locali per i monaci e conversi. Grande importanza, del resto, veniva attribuita dai Carmelitani alla loro presenza pastorale (predicazione, celebrazioni del culto liturgico) e soprattutto alle espressioni della devozione mariana e della diffusione dello scapolare, anche se per la Puglia, molto rimane ancora da esplorare sulle confraternite dello Scapolare da distinguere da quelle di ordine penitenziale d’ordine medievale. Nell’opuscolo di Inguscio, infine, esistono alcune doverose sottolineature sul conventino di Torrepaduli, specie a partire dalla soppressione murattiana del 1809, privato ormai delle cospicue rendite fondiarie di proprietà di un tempo e della stessa presenza della comunità religiosa. Chiesa e convento in età risorgimentale, adibiti ormai a struttura scolastica  del comune  (di Supersano sino al 1854 e  di Ruffano poi) furono spesso ritrovo abituale di carbonari, con il prete don Antonio De Giorgi (ma anche di Delfino Carletta, di Lucio Cacciapaglia, di Giulio Morieri e  di Vincenzo Giannotta) e l’arciprete Caracciolo, che alimentarono la “serrata antiunitaria” di Torrepaduli del 24 settembre 1860. Dalla fine dell’Ottocento, chiesa di S. Maria del Carmine e convento, divennero sede dell’odierna Confraternita “Madonna delle Grazie e SS.mo Sacramento”. L’antistante Piazza Carmelitani testimonia nel toponimo ancora oggi, nella storia di Torrepaduli, l’antica presenza  della religiosità carmelitana in Puglia e in  questo importante piccolo convento (“conventino”) di Terra d’Otranto.

Ricette per la Pasqua, la Pasquetta e “Lu Riu de li leccesi”.

di Gianna Greco

Lo devo proprio ammettere, durante le festività religiose sono sfiorata da un alone di languida malinconia, che non mi consente di goderne mai a pieno… un giorno o l’altro vi spiegherò, tra le righe, il perchè… ma ora vorrei parlarvi delle ricette per la Pasqua, la Pasquetta e “Lu Riu de li leccesi”.

Piatti importanti e ricchi per quei tempi andati, fatti di ristrettezze e sacrifici, che purtroppo si stanno ripresentando anche oggi!

Con molta cura veniva preparata la cuddhrura o puddhrica per il Sabato Santo, sempre di pane si trattava, ma, con le uova sode, bandite per tutto il periodo della Quaresima insieme a carne e formaggi,  confezionato con forme particolari intrise di significati religiosi o credenze popolari. Ricordo la pupa con un uovo per le bambine, simbolo di fecondità e l’addhruzzu per i bambini, con due uova come auspicio di virilità.

Non si poteva allestire, poi, il pranzo della Domenica di Pasqua senza l’immancabile pasta fatta in casa, le sagne ‘ncannulate o torte o ritorte (quelle preparate tanto lunghe da poterle avvolgere su se stesse per ben due volte) condite con il sugo di carne o di polpette e con la ricotta forte, sapore indescrivibile ed inimitabile.  In alternativa si preparava la pasta al forno non con le lasagne all’uovo precotte ma con ” zite o menze zite” o penne o rigatoni, con polpettine e mozzarella ma rigorosamente senza besciamella e…. “Peccè sta besciamella face male”… mi diceva la nonna.

Poi c’era l’agnello, il tanto discusso e bandito agnellino da latte, ucciso pochi giorni prima, di cui si mangiava praticamente tutto; le interiora con cuore, fegato e polmoni servivano a preparare turcinieddhri e ‘mboti, la capuzzeddhra  veniva divisa in due, cosparsa con una generosa spolverata di pangrattato e pecorino ed un poco di prezzemolo, veniva gratinata nel forno, le costolette e le parti avanzate invece venivano arrostite oppure preparate al forno con le patate, le mie preferite, o sempre al forno con i “pampasciuli” anche questi, che la mia pancia non riusciva proprio ad ignorare.

Dai grandi il tutto veniva generosamente bagnato con un, anche più di un, buon bicchiere di rosato dell’ultima vendemmia ed almeno portava un po’ di allegria.

Per fine pranzo il dolcissimo agnello di pasta di mandorla, farcito con cotognata e pan di spagna imbevuto nella Strega di Benevento, un liquore che, oltre al San Marzano Borsci, non mancava mai a casa mia.

Di uova al cioccolato non ne ricordo, prima dei miei dieci anni.

Il Lunedì dell’Angelo si faceva riposare lo stomaco con il classico brodo, in cui si tuffavano i triddhri sempre fatti in casa con un po’ di formaggio sopra, e si mangiavano gli avanzi del giorno prima.

Il Martedì, ovvero la Pasquetta dei leccesi, c’era la scampagnata vera e propria con tanto di pic nic e di giochi all’aperto, dal gioco del fazzoletto, a palla prigioniera, al gioco con i   tuddhri equante ore passate a far saltare in aria quei cinque sassolini.

E favevano capolino sulle tovaglie scozzesi le fave con la ricotta marzotica e ancora il risotto alla prigioniera, alias sartù di riso e, cosa alquanto strana, con un accoppiamento che ancora oggi non mi spiego, fatto da fette di salame e uova sode (forse quelle avanzate dalle puddhriche). Una focaccia ricordo con l’acquolina in bocca, quella della nonna Francesca, non era la mia di nonna ma di due cugini, una nonna acquisita, diciamo, che aveva origini napoletane e preparava, tra le tante prelibatezze, questa ricca focaccia farcita con tre o quattro tipi di salumi, formaggio e tante uova sbattute….una delizia ancor più buona il giorno dopo, credo, non mi sembra fosse mai avanzata.

Per dolce si preparava la crostata con la marmellata o se si poteva un pan di spagna altissimo con crema pasticcera e la classica spolverata di zucchero a velo. Ho ancora negli occhi la scena che vedeva nella cucina della nonna, tre zie, le sorelle di mio padre, rimaste zitelle per ovvi motivi (sempre in una prossima puntata vi spieghierò) che con tanta vivacità ed energia sbattevano, a turno, le uova con lo zucchero nella ciotola con il solo ausilio di due forchette, prima dell’era dello sbattitore manuale e di quello  elettrico poi. Eppure vi posso garantire che il pan di spagna riusciva ogni volta alto e soffice come uscito dalla planetaria e la crema aveva sempre il profumo di limone per la scorza lasciata in infusione nel latte.

Ma di tutto ciò conservo un caro ricordo……

Il Calvario di Spongano sito in contrada Santa Marina

 

Calvario di Spongano (lato nord) (ph Giuseppe Corvaglia)
Calvario di Spongano (lato nord)
(ph Giuseppe Corvaglia)

di Giuseppe Corvaglia

 

Il Calvario è un monumento presente, se non in tutti, nella gran parte dei paesi del Salento.

Il modello più comune è quello a semicupola o a edicola absidata, all’interno della quale ci sono degli affreschi che raffigurano i momenti principali della passione di Gesù, come la crocifissione, la deposizione, ma anche la preghiera nell’orto degli ulivi, la flagellazione alla colonna  o il cammino verso il Golgota.

In alcuni, come a Diso e Vignacastrisi, nella parte bassa viene raffigurato anche Gesù morto, deposto nel sepolcro; a Montesano e in altri posti viene riportata  la deposizione dalla croce. Ai lati vengono spesso raffigurati il buon ladrone e il mal ladrone.

Di forma ad edicola absidata ne troviamo molti nel circondario (Botrugno, Castiglione, Diso, Vignacastrisi, Vitigliano, Montesano, Ruffano, Montesardo, Miggiano, Tiggiano e Tricase).

Ci sono poi Calvari a edicola poligonale (come quello di Andrano), a emiciclo o a esedra curva   (come quello di Parabita) o ad esedra poligonale (come quello di Depressa), a recinto (come quello di Maglie) o, ancora, a portico, detto anche monoptero (come quello di Ortelle) o, infine, a tempietto, come quello di Spongano.

Calvario di Montesano (ph Giuseppe Corvaglia)
Calvario di Montesano
(ph Giuseppe Corvaglia)

Il monumento non è stato concepito in origine per pregare solo nella Settimana Santa, ma voleva essere un monito per tutti i giorni, finalizzato al culto pubblico per il beneficio spirituale di tutta la comunità cittadina locale.

Ricordo ancora la giaculatoria da recitare quando si passava davanti: «Gesù Crocefisso, liberatemi dalle fiamme dell’inferno e dal morire dalla morte improvvisa».

 

La Cappella di Santa Marina

A Spongano siamo abituati a definire la zona che da piazza della Repubblica porta alla stazione, come a susu Calvariu oppure a su Santa Marina; il primo riferimento è intuitivo, ma il secondo resta solo come toponimo, perché della chiesetta di Santa Marina non c’è più traccia.

Nella zona vicino al tempietto del Calvario, a Spongano, esisteva in passato un’antica cappelletta, dedicata a Santa Marina. Di questa cappelletta l’ultima vestigia è un quadro della Santa, conservato presso la nostra Chiesa Parrocchiale.

Santa Marina

La cappella, esistente già nel ‘700, fu demolita, essendo diventata fatiscente, e agli inizi del XX secolo fu costruita l’attuale cappella dedicata al Sacro Cuore di Gesù, inaugurata nel 1911.

interno della cappella (ph Antonio Chiarello)
interno della cappella (ph Antonio Chiarello)

In prossimità di questa cappella si teneva ogni anno, a luglio, una fiera con vendita  del bestiame e la celebre cuccagna, in cui si cimentavano i giovani più agili del paese, sopravvissuta fino agli anni ’50.

 

Il Calvario

Il Calvario di Spongano si distingue da tutti gli altri Calvari salentini. L’iconografia di questa opera, particolare nel suo genere, non si affida ad immagini dipinte, ma alle formelle del timpano e viene scandita dalle epigrafi lapidee nucleo del monumento.

Il monumento, che celebra la Passione di Gesù Cristo, venne costruito nel 1871, probabilmente sulla spinta delle predicazioni dei Padri Passionisti, grazie ai fondi raccolti dalla popolazione e a un contributo della Civica Amministrazione che consentì il compimento dell’opera.

Calvario a Montesano (ph Giuseppe Corvaglia)
ph Antonio Chiarello

Redasse il progetto Filippo Bacile di Castiglione che elaborò un Calvario originale.

Il valente architetto, incline alla moda dell’eclettismo, scelse un’architettura classicheggiante che rievocasse il periodo storico contemporaneo a Gesù e la simbologia della passione e morte del Redentore.

Il monumento è dato da un tempietto circolare aperto e formato da colonne, disposte in cerchio, sormontate da un timpano, sovrastato da una cupola, con lesene dove sono scolpiti simboli rievocanti episodi della Passione,.

Al centro sono posti cinque parallelepipedi sormontati da croci che, da qualunque parte le si guardi sembrano tre. Sulle facce di questi parallelepipedi ci sono delle epigrafi che raccontano la vicenda di Gesù, la cui evocazione viene completata dagli oggetti scolpiti sulle lesene del timpano. Il maestro scalpellino esecutore del lavoro fu Giuseppe Pisanelli.

 

Epigrafi

Le Epigrafi sono il nucleo del monumento.

ph Giuseppe Corvaglia
ph Giuseppe Corvaglia
ph Giuseppe Corvaglia
ph Giuseppe Corvaglia

La lapide principale è quella dedicatoria che dice: TRIUMPHALI CRUCIS VEXILLO IN CALVARIA PRIMUM EXPLICATO  SPONGANENSIUM PIETAS COLLATICIA STIPE AN. MDCCCLXXI P ( posuit) cioè “la Pietà degli Sponganesi, che raccolsero i necessari fondi per la costruzione, dedicò quest’opera nell’anno 1871 a quel trionfale vessillo che è la Croce mostrata al mondo come tale per la prima volta sul monte Calvario”.

In alto, nella parte interna, a livello del timpano, è dipinta la scritta REGNARE NESCIENS NISI IN CRUCEM REX NOSTER vale a dire “il nostro Sovrano sa regnare solo nel segno della Croce”.

Sulle restanti facce dei parallelepipedi ci sono iscrizioni che si riferiscono allo svolgersi della passione, riprendendo i cinque misteri dolorosi del Rosario.

Cupola interna e croci (ph Antonio Chiarello)
Cupola interna e croci (ph Antonio Chiarello)

La prima epigrafe, Orans sanguinem in sudorem emittit, fa riferimento alla preghiera che Gesù recita nell’orto degli ulivi quando, mentre sta  pregando, dalla fronte geme insieme sangue e sudore.

La successiva (OBOEDIT) evidenzia come il Figlio dell’uomo abbia obbedito anche di fronte alle immani sofferenze che sapeva di dover sopportare.

La seconda iscrizione (Flagellis caeditur ad columnam) fa riferimento alla flagellazione patita da Gesù per ordine di Ponzio Pilato.

La terza parla di come sia stato incoronato con una corona di spine (Spinea redimitur corona) per dileggio.

La successiva lapide mostra ancora una sola parola, DILEXIT, che vuol dire amò, perché solo chi ama fino in fondo può sottoporsi a così dura prova.

La successiva (Crucem bajulat in Calvariam) fa riferimento alla Via Crucis quando il Redentore porta sul Monte Calvario lo strumento del suo supplizio.

L’ultima (Affixus Cruci moritur) racconta l’epilogo della vicenda che vede Gesù, crocefisso, morire sul Golgota.

 

Le formelle del timpano iconografia della Passione di Cristo

Il Calvario di Spongano, come abbiamo detto, è diverso dagli altri Calvari salentini, perché non affida il racconto della Passione ad immagini dipinte, ma a epigrafi e bassorilievi, scolpiti in pietra, nelle lesene del timpano, raffigurando oggetti rievocanti episodi della Passione, come nelle croci processionali usate nei riti del Venerdì Santo.

Croce passione Spongano
ph Giuseppe Corvaglia

 

In queste formelle si possono vedere il vaso di unguenti, usato dalla Maddalena in casa di Simone per profumare anzitempo il corpo e i capelli di Gesù, la brocca e la bacinella con cui Pilato si lava le mani e le insegne del potere romano, la corona di spine, i flagelli, il pugno di ferro e la colonna dei supplizi, ma anche le lanterne e i fasci portati dai soldati andati ad arrestare Gesù nel Getsemani, e ancora la tunica tirata a sorte dai gaglioffi sotto la croce, i dadi, la lancia e la canna con la spugna, usate per dissetare e trafiggere il Crocifisso, il calice amaro della passione, il compenso e il cappio del traditore, il sudario della sepoltura e così via.

ph M. Preite
ph M. Preite

Oggi

Da tempo il Calvario compare sulle guide turistiche del paese, viene illuminato di notte e posto in bell’evidenza, ma cominciava  a mostrare le crepe del tempo che si allargavano viepiù fino a metterne in pericolo la sua stabilità e la sua conservazione.

Le formelle del timpano, su cui sono scolpiti i simboli della Passione, cominciavano a deteriorarsi, alcune per l’erosione della pietra, altre per crepe nella pietra stessa.

Un albero, che casualmente si chiama Albero di Giuda (Cercis siliquastrum), aveva esteso le sue radici fin sotto i gradini del tempietto, sollevandone  alcuni, e forse proprio questa spinta dal basso può essere stata la responsabile delle crepe.

Le stesse radici spingevano la balaustrata del lato sud verso l’esterno rendendola instabile. Dal lato est (lato verso la piazza) un possente pino sconvolgeva la balaustra e forse spingeva anche lui dal basso il tempietto e anche da nord l’inoffensivo e bellissimo skynus (o finto pepe) spingeva pericolosamente la balaustra e il tempietto, perché la roccia sotto di lui ne impediva la naturale propagazione delle radici .

ph Giuseppe Corvaglia
ph Giuseppe Corvaglia

Spongano, paese pieno di devozione e generoso, non meritava la perdita di questa importante memoria dei nostri padri, particolarmente originale e significativa.

Tuttavia non ci sono state iniziative e l’Amministrazione Comunale, non essendo proprietaria del bene, ha solo potuto tagliare e rimuovere  il maestoso pino, responsabile in gran parte della instabilità della balaustra.

Non si è neppure costituito un comitato che, come hanno fatto i nostri padri nel 1870 con la raccolta di fondi per costruirlo, potesse dar vita a una iniziativa per salvarlo.

E’ vero che quando si tratta di intervenire su un bene culturale è necessaria perizia e grande competenza, non ci si può improvvisare, e bisogna dare atto che i cittadini di Spongano, in particolare quelli di S. Marina, come si chiama la zona circostante, si sono spesi per ridare dignità al luogo come hanno potuto.

Oggi il recupero di Calvario è una realtà grazie a un progetto di don Vito Catamo, emerito parroco di Spongano, progetto auspicato anche dal compianto sindaco Luigi Zacheo e coordinato dall’attuale parroco don Donato Ruggeri i quali, d’intesa con la Soprintendenza ai beni artistici e culturali e l’Ufficio diocesano dei beni culturali, hanno contribuito a realizzare un progetto che ristabilisce la stabilità e l’integrità di un monumento tanto delicato.

Calvario oggi Preite
ph Antonio Chiarello

A compiere i lavori è stata l’impresa GEM di Marco Preite, non nuova a questo tipo di opere, avendo già ristrutturato una casa del ‘700 in via S. Leonardo e il pregiato frantoio ipogeo di Palazzo Bacile.

Così oggi il Calvario di Spongano, liberato delle insidie delle piante, ormai troppo ingombranti, e riadornato del muro perimetrale, ricostituito con il recupero della balaustra, si può ammirare nella sua nuda bellezza senza sospirare per la sua precarietà.

Ci sarà da lavorare per restaurare il tempietto e valorizzare sempre più il pregevole sito. Per quello ci auguriamo che la devozione e la generosità degli Sponganesi di oggi sappia emulare quella SPONGANENSIUM PIETAS dei loro avi, così che un domani si possa restituire il Calvario all’antica bellezza.

 

 

Bibliografia:

  1. G. Corvaglia, Il Calvario di Spongano sito in contrada S. Marina- Note di storia locale, 2003 Erreci Edizioni Maglie – Comune di Spongano
  2. http://www.comunemontesanosalentino.it/fenomeno-calvari-nel-salento

Riflessioni sulle reliquie della passione di Cristo della chiesa di Santa Maria del Tempio in Lecce

di Giovanna Falco

 

In occasione della Settimana Santa 2012 su Spigolature Salentine è stato pubblicato l’articolo Lecce e gli strumenti della Passione di Cristo: araldica religiosa e reliquie[1], dove elencando i frammenti sacri attestati nel 1634 da Giulio Cesare Infantino nelle chiese leccesi, si citano anche quelli conservati nella chiesa di Santa Maria del Tempio[2].

Approfondito l’argomento, è stato possibile apprendere ulteriori notizie inerenti reliquie e reliquiari custoditi, forse sino ad una delle soppressioni ottocentesche, nella sagrestia della chiesa dei padri Riformati, e mettere a confronto le testimonianze tra loro discordanti a causa della natura delle fonti: relazioni francescane e descrizioni che, pur se scritte da testimoni oculari, non possono essere considerate attendibili in mancanza di documenti che ne attestano la veridicità.

Infantino cita  «Il Santissimo Chiodo del Signore. Una Spina della Corona di Christo. Due pezzotti del legno della Santa Croce»[3]. Nel Chartularium della Serafica Riforma di S. Nicolò la relazione di padre Gonzaga del 1646 riporta le «una Spina ed un Chiodo di Nostro Signore»[4], così come padre Giovan Battista Moles da Turi nel 1664: «una Spina Coronae Christi Domini Salvatoris nostri, unusque Clavus»[5]. L’abate Giovan Battista Pacichelli del 1686 enumera oltre al Chiodo «una spina insanguinata del Signore, un pezzo del Santo Legno della Croce»[6]. Negli anni Venti del Settecento, infine, padre Bonaventura da Lama elenca: «due spine della corona di Cristo Signore nostro, ed uno de’ chiodi che lo trafissero» e «una piccola Croce, tutta di legno della Croce di Nostro Signore»[7].

Dal confronto si nota come tutte le fonti concordano sulla presenza del Chiodo, ma non c’è corrispondenza sul numero delle Spine (padre da Lama a differenza degli altri ne cita due), né sul legno della Croce. Le relazioni seicentesche del Chartularium, pur se successive alla Lecce sacra,non menzionano questa reliquia. Infantino, inoltre, fa riferimento a «Due pezzotti del legno della Santa Croce», ma solo «un pezzo» è menzionato da Pacichelli. Queste due ultime testimonianze differiscono da quella di padre Bonaventura da Lama:

«Essendo poi morto in questo Convento il Padre Antonio da Castellaneta Predicatore dei Riformati, l’anno 1675, lasciò una piccola Croce, tutta di legno della Croce di Nostro Signore, datali da un Paesano, qual diceva con fede giurata, che soleva tenerla in petto Urbano VIII»[8].

Ritratto di Urbano VIII di Bernini (1632), tratto da commons.wikimedia.org http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bernini-Urban8.jpg
Ritratto di Urbano VIII di Bernini (1632), tratto da commons.wikimedia.org
http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bernini-Urban8.jpg

A differenza dell’abate Pacichelli, che riferisce quanto gli fu raccontato durante la sua visita al convento, cioè che la reliquia era stata donata ad un frate «dalla Principessa Donna Olimpia Panfili»[9], padre da Lama cita “una fede giurata” probabilmente conservata nell’archivio francescano.

È stato possibile appurare che dal 1635 al 1645 fu vescovo di Castellaneta Ascenzio Guerrieri, già «Cappellano Segreto d’Urbano VIII»[10], canonico della basilica di Santa Maria in Cosmedin e precettore del cardinal nepote Francesco Barberini[11]. Dato che si è a conoscenza di almeno un altro manufatto simile a quello leccese,  «due particelle del Sacro Legno della Santa Croce di Nostro Signore Gesù Cristo adattate in forma di croce»[12] donate da Urbano VIII (1623-1644) a Barberini, non è del tutto inverosimile supporre che il vescovo di Castellaneta abbia posseduto la reliquia pervenuta successivamente alla chiesa di Santa Maria del Tempio.

Nel 1629 il papa trasferì nella basilica di San Pietro alcuni frammenti della Croce, ribadendone il valore cultuale con la bolla del 9 aprile Ex omnibus Sacris Reliquiis:

«Urbano, estraendo da una Croce del Santo Legno della Croce, che si conserva nella chiesa di s. Ananstasia, e da un’altra parimente conservata nella Chiesa di s. Croce in Gerusalemme, alcune particelle, le fece includere in una Croce di argento, di preziose pietre ornata, e di questa fece un dono alla Basilica Vaticana, ordinando che fosse collocata fra le Reliquie maggiori, e mostrata ne’ consueti giorni al popolo, dopo la Sagra Lancia, e prima della Sagra Veronica, con Indulgenza plenaria ogni volta, che si mostrassero queste tre sacrissime Reliquie»[13].

La reliquia di Santa Maria del Tempio, dunque, potrebbe essere uno dei frammenti della Sacra Croce portati, secondo la tradizione, da san Girolamo e sant’Elena a Roma e custoditi, rispettivamente, nella basiliche di Sant’Anastasia e di Santa Croce in Gerusalemme. Accurate ricerche potrebbero confermare o smentire questa ipotesi.

Interno basilica Santa Croce in Gerusalemme in Roma, tratto da commons.wikimedia.org
Interno basilica Santa Croce in Gerusalemme in Roma, tratto da commons.wikimedia.org

In qualche modo la storia della chiesa di San Giovanni in Gerusalemme si era già intrecciata con quella di Santa Maria del Tempio anche attraverso le vicende del Chiodo: Raimondello Orsini del Balzo, cui padre da Lama attribuisce la donazione della sacra reliquia, intorno al 1386 commissionò per la basilica romana il trittico reliquiario detto altare di San Gregorio[14].

Il Chiodo «assai grosso con la punta tagliata»[15] ove «si vedono stille di sangue»[16], all’epoca di Infantino era riposto «in un bel vaso d’oro, fatto da una collana d’oro offerta à quest’effetto dal Principe di Taranto la prima volta, che adorò questa Santa Reliquia»[17]. Data l’epoca di fondazione del convento (1432), nel 2012 si è attribuito l’atto di devozione a Giovanni Antonio Orsini del Balzo. Nel 1664 padre Moles scrive «Clavus repositus ab Excellentissimo Domino Joanne Antonio Baucio Ursino Comite Lytij ut supra»[18], perché gli assegna erroneamente anche la fondazione di Santa Caterina in Galatina[19]. Senza alcun dubbio Bonaventura da Lama reputa che il Chiodo fu donato con «la Pace, che teneva seco il Conte di Lecce, Raimondo»[20], morto nel 1407.

National gallery in Washington d.c., Gian Lorenzo Bernini, monsignor Francesco Barberini, 1623 circa, tratto da commons.wikimedia.org http://commons.wikimedia.org/wiki/File:National_gallery_in_washington_d.c.,_gian_lorenzo_bernini,_monsignor_francesco_barberini,_1623_circa.JPG
National gallery in Washington d.c., Gian Lorenzo Bernini, monsignor Francesco Barberini, 1623 circa, tratto da commons.wikimedia.org

Non è dato sapere se l’atto di devozione sia da attribuire a Raimondello o ai suoi eredi, sta di fatto che, attenendosi a quanto tramandato dalle fonti, ci si chiede perché una reliquia reputata così importante sia stata offerta alla Madonna del Tempio e non alla basilica di Santa Caterina in Galatina fondata da Raimondello e dotata dagli Orsini del Balzo di numerosissimi frammenti sacri, tra cui una Spina, una scheggia della colonna della flagellazione e un’altra fede appartenuta a Raimondello[21], né alle leccesi chiese di Santa Croce (dove fu sepolta Maria d’Enghien) o di San Giacomo nel Parco (fondata da Raimondello)[22]. Forse la famiglia nutriva una particolare venerazione per una immagine miracolosa della Madonna del Tempio, attribuita nel 1647 da padre Diego Tafuro da Lequile a San Luca[23], conservata in «un’antichissima Cappella che per antica tradizione si dice esse stata de’ Principi di Taranto»[24], ricadente nei giardini del convento di Santa Maria del Tempio.

Blasone Orsini del Balzo, tratto da commons.wikimedia.org
Blasone Orsini del Balzo, tratto da commons.wikimedia.org

I leccesi nutrivano una forte venerazione per la reliquia, perché «per quem Clavum Cives Lytientium multa, et continua beneficie recipiunt»[25] e il «Venerdì Santo la sera, concorre tutta la Città, a baciare il Santo Chiodo, ed insieme la Croce, e le Spine, tutte quel giorno rubiconde»[26], riposte dopo il 1634 in un unico reliquiario d’argento, una croce scrive Pacichelli, un’Ostensorio secondo padre da Lama, che aggiunge:

«Nel Chiodo anche si vedono stille di sangue, né mai l’acqua toccata dal Chiodo per bisogno d’Infermi, che la chiedono con divozione, ha potuto per lo spazio di tanti anni cancellare, o generare, com’è solito del ferro, la ruggine»[27].

L’usanza di immergere nell’acqua il sacro Chiodo «per divozion de gl’infermi» è riportata anche da Pacichelli, che con disappunto ricorda «non però datasi a me questa a gustare per la poltroneria di un laico sagrestano»[28].

 

[1]https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/31/lecce-e-gli-strumenti-della-passione-di-cristo-araldica-religiosa-e-reliquie-2/

[2] Cfr. G. C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979). Sulle reliquie in Santa Maria del Tempio cfr https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/17/una-passeggiata-a-lecce-di-fine-seicento-labate-giovan-battista-pacichelli-descrive-la-citta-terza-ed-ultima-parte/  .

[3] G. C. Infantino, op. cit., p. 210.

[4] B.F. Perrone, Chartularium della Serafica Riforma di S. Nicolò. Documenti inediti sulla presenza dei Frati Minori in Puglia e a Matera dal 1429 al 1893, p. 80.

[5] Ivi, p. 130.

[6] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi dell’abate Pacichelli (1680-7), Galatina 1993, p. 76. Riguardo l’opera dell’abate Pacichelli cfr. su questo sito https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/05/una-passeggiata-a-lecce-di-fine-seicento-labate-giovan-battista-pacichelli-descrive-la-citta/  e La Terra d’Otranto ieri e oggi, 14 articoli di Armando Polito di cui l’ottava parte è dedicata a Lecce https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/17/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-814-lecce/

[7] B. Da Lama, Cronica de’ Minori osservanti riformati della provincia di S. Nicolò, a cura di L. De Santis, Lecce 2002, 2 voll., vol. II, p. 56.

[8] B. Da Lama, op. cit., p. 56.

[9] M. Paone, op. cit., p. 76. Olimpia Maidalchini Pamphili (1592-1657) era la discussa cognata di Giovan Battista, papa Innocenzo X (1644-1652), e nel suo testamento devolse un congruo lascito affinché fossero celebrate messe presso le chiese dei Minori Riformati a Roma e a Viterbo, cfr. http://212.189.172.98:8080/scritturedidonne/Testamenti/Pamphili/pdf/MaidalchiniO.pdf .

[10]G.M. Crescimbeni, L’Istoria della basilica diaconale, collegiata e parrocchiale di S. Maria in Cosmedin di Roma, Roma 1715, p. 274.

[11] Cfr. http://web.tiscali.it/enteliceoconvitto/moticense6/5Flaccavento.htm

[12]S. Crepaldi, Santi e Reliquie. Devozione popolare nella diocesi novarese, Cologno Monzese 2012, p. 147. La reliquia, dopo svariati passaggi di proprietà, nel 1717 fu offerta da mons. Lorenzo Gallarati alla comunità di Tornaco nella diocesi di Novara (cfr. Ibidem). Lo stesso pontefice devolse nel 1634 «una Croce di argento con un pezzetto del legno della Santa Croce» alle monache carmelitane della chiesa di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi di Firenze (G. Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine divise ne’ suoi quartieri, Tomo I, Firenze 1754, p. 324).

[13]G. De Novaes, Elementi della storia de’ sommi pontefici da san Pietro sino al felicemente regnante Pio papa VII, Tomo 9, Roma 1822, p. 222. È la reliquia con cui la mattina del Venerdì Santo in San Pietro è data la benedizione solenne. Puntuali notizie sulle reliquie maggiori della Basilica di San Pietro e la loro provenienza sono in F. Cancellieri, Descrizioni delle funzioni della Settimana Santa nella Cappella Pontificia, Roma 1818, pp. 144-152.

[14] Cfr. http://www.cassiciaco.it/navigazione/monachesimo/conventi/monasteri/italia/toscana/fivizzano/bosco.html. Per l’immagine del reliquiario cfr. http://pesanervi.diodati.org/pn/?a=302.

[15] M. Paone (a cura di), op. cit., p. 76.

[16] B. Da Lama, op. cit., p. 56.

[17] G. C. Infantino op. cit., p. 211.

[18] B.F. Perrone, op. cit., p. 130.

[19] Cfr. Ivi, p. 129.

[20] B. Da Lama, op. cit., p. 56. Sulla suppellettile liturgica denominata pace, cfr. http://www.silvercollection.it/pace.html

[21]https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/04/26/note-sulla-chiesa-e-sul-tesoro-di-s-caterina-dalessandria-in-galatina/

[22]Cfr. P.F. Palumbo,  LibroRosso di Lecce. Liber Rubeus Universitatis Lippiensis, 2 voll. Fasano 1997, vol. I, p. 61. Nella sagrestia del convento francescano era conservato anche «Il dito di San Giacomo Apostolo, che lo tiene in petto, in Statoa di mezzo busto» (B. Da Lama, op. cit., p. 56).

[23] Cfr. Cfr. B.F. Perrone, op. cit., p. 102.

[24] G. C. Infantino, op. cit., pp. 208-9.

[25] B.F. Perrone, op. cit., pp. 130-131.

[26] Da Lama, op. cit., pp. 56-57.

[27] Da Lama, op. cit., pp. 56-57.

[28] M. Paone (a cura di), op. cit., p. 76.

 

La Domenica delle Palme d’una volta, a Marittima

palme

di Rocco Boccadamo

 

Nel mio personale sentire, sin dalla lontana infanzia, questa ricorrenza ha esercitato sempre una grande fascinazione; in altri termini, l’ho considerata, attesa e vissuta alla stregua di autentica anteprima della Pasqua.

Sul piano concreto, ripassando col pensiero una serie di specifiche usanze e consuetudini correlate all’evento – abitudini risalenti a stagioni antiche e tuttavia, ad onore del vero, almeno nei confini della località natia, in parte ancora oggi mantenute e rispettate – rivedo indistintamente la quasi totalità dei compaesani, di mestiere contadini e/o agricoltori, nell’atto di recidere dagli alberi d’ulivo, il giorno prima, cospicui fasci di rami, ricchi di tenere foglioline color verde argento, poi trasportati a casa, a spalle o sul manubrio di una bicicletta o su un carretto, con il preciso e irrinunciabile scopo di trasferirli, la mattina successiva, sul sagrato della chiesa parrocchiale per la benedizione e la processione comunitaria.

Accanto al luogo sacro, veniva così a formarsi un suggestivo, grande è alto tappeto di rami, sigillo distintivo di un’intera popolazione.

Dopo le anzidette celebrazioni, seguite in raccolto silenzio dagli astanti d’ogni età, i singoli fasci ritornavano, con naturale ordine, nelle mani dei rispettivi titolari e, immediatamente, avanti che scoccasse l’ora del pranzo, le “palme” erano collocate sui tetti delle case, oppure piantate nei campi, nei giardini e nelle aiuole dei cortili domestici, con convinte dedicazioni propiziatorie, soprattutto di buona salute e di fecondi raccolti agricoli.

Al riguardo, atteso che il mio genitore aveva cessato il mestiere di contadino per assumere l’impiego presso l’anagrafe comunale, la mia diretta testimonianza passa attraverso il nitido ricordo delle prime “palme” donate e piantate dal nonno Cosimo, classe 1879, e, successivamente, la sequenza della medesima operazione compiuta dallo zio Vitale e infine, da un po’ d’anni a questa parte, dall’amico Toto, il quale è anche il prezioso e amorevole “badante” del mio gatto certosino, nei mesi in cui io e mia moglie non risiediamo alla “Pastorizza” di Marittima.

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A latere del rito fondamentale delle liturgie con i rami d’ulivo, quella domenica mattina se ne svolgeva un altro, basato su una materia prima differente, ossia dire le tenere foglioline pennate, tra il giallo e il verde, di palme da dattero.

Erano poche, anzi pochissime, al paesello, le piante di tale specie, allignavano solamente in qualche giardino e campo delle poche famiglie benestanti, giacché la gente comune non si poteva permettere il lusso di coltivare, sui risicati terreni di proprietà, alberi che non dessero alcun frutto.

Difatti, le palme da dattero venivano in auge e avevano il loro momento di gloria esclusivamente nel giorno delle Palme, quando, mediante le anzi richiamate foglioline, attentamente e abilmente ripiegate e incastrate a mano, si fabbricavano minuscoli “panierini”, che i più piccoli donavano alle loro mamme, i ragazzi alle compagne e i giovanotti alle fidanzate.

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Però, accanto ai “panierini”, arrivavano a far bella mostra alcune grandi realizzazioni artistiche ottenute con le medesime foglie, palme ad intreccio o altre raffigurazioni, per opera delle famiglie dei “signori” che disponevano di propri arbusti: ricordo particolarmente quelle del Maestro Don Peppino Margiotta e del Patrunu Giacomino.

Nel contesto complessivo, vigeva anche l’abitudine di offrire una delle grandi “palme” artistiche in parola, in segno d’omaggio, all’Arciprete, il quale la teneva in mano e appoggiata sul petto durante la processione.

Noi ragazzi, sistematicamente ogni anno, ci portavamo di buon’ora in una tenuta agricola sulla via provinciale fra Diso e Ortelle, denominata “Lafiusca Bottazzi”, proprietà di un illustre scienziato, Filippo Bottazzi, nativo di Diso, che, però, viveva quasi sempre fuori, terreno che, accanto a una casa di villeggiatura ancora oggi esistente, comprendeva due rigogliose palme da dattero.

Ci arrampicavamo lesti fra tronchi e rami, riuscendo, così, a far, ciascuno, una piccola incetta di foglioline pennate giallo verde, da destinare alla fabbricazione di “panierini”, magari poi venduti ai compagni in cambio di sparute lirette.

Semplici e marginali digressioni da ragazzi a parte, la Domenica delle Palme d’un tempo aveva per fulcro la funzione di manifestare reciprocamente, in seno a familiari, parenti, amici e compaesani, gesti simbolici di rapporti pacifici, di buon vicinato e di comune e disinteressata solidarietà.

Fuor di demagogia, come sarebbe bello se, pure adesso, si avvertisse ed esercitasse un’analoga spinta spontanea! Forse, in tal modo, tanti dei problemi e/o ambasce che ci circondano e assillano potrebbero essere, se non risolti, perlomeno attenuati.

Da ultimo,  ricollegandomi alle note preoccupazioni, legittime e forti, che corrono e angosciano con riferimento alla nota malattia o epidemia (Xilella) che sta colpendo i nostri ulivi salentini, pur consapevole delle gravi conseguenze che potrebbero derivarne sotto molti aspetti, mi sento però di non condividere e, anzi, di respingere l’idea, da qualcuno affacciata, che, nella ricorrenza delle Palme 2015, non si proceda alla tradizionale benedizione dei rami d’ulivo e ci si astenga dal concorrere ad addobbare con i medesimi, che sono un tratto distintivo della nostra identità storica, la piazza di San Pietro a Roma.

L’incendio del deposito dell’Archivio di Stato di Napoli

Articolo 2.1 260px-Hatra_ruins[1]

di Giovanna Falco

In queste giorni si vivono con sconcerto le notizie che arrivano dall’Iraq e dalla Siria: l’annientamento di un popolo tramite eccidi e l’azzeramento dell’identità culturale. I libri di storia sono pieni di episodi simili e si sperava che fossero relegati al passato, invece proprio in quella che può essere considerata la culla della cultura, l’arroganza dell’invasore compie un atto che, seppure frutto di una determinata strategia politica e non dell’ignoranza, è fine a se stesso e si ritorce non solo sulla povera gente sterminata ma anche sulle generazioni a venire, quando questi individui saranno ricordati solo come autori di un gesto barbarico. Pur se nello sconcerto, a fianco di chi è preposto a mettere fine agli stermini in concorso, sicuramente sono già all’opera archeologi e storici di tutto il mondo, per ricordare e divulgare quello che è diventato un ricordo che non sarà mai cancellato dalla storia.

La distruzione dell’eredità culturale irachena e siriana ricorda un episodio simile avvenuto una settantina di anni fa in Campania, quando un ufficiale tedesco pensò di passare alla storia ordinando di bruciare gran parte del patrimonio documentario dell’Italia meridionale. In Germania l’autore di questo scempio non è ricordato come eroe e la sua identità è stata mantenuta segreta. In Italia, finita la guerra, gli archivisti napoletani si sono messi all’opera, intraprendendo un lavoro di recupero, ancora in corso[1].

Articolo 2.2 Montesan[1]

La mattina del 30 settembre 1943, gli abitanti di San Paolo Belsito videro innalzarsi dalla collina di Montesano una colonna di fumo che si sparse per la campagna nolana: bruciava villa Montesano, l’antica residenza dei Mastrilli marchesi di San Marzano, ristrutturata nel Seicento dal noto architetto napoletano Cosimo Fanzago. Nella dimora, luogo di riposo per artisti e nobili (passò dai Mastrilli ai Capecelatro, e poi alla famiglia Della Valle marchesi di Casanova, e infine, dal 1913 alla famiglia Contieri), soggiornò, ospite dei Della Valle, il compositore Domenico Cimarosa (1749-1801), che qui vi compose il Matrimonio segreto. Si narra che, a causa di questo soggiorno, le truppe del Cardinale Ruffo saccheggiarono la villa, perché il musicista nel 1799 aveva scritto un inno in onore della Repubblica Partenopea.

L’incendio del 1943 fu appiccato dai tedeschi, perché nella villa erano custoditi i documenti storici dell’Archivio di Stato di Napoli.

Si sperava di preservare le carte dai bombardamenti su Napoli. Nel 1941 la sede centrale dell’Istituto, l’ex monastero di San Severino e Sossio al Pendino, era stata danneggiata da alcune bombe, con la conseguente distruzione di documenti. Nel corso del 1943, inoltre, i bombardamenti causarono la distruzione delle carte raccolte nell’archivio militare a Pizzofalcone e di altre, conservate presso il deposito di scritture al Divino Amore e ancora una volta presso la sede centrale[2].

Riccardo Filangieri di Candida
Riccardo Filangieri di Candida

Nonostante il parere sfavorevole di Riccardo Filangieri, soprintendente dell’istituto dal 1934 al 1956 – che sin dal 1935 aveva consigliato alle autorità competenti la costruzione di un deposito di sicurezza a Napoli nella sede di San Severino -, nei primi mesi del 1943 i documenti furono trasportati a San Paolo Bel Sito: 31.606 tra fasci e volumi e 54.372 pergamene, stipati per lo più in 866 casse, ammassate in quattro ordini sovrapposti, affidati al direttore del deposito Antonio Capograssi e a personale dell’Archivio. Si salvarono dal rogo solo 11 casse di protocolli notarili e 97 buste dell’Archivio Farnesiano.

Molto probabilmente l’incendio fu appiccato dai tedeschi come ritorsione per le Quattro giornate di Napoli (27-30 settembre).

Filangieri ricostruì quanto accadde: da qualche settimana squadre di militari tedeschi armati si aggiravano nell’agro nolano alla ricerca di approvvigionamenti alimentari e di beni, saccheggiando e depredando tutto ciò che era prezioso. A queste squadre si aggiunsero quelle di guastatori che minavano e incendiavano edifici pubblici e privati. Il pomeriggio del 28 settembre, tre tedeschi arrivarono a villa Montesano, entrati nell’edificio e viste le casse, seppero del contenuto che custodivano. La mattina successiva si presentò alla villa un ufficiale tedesco, che volle visitare le sale dov’erano custodite le casse e visionare alcuni documenti. Nel tardo pomeriggio un’altra squadra di tedeschi si soffermò per qualche tempo nei sotterranei: si pensò che l’edificio fosse stato minato. Riccardo Filangieri, messo a conoscenza dell’accaduto, indirizzò al comando tedesco stanziato a Nola una lettera in cui illustrava il contenuto del deposito e l’importanza dei documenti. La mattina del 30 settembre tre soldati tedeschi giunsero alla villa, il comandante della squadra lesse la lettera, la ignorò e portò a termine il suo mandato. Gli abitanti della villa furono allontanati, nelle sale che contenevano le casse, furono ammonticchiate paglia, carta e polvere pirica e in pochi minuti l’edificio fu devastato dal fuoco. Non si è mai saputo chi ordinò di bruciare i documenti. In seguito Filangieri seppe che alcuni cartelli affissi dai tedeschi a Nola in quel periodo, recavano la firma di Kellerman, altri quella del Capitano Sommerfield.

Si è già detto che nel deposito erano stati riuniti i più preziosi documenti dell’Archivio di Napoli, dov’erano state convogliate le serie di documenti provenienti dai vari archivi dell’Italia Meridionale, tra cui le 757 pergamene originali di Gallipoli, Lecce, Castellaneta e Laterza, versate dall’Archivio di Stato di Lecce a quello di Napoli nel 1845, quando fu solennemente inaugurata la nuova sede nel Monastero dei SS. Severino e Sossio, in occasione del Congresso Nazionale degli Scienziati Italiani.

Riccardo Filangieri aveva stilato un elenco, suddividendo i documenti napoletani in quattordici categorie: Museo storico-diplomatico, Cancelleria Angioina, Cancelleria Aragonese, Pergamene, Archivio della Real Casa, Archivio Farnesiano, Ministero degli Interni, Regia Camera della Sommaria, Consiglio Collaterale, Real Camera di Santa Chiara, Segreteria dei Vicerè, Cappellania Maggiore, Scritture varie della Sezione Politica, Scritture varie della Sezione Amministrativa. Andarono a fuoco anche i documenti provenienti da altri Archivi di Stato ed Enti, esposti a Napoli in occasione della Mostra delle Terre d’Oltremare.

L’entità dei danni è stata immensa: ne è esempio indicativo il Registro di Federico II del 1239-40, i 378 volumi contenenti gli atti dei sovrani angioini dal 1265 al 1434, i 7232 volumi della Regia Camera della Sommaria, ecc.

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[1] Riccardo Filangieri volle avviare, grazie al finanziamento dell’Accademia Pontiana, la ricostruzione dei documenti della Cancelleria angioina, i cui risultati sono, e continuano a essere, pubblicati in I Registri della Cancelleria Angioina: una capillare raccolta di originali, copie, manoscritti, codici, fotografie, microfilm, pubblicazioni e fonti inedite, così com’è illustrato nella guida dell’Archivio di Napoli. Cfr. La Guida generale degli Archivi di Stato italiani: http://www.maas.ccr.it/PDF/Napoli.pdf.

[2] Nel sito del Ministero dei Beni Culturali è presente il seguente link da cui si apprendono le vicissitudini accadute all’Archivio di Stato di Napoli e le perdite subite. Il rapporto risale al 1946 e l’elenco dei danni fu stilato da Riccardo Filangieri: www.archivi.beniculturali.it/Biblioteca/DanniGuerra/08_AdS_MO_PA.pdf.

 

 

 

“Perché Sanremo è Sanremo”

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di Paolo Vincenti

Un timido sole su Lecce. Nonostante sia febbraio, il caldo è umido e fastidioso, i muri sono tappezzati da manifesti di concerti, assemblee pubbliche, bandi comunali e dagli immancabili batti e ribatti della polemica politica fra maggioranza ed opposizione. Nel parco cittadino trionfa un color zafferano che richiama luci di altre vite, rimanda bagliori di lontane atmosfere. Che ci faccio in una mattinata così a Lecce? Lavoro e un appuntamento culturale. Quando posso, cerco di unire le due cose, che sono le costanti di una vita arlecchinesca.

 

Vado a piedi, fra i perditempo che si gingillano nei bar e le piccole fiammiferaie sui boulevards percorsi da giovani annoiati in cerca di avventura e affaristi che vanno di corsa nei loro mocassini testa di moro. Il sole, come malato, lancia i suoi raggi che cadono sghembi sulle teste delle persone e intarsiano i loro volti con striature violacee. Tutto è in cammino, come sempre, ma le nuvole che sporcano il cielo sembrano correre più veloci; nell’acqua della fontana di Piazza Mazzini si delinea un volto malevolo, qua un caporale maggiore che si affretta verso la caserma, là degli studenti che hanno bigiato e osservano chi li guarda con sospetto, ora un leggero mulinello fa turbinare quattro foglie giallo malinconia, poi il fruscio di una fiammella esce dalla porta della chiesa di Sant’Irene e si perde nella strada. Da un retrobottega, sguscia un miasma pestifero di polvere e collanti. L’extra comunitario nero nerò lancia una maledizione al passante che è passato troppo velocemente senza accorgersi di lui, e intanto che si alza profumo di polli arrosto, all’angolo di Via Lupiae, la donna in fusò e spolverino bianco appena uscita da casa sblocca con sollievo la password del telefonino. Attraverso Porta Napoli e Davide, l’amico che mi accompagna, osserva che il frontale del Teatro Paisiello ricorda quello di un tempio pagano. Il sole si è nascosto dietro la tendina di nuvole e si respira come un’aria di attesa, di sospensione, che fa tendere i nervi. Percorrendo Corso Vittorio Emanuele, che da Piazza Sant’Oronzo porta al Duomo, fra le scintillanti vetrine dei negozi dietro le quali pingui commercianti sorbiscono il cappuccino insieme ai loro emaciati commessi, sotto braccio con un uomo dall’aria altolocata, un padre gesuita rammenta, a sé stesso oltre che al magnanimo amico, che siamo fatti di carne e che non ci porteremo mica i nostri averi nell’aldilà, che scienza, sapienza, ragione, senza Dio, sono solo nubi passeggere come quelle che inzaccherano, contadine, il bel cielo cittadino, e che perciò è inutile adornarci come damerini se, dopo morti, i vermi divoreranno le nostre carni nella tomba. Poi, introducendosi nel bar della libreria Feltrinelli, i due amici ordinano un caffè d’orzo mentre sbirciano i titoli dei giornali. “Hei, amico, dammi qualche spicciolo, dai, almeno per un panino”, mi intima l’extracomunitario, appollaiato all’entrata dei portici come un falco che aspetta il passaggio del cervone. Il mio amico Davide è un musicista dilettante, suona la chitarra. Dunque la conversazione vira sul Festival di Sanremo da poco concluso. “Hai guardato il festival?”. Alla mia risposta affermativa, Davide si meraviglia non poco: “pensavo che uno come te non guardasse certe trasmissioni”. “Davide, ti dico che in tutta sincerità a me piace molto la televisione nazional-popolare. Sono soprattutto attratto dalle derive trash che spesso questa prende. Trasmissioni come quelle di Maria De Filippi per esempio hanno una valenza sociologica niente male, perché ci dicono verso quale abisso di squallore e vuoto mentale sta andando il Paese. O almeno, un certo Paese. E poi, per quanto riguarda Sanremo, a me piace la musica. Quindi cosa c’è di meglio che guardare il festivalone per sfogare il mio razzismo culturale?” . “Ah ah…”, Davide ride ma non sa se scherzo o dico davvero. E in fondo non lo so nemmeno io. “A me è piaciuta molto Malika Ayane e anche Nek. A te?” . “ A me Malika Ayane piace per la voce, ma la sua canzone era inconsistente. Così pure per Nek. Ha scritto canzoni molto migliori di questa”. “E che ne dici dei ragazzi de Il Volo?”. “Per carità, Davide, quelli sono televisione, marketing, al limite musica, ma non arte. Ci avrei scommesso fin dall’inizio che avrebbero vinto loro perché erano tipicamente sanremesi. Andavano sul sicuro puntando, con la loro canzone, su casalinghe e pensionati, cioè lo zoccolo duro del pubblico del festival. Però mi chiedo: come si può cantare una canzone che si intitola “Grande amore”? È aberrante negli anni duemila. E lo è ancora di più, se si pensa che sono ragazzini di vent’anni. Cioè questi, alla loro età, dovrebbero fare rock satanico, sfasciare gli strumenti, attaccare il sistema rappando, non indossare occhiali e smoking e cantare per le mamme. Il loro manager Michele Torpedine è un genio del male!”. “Anche a me fanno cagare, ma i tenorini portano avanti la tradizione melodica del nostro paese”. “ Ma secondo me un conto è conservare la grande tradizione musicale italiana, operazione che i tre ragazzi fanno meritoriamente, un altro è invece scrivere una canzone, oggi, con quegli stilemi. Il recupero della canzone napoletana è cultura, “Grande amore” è anacronistica, furba, falsa, sdolcinata, una chiavica!” . “Vero. Ma non salvi nessuno del Festival allora?”. “ Sì, se proprio devo salvare qualcuno, prendo il duo dei Soliti Idioti, anche se esprimevano, nella loro “Vita d’inferno”, un concetto vecchio quanto il mondo: è meglio non esser mai nati e una volta nati morire nella culla. Lo dicevano già gli antichi greci. Delle nuove proposte, salvo i Kutso (che si pronuncerebbe “cazzo”). Ma in assoluto, la proposta più interessante e innovativa delle cinque serate è stato il chitarrista tenore. Quello che ha suonato Puccini. Come si chiamava?”. “Federico Paciotti” “Lui! L’androgino. Mi è sembrato un mix eccezionale fra tradizione e innovazione. Anche il suo look era super! Ho letto che da ragazzino faceva parte dei “Gazosa”. Beh, è la dimostrazione che gli sbagli si possono sempre recuperare. Ora studia al Conservatorio Santa Cecilia di Roma ed ha un grande avvenire davanti”.

 

Intanto, viene giù un’acquerugiola subitanea che titilla le teste pelate dei passanti i quali corrono al riparo per paura che, risuonando a vuoto la pioggerella sulle loro zucche, evidenzi come esse siano cave. “Cave canem” è scritto sul cartello della cancellata di un palazzo nobiliare nei pressi di Porta Napoli, mentre ritorno insieme con il mio amico a riprendere l’auto e, con invidiabile finesse, sul Viale degli Studenti, un tamarro lancia imprecazioni a una donna incinta che ha occupato metà corsia con la sua macchina in sosta. Tutto passa e tutto torna. Ho sbrigato solo alcune delle commissioni che mi ero riproposto e Mauro e Piero, che dovevamo incontrare al Fondo Verri, all’ultimo momento ci hanno dato buca. Ma alla radio, mentre ritorniamo in macchina, passano le canzoni di Sanremo: “Dimmi che sei. Che sei il mio unico grande amore!!!”

 

 

in “S/Pagine”, 8 marzo 2015

Arte. Intervista ad Angelo Lupi Tarantino

Bozzetto per Arcinemico alle porte cm 140x160 acrilico pigmento su tela anno 2008
Bozzetto per Arcinemico alle porte cm 140×160 acrilico pigmento su tela anno 2008

di Gianluca Fedele

Ci sono persone che abbiamo conosciuto già prima di averle incontrate. Magari siamo cresciuti inconsapevoli della loro esistenza – in certi casi ignari perfino della prepotenza con la quale sono entrati a far parte del nostro quotidiano.

Angelo Lupi Tarantino per me si staglia benissimo in questa descrizione poiché da bambino ho convissuto, come tanti altri, con una delle sue grandiose opere: Momenti dall’Ultima Cena . Questa importante tela insiste all’interno del convento della chiesa di San Francesco da Paola a Nardò dove, assieme ai miei coetanei, frequentavo le lezioni di catechismo.

Oggi, per mezzo delle interviste nelle quali continuo a cimentarmi, ho l’occasione di incontrare il suo autore.

Il padrone di casa mi invita già dai primi istanti a curiosare tra quelli che definisce “i miei quadretti”: opere di quasi due metri. Ci sono vasetti di ogni colore, dipinti accatastati, vere e proprie piramidi di libri e poi un paio di cavalletti sui quali si ergono le recenti opere su cui sta lavorando. Ci accomodiamo.

 

Caduta cm 130x140 acrilico su tela anno 2007
Caduta cm 130×140 acrilico su tela anno 2007

 

D.:

Ebbene, siamo finalmente insieme all’interno di questo variopinto scrigno.

In apertura vorrei domandarti dove hai maturato la tua passione.

 

R.:

Potrei affermare che il disegno e la pittura sono stati per me una necessità ancor prima dell’urgenza di nutrirmi e del respirare: ricordo che già all’età di quattro anni sottraevo a mia madre – che era un’insegnante – dei grandi manifesti sul retro bianco dei quali avrei potuto scarabocchiare liberamente. Quei fogli più grandi di me io li riempivo di colori e raffigurazioni particolarmente enigmatiche per i miei anni. Non è quindi solo un modo di esprimermi, la pittura, ma il viscerale bisogno di espellere universi che stazionano nel mio intimo invadendolo; essi nascono chissà dove ed esistono a prescindere dalla razionale volontà.

Giunto ora alla mia non più giovane età devo riconoscere alla modesta arte che produco il pregio di aver mantenuto perlomeno quella sincerità.

 

D.:

Quando non è sincera, l’arte?

 

R.:

Di certo, ad esempio, quando è commissionata subisce una forzatura. L’arte è una pulsione che nasce dall’intimo, non è concepita per piacere a ogni costo poiché non tutto ciò che avremmo da dire potrebbe piacere ai nostri interlocutori. Talvolta mi è capitato di pensare, ad esempio, agli inquilini delle grotte di Altamira, di trentamila anni fa, e all’innata volontà di raffigurare il paesaggio che li circondava, se stessi, la vita e la morte insomma anche solo con impronte di mani sporche di carbone soffiato. Non sapremo mai se cantavano ma della loro propensione alla rappresentazione grafica abbiamo prove tangibili e meravigliose. Ciò che è altrettanto certo è che non vi era nessuno lì, in quelle cavità buie, a suggerire loro cosa fare.

 

D.:

Credi che i galleristi oggi rappresentino quella forzatura?

 

R.:

La realtà è che il sistema delle gallerie, pur essendo stato concepito su premesse intellettuali e culturali più nobili, nell’Ottocento parigino, attualmente è finalizzato quasi esclusivamente al mero scopo di lucro. In Italia, poi, dal dopoguerra ad oggi, non è un segreto che la qualità abbia lasciato il posto alla quantità.

Poi esistono le eccezioni anche da noi e sono quelle ad aver fatto conoscere tanti artisti veri e tante cose serie. Il primo aspetto però l’ho appurato personalmente: mi è capitato infatti, agli esordi, intorno agli anni ’70, di avere a che fare con mercanti d’arte che esigevano da me una produzione di quadri elevatissima – stiamo parlando di circa sessanta tele al mese – pur non intendendo, talvolta, neppure il messaggio in essi contenuto. Fu lì che compresi come la grande bellezza del dipingere risieda nel poterlo fare liberamente, coi propri tempi e prima di tutto per sé stessi.

In questo posso dire di avere avuto fortuna e tanto coraggio unito all’incoscienza.

 

Corpo di fuoco numero 2 cm 40x30 oro acrilico pigmento su tavola anno 2006
Corpo di fuoco numero 2 cm 40×30 oro acrilico pigmento su tavola anno 2006

D.:

Durante questi anni così pieni quali sono stati gli artisti che hanno maggiormente influenzato la tecnica maturando lo stile del pittore Lupi Tarantino?

 

R.:

Direi che partendo da Giotto e arrivando al ‘600 ho preso in prestito tutto quello che ho potuto, senza però mai copiare da nessuno. Potrei fare nomi eccelsi ma in realtà sono attratto molto di più da tutti quegli artisti minori che hanno contribuito, con la loro ricerca, a creare il tessuto così fecondo di quell’epoca sulla quale poi sono emersi gli iceberg immensi che tutti conosciamo.

Mi ha sempre appassionato quel genere di arte che si formava all’interno delle botteghe del ‘300, dai Primitivi toscani in poi; luoghi dove nonostante fosse essenziale la fatica delle mani e il sudore della fronte si cercava comunque di mantenere la misura dell’uomo. In più, come è ovvio, tutto fino alle avanguardie storiche.

 

Momenti dall'Ultima Cena
Momenti dall’Ultima Cena

D.:

C’è un filone stilistico nel quale ti riconosci?

 

R.:

Francamente no. Duccio Trombadori di me disse che negli anni ’70 facevo il post-moderno qui nel meridione, isolato, senza saperlo e senza che nessuno mi conoscesse.

Ora potrei ritenermi forse un figurativo ma anche lì si aprono decine di sottocategorie (neo figurativo, vetero figurativo, post figurativo) che onestamente ho anche difficoltà a comprendere. Ciò che realizzo è talmente complesso, dal punto di vista tecnico e stilistico, da farmi indugiare sull’effettiva sua natura. E poi, di certo, questa è l’ultima delle mie preoccupazioni perché, piuttosto, il mio sguardo si apre sull’abisso della rappresentazione del “nulla fatto con mezzi intellettuali e materiali del niente” che è gran parte di quella che chiamiamo Arte; il vero mio stupore è nel fascino che emana questo vuoto e che mi appare inquietante.

 

D.:

Mi pare di capire che per te gli artisti dovrebbero sentirsi liberi di spaziare negli stili senza essere necessariamente vincolati a un contenitore.

 

R.:

Liberi di spaziare, certo, ma sicuramente vincolati a un rigore morale e tecnico che garantisca il rispetto stilistico profondo, non apparente; Michelangelo, quello della Pietà Rondanini, fu più moderno di tanta modernità che senza lui non sarebbe esistita, e più classico di grandi scultori greci; soprattutto fu corretto nello stile, stile che gli veniva dal naturale indebolimento dei suoi sensi unito alla irraggiungibile esplosione del suo pensiero e della sua anima.

 

Passo morbido - acquaforte, prova d'autore - 1997
Passo morbido – acquaforte, prova d’autore – 1997

D.:

Per prepararmi al nostro incontro ho fatto una breve ricerca attraverso il blog angelolupitarantino.blogspot.it e sono rimasto impressionato dalle numerose esperienze accumulate nel corso degli anni. Quali sono i passaggi più significativi della tua carriera?

 

R.:

Tutto ciò che ho fatto ha forgiato il mio essere e di riflesso la mia umile arte ma certamente città come Lugano, Milano e Roma custodiscono i miei ricordi più appassionanti.

Venticinquenne mi ritrovai in Svizzera, terminato il liceo artistico, per dipingere e allestire una mostra ma le serate più interessanti le vivevo seduto al tavolino del “Bar Pedrini” dove qualcuno sostiene, peraltro, che Pietro Gori abbia scritto la famosa canzone “Addio Lugano bella” (n.d.r.). Sapere che in quel posto si fossero incontrati rivoluzionari della portata di Lenin dava alla permanenza fuorisede un sapore agrodolce, per me che mi sono sempre ritenuto libero da posizioni ideali acritiche a meno che non fossero quelle di una umanità formata sulle radici della nostra cultura e della fede.

Ricordo che lì vendetti tre quadri e il ricavato mi permise di soggiornarvi per circa  un anno.

A Milano invece ci arrivai per una casualità: una sera andai con amici al Teatro alla Scala per vedere “Peter Grimes” di Benjamin Britten; affascinato dallo spettacolo, dalle scenografie, dal canto e dalla musica – in breve: dalla magia della Scala – partecipai a una selezione e mi trovai a dipingere scene, a formare sculture false che diventavano vive in scena. Tra tanti e bravi professionisti ebbe inizio una delle esperienze maggiormente formative: saltavo dai laboratori di scenografia alla miniera passando per l’allestimento della mostra del bicentenario a Palazzo Reale. In quello stesso periodo conobbi Renato Guttuso e per lui curai, in palcoscenico, i particolari dell’allestimento dell’opera “La forza del destino”.

 

D.:

Hai fatto riferimento anche a una esperienza romana importante, giusto?

 

R.:

Si. Molto semplicemente un amico nel 2003 mi consentì di esporre i dipinti a Teatro dell’Opera in concomitanza con l’allestimento di “Francesca da Rimini” di Riccardo Zandonai.

Mi prestai ben volentieri ricordando d’essere cresciuto – ancor prima dell’avvento della maledetta televisione – con mia madre che la sera leggeva a noi familiari riuniti la Divina Commedia.

 

Prologo siparietto cm 205x105 acrilico pigmento su tela anno 2007
Prologo siparietto cm 205×105 acrilico pigmento su tela anno 2007

D.:

Cosa mi racconti del dipinto “Momenti dall’Ultima Cena”?

 

R.:

È una tela delle dimensioni di metri 6 x 3 che nel 1975 un amico, Luigi Ruggeri, accollandosi le spese mi consentì di dipingere. Fu per me motivo d’orgoglio creare, in quel luogo così ricco di storia, un’opera sacra destinata a rimanere lì per lungo tempo; se non altro perché la porta della sala in cui è esposta è alta poco più di due metri e dislocarla vorrebbe dire spaccare le pareti.

Poco nota in verità, tant’è vero che un conoscente recentemente mi ha invitato a visitarla sostenendo che fosse un quadro di dubbia paternità.

Il motivo di questa scarsa conoscenza potrebbe risiedere nella inadeguata comprensione dell’opera anche da parte di qualche ecclesiastico.

 

D.:

Le ragioni della fede hanno influenzato la produzione artistica?  

 

R.:

Per ciò che mi riguarda non dipingerei quello che dipingo se non fosse stata così presente e non mi avesse formato fino in fondo con tutti i limiti spaventosi che ho.

 

Riflessione su Resurrezione e Crocifissione cm 130x190 inchiostro pastello catrame su cartone
Riflessione su Resurrezione e Crocifissione cm 130×190 inchiostro pastello catrame su cartone

D.:

Quali sono ora le tematiche che ti spingono a dipingere?

 

R.:

Dal 2003 lavoro costantemente su tre fronti: la caduta, il paradiso perduto, e corpi di donna.

Quest’ultimo filone l’ho intrapreso perché con esso sognavo di tirarmi fuori dalla gabbia dei primi due ma mi accorgo che è stato inutile dal momento che ancora oggi mi ritrovo a produrli, ad approfondirli.

Dopotutto, benché durante l’ideazione le opere debbano inevitabilmente essere sottoposte al setaccio della fredda conoscenza, la loro genesi è imprescindibile dall’inconscio e dall’anima tanto da ritrovarmi spesso a dipingere bozzetti della crocifissione con la quale termino la mia visione del Paradise Lost, dei miei vulcani e dei corpi di donna.

 

D.:

Queste creazioni sono chiaramente impegnative, perlomeno dal punto di vista concettuale. Il territorio come le accoglie?

 

R.:

Di sicuro i miei quadri non potrebbero essere venduti come complementi d’arredo. Solo un altro folle potrebbe mettersi in casa Satana, per esempio. Di tanto in tanto, qualora qualche sprovveduto abbia preteso da me immagini più ordinarie e commerciali, mi sono preso il gusto di invitarlo a procurarsi un poster piuttosto che un mio dipinto.

L’arte, per tanti uomini, in termini spiccioli non serve a un tubo; l’uomo può sopravvivere benissimo senza. Ma, per l’appunto, di sopravvivenza stiamo parlando, ai limiti del bestiale.

La vita è ben altra cosa ed è ricca di emozioni che solo la raffinatezza dell’arte sa esprimere con tanta potenza. Questo aspetto qualcuno sta cominciando a capirlo; però, come per tutte le cose che riguardano l’uomo, con calma, molta calma.

Vulcano di Sibilla in notturno catramoso
Vulcano di Sibilla in notturno catramoso

Nardò: il terremoto del 20 febbraio 1743 in una testimonianza poetica diretta, o quasi …

di Armando Polito

L’ideale sarebbe, e non solo per la storia, che di qualsiasi fenomeno fosse testimone oculare, cioè diretto, un esperto, ma esperto veramente … dello stesso fenomeno, perché così sarebbe almeno salva l’attendibilità della testimonianza, nei limiti, tipicamente umani,  in cui anche l’acribia dello scienziato deve fare i conti con la sua sfera emotiva. Certo, la sfiga è sempre in agguato, come quasi duemila anni fa capitò a Plinio per essersi avvicinato troppo, per studiarlo meglio,  al Vesuvio in eruzione. È pur vero che sull’evento e sulla sua fine ne lasciò memoria l’omonimo nipote in due famose lettere indirizzate a Tacito; ma è avventato credere che quella relazione che il destino non concesse di compilare all’autore della Naturalis historia probabilmente avrebbe contenuto qualche dettaglio in più? E poco importa se esso non avrebbe, forse, alimentato la ridda di interpretazioni che nel corso dei secoli si sono accavallate sulle letterine del nipote. Noi, d’altra parte, con tutta la tecnologia che rappresenta, per prendere a prestito (con il solo cambio degli aggettivi possessivi) le malinconiche parole di una canzone di Sergio Endrigo, il nostro orgoglio e la nostra allegria, saremo in grado di consegnare a chi verrà testimonianze chiare, cioè destinate ad un’interpretazione univoca, sui fenomeni della nostra era, inquinamento compreso?

Non mi meraviglierei, ammesso che  mi fosse concesso di farlo in deroga alle leggi naturali …, se non venisse trascurata quella che, forse, è la più alta forma di conoscenza possibile, la poesia. E non sarebbe né la prima né l’ultima volta in cui per indagini di tipo scientifico vengono utilizzati, non come extrema ratio in mancanza di altro ma come probabile elemento integrativo, dati estrapolati da un testo poetico.

È quello che mi accingo a fare pur limitando il mio intervento alla sfera di mia, mi auguro non presunta, competenza; nelle note il lettore comune avrà modo di chiarire il significato di qualche passaggio, l’esperto di terremoti potrebbe trovare qualche indizio per convalidare, integrare o correggere  un’ipotesi.

Poiché all’epoca del terremoto l’autore, che via via scopriremo, aveva 22 anni, è legittimo pensare che il componimento sia stato scritto quando l’eco dell’evento si era, se non spento, quantomeno attenuato, anche a livello psicologico. Può aver sfruttato i ricordi del padre Giovanni Bernardino (1695-1760), del quale scrisse la biografia1 nella quale si legge:

La sua erudizione non meno, che la sua presenza di spirito in qualunque scabroso affare, ben tosto gli guadagnarono una particolar confidenza col Signor Conte di Conversano, da cui nella piccola dimora, che fece in detta Città, gli fu conferito il governo di essa con piena soddisfazione del Pubblico; ed avvenuto in quel tempo il noto orribil tremuoto, che quasi affatto distrusse una Città così riguardevole; ed accorsovi il Signor Duca di Ceresano allora degnissimo Preside nella Provincia d’Otranto, e conosciuta l’abilità, e la destrezza di detto Tafuri con animo quieto, e tranquillo se ne parli, lasciando il tutto raccomandato al di lui prudente regolamento. Ben corrispose egli alla buona opinione di detto Signor Duca, mentre non risparmiando fatiga, né riguardando gl’incomodi di una rigidissima stagione, assistè sempre personalmente a tutto: fè subito aprire le strade ingombrate, e le Chiese dalle precipitate macerie, fè disseppellire i morti, e fè ridurre tutt’i poveri storpi in un destinato luogo per Ospedale, provvedendo tutti di vitto, di Medici, e di medicamenti, e mostrando in tal congiuntura non solo una mente la più metodica, e regolata nel distribuire le cose, ma eziandio un animo ridondante di Cristina Carità, e quel ch’è più senza pregiudicare le solite ore da lui addette allo studio.2

Il componimento che tra poco leggeremo fu pubblicato per la prima volta da Giovanni Bernardino nella seconda parte del terzo tomo (senza segnatura di pagina) della Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli uscito a Napoli, senza nome dell’editore, nel 17523, ma riproduco il testo, perché tipograficamente meglio leggibile, in formato immagine da un’altra pubblicazione4, aggiungendo di mio la traduzione a fronte e in calce le relative note (se il tutto dovesse risultare difficoltoso alla lettura, sarà sufficiente l’invio di un messaggio e il giorno successivo avrò già provveduto).

 


 


 

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1 Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Giovanni Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò ristampate ed annotate da Michele Tafuri, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1851, v. II, pp. 582-590.

(https://books.google.it/books?id=IgMi5BSSwKcC&pg=PA585&dq=Opere+di+Angelo,+Stefano,+Bartolomeo,+Bonaventura,+Giovanni+Bernardino+e+Tommaso+Tafuri+di+Nard%C3%B2+ristampate+ed+annotate+da+Michele+Tafuri&hl=it&sa=X&ei=u_jEVOfwLIrxUuqYgogO&ved=0CCYQ6AEwAQ#v=onepage&q=Opere%20di%20Angelo%2C%20Stefano%2C%20Bartolomeo%2C%20Bonaventura%2C%20Giovanni%20Bernardino%20e%20Tommaso%20Tafuri%20di%20Nard%C3%B2%20ristampate%20ed%20annotate%20da%20Michele%20Tafuri&f=false)

2 Op. cit., pp. 589-590. Al padre Tommaso dedicò anche un componimento in distici elegiaci pubblicato da Giovanni Bernardino in Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Mosca, Napoli, 1748, tomo II, s. p. (https://books.google.it/books?id=8D40AAAAMAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:lhRjZBX2xbUC&hl=it&sa=X&ei=CgDFVOOrNoitaZmJgvAC&ved=0CCAQ6AEwAA#v=onepage&q&f=false):

 

Traduzione: A GIOVANNI BERNARDINO TAFURI IL FIGLIO TOMMASO. O caro genitore, concessomi dagli astri favorevoli, tu che mi sostieni spinto da un amore particolare, voglia il cielo che io possa  procedere sulle tue orme e pari a te innalzarmi per l’onore del mio ingegno!  In me stesso, se c’è qualche forza, agisce il pericolo e ora grazie a te mi piace la sola Minerva. Quel tuo lavoro continuo mi atterrisce e con le lotte costringi tutti ad indietreggiare. Ma per te hanno un dolce sapore le arti della tua Tritonidea; ogni peso della fatica ha sempre un dolce sapore. Lucifero e Vesperob ti vedono immerso in profondi studi quando sarebbe necessario che anche una breve ora fosse libera da impegni. Ohimè, temo che tu, oppresso da tanta mole di fatica, mi venga a mancare (Dei, tenete lontana questa sventura!)c. Se il primo libro degli Scrittori del regnod piacque da tempo ai Sapienti, dovunque lo dimostra il plauso. Apollo è felice di conservarlo nei suoi scaffali e la dotta Minerva lo legge e rilegge come suo.  Ma il secondo si dirà degno di eterno onore, bella in esso la materia e alquanto piacevole.  Quanti Scrittori per te, quanti libri avesti cura di sfogliare, quante carte sporche di troppa polvere!  Qualsivoglia degli Autori mandò libri da lui messi insieme, ogni Biblioteca è al tuo servizio. Il tuo ingegno molto soffrì, fece, sudò e patì il freddo: ora, orsù, dà una pausa allo studio. La mente torna più sveglia alle consuete fatiche dopo un breve riposo: dunque mettine uno piccolo nel lavoro. Prego tutti gli dei che non mi rincresca ricorrere ai tuoi consigli qualora ti dessero la vecchiaia di Nestoree. O genitore, capo santo per tuo figlio, o veramente mia gloria destinata ad andare per tutte le vie del sole!

a Minerva, nata, secondo una delle tante tradizioni mitologiche, sulle sponde del lago Tritone (in Africa).

b Rispettivamente: stella del mattino e della sera.

c Purtroppo la sua paura si avverò perché Giovanni Bernardino morì a 64 anni.

d Il primo tomo della Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli uscì nel 1744 a Napoli per i tipi di Mosca; la composizione della poesia, perciò, è posteriore a tale data ed anteriore al 1748, anno come s’è detto, di pubblicazione.

e Il più saggio e vecchio dei condottieri greci.

Suo fu anche il testo della lapide apposta sulla tomba del padre nella chiesa di S. Francesco da Paola e poi rifatta nel 1920 da Antonio Tafuri. In essa è dominante il ricordo dell’impegno di studioso del padre.

 

Traduzione: A Dio Ottimo Massimo Qui sono sepolti i corpi di Giovanni Bernardino Tafuri e di Anna Isabella Spinelli coniugi patrizi neretini. Giovanni Bernardino illustre maestro di lettere come attestano moltissime sue opere edite con la fatica, la prudenza giovò alla patria e ai cittadini. Logorato più dal lavoro che dagli anni morì nel mese di maggio del 1760 all’età di sessantaquattro anni. Isabella assidua in chiesa per la carità profusa verso il prossimo, piissima verso dio chiuse la sua vita nel mese di giugno del 1751. Entrambi per la grande devozione verso S. Francesco da Paola, pur avendo  sepolcri gentilizi nel cenobio dei Padri Carmelitani vollero essere sepolti nella sua chiesa, dopo aver lasciato duecento ducati ai Padri per la celebrazione di messe in tempi stabiliti. Ai genitori amatissimi Tommaso Tafuri in lutto pose il 13 agosto 1760 dell’era volgare.

Essendo venuto meno il culto della chiesa la lapide, abbattuta nell’anno del Signore 1850, fu rifatta dall’arcivescovo Antonio Tafuri, figlio del pronipote nell’anno del Signore 1920.

Nell’immagine successiva il ritratto di Giovanni Bernardino Tafuri tratto da Domenico Martuscelli, Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, tomo I, Gervasi, Napoli, 1813:

3 http://books.google.it/books?id=2rFRAAAAcAAJ&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false

4 Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura …,op. cit, Napoli, 1848, v. I, pp. 51-57. Le pp. 58-60 contengono i poemi minori di Tommaso Tafuri.

 

Una nota su Alberico Longo di Nardò

di Armando Polito

Sarà gelosia, invidia, senso di inferiorità, sarà quel che sarà ma non posso restare inerte di fronte al fenomeno dilagante della salentinità sbandierata, col piglio di uno scoop sensazionale teso a recuperare quel prestigio che forse si avverte in buona misura perduto,  su qualche giornale o blog locale (vedi sull’argomento https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/25/la-ricerca-ossessiva-del-nesso-salentino-negli-affari-delluniverso/#comment-44779). Così, giusto per fare un solo esempio, ultimamente abbiamo appreso che un pezzo di Salento è nello spazio, sia pur sotto le graziose forme dell’astronauta Samantha Cristoforetti. E tutto questo solo perché ha compiuto una tappa della sua formazione a Galatina … sarebbe come se un napoletano considerasse un pezzo del suo territorio uno studente neretino laureatosi nella città di Partenope.

Una volta l’orgoglio territoriale trovava fondamento nell’aver dato i natali a questo o a quel personaggio importante, anche se esso era diventato tale dopo che, giocoforza, se ne era allontanato. E da che la globalizzazione ha reso irrilevante tale dettaglio, io, da cittadino del mondo quale mi sento, trovo ridicolo agganciarsi a certi appigli per mettere in evidenza la propria individualità, singola o collettiva che sia.

Tuttavia, siccome oggi in me la gelosia e l’invidia prevalgono sul senso del ridicolo, voglio parlarvi pure io di un pezzo di Salento, anzi, per fare le cose più in grande, di Nardò. Questo pezzo non ha forma perché al momento non ci risulta pervenuto nessun suo ritratto, ma ha il nome e cognome già apparso nel titolo, dettaglio che mi sarei dovuto giocare diversamente tacendolo per il momento, come avrebbe fatto anche una mezza calzetta di giornalista per il quale gli strumenti espressivi atti a suscitare curiosità dovrebbero essere il pane quotidianamente sfornato per clienti, se non buongustai, quantomeno affamati …

E se l’avessi fatto deliberatamente dopo aver constatato che sull’elenco telefonico 2013-2014 degli utenti di Nardò compaiono ben nove Longo? Premesso che non lo rivelerei nemmeno se mi si costringesse a rivedere una serie intera di registrazioni di dibattiti parlamentari, passo ad argomenti, si spera, più seri.

Il lettore con un minimo di curiosità troverà tutto ciò che si conosce su Alberico Longo in http://www.treccani.it/enciclopedia/alberigo-longo_%28Dizionario_Biografico%29/. Io invece voglio documentare come un pezzo di Nardò compare, e fa un figurone, in un genere letterario di cui ho già avuto occasione di occuparmi in relazione ad altri casi di salentinità (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/07/31/la-puglia-e-la-taranta-in-un-repertorio-di-simboli-del-1603/).

Si tratta dei repertori di simboli, imprese, emblemi, che conobbero un successo ininterrotto dalla prima metà del XVI secolo fino a tutto il XVII. Tali testi sono sostanzialmente una raccolta di schede ognuna delle quali è costituita da un’immagine che può riguardare i temi più disparati: dal mondo animale, vegetale, minerale all’astrologia, dalla numerologia alla mnemotecnica. A supporto di ogni immagine vi è un testo la cui ispirazione può andare dai testi sacri agli autori classici latini e greci, dai poeti alessandrini a Petrarca.

Rientra in questo genere letterario il Symbolicarum quaestionum de universo genere quas serio ludebat libri quinque del bolognese Achille Bocchi. Come già per il Longo al lettore che su di lui voglia saperne di più segnalo il link http://www.treccani.it/enciclopedia/achille-bocchi_(Dizionario-Biografico)/. Di seguito il frontespizio tratto, come le immagini che seguiranno, da http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k59239r.r=bocchi.langEN, link ove l’opera è integralmente consultabile e scaricabile.

Il volume si apre con una serie di presentazioni in versi dell’opera fatte da letterati dell’epoca. La prima è proprio quella del nostro Alberico Longo (dopo di lui il  bolognese Tiresia Foscarario1, il palermitano Giano Vitale2 e il ferrarese Giovan Battista Pigna3). Alla pagina originale ho aggiunto di mio la trascrizione a fronte (con qualche correzione) e in calce la traduzione e alcune note esplicative.

 

Traduzione: Titiro, nato presso le spiagge dei Monti Ausoni, del quale vecchio non c’era altro più caro alle Muse, il giorno prima della morte, appesa la zampogna nella caverna dell’Elicona,  con la mano tremante scrive queste parole: “Titiro prossimo a morire ha deposto questa zampogna per Febo e per tutta la schiera delle Grazie e delle Pieridi. Molti Dameta, molti Aminta si sforzeranno di portarla via; ma la sorvegli il padre Apollo. Quando tuttavia un nipote, auspice la musa, raggiungerà questo vostro antro, il mio Bocchi sia l’erede”.  Febo annuì a questo augurio: il solo Bocchi ha la zampogna da te, o Titiro, deposta alle Muse.

La composizione in distici elegiaci opera il consueto ricorso al patrimonio mitico-letterario classico per esaltare il presente. Così Alberico Longo viene celebrato come l’unico degno erede di Titiro (il pastore dell’ecloga I di Virgilio qui assunto a simbolo della poesia) che trionferà su altri concorrenti di livello inferiore  (simboleggiati qui da Dameta e da Aminta, anche loro celebrati da Virgilio nella terza ecloga). Il nome Aminta appare nella letteratura greca ma come personaggio storico (un re di Macedonia) in Erodoto (V secolo a. C.), Storie, V, 17 e l’inventore dell’omonimo pastore non è Virgilio (I secolo a. C.) ma Teocrito (III secolo a. C.), Idilli, 7, 2. Aminta, poi, sarà il protagonista della omonima opera del Tasso (l’editio princeps risale al 1580 ma la favola era già stata rappresentata nel 1573), dell’Amyntas di Thomas Watson (1585), che fu poi tradotta dal latino in inglese nel 1587 da Abraham Fraunce col titolo The Lamentations of Amintas for the death of Phyllis, e de Il pastor fido di Giovan Battista Guarini (editio princeps nel 1590).

Subito dopo la composizione che ho appena finito di esaminare nel libro c’è una tavola con l’immagine del Bocchi (1488-1562).

Inizia, poi,  il testo vero e proprio con una serie di componimenti (per lo più in latino, pochi in greco), ognuno preceduto da una tavola avente come intestazione un motto in latino, composti dal Bocchi e dedicati a personaggi importanti come re, cardinali, papi, senatori, filosofi; uno, il CXLV (pp. CCCXXXIIII-CCCXXXIV) è dedicato al figlio Pirro.

Il CXLIII (pp. CCCXXX-CCCXXXI) è particolarmente importante perché, a differenza degli altri, reca il nome dell’autore e non del dedicatario. In altri termini: scritto da (e non per) Alberico Longo fu inserito dal Bocchi nel suo lavoro e questa unicità, secondo me, è una prova unica e incontrovertibile del prestigio di cui il neretino godeva. Integrerò questa osservazione dopo aver proposto le due pagine relative (come ho già detto ogni simbolo comprende un’immagine e il testo) aggiungendo anche questa volta di mio la trascrizione a fronte e in calce la traduzione e qualche nota.

Nella tavola è raffigurato il Bocchi, con sullo sfondo il tempio ideale della filologia, mentre viene incoronato da una figura femminile simboleggiante la città di Bologna mentre un’altra gli tiene aperto un libro dal quale con atteggiamento quasi ieraticamente deciso il letterato bolognese legge. Che si tratti di lui lo confermerebbe la comparazione tra il dettaglio ingrandito e il ritratto che già conosciamo.

Che la figura femminile a destra per chi guarda sia la città di Bologna lo indica il LIBERTAS che si legge sul vessillo (nel dettaglio che segue).

Nel 1376 il popolo bolognese, in risposta alla chiamata di Firenze che invitava alla ribellione le città sottomesse al papa, si ribellava alla signoria pontificia e occupava il Palazzo del Podestà proclamando il libero governo della città. I fiorentini inviarono allora a Bologna un aiuto militare e un gonfalone blu col motto Libertas, dettaglio il cui ricordo è presente nell’attuale stemma della città (immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Bologna-Stemma.png).

La figura femminile che tiene il libro simboleggia secondo Annarita Angelini4 la Fama. Tuttavia mancano in essa le ali, dettaglio iconografico importantissimo. Credo, perciò, anche in base al testo che correda la tavola, che essa simboleggi la Filologia.

 

Traduzione: Questo era un labirinto avviluppato dalle tenebre e nere nubi, queste erano state porte rivestite di diamante. Sotto la guida di Mercurio e di Febo un secondo Achille le infranse e intrepido irruppe attraverso i ciechi luoghi. Portò alla luce quei simboli che un tempo furono sepolti nelle nuvole e nel sonno e la simbolica dea. Vedi come ella gode della luce da gran tempo agognata e segue le orme del suo vendicatore? Come ignora il nero velo che le scivola dalla testa e come la nuda aurea capigliatura risplende tutta? E come avanza fiera dei libri aperti e come tutto ciò che prima era nascosto ora diventa manifesto? Vedi anche come una bella donna orni le dotte tempie del suo poeta con una duplice corona? Per prima viene conferita quella di oro, corona donata in segno di trionfo, la segue  quella di alloro di Apollo amore del poeta. Quella donna incoronatrice fu chiamata buona Felsina perla quale stanno i bei trofei per il suo poeta. Vedi come ci sono parole scritte sui famosi trofei? Ora leggi, affinché tu conosca cosa le parole vogliano dire. Ecco, questa patria, o Bocchi dà la vita a te che la fai conoscere alle genti senza labirintiche tortuosità.

Pure questo secondo componimento è in distici elegiaci; esso ricalca perfettamente le linee encomiastiche del precedente con un’amplificazione che mette insieme con la poesia la filologia.

Poco fa ho motivato le ragioni della stima di cui secondo me, il neretino godeva presso il bolognese. Sono malizioso se aggiungo che in base alle stesse considerazioni mi sento autorizzato a supporre nel Bocchi una buona dose di umana, umanissima vanità? E a ridimensionare questa mia malizia non vale notare che nella successiva edizione5 (di seguito il frontespizio) scomparvero sì le dediche iniziali, ma rimase, però, il simbolo CXLVI ideato da Alberico Longo.

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1 (1485-1552), autore di opere di carattere religioso (Divi Francisci vmbrigenae gesta, s. n. s. d; Conversio Divi Pauli, s. n., s. d.; Donatio Constantini magni imperatoris erga Romanam sedem, Bartolomeo Bonardo, Parma, 1549).

2 Legato alla corte di Leone X (papa dal 1513 al 1521),  fu autore di scritti di carattere storico, religioso ed encomiastico:  In divos archangelos hymni, s. n., s. l., s. d.; Ecclesiae Catholicae oratio, Cancer, Napoli, 1560; Teratorition, Mazocchi, Napoli, 1514;  Epistola de ingressu Gallorum in Mediolanum, et de eorum victoria, s. n., s. l., 1515; Lachrymae in obitum Francisci Ferdinandi davali Aquinatis magni Pischariae Marchionis, s. n., s. l. s. d.; De divina Trinitate, Silber, Roma, 1521; Elogia Romanorum pontificum maximorum, Giaccarello, Bologna, 1550; De Ungarorum cruciata, facta anno 1513 et de infanda saevitia utrinque patrata, et de nostrorum temporum invidia, s. n., s. l., s. d.; In Psalmum Miserere mei Deus secundum magnam misericordiam tuam. Meditationes. Eiusdem epithalamium Christi, et ecclesiae, eiusdem paraphrases in Psalmos de profundis clamavi, et Deus misereatur nostri, Giaccarello, Bologna, 1553. Bocchi si sdebiterà dedicandogli il simbolo CXVII del libro V (pp. 328-329).

3 (1529-1575). Fu autore dei trattati Il duello, Valgrisi, Venezia, 1554; Historia de’ principi d’Este, I romanzi, Valgrisi, Venezia, 1554; del poemetto Gli eroici, Gabriel Giolito de’ Ferrari, Venezia, 1561.

4 Simboli e questioni. L’eterodossia culturale di Achille Bocchi e dell’Hermathena, Pendragon, Bologna, 2003, p. 15, nota 28.

5 Integralmente leggibile (ma non scaricabile) in http://alfama.sim.ucm.es/dioscorides/consulta_libro.asp?ref=B21113907&idioma=0

 

Iacopo Pignatelli (1625-1698) di Grottaglie e papa Alessandro VII già vescovo di Nardò

di Armando Polito

Sembra che per uno strano destino Nord sia nella storia dell’Umanità simbolo di progresso e Sud di arretratezza, quasi il primo fosse una metafora del cielo in cui innalzarsi a spiccare fantastici voli e il secondo della terra con cui sporcarsi e, andando ancora più giù, dei suoi abissi infernali …

Questa contrapposizione, fra l’altro, coinvolge diversi livelli, spesso intersecantisi, tant’è che, si parla di Sud del mondo (in cui tra poco, continuando così,  entrerà, in deroga pure alla geografia …, l’Italia) e di Sud d’Italia. Probabilmente, per quanto ci riguarda, Sud è bello resterà una pura affermazione di comodo ( ipocrita ed autoconsolatoria, alibi per l’immobilismo che ci contraddistingue prima di tutto nella stessa conoscenza e presa di coscienza della nostra bellezza), almeno fino a che non ci metteranno e, ancor più, se non ci metteremo nelle condizioni di riservare alla nostra terra (intesa in senso esclusivamente geologico) il rispetto dovuto ed alla nostra terra (intesa, questa volta, in senso culturale) la possibilità di esprimersi e valorizzarsi anche in senso economico.

La fuga dei nostri cervelli è un fenomeno antico e il personaggio di oggi ne è uno degli innumerevoli esempi. Sarebbe diventato quello che la storia registra se fosse rimasto, come già successo per il concittadino Giuseppe Battista1, a Grottaglie? Certamente no.

Comincio dalla biografia e me la cavo riportando, per fare più presto in formato immagine, quanto si legge in Comentari del canonico Giovanni Mario Crescimbeni custode d’Arcadia, intorno alla sua istoria della volgar poesia, Basegio, Venezia, 1730, v. IV, p. 2722:

integrandolo con Lorenzo Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, Stamperia Simoniana, Napoli, 1788, tomo III, pp. 64-653:

Da notare in questa seconda citazione che l’iniziale Grottaglie terra in provincia di Lecce fa il pari con il Terra di Grottaglie provincia di Lecce che ho già segnalato nel post su Giuseppe Battista.

Vivendo nell’odierna civiltà in cui anche il più insignificante di noi può lasciare con un selfi o altro testimonianza del suo più o meno inutile passaggio sul pianeta, come si può fare a meno di un’immagine e non approfittare della fortuna, non sempre riservata ai grandi del passato, che il ritratto del Pignatelli, carramba che sorpresa!, è qui?

È la tavola a corredo del primo tomo dell’edizione delle Consultationes canonicae uscita per i tipi di Gabriele & Samuele De Tournes a Lione nel 17184.

Da notare in basso al centro lo stemma della famiglia Pignatelli (d’oro a tre pignatte, le prime affrontate), una delle più antiche e potenti famiglie di origine napoletana. Credo che l’abbreviazione V. C. L. vada sciolta in V(IR) C(ANONICUS) L(ICIENSIS), alla lettera: illustre uomo canonico leccese. E Cryptaleis in Salentinis=Da Grottaglie tra i Salentini.

Il 7 aprile 1655 diventava papa, assumendo il nome di Alessandro VII, Fabio Chigi, appartenente ad una notissima e strapotente famiglia di banchieri. A chi volesse saperne di più sul suo conto, in particolare sul rapporto con Nardò, di cui era stato eletto vescovo nel 1635, segnalo: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/03/02/alessandro-vii-un-papa-gia-vescovo-fantasma-di-nardo-e-il-suo-vice/, dove troverà anche alcune immagini che lo riguardano, e https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/14/non-ci-sono-alibi-2/.

Rientra nelle umane consuetudini (e forse debolezze …) che ogni avvenimento più o meno importante sia adeguatamente celebrato e al lettore di oggi, abituato a vedersi la casa invasa dagli amici e dalle amiche del figlio o della figlia per festeggiare pure la prima scorreggia del gatto o della gatta, credo non sarà difficile  immaginare cosa succedeva all’elezione di un papa. Tra le varie espressioni di festeggiamento un posto certamente non secondario (anche perché verba volant, scripta manent) avevano i componimenti in cui si cimentavano i letterati dell’epoca. Per Alessandro VII ce ne fu un numero cospicuo scritto dai membri dell’Accademia dei Fantastici (della quale faceva parte il Pignatelli), che due mesi dopo trovò ospitalità in un volume5 di cui riporto il frontespizio.

Il volume, le cui pagine non sono numerate, contiene un sonetto del grottagliese, il cui testo riproduco in formato immagine con, di mio,  a fronte la trascrizione e in calce qualche nota.

Non voglio nemmeno azzardarmi a giudicare se e quanto ci sia in questo sonetto di veramente sentito o ipocritamente convenzionale, mentre mi sarebbe troppo facile stigmatizzare il solito difetto (presente in tutte le religioni) dell’idea di un primato esclusivo in nome del quale da tutte le parti si continuano a commettere obbrobri di ogni tipo e la cui revisione proprio nel mondo cattolico ancora oggi deve registrare ostilità a questa o a quella apertura manifestata, addirittura, dallo stesso pontefice ….

Voglio solo ricordare al lettore, tornando al passato, che Alessandro VII improntò il suo pontificato al nepotismo e al temporalismo più spinti e voglio tenere in conto per Iacopo l’attenuante cronologica (cosa di diverso poteva augurarsi e augurare alla Chiesa e ad un papa appena eletto?).

Mi rendo conto che per la Chiesa la soluzione del conflitto di interessi è, forse, qualcosa di più complicato (proprio per la presenza della componente spirituale …) da gestire di quanto non lo sia quello che riguarda il potere politico ma non posso, integrando a modo mio il vecchio e sempre valido proverbio latino prima citato, che chiudere dicendo: verba volant, scripta manent, facta permanent testanturque (le parole volano, gli scritti restano, i fatti permangono e testimoniano).

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/01/12/leruzione-del-vesuvio-del-1631-nella-poesia-di-un-salentino-e-di-un-napoletano-con-una-sorpresa-finale/

2 https://books.google.it/books?id=AUkTAAAAQAAJ&pg=PA272&lpg=PA272&dq=iacopo+pignatelli+da+grottaglie&source=bl&ots=dIovtagjRB&sig=TSy8DWn8lPhFMCWFgb22CkvKErs&hl=it&sa=X&ei=f42_VOaZH8SWapnugFA&ved=0CCwQ6AEwAw#v=onepage&q=iacopo%20pignatelli%20da%20grottaglie&f=false

3 http://books.google.it/books?id=i_HdfCb7do0C&pg=PA64&dq=jacopo+pignatelli+grottaglie&hl=it&sa=X&ei=YFFBVPCnCYXIyAO-n4CQBg&ved=0CCAQ6AEwAA#v=onepage&q=jacopo%20pignatelli%20grottaglie&f=false

4 http://books.google.it/books?id=eNdFAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:CNwA0QC-dHgC&hl=it&sa=X&ei=tERBVMz1NoT-ygPN-4KADw&ved=0CGgQ6AEwCQ#v=onepage&q&f=false

5 https://archive.org/details/bub_gb_E6ssEI50zhkC

Il mio logo immaginario per Nardò città d’arte

di Armando Polito

Alla retorica delle parole il nostro tempo, grazie anche alla tecnologia, ha accoppiato quella delle immagini, affidando alle une e/o alle altre il compito di veicolare un messaggio destinato a colpire l’immaginario di chi in quel messaggio, volontariamente, per caso o per altrui decisione, s’imbatte. Così la copertina di un libro, l’etichetta di un profumo o di una scatoletta di tonno diventano veste più importante del corpo, involucro più importante del contenuto. Succede anche per il logo e la cosa curiosa è che ben pochi sanno che logo è forma abbreviata di logotipo, composto dal primo segmento logo– [che è, guarda, guarda, dal greco λόγος (leggi logos)=parola] e dal secondo –tipo [che è, riguarda, riguarda, dal latino typum, a sua volta dal greco τύπος (legi tiùpos)=impronta]. Del logo, però, tutti riconoscono l’importanza, tant’è che anche le pubbliche amministrazioni da qualche tempo si danno da fare e al fine di promuovere il territorio vengono indetti referendum o bandi pubblici per la scelta, appunto, del logo. Non c’è nulla di riprovevole o scandaloso: la stessa fondazione per il cui blog sto scrivendo queste righe ha il suo e sarei uno stupido se sputassi proprio nel piatto in cui, come tanti altri, tento di saziare la mia voglia di conoscere. M’infurio, invece, quando, per un malinteso senso del prestigio, il singolo o, peggio, una collettività di propria iniziativa o, peggio, per induzione altrui, decide di esibire un’identità che non corrisponde a quella reale.

Per fare un esempio che più concreto non si può: l’amministrazione comunale di Nardò ha bandito un pubblico concorso  di idee per la creazione del marchio/logotipo e dell’immagine grafica coordinata per il brand “Nardò Città d’Arte” (bando-logo.pdf).

Se è vero che ogni popolazione ha il governo (di qualsiasi colore esso sia …) che si merita (e in questo per l’Italia vale il detto tutto il mondo è paese), io non mi scandalizzo se si pensa di educare il cittadino con un’operazione che l’opposizione (di qualsiasi colore essa sia …) non perderebbe l’occasione di definire a prescindere, come diceva quel gran genio (lui sì) di Totò, pubblicità ingannevole per il cittadino incivile (mai ossimoro fu più efficace …) che, magari fiero del logo, continua imperterrito a depositare per strada i suoi rifiuti, e per il visitatore civile che s’imbatte in quell’orrendo spettacolo, magari proprio ai piedi del cartello che pomposamente recita che la nostra è città d’arte.

Proprio perché voglio bene a Nardò e conservo ancora un minimo di rispetto per me stesso non invierò entro e non oltre venerdi 27 febbraio 2015 alle ore 12.00 la mia proposta. D’altra parte, dirà qualcuno, uno come te quale chance aveva di vedersi scelta la propria idea e di vincere il premio pari ad € 500,00 (cinquecento/00) lordi onnicomprensivi? Nessuna. Debbo aggiungere, però, che non trovo assolutamente interessanti i 500 euro, non perché siano pochi (a chi non farebbero, comunque, comodo? Solo per qualche ladro o evasore fiscale non rappresenterebbero nulla) ma perché un’iniziativa così nobile avrebbe dovuto far leva, secondo me, unicamente su pulsioni di natura spiritual-sentimentale. Nessuno si sarebbe fatto avanti? Bene, sarebbe stata la conferma che a quei cittadini simili a quello incivile di cui sopra di Nardò città d’arte non gliene fotte un cazzo e che la pubblicità ingannevole serve solo a far proliferare l’inciviltà.

Uno straccio di logo, comunque, sicuramente verrà fuori ed è già tanto se soldi pubblici non sono stati sperperati coinvolgendo nell’evocazione di valori nostrani personalità straniere, come è successo, solo per citare gli ultimi esempi, con Airan Berg per Lecce capitale della cultura e con Jannis Kounellis per La focara di Novoli.  Nell’attesa vi propongo il mio che avrei inviato se fossi stato un ipocrita. L’ho corredato pure della breve relazione descrittiva dell’idea progettata che indichi la tecnica, le caratteristiche dei materiali e spieghi gli intenti comunicativi e i processi logici seguiti nella elaborazione della strategia creativa sino alla formulazione della proposta.

Un rettangolo color marrone (evoca quello della terra; peccato che Emma è, sia pur di adozione, di Aradeo …) contiene un’ellisse, voce di origine greca che significa mancanza, con riferimento alla sua imperfezione rispetto al cerchio; qui simboleggia estensivamente l’imperfezione umana e restrittivamente quella dei Neretini: la modestia,anche quella falsa, fa più simpatia della presunzione … Nell’ellisse risulta allocato lo stemma della città (copia-incolla da wikipedia; forse ho sbagliato nel dirlo, ma ormai l’ho fatto …) affiancato dal motto, in latino, che occupa cinque linee e nell’insieme è un acrostico. Le cinque parole sono corredate dell’accento originale latino (nella speranza che chi legge lo rispetti …) e quello dell’ultima coincide con l’accento del nome della città. Il loro colore, poi, evoca, a parte il grigio che va sempre bene: l’azzurro le nostre marine, il rosso le glorie, ahimé trascorse, della squadra di calcio, il verde le nostre campagne (serve per camuffare la perdita della speranza …); il marrone, infine, ancora una volta, la terra, ma, a pensarci bene, anche una certa rottura …

Siccome ho voluto esagerare (le disgrazie non vengono mai da sole), come se non bastasse la genialità strutturale dell’impianto grafico (non so che significa, ma fa tanto effetto …), è venuto fuori un testo che letto sequenzialmente è pure un esametro, del quale di seguito vengono fornite scansione e traduzione:

Nērē|tum ārtĭfĭ|cūm || rā|rōrūm|dōnāns|ōrsă

Nardò che dona le conquiste di grandi artefici

Il verso condensa felicemente (se lo dico io che non ho interesse …) il ricordo del passato con la vocazione di farlo conoscere agli ospiti e valorizzare (come si fa, qualcuno mi chiede,  se non lo conosciamo noi?; alle domande idiote non rispondo …); da notare la polisemicità di orsa che alla lettera può significare cose iniziate (e non necessariamente ancora finite …), ma anche progetti, discorsi (parole, parole, parole …), poesie. Nessuno, insomma, alla resa dei conti potrebbe dire di essere stato ingannato se dovesse imbattersi in uno spettacolo simile a quello della vignetta con cui mi piace, esagerando appena appena, chiudere o quasi.

 

Il motto in latino (lo so, i più ne avrebbero gradito uno in inglese, mentre, addirittura, quel pazzo del sottoscritto ne aveva pensato inizialmente uno in dialetto neretino) ha la funzione, almeno nelle pie intenzioni, di generare un sentimento di curiosità e non di repulsione.

Per concludere: non mi illudo certamente che qualche componente della Commissione giudicatrice appositamente nominata, dopo aver letto, eventualmente, queste poche note, metterà in crisi se stesso prima e i colleghi giudici poi …

P.S. Nel motto c’è un probabile errore (altro ossimoro a suggellare i nostri limiti?). Dichiaro ufficialmente aperta la gara a chi lo individuerà per primo con le sue brave motivazioni. Il fortunato avrà come premio la citazione del suo nome su questo blog finché il web durerà. Amen.

 

 

Paola Cazza, l’arte in mutamento

 

di Paolo Vincenti

Presso il circolo Arci Spazio Kronos di Collepasso, per l’attenta cura di Luigi Marzano e Fernanda Cataldo, è in esposizione la mostra personale di pittura “Nessuna voce” di Paola Cazza, un’artista ancora poco conosciuta nel panorama salentino, ma del tutto degna di attenzione. Nata a Sassuolo, Paola Cazza è salentina di Nardò ed ha manifestato fin da bambina una certa sensibilità artistica. Autodidatta, si è ritagliata un proprio spazio di comunicazione nell’universo sfaccettato e multiforme dell’arte visiva. Le sue opere pittoriche e scultoree sono state esposte, negli anni, in spazi pubblici di caffetterie e associazioni culturali delle diverse città italiane nelle quali ha vissuto per brevi o lunghi periodi. Paola è un’artista in mutamento, in continua trasformazione: questo mi dice presentandosi, ma questo è ciò che anch’io colgo ad un immediato approccio con la sua mostra. Paola utilizza vari linguaggi, sia quello della pittura che quello della scultura su pietra leccese.

Da una prima ispirazione paesaggistica, il suo alfabeto lirico passa a visioni più astratte, indugia sulle figure umane, vira poi sull’informale. La sua gamma cromatica non è ampia ma efficace. Non ci sono infatti toni forti e accesi nelle pitture di Paola, come il rosso, il nero, ma colori intermedi, molti chiaroscuri. Non c’è autocompiacimento in queste opere, nessuna oleografia, esse sono lontane da un certo vedutismo di maniera che ha caratterizzato altre stagioni della pittura salentina. Il paesaggio è presente ma sempre filtrato dalla sensibilità profonda dell’autrice e soffuso di una certa aerea malinconia, caratterizzato da un’atmosfera di sospensione favorita dallo sfumato dei colori. La realtà non si sfalda mai completamente ma è come se venisse rappresentata in maniera enigmatica, di essa venisse colto l’aspetto più misterioso, oscuro, il suo procedere larvato verso destinazioni non conosciute. È come se nei suoi quadri corressero delle vibrazioni impercettibili che, al tatto con la loro superficie rugosa, io ho colto.

Alcune opere trasmettono allo spettatore il desiderio di andare oltre, a fondo, di penetrare nei loro meandri, come nei recessi dell’anima dell’autrice. Molto interessante si mostra l’inserimento di elementi materici sulle tele, vecchie chiavi arrugginite, lucchetti, oggetti agricoli attaccati con dello spago sui quadri, dunque ritrovati della nostra civiltà contadina arcaica a far da contrappunto all’opera pittorica, ad iconizzare quasi un passaggio di consegne fra il vecchio ed il nuovo, a simboleggiare la continuità fra la matrice larica, archetipica della nostra cultura e la modernità. Notevole il ciclo delle madri: la fertilità femminile metafora e auspicio di fertilità della terra alla quale queste donne gravide sono congiunte: dai loro grembi viene la rigenerazione del mondo. Decisamente prevalenti i corpi femminili su quelli maschili, però essi non sono sezionati come su una tavola anatomica ma appaiono rannicchiati, raggomitolati e intrecciati fra di loro, quasi a celare profondità, gli abissi imperscrutabili della femminilità, come la natura che ama nascondersi, secondo il famoso aforisma di Eraclito. D’impatto la Crocifissione, dove sulla croce è messo un Cristo donna, con una serie di fili di spago a cingerle i fianchi e la testa. I supporti, ricavati nel legno, sono staccati dalle tele e le incorniciano senza contenerle. L’inserimento di elementi astratti nel figurativismo di base (per esempio i pesci che in alcune opere attraversano la scena), conferisce un’impronta onirica e fantastica alle rappresentazioni pittoriche. Infine, vedo alcuni esperimenti in cui le tele vengono bruciate e poi riutilizzate e ricomposte insieme, a formare quadri nei quadri o grovigli e masse informi. Queste tele, che sembra siano state brutalizzate, mi ricordano gli esperimenti di Lucio Fontana che traumatizzava le opere con buchi e tagli.

In questa mostra della Cazza, nella polisemia del suo messaggio artistico, intravedo un filo di arianna che sottotraccia ne percorre la parabola, ed è una sorta di inquietudine, un mal di vivere, che Paola, come ogni artista, si porta dietro, come un passo falso, un controcanto, un suo calco negativo, un demone interiore con cui fare i conti e al quale pagare pegno per giungere sulla tela ad eternare l’attimo.

Altro che gufo, ecco a voi la “cuccuàscia”!

di Armando Polito

Immagine tratta da http://media.eol.org/content/2013/02/03/11/20070_orig.jpg
Immagine tratta da http://media.eol.org/content/2013/02/03/11/20070_orig.jpg

Gufi e gufare, insieme con 80 euro, sono forse le parole che abbiamo sentito più spesso in questi ultimi mesi …

La presunzione di noi umani nei  confronti delle cosiddette bestie è scandita dal numero elevatissimo di loro nomi usati metaforicamente per stigmatizzare qualche nostro difetto (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/19/strinculu-c-metafore-animalesche-o-idiozia-umana/) e, al contrario,  dal numero veramente ridicolo (mi vengono in mente solo l’aquila e la lince; il povero falco, invece, è condannato a simboleggiare tanto una persona fiera, coraggiosa ed intelligente, quanto una avida e rapace) di nomi usati per esaltare qualche nostro pregio.

Su alcuni, poi, abbiamo scaricato il peso delle nostre paure, in primis quello della morte. È il caso anche del gufo ma, per non guastare la giornata a me e, credo, ad un buon numero di lettori, parlerò della civetta, che in salentino è detta cuccuàscia, voce alla quale si dà la definizione (che poi è diventata un nesso sinonimico) di ceddhu ti la mmalenòa (uccello della cattiva notizia). Mentre nell’immaginario collettivo il nottambulo evocava (ora non più …) una figura dedita al divertimento se non al vizio (esclusi, naturalmente, metronotte e panettieri …), la civetta, invece,  continua a godere  della sua nera nomea unicamente per le sue abitudini notturne; e credo che se essa, invece, fosse stata da madre natura destinata a lanciare di giorno il suo verso, esso non risuonerebbe ancora oggi ai nostri orecchi (più correttamente: non sarebbe interpretato dal nostro cervello) come un funereo lamento.1

Ritornerò sull’argomento dopo aver fatto qualche osservazione di natura linguistica, riservando alle note ogni approfondimento tecnico che risulterebbe incomprensibile o quasi, dunque poco interessante, al lettore comune. Proprio per quest’ultimo, però, va fatta, comunque, una premessa, superflua per gli addetti ai lavori. Sull’origine greca di alcune voci del dialetto salentino in genere si fronteggiano da tempo due scuole di pensiero: l’una, più recente, capeggiata da Gerard Rohlfs (1892-1986), ritiene che tali voci siano un relitto della lingua introdotta dai coloni della Magna Grecia fin dall’VIII secolo a. C.; l’altra, più datata, capeggiata da Giuseppe Morosi (1844-1890) e ribadita da Oronzo Parlangeli (1923-1969) propende per l’origine medioevale, cioè ritiene che tali voci abbiano origine bizantina. La tendenza più recente contamina le due teorie e giunge alla conclusione (può apparire diplomatica ma secondo il mio modestissimo parere è la più sensata) che l’immigrazione medioevale potrebbe aver consolidato una base ellenofona molto più antica. È intuitivo che la ricostruzione di queste stratificazioni, da condurre sulle singole voci, è tutt’altro che agevole.

Vediamo intanto cosa dicono proprio su cuccuàscia i due grandi antagonisti.

Il Rohlfs (Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo, Galatina, 1976):

Intanto va detto che κικκαβαῦ (leggi chiccabàu) mal si adatta foneticamente come etimo, quanto meno diretto,  di cuccuàscia. Il discorso cambia, invece,  per κουκκουβάγια (leggi cuccubàghia),  anche se va precisato che la forma greca moderna è κουκουβάγια (leggi cucubàghia), mentre κουκκουβάγια è la variante demotica o popolare.  In parole povere: il Rohlfs pensa che cuccuàscia deriva dal greco moderno, ma nello stesso tempo strizza l’occhio al classico κικκαβαῦ, parola indeclinabile di origine onomatopeica.

Vediamo ora qual è l’opinione del Morosi (Studi sui dialetti greci della Terra d’Otranto, Tipografia editrice salentina, Lecce, 1870, p. 206):

Cuccuàscia per il Morosi è, dunque, sicuramente voce bizantina, anche se pure lui mette in campo un presunto aristofanesco, dunque classico, κοκκοβαῦ (leggi coccobàu) per il corretto (molto probabilmente l’errore è dovuto a citazione a memoria, mi rifiuto di pensare che sia una consapevole mistificazione fonetica per portare acqua al suo mulino) κικκαβαῦ.

Io credo, invece, che cuccuàscia potrebbe derivare dal greco classico e mi accingo a dimostrarlo partendo proprio da κικκαβαῦ. Questa voce risulta composta da κίκκα (leggi chicca)=gallina+βαύ (leggi bàu), voce onomatopeica che raddoppiata (βαύ βαύ) designa il verso del cane. Da βαύ deriva il verbo βαύζω (leggi bàuzo)=abbaiare, brontolare, invocare con alti lamenti. Gli ultimi due significati comportano una progressiva generalizzazione con abbandono della specializzazione canina come dimostra il verbo κικκαβάζω (leggi chiccabazo), squittire (di civetta), composto dal già visto κίκκα e da βάζω (leggi bazo)=dire. Βαύζω e βάζω sono entrambi di origine onomatopeica e la loro ζ (come ben sa o dovrebbe sapere chiunque si occupi di queste cose) deriva da un originario γj. La voce neretina suppone la mediazione di una forma cuccuvàscia (variante attestata a Salve, Alessano, Castrignano dei Greci e Galatina nel Leccese, a Carovigno nel Brindisino e a Uggiano Montefusco nel Tarantino) da cui cuccuàscia sarebbe derivata per normalissima sincope di –v-. Cuccuvàscia, a sua volta,  suppone un greco *κοκκοβάγjα  (leggi coccobàghia), della quale, secondo me, è figlio il greco moderno κουκουβάγια, in cui il mancato sviluppo –γj->-ζ– e la vocalizzazione –j->-i– potrebbero rappresentare il relitto di un fenomeno antichissimo, direi arcaico.

Nel lessico di Esichio di Alessandria (probabilmente V secolo d. C.), che raccoglie parole antiche, rare e dialettali, la voce  κοκκοβάγη (leggi coccobaghe), k 3285,  reca come sinonimo γλαῦξ (voce usata nel greco classico per indicare la civetta). Κοκκοβάγη è composto da κόκκυ=(leggi còcchiu)=cucù, il verso del cuculo+il tema βαγ– (leggi bag-) che potrebbe essere ciò che rimane (magari a livello popolare) di un originario βαγj-; insomma la voce esichiana, fosse anche bizantina, potrebbe confermare anche qui la continuazione di un fenomeno arcaico.

Prima di passare ad altro voglio spendere qualche parola in più sul primo presunto componente, la cui origine onomatopeica è resa evidente anche dal diverso vocalismo della serie di voci, classiche, che seguono; ogni gradazione comporta il riferimento ad un uccello diverso.

κακκάβη (leggi caccàbe)=pernice

κακκαβίς (leggi caccabìs)=pernice

κακκαβίζω (leggi caccabìzo)=stridere (della pernice e del gufo)

καύαξ (leggi càuax)=folaga

κίκιρρος (leggi kìkirros)=gallo

κίκυμω(ν)ίς (leggi kìkiumonìs)=civetta

κόκκυ (leggi còcchiu)=cucù (verso del cuculo)

κοκκυβόας (leggi cocchiubòas)=cuculo; la voce è composta da κόκκυ+il tema del verbo, anch’esso onomatopeico, βοάω (leggi boào)=gridare, risuonare

κόκκυξ (leggi còcchiux)=cuculo

κοκκύζω (leggi cocchiùzo)=fare cucù; per il fenomeno fonetico già ricordato κοκκύζω nasce da *κοκκύγjω (leggi cocchiùgjo), in cui κοκκύγ– è il tema, con spostamento obbligato dell’accento, del precedente κόκκυξ (terza declinazione), il cui genitivo è, appunto, κόκκυγος (leggi còcchiugos); a tal proposito aggiungo che è attestato anche un nominativo eolico della seconda declinazione κόκκυγος.2

κουκούφας (leggi cucùfas)= upupa

κωκύω (leggi cokiùo)=gettare un grido di dolore, gemere, lamentarsi

κώκυμα (leggi còkiuma)=gemito, lamento

Tornando al nostro animale va detto che in italiano (a parte civetta, anch’esso di origine onomatopeica) la voce più vicina al citato cuccuvàscia (e quindi al neretino cuccuàscia) è, già segnalato nella scheda del Morosi, cuccuvèggia, attestato (anche come forma verbale) in:

Angelo Poliziano (XV secolo),  ballata X, v. 24: vedrai bella cuccuveggia (cito da Le Stanze, l’Orfeo e le Rime illustrate da Giosuè Carducci, La Barbera, Firenze, 1863, p. 320.

Giuseppe Parini (XVIII secolo) (cito dall’edizione delle Opere a cura di Francesco Reina , v. III, Stamperia e fonderia del genio tipografico, Milano, 1802, v.III,  p. 116): E lì ciarla, sghignazza e cuccuveggia (Capitoli, I, 45).

La civetta costituisce un caso bestiale (ma la colpa è tutta umana …) di nobiltà decaduta. Notorio è, infatti, come essa nel mondo greco fosse sacra ad Atena, la dea della sapienza. Questo connubio è ben attestato dall’appellativo omerico  della dea che vien detta glaucopide cioè dagli occhi azzurri, lucenti [in greco γλαυκῶπις (leggi glaucòpis), parola composta da γλαῦξ, lo stesso prima citato da Esichio, che significa civetta ma è connesso con l’aggettivo γλαυκός (leggi glaucòs)=scintillante, grigio-azzurro e ὄψ (leggi ops)=occhio] e anche in numismatica: nell’immagine una tetradracma del V secolo a. C. con al dritto testa di Atena con elmetto attico e al rovescio la civetta stante con ramo di olivo a sinistra, e a destra le prime tre lettere, maiuscole, ΑΘΗ, (leggi Athe) di ΑΘΗΝΑΙ (leggi Athenài)=Atene. A proposito di glaucopide, però, non è da escludere che il riferimento sia alle capacità visive del nostro animale in grado di dissolvere le tenebre e perciò metafora della sapienza.

In rete (riporto tra i tanti un solo link perché è difficile individuare chi per primo ha immesso l’informazione: http://it.wikipedia.org/wiki/Civetta_di_Minerva) si legge quanto segue: Gli occhi e il becco seguono la linea della lettera φ (fi), simbolo alfabetico greco della filosofia e in seguito della sezione aurea. Lettera che quindi accomuna armonia, bellezza e amore per la conoscenza e per la ricerca in senso lato. Peccato che la suggestività di questo dato non sia corroborato, come scienza e divulgazione corretta della stessa imporrebbero, dalla citazione di almeno uno straccio di fonte. Io dico, e resto in attesa di smentita, che la lettera φ è solo quella iniziale della parola φιλοσοφία (leggi filosofia) e che venne adottata per indicare la sezione aurea solo a partire dal XX secolo [prima si usava la lettera tau (τ)] dall’iniziale non di φιλοσοφία ma di Φείδιας (leggi Fèidias)=Fidia, il celeberrimo scultore del V secolo a. C. che avrebbe utilizzato tale misura nella realizzazione delle sculture del Partenone.

Immagine tratta da http://www.wildwinds.com/coins/greece/attica/athens/i.html
Immagine tratta da http://www.wildwinds.com/coins/greece/attica/athens/i.html

L’ironia della sorte ha voluto che nemmeno un parziale recupero dell’antico prestigio potesse essere propiziato dalla riproduzione  proprio del verso dell’antica moneta nell’euro greco, anzi alla luce della disastrosa situazione economica della Grecia (solo della Grecia? …) si potrebbe proprio dire che la civetta non ha portato bene …

5

Ho già detto che il nostro grazioso animale aveva la definizione dialettale di ceddhu ti la mmalenòa. E che questa cattiva notizia non fosse quella di non aver fatto tredici al totocalcio per aver sbagliato un solo risultato o per essersi dimenticati di giocare al lotto i numeri, puntualmente usciti, che la nonna defunta aveva dato in sogno, lo si deduce dal sinonimo neretino (non registrato dal Rohlfs) cuccumìu. Lo credo, più che derivato dal citato κίκυμω(ν)ίς.  probabile deformazione dei siciliani cuccuvìue cuccufìu (che Giuseppe Pitrè registra come canto della civetta, del gufoe che  secondo me potrebbero derivare da un *cuccubìu imparentato con le voci greche prima riportate in cui compare β) in incrocio con il tuttu miu (tutto mio) che per Trapani il Pitrè registra come il verso della civetta5. Si tratta in tutta evidenza di una paretimologia che la dice lunga, però, sul condizionamento psicologico e poi espressivo indotto dall’idea della morte.

È il caso, però, di metterla ora da parte per non correre il rischio di dimenticare alcuni usi metaforici di civetta, anche se l’immagine negativa iniziale risulta, in un certo senso, edulcorata. E’ il caso della donna vanitosa e frivola che cerca di attirare in modo malizioso l’attenzione e l’ammirazione maschile; ma non vi sembra la versione “volgare” dell’Ewigweibliche (Eterno femminino) di Goethe? Altro che filosofia! Bisogna pensare al concreto e, così, ecco serviti i prodotti-civetta ed i prezzi-civetta, nonché la civetta, così si chiama pure la locandina di un giornale o l’avviso di prima pagina che contiene gli argomenti trattati all’interno.

Che dire, poi, dell’auto-civetta utilizzata dalle forze dell’ordine per non dare nell’occhio ed agire sfruttando il fattore sorpresa?

E così la particolare propensione della civetta a fungere da uccello di richiamo ha finito, a seconda dei casi, per garantire in una certa misura la perpetuazione della nostra specie, per esporre a complicazioni di natura compulsiva la spesa quotidiana, a stimolare anche nell’acquisto di un giornale sollecitazioni di natura voyeuristica,  per assicurare alla giustizia, almeno lo presumo, un numero maggiore di delinquenti. Per quest’ultimo punto non mi meraviglierei se nella prossima finanziaria si decidesse di mantenere immutato (se proprio non è possibile aumentarlo …) il numero delle auto blu e si riducesse (magari a 0 …) quello delle auto-civetta, perché non è moralmente corretto affrontare un delinquente con un mezzo su cui non campeggia l’odiata (dal delinquente) sigla (Carabinieri, Finanza, Polizia), così come non sarà considerato corretto nel pacchetto relativo alla riforma della giustizia intercettare comunicazioni telefoniche ad insaputa dell’indagato, perché in questo modo, anche se colto con le mani nella marmellata, non potrà attaccare quel motivetto che gli piace tanto e che fa a mia insaputa, a mia insaputa.

E, se nell’immaginario collettivo la civetta non fosse stata considerata un uccello brutto (credo per le inquietudini che suscita più che per l’aspetto, che almeno io  non trovo affatto sgradevole) sicuramente non avremmo avuto il proverbio leccese Ogne cuccuàscia se vanta li cuccuasciùli soi (Ogni civetta si vanta i suoi piccoli) e probabilmente per esprimere lo stesso concetto avremmo mediato lo scarafaggio del napoletano (Ogne scarrafone è bbello a mmamma soia) o del siciliano (Ogni scravagghieddu a so’ matri pari beddu).

Immagine tratta da http://media.eol.org/content/2012/06/13/08/86471_orig.jpg
Immagine tratta da http://media.eol.org/content/2012/06/13/08/86471_orig.jpg

E il nome scientifico? Dappertutto si legge “Athene noctua Scopoli, 1769”. Intanto va detto che Scopoli è Giovanni Antonio Scopoli (1723-1788) che pubblicò nel 1769 a Lipsia per i tipi di Hilscher l’Annus I historico-naturalis (opera integralmente consultabile e scaricabile in https://archive.org/stream/ioannisantoniisc14scop#page/n3/mode/2up). Le pp. 18-23 riportano i nomi e la descrizione dei rappresentanti della famiglia Strigidae, alla quale appartiene la nostra civetta. Ne approfitto per ricordare che Strigidae è voce del latino scientifico, forma aggettivale di strix=strige, vampiro, a sua volta dal greco στρίξ (leggi strix) con lo stesso significato. Al di là dell’evidente origine onomatopeica di στρίξ e delle sue più che probabili connessioni con τρίζω (leggi trizo)=stridere, ipotizzata già in epoca antica, faccio notare che il latino strix ha una sua variante in striga, da cui l’italiano strega6. E il cerchio intorno alla nostra civetta si fa sempre più stretto, ma non vorrei che queste osservazioni e quanto riportato nella nota 6 finissero sotto gli occhi di una persona che ben conosco e che non ci penserebbe su a costruire una fantasiosa correlazione, magari, solo per dirne una, con la menhirica madre, signora del papavero(tra il latte di uccello e il latte del papavero ci dovrebbe essere una relazione, ma per confermarla si consiglia un bicchiere non di vino o di altra sostanza alcolica, ma di … latte di gallina) con qualche altra fantomatica entità … oppure, chissà, per la sedicente ricercatrice di fama mondiale (che, però, a richiesta non è in grado di esibire ombra di bibliografia) sarebbe un’occasione unica per fare, finalmente, una citazione delle fonti …

Torno alle cose scientifiche, per dire che pure loro qualche volta lasciano perplessi. Ecco l’elenco delle specie del genere strix tratto dal testo dello Scopoli: Strix bubo, Strix otus, Strix giu, Strix nyctea, Strix aluco, Strix stridula, Stryx silvestris, Strix alba, Strix noctua, Strix rufa, Strix passerina. L’autore all’inizio correttamente cita Linn. Syst. Nat. p. 131, il vuol dire che ha tenuto presente il testo di Linneo Systema naturae, tomo I,  uscito a Vienna per i tipi di Giovanni Tommaso Nob. De Trattnern nel 1767 (tredicesima edizione rivista sulla dodicesima uscita nel 1758 a Stoccolma a spese di Lorenzo Salvio), consultabile e scaricabile in https://books.google.it/books?id=siAOAAAAQAAJ&printsec=frontcover&dq=systema+naturae&hl=it&sa=X&ei=4ta8VL_jCIT7UsfDg7AH&ved=0CDYQ6AEwAzgK#v=onepage&q=systema%20naturae&f=false

In Linneo sono classificati: Strix bubo, Strix afio, Strix otus, Strix scops, Strix nyctea, Strix aluco, Strix flammea, Strix stridula, Strix ulula, Strix funerea, Strix passerina. È assente nell’elenco la Strix noctua dello Scopoli, cui si riferisce la sottostante scheda.

 

Il mio stato confusionale, a questo punto, è totale perché, pur immaginando che in omaggio a Scopoli sia stato, successivamente, sostituito Strix con Athene, i dubbi identificativi rimangono quando nella scheda appena riportata leggo che l’animale ivi classificato è Carnioliae indigena (Indigeno della Carnia)  e in silvis circa labacum copiosa (abbondante nei boschi vicino Labaco). Spero nell’aiuto di qualche ornitologo per chiarire la questione. Quanto a noctua è il nome latino della civetta e la sua derivazione da nox=notte è un inequivocabile riferimento alle abitudini notturne dell’uccello. Per dare un’idea di quali elementi stratificati nel tempo possano essere all’origine delle difficoltà di identificazione ricordo che diminutivo di noctua è nòctula, da cui nottola che designa un grosso pipistrello di colore bruno rossiccio, ma il nome in passato era sinonimo di civetta, animale che non poteva certo mancare nei repertori di simboli che tanto successo riscossero a partire dal secolo XVI fino a tutto il XVIII8. Il primo esempio è offerto dall’immagine che segue, tratta da Gioacchino Camerario, Symbolorum et emblematum ex volatilibus et insectis desumtorum centuria tertia, s. n., s. l. , 1596, p. 77 r.9 :

Sortem ne despice fati=Non disprezzare ciò che il destino ti ha riservato.

Non temere, quicumque sapit, laeva omina spernit,/cum ferat et spretum saepius exitium=Chiunque sia saggio non disprezza sconsideratamente i cattivi presagi dal momento che sopporta anche la morte più di una volta disprezzata.

Sullo stesso tema (si parla di nottola ma l’immagine è più vicina a quella di un gufo, Asio otus L., che di una civetta) quattro anni prima Giulio Cesare Capaccio in Delle imprese, Carlino & Pace, Napoli, 1592, p. 10010:

Da notare che qui nel motto è saltata, ironia del destino …, la i di fati.

Diminutivo, con cambio di genere di nottola, è nottolino, cioè il nome del pezzo di legno che, somigliante ad un becco di uccello,  girando su un perno chiude porte, cancelli e simili.

È giunto il momento di chiudere e lo faccio con un antico proverbio salentino: A ccasa ti sunaturi no ssi pprtanu sirinate(In casa di musicisti non si portano serenate). A chi già sta pensando che il mio cervello sia arrivato allo stadio della fusione ricordo il γλαῦκ’εἰς Ἀθἡνας mittam11 (Manderò una civetta ad Atene, cioè farò una cosa inutile) di Cicerone (I secolo a. C.) che è una citazione del τίς γλαῦκ᾽ Ἀθήναζ᾽ἤγαγεν;12 (Chi ha portato una civetta ad Atene?) di Aristofane (V-IV secolo a. C.). E, a distanza di quasi duemila anni dall’inventore (che molto probabilmente aveva riportato un proverbio popolare …) Ludovico Ariosto (XVI secolo): Portar, come si dice, a Samo vasi, nottole a Atene, e crocodili a Egitto13.

Riallacciandomi alla precedente richiesta di aiuto su Athene noctua Scopoli, 1769, concludo dicendo che il proverbio appena ricordato non vale per me e, perciò, mi aspetto un generoso contributo. E che l’immagine finale, in cui compare un involontariamente avveniristico dettaglio di quella precedente, sia, in tal senso, nonostante le apparenze, di ottimo auspicio …

Qui continua ad essere un mortorio e mi sono stufato di avere davanti, per un pugno di crocchette, un uccello virtuale ed un topo di plastica.

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1 Un tempo anche l’upupa per il suo verso monotono era ritenuta un uccello notturno. Purtroppo tale credenza non venne corretta prima che questa calunnia nei suoi confronti venisse consacrata più di due secoli fa, sulla scia della poesia cimiteriale inglese, dalla poesia del Foscolo: E uscir del teschio, ove fuggìa la Luna,/l’ùpupa, e svolazzar su per le croci/sparse per la funerea campagna/e l’immonda accusar col luttuoso/singulto i rai di che son pie le stelle/alle obblîate sepolture … (Dei sepolcri, 81-86).

2 Da κόκκυξ deriva il latino còccyge(m), da cui l’italiano coccige (quest’osso ricorda nella forma il becco del cuculo).

3 Il Rohlfs registra cuccuvì per Mottola nel Tarantino.

Biblioteca popolare siciliana, v. XVI (Usi e costumi, credenze e pregiudizi), Libreria L. Pedone Lauriel di Carlo Clausen, Palermo, 1889, p. 396.

5 Op. cit., stessa pagina della nota precedente. Ne approfitto per ricordare a tal proposito un aneddoto da cui sarebbe nato uno dei due nomignoli degli abitanti di Galatina (l’altro è carzi larghi=guance larghe, con riferimento al modo di parlare): cuccuàsci. Si narra che un contadino di Galatina dopo una mietitura molto abbondante guardava con orgoglio i suoi covoni ammonticchiati sull’aia. All’improvviso una cuccuàscia lanciò il suo verso e il poveretto, di fronte a quel suono inteso come tutto mio e a quell’insolita rivendicazione di proprietà, iniziò un’animata discussione con l’uccello. Di fronte ai reiterati tutto mio del volatile il contadino decise di venire a patti e chiese che gli fosse riconosciuta la proprietà di almeno la metà del raccolto. Poiché i tutto mio si susseguivano come e più di prima, il contadino esasperato e indispettito prese la decisione estrema e, dopo aver esclamato (per la storia: lo disse in dialetto galatinese, ma io riporto solo la traduzione in italiano): -Tutto mio? Bene, io dico niente a nessuno! – appiccò il fuoco ai covoni.

Nell’aneddoto, in cui si condensa, come in tutti i nomignoli, lo sfottò degli abitanti limitrofi, vi è un riferimento, secondo me neppure troppo vago, allo stemma cittadino (in basso, tratto da wikipedia), in cui è presente una civetta (riferimento ad una presunta origine greca basata sull’ipotesi che la città sia stata fondata da Galata, figlia di Teseo, l’eroe attico; e come s’è detto, la civetta era il simbolo di Atene, capoluogo dell’Attica).

6 Ecco le più significative attestazioni di  strix e striga nella letteratura latina: Orazio (I secolo a. C.), Epodi, V, 15-24: Canidia brevibus implicata viperis/crinis et incomptum caput,/iubet sepulcris caprificos erutas,/iubet cupressos funebris/et uncta turpis ova ranae sanguine/plumamque nocturnae strigis/herbasque, quas Iolcos atque Hiberia/mittit venenorum ferax,/et ossa ab ore rapta ieiunae canis/flammis aduri Colchicis (Canidia con i capelli intrecciati di corte vipere e il capo incolto ordina che siano bruciati al fuoco della Colchide caprifichi strappati ai sepolcri, cipressi funebri, uova tinte di sangue di rana, piume di strige notturna,  erbe che provengono da Iolco e dall’Iberia fertile di veleni e ossa strappate dalla bocca di cagna digiuna).

Ovidio (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Fasti, VI, 131-140: Sunt avidae volucres, non quae Phineia mensis/ guttura fraudabant, sed genus inde trahunt:/grande caput, stantes oculi, rostra apta rapinae,/canities pennis, unguibus hamus inest./Nocte volant puerosque petunt nutricis egentes,/et vitiant cunis corporea rapta suis./Carpere dicuntur lactentia viscera rostris,/et plenum poto sanguine guttur habent./Est illis strigibus nomen, sed nominis huius/causa, quod horrenda stridere nocte solent (Ci sono uccelli ingordi, non quelli che sottrassero il cibo dalla mensa di Fineo [le arpie], ma appartengono allo stesso genere. Hanno una grande testa, lo sguardo fisso, il becco adatto a rapire, le piume bianche, le unghie dotate di artigli. Volano di notte alla caccia di bambini privi di nutrice e straziano i corpi rapiti dalle loro culle. Si dice che estraggono col becco le candide viscere e hanno la gola piena del sangue bevuto. Si chiamano strigi e la ragione di questo nome sta nel fatto che di notte son soliti stridere orrendamente).

Plinio (I secolo d. C.), Naturalis historia, XI, 99: Lac nisi animal parienti. Volucrum vespertilioni tantum: fabulosum enim arbitror de strigibus, ubera eas infantium labris inmulgere. Esse in maledictis iam antiquis strigem convenit, sed quae sit avium, constare non arbitror (Nessun animale ha latte ad eccezione di quello che partorisce e tra gli uccelli solo il pipistrello. Credo perciò che sia favoloso ciò che si dice delle strigi, che con le loro mammelle allattano i bambini. È noto che nelle antiche maledizioni è presente la strige, non credo però che si sappia quale uccello sia).

Seneca (I secolo d. C.), Medea, 732-735: Miscetque et obscoenas aves/moestique cor bubonis et raucae strigis/execta vivae viscera (Mescola le carni di  uccelli infausti, il cuore di un funereo gufo e le viscere strappate a una strige viva).

Petronio (I secolo d. C.), Satyricon, 63 e 134: Cum ergo illum mater misella plangeret et nos tum plures in tristimonio essemus, subito strigae stridere coeperunt (Mentre dunque la madre poveretta lo piangeva e  allora noi in parecchi eravamo in preda alla tristezza, subito cominciarono a stridere le strigi); Quae striges comederunt nervos tuos, aut quod purgamentum nocte calcasti in trivio aut cadaver?Quae striges comederunt nervos tuos? (Quali strigi hanno divorato i tuoi nervi o quale escremento o cadavere hai calpestato di notte in un crocicchio?).

Isidoro di Siviglia (V-VI secolo d. C.), Etymologiae, XII, 96: Haec avis vulgo amma dicitur, ab amando parvulos, unde, et lac praebere fertur nascentibus (Quest’uccello popolarmente è detto amma, dall’amare i bambini e perciò si si dice pure che essa offra il latte ai neonati).

Colgo l’occasione per ricordare che caddhu streu (cavallo stregone) a Nardò e Gallipoli  e caddhu te stria (cavallo di strega) a Casarano e Galatina  sono i nomi della mantide religiosa e  che, a riscatto dei contenuti negativi originari, stria nel Leccese è sinonimo di ragazza.

Sulla base della testimonianza di Plinio confermata da Isidoro di Siviglia M. Alinei nel 1985 ha ipotizzato che tale caratteristica positiva della strige sia il relitto di una fase totemica antichissima in cui l’uomo interpretava se stesso come uccello o come figlio di uccello. Qualche anno dopo Marija Gimbutas sosteneva che le rappresentazioni preistoriche di strigiformi con genitali femminili e mammelle simboleggiavano la Dea madre. Se è così la demonizzazione del nostro uccello risalirebbe forse all’età dei metalli.

7 http://www.iltaccoditalia.info/sito/index-a.asp?id=24641 

8 Me ne sono occupato, anche con riferimenti concreti, in diverse occasioni (alcuni lavori sono stati pubblicati in più di una puntata; qui segnalo quella iniziale:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/17/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-18/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/10/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-16/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/07/31/la-puglia-e-la-taranta-in-un-repertorio-di-simboli-del-1603/

9 Integralmente consultabile e scaricabile in https://books.google.it/books?id=8WP_mxkMvh8C&pg=PT158&lpg=PT158&dq=sortem+ne+despice+fati&source=bl&ots=G2JrCt5vwO&sig=DKIrv4jNDI3Uj1xp7hGcvXf-_Rw&hl=it&sa=X&ei=voq-VPrgPMnUau20gbgE&ved=0CCgQ6AEwAQ#v=onepage&q=sortem%20ne%20despice%20fati&f=false

10 Integralmente consultabile e scaricabile in https://archive.org/stream/delleimpresetrat00capa#page/n339/mode/2up 

11 Ad Quintum fratrem, II, 16, 5.

12 Gli uccelli, 301; non è da escludersi il riferimento alla moneta di cui ho già detto, anche perché al v. 1106 della stessa commedia: Γλαῦκες ὑμᾶς οὔποτ᾽ ἐπιλείψουσι Λαυρειωτικαί (Non vi mancheranno mai  le civette del Laurio; l’allusione è alle monete raffiguranti la civetta coniate con l’argento estratto dalle miniere del monte Laurio).

13 Orlando Furioso, XL, 1, 5-6.

 

Deportati salentini leccesi nei lager nazifascisti

cover patiluceri

di Gianni Ferraris

Dopo l’otto settembre 1943, l’armistizio di Cassibile l’esercito italiano si ritrovò sbandato, senza più ordini. Il Re e Badoglio fuggirono vilmente a Brindisi lasciando l’Italia intera senza guida. I militari avevano due possibilità: aderire alla Repubblica di Salò e rimanere alleati dei nazisti, oppure prendere altre strade, ribellarsi, sbandarsi, salire in montagna con i partigiani. La stragrande maggioranza decise di abbandonare la sciagura della guerra e l’infamia del nazifascismo, solo il 10% accettò l’arruolamento nella bande di Mussolini e Hitler, molti si aggregarono ai partigiani, chi riuscì tornò a casa, moltissimi vennero disarmati e considerati dai nazisti “prigionieri di guerra”.  Per loro era valida la Convenzione di Ginevra, i nazisti, nella loro viltà, decisero di non rispettarla chiamando i prigionieri IMI (Internati Militari Italiani) e deportandoli nel lager, la Germania di Hitler aveva bisogno forza lavoro a costo zero. Infami nell’infamia.

Quanti furono gli IMI italiani ce lo dice uno studio di  Pamieri e Avagliano:

«In pochi giorni i tedeschi disarmarono e catturarono 1.007.000 militari italiani, su un totale approssimativo di circa 2.000.000 effettivamente sotto le armi. Di questi, 196.000 scamparono alla deportazione dandosi alla fuga o grazie agli accordi presi al momento della capitolazione di Roma. Dei rimanenti 810.000 circa (di cui 58.000 catturati in Francia, 321.000 in Italia e 430.000 nei Balcani), oltre 13.000 persero la vita durante il brutale trasporto dalle isole greche alla terraferma. Altri 94.000, tra cui la quasi totalità delle Camicie Nere della MVSN, decisero immediatamente di accettare l’offerta di passare con i tedeschi.

Al netto delle vittime, dei fuggiaschi e degli aderenti della prima ora, nei campi di concentramento del Terzo Reich vennero dunque deportati circa 710.000 militari italiani con lo status di IMI e 20.000 con quello di prigionieri di guerra. Entro la primavera del 1944, altri 103.000 si dichiararono disponibili a prestare servizio per la Germania o la RSI, come combattenti o come ausiliari lavoratori. In totale, quindi, tra i 600.000 e i 650.000 militari rifiutarono di continuare la guerra al fianco dei tedeschi »

E il Salento leccese come è stato interessato dai deportati IMI? Finalmente c’è materiale di studio, Ippazio Antonio Luceri con una colossale opera di 600 pagine ha elencato nomi, schede e numeri della sciagura. “Deportati Salentini Leccesi nei lager nazifascisti”  restituisce memoria e dignità a questi patrioti, i numeri impressionanti.

cover patiluceri - Copia

La dettagliata presentazione di Maurizio Nocera inquadra storicamente gli eventi, mette in fila le date della sciagura del ”secolo più violento” il ‘900. In particolare ci ricorda come la storia dei campi di concentramento non fosse stata solo nazista, ma riguardò l’Italia. Estrapolo il passaggio di Nocera in proposito:

“…5 settembre 1938, R.d.l. n. 1390, Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista;

23 settembre 1938, Rdl. n. 1630, Istituzione di scuole elementari per fanciulli di razza ebraica;

17 novembre 1938, Rdl. n. 1728, Provvedimenti per la difesa della razza italiana;

15 novembre 1938, Rdl. n. 1779, Integrazione e coordinamento in un unico testo delle norme già emanate per la difesa della razza nella scuola italiana;

9 febbraio 1939, Rdl. n. 126, Norme di attuazione relative ai limiti di proprietà immobiliare e di attività industriale e commerciale per i cittadini di razza ebraica.

4 settembre 1940, Mussolini emana il decreto definitivo che istituiva i primi 43 campi di internamento per gli ebrei, gli antifascisti, i rom e i sinti, gli omosessuali e i minorati. Furono immediatamente recuperati differenti luoghi di detenzione, spesso dei reclusori isolati dalle città e dai luoghi di vita civile. È superfluo descrivere com’erano fatti questi luoghi di confinamento, perché la letteratura in merito è molto ricca e basta fare un semplice clic su internet per leggere l’abnorme livello di miseria e di abbandono. In Italia furono alcune decine di migliaia gli internati nei 400 campi di concentramento prima di venire spediti nei lager nazisti tedeschi.

Alcuni di questi campi sono ormai noti e su di essi non mancano gli studi di approfondimento specifici. Eccone qui elencati alcuni: Agnone, Aosta, Alberobello, Ariano Irpino, Bagni di Lucca (Lucca), Bagno a Ripoli, Bioano, Calvari di Chiavari, Campagna (Salerno), Casacalenda (solo femminile), Casoli, Castel di Guido (Roma), Città Sant’Angelo (Pescara), Civitella della Chiana (Arezzo), Civitella del Tronto, Colfiorito di Foligno (Perugia), Corropoli, Fabriano, Farfa Sabina (Rieti), Ferramonti di Tarsia (Cosenza), Ferrara, Fertilia (Sassari), Forlì, Fraschette di Alatri (Frosinone), Gioia del Colle (Bari), Isernia (Campobasso), Isola del Gran Sasso, Istonio (Chieti), Lama dei Peligni, Lanciano (Chieti) (due campi, uno maschile e l’altro femminile), Lipari (Messina), Manfredonia (in un ex mattatoio), Montalbano (Firenze), Montechiarugolo (Parma), Monteforte Irpino, Nereto, Notaresco, Piani di Tonezza (Vicenza), Petriolo (Macerata) (solo femminile), Pisticci (Matera), Pollenza (solo femminile), Ponticelli Terme (Parma), Roccatederighi (Grosseto), Sassoferrato (Ancona), Scipione di Salsomaggiore, Solofra (Avellino) (solo femminile), Servigliano (Ascoli Piceno), Sforzacosta Sondrio, Tollo (Teramo), Tortoreto, Tossicia, Treia (solo femminile), Trieste, Tremiti (Foggia), Urbisaglia (Macerata), Ustica (Palermo), Vinchiaturo (Campobasso) (solo femminile), Verona, Vo’ Vecchio (Padova). Il più noto fra tutti questi campi fu la famigerata Risiera di San Sabba a Trieste, in un primo momento classificato come campo di polizia e di transito, dove si perpetrarono torture, esecuzioni capitali e lo sterminio di ebrei e comunisti (oltre 5000) infornati e cremati nel forno di cui era provvisto quell’impianto industriale. Altri campi di polizia e di transito verso la Germania furono quelli di Fossoli, Gries e Bolzano e provincia, attraverso i quali transitarono più di 11 mila deportati italiani”

E così Ippazio Antonio (Pati per gli amici) elenca un rosario che pare infinito:

7158 nomi, cognomi, schede compilati da Pati.

581 deceduti fra questi

421 in prigionia nei campi di concentramento nazisti,

156 morti nei naufragi delle navi: Petrella, Donizetti, Oria, Sinfra partite dai porti di Rodi, Creta, Cefalonia, Leros, Scarpantos, Coo. 4 vennero fucilati mentre tentavano la fuga,

6 morti al loro ritorno in patria per malattie contratte a causa della

Queste ricerche hanno impegnato Pati per lunghi anni, ha spulciato archivi storici, Istituti Storici della Resistenza, Archivi Vaticani ecc.  e questo è suo il terzo volume dedicato agli antifascisti, partigiani, combattenti e deportati salentini.

Come si evince dai numeri siamo di fronte ad una vera e propria sciagura, una strage perpetrata con metodo. Gli IMI vennero ignorati per molto tempo, anzi, in molti casi, al loro ritorno in Patria,  vennero definiti “imboscati” come dice  Luceri nella prefazione, invece, secondo l’autore, erano:

“RESISTENTI, a tutto tondo, pur essendo stati etichettati come “imboscati”, per molto tempo, con affermazioni a dir poco umilianti, offensive, ancora una volta disumane, soprattutto quando ci si accorgeva che, per molti ma soprattutto per il potere costituito, il loro sacrificio era stato inutile, come ha ben documentato il Lazzero Ricciotti. Che non avevano collaborato con i nazifascisti ma non avevano nemmeno impugnato un’arma per combatterli e continuo, sempre con il Ricciotti, “I partigiani parlano nelle piazze di combattimenti e di nemici sterminati. Gli scampati, invece, parlano soltanto della fame che li ha sterminati”.

Un libro importante per la memoria, dedicato a quanti nel mondo stanno soffrendo la galera, le torture per una società equa. Fra questi Luceri cita nella presentazione: “…  i nomi di BIASCO Rocco di Alliste, COSTA Alberto di Alezio, COSTA Umberto di Matino ed ELIA Pantaleo di Vernole. Sono i nomi di quelli che non ce l’hanno fatta, essendo stati scoperti e pertanto fucilati, durante il tentativo d’evasione…”

 

Ippazio Antonio Luceri – Deportati Salentini Leccesi nei lager nazifascisti – Grafiche Giorgianni pagg. 600

 

Per quanto riguarda il prezzo il discorso è apertissimo, Pati Luceri vuole diffondere e divulgare, scrive nella prefazione:

“il libro si aggira intorno alle 600 pagine e il prezzo per un libro di tal formato e dimensioni, nelle librerie si aggira intorno alle 100 euro.

Ho ricevuto un contributo di 2800 euro e ciò mi permette di abbassare i costi di 28 euro. Ma la mia ricerca non è finalizzata a lucrare su chi ci HA DONATO la LIBERTÁ e pertanto lo diffonderò a prezzo politico. Mi si dia – come dico SEMPRE – quello che si può e si vuole dare e se qualcuno non può permetterselo e ci tiene a farlo divulgare, LO CHIEDA GRATUITAMENTE: (questo è il mio numero telefonico: 339.8277593).”

Gli altri volumi di Pati Luceri:

Partigiani, antifascisti e Deportati di Lecce e Provincia

Partigiani e antifascisti in Terra D’Otranto

Marco Antonio Delli Falconi di Nardò tiene a battesimo il Monte Nuovo

di Armando Polito

Esordisco con una mozione (manco fossi un politico …) che è più di affetto che di servizio, precisando che queste righe escono contemporaneamente su http://www.vesuvioweb.com/it/.

C’era una volta Napoli, centro culturale di eccellenza e polo d’attrazione, come oggi orgogliosamente, laddove è possibile, si dice, da ogni parte d’Italia e del mondo occidentale. Non ho la preparazione specifica e sufficiente per spiegare le ragioni di un amaro degrado che riguarda, e non da ieri, tutto il sud; e poi rischierei di rinfocolare una vecchia diatriba proprio mentre una parte politica, territorialmente vicina ad una dinastia  probabile (altro non dico …) responsabile del primo sfacelo, in una disgustosa miscela d’incoerenza e di faccia tosta tenta di fare proseliti pure al sud …

Dico solo che correva l’anno 1538 e che già da tempo chi voleva far carriera doveva giocoforza studiare a Napoli. La maggior parte degli “immigrati” non tornava, se non saltuariamente, nel paese d’origine. Tra di loro i salentini costituiscono una schiera nutrita e già mi son occupato, per restare al tema di oggi, di Giuseppe Battista di Grottaglie1,che cantò l’eruzione del Vesuvio del 1631.

Purtroppo gli eventi catastrofici hanno sempre fatto notizia, per diventare, placatasi l’onda emotiva, quasi un topos, non solo letterario, cioè un tema che un intellettuale non può esimersi dal trattare. Sotto questo punto di vista forse solo gli scritti in prosa  contemporanei all’evento hanno un valore documentario, nonostante i rischi, comprensibilissimi, di straripamenti enfatici più o meno involontari. L’evento trattato questa volta è la formazione del Monte Nuovo nei Campi Flegrei e parte del merito del ricordo immortalato in Dell’incendio di Pozzuolo Marco Antonio delli Falconi all’illustrissima signora marchesa della Padula nel MDXXXVIII va ascritto a Nardò, perché in questa città era nato l’autore dell’opuscolo appena citato, il cui frontespizio riproduco di seguito dal link in cui chi ha interesse troverà (e potrà scaricare) il testo integrale:

https://books.google.it/books?id=GZWcQN8cZu0C&pg=PT50&dq=delli+falconi+dell%27incendio+di+pozzuolo&hl=it&sa=X&ei=_oSuVN2cFo7dapLmgNgI&ved=0CEUQ6AEwBQ#v=onepage&q=delli%20falconi%20dell’incendio%20di%20pozzuolo&f=false

Il lettore noterà la data dell’evento inclusa nel titolo ma anche l’assenza della data di edizione e del nome dell’editore. Per quanto riguarda il primo punto, siccome il Monte Nuovo si formò tra il 29 settembre e il 6 ottobre del 1538, è plausibile ritenere che l’opera abbia fatto in tempo ad uscire in quell’anno. Per l’editore ci viene in soccorso il colophon che di seguito riproduco.

Marco Antonio Passaro fu editore e libraio a Napoli dal 1534 al 15692. Si servì delle tipografie di Mattia Cancer e di Giovanni De Boy. Nel 1574 fu arrestato insieme con il collega, pure lui napoletano, Marco Romano per vendita di libri proibiti3.

Dopo questa piccola parentesi per bibliofili è il caso di dire qualcosa di più sul neretino. Chi si aspettasse di trovare notizie biografiche nello storico locale Giovanni Bernardino Tafuri4 resterebbe in parte deluso e a tratti feroce è la critica mossagli da Lorenzo Giustiniani in I tre rarissimi opuscoli di Simone Porzio, di Girolamo Borgia e di Marcantonio Delli Falconi scritti in occasione della celebre eruzione avvenuta in Pozzuoli nell’anno 1538, Marotta, Napoli, 18175. In questo volume il lettore che ne abbia interesse troverà la possibilità di comparare il resoconto del neretino con quello di altri due testimoni diretti e per ognuno dei tre autori una completa e documentata scheda biografica. Quella del neretino occupa le pagine 261-283, in confronto alle quali, nonostante parecchie di esse si attardino sulla figura della dedicataria marchesa della Padula, le due paginette del Tafuri appaiono veramente striminzite.

Chiunque voglia approfondire un fenomeno del passato per comprendere meglio la sua manifestazione attuale è obbligato a ricercare e studiare le fonti, tanto più preziose quanto più esse sono il frutto di un’osservazione diretta. Non a caso, perciò, il resoconto del neretino fu tenuto in grandissimo conto da due luminari dell’epoca:  William Hamilton7 (1730-1803) e Jacques Gibelin (1744-1828), secondo quanto riportato dal Giustiniani (p. 281): Che un tale opuscolo sia poi divenuto assai raro e ricercato ancora, ne abbiamo un attestato del Signor Maty Segretario della Società Reale di Londra, col quale dice, che stando in qualità d’Inviato di quella Corte in Napoli Guglielmo Hamilton, celebre antiquario, ed indagatore delle cose naturali, avendone proccurato un esemplare, e rinvenuto ancor l’altro opuscolo del sullodato Pietro Giacomo da Toledo, che ha per titolo: Ragionamento del tremuoto del Nuovo Monte, dell’aprimento di terra in Pozzuoli nell’anno 1538, e della significazione di essi, stampato in napoli per Giovanni Sulztbac Alemanno a 22 di gennaio 1539, ne fece un dono al Museo Brittannico, dove avendogli osservati il celebre Gibelin, morto non è gran tempo, è di avviso, aver ritrovate le dette relazioni curiosissime6, e non poco ancor se ne valse nel suo Compendio delle transazioni filosofiche della Società Reale di Londra; e quindi nelle medesime riferisce in succinto, prima quello, che contiene la relazione del nostro delli Falconi, e poi quello, che si contiene nell’altra del Toledo; e finalmente descrivendo il monte, e le qualità delle materie, che lo formarono, è di sentimento, che così all’improvviso fossero surti tutti quegli altri monti, che veggonsi in tutta la regione vulcanica di Pozzuoli, e sarà molto da abbracciarsi la sua opinione.8

L’opera del neritino, poi, non poteva non essere ricordata dal napoletano  Antonio Sanfelice , che fu vescovo di Nardò dal 1707 al 1736. In Antonii Sanfelicii Campania notis illustrata cura et studio Antonii Sanfelicis junioris, Paci, Napoli, 1726, in nota 119 a p. 83  così si legge: … de quo incendio, et miris eiusdem effectibus praecipuos edidere tractatus Petrus Jacobus Toletanus, et Antonius de Falconibua, Cathedralis Ecclesiae Neritinae Canonicus, tum Episcopus Ceruntinensis … (della quale eruzione e dei suoi straordinari effetti pubblicarono eccellenti trattati Pietro Iacopo di Toledo e Antonio delli Falconi, canonico della cattedrale di Nardò, allora vescovo di Cerenzia… ).

Voglio chiudere con sei immagini che in qualche modo riassumono la vita del Monte Nuovo, dalla nascita ad oggi.

La prima è una tavola tratta dall’opuscolo del Delli Falconi, del quale prima ho riportato il frontespizio.

 

La seconda è una tavola del Theatrum illustriorum Italiae urbium tabulae cum apendice celebriorum in maris Mediterranei insulis civitatum, Ex officina Joannis Janssonii, Amsterdam, 1657 (chi ne ha interesse può fruirne in alta definizione all’indirizzo http://bdh-rd.bne.es/viewer.vm?id=0000130550; qui ho evidenziato con la circonferenza rossa il Monte Nuovo (lettera Q della didascalia).

La terza è la tavola 26 di Campi Phlegraei di William Hamilton, Fabris, Napoli, v. II, 1776 (http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k1082424.r=william+hamilton.langEN).

5

La quarta è tratta da Earthquake-Phenomena, in Popular Science Montley (marzo 1873), Appleton & C., New York, v. II, p. 515 (https://archive.org/details/popularsciencemo02newy).

La quinta è tratta da Principles of geology, di Clarles Liell, 12° edizione, Murray, Londra, 1875 (http://archive.org/stream/principlesgeolo19lyelgoog#page/n9/mode/1up). Ho evidenziato con la circonferenza rossa il Monte Nuovo (n. 5 nella didascalia). Il lettore noterà subito come questa tavola sia derivata da quella del 1776 dell’Hamilton.

La sesta, tratta da http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/0/04/MonteNuovoTW3028.JPG, mostra, infine, lo stato attuale dei luoghi.

___________

1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/01/12/leruzione-del-vesuvio-del-1631-nella-poesia-di-un-salentino-e-di-un-napoletano-con-una-sorpresa-finale/ e http://www.vesuvioweb.com/it/2015/01/leruzione-del-1631-nella-poesia-di-un-salentino-e-di-un-napoletano/

2 Lo desumo dalle date della prima e dell’ultima pubblicazione fin qui rinvenute: Giovanni Gallucci,  Utile instruttioni et documenti per qualsevoglia persona ha da eliger officiali circa il regimento de populi. E ancho per officiali serranno eletti. E Universitate che serranno da quelli gubernate e colle rite della Vicaria è (sic) pragmatice vlgare (sic), se vendono alla libraria de m. Marco Antonio Passaro allo Episcopato, Giovanni Sultzbach, Napoli, 1534; Paolo Regio, Siracusa pescatoria, Gio De Boy, ad istanza de Marcantonio Passaro, Napoli, 1569.

3 Notizie più dettagliate e documentate in Romano Canosa, Storia dell’Inquisizione in Italia: Napoli e Bologna, Sapere 2000, Roma, 1990, pp. 71-72.

4 Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, s. n., Napoli, 1752, tomo III, parte II, pp. 68-70 (https://books.google.it/books?id=-1pDjf-jXksC&printsec=frontcover&dq=editions:yDTnfHb8_WwC&hl=it&sa=X&ei=V4quVOX2E5HraPnxgtAC&ved=0CCAQ6AEwAA#v=onepage&q&f=false).

5 https://books.google.it/books?id=WIM5AAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=I+tre+rarissimi+opuscoli+di+Simone+Porzio,+di+Girolamo+Borgia+e+di+Marcantonio+Delli+Falconi&hl=it&sa=X&ei=2YquVPv-DYjZasnlgoAC&ved=0CCkQ6AEwAA#v=onepage&q=I%20tre%20rarissimi%20opuscoli%20di%20Simone%20Porzio%2C%20di%20Girolamo%20Borgia%20e%20di%20Marcantonio%20Delli%20Falconi&f=false

6 Non nel senso, oggi dominante, di strane se non ridicole, ma in quello di dettate da profonda curiosità scientifica, ricche di dettagli descrittivi e perciò interessantissime.

7 La sua pubblicazione vulcanologica più nota è Campi Phlegraei uscita a Napoli in due volumi per i tipi di Fabris nel 1776; un supplemento sull’eruzione del Vesuvio del 1779 uscì in quell’anno per lo stesso editore.  Un’immagine, tratta dal secondo volume, verrà riprodotta più avanti.

8 Chi ne abbia interesse può consultare il testo del Gibelin, Stella, Venezia,  1793, tomo I, pp. 151-170 all’indirizzo https://books.google.it/books?id=y8E3HsSYdYAC&printsec=frontcover&dq=editions:Tz8GhvL4HucC&hl=it&sa=X&ei=6JOuVILCIpbjauqZgNgI&ved=0CCoQ6AEwAg#v=onepage&q&f=false.

Un’epigrafe in via Regina Elena a Giuliano di Lecce

di Marcello Gaballo e Armando Polito

VIRTUS INVIDIAM FRANGIT

LABOR FORTUNAM CONCILIAT

HUMILITAS FORTIORA VINCIT

La virtù frantuma l’invidia

Il lavoro propizia la fortuna

L’umiltà  supera prove piuttosto difficili.

 

Da un punto di vista di semplice scrittura epigrafica colpisce la compresenza di caratteri maiuscoli e minuscoli.

Questi ultimi sono in totale minoranza nella prima linea:  1, la r di FrANGIT, su 19 (sarebbero 21 se le I di INVIDIAM e di FRANGIT non fossero state inglobate rispettivamente in D e in G); i caratteri minuscoli trionfano nella seconda linea (17/21) e sono totalmente assenti nella terza. Da notare pure nella prima linea la compresenza di una R maiuscola (quella di VIRTUS) e  di

Donato Maria Capece Zurlo di Copertino, poeta e … agente del fisco.

di Armando Polito

L’immagine stereotipa del poeta, anche moderno, è quella di un uomo che, pur senza essere un astronauta, ha sempre la testa nelle nuvole, come se la più nota figura retorica, cioè la metafora, non avesse come punto di partenza la realtà diventandone, forse, una delle sue più profonde interpretazioni possibili e come se pure il poeta per poter esser tale non avesse bisogno di avere la pancia, se non piena, almeno non completamente vuota … I puntini di sospensione del titolo tradiscono l’omaggio momentaneo, pure da parte mia, a questa consolidata opinione per cui sarebbe difficile immaginarsi un macellaio-poeta e tanto meno, come nel nostro caso, un agente del fisco-poeta, prigionieri del pregiudizio che ci fa pensare, chissà perché, che un macellaio e un agente delle tasse siano persone poco sensibili e, per giunta incapaci, di dare, a quel poco, espressione efficace. Se applicassimo coerentemente questo principio, non dovremmo riconoscere a priori nemmeno a Virgilio il titolo di poeta, essendo egli stato, in fondo, uno dei leccaculo di Augusto; tanto meno dovremmo farlo con una miriade di autori di ogni epoca, la cui produzione abbia un intento celebrativo che vada al di là dell’immancabile dedica iniziale, quella che in passato coinvolgeva re, principi, papi e cardinali e che oggi rivive nella citazione, pur sinteticamente espressa, dello sponsor privato e delle istituzioni pubbliche patrocinanti. E poi, nel caso del nostro letterato di Copertino, se non ci fosse stato un documento galeotto (ancor più galeotto chi lo scrisse …), mi sarei pure risparmiato questa introduzione e sarei passato direttamente a parlarne, come faccio ora. Di Donato Maria Capece Zurlo non conosco dati biografici se non quelli che ho desunto in ordine sparso da testimonianze indirette a lui contemporanee, ragionevolmente attendibili. Per evitarmi il fastidio della trascrizione le riporterò in formato immagine con le indicazioni bibliografiche e il link relativo, dove il lettore interessato potrà trovare l’intera opera.

1) Comentari del canonico Giovanni Mario Crescimbeni custode d’Arcadia, intorno alla sua Istoria della volgar poesia, Basegio, Venezia, 1730, v. III, p. 263 (http://books.google.it/books?id=rkwTAAAAQAAJ&pg=PA263&lpg=PA263&dq=donato+maria+capece+zurlo&source=bl&ots=iXhu0KnVpD&sig=bm2eKXphb2s5SdoY4gaCU5C-v-Y&hl=it&sa=X&ei=c35HVMjtOozXPJDAgPAJ&ved=0CD4Q6AEwCDgK#v=onepage&q=donato%20maria%20capece%20zurlo&f=false) La scheda ci informa che il nostro fece parte di una delle colonie (così erano chiamate le sedi staccate), la Sebezia (di cui si dirà dopo)  dell’accademia dell’Arcadia, col nome di Alnate Driodio. Riporto ora un passo da Vita degli Arcadi illustri, De’ Rossi, Roma, 1708, v. I, pp. 47-48, dal quale risulterebbe la parentela con gli Zurlo di Napoli; l’egli del primo rigo è Francesco d’Andrea, altro arcade. (http://books.google.it/books?id=3YjxFKAkKx4C&pg=PA48&lpg=PA48&dq=donato+maria+capece+zurlo&source=bl&ots=GnmvGhWRns&sig=2TmxOBncSXcvoZgm4dvqPYx9Y0k&hl=it&sa=X&ei=c35HVMjtOozXPJDAgPAJ&ved=0CCAQ6AEwADgK#v=onepage&q=donato%20maria%20capece%20zurlo&f=false) Ecco ora il frontespizio della raccolta di Lucca stampata l’anno 1709. So che la quantità non è sinonimo di qualità; tuttavia non sarà stato un caso che il nostro è presente nella raccolta con 28 sonetti, numero che non sfigura rispetto a quello esibito dagli altri poeti della silloge, indicato tra parentesi tonde dopo il rispettivo nome nell’elenco che segue. Agostino Spinola genovese (6), Alessandro Guidi pavese (32), Alessandro Marchetti pistoiese (24), Angelo paolino Balestrieri lucchese (10), Angelo Antonio Somai di Rocca Antica (8), P. Antonio Tommasi lucchese (32), Antonio Gatti pavese (11), Antonio Zampieri imolese (8), Basilio Giannelli napoletano 21), Biagio Maioli De Avitabile napoletano (13), Domenico Moscheni lucchese (12), Donato Maria Capece Zurlo leccese (28), Eustachio Manfredi bolognese (6), Ferdinando Passarini di Spello (4), Francesco Passarini di Spello (7), Francesco Maria Baciocchi veronese (32), Gaetana Passarini di Spello (9), P. Giovanni Battista Cotta Tendasco agostiniano della congregazione di Genova (21), Giovanni Battista Riccheri genovese (27), Giovanni Bartolomeo Casaregi genovese (12), Giovanni Benedetto Gritta genovese (5), Giovanni Battista Zappi imolese (8), Giovanni Battista di Vico napoletano (3), Giovanni Giuseppe Felice Orsi bolognese (10), P. Giovanni Tommaso Baciocchi genovese (16), Giuseppe Lucina napoletano (24), Giuseppe Paolucci di Spello (7), Giuseppe Maria Tommasi lucchese (10), Giovanni Mario Crescimbeni maceratese (11), Girolamo Maria Stocchetti lucchese (14), Giulio Cesare Grazini ferrarese (12), Lorenzo De’ Mari genovese (19), Matteo Franzoni genovese (14), Matteo Egizi napoletano (6), Matteo Regali lucchese (9), Niccolò Garibaldi genovese (12), Niccolò Cicognari parmigiano (2), Niccolò Di Negro genovese (5), Niccolò Amenta napoletano (13), Paolo Antonio Del Negro genovese (18), Petronilla Paolini Massimi romana (7), Pompeo Figari genovese (9), Prudenza Gabrielli Capizucchi romana (8), Salvator Squarciafico genovese (16), Teresa Grilli Panfili romana (1), Tiberio Carrafa napoletano (12), Vincenzo da Filicaia fiorentino (15), Vincenzo Nieri lucchese (2), Vincenzo Leonio da Spoleti (12), Virginio Maria Gritta genovese (15). Di questo volume uscì una seconda edizione nel 1720 per i tipi di  Venturini a Lucca.

Dei 28 sonetti commemorativi di personaggi importanti del copertinese mi piace riportarne due per ragioni che il lettore non faticherà a comprendere (la trascrizione a fronte è il solito espediente per aggiungervi le mie note): A riprova del fatto che il Crescimbeni era considerato all’epoca un punto di riferimento (magari da sfruttare senza citarlo …) debbo far notare che il sonetto da lui prima riportato Esca mia dolce … (celebrazione dello sguardo dell’amata come fonte di gioia e dolore, un topos della poesia d’amore già percorso, tra gli altri, sia pure con sensibilità diverse, da Guittone d’Arezzo, Giacomo da Lentini, Guido Cavalcanti, Dante, Petrarca) compare da solo in Annibale Antonini, Rime de’ più illustri poeti italiani, Musier all’Insegna dell’Uliva, Parigi, 1732, p. 77  (http://books.google.it/books?id=t4sHAAAAQAAJ&pg=RA1-PA77&dq=%22Donato+Maria+Capece+Zurlo%22&hl=it&sa=X&ei=PplHVIy0DsLmyQOapoA4&ved=0CCQQ6AEwATgU#v=onepage&q=%22Donato%20Maria%20Capece%20Zurlo%22&f=false) ripubblicato sempre a Parigi per i tipi di Prault nel 1744 nel secondo tomo di Raccolta di rime italiane (http://books.google.it/books?id=lPRdAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:yxfnnjQ_E8gC&hl=it&sa=X&ei=eaJHVNygFobOygPU7oCYCw&ved=0CCoQ6AEwAQ#v=onepage&q&f=false).

2) Comentari del canonico …, op. cit. v. VI, Basegio, Venezia, 1730, pp. 424 e 286 (http://books.google.it/books?id=mHjNAAAAMAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:p2jmoLdqLUAC&hl=it&sa=X&ei=F79IVLmXG-qrygP7pICwDQ&ved=0CCAQ6AEwAA#v=onepage&q&f=false). Natura, finalità e regole dell’accademia dell’Arcadia sono estesamente espresse dallo stesso Crescimbeni in L’Arcadia, De’ Rossi, Roma, 1708 (http://books.google.it/books?id=ez4dFjf-xsMC&pg=PA212&dq=crescimbeni+arcadia&hl=it&sa=X&ei=7RRKVNi1MY7YPMiLgeAJ&ved=0CCwQ6AEwAg#v=onepage&q=crescimbeni%20arcadia&f=false). Al momento dell’adesione all’accademia l’interessato riceveva dall’assemblea un nuovo nome il cui primo componente veniva assegnato per sorteggio mentre il secondo veniva da lui liberamente scelto e convalidato dall’assemblea a patto che facesse riferimento o a un luogo o ad un ricordo mitologico della regione greca di cui l’accademia portava il nome. Dalla prima scheda sopra riprodotta abbiamo la conferma della notizia che il nostro aveva assunto lo pseudonimo di Alnote Driodio. Per Alnote non son riuscito ad individuare il suo rapporto con il greco; Driodio è forma aggettivale dal greco δρίος (leggi drios)=boschetto. La seconda scheda reca lo stemma della colonia di appartenenza con il simbolo particolare (il fiume Sebeto) e quello comune (la siringa) tratto dall’insegna dell’Accademia (immagine in basso tratta dalla stessa opera, p. 283). Va aggiunto che ogni colonia aveva dei propri rappresentanti e va sottolineato che il nostro è l’unico salentino tra quelli della colonia Sebezia, come deduco dall’elenco completo che traggo da Il catalogo degli Arcadi per ordine alfabetico colla serie delle colonie e rappresentanze arcadiche, s. l., s. d., pp. 152-153 (tuttavia la data di pubblicazione dovrebbe collocarsi attorno al 1720; l’intero volume è consultabile e scaricabile in http://books.google.it/books?id=Iioj0mUX5qsC&pg=PR117&lpg=PR117&dq=sorasto+trisio&source=bl&ots=IHYz04R8dW&sig=eb3ZuBa6Z3Tnd5PSKoyMREpfYoM&hl=it&sa=X&ei=BGhnVLWDHcPgyQODvIK4CQ&ved=0CC0Q6AEwAg#v=onepage&q=sorasto%20trisio&f=false. 3) Componimenti in lode del nome di Filippo V monarca delle Spagne, recitati dagli Arcadi della Colonia- Sebezia il dì 2 di Maggio del 1706, nel Regal Palagio, e pubblicati per ordine di Sua Eccellenza dal dottor Biagio Majola De Avitabile, Vice-Custode della stessa Colonia, Parrino, Napoli, 1706, s. p. (http://books.google.it/books?id=lPRdAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:yxfnnjQ_E8gC&hl=it&sa=X&ei=eaJHVNygFobOygPU7oCYCw&ved=0CCoQ6AEwAQ#v=onepage&q&f=false). Viene ribadita la nobile origine e, quindi, una parziale conferma della parentela con i Capece Zurlo di Napoli, il cui stemma riproduco di seguito , tratto da http://www.nobili-napoletani.it/Capece-Zurlo.htm 13Per dare un quadro forse completo della produzione del nostro va ricordato che il volume appena citato contiene 8 suoi sonetti  (i primi 7 alle pp. 40-46, l’ultimo a p. 59) e due componimenti in latino alle pp. 60-62.

4) Giovanni Mario Crescimbeni, Notizie istoriche degli Arcadi morti, De Rossi, Roma, 1703,  tomo II, p. 173 (http://books.google.it/books?id=kDGwVjrOzgEC&pg=PA173&dq=%22Donato+Maria+Capece+Zurlo%22&hl=it&sa=X&ei=Ho5HVPzuN6j6ywOejoDYCg&ved=0CE8Q6AEwCTgK#v=onepage&q=%22Donato%20Maria%20Capece%20Zurlo%22&f=false), a proposito della morte di Bartolomeo Ceva Grimaldi, avvenuta nel 1707, a p. 173: 5) Un manoscritto dal titolo 1723. Difesa delle ridecime a favore del Capitolo di Cupertino custodito nell’Archivio capitolare della chiesa madre della città, pubblicato da Giovanni Greco per i tipi di Congedo a Galatina nel 1995 col titolo 1723: Viaggiatori barocchi da Copertino a Napoli, descrive il viaggio compiuto a Napoli da una delegazione del clero locale per difendere presso la Camera della Sommaria gli antichi privilegi negati dall’agente baronale che si chiamava Donato Maria Capece Zurlo. Tasse o non tasse, il documento è prezioso perché mi consente di affermare senz’ombra di dubbio, che il nostro a quella data era ancora vivo. Se poi qualche lettore copertinese riuscisse a desumere la data di nascita e di morte dalla lettura dei relativi registri e ce la comunicasse io gli sarei grato ma, quel che più conta, la biografia del nostro non resterebbe priva di due elementi fondamentali1.

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1 Domenico De Angelis in Le vite de’ letterati salentini, parte prima, s. n., Firenze, 1710 verso la fine del volume in un Catalogo degli Autori, che si conterranno nella Prima parte dell’Istoria de’ scrittori salentini include anche il nome del nostro. L’opera annunziata, però, non vide mai la luce e non si sa neppure se ne sopravvive il manoscritto.

Batte il freddo il grigio gennaio

freddo

di Elio Ria

 

Aria sperduta dal sapore di triste elemosina per un’offerta di vanità che nessuno raccoglie: è primavera arida, in poveri ritornelli che passano e ripassano come passeri infreddoliti, oggi, con il cielo aperto che nessuno ascolta. La tristezza è sulle pagine di un libro vecchio che singhiozza – una seconda volta – in un pianto di solitudine. Gennaio è già fanciullo poverello, incontentato, neanche uno scialle di ghirlande e aranci a coprire le sue guance rosse: abbondanza di affanno per il ritorno della grande sorella Speranza. Mentre lo zio giugno, virtuoso e ricco di grano, tarderà a mostrarsi con il fascio di musica di pane. Il fratello settembre, dabbene e mite, respinge gli assalti di inutili e sovrabbondanti sogni di un bimbo. Una gazza scende dall’albero d’ippocastano a specchiarsi in una pozzanghera d’acqua nell’attesa di un lauto pasto, in un giorno di pioggia contadina che si ostina a dirci che la vita è bella e buona.

Il vento è rauco ma pungente, sonnolento a un sole opulento, tra nuova gente, nuove tristezze, senza dolcezze. Le insensibili nubi che in chiaro cielo si azzuffano non declinano il migliore tempo; dicono addio ai gabbiani che dal nido si avventurano ad acciuffare cibo per le acque gelide –   quiete marina di destino. Un passero in compagnia di un compagno massacrato volge il becco alla terra per un chicco di notte buona.

Batte il freddo il grigio gennaio fra i roventi muri di ghiacciai degli orti e dei borghi, spiando formiche prudenti nelle loro case di terra – che ora di rompono ed ora si ricompongono in file di perseveranza, affinché il sole che abbaglia mostri  il proprio travaglio senza bavaglio di meraviglia nell’ora in cui il falco alto levato schiuderà la divina Indifferenza.

L’antico orgoglio di Minervino di Lecce

di Armando Polito

Si dice che il numero fa la forza ma riconosciamo pure che non sempre la quantità si coniuga felicemente con la qualità. Lascio, perciò, ai diretti interessati, ai Minervinesi, l’applicazione di quello che più fa loro comodo dei due principi appena enunciati, anche se la scelta può sembrare scontata, tenendo conto che il numero degli abitanti al 31 dicembre 2013 risultava essere (traggo il dato da http://demo.istat.it/bilmens2013gen/index.html) 3717, di cui 1997 femmine e 1720 maschi. Un piccolo (in quest’aggettivo non è da cogliere, almeno da parte mia, nemmeno l’ombra di una sfumatura negativa, anzi …) centro, dunque, ma cinque secoli fa le cose dovevano stare diversamente se l’architrave del portale laterale della Chiesa di San Pietro reca l’epigrafe visibile nella foto di Michele Bonfrate, tratta da facebook.

Dico subito che non si tratta di un capolavoro di scrittura epigrafica. Ecco cosa appare tracciato:

co mo Lu Li o ne etIO re de ll a

nimali · cu si  me ner bi noe tl o

re de li ca sa li · a · d · m · CCCC · LXXIII ·  

regn(ante?) o (?) Rey(?)fer      di      nan   doS ·

Così, invece, dovrebbe essere letto:

como lu lione eti o re dell’a-

nimali cusì Menerbino eti lo

re de li casali a(nno) D(omini) MCCCCLXXIII

regn(ante?) o (?) Rey (?) FerdinandoS(?)

In italiano corrente sarebbe: Come il leone è il re degli animali, così Minervino è il re dei casali. Nell’anno del Signore 1473. Regnante (?) il re (?) Ferdinando S(?)

E tutti i punti interrogativi dell’ultima linea? Non è che i dubbi relativi allo scioglimento delle abbreviazioni siano stati definitivamente fugati (l’ultima parola potrebbe essere Ferdinandos, una sorta di correzione popolare spagnoleggiante parallela al precedente rey), ma la data che è inequivocabilmente 1473 mi suggerisce che il Ferdinando nominato nell’epigrafe non può essere che Ferdinando I d’Aragona, alias Ferrante, re di Napoli dal 1458 al 1494.

La fabbrica merlata che si vede al centro simboleggia il casale e la sua importanza rispetto agli altri ma potrebbe alludere a qualche opera di difesa sponzorizzata dal sovrano (contro gli assalti dei Turchi?). Di più difficile interpretazione, almeno per me, sono le quattro chiavi disposte in due coppie a formare due croci di S. Andrea. Una volta escluso qualsiasi riferimento di carattere religioso (negli stemmi papali sono due) dovrei pensare ad un significato laico: quasi una consegna simbolica della città nelle mani del sovrano? E perché due coppie?

Non è finita, perché nella seconda chiave della seconda coppia la parte che entra nella toppa è in posizione opposta rispetto alla stessa parte della seconda chiave della prima coppia: tale dettaglio ha un qualche significato oppure, come credo, lo spostamento si è reso necessario per lasciare spazio alle tre lettere sottostanti?

Ciò che è indiscutibile, comunque, nell’epigrafe è il suo piglio decisamente campanilistico e la sua doppia importanza storica dal momento che costituisce uno dei rari esempi di volgare in terra salentina. Metricamente l’epigrafe può essere considerata un distico in cui ognuno dei due versi, rimati fra loro (animali/casali), è formato da due settenari. Se li dispongo separatamente vien fuori:

Como lu lione eti

o re dell’animali,

cusì Menerbino eti

o re de li casali

e, oltre alla rima animali/casali vien fuori anche la parola-rima eti.

Ringrazio fin da ora chi, avendo avuto occasione di esaminare l’epigrafe, è arrivato a qualche conclusione o è venuto a conoscenza di qualche studio fatto al riguardo e vorrà cortesemente rendercene partecipi.

Chiudo intanto con qualche immagine relativa a quello che dovrebbe essere, salvo clamorose svolte, il protagonista dell’epigrafe: il re Ferrante.

 L’immagine è tratta da Armand Adolph Messer, Le codice aragonese, Champion, Parigi, 1912. Nella didascalia si dice che è il disegno del busto in bronzo attribuito a Guido Mazzoni (1450-1518) e custodito nel Museo Nazionale di Napoli (immagine successiva).

I tratti somatici sono confermati dai documenti numismatici. Mi limiterò a due monete.

Coronato coniato dal 1472 al 1488 circa; al dritto il busto del sovrano con il motto CORONATUS Q(UI)A LEGITIME CERT(AVI)=coronato poiché legittimamente combattei; al rovescio la croce potenziata e la legenda FERDINANDUS D(EI) G(RATIA) R(EX) SICI(LIAE) IE(RUSALEM) U(NGARIAE)=Ferdinando per grazia di Dio re di Sicilia, Gerusalemme, Ungheria.

Ducato coniato nello stesso periodo del precedente coronato. Al dritto il busto del sovrano con il motto RECORDAT MISERICORDIE S(UAE)=si ricorda della sua misericordia; al rovescio stemma coronato quadripartito palato al 2° e al 3° con legenda, già vista nel precedente esemplare, FERDINANDUS D(EI) G(RATIA) R(EX) SI(CILIAE) IE(RUSALEM) U(NGARIAE).

Curiosa è la rappresentazione dello stemma che appare specularmente invertito nel foglio 12r di un’edizione manoscritta della traduzione del Panegirico di Traiano di Plinio il giovane  dedicata a Ferrante da Lippo Brandolini (1454 circa-1497) e custodita nella Biblioteca Nazionale di Francia (Dipartimento dei manoscritti italiani, manoscritto n.  616), integralmente leggibile e scaricabile al link

http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8433304h/f33.item

da cui ho tratto l’immagine che segue.

Ritornando per l’ultima volta, almeno in questo post,  alla nostra epigrafe, come faccio a non sospettare un suo collegamento con il nomignolo che i Minervinesi si portano appresso da chissà quanto tempo: cappiddhuzzi (cappellucci)? Come tutti i nomignoli di questo tipo, appioppati dagli abitanti dei centri vicini, ha una valenza dispregiativa e vuole stigmatizzare l’eccessiva importanza che i Minervinesi attribuivano al loro territorio ed a se stessi. E il cappello (cappièddhu, di cui cappiddhuzzu è diminutivo), copricapo nobile rispetto alla coppola (còppula), diventa l’emblema del sarcasmo, per giunta aggravato dal diminutivo. Poi, siccome la cattiveria popolare non ha limiti, fu fatta circolare una seconda versione che più che di boria tacciava i Minervinesi di stupidità: una volta sarebbe giunto a Minervino un venditore di cappelli che avrebbe convinto gli abitanti a consegnargli i loro cappelli vecchi con la promessa che con una spesa irrisoria li avrebbe rimessi a nuovo. A chi gli rimproverava di ritardare la restituzione affermava di avere pazienza finché non li avesse raccolti tutti, tanto li avrebbe rimessi a nuovo tutti insieme in pochissimo tempo. Non appena a Minervino non rimase neppure un cappello da rimettere a nuovo, il cappellaio sparì …

 

(pubblicato su Il Delfino e la Mezzaluna n°3-2014)

 

 

Il naufragio del traghetto nel Canale d’Otranto: i limiti di un Paese e di una società

castro-marina

di Rocco Boccadamo

 

Domenica 28 dicembre, al fine d’adempiere al precetto festivo, mi sono, al solito, recato a Castro. A distanza d’un giorno, in questo momento, mi viene in mente che, nell’occasione, stranamente, non mi sono fermato all’altezza del belvedere che si schiude dirimpetto al castello aragonese, in modo da rivolgere lo sguardo da quella postazione privilegiata, come immancabilmente faccio, verso la distesa del Canale d’Otranto, nitidamente delimitato ad oriente, specie quando l’aria è tersa, dai rilievi del Paese delle Aquile.

Così è successo, forse, giacché pioveva, era grigio, insomma le condizioni atmosferiche non m’ispiravano molto l’approccio visivo ed emotivo con lo spettacolo dell’amata e familiare superficie d’acqua, tante volte, sia pure sotto costa, solcata alle manovre della mia barchetta a vela e, in più, ad ogni occasione, cantata, descritta, vagheggiata.

Chi, mai, quand’anche estimatore innamorato del lenzuolo d’onde in questione, avrebbe potuto immaginare la tragedia e le difficoltà che, in quelle ore, si stavano materializzando proprio lì, a poche decine di  miglia di distanza, con un traghetto in fiamme traballante su un mare molto mosso e, soprattutto, recante a bordo centinaia di persone, come sequestrate, al freddo e sotto l’insidia d’immani fiamme che divampavano nel ventre della nave, incontenibili sino al punto di rendere incandescenti i pavimenti dei vari ponti, oltre che d’emanare cascate a salire di fumi maleodoranti.

Certo, disgrazie e/o incidenti del genere si possono verificare, andare per mare comporta di per sé, potenzialmente, un rischio, la forza e l’imprevedibilità degli elementi naturali non sono un’invenzione del cronista, bensì realtà esistenti da sempre.

Ad ogni modo, nella specifica circostanza, a colpire lasciando trasudare terrore e sgomento, non è il fatto a sé stante, sebbene abbia pur implicato il consumo doloroso di alcune vite umane.

Ciò che si configura alla stregua d’un pugno nell’occhio, un calvario, un dramma nel dramma, è stato invece registrato sul fronte degli interventi – tra precarietà, contrordini, esitazioni, contraddizioni – immediatamente dopo l’ordine del comandare di evacuare la nave.

E, non ci si trovava in mezzo a un oceano sperduto senza confini, ma in un ridotto specchio di mare, addirittura in un punto da cui è dato di scorgere i profili della terraferma, su una sponda e sull’altra del Canale.

Malgrado tale e tanta prossimità e, quindi, i tempi oggettivamente non estesi necessari perché i soccorritori si portassero sul luogo, tristissima si è rivelata l’odissea di quei passeggeri, più, ovviamente, i membri dell’equipaggio, intrappolati sul ponte alla sommità della nave, con lo scafo ondeggiante tra i miasmi del fumo, sotto il freddo (si è alla fine di dicembre, i Monti Balcani non lontani dal sito del naufragio), le ore sono andate passando a iosa, i primi fortunati giunti ad essere sbarcati hanno fatto cenno al “rischio di fare la fine del topo in trappola”, all’assenza assoluta di soccorsi per lungo tempo,  ad un equipaggio che non capiva nulla, ad un clima di  disorganizzazione generale.

E’ proprio vero che, come è giusto e ordinario che avvenga in un paese moderno, l’Italia dispone di mezzi all’avanguardia e sufficienti per ogni evenienza, guardacoste, aerei, elicotteri, navi militari, sistemi di soccorso, apparati idonei a far fronte alle emergenze, assoluta sintonia fra le forze chiamate a intervenire?

E’ vero o, al contrario, ci s’illude che così sia, mentre, in realtà, la musica è ben diversa e, però, bisogna pur sempre e comunque cercare di conferire attendibilità al nostro proclamato ruolo e standing di paese civile e ricco?

Tutt’altro che domande, dubbi, interrogativi di spessore peregrino in tal senso e sull’argomento, atteso che, fra la stesura delle presenti note, le quali sgorgano dall’animo del comune osservatore di strada, e il primo insorgere dell’incendio sul traghetto, sono trascorse circa quaranta ore e, ciononostante, a quanto s’apprende in tempo reale, manca ancora all’appello uncospicuo numero di persone disperse, anche se costituenti l’equipaggio, da salvare e da trasportare a terra.

Si è parlato di mare mosso, vento forte, condizioni oggettivamente proibitive e, nondimeno, occorre rimarcare che c’era un pericolo in consumazione a cielo aperto, a un palmo di mano dalla terra sicura e dalle risorse disponibili.

A quest’ultimo riguardo, mi viene di ricordare, mutuando tale particolare da una recente e purtroppo assai più grave tragedia sul mare, che, ad esempio, la “Costa Concordia” aveva in dotazione ventisei scialuppe di salvataggio, ciascuna capace di imbarcare e portare a salvamento centocinquanta persone.

Ora, come non domandarsi se, domenica 28 dicembre, nessun‘altra “Costa Concordia” o giù di lì si trovasse nell’ambito del Canale d’Otranto, del vicino Ionio o dei restanti tratti dell’Adriatico, per un intervento maggiormente incisivo e un più veloce prelievo degli innocenti, rannicchiati sulla terrazza del traghetto, a soffrire così a lungo il freddo e la paura?

E’ comprensibile e giustificabile che ci si sia limitati a togliere dall’ambascia, dal patimento e dal pericolo i malcapitati passeggeri con prelievi di una persona per volta, a mezzo dell’elicottero fermo in verticale sul traghetto?

Non abbiamo, forse, assistito, in un’interminabile serie e per lunghi anni, ad operazioni di soccorso e di salvataggio, nel più vasto Canale di Sicilia anche in condizioni meteo marine avverse?

Come mai, in questo caso, l’insieme ha dato l’impressione di un limite, una precarietà nella situazione, con cambiamenti di programma sui posti sicuri dove far dirigere il mezzo incidentato?

A chi scrive, ha fatto male anche un piccolo particolare, ossia a dire la comunicazione del numero, ad una certa ora di ieri sera, dei passeggeri ancora in attesa sul traghetto: una prima fonte parlava di centocinquanta persone, una seconda, di trecento otto: e dire che si trattava di esponenti ed organismi facenti parte della medesima amministrazione statale impegnata nell’intervento a beneficio dell’incidente.

A confessare un’altra verità, non è minimamente piaciuto il consueto cinguettio del nostro Capo del governo “L’Italia è orgogliosa della vostra tenacia. Sarà una lunga notte: intanto, grazie!“. Da lui, col suo forsennato dinamismo, decisionismo, desiderio di essere sempre e in ogni dove protagonista, di apparire, ci si sarebbe aspettato, sarebbe stato logico e naturale, non un componimento verbale sul web, ma un salto immediato,  un volo materiale e concreto da Roma o dalla natia Toscana verso il Canale d’Otranto, , dove portarsi fisicamente, dentro un elicottero, a contatto con i malcapitati: “Coraggio, ci sono io qui, sarete condotti presto e tutti sulla terraferma, in salvo e presto scorderete la vostra disavventura”.

Così succede il più delle volte in Italia, siamo bravissimi, si parla, si parla, mentre i fatti concreti latitano e/o sembrano affidati e rimessi a mera disordinata improvvisazione.

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°   °   °

Domenica 28 dicembre, ricorreva la festa liturgica dei SS. Innocenti, martiri per opera d’un lontanissimo tiranno. Guarda la coincidenza e la concomitanza, come drammatico episodio di cronaca d’attualità, si è inserita la grave vicenda, per fortuna non devastante strage, di centinaia d’innocenti pedoni del mare.

Domenica 28 dicembre, si celebrava anche la festa della Sacra Famiglia, famiglia intesa non soltanto come composizione di persone all’interno di singole mura domestiche, ma nel senso allargato di paese, di società in genere, in ogni caso un consesso che sia fondato soprattutto sul principio della mutualità e della solidarietà, a prioritario vantaggio dei deboli, di chi soffre o versa in condizioni di pericolo.

In conclusione di queste righe, desidero estrinsecare una mia personale riflessione, suscitata, da un lato, dalla partecipazione, in veste di credente, al precetto richiamato all’inizio e, dall’altro, dall’episodio del traghetto in pericolo, ancora sino a questo momento, nel canale d’Otranto: con l’auspicio, ovviamente, che la disgrazia rientri rapidamente e definitivamente e, soprattutto, senza ulteriore aggravio in termini di perdita di vite umane

Penso, anzi sono convinto, che, solamente se sapremo riconoscere che, dall’incendio e dal naufragio del “Norman Atlantic”, usciamo idealmente sconfitti un po’ tutti, a partire da domani riusciremo a invertire o almeno a modificare la rotta dei nostri comportamenti, aprendola al godimento di stagioni d’autentica crescita, nel modo d’essere uomini e di relazionarci fra noi.

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