Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

Il Salento delle leggende

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

 

Salento-Popolare

di Antonio Mele ‘Melanton’

 

 

Quando muoiono le leggende finiscono i sogni.

Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.

 

Forse dovremmo essere un po’ più orgogliosi delle nostre città.

E amarle per il loro giusto verso. Con fierezza moderna, evoluta, proiettata al domani.

Amarle, intanto, e onorarle, come la terra dei nostri padri. Delle nostre radici sentimentali e civili, guardando ad esse come a un patrimonio da sviluppare e trasmettere. Tanto più se la nostra patria, piccola o grande che sia, possiede oggettivi riscontri di arte e di storia.

La nostra terra, il Salento leccese, terra di memorie e futuro, è una madre di cento figli.

Per ricomporre l’originaria Terra d’Otranto, al già vivace comprensorio dei 97 comuni d’oggi andrebbero aggiunti quelli delle province di Brindisi e Taranto, nonché dell’area della provincia di Matera, che vi faceva parte integrante fino al 1663.

Il territorio attuale, negli ultimi lustri,e pur con qualche inevitabile improvvisazione elimitazione, è diventato un polo di richiamo irresistibile, un crogiuolo d’idee, un laboratorio di progetti.

Il Salento, infine, per nostra fortuna, non è del tutto uniforme: è, anzi, un mosaico di tessere variopinte. Ha i colori di Lecce e di Galatina, di Maglie e di Nardò, di Gallipoli e di Ugento, di Calimera e di Soleto. Ha vestigia antichissime, monumenti sacri e civili di rilevanza nazionale, una propria Università, gloriosi licei, biblioteche, musei, circoli e fermenti culturali. Le vaste distese di ulivi, di vigne, di frutteti e di fiori sono racchiuse tra le albe di Otranto e i tramonti di Gallipoli. Con piazze vivaci di mercati e di festa. E una corona di torri che dal mare Adriatico e dallo Jonio degradano, congiungendosi come una collana, verso l’estremo lembo di Santa Maria di Leuca de FinibusTerrae. Ai confini del mondo.

Geografia che si fa storia. E storia che diventa leggenda.

 

I confini tra il tempo reale e quello fantastico sono sempre difficilmente distinguibili. Come, e ancor più, quelli che si accavallano tra religione e superstizione, tra sacro e profano.

Quanto meno insolita, a tale proposito, per i suoi possibili risvolti a sorpresa, appare l’antichissima processione di San Pietro in Bevagna, legata a un rituale propiziatorio della pioggia, che si celebra tuttora a Manduria, in ricordo dei tempi in cui s’invocava con particolare devozione l’intervento del Santo perché debellasse ogni prolungato stato di siccità, pregiudizievole per i raccolti, del tutto fondamentali per l’economia locale.

Succedeva, allora, che i contadini portassero in processione, dalla chiesetta della frazione di San Pietro in Bevagna fino alla Chiesa Matrice di Manduria, l’immagine sacra dell’Apostolo, al quale si rivolgevano con preghiere, canti, suppliche, e penitenze d’ogni genere, portando sulle spalle grossi rami e tronconi d’albero. Oggi, infatti, è denominata “la processione degli alberi”.

Durante quest’atto di penitenza collettiva, si declamano altresì alcune litanie popolari, spesso improvvisate e comunque estranee alla liturgia ufficiale ecclesiastica. Una fra le più note recita: «Santu Pietru binidittu, / ca a lu desertu stai, / tantu bene ti òzzi Cristu / ca ti tanò li chiài: / tànni a nui lu Paradisu, / tu ca n’hai la potestai!» (San Pietro benedetto, / che nel deserto stai, / tanto bene ti volle Cristo / che ti donò le chiavi: / dai a noi il Paradiso, / tu che ne hai la potestà).

Fino a qualche decennio addietro, quando il rapporto tra il popolo dei fedeli e il Santo era, per così dire, più familiare e diretto, se la pioggia tardava a cadere, non si andava tanto per il sottile, e si metteva San Pietro… in castigo! I contadini ne sistemavano l’immagine fuori dalla Chiesa, e si rivolgevano ad essa con espressioni neanche tanto velate d’insulto o di minaccia, talora perfino aspre e dure, finché la pioggia non tornava ad irrorare i campi. E finalmente avveniva la riappacificazione.

Una leggenda nella leggenda riguarda l’arrivo dell’Apostolo sul litorale di Bevagna. Nel viaggio verso Roma, egli trovò riparo in questi lidi dopo il naufragio della sua piccola imbarcazione, e stanco e assetato si diresse verso una fonte che aveva intravisto non lontano. Accanto alla fonte si ergeva la statua di un dio pagano (forse Zeus, secondo la tradizione più diffusa), al che San Pietro si fece il segno della croce, e immediatamente la statua si frantumò ai suoi piedi. La gente che assistette al prodigio si strinse allora attorno al Santo, acclamandolo e convertendosi al Cristianesimo.

Un’ultima curiosità, che con San Pietro non c’entra ma con Manduria sì.

La bella città di origine messapica, capitale del famoso vino Primitivo, è fra le poche al mondo – insieme a Oria – che festeggia solennemente i Santi Medici.

Qualcuno obietterà che i Santi Medici sono festeggiati in molti altri paesi dell’Italia e del mondo. Dove sarebbe, quindi, questa presunta ‘esclusività’?

Ecco spiegato l’arcano. Tutti (o quasi) sappiamo che i Santi Medici sono i due fratelli gemelli Cosma e Damiano. Ma quanti sanno che, accanto a loro, ci sono altri tre fratelli, medici anche loro, e anche loro martiri esanti? Si chiamano Antimo, Euprepio e Leonzio. E Manduria – come Oria – li festeggia tutti e cinque insieme.

 

Fra i tanti Santi onorati nel Salento c’è il Poverello d’Assisi, protagonista anch’egli di una leggenda.

Si narra che San Francesco, mentre ritornava da un suo pellegrinaggio in Palestina, decise di fermarsi a Lecce per dare vita ad una nuova comunità religiosa. Si mise quindi a predicare, e in breve tempo radunò molti confratelli, vivendo di carità.

Ci fu un giorno, in cui ebbe molti problemi a raccogliere cibo sufficiente per tutti. Aveva già bussato ad ogni porta, ma il ricavato era ancora del tutto scarso. Per ultimo, bussò alla porta di un vecchio contadino, povero anche lui, che viveva da solo in una casupola appena fuori città. «Sono addolorato, ma non ho da mangiare neanche per me: non ho neppure una briciola di pane raffermo…», disse il vecchio a San Francesco, e richiuse la porta.

Per nulla turbato, il Santo bussò ancora. E il vecchio gli riaprì: «Fratello, mi dispiace…», replicò, «…ma neanche l’albero di arancio che ho in fondo al giardino, che è l’unica mia risorsa, quest’anno ha dato frutti!”.

San Francesco chiese allora di essere accompagnato in giardino. Si fece il segno della croce e si avviarono.

Quando vi furono giunti, il vecchio contadino rimase ammutolito dalla sorpresa, e s’inginocchiò, e pregò, piangendo dalla gioia e dalla commozione: l’albero era infatti miracolosamente stracarico di arance, e in tale abbondanza da sembrare perfino più grande! E tutto quel ben di Dio, raccolto in ampie ceste, non solo bastò per sfamare i fratelli di San Francesco e il contadino stesso, ma furono anche donate a tutti i vicini di casa.

Nessuno sa indicare il luogo esatto, ma a Lecce sono in molti a dire che l’arancio benedetto di San Francesco cresce ancora rigoglioso per sfamare i poveri, e ha foglie con virtù terapeutiche, che guariscono da molti mali.

 

Pubblicato su Il filo di Aracne

Musiche, canzoni, pitture, scritti e poesie di Salvatore Brigante

Il lunedì d’arte e letteratura alla ‘Puteca de mieru’ di Minervino (Le),

musiche, canzoni, pitture, scritti e poesie di Salvatore Brigante

Salvatore Brigante alla Puteca de mieru

di Paolo Rausa

Salvatore Brigante da Tricase, questo lunedì dei primi di novembre, scende nella fossa dei leoni della ‘Puteca de mieru’ di Minervino (Le) nell’immediato entroterra salentino a pochi chilometri dal mare, fra Santa Cesarea Terme e Otranto.   Lui è nato più a sud, vicino al Capo di Santa Maria di Leuca. Si sente dall’inflessione della voce più cupa e dal sogghigno di chi ne ha viste tante, soprattutto da piccolo, quando con il nonno al chiaro di luna usciva nell’orto a pulire i cavolfiori dalle farfalle notturne che si prelibavano di questo vegetale. ‘Oniriche’ così chiama le sue prime poesie vergate all’età di 8 anni, ma – aggiunge – non erotiche. E’ quel ‘non’ che non convince, frapposto fra i due termini. Si riferisce all’uno, all’altro o a tutt’e due? Salvatore è sornione, non risponde, fa scivolare la domanda, e intanto con l’occhio si dirige verso la panca vicina occupata da una serie di bellissime fanciulle sulle quali il suo sguardo si sperde. E allora si toglie dall’imbarazzo e attacca con la chitarra. ‘Ntoni Calò’ è il suo ritmo assordante e cantilenante, in ricordo della fanciullezza quando dormiva dalle due zie in un periodo della vita desiderosa di affetti. Così si nascondeva sotto il letto e ingurgitava caffè e zucchero, zucchero e caffè. E poi attacca un’altra canzone: ‘La rivoluzione del cartone’. ‘Qui si fa la rivoluzione con le scritte sul cartone…’ è il suo ritornello, graffiante e ironica, sul percorso di tanti giovani che inneggiavano ad un mondo migliore ma limitandosi alle scritte sul cartone e non come processo che nasce dal profondo. Intanto Salvatore ha disposto come tanti scudi a sua difesa, a cominciare dall’ingresso, i pannelli in legno su cui ha gettato i colori come sedimenti e volumi, seguendo ancora una volta come in tutte le sue manifestazioni artistiche delle direttrici dettate dal cuore. Ne risulta un’arte ‘primitiva, simbolica, impulsiva, sanguigna’. Antonio, lo chef della Puteca, lo guarda in modo interrogativo. Ne sono passati di matti da qui, pensa, ma questo li batte tutti! Arriviamo al romanzo ‘La quercia è il peccatore’, autobiografico, sulla corruzione, contro la politica arraffona che non si ferma davanti a nulla. Il proposito di Rocco, il protagonista, di liberare dall’asfalto e dal cemento la maestosa quercia vallonea rappresenta il sogno di liberare il Salento dal malaffare. Florinda e Tonio, attori della Compagnia Ora in Scena!, attaccano a leggere un racconto coinvolgente fino alla dichiarazione d’amore finale fra Rocco e Giulia. Salvatore abbassa la testa, sospira, pensa a Marika, la fanciulla dall’abito rosso (Questa me la sposo! – disse quando la vide a Zurigo, giovanissima.) divenuta sua compagna, prematuramente perduta. Il vino scorre. Gli altri commensali non sono da meno. Cantautori, artisti e imitatori. Carlo non sa se è più lui quando vede riflessa la sua immagine nell’imitazione di Pezzulla. Intanto P40 illustra che cosa accade il lunedì alla Puteca, mentre Claudio si attacca al tamburello intonando una nenia che ha fatto la fortuna dei Mascaramirì.

 

Pasquale Cafaro. Una prestigiosa carriera alla corte di Re Ferdinando delle due Sicilie

Valente musicista galatinese

Pasquale Cafaro

Una prestigiosa carriera alla corte di Re Ferdinando delle due Sicilie

pasquale-cafaro

di Rosanna Verter

Per poter acquistar nome in un più vasto spazio, che non era il suol natio molti giovani del sud dovevano recarsi in uno dei Conservatori di Napoli, capitale del Regno delle due Sicilie, per studiare musica o per completare gli studi. Perché San Pietro in Galatina varcasse i confini del Regno, ci pensò la musica di Pasquale Cafaro, il cui nome viaggia tra i personaggi più eminenti del Settecento, quali ad esempio: Giuseppe Mercadante, Giovanni Paisiello, Niccolò Piccinni e Leonardo Leo, che fu anche suo maestro. Inoltre il Cafaro si colloca a pari livello deimaggiori compositori settecenteschi napoletani di musica sacra, come Domenico Cimarosa, Giovan Battista Pergolesi e Francesco Durante.

Dai registri di battesimo conservati nell’archivio della nostra Matrice, che ho potuto consultare grazie alla collaborazione di don Antonio, è emerso che Francesco Pietro Paschale (il nostro Pasquale) nacque il 1° febbraio 1708 da Giuseppe e Isabella Bardaro e fu battezzato a dì 5 dal Reverendo parroco Don Giuseppe Tommasi. Risulta inoltre che compare fu Andrea Galluccio e comare Domenica De Pietro. Pertanto le varie supposizioni sulla reale data esatta della sua nascita credo siano definitivamente sfatate. Altra nota da chiarire è che il nostro compositore non è il Caffariello, come molti studiosi sostengono, ma è solo e soltanto Pasquale Cafaro.

Ad onor di cronaca il cosiddetto Caffariello è Gaetano Majorano, mezzo soprano evirato, nato a Bitonto nel 1710 e morto a Napoli nel 1783. Forse la contemporaneità dei due può aver ingenerato questa confusione, perché il maestro scopritore del Majorano fu tal Cafaro (Domenico e non Pasquale), cosicché Gaetano prese, per riconoscenza, il soprannome di Caffariello.

Dal Catasto onciario (1754 A.S.L.) di San Pietro in Galatina, alla carta 599, si legge che la famiglia d’origine, oltre a possedere diverse proprietà, avevaintitolata a suo nome una contrada e in più alcuni familiari erano anche ecclesiastici, come ad esempio il reverendo don Felice, Pascale maestro di cappella, cioè il nostro; Angela, sorella, che era monaca ed infine il reverendo don Giovanni Angelo Cafaro, che era uno zio. Si legge, infine: “Felice abita in casa propria. Possiede un pezzo di terra con orto uno e mezzo di vigna a santo Sebastiano; un pezzo di terra con orte 4 di vigna e orte 4 di terra seminatoria allo Inchianà; una casa affittata”. Questo spiega, forse, perché tra le opere del Cafaro domina la musica sacra.

Prima ancora di essere l’esimio compositore, Pasquale era stato indirizzato dai genitori agli studi del diritto, o, secondo alcuni studiosi, allo studio delle scienze. Dopo essersi laureato (la laurea era un ornamento prestigioso per tutta la casata), poiché egli non era predisposto per le aule forensi e sentendo in sé la passione per la musica, il 16 dicembre del 1735, davanti al notaio Giovanni Tufarelli, dichiarava di avere diciotto anni e si impegnava a pagare docati dodici per l’ammissione come figliuolo alunno al Conservatorio di S. Maria della Pietà dei Torchini e si impegnava a servire, come musico, per cinque anni tanto nella Chiesa del Conservatorio, quanto in tutte le altre missioni, e processioni che si fanno per dentro e fuori Napoli…

È da precisare che il termine Conservatorio, nel XIV e XV secolo, non era ciò che oggi si intende, cioè il luogo dove si insegna la musica nelle sue varie branche, ma era semplicemente un istituto di beneficenza, dove i trovatelli, i poveri o gli orfani venivano “conservati” negli asili, ospizi, orfanotrofi e coloro che avevano la predisposizione venivano avviati,oltre che all’istruzione primaria, alla cultura musicale.

In seguito furono ammessi altri allievi e così questi istituti benefici si trasformarono in vere e proprie scuole musicali. Celebri i quattro Istituti di Napoli: il Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, quello di Santa Maria di Loreto, della Pietà dei Torchini e di Sant’Onofrio. Nel 1808, per ordine di Gioacchino Murat, furono tutti e quattro riuniti sotto il nome di Collegio Reale di Musica, oggi chiamato Real Conservatorio di San Pietro a Majella, punta di diamante del mondo musicale.

Ammesso, quindi, al conservatorio con o senza le pressioni del marchese Odierna, protettore del giovane galatinese, iniziò a seguire le lezioni di due pugliesi: Nicola Fago (di Taranto) e di Leonardo Leo (di San Vito degli Schiavi, oggi dei Normanni) che lo istruì nell’armonia e nel contrappunto per addestrarlo nell’arte di suonare a quattro parti, la quale da pochi fra tanti, che han nome di maestri, al dì d’oggi è posseduta.

Pasquale rimase in quel conservatorio anche dopo la scadenza del suo contratto per migliorarsi nella scienza armonica. Il 37enne compositore, dopo un decennio di studio immane, ritornò dal suo amico marchese e pubblicò l’oratorio Il figliol prodigo ravveduto, (1745) su libretto di Giovanni De Benedictis, di carattere prettamente liturgico. Successo incontrastato ebbe con il melodramma Ipermestra, esecuzione avvenuta al S. Carlo nel 1751.

Il 20 gennaio del 1756, sempre al Real Teatro, viene rappresentato il suo secondo melodramma La disfatta di Dario,su libretto di Carlo Morbilli, duca di Sant’Angelo, un nobile con aspirazioni letterarie, che riceve una lusinghiera accoglienza. Lo spettacolo richiese un allestimento sfarzoso ed accurato tanto che l’anno dopo venne rappresentato L’incendio di Troia, che fu un solenne fiasco. L’impresario, per soddisfare il pubblico desiderio, senza arrecaredanno al buon nome del Maestro, rimise in scena La disfatta di Dario, rappresentata anche al Teatro della Pergola di Firenze.

Dopo questi successi, oltre ai i nobili napoletani, tedeschi ed inglesi fecero a gara per averlo come insegnante di canto e di composizione. La sua fama cresceva di giorno in giorno tanto che nel 1759 venne chiamato per l’insegnamento di composizione nello stesso conservatorio che lo aveva avuto studente.

Lo stesso anno Girolamo Abos (compositore maltese di melodrammi), secondo maestro di cappella del conservatorio, rinunciò all’incarico, cosicché i governatori dell’istituto si riunirono in sessione plenaria l’11 luglio per scegliere il successore. Poiché nel Signor Pasquale Cafaro…concorreva somma perizia nell’arte della Musica, bontà di costumi, e carità nell’insegnarla alli figlioli del Regio Conservatorio lo nominarono, con lo stipendio di ducati cinque, successore dell’Abos. Quindi egli fu successore di Abos e non di Leo, (deceduto nel frattempo) come molti sostengono. Pasquale iniziò una brillante carriera al fianco di Lorenzo Fago, grande esperto di arte polifonica. Due anni dopo la Giunta del San Carlo, dovendo portare in scena l’Andromeda di Antonio Sacchini, chiese al Cafaro di assistere alle prove per giudicare il carente organico dell’orchestra.

Esperto uomo di teatro, nel 1763fu chiamato a dirigere negli anni Il trionfo di Clelia e Issipile di Adolfo Hasse, Armida e Didone di Traetta.  Nel luglio del 1765il Duca di York, giunse a Napoli e l’impresario del San Carlo incaricò il Cafaro di comporre una nuova opera per l’occasione. Nacque così Isacco su testo del Metastasio e due mesi dopo la giunta del teatro stipulò un contratto con il nostro per la stagione operistica e il 20 gennaio andò in scena Arianna e Teseo, ossia il Minotauro, melodramma in tre atti su libretto del poeta della corte di Vienna, Pietro Pariati. Il successo forse fu dovuto, più che alla musica, alle imponenti scenografie.

La sua fama varcò i confini del regno e il Cafaro chiese una licenza dal Conservatorio per recarsi a Torino, dove compose per il RegioTeatro il Creso,opera seria in tre atti su libretto di Giovanni Pizzi, rappresentata nel gennaio 1768. Il maestro napoletano, e non galatinese, riscosse un caloroso successo, ma gli impegni al Conservatorio lo costrinsero a rientrare nella sua Napoli. L’alto livello artistico e la fama di esperto compositore più quotato del momento gli aprirono le porte, nel 1768, del Palazzo Reale. Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, sedicenne sposa di Ferdinando IV, aveva tra le sue doti quella per le discipline musicali e, pertanto, il Re lo nominò, oltre che maestro soprannumerario della Real Cappella Borbonica (20 ducati mensili e non annui), maestro della Regina di suono (cembalo) e canto. Allieva che, per nulla appesantita dalla diciotto gravidanze, seguì sempre con impegno le lezioni del maestro galatinese. Intelligente e autoritariala figlia di Maria Teresa d’Austria apprezzava e stimava il maestro per la sua correttezza e per la bontà d’animo. Il Cafaro le dedicò lo Stabat Mater a quattro voci ed ebbe talmente successo da sostenere il confronto con il capolavoro del Pergolesi.

I tanti impegni di Pasquale (era divenuto già un affermato compositore di melodrammi) andarono a discapito degli allievi del conservatorio della Pietà dei Turchini. Egli dovette seguire la Regina nei suoi spostamenti, pertanto cominciò a rinviare le lezioni e si fece sostituire da uno dei suoi migliori allievi, quel G. Giacomo Tritto, di Altamura, successore del grande Pergolesi. I governatori del Pio Loco, avevano deciso di licenziarlo, ma l’intervento del Re fece sì che il Cafaro mantenesse l’incarico, sino alla morte, di uno dei più prestigiosi conservatori del regno.

In quegli anni, ogni 12 gennaio, in occasione del compleanno di sua Maestà, furono eseguite numerose Cantate a tre o quattro voci e per queste composizioni ricevette dei compensi notevoli, se confrontati con i suoi stipendi di Maestro. Tra gli interpreti delle Cantate troviamo quel Gaetano Majorano (Caffariello),il soprano beniamino del pubblico sancarliano, che si distingue per la sua consueta bravura.

Siamo nel gennaio del 1769 quando al San Carlo fu rappresentata l’Olimpiade, l’opera più importante di Pasquale che esprime ormai la matura personalità del nostro compositore, su libretto di Pietro Metastasio. Il successo fu tanto e tale che venne replicata per ben tre volte nella Reggia di Caserta, alla presenza dei Reali.

Qualche mese dopo l’imperatore Giuseppe II, durante una visita nella capitale, sentì cantare la sorella M. Carolina e volle conoscere il suo maestro. Con lui tenne discorso sopra vari punti della scienza armonica ed il nostro gli rispose con erudizione e dottrina. L’imperatore disse alla sorella che doveva essere ben contenta di avere a maestro un uomo così degno ed istruito.

L’anno dopo, il 13 agosto, egli curò l’allestimento di Antigono, del Metastasio, per onorare i diciotto anni della regale alunna. Nel dicembre del 1771, alla morte di G.De Majo e grazie alla stima della regina, Pasquale fu nominato, senza concorso, Primo Maestro della Real Cappella.

Nei suoi ultimi anni di vita, nonostante si disinteressasse del teatro, fu incaricato, in sostituzione di Bach, dalla giunta dei Teatri di Napoli, dal 1774 e sino alla morte, di presiedere le piazze degli strumenti addetti all’orchestra del Regio Teatro San Carlo, non avendo trovato persona più esperta ed onorata di lui, tanto che l’ultima consulta porta la sua firma un anno prima della morte.Il suo desiderio era quello di  rimanere nel ricordo dei posteri come compositore di musica sacra, la cui umiltà lo spinse a rispondere a Padre Giovan Battista Martini, (frate francescano compositore di musica sacra) che gli chiedeva un suo ritratto per collocarlo, nel conservatorio di Bologna, tra i gli insigni maestri, con una lettera datata 22 giugno 1779: “Di quel che Vostra Paternità Illustrissima e Reverendissima mi comanda riguardo al mio ritratto io per dirLe del vero mi arrossisco di stare tra questi ritratti di tanti valentuomini… ma non ho potuto fare a meno di non ubbidirla. Perlochè ho dato subito il recapito per darlo affare, e terminato che sarà si spedirà a Bologna”.

Il buon Pasquale si fece dipingere nell’atto di comporre un Gloria Patri scritto a Canone Infinito. Oggi quel quadro è nel Civico Museo Bibliografico Musicale di Bologna. Per quarantatré anni, egli diresse, fino alla morte, nella chiesa di San Pietro a Majella, le celebrazioni in onore di Sant’Oronzo, santo patrono della colonia leccese che viveva a Napoli.

Il pio Maestro si spegneva a Napoli il 23 (o 25) ottobre (settembre per altri) 1787, nella sua casa del Rione di Santa Maria di Ognibene, per una cancrena che gli si formò in pochi giorni da ostinata incuria, contro cui furono inutili i rimedi dell’arte salutare…

Altri invece lo vogliono morto di attacco apoplettico dietro un rimprovero della sua alunna Maria Carolina, per un anello di gran valore smarrito, che poi venne riportato fuori da un bacile della di lei toletta…

Il nostro umile e modesto concittadino di grandi virtù morali fu sepolto, dopo le solenni onoranze funebri, a cui parteciparono tutti i più grandi musicisti napoletani, nella Chiesa di Montesanto, nella Cappella di Santa Cecilia, presso l’altare alla cui erezione aveva contribuito economicamente, accanto alla tomba di Leo e del grande Scarlatti. Nella cappella, dedicata alla patrona dei musicisti, avevano l’onore di essere seppelliti solo i più illustri e veramente pii artisti.

Ai funerali furono eseguite opere del Maestro e brani liturgici scritti per l’occasione dagli alunni di quel Conservatorio che lo avevano avuto alunno e docente.

Tutte le sue composizioni profane e teatrali furono lasciate al suo amico Don Nicola Bosco, mentre alla Real Cappella le composizioni sacre; i suoi augustisovrani le fecero eseguire, in suo ricordo, per molti anni dopo la sua morte. Degno successore del maestro galatinese, con il compito di sovrintendere all’Orchestra del San Carlo, fu Giovanni Paisiello.

Ora mi chiedo che cosa Galatina abbia fatto in suo onore e ricordo,se non l’intitolazione di una breve strada adiacente la chiesa dei domenicani. Una rivalutazione del suo lavoro fu fatta dal maestro Luigi Adolfo Galluccio, in arte Galladol, all’indomani della seconda guerra mondiale, anch’egli studente di giurisprudenza a Napoli ed allievo del conservatorio di San Pietro a Majella.

Tanti spartiti del Cafaro sono conservati nella sua casa di Vico del Carmine, gelosamente custoditi dagli eredi. Il professore Bruno Massaro ha intitolato a lui il suo centro musicale e l’allora sindaco Beniamino de Maria, convinto del valore educativo della musica, lo volle ricordare conun concorso nazionale per giovani pianisti.

La sua grande personalità, inserita nella migliore tradizione della scuola napoletana,è in attesa, quindi, di essere rivalutata perché egli fu persona dignitosa e certamente non priva d’estro. Le sue composizioni e i suoi manoscritti sono conservati negli archivi e nelle biblioteche di tutta Europa a perenne ricordo del suo nome e della città che gli diede i natali.

 

(pubblicato su Il filo di Aracne)

1 Novembre 2015 – Domenica

zucca

di Pino de Luca
In archivio l’ennesima parata di teste di zucca vuote e di carnevale anticipato che ci hanno insegnato che le “tradizioni” spesso sono imposte dai poteri più o meno espliciti. E dunque molto spesso la “tradizione” non è altro che una forma di conservatorismo becero che tradisce la storia popolare, la scimmiotta. Che un conto sono le canzoni camorriste e un conto è la canzone napoletana … Ma non avviamoci sulla accademia in questi giorni di mestizia dedicati ai defunti e al loro ricordo. Ma anche alla festa. Non c’è vita senza morte e non c’è morte senza vita. E’ il giro di giostra sul quale si sale per volere altrui e per volere altrui si scende, a volte qualcuno fa prevalere il proprio volere, ma accade di rado. Per fortuna o malasorte non so dire, ma so che la vita è bella, bellissima e se ci mettiamo del nostro può essere ancora più bella.
Le notizie di oggi riguardano un aereo caduto per ragioni che non conosceremo mai per davvero, e dunque è inutile chiederselo.
Gli All Black che riportano a casa la coppa del mondo di Rugby doppiando l’Australia in una partita da antologia.
Ma soprattutto il mondo è sbigottito dal fatto che Manfredi abbia preferito Kevin e Verdiana della Casa ha dovuto lasciare il Grande Fratello 14. Si attendono le reazioni di Barbara.
Ecco amiche e amici, questa è l’Italia che fa notizia e che è importante. Nemmeno più il calcio e la vittoria dell’Inter sulla Roma, simulacri di passioni che furono. La prima in mani indonesiane e la seconda in mani americane.
Domani sarà giorno di visite al cimitero ad onorare i nostri morti ed anche ad invocare i morti di chi ha ridotto il Bel Paese in questo stato. A domani.
P.S.
Expo finalmente è finita, innumerevoli trasmissioni ci stanno convincendo che è stato un grande successo. Dite a tutti che ne siamo convinti ma basta. Chi ha comprato terreni a dieci Euro e li ha venduti a 300 ha vinto e hanno vinto anche tanti altri. Lo slogan era quello di battere la fame nel mondo. Almeno in un pezzetto v’è chi ha mangiato a ufo. Del resto chi se ne fotte almeno fino alla prossima Expo ….

E non scordate di mangiare anche le nostre buonissime mandorle…

mandorle del Salento
mandorle del Salento

…A pochi è nota l’azione antidiabetica e antinfiammatoria delle mandorle, spesso “sconsigliate” a chi ha problemi di obesità o di diabete perché molto caloriche e ricche di grassi. Invece l’elevato contenuto in proteine le rende anche lo spuntino ideale, quello davvero in grado di spezzare la fame perché la mandorla ha un indice glicemico basso, e grazie al suo contenuto di oli vegetali attiva anche la colecistokinina, una sostanza in grado di ridurre la fame senza provocare picchi glicemici. Inoltre un gruppo di ricercatori di Taiwan, ha pubblicato sullo European Journal of Nutrition i risultati di una ricerca sulla forte e naturale azione antinfiammatoria delle mandorle…

Leggi l’articolo:

http://www.nutrizione33.it/cont/nutrizione33-articoli/29285/excursus-cibi-funzionali-azione-antinfiammatoria.aspx?xrtd=LVLRSVRVTCSCLRPYRCCTLSV#.VjT25GaFMb4

L’olio extra vergine d’oliva è il re della tavola ma gli italiani non sanno distinguerne le qualità

Olio

La conoscenza delle proprietà sensoriali dell’olio extra vergine di oliva, da parte di consumatori italiani, è risultata parziale; infatti, pur apprezzando l’attributo positivo di fruttato ed, in parte, quello di piccante, in molti non sanno che l’amaro costituisce un attributo di pregio.

 

I risultati delle analisi effettuate hanno confermato quanto già riportato da numerosi studi presenti in letteratura, ossia l’esistenza di una relazione tra l’intensità dei principali attributi positivi (fruttato, amaro e piccante) ed il contenuto in specifici composti volatili e fenolici, responsabili rispettivamente delle caratteristiche sensoriali percepibili in fase olfattiva e gustativa…

Leggi l’articolo:

http://www.teatronaturale.it/strettamente-tecnico/l-arca-olearia/22047-l-olio-extra-vergine-d-oliva-e-il-re-della-tavola-ma-gli-italiani-non-sanno-distinguerne-le-qualita.htm

Il Salento in ventiquattro immagini di Abraham Louis Rodolphe Ducros (1/6): BRINDISI

di Armando Polito

Sono la parte dedicata alla nostra terra dei trecento tra disegni ed acquerelli, custoditi nel Rijks Museum di Amsterdam dal cui sito (https://www.rijksmuseum.nl/en/search/objects?q=louis+ducros&p=23&ps=12&ii=10#/RP-T-00-492-74,268) ho tratto le immagini corredanti questo post (la traduzione delle didascalie è mia)  che il pittore svizzero (con scarso ossequio ai suoi tre nomi viene citato sempre sbrigativamente come Louis Ducros) eseguì dal 10 aprile al 12 agosto 1778 accompagnando quattro olandesi (Willem Carel Dierkens, Willem Hendrik van Nieuwerkerke, Nathaniel Thornbury, Nicolaas Ten Hove), in un viaggio nel Regno delle due Sicilie.

Parte di detto materiale insieme con la relazione del viaggio (che fu scritta integralmente in francese) è stato pubblicata a cura di J. W. Niemeijer in Images et souvenirs de voyage: le dessinateur suisse Louis Ducros accompagne des touristes hollandais en Italie en 1778, Waanders, Geneve, 1990 e, dallo stesso curatore, in Voyage en Italie, en Sicile et à Malte, 1778: journaux, lettres et dessins,  Martial, s. l., 1994

Uno dei vantaggi delle tecnologie digitali è senza dubbio l’interattività, cioè la possibilità di una fruizione non solo passiva delle risorse offerte dalla rete e di un dialogo in tempo reale.

Sarebbe graditissima, perciò, anche se per il tempo reale in questo caso bisognerà attendere ancora un po’,  la collaborazione dei lettori che vivono nei centri interessati (o possono raggiungerli facilmente) con l’invio di foto degli stessi soggetti rappresentati,  realizzate, s’intende, dallo stesso punto di vista. Le rappresentazioni del Ducros, infatti, precise dei dettagli topografici, costituiscono un valido strumento per un esame comparativo tra il passato piuttosto recente e il presente (chi vuole può pure prefigurarsi il futuro …). Io lo farò quando sarà il turno di Nardò, fra qualche puntata, visto che ho deciso, per non scontentare nessuno, di seguire l’ordine alfabetico.

Haven van Brindisi (Porto di Brindisi). Purtroppo lo sviluppo in orizzontale della rappresentazione originale ha qui condizionato con l’adattamento dimensionale la sua leggibilità. Chi lo desidera può visionarla in alta definizione al link segnalato all’inizio.

Gezicht op de ruïne van het theater in Brindisi (Vista sulle rovine del teatro a Brindisi)

 

Klassieke zuil in haven van Brindisi (Colonna classica nel porto di Brindisi). Qui la didascalia mi ha lasciato perplesso. Se qualcuno vede la colonna me lo faccia sapere. E infatti in data 10/2/2020 Armando Montefusco, dopo avermi fatto notare che in basso a sinistra si legge Monte Fusso (dettaglio che mi era sfuggito), ha ipotizzato che si tratti di Montefusco (fortunata omonimia!) sulla scorta che l’acquerello fa parte di un gruppo dedicato ad altre vedute dell’Irpinia.  

Concert bij de Franse consul in Brindisi (Concerto presso il console francese a Brindisi)

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Antieke zuil en gebouwen in haven van Brindisi (Antica colonna in un palazzo nel porto di Brindisi)

Interieur van de herberg in Lapide in de buurt van Brindisi (Interno di una locanda a Lapide [?] nel circondario di Brindisi). Si direbbe che Lapide sia un toponimo. Qualcuno è in grado di confermarlo, naturalmente non alla maniera di Iglesias (per i più giovani si tratta del cantante spagnolo e non del comune sardo), cioé dicendo un semplice sì …?

 

Binnenplaats van de herberg in Lapide (Cortile di locanda in Lapide). Per Lapide vale quanto detto per l’immagine precedente.

Detail van het plaveisel en mozaïek van de kathedraal in Brindisi (Dettaglio del pavimento in mosaico della cattedrale a Brindisi)

Twee beelden van nijlpaarden in wit marmer op een plein in Brindisi (Due immagini di ippopotamo in marmo bianco in una piazza di Brindisi). Nella relazione per questa parte a firma di Nieuwerkerke si legge che forse sono antichi piedistalli, su cui è inciso il nome Evergetes, che proverebbe la loro provenienza dall’Egitto. Integro dicendo che Evergete, dal greco εὐργέτης (leggi euerghetes)=benefattore, fu il titolo dei re d’Egtto Tolomeo III (III secolo a. C.) e Tolomeo VIII (II secolo a. C.), ma anche del re dell’impero seleucide Antioco VII (II secolo a. C.), del re del Ponto Mitridate V (II secolo a. C.) e del re di Bitinia Nicomede III (I secolo a. C.). Se qualcuno ha visto di recente non dico gli ippopotami ma qualche loro traccia, si faccia vivo …

 

Per la seconda parte (GALLIPOLI): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/12/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-26-gallipoli/

Per la terza parte (LECCE): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/23/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-36-lecce/

Per la quarta parte (MANDURIA): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/07/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-46-manduria/

Per la quinta parte (NARDÒ): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/11/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-56-nardo/

Per la sesta parte (TARANTO): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/24/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-66-taranto/

 

Il pavimento della cattedrale di Otranto

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GIORNATA DI STUDI SUL MOSAICO DELLA CATTEDRALE DI OTRANTO

venerdì 30 ottobre, alle ore 19.00

presso la  sede del CRIS a Poggiardo in via A. De Gasperi

Per la prima volta si passeranno in rassegna le interpretazioni finora proposte dell’opera musiva di Pantaleone, affidate alle relazioni di esperti che hanno approfondito, anche con pubblicazioni specifiche, l’ermeneutica dei simboli del mosaico.
 
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CRIS, polo universitario d’eccellenza nel cuore del Salento, a Poggiardo, ha organizzato presso la propria sede in Via De Gasperi, 11 in Poggiardo, venerdì 30 ottobre alle ore 19.00 una giornata di studio sul mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto.
L’importanza dell’evento è segnata dal fatto che per la prima volta si passeranno in rassegna le interpretazioni finora proposte dell’opera musiva di Pantaleone, affidate alle relazioni di esperti che hanno approfondito, anche con pubblicazioni specifiche, l’ermeneutica dei simboli del mosaico.

Introdotti dall’Avv. Vincenzo Scarpello, responsabile eventi culturali CRIS (Centro Ricerche Istruzione e Sviluppo), interverranno il dr. Elvino Politi, direttore del gruppo archeologico di Terra d’Otranto e presidente di Welcome Lecce, che tratterà le prime tradizionali interpretazioni del mosaico, da Don Grazio Gianfreda a Willemsen, l’Avv. Gianni Bellisario, storico ed autore di una famosa pubblicazione “Re Artù nel Mosaico pavimentale di Otranto”, che ha posto un’inedita chiave di lettura di una figura insolita nel contesto del mosaico otrantino, e che tratterà delle evoluzioni interpretative, alla luce dei nuovi approcci multidisciplinari.
Concluderà le relazioni il Prof. Mario De Marco.

L’evento inaugura l’attività culturale del CRIS, che nel corso dell’anno organizzerà altre iniziative volte a valorizzare la tipicità culturale del Salento nel Mediterraneo, promuovendo un’offerta culturale ampia, diversificata e mirante ad una formazione integrale rivolta non soltanto ai suoi soci, ma avente una vocazione di massima apertura alla comunità in cui è inserito.

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Lucugnano/ A difesa di Palazzo Comi

Appello immagini copia

La mobilitazione a difesa di Palazzo Comi prosegue,

sabato 31 ottobre letture poetiche, convegno e concerto

 

di Paolo Rausa

‘Abbiamo bisogno di tutta la vostra partecipazione alle iniziative che il Comitato, promosso da Simone Coppola, ha organizzato sabato 31 ottobre, una non stop a partire dalle ore 16,30 con letture poetiche a cura del Fondo Verri di Lecce.’

– Gloria Fuortes responsabile della Biblioteca Comunale si appella a tutti i cittadini di buona volontà e alle associazioni che hanno a cuore questa istituzione antica del Salento. Ripercorre le tappe della vicenda che vede protagonista la Provincia di Lecce nelle scelte del presidente Gabellone; il famigerato bando di affitto per 30 anni senza vincoli, le inascoltate proposte di acquisizione del sindaco Antonio Coppola di Tricase, il coinvolgimento finora infruttuoso della Regione Puglia. E’ orgogliosa dell’appoggio che il Comitato spontaneo, sorto per evitare il cambio di destinazione da luogo di cultura a luogo di ristorazione, ha profuso e degli attestati di solidarietà che si sono espressi a difesa della Biblioteca e del Museo di Storia Naturale del Salento a Calimera con le migliaia di firme apposte in calce ad una petizione minuziosa e precisa vergata dalla scrittrice Raffaella Verdesca con destinatari il Presidente della Repubblica, il Ministro dei Beni Culturali e il Presidente della Regione Puglia.

A dare man forte a questo movimento convulso le ragioni della cultura contro la barbarie degli atti amministrativi azzardati dalla Provincia. ‘Vi invito caldamente a partecipare – prosegue Gloria Fuortes – al convegno sui Beni Comuni, a cui interverranno i docenti presso l’Università del Salento, Nicola Grasso, prof. di Diritto costituzionale e legislazione dei beni culturali e di Diritto costituzionale della cultura, e Stefano Cristante, prof. di Sociologia dei processi culturali e comunicativi; l’avv. Michele Macrì e il sindaco di Tricase Antonio Coppola. E non è finita qui. A seguire l’aperitivo offerto dal Comitato Pro Palazzo Comi-Casa della Cultura.

Subito dopo alle 21 il Concerto/Showcase ‘La Rocha’. Un convegno che esprime grande determinazione per sventare i colpi di mano della Provincia, fra l’altro destinata ad essere soppressa dalla nuova legge costituzionale. Convitati di pietra saranno i Presidenti della Repubblica e della Regione e il Ministro dei Beni Culturali a cui il Comitato ribadirà le richieste a difesa della cultura salentina e di una civiltà, quella messapica e greca e romana e sveva e normanna e angioina e aragonese e araba e turca e poi quella dei borboni e quella piemontese e quella italiana infine. ‘Considerate se non meritano rispetto costoro, – si chiede la Verdesca – ma ancor più quelli che verranno. Non possiamo privarli delle fonti e dei luoghi di cultura.

Per questo ci battiamo perché siano mantenuti aperti e nel pieno esercizio Palazzo Comi a Lucugnano e il Museo di Storia Naturale del Salento a Calimera!’

Quandu ‘nc’era ci tagghiava li ièrmi e ppuru li nzurfiòni (Quando c’era chi tagliava i vermi e pure le trombe d’aria) …

di Armando Polito e Giuseppe Presicce

Il significato del tagliava del titolo sarà chiarito dalla stessa descrizione dei fenomeni presi in considerazione. Solo una brevissima nota preliminare su nzurfiòne (per dissimilazione da zzurfiòne), per dire che è deformazione dell’italiano soffione, e una rapida giustificazione per il fenomeni usato poco prima. Nulla togliendo ai concetti di spettacolare, stupefacente, meraviglioso, fuori dell’ordinario che la voce evoca, piace come non mai ricordare che essa deriva dal latino tardo phaenòmeno(n), trascrizione del greco φαινόμενον (leggi fainòmenon), participio presente mediopassivo di φαίνω (leggi fàino)=apparire, sicché fenomeno etimologicamente significa ciò che appare, ciò che si presenta. Dunque, qualcosa da indagare per scoprire se ciò che appare come effetto è direttamente conducibile alla causa che sembra averlo generato o ad altro. Spetta, cioè, alla scienza l’ultima parola e  questa sarà, comunque, provvisoria anche nel caso in cui non sia in grado di individuare una causa alternativa, credibile e verificata.

Per quanto riguarda il taglio dei vermi le cose stavano così: ai poveri vermi (ossiuri e compagni) veniva attribuita dalla medicina popolare la febbre alta e il mal di pancia che colpivano un bambino. L’intervento del taglio consisteva in un rituale che prevedeva olio caldo sulla pancia, segni di croce e una sorta di massaggio finale, mentre venivano sussurrate o preghiere o parole incomprensibili; in altri casi (e qui il tagliare si capisce meglio) l’intervento prevedeva il mimare l’uso delle forbici sulla pancia, l’immancabile formula e un pizzicotto finale dato all’altezza dell’ombelico.

Ora non è dato sapere se i vermi in questione fossero veramente i parassiti o fantomatiche creature messe in campo per la diagnosi, però è intuitivo che il massaggio con l’olio caldo ha certamente un effetto lenitivo del dolore. Si aggiunga, poi, l’effetto placebo operato dal segno di croce e dalla formula sugli astanti e da questi involontariamente trasmesso al bambino. Ma, ci si chiede, c’è stata mai la volontà di controllare se questi maledetti vermi fossero veramente presenti nel bambino prima dell’intervento (non c’era bisogno di squarciargli il ventre per controllare …) e la fine da loro fatta dopo il taglio? Altra cosa, evidentemente, era l’uso (non ci si sofferma sulle modalità …) dello spicchio d’aglio, le cui proprietà antielmintiche sono più che certe. Questo è un caso di medicina popolare; quello confina, anzi si contamina, con la magia.

Passiamo ora all’altro taglio.  I cambiamenti climatici degli ultimi decenni hanno reso ricorrenti dalle nostre parti fenomeni atmosferici prima rarissimi e, tra questi, le trombe d’aria. Se oggi ci sono i cacciatori di tornado (cacciatori, obbligatoriamente, fotografici, come dovrebbero essere tutti coloro che, invece di una fotocamera, imbracciano un fucile, e non per sparare, questa volta sì coraggiosamente, contro un tornado …), in passato c’era chi domava le trombe d’aria. Le testimonianze si sprecano in ogni regione con leggere differenze nel rituale, anche se esse sono più frequenti per le isole Eolie (non a caso sono  la patria di Eolo …). Ecco, in sintesi, quella di mio cognato Giuseppe (ha da qualche anno superato i cinquanta anni, anzi si avvia verso i sessanta; questa me la farà pagare …) che da ragazzino ha assistito ad un evento di questo tipo con l’intervento della “maga” del momento. Poteva capitare a lui che abitava in campagna e la maga era sua vicina, non certo a me che da cittadino la tromba d’aria potevo vederla solo col binocolo:

A fenomeno avviato Agata (così si chiamava la “fattucchiera”, il cognome non lo ricordo) ha adagiato sul terreno una manciata di paglia, poggiandovi sopra un coltello. A quel punto ha pronunciato una formula segreta (parole tanto incomprensibili che è impossibile, perciò, riportare). Immediatamente dopo ho visto la tromba dividersi orizzontalmente a metà, con le due parti che andavano progressivamente dissolvendosi, la superiore in alto, l’inferiore in basso.  

Ho riportato le sue testuali parole (che gli hanno valso la doverosa citazione del suo nome accanto al mio; non l’ho messo al primo posto perché, essendo relativamente giovane, si sarebbe montato la testa …), ma in rete s’incontrano varianti di ogni tipo. In esse, però, ingredienti comuni sono il coltello (o un’ascia o un ferro acuminato rivolto verso il cielo) e una formula di scongiuro più o meno incomprensibile.

Se contro i vermi, febbre e mal di pancia i farmaci efficaci oggi si sprecano, contro le trombe d’aria l’umanità sembra impotente. Visto il loro proliferare anche dalle nostre parti, non sarebbe il caso di tenere sotto osservazione, se ci sono, coloro che in passato hanno manifestato con successo la capacità del taglio? Mi rendo conto che combinare insieme uno scienziato, un tagliatore di trombe d’aria e la vedette dello spettacolo, la tromba appunto, è quasi impossibile. Però sarebbe sufficiente come prova un semplice filmato girato da qualcuno (non esperto di trucchi digitali …)  che abbia la sfortuna/fortuna di assistere al prodigio e che abbia sangue freddo, mano ferma e … le batterie della fotocamera cariche. Non mi meraviglierei a quel punto che lo sciamano dicesse che il sortilegio non può riuscire o non è riuscito a causa di quell’occhio elettronico …

Pensate un po’, però, se la scienza facesse in tempo, (prima che sciamani di questo tipo si estinguano) a capire, se esiste, il meccanismo del taglio. E così un titolo come Tromba d’aria a Taglio di Po Ro (http://www.youreporter.it/video_tromba_d_aria_a_Taglio_di_Po_Ro) diventerebbe Taglio di tromba d’aria a Taglio di Po Ro.

Che tutto ciò sia beneaugurante, e non solo per gli abitanti del Polesine …

Approfitto dell’occasione per proporvi una formula di scongiuro usata in passato dalle nostre parti contro i temporali. È venuta fuori da Giuseppe insieme con la testimonianza sul taglio della tromba d’aria nel corso di una delle tante nostre parche cenette in cui il cibo appare solo un pretesto per ricordare i tempi in cui entrambi eravamo più verdi. Poi, per non rimediare la figura del tapino, nonostante abbia messo in testa al post il mio nome, ci aggiungerò una delle mie.

Santa Barbara, no ddurmire, ca sta bbèsciu tre nuègghie1 inire: una ti acqua, una ti ientu, n’addha chiena ti mmaletiempu. Pòrtale intr’a ddha grotta scura, a ddonca no ccanta iàddhu e nno lluce luna, a ddonca no nnasce nuddha figghia ti criatura (Santa Barbara, non dormire perché sto vedendo sopraggiungere tre nuvole: una di acqua, una di vento, un’altra piena di temporale. Portale in quella grotta oscura dove non canta gallo e non risplende luna, dove non nasce nessuna figlia di creatura).

È il caso di ricordare che la santa, all’origine protettrice contro i fulmini e le morti improvvise, ha assunto ulteriormente quello di protettrice degli artiglieri e dei marinai dopo l’invenzione delle armi da fuoco; e da ciò è nato poi il nome comune santabarbara che designa il deposito delle munizioni e, in senso traslato, è sinonimo di situazione critica che può degenerare da un momento all’altro.

Giuseppe non aveva ancora finito di recitare la formula, che fulmineamente mi son ricordato, per contrasto, di una notizia tramandataci da Plinio (I secolo d. C.) che costituisce da un lato il contraltare pagano della preghiera che avete appena letto e dall’altro quasi l’anticipazione del gesto volgare fatto in segno di sfida o di dileggio e che coinvolge una parte del corpo che capirete … a posteriori.

Naturalis historia, XXVIII, 21: Post haec nullus est modus. Iam primum abigi grandines turbinesque contra fulgura ipsa mense nudato; sic averti violentiam caeli, in navigando quidem tempestates etiam sine menstruis (Oltre a ciò non c’è limite [alle credenze]. Già in primo luogo [si crede che] grandine e tempesta vengono allontanati mettendo a nudo le mestruazioni contro gli stessi fulmini; [si crede che] così vengono allontanate la violenza del cielo e le tempeste durante la navigazione anche senza mestruazioni).

Immagino che le mestruazioni siano un fenomeno che, nonostante la sua normalità (c’è da preoccuparsi del contrario …), continua ad essere considerato fastidioso; ed è già un bel progresso, rispetto ai tempi di Plinio2, visto che fino a qualche decennio fa ho sentito dire che la maionese preparata da una donna con le mestruazioni era destinata fatalmente ad impazzire. Tuttavia, del brano di Plinio capisco perfettamente la prima parte, in cui le mestruazioni fanno impressione pure a grandine e tempesta, ma non la seconda, a meno che la donna imbarcata appositamente o la passeggera occasionale sine menstruis non fosse una cozza …

Comunque sia, io nel frattempo, nel mio grande …, mi sono già attrezzato; Nerino pure, ma non capisco …

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* Meglio abbondare che scarseggiare!

** Meglio riguardarsi (o curarsi …) che mostrarsi scemo!

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1 Nuègghia per il Rholfs è da “nubes+suffisso collettivo –ilia”. Io non escluderei la derivazione da nùbila (alla lettera: cose nuvolose), neutro plurale con valore sostantivato dell’aggettivo nùbilus/nùbila/nùbilum (sempre dal citato nubes=nube), da cui deriva l’italiano nuvola. Trafila: nùbila>*nubla>nuègghia. Per quanto riguarda l’esito –bla->-gghia– si tratta di un fenomeno assolutamente normale, come in nègghia (nebbia) che è da nèbula attraverso una forma intermedia sincopata *nebla.

2 In quel nullus est modus (non c’è limite) lo scienziato condensa il suo scetticismo, ma egli non rinuncia ad una più estesa documentazione. Ecco cosa si legge  subito dopo il brano appena riportato: Ex ipsis vero mensibus, monstrificis alias, ut suo loco indicavimus, dira et infanda vaticinantur, e quibus dixisse non pudeat, si in defectus lunae solisve congruat vis illa, inremediabilem fieri, non segnius et in silente luna, coitusque tum maribus exitiales esse atque pestiferos, purpuram quoque eo tempore ab iis pollui; tanto vim esse maiorem. Quocumque autem alio menstruo si nudatae segetem ambiant, urucas et vermiculos scarabaeosque ac noxia alia decidere. Metrodorus Scepsius in Cappadocia inventum prodit ob multitudinem cantharidum; ire ergo per media arva retectis super clunes vestibus; alibi servatur, ut nudis pedibus eant capillo cinctuque dissoluto. Cavendum ne id oriente sole faciant, sementiva enim arescere, item novella tactu in perpetuum laedi, rutam et hederam, res medicatissimas, ilico mori. Multa diximus de hac violentia, sed praeter illa certum est, apes tactis alvariis fugere; lina, cum coquantur, nigrescere; aciem in cultris tonsorum hebetari; aes contactu grave virus odoris accipere et aeruginem, magis si decrescente luna id accidat; equas, si sint gravidae, tactas abortum pati, quin et aspectu omnino, quamvis procul visas, si purgatio illa post virginitatem prima sit aut in virgine aetatis sponte manet. Bitumen in Iudaea nascens sola hac vi superari filo vestis contactae docuimus. Ne igni quidem vincitur, quo cuncta, cinisque etiam ille, si quis aspergat lavandis vestibus, purpuras mutat, florem coloribus adimit, ne ipsis quidem feminis malo suo inter se inmunibus: abortus facit inlitu aut si omnino praegnas supergradiatur. Quae Lais et Elephantis inter se contraria prodidere de abortivo carbone e radice brassicae vel myrti vel tamaricis in eo sanguine extincto, itemque asinas tot annis non concipere, quot grana hordei contacta ederint, quaeque alia nuncupavere monstrifica aut inter ipsa pugnantia, cum haec fecunditatem fieri isdem modis, quibus sterilitatem illa, praenuntiaret, melius est non credere. Bithus Durrachinus hebetata aspectu specula recipere nitorem tradit isdem aversa rursus contuentibus, omnemque vim talem resolvi, si mullum piscem secum habeant; multi vero inesse etiam remedia tanto malo: podagris inlini, strumas et parotidas et panos, sacros ignes, furunculos, epiphoras tractatu mulierum earum leniri. Lais et Salpe canum rabiosorum morsus et tertianas quartanasque febres menstruo in lana arietis nigri argenteo bracchiali incluso; Diotimus Thebanus vel omnino vestis ita infectae portiuncula ac vel licio bracchiali inserto. Sotira obstetrix tertianis quartanisque efficacissimum dixit plantas aegri subterlini, multoque efficacius ab ipsa muliere et ignorantis; sic et comitiales excitari. Icatidas medicus quartanas finiri coitu, incipientibus dumtaxat menstruis, spopondit. Inter omnes vero convenit, si aqua potusque formidetur a morsu canis, supposita tantum calici lacinia tali statim metum eum discuti, videlicet praevalente sympathia illa graecorum, cum rabiem canum eius sanguinis gustatu incipere dixerimus. Cinere eo iumentorum omnia ulcera sanari certum est addita caminorum farina et cera, maculas autem e veste eas non nisi eiusdem urina ablui, cinerem per se rosaceo mixtum feminarum praecipue capitis dolores sedare inlitum fronti, asperrimamque vim profluvii eius esse per se annis virginitate resoluta. Id quoque convenit, quo nihil equidem libentius crediderim, tactis omnino menstruo postibus inritas fieri magorum artes, generis vanissimi, ut aestimare licet. (Dagli stessi mestrui altrimenti magici come a suo tempo indicammo vengono vaticinati eventi tremendi e indicibili; tra questi non ci si vergogni di dire che, se quella forza viene a coincidere con l’eclissi di luna o di sole, non c’è rimedio; che non è più mite quando la luna non si vede e allora il coito è per i maschi rovinoso e pestifero; che pure la porpora dai mestrui in quel tempo viene macchiata e che di tanto la loro forza è maggiore. In qualunque altro mestruo, se vanno nude intorno alle messi, cadono i bruchi, i vermetti e altri parassiti. Metrodoro Scepsio dice che ciò fu scoperto in Cappadocia contro l’infestazione delle cantaridi; che vanno dunque in mezzo ai campi con le vesti alzate sopra le natiche; altrove si cura che esse vadano a piedi nudi e con i capelli e la cintura sciolti. Bisogna evitare che facciano questo al sorgere del sole, perché s’inaridirebbero le piante da semina; allo stesso modo le piante novelle sono danneggiate per sempre dal contatto e la ruta e l’edera, piante dalle spiccate proprietà medicinali, subito muoiono. Molto abbiamo detto di questa forza ma oltre a ciò è certo che le api fuggono quando sono toccate le arnie, i lini, quando vengono imbiancati, anneriscono, il filo dei rasoi si rovina, il rame al contatto assume un odore pesante ed arrugginisce, soprattutto se ciò avviene a luna piena, le cavalle, se sono gravide, abortiscono se toccate, anzi ciò avviene solo a guardarle, anche da lontano, se quella è la prima mestruazione dopo la verginità o se nella vergine d’età permane spontaneamente. Abbiamo detto che il bitume che nasce nella Giudea viene portato in superficie da questa sola forza con un filo della veste toccata. Il mestruo non viene vinto neppure dal fuoco dal quale tutto è vinto, e anche quella cenere, se qualcuno la sparge per lavare le vesti, muta le porpore, toglie vivezza ai colori, non essendo neppure le donne tra loro immuni da questo loro male: impiastrato osolo se la donna gravida vi passa sopra causa l’aborto. Laide ed Elefantide hanno tramandato notizie tra loro contrastanti in torno al carbone ricavato dalla radice del cavolo o del mirto o della tamerice abortivo se spento in quel sangue e parimenti che le asine non concepiscono per tanti anni per quanti granelli di orzo toccasti da esso hanno mangiato e quelle altre cose terrificanti e tra loro in contrasto che hanno nominato, annunziando una che c’è la fecondità negli stessi modi in cui l’altra annunzia la sterilità: è meglio non credere. Bito di Durazzo tramanda che gli specchi offuscati dallo sguardo (delle donne) recuperano lo splendore se le stesse li guardano dal lato opposto e che tale potere viene annullato completamente se hanno con loro il pesce mullo [è la triglia]; molti dicono pure che in tanto male ci sono pure proprietà medicamentose: si ungono le gotte, dal contatto di tali donne sono mitigate le suppurazioni, le scrofole, i gonfiori, il fuoco sacro [fuoco di sant’Antonio o herpes zoster], i foruncoli, il catarro. Laide e Salpe dicono che si leniscono i morsi dei cani rabbiosi e la febbre terzana e quartana chiudendo in un bracciale d’argento il mestruo posto nella lana di un montone nero. Diotimo di Tebe dice che questo va fatto esclusivamente con un brandello di veste così imbevuta e anche con un filo inserito nel bracciale. La levatrice Sotira ha detto che è efficacissimo nelle terzane e nelle quartane quando è impiastrato sulle piante dei piedi e molto più efficace se ciò è fatto dalla stessa donna e senza che l’ammalato lo sappia. Così si eccitano anche gli epilettici. Il medico Icatida assicura che la quartana cessa con il coito, purchè avvenga all’inizio del mestruo. Tutti però concordano nel dire che, se uno è spaventato dall’acqua e dal bere per il morso di un cane, la paura viene immediatamente eliminata soltanto dal lembo della veste posta sotto il bicchiere, cioè in forza di quella che i medici chiamano simpatia, poiché già dicemmo che i cani diventano rabbiosi quando gustano tale sangue. È certo che con la cenere dei carboni spenti in esso guariscono tutte le piaghe dei giumenti, con aggiunta di polvere di cumino e cera, che le macchie delle vesti si tolgono lavandole nell’orina della donna medesima, che la cenere mescolato con olio di rose e impiastrato sulla fronte calma i dolori di testa specialmente delle donne e che grandissima è la forza di questo flusso negli anni immediatamente successivi alla verginità. In questo anche si è d’accordo, cosa alla quale crederei volentieri più di ogni altra, che solo a toccare col sangue mestruale le porte delle case vengono neutralizzate le arti dei maghi, razza inutile, come è lecito credere).

Dialogo tra un poeta e un filosofo

filosofo

Dialogo tra un poeta e un filosofo. Tentativi estremi di comprensione del senso di reciprocità all’idea di verità.

 

di Elio Ria

Ho inventato un amico perché mi sentivo di non averne. L’ho trovato per caso nelle pagine dei miei libri, in un momento di ripensamento sulle cose che avrei dovuto fare, prendendomi così una manciata di tempo solubile nei miei ragionamenti di sconfitta, di amarezza, nonché della vittoria che esse implicano a favore della realtà, eterna dominatrice dei fatti e degli uomini. In un’epoca in cui vige la regola della stupidità e dell’indifferenza, l’idea di un pensiero critico è quasi visto come un disturbo alla quiete dell’irrazionalità. Un dialogo, un confronto non sempre è possibile. L’affermazione di un pensiero militante nella sfera dell’individualismo e del relativismo (quanto sono fastidiosi questi -ismi) deformano la rappresentazione delle cose, che sono sfacciatamente convenienti alla convenevole ideologia neoliberale. Mi piacerebbe che questo mio amico avesse il dna letterario di Borges, aperto, capace di guardare più orizzonti, non costruito a tavolino dalla penna di uno scribacchino, non un genio comunque, ma un uomo pensante, libero nei meandri della ragione. Vorrei che non possedesse sguardi ambigui, posizioni invitanti, contemporaneo alla sua stessa esistenza. Il dramma del poeta – del quale porto indegnamente il titolo – è di non essere mai compreso in vita; post mortem avrà gloria e visibilità nelle antologie scolastiche. Il poeta, quello del terzo millennio, ancora non è dato sapere chi sia, in compenso c’è qualche filosofo alieno.

Dunque ho inventato un amico per necessità di sopravvivenza: mi sento soffocato dagli incanti di ogni giorno, dalle chiacchiere dalle bombe di spettacolarizzazione che piovono sul cervello. Ma dov’è il senso di una convenienza normale, di un agire spontaneo, serio? Possibile che qualcuno ancora non abbia pensato di scrivere un manuale – ad esempio – sulla convenienza di tacere?
Nel mio studio, chiuso con la mia interiorità, con il libro di Cioran fra le mani, come fosse un breviario, con la luce offuscata dalla tenda, provo a iniziare un dialogo con questo mio amico, costruito con le mie mani, alla maniera di Mastro Geppetto, non di legno però, ma di spirito. Devo vincere la mia diffidenza; metterlo a suo agio. Non lo vorrei erudito; purtroppo ora mi rendo conto che così non potrà essere poiché nasce dal grembo delle parole della sapienza. Certamente sarà altezzoso, pedante, sicuro di sé. Non ho scampo. Già mi guarda, aspetta con ansia che gli dia l’input della parola, come il soffio divino per portarlo in vita.

— Ciao, ti va se ti do il nome di Davide?
— Ciao Elio, sì certo. È un bel nome!
— Allora, Davide, una domanda: che senso ha agire per convenienza?
— La convenienza rappresenta la coerenza fra la forma e il contenuto, pertanto dovremmo capire quale sia la forma e quale il contenuto?
— Siamo alle solite: cerchi sempre di complicare qualsivoglia semplicità al solo scopo di disquisire di filosofia, filosofia pura come tu la definisci.
— Caro Elio, tu sei un bravo ragazzo…
— Eh, no! Non chiamarmi bravo ragazzo come a significarmi di essere un sempliciotto, incapace di elaborare un concetto.
— Non è così! Tu come tutti i poeti sei permaloso. Volevo solo dire che nei tuoi concetti non c’è una speculazione filosofica, sei sempre trasparente, immerso in quel romanticismo inglese, alla maniera di Keats.
— Eh già, tu invece tratti le questioni assolute di spazio e assoluto, delle quali non si capisce nulla. Pensando che è roba essenziale e va pubblicata sui siti di filosofia.
— Sempre attento a quella bellezza romantica di cui ci hai resi stufi. Il mondo va in tutt’altra direzione. Sei immobile.
— Preferisco essere immobile che ondivago come sei tu. Sei un vagabondo che gira e rigira nei libri di filosofia per tentare di comprendere qualcosa del vuoto, del tempo e dello spazio. E in questo tuo peregrinare non trovi una Madonna che ti ascolti, un Santo che ti predichi qualcosa che sia di giustezza, un filosofo che ti compiace.
— Se tu leggessi le mie cose non diresti quello che hai detto. I miei testi sono condivisi su Facebook e anche molto apprezzati. Tu non hai nessun impatto sui lettori. Si annoiano a leggere i tuoi versi sbilenchi, privi di ardore poetico.
— A dire la verità, i lettori non leggono i tuoi testi, basta infatti annusarli per comprendere di quanto siano maleodoranti di superbia caratteriale dell’autore, e non sono da configurare nella filosofia pura. Ma per favore, spostiamo il dialogo su cose ben più appetibili e interessanti. Metti da parte la tua presunzione. In fondo sei ancora uno studente universitario, hai tante cose da imparare, perché continuare a ostentare sicurezza, quando invece un po’ di sana e dubbia incertezza ti farebbe comprendere che l’incertezza è necessaria a sviluppare incerte certezze e a farti ragionare meglio su questioni già ampiamente trattate dai Grandi. Io preferisco la letteratura, che fra tutte le attività della specie umana, è certamente la più libera e la più fantastica, la più menzognera e la più ingannevole. Tu invece credi che la filosofia sia scienza o meglio la scienza della scienza, che con i suoi ragionamenti palesa una verità; tu dinanzi a tanta onnipotenza ti senti d’essere demiurgo.
— Non sono un poeta e me ne vanto! Vi conosco bene, voi poeti! Riuscite a passare con nonchalance dalla realtà all’immaginazione, siete così bravi da farne un calco nella manipolazione letteraria. Vi assumete l’autorità di sognare per giustificare le vostre strane connessioni con il cuore. Le vostre orge poetiche, le insinuazioni, il non detto, le allusioni, le invenzioni sono i vostri trucchi del mestiere. Il filosofo è ben’altra cosa, mio caro Elio. Il compito del filosofo consiste nell’elaborare una «scienza universale del mondo», per arrivare all’idea di verità in sé, surclassando ogni cosa della quotidianità.
— Ehm, partendo da dove? Cominciare da quale verità? Penso invece che ogni tentativo di giungere ad una verità comporti una caduta nel dubbio. Non intendo accettare assunti filosofici confezionati dai filosofi, come fai tu. Potrei citare Cartesio e difatti non mi convince l’individuazione nel «cogito» del criterio fondamentale della certezza, sul quale poggiano le verità matematiche e quelle metafisiche, nonché le conoscenze attinenti alla «res extensa». Preferisco, seppure con riserva, Nietzsche e la sua «verità di volontà». Vorrei ancora credere che la verità sia in assoluto ciò che noi non sappiamo veramente intendere, ma è lì in una parte del luogo che ci appartiene che si mostra nella sua dignitosa bellezza. E qui caro amico Davide, forse il poeta più che il filosofo potrebbe darne una definizione.
— Caro Elio, secondo Hegel il vero si compie solo nell’intero, ossia nel sistema filosofico, attraverso il superamento dialettico di tutte le opposizioni concettuali. La filosofia deve assumersi la «fatica del concetto» per superare l’immediatezza e darsi nella forma dello spirito in sé e per sé, ossia nella forma della verità. La verità può esistere solo sotto forma di sistema scientifico, visto che la scienza è l’unica forma in cui si dà la verità e la scientificità si fonda sull’elemento del Begriff. Come vedi, l’assunto sulla verità è incontrovertibile. Tu sei poeta, e queste cose non riesci a comprenderle, conosci solo quegli zozzoni di poeti francesi dell’800 e quelle loro strane teorie sull’Io è un altro oppure lo Spleen e altre loro diavolerie.
— Già, tu conosci tutto, ogni cosa, ogni dettaglio, la verità, Dio, la natura… Io preferisco non conoscere e di non giungere alla pienezza del sapere per conservarmi (tutelarmi) come spirito pensante, senza la pretesa di giungere alla autoconoscenza della verità, per non sentirmi nella pienezza della conoscenza, per non comprendere l’idea indeterminata, e sentirmi libero di volta di volta di esprimermi qualcosa nell’incertezza se ciò che io penso sia verità. Voglio inciampare sempre, per non perdermi nel paradiso dei sorrisi e della beatitudine della verità, amo l’inferno – quello dei poeti. Lascia stare i poeti francesi, i quali non hanno mai servito Dio né gli uomini e hanno pagato con il sacrificio della propria vita la dedizione alla poesia. E poi t’invito a leggerti Hölderlin, il più grande lirico tedesco dopo Goethe, un romantico che visse fuori dai confini classici del romanticismo, colui che ha avuto la presunzione di servire soltanto l’arte e non la vita, gli dèi e non gli uomini. La verità serve agli uomini per le loro convenienze, ecco perché vi è l’affanno filosofico a scoprirne e a determinarne l’essenza e la materializzazione. Al poeta la verità non serve, poiché nelle sue finzioni e immaginazioni il mondo si presenta tutt’uno con esso, e non vi è necessità di spiegare qualcosa di cui è già tangibile nella sua naturale rappresentazione. Il poeta serve gli dèi in profonda intimità, al pari della Natura. Questa sostanzialmente è la differenza concettuale tra la verità del poeta e la verità del filosofo, poiché quest’ultimo pensa di poter approdare all’indicibile con la forza pensante della ragione, mentre il poeta si affida alla propria sensibilità di immaginazione e di costruzione dello Spirito per intendere non un frammento di verità bensì la Natura.
Allora, non morire nelle stantie concezioni e negli assunti geometrici e standardizzati della filosofia matematica, con la pretesa di sapere tutto e di doverne replicare il verbo, sii più umile, e ogni tanto dopo cena fai una lettura di poesia quanto basta per non morire nella certezza di essere tu stesso certezza del nulla.
Ti prego, non replicare, fai in modo che io non mi penta di averti inventato, giacché di questa invenzione ero certo che ne avrei tratto convenienza, mi accorgo però di avere ancora una volta sbagliato nel concedermi un’invenzione che non necessitava di essere inventata, come le tue verità.

 

(pubblicato su http://www.sitosophia.org/2015/10/dialogo-tra-un-poeta-e-un-filosofo/)

Gli Emblemata di Gregorio Messere (1636-1708) di Torre S. Susanna (3/3)

di Armando Polito

c

 

 

Ricapitolando: in base a quanto si legge nel frontespizio  le Pompe in morte di Caterina sono dedicate a suo figlio Luigi della Cerda, discendente di Ludovico. I meriti di quest’ultimo sono indicati nella seconda dedica ed occupano la prima pagina della stessa e la parte iniziale della seconda. Luigi ricompare ancora in DI TANTO PRINCIPE, ma è evidente come la composizione tipografica faccia risaltare, con gradazioni diverse, il nome della defunta [DI D(ONNA) CATERINA D’ARAGONA] con quello che sembra essere il suo merito principale (DEGNISSIMA MADRE) e quello di Napoli (PARTENOPE) che le tributa l’omaggio.

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/23/gli-emblemata-di-gregorio-messere-1636-1708-di-torre-s-susanna-13/ 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/25/gli-emblemata-di-gregorio-messere-1636-708-di-torre-s-susanna-23/

Gli Emblemata di Gregorio Messere (1636-1708) di Torre S. Susanna (2/3)

di Armando Polito

L’Emblèmata del titolo è voce latina trascrizione dal greco ἐμβλήματα (leggi emblèmata) plurale di ἔμβλημα (leggi èmblema). All’ἔμβλημα greco corrisponde in latino emblèma, da cui la voce italiana usata nel senso generico di simbolo. In greco la parola [derivata dal verbo ἐμβάλλω (leggi emballo)=gettare dentro] indicava qualsiasi cosa inserita, come, fra l’altro le tessere del mosaico; tale significato passò in latino, dove emblema veniva chiamato l’intero mosaico. Ed è proprio partendo dall’idea delle tessere musive che è nato il significato generico moderno di simbolo. Ciò avvenne nel XVI secolo con l’avvento di un vero e proprio genere letterario che ha il suo antesignano in Andrea Alciato (1492-1550) e nei suoi Emblemata, raccolta di rappresentazioni simboliche accompagnate talora da un titolo e sempre da  una didascalia per lo più in versi, il tutto in funzione moraleggiante. Chi lo desidera potrà saperne di più in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/02/11/una-nota-su-alberico-longo-di-nardo/. Gli Emblemata del Messere si collocano in questo filone, sicché il suo nome potrebbe benissimo essere annoverato almeno tra quello di coloro che nel secolo XVII  in tutta Europa lo coltivarono e che raggiunsero la fama.1

Ho già accennato allo spirito socratico che animava questo letterato salentino e come, eguagliando quasi Socrate, pubblicò pochissimo. Si tratta sostanzialmente di poesie d’occasione con intenti celebrativi, le più adatte, secondo me, ad esaltare l’abilità tecnica più che la profonda ispirazione poetica. Come se non bastasse, costa pure fatica cercarle perché sono sparse in varie miscellanee di autori diversi2.

Lo stesso destino toccò agli Emblemata, che risultano inseriti in Pompe funerali celebrate in Napoli per l’eccellentissima signora D. Caterina d’Aragona e Sandovale, duchessa di Segorbia, Cardona etc., con l’aggiunta di altri componimenti sul medesimo soggetto, Roselli, Napoli, 1697, pp. 57-68.  Lo stesso volume (https://books.google.it/books?id=yhy150WwUhYC&pg=PA263&dq=%22Gregorio+Messere%22&hl=it&sa=X&ved=0CEAQ6AEwBzgUahUKEwjEuOfR4cvIAhVJchQKHYypDbY#v=onepage&q=%22Gregorio%20Messere%22&f=false) ospita pure alle pp. 185-189 altri componimenti del nostro, cinque in latino e due in greco3. Il numero complessivo di pagine del volume ospitanti il Messere (17 su un totale di 165) è prova evidente del credito di cui egli godeva e in particolare l’estensione degli Emblemata (12 pagine) non avrebbe certo fatto gridare allo scandalo se l’autore li avesse pubblicati come un opuscoletto4. Lo farò, in un certo senso, io nella terza parte con la riproduzione delle pagine originali corredando ognuna di trascrizione, traduzione e note.

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/23/gli-emblemata-di-gregorio-messere-1636-1708-di-torre-s-susanna-13/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/26/gli-emblemata-di-gregorio-messere-1636-1708-di-torre-s-susanna-33/

 

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1 Cito solo i più noti ed importanti: Nicola Taurello, Emblemata physico-ethica, Locner, Norimberga, 1602; Giovanni Ferro, Teatro d’imprese, Sarzina, Venezia, 1623; Otto Van Veen, Emblemata sive symbola, Hubert, Bruxelles, 1624; Giorgio Camerario, Emblemata amatoria, Sarzina, Venezia, 1627; Paolo Maccio, Emblemata, Ferronio, Bologna, 1628; Guglielmo Heso, Emblemata sacra de fide, spe, charitate, Moreto, Anversa, 1636;  Giovanni Paolo Rainaldi, Museo, Moneta, Roma, 1644; Jannes De Solorzano Pereira, Emblemata, Morras, Madrid, 1653; Carlo Bovio, Ignatius insignium epigrammatum et elogiorum centuriis expressus, De Lazeris, Roma, 1655; Juan De Boria, Empresas morales, Foppens, Bruxelles, 1680; Silvestro da Pietrasanta, Symbola heroica, Jansson , Waesberg e Wetsten, Amsterdam, 1682; C. F. Menestrerio, Philosophia imaginum, Jansson e Waesberg, Amsterdam, 1695

2 Per esempio: oltre al distico elegiaco dedicato ad Antonio Sanfelice, per cui vedi il link segnalato all’inizio, tre suoi componimenti, sempre in distici elegiaci (il primo in latino, gli altri in greco), sono in Componimenti in lode del giorno natalizio di Filippo V, Re di Spagna, di Napoli, etc. recitati a dì XIX di Decembre l’anno MDCCIV nell’Accademia per la Celebrazione di esso Giorno nel Real Palagio tenuta dall’illustriss. ed eccellentiss. Signor S. Giovanni Emanuele Pacecco Duca di Ascalona, Vicerè, e Capitan Generale del Regno di Napoli, Niccolò Bolifoni, Napoli, 1705, pp. 259-261 (https://books.google.it/books?id=mZkW1Y_JHAwC&printsec=frontcover&dq=vari+componimenti+in+lode&hl=it&sa=X&ved=0CCkQ6AEwA2oVChMIkZnhws7LyAIVyT0aCh07yw-e#v=onepage&q=vari%20componimenti%20in%20lode&f=false).

1

Altri 2, sempre in distici elegiaci, il primo in latino, l’altro in greco, sono in Componimenti recitati nell’Accademia a dì IV di Novembre, anno MDCXCVI, Parrino, Napoli, 1697, pp. 170-172 (https://books.google.it/books?id=jshCaGKXzKQC&pg=PA170&lpg=PA170&dq=GREGORIO+MESSERE+CARLO+ii&source=bl&ots=sEZn3h5nSB&sig=qshT0TEyKJW-nO1UVKhnyXsMDpk&hl=it&sa=X&ved=0CCIQ6AEwAWoVChMI-4bow4fRyAIVRmkUCh3xIgfR#v=onepage&q=GREGORIO%20MESSERE%20CARLO%20ii&f=false).

 

 


3 Non risultano inseriti tra gli Emblemata perché privi di un dettaglio fondamentale: l’immagine.

 

8BIS

 

4 Tanto più che, a quanto ne so, fu l’unico salentino ad applicare originalmente questo genere alla commemorazione funebre, quasi una versione dotta dei “ricordi” in uso ancora oggi spesso con l’immagine del defunto (in passato un’altra con il tema cristiano della morte e della resurrezione) e una frase più o meno importante, per lo più una citazione di carattere sacro, raramente poche semplici parole. Da aggiungere anche all’originalità l’abilità nel trattare ripetutamente  in modo non banale lo stesso tema. Al solito, dominante sottofilone filosofico-letterario , invece, è da ascrivere l’unico emblema di un altro salentino, il neretino Alberico Longo;  per saperne di più vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/02/11/una-nota-su-alberico-longo-di-nardo/.

Le patate dolci hanno sempre più estimatori

patate dolci 2

di Massimo Vaglio

La batata (Convolvulus batatas L.), meglio nota come patata dolce o patata zuccherina, è una Convolvulacea coltivata estesamente in tutte le regioni del mondo a clima caldo, è diffusissima in Estremo Oriente e in America.

La sua coltivazione in Italia è limitata a modestissime superfici del basso Veneto, del Comasco, della provincia di Brindisi, e della parte nord-orientale della Provincia di Lecce.

E’ una pianta con radici abbondanti, ramificate, che s’ingrossano producendo formazioni tuberiformi anche molto voluminose, di forma irregolare, spesso piriformi, bianche, gialle, rosso-brune, o rosee, ricche di fecola e di zucchero, lattiginose, poco conservabili. Le foglie, di forma e colorazione varia, sono portate da steli striscianti e volubili.

Il clima congeniale alla batata è quello caldo-umido, per cui, il ciclo vegetativo di questa coltura in Italia va dalla primavera all’autunno.

L’antica varietà coltivata in Puglia, è una varietà molto rustica, vigorosa, quasi invadente, forma piante striscianti molto estese dall’elegante fogliame cuoriforme dalla bella colorazione rosso-violacea.

I tuberi sono solitamente di forma allungata con le due estremità sottili, ma anche globosi, di colorazione rosso-ocra. La polpa è giallastra e molto zuccherina.

La coltivazione inizia nel mese di febbraio-marzo mettendo a germogliare in vivaio, i tuberi raccolti nella campagna precedente e quando i germogli hanno raggiunto una lunghezza di 15-20 centimetri vengono messi a dimora.

patate dolci 3

La raccolta si esegue in settembre-ottobre, la resa per ettaro varia da 200 ai 400 quintali. La varietà coltivata in Puglia, si distingue per l’ottimo aspetto estetico, l’uniformità di colore, l’alta concentrazione di zuccheri e soprattutto, qualità più unica che rara, la prolungata serbevolezza, infatti si conservano perfettamente sino alla primavera successiva, tanto che, in diversi paesi è tradizione consumarle nel pic nic di pasquetta.

Le batate, anche se la loro produzione e di conseguenza il loro consumo sono molto calati negli ultimi decenni, continuano ad avere pur sempre molti estimatori. Oggi la loro destinazione primaria è in frittura; servite caldissime cosparse di zucchero semolato, si mangiano anche semplicemente lessate oppure cotte in forno a legna o sotto la cenere calda; e forse, sono proprio queste ultime due, le preparazioni preferibili poiché, a causa della concentrazione degli zuccheri, divengono particolarmente dolci e mielate.

Vengono pure impiegate per la preparazione di frittelle e di altri originali dolci, mentre è andata quasi completamente perduta la consuetudine di prepararle in umido, stufate, oppure in preparazioni che prevedevano l’accompagnamento con la carne e addirittura con il baccalà.

 

 

Gli Emblèmata di Gregorio Messere (1636-1708) di Torre S. Susanna (1/3)

di Armando Polito

Di questo letterato salentino mi sono già occupato indirettamente di recente in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/21/il-ritratto-ritrovato-del-monaco-antonio-sanfelice/

Due motivi, uno sentimentale, l’altro, in un certo senso, di giustizia (per quanto io non mi senta affatto deputato ad emettere sentenze, specialmente definitive …), mi spingono oggi a riparlare di lui. Il sentimentale è costituito dal fatto che mio padre era nato nello stesso centro del Brindisino; tuttavia, siccome le  motivazioni personali, specialmente le mie,  saranno irrilevanti per tutti o quasi, passo a quelle  … giudiziarie. Si tratta, però, come si sarà intuito, di una giustizia tutta letteraria da rendere al salentino che, a differenza di altri, pubblicò pochissimo rispetto a quello che avrebbe potuto e senza dubbio meritato il suo ingegno. Dico solo che egli godette della stima  profonda di molti intellettuali del suo tempo e non è da escludere che per volere di uno o più di loro venne sepolto nella cappella della famiglia Pontano, che si trova accanto alla chiesa di Santa Maria Maggiore alla Pietrasanta in Via dei Tribunali a Napoli, vicino al poeta Giovanni che l’aveva preceduto nell’ultimo viaggio due secoli prima1; l’architetto Ferdinando Sanfelice gli dedicò la doppia iscrizione di cui ho parlato nel post precedente e Giambattista Vico, poi, così  ne pianse la morte in un madrigale (cito da Opere di Giambattista Vico, v. II, Napoli, Tipografia della Sibille,  1834, p. 432 ( integralmente consultabile e scaricabile in https://books.google.it/books?id=nq1PAAAAcAAJ&pg=PA432&lpg=PA432&dq=cui+fu+dal+ciel+concesso&source=bl&ots=k-0DKuwwp4&sig=eQ3Qo8ZegKWj0UYLBS53GoSipnY&hl=it&sa=X&ved=0CB8Q6AEwAWoVChMIhbPe5YLOyAIVTFgaCh1uNgF6#v=onepage&q=cui%20fu%20dal%20ciel%20concesso&f=false).

Ho preferito porre in calce al testo, tratto in formato immagine dal link appena segnalato, le mie note di commento relative alle parole che ho sottolineato in rosso, e non nello spazio di coda riservato alle altre per non costringere il benevolo lettore a comprarsi un altro mouse …

ARGEO P(ASTORE) A(RCADE) In seno all’accademia dell’Arcadia i soci erano detti pastori ed ognuno di loro all’atto dell’associazione assumeva uno pseudonimo (formato da uno o due parti), spesso evocante il mondo pastorale, tratto dal latino, ma con ascendenze greche, se non direttamente greco. Lo pseudonimo completo di Gregorio sarebbe stato (si capirà dopo l’uso del condizionale riferito alla seconda parte)  Argeo CaraconasioArgeo è piuttosto ambiguo (e tale ambiguità, forse, anche in questo caso fu assunta ad arte) perché può derivare direttamente dal latino Argeus=argivo (Argo era considerata dai Greci come la loro città più antica), ma Argo era anche il nome del mostro della mitologia greca, fornito di molti occhi (e in senso  figurato può valere come persona alla quale nulla sfugge). Come non pensare, però, al greco ἀργός  che significa splendente, luminoso e al suo omofono che significa pigro? Tutto ciò, secondo me,  è perfettamente in linea col Gregorio ironico ed autoironico tramandatoci dalle biografie, il suo spirito direi socratico, consapevole dei suoi mezzi ma anche dei loro, e suoi, limiti. E questo, sempre secondo me, spiega abbondantemente il fatto che di lui non ci sia rimasta nessuna opera organica, ma solo componimenti occasionali e due lezioni sull’origine e natura della poesia, tenute quando era socio dell’accademia napoletana di Medinaceli , contenute in un manoscritto custodito nella Biblioteca nazionale di Spagna  (n. d’inventario 9222, v. II, leggibile e scaricabile in http://bdh-rd.bne.es/viewer.vm?id=0000096094&page=1), pubblicate in  Lezioni dell’Accademia di Palazzo del duca di Medinaceli, Istituto per gli Studi Filosofici, Napoli, 2005.

Caraconasio è anche, come s’è detto, per chi l’ha letta …) in nota 1, la seconda parte dello pseudonimo di Gaetano Lombardi (traduttore di Cartesio in Trattato dell’anima e del conoscimento de bruti animali, a spese di Gualtiero Fabricio, Colonia, 1676).  Significativo potrebbe essere il fatto che in Vincenzo Lancetti, Pseudonimia ovvero tavole alfabetiche de’ nomi finti o supposti degli scrittori con la contrapposizione de’ veri, Luigi Di Giacomo Pirola, Milano, 1836 (https://books.google.it/books?id=UxVJAAAAcAAJ&pg=PA27&dq=caraconasio&hl=it&sa=X&ved=0CEgQ6AEwCGoVChMIpKC_k5DOyAIVB0oUCh3-iwtW#v=onepage&q=caraconasio&f=false) per il Lombardi compaia solo la prima parte (Emio) e lo stesso è in L’Arcadia del can. Gio. Mario Crescimbeni, Antonio De’ Rossi, Roma, 1708 (https://books.google.it/books?id=ez4dFjf-xsMC&pg=PA323&dq=gaETANO+LOMBARDI&hl=it&sa=X&ved=0CC4Q6AEwBDgUahUKEwjcz76lm87IAhUGuBoKHQwjCS0#v=onepage&q=messere&f=false), dove, peraltro, il nostro Gregorio non è citato; non è da escludere che il Lombardi abbia assunto Caraconasio proprio in omaggio al nostro. E Caraconasio ribadirebbe l’autoironia, di cui ho detto, del Messere, se in esso si nascondesse, deformata, la locuzione greca κάρα καὶ ὅνησις (leggi cara cai ònesis)=testa e utilità (endiadi per testa utile) contaminata con  κάρα καὶ ὄνος (leggi cara cai onos)=testa e asino (endiadi per testa asinina) e magari pure con  κάρα καὶ ὄναρ (leggi cara cai onar)=testa e sogno, endiadi per testa sognatrice). Probabilmente non sapremo mai la verità, per quanto riguarda la presunta autoironia insita in questa seconda parte dello pseudonimo, anche se a breve, come se non bastasse, c’imbatteremo in qualcosa che complica ulteriormente la questione, confermando, pur nel mutamento del dato oggettivo detta autoironia.

prischi latinismo per antichi.

Pane Pan, divinità della mitologia greca, dio delle montagne e della vita agreste.

lungi dietro a te veniva che procedeva a rilento sui tuoi passi; omaggio all’amico ma anche dichiarazione di modestia.

Sebeto fiume che bagnava l’antica Napoli. Da esso la sezione meridionale dei soci dell’Arcadia era detta colonia Sebezia. Su un altro illustre salentino socio della colonia Sebezia vedi Antonio Caraccio, l’arcade di Nardò, in Nardò e i suoi. Studi in memoria di Totò Bonuso, a cura di Marcello Gaballo, edizione fuori commercio pubblicata nelle edizioni della Fondazione Terra d’Otranto, Tipografia Biesse, Nardò, 2015, pp. 41-66.

merto merito.

Timo colto in Attica Una corona funebre fatta non col timo salentino ma con quello della Grecia, seconda patria, per così dire del Messere. Sul timo vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/23/il-timo-pianta-dalle-funzioni-sacrali-mediche-gastronomiche/.

Di seguito, ad integrazione delle immagini presenti nel post segnalato all’inizio, riproduco quella a corredo della citata biografia del Lombardi.

 

La complicazione di cui parlavo prima a proposito della probabile origine di Caraconasio  è procurata proprio dalla didascalia che accompagna l’immagine e dal fatto che la detta biografia in cui è inserita è da considerare un atto ufficiale in quanto reca in calce (p. 58 del testo citato) la dichiarazione di approvazione da parte dell’assemblea dell’Arcadia a firma di Arato Alalcomenio (pseudonimo arcade del leccese Domenico De Angelis).

C(OETUS) U(NIVERSI) C(ONSULTO)

ARGEO CHORACONASIO PASTORI ARCADI

DE PHILOLOGO EMIUS CHORAGONASIUS

PASTOR ARCAS PRAECEPTORI ET

DECESSORI B(ENE) M(ERITO) P(OSUIT)

OLYMPIAD(E) DCXXI AN(NO) III AB A(RCADIA) I(NSTAURATA)

OLYMPIAD(E)  V AN(NO) II

Per decisione dell’intera assemblea ad Argeo Coragonasio pastore arcade Emio Coragonasio, pastore, arcade, al maestro e predecessore benemerito pose. Olimpiade 621a del terzo anno dall’istituzione dell’Arcadia/Olimpiade sesta anno secondo.

Per quanto riguarda il riferimento alle olimpiadi rinvio a Antonio Caraccio, l’arcade di Nardò, op. cit., p. 58 n. 27. E veniamo allo pseudonimo che qui compare nella forma Choragonasius che si contrappone al Caraconasio presente nella biografia del Lombardi (1710) e nel testo del Lancetti (1836). Che Choragonasio sia la forma esatta invece di Caraconasius me lo fa pensare quanto si legge in Notizia del nuovo teatro degli Arcadi aperto in Roma l’anno MDCCXXVI, Antonio De’ Rossi, Roma, 1727 (https://archive.org/details/notiziadelnuovot00giov), dove, a p. 23, viene riportata tal quale la dedica della nostra immagine e apprendiamo che essa è una delle quaranta epigrafi fino a quella data apposte nella sede romana dell’Arcadia, la prima stabile, il cosiddetto Bosco Parrasio. Di seguito l’immagine tratta dal testo appena citato e quella dell’ingresso attuale tratta da http://boscoparrasio.blogspot.it/search/label/Bosco%20Parrasio.

A questo punto è da concludere che la forma latina corretta è Choragonàsius (cui corrisponderebbe in italiano Choragonàsio o, tutt’al più, Coragonàsio. E questo sarebbe composto dal greco χορός (leggi choròs=danza, danca corale, canto corale) + una forma aggettivale formata sulla radice del verbo ἀγωνίζομαι (leggi agonìzomai=gareggiare, per cui Coragonàsio significherebbe che gareggia nel canto. Anche qui, però, aleggia l’ombra di omofoni in funzione autoironica perché ad ἀγωνίζομαι si potrebbe contrapporre, in un gioco di parole aventi quasi lo stesso valore fonico ma esprimenti concetti opposti, ἀγονέω (leggi agonèo)=essere improduttivo.

Chiarito, almeno spero, perché Caraconasio è errato, non rimane che segnalare al lettore che se si cerca in rete coragonasio non si trova nemmeno una ricorrenza; al contrario, cercando caraconasio ne vengono fuori 60. Pur facendo la tara dei doppioni, ne resta comunque un bel numero, emblema di come l’errore inspiegabilmente prende il sopravvento. Ho detto emblema e questa parola ricorda l’Emblemata del titolo. Quanto a ragione lo dirò nella prossima puntata.

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1 Nella sua biografia scritta dall’arcade Emio Caraconasio (pseudonimo arcade di Gaetano Lombardi) inclusa ne Le vite degli Arcadi illustri , Roma, Antonio De Rossi, 1710, p. 56 si legge: … il suo cadavero fu seppellito nella picciola Chiesetta, e nell’avello stesso del famoso Giovanni Gioviano Pontano; siccome ardentemente  avea in vita desiderato. Fedel testimonianza rende di ciò un nostro onorato Cittadino, affermando, che essendo per alcun bisogno di fabbrica aperto l’avello del Pontano, ed avendo avuto entrambi vaghezza di scendervi; sedettesi Gregorio in una delle nicchie, che son d’intorno alle pareti per riporvi i corpi morti, e disse con una quasi involontaria allegrezza: – E chi sa, se questo è il luogo, che dee a me toccare? –.

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/25/gli-emblemata-di-gregorio-messere-1636-708-di-torre-s-susanna-23/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/26/gli-emblemata-di-gregorio-messere-1636-1708-di-torre-s-susanna-33/

Il ritratto “ritrovato” del monaco Antonio Sanfelice

di Armando Polito

Questo post è da considerare integrazione di un altro apparso di recente (https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/15/antonio-sanfelice-il-monaco-e-il-vescovo/), la cui lettura è indispensabile per comprendere quanto fra poco dirò. Sento il dovere di ringraziare anzitutto l’architetto Giovanni De Cupertinis perché da un controllo esercitato, in seguito alla sua segnalazione in un commento contenente altre preziose informazioni, è risultato presente nello stesso link da me indicato il ritratto di Antonio Sanfelice senior, che inspiegabilmente non avevo visto. Lo riproduco, chiedendo scusa per quel ritrovato che, nonostante le virgolette, potrebbe apparire sparato a mascherare una distrazione e non certo per annunziare un’eclatante scoperta,  e ne parlo perché il corredo testuale che l’accompagna  consente di fare alcune riflessioni e di attribuirgli una datazione, per quanto approssimata.

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Dopo lo scontato, ma prezioso perché la sua assenza avrebbe posto quanto meno problemi identificativi, F(RATER) ANTONIUS SANFELICIUS ORDINIS MINORUM nella cornice dell’ovale,  si legge nel cartiglio il distico elegiaco O utinam posset pingi, ut mortalis imago/sic genus et Pietas, cuius et ingenium (Volesse il cielo che potessero essere dipinte come immagine mortale così la nobiltà e la pietà nonché il suo ingegno). I due versi recano la firma di D(ominus) Gregorius Messerius.

Scaturisce, così, per caso, come tante volte avviene anche nel campo della conoscenza, l’opportunità di parlare di un salentino illustre. Evito di sintetizzare spacciando come mia elaborazione in qualche modo originale un lavoro altrui e di seguito riproduco l’esauriente biografia che di lui scrisse Andrea Mazzarella da Cerreto, inserita nel tomo IV delle Biografie degli uomini illustri del Regno di Napoli, a cura di Domenico Martuscelli, Gervasi, Napoli, 1817, s. p., preceduta dal ritratto, un’incisione, cosa ricorrente in questa raccolta, di Giuseppe Morghen.

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Gregorio Messere, nato a Torre S. Susanna (BR), dunque, visse dal 1656 al 1708 e fu maestro dell’architetto Ferdinando Sanfelice (1675-1748), che gli dedicò un’iscrizione in greco ed in latino. Passo ad esaminarla nel dettaglio dopo averla trascritta con l’aggiunta degli spiriti, degli accenti e degli iota sottoscritti che credo non mancassero nell’originale, nonché con la sostituzione dell’iniziale minuscola che si nota in ελλαδι (il contrario per altre parole in cui la maiuscola non è giustificata; tuttavia è da ritenere che l’iscrizione, com’era prassi, fosse incisa tutta in lettere maiuscole) e con la correzione di quattro errori imputabili, con le imperfezioni appena indicate, al proto: φανᾕ per φωνᾕ e ταῖς per τῆς nella seconda linea, ο per τῷ nella terza e ἀκροανης per ἀκροατὴς nella quarta.

 

Γρηγορείῳ Μεσσέρε Σαλεντίνῳ

Ἐν Ἐλλάδι φωνᾕ εἰς ἄκρον τῆς παδείας ἐληλάκοτι

Ταύτην τὴν Ἁκαδημίαν τῷ ποιήσαντι

Ὀ Φερδινάνδος Σανφελίκιος εὺγνώμων ἀκροατὴς

Τὰ Διδασκάλῳ δίδακτρον  

 

GREGORIO MESSERE SALENTINO

IN GRAECA LINGUA AD SUMMUM ERUDITIONIS PROGRESSUM

DE ACADEMIA HAC OPTIME MERITO

FERDINANDUS SANFELICIUS GRATUS AUDITOR

MAGISTRO DOCTRINAE PRAETIUM

Fornisco la traduzione letterale di entrambe le parti dell’iscrizione, anche se il significato comune è unico.

Per la greca: A Gregorio Messere salentino che con la lingua (che si parlava) in Grecia si spinse verso la vetta della cultura, a colui che creò quest’Accademia1 Ferdinando Sanfelice allievo riconoscente. Queste parole (siano) il compenso per il maestro.

Per la latina: A Gregorio Messere salentino, nella lingua greca progredito al massimo dell’erudizione, benemerito di questa accademia Ferdinando Sanfelice allievo grato al maestro come ricompensa del (suo) insegnamento.

Essendo Gregorio Messere morto nel 1708, si può agevolmente affermare che ritratto e dedica risalgono certamente a prima di tale data e, dunque,  bisognerà attendere almeno diciotto anni perché il ritratto appaia nell’edizione del 1726.  Può apparire poco e scontato, ma se il Messere non avesse firmato la sua dedica nemmeno questo sarebbe stato possibile.

Già nel post di partenza ho riportato la critica avanzata a questo ritratto dall’Onorati nella sua prefazione all’edizione del 1796, dove ne compare uno, secondo lui, più fedele: …  il ritratto posto dinnanzi alla stampa di Napoli del 1726 dee essere assolutamente capriccioso, perché di un carattere alquanto diverso …

Chiudo con la comparazione visiva  dei due ritratti, integrando così, la lacuna del post precedente e lasciando al lettore il giudizio sul giudizio dell’Onorati. Per quanto può valere il mio: credo proprio che l’Onorati abbia cercato, senza trovarlo ma sostenendo il contrario, il pelo nell’uovo, anche se lo sguardo assorto nella meditazione e nella preghiera all’immaginario collettivo poteva e può apparire  più congeniale ad un frate.

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1 L’accademia è l’Arcadia, fondata a Roma nel 1690. Il Messere qui ne è definito il creatore, nel senso che il suo nome compare tra quello dei primi soci.

Tra pustaIi e putali attenzione a non far godere il terzo (il pitale)!

di Armando Polito

Questo post non sarebbe nato senza Facebook, che quotidianamente, appena lo apri, ti spara una serie di proposte legate a tue abitudini di navigazione o alle amicizie che hai chiesto e ottenuto o concesso su richiesta, oppure alla iscrizione a qualche gruppo. E quotidianamente, se navighi, devi provvedere a svuotare la tua casella di posta elettronica, controllando solo le notifiche legate agli episodi di “consenso elettronico” che ricordi, correndo così il rischio, con questo controllo sommario, di perderti qualcosa di non banale. Tra le notifiche che mai cestino superficialmente ci sono, però, periodicamente quelle che riguardano il gruppo Fra le “SCRASCE”, in cui alcune discussioni hanno attratto la mia attenzione e mi hanno ispirato nella stesura di più di uno dei post che compaiono in questo blog e quello che state leggendo oggi è proprio uno di questi.

In data 15 ottobre u. s. la signora Maria Luisa Viva postava su Fra le “SCRASCE” la foto di testa col titolo LE PIANTE GRASSE E IL “PILUNE”  (cortile di Torrepadali). Sorvolo sui complimenti fatti all’autrice della foto anche per la composizione che essa mostra (complimenti ai quali, comunque, oggi mi associo anch’io, notando solo, ad essere pignoli, che, forse potevano essere momentaneamente rimossi il mattone a sinistra e la lastra di marmo a destra) e passo a riportare fedelmente (in questo caso: benedetto copia-incolla!) i  commenti più significativi ai fini di questo mio intervento, tutti, da notare, firmati con nomi e cognomi che sembrano autentici, cioè di umani, non di extraterrestri, come spesso capita d’incontrare in rete.

Vincenzo Pasquale Distratis: Acquaru…piloni è otra cosa…

Marisa Papadia: Acquari,pilune: che differenza c’è?

Vincenzo Pasquale Distratis a Manduria: Aquaru è di solito una cisterna interrata, in muratura quelli vecchi in cemento quelli più recenti. Lu piloni è un recipiente grosso o piccolo che serviva per diversi usi, da abbeveratoio, contentore per fare la conza col solfato di rame o per ppuggiaturu durante la vendemmia….più o meno..

Maria Luisa Viva Solo questo è il significato di ” pilune” ? Forse nel basso salento indica altro. …

Favale Marilena: Quando ero piccola, abitavo, in campagna, c’era la cisterna, era col coperchio, e c’era Lu pilune, era aperto, prendevano l’acqua per innaffiare,

Assunta Brai: Lu pilune era annesso alle case di campagna, accanto al pozzo.

Rosaria Panico: lu pilone e dove mettevano l’acque .per innaffiare .oppure mettere il verderame ..per le vigne..

Giuseppe Merico: è nu pustale….no pilune

Maria Luisa Viva: Cce gge u pustale, Giuseppe Merico? 

Giuseppe Merico: è il pozzo oppure la cisterna….

Giuseppe Merico: nn mi viene il termine Maria Luisa Viva

Maria Luisa Viva: Spiega con parole tue, Giuseppe Merico

Giuseppe Merico: è il postale della cisterna come in questo caso….certi erano tt un blocco di pietra leccese, altri cosrtuiti con i tufi normali

Armando Polito: Se può interessare: pustale è deformazione di puteale [dal latino puteàle(m), aggettivo da pùteus=pozzo)]

Giuseppe Merico: mai studiato il latino…..ma postale cmq mi sembra un termine italiano.

Armando Polito: L’italiano “postale” è aggettivo da “posta”, che, come lei saprà, ha tanti significati. L’unico che potrebbe avere rapporti con il nostro oggetto sarebbe quello di “collocazione”, troppo vago per la destinazione ben precisa del manufatto in questione.

Vincenzo Pasquale Distratis: Putali…no pustali..

Armando Polito: La correzione del signor Distratis (Non “pustali” ma “putali”), anche se porta acqua al mio mulino, implica da parte mia un intervento piuttosto articolato, che, perciò, non può essere qui condensato in poche righe. Do appuntamento agli interessati fra qualche giorno (al massimo tre) su https://www.fondazioneterradotranto.it/

Quando si discute di termini dialettali tanto il lettore comune quanto lo specialista non possono fare a meno, e non solo nel dubbio, a ricorrere al Vocabolario dei dialetti salentini del Rholfs, che, pur con le sue imprecisioni e qualche abbaglio, rimane a distanza, ormai, di quasi quarant’anni una sorta di vangelo nel suo campo. Lì chi cerca un vocabolo può trovare la definizione, le località d’uso della voce  e delle sue varianti, nonché l’etimologia.

Ecco i dati che ho estrapolato per le voci che ci interessano

acquaru (Carovigno) guazzatoio, grande cisterna. di acquaru il Rohlfs non propone nessuna etimologia perché appare fin troppo scontato che esso corrisponde all’italiano acquario, che è dal latino aquàriu(m)=cisterna, forma aggettivale da aqua=acqua.

pilune (Otranto), pilone (Carovigno [e, aggiungo io, Nardò], piloni (Manduria):tutti col significato di grande vasca di pietra negli orti, pila che serve da mangiatoia. Per Avetrana e Maruggio pilone è registrato col significato di alveare di tufo. Aggiungo che anche per questa voce  per questa vocfe manca l’etimo, ma anche qui è chiaro che pilune e compagni sono tutti accrescitivi di pila nel suo significato originario latino di mortaio, tinozza del lavandaio; il latino pila, poi è dal verbo pìnsere o pìsere=battere, pestare. A tal proposito ricordo alle generazioni più giovani che la pila e il contiguo puzzu, costituivano nei tempi passati la lavatrice di quei tempi, una sorta di lavaggio a freddo, spesso preliminare a quello a caldo, cioè al còfanu, solo che il motore e l’energia elettrica era costituito dalle braccia di chi attingeva l’acqua dal pozzo e lavava …

pustale (Casarano, Parabita, Ruffano) muretto del pozzo, bocca della cisterna; vedi pistale. Per quanto riguarda l’etimo non viene avanzata nessuna proposta.

pistale (Salve), pustale (Gagliano), pastale (Specchia) bocca della cisterna; pastale (Tricase) mortaio per pestare il grano; vedi pustale. Anche per questa voce nessuna proposta etimologica. Tuttavia, il rinvio da pustale a pistale e viceversa  autorizza a pensare che il Rohlfs avesse quanto meno il sospetto che le due voci avessero la stessa origine.

Mi meraviglio come un filologo della sua fama non abbia pensato che il pastale di Tricase fosse sì da associare a pustale, ma non ai due prima riportati, bensì ad un latino *pistale(m), forma aggettivale da pistum, supino del citato pìnsere=pestare, battere. E, per concludere, mi meraviglio pure che per il pistale di Salve, il pustale di Gagliano e il pastale di Specchia non gli sia venuto in mente il puteale da me ricordato. Se ciò fosse avvenuto, il Maestro, sulla scorta dei punti di contatto tra il parapetto di una cisterna o, meglio, di un pozzo che può essere considerato un grande contenitore per lo più cilindrico e quello di una vasca (per gli usi del nostro caso generalmente un parallelepipedo), avrebbe messo in campo quantomeno un probabile incrocio. Forse non lo ha fatto (e la mia meraviglia a questo punto si ridimensiona) solo perché ha tenuto presenti queste parole che si leggono nella sua opera a p. 9 dell’introduzione: In altri casi, in cui la storia della parola non è ancor ben chiarita, abbiamo preferito non sforzar l’etimologia, lasciando agli studiosi che verranno dopo di noi, il compito di approfondire la questione. Non ho la presunzione di annoverarmi tra quegli studiosi, ma mi auguro attraverso queste righe di incontrare qualcuno che lo sia, che abbia approfondito il nostro caso e che abbia la bontà di comunicarci i risultati delle sue indagini.

E veniamo al putali del signor Distratis con il quale il lettore dovrà prendersela se infastidito da quanto finora ho letto (però, se la lettura gli dava fastidio, poteva interromperla) …

Nel vocabolario del Rohlfs putali non è registrato, al contrario di putari (Avetrana e Manduria) e di pitàru (Mesagne) col significato di alto vaso di creta per tenervi olio o ulive. Segue l’etimologia [dal greco πιθάριον (leggi pithàrion)=piccola botte, orcio, diminutivo di πίθος (leggi pithos)=botte, di creta o di legno] e il rinvio alla figura che di seguito riproduco e alle varianti pitaru (Mesagne), pidaru (Carovigno), pisari (Casarano, Cutrofiano, Galatina, Gallipoli, Maglie, Muro Leccese, Nardò [sono di Nardò e non l’ho mai sentito], Avetrana), pitale (Grottaglie).

capasa3

 

Il putari o pitaru, insomma è il recipiente che a Nardò e in altre zone si chiama capasa. E, per chiudere in bellezza (?) dico che la variante di Grottaglie  (pitale) ha il suo esatto corrispondente nell’italiano pitale che, però, assume il significato di orinale e, addirittura, in Moravia uno molto vicino al nostro càntaru (La ciociara: … aprii i due i due comodini: contenevano due pitali alti alti, stretti stretti, senza impugnatura, simili a due tubi, di porcellana bianca a fiori rosa). E pensare che quest’ultimo deriva dal greco κάνθαρος (leggi càntharos)=coppa per bere …

Tre parole neretine per definire i detentori del potere attuali, forse di ogni tempo …: ‘m …, ‘m …, ‘m…

di Armando Polito

Il lettore avrà subito pensato alla parola resa immortale da Cambronne e chi mi conosce si sarà pure meravigliato credendo che io abbia usato, in funzione di autocensura, i puntini di sospensione, la cui versione moderna nelle registrazioni vocali corrisponde al bip, simpatico solo nel suono. La deformazione professionale mi costringe innanzitutto a far notare al lettore che siamo in presenza di tre parole ben distinte (dunque è da escludere la replica cambronniana) e che le tre m sono precedute dal segno dell’aferesi (il che significa che all’inizio è caduto qualcosa, lo vedremo dopo) e che il neretino mberda è da scrivere senza tale segno iniziale, in quanto il gruppo mb– nasce solo per dissimilazione da mmerda, in cui il raddoppiamento della consonante iniziale è di natura espressiva, in linea con tante altre parole in cui si verifica tale fenomeno (provate a riflettere anche sulla locuzione italiana, solo per fare un esempio, è caduto e poi ditemi se non è percepibile anche in essa un raddoppiamento, per quanto leggero, di c). E poi, dalla merda, opportunamente curata,  in fondo, si ricava il concime, ma penso che quella delle persone in questione non sia in grado di assolvere nemmeno a questa funzione.

Non perdo tempo e dico che le tre parole misteriose sono ‘mpiddhuscinatu, ‘mpuragnutu e ‘mpruscinutu.

Esse non evocano certo immagini all’altezza del nostro paesaggio (in assenza beninteso, come troppo spesso succede, della presenza di rifiuti di ogni genere) ma metaforicamente potrebbero valere per stigmatizzare, più di merda, la caratura morale (e, nonostante tutto, rimangono quasi un complimento …) di certi comportamenti nostri e, quel che è peggio, di coloro che sono stati eletti (non da me, non voto da più di trent’anni; questa rinuncia, sofferta, ad un diritto fondamentale l’ho voluta e dovuta fare per non rinunciare ad un diritto ancora più grande, quello alla libertà, all’indipendenza ed al rispetto di me stesso prima ancora che a quello degli altri) nostri rappresentanti. Ma, forse, loro non hanno colpa perché si adeguano ai desiderata della maggioranza degli elettori, anche se questa, secondo il mio punto di vista fortunatamente, si avvia ad essere surclassata dagli astenuti, a meno che una forza nuova, giunta al potere, non riesca a dimostrare che anche nella stanza dei bottoni è diversa, anzitutto moralmente, da quelle che l’hanno preceduta.

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‘Mpiddhuscinutu è participio passato di ‘mpiddhuscinire, cioè mostrare la piddhùscina, la muffa. Nel Rohlfs si legge che puddhìscina (di cui il neretino piddhùscina è variante non registrata nel suo vocabolario) è “deformazione del latino fuligine”. Dico solo che sarebbe stato meglio che quel fuligine fosse stato corretto in fuligine(m) e che, in ogni caso, fosse stato detto (perché non si spiegherebbe il passaggio -l->-ddh-) che la voce dialettale è dalla variante volgare  *fulligine(m), che s’incontra in testi a stampa a partire dal XVI secolo. La convivenza, d’altra parte di fuligo e di *fulligo è corroborata dalla geminazione di l presente in altre voci dell’epoca classica: sollers accanto a solers, sollemnis accanto a solemnis,  etc. etc; e in italiano fulligine è attestata già nel XIV secolo (nella Mascalcia di Lorenzo Rusio) e continuerà nei successivi.

Ecco la trafila: fullìgine(m)>*pillùgine>piddùscina.

Oggi il termine ‘mpiddhuscinutu (quell’’m iniziale è ciò che rimane della preposizione in con valore locativo-rafforzativo) potrebbe essere esteso, al di là della metafora politica prospettata all’inizio, ai nostri agrumi attualmente colpiti da un’insolita epidemia, ancora più icasticamente di quanto non indichi il termine comunemente usato:  fumaggine. Tornando a *fulligo, a me pare che la voce possa essere fatta rientrare tra quelle composte del tipo di origo=origine (da òrior=nascere), lentigo=lentiggine (da lens=lenticchia), vertigo=movimento vorticoso (da vèrtere=volgere), etc. etc., in cui il secondo componente è la radice del verbo àgere=condurre. Quale sarebbe, allora, il primo componente di *fulligo? Io credo che potrebbe essere il verbo pollùere=imbrattare, da cui in italiano polluzione, originariamente a definire l’eiaculazione spontanea ed involontaria che ha luogo durante il sonno preceduta di solito da sogni erotici, poi, di ritorno (sono più che sicuro che gli inglesi sono al corrente dell’origine latina del loro termine, noi no …)   dall’inglese pollution, come sinonimo di  inquinamento ambientale.

Come sono lontani i tempi in cui nulla si buttava e le mamme invogliavano  i figli a mangiare il pane ‘mpiddhuscinutu e pure quello ‘mpruscinutu,  perché avrebbe fatto spuntare i denti d’oro! Mi chiedo se dietro la credenza popolare si nasconda solo un inganno educativo o se anche la muffa del pane, come tante, non abbia in sé particolari proprietà. Non mi illudo, però, che qualcuno, in un’era di travolgente e stravolgente consumismo come la nostra, sponsorizzi qualche ricerca in tal senso, mentre risorse preziose sono criminalmente sperperate in altre inutili, perché il loro esito, scontato, era stato già scritto dalla cultura contadina di ogni epoca.

‘Mpuragnutu è participio passato di ‘mpuragnire usato col significato di suppurare. Chi potrebbe mai sospettare che le due voci hanno in comune il componente principale? Comincio da quella italiana. Suppurare è, tal quale, dal latino suppurare, composto da sub=sotto+pus/puris=pus. Voci correlate in greco sono πύος (della terza declinazione, leggi piùos) e πύον (della seconda, leggi piùon) col significato di pus e il verbo πύθω (leggi piùtho)=fare imputridire, dal quale il latino putère=essere  marcio, puzzare, puter o putris=marcio, pùtidus=puzzolente, pùteus=pozzo, sfiatatoio e, dal precedente puter/putris, putrère=essere marcio e pùtridus=putrefatto, guasto, corrotto (e con quest’ultimo significato, solo con questo?, ogni riferimento alla politica per come oggi è intesa viene più spontaneo che con la voce precedente).

‘Mpuragnùtu è da ‘mpuragnire, composto dalla preposizione in (anche qui con valore locativo/rafforzativo) e da puragna, usato, come sinonimo di pus, nel Leccese, ma non a Nardò, e nel Brindisino, in cui in alcune zone è usata la variante pragna. Puragna deriva da un latino *purànea (materia purulenta) come stamegna (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/02/dalla-maglietta-di-lana-grezza-al-formaggio-dalle-batterie-alle-cellule-staminali-da/) dal latino medioevale stamìnea, forma aggettivale dal classico stamen. Nel nostro caso *purànea è forma aggettivale da pus/puris.

‘Mpruscinutu per il Rohlfs (il filologo tedesco si starà rivoltando nella tomba dopo la recente colossale furbizia, anzi truffa, automobilistica ordita nel suo paese, simbolo, fino ad ora, di ordine e rigore …) è forma accorciata di ‘mpiddhuscinatu; se dal punto di vista semantico tutto va bene perché i due vocaboli in fondo possono essere considerati sinonimi (anche se il primo indica l’ammuffimento iniziale, il secondo quello avanzato), sul piano fonetico il proposto accorciamento sembra essere una soluzione di comodo e poco convincente perché comporterebbe un terremoto ben più cospicuo di quello prodotto da una semplice sincope. Io credo, invece, che ‘mpruscinutu sia participio passato di ‘mpruscinire e che questo derivi da in (sempre con lo stesso valore locativo-rafforzativo che assumeva nelle voci precedenti) e una forma verbale (*puriginare) derivata da purigo/purìginis voce del latino scientifico (il che non esclude una sua derivazione “volgare”) usata ora come sinonimo di scabbia (Teodoro Corbeo, Pathologia, Edter, Norimberga, 1647, ora di infiammazione, ascesso (p. e. Gabriele Frascati, De aquis Returbii Ticinensibus commentarii, Bartolo, Ticino, 1575, p. 72). Il vocabolo mi evoca l’immagine di certi politici che volentieri farebbero passare una legge che prevedesse la possibilità per loro di continuare ad occupare la poltrona anche dopo la morte, previa adeguata mummificazione. Nemmeno i faraoni erano arrivati a tanto …).

Vi do appuntamento, se non a tempi migliori, almeno a vocaboli e a riflessioni meno stomachevoli …

Congedo dalla bella estate salentina, sui passi di Luca

di Rocco Boccadamo

 

Pur avendo dovuto attendere a lungo, praticamente fino a metà settembre, la caduta di un po’ di pioggia salutare, arrivando, a un certo punto, addirittura a sospirarla e agognarla da mattina a sera, qui, nel Basso Salento, l’andamento eccezionalmente favorevole sotto il profilo climatico, costante per l’intera bella stagione, è stato, nel complesso, deciso motivo di gioia, godimento, appagamento e soddisfazione.

Per di più, circostanza che, a esser precisi, si ripete sovente se non proprio tutti gli anni, accompagnato da un gradito e piacevole prolungamento. Ancona tre giorni fa, si registravano, infatti, massime vicine ai trenta gradi, onde quiete, in alto neppure l’ombra di una nube, in molti, non solo turisti del Nord Italia e/o stranieri ma anche residenti, facevano o prendevano i bagni. Insomma, si sono appena assaporati i primi segni, profumi e colori dell’autunno, a cominciare dall’aria divenuta frizzantina e, però, nella parte mediana della giornata, rimasta tiepida e gradevole.

Ad ogni modo, cielo e mare ancora adesso incantevoli.

Oggi pomeriggio, limitando la durata del riposino, ho voluto, come dire, accostarmi a tanto splendore naturale e immergermi nell’accattivante situazione attraverso una tranquilla e lunga passeggiata, che, davvero, mi ha rigenerato.

Sia per il rosario d’impatti e di visioni del momento, sia grazie alla suggestione, affacciatasi durante tutto il percorso, di una serie di ricordi, soprattutto antichi ovvero risalenti alla mia infanzia o adolescenza o esordiente giovinezza e, tuttavia, nitidi e pronti a delinearsi e stagliarsi nella mente e davanti agli occhi del ragazzo di ieri, come se afferissero a episodi, voci e volti del presente

Prima sequenza attrattiva dell’uscita, a poche centinaia di metri dalla mia villetta del mare, l’incontro, segnato da un vero e proprio saluto ideale, con i due carrubi giganti del fondo denominato “Mastefine, da me frequentato già ai tempi delle Elementari insieme con il mio compagno di classe Vittorio, i cui genitori, all’epoca, conducevano detto appezzamento di terreno in regime di mezzadria.

Poi, anche da più grandicello, quando erano i miei zii Nina e Guglielmo a coltivarvi una partita di tabacco e io ogni tanto andavo a trovarli; dopodiché, seduto a terra insieme con loro in un grande capannone rustico a tutt’oggi esistente, li aiutavo a infilare in un lungo ago, in dialetto cuceddra, le grandi foglie verdi raccolte nelle prime ore del mattino e ammucchiate sul pavimento.

infilzamento-foglie-tabacco

Poco più avanti,

Si ponga attenzione al termine, anzi citato, di mezzadria, il cui significato, secondo il dizionario, è il seguente: “Contratto agrario, in base al quale un proprietario o affittuario terriero (concedente) assegna al socio – colono un podere idoneo alla produzione agricola, già dotato di abitazione per la residenza stabile del coltivatore (ricevente) e della sua famiglia virgola, di entità proporzionata alla misura del suolo da coltivare; il colono s’impegna a lavorarlo e partecipa con i familiari alle spese di gestione e agli utili nella misura del 50%.”

Il principio della divisione paritaria di oneri e utili ha subito cambiamenti, nel tempo, col variare della forza contrattuale delle parti contraenti.

Nel corso di queste note, la parola mezzadria sarà ripresa ancora, accanto ad altre esemplificazioni di vita contadina e lavori nei campi, alla luce delle quali emergeranno sostanziali differenze, da caso a caso, in seno al rapporto, non solo interpersonale ma anche, e specialmente, in termini economici, tra “padroni” e mezzadri.

Cioè a dire, la bilancia sul tema non oscilla affatto con movimenti sempre uguali, in talune situazioni vengono fuori sparuti rivoli d’umanità, in altre, invece, atteggiamenti e comportamenti di severità e rigore se non d’intransigenza meramente egoistica, beninteso con oneri vie più pesanti a carico della parte debole.

°   °   °

acquaviva-marittima-salento-spiaggia-caletta

Poco più avanti di ”Mastefine”, ecco il canalone dell’Acquaviva, così detto giacché va a terminare e sboccare giustappunto nell’omonima affascinante rada.

Alcuni decenni fa, il camminamento è stato in parte intaccato per effetto dell’edificazione, sulla sponda a nord-ovest, di un villaggio turistico residenziale, ma, ciononostante, continua a raccogliere buona parte dell’acqua piovana che cade sul territorio di Marittima, dando luogo, quando le precipitazioni sono intense e si protraggono, a rumorosi gorghi.

La vegetazione è sopravvissuta in maniera e misura accettabili: a dominare, mirti, querce e numerosissimi arbusti di ailanto.

Quando la direttrice viaria Marittima – litoranea consisteva in un tratturo sconnesso e ricoperto da brecciolino, il canalone era una vera e propria pietra miliare, anche come punto di riferimento rispetto alle confinanti e/o attigue piccole proprietà contadine, talora arricchite da costruzioni in pietra, che, durante le stagioni dei raccolti, fungevano da abitazioni per molte famiglie paesane, le quali non si potevano permettere il lusso di perdere tempo in spostamenti quotidiani di andata e ritorno fra la casa del paese e la campagna.

Detti, frazionati poderi recano, tutti indistintamente, la medesima denominazione di “Oscule”, in riferimento al non distante bosco dell’Acquaviva; fra i compaesani proprietari, vengono alla mente Luca (sul suo terreno insisteva una graziosa pajara in pietra viva, con, accanto, un bel mandorlo, Cosimo ‘ u surge e Cirinu ‘u tatameu.

Il canalone segnava, e tuttora segna, pure l’inizio di un particolare comprensorio terriero –  rocce frammiste a risicati quadrati di terra – con la caratteristica del graduale, progressivo rialzamento dell’area, alla stregua di sua trasformazione in collinette, procedendo in direzione Nord Est, estensione identificata, forse da secoli, con l’appellativo “Acquareddre” (piccole acque).

Ovunque, di qua e di là, come, del resto, nella generalità delle campagne salentine e, mette conto di rimarcare, specialmente del Capo di Leuca, templi di fatica e sudore e, tuttavia, arene di lotta per il sostentamento dei nuclei famigliari, altrimenti non assicurabile, in particolare nei periodi non coperti dalle migrazioni temporanee nel Brindisino, nel Tarantino o in Basilicata, per lavori negli stabilimenti vinicoli, nei frantoi e relativi alla coltivazione del tabacco.

L’imbocco del canalone, sino ad alcuni decenni passati, aveva un nome dialettale ben preciso, “musatura” (imboccatura),  come per sottolineare che, in quel punto,  si passava dal tratto viario ad uso di traini e carri, a un attraversamento possibile esclusivamente a piedi e badando a non incorrere in scivolate e cadute fra una grossa pietra e l’altra, oppure nella fitta rete di arbusti affiancati e intrigati; come, purtroppo, in occasione di una camminata in direzione dell’Acquaviva, capitò a me, quando avevo intorno ai dieci  anni, col risultato di una non grave ma vistosa ferita sulla fronte e, ciononostante, lo strenuo rifiuto a tutto campo del piccolo ma discoletto malcapitato di farsi accompagnare dal medico condotto del paese, per la paura, o meglio il terrore, di qualche punto di sutura che   il sanitario avrebbe verosimilmente deciso di applicare.

Rammenta e mi riferisce il mio caro amico contadino Toto, ottantasettenne ma attivissimo che, spesso, nei pomeriggi o nelle giornate in cui non c’era scuola, era mandato nel fondo delle “Pezze” per badare a una mandria di vacche. Sostando in quella postazione, gli succedeva di notare innumerevoli scene di fatica che si svolgevano nelle proprietà agricole per opera di compaesani, sforzi fisici immani ma che, allora, erano la regola, fra cui, dice Toto, il trasferimento a spalla dei covoni di cereali, cinque alla volta se si trattava di adulti, tre se si trattava di ragazzini, falciati nelle campagne soprastanti o che si succedevano dietro alle “Acquareddre”, carico da portare fino alla strada percorribile dal traino, che si fermava proprio alla “musatura” del canalone.

Fra dette sequenze, ve n’è una riguardante un ragazzo di quattordici/quindici anni, il quale  poi, divenuto maggiorenne e arruolatosi  nella Polizia  di Stato, è andato a vivere a più di mille chilometri di distanza da Marittima.

Ritorna ogni anno, una o più volte, l’ormai anziano pensionato già con gli alamari e, nelle rimpatriate con i compaesani, non gli sfugge mai il ricordo delle sue dure e pericolose scarpinate (anche se non è proprio giusto chiamarle così, in quanto, di fatto, si andava sempre scalzi) per salire e scendere dalle “Acquareddre”’, con il padre che lo caricava dei suoi tre covoni di cereali.  A causa dei frequenti inciampi contro qualche sasso o roccia, precisa il buon uomo, sebbene siano passati più di sessant’anni dai fatti, porta con sé ancora le tracce di qualche unghia dei piedi saltata o “scoppulata”, come i dice da noi, e mai perfettamente ricresciuta e riformatasi.

Luca, mio gemello di cognome in quanto primo cugino del mio nonno paterno Cosimo (al pari di Donato ‘u culiniuru, Costantino e Toto ‘u pulinu e di un certo Caianu), era un uomo dotato di grande giovialità, il classico amicone, anche se gravato, come, del resto, tutti, dal peso del lavoro sulla terra rossa e, in più, condizionato pure da un grave difetto o imperfezione nel camminare, non so se dipendente da un motivo congenito o dai postumi di qualche infortunio o caduta non curati adeguatamente.

In altri termini, Luca, nel compiere i passi, non sollevava ritmicamente i piedi, ma li trascinava sul terreno: ciò, innanzitutto, gli costava più fatica rispetto alle altre persone, inoltre quel contatto permanente col terreno lo esponeva al rischio d’inciampi e di farsi, conseguentemente, male.

Ma, Luca, non faceva notare il suo handicap, praticamente se ne scordava oppure ci rideva sopra.

Grande affetto e rispetto, analogamente a quanto avveniva nei tempi andati fra tutti i cugini, legava Luca a nonno Cosimo e pure i rispettivi figli erano un tutt’uno tra loro, si trattavano, come si diceva all’epoca, si rivolgevano gli uni agli altri non appellandosi per  nome di battesimo, bensì con l’attributo “parente” o “cucinu” (cugino).

A conferma della vicinanza fra i suddetti, mi viene in mente che mio zio R., militare in Marina di stanza a La Maddalena,  fu informato con una lettera dalla nonna Consiglia che il secondo cugino P., innamorato di una giovane compaesana molto avvenente ma un po’ chiacchierata, nei limiti e sul metro dei costumi di quegli anni, aveva fatto la classica fuitina. A tale notizia, zio R. rispose con un suo commento, anch’esso comprensibile solo se lo si rapporta alla mentalità dominante in tali lontane stagioni: “Male ha fatto, P., a compiere questo passo, chissà come potranno andare a finire le cose”. Per la verità, l’unione tra quella coppia prosegui assai bene, anche se, purtroppo, alla signora, della quale mi sfila davanti agli occhi il bellissimo volto, toccò il destino di congedarsi dal coniuge prematuramente.

Gran parte dei terreni dell’agro marittimese erano di proprietà di tre/quattro famiglie benestanti, fra loro imparentate, portanti il nomignolo di ”Scianni” di origine e etimologia incerta.  Guarda caso, anche un particolare genere di pesci delle nostre parti, di dimensioni piccole ma saporito per la zuppa, di color rosa, marrone e rosso, è noto con il nome di “scianni”, esattamente come i citati possidenti; si distingue, tale specie ittica, per la rapidità e l’ingordigia con cui insegue gli ami e la derivante relativa facilità a catturarla.

Forse, un pesce un po’ fesso o bonaccione, si potrebbe dire.

I ricchi compaesani “Scianni”, in genere, non erano avari, né avidi, né approfittatori, quando concedevano le loro proprietà a mezzadria chiedevano ciò che gli spettava, senza però essere opprimenti o ossessivi nei confronti dei poveri coloni.

Mi relaziona sempre l’amico Toto, il quale ne sa ben più di me, sia per l’età anagrafica, sia per essersi trovato nella situazione di mezzadro, che era sufficiente ricordarsi dei padroni “Scianni”, farsi vedere, portar loro ogni tanto qualche primizia e, successivamente, tutto il resto rimaneva nella libera discrezione, buonsenso e onestà del mezzadro.

Non tutti i padroni, purtroppo, erano così, basti un esempio. La famiglia di nonno Cosimo, quando i figli, fra cui zio R., erano in piena salute e forza,  conduceva a mezzadria una zona nel feudo di “Capriglia” e vi coltivava tabacco, nella misura autorizzata dal Monopolio.

Ai margini dei relativi filari, i miei parenti avevano messo a dimora, come si soleva fare da parte di tutti i mezzadri e come ci ricorda molto bene lo scrittore ortellese Giorgio Cretì nei suoi racconti e romanzi, alcune piante di pomodoro, per coglierne qualche  frutto con cui condire una “frisella”, nell’evenienza di una sera in cui, per porre al riparo il tabacco in via di essiccazione, qualcuno della famiglia si fosse dovuto fermare a Capriglia.

tabacco2

Nella circostanza in questione, il “concedente” fece bruscamente notare ai miei parenti che il contratto con loro prevedeva esclusivamente la coltivazione del tabacco e nient’altro, dicendo, senza mezzi termini, che quelle piante di pomodoro non andavano bene, non rientravano negli accordi.

Ovviamente, mio nonno e gli zii spiegarono le loro buone ragioni, ma non vi fu verso; di lì a qualche giorno, il padrone ritorno a “Capriglia” e sradicò tutte le piante di pomodoro.

L’anno successivo, lasciata “Capriglia”, il nonno e gli zii avevano seminato grano  in un fondo di un altro proprietario.

Arrivato il tempo della mietitura e del raccolto, il “padrone” di “Capriglia” di cui prima, si offrì, come faceva con tutti i compaesani al fine di accaparrarsi la paglia che utilizzava come mangime per gli animali, di trasportare col suo traino la messe dal luogo di produzione ad un suo terreno su cui insisteva un’aia agricola.

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La trebbiatura, allora, aveva luogo con il supporto di un cavallo, che trascinava a lungo, all’interno dell’aia, grossi pesi fatti di pietre con cui si sbriciolavano le spighe, e di operai addetti alla “jentulatura”, i quali, sollevando in alto la messe sbriciolata servendosi di forconi di legno e grazie al vento, separavano il grano della paglia e dalla pula.

Alla notizia della fissazione dell’appuntamento sull’aia per il giorno dopo, zio R. si tenne libero, rinunciando ad andare a giornata e perdendo, quindi, il relativo salario. Giunti con i covoni sul sito della trebbiatura, nonno Cosimo e i figli s’accorsero però che avrebbero dovuto fare i conti con un ritardo, essendo appena iniziata la lavorazione di un’altra partita di frumento.

A quel punto, zio R. si lamentò con il padrone dell’aia, il quale, invero, non gli diede molto peso e, anzi, visto che doveva attendere il turno della sua messe, lo invitò ad aiutare gli altri. Ma zio R. , memore del comportamento tenuto dall’ uomo a Capriglia” e della fine da lui  fatta fare alle piante di pomodoro, gli rinfaccio il tutto, facendogli  fare una brutta figura, scornandolo davanti al gruppo di operai presenti.

Ritornando alla mia passeggiata, oltrepassate le “Acquareddre”, costeggio il fondo “Boschetto”, già detto “di Chiaro” (ora è del Comune), che, di primo acchito, mi riconduce a una gita scolastica, coprente l’orario delle lezioni in quarta elementare, col maestro Alfredo, il quale, nell’occasione, aveva invitato alla scampagnata la fidanzata Uccia, accompagnata a sua volta dalla sorella Sara.

La scolaresca, in grembiule nero e colletto bianco, era molto attenta alle spiegazioni dell’insegnante su flora e fauna tipiche del nostro territorio; tra un’illustrazione e l’altra, sì arrivò a incrociare e toccare con mano alcune piante di asparagi; in un baleno, ne fu raccolto un bel mazzetto per il bravo maestro.

La discesa mi sta facendo oramai approssimare alla litoranea Castro – Tricase, esattamente all’altezza della rada “Acquaviva”, quando sfioro un altro tassello di ricordi, nelle sembianze di un carrubo sotto il quale, nei pomeriggi delle festività marittimesi di San Vitale e della Madonna di Costantinopoli, mi portavo a piedi o in bicicletta, per alcune ore, facendo i compiti scritti e orali per l’indomani.

Nota similare sullo spartito dei ricordi, l’infilata di alberi di querce subito dopo il ponte sul canalone dell’Acquaviva, lì prossimo allo sbocco in mare, che, nel giugno di cinquantacinque anni addietro, scelsi come luogo di studio per la preparazione agli esami di Stato.

Facevo avanti e indietro sino al tramonto, i contadini che si trovavano a passare mi guardavano, per un attimo, meravigliati, ma immediatamente dopo mi gratificavano con un cordiale “Ciao,Rocco”.

Per concludere, l’Acquaviva, oggi, se ne sta magnificamente sola con se stessa, nel suo stupendo fascino naturale; con l’eccezione, solamente, di una figura d’uomo seduta sul limitare di una delle grotte, ora con gradevoli e civettuoli infissi color azzurro, poste alla sommità dell’insenatura. Locali in atto utilizzati come depositi, in precedenza ricoveri per il riposo notturno di sparuti pescatori, particolarmente di Consiglio B.  proprietario del mitico e inconfondibile gozzo in legno “San Vitale”, rimasto di stanza, per decenni,  nella rada.

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Ultimissima notazione, fra l’Acquaviva e Castro, che si scorge a Nord Est, sotto la carezza di un soleggiato meriggio, si forma un quadro di naturale beltà che, a mio avviso, non ha eguali; nulla, proprio nulla da invidiare alle località turistiche italiane maggiormente celebrate, ossia Portofino, Positano, Sorrento e Taormina.

 

Antonio Sanfelice: il monaco e il vescovo

di Armando Polito

I Sanfelice furono una delle famiglie nobili di Napoli più note e anche più titolate, contando numerosi feudi tra ducati, contee, principati e chi più ne ha più ne metta. La famiglia era ascritta al Seggio di Montagna di Napoli e godeva di privilegi anche nelle altre città del Regno di Napoli e in Francia.

Questo post riguarda due rappresentanti omonimi (vissuti in tempi diversi, uno soltanto in rapporto diretto con Nardò), la cui notorietà sembra aver resistito meglio per il vescovo che per il monaco e credo che ciò sia dipeso proprio dal maggiore o minore spessore pubblico, o, se preferite, di potere, legato ai rispettivi ruoli.

Seguirò l’ordine cronologico, anche perché, fortunatamente, mi consente di dare inizialmente rilievo proprio alla figura meno nota, un monaco appunto, e perciò considerabile, a torto come dimostrerò, meno importante rispetto alla più nota e citata, un vescovo, che, oltretutto, deve proprio alla sua posizione meno defilata, come ho detto, gli indubbi meriti che nessuno gli disconosce, appannati, tuttavia, da un eccesso di fiducia nei suoi collaboratori. Il mancato controllo, infatti, sovente sfocia nella complicità e non è possibile che con la sua cultura non si fosse accorto dell’attività truffaldina dell’abruzzese Pietro Pollidori e del discepolo di questi, il neretino Giovanni Bernardino Tafuri, in corsa a sprecare il proprio talento per confezionare testimonianze antiche che avallassero il prestigio della città di Nardò e della chiesa neretina.

Antonio Sanfelice fu un monaco francescano, erudito e letterato (dettagli tutt’altro che scontati sol perché era monaco …) la cui opera più importante è Campania, un trattato storico-geografico in latino uscito per la prima volta per i tipi di Sultzbach a Napoli nel 1541; mi sarebbe piaciuto riprodurre il frontespizio da http://pbc.gda.pl/dlibra/docmetadata?id=4589&from=&dirids=1&ver_id=&lp=1&QI=, dove il libro è integralmente leggibile, ma un maledetto plug-in che funziona solo con pc a 32 bit (il mio a 64, evidentemente, è troppo avanzato, ad onta della tanto decantata compatibilità verso il basso …) me lo ha impedito. Se qualche volenteroso volesse provarci e ci riuscisse, ce lo faccia sapere.

Se l’importanza di un libro è direttamente proporzionale al numero delle sue edizioni, bisogna ammettere che Campania godette di una grandissima considerazione vivente l’autore e per due secoli e mezzo dopo la sua morte.  Mi accingo a provarlo, non prima, però, di aver aggiunto che nello stesso anno 1541 uscì Clio divina, una raccolta di poesie religiose in latino (altre edizioni per i tipi di Amati, Napoli 1567 e in appendice alle edizioni della Campania del 1596 e degli anni successivi. Di seguito lo scarno, è il caso di dire  francescano, frontespizio tratto da https://archive.org/details/bub_gb_KIINOSR-PN0Cdove l’opera è integralmente leggibile.

 

Ritornando alla  Campania, successivamente al 1541 essa fu pubblicata da Cancer, sempre a Napoli, nel 1562; nell’immagine che segue il frontespizio, altrettanto povero quanto il precedente (immagine tratta da https://books.google.it/books?id=oXODlAyswQMC&pg=PT6&dq=antonii+sanfelicii&hl=it&sa=X&ved=0CEoQ6AEwB2oVChMI6ru1td6yyAIVxdcaCh1h8QOQ#v=onepage&q=antonii%20sanfelicii&f=false).

2

Nel 1596 un’edizione uscì per i tipi di Carlino e Pace. Il credito di cui l’opera godeva è dimostrato dal fatto che essa fu inserita da Andreas Schott, con in coda la poesia De Campano amphitheatro, nella raccolta da lui curata Italiae illustratae seu rerum urbiumque italicarum scriptores varii, In Bibliopolio Cambierano, Francoforte, 1600, dove occupa le colonne 745-784 (https://books.google.se/books?hl=it&id=E9RUAAAAcAAJ&q=sanfelice#v=onepage&q=sanfelice&f=false).

Col titolo di De origine et situ Campaniae uscì per i tipi di Maccarano a Napoli nel 1636 (con biografia di anonimo preceduta dal ritratto del nostro). Più avanti dirò perché non ho potuto riprodurlo.

Nel 1656 un’edizione col vecchio titolo Campania uscì ad Amsterdam per i tipi di Giovanni Blaeu, con aggiunte in testa una tavola della Campania Felix e la dedica a Giuseppe Sanfelice, arcivescovo di Cosenza, governatore di Fermo, Imola e Perugia e nel 1652 nunzio apostolico a Colonia; in coda l’epigramma, sempre in latino,  De Campano amphitheatro. Di seguito il frontespizio, questa volta decisamente meno francescano …, tratto da https://books.google.it/books?id=8Co3H_FET8wC&printsec=frontcover&dq=editions:n21_rlc0aLYC&hl=it&sa=X&ved=0CB8Q6AEwAGoVChMI7PDn9-OyyAIVQ70aCh23pwUF#v=onepage&q&f=false, dove l’opera è integralmente leggibile e scaricabile.

3

 

Del dedicatario Giuseppe Sanfelice ecco di seguito un’immagine tratta dal libro di Ferdinando Sanfelice (sento già qualcuno cominciare a parlare di parentopoli, nepotismo ed affini …) Diario dell’elezzione dell’Imperador Leopoldo I, Napoli, 1717, integralmente leggibile in  https://books.google.it/books?id=WctEc9pxGnUC&pg=PA1&lpg=PA1&dq=Diario+dell%27elezzione+dell%27Imperador+Leopoldo+I&source=bl&ots=BuayLO8v8I&sig=JbVQBw9Jaumce-gVdyyx31xdj_w&hl=it&sa=X&ved=0CCUQ6AEwAGoVChMI4v3c3tS1yAIVSWkUCh1VhAf3#v=onepage&q=Diario%20dell’elezzione%20dell’Imperador%20Leopoldo%20I&f=false.

Ancora col titolo De situ et origine Campaniae, l’opera di Antonio venne inserita al terzo posto nella parte I del tomo IX della raccolta curata da Johann Georg Graeve Antiquitatum et historiarum Italiae, Vander, Lione, 1723.  (https://books.google.it/books/ucm?vid=UCM531796946X&printsec=frontcover&redir_esc=y#v=onepage&q&f=false)

Nel 1726 uscì per i tipi di Paci a Napoli Campania con le note del vescovo Antonio1. Di seguito il frontespizio tratto da https://books.google.it/books?id=Y4UqAO-bSwIC&printsec=frontcover&dq=antonii+sanfelicii+campania&hl=it&sa=X&ved=0CDMQ6AEwBGoVChMIxpOYs9m1yAIVAvFyCh07Gg5A#v=onepage&q=antonii%20sanfelicii%20campania&f=false, dove l’opera è integralmente leggibile e scaricabile.

Nel 1796 ancora Campania per i tipi di Orsini a Napoli in un’edizione con il testo originale e la traduzione di Girolamo Aquino, a cura di Nicola Onorati; di seguito il frontespizio tratto da https://books.google.it/books?id=5DhYAAAAcAAJ&pg=PR67&dq=antonius+sanfelicius&hl=it&sa=X&ved=0CEEQ6AEwBWoVChMIlbz8guayyAIVw9caCh2y8Ab_#v=onepage&q=antonius%20sanfelicius&f=false, dove l’opera è integralmente leggibile e scaricabile.

Il volume è corredato all’inizio del ritratto dell’autore che di seguito si riproduce.

Dalla didascalia apprendiamo che il nostro era soprannominato Plinio, il che conferma, secondo me, ciò che ho detto sulla considerazione di cui godeva. Interessante quanto sul ritratto riporta l’Onorati a p. XV: “Il ritratto si è ricavato da un antichissimo bassorilievo di stucco, esistente nelle case de’ Sanfelici abitate per secoli nel borgo degli Vergini; dal quale bassorilievo io son di avviso che avesse fatto disegnare il Reggente Sanfelice quello, ch’ei premise alla sua ristampa del 1636, che, sebbene sia mal disegnato, e peggio inciso (qual era lo stato delle arti allora tra di noi); pur mostra assai chiaro di venire dal detto bassorilievo, o da pittura a quello somigliante: che il ritratto posto dinnanzi alla stampa di Napoli del 1726 dee essere assolutamente capriccioso, perché di un carattere affatto diverso; né al bassorilievo, né a quello datoci dal Reggente Sanfelice per niente somigliante; dal quale, come da monumento quasi che sincrono, volendosi il novello Editore dipartire; avea l’obbligo d’indicare donde ci avesse tirato il suo, come non fece.”.

Purtroppo non posso riportare il ritratto dell’edizione del 1636, irreperibile in rete e della quale l’Opac mi segnala l’esistenza di un solo esemplare nella Biblioteca universitaria di Bologna; nessun ritratto, invece, è risultato presente nell’edizione del 1726 consultata al link già indicato.

Comunque, il ritratto dell’edizione del 1796 fu poi ripreso, anzi copiato e firmato, da Giuseppe Morghen nell’incisione a corredo della biografia del nostro, a firma del citato Onorati, inserita nel terzo tomo (integralmente leggibile e scaricabile da https://books.google.it/books?id=M_xpH6MzQ20C&printsec=frontcover&dq=editions:nyGnSFQfGQMC&hl=it&sa=X&ved=0CFMQ6AEwCGoVChMIpb_4rNu1yAIVRtoaCh3sBgSl#v=onepage&q&f=false) di Biografie degli uomini illustri del Regno di Napoli, a cura di Domenico Martuscelli, Gervasi, Napoli, 1816, da cui è tratta l’immagine che segue.

A p. XVI il curatore così si esprime, sempre a proposito dell’edizione del 1726: “Sonovi pure lunghe annotazioni fatte al testo da Monsignor Antonio Sanfelice, Vescovo di Nardò; ma lunghe tanto, che opprimono lo stesso testo, scritto con quella mirabile sobrietà, che ne forma il pregio maggiore: son poi queste annotazioni quasi tutte tolte di peso con pochissima fatica dall’Apparato di Cammillo Pellegrino”.

Una stroncatura senza appello del vescovo, dunque, per quanto riguarda questo suo intervento da letterato operato sul lavoro di un suo ascendente. E mi piace  chiudere, per rendere meno greve l’atmosfera, con l’ausilio proprio del nostro monaco e del suo De rhinocerote già citato in nota 1.

Ricordato che il nostro rinoceronte deriva dal latino rhinocerote(m), di cui il rhinocerote del titolo è il caso ablativo, che la voce latina è dal greco  ῥινόκερως/ῥινοκέρωτος (leggi rinòkeros/rinokèrotos) composto da ῥίνος (leggi rinos=naso)+κέρας (leggi keras=corno) e che la n del nostro rinoceronte probabilmente è dovuto ad influsso di elefante, non mi resta che riprodurre il testo della poesia, tradurla e commentarla. Debbo però premettere che essa fu ispirata da un distico elegiaco che lo stesso Paolo Giovio (1483 circa-1552) asserisce, nel suo libro di nota 1, posto nell’atrio del suo museo (inteso come residenza in cui gli piaceva circondarsi di opere a lui care) in cui degli affreschi illustravano la natura di alcune creature viventi. Il distico recitava: Humanos elephas retinet sub pectore sensus/Rhinoceros nunquam victus ab hoste redit (L’elefante nasconde in petto sentimenti umani/Il rinoceronte mai torna vinto dal nemico).

Ecco la poesia di Antonio, 12 esametri, in cui il rinoceronte parla in prima persona e si contrappone all’elefante.

 

Io sono il rinoceronte strappato al  nero Indo3 ; da qui, dove (sono)  il vestibolo della luce e le porte del giorno, salii su una nave dell’Esperia4, vele temerarie che osarono andare a vedere nuove terre ed un altro sole. La città (Roma) un tempo aveva assistito allo spettacolo dei nostri scontri nello spettacolo del circo e l’arena aveva presentato come (nostro) nemico l’elefante5. Questo, massa che fida nello smisurato corpo, sfoga con me le patrie ire e le eterne lotte. Ma (noi rinoceronti) siamo corazzati6 da una triplice pelle e (sono nostre) armi una forza eccezionale e un corno dall’invincibile punta. Cade lo stesso elefante; mentre una freccia si conficca nell’addome, la solerte prudenza (dell’uomo) espugna le (sue) stupide forze.

______________

1 A parte Clio divina di cui si è già detto, fu autore di componimenti in latino sparsi qua e là: Ad illustrem Paschalem Caracciolum epigramma, in Pasquale Caracciolo, La gloria del cavallo, Giolito de’ Ferrari, Venezia, 1567, s. p. (https://books.google.it/books?id=KctWAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=pasquale+caracciolo+la+gloria+del+cavallo&hl=it&sa=X&ved=0CCIQ6AEwAWoVChMIgfW79OK1yAIVAgwaCh0OAA01#v=onepage&q=pasquale%20caracciolo%20la%20gloria%20del%20cavallo&f=false); De rhinocerote, in Paolo Giovio, Gli elogi, Torrentino, Firenze, 1551, p. 207 (https://books.google.it/books?id=YyIBfYj26bsC&pg=PA319&dq=paolo+Giovio+gli+elogi&hl=it&sa=X&ved=0CCUQ6AEwAWoVChMI_YST4uS1yAIVhj8aCh3gEgqI#v=onepage&q=paolo%20Giovio%20gli%20elogi&f=false).

2 Vescovo di Nardò dal 1707 fino al 1736, anno della morte), fratello maggiore di Ferdinando (Napoli, 1675 – Napoli, 1748), architetto,  uno dei maggiori esponenti del barocco napoletano.

Ritratto del vescovo; dipinto di proprietà privata (immagine tratta da http://www.europeana.eu/portal/record/08504/23F03A0A2021CC373FBB1DD775168392F56AA434.html?start=1&query=antonio+sanfelice&startPage=1&qt=false&rows=24)

Ritratto dell’architetto; immagine tratta da wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Ferdinando_Sanfelice), dove si legge Probabile ritratto del Solimena. Non so se l’estensore della scheda, o chi prima di lui, sia stato condizionato nell’attribuzione, per quanto probabile, dal fatto che l’architetto fu suo allievo o da motivazioni di carattere stilistico, ma, ad ogni buon conto, avrebbe fatto meglio a farci sapere da dove l’immagine è stata tratta; lo stesso rilievo  va fatto per l’immagine che si vede tal quale (cambia solo la didascalia che, in corsivo, appare evidentemente aggiunta a mano: Ferdinando San Felice/Architetto Napolitano contro FERDINANDUS SANFELICIUS/PATRITIUS NEAPOLITANUS/AETATE SUAE LX) in http://www.nobili-napoletani.it/sanfelice.htm

Sul vescovo vedi:  https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/03/il-conservatorio-della-purita-a-nardo-e-il-vescovo-antonio-sanfelice/Marta Battaglini, I paramenti sacri del vescovo Antonio Sanfelice descritti nella visita pastorale del 1719, Congedo, Galatina, 1989; ; AA. VV., Un vescovo, una città. Antonio Sanfelice e Nardò (a cura di Maria Teresa Tamblè e Benedetto Vetere) Negroamaro, s. l.,  2012 (estratto degli atti del convegno del 9-10 dicembre 2002); sul vescovo e sull’architetto vedi Antonio e Fernando Sanfelice. Il vescovo e l’architetto a Nardò nel primo Settecento, a cura di Marcello Gaballo, Bartolomeo Lacerenza e Fulvio Rizzo, Congedo, Galatina, 2003; sull’architetto: Mario Cazzato, Un inedito di Ferdinando Sanfelice, in Nardò nostra, Studi in memoria di don Salvatore Leonardo (a cura di Marcello Gaballo e Giovanni De Cupertinis), Congedo, Galatina, 2000.

3 Si sente l’eco del niger Indus di Marziale, Epigrammi, VII, 29.

4 Esperia è dal greco Ἐσπερία (leggi Esperìa)=terra occidentale, da ἐσπέρα (leggi espèra)=sera, regione del tramonto, ovest. Non credo sia casuale la contrapposizione, pur messa in bocca al coccodrillo, tra l’oriente e l’occidente, in cui l’alba e il tramonto diventano metafora della vita e della morte …

5 Nel 1514 un elefante bianco (chiamato Annone, in onore del generale di Annibale) giunse a Roma, dono del re del Portogallo al papa Leone X per la sua incoronazione. Dopo due anni lo stesso re donò allo stesso papa un rinoceronte. Quest’ultimo fu più fortunato perché perì per il naufragio nel golfo di La Spezia della nave che lo trasportava, al contrario di Annone che morì di angina due anni dopo il suo arrivo nella capitale. Ho definito il rinoceronte più fortunato dell’elefante perché la morte gli risparmiò la convivenza con l’uomo, profondamente convinto come sono  che nessun essere vivente, neppure un albero, debba essere eradicato e trapiantato senza la sua volontà, se non per il suo bene o per cause di forza maggiore, condizioni che, nella fattispecie, come in tante altre vicende dei nostri giorni, non mi sembrano assolutamente ricorrere. Vedi anche la nota precedente.

6 Traduco così loricamur, prima persona plurale dell’indicativo presente attivo del verbo loricare, non attestato nel latino classico ma in quello medioevale (e con entrambi  il nostro monaco giocava in casa …) , nel quale, oltretutto, loricati (participio passato di loricare) erano chiamati (cito dal glossario del Du Cange) Monachi sanctiorisas vitae, qui pro mortificatione, ut vocant, loricam ferream jugiter ad cutem induebant, nec pro quavis necessitate deponebant. Hos inter eminuit S. Dominicus cognomento Loricatus, a lorica ferrea quam per annos 15 ad carnem detulit (I monaci di vita più santa, che per mortificazione, come la chiamano, indossavano continuamente a fior di pelle una corazza di ferro e non se ne liberavano di fronte a qualsiasi necessità. Tra di loro eccelse S. Domenico detto il loricato, dalla corazza ferrea che per 15 anni indossò a contatto con la pelle).

 

Lo stemma francescano

Foto di presentazione

di Marcello Semeraro

 

Uno dei motivi iconografici più ricorrenti riscontrabili negli edifici francescani è indubbiamente lo stemma araldico dell’Ordine. Le seguenti note si propongono di approfondire la questione relativa all’origine e al significato di questo antico emblema che vanta una significativa presenza anche nell’iconografia francescana della ex provincia di Terra d’Otranto.

Stemma francescano: la genesi e lo sviluppo di un emblema antico

Gli emblemi araldici cominciarono ad essere utilizzati dalla Chiesa almeno un secolo dopo la comparsa delle prime armi, avvenuta in ambito militare e cavalleresco nella prima metà del XII secolo. Il sistema araldico primitivo, infatti, fu totalmente estraneo all’influenza di Roma – lo dimostra anche l’iniziale uso del volgare nella descrizione delle armi – e gli ecclesiastici furono in un primo momento refrattari all’utilizzo di emblemi profani legati a guerre e tornei. Solo col prevare di un più generico significato di distinzione sociale l’uso degli stemmi troverà giustificazione negli ambienti ecclesiastici, soprattutto per via della sua utilità in ambito sfragistico: tale processo si svolse nel XIII secolo, durante il periodo di diffusione sociale delle armi1. Le comunità ecclesiastiche, invece, cominciarono ad utilizzare stemmi solo a partire dal XIV secolo: ordini religiosi, abbazie, priorati, conventi e case religiose faranno via via un uso sempre maggiore di emblemi araldici, con le dovute differenze, a seconda del particolare ordine e delle regioni di pertinenza. Anche i Francescani ebbero un proprio stemma, comune a tutte le varie anime dell’Ordine2: “d’azzurro (o d’argento), al destrocherio3 nudo di carnagione, posto in banda4, attraversante un sinistrocherio5 vestito alla francescana, posto in sbarra6, entrambi appalmati, stigmatizzati e attraversanti una croce latina al naturale”.

1Fig. 1. Colonia, Wallraf-Richartz Museum, Santi francescani, tavola del Meister der Verherrlichung Mariä
Fig. 1. Colonia, Wallraf-Richartz Museum, Santi francescani, tavola del Meister der Verherrlichung Mariä

Secondo Servus Gieben7, in origine l’arma era rappresentata in maniera diversa, ovvero con le sole mani di Cristo e di San Francesco fissate insieme da un unico chiodo, su campo azzurro. Questa forma primitiva è riconducibile all’iconografia araldica di San Bonaventura di Bagnoregio (*1217 †1274, ministro generale dal 1257 al 1274, canonizzato nel 1482) ed è testimoniata da alcuni dipinti e incisioni risalenti alla fine del Quattrocento (figg. 1 e 2).

Fig. 2
Fig. 2. Roma, Museo Francescano, tavola di anonimo fiammingo

Testi antichi, rintracciati dallo studioso olandese, fanno risalire l’origine e il significato di questo emblema a un episodio particolare della vita di San Bonaventura, quello della sua elevazione alla porpora cardinalizia (1273)8. In tale circostanza il Dottore Serafico avrebbe creato lo stemma con le due mani inchiodate insieme per simboleggiare l’indissolubile patto concluso con il Salvatore. Non sappiamo se il Nostro, durante il suo cardinalato, si sia effettivamente dotato di un blasone o se, invece, si tratti di una creazione postuma, dal momento che non disponiamo di esemplari coevi in grado di comprovarne l’effettivo utilizzo9. Né si può considerare come fonte attendibile l’edizione del 1677 delle Vite dei papi e dei cardinali del Ciacconio (nella quale sono riprodottI due stemmi di San Bonaventura, uno “ante Cardinalatum”, l’altro “in Cardinalatu”10), perché l’autore spagnolo era solito attribuire armi immaginarie ad ecclesiastici vissuti in epoche pre o protoaraldiche11.

Comunque sia, durante il generalato di Francesco Sansone (1475-1499), e più precisamente nei suoi interventi per la basilica di San Francesco ad Assisi, lo stemma cominciò ad essere modificato: al posto delle due mani inchiodate comparvero due braccia (quella di Cristo e di San Francesco) incrociate e stigmatizzate12 (fig. 3).

Fig. 3
Fig. 3. Assisi, portale d’ingresso della Basilica inferiore, stemma francescano (scultura anonima, 1487).

In questa nuova versione, che servirà da base per gli sviluppi successivi, venne sacrificato il significato simbolico originario per privilegiare quello della singolare conformità di Francesco con Cristo.

Nel XVI secolo l’emblema cominciò a svilupparsi progressivamente nella forma che diventerà classica, sotto l’impulso dell’edizione del 1513 del famoso trattato De conformitate vitae Beati Francisci ad vitam Domini Jesu Christi di Bartolomeo da Pisa, nella quale è visibile una xilografia dove per la prima volta compare la croce (fig. 4)13.

Fig. 4
Fig. 4. Stemma francescano, xilografia anonima, Milano, 1513.

Nelle Constitutiones Urbanae, approvate da papa Urbano VIII (1623-1644)nel 1628, l’insegna è ormai descritta ufficialmente come “stemma Religionis”(fig. 5)14.

Fig. 5
Fig. 5. Frontespizio delle Constitutiones Urbanae, Roma, 1628

Nel corso dei secoli detta arma ha conosciuto un significativo numero di varianti e di rappresentazioni più complesse, condizionate dal gusto del tempo o dall’arbitrio dell’esecuore, oppure motivate dall’introduzione di simboli che volevano riassumere le varie anime del francescanesimo15.

Si possono, tuttavia, distinguere due grandi tipologie entro le quali poter racchiudere la forma grafica dello stemma francescano: la versione semplice (comune a tutte le famiglie) e quella complessa, che si ha quando lo stemma semplice viene inserito in uno campo suddiviso in due o più parti mediante partizioni araldiche.

La forma più diffusa, soprattutto nel periodo fra il XVII e il XIX secolo, è indubbiamente quella semplice con le due braccia incrociate e stigmatizzate, poste davanti ad una croce latina, su campo azzurro. Solitamente sono raffigurati il destrocherio di Cristo e il sinistrocherio di San Francesco.

Tuttavia, sono numerosi i casi in cui si verifica un’inversione nella disposizione degli arti. La forma complessa, invece, è costituita da un campo che può presentarsi partito16, troncato17, interzato18 o inquartato19. Fra gli esempi più noti di stemma troncato, citiamo quello del Terzo Ordine Regolare di San Francesco, che al tradizionale emblema aggiunge una corona di spine, i tre chiodi della Passione e la sigla O.P.C. (fig. 6), e quello della Custodia di Terra Santa (fig. 7), recante nel primo quarto l’insegna francescana semplice e nel secondo una croce potenziata (cioè a forma di T) di rosso, accantonata da quattro crocette dello stesso smalto su un campo d’argento (quest’ultima è anche l’arma dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme).

Fig. 6
Fig. 6. Stemma del Terzo Ordine Regolare di S. Francesco (T.O.R.).
Fig. 7
Fig. 7. Stemma della Custodia di Terra Santa

Un esempio di scudo inquartato è quello utilizzato dal ministro generale dei Minori detti dell’Unione Leonina, così chiamati dal nome del pontefice (Leone XIII) che nel 1897 riunì in un unico Ordine le famiglie francescane degli Osservanti, Riformati, Alcantarini o Scalzi e Recolletti.

Nel primo quarto troviamo l’emblema francescano semplice, nel secondo un serafino in campo rosso, nel terzo cinque piaghe di Cristo sanguinanti al naturale in un campo d’oro, nell’ultimo una croce potenziata d’oro, accantonata da quattro crocette dello stesso smalto su un campo d’argento (quest’ultima è anche l’insegna dell’antico Regno di Gerusalemme).

L’uso dell’emblema francescano come stemma proprio dell’Ordine – in tutte le sue varianti – non esaurisce certo le sue possibilità di rappresentazione sulla superficie dello scudo. Anche gli ecclesiastici infatti, se provenienti da questa famiglia religiosa, potevano (e possono tuttora) inserirlo all’interno del proprio scudo. In questo caso lo stemma francescano semplice prende il nome di quarto di religione20 e può essere posto su uno scudetto, sul quarto più importante di un partito o di un inquartato, oppure nel capo dello scudo.

Quest’ultima soluzione è quella che ha avuto maggiore fortuna, tanto da essere “consacrata” nello stemma di Clemente XIV (1769-1774), uno dei pochissimi casi di arma papale recante un quarto di religione (fig. 8).

Fig. 8
Fig. 8. Verso di uno zecchino del 1769 con stemma di Clemente XIV

Nel corso dei secoli lo stemma, sia nella versione semplice che in quella complessa, è stato ampliato da un notevole numero di ornamentazioni esterne, alcune delle quali dotate di un forte significato simbolico. Fra le principali vanno annoverate la corda francescana, i vari tipi di corona, il rosario, gli strumenti della passione di Cristo, i tenenti (cioè le figure umane che sostengono lo scudo), i motti e i rami decussati (di palma, di ulivo o di alloro)21.

 

Note

  1. Cfr. B. B. Heim, L’araldica nella Chiesa Cattolica. Origini, usi, legislazione, Città del Vaticano 2000, pp. 23-24.

2. Cfr. J. Woodward, A treatise on ecclesiastical heraldry, Edimburgo e Londra 1894, pp. 418-419; A. Cordero Lanza di Montezemolo, A. Pompili, Manuale di araldica ecclesiastica nella Chiesa Cattolica, Città del Vaticano 2014,  p.49.

3. Braccio umano destro intero, normalmente uscente dal fianco sinistro dello scudo. E’ utile ricordare che in araldica la destra dello scudo è la sinistra di chi guarda e viceversa, poiché lo scudo va considerato dal punto di vista del portatore.

4. Cioè posto nella direzione della banda, pezza onorevole che scende diagonalmente dall’angolo destro a quello sinistro

5. Braccio umano sinistro intero, normalmente uscente dal fianco destro dello scudo.

6. Cioè posto nella direzione della sbarra, pezza onorevole che scende diagonalmente dall’angolo sinistro a quello destro.

7. Cfr. S. Gieben, Lo stemma francescano. Origine e sviluppo, Roma 2009. Si tratta di un ottimo studio corredato da tavole, imprescindibile per conoscere l’origine e la cronologia dell’arma in questione.

8. Si tratta del Den Wijngaert van Sinte Franciscus, scritto da un anonimo fiammingo ed edito ad Anversa nel 1518, del Pomerium sermonum de sanctis di Pelbarto de Temesvàr, pubblicato in varie edizioni a partire dal 1499, e dell’Historia Seraphica vitae Beatissimi P. Francisci Assisiatis di Enrico Sedulius nell’edizione del 1613. Nel Den Wijngaert van Sinte Franciscus, in particolare, si legge: “San Bonaventura dunque, fatto cardinale, avendo rinunciato al mondo con le sue vanità, non voleva di nuovo riprendere ciò che aveva calcato sotto i piedi. E benché fosse nato da persone e parenti nobili, non voleva imitare la nobiltà secolare. E per rimanere più estraneo al mondo e perché a nessuno potesse far piacere di vedere il suo stemma gentilizio tra quelli dei cardinali, ordinò uno stemma speciale, corrispondente al suo stato. Si fece dipingere uno scudo azzurro con la mano di Nostro Signore e con la mano di San Francesco in fede chiodata l’una sull’altra. È questo è lo stemma dei Frati Minori, che si trova in un campo azzurro perché tutti i loro pensieri, opere ed esercizi li devono dirigere verso il cielo. Dovendo pensare alla fedeltà che nella loro professione hanno promesso a Dio e a tutti i suoi santi, queste mani sono chiodate insieme, perché da questo legame mai devono essere sciolti e liberi etc. Il papa gli confermò questo stemma beato ed egli lo fece imprimere nel suo sigillo e dovunque era necessario”. Cfr. ivi, pp. 9-14. Lo stemma descritto corrisponde esattamente a quelli visibili  nelle  figure 1 e 2.

9. Va, inoltre, ricordato nella seconda metà del Duecento l’araldica cardinalizia era ancora in una fase primitiva.  Cfr. A. Cordero Lanza di Montezemolo, A. Pompili, op. cit., pp. 18-19. Fra gli stemmi cardinalizi più antichi citiamo quello di Guglielmo de Braye (†1282), raffigurato sul cenotafio presente nella chiesa di San Domenico di Orvieto,  e quello di Riccardo Annibaldeschi della Molara (†1276), visibile sul suo sepolcro, del quale restano frammenti nel chiostro dell’Arcibasilica Lateranense.

10. Erudito spagnolo morto a Roma tra il 1599 e il 1602. Cfr. A. Chacòn, Vitae et Res gestae Pontificum Romanorum et S.R.E. Cardinalium ab initio nascentis Ecclesiae usque Clementem IX P.Q.M., ed. Roma 1677, tomo II, p. 194.

11. A tal proposito, Heim ha osservato che ai tempi del Ciacconio “era usanza diffusa quella di attribuire stemmi ad eroi e Santi del passato. Si inventarono stemmi di molti personaggi famosi, persino di Nostro Signore”. Cfr.  B.B. Heim, op. cit., p. 100.

12. Cfr. S. Gieben , op. cit, 16-17.

13. Ivi, p. 17.

14. Cfr. Constitutiones Urbanae fratrum Ord. Min. Conv. S. Francisci, Roma 1628, pp. 13-14. Sul frontespizio sono riprodotti  lo stemma di Papa Barberini e quello francescano semplice.

15. Le varianti dello stemma francescano semplice riguardano la disposizione della croce (tra o davanti alle braccia anziché dietro di esse), l’inversione degli arti incrociati (il destrocherio di Francesco e il sinistrocherio di Cristo), la posizione delle mani che possono mostrare il dorso anziché la palma, la foggia della croce, la presenza all’interno dello scudo di varie figure quali monti, nubi da cui escono le braccia, colombe, cuori, corde, piaghe di Cristo, ecc. Cfr. S. Gieben, op. cit., tavv.

16. Scudo diviso da una linea verticale in due parti uguali.

  1. Scudo diviso da una linea orizzontale in due parti uguali.

18. Scudo diviso in tre parti uguali mediante due linee che possono essere parallele o seguire altri andamenti.

19. Scudo diviso in quattro parti uguali da due linee che si incrociano nel cuore.

20. Si dicono quarti di religione le singole armi degli  Ordini religiosi rappresentate nello scudo.

21. Cfr. S. Gieben, op. cit., pp. 26-34.

 

A proposito delle epigrafi della “trozza” di Villa Scrasceta

di Armando Polito

Questo post vuole essere solo una piccola integrazione al saggio recente, interessantissimo e, come al solito, ottimamente documentato, di Marcello Gaballo (Un’architettura rurale impossibile da dimentica+re: lo Scrasceta. Dalle origini ai nostri giorni, II parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/06/unarchitettura-rurale-impossibile-da-dimenticare-lo-scrasceta-dalle-origini-ai-nostri-giorni-ii-parte/).

Le osservazioni che farò, frutto di una ricognizione personale operata più di trenta anni fa (purtroppo all’epoca non esistevano le fotocamere digitali e una reflex di un certo livello non era nelle possibilità economiche di un modesto insegnante) hanno il solo scopo di evitare un’ulteriore proliferazione di errori dovuti non all’autore del post ma alla fonte primaria, cioè il pur pregevole, pluricitato  lavoro dell’indimenticato Emilio Mazzarella; prima che gli oltraggi del tempo e degli uomini le rendano totalmente incontrollabili …

Parto dalla prima epigrafe, quella del fastigio. La trascrizione del Mazzarella è la seguente:

NYNPHARUM LOCUS/SITIENS BIBE/LYMPHA SALUBRIS UBERIBUS/PULCRAE NAIADIS/ECCE FLUIT.

Va detto preliminarmente che l’iscrizione occupa non cinque ma sette linee e che la sua trascrizione esatta è la seguente:

NYMPHARUM/LOCUS HIC/SITIENS BIBE/LYMPHA SALUBRIS/UBERIBUS/PULCHRAE NAIADIS/ECCE FLUIT

e, con l’aggiunta della punteggiatura. della cui scelta darò ragione più avanti:

NYMPHARUM/LOCUS HIC. SITIENS BIBE!/LYMPHA SALUBRIS/UBERIBUS/PULCHRAE NAIADIS/ECCE FLUIT

L’immagine che segue (tratta da http://www.giannicarluccio.it/wordpress/?p=2614#more-2614) mostra chiaramente il degrado della seconda linea ma non so spiegarmi come, dopo la decifrazione ancora oggi possibile di LOCUS, sia sfuggito il visibilissimo HIC.

La questione non è di poco conto, perché l’omissione ha trasformato in una quasi inanimata epigrafe in prosa ciò che era e rimane un perfetto distico elegiaco.

Ne fornisco di seguito la scansione, non per idiota esibizionismo culturale ma solo perché è un passaggio indispensabile per motivare le osservazioni che farò dopo e facilitarne al lettore la comprensione.

Nymphā|rūm lŏcŭs|hīc||sĭtĭ|ēns bĭbě|lymphă să|lūbrĭs                     

ūbĕrĭ|būs pūl|chraē||Naīădĭs|ēccĕ flŭ|ĭt 

Qui (c’è) il luogo delle Ninfe. Tu che hai sete, bevi! L’acqua salutare,

ecco, scorre dalle mammelle della bella Naiade.

Ho definito il distico perfetto, ma ho bisogno però di perfezionare la mia definizione e di rilevare a tale scopo  come la tecnica di costruzione poetica riesca a risolvere tra l’altro pure i problemi derivanti dall’ambiguità grammaticale di una singola parola. Ciò che ho appena finito di affermare, che può sembrare astratto o, peggio ancora, criptico,  è impersonato dalla terza parola del primo verso (HIC) che teoricamente può valere:

1) come nominativo maschile singolare dell’aggettivo dimostrativo hic/haec/hoc (=questo).

2) come avverbio (=qui).

Nel primo caso le traduzioni possibili, tenendo conto della punteggiatura da me inserita in quella proposta, che è la finale, sarebbero:

a) Questo luogo (è) delle Ninfe.

b) Questo (è) il luogo delle Ninfe.

Entrambe le interpretazioni suppongono, dopo HIC, un EST (è) sottinteso che assumerebbe il valore di copula (in a , in particolare, in cui delle Ninfe ha il valore primario di genitivo di possesso:  se è è copula nell’espressione questo luogo è comune, non si comprende perché dovrebbe cambiare in questo luogo è di tutti e perché non dovrebbe esserlo nel nostro in cui delle Ninfe è equivalente a ninfeo), mentre HIC sarebbe attributo di LOCUS in a e complemento predicativo del soggetto (sempre LOCUS), in b.

Nel secondo caso (HIC avverbio di luogo) l’unica interpretazione possibile sarebbe Qui c’è il luogo delle Ninfe.

Se, però,  non si tiene conto, per quanto riguarda la punteggiatura, del punto fermo dopo HIC, in questo secondo caso, immaginando un punto fermo dopo LOCUS, sarebbe possibile, sempre teoricamente, anche quest’altra interpretazione: Il luogo è delle Ninfe. Tu che qui hai sete …

Da un punto di vista stilistico nulla potrebbe essere obiettato, poiché l’avverbio (HIC) risulterebbe sempre collocato correttamente prima del verbo (SITIENS), come avvenuto nel primo caso, dove, però, il verbo (EST) era sottinteso.

Come dipanare questa matassa? Grazie a due cospicui indizi che poi, confermandosi a vicenda,  diventeranno inequivocabili prove:

Il primo ce lo offre la stessa grafica dell’iscrizione, dove HIC è inciso alla fine della seconda linea, dopo la prima, iI cui ruolo di rilievo è stato riservato in via esclusiva a NYMPHARUM; il secondo la scansione metrica con la sua cesura pentemimera che cade proprio dopo HIC, obbligando nella lettura a fermarsi momentaneamente proprio in quel punto. Insomma, quella cesura corrisponde proprio al punto fermo che nella trascrizione ho posto dopo HIC.

Qualche pignolo ostruzionista teso, in buona o in mala fede, a considerare questa una mia farneticazione potrebbe obiettare che il verso in questione potrebbe anche essere scandito allo stesso modo ma con due cesure (la tritemimera e l’eftemimera) secondo lo schema seguente:

Nūmphā|rūm||lŏcŭs|hīc sĭtĭ|ēns||bĭbě|lūmphă să|lūbrĭs 

Anche il più scalcinato studente di latino, quello di un tempo, gli avrebbe fatto osservare che questa lettura è un brutale, arbitrario e insensato terremoto che spezza legami grammaticali (il genitivo NYMPHARUM separato brutalmente dal soggetto LOCUS che lo regge e SITIENS, participio sostantivato con valore di complemento di vocazione, dal suo verbo BIBE) che coincidono con valori logici, cioè, in ultima analisi, semantici, convergenti verso corretti fini prima espressivi e poi interpretativi.

Alla luce di queste considerazioni rimangono praticabili solo le interpretazioni a e b e ho privilegiato, come s’è visto, b per un fatto statistico: prevalentemente negli autori classici l’aggettivo dimostrativo precede e non segue il nome di cui è attributo, per cui è più plausibile, anche in considerazione, come si è appena visto,  dei sottili strumenti messi a disposizione dall’autore del testo per aiutare il lettore a risolvere le ambiguità teoriche,  che HIC sia avverbio che precede correttamente il verbo sottinteso (EST).

Non mi dilungo sulle ascendenze classiche di nessi e singole parole, che la dicono  lunga sulla raffinatezza culturale dell’autore del distico e del committente dell’opera (potrebbero essere stati un’unica persona) e mi riprometto di farlo solo se questo post registrerà un accettabile riscontro  (si scrive per essere letti, riletti e contraddetti, non per leggersi, rileggersi e non contraddirsi …).

Se la lettura imperfetta di questa prima epigrafe registrata dal Mazzarella non ha provocato travisamenti sostanziali del suo significato, lo stesso non può dirsi della seconda, alla base del puteale, così riportata dal Mazzarella per la prima parte:

PRAESENS FONS PERENNIS INCERTUS FUIT/DIE MARTII DCCXXXXVI

tradotta in nota in La presente fonte sorgiva (o perenne) fu incerta (fino al) marzo 1746.

E per la seconda:

AEMANAVIT ACQUA DIE XVI AUGUSTI MDCCXXXXVI

tradotta in nota in Emanò l’acqua il giorno 16 agosto 1746

Per la prima parte, invece, nonostante la seconda linea sia sepolta quasi per metà (come mostra la foto successiva tratta da http://www.giannicarluccio.it/wordpress/?p=2614#more-2614) dallo sciagurato strato di cemento utilizzato probabilmente per portare l’area che circonda pozzo al piano della vicinissima fabbrica (e non per fissare i quattro sostegni della griglia protettiva, in quanto la stessa sopraelevazione si nota anche in foto più antiche, in cui la griglia è assente), la lettura corretta è:

PRAESENS FONS PERENNIS INCAEPTUS FUIT/DIE VII MARTII MDCCXXXXVI

La presente fonte perenne fu iniziata il 7 marzo 1746 (data di inizio dello scavo)

Per la seconda:

A DIE XVI AGUSTI AEMANAVIT AQUA

Dal giorno 16 agosto sgorgò l’acqua (data di conclusione dello scavo e dell’intercettazione della falda freatica).

L’errata lettura riportata dal Mazzarella, in cui  INCAEPTUS risulta sostituito con INCERTUS e VII viene omesso dopo MARTII, è sfociata nella traduzione totalmente arbitraria che ho già riportato: La presente fonte sorgiva (o perenne) fu incerta (fino al) marzo 1746. Non si capisce per quale motivo si sarebbe dovuto registrare questo inconveniente e, oltretutto, il fino a sottinteso nella traduzione avrebbe supposto un AD DIEM (alla lettera: fino ad un giorno) e non l’ablativo DIE che, insieme con VII, forma un complemento di tempo determinato, che più determinato non si può.  Quanto ad INCAEPTUS: è participio passato di incìpere per il classico inceptus: si tratta (insieme con la variante INCOEPTUS) di un normalissimo esempio di ipercorrettismo presente già nel latino medioevale e particolarmente ricorrente nei testi in latino del XVII e XVIII secolo), modellato sul classico caelum/coelum, ma ancor più giustificato dal fatto che incìpere è formato da in+coèpere e che il participio passato di coèpere è coèptus. La stessa forma di ipercorrettismo si nota in AEMANAVIT per emanavit. Qui, però, non c’è giustificazione di sorta in quanto emanare è formato dalla preposizione e=fuori+manare=sgorgare e, se nel latino medioevale s’incontra celum (per il classico coelum o caelum), cioè il dittongo risolto in e, mai s’incontra il contrario, cioè un originario e ampliato in dittongo; infatti un latino aemanare non risulta attestato neppure una volta, se non qui …

Gli estremi temporali registrati nell’epigrafe sono importantissimi, non solo perché in altre trozze, a quanto ne so, s’incontra, quando s’incontra, solo la registrazione dell’anno di realizzazione,  ma anche perché essi danno un’idea dell’impresa quasi ciclopica dello scavo di un pozzo, con i mezzi di allora: picconi, mazze, punte di ferro e zappe larghe.

Un’ultima osservazione: questa seconda iscrizione, a differenza della prima, ha un carattere che potremmo definire documentario e burocratico ed è in prosa; quando mai, d’altra parte, la burocrazia è andata a braccetto con la poesia, nonostante la rima in comune?  Eppure, essa ci descrive temporalmente con precisione  il concepimento e la nascita della trozza (il periodo di gestazione è sottinteso, perché facilmente calcolabile), mentre quella del fastigio (e sotto questo punto di vista la collocazione non è casuale) evoca i valori senza tempo (purtroppo non posso dire di ogni tempo …): il pensiero d’amore per la natura, per la vita, per il patrimonio culturale dei padri, per la bellezza (purtroppo concretamente non alla portata di tutti, ma per comprenderli non è necessario essere ricchi economicamente …) che ispirarono la sua realizzazione. Lascio al lettore giudicare l’importanza dell’una e dell’altra.

 

 

Io i paesini li amo, amo i loro vicoli, amo di essi la noia e quella fottuta routine

Nardò. Piazza Salandra
ph Aristide Mazzarella

di Stefano Manca

Ha cominciato Marchionne, definendo Firenze una città «piccola e povera». Da lì la rivolta dei fiorentini e dell’allora sindaco Matteo Renzi. Un mese fa una concorrente di Nardò del Grande Fratello ha dichiarato di provenire da «un paesino della Puglia». Infuocate reazioni: «Paesino? Come si permette? Siamo 30mila!», ha reagito uno. «Siamo 32mila!», ha detto l’altro. «Siamo 38mila!», ha rilanciato un altro ancora. «Siamo 38mila marine escluse!», ha precisato un altro demografo. Ho smesso di leggerli prima che superassero Tokyo. Adesso la questione si ripresenta a Lecce. Una residente del centro non trova parcheggio nel fine settimana e lascia l’auto in sosta vietata con un biglietto: «Se dev’essere spostata citofonate al civico 8 di questa via. ‘Sti cazzo di paesani hanno intasato Lecce». Per «paesani» l’automobilista intendeva coloro i quali nel weekend abbandonano la provincia (il «paese», appunto) e vanno a Lecce (la «metropoli», evidentemente). In tutti e tre i casi citati («città piccola», «paesino», «paesani») i piccoli centri sono percepiti come le residenze di chi parte in svantaggio, di chi deve recuperare, di chi non sa allacciarsi le scarpe. Persino chi oggettivamente ci vive, in un paesino, ne rifiuta l’etichetta. Se il paese vi fa schifo, datelo a me. Io i paesini li amo, amo i loro vicoli, amo di essi la noia e quella fottuta routine, amo Totò e Peppino che arrivano a Milano e tirano fuori le galline dalla valigia, amo pure chi il paesino lo lascia, amo quel sentirsi un inviato all’estero quando scrivo di fatti minuscoli avvenuti a sei chilometri da casa mia, amo le biografie vere e quelle inventate che si mescolano nella piazza, amo l’arrivo del cantante vintage e se ne parla per otto mesi, amo il campanile e stanotte amo la mia mente chiusa perché così non entrano gli spifferi delle vostre cazzate.

 

Un’intrigante ipotesi sul poeta Antonino Lenio, alla corte del conte di Ugento

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di Luciano Antonazzo

 

Francesco del Balzo fu l’ultimo della  celebre famiglia di origine francese a possedere la contea di Ugento.  Condusse  una vita tranquilla, mantenendo però sempre vivo nel suo animo il proposito di vendetta per la tragica fine del padre Angilberto,  giustiziato nel 1491 dagli spagnoli come fautore della cosidetta “Congiura dei Baroni”. L’occasione gli si presentò nel 1527 quando scese in Italia il Lautrec, luogotenente del re di Francia Francesco I. Non esitò a schierarsi al suo fianco, ma dopo i successi iniziali l’esito della guerra arrise agli spagnoli e a Francesco non rimase che l’esilio. Riparò a Ragusa in Dalmazia dove si fermò per due anni. Esaurite le sue finanze rientrò in Italia , a Roma, dove si mise sotto la protezione del cardinale Trivulzio  ricevendo per proprio sostentamento, e quello di due servi, appena due baiuli al giorno.

Ad accompagnare Francesco del Balzo nel suo esilio a Ragusa e a Roma c’era il poeta Antonino Lenio che viveva alla corte ugentina  dove, per compiacere ed allietare le giornate della figlia del conte, Antonia, diede inizio alla composizione di un poema epico-cavalleresco di ben 1900 ottave, vale a dire 15.200 versi, che fu stampato in Venezia nel 1531 col titolo “ORONTE GIGANTEe col sottotiolo “ DE LEXIMIO POETA ANTONINO LENIO SALENTINO continente le Battaglie del Re de Persia et del Re de Scythia fatte per Amor de la figliola del Re di Troia. Capitani de Perse Rinaldo, et de Scythe Orlando cose belle et nove. Con additione de le battaglie per Amor de la Figlia del Re Pancreto in Nabatea. Et certe epigramme Amorose”.

Il poema sarebbe rimasto sconosciuto se non vi si fosse imbattuto Benedetto Croce nelle sue esplorazioni della cultura napoletana. Sotto l’aspetto letterario ne diede un giudizio drasticamente negativo, ma lo definì “il più importante contributo dell’Italia meridionale alla letteratura cavalleresca del tempo”. E’ indubbio comunque che sotto l’aspetto storico-culturale il poema ha una significativa valenza, come ha evidenziato il prof. Mario Marti che meritoriamente lo ha pubblicato quasi integralmente nel 1985[1], offrendo ai lettori, con una anlisi approfondita, la possibilità di apprezzarne anche “l’ibridismo linguistico” rappresentato dall’uso di grecismi,  latinismi e lemmi dialettali.

L’incipit dell’opera è costituito dalla dedica “DIVAE ANTONIAE BAUTIAE”,  “donna angelica e divina-che passeggiava nel lito ogentino – de chi lo padre tiene la signorìa” (libro I, canto VI, vv. 356-58),  versi che attestano inconfutabilmente che quantomeno il primo libro del poema fu composto in Ugento. Rimane invece  dubbia la patria dell’autore. Egli si dice “salentino” senza precisare il suo luogo d’origine, ma per Giovanni Bernardino Tafuri sarebbe nato a Parabita, altro feudo appartenente a Francesco del Balzo.

Qualche notizia sulla sua attività poetica, e sulla sua solida formazione letteraria il Lenio la dà incidentalmente nel poema stesso, dove non manca di elogiare i grandi letterati e filosofi del tempo (suoi docenti o suoi amici) dedicatari di alcuni dei suoi 45 distici in latino formanti gli “Epigrammata” che chiudono l’opera .

Altro di lui non ci è dato sapere ma forse é sopravvissuta una testimonianza della sua presenza in Ugento.

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Al piano superiore dell’ex convento dei Minori Osservantisi, oggi sede del Museo Civico, si trova una cella che si affaccia sul cortile, sulle cui pareti laterali vi sono dei disegni elementari. Vi sono raffigurate delle scene intervallate da uccelli su una sfera poggiata su una base pseudo – trapezoidale. Tali scene con figure maschili e femminili, più o meno vestite, rappresentano dei duelli e degli amplessi; sulla parete laterale destra dell’ingresso vi sono raffigurate anche alcune strutture architettoniche mentre sulla parete di fronte vi è la raffigurazione del peccato originale e un inusuale fonte della vita. Come si desume dagli abiti dei personaggi e soprattutto dalla forma triangolare del pettorale delle dame i dipinti delle pareti laterali soo databili al XVI secolo e nel complesso sembrano rimandare ad un qualche poema epico – cavalleresco.

La loro realizzazione, soprattutto per la presenza di scene di sesso, certamente non è ascrivibile al frate che vi dimorava; di contro è più verosimile la loro attribuzione a qualcuno che avesse dimestichezza con la letteratura dell’epoca.

E se si trattasse proprio di Antonino Lenio? L’intrigante ipotesi abbisognerebbe della dimostrazione che egli dimorasse nel convento e questa circostanza sembra avvalorata  da una ottava nella quale ironizza sul comportamento dei frati.

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Nel libro I, canto XVI, ai versi 225- 232, il poeta parla di un sacrificio di “mille bovi” alla dea Minerva Iliade, e sottolinea come  la carne andava a finire ai “sacerdoti” in modo di farli “in gaudemus stare”, cioè “viver da gaudenti”; chiude quindi l’ottava dicendo con malizia “come ancor oggi i frati soglion fare”. Che questa chiusa fosse rivolta ai frati del nostro convento lo esplicita l’ottava seguente (versi 233-40) nella quale dice:

 

Quando la mia Signora del buon vino

e pan bianco gli manda e bei cappon

cantan devoti l’ufficio divino

con tanti pater nostri et orazioni

cogl’occhi bassi e co’ lo capo chino

reputando noi altri da babioni,

ridono in ciambra che ben chiaman cela

che li secreti loro asconde e cela.

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Il tratteggiare in questo modo il comportamento che i frati tenevano in privato a nostro avviso discende da una conoscenza diretta, e dall’interno del convento, che l’autore doveva  avere.

Ad avvalorare ulteriormente questa ipotesi potrebbero essere anche alcuni elementi disegnati sulle pareti laterali.

12

Come detto vi sono dipinti diversi uccelli e questi potrebbero avere attinenza col fatto che il poeta narra di aver sognato di essere diventato uno storno (v. libro I, canto X, vv.296 – 7) e di aver stretto amicizia con una rondinella, l’unica tra gli altri volatili incontrati (tra cui uno smerlo) a parlare l’idioma umano (v. libro I, canto X , vv. 320 -21; 345-48).

Anche le strutture architettoniche potrebbero rinviare ad alcuni degli edifici degli dei che egli particolareggiatamente descrive (v. libro I, canto III, vv. 32-36; libro I, canto XI, vv. 1-8) .

15

Resta da capire se i superiori del convento tollerarono o non si avvidero affatto delle rappresentazioni osées sulle pareti. Riteniamo plausibile la seconda ipotesi, perché altrimenti le avrebbero di certo cancellate. In effetti al padre guardiano del convento era precluso entrare nella cella di un ospite e quand’anche, in sua assenza,  avesse voluto controllare se in quella  fosse tutto in ordine poteva farlo solo sbirciando attraverso una finestrella della porta chiusa; ma dallo spioncino poteva avere solo una visuale ridotta che  gli impediva di vedere i dipinti delle pareti laterali; di contro sulla parete di fronte vedeva chiaramente la raffigurazione del peccato originale e del fonte della vita, rappresentazioni che verosimilmente lo inducevano a credere che il resto dei dipinti fosse dello stesso tenore. Solo quando il poeta seguì il conte nel suo esilio i frati ebbero contezza di quello che i dipinti rappresentavano e , per nostra fortuna, si limitarono a ricoprirli con uno strato di calce che li ha preservati fino alla loro riscoperta.

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17

[1] M. MARTI (a cura), Oronte gigante (e Bradamante gelosa di S. Tarentino), Milella Ed. Lecce 1985.

 

 

Le città nelle sfumature del “pittore giramondo”: intervista a Tonino Caputo

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di Gianluca Fedele

 

Quando da ragazzino cominciai ad appassionarmi all’arte contemporanea, tra le opere che guardavo con maggiore attrattiva, dall’esterno delle gallerie del mio paese, ricordo vivamente certi ponti di Brooklyn di Tonino Caputo. Fu uno dei primi artisti che mi affascinarono, e all’epoca la seduzione esercitata dalle opere era puramente estetica, scevra da ogni tipo di contagio concettuale. A distanza di anni ho finalmente realizzato che tra gli aspetti che mi colpirono di più in assoluto vi era certamente quella luce crepuscolare che caratterizza la maggior parte delle sue vedute metropolitane.

Del mio desiderio di conoscere personalmente Caputo ne ho parlato di recente a Sandro Tramacere, un caro amico che gestisce una caratteristica galleria d’arte con annessa sala da barba su corso Galliano a Nardò (LE). Appena il tempo di fare una telefonata e mi ha già procurato il luogo per l’incontro; guarda caso il maestro il giorno dopo inaugurava una sua personale di incisioni a Lecce, su via Palmeri. Ovviamente ci vado e mi presento, e ricevo un appuntamento per la mattina seguente.

Caputo è in compagnia del suo inseparabile allievo, Marco Sciame, anch’esso impegnato negli stessi giorni nella realizzazione di una mostra all’interno del monastero dei Teatini di Lecce.

Dopo una fugace colazione insieme ci accomodiamo a chiacchierare.

 

MID TOWN - 2004 - 80x60 - olio su tela (coll. priv.)
MID TOWN – 2004 – 80×60 – olio su tela (coll. priv.)

D.:

Dico subito, senza inibizioni, che è per me un grande privilegio sedere di fronte a uno dei miei pittori contemporanei preferiti e offrire l’intervista che segue ai lettori di Fondazione Terra d’Otranto.

Hai acquisito l’appellativo di “pittore giramondo” grazie agli svariati viaggi, soste, lavori in ogni continente; da qualche battuta mi è parso di capire che la migrazione è una caratteristica insita nella tua famiglia, è così?

 

R.:

In effetti nella mia famiglia si intrecciano storie e aneddoti di emigrazione a partire da mio nonno, Eugenio Caputo, che nel 1905 partì per l’Argentina con lo scopo di andare a trovare il fratello che lavorava a Córdoba come capostazione, lo stesso anno in cui nacque mio padre. Mia nonna, che lo avrebbe dovuto accompagnare, arrivata a Napoli non lo seguì per via del suo terrore dei bastimenti. Nonno Eugenio mantenne i contatti con la famiglia rimasta in Italia sino alla guerra ma dopo la morte della moglie, avvenuta a causa di un tumore, di lui non fece pervenire più alcuna notizia. E nulla si seppe almeno fino a quando dal continente sudamericano non arrivò un Caputo, probabilmente un figlio in cerca delle sue radici, che mio padre orgogliosamente non accettò di incontrare.

Questa, in breve, è la storia dell’emigrazione più diretta che ho ma ci furono comunque diversi parenti prossini che nello stesso periodo salparono per gli Stati Uniti o per altri lidi del mondo. Il recente passato del meridione d’Italia, infatti, è costellato di vicende di questo genere poiché erano in tanti a cercare di sfuggire da quelle condizioni di vera, estrema povertà nelle quali si viveva.

 

D.:

Oggi la questione della migrazione la si torna a vivere ma in questo caso noi siamo dalla parte di chi ospita; qual è il tuo pensiero su questo delicato argomento?

 

R.:

Se ne sentono tante in TV ma io non amo quel tipo di destra che con presunzione sostiene quanto la nostra nazione sia migliore a confronto di altre. Questa gente si dimentica, per esempio, che la Reggia di Caserta è stata realizzata da un famosissimo immigrato olandese: Luigi Vanvitelli, nato Lodewijk van Wittel. La storia della penisola italica è fatta anche di storie di tanti immigrati che hanno soggiornato dimostrando passione e amore. Poi ci sono stati anche casi contrari come quello di Voltaire, che non perdeva occasione per scrive male di illustri italiani come Michelangelo e Raffaello, però in questo caso qualche stupidaggine glie la si può anche abbonare.

Noi italiani abbiamo molte peculiarità ma non più rispetto altri cittadini del mondo. Ciò che si dovrebbe recuperare è invece il senso della tradizione che va pian piano scemando senza che nessuno se ne preoccupi.

 

ATTESA 50x70-1986 (coll. priv.)
ATTESA 50×70-1986 (coll. priv.)

D.:

Prima di te vi erano altri artisti nella tua famiglia?

 

R.:

Dalle notizie che mi sono pervenute so che mio nonno materno era un falegname che lavorava in maniera estremamente rifinita, un ebanista vero, reale. Per quanto riguarda mio padre, lui era un fotografo ma all’epoca, qui, chi praticava la fotografia non era considerato effettivamente un artista.

Come si è capito io vengo da una famiglia modesta dove l’urgenza per la “pagnotta” spesso sottraeva tempo alla cultura e alle sue declinazioni. Nonostante il periodo cupo ho però sempre riconosciuto a mio padre una sete di conoscenza, manifestata soprattutto nell’ultimo periodo della sua vita quando venne a vivere da me ed ebbe la possibilità di dedicare del tempo alla lettura. Amava molto Dumas de I tre moschettieri, Il visconte di Bragelonne, Il conte di Montecristo, Vent’anni dopo, e tanti altri titoli dello stesso genere. Romanzi che divorai anch’io successivamente.

A casa comunque volevano che io studiassi per diventare medico o ingegnere.

 

D.:

Quali sono state le circostanze in cui hai compreso di essere un pittore?

 

R.:

Più che le circostante sono state le persone a farmi capire che l’arte era la mia strada. Come si è detto in casa vi erano pochi libri e anche per questa ragione io frequentavo la famiglia di Ugo Tapparini dove sua madre, una donna molto colta, mi mise a disposizione la loro importante e ben fornita libreria. Lì conobbi anche Vittorio Pagano, zio di Ugo. Fu proprio il noto poeta a scoprire il mio talento quando, un po’ scettico, venne per la prima volta nella stanza dove tenevo i lavori asserendo: “tutti pittori oramai state diventando!”. Poi però andò via portandosi appresso un paio di quadri e la cosa mi inorgoglì estremamente.

Devo molto anche alla poetessa Rina Durante che mi esortò a inviare un’opera dalla quale venne conquistata alla rassegna culturale “Maggio di Bari”. In quella circostanza vinsi un premio che sancì il mio battesimo artistico.

Omaggio a Mantegna - 60x110 - 2009 (coll. priv.)
Omaggio a Mantegna – 60×110 – 2009 (coll. priv.)

 

D.:

A quando risalgono le tue prime esposizioni pubbliche?

 

R.:

Nel 1957 presi parte alla mia prima mostra, una collettiva che si allestì all’interno del Palazzo del Seggio di Lecce dove, insieme a me, esponevano Antonio Massari, Edoardo De Candia, Franco Gelli, Garusso e Paolo Re. Io vendetti cinque o forse sei dipinti.

Ricordo benissimo quel periodo così travagliato della mia vita: la mia compagna di allora, quella che sarebbe poi diventata la mia prima moglie, era incinta e per l’epoca rappresentava uno scandalo il fatto che non si fosse ancora celebrato il matrimonio. Dopo la funzione religiosa vendemmo gli ori e con il ricavato, sommato a quello della vendita dei quadri, partimmo alla volta di Roma dove mi stabilii definitivamente.

 

D.:

Cosa ti ha spinto a scegliere proprio la capitale come destinazione per iniziare la nuova vita di uomo e di artista?

 

R.:

Roma è certamente un luogo che non si può ignorare assolutamente. Ancora oggi dopo decenni di permanenza, quando ho la possibilità di passeggiare per le sue strade, la città eterna riesce a sorprendermi con dettagli importanti che non avevo ancora colto. Seguo e rimango ammaliato da quelle che sono le nuove scoperte archeologiche poiché arretrano la sua fondazione di circa duecento anni – in periodo etrusco quindi – ponendo il dubbio persino sulla reale esistenza di una figura cruciale come quella di Romolo.

 

D.:

So che hai studiato architettura: cosa mi racconti del periodo universitario?

 

R.:

Nella realtà dei fatti quella è una leggenda messa in piedi da chissà chi. Voglio finalmente sfatare il mito che mi vedrebbe laureato in architettura perché io mi iscrissi alla facoltà solo per essere mantenuto dai miei genitori per il tempo necessario a costruirmi una posizione. Preparai e superai giusto tre esami che poi riguardavano materie abbastanza semplici per me come “Disegno dal vero” e “Rilievo dei monumenti”. Avrei anche potuto dare matematica – ero molto bravo al Liceo Scientifico – solo che non mi interessava. Sapevo già che volevo fare il pittore, contravvenendo alle aspettative che i miei genitori coltivavano sul mio futuro.

L’architettura mi ha sempre appassionato ma da punto di vista figurativo poiché, come diceva Algarotti, essa è la madre di tutte le arti.

 

D.:

Dalla tua biografia scopro che a Roma non ci sei rimasto per molto tempo; quali sono state le tue prime mete fuori dall’Italia?

 

R.:

Ho sempre mantenuto un appoggio a Roma pur viaggiando tanto. Feci i miei primi spostamenti professionali all’estero grazie a un mio zio – l’unico facoltoso in famiglia – che lavorava presso il Ministero delle Finanze come Segretario del Capo di Gabinetto. Fu lui a procurarmi in tempi brevi il passaporto, snellendo di molto l’iter burocratico.

A soli vent’anni iniziai a muovermi scoprendo l’Europa; le prime mete intermedie furono Montecarlo e Lugano. Alla nascita di Tiziana, la mia prima figlia che ora purtroppo non c’è più, fui però costretto a rimanere fermo per un po’ e a lavorare per conto di architetti al fine di mantenere la famiglia.

Nel 1962 avvenne la separazione dalla mia prima moglie ed ebbe così inizio un periodo della mia vita caratterizzato da uno stile errabondo ma anche ricco di numerosi successi. Fortunatamente si erano concluse una serie esposizioni e la vendita di molte opere mi garantiva una certa solidità economica. In più avevo conosciuto una ragazza francese che, dopo essere stata a dormire da me per pochi giorni, mi invitò a trascorrere a Parigi qualche settimana. La prima volta ci andai esclusivamente per evidenti motivi sentimentali ma ci ritornai qualche mese più tardi con un amico pittore. Con quest’ultimo ci presentammo quasi per gioco a “La Galerie des Jeunes” presso Rue de l’Ancienne-Comédie esibendo alcuni quadri; lì io fui scelto per fare una mostra e rimasi nella capitale della moda per circa un paio d’anni.

 

D.:

Quand’è incominciato il sodalizio con Carmelo Bene?

 

R.:

Carmelo l’avevo conosciuto a Lecce che aveva sedici anni, in una piccola soffitta nella quale si ritirava per studiare e perfezionare fino allo sfinimento un italiano sempre più puro. Ci perdemmo di vista perché lui andò a Firenze e poi a Torino ma ci ritrovammo nel ’62 al teatro Ariston dove portava in scena il “Gregorio”, opera che trovai molto interessante. Salutandoci ci lasciammo con la promessa di rivederci a Roma.

E difatti Carmelo si sistemò a vivere con tutta la compagnia teatrale in un appartamento che avevo preso per me dopo la separazione. Ci dividemmo nuovamente durante la mia parentesi parigina per rincontrarci ancora nel ’66. La prima locandina che gli disegnai fu per il “Faust” e da lì tutta una serie di collaborazioni sino ad arrivare al film “Capricci”, girato quasi completamente nella mia abitazione di via di Montoro, nel quale recitavo una parte anch’io. Nelle riprese sfasciammo a colpi di arance tre opere d’arte ricostruite ad hoc con oggetti reali e raffiguranti un Morandi, un De Chirico e un Guttuso come sfregio nei confronti dell’arte contemporanea.

 

D.:

Chi dei due ha più influito sull’arte dell’altro?

 

R.:

Il barocco è mio perché questa è una caratteristica insita dei pittori e degli scultori. L’attore, come il poeta, al massimo può nascere bizantino, perché esprimersi in maniera barocca significa demolire la recitazione.

Nel caso del bizantinismo si utilizzano delle parole che possono trarre in equivoco generando differenti accezioni, mentre col barocco si può anche usufruire di un vocabolario fiorito ma il messaggio rimane univoco.

Con Carmelo ebbi una furiosa discussione quando sostenne che noi pittori siamo cultori di morte in quanto, secondo il suo parere, noi la temiamo. Io gli risposi che a temerla sono più loro che una volta scomparsi dal palcoscenico della vita lasciano poche tracce della loro opera – almeno se non si considera la recente rivoluzione radiotelevisiva –, mentre noi artisti della materia, che viviamo quotidianamente coi nostri fantasmi, disseminiamo orme colorate lungo il nostro passaggio.

 

SOUTH TOWN CHIMNEY - 50x70 - olio su tela (coll. priv.)
SOUTH TOWN CHIMNEY – 50×70 – olio su tela (coll. priv.)

D.:

L’assenza della figura umana all’interno delle opere spinge molti a definire la tua un’arte metafisica; tu che nome dai al tuo stile?

 

R.:

La definizione di neo-metafisico mi è stata applicata da un grande storico d’arte, il prof. Fortunato Bellonzi, segretario della Quadriennale di Roma che è stato come un padre per me. Ma io gli risposi che sono semplicemente Tonino Caputo. Le etichette sono cose superflue nell’arte, che servono solo ai critici. Devo comunque ammettere che fu proprio Bellonzi a spingermi nella rappresentazioni delle città scorgendo un piccolo quadro nel mio studio che volle assolutamente far vedere ai galleristi Antonio ed Ettore Russo.

La figura dell’uomo ha fatto, di tanto in tanto, la sua comparsa sulle mie tele ma dove possibile ho sempre preferito ometterlo perché, a mio avviso, sa essere un grande costruttore tanto quanto sa distruggere. Persino ciò che di bello ha realizzato.

 

D.:

La mostra di questi giorni in via Palmieri a Lecce ha come protagoniste una serie di incisioni; quanto conta la tecnica nella tua produzione?

 

R.:

Sono certo che un buon pittore debba essere prima di tutto in ottimo disegnatore. Per quanto mi riguarda dipingo quello che penso, ed è un criterio esaustivo perché il mio primo pensiero lo incido sulla carta e solo dopo ci costruisco intorno un quadro.

A questo proposito voglio ricordare un breve episodio accaduto tra Pablo Picasso, Henri Matisse e un artista esordiente che conversavano tra loro. Quando il giovane sostenne: “io dipingo ciò che sento!”, Matisse rispose: “io dipingo quello che posso!”. Picasso concluse: “io dipingo quello che voglio!”

In questo divertente aneddoto vi sono racchiuse le tre categorie di artisti.

 

Pier Delle Vigne - 1992 - olio su tela - 100x100 (coll. priv.)
Pier Delle Vigne – 1992 – olio su tela – 100×100 (coll. priv.)

D.:

Quali sono i tuoi artisti prediletti?

 

R.:

Sicuramente Giorgio De Chirico. Poi c’è Cosmé Tura, un pittore dall’enorme calibro artistico. Ancora Piero della Francesca, per il quale non ho mai fatto segreto il mio amore smisurato. Ovviamente mi piace molto anche Masaccio.

Comunque sia, amare un artista è un fatto che fa parte del momento in quanto, spesso, quel pittore che hai odiato in giovane età finirà per stregarti più avanti, studiandolo e comprendendone il percorso.

 

D.:

Durante la tua carriera hai allacciato rapporti con gallerie di tutto il mondo; quanto hanno influito sul tuo successo?

 

R.:

Certamente i miei galleristi hanno contribuito in maniera determinante sulla popolarità e la diffusione delle mie opere ma va sottolineato un aspetto fondamentale del mio iter e cioè che non mi sono mai fatto dettare la linea da nessuno. Persino Giorgio Corbelli di Telemarket mi ha dato carta bianca su tutte quelle che erano le mie occorrenze.

 

D.:

Quanto la vendita televisiva ha mutato il modo di intendere il commercio dell’arte?

 

R.:

Purtroppo la televendita di opere d’arte ha contribuito all’estinzione delle vere gallerie che a un certo punto non potevano più essere competitive in quella fascia di mercato. Oggi,  per la maggior parte dei casi, il vero appellativo per questa categoria di intermediari è “commercianti di quadri”. Si è andata perdendo la poesia e la cultura che foraggiava le importanti pinacoteche mentre chi esercita attualmente questo mestiere, nella stragrande maggioranza dei casi, lo fa unicamente per scopi di lucro.

Come si può, mi chiedo, applicare a un’opera il cinquanta per cento di sconto, come fosse un qualsiasi complemento d’arredo.

Poi, come se non bastasse, oggi c’è Ebay a peggiorare la situazione…

 

D.:

Cosa suggeriresti a un ragazzo che timidamente muove i primi passi nel mistico mondo dell’arte?

 

R.:

Direi di diffidare dalle ammalianti sirene che suggeriscono di fare tre schizzi o un taglio per avere un’opera d’arte. Lo poteva fare Lucio Fontana ma se tu lo copi non hai fatto nulla se non scimmiottare l’intuizione altrui. Un artista che si rispetti fa prima di tutto una ricerca per se stesso, che sia intimamente reale. Per me non ci sono maestri nell’arte perché chi è artista dentro non vuole insegnare nulla a nessuno se non tramandare tecniche ed esperienza.

 

D.:

Che propositi coltivi per i prossimi mesi?

 

R.:

Amico mio, dopo una vita da ramingo, a 82 anni l’unico proposito che posso permettermi è quello di sopravvivere. Poi si vedrà.

Il mito di Santa Cesarea in un canto popolare adattato a cantastorie

 cesarea

di Giuseppe Corvaglia

 

Il luogo

Santa Cesarea Terme è un piccolo centro marittimo del Salento, molto noto per l’amenità del luogo e per la presenza di acque termali, salsobromoiodiche e sulfuree, utilizzate per le cure da tempo.

Il riferimento alla Santa, Cesarea, nota fin dal XV secolo, potrebbe far pensare a una certa vetustà del luogo; in realtà il paesino, fino all’inizio del secolo scorso*, non esisteva neppure e le grotte, con le acque termali, potevano essere raggiunte solo attraverso sentieri scoscesi e  difficili da percorrere.

affresco del XVI secolo che si trova inell'antica chiesa di San Nicola adiacente alla chiesetta della Madonna dell'Idri a Nociglia ed è la più antica figura di Santa Cesarea nella provincia di Lecce (foto Antonio Chiarello)
affresco del XVI secolo che si trova nell’antica chiesa di San Nicola adiacente alla chiesetta della Madonna dell’Idri a Nociglia ed è la più antica figura di Santa Cesarea nella provincia di Lecce (foto Antonio Chiarello)

I miti fondanti

Ci sono diversi miti che giustificano la presenza delle acque sulfuree-salso-bromo-iodiche: uno di essi lo ritroviamo nella mitologia classica dove si narra che qui, sulle impervie coste della Japigia, sia finito lo scontro fra Ercole e i Titani Leuterni sopravvissuti alla lotta che aveva avuto luogo nei Campi Flegrei. I giganti battuti fuggirono fin qui sperando che l’asperità del luogo potesse proteggerli, ma qui l’eroe li raggiunse e non ebbero scampo.

Proprio dai loro corpi in decomposizione, secondo la leggenda, originarono le acque e i fanghi putridi e maleodoranti, ma benefici e curativi.

Un’altra leggenda, ambientata nel XIV secolo, quando il Salento era insidiato dai Turchi, parla di Cesarea, fanciulla bellissima,  notata da un saraceno il quale di lei si invaghì e volle farla sua. La inseguì sulla scogliera fin dentro una grotta e quando la raggiunse, prodigiosamente, dal terreno si sprigionarono fiamme e fumi che arsero vivo l’uomo. Da allora si ritiene che le acque e i fanghi siano terapeutici.

Ma la leggenda principale riguarda Santa Cesarea secondo la versione  riferita dai Bollandisti.

Santa Cesarea, secondo questa versione, nacque in un dicembre del XIV secolo da Luigi e Lucrezia, dopo un’attesa di oltre 10 anni dal matrimonio e al termine di una pia pratica suggerita dall’eremita Giuseppe Benigno.

Rimasta orfana della madre quando era ancora adolescente, Cesarea fu costretta ad abbandonare la casa dei genitori, per sfuggire alle insane tentazioni del padre; si rifugiò in una grotta marina fra Castro e Otranto.

Qui visse la sua vita di privazioni e di preghiera, votata ad una totale dedizione a Dio, divenendo una eremita la cui fama si estese in tutta la Terra d’Otranto. Dopo la sua morte, avvenuta nella grotta da dove non era più uscita, sempre nel secolo XIV, fu eretta una chiesa sul posto che divenne centro del suo culto fin dal secolo XVII. Il suo culto si diffuse nel Salento, in particolare a Francavilla Fontana (BR) che viene indicata come la patria d’origine della santa.

Patrona anche di Porto Cesareo, è ricordata il 15 maggio, ma, nel paesino termale, a metà settembre la sua statua viene portata in processione con  un corteo di barche alla grotta Gattulla dove sarebbe vissuta e poi morta. (A. Borrelli da Enciclopedia dei Santi www.santiebeati.it )

 

processione di Santa Cesarea (foto Antonio Chiarello)
processione di Santa Cesarea (foto Antonio Chiarello)

Il canto

Il canto, proposto nel 2008 dal gruppo Totine Sud Sisters sotto forma di cantastorie, è diffuso nel basso Salento e narra la leggenda di Santa Cesarea.

Vi sono già pubblicate due versioni dello stesso, cantate una dagli Ucci nell’album Bona sera a quista casa e una dai Cantori dei Menamenamò nell’album Santa Cesarea, ma il racconto viene anche tramandato oralmente in diversi luoghi del Salento.

Oltre a far parte della mole di racconti edificanti che parlavano delle vite dei santi, questo canto è anche il mito fondante del paesino salentino, che cerca di spiegare le origini delle acque sulfuree delle sue terme con un intervento divino e la presenza del diavolo che si viene a trascinare giù nell’inferno il genitore snaturato.

La storia infatti  parla di un incesto voluto dal padre che desidera la bella figlia, per quanto lei cerchi di scoraggiarlo con pudica modestia, e che verrà portato via proprio dal diavolo.

Ho preferito la versione riferita da Rizzo Antonietta fu Amedeo perché, come quella dei Cantori dei Menamenamò, mi sembra più congrua e, verosimilmente, più vicina all’originale. Infatti in essa, nela prima strofa, si usa il termine “sposà” per indicare la volontà del padre di possedere carnalmente la figlia, mentre nella versione degli Ucci si parla di “ammazzà” che può assumere un significato simbolico, ma che qui non pare appropriato.

La stessa versione, poi, contiene anche una strofa di chiusura non riportata nelle altre due edizioni.

Nella terza strofa è suggestiva la figura evocata del padre che insegue la fanciulla con la spada sguainata, evidente doppio senso di tipo sessuale, ma anche evocativa del fatto che lo stupro ucciderebbe in sé un’anima candida come quella di Cesarea.

Bella è pure l’immagine del cuore che batte così forte da sembrare un tremito in cui non si distinguono i battiti (tutta tremante in sen)**

Nell’ultima strofa troviamo due diversi termini nelle due versioni; nella versione degli Ucci si dice Cesaria s’atterrava mettendo l’accento sul terrore della fanciulla mentre nella versione presentata e in quella dei Cantori dei Menamenamò (Cesaria la’ nserrava – si apriva il monte in due e Cesaria veniva imprigionata dalla roccia) si fa riferimento al monte che facendola sprofondare la rinchiude nelle sue viscere.

Anche nella versione agiografica Cesaria, restando come eremita per sempre nella grotta senza più uscirne fuori, ritirandosi dal mondo, è come se da quella grotta, comunicante con le viscere della terra, ne fosse inghiottita.

Ho inserito nella parte narrata anche una frase ricorrente come proverbio (Aprite munte*** e ‘gnuttite Cisaria / e li stivali de sirma nzurfu e rena****) che viene detta quando si verifica una situazione dirompente come uno scoppio d’ira o un litigio.

La strofa di chiusura chiude il racconto e non parla più del corpo mortale, ma invita a considerare l’anima pura che viene portata, beata, a godere della gloria di Dio.

 

 

 

*        Il decreto regio che istituisce il comune di Santa Cesarea, è del 26 maggio 1913

 **    Viene riportata anche  tutta tremante in sé nel senso di terrorizzata nell’intimo.

***   In un’altra versione si dice “Aprite pentuma e gnuttite Cisaria”.

**** Il riferimento agli stivali del padre che diventano sabbia e zolfo viene fatto anche da Trifone Nutricati, poeta e pubblicista leccese, in un poemetto in dialetto scritto agli inizi del Novecento e forse da esso prende origine per poi diffondersi nel lessico popolare.

 

statua della santa portata in processione (foto Antonio Chiarello)
statua della santa portata in processione (foto Antonio Chiarello)

 

statua della santa portata in processione a mare(foto Antonio Chiarello)
statua della santa portata in processione a mare(foto Antonio Chiarello)
La storia de Santa Cisaria

Libero adattamento in forma di cantastorie di un antico canto popolare di Giuseppe Corvaglia

1     E’ questa la storia di Santa Cesarea nostra che, pur essendo piccola per età, dimostrò un grande coraggio. Cesarea era una fanciulla bella, ma modesta e delicata.

La mamma era morta quando ella era ancora piccinina e lei aveva trovato conforto nella fede, dedicandosi anima e corpo a Dio. Ma il padre, sconvolto dal dolore per la perdita della moglie, era attratto dalle grazie della fanciulla e iniziò a desiderarla fino all’ossessione.

Santa Cesarea bella,

a Dio donasti il cuore,

lu   patre traditore

che la voleva sposa’.

2         Il padre di Cesarea è ossessionato: vuole a tutti i costi possedere la fanciulla, ma lei ha donato a Dio il suo cuore e vuole serbarlo puro come il suo corpo.

La furia del padre è, però, cieca e lei non può contrastarla.

Allora escogita uno stratagemma per potersi mettere in salvo: dice al padre che acconsentirà ai suoi voleri e chiede alcuni momenti per lavarsi. Ma, invece di prepararsi, lega due colombi sul fondo di una bacinella che, battendo le ali, fanno credere allo snaturato genitore che la fanciulla si stia lavando e poi, paurosa e tremante, se ne fugge via.

Prese due palombelle

le mise in un bacile

e poi si mise a fuggire

tutta tremante in sen.

3        Ma lo snaturato genitore è impaziente e l’inganno non può durare a lungo.

Così, dopo aver atteso invano l’arrivo della fanciulla, apre la porta e resta sbalordito.

Vede le colombe legate, la finestra aperta, capisce e si lancia all’inseguimento della giovine che corre trafelata.

Fuggiva e si voltava

suo patre la ‘rrivava,

la spata spoderava

che la voleva ammazzà

4       La fanciulla trema: ha paura della persona che dovrebbe volerle più bene, ha paura di quello che potrebbe accadere al proprio corpo e alla propria anima e prega chiedendo all’Altissimo una grazia da far tremare i polsi: “ Aprite munte e gnuttite Cisaria / E li stivali de sirma ‘nzurfu e rena”

Le sue preghiere vengono ascoltate: la roccia si apre e padre e figlia ne vengono inghiottiti, ma Cesaria prima di morire riesce a vedere la gloria degli Angeli che la incorona indicandole il Paradiso, mentre il padre viene a prenderselo il diavolo che lascia traccia di sé nelle grotte sulfuree.

Aprite munte in due

Cesarea sta ‘nserrata

si vede incoronata

dagli Angeli del ciel.

Portate  palme e  fiori

Santa Cesarea bella

in cielo  c’è  una stella

la gloria del Signor.

 

Il filmato del canto proposto come cantastorie, fatto da Luigi Zappatore a Nociglia nella festa campestre di San  Donno nel 2008, mostra la versione cantata dal gruppo Totine Sud Sisters ( Ros’Ines, Natalina (voce e Chitarra), Mirella e Stefania Corvaglia) con la partecipazione di Giuseppe Corvaglia (Flauto), Raffaele Rizzello (clarinetto) In quell’occasione suonarono nel gruppo anche Rizzo Rocco C., Angelo Zappatore , Giorgio Ruggeri e Emanuele Cortese.

Il video è visibile su you tube al link

https://www.youtube.com/watch?v=YRWjLACvhpc&feature=youtu.be

 

 

Una camera in tufo per far lievitare la pizza

pizza

Una camera naturale in tufo per far lievitare la pizza

Riscoprire le proprietà di ambienti e composti naturali, usati dagli antichi Romani, per produrre alimenti moderni, con peculiari caratteristiche organolettiche e insospettate doti di digeribilità. Così nasce la pizza in tufo a Napoli

Sfruttare il potere del tufo, la sua capacità di mantenere umidità e temperatura, per creare delle vere e proprie camere di lievitazione.

L’idea è di Enzo Albertini, presidente dell’associazione Napoli Sotterranea che dice: “Utilizzando forni realizzati in tufo e pasta lievitata dalle 24 alle 48 ore esclusivamente in camere tufacee abbiamo ottenuto la prima pizza geotermica in assoluto”.

 

Leggi qui l’articolo:

http://www.teatronaturale.it/tracce/gastronomia/21795-una-camera-naturale-in-tufo-per-far-lievitare-la-pizza.htm

Un post scritto con i piedi

di Armando Polito

Immagine tratta da http://www.pianetadonna.it/foto_gallery/societa/foto-profilo-facebook-piu-usate-brutte-noiose-da-evitare-galateo/scatto-piedi-mare.html
Immagine tratta da http://www.pianetadonna.it/foto_gallery/societa/foto-profilo-facebook-piu-usate-brutte-noiose-da-evitare-galateo/scatto-piedi-mare.html

Ogni parte del nostro corpo non è superflua, non fosse altro perché esso è stato realizzato da quel luminare di progettista che è la natura. La stessa natura, poi, in alcuni casi provvede a compensare l’inefficienza o l’atrofia di alcuni organi potenziandone altri. Pare, addirittura, che gli stessi neuroni siano in grado di accollarsi in parte le funzioni assolte dai loro colleghi irrimediabilmente morti. D’altra parte, per passare ad un altro organo altrettanto importante ma meno blasonato, il fegato, se asportato parzialmente, è in grado di rigenerarsi. Fin qui la natura (e forse un domani ci sarà la spiegazione razionale di tanti “miracoli”). La nostra intelligenza, dal canto suo, si è spinta prima alle protesi, poi ai trapianti e ultimamente alle cellule staminali, ma chissà se verrà il giorno in cui, ad esempio,  un piede amputato potrà ricrescere. Nell’attesa di un risultato secondo me poco probabile e che, bene che vada, richiederà molti decenni, fornisco di seguito la prova dell’importanza linguistica (quella fisica è scontata) del piede, dando per comodità del lettore la definizione delle voci di uso meno frequente; per le altre, se sarà necessario, basterà ricorre ad un buon vocabolario, anche on line. E con la foto di testa di sapore facebookiano diamo pure l’addio a quest’estate …

avampiede

bipede

pedaggio

pedalare

pedale

pedalata

pedaliera

pedalino

pedana

pedante

pedanteria

pedata

pedatorio riferito, non senza ironia, al mondo del calcio

pedecollina

pedecollinare

pedemontano

pedemonte

pedestre

pèdice (voce tipografica, il contrario di àpice)

pediculosi

pediluvio

pedina

pedinare

pedissequo

pedivella

pedo (nel mondo classico, bastone con la sommità ricurva, usato specialmente dai pastori per guidare il gregge; antica insegna papale costituita da una verga sormontata da un crocifisso, usata ancora oggi in occasione di alcune funzioni religiose)

pedonale

pedone 

peduncolo

pidocchio

piedarm

piedino

piedipiatti

piedistallo

piedritto

quadrupede

 

Le voci che seguono riguardano la storia del diritto, dunque figure del passato:

pedario (nella Roma repubblicana senatore o decurione, che non aveva mai ottenuto cariche od onori curuli prima dell’assunzione di un ufficio; nella Roma imperiale, senatore che non era mai stato console o pretore. Entrambi sprovvisti di sedia curule).

pedaneo (magistrato che giudicava cause di scarsa importanza; vedi pedario).

 

Nelle voci della lista  che segue il passaggio da -e- ad -o- è dovuto all’origine greca (il corrispondente del latino pes/pedis è πoύς/ποδός (leggi pus/podòs):

 gasteròpode

miriàpode

podagra

podalgia

podalico

podio

podismo

podista

podistico

podologo

 

Voci di origine francese:

pedalò

pedigree

pied-à-terre

pied-de-poule

 

Voci del dialetto neretino:

 pete (piede)

petale (pedale)

pitalora (pollone che nasce sul ceppo; derivato da petale)

pitata (pedata)

piticinu (gambo di un frutto; diminutivo di un inusitato pìtice corrispondente all’italiano pèdice)

pituzzu (piedino)

mpiticunare (trattenere qualcuno nell’immobilità o in uno stato d’incertezza)

Come dimenticare, infine la locuzione fare una cosa con i piedi? Non me ne sono dimenticato, ma, al di là di qualche virgola fuori posto, di qualche imprecisione o di qualche omissione,  mi auguro che il suo significato traslato non coinvolga il titolo …

Salento: note sulla mia “Acquaviva” con spigolature… sull’Islam

acquaviva-marittima-salento-spiaggia-caletta

 

Breve antefatto.

Qualche giorno fa, m’è capitato di ascoltare un operatore culturale e della comunicazione, nonché docente universitario, d’origine e formazione musulmana e però da molti anni residente e svolgente attività in Italia.

A un certo punto, nel pieno della riflessione, con correlato incrocio di commenti, intorno all’attualissimo, triste e, per certi versi, drammatico fenomeno del cosiddetto autentico “Stato Arabo” che, dalla parte promotrice e costituente, si vorrebbe annidato sotto la sigla (invero, una delle tante) Isis, il personaggio in questione si è espresso con la seguente affermazione: “Premesso che Isis si può porre alla stregua d’una cellula impazzita, ad oggi formata da circa quarantamila particelle o combattenti o attivi o adepti, nell’organismo dell’Islam, religione, entità o mondo che, come noto, annovera un miliardo e seicento milioni di credenti, è soprattutto, se non esclusivamente, il popolo arabo – musulmano che deve valutare come impegnarsi e agire per arginare, sino a renderlo innocuo ed eliminarlo, il fattore degenerativo Isis. Non si vede, altrimenti, come lo stesso obiettivo possa essere utilmente ed efficacemente realizzato per opera del mondo e/o delle potenze occidentali, attraverso la diplomazia, la moral suasion e, finanche, con l’eventuale ricorso, che pure si andrebbe delineando, a interventi militari. Troppi, enormi e variegati sono oggettivamente gl’interessi sparsi e contrapposti che condizionano lo scenario”.

Riandando all’intitolazione iniziale dei presenti appunti, il seno “Acquaviva”, a Marittima, amena località del Basso Salento, è per me, da quando sono nato, un emblema, il mio angolo del cuore preferito. Un minuscolo sito, che annovera però contorni di bellezze naturali che definire incantevoli non conferisce appieno merito alla realtà: fazzoletti d’acqua cristallini, trasparenti e dalle tonalità cromatiche cangianti, con tratti in cui la distesa si fa addirittura viva e frizzante, in virtù dello sbocco di minuscoli rivoli d’acqua dolce, scorrenti nel sottosuolo di natura carsica che contraddistingue il territorio posto ai lati e alle spalle dell’insenatura.

Acquaviva, insomma, è, nel mio sentire, una casa alternativa o habitat ideale. Fra le sue sponde, sotto e sopra la sua distesa liquida, ho imparato a nuotare, vi ho trascorso lunghe stagioni di svago nelle fasi della fanciullezza, dell’adolescenza e della prima giovinezza, compresa la pratica della pesca in mezzo ai suoi scogli bassi ed erbosi, a ridosso d’una sorta di riva detta “rena dei ciucci”.

All’Acquaviva ho avuto agio d’essere compagno, attore e testimone d’una miriade di sequenze d’umanità, vuoi in mezzo o accanto a volti conosciuti del paese natio, vuoi in presenza d’altre genti lì convenute, per prendere un bagno ristoratore e rigenerante e poi abbronzarsi, da località vicine o distanti, nella quiete e, specialmente durante i decenni lontani, nel totale silenzio del raccolto tratto di mare.

Sono innumerevoli gli anelli di ricordi che s’affastellano nella mente, e addirittura più dentro, in relazione e con riferimento al luogo di che trattasi. Qui mi viene di rinnovarne e riproporne alcuni.

Acquaviva, mi rievoca la figura di un compaesano, tale Teodoro, semplice e laborioso contadino di taglia robusta e oltre, il quale, nei pomeriggi d’agosto, completata la sua giornata lavorativa e rinfrancatosi con un riposino, non mancava mai di portarsi, a piedi, da Marittima sino, giustappunto, all’Acquaviva, per il bagno.

Suona, invero, improprio, nel suo caso, parlare di bagno; Teodoro, infatti, si “calava” non una ma quattro – cinque volte, da lui, per la precisione, niente grandi nuotate, bensì soste prolungate e in assoluto immobilismo sul pelo dell’acqua, nella posizione comunemente detta “del morto”

Ma la peculiare caratteristica del rapporto Teodoro – mare dell’Acquaviva era che, dopo ogni uscita dal bagno e prima della successiva immersione, egli, seduto su un basso scoglio, s’apparecchiava una frisa di grano ricoperta da pezzi di pomodoro. Così, quattro –  cinque operazioni, ossia a dire che, per Teodoro, s’inanellavano non soltanto bagni rinfrescanti e rigeneratori, ma pure stimolanti l’appetito.

E poi ancora, in connessione con il luogo in discorso, mi si riaffaccia la sequenza, anzi la lunga pellicola di Consiglio, verso la fine dell’estate, in autunno e d’inverno contadino e nachiro o capo ciurma negli stabilimenti vinicoli e frantoi oleari, durante il resto dell’anno pescatore, col supporto della sua piccola imbarcazione in legno, un gozzo o schifo in dialetto, denominata “S. Vitale”, in omaggio al protettore di Marittima.

Consiglio, fra l’altro primo cugino di mio padre, pescava perchie, sciudiuli, scianni, fuggiuni, saragotti, occhiate e lutrini servendosi della togna,  versione dialettale dell’accezione italiana bolentino; talvolta calava una rete a maglie strette detta “tartana” per tirar su pesciolini di diverse specie tanto piccoli quanto squisiti, oppure una lunga lenza, denominata caloma, per la cattura delle aguglie, oppure, infine, tentava di far suoi grossi e pregiati esemplari, specialmente cernie, grazie a lenze, lunghe cordicelle color marroncino, attrezzate con ami di formato medio – grande, cui s’infilzavano, come esche, sardine o boghe, dotate d’una coppia di supporti di sughero e piombo, lasciate scivolare distese  in profondità medio alte su fondali di rocce e, da ultimo, fissate a terra, per poterle agevolmente ritirare dopo alcune ore o una giornata o notte, in genere sui due pizzi, o piccoli promontori verso il mare aperto, dell’Acquaviva.

Negli anni cinquanta e sessanta, il locale tratto d’acqua doveva essere particolarmente pescoso, tant’è che, in ogni stagione estiva, Consiglio riusciva a catturare svariati esemplari di cernia, taluni di grossa dimensione, sino a cinque/dieci chilogrammi di peso.

Pesci, che, in attesa di portarli allo spaccio di vendita della Cooperativa pescatori di Castro, l’uomo di adoperava di mantenere in vita, lasciandoli immersi in mare con l’amo in bocca, semplicemente legati e appesi al suo battello “S. Vitale”, ormeggiato all’interno dell’Acquaviva.

Nessuno che fosse tentato di maturare “brutti pensieri” riguardo a quelle ghiotte prede rimaste all’aperto, in mare. Correvano tempi ben diversi rispetto agli attuali.

Cercando e sperando di emulare il cugino pescatore estivo, anche mio padre Silvio, sporadicamente, s’esercitava a calare una lenza, fissandola sempre al pizzo dell’Acquaviva e il giovanissimo figlio, una volta, potette essere testimone della cattura d’una preda, una cernia di medie ma ad ogni modo apprezzabili dimensioni.

Per completare la serie di ricordi, rivolgendo lo sguardo sulla punta sinistra, verso il largo, dell’Acquaviva, ecco stagliarsi la figura d’un altro compaesano, Michele, il quale, da solo o in compagnia d’un amico, ogni tanto lanciava in mare i “botti”, rudimentali bombe auto confezionate, il cui scoppio stordiva, facendole  finire inermi a galla, frotte di pesci avvistate un istante prima nelle vicinanze della scogliera, in genere cefali e salpe, al che, Michele e l’eventuale compagno, via a tuffarsi nudi sulle onde e andare avanti e indietro per farne incetta e portare a casa un consistente bottino.

Con un occhio nuovamente al titolo di queste note, desidero adesso chiarire il perché dell’accostamento dell’Acquaviva all’Islam.

Ieri, a metà mattinata, mi trovavo nel cortile della mia villetta del mare, quando ho scorto, in transito a piedi sulla confinante strada provinciale, di ritorno dalla via litoranea, due giovani e carine ragazze con abiti di foggia musulmana, ossia col corpo quasi interamente coperto, tranne l’ovale del viso e pochissimo altro.

Sulla scia dell’inusitata visione, si è proposta avanti la curiosità: “Da dove venite, forse dall’Acquaviva?”.  “Avete fatto il bagno?”. “Ma come l’avete fatto, vestite, oppure con i costumi che si usano qui da noi?”. “V’è poca gente, all’Acquaviva, in questo periodo, vero?”.

Le due ragazze si sono immediatamente dimostrate disponibili al dialogo, ora annuendo, ora sorridendo, nessuna parola, però, in riferimento alla mia domanda indiscreta circa l’abbigliamento, diciamo così, per il bagno marino.

Le giovani hanno, quindi, proseguito in direzione del centro abitato di Marittima. Se non che, del tutto fortuitamente, dopo una mezzoretta, recatomi all’edicola per acquistare il quotidiano, mi sono nuovamente imbattuto nelle loro figure, notandole cioè sedute su una panchina nei paraggi, con bagagli a fianco.

Sono state precisamente loro a rivolgermi ancora un sorriso, e così mi sono avvicinato, domandando come mai stessero a Marittima, da dove provenissero e che cosa le avesse portate nel Basso Salento.

Cordiali e pronte le risposte: l’Egitto è il loro paese, vivono temporaneamente in Italia per un master in geologia presso l’università di Bari, la breve vacanza nel Salento, scoperto molto bello, è scaturita da un week end libero da impegni.

Per contraccambiare, ho fatto cenno, alle simpatiche ospiti, di due miei brevi soggiorni, nel passato, in località turistiche del Mar Rosso e, sentendo ciò, i loro occhi son diventati vieppiù luminosi e i sorrisi vieppiù aperti.

M’è sembrato, inoltre, opportuno riferire alle giovani che, attualmente, il Nunzio Apostolico, cioè il rappresentante del Papa, nel loro Paese è l’Arcivescovo cattolico Monsignor Bruno Musarò, nativo di Andrano, località confinante con Marittima, e, guarda la coincidenza, in questo periodo, don Bruno è qui in vacanza. Replica delle giovani all’unisono: “Wow!”, con i loro sguardi a incrociarsi, quasi a voler scambiare la comune sorpresa e meraviglia.

Non c’è che dire, un bell’intermezzo di dialogo fra il narratore salentino dai capelli bianchi e radi e due giovani e simpatiche ragazze musulmane.

Speciale e originale cordone di collegamento, la magica insenatura “Acquaviva” di Marittima.

L’Ultrarealismo, la nuova frontiera dall’arte: intervista a Rocco Normanno

 Intervista

di Gianluca Fedele

 

L’artista che incontriamo oggi è uno di quelli che si stagliano nell’Olimpo della pittura figurativa contemporanea. Non si resta indifferenti incrociando le opere di Rocco Normanno; rappresentazioni chiare dai messaggi inequivocabili che fotografano il nostro tempo utilizzando, con dovizia di particolari, i canoni pittorici del ‘600.

Ho conosciuto Normanno nel modo più semplice che ci possa essere oggi: Facebook. Un amico comune aveva condiviso il link riportante una notizia che lo riguardava e cioè che il dipinto “Testa di bue” gli fosse valso la vittoria del Premio Alferano di Castellabate (SA).

Appassionatomi immediatamente all’arte di questo giovane pittore salentino mi sono sentito autorizzato a mettermi in contatto con lui. Quando mi ha spiegato che vive e lavora in Toscana ho perduto le speranze di poterlo incontrare, almeno in tempi brevi, ma poi mi ha gentilmente rassicurato dicendo che ci saremmo potuti vedere nei primi di settembre, poiché sarebbe sceso in Puglia per alcune settimane di vacanza.

Lo raggiungo a Taurisano (LE) nell’abitazione della sua famiglia. È lì che si appoggia quando torna nella terra di origine. Ovviamente non ha nessun quadro con sé ma in casa trovo il ritratto di suo padre, realizzato in periodo accademico, dove già si esprimono la fedeltà della raffigurazione e lo studio minuzioso della luce.

Ceramiche - 2006 - cm 80 x 100, olio su tela -
Ceramiche – 2006 – cm 80 x 100, olio su tela

 

D.:

Intanto volevo ringraziarti per il tempo che stai dedicando a me e alla Fondazione Terra d’Otranto per la realizzazione di questa intervista, sottraendolo evidentemente al riposo della villeggiatura.

Classe 1974 e “amante delle atmosfere caravaggesche”, come si legge in un articolo che ti riguarda; raccontami la tua storia: com’è entrata a far parte della tua vita, l’arte?

 

R.:

L’arte, a dire il vero, è stata una presenza costante nella mia vita.

Sin da piccolo si manifestava come una sorta di spinta irrazionale. Non era per nulla peregrino il mio attaccamento alla luce del fuoco la sera, il piacere provocato dal barlume della fiamma di una candela nella stanza. Solo molto più avanti capii che quell’impulso interiore era destinato a diventare qualcosa di importante, di irrinunciabile.

I miei studi iniziali, infatti, furono ben diversi da quanto ci si aspetti conoscendomi oggi: qui a Lecce frequentai l’Istituto Professionale per il Commercio (ragioneria) e quando nel ‘93 mi iscrissi all’università scelsi di trasferirmi a Firenze per studiare lì Giurisprudenza.

Nel capoluogo toscano studiavo sì Legge ma, capirai, i miei occhi erano distratti da altro. Durante le ore libere dalle lezioni in facoltà e dallo studio, giravo per i musei, visitavo le mostre e più immergevo i sensi nella bellezza più in me cresceva l’insofferenza nei confronti dell’indirizzo universitario intrapreso; tutto questo fino a quando, un bel giorno, decisi drasticamente di interrompere gli studi.

A quel punto ero comprensibilmente confuso poiché il futuro mi appariva come mai incerto. Per mia grande fortuna all’epoca avevo da poco stretto amicizia con Gianfranco Bonelli, grafico e insegnante di Storia dell’Arte, al quale avevo mostrato alcuni disegni e che subito mi aveva suggerito di fare un test d’ammissione per entrare nell’Accademia di Belle Arti. Non gli nascosi lo scetticismo per la proposta che mi parve azzardata, se non altro perché non avevo le basi scolastiche giuste e credevo fosse, quella dell’arte, una realtà dalla quale sarei rimasto sempre tagliato fuori. Invece, grazie soprattutto alla preparazione che mi ha dato in soli quattro mesi, superai l’esame ed entrai in Accademia. Da quel momento mi si è aperto un mondo! Oggi sento di aver sprecato degli anni, di aver iniziato tardi a dipingere ma mi consolo con le storie di altri amici artisti che, come me, sono “inciampati” nell’arte solo dopo un percorso di studi – o addirittura professionale – che potremmo definire anomalo.

Come suol dirsi: meglio tardi che mai!

Compianto sul Cristo morto - 2004  -cm  325 x 220, tempera su tavola
Compianto sul Cristo morto – 2004 -cm 325 x 220, tempera su tavola

D.:

Quali sono gli artisti ai quali ti rifai nella personale ricerca stilistica?

 

R.:

A me emoziona tutta la pittura del ‘600, questo credo sia abbastanza evidente. Come base per il disegno ci metto dentro Leonardo e Raffaello, e ovviamente la cultura greca. Da qui parte una lista di grandi maestri che comprende Caravaggio, Guido Reni, Gherardo delle Notti, José de Ribera; un nucleo di artisti fondamentali, accomunati da una spasmodica ricerca della luce che talvolta, erroneamente, vediamo tutti indicati con l’appellativo di “caravaggeschi” pur non avendo, alcuni, avuto mai un contatto diretto con Michelangelo Merisi.

 

D.:

Il realismo delle tue opere è lampante; quanto conta per te aver raggiunto questo grado di perfezione figurativa?

 

R.:

Per me la tecnica è fondamentale. Rimango convinto che un bravo artista sia un ottimo artigiano con qualcosa da dire. L’opera finita è un prodotto che innanzitutto è stato costruito seguendo rigorosi criteri tecnici, tenendo conto dei giusti materiali, degli strumenti, delle varie fasi e tutto il resto. Secondo me è molto più complicato essere un artista senza avere una tecnica di base. Partendo da questo presupposto prendiamo ad esempio i cantanti di lirica, possono avere la voce ma se non hanno preparazione non entreranno mai nei grandi teatri; lo stesso vale per gli scrittori, possono avere un grande romanzo nella testa ma devono anche e soprattutto saperlo raccontare per sperare di appassionare i loro lettori. Ecco, credo che la regola appena espressa valga a maggior ragione nel mondo della pittura, dove la forma è più che mai fondamentale. È il raggiungimento di una determinata precisione della forma, quindi, a donare alla pittura – o alla scultura – quel valore indefinibile e alto.

Ricordo che in accademia c’era un professore il quale non amava particolarmente il mio stile e non perdeva occasione per spronarmi a “uscire” da quella rappresentazione che giudicava troppo classica. Io invece mi ripresentavo da lui sempre, convintamente coi miei lavori, pur nella consapevolezza che mi sarebbero potuti costare qualche voto in meno. Con la perseveranza ho avuto la mia piccola rivincita. Quello che penso è che gli artisti non dovrebbero mai violare il proprio istinto inseguendo le mode del momento, o le richieste che talvolta vengono da certi “salotti”, perché poi col tempo si finisce per firmare i lavori realizzati da altri. E non c’è nessun merito in questo.

Eva (Fiona May) - 2009 - 110 x 80cm, Olio su tela
Eva (Fiona May) – 2009 – 110 x 80cm, Olio su tela

 

D.:

Molte delle tue opere esprimono concetti di estrema attualità adoperando iconografia sacra e mitologia. Dove va rintracciata la relazione tra questi aspetti, modernità e mito, apparentemente incompatibili e distanti?

 

R.:

Va precisato che non vi è mai una spinta religiosa dietro la realizzazione delle mie opere. Non mi importa affatto se il fruitore dell’immagine che ho dipinto sia credente oppure agnostico, non mi pongo assolutamente il problema. Viceversa trovo affascinanti le storie che dalla Bibbia e dal Vangelo vengono riportate, lo stesso nei racconti della mitologia. Mi concentro su tutti quei fattori ai quali reagiscono gli impulsi umani e che, dopo tutto, non sono mutati in millenni di storia dell’uomo. Se ci facciamo caso le necessità e le pulsioni sono sempre le stesse: il bene e il male come l’amarsi e l’odiarsi restano aspetti assoggettati ai medesimi meccanismi. Da sempre.

Il riadattamento alla nostra contemporaneità viene da sé. Voglio dire che sarebbe anacronistico se mi mettessi a dipingere personaggi che non appartengono al tempo in cui vivo. Per ciò che concerne le tematiche, invece, io credo siano sempre valide, soprattutto quelle trattate nei testi sacri e mitologici.

 

Giuditta e Oloferne - 2006 - cm 110 x 140, olio su tela
Giuditta e Oloferne – 2006 – cm 110 x 140, olio su tela

D.:

Dopo decenni di pittura informale noto con piacere un ritorno al figurativo; c’è, secondo te, una connessione tra questa urgenza artistica e la società odierna?

 

R.:

Io credo che il mondo dell’arte sia assoggettato a un andamento ciclico, per certi versi ondulatorio. Oltretutto, se escludiamo le ultime tendenze più innovative (mi riferisco alle opere in digitale la cui realizzazione è inevitabilmente connessa all’impiego del computer) oramai in nome dell’arte è stato fatto di tutto e di più. Se partiamo osservando l’arte bizantina – che in qualche modo è astratta –, proseguendo nel tempo potremo constatare un graduale mutamento delle forme e delle fisionomie nella rappresentazione pittorica, che diverrà coi secoli sempre più fedele e conforme al reale. Dalla seconda metà dell’ottocento fino a oggi gli artisti hanno largamente sperimentato ogni forma astratta fino all’informale. Oggi, proprio per l’andamento ciclico di cui parlavo, c’è un interessante ritorno verso l’arte figurativa.

Mi torna in mente il concetto fisico secondo il quale «Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma».

 

D.:

Ci sono i colleghi contemporanei ai quali ti senti artisticamente vicino?

 

R.:

Sono certamente in buona compagnia e i nomi che mi vengono in mente sono diversi: dal tarantino Roberto Ferri a Gianluca Corona di Milano, l’arte figurativa va prendendo piede sempre più. Di recente ho anche fatto la conoscenza di un giovane pittore napoletano con un nome strepitoso: Michelangelo Della Morte.

È un bel movimento quello che sta germinando e lo percepisco come l’entusiasmante ritorno alla figurazione classica.

 

D.:

Possiamo dare un nome a questo fermento culturale, che ha tutta l’aria di essere una vera e propria corrente artistica?

 

R.:

L’amico Francesco Libè, tempo fa, per connotare questo fenomeno quale conseguente e fisiologica successione del Realismo prima e del Neorealismo poi, mi parlava di “Ultrarealismo”. Che non va però confuso con l’Iperrealismo, differente nella tecnica e soprattutto nei presupposti.

 Montaggio Tela

D.:

Quando sei partito per la prima volta cosa ti sei portato con te dal Salento?

 

R.:

Il sangue, me stesso, la cultura, le tradizioni e i valori! Ma soprattutto la luce.

La luce dei miei quadri, in realtà, è la luce di qui. Se ti fermi a osservare il chiarore che si genera in certe ore non puoi sbagliare: quella è la luce del Caravaggio.

Tornando alla domanda, la semplicità di alcune composizioni che a me piacciono molto viene dalla essenzialità di certi nostri oggetti di uso quotidiano, come ad esempio la “pignata” (contenitore per cucinare i legumi al fuoco) o “lu mmile” (orciolo in terracotta per mantenere fresca l’acqua), protagonisti tra l’altro delle mie prime raffigurazioni di natura morta. Tutti questi elementi e molto altro sono parte integrante della mia formazione e quindi della mia essenza.

 

D.:

Hai in programma di tornare? Se si, con quali aspettative?

 

R.:

In effetti sto attraversando un momento nel quale mi piacerebbe molto tornare a dipingere nel Salento, ma senza alcuna aspettativa utilitaristica se non quella di cercare modelli per i miei dipinti. Sono interessato a dipingere certe anatomie particolari che ritrovo solo qui. E vorrei farlo prima che l’omologazione estingua queste figure arcaiche, già rare.

Ho anche in mente di approfondire la figurazione di genere, scene prese da quel quotidiano che va velocemente scomparendo. A questo proposito ho già iniziato un progetto che vede come protagoniste due donne anziane – tra le quali mia madre – che tessono al telaio come si faceva un tempo, quando si usava realizzare il corredo per le figlie.

Infine ho bisogno di rivivere il Sud con leggerezza, senza quell’angoscia adolescenziale che ti fa star male e ti spinge ad andare via.

 

Ritratti dei modelli  per Fuga dall'Egitto
Ritratti dei modelli per Fuga dall’Egitto

D.:

Tornando nel Salento e pensando a una mostra personale dove ti piacerebbe esporre?

 

R.:

Da Lecce in giù, praticamente ovunque.

D.:

Hai qualche galleria che ti segue?

 

R.:

Attualmente non vi è alcuna galleria a curare la mia immagine e le mie opere. Aggiungerò che la sola persona che in questo senso devo ringraziare è Vittorio Sgarbi che mi ha aiutato disinteressatamente offrendomi delle occasioni professionali di buon livello.

Tutto il resto è frutto di costanza, perseveranza e tanto lavoro.

 

D.:

Ci sono altre persone che hanno contribuito al tuo successo?

 

R.:

L’elenco sarebbe veramente troppo lungo, partendo dai tanti amici e sostenitori tra cui un restauratore a cui devo molto, e infine i modelli che tante volte si sono prestati pazientemente per le ore di posa. Infine i collezionisti che acquistando un mio quadro mi hanno permesso di continuare a dipingere.

 

Studio per un Cireneo - 2006 - cm 50 x 70,  carboncino e biacca su carta azzurra
Studio per un Cireneo – 2006 – cm 50 x 70, carboncino e biacca su carta azzurra

D.:

Ho una domanda proprio a proposito dei modelli; so, infatti, che hai il vezzo di scegliere individui non solo esteticamente adeguati ai personaggi da raffigurare ma persino con una storia personale simile ai soggetti che incarnano. È esatto?

 

R.:

Si, ci sono state diverse occasioni nelle quali ho voluto fortemente che tra modelli e personaggi vi fosse un qualche legame che mi evocasse delle connessioni. Nella rappresentazione di “Salomè”, ad esempio, la principessa giudaica e il profeta martirizzato altri non sono che due coniugi divorziati ma rimasti in buoni rapporti. Nella scena attualizzata (o forse solo nel mio immaginario) ci sarà quindi una moglie con la testa mozzata dell’ex marito come una sorta di trofeo.

Ancora, nel dipinto “Abele e Caino” i due modelli scelti per l’occasione sono realmente due fratelli, e la storia dell’uomo che interpreta Abele si può dire essere stata più agiata rispetto al vissuto del fratello che interpreta Caino. Una affinità che naturalmente, almeno qui, non si conclude con l’omicidio, per fortuna.

 

D.:

I modelli che scegli si prestano volentieri oppure hai bisogno di persuaderli in qualche modo?

 

R.:

Sino a oggi non mi è capitato di dover convincere nessuno a posare per me. Tutti i modelli coi quali ho condiviso questa esperienza lo hanno fatto in maniera convinta, anche perché si sono sentiti rispettati già attraverso la presa visione delle immagini fotografiche che precedono l’inizio di ogni lavoro. Persino Fiona May, che ha posato mentre era al quarto mese di gravidanza, lo ha fatto con grande spontaneità e disponibilità, interpretando a meraviglia la mia “Eva” di colore. Una scelta audace, quella dell’atleta, di sposare innanzitutto il mio progetto contro il razzismo, impersonando la prima donna biblica che, col suo colore della pelle, contravviene all’immaginario collettivo.

Secondo l’antropologia, infatti, la razza umana ha origini africane.

 

D.:

Quando deciderai di stabilirti nuovamente qui al Sud ci saranno delle espressioni altisonanti con le quali dovrai convivere: profughi, emergenza, clandestini, accoglienza, ecc.. Come credi di affrontare emotivamente questa realtà?

 

R.:

Di recente in Toscana ho incontrato un funzionario consolare italiano in servizio Cambogia sposato con una donna Keniota che ha conosciuto in un viaggio di lavoro. Mi è piaciuta molto la loro storia e presto realizzerò una “Fuga dall’Egitto” per la quale ho fatto posare proprio questi due amici, nei panni di Giuseppe e Maria.

E questo è uno dei modi col quale intendo affrontare una tematica così drammatica e complessa. Non sarebbe da me ritrarre corpi umani arenati sulla spiaggia o altre scene così crude prese dall’attualità. Infatti preferisco realizzare le mie opere attraverso una sorta di ricostruzione teatrale in modo da filtrare la tragedia affinché l’impatto drammatico-emotivo non attenui la presa di coscienza.

 

Studio per una Crocifissione - 2015 - cm 300 x 210, carboncino e biacca su mdf
Studio per una Crocifissione – 2015 – cm 300 x 210, carboncino e biacca su mdf

D.:

In un’epoca presa in ostaggio dai reality televisivi e dominata dalla mediocrità, quali spazi occupa l’arte e che obiettivi si prefigge?

 

R.:

L’arte si deve imporre obiettivi ambiziosi e deve tornare a essere alla portata di tutti, sia dal punto di vista concettuale e sia da quello logistico, riappropriandosi di tutti quei luoghi utili alla fruibilità collettiva.

Infatti l’arte oggi deve riconquistare una “dimensione democratica”, tornando a far parte integrante della cultura di un popolo, suscitando emozioni che inducano alla riflessione e alla comprensione del proprio tempo e della propria storia, senza il bisogno di dover essere un critico d’arte o uno storico per apprezzarla.

 

D.:

In conclusione di questa piacevolissima chiacchierata ti chiedo dov’è che ambisce Rocco Normanno a vedere esposti i suoi dipinti?

 

R.:

In una chiesa!  Come in un qualsiasi altro luogo pubblico.

 

Testa di bue - 2015 - cm 100 x 115, olio su tavola
Testa di bue – 2015 – cm 100 x 115, olio su tavola

La poesia del foruncolo

di Armando Polito

Foruncolo nel dialetto neretino è frùnchiu. La voce italiana è dal latino furùnculu(m), forma diminutiva con sfumatura dispregiativa di fur=ladro, come homùnculus (da cui l’italiano omuncolo) è da homo=uomo. Stesso etimo ha la voce dialettale, che ha seguito la trafila furùnculu(m)>*frunclum (sincope di u in posizione atona)>frùnchiu [(normale passaggio -cl->-ch- come in chiaro da claru(m), etc. etc.

Cosa hanno in comune, però, il ladro ed il foruncolo? Furùnculus in latino, oltre che significare ladruncolo1, designa pure in Celso (I secolo d. C.)2 la spiacevole infiammazione purulenta che conosciamo e in Columella (I secolo dopo C.)3 il germoglio della vite. Proprio la caratteristica di detto germoglio, quando è secondario, di sottrarre, rubare, nutrimento alla pianta ha ispirato lo slittamento metaforico dal significato originario di piccolo ladro.

La metafora, si sa, è una delle figure retoriche fondamentali della produzione letteraria, sia in prosa che poesia, anche se, è arcinoto, essa ebbe la sua stagione più felice nell’età barocca. Il troppo storpia in ogni campo, compresa la letteratura e non è un caso se il suo abuso non abbia sortito in quel periodo esiti sempre poeticamente felici, nonostante la poetica fosse stata teorizzata dal suo massimo rappresentante, Giovambattista Marino, nell’arcinota affermazione È del poeta il fin la meraviglia/(parlo de l’eccellente, non del goffo):/chi non sa far stupir, vada a la striglia.4

Con lo scopo esclusivo di stupire non era raro, come puntualmente successe, che parecchi partorissero immagini più goffe che eccellenti, a volte così elaborate da rendere quasi impossibile la ricostruzione dei passaggi intermedi e da essere, in qualche caso, pressoché incomprensibili; il tutto a riprova che la tecnica, in ogni campo, è importante ma da sola non basta.

Per tornare al nostro foruncolo, va sottolineato che il passaggio metaforico dal concetto primitivo di ladruncolo a quello di foruncolo (quasi ladro di linfa al corpo) e di germoglio della vite (quasi ladro di linfa alla pianta, com’è quello secondario, in neretino pitalora5) è complicato quanto basta per conferire alla traslazione dei toni poetici. In più ho il sospetto che proprio questa metafora non sia firmata da Columella, cioè che forùnculus (=germoglio della vite) non sia un termine quasi tecnico, ma che lo scrittore romano l’abbia mediato dal popolo e che la metafora, perciò, sia frutto della fantasia popolare, nella fattispecie contadina, e non dell’elaborazione mentale di un letterato.

Non ci sono sospetti, invece, per l’origine tutta popolare della metafora che sottende riu, in passato usato anche come sinonimo di frùnchiu ma più spesso per indicare le classiche sbucciature delle ginocchia dei bambini un po’ irrequieti del tempo che fu, specialmente quando a tali escoriazioni, per quanto superficiali, subentrava un’infezione.

Riu, infatti, avrebbe  il suo corrispondente italiano in reo che nel linguaggio corrente è sinonimo di colpevole, conservando in questo  il valore sostantivale originario [dal latino reu(m)=colpevole], ma che nel linguaggio letterario ha assunto il valore aggettivale di malvagio, crudele.

Prima ho detto avrebbe, perché è questa l’opinione del Rohlfs il quale nel secondo volume del suo vocabolario al lemma corrispondente non avanza alcuna proposta etimologica, nemmeno in forma dubitativa, ma nel terzo, che funge da appendice (dunque riservato agli ultimi aggiornamenti) si legge “riu=pustoletta: [=it. rio=cattivo]”.

Mi meraviglia, però, il fatto che il maestro tedesco esibisca una certezza assoluta nel terzo volume dopo aver gettato la spugna, anzi dopo non aver proprio iniziato il combattimento,  nel secondo. È impossibile che egli non abbia pensato  ad un’ipotesi etimologica e di colpo, sia pure dopo un po’ di tempo, abbia creduto di aver trovato la soluzione del problema, passando dal buio pesto alla luce piena.

Già, ma a cosa avrà pensato, magari provvisoriamente, nel primo tentativo, che pure avrà fatto, rivelatosi infruttuoso? Solo un pazzo potrebbe sostenere che di massima è attendibile la ricostruzione di un processo mentale di un altro (quando non siamo in grado di analizzare e controllare nemmeno i nostri …), ma mi chiedo se non sia balenato al Rohlfs almeno il sospetto che riu potesse corrispondere non all’italiano rio (=colpevole), ma all’altrettanto italiano rio (=ruscello) [dal latino rivu(m)=ruscello, con sincope di v intervocalica, come nel nostro dialetto in faa da fava, nae da nave, etc, etc.], che ai più anziani ricorderà Rio Bo, la poesia, immancabile nelle antologie dei tempi passati, di Aldo Palazzeschi, mentre solo qualche giovane particolarmente sveglio sobbalzerà nel percepire l’assonanza con Riobbo, il nome della discoteca di Gallipoli; ma, dopo il primo sobbalzo, se ci sarà, tutto si fermerà, non per sua colpa, lì …

Se è così, la metafora basata sull’idea di un fiumicello che scorre avrebbe un spessore più concreto rispetto a quella basata sul concetto astratto di crudeltà.

Comunque stiano le cose, almeno questo è certo: la poeticità di riu, come è più di quella di frùnchiu, è fuori discussione. Se, poi, dopo tutto quello che ho detto, frunchi e rii da oggi faranno meno schifo anche a pochi di voi, vuol dire, che almeno per quei pochi, questo post non sarà stato inutile … e per rispetto agli altri che, magari, trattenendo il ribrezzo, avranno letto stimolati solo da una curiosità di tipo facebookiano,  questa volta non riporterò nemmeno in coda né una vignetta (visto l’etimo di foruncolo ci sarebbe andata …) né tanto meno un’immagine.

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1 Cicerone, In Pisonem, XXVII.

2 De medicina, V, 28.

3 De re rustica, IV, 22 e 24.

4 Murtoleide, Fischiata XXXIII, 9-11.

5 Da pedale, aggettivo di piede (la pitalora è la gemma parassita, perciò va eliminata, che si forma sul ceppo) secondo lo stesso processo di formazione di cazza>cazzale>cazzalora, strattu>strattale>strattalora, ‘mbruffu>’mbruffale>’mbruffalora, etc., etc.

Spese amministrative d’altri tempi (XVI secolo) in Terra d’Otranto, privilegi della casta inclusi (3/5)

di Armando Polito

f. 175v

f. 176r 

 

f. 176v

     

f. 183r

f. 183v

Nella prossima puntata: spese amministrative di vario tipo ed entità, nonché qualche entrata.

(CONTINUA)

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/09/07/spese-amministrative-daltri-tempi-seconda-meta-del-xvi-secolo-in-terra-dotranto-privilegi-della-casta-inclusi-15/

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/09/08/spese-amministrative-daltri-tempi-xvi-secolo-in-terra-dotranto-privilegi-della-casta-inclusi-25/

Puglia 1743: lo tsunami “ritrovato”. Intervista al prof. Paolo Sansò

salento

Quando si parla di terremoti e tsunami avvenuti nel nostro paese, molti ricordano soprattutto gli eventi più recenti. Per questo l’opinione pubblica nell’ultimo secolo ha considerato tra le regioni più sismiche d’Italia la Calabria, la Sicilia, il Friuli, la Campania, l’Abruzzo ed ultimamente anche l’Emilia. La Puglia viene spesso dimenticata ed in effetti ampie zone del suo territorio, in particolare la sua propaggine meridionale, il cosiddetto “tacco”, sono classificate tra le aree meno rischiose di tutto il territorio nazionale ai fini di un possibile disastro tellurico. La storia però, a chi sa interpretarla, racconta situazioni leggermente diverse che possono generare attente riflessioni per la salvaguardia del nostro territorio. Il geologo Giampiero Petrucci ne parla con il Prof. Paolo Sansò, docente di Geografia Fisica e Geomorfologia presso l’Università del Salento di Lecce nonché esperto dell’evoluzione geomorfologica del paesaggio costiero pugliese…

 

Leggi qui l’intervista:

http://www.meteoweb.eu/2012/10/puglia-1743-lo-tsunami-ritrovato-intervista-al-prof-paolo-sanso/157438/

Amarcord salentino (1/?)

di Armando Polito

Qualcuno penserà che proprio io, che su questo blog non mi son lasciato mai sfuggire l’occasione di stigmatizzare l’anglofonia imperversante nella nostra lingua, questa volta non ho potuto o voluto evitare di usare una voce (amarcord, appunto) che ha tutti i crismi per sembrare inglese.

Se per monitor che sembra anch’esso inglese ma in realtà è latino (la voce inglese nasce dalla locuzione monitor screen, il cui primo componente è il latino mònitor che significa avvertitore, da monère=far ricordare, avvertire) viene scomodata la lingua dei nostri antenati, per amarcord il passo nel tempo è molto più vicino e coinvolge non il latino ma il dialetto romagnolo, visto che la voce, titolo di un film di Federico Fellini del 1973 e di una raccolta di poesie  in vernacolo dello stesso Fellini e di Tonino Guerra (loro era stato il soggetto e la sceneggiatura del film) uscita per i tipi di Edice Odeon a Praga nello stesso anno e per quelli di Rizzoli a Milano l’anno successivo, deriva dalla locuzione m’arcord=mi ricordo.

Debbo aggiungere, però, che Tonino Guerra in un’intervista dichiarò che in realtà amarcord nasce da – Amaro Cora! -, ordinazione con cui i ricchi avventori manifestavano nel bar la raffinatezza del loro gusto. Insomma, la prima etimologia, che pure è l’unica riportata da tutti i vocabolari, sarebbe solo frutto di una casuale assonanza. Amarcord per amarcord:  i meno giovani (diciamo così …) ricorderanno senz’altro lo spot del tapino che al bar chiedeva – Un brandy! – e all’invito del barista a specificare quale ribadiva – Uno qualunque! -; il poveretto veniva di botto sepolto da un coro di – Che figura! –  ed umiliato da – Il signore sì che se ne intende! – rivolto dal barista ad un altro avventore che subito dopo aveva ordinato il brandy del momento pronunziando il nome forte e chiaro.

Lascerò ora da parte etimologia, filmografia, pubblicità e vi accompagnerò in un breve viaggio sul filo della memoria; e lo farò coll’aiuto di alcune immagini d’epoca, tratte tutte dalla comunità facebookiana Salento come eravamo, che invito a visitare perché ne vale veramente la pena. Il confronto con la situazione attuale, quando sono coinvolti i luoghi, è stato fatto con l’ausilio di immagini tratte ed adattate da Google Maps. A tal proposito invito i lettori a non esitare ad inviare alla redazioni foto recenti in cui taglio e prospettiva coincidono maggiormente con quelli della foto antica.

NARDÒ, VIA XXV LUGLIO (incrocio con via Verdi)

n1

 

LA PUTICHEDDHA

   

Prima dell’avvento  della grande distribuzione con i supermercati e le loro sezioni specializzate ogni rione aveva la sua rivendita di generi alimentari, cioè la puticheddha, diminutivo di puteca, sulla cui etimologia rinvio a https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/24/la-puteca-e-lapoteca-natura-ovvero-a-volte-le-parole-tornano-ma-in-che-modo/. Nel locale, per lo più non molto ampio, si respirava un’atmosfera particolare, intesa nel senso letterale di aria impregnata dalla miscela dei profumi dei generi alimentari in vendita ed in quello metaforico di rapporto umano tra il gestore ed il cliente. Nella foto è visibile il bancone in cui quelli che qualcuno con ironia macabra potrebbe definire loculi erano dei cassetti contenenti i legumi, ovviamente sfusi, che venivano prelevati ad occhio (e ci si sbagliava raramente …) nella quantità voluta dal cliente (si procedeva, comunque, subito dopo alla pesatura) con la sèssula1, una sorta di grande cucchiaio prima di legno, poi di latta.

La forma particolare dell’attrezzo aveva ispirato la frase offensiva capu ti sèssula, equivalente all’attuale testa di cazzo.

Tra il commerciante ed il cliente si instaurava un rapporto fiduciario che aveva il suo risvolto più concreto nella libretta, su cui veniva annotata giorno per giorno la spesa, sovente con registrazione delle singole voci, per procedere di solito alla fine del mese al calcolo del totale e al saldo del debito. Non erano escluse in qualche caso dilazioni nel pagamento, senza interessi (anche se qualche commerciante disonesto e finto benefattore provvisorio avrà alla resa dei conti aggiunto qualche 0 in posizione strategica, approfittando della scarsa dimestichezza del cliente  con l’aritmetica …).

La pratica del pagamento dilazionato era tanto diffusa che non era neppure necessario che il cliente pronunciasse la fatidica parola: – Segna! -.

 

LA CHIAMATA

Nessuno può dire se i due giovani sulla Vespa portarono quel giorno a termine, e con quale esito, il loro primo tentativo di approccio (chiamata, di solito precedente la vera e propria dichiarazione d’amore). Sembra che la foto abbia congelato tutti gli ingredienti della situazione: il procedere lento della Vespa, l’apparente indifferenza delle due ragazze che già sanno, e forse sperano …, cosa potrebbe significare  quel rombo smorzatamente scoppiettante, gli spettatori, di tutte le età, distribuiti su più piani e, per giocare con le parole, debbo far notare come parecchi hanno scelto il balcone del primo piano con largo anticipo, oppure vi si sono precipitati all’ultimo momento …

Qualche anno dopo alla Vespa si sostituirà la macchina con il conducente comodamente seduto, mentre lei leggermente piegata verso il finestrino abbassato, sarà impegnata in una conversazione scandita da parte sua da gesti tra l’ammiccante ed il pudico, in cui non sarà certamente l’interpretazione di una poesia o una riflessione di natura filosofica l‘oggetto del contendere, mentre, ad intervalli più o meno regolari, lo sguardo volerà a destra, a sinistra e pure dietro alla scoperta di infami (lo penserà lei ma lo dico pure io oggi …) delatori.

 

LI CANDILLINI TI LA ZZITA (I cannellini della sposa).

  

L’uscita degli sposi (zzitu e zzita, probabilmente dal toscano citto/citta=ragazzo/ragazza ) dalla chiesa e la loro sfilata per le strade del paese erano accompagnate dal lancio di cannellini. Cannellino in tutti i vocabolari è considerato diminutivo di cannello, a sua volta diminutivo di canna. Non bisogna, però, pensare alla sua forma allungata che somiglia con un po’di fantasia,  ad una piccola canna, un cannello, appunto; bisogna pensare alla cannella, cioè alla spezia che, imprigionata all’interno dello zucchero, costituiva l’anima di questa specie di confetto. Che poi cannella sia diminutivo di canna per la forma con cui è messa in commercio non cambia nulla in rapporto alla precisazione che mi è sembrato doveroso fare. Candillini deriva da cannellini con dissimilazione –nn->nd- (probabilmente per ipercorrettismo, cioè per il processo inverso che dall’italiano quando ha portato alla variante salentina quannu; in altre parole: cannellino ha subito una “correzione” perché il suo gruppo -nn- sembrava dialettale.

Era scontato che in quella circostanza frotte di ragazzini facessero a gara a raccogliere dal selciato il maggior numero di candillini, e non certo con l’intenzione di rilanciarli. Non era certamente molto igienico, ma forse il sistema immunitario a quei tempi in tutti, ragazzini e non, funzionava meglio …

Prima di congedarmi con le immagini successive senza commentarle voglio precisare che la sostituzione del punto interrogativo del titolo con numeri superiori all’1 potrà avvenire solo se i lettori manifesteranno il loro interesse (ho detto interesse, non gradimento …) con un commento o, preferibilmente, come ho già auspicato, con una collaborazione in cui il documento, meglio se antico, abbia il suo ruolo principale.

 

LU FURNU

 

(CONTINUA?)

_______________

1 In italiano sèssola o sàssola, di incerta origine. Secondo il Rohlfs la voce probabilmente è dall’arabo sàthal=secchio per attingere, a sua volta dal latino sìtula, dal quale, attraverso la forma tarda sicla, è derivato l’italiano secchio.

 

 

San Giuseppe da Copertino in due medaglie del XVIII secolo custodite nella Biblioteca reale del Belgio

di Armando Polito

Le immagini delle medaglie che seguiranno sono tratte da http://opac.kbr.be/index.php?P0=QFICCAT&All=0&HIDFILTER=&BBTEL=0&PINITP=0&AA=%2BZoek%2B&lang=FR&select%5B%5D=P00000&P08200=D&searchfield%5B%5D=cupertino.

Le due facciate di ogni foglio (o carta) di un manoscritto e le due facce di monete o di medaglie vengono indicate con r, abbreviazione di retto, e con v, abbreviazione di verso (nei manoscritti preceduti dal numero del foglio). Di regola in un manoscritto è il retto del foglio ad ospitare il titolo dell’opera o, comunque, il suo incipit. Sarebbe strano, innaturale, infatti, se ciò avvenisse non in modo immediato, costringendo il lettore a voltare (verso è da vèrtere=voltare, far girare, come, d’altra parte, conferma il sinonimo rovescio) la pagina per leggere sulla sua seconda facciata. Per questo è intuitivo quanto le voci retto/diritto/dritto si portino appresso un’aureola d’importanza rispetto a rovescio/verso. L’espressione testa o croce, invece, è immune da tale qualifica, anche se nelle monete antiche di regola il dritto raffigurava la testa o il busto di un personaggio, naturalmente importante, o di una divinità e la legenda, cioè la scritta, ne riportava il nome e i titoli), mentre il  il rovescio di solito mostrava lo stesso personaggio nell’espletamento di una sua funzione (alla quale di solito faceva riferimento la relativa legenda).

med1

Nel caso di questa prima medaglia è veramente complicato distinguere il dritto dal rovescio, a meno che non si voglia considerare discriminante la maggiore grandezza delle lettere della legenda della faccia a destra di chi legge. Potrei, però, obiettare che lo spazio a disposizione non era uguale per le due legende, che ora riproduco con lo scioglimento delle abbreviazioni.

S(ANCTUS) IOSEPH A CUPERTIN(O) ORD(INIS) M(INORUM) CON(VENTUALIUM) S(ANCTI) F(RANCISCI)

San Giuseppe da Copertino dell’ordine dei Minori Conventuali di San Francesco 

SAN FRANCESCO ORA PRO N(OBIS)

San Francesco prega per noi

A questo punto, tenendo conto delle sette abbreviazioni della prima legenda e dell’unica della seconda, direi proprio che l’obiezione di prima dev’essere accolta e che la par condicio sia stata rispettata, cosa che, pure a me che a modo mio sono non credente, dovrebbe essere ovvia, almeno per i santi, nonostante il fatto che in un attacco acuto di campanilismo un salentino potrebbe affermare la non casualità della presenza di San Giuseppe su una faccia di due medaglie diverse, anche, se, più o meno, della stessa epoca.

Tutto preso dalla questione del dritto e del rovescio mi son dimenticato di dire che i due santi appaiono entrambi in un’inquadratura (con un taglio all’altezza delle ginocchia) che oggi nel gergo cinematografico è detta piano americano, sono leggermente voltati alla loro destra e hanno l’aureola. San Giuseppe ha braccia aperte con le mani in un gesto beneaugurante sì, ma che trasmette un messaggio di umana, universale partecipazione. San Francesco ha tra le mani il Crocifisso.

Passo ora alla seconda medaglia.

B(EATUS) IOSEPH A CVPERTINA

Beato Giuseppe da Copertino

Sorprende quel CUPERTINA, che non riesco a spiegarmi se non attribuendolo ad un errore dell’incisore, forse suggestionato dal PADOVA (sia pure abbreviato in P.) dell’altra faccia. In alternativa potrebbe aver tratto il dato da qualche documento d’archivio, magari leggendo frettolosamente come -a una -o forse graficamente ambigua. Il santo è rappresentato con l’aureola, a figura intera, inginocchiato e voltato alla sua destra con le braccia aperte davanti ad una grande croce che si staglia in primo piano. Tale  ìconografia non è in linea con quella dominante nei secoli XVII-XVIII, in cui , quando compare la croce, il santo è rappresentato in volo di fronte ad essa. Di seguito due esempi, il primo (XVII secolo) da Sarnano (MC), il secondo (XVIII secolo), opera di Giuseppe Cades (oggetto di numerose copie) custodita a Roma nella Basilica dei Santi XII Apostoli.

Immagini tratte, rispettivamente, da http://www.culturaitalia.it/opencms/viewItem.jsp?language=en&case=&id=oai%3Asirpac.cultura.marche.it%3A8474 e da http://sangiuseppedacopertino.net/san-giuseppe-nellarte/#!prettyPhoto[1]/http://sangiuseppedacopertino.net/wp-content/gallery/san-giuseppe-nell-arte/Roma-SS.-Apostoli-Giuseppe-Cades-Estasi-durante-la-S.-Messa.jpg
Immagini tratte, rispettivamente, da http://www.culturaitalia.it/opencms/viewItem.jsp?language=en&case=&id=oai%3Asirpac.cultura.marche.it%3A8474 e da http://sangiuseppedacopertino.net/san-giuseppe-nellarte/#!prettyPhoto[1]/http://sangiuseppedacopertino.net/wp-content/gallery/san-giuseppe-nell-arte/Roma-SS.-Apostoli-Giuseppe-Cades-Estasi-durante-la-S.-Messa.jpg

Passo ora alla leggenda dell’altra faccia.

S(ANCTUS) AN(TONIUS) D(E) P(ADUA)

Sant’Antonio da Padova

Il santo, con l’aureola, appare con lo stesso taglio della medaglia precedente, volto di ¾ alla sua destra, con gli avambracci tesi verso Gesù Bambino con aureola. Anche per questa medaglia, in cui peraltro le lettere sono delle stesse dimensioni e il numero delle abbreviazioni è invertito rispetto alla precedente, non è il caso di perdere, e far perdere al lettore, ulteriore tempo nel decidere quale sarebbe il diritto e quale il rovescio.

Spese amministrative d’altri tempi (XVI secolo) in Terra d’Otranto, privilegi della casta inclusi (2/5)

di Armando Polito

1° volume, f. 117r

b

f. 117v

f. 118r

f. 118v

f. 119r

f. 121v

f. 122r

La prossima puntata riguarderà le saline e i fondachi del sale.

(CONTINUA)

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/09/07/spese-amministrative-daltri-tempi-seconda-meta-del-xvi-secolo-in-terra-dotranto-privilegi-della-casta-inclusi-15/

P. S.

Sono grato al sig. Luciano Antonazzo per avermi suggerito in data 18 febbraio 2016 lo scioglimento dell’abbreviazione di cui alla nota b al foglio 118r in “proxime paxati” (passati da poco). La cosa per me è abbastanza vergognosa perché si tratta di uno scioglimento che potremmo definire “da manuale”. E, se anche”quandoque bonus dormitat Homerus, io non sono nì “bonus” nè, tantomeno, “Homerus” …

Spese amministrative d’altri tempi (seconda metà del XVI secolo) in Terra d’Otranto, privilegi della casta inclusi (1/5)

di Armando Polito

Finché nella tanto sbandierata riforma della Costituzione non verrà affiancato ai vari tipi di referendum (tra i quali, quello abrogativo, più volte ignobilmente e truffaldinamente disatteso) quello propositivo, non usciremo mai dalla famigerata palude dalla quale il governo di turno puntualmente promette a parole  di liberarci, ma le cui sabbie mobili alimenta quotidianamente con alcuni suoi provvedimenti che puntualmente soffocano le residue speranze nutrite dai pochi onesti rimasti. Se è da ingenui illudersi che la casta emani leggi che rappresenterebbero il classico colpo della zappa sui piedi, comincia a diventare altrettanto illusorio credere che una opposizione, per quanto agguerrita e non sfiorata da avvisi di garanzia e simili, possa riuscire a far passare leggi che eliminino privilegi assurdi (in un regime democratico lo sarebbero anche se essi fossero riservati a persone degnissime …) che gridano vendetta agli occhi di chi non può nemmeno salvaguardare il bene primario, cioè la salute, più importante della vita dignitosa, il cui contenuto può essere oggetto di interpretazioni soggettive.

Corruzione, intrallazzi, prevaricazioni, morale cangiante a seconda dei soggetti hanno da sempre accompagnato la storia dell’umanità e, dunque, anche la vita politica e, in generale, il potere, laico e religioso. Oggi corruzione, intrallazzi, prevaricazione e morale cangiante sono le colonne portanti del potere, ribadisco laico e religioso, diventato a tutti i livelli, la forma peggiore di cancro che potesse colpire la società, con una proliferazione spaventosa di metastasi ormai incontrollabili, anche se gli organi inquirenti e la Magistratura fossero di colpo posti in condizione di esercitare le loro funzioni.

Poco meno di cinque secoli fa ne Il Principe il Machiavelli teorizzava con cinico realismo che il detentore del potere  potesse, anzi dovesse, essere spietato ed anche autore, se fosse stato necessario, di atti moralmente riprovevoli, purché essi avessero come fine il bene collettivo.

Nulla è cambiato, se non il bene collettivo, sostituito ignobilmente dall’interesse privato e/o dei propri clienti.

Sottopongo oggi all’attenzione del lettore alcuni passi di un documento manoscritto inedito,  che può essere considerato un bilancio consuntivo del Regno di Napoli per l’anno 1571, redatto, com’è dichiarato nella parte iniziale, su ordine del re dalla Regia Camera della Sommaria in Napoli il 25 di un mese non riportato  dell’anno appena ricordato.

[Neapoli, In Regia Camera Summariae die XXII mensis 1571 (Napoli, nella regia Camera della Sommaria nel giorno 22 del mese 1571)].

Molto probabilmente chi scriveva si riprometteva di aggiungere in seguito il nome del mese. Questo fa supporre che la scrittura sia posteriore di qualche decennio al 1571, che anzi sia posteriore, e di molto, quella che si può definire tranquillamente una compilazione fatta, peraltro, da mani diverse. Tutto ciò nulla toglie al valore del documento, la cui messe di dati è veramente tanto meticolosamente completa da risultare, credo, preziosa per lo storico che voglia focalizzare la sua attenzione su quella data.

La compilazione reca il titolo  Levamento e bilanzo particolare delle intrate ordinarie et extraordinarie del regio patrimonio del Regno de Napoli. Custodito nella Biblioteca Nazionale di Spagna col n. 10292, è integralmente consultabile (in due volumi, rispettivamente ff. 1r-153r e ff. 154r-249r) al link http://bdh-rd.bne.es/viewer.vm?id=0000042579&page=1.

Non potendo, almeno per ora …, trascriverlo integralmente, mi limito a riportare, come ho anticipato, alcuni brani, precisando ora che sono quelli riguardanti la Terra D’Otranto. La trascrizione è volutamente fedele all’originale, il che spiega, solo per fare un esempio, un Citta per città o un otranto per Otranto. Questa prima parte riguarda le spese relative ai castelli.

1° volume, f. 72r

1° volume, f. 72v

1° volume, f. 73r

1° volume, f. 73v

1° volume, f. 74r

1° volume, f. 74v

Dopo aver ricordato che non molto tempo fa ho riportato le parti relative a castelli e torri di una relazione inedita del 1611 (https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/11/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-taranto-16/), utile per un esame diacronico, mi congedo dando appuntamento alla prossima puntata, che riguarderà le dogane.

(CONTINUA)

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/09/08/spese-amministrative-daltri-tempi-xvi-secolo-in-terra-dotranto-privilegi-della-casta-inclusi-25/

 

5 Settembre 2015 – Sabato

di Pino de Luca
Silenzio profondo da queste parti. Ci sarà ancora e ci abitueremo. Ci si abitua a tutto. La forza della specie umana è questa, sapersi adattare per sopravvivere. Ci adattiamo all’ambiente e alle emozioni. Ci siamo adattati anche al Governo Renzi che sembrava impossibile. Chiamiamo ministri personaggi improbabili senza metterci a ridere. Sopportiamo leggi dissennate e discutiamo di cose che il buon senso dovrebbe farci rifiutare persino di concepire.
Il panorama delle alternative è desolante. Abbiamo mille canali televisivi, levati i cartoni animati e Rai Storia il resto o si vede male o fa schifo. Lo sport in TV è quello urlato del calcio o dei motori, rarissime apparizioni degli sport minori quando funzionano le trasmissioni.
Dove andiamo?
Dove ci stanno portando!
Ma possiamo sempre cambiare strada. Ecco il 20 di settembre ad esempio, possiamo andare in piazza a Nardò, ad essere con i lavoratori invece che con i caporali. Non è detto che con le canzoni si fan rivoluzioni, ma le rivoluzioni nelle quali non si canta sono molto tristi e sanguinose. Noi canteremo e sputeremo in faccia a chi non sente.

Lu sciùmbu e lu sgubbatu (la gobba e il gobbo)

di Armando Polito

Il neretino sciùmbu (la variante dominante in Salento è sciùmmu) ha il suo perfetto corrispondente italiano in gibbo, che è dal latino gibbu(m). La variante neretina, con la sua dissimilazione-bb->-mb– conserva meglio  il gruppo originale –bb-, mentre sciùmmu appare derivato da sciùmbu per assimilazione, dunque di formazione posteriore.

Sciùmbu, poi, è da gibbu(m) attraverso un intermedio *jubbum, a sua volta da un precedente *jibbum, secondo mutamenti fonetici ben noti, come, per esempio, in iùgu(m) che dà in italiano giogo e in neretino sciùu; iocu(m) che dà in italiano gioco e in neretino sciuècu, etc., etc. Da sciùmbu, poi, è derivato sciumbàtu che non designa il portatore di gobba ma uno che per uno sforzo o altro sembra ricordarne momentaneamente l’aspetto; chi, invece, è portatore autentico di gobba è detto sgubbàtu.

Esaurita la parte filologica rimarrebbe quella medica, per la quale rinvio a http://www.vesuvioweb.com/it/wp-content/uploads/Aniello-Langella-Scartiello-vesuvioweb-2012.pdf

Nel link appena segnalato il lettore troverà pure qualche mia riflessione sulla probabile origine della credenza popolare secondo la quale porta fortuna toccare la gobba di un gobbo, sfortuna quella di una gobba. Se sulla motivazione di questa credenza sono state formulate le ipotesi più svariate, tutti concordano sulla sua data di nascita che risalirebbe all’età medioevale. Nessuno, purtroppo, cita espressamente le fonti, ma credo che tale attribuzione cronologica  dipenda dallo scartellato, l’omologo napoletano (nella foto sottostante l’ultimo amuleto a destra per chi guarda, frutto di incrocio tra il gobbetto e il cornetto, quest’ultimo evidente simbolo fallico) dello sgubbàtu neretino.

Immagine tratta ed adattata da http://www.ebay.it/itm/TARGA-corni-grandi-portafortuna-napoletani-corno-gobbo-amuleti-horn-charms-/221409637645?hash=item338d0af50d
Immagine tratta ed adattata da http://www.ebay.it/itm/TARGA-corni-grandi-portafortuna-napoletani-corno-gobbo-amuleti-horn-charms-/221409637645?hash=item338d0af50d

Sull’etimo di scartellato rinvio ancora una volta al post segnalato. Qui, però, debbo aggiungere qualcosa sul medioevale cartellus lì messo in campo; anzi riporto, con la mia traduzione a fronte, il lemma dal glossario del Du Cange, cosa che allora non feci per brevità, perdendo l’occasione di fare le riflessioni che ora sto aggiungendo.

Mantenendo le (forse …) dovute distanze tra santi e gobbi  e utilizzando per comodità il linguaggio aritmetico, potremmo concludere che LA CASSETTA DELLE RELIQUIE: LE RELIQUIE=LA GOBBA:IL GOBBO.

Se questo è il ragionamento fatto per far risalire la credenza al medioevo, esso non fa una piega perché rientra perfettamente in quella mentalità che, va detto, di fronte a certi fenomeni non assunse un comportamento sempre univoco. Basti pensare alla sopravvivenza per lungo tempo, nonostante l’ormai più che millenario insegnamento di Cristo, del detto Guardati dai segnati da Dio!, in base all’idiota idea che la diversità corrispondesse ad un peccato da scontare (per i difetti congeniti: il peccato sarebbe stato commesso prima ancora di nascere o si pagava il fio per le colpe del genitore?). La stessa simbologia medioevale è estremamente ambigua, rappresentando spesso uno stesso animale ora un vizio ora una virtù.

Qui, evidentemente, il toccare il segnato da Dio, equiparato quasi ad un santo, proprio nel segno, non può che portare, non dico protezione, ma fortuna. E di solito, altra nostra idiozia, la fortuna viene identificata col successo, sì, ma quello economico in primis.

Penso, tuttavia, che la maggior parte delle credenze abbia un’origine antichissima e, a naso, questa mi sembra rientrare tra quelle.

A tal proposito voglio sottoporre all’attenzione del lettore qualcosa che ho trovato  a distanza di circa tre anni da quel post “napoletano” e che, secondo me, potrebbe aiutare a risolvere in un colpo solo i problemi fin qui posti.

Svetonio, lo storico latino del II secolo d. C. così conclude la narrazione della vita di Domiziano1: Ipsum etiam Domitianum ferunt somniasse, gibbam pone cervicem auream enatam, pro certoque habuisse, beatiorem post se laetioremque portendi rei publicae statum. Sicut sane evenit, abstinentia et moderatione insequentium principum (Dicono pure che Domiziano stesso avesse sognato che gli era nata una gobba di oro sotto la nuca e che avesse  ritenuto per certo che dopo di lui lo stato avrebbe presentato una condizione più felice e lieta. Come effettivamente avvenne per la moderazione dei principi che seguirono).

Nemmeno qui, come nel cartellus medioevale, c’è riferimento a tocco di sorta, ma può essere solo una coincidenza che la gobba aurea, per quanto onirica, fosse benaugurante? e sarebbe stato citato questo dettaglio se esso già nell’immaginario collettivo non avesse avuto tale valenza? e non è singolare, paradossalmente proprio perché scontata, l’identificazione dell’oro come fortuna e del suo portatore come simbolo del potere politico (cui si sovrapporrà in epoca medioevale quello religioso)?   Io sospetto che tutto non sia dovuto al caso e che la credenza abbia origini ancora più antiche. Se avrò voglia, spingerò l’indagine al di qua di Domiziano e cercherò di capire perché la donna gobba porta sfortuna, al di là della scontata interpretazione che ne farebbe una delle tante manifestazioni di maschilismo2. Se viene fuori qualcosa, vi farò sapere. Nel frattempo riporto sul tema alcuni brani che ritengo interessanti.

Il primo direi che è di un’attualità estrema in tempi in cui pure la borsa cinese comincia a scricchiolare con il suo deleterio, capriccioso e quasi imprevedibile (chi può prevedere il gioco dello speculatore se non lo  speculatore stesso?) effetto domino. Negli anni 1718-1720 il banchiere scozzese John Law, con l’emissione di nuove serie di titoli della sua Compagnia delle Indie, ne moltiplicava per venti il patrimonio azionario. Ecco la descrizione dello storico Pierre-Édouard Lémontey (1762-1826) di quella che per parecchio tempo dovette essere a Parigi una scena abituale al n. 65 di Rue Quincampoix, dove la banca del Law aveva la sua sede (poi, nel 1720, il tracollo e gli azionisti rimasti, come da copione ma pure loro con una credulona corresponsabilità …, spennati): Le besoin changea des hommes en meubles, et parmi ceux qu’enrichirent ces métamorphoses on cita un soldat dont l’immense omoplate valait un bureau, et un petit bossu qui, soutenue par un muraille, devenait un pupitre commode sur lequel on transigea pour des milliard3 (Il bisogno cambiò alcuni uomini in mobili e tra coloro che queste metamorfosi arricchirono si citò un soldato la cui immensa scapola valeva un ufficio e un piccolo gobbo che, appoggiato, ad un muro, diveniva un tavolo sul quale si fecero transazioni per miliardi).

Il secondo è un insieme di versi4 in cui l’autore, Giovanni Faustini (1615-1651), simpaticamente esalta la presenza e le virtù di tutto ciò che è curvo (l’arco, il cielo, il moto ondoso, il monte, il globo terracqueo, la nave, la culla, la sfera di cristallo dell’indovino, il ponte, il vaso, il naso, il ciglio, l’arco di Cupido, il fico, il delfino, il cuore) e, dunque, anche del gobbo:

Il terzo ed ultimo, quasi una versione in prosa del testo poetico appena letto e una scherzosamente sarcastica presa di posizione nei confronti dei medici  e del loro tecnicismo linguistico, è tratto da Cicalata di Luigi Clasio5 in lode dei gobbi, Stamperia di Borgo Ognissanti, Firenze, 1808, pp. 20-216:

 

Chissà cosa avrebbero dato i simpatizzanti di Andreotti per leggere e divulgare quest’ultimo pensiero, sbattendolo in faccia ai denigratori ma, soprattutto, a chi per primo gli affibiò, tra i tanti, il nomignolo di gobbo!

Dalla politica (dopo Domiziano ed Andreotti) a Quasimodo, non il poeta, ma il personaggio del romanzo Notre-Dame de Paris di Victor Hugo, il quale mai avrebbe immaginato che il suo campanaro avrebbe spopolato nei numerosi film tratti dal suo romanzo,  nel cinema d’animazione e nel music-hall.

Le due copertine provvisorie per la prima bozza di stampa (1831, lo stesso anno avverrà la pubblicazione) del romanzo (http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b52504716g/f7.image.r=Notre-Dame%20de%20Paris%20par%20Victor%20Hugo.langEN).
Le due copertine provvisorie per la prima bozza di stampa (1831, lo stesso anno avverrà la pubblicazione) del romanzo (http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b52504716g/f7.image.r=Notre-Dame%20de%20Paris%20par%20Victor%20Hugo.langEN).
La locandina della trasposizione cinematografica del romanzo (1956), con Anthony Quinn e Gina Lollobrigida (immagine tratta da http://www.ivid.it/foto/cinema/Drammatico/1956/Notre-Dame-de-Paris---Il-gobbo-della-cattedrale/392193/Locandina/Locandina-Gina-Lollobrigida-Anthony).
La locandina della trasposizione cinematografica del romanzo (1956), con Anthony Quinn e Gina Lollobrigida (immagine tratta da http://www.ivid.it/foto/cinema/Drammatico/1956/Notre-Dame-de-Paris—Il-gobbo-della-cattedrale/392193/Locandina/Locandina-Gina-Lollobrigida-Anthony).
Fotogramma iniziale del film d’animazione della Walt Disney Pictures del 1996
Fotogramma iniziale del film d’animazione della Walt Disney Pictures del 1996
Locandina di una rappresentazione della versione italiana del music-hall; musiche di Riccardo Cocciante, libretto di Pasquale Panella. Prima rappresentazione in Francia (1998), prima rappresentazione italiana 2002 (immagine tratta da http://martinaluisetti.com/page6.htm).
Locandina di una rappresentazione della versione italiana del music-hall; musiche di Riccardo Cocciante, libretto di Pasquale Panella. Prima rappresentazione in Francia (1998), prima rappresentazione italiana 2002 (immagine tratta da http://martinaluisetti.com/page6.htm).

Per tornare alla filologia e chiudere: in un’epoca di imperante cultura televisiva, scomparsi (nel senso che ne nascono sempre meno …) o quasi per fortuna i gobbi, la parola gobbo è destinata a sopravvivere, forse, solo per designare il cartellone o il rullo o lo schermo sistemato fuori campo, su cui scorrono le battute di dialogo da pronunciare durante le riprese. Solo che questo gobbo non ha nulla a che fare con quello più antico, derivando dall’inglese americano gobo, che è forse da go-between (=mediatore).

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1 De Vita Caesarum, Domitianus, VIII, 23.

2 Mi pare plausibile ipotesi di lavoro pensare che la gobba sia la versione in negativo di quelle protuberanze tipiche delle Veneri preistoriche (seno e sedere), la cui valenza propiziatoria è fuori discussione; ma la par condicio, rappresentata da certe rappresentazioni itifalliche (il modello di scartellato mostrato in foto ne è un esempio, per quanto più recente), a causa della gobba (sostantivo) dettaglio negativo nella gobba (aggettivo) va a farsi benedire e l’ombra del maschilismo torna ad aleggiare …

3 Histoire de la Régence et de la minorité de Louis XV, Paulin, Parigi, 1832, tomo I, p. 310.

4 All’inizio della scena XIII, dell’atto I della favola musicale L’Oristeo travestito (trascrivo dalle pp. 35-36 dell’edizione uscita per i tipi di Giacomo Monti a Bologna nel 1656 (https://books.google.it/books?id=lWcVAHu0kRYC&pg=PA35&dq=gobba+fortuna&hl=it&sa=X&ved=0CD8Q6AEwBjgKahUKEwiluauklszHAhXIORQKHWjUBlg#v=onepage&q=gobba%20fortuna&f=false).

5 Pseudonimo di Luigi Fiacchi (1754-1825), sacerdote fiorentino autore anche di favole, poemetti e sonetti pastorali, nonché filologo. Clasio, da lui stesso autoironicamente confezionato, sarebbe, secondo un procedimento molto ricorrente in quei tempi, la trascrizione di un aggettivo greco *κλάσιος (leggi clàsios) ricavato dal classico κλάσις (leggi clasis)=lo spezzare, il rompere, per cui Clasio sarebbe quasi la traduzione in greco di Fiacchi.

6 Chi lo desidera può fare lettura integrale di questo piacevole libro al link https://books.google.it/books?id=WobSPuHAXAgC&pg=PA25&lpg=PA25&dq=gobbi+famosi&source=bl&ots=zRh9Aq36Kr&sig=D5N5byjtOr4RRKWwBg-I2DzpZjc&hl=it&sa=X&ved=0CD8Q6AEwB2oVChMIk6m-oL3OxwIVy7gUCh0oBAYO#v=onepage&q=gobbi%20famosi&f=false.

 

Quando il Regno di Napoli finiva a Napoli, o quasi …

di Armando Polito

Ha suscitato proteste, per i miei gusti troppo blande, soprattutto da parte della politica nostrana, la recente decisione di Trenitalia di far arrivare due volte al giorno da Milano a Bari dal prossimo 20 settembre il suo Frecciarossa (mi ricorda tanto Testarossa, il modello di Ferrari prodotto dal 1984 al 1996 e mi auguro che la tecnologia ferroviaria, nonostante gli innegabili progressi, non sia rimasta al livello di quella automobilistica di quegli anni …). Non riesco, però, a capire (lo dico, beninteso, sarcasticamente) dove stia lo scandalo, visto che almeno ora il meridione d’Italia ha spostato in poco più di tre secoli (altro che teste rosse e frecce rosse … nemmeno una tartaruga sarebbe stata capace di tanto!) i suoi confini non geografici da Napoli a Bari. Non è un caso, infatti, che il famoso Grand Tour, esperienza obbligata per i giovani e meno giovani aristocratici (e chi, sennò) europei del XVIII secolo, si concludeva di regola in Italia, come ci mostrano le numerose relazioni a stampa che di quella moda (oggi pomposamente la chiamiamo turismo culturale) ci hanno lasciato il ricordo. Era, però, come se i viaggiatori evitassero più o meno accuratamente di esplorare l’Italia di quel tempo nelle sue parti più basse, oltre Napoli e dintorni per essere preciso, anche se chi vi abitava non credo provasse una sorta di pudore geografico nell’esibirne le bellezze e paesaggistiche e culturali. Il documento manoscritto di anonimo che oggi rendo pubblico in alcuni suoi passaggi fondamentali è senz’altro di parte, ma conferma una tendenza politica che è rimasta intatta nel tempo  e prolifera incontrastata tuttora, anche, va detto, per colpa di noi semplici cittadini dell’estremo sud d’Italia. Il documento, non sempre, come vedremo, ortograficamente ineccepibile, a cominciare dal titolo, può essere letto integralmente da chiunque ne abbia voglia all’indirizzo http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b90618179/f61.image.r=relation.langEN.  Custodito a Parigi nella Biblioteca Nazionale di Francia (Dipartimento dei manoscritti francesi, n. 14666), esso reca il titolo Relation de touttes1 les cours d’Italie, faitte2 en 1692 (Relazione di tutte le corti d’Italia fatta nel 1692).Dopo che nei fogli precedenti si è parlato della corti di Savoia, Genova, Lucca, Firenze, Parma, Modena, Mantova, Venezia e Roma, dal foglio 54r inizia la parte dedicata al Regno di Napoli, della quale riporto gli stralci promessi con la mia traduzione.

57r Il Regno di Napoli è diviso in dodici province, che sono: la Terra di Lavoro, Il Principato Citeriore, la Basilicata, Le due Calabrie, la Terra d’Otranto, la Terra di bari, la Capitanata, la contea di Molise e i due Abruzzi. Vi sono 21 arcivescovati e 123 vescovati. La giustizia vi è amministrata da un Presidente, 3 Uditori reali, un procuratore ed un Avvocato fiscale. Di tutte queste province, che sono molto fertili, la migliore è quella di Lavoro, altrimenti chiamata la Campania, dove è situata Napoli e si può dire, senza esagerare, che questa è la più bella e la più deliziosa parte del mondo. 

57v, passim Napoli è la sola città del Regno che sia degna di considerazione. Vi si contano circa trecentomila anime … Gli altri porti [prima aveva parlato di quello di Napoli, ad onor del vero in termini negativi: Le port est mauvais, et n’est proprement q’un Plage. Les gros vaisseaux n’y peuvent mouiller qu’au dehors du mole, et ils ne fauroient le faire sans danger, quand la Besche3, ou le vent de sud ovest regne. La darce4 des galeres est petite et elles sont fort tourmentées de ce même vent (Il porto è cattivo e propriamente non è che una spiaggia. I grossi vascelli non possono stare alla fonda che all’esterno del molo ed essi non avrebbero interesse a farlo senza pericolo quando regna il libeccio o vento di sud-ovest. La darsena delle galee è piccola ed esse sono molto tormentate da questo medesimo vento)] del Regno sono Baia, Gaeta, Taranto, Otranto, Brindisi e Trani.

Dopo aver parlato (sempre nel 57v) del porto di Baia [est le meilleur port de la côte de Naples (è il miglior porto della costa di Napoli)], pur con qualche limite [l’entrée est difficile et on est obligé de remorquer les batimens qu’on veut y introduire (l’entrata è difficoltosa e si è obbligati a rimorchiare i bastimenti che vi si vuole far entrare)] e di quello di Gaeta [n’est pas praticable que par les galeres (è praticabile solo dalle galee)] tocca a noi.

58r

Taranto ed Otranto sono poca cosa per il porto come pure per le fortificazioni. Brindisi all’imboccatura del golfo di Venezia era in passato un buon porto  ma è stato impaludato dagli spagnoli. Vi sono guarnigioni spagnole nel castello e nella città.

E oggi? Nihil sub sole novum, niente di nuovo sotto il sole, anche se il nostro ha ben poco da invidiare a quello altrui e anche se la tratta Bari-Lecce col Frecciarossa potrebbe ampiamente compensare in soli tre mesi la presunta sua scarsa redditività per la restante parte dell’anno. Forse nel 2050 la situazione cambierà …

* E ci siamo fatti scongelare solo per vederlo? Andiamo a farci un giro!
* E ci siamo fatti scongelare solo per vederlo? Andiamo a farci un giro!

 

* Sei rimasto tirchio esattamente come eri prima del congelamento!
* Sei rimasto tirchio esattamente come eri prima del congelamento!

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1 Errore per toutes.

2 Errore per faites.

3 Errore, dovuto ad errata discrezione dell’articolo (labeche>la beche), per la labeche.

4 Errore per darse.

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

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