Infatti, grammaticalmente parlando, sono entrambi infiniti presenti, ma il primo è passivo, il secondo attivo. Secondo me non esiste altro verbo la cui diatesi (passiva o attiva, appunto) esprima meglio la condizione dell’uomo del nostro tempo. Abbiamo strumenti formidabili che ci consentono di entrare in comunicazione a distanze prima inimmaginabili con gli altri o di assumere dati, immagini, suoni (fra poco, forse, anche profumi e, naturalmente, puzze …) e poi, in una sorta di perversione psico-tecnologica con punte di esibizionismo spesso di natura imitativa, usiamo facebook o simili per esprimere un sentimento, di qualsiasi natura, nei confronti, magari, di una persona che fisicamente sfioriamo ogni giorno, trattandosi di un componente e convivente della nostra famiglia. La tecnologia, annientando quello che si chiama pudore del sentimento, ha permesso a tutti di soddisfare il teoricamente legittimo diritto ad una piccola fetta di notorietà, insomma, di apparire, anche se parecchi (forse, chiedo scusa per la presunzione che filtra dall’avverbio, io in primis …) farebbero meglio a non comparire e qualcuno (rileggi ciò che è scritto nelle parentesi precedenti), addirittura, a scomparire.
Alessandro Manzoni scrivendo I promessi sposi rimproverava alla storia di scrivere le sue pagine non tenendo conto degli umili e lo stesso concetto celebrerà in versi poco più di un secolo dopo Bertolt Brecht nella celeberrima Domande di un lettore operaio, il primo trovando conforto nella fede, nella promessa di compensazione nell’al di là e beccandosi da parte dei non credenti l’accusa di illusorio paternalismo, il secondo vedendosi appiccicata addosso l’etichetta di comunista, quando sarebbe bastato riflettere sui due versi finali (Tante vicende./Tante domande.) per comprendere come il poeta e l’uomo, anticipando ciò che ancora oggi a stento si distingue, aveva una fiducia, per quanto amara, nell’ideale, non nell’ideologia.
Se ogni potere, compreso quello religioso, fosse interpretato come servizio da espletare con sacrificio e non come, al contrario, vale semanticamente nella frase ti faccio un servizio così … (sarà derivata dal gioco del tennis? e ti faccio un mazzo così, sarà connessa con l’omaggio floreale dei funerali?), l’umanità veramente vivrebbe, senza che nessuno attenda la morte per avere giustizia, una seconda età dell’oro, ammesso che ci sia veramente stata la prima … E sotto questo punto di vista io non sto con Manzoni ma con Brecht.
Dopo questo deragliamento pseudo socio-psico-politologico (polito sì, dirà qualcuno, logico meno …) torno all’assunto del titolo e concludo dicendo che l’essere connesso dev’essere uno stimolo in più per il cervello, non la causa della sua parziale atrofia; e il link (di origine protogermanica, ma secondo me potrebbe avere collegamenti con il latino ligare, da cui il nostro legare) in particolare non dev’essere un surrogato delle sinapsi cerebrali ma uno stimolo a farle funzionare al massimo del rendimento. Essere connesso, dunque, deve liberarsi della sua valenza grammaticale passiva, se non vogliamo che essa annienti nella realtà quella attiva insita in connettere.
Poi ci sarà sempre il solito furbo che, magari, grazie pure alla scritta sulla camicia (quella sulla felpa, ormai, è inflazionata …) penserà di rimediare.
Nato con la macchina fotografica tra le mani: intervista ad Aristide Mazzarella
Da quando ho cominciato a raccontare gli artisti del Salento ho conosciuto prevalentemente pittori e scultori. Poi, durante una delle tante chiacchierate con l’amico Marcello Gaballo – dal quale ogni volta emergono decine di idee entusiasmanti – egli mi ha persuaso ad allargare lo spettro delle mie attenzioni su altre forme d’arte, suggerendomi, tra gli altri, il nome di Aristide. Poiché di quest’ultimo possedevo esclusivamente il contatto Facebook, ho messo in conto di realizzare la presente intervista non appena si fosse palesata l’opportunità di conoscerlo di persona. Le occasioni certamente non sarebbero mancate.
In un torrido 14 agosto, partecipando al matrimonio di un mio carissimo amico dove lui era stato ingaggiato come fotografo ufficiale, finalmente ci siamo presentati.
Devo essere onesto: avendolo incrociato poche volte per strada, quando in auto si è accigliati e incazzati col mondo, dall’espressione che mi pareva di cogliergli attraverso i vetri del suo enorme Range Rover, avevo sempre immaginato Aristide come un personaggio burbero e introverso invece, già dalle primissime battute, si rivela affabile e ironico.
Al mio invito accetta immediatamente la proposta di scambiare quattro chiacchere e dopo qualche giorno lo raggiungo.
Entro in questo stanzone che è il suo studio fotografico, le cui pareti sono tappezzate da ritratti di personaggi più o meno famosi, frammenti di cerimonie e misteriosi scatoloni di cartone impilati su grandi scaffali. Poi riviste, album, computer e attrezzature varie.
Ci accomodiamo. Lui, emblematicamente, su una sedia da regista.
D.:
Sono tante le domande che vorrei porti ma la prima, quella che più mi intriga, è il rapporto della tua famiglia con la fotografia. È una relazione antica che rifugge dallo sdoganamento degli Smartphone con fotocamera incorporata e della sovrapproduzione di immagini “usa e getta”, veicolate perlopiù dai Social Network. Mi chiedevo, quindi, dove affondano le radici di questa tua passione così longeva e di successo?
R.:
Tengo molto a questo aspetto e cioè al fatto che l’interesse per la fotografia sia un attributo che oserei definire genetico. A tal proposito, anche se non l’ho mai conosciuto, ho piacere a citare mio zio Pasquale Giuri, fratello di mia nonna, che imparò a fotografare già agli inizi del novecento insieme Luigi Mancino. In realtà non ho molte notizie da darti sul personaggio in questione, anche se conto di interpellare alcuni parenti di Presicce (LE) – paese nel quale si trasferì presumibilmente dopo il matrimonio – per indagare meglio su questa figura che sento molto vicina a me. È divertente sapere che proprio zio Pasquale e mio nonno studiavano insieme in seminario per diventare preti ma rinunciarono congiuntamente al proposito poco prima di prendere i voti. Di seguito mio nonno conobbe la sorella di Pasquale che ben presto sarebbe diventata sua moglie.
Più volte mi sono ritrovato a fantasticare su quest’uomo vissuto a cavallo tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento il quale, armato di banco ottico, scelse di sperimentare la fotografia proprio nel Capo di Leuca. Immaginiamo per un attimo il clima storico nel quale queste rare figure operavano ed erano venerate dai loro clienti dell’epoca: a partire dai signori nobili che li andavano a prendere in carrozza per un ritratto, sino ai lavoratori delle classi più umili ai quali esigeva la fototessera per il documento di identità.
Proprio per venire incontro alle ristrettezze economiche degli operai, Pasquale doveva escogitare degli espedienti.
In questi casi, per cominciare, oltre trenta persone venivano posizionate sulle scalinate di un palazzo o di una chiesa e ritratte su lastre enormi in uno scatto di gruppo a lunga esposizione (le pellicole allora erano estremamente lente), per poi ritagliare ogni singolo volto. Ma non si ritagliavano certo con Photoshop! Per proiettare l’immagine su grandi fogli di un metro si utilizzava un ingranditore che sfruttava la luce del sole attraverso un tappo alla finestra, e il compito di mio padre, che naturalmente iniziò con lui a fare esperienza, era quello di controllare dal tetto che non passassero nuvole a variare l’esposizione della foto sulla carta rovinandola.
Erano mezzi a dir poco rudimentali se paragonati alla tecnologia moderna ma vi era intuito e studio.
D.:
Ero certo che mi avresti raccontato degli aneddoti caratteristici e interessanti. Di tuo padre, Egidio Mazzarella, invece cosa mi racconti?
R.:
In seguito, tra il ’55 e il ’56, mio padre ebbe la fortuna di svolgere l’attività di fotografo anche durante il periodo del servizio militare poiché, in quell’ambito, data la sua già discreta preparazione, gli venne offerta la possibilità di seguire un corso di fotografia. E i corsi professionali in quegli anni non erano certamente inflazionati come lo possono essere oggi.
Inoltre riusciva a integrare il modesto stipendio con qualche lavoro svolto in ambito civile così, rientrato dalla leva, pensò di farne la sua professione.
D.:
Quanto ha influito l’avere avuto zii e padre fotografi nell’intraprendere il tuo percorso professionale e artistico?
R.:
Non nego che nascere in una famiglia del genere abbia esercitato una qualche rilevante influenza, se non altro per il fatto di crescere tra obiettivi e rullini, ma questo non significa che io abbia intrapreso la carriera perché prima di me c’era mio zio o mio padre: la fotografia mi ha letteralmente travolto, folgorato sin da quando ho iniziato a percepirne il potere. La passione che covavo dentro è stata conservata immutata attraverso gli anni, forse è anche aumentata.
Ciò che è andato scemando ultimamente, lo devo dire, è l’entusiasmo di lavorare. Ma in questo caso è la situazione sociale – responsabilità in gran parte della politica – ad avermi condizionato negativamente. Perciò, se non ci fosse stata prima di tutto la grande passione a motivare le mie scelte, non sarei riuscito a proseguire con rinnovato vigore.
D.:
Tu appartieni a quella generazione di fotografi che ha sperimentato il passaggio dall’analogico al digitale: se ci sono, quali le evoluzioni in termini qualitativi?
R.:
Intanto definiamo cos’è la qualità: c’è la qualità strettamente fotografica nella quale incorporiamo la risoluzione, la gamma dinamica e tanto ancora; poi c’è un altro tipo di qualità che è quella legata alla praticità e alla velocità di confezionamento del prodotto.
Le differenze ci sono certamente, questo è innegabile, ma commetterei un grave errore se paragonassi questi due sistemi di fotografia che sono destinati a rimanere diametralmente differenti. Io non sono un tradizionalista e da questo punto di vista ritengo che col digitale la fotografia abbia fatto dei notevoli passi in avanti, almeno per ciò che concerne l’aspetto qualitativo dell’immagine.
Tuttavia, se si vuol fare un confronto a ogni costo, si faccia sempre attenzione a mettere sui piatti della bilancia macchine dello stesso livello; sarebbe insensato paragonare una Hasselblad con lenti tedesche Carl Zeiss, regina delle macchine fotografiche a pellicola, con una fotocamera bridge o peggio ancora una digitale compatta.
Per restare sulla Hasselblad – che fu la macchina fotografica con la quale Neil Armstrong scattò le foto sulla luna – va necessariamente raffrontata a una macchina della stessa azienda costruttrice ma digitale, che oggi arriva ad avere oltre 80 milioni di pixel e che per questa ragione richiede particolari e potenti computer affinché si possano elaborare dei file che pesano circa 200 mb.
D.:
E nella lavorazione del prodotto quali cambiamenti hai constatato?
R.:
Anche qui i vantaggi sono numerosissimi. Ad esempio all’epoca delle pellicole, usando una Hasselblad durante un matrimonio, si aveva a disposizione un rullino da 12 pose che andava sostituito ogni volta. Quindi, per ragioni di tempo ed economia, si riuscivano ad ottenere non più di 400 scatti durante tutto l’evento, mentre oggi, con una scheda di memoria, puoi arrivare a realizzare circa duemila scatti. Già solo questa è un’oggettiva evoluzione. Successivamente la Reflex da 35 mm, che affiancò la medio formato, permise di fare 36 pose con un solo rullino. E c’era un motorino a parte per le foto a raffica. Preistoria!
La Rolleiflex, mitica macchina dei paparazzi de La dolce vita di Fellini, era una macchina biottica che aveva il cosiddetto errore di parallasse, cioè una piccola differenza tra ciò che tu vedevi nell’obbiettivo e quello che in realtà la macchina impressionava sulla pellicola; a stare troppo vicino al soggetto si rischiava di tagliarne una parte.
Ancora, tra i progressi che hanno rivoluzionato il modo di fare fotografia, c’è lo schermo – inteso sia quello della macchina che il monitor del pc – divenuto ormai uno strumento irrinunciabile col quale valutare immediatamente la buona riuscita di una foto. Dieci anni fa, invece, si era costretti a fare i provini 10 x 10 coi quali far scegliere agli sposi le foto preferite per la stampa.
Infine un capitolo a parte andrebbe dedicato ai software per il fotoritocco, intanto per capire fino a che punto è eticamente giusto spingersi nell’elaborazione di una fotografia.
Di base io sono contrario ai troppi artifizi ma non mi sento affatto in colpa se talvolta mi capita di intervenire su un’immagine eliminando le occhiaie sul volto di una sposa reduce da una nottata insonne o gli aloni di sudore sulla camicia di uno sposo convolato a nozze in piena estate.
Se gli strumenti che abbiamo oggi a disposizione ci permettono di correggere alcuni dettagli non vedo motivo per cui non gli si debba sfruttare.
D.:
Nella tua grande produzione troviamo generi diversi e diversi esempi di fotografia in un ventaglio variegato di soggetti ritratti. Qual è la differenza che passa tra l’esercitare questo mestiere artisticamente e farlo su commissione?
R.:
La risposta è molto semplice perché la fotografia artistica è quella che fai per te stesso, quella che senti più tua nell’attimo in cui congeli la porzione di realtà nell’obbiettivo. Viceversa lo stile della fotografia commerciale lo detta il cliente, per cui il compito del fotografo è anche quello di cercare di appagare le molteplici aspettative. Nella mia carriera, laddove è stato possibile, ho cercato di assolvere a questo compito in una maniera professionalmente accettabile, nel rispetto delle preferenze della committenza ma senza tradire lo stile contaminando il mio gusto personale.
Ovviamente non sempre questa è la regola e io dico che c’è una proporzione inversa tra i commenti del cliente durante il mio lavoro e la buona riuscita dello stesso, ovvero: meno parla e meglio è!
D.:
Colgo l’occasione di questa chiacchierata per farti i complimenti per lo scatto col quale hai ritratto piazza Salandra a Nardò (LE), quello che poi è diventato l’ormai riconoscibile icona del calendario eventi della città. Rientra nella sezione arte o commissione?
R.:
Decisamente arte. Ricordo perfettamente che quella sera ero stato a cena con degli amici e rincasando decisi di passare dalla piazza. Erano le tre del mattino e non c’era un’anima, così andai di proposito in studio a prendere la macchina fotografica e scattai quella foto.
Quando l’assessore – che era alla ricerca di una immagine per il cartellone degli eventi – la vide per la prima volta non gli piacque molto, tant’è vero che ci misi diverso tempo a persuaderlo poiché ne voleva un’altra realizzata sempre da me ma con una macchina più limitata o con un obiettivo diverso. Inoltre nella seconda, quella che più andava a genio al politico, vi erano delle automobili parcheggiate, ciò che ho sempre ritenuto essere un pugno nell’occhio di quella piazza così magica.
Vado molto orgoglioso di quel lavoro; sono già passati quattro anni ma la grafica utilizzata dall’amministrazione è invariata.
D.:
In effetti per molto tempo quell’inquadratura ha rappresentato, più che la realtà, l’idea di come avremmo voluto vedere la piazza e il borgo antico in generale, senza traffico e senza auto abbandonate in maniera incivile. Credi di aver contribuito, con quella figurazione, a creare nell’immaginario collettivo una sensibilità e un modo nuovo di leggere e immaginare il centro storico?
R.:
Molto probabilmente ora peccherò di immodestia ma si, sono certo che la pubblicazione di quella mia foto abbia innescato, quanto meno, una reazione dopo la quale a Nardò, a seguito di decenni di stasi, si è cominciato non solo a parlare di centro storico in maniera diversa ma anche ad agire; la chiusura al traffico adottata da pochi mesi a questa parte ne è forse la prova lampante.
Naturalmente non è mia intenzione accreditarmi risultati che non mi appartengono, lode al merito anche delle attività che resistono e si stanno dando da fare per rendere quel luogo vivibile e attraente, ma certamente tanto è cambiato dalla prima volta che resi nota quella foto su Facebook e Flickr, ricevendo un notevole riscontro in termini di like e tanti commenti di apprezzamento.
Da allora registi, cantanti e artisti vari hanno trovato finalmente Nardò sulla cartina d’Italia.
D.:
Oggi Facebook, Instagram, ecc. sembra abbiano scoperto migliaia di “artisti” della fotografia ma chi lo fa in maniera seria e professionale come te che rapporto ha con i Social Network?
R.:
La mia prima impressione è che i Social stiano veicolando e omologando i gusti della gente. Voglio dire che non si può valutare una fotografia dal numero dei like ricevuti perché può capitare che un tale con pochi contatti abbia condiviso un capolavoro di foto ma passata quasi inosservata. O ancora peggio sono quei presunti concorsi fotografici in rete dove vince chi riesce a convincere più amici a cliccare “mi piace”.
Ciò che è veramente assurdo è il comportamento di alcuni colleghi professionisti che valutano il proprio lavoro non dal punto di vista concreto, seguendo parametri oggettivi ma che affidano i loro scatti al giudizio arbitrario degli utenti. Personalmente utilizzo Facebook per sponsorizzare la mia pagina, lo ritengo semplicemente un modo come un altro per farsi pubblicità senza spendere grandi cifre.
Ogni tanto però bisognerebbe staccare la spina per qualche mese e guardare la bellezza intorno a noi senza l’ossessione del pollice in su. Bisognerebbe leggere più libri prima di sentirsi poeti, visitare più musei prima di sentirsi artisti, ascoltare più musica prima si sentirsi compositori.
D.:
Ti ha mai sfiorato il dubbio che il tuo mestiere fosse superato?
R.:
Dopo l’avvento della digitalizzazione, degli I-Phone mi è capitato di mettere in discussione me stesso, di pensare che forse non servisse più la figura del fotografo, ma poi mi sono guardato indietro attraverso la storia professionale della mia famiglia e anche la mia: in trent’anni di attività ho fatto di tutto, ho usato quasi tutti i tipi di macchine fotografiche e telecamere, inoltre sono stato direttore della fotografia in un film e regista in un cortometraggio. E poi la cosa più bella è che, nonostante ho trascorso tutti questi anni a studiare, a ricercare, ogni giorno trovo in questo mondo degli stimoli e delle occasioni di crescita.
La domanda che mi sono fatto è stata: sono tutti dei geni oggi, che inforcato un telefonino hanno tutto ciò che gli serve per sentirsi arrivati? La risposta che ho trovato mi ha sollevato dal peso dei dubbi.
D.:
Ho intravisto delle fotografie incantevoli scattate in Danimarca. Come ti sei ritrovato lì?
R.:
La prima volta ci andai da ragazzo fu perché ci viveva la mia fidanzata di allora e scoprii un luogo che mi colpì molto per quei luoghi caratteristici, le luci all’interno dei pub sempre molto calde, con candele accese anche di giorno. Mi rimase nel cuore e di recente ci sono ritornato con mia moglie.
D.:
A parte quelli della tua famiglia, hai dei personaggi di riferimento?
R.:
Se intendi riferirti al mondo della fotografia, il primo che mi viene in mente è Henri Cartier-Bresson, su di lui non si discute. Poi c’è Helmut Newton col quale, nel 1989, ebbi l’onore di essere pubblicato affianco nelle pagine della rivista mensile Max. Quell’anno lui aveva realizzato il calendario proprio per il famoso periodico di moda e io, che ero stato ingaggiato per il servizio fotografico di uno sponsor del giornale, ebbi la fortuna e l’onore di essere pubblicato con delle foto in bianco e nero accostate alle sue.
In ogni caso, sembrerà strano, più che per i fotografi ho nutrito sempre grande ammirazione per i registi, non a caso il mio idolo resta Stanley Kubrick, nato comunque come fotografo e affermato solo in seguito nel cinema. Poi anche Alan Parker mi piaceva molto e mi coinvolge Tornatore; Nuovo Cinema Paradiso l’avrò visto una cinquantina di volte.
D.:
So che sei stato amico del produttore cinematografico Carmine De Benedittis, il primo ricordo che ti viene in mente di lui?
R.:
C’è una foto di Carmine molto famosa che ho scattato nel 2007, durante la campagna elettorale nella quale era in corsa per la carica di sindaco di Nardò. Quel giorno venne a trovarmi di volata, sempre pieno di impegni com’era, per un lavoro che stava curando. Io colsi l’occasione, quasi costringendolo proprio perché doveva scappare, per fargli una istantanea sfruttando un raggio di sole che reputavo molto congeniale. Ricordo che appena la vide se ne innamorò talmente tanto da buttare tutti i manifesti che aveva già fatto stampare pur di utilizzare quella fotografia.
D.:
Ci sono pittori che ti hanno condizionato con la loro arte?
R.:
La pittura ha sempre avuto un forte ascendente sul mio modo di ritrarre il mondo e le persone.
Ho visitato il Metropolitan Museum di New York e ricordo perfettamente il sentimento di stupore che mi pervase la prima volta che entrai all’interno del Museo del Prado a Madrid, stando al cospetto dell’opera Las Meninas di Diego Velázquez. Ero lì lì per scavalcare la transenna tanto era forte il disorientamento dinanzi a così tanto realismo.
Mi piacciono molto Caravaggio, Rembrandt, Jan Vermeer per l’utilizzo che fanno della luce. Trovo la Gioconda di Leonardo di un’attualità disarmante pur nel suo apparente immobilismo; un esempio autorevole per quei colleghi fotografi che confondono la spontaneità col movimento.
Adoro Picasso per quell’idea di crescita e di evoluzione stilistica che riesce a trasmettere se si conosce tutta la sua produzione, a partire dal figurativo. Mi fa riflettere sul fatto che ognuno di noi, nel proprio campo, dovrebbe provare ad essere anticonvenzionale solo dopo aver sperimentato la normalità.
D.:
Quali sono, secondo te, i fattori che determinano la notorietà di un fotografo?
R.:
Se li conoscessi forse sarei più popolare!
Battuta a parte, credo che il luogo in cui si sceglie di vivere e lavorare, le persone che si frequentano, siano alla base del raggiungimento del successo, artistico o professionale che sia. Se resti a Nardò, come ho fatto io, al massimo puoi essere popolare per quel limitato raggio geografico o poco più.
D.:
Mi pare che tu non abbia avuto molti collaboratori eccetto Marco Scorza che ti segue da anni. È difficile trovare qualcuno a cui trasmettere il proprio sapere?
R.:
Avere avuto Marco al mio fianco è stato di grande supporto in tanti momenti, se non ci fosse stato avrei dovuto inventarlo. Adesso è in procinto di aprire il suo studio e io sono contentissimo per lui perché è stato perseverante nell’apprendimento e ora è giusto che sia arrivato il suo momento.
D.:
Quali sono i tuoi progetti imminenti?
R.:
Lo dico per la prima volta che sto lavorando alla stesura di un film insieme al mio carissimo amico Pierluigi Parisi, ma non voglio aggiungere altro. Spero molto di realizzarlo e vi terrò aggiornati.
D.:
In bocca al lupo per i tuoi sogni!
Ora un’ultima domanda per concludere questo piacevole excursus attraverso uno spaccato di vite che copre oltre un secolo: cosa non deve mai mancare nel bagaglio di un buon fotografo?
R.:
La cosa più importante che non deve mai venir meno non è uno strumento ma è la verità. La fotografia è arte e l’arte è poesia; se fingi non è niente di tutto questo.
Giovanni da Nardò, copista mediocre e versificatore maldestro …
Dante, Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Napoleone: sono alcuni dei casi, poco numerosi, in cui il solo nome è stato sufficiente per tramandare alla storia il ricordo di un uomo. Può capitare, però, che lo stesso succeda per persone non famose, almeno quanto quelle prima nominate, con la differenza che il loro cognome non ci è noto. È il caso di Giovanni da Nardò, del quale nulla sapremmo, nemmeno la mutila indicazione onomastica, se Leone Allacci (1586-1669) non si fosse imbattuto in un manoscritto stilato da Giovanni e non ne avesse fatto menzione nella sua opera Diatriba de Georgiis et eorum scriptis (prima edizione uscita a Parigi nel 1651), in cui, trattando di Giorgio di Corfù, fiorito al tempo dell’imperatore Emanuele Comneno (XII secolo), a proposito di un suo trattato sulla comunione2 così scrive3:
(C’era nella Biblioteca Barberina un libro abbastanza antico, lacero, scompaginato e pieno di errori, trascritto da Giovanni di Nardò nell’anno del signore 1036, come si evince dai versi malamente composti alla fine del libro, che sono: Grazie a te, Cristo, che hai donato la legge/al tuo ingrato servo Giovanni/; conservalo in salute e da ogni danno/che distrugge l’anima tienilo lontano con la tua potenza.
Il presente libro fu scritto dalla mano di Giovanni da Nardò nel mese di giugno il 13 venerdì alle 15 nell’anno 6544 nella nona indizione. Se detrai da questi i 5508 anni del mondo rimarranno 1036 anni dalla nascita di Cristo.
x) Non dubito che ci sia un errore nei numeri e che sia scritto ζφυδ 6744, cioè 1236 d. C. Certamente i trattati di Giorgio di Corfù, che scrisse a partire dal 1180 non potevano essere copiati dall’amanuense). Allacci citando i medesimi titoli dei libri di Giorgio ed i versi con la sottoscrizione nel libro 2 del De consensu c.11, §6, p. 664 mostra ζχμδ, cioè 1136 d. C. Ma anche così è evidente l’errore da emendare nel modo che ho detto).
Il neretino, dunque, sarebbe “fiorito”, stando alla correzione apportata nella nota x dal curatore dell’edizione dell’Allacci, verso la metà del XIII secolo.
Nella vita non si può ottenere tutto e non so se il nostro Giovanni avrebbe condiviso l’aforisma Non importa che se ne parli bene o male, l’importante è che se ne parli, se fosse vissuto ai tempi di Oscar Wilde o viceversa. Il giudizio dell’Allacci sulla sua competenza di copista, come abbiamo visto, è impietoso: il manoscritto sarebbe erroribus plenus (pieno di errori), come lo è quello sui quattro versi in greco definiti male conflati (malamente composti). C’è da pensare, dunque, che, se non fosse prevalso nell’Allacci il rigore documentario dovuto all’esperienza di bibliotecario, del copista di Nardò avremmo ignorato anche l’esistenza. Se sui presunti errori del manoscritto non posso pronunciarmi finché non lo avrò tra le mani (bisognerebbe prima vedere, come in nota ripeterò più avanti, se non è andato perduto; dimenticavo la cosa immediatamente dopo più importante: sarei in grado, oltretutto, di leggerlo correttamente?), debbo a malincuore confermare che i versi lasciano metricamente a desiderare. Nell’intenzione di Giovanni sarebbero dovuti essere trimetri giambici e, come mostra la scansione che segue, nella loro forma più semplice e “dimagrita”, in cui ogni verso è composto da 12 sillabe.
Tuttavia, come ben sa chi ha dimestichezza con la metrica, non basta il numero delle sillabe, è necessario che sia corretta anche la loro quantità. Il trimetro giambico non prevede la possibilità che un piede possa essere formato da due sillabe brevi, cosa che si verifica (sottolineature in rosso) due volte nel primo verso ed una nel secondo; non è prevista nemmeno la sequenza di una sillaba lunga e una breve (trocheo), cosa che si verifica (sottolineature in verde) due volte nel quarto verso. Insomma, si salva solo un verso (il terzo) su quattro, il che giustifica pienamente, purtroppo, il giudizio dell’Allacci.
Non fa testo, e non sposta di un millimetro tale giudizio, la forma in cui i versi di Giovanni vengono citati da Giovanni Bernardino Tafuri in Istoria degli scrittori nati nel regno di Napoli, tomo II, Mosca, Napoli, 1748, p. 381; troppi gli errori (sottolineature in rosso dei più eclatanti) e non tutti, credo, ascrivibili alla difficoltà di stampa, all’epoca, dei caratteri greci.
È difficile che decida di farmi monaco nel tentativo, ormai tardivo, di purificarmi, sia pure parzialmente, dalle tante colpe che la mia coscienza fortunatamente ancora mi rimprovera. Ma, se dovesse succedere per pazzia o per un’improvviso anelito mistico, mi auguro che Armando da Nardò lasci come copista un ricordo migliore di quello di Giovanni.
2 E non di una sua opera intitolata Modia, come si legge in Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel regno di Napoli, tomo II, Mosca, Napoli, 1748, pp. 380-382 (ho sottolineato in rosso la notizia che ci interessa).
Evidentemente il Tafuri ha scambiato (ma potrebbe essere anche errore di stampa) per Modia (che non significa nulla) il Monodia che l’Allacci cita come seconda opera di Giorgio di Corfù (riporto di seguito in formato immagine il dettaglio di p. 661 dell’opera dell’Allacci nell’edizione indicata nella nota 3).
(2. Aveva scritto inoltre un Canto sul Nettario già detto a mo’ di epistola per il giudice Nicola di Otranto; r) Nettario morì nel 1181 come risulta dall’Acindino).
Non è sufficiente questo riferimento al Nettario per ipotizzare che il nostro Giovanni facesse parte della squadra di copisti di Casole (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/03/da-casole-a-parigi/) o che, addirittura, quel manoscritto della Barberina (sarebbe bello, fra l’altro, sapere se ancora si trova lì o, meglio, nella biblioteca Vaticana, dove nel 1902 confluirono i manoscritti della famiglia Barberini, oppure se, addirittura, è andato perduto) provenisse proprio da Casole.
Dico subito che solo una scelta volontaria e non il caso ha voluto che lisciùsu comparisse in testa al titolo e, quindi, acquisisse il diritto di esibire la sua bella iniziale maiuscola, propiziando l’equivoco per cui il lettore, pur essendo salentino, potrebbe credere di trovarsi di fronte ad un personaggio, reale o inventato, il cui albero genealogico nasconde chissà che cosa.
La voce in questione, infatti, nel dialetto salentino è un aggettivo. Certo, avrei potuto scrivere Le insospettabili parentele di “lisciusu” ma credo che, così facendo, avrei avuto, bene che andasse, solo un paio di lettori. Poi, magari, nonostante questi sofisticati calcoli da avveniristica redazione giornalistica, le aspettative sarebbero state lo stesso deluse. Tenterò, almeno, di non avere recriminazioni e di non deludere il lettore, quell’unico lettore che, nonostante il caldo e l’argomento, mi gratificherà della sua attenzione, praticamente un eroe …
Son passati circa tre anni da quando Elsa Fornero accusò i giovani in cerca di primo impiego di essere troppo choosy. Si sviluppò una polemica feroce che secondo me sarebbe durata meno e sarebbe stata meno virulenta se l’allora componente del governo Monti avesse usato schizzinosi invece di choosy; è risaputo: i nostri giovani, e non solo loro, ormai, conoscono l’inglese meglio dell’italiano e molti dei critici, giornalisti compresi, avrebbero avuto serie difficoltà a comprendere il significato di schizzinoso; certo, ci sarebbe stato da tenere in conto una più che improbabile confusione, da parte loro, con schizofrenico, il che avrebbe generato una tempesta di minacce di querela e controquerela …
Comunque, è andata così e pure io debbo adeguarmi dicendo che a choosy corrisponde in dialetto salentino lisciùsu, che ha il suo corrispondente formale ed etimologico nell’italiano lezioso, con ulteriore sviluppo, però, sul piano semantico, giacché dall’idea di comportamento affettato, sdolcinato, svenevole e innaturale (insomma, un concentrato di ipocrisia …) connessa con lezioso si è passati a quella di comportamento schifiltoso, pieno di pretese, di gusti difficili connessa con lisciùsu. Per vedersi appioppare questa etichetta qualche decina di anni fa al ragazzo bastava far notare ai genitori (la cosa srà successa in totale due o tre volte …) che, magari, la mitica (sarebbe diventata tale col trascorrere del tempo, allora, quasi di regola, costituiva l’intera cena …) friseddha1 era troppo spunzata2 che i pomodori erano ìfari3 (acerbi) o, al contrario, squagghiàti (troppo maturi, alla lettera squagliati) e non milati (quasi maturi, color del miele).
Dello slittamento semantico da lezioso a lisciùsu (concentrato nel passaggio affettato>(ricercato)>di gusti difficili) ho detto; rimane da illustrare la loro comune etimologia. Lezioso è forma aggettivale derivata da lezio (vocabolo di basso uso, che significa moina, smanceria), a sua volta dal più antico lezia, fatto derivare comunemente, ma dubitativamente, per aferesi dal latino dilectio=amore, a sua volta composto da de=da+la radice del verbo lègere=scegliere. Altri autori, secondo me più convincentemente4, fanno derivare lezio, sempre per aferesi, dal latino arcaico (in quello classico si avrà il solo plurale delìciae) delìcia=delizia, a sua volta formato da de+làcere=attrarre (secondo una tecnica di formazione che ha dato pure da in+làcere il verbo illìcere=allettare ed il sostantivo illèctio=seduzione.
Lascio la parola a Nerino che, a quanto pare, ha capito tutto e del quale non posso dire neppure che è, nonostante le apparenze, lisciùsu, dal momento che, per farmi piacere, in caso di bisogno mangerebbe anche una pietra, se gliela dessi io …
* Faresti meglio a portarmi l’affettato, non a farlo …
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1 Per frisèddha basta digitare questa parola nell’apposita casella di ricerca nella pagina principale ed il lettore, di fronte alle risultanze, che costituiscono vera e propria antologia sull’argomento, proverà l’imbarazzo della scelta.
2 Imbevuta d’acqua come una spugna; spunzare è forma deverbale dal latino spòngia (da cui l’italiano spugna), a sua volta dal greco σπογγιά (leggi sponghià).
3 Le varianti tìferu di Calimera e tìfaru di Aradeo, Galatone e Tricase ci fanno capire che ìfaru è dal greco τρυφερός (leggi triuferòs)=tenero. Potrebbe sembrare contraddittorio il concetto di tenero che si concilierebbe piuttosto con quello di maturo; qui, però, tenero contiene solo un riferimento alla giovane età, all’immaturità, appunto.
4 La forma più antica, come s’è detto è lezia ed è più plausibile la trafila (de)lìcia(m)>lezia, mentre da (di)lectione(m) ci saremmo attesi lezione e, pur considerando il nominativo (di)lectio, avremmo dovuto avere prima lezio e poi lezia, e non, come s’è detto, viceversa.
Tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento visse un nostro compaesano cui la gente neretina spesso si rivolgeva per conoscere, un po’ per curiosità un po’ per bisogno, previsioni di diversa natura in ispecie sulle condizioni meteorologiche, sui conseguenti prevedibili riflessi per i raccolti dell’annata, sull’oroscopo personale (volg.:”la pianeta”), sulla previsione del sesso del nascituro (volg. :”l’epatta”), ecc.
Una sorta di “frate Indovino” laico, di quartiere, sempre disponibile a fare crocicchio e a dare gratuitamente risposte alle usuali curiosità popolane, dalle quali trarre possibilmente conforto e buoni auspici, grazie alla paziente e solenne consultazione di uno “strano”, vecchio e consunto libro, spesso lasciato contestualmente visionare o leggere (a seconda del grado di improbabile scolarizzazione) anche dall’incuriosito interlocutore di turno.
Il libro, divenuto popolarmente famoso (ancora oggi se ne ricordano i più veterani del paese) veniva, stranamente, chiamato “Lu munarca” e qualcuno finiva anche con l’identificare con detto termine lo stesso possessore ed interprete del volume.
In realtà tale nomignolo non aveva alcuna attinenza con alcun titolo regale. per il semplice motivo che “Lu munarca” altro non era che la traduzione foneticamente e grossolanamente ricavata dall’effettivo titolo del libro “L’almanacco (perpetuo)” che l’approssimata pronuncia, tipica delle assonanze dialettali, riusciva radicalmente a trasformare snaturandone l’originario significato.
Tale performance fonetica, peraltro, fu adottata per dare il nome ad un calendario, l’almanacco neretino “Lu munarca ti Nardò” che venne con successo stampato e divulgato anche all’estero dal Circolo culturale Nardò Nostra dal 1982 per oltre una quindicina d’anni.
Ma torniamo al famoso vecchio libro del nostro compaesano “indovino”. Si trattava forse di un’opera che avesse qualche attinenza con storia, usi e costumi della città di Nardò ?
Niente di tutto questo!
Quel vecchio libro, infatti, cui sono legato personalmente per motivi “ereditari”, ho avuto modo di custodire e contemplare.
Per rispettarne la patina del tempo impressagli dagli evidenti segni della logorata rilegatura delle circa 500 pagine color seppia, ho più volte resistito alla tentazione di farlo restaurare.
Il volume, un trattato teorico pratico di Astrologia, reca il titolo, nella prefazione e non sulla consunta e spessa copertina “L’Almanacco di Rutilio Benincasa”. Nel proemio dell’opera (ristampata innumerevoli volte dalla lontana prima edizione del 1593) lo stesso autore, scrittore calabrese (1555-1626), spiega che la <<parola Almanacco non vuol dir altro, che una notazione che si fa di giorno in giorno in tutte le ore, minuti, punti, ed altre cose necessarie ed appartenenti all’Astrologia. La Fisionomia altro non vuol dire che riconoscere le persone nella faccia secondo l’inclinazione naturale o a buoni o a cattivi costumi…>>.
In particolare il Benincasa nel presentare la (terza) parte dell’<<indovinatrice>> : <<dagli stolti si dice quella, che giudica la vita di ciascun uomo così circa lo stato del corpo, come anco della fortuna e condizione di esso, e solo si possono congetturare dalla umana mente le inclinazioni ai vizi, alle virtù ed agli studi, e i costumi, le infermità, i pericoli, ecc.>>.
Interessante è il cenno della piena sottomissione alle regole della Chiesa, evidentemente per sottolineare, con i comprensibili timori della dottrina cristiana del ‘500, con estrema chiarezza il ricorso lecito alle previsioni frutto soltanto della scienza astrologica:
<<Onde avverta il Lettore che in quest’opera intendo osservare quanto si comanda nelle regole dell’indice romano e Bolla di Sisto V, sottomettendomi sempre umilmente al giogo di Santa Madre Chiesa romana , dalla quale non intendo punto allontanarmi; protestandomi anco, che in tutti i luoghi dell’Opera dove si tratta di futuri contingenti liberi si hanno da intendere senza certezza, ma secondo le inclinazioni o modo di parlar degli antichi Astrologi, il qual modo si corregge dalle regole di Santa Chiesa.”
Come il nostro paesano sia venuto in possesso del libro non si sa esattamente.
Il volume in questione è una ristampa del 1720 (con una presentazione del testo curata dal Beltrano) e qualcuno ha ipotizzato che potrebbe essere stato un regalo di un monaco della chiesa dell’Incoronata di Nardò, zona in cui, a fine ‘800 il possessore del libro, da giovane aveva abitato nelle vicinanze e ove gli avrebbero anche insegnato a leggere e scrivere.
Piace ogni tanto consultare le pagine ingiallite dell’Almanacco con la scusa di verificare se le previsioni dell’anno in corso, tratte dal calendario perpetuo siano …veritiere.
Ma forse è solo un modo per assaporare la semplicità del volgare del ‘500 ed il fascino intramontabile della cultura dell’antico.
NdR: sull’argomento si legga anche quanto ha scritto Armando Polito:
Ogni fenomeno, prima di manifestarsi, ha un periodo più o meno lungo di latenza a seconda della forza delle cause che lo tengono in quiescenza, finché non prevalgono col loro effetto dirompente e, in un certo senso, contagioso quelle di segno opposto che ne hanno costituito la miccia, più o meno lunga, ma inesorabilmente innescata, esauritasi la quale, arriva l’esplosione. Anche la durata di un fenomeno (inteso e come episodio singolo e come sua ripetizione nel tempo) è legata all’azione di alcune forze che lo favoriscono, finché il prevalere di quelle di segno opposto decreta la fine del singolo episodio e, in alcuni casi, la sua estinzione. Emblematico, mi pare, a tal proposito il tarantismo: la sua sparizione conferma che la tarantola e il suo morso erano solo un pretesto per liberare, soprattutto nella donna, ataviche pulsioni per secoli represse non certo per sua volontà, conferma, cioè l’origine cultural-ritual-psicologica del fenomeno che gli studi di Ernesto De Martino, com’è noto, hanno messo in evidenza. Il tarantismo, insomma, si è progressivamente spento non perché si è estinta la tarantola o il sistema immunitario ha azzerato gli effetti del suo morso ma perché inesorabilmente col mutare del costume, liberazione sessuale della donna in primis, è venuta meno la necessità di mantenere come pretesto, alibi, copertura, l’animaletto ed il suo morso al fine di uscire dall’isolamento repressivo attraverso un percorso identificativo (alcuni movimenti delle tarantate ricordano quelli del ragno)-liberatorio (i movimenti stessi, eccitati dalla musica, scaricano la tensione e l’energia a lungo represse). Probabilmente tale processo sarebbe stato solo più lento se non fosse stata rivoluzionata, rispetto al passato, l’agricoltura con l’introduzione delle macchine che hanno esonerato uomini e donne dalle operazioni di coltivazione e raccolta, per non parlare dei veleni che di certo hanno ridotto drasticamente il rischio di un incontro ravvicinato di un tipo che in passato, molto probabilmente, era, sia pur inconsciamente ma non troppo, desiderato e, forse, pure cercato …
Per tornare a De Martino: La terra del rimorso non omette di citare in ordine cronologico due autori che possono essere considerati gli antesignani della sua interpretazione. Il primo è, a sorpresa, un poeta, il secondo un medico, rispettivamente Giovanni Pontano (1429-1503) e Giorgio Baglivi (1668-1707).
Amico -Antonio soleva ripetere che [i pugliesi] sono i più felici degli uomini-
Ospite -Quelli che hanno la fortuna di abitare in una regione tanto calda?-
Amico – [Diceva] infatti che gli altri uomini essendo tutti stupidi a stento potevano addurre qualche giustificazione sufficientemente onesta della loro stoltezza e che in verità i soli pugliesi avevano perfettamente pronto un motivo per scusare la pazzia, cioè quel ragno che chiamano tarantola, per il cui morso gli uomini impazzirebbero; e che il luogo più felice è dove il massimo della felicità è il fatto che chiunque volesse desiderare il frutto della sua pazzia potrebbe coglierlo onestamente. [Diceva] poi che ci sono ragni dal veleno diverso e tra questi anche quelli che spingono alla libidine, che essi sono chiamati concubitarie che da questo ragno solo solite essere morse spessissimo le donne e che sarebbe lecito e non vietato che esse cercassero gli uomini liberamente ed impunemente e che questo veleno non può essere neutralizzato in altro modo, sicchè sarebbe un rimedio per le donne pugliesi ciò che per le altre costituirebbe una vergogna. Non ti sembrerebbe questa la più grande felicità?-
Ospite -Per Priapo1, grandissima!-
Analogamente dal Dissertatio de anatome, morsibus et effectibus tarantulae del Baglivi scritto nel 1695 riporto un brano tratto dalla p. 617 dell’edizione di tutte le opere uscita per tipi di Posuel a Lione nel 1714 (integralmente consultabile al link http://lib.ugent.be/europeana/900000084459).
Non bisogna qui negare la possibilità che nelle nostre regioni si presenti realmente il fenomeno del veleno della tarantola e dei tarantati; tuttavia le donne, che sono gran parte dei tarantati, molto spesso simulano questa malattia con sintomi alla donna familiari; infatti sia per piccoli fuochi d’amore, sia per un danno del patrimonio familiare o di altri mali tipici cui le donne sono più sensibili, sono prese dalla noia, per la continua tristezza derivante da tali situazioni degenerano nella disperazione e quasi nella malinconia. A tutto questo s’aggiunge una vita solitaria alla maniera delle monache di clausura, lontana da ogni per quanto onesta possibilità di parlare con gli uomini della famiglia. Si aggiunge parimenti l’aria infuocata, il temperamento caldissimo delle donne, i cibi caldi e molto nutrienti, la vita oziosa, etc. E per questi motivi tanto principali che secondari frequentemente degenerano nella tristezza e in uno stato d’animo malinconico e per la stessa ragione sono rallegrate moltissimo da ogni accordo di musica e dalle danze. Perciò, per servirsi di questa opportuna occasione di musica permessa ai soli tarantati, si fingono tarantate. All’inganno poi ed alla simulazione si aggiungono il pallore del volto, la tristezza, la difficoltà di respiro, l’angoscia, la cattiva immaginazione e gli altri sintomi più del simulato che del vero veleno delle tarantate (ed essendo questa danza estremamente gradita alle donne, presso le nostre passò in modo di dire, il Carnevaletto delle Donne); e, sebbene le sole donne di quando in quando simulino questa malattia, non allo stesso modo tuttavia si deve sospettare che questo succeda anche negli altri tarantati; infatti parecchi uomini, peraltro eruditi e religiosi, non credendo minimamente ai tarantati, si esposero essi stessi al pericolo e, morsi in Puglia dalla tarantola, caddero in imminente pericolo di vita e se non fosse intervenuta subito la musica in breve sarebbero morti, come riporta anche il nostro Epifanio2 nel passo lodato.
Il De Martino non cita, però, un altro autore e, siccome questi è, come il Pontano, un poeta e devo dare giustificazione del titolo di questo post, lo faccio io.
Al nostro tema sono dedicate le pp. 68-85 e assicuro il lettore curioso che la loro lettura sarà gradevole anche sotto l’ombrellone o nella hall di un albergo. Susciterà la meraviglia dei bagnanti o degli altri ospiti quando vedranno sullo schermo del tablet non qualche giochino o le solite foto gossippare ma dei caratteri non proprio moderni. E, se sarà salentino, saprà sfruttare meglio ciò che il Crescimbeni gli offre per catturare l’attenzione di quella brunetta, biondina o rossina che sola soletta, appare, senza ombra di dubbio, sensibile solo al fascino del meridionale sì, ma intellettuale …
E così, mescolando Dante, Crescimbeni, tecnologia e vanità maschile basata su presupposti tanto inconsistenti quanto velleitari, qualche poeta moderno particolarmente ispirato potrà far dire alla donna:
Quando leggemmo il disiato morso
esser curato da cotanto ballo,
il salentino ingrifato più che orso,
mentr’io cotta dicevo -Fallo!, fallo!-,
mi morsicò la gota e quasi svenni.
L’uomo no, ma il tablet era da sballo …
Lascio immaginare il seguito della storia e passo al nostro, comunque beneaugurante …, Crescimbeni col suo brano che sembra la trascrizione artistica delle affermazioni scientifiche del Baglivi (non a caso con quest’ultimo siamo alle soglie dell’illuminismo, con Crescimbeni agli inizi).
La fantascienza spesso ha anticipato il futuro e la poesia si è avventurata in esplorazioni di regola riservate alla scienza e non è certo col tarantismo che l’ha fatto per la prima volta, né, per fortuna, è stata e sarà l’ultima …
Anche quest’anno la Notte della Taranta ha celebrato il suo trionfo. Bisognerà aspettare un poeta, prima ancora che un sociologo (sarebbe il compito immediato di un cronista indipendente …) che metta in evidenza come a ben pochi interessava la musica tradizionale salentina, sia pur intesa in senso lato, e che i gridolini sbavati delle giovani e meno giovani (ma anche di qualche giovane e meno giovane …) erano solo all’indirizzo di uno spaesato Ligabue, che, però, aveva fatto già conoscere la sua salentinità d’adozione facendosi ritrarre davanti ad una friseddha? Come non mettere in risalto, per converso, l’onesta intellettuale degli Aramirè che da tempo hanno rinunciato, con tutte le conseguenze negative, soprattutto di natura economica, che la loro scelta comportava, a salire su un palco le cui luci anno per anno si stanno sempre più trasformando da stroboscopiche in stronzoscopiche (non mi riferisco agli artisti veri o presunti, che in qualche modo devono pur campare, ma al pubblico, attore passivo di un’invereconda e prostituente mistificazione)?
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1 Poteva in questo caso un umanista del calibro del Pontano, umbro di origine ma napoletano di adozione, coinvolgere Ercole o Giove e non Priapo che con il suo mostruoso attributo bene in vista è stato immortalato in più di un affresco pompeiano?
Gli stemmi rappresentano una sorta di stato civile dell’opera d’arte. Se adeguatamente letti e interpretati, infatti, essi forniscono preziose informazioni sia sulla datazione dell’opera, sia sull’identità, lo status giuridico, le intenzioni e l’ideologia della committenza artistica. Questa premessa è utile per introdurre l’argomento oggetto di questo breve studio: lo stemma episcopale utilizzato da Mons. Alfonso Sozi Carafa, vescovo di Lecce dal 1751 al 1783. La presente indagine, in particolare, prende in esame gli esemplari a lui attribuibili, visibili negli edifici monumentali raccolti attorno a Piazza Duomo.
Il personaggio e la sua famiglia
La famiglia Sozi, originaria di Perugia, si vuole discenda dai Paolucci, il cui capostipite sarebbe stato Paoluccio d’Agato o d’Agatone, nobile perugino citato in documenti del 7601. La discendenza dai Paolucci trova comunque riscontro nel blasone, comune alle due famiglie, raffigurante un orso levato (cioè rampante) al naturale in campo d’oro, come si evince dallo stemma Sozi/Paolucci riportato nel Blasone Perugino di Vincenzo Tranquilli, un manoscritto araldico risalente al XVI secolo2.
Nel 1389, ai tempi della rivoluzione popolare a Perugia, molti patrizi furono cacciati dalla città e messi al bando. Tra questi troviamo un Giovan Francesco Sozi che nel 1414 si trasferì nel Regno di Napoli al seguito del capitano di ventura Muzio Attendolo detto Sforza, capostipite della celebre famiglia ducale3. Risale, invece, al 1575 l’acquisto di quello che sarà il feudo di famiglia, San Nicola Manfredi (Benevento), fatto da Maddalena Gentile, vedova di Marcangelo Sozi, che due anni dopo lo cedette al figlio Leonardo Aniello4.
In seguito poi al matrimonio (1656) fra Alessandro Sozi, nato da Ascanio di Leonardo Aniello e da Vittoria Giordano, e Artemisia Carafa della Stadera, figlia di Marcantonio e di Elena Daniele, la famiglia aggiunse al proprio cognome quello dei Carafa5.
Nipote abiatico di Alessandro e Artemisia fu proprio il nostro Alfonso. Egli nacque a San Nicola Manfredi il 7 marzo 1704, quartogenito di Nicola Sozi Carafa, barone del predetto feudo e patrizio di Benevento, e di Anna Maria Merenda, figlia di Giovan Battista, patrizio di Aversa e Cosenza, e di Francesca di Donato6. Dopo essere stato ordinato sacerdote nel 1727, fu creato vescovo di Vico Equense nel 1743, donde nel 1751 fu traslato alla sede diocesana di Lecce. Fu inoltre Lettore di filosofia, teologia e matematica al Collegio Clementino di Roma, diretto dai Padri Somaschi, che per più anni governò come Rettore. Morì il 19 febbraio 1783 e fu sepolto nel Duomo7.
“Uomo rigido e spendido”, “per le magnificenze de’ suoi atti e delle trasformazioni che apportò negli edifici, si poté dire l’Alessandro VII dei suoi tempi e della sua diocesi”8.
Lo stemma episcopale
Nei secoli passati lo stemma utilizzato da cardinali, vescovi ed altri prelati riproduceva per lo più la loro arma gentilizia. Ciò dipendeva dal fatto che, per lo più fino alla fine del XVIII secolo, venivano elevati ai vari gradi della gerarchia ecclesiastica soprattutto chierici provenienti da famiglie nobili le quali erano già dotate di uno stemma. Questo uso consolidato è riscontrabile anche nello stemma di Mons. Sozi Carafa, che mutuò il proprio scudo da quello gentilizio, personalizzandolo mediante l’utilizzo di un timbro corrispondente alla sua dignità episcopale, ovvero un cappello prelatizio di verde munito di sei nappe per lato, ordinate in file 1.2.3.
Rammentiamo che a partire dal XV secolo, negli stemmi vescovili ed arcivescovili, il cappello prelatizio cominciò a sostituire progressivamente la mitriache era il timbro caratteristico di coloro che, insigniti dell’ordine espiscopale, non facevano parte del Collegio Cardinalizio9.
Lo stemma gentilizio dei Sozi Carafa è costituito da uno scudo inquartato, recante nel primo e nel quarto punto il blasone dei Sozi (d’oro, all’orso levato al naturale), mentre nel secondo e nel terzo compare quello dei Carafa (di rosso, a tre fasced’argento10). Si tratta di una tipica arma di alleanza matrimoniale, dove l’inquartatura corrisponde araldicamente al doppio cognome assunto dalla famiglia in seguito al già ricordato matrimonio fra gli avi paterni del prelato. Il blasone summenzionato è riportato anche dallo Spreti nella sua monumentale opera intitolata Enciclopedia storico-nobiliare italiana (fig. 1).
Con l’utilizzo della necessaria terminologia tecnico-blasonica, lo stemma episcopale oggetto di questo studio può essere descritto nella maniera seguente: inquartato: nel 1° e nel 4° d’oro, all’orso levato al naturale (Sozi); nel 2° e nel 3° di rosso, a tre fasce d’argento (Carafa).Lo scudo timbrato da un cappello prelatizio a sei nappe per lato, il tutto di verde.
Le testimonianze araldiche di Mons. Sozi Carafa presenti in Piazza Duomo costituiscono una chiara ed efficace rappresentazione visiva di alcuni momenti del suo episcopato e della sua committenza artistica. Segnaliamo in questa sede quelli che ci sembrano gli esemplari più rappresentativi.
All’ingresso di Piazza Duomo, al di sotto delle balaustre dei propilei, fanno bella mostra di sé due scudi sagomati e accartocciati, recanti l’arma del prelato. I due propilei furono costruiti nel 1761 a spese del presule che decise di affidarne la realizzazione all’architetto Emanuele Manieri11. Al termine dei lavori il vescovo fece scolpire le sue insegne, vera e propria firma della sua committenza. Un altro esemplare è visibile sulla facciata del Palazzo Episcopale, racchiuso in uno scudo sagomato e accartocciato di fattezze tipicamente settecentesche (fig. 2).
Nel 1761 Mons. Sozi Carafa fece costruire la fabbrica sull’Episcopio per sistemarvi il nuovo orologio, opera del leccese Domenico Panico12. Secondo il De Simone, il prelato fece abbattere la vecchia gradinata esterna del Vescovado e sulla nuova fece trasportare il nuovo orologio in sostituzione di quello vecchio che era sul portone13. Si può ipotizzare che sia stata questa la circostanza che determinò la collocazione dello stemma, ma non è da escludersi che le ragioni vadano cercate altrove.
Le armi finora analizzate risultano essere acrome, ma se ne possono trovare anche degli esempi smaltati. E’ il caso dei due gradevoli esemplari, stilisticamente molto simili, osservabili all’interno del Duomo, rispettivamente sul fastigio del monumento sepolcrale del vescovo, posto nella navata laterale di destra (fig. 3), e sul fastigio del battistero della navata laterale di sinistra, realizzato per volere del presule da Giovanni Pinto e sistemato nel 1760 (fig. 4)14.
Un altro esempio di composizione cromatica è l’arma dipinta sulla tela dedicata all’Assunta, visibile dietro l’altare maggiore. Il quadro, realizzato dal pittore leccese Oronzo Tiso e collocato nel 175715, reca in basso a sinistra uno scudo ovale accartocciato contenente il blasone episcopale di Mons. Sozi Carafa, committente dell’opera, che proprio in quell’anno riconsacrò il Duomo dopo anni di lavori voluti da Mons. Luigi Pappacoda (1639-1670)16.
Degno di menzione, infine, è l’esemplare che orna il retro di una pianeta di seta rossa, ricamata con motivi floreali e galloni d’oro, conservata nel Museo Diocesano di Arte Sacra (fig. 5). Non si tratta, però, di un caso isolato, perché da un inventario dei beni del presule, redatto nel 1752, risulta che egli utilizzò anche altri paramenti sacri stemmati (piviali, mitrie, altre pianete)17.
Note
1. Cfr. V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, Milano 1928-36, suppl. 2, p. 598; cfr. anche E. Ricca, La nobiltà delle Due Sicilie, Napoli 1869, vol. IV, pp. 248-273, dove è presente anche un albero genealogico della famiglia Sozi Carafa.
2. Il manoscritto è consultabile on line al seguente indirizzo: http://bibliotecaestense.beniculturali.it/info/img/mss/i-mo-beu-gamma.y.5.4.pdf
3. Cfr. E. Ricca, op. cit., pp. 251-252.
4. Cfr. ivi, p. 272.
5. Cfr. ivi, p. 273. Per la nobile e antica famiglia Carafa, che si suddivise in due rami detti rispettivamente della Spina e dellaStadera e che diede alla cattolicità un Sommo Romano Pontefice nella persona di Paolo IV, rimando a G.B. di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane, estinte e viventi, Pisa1886, vol. 1, p. 231.
6. Cfr. E. Ricca, op. cit, p. 273.
7. Cfr. ivi, p. 267.
8. Cfr. P. Palumbo, Storia di Lecce, Lecce 1910, rist. Galatina 1981, p. 285.
Cfr. A. Cordero Lanza di Montezemolo, A. Pompili, Manuale diaraldica ecclesiastica nella Chiesa Cattolica, Città del Vaticano 2014, p. 19.
10. Nello stemma dei Carafa della Stadera compare a volte anche una stadera all’esterno dello scudo.
11. Cfr. T. Pellegrino, Piazza Duomo a Lecce, Bari 1972, p. 11.
12. Cfr. ibidem.
13. L. De Simone, Lecce e i suoi monumenti descritti e illustrati, vol. I, Lecce 1874, pp. 93-94.
14. Cfr. T. Pellegrino, op. cit., p. 103.
15. Cfr. ivi, p. 65.
16. Cfr. ivi, p. 41.
17. Cfr. M. Pastore, Arredi, vesti e gioie della società salentina dal manierismo al rococò, in “Archivio storico pugliese”, XXXV (1982), pp. 133.134.
Batti il ferro quand’è caldo, ovvero le torri costiere di Terra d’Otranto in una relazione del 1624 (2/2)
Ho pensato, perciò, di riprodurre l’elenco nel suo aspetto originale con la trascrizione (fedele anche nelle iniziali minuscole laddove, trattandosi di nomi propri, sarebbe stato più corretto adottare le maiuscole) e le mie note in calce ad ogni foglio con le informazioni relative ad ogni toponimo e al destino della torre , nonché alle sue condizioni attuali, quando ancora ne rimane pietra. In coda, dopo alcune tabelle comparative, le conclusioni. Superfluo dire che saranno gradite le inevitabili integrazioni e, ancor più, le correzioni per gli inevitabili errori commessi, in parte dovuti (getto le mani avanti …) al poco tempo a disposizione. D’altra parte, se me la fossi presa comoda, il ferro nel frattempo si sarebbe raffreddato …
282v
283r
283v
284r
Il lettore avrà notato, se ha letto le note, l’evoluzione dei toponimi, la cui storpiatura non sempre è legata al tempo. Le varianti e gli errori, infatti, sono dovuti ad un fenomeno direi fisiologico, legato al rigore, non sempre sufficiente a quanto pare, di chi fornisce l’informazione e di chi la trascrive. Questo vale non solo per le carte geografiche ma per qualsiasi scritto, a parte gli inevitabili errori di stampa.
Torre del Bradano, Torre delle Saline di Castellaneta, Torre di Taras, Torre di Rondinello, Torre di S. Vito, Torre di Loma, Torre di Saturo, Torre di Castelluccio, Torre di Salsola, Torre del Capo dell’Ovo, Torre delle Moline, Torre del Barraco, Torre di S. Pietro, Torre di Colimena, Torre di Castiglione, Torre del Porto di Cesaria, Torre di San Isidoro, Torre del Creto, Torre del Crostamo, Torre di S. Maria dell’Alto, Torre di S. Caterina ovvero dello scorzone, Torre del fiume di Galatena, Torre dell’Alto Lito, Torre della Sapea, Torre di S. Giovanni, Torre del Catriero o del Pizzo, Torre di Suda, Torre di Felline o di Sonfano, Torre di S. Giovanni d’Ugento, Torre di Presicce o di Mucrone, Torre di Salve o di Pali, Torre di Murciano, Torre di Pato o di S. Gregorio, Torre di Bianchelli, Torre degli Uomini morti di Castrignano, Torre di S. Maria di Leuca, Torre di Monte longo, Torre del porto di Novaglie, Torre del rio del Parraro, Torre di Specchia grande di Cursano, Torre di Figiano o di Naspade, Torre di Plane, Torre del Porto di Tricase, Torre del Sasso, Torre d’Andrano di Cola di Ripa, Torre di Maritima, Torre di Diso, Torre del Porto di Misciano, Torre di Monte Saracino, Torre di Santa Cesaria, Torre di Specchia della guardia, Torre di Porto rosso di Monerino, Torre di Vadisco, Torre di S. Geminiano, Torre della Palescia o di Cristo, Torre d’Orte, Torre di S. Stefano, Torre de’ Fiumicelli, Torre di S. Andrea, Torre dell’Orso, Torre di Roccavecchia, Torre di S. Foca, Torre di Specchia di Ruggiero, Torre di Venere, Torre di Chianca, Torre di Rinaldo, Torre della Specchiolla, Torre di S. Gennaro, Torre delle Mattrelle, Torre del Cavallo, Torre della Penna, Torre delle teste di Gallico, Torre del Porto di Gauscito, Torre di S. Savina, Torre delle Pozzelle, Torre di S. Leonardo.
Lascio al lettore l’esame comparativo e mi congedo con i toponimi delle torri registrate per la Terra d’Otranto nel foglio 31 (http://www.davidrumsey.com/luna/servlet/detail/RUMSEY~8~1~246514~5515020) dell’Atlante geografico del Regno di Napoli di Giovanni Rizzi Giannoni uscito a Napoli per i tipi della Stamperia Reale dal 1789 al 1808.
Li trascrivo procedendo, costa costa, da ovest ad est, permettendomi di rimproverare all’autore della relazione di non aver seguito lo stesso criterio, per cui essa appare, lacune1 e ripetizioni a parte, un po’ confusionaria per essere un documento ufficiale; ma voglio essere generoso e sospettare che essa fosse solo una bozza, il che toglie poco, comunque, al suo valore documentario.
Torre di Mattoni, Torre di Rondinella, Torre Capo di S. Vito, Torre di Lamiadir[uta],Torre di Saturo, Torre della Castelluccia, Torre Rossa, Torre di Salsole, Torre dell’Ovo, Torre de’ Molini, Torre Columena, Torre della Chianca, Torre Cesarea, Torre Squillace o delle Pianure, Torre S. Isidoro, Torre dell’Inserraglio, Torre di Crostomo, Torre dell’Alto, Torre di S. Caterina, Torre del Fiume, Torre dell’Alto Lido, Torre Sabea, Torre di San Giovanni, Torre del Pizzo, Torre di Suda, Torre Sonfino, Torre S. Giovanni, Torre Muzza, Torre degli Pali dir[uta], Torre del Vado, Torre di S. Gregorio, Torre del Marchiello, Torre Vecchia, Torre di Leuca, Torre di Monte lungo, Torre di Novaglie, Torre del Borraro, Torre di Specchia grande, Torre di Naspre, Torre di Palane, Torre del Porto, Torre del Sasso, Torre di Ripa, Torre di Marittima, Torre della Cala del Lupo, Torre del porto Migiano, Torre di Monte saraceno, Torre di Specchia, Torre di Portorusso, Torre di Vadisco, Torre di S. Emiliano, Torre Paluscia, Torre dell’Orto dir[uta], Torre di S. Stefano, Torre de’ Fiumicelli, Torre di S. Andrea, Torre dell’Orso, Torre di Rocca Vecchia, Torre di S. Foca, Torre di Specchia Rugieri, Torre di Veneri, Torre della Chianca, Torre di Rinalda, Torre della Specchiolla, Torre di S. Gennaro, Torre di Mattarelle, Torre Cavallo, Torre di Penna, Torre della Testa, Torre di Vacito, Torre di S. Sabina, Torre de’ Pozzelli, Torre di S. Leonardo, Torre di Canne, Torre di Egnazia.
A parte le tre torri che l’atlante registra come già dirute, cosa è rimasto di gran parte delle altre a distanza di poco più due secoli? In quali percentuali lo sfacelo è dovuto all’incompetenza del progettista o alla disonestà dell’appaltatore (fenomeno esistente anche allora ed ampiamente provato per più di una costruzione) e al vandalismo ed all’incuria dei posteri?
Sarebbe bello se qualche giovane e meno giovane volenteroso una volta tanto si scattasse un selfie non con la bonazza o col bonazzo di turno (tanto per dirne una) ma con qualcuna delle nostre torri (o con quello che ne rimane) e lo inviasse alla redazione, materiale di base per una sorta di catalogo alla cui compilazione provvederei, citando l’autore dello scatto, con grande piacere, prima che Torre del Sasso passi ad essere una denominazione tristemente collettiva. Ciò che non riuscirono a fare i Turchi …
1 Mancano, per esempio, come stranamente succede negli elenchi fin qui riportati ma anche nelle carte, Torre Lapillo (mancherà anche nell’ultimo elenco che segue) allora in territorio di Nardò, ora di Porto Cesareo e Torre Squillace in territorio di Nardò, entrambe in buono stato, la seconda dopo il recente restauro, grazie agli appelli del padre di questa fondazione, che l’ha salvata da sicura rovina (https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/01/signore-e-signori-ecco-a-voi-torre-squillace-finalmente-salva/).
NARDÒ RIVOLUZIONARIA. Protagonisti e vicende di una tipica ribellione d’età moderna
Agosto 1647. Le teste di sei chierici neretini sono macabramente esposte, come lugubre monito, sul sedile cittadino, accanto a quelle di due cittadini che hanno subito la medesima sorte. A pochi metri da lì, il corpo dell’ottantasettenne barone Sambiasi, appeso per un piede, è lasciato penzolare esanime dalla forca. È l’apice, non certo la conclusione, di una rivolta che per giorni ha infiammato le strade di Nardò, antica città della Terra d’Otranto, e ha spinto i neretini a serrare le porte urbiche, lottando disperatamente per difendere i propri diritti e le proprie libertà dai soprusi perpetrati dall’antico feudatario. Un evento eccezionale ma non unico, né tantomeno isolato.
La rivolta neretina è infatti contemporanea a tante altre che squassano, alla fine della prima metà del Seicento, Napoli, il sud Italia ed altri luoghi della cristianità. Nell’estate del 1647 in tutto il meridione serpeggia lo spirito dell’insurrezione: l’esempio della capitale spinge le città, i borghi e le campagne del viceregno ad insorgere. Contro le gabelle, contro la fame, contro i nuovi affaristi venuti da fuori, contro le angherie e le vessazioni dei propri signori feudali: il popolo, spesso spalleggiato (a volte manovrato) dal clero e dai nobili, si ribella. Non ci troviamo di fronte a scoppi di collera occasionali o contingenti, bensì a rivolte figlie del secolo e dei numerosi mali che lo tormentano.
Anche nei fatti di Nardò ritroviamo, seppur in scala ridotta, alcune delle principali ragioni che hanno indotto numerosi storici a definire il XVII secolo come l’età della crisi: il feudalesimo rampante, pronto a recuperare in maniera violenta un ruolo di prestigio ed una potenza che la crisi economica e le nuove dinamiche sociali hanno messo in serio pericolo; la povertà che attanaglia i popoli dell’area mediterranea, oramai lontana dai nuovi traffici oceanici; il fallimento della Spagna, gigante dai piedi d’argilla che, piegato su se stesso, trascina nel declino i suoi stati satellite in un vortice di corruzione, fiscalismo, squilibri sociali, carestie; i costi, non solo monetari, delle numerose guerre che insanguinano l’Europa.
Questi ed altri fattori, con diversa incidenza, interagiscono in modo alchemico creando, a Nardò come in altri luoghi della tormentata Europa seicentesca, una situazione letteralmente esplosiva. I moti di cui andremo a parlare deflagrano in un continente reduce da trent’anni di lotte intestine; in un regno, quello di Napoli, che sembra oramai incapace di slegarsi dal mesto tramonto della Spagna; in una provincia, la Terra d’Otranto, povera e lontana dal cuore dell’impero, ma allo stesso tempo ambita da vecchi e nuovi conquistatori.
Nei primi due capitoli di questo libro cercheremo di mettere in evidenza le principali cause internazionali, nazionali e locali, che portarono alla rivolta. In molti casi, si farà solo cenno ad eventi, congiunture e fasi storiche: ciò per evitare di annoiare il lettore con nozioni o notizie probabilmente già conosciute o che comunque potrebbero essere ricavate con maggiore completezza da altre opere. Nondimeno, in questo rapido excursus storico, saranno opportunamente rimarcati quei fattori che hanno avuto un influsso sicuramente preminente nella rivolta.
Il terzo e quarto capitolo saranno dedicati alla ribellione neretina. La ricostruzione degli eventi ruoterà attorno ad una data, il 20 agosto 1647, fulcro e punto di svolta dell’intera vicenda e si avvarrà del supporto di testimonianze coeve, quali i diari di Francesco Capecelatro e dell’abate neretino Giovan Battista Biscozzi, di opere storiche “classiche”, come l’ottocentesca Nardò e Terra d’Otranto nei moti del 1647-1648 di Ludovico Pepe, di ricostruzioni più o meno recenti e di fonti archivistiche. Una particolare attenzione sarà dedicata alle carte del processo condotto dal governatore Carlo Manca contro i rivoltosi: le deposizioni di questi ultimi si dimostreranno un utile spunto di riflessione sulla lotta di potere che si trova alla base della ribellione, sulle strategie poste in atto da vittime e carnefici, sullo stesso valore delle fonti documentali.
Infine, il quinto capitolo rappresenterà l’epilogo. Una lunga conclusione, che si protrarrà con fasi alterne per oltre un quindicennio e porterà gli accadimenti neretini all’attenzione della stessa corte di Spagna. La lotta armata lascerà il posto alle controversie giuridiche, ai ricorsi ed i controricorsi, fino a giungere ad un finale che, per molti versi, non accontenta nessuna delle parti in gioco.
Batti il ferro quand’è caldo, ovvero le torri costiere di Terra d’Otranto in una relazione del 1624 (1/2)
In un post molto recente (https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/08/19/uninedita-relazione-sullo-stato-delle-torri-costiere-del-regno-di-napoli/) Nicola Morrone ha riportato alcuni stralci di una relazione manoscritta, datata 12 giugno 1624, sulle torri costiere del Regno di Napoli, fornendo anche gli estremi a beneficio di chi volesse consultare direttamente il documento inserito insieme con altri nel terzo dei tre tomi (sarebbe più corretto chiamarli faldoni) che recano il titolo di Papeles historico-politicos tocantes a Napoles, custoditi nella Biblioteca Nazionale Spagnola e catalogati tra i manoscritti con il n. 988. Tuttavia, per rendere più facile il compito al lettore che ha interessi di questo tipo, rendo più precisa ed immediata l’indicazione fornita da chi mi ha preceduto dicendo che il documento in questione può essere integralmente letto e scaricato tomo per tomo (rispettivamente ff. 1-140, 141-280 e 281-422) all’indirizzo http://bdh-rd.bne.es/viewer.vm?id=0000040846&page=1. Nella stessa biblioteca, infatti, sono custoditi altri manoscritti dal titolo più o meno simile; per esempio, il n. 2445, anch’esso in tre tomi (rispettivamente ff. 1-129, 130-258 e 259-386), reca il titolo Papeles historicos y politicos tocantes a Napoles). Il link diretto che ho riportato eviterà perdita di tempo a chi pensasse, com’è naturale, di fare la ricerca in base al titolo.
Ogni scritto è come se avesse a disposizione due nascite: la prima avviene quando l’autore ne completa la sua stesura pressoché definitiva, la seconda al momento della sua pubblicazione (quando la stampa ancora non esisteva questa funzione era assunta dalle copie), che rende partecipe della sua esistenza, almeno teoricamente, il maggior numero possibile di persone.
Il documento di cui qui si sta parlando appartiene a quell’ampia schiera di fonti che come tante altre (penso immediatamente ai repertori notarili) hanno avuto una sola nascita e tanti aborti, nel senso che la loro pubblicazione è stata parziale, legata agli interessi contingenti del ricercatore. Se, poi, qualcuno voleva controllare la bontà della trascrizione (quando essa veniva attuata …), doveva sobbarcarsi a scomodi spostamenti dal suo abituale luogo di vita e ad onerosi esborsi per i vari diritti-balzelli che la burocrazia ha vergognosamente alimentato e che il legislatore continua altrettanto vergognosamente a mantenere in vita. Per il nostro documento, in particolare, esistono solo riferimenti in qualche pubblicazione. Un titolo per tutti: Giuseppe Caridi, Uno “stato” feudale nel Mezzogiorno spagnolo, Gangemi, Roma, 1988.
Poi venne la digitalizzazione nella quale l’Italia, i cui governanti si sciacquano ogni tanto la bocca con l’agenda digitale, nesso di cui molto probabilmente non conoscono nemmeno il significato, è spaventosamente arretrata rispetto al resto del mondo. Credo che fra poco anche qualche finora sconosciuta popolazione dell’Amazzonia ci mostrerà le spalle, il che, in questo campo non è certo, nonostante la nostra furbizia, una posizione favorevole …
Gli archivi digitali creati dagli altri consentono oggi a chiunque lo voglia una fruizione o un controllo gratuito e in tempo reale. Così oggi sono grato a Nicola Morrone per la sua segnalazione, perché mi consente di aggiungere un altro pezzo di questo interessante documento. Lo so, due aborti (nel senso prima detto) non costituiscono una nascita, ma chi sa che prima o poi questa gravidanza non possa essere portata felicemente a compimento …
Poi per me è già un fatto positivo che due interessi convergano, perché, a differenza di quelli economici, i culturali non dovrebbero suscitare conflitti, ripicche, gelosie. Mi rendo conto che così non è, solo se penso alla scarsa concorrenza che, in generale, vedo nel mondo accademico italiano, dove ognuno sembra attento, più che a ricercare, a cercare di non invadere l’orto o, in qualche caso, il feudo del vicino …; non è così, secondo me, che la conoscenza progredisce.
Sono sicuro, però, che Nicola Morrone accetterà di buon grado, prima che io passi al dettaglio che del nostro documento intendo esaminare, un’ipotetica integrazione ad un suo punto interrogativo posto proprio all’inizio della trascrizione del foglio 279r e relativo al destinatario della relazione.
Credo di poter integrare, sciogliendo le abbreviazioni, nel modo che segue: Al circunspetto1Scipione Reggente Brandolino. I Brandolino ricoprirono alte cariche e Scipione in particolare quella di reggente. Ecco cosa di Scipione si legge in Lorenzo Giustiniani, Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli, s. n., Napoli, 1804, tomo VII, p. 325: Scipione Brandolino fu altro degno soggetto del secolo XVII. Nel 1612 fu creato Presidente della Regia Camera, e nel 1623 Reggente di Collaterale del Supremo Consiglio d’Italia in Ispagna, e morì in Barcellona con titolo di marchese di Melito.
È tempo di pensare e di passare ai fatti miei. Alla fine della trascrizione dello stesso foglio Nicola avvertiva: segue l’elenco delle province del Regno, con le torri costiere e le città nel cui territorio esse ricadono.
Delle restanti torri del Regno esistenti all’epoca non mi interessa più di tanto, ma con quelle di Terra d’Otranto la musica cambia, anche per le orecchie, voglio sperare, di più di un lettore.
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1 Oggi circospetto è sinonimo di accorto o, addirittura, di diffidente. Qui circunspetto sta nel significato etimologico [da circumspectu(m), participio passato di circumspìcere=guardare attorno], ma semanticamente volto dal passivo (che è stato guardato attorno) all’attivo (che ha guardato attorno), come si conviene al destinatario di una relazione che dovrebbe essere essa stessa basata su dati attentamente controllati. Comunque, circunspetto è il titolo che normalmente nelle prammatiche (editti o decreti regi) di quel tempo è riservato agli alti funzionari.
NARDÒ RIVOLUZIONARIA. Protagonisti e vicende di una tipica ribellione d’età moderna
La storia narrata in questo libro è, per molti versi, una storia dimenticata.
Dalla metà del diciassettesimo secolo ad oggi, cronisti, storici, studiosi e semplici appassionati hanno scritto pagine e pagine sulla rivolta di Nardò del 1647. Le angherie patite dalla città per decenni, la disperata ribellione contro il proprio signore, la vendetta di quest’ultimo ai danni dei cittadini a lui maggiormente invisi, gli omicidi senza processo, le persecuzioni che durarono per anni, l’impegno di alcuni neretini di fronte alle magistrature napoletane e spagnole sono stati raccontati in vario modo, a volte con dovizia di particolari a volte nel contesto di altre tematiche di carattere storico. Nondimeno questa vicenda resta, sotto molti punti di vista, una storia dimenticata.
Dimenticata dai neretini.
Forse non interessati alla storia dei propri antenati, forse non adeguatamente informati e sensibilizzati, i cittadini di Nardò non hanno certo una memoria consolidata e condivisa sull’argomento. Nelle scuole non se ne è quasi mai parlato, né se ne parla e, nonostante una tendenza diffusa negli ultimi anni a recuperare le tradizioni, le musiche, i canti dei nostri avi, gli antichi idiomi e le pagine di storia locale, la vicenda dei martiri di Nardò è rimasta (e tuttora rimane) fuori dalle aule, lontana dalla sensibilità comune, estranea agli interessi della città.
Dimenticata dalla Chiesa.
La rivolta vide tra i suoi fautori numerosi ecclesiastici. Sei di questi furono barbaramente uccisi, senza alcun processo e con la connivenza di monsignor Giovanni Granafei, a quel tempo vicario del vescovo di Nardò Fabio Chigi. La Chiesa dell’epoca non fece nulla o quasi in difesa dei propri figli e, per i secoli a seguire, la loro triste fine cadde nel più profondo dimenticatoio. Nella lunga teoria di vescovi, canonici, sacerdoti e chierici che si è dipanata dal 1647 ad oggi, nessuno ha mai pensato di dover “confrontarsi” con queste figure, nessuno ha mai ritenuto di dover garantire loro un riscatto morale e spirituale negato dalla storia.
Dimenticata dalle istituzioni.
Sfogliando l’elenco delle strade cittadine, ci si imbatte in “via Martiri Neretini”; consultando la mappa topografica, si può ritrovare questa via all’estrema periferia del paese: la penultima strada ad immettersi sulla statale 174 che porta a Galatone. È questo l’unico segno tangibile tributato al sacrificio del 1647: un segno che io stesso richiesi alla Commissione Toponomastica nella mia breve esperienza da consigliere comunale. Nessuna piazza o via del centro, nessuna targa commemorativa, nessuna stele, null’altro è stato dedicato alla memoria dei neretini che combatterono e morirono in difesa della propria città, dei propri diritti, della propria dignità.
Una dimenticanza che affligge e mortifica. I popoli si fondano sulla propria memoria, sulla propria storia o, perlomeno, sulle pagine più importanti di essa. Perché dunque Nardò ha da sempre rinunciato a riscoprire, a fare propria e a preservare una pagina tra le più gloriose della sua vita ultramillenaria? Perché non è stata capace di far rivivere in una grande strada, in una piazza, in un segno concreto il ricordo degli uomini che, in nome della propria appartenenza ad una città, hanno combattuto, sono insorti, si sono impegnati in una lotta disperata che ha portato alla morte di tanti di essi?
Probabilmente non esiste una risposta per queste domande o forse è una risposta poco edificante. Ciò dovrebbe invitare ad arrendersi? A mettere da parte il ricordo, le emozioni che questa storia sa ancora suscitare, gli insegnamenti che da essa si possono trarre, solo per assecondare l’indifferenza che alberga in molti? Personalmente dico no!
Da più di due decenni, il far tornare alla luce queste gloriose pagine della storia cittadina è divenuto per me un impegno personale o, per meglio dire, un vero e proprio obbligo morale nei confronti dei protagonisti della ribellione. Circa vent’anni fa, visitando l’archivio di Simancas, ebbi modo di consultare alcune fonti di prima mano sulla vicenda: un fondo documentale all’epoca pressoché inesplorato. Nelle ore trascorse nella città spagnola, le lunghe controversie giuridiche, le cronache della rivolta, i resoconti sulle sanguinose gesta del duca di Nardò e la ribellione dei suoi sudditi, il ruolo del re, dei suoi ministri, dei viceré e delle autorità locali rivissero sotto i miei occhi, donandomi un’emozione tuttora viva.
Negli anni a seguire, parte di questa documentazione ha visto la luce grazie ad alcuni studiosi pugliesi, molti dei quali gravitanti attorno al Centro Studi Conversanesi, come Aurora Martino, che desidero ringraziare per la preziosa collaborazione fornita e per l’enorme mole di informazioni restituite con i suoi scritti. Molto restava tuttavia da dire sulle vicende neretine. Per questo ho ritenuto indispensabile continuare le mie ricerche: a Napoli, presso il fondo Brancacciano, dove ho raccolto altre cronache dell’epoca; presso la Biblioteca della Società di Storia Patria, dove ho ritrovato i manoscritti sul processo intentato ai ribelli; e ancora a Nardò, nell’archivio del Capitolo della Cattedrale e in numerosi altri scrigni di fonti. Per anni tutto il materiale raccolto, trascritto e conservato, ha rappresentato la base per articoli, come quelli pubblicati annualmente sul sito della Fondazione Terra D’Otranto[1] e per opere di divulgazione, come Nardò a fumetti,[2] una storia illustrata dedicata ai piccoli neretini affinché germogliasse in loro un desiderio di conoscenza sulla storia della propria città.
Nonostante questi miei interventi personali e la pur ricca bibliografia esistente sull’argomento, ritenevo tuttavia giunto il momento di elaborare un lavoro più organico sulla vicenda, un’opera capace di incastonare i fatti di Nardò in un contesto storico più vasto ed articolato. Per questo decisi di affidare il frutto di anni di studio, letture e ricerche a qualcuno che, per preparazione e sensibilità, potesse essere in grado di donare loro una nuova veste. Questo qualcuno è stato Alessio Palumbo, il quale ha aderito con trasporto ed entusiasmo al mio progetto e che per questo ringrazio. Quest’opera è, in sintesi, il connubio tra un’antica passione e l’entusiasmo di giovani studiosi. Essa rappresenta dunque un tributo scientifico ma anche sentimentale ai fatti del 1647.
Risvegliare nei suoi lettori un interesse, una passione, anche una semplice curiosità su quanto accaduto; far comprendere ai neretini vecchi e nuovi e, soprattutto, a chi ne cura la formazione sin dalle prime classi scolastiche, l’importanza di riscoprire e conservare gelosamente il proprio passato; inculcare, in chi ne ha il potere, l’obbligo morale di garantire un riscatto (conoscitivo, civile, religioso) alle vittime di quella che fu una vera e propria barbarie: sono questi i principali obiettivi che questo volume si pone. L’auspicio è che riesca ad ottenerli tutti e tre. Se così non fosse, nondimeno avrà rappresentato, per i suoi autori e per chiunque vi abbia contribuito, un gradito impegno personale per studiare, ricordare, ripercorrere e rivivere una vicenda esemplare.
Nel leggere la prefazione a questo volume, a firma del dott. Marcello Gaballo, sono rimasto profondamente colpito dagli interrogativi, peraltro condivisibili, che egli solleva dinanzi all’inspiegabile e rattristante dimenticanza di un evento che, nella sua tragicità, ha invece del grandioso e dovrebbe essere motivo di orgoglio per la città di Nardò, che grazie ad esso è salita alla ribalta della grande storia con una originalità tutta sua propria, intorno alla quale occorre tuttavia stendere ancora un po’ d’inchiostro.
Non intendo minimamente sminuire le responsabilità di chi in quel preciso momento storico era a capo della Chiesa neritina, il cui comportamento è da stigmatizzare come gravemente deplorevole per più ragioni: perché in contrasto con i principi del Vangelo a cui avrebbe dovuto ispirarsi; perché lesivo della giustizia tanto umana quanto divina; perché abusivo nei confronti della suprema autorità ecclesiastica, di cui vanificò l’intervento censorio occultando il monitorio che preludeva alla scomunica dei colpevoli; perché privo, soprattutto nei confronti dei chierici, di quella paternità che è dovere primario per chi ha il compito della cura pastorale di una diocesi. Mai come in questo caso però si può dire che il pastore non espresse il sentire del gregge: ne è prova il fatto che le prime vittime delle efferatezze del conte-duca furono proprio esponenti tra i più illustri del clero locale.
Posto che è innegabile una certa contiguità, che caratterizzò il tempo di cui trattiamo, tra gli alti ranghi ecclesiastici e la nobiltà, alla quale comunque appartenevano, mi permetto di osservare che estendere la responsabilità del silenzio complice del vicario Granafei ai più alti livelli della gerarchia ecclesiastica appare francamente poco fondato: Fabio Chigi, vescovo di Nardò, risiedette in Germania quale nunzio dal 1636 al 1651 e quello che apprendeva dai suoi informatori non è detto che rispondesse alla realtà dei fatti; non sarà stato un caso se il monitorio di Innocenzo X fu emanato nel 1652, cioè pochi mesi dopo la nomina di Fabio Chigi a Segretario di Stato e il suo rientro a Roma, anzi lascia supporre che una migliore conoscenza degli eventi abbia spinto l’autorità centrale della Chiesa a compiere i passi previsti ai fini della comminazione di una eventuale censura; peraltro il monitorio non è l’atto di scomunica, ma l’ingiunzione a deporre su fatti meritevoli di scomunica, per cui la sua omessa pubblicazione di fatto impedì la resa delle deposizioni che avrebbero innescato il procedimento censorio; non vi sono prove che il Chigi, che ovviamente doveva fidarsi del suo vicario, avesse potuto sospettare comportamenti abusivi da parte dello stesso, che in tutta la vicenda si curò peraltro di apparire del tutto estraneo.
Per il resto il silenzio calato sulla vicenda si può interpretare inizialmente come espressione di comprensibile paura di fronte ad una prepotenza che sembrava non conoscere limiti: in situazioni di tal genere l’eroismo di un’opposizione esplicita non sempre è la scelta più saggia, soprattutto quando, come nel caso di cui ci stiamo interessando, poteva fomentare vendette e sofferenze ancora più atroci quanto inutili alla causa. Ma non si può tacere che qualcuno ebbe il coraggio, anzi l’ardire, di consegnare ad uno scritto, rimasto nascosto sotto la polvere del tempo, la memoria delle nefandezze vedute e patite: forse era tutto quello che in quel momento poteva essere fatto, e noi lo ringraziamo perché ci offre oggi la possibilità di apprendere da un testimone diretto e credibile i particolari e i contorni di una vicenda, che può essere così apprezzata in tutta la sua portata non solo storica, ma anche umana e cristiana.
Il silenzio successivo può essere dovuto al fatto, anch’esso istintivo e naturale, che l’uomo tende ad esorcizzare le esperienze che lo hanno ferito in profondità, stendendo un velo sopra il passato e volgendo di preferenza lo sguardo verso il futuro, in cui trovare motivi per risvegliare la speranza di un mondo migliore. Meno comprensibile invece è il silenzio dei posteri: bisogna avere il coraggio di fare sempre i conti con il proprio passato, perché solo così la storia, secondo l’insegnamento di Cicerone, diventa maestra di vita, antidoto al ripetersi delle nefandezze compiute, trampolino di lancio verso un futuro più promettente.
Questo lavoro, che compone egregiamente i fatti in maniera sufficientemente completa e critica e li rilegge in un contesto di più ampio respiro, consente ora ad un’intera Città di riappropriarsi del proprio passato, risvegliando la memoria intorpidita e soprattutto prendendo coscienza di valori imperituri, impregnati del sangue di martiri innocenti, che devono essere sventolati come una bandiera anche nel nostro tempo, esso pure insidiato da una congerie di morbose e destabilizzanti tentazioni, sempre sulla linea della prepotenza e della corruzione, da cui vengono ineluttabilmente partorite, come la storia dimostra, ingiustizie, violenze e ogni forma di prevaricazione della libertà e della dignità dell’uomo e dei popoli.
Un pensiero di gratitudine voglio indirizzare, tra le innumerevoli vittime della ferocia del Guercio di Puglia, ai sei chierici che, dopo aver intercettato il disagio popolare e guidato il tentativo di riscatto dall’insopportabile oppressione del dispotico feudatario, hanno affrontato la morte con commovente ed edificante coerenza evangelica, confermando con l’immolazione della vita la loro scelta vocazionale di dedicarsi, in nome di Dio, al servizio dei fratelli. A loro il Registro dei defunti alla data del 20 agosto 1647 dedica un laconico “morirono e si sepelirono nella Cathedrale”, naturalmente senza esequie. Mi auguro che a questo volume, dedicato al loro sacrificio, ogni neritino voglia aggiungere la propria memoria grata, che continui a farli vivere come fari luminosi di umanità e di civiltà da additare alle nuove generazioni.
Dalla parte dei giusti. Il Libro d’annali de successi accatuti nella Città di Nardò, notati da D. Gio: Battista Biscozzo
Libro d’annali de successi accatuti nella Città di Nardò, notati da D. Gio: Battista Biscozzo di detta Città [*]
A… Luglio 1636, venne il Sig. Conte di Conversano, a pigliare possesso della città di Nardò, per la morte di sua Matre D. Catarina Acquaviva, il detto si chiama D. Geronimo.
A 26 Marzo 1638, venne avviso che nella Calabria per una scossa di tremuoto, aveva gettato a terra trenta luochi.
A 12 Agosto 1639giorno di venerdì, la matina, ad ore 13, fu ammazzato Francesco Maria Manieri, nobile, con una archibugiata, sopra il Cemiterio della Chiesa Matrice, giusto la porta magiore, l’omicita fu un tal Prome Felice, uno che guardava la foresta del Sig. Conte, e si dice esser stato mandato da detto Sig. Conte, per causa che detto Manieri, aveva detto mentre era Sindaco che poco era che era cessato da detto officio, che il Sig. Conte non possedeva libero Nardò, mentre prima di lui, lo possedeva uno casa del Balzo, pignorata per 24 mila docati, fu levata dalla Corte, a detto Balzo, e ne investì detto Sig. Conte, per servigi avuti Sua Maestà, nella guerra, e avendo la Città detta somma di denaro, e pagandolo, restarebbe detta Città Regia; altri dicono che detta Città fu data a detto Sig. Conte, per i servigi fatti nella guerra, vita sua durante, e che se ne pigliasse carlini quindeci per fuoco, l’anno, e doppo morto, s’incorporasse al patrimonio Regio, che così li fu concessa dal Re Ferrante, in tempo che era Sindaco Roberto Sambiasi.
A… Maggio 1643, venne il Canzelliere Mugnes, per la morte di Francesco Maria Manieri, ed annullò il Governo, essendo Sindaco, Gio: Bernardino Massa, de Nobili, e Delfino Zuccaro del Popolo, e nella nuova elezzione fu fatto Sindaco de Nobili Dr. fisico Pietro Gabellone, e Cesare de Paulo del Popolo, detto Governo fu confirmato da S. E., il detto Mugnes sequestrò la giurisdizzione della Città al Sig. Conte.
A 22 Febraro 1646, andarono carcerati in Napoli, Notaro Alessandro Campilongo, Giandonato Ri, Scipione Puzzovivo, Nobile, e otto altre persone del popolo, per imposture fatteli dal Sig. Conte.
A 23 Febraro 1646, furono chiamati in Roma, Dr. Ottavio Sambiasi, D. Gio: Francesco Sambiasi, Cherico Carlo Sambiasi, D. Gio: Cola Sambiasi, Abate Gio: Filippo de Nuccio, Cherico Innocenzio de Nuccio nobili, D. Vitantonio Puzzovivo, D. Onofrio Nestore, D. Francesco Maria Gabbellone, Cherico Domenico Gabbellone, D. Diego de Vito, Cherico Pietrantonio de Vito, Abate Gabriele Nestore, Cherico Francescantonio Giullio, D. Gio: Antonio de Monte nobili; Gio: Francesco Demitri, Cherico Giuseppe Bruno, Cherico Scipione Querriero nobile, Cherico Giuseppe Manieri, Cherico Scipione de Nuccio nobile, Cherico Giullio Cesare de Pandis, Cherico Mercantonio di Vernole, Cherico Patonno Giannelli, tutti questi furono chiamati sotto pretesto che avessero levate certe esecuzioni fatte dal Governatore nelle bestiami de preti, che non volevano pagare il dazio, andarono dal Vicario Generale, che era l’Abate Giovanni Granafeo di Brindisi, il medesimo risposeli che su questo, non penzassero, che l’averebe da difendere, tutti i nominati costituirono procuratore in Roma, e non andarono.
A 21 Luglio 1647, Domenica ad ore 22 si rivoltò il popolo contro Gio: Ferrante de Noha Auditore de Nobili stando pro Sindaco, perché li Sindaci, erano in Lecce, la rivoluzione fu per mancanza del pane, quale portò pericolo della vita, si rivoltò anche contro il Governatore Dr. Geronimo Regina, per l’ingiustizie fatte nel suo governo, detto Popolo gridava che volevano per Sindici Stefano Gabellone de Nobili, e Cesare de Paulo del Popolo, e che cessino di Sindici, Gio: Bernardino Sabatino, nobile, e Francescantonio Bonvino del Popolo, tutti aderenti del Sig. Conte, condiscese detto Governatore, e firmò le scritture; in detto tempo si rivoltò Napoli, e tutto il Regno.
A 22 Luglio1647, vennero in Città detti Sindici, quali stevano rifugiati in Corigliano, essendo detto Marchese D. Giorgio delli Montii. contrario al Sig. Conte, e arrivati che furono, subito il popolo li dettero il Stendardo Reale in mano del Sindaco dei Nobili, che lo portasse nel Castello, e con tutto che detto Sindaco ricusava di farlo, fu necessitato a portarlo, mentre portava pericolo della vita.
A 22 Luglio 1647, il popolo ammazzò Giuseppe Sponziello tamborrino, havendoli scoverto, che voleva ammazzare il Sindaco de Nobili.
A 23 Luglio 1647, ruppero tutti li vasi, e cassette buttando tutte le robe che vi erano dentro della Spezieria di Antonio Corilli veneziano, per aver detto al popolo, che è ribelle del Patrone, sdegnato il Popolo di questo, s’aventarono sopra per ammazzarlo, e perché lo scampò dalle mani arrabiati di questo volevano sbarbicare detta Spezieria da fondamenti, ma perché non era da detto Corilli, si trattennero.
A 24 Luglio 1647, fu fatto capopopolo Patuano, il quale fe bando che si mettessero tutti in arme, come già si videro armati per la Città, andando in Casa di Gio: Lorenzo de Vito nobile, ed in casa di Luzio Zuccaro, Scipione Zuccaro, e dal Governatore, ed altre case, a trovare i Patroni per ammazzarli, come contrari della Città, e ad essi havendone avuto l’avviso, se ne fuggirono in Galatone, come anche fè D. Diego Acquaviva cugino del Sig. Conte.
A 26 Luglio 1647, fu ammazzato Giorgello, serviente del Sig. Conte, per aver sparlato contro la città.
A 26 Luglio 1647, volendo uscire dalla Città la Sig.ra D. Beatrice Acquaviva, con tre figlio il Popolo non la fè uscire.
A 28 Luglio 1647, passando per la vicinanza di Seclì Donatantonio Bonsegna, fu carcerato per ordine del Patrone di detto luoco D. Antonio d’Amato, come cugino del Sig. Conte, saputosi questo dalla Città, mandarono due Riformati, con imbasciate ad esso Barone, che se non scarcerava detto Bonsegna, farrebbero uscire sua sorella dal Convento di S. Chiara, e la brugiariamo, per detta imbasciata subito fu scarcerato; e la sua carcerazione fu per essere stato lui che disse, che si portasse il Stendardo a Castello.
A 29 Luglio 1647, venne ordine da Lecce, che lasciassero uscire dalla Città, D. Beatrice Acquaviva, moglie del Sig. D. Diego Acquaviva; il popolo ubitì.
A 1 Agosto 1647, ad ore diece arrivarono da settanta soldati a cavallo, che andavano scorrendo per la campagna, e attorno alla Città, pigliarono da settanta e più persone, e ne le portarono con essi, tutti questi stevano nell’aere pesando il grano, e chi guardava il fatto suo, e fra questi vi fu Pomponio Argentone nobile, D. Pietrantonio Fisio, nobile, ed altri; la gente a cavallo erano del Sig. Gio: Battista Cicinielli, e da D. Francesco Pignatelli, parenti del Sig. Conte, ed altri di Nardò aderenti del Sig. Conte, e questi andarono a Copertino ad aspettare il Sig. Conte, che veniva ad assediare la Città.
A 2 Agosto 1947, ad ore nove, di nuovo vennero li sopra detti a Cavallo, e principiarono a metter fuoco nell’aere, e fra le altre una si chiama Soleci, l’altra li Mangani, con questa occasione vennero molta gente di Galatone, e se ne portarono molto grano, scampato del fuoco; detta gente andarono per le Masserie d’intorno alla Città, e a quella di Arneo, e pigliarono tutte le bestiami, pecorine, e vaccine, le pecore furono 3000, le vaccine 200 e diverse giomente, e sommarrine, diverse altre Massarie non furono danneggiate, perché erano della partita del Sig. Conte; detta gente si avvicinarono sotto le Muraglie, e incominciarono a tirare archibugiate alla gente che steva sopra le Muraglie tutta armata, mentre avevano avuto l’avviso, che veniva il Sig. Conte, con molta gente armata, per assediare la città, in questo tempo si tirarono molte moschettate d’ambe le parti, ma non successe danno alcuno, la Città tirò un pezzo d’artigliaria, e perché l’artiglieri, non era troppo prattico, non offese nisciuno, doppo ciò la gente di fuora, nuovamente si ritirò in Cupertino.
A 2 Agosto 1647, venne avviso da Lecce, esser stato ammazzato il Dr. D. Ottavio Sambiasi, dentro il cimiterio de Patri Conventuali, perché era avvocato della Città.
A 3 Agosto 1647, ad hore nove arrivò la gente che portava il Sig. Conte con due suoi figli, D. Giulio, e D. Tommaso, e posarono mezzo miglio distante dalla Città, con questi andavano uniti il Principe di Presicce, il Duca di S. Donato, il Marchese di Cavallino, D. Gio: Battista Cicinelli, D. Tuglio di Costanzo, D. Diego Acquaviva, il Barone di Lizzaniello, il Barone di Seclì, ed altri Signori, ciascheduno con la sua gente, due compagnie di cavalli, una compagnia di fanteria, cento Picheri, trenta Gentiluomini di Lecce, con i loro servitori, ci furono anche gente d’Altamura di Monte Peluso, di Bari, di Brindisi, di Gallipoli, di Francavilla, di Casalnuovo, di Galatone, di Casarano, ed altri luochi, che in tutto furono 4000 persone, tutti bene armati, incominciarono a toccar tamburi, e trombette; inteso questo la Città, subito corse la gente alla difesa, e tirarono una cannonata verso l’inimico, proprio alla cavalleria, che li recò non picciol danno, la Città aveva trovato un artegliere inglese, molto pratico a tirare, e si vedeva che dovunque voleva tirava fra lo spazio di un quarto d’hora, vennero dietro la Porta della Città, tre cavalli, con le selle vuote; il nemico si portò vicino al Convento de Patri Paoloni, da dove ebero qualche fastidio i cittadini, quale incominciarono a tirare, quelli di fuora e quelli di dentro, portò il caso che un giovine salendo su una pergola per pigliare uva, li fu tirata una schioppettata, fu colpito nell’occhio, e se ne morì, della parte delli inimici, per relazione di quelli di fuora ne morirono 120 detta battaglia durò due giorni, e due notti, il Sig. Conte mandò due Capoccini, per l’accordio, i Cittadini rifiutarono il partito, nuovamente rimandò detti Patri, li fu risposto che mandasse il Vescovo di Lecce per necozziare, il Sig. Conte fè venire detto Vescovo, e incominciarono a trattare, la pretenzione della Città fu, che il Sig. Conte levasse tutte le gabbelle, e che la balliva sincome ab antico, era della Città, e presentemente la possiete detto Sig. Conte, la rilasciasse ad essa Cità, e in ricompenza di ciò, la Città si obbliga di pagarli 500 docati annui, mentre i cittadini sofrivano molto incommoto per detta balliva, mentre il Sig. Cote la vendeva in ogni anno docati 2000, e perché il compratore non podeva esiger tanto, accordava tutti quelli che avevano bestiami, come esso voleva, senza che nisciuno possa opponersi, e che per l’altre differenze che esistono tra la città, ed il Sig. Conte, se la vedessero di giustizia, tutto questo cercò la città, il Sig. Conte cercò, che li cittadini, nollo contrassero nelli suoi officiali, e che sia levato il Stendardo Reale dal castello, che haveva portato il Popolo.
A 7 Agosto 1647, andarono i cittadini, nelle loro Massarie, e le trovarono spogliate di bestiami, formagio, e di tutte le vettovaglie, e brugiate le case, le porte atterra, in vederle era pietà, si calculò il danno, ed arrivò alla somma di trentamila ducati.
A 9 Agosto 1647, un Massaro che steva nella Masseria nominata S. Elisa, era dell’Arciprete, ponendo fuoco alle ristocce, detto si attaccò alle rene, e abrugiò più di mille alberi, e sarebbe stato magiore il danno se non avessero corsa la gente dalla città, a smorzar detto fuoco.
A 10 Agosto 1647, venne il Sig. Gio: Battista Ciciniello, per causa che il Popolo si andava movendo, mentre si vociferava che i patti di levare le gabelle, e bagliva non si osservava, ma detto Ciciniello, queitò il popolo.
A 11 Agosto 1647, il popolo non si quietò affatto, ma diceva che per tutti i luochi non si pagava nisciuna gabella, ed in Nardò si, si pagavano due carlini a tumolo nella cartella della farina, volle il Popolo che rilevasse detta gabella, e per tal causa passò pericolo della vita il Sindaco de Nobili Gio: Bernardino Sabatino, quale fu di bisogno andare unitamente col Popolo alle Moline, è ordinare all’esattore, che lasciasse entrare tutte le persone, senza pagare cosa alcuna, così s’acquietò il Popolo.
A 13 Agosto 1647, l’aderenti del Sig. Conte, per tal mossa fatta dal Popolo, ne dietero avviso in Conversano al Sig. Conte, e usciti di notte detti aderenti, pigliarono tutta l’artigliaria della città, e dato di mano al Magazzeno della polvere, e altro, tutto trasportarono nel castello, la matina havendo inteso questo il Popolo, parte si ritirarono nelle chiese, e parte se ne uscirono dalla città ricuperandosi nei luochi circonvicini.
A 14 Agosto 1647, l’aderenti del Sig. Conte, pigliarono carcerati, il capo Popolo Patuano… Giuseppe Spatò Giov. Domenico Scopetta, e Gio: Francesco di Calignano, e li portarono carcerati nel castello, detti aderenti andavano per la città armati, intraccia di altri loro contrari, detti aderenti pigliarono informazione, benché falsamente, contro il Popolo, costandoli che volevano ammazzare tutti l’arderenti, detta informazione fu mandata in Utienza, quale la medesimo mandò due Auditori, con una compagnia di cavalli, che erano di D. Tiberio Garrafa, detta compagnia fu mandata ad allogiare nelle case de loro contrari, cioè in casa di D. Francesco Maria Gabellone nobile, Abate Gio: Filippo de Nuccio, nobile Abate Gio: Carlo Colucci, nobile, Pietro Spinelli nobile, Barone Pietr’Antonio Sambiasi, Barone Gio: Guglielmo Sambiasi, Dr. Abbate Benedetto Trono, Antonio d’Anili, ed altri, detti due Auditori dietero ordine che si esigessero le gabelle del Sig. Conte.
A 17 Agosto 1647, fu pigliato dalla chiesa di Casole territorio di Copertino, Cesare de Paolo, e li fu tagliata la testa, vicino la chiesa del Ponte, e pur anche fu pigliato Giuseppe Olivieri, che steva in Leverano, e li fu tagliata la testa, nelli patuli, e tutte due teste furono portate nel castello, dove stevano tutti l’aderenti, saputosi tal fatto dal Tenente de Cavalli, andò in castello lamentandosi, con dire che non havevan fatto bene a tagliar le teste a quelle due persone, quando che detta cavalleria, steva per ordine dell’Aditore Sarsale, per la quiete della città, promettendo, così l’aderenti, come i cittadini di posar l’arme sub fide Regia, e così si avevano acquietati, li fu risposto a detto tenente esser vero la parola data, ma questo successo, fu in campagna, e fu per inimicizie particolari de Cittadini, e perciò non sono incorsi a trasgressione d’ordine.
A 19 Agosto 1647, furono pigliati carcerati, l’abate Gio: Filippo De Nuccio, l’abate Donato Antonio Roccamora, nobili, Dr. Abate Benedetto Trono, Dr. Abate Gio: Carlo Colucci, Francesco Maria Gabellone, e il chierico Domenico Gabellone Fratelli, D. Giovanni Giorgino, Stefano Gabellone, Fratello dell’anzidetto Gabelloni, tutti questo stevano uniti in casa delli detti Gabelloni per sicurità, mentre in detta casa steva il Tenente della Compagnia, e detto Tenente li pigliò carcerati in poder suo, tutti questi furono che nella falsa informazione presa, che erano stati i fomentatori alla ribellione, e alla congiura contro l’aderenti del Sig.Conte; vetendo questo, molti del Popolo incominciarono ad uscire della città, andando per diversi luochi, ma la maggior parte in Gallipoli.
A 20 Agosto 1647, dalla gente del Sig. Conte furono tagliate tre strade, che uscivano al Castello, e incominciarono a trincerare detto castello, alzare la quarta Torrione, quale circondano tutto il castello, fecero anco il ponte, ed il restiglio nella prima entrata.
A 20 agosto 1647, fu tagliata la testa al Dr. Abate Gio. Carlo Colucci, d’anni 47; al Dr. Abate Benedetto Trono d’anni 70; Arciprete Gio. Filippo Nuccio, di anni 42; Abate Donato Antonio Roccamora, di anni 53; D. Francesco Maria Gabellone di anni 40; chierico Domenico Gabellone d’anni 37; prima furono archibugiati, e poi tagliate le teste, detto fatto fu dietro il convento di S. Francesco di Paola, e in quell’istante si vide oscurarsi l’aria in tal modo, che non si vedevano l’uno con l’altro, e finito che ebero tal carneficina, l’oscurità si risolse in pioggia così abondante, che era quasi un diluvio, detti sfortunati preti, dacché uscirono dal castello dove stavano carcerati, sino all’hora della loro morte, non mancavano di salmegiare, e dire diverse orazzioni, dandosi animo l’un con l’altro, e dicendo de continuo, Pater ignosce illis quia nesciunt quid faciunt, tra li quali D. Francesco Maria Gabellone, non cessò mai di dire, Conceptio tua Dei genitris Virgo gaudium annunciavit universo Mundo, e doppo morto anche flebilmente risentiva dire dette parole, questo fatto ad hore diecinnove; nell’istessa notte fu ammazzato il Barone Pietrantonio Sambiasi a pugnalate, essendo questo d’anni 37[†], morto che fu l’appesero per piede alle furche mezzo della Piazza, e le teste delli reti furono posto su il Sedile, e li corpi de medesimi distesi nella piazza attorno le furche.
A 21 agosto 1647, entrò il Sig. Conte in città, con suoi figli, Cosmo, Giuglio, e Tommaso, e con altri Signori, in compagnia di 500 uomini.
A 22 agosto 1647, furono pigliati carcerati, il Barone Baldassarro Carignano, il Dr. Gio. Filippo Bonomi, e Gio. Lorenzo Colucci, nobili, e furono portati al castello.
A 22 agosto 1647, si dette sepoltura alli corpi de preti, e di Pietrantonio Sambiasi, ma non alle teste.
A 23 agosto 1647, furono carcerati nelle carceri del Vescovo, D. Donato Antonio Pizzuto e D. Onofrio Mastore, sotto pretesto che havessero portato polvere alla città, in tempo che stava assediata, e che havessero accompagnati alcuni gentiluomini che fugivano dalla città.
A 25 agosto 1647, fu gettato a terra lo studio, e due altre camere dell’Abate Gio. Carlo Colucci.
A dì detto si diè il sacco nelle case di Vitantonio Falconi, con dire che s’avesse trovato nella congiura.
A 26 agosto 1647, fu pigliato carcerato da Copertino, e portato in questo castello di Nardò il Medico Francesco Maria dell’Abate.
A dì detto si dette il sacco nella casa di Gio. Pietro Giuglio nobile per haver pigliato il stendardo di Sua Maestà dentro la chiesa ove si conservava e datolo a Stefano Gabellone Sindaco de nobili fatto dal popolo, per portarlo nel castello.
A 4 settembre 1647, mercordì all’alba partì il Sig. Conte, con sui filli, et altri signori, portando con essi mille cavalli, e cinquecento petoni, nella città di Lecce, ed entrate alcune persone per la porta falsa del castello, pigliarono D. Francesco Boccapianola mastro di campo di questa provincia insieme con la moglie e figli, e tutta la famiglia, detto Boccapianola s’aveva ritirato nel castello perché il popolo lo voleva ammazzare, con dire che era contrario a detto popolo, e unitosi col sig. Conte, e Duca di S. Donato, e perché detto Duca era stato scacciato da S. Cesario suo luogo, ed essendosi dato il sacco al suo castello di detto S. Cesario, da suoi vassalli, insieme con gente di Lecce, e di Lequile, sdegnato di questo il sig. Duca, et havendosi trovato l’ocasione di questa comitiva, ordinò che si desse il sacco a detto casale di S. Cesario, a questo replicava il sig. Conte, ma il sig. Duca sdegnato quanto più si può, si diè alla fine il sacco, non lasciandoci né meno una paglia dentro delle case, in ultime gettarono tutte le porte a terra, e tirarono di queste anche li chiodi che in vederlo era una pietà, il sig. Duca havendolo visto ne restò molto mortificato, e questo lo visto io proprio mentre andavo a Lequile per vedere certi miei parenti per coriosità volsi andare a vedere detto luogo; in detto luogo fecero residenza tutta quella gente cinque giorni, trattando se andavano a dare il sacco alla città di Lecce, per haver commessa ribellione, havendo il popolo ammazzato il conzelliere Aracca, essendo venuto per aquietare il popolo, perché tumultuava, e perché li cittadini havevano inteso, che avesse venuto per mettere le gabelle, che serano levate, e perciò l’amazzarono. Tra pochi giorni venne ordine da Napoli da S. E., che siano aggraziati tutti i cittadini di Lecce per l’omicidio fatto in persona del detto conzelliere, e che detta città ricevesse per mastro di campo Boccapianola, quale non lo voleva ricevere, ma in luogo suo voleva il sig. Giacomo Spinola genovese, e perciò il sig. Conte, e detto Boccapianola si ritirarono in Nardò per consultare questo fatto.
A 5 settembre 1647, fu pigliato carcerato Andrea Zuccaro, e portato al castello.
A 7 settembre 1647, fu pigliato carcerato cherico orlando Spina di Gallipoli, e cherico Antonio Monittola di detta città, quali passando da S. Cesario per andare in Lecce, per loro affari, ed essendo stati visti dalla gente del Sig. Conte furono pigliati, il Monittola fu lasciato, ma il detto Orlando fu carcerato, per aver fatto imbarcare in Gallipoli il marchese della Caia, D. Francesco delli Monti per haver fuggito dal Regno.
A 8 settembre 1647, Orlando Spina fu trasportato dal castello di Nardò al castello di Taranto.
A 10 settembre 1647, Boccapianola, assieme col Sig. Conte, mandò in Lecce per provista del castello, duoteci carrette di grano, oglio, formaggio, e pietre di moline, i cittadini di Lecce riceverono dette carrette, ma non le consegnarono al castello, perché i cittadini stavano inimici, con quelli del castello, e detta città voleva essa darli la provista, quale il castello non voleva ricevere cosa alcuna dalla città, protestandosi che non voleva altro provveditore, che Boccapianola, saputosi questo da detto Boccapianola, spedì molti corrieri per la provincia, a tutti li Baroni che si conferiscano in Nardò, per andare ad assediare la città di Lecce, per aver incorso al ribeglione, negando di dare al castello quella provista, che si mandò dal Governatore dell’armi.
A 14 settembre 1647, fu carcerato Tomaso Spano nel castello, perché portava le lettere da Lecce in Nardò, mandate dal Dr. D. Ottavio Sambiasi avvocato della città.
A 15 settembre 1647, fu pigliato carcerato Gio. Francesco Bisci, villano, e portato al castello, per testimonio, tutti quelli che sono pigliati carcerato sono per costare il ribellione, per li preti morti, ed altri cittadini.
A 19 settembre 1647, furono pigliati carcerati dentro Gallipoli, avendono fuggiti da Nardò, Pietro Antonio Fiazzi, e Giuseppe Scopetta, detti sono stati presi da uno di Gallipoli, affezionato del Sig. Conte, per nome l’alfiero Annibale Calò, furono trasportati al castello di Nardò.
A 20 settembre 1647, partì per Conversano il Sig. Conte, portando con sé tutti li carcerati, quali furono, il Barone Baldassarre Carignano, il Dr. Gio. Filippo Bonomi, il Dr. fisico Francesco Maria dell’Abate, Gio. Lorenzo Colucci, e Stefano Gabellone il capi popolo Patuano, Giuseppe Spata, Andrea Zuccaro, Pietro Antonio Facci, Giuseppe e Gio. Domenico Scopetta fratelli, D. Giovanni Giorgino, ed un altro villano.
A dì detto fu pigliato il Barone Totino, per ordine di Boccapianola, e fu carcerato nel castello di Nardò, e dopo fu portato nel castello di Gallipoli.
A 23 settembre 1647, partì da Nardò Boccapianola per ordine di sua eccellenza e andò a Munopoli, o a Trani, per far residenza, portando con sé due compagnie di cavalli.
A 26 settembre 1647, fu fatto il bando che tutti quelli che si trovavano fuori dalla città fuggitivi, che venissero a farsi il decreto del Governatore, e che passeggiassero per la città eccettuatone alcune persone, e quelli che non erano eccettuati, nemmeno venivano, perché si vedeva, che il Governatore, mastro d’atti, ed altri aderenti del Sig. Conte, mettevano nella lista tutti indifferentemente, la causa era per abuscar li decreti, o regali e per odi particolari, nuovamente si fe bando, che ognuno venisse liberamente senza decreto, riserbando però tutti quelli eccettuati, quali sono li sottoscritti.
Barone Gio. Guglielmo. e Gio. Francesco Sambiasi, padre e figlio, notaro Alessandro, e Muzzio Campilongo padre e figlio, Mariantonio e Gio. Lelio de Vito, padre e figlio, Antonio e Giuseppe Nociglia fratelli, Matteo e Luca Giorgini fratelli, Gio. Donato e Giacomo dell’Ardita fratelli, Vitantonio delli Falconi nobile, Geronimo Matera nobile, Giuseppe Gabellone nobile, Alessandro Zuccaro, Francesco Luzziano nobile, Virgilio Massafra, Francescantonio Biscozzo nobile, Lupantonio della Fontana, Antonio d’Anili, Aloisio Zuccaro, Donato Antonio Bonsegna, Ottavio Bruno, Gio. Pietro Giuglio nobile, il nome di tutti questi furono fissati nella piazza.
Altra nota de preti, ma questa non fu fissata in piazza e sono i sottoscritti:
D. Gio. Bernardino Sambiasi nobile, D. Gio. Antonio de Monte nobili, D. Gio. Francesco Cristallo nobile, D. Giuseppe e D. Carlo Piccione fratelli, cherico Gio. Geronimo Carignano nobile, Abate Stefano Conca nobile, D. Alessandro Sambiasi nobile, D. Gio. Francesco Sambiasi nobile D. Alfonso Campilongo nobile, tutti questi notati, sì preti, come laici, si dice che siano incorsi nella ribeglione.
A 11 ottobre 1647, ad hore quattro della notte si levarono le teste delli preti dal Setile, e solamente restarono la testa di Cesare de Paulo, e di Giuseppe Olivieri; si dice che fusse venuto ordine dalla Congregazione al Vicario, che le desse sepoltura, ma detto Vicario prima di far questo, ne scrisse al Sig. Conte; e perciò si levarono dette teste.
A 15 ottobre 1647, venne ordine al Governatore da Sua Eccellenza che mandi il battaglione in Napoli, per soccorso di Sua Altezza D. Giovanni d’Austria, che era venuto per quietare la città di Napoli, per il tumulto accorso, e perché detta città voleva certi patti prima che entrasse Sua Altezza, e non volendo concederli, per tal causa la città si pose in armi, e non lo fece entrare, sdegnato di questo Sua Altezza unito con li tre castelli, esso per la porta del mare, con l’armata navale, sincominciaro a tirarsi con la città, e perciò Sua Eccellenza spedì ordine per tutte l’Università e baroni de luochi, che andassero in Napoli con le loro genti.
A 19 ottobre 1647, venne in Nardò il Sig. Gio. Francesco Basurto, il Sig. Gio. Francesco Pignatelli, il Sig. D. Fulgenzio di Costanzo, detti signori andarono uniti con il Duca di S. Donato, e il sig. D. Diego Acquaviva, che stavano in Nardò, ciascheduno di questi andava con la sua gente chiamati da S. E. in Napoli, come anche furono chiamati tutti li Baroni e cavalieri del regno, e anche la fanteria e cavalleria ordinando a tutte l’Università, che ciascheduno provvedesse li suoi soldati, con darli e i petoni un carlino il giorno, e alli cavalli tre carlini al giorno, e che li pagassero per un mese anticipato.
A 22 novembre 1647, fu pigliato carcerato D. Filippo Demetrio, per haver detto, che l’aterenti del Sig. Conte, toccava fuggire, perché si diceva che il Sig. Conte fusse stato ammazzato, nella guerra di Napoli, con tutti i suoi figli.
A 29 novembre 1647, venne avviso da Conversano della sig.ra contessa, al suo Perceptore, che facesse l’esequie per la morte del Si.g D. Emiglio Acquaviva suo figlio, essendo morto nella guerra di Napoli, a Frattamaggiore.
A 4 marzo 1648, avviso da Conversano che li carcerat che stevano in Conversano, stati ammazzati per ordine del Sig. Conte.
A 5 dicembre 1647, fu pigliata una donna dalla gente del Sig. Conte, e fu posta nel Segio, attaccata alla berlina, per lo spazio di mezz’ora, per haver detto che il Sig. Conte sia morto nella guerra di Napoli.
A 7 marzo 1648, sabato mattina si videro nel Segio le teste di quelle che stavano carcerati in Conversano, e furono il Barone Badassarro Carignano, il Dr. Gio. Filippo Bonomi, Stefano Gabellone Gio. Lorenzo Colucci, Patuano capipopolo, Gio. Domenico e Giuseppe Scopetta fratelli, Giuseppe Spata, Andrea Zuccaro, Pietro Antonio Facci, Archilio, Gio. Francesco di Calignano; venne avviso, che detti morti furono strangolati da due schiavi, e dopo tagliate le teste.
D. Giovanni Giorgino ed il medico Francesco Maria dell’Abate, restarono carcerati, se bene furono passati al Civile, si dice che havessero havuto la grazia per mezzo di D. Francesco Pignatelli il sopra detto Stefano Gabellone s’aveva trattato di darli libertà con pagare mille docati, come già rimandarono in Conversano, e dopo ricevuti, in cambio di mandarlo libero in Nardò gli mandò la testa a sua madre.
A 25 maggio 1648, si levarono le teste che stavano al Sedile, cioè del Barone Baldassarro Carignano, del Dr. Gio. Filippo Bonomi, di Gio. Lorenzo Colucci e di D. Stefano Gabellone e li fu data sepoltura.
A 26 detto furono levate le altre teste, e furono sepolte.
[*] Tratto da «Rinascenza Salentina», A.4, n. XIV , 1936, pp. 7-26, pp. 9 -21. Trascrizione di Alessio Palumbo
[†] Si tratta di un errore: Pietrantonio Sambiasi aveva 87 anni
Un’allucinazione collettiva ed individuale legata alla rivolta di Nardò del 1647?
Non ho, oltretutto, capacità divinatorie, ma mi è sembrato un peccato perdere l’occasione di fare qualche riflessione su un fatto che, secondo me, sarebbe troppo semplicistico liquidare come espressione di credulità popolare e che, a cose fatte, chiunque potrà a suo tempo, se ne ha voglia, approfondire.
Sulla triste ma gloriosa vicenda che vide Nardò sfortunata protagonista l’unica fonte contemporanea agli eventi a nostra disposizione è una cronaca manoscritta lasciataci da Giovanni Battista Biscozzi (1613-1683) preziosa anche per la sua imparzialità, cosa abbastanza rara in documenti di questo tipo, in virtù della quale sono riportati gli eccessi di violenza commessi da entrambe le parti. L’autografo, purtroppo, è andato perduto ma per fortuna ci restano delle copie sulle quali illuminante è il ragguaglio lasciatoci da Nicola Vacca (http://www.culturaservizi.it/vrd/files/RS36_Biscozzi_libro_annali.pdf).
Dal testo della cronaca tratto dal Vacca da una copia e da lui pubblicato in Rinascenza salentina, anno IV, n. 4, n. s., 19361 (è lo stesso testo che i partecipanti alla commemorazione avranno in dono) riproduco di seguito due dettagli connessi con il titolo di questo post. Prego il lettore di tener conto soprattutto della parte che ho sottolineato in rosso nel primo.
…………….
Si tratti o no, per quanto riportato nel secondo brano, di allucinazione prima collettiva e poi individuale, voglio solo far notare lo stretto collegamento che, secondo me, esiste tra i due brani. Evidentemente il sacrificio dei martiri, religiosi e civili (sacerdoti ammazzati … altri cittadini morti) aveva tanto scosso il sentimento di pietà (e paura …) popolare che a distanza di poco più di un anno il suo ricordo non si era minimamente affievolito, tanto da attribuire loro, in buona o in mala fede (mi fu riferito da persona veritica; perché non fare nome e cognome?), una sorta di capacità profetica post mortem e la funzione di intercessione di regola riservata ai santi, mentre la pluralità della visione in tempi diversi è una prova del perdurare del tragico, traumatizzante ricordo.
Che l’agognata pioggia, quella stessa che nel primo brano assurge a simbolo di purificazione dal sangue indotto dalla peste della violenza2, sia veramente giunta non è dato sapere né dal Biscozzi né dal suo anonimo informatore, ma forse sono io che pecco di sfiducia e pretendo dalle fonti ciò che, almeno per loro, è, forse, tanto scontato da non richiedere integrazioni o conferme di sorta.
Ho il sospetto, insomma, che il fatto prodigioso sia il surrogato della consueta processione ad petendam pluviam (per implorare la pioggia) incrociata con le leggende connesse con la processione dei morti che ancora oggi sopravvivono in alcuni racconti popolari sardi e che in questo sia da ravvisare il perdurare di un clima di paura basata sul rischio che un’innocua processione potesse essere scambiata per un assembramento con rinnovati intenti cospiratori e rivoluzionari. Anche in questo caso sono sempre io a rimpiangere, almeno al momento, il conforto delle fonti …
Sarò presuntuoso ma non fino al punto da avere la velleità di fare concorrenza a Peppino De Filippo. Il ribaltamento del titolo di una sua famosissima commedia (Non è vero … ma ci credo) mi è stato ispirato dal recentissimo post di Emilio Rubino che chiunque può rileggere o, se gli è sfuggito, leggere per la prima volta al link https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/08/05/morira-prima-lui-o-prima-lei/.
La regola della prova del nove avrà anche origini molto lontane nel tempo e nello spazio ma conosciamo il nome di chi per primo ne fissò il ricordo sulla carta. Fu Rutilio Benincasa, originario di Torzano (oggi Borgo Partenope), frazione del comune di Cosenza, dove era nato nel 1555. Una figura certamente affascinante la sua, come quella di tutti quei personaggi sospesi tra astronomia, astrologia e stregoneria, che tanta ascendenza hanno avuto e, probabilmente, continueranno ad avere su persone delle più diverse estrazioni sociali e non, come comunemente si crede, solo su chi è espressione della credulità popolare (che fa rima con ingenuità ed ignoranza) o su chi, in preda alla disperazione, vede in maghi, fattucchiere, stregoni, santoni e simili la sua ultima spiaggia.
Rutilio Benincasa pubblicò nel 1593 a Napoli (mi pare di sentir dire: e dove, sennò? …) per i tipi di Giovanni Iacopo Carlino e Paci il suo Almanacco perpetuo, che ebbe, ma non fa meraviglia, un successo straordinario dimostrato dal numero impressionante di edizioni che seguirono alla prima e da aggiornamenti (proprio come successo con il Barbanera che nacque, però, quasi due secoli dopo) che continuano ai nostri giorni1. Per questo, essendo la prima edizione pressoché introvabile, il testo più fedele all’originale è quello che appare nelle numerose edizioni per tipi di Ottavio Beltrano, la prima delle quali uscì a Napoli nel 1636; da essa (integralmente leggibile e scaricabile al link https://books.google.it/books?id=MjWq265SslkC&printsec=frontcover&dq=benincasa+almanacco,perpetuo&hl=it&sa=X&ved=0CB8Q6AEwADgKahUKEwiNrPHG5YfHAhVIPRQKHX7jDH4#v=onepage&q=benincasa%20almanacco%2Cperpetuo&f=false) ho tratto, da p. 271, il dettaglio che segue.
Oltre la prova del nove, dunque, c’è anche quella del sette. A questo punto debbo essere sincero: l’intento di dimostrare l’infondatezza delle formule più che la loro validità (condivido l’etichetta di cianfrusaglia appioppata da Peppino Martina nel suo commento non al post del Rubino in sé ma a qualcosa di irrazionale, pur basata sui numeri, che appartiene al passato) mi ha spinto ad operare un controllo, per quanto riguarda quella del nove, con coppie famose.
1) NINO MANFREDI (1921-2004)-ERMINIA FERRARI (vivente)
SATURNINO=18+10+10+2+8+4+18+4+14=88
ERMINIA=14+8+12+18+4+18+10=84
88+84=172
172: 9=19 col resto di 1
2) MASSIMO BOLDI (vivente)-MARIA TERESA SELO (morta nel 2004)
5) DARIO FO (vivente)-FRANCA RAME (morta nel 2013)
DARIO=4+10+8+18+14=54
FRANCA=6+8+10+4+12+10=50
54+50=104
104:9=155 col resto di 5
6) PIETRO PAOLO MENNEA (1952-2013)-MANUELA OLIVIERI (vivente)
PIETRO=6+18+14+10+8+14=70
PAOLO=6+10+14+11+14=55
MANUELA=12+10+4+2+14+11+10=63
70+55+63=188
188:9=20 col resto di 8
Se la prova su 6 coppie famose si è conclusa con due casi negativi (nel n. 6, però, considerando solo PIETRO, il resto è 7), quella effettuata su un analogo numero di coppie non famose (conoscenti e parenti) ha dato 5 risultati positivi su 6 solo quando i nomi degli interessati sono stati considerati nella forma più usata (per esempio: Nino e non Giovanni, Mimino e non Cosimo, etc. etc.; d’altra parte, a differenza di quanto si afferma nel post che ha ispirato il mio di oggi, il Benicasa parla solo di nomi).
A questo punto, incuriosito dall’esito senz’altro brillante del primo esperimento, ho voluto farne un secondo per controllare la regola del sette, quella che prevede il sesso del nascituro. Mentre nella regola del nove determinanti sono i nomi delle due persone, qui ad essi si aggiunge quello del concepimento. Ho considerato dieci casi (compresi quelli relativi a Elisabetta e Caterina, le mie figlie); per quanto riguarda il mese del concepimento, non essendo un delinquente e quindi non potendo ricordare, per i due casi che mi riguardavano, la data di quell’evento, per quanto piacevole, l’ho calcolata a ritroso, partendo dal mese della nascita e lo stesso ho fatto con i restanti, casi rispettoso dei protagonisti, ammesso che pure loro ricordassero la data necessaria per il calcolo (ma, di regola, le persone che frequento non sono delinquenti …).
Ebbene, non ci crederete, questa volta per il Benincasa è stato un successo assoluto: ne ha indovinate 10/10.
E, a proposito di sesso del nascituro (questa volta, però, a differenza del caso precedente, in cui la coppia può scegliere il mese, qui i dati utilizzati esulano dai nomi e dalle date e non sono passibili di opzione alcuna), alle pp. 430-431 si legge:
Per il controllo delle prime due formule ho perso solo un po’ di tempo; per quest’ultima (ammesso che si possa chiamare formula) nemmeno quello, anche perché, a prima vista, mi è sembrata di ispirazione oscenamente maschilista. E non intendo perderlo nemmeno per la quarta, perché avrebbe richiesto in più un finanziamento e, siccome la parola finanza e suoi derivati (compresa quella primitiva che si scrive con l’iniziale maiuscola e che, se fosse veramente efficace, avrebbe a quest’ora fatto terra bruciata attorno agli evasori tra gli applausi dei contribuenti onesti che ora, come il sottoscritto, rischiano di sentirsi come degli imbecilli) mi procurano una pericolosa reazione allergica; lascio, perciò, a chi ne ha voglia il controllare a proprie spese l’efficacia delle tavole per vincere al lotto (vero e proprio sistema ante litteram), attribuite al Benincasa ma che in realtà costituiscono la superfetazione forse più vistosa tra tutte quelle che l’Almanacco perpetuo col trascorrere del tempo e l’avvicendarsi delle edizioni ebbe ad esibire.
Chi ne ha interesse potrà trovarle alle pp. 492- 499 all’indirizzo https://books.google.it/books?id=5voTlzbFDf0C&pg=PA492&dq=benincasa+almanacco+lotto&hl=it&sa=X&ved=0CDMQ6AEwA2oVChMI8cKa0IiKxwIVAlYUCh0mZANL#v=onepage&q=benincasa%20almanacco%20lotto&f=false
Mentre già vedo una tempesta di clic sul link appena segnalato e un incremento incredibile del fatturato di cartucce e toner, mi auguro che qualcuno, non necessariamente per effetto di un’insolazione, non m’incrimini per istigazione al gioco d’azzardo che, se è reato, mi dà, però, la soddisfazione di dire che buona parte degli introiti erariali sono frutto di un reato …
Comunque, siccome ormai mi sono più o meno compromesso con la Finanza, non avendo niente da perdere ma tutto da guadagnare, se qualcuno volesse non perdere l’occasione di sfruttare l’edizione speciale dell’Almanacco perpetuo da me approntata e pubblicizzata nelle immagini di testa (a proposito, il contrasto tra il paonazzo del volto e l’ambrato del resto del corpo non è dovuto ad una svista nel fotomontaggio …), si sbrighi, perché, siccome sono uno che se la tira, pure la tiratura è limitata (appena tre milioni di copie, una cifra ridicola rispetto a quelle alle quali sono abituato …). Alle prime mille telefonate è riservato il prezzo speciale di 50 euro. É giunto il momento di rimettere in moto l’economia per chi a suo tempo percepì i famosi 80 euro e, a quanto sembra, ancora non li ha spesi (altrimenti tutto sarebbe ripartito …). Io, dal canto mio, siccome sono un cittadino responsabile, mi sono già autoordinato venti copie della mia stessa edizione impegnando, prima di averlo incassato, il recupero una tantum del mancato aggiornamento della mia faraonica pensione al costo della vita. Qualche ex professore pensa che è difficile che il detto rimborso sia pari a 1000 euro? Molto probabilmente sarà così, ma vuoi mettere il piacere di essere debitori di se stessi? …
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1 Per esempio: Almanacco perpetuo di Rutilio Benincasa aggiornato sino al 2100, Harel edizioni, Catania, 1995. Era quasi un fenomeno normale che il testo originale col passare del tempo ed il proliferare delle edizioni subisse delle superfetazioni; di esse la più clamorosa è senza dubbio l’introduzione delle tavole per vincere al lotto, delle quali si dira più avanti.
Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto
Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto
di Antonio Mele ‘Melanton’
Quando muoiono le leggende finiscono i sogni.
Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.
Il nostro Salento ha mille storie da raccontare.
Non tutte, e non sempre, sono leggende o racconti fantastici.
Avrete certamente notato anche voi come alla memoria risalgano talvolta certe atmosfere intessute di mistero o meraviglia, specialmente quelle affastellate durante gli anni dell’infanzia e della prima adolescenza, gli anni dell’età dell’oro.
Nel ricordo addolcito e sfumato dei mille specchi del tempo, eccole poi, che ci appaiono vivide e davvero leggendarie, come se noi stessi, per un sorprendente sortilegio, avessimo vissuto realmente avventure con orchi e principesse, e con maghi, e streghe, e castelli incantati, in luoghi immaginari e inimmaginabili.
Viene allora da pensare che la vita non è poi così breve come dicono, e abbiamo al contrario disponibili molte vite, già vissute e da vivere, giorno dopo giorno.
Il segreto, semmai, è dentro di noi.
È infatti evidente che ognuno, a suo modo, ha la percezione e la misura del tempo con ‘orologi’ diversi. Talora più rapidi. Altre volte più lenti. Quando non perfino muti, e immoti, e tanto silenziosi da diventare impercettibili. Non si spiegherebbe, altrimenti, che s’incontrino vecchi che sono ancora giovani, e giovani che sono già vecchi.
Dov’è, allora, il segreto?
Forse nell’amore. O nell’amicizia. Nella curiosità, nel coraggio, nella bellezza della vita… O forse non ci sono segreti. Ed è anzi tutto così chiaro che non riusciamo a vederlo.
Il tempo – come mi ripeteva lu Cosimu Ricchie-te-branda, vecchio pescatore gallipolino, mentre riparava pazientemente le sue reti – non passa mai per chi ama il mare.
In questa nostra privilegiata terra, il mare è anche dove non c’è. Se non c’è, s’indovina. Si sente dovunque. Il suo profumo salso e forte arriva lontano. Si apre e si diffonde nei vicoli, nelle campagne, sulle serre, fra i muri delle case. Il mare è il nostro sogno reale.
Al mare si legano peraltro fiori di leggende dolcissime. E fra le più suggestive è certo quella dei faraglioni di Torre dell’Orso, i due candidi scogli dorati che si ergono nell’Adriatico, non lontani dalla riva della splendida località marina di Melendugno.
Si racconta che, all’origine dei tempi, in una contrada nel cuore della Grecìa salentina, viveva una povera famiglia di contadini, costituita da padre, madre e dodici figli: i primi dieci erano tutti maschi, e per ultime due gemelle, belle come il sole, delle quali non ci è stato tramandato il nome, e che noi chiameremo Alba e Aurora.
Il lavoro e i prodotti dei campi rappresentavano l’unica risorsa di quella famiglia, e Alba e Aurora ne erano occupate in misura particolare.
Le gemelle, infatti, s’interessavano di tutti i frutti di stagione e della loro conservazione dopo il raccolto, per venderli poi nei mercati dei paesi vicini. Fra le varie incombenze c’erano quelle di raccogliere e sgusciare le mandorle e le noci; di aprire i fichi in due, adagiandoli in bell’ordine su un lettino di canne, per esporli al sole e farli essiccare; di ordinare l’uva bianca o nera nelle ceste, conservandone sotto spirito gli acini più carnosi, e seccandone altri per farne uva passita; di raccogliere i capperi uno ad uno, ponendoli sotto sale; ed altre accurate operazioni, che molto le affaticavano, al punto d’addormentarsi quasi sempre appena faceva buio, senza neanche scambiarsi la “buona notte”…
Avvenne, in un meriggio di mezza estate, che il sole fosse così cocente da affannare le due fanciulle, fino a farle quasi perdere il respiro. E sentendo giungere come una brezza di frescura dall’orizzonte, seguirono quella scia, finché arrivarono sul promontorio che oggi è segnato dall’antica Torre dell’Orso, e da lì videro per la prima volta il mare.
La bellezza e il profumo erano tali che ne furono irresistibilmente attratte, e dall’alto della scogliera ebbero forte l’impulso di tuffarsi fra le onde verdi e cristalline. Ma non sapevano nuotare… Così sparirono entrambe tra la spuma, annegando quasi abbracciate.
Gli dei, che tutto avevano visto, e conoscevano bene la storia, le fecero però riemergere una accanto all’altra, in forma di scogli dorati, proprio lì dove ancora si possono ammirare in tutta la loro bellezza.
L’antico Monastero di Santa Teresa delle Carmelitane Scalze di Gallipoli è depositario di un evento storico straordinario, che accadde poco più di un secolo fa, esattamente all’alba del 16 gennaio 1910.
Anche questa ricerca me l’ha suggerita lu Cosimu Ricchie-te-branda.
Fondato nel 1692 dal vescovo castigliano Antonio Perez De La Lastra, il Monastero è ancora oggi, nella propria configurazione e struttura religiosa, fra i più importanti d’Italia, e ospita una ventina di consorelle. Le suore, giovani e meno, attualmente circa una ventina, che qui conducono la loro esistenza, consacrata a Santa Teresa d’Avila e all’altra santa Teresa, detta Santa Teresina, o Santa Teresa del Bambino Gesù, o anche – dal nome della sua città francese di origine – Santa Teresa di Lisieux, vivono in raccolto silenzio i loro tempi cadenzati di lavoro e meditazione. E, nei rari momenti liturgici in cui si aprono le tende che scoprono le grate della stanza di preghiera, si può osservare tutto il candore che accompagna queste consorelle, insieme alla «ridente fermezza – come recitano alcuni testi dedicati – di chi ha fatto la scelta esaltante di dedicare la propria vita ad una spiritualità impeccabile e assoluta».
Nel 1910 il Monastero versava in condizioni economiche assai difficili, per un debito contratto con l’erario. La Priora Madre Carmela s’era peraltro ammalata di pleurite, e non riusciva ad interessarsi, come sempre aveva fatto, per trovare le donazioni adeguate a superare la precaria contingenza.
Per tutta la notte si girò inquieta nel letto, e alle prime luci del sole di quel 16 gennaio ebbe nel dormiveglia la sensazione che qualcuno la scuotesse come per svegliarla e farla alzare, mentre intorno si diffondeva un profumo di rose. Lei chiese di essere lasciata dov’era, perché era stanca, e tutta sudata. Ma una dolce voce femminile l’avvertì: «Quello che faccio, lo faccio per il vostro bene. Ecco: io vi porto 500 lire per sovvenire ai bisogni della vostra comunità». Poi, dopo altre affettuose parole, si accomiatò, presentandosi: «Io non sono la nostra santa Madre Teresa d’Avila, ma la Serva di Dio, suor Teresa di Lisieux». Poco dopo, svanito il sogno, ma con una forte sensazione di curiosità e meraviglia, Madre Carmela si alzò, e si diresse verso la cassetta delle offerte, scoprendo che vi erano proprio le 500 lire, offerte al Monastero da Santa Teresina, con le quali avrebbe sanato il debito!
Del fatto miracoloso informò poi l’omologa Madre Agnese, Priora del Carmelo di Lisieux, con una lettera, gelosamente conservata negli archivi di quel Monastero.
Tra il sacro e il profano è lu cuntu (che ha tutti i caratteri della leggenda) di uncerto Mèsciu Pati di Tiggiano, nel Capo di Leuca, devotissimo di san Francesco, benché il patrono del suo paese fosse proprio santu Pati (Ippazio).
Lu Cosimu Ricchie-te-branda questa volta non c’entra: la ‘soffiata’ me l’ha data una ottima pi di Sannicola, che saluto, e che vuole restare anonima.
Al tempo dei miti, quando il Salento contadino era un immenso crogiuolo di storie, questo Mèsciu Pati raccontava ai suoi nipoti che il 4 di ottobre di ogni anno, lui faceva una grande festa in omaggio a san Francesco, con musiche, balli, luci e dolciumi, per ringraziarlo di un miracolo che aveva ottenuto quand’era fante di trincea nella Grande Guerra.
A ottobre di quell’anno, però, Mèsciu Pati non aveva neanche un centesimo, e la sera della vigilia sospirò: «Cce paccàtu… Pe fare la festa a santu Frangiscu, mi vindìa puru l’anima!». Di questo ne approfittò naturalmente il Diavolo, che – prendendolo in parola – si presentò subito al suo cospetto, nelle sembianze di un elegante signore, offrendogli un grosso prestito di denaro, con la clausola che Mesciu Pati glielo avrebbe restituito in capo a un anno. Se, però, non avesse potuto onorare il debito, il Diavolo creditore avrebbe incassato, per l’appunto, la sua anima!
No, no… Sì, sì… L’accordo, alla fine, fu concluso.
Passato l’anno, il devoto e generoso Mèsciu Pati – che aveva intanto distribuito il denaro ai suoi familiari e parenti, e a qualche povero paesano, e provveduto inoltre ad apportare qualche piccola miglioria alla sua modesta casa – era rimasto completamente all’asciutto, e non sapeva come fare per il debito in scadenza.
Allora, gli si presentò un monaco cercantino (che era stato incaricato alla bisogna da san Francesco in persona), il quale lo rassicurò che a risolvere il problema ci avrebbe pensato lui. E quando arrivò il Diavolo, sempre camuffato da ricco signore, il monaco gli manifestò subito che Mésciu Pati non poteva far fronte al debito, ma che comunque, secondo i patti, era pronto a cedere la sua anima. «Purché – aggiunse –, prima di ciò, come ultima invocazione di saluto, tu reciti insieme a me “li trìtici punti t’a verità”».
«E me pansava cce ggh’era!…», replicò il Diavolo. «Ccumenza tie, ca ieu te sècutu!».
E si mise a ripetere la lunga tiritera dei ‘tredici punti della verità’ recitati dal monaco: «Unu, un solo Dio…, Dòi, lu Sole e la Luna…, Tre, li tre patriarchi nobisarchi…». Ma più il Diavolo replicava, più egli si sentiva come se gli mancasse il terreno sotto i piedi… Finché non giunsero all’ultima formula: «Trìdici, non c’è più patti, lassa lu denaru, e tie, namìcu, scatti!»… Era la formula che cancellava definitivamente il debito. Terminata la quale, il povero Diavolo fu inghiottito negli inferi, tra una grossa vampata di fuoco, che la videro fino a Leuca..
Lu cuntu nu fue cchiui, diciti n’addhu vui… Alla prossima
Il fenomeno era largamente diffuso anche nel Salento
La ruota degli Esposti
Oggi i neonati ‘indesiderati’ sono abbandonati per strada o, buon per loro, in ospedale
di Emilio Rubino
Il bambino trovatello, o semplicemente esposto, era per sua sventura un bambino ‘non gradito’, nato dalla relazione di due amanti al di fuori del matrimonio. La gravidanza eraquanto piùpossibile nascostadalla futura madre per non essere umiliata e, a volte, picchiata dai familiari e, peggio ancora, per non essere ‘svergognata’ dai paesani. Per tale motivo la donna, che incautamente era rimasta in cinta, ricorreva ad ogni mezzo per apparire agli occhi di tutti una donna ‘normale’. Soprattutto negli ultimi mesi, quando la gravidanza era molto evidente, la futura madre trovava mille scuse per non apparire in pubblico. La donna preferiva rimanere in casa, appartandosi in una stanzetta per ultimare un lavoro di ricamooppure facendo credere di non sentirsi bene, piuttosto che recarsi in chiesa ad assistere alla santa Messa domenicale o partecipare alla passeggiata pomeridiana per le vie cittadine e correre il rischio di essere ‘scoperta’.
Altre donne, invece, fasciavano con molta aderenza l’addome per diminuirne il volume e, nel contempo, indossavano abiti alquanto larghi e vaporosi. A volte la donna arrivava alla fine della gravidanza senza essere stata scoperta e, dopo aver partorito in un luogo sicuro, magari aiutata da un’amica confidente, avvolgeva in un fagotto la piccola creatura e l’affidava alla “ruota degli esposti” nel più vicino convento di suore.In quei frangenti la donna avvertiva emozioni diametralmente opposte: da un lato si disfaceva definitivamente della prova ‘evidente’ del peccato, dall’altro consegnava alla bontà delle suore quel corpicino tenuto in grembo per tanti mesi e che aveva protetto gelosamente.
In alcuni casi, il neonato era affidato al padre naturale, che poi lo deponeva nella ruota. Si ricorreva a questo espediente per due motivi ben precisi. Innanzitutto per non creare alla madre un forte dolore nel momento del distacco; in secondo luogo, per non esporla ad eventuali rischi di essere riconosciuta.
L’abbandono dei neonati è comunque un fenomeno che si perde nella notte dei tempi.
Anticamente abbandonare i figli indesiderati era un vezzo molto comune presso tutte le popolazioni. Gli Ebrei, ad esempio, consideravano legale l’abbandono o la vendita di figli illegittimi, ma ne vietavano l’uccisione, mentre i Greci consentivano l’uccisione ed anche l’abbandono. Nell’Antica Roma l’abbandono dei neonati si attestava intorno al30%, mentre nella Grecia antica la percentuale scendeva al 10%.Ergo, le romane erano donne a cui piaceva molto l’arte fedifraga in amore.
A quell’epoca il trovatello eraaffidato ad una balia, che, dopo averlo cresciuto ed iniziato al lavoro, lo vendeva ad un mercante di schiavi.
Nel Medioevo tale fenomeno diminuì di colpo per effetto delle rigide regole morali imposte dalla religione cristiana, ma riprese vigore a partire dal 1600.
Nell’Ottocento si ebbe il culmine dei neonati abbandonati ed affidati alla ruota degli esposti. Pare che, in modo particolare in Piemonte e Lombardia, il fenomeno raggiungesseproporzioni consistenti. Addirittura, a Milano un neonato su treera depositato nella ruota degli esposti.
Proprio perché l’andazzo era molto diffuso in tutt’Italia, fu deciso di dotare ogni paese di un luogo sicuro dove abbandonare i neonati ‘indesiderati’. Fu legalizzata la ruota degli esposti, che era collocata nelle vicinanze di una chiesa o di un convento. Il corpicino del neonato veniva appoggiato su un piano in legno che era fatto ruotare intorno per 180%, in modo che entrasse nell’interno della chiesa o del convento. Durante la rotazione, un congegno metteva in movimento una campanella, al cui suono le suoresi precipitavano a prelevare il trovatello.
La ruota era considerata, specialmente dalle famiglie povere, come un dono assistenziale di Dio.
Ora esaminiamo in che modo le suore accoglievano e crescevano gli esposti.
Ovviamente le religiose non potevano allattare i neonati che, pertanto, erano affidati ad una donna, la quale provvedeva a nutrirli e a svezzarli dietro un misero compenso, a volte consistente in indulgenze e modestissimi sussidi.
Nel Salento, la nutrice era chiamata la“rutara”. All’età di cinque-sei anni,i fanciulli erano trasferiti in brefotrofi, dove le condizioni igienico-sanitarie non erano buone, anzi, proprio in questi luoghi si verificava un’alta mortalità di bambini. Da adolescenti, infine, erano affidati a famiglie di contadini, operai o artigiani, che, avendo bisogno di manodopera, ne facevano espressa richiesta.
I cognomi generalmente assegnati agli esposti erano diversi, ma tutti con la particolare connotazione di “buon auspicio”.
Nell’Italia settentrionale i cognomi più diffusi erano: Fortunati, Sereni, Clementi, Diotaiuti, Diotallevi ecc.
Nell’Italia centrale: Innocenti, Degl’Innocenti, Benvenuti, Proietti, ecc. Quest’ultimo cognome deriva chiaramente dal verbo latino “proicio”, il cui participio passato “proiectum”significa mandato fuori, espulso.
Nell’Italia meridionale, Esposito, Onorati, Servodio, Deodato, ecc.
Nei primi anni del ‘900, il fenomeno era ancora ricorrentenel Salento, tanto che l’amministrazione comunale delle varie città provvedeva ad erogare dei contributi alle rutareper la singolare ed importante attività sociale svolta. Anche se tra queste “sante donne” e le amministrazioni comunali non c’era un vero rapporto di pubblico impiego o di subordinazione, il Sindaco era tenuto moralmente ad elargire un contributo. A volte larutara riceveva, oltre ai sussidi comunali, anche dei consistenti donatividi ignota origine, elargiti,evidentemente,da parte della genitrice che, pentitasi di aver abbandonato il proprio figlio, le faceva un dono.
Ci chiediamo perché avvenissero episodi del genere. Secondo alcuni studiosi tutto dipendeva dallo stato d’animo della donna che, per non essere segnata dalla società come donna di facili costumi e rifiutata dalla famiglia per il gesto disonorevole, si lasciava andare all’estremo atto dell’abbandono. Oltretutto nei casi in cui il figlio fossemantenuto nell’ambito familiare nei suoi confronti erano coniati degli epiteti infamanti che lo accompagnavano per tutta la vita. Il trovatello eraregistrato negli atti pubblici comunali con la dicitura“figlio dipadre ignoto” o anche “figlio di N.N.” (Nomen Nescio, cioè “non conosco il nome”), e di conseguenza, a volerci esprimere con termini romaneschi, era deriso come “figlio de ‘na mignotta”. Il termine Mignotta, a sua volta, deriva dall’unione di due altre parole: Mater e Ignota. Poi la “M” fu appuntata ed aggiunta ad “ignota”. E così venne fuori “M.ignota” e poi “Mignotta”.
Fu proprio per questo motivo che un tempo le madri preferivano abbandonare il figliolo alla ruota degli esposti o, addirittura, ammazzarli perché non se ne parlasse più di loro e perché non fossero scherniti per un’intera vita.
Non ci resta che domandarci, alla maniera di Trilussa, se tale madre avesse avuto qualche volta un pizzico di rimorso.
“E io – disse la tigre – ciò er core
Che lui (l’uomo) me paragoni e me confonna
Er core mio cor core de la donna
Ch’ammazza erfijo pe’ sarvà l’onore!
So’ una tigre, è verissimo, ma io
Nu n’assassino mica er sangue mio”.
Oggi, purtroppo, nonostante le migliorate condizioni economiche e le mutate regole di vita, il fenomeno dell’abbandono non è scomparso del tutto.
Per la bontà delle sue carni, in diverse zone costiere, Salento compreso, ove viene appellato corzapilosa, viene attivamente insidiato con mezzi di cattura rudimentali il più efficace è la cosiddetta togna che consiste in un rigido filo di ferro zingato all’estremità del quale viene fissata un’esca carnea quale un pezzo di polpo o di seppia. I pescatori, perlustrano a piedi i bassi fondali rocciosi e appena scorgono una possibile tana vi avvicinano l’esca, se questa è abitata, il granchio si lancerà ferocemente sull’esca e verrà agguantato con un intrepida spericolatezza dagli stessi.
Sfruttando la l’indole combattiva di questo animale alcuni, usano fissare all’estremità dell’attrezzo una chela prelevata da un esemplare precedentemente catturato, che basterà affacciare alla tana per provare l’uscita del granchio, che sentendosi minacciato si presenterà in atteggiamento offensivo finendo per sbollire l’ira nel carniere del pescatore insieme ad altri sventurati fratelli.
Un altro sistema di cattura è quello praticato nelle ore notturne con l’ausilio di una fonte luminosa che abbaglierà i granchi immobilizzandoli rendendoli così facili prede chi pratica questa forma di pesca sovente non risparmia neppure i meno pregiati ma comunque saporiti “cauri di scoglio” ossia i granchi corridori (Pachigrapsus marmoratus) fuggenti abitatori delle battigie rocciose.
Fra i granchi di fondale i migliori sono le calappe o granchi melograno (Calappa granulata) noti nel Salento col simpaticoco appellativo di granchi dottore che pescati al largo dalle paranze vengono venduti a prezzi spesso irrisori insieme ai comuni granchi di rena sui moli d’attracco dagli stessi pescatori.
Una trattazione a parte meriterebbe la grancevola (Maja squinado) facilmente distinguibile sia dalla forma caratteristicamente triangolare del carapace e dai lunghi arti che gli conferiscono un aspetto che ricorda vagamente quello di un ragno. Spesso il carapace della grancevola è completamente ricoperto da alghe e cocreazioni calcaree e nelle acque salentine con i tramagli se ne pescano esemplari che superano il chilogrammo di peso e costituiscono un’altra prelibatezza marina di cui non si può che lamentare la scarsità.
Da qualche anno le acque salentine come già avvenuto in altre zone, si stanno popolando di una cosiddetta specie aliena di granchio, un vorace ‘immigrato marino’ che si teme possa mettere a rischio il già delicato e in parte compromesso equilibrio biologico dei nostri mari. E’ americano, proviene infatti dalla sponda occidentale dell’oceano Atlantico, ove lo si trova dalla Nuova Scozia all’Argentina, si tratta del cosiddetto granchio blu (Callinectes sapidus). Il suo corpo, dai bordi seghettati, ha una forma pressoché ellittica, con due spuntoni ai lati. Il suo carapace, di colore verde oliva è grande, fino a misurare venti centimetri di larghezza, per dieci di lunghezza. I suoi arti, di dolore blu turchese sono allungati e grazia alla loro forma gli consentono anche di nuotare sono fatte per camminare e nuotare, mentre le grandi chele, sono strumenti ideali per aggredire e catturare le prede. Possiede ottime qualità organolettiche. Naturalmente in cucina a seconda dei granchi che si impiegheranno il risultato potrà essere leggermente diverso, ma in ogni caso si sarà soddisfatta la voglia di granchi che, quando prende, prende.
Con il comune appellativo di granchi, vengono genericamente indicate una miriade di specie di Crostacei Malacostraci Decapodi appartenenti sottordine dei Brachiuri, che sono ovunque molto diffusi e colonizzano i più svariati habitat, in prevalenza le acque marine, anche se esistono anche numerose specie d’acqua dolce e specie terrestri. Caratteristica comune a tutti granchi o perlomeno di quelli conosciuti ai più in quanto di interesse alimentare, sono: il corpo raccolto, l’addome corto, quasi atrofizzato e ripiegato sotto il carapace, che è breve, largo e provvisto sovente di numerose escrescenze e spine; posseggono cinque paia di arti il primo dei quali munito di due robuste chele, queste hanno uno sviluppo spesso irregolare (normalmente la destra è più robusta della sinistra) e vengono utilizzate dal granchio per afferrare, cibarsi e difendersi. La maggior parte dei granchi si sposta di fianco.
Posseggono carni buone, delicate e di grande digeribilità, 100 grammi di polpa di granchio infatti contengono mediamente solo 6 grammi di grassi, circa 20 grammi di proteine e oligoelementi preziosi come lo zinco e il magnesio, costituiscono inoltre un’ottima fonte di vitamina B 12.
Fra i granchi più comuni e abbondanti, quindi gastronomicamente più noti, vi è il granchio comune o granchio verde (Carcinus aestuarii), della famiglia Portunidi, diffuso lungo tutte le coste caratterizzate da fondali bassi e sabbiosi in particolare nelle acque caratterizzate da rimescolamenti con acque dolci, quindi salmastre. Un’altra specie costiera è il granchio favollo (Eriphia verrucosa) specie molto pregiata e ricercata dai buongustai per le ottime caratteristiche organolettiche delle sue carni.
Il suo habitat risiede tra il sopralitorale e il mesolitorale, quindi la profondità in cui si può trovare oscilla da pochi centimetri a cinque metri. Ha il carapace a forma cuoriforme di colore bruno rossiccio sul dorso e bianco sul ventre e nella parte anteriore si presenta con delle dentellature, le sue dimensioni possono raggiungere i 5 centimetri di lunghezza e i 7 di larghezza, è dotata di temibili, forti chele, che sono in grado di procurare profondi tagli alle dita degli inesperti che osassero con poca prudenza familiarizzarvi, sono infatti di grosse dimensioni e asimmetriche e terminano di colore nero ebano in punta. Questo granchio è ricoperta da centinaia di peli sensoriali da cui gli deriva il nome di pelosa utilizzato in molte zone della Puglia.
Libri. Vite Sbandate. Brigantaggio nel basso Salento (1860-1866)
Sabato 25 luglio 2015 alle ore 20.30, nel suggestivo piazzale antistante la chiesa di S. Maria della Lizza, ad Alezio (Lecce) si terrà la presentazione del volume “Vite Sbandate. Brigantaggio nel basso Salento (1860-1866)” di Ivan Ferrari, pubblicato dalla casa editrice Edizioni Esperidi.
La pitta e altre buone ricette con le patate salentine
Lessate le patate rigorosamente di varietà pasta gialla e preferibilmente salentine, pelatele e schiacciatele, aggiungete uova fresche intere in ragione di tre per ogni chilo di patate, abbondante pecorino piccante, pepe, prezzemolo o menta; impastate per bene, formate delle polpette facendo rotolare l’impasto fra le palme delle mani bagnate e ponetele a cuocere in un tegame dove avrete già portato a cottura del sugo di pomodoro con cipolla e basilico. Per dare al piatto un aspetto più invitante cospargetele ancora con un po’ di pecorino e passatele in forno per farle dorare in superficie. Una piccola variante consiste nel farcirle internamente con della ricotta forte, oppure con caciocavallo o provolone a pezzetti. Queste polpette vengono normalmente servite come primo piatto, ma non infrequentemente anche come secondo.
Pasta, patate e cozze alla tarantina
1 kg e mezzo di patate pasta gialla, 1 kg di cozze tarantine, 250 g di tubettini, 1 bicchiere di vino bianco secco, olio vergine d’oliva, sedano cipolla, pomodori, prezzemolo, pepe nero. sale.
Questo piatto rappresenta egregiamente un modo semplice ed ingegnoso per nobilitare in modo economico un piatto poverissimo come la pasta e patate, non sempre graditissimo.
Pelate e tagliate a dadini le patate. Fate soffrigere in una casseruola, con ottimo olio di frantoio un battuto di cipolla e sedano. Appena questo comincia ad imbiondire calate le patate, fatele rosolare un po’ e bagnatele con un bicchiere di vino bianco secco. Appena il vino sarà evaporato aggiungete 4-5 pomodori maturi tritati, salate moderatamente, spolverizzate di pepe nero, aggiungete 1/2 litro di acqua e lasciate cuocere per circa mezz’ora. Pulite, risciacquate, fate aprire in una pentola le cozze e liberate i molluschi. Cuocete i tubettini al dente e uniteli insieme con le cozze alla zuppa di patate, allungate con un po’ dell’acqua delle cozze e portate il tutto a perfetta cottura. Servite cospargendo di prezzemolo tritato
“Tiella” di riso patate e cozze
Versate in un tegame di 40 cm di diametro 1 dl d’ottimo olio extravergine d’oliva in modo che un filo ne ricopra tutto il fondo. Sbucciate 6-700 grammi di patate, tagliatele a fette quanto più sottili possibile e disponetele in due tre strati sul fondo del tegame; aprite 1 kg e mezzo le cozze a crudo eliminando una sola valva, conservate la loro acqua e ponetele ben serrate in un unico strato sopra le patate, aromatizzate cospargendole blandamente con aglio e prezzemolo tritati molto finemente e pepe nero. Ricoprite il tutto cospargendovi sopra mezzo kg di riso della varietà “Arborio”, versate delicatamente l’acqua delle cozze filtrata ed altra acqua fredda sino a ricoprire a filo il riso. Salate bene e ponete il tegame incoperchiato sulla fiamma. Quando i liquidi saranno stati assorbiti ed il riso risulterà cotto servite ben caldo spolverizzando ancora a piacere con pepe nero macinato al momento. Nonostante l’estrema semplicità, questa versione di “tiella” ha molti seguaci, per il suo gusto delicato, ma nettamente marino, particolarmente apprezzata per la sua leggerezza.
Tajeddha salentina
Ingr. Kg 2 di cozze, kg 1,5 di patate pasta gialla del Salento, kg 1 di zucchine preferibilmente della cultivar locale “’nginuese”, una cipolla, g 100 di pangrattato, g 100 di pecorino o di caciocavallo stagionato grattugiato, olio extravergine d’oliva q. b. , 2 uova, uno spicchio d’aglio, prezzemolo, sale, pepe nero macinato al momento.
In questa ortodossa versione di “taìeddha”, che sarebbe una variante tutta salentina della “tiella” barese, non compare il riso, anche se lo spirito del piatto resta immutato. Lavate le cozze, privatele del bisso, apritele a mezza valva serbando il loro liquido intervalvare e tenetele da parte. Versate in una padella abbondante ottimo olio extravergine, unite la cipolla affettata finemente, lo spicchio d’aglio tritato e il liquido intervalvare delle cozze filtrato e tenete sul fuoco sino a quando l’acqua si sarà consumata. A questo punto versate le patate tagliate a fette piuttosto spesse e fatele cuocere a fiamma bassa, sino a metà cottura, rigirandole spesso, ma con cautela per evitare di romperle. Versate un filo di olio in un tegame di terracotta disponete sul fondo uno strato di patate, uno di cozze e uno di zucchine affettate molto sottilmente, irrorate la superficie con il fondo di cottura delle patate e cospargete il tutto con una metà del miscuglio ottenuto mescolando il pangrattato con il formaggio, pepe e prezzemolo tritato. Ricoprite il tutto con un altro strato di patate, irrorate con olio extravergine, versate sulla superficie le uova sbattute e infine cospargete con il resto del miscuglio di pangrattato e caciocavallo. Cuocetela in forno a 180°C sino a quando le patate saranno ben cotte.
Chiocciole (rigatele) con patate
Le chiocciole idonee ad essere impiegate per questa preparazione sono quelle della specie Helix (Eobania) vermiculata, questa comunemente appellate in gergo salentino: cozze grosse, cozze pinte, cuzzuni… sono delle chiocciole aventi colorazioni notevolmente variabili, chiamate comunemente “rigatelle” nel resto d’Italia e tipiche delle aree a clima mediterraneo. Se si tratta di chiocciole raccolte durante la stagione secca, periodo in cui questi gasteropodi sono in letargo, sarà sufficiente lavarle per bene e lasciarle bagnate sino a che l’epiframma vitreo che le richiude si dissolve facendole risvegliare. Se si tratta invece di chiocciole corritrici, ovvero raccolte quando sono in attività, bisognerà lasciarle chiuse per qualche giorno in un capace recipiente dandole crusca o pangrattato come cibo, quindi andranno ben lavate e saranno pronte per essere cucinate. Ponete, in una casseruola con un filo d’olio extravergine d’oliva sul fondo una cipolla tritata finemente e qualche pomodoro privato dei semi e tritato grossolanamente, soffriggete il tutto e unite delle patate a pasta gialla tagliate a cubetti, fatele rosolare, bagnate con un bicchiere di vino bianco secco, lasciatelo evaporare e aggiungete un po’ di passata di pomodoro, pepe nero macinato al momento e sale q.b. . Quando le patate saranno a metà cottura, unite le chiocciole, precedentemente sbollentate in poca acqua salata, un pizzico di origano, una foglia di alloro e portate il tutto a cottura.
Pitta di patate
Ingr. : 2 kg di patate salentine a pasta gialla, 2-3 uova, 200 g di pecorino piccante, 50 g di pane grattugiato, 4-5 grosse cipolle Barlettane salentine, una manciatina di olive Celline di Nardò in concia tradizionale, 5 o 6 fiori di zucca, 200 g di pomodori pelati triturati, capperi, acciughe dissalate sott’olio, foglie di menta, olio extravergine d’oliva, sale e pepe.
Affettate le cipolle e fatele rosolare in una casseruola con dell’olio extravergine d’oliva, quando saranno imbiondite unite le acciughe, i capperi, le olive, sale e pepe nero. Aggiungete i pomodori pelati triturati e fate cuocere per almeno venti minuti, infine unite i fiori di zucca ben nettati. Se il soffritto dovesse risultare asciutto, aggiungete un mestolino d’acqua, quindi spegnete la fiamma e lasciate raffreddare. Lessate le patate, schiacciatele in una ciotola, aggiungete le uova, il formaggio, le foglie di menta tritate, il pepe e aggiustate di sale se necessario. Impastate il tutto diligentemente. Ungete una teglia d’olio, stendete una metà dell’impasto di patate allo spessore di circa 2 cm. Adagiatevi sopra il soffritto a base di cipolla, stendetelo, cospargetelo con del pecorino e coprite nuovamente con uno strato di impasto di patate. Lisciate la superficie e cospargetela con un filo d’olio. Spolverizzate infine la superficie con del pane grattugiato. Infornate a 190 gradi per almeno 40 minuti. Servite la pitta di patate quando si sarà intiepidita, ma risulta ottima anche il giorno dopo.
Patate con l’agnello fuggito – Patate cu l’àunu scappatu
Tagliate delle patate, preferibilmente della varietà Spunta, in spicchi non molto grandi oppure a rondelle e sistematele in una teglia, aggiungete una cipolla affettata e qualche foglia d’alloro, salate bene, irrorate abbondantemente con dell’olio extravergine d’oliva e rivoltate diligentemente il tutto in modo che si unga bene con l’olio. Ponete la teglia in forno e quando le patate avranno preso colore, bagnatele con un bicchiere di vino rosso e rimettete la teglia nel forno a completare la cottura. In breve tempo, questa preparazione, autentico capolavoro d’astuzia contadina, emanerà una fragranza e acquisirà un sapore che ricorda moltissimo l’agnello al forno con patate. Incredibile, ma vero.
Alcuni alimenti non sono stati solo delle fonti di cibo ma cibo che ha fatto la storia. E’ notorio che l’uomo sarebbe rimasto nomade e primitivo se non avesse imparato ad addomesticare e coltivare i cereali; non a caso, definiti dagli storici, “piante di civiltà”. Per non parlare delle rivoluzioni indotte, dopo la scoperta dell’America, dall’arrivo di nuovi alimenti. Pomodori, tabacco, mais… hanno modificato abitudini e culture, interrotto antiche tradizioni e inciso profondamente sugli assetti economici di molti popoli. Prodotti come il mais e il pomodoro hanno modificato le abitudini alimentari di milioni di persone sino a divenire gli emblemi dei due modelli alimentari contrapposti vigenti nella nostra Nazione: quello del Nord basato sulla coltivazione del mais che diviene polenta, ma che soprattutto rende conveniente l’allevamento intensivo del maiale e accessibili a tutti i suoi derivati; e quello del Sud, condiviso da larga parte dei popoli mediterranei, basato sul pomodoro, simbolo e protagonista assoluto della dieta mediterranea.
Eppure, stante i riconoscimenti ufficiali, il prodotto più meritevole è la patata, tanto che l’ONU, ha decretato il 2008 “Anno Internazionale della Patata”, con la motivazione che essa rappresenta la principale fonte di sostentamento per milioni di persone nel mondo. Un riconoscimento che vale un po’ anche come risarcimento morale. Infatti questo meritorio tubero, originario del Centro America, Perù in primis, quando venne introdotto non incontrò il favore delle popolazioni europee, ma al contrario venne pesantemente osteggiato e accusato di colpe infamanti, quali quelle di provocare gravi malattie. Furono i governanti dell’epoca, avendone intuito le potenzialità a incoraggiarne l’uso seppur fra molte difficoltà. In Russia si preferiva morire di fame piuttosto che cibarsene, tanto che venne accettata pienamente solo quando si scoprì che da esse si poteva ricavare un’acquavite, la Vodka.
Alcuni governi come quello prussiano emanarono editti con cui si condannavano ad amputazioni corporali coloro che si rifiutavano di coltivarle.
La tradizione vuole che l’introduzione della patata in Inghilterra sia avvenuta alla fine dei 1500 per merito di Walter Raleigh, la coltivazione si diffuse fortunatamente, però solo nella vicina Irlanda, dove in breve tempo costituì quasi una monocoltura e diventò l’alimento principale delle classi più povere, con le nefaste conseguenze di una serie di carestie fino a quelle più devastanti del 1845-48 provocate dalla peronospora, un fungo, che distrusse per tre anni di seguito le coltivazioni causando l’emigrazione in America di milioni di Irlandesi. Per un’imponderabile circostanza l’americana patata porta delle carestie in Europa che come conseguenza causano la non certo indolore colonizzazione massiva del continente d’origine, una diaspora efficacemente raccontata da Martin Scorsese, nel film: “The gangs of New York”. Ancora una volta, cibo che diventa storia. Probabilmente, se non fosse stato per la patata, gli attuali Stati Uniti, sarebbero rimasti a lungo un territorio semispopolato alla stregua di quello australiano.
In Francia, una grande promozione venne fatta dall’agronomo francese Antoine Parmentier, che redasse dei fortunati articoli sul suo valore nutrizionale e sul suo utilizzo.
In Italia, benchè introdotte già alla fine del 1500 dai Carmelitani Scalzi che le importarono dalla Spagna, rimasero a lungo confinate come curiosità botanica e solo le carestie del Settecento, e la promozione effettuata dai governi dell’epoca, attraverso i rappresentanti del clero, rimossero i gravi pregiudizi che la attorniavano, e questo strano tartufo bianco, come spesso veniva indicata, cominciò ad essere accolto nei campi e sulle mense.
Sulla scorta delle rape venivano lessate e condite con olio, aceto e sale, oppure con olio, aglio, pepe, e prezzemolo.
Un grande impulso alla sua coltivazione, ed al suo uso, venne dato proprio da un salentino, l’oritano Vincenzo Corrado, che nel suo famoso libro di cucina, Il Cuoco Galante (1773), include un Trattato sulle patate o pomi di terra, ove egli consiglia l’uso della fecola di patate per confezionare il pane, mescolandola in ugual misura con la farina di grano; e ne rivela oltre cinquanta modi diversi d’impiego gastronomico.
Attualmente le coltivazioni salentine di patate sono orientate verso la produzione di patate precoci. Pertanto la scelta varietale si basa si varietà adatte a fornire in anticipo un prodotto maturo, serbevole e con ottime caratteristiche organolettiche.
La varietà maggiormente coltivata è la Sieglinde, seguita a distanza dalla Spunta e dalla Nicola.
La patata novella Sieglinde è una pregiata varietà orticola di patata ottenuta nel 1935 dall’incrocio della July con la Stamm. Presenta tuberi di forma ovale allungata, del peso medio di 80-100 grammi, buccia di colore giallo intenso, brillante e pasta gialla. La produzione di provenienza salentina, è nota e particolarmente apprezzata sui mercati del Nord Europa, che alimentano la principale corrente d’esportazione, con l’appellativo di Sieglinde di Galatina.
La locuzione geografica è stata aggiunta dai gourmet d’oltralpe per distinguere la produzione che si realizza nella parte Sud Occidentale del Salento a partire da Galatina, area caratterizzata dalla presenza della cosiddetta sinopia, ovvero, della terra rossa, che conferisce alle patate ivi prodotte ineguagliabili caratteristiche organolettiche. Caratteristiche, purtroppo scarsamente percepite da noi italiani, ma fortunatamente ben distinte dai tedeschi la cui cultura gastronomica notoriamente sta alla patata, come la nostra alla pasta.
Le patate, merceologicamente, vengono classificate in tre tipologie: A, B e C. Il parametro che le differenzia è la loro qualità culinaria valutata dal comportamento delle stesse dopo la cottura a vapore. Per cui con la tipologia A sono indicate le varietà dalla polpa più soda, particolarmente idonee in insalata, seguono nella tipologia B quelle a consistenza media, usate in modo universale, mentre nella C sono classificate le patate dalla polpa farinosa, ossia che sfiorisce dopo la cottura, indicate, quasi esclusivamente, per la frittura e la cottura in forno.
La Sieglinde, per le sue caratteristiche fisiche, chimiche ed organolettiche, polpa soda, che non sfiorisce, aspetto umido e grana molto fine, è considerata patata da fetta o da insalata e rientra pertanto nella tipologia A.
La Spunta, che è seconda nel Salento per quantitativo prodotto, è invece una patata semiprecoce caratterizzata da tuberi di grossa pezzatura, allungati e schiacciati con buccia gialla e polpa giallo chiaro, anche questa presenta ottime caratteristiche organolettiche ed è un tipico prodotto da consumo fresco, è classificata nella categoria B, condizione che la rende idonea a tutti gli usi culinari e in particolare per la cottura in forno e in frittura.
Infine, la Nicola è una varietà a sviluppo rapido a maturazione medio tardiva; i tuberi sono di dimensioni medio grandi e di forma ovale-allungata, buccia gialla e polpa giallo intenso, merceologicamente viene classificata nella categoria A – AB rappresenta quindi una valida alternativa alla Sieglinde della quale può seguire la stessa sorte gastronomica.
Fimmine fimmine ca sciati allu tabaccu/ne sciati ddoi e nne turnati quattru./Fimmine fimmine ca sciati allu tabaccu/lu sule è forte e bbu lu sicca tuttu./Fimmine fimmine ca sciati allu tabaccu/la ditta nu bbu dae li talaretti./Fimmine fimmine ca sciati a vindimmiare/e sutta allu cippune bu la faciti fare./Fimmine fimmine ca sciati alle vulie/ccugghitinde le fitte e le scigghiate. (Donne, donne che andate al tabacco, ne andate in due e ne tornate in quattro. Donne, donne che andate al tabacco il sole è forte e ve lo secca tutto. Donna, donne che andate al tabacco, la ditta non vi dà i telaietti. Donne, donne che andate a vendemmiare e sotto al ceppo della vite ve la fate fare. Donne che andate alle olive, raccoglietene le fitte e le rade!).
Questo canto popolare salentino è paradigmatico per ricordare alcune attività del tempo che fu, quale la raccolta del tabacco, dell’uva e delle olive, appannaggio quasi esclusivo un tempo delle donne, oggi per lo più di un oggetto rumoroso (altro che canto!) ma inanimato, sempre di genere femminile: la macchina, anche se pure essa rischia di diventare inutile per la raccolta delle olive a causa, dicono …, della xylella. Fortunatamente l’emancipazione femminile, che ha ridimensionato pesantemente gli effetti (e forse anche la produzione …) del testosterone nel maschio, ha reso pari a zero il rischio delle gravidanze più o meno indesiderate (ne sciati ddoi e nne turnati quattru) e oggi, forse, sarebbe il maschio a sottrarsi all’incontro sutta allu cippune …
Ciò che è obsoleto in sé, però, come tutte le testimonianze del passato, il più delle volte è illuminante per la corretta interpretazione del presente. È il caso di schigghiàte, participio passato femminile plurale di scigghiàre che semanticamente corrisponde all’italiano disordinare, togliere dal posto consueto. Tutte le forme di participio passato di scigghiare (scigghiàtu/scigghiàta/scigghiàti/scigghiàte), poi, possono essere usate anche con connotazione morale peggiorativa rispetto alla sfera semantica di partenza: così scigghiàtu può indicare la persona che non tiene in ordine le sue cose materiali (dai libri ai vestiti, dal cacciavite allo spazzolino da denti, e così via) ma anche i suoi pensieri e, quindi, può essere sinonimo di confusionario, se non sconclusionato.
Nella canzone popolare è evidente che scigghiate assume il significato di rade, sparpagliate, insomma l’esatto opposto di fitte. Dopo aver fatto notare come nell’epoca del consumismo, de il meglio del meglio e del tutto e in fretta è diventata obsoleta la filosofia del no ssi mena nienti (non si butta niente) e di ogni ppetra azza parete (ogni pietra rende più alto il muro), passo a a spendere qualche parola sull’etimo di schigghiàre, sperando di non rimediare alla fine la figura dello sciggiàtu.
Parto dal maestro indiscusso, il cui nome ormai sarà diventato familiare anche a quelli dei lettori assidui di queste mie scorribande etimologiche che lo ignoravano. Dal vocabolario di Gerard Rohlfs riporto i lemmi che ci interessano:
Come si vede, per scijare (di cui i successivi scijatu e sciju, nonostante nessun rinvio, sono, rispettivamente, participio passato e sostantivo deverbale) viene solo proposto un confronto con il napoletano scigliato=scompigliato. Per scije e sciji l’etimo proposto è dal latino auxilia, con, aggiungo io, la successiva evidente aferesi di au– e la regolarizzazione della desinenza, a partire da un neutro collettivo *scija inteso come singolare, analogamente a quanto è successo ad àcura=aguglia, che è da *àcora).
scìgghie sf. pl. Oggetti vari tenuti in disordine; cianfrusaglie sparse; oggettini di poco valore * fig. Arnesi vari, attrezzi minuti, che durante l’uso vengono posati qua e là sul luogo di lavoro: ccuegghi le scìgghie e sçiàmuninde raccogli gli attrezzi e andiàmocene. [dal lat. (au)xilia, strumenti].
scìgghiu sm. Disordine; trambusto. [lat. exilium, liu>gghiu].
Con la sua distinzione tra scìgghie e scìgghiu ricalca il Rohlfs, da cui è tratto l’etimo del primo, ma, a differenza dello studioso tedesco, di scìgghiu propone come etimo il latino exìlium=esilio. Il Garrisi sarebbe arrivato (il condizionale si capirà dopo) alla parola latina facendo il percorso a ritroso, cioè tenendo presente che nel salentino per lo più sc– è ciò che rimane della preposizione ex e –gghiu di –liu [per esempio: fìliu(m)>fìgghiu]. L’etimo, dunque, appare ineccepibile sul piano fonetico; merita, però, un approfondimento su quello semantico, perché il rapporto tra scìgghiu ed esilio non è di immediata percezione. Prima di farlo esaminerò un’altra proposta.
Non si comprende sul piano fonetico come dal dittongo greco ευ [l’esatta grafia della voce è σκεῦος e non σκεΰος, in cui pare di vedere un accento acuto tra due puntini (dieresi?)] si sia passati a ij, che, invece, al pari di gghi, come già ricordato dal Garrisi, deriva da un latino li. Sul piano semantico, poi, non si comprende come dall’idea di strumento si sia passati a quella del disordine.
Torno a scìgghiu per dimostrare, definitivamente o quasi …, che esso è figlio di exilium. Questa voce latina è connessa con exsul (da cui l’italiano esule).
Isidoro di Siviglia (V-VI secolo), Origines, I, 26, 5: Exul addita s debet scribi, exsul dicitur, qui extra solum est (Exul dev’essere scritto con l’aggiunta di s, si dice exsul, poiché è fuori del suolo); V, 27, 28: Exilium dictum quasi extra solum. Nam exsul dicitur, qui extra solum est (Si dice esilio come fuori del suolo. Infatti si dice esule colui che è al di fuori del suolo); X, 84: Exsul, quia extra solum suum est, quasi extra solum missus, aut extra solum vagus. Nam exsulare dicuntur, qui extra solum eunt (Esule, poiché si trova fuori del suo suolo, quasi mandato fuori del suolo o errante fuori del luogo. Infatti si dice che esulano1 quelli che vanno fuori del luogo).
Per Isidoro, dunque, exsul deriva da extra solum ed egli raccomanda di non scrivere exul (che, evidentemente, era in uso accanto o, forse, con prevalenza rispetto alla forma corretta) proprio per non perdere di vista l’etimo a causa della caduta di s– di solum. Non tutti gli etimi di Isidoro sono da accettare ad occhi chiusi e, oltretutto, alcuni possono essere considerati solo parzialmente suoi. Emblematico è proprio il caso di exsul fatto derivare da extra solum, in cui non è chiaro perché -tra sarebbe caduto.
Viene il sospetto che l’extra solum serve solo a non far apparire troppo evidente il suo plagio da Quintiliano (I secolo d. C.) che di exsul aveva dato la definizione e l’etimo in Declamationes, 366: : … et inde exul quoque dictus est, quasi ex solo patrio expulsus (… e perciò è anche detto esule, quasi espulso dal suolo patrio).
Credo che, nonostante tutti i dizionari considerino esule derivante da èxsule(m) ma quest’ultimo di etimo incerto, l’autorità e la collocazione cronologica di Quitiliano (quanto più ci si allontana dal momento della formazione di una parola tanto più sarà difficoltoso, almeno in teoria, individuarne l’etimo) autorizzino a rendere molto probabilmente aderente alla realtà dei fatti quanto affermato.
Ciò che appare evidente, però, tanto in Quintiliano quanto in Isidoro è l’idea della separazione, dell’allontanamento dal luogo di abituale dimora. Scigghiàre, perciò, avrebbe il suo esatto corrispondente nell’italiano esiliare (e scìgghiu in esilio), perché disordinare, fare confusione vuol dire allontanare qualcosa dal suo solito posto, così come esiliare vuol dire mandare lontano qualcuno dal luogo di vita che gli è abituale, qual è quello patrio.
Tutto chiaro e deciso, allora? Ma quando mai!, specialmente in etimologia, tanto più che i maestri spesso esprimono i loro dubbi in modo criptico, forse con l’intenzione di lasciare ad altri una traccia da approfondire. Come ho detto, il Rohlfs non dà l’etimo di scijare ma propone un confronto con il napoletano scigliato=scompigliato.
Nel Vocabolario delle parole del dialetto napoletano che più si discostano dal dialetto toscano, Porcelli, Napoli, 17892 al lemma sciglio3si legge:
Il greco σκύλλω(leggi schiullo) messo in campo rivendicherebbe, dunque, anche per il nostro scìgghiu un’origine greca e non latina4. Ci sarebbe da aggiungere che da un punto di vista fonetico (quello semantico è inattaccabile) σκύλλω sarebbe più proponibile dello σκεΰος del Presicce. Tuttavia, se pure il nostro scìgghiu derivasse dal greco, sarebbe strano che esso non abbia dato sciddhu, dal momento che il greco –λλ– e il latino -ll- danno nel leccese come esito -ddh-: ἄλλος>addhu=altro; callum>caddhu=callo. Dovremmo a questo punto pensare che scìgghiu sia adattamento fonetico di scìglio, così come, ma apparentemente, fìgghiu rispetto all’italiano figlio? E se pure la voce napoletana fosse figlia di una italiana, per quanto antica?
Jacopone da Todi (XIII-XIV secolo), Laude, 16, 82-83: ch’e ne la croce è tratto,/stace su desciliato!; 52, 36-38: La morte dura me va consumanno;/né vivo e né mogo cusì tormentanno;/vo [e]sciliata del me’ Salvatore.
Laudario di S. Croce di Urbino (XIV secolo); cito dall’edizione a cura di Rosanna Bettarini, Sansoni, Firenze, 1969, p. 137: Rendete laude a lo mio fillo/ke ‘n vostre fraude mess’a consillo!/Lo cor ve gaude del So discillo,/èv’allegreça lo So tristore.
Zefirino Re Cesenate, La vita di Cola di Rienzo tribuno del popolo romano scritta da incerto autore del secolo XIV, Bordandini, Forlì, 18285, pp. 49 e 165: Messere Stefano la cedola pigliò e la sciliò e fecene mille pezzi …; … ora vedonsi per Roma sciliar le gote, ogni persona lagnata strilla, rancore e paura nascono …
Se desciliato e [e]scigliata di Jacopone hanno il significato di abbandonato, desolato il primo e separata, privata il secondo, se discillo del laudario ha il significato di desolazione, lo sciliò e lo sciliar dell’ultimo brano credo possano essere interpretati come sinonimi di separò dal sigillo o lacerò la busta, aprì il primo e graffiare il secondo e, quindi, collegarsi entrambi agli esempi precedenti con i quali costituirebbero un ulteriore esempio degli slittamenti metaforici di esilio e di esiliare.
In conclusione: l’ipotesi di Antonio Garrisi che scìgghiu derivi da exilium (o meglio, per quanto si è detto per exul/exsul, da exsilium) appare confermata, ma va detto, per dare a Cesare quel che è di Cesare e ad Antonio quel che è di Antonio che ciò era stato prospettato qualche decennio prima da Rosanna Bettarini nell’edizione del Laudario urbinate prima citato, ove (p. 265) si fa derivare sciliare da exiliare (meglio, per quanto già detto, exsiliare), senza darne il dovuto, secondo i miei gusti, conto.
Perciò aggiungo che già nel latino medioevale exilium ed exiliare (per exsilium ed exsiliare) hanno inglobato in sé l’azione della desolazione e della distruzione, presente anche nella voci francesi antiche essiler/eisillier/eissiller, come dimostra il lemma così come compare trattato nel glossario del Du Cange, che in basso riproduco con la mia traduzione a fronte e con il commento (più corposo del solito perché, oltre a cimentarmi col francese antico, ho voluto controllare le citazioni e non sono mancate , come vedremo, le sorprese …), dove le voci sottolineate corrispondono all’exilium, e suoi derivati, dell’originale.
Ricapitolando: molto probabilmente figli del francese essiler/eisilliereissiller sono i volgari desciliato/esciliato e sciliare, da cui il napoletano sciglio (perciò da considerare di origine deverbale) e i salentini scìgghiare e scìgghiu.
Voglio chiudere con una nota di malinconica allegria questo post che Crozza-Mentana avrebbe definito una maratona etimologica. E lo faccio cioè con Scìgghiu d’amore, una canzone dei Ritmo binario, che potete ascoltare al link https://www.facebook.com/241641255990921/videos/417646455057066/, anche se mi auguro che gli stessi musicisti immettano in rete una registrazione di qualità migliore.
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1 Oggi esulare in italiano significa essere estraneo, non avere a che fare ma in passato aveva il significato di andare volontariamente in esilio, cioè lo stesso indicato da Isidoro.
3 L’attestazione più antica che conosco è in Giovanbattista Basile (XV secolo), Lo cunto de li cunti, passim: … vedenno lo sciglio e lo sbattere de lo povero ‘nnammorato …; … pe sciorte è toccato sta beneficiata a Menechella, figlia de lo re pe la quale cosa ‘nc’è lo sciglio e lo sbattetorio a la casa reale …; … né ‘nc’è chi m’aiuta, no ‘nc’è chi me conziglia, né ‘nc’è chi me conzola!” Ora, mentre faceva lo sciglio , eccote comparere …
4 Con suggestivi agganci mitologici, tanto per non farci mancare nulla …, con Σκύλλα (leggi Schiùlla)=Scilla, il mostro marino descritto da Omero (Odissea, XII, 112), le cui sei teste di cani con il loro abbaiare evocano il frastuono e con il triplice giro di denti la lacerazione, la divisione, lo smembramento e il dolore connesso. Non a caso Scilla (in provincia di Reggio Calabria; la foto che segue è tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Scilla_(Italia)#/media/File:Scilla_Castello.jpg) nel dialetto locale è ‘U scìgghiu.
In più di un post che comportava riscontri con documenti cartografici datati ho avuto occasione di mettere in risalto la forma strana di alcuni toponimi, dovuta certamente a deformazione di quella originale o, quanto meno, in uso al tempo della carta stessa. E se talora i cambiamenti sono così limitati (per esempio, cambio di una vocale, raddoppiamento o, al contrario, scempiamento di una consonante) da suscitare il dubbio che si tratti di un errore, per quanto veniale, in altri casi l’effetto finale, talora esilarante, non lascia adito ad altre ipotesi se non adattamento del nome indigeno alla nazionalità del cartografo e dei suoi informatori.
Nella prima in alto a sinistra si legge: A NEW CHART of the MEDITERRANEAN SEA composed from the Draughts of the Pilots of Marseilles corrected by Astronomical Observations by order of M.GR Le Comte de Marepas … (Una nuova carta del Mar Mediterraneo composta dai disegni dei piloti di Marsiglia corretta con osservazioni astronomiche per ordine del Monsignore1 il Conte di Marepas2 … ).
Dopo altre informazioni di natura descrittiva che per brevità non riporto si legge: Sold by William Mount & Tho.s Page Tower-Hill. LONDON (Venduta da William Mount & Thomas Page Tower-Hill LONDRA).
È giunto il momento di passare in rassegna i toponimi la cui stranezza di forma è da ascrivere nella prima mappa ai piloti di Marsiglia.
Tarenta perTaranto, ripetuto in G. of Tarenta.
Ostara per Ostuni.
C. Lucco Non essendo riuscito a trovare tale toponimo né in letteratura né in cartografia nonmi resta che supporre (sarò sicuramente accusato di fantasia trasbordante, ma non me ne importa più di tanto) che Lucco sia un errore di stampa (dovuto ad errata lettura dell’originale) per Cucco, la voce onomatopeica infantile sinonimo di uovo. A questa ipotesi sono giunto dopo aver notato che il capo in questione sembra coincidere perfettamente come dislocazione con l’attuale promontorio di Monte dell’Ovo (di seguito nell’immagine tratta da Google Maps)
già Capo dell’Ovo (nell’immagine successiva nel dettaglio tratto dalla Provincia di Terra d’Otranto di Domenico De Rossi uscita a Roma nel 1714).
Tuttavia, la vicinanza (visibile nel dettaglio) di Torre di Castelluccio complica ulteriormente la questione legittimando l’ipotesi che C. Lucco sia deformazione di Castelluccio attraverso la lettura Castel Luccio e successiva abbreviazione di Castel in C. diventato nella mappa abbreviazione di Cap., mentre Luccio ha dato vita a Lucco.
Dalla deformazione si salvano solo Brindisi, Otranto, C. d’Otranto, C. S. Maria e Gallipoli.
Per quanto riguarda i dintorni (C. Lucco mi ha snervato …) la mia esplorazione si limita a:
1) I. Fanu: oggi Fanò) o Othoni, l’isola greca più vicina alle nostre coste.
2) I. Mandracha: il toponimo sembrerebbe deformazione spinta, anzi spintissima di Marlera oppure, come appare in mappe antiche, Meslera o Merlera o Marlora (oggi Ereicussa), se non comparisse così registrato in AA. VV., Nuovo dizionario geografico portatile, Antonelli, Venezia, 1829, tomo I pare II, p. 903:
La posizione geografica che si vede nella mappa è quella indicata, a parte Ionia (che, com’è noto, è una regione costiera dell’Asia Minore) per Ionio.
La conferma che l’ipotizzata deformazione non ha fondamento viene dal Ditionaire universel de géographie maritime di L De Grandpré, tomo II, Delalain, Parigi, p. 3904:
(Mirlina, piccola isola tra Corfù e Mandracha). Ne consegue che, tutt’al più, Marlera, Meslerae Marlora saranno deformazioni di Mirlina), ma non Mandracha così definita in questo stesso dizionario geografico (p. 343):
(Mandracha, piccola isola a Nord-Ovest di Corfù).
3) Mariner sarà, per quanto detto sopra, deformazione di Marlera/Meslera/Merlera (oggi Ereicussa).
Passo ora alla seconda mappa, ove in basso a sinistra si legge for M.r Tindal’s Continuation of M.r Rapin’s History5.
Tarenta, ripetuto in G. of Tarenta, come nella prima mappa.
Ostani per Ostuni (Ostara nella prima mappa).
C. Lucca (C. Lucco nella prima mappa). Questa forma femminile sembra confermare la seconda ipotesi formulata per Lucco; attualmente il nome della torre è Castelluzza.
Otrante e C. de Otrante (Otranto e C. d’Otranto nella prima mappa).
Brindisi, I. Fanu, I. Mandracha e Mariner (come nella prima mappa); da notare l’assenza di Gallipoli.
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1 MGR è abbreviazione di Monseigneur, titolo spettante ai membri della famiglia reale e ad altri dignitari.
2 Jean-Frédéric Phélypeaux, conte di Maurepas (1701-1781); uomo politico francese. Fu segretario di stato alla Marina e alla Camera di Luigi XV dal 1718 al 1749) e ministro di Luigi XVI dal 1774 al 1781. La prima carica (assunta a soli 14 anni, ma assistito dal marchese de La Vrillière) indurrebbe a pensare che la carta sia da collocare nella prima metà del XVIII secolo.
5 Dalla continuazione di Mister Tindal della Storia di Mister Rapin; Nicolas Tindal (1687-1774) fu il traduttore (il primo volume di questa traduzione uscì nel 1757) e il continuatore (con tre volumi che comprendevano la storia del regno da Giacomo II a Giorgio II) dell’History of England di Paul Rapin de Thoiras (1661-1725). Il Continuation della didascalia consente di collocare senz’altro questa mappa dopo il 1757. Essa, quindi, dovrebbe essere posteriore alla precedente che, come s’è detto, molto probabilmente è della prima metà del secolo XVIII.
In un post del 21/1/2014 (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/20/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-614-castro/) scrivevo: In attesa che le risultanze archeologiche emerse dagli scavi del 2007-2008 (vedi Castrum Minervae, a cura di Francesco D’Andria, Congedo, Galatina, 2009) confermino definitivamente, magari grazie ad ulteriori fortunati nuovi ritrovamenti (una bella statua di Minerva, per esempio, o anche una sua parte, purché l’una e l’altra siano in grandezza naturale o, meglio ancora, ultranaturale, sarebbe la prova quasi finale che Castro sia da identificarsi proprio come il luogo del primo sbarco di Enea immortalato da Virgilio …
Il recentissimo ritrovamento a Castro di una grande statua dà un carattere felicemente profetico alle mie parole e quasi quasi, con questa credenziale del non gufo, potrei comunicare al Presidente del Consiglio di essere disponibile al conferimento, su nomina diretta, di un incarico di prestigio anche secondario (tanto non sarebbe certamente secondario l’aspetto economico, quello, come dice Razzi/Crozza, della grana).
Le credenziali di tipo culturale non contano, nonostante la dominante sciamanico-divinatorprofetica delle mie? Lo sospettavo (a dire il vero ne ero più che certo per quelle culturali non inquinate…, con le quali, com’è noto, non si mangia) ma, da ingenuo quale sono, per un attimo ho ceduto, sia pure solo col pensiero, alla tentazione …
In attesa che gli esperti dicano la parola definitiva (almeno si spera) sull’identificazione della statua, il pensiero corre in prima battuta a Minerva (corrispondente alla greca Atena; non a caso la civetta, l’animale a lei sacro, reca il nome scientifico di Athene noctua) e la fantasia galoppa immaginando in qualche modo che la statuetta rinvenuta nei precedenti scavi sia quasi una miniatura di questa enormemente più grande.
Non è così, perché la postura è totalmente differente; ma, da appassionato dilettante allo sbaraglio, dopo aver indossato i panni dell’indovino, voglio abbandonarmi ad un gioco comparativo lasciando al lettore trarre le conclusioni.
La posizione del braccio destro della grande statua (che a dire il vero vedo un po’ sovradimensionato) mi sembra compatibile con la postura della statuetta di Privati. E se si rinvenisse la testa in condizioni di chiara leggibilità e un frammento, solo un frammento, di scudo? …
Le “Donne” di terracotta, dalla materia al concetto: intervista a Carolina Sperti
Ho conosciuto Carolina Sperti a Copertino durante un concorso tra artisti organizzato da Anna D’Amanzo, dove ho avuto l’onore e il piacere di fare da giurato, anche se in realtà le opere della Sperti non erano in gara. Ci trovavamo all’interno della chiesa di Santa Chiara, una location incantevole nella quale le sue sculture erano disposte sugli altari laterali e la presenza di queste deliziose fate di terracotta la si percepiva come di esseri animati, tutt’altro che inadeguate in quel contesto. In esposizione ma spettatrici anch’esse nella mostra.
A fine serata, dopo la premiazione dei vincitori, mi presento alla scultrice e ci scambiamo i contatti con la promessa di risentirci. Passato qualche mese provo a ricontattarla e tra i suoi vari impegni d’artista riesce a dedicarmi un’ora per l’intervista che vi apprestate a leggere.
Siamo in casa sua, a Lecce, dove vive e realizza le sue opere. Io le esprimo immediatamente la mia contentezza perché finalmente converso con una donna per Fondazione Terra d’Otranto e lo faccio iniziando proprio da lei che rappresenta giustappunto figure dalle sembianze e dai contenuti femminili.
D.:
Le mie abitudini prevedono che prima di incontrare l’artista io faccia una ricerca per conoscere chi ho di fronte; uno tra gli aspetti che mi hanno incuriosito maggiormente è stato quello legato ai tuoi studi; un percorso universitario che non riguarda l’arte, quantomeno in senso stretto. Dalla filosofia alla scultura: due attitudini correlate?
R.:
Credo che la filosofia e l’arte siano più vicine e simili di quanto si pensi. I miei studi hanno più che altro maturato il modo di concettualizzare le ragioni di quei tormenti che tutti ci portiamo dentro ma è l’estro artistico a rendere il mio pensiero realmente comprensibile ai più.
Nella personale ricerca di una formula espressiva creativa ho perfino provato a dipingere, esperienza circoscritta a un approccio abbastanza repentino; tuttavia è nella tridimensionalità che ho individuato il mio equilibrio, il mio più alto accordo tra pensiero e materia.
Mi piace immaginare le diverse sfaccettature di un corpo statuario come una sorta di metafora della coesistenza: più volumi dagli aspetti differenti che si compongono armonicamente sulla superficie di un unico elemento a tutto tondo.
E infine il contatto con la terra nella quale ritrovo una dimensione quasi primitiva ma obbligatoria.
D.:
Galeotto fu un corso di scultura, dico bene?
R.:
Si, nel 2001 seguii un corso tenuto dall’insegnante Maria Teresa Gigante, organizzato dalla Società Operaia di Lecce, e qui ricevetti i primi rudimenti, il primo vero contatto con la massa plastica imparando a maneggiarla per avere da lì un minimo di dimestichezza nel modellarla. In seguito la mia esperienza si è arricchita tramite l’incontro col pittore Maurizio Muscettola con cui è nata nel tempo una prolifica collaborazione artistica.
D.:
Da allora sono passati quattordici anni. Come nascono queste deliziose donnine di creta?
R.:
Le donne di terracotta sono scaturite dalla mia fantasia nella maniera più semplice e naturale che si possa immaginare, si sono perciò rivelate nelle loro fattezze in modo del tutto spontaneo. Ci ho anche riflettuto sopra e probabilmente nella prerogativa della femminilità si cela una variante intima; detto questo non vorrei che si occludessero gli eventuali spunti per ulteriori e poliedriche interpretazioni personali del fruitore. Nei lineamenti gentili si celano disordini emotivi che sono genericamente umani e certamente indipendenti dal sesso.
Se proprio ci si incaponisce a voler utilizzare una chiave di lettura univoca potremmo adottare l’universo femminile come criterio di una cultura alternativa, cioè un atteggiamento più sensibile di approcciarsi a talune sollecitazioni emotive.
D.:
È importante per un artista il giudizio del pubblico?
R.:
Personalmente trovo entusiasmante che ognuno colga una propria chiave di lettura, forse è proprio questo aspetto che determina l’arte, il fatto di far riflettere. A suffragio di ciò ricordo delle signore intervenute a una esposizione delle mie opere le quali astanti, trovatesi a meditare presso una particolare Donna di terracotta che dentro di sé ne conteneva un’altra, giunsero alla conclusione che uno dei messaggi racchiusi fosse legato al tema della maternità. In realtà non era assolutamente mia intenzione caratterizzare quell’opera adducendo quel genere di interpretazione ma trovai comunque piacevoli le loro considerazioni interessate.
D.:
Ricordo di aver visto delle tue opere dove l’elemento della serratura e della chiave ricorrevano di frequente; cosa si apre con quelle chiavi e cosa si cela dietro quelle serrature?
R.:
A dire il vero non si apre nulla, la chiave è piuttosto un invito a comprendere. C’è una delle mie Donne di terracotta, ad esempio, che custodisce alla spalle tre chiavi ma nessuna delle quali però apre la sua porta; un po’ a simboleggiare l’inaccessibilità dell’universo intimo femminile.
D.:
Quali sono gli artisti ai quali ti ispiri?
R.:
Sinceramente non ho riferimenti artistici che mi condizionano nella produzione. Del mondo della pittura però mi piace molto Modigliani, le sue figure femminili slanciate e i volti dalle espressioni eteree.
D.:
Anche le tue Donne hanno degli sguardi eterei?
R.:
Loro sono immerse in una dimensione onirica, assorte in una specie di vagheggiamento nel quale amano perdersi. Una caratteristica tipicamente femminile questa, poiché credo che le donne, abbiano coltivato nei secoli un mondo interiore più ricco e variegato rispetto agli uomini, per sfuggire probabilmente ai limiti della realtà di un mondo troppo spesso maschilista.
D.:
Ci sono persone che col loro passaggio ti hanno segnata artisticamente?
R.:
Penso che tutti gli incontri che ho avuto mi abbiano “influenzata” in qualche modo. Voglio dire che il contatto umano e il confronto con gli altri danno sempre dei nuovi spunti per migliorarsi e andare oltre i propri limiti fatti di quelle certezze che momentaneamente si erano raggiunte.
Per me aggiungere punti di vista al modo di vedere le cose che ci circondano vuol dire peraltro arricchire la creatività sovrapponendo nuovi artifici alla materia, donando conseguentemente ulteriori punti di vista dai quali apprezzare l’opera finita. Che possiamo anche essere noi stessi.
Esperienze e sensazioni che apparentemente non hanno alcuna connessione col mio lavoro a volte operano in forma inconscia per poi palesarsi nel momento in cui produco modellando le diverse forme.
D.:
Quando immagini le tue Donne di terracotta tra qualche anno le figuri ancora con quest’aria antica, quasi anacronistica o avranno una metamorfosi?
R.:
Loro evolvono con me ovviamente e in funzione di me, questa è una certezza. A parte l’uso dei diversi materiali, già ci sono degli enormi cambiamenti rispetto a quelle che erano le fattezze originali. Ora sto lavorando affinché la superficie, dalla pelle ai vestiti, diventi una sorta di tela per trasmettere anche altro. Ma non aggiungo altro, è una sorpresa per chi saprà aspettare.
D.:
Aspetteremo. Che differenza passa tra ricerca materica e ricerca filosofica nella tua attività?
R.:
Per ciò che concerne l’aspetto tecnico devo dire che a me piace molto sperimentare. Come accennavo, ultimamente nell’impasto ho adoperato moltissimi materiali, dagli stucchi particolari alla cera, fino al cemento e alla semplicissima terra rossa. Aggiungici che spesso mi adopero a reperire vecchi arnesi da masserie abbandonate, immaginando così di poter dare nuova vita a oggetti desueti.
Da un certo punto di vista credo che tutta questa ricerca sia in qualche modo connessa al senso stesso di concetto, purché lo scopo non sia frutto del mero desiderio di stupire, del rincorrere spasmodicamente l’illusione di creare qualcosa di nuovo a tutti i costi.
Utilizzare sì immagini nuove ma per trasmettere soprattutto messaggi innovativi e propositivi in funzione del contesto sociale che si vive. E poi non è detto che l’arte debba risultare “bella” per forza; persino una foto dai contenuti atroci può essere pregna di significati altissimi.
D.:
Ho come l’impressione però che spesso i messaggi che un’artista vorrebbe veicolare non abbiano alcuna presa sugli animi più ruvidi, che poi talvolta sono proprio i destinatari prediletti. Condividi questa mia riflessione?
R.:
Condivido ma è una questione di coscienza e di consapevolezza. Io credo che se la cultura dominante di una società apatica prende il sopravvento sull’individuo, impedendogli di mantenersi in contatto con la parte più intima e libera del sé, purtroppo a quel punto è estremamente difficile scalfire questa patina grigia narcotizzante. C’è solo un modo per risvegliare il pensiero critico e con esso la sensibilità alla “bellezza” ed è il sapere, l’istruzione. A partire dalla scuola.
Conoscere la storia è fondamentale poiché ci sono delle dinamiche le quali, nonostante il progresso, ritornano sempre e sempre uguali. Allora dovrebbe essere anche questo il compito di un insegnante: attualizzare certi eventi per rendere partecipi i giovani. Si crea così una coscienza che è alla base di ogni azione.
D.:
Come sono i rapporti tra gli artisti del nostro territorio?
R.:
Nel mondo dell’arte – come certamente in tanti altri ambienti – vigono delle regole non scritte fatte di ordinaria competizione, tale rivalità talvolta degenera nell’arrivismo e nell’utilitarismo. Questo ovviamente vale per tutte le declinazioni dell’arte; che si tratti di scultura, pittura, scrittura o persino musica.
Nel nostro tempo, tra l’altro, è anche aumentata la produzione creativa perché ci sono tanti individui che dipingono, scrivono, suonano, ecc.. Emergere è diventato più difficile e gli ambiziosi sono costretti a sostenere una lotta spietata.
Per quanto mi riguarda, a prescindere dalle collaborazioni, da ciò che va in porto e dai progetti che abortiscono, quello che preme è sempre il rapporto umano e il rispetto. Per questa ragione cerco di relazionarmi più che posso in maniera autentica e quando riconosco i meccanismi di cui sopra provo a tenermene fuori.
D.:
Le gallerie, in tutto questo fermento, che ruolo ricoprono?
R.:
Personalmente finora non ho mai esposto in una galleria, forse perché mi ha sempre inibito farlo, ma non escludo di trovare un giorno la persona giusta con la quale intavolare prima di tutto un rapporto di fiducia, oltre che professionale.
Ora come ora non disdegno le esposizioni come quella nella quale ci siamo conosciuti, in chiese o per i vicoli dei centri storici, poiché ho la possibilità di confrontare le mie opere con un pubblico variegato e non settoriale come immagino sia nelle pinacoteche.
Ad esempio tra pochi giorni prenderò parte ad un concorso che si terrà nel borgo antico di Giovinazzo, presso il quale sono stata selezionata a partecipare.
D.:
Sulla gonna di una delle Donne di terracotta ho intravisto un foglio con dei versi. La poesia è un’altra delle tue passioni?
R.:
Si. Devi sapere che sono autrice di un libro di poesie intitolato “Sentore di coccinelle”, pubblicato nel 2013 dall’Editrice Argo, per cui vi è una sorta di rimando tra le sculture e i versi; alcuni concetti che avevo espresso nelle poesie ritornano per materializzarsi in maniera più istintiva negli atteggiamenti delle mie Donne, nelle loro braccia lunghissime e nelle feritoie dei loro corpi. Due espressioni quindi dello stesso bisogno.
Anche qui mi torna in soccorso la filosofia che insegna a porsi sempre nuove domande e a rifuggire dalle certezze; in qualsiasi cosa io faccia è bandito l’assolutismo ma venero invece la convivenza armonica degli opposti, che è una realtà. Qualsiasi sentimento, positivo o negativo che sia, va coltivato e mai represso perché essi coesistano.
D.:
Cosa riserva il futuro a Carolina?
R.:
Io credo che se nel futuro ci sia una certezza quella è l’imprevedibilità. Scelgo consciamente di evadere dal determinismo, dalla necessaria concatenazione di causa ed effetto perché la realtà dimostra che non è così che funziona il mondo ma che tutto ruota invece attorno ad atti di vera libertà.
L’albero della vita della cattedrale di Otranto a Expo
Un viaggio in Expo 2015 tra scienza, alimentazione e agricoltura, su cui irrompe l’enciclica ‘Laudato si’’ di Papa Francesco
di Paolo Rausa
Ad appena due mesi dall’apertura l’Expo dispiega tutta la sua potenza espositiva. Un decumano, lungo un chilometro e mezzo in direzione est-ovest, che incrocia il cardo, a sua volta lungo 350 metri, all’altezza di piazza Italia da cui si intravede il suggestivo albero della vita, che richiama con una visione avveniristica e tecnologicamente avanzata l’Albero della vita della Cattedrale romanica di Otranto. Un grande mosaico pavimentale che aveva ordito tra il 1163 e il 1165 Pantaleone, il monaco basiliano del monastero di San Nicola a Casole. E’ veramente entusiasmante e suggestivo vedere affacciarsi su queste strade di concezione consolare romana padiglioni di ogni parte del mondo degli oltre 130 paesi partecipanti, circa 60 dei quali sviluppano uno spazio auto costruito e gestito, mentre gli altri costituiscono i cluster monotematici (il riso, il caffè, cacao e cioccolato, frutti e legumi, spezie, bio-mediterraneo, isole mare e cibo, cereali e tuberi e infine le zone aride), i quali mettono in evidenza gli aspetti naturali e gli sforzi che ogni paese sta compiendo per affrontare il problema alimentare e climatico. La nostra visita a piedi comincia dall’ingresso ovest, Cascina Triulza, a cui si arriva comodamente in treno, il nostro dalla zona sud est è il passante ferroviario S14 con partenza da Rogoredo. Il Padiglione 0 introduce l’argomento, una grande biblioteca, i semi, gli attrezzi agricoli che hanno aiutato l’uomo a estrarre i frutti dalla terra, l’allevamento e i pesci che pendono dal cielo, lo spreco alimentare, il listino della borsa. Il primo a cui ci si ferma è il padiglione del Nepal, non ancora ultimato, oggetto di pellegrinaggio e di solidarietà da parte dei visitatori che già dalla mattina arrivano numerosi. Si visitano i padiglioni facendo necessariamente una scelta, dettata dal caso o da quanto si è sentito dire. Poi l’Angola e il Brasile, ma la fila che si intravede distoglie. Il Vietnam e la Repubblica di Corea, avveniristica: il cibo come sfida. I cluster del riso e del cacao: i paesi espongono i loro prodotti della terra e artigianali. La Thailandia, il paese dell’oro, l’Uruguay, ci saremmo aspettati un omaggio al presidente Mujica e alle popolazioni indigene, ma è troppa l’ansia di attrarre visitatori, allora si propone la bellezza dei territori, la Cina che si limita ad esporre in una struttura a pagoda un letto di canne meccaniche che simulano il lento fluire del ritmo naturale, la Colombia divisa in 5 climi che dimentica Medellin e la lotta al narco traffico, l’Argentina con la sua carne grigliata che ci spinge ad una sosta. Stanchi, ma non domi siamo pronti alla seconda parte del percorso, l’oriente: Azerbaigian e Kazakhstan, molto curati nei particolari espositivi. Questo si prepara a celebrare il prossimo expo dell’energia nel 2017 e affida il racconto della sua storia ad una artista che illustra sulla sabbia le vicissitudini di un paese proiettato nel futuro, specie quando ci introduce con la visione tridimensionale sugli aspetti naturali ed architettonici, tanto che pare quasi di immergersi nel mare e di toccare terra tra il frumento o di sfondare il palazzo presidenziale. La sosta al centro Conferenze dove vari studiosi e il cardinale Angelo Scola illustrano i contenuti dell’enciclica di Papa Francesco ‘Laudato si’’, sulla natura come atto di creazione e sulla responsabilità dell’uomo sui danni all’ambiente. Poi Israele, cosa abbiamo fatto a favore dell’umanità in termini di scoperte, e la Germania, che assume su di sé le sorti del pianeta con un’esposizione didascalica e puntuale su che cosa fare. Straordinaria! Piazza Italia e l’Albero della Vita, suggestivo con l’acuto lirico che libera i colori e fascia la struttura. Slow Food e la sostenibilità, il giardino degli aromi, l’Oman, una nazione marittima che si scopre anche agricola. L’altoparlante chiama alla chiusura e invita a uscire. Stanchi ma soddisfatti. Da ritornarci per completare il giro, almeno altre due volte. Molte riflessioni, sui popoli, sui loro diritti negati, sui problemi del cibo, non sulla sua mancanza ma sulla cattiva distribuzione, sugli sprechi. L’umanità è qui riunita, mostra il meglio di sé, ma non può nascondere il fatto che fuori di qui urgono guerre e carestie. C’è materia e di azione e di riflessione per tutti, cittadini e governanti compresi.
Non so se i compilatori o gli aggiornatori dei moderni vocabolari stiano aspettando l’autorizzazione dell’UE (Acronimo di Unione Europea e non, come qualcuno potrebbe cominciare a pensare, Unione Ebete) o di Matteo Salvini (per via delle sue, qualche tempo fa inopinabili, caldane sudiste pro voto) per aggiungere al lemma arricciatura la seguente definizione: particolare, complesso e lungo trattamento, tipico del Barese, cui viene sottoposto il polpo prima di essere consumato crudo. Infatti neppure nello Zingarelli 2016 ai lemmi arricciare e arricciatura compaiono, rispettivamente, altri complementi-oggetto o di specificazione che non siano capelli, baffi, peli, tessuti, naso, labbra, narici, muri (strato di intonaco), foglie e pagine.
Di fronte all’autorizzazione, se verrà, questo mio intervento che tenta di andare alle radici di una pratica che già ad intuito appare antichissima, avrà avuto un peso irrilevante, ammesso che qualcuno dei geniali burocrati, prima ancora che politici, dai quali ormai è regolamentato pure il respiro, sia in grado di leggerlo e, quel che più conta, di capirlo, nonostante il ripetuto e rivoltante sciacquio di bocca con locuzioni tipo rispetto dei valori fondanti della civiltà occidentale …
Nel momento in cui scrivo apprendo che l’UE chiede all’Italia di adeguarsi al principio sovrano dell’apparire e non dell’essere, del surrogato e non del genuino, della confusione e non della chiarezza, degli imbrogli possibili e quasi autorizzati e non della loro, per quanto sempre teorica, difficoltà di realizzazione: a completare (?) nel settore lattiero-caseario i provvedimenti stigmatizzati qualche giorno fa in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/29/la-furficicchia-e-leuropa/, nel quadro della nefasta operazione in corso da tempo per mettere definitivamente in ginocchio l’unico, o quasi, settore in cui siamo apprezzati a livello planetario, quello agro-alimentare, i B&B (Burocrati e Buffoni) europei ci raccomandano di adeguarci al dio mercato e ci diffidano dal continuare a vietare sul nostro territorio l’utilizzo della farina lattea nella fabbricazione di latticini; il tutto per non ostacolare la libera concorrenza.
Il passato ha dimostrato che la raccomandazione/diffida dell’UE vale come imposizione a breve termine.
Sarebbe ridicolo, se non fosse tragico, che burocrati superpagati, quegli stessi che ogni momento si sciacquano la bocca con i valori fondanti di cui sopra, non siano riusciti qualche giorno prima a coniugare i verbi diffidare e imporre a proposito delle quote di accoglienza dei profughi ed abbiano sancito a tal proposito il principio della volontarietà. Insomma: per loro, ad onta dei valori fondanti, una scamorza fatta, per giunta, col latte in polvere, vale molto di più di una vita umana. Volontariamente evito di parlare (chissà che vocaboli verrebbero fuori!) dello strozzamento-ricatto in corso nei confronti della Grecia ed è squallido pensare che la morsa verrà (per quanto?) allentata solo per evitare il rischio che essa venga attratta nella sfera sovietica … come se uno stato, anzi un popolo, fosse un pallone da arpionare o da scaraventare lontano …
Mi chiedo: quale altra demenziale ed aberrante decisione dovremo sorbirci prima che anche dalle nostre parti venga indetto, da chiunque, purché sia indetto, un referendum per decidere se uscire o no da questa gabbia di ipocriti servi di una lobby e dell’altra pure, visto che chi ci rappresenta come nazione non batte ciglio per insipienza o, se così fosse sarebbe ancora più grave, per convenienza e connivenza?
Meglio cambiare bruscamente registro e passare da quello politico-sociale al personale.
Chi, dopo aver catturato un polpo anche di medie dimensioni ed averlo morso in testa, non lo ha sbattuto ripetutamente su uno scoglio per ammorbidirlo in previsione della cottura? Io! Ricordo come ieri un’avventura tragico (per il polpo e per me)-comica (per l’osservatore esterno) occorsami una quarantina di anni fa. Ero intento a pescare dal mio posto preferito: lungo la scogliera alle spalle della masseria Bellimento c’è una specie di piattaforma, con l’acqua non più alta di mezzo metro, lunga una decina di metri e larga un paio, oltre i quali c’è uno strapiombo di almeno dieci metri, una postazione ideale per la pesca con la canna, C’è, però, l’inconveniente che si deve pescare stando in piedi, perché, a differenza di questi ultimi protetti da un paio di scarpe di plastica spessa, il sedere resterebbe soggetto all’inevitabile supplizio delle spine dei ricci che allora tappezzavano (ora non so) la piattaforma. Si avvicinava il tramonto e ormai era in atto quella che sarebbe stata l’ultima calata della giornata. Mentre attendevo il tanto atteso strappo, mi sentii come sfiorare la scarpa destra e poi accarezzare la caviglia e lo stinco. Rimasi come paralizzato quando mi accorsi che un polpo mi aveva avvinghiato (!) quella parte del corpo probabilmente attratto dal colore bianco delle scarpe. Per qualche secondo sperai, continuando a tenere in mano la canna, che allentasse la presa e se ne tornasse a farsi i fatti suoi lontano da me. Non successe, e a quel punto l’istinto predatorio prese il sopravvento (era il mio primo polpo!). Posai la canna in acqua, mi chinai leggermente e allungai la mano forse con la residua, contraddittoria speranza che il mostro (!) per paura fuggisse. Al contrario, lasciato il piede, il polpo più veloce del fulmine mi aveva avvinghiato la mano e tutto l’avambraccio. Con una freddezza incredibile (ormai l’istinto predatorio aveva preso un irreversibile sopravvento) con l’altra mano recuperai la canna e, trascinandone lenza ed amo, mi allontanai dalla piattaforma a distanza di sicurezza. Sapevo che i pescatori, professionisti o dilettanti che fossero, appena estratto il polpo dall’acqua ponevano fine alla sua agonia mordendone la testa. Scoprii di non essere capace nemmeno di un polpicidio ma non sarei sincero se non dicessi che forse in quella occasione era prevalente il senso di schifo. Mi inquietava pure il fatto che ormai il sole era tramontato e che il crepuscolo non sarebbe stato né lungo né, peggio ancora, gradevole con il polpo i cui tentacoli cominciavano a lambirmi pure la spalla. C’erano da percorre quasi trecento metri attraverso la macchia prima di arrivare alla masseria che allora era la base di partenza per le mie battute (!) di pesca. Intanto il polpo era giunto a minacciare perfino gli occhiali e la loro eventuale caduta, ammesso che non si fossero rotti, per uno al quale mancavano (per fortuna mancano ancora oggi ..) dieci diottrie per occhio, sarebbe stato veramente l’atto finale della tragi-commedia in corso. Con un coraggio insospettabile gettai a terra la canna e con la mano liberata afferrai il polpo per la testa e cominciai a tirare. Non so quanto durò quest’operazione, so solo che mi ritrovai con il collo e le spalle ancora preda di quell’abominevole abbraccio, nonostante il polpo risultasse quasi decapitato e il suo ultimo saluto alla sua vita e alla mia umanità (?) fu una quantità impressionante di milanu1 schizzato da tutte le parti. In certe occasioni vorresti che due minuscoli tergicristalli fossero montati sulle lenti. Sfruttando i pochi millimetri quadrati delle lenti rimasti indenni, ripresi la canna e con il polpo che nemmeno da morto voleva staccarsi (in quei momenti ti sfugge il concetto e il funzionamento della ventosa …), dopo aver attraversato con passo molto affrettato la macchia, feci il mio trionfale ingresso in masseria, dove si svolse la parte comica, che vi risparmio (ci volle quasi il trattore di mio cognato per liberarmi dal cadavere del polpo e un quintale di acqua e due confezioni di bagnoschiuma perché il mio corpo tornasse all’antico(?) splendore (?) offuscato, fortunatamente per poco tempo, dal milanu …
Il polpo, dunque, era stato martirizzato ma aveva evitato il destino riservato ai suoi simili: niente morso sulla testa, niente sbattimento sugli scogli. E sullo sbattimento, che già ad intuito si direbbe una pratica antichissima, le prime due testimonianze, sia pure indirette, ci giungono da Ateneo di Naucrati, un autore greco del II secolo d. C., la cui opera, Deipnosofisti2 (alla lettera: Saggi a banchetto), è preziosa perché contiene il nome e i frammenti di autori che altrimenti sarebbero da considerare perduti integralmente e per sempre (in gergo tecnico tradizione indiretta).
Nel capitolo 8 del libro I Ateneo ci tramanda alcuni versi di Platone (non è il filosofo del V-IV secolo a. C. ma l’omonimo e contemporaneo commediografo), appartenuti alla commedia Faone, dei quali trascrivo quelli riguardanti il nostro tema: πουλύποδος πλεκτὴ δ᾽, ἂν πιλήσῃς κατὰ καιρόν,/ἑφθὴ τῆς ὀπτῆς, ἢν ᾖ μείζων, πολὺ κρείττων ((Il tentacolo del polpo, se l’hai battuto convenientemente, quando è alquanto grande, bollito è di gran lunga migliore che cotto sulla griglia).
Il capitolo 100 del libro VII contiene, alcuni frammenti, di vari autori, che hanno come tema il polpo. Quello che a noi interessa più direttamente è di una commedia (Dedalo), perduta, di Aristofane, il commediografo greco del V-IV secolo a. C.: πληγαἱ λέγονται πουλύπου πιλουμένου (si chiamano colpi di bastone del polpo battuto).
Nonostante l’assenza del contesto, vi si potrebbe ravvisare un riferimento, sia pure estremamente sintetico, a tal punto da assumere forse, nel secondo passo le sembianze di un proverbio, alla fase iniziale dell’arricciamento, che descriverò dettagliatamente alla fine.
Tuttavia, la battitura del polpo appare pratica consueta se in Aristotele (IV secolo a. C.), Historia animalium3, IX, 25 si legge: Τὸ μὲν οὖν πλεῖστον γένος τῶν πολυπόδων οὐ διετίζει· καὶ γὰρ φύσει συντηκτικόν ἐςτιν· σημεῖον δ᾽ ἐστίν, πιλούμενος γὰρ ἀφίησιν ἀεί τι καὶ τέλος ἀφανίζεται (La maggior parte della specie de polpi non vive più di un anno. E infatti per natura è soggetta a diventare molle; ne è segno infatti che quando il polpo è battuto si rammollisce sempre un po’ e infine diventa quasi invisibile).
Ne approfitto per ricordare, a proposito della grossa percentuale di acqua che entra nella costituzione del polpo, il proverbio Lu purpu si cucina cu ll’acqua sua stessa (Il polpo si cucina con la sua stessa acqua), usato anche in senso metaforico per dire che spesso chi ha torto non va corretto perché l’evolversi degli eventi lo farà ravvedere da solo. Connessa con la battitura, invece, è la locuzione Purpu male vattutu (Polpo battuto male) registrato dal gallipolino Emanuele Barba nel suo Proverbi e motti del dialetto gallipolino, Stefanelli, Gallipoli, 19024:
Anche qui lo slittamento metaforico nella sfera umana: come il polpo non battuto adeguatamente è duro, non gradito al gusto, così l’uomo non sufficientemente “domato” non è gradito al corretto vivere civile. Siccome non c’è due senza tre, ecco infine l’espressione, ove la metafora si colora di osceno, Nd’ha ffritti purpi! (Ne ha fritti polpi!), con cui si stigmatizza l’attivita amatoria piuttosto intensa di una donna con uomini diversi. Lascio immaginare cosa simboleggi il purpu e da dove nasce il fuoco della frittura. Non conosco locuzione che indichi metaforicamente la stessa cosa per l’universo maschile e il fenomeno mi lascia perplesso perché in passato, a differenza della donna, il numero elevato di conquiste era una nota di merito e non di disprezzo.
Per essere originale dopo il tre mi spingo fino al quattro, lasciando all’amico Massimo Vaglio il compito del commento: La morte ti lu purpu ggh’è la cipoddha (La morte del polpo è la cipolla).
Dopo questa parentesi dialettale con finale erotico-sociologico (!) e culinario, torniamo agli autori antichi.
Sempre sulla battitura e ancor più chiaramente, sia pur molto più avanti nel tempo rispetto agli autori citati prima, Zenobio (II secolo d. C.), Proverbi5, III, 24: Δὶς ἑπτὰ πληγαῖς πουλύπους πιλούμενος· ἐπὶ τῶν κολάσεως ἀξίων. Παρόσον ὁ πουλύπους θηρευθεὶς τύπτεται πολλάκις πρὸς τὸ πίων γενέσθαι (Il polpo battuto con quattordici colpi: per i degni di punizione, poiché il polpo catturato viene battuto ripetutamente affinché diventi gonfio).
Ho tradotto liberamente con gonfio il πίων originale che alla lettera può significare grasso, abbondante, ricco, opulento, fertile, perché mi pare evidente nel proverbio l’adattamento di significato all’aspetto finale del colpevole, reale o presunto, oggetto di pestaggio, tema molto di moda, insieme con quello della tortura, dopo la recente condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani per quanto avvenuto a Genova nel 2001 in occasione del G8.
Credo che il passo di Zenobio costituisca la tappa intermedia, certificata, del processo più o meno lungo che portò dalla semplice battitura all’arricciamento, che consta di quattro fasi:
1) sbattitura: il polpo, ripulito delle interiora che si trovano nella testa, e privato di occhi e becco che si trova in mezzo ai tentacoli,, viene ripetutamente scagliato su una superficie dura, preferibilmente gli stessi scogli, finché i tentacoli non si allungano.
2) battitura: il polpo, adagiato su una superficie dura e liscia, viene percosso con una paletta di legno; i tentacoli si allungano ancora e il loro colore rosso sparisce.
3) agitazione: il polpo viene agitato in acqua di mare e strofinato su una superfice liscia fino a quando i tentacoli non mostrano un iniziale arricciamento producendo schiuma.
4) cullatura: il polpo viene messo in un cestino piano o in una vaschetta di plastica e rotolato e cullato delicatamente finché non si chiude su se stesso a palla con i tentacoli ben arricciati.
Purtroppo non ho potuto controllare l’interessantissima notizia che si legge in Luigi Sada, La cucina pugliese, Newton Compton, Roma, 2012, s. p., riprodotta nel dettaglio che segue in formato immagine6:
Mi auguro solo che tale informazione sia stata trascritta con un rigore più elevato rispetto a quello che contraddistingue lo sciatto Plecté poliùpodos piléses (per vedere quanto lo sia, anche in rapporto all’identificazione della battitura con l’arricciatura, qui definita sicura, basta rivedere il testo originale che prima ho riportato) …
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1 Liquido nero simile a inchiostro che il polpo espelle in funzione difensiva. La voce è dal greco μελαίναν (leggi melàinan), accusativo femminile singolare con valore sostantivato dell’aggettivo μέλας/μέλαινα/μέλαν (leggi melas/mèlaina/melan)=nero . Per la serie Quando non si buttava via nulla: la sacca del nero, asportatqa col suo contenuto, veniva fritta.
2 I brani greci citati sono tratti dall’edizione a cura di G. Kaibel, Teubner, Stuttgart, 1887.
3 Il brano greco citato è tratto dall’edizione a cura di C. Tauchnit, Holtze, Lipsia, 1869.
Per un italiano leggere le parole che il premier Alexis Tsipras ha rivolto al popolo greco annunciando il referendum del 5 luglio non deve essere stato facile, soprattutto dopo aver subito (senza fare nemmeno troppa resistenza) i tre governi non eletti (Monti, Letta, Renzi) e le prescrizioni che per loro tramite la Troika ha imposto.
Per un cittadino dell’Europa del sud sentir parlare di dignità e democrazia il primo ministro di una nazione che economicamente è messa peggio di tutte, potrebbe rappresentare un trauma addirittura peggiore dell’aver subito una sequenza interminabile di riforme incostituzionali ma utili, almeno così hanno raccontato, a rendere i popoli delle nazioni periferiche degni di far parte della grande famiglia europea. Quelle che gli sono state vendute come una cura dolorosa ma necessaria al rilancio economico altro non sono che il quesito del referendum che Tsipras sottoporrà ai cittadini greci in quanto lesive della sovranità e la dignità nazionali.
Il fatto che il premier ellenico abbia fatto più volte ricorso alla dignità nazionale e alla portata storica della decisione da prendere non è un semplice esercizio di stile, ma la dimostrazione che politica e democrazia vanno a braccetto, indipendentemente dal peso dell’economia dello Stato che si rappresenta. Nell’epoca della mercificazione dei diritti e della politica al servizio del potere finanziario Tsipras si comporta da statista come non se ne vedono da più di un ventennio. La decisione di indire un referendum sulle misure proposte dai creditori ha palesato l’inconsistenza dei governi dell’Europa meridionale (Italia in testa) che negli ultimi anni si sono piegati a politiche di austerità senza battere ciglio, relegando di fatto le proprie nazioni al ruolo di eterna periferia da saccheggiare.
In un sol colpo Tsipras ha affossato le balle europee sull’irreversibilità della moneta unica, sull’assoluta necessità delle politiche di austerità attuate in nome di un principio di emergenza e figlie di una crisi finanziaria che poco ha a che fare con il popolo sprecone abituato ad andare in pensione troppo presto, ma che tanto devono all’inefficienza del sistema bancario, braccio armato della finanza speculativa. Con la freddezza tipica del politico navigato il giovane Alexis ha riportando finalmente al centro del dibattito europeo il principio democratico, gli è bastato pronunciare la parola referendum perché i creditori andassero in tilt, vedendosi di colpo costretti a dichiarazioni che fanno riferimento “alla grande famiglia europea” dalla semplice minaccia di praticare il più elementare esercizio democratico. Non male come risultato politico.
Il fatto che l’Europa sia stata pensata su principi di solidarietà tra popoli mentre in realtà viene tenuta insieme da regole che somigliano più ad un contratto per il finanziamento dell’acquisto dell’auto che non ci possiamo permettere è verità ormai sotto gli occhi di tutti. La contrattualizzazione della fiducia tra Stati è il piano culturale sul quale poggia l’attuale costruzione europea e la moneta unica. La Troika gioca da sempre una partita doppia con la politica dei vari Stati europei, soldi in cambio di riforme che riducano il divario socio economico tra le nazioni del Sud a quelle del Nord. Va da se che l’unica Europa possibile sia un abito cucito su misura sulle esigenze economiche, sociali e culturali dei virtuosi esportatori del nord, mai disposti a prendere in seria considerazione le diversità culturali, sociali ed economiche della totalità dei paesi che compongono il vecchio continente.
L’Italia, al pari di Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda fa parte della periferia sud dell’Eurozona e come tale ha poco da guadagnare dal protrarsi di politiche mercantilistiche che sviliscono lo stato sociale e il mondo del lavoro. In questi giorni si è arrivati a minare l’istruzione delle generazioni future con una riforma della scuola talmente cinica da rendere la libertà di insegnamento del singolo docente una merce la cui adeguatezza deve essere sottoposta al vaglio del preside padrone di turno. I greci, molto probabilmente, non arriveranno mai a subire simili umiliazioni sociali.
La crisi greca e le parole di Tsipras suonano per il nostro paese e per i P.I.I.G.S. come un vero e proprio campanello d’allarme, una sveglia che abbiamo silenziato più volte in passato e che dopo le condivisibili richieste di democrazia greche si fa sentire più forte di prima. In Italia la democrazia è stata sospesa. Gli ultimi tre governi non hanno avuto alcun mandato popolare, non vi è traccia di un programma condiviso e si continua ad operare in palese contraddizione con i principi costituzionali. La maggioranza in parlamento non rispecchia per nulla la coalizione che ha vinto le elezioni nel 2013, la nostra sinistra radicale dopo aver regalato il premio di maggioranza al governo fa acqua da tutte le parti, al massimo è stata in grado di organizzare una gita fuoriporta con striscioni e bandiere inneggianti una ridicola “brigata kalimera” dopo aver scopiazzato male, per anni, la sinistra spagnola. Di un dibattito nel merito su euro ed Europa nemmeno l’ombra.
L’euro, come da tempo scrivono gli economisti di mezzo mondo, è una costruzione umana che ha il compito di semplificare la vita e i rapporti economici dei popoli che lo adottano, ma non è un obbligo servirsene a tutti i costi. L’adozione di una moneta unica rappresenta la diretta conseguenza del percorso comune nel quale le nazioni concorrenti si devono riconoscere. In sostanza è l’ultimo passo da compiere dopo aver lavorato insieme per una leale convergenza dei diversi sistemi culturali, sociali, economici e politici in modo da muoversi e pensare da struttura unitaria in grado di compensare eventuali squilibri macroeconomici. Le dinamiche di questi anni hanno dimostrato come il percorso sia stato completamente rovesciato, l’euro è stato utilizzato come mezzo col quale costruire l’Europa lasciando ai margini del dibattito pubblico la necessità di costruire una visione ed un percorso comune. I cittadini degli stati membri sono stati messi davanti al fatto compiuto con la convinzione che alla fine, stretti dalle morse del debito pubblico e di una crisi nient’affatto che casuale, avrebbero accettato l’austerità dei bilanci pubblici pur di non smettere di sognare un’Europa in realtà mai nata.
La cornice nella quale inserire il rovesciamento delle più elementari regole economiche è stata curata nei minimi particolari, raccontando la menzogna del debito pubblico causato dagli sprechi delle passate generazioni, troppo permissive in ordine a stato sociale e diritti dei lavoratori. In realtà la causa principale dell’aumento del debito pubblico ha origini ben più profonde, basta rileggere la storia economica d’Italia e dell’Eurozona alla luce della scelta compiuta, a partire dalla seconda metà degli anni ’70, di convergere verso la moneta unica per capire quanto la realtà sia stata ancora una volta capovolta. Il primo passo è stato senza dubbio il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, seguito dall’ingresso nello Sme e dalla crisi del 1992, per arrivare all’adozione dell’Euro come moneta unica continentale.
Il debito pubblico ha iniziato la sua corsa verso l’alto il giorno dopo il divorzio(1), subendo un’ulteriore impennata in seguito al salvataggio del sistema bancario dopo la crisi del 2007. Salvataggi o, per meglio dire, socializzazione del debito. Debito pubblico trasformato in debito privato e spalmato sui bilanci dei paesi dell’arco atlantico, seguito da un’operazione mediatica finalizzata a colpevolizzare i cittadini di nazioni che sopravvivono grazie al fatto che buona parte della loro economia è viziata da corruzione e mercato nero. Una condizione strutturale dell’economia reale che tardiamo a risanare e che viene sfruttata cinicamente da sistema finanziario e organismi internazionali, utile alla causa europea dell’austerità che si sposa perfettamente con la necessità di imporre un regime emergenziale in aree come il sud Europa. Tutto questo Renzi, Merkel, Juncker e compagnia al seguito lo sanno bene. Non si tratta di teorie del complotto(2), ma di uno stato dei fatti ampiamente conosciuto e dibattuto nel mondo fuori dai salotti da talk show.
Lo sa bene anche Tsipras, che dicendo semplicemente la verità al popolo greco traccia una linea politica innovativa e dal forte carattere rivoluzionario, in grado di avvicinare idealmente giovani formazioni politiche come Podemos in Spagna e Movimento 5 Stelle in Italia. Movimenti che hanno bisogno di crescere accompagnati da una consapevole spinta popolare. Naturalmente non è detto che il referendum farà prevalere i no alle richieste di FMI, BCE, Commissione Europea e creditori vari, ma di certo quelle parole rappresentano una presa di posizione ed una consapevolezza dei fatti con la quale tanti appassionati sostenitori del “bisogno di un cambio di rotta responsabile” dovranno, gioco forza, fare i conti.
Link Tsipras: http://www.eunews.it/2015/06/27/per-la-sovranita-e-la-dignita-della-grecia-il-discorso-di-tsipras-per-il-referendum/38109
Link 1: http://keynesblog.com/2012/08/31/le-vere-cause-del-debito-pubblico-italiano/
Link 2: http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-colpo-di-stato-di-banche-e-governi/
Succede, prima o poi, di accingersi a gustare quel bel formaggio acquistato, siccome il biologico è di moda, presso una fattoria locale, insomma un prodotto artigianale confezionato con gli stessi ingredienti e procedimenti dell’antica arte casearia. Pregustiamo sapori paradisiaci a noi già noti ma di cui vogliamo rendere orgogliosamente partecipe, magari proprio quel giorno, l’ospite forestiero che qualche ora prima in quella stessa fattoria ha potuto finalmente mostrare ai propri figli persino le mucche che pascolano allo stato brado …
Noi salentini, poi, siamo piuttosto concreti e, quindi, ad assaggio avvenuto, non sottoporremo i nostri commensali alla tortura di una sfilza di vocaboli che evocano altri mondi, un po’ come succede, insomma, col sommelier che, se potesse, metterebbe in campo non il profumo di tabacco o di cannella ma quello di stella. A cose fatte ci limiteremo a cogliere nelle contrazioni residue dei muscoli facciali dei commensali il livello del loro apprezzamento.
All’improvviso il padrone di casa si ricorda che è primavera inoltrata. Mi pare di vedere il lettore chiedersi a questo punto se è più pazzo il padrone di casa o chi crede con quattro righe sconclusionate di immortalarne le gesta. Il fatto è che in questo periodo fiorisce, con tante altre, l’erba protagonista di questo post.
Preso da un dubbio atroce e incurante che qualcuno possa pensare che sia a digiuno da una settimana, con mossa fulminea ha già portato alla bocca una fetta adeguata di quel formaggio. Passano appena tre secondi e con un gesto certamente non raffinato quanto le sue papille gustative sputa nel piatto una massa ormai informe esclamando: Cce schifu! Sape ti furficicchia. E quel giorno il commensale dovrà accontentarsi di una fetta tagliata da una forma già collaudata, non senza aver prima chiesto al padrone di casa il motivo dell’uscita di scena di quel formaggio che già a guardarlo sembrava la fine del mondo.
Il motivo si chiama furficìcchia, nome dialettale salentino di un tipo di trifoglio molto appetito dalle mucche, ma che ha il difetto di rilasciare nel latte e successivamente nel formaggio che da quel latte viene ricavato un odore poco gradevole.
Furficicchia ha avuto l’onore di essere registrato (nella variante forficicchia) da Enrico Groves nel suo Flora della costa meridionale della Terra d’Otranto, estratto dal Nuovo Giornale Botanico Italiano, v. XIX, n. 2, aprile 18871, da cui è tratta l’immagine che segue.
Del nome dialettale viene fornito un etimo secondo me non sufficientemente preciso, tanto da apparire poco convincente. Me ne occuperò fra poco, dopo aver rapidamente trattato l’etimo dei componenti del nome scientifico.
Trigonella è latinizzazione del greco τρίγωνος (leggi trìgonos)=triangolare [da τρι- (leggi tri-)= a tre+γωνία (leggi gonìa)=angolo], con aggiunta di un suffisso diminutivo. Il riferimento è al triangolo equilatero perfetto formato dalle foglie.
Corniculata è forma aggettivale moderna del classico cornìculum=cornetto, diminutivo di cornus. Il riferimento è alla forma del frutto.
È giunto il momento di occuparci dell’etimo di furficicchia. La voce, per la quale il Rholfs non propone alcun etimo, suppone un latino *forficìcula diminutivo del classico forfex/fòrficis il cui accusativo (fòrficem) ha dato l’italiano forbice e il corrispondente, più diretto, salentino fòrfice. Il Groves, come abbiamo visto, mette in campo la forbice a causa della forma del frutto. Dando per scontato che alla base ci sia, comunque, un rapporto di somiglianza (e che altro si può fare, anche se potrebbe essere fuorviante?), io direi che a prima vista ricorda la forbice più il gruppo di foglie che il frutto.
Tuttavia, il frutto cacciato, forse per mio eccesso di fantasia, dalla porta potrebbe rientrare dalla finestra, grazie alla forfecchia (o forbicina), l’insetto, le cui pinze addominali servono per l’accoppiamento; e noi umani, che spesso scegliamo avventatamente il partner, ci consideriamo intelligenti, pure di fronte a questo animaletto che il partner se lo sceglie … con le pinze.
Forfecchia è dal latino forfìcula(m)=forbicetta, diminutivo del citato forfex. Appare chiaramente come parente di *forficìcula che sembra aver seguito la strada di lenticchia che è dal latino lentìcula(m), diminutivo di lens/lentis=lenticchia. Tuttavia, la somiglianza tra l’insetto e il frutto a parer mio rimane piuttosto vaga.
E l’Europa, cosa ci chiede questa volta?
Credo che non preveda la possibilità di commercializzare derivati da latte “contaminato” da furficicchia (“contaminazione” che, è bene dirlo, è assolutamente non dannosa), semplicemente perché, probabilmente, ne ignora pure l’esistenza. Ma, se dovessero venirne a conoscenza, i sublimi burocrati non perderebbero tempo a scrivere un altro capitolo della loro ridicola saga che già prevede regole precise sulla pezzatura degli ortaggi (come se essa fosse parametro di qualità e non il trasferimento alle specie vegetali della nostra idiota smania di apparire piuttosto che essere), e, in riferimento al settore lattiero-caseario, ha imposto per motivi igienico-sanitari, la sostituzione, per fare un solo esempio, delle tradizionali fiscelle di giunco, che nei secoli non hanno fatto mai male a nessuno, con quelle di plastica, soprassedendo criminalmente sul fatto che la plastica, sia o non sia per alimenti, rilascia sempre, a causa del calore che si sprigiona dalla pasta che vi si pone, qualche particella che a distanza di anni manifesterà il suo potere irreversibilmente malefico2. La cosa paradossale è che autorizzazioni in deroga sono concesse solo per alcuni prodotti di nicchia, il cui costo è notoriamente, e giustamente, più alto. Anche la salute, purtroppo, a questo mondo è una cosa da ricchi …
2 In passato gli strumenti per la lavorazione del formaggio erano: un pezzo di tessuto per colare il latte detto stamegna (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/02/dalla-maglietta-di-lana-grezza-al-formaggio-dalle-batterie-alle-cellule-staminali-da/) una caldaia di rame detta càccamu [dal greco κάκκαβος (leggi càccabos)] per cagliare e riscaldare il latte, un bastone di legno per rompere la cagliata detto ruèzzulu, da ruzzulare (usato a Nardò esclusivamente nel significato di rimuginare borbottando), a sua volta (come l’italiano ruzzolare) da un latino *roteolare, da un *rotea, dal classico rota=ruota, un ripiano in legno poi sostituito dal marmo) detta mattra [dal greco μἁκτρα (leggi mactra=madia)], dei contenitori in giunco di varie dimensioni: la fesca (dal latino medioevale fisca e questo dal classico fiscus=paniere, sporta) e fiscareddha, diminutivo del precedente attraverso un derivato aggettivale fiscale(m).
Poi vennero l’acciaio inossidabile (per càccamu, ruèzzulu e mattra) e, quel che è peggio, la plastica per la fesca, e per la fiscareddha …
I castelli di Terra d’Otranto tra il 1584 e il 1610 in una relazione manoscritta del 1611: BRINDISI (6/6)
(27r, 29 r e v; il 27v e l’intero 28, sono bianchi; tale dettaglio, senza che ci sia alcuna interruzione nel testo, si nota pure nel resto del manoscritto, il che fa supporre che ciò fosse in prospettiva di future integrazioni)
Quest’ultima sezione appena esaminata del documento (ma il discorso vale anche per il resto) mi induce a fare alcune riflessioni. Se è vero che l’importanza attribuita da chi gestisce il potere (in qualsiasi regime) ai vari bisogni della collettività è direttamente proporzionale alla somma investita per il soddisfacimento di alcuni di loro (per cui, attualmente, siccome con la cultura non si mangia, essa è la più soggetta alla mannaia dei tagli …), è anche vero che lo stesso criterio vige all’interno del settore considerato. Nel nostro caso specifico: da un lato è possibile stilare una graduatoria per il 1610 che vede in testa Brindisi (per il castello di terra ducati 247, 3; per il forte ducati 177, 3), poi Taranto (ducati 342, 2, 14 e 1/3), Otranto (ducati 200. 1, 3 e 1/3), Gallipoli (ducati 134, 1, 13 e 1/3); fanalino di coda è la Torre di San Cataldo che, a differenza delle altre fortificazioni che registrano un notevole aumento della spesa tra il 1584 e il 1610, non presenta alcuna variazione, sia pure proporzionale, nel bilancio che era di ducati 26, 2 nel 1584 e tale rimane nel 1610. L’importanza di Brindisi è ribadita da quanto si legge in nella relazione del suo terzo viaggio in Puglia fatto da Giovanni Battista Pacichelli nel 1686, pubblicato in Memorie novelle de’ Viaggi per l’Europa christiana, Parrino e Muti, Napoli, 1690 ; cito da Memorie dei viaggi per la Puglia, a cura di Eleonora Carriero, Edizioni digitali del CISVA, 2010, p.79 (http://www.viaggioadriatico.it/ViaggiADR/biblioteca_digitale/titoli/scheda_bibliografica.2011-02-08.9198067084): Osservai dalle sue [del convento dei Domenicani di Ceglie] stanze (non curando riposarmi per profittar nel discorso) in quattro aspetti vaghissimi, molte città, fino il campanil di Lecce, che costa quindeci mila ducati, e nella lingua del mare il castel di Brindisi, che dicono comprenda 300 piazze, custodito da 250 fra colobrine e cannoni, restando la città sotto, col forte di terra guardato con 30 pezzi, il qual porto sicura trattiene di buona voglia le galee e, tal volta, le galeazze de’ Veneziani.
Nell’immagine che segue (ho evidenziato i due castelli) la tavola a corredo dell’opera più famosa del Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva, parte II uscita nel 1703 (otto anni dopo la sua morte) a Napoli per i tipi di Domenico Antonio Parrino.
Nei pieghevoli turistici viene presentata come una delle più belle piscine naturali del mondo. Non è mia intenzione contestare minimamente tale classifica: sarei uno stupido autolesionista, a differenza di quei geni profittatori, anche nostrani, che hanno deciso di farvi sbarcare a poca distanza la TAP, acronimo di Trans Adriatic Pipeline, ragion per cui non so per quanto tempo ancora quel posto (inteso anche come sinonimo di luogo …) potrà essere conservato e se lo stesso toponimo, con deformazione popolare di pipeline, non cambierà in Grotta delle pippe …1
In fondo, dirà qualcuno, la nostra grotta è abituata a questo trasformismo onomastico, sul quale presento alcuni documenti (chiamarli tutti fonti mi pare esagerato) con il relativo link in calce.
a)
“Il nome di questa spettacolare piscina naturale ha una duplice storia: secondo alcuni deriva da “posia”, un termine greco-medievale che indica una “sorgente di acqua dolce”; secondo altri deriverebbe da un’antica leggenda secondo la quale una principessa bellissima era solita fare il bagno nella grotta e quando la notizia si diffuse, moltissimi poeti si recarono personalmente nella cavità naturale per comporre versi in onore della fanciulla (da qui il nome di Grotta della Poesia).”
“Ad un posto cosí romantico non si poteva assegnare nome piú adeguato di quello che si trova ad avere, “Poesia”. Ma sull’origine autentica della denominazione del luogo è necessario dire, purtroppo, qualcosa di meno fantasioso e ancor meno… poetico! Un tempo, a quel che si dice, la “Poesia piccola” era un angolo di mare molto pescoso, tanto che era stata incorporata all’interno delle mura cittadine di Roca. Tra l’altro si fa cenno ad una nobile signora, Donna Isabella, che vi trascorreva lunghe ore del giorno a pescare. Sulla sicurezza del posto i Rocani ritenevano la “Poesia grande” l’occhio vigile del mare messo a guardia della città. Ma i marinai turchi, che dominavano i mari in quel tempo, attraverso quel budello sottomarino che congiunge la “Poesia grande” con la “Poesia piccola”, riuscirono a penetrare nella città, se ne impadronirono e la depredarono. Quando i Rocani superstiti fecero ritorno nella città distrutta, maledissero quel luogo che, da quel momento, fu chiamato, con parola greca, “prodosìa”, che vuol dire “tradimento”. Ma con il passare del tempo, la straordinaria bellezza del luogo determinò tra gli abitanti la trasformazione della parola “prodosìa” nella piú semplice e accogliente “Poesia”.”
Da Antonio Nahi, Il libro degli altri, Zane, Lecce, 2010).
Sorvolo sulla leggenda antica in a), famosa e tramandata da generazioni in b); contaminata con quella delle sirene in c)2 e della principessa bellissima in d), anche perché è complicato risalire alla prima generazione ed improbabile è il suo ritrovamento in qualche tradizione scritta; mi riservo, invece, di dire alla fine qualcosa su quella riportata in e) e per ora mi soffermo su posia (ho aggiunto l’accento per evitare equivoci). In caratteri greci sarebbe ποσία, qualificato tanto in a) quanto in b) come medioevale. In effetti nel greco classico la voce è assente ma compare come seconda parte di molte parole composte: ἀκρατοποσἱα=il bere vino puro; οἰνοποσία=il bere vino; ὑδατοποσία=il bere acqua; φαρμακοποσία= assunzione di un farmaco, φιλοποσία=passione per il bere, etc. etc.
Quasi sicuramente ci saranno molti altri vocaboli del greco classico aventi come secondo componente ποσία. Non guasterebbe se qualche studente del classico, leggendo questo post, mi inviasse, magari sotto forma di commento, l’elenco completo ricavato sfruttando le opzioni di ricerca consentite dalla versione digitale del vocabolario di Franco Montanari opzionalmente associata alla versione a stampa3.
Le voci che, non possedendo il dvd, ho ricavato “manualmente”, bastano ed avanzano, comunque, per concludere che nella lingua parlata ποσἱα esisteva perché sarebbe assurdo immaginare che una parola composta si possa essere formata se prima non esistevano singolarmente i suoi componenti. Nel nostro caso l’assenza di attestazioni scritte di ποσἱα è dovuta proprio alla sua genericità e semplicità semantica (il bere puro e semplice) che nelle voci composte ha ceduto il posto alla specializzazione del significato. Nella lingua parlata, dunque, *ποσἱα era l’atto del bere o la stessa, generica, bevanda e la parola era imparentata con πόσις=bevuta; ποτής=il bere, πότης=bevitore, tutti collegati con il verbo πίνω=bere. E alla radice ποτ- si ricollegano i latini potàre=bere (da cui potabilis=bevibile, da cui l’italiano potabile) e potio=bevanda (da cui l’italiano pozione).
Se è senz’altro plausibile che Grotta della poesia sia deformazione di un originario Grotta della posìa, non è da trascurare, tuttavia, un’altra ipotesi basata sulla leggenda riportata in e) e sulla quale, come avevo preannunciato, ritorno perché di essa abbiamo la testimonianza letteraria di Antonio De Ferraris, più noto come il Galateo. Precisamente nel capitolo II del De situ Iapygiae uscito a Basilea per i tipi di Perna nel 1553 l’umanista di Galatone scrive: Extra oppidum in medio veteris urbis locus cavus est, profundus X passibus, ad quem mare recipitur per subterraneos meatus, ut mihi visum est, non manufactus, sed natura aut fluctibus excavatos, per quos a mari ad foveam cymbis itur. Locus est vitulis marinis frequens. Eam foveam incolae Graeco nomine prodosian vocant; nos proditionem possumus dicere. Fama est per hunc quasi cuniculum urbem captam ac deletam fuisse (Al di fuori della città nel mezzo della vecchia città vi è un luogo cavo, profondo dieci passi nel quale il mare entra attraverso passaggi sotterranei, come mi è sembrato, non artificiale ma scavato dalla natura e dai flutti, attraverso i quali si va in barca dal mare alla fossa. Il luogo è popolato da vitelli marini. Gli abitanti chiamano con nome greco quella fossa prodosian4; noi possiamo dire prodizione5. Si dice che attraverso questa specie di cunicolo la città fu presa e distrutta).
Grotta della poesia, insomma, potrebbe essere deformazione non di Grotta della posìa ma di Grotta della prodosia6 ed essere, perciò, il tentativo, riuscito e supportato dalla tendenza del popolo a fraintendere e/o deformare le parole, di rimuovere un’esperienza terrificante. Acqua o non acqua, poesia o non poesia, Dio non voglia, comunque che con la TAP il prossimo toponimo sia Grotta del tradimento, anche se non connesso col ricordo del Galateo. Non sarebbe, comunque, una bella alternativa al Grotta delle pippe ventilato all’inizio.
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1 Volutamente nel significato osceno ma ulteriormente metaforizzato in quello di occasioni mancate. Pippa è forma antica di pipa ed è dal latino medioevale pipa=recipiente, canale, cornamusa. Per il tramite del francese pipe è passato tal quale nell’inglese e come primo componente del composto pipeline. Insomma, noi prestiamo le parole e gli altri si fanno i fatti propri; più idioti di così …
2 Qui, però, la contaminazione è giustificata dalla natura, per così dire, ibrida del testo (tra guida turistica, romanzo, repertorio folcloristico). Ne approfitto per ricordare che Salento è il titolo del capitolo X e Grotta della poesia quello del capitolo XI di La svolta, romanzo di Christian Miano, Youcanprint, Tricase, 2013.
3 Sarebbe interessante conoscere se, come e a qual fine tale versione risulta utilizzata laddove i ragazzi l’hanno spontaneamente, o su sollecitazione dell’insegnante, comprata. Ancora più interessante sarebbe sapere come il preside-manager-impresario-tuttofare della riforma renziana (insomma un burocrate, ancor più di quanto lo fosse prima …) o chi per lui, magari totalmente digiuno di greco e capace solo di digitare sul telefonino messaggi a velocità supersonica, farà a giudicare … e non solo questo.
4 In caratteri greci προδοσίαν, accusativo di προδοσία=tradimento. Per προδοσία vale, passo passo, quanto detto prima per tutti i composti con ποσἱα: anche qui il secondo componente (il primo è πρό=a favore di) δοσία nel greco classico non è attestato, ma ci sono δόσις=il donare e δότης=donatore, tutti collegati con il verbo δίδωμι=donare. Sterminata, poi, la serie di vocaboli terminanti in –λογία (da λόγος=discorso).
5 L’originale proditionem è accusativo di proditio, a sua volta dal verbo pròdere=tradire, che ha gli stessi componenti della parola greca esaminata nella nota precedente: pro=a favore+dare=donare.
6 Così il Rohlfs al lemma Poesìa nel III volume del suo vocabolario: “in testi medievali Prodosìa, dal greco προδοσία=tradimento?”.
Peccato che a Prodosìa scritto, fra l’altro con l’iniziale maiuscola, non si accompagni nessuna citazione più precisa dei testi medievali in cui comparirebbe. Non vorrei che il Rohlfs si fosse fidato troppo ciecamente di qualche collaboratore che ha letto come Prodosia il Prodomia attestato nel glossario del Du Cange, il cui lemma di seguito riproduco con la mia traduzione in calce:
PRODOMIA, Tradimento. Patto tra abate ed abitanti di Anagni anno 1332 nel registro 69 Archivio regio carta 175: Questa volta siano concessi dal vicario di Anagni avvocati sicuri … per proseguire … la causa d’inquisizione pendente contro parecchi di detta università nella curia del signorre, sul fatto del tradimento.
I paesaggi dei sentimenti: intervista ad Alessandro De Simone
Alessandro De Simone è quello che si potrebbe definire un uomo dallo spirito libero. Di lui me ne avevano parlato alcuni amici e anche se non lo conoscevo personalmente avevo già apprezzato le decine di dipinti che colorano le pareti candide di un famoso ristorante di Santa Maria al Bagno (LE). In effetti questo pittore sembra vivere quasi isolato dal mondo dell’arte, benché l’arte sia il suo unico mezzo di sostentamento.
È ancora Davide Sambati il promotore dell’intervista che segue: una domenica nella quale siamo liberi entrambi mi chiede di accompagnarlo a Porto Cesareo (LE) dove Alessandro realizza i suoi paesaggi alla maniera degli impressionisti. Parcheggiata l’auto lo scorgiamo subito, è seduto di fronte al suo cavalletto rivolto verso l’Isola dei Conigli e circondato da opere già terminate, oltre che da uno stuolo di passanti curiosi. Ci presentiamo e dopo pochissime battute ci accordiamo per un appuntamento e una chiacchierata.
Dopo qualche settimana lo raggiungiamo nel laboratorio che sta ristrutturando in una località totalmente immersa nella natura; il contesto suggestivo insieme alla sua pettinatura mi portano a vederlo come una sorta di eremita. Lo segue a pochi passi il figlioletto che è la sua fotocopia rimpicciolita e mi appare quasi come un folletto dall’aria tanto timida quanto impertinente.
La giornata piacevolmente soleggiata ci spinge ad “accomodarci” all’aperto, anche perché sedie utili non ce ne stanno neanche a pagarle. Optiamo quindi per un muretto basso che è la cosa più comoda lì in giro.
D.:
Dunque Alessandro, sono riuscito a scovare veramente pochissime informazioni sul tuo conto perciò vorrei che fossi tu stesso a parlarmi un po’ di te, del come ti sei ritrovato a dipingere.
R.:
In effetti vivo lontano dal mondo dell’arte, o perlomeno così come siamo abituati a concepirlo ultimamente. Per quanto riguarda il mio percorso, anche se ho sempre coltivato in varie forme la mia vocazione creativa, in realtà mi sono accostato agli studi artistici un po’ più tardi rispetto all’età dovuta. A ventitré anni ho intrapreso l’Accademia delle Belle Arti di Brera a Milano e lì ho iniziato ad approcciarmi seriamente all’arte. I miei primi insegnamenti vennero da professori prettamente classici, vincolati a concetti fortemente retorici mentre io ero attratto e proiettato verso la contemporaneità dell’arte informale. Iniziai così a seguire il corso del prof. Maurizio Bottarelli che fronteggiava benissimo questa personale necessità; di questo insegnante conservo un caro ricordo sia dal punto di vista artistico che da quello umano.
Al contrario di quanto si possa immaginare quando si pensa ad un percorso d’arte che dovrebbe avere la sua genesi nel figurativo, io ho iniziato a produrre informale in quel corso, inserito ma al contempo slacciato dal contesto dogmatico e rigido dell’indottrinamento accademico; ho appreso anche come ogni centimetro quadrato di un’opera, che possa essere un paesaggio o un ritratto, sia composto da piccoli capolavori apparentemente astratti nei quali il colore e la pennellata contribuiscono in maniera imprescindibile alla buona riuscita della figura completa.
D.:
Dopo gli studi a Milano sei tornato subito a casa?
R.:
No, terminati gli studi mi sono trasferito a Brescia. Qui ho lavorato presso una bottega nella quale si realizzavano prevalentemente affreschi e non esagero ricordando che se ne produceva almeno uno al giorno; si trattava quasi sempre di riprodurre opere classiche del passato per committenze private. Nonostante non vi fosse grande stimolo per la fantasia ho imparato qui i canoni geometrici e le originali regole di questa importante e antica tecnica. Dopo qualche anno sono finalmente rientrato nel Salento.
D.:
Al tuo rientro a Nardò hai continuato a dipingere?
R.:
Certamente. Già nei primi mesi mi furono commissionate, per una fortuita coincidenza, una serie di opere paesaggistiche che dovevano essere installate all’interno di una nuova abitazione. Non avevo mai rappresentato vedute naturalistiche prima d’allora ma ciò nonostante il risultato fu oggettivamente gradevole e conseguentemente molto apprezzato. Partirono così diverse altre commesse più o meno importanti che mi servirono come biglietto da visita e mi valsero anche delle mostre.
D .:
Dove hai esposto?
R.:
Non posso dire di aver realizzato numerosissime esposizioni ma in quelle poche nelle quali mi sono cimentato le mie opere hanno riscosso grande attrattiva presso gli intervenuti. Ricordo ad esempio la mostra del 2006 presso l’associazione Raggio Verde di Lecce organizzata e curata in maniera impeccabile dall’architetto, nonché docente di decorazione presso l’accademia di Brescia, Alberto Nuzzolo. E ritengo altrettanto importante la collettiva “Colori di Frontiere” svoltasi a Mesagne (BR) nel 2011 dove il tema sposava a pieno le tematiche dalle quali mi lascio maggiormente ispirare.
D.:
Oltre alla delicatezza dei paesaggi salentini quali sono i soggetti che ami rappresentare?
R.:
La rappresentazione naturalistica detiene certamente uno spazio insostituibile in quel luogo intimo dove si generano le emozioni più pure. Tuttavia un evento o per meglio dire la visione di un film mi sconvolse a tal punto da dedicare un lungo periodo alla delicata tematica che la pellicola trattava: sto parlando di “Viaggio a Kandahar” del regista iraniano Mohsen Makhmalbaf, girato in Afghanistan durante il regime talebano. Da qui presero vita i miei Satiri, figure dagli arti mutilati, molti dei quali dipinti su tessuti leggerissimi e semitrasparenti.
D.:
La scelta di utilizzare supporti tessili non convenzionali rispetto alla tela intelaiata da dove scaturisce?
R.:
In relazione a questo aspetto ha certamente assunto un ruolo fondamentale mia madre e la sua attività sartoriale. Ella infatti, accompagnata dal valido contributo di mio fratello, gestisce un laboratorio per la produzione di eleganti abiti da sposa. Va da sé che io abbia conosciuto lì le consistenze leggere di alcuni tessuti e abbia potuto apprezzare, tra l’altro, proprio le applicazioni della pittura decorativa. Per la collezione che ha visto come soggetti i Satiri ho prediletto tra tutti il tulle e l’organza. Quest’ultima soprattutto, grazie all’insita trasparenza, poneva le mitiche figure in una posizione evanescente e al contempo le rendeva quasi tridimensionali.
In questo modo ho sperimentato in parte quelle teorie della meta-pittura che prevedevano di far “intravedere” l’elemento dipinto, anteponendo e privilegiando la tecnica a tutto il resto.
D.:
Anche dipingere paesaggi presuppone altrettanta ricerca?
R.:
Quando ho cominciato a dipingere paesaggi l’ho fatto per necessità e superficialmente mi aspettavo di dover prestare il mio impegno a qualcosa di meccanico, di poco complesso e conseguentemente di scarso valore. Col tempo e con la sensibilità che si andava affinando nei confronti della natura attraverso i suoi vari aspetti, ho compreso quanto invece potesse essere “faticoso” impressionare uno scenario naturalistico, arricchendolo di dettagli minuti e mai perfettamente fedeli, cercando di dosare scientificamente luci e ombre. Il risultato è un prodotto che raccoglie il benestare sia di chi si intende d’arte e sia dell’uomo della strada.
D.:
Potremmo forse dire che alcune vedute rappresentano e incarnano stati d’animo?
R.:
Questo è esattamente ciò che cerco di fare. La mia finalità è proprio quella di imprimere un sentimento attraverso la luce di un tramonto, il perimetro frastagliato di un arbusto e finanche la linea quasi sempre irregolare dell’orizzonte.
Questo è anche uno dei motivi anzi, probabilmente “il” motivo per cui sono ritornato nella mia terra. Ho provato a vivere in città ma non sono riuscito a trovare alcun equilibrio, non ho scorto alcuna ispirazione da cui attingere nel caos della metropoli. Al contrario qui mi immergo nel creato, perché dopo tutto di esso siamo composti.
D.:
La fede influenza questa filosofia?
R.:
Io mi reputo totalmente ateo ma ciò nonostante credo che ci sia qualcosa sopra di noi e dentro di noi. E non m’importa di chiamarlo col nome che qualcuno gli ha assegnato. Guardo con curiosità all’universo, all’energia che emana e penso che dovremmo trascorrere la breve esistenza che ci è concessa nella consapevolezza di essere parte di qualcosa di immenso, senza individualismi, inutili ambizioni o desideri di prevaricazione del prossimo.
D.:
Quali sono gli artisti che ti hanno ispirato?
R.:
Se guardo al periodo nel quale presi a dipingere seriamente, a incuriosirmi più di altri c’erano di certo gli americani informali degli anni ’40 e ’50. Al contrario degli europei dello stesso periodo gli statunitensi non avevano un filone culturale di riferimento o un contesto storico e sociale al quale agganciarsi, così presero a esempio gli indiani d’America, rispolverando il loro modo di disegnare sulla sabbia e ricavandone da questa tecnica la gestualità del tratto istintivo. Tra tutti Pollock si distinse in modo assoluto.
D.:
Che rapporti hai con le gallerie e con gli altri artisti del territorio?
R.:
Vorrei poterti dire che coltivo rapporti con colleghi artisti e che mi confronto con essi ma in realtà non conosco nessuno e non li cerco nemmeno. Vale la stessa cosa per le gallerie: so che esistono e mi sono noti i nomi delle pinacoteche locali più in voga ma il mercato dell’arte – quotazioni annesse – non è mai stato un mondo che ha sortito in me fascino o interesse.
D.:
Dalla impressione che mi hai dato direi che la tv e più in generale i mass media non ti attraggono molto. È così?
R.:
Non esattamente, diciamo piuttosto che faccio molta selezione. La televisione offre ancora la possibilità di acculturarsi con programmi seri (sempre meno, purtroppo) e scientifici. Certo ci sta la “tv spazzatura” e sfortunatamente i dati di ascolto indicano che c’è una grossa sacca di spettatori a cui piace moltissimo.
Ma l’aspetto che detesto in assoluto è quello della massificazione del linguaggio dove, ad esempio, “il plastico” deve indicare quasi esclusivamente il modellino che nella trasmissione Porta a Porta di Bruno Vespa è sistematicamente viene confezionato per riprodurre in scala la scena di un omicidio. Appare lampante come certe parole, per la massa, abbiano perduto ogni altra applicazione se non quella di ricordare spot pubblicitari o programmi televisivi, a discapito di aspetti ben più nobili, classici, artistici e architettonici da sempre correlati.
Non posso far altro che pensare che l’omologazione stia distruggendo la creatività inesorabilmente.
D.:
Che progetti hai per i prossimi mesi?
R.:
È da tanto che non mi cimento nella realizzazione di un’esposizione personale. Sto pensando che è un buon momento per organizzarne una. Anche se non posso realizzare sempre tutto quello che ho in mente vivo la mia vita giorno per giorno, immerso nei paesaggi che tanto sanno trasmettere.
Qui e ora!
La rete, i social e il tempo perso dietro gli idioti
Le parole di Umberto Eco su rete e idiozia hanno aperto un’interessante discussione sui media alla quale per ultima si è aggiunta la lettura sociale di Stefano Rodotà. Il giurista ha aggiunto importanti spunti di riflessione che mettono in evidenza un aspetto considerato secondario dai più, che si rivela fondamentale per la comprensione di fenomeni quali la connessione planetaria, vera misura di quella che comunemente chiamiamo globalizzazione.
La riflessione di Rodotà fa emergere una contraddizione di fondo, pensare alla rete come ad un qualsiasi strumento (media) atto a comunicare. A differenza di tutti gli altri strumenti tecnici, più o meno complessi, che quotidianamente utilizziamo per comunicare e scambiare informazioni, la rete non deve essere confusa col mezzo attraverso il quale si comunica, ma è l’ambiente mediale nel quale si riproducono digitalmente tutti gli strumenti che hanno fatto la storia della comunicazione, e dunque dell’umanità. Le discussioni informali al bar, la parola stampata su carta, il paesaggio dipinto su tela, la musica prodotta manualmente ed incisa sul disco in vinile, il film che scorre sulla nostra televisione o al cinema in passato non avevano alcun supporto fisico o tecnologico in comune. Per crearli e riprodurli venivano infatti utilizzati strumenti e tecnologie tra loro incompatibili. I supporti materiali della comunicazione erano differenti e identificavano mondi sensoriali, universi percettivi e modalità di fruizione, ricezione e consumo separate. Tutti gli attori impegnati nella comunicazione, a qualsiasi livello, operavano con codici diversi, difficilmente integrabili gli uni agli altri e che in molti casi presupponevano un elevata professionalità e conoscenza degli strumenti e delle tecniche di produzione del messaggio.
L’arrivo sulla scena dei media digitali, creando un’unica codifica per tutte le produzioni culturali, ha definitivamente inglobato in sè i diversi codici e dato vita ad un unico ambiente cognitivo a dimensioni multiple nel quale il fruitore non è più il passivo lettore del libro, piuttosto che l’attento uditore di un’opera lirica, ma un nuovo soggetto che, in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, accedendo con la sua identità virtuale in questo mondo informativo che è la rete, ha la possibilità di fruire di tutti i contenuti che semplicemente gli interessano, modificandone il contenuto o adattandolo alle proprie esigenze personali.
Questo aspetto partecipativo muta sostanzialmente l’atto comunicativo in sè, come qualcosa che si esprime insieme in forma sonora, verbale, iconica. Un nuovo modo di mixare informazioni in un’unica opera digitale diffusa tra i nodi della rete, un ambiente mediale che permette di accumulare e trasmettere saperi come mai prima nella storia dell’umanità e che coinvolge l’individuo nella quasi totalità delle percezioni sensoriali. La modalità ipertesto (o ipermedia) è infatti un corpo unico che include suoni, parole, immagini statiche e in movimento, permettendo una risposta immediata agli stimoli ricevuti.
La nuova convergenza digitale muta e aumenta le possibilità creative, operative e divulgative degli attori comunicativi che non si identificano più unicamente nell’èlite di produttori di contenuti che nell’epoca della carta stampata e delle produzioni culturali altamente specializzate potevano accedere al mondo degli autori, in quanto proprio la produzione di contenuti in formato digitale non presuppone quell’alta specializzazione richiesta dai codici di produzione materiale. Ciò non vuol dire che tutto sia degno di nota o che tutte le produzioni si possano definire “artistiche”. In rete il metro di valutazione è quel feedback che solo se positivo eleva la produzione allo stato di opera rappresentativa di senso condiviso.
Oggi proliferano musicisti che non sanno suonare, dj che non sanno girare i dischi e opere d’arte generate digitalmente e stampate in 3D. Per non parlare dei libri di Fabio Volo. Il progresso tecnologico ha portato nelle mani di ognuno di noi gli strumenti del comunicare e del creare contenuti, il tutto connettendoci in tempo reale attraverso una rete grande quanto il pianeta. Il senso di quel Villaggio Globale, che a partire dalla fine degli anni Sessanta ha caratterizzato la discussione sulle ripercussioni sociali dei media, trova perfetta sintesi nell’esperienza comunitaria riprodotta nel mondo della rete. Il senso di appartenenza oggi non si identifica più esclusivamente con la presenza fisica in un dato luogo, ma è il frutto delle esperienze cognitive che ognuno sceglie di avere anche e soprattutto connettendosi al sistema rete. Per questo capita sempre più spesso di sentirsi coinvolti emotivamente da esperienze lontane da noi fisicamente, ma che giudichiamo inevitabilmente condivisibili. Sappiamo bene che la terra è grande esattamente quanto lo era 200 anni fa, ma la nuova proporzione sociale introdotta dalla rete ci rende partecipi di comunità che percepiamo vicine come un tempo succedeva abitando un villaggio.
La rete dunque non è un semplice medium che veicola informazioni, ma quello che è stato definito “un ponte da abitare”, ossia una connessione tra luoghi culturali che diventa essa stessa “luogo”. Il modo in cui le informazioni vengono prodotte, scambiate e accumulate da nuova forma alla società che trova il suo doppio virtuale in rete, nasce in rete e si incontra in questo che qualcuno ha definito il moderno mediterraneo. Il fatto stesso che si tratti di un doppio virtuale del mondo reale deve farci riflettere sulle ripercussioni che questo nuovo ambiente provoca sul suo originale reale, quello che comunemente abitiamo con la nostra vera identità, e che ogni giorno di più riflette i cambiamenti imposti dalle nuove proporzioni sociali derivanti dall’incredibile combinato tecnico-biologico di natura virtuale.
In questo nuovo universo cognitivo il fenomeno dei social network è entrato di prepotenza, con algoritmi che ne fanno una vetrina virtuale pensata per esasperare il desiderio intimo di apparire, negando contemporaneamente ad ognuno la possibilità di essere. Questo in virtù del fatto che i contenuti sui social vivono della condivisione istantanea di significanti più che di significati, lasciando poco o nessuno spazio spazio alla riflessione e all’interiorizzazione del contenuto. Come tutti gli ambienti aperti al pubblico l’accesso non viene negato a nessuno, compresi quelli che del mezzo fanno un uso poco rispettoso dell’identità altrui. L’idiota sui social rispecchia perfettamente l’idiota del bar, ne è perfetto duplicato con la sola differenza che la rete lascia inevitabilmente traccia della propria mediocrità, che sommandosi alla massa di suoi simili di giorno in giorno da la cifra dell’evoluzione dell’uomo. Ma questo con la rete centra poco.
Assodato che le comunità virtuali hanno le loro regole e determinano le leggi con le quali si viene riconosciuti facenti parte della comunità stessa, parlare di idioti che hanno il diritto di parola in comunità delle quali non si ritiene di far parte lascia il tempo che trova, specie se si ha facoltà di evitare determinate frequentazioni scegliendo di volta in volta l’ambiente mediale col quale confrontarsi piuttosto che i contenuti che si preferisce fruire. Siamo noi che scegliamo quale ambiente mediale frequentare, possiamo scegliere se ricercare il like a tutti i costi condividendo gli istinti del momento o approfondire un argomento o una personale propensione in comunità di discussione meno frequentate dei social che vanno tanto di moda oggi. Passare del tempo in rete vuol dire scegliere di leggere se e-book, approfondire su wikipedia o perdere tempo dietro l’idiozia disordinata che impera su facebook. C’è infatti un aspetto della vita di ognuno di noi che resta immutato nonostante la rete, la capacità di scegliere a chi e a cosa dare importanza o evitare. Al bar come nel più innovativo dei social network.
I castelli di Terra d’Otranto tra il 1584 e il 1610 in una relazione manoscritta del 1611: TORRE DI SAN CATALDO (5/6)
In Mariangela Sammarco, Silvia Marchi e Stefano Margiotta, Tra terra e mare: ricerche lungo la costa di S. Cataldo (Lecce)1, in Rivista di topografia antica diretta da Giovanni Uggeri, XXII, Congedo, 2012, nella nota 61 di p. 128 si legge: Risulta erronea la notizia, perdurata a lungo negli scritti sul porto antico [di S. Cataldo], di un intervento edilizio promosso dalla regina angioina Maria d’Enghien per la realizzazione di una “ingentem molem longis iunctam lapidibus miro opere” che avrebbe inglobato la struttura romana. Nella documentazione d’archivio a noi nota non compare alcuna menzione della costruzione di un nuovo molo né esistono riferimenti relativi ad una possibile sistemazione di quello preesistente, operazione che avrebbe comportato una ingente spesa di denaro di cui sarebbe sicuramente rimasta traccia nei registri angioini. L’impresa di Maria d’Enghien non deve dunque aver riguardato la costruzione di un molo bensì il restauro del “castello guarnito di monitioni”, con cui si indicava la torre costiera preesistente distrutta da una mina inglese agli inizi del XIX secolo.
Credo che gli autori avrebbero fatto bene a citare la fonte da cui hanno tratto la notizia sulla distruzione della torre ad opera di una mina inglese. Non avendo avuto il tempo per fare un’indagine in tal senso sono costretto a credere sulla fiducia. Per quanto riguarda, invece, l’intervento edilizio di Maria d’Enghien mi piace (non per capriccio ma perché lo ritengo indispensabile) riportare il passo del Galateo che costituisce il contesto della citazione in latino presente nell’estratto.
Dal De situ Yapygiae, Perna, Basilea, 1553, X, 12-13: Inde exeuntibus ad X milia passuum occurrit castellum quod a divo Cataldo, antiquissimo Tarentinorum archiepiscopo, nomen accepit, eo quod ille ex oriente proficiscens, haec primum loca attigit, ubi et pusillum templum illi dicatum extat. Hoc quoque castellum Gualterius condidit pro emporio Lupiensium urbi propinquiori, ubi Maria eiusdem haeres ingentem molem longis iunctam lapidibus miro opere construxit. Nunc incuria principum et Lupiensium rebus, post mortem Ioannis Antonii principis et ob continua bella, defectis atque afflictis, pene exaggerata est.
Traduzione: Chi procede da lì [da Roca Vecchia] per 10 miglia s’imbatte nel castello che prese il nome da san Cataldo, antichissimo arcivescovo dei Tarantini, per il fatto che egli provenendo dall’oriente toccò dapprima questi luoghi, dove c’è anche un piccolissimo tempio a lui dedicato. Gualtiero fondò anche questo castello per emporio dei Leccesi più vicino alla città, dove Maria sua erede fece costruire con arte meravigliosa un grande molo messo insieme dall’unione di lunghe pietre. Ora per l’incuria dei principi e per la situazione dei Leccesi, deteriorata e duramente provata dopo la morte del principe Giovanni Antonio e per le continue guerre, è quasi in rovina.
Quando si ha a che fare con un umanista del calibro del Galateo bisogna fare attenzione alle parole che usiamo ma soprattutto a quelle da lui usate, anche se come etimologo qualche volta suscita perplessità2.
Il verbo usato per castellum è condidit, per moles è construxit. Da un punto di vista etimologico il primo (da cum+dare) esprime l’atto primario della fondazione (da qui l’importanza dell’eroe-eponimo), il secondo (da cum+struere) privilegia l’esecuzione in sé, il mettere un pezzo su un altro. Detta così la cosa sembrerebbe una distinzione forse troppo sottile. Ma le parole, anche quelle che a prima vista possono apparire come sinonimi, acquistano un’identità più precisa, che spesso dirada le nebbie dell’equivoco sempre in agguato in indagini di questo tipo, grazie al contesto. Così moles in latino può significare massa, edificio gigantesco, molo, diga, sforzo, difficoltà, pericolo. Escludendo il primo significato e gli ultimi tre dall’evidente valore traslato, mi rimangono edificio gigantesco, molo, diga. Credo che con nessuno di essi possa accordarsi un semplice restauro di un castellum (fortino), quale sarebbe stato quello operato da Maria secondo gli autori del testo citato all’inizio. Ma c’è di più. Il concetto di moles che già di per sé, come abbiamo visto, è legato a qualcosa fuori dall’ordinario, qui è ribadito, ove ce ne fosse stato bisogno, dall’attributo ingens (smisurato): segue il particolare descrittivo di longis iunctam lapidibus e una lapis longa (pietra lunga) mi pare più ragionevolmente identificabile con i blocchi regolari di un molo più che con un concio o, meno ancora, con le pietre, per quanto lunghe e piatte, che sarebbero state usate anche in seguito nella costruzione delle torri costiere. Miro opere (con arte meravigliosa), poi, mi pare esagerato per un semplice lavoro di restauro. Tornando, infine, a construxit il verbo potrebbe, dunque, ricordare un ampliamento e probabile contemporaneo restauro, dell’antico porto romano.
Per tornare, infine, alla nostra torre mi pare opportuno soffermarmi su alcuni dati cartografici.
Iacopo Castaldo, Apuliae, quae olim Iapygia, nova chorographia (1595)3:
Johannes Janssonius Itala, nam tellus Graecia maior4 (1640 circa):
Invito il lettore a soffermare la sua attenzione sulla rappresentazione del Lupiarum navale (base navale di Lecce).
Henricus Hondius, Terra di Otranto olim Salentina & Iapigia5 (1650 circa):
Antonio Bulifon, Terra d’Otranto6, in Carte de’ regni di Napoli e di Sicilia, loro provincie ed isole adiacenti, s. n. s. l. s. d. (ma sicuramente da collocare nel primo decennio del XVIII secolo).
Chiara la sua derivazione dalla carta dell’Hondius. Le torri qui sono indicate con lo stesso simbolo riservato alle città. Da notare pure T. Specchio di Rugiero contro il T. Specchia di Rugiero dell’Hondius.
Carta geografica della Sicilia prima o sia Regno di Napolidisegnata da Antonio Rizzi Zannoni e fatta incidere per ordine del Rè delle Due Sicilie a Parigi nel 17697:
Da notare i due gruppi di tre quadrati (simbolo in comune con le altre torri) a presidiare i lati opposti del porto che ha la stessa conformazione già vista nella carta di Janssonius.
Lo stesso Rizzi Zannoni procederà poi alla revisione della carta del 1769 nell’Atlante geografico del Regno di Napoli in 32 fogli, completato nel 18128. Dal foglio 31 è tratto il dato che segue:
Qui la rappresentazione della fortificazione ha perso completamente il carattere strano che mostrava nella mappa precedente. Molto importante, mi pare, comunque, che essa dimostra la sua esistenza a tale data e la dicitura Castello di San Cataldo spiega eloquentemente l’es algo mas grande de las demas (è un po’ più grande delle altre [torri] e il no siendo mas que torre (non essendo più che torre) del documento.
2 Per esempio: Solum pingue et frugum omnium ferax, unde fortasse Lupiae, ab eo quod est LIPARON, id est pinguae, dictae sunt (Il suolo è grasso e ferace di ogni frutto, da cui forse si chiamò Lupiae [Lecce], per il fatto che è LIPARON [in greco significa grasso], cioè pingue). Meno male che il fortasse (forse) tradisce i dubbi derivanti dalle difficoltà di natura fonetica che tale proposta etimologica comporta.
6 Molto probabilmente connesso con l’italiano picca (arma appuntita).
7 Corrisponde all’italiano letterario alma che è da anima attraverso una forma dissimilata (*àlima) e poi sincopata.
8 In Apicio (I secolo d. C.), Nel De re coquinaria [raccolta di ricette sotto il nome di Marco Gavio Apicio (I secolo d. C.) compilata nel III o IV secolo) compaiono (I, 7 e VII, 16) spongizare e la sua variante spongiare, ma entrambi col significato di detergere con una spugna, lo stesso della voce greca σπογγίζω (leggi sponghìzo), da cui deriva, insieme con il classico spòngia=spugna che è trascrizione del greco σπογγιά (leggi sponghià). Rispetto a spongizare/spongiare, dunque, il nostro spunzare ha subito un leggero slittamento semantico.
13 Anche se in traduzione l’ho reso con fette, tuttavia la forma dialettale suppone un latino *offilla diminutivo del classico offa=boccone, focaccia, polpetta, bernoccolo, mentre quella italiana suppone un latino, sempre diminutivo di offa, *offitta. Però, mentre il suffisso diminutivo femminile latino –illa è frequente (p. e.: pupilla diminutivo di pupa), di –itta non son riuscito a trovare neppure un’attestazione.
14 ‘nd’ è dal latino inde; imu corrisponde all’italiano abbiamo ed è dal latino habemus>*havemus>*havìmus>*aìmu>imu. Alla lettera ‘nd’imu itire corrisponde a ne abbiamo (da) vedere.
15 Come l’italiano origano è dal latino orìganu(m), a sua volta dal greco ὀρίγανον (leggi orìganon) ma suppone una trafila meno diretta: orìganu(m)>*orijanu(m)>*orìanu>riènu.
17 Corrisponde all’italiano dovunque ed è composto da ad+do’ (dove con apocope)+-unque (dal segmento latino -unque, a sua volta dal suffisso -cumque di parole come quicumque.
18 Il Rholfs registra ‘ndiminare solo per Nardò, ndinàre per Veglie nel Leccese e Avetrana per il Tarantino, nduvinare per Salve nel Leccese e per Carovigno nel Brindisino. Credo, però, che a Nardò, accanto alla forma probabilmente più antica, ‘ndiminare, vi è in uso pure ‘nduinare. Ma come si spiega la m di ‘ndiminare? Dico subito che tutte le varianti riportate meno questa (che, come tenterò di dimostrare, non sarebbe una variante) sono apparente deformazione dell’italiano indovinare, di cui, quindi, condividono l’etimo: da un latino *indivinare, composto da in+il classico divinare=presagire, da divinus=divino; come si vede le forme dialettali hanno meglio conservato il vocalismo originario, per cui prima ho definito apparente la deformazione rispetto all’italiano.
Il Rohlfs mettendo la voce ‘ndiminare insieme con le altre la considera evidentemente una loro variante, dunque una parola con lo stesso loro etimo, senza dare ragione, neppure con un’ipotesi d’incrocio con altro vocabolo, di m invece di v. Io credo, invece, che ‘ndiminare nasca per dissimilazione da ‘nnuminare=nominare, che è dal latino adnominare (a sua volta composto da ad+nominare), secondo la trafila: ‘nnuminare>*’nduminare>’ndiminare.
Alla luce di quanto detto, perciò, ‘ndiminare non può essere considerata una variante del più recente ‘nduinare e di tutte le altre forme che, come ho detto, derivano dal latino *indivinare. Mi pare doveroso a questo punto sottolineare quanto concettualmente sia più preciso ‘ndiminare rispetto a tutte le altre forme salentine (compresa ‘nduinare neretina) che sono legate al concetto del presagio (previsione del futuro), da cui ‘ndiminare appare totalmente sganciata perché legata all’individuazione esatta (nominare, designare precisamente). Per essere più concreto: se io risolvo un indovinello la mia felice azione dovrebbe essere definita come nominare (citare l’esatta soluzione, che esiste da tempo, cioè da quando l’indovinello è stato ideato, per lo più condensabile in articolo e sostantivo) e non presagire (che significa individuare, con o senza successo, un evento futuro). A questo punto quasi quasi mi viene la tentazione di cambiare il titolo in Nominarello neretino …
Portoselvaggio nella poesia di un neretino contemporaneo
Il primo elemento del titolo, quello paesaggistico, ha una notorietà certamente superiore al secondo, quello umano. Eppure quest’ultimo meriterebbe, a parer mio, una considerazione, anche a livello locale, di gran lunga maggiore di quella della quale, pure, gode. Sarò felice se con la scelta di oggi avrò propiziato almeno l’inizio di questo doveroso riconoscimento, presentando una seconda poesia di Luigi Ruggeri, dopo la prima di cui mi sono occupato qualche giorno fa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/04/nardo-nella-poesia-di-un-neretino-contemporaneo/).
Or che t’addentri in bosco fascinoso
accogli lieto il fresco mio messaggio:
sii benvenuto qui, a Porto Selvaggio,
in aria casta e balsamo odoroso!
Tra pietre, terre rosse, timo e menta,
pini, lentischi, mirto e rosmarino,
tra ginestre e campanule, s’allenta
in brezza lieve e cielo adamantino
la fatica del vivere, ed il ruzzo
sana la mente e l’anima s’abbella.
Se sprofondi nell’estasi di Uluzzo
respiri pace dopo la procella.
Al chiar di luna, col suo dente aguzzo,
la torre danza allegra tarantella.
Se in Nardò dentro, come abbiamo visto, la struttura classica (ottave di endecasillabi) si concede qualche libertà, la cui funzione di espressione sentimentale spero di aver colto fino in fondo, qui Luigi ha scelto la struttura metrica che di quelle classiche è la regina, sfruttandone, però, tutte quelle varianti che le regole consentono per questo metro: il sonetto. Ecco, allora, alle rime incrociate ABBA della prima quartina seguire quelle alternate CDCD della seconda, quasi ad introdurre una rottura della simmetria, che celebrerà poco dopo il suo trionfo in quello che io definirei enjembement a distanza (s’allenta/ …/la fatica del vivere), seguito immediatamente da uno normale (il ruzzo/sana), quasi a rendere il progressivo allentarsi della tensione che, tuttavia, continua impercettibilmente a vibrare nelle terzine (DED/EDE) per non spegnersi nemmeno nel verso finale in cui allegra non ce la fa a cancellare la carica genetica di malinconia e tormento (ben nota a chi conosce la storia della pizzica) insita in tarantella.
Il rischio di cadere, anzi scadere, nell’oleografico e nel banalmente consolatorio, sempre in agguato in composizioni del genere, qui non è stato mai corso e nemmeno in concreto sfiorato.
Voglio soffermarmi un attimo, prima di chiudere, su Uluzzo per sottolineare come il poeta autentico può fare della difficoltà il trampolino per eseguire un tuffo stilisticamente ineccepibile e nello stesso tempo originale (Luigi mi perdonerà l’immagine ispiratami dal meraviglioso mare di Portoselvaggio).
Dato per scontato che Uluzzo non poteva mancare, la sua collocazione alla fine della prima terzina comportava l’esigenza di trovare due altre parole con la stessa rima. In passato il poeta poteva ricorrere ai rimari per integrare le parole che era riuscito a trovare da solo, nel caso in cui queste non fossero in linea con il tema. Oggi, se non si dispone dell’edizione digitale di un vocabolario che consenta, per esempio ad hoc, di avere l’elenco delle parole in -uzzo, si può trovare in tempo reale aiuto nella rete. Il primo strumento (uno per tutti, il vocabolario De Mauro) mi dà come risultato aguzzo, beruzzo, 3 buzzo, calcestruzzo, cocuzzo, ferruzzo, gruzzo, 2 merluzzo, minuzzo, puzzo, ribuzzo, ruzzo, spruzzo, struzzo, uzzo, verduzzo; il secondo (uno per tutti: http://rima-con.it/parole-che-finiscono/parole-che-finiscono-con-uzzo.html) Abruzzo, avvocatuzzo, Basaluzzo, Breguzzo, buzzo, calcestruzzo, Castelluzzo, Meneguzzo, merluzzo, Monguzzo, puzzo, spruzzo, struzzo, uzzo, verduzzo.
Lascio scegliere al lettore la rosa di vocaboli che abbiano una certa attinenza con il tema della poesia, sia necessario o meno, com’è stato per me, controllare il significato di qualcuno di loro …
Quasi certamente tra i componenti di quella rosa non compariranno: Abruzzo, avvocatuzzo, Bagaluzzo (è il nome di un comune piemontese), Breguzzo (è il nome di un comune del Trentino- Alto Adige), beruzzo (voce obsoleta indicante la colazione dei contadini nella pausa di lavoro), buzzo (il primo nel significato di interiora, specialmente di pesci e uccelli; il secondo, obsoleto, come sinonimo di bugno; il terzo voce regionale toscana sinonimo di taciturno, imbronciato o, riferito al cielo, di nuvoloso o piovoso), calcestruzzo (poco c’è mancato …), Castelluzzo (è il nome di un’incantevole località siciliana in provincia di Trapani), ferruzzo (variante di ferruccio), gruzzo (obsoleto, sinonimo di mucchio), merluzzo (il primo è il pesce, il secondo è sinonimo di merletto), Meneguzzo (il cognome di uno degli imputati e condannati dello scandalo MOSE …), Monguzzo (nome di un comune lombardo), minuzzo (voce letteraria, sinonimo di briciola, frammento), puzzo (ci sarà pure, purtroppo, ma non è il caso di celebrarlo, il ricordo del passegger solingo,/ non di certo lasciato camminando …;/io più in là, comunque, non mi spingo,/triste olezzo, parola di Armando), ribuzzo (scalpello con punta non acuminata e testa piana), struzzo, uzzo (voce regionale toscana indicante la curvatura delle doghe delle botti) e verduzzo (vitigno tipico del Friuli).
Per esclusione rimangono in lizza aguzzo, cocuzzo (variante di cocuzzolo), ruzzo e spruzzo. Nella poesia di Luigi compaiono aguzzo e ruzzo. Il secondo vocabolo richiede un approfondimento dovuto al suo signìficato (lo riporto dalla Treccani on line):
“1. Il ruzzare, la voglia di ruzzare: avere il r., essere in r., avere voglia di ruzzare, di scherzare.
2. Voglia, capriccio in genere, spec. di fare l’amore, di attaccare briga, di fare cose strane e pericolose: gli è entrato il r. in corpo; si è svegliato col r.; domani, domani, vedrete se gli sarà passato il r. (Manzoni, alludendo alla folla che tumultuava in Milano); gli è saltato il r. di scrivere poesie; cavare il r. dal capo a uno, e più com. assol., cavargli il r., levargli i capricci dalla testa, farlo stare a freno; gli è uscito, gli è passato il r. (dal capo), gli è passato il capriccio, ha perso il gusto.
3. ant. o raro. Puntiglio, ostinazione caparbia; in questo sign. ruzza è più com. di ruzzo.”.
Mi pare evidente che il ruzzo di Luigi è uno sviluppo del significato n. 1 e che estensivamente è sinonimo di gioia di vivere, sensazione di benessere e di libertà, quello che certi spettacoli naturali (più raramente un essere vivente che non sia una cosiddetta bestia o un vegetale, in parole povere un appartenente alla razza cosiddetta umana …) infondono fino a tal punto da chiederti se la tua presenza non sia un’indebita intrusione.
Scelta ben più felice della mia che, sia pur involontariamente, non ho fatto comparire Uluzzo nella poesia che al luogo ho dedicato, mentre nel testo, sempre mio, di una canzone in neretino (Portuservaggiu) compare ulùzzu (nome dialettale dell’asfodelo, che ha dato il nome alla baia) ma in miserabile rima con un banalissimo spruzzu … (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/04/01/omaggio-a-portoselvaggio-2/)
Avviso di servizio (pure quello!): Il link che porta alla canzone non sempre funziona, non so perché ma non dipende dal mio pc …, al primo colpo. Chi ha tempo da perdere insista (cliccando non sul simbolo di avvio grande ma su quello piccolo in basso a sinistra) e in caso di esito negativo me lo faccia sapere; chi non ne ha non si sarà perso nulla o quasi.
I castelli di Terra d’Otranto tra il 1584 e il 1610 in una relazione manoscritta del 1611: LECCE (4/6)
1 La canna napoletana dell’epoca corrisponde a m. 2,1163952.
2 Organo che amministrava la giustizia.
3 Nell’originale Ossuna, come già visto per assì e per sessenta. Duca di Osuna è un titolo nobiliare al quale veniva conferito il Gradato di Spagna, cioè la massima dignità nobiliare. Il Duca qui ricordato è il terzo, cioè Pedro Téllez-Girón y Velasco Guzmán y Tovar (1574-1616) che fu vicerè di Sicilia dal 1611 fino alla morte e si distinse per la sua lotta contro la delinquenza e la corruzione. Tuttavia, a dimostrazione del foscoliano concetto del potere di eternare che ha la poesia, la sua fama è legata all’amicizia col grande Francisco de Quevedo che gli dedicò la poesia Memoria inmortal de D. Pedro Girón, Duque de Osuna.
Il fruttone o barchiglia come anticamente veniva chiamato è un antico dolce tradizionale salentino composto da una pasta frolla e farcito con marmellata, pasta di mandorla e altri ingredienti legati con albume d’uovo e cotto in forno.
Come il pasticciotto, di cui è una variante a più lunga conservazione, è un dolce tipicamente leccese. D’altronde, se qualcuno osasse mettere in dubbio la sua origine, basterebbe far analizzare gli ingredienti della farcia, e si otterrebbe un risultato più eloquente di un test del DNA.
Qualcuno nel Salento fa risalire la sua origine, come pure quella del pasticciotto alla prima metà del ‘700, tesi suffragata dall’esistenza già a quel tempo degli appositi pirottini metallici. Dopo essere stati per molto tempo esclusivo appannaggio dei convivi dei nobili, divengono popolari con l’apertura delle prime caffetterie pasticcerie.
Un feeling datato e inossidabile quindi, quello dei salentini con questi dolci, e non solo, sono molti i turisti, che ogni hanno vengono conquistati da queste intramontabili delizie.
Gli ingredienti per la pasta frolla sono: farina 00, zucchero, strutto, uova, bicarbonato di ammonio, vaniglia.
Ingr.: per la pasta frolla: 1 kg. di farina, 1/2 kg. di zucchero, 500 g di strutto, 2 uova medie intere, la scorza grattugiata di 2 limoni, un pizzico di sale, un cucchiaino di bicarbonato d’ammonio, una bustina di vaniglia.
Disponete la farina a fontana, mettete al centro lo zucchero, le uova e gli aromi, e amalgamano tutti gli ingredienti senza intaccare la farina; aggiungete lo strutto e incorporatelo lavorando molto delicatamente. Infine ammucchiate sopra la farina e lavorate il tutto sino ad ottenere un impasto liscio e omogeneo. Riponete in frigo e lasciate riposare qualche ora, meglio per una notte. Quindi allungate la pasta sezionate dei pezzi appiattiteli e foderate i tradizionali pirottini metallici. Riempite l’interno con confettura di pere, o cotognata, pasta di mandorla sbriciolata, e canditi, il tutto legato con albume. Coprite il tutto con un’altra sfoglia di pasta frolla e infornate a 205° C, a cottura avvenuta capovolgeteli ancora caldi affinché si abbia una superficie piana e liscia. Lasciate raffreddare e glassateli superiormente con glassa di zucchero fondente al cacao o pennellandoli ripetutamente con cioccolato fondente.
I castelli di Terra d’Otranto tra il 1584 e il 1610 in una relazione manoscritta del 1611: OTRANTO (3/6)
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