L’associazione di particolari piatti a determinate ricorrenze è pratica che le diverse culture hanno messo in atto da tempo immemorabile. La globalizzazione e il consumismo, però, da qualche decennio la stanno cambiando inesorabilmente, e neppure lentamente, sicché fra poco, per fare un esempio, gusteremo in piena estate un dolce che in origine aveva nel periodo del Natale la funzione di deliziare il nostro palato e di evocare nello stesso tempo ricordi e aspettative. Mi pare che oggi qualsiasi legame col tempo che non sia il presente vada cancellato dalla coscienza e pure i piatti tipici di certe ricorrenze sono disponibili in qualsiasi periodo dell’anno, al pari della frutta fuori stagione (quella della natura prima dello stupro umano).
Il piatto nominato nel titolo non si sottrae a questo destino ed è di parziale conforto considerare che il suo consumo anche nelle grandi ricorrenze non era certo appannaggio delle classi meno abbienti, annoverando tale piatto quale ingrediente finale nella sua preparazione il brodo di carne.
Non ho intenzione di continuare nella predica, col rischio di deragliare tra i pandori (prodotto della moderna ignoranza, complice anche la cosiddetta “creatività” dei pubblicitari, accolto a braccia aperte dalla lessicografia attuale1) di personaggi considerati geniali ma che in realtà sono solo furbetti che approfittano della condizione di decerebrazione in atto, e non da oggi, sulla popolazione da parte di chi, per il proprio tornaconto e non per suo conto, gestisce il potere. Passo, perciò, ad altre considerazioni, mi auguro più in linea con le mie competenze che con quelle che possono sembrare elucubrazioni da sociologo della domenica.
Milaffanti: se un giorno si scoprisse un’origine araba, non mi meraviglierei più di tanto, essendoci oltretutto, per motivi storici, dei precedenti, tra i quali il salentinissimo cìciri e tria2. Nel frattempo, non mi resta che soffermarmi sul nome in sé.
Comincio col dire che il Rohlfs al lemma millaffanti (varianti registrate: melinfante e mmilleffanti; mancano quella di Nardò, milaffanti e quella di Otranto, cettafanti, ma non è questo il problema) si limita a proporre un confronto col napoletano millenfante= pastina fine, rinviando a ffanti, dove, dopo aver dato la definizione di specie dipappa di farina, rinvia al punto di partenza.
Prima di continuare, un minimo di onestà intellettuale mi impone di precisare che tutto quello che sto per argomentare sarebbe stato trattato infinitamente meglio se il maestro tedesco avesse avuto a disposizione gli strumenti formidabili, soprattutto digitali, di cui oggi chiunque può fruire, anche se il degrado della scuola e la latitante acribia lo espongono ad ogni passo al rischi di facili entusiasmi e mastodontici abbagli. E proseguo sperando, in questo senso, di cavarmela degnamente.
Così ho potuto rilevare, accanto al napoletano millenfante, i siciliani melifanti e milinfanti3 e il milanese mennafait4. Per quanto riguarda l’etimo, l’unico proposto è quello siciliano di cui do conto nella relativa nota. Esso, però, non mi convince per evidenti ragioni fonetiche, essendo arduo già spiegarsi il oresunto passaggio da mano a mell/mili. Al di là dei vocabolari citati, in Giuseppe Gioeni, Saggi di etimologiesiciliane, Tipografia dello statuto, Palermo, 1885, p. 180, si legge: “Milinfanti, semolino, forse dal greco mylìfatos o milèfatos (μυλήφατος), macinato, tritato, come in italiano chiamasi tritollo il cruschello, o altra cosa tritata”. Anche questa proposta non mi convince, perché è basata sul riferimento di un carattere comune (tutte le farine sono passate dal mulino) ad un prodotto particolare. Ad ogni modo non mi pare secondario il fatto che una indiscutibile affinità fonetica, almeno parziale, collega i nomi con cui lo stesso prodotto è chiamato in altre zone non salentine, quali prima la siciliana e la lombarda, e a Minervino Murge, Trani e Ruvo di Puglia (mbandaridde) e nel Barese mbilèmbande).
E allora?
Molte di queste voci dialettali potrebbero aver trovato una sorta di nobilitazione (ammesso, per assurdo, che il dialetto non possa vantare alto lignaggio) nella deformazione dell’italiano mille fanti, la cui più antica attestazione è in Bartolomeo Scappi (1500-1577), cuoco segreto di papa Pio V, come è ben evidenziato nel frontespizio, che di seguito riproduco insieme col ritratto che è all’interno, della sua opera uscita per i tipi di Tramezzino a Venezia nel 1570.
Le pagine (sono numerate come nei manoscritti) 55r-55v contengono i capitoli CLXXI dal titolo Per fare una minestra con fior di farina, e pan grattato, volgarmente detta mille fanti & e CLXXII dal titolo Per far mille fanti di fior di farina per conservarlo.
Trascrivo i due testi per rendere più agevole la lettura e il rlevamento di quelle differenze che molto spesso accompagnano ricette con lo stesso nome.
CAPITOLO CLXXI
Piglinosi oncie dieci di fior di farina, et oncie otto di pan grattato, passato per un foratoro, et mescolinosi insieme con la farina, et con un quarto di pepe pesto, et habbianosi quattro rossi d’uove fresche, battute con un bicchiero di acqua fredda, tinta di zafferano, e stendasi essa farina su la tavola, e sbruffasi con l’uove sbattute, mescolandola leggiermente con li coltelli, overo con una paletta di legno, in modo che tal farina venga in ballottine picciole, et le dette ballottine passinosi in una tortiera per un foratoro, overo crivello leggiermente senza porre la mano nel foratoro, et quelle che da se saranno passate nella tortiera, si poneranno su la cenere calda nel modo che si pongono le torte con il coperchio caldo sopra, et lascinosi stare fibche si asciughino, et non havendo coperchio pongonosi nel forno non troppo caldo, et perche tal compositione sempre sarà humida, aspettisi che siano asciutte però non arse, et dapoi cavinosi dalla tortiera, et mettanosi sopra una tavola, percioche come i detti grani saranno all’aere verranno sodi, et rimettanosi in un foratoro ben netto, o in un setaccio chiaro, et setaccisi fuora il farinaccio, et habbiasi apparecchiato brodo grasso che bolla, et pomganovisi dentro essi mille fanti, ogni libra de quali vuole xsei libre di brodo, et quando saranno cotti, servanosi con casciograttato, et cannella sopra. In questo medesimo modo si potrebbeno cuicere con il latte di capra, o con il butiro, o acqua. Si possomo ancho conservar tre o quattro mesi dapoi che son fatti nella tortiera, ma volendo farne quantità, la parte chè rimasta nel foratoro, o nel crivello riponasi su la tavola, e spolverizzisi di farina, et battasi leggiermente con li coltelli, rivoltandola sotto sopra piu volte fib’a tanto che si vedrà, che sia ben battuta, et dapoi nel passarle per lo foratoro, et nel seccarle tengasi il medesimo ordine che si è detto di sopra.
CAPITOLO CLXXI
Piglisi fior di farina macinata sotto la luna di Agosto, perche è piu durabile, et la quantità sua secondo se ne vorrà fare, stendasi sopra una tavola grande, et larga, habbiasi acqua tepida, mescolata con sale, et con una scopettina di mellica sbruffisi la farina di tale acqua, rivolgendola con la paletta al modo che s’è fatto de gli altri fin a tanto, che tutta sia convertita in granelli grossi come miglio, et dapoi passinosi essi granelli con il crivello sopra un’altra tavola, et faccianosi seccare al sole, facendosi cosi fin’a tanto che sia consumata tutta la farina, et quando saranno asciutti, si crivelleranno per un foratoro minuto, o setaccio chiaro, accioche se n’esca fuora il farinaccio, et si riporranno su la tavola, et si lascieranno stare per un altro dì nel Sole, et dapoi si conserveranno in sacchetti, o in vasi di legno,per tutto l’anno. E volendone fare minestra, con brodo di carne, et con latte tengasi l’ordine delli soprascritti.
Il mille fanti dello Scappi sembrerebbe non lasciare dubbi: si tratterebbe di una similitudine di natura militare, in cui i minuscoli pezzetti di pasta apparirebbero come tanti (mille in milaffanti, cento nella variante otrantina cettafanti). Ho usato ben due condizionali perché la sfumatura, per così dire, bellica non mi trova d’accordo. A volte, come nelle persone basta un gesto impercettibile per rivelare un sentimento profondo, per le parole è sufficiente un fonema. Credo che nel nostro caso protagonista sia la consonante f. Nelle varianti salentine riportate compare due volte la sequenza consonantica –ff– (millaffanti, milaffanti e mmileffanti) e una volta –nf– (melinfante), ricorrente anche nella voce napoletana (millenfante); la variante otrantina col suo –f- in questo quadro si mostra come un apax.
Rimane il dilemma: –ff– è frutto di quel raddoppiamento espressivo che, particolarmente nella consonante iniziale (e non è questo il nostro caso) del dialetto salentino, geminazione nella fattispecie dovuta al nome composto, come negli italiani soprattutto, soprammobile, sopraggiungere etc. etc.?; e –nf– è frutto della dissimilazione di un originario –ff-? Siccome non riesco a trovare un solo esempio di questa presunta dissimilazione, sono indotto a pensare che, invece, sia –ff– frutto di assimilazione di un originario –nf– e che i protagonisti della metafora non siano i fanti, ma gli infanti. Queste due voci hanno lo stesso etimo e, in particolare, fante deriva per aferesi da infante, che è dal latino infante(m)=muto, puerile, giovane, composto da in privativo e dal participio presente di fari=parlare. Il fante, soldato a piedi, era in origine al servizio del cavaliere (ma il diminutivo fantino rappresenta una sorta di compromesso tra l’uso del caballo 4e la necessità di non affaticarlo col proprio peso, ragion per cui chi lo cavalca di regola è di bassa statura ), concetto di subalternità presente anche in fantesca, mentre quello di giovane sussiste in fantolino e fanciullo (il prmo diminutivo di diminutivo: fante>fàntolo>fantolino; il secondo, con sostituzione di suffisso, da fancello, a sua volta per sincope da fanticello), oltre che nello spagnolo infante e infanta (titolo spettante agli eredi al trono non diretti e nel francese enfant. Per completare il tutto va detto che pure fantoccio in origine era sinonimo di giovane ragazzo e che in seguito ha assunto la valenza dispregiativa prima parziale a designare il burattino, poi totale quando la metafora ha coinvolto il singolo adulto e perfino lo stato e il governo.
Il precedente dilemma di natura fonetica si complica ora con risvolti storici non di poco conto in un nodo pressoché inestricabile. Se –nf_ e non –ff– è il nesso consonantico originario, per milaffabti va messo in campo il fante, l’infante o l’enfant, per cui la similitudine sarebbe guerrafondaia (!) o pacifista (?) pacifista, a seconda che l’immagine evocata sia quella dei soldatini oppure quella dei bambini. In un caso o nell’altro c’è il ricorso al concetto del piccolo, presente anche nel nome di due piatti dolci di questo periodo: purciddhuzzi5 e cartiddhate6.
L’interrogativo, poi, presente fin dal titolo ed evocato dalle due immagini di testa [(milaffanti fatti da mia moglie il 24/12/2023 )/Armata di terracotta (III secolo a. c.)] non è stato sciolto, ma l’angoscia del dubbio sia lenita, almeno parzialmente, da quella di coda (fine fatta dai milaffanti della prima il giorno successivo)!
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1 Sul sito dell’Accademi della Crusca (https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/pani-di-natale/1387) si legge: … oggi la lessicografia sincronica è concorde nel considerare il termine declinabile: dunque, pandoro al singolare, pandori al plurale. Un po’ di pazienza: basta che per motivi commerciali da faccia dibronzo nasca (così come per l’originario pan d’oro) un facciadibronzi perché la materia viva il miracolo della sua moltiplicazione nel complemento che da lei prende il nome). E poi, per violentare pure la creatività, quella vera, di De Andrè, prendiamo Bocca di rosa, trasformiamolo in Boccadirosa e lanciamo con questo nome un profumo; non trascorrerà nemmeno una settimana e nasceranno locuzioni del tipi: ho comprato cinque Boccadirose e nel corso dello stesso anno la lessicografia registrerà con servile acquiescenza Boccadoro al singolare e Boccadori al plurale …
E io, che pensavo di mettendo a Ferr…agni e fuoco i pandori, sto ancora a Baloccarmi (a questo punto l’iniziale maiuscola è d’obbligo).
3 Michele Pasqualino, Vocabolario siciliano etimologico, 1789: “Vedi Cuscusu. P. MS. dice: Insubres menafatti appellant farinae inspersione densam granorum congeriem, quasi manu facta sive coacta” (Gli Insubri chiamano menafatti un insieme di grani di farina denso con lo sparpagliamento, quasi fatto o compresso con la mano).
4 Francsco Cherubini, Vocabolario milanese-italiano, Dalla regia stamperia, Milano, 1841: “La nostra è voce antica che leggesi negli Statuti degli offellatori milanesi, a p. 16″. Offellatori è da offella, diminutivo del latino offa=focaccia, boccone. L’indicazione p. 16 indurrebbe a supporre che si tratti di un testo a stampa (purtroppo finora irreperibile in rete) , abche se è più probabile che si tratti di manoscritto, di reperibilità ancora più difficile.
5 Trascrizione di un inusitato italiano porcellucci, plurale diminutivo del diminutivo di porco (porco>porcello>porcelluccio). Non è necessaria molta fantasia per comprendere la similitudine, anche questa, come la maggioranza, tratta dal mondo animale.
6 Trascrizione di un inusitato italiano cartellate. Qui c’è lo zampino della dominazione spagnola che ci ha lasciato, oltre la pessima abitudine di esagerare nell’esibizione di titoli e di iniziali maiuscole, anche il retaggio di molte parole, tra cui cartiglio, a sua volta da cartiglia, che è dallo spagnolo cartilla, diminutivo del latino carta.
La preziosa programmazione di un Convegno su Pietro Marti nell’aprile 2023, sapientemente suggerita dalla Presidenza della Società “Dante Alighieri” di Casarano, sotto la guida del prof. Fabio D’Astore, e dalla sezione leccese della Società di Storia Patria per la Puglia, presieduta dal prof. Mario Spedicato, proietta chi scrive in una dimensione di tipo numerologico, situazione facilmente aborrita, perché non di rado scagliata nel mondo della pura casualità. L’ anno di grazia 2023 si colloca a 170 anni dalla nascita di Pietro Luigi Marti (16 giugno 1863) e al 90° di sua morte in Lecce (18 aprile 1933). Ma più importante appare il centenario della sua nota rivista “Fede”, fondata nel 1923 nel capoluogo salentino, un’autentica perla tra la quarantina di pubblicazioni in volume prodotti dal docente-giornalista, notate anche dal grande Carducci su “Nuova Rassegna”[1].
La parabola dell’esperienza d’insegnante di Pietro Marti ebbe inizio nel 1880, nella sua città natale, Ruffano, all’età di 17 anni, come riferito in un vecchio mio volume, edito da Congedo nel 1999[2]. Egli, conseguito il “patentino” per l’insegnamento nel biennio e poi “la patente” per il ruolo nel triennio finale della Scuola Elementare, venne nominato maestro “rurale”, dall’Amministrazione guidata da Pasquale Leuzzi[3].
Tutto ebbe avvio felice sia per la frequentazione culturale della famiglia Marti nella magione dei Leuzzi sia per la stima di quest’ultimo nei confronti del vecchio funzionario della pretura ruffanese, Pietro senior, grande mazziniano della prima ora. L’esperienza si concluse nel luglio del 1883, quando il sindaco pro tempore Santaloja[4] sospese Marti dall’incarico e dallo stipendio “per essersi allontanato dalla residenza pria della chiusura delle scuole”.
La questione ebbe strascichi spiacevoli con comunicazioni perentorie da parte del Santaloja, che sostituiva il sindaco Leuzzi e ricorsi sino in Consiglio di Stato ad opera dell’interessato. In verità Marti si era recato a Lecce con alcuni suoi fratelli, alla ricerca di una abitazione, per poi fondare nel 1884 un rinomato Istituto Educativo, frequentato da giovani di ogni classe sociale.
Un riferimento netto venne dato a tale vicenda da Alfredo Calabrese, il 3 dicembre 1990, nel presentare sulla rivista “Lu Lampiune” la Cronologia della Penisola salentina in un manoscritto di Pietro Marti[5]. Testo che ho personalmente visionato nella biblioteca privata del nipote, nell’abitazione dello studioso Elio Dimitri, in Manduria, nella frequentazione di due anni e mezzo in quella città prima della sua scomparsa.
Lo stesso Calabrese annotò che dopo appena due anni di intensa attività didattica del Ginnasio leccese, i fratelli Marti furono costretti a chiudere l’istituzione, nel 1886, perché “caduta sotto dittatura faziosa e violenta”. Ma indiscussa dovette essere la fede dei numerosi fratelli Marti, tra cui Luigi, Antonio e Raffaele[6], tanto da far dichiarare al nostro insegnante Pietro, ma ormai proiettato verso il giornalismo speso in tutta la Puglia, che La missione della Scuola dev’essere sacra e superiore a tutte le passioni personali e politiche… E’ triste per ogni Paese quell’ora in cui si tenta di propinare il veleno della disistima tra discepoli e maestri.
Parole scritte a Manduria, nel 1922, su un volantino a stampa, dal titolo “Per la verità…”[7] contro la sezione fascista di quel centro che aveva attaccato Marti sul funzionamento della Scuola Tecnica, da lui fondata e diretta in quella città per chiamata del locale sindaco.
Sempre negli anni Venti, più precisamente nel marzo del 1921, oltre all’esperienza dirigenziale in campo scolastico a Manduria, di cui si dirà più diffusamente altrove, abbiamo nota, in una conferenza pronunciata nell’Università popolare di San Severo, riportata nella raccolta di un volume a stampa dal titolo Il Dovere civile e Giuseppe Mazzini[8], di un incarico per Marti a direttore delle Scuole Tecniche “Zannotti”[9] di quella città. Ma non abbiamo rinvenuto altri riscontri in proposito.
Allo scoppio del Primo Conflitto mondiale, dopo l’eccidio di Sarajevo, Marti era nel pieno della sua maturità fisica e intellettuale. A Bari, intanto, il 6 gennaio 1914, gli era nato un nipotino, Vittorio Bodini, che poi finirà col coabitare col nonno sotto lo stesso tetto in Lecce, e che farà con lui utile apprendistato.
Vittorio era figlio di Anita Marti e del padre Benedetto, commissario di pubblica sicurezza nel capoluogo barese. Ma questi, minato da cagionevole salute, era scomparso dopo appena tre anni, lasciando alla giovane moglie l’ineluttabilità di convolare in seconde nozze. Al bambino Vittorio mancò sempre il rapporto con la madre e con i quattro fratelli nati dal patrigno; egli si sentì sempre “leccese” per famiglia e formazione, anzi “idruntino”, come osservato da Armando Audoli[10]. Bodini visse così con il nonno Pietro, come ricordato da Oreste Macrì, la “prima” delle sue sette vite, quella dell’infanzia e dell’adolescenza futurista[11].
Immenso fu l’affetto tra nonno Pietro e il nipote Vittorio; grandissimi i precetti etico-morali instillati nel tuttavia, ribelle nipote. Dodici anni dopo, l’8 luglio 1926, dall’altra figlia di Marti, Emma, era nato a Manduria un altro nipotino, Elio Dimitri, che ho avuto la fortuna di conoscere, due anni prima della sua morte (3 febbraio 2016)[12]. Vittorio Bodini ed Elio Dimitri, due nipoti del giornalista Marti. Il primo studiato nei corsi di Letteratura del Novecento, mai conosciuto di persona; il secondo, conosciuto e frequentato dopo che avevo appreso della sua esistenza a Manduria per il tramite di internet[13].
Studioso insigne di storia locale, che più d’una volta mi fece omaggio di qualche sua pubblicazione, come quel noto “Saggio” del 1962[14]. Spesso mi ricordava che anche il nonno Pietro, a lui bambino, regalava sempre qualche suo scritto, ogni volta che di domenica frequentava a Manduria l’abitazione della figlia Emma. Egli aveva un ricordo nettissimo del nonno e della sua notorietà in tutta la Puglia e nell’intera Penisola. Grande era l’amore del nonno per l’unicità di Terra d’Otranto, per gli studi storico-letterari, per le Belle Arti e per i siti archeologici sparsi per il territorio salentino. Tanto che Dimitri mi confidava come sarebbe calato nella tomba l’amato nonno nell’abitazione leccese di Porta San Biagio, in via G.A. Ferrari: tornato zuppo da una missione archeologica nel brindisino, a Egnazia, perché sorpreso da una pioggia torrenziale, fu colpito da una bronco-polmonite letale, che non gli lasciò scampo. Grande fu l’amore di tutti i nipoti nei confronti di Marti. Lo stesso Bodini, ricordando il nonno sul Supplemento de “La Voce del Salento” del 18 maggio 1933, così scriveva:
La sua vita di questi ultimi tempi avrei voluto ricostruirla amorosamente attraverso i miei ricordi densi e vivi attraverso le pagine care de “La Voce”, la sua “Voce del Salento”, ultimo suo giornale e mio primo, attraverso le sue ultime pubblicazioni, tante delle cui pagine mi dettava, con la facilità di chi legge. Se questi suoi anni costituiscono tanta parte della mia giovinezza ,io non posso, no, farne la cronaca, in poche comme…[15].
Al nipote Bodini, Marti spesso rimarcava: Giornalista, Vittorio, non è solo l’autore dell’articolo, ma chi, trascendendolo, lo annulla per fondersi in una individualità più ampia: Il Giornale. Il grande Bodini aveva frequentato una grande scuola di scrittura e di impensabile capacità creativa.
Per il professore-giornalista Pietro Marti, sempre conscio del valore etico-sociale della cultura, scuola, istruzione e giornalismo costituivano dei grandi pilastri su cui si regge una società moderna, nella quale ciascuno può giocarsi formidabili opportunità di successo personale e di sicure ricadute positive sull’intera collettività. Due personaggi in definitiva, quei due nipoti di Pietro Marti, Vittorio Bodini ed Elio Dimitri, che hanno lasciato traccia, ciascuno nel proprio ambito, nel panorama culturale italiano e persino europeo.
Note
[1] Delle qualità scrittorie del giovane Pietro Marti ebbe a scrivere Giosué Carducci alla uscita della pubblicazione del salentino de Origine e Fortuna della Coltura salentina (Lecce, Tip. Coop., 1893), su “Nuova Rassegna”, con gli elogi del grande Vate, di Ruggero Bonghi e di De Gubernatis.
[2] E. INGUSCIO, La Civica Amministrazione di Ruffano (1861-1999). Profilo Storico, 1999, Congedo Ed. pp. 174-75.
[3] La famiglia Marti a Ruffano frequentava il cenacolo politico-culturale della potente famiglia Leuzzi, come riferito dallo stesso Marti nelle sue “Memorie” a proposito del “Battesimo Tricolore” del piccolo Pietro. Cfr. di P. MARTI, Memorie biografiche, 1933, quaderno ms, archivio privato Dimitri, Manduria.
[4] La spiacevole vicenda tra Marti e il vicesindaco Santaloja s’innescò proprio in concomitanza dell’assenza temporanea da Ruffano del Leuzzi, in buone relazioni con i Marti. Santaloja scaricò il proprio livore contro Marti e il Leuzzi, al quale egli aveva portato via una donna della famiglia, fatto maldigerito dai “galantuomini” Leuzzi. Cfr. in Appendice– Sindaci a Ruffano dall’Unità d’Italia ai giorni nostri, in E. INGUSCIO, La Civica Amministrazione di Ruffano, cit. p. 211.
[5] A. CALABRESE, Cronologia della Penisola Salentina in un manoscritto di Pietro Marti, in “Lu Lampiune”, Lecce, 3 dicembre 1990.
[6] Sulla frenetica attività culturale dei fratelli Marti si vedano anche di E. INGUSCIO, A Ferrara sulle tracce dei Marti. L’attività culturale nel Polesine di Pietro e Raffaele Marti, in “Il Nostro Giornale”, Supersano, 25 dicembre 2019, a. XLIII , n. 91, pp. 42-43; ed anche in Idem, Di due salentini sul Lago Maggiore a fine Ottocento. Antonio e Luigi Marti, in “Il Nostro Giornale”, Supersano, 5 luglio 2020, a. XLIV, n. 92, pp. 54-55.
[7] P. MARTI, Per la Verità…, Volantino a stampa, archivio privato Dimitri, Manduria, 1922
[8] La fede nel mazzinianesimo era ben radicata in casa Marti, se il padre di Pietro, usciere presso l’allora pretura del mandamento di Ruffano, risultava iscritto a “La Giovine Italia” dai primi tempi della sua creazione. E la radice risorgimentale-ottocentesca del giornalista Marti, farà sempre capolino nei suoi scritti e nelle sue conferenze, tenute in Puglia e in tutta Italia. Nel 1921 Marti, invitato dalla Università popolare di San Severo, aveva parlato de Il Dovere Civile e Giuseppe Mazzini. Il testo della conferenza venne poi pubblicata in quella città, presso la tipografia G. Morrico. Di tanto do nota in “Cronotassi bio-bibliografica di Pietro Marti” (Appendice) nel volume, stampato nel 2013, Pietro Marti (1863-1933. Cultura e Giornalismo in Terra d’Otranto, 2013, Nardò, Tip. Biesse, pag. 243.
[9] V. BODINI, In memoria di Pietro Marti. La vita… e l’opera, in Supplemento al n. 11 de “la Voce del Salento”, Lecce, 18 maggio 1933. E’ lo stesso Bodini, che nel ricordare la molteplice attività del nonno Pietro in tutta la Puglia nel ruolo di apprezzato conferenziere, riferisce di un incontro culturale nel foggiano e accenna all’incarico a preside dello stesso nelle Scuole “Zannotti”. L’istituzione scolastica ancora oggi esistente con tale denominazione, risulta però essere un Istituto Comprensivo Statale.
[10] A. LEOGRANDE, Il canto della vita. Riflessioni su Vittorio Bodini, Dimensione Font, 29 novembre 2017.
[11] Cfr. E. INGUSCIO, Pietro Marti (1863-1933. Cultura e Giornalismo in Terra d’Otranto, 2013, op. cit., pag. 163.
[12] Al sottoscritto è toccato il triste compito di stendere una nota biografica sul grande Dimitri, studioso scomparso nell’inverno del 2016: E. INGUSCIO, Elio Dimitri, in Archivio Storico Pugliese, Società Storia Patria per la Puglia-Bari, LXIX (2016), pp. 248-349.
[13] La madre dell’ing. Elio DIMITRI, aveva sposato Paolo, impiegato a Manduria nel ruolo del personale scolastico dell’allora Direzione didattica
[14] Conservo con grande amore una copia autografata, la prima tra i tanti omaggi, dI E. DIMITRI, “Saggio di bibliografia Salentina, Quaderni Bibliografici, n. 1, Manduria, Libreria Messapia Editrice, 1962, pp. 70.
[15] V. BODINI, In memoria di Pietro Marti. La vita… e l’opera, in “Supplemento” a “La Voce del Salento”, Lecce, 18 maggio 1933, n. 11, pag. 1
due sedi dove si è cercato di approfondire un argomento ancora poco investigato e utile a comprendere il modus operandi che alcuni membri perseguirono nel collezionare opere d’arte.
Le modalità di accaparramento, sviluppate secondo il gusto e gli stili allora in voga, furono pressoché due: attingere dalla grande fucina artistica della Napoli vicereale e borbonica o fare leva sulle maestranze locali, “allevate” all’ombra del mecenatismo di famiglia e inviate nella capitale partenopea a imparare la maniera. Un chiaro elemento ostentativo che nelle province periferiche del Regno di Napoli venne coltivato come simbolo di potere, ricchezza e ovviamente cultura, un processo che ebbe come massimo esempio il collezionismo della corte reale napoletana.
Ciò che vogliamo condividere invece in questo articolo è un’indagine attributiva che si è fatta strada dopo le prime ricognizioni effettuate sui ritratti conservati nel castello di Francavilla e in previsione del futuro progetto di restauro.
Dopo aver calato dagli infissi i due enormi manufatti (220 cm x 150 cm), i presenti rilevarono fin da subito come il tipo di armatura (lo schema che determina il modo di intrecciarsi dei fili dell’ordito con quelli di trama), la struttura dei telai, la modanatura delle cornici e la tecnica pittorica, nel complesso avessero molti punti in comune. Analizzando più nel dettaglio, si è potuto evidenziare come le due grandi tele dipinte con colori ad olio, risultassero suddivise in quattro scomparti rettangolari realizzati in tessuto di juta e cuciti lungo il lato verticale (quattro su quattro) o orizzontale (due su quattro), una tecnica già in uso nelle botteghe della prima metà del 700’, in particolare per i ritratti di grandi dimensioni. Entrambe le superfici pittoriche risultavano inchiodate su un telaio ligneo fisso di tipo semplice provvisto di listelli di rinforzo agli angoli, che insieme alla cornice di colore marrone e dettagli in simil oro (pesantemente ridipinta e rattoppata in alcune parti), rimandavano a una tipologia realizzativa di matrice ottocentesca, che per motivi di gusto o necessità prese il posto dell’intelaiatura originale sicuramente più raffinata.
Alla luce di tutto questo e ricordando di come la tradizione storiografica giunta a noi ritenga ancora oggi le due tele riconducibili ai feudatari Andrea I e Michele III (quarto e quinto feudatario di Francavilla), l’insieme di alcuni elementi che adesso andremo ad approfondire, concorrono a far emergere alcuni interrogativi, mettendo in discussione una delle due attribuzioni.
Biografia e Iconografia
Se per la tela raffigurante il principe Michele III (1673-1738) sono molti gli indizi iconografici che ne confermano l’attribuzione (primo elemento): il contesto raffigurativo che evidenzia lo status sociale (l’abbigliamento ricco e sfarzoso degli incarichi che lo stesso assunse in vita presso la corte borbonica: Consigliere di Stato, Gran Camerario del Regno, Grandeza de Espagna e Gentiluomo di Camera d’entrata), la forza economica raggiunta dalla famiglia (messa in luce dagli arredi e dall’ambiente aristocratico) e l’innegabile verosimiglianza con gli attuali eredi, per il secondo ritratto raffigurante il nobiluomo ben vestito si aprono gli interrogativi di cui parlavamo prima. La tradizione lo indica come Andrea I, secondo Principe di Francavilla e padre di Michele III, il quale visse fra il 1647 e il 1678 e morì quando il figlio aveva solo cinque anni (secondo elemento). Il personaggio viene rappresentato come un giovane facoltoso, inserito in una complessa ambientazione da cui lo stesso emerge grazie alle luminose nuances del guardaroba, principale evidenza che ne attesta un certo rango. L’indumento in questione prende il nome di velada o giustacuore (terzo elemento) e divenne diffusissimo in Francia verso la fine del Seicento. Successivamente prese piede in tutta la Penisola italiana, da Venezia a Palermo, quando patrizi e borghesi cominciarono a rivaleggiare per farsi realizzare un abito di seta o di velluto dalle precise caratteristiche: aperto sul davanti con ampi bordi e maniche rivoltate, grandi tasche laterali finemente ricamate e slanciato fino all’altezza del ginocchio. In questo lavoro di sartoria, come in molti altri, i maestri del cucito dell’epoca poterono dare sfogo alla loro fantasia, impreziosendone i ricami con cristalli intagliati a imitazione delle pietre preziose o aggiungendo file di bottoni in oro, argento, acciaio brunito o porcellana policroma decorata con fiori o emblema. Il tutto veniva adagiato su una camicia di lino e una camisiola (farsetto di broccato d’oro, d’argento, seta o arabeschi), a cui si aggiungeva uno jabot di pizzo, delle brache (in casimir o nankin) indossate sopra calze bianche di seta, un tabarro (utilizzato solo nei mesi più freddi), scarpe con fibbie e infine un ampio tricorno. Insomma, parliamo di un secolo dove i toni scuri e austeri della moda “alla spagnola” furono sostituiti dai colori accesi e rococò degli habit à la française: il Settecento (quarto elemento).
Ma chi è quindi il secondo uomo (o adolescente) raffigurato?
Se partiamo dal presupposto che sia stato Michele III a commissionare i due dipinti, da questo momento in poi e tenendo presente i quattro elementi di riflessione pocanzi elencati (le conferme iconografiche sul dipinto di Michele III, la giovane età di quest’ultimo alla morte del padre, l’abbigliamento e il Settecento), possiamo ragionare sulle tre diverse ipotesi che emergono dall’incrocio dei dati biografici in nostro possesso, utili a permetterci di provare in via preliminare a dare un volto all’uomo (o all’adolescente) raffigurato nel secondo ritratto incriminato.
Ipotesi uno: Andrea I
Michele III fa raffigurare il padre Andrea I (come tradizione vuole).
Quest’ultimo in vita fu un grande benefattore, ma di lui sappiamo veramente poco. Se proviamo a considerare il fatto che il figlio primogenito Michele III abbia voluto omaggiarlo postumo con un abbigliamento settecentesco (anche se Andrea I visse nel secolo precedente), dobbiamo però ammettere che forti sono i dubbi che emergono nell’osservare i lineamenti molto giovanili del soggetto in questione. Difficilmente si poteva pensare di esaltare un avo defunto e di tale importanza raffigurandolo con i tratti di una figura imberbe, contando poi che Andrea I morì a 34 anni, un’età se vogliamo “vegliarda” per quelle che erano le aspettative di vita dell’epoca. Da non escludere a priori, il fatto che fra le proprietà della famiglia ci potesse essere un dipinto di Andrea I fatto realizzato dallo stesso in vita e poi ereditato dai figli, ma di cui fino ad ora non esistono testimonianze di nessun genere.
Ipotesi due: Andrea II
Nel ritratto non è raffigurato Andrea I, ma il figlio di Michele Andrea II.
Egli visse fra il 1697 e il 1734 ed ebbe con il padre un rapporto molto burrascoso a causa di due caratteri posti agli estremi. Il primo era austero, iracondo e rigido in quelli che erano i doveri verso l’antica stirpe di cui portava fieramente il nome, mentre per il secondo tutto questo era superfluo, avendo un carattere sensibile e aperto al dialogo, qualità che gli valsero fra le altre cose il rispetto dei suoi sudditi. Se da una parte Andrea cedette nell’accettare le nozze imposte dal padre con la principessa Anna Caracciolo (da cui nacque il 7 luglio del 1719 l’amato erede Michele IV), dall’altra parte fece di tutto per fuggire dalla vita di corte, rifugiandosi a Torino in compagnia della moglie fino alla fine dei suoi giorni.
Ipotesi tre: Michele IV
Perché non pensare che il giovane “adolescente” abbigliato alla francese possa essere invece il caro nipote Michele IV (1719-1782)?
Dopo l’uscita di scena del figlio Andrea II, per Michele III l’erede designato e unica grande speranza per il futuro della dinastia in Terra d’Otranto divenne proprio il nipote prediletto, il quale crebbe come successore delle enormi proprietà quanto del forte sentimento di lignaggio che tanto premeva l’illustre capostipite. Lo stesso Michelino una volta prese le redini feudali fece di tutto per non disattendere le aspettative, aumentando il prestigio della famiglia presso la corte borbonica a Napoli.
In conclusione e rifuggendo dalla fantomatica e quanto mai inutile “leggenda” del fantasma nel castello, perché non pensare invece che il bellissimo orologio meccanico sorretto da una coppia di figure antropomorfe, che fa bella mostra di sé alla destra della giovane figura, possa essere un chiaro riferimento al tempo che scorre e alla sua ineluttabilità, un passaggio di consegne fra nipote e antenato, entrambi coinvolti nell’impegnativo governo di uno dei feudi fra i più estesi e influenti del Meridione, una vita spesa fra mille onori e oneri.
A voi la riflessione finale per quello che potremmo definire un cold case “senza vittime”, che potrà trovare soluzione grazie a questo attesissimo restauro, che ci auguriamo venga messo in opera il prima possibile dopo anni di progettazioni e viste le precarie condizioni dei due manufatti; un’operazione che avrà il suo massimo compimento con l’attivazione del laboratorio di restauro allestito in quel palazzo che fu il primo palcoscenico della genesi realizzativa delle due opere d’arte. Attendiamo fiduciosi e consci di come tutto ciò possa scrivere una nuova pagina sul patrimonio pittorico diffuso e a volte troppo nascosto della nostra amata Francavilla: in questo caso e ancora una volta la città degli Imperiali.
Un sentito ringraziamento allo studioso Giorgio Martucci, il quale con il suo lavoro di catalogazione delle opere d’arte francavillesi presente sulla rivista Italia Nostra, sezione messapia, ha ispirato quest’articolo.
BIBLIOGRAFIA
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Abbate F., Storia dell’arte nell’Italia meridionale, Donzelli editore, Roma 2002.
Vassaurd M. , La vie quotidienne en Italie au XVIII° siècle (La vita quotidiana in Italia nel Settecento), trad. di Maura Pizzorno per Fabbri editori, Bergamo 1998.
Cassiano A., Note sul collezionismo, nel catalogo “Il Barocco a Lecce e nel Salento”, a cura di A. Cassiano, collana “il Barocco in Italia”, De Luca editori d’Arte, Roma 1995.
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Palumbo P., Storia di Francavilla Fontana, Lecce 1869, ristampa anastatica, ed. Arnaldo Forni, Bari 1901.
Chi si attende una storia di fantasmi e simili, magari con contorno di fattucchiere, magiche pozioni e sangue umano e non a volontà è solo un allocco che si è lasciato incantare dal titolo e probabilmente non proseguirà nella lettura. Per tutti gli altri preciso che il colore nominato nel titolo riguarda solo la fine che fece il castello del quale mi sono già occupato per altri motivi1.
Riproduco dal secondo link indicato in nota quella che probabilmente è l’immagine più antica (seconda metà del XV secolo) del nostro castello.
Rimane, tuttavia, incerta la sua data di nascita, proprio come quella della sua morte, che è il giallo di cui sopra. Già qualche anno fa, nel post segnalato col primo link in nota 1, avevo riportato che in Mariangela Sammarco, Silvia Marchi e Stefano Margiotta, Tra terra e mare: ricerche lungo la costa di S. Cataldo (Lecce)1, in Rivista di topografia antica diretta da Giovanni Uggeri, XXII, Congedo, 2012, nella nota 61 di p. 128 si legge: distrutta da una mina inglese agli inizi del XIX secolo.
Tale informazione, però, aggiungo oggi, era già comparsa, con le stesse parole e virgole, in Rita Auriemma, Salentum a salo: porti, approdi, rotte e scambi lungo la costa adriatica del Salento, Congedso, Galatina, 2001, p. 156.
Andando, poi, a ritroso nella clonazione (altrimenti non so definirla), si giunge a quello che sembra essere l’originale , che, sempre nella forma già riportata, è in Francesco D’Andria, Lecce romanae il suo teatro, Congedo, Galatina, 1999, p. 119.
Ad ogni buon conto, ed è questa la cosa più eclatante, considerando lo spessore degli autori citati, senza ombrta di fonte.
Noto preliminarmente che il toponimo, unito ad un simbolo inequivocabile, risulta presente nel foglio 31 dell’Atlante Geografico del Regno di Napoli di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni pubblicato a Napoli dal 1808.
E le carte successive? Debbo ad un competente ed assiduo frequentatore di questo blog, che nei suoi gratificanti commenti si firma DrAnvilon, la volontà di approfondire la questione, grazie ad una mappa (Terra d’Otranto, Napoli, 1851 Eseguita sotto la direzione dell’autore B. Marzolla), della quale qualche giorno prima mi aveva fatto pervenire un ritaglio, del quale l’immagine che di seguito riproduco è un dettaglio, pensanco che potesse tornarmi utile per qualche eventuale post di interesse storico-geografico. E questa è la prima occasione che mi si è presentata. Dal dettaglio si direbbe che alla data del 1851 il castello fosse ancora in piedi.
Non è finita, perché in un’altra carta, reperita in rete, dello stesso autore e datata 1859, dalla quale ho tratto il dettaglio che segue, nulla, in riferimento all’oggetto di questa indagine, appare cambiato.
Antonio Rizzi Zannoni e Benedetto Mazzolla furono cartografi ufficialmente al servizio del regno e, se per il la carta del primo la data del 1808 attribuita per prudenza al foglio risulta compatibile col citato distrutta da una mina inglese agli inizi del XIX secolo, lo stesso non può certamente dirsi per le date delle due carte del Mazzolla. Mi pare poco probabile, anche perché non si tratta di mappe storiche che Castello S. Cataldo stia ad indicare solo un mucchio di rovine o che Castello sia da intendersi come Faro, ipotesi, questa, inaccettabile se si pensa che l’attuale faro alla data del 1865 era ancora allo stadio progettuale. E così il giallo del titolo per la soluzione attende un investigatore che non sia quella schiappa del sottoscritto.
Non città santa ma certo popolata da santi, una sorta di Paradiso in terra dove sempre più di sovente era possibile incontrare, appena svoltato l’angolo e come in dialogo tra loro, angeli, santi, madonne. Una folla di immagini tridimensionali prodotte in operose botteghe della cartapesta, con decine e decine di lavoranti, ognuno con la propria specializzazione, e che, nel buio degli interni, sembravano statue d’improvviso animatesi… Così doveva apparire Lecce, “Paradis du rococo” tra Otto e Novecento, a quanti si addentravano nell’ inestricabile groviglio di corti, vicoli, slarghi, piazze.
Fu la cartapesta a rinnovare i fasti della Lecce barocca, riverberandone la notorietà ben oltre i confini europei…
Dopo la piena rivalutazione della scultura in legno tocca ora alla statuaria in cartapesta uscire dall’ invisibilità cui era stata condannata dal silenzio della critica….e accanto alle opere di celebrati autori quali Maccagnani, Manzo, De Lucrezi, Flora, De Pascalis, Caretta, per non citare che alcuni, focalizzare l’ attenzione su nomi poco noti se non del tutto sconosciuti…
Accantonate le semplicistiche pretese di una origine tutta salentina…va senza dubbio individuato in Napoli il ” referente artistico”, la culla della cartapesta che si diffuse nel nostro Sud.
È questo il percorso di un libro che, senza la pretesa dell’ esaustività, intende raccontare, anche con un apparato di immagini di grande impatto, opere, artisti, botteghe. Con uno sguardo anche alle realtà non solo leccesi. È il caso di Molfetta dove la cartapesta assunse forma del tutto autonoma e originale attestandosi su livelli qualitativi e interpretativi di grande rilievo, negli ateliers di Cifariello, Fornari, Binetti; infine del grande scultore temporaneamente ‘prestato’ alla plastica cartacea, nella quale eccelse, Giulio Cozzoli… La produzione nella cittadina adriatica, se mai raggiunse la notorietà di quella “leccese”, pure la surclassò da potersi ben aggettivarsi quale “cartapesta molfettese”…
Ultimata la stampa… A metà gennaio la presentazione del volume,
È recente notizia che il Comune di Specchia ha acquisito due importanti opere pittoriche provenienti dalla collezione dei conti Risolo di Specchia, un tempo esposte nella pregevole quadreria del palazzo marchesale già castello baronale.
Questo grazie all’iniziativa del prof. Giovanni Perdicchia, che per diversi anni ha lavorato alla riscoperta della storia del castello e delle opere artistiche che si trovavano al suo interno, accertando anche l’esistenza della collezione. Dopo il sopralluogo, con la mediazione del professore e con il fondamentale apporto di Stefano Tanisi, si è avuta la possibilità di riportare nel palazzo due delle opere individuate tra le numerose tele che per decenni erano state spostate dal sito originario. Il trasferimento avvenne in un’abitazione privata da parte degli eredi della famiglia che, per il ramo di Specchia, si è estinta nei primi anni ‘80 del secolo scorso con la scomparsa di Gioacchino Risolo e per ultima di Gisella Risolo (+1984).
Ad oggi la consistenza della raccolta originaria, che era esposta in almeno tre dei saloni del palazzo, è impossibile a quantificarsi, non essendosi rinvenuto alcun inventario dei beni mobili, che sicuramente doveva esistere prima dei passaggi di proprietà tra le diverse famiglie che nei secoli si sono succedute.
Si è propensi a credere che la quadreria non sia stata formata dai Risolo, che a Specchia dimorarono solo dal 1810 con Domenico, trattandosi di una raccolta assai vetusta e comprendente opere di elevata qualità che, sulla base delle testimonianze raccolte, risalgono prevalentemente al periodo compreso tra XVII e XVIII secolo.
Più facile pensare ad un nucleo originario voluto dal potente e colto Andrea Gonzaga, che nel 1567 divenne primo marchese di questa Terra, e che vi abitò con la sua corte facendo di Specchia il centro del suo Stato.
La raccolta forse fu poi accresciuta dal nipote Ferrante II, che nel 1589 vendette l’immobile e quanto in esso presente al conte di Lavello Ettore Brayda, che acquisì anche il titolo di marchese di Specchia.
Non è da escludere che nuove acquisizioni furono fatte da Ottavio Trane, IV marchese, cresciuto con il padre alla corte dei Gonzaga, che nel 1599 acquistò dal Brayda il marchesato di Specchia, comprendente anche i feudi di Tiggiano, Montesano e Melissano. Fu Ottavio ad ingrandire il castello con il suo pregevole portale in bugnato, esteso per circa 2500 metri quadrati, con oltre cento stanze, molte delle quali adornate di opere di gran pregio.
Probabilmente contribuì ad accrescere la quadreria sua figlia Margherita (1612-1704), che nel 1633 era andata in sposa a Desiderio Protonobilissimo, barone e poi principe di Muro Leccese. Dai due il palazzo e quanto vi era in esso conservato passò ai figli ed eredi, dei quali ultimo esponente fu Giovan Battista IV, che morì senza eredi nel 1774.
La mancanza di documenti impedisce di formulare certezze sulla consistenza della raccolta, che nel tempo divenne assai pregevole, sulla base di alcune testimonianze raccolte.
In queste stanze, come annotò nel 1888 Cosimo De Giorgi, si ritrovavano dipinti dallo stesso attribuiti ad Annibale Carracci, Giorgio Vasari, Luca Giordano, Aniello Falcone, Cristiano Bader, Francesco Solimena, Paolo De Matteis, Bartolomeo Schedoni, Domenico Brandi: “Questo castello che fronteggia la piazza principale del paese e domina la campagna sottostante dalla parte di oriente, appartiene oggi ai signori Risolo […] però non è più un castello feudale ma un palazzo abitato da gentilissimi signori […] Entriamo ora nel palazzo Marchesale e diamo uno sguardo alla pinacoteca alquanto pregevole”.
Marti invece ne fece menzione nel 1932, limitandosi a scrivere che “nel Castello Palazzo […] si conservano molti quadri di vera importanza artistica”.
La scarsità di notizie sulla consistenza delle opere in esso presenti non aiuta a confermare il giudizio dei due studiosi appena menzionati. Tuttavia, conoscendo le capacità e la fondatezza dei loro studi, non vi è motivo di dubitare che si trattasse di una raccolta notevole, considerato anche il rango e la sensibilità dei possessori e dei loro avi.
Da questa raccolta dunque provengono le tele acquisite poche settimane fa dal Comune di Specchia. Si tratta di due grandi dipinti ad olio su tela, sufficienti a dare un’idea dell’originaria collezione.
Entrambe ritraggono scene trattedalla Bibbia e documentano come i soggetti siano trattati con dettaglio e consapevolezza della narrazione.
La prima tela raffigura Gesù che scaccia i mercanti dal tempio (227×168 cm), la seconda Mosè ed il ritorno delle spie(145×196 cm).
Purtroppo i numerosi guasti e perdite di colore impediscono una attenta lettura delle due pregevoli opere.
Sarà dunque l’indispensabile restauro a svelarci quanto ancora non si riesce a leggere e che potrebbe aprire importanti sviluppi nella storia del collezionismo salentino e italiano.
A mezzo secolo e più dalla fondazione, la Società storica di Terra d’Otranto accoglie nella collana Fonti e Documenti la pubblicazione degli Atti della Visita pastorale del vescovo di Gallipoli Pelegro Cibo, condotta negli anni immediatamente successivi alla chiusura del Concilio di Trento. Al testo latino, edito con ogni accorgimento filologico e accompagnato dall’utile traduzione a fronte in lingua italiana, Elio Pindinelli premette un denso profilo biografico di mons. Cibo al quale non può non rivolgersi subito l’attenzione del lettore richiamata da titoli come Pelegro Cibo e il mistero della sua morte e La Famiglia Torriglia.
Attraverso una scrupolosa esplorazione di fonti individuate in biblioteche ed archivi pubblici e privati, dalla Città del Vaticano a Genova, da Napoli a Bergamo e Milano, oltre, naturalmente, l’Archivio della curia vescovile di Gallipoli e la Biblioteca del Comune di Gallipoli, della interessante personalità del “genovese a Gallipoli” vengono ricostruiti i movimenti concreti nel corso dell’attività pastorale nella sede affidatagli e vengono percorsi gli importanti precedenti passaggi legati, in un orizzonte di ampissime dimensioni, al processo delle nomine dei vescovi decise in un campo in cui si muove la grande politica imperiale spagnola e la crescente forza economica e finanziaria delle classi egemoni della Repubblica di Genova, dalle quali il vescovo proveniva.
La visita pastorale – è noto – risale ai tempi apostolici ed è del VI secolo la sua presenza quale istituto giuridico nel concilio provinciale di Tarragona del 516, radicata in una pratica ormai consuetudinaria in Italia e da quell’anno in via di consolidamento e diffusione specialmente sotto il pontificato di Gregorio Magno toccando ormai anche la Francia. Dal Decretum di Graziano (1150 circa) in poi si entra nelle compilazioni autentiche, delle quali si hanno attestazioni in alcune diocesi della penisola a partire dal XIII secolo, per diventare un po’ più diffuse nel XIV e più frequenti nel XV, fino a giungere alla decretazione tridentina che va a ricadere su una nuova sensibilità episcopale e sulle esigenze di riforma della chiesa sancite nei canoni del Concilio.
Seguendo questa linea mons. Cibo decreta di iniziare la visita personale e locale per il 2 maggio 1564, “con l’obiettivo dichiarato -annota Pindinelli- di agire per la riforma dei presbiteri, del clero, dei benefici e delle cappellanie, e così per essere informati della loro vita, dei costumi e dell’onestà nonché nel modo in cui sono gestiti e curati da loro i servizi ecclesiastici e i benefici”. Avvertendo che in conseguenza avrebbe corretto e sanzionato gli ignoranti e i negligenti, mentre avrebbe elogiato e promosso coloro che avesse trovato adeguati esperti della vita, onesti, diligenti, degni di lode nel Signore.
L’importanza della documentazione presente negli atti delle visite pastorali ha fatto si che la storiografia tout court, non solo quella specificamente dedita alla storia religiosa, ma quella interessata a ricostruire a tutto tondo la storia della società nella complessità dei vari aspetti, da quello economico a quello demografico, dalla produzione culturale a quella artistica, dalla mentalità alle caratteristiche etnologiche, ha potuto registrare la costituzione di veri e propri centri di ricerca specificamente dedicati proprio alla pubblicazione di questa fonte, per tanti aspetti preziosa.
Del percorso compiuto dagli storici e dai ricercatori attenti a questa fonte già nel 1985 facevano un bilancio Umberto Mazzone e Angelo Turchini pubblicando presso il Mulino Le visite pastorali. Analisi di una fonte, cui fece seguito un fondamentale seminario tenutosi a Trento nell’ottobre 1993 Visite pastorali ed elaborazione dei dati. Esperienze e metodi, i cui atti, curati ancora presso la casa editrice il Mulino da Cecilia Nubola e Angelo Turchini, raccoglievano le esperienze realizzate in materia, anche in dialogo con altre esperienze europee, dal Trentino alla Sicilia, dal Piemonte al Veneto.
In particolare, proprio nel Veneto a Vicenza, nel 1975 era stato fondato “l’Istituto per le Ricerche di Storia Sociale e Religiosa” come prosecuzione e sviluppo del “Centro studi per le fonti della storia della Chiesa nel Veneto”, sorto a Padova nel 1966 presso l’Archivio di Stato, con lo scopo di registrare le visite pastorali dei vescovi veneti, le cui edizioni cominciarono ad apparire in apposita collana fondata da Gabriele De Rosa presso le romane Edizioni di Storia e Letteratura. Mi fu dato di recensirne in “Quaderni storici” del 1970 i primi volumi dedicati alla diocesi di Treviso e di avvicinarmi con sempre maggiore attenzione alle sollecitazioni metodologiche provenienti dal fondamentale Vescovi popolo e magia nel Sud, che nel 1971 lo stesso Gabriele Dc Rosa aveva dedicato alla storia sociale e religiosa delle regioni meridionali italaliane, volume nel quale campeggiava il saggio Problemi religiosi della società meridionale nel Settecento attraverso le visite pastorali di Angelo Anzani.
Già dallo stesso anno 1971, giovane docente nell’ateneo salentino, ritenni mio dovere prestare attenzione all’importante fonte assegnando delle tesi di laurea e coltivando il conseguente necessario dialogo con i responsabili degli archivi delle dieci diocesi facenti parte dell’antica Provincia di Terra d’Otranto, dalla cui unanime disponibilità ottenni che venissero pubblicati nel 1984, nel volume collettaneo Terra d’Otranto in età modema. Fonti e ricerche per la storia religiosa e sociale di Terra d’Otranto, gli inventari sommari degli archivi vescovili ed arcivescovili compresi nei confini nelle tre province ecclesiastiche di Otranto, Brindisi e Taranto.
Ne furono autori ecclesiastici e studiosi illustri da Vittorio Boccadamo (Otranto) a Raffaele De Simone (Lecce), da Vittorio Luigi Piccinno (Gallipoli) a Emilio Mazzarella (Nardò), da Salvatore Palese (Ugento) a Rosario Jurlaro (Brindisi), da Luigi Roma (Ostuni) ad Emanuele Tagliente (Taranto), da Luigi Benvenuto (Oria) a Cosimo Damiano Fonseca (Castellaneta), in quell’anno – 1984 – Magnifico Rettore dell’Università della Basilicata. Fa piacere ricordare che a quella divulgazione delle disponibilità archivistiche seguì, nel 1990, il volume di Vittorio Boccadamo, Terra d’Otranto nel Cinquecento. La visita pastorale dell’achidiocesi di Otranto del 1522.
Comparendo nel citato Terra d’Otranto del 1984, tra le fonti diverse, gli elenchi delle visite pastorali presenti nei singoli archivi, nelle pagine dedicate a Gallipoli, curate da don Vittorio Luigi Piccinno, l’elenco veniva inaugurato dalla visita pastorale di Giovanni Montoya de Cardona del 1660.
Nessuna notizia dunque della visita di mons. Cibo, i cui atti vengono qui pubblicati da Elio Pindinelli, che ha il grande merito di non essersi arreso all’iniziale presa d’atto che la visita risultasse dispersa già alla fine degli anni ’50 del ‘900 e di essersi adoperato a localizzare con esperta e intelligente azione investigativa varie trascrizioni fatte dal canonico Vincenzo Liaci con la collaborazione del canonico Sebastiano Verona giungendo, con un’attenta opera critica di collazione dei vari testi, all’edizione della quale qui il lettore può disporre col valore aggiunto della traduzione a fronte, e dell’apparato documentario inedito relativo alla diocesi e al vescovo Cibo trascritto in appendice.
Ad impreziosire l’opera l’indice analitico di tutte le Chiese e cappelle contenute nella visita e l’indice dei nomi, luoghi e toponimi, che è uno strumento utilissimo per chi persegue gli studi storici.
* Professore Emerito di Storia Moderna
Elio Pindinelli, Un genovese a Gallipoli. La visita pastorale di mons. Pelegro Cibo (1564–1567), Società Storica di Terra d’Otranto, Collana “Fonti e Documenti”, pp. 230, in ottavo, con illustraz., stampato da CMYK, Alezio 2023.
S’inizia da lontano: da quegli esseri umani che abitavano la penisola salentina prima dei Messapi. Si arriva ai giorni che attraversiamo; anzi, a quelli che attraverseremo. Perché il Grande Salento di cui parla Lino De Matteis nel suo saggio, è un progetto di crescita, una realtà e una condizione storica e geografica e antropologica che si costituisce e si elabora costantemente in relazione a quelle che sono le connotazioni di civiltà delle sue tre province.
Il Grande Salento è una prospettiva. È un’espressione di sintesi, dice Lino De Matteis, che prendendo atto della storia, la ripropone in chiave moderna, rispettosa delle nuove identità provinciali. È una sintesi che alla sua radice, come motivo e come movente, trova una passione per questa terra, una passione e un amore per questa Terra, dice Adelmo Gaetani in una delle introduzioni che corredano il lavoro.
Per De Matteis l’indagine storica si combina con la dimensione emozionale che il rigore del metodo poi controlla e in qualche caso neutralizza. “Storia del Grande Salento” (Edizioni Grifo), è un libro fatto di stratificazioni. Serve a farci comprendere o a farci ricordare, da dove veniamo e quali strade abbiamo percorso, dice Giacinto Urso. Veniamo da un mondo antico e allora è in quel mondo che ruotava attorno alla Terra d’Otranto che, per Fabio Caffio, De Matteis rintraccia il fattore aggregante.
Il libro ribadisce che il passato del Salento è composito, complesso, connotato da una fisionomia meticcia, da elementi ibridi, da una rete di interferenze, da una stratificazione di incognite e di storie in qualche caso ancora non concluse. Dalle contrade del Salento è passata gente d’ogni razza; ha lasciato tombe, parole, misteri, mestieri, piante, riti, poesia, cattedrali, dolmen, menhir. Come ogni passato non è mai incoerente. Ogni fatto ha le sue cause e ogni causa ha le sue ragioni: comprensibili o incomprensibili. Poi il fatto produce un effetto che può essere accettato o rifiutato, condiviso o contrastato. Ma non è mai incoerente.
In ogni espressione di stagione nuova, nella elaborazione di un nuovo pensiero, nelle mutazioni antropologiche che vive, nelle transizioni delle sue culture, nella progettazione del futuro, il Salento si ritrova a confrontarsi con quello che è stato, con la sua storia e la sua tradizione, con i suoi rituali e la sua letteratura, con la genialità e la depressione, con le accademie di monaci sapientissimi e il morso meschino della tarantola, con l’incantesimo delle chiese bizantine e la fatica che la terra ha preteso ma anche con l’abbandono che poi la stessa terra ha subito. Con tutto. Consapevolmente o inconsapevolmente. Ma con l’esclusione assoluta di qualsiasi indifferenza.
De Matteis sa perfettamente che senza una comprensione del passato, senza un recupero originario, del lievito della civiltà, non ci può essere consapevolezza del presente, non ci può essere costruzione del futuro. Alla storia De Matteis attribuisce una valenza fondamentale; al futuro attribuisce una valenza essenziale. La storia è un patrimonio; il futuro una necessità. In questo tempo forse più che in ogni altro tempo. La complessità della globalizzazione impone sinergie per affrontare le sfide dello sviluppo e della crescita, sostiene Gianfranco Perri.
Il Grande Salento è un’idea sulla quale convergono opinioni diverse, alle volte anche contrastanti, diverse visioni e interpretazioni delle circostanze storiche che hanno determinato l’attuale paesaggio culturale e che delineano un orizzonte di senso. Ma indipendentemente dalla diversa provenienza delle opinioni e anche indipendentemente dalle configurazioni culturali che esse sviluppano, quello che più di ogni altra cosa assume ragione, è il sentimento di appartenenza a questa terra.
Natale, tempo di attesa e di preparazione… attesa per la nascita del Bambin Gesù e preparazione spirituale per la solennità del Natale.
E’ anche tempo di preparazione materiale durante il quale ogni famiglia, ogni comunità si affretta a realizzare addobbi, alberi luminosi, ricette tipiche e, soprattutto, allestire il presepe, simbolo per eccellenza di questa festa religiosa. Nelle nostre comunità, parrocchiali e confraternali, l’organizzazione del presepe rappresenta una sorta di “rituale” aggregativo che, per l’occasione, mette insieme un folto gruppo di persone – tra le più disparate – intente a dar vita alla rappresentazione della Natività, senza alcuna pretesa, consapevoli di tramandare una bella e solida tradizione cristiana. Ed ecco che ci si imbatte in colui che sa modellare la carta roccia, in quello abile a sistemare le lampadine, al falegname, chiamato di proposito ad assemblare tronchi ed assi, all’anziano agricoltore, incaricato di rifornire il presepe dei necessari muschi e licheni per ottenere il più realistico effetto scenico.
La comunità di Casarano non si sottrae da questo clima di trepida preparazione. In tutte le chiese cittadine è allestito un presepe.
Ne prendiamo solo due in esame, quello della Chiesa dell’Annunziata (la Parrocchia Matrice) e quello della chiesa confraternale dell’Immacolata. C’è da premettere che la realizzazione dei presepi nelle chiese casaranesi risale a tempi relativamente recenti, ossia dopo gli anni del Concilio Vaticano II.
In epoca preconciliare era consuetudine esporre solo la statua del Bambinello, poggiandola in una culla, al posto della croce d’altare.
Nella chiesa dell’Annunziata da diversi decenni è attivo un apposito gruppo Presepe, che cura tutti gli aspetti organizzativi e logistici per la realizzazione della Natività. Degne di rilievo sono le statue di Maria, San Giuseppe, dell’Angelo, del bue e dell’asinello, realizzate dal noto cartapestaio leccese Antonio Malecore (1922-2021) nei primi anni ‘80 del secolo scorso.
La statuina in gesso del Bambino Gesù, invece, è piuttosto antica, risalente all’Ottocento. Le statue in cartapesta furono realizzate sotto il parrocato di mons. Decio Merico che ebbe la lungimiranza di dotare la parrocchia di queste pregevoli opere.
La chiesa dell’Immacolata vanta una più solida tradizione nell’allestimento del presepe. Fu il compianto don Aldo Stefàno, (1967 – 1972), rettore della chiesa e padre spirituale della confraternita, ad introdurre l’usanza di mettere in scena la Natività. Nei primi anni Settanta, le realizzazioni erano estrose, quasi anticonformiste, di chiaro stampo moderno. E’ ancora vivo nella memoria dei confratelli più anziani, il globo terracqueo rotante sul quale sovrastava il Bambinello con le braccia stese mentre dai piedi sgorgava uno zampillo d’acqua che inondava il pianeta, chiara simbologia di purificazione dell’Umanità scaturita dalla Nascita di Gesù.
Tali rappresentazioni attirarono l’attenzione dell’ENAIP di Lecce che in quei tempi organizzava annualmente un concorso provinciale per presepi artigianali. Per ben due volte il presepe dell’Immacolata ottenne il primo premio con assegnazione di una medaglia d’oro. La prematura scomparsa del sacerdote, fortunatamente, non arrestò questa tradizione e si continuò ad approntare il presepe riportandolo nell’alveo di un allestimento più classico e usuale, in cui l’elemento principale era la grotta con la Natività.
Ancor oggi, alcuni membri della confraternita e del coro liturgico della chiesa si organizzano per predisporre il classico presepe. L’unico manufatto degno di nota è il Gesù Bambino, simile a quello dell’Annunziata, del sec. XIX. Le altre statue sono piuttosto recenti. Ma ciò non toglie la sacralità della rappresentazione che, ogni anno, tocca il cuore, facendo rivivere in piccoli e grandi, il momento della nascita del Signore.
L’artistico Presepio in cartapesta nella chiesa del Sacro Cuore di Gesù in Nardò è stato progressivamente realizzato in un ventennio (1978-1998) dal maestro Antonio Malecore (1922-2021), l’ultimo esponente della celebre bottega artigiana ancora attiva sino a qualche decennio fa nel cuore della Lecce antica.
La qualità di alto profilo delle undici statue che lo formano, mediamente alte più di un metro, fa ritenere il gruppo tra le opere più importanti di Malecore, che per ognuna di esse ha conservato il rigore compositivo e la coerenza stilistica ereditati dai suoi maestri e dallo zio Giuseppe Malecore.
Il merito per il bel Presepio di Nardò, vanto della comunità parrocchiale e della confraternita che ogni anno cura differenti scenografie, spetta a don Salvatore Leonardo (1939-1997), parroco di questa comunità, che aveva notato e apprezzato la particolare qualità esecutiva di Malecore, straordinario nell’infondere tratti di umanizzazione e realismo alle figure presepiali.
La pubblicazione, con l’introduzione di Stefania Colafranceschi dal titolo Il Presepio, universo simbolico nei linguaggi della tradizione, è corredata dalle belle illustrazioni di Lino Rosponi.
E’ un doveroso omaggio di Marcello Gaballo a Malecore e al parroco, per ricordarli e per generare conoscenza e interesse verso questo originale e prezioso manufatto artistico, utile alla narrazione del territorio e soprattutto per rievocare al meglio la lieta Novella, in coincidenza con la commemorazione degli 800 anni del Natale di Greccio (1223-2023), dove San Francesco volle far rivivere agli astanti la Nascita del Dio incarnato.
Il libro è inserito nella Collana Artefatti di Puglia, dedicata dall’editore all’artiginato artistico regionale e destinata al grande pubblico. Dalla maiolica ai fischietti, dalle oreficerie del Gargano ai carri allegorici, passando per strumenti musicali, luminarie, tele, merletti, ricami e intrecci, ed ora per la cartapesta leccese di Malecore.
In linea con i precedenti titoli, sono pagine da leggere e da sfogliare che diventano repertorio storico ed iconografico della cultura artigianale e delle arti applicate di Puglia, dal periodo arcaico fino all’età moderna e contemporanea.
Marcello Gaballo, Opere in cartapesta di Antonio Malecore a Nardò. L’artistico Presepio nella parrocchia del Sacro Cuore, Claudio Grenzi Editore, colore, Foggia 2023.
Caterina Ragusa, a tre decenni dalla pubblicazione della sua ricerca pionieristica sui maestri della cartapesta leccese, ha accettato l’invito dell’editore Claudio Grenzi di ampliare e rivedere il suo lavoro originale.
Questo nuovo volume della collana ‘Artefatti di Puglia’, rappresenta una nuova fase della ricerca, integrata con ulteriori scoperte e una vasta rassegna di opere in cartapesta leccese, molte delle quali mai pubblicate.
Nel contesto della storia millenaria di Lecce, la cartapesta ha svolto un ruolo significativo come forma artistica e artigianale.
Originariamente sviluppata come tecnica decorativa nel XVII secolo, la cartapesta ha trovato terreno fertile nella città grazie alla presenza di maestri artigiani abili e ad una fervente attività artistica. Le opere in cartapesta, spesso utilizzate per decorare chiese, palazzi e ambienti sacri, divennero simbolo della raffinatezza artistica e della maestria artigianale della città del Barocco.
Il confronto tra l’autrice e l’editore, in questo volume, permette di esplorare e apprezzare la cartapesta leccese in una prospettiva contemporanea, offrendo un’ampia panoramica delle opere più significative.
Il testo, ora alleggerito dalla bibliografia ormai consolidata, dialoga con un ricco apparato iconografico che consente alle immagini di coinvolgere il lettore.
Oltre a promuovere la conoscenza delle tradizioni artigianali presso un vasto pubblico, questo libro si pone come una risorsa fondamentale per giovani artigiani e designer rendendo disponibili informazioni e materiali essenziali per sviluppare nuovi progetti, mantenendo viva l’eredità delle antiche tecniche artigianali della cartapesta leccese.
Nell’appendice, inoltre, viene presentata una panoramica sintetica dei più noti maestri cartapestai ancora operanti a Lecce, veri custodi di un patrimonio storico e artistico. Oltre a rappresentare la maestria artigianale, essi incarnano la continuità di un sapere antico che continua a ispirare nuove strade per la promozione del territorio e delle sue tradizioni.
Del tema mi ero già occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/15/quella-bizzarra-terracotta-dal-collo-stretto/, ma a distanza di più di dieci anni lo riprendo, per una più precisa e completa documentazione delle fonti. Non è necessario a chi ha interesse a leggermi sfruttare il link appena segnalato, anche perché le osservazioni più salienti di allora risultano qui imglobate.
Secondo il Rohlfs (e questo non l’avevo riportato) ‘mbile deriva dal greco βομβύλιον (leggi bombiùlion), di genere neutro, con lo stesso significato; risulta attestato, però, solo quello che sembra il suo maschile, cioè βομβύλιος (leggi bombiùlios), che significa calabrone. A parte l’iniziale difficoltà di carattere semantico superabile se si pensa non tanto all’analogia di forma tra il recipiente e l’insetto, ma al rumore che fa il liquido contenuto al momento della sua fuoriuscita [(βομβύλιος è chiaramente da βὸμβος (leggi bombos), voce onomatopeica che indica un rumore sordo, da cui l’italiano bomba e suoi derivati)], sul piano fonetico risulta complicato disegnare la trafila che dal presunto βομβύλιον e dall’attestato βομβύλιος avrebbe portato a ‘mbile. L’una e l’altra difficoltà appaiono inequivocabilmente e definitivamente superate mettendo in campo la variante βομβύλη (leggi bombiùle) attestata dai glossari.
Ecco come la voce è trattata in H. Stefano, Thesaurus Graecae linguae, Londra, Valpiani, 1821-1822, v. III, colonna 2273: βομβύλη, ή. Apis qoddam genus magis obstreperae, quam sint ceterae, ut quidam tradunt. Item poculum quoddam angusti oris (Una specie di ape più rumorosa di quanto siano le altre, come alcuni affermano. Parimenti un bicchiere di bocca stretta).
Ulteriore contributo è dato da un altro glossario (Περὶ τὸ ἰδιωτικοῦβίουτῶνἀρχαίωνἘλλήνων, N. Filadelfo, Atene, 1873, pp. 18-19: Ὁβομβύλιος ή βομβύλη ᾗν δὲ τοῦτο ποτήριον λίαν στενόστομον. Δι’αὐτοῦ τὸ ὕδωρ κατὰ μικρὸν ἐξερχόμενον ἐποίει βόμβον, ἐξ οὗ καὶ βομβύλη τὸ ἀγγεῖον ὠνομάσθην. Ὠμοίαζε δὲ ή βομβύλη πρὸς τὴν νῦνἐν χρήσει παρ’ἅπασι βοτὑλιαν, ἧς τινος τὸ ὄνομα πιθανῶς ἐγένετο ἐκ τ ῆς βομβύλης κατὰ μετάπτωσιν τῶν γραμάτων. (Il βομβύλιος o la βομβύλη: era questo un bicchiere dalla bocca molto stretta. Con questo l’acqua passando poca per volta produceva un runore sordo, dal quale pure βομβύλη fu chiamato un vaso. La βομβύλη infatti somigliava alla βοτὑλια ora in uso, il cui nome venne verosimilmente da βομβύλη attraverso una deformazione delle lettere).
Ecco, dunque, la trafila: βομβύλη>*bombile>*>‘mbile (aferesi; nel Tarantino è in uso la variante, con assimilazione mb->mm-, ‘mmile e il alcune zone del Leccese e del Brindisino vummile, con il normalissimo passaggio b->v– e la già ricordata assimilazione). Per completezza, infine va detto che l’italiano bòmbola non deriva direttamente dalla voce greca (attraverso un ipotetico intermediario latino *bòmbula) ma è un diminutivo, per dir così, autoctono di bomba.
Di Nicola Cacudi mi sono già occupato su questo blog (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/29/nicola-e-maria-cacudi-ovvero-una-memoria-sonora-salentina-di-100-anni-fa-fissata-e-custodita-in-francia/) quasi dieci anni fa e, a distanza di tanto tempo, il caso, come già allora, mi ha offerto il destro per un’integrazione di quel lavoro tutto incentrato su una testimonianza sonora. Non sarebbe successo se non mi fossi imbattuto, oziando sul web, in un’affermazione pomposa, come sa esserlo la pubblicità, che mi è apparsa lesiva della verità, anche storic ed ho sentito perciò il bisogno di applicare il principio dell’unicuique suum o del dare, in questo caso restituire, a Cesare, anzi a Nicola, quel che è, forse, di Nicola. In https://journals.openedition.org/studifrancesi/ si legge: “Studi francesi”fondata da Franco Simone nel 1957, è la più antica e prestigiosa rivista italiana di studi sulla letteratura francese. Pubblica studi storici e critici, testi e documenti inediti finalizzati a una conoscenza sempre più approfondita della civiltà letteraria francese e al rinnovamento delle prospettive critiche.
Non giungo ad affermare che la Rassegna di studi francesi, fondata e diretta da Nicola dal 1923 al 1940, trimestrale il primo anno, bimestrale nei successivi, organo della sezione pugliese dell’Union intellectuelle franco-italienne di Parigi, che si avvalse della collaborazione di illustri letterati, filologi e critici italiani e stranieri, abbia tout court il diritto di vedersi rivendicare, da me poi …, un prestigio, se non maggiore, almeno pari e non affermo nemmeno che essa è la più antica, ma è incontrovertibile che è più antica di Studi francesi.
Archiviato questo dettaglio non indotto, come ben sa chi mi conosce, da risentimenti di natura campanilistica in senso estensivo, continuo con altre testimonianze ed immagini, quasi un quaderno di appunti utili, credo, per chi vorrà cimentarsi in un lavoro ben più colplesso, qual è quello evocato dall’ultima parola del titolo.
Per una ricostruzione della sua carriera:
Bollettino periodico settimanale del Ministero dell’educazione nazionale, anno XV, n. 10, 11 marzo 1937, p. 603 (Dall’Elenco dei professori idonei all’ufficio di preside dei Regi Istituti di istruzione media classica, scientifica e magistrale dal 16 settembre 1936 al 15 settembre 1937 … Idonei all’ufficio di preside nei regi ginnasi.
Nel n. 20 del 20 maggio 1937 dello stesso bollettino a p. 1333 (Dalla Relazioine della commissione giudicatrice del concorso a professore straordinario alla cattedra di lingua e letteratura francese del Regio Istituto superiore di scienze economiche e commerciali di Venezia (sezione filologica):
Mi lascia perplesso in questo giudizio, che sostanzialmente è una stroncatura, quel possesso pratico della lingua (avrà saputo usare merde! al momento opportuno?) e ancor più quel difetto di spirito critico sia gli smilzi saggi con quel che segue, quasi a confermare il triste nemo propheta in patria, vista la considerazione di cui Nicola godeva proprio nella patria degli autori che, secondo il parere della commissione, aveva trattato smilzamente.1 Come dire, ribaltando la trita locuzione di cui sono intrisi i muri di tutte le aule scolastiche il ragazzo s’impegna ma non è intelligente …
Tornando cronologicamente indietro, ecco il primo contatto di Nicola con Parigi (diploma di studi universitari rilasciato dalla Sorbona). Nell’elenco gli unici cognomi italiani sembrano essere il suo e quello di M. Ungarelli. Da Le matin del 4/6/1914:
La tappa successiva, dieci anni dopo, da Le Petit Comtois del 18 giugno 1924
(COMUNICATI DIVERSI Facoltà di Lettere- Discussione di tesi. Il signor Cacudi, direttore degli studi francesi a Bari (Italia), discuterà, lunedì 23 giugno 1924, alle ore 11, 30, una tesi in vista del dottorato dell’Università di Besançon. La tesi ha per titolo: “La Fontaine imitateur de B occace”. Questa discussione avrà luogo nell’aula magna della facoltà di Lettere, in via Mégrevand)
E, dopo quasi vent’anni dai primi passi registrati nell’articolo del 1914, a ruoli questa volta invertiti, da Lèclair Comtois del 5/8/1932
(RICEVIMENTO DEGLI ALUNNI STRANIERI DAGLI ALUNNI DI BESANÇON
Giovedì pomeriggio, alle ore 16, nei pressi della sede dei nostri alunni in via Laconée, presentavano una vivace e gioiosa animazione gli alunni di Besançon, con la loro cortesia e la loro amabilità consueta, ricevendo degli alunni stranieri venuti per seguire i corsi estivi delle nostre facoltà. Numerose personalità erano presenti a questa manifestazione che fu tanto affascinante quanto cordiale. Si distinguevano in particolare i Signori: Van Daèle, decano di Lettere, vicepresidente dell’Istituto di Lingua e Civiltà francesi; Maugras, direttore dei corsi; Seignier, segretario delle facoltà; Fournaud, presidente dell’assemblea; Vercier, tesoriere; Piquet, Gallot, Dupré, Cacudi, Beckér, Nicolas, professori …)
Per l’anno successivo, , da Dépêche républicaine del 28/7/1933
(Besançon. Il signor Cacudi, anche nostro ex allievo, dottore della nostra Università, fondatore e direttore della rivista franco-italiana “Rassegna di studi francesi”, che è al suo decimo anno di vita prospera e conta numerosi lettori in tutti i paesi, il signor Cacudi terrà anche in agosto , come gli anni precedenti, lezioni sempre godibilissime sulla letteratura francese).
Seguono ora le immagini relative alle pubblicazioni, a cominciare da l n. 1 dell’anno XV (1936) della rivista da lui fondata e diretta (come si legge nel sommario, alle pp. 30-46 uno dei suoi abituali contributi).
Tra le sue pubblicazioni alle quali la commissione giudicatrice di cui sopra applicò, non senza ombra di supponente disprezzo, l’etichetta di scolastiche (come se un testo destinato ai giovani fosse a priri meno pregevole di un saggio destinato, forse, ad essere letto solo dai non più giovani), spicca quel corso di francese, precoce applicazione del metodo globale (soppiantato solo decenni dopo da quello fonetico), tutt’altro che spregevole, come inequivocabilmente dimostra l’elevatissimo numero di edizioni2; di seguito quella del 1957 con dedica alla moglie Maria (A Te, Maria, che il mio insonne lavoro sorreggesti sempre col Tuo sereno profondo amore ed oggi conforti e illumini con la luce del Tuo Spirito eletto).
Delle altre innumerevoli pubblicazioni3 riproduco per brevità solo due frontespizi:
Dieci anni fa, col post all’inizio segnalato, ho potuto ascoltare e far ascoltare la voce di Nicola Cacudi e di sua moglie Maria nella registrazione datata 17/3/1914 (25 anni Maria, 31 Nicola), oggi di Nicola sappiamo qualcosa in più sulla sua carriera, sull’impegno culturale e sulla produzione letteraria, ma non abbiamo nulla che ci restituisca il suo aspetto fisico, anche se per gli uomini di un certo livello (tra gli andati e tra chi, almeno per ora, resta …) questo conta poco. Non so se avrò il tempo di colmare questa lacuna, ma lascio, comunque, una traccia.
Dalla Gazzetta ufficiale della repubblica italiana, a. 107° n. 22 del 7/9/1966:
Non sarebbe bello se da Bari, che a Nicola ha intitolato una via,qualche volenteroso desse notizia, dopo averla acquisita sul campo, e dei 1502 volumi e del ritratto ad olio?
_________________
1 La commissione era composta da Giulio Bertoni (vedi i8l penultimo dato della nota successiva) della R. Università di Roma (Presidente), Luigi Sorrento dell’Università cattolica<di Milano, Alfredo Schiaffini della R. Università di Genova, Carlo Pellegrini della R. Università di Firenze e Francesco Picco della R. Università di Genova. Il concorso fu vinto da Italo Siciliano, mentre Nicola Cacudi si piazzò al sesto posto su nove concorrenti.
2 Oltre ai saggi nella Rassegna:
Nuovo metodo di lingua francese : testo unico per le scuole medie. Società Editrice Tipografica, Bari, 1931
Nuovo metodo di lingua francese : testo unico per le scuole medie, Società Editrice Tipografica, Bari, 1932
Nuovo metodo di lingua francese : testo unico per le scuole medie, Società Editrice Tipografica, Bari, 1938
Nuovo metodo di lingua francese : fonetica, letture, morfologia, sintassi, lingua : volume unico per l’intero corso di studio, Società Editrice Tipografica, Bari, 1946
Nuovo metodo di lingua francese : volume unico completo per l’intero corso di studio, Società Editrice Tipografica, Bari, 1955
Nuovo metodo di lingua francese : volume unico per l’intero corso di studio, Società Editrice Tipografica, Bari, 1957
Nuovo metodo di lingua francese : volume unico per le scuole di ogni ordin e grado, Tipografia Resta, Bari, 1960
Nuovo metodo di lingua francese : volume unico per le scuole di ogni ordine e grado, Resta, Bari, 1964
3 Alfred De Musset e I suoi canti di dolore, Tipografia A. Trani, 1905
La quistione del metodo nell’insegnamento delle lingue moderne, Paravia & c., Torino, 1906
La révolution au pensionnat: pièce en un acte pour les enfants, Paravia & c., Torino, 1906
La coniugazione dei verbi francesi. Studio analitico per le scuole medie, con l’aggiunta di un dizionarietto dei verbi irregolari, Paravia, Torino, 1907
Le verbe francais dans la proposition et la periode, a l’usage Des ecoles superieures d’Italie, E. Pantaleo & C., Torre del Greco, 1910
Psychologie de deux ames [W. Goethe et H. Foscolo], E. Pantaleo & C., Torre del Greco 1910
Impressions de lecture, Tipografia E. Capelli, Rimini, 1913
La Fontaine imitateur de Boccace, Accolti, Bari, 1924
Alphonse de Lamartine Graziella, Le Monnier, Firenze, 1924, 1931, 1938 e 1964
Molière, L’avaro, Le Monnier, Firenze, 1926 e 1927
Spunti letterari, Società Editrice Tipografica, Bari, 1931
Gabriel Faure, Società Editrice Tipografica, Bari, 1933
Gabriel Faure, Autunno, Società Editrice Tipografica, Bari, 1933
Il nuovo progetto italo-francese di Codice delle obbligazioni e dei contratti : testo definitivo approvato a Parigi nell’ottobre 1927, anno VI, Società Editrice Tipografica, Bari, 1936
Alexandre Dumas fils. Les idées de madame Aubray, comédie en quatre actes, en prose, Adriatica Editrice, Bari, 1949
Un innamorato dell’Italia: Gabriel Faure, Alfredo Cressa, Bari, 1952
La Biblioteca Estense Universitaria di Modena custodisce (Carerteggio Bertoni, fascicolo Nicola Cacudi) una lettera inviata Il 2/12/1934 da Nicola Cacudi a Giulio Bertoni.
La Biblioteca Nazionale Sagarriga Visconti Volpi di Bari custodisce (Epistolario Fiore, lettera n. 082) inviata a Nicola Cacudi il 20/6/1950
È scontato il fatto che in una mappa l’abbondanza, la dimensione e la leggibilità dei dettagli sono legati alla seconda cifra del rapporto scalare: quanto più esso è alto, tanto meno la mappa risulta dettagliata. Quelle prese in considerazione solo in una scala che rende impossibile qui una loro riproduzione che sia leggibile, per cui per ognuna di loro all’immagine ridotta seguirà un primo dettaglio relativo alle tre provincie di Terra d’Otranto ed un secondo riguardante il circondario di Nardò.
La prima, dal titolo Atlante del Regno di Napoli ridotto in 6 fogli per ordine di Sua Maestà Giuseppe Napoleone re di Napoli e Sicilia. L’opera, di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni (disgno di Alessandro d’Anna), risalente a data probabilmente non successiva al 1807, anticipa quella più nota, dello stesso autore, in 31 fogli e con lo stesso dedicatario, la cui pubblicazione iniziò, sempre a Napoli, nel 1808 e terminò nel 1812.
La seconda, pubblicata da Basset a Parigi nel 1822, è di Pierre Lapie.
La terza mappa è, addirittura, in scala 1: 563.000 e questo dato tradisce la sua origine militare. Essa, infatti, è uno dei 21 fogli (disposti 3 in latitudine e sette in longitudine) disegnati e pubblicati nel 1829 a Vienna dal colonnello austriaco Franz von Weiss (1791-1858).
L’insieme dei fogli occupa una superficie di circa sei m2 e questo fa intuire che anche il foglio che ci riguarda ha dimensioni notevoli, tanto che la sua immagine digitale è un file di oltre 54 MB!. Per questa sua caratteristica sono stato costretto qui a riprodurre il foglio in dimensione ridotta compatibile con quella supportata dal blog, ma ho aggiunto, leggibile, il dettaglio relativo a Nardò ed al suo circondario.
Non avrei avuto nessun motivo per porre il dilemma se fossi stato disponibile ad accettare come corretta pignatta, a quanto registrano tutti i dizionari. Unica eccezione il GDLI (Grande dizionario della lingua italiana), che al lemma pignata e derivati rinvia a pignatta e derivati, dove all’inizio pignata è riportato tra le forme antiche insieme con pegnata, pegnatta, pigniacta, pigniata e pigniatta). Al di là delle altre considerazioni che via via farò, ricordo che in campo linguistico, volenti o nolenti (e io mi pongo tra questi ultimi), è l’uso che decide la sopravvivenza di un forma su un’altre e in non pochi casi è quella pIù corretta a lasciarci le penne. Ad ogni buon conto, pur rispettando l’autorevolezza di chi senza dubbio ne sa più di me, non ho mai confidato nell’ipse dixit, locuzione che nel nostro caso, vista l’unanimità di opinioni, sarebbe opportuno cambiarla in ipsi dixerunt. Tuttavia, anche un povero e sconosciuto ille come me ha il diritto di fare le sue osservazioni; e non è detto che alla fine si levino tanti illi a sostegno del primo ille che osò lanciare la sfida.
Ma procediamo con ordine, cercando di individuare, pur con tutte le riserve del caso, la data di nascita delle due voci, non senza aver detto che nel Dizionario De Mauro per pignatta (pignata, come prima detto non è registrato) si legge av. 1342, il che dovrebbe stare a significare che era quella la data più antica conosciuta al momento della pubblicazione (2000) o, per essere generosi, fino a qualche anno prima. Sorprende, però, che un testo lanciato come Il dizionario della lingua italiana per il terzo millennio e compilato in tempi in cui già la ricerca testuale poteva fruire dell’aiuto fondamentale dell’informatica, mostri di ignorare l’esistenza di attestazioni più antiche, molto più antiche e, aggiungo, pubblicate, cioè non ancora disperse in carte antiche e destinate a restare sconosciute per chissà quanto tempo.
Come si sa, l’italiano che oggi parliamo è, in fondo, frutto della lenta evoluzione del latino, arricchita nel tempo da molteplici entrate da altri ambiti culturali. Tuttavia, almeno fino ad oggi, la maggior parte del nostro lessico mostra origini latine e a questo non si sottraggono pignata/pignatta né deve suscitare meraviglia o essere considerato come una riduzione dell’attendibilità delle conclusioni alle quali perverrò, il fatto che i primi documenti, dei quali riporterò solo i dettagli che ci interessano, sono in latino.
Il primo1 è custodito nell’Archivio pubblico di Bologna (Reg. Gross. v. I, p. 94) ed è un atto del 14 maggio 1200. Nel lungo elenco di oggetti risulta anche pignatam de cupro plenam de ferro extimatam cum ferro … (pignata di rame piena di ferro stimata col ferro ).
Il secondo riguarda un episodio riportato da Fra Salimbene Adami (1221-1288) nella sua Cronica, episodio tanto simpatico che mi piace riportarlo tutto, citandolo dall’edizione che ancora oggi è il testo di riferimento.2
Item tempore illo, procurante ministro, Rex Hungariae misit Assisium magnam cuppam auream, in qua caput beati Francisci honorabiliter servaretur. Cum autem portabatur, et in conventu senesi quodam sero in sacristia ad custodiendum ponetur, quidam fratres, curiositate et levitate ducti, optimum vinum biberunt cum ea, volentes in posterum gloriari quod cum cuppa Regis Hungariae ipsi bibissent. Sed guardianus conventus senensis, qui magnus zelator erat justitiae et honestatis amator, nomine Johannettus, qui etiam de Assisio fuerat oriundus, cum cognovisset haec omnia, praecepit refectorario, qui similiter Johannettus de Belfort dicebatur, ut in sequenti prandio poneret coram quolibet illorum, qui cum cuppa biberat, unam ollam parvulam, nigram et tinctam, quam pignattam dicunt, in quibus oportuit eos bibere, vellent nollent, quatinus si vellent in posterum gloriari quod cum cuppa regis Hungariae quinque jam biberant, possent similiter recordari quod propter illam culpam cum olla tincta bibissent.
(Parimenti in quel tempo, per interessamento del ministro il re d’Ungheria mandò ad Assisi una grande coppa di oro perché vi fosse conservata con tutti gli onori la testa del beato Francesco. Però, mentre la si trasportava e per un certo ritardo la si poneva, perché fosse custodita, nel convento di Siena in sagrestia, certi frati, spinti dalla curiosità e dalla leggerezza, bevvero con quella dell’ottimo vino, volendo in seguito vantarsi di aver bevuto proprio loro con la coppa del re d’Ungheria. Ma il guardiano del convento di Siena, che era gran assertore della giustizia ed amante della correttezza, di nome Giovannetto, che era anche oriundo di Assisi, essendo venuto a conoscenza di tutto questo, ordinò all’addetto alla refezione, che similmente era chiamato Giovannetto Belfort, che nel pranzo successivo mettesse davanti a ciascuno di quelli che avevano bevuto con la coppa una piccola pentola1, nera e sporca, che chiamano pignatta, in cui dovevano bere, volenti o nolenti, perché se in futuro avessero voluto vantarsi del fatto che cinque avevano già bevuto con la coppa, del re d’Ungheria, potessero allo stesso modo ricordare che per quella colpa avevano bevuto con una pentola sporca)
Per il momento, dunque, in anzianità, per quanto riguarda le forme latine, pignata (nominativo del pignatam del documento datato 1200) batte largamente pignatta (nominativo del pignattam della Cronica del Salimbene).
E per il volgare, le cose come stanno? Direi allo stesso modo, visto che per pignata la più antica attestazione è in una ricevuta di pagamento di affitto dell’anno 1315.3 e per pignatta nella novella IV de IITrecentonovelle di Franco Sacchetti (1332-1499), che era nato in Croazia ma che visse prevalentemente a Firenze: Son io così dappoco, ch’io non vaglia più d’una pignatta? Ho volutamente precisato l’ambito culturale del Sacchetti, il toscano, come faccio ora per quello del documento del 1200 (l’emiliano) e per quello del 1315, il veneto, mentre un caso a sé stante, di problematica classificazione mi sembra quello del Salimbene, che era nato sì a Parma, ma che si mosse in Emilia, in Toscana, oltre che in Francia.
Quanto fin qui riportato m’indurrebbe a supporre che pignatta sia la correzione toscana del veneto pignata, forma che, però, risulta presente nei testi a stampa di ogni argomento (letterario, religioso, scientifico) a partire dal XVI secolo. La cronologia escluderebbe la possibilità che la voce sia entrata con lo spagnolo piñata, che al pari della voce salentina, ma con reciproca autonomia, sembra confermare l’ipotesi di chi propone come etimo il latino medioevale pineata(m)=simile a pigna4, con esito –nea– largamente collaudato nel nostro dialetto (p. e.: staminea>stamegna).
Questo sarebbe sufficiente, forse, per chi si occupa della compilazione dei vocabolari, quanto meno di registrare pignata, anche se con il marchio, ancora quasi infamante, direi forma di razzismo linguistico, di voce regionale, per non dire, poi, di voce meridionale. Non ho nulla contro Dante & C., però continuare a manifestare ossequio al fiorentino e tollerare, se non favorire, la proliferazione infestante dell’inglese anche quando non c’è nessun motivo per farlo, mi sembra contraddittorio, per non dire stupido. A tal proposito sfido chiunque si occupi, spero seriamente, di queste cose a citarmi un solo testo di culinaria, ripeto, uno solo, in cui compaia pignatta e non, come puntualmente ho rilevato, pignata.
E la voce evoca o, almeno spero che ancora lo faccia, ambienti, colori, profumi sapori e perfino saperi della nostra terra, in cui la pignata è ancora insostituibile per cuocere, come natura e saggezza antica hanno consigliato da millenni, i legumi, la carne di cavallo e il polpo, tutti, appunto, a pignatu.
Non deve sorprendere in pignatu il cambio di genere, perché pignato è attestato oltre che in altri autori meno famosi, nel Candelaio di Giordano Bruno, che uscì nel 1582. Bisogna, però, rivendicare al salentino una maggiore creatività per via del diminutivo pignatieḍḍu, che in triplice esemplare celebra il suo trionfo nello stemma parlante della famiglia Pignatelli, con il massimo della coerenza in Iacopo (1625-1698), nato a Grottaglie …
Il “Grande Salento” è la proiezione moderna dell’antica Terra d’Otranto, una sintesi lessicale, il cui significato ha solo una valenza geografica, di contenitore delle tre province di Brindisi, Lecce e Taranto, senza alcuna pretesa egemonica, separatista o istitutiva di nuove strutture sovraordinate alle attuali Istituzioni. Eppure si registra una diffusa resistenza anche solo a pronunciare il suo nome, si ha timore a nominarlo, come se questa espressione evocasse chissà quale apocalittica modifica dello status quo, quale piano recondito per sconvolgere gli assetti istituzionali esistenti, quale strategia segreta per sottomettere un capoluogo provinciale a un altro. Riluttanza e ritrosia ingiustificate perché alimentate da errati luoghi comuni e pregiudizi, che impediscono di comprendere il significato vero e profondo di questo toponimo, che, semplicemente, fotografa, riconosce e rispetta la situazione territoriale e amministrativa data, senza volerla cambiare. Un’ingiusta distorsione concettuale e culturale che reclama una piena riabilitazione del significato dell’espressione “Grande Salento”, della sua dignità e del suo genuino spirito unitario.
Ripercorrendo le circostanze storiche della nascita del nome “Grande Salento” e dei contenuti che, sin dall’inizio, gli sono stati attribuiti ed espressi poi costantemente, si comprende che il significato che più lo connota e caratterizza si ritrova nel suo “spirito confederativo”, nel moto unitario, cioè, che, negli ultimi decenni, ha spinto e stimolato le tre province a cercare intese di partenariato e alleanze per il bene e lo sviluppo comune. L’elemento dell’associazionismo confederativo rappresenta, anche, la chiave di volta del passaggio dalle radici della storica Terra d’Otranto al futuro del Grande Salento: se, infatti, l’antica Terra d’Otranto è innegabilmente il collante storico e identitario di questo territorio, lo spirito confederativo del Grande Salento supera la sua natura egemonica, che storicamente ha visto, via via, un centro urbano predominare sugli altri, per lasciare spazio ad accordi, orizzontali e paritari, tra le Istituzioni delle tre province salentine.
Dopo millenni di unità storico-geografica, la penisola salentina è stata divisa dal fascismo, all’inizio del secolo scorso, con la creazione delle province di Brindisi, Lecce e Taranto. Questa tripartizione del territorio ha dato luogo a campanilismi e localismi, che, inevitabilmente, nel tempo, hanno radicato un naturale sentimento di appartenenza di brindisini, leccesi e tarantini alle loro realtà provinciali. Se l’attaccamento alla propria provincia ha portato, talvolta, a esasperare la competitività, se non addirittura a un’ostilità preconcetta verso le realtà vicine, la suddivisione della penisola, tuttavia, non è riuscita a cancellare quel sentimento unitario dei suoi abitanti, sopravvissuto alle vicissitudini della storia e costantemente presente in varie iniziative: dal tentativo di istituire una “Regione Salentina”, all’Assemblea costituente, fino ai numerosi accordi sottoscritti, nell’ultimo quarto di secolo, tra le principali Istituzioni locali. Un sentimento che non scaturisce, solo, dall’appartenenza alle comuni radici storiche ma, anche, dalla consapevolezza di dover affrontare insieme le sfide della modernità e della crescita. La “città polivalente ionico-salentina”, come è stata definita, rappresenta, infatti, la dimensione territoriale ottimale per costruire un sistema di “reti urbane intelligenti”, in grado di competere con le Città metropolitane e ridare al Salento quel ruolo centrale che ha avuto, in passato, nella geopolitica del Mediterraneo.
Dalla tripartizione fascista del territorio a oggi, si sono manifestate e, talvolta, contrapposte nel Salento due tendenze: da una parte, un provincialismo spinto, che ha frenato e impedito la costruzione di una nuova entità istituzionale unitaria; dall’altra, la continua manifestazione della volontà di ritrovare insieme la comune identità delle origini. Due binari che non necessariamente sono destinati a restare paralleli o divergenti, ma che, negli ultimi decenni, sembrano aver trovato una convergenza nelle politiche di partenariato e nell’associazionismo confederativo tra gli enti locali. Vanno in questa direzione, infatti, i diversi protocolli d’intesa sottoscritti, negli ultimi 25 anni, dalle principali Istituzioni delle tre province salentine: quello del 1999, che sancisce ufficialmente la volontà degli enti locali di «rivendicare spazi di federalismo»; quello del 2007, che delinea esplicitamente, per la prima volta, l’idea del “Grande Salento” come «progetto di sviluppo integrato dell’intera area jonico-salentina»; e quello, più recente, del 2020, significativamente denominato “Terra d’Otranto: dalle radici il futuro”, che sottolinea la continuità con lo spirito unitario di quell’esperienza storica.
Le distorsioni e i pregiudizi sul “Grande Salento” hanno frenato la prospettiva unitaria, determinando un ostacolo politico e culturale al raggiungimento di intese o alla realizzazione degli accordi già stipulati. La più strampalata e anacronistica motivazione, per esempio, che si sente, ancora oggi, per giustificare la difficoltà di brindisini, leccesi e tarantini di fare squadra comune è la rivalità tra spartani e messapi. Una giustificazione evidentemente pretestuosa, che, nelle pagine seguenti, si prova a dissipare, rileggendo organicamente gli eventi storici che hanno caratterizzato il territorio della penisola salentina, dalla preistoria ai giorni nostri: dai nativi salentini alla Messapia, dalla “Calabria” romana alla Longobardia bizantina, dal Giustizierato normanno di Terra d’Otranto al Principato di Taranto, dalla Provincia di Terra d’Otranto alla Provincia di Lecce e, poi, alle Province di Brindisi, Lecce e Taranto, sino alla frattura socio-economica tra la Taranto dell’Ilva e il “Salento d’amare” e ai più recenti protocolli d’intesa tra le Istituzioni salentine.
Al di là delle legittime opinioni di ciascuno sul passato e sul futuro di questo territorio, c’è un dato di fatto da cui non si può prescindere e che non può essere eluso da alcuno: la penisola salentina, proprio in quanto tale, rappresenta un territorio geograficamente compatto e omogeneo. In passato, già al tempo dell’Impero romano e, ancor più, nel Medioevo, la sua dimensione e conformazione fisica erano considerate ideali per delimitare un’unica area amministrativa, basandosi sul criterio che ci si potesse spostare a cavallo, in giornata, da una parte all’altra del suo territorio. Un criterio che, oggi, fa sorridere, se lo si rapporta ai moderni mezzi di locomozione, che rendono ancora più minuscolo questo fazzoletto di terra, e fanno apparire ancora più incomprensibili le sue divisioni socio-culturali, politiche ed economiche. La geografia fisica di un territorio, quando è così fortemente caratterizzata come la penisola salentina, condiziona e tende a rendere omogenei anche gli aspetti antropici, culturali ed economici: i suoi abitanti, che risiedano sullo Ionio o sull’Adriatico, sono tutti cittadini salentini e la sua storia, per quanto controversa e conflittuale, è tutta Storia del Salento.
Questi appunti non hanno la pretesa di delineare una ricostruzione esaustiva e scientifica, ma intendono suggerire una chiave di lettura, un punto di vista unitario, attraverso l’analisi delle principali vicende storiche, dalle origini ai nostri giorni, che hanno portato alla nascita dell’idea del “Grande Salento”. Spunti da approfondire, dunque, annotati sul taccuino del cronista, che si avventura tra i vicoli della storia. Un’incursione giornalistica, tra archivi, fonti e testimonianze, per rintracciare quel filo d’oro che unisce questo lembo di terra, nel rispetto dei “testi sacri”, che ci hanno lasciato sapienti ed eruditi scrittori, come Antonio De Ferraris (il Galateo), Girolamo Marciano, Giacomo Arditi, Luigi Giuseppe De Simone, Pietro Palumbo, Cosimo De Giorgi, e così via. Quando essi scrivevano di queste contrade, avevano davanti una terra unica, chiamata “Giustizierato di Terra d’Otranto”, “Provincia di Terra d’Otranto” e, poi, “Provincia di Lecce”. Dopo la tripartizione operata dal fascismo, bisognerà attendere, negli anni Ottanta-Novanta, gli “Inserti” curati da Antonio Maglio, e pubblicati dal “Quotidiano di Lecce, Brindisi e Taranto”, o la “Storia del Salento” di Luigi Carducci e il mio, più recente, “Il Grande Salento da scoprire”, per ritrovare una proposta editoriale organica, una narrazione che superasse i freddi confini amministrativi delle tre province salentine. E ora questo lavoro, che prova a fare un passo avanti e tentare una sintesi identitaria, non limitandosi a elencazioni analitiche, ma evidenziando e collegando i momenti salienti che hanno caratterizzato storicamente le sorti del territorio. Un atto d’amore per il Salento, tra impegno civile e culturale, per indagarne le origini e rintracciare quel legame che, dalle radici di Terra d’Otranto al Grande Salento, ci unisce a questa terra.
*[Dalla Premessa dell’autore al libro “Storia del Grande Salento”]
Storia del Grande Salento Dalle radici di Terra d’Otranto ai cento anni delle Province di Brindisi, Lecce e Taranto Lino De Matteis Edizioni Grifo, Luglio 2023, pagg. 240, illustrato
L’opera Il libro si apre con le prefazioni dell’on. Giacinto Urso, del giornalista leccese Adelmo Gaetani, dell’ammiraglio tarantino Fabio Caffio e dello storico brindisino Gianfranco Perri. Dopo la premessa dell’autore “Dalle radici di Terra d’Otranto al Grande Salento”, il libro si compone di quattro parti: l’Età antica (Dai nativi salentini alla Calabria romana), l’Età di mezzo (Dal Thema di Longobardia alla Terra d’Otranto), l’Età Moderna (Dalla Provincia di Lecce a quelle di Taranto e Brindisi) e l’Età contemporanea (Dalla divisione fascista allo spirito confederativo). Alle conclusioni dell’autore “Un progetto confederativo per il Grande Salento” segue un’appendice con l’ultimo protocollo d’intesa “Terra d’Otranto: dalle radici il futuro”, sottoscritto, nel 2020, dai sindaci dei tre comuni copoluogo Brindisi, Lecce e Taranto, dai rispettivi presidenti di Provincia e dal rettore dell’Università del Salento. Chiude l’indice dei nomi e una breve bibliografia. Il libro è corredato da una ricca serie di foto e xilografie d’epoca.
Il tema Il Grande Salento è l’erede naturale di Terra d’Otranto, della quale rappresenta oggi la sintesi lessicale, storica e geografica, con una continuità che emerge dalla rilettura degli eventi storici, dalle origini ai giorni nostri. La penisola salentina è sempre stata un’unica regione storico-geografica, divisa dal fascismo con la creazione delle province di Brindisi, Lecce e Taranto. La tripartizione del territorio, se, da una parte, ha alimentato i provincialismi, dall’altra, non è riuscita però a cancellare quel sentimento unitario, che, sopravvissuto alle tortuosità storiche, si è di continuo riproposto, dall’Assemblea costituente ai recenti accordi tra gli Enti locali. Un sentimento che non scaturisce solo dalle comuni radici storiche ma, anche, dalla consapevolezza di dover affrontare insieme le sfide della crescita e della modernità. La “città polivalente ionico-salentina” rappresenta, infatti, la dimensione ottimale per costruire un sistema di “reti urbane intelligenti”, in grado di ridare al Salento quel ruolo centrale che, in passato, ha avuto nel Mediterraneo. Sulle radici di Terra d’Otranto, innegabile collante storico-culturale del territorio, si è innestata la volontà di ritrovare una comune identità attraverso lo spirito confederativo emerso, negli ultimi decenni, con gli accordi di partenariato e la firma dei protocolli d’intesa tra le Istituzioni delle tre Province salentine.
L’autore Lino De Matteis, giornalista e scrittore, direttore della rivista ilGrandeSalento.it. Tra i fondatori del Quotidiano di Lecce Brindisi Taranto, poi Nuovo Quotidiano di Puglia, è stato direttore di Paese Nuovo, caporedattore della Tribuna del Salento e direttore di Progetto. Già collaboratore della Repubblica e dell’Espresso, ha fondato la Glocal Editrice e scritto libri di saggistica e attualità.
È destino comune a tutti i toponimi di subire le cosiddette ingiurie del tempo, ma anche in questo caso i pesi e le misure non sempre sono equi. C’è, infatti, quello che si è conservato tale e quale (Roma), quello che è rimasto vittima di mutamenti fonetici più o meno imponenti, ma non tali da renderlo irriconoscibile almeno agli studiosi (Nardò da Neretum, Lecce da Lupiae), quello che già in tempi antichi ha cambiato veste solo parzialmente (Benevento è da Benventum, che prima aveva sostituito Maleventum), quello che, infime (ma la casistica non finisce qui) , è stato soppiantato da un concorrente non sempre sponsorizzato dalla damnatio memoriae.
Credo che nell’elenco già sterminato e che il tempo puntualmente rimpolperà potrebbe essere inserito il Vora del titolo. Per dimostrarlo mi avvarrò inizialmente dello strumento più suggestivo per il suo impatto immediato e che oggi detta legge: l’immagine. Nessuno, però, si aspetta di vedere non dico miniature tratte da qualche manoscritto ma semplici ingiallite foto d’epoca, che molto probabilmente non verranno mai alla luce, anche perché il fenomeno naturale, più precisamente geologico, in questione è molto diffuso nel nostro territorio, ricco di spunnulate1 e inghiottitoi e la normalità non ha mai fatto notizia, salvo, negli ultimi tempi, quella del male …
I documenti che mi accingo a presentare documenti hanno la loro bella età e, pensando agli strumenti della cartografia moderna tra i quali spiccano le immagini satellitari che ne consentono, volendo, un aggiornamento in tempo reale di un paesaggio globalmente soggetto, ormai, a rapidi cambiamenti, le tavole che riproduco in ordine cronologico e seguite dal dettaglio che ci interessa opportunamente ingrandito. fanno tenerezza.
Asciugata la lacrimuccia, comincio con la prima, che è Terra di Otranto olim Salentina et Iapigia La prima è di Giovanni Antonio Magini (1555-1617), pubblicata postuma dal figlio Fabio a Bologna nel 1620, con dedica, come si legge nel cartiglio in basso al centro, All’Ill.mo Sig.re, et Pron2. Coll. mo3 Ludovico Magnani dell’habito4 di S.to Jago.
Ho evidenziato con la sottolineatura tre topomimi. A nord dI Nardò si legge Vora, alla destra di un simbolo inequivocabile, come altrettanto inequivocabile ai fini dell’identificazione è come riferimento posizionale Logliastro5. La posizione corrisponde esattamente all’inghiottitoio oggi denominato ufficialmente Vora del Parlatano6, da sempre nota al popolo col nome di Ora ti li Culucci (dalla masseria Colucci, in prossimità della quale si trova).
Un nome comune, dunque, (vora) qui sembrerebbe diventato per antonomasia un toponimo, cioè un nome proprio. Tale dettaglio, insieme con le dimensioni del simbolo in rapporto alle proporzioni scalari e con la constatazione che le altre numerosissime vore presenti nella tavola sono rappresentate col solo simbolo (con la sola eccezione di un altro Vora che si legge accanto al simbolo a nord ovest di Casalnuovo, l’odierna Manduria), sottolinea la fama che da sempre questo inghiottitoio ha avuto, tanto da dar vita ad una similitudine popolare nell’espressione mi pari l’ora ti li Culucci (mi sembri la vora dei Colucci), con la quale viene stigmatizzata la voracità di qualcuno che pare inghiottire il cibo senza masticarlo.
E io, che di ghiottonerie linguistiche vado pazzo, posso perdere l’occasione di aprire una breve parentesi di dilettantesca (mi auguro dilettevole per qualche lettore) filologia? L’ora dell’espressione appena riportata nasce da vora con aferesi della v, fenomeno più che usuale nel nostro dialetto (valere>alire, vedere>itire; vincere>incìre; voce>oce, etc. etc.). Per le ulteriori considerazioni rinvio alla nota (altrimenti, dove starebbe la brevità della parentesi? …).7
Siamo ora alla seconda tavola: Terra di Otranto olim Salentina et Iapigia di Jean Blaeu pubblicata ad Amsterdam nel 1648.
Nel cartiglio in basso a sinistra si legge (il lettore potrà farlo agevolmente con l’immagine che segue) la dedica, sulla quale mi soffermo perché riguarda direttamente Nardò: ll.mo ac Rev.mo Domino D. FABIO CHISIO Episcop. Neritonensi, S.mi D. PP. Innocentii X, ad tractum Rheni et Infer. Germ. partes, Ordinario, nec non, ad tractatus generalis pacis Munasterii, extraordinario, cum potestate de latere Legati, Nuncio, Patrono suo colendiss.mo , D. D. D. Joh. Blaeu (All’illustrissimo e Reverendissimo Signore Don Fabio Chigi, Nunzio Ordinario del Santissimo Divino Pontefice Innocenzo X presso il tratto del Reno e le parti inferiori della Germania, nonché straordinario con potestà di legato a latere per i trattati di pace di Münste, suo padrone onorabilissimo Giovanni Blaeu diede dedicò in dono).
Mentre per Fabio Chigi rinvio a quanto indicato in nota 8, ricordo che il Blaeu (per par condicio …) dedicò un’altra sua tavola (Civitas Neritonensis vulgo Nardo) a Girolamo Acquaviva d’Aragona duca di Nardò.
Riprendendo l’esame già iniziato della mappa faccio notare come il titolo sembra plagiato dal Magini, il che non lascia presagire alcuna novità, per quanto in questo tipo di rappresentazione esse siano per natura rare. E infatti …
È la volta della terza: Terra di Otranto olim Salentina et Iapigia di Gerard Valck, pubblicata ad Amsterdam fra il 1670 e il 1690. Anche per questa valgono le considerazioni di scarsa originalità, al meno nel titolo …, fatte per la precedente.
L’osservazione riguardante, comunque, le caratteristiche dimensionale del simbolo, non fa escludere, a mio parere, che esso fosse connesso con il sistema di inghiottitoi di cui il Parlatano fa parte e che, perciò, il avesse una funzione di rappresentazione collettiva. È, infatti difficile immaginare che il sito, fra l’altro ancora oggi non eccessivamente antropizzato, abbia subito uno stravolgimento del suo aspetto e, in particolare, una riduzione della bocca del Parlatano.
È probabile, invece, che in breve tempo il toponimo Vora abbia perse la sua importanza, tant’è che esso è assente nella tavola che il De Rossi pubblicò presso la sua Stamperia alla Pace a Roma nel 1714, nonostante nel cartiglio si legga PROVINCIA DI TERRA D’OTRANTO GIÀ DELINEATA DAL MAGINI E NUOVAMENTE AMPLIATA IN OGNI SUA PARTE SECONDO LO STATO PRESENTE.
E Vora, quasi a sancire definitivamente la fine di un toponimo,manca pure nell’Atlante geografico del Regno di Napoli di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni del 1808, dove, nonostante il rapporto scalare imparagonabile con quello delle tavole precedenti, non si nota neppure il simbolo del nostro inghiottitoio.
3 Abbreviazione di Colendissimo (latinismo:=omorabilissimo).
4 Per Ordine.
5 Ogni toponimo va preso con le pinze, nel senso che bisogna tener conto dei fattori che ne possono aver condizionato il rilevamento, tra cui il più importante coinvolge il settore degli informatori che, giocoforza, sono locali e, dunque, soggetti a problemi linguistici che spesso devono fare i conti con l’inttreccio tra forme dotte e popolari. È il caso tutt’altro che isolato, come fra poco vedremo anche con Vora, di Logliastro, frutto dell’agglutinazione dell’articolo, secondo la trafila Ogliastro>l’Ogliastro>Logliastro.
6 Nel 1749 Federico Colucci è proprietario della masseria Colucce, che comprende, oltre l’abitato, alcuni terreni: il pezzo Dell’Arene, del Parlatano, Dell’Otano, delle Ore e la chiusura della Ratta (Archivio di Stato di Lecce, atti del notaio Saverio Felline, anno 1749, cc. 46v-54r). Debbo questa preziosa informazione all’amico Marcello Gaballo. Essa, però, se ha sancito la relativa antichità del toponimo, ha suscitato in me ulteriori interrogativi, non per nulla l’appetito vien mangiando …, circa l’etimo del nostro e dei restanti toponimi. Posso solo avanzare ipotesi destinate a restare tali in assenza di pezze giustificative. Arene potrebbe alludere alle caratteristiche fisiche del terreno, come anche Ore (per vore, secondo quanto si dirà più avanti e soprattutto in nota 7) e lo stesso potrebbe valere per Otano, se è italianizzazione del dialettale lòtanu (=terreno fangoso, forma aggettivale dal latino lutum=fango, argilla, che continua nel latino medioevale lutare, che può significare lavare, ma anche il suo opposto, sporcare) attraverso la discrezione dell’articolo (Lotanu>l’Otanu>l’otano). Restano Ratta e, ironia della sorte, proprio Parlatano, per i quali, sempre ipoteticamente, potrebbe essere avanzata un’origine prediale.
7 Questo ha comportato che con l’aggiunta dell’articolo da la vora si è passati a la ora e, infine, a l’ora, in cui ora, anche se si conosce il latino ma si è sbrigativamente superficiali, può essere interpretato come derivante da ore(m), accusativo di os, che significa bocca e che in italiano ha dato solo la forma aggettivale orale e alla prima parte di composti come oro-faringeo, mentre il denominale orare (=parlare in pubblico, pregare) ha dato vita all’italiano orare e ai suoi derivati (oratore, oratorio, orazione). L’equivoco etimologico potrebbe essere ulteriormente alimentato, oltre che dall’affinità fonetica tra ore(m) e ora, anche da quella semantica, dal momento che la vora ella sua parte visibile non è altro che una grande, grandissima bocca. Bisognerebbe, però, dimostrare che il latino ore(m) e l’italiano vora sono parenti, il che non è. L’italiano vora, infatti, non nasce da un latino vora(m), che non esiste, ma è deverbale da vorare, che sempre in latino, ha dato vita a vorago (da cui l’italiano voragine) e vorax (da cui l’italiano vorace). Oltretutto orare comporta sì l’apertura della bocca, ma per un’emissione, mentre vorare coinvolge il concetto esattamente opposto, quello dell’immissione.
siamo qui riuniti per celebrare la dipartita della pittura figurativa.
Ne danno il triste annuncio Joseph Nicéphore Niépce
e l’amicoLouis-Jacques-Mandé Daguerre,
inconsapevoli assassini.
Una sintesi funebre di come l’invenzione del mezzo meccanico abbia cambiato il lungo cammino della pittura figurativa, oramai “liberata” dalla necessità di imitare la realtà circostante: più dell’armatura a tela, più della pittura a olio, più del Concilio di Trento, più della raffigurazione en plein air.
Un colpo al cuore della Grande stagione figurativa (italiana), protagonista indiscussa in Età moderna e nei diversi centri sparsi per lo Stivale: da Milano a Napoli, che a cavallo fra i due secoli vede avvicinarsi inesorabilmente la fine della sua epoca. Ed è proprio in giro per la Penisola, anche a Francavilla Fontana, vivace epicentro in Terra d’Otranto, vuoi per la fine di un’era, vuoi per l’esaurirsi di quella fucina di uomini e di donne, che si spegne quella rinnovata tradizione, ben stimolata dalla ricca committenza, che ha saputo produrre (accidenti se lo ha fatto!) manifatture artistiche di ogni tipo: sacra, profana e sui generis.
Quindi è giusto cedere all’idea che non ci sia proprio più nessuno pronto a rappresentare la verosimiglianza del mondo? Per fortuna non è tutto così tragico.
È giusto che qualcuno inizi a ricredersi, perché se “la realtà delle cose è ancora viva”, Essa continua a battere un colpo ogni volta che se ne presenta l’occasione. Grazie ai numerosi “martelli” – non sto qui a elencarli – che continuano a modellare il proprio pezzo sull’incudine della verità, fra i quali uno in particolare ha trovato il modo di farsi sentire: l’artista Mino di Summa.
Un po’ come gli artisti vicari pugliesi nei secoli del metodo scientifico e della ragione, che si recavano a imparare la maniera fuori dal loro contesto di origine, Mino di Summa ha sentito l’esigenza di uscire per studiare la G.P.F.I presso la Scuola della Valle di Lazzaro dal maestro Luciano Regoli: la verosimiglianza del soggetto, i rudimenti della tradizione paesaggistica, la sintassi anatomica e prospettica di ciò che circonda l’essere umano.
E poi, in giro per il mondo (Francia, Germania, Florida, Georgia, Messico) a mostrarne i risultati e al contempo continuare a ricercare il respiro della natura, degli oggetti e della migliore umanità, da riversare nelle sue opere, lasciando una porta aperta affinché l’anima di chi osserva possa entrare a emozionarsi, scoprendo il segreto che si cela oltre la reale realtà.
Ma come diceva Anton Gaudì: L’originalità consiste nel tornare alle origini. Una lezione che sicuramente mai viene dimenticata dal nostro Mino, il quale muove i primi passi nelle arti applicate della Scuola d’arte di Grottaglie, esperienza che affina con sé anche a Roma, presso la Sapienza, trovando sempre conforto nelle forme e nei colori delle origini: un leit motiv che ritroviamo sovente nelle sue immagini.
Le prospettive di Francesca Forleo Brayda, la dolce anatomia del Delli Guanti, il prezioso studio dei colori del Carella, il pathos emotivo del Pinca e dello Zingaropoli, non sono solo esempi conterranei su cui riflettere, ma piccolissimi dogmi artistici da cui trarre la forza della propria personale rilettura e ovunque ci sia spazio: tela, affresco, murales o disegno che sia. D’altronde è questo che impongono le origini, uno sguardo indietro come massima spinta in avanti, sulle ali della tradizione: l’estasi di un abbraccio ultraterreno fra due amanti, l’isolata quiete di uno scorcio del Salento, la simbologia figurativa della macchia mediterranea di una natura morta e lo stupore fanciullesco di una favola vissuta come un viaggio fantastico.
Una storia introspettiva da cui trarre lo scopo di tutta una vita: dipingere la dignità delle umane cose immerse nel meraviglioso panorama del creato.
Dove potersi far catturare da tutto ciò?
Nella città di Lecce, presso la Galleria Maccagnani, sede della Società Operaia, in Corso V. Emanuele II, 56, durante l’inaugurazione di venerdì 1° dicembre ore 18.30 e nei seguenti orari: 10–13 / 17–21 (fino al 10 dicembre).
Biografia dell’artista
Mino di Summa nasce nel 1986, vive e opera a Francavilla Fontana.
Nel 2005 si diploma in Arti Applicate, sezione Decorazione Ceramica, presso l’Istituto Statale d’Arte di Grottaglie. Nel 2012 si laurea in Architettura presso l’Università La Sapienza di Roma.
Allievo del pittore Luciano Regoli, fondatore della Scuola della Valle di Lazzaro presso l’Isola d’Elba, la quale persegue la missione di insegnare e tramandare i valori della Grande Pittura, quella classica figurativa italiana sempre più dimenticata, della quale è orgogliosa sostenitrice.
Alla base della pittura di Mino di Summa vi è lo studio dal vero del soggetto, la consapevolezza che nella natura, negli oggetti e nella figura si celano dei segreti, che un occhio attento può svelare, offrendo all’osservatore un dipinto che va oltre la stessa realtà rappresentata, raggiungendo l’anima di ognuno di noi, emozionandoci, ricordando la semplicità dell’essere umano e dei suoi sentimenti.
Ritornare a meravigliarci davanti a una nuvola, un fiore, lo sguardo di un bambino, cose semplici ma profonde, che rendono dignità all’esistenza dell’essere umano.
Dal 2001 partecipa a molteplici Incontri nazionali e internazionali di arte madonnara, nei quali Mino di Summa trova una dimensione espressiva tale da potersi affermare in prestigiosi festival tenutisi in Francia, Germania, Florida, Georgia, Messico, oltre che in Italia.
Negli ultimi anni ha inoltre partecipato a rassegne di murales in Italia, realizzando opere sulle grandi pareti esterne di edifici pubblici e privati, riscuotendo recensioni positive da diverse riviste di settore.
Nascosta fra le pagine del patrimonio artistico di una città come Francavilla Fontana, esiste una costante a metà strada fra leggenda e fede, che spesso e volentieri ritroviamo nella storia di alcuni dei suoi più importanti siti religiosi. Uno fra tutti, l’antico santuario di Maria Santissima della Croce e l’annesso convento dei frati francescani, un luogo dove arte e architettura si uniscono alla grande vocazione mariana di questa comunità.
Il complesso si colloca sull’antica direttrice sud-est che dalla centralissima piazza Umberto I attraversa ancora oggi il centro storico percorrendo l’attuale via Regina Elena e che dopo aver varcato la porta della Croce, si immette nella scenografica via capitano di Castri, per poi proseguire sul percorso che da Francavilla raggiunge l’antica Hyria.
Una struttura religiosa che ritroviamo ben delineata nella mappatura “a volo di uccello” del 1643, un documento fondamentale per chi come noi vuole comprendere le vicende di un insediamento come quello di Francavilla, all’epoca in forte espansione e dove gli “obiettivi” di sviluppo facevano capo proprio ad alcune delle strutture conventuali sorte durante l’Età moderna.
Diversamente dalle fondazioni dei cappuccini e dei carmelitani, lambite dalla cinta muraria sorta fra il XVII e il XVIII secolo, il santuario manterrà una posizione più isolata rispetto al resto dell’abitato; una particolarità quest’ultima che ci permette di introdurre una delle più conosciute narrazioni fondative della città degli Imperiali.
Facendo un po’ di ordine fra le poche fonti documentaristiche presenti e la forte tradizione popolare, secondo il frate cappuccino padre Giacomo Salinaro esisteva fin dal periodo tardomedievale e nel sito dove oggi si sviluppa il complesso, un’immagine ad affresco di una Theotókos Odigitria: dipinta nel rialto di un muro coperto da un arco, come se fosse una piccola cappella. La presenza di questo modello di immagini non è rara nel nostro contesto – a Francavilla uno dei massimi esempi lo abbiamo con l’effige della Madonna della Fontana – e la dobbiamo considerare come una tipologia iconografica dove si mescolano le influenze artistiche di matrice bizantina e normanna, che del resto in questo territorio trovarono una grande diffusione fra gli casali medievali sparsi lungo l’Ager Uritanus.
La datazione del manufatto in questione viene fatta ricondurre al XII/XIII secolo e secondo lo storico Pietro Palumbo, il luogo della prima fondazione di cui faceva parte l’antica edicola potrebbe risalire alla presenza di un nucleo di monaci benedettini del monastero di Venosa o a una di quelle comunità cenobitiche quivi radicatesi durante la dominazione bizantina, che nel 1081 cedettero la primitiva fondazione ai suddetti monaci. Il piccolo complesso fu poi donato nel 1298 al Sacro Ordine Gerosolimitano e dopo vari passaggi, nel 1480 giunse nelle proprietà dei frati francescani Riformati.
Di certo sappiamo che in questo luogo esisteva una piccola comunità corrispondente all’antico casale di Casalvetere e che secondo la tradizione si raccoglieva intorno al ritratto mariano con il titolo di Sancta Maria de Cruce. D’altronde nella composizione artistica presa in esame, la Madre di Dio viene raffigurata con in braccio Gesù Bambino e nella mano destra stringente una piccola croce, un dettaglio però che fa sorgere ancora oggi alcuni interrogativi: perché se da una parte ne avvalora l’intitolazione, dall’altra alimenta forti dubbi sulla sua effettiva datazione forse non coeva al resto dell’affresco.
Oggi il complesso si presenta come il risultato di un lungo percorso di stratificazione architettonica, che fonda la sua genesi in una leggenda dove il protagonista assoluto è il nobiluomo Francesco Antonio di Roncio o di Ronzo.
Proseguendo nella lettura della cronaca del Salinaro scopriamo che un giorno il nobiluomo, messosi in cammino verso Casalvetere (o la città di Oria) insieme a un servo, fu sorpreso da un tremendo temporale che lo obbligò a riparare nei pressi della suddetta arcata. Lo stesso, ormai completamente cieco, chiese al suo accompagnatore dove avevano trovato rifugio e quest’ultimo gli rispose che si erano messi in salvo proprio nei pressi dell’effige con la Vergine e il Bambinello e che se avesse avuto la volontà di domandare grazia, questo sarebbe stato il momento giusto per farlo. Allora l’uomo preso dall’emozione del momento esclamo: Oh! Madre di Dio, se mi ridarai la vista, io qui in tuo onore ti fabbricherò una chiesa e sarò sempre tuo devoto. Sempre secondo il Salinaro, la Madonna accolse la supplica e ridonò la vista al Di Roncio, il quale ottenuta la grazia si prodigò da subito nell’ordinare la costruzione del nuovo tempio, lavori che proseguirono anche dopo la sua morte.
Fra il 1572-1573 gli eredi portarono avanti il progetto di edificazione, che oltre alla realizzazione della chiesa prevedeva lo sviluppo di un complesso conventuale di discrete dimensioni, tale da poter ospitare una nutrita comunità di frati francescani.
La presenza dell’ordine di San Francesco nella città di Francavilla non è cosa nuova, perché già nei primi decenni del XIV secolo un gruppo di frati aderenti al Primo Ordine fece ingresso in città intorno all’anno 1322, durante la dominazione angioina, fondando una struttura dedicata al loro istitutore e che oggi potremmo ricondurre all’odierna chiesa dedicata a Sant’Alfonso de’ Liguori, meglio conosciuta dai francavillesi come la “chiesa d’oro”.
Lo storico Benigno Perrone sosteneva che ancora nel 1647 presso l’archivio storico del convento, si conservasse il testamento del Di Roncio datato 1572, dove quest’ultimo obbligava i suoi eredi a finanziare l’edificio: colle rendite del suo patrimonio.
L’ignoto architetto cinquecentesco che si occupò della costruzione della chiesa non ricostruì ad fundamentis, ma mantenne l’antica struttura medievale e da cui sviluppò tutto il resto, allestendo una nicchia in cui fu depositata la Sacra Immagine ancora impressa sulla parete originale. La chiesa risultò secondo le parole del cronachista Padre Bernardino da Lama: di cinquanta e più palmi in lunghezza di trenta e più di larghezza, commoda per il concorso di gente.
La facciata è ancora oggi rintracciabile sul lato sud-est dell’edificio e si presenta con un prospetto molto semplice, caratterizzato da una cornice orizzontale a separare il corpo principale dal frontone a tempietto, lesene appena aggettanti, una finestra ad arco (oggi sovrapposta da tre aperture realizzate a posteriori) e un portale tamponato, mentre i tre corpi verticali fanno pensare a un’organizzazione interna un tempo suddivisa in tre navate.
Accanto alla rinnovata chiesa, prese forma la struttura conventuale in cui i padri Osservanti si insediarono nel 1573, pur con qualche difficoltà visti i ritardi sorti durante le prime fasi realizzative.
Secondo sempre Padre Da Lama, infatti, la fabbrica doveva essere realizzata con le rendite ricavate dall’investimento del capitale immobiliare e non con la vendita dei beni, un modus operandi che avrebbe impiegato parecchi anni per raccogliere la somma necessaria alla costruzione di un convento così imponente.
Quindi, prende corpo l’ipotesi che porta al coinvolgimento del nuovo feudatario divenuto in quegli anni signore di Francavilla: David Imperiali, che con molta probabilità garantì i finanziamenti necessari per portare a termine i lavori, mentre i proventi dei beni del Di Roncio vennero utilizzati ad operis structuram, ossia per il completamento della fabbrica già avviata.
L’attenzione rivolta dai nuovi feudatari genovesi verso questa struttura non si limitò a questo, ma vennero messi in opera numerosi lavori di ampliamento (eseguiti tra il XVII e il XVIII secolo) per incrementarne la bellezza e la magnificenza, insieme a un consistente progetto urbanistico volto a collegare quanto più possibile il santuario con il circuito principale della città.
Ai frati della Regolare Osservanza succedettero i francescani Riformati, voluti a Francavilla proprio dal Marchese di Oria, i quali entrarono ufficialmente in città nel 1592. Il nobiluomo inizialmente voleva costruire per loro una nuova casa presso il maniero orsiniano, ma in seguito papa Clemente VIII decise di acconsentire all’avvicendamento dei due ordini con una Breve che: …expulis fratibus de familia observantium, Reformatos introduca, possesso quest’ultimo che venne confermato successivamente nel 1620 da papa Paolo V con apposita Bolla del 21 settembre.
All’edificazione parteciparono anche i frati minoriti, fra i quali esistevano maestri carpentieri, progettisti e scultori, una caratteristica che accelerò i tempi di edificazione e decorazione del complesso.
Tra il 1615 e il 1620 le prime porzioni del convento a essere innalzate furono quelle poste a est e a sud, contraddistinte nei piani superiori dai dormitori e dagli ampi corridori, mentre lungo i piani inferiori venne inserito il grande vano adibito a refettorio e il monumentale chiostro, quest‘ultimo costituito da un elegante quadriportico a cielo aperto scandito da bassi pilastri su cui poggiano una serie di archi a tutto sesto.
Osservando meglio la struttura, si può subito notare come la stessa segua il rigido ideale francescano. L’impianto quadrato è delimitato da possenti muri, contraddistinti dalla sequenza delle piccole finestre delle celle e dalle monofore dei corridori, il tutto articolato secondo quattro sezioni tutte affacciate lungo il perimetro del chiostro.
Nel 1647 Padre Diego da Lequile nella sua Relatio Historica, così descrive il convento: Domus in educandos novitios semper parata fuit, et ordinata; plusquam 30, et saepe saepius 40 fratrum numerum sustenteat, propter magnum eleemorinarum concursum, quas Fideles, vel ad persolvenda vota, vel ad gratias agendas Beatae Virgini pro Beneficijs collatis elargiuntur.
Durante tutto il Seicento, la grande devozione per la Vergine della Croce trasformò l’area in uno luogo di culto meta di numerosissimi pellegrinaggi, portando i religiosi a decidere di compiere ulteriori ampliamenti per ingrandire la chiesa. Questi lavori furono intrapresi a partire del 1687 e vennero diretti dall’architetto fra Nicolò Melelli da Lequile, che estese la struttura conferendogli l’attuale pianta a croce latina a tre navate, inglobando nel transetto minore l’antica chiesa cinquecentesca con la porzione di muro medievale: …su di una superficie di palmi cento per quaranta di terreno concesso gratuitamente dalla Marchesa di Oria, Pellina Grimaldi, il 21 agosto 1687.
Nel quadriennio 1702-1705, nuove fasi costruttive porteranno all’ingrandimento della sagrestia e alla costruzione della biblioteca, mentre nel 1732 fu innalzato il grande campanile dalle linee baroccheggianti, arricchito da tre campane fuse a Venezia.
Nel 1739 Michele III Imperiali dotò la chiesa a sue spese di un organo fatto costruire a Napoli, un fatto ancora oggi testimoniato da un’epigrafe latina che riporta le seguenti parole: ORGANUM HOC PRO MAJORI DEIPARAE GLORIA EXCELL. MUS D. NUS MICHAEL IMPERIALIS URIAE MARCHIO ET FRANCAVILLAE PRINCEPS, OPTIMUS, MAGNUS, PIUS.
Il 10 maggio del 1744, il Cardinale Giuseppe Renato Imperiali donò alla chiesa un busto reliquiario contenente i resti di San Renato, poi in seguito trafugato, e istituì la processione del santo come ricorrenza religiosa che andava a unirsi alla grande festa per la Madonna della Croce.
Oltre all’immagine medievale, la Madre di Dio e Gesù Bambino sono raffigurati con una splendida statua vestita, opera del 1800 di autore napoletano rimasto anonimo che la scolpì in legno e pasta vitrea, molto venerata e portata in processione con grande solennità durante la vigilia dell’Ascensione di Nostra Signora.
Solo nel 1749, con l’ultimazione del coro superiore, il plesso si poté definire ultimato in tutte le sue parti.
Fra le varie testimonianze artistiche presenti dobbiamo menzionare il prezioso lavabo seicentesco conservato nella sagrestia e adornato da una trama di piastrelle maiolicate riccamente decorate da motivi geometrici e simbologie francescane, un meraviglioso affresco custodito nella portineria del pian terreno, il quale si dirama lungo tutto il soffitto a botte secondo una quadrettatura con motivi floreali intrecciati e in cui sono inseriti eleganti ottagoni che a loro volta inquadrano prospettive e scene di vita francescana e infine, il Convitto in casa di Simone il Fariseo, affresco dell’artista Giacomo Moha eseguito nel 1722 e conservato nel refettorio, leggibile solo in parte a causa della superficie pittorica oramai molto degradata.
Accanto alla dimora conventuale sorge la chiesa seicentesca, la cui facciata risalente al 1910 si rivolge verso nord-ovest. Il prospetto principale è ripartito in tre sezioni da due lesene e termina con un fastigio, il quale si raccorda con le ali laterali tramite due linee concave terminanti con altrettanti pinnacoli e su cui poggiano tre statue: la Vergine Immacolata al centro e ai lati i santi Francesco e Antonio da Padova. Sulla sinistra si posiziona il campanile, anch’esso suddiviso in tre sezioni e inserito nell’intersecazione dei due transetti, dalle linee semplici e in raccordo con il resto dell’edificio.
La chiesa si presenta con una pianta longitudinale a tre navate e un soffitto a sezioni con volte a vela intervallate da ampi finestroni, il tutto poggiante su una cornice aggettante a dentelli e ampi pilastri alternati da arcate a tutto sesto.
Fra quest’ultime trova spazio il pulpito ligneo collocato sul secondo pilastro della navata destra e risalente al 1743, realizzato grazie ai proventi ricavati dalla fiera dell’Ascensione, fino agli anni 70’ una delle più importanti fiera-mostra fra quelle che venivano organizzate in Puglia, seconda solo ai poli fieristici di Bari e Foggia, allestita nei pressi del Santuario in concomitanza con l’omonima ricorrenza.
Le due navate laterali sono fiancheggiate da una serie di cappelle, anch’esse coperte da volte a crociera dipinte e completate da due file di tre altari addossati alle pareti: la navata di sinistra con edicole in marmo policromo e stucco, la navata di destra con altari intagliati in legno e finemente decorati.
Ciò che la distingue dalla chiesa dello Spirito Santo, con cui condivide molti particolari architettonici, è il presbiterio completamente occupato dalla grande composizione in legno dell’altare maggiore, dove si trova conservata l’immagine della Vergine con il Bambino.
A sinistra del transetto e comunicante con il presbiterio per mezzo di due porte troviamo il coro inferiore, un ambiente dove si possono ammirare i preziosi stalli lignei realizzati nel 1724 dai maestri “legnaiuoli”, frutto della grande maestria della stessa comunità dei Riformati. Al piano superiore e perpendicolare a questo ambiente troviamo il coro superiore, il quale viene messo in comunicazione sia con la chiesa che con gli ambienti conventuali tramite grate e accessi di passaggio. Diffuso su tre lati, lo stesso è composto da quaranta stalli e altrettante spalliere impreziosite da pannelli di tela dipinta a olio raffiguranti santi francescani e rappresentazioni della via Crucis: un’altra evidenza compositiva dei frati legnaioli dell’ordine, i quali lo terminarono nel 1749.
Osservando il ricco arredamento decorativo dei vari ambienti, si intuisce subito di come le grandi capacità artistiche dei frati minoriti furono messi al servizio dell’ideale ascetico francescano, tramutandosi in risultati di pregio disseminati lungo tutti gli spazi presenti: gli stalli, gli affreschi e le pitture maiolicate presenti nel convento o i dipinti, le sculture e gli elaborati retabli in legno conservati nella chiesa.
Partendo dall’ingresso principale, ai cui lati e in controfacciata sono esposte due tele: i Martiri francescani nel Giappone (1627) e la Pietà, possiamo identificare nella navata di destra gli altari dedicati a San Diego in pietra, a San Pasquale Baylon e a San Pietro d’Alcantara mentre nella navata sinistra, trovano posto gli altari dedicati a Santa Elisabetta, a Sant’Antonio e a San Francesco e infine, gli altari intagliati del Sacro Cuore e della Madonna della Croce, si posizionano rispettivamente a destra e a sinistra del transetto.
Su tutti, troneggia il ricco retablo in legno dell’altare principale che si erge dal contesto per la sua ricchissima finezza decorativa, databile agli ultimi anni del XVIII secolo e attribuito agli scultori fra’ Diego da Francavilla e fra’ F. Maria da Gallipoli.
Al di sopra della struttura e su di un pannello ligneo, vi è un’iscrizione riguardante l’indulgenza plenaria concessa da papa Clemente XI nel 1719.
Le tre sezioni si presentano come una grande pala d’altare in legno, in conformità con uno stile decorativo di matrice spagnoleggiante. Essa è composta da vari scomparti a rilievo inquadrati entro un’incorniciatura architettonica molto elaborata, formata da colonne e cornici marcapiano e su cui si sovrappongono due file di sculture in legno raffiguranti nel primo settore San Bonaventura da Bagnoregio, San Francesco D’Assisi, San Giacomo della Marca e San Ludovico di Tolosa, mentre nel secondo trovano posto le raffigurazioni di Santa Chiara e Santa Caterina da Bologna, il tutto secondo una complessa composizione eseguita da fra’ Illuminato da Napoli all’inizio del Settecento.
Al centro e perpendicolari l’una all’altra, si posizionano l’affresco mariano medievale inserito in un’edicola a tempietto, contornata da due fila di semicolonne tortili e un timpano spezzato su cui si adagiano due cherubini, a cui si aggiungono in posizione perpendicolare le due tele riproducenti L’Ascensione di Gesù e Il Perdono d’Assisi.
Un grande apparato architettonico e decorativo che termina alla sommità con l’insegna francescana delle due braccia incrociate davanti alla croce.
Il santuario di Maria SS.ma della Croce è un luogo che rispecchia in toto quella che fu la grande vivacità di Francavilla durante l’Età moderna e le varie vicissitudini che la contraddistinsero, un percorso che inizia simbolicamente con una delle più conosciute tradizioni fondative e a cui si unisce una delle più importanti devozioni mariane della città dopo quella per la Matònna della Fontana. Un sito che per la sua storia, ci racconta non solo di una lunga e complessa evoluzione architettonica, ma ci accompagna in quella che sicuramente è un’importante evidenza del percorso di fede e solidarietà che la regola francescana qui seppe lasciare nella cura delle anime, ancora oggi portata avanti dal piccolo ma vivace nucleo di frati ancora presenti: un vanto e un orgoglio per una comunità come quella francavillese, oggi come allora fortemente legata al culto mariano.
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Dove non è specificato, le foto sono di Mirko Belfiore.
Il 25 novembre il dipinto d’altare della Congrega verrà restituito alla Comunità sponganese restaurato dal professor Erminio Signorini e dalla dottoressa Viviana Nardò.
Ho voluto incontrarli in videochiamata per chiedere alcune notizie in merito all’operazione che segue il restauro pregevole ed eccellente di alcuni medaglioni della navata.
La nostra Congrega era dedicata a Santa Maria delle Grazie, ma nel quadro restaurato la Madonna non sembra propriamente una Madre amorevole, quanto, piuttosto, una Madre pronta a lottare per salvare il Figlio che porta in grembo e gli altri figli intesi come tutta l’umanità.
Prof. Signorini Semmai io la definirei una Madonna degli attributi molteplici: colei che sconfigge il male raffigurato dal drago a sette teste, tema dell’apocalisse come l’appoggiarsi sulla luna, ma anche colei che ha altre doti speciali rappresentate dalle figure che rimandano alle litanie lauretane e sono sempre attributi della Vergine.
Quasi sempre le litanie lauretane sono associate alla Madonna del Rosario, culto che, dopo Lepanto, si diffuse in tutte le chiese, come è noto, e decantano una molteplicità di virtù alcune delle quali sono contenute in quest’opera e la rendono estremamente significativa anche da questo punto di vista.
Colpisce infatti nel quadro la rappresentazione iconografica degli attributi della Madonna: Fonte della nostra gioia, Specchio di giustizia, Rosa mistica, Torre della santa città di Davide, Porta del cielo, Rosa mistica…
Prof. Signorini Erano tutti elementi che arricchivano la sua figura ed esprimevano anche i ruoli che la Madonna svolge nei confronti dei fedeli come intermediaria verso Cristo e verso Dio.
A parte questo aspetto iconografico potete dirci qualcosa di più del restauro? Che tipo di approccio avete attuato?
Prof. Signorini Questo dipinto, come in altri casi che mi è capitato di osservare lavorando e insegnando in Accademia, è stato realizzato all’inizio del ‘600, nelle prime decadi del ‘600, e poi è stato ripreso nel corso dei secoli successivi alla sua realizzazione.
Il restauro dell’opera in questo caso è suggerito semplicemente dalla presenza di una data che indica la ripresa in mano l’opera, avvenuta in un periodo in cui era stato fatto un intervento generale più complesso per quello che riguardava l’architettura, le decorazioni e le caratteristiche che doveva assumere di seguito l’oratorio.
Sappiamo, infatti, che nella seconda metà del ‘700 lo scoppio di un fulmine aveva danneggiato gravemente la Congrega, che fu restaurata con importanti modifiche strutturali, con innalzamento della volta con un secondo ordine dove trova posto il rosone a forma di lira che illumina l’altare.
Prof. Signorini Il quadro però fu tenuto per l’indubbio significato e per questa complessità degli attributi della Vergine proprio perché significativo e conclusivo delle storie della Vergine contenute nei quadri della navata, che si riferiscono proprio della storia della Madonna. Questo dipinto ha una valenza più simbolica e conclude il ciclo pittorico, dando un senso alla vicenda umana della Madonna descritta nei Vangeli e raffigurata nei quadri della navata.
Come dire che la Madonna è umanità e vita umana però è anche entità sovrumana e vicinanza alla divinità…
Prof. Signorini E questo viene poi giustificato e rappresentato dall’Assunzione.
Il restauro si presentava diciamo un po’ più complesso proprio perché aveva all’interno queste due date; da un lato quella del Seicento (1653) dall’altro lato le modifiche degli interventi dell’Ottocento (1837), che in questo caso, presentavano, ai nostri occhi, una serie di integrazioni o di correzioni o di coperture di piccole lacune non proprio fatte bene e un indebolimento della forza cromatica di alcuni colori. Questi elementi rappresentano sempre una complessità per chi restaura ,perché, come è plausibile, sono stati eseguiti all’incirca 200 anni fa. Inoltre la diversa età degli interventi presenta una differenziazione rispetto ai colori originali più antichi.
Il legante olio, poi, ha una sua storia specifica dal punto di vista chimico-fisico, che non è il caso di riprendere in questa occasione; quello che avviene è che diventa un materiale di molto più difficile solubilità e questo comporta per noi restauratori di dover intervenire con grande attenzione, anche perché molti di questi ritocchi sono andati a coprire anche la pittura originale che sotto esisteva, esiste e che si è anche, in buona parte, riusciti a recuperare.
Per questo occorre cautela e conoscenza, perché spesso si utilizzano solventi o materiali che possono essere anche “aggressivi”, ed è stata nostra cura cercare di utilizzare materiali che dessero sicurezza e garantissero di non andare ad intaccare i materiali più antichi, quelli dei secoli precedenti.
Questo è stato uno degli ostacoli; poi altre difficoltà erano legate alla stabilità dell’opera, non solo la stabilità degli strati pittorici, ma anche quella legata al sostegno e alla struttura, cioè al telaio, perché anche il telaio era stato fatto con legni non più adeguati, che dovevano essere rinforzati aumentando il numero delle traverse, per assicurarne la stabilità. Soprattutto bisognava correggere un intervento che era stato fatto nella parte sommitale del dipinto, laddove c’è una parte ad arco centinata che si era rotta. Il telaio, sempre nel corso dei secoli, si era danneggiato ed era stato ricostruito con sistemi che non hanno retto poi nel tempo e si sono danneggiati. Per questo si è dovuto far fare un intervento a un professionista specializzato nel recupero e nella costruzione dei telai, dietro nostre indicazioni, per poter realizzare questa stabilità.
Però, oltre a ottenere una stabilità maggiore abbiamo ottenuto di rendere visibili anche alcuni elementi del disegno della pittura che, in occasione della riparazione, per una piega della tela erano rimasti nascosti.
Per esempio, sono più complete le due figure di angioletti che stanno a destra e a sinistra in alto.
Filippo Cerfeda mi aveva anche parlato di quello che gli aveva detto Viviana dei telai, del rinforzo, del lavoro che avevate fatto sui telai in occasione del restauro degli altri quadri. Non ci dobbiamo dimenticare però che noi siamo uomini del ventunesimo secolo, e che questi lavori li facevano nel ‘600 con mezzi che non erano quelli di cui disponiamo oggi, insomma è già molto che non siano andate completamente perdute.
Prof. Signorini Tante volte nei restauri, per tradizione, i telai, quando sembravano non essere in grado di reggere sufficientemente la tela, venivano eliminati e si sostituivano con telai nuovi.
Per noi il telaio è un documento storico certo e in questo caso Filippo Cerfeda ci è stato di grande aiuto, perché ha trovato i possibili autori di questi telai che, se non ricordo male, avevano fabbricato anche alcuni banchi della chiesa. Anche questo, quindi, è un omaggio a Filippo e alla sua sensibilità, da storico, nel collegare i vari elementi.
Un dipinto su tela non è solo lo strato ultimo di colore ma è un sistema e, se possibile, bisogna salvare il sistema o renderlo più efficiente, se ha perso efficienza.
Riguardo al paesaggio che si vede nella parte inferiore, potete dire qualche qualcosa?
Prof. Signorini Il paesaggio nel dipinto serve a dare un piedistallo al mostro a sette teste che si trova in questa parte, perché fa parte della terra, dell’umano.
C’è da dire che questi paesaggi sono spesso dei paesaggi di fantasia; in qualche caso, per particolari situazioni di chiese o di devozioni, magari rappresentano il paesaggio locale, ma in molti casi sono paesaggi costruiti mescolando elementi vari che ha il pittore, diciamo, nella sua mente. Anche su questo abbiamo visto che anche da parte di chi è intervenuto nell’Ottocento sono stati fatti dei rinforzi di colore e dei piccoli aggiustamenti.
Quando questi interventi non danno un arricchimento o non interrompono il disegno non vale la pena di toccarli, anche perché hanno una loro storicità, ma se interrompono la continuità della immagine, pensiamo a un dito di una mano oppure al vestito di un altro Angelo o un’interruzione nell’ala e così via, a questo punto diventano elementi negativi e occorre intervenire per riportare l’originale.
Per quello che riguarda la parte del 1600, molte delle evoluzioni che ha il legante olio per la pittura sono già consolidate; su quelle noi non possiamo intervenire. Magari possiamo interpretarne l’intensità cromatica originaria ma, non disponendo di un documento fotografico, preferiamo lasciare la situazione com’è per il rispetto e la storia del dipinto. Per usare un paragone è come se volessimo eliminare sempre tutte le rughe sui volti.
Il fatto è che è comune che ci siano cambiamenti come la variazione nei valori cromatici della pittura a olio e questi avvengono soprattutto nei primi periodi, nei primi decenni o nel primo secolo di vita e nel tempo si interviene. Per questo ci siamo trovati di fronte a interventi del passato che si sono fortemente modificati rispetto ai valori cromatici e che sicuramente anche il restauratore dell’800 aveva già incrociato. Comprendiamo quindi che nel tempo sicuramente variazioni ne sono avvenute, però noi, non avendo un documento fotografico, dobbiamo dare fiducia a chi è intervenuto che l’abbia fatto con sensibilità e con adeguata capacità.
Alla fine, siete riusciti a reperire delle notizie riguardo a questo autore che si firma B.P.?
Prof. Signorini Non siamo riusciti. Aspettavamo dei suggerimenti dagli storici dell’arte o dagli ispettori di Soprintendenza, che in genere sono storici dell’arte, ma non è emerso nulla.
Ci auguriamo che il restauro di quest’opera possa stimolare curiosità, promuovere la ricerca e che si arrivi almeno ad avere delle ipotesi
Filippo Cerfeda aveva pensato a chi potesse essere intervenuto nell’Ottocento e ci aveva suggerito di confrontare il quadro con un’altra opera sita in una chiesetta privata a cui, però, purtroppo, nonostante diverse richieste di vederla, non siamo ancora riusciti ad avere accesso.
Volevo fare un’ultima aggiunta riguardo al restauro: quando noi ci muoviamo soprattutto per quella fase, che è la più delicata, della pulitura, dove quello che si toglie non si può rimettere, come invece si può fare se si sostituisce l’asta di un telaio, ed è, quindi, l’unica operazione sicuramente irreversibile, dobbiamo muoverci sempre con cautela e sulla scorta di osservazioni specifiche di tipo ottico, come quelle che utilizzano raggi UV o raggi infrarossi. È importante che l’intervento sia fatto con un’adeguata diagnostica, in questo caso il dottor Melica ci ha molto aiutato con i suoi mezzi tecnologici che integrano sapientemente i nostri test, le nostre provette e garantiscono al trattamento coerenza con i mezzi a disposizione.
Per essere “scientifici” e quindi seguire una disciplina corretta occorre avere competenze e conoscenze, ma anche avere a disposizione tutti i risultati della diagnostica, dell’osservazione o dell’analisi di alcuni piccoli micro-campioni che si raccolgono sull’opera.
Quindi avete utilizzato metodiche moderne di diagnostica anche a raggi X?
Prof. Signorini In questo caso non erano necessarie, però abbiamo fatto una osservazione di questi campioni in superficie o in sezione che ci hanno mostrato la stratificazione che c’è nell’opera e identificano tutta una serie di materiali, attraverso micro test che il diagnosta ha fatto sui campioni stessi per indicarci se si tratta di materiali tipo oleoso, come in questo caso, oppure se ci sono proteine, cere o altri materiali applicati sia nella fase di creazione sia nell’intervento di restauro dell’opera, ma consente pure di vedere, per esempio, se ci sono vernici intermedie e cose di questo tipo.
Un’ultima domanda: queste operazioni hanno un costo, ma sono necessarie per la storia, per il culto, per la memoria collettiva ma soprattutto per la bellezza, perché una cosa bella è un valore per tutti e noi abbiamo avuto la fortuna di avere una Confraternita intera stimolata dai priori Giacomo Paiano e oggi Fulvio Verardo, che ha dato risalto alla conservazione dei beni materiali, opere d’arte, documenti, strutture… in maniera davvero lodevole, ma senza trascurare la preghiera, la devozione, il culto, veri scopi della società, e tutto fatto con grande zelo. Cosa ne pensa?
Prof. Signorini Ho avuto modo di conoscere i Confratelli e in particolare Giacomo Paiano, all’epoca Priore, che mi parlava di progetti importanti e di piccoli oggetti recuperati, con grande entusiasmo e cura per questo, perché recuperare è importante ma è importantissima la salvaguardia, cioè il cercare di far durare nel tempo più a lungo possibile le opere che ci sono state consegnate e nei Confratelli della Congregazione c’è consapevolezza ed entusiasmo e questa attenzione, questa sensibilità sono pregi rari da trovare. Se ci fosse stata questa sensibilità ovunque molto del patrimonio italiano non sarebbe andato perduto.
Una parola anche sull’aspetto estetico
Prof. Signorini Il valore estetico sicuramente c’è. Gli antichi pittori potevano anche essere pittori locali però avevano una loro cultura, facevano riferimenti alle opere di maestri precedenti, anche più grandi. In loro c’era l’idea di fare la cosa bella con l’idea di fare una cosa buona per gli utenti che guardavano all’opera con fede e devozione, ma anche per coloro che non fossero credenti e potevano apprezzare elementi estetici di queste iniziative religiose. Chi verrà dopo vedrà una chiesa più bella, potranno vedere le opere conservate e la nostra missione è di farlo al meglio per farle durare il più possibile pur sapendo che anche i nostri lavori nel tempo andranno incontro all’inevitabile deterioramento.
L’invito che noi facciamo sempre dopo la fine di un restauro è di non accontentarsi del risultato, pure quando sia eccellente, ma di operare per mantenere quel risultato con la manutenzione periodica che a volte vuol dire semplicemente spolverare spesso. Per esempio, in questo caso per tendere le tele sui telai usiamo un sistema in cui l’attaccatura non danneggia il dipinto. Questo, però comporta che si possano creare delle piccole fessure fra la cornici e la tela e lì potrebbero inserirsi polveri, insetti che potrebbero nidificare; impedire che questo avvenga è manutenzione ordinaria che permette alle opere di durare ancora più a lungo
Poi sappiamo quanti danni può fare il deposito di polveri sulle superfici perché nelle polveri c’è di tutto e queste si depositano sulle superfici dei quadri sulle superfici delle pareti delle chiese all’interno e all’esterno per cui nel tempo è vero che ci vorrà il restauro ma occorrerà sempre la manutenzione.
Se ci fosse più manutenzione ci sarebbe meno restauro e danni da restaurare. Per noi sarebbe una bella cosa, ci farebbe molto piacere e potremmo comunque essere chiamati per dare indicazioni più precise per la manutenzione.
ALL’ORGANO RINASCIMENTALE DI GROTTAGLIE IL CONCERTO DI MONTSERRAT TORRENT I SERRA, ARTISTA DI FAMA INTERNAZIONALE E DECANA MONDIALE DEGLI ORGANISTI.
Straordinario e prestigioso evento musicale sabato prossimo, 25 novembre 2023, alle ore 19.30, nella Chiesa Madre Collegiata Maria SS.ma Annunziata, con il concerto che la decana mondiale degli organisti Montserrat Torrent i Serra (Barcellona, 1926) terrà nell’ambito della IV Rassegna Organistica Grottagliese all’organo più antico di Puglia e tra i più antichi d’Italia.
Ne danno notizia con comprensibile emozione il parroco della stessa Chiesa Madre D. Eligio Grimaldi, il dott. Ciro De Vincentis Presidente dalla Pluriassociazione S. Francesco De Geronimo e il Maestro Nunzio Dello Iacovo, Direttore artistico della rassegna giunta alla quarta edizione.
Una rassegna che, nel proporre nomi prestigiosi e famosi, esalta e valorizza uno strumento che costituisce motivo di grande orgoglio non solo per la comunità cittadina, ma per l’intero territorio regionale e nazionale.
La grande artista eseguirà brani appartenenti ad autori dei secoli XVI e XVII: un programma mirato ad esaltare le caratteristiche tecniche e foniche dell’antichissimo strumento che la stessa concertista ha chiesto di poter conoscere e suonare.
PROGRAMMA
ANTONIO DE CABEZÓN (1510-1565)
– DISCANTE SOBRE LA PAVANA ITALIANA
– DIFERENCIAS SOBRE LA GALLARDA MILANESA
ANTONIO CARREIRA (1525-1597)
– TIENTO A QUATRO SOBRE O VILLANCICO
– CON QUE LA LAVARE
BERNARDO CLAVIJO DEL CASTILLO (1545-1626)
– TIENTO DE 2° TONO POR GE, SOL, RE, UT
GIOVANNI MARIA TRABACI (CA. 1575-1647)
– PRIMO TONO CON TRE FUGHE
– GAGLIARDA QUARTA A 4 DETTA LA MORENIGNA
FRANCISCO CORREA DE ARAUXO (1584-1654)
– SEGUNDO TIENTO DE QUARTO TONO (N. 16 B4)
JAN PIETERSZOON SWEELINCK (1562-1621)
– MEIN JUNGES LEBEN HAT EIN END
GIOVANNI SALVATORE (1611-1688)
– DUREZZE E LIGATURE
– CANZONE FRANCESE TERZA, DEL PRIMO
– TUONO FINTO
– CAPRICCIO DEL PRIMO TONO
JOAN B. CABANILLES (1644-1712)
– PASACALLES IV DE 4° TONO.
– GALLARDAS V DE 8° TONO.
L’appuntamento da non perdere assolutamente è per sabato 25 novembre 2023, alle ore 19.30, nella Chiesa Madre Collegiata Maria SS.ma Annunziata, sita a Grottaglie nella storica piazza Regina Margherita. Ingresso libero.
“L’originalità del volume è che i curatori si muovono con la delicatezza dell’ape sul fiore, con passione e profondità perchè vivono dentro le confraternite e possono perciò descriverne luoghi e tradizioni con competenza”
(dalla presentazione del Vescovo Mons. Fernando Filograna).
Interessantissima risulta la recente pubblicazione del testo dal titolo Tra fede e tradizione le Confraternite della Diocesi di Nardò – Gallipoli (Claudio Grenzi editore-Foggia), curato con maestria e in maniera attenta, approfondita e impeccabile da Marcello Gaballo e da Fabio Cavallo. L’opera presenta una varietà tematica stimolante che ha come punto focale la vita, la testimonianza scritta e verbale, le attività delle varie confraternite che da secoli hanno operato e operano sul territorio dell’intera diocesi, forgiando in maniera attenta la vita spirituale e sociale non soltanto dei confrati ma dell’intero territorio su cui manifestano il loro impegno.
L’opera, dopo la presentazione del Vescovo, del Vicario generale e dell’Assistente diocesano per le confraternite, è introdotta dal diacono Luigi Nocita, direttore dell’Ufficio Confraternite dicoesane. Segue un’interessante e approfondita ricerca sul fenomeno confraternale, redatta da Marco Carratta, che ripercorre già a partire dall’Alto Medioevo la storia di queste associazioni che nascono per iniziativa dei religiosi o di singoli individui, con lo scopo di svolgere attività caritatevoli, di amministrare il culto, ma soprattutto per combattere la Riforma Protestante e promuovere gli ideali che nasceranno da una chiesa post – tridentina. Nel secondo saggio, sempre di Carratta, emerge invece la componente politica che in maniera attiva partecipava alla vita della confraternita. Il re quando necessario oltre a dare approvazione ai capitoli che regolavano la vita della confraternita concedeva anche l’assenso alla sua fondazione. E a tal proposito ci propone l’esempio della Confraternita della Ss. Annunziata di Nardò, che nel settembre del 1777 ottenne dal re il regio assenso sulle regole e sulla fondazione.
Significativo risulta il patrimonio architettonico e i beni mobili di grande valore conservati nelle varie chiese confraternali, in massima parte inedito, che è possibile gustare e ammirare attraverso il ricchissimo corredo fotografico che il volume ci propone.
Il lavoro di stesura, che ha visto coinvolti tantissimi autori delle singole schede, molti dei quali priori o confratelli, interessa ogni paese della diocesi di Nardò-Gallipoli ed è arricchito anche da alcune significative pagine che tracciano la storia e le vicende delle confraternite ormai estinte, con adeguata e ricca bibliografia. Caso emblematico l’assenza dei sodalizi nella città di Copertino e nel piccolo centro di Seclì. A tal proposito risulta significativa e molto gradita dalla piccola comunità di Seclì, la scelta dell’immagine di copertina (foto Lino Rosponi), che ha come raffigurazione una parte della preziosa tela dell’Allegoria del Corpo e Sangue di Cristo, comunemente conosciuta con il titolo di SS. Sacramento. La parte raffigurata mostra i confrati incappucciati in adorazione che seguono la Croce e il vessillo dell’omonimo sodalizio agli inizi del XVII sec. Una tela di Donato Antonio D’Orlando, celebre artista neretino. Sulla quarta di copertina una recente foto, anche questa emblematica, di alcuni confratelli incappucciati che escono in processione da una chiesa di Gallipoli (foto Massimiliano De Giorgi).
Tra le tante sorprese che riserva il volume di circa 650 pagine, mi preme sottolineare l’esistenza di una pergamena miniata policroma della Confraternita del Ss. Sacramento di Parabita, con stemma civico e del feudatario dell’epoca, dalla quale si apprende che il cardinale De Cupis, già amministratore apostolico e poi vescovo della diocesi di Nardò, fa trascrivere al notaio Mario Capoccinus la copia legale della lettera apostolica in cui si parla delle indulgenze che papa Paolo III concesse alla Cofraternita del Ss. Sacramento di Roma, e quindi l’estensione dei privilegi al locale sodalizio parabitano. Il culto all’Eucarestia risulta quindi attestato a Parabita, così come in altri paesi della diocesi, soprattutto nel XVI sec.
Dalla lettura il testo appare come uno scrigno che custodisce gelosamente i suoi tesori che vengono rivelati al lettore, che ha il compito di leggere in maniera attenta le varie vicende passate e presenti che hanno caratterizzato la vita delle tante confraternite. Il volume inoltre può essere considerato come un vero e proprio manuale sulla storia dei vari sodalizi e come punto di partenza per ulteriori approfondimenti e studi che vadano ad arricchire il già vasto patrimonio che siamo chiamati a custodire e trasmettere alle generazioni future.
In ultimo è importante sottolineare l’attenzione che i curatori e l’Ufficio Diocesano per le Confraternite hanno avuto nell’elaborare due edizioni, una con copertina cartonata e l’altra con copertina flessibile. di maggiori dimensioni e minor costo, distribuita da pochi giorni da Amazon.
Come la vicina Taurisano[1], anche Ruffano vanta una serie di maestri elementari fra Ottocento e Novecento, esponenti di quella classe intellettuale che certo faticava a trarre fuori dall’analfabetismo la popolazione, assillata in quel torno di tempo da problematiche più urgenti come la miseria, la mancanza di lavoro e l’alta mortalità per malattia. In questa sede, non ci soffermeremo sul loro ruolo di insegnanti e sulle problematiche connesse all’esercizio della professione,[2] ma piuttosto sulla loro produzione letteraria, nei due secoli presi in esame.
Il primo maestro di cui ci occupiamo è Alfonso Mellusi (1826-1907), biografato da Aldo de Bernart nel bel saggio Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca –Alfonso Mellusi-[3]. Originario di Ginosa ma proveniente da Alessano, aveva studiato presso il Seminario di Ugento e poi aveva perfezionato la formazione presso il Convento dei Cappuccini di Ruffano. Divenuto sacerdote, fu il primo maestro di scuola a vita (oggi si direbbe insegnante di ruolo) non solo a Ruffano ma nel Salento. “Sacerdote filosofo”, lo definisce de Bernart, “direttore di un corso per la formazione di maestri elementari”,[4] autore nel 1868 di un Catechismo religioso comparato con la storia sacra[5] che de Bernart pubblica in versione integrale nel succitato volume. Si tratta di un’opera sulla didattica dell’insegnamento della religione cattolica, che diede al maestro Mellusi grande prestigio e notorietà, tanto che nel 1900 il Re Umberto I lo nominò Cavaliere della Corona d’Italia.
Ma Ruffano negli stessi anni si dimostrava all’avanguardia anche sotto l’aspetto della parità di genere e dell’emancipazione femminile. Occorre ricordare almeno due nomi di maestre donne a cavallo fra Ottocento e Novecento: Marina Marzo e Angiola Guindani.[6]
Altro maestro di cui ci occupiamo è Carmelo Arnisi (1859-1909). Oltre ad essere ricordato da Ermanno Inguscionella sua opera La civica amministrazione di Ruffano-Profilo storico[7], è stato al centro di una pubblicazione del 2003, a cura della Pro Loco di Ruffano: Carmelo Arnisi – Un maestro poeta dell’Ottocento, un pregevole volume con tre saggi, di Aldo de Bernart, Ermanno Inguscio e Luigi Scorrano, sulla vita e le opere del poeta ruffanese, fino ad allora quasi sconosciuto, nonostante a lui sia a Ruffano intitolata una strada[8].
Nel libro, pubblicato con il patrocinio dell’Amministrazione Comunale di Ruffano, Cosimo Conallo, nell’Introduzione, sottolineava come fosse ormai tempo di riscoprire la figura di questo poeta ruffanese, intorno al quale non era mai stato fatto uno studio organico. Nel primo saggio, L’Arnisi e il suo tempo, Aldo de Bernart fa uno spaccato della società, della politica, dell’arte scultorea, pittorica ed architettonica del tempo in cui visse l’Arnisi, e parla delle sue fonti di ispirazione, delle sue frequentazioni con i maggiori protagonisti della cultura salentina dell’epoca, fra i quali il grande Cosimo De Giorgi, con cui egli era in corrispondenza, ed anche con gli esponenti della nobiltà locale, come le famiglie ruffanesi Castriota-Scanderbeg, Pizzolante -Leuzzi, Villani- Licci. <<Ispirandosi alla poesia di Luigi Marti […] che aveva cantato la “Verde Apulia”, l’Arnisi cantò la “Verde Ruffano”, in particolare S.Maria della Serra dove soleva recarsi, pellegrino di fede e d’amore…>>.[9] Il secondo saggio, Carmelo Arnisi (1859-1909) L’uomo il poeta, a cura di Ermanno Inguscio, ripercorre le tappe fondamentali della vita del poeta, la cui salute fu minata fin dalla giovane età da una persistente forma di tosse convulsa; l’infanzia serena trascorsa a Ruffano, presso la casa di Vigna La Corte prima e Casa Quarta, in Via Pisanelli, dopo, il suo lavoro di maestro elementare, l’amore per la cultura, la collaborazione con alcuni giornali dell’epoca, come “Il Corriere meridionale”, diretto da Nicola Bernardini, e la “Cronaca letteraria”, diretta da Giuseppe Petraglione; gli inverni a Ruffano e le estati trascorse a Leuca, ospite nelle ville delle famiglie Daniele, Castriota, Fuortes. Sempre ben disposto nei confronti degli amici, fra i quali il segretario comunale Donato Marti, era invece tagliente e fortemente sarcastico nei confronti degli usurai, che egli definì “vampiri sociali”, degli operatori di banca, “illustri parassiti”, e degli ipocriti. Morì, nel luglio del 1909, spossato da una forma grave di polmonite, a soli 49 anni. Alla sua morte, il giornalista e scrittore Pietro Marti traccia un elogio funebre sul giornale “La Democrazia”.[10] Nel terzo saggio, Sui versi di Carmelo Arnisi, Luigi Scorrano fa una attenta analisi dell’opera “Versi”, unica inedita dell’Arnisi, e dei manoscritti lasciati dal poeta e non pubblicati. Viene fuori il ritratto di un autore che si può ascrivere al filone della poesia sentimentale dell’Ottocento, influenzato da Leopardi, D’Annunzio, Pascoli, Carducci, dei quali trascrive molte poesie. La produzione dell’Arnisi è caratterizzata da toni intimistici, i temi sono gioie familiari, amore deluso, spesso tristezza e ripiegamento su se stesso; è costante, nelle sue liriche, la presenza della morte. Nell’opera non data alle stampe, che il curatore chiama “Versi 2”, per distinguerla da quella a stampa, indicata come “Versi 1”, compaiono altri motivi e fonti di ispirazione, come la natura, l’amor di patria, l’attenzione al sociale, gli scherzi nei confronti degli amici, la filiale devozione per la terra natale, Ruffano. Anche se non vi è una vera e propria connotazione locale nell’opera dell’Arnisi, che voleva evitare la dimensione municipalistica di una caratterizzazione estremamente tipicizzata, emerge comunque la salentinità del poeta e il suo attaccamento al borgo natìo. È stato il maestro Vincenzo Vetruccio il primo a riscoprire Carmelo Arnisi dal momento che, come giustamente rivendica in una sua pubblicazione autoprodotta[11], fu lui che ritrovò il manoscritto dell’Arnisi, Versi, inedito, lo fotocopiò e ne donò una copia al prof. Cosimo Conallo, all’epoca Presidente della Pro Loco, il quale si fece poi promotore della pubblicazione, affidandone l’incarico agli studiosi de Bernart, Inguscio e Scorrano. Nel quadernetto, Vetruccio riporta molte interessanti notizie biografiche e foto sull’Arnisi e sulla Ruffano del tempo in cui visse l’insegnante.
Ed eccoci a Pietro Marti (1863- 1933), il nome più altisonante fra gli intellettuali a cui Ruffano abbia dato i natali.[12]
Dalle svariate fonti in nostro possesso sappiamo che Pietro Marti nasce in una poverissima famiglia ruffanese, ma riesce tuttavia a studiare, tra mille sacrifici, ed a diplomarsi maestro elementare, attività che svolge a Ruffano, nei primi anni. Marti non aveva un carattere facile. Ben presto, i suoi rapporti con l’amministrazione comunale di Ruffano si fecero tesi ed egli, dopo ricorsi e sentenze del Consiglio di Stato, fu mandato ad insegnare a Comacchio. In realtà i motivi del suo esonero furono le arbitrarie assenze dal posto di lavoro. Oltre alle lettere, la sua grande passione è l’arte e l’amore per la sua terra, che lo studioso manifesta in vari modi, nella sua sfaccettata e multiforme attività. Spirito libero, brillante e poliedrico, si dà al giornalismo, fondando e dirigendo molte testate, fra le quali “La Voce del Salento”, “Arte e Storia”, “La Democrazia”, ecc. Il nome di Marti è anche legato alla nascita ed alla diffusione del Futurismo pugliese. Nel febbraio del 1909, infatti, veniva pubblicato sul prestigioso giornale francese “Le Figarò” il Manifesto del Futurismo, la corrente letteraria fondata da Filippo Tommaso Marinetti. Sulla “Democrazia”, settimanale fondato e diretto da Pietro Marti, il 13 marzo 1909, vale a dire a meno di un mese di distanza dall’apparizione del manifesto Le futurisme sul “Figaro”, veniva pubblicato il “Manifesto politico dei Futuristi”. Ancora, dopo un periodo di parziale oblio del futurismo leccese, nel 1930, a smuovere le acque fu “La Voce del Salento”, nuovo settimanale fondato e diretto da Marti, con un articolo, a firma di Modoni, fortemente critico nei confronti dell’arte futurista. Questo articolo innescò l’effetto contrario rispetto a quello desiderato dal suo autore; vi fu infatti una levata di scudi, da parte degli esponenti del futurismo, in difesa del movimento. Lo stesso Marti, con lo pseudonimo di Ellenio, pur chiamandosi fuori dalla rissa che si era scatenata, esprimeva forti perplessità sulla concezione futurista dell’arte. E tuttavia, da intellettuale aperto e illuminato, pur non in sintonia con le idee dei giovani futuristi, accettava di pubblicare qualsiasi intervento. Si ritrovò così a dare spazio ad un gruppo di giovani artisti leccesi, che si chiamerà “Futurblocco”, capeggiato dall’allora poco più che adolescente Vittorio Bodini, nipote dello stesso Marti, il quale ricorderà sempre il nonno in pagine di grande affetto. Molti i meriti di Marti nell’arte. Da vero talent scout, fece conoscere al grande pubblico i giovani artisti salentini, con l’allestimento di Biennali d’arte a Lecce. Fu Regio Ispettore ai Monumenti della Provincia di Lecce, dal 1923 al 1929, e Direttore della Biblioteca provinciale “Nicola Bernardini” fino alla morte. Oltre ad una biografia di Antonio Bortone, in cui Marti dimostra la propria ammirazione per lo scultore ruffanese,[13] scrisse diverse opere di carattere storico, artistico e letterario. Fra queste, una la dedica proprio al filosofo taurisanese Giulio Cesare Vanini. Al martire di Tolosa, Marti si sentiva molto vicino per indole e temperamento e ne sposava idealmente la causa. Il libro è Giulio Cesare Vanini del 1907.[14] Marti, nel suo elogio del filosofo, definito il “precursore del trasformismo scientifico”, seguendo le parole di Bodini[15], passa in rassegna tutti gli studiosi che avevano severamente contestato il Vanini e quelli che invece lo avevano difeso. Si sofferma lungamente sulle vicende biografiche di Vanini, sulle numerose tappe del suo lungo peregrinare e soprattutto sulle sue opere, approfondendo il pensiero del filosofo, che inquadra nel contesto storico in cui visse e operò. Porta illustri esempi di filosofi del Cinquecento, Seicento, Settecento, per esaltare l’eroismo di Vanini, e tuttavia non si sottrae a quella visione che erroneamente lo considerava un martire della repressione cristiana se non un Giordano Bruno minore. Da citare anche l’opera Nelle terre di Antonio Galateo, [16]che faceva riferimento al grande autore del De situ Iapigiae, l’erudito del Cinquecento Antonio De Ferraris, di Galatone.
In tutto, si conservano circa 40 opere di Marti presso la Biblioteca provinciale di Lecce, che gli costarono molti anni di paziente ricerca, agevolata sicuramente dal suo incarico di Direttore della Biblioteca provinciale, nella quale egli profuse grandissimo impegno e amore per la nobile cultura di cui si sentiva paladino. Per questo, esaminò un numero impressionante di documenti e svolse ricerche sul campo per tutto il corso della sua carriera. Pietro Marti muore il 18 luglio 1933; a lui a Ruffano, è anche intitolata una via.
Note
[1] Si rinvia a Francesco De Paola, Stefano Ciurlia, L’istruzione elementare nella Taurisano del Novecento: esperienza, memoria, immagini, in Aa. Vv., Humanitas et Civitas. Studi in memoria di Luigi Crudo, a cura di Giuseppe Caramuscio e Francesco De Paola, Società di Storia Patria-Sezione di Lecce, “Quaderni de l’Idomeneo”, Galatina, Edipan, 2010, pp.123-184.
[2] Si veda Aldo de Bernart, Il maestro di scuola nel Salento Borbonico, Tipografia di Matino, 1965.
[3] Aldo de Bernart, Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca –Alfonso Mellusi, Galatina, Congedo, 1990.
[4] Aldo de Bernart, Carmelo Arnisi e il suo tempo, in Aldo de Bernart, Ermanno Inguscio e Luigi Scorrano, Carmelo Arnisi Un maestro poeta dell’Ottocento, Galatina, Congedo, 2003, p17.
[5] Alfonso Mellusi, Catechismo religioso comparato con la storia sacra, Lecce, Tip. Gaetano Campanella, 1868.
[6] Aldo de Bernart, Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca –Alfonso Mellusi cit., p.10.
[7] Ermanno Inguscio, La civica amministrazione di Ruffano-Profilo storico, Galatina, Congedo,1999, pp.176-179 ed anche Idem, Amici e mecenati in alcune liriche del poeta Carmelo Arnisi (1859-1909), in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria sezione Maglie, n. XII, Lecce, Argo, 2000, pp.193-203.
[8] Aldo de Bernart, Ermanno Inguscio e Luigi Scorrano, Carmelo Arnisi – Un maestro poeta dell’Ottocento, Galatina, Congedo, 2003.
[9] Aldo de Bernart, Carmelo Arnisi e il suo tempo, in op.cit., p.19.
[10] Pietro Marti, Lutto nell’arte, in “La Democrazia”, n.27, Lecce, 11 luglio 1909, riportato da Ermanno Inguscio nel suo saggio Carmelo Arnisi (1859-1909) L’uomo il poeta, in Carmelo Arnisi – Un maestro poeta dell’Ottocento cit., p.38, nel quale riporta anche il necrologio dell’Arnisi scritto sul “Corriere Meridionale” dell’8 luglio 1909: Ivi, p.29.
[12] Sulla figura dell’erudito Pietro Marti (1863-1933), storico, giornalista, conferenziere, illustre concittadino di Ruffano, esiste una cospicua bibliografia. Tra gli altri:
Carlo Villani, Scrittori ed artisti pugliesi antichi, moderni e contemporanei, Trani, Vallecchi, 1904, p.578 (nuova edizione Napoli, Morano, 1920, pp-137-138); Domenico Giusto, Dizionario bio-bibliografico degli scrittori pugliesi (dalla Rivoluzione Francese alla rivoluzione fascista), Bari, Società Editrice Tipografica, 1929, pp.187-188; Aldo de Bernart, Nel I centenario della nascita di Pietro Marti, in “La Zagaglia”, Lecce, n. 21, 1964, pp.63-64; Pasquale Sorrenti, Repertorio bibliografico degli scrittori pugliesi contemporanei, Bari, Savarese, 1976, pp.375-376; Ermanno Inguscio, La civica amministrazione di Ruffano (1861-1999). Profilo storico, Galatina, Congedo, 1999, pp.174-175; Paolo Vincenti, Pietro Marti da Ruffano, in “NuovAlba”, dicembre 2005, Parabita, 2005, pp-17-18; Aldo de Bernart, In margine alla figura di Pietro Marti, in “NuovAlba”, aprile 2006, Parabita, 2006, p.15; Ermanno Inguscio, Vanini nel pensiero di Pietro Marti, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia sezione di Maglie, n. XX, Lecce, Argo, 2009, pp.137-148;Idem, Pietro Marti direttore di giornali, in “Terra di Leuca. Rivista bimensile d’informazione, storia, cultura e politica”, Tricase, Iride Edizioni, a. VII, n. 39, 2010, p. 6; Idem, L’attività giornalistica di Pietro Marti, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia sezione di Maglie, n. XXI, Lecce, Argo, 2010-2011, pp.227-234; Idem, Il giornalista Pietro Marti, in “Terra di Leuca. Rivista bimensile d’informazione, storia, cultura e politica”, Tricase, Iride Edizioni, a.VIII, n.40, 2011, p.7; Idem, Liborio Romano e le ragioni del Sud nel periodo postunitario. Il contributo di Pietro Marti sul patriota salentino, in “Risorgimento e Mezzogiorno. Rassegna di studi storici”, n.43-44, dicembre 2011, Bari, Levante, 2011, pp.147-161; Idem, Pietro Marti e la cultura salentina. Apologia di Liborio Romano, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia sezione di Maglie, n. XXII, Lecce, Grifo,2012, pp.164-185; Aldo de Bernart, Cenni sulla figura di Pietro Marti da Ruffano, Memorabilia n.35, Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis,2012; Ermanno Inguscio, Pietro Marti, il giornalista, il conferenziere, il polemista, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia sezione di Maglie, n. XXIII, Lecce, Argo, 2013, pp.40-58; Idem, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013.
[13] Pietro Marti, Antonio Bortone e la sua opera, Lecce, 1931.
[14] Pietro Marti, Giulio Cesare Vanini, Lecce, Editrice Leccese, 1907; su quest’opera si sofferma Ermanno Inguscio in Vanini nel pensiero di Pietro Marti, contenuto nel suo libro Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013, pp.123-134.
[15] Vittorio Bodini, In memoria di Pietro Marti. La vita e l’opera, in “La Voce del Salento”, n,11, Lecce, 18 maggio 1933, p.1.
[16] Pietro Marti, Nelle terre di Antonio Galateo, Lecce, 1930.
La recente novità editoriale Tra fede e tradizione. Le Confraternite della diocesi di Nardò-Gallipoli, a cura di Marcello Gabalo e Fabio Cavallo, è stata pubblicata per i tipi della Claudio Grenzi Editore (ottobrel 2023).
L’opera consta di 645 pagine, cartonata, con sovraccoperta a colori,che riproduce sul fronte il particolare di una tela, del pittore neritino Donato Antonio D’Orlando (1562/ 1636), raffigurante l’Allegoria del Sangue e del Corpo di Cristo (inizi XVII sec.), conservata nella chiesa matrice di Seclì. Vi compaiono i confratelli incappucciati dell’antica confraternita del Sacramento, i quali, preceduti da un portacroce, sono prostrati in adorazione di Gesù che versa il proprio sangue in un calice sorretto da un angelo. L’abito dei confratelli presenta l’emblema del sodalizio, con il calice e l’ostia.
La scelta di questa immagine esprime in maniera appropriata quanto è contenuto nel poderoso volume, che si apre con il contributo di quattro presentazioni, a firma di importanti figure diocesane (in primis il Vescovo della diocesi di Nardò- Gallipoli, Mons. Fernando Filograna, seguito da Mons. Giuliano Santantonio Vicario generale della diocesi, e Don Giuseppe Casciaro, Assistente spirituale diocesano delle Confraternite). L’Introduzione è a cura di Luigi Nocita, direttore dell’Ufficio Diocesano delle Confraternite.
Il Vescovo esordisce citando un brano dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (nn. 123-126), laddove Papa Francesco sottolinea che la fede incarnata in una cultura trova le sue modalità di trasmissione nelle diverse forme di pietà popolare. Una di queste è quella che si ritrova nella storia delle Confraternite. Il presule elogia il lavoro svolto dai curatori dell’opera, con l’ausilio dei Priori e di vari studiosi, grazie ai quali è venuta alla luce la presente pubblicazione.
L’augurio è quello che anche oggi, epoca caratterizzata da innumerevoli sfide, le Confraternite possano svolgere il prezioso ruolo di “scuole di fede popolare, fucine di santità […]” e sappiano “rispondere”, attraverso un cammino sinodale e missionario, “ai bisogni e alle urgenze del nostro tempo”.
Nel suo intervento Mons. Giuliano Santantonio fa notare come il volume presenti una panoramica del fenomeno confraternale, che pone al centro realtà che non avevano ancora goduto delle “luci della ribalta”. Egli, tuttavia, non esclude il rischio di un inesorabile declino dovuto a pratiche percepite come obsolete e ripetitive, ragion per cui ritiene che vadano recuperate le basilari istanze spirituali e sociali che ne costituiscono la genesi.
Don Giuseppe Casciaro, nel congratularsi per il lavoro svolto, rammenta il percorso pastorale della Chiesa Diocesana a partire dall’insediamento nella sede episcopale diocesana di S. E. Mons. Fernando Filograna.
Il Diacono Prof. Luigi Nocita, denota come numerosi confratelli avvertissero da tempo l’esigenza di conoscere l’origine della propria istituzione e gli sviluppi successivi, pienamente soddisfatti con i testi che si susseguono. L’opera difatti consente di cogliere con uno sguardo d’insieme le varie realtà confraternali della diocesi, quasi sempre differenti nelle tradizioni e nel carisma.
Marco Carratta propone due illuminanti saggi introduttivi. Il primo, Per una storia del fenomeno confraternale, contiene i dati storici relativi a numerose Confraternite, le quali risultano attive già nell’Alto Medioevo, divenendo una componente fondamentale della società nel XIII secolo. Esse sorgono per iniziativa di singoli o sospinte da vari ordini religiosi, i quali, come interpreti delle inquietudini presenti nel popolo dei fedeli, si adoperano per arginare fratture emergenti nel rapporto tra Chiesa e laicato pio. E’ attraverso di esse che nel XVII secolo vengono promossi gli ideali post-tridentini, atti a combattere la Riforma Protestante (Scisma occidentale). Le confraternite hanno svolto attività di assistenza reciproca, di apostolato, invogliando i propri adepti ad atti di devozione e aderenza alla liturgia. Compito del Vescovo era di vigilare su tali organizzazioni laicali, la cui stagione più proficua è quella del secolo XVII. In seguito varie riforme secolari riducono la loro sfera di azione.
Nel secondo saggio, I rapporti tra le istituzioni secolari e confraternite durante il regime borbonico. L’esempio della Confraternita dell’Annunziata e del Carmine di Nardò, Carratta indaga i rapporti tra istituzioni secolari e Confraternite, registrandosi in questo periodo una maggiore incidenza dell’azione del potere politico.
In seguito il libro passa in rassegna le diverse Confraternite (59), trattate singolarmente con propria scheda, raggruppate in ordine alfabetico per ognuno dei Comuni della Diocesi. Si parte da Alezio per finire con Tuglie. Risaltano per ovvi motivi di consistenza numericica le realtà confraternali di Gallipoli e Nardò, i cui sodalizi occupano buona parte delle schede riportate.
Di ogni Comune la prima parte è dedicata alle confraternite tuttora esistenti, le quali vengono descritte a partire dall’anno della fondazione, con il relativo Statuto, le regole adottate, le principali opere artistiche di cui sono in posseso, l’abito usato nelle cerimonie religiose, il gonfalone. Alla fine di ogni scheda viene riportata la composizione dell’attuale Consiglio, in cui vengono elencati il nome del Priore, degli assistenti, dei consiglieri e delle altre cariche sociali, del Padre spirituale, con il numero totale degli iscritti, distinti per sesso (i dati sono aggiornati all’anno 2022).
Il ricco apparato iconografico, in buona parte realizzato da Lino Rosponi, si avvale di numerosi altri fotografi, e attira l’attenzione del lettore per i molteplici aspetti che in buona parte erano sconosciuti o comunque poco noti.
Un vero e proprio repertorio storico d’insieme, supportato dalle ricerche dei tanti studiosi che firmano le schede, molti dei quali priori delle stesse. Senz’altro apprezzabile la completa bibliografia e le fonti di archivio riportate a fine scheda, utili per chi intende approfondire le tante realtà. Anche i rimandi alle varie opere d’arte commissionate dalle Confraternite si rivelano importanti, aprendo nuovi campi di ricerca.
Con questo volume la storia delle varie confraternite della diocesi di Nardò-Gallipoli, non sarà più un segreto. Ne risulta un testo basilare per chiunque voglia studiare o soltanto conoscere il mondo confraternale diocesano.
Da segnalare nel ricco apparato iconografico frontespizi di libri confraternali, documenti manoscritti, incisioni, tele, statue, tabernacoli, altari, reliquiari, bastoni di priori, stendardi, tabelle di legno, tronetti eucaristici, ostensori, scapolari, abiti devozionali, repositori. Interessanti anche le foto di processioni e di confratelli, di alcune pratiche di pietà, tant che difficilmente se ne potrebbe rinvenire l’eguale.
Nel volume trovano posto anche le Confraternite ormai estinte, anche queste trattate con altrettanta cura e con ampia documentazione. Si ricava, ad esempio, che due paesi della diocesi (Seclì e Copertino) oggi risultano sprovvisti di queste realtà. Ciò dispiace soprattutto per la città che ha dato i natali al santo dei voli e che un tempo era provvista di numerose Confraternite.
Ma sono tanti gli approfondimenti, tra i quali l’antichissima Confraternita della Misericordia di Nardò, anche questa estinta. Alle “Misericordie” attuali, di recente istituzione ed operanti in alcuni Comuni della Diocesi, è dedicato un apposito capitolo.
In conclusione viene offerta la visione panoramica delle antiche e attuali confraternite, con interesanti statistiche che mostrano i dati riassuntivi e globali relativi al numero degli iscritti, distinti per sesso.
Finalmente, chiunque vorrà informarsi su una qualsiasi confraternita diocesana, avrà a disposizione il testo adatto, indispensabile per ogni membro delle confraternite, per il clero e per gli studiosi della materia.
Come già sappiamo, i Calabri scacciati da Taranto dai Parteni trovarono rifugio a Brindisi25; mentre nulla s’è detto dei nostri concittadini che si trovavano a sud-ovest di Taranto e che, a prima vista, non sembrerebbero aver lasciato traccia alcuna. Di certo dovettero cedere il passo agli Achei, che precedettero l’arrivo dei Parteni, stabilendosi nel tempo su entrambe le coste dell’attuale Calabria.
In linea teorica si può presupporre che, al pari di quanto fecero altri indigeni depredati dai colonizzatori, molti di loro si spostarono nell’entroterra cercando di riorganizzarsi. La gran parte, però, non volle lasciare del tutto libero il campo agli invasori e, sfruttando le politiche distensive e di coesistenza attuate dai coloni di Sibari nei riguardi dei nativi, riuscì a ritagliarsi un proprio spazio presumibilmente nella Siritide, mantenendo nel contempo un certo legame con la madrepatria. La loro presenza in quella zona la si può intravedere nel concreto nell’alleanza che Brindisi stipulò con i Turini e, soprattutto in un brano molto controverso di Strabone.
Prima di vedere quale, è utile però chiarire il significato che il geografo pontico assegnava agli etnici ed ai coronimi utilizzati. Dagli scritti emerge con chiarezza che per Strabone, Iapigia e Calabria erano di fatto sinonimi tra loro. Quindi, a differenza di tanti altri autori, per lui la Iapigia non era una più vasta regione che conteneva la Calabria, ma s’identificava con essa. Per quanto riguarda gli etnici, invece, si nota che quando egli parlava degli Iapigi intendeva indistintamente gli abitanti (Calabri e Salentini) della Calabria. Quando la questione riguardava espressamente i Salentini, il geografo usava però lo specifico etnico Salentinoi (Σαλεντῖνοi), mentre, se erano coinvolti i soli Calabri, non si serviva del termine epicorio Kalabroì (Καλαβροὶ), che infatti non usa mai, ma di quello di matrice greca, vale a dire Messapi. Per cui, per Strabone unicamente i Calabri erano propriamente Messapi, mentre i Salentini non lo erano.
Ebbene mentre Strabone tratta della decadenza cui era soggetta Taranto, costretta per difendersi dai suoi nemici a ricorrere frequentemente a comandanti forestieri (ξενικοῖς26), Strabone inserisce un’informazione fuori contesto che ha tolto il sonno a parecchi specialisti. Appena finito di narrare i fatti avvenuti attorno al 330 a.C., in cui Alessandro il Molosso, venuto in soccorso di Taranto, era stato destinato all’insuccesso proprio a causa dell’ingratitudine dei Tarantini, introduce infatti all’improvviso un argomento del tutto diverso, affermando : «Essi [i Tarantini] si scontrarono con i Messapi per il possesso di Eraclea, fruendo dell’aiuto del re dei Dauni e di quello dei Peucezi» («Πρὸς δὲ Μεσσαπίους ἐπολέμησαν περὶ Ἡρακλείας, ἔχοντες συνεργοὺς τόν τε τῶν Δαυνίων καὶ τὸν τῶν Πευκετίων βασιλέα»27).
Senza andare dietro ai diversi dubbi che tormentano gli storici, ci si soffermerà solo su quelli di possibile interesse.
La principale questione controversa è di carattere cronologico, cioè a dire non si è in grado di datare in maniera condivisa questa contesa accesasi tra Tarantini e Messapi per il possesso di Eraclea. Se la si pone al tempo di Alessandro il Molosso, vale a dire tra il 334 ed il 330 a.C., i Messapi (o per dire meglio, i Calabri) sembrano del tutto fuori posto come competitori, dal momento che, come già riferito, con il condottiero epirota avevano stipulato un trattato di pace. Era piuttosto con i Lucani che in quegli anni i Tarantini avevano frequenti attriti, avendo appunto loro strappato Eraclea, proprio grazie all’aiuto di Alessandro il Molosso.
Se invece lo scontro si riferisce ad una data precedente, allora non può che riguardare la fondazione di Eraclea, e quindi un secolo e più prima (444 o 443 a.C.), quando il conflitto sorse tra Taranto e Thurii. Nel tal caso, il coinvolgimento dei Messapi potrebbe essere pensato come di supporto ai Turini con i quali erano, come detto, alleati. Però questa ipotesi solleva un dubbio del tutto spontaneo. Constatato che erano i Turini i maggiori interessati alla questione, non si capisce come mai Strabone non li citasse neppure, mettendo invece in rilievo la partecipazione dei Messapi che, data la lontananza dei loro insediamenti con il teatro dello scontro, non potevano certo essere la forza più consistente in contrasto con i Tarantini.
Come questa, ogni altra possibile collocazione temporale avanzata ha finito per sollevare a sua volta problemi irrisolvibili, sicché i più hanno dovuto amaramente concludere che la notizia data da Strabone non sia del tutto corretta e che di conseguenza necessiti d’essere in parte emendata. Fatto sta che neppure sulle correzioni da apportare si è riusciti a trovare un accordo condiviso, anche perché a sparigliare le carte ed a creare il maggiore imbarazzo è proprio la presenza dei Messapi in una zona non di loro pertinenza. Quello che in definitiva risulta inspiegabile è perché mai i Messapi si fossero lasciati coinvolgere in un conflitto che si svolgeva in un territorio così lontano dal proprio.
Tutto potrebbe risultare più comprensibile se, in linea con l’ipotesi fatta, si accettasse che i Calabri di Brindisi si trovavano in quella zona perché vi dimoravano e che queste azioni belliche rientravano in un più ampio contesto di difesa degli ultimi lembi di terra rimasti in loro possesso, così come facevano in maniera indistinta tutti gli altri italici della zona. In questa ottica, l’episodio narrato da Strabone farebbe pertanto parte dei tentativi compiuti dai Brindisini di frenare l’avanzata tarantina verso Metaponto e la Siritide e di conservare il territorio in cui erano stati relegati.
Se così è, potremmo ipotizzare che le enclave del passato dominio, o della Brentesìa per usare il vocabolo di Eustazio, si collocavano tra Thurii e Taranto, e questa supposizione, oltre a spiegare i motivi della contesa con i Tarantini per Eraclea, valorizzerebbe pure l’alleanza che i Brindisini avevano stipulato con Thurii che, allo stesso modo, aveva tutto l’interesse che Taranto non estendesse i suoi confini nella Siritide.
Come si può notare l’ipotesi che i Calabri di Brindisi possano essersi insediati ben oltre i confini del Salento prende sempre più corpo, e troverà ancor più avallo dall’esame di un episodio che rese i Calabri ed i Salentini tristemente noti ai colonizzatori greci.
L’aspetto strano è che, in questo caso, gli studiosi sono tutti d’accordo sull’interpretazione da dare alla vicenda, solo che non si sono preoccupati di valutare alcuni aspetti di contorno niente affatto banali.
Si è già avuto modo di narrare l’avvenimento in un’altra occasione dandogli il dovuto rilievo, in quanto, a detta di Erodoto, rappresentava la più grande strage di Greci («φόνος Ἑλληνικὸς μέγιστος») tra tutte quelle di cui si aveva al suo tempo conoscenza28. Lo si riassume di seguito per analizzare i punti di maggiore interesse per il tema trattato.
Racconta Diodoro che tra il 473 ed il 472 a.C. scoppiò in Italia una contesa tra i Tarantini e gli Iapigi, «venuti ad urto per contrasti sorti su zone ai loro confini» («περὶ γὰρ ὁμόρου χώρας ἀμφισβητούντων πρὸς ἀλλήλους»); contrasti che divennero scontri sempre più aspri, sino a sfociare in un aperto conflitto29.
Ora, dal momento che la disputa riguardava zone di confine, è naturale presumere che gli Iapigi maggiormente coinvolti in questo caso fossero i Calabri di Brindisi, il cui territorio confinava appunto con quello dei Tarantini. Ebbene, costretti dall’aggressività dei Parteni, i Brindisini reagirono con tale decisione che in breve tempo, coadiuvati dai Salentini, dai Pedicli e da altri popoli confinanti, approntarono un grande esercito composto da più di 20.000 uomini30 a cui Taranto si preparò ad opporsi alleandosi con i Reggini. La battaglia campale che ne seguì fu violenta e determinò molte vittime in entrambi i campi ma, alla fine, vide prevalere i Brindisini ed i suoi alleati. A questo punto, Diodoro così prosegue: «nella fuga gli sconfitti si separarono in due contingenti, dei quali il primo si ritirò a Taranto e l’altro fuggì verso Reggio. In maniera analoga si divisero anche gli Iapigi: quelli che inseguirono i Tarantini, essendo breve la distanza, fecero grande strage dei nemici; gli altri che s’erano posti all’inseguimento dei Reggini dimostrarono un tale ardore da far pensare che volessero piombare insieme ai fuggitivi a Reggio per impadronirsi della città» («Τῶν δὲ ἡττηθέντων εἰς δύο μέρη σχισθέντων κατὰ τὴν φυγήν, καὶ τῶν μὲν εἰς Τάραντα τὴν ἀναχώρησιν ποιουμένων, τῶν δὲ εἰς τὸ Ῥήγιον φευγόντων, παραπλησίως τούτοις καὶ οἱ Ἰάπυγες ἐμερίσθησαν. Οἱ μὲν οὖν τοὺς Ταραντίνους διώξαντες ὀλίγου διαστήματος ὄντος πολλοὺς τῶν ἐναντίων ἀνεῖλον, οἱ δὲ τοὺς Ῥηγίνους διώκοντες ἐπὶ τοσοῦτον ἐφιλοτιμήθησαν ὥστε συνεισπεσεῖν τοῖς φεύγουσιν εἰς τὸ Ῥήγιον καὶ τῆς πόλεως κυριεῦσαι»31).
Alla fine Erodoto fa la conta dei morti32: tremila reggini ed ancor più i Tarantini, il cui numero fu talmente alto da non poter neppure essere calcolato.
La cosa qui più interessante da sottolineare è tuttavia un’altra: il racconto di Diodoro offre informazioni di dettaglio di notevole rilievo, meritevoli di un’attenta valutazione non fosse altro per comprendere dove questa battaglia, tanto famosa ma ugualmente rimasta senza nome, abbia potuto avere svolgimento. Va infatti sottolineato che le fonti non sono per nulla esplicite su dove questo epico scontro sia avvenuto, anche se la questione non ha turbato più di tanto gli specialisti, sicuri che la località in questione, seppure sconosciuta, non poteva che trovarsi tra Taranto e Brindisi, apparendo del tutto scontato che quella era l’unica zona di confine tra le due città.
Invece, proprio il resoconto dello storico siciliano, indica in maniera evidente che il terreno dello scontro non possa essere stato quello.
Lo si comprende in maniera evidente da due aspetti.
Il primo riguarda il coinvolgimento dei Reggini. Sia pure in maniera vaga, il fatto che i Reggini si siano lasciati coinvolgere nella contesa dai Tarantini può già far pensare che le dispute di frontiera non riguardassero solo i confini ad est di Taranto, ma anche di quelli ad ovest ed a sud-ovest della città ionica. Vale a dire una zona che i Reggini avevano tutto l’interesse fosse controllata da una città alleata piuttosto che da una comunità nemica. Il secondo, ben più preciso, è che al momento della disfatta i Tarantini ed i Reggini si separarono, dandosi alla fuga per vie diverse.
Ebbene,tenuto presente che nelle battaglie oplitiche, come quella che si racconta, chi soccombeva aveva tutto l’interesse a mantenere i ranghi più compatti possibile, perché in caso contrario finiva per essere alla mercé di chi aveva preso il sopravvento, non si capisce come mai i Reggini ed i Tarantini si separarono, adottando la peggiore strategia possibile che risultava in realtà un vera e propria scelta suicida. Infatti, se la battaglia è avvenuta come comunemente si crede ad est di Taranto, non c’era motivo che i due contingenti si separassero, essendo l’unica via di fuga possibile proprio quella che avrebbe consentito loro di trovare riparo a Taranto, da dove i Reggini erano in aggiunta costretti a transitare, se volevano poi ritornare a Reggio. Tra le altre cose, in tal caso, non si capisce neppure come abbiano potuto i Brindisini inseguire i Reggini sino a Reggio, visto che per farlo avrebbero dovuto compiere un’impresa impossibile, vale a dire prima conquistare Taranto che si frapponeva al loro inseguimento.
Ora, salvo che Diodoro non si sia inventato ogni cosa, la risposta obbligata che si può dare è che lo scontro non avvenne ad est di Taranto ma dalla parte opposta a sud-ovest della città ionica, con ogni probabilità in una località tra Metaponto e Sibari. Questo diverso scenario renderebbe infatti plausibile perché mai i Reggini decisero di separarsi, preferendo fuggire verso la propria città, piuttosto che dirigersi verso Taranto che pure, come detto, si trovava più vicina. Di fatto i due gruppi si separarono perché, per raggiungere ciascuno di loro la propria città, dovevano necessariamente fuggire in direzioni opposte. E furono di conseguenza inseguiti dai Calabri di Brindisi sin sotto le mura delle loro città.
Altra inevitabile conclusione è che nel primo trentennio del V secolo a.C., quando si svolse questo epico scontro, i Brindisini erano ancora stanziati a sud-ovest di Taranto in una non meglio identificata zona della Siritide. In caso contrario, non sarebbero stati in grado di affrontare una battaglia campale di quella portata in luoghi così lontani dai propri insediamenti, privi come sarebbero stati dei necessari rifornimenti.
In conclusione, il racconto dettagliato di Diodoro sull’epilogo della mischia che portò alla più grande strage di Greci rende evidente che la Calabria, la quale ai tempi di Strabone coincideva più o meno con l’attuale Salento, in precedenza, prima dell’arrivo dei coloni greci, si estendeva a nord sino a quasi il fiume Ofanto ed a sud-ovest sino a Crotone. L’arrivo degli Achei ridimensionò questi confini facendoli arretrare sul versante ionico poco a sud di Eraclea; quello dei Parteni privò i possedimenti di Brindisi dapprima del territorio tarantino e successivamente della Siritide. In questo contesto la fondazione di Eraclea, invano contesa ai Tarantini, come testimoniato da Strabone, rappresenta l’epilogo della presenza brindisina al di fuori del Salento. Si può quindi datare al 434-433 a.C. la fine del dominio dei calabri di Brindisi nelle zone delle attuali Lucania e Calabria.
La fine del dominio brindisino in Siritide
Impossibile avere certezze su come si sviluppò la successiva storia delle popolazioni brindisine rimaste separate dalla madrepatria, non essendo rimasta nelle fonti narrative nessuna loro traccia.
Possono però farsi delle ipotesi.
Con ogni probabilità, dopo la perdita di Eraclea, furono relegati nelle zone più interne e più impervie, dove i coloni greci non riuscivano ad imporre la loro egemonia. Poi si raggrupparono con altre genti scacciate dai Greci oppure, in situazione magari di sudditanza con altre popolazioni indigene, attesero l’arrivo di tempi migliori.
Nel frattempo anche il mondo della Magna Grecia incominciava la sua parabola discendente e le genti italiche, in particolare i Lucani, comparsi sulla scena nel V secolo a.C., passarono all’inizio del secolo successivo al contrattacco. La loro predisposizione alle doti guerresche, esercitate ed educate con rigore simile a quello spartano sin dalla più tenera età, li rendeva particolarmente temibili ed idonei ad esercitare una forte egemonia sulle popolazioni italiche della zona.
Qualche decennio dopo si affacciò sul palcoscenico della storia un altro popolo agguerrito, di cui non si aveva mai avuto prima menzione, i Brettii, la cui genesi fornirà spunti utili per comprendere cosa ne fu dei Brindisini rimasti nel territorio magnogreco.
Tutte queste apparizioni, troppo improvvise per poter essere davvero tali, sono spiegabili solo alla luce di complesse dinamiche di trasformazione sociale e territoriale avvenute tra le popolazioni italiche lì dimoranti. In pratica i Lucani ed i Brettii possono considerarsi le nuove compagini che si sostituivano alle precedenti, dopo averle integrate e modificate sia a livello sociale, sia a livello di dislocazione territoriale. La stessa genesi dei Brettii — quella dei Lucani esula dagli interessi di questo intervento — fornisce l’esempio concreto delle trasformazioni in atto in un mondo sconvolto dalla colonizzazione greca. Per quanto le fonti narrative antiche ci forniscano notizie discordanti in merito, c’è un aspetto che le accomuna nell’indicare che i Brettii facevano inizialmente parte di una società, definibile Lucana, in quanto i Lucani vi esercitavano un evidente predominio.
Se da un punto di vista storiografico i Lucani sono documentati presenti nell’attuale Calabria dal V secolo a.C., quando accolgono i pitagorici scacciati dai Crotoniati, i Brettii lo sono solo dal decennio 360/350 a.C. A detta di Diodoro, che nella sua “Biblioteca” raccoglieva notizie provenienti da più fonti, durante il consolato di M. Popilio Lena e C. Manlio Imperioso (359 a.C.) «si raccolse in Lucania una moltitudine di gente mista, venuta da ogni dove, la maggior parte servi fuggitivi. Questi all’inizio vissero come predoni, e per l’abitudine a dimorare all’aperto e alle incursioni acquisirono esperienza e pratica nelle attività militari. Perciò, essendo risultati superiori in battaglia ai propri vicini, divennero molto potenti. Dapprima assediarono e misero a sacco la città di Terina, poi, conquistate Ipponio, Thurii e molte altre città, costituirono un assetto politico comune (κοινὴν πολιτείαν). Furono chiamati Brettioi perché erano per lo più schiavi. Infatti gli schiavi fuggitivi erano appunto chiamati Brettioi nella lingua delle genti del luogo»33.
Più stringata, ma anche più circostanziata, la versione fornita da Strabone il quale riferisce che i Brettii avevano ricevuto il nome dai Lucani che così chiamavano i ribelli (ἀποστάται); dapprima erano stati dediti alla pastorizia al servizio dei Lucani e successivamente s’erano resi liberi «quando Dione fece guerra a Dionisio sollevando tutti contro tutti [357-356 a.C.]»34. Il geografo indica poi che la loro metropoli era Cosentia (Cosenza) ed occupavano l’estrema penisola dell’attuale Calabria a sud dell’istmo tra Skylletion ed il golfo di Hipponion (all’incirca dalla costa poco a sud da Catanzaro a Vibo Valentia)35.
In epoca più tarda è da porsi la tradizione che si deve a Pompeo Trogo nell’epitome fatta da Giustino che, dopo aver messo in rilievo il loro coraggio, la loro ricchezza e l’aggressività che li aveva resi particolarmente temibili agli occhi dei popoli vicini, narra la loro origine causata da una banda di cinquanta giovani lucani i quali, ripudiato il rigorose regime militare di stampo spartano con cui erano educati, s’erano uniti per compiere saccheggi a danno dei propri vicini36. Dati i successi, la banda aveva visto gonfiare le proprie fila da una moltitudine di gente diversa finendo per divenire il terrore dell’intera regione, sinché Dionisio, il tiranno di Siracusa, sollecitato dai propri alleati, non aveva tentato di porvi rimedio inviando seicento mercenari africani37. Pure i mercenari però risultarono sconfitti e la loro cittadella conquistata dai rivoltosi, grazie all’aiuto di una donna chiamata Bruzia, dalla quale assunsero il nome di Bruttii. Proprio la cittadella strappata ai mercenari fu il loro primo insediamento ufficiale, divenuto presto asilo di tutti i pastori che vivevano nelle vicinanze38.
Oltre a sottolineare la loro originaria sudditanza dai Lucani, i resoconti mettono in evidenza come il loro peso militare e politico, emerso alla metà del IV secolo a.C., fosse comunque l’esito finale d’un processo iniziato molto tempo prima. Altro aspetto rilevante per i nostri scopi, è anche il rilievo dato all’eterogeneità dei Brettii, alla cui composizione contribuirono popoli diversi. In altre parole i Brettii si formarono a seguito di complesse dinamiche di trasformazione, tra le altre cose proprio nel mentre sparivano dalla scena storica popoli come gli Enotri, gli Ausoni, i Choni ed i rimasugli dei Calabri di Brindisi lì trapiantati.
Per cui non pare troppo azzardato ipotizzare che i Brettii avessero accolto tra le proprie fila la maggior parte di coloro che volevano rivalersi dei soprusi subiti a seguito delle successive ondate di colonizzazione.
C’è una vecchia teoria della illiricità etnica dei Brettii, presupposta dal presunto nome illirico da loro assunto e da altre convergenze toponomastiche39, che non intendo certo riscoprire se non per evidenziare alcune analogie tra questo popolo e quello dei Brindisini spodestati dagli Achei e dai Tarantini. Il richiamo a tale ormai superata ipotesi è fatto perché l’interpretazione dell’etnico, Βρέττιοι (Brettioi), suggerisce accostamenti degni di nota con Brindisi.
Stefano Bizantino40 parla infatti di un’isola nell’Adriatico, «Βρεττία νῆσος» (l’isola Brettia), a cui i Greci davano un’altra denominazione, l’isola dei cervi («Ἐλαφοῦσσα»), e ribadisce che anche il nome di Brindisi («Βρεντέσιονπόλις») era dovuto alla somiglianza del suo porto con una testa di cervo («βρέντιον γὰρ παρὰ Μεσσαπίοις ἡ τῆς ἐλάφου κεφαλή»), aggiungendo un altro significativo accostamento: il termine Brindisi derivava da Brento, figlio di Eracle, al pari dei Brettii che discendevano da Bretto, anch’egli figlio di Eracle.
Un altro possibile collegamento tra Brindisi ed i Brettii è riscontrabile inoltre in Dionisio d’Alessandria il quale in un breve accenno dei Lucani e dei Brettii41 chiama questi ultimi Βρέντιοι (Brentioi), invece di Βρέττιοι (Brettioi), facendo intendere che l’etnico derivava da βρέντιον (Brention), vale a dire dallo stesso termine usato dai nostri antichi concittadini per indicare la testa di un cervo e da cui, come più volte riportato, originava il nome, Βρεντέσιον (Brentesion), dato dai Greci alla nostra città.
Ora questa preferenza data da Dionisio d’Alessandria alla forma Βρέντιοι, rispetto a Βρέττιοι di origine lucana, non pare del tutto casuale e sembra in aggiunta riferirsi ad una fonte ben più antica. Pertanto sembrerebbe avvalorare ancor più l’ipotesi che i termini Brentioi (Brettii) e Brentesion (Brindisi) abbiano avuto un’origine comune derivando entrambi da brention.
Se tutto ciò è naturalmente poco per sostenere una parentela etnica tra Brettii e Brindisini, è tuttavia non banale se considerata in un’altra ottica.
Si pensi, ad esempio ad altre possibili analogie.
Come i Brettii, la società Calabra della penisola salentina aveva una forte componente dedita alla pastorizia ed un etnico a cui la propaganda denigratoria tarantina assegnava simili connotazioni negative, accostandolo allo stesso modo agli schiavi. Tutti aspetti questi marginali, se la questione viene trattata da un punto di vista etnico, ma interessanti se valutati nel senso di tradizioni comuni.
Tradizioni che si può pensare i Brettii acquisirono nel corso del tempo, avendo accolto tra le proprie file i Brindisini, così come avevano fatto, a memoria di Diodoro e Giustino, con popolazioni di altra etnia. In definitiva non sembra tanto avventato supporre che una significativa componente della società Brettia fosse costituita dai Brindisini prima insediati tra Metaponto e Crotone.
Ed infatti in un passo, anch’esso del tutto trascurato dagli storici, ma del pari chiaro nella sua formulazione, Polibio, nell’elencare i popoli che abitano la costa ionica nel tratto che va da Taranto a Reggio, afferma che, oltre ai Lucani ed ai Brettii ci sono «tuttora dei Calabri» («ἔτι δὲ Καλαβροὶ»)42. Come dire che ancora all’epoca di Polibio, vale a dire nel II secolo a.C., c’erano ancora Brindisini che vivevano nei loro antichi possedimenti della Brentesìa. E la cosa viene comunicata in modo talmente spontaneo e senza darvi enfasi, da lasciar intendere che fosse del tutto naturale che in quegli anni ci fossero Calabri stanziati lontano dai loro usuali insediamenti.
In definitiva,era una notizia così scontata per un lettore dell’epoca che non c’era neppure bisogno di darle rilievo.
Questa è anche l’ultima traccia lasciata dai Calabri di Brindisi che avevano dovuto subire l’avanzata e la supremazia dei coloni Greci nel territorio tra Metaponto ed il Bruzio.
La fine dell’organizzazione politica dei Brettii fu repentina al pari della sua costituzione. Già al suo tempo, Strabone poteva affermare che dei Brettii «non sopravvive più nessuna organizzazione politica comune oppure usi comuni, e sono completamente scomparsi lingua, modo di armarsi, di abbigliarsi e ogni altra cosa di questo genere: in definitiva, considerati sia singolarmente, sia nel loro assieme, i loro insediamenti sono del tutto privi di ogni rilevanza»43.
Con i Brettii sparirono anche i Calabri di Brindisi della cui esistenza sarebbe il caso di prendere finalmente consapevolezza, viste le consistenti tracce da loro lasciate sin nel Bruzio.
(2 – fine)
Note
25 Giustino, Epitome delle storie filippiche di Pompeo Trogo, III 4, 11-12.
26 Strabone, Geografia, VI 3, 4.
27Ibidem.
28 Erodoto, Storie, VII 170.
29 Diodoro siculo, Biblioteca storica, XI 52, 1-2.
30Ibidem, XI 52, 3.
31Ibidem, XI 52, 4.
32 Erodoto, Storie, VII 170.
33 Diodoro siculo, Biblioteca storica, XVI 15, 1-2.
34 Strabone, Geografia, VI 1, 4.
35Ibidem, VI 1, 4-5.
36 Giustino, Epitome delle storie filippiche di Pompeo Trogo, XXXIII 1, 3/10.
37 Ibidem, XXXIII 1, 10-11.
38Ibidem, XXXIII 1, 12.
39 H. Rix, Bruttii, Brundisium und das illyrische Wort für ‘Hirsch’, in Beiträge zur Namenforschung, vol. 5 (1954), pp. 115/129.
40 Stefano Bizantino, Ethnica, voci Brentesion, Brettia e Brettos.
41 Dionisio d’Alessandria (I secolo d.C. – II secolo d.C.), Descriptio orbis, v. 362.
Quando si nomina un’antica regione si fornisce il suo coronimo e, per rendere più chiaro l’argomento, anche una sua caratterizzazione geografica. Nozioni queste che necessariamente si riferiscono ad un momento specifico e non tengono conto delle possibili evoluzioni intervenute nel corso del tempo. Per questo, quando si parla di periodi il cui intervallo è quantificato in secoli, le indicazioni date rischiano di risultare fuorvianti, in quanto si offre una situazione statica, mentre essa è di fatto soggetta a dinamiche che comportano a volte frequenti modifiche di denominazione ed anche di collocazione geografica. Di conseguenza i termini della questione vanno meglio precisati, anche se questo modo di procedere potrebbe far correre il rischio, almeno inizialmente, d’ingarbugliare ancor più la matassa.
Riferendosi alla penisola salentina, gli autori antichi e tardoantichi utilizzavano nomi diversi: Iapigia, Messapia, Calabria, terra dei Sallentini. L’unico che in antichità non le fu mai attribuito è quello di Salento che, invece, è il coronimo che in tempi moderni ha preso piede, spodestando tutti gli altri. C’è in aggiunta da ricordare che Messapia era il nome imposto dai Greci, Calabria quello che i nostri antichi concittadini s’erano scelto e, infine, terra dei Sallentini quello spesso usato dal mondo latino. Sappiamo inoltre che gli abitanti della Calabria — si preferirà nel prosieguo questo termine originato da una libera scelta dei nostri conterranei, rispetto a quello in genere più usato di Messapia coniato ed imposto da chi desiderava colonizzarli — si ripartivano, a seconda della zona d’insediamento in Calabri e Sallentini.
Per quanto riguarda la regione abitata dai Calabri e dai Sallentini, si indica in genere la zona contenuta dall’istmo che unisce la provincia di Taranto a quella di Brindisi, essendo questa di fatto la delimitazione all’incirca coincidente con quella attuale e con quella fatta da Erodoto nella più antica citazione a noi pervenuta1. Ed in effetti in epoca storica, salvo differenze di marginale entità, la Calabria s’è mantenuta sempre entro tali limiti, come rilevabile dalla maggior parte delle fonti narrative dell’epoca. Ciò non toglie che, in periodi antecedenti, la situazione era con ogni probabilità molto diversa, soprattutto per quanto riguarda gli insediamenti dei Calabri.
Purtroppo l’argomento non ha destato — né desta tuttora — grande curiosità tra gli storici più accreditati, per lo più scoraggiati dalla oggettiva difficoltà di affrontare un discorso del genere per la scarsezza delle fonti utilizzabili, sicché, come logica conseguenza, non si è mai indagato se i Calabri avessero avuto mire diverse dallo stare confinati entro i limiti territoriali già più volte definiti. Ed in effetti sulla questione si ha la disponibilità di pochi frammenti narrativi, in più di difficile interpretazione perché slegati in genere dal contesto, che non sembrano, quindi, a prima vista capaci di fornire un quadro in qualche modo definibile, nemmeno in maniera vaga ed imprecisa.
Ciò nonostante, per quanto limitate e di non univoca interpretazione, le tracce di cui si è in possesso lasciano in ogni caso intravedere realtà talmente interessanti da stimolare ad un loro ulteriore esame, magari con un approccio diverso dal solito e senza i soliti pregiudizi. Per questo si è deciso di affrontare un percorso mai intrapreso prima, se non in maniera embrionale, nell’intento di desumere quantomeno nuovi spunti e nuove informazioni, tutti utili a comprendere meglio l’evoluzione storica delle genti del Salento e, in particolare, dei nostri concittadini Calabri di Brindisi.
Va tenuto infine presente che gli autori latini e quelli greci non utilizzavano una terminologia comune: i primi privilegiavano i coronimi e gli etnici coniati dagli indigeni; i secondi preferivano quelli da loro stessi ideati. Per questo i Latini, riferendosi al Salento attuale, parlavano di Calabria, mentre i Greci di Messapia. In più alcuni autori, obbedendo un po’ alle mode e, soprattutto, alle specificità del proprio tempo, assegnavano agli stessi termini accezioni diverse da quelle canoniche. Ad esempio Livio e Plinio utilizzavano il termine Sallentini in maniera non troppo precisa e, il più delle volte, estesa anche ai Calabri. Per cui, ad esempio, i residenti di Brindisi e di Lupiae (l’attuale Lecce) venivano detti Sallentini, mentre più precisamente erano Calabri. La stessa cosa avveniva nell’uso dell’etnico Messapi, con cui i Greci non sempre identificavano tutti i residenti della nostra terra, ma, in certi casi in prevalenza i soli Calabri. Tali variazioni sul tema andranno sempre tenuti a mente e, se del caso, richiamati, se non si vorrà incorrere in inevitabili incomprensioni.
La Calabria prima della fondazione di Taranto
Alla fine del V secolo a.C. la Calabria combaciava a grandi linee con l’attuale Salento, però la sensazione netta è che prima avesse avuto un’estensione decisamente maggiore. Lo si è già potuto intravedere dai miti che prevedono Diomede come fondatore o come avversario di Brindisi. In essi si è infatti rilevato che l’influenza della nostra città arrivava sino a toccare i possedimenti dei Dauni ed addirittura quella degli Apuli, di cui, a dar credito a Trogo era di fatto la città più illustre2. Se si considera che gli Apuli si trovavano a nord dei Dauni, anche se con questi erano a volte confusi, e che, in ogni caso, occupavano le zone del foggiano, questo fa credere che la Calabria faceva allora un tutt’uno con la confinante Peucezia. Ora, secondo i geografi d’epoca romana, il paese dei Peucezi, o dei Poediculi, a seconda che si segua la terminologia greca oppure epicoria, si estendeva a nord del territorio di Brindisi, sino al fiume Aufidus (Ofanto)3, il che fa presupporre che l’influenza politica di Brindisi andava ben oltre il Salento, occupando anche l’attuale provincia di Bari, e che la Calabria si estendeva di conseguenza sino a quei luoghi.
Il fatto che in epoca remota la Calabria e la Peucezia fossero un’unica entità geografica, emerge non solo dal compendio dell’opera di Trogo — che, occorre sottolinearlo, insieme ad Asinio Pollione faceva parte della frangia di storici che dava una versione non allineata a quella imposta dal sistema augusteo e diffusa dall’opera di Tito Livio, e per questo più interessata alle tradizioni dei popoli soggiogati dai Romani — ma è per altro confermato da un passo di Dionisio di Alicarnasso troppo spesso trascurato. Narra infatti il retore cario che diciassette generazioni prima della spedizione contro Troia, Enotro abbandonò la Grecia4. Insieme con lui era il fratello Peucezio, il quale, «sbarcata la sua gente dalle parti del promontorio Iapigio, che fu il primo approdo da loro incontrato in Italia, vi si stabilì, ed è da lui che gli abitanti di quella regione sono chiamati Peucezi» («Πευκέτιος μὲν οὖν, ἔνθα τὸ πρῶτον ὡρμίσαντο τῆς Ἰταλίας, ὑπὲρ ἄκρας Ἰαπυγίας ἐκβιβάσας τὸν λεὼν αὐτοῦ καθιδρύεται, καὶ ἀπ’ αὐτοῦ οἱ περὶ ταῦτα τὰ χωρία οἰκοῦντες Πευκέτιοι ἐκλήθησαν»5).
Secondo questa versione, appare pertanto evidente che in epoca mitologica i Greci usavano il coronimo Peucezia per indicare la Puglia centro-meridionale comprendente quindi la Peucezia e la Calabria d’epoca classica. Va inoltre rilevato che in effetti questa testimonianza non è nemmeno unica, essendoci altri scritti, anch’essi trascurati perché ritenuti oscuri dalla critica storica, che propongono una stessa ipotesi. In particolare Liciniano, nell’epitome fatta da Solino, afferma che la Messapia, poi conosciuta come Calabria, aveva tratto origine dal Greco Messapo tuttavia, inizialmente, Peucezio, fratello di Enotro, l’aveva chiamata Peucezia («Liciniano placet a Messapo Graeco Messapiae datam originem, versam postmodum in nomen Calabriae, quam in exordio Oenotri frater Peucetius Peucetiam nominaverat»)6. E pure Plinio il Vecchio, parlando della Calabria, riferisce qualcosa di analogo: «I Greci la chiamarono Messapia da un condottiero e, prima ancora, Peucezia da Peucezio, fratello di Enotro, che si era stabilito nella terra dei Sallentini» («Graeci Messapiam a duce appellavere et ante Peucetiam a Peucetio Oenotri fratre in Sallentino agro»7).
Liciniano e Plinio il Vecchio dettagliano pertanto ancor più il discorso di Dionisio di Alicarnasso rendendo note le dinamiche che avevano interessato le terre dei nostri concittadini, ponendo però in chiaro che il primo nome usato dai Greci per identificarle era stato Peucezia e, solo in seguito, Messapia.
In pratica alla situazione canonica della Iapigia suddivisa in Daunia, Peucezia e Calabria (o Messapia per dirla come i Greci) se ne contrappone una, valida con ogni probabilità prima dell’inizio della colonizzazione greca, nella quale i Peucezi ed i Calabri sono un tutt’uno e, in più, in non buoni rapporti con i Dauni. Ora, considerato che secoli dopo, al tempo di Strabone, come lo stesso autore pone in rilievo8, i popoli dei Peucezi e dei Dauni vivevano in sintonia ormai accomunati in una stessa regione, chiamata Apulia, c’è da ritenere che tali dissidi fossero sorti in precedenza a causa della politica aggressiva dei Brindisini e dei loro tentativi di allargare il proprio raggio d’azione. E che così fosse, vale a dire che i contrasti con i Dauni riguardassero i Calabri e non già i Peucezi, è confermato da un’altra annotazione fatta da Strabone quando riferisce che i Peucezi ed i Dauni s’allearono ai Tarantini, scesi in guerra contro i Messapi9.
Con buoni margini di certezza, si può in definitiva ipotizzare che in un’epoca passata, per le mire brindisine, la Calabria occupava la gran parte della Puglia centro-meridionale e che Brindisi cercava di estendere i propri domini anche nel nord della Puglia.
Il che sarebbe già di per sé innovativo rispetto a quanto si dice comunemente sull’argomento.
Ancor più sorprendente è, tuttavia, ciò che può desumersi da altre fonti narrative sinora dimenticate, le quali lascerebbero in aggiunta intuire che in epoca remota Brindisi avesse esteso i propri domini anche su entrambe le coste della Calabria attuale e che successivamente, sia pure molto ridimensionata dal flusso coloniale acheo e lacedemone, fosse rimasta stanziata in alcune località della Siritide almeno sino all’inizio della seconda metà del V secolo a.C.
Già da altri scritti, che hanno avuto la fortuna di essere ampiamente esaminati, si sono potuti rilevare evidenti segnali che, prima dell’arrivo dei Parteni, la zona di Taranto era abitata da Brindisini. Lo fa sapere in maniera esplicita Strabone ricordando che Brindisi s’era vista togliere gran parte del suo territorio dai Lacedemoni venuti con Falanto («Ὕστερον δὲ ἡ πόλις βασιλευομένη πολλὴν ἀπέβαλε τῆς χώρας ὑπὸ τῶν μετὰ Φαλάνθου Λακεδαιμονίων»10). Ma anche Trogo, per le parti conservate nel compendio di Giustino, dà una medesima informazione nel momento in cui annota che chi era stato depredato e scacciato dagli invasori tarantini aveva poi trovato riparo a Brindisi11.
Lo testimonia in aggiunta l’antichissima via istmica, utilizzata poi dai Romani per tracciare l’ultimo tratto della via Appia, che univa Taranto a Brindisi, la cui esistenza sarebbe risultata inspiegabile12, se a quel tempo i Brindisini non avessero esercitato una indiscussa egemonia nella zona. Allora non si facevano infatti molte vie, e quelle poche erano tracciate dalle città esclusivamente all’interno del proprio agglomerato, per lo più lontane dalle zone di confine: se Brindisi, prima dell’arrivo dei coloni, ne aveva costruita una sino a Taranto è un palese indice di come poteva disporre a suo piacimento di quelle terre. Per ovvi motivi di sicurezza, nessuna città costruiva di fatto vie in zone che non poteva controllare con certezza.
Ritornando al passo di Strabone c’è da rilevare come il geografo sottolinei che in quella occasione i Brindisini persero gran parte (πολλὴν) del loro territorio. Cosa che fa già pensare all’eventualità che Taranto non fosse l’unico possedimento a cui Brindisi dovette rinunciare a causa dell’arrivo dei coloni. Quali queste terre possano essere state, impossibile dirlo con precisione. Tuttavia una qualche ipotesi è possibile formularla, riesaminando i tanti passi ritenuti impenetrabili e, forse, troppo in fretta messi da parte e scarsamente valorizzati. Senza dubbio tali insediamenti arrivavano addirittura sino nel Bruzio, termine che sarà usato in maniera impropria per indicare la parte meridionale della Calabria attuale, al solo fine di non creare confusioni terminologiche con la Calabria antica. Va infatti ribadito che a quel tempo un simile termine non era stato ancora coniato, in quanto si usava la locuzione ager Bruttius per indicare la terra dei Brettii, solo in tempi successivi definita Bruzio.
Le fonti narrative dimenticate e La Brentesía
Sebbene la possibilità di uno sconfinamento degli Iapigi dalle proprie sedi storiche faccia parte degli avvenimenti presi in considerazione dagli storici, la questione è sempre stata presentata in maniera vaga, quasi si trattasse di eventi di scarso rilievo che, semmai accaduti, erano dovuti a circostanze del tutto occasionali o fortuite. Invece non sembra che così sia stato in realtà: lo certificano brani che, per quanto noti, hanno però il difetto di non avere un contesto definibile, neanche da un punto di vista cronologico. In pratica sono notizie che non si sa come collocare nel tempo e nello spazio.
C’è un passo di Strabone, più volte citato ma mai esaminato per quello che potrebbe implicare, che dà memoria dell’insediamento degli Iapigi ben oltre la prima fascia costiera del golfo ionico fino a lambire il Bruzio. Parlando della fondazione di Crotone, Strabone aggiunge appunto senza alcun preambolo: «A dire di Eforo, prima, a Crotone abitavano gli Iapigi» («ᾤκουν δὲ Ἰάπυγες τὸν Κρότωνα πρότερον, ὡς Ἔφορός φησι»13). Riporta quindi l’informazione en passant, ponendola in alternativa alla versione ufficiale, ampiamente accettata da tutti di Crotone colonia degli Achei, quasi che l’annotazione di Eforo fosse solo una lontana congettura. Di primo acchito sembra pertanto una semplice illazione o addirittura una invenzione che πρότερον (próteron), vale a dire prima o forse meglio anticamente, rispetto all’arrivo degli Achei, Crotone fosse stata abitata dagli Iapigi. E forse proprio per questa sensazione, dovuta a come Strabone presenta la notizia, se l’indicazione data da Eforo è ritenuta poco attendibile e meritevole d’essere accantonata senza eccessivi scrupoli.
Eppure per certi versi l’affermazione di Eforo trova una sia pure imprecisa conferma in altri autori.
In due frammenti di Ellanico, conservati rispettivamente in Stefano Bizantino14 e Dionisio di Alicarnasso15, viene infatti narrato che gli Ausoni, antichi abitanti della zona, furono costretti a lasciare le proprie terre scacciati dagli Iapigi ed a emigrare in Sicilia. Dal che si può evidentemente desumere che gli Iapigi s’impossessarono delle località abbandonate dagli Ausoni. Ellanico precisa pure quando il fatto avvenne «nella terza generazione prima della guerra di Troia, nel ventiseiesimo anno del sacerdozio di Alcione ad Argo» («τρίτῃ γενεᾷ πρότερον τῶν Τρωικῶν Ἀλκυόνης ἱερωμένης ἐν Ἄργει κατὰ τὸ ἕκτον καὶ εἰκοστὸν ἔτος»16), vale a dire presumibilmente nel XIII secolo a.C.
In aggiunta lo stesso Strabone menziona, nelle vicinanze di Crotone e del Capo Lacinio17, oggi Capo Colonna, l’esistenza di tre promontori chiamati espressamente Iapigi («τῶν Ἰαπύγων ἄκραι τρεῖς») che non si capisce perché avessero conservato dopo secoli un tale nome, se gli Iapigi non avessero mai vissuto in quei paraggi.
Sebbene queste informazioni abbiano goduto d’una certa fortuna tra gli addetti ai lavori, esse non sono mai state utilizzate per indagare sulle dinamiche cui fu soggetta la società degli Iapigi. Né a maggior ragione lo sono state quelle che godono di poca considerazione perché facenti parte di brani incomprensibili e che la critica ha ritenuto meritevoli d’essere emendate, a causa di ipotetici errori di trascrizione da parte di un qualche amanuense distratto.
Iniziamo da quella che, pur contenendo una notizia di rilievo per la nostra indagine, non è stata neppure mai presa in considerazione.
Tra le tante questioni dibattute dagli storici c’è quella riguardante la MegaleHellas, vale a dire la Magna Grecia, che pone problemi geografici (quali zone essa comprendeva?), cronologici (quando il termine fu coniato?) e di altra svariata natura. Nell’ampia e vivace discussione che ha fatto seguito, viene a volte citato un passo della “Chrestomazie”, un’epitome comprendente molti brani dell’opera di Strabone18, per affermare che la sola area del Capo Lacinio — promontorio distante pochi chilometri da Crotone — sarebbe stata definita Magna Grecia dai discepoli di Pitagora, per il fatto che vi aveva lì soggiornato il loro maestro. E sin qui parrebbe che non ci sia nessun aggancio con il nostro argomento, in quanto si parla espressamente d’un soggiorno avvenuto press’a poco vicino al Capo Lacinio della Brettia, vale a dire del Bruzio («ἐπὶ τὸ Λακίνιον ἄκρον τῆς Βρεττίας»).
Però una noticina fa sapere che, in effetti, il testo originale non riportava «ἄκρον τῆς Βρεττίας» (promontorio della Brettia) ma «ἄκρον τῆς Βρεντεσίας» (promontorio di Brindisi) e poiché Brindisi non si trova vicino al promontorio citato, la lezione Βρεντεσίας (Brentesías) è stata ritenuta un errore del copista e, di conseguenza, emendata senza tante discussioni in Βρεττίας (Brettías).
I Veneti a questo punto potrebbero per certi versi dire che xe pèso el tacòn del buso, letteralmente, è peggio il rammendo del buco, come dire che, nella fattispecie, la correzione appare forse ancor più scorretta dell’errore. Infatti il termine inserito non pare coerente al periodo, vale a dire il VI secolo a.C., in cui si svolgono gli avvenimenti narrati, per il semplice motivo che se Brindisi, seppur collocata in tutt’altra zona, almeno esisteva, i Brettii non avevano ancora fatto la loro comparsa nella storia e, di conseguenza, non esisteva ancora una regione chiamata Brettia.
Di là, però, dalla correzione magari inappropriata, appare in effetti strano questo accostamento del Capo Lacinio con Brindisi, anche se andrebbe osservato che il termine emendato, Brentesías, sembrerebbe piuttosto un coronimo, e quindi riferirsi ad una regione più che ad una città. Come se l’autore avesse voluto dire, non tanto un promontorio della città di Brindisi, ma piuttosto della regione brindisina o del brindisino. In ogni caso, Brentesías è un toponimo di cui non si hanno precedenti riscontri e che non è dato di sapere se sia stato coniato al momento dallo sconosciuto compilatore dell’epitome oppure se da lui ripreso da un autore più antico.
Tuttavia, andando a valutare altri riscontri letterari oscuri ci si può imbattere negli “Scoli all’Alessandra di Licofrone” contenenti sviste dello stesso tipo. Vero che si tratta di evidenze letterarie tarde, attribuite come sono ai fratelli Tzetze, grammatici bizantini del XII secolo, tuttavia presenti in commentari di epoca precedente — a volte anche imperiale — per cui sono informazioni antiche o tardo-antiche Ad esempio in uno è affermato «e consacrerà ad Atena Iapigia ovvero Calabra, dea del bottino e della guerra, un cratere bronzeo da Temesa, città dellaCalabria»19 e come si può notare il vocabolo Iapigia è usato come sinonimo di Calabria, e quindi nell’accezione tipica del periodo antico. In un altro si afferma espressamente che Temesa è città della Iapigia ovvero della Calabria e quindi, in definitiva situata nel Salento.
Sappiamo però che Temesa non si è mai trovata nel Salento, essendo ormai assodato che essa era una città degli Ausoni sul litorale tirrenico della Calabria attuale, proprio nel versante opposto a quello in cui si trovano Capo Colonna ed i tre promontori Iapigi. Se non bastasse, lo stesso errore è contenuto in un altro scolio, dove ancora una volta Temesa è presentata come città dell’antica Calabria20, e non del Bruzio.
L’aspetto curioso è che questa strana dislocazione di Temesa non compare solo negli “Scoli all’Alessandra di Licofrone”, ricorre pure nei commentari all’opera di Omero fatta da Eustazio, arcivescovo di Tessalonica e pubblico professore di eloquenza. Infatti, parlando della Temesa citata appunto da Omero nell’Odissea, il retore ci fa sapere che si tratta della Temesa italica: «Come ora alcuni dicono Brindisi» («Τὸ νῦν ὥς τινές φασι Βρεντέσιον»21). E, poco oltre, utilizza anch’egli il termine usato nelle “Chrestomazie”, vale a dire «ἡ Βρεντεσία»22 (la Brentesìa), lasciando chiaramente intendere che si riferisce ad una regione; non ad una città.
C’è da sottolineare che ad un lettore moderno Temesa potrebbe risultare del tutto sconosciuta. Così non era invece in antichità. Il fatto stesso che ne avesse addirittura parlato Omero, indicandola meta ambita dai Greci per l’approvvigionamento del rame, l’aveva resa leggendaria, soprattutto tra i letterati, i quali ne facevano motivo di approfondite discussioni. Il dibattito era in particolare incentrato sulla sua collocazione geografica, lasciata vaga da Omero: c’era così chi la considerava una città cipriota e chi la riteneva italica. Detto che alla fine la ricerca storico-archeologica è stata concorde nel riconoscere che l’antica Temesa fosse in Italia, e precisamente tra i fiumi Oliva e Savuto, nella parte centrale della costa tirrenica dell’attuale Calabria, resta il fatto, a prima vista sconcertante, che c’era chi, prevedendola italica, l’accostasse come detto a Brindisi che si trovava in una regione completamente diversa.
Ora a tutti può capitare di sbagliare ma che inciampassero nello stesso banale errore rinomati intellettuali del periodo imperiale, i fratelli Tzetze, ignoti epitomatori e, in aggiunta, celebri retori pare qualcosa di poco credibile. Anche perché, a ben guardare, i più non affermavano che Temesa si trovava in Calabria, nelle vicinanze di Brindisi, ma che essa era, al pari di Brindisi, città Calabra. In definitiva non sembra parlassero del suo posizionamento geografico, che con ogni probabilità davano per scontato fosse il Bruzio, né desideravano identificare l’antica Temesa con la Brindisi del loro tempo ma, con ogni probabilità, solo sottolineare un qualche altro aspetto che collegava le due località.
Quale fosse questo legame, è tutto da stabilire; tuttavia tra le tante risposte possibili una sembra la più plausibile: si considerava Temesa città Calabra perché in tempi remoti essa dipendeva politicamente dai Calabri provenienti da Brindisi. In altre parole, si può ipotizzare che, prima dell’avvento dei coloni achei e lacedemoni, Brindisi avesse esteso i suoi domini sino a Crotone — come per altro ricordato da Eforo che, nello specifico, aveva parlato più genericamente di una occupazione iapigia della città — e che nel suo territorio era compresa anche la città di Temesa. In definitiva il collegamento tra Temesa e Brindisi era dovuto al fatto che la prima si trovava nella Brentesìa, vale a dire nella zona in cui i Calabri di Brindisi erano egemoni.
Messe così le cose, risulterebbe più comprensibile pure il passo di Strabone, quando menziona i tre promontori Iapigi23 collocati in territorio crotoniate, e quindi Iapigio; si darebbe valore pure ai frammenti di Ellanico, quando narra di una offensiva verso sud degli Iapigi che avrebbe costretto gli Ausoni a migrare in Sicilia e a lasciare quindi l’uso del loro territorio agli invasori. Consentirebbe infine di ripristinare la lezione Βρεντεσίας, emendata come visto in Βρεττίας. nel passo delle “Chrestomazie” che dichiarava il Capo Lacinio facente parte del territorio brindisino, oltre a chiarire il perché dell’uso di un coronimo per indicare un’entità, Brindisi, a cui non ci si rivolgeva mai considerandola una regione.
Più in generale l’ipotesi formulata — opinabile quanto si vuole ma, viste le premesse, del tutto coerente con esse — non appare per nulla priva di consistenza, anzi è supportata da testimonianze talmente concrete da renderla più che verosimile.
Il riesame dei vari brani rende in definitiva evidente come i Calabri di Brindisi esercitassero una qual certa supremazia all’interno dei gruppi iapigi e, sia pure in modo sfumato, delinea il quadro delle loro eventuali conquiste. Chiarisce inoltre che gli interessi di Brindisi s’erano rivolti non solo a nord dell’istmo che l’univa a Taranto, come si può evincere dai miti di fondazione relativi a Diomede, ma anche oltre la fascia costiera tarantina e la Siritide, sino a toccare i litorali della costa nord del Bruzio, come i passi rivalutati sul Capo Lacinio e su Temesa lascerebbero intuire.
Infine, potrebbe essere letto in questo senso anche il famoso frammento di Varrone, reso noto dalla Pseudo-Probo sulla genesi della nazione salentina, che si riporta per intero perché in parte talmente indefinito che può dare luogo a diverse interpretazioni. «Nel terzo libro delle Antichità umane [Varrone] così riferisce: “Si dice che la nazione Salentina si sia formata a partire da tre luoghi, Creta, l’Illirico, l’Italia. Idomeneo, cacciato in esilio dalla città di Blanda per una sedizione durante la guerra contro i Magnensi, giunse con un folto esercito nell’Illirico presso il re Divitio. Ricevuto da lui un altro esercito, e unitosi in mare, per la analogia delle loro condizioni e dei progetti, con un folto gruppo di profughi locresi, strinse con essi patti di amicizia e si portò a Locri. Essendo stata la città evacuata, per timore di lui, egli la occupò e fondò diverse località tra le quali Uria e la famosissima Castrum Minervae. Divise l’esercito in tre parti e in dodici popoli. Furono chiamati Salentini, perché avevano fatto amicizia in mare”» («[Varro] in tertio Rerum Humanarum refert Gentis Salentinae nomen tribus e locis fertur coaluisse, e Creta, Illyrico, Italia. Idomeneus e Creta oppido Blanda pulsus per seditionem bello Magnensium cum grandi manu ad regem Divitium venit ad Illyricum; ab eo item accepta manu cum Locrensibus plerisque profugis in mari coniunctus per similem causam amicitiaque sociatis, Locros appulit. Vacuata eo metu urbe, ibique possedit aliquot oppida et condidit: in queis Uria et Castrum Mineruae nobilissimum. In tres partes divisa copia in populos duodecim Salentini dicti, quod in salo amicitiam fecerint»24).
Per quanto in maniera vaga anche Varrone offre un quadro diverso da quello usuale, collocando i nostri antichi concittadini fin nella Locride, dove occuparono appunto Locri, questo perché c’era stata comunanza d’intenti anche con un gruppo di profughi Locresi.
Ne consegue che non è azzardato ipotizzare che Brindisi, prima dell’arrivo dei colonizzatori achei e lacedemoni, fosse una delle principali potenze della zona che divenne poi in buona parte greca.
(1 – continua)
Note
1 Erodoto, Storie, IV 99, 5.
2 Giustino, Epitome delle storie filippiche di Pompeo Trogo, XII 2, 7; n. valente, Brindisi arcaica: i miti di fondazione e le origini ateniesi, https://www.academia.edu/103297158/Brindisi_arcaica_i_miti_di_fondazione_e_le_origini_ateniesi
3 Tolomeo, Geografia, III 1, 13.
4 Dionisio di Alicarnasso, Antichità Romane, I 11, 2-3.
5Ibidem, I 11, 4.
6 Granio Liciniano (II secolo d.C. -…), Reliquiae, edidit N. Criniti, Leibzig 1981, apud solino, Collectanea rerum memorabilium, II 12.
7 Plinio il vecchio, Storia Naturale, III 11, 99.
8 Strabone, Geografia, VI 3, 8.
9 Ibidem, VI 3, 4.
10 Ibidem, VI 3, 6.
11 Giustino, Epitome delle storie filippiche di Pompeo Trogo, III 4, 11-12.
12 M. Lombardo, La via istmica Taranto-Brindisi in età arcaica e classica: problemi storici, in Atti: Salento porta d’Italia, Lecce 1989, pp. 167/192.
13 Eforo, fr. 140 Jacoby, apud strabone, Geografia, VI 1, 12.
14 Ellanico (V secolo a.C.), fr. 79a Jacoby, apud stefano bizantino (VI secolo d.C. – …), Ethnica, voce Sikelìa.
15 Ellanico, fr. 79b Jacoby, apud dionisio di alicarnasso, Antichità Romane, I 22, 3.
16Ibidem.
17 Strabone, Geografia, VI 1, 11.
18Chrestomazie, VI 281, 6.
19 Tzetze, Scholia in Lycophronis Alexandram, v. 853.
20Ibidem, 854.
21 Eustazio di Tessalonica (XII secolo d.C.), Commento ad Omero – Odissea, I 185.
22Ibidem, I 184.
23 Capi Le Castella, Rizzuto e Cimiti.
24 Varrone, Antiquitates rerum humanarum, III fr.VI Mirsch, Apud PS –PROBO, in Vergilii Bucolica, VI 31.
Nel noto Dizionario di erudizione storico ecclesiastica di Gaetano Moroni Romano (1842), una “Confraternita” (o Sacrum sodalitiu, Sacra sodalitas) viene definita come «società, e adunanza di persone divote stabilite in alcune chiese, o oratorii per celebrare alcuni esercizi di religione, e di pietà, o per onorare particolarmente un mistero, od un santo, non che per esercitare uffici caritatevoli»[1].
Le Confraternite, per mezzo delle quali «si ricavò gran profitto spirituale da ogni classe di persone, particolarmente dai laici», si distinguono tra loro «per colore, e per la forma dell’abito de’ confrati, pegli statuti e regole che osservano, per le chiese e i cimiteri che hanno, per le processioni e opere di pietà che eseguiscono».
Specie in alcune aree dell’ecumene cristiana occidentale, il fenomeno delle Confraternite risulta ancor oggi molto vivo, e risulta coinvolgere in parte attiva un gran numero di persone, le quali attraverso tali forme di aggregazione ricevono l’opportunità di vivere in maniera più profonda e partecipativa la vita religiosa nella propria comunità. Com’è noto, il Meridione e la Puglia, ma in particolar modo il Salento, rappresentano ancora oggi delle aree in cui tale realtà appare quanto mai diffusa e radicata, e dal fenomeno la stessa Diocesi di Nardò-Gallipoli appare essere tutt’altro che esente. Anzi, si potrebbe dire che ancora oggi, qui più che in altri luoghi, il fenomeno confraternale incide vivacemente nella vita e nelle vicende della comunità ecclesiale locale.
Mosse da tale consapevolezza – ma anche dal fatto che la funzione delle Confraternite oggi si esplica anche nell’ambito della valorizzazione del patrimonio culturale, materiale e immateriale – molte pie associazioni, specie negli ultimi decenni, hanno sentito la preoccupazione di mettere per iscritto la loro storia, con lo scopo di offrire ai propri aderenti ed alle città che le ospitano una realistica ed esaustiva narrazione delle loro origini, nonché delle peculiari forme in cui si andavano a declinare gli aspetti devozionali.
In questa rinnovata temperie di “riscoperta delle origini” mancava tuttavia un’opera organica che andasse a render conto della varietà e della ricchezza di queste associazioni di fedeli che per secoli hanno avuto un forte impatto nella vita religiosa locale. Da qui, l’esigenza di un volume che andasse a racchiudere una qualificata e organica trattazione sulla storia e sulle vicende delle confraternite della diocesi di Nardò-Gallipoli.
L’idea è stata maturata e sviluppata nel corso di ben due anni in seno all’Ufficio Diocesano delle Confraternite, con il plauso e l’incoraggiamento del Vescovo e dell’Ufficio Diocesano per i Beni culturali. Ha preso così avvio un esteso studio, che si è avvalso del contributo di ben 54 autori i quali, con rigore metodologico e attraverso l’ausilio delle fonti conservate negli archivi confraternali, parrocchiali, diocesani e dell’Archivio di Stato di Lecce, si sono preoccupati di ricostruire le vicende di ciascuna delle 55 confraternite presenti nei sedici comuni della diocesi, dalle origini sino ai nostri giorni, studiandone gli indirizzi comuni e le attività prevalenti, l’abito e il gonfalone, le azioni cultuali di rilievo. Particolare attenzione è stata inoltre data al patrimonio artistico custodito nei rispettivi oratori, documentando opere di grande pregio, molte delle quali poco note o del tutto sconosciute.
Dal paziente e corale lavoro, mirabilmente coordinato e curato da Marcello Gaballo e Fabio Cavallo, ha visto la luce un corposo e importante volume – ben 650 pagine! – intitolato “Tra fede e tradizione. Le Confraternite della diocesi di Nardò-Gallipoli”, pubblicato dall’editore Claudio Grenzi di Foggia, ed inserito come quinto numero della Collana “Analecta Nerito Gallipolitana”. Un prodotto di pregio, ricchissimo di illustrazioni e fotografie, appositamente realizzate o messe a disposizione da 24 fotografi, cui si sono affiancati vari collezionisti da ogni parte d’Italia.
Ma l’importanza del volume risiede anche nel fatto che questo costituirà un fondamentale punto di partenza, una tappa obbligata insomma, per ogni studio successivo che voglia occuparsi delle singole Confraternite e del fenomeno nel suo complesso. Con questo studio «si apre insomma un tracciato di ricerca che si presenta assai promettente e che ci si augura che possa appassionare una larga schiera di addetti ai lavori»[2].
Il volume, inoltre, si inserisce senz’altro nella vivace temperie di promozione dello spirito sinodale che la Chiesa dei nostri giorni va riscoprendo, con il recupero, in particolare, di due istanze che stanno alla radice del fenomeno confraternale, ma che restano di assoluta attualità: quella spirituale e quella sociale[3].
Alla fine del suo messaggio introduttivo al libro il Vescovo mons. Fernando Filograna esprime l’auspicio che ancora oggi le Confraternite possano rappresentare «scuole di fede popolare, fucine di santità, luoghi di recupero di identità ed autenticità, bagaglio di tradizioni» e possano rispondere, «con creatività e coraggio, alle urgenze del nostro tempo». E si può dire che sono senz’altro questi gli intenti che hanno portato allo sviluppo della ricerca e alla nascita di questo pregevole volume.
Il libro verrà presentato mercoledì 18 ottobre 2023 a Tuglie, nell’oratorio “Mons. Tramacere”, alle ore 19, da Mons. Domenico Giacovelli, Vicario episcopale per la Cultura della Diocesi di Castellaneta. Modererà Mons. GiulianoSantantonio, Vicario generale della diocesi di Nardò-Gallipoli, mentre i saluti istituzionali e le conclusioni saranno affidate al Vescovo Mons. Fernando Filograna e al Diacono Luigi Nocita, direttore dell’ufficio diocesano per le confraternite.
Note
[1] G. Moroni Romano, Dizionario di erudizione storico ecclesiastica, Vol. XVI, Venezia, Tipografia Emiliana, 1842, pp. 117-ss.
[2] Dalla premessa al volume di Mons. Giuliano Santantonio, Vicario Generale della Diocesi di Nardò- Gallipoli e Direttore dell’Ufficio Beni Culturali della Diocesi.
La fava -nome tecnico vicia faba – è una pianta leguminosa che dà ottimi frutti, ovvero legumi, molto apprezzati specie alle nostre latitudini. Non tutte le varietà di vicia faba sono alimentari, cioè quella che noi mangiamo è la variante major Harz., con semi grossi, 1000 semi di peso superiore a 1000 grammi, il baccello è lungo 15-25 cm ed è pendulo e di forma appiattita e contiene 5-10 semi[1].
Ma perché ci occupiamo di fave? Varie sarebbero le motivazioni dell’articolo. La causa potrebbe essere l’ozio creativo, e sarebbe facile in questo caso rispondere, per via di quelle divagazioni erudite che spesso portano chi scrive a sprecare il tempo in bubbole. Potrebbe essere quella della notizia inedita, l’aneddoto curioso, la “chicca” che non si vede l’ora di divulgare ai pochi e barbogi amici che condividono la stessa amena occupazione pedantesca. A volte, dopo essere stati impegnati nella scrittura di un saggio scientifico con grande dispendio di energie nella ricerca archivistica e bibliografica, ci si vuole alleggerire e per contrasto si passa a dispensare bagatelle di cultura varia, innocenti divertissement, aria fritta insomma, quando la Musa iocosa, per dirla con Ovidio, rivuole la propria parte. E del resto è facile passare da un argomento all’altro per chi si ritrova preda del demone dell’eclettismo: nihil medium est, diceva Orazio nelle Saturae, a qualcuno “manca sempre la misura”, “tutto tutto niente niente”, direbbe Cetto La Qualunque-Antonio Albanese.
La semina delle fave si effettua in autunno o all’inizio dell’inverno, e poi la raccolta si ha in primavera. Nella civiltà contadina del passato le fave costituivano un alimento pregiato e ancora oggi questo legume compare spessissimo sulla tavola dei salentini, cucinato in vari modi, come le fave nette o come il gustosissimo purè preparato con le cicorie e un po’ di olio e divenuto un must per i ristoranti tipici salentini. E già sentiamo il suo inconfondibile profumino suppurare l’ambiente soverchiando quello – che i non addetti ai lavori potrebbero definire nauseabondo – della polvere e della carta rosicchiata dalle tarme. L’ambiente è infatti lo studio nel quale ci troviamo intenti a ponzare questo scritto. Chi ha superato gli “anta” inevitabilmente ritorna con la memoria alle assolate estati di tanti anni fa quando, da ragazzi, si stazionava (alcuni ci vivevano) molto più a lungo nelle campagne e quindi a contatto con quei prodotti che la nostra terra dà in abbondanza. Fra questi, appunto le fave, che noi raccoglievamo direttamente dalla pianta e mangiavamo anche in mezzo all’orto, se la fame era tanta.
Per i salentini la fava è l’ongulu, strano nome per un prodotto così semplice ed elementare. Ne parla Armando Polito in un “gustoso” articolo apparso in rete in cui afferma che «il Rohlfs[2] in forma dubitativa (sarà per via dell’accento?) propone il greco goggýlos=rotondo, riprendendo una precedente ipotesi del Ribezzo[3]. Irene Maria Malecore propone, sempre in forma dubitativa, il latino novùnculus=novellino[4]. Se sul piano fonetico le tre ipotesi mi appaiono plausibili, è su quello semantico che manifestano qualche debolezza perché l’idea della rotondità è ben più spinta in altri frutti e ho altrettanta difficoltà a capire come mai proprio il nostro baccello sia diventato il simbolo del prodotto novello, anche se la specificazione nell’espressione fae ti ùnguli potrebbe far pensare proprio alla contrapposizione alle fave secche.[…] Parto dalla banale osservazione che il baccello della fava ricorda un artiglio o, pensando ad alcune eccentricità del nostro tempo, l’unghia esibita da alcune donne che evidentemente si sarebbero sentite naturalmente realizzate se fossero nate tigri. Unghia in latino è ùngula, di genere femminile, ma in Plauto (III-II secolo a. C.) è attestato anche un maschile ùngulus (in altri codici unguìculus) col significato di unghia del piede[5]. Pure in Plinio (I secolo d. C.) compare un ùngulus col significato di anello ma con agganci etimologici, anche se piuttosto confusi, al dito […][6]. In Isidoro di Siviglia si legge: “Tra i tipi di anello ci sono l’ungulo, il samotracio, il Tinio. L’ungulo è fornito di gemma ed è chiamato con questo nome perché, come l’unghia aderisce alla carne così la gemma dell’anello all’oro”[7]. Quest’ultimo autore, dunque, rappresenta col suo anello l’anello di congiunzione (potevo rinunciare a questo gioco di parole?…) tra ùngula e ùngulum; ma basta questo per convalidare la mia ipotesi nata dalla semplice osservazione? Non credo, anche perché, sempre riferendomi all’aspetto e restando, grosso modo, nell’ambito della stessa immagine, mi viene in mente che ùngulu potrebbe essere da un latino *ùnculus, diminutivo del classico uncus=uncino (ritorna puntuale, come si vede, l’immagine dell’unghia, dell’artiglio). Questa proposta bypasserebbe le imprecisioni del Ribezzo, il dubbio del Rohlfs e le perplessità nascenti dall’ipotesi della Malecore»[8].
Ma, come suggerisce il titolo, la ragione dell’articolo è quella di raccontare “la rava e la fava”, un modo di dire, più diffuso nel nord Italia, che sta ad indicare una ricerca dei dettagli, ossia della maggiore completezza possibile da parte di chi parla o vuol spiegare qualcosa. Insomma, quella pedanteria, di cui abbiamo detto sopra, che contraddistingue il saputone, il “tuttosalle”, come lo definiva Giovanni Papini, ossia colui che conciona ininterrottamente sui più svariati argomenti e pretende di saperla sempre più lunga di noi e spiegarci tutto[9]. “La rava e la fava”, canta anche Enzo Jannacci (ma in realtà è Paolo Rossi) nella sua canzone I soliti accordi.
Se poi volessimo spiegare l’origine di questo modo di dire, il discorso si fa più complicato. Il Dizionario Hoepli on line dice: «Si può supporre derivi dall’immagine di una pianticella descritta in ogni sua parte, dalla radice al frutto; da qui l’idea di partire dalle cose più importanti per arrivare alle minuzie, senza trascurare nemmeno le piccolezze. Per arrivare alla rima con fava si sarebbe trasformata in rava la voce dialettale “rama”, che in molte località sta per “rami”, quindi frasche e fogliame»[10]. Sappiamo che la ravagliatura è una particolare lavorazione del terreno ovvero un’“aratura più profonda dell’ordinario, eseguita con aratri speciali (ravagliatori) che approfondiscono il solco già aperto precedentemente e riportano alla superficie una nuova fetta di terra”[11]. Così sappiamo anche che il termine “ravanare”, che per assonanza è vicinissimo, significa “negli usi colloquiali, rovistare, rimestare creando disordine; usato anche in senso figurato”[12]. “Nel gergo giovanile andare in cerca di partner”, spiega il Dizionario Devoto-Oli[13]. La Treccani la dice “Voce settentrionale di etimologia incerta. Già attestata nel 1924”[14].
In rete, troviamo una citazione dal libro del grande linguista Gianluigi Beccaria, Il mare in un imbuto Dove va la lingua italiana (Torino, Einaudi, 2010): «raccontare la rava e la fava (all’origine l’espressione era un richiamo tipico dei fruttivendoli ambulanti di una volta, che insieme a frutta, verdura, vendevano anche «rape e fave»), vale a dire ‘raccontare di tutto, ogni cosa nei dettagli’, ‘una storia senza fine’. Una volta pronunciato rava, la fava nasce come una eco del significante che precede, e l’insieme del sintagma nel complesso sembrerebbe voler abbracciare, racchiudere specularmente una totalità, voler raccontare appunto ‘di tutto’»[15].
Una supposizione è che “da ravanare che si riferisce ad un metodo complesso di preparazione del terreno per alcune colture, quindi il detto la rava e la fava indica un discorso che parte da una base complessa e si sviluppa addentrandosi minuziosamente nei particolari”[16]. Insomma dalla rava alla fava il passo è lungo, almeno quanto quello dall’Italia settentrionale dove la voce è più attestata, all’Italia meridionale, in cui la fava, specie se unita al formaggio, scaccia tutti i cattivi pensieri, comprese le dotte disquisizioni di illustri dialettologi.
E alla fava sono attribuite l’etimologia del nome Puglia da alcuni commentatori dell’opera di Benjamin di Tudela, un viaggiatore ebreo spagnolo del XII secolo che nelle lunghissime peregrinazioni toccò anche la Puglia e Terra d’Otranto[17]. Secondo Tudela il nome Puglia deriverebbe da Pul, un nome biblico che compare in Isaia (66, 19), come mitica terra in cui un giorno Dio avrebbe inviato i suoi messaggeri. Tudela si rifaceva all’opera ebraica Sefer Yosefon in cui personaggi e nomi biblici vengono trasferiti nella storia di Roma, d’Italia e di altre regioni d’Europa[18]. Tuttavia alcuni commentatori di Tudela, come Benito Arias Montano e Costantino l’Empereur lessero pol, fava, facendo derivare il nome Puglia dall’abbondanza delle fave che caratterizzerebbe questa regione[19]. Ed ecco infine la notizia sfiziosa, con cui si vorrebbe dar la baia al lettore provveduto che se è arrivato fin qui lo ha fatto non per interesse colto ma solo per il gusto malsano di stroncare poi l’articolo appena ne avrà l’occasione.
[3] Francesco Ribezzo, in «Rivista indo-greco-italica di filologia, lingua, antichità», Napoli, v. 14, 1930, p. 108. Scrive Polito:“il salentino ùngulu=baccello di fava accenna per lo meno a un in conchula…si tratterà dunque, tutt’al più, di greco kogchyle, influenzato per il k in g velare dopo n da greco gòggylos”: Ibidem.
[4] Irene Maria Malecore, Proverbi francavillesi, Firenze, Olschki, 1974, p. 87. “Novùnculus in latino non è attestato, per cui sarebbe stato opportuno far precedere tale voce ricostruita da un asterisco. Oltretutto il passaggio ad ùngulu avrebbe comportato una prima aferesi (vùnculu) e poi la lenizione di v- (che, tuttvia, rimane in alcune varianti: vùngulu, vùgnulu)”. Ibidem.
[6] Plinio, Naturalis historia, XXXIII, 4: Ibidem.
[7] Isidoro di Siviglia, Etymologiae, XIX, 32, 5: Ibidem.
[8] Armando Polito, L’ùngulu, ovvero il baccello della fava verde, cit. Anche nel Dizionario dei dialetti del Capo di Leuca è riportato òngulu per “baccello verde della fava”: Gino Meuli, I Dialetti del Capo di Leuca, Galatina, Grafiche Panico, II Edizione, 2006, p. 191.
[9] Paolo Vincenti, Il saputone, in Idem, Italieni, Nardò, Besa Editore, 2017, pp. 185-186.
[17] L’opera di Benjamin di Tudela (1130-1173), Sefer ha-Masa’ot, ovvero Il libro dei viaggi, è considerata la prima relazione di viaggio di un europeo in Asia, dunque precedente a quella di Marco Polo, per questo molto importante per gli studiosi. Una delle versioni più recenti dell’opera di Tudela, che ha avuto una enorme fortuna critica nei secoli, è: Binyamin da Tudela, Itinerario (Sefer massa‘ot), a cura di Giulio Busi, Firenze, Giuntina, 2018.
[18] Cesare Colafemmina, L’itinerario pugliese di Beniamino daTudela, in «Archivio Storico Pugliese», 28, 1975, p. 84. Lo stesso Colafemmina però in nota precisa: “Da notare che la lezione Pul del testo ebraico di Isaia viene dai critici corretta in Put sulla scorta di alcuni mss greci e della Vetus Latina. Put indicava una regione molto probabilmente situata sulla costa africana del Mar Rosso. Pul era anche il secondo nome di Tiglat Pileser III, re di Assiria (745-727 a. C. Cf. 2 Re 15, 19, 1 Cron 5, 26)”. Ivi, p. 84, nota 10.
Nel 1688 si verificarono diversi interventi miracolosi e guarigioni, attribuiti ad una immagine affrescata raffigurante la Crocifissione, ritrovata nella Chiesa Madre di Casarano, non l’attuale ma la precedente del sec. XVI. Il resoconto completo dei fatti accaduti fu stilato da un notabile di Casarano, Santo Riccio, notaio e sindaco del paese, il quale depositò presso la Curia vescovile di Nardò un libretto contenente date, luoghi e nomi riferiti agli interventi miracolosi. Padre Antonio Chetry lo rinvenne nei faldoni dell’archivio diocesano e lo pubblicò nelle sue “Spigolature”. Di seguito riporto un adattamento linguistico del documento che, letto così come fu scritto, potrebbe risultare in alcune parti incomprensibile.
Libretto dei miracoli operati dal Santissimo Crocifisso di Casarano e compiuti nella Chiesa Matrice di questa città il 27 gennaio 1688 e raccolti dal sottoscritto Santo Riccio, indegno peccatore.
I.M.I. (Gesù, Maria, Giuseppe!)
A lode e gloria di Dio onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo, della Gloriosa Madre di Dio, la santissima Vergine Maria e di San Giovanni Elemosiniere nostro protettore, il quale, per sua intercessione, a favore del popolo di Casarano e di tutti i devoti, ottenne dall’Altissimo che, martedì 27 gennaio dell’anno 1688, intorno alle ore 18 pomeridiane, all’interno della Chiesa matrice di Casarano, si scoprisse un’immagine del SS. Crocifisso nascosta dietro una tela raffigurante la Passione che stava, da molto tempo, in precario equilibrio. Mosso da zelo il Rev.do Sac. Domenico Antonio Vernaleone del posto, avendo notato la tela prossima a cadere, disse a me, Santo Riccio, notaio e consigliere anziano di Casarano, di provvedere ad accomodare il quadro poiché mi trovavo in chiesa per rimuovere i paramenti utilizzati per la passata festività di San Giovanni Elemosiniere, il 23 gennaio. Mi rivolsi, quindi, ai sagrestani presenti e chiesi loro di prendere una scala per sistemare la tela. Essi mi risposero dicendomi: ”Perché vuoi sistemare quel quadro? Hai già fatto abbastanza organizzando la festa civile di San Giovanni”. Mi affrettai a prendere la scala ma mi precedettero i due sagrestani, Domenico De Paulis (+ 1730) e Tommaso Castrignanò (+18/06/1732), i quali la portarono subito in chiesa. Essendo presenti i signori Alessandro De Giorgi (+26/11/1738) e Antonio D’Astore (+21/06/1692), chiesi loro di aiutare i due sagrestani a sollevare la scala per sistemare la tela che si era staccata dall’altare di circa 15 centimetri. Durante la sistemazione, il quadro cedette dalla parte sinistra, dove era sostenuto da Domenico De Paulis, e questi con stupore mi disse: “Notaio mio, che bella immagine del Crocifisso c’è dietro!”. Tutti notammo l’effige della Crocifissione con Maria Vergine ai piedi ed altre figure, così linde come se fossero state dipinte quel giorno stesso da Mano Divina. Davanti all’immagine scoperta, lo zelante sacerdote Don Domenico Antonio Vernaleone si mise in ginocchio, commosso, e così facemmo anche noi. Implorammo pietà e misericordia per i nostri peccati davanti a quell’affresco, così bello, mai visto in precedenza e decidemmo di non coprirlo più. Nel frattempo la gente accorsa in chiesa per le funzioni notò il dipinto ed iniziò a diffondere la notizia del ritrovamento per tutto il borgo. Molti fedeli giunsero nel tempio chiedendo perdono per i loro peccati. Profondamente impressionato da tale visione, l’arciprete, Don Daniele Calò (+…), accese una piccola lampada davanti l’immagine e tutto il popolo che vi accorreva, iniziò a prelevare l’olio da questa, non con le dita ma inzuppando pezzi di stoffa stracciati delle proprie vesti senza che l’olio stesso diminuisse.
E fra tanto afflusso di fedeli, vi fu un certo Giuseppe Ferilli, il quale mosso da viva fede, andò a casa di Angelo Romano, suo amico, che si trovava allettato da molti mesi per irrigidimento dei nervi motori ed impossibilitato a muoversi, e gli disse: “Sii felice che il SS. Crocifisso, ritrovato dentro la Chiesa Madre ti ha fatto la grazia, vieni con me davanti a quell’immagine”. Angelo Romano gli rispose: “Volesse Iddio farmi camminare!”. Giuseppe replicò: “Se sei impossibilitato, ti porto io in groppa”. Angelo, pieno di speranza, pian piano si alzò dal letto e, appoggiandosi a Giuseppe e alla stampella, raggiunse la chiesa. Arrivati davanti al sagrato, Angelo disse a Giuseppe: “lasciami andare che il SS. Crocifisso mi ha fatto la grazia”. E così, davanti a tutto il popolo, cominciò a camminare in chiesa senza impedimenti, liberandosi della stampella ed inginocchiandosi davanti l’immagine. Chiese perdono dei suoi peccati gridando “Grazie!”. Se ne ritornò a casa, guarito, davanti a tutto il popolo di Casarano. Questo fu il primo miracolo.
Sempre il 27 gennaio.
Anna Mennella di Casarano (+31/01/1727) era affetta, da sei mesi, da continui dolori che le avevano fatto perdere la vista; entrata in chiesa, inginocchiatasi davanti all’immagine del Crocifisso ed implorando la grazia di rivedere, toccatisi gli occhi con l’olio della lampada, riottenne la vista davanti al popolo. Furono così numerosi i fedeli accorsi che circa 100 litri d’olio non sarebbero stati sufficienti per segnarsi la fronte col dito unto. Eppure la piccola lampada, accesa davanti all’immagine, nella quale inzuppavano larghi stracci, non si spense mai né mai venne meno l’olio. Essa arse continuamente tre giorni e tre notti nonostante le grandi folle, provenienti da Casarano e dai paesi limitrofi, continuassero a prelevare l’olio senza mai rabboccarlo. Mi è stato riferito che, dopo i tre giorni, una devota aggiunse del nuovo olio e, dal quel momento, esso cominciò a consumarsi.
Sempre il 27.
Angela Cursano da Casarano, paralizzata da molti mesi da entrambe le braccia e in stato indigente poiché si sosteneva col lavoro della figlia, essendo venuta fiduciosa davanti all’immagine del Crocifisso e toccatasi con l’olio, ottenne la grazia davanti al popolo tant’è che il mattino seguente andò in campagna a raccogliere le olive insieme a sua figlia. Per disposizione dell’arciprete Don Daniele Calò si coprì la miracolosa immagine con un telo ed io venni incaricato a raggiungere Nardò ed incontrare l’illustrissimo Vescovo, Mons. Orazio Fortunato, per relazionare di tutti gli avvenimenti. Fui accompagnato dal Rev.do Don Giuseppe Nicola Gaballone e dal chierico Don Antonio Arnò. Mons. Vescovo, ascoltata la mia relazione, concluse che 200 litri di olio per segnarsi non sarebbero stati sufficienti, dato il forte afflusso di fedeli, eppure la lampada rimase accesa ininterrottamente per tre giorni, ed e questo il maggior miracolo che ha operato il SS. Crocifisso. Dopo questa relazione, Mons. Vescovo delegò il chierico Antonio De Jaco di Felline a prendere informazioni; egli venne a Casarano, indagò sui fatti annotando il tutto. Avendo interrogato Francesco Marrella (+ 20/10/1706) e Scipione Caroppo (+ 21/10/1694), quali persone più anziane di Casarano, chiese loro semmai avessero mai vista l’immagine affrescata del SS. Crocifisso; essi dichiararono di no, aggiungendo quanto fosse bellissima. Ricordavano, invece, che tale affresco era così sbiadito da indurre i vescovi, venuti in visita pastorale, di coprirlo con una tela della Passione dal momento che le figure dipinte non erano più visibili; pertanto la Famiglia De Lentinis, che detiene lo giuspatronato sull’altare, fece dipingere la tela, che è proprio quella che si è tolta. Questi sono i fatti reali così come sono esposti nella relazione del Chierico.
29 gennaio.
Margherita Finagrana aveva un ginocchio rotto che le impediva di camminare; con profonda fede si unse con l’olio della lampada ed ottenne la guarigione; Agata Finagrana era affetta da un tumore alla mammella sinistra, si spalmò l’olio e, subito, guarì. Brigida Lezzi, da molti mesi affetta da ulcere della pelle, nonostante i tentativi di cura da parte di molti medici, non era guarita. Si rivolse al SS. Crocifisso implorando perdono per i suoi peccati. Untasi con l’olio, subito ottenne la grazia davanti alla folla presente. La figlia di Francesco De Nuzzo ebbe un attacco epilettico mentre era davanti l’immagine del Crocifisso, subito fu segnata con l’olio e il male la lasciò definitivamente. Domenica Coia di Supersano era ammalata da un anno e mezzo, impossibilitata a parlare; venendo a sapere delle grazie dispensate dal SS. Crocifisso di Casarano, con viva fede partì dal suo paese. A metà del tragitto ottenne la guarigione e ricominciò a parlare. Giunta a Casarano, entrò in chiesa ed iniziò a gridare: ”grazie SS. Crocifisso”. Il popolo ivi presente, incuriosito, domandò quale grazia avesse ricevuta. Ella disse di aver riconquistato l’uso del parlare dopo un anno e mezzo di malattia; si unse con l’olio della lampada e guarì definitivamente. Venne in chiesa Leonardo Marrella, indigente e con menomazioni al braccio, chiese perdono dei suoi peccati davanti alla sacra Immagine del SS. Crocifisso e segnatosi con l’olio ottenne la grazia davanti a tutti.
2 febbraio 1688.
Domenica Felippo di Matino, storpia e immobilizzata in un fondo di letto da settembre scorso, senza speranza di guarigione come affermato dai medici e dal Dottor Onofrio Tafuro di Matino, fu legata su un cavallo e venne trasportata a Casarano; appena arrivata sul sagrato della chiesa disse: “slegatemi perché il SS. Crocifisso mi ha fatto la grazia”. Scesa autonomamente da cavallo, iniziò a camminare per tutta la chiesa davanti ai fedeli presenti e al predetto medico Tafuro, il quale affermò che tale guarigione era attribuibile esclusivamente al Crocifisso. Unta con l’olio della lampada dal Rev.do Don Domenico Antonio Buffello, guarì definitivamente e tornò risanata nel suo paese di Matino. La povera ragazzina Lucrezia Ammassara di Matino di anni sette, sofferente dalla nascita, venne trasportata in un cesto davanti all’immagine; venne segnata con l’olio su tutto il corpo mentre la madre recitava le litanie; giunta all’invocazione “Santa Trinita, unico Dio”, la piccola uscì dalla cesta ed iniziò a camminare per tutto l’altare davanti a tutti. Il genero della “Cocozzella” [sic] era storpio e, davanti al SS. Crocifisso, si unse con l’olio ed ottenne la grazia.
8 febbraio
Lucia Mi di Taviano, menomata da entrambe le mani, venuta davanti alla sacra Immagine, preso l’olio della lampada, guarì. Il povero Domenico Feuli, mentre caricava del ghiaccio dalla neviera con la sua carretta, cadde da essa ed esclamò “SS.Crocifisso aiutami”. I cerchioni delle ruote lo investirono all’altezza delle gambe ma questi rimase illeso grazie alla sua fede. Corse in chiesa e rese grazie al Crocifisso. Nel paese di Supersano, crollò una casa e i detriti caddero sopra l’abitazione vicina in cui dormivano cinque persone. Al rumore del crollo essi esclamarono “SS. Crocifisso di Casarano aiutaci!” uscendone incolumi. Furono liberati dalle macerie insieme al loro somaro. La mattina seguente vennero a Casarano per ringraziare il Crocifisso della grazia ricevuta. Un sacerdote di Tiggiano, affetto da dissenteria da molto tempo, appena giunto nel feudo di Casarano, ottenne la guarigione; entrò in chiesa e rese i dovuti ringraziamenti davanti all’Immagine. Una povera giovine di Gagliano del Capo, gravemente inferma ed abbandonata dai medici, mentre era assistita spiritualmente dai sacerdoti, farfugliò a denti stretti una frase indecifrabile. Essi, credendola in agonia, la invitarono a raccomandarsi alle piaghe di Gesù Cristo. Allora la povera inferma riuscì a gridare ad alta voce: “SS. Crocifisso di Casarano aiutami!”. I sacerdoti chiesero il perché di questa invocazione ed essa dichiarò di aver udito un uomo che parlava del ritrovamento di un miracoloso Crocifisso a Casarano. Aggiunse di doversi recare lì per rendere grazie qualora avesse ricevuto la guarigione. Dopo qualche tempo, essendo risanata completamente, venne a Casarano per il ringraziamento e raccontò tutti i fatti davanti al popolo.
Il chierico Filippo Gioffreda (+ 16/12/1696) essendo precipitato da sei metri di altezza, invocò l’aiuto del SS. Crocifisso e, a vista di tutti, non si fece alcun male. A Carluccio Ferrari di Casarano (+ 24/01/1704) gli scoppiò il fucile tra le mani; invocando il SS. Crocifisso rimase illeso davanti a numerosi testimoni.
Io stesso, ritrovandomi nel borgo di Grottaglie, incontrai una donna, addetta al castello, che mi domandò se avessi con me l’olio del SS. Crocifisso di Casarano in quanto aveva una figlia morente a causa di un aborto. Il feto era morto in grembo ma la donna non era riuscita ad espellerlo non avendo contrazioni spontanee. Diedi l’olio alla madre e la invitai a chiamare un sacerdote per recitare le litanie e far ungere la povera ragazza. Così fece e, mentre il sacerdote invocava la SS. Trinità, subito iniziarono le contrazioni e la ragazza riuscì ad espellere il feto morto riacquistando la salute.
Nel Casale di San Giorgio [Ionico], uno storpio, avendo ricevuto dell’olio del SS. Crocifisso dal Sacerdote Don Mauro Occhiazzo, si unse, ottenne la grazia e venne a Casarano per rendere grazie alla miracolosa immagine.
Moltissimi infermi, affetti da diversi mali, segnatisi con l’olio della lampada, immediatamente ricevevano la grazia davanti al popolo e gli stessi invocavano più volte:”Grazie, grazie Santissimo Crocifisso perché ci hai liberati da molti mali”.
Nicolò Silvestri di Napoli, in servizio presso il palazzo del Sig. Duca, Don Antonio D’Aquino (+22/11/1690), avendo suonato il violino per la festività del Crocifisso, si ammalò gravemente senza speranze di guarigione; chiese grazia al Crocifisso, ottenendola e, come ex voto, fece appendere di fianco alla miracolosa immagine, la cassa da morto che era già pronta per il suo funerale.
Don Antonio Coluccia di Casarano (+19/02/1706), si ammalò di cistite e non poteva orinare nonostante le applicazioni mediche. Segnatosi con l’olio, immediatamente guarì.
Nella prima festa del SS. Crocifisso che si fece con una fiera mercatale, necessitando una certa quantità di farina per preparare la colla con cui rivestire di fogli di carta le mura della città finta di legno, io stesso mi ritrovavo in casa un vaso con dentro circa sette chili di farina. Ebbene, questa farina non venne mai meno, tant’è che il vaso risultava sempre pieno, pur avendo preparato e consumato tre caldaie di colla al giorno per otto dì consecutivi. Sicché un giorno chiesi a mia sorella Caterina (+12/12/1713) come si stesse in farina ed ella prese il vaso e lo mostrò al Rev. Don Giacomo Antonio Costa (+11/06/1718) e a tutti i presenti: il vaso era pieno! Ciò avveniva per grazia del SS. Crocifisso che faceva crescere la farina poiché, a mio giudizio, non sarebbe stato sufficiente oltre mezzo quintale di farina per incollare tanti fogli, lunghi circa due metri e mezzo e alti un metro e mezzo, per non parlare poi di tanti altri pezzi di carta di varie dimensioni. In un altro anno si celebrava la festa del Crocifisso. Nell’ultimo giorno delle festività, quando si stava rappresentando la liberazione della città di Otranto dai Turchi, la finta città di legno, circondata da figuranti vestiti da soldati ed altri mascherati da ottomani, cadde rovinosamente. Tutti i presenti gridarono “SS. Crocifisso aiutali!”. In virtù di questa invocazione nessuno si fece alcun male e tutto ciò per la grazia concessa dal SS. Crocifisso.
L’attività lavorativa iniziava all’età di circa 12 anni ed il primo impiego era quello di addetto principalmente alla preparazione delle malte che rappresentava l’attività di esclusiva competenza dei garzoni.
Era in’operazione importantissima che influiva non solo sulla qualità delle murature e sulla produttività ma anche sulla fatica fisica del muratore; infatti, la presenza nella malta di qualche sassolino sfuggito alla cernita della tufina obbligava il muratore a rialzare il concio malfermo, per rimuoverlo dopo averlo allettato, con perdita di tempo e sforzo fisico supplementare.
L’impasto doveva essere omogeneo e per questo era necessario un lavoro impegnativo col ruèzzulu per stemperare completamente la calce in pasta, a volte, anche abbastanza indurita da lunga stagionatura.
La malta non doveva essere né troppo grassa per evitare le fessurazioni (spaccature) né troppo magra per evitare che mancasse l’adesione nella stuccatura dei comenti.
IL neofita, che spesso veniva affidato al maestro direttamente dal padre con la raccomandazione di avviarlo alla conoscenza del mestiere, si trovava già dal primo giorno a rispettare una gerarchia precostituita tra i garzoni; infatti ce n’era uno, un po’ più grande di età, che aveva la responsabilità di non far mancare mai la malta ai muratori che la richiedevano (conza vagliò!) e che ordinava, agli altri due o tre garzoni della squadra, di reperire la tufina dai banchi degli squadratori, di setacciarla, di stemperare il grassello di calce al centro di un conetto di tufina setacciata, di impastare la malta e di portarla, a richiamo, con l’uso di caldarine metalliche troncoconiche, fornite di due asole (maniche), della capacità di circa l. 11.
Con l’aiuto di un altro garzone, l’addetto al trasporto si caricava sulla spalla, nuda d’estate, la caldarina e, tenendosela in equilibrio con una mano, provvedeva a raggiungere la postazione del muratore anche inerpicandosi su scale a pioli, su cui si reggeva facendo scorrere la mano libera lungo il montante della scala e mai sui pioli ( la mano alla sciosca!, gli urlava il maestro).
Un’altra incombenza dei garzoni era quella di raccogliere i ferri del mestiere a fine giornata lavorativa, al tramonto del sole e spesso anche oltre, di lavarli e riporli al sicuro .
Raramente si procedeva all’approvvigionamento di tufina direttamente dalle cave di tufo se non nei cantieri di dimensioni rilevanti.
I detriti e la tufina provenienti dalla squadratura dei conci venivano setacciati dai garzoni per procedere alla confezione della malta comune.
Per questo, l’altezza del concio veniva squadrata a cm. 24,5 per produrre una maggiore quantità di tufina e per avere l’altezza di cm. 25 dei filari della muratura comprendendovi la malta di allettamento.
Per poter setacciare la tufina, questa doveva essere asciutta e quindi era cura dei garzoni riporla al coperto perché eventuali piogge notturne non ne impedissero l’utilizzo la mattina successiva.
La malta comune era costituita da un impasto di calce spenta allo stato pastoso e tufina che, a secondo degli impieghi (per muratura o per intonaci, ecc.), comprendeva sei calderine di tufo e due di calce oppure quattro calderine di tufo e due di calce. A volte, in mancanza di tufina, si utilizzava la ”rena”, cioè la sabbia che veniva raccolta sui margini delle strade dove si depositava trasportata dalle acque pluviali e, più raramente, anche il terreno vegetale sabbioso detto bolo.
L’impasto con acqua veniva ottenuto disponendo la tufina in forma di cono tronco (mureddha) e praticandovi al centro un vuoto in cui veniva versata la pasta di calce nel numero di caldarine proporzionale a quelle di tufina secondo l’impiego; successivamente, con l’aggiunta dell’acqua necessaria e con l’uso di uno strumento costituito da una specie di zappa con bordo quadro a spigoli arrotondati, munita di un lungo manico, detta ruèzzulu, veniva stemperata la calce e quindi amalgamata man mano con la tufina circostante formando la malta.
Una variante della malta comune era costituita dalla malta grossa, utilizzata normalmente per i massetti di sottofondo dei pavimenti.
L’operazione della setacciatura veniva effettuata con l’uso di un pannello di rete metallica avente fori dell’ordine di circa un centimetro (rezza), munito di telaio perimetrale, disposto in posizione leggermente inclinata rispetto alla verticale, contro il quale veniva scagliata per mezzo della pala, la tutina proveniente dalla cava o dai banchi degli squadratori. Il passante veniva successivanemte setacciato col setaccio a mano (riquadro di assi di legno delle dimensioni di circa cm 50 di lato, di larghezza di circa cm. 10 – farnaru – con applicazione di rete metallica) che aveva fori quadrati con lato da uno (sitella) a più millimetri, a secondo del tipo di malta che si doveva confezionare ( per la muratura, per gli intonaci o per lo stucco degli intonaci).
Lo scarto più grossolano della setacciatura, costituiva la fricciame, utilizzata nei riempimenti e nella predisposizione dei letti a pendio dei lastrici solari; i detriti tufacei passanti dalla rezza ma non dal farnaro costituivano i pipirielli, che venivano utilizzati, scagliandoli con violenza sull’intonaco fresco, quando bisognava aumentarne lo spessore con passaggi successivi per pareggiare mancanze della muratura, specialmente per il lato posteriore di murature ad una testa.
Una varietà di malta povera era costituita da calce impastata col terreno sabbioso (bolo); la malta che ne derivava assumeva un colore rossastro e veniva utilizzata specialmente per il primo strato di intonaci di case rustiche o di campagna e per la posa in opera di pavimenti in pietra.
Un’altra varietà di malta povera era costituita da un impasto di terra con detriti di calce spenta (ne dirò a proposito dello spegnimento della calce) detta “murtieri” che veniva utilizzata per spianare il nucleo di riempimento dei muri a due teste (muraglie) o nella “carica” delle volte a squadro ma anche nella posa in opera di pavimentazioni in basolato.
La malta di cocciopesto, dotata di notevoli caratteristiche idrauliche aveva specifiche applicazioni e veniva utilizzata soprattutto nell’intonaco stagno delle cisterne, nella stilatura dei comenti dei lastrici solari in chianche di pietra di Cursi, ed in tanti altri casi in cui era richiesta la caratteristica di impermeabilità. Questa malta era ottenuta aggiungendo agli ingredienti soliti dei frammenti di coccio provenienti dalla frantumazione sistematica di embrici di terracotta (pizzulame).
L’orario di lavoro (nominalmente di otto ore) era suddiviso in tre parti da una sosta di circa mezz’ora per la colazione a metà mattinata, e da un’altra sosta di due o tre ore, a secondo delle stagioni, per il pranzo.
L’alimentazione prevalente era costituita, a colazione, da pane e pomodoro o frisella; minestra di legumi e verdura lessa a pranzo con cena anche più frugale. la carne, quasi sempre di pollo o di gallina, era assicurata (non sempre e non per tutti) per il pranzo di natale e di pasqua. Per queste e per le altre festività religiose c’era molta attesa, mescolando il sentimento religioso con le attrazioni alimentari.
Prima dell’affermazione della civiltà industriale, con i ritmi lavorativi imposti dagli stabilimenti produttivi, non si facevano interruzioni per ferie concentrate in un unico periodo dell’anno. ad eccezione delle domeniche, in cui spesso si lavorava la mattina, si praticavano dei periodi di riposo di circa due o, eccezionalmente, tre giorni al mese in occasione delle feste religiose scaglionate in tutti i mesi, che, anche per questo, erano attese con comprensibile interesse.
In sostanza, il ritmo del lavoro e le esigenze della produzione condizionavano completamente la vita delle persone in qualsiasi settore produttivo.
Le decisioni più importanti in campo sociale (per es. se si doveva lavorare anche la domenica) erano prese dai titolari della produzione (maestri muratori, maestri falegnami, ecc.) con l’assenso dei capi famiglia. I giovani, che non esistevano come categoria sociale, erano considerati semplicemente ragazzi, più inclini al tempo libero ed allo svago e perciò non avevano alcuna voce in capitolo. La stessa connotazione legale, figlio di…………., dimostrava che la referenza principale era la paternità, sia in positivo che in negativo, anche quando era inesistente ufficialmente (figlio di n.n.). Questo status di ragazzi perdurava finchè non si sposavano o non ritornavano in famiglia dopo aver svolto il servizio militare che li faceva transitare nella categoria degli adulti .
L’acqua
Costituiva un elemento fondamentale nella produzione edilizia. Nei luoghi di lavoro era indispensabile provvedere preliminarmente alla disponibilità di fonti di approvvigionamento sia dell’acqua potabile che di quella necessaria per l’esecuzione di impasti, per bagnature, ecc. Quando era presente un cospicuo numero di lavoratori, vi era addirittura un addetto (garzone o anziano – l’acquarulu) che distribuiva periodicamente nel corso della giornata l’acqua da bere, con una brocca metallica (la menza), prelevandola da fonti pubbliche o da cisterne private di cui erano munite tutte le case di civile abitazione.
Per i fabbisogni ordinari del cantiere l’acqua necessaria proveniva da pozzi , molto diffusi in tutto il territorio, più o meno profondi a secondo della formazione geologica in cui erano scavati e della falda che emungevano.
Nelle campagne, presso le masserie, in corrispondenza del pozzo c’era la trozza costituita da una sorta di portale, a volte artisticamente intagliato, in cui era inserita una carrucola fissata ad un asse ortogonale al piano del portale. Nella gola della puleggia scorreva una fune chiusa ad anello esteso fino al pelo dell’acqua del pozzo, alla quale erano applicati degli otri che venivano riempiti e svuotati di acqua con il movimento verticale della fune impresso a forza di braccia.
Per lo stoccaggio di deposito temporaneo in cantiere si utilizzavano una o più botti, disposte in posizione verticale e private del coperchio.
Nei casi di fabbisogno di notevoli quantità di acqua, come per l’operazione di spegnimento della calce viva, si ricorreva alla fornitura da parte di trasportatori attrezzati “ad hoc” con le caratizze, botti di forma allungata disposte orizzontalmente sul pianale di carico del traino, munite di saracinesca di scarico sul fondo posteriore, che si rifornivano da numerosi pozzi di cui era dotato il paese, in cui vi era una naturale abbondante disponibilità di acqua.
L’acqua potabile proveniva dalle cisterne di cui erano dotate tutte le case di civile abitazione. L’accumulo della risorsa idrica costituiva una pratica particolarmente accurata, per cui solo in determinati periodi dell’anno l’acqua veniva conservata in deposito. Esisteva sempre un sistema di by-pass che permetteva di scaricare l’acqua piovana al di fuori della cisterna, per esempio, delle piogge primaverili che potevano trasportare le infiorescenze delle piante che andavano in putrefazione rendendo l’acqua inutilizzabile a fini alimentari. Una pratica molto diffusa era anche quella di ospitare nella cisterna un’anguilla che doveva provvedere a distruggere eventuali parassiti patogeni.
La struttura delle cisterne era in muratura, particolarmente curata, specialmente quando era a contatto con terreni spingenti. L’impermeabilità del fondo e delle pareti, fino alla quota di imposta della volta a botte di copertura, era affidata all’intonaco di cocciopesto.
Mattia Bacile, chierico in Spongano e la sua dimora in contrada “Le More”. Note storiche di approfondimento*
di Filippo Giacomo Cerfeda
Nella monografia su Spongano di Fernando De Dominicis (vol. I, pag. 513), nelle pagine dedicate alla famiglia Bacile, leggiamo che Mattia Bacile è fratello di Gennaro e zio di Ippazio Bacile. Fu sacerdote in Roma, ma nel Catasto Onciario del 1749 è ancora accatastato come chierico ed aveva 45 anni.
Fece costruire un casino di campagna con una cappella, lontano dall’abitato di Spongano, sulla strada in contrada “le More”. Sul parapetto faceva bella mostra di sé un ostensorio in pietra locale che è misteriosamente scomparso. Raffigurava il segno eucaristico dell’ostia con raggiera proprio dell’Ordine Riformato di San Bernardino da Siena che si richiamava a San Francesco; aveva, al centro, inciso le lettere IHS (Jesus Hominum Salvator) con la lettera H sormontata da una croce e tre chiodi, i segni della passione. Lo stesso stemma è usato anche dai Gesuiti. Inoltre, su quello che una volta fu l’ingresso principale, si intravedono i resti di una epigrafe ormai illeggibile.
Molti cittadini di Spongano ricordano benissimo l’ostensorio in pietra, poi trafugato, del casino Mattia. Una perdita veramente significativa per la storia civile e religiosa non solo della famiglia Bacile ma anche della comunità sponganese.
A queste informazioni, che riteniamo importanti, desidero aggiungere i contenuti essenziali di alcuni documenti e atti notarili inediti scoperti recentemente nell’Archivio di Stato di Lecce.
In un atto notarile del 18 aprile 1723 si legge che il chierico Mattia Bacile di Spongano è il Procuratore (cioè Priore) della Confraternita del Santissimo Sacramento. Sicuramente tale Confraternita, come tutte le altre omologhe Confraternite sotto lo stesso titolo, non aveva una cappella propria ma la sede reale e giuridica sull’altare centrale o qualche altare laterale della chiesa parrocchiale di Spongano. Da tener presente che 9 su 10 Confraternite nel Salento, sotto il titolo del SS. Sacramento, avevano sede legale e giuridica nell’altare centrale della chiesa, quasi sempre sotto lo stesso titolo. Dall’atto notarile apprendiamo che il sodalizio del SS. Sacramento, oltre a garantire le attività di culto e quelle devozionali, praticava anche l’Istituto del microcredito, ossia prestiti in denaro a coloro che avevano specifico bisogno e che avanzavano formale richiesta. Il tasso di interesse era valutato in base alle leggi vigenti dalla Chiesa Cattolica; per questo erano chiamati anche censi bollari, perché i meccanismi di prestito e i tassi percentuali erano regolati dalle Bolle pontificie. L’oggetto del rogito notarile è l’affrancamento di un censo bollare di 9 carlini per un capitale censo di 10 ducati. In pratica il debitore restituisce alla Confraternita la somma di dieci ducati di capitale che aveva richiesto molti anni prima e, nello stesso tempo, si libera (affrancamento) anche dal pagamento annuale degli interessi di 9 carlini. La pratica dei censi bollari era molto redditizia per i privati facoltosi o per le Istituzioni che operavano in questo settore e consentiva al povero cittadino di usufruire di piccole somme di denaro con interessi che andavano dal 5% al 9%. In verità i pontefici avevano imposto dei limiti (9%) oltre il quale si sconfinava nell’usura.
Spesso bisognava motivare la richiesta del prestito: l’acquisto del terreno per edificare la casa al proprio figlio oppure per la dote nuziale della propria figlia oppure per il pagamento delle numerose tasse di decime e quindecime dovute al feudatario o al regio fisco. Vogliamo pensare che il chierico Mattia Bacile abbia impiegato le rendite dei capitali censi per la manutenzione dell’altare, per le opere di culto e per le spese delle lampade votive o per il sostentamento del cappellano che celebrava (su quell’altare) le messe pro anima dei confratelli defunti.
In un altro atto notarile del 4 aprile 1726, rogato per il testamento di Francesco Russo di Diso, scopriamo che il testatore è marito di Feliziana Bono ed è padre di Vito Antonio Russo. Francesco Russo è zio del chierico Mattia Bacile di Spongano e di Gennaro Bacile. Gli altri nipoti sono i tre fratelli: il chierico Carmine Russo, Giuseppe Russo e Paolino Russo. In realtà il nostro Mattia Bacile è imparentato con i Russo di Diso, famiglia benestante e cospicua che ha dato origine a diversi notai, e, come descritto nell’atto, anche beneficiario di molti beni lasciati in eredità dallo zio Francesco Russo.
Un documento inedito estremamente importante per la storia del nostro personaggio Mattia Bacile e della feudalità di Miggiano nel Settecento è un contratto di affitto del feudo di Miggiano del 1734. Si tratta di un atto notarile rogato dal notaio Vito Resce di Diso e attualmente custodito nell’archivio di Stato di Lecce.
L’atto notarile è stato rogato nella città di Castro, alla presenza di Giovanni Russo, regio giudice ai contratti, e dei testimoni don Saverio Calò, dottore in diritto civile e canonico e parroco di Castro, del sacerdote don Antonio De Blasi di Diso e di Ippazio Rizzo e Antonio Ciriolo, entrambi di Castro.
Davanti al notaio si costituiscono mons. Giovanni Battista Costantini, vescovo di Castro utile Signore e Barone della Terra di Miggiano, da una parte; Oronzo Bacile con il figlio Mattia, chierico, entrambi di Spongano, dall’altra parte.
Il vescovo Costantini dichiara di voler concedere in affitto la “Terra” di Miggiano”, sua baronia, e per questa ragione intende stabilire una convenzione con il maestro Oronzo ed il figlio Mattia, intervenuti in solidum nel contratto di affitto dell’intero feudo di Miggiano.
Il padre e il figlio Bacile quindi accettano la concessione del feudo con tutta la sua giurisdizione civile e mista, con tutti i diritti, azioni, ragioni, esazioni, tributi, con tutti i suoi beni, tanto feudali quanto burgensatici, palazzo baronale, case, corti, frantoio, forno, vassalli, vassallaggi, masserie, territori seminativi, uliveti, terreni macchiosi e montuosi (“cutosi”) colti ed incolti, giardini, rendite, frutti, proventi, pagamenti, decime, annui censi, erbaggi, pascoli, ed ancora tutti i beni che appartengono alla medesima baronia siti nel territorio di Miggiano ma anche in quello di Acquarica del Capo, con il Banco della giustizia, mastrodattia, con tutta la giurisdizione delle cause civili e miste e con le quattro lettere Arbitrarie di poter comporre i delitti e commutare le pene, per gli stessi delitti, da corporali in pecuniarie, rimettere le pene e concedere la grazia in tutto o in parte.
L’affitto è stabilito per la durata di tre anni consecutivi, a decorrere dal 1° settembre 1734 fino al 31 agosto 1737, al prezzo di 550 (cinquecento cinquanta) ducati l’anno, per un totale complessivo di 1650 ducati per l’intero triennio.
Il pagamento annuale deve avvenire nella città di Castro, sede episcopale, alla presenza diretta di mons. Costantini, in moneta d’argento in uso nel Regno di Napoli. I conduttori del feudo, Oronzo e il figlio Mattia, promettono e si obbligano in solidum di pagare l’affitto annuale alla fine di ogni semestre, ossia la somma di 275 ducati per sei semestri consecutivi e di non mancare né cessare tale pagamento “semestratim” per qualsiasi causa, caso ed eccezione di legge o per qualsiasi titolo, pretesto, nonché per cause di guerra, peste, di insolita sterilità del terreno, tempeste, gelate, grandinate, nevicate, invasione di bruchi, malattia alle olive (brusca) e per qualsiasi altro caso fortuito, opinato e inopinato che dovesse accadere quando fosse insopportabile e inevitabile di forti grandinate devastanti o terribile invasione di bruchi. In altri termini, nel contratto viene stabilito che solo in questi due casi (grandinate devastanti e invasione di bruchi) il vescovo Costantini doveva scomputare dall’affitto la somma relativa al danno, secondo il parere e giudizio di persone esperte in agricoltura e secondo le disposizioni delle leggi e dei dottori in agraria.
Gli stessi Bacile, padre e figlio, per il menzionato affitto, ricevono in dote dal vescovo barone tomoli trenta di grano, tomoli settanta di orzo, entrambi di ottima e recettibile qualità, insieme con tre bovi, una “vacca figliata” ed una carretta per il trasporto del letame. Solo per gli animali e la carretta il valore viene stimato in ducati 80. Al termine del triennio di conduzione gli affittuari sono tenuti e obbligati di restituire e consegnare al titolare della baronia l’intera dote, comprensiva di vettovaglie, bestiame e carretta.
Le ultime due clausole, previste dal contratto, riguardano mons. Costantini. La prima è l’obbligo del vescovo di non rimuovere né di far rimuovere i due affittuari durante il loro esercizio della conduzione del feudo; la seconda riguarda il godimento del frutto della vigna dell’autunno 1734, spettante di diritto ai precedenti conduttori, Oronzo e il figlio Gennaro Bacile, che dopo la decadenza del precedente contratto (agosto 1734) spetta ai nuovi affittuari ossia Oronzo e figlio Mattia. Questi ultimi sono anche beneficiari del frutto delle olive della raccolta novembre 1734-febbraio 1735, mentre il frutto delle olive dell’anno 1737 doveva restare esclusivamente a beneficio del Costantini.
Da quest’ultima clausola veniamo ad apprendere che nel triennio 1731-1734 il feudo di Miggiano era stato concesso in conduzione ad Oronzo e al figlio Gennaro Bacile, sostituito quest’ultimo, nel contratto successivo, dal fratello clerico Mattia per motivi non esplicitati nell’atto notarile.
Non conosciamo al momento della nostra indagine archivistica se altri e successivi contratti di proroga siano stati stipulati con la famiglia Bacile per la concessione in affitto della “Terra” di Miggiano; elementi non documentari però ci inducono a ritenere che la stessa famiglia Bacile abbia avuto tale concessione nei trienni successivi almeno fino al sopraggiungere di altri conduttori non locali per la gestione del feudo.
Tra gli elementi di prova della continuità della famiglia Bacile è la realizzazione del loro frantoio ipogeo a Spongano. Le ingenti quantità di olive prodotte nel feudo ecclesiastico di Miggiano nell’annata 1734 ed in quelle successive pongono le premesse per la realizzazione di un grande frantoio ipogeo nell’abitazione di Oronzo, certamente coadiuvato dai figli Gennaro e Mattia. Sull’architrave della porta d’ingresso del frantoio è incisa a chiare lettere l’iscrizione latina A[nno] D[omini] 1736, seguita, a breve distanza e sullo stesso lato della strada, da un’altra data (1760) segnata sull’architrave di una finestra della facciata del palazzo Bacile che potrebbe indicare la progressione dei lavori di ampliamento dello stesso palazzo.
Nell’atto di battesimo del 10 settembre 1739 di Domenico Fedele Nicola Bramante, figlio di Ippazio Bramante e Maria Stefanelli, coniugi di Miggiano, amministrato dal parroco di Miggiano don Vincenzo Scolozzi, leggiamo che i padrini del piccolo furono il chierico Mattia Bacile ed Elisabetta Bacile, entrambi figli di Oronzo Bacile di Spongano. Mattia Bacile si presenta con la licenza del reverendissimo Vicario di Ugento, opportunamente esibita all’arciprete di Miggiano prima del battesimo. Chiara ed esplicita nell’atto di battesimo l’identità di Mattia Bacile, identificato come “chierico”.
Particolarmente significativo è l’atto notarile del 13 luglio 1746, rogato dal notaio di Spongano Teodoro Bacile. Purtroppo, i protocolli del 1746, come tutti gli altri protocolli di Teodoro Bacile, non sono mai stati versati nell’archivio di Stato di Lecce. Per tale ragione li riteniamo scomparsi o forse giacenti in qualche archivio privato degli eredi e discendenti della famiglia Bacile di Spongano. Del rogito però del 13 luglio 1746 abbiamo un chiarissimo regesto all’interno dei Protocolli notarili del Giudice ai Contratti Tommaso Scarciglia di Spongano. Nei regesti dell’anno 1746, in corrispondenza del mese di luglio, troviamo la seguente annotazione manoscritta:« Listesso giorno le trideci del mese di Luglio mille sette cento quaranta sei nel Casale di Spongano Notaro Teodoro Bacile di detto Spongano in mia presenza stipulò uno istrumento di afrancazzione dun capitale Censo di docati quindici alla raggione del nove per cento a favore di Domenico Pisino di Surano contro la venerabile cappella di S. Antonio di Spongano e suo procuratore Clerico Mattia Bacile di Spongano. Testimoni Clerico Crisostomo Bacile, Clerico Paolo Scarciglia, e Nicolò Rizzo di Spongano litterati. Io Tomaso Scarciglia del Casale di Spongano Reggio Giudice a Contratti.».
Nonostante la sobrietà del regesto, il Regio Giudice Scarciglia ci consegna alcuni dati molto significativi, relativi alla cappella di Sant’Antonio ed al suo procuratore Mattia Bacile. Siamo certi che si tratta della cappella di famiglia Bacile, prospiciente il palazzo Bacile. Sull’architrave della porta d’ingresso della cappella di Sant’Antonio (come viene esplicitamente denominata nell’atto notarile e nel regesto del giudice Tommaso) è incisa la data 1747, lasciando ogni ombra di dubbio sulla edificazione della stessa cappella. Tuttavia, l’atto notarile di Teodoro, redatto il 13 luglio 1746, mette in chiara evidenza lo stato di preesistenza della cappella, egregiamente amministrata dal chierico Mattia Bacile, nel ruolo di procuratore della stessa e gestore del patrimonio immobiliare. Cospicue dovevano essere le rendite dei beni legati alla cappella, tanto da consentire la pratica creditizia a coloro che ne facevano esplicita richiesta. Nel nostro caso, Domenico Pisino di Surano, per sue necessità familiari, aveva ottenuto in prestito quindici ducati al tasso del nove per cento. Dopo i pagamenti rateali tertiatim, ossia tre volte l’anno ogni quattro mesi, giunge finalmente all’affrancazione attraverso la restituzione della somma che aveva ottenuto. Il chierico Mattia Bacile riceve in tal modo la somma del capitale censo che aveva sborsato alcuni anni prima e rilascia finale quietanza a Domenico Pisino di Surano. L’assenza di istituti bancari o di credito nelle piccole realtà salentine consentiva ai procuratori di chiese e cappelle di istituire procedure di microcredito a vantaggio dei più bisognosi. I tassi percentuali di interesse variavano dal sei al nove per cento. Quasi sempre erano privati cittadini facoltosi che praticavano tassi al sei per cento, mentre i procuratori di cappelle garantivano capitali più consistenti ma a tassi più elevati. Le rendite derivanti dai pagamenti rateali venivano quasi sempre impiegate nella concessione di altri capitali censi e nelle spese per gli arredi sacri delle cappelle, nonché al sostentamento del cappellano rettore della stessa cappella. I testimoni presenti all’atto notarile sono altri chierici di Spongano: Crisostomo Bacile, Paolo Scarciglia e Nicolò Rizzo, tutti letterati.
L’ultima osservazione dell’atto notarile è rivolta alla denominazione della cappella, edificata sotto il titolo di Sant’Antonio. Solo nei decenni successivi in tutti i documenti ufficiali riscontriamo il titolo “Vergine dei Dolori” o dell’Addolorata.
L’atto notarile del 27 novembre 1747 contiene informazioni interessanti sul chierico Mattia Bacile. Nel rogito è inserito il Mandato di procura da parte di Francesco Sergi di Poggiardo del 21 ottobre 1747, l’atto notarile del 27 ottobre 1747 relativo alla vendita a favore dei fratelli Gennaro e chierico Mattia Bacile ed infine l’atto notarile della ratifica della vendita datato 27 novembre 1747. Di questi documenti si presenta un breve regesto:
Mandato di procura da parte di Francesco Sergi di Poggiardo effettuata a Napoli il 21 ottobre 1747
Francesco Sergi di Poggiardo non potendo attendere e nemmeno essere presente di persona per l’atto notarile, per la distanza del luogo ma confidando nella fiducia e lealtà di Domenicantonio Pede, il medesimo, benché assente ma come se fosse presente, lo creo e lo costituisco mio Procuratore con tutta quella pienezza e potestà che si ricerca alle cose infrascritte, affinché in mio nome, rappresentando la propria mia persona, possa e voglia vendere ed alienare liberamente e senza patto di ricomprare, o speranza di riavere a tutti, e qualsivogliano uomini e persone che vorranno attendere alla compra suddetta la parte, e porzione che li spetta così su i beni del quondam Carlo Sergi di Poggiardo, mio padre, come quella che spetta su li beni della signora Annamaria De Matteis mia madre siti li beni predetti in diversi luoghi e Terre per il prezzo che meglio potrà convenire con i futuri compratori, esigere il prezzo suddetto e quietare in ampia forma, con promettere ancora la ratifica di me predetto costituente fra giusto e competente tempo, e di detta vendita farne rogare pubblico istrumento per mano di qualsiasi pubblico notaio con tutte le clausole e cautele necessarie, solite apponersi in simili contratti.
Mandato di procura da parte di Francesco Sergi di Poggiardo effettuata a Napoli il 21 ottobre 1747
Francesco Sergi di Poggiardo ma dimorante a Napoli, per essere impedito per la distanza del luogo di rendersi presente di persona per l’atto notarile, nomina e costituisce come suo Procuratore speciale il suo patrigno Domenicantonio Pede perché confida nella sua bontà e lealtà. Lo crea e lo costituisce suo Procuratore con tutta quella pienezza e potestà che si ricerca in simili circostanze, affinché in suo nome possa rappresentarlo davanti al notaio con concedergli la facoltà di poter e voler vendere ed alienare liberamente e senza patto di ricomprare, o speranza di riavere a tutti e qualsivogliano uomini e persone che vorranno attendere alla compra suddetta la parte e porzione che li spetta sui beni del defunto suo padre Carlo Sergi di Poggiardo, così come su quella parte dei beni spettanti a sua madre Annamaria De Matteis. I beni dei suoi genitori sono situati in diversi luoghi e Terre e potranno essere venduti da Domenicantonio Pede al prezzo che meglio potrà convenire con i futuri compratori, esigere il prezzo conveniente e rilasciare quietanza in ampia forma, con promettere ancora la ratifica nella sua persona fra giusto e competente tempo, e di detta vendita farne rogare pubblico atto notarile per mano di qualsiasi pubblico notaio con tutte le clausole e cautele necessarie, solite apponersi in simili contratti.
Atto notarile del 27 ottobre 1747. Vendita a favore dei fratelli Gennaro Bacile e chierico Mattia Bacile
Il giorno 27 ottobre 1747 in Poggiardo, nelle case dei signori Sergi, davanti al notaio Stefano Fello di Poggiardo si costituiscono i signori:
– i coniugi Domenicantonio Pede ed Annamaria De Matteis; il signor Domenicantonio Pede interviene come procuratore speciale di Francesco Sergi, suo figliastro, assente in vigore di mandato di procura;
– Marina Sergi, monaca bizzoca con l’abito di Sant’Ignazio, figlia di Annamaria De Matteis, nata dal primo matrimonio, da una parte;
– i fratelli chierico Mattia Bacile e Gennaro Bacile, dall’altra parte.
I signori Domenicantonio Pede, Annamaria e Marina spontaneamente asseriscono davanti al notaio e davanti ai fratelli Bacile di avere, tenere e possedere come veri signori e padroni, con giusto titolo, una chiusura seminatoria nominata “Vignavecchia” o “Caudanova”, di capacità di terra di circa dieci tomoli, sita e posta nel feudo di Vaste, la maggior parte ed una porzione di capacità di cinque stoppelli, quantunque nelle pertinenze di Vaste, è del suffeudo della mensa vescovile di Castro. Tale vendita è motivata da loro urgenti e comuni bisogni, dalla loro casa e famiglia per alimentarsi in questa annata tanto scarsa ma soprattutto per pagare al reverendo sacerdote don Giuseppe Maggiulli di Muro la somma di cento ducati insieme ad altri cinque ducati di rate arretrate. Le parti costituite hanno deliberato e stabilito, insieme con Francesco Sergi, di vendere e liberamente alienare la predetta chiusura ed avutone trattato con i fratelli Bacile, con i medesimi rimase conclusa nel modo seguente: vendono ed alienano, ed a detto titolo per fustem jure, la chiusura suddetta, come sopra descritta, sita e confinata. Tale vendita è fissata al prezzo di ducati duecentosessantatre, tanto apprezzata, stimata e valutata dai sacerdoti don Paolino Pede di Diso e don Nicola Paiano di Surano, esperti comunemente eletti. Della stima effettuata dai due sacerdoti, periti in agricoltura, i signori Sergi esprimono piena soddisfazione, così come anche per il ricevimento della somma di denaro contante da parte dei fratelli Bacile. Dopo queste operazioni i signori Sergi con giuramento rilasciano finale quietanza, liberano e assolvono i fratelli compratori.
Atto notarile del 27 novembre 1747. Ratifica di vendita
Il 27 novembre 1747, in Diso, e precisamente nel Convento dei frati cappuccini, davanti al notaio Stefano Fello di Poggiardo si costituiscono i signori:
– Francesco Sergi di Poggiardo, da una parte;
– i fratelli chierico Mattia e Gennaro Bacile di Spongano, dall’altra.
Francesco Sergi spontaneamente dichiara che nei mesi scorsi, dimorando nella città di Napoli, fece un atto di procura con il quale istituì suo procuratore il signor Domenicantonio Pede, suo patrigno, al quale diede la facoltà di vendere e alienare i suoi beni a qualsiasi persona, stipularne le cautele e promettere in suo nome la ratifica nei termini competenti. In vigore di quella procura il signor Domenicantonio, in data 27 ottobre 1747, tanto in nome di Francesco Sergi, quanto in suo proprio nome et in solidum con Annamaria De Matteis e Marina Sergi, sorella di Francesco Sergi, per comuni e urgenti bisogni e per soddisfare alcuni loro creditori, vendettero ai fratelli chierico Mattia e Gennaro Bacile una chiusura seminatoria di dieci tomoli sita nel feudo di Vaste, nominata “Lama vigna vecchia” o anche “Caudanova” e promettendo al suo procuratore la ratifica da farsi dallo stesso Francesco Sergi fra il termine di due mesi. Con il presente atto il signor Francesco Sergi ratifica la vendita fatta per procura a favore dei fratelli Gennaro e Mattia Bacile.
L’ultimo documento che presentiamo in questa carrellata documentaria è l’atto notarile del 2 gennaio 1748 rogato da Stefano Fello di Poggiardo: “Quietanza, e cessione d’azzioni, e raggioni a favore del Chierico Mattia e Gennaro Bacile fratelli di Spongano, fatta dal sacerdote D. Giuseppe Maggiulli di Muro”.
Il due gennaio 1748, nella “Terra” di Muro, e precisamente nelle case del signor Don Ignazio Papadia, davanti al notaio si sono costituiti i signori:
– il reverendo sacerdote don Giuseppe Maggiulli di Muro, da una parte;
– Gennaro Bacile della “Terra” di Spongano, il quale agisce ed interviene tanto per sé stesso, quanto in nome e parte del chierico Mattia Bacile suo fratello, assente, dall’altra parte.
Il reverendo don Giuseppe spontaneamente asserisce alla presenza del notaio e di Gennaro Bacile che il 21 giugno 1746 a richiesta delle signore Anna Maria De Matteis e Marina Sergi, madre e figlia della “Terra” di Poggiardo, per loro bisogni e per far loro cosa gradita, prese a censo dal convento “Santo Spirito” di Muro ducati cento alla ragione del nove per cento, come appare dall’atto notarile rogato dal notaio Lega di Muro in data 26 giugno 1746. Le suddette signore per indennità dello stesso don Giuseppe, penes acta del Regio Tribunale del Consolato della città di Lecce, si obbligarono di pagare i cento ducati con tutte le rate al detto don Giuseppe per tutta la fine del mese di ottobre 1746. Gennaro Bacile soggiunse che esso in solidum con suo fratello chierico Mattia comprarono il 27 ottobre 1747 da Anna Maria De Matteis e Marina Sergi e dai signori Domenicantonio Pede e Francesco Sergi in solidum una chiusura seminatoria sita nel feudo di Vaste nominata “vigna vecchia” o “Caudanova”, per il prezzo di ducati duecentosessantuno, dai quali venditori furono delegati pagarne a don Giuseppe Maggiulli ducati cento insieme con altri ducati cinque di rate decorse e non pagate. Gennaro Bacile quindi in suo nome si è dichiarato disponibile a versare al sacerdote Maggiulli ducati cento di capitale insieme con altri ducati tredici e grana ottanta di rate decorse che lo stesso don Giuseppe ha pagato al convento di Muro fino alla data odierna, mentre le signore Anna Maria e Marina dovessero fare la cessione translativa e non estintiva di azioni e ragioni, della quale i fratelli compratori potessero servirsi in caso di futura evizione della chiusura comprata e ad ogni altro fine ed ampia quietanza a favore dei principali debitori come Gennaro e suo fratello chierico Mattia. Riconosciuta legittima, giusta ed onesta la richiesta fattali da Gennaro Bacile, il sacerdote Maggiulli riceve manualmente dallo stesso Gennaro Bacile la somma di ducati cento di capitale ed altri ducati tredici e grana ottanta di rate decorse in moneta contante di oro per affrancarsi e liberarsi dall’obbligo contratto con il convento di Muro.
Alla luce dei contenuti di questi documenti e atti notarili viene logico e spontaneo incrociare tutti i dati. In modo particolare la presenza dell’ostensorio in pietra, collocato sul frontespizio della casina di campagna, rimanda immediatamente al ruolo ricoperto per molti anni da Mattia Bacile come Priore della Confraternita del SS. Sacramento che certamente aveva come emblema il segno eucaristico dell’ostia con raggiera.
Se nel Catasto Onciario Mattia Bacile è censito come chierico ed aveva 45 anni possiamo calcolare la sua nascita nel 1704. Nell’anno 1723 lo ritroviamo come Procuratore del SS. Sacramento all’età di quasi 20 anni.
Al momento non abbiamo altri elementi utili per illuminare il personaggio Mattia Bacile. Se la presenza del casino di campagna ne ha perpetuato la memoria, il furto dell’ostensorio e la scomparsa dell’epigrafe latina IHS hanno cancellato definitivamente un intimo legame con un simbolo eucaristico e con un ruolo importante da lui ricoperto nella comunità sponganese e miggianese.
Le foto sono di Antonio Chiarello
Si ringrazia per la disponibilità e l’accoglienza Ignazio Oliva attuale proprietario della dimora.
* Dal libro Iscrizioni latine a Spongano di G. Corvaglia – F.G. Cerfeda – G. Tarantino. Youcanprint edizioni 2022
Ricorre oggi l’80° anniversario dell’armistizio dell’8 settembre, che segnò – secondo alcuni storici – la morte della Patria.
L’8 settembre rappresenta, piuttosto, l’agonia delle classi dirigenti dell’epoca (monarchia e alte gerarchie militari che avevano contribuito, insieme con il governo fascista, allo sfascio della Nazione). Dopo l’ambiguo comunicato del capo del governo Pietro Badoglio («le forze italiane reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza»), Vittorio Emanuele III, Badoglio, ministri, generali e alti ufficiali presero la via dell’ignominiosa fuga verso Pescara e Brindisi lasciando le forze armate senza direttive precise.
Divennero spasmodiche la ricerca di abiti borghesi, l’assalto ai treni, la dispersione nelle campagne. Nei giorni successivi all’8 settembre crollò tutta l’organizzazione militare che – a parere di molti autorevoli storici – avrebbe potuto opporre una valida resistenza ai nazisti che fecero grandi retate di militari sbandati che rinchiusero in vagoni blindati e inviarono ai campi di concentramento.
Più di settecentomila militari, restii a prestare giuramento di fedeltà alla Repubblica Sociale di Mussolini, furono internati nei lager nazisti, privati di ogni forma di tutela che le Convenzioni internazionali garantivano ai prigionieri di guerra. La reazione nazista portò, già nei primi giorni successivi all’8 settembre, a crudelissimi atti di rappresaglia. Il sacrificio di coraggiosi ufficiali, sottufficiali e militari semplici, cui si affiancarono molti civili, insieme con quello dei militari di stanza a Cefalonia e Corfù, massacrati dai tedeschi, segnò il riscatto della Patria che fu alimentato dal vento del Sud che iniziò a spirare, a partire dal giorno successivo all’armistizio, dalla terra di Puglia, per poi divampare nelle zone del centro nord occupate dai nazisti.
Non si fa retorica se si ricorda che i primi episodi che segnarono la guerra di Liberazione videro protagonisti militari e civili, non solo a Roma, nella zona di Porta San Paolo, ma anche a Bari e in altre città della Puglia (Ascoli Satriano, Bitetto, Barletta, Candela, Castellaneta, Manfredonia, Serracapriola, Trani, Vieste) che, nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre, si liberarono dall’occupazione nazista a costo di enormi sacrifici in termini di vite umane. Quegli episodi alimentarono il vento del Sud che, nei mesi successivi, avrebbe portato all’organizzazione del Corpo Volontari della Libertà nell’Italia occupata.
Il Salento diede il proprio contributo ad attizzare la fiamma della Resistenza. Il 12 settembre 1943, il Fronte Nazionale di Liberazione del Salento, a seguito delle notizie giunte da Bari dove la popolazione civile e alcuni reparti militari avevano dimostrato «la volontà di resistere», lanciò un proclama per spronare i giovani a costituire una Legione Volontaria «a servizio della Patria». In quel proclama, l’antifascismo salentino individuò nella collaborazione tra militari e civili l’asse portante della guerra per la liberazione dell’Italia dal giogo nazifascista («Esercito e Popolo concordi e stretti contro le minacce tedesche, contro le insidie del residuato fascista»).
Il 18 settembre un proclama indirizzato ai «Giovani d’Italia» redatto dai Comitati Antifascisti di Puglia spronava a combattere il nemico nazista «in nome della libertà» e di quanti, negli anni della dittatura, avevano patito confino, esilio, carcere, segregazione e soprusi di ogni genere. Non solo vento del Nord, come per decenni è stata presentata la guerra di Liberazione, ma compenetrazione di esso con l’altrettanto importante vento del Sud che raggiunse la propria epopea con le quattro giornate di Napoli (28 settembre – 1 ottobre 1943).
Negli ultimi decenni la ricerca storiografica ha fatto emergere quanto ricca e articolata sia stata la partecipazione dei salentini alla guerra di Liberazione. Ai tanti che combatterono e morirono nelle zone dell’Italia centro settentrionale militando nelle formazioni partigiane, occorre con reverente omaggio aggiungere il sacrificio dei figli del Salento che furono massacrati alle Fosse Ardeatine (i civili Ugo Baglivo da Alessano, Emanuele Caracciolo da Gallipoli, Antonio Pisino da Maglie, e i militari Ferruccio Caputo da Melissano, Antonio Ayroldi da Ostuni, Federico e Mario Carola da Lecce, il colonnello dei Carabinieri Ugo De Carolis, tarantino di adozione).
Il contributo dei salentini alla Resistenza, iniziata a Roma e a Bari il giorno dopo l’armistizio dell’8 settembre, è stato degno delle migliori tradizioni del Risorgimento.
Dopo aver identificato in «Frater Iacobus de Leccio»[1] l’abate generale celestino dal 1546 al 1549, il cui mandato è stato caratterizzato dalla necessità di dettare una regola comune ai frati della Congregazione, sull’onda del vigore richiesto da Trento nelle varie sessioni del Concilio (1545-1563), si è cercato di capire quanto possa aver influenzato la costruzione della chiesa di Santa Croce in Lecce, seppur successivo all’inizio del cantiere, il De invocazione, venerazione et reliquiis sanctorum et sacris imaginibus nella XXV, il documento redatto nell’ultima sessione del Concilio di Trento del 3 e 4 ottobre del 1563, in cui è stabilito, tra l’altro, che «le immagini del Cristo, della Vergine madre di Dio e di tutti i santi devono essere poste e mantenute soprattutto nelle chiese, e ad esse vanno tributati l’onore e la venerazione dovuti»[2].
Ci si è chiesto, dunque se la chiesa di Santa Croce, oltre ad essere considerata la massima espressione del Barocco leccese, possa essere intesa anche come la prima chiesa costruita a Lecce seguendo i dettami della Controriforma, basati sulla necessità di marcare la differenza con le dottrine della Riforma luterana, dato che presenta le simbologie che esaltano la mediazione del Clero, la penitenza, la venerazione per la Madre di Dio e i Santi, non riscontrabili in tale quantità sulle facciate delle chiese leccesi degli ordini religiosi controriformati dei Gesuiti (1575-1577) e Teatini (1591-1639). Questa riflessione scaturisce anche dall’aver confrontato gli elementi costruttivi e iconografici di Santa Croce con le Instructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae stilate da cardinale Carlo Borromeo con l’intenzione di dettare a vescovi e architetti della sua diocesi, quelle norme atte a far risaltare nei luoghi pii la dimensione divina[3].
Dal confronto è risultato che nella chiesa leccese sono presenti moltissimi elementi riconducibili alle disposizioni indicate dal Santo nel Libro I, sia nel prospetto, sia all’interno.
In facciata, la chiesa di Santa Croce presenta: le tre porte (Cap. VII De ostiis), la cui centrale è introdotta da un portico (Cap. IIII De atrio, porticu et vestibulo) e il rosone (Cap. VIII De fenestris). Sul prospetto leccese, inoltre, come da disposizione nel Capitolo III, intitolato De paretibu exterioribus et frontespizio, è presente: «a superiori scilicet parte ostii maioris, extrinsecus pingatur aut sculpatur decore religioseque imago beatissimae Mariae Virginis, Iesum filium in complexu habentis; a cuius latere dextero exprimatur effigies sancti sanctaeve, cuius nomine illa ecclesia nuncupatur; a sinistro alia item sancti vel sanctae, cui prae caeteris parochiae illius populus verenationem tribuit»[4]. Le immagini della Madre di Dio con a destra San Benedetto da Norcia e a sinistra Celestino V (che prendono il posto di quelle del santo titolare della chiesa e di quello più venerato dai parrocchiani) sono riportate, nello stesso ordine del prospetto di Santa Croce, nel frontespizio delle Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum pubblicate nel 1627[5].
Scorrendo i vari capitoli delle Instructiones, molteplici rispondenze si riscontrano anche all’interno di della basilica leccese.
Tornando ai giochi di luce in Santa Croce – il motivo che ha reso possibile l’“incontro” con fra Iacopo da Lezze e le sue Le cerimonie dei Monaci Celestini[6]-, come da dettami della Controriforma le chiese dovevano essere inondate di luce per evidenziare la differenza con quelle protestanti.
Carlo Borromeo nell’VIII capitolo del Libro I delle Instructiones fabricae et supellectilis ecclesisticae, intitolato De fenestris, prescrive[7]:
«Si faranno delle finestre laterali nella navata centrale, se l’altezza del tetto lo consente, e nelle navate minori, in numero dispari su entrambi i lati, ordinate al centro di ciascun intercolumnio, in modo da corrispondersi in linea retta, e non molto distanti dallo zooforo o dall’epistilio del tetto».
In Santa Croce lungo la navata sono presenti tre finestroni per lato in corrispondenza della seconda, terza e quinta cappella, al di sotto di quelli della navata destra si aprono tre rosoni murati.
«Come principale fonte di luce per la chiesa e la cappella maggiore, si aprirà una finestra circolare a mo’ di occhio, proporzionata alla misura della chiesa, sulla facciata, sopra la porta principale e la si ornerà al di fuori secondo la struttura dell’edificio. Anche in corrispondenza delle altre navate ve ne sarà una di forma oblunga, sulla facciata a giudizio dell’architetto».
Sul prospetto di Santa Croce si aprono il rosone centrale e quattro rosoni laterali. In corrispondenza dei due mediani nel transetto sono presenti altri due rosoni.
« Si può ricevere luce, però, per la chiesa e la cappella anche dalla cupola»
Nella tamburo della cupola di Santa Croce si aprono quattro finestroni, alternati a nicchie e alla sommità, al di sotto della lanterna, un’apertura circolare.
«Nella cappella maggiore e in ciascuna delle minori, in rapporto alla loro grandezza e forma, vi saranno finestre su entrambi i lati, per ricevere luce dall’una e dall’altra parte. Se poi non è possibile ricevere luce dai lati e non è sufficiente quella che penetra dalla finestra circolare e dalle altre della facciata né da altre parti, si prenderà luce dalla parete di fondo della cappella. Si badi tuttavia che le finestre della parete di fondo non occupino nemmeno la più piccola parte dello spazio proprio di un qualsiasi altare; e ancora soprattutto, che non diano direttamente sull’altare addossato alla stessa parete, e non siano nemmeno immediatamente sopra di esso».
Sui muri esterni del transetto di Santa Croce si aprono due finestroni
Sul muro esterno della cappella attualmente dedicata alla Trinità, ubicata a destra dell’altare maggiore, si apre un finestrone.
Il coro polilobato di Santa Croce è formato da cinque nicchie, le tre della parete di fondo presentano sia nel primo, sia nel secondo ordine tre aperture murate provviste di vetri. Nelle due nicchie ai lati del coro a destra sono presenti due finestroni, a sinistra in basso è presente la cornice di una porta murata, mentre in alto la parete non presenta alcuna apertura.
Borromeo aggiunge: «Le finestre si ubicheranno in alto, e in modo tale che chi sta fuori non possa guardare dentro. Tutte le finestre, ovunque siano, dovranno essere munite, ove possibile d’inferriate cui si aggiunge la struttura in vetro o comunque trasparente, non dipinta in alcuna sua parte se non, al massimo, con l’immagine del Santo cui è dedicata la chiesa o la cappella, perché si riceva maggior luce».
Note
[1] D. A. Wion, Lignum Vitae, Ornamentum, & Decus Ecclesiae, in quinque libros divisus, Venezia 1595, p. 99.
[2]A. Bernareggi (a cura di), Carlo Borromeo – Istruzioni sull’edilizia e la suppellettile ecclesiastica. Instructiones fabricae et supellectilis ecclesisticae libri duo, 1577, in storiadimilano.it
[3] Cfr. C. Borromeo, Instructiones fabricae et supellectilis ecclesisticae, Milano 1577. Il contiene analitiche istruzioni su come costruire e arredare gli edifici sacri. Il testo è diviso in due libri: il primo, dedicato alle regole sulla chiesa in generale, è distribuito in trentatre capitoli – dal I al XXIX dedicati alle chiese, il XXX e XXXI agli oratori e gli ultimi due ai monasteri femminili-, il secondo libro, spartito in due parti, è dedicato alle suppellettili.
[4] Cfr. C. Borromeo, Instructiones fabricae et supellectilis ecclesisticae, https://www.memofonte.it
[5] Cfr. Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum, Roma 1627.
[6] Cfr. I. Moronessa, Le cerimonie dei Monaci Celestini, con la vita di Celestino quinto loro primo padre, Bologna 1549.
[7] A. Bernareggi (a cura di), op. cit. Per facilitare la lettura si è preferito trascrivere la versione tradotta riportata da Adriano Bernareggi.
Aver individuato in «Frater Iacobus de Leccio civitate Apuliae, Monachus Ordinis Caelestinorum, Paulo Papae IIII summe carus»[1] l’abate generale della Congregazione celestina dal 1546 al 1549, il cui operato e pensiero è trasmesso dalle sue opere letterarie[2], è spunto di molteplici riflessioni e di future ricerche atte a riportare in luce verità dimenticate e capire a fondo i messaggi scolpiti sulla facciata della chiesa di Santa Croce in Lecce, realizzata a partire dallo stesso anno, il 1549[3], della pubblicazione di Le cerimonie dei Monaci Celestini di fra Iacopo.
Le riflessioni riguardano in primo luogo l’influenza che ebbe la Controriforma nella progettazione dell’opera, ma anche l’ importanza che all’epoca ebbe la sua realizzazione per la Congregazione celestina.
La progettazione e le prime fasi costruttive della nuova chiesa (1549-1582) sono contemporanee ai lavori del Concilio di Trento (1545-1563). Così come l’abate generale celestino – sull’onda del rigore necessario a ridare vigore alla Chiesa indebolita dalle “dottrine eretiche” sempre più diffuse, anche in ambito leccese[4] – avverte la necessità di rammentare ai suoi frati le antiche regole della Congregazione tramite la stesura in lingua volgare di Lecerimonie dei Monaci Celestini, così fa esprimere da Gabriele Riccardi lo stesso rigore nell’impianto base della chiesa leccese, atta, tra le altre, a rendere manifesta a tutti i fedeli la dottrina celestina divulgata sotto il controllo del priore della comunità monastica locale. Il rigore voluto da Fra Iacopo è tale da far pensare che nelle primissime fasi l’opera di Riccardi (1549-1582) abbia anticipato le Instructiones fabricae et supellectilis ecclesisticae del cardinale Carlo Borromeo[5], in quanto nell’impianto della chiesa si riscontrano gran parte delle indicazioni raccolte nel trattato del Santo. Ci si chiede, dunque, quale fosse all’epoca la rinomanza di Gabriele Riccardi e se oltrepassasse i confini locali, se, quali e quante fonti di ispirazione gli abati generali celestini offrirono all’architetto per poter realizzare il repertorio architettonico e scultoreo presente nella chiesa leccese. È innegabile, ad esempio, la rispondenza tra gli elementi decorativi del monumento funebre di Celestino V di Girolamo Pittoni e alcuni presenti non solo in Santa Croce, ma anche sulle colonne e l’architrave del portale di Santa Maria degli Angeli dei Minimi di San Francesco di Paola in Lecce, realizzato anni prima dallo stesso Riccardi.
La possibilità di costruire una chiesa di tale imponenza era dovuta, alla ricchezza dell’insediamento leccese – feudatario di Carmiano e Magliano[6]-, all’epoca tra i più ricchi della Congregazione celestina, così come è emerso da Lecerimonie dei Monaci Celestini, ma anche perché il pio luogo era di patronato regio e il detentore del beneficio ecclesiastico nel 1549, sino al 1577, era Carlo V[7].
La realizzazione dell’opera – il solo insediamento celestino di nuova fabbricazione realizzato almeno sino al 1590[8] -, può essere letta come un’occasione unica per la Congregazione Celestina di trasformare in pietra i precetti tramandati da Celestino V, i dettami in corso di definizione della Controriforma e rendere omaggio a Carlo V in qualità di difensore della Chiesa. Si spiegherebbe così l’opulenza della facciata, non riscontrabile in nessun’altra chiesa celestina, ma anche l’impegno costante degli abati generali che si avvicendarono nel corso della realizzazione delle varie fasi costruttive, come, ad esempio, è intuibile osservando il frontespizio degli Opuscola omnia del Santo pubblicati nel 1640 da frate Celestino Telera[9], dov’è raffigurato Celestino V tra l’Umiltà e la Sapienza, poste nello stesso periodo anche ai lati della facciata leccese.
A causa della necessità di essere al passo con i tempi, l’eventuale tributo dei Celestini a Carlo V – già espresso dal potere civico con l’Arco di Trionfo realizzato nel 1548 – non è più leggibile (sul portale centrale risalente al 1606 Francesco Antonio Zimbalo scolpì lo stemma di Filippo III, all’epoca detentore del beneficio ecclesiastico), a meno che non si vogliano interpretare le sei mensole antropomorfe della balconata, come i nemici della Chiesa sopraffatti dall’imperatore. Alla genuflessione fra Iacopo dedica ben tre capitoli di Lecerimonie dei Monaci Celestini.
Nonostante nel corso del tempo la facciata sia stata sempre più arricchita di nuovi elementi iconografici, derivanti sia dalle vicissitudini storiche, sia da nuove esigenze di carattere dottrinale nel frattempo sviluppatesi, a ben guardare il primitivo messaggio, rivolto alla popolazione con gli elementi essenziali e agli eruditi con l’esorbitante tripudio di allegorie, è ancora leggibile in facciata (lo è meno all’interno dell’edificio, a causa delle varie trasformazioni avvenute nel corso dei secoli).
Osservando il prospetto di Santa Croce si notano immediatamente gli elementi fondamentali che informano chi si appresta ad entrare in chiesa, sia nella partizione orizzontale (i due ordini e il fastigio), sia in quella verticale (corrispondente alla navata maggiore e alle due laterali). Dopo aver letto De invocazione, venerazione et reliquiis sanctorum et sacris imaginibus stilata nella XXV sessione del Concilio di Trento del dicembre 1563, si capisce cosa vuole indicare ai fedeli: la chiesa di Santa Croce, in sintesi, è un luogo dove grazie all’insegnamento dei frati celestini, i fedeli hanno la possibilità di dare tributo e venerare in modo corretto Cristo, la Vergine madre di Dio e tutti i santi.
Note
[1] D. A. Wion, Lignum Vitae, Ornamentum, & Decus Ecclesiae, in quinque libros divisus, Venezia 1595, p. 99.
[2] Cfr. I. Moronessa, Le cerimonie dei Monaci Celestini, con la vita di Celestino quinto loro primo padre, Bologna 1549; Il modello di Martino Lutero, Venezia 1555; De necessitate et utilitate crucis humanae vitae libellus, Roma 1556.
[3] Gli storici che hanno studiato la chiesa riportano al 1549 la posa della prima pietra del pio edificio. Le vicende storiche ed architettoniche di Santa Croce ormai sono note, anche se si spera in una revisione unitaria di quelle che circolano nei siti divulgativi sul web. La bibliografia è vastissima e in continuo aggiornamento, è impossibile indicarla tutta, ma è innegabile affermare che chiunque abbia condotto ricerche sul monumento perlomeno negli ultimi vent’anni, apportando nuovi significativi contributi, ha consultato, tra gli altri, i testi a seguire: C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979); M. Calvesi, M. Manieri Elia, Architettura barocca a Lecce e in Terra di Puglia, Roma 1971; M. Paone (a cura di), Lecce città chiesa, Galatina 1974; M. Fagiolo – V. Cazzato, Le città nella storia d’Italia.Lecce, Roma-Bari 1984-88; M. Manieri Elia, Barocco Leccese, Milano 1989; A. Cassiano, V. Cazzato, Santa Croce a Lecce. Storia e restauri, Galatina 1997.
[4] Alla luce degli scritti di fra Iacopo, potrebbe essere approfondito il ruolo che ebbero i celestini leccesi nel contrastare le “dottrine eretiche”, da confrontare sia con quello degli altri ordini religiosi già presenti in città, sia con quello degli ordini appositamente fondati, a partire dai frati Cappuccini, che nel 1533 fondarono presso Rugge il primo insediamento della loro Provincia di Puglia (cui si aggiunse nel 1553 il ricovero di San Sebastiano e nel 1570 il convento di Santa Maria dell’Alto), e in seguito dai Gesuiti (che si stanziarono nel 1574) cui dal 1588 si aggiunsero Fatebenefratelli e Teatini.
[5] Cfr. C. Borromeo, Instructiones fabricae et supellectilis ecclesisticae, Milano 1577. Le Instructiones sono già state prese in considerazione, nell’ambito della storia dell’architettura leccese, da Francesco Del Sole (Cfr. F. Del Sole, Fenomenologia del Barocco leccese. Un delicato compromesso fra Controriforma e Riforma cattolica, in Bollettino Telematico dell’Arte, 25 luglio 2021, n. 916.
[6] Cfr. M.E. Petrelli, Palazzo dei Celestini a Carmiano: memorie di barocco e tabacco, in fondazioneterradotranto.it, 14.06.2018.
[7] Il trecentesco complesso celestino di Santa Croce, fondato dal conte Gualtieri VI di Brienne, sorgeva vicino al castello medievale. Quando nel 1537 si decise di ingrandire la struttura militare e allargare lo spiazzo antistante, furono dismessi assieme alla cappella regia della Trinità, ricostruita a spese della Regia Corte nel 1562, e alle cappelle di patronato regio di San Leonardo Confessore e Santi Giacomo e Filippo (Cfr G.C. Infantino. Lecce sacra, Lecce 1634, a cura di M. Cazzato, Lecce 2022, pp. 182-83).
[8] Affermazione che si evince confrontando gli elenchi dei monasteri celestini pubblicati nel 1549 (Cfr. I. Moronessa, Le cerimonie dei Monaci Celestini… cit.) e nel 1590 (Cfr. Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum, Bologna 1590).
[9] Cfr. C. Telera, S. Petri Caelestini PP.V. Opuscola Omnia, Napoli 1640. Strenuo difensore di Celestino V, frate Celestino Telera di Manfredonia fu abate generale della Congregazione dal 1660 al 1664. Oltre agli opuscoli di Pietro da Morrone, scrisse le Historie sagre degli huomini illustri della Congregazione de’ Celestini, pubblicato a Bologna nel 1648. Alla sua morte, avvenuta nel 1670, l’abate generale Matteo da Napoli fece erigere in suo onore un monumento.
Dopo aver ammirato un raggio di sole entrare dalla cupola e riflettersi sul pavimento della navata centrale di Santa Croce – la basilica della Congregazione celestina in via Umberto I a Lecce, realizzata tra il 1549 e il 1646 –, mi sono chiesta se l’ubicazione di rosoni e finestre fu progettata in base al movimento del sole nel corso della giornata, per illuminare gli altari nelle ore in cui si svolgevano le solenni cerimonie liturgiche. Ho rintracciato un testo dove sono descritte tutte le funzioni religiose della Congregazione. Non ha risolto i miei dubbi, ma è interessantissimo per la storia di Santa Croce.
In un elenco di scrittori celestini redatto da D. Arnoldo Wion[1], ho reperito il «De ceremonijs Ordinis sui, lib. I» scritto da «Frater Iacobus de Leccio»[2], ovvero Le cerimonie dei Monaci Celestini, con la vita di Celestino quinto loro primo padre, pubblicate a Bologna nel 1549 – lo stesso anno, ritenuto dagli studiosi, dell’inizio dei lavori della nuova chiesa celestina leccese -, opera di Iacopo Moronessa abate generale della Congregazione celestina nel triennio 1546-1549: un fervente antiluterano e autorevole teologo, che esercitò incarichi importanti all’interno della Congregazione, perlomeno tra il 1534 e il 1554, così come ho potuto riscontrare consultando successivamente i saggi di Aldo Caputo[3] e Franco Lucio Schiavetto[4].
«Fra Iacopo da Lezze» si autodefinisce: «servo in utile di Gesù Christo, e Minimo di tutti i Celestini, quale con consenso di tutti i Padri dell’ordine ridussi il Capitolo Generale alla terza Domenica poi Pasqua di resurrettione, di, e tempo co(m)modo à tutta la religione, e fù confirmato con breve Apostolico»[5]. La notizia è riportata anche nelle Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum stampate nel 1590[6] e nel 1627[7].
Wion scrive: «Frater Iacobus de Leccio civitate Apuliae, Monachus Ordinis Caelestinorum, Paulo Papae IIII summe carus, scriptis De Consolatione Crucis, lib. I. De ceremonijs Ordinis sui, lib. I. De vita S. Caelestini Papae V, lib. I. Martinellum contra Lutheranos, Lib. I. Quae omnia excusa dicuntur, sed ubi, hactenus ignoro, per edidit, quae non dum impressa sunt.»[8].
Le opere di fra Iacopo sono citate, tra gli altri, da Giulio Cesare Infantino[9] e Luigi Tasselli[10]. La vita di San Celestino papa fu pubblicata assieme a Le Cerimonie dei Monaci Celestini, le altre due furono date alle stampe con il titolo Il modello di Martino Lutero, pubblicato a Venezia nel 1555, e De necessitate et utilitate crucis humanae vitae libellus, pubblicato a Roma nel 1556. Schiavetto, inoltre, ha individuato in Fra Iacopo l’autore delle Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum pubblicate nel 1534[11].
Tra le opere di Fra Iacopo la più controversa, a causa delle impetuose convinzioni antiluterane, che gli costarono lo scherno di Pietro Paolo Vergerio[12], è Il modello di Martino Lutero, oggetto di molteplici studi, tra cui il saggio di Aldo Caputo[13], dove sono riportate interessanti note biografiche di fra Iacopo. Poco studiata risulta De necessitate et utilitate crucis humanae vitae libellus, opera da prendere in considerazione dagli studiosi della chiesa di Santa Croce.
Dopo il capitolo generale della Congregazione indetto a Napoli il 20 maggio 1547[14], fra Iacopo decise di compilare in lingua volgare Lecerimonie dei Monaci Celestini, con la vita di Celestino quinto loro primo padre per indicare a tutti i frati della Congregazione una regola comune da seguire, motivandone le ragioni. L’abate generale era consapevole «ch’e da molt’anni in qua, sì per la povertà de i luoghi , sì anchor per essere diminuito il numero dei monaci, le Cerimonie, che si deono usare circa il colto divino, sono in alcun monastero in tutto abbandonate, in alcuno in parte lasciate, & in alcuno adulterate, in tanto, che quanto monasteri habbiano, tante varie Cerimonie vi sono, considera(n)do anchora i varij abbusi, che sono nei nostri monasteri, circa il cotidiano vivere, à i quali in parte non è stato proveduto dalle sacre costituzioni»[15]. La sua intenzione era quella di dare «gratia divina, pace vera, e felicità Celeste à tutti i direttissimi suoi fratelli, e figliuoli, monaci della istessa Congregatione»[16].
L’opera è un vero e proprio manuale: si compone di un’epistola «à i Padri dell’ordine di molta utilità, nella qual introduce, essorta, persuade, e co(m)manda abbracciare, et osservare tutto quello si contiene in detta operina ad honore d’Iddio, e della religione, di tutti loro»[17]; quarantadue capitoli dov’è dettagliatamente indicato il comportamento cui si dovevano attenere i frati, sia nell’ambito della vita monastica, sia in chiesa durante lo svolgimento delle cerimonie quotidiane e solenni; la trascrizione in latino del verbale del capitolo generale del maggio 1547; il «Della vita, e morte, canonizatione, traslazione all’Aquila, & apparizione in breve ridutta del nostro Beatissimo Padre san Pietro Celestino»; l’elenco «De i nomi, e numero delle Provincie, e dei Monasteri della nostra religione» e «Il Catalogo degli Abati che sono stati nella nostra religione cominciando da Celestino Quinto nostro padre, sin’ all’Autore della operina Maestro Iacopo Aletino».
L’illustrazione presente nel frontespizio di Le cerimonie dei Monaci Celestini, con la vita di Celestino quinto loro primo padre, potrebbe rappresentare il monito ai frati di non cadere nei peccati della carne. È riconducibile alla sirena bicaudata, l’elemento iconografico presente in Santa Croce a Lecce e scolpita più volte sul mausoleo funebre di Celestino V nella chiesa di Santa Maria di Collemaggio a l’Aquila, realizzato nel 1517 da Girolamo Pittoni (1490-1568).
Ai fini della storia della comunità leccese, è interessante notare che in Le cerimonie dei Monaci Celestini, «Il monastero di Santa Croce di Lezze» è il primo nell’elenco della «Provincia di Terraotranto»[18].
Nelle Constitutiones pubblicate nel 1590, il «Monasteriu(m) S. Crucis de Litio» è elencato come ventunesimo priorato della Congregazione celestina, quando versava la «taxa verò pro Reverendissimo Domino Abbate à Monasyerijs exigenda est ista»[19] di 20 tarì – stessa cifra già riportata in Le cerimonie -, risultante la somma più alta dopo quella dei monasteri di Santa Caterina di Terranova (26 tarì) in Calabria e di San Nicolò di Bergamo (22 tarì).
Dal confronto tra l’elenco degli abati generali di Le cerimonie e quello delle Constitutiones, si può risalire sia ai nomi di chi governava la Congregazione celestina nelle fasi cruciali della storia del monastero di Santa Croce[20], sia a quelli degli abati generali di origine leccese, citati anche da Giulio Cesare Infantino: frate Antonio d’Afflitto, eletto nel 1441 (ai tempi di Maria d’Enghien), maestro Stefano da Lecce, eletto nel 1474 e nel 1480, e maestro Raimondo da Lecce, eletto nel 1492, 1498 e 1510[21].
(continua)
Note
[1] Cfr. D. A. Wion, Lignum Vitae, Ornamentum, & Decus Ecclesiae, in quinque libros divisus, Venezia 1595.
[3] Cfr. A. Caputo, Un antiluterano leccese. L’abate generale Celestino Iacopo Maronessa, in L’Idomeneo, n. 24, pp. 139-158, Lecce 2017.
[4] Cfr. F.L. Schiavetto, Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum, in L. Gatto – E. Plebani (a cura di), Celestino V. Cultura e società, Università La Sapienza, 2007, pp. 109-117. Sono di fondamentale importanza i rimandi dell’autore ad altri studi sulla Congregazione celestina.
[5] I. Moronessa, Le cerimonie dei Monaci Celestini, con la vita di Celestino quinto loro primo padre, Bologna 1549, c. 131r.
[6] Cfr. Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum, Bologna 1590, p 339.
[7] Cfr. Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum, Roma 1627, p. 8.
[12] P.P. Vergerio, Vide Quid Papatus Sentiat De Illustrissimis Germaniae Principibus, ac de liberis Civitatibus quae Evangelio nomen dederunt, 1556.
[13] Cfr. A. Caputo, Un antiluterano leccese. L’abate generale Celestino Iacopo Maronessa, cit.
[14] Tra i priori provinciali convocati erano presenti «f. Iulius Alethinus prior provincialis terrae labris» e «f. Aloisius Alethinus prior provincialis piscarie» (I. Moronessa, Le cerimonie dei Monaci Celestini…,, c.111r).
[18] In Le cerimonie La Congregazione celestina, oltre a 12 monasteri autonomi, era suddivisa in 14 provincie: Terra di Lavoro composta da 16 insediamenti, Puglia composta da 9 insediamenti, Campagna di Roma composta da 7 insediamenti, Romagna composta da 11 insediamenti, Umbria composta da 2 insediamenti, Lombardia composta da 9 insediamenti, Terraotranto composta da 7 insediamenti, Molisio composta da 9 insediamenti, Pischaria composta da 7 insediamenti, Principato composta da 5 insediamenti, Calabria composta da 2 insediamenti, Toscana composta da 2 insediamenti, Francia composta da 19 insediamenti, Alemagna composta da 2 insediamenti, per un totale di 100 insediamenti in territorio italiano, 19 in Francia e 2 in Germania (i due insediamenti tedeschi erano già stati soppressi nel 1590). La Provincia di Puglia è la seconda con 9 insediamenti – San Bartolomeo di Lucera, San Pietro di Manfredonia, San Benedetto di Monte Sant’Angelo, San Pietro di Vesti, Trinità di Barletta, Santo Eligio di Barletta, Trinità di Molfetta, San Pietro di Bari, San Pietro della Rizza (dal 1590 di pertinenza di Santo Eusebio di Roma) -, quella di Terra d’Otranto la settima con 7 insediamenti – Santa Croce di Lecce, San Giovanni Battista di Oria, San Bartolomeo di Mesagne, Sant’Arcangelo di Brindisi, Sant’Angelo di Alessano, San Pietro di Ugento, Santa Maria dei Martiri di Taranto.
[19]Constitutiones monacorum… cit. p 205. All’epoca, oltre l’abazia di San Pietro di Sulmona, da cui dipendevano 4 insediamenti (tra cui il vicariato di S. Petri de Archis), la Congregazione sul territorio italiano era suddivisa in 37 monasteri, di cui 35 priorati, e 61 vicariati, per un totale di 115 insediamenti. Riguardo gli insediamenti ricadenti nelle provincie di Terra d’Otranto e Puglia in Le cerimonie, erano suddivisi nei priorati di: San Bartolomeo di Lucera; Santa Croce di Lecce; S. Giovanni Battista di Oria, da cui dipendevano i vicariati di S. Pietro di Bari e della Trinità di Molfetta; Santa Maria dei Martiri di Taranto, da cui dipendevano i vicariati di S. Bartolomeo di Mesagne, Sant’Arcangelo di Brindisi, Sant’Angelo di Alessano e San Pietro di Ugento; SS. Trinità di Barletta, da cui dipendevano i vicariati di S. Eligio di Barletta, S. Pietro di Limosano e S. Pietro di Petrella (quest’ultime due in Le cerimonie ricadevano nella provincia di Molisio); S. Benedetto di Monte S. Angelo, da cui dipendevano i vicariati di S. Pietro di Vesti e S. Pietro di Manfredonia.
[20] Infantino, in base alle carte consultate nell’archivio del monastero, cita ai tempi della fondazione «D. Matteo Abbate Generale» (G.C. Infantino, op.cit,, p. 117), ma le fonti celestine consultate riportano eletto nel 1350 frate Giovanni della Torre. Le sole Constitutiones del 1627, citano frate Giacomo da Eboli eletto nel 1353.
[21]Infantino riporta i nomi dei tre abati generali leccesi con le stesse date di elezione, definendo d’Afflitto e P. Stefano teologi e «P.D. Raimondo Petrello Teologo, e Predicatore famosissimo», tralasciandone, però, l’elezione del 1510 (G.C. Infantino, op.cit,, p. 117).
Il dialetto spesso nelle sue similitudini è più poetico della lingua nazionale, anche quando, come nel caso di oggi, appare più legato ad aspetti, dettagli, oggetti, esseri della comune vita quotidiana. Così quella che in italiano è la tromba d’acqua o tromba marina, in dialetto neritino è zumfione (attestato pure per Aradeo, Neviano e Otranto), zumfioni (Sava), zimfiune (Galatina)S. Pietro Vernotico), zurfione (Castrignano dei Greci), zurfioni (Oria), zurfiune (Calimera), nzumfiune (Squinzano, Surbo). Tutte le voci appena riportate dal Rohlfs1 hanno il corrispondente italiano perfetto foneticamente, di non immediata comprensione semanticamente, in sifone, che è dal latino siphone(m), con i significati di tubo, condotto, pompa per spegnere gli incendi, a sua volta dal greco σίϕων (leggi sifon)=tubo.
Il lettore avrà già notato che è l’ultimo dei significati latini riportati ad eliminare la difficoltà nel collegare il significato di sifone col fenomeno atmosferico. Stesso etimo hanno le innumerevoli varianti registrate per tutta la fascia adriatica e che nel dialetto calabrese, a seconda delle zone, la tromba d’aria è zifune, ziiune, ifune, zifisni e rifuni. Inoltre in Grecia la tromba d’aria si chiama generalmente sifunas/szifunas, quella marina trumba tra i marinai e gli abitanti delle isole, tra i contadini sifuni. Io non escluderei per la m o n che precede f le varianti salentine una dissimilazione da ff per incrocio con soffione.
Com’è sotto gli occhi di tutti, negazionisti compresi, da fenomeno raro, al meno dalle nostre parti, le trombe d’aria si manifestano molto più frequentemente che in passato, con la differenza che oggi non c’è più nessuno (debbo dire fortunatamente, perché di cialtroni ce ne sono già troppi) che tenti, o presuma, di fronteggiarla e ridurla alla ragione. Eppure, lo dico con amara ironia, oggi qualcuno in grado di tagliare una tromba d’aria, come di eseguire una danza della pioggia in tempo di siccità, tornerebbe comodo, non fosse altro che per illusoria consolazione per chi ancora crede nella magia, nera, bianca o multicolore che sia. Il taglio della tromba d’aria era un rito, probabilmente di origine marinara, articolato, sostanzialmente, in due fasi.
Nella prima il capitano dell’imbarcazione, avvistata la tromba, recitava il Padrenostro verde (verde perché è questo il colore tradizionale del drago) per placarne l’ira, mentre, brandendo un coltello, mimava tre tagli nell’aria. Nella seconda, ad effetto raggiunto, recitava il Padrenostro a Dio per ringraziarlo, stabilendo, così, la vittoria della religione corrente su quella pagana e mettendosi in pace la coscienza accontentando con un comportamento inconsapevolmente opportunistico, divinità antiche e nuove …
Di regola molte sono le varianti del testo di queste preghiere rituali, destinate a scomparire per sempre, a meno che qualche studioso in passato non abbia fatto in tempo a raccoglierle ed a pubblicarle.
Per la Sicilia lo fece Giuseppe Pitrè in Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Libreria L. Pedone Lauriel di Carlo Clausen, Palermo, 1889, v. III, pp. 79-85. Qui nella sezione dedicata alla meteorologia nel capitolo X intitolato Il dragone il Pitrè, prima di registrare le varianti testuali del Padrenostro verde, riporta quelle riguardanti il nome stesso del fenomeno: trummamarina e cura ri rattu (Palermo), cura ‘i rau (Palermo e Borgetto), cura di mammadrau (Baucina), cuda (Francofonte), cura draune (Vittoria), dragunara e dragunera (Termini, Roccapalumba, S. Fratello, Siculiana), sufunara (Naso), mànica e rragani (Noto). A parte trumma marina e rragani (traduzioine, probabilmente recenti, di tromba marina e uragano), alcune sono legate ad una similitudine animalesca: cura ri rattu (coda di ratto), cura ‘i rau (coda di drago), cura di mammadrau (coda di mamma drago), cuda (coda), cura draune (coda di dragone), dragunara e dragunera (forme aggettivali da drago).
A proposito di dragunara, la più antica attestazione a mia conoscenza del fenomeno della tromba d’aria è in Rolandino, un cronista di Paova del XIII secolo. Ce ne ha lasciato il ricordo nella sua Chronica, inserita in MGH (Monumenta Germaniae Historica), XIX, 32-147, da cui riporto, traducendolo, il brano che ci interessa: Audiens haec alius retulitin exeplum quod ipse viderat in principio guerrae per Estense confinium, nocte quadam ivisse quamdam Dragonariam sive nubem, quae sic destruxit arbores, fruges, vineas et herbas radicitus, ut mane facto visum sit omnibus manifeste quod illic unde ivit non fuisset unquam herba, arbor, aliqua vel cultura.
(Un altro, sentendo ciò, addusse ad esempio il fatto che egli di persona aveva visto all’inizio della guerra, lungo il confine estense, che una notte era arrivata una cosiddetta dragonera, cioè una nube, la quale aveva distrutto dalle radici alberi, raccolti, vigneti ed erbe, a tal punto che, fattosi giorno, apparve chiaro a tutti che laddove era passata non ci sarebbero stati mai erba, albero o qualche coltura)
E così il drago, questo favoloso animale sputafuoco, accusato da tempo immemorabile di essere dispensatore di terrore, distruzione e morte, accomuna l’immaginario collettivo del nord (Veneto con la tromba d’aria) e del sud (Sicilia) con la tromba marina). E, ad integrazione delle notizie sull’uso militare del sifone che darò più avanti, come non ricordare il dragone, cioè il soldato di un antico corpo di cavalleggeri, la cui origine si collega agli archibugieri a cavallo italiani? Infine, per lasciarlo in pace (ma non tanta …) penso agli altri significati di dragone: nel XVI secolo nome di una bocca da fuoco di grosso calibro; in pirotecnica razzo per l’accensione a distanza di fuochi artificiali; in ittiologia nome generico della tracina [(pure questa voce dal greco δράκαινα (leggi dràcaina, che è la femmina del drago e, e, come divinità, corrisponde a ciascuna delle latina Furiae)] e della pastinaca (ha il corpo a forma di rombo e la coda provvista di un aculeo velenifero (la stessa voce, poi, è sinonimo di carota); in ornitologia la sgarza ciuffetto (ha sul capo un ciuffo di penne erigibili, lanceolate, bianche; in botanica nome comune del dragoncello (diminutivo di dragone) ma pure in zoologia nome comune di un verme parassita agente della malattia tropicale nota con il nome di dracunculosi. Ora, però, nessuno dica che sono un drago: il mio nome non è CeruttiGino …
Come avevo anticipato, completo il discorso circa gli usi militari del sifone. La fonte principale è Leone VI detto il Saggio, imperatore bizantino dall’886 fino alla morte avvenuta nel 912. L’opera principale è Tactica, un trattato di arte militare, da cui sono tratti i passi che seguono2.
XIX, 6, colonna 9923
La trireme) abbia assolutamente a prua il sifone anteriormente rivestito tutt’intorno di bronzo, com’è prassi, per mezzo del quale scagli contro i nemici il fuoco preparato. E dalla parte superiore di questo sifone in giù una specie di recinto fatto di assi, e questo protetto intorno da tavole, in cui staranno uomini guerrieri che combattono quelli dei nemici che giungono da prua, oppure scagliano frecce contro tutta4 la nave nemica con quante armi è possibile immaginare.
XIX, 8, colonna 9935
… di quelli che manovrano a prua gli ultimi due siano uno addetto al sifone, sifonatore, l’altro a gettare l’ancora in mare.
XIX, 51, colonna 10086
Anche molti strumenti furono escogitati dagli antichi e pure dai moderni contro le navi nemiche e contro chi combatteva su di esse. Per esempio anche il fuoco preparato con fragore e fumo scagliato mediante i sifoni e che le avvolgeva.
XIX, 57, colonna 10087
Si useranno anche in altra maniera i piccoli sifoni scagliati con la mano tenuti a disposizione dietro gli scudi di ferro dai soldati, armi che sono chiamate chirosifoni, poco fa escogitate dal nostro re. Scaglieranno anche questi di fuoco preparato contro il volto dei nemici.
Ho reso con con lanciafiamme il χειροσίφωνα dell’originale. È voce composta da χείρ (leggi cheir), che significa mano e da σίφων (leggi sifon), che, come ho già detto, significa alla lettera tubo).
In coda ai Tactica lo stesso tomo della Patrologia riporta un’appendice premessa al programma dell’Università di Zurigo del 1854, in cui furono raccolti frammenti adespoti tratti da diversi codici, che prima erano stati pubblicati sparsim. Di seguito il brano che ci interessa.
cap. LIII, colonna 11158
… sono utili quelli chiamati intrecci che emanano per mezzo di una macchina fuoco liquido, certamente anche quello che presso molti è chiamato spendente e quelli chiamati lanciafiamme, armi che ora il nostro re ha escogitato …
Altra fonte è Anna Comnena (XI-XII secolo), figlia dell’imperatore Alessi, autrice dell’Alessiade, in sostanza una biografia del padre:
XI, 109
… avendo sistemato in ciascuna prua delle navi attraverso teste di leoni e altri animali terrestri fatte di bronzo e ferro con bocche aperte e avendole rivestite di oro in modo che alla sola vista apparissero spaventoso, dispose di far passare il fuoco che cominciava ad uscire contro i nemici mediante elementi attorcigliati attraverso le loro bocche, in modo che sembrasse che a farlo fossero i leoni e gli altri animali di tal genere.
… un fuoco, che naturalmente divampa verso l’alto, ma in questo caso era diretto in qualunque direzione desiderasse il mittente, spesso verso il basso o lateralmente …
XIII, 310
Questo fuoco fu preparato da loro [i difensori di Durazzo] attraverso siffatto procedimento. Dal pino e da alcuni altri alberi simili sempreverdi s’addensa una lacrima infiammabile. Questa schiacciata insieme con zolfo viene introdotta in tubi di canne e viene spinta da chi usa lo strumento con un soffio energico e continuo e così lo indirizza ed applica al fuoco all’estremità e come un fulmine cade sugli occhi di chi sta di fronte. Questo fuoco usarono i difensori del territorio di Durazzo appena si trovarono faccia a faccia con i nemici e bruciarono le loro barbe e i volt. Ed era possibile vederli come uno sciame di api messo in fuga dal fumo precipitarsi disordinatamente da dove erano entrati ordinatamente.
Sulla composizione di questa miscela incendiaria innumerevoli sono state le ipotesi, destinate a restare tali, perché a tal proposito la fonte più dettagliata resta Anna Comnena col suo ultimo brano appena riportato11. La cosa appare scontato, trattandosi di un segreto militare o, se si preferisce, di stato e a talproposito illuminante è quanto ci ha tramandato l’imperatore Costantino Porfirogeneta ( ) nel suo De administrando imperio, XIII12:
Così è necessario che tu anche riguardo al fuoco liquido scagliato mediante i sifoni ti dia pensiero e curi che se mai alcuni osino chiederlo, come spesso hanno chiesto pure a noi, che essi siano respinti e mandati via con queste parole: “Anche questo fu manifestato e insegnato da dio mediante un angelo al grande e primo re cristiano, S. Costantino. Ricevette anche su questo dallo stesso angelo grandi prescrizioni, come dai padri e dai nonni abbiamo ricevuto con piena certezza, affinché per i soli cristiani e per la città regnante su di loro fosse preparato , non altrove, e non fosse in alcun modo trasmesso o insegnato ad un altro popolo. Perciò roteggendolo anche per coloro che verranno dopo di lui questo grande re su questo dispose che sul sacro altare della chiesa di dio fossero scritte delle maledizioni affinché chi avesse osato dare di questo fuoco ad altri popoli non fosse chiamato cristiano né fosse giudicato degno di carica o potere, ma anche se lo avesse avuto per caso e l’avesse portato fuori da questa città fosse colpito da anatema e stigmatizzato nei secoli dei secoli , o re o patriarca o qualche altro simile, o arconte o suddito che per caso abbia tentato di violare tale precetto. E esortò tutti quelli che avevano amore e al timore di dio a considerare come un nemico comune e trasgressore di questo importante precetto e ad affrettarsi a a prenderlo chi ha tentato di fare una cosa simile e mandarlo a morte odiosissima e penosa. Accadde una volta, trovando sempre la malvagità l’occasione, che uno dei nostri soldati ,dopo aver accettato dai pagani cospicui doni, li resero partecipi del fuoco e che dio inflessibile non lasciò impunita la trasgressione: un fuoco venuto dal cielo lo divorò uccidendolo mentre si accingeva ad entrare nella sacra chiesa di dio. E allora paura e tremito entrarono nell’animo di tutti e da allora nessuno, né re né arconte né privato né comandante né uomo in generale osò pensare a qualcosa di simile, mettere mano all’opera, agire, portarla a termine”.13
Ad ogni modo, questa invenzione bizantina, precursore del moderno e già obsoleto lanciafiamme trova anche una testimonianza grafica nelle due miniature con le quali pongo termine a questa lunga e, per certi versi, molto sofferta digressione sul sifone.
Manoscritto del secolo XI custodito nella Biblioteca Apostolica Vativana (Vat. gr. 1605, f. 30r
Dettaglio ingrandito dell’immagine precedente
Codice Skylitzes Matrilensis del secolo XI custodito nella Bibliteca Nazioinale Spagnola (Vitr. 26-2, Bild. Nr. 77), f. 34 v
Prima di chiudere vorrei fare un’annotazione etimologica sulle varianti di dragunara registrate dal Pitrè. Se per sufunara ritorna in campo inequivocabilmente il sifone (e nel dialetto siciliano sufunata non è solo il getto di seltz, ma anche, più genericamente, il getto saettante e il tiro rapido del pallone), per mànica ipotizzerei un rapporto di somiglianza di forma, partendo da ciò che trovo in Michele Pasqualino, Vocabolario siciliano etimologico, Reale Stamperia, Palermo, 1789, al lemma manica: Mannica diciamo anche lo stretto della rete, che rassomiglia a un sacco.
Che la voce indicante la tromba marina sia connessa con la pesca trova ulteriore conferma in Vincenzo Mortillaro, Nuovo dizionario siciliano-italiano, Pensante, Palermo, 1853, al lemma manica: Canale di rame o d’altro per cui si conduce il vino per empire le botti ed a vari arnesi di farmacia, di pesca di marina, ed altro si dà pure il nome di manica. D’altra parte l’idea del tubo è nel significato primario della voce italiana, nonché in quelli dei derivati manicotto e manichetta (con quest’ultima il pensiero corre al già detto siphon antincendio degli antichi romani. Ma, giacché ci sono, faccio notare come l’idea del tubo si connetta con quella del serpente (simbolo del maligno fin dai tempi di Adamo ed Eva) e come questo possa essere considerato un parente del drago. D’altra parte, per quanto tempo i fenomeni naturali avversi sono stati spacciati dalla religione come punizione divina dei peccati umane?
Se per la Sicilia rimane, tutto sommato, un bel gruzzolo di memoria, lo stesso non può dirsi per la Puglia e, ancor più, per Nardò. Io stesso non sarei venuto a conoscenza dello zumfione se nel corso di una conversazione come tante non fosse uscito dalla bocca di mio cognato Giuseppe Presicce, che, pur essendo più giovane di me, ne aveva sentita parlare da suo padre, che aveva avuto, fra l’altro, l’opportunità di vedere all’opera una tagliatrice di zumfioni.
Ho già detto delle innumerevoli varianti del rituale e dal ricordo di mio cognato (che, fra l’altro, all’epoca del racconto del padre era un ragazzino) emerge che la tagliatrice di Nardò posava il coltello sulla paglia prima di usarlo per il taglio e che nel corso dell’operazione pronunciava parole incomprensibili (capisco che pure il millantatore di un potere non comune sia geloso degli strumenti del mestiere e abbia pure il diritto di difendersi dal plagio, ma non posso fare a meno di ricordare che ciò che è strano e ancor più ciò che è incomprensibile suscitano, comunque, curiosità e, a seconda delle situazioni e degli individui, timore, rispetto, fiducia, fede (e questo accomuna tutte le religioni).
Resta così, pure per Nardò, press’a poco solo la memoria del nome, destinata anch’essa a scomparire, perché non vivificata da testimonianze a loro tempo registrate. In passato i vecchi erano una fonte preziosa di conoscenza e, siccome da parecchio tempo ormai abbiamo per so quasi completamente la virtù dell’ascolto, la tradizione orale, in pratica, non esiste più. Tuttavia una speranza mi ha ispirato a scrivere questo post: quella che qualche volenteroso onesto (pure per me sarebbe facile inventarmi una giaculatoria e spacciarla per autentica … ) ci renda partecipi di quanto, eventualmente, appreso dal bisnonno grazie al nonno …
Sarebbe, oltretutto, una prova dell’interesse suscitato da argomenti diversi da questo, quale, per esempio, Magia popolare: le legature con il sangue mestruale, che su questo blog, ancora oggi, a distanza di più di cinque anni dalla sua pubblicazione, riscuote quotidianamente il più alto numero di visualizzazioni (sicome ne ho la possibilità, periodicamente mi piace studiare fenomeni statistici di questo tipo). Per questo mi ha fatto meraviglia che il 3 u. s. abbia registrato solo 5 visualizzazioni rispetto alle 151 del mio post, ancor più datato (4/11/2011) L’escort e la pulandra: magra consolazione dovuta probabilmente ad un pruriginoso passaparola, nella conferma di una regola … .
Forse un titolo più accattivante o, addirittura, sparato, avrebbe dato alla mia speranza qualche possibilità in più, ma sono un pacifista e non sparo a nessuno e a niente, nemmeno a un titolo
Vi raccomando di non segnalare questo post al vostro idraulico, per evitare le conseguenze sintetizzate in questa vignetta di coda.
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Note
1 Gerhard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976
2 Li cito, aggiungendo la mia traduzione, dall’edizione di Giovanni Lamio, 1745 inserita nel v. CVIII della Patrologia del Migne, 1863. Questo per risparmiare al lettore la rettifica delle innumerevoli (quando ci sono …) citazioni fasulle e traduzioni fantasiose che s’incontrano in rete.
4 L’edizione, che, fra l’altro, è quella di riferimento, reca ὄλης (leggi oles), che in greco non esiste; per questo nel testo riportato nella nota precedente’ho emendato in ὁλῇς (leggi olès). Fra l’altro la voce risulta comodamente omessa nella traduzione latina a fronte, che accompagna il testo originale.
11 Tale non può essere considerato il Liber ignium ad comburendos hostes (Libro dei fuochi per bruciare i nemici), un breve trattato, il cui manoscritto del secolo XV, fu rinvenuto nella biblioteca Nazionale di Parigi da Gabriel de La Portel, che lo pubblicò nel 1804. Il trattato, del quale è dichiarato come autore Marcus Graecus, è in latino, ma si è certi che si tratta della traduzione da un originale greco, per la cui datazione è possibile indicare solo il termine ante quem in qualche decennio prima del 1267, anno in cui lo conoscevano Alberto Magno e Ruggero Bacone, che lo citano nelle loro opere. Il testo, magnificato poi dagli eruditi di tutta Europa nei secoli XV e XVI, successivamente vide drasticamente ridotta la sua importanza, almeno per quanto riguarda la ricetta per la preparazione del fuoco greco, che, comunque, riporto proprio dalla prima edizione: Ignem Graecum tali modo facies: Recipe sulphur vivum, tartarum, sarcocollam et picem, sal coctum, oleum petroleum et oleum gemmae. Facias bullire invicem omnia ista bene. Postea impone stuppam et accende, quod si volueris exhibere per embotum ut supra diximus. Stuppa illinita non extinguetur, nisi urina vel aceto vel arena. (preparerai il fuoco greco in tal modo: prendi zolfo naturale, tartaro, sarcocolla e pece, sale cotto, petrolio e olio di gomma. Fai bollire bene tutto questo insieme. Poi immergi della stoppa e accendila e se vuoi gettala con uno stantuffo, come ho detto prima. La stoppa accesa si spegne solo con l’orina o con l’aceto o con la sabbia)
12 L a mia traduzione è sul testo originale riportato nella nota successiva, quale si legge nell’edizione critica Weber, Bonn, 1840, p. 84.:
Uno dei problemi ancora irrisolti dello studio dei dialetti riguarda la fase principale, cioè quella della trascrizione, dalla quale tutto muove. Pur tenendo conto delle difficoltà che nella raccolta del materiale orale sono connesse con differenze più o meno percettibili nella pronuncia, spetta allo studioso registrare e trattare il lemma senza, possibilmente, ricorrere a forzature semantiche o fonetiche o a comode quanto dubbie attribuzioni di marca grammaticale. Sono dell’avviso che, finché un fenomeno è interpretabile col già noto, è inutile ricorrere a giustificazioni che ben poco hanno di scientifico e sanno di espediente più o meno autoritariamente furbesco.È il caso dei due nessi di oggi, soprattutto del primo, dal quale comincio. E lo faccio riportando, e potevo fare altrimenti?, il trattamento riservatogli dal Rohlfs.
Jatu, dunque, ha il suo esatto corrispondente nell’italiano beato, rispetto al quale mostra l’aferesi di b-, fenomeno normalissimo (bilancia/iḍḍanza; botte/otte; bocca/occa, etc. etc.).
Mi permetto di non condividere quel jata forma invariabile quando è in composizione con la preposizione a: nella pronuncia dei parlanti una differenza più o meno percettibile (come succede nel caso di un’elisione) può indurre a grafie diverse e nel nostro caso le grafie jat’a ttie (beato a te), jat’a iddu (beato a lui) e jat’amme (beato a me, sottinteso in tutti dico) come, invece, è avvenuto in iat’a iḍḍhu, non avrebbero costretto a ricorrere a quel comodo jataforma invariabile. Ne approfitto per precisare che la forma con aferesi a Nardò ricorre solo nel nesso del quale stiamo trattando; le forme puramente aggettivali, invece, sono biatu/biata/biati/biate.
L’apparenza inganna e, infatti, le due prime voci non sono legate ad una differenza di genere e hon sono, nemmeno lontanamente, parenti.
La prima, fiata, appartiene all’insospettabile schiera delle parole il cui uso è classificato nei vocabolari d’italiano come letterario , ma che, nonostante questa caratteristica nobiliare, sono tanto radicate nel nostro dialetto da non essere state affiancate, tanto meno sostituite, da sinonimi. Non sentirete mai un salentino dire Pi ‘sta volta ti perdonu o, nel raccontare una favola (circostanza poco probabile, a meno che non si tratti di un politico …), C’era ‘na volta …
Per chiarezza ripercorro, sia pure rapidissimamente la vita di fiata, partendo dalle origini: latino volgare vicata (dal classico vicis=alternanza, sorte)> francese antico fiée>italiano fiata
E siamo a fiatu, esatto corrispondente dell’italiano fiato, dal latino flatu(m), a sua volta deverbale da flare=soffiare. Nel salentino fiatu entra pure nella locuzione esclamativa fiatu mia!, a sottolineare una situazione favorevole (da un amore corrisposto al gradimento di un cibo, da una promozione in vista ad una appena ottenuta, etc. etc.). Qui fiatu è utilizzato nel significato traslato di respiro, anima, come in italiano in anima mia!, vita mia!.
Fiatare, tal quale la voce italiana (che è dal latino tardo flatare, forma intensiva del flare prima citato), assume nel salentino il significato di soffiare (che è pure dell’italiano letterario).
La vignetta riassume, forse più eloquentemente, quanto fin qui detto.
La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione
al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.
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