Il Salento in ventiquattro immagini di Abraham Louis Rodolphe Ducros (6/6): TARANTO

di Armando Polito

op de ruïnes van het Fort Sarazin bij Tarente (Vista sulle rovine del Forte Saraceno)

Nieuwe vestingsgracht van de vestingwerken in Tarente (Nuovo fossato  della vecchia fortezza a Taranto)

Gezicht op aquaduct en de stad Tarente (Vista sull’acquedotto nella città di Taranto)

 

Per la prima parte (BRINDISI): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/30/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-16-brindisi/

Per la seconda parte (GALLIPOLI): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/12/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-26-gallipoli/

Per la terza parte (LECCE): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/23/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-36-lecce/

Per la quarta parte (MANDURIA): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/07/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-46-manduria/

Per la quinta parte (NARDÒ): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/11/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-56-nardo/

 

Natale diurno o notturno?

di Armando Polito

Qualcuno troverà criptici i due aggettivi che accompagnano la parola chiave del titolo, pensando soprattutto che, stando all’istat, il cittadino medio trascorre questo periodo di festa in uno spensierato ed eccitato girovagare per negozi alla ricerca di regali, anch’essi di costo medio. Dopo il tramonto del sole, poi, lo stesso cittadino, medio e non questa volta, potrà godersi lo spettacolo delle luminarie che, fra l’altro, aiuteranno quello onesto su tutti i versanti, compreso quello fiscale, ma un po’ imbecille per i miei gusti, a non pensare a come si sarebbe potuto e dovuto utilizzare i suoi soldi e quelli dei contribuenti onesti come lui per qualcosa di meno suggestivo (leggi ingannevole), ma utile e duraturo.

Così, di giorno e di notte, il Natale è tutto luce, sfolgorio di colori e di apparenze. Che senso hanno, allora, quei due aggettivi?

Per spiegarlo non userò bizantinismi più o meno filosofici, non scomoderò la scienza né, tanto meno, la religione. Mi avvarrò dell’unico strumento a nostra disposizione, forse da sempre e per sempre, cioè l’arte, e, nella fattispecie, non di una mezza calzetta dei nostri tempi innalzato a genio da un’abile gestione della sua immagine e dei suoi prodotti, che in più di un caso, se non si ostruissero i tubi, sarebbero degni di essere festeggiati non con fiumi di champagne ma con l’acqua dello scarico del water …

Uno spot pubblicitario dei miei anni verdi esaltava l’efficacia di un lassativo con lo slogan: Falqui, basta la parola. Bene, fra qualche anno, quando il trascorrere del tempo inesorabilmente farà giustizia dei valori facendo emergere solo quelli autentici, non frutto preminente di condizionamenti di sorta, quello stesso slogan potrà essere usato per i genietti come quello sopra descritto semplicemente sostituendo Falqui col cognome di turno.

A ben pensarci, però, la stessa operazione potrebbe essere fatta, con esiti diametralmente opposti, con i geni autentici e nel nostro caso potrei dire Rembrandt, basta la parola.

Di seguito propongo due sue tavole sul tema, la prima del 1654, la seconda del 1657, custodite nella Biblioteca Nazionale di Francia, dal cui sito le ho prelevate (in calce ad ognuna il relativo link per chi volesse godersele in alta definizione).

http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b10521928t.r=nativit%C3%A9

http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b10523288b.r=rembrandt%20L%27adoration%20des%20bergers

Forse non solo la cronologia induce ad ipotizzare nell’artista una sorta di ripensamento/approfondimento del tema, col passaggio dalla luce al buio e col ribaltamento del loro significato metaforico. La luce, così, da simbolo della vita, della nitidezza e della certezza, diventa esattamente l’opposto, cioé metafora di una confortante, comoda illusione, di uno stupido (perché c’è pure quello intelligente) ottimismo che è l’anticamera di una morte, metafora nella metafora, più o meno lenta dell’animo, vergognoso sigillo  di un’esistenza, tutto sommato, inutile e fallimentare per noi e per qualsiasi altro essere vivente (animali e vegetali inclusi).

E, al contrario, il buio, non assoluto, ma appena appena rotto dalla flebile luce della lanterna, meglio si adatta ad esprimere la nostra consapevolezza di umani sensati (superficialmente bollati in un recente passato come comunisti e pessimisti, oggi come gufi e rosiconi …), animati dall’affascinante mistero dei nostri limiti ma anche dalla voglia sublime di superarli senza trucchetti di sorta ed incanti per i poveri creduloni.

E il Bambino? Non sono un credente; tuttavia l’ho scritto con l’iniziale maiuscola per una forma di rispetto tutto laico per colui che, cresciuto,sarebbe diventato uno dei più grandi rivoluzionari, per ora il più grande e, secondo me, ignobilmente strumentalizzato, di tutti i tempi. E il Bambino? Da dettaglio nella prima tavola visibilissimo per la sua centralità, quasi gemello (qualcuno qui  frettolosamente mi accuserà di essere blasfemo … ) dei rigogliosi neonati della pubblicità dei nostri tempi, a particolare quasi defilato, faticosamente distinguibile in quel grumo di luce che lo avvolge con la madre.

Se accendessimo qualche luminaria in meno forse favoriremmo nel bene l’attività elettrica dei nostri neuroni e il nostro cuore resterebbe sempre una pompa, ma di autentica umanità. E Buon Natale! sia, quello notturno …

Manduria| Il Crocifisso ritrovato

crocifisso manduria

di Nicola Morrone

 

Tra i restauri più significativi di opere d’arte manduriane recentemente effettuati, si segnala senza dubbio quello relativo all’antico crocifisso ligneo di formato “terzino”, allocato nella chiesa dell’Immacolata. Si tratta di un’opera di dimensioni ridotte, ma di notevole interesse, per ragioni sia storiche che formali.

Non conosciamo il nome dell’intagliatore (probabilmente un maestro locale), ne’ possediamo documenti che ci permettano di datare il manufatto, ma, sulla base degli elementi stilistici, si può ipotizzare che l’opera sia stata realizzata nella seconda metà del sec. XVI, o al massimo, in considerazione di un probabile attardamento, nei primissimi anni del sec. XVII.

L’opera, di cultura rinascimentale e di sapore arcaico, potrebbe corrispondere al crocifisso menzionato nella Visita Pastorale di mons. Lucio Fornari (1603), di proprietà della Confraternita dell’Immacolata [cfr. M. Fistetto, Se Concetta ho Maria (Manduria 1997), p.45].

Il crocifisso, restaurato dalla maestra A. Falco con il contributo finanziario di un’anonima famiglia di confratelli, è stato restituito ad una piena leggibilità: in un’epoca imprecisata, infatti, il suo aspetto originale era stato modificato da ampie ridipinture, che ne avevano alterato le cromie. L’anonimo ridipintore aveva accentuato gli aspetti drammatici e patetici della scultura, connotando il corpo di Cristo morto con abbondanti fiotti di sangue, probabilmente sulla base di un’estetica controriformata, mirante a toccare le corde più intime dell’osservatore, anche al fine di indurre il fedele ad una riflessione più profonda sul mistero della passione di Cristo.

Oltre a quello della datazione, rimane aperto anche il problema attributivo: non abbiamo finora trovato termini di confronto pertinenti per questa scultura, la quale, comunque, prescinde dai modelli più in voga in ambito locale tra i sec. XVI e XVII, vale a dire quello “genuinesco” e quello “francescano”, di cui a Manduria sono presenti alcuni esempi.

Per il momento, l’unica opera che pare essere parzialmente accostabile alla nostra è forse il crocifisso ligneo della chiesa di San Francesco a Gallipoli, attribuito ad un ambito culturale di pieno Rinascimento [Cfr. F. B. Perrone, I Conventi della Serafica Riforma di San Nicolò in Puglia (Galatina 1981),vol.2, p.21].

L’anonimo maestro del crocifisso manduriano, come quello gallipolino, modella il legno in maniera sintetica, con pochi, sicuri colpi di sgorbia, ma riserva la giusta attenzione anche ai particolari (si noti, in questo senso, il trattamento del perizoma, del torace e delle braccia). Il pathos è decisamente contenuto: se non fosse per il compiacimento virtuosistico che caratterizza alcuni dettagli (per es. la capigliatura di Cristo), nonchè per l’assetto generale del corpo del Nazareno, di impressionante magrezza, ci troveremmo di fronte ad un artista che, per il senso di equilibrio che caratterizza la composizione e per la padronanza del dato psicologico, potrebbe dirsi “classico”.

 

Nicola Morrone

Gallipoli e la fontana turca

di Armando Polito

Sarebbe uno scoop formidabile se tutto non fosse basato sull’equivoco dell’omonimia, a prescindere dalle montagne dello sfondo e da più di un dettaglio troppo orientaleggiante, E così la nostra Gallipoli, dopo aver accettato a denti stretti la rinascimentalità della sua Fontana greca, dovrà addirittura rinunciare all’esistenza di quella turca.

Il lettore dai riflessi mentali più pronti o meno impegnati da pensieri contingenti avrà da tempo intuito di cosa si tratta, prima ancora di leggere il nesso equivoco dell’omonimia.

Va aggiunto subito (aver compagno al duol scema la pena, diceva Dante) che sotto questo punto di vista la cittadina salentina è in buona compagnia e non deve certo vergognarsi del suo Ionio rispetto all’Egeo ed allo stretto dei Dardanelli di cui si vanta l’omonima turca.

Cosa dovrebbe dire, allora, Napoli, anche se nel bene e nel male poche chances hanno di prendere il sopravvento sulla città del Vesuvio, forse nemmeno a livello locale, Napoli di Malvasia [sciagurata traduzione, inventata da un alcolizzato?, dell’originale Μονεμβασία (leggi Monembasìa) che alla lettera significa (città) con un solo accesso] e Napoli di Romània, entrambe in Grecia, e Napoli, città dello stato di New York?

Fugato l’equivoco che il titolo, più o meno artatamente, intendeva sfruttare, è tempo di passare alla fontana.

L’immagine di testa è tratta da https://commons.wikimedia.org/wiki/category:Antoine-Laurent_Castellan?uselang=it#/media/File:Antoine-laurent_Castellan_-_Fontaine_Turque_%C3%A0_Gallipoli_%281808%29.jpg

Il link appena riportato rinvia a http://www.sothebys.com/en/auctions/ecatalogue/2006/the-orientalist-sale-l06104/lot.214.html

Siamo nel sito della celebre casa d’aste inglese e, nel nostro caso, la schermata è questa.

Estrapolando i dati necessari apprendiamo che si tratta di un olio su tela (cm.75,5 x 60) datato 1808, stimato (alla data del 13 giugno 2006) tra 36,635 e 51,289 euro  e che il suo autore è il francese Antoine Laurent-Castellan (1772-1838).

Di lui ho già avuto occasione di occuparmi nel post C’è Brindisi e brindisi (https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/09/ce-brindisi-e-brindisi/), al quale rinvio il lettore desideroso di saperne di più.

Qui, però, sono obbligato ad aggiungere che il nostro fu l’autore pure delle tavole che corredano [il testo è di Louis Mathieu Langlès (1763-1824)] Illustrations de Histoire des Othomans. Moeurs, usages, costumes des Othomans, et abrégé de leur histoire, Nepveu, Parigi, 1812, in 6 tomi1.

Nel V tomo tra le pp. 154-155 è inserita la tavola

che di seguito ripropongo insieme col dipinto.

Qui un esperto del gioco enigmistico Scopri le differenze morirebbe di goduria ma anche il lettore volenteroso potrà, sfruttando le immagini in alta definizione ai links segnalati, esercitarsi in questa analisi.

Io dal canto mio chiudo con una raffica di domande: siccome il dipinto del 1808 sembra un taglio della tavola del 1812, quello deriverebbe da questa? Oppure, considerando che il 1812 è la data di pubblicazione del libro, che i sei tomi recano tutti la stessa data e che, dunque, buona parte del lavoro doveva essere pronta ben prima del 1812, l’esecuzione della tavola è coeva o, addirittura, anteriore a quella del dipinto? Tutto questo a prescindere dall’attribuzione di quest’ultimo, sulla cui bontà non posso esprimere alcun giudizio non sapendo se essa è stata formulata tenendo conto solo della segnatura o pure di altri motivi, di natura stilistica e non.

Non credo possa essere considerato firma dell’autore ma solo una formula, la cui regolarità grafica (comune a tutte le tavole) è al servizio della facile leggibilità e dell’immediata identificabilità, ciò che si legge in calce alle sue tavole [Castellan del(ineavit) et sculp(si)t=Castellan disegnò e incise], tra cui, guarda la coincidenza e quant’è piccolo il mondo!, quelle di Napoli di Malvasia (immagini tratte da Lettres sur la Morée et les îles de Cérigo, Hydra et Zante, H. Agasse, Parigi, 1808:  http://katalogia.me/2012/12/01/%CE%B5%CE%B9%CE%BA%CF%8C%CE%BD%CE%B5%CF%82-%CE%B1%CF%80%CF%8C-%CF%84%CE%BF%CE%BD-%CF%80%CE%B5%CF%81%CE%AF%CF%80%CE%BB%CE%BF%CF%85-%CF%84%CE%BF%CF%85-antoine-laurent-castellan-1797-2/antoine-laurent-castellan-neapolis-monemvasis-pyrgos-or-ochyromeni-agroikia-1787/).

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1 Consultabili e scaricabili da:

https://books.google.it/books?id=JvJNAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:EnaiWZHSvAAC&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwj3qrKjw9PJAhXIfxoKHSM0DE8Q6AEIQzAF#v=onepage&q&f=false (tomo I)

https://books.google.it/books?id=AnAOAAAAQAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:EnaiWZHSvAAC&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwipheGKxtPJAhWKPxoKHYEpClg4FBDoAQgbMAA#v=onepage&q&f=false (tomo II)

https://books.google.it/books?id=MvJNAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:EnaiWZHSvAAC&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwj3qrKjw9PJAhXIfxoKHSM0DE8Q6AEITDAG#v=onepage&q&f=false (tomo III)

https://books.google.it/books?id=ZnAOAAAAQAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:EnaiWZHSvAAC&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwj3qrKjw9PJAhXIfxoKHSM0DE8Q6AEIOzAE#v=onepage&q&f=false (volume IV)

https://books.google.it/books?id=4KJMAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:EnaiWZHSvAAC&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwj3qrKjw9PJAhXIfxoKHSM0DE8Q6AEIMjAD#v=onepage&q&f=false (volume V)

https://books.google.it/books?id=5_JNAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:EnaiWZHSvAAC&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwj3qrKjw9PJAhXIfxoKHSM0DE8Q6AEIVTAH#v=onepage&q&f=false (tomo VI)

 

 

Tris di cuori per la letteratura salentina

di Paolo Vincenti

turbata

TURBATA

La prima autrice di cui ci occupiamo è Gloria De Vitis, con il suo recente libro, “Turbata”, edito da Esperidi (2015). Un libro di appena 69 pagine, che narra storie al centro delle quali c’è sempre l’Io, sembra che su questo si concentri l’indagine dell’autrice, attraverso un’analisi psicologica molto forte dei suoi personaggi, sembra quasi che scandagli il fondo dell’essere di ognuno. Gloria De Vitis è pittrice e scrittrice. Nasce a Lecce il 10 aprile del 1966. Nel 1985 frequenta il laboratorio artistico di Bogdan Bajalica perfezionando le tecniche pittoriche già respirate nella tradizione artistica familiare grazie al nonno scultore e al cugino di lui Temistocle De Vitis. Partecipa a diverse manifestazioni artistiche, negli anni, e tiene mostre personali. Si dedica anche alla fotografia. In campo letterario, negli anni ’90 collabora con il giornale «Avanti».  Nel 2003, pubblica il libro di poesie “Squarci”, edito da Manni, nel 2006, “Nuda” edito da Besa e nel 2011 per Lupo Editore, il romanzo “Lucignola”. “Turbata” (alla De Vitis piace declinare al femminile i titoli delle sue opere)  è la seconda prova narrativa. E tutte le storie del libro, che ne siano uomini o donne protagonisti, sono attraversate da un turbamento che porta il lettore a farsi molte domande, nella non ben chiarità distinzione fondante fra bene e male, fra riso e pianto, gioia e dolore. L’io, che è il nucleo tematico intorno al quale si addensano i destini di questi personaggi, si intrecciano le trame di questo libro, diventa una ricerca disperata, ma una ricerca a sfondo esistenziale, perché l’autrice dimostra di saper pensare prima ancora che scrivere. Utilizza un linguaggio dell’uso, colloquiale, sicuramente moderno, fatto di paratassi, periodi brevi racchiusi in paragrafi brevi, di agile lettura; la sua è una scrittura nervosa, frutto delle elucubrazioni mentali  che si dipanano nel corso delle pagine con una tecnica narrativa molto vicina al procedimento del flusso di coscienza. Vi è, cioè, un libero fluire, sulla pagina, di pensieri, emozioni e riflessioni . “Questo breve libro più che narrare storie, vuole scuotere il lettore”, scrive la De Vitis. “Qual è il vero confine tra il bene e il male, tra amore e disprezzo? Amore è veramente gentilezza o nache violazione dell’integrità degli individui? È un libro dedicato alla vita, alla sua multiforme natura”.  È una scrittura cerebrale ma anche carnale e ciò non paia contraddittorio, non è un inestricabile ossimoro, perché l’autrice comunica attraverso il corpo, con le sue funzioni primarie, fisiologiche, e attraverso gli istinti bestiali, le pulsioni carnali, il livello più alto, cioè gli stati della coscienza, attraverso la sensualità si interroga sull’amore, sul tempo e sulla vita e, in alcuni brevi passaggi, tocca i liminari di una notevole, per quanto istintiva, speculazione filosofica. Anche senza scomodare artiste borderline, come Claudia Ruggeri, che pure è citata nel libro, si può cogliere una cifra di velato “maledettismo”, nell’opera della De Vitis, che ne fa un’artista sicuramente sui generis, provocatrice e piuttosto dirompente.

fata

FATA DEL CUORE MIO

“Inutilmente cercheremo la felicità lontano e vicino, se non la coltiviamo dentro noi stessi”: con questa citazione da Jean-Jacques Rousseau, si apre il libro “Fata del cuore mio”, edito da Kimerik (2015),  il secondo romanzo di Rossella Maggio. Si tratta di un’opera matura, benché opera prima, che attraverso la girandola delle situazioni descritte, imbriglia i suoi personaggi, come gli uccelletti nella pania, nella fitta trama delle loro stesse vite. Infatti ciascuno di essi “nelle amorose panie s’invescò”, per dirla con Boccaccio, così insidiose sono le lusinghe d’amore che l’autrice ha ordito per loro.  Introdotto da una Prefazione della stessa Maggio e da una poesia di Asclepiade di Samo, il volume, che in copertina reca un bellissimo dipinto di Velàzquez, “Venere allo specchio”, consta di 176 pagine sicché appare davvero agevole leggerlo anche tutto d’un fiato. Rossella Maggio, docente di scuola superiore, vive e lavora a Lecce. Nel 2013 ha pubblicato il suo primo romanzo “In sostanza l’amore” , edito da Albatros. Poi è uscita la sua prima silloge poetica, “In amore per amore con amore”, sempre edito da Albatros. Da alcuni mesi è impegnata in un lungo giro di presentazioni di questo libro nel Salento e non solo. Potremmo definirlo un romanzo erotico. Il plot, la trama del libro, è tracciata nella sinossi di quarta di copertina: “Il Professor Alberico Diobono, celebre studioso di Storia Medievale, conduce una vita caotica, fatta di studio, di impegni di lavoro e di incontri più o meno passionali orientati più a soddisfare il suo appetito sessuale che a fargli sorgere dentro un vero e proprio sentimento. Dopo il fallimento del suo matrimonio è diventato allergico ai legami troppo intensi e duraturi e preferisce non perdere mai il controllo della situazione. Gli resta, però un’insoddisfazione perenne, una sete d’anima che non riesce a decifrare con chiarezza finché non s’imbatte in una giornalista dal nome strano, Amo. La totale assenza nella donna, di ogni forma di pregiudizio e la sua serena solarità lo attirano inesorabilmente. Intanto, tra le tante donne d’occasione, gli capita di frequentare una ex modella che ha preso in seria considerazione la possibilità di fare del noto medievista il suo strumento di riscatto personale, sociale ed economico”. Si tratta di una storia d’amore, così la definisce la stessa autrice, un amore carnale, appassionato, sfrenato, a volte amaro, a volte giocoso, che potrebbe apparire a momenti tetro, asfittico, ma è un rischio si corre quando si affronta una tematica del genere. I personaggi sono ben delineati, l’autrice scava nella loro vite, nei loro destini, nei meandri della loro coscienza, col piglio della scrittrice di vaglia. Il linguaggio usato è fluido, leggero, semplice, diretto. La sua è una scrittura che balugina femminea, uterina, umorale. Vi è, nel libro, una diversificazione degli stadi di coscienza, differenti nei quattro personaggi: Diobono, Amo, Catena, Guido. Ciascuno deve fare i conti con la propria interiorità che è poi la fata del titolo, l’essenza profonda di noi. Il professore Diobono è un personaggio complesso, problematico. Nel sesso furente e selvaggio, in quei corpi di donna che appagano la sua lussuria, confondono i suoi sensi, soddisfano sia pure momentaneamente la sua insaziabile, vorace libido, nei suoi impulsi intermittenti e contrastanti, si manifesta tutta la straziante amarezza dell’inappagato, dell’insoddisfatto. Molto carica la vita di questo moderno libertino, che vorrebbe dirsi un nipotino, se non di Don Giovanni, almeno di Casanova (impossibile arrivare a certe sublimi altezze), ma che in realtà sembra solo soffrire, nella sua disarginata incontinenza, una affezione da priapismo che lo farebbe rassomigliare alle statue itifalliche con cui gli antichi greci raffiguravano questo osceno dio minore, divinità della fertilità dei campi, una maschera comica e tragica. Ancora più interessante, almeno nella possibilità di rispecchiamento del lettore, il personaggio di Amo che incarna bene (già nel suo nomen omen) il messaggio del libro, che è poi il leit motiv di tutta la tua produzione della Maggio. La narratrice, attenta, intensa, racconta la vita più come è che come dovrebbe essere. Racconta l’aridità dei sentimenti, l’amore e il disamore, il suo narrato è il crivello che serva a smascherare convenzioni, a provocare, a lasciare il segno. Fra le pieghe della vita e le pagine di un libro, sempre per amore.

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PRIMA CHE VENGA DOMANI

Annamaria Colomba presenta “Prima che venga domani… (poetiche tracce)”, una raccolta di versi stampata da Editrice Salentina (2015). Un’opera prima anch’essa, per un’autrice che ha già maturato molte esperienze nel gran teatro della vita, ed è poi approdata al teatro, inteso come arte, rappresentazione. “A difesa dell’anima di libere ali ho vestito il pensiero”, scrive, e questo deve essere il percorso che l’ha portata a rivoluzionare la propria vita, da manager in quel di Milano, a contadina nel Salento, da persona pratica immersa nel business e nella vita frenetica della metropoli, a donna contemplativa, delicata poetessa, dedita all’arte e a coltivare i rapporti umani e il tempo. La silloge è dedicata “Alla mia Grande Madre Magnifica. Al suo esemplare coraggio, al suo pensiero semplice e schietto, così acuto, profondo, al suo generoso cuore, fonte inesauribile d’amore, dove mi era dolce sognare…”. Questo rende l’idea di uno spaccato di vita importante, intensamente vissuto. Magnifica infatti era il nome della nonna dell’autrice la quale avendo perduto la madre in tenera età, venne da lei allevata, prima che il padre si risposasse e facesse della nuova moglie una seconda madre per Annamaria. Dopo una vita a Milano, la Colomba, originaria di Galatina, ritorna in Salento. E decide di rimanerci. Studia a Lecce recitazione e inizia nel 2012 il suo percorso di attrice. Collabora con i poeti salentini de “L’Incantiere”, che ringrazia nel libro, e vive a San Cesario di Lecce. La bellissima copertina, “Futuro” (tempera 50 x 70 cm), è un’opera della stessa autrice, che oltre alla penna, coltiva del pari l’amore per il pennello. Il libro è dedicato anche alla figlia, Greta, e reca una Prefazione di Maria Conte. Possiamo, nelle pagine intense, entrare nel mondo poetico della Colombra, attraverso il narrato del suo vissuto, partecipare ansie, gioie, timori, ricordi e speranze, di un animo sensibile, condividere il suo patrimonio valoriale. Intervallate alle poesie, numerose foto, in bianco e nero, a suggello dei componimenti, ne corredano i versi, sottolineano visivamente alcuni momenti, danno corpo, immagine, all’afflato lirico. La sezione “La Grande Madre” è dedicata “a Maria, Magnifica, Lucia, le mie tre madri”, rispettivamente la madre biologica, perduta in giovanissima età, la madre adottiva, e la nonna, presenza costante e fondamentale nella vita della Colomba. In questa sezione del libro, così intima e carica, c’è l’attaccamento alle proprie radici e compaiono quelle memorie famigliari di cui l’autrice si fa depositaria, gelosa custode. Anche nella sezione “Vita e ricordo”, dedicata “al mio DNA”, protagoniste sono le rimembranze, l’amore contrastato per il padre, il ricordo gradito per la madre persa troppo presto, l’amore filiale che si trasmette anche agli oggetti, le care cose dell’infanzia e dell’adolescenza, e forte, lacerante, il dolore del distacco, della separazione, dell’allontanamento dagli affetti. In “Terra e natura”, è protagonista il loco natìo, la “dolce terra di Puglia”, luogo dell’anima, nido d’infanzia e ultimo approdo, in ordine di tempo, per l’autrice, meta di una sorta di cammino à rebours per riappropriarsi dell’identità, della storia, della voce del vento, del mare, degli uccelli, delle facce rugose degli ulivi, dei fichi, delle nuvole, del cielo perlaceo e luminoso e anche dei silenzi del sud. In questa natura, si immerge l’autrice, in un microcosmo di sapori e colori tipici di questa terra ferace e primeva. In “Sociale”, dedicato al Papa Wojtila, protagonista della poesia “Karol”, si pone l’accento sui drammi che vive l’umanità, sul suo cammino travagliato, fra povertà e disagio sociale, con i fatti di cronaca, le guerre ed i grandi conflitti, l’odio del simile contro il proprio simile, il seme della violenza, la fragilità. In “Ballate, canzoni, pensieri”, dedicata “al mio RA e al suo canto”, altre poesie sparse che pagano tributo al grande amore dell’autrice per il teatro, la rappresentazione scenica, ma si trovano anche ironia, arguzie. In totale, 56 composizioni. Versi cesellati, delicati e preziosi, quelli che regala Annamaria Colomba, in questo scrigno della memoria, a chi riesce ancora a trovare la poesia nelle piccole cose, nei sentimenti semplici, ad emozionarsi per poco, per niente.

 

PAOLO VINCENTI

Aradeo. Hanno rubato la croce di San Nicola!

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di Alessio Palumbo

Il 6 dicembre 1881, la giornata non si presenta come delle migliori: il cielo è grigio, piove a tratti. Per gli aradeini è tuttavia un giorno speciale, ricorrendo la festa del Patrono, S. Nicola. Molti residenti e alcuni fedeli dei paesi circostanti prendono parte ai tradizionali festeggiamenti, a cominciare dalle funzioni sacre previste per il mattino e celebrate da don Francesco Stifani, trentenne sacerdote del posto. Per le strade c’è un via vai di gente che si ferma nelle taverne a bere un bicchiere di vino, a sorseggiare un caffè e a giocare a carte.

Nel pomeriggio, verso le quattro, le funzioni riprendono con la processione che percorre le strade del paese. Al rientro, intorno alle sei, don Francesco, come da tradizione, spoglia la statua del santo dagli addobbi e paramenti per consegnarli al capo deputato della festa, il signor Giovanni Blago. Quest’ultimo, intascati i preziosi ed afferrati a due mani il pastorale e la mitra, esce dalla chiesa attraversando la folla che ancora staziona nel tempio a causa della pioggia.

Giunto a casa depone mitra e pastorale su una panca, estrae l’anello dal gilet e, infilando la mano nella tasca della giacca, si accorge di non avere più la croce d’oro tempestata di pietre. Realizza immediatamente di essere stato derubato. In particolar modo ricorda che, subito dopo la svestizione della statua, due forestieri gli si sono affiancati e gli hanno chiesto se il pastorale fosse d’argento. Giunto poi vicino al portone, dovendosi fermare perché una certa Filomena Scalone si era chinata per raccogliere il berretto del figlio, ha sentito una botta all’altezza della tasca sinistra, ma non vi ha dato importanza.

Blago ritorna repentinamente in chiesa, accompagnato dal contadino Nicola Bomba e da Mariano Muscato, membro del comitato festa. Qui trova altri due compagni del comitato: il giovane possidente Felice Anghelè e il suo amico Angelo Cagia. I due hanno appena finito di raccogliere la cera delle tante candele usate nel corso della funzione e stanno per andar via. Messi a conoscenza del fatto, Anghelè e Cagia perlustrano la chiesa, nel caso la croce fosse caduta nella confusione. Non trovandola decidono, assieme a Muscato e Bomba, di mettersi sulle tracce degli sconosciuti.

Nel frattempo Blago denuncia il furto al Brigadiere dei Reali Carabinieri, Fabrizio Palazzoli, che per servizio si trova nei paraggi della chiesa. Anche gli uomini dell’Arma iniziano così a battere le strade del paese e le vie che portano ai comuni limitrofi. A sera, Anghelè e gli altri tre, percorsa la stramurale, imboccano la via per Noha e, a circa un chilometro dal paese, sentono delle voci discorrere fittamente. Fattisi incontro agli sconosciuti, questi si danno alla fuga calandosi in un canale e cercando di svignarsela per le campagne. Pur essendo una notte di luna piena, il cielo è completamente coperto e quindi la ricerca si svolge al buio. Il gruppo di inseguitori riesce tuttavia a scovare due individui che cercano di nascondersi, uno nel cavo di un albero d’olivo, l’altro tra le radici di un fico. Presi di forza, li portano in paese, consegnandoli al brigadiere. Intanto la voce del furto è corsa per le strade di Aradeo, la gente si accalca sulla piazza del Municipio. Tra la folla, una donna riconosce i fermati. Si chiama Domenica Giuri, ha 28 anni e gestisce una bettola. Al mattino i due giovani, che al brigadiere hanno detto essere ‘del basso di Bari’, sono andati a desinare da lei in compagnia di un terzo. Dopo aver ‘mangiato oltre il consueto’ i tre sono andati via senza pagare. Il brigadiere rivolta le tasche del meno giovane dei fermati, un tipo con uno sfregio sulla guancia destra, e trovate tre lire le restituisce alla Giuri. Intascati i soldi, la locandiera fa presente che i baresi ed il terzo forestiero erano stati condotti nella sua taverna da un tal Luigi Pedone, venditore ambulante di dolci. Palazzoli trattiene i due sospettati nella rivendita di caffè di Blago e, con lo stesso capo deputato, va in cerca di Pedone, trovandolo nei pressi della sua bancarella di confetture. Interrogato, Pedone dice di aver conosciuto i tre venendo ad Aradeo per la festa, di aver condiviso con loro la stalla di un certo De Tuglie e la bettola della Giuri, ma di non avere nessuna relazione con loro. Il brigadiere gli chiede di riconoscere i fermati e Pedone, recatosi al caffè di Blago, conferma la loro identità, facendo anche il nome del terzo ricercato: un certo Gaetano Spagnolo, tipografo di Lecce. Il sottoufficiale lascia andare il commerciante e porta in caserma i presunti colpevoli, per perquisirli ed interrogarli: sono Francesco Puglio e Gennaro Giacomantonio, originari di Terlizzi. Addosso non hanno tuttavia la croce.

Di fronte alle domande di Palazzoli, i due negano di essere mai stati in chiesa, non fanno il nome di Spagnolo ed iniziano a contraddirsi. Il brigadiere non può che convalidare l’arresto per avviare le indagini. Intanto i carabinieri ed alcuni aradeini sono ritornati nelle campagne sulla via di Noha per cercare con maggiore cura la croce d’oro: è tutto inutile, il gioiello è sparito.

L’indomani, 7 dicembre, i due arrestati sono portati a Galatone per essere interrogati in pretura.

Puglio è un ebanista di 23 anni, originario di Terlizzi ma da fine novembre dimorante a Lecce, dove si è trasferito in cerca di lavoro. Il giorno 5 dicembre, passando per Galatina, ha incontrato Gaetano Spagnolo e Gennaro Giacomantonio che chiacchieravano in piazza e con loro ha deciso di andare ad Aradeo per divertirsi in occasione della festa del santo patrono. Giunti in paese, hanno trovato da dormire in una locanda e il mattino seguente, dopo aver assistito alle sacre funzioni, sono andati girovagando. A mezzogiorno hanno quindi mangiato nella taverna della Giuri e poi hanno ripreso il giro fino al rientro della processione in chiesa. Qui hanno assistito alle ultime funzioni e usciti dall’edificio sono stati avvicinati dallo Spagnolo, che si sarebbe rivolto a loro dicendo: ‘Partiamo che qui non stiamo più bene’.

La versione di Giacomantonio, anch’egli ebanista di cinque anni più giovane, differisce in parte da quella del compaesano. Il ragazzo dichiara di aver conosciuto Puglio e Spagnolo in una taverna di Galatina e non in piazza, inoltre non ricorda la frase pronunciata dal tipografo all’uscita della chiesa, dopo la processione. Comunque, entrambi si dichiarano innocenti, cercando di stornare i sospetti sul terzo compagno. Interrogati sul perché della fuga nelle campagne, la motivano con la paura di qualche sinistro da parte di sconosciuti del posto.

Nonostante i tentativi di discolparsi, le testimonianze contro di loro sono tuttavia incontrovertibili. In tanti li hanno visti affiancarsi al capo deputato della festa ed inoltre, il 6 dicembre, ad alcuni non è sfuggito il loro fare sospetto. Pantaleone De Tuglie, ad esempio, novantenne proprietario della stalla dove hanno alloggiato, dichiara di averli visti la mattina della festa nel bar Santoro: Giacomantonio faceva finta di giocare a carte con un terzo, probabilmente Spagnolo, mentre Puglio si guardava attorno lisciandosi i baffi. Per Giovanni Blago anche i due leccesi sono complici: mentre infatti i giovani falegnami di Terlizzi lo affiancavano, il commerciante Luigi Pedone ed il tipografo Gaetano Spagnolo complottavano in disparte. Per il capo deputato la croce, appena rubata, ‘passò tosto di mano in mano, e i primi a fuggire furono lo Spagnolo ed il Pedone‘.

Blago vuole assolutamente trovare un colpevole, per questo probabilmente accusa tutti e quattro. È lui la parte lesa di questa faccenda in quanto, come capo deputato della festa, è obbligato a rispondere del valore della croce, stimata per 229,50 lire [circa 850 euro dei nostri giorni, n.d.A.].

Alla luce delle dichiarazioni di testimoni e parte lesa, per il pretore non ci sono dubbi. Del resto gli incartamenti pervenuti da Terlizzi parlano chiaro: nonostante la giovane età, Puglio e Giacomantonio sono già considerati di ‘pessima condotta’ e sono stati più volte in galera per furto. Puglio inoltre è ammonito come ozioso, vagabondo e presunto ladro e quindi non si sarebbe potuto allontanare da Terlizzi senza il permesso delle autorità. Per i due si aprono le porte del carcere, mentre restano da chiarire le posizioni di Pedone e Spagnolo. Per la Camera di Consiglio gli elementi raccolti non sono infatti sufficienti per definire la dinamica dei fatti: viene quindi dato incarico al Giudice Istruttore di redigere un nuovo rapporto e soprattutto di prendere in considerazione le posizioni di Pedone e Spagnolo. I due vengono convocati per il 3 di gennaio presso il Tribunale di Lecce. Dalle deposizioni del commerciante e del tipografo e da accurate indagini, il giudice deduce chePedone è un onesto lavoratore, che non ha nulla a che vedere con gli altri tre. Ha avuto solo la sfortuna di imbattersi in loro recandosi ad Aradeo. Spagnolo, invece, è sicuramente coinvolto nella sparizione della croce. Anche lui, nonostante abbia appena 25 anni, ha numerosi precedenti penali per furto: la prima condanna risale al 1869, quando cioè aveva appena 13 anni, mentre gli ultimi quaranta giorni di carcere li ha scontati a giugno. La sua complicità con i due arrestati, il sue essersi dato alla fuga, come da lui stesso ammesso, sentendo arrivare gli aradeini sulla via per Noha, non depongono in suo favore. Per il giudice non ci sono dubbi e così, dopo averli rinviati a giudizio, il 3 marzo 1882 il Tribunale di Lecce condanna Gennaro Giacomantonio ad un anno di carcere, Gaetano Spagnolo a tre e Francesco Puglio a tre anni e quattro mesi(aggiungendosi la violazione dell’ammonizione). Spagnolo e Puglio ricorrono in appello.

La mattina del 6 marzo, Nicola Carallo, piccolo proprietario cinquantaseienne, si reca nel suo fondo, denominato Sciaccarea, per lavorare. Mentre sta zappando vicino ad un grosso ulivo, qualcosa si impiglia nella zappa. All’inizio pensa sia un serpente, ma tirando vede che si tratta di un laccio con appesa una croce. Immediatamente chiama il suo giovane amico Francesco Manco, che sta badando ai lavori di altri contadini in un fondo limitrofo. Manco identifica immediatamente la croce: è quella di San Nicola.

I due vanno di filato dal sindaco, Francesco Resta, per consegnare l’oggetto. Anche il primo cittadino la riconosce: ‘è d’oro, ha sette pietre, delle quali una grande e due piccole, tutte verdi nel lato maggiore, tre verdi grandi negli altri tre lati, ed un’altra pure grande, di color mele, nel centro. Questa croce è unita ad un laccio d’oro della lunghezza di un metro e centimetri sessanta circa, al quale laccio va unito un fiocco pure d’oro, e nel laccio stesso v’è un passante d’oro anche’.

Il sindaco prende quindi in custodia il monile e avvisa immediatamente il pretore, cosa che fanno anche i carabinieri con un secondo verbale. La notizia intanto passa di bocca in bocca; alcuni vanno a vedere il luogo del ritrovamento: l’albero sotto il quale è stato disseppellito il gioiello del santo è quello dove, la notte del sei dicembre, Anghelè ed i suoi avevano catturato Giacomantonio. Il caso si potrebbe dunque dire risolto, almeno per gli aradeini. Tuttavia un altro giallo si intreccia alla sparizione della croce.

Come detto, tre giorni prima del fortuito ritrovamento, Puglio e Spagnolo sono ricorsi in appello. Puglio lo ha fatto senza addurre novità alla sua posizione, sperando più che altro in uno sconto di pena. Spagnolo invece, per mezzo dell’avvocato Nicola Forleo Casalini di Lecce, ribadisce la propria estraneità al furto. A suo parere la corte ha pregiudizi nei suoi confronti a causa dei precedenti penali, ma con la sparizione della croce lui non c’entra. Ed infatti ha dei testimoni che possono dimostrare come, sin dalle tre del pomeriggio del giorno della festa (quindi molto prima dello scippo) lui abbia cercato un mezzo di trasporto per ritornare a Lecce; lo stesso Puglio, inoltre, che inizialmente gli ha attribuito la frase ‘Partiamo che qui non stiamo più bene’, in un secondo interrogatorio ha ritrattato; anche il frettoloso allontanamento da Aradeo era legato ad un’istintiva paura e non a correità; infine, se fosse stato veramente coinvolto nel furto, avrebbe potuto approfittare del suo essere a piede libero per recuperare la croce, cosa che invece non ha fatto, visto che il monile è stato ritrovato. Le argomentazioni di Spagnolo sono rigettate dal Corte d’appello di Trani: la condanna è confermata per lui e per Puglio. Anche la richiesta di libertà provvisoria avanzata dal tipografo viene respinta. Non gli resta che ricorrere in Cassazione. La pronuncia del tribunale di Napoli arriva nel luglio e ribadisce la condanna a tre anni stabilita nei precedenti gradi di giudizio. La sentenza, tuttavia, non può essere notificata al tipografo ‘attesoché il ricorrente non è in carcere né legalmente in istato di libertà provvisoria’ .

Che fine ha fatto dunque Gaetano Spagnolo?

I segni del potere borbonico: lo stemma del Sedile di Oria

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di Marcello Semeraro

Il Sedile è il palazzo simbolo di Piazza Manfredi. L’attuale edificio, di forma quadrata e stile barocco, risale alla seconda metà del XVIII secolo ed è il risultato del rifacimento di una precedente costruzione adibita a carcere criminale e civile1. Poiché non era più decoroso per l’immagine della città esibire una struttura carceraria nella piazza principale di Oria, si ritenne opportuno cambiarne la destinazione d’uso, trasformandola, con le opportune modifiche, nella sede del Decurionato. “Quindi, non è proprio esatto dire che in questo periodo fu costruito il Sedile, ma piuttosto che ci fu un rifacimento del vecchio edificio preesistente, magari con la costruzione della sola facciata”2. In seguito il palazzo ospitò il Comando della Polizia municipale e attualmente è utilizzato come punto di riferimento turistico e, talvolta, come location per l’allestimento di mostre di pittura. Oltre che per motivi storici e architettonici, il Sedile riveste una certa rilevanza anche dal punto di vista araldico.

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Fig. 1 . Oria, Sedile, facciata, stemma dell’Universitas
Fig. 3
Fig. 2. Oria, Sedile, atrio, stemma dell’Universitas

Sulla facciata e nell’atrio, infatti, fanno bella mostra di sé tre importanti esemplari, due dei quali raffigurano l’arma dell’Universitas oritana3 (figg. 1  e 2), mentre il terzo mostra uno stemma borbonico (fig. 3) che, vuoi per la sua complessità, vuoi per una prosaica questione di noncuranza, non ha ancora attirato l’interesse degli studiosi locali. La nostra indagine si propone, dunque, di (ri)scrivere una pagina di storia alla luce del fatto che questo stemma, col suo messaggio cromatico-figurativo, costituisce l’espressione visiva dell’appartenenza a una realtà storica ben precisa, caratterizzata dal dominio borbonico in Oria e, più in generale, in Terra d’Otranto e nel Regno di Napoli.

Fig. 3
Fig. 3. Oria, Sedile, atrio, stemma di Ferdinando IV.

 

Lo stemma borbonico

Con la sua gradevolezza estetica, la sua complessa iconografia e il suo enorme impatto visivo, lo stemma in argomento domina e nobilita l’atrio del palazzo, palesandosi come chiaro segno del potere regale. Uno scudo sagomato con contorni tipicamenti settecenteschi, accompagnato da una serie di ornamentazioni esterne (su cui torneremo), racchiude un blasone smaltato e in buono stato di conservazione, attribuibile a Ferdinando di Borbone (*1751 †1825), IV di Napoli e III Sicilia, e databile al periodo precedente l’unificazione politica delle due corone avvenuta nel 18164. Figlio terzogenito di Carlo di Borbone (*1716 †1788) e di Maria Amalia di Sassonia, Ferdinando salì al trono nel 1759, succedendo al padre che col nome di Carlo III andò a regnare in Spagna. Oltre al titolo di Rex utriusque Siciliae, egli ereditò dal padre anche lo stemma (fig. 6), secondo l’ampliamanto che quest’ultimo a sua volta operò sull’arma paterna5 (fig. 7).

Fig. 6
Fig. 6. Stemma di Carlo di Borbone (da AA.VV., Divisas y antiguedades: l’esercito napoletano di Carlo VII, Rivista militare europea, 1988).
Fig. 7
Fig. 7. Stemma di Filippo V (da Collezione Borgia, Napoli, Carte araldiche e genealogiche, II, 24, in L. Borgia, op. cit., p. 58).

Lo stemma di Ferdinando (fig. 5) non ebbe nel corso del tempo una configurazione stabile, ma fu sottoposto a un notevole numero di varianti che, tuttavia, ne lasciarono inalterata la riconoscibilità6.

Fig. 5
Fig. 5. Stemma di Ferdinando IV (da S. Vitale, op. cit., p. 35).
Fig. 4
Fig. 4. Oria, Sedile, atrio, particolare dello stemma di Ferdinando IV

Una di queste varianti è rappresentata proprio dall’esemplare oritano oggetto si questo studio (fig. 4). Tale blasone contiene complessivamente ventuno quarti7 che, a seconda del significato che assumono nello scudo, sottolineano domini, pretensioni, eredità, insegne gentilizie. Si tratta di uno stemma molto complesso, la cui lettura, tuttavia, può essere semplificata se si considera che esso, in realtà, nasce dall’unione di cinque insegne autonomamente preesistenti che si sono venute aggregando insieme in conseguenza di una serie di eventi storici e sulla base di precise motivazioni giuridiche. La conoscenza delle singole armi e delle modalità storico-araldiche con cui esse furono incluse nello stemma borbonico si rivela decisiva ai fini di una correta lettura del manufatto araldico. Va premesso che nella descrizione dei singoli quarti ci siamo attenuti alla loro blasonatura standard, indicandone di volta in volta, nelle apposite note di chiusura, le differenze riscontrate con quelli contenuti nell’esemplare oritano. La maggior parte della sezione centrale dello scudo è occupata dai quarti della linea asburgica spagnola che Filippo V ereditò da Carlo II (*1661 †1700), ultimo sovrano spagnolo della Casa d’Asburgo8 nonché discendente dell’imperatore Carlo V9 (*1500 †1558), suo trisavolo paterno (fig. 8).

Fig. 8
Fig. 8. Madrid, Plaza Mayor, Casa de la Panadería, stemma di Carlo II

Dall’alto in basso troviamo, infatti, le insegne di origine spagnola10, vale a dire i punti Castiglia e León (Castiglia: “di rosso, al castello d’oro, torricellato di tre pezzi, aperto e finestrato d’azzurro”; León:  “d’argento, al leone di rosso (originariamente di porpora), coronato, lampassato11 e armato d’oro”12), di Granada (“d’argento, alla melagranata di rosso, stelata e fogliata di verde”13), d’Aragona (“d’oro, a quattro pali di rosso”14) e d’Aragona-Sicilia (“inquartato in decusse: nel 1° e nel 4° d’oro, a quattro pali di rosso; nel 2° e nel 3° d’argento, all’aquila spiegata15 e coronata di nero”16), nonché quelle di origine asburgico-borgognona17, ovvero i punti di Borgogna antica (“bandato18 d’oro e d’azzurro; alla bordura di rosso”19), di Fiandra (“d’oro, al leone di nero, lampassato e armato di rosso”20), di Brabante (“di nero, al leone d’oro, lampassato e armato di rosso”21), del Tirolo (“d’argento, all’aquila spiegata di rosso, le ali legate a trifoglio d’oro, coronata, rostrata22 e membrata dello stesso”23), d’Austria (“di rosso, alla fascia d’argento”24) e di Borgogna moderna (“d’azzurro, seminato di gigli d’oro; alla bordura compostad’argento e di rosso”25). Al centro, al di sopra dei punti asburgico-borgognoni, compare l’arma propria del reame partenopeo, aggiunta da Carlo III quando nel 1734 salì sul trono di Napoli. E’ formata dal quarto d’Angiò-Napoli (“d’azzurro, seminato di gigli d’oro, al lambello26 di rosso di cinque pendenti”) partito con quello di Gerusalemme (“d’argento, alla croce potenziata27 d’oro, accantonata da quattro crocette dello stesso”), secondo una modalità rappresentativa risalente ai tempi della regina Giovanna I d’Angiò28 (*1326 †1382). Sul fianco destro e nella parte destra del capo dello scudo appaiono, invece, le armi del ducato di Parma e Piacenza, incluse nello scudo di Carlo III in quanto successore del prozio Antonio (*1679 † 1731), ultimo duca della dinastia farnesiana29 (fig. 9).

Fig. 9
Fig. 9. Stemma di Francesco Farnese, duca di Parma e Piacenza (da La Croce oroscopo di vittorie…[dedicata a] Francesco Farnese, Parma 1717).
La sovranità carolina su questo Stato fu però di breve durata (dal 1731 al 1736), perché al termine della guerra di successione polacca, per effetto del Trattato di Vienna (1738), egli dovette cedere il ducato, già occupato nel 1736 dalle truppe imperiali guidate da Giorgio Cristiano, principe di Lobkowitz, all’imperatore Carlo VI d’Asburgo30. Le insegne ducali presenti nello stemma di Ferdinando IV assumono, quindi, la funzione di armi di pretensione: tali sono i quarti di Farnese (“d’oro, a sei gigli d’azzurro, posti 3, 2, 1”31), di Portogallo (“d’argento, a cinque scudetti d’azzurro, disposti in croce, caricati ciascuno di cinque bisanti32 d’argento, posti in croce di Sant’Andrea; con la bordura di rosso, caricata di sette castelli d’oro, torricellati di tre pezzi, aperti e finestrati d’azzurro”33), d’Austria e di Borgogna antica34 (vedi supra). Proseguendo nella lettura delle singole insegne, osserviamo la presenza, nel fianco sinistro dello scudo, dell’arma medicea del granducato di Toscana, entrata nello stemma di Carlo III in quanto discendente di Margherita di Cosimo II de’ Medici (moglie del duca Odoardo Farnese, suo trisavolo materno) ed erede, col titolo di Gran Principe di Toscana, di Gian Gastone (*1671 †1737), ultimo dei Medici35 (fig 10).

Fig. 10
Fig. 10. Verso stemmato di una moneta di Gian Gastone, granduca di Toscana.

Tuttavia, in seguito ai già ricordati mutamenti provocati dalla guerra di successione polacca, Carlo dovette rinunciare alla successione toscana in favore di Francesco Stefano di Lorena36, ma conservò la pretesa su quei territori, rappresentandola araldicamente con la celebre arma medicea “d’oro, a cinque palle37 di rosso, poste in cinta38, accompagnate in capo da un’altra palla più grande d’azzurro, caricata di tre gigli d’oro, 2, 1”39. Tale pretensione rimase inclusa nello stemma di Ferdinando e dei suoi successori. Infine, nella posizione tecnicamente detta sul tutto, appare l’arma gentilizia dei Borbone-Napoli: “d’azzurro, a tre gigli d’oro, 2,1; con la bordura di rosso”. Vale la pena spendere qualche parola in più sull’origine e l’evoluzione di quest’arma40. La linea di Borbone del ceppo capetingio si originò con Roberto (*1256 †1317), conte di Clermont, figlio cadetto del re di Francia Luigi IX (*1215 †1270) e padre di Luigi (*1279 †1341), il quale, per eredità materna, nel 1327 divenne primo duca di Borbone. Dovendo differenziare la propria arma da quella reale di Francia (“d’azzurro, seminato di gigli d’oro”41), i Borbone brisarono lo stemma capetingio con una banda di rosso attraversante sul tutto. A partire dal regno di Carlo V di Valois (1364-1380), i gigli dell’ arma reale di Francia furono ridotti a tre42: lo stesso fecero i Borbone, continuando tuttavia, per esigenza di brisura, a far attraversare il campo e i gigli da una banda di rosso. Quanto, a seguito dell’assassinio di Enrico III di Valois (1584), Enrico IV divenne il primo sovrano borbonico di Francia, la brisura formata dalla banda dovette ovviamente essere rimossa da scudo reale. Naturalmente i cadetti della nuova casa reale di Francia continuarono a differenziarsi araldicamente attraverso il sistema delle brisure. In particolare, i titolari dell’Angiò, seguendo una tradizione risalente al 1290, anno in cui Carlo (*1270 1325), conte di Valois, ottenne la contea angioina, utilizzarono una brisura costituita da una bordura di rosso: tale la portò, come abbiamo visto, Filippo V, duca d’Angiò, re di Spagna e figlio cadetto di Luigi il Gran Delfino, e tale la mantennero i suoi successori.

Torniamo ora ad occuparci dell’esemplare oritano. Dall’analisi dettagliata dei quarti che abbiamo poc’anzi descritto emerge una netta corrispondenza fra il contenuto blasonico dello scudo e la titolatura che assunse il nostro Ferdinando: FERDINANDUS IV. DEI GRATIA REX UTRIUSQUE SICILIAE, HIERUSALEM, HISPANIORUM INFANS, DUX PARMAE, PLACENTIAE, CASTRI, AC MAGNUS PRINCEPS HEREDITARIUS HETRURIAE ETC. ETC. Ciò dimostra quanto sia stretto il nesso fra rappresentazione araldica e status giuridico del titolare. Altre preziose informazioni si ricavano altresì dall’osservazione della disposizione dei quarti propriamente napoletani (Angiò-Napoli e Gerusalemme) i quali, contrariamente a quanto si vede nello stemma riprodotto nella fig. 5, non risultano relegati nella punta dello scudo, bensì posti al di sopra dei punti asburgico-borgognoni. Riteniamo che questa posizione più onorevole non sia un dettaglio secondario, ma assuma il significato un messaggio politico e iconografico ben preciso finalizzato a conferire maggiore visibilità e importanza alle insegne proprie del reame partenopeo.

Volendo sinteticamente blasonare lo stemma del Sedile, esso può essere descritto nella maniera seguente: “Partito di tre43: Il primo gran partito, di Portogallo, al capo44 di Farnese. Il 2° gran partito, troncato di tre45: a) interzato in palo46 d’Austria, di Borgogna antica e troncato di Castiglia e León; b) di Angiò-Napoli; c) tagliato ritondato47 di Borgogna antica e di Fiandra; d) d’Austria. Il terzo gran partito, troncato di tre: nel 1° interzato in palo: a) troncato di León e Castiglia; b) d’Aragona; c) d’Aragona-Sicilia; al di sotto dell’inquartato di Castiglia e León, innestato in punta di Granada; nel 2° di Gerusalemme; nel 3° trinciato ritondato48 di Brabante e del Tirolo; nel 4° di Borgogna moderna. Il quarto gran partito, dei Medici. Sul tutto di Borbone-Napoli”.

Fig. 11
Fig. 11. Oria, Sedile, particolare della croce patente e biforcata

Molto interessante si rivela anche lo studio delle ornamentazioni esterne49. Lo scudo è timbrato50 da una corona chiusa (indice di sovranità), formata da un cerchio gemmato e diademato da quattro archi che si congiungono ad un globo privo della consueta croce. L’accollatura51 visibile dietro lo scudo è formata da un insieme eterogeneo di elementi a richiamo militare (vessilli, cannoni, trombe e tamburi), noto come trofeo d’armi. Infine, al di sotto della punta dello scudo, notiamo una crocetta patente52, biforcata e forata al centro (fig. 11) che probabilmente è ciò che resta del pendente del collare dell’Insigne Real Ordine di San Gennaro. Tale Ordine fu istituito da Carlo III il 3 luglio del 1738, giorno del suo matrimonio con Maria Amalia di Sassonia, dalla cui unione nacque Ferdinando. La decorazione consisteva in una croce biforcata, accantonata da quattro gigli, recante al centro, al di sopra del motto IN SANGUINE FOEDUS, l’effigie di San Gennaro, protettore di Napoli, con la mano destra benedicente e tenente, con la sinistra, il vangelo, le ampolle del suo sangue e il pastorale (fig. 12). La croce pendeva da un collare formato da maglie con gigli, leoni, castelli turriti, lettere C (iniziali del fondatore), simboli della fede e del Santo, alternati fra loro53.

Fig. 12
Fig. 12. Croce dell’Insigne Real Ordine di San Gennaro

Conclusione

Sopravvissuto alla damnatio memoriae del periodo napoleonico e ai mutamenti provocati dalle epoche successive, lo stemma che abbiamo analizzato è uno più importanti e mirabili esempi di araldica borbonica riscontrabili nell’ex provincia di Terra d’Otranto. Attraverso la corretta interpretazione del linguaggio figurato in esso contenuto, è possibile intraprendere un affascinante viaggio storico attraverso il susseguirsi delle dominazioni cui è stato soggetto il Sud Italia e i rapporti fra queste ultime e alcune fra le più importanti casate europee. Oltre a testimoniare il ruolo decisivo che assunse l’araldica nella comunicazione politica per immagini, quest’arma rappresenta, dunque, un prezioso documento visivo di una storia che è allo stesso tempo locale, provinciale, mediterranea ed europea. Ma c’è dell’altro. L’attribuzione e la datazione dello stemma ci consentono di collocare la realizzazione e la sistemazione di quest’ultimo e di quello civico visibile sulla facciata nella seconda metà del XVIII secolo, dopo i lavori di completamento del Sedile cui abbiamo accennato in precedenza. Sarebbe interessante incrociare questi dati, frutto di evidenze araldiche, con quelli derivanti da uno studio specifico sull’esatta cronologia della costruzione dello storico palazzo oritano. Spesso, infatti, la corretta interpretazione di uno stemma riprodotto su un edificio o su altri supporti diventa un’arma segreta in grado di fornire allo storico e allo storico dell’architettura informazioni decisive per la conoscenza del contesto di cui esso è l’espressione visiva.

L’evoluzione dell’araldica dei Borbone di Napoli e Sicilia fu completata nel 1816 con la creazione del celebre stemma del Regno delle Due Sicilie (vedi infra, nota 4), il più complesso fra tutte le insegne araldiche degli Stati italiani preunitari (fig. 13).

 

Fig. 13
Fig. 13. Decreto di approvazione dello stemma reale delle Due Sicilie (Archivio di Stato di Napoli, Decreti originali, 114, 4049).

 

1. Il vecchio carcere fu costruito sul suolo dove prima sorgeva la chiesa di San Pietro Rotondo. Per una parziale ma accurata disamina della storia e dell’evoluzione dell’edificio, si rimanda all’ottimo saggio sulla toponomastica oritana di P. Spina, Oria, strade vecchie, nomi nuovi, strade nuove, nomi vecchi, Oria 2003,  pp. 176-178.

2. Cfr. ivi, p. 178.

3. Si tratta di due testimonianze significative e imprescindibili per la conoscenza del significato e dell’evoluzione dello stemma civico oritano, sul quale ci riserviamo di ritornare in futuro con un’apposita ricerca.

4. Ricordiamo che l’8 dicembre 1816 Ferdinando di Borbone  emanò un decreto con il quale divenne I delle Due Sicilie, diventanto così lo stipite del ramo Borbone-Due Sicilie. Una norma del 22 dicembre, inoltre, decretò l’unificazione politica dei due reami di Napoli e Sicilia, distinti sin dal 1282, anche se spesso riuniti nella persona di un comune sovrano. Con un decreto del 21 dicembre dello stesso anno Ferdinando I definì lo stemma, la corona e le insegne cavalleresche esterne allo scudo: era nato lo stemma del Regno delle Due Sicilie. Per un’esaustiva trattazione sull’origine e l’evoluzione dell’arma duosiciliana, si rimanda a L. Borgia, Lo stemma del Regno delle Due Sicilie, Firenze 2000,  e a S. Vitale, Lo stemma del Regno delle Due Sicilie. Origini e storia, Morcone 2005.

5. Carlo era figlio primogenito di Filippo V (*1683  †1746), primo sovrano borbonico di Spagna, e della sua seconda moglie Elisabetta Farnese (*1692 †1766).

6. Alcune di queste varianti e modificazioni sono documentate dal Borgia (op. cit., pp. 75-77).

7. Il quarto (detto anche punto dell’arma) indica ciascuna delle singole armi che, nella loro interezza, compongono stemmi più complessi, purché  ognuno di essi rappresenti un’arma separata.

8. Va ricordato che una volta estintisi gli Asburgo di Spagna con la morte di Carlo II, le armi di quest’ultimo rimasero ad indicare la corona spagnola e, come tali, furono ereditate da Filippo V,  che provvide a modificare la collocazione sia di alcuni quarti di origine asburgico-borgognona, sia del punto di Granada. Inoltre, essendo un Borbone, pose in uno scudetto sul tutto il proprio stemma gentilizio. Da Filippo V, tramite Carlo III, tutte le armi iberiche furono ereditate da Ferdinando e dai suoi successori. Cfr. L. Borgia, op. cit., p. 17.

9. Carlo V riunì nel suo scudo le insegne propriamente spagnole, ereditate dalla madre Giovanna d’Aragona (*1479 †1555), figlia dei sovrani Cattolici Ferdinando II (*1452 †1516) e Isabella di Castiglia (*1451 †1504), e quelle asburgico-borgognone, che gli giunsero tramite il padre Filippo il Bello (*1478 †1506), figlio dell’imperatore Massimiliano I e di Maria di Borgogna, ultima dei Valois borgognoni. Il suo successore, Filippo II di Spagna (*1527 †1598), provvide a ridurre lo stemma ereditato dal padre, con l’aggiunta nel punto d’onore di uno scudetto recante l’arma del reame portoghese, ereditato dalla madre Isabella d’Aviz. Tale stemma passò, poi,  ai suoi successori fino a Carlo II, il quale, dopo il Trattato di Lisbona (1668), rimosse dal proprio scudo l’insegna reale portoghese. Cfr. S. Vitale, op. cit., pp. 24-26.

10. Questa rappresentazione delle armi spagnole risale a Ferdinando II d’Aragona e Isabella di Castiglia, le cui nozze, contratte nel 1469, furono alla base dell’unificazione dei vecchi Stati spagnoli. Lo stemma dei sovrani Cattolici, infatti, era formato da uno scudo inquartato, recante nel primo e nel quarto gran quarto un controinquartato di Castiglia e León, nel secondo e nel terzo un partito d’Aragona e d’Aragona-Sicilia, mentre l’insegna di Granada era incuneata nella punta dello scudo (innestato in punta).

11. Dicesi lampassatoil quadrupede  con la lingua di smalto diverso.

12. Le armi parlanti di Castiglia e di León comparvero per la prima volta  verso gli inizi del XII secolo, periodo in cui i due regni erano separati. Ferdinando III (*1200 †1252), re di Castiglia e di León, fu il primo a inquartare il proprio scudo con gli stemmi dei due reami. Cfr. L. Borgia, op. cit., p. 12. Va segnalato che nell’esemplare oritano, probabilmente per ragioni di spazio,  i castelli di Castiglia sono rappresentati come torri merlate.

13. Tale arma fu introdotta dai sovrani Cattolici Ferdinando II d’Aragona e Isabella di Castiglia nel 1492, anno della presa di Granada e della fine della dominazione islamica in Spagna. Cfr. ivi, p. 13.

14. Probabilmente di origine provenzale, tali insegne giunsero in Aragona in seguito alle nozze celebrate nel 1151 fra Raimondo Berengario IV, conte di Barcellona, e la sovrana aragonese Petronilla. Nei sigilli del predetto conte e in quelli di suo figlio Alfonso II (1162-1196) si trovano i più antichi esemplari recanti i pali aragonesi. Cfr. ivi, p. 12.

15. Uccello con le ali distese e volte verso l’alto.

16. Tale disposizione risale a Federico II (*1271 †1337), re di Sicilia, figlio di Pietro III d’Aragona e di Costanza di Svevia. Il suddetto sovrano, infatti, utilizzò uno scudo inquartato con le insegne paterne e materne, creando così un’arma che per secoli indicherà la terra siciliana. Cfr. L. Borgia, op. cit., pp. 12-13. Si noti come nello stemma oritano l’aquila sia raffigurata col volo abbassato.

17. L’aggregazione delle insegne asburgico-borgognone risale a Filippo il Bello, figlio di Massimiliano I e di Maria di Borgona. Egli, infatti,  utilizzò uno scudo inquartato recante i punti d’Austria, di Borgogna moderna, di Borgogna antica e di Brabante, ponendo sul tutto uno scudetto di Fiandra, spesso partito con l’arma del Tirolo. Cfr. ivi, p. 16.

18.  Scudo coperto interamente da bande alternate di metallo e colore, ordinariamente in numero di sei.

19. Il punto di Borgogna antica risale agli inizi del XIII secolo. Indica la prima linea borgognona del ceppo capetingio, originata da Roberto I (*1011 †1076), duca di Borgogna, figlio di Roberto II il Pio. Cfr. L. Borgia, op. cit., p. 15. Si noti come nell’esemplare oritano, per un errore da parte dell’esecutore,  il punto di Borgogna antica sia rappresentato con quattro bande azzurre su campo d’oro, anziché come un bandato di sei pezzi alternati d’oro e d’azzurro.

20. I punti di Fiandra e Brabante entrarono negli stemmi dei duchi di Borgogna in seguito al matrimonio fra Filippo II l’Ardito (*1342 †1404), stipite della seconda linea borgongona del ceppo capetingio, e Margherita (*1350 †1405), contessa di Fiandra, duchessa di Brabante e del Limburgo. Cfr. ibidem.

21. Vedi nota 20.

22. L’aquila col becco di smalto diverso.

23. La contea del Tirolo giunse agli Asburgo per via ereditaria tramite Rodolfo IV d’Austria (*1339 †1365), nipote abiatico di Alberto I, duca d’Austria e re dei Romani, e di Elisabetta del Tirolo (†1312). Cfr. L. Borgia, op. cit., p. 16. Si noti come nell’esemplare oritano l’aquila sia rappresentata col volo abbassato.

24. Una delle più note armi del blasone europeo, alludente,  secondo una leggenda, alla tunica del duca Leopoldo di Babenberg intrisa del sangue degli “infedeli” nel corso della battaglia di Tolemaide (1191) e rimasta bianca intorno alla vita perché protetta da un cinturone. A seguito dell’estinzione della casa margraviale di Babenberg, divenuta poi ducale,  e con la cessione del ducato d’Austria ad Alberto I d’Asburgo (*1248 †1308), si posero le basi per l’ascesa della casata, la quale abbandonò l’arma primitiva (“d’oro, al leone di rosso, coronato, lampassato e armato d’azzurro”) sostituendola con la celebre fascia d’argento in campo rosso dei Babenberg. Cfr. ivi, p. 14.

25. Punto relativo alla seconda linea borgognona del ceppo capetingio, il cui stipite fu Filippo II l’Ardito, figlio terzogenito di Giovanni II di Valois, re di Francia. L’arma di questo cadetto dei Valois era quella paterna (“d’azzurro, seminato di gigli d’oro”, antica insegna dei capetingi) brisata, cioè differenziata, da una bordura composta d’argento e di rosso. Dopo aver ottenuto il ducato di Borgogna, Filippo II inquartò la sua arma con quella di Borgogna antica. Cfr. L. Borgia, ivi, p. 15. Per gli ampliamenti successivi,  vedi supra, note 20, 17 e 9.

26. Pezza costituita da un listello orizzontale scorciato (cioè che non tocca i lati dello scudo) e munito inferiormente di sporgenze chiamate pendenti. Spesso è indice di brisura, cioè di un’alterazione dell’arma originaria al fine di distinguere i vari rami della famiglia, come si vede nel noto stemma di Carlo I d’Angiò (*1226 †1285), figlio ultrogenito  del re di Francia Luigi VIII (*1187 †1226).

27. A forma di T.

28. In realtà l’associazione del punto angioino con quello gerosolimitano risale a Carlo I d’Angiò. Pur non avendo mai cinto effettivamente la corona di Gerusalemme, nel 1278 Carlo inaugurò uno scudo partito, ponendo a destra (sinistra per chi guarda) l’insegna di Gerusalemme e a sinistra (destra per chi guarda) quella gentilizia, creando un’arma che per secoli indicherà il Regno di Napoli e la pretensione, ad esso collegata, al trono di Gerusalemme. A partire dal regno di Giovanna I, invece, si assiste ad un inversione dei due punti summenzionati. Cfr. L. Borgia, op. cit., pp. 19-21.

29.  Cfr. ivi, p. 31.

30. Cfr. ivi, pp. 39-40.

31. In origine l’arma Farnese era formata da un numero variabile di gigli d’azzurro in campo d’oro (da un minimo di uno fino ad arrivare alla disposizione in seminato). Più tardi essi diventeranno stabilmente sei, disposti  3, 2 e 1. Cfr. ivi, p. 32.

32. Tondino di metallo.

33. I cinque scudetti con i bisanti vengono chiamati quinas. L’origine dell’arma portoghese risale al XII secolo, durante i regni di Alfonso I (1139-1185) e di Sancio I (1185-1211). Inizialmente priva della bordura con i castelli, quest’ultima venne aggiunta da Alfonso III (1248-1279) con riferimento alle armi di Castiglia, la dinastia a cui appartenevano la  madre e la moglie Beatrice, figlia del re Alfonso X di Castiglia. Fu proprio a partire dal regno di Alfonso III che lo stemma reale portoghese cominciò a fissarsi progressivamente nella forma che poi diventerà classica. Cfr. S. Signoracci, L’arma reale del Portogallo nel corso dei secoli, in Nobiltà, rivista di araldica, genealogia, ordini cavallereschi, anno I, n. 4, Milano luglio-settembre 1994, pp. 395-399. L’arma portoghese entrò nello scudo dei duchi di Parma a seguito del matrimonio fra Alessandro (*1543 †1592) e Maria del Portogallo (*1538 †1577). Ranuccio, nato dal predetto matrimonio, inserì nello stemma ducale il quarto portoghese per manifestare la sua pretensione a quel trono.  Cfr. L. Borgia, op. cit., p. 34. Nello stemma oritano, per motivi di spazio (vedi anche supra, nota 12), la bordura è caricata non da castelli, bensì da torri, il cui numero, però, risulta superiore a sette. Inoltre, i bisanti che caricano gli scudetti sono disposti 3, 2 anziché in croce di Sant’Andrea.

34. L’inserimento dei quarti d’Austria e di Borgogna antica nello stemma ducale risale al matrimonio fra Ottavio Farnese (*1525 †1586) e Margherita d’Austria (*1522 †1586), figlia naturale dell’imperatore Carlo V. Cfr. ivi, p. 33. Si noti come nello stemma in esame il punto di Borgogna antica sia privo della bordura di rosso: ciò succedeva quando esso era associato al punto d’Austria.

35. Cfr. ivi, p. 29.

36. Cfr. ivi, p. 39.

37. Figura tonda ombreggiata per mostrarne il rilievo.

38. Più figure poste in giro nello scudo, ad eguale distanza dal bordo, nel senso della cinta.

39. In origine l’arma medicea ebbe un numero variabile di palle, compreso fra un minimo di tre ed un massimo di undici. Nel 1465 Luigi XI di Francia concesse al “carissimo amico” Piero di Cosimo de’ Medici il cosiddetto ampliamento di Francia, cioè uno scudetto con tre gigli d’oro su campo d’azzurro, che venne poi trasformato in una palla,  figura abituale nell’araldica toscana che conferiva allo stemma mediceo una maggiore euritmia. Nel periodo a cavallo fra i secoli XV e XVI lo stemma mediceo assumerà la conformazione definitiva “d’oro, a cinque palle di rosso, poste in cinta, accompagnate in capo da un’altra palla più grande d’azzurro, caricata  di tre gigli d’oro, 2, 1”. Cfr. L. Borgia, op. cit., pp. 36-39.

40.  Cfr. ivi, p. 46.

41. La più antica testimonianza araldica di uno scudo capetingio cosparso di gigli è del 1211. Si tratta di un sigillo del principe Luigi (*1187 †1226), figlio del re di Francia Filippo Augusto. Cfr. M. Pastoureau, Medioevo simbolico, Bari 2014,  p. 92.

42. Il passaggio, avvenuto tra il 1372 e il 1378, dall’antico seminato, che alludeva alla protezione mariana accordata al re e al regno, ai tre gigli intendeva sottolineare “la particolare affezione della benedetta Trinità per il regno di Francia”. Cfr. ivi,  pp. 94-95.

43. Scudo diviso in quattro parti da tre  linee verticali e parallele.

44. Pezza onorevole occupante la parte più alta del campo, larga 1/3 dello scudo. Per un errore da parte dell’esecutore, l’arma farnesiana è contenuta in un capo, mentre avrebbe dovuto essere raffigurata nel primo quarto di un troncato.

45. Scudo diviso in quattro parti da tre linee orizzontali  e parallele.

46. Scudo diviso in tre parti da due verticali e parallele.

47. Scudo diviso in due da una linea obliqua e ricurva che parte dall’angolo di sinistra in alto a quello di destra in basso.

48. Scudo diviso in due da una linea obliqua e ricurva che parte dall’angolo di destra in alto a quello di sinistra in basso.

49. Tutti quei componenti che, posti  esternamente allo scudo, contribuiscono alla formazione dello stemma.

50. Il timbro è l’ornamento esterno posto sopra lo scudo, indicante la qualità del possessore dell’arma.

51. Tutto ciò che è posto dietro lo scudo (aquile, croci, trofei d’arme, pastorali, chiavi, spade ecc.)

52.  Croce con le braccia che vanno allargandosi verso le estremità.

53. Cfr. L. Borgia, op. cit., pp. 65-66.

– Magliani Agostino detto Tino e la sua medaglietta? La ferrovia tra Brindisi e Taranto l’ho portata io … –

di Armando Polito

Così Maurizio Crozza interpreterebbe un omologo salentino  del napoletano De Luca, facendogli aggiungere: – Prima di me per recarsi da Brindisi a Taranto i salentini adoperavano liane appese agli alberi di ulivo. A Brindisi salivano sull’ulivo più a portata di mani e di piedi e grazie alla liana con adeguati movimenti oscillatori volavano verso l’albero successivo e, di albero in albero, arrivavano a Taranto. Parecchi calcolavano male l’ultimo salto e cadevano nel Mar Piccolo e il loro miserabile annegamento contribuiva ad un considerevole innalzamento del tasso d’inquinamento. Sempre per un maldestro uso dell’ultima liana parecchi, nel compiere il percorso inverso, finivano i loro giorni nel porto di Brindisi e le ultime loro parole erano – Porto cornuto!- e così l’incolpevole porto finì per convincersi di esserlo, assumendo la forma che si vede in tutte le mappe. Tutto questo fino a quando non ho portato io la Xylella fastidiosa, pardon, la ferrovia, evitando, tra l’altro, di ovviare all’annegamento di tanti poveretti con due belle colate di cemento. Magliano Agostino detto Tino: personaggetto. La sua medaglia? Medaglietta … -. 

Per evitare che qualche lettore animato da uno spirito cristiano troppo zelante  si faccia frettoloso promotore di un TSO (Trattamento sanitario obbligatorio) nei miei confronti, invito tutti a leggere, se non l’hanno fatto, e, se l’hanno fatto, a rileggere l’interessante recente post di Maurizio Nocera (https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/04/un-libro-di-pietro-cavoti-per-un-ministro-delle-finanze/), post del quale questo mio costituisce una sorta di leggera integrazione. Essa, probabilmente, per certi aspetti farà molto piacere al buon Maurizio, (da qui in avanti da intendersi Nocera, non Crozza), ad altri meno. Comincio dalle note dolenti dicendo subito che la pubblicazione reperita al mercatino probabilmente non ha un grande valore antiquario, anche se essa costituisce, per così dire, quasi una seconda edizione. Infatti dell’opuscolo (lo chiamo così non per il formato ma per il ridotto numero di pagine) esiste una versione stampata a Lecce dallo Stabilimento tipografico Scipione Ammirato nel 1883 con 20 pagine numerate, con tre tavole, e con dimensione verticale di pagina di 23 centimetri. La seconda versione,quella del pezzo, appunto,  fu stampata nello stesso luogo e nello stesso anno da G. Spacciante e conta 37 pagine numerate, con tre tavole (una diversa da quelle dell’altra edizione) e con dimensione verticale di pagina di 25 cm.

Paradossalmente della prima versione (che sembra essere la più modesta dal punto di vista editoriale) l’OPAC registra la presenza di 7 esemplari (Biblioteca provinciale Nicola Bernardini – Lecce – LE; Biblioteca comunale – Zollino – LE; Biblioteca comunale Pietro Siciliani – Galatina – LE; Biblioteca dell’Associazione Pernix Apulia di Apulia Selvaggi – Manduria – TA; Biblioteca comunale Labronica Francesco Domenico Guerrazzi. Sezione catalografica e magazzino librario – Livorno – LI; Biblioteca Malatestiana – Cesena – FC; Biblioteca di storia moderna e contemporanea – Roma – RM) e della seconda 9 (Biblioteca della Soprintendenza per i beni culturali e ambientali di Palermo – Palermo – PA; Biblioteca comunale – Gallipoli – LE; Biblioteca provinciale Nicola Bernardini – Lecce – LE; Biblioteca comunale Francesco Piccinno – Maglie – LE; Biblioteca comunale Pietro Siciliani – Galatina – LE; Biblioteca comunale Isidoro Chirulli – Martina Franca – TA; Biblioteca dell’Associazione Pernix Apulia di Apulia Selvaggi – Manduria – TA; Biblioteca del Museo civico archeologico – Bologna – BO; Biblioteca nazionale centrale – Firenze – FI).

Insomma, anche se Maurizio è riuscito, mi si conceda la similitudine venatoria nonostante la mia avversione alla caccia,  a beccare l’esemplare più in carne, la selvaggina non pare essere estremamente pregiata. Ma certe prede per Maurizio, come per me, sono importanti solo perché recano una data e questa, a meno che non si riferisca all’altro ieri, è sempre uno stimolo per conoscere un po’ di più del nostro passato.

Dopo aver capito (ci ho messo tre secondi, ma ho la mia età …) che si tratta di un testo celebrativo per la consegna di una medaglia ad un personaggio importante per meriti importanti, mi son chiesto se non fosse il caso, visto che Maurizio ha detto tutto sul libro, di mettermi sulle tracce della medaglia.

Saltando con una liana da ulivo su ulivo (magari …!), grazie ad un atterraggio morbido sulla rete (quella informatica, non quella della raccolta delle olive), sono in grado di presentarla con immagini tratte da http://www.ebay.it/itm/SALERNO-Agostino-MAGLIANI-66-mm-1882-/261069989542

Ecco il dritto (non sto presentando me stesso, parlo della medaglia …).

AUGUSTINUS MAGLIANIUS OECONOMIAE STUDIIS INSIGNIS (Agostino Magliani insigne per gli studi di economia)

E(UGENIO) MACCAGNANI MOD(ELLÒ) GI(OVANNI) VAGNETTI INC(ISE) IN ROMA

Prima di passare al verso spendo poche parole per Eugenio Maccagnani e Giovanni Vagnetti (su Agostino Magliani basta e avanza quanto scritto da Maurizio).

Eugenio Maccagnani era nato a Lecce nel 1852 e, dunque, quando realizzò il modello della medaglia (non credo che gli fosse stato affidato l’incarico all’ultimo momento e, comunque, come vedremo, la medaglia reca nel verso la data MDCCCLXXXII) doveva essere trentenne. Fa piacere constatare che almeno allora per celebrare un evento che ci riguardava da vicino non ci si rivolse ad artisti non salentini o, addirittura, stranieri .., ma ad un salentino doc, e per giunta  giovane.

È anche vero, però, che già a quella data il Maccagnani (che appena ragazzino si era fatto le ossa nella bottega dello zio Antonio famoso cartapestaio) era celebre a livello internazionale e, quindi, avrebbe fatto scalpore, anzi sarebbe stato vergognosamente scandaloso, se non ci si fosse ricordati di lui. Una sorte ben diversa ebbero, invece, se c’erano, gli incisori salentini, perché l’incarico di incidere il calco venne affidato al fiorentino Giovanni Vagnetti (1840- dopo il 1890). Credo che a tale scelta non fu estranea la fama di specialista in medaglie del Vagnetti, ma dovette essere decisiva la prova che di sè aveva dato un anno prima in un altro conio, i cui committenti erano leccesi,  riguardante sempre Agostino Magliani (immagini tratte da http://numismatica-italiana.lamoneta.it/moneta/W-ME52M/13).

AD AGOSTINO MAGLIANI GLI AMICI ED AMMIRATORI

GIOV. VAGNETTI FECE

 

PROFONDO ECONOMISTA

INSIGNE FINANZIERE

LIBERÒ L’ITALIA

DALLA TASSA DEL MACINATO

E DAL CORSO FORZOSO

 

LECCE 15 LUGLIO-1880-LECCE 7 APRILE 1881

 

A distanza di più di un secolo mi chiedo quale medaglione dovrebbe essere conferito a chi, pur non essendo un profondo economista (sorvolo sul finanziere perché qui è sinonimo di ministro delle finanze) ha liberato l’Italia dall’IMU sulla prima casa. Il solito disfattista salentino, però, dice che in compenso ha fatto lievitare le altre o ne ha inventate di nuove (impresa che comincia a richiedere dosi massicce di perversa fantasia) e, non prendendosela certamente con l’IMU, sbotta in un – LI MU … ! e, dopo aver completato la seconda parola, ci aggiunge quello che in italiano è l’aggettivo possessivo di seconda persona singolare, che nel dialetto neretino, in particolare, vale per tutti i generi e per tutti i numeri.

Ritorno alla nostra medaglia con l’esame del verso.

ALTERIUS ALTERA POSCIT OPEM

MDCCCLXXXII

GIOV(ANNI) VAGNETTI INC(ISE) E(UGENIO) MACCAGNANO MODELLÒ

L’Italia (accanto a terra lo scudo sabaudo sorretto da un leone) stringe la mano alla Terra d’Otranto che regge lo scudo col delfino con accanto una cornucopia rovesciata. Sullo sfondo convogli ferroviari (sono riconoscibili tre fumaioli di altrettante locomotive) procedentiin direzioni opposte ed in alto la Stella d’Italia con l’originale forma  di un pentacolo raggiato.

Il motto (ALTERIUS ALTERA POSCIT OPEM=Una chiede l’aiuto dell’altra) è l’adattamento di due versi di Orazio (Ars poetica, 410-411: … alterius sic/altera poscit opem res … = … così una cosa richiede l’aiuto dell’altra … ).

Se l’assenza di RES ha finito per personalizzare ALTERA (Terra d’Otranto) ed ALTERIUS (Regno d’Italia) debbo dire, però, che l’operazione è vecchia, come mostrano, solo per fare qualche esempio, una stampa di Jacob Hoefnagel datata 16341 e custodita nel British Museum (l’immagine è  tratta da http://www.britishmuseum.org/research/collection_online/collection_object_details/collection_image_gallery.aspx?assetId=793109001&objectId=3448674&partId=1)

lo stemma dell’Accademia Tiberina già Pontificia (immagine tratta da https://twitter.com/acctiberina) del 1824; il motto è nel cartiglio superiore)

e, in ultimo, una medaglia dedicata ad Enrico Newton di cui scrive Pietro Antonio Gaetani in Museum Mazzuchellianum, Zatta, Venezia, 1763, pp. 108-109: Richiamato ei fu a Londra per sostentare presso il suo Sovrano cariche di maggior momento, l’anno 1710, nel quale vennero parimenti coi Torchi di Lucca pubblicate in un Volume le sue Orazioni, le sue Lettere, e le sue Poesie Latine, distese con sommo gusto, con alquante d’altri Letterati di maggior grido ad esso dirette, ed in fronte alle quali venne posto questo nostro medesimo Impronto, lavoro del  celebre Scultore Massimiliano Soldani. Ha questo nel suo dinanzi il sembiante d’Enrigo, ed intorno ad esso le le parole HEN. NEWTON ABLEG. EXT. BRIT. AD M. ETRUR. D. ET R. P. GEN. FLOREN. 1709. Nel rovescio poi vedesi a sedere la Natura abbracciata da Minerva stantesi in piedi, col motto ALTERIUS ALTERA POSCIT OPEM.

Di seguito la tavola relativa alla medaglia

e la tavola che precede  il frontespizio dell’edizione citata dal Gaetani.

Non escluderei che il Maccagnani nella creazione della nostra medaglia sia stato ispirato, ma quasi certamente non sapremo mai se così fu, da questo modello.

So già cosa qualcuno starà pensando: Polito Armando detto Armapò: personaggetto in grado solo di produrre disarticolati articoletti che se fossero stampati su carta andrebbero a ruba nei cessi di tutto il Salento, se non fosse stato  che in Salento la carta igienica l’ho portata io. Prima i salentini usavano le foglie verdi e non dico cosa si sviluppava ad autunno inoltrato … Polito Armando detto Armapò: personaggetto …    

_______________

1 Tuttavia va precisato che l’immagine era già comparsa in Emblematum ethico-politicorum centuria Iulii Guilielmi Zincgrefii, caelo Matth. Meriani, Apud Iohann. Antonium et Petrum Manschallum, Francfurti, MDCXXIV

L’uno chiede l’aiuto dell’altro.

Quando la natura t’avrà dotato di ricchezze,

sappi che non sei nato per te solo.

Bisogna che il tuo vicinosenta l’effetto dei tuoi beni.  

 

Va anche detto che il tema era già stato illustrato in due tavole e con un motto diverso da Andrea Alciato, Emblematum libellus,  Christianus Wechelius, Parisiis, 1534.

                                   Mutuo aiuto

Il cieco porta caricato sulle spalle lo zoppo

e si sdebita con questo dono con gli occhi del compagno;

A quello di cui ciascuno dei due manca così l’uno e l’altro concorde fa fronte;

questi mette in comune gli occhi, quello i piedi. 

 

(Dicono che) uno non può nulla, due moltissimo

Zenale [pittore attivo a Milano tra la fine del secolo XV e gli inizi del successivo] con abile mano raffigurò insieme in questa tavola il figlio di Laerte [Ulisse] e quello di Tideo [Diomede]. Questi si distingue per la forza, quegli per l’acutezza della mente. Tuttavia l’uno e l’altro hanno bisogno del reciproco aiuto. Quando intervengono uniti la vittoria è certa; la mente o la mano abbandona l’uomo solo.

 

Il Salento in ventiquattro immagini di Abraham Louis Rodolphe Ducros (5/6): NARDÒ

di Armando Polito

Plein in de stad Nardo (Piazza nella città di Nardò)

Come già per Lecce così per Nardò una sola tavola dedicata a quella che nell’immaginario collettivo e non solo costituisce il cuore di ogni città: la piazza, anche se motivi contingenti (emergenze archeologiche visibili) giustificano la maggiore “attenzione” mostrata, come abbiamo visto, per Brindisi, Gallipoli, Manduria e, come vedremo, per Taranto. Sul tema di oggi mi piace segnalare quanto ha scritto il concittadino Paolo Marzano in https://culturasalentina.wordpress.com/2013/07/25/vedute-di-citta-magnifiche/#more-2378 

Non potevo non chiudere con una foto attestante lo stato attuale dei luoghi. Chi ne avrà letto la didascalia mi accuserà probabilmente di nepotismo, ma ci tengo a far sapere che il solito pacchetto di toscanelli che mia figlia mi fornisce due volte la settimana questa volta mi è costato non cinque ma dieci euro …

Cosa non si fa per la cultura!

 

foto di Caterina Polito
foto di Caterina Polito

 

 

Per la prima parte (BRINDISI): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/30/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-16-brindisi/ 

Per la seconda parte (GALLIPOLI): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/12/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-26-gallipoli/

Per la terza parte (LECCE): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/23/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-36-lecce/ 

Per la quarta parte (MANDURIA): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/07/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-46-manduria/

Per la sesta parte (TARANTO): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/24/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-66-taranto/

 

Il Salento in ventiquattro immagini di Abraham Louis Rodolphe Ducros (4/6): MANDURIA

di Armando Polito

Buitenkant van de buitenmuur van de antieke tempel in de oude stad Manduria (Vista dell’esterno di un muro di un antico tempio nella città antica di Manduria)

Profiel van de binnenmuren en buitenmuren van de oude stad Manduria (Profilo dell’interno di un muro esterno della vecchia città di Manduria)

Antieke tempel binnen de vestingmuren van de oude stad Manduria (Antico tempio dentro il muro di una fortezza della vecchia città di Manduria)

Twee stukken van een architraaf van de antieke tempel in de oude stad Manduria (Due pezzi di un architrave di un antico tempio nella vecchia città di Manduria)

Grot en fontein in de oude stad Manduria (Grotta e sorgente nella vecchia città di Manduria)

Di seguito il fonte pliniano1 in una  tavola tratta dal Voyage pittoresque ou description des Royaumes de Naples et de Sicilie, v. III, Parigi, 1783.

Alla tavola del Voyage si ispirò con assoluta evidenza Pietro Cavoti (1819-1890) con la seconda tavola a corredo del manoscritto del 1870 Relazioni autografe per i monumenti di Terra d’Otranto, custodito nel museo civico di Galatina a lui intitolato (n. d’inventario 3435) e pubblicato da Valentina Frisenda Edizioni Cisva, 2008, da cui ho tratto l’immagine).

Chiudo con una foto recente (tratta da http://digilander.libero.it/fermi1/informatica/quiete_dinoi/il_fonte_pliniano__manduria.htm) del fonte  ripreso più o meno dallo stesso punto di osservazione ma con un’escursione grandangolare dello zoom più vicina alla rappresentazione del Ducros,

 

Per la prima parte (BRINDISI): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/30/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-16-brindisi/

Per la seconda parte (GALLIPOLI): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/12/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-26-gallipoli/

Per la terza parte (LECCE): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/23/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-36-lecce/

Per la quinta parte (NARDÒ): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/11/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-56-nardo/

Per la sesta parte (TARANTO): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/24/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-66-taranto/

 

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1 Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/07/17/il-caldo-lacqua-e-il-motore-di-ricerca-terza-ed-ultima-era-ora-parte/

 

 

 

 

Una fortificazione moderna: la torre di San Pietro in Bevagna

Chiesa-torre di San Pietro in Bevagna

di Nicola Morrone

 

Tra le emergenze architettoniche più significative del territorio di Manduria  (TA) figura senza dubbio la torre costiera di San Pietro in Bevagna, secolare baluardo militare, eretto con un duplice scopo: quello di proteggere la cappella e il sacello sottostanti (luoghi centrali della religiosità manduriana) e quello di avvistare i navigli corsari, che, soprattutto a partire dal sec. XVI, insidiarono le popolazioni rivierasche. Forniremo al lettore, in questa sede, un ragguaglio architettonico sulla torre, che, con il suo insolito sviluppo planimetrico “stellare”, rappresenta uno dei pochi esempi di torre costiera vicereale di tipo moderno. Seguirà un approfondimento sulla cultura dell’anonimo architetto progettista e, infine, una sintesi della vicenda storica relativa alla costruzione.

Un’architettura insolita

La torre di San Pietro in Bevagna (sec.XVI), diversamente dalla maggior parte delle coeve torri che punteggiano le coste di quello che fu il Regno di Napoli, presenta un’architettura del tutto particolare. Anzichè riproporre la consueta planimetria circolare o quadrangolare, essa ha pianta ottagonale, meglio definita come di “stella a quattro punte” o a “cappello di prete”, per l’effettiva analogia con il berretto che sogliono portare i sacerdoti. Questo tipo di sviluppo, in pianta e in alzato, che la torre di San Pietro in Bevagna condivide con pochissime altre torri costiere e con una ristretta serie di edifici fortificati del sud Italia, deriva dall’applicazione dei nuovi precetti dell’architettura e dell’ingegneria militare, teorizzati per primo dal valenciano Pedro Luis Escrivà (1482 ca-1568 ca). Egli,commendatore dell’Ordine di Malta, definito dagli studiosi il “miglior ingegnere militare della corona spagnola”, fu chiamato a coordinare il sistema difensivo del Regno di Napoli per far fronte al pericolo turco.

Fu in Italia certamente tra il 1528-1535, e passò alla storia per aver scritto il primo trattato di fortificazione moderna, vale a dire la “Apologia y excusacion in favor de las fabricas del Reino de Napoles” (1538), attualmente conservato in due copie (una manoscritta e una a stampa) presso la Biblioteca nazionale di Madrid, e liberamente consultabile in rete, sul sito della Biblioteca stessa (”bdh.bne.es”). Il prototipo italiano della moderna fortificazione a pianta stellare, che supera quella medievale (impostata sullo schema quadrangolare con torri ai lati) è costituito da Castel Sant’Elmo, notissima fortezza napoletana, sulla quale Pedro Luis Escrivà fu chiamato ad intervenire nel sec. XVI.

Il castello esibisce appunto una pianta di stella a sei punte, che stupì non poco gli architetti “tradizionalisti” dell’epoca, dalle accuse dei quali Escrivà si difese attraverso il suo trattato. Ma il nuovo modello di fortezza si rivelò quanto di più efficiente potesse esserci, poichè, giocato sulla introduzione del sistema dei bastioni “a tenaglia”, permetteva un più razionale sistema di difesa ed offesa, anche attraverso la sistemazione delle archibugiere a tiro incrociato. Non è da escludere che l’architetto, nell’escogitare il nuovo sistema “a tenaglia”, abbia ripreso lo stesso motivo presente nello stemma dell’ordine di cui era commendatore, sintetizzando così nella nuova tecnica fortificatoria l’aspetto pratico e quello simbolico, come non di rado accadeva agli architetti di quel tempo lontano. La studiosa A.Camara Munoz, a questo proposito,sostiene appunto che in relazione alla forma stellata delle fortificazioni e’ forse possibile rintracciare un ”simbolismo latente”,  [Cfr.A.Camara Munoz, Las torres del litoral en el reinado de Felipe II, in “Espacio, Tiempo y Forma”,VII, 1990, pp.55-86].

Ad ogni modo, secondo l’autorevole parere di Oronzo Brunetti, dal modello della fortezza “stellare”di Sant’Elmo deriverebbero quello dell’omonima fortezza di Malta, di alcune fortezze toscane, e quelli di alcuni esempi minori, vale a dire il castelletto di Melendugno, la masseria Pettolecchia a Fasano, il casino dell’Arso a Mandatoriccio (CS) [Cfr.O.Brunetti, A difesa dell’Impero, (Galatina 2006), p.37].

A questi esempi gli studiosi hanno aggiunto le torri costiere vicereali di San Pietro in Bevagna presso Manduria (TA), di Santa Sabina presso Carovigno (BR), di Torre della tonnara di Cofano presso Custonaci (TR), le uniche tra le oltre trecento del Regno ad avere forma di “stella a quattro punte”. Tutte le altre, pur concepite da valenti ingegneri (ad es. Giovanni Tommaso Scala) sono state realizzate con il tradizionale sviluppo planimetrico circolare o quadrangolare.

 

Pianta Torre San Pietro in Bevagna
Pianta Torre San Pietro in Bevagna

L’anonimo architetto

Allo stato attuale delle ricerche, non disponiamo di documentazione probante circa la originaria vicenda costruttiva della torre di Bevagna. Sappiamo solo che essa fu fatta costruire dai monaci benedettini di San Lorenzo d’Aversa a protezione del sacello e della cappella di San Pietro, e fu acquisita dall’autorità vicereale intorno al 1578 “a beneficio del regno e del popolo, per tenere i soldati e difendere la zona contro i corsari “[Cfr. P.Coco, Porti, castelli e torri salentine (Roma 1930), p.113]. Le carte conservate nell’Archivio di Stato di Napoli, ben note agli studiosi, sono infatti essenzialmente di natura fiscale, e rappresentano fedi di pagamento del personale, forestiero ed autoctono, che si successe nel servizio alla torre e alla relativa fascia costiera (torrieri, cavallari, pedoni, ecc.).

Va comunque ancora esplorato l’Archivio General de Simancas (Madrid), che conserva, oltre a fondi specifici, anche un interessante raccolta di disegni relativi a torri e castelli del “Reino de Napoles”. Per il momento, per comprendere le scelte progettuali che furono alla base della realizzazione della torre di Bevagna, dobbiamo fare esclusivo riferimento alla struttura del manufatto, che fornisce comunque, di per sé stessa, alcuni interessanti elementi di valutazione. L’anonimo architetto, che, per ragioni squisitamente cronologiche, non può essere stato lo stesso Pedro Luis Escrivà, si potrebbe identificare con uno dei due architetti salentini che furono a contatto con lo stesso, e ne svilupparono le novità progettuali. Essi furono, principalmente, Giangiacomo dell’Acaya (morto nel 1570) e Evangelista Menga (morto nel 1571). La cronologia relativa ai due capomastri conforta la nostra ipotesi, poichè, come risulta dal documento riportato dal Coco, la torre di San Pietro in Bevagna fu quasi certamente eretta a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 del sec. XVI, quando le novità progettuali introdotte da Escrivà, ampiamente dibattute a livello mediterraneo (segnatamente nei cantieri di Napoli e Malta) erano già state assimilate dai tecnici del Regno.

Al modello avanzato di fortificazione (a pianta stellare, bastionata, con muri laterali “a forbice” ed archibugiere a tiro incrociato) si ispirò dunque anche l’anonimo architetto della torre bevagnina, che potrebbe essere stato salentino, e forse anche, come lo stesso Escrivà, appartenente all’ordine dei Cavalieri di Malta. L’ordine forniva infatti al Viceregno i migliori architetti ed ingegneri militari, e favoriva “canali privilegiati per diffondere saperi militari ed architettonici” [Cfr.O Brunetti, op.cit., p.34]  E, se affiliato all’ordine, non è da escludere che l’architetto sanpietrino fosse in contatto con la vicina Commenda magistrale di Maruggio, anche se la torre di San Pietro ricadde sempre, di fatto, nelle pertinenze del comune di Manduria.

 

Cronologia

Sec.XVI: Il Monastero di San Lorenzo d’Aversa fortifica il sacello e la cappella di San Pietro in Bevagna facendo costruire una torre a protezione degli stessi dagli assalti dei pirati turchi.

1578: La Regia Corte espropria la torre, corrispondendo ai Benedettini d’Aversa la somma di 807 ducati

1845: Con suo decreto,Francesco II di Borbone Re di Napoli cede la torre al Vescovo di Oria, per dimora del Rettore del Santuario o del custode

1860: Con l’incameramento dei beni di proprietà ecclesiastica da parte del Regno d’Italia, la torre diventa di proprietà demaniale.

1900: Con atto di compravendita, il Demanio statale cede la torre al Comune di Manduria (TA).

Un libro di Pietro Cavoti per un ministro delle Finanze

Pietro Cavoti

 

PREGIATO LIBRO DI PIETRO CAVOTI DI GALATINA CON LA MEDAGLIA E LA PERGAMENA IN ONORE DI AGOSTINO MAGLIANI, MINISTRO DELLE FINANZE DEL REGNO D’ITALIA*

di Maurizio Nocera

Andando per mercatini antiquari di Terra d’Otranto, non è raro, e comunque capita, di trovare preziosità bibliofiliche, che ti aiutano poi a comprendere la natura e la storia dei luoghi dove sei nato e vivi. Si tratta spesso di libri, i cui contenuti, una volta letti, ti fanno riemergere dal passato personaggi, storie e saperi ormai sopiti dal tempo e dalla dimenticanza. È quanto mi è accaduto in uno dei mercatini antiquari della domenica di ogni fine mese a Lecce, dove, tempo fa, mi capitò di trovare un libro che dal titolo della copertina nulla faceva trasparire del suo prezioso contenuto. Tuttavia, anche la coperta di questo libro mostrava un certo interesse bibliofilico, nel senso che si tratta di un volume in 8° grande, con coperta rigida rivestita di carta pergamenata, il cui calice indicativo recita così: MEDAGLIA/ offerta/ DALLA PROVINCIA DI TERRA D’OTRANTO/ A S. E./ AGOSTINO MAGLIANI/ G[iuseppe] Spacciante // MDCCCXXXIII.

Aldilà dell’indicazione del nome del tipografo, appunto G. Spacciante, rinomato stampatore leccese dell’Ottocento che, dopo diverse vicissitudini, divenne infine l’Editrice Salentina di Galatina, le indicazioni di copertina nulla dicono a proposito dell’autore. Quindi, per sapere qualcosa in più, cosa che sempre faccio quando mi capita per le mani un libro, sono andato al frontespizio, dove ho letto: MEDAGLIA/ offerta/ DALLA PROVINCIA DI TERRA D’OTRANTO/ A S. E./ AGOSTINO MAGLIANI/ Senatore del Regno/ Ministro delle Finanze// Cenni del Cav. Prof. Pietro CAVOTI// Tipo-Litografia Salentina Spacciante – Lecce.

Ecco scoperto un’interessante indicazione che mi immediatamente mi ha fatto decidere l’acquisto del volume. Sicuramente deve trattarsi di un unicum perché, molto probabilmente, accompagnava la succitata Medaglia. Francamente non riesco a capire come mai un volume così prezioso sia stato scorporato dal quadro eseguito dal Cavoti e che accompagnava la Medaglia, finendo così sulla bancarella di un antiquario di chincaglieria e prodotti affini.

Comunque, come scrivo poco sopra, si tratta di un libro curato da Pietro Cavoti (Galatina, 1819-1890) del quale, associandolo all’altro patriota galatinese Nicola Bardoscia, il compianto Antonio Antonaci scrive: «Il Cavoti era imparentato per vie diverse, con antiche casate galatinesi, […] Il contributo dato dal Cavoti e dal Bardoscia all’ideale unitario fu, non solo per Galatina ma anche per l’intero Salento, di grande efficacia, anche se di dimensioni diverse: più romantico e per certi aspetti audace e passionale, quello del Cavati, un tipo dalla fantasia accesa e dalle tendenze contraddittorie fino a sembrare talvolta strane, come accade nel mondo degli artisti […] Il Cavoti […] fu il tramite fisso di collegamento tra i patrioti galatinesi e quelli di Lecce. Fu segretario del Circolo patriottico comunale di Galatina, fondato subito dopo quello di Lecce» (v. A. Antonaci, Galatina Storia & Arte, Panico, Galatina 1999, pp. 605-6).

Ma di Pietro Cavoti abbiamo ancora qualche altra notizia fornitaci dall’enciclopedia libera Wikipedia, che riporta quanto segue: «è stato un artista, pittore e studioso dell’arte italiano. Compì i primi studi al Real Collegio dei Gesuiti a Lecce. […] Insegnò francese, disegno e calligrafia nel Collegio degli Scolopi, divenuto poi Liceo Convitto Colonna [Galatina], attuale sede del museo a lui dedicato./ Artista e ricercatore attento, fu nominato dal Ministro della Pubblica Istruzione nella commissione incaricata di censire e classificare i monumenti italiani, al fine di indicare quelli da considerare monumenti nazionali. Il suo lavoro iniziò dalla provincia di Lecce e precisamente dalla Chiesa di Santa Cristina a Galatina e della Chiesetta di Santo Stefano a Soleto. Furono questi gli anni del suo soggiorno fiorentino, durato 15 anni, dal 1861 al 1876, fino a quando le sue condizioni di salute non lo indussero a ritornare a Galatina./ Fu amico di Atto Vannucci, che gli affidò l’illustrazione della sua Storia dell’Italia Antica./ Nel 1876, tornato a Galatina dalla sua esperienza fiorentina, accettò l’incarico, affidatogli da Sigismondo Castromediano, di presidente della Commissione conservativa dei monumenti di Terra d’Otranto e di Ispettore dei monumenti.Ricevette l’incarico di rilevare gli affreschi del Palazzo Marchesale di Sternatia e di effettuare lo studio dell’edificio arcaico detto Le Cento Pietre di Patù. […] Scrisse inoltre alcuni saggi, tra cui si ricorda Saggio di lavori nelle pietre denominate carparo e pietra leccese delle rocce salentine./ Gran parte dei suoi lavori è conservata nel museo civico di Galatina a lui intitolato».

Ma adesso, vediamo com’è fatto questo libro, curato e per tre quarti scritto da Pietro Cavoti. Il frontespizio è un capolavoro d’arte tipografica con arabeschi e un disegnino dorato in cui cinque puttini lavorano in un ambiente tipografico (interessante la cassettiera con i caratteri mobili e il seicentesco torchio in legno); la carta è pergamenata; i caratteri usati sono gli aldini; gli incipit dei capitoli hanno testatine e grandi lettere iniziali colorate con foglia d’oro; due pagine fuori testo custodite da una carta sottile tipo velina, in una v’è la riproduzione della Medaglia, nell’altra la fotografia della Pergamena d’Indirizzo al Ministro delle Finanze Agostino Magliani; in tutto si tratta pp. 4 bianche + 37 + 5 bianche.

Qui di seguito viene riportato uno dei testi in esso presenti.

 

Pietro Cavoti

Copertina: MEDAGLIA/ offerta/ DALLA PROVINCIA DI TERRA D’OTRANTO/ A S. E./ AGOSTINO MAGLIANI/ G[iuseppe] Spacciante // MDCCCXXXIII.

Frontespizio: MEDAGLIA/ offerta/ DALLA PROVINCIA DI TERRA D’OTRANTO/ A S. E./ AGOSTINO MAGLIANI/ Senatore del Regno/ Ministro delle Finanze// Cenni del Cav. Prof. Pietro CAVOTI// Tipo-Litografia Salentina Spacciante – Lecce.

 

Testi

Il Consiglio Provinciale di Terra d’Otranto volle, con unanime e spontanea cortesia, affidarmi l’incarico della Medaglia d’oro e dell’Indirizzo in pergamena, che, per sua speciale deliberazione del 1882, stabiliva doversi offerire al Ministro delle Finanze, AGOSTINO MAGLIANI, fautore di un contratto di mutuo colla Cassa dei depositi e prestiti, necessario ad agevolare, per l tempo e pel dispendio, la costruzione delle strade ferrate da Taranto a Brindisi, e da Zollino a Gallipoli, dalle quali s’impromette gran bene la Provincia e la nostra gran patria.

L’opera mia fu accolta con somma benevolenza; e con espressioni assai cortesi fui chiamato a pubblicare questi brevi cenni intorno alla mia idea ed al lavoro dei valenti esecutori. Io corrispondo con animo pronto e volenteroso a sì cortese invito, perché fu ispirato dall’amore del luogo natio, e perché, quale che siasi questo mio tenue lavoro, spero che servirà d’incoraggiamento ai giovani, mostrando che la loro Lecce, culta e gentile, smentisce l’antico, amaro e scoraggiante proverbio: Nemo Profeta in Patria.

Adunque verrò esponendo quale sia stato il mio studio per accordare l’idea colla forma, in modo che le onoranze della mia patria al celebre Ministro AGOSTINO MAGLIANI fossero quali si convengono alla dignità di chi le offre ed alla virtù dell’uomo cui spettano; poiché il suo sapere e i suoi fatti pel governo Italiano lo rendono degno di essere annoverato fra i pochi sommi, che in Italia hanno dato vigore a quella scienza, che cerca la ricchezza e la potenza de’ popoli, ed esige aumento e gloria da noi, ora che siamo liberati dal flagello delle male Signorie.

 

MEDAGLIA D’ORO AD AGOSTINO MAGLIANI

E. Maccagnani Mod. – G. Vagnetti Inc. in Roma.

Rovescio: La statua dell’Italia, con al fianco il leone con scudo crociato, che stringe la mano alla Provincia di Lecce con al suo fianco lo scudo col delfino. Sullo sfondo il treno con locomotiva sulla strada ferrata): «ALTERIUS ALTERA POSCIT OPEM – MCXXXII». Prof. P. Cavoti Int. – E. Maccagnami Mod. – G. Vagnetti Inc.

 

CONCETTO DELLA MEDAGLIA

Se il trovare l’epigrafi, i motti, le imprese e le medaglie è cosa difficile per se stessa, certamente cresce molto la difficoltà quando è sterile l’argomento. Ognuno vede quanto poco si porga alla plastica (specialmente per la numismatica) un contratto di mutuo: pur nondimeno è questo appunto il tema della nostra Medaglia.

Sarebbe stato ovvio e facilissimo il trattarlo, ponendo nel diritto l’effigie del celebre Ministro, e nel rovescio una breve iscrizione, che dicesse quello ch’egli aveva operato a pro della Provincia salentina: ma in tal modo si sarebbe ricorso alla epigrafia, quando era pregio dell’opera esprimere il fatto con una rappresentazione, come si conviene ad una medaglia. Imperciocché questo piccolo monumento, essendo di sua natura scultorio, è necessario che parli colla massima sobrietà e chiarezza per mezzo della imagine, alla quale l’epigrafe non deve servire ad altro che a determinare quello, che non si può col linguaggio della figura.

Meditando e rimeditando, trovai che in questo caso la Medaglia non doveva essere soltanto onoraria, ma altresì commemorativa. Primo, perché così la richiedeva un fatto di tanta importanza nella storia commerciale della Provincia salentina: fatto che tornerà a vantaggio della nostra gran patria comune. Secondo, perché così si eleva al suo giusto grado l’onore meritato dall’illustre Economista, imperciocché il suo nome, associato a quello di una Provincia, non resterà racchiuso entro i limiti personali e fra i ricordi di famiglia; ma si estenderà quanto la sfera del progresso contemporaneo delle provincie d’Italia. Terzo finalmente (e questo è più importante) perché questa Medaglia dirà ai nostri nepoti, che quando l’Italia riguadagnò fra le altre nazioni il suo posto d’onore, da tanti anni perduto, i reggitori di questa Provincia seppero, coi loro saggi provvedimenti, stendere queste strade ferrate sul suo terreno, posto come anello di congiunzione tra l’Oriente e l’Occidente, e così resero più comodi i commerci fra i due mondi, nell’epoca appunto in cui tutti i popoli si affaticavano a stringersi la mano, anche divisi dalle regioni più lontane.

Guardato da questo punto un tema sì sterile a primo sguardo, mi parve poi sì poetico e fecondo, che, studiandolo nella sua pienezza, vidi bentosto la necessità di premerne il sugo, e andai cercando un concetto che, coi mezzi della numismatica, si manifestasse chiaramente.

Quel concetto mi suggerì la leggenda del diritto, e quella del rovescio colla sua allegoria; m’ispirò l’indirizzo in pergamena, e mi fece immaginare la decorazione, che lo contorna. Cosicché tutto il mio tema altro non è che una sola idea incarnata in triplice forma, tradotta in triplice linguaggio. Si concentra nella Medaglia e nelle sue leggende col laconismo numismatico ed epigrafico; si sviluppa nell’Indirizzo colla libertà della prosa; e finalmente viene illustrato nel suo contorno colle iscrizioni, coi simboli e colle allegorie.

Ecco il concetto della Medaglia.

Nel suo diritto, intorno al ritratto del rinomato MAGLIANI, scrissi: AUGUSTINUS MAGLIANIUS D[‘]ECONOMIAE STUDIIS INSIGNIS; perché cola leggenda volli accennare intorno alla fisonomia il profilo, per così dire, della mente dell’uomo, nel quale l’Italia ha trovato il Ministro, che presiede alle Finanze col diritto, che gli viene dal suo valore nella scienza.

Ad esprimere nel rovescio il fatto, in cui egli ci fu sì vantaggiosamente fautore, e che ha per noi e per l’Italia quella importanza, che di sopra abbiamo accennato, mi parve che la forma più vivace sarebbe una rappresentazione allegorica. Per ciò disegnai la maestosa ed augusta figura dell’Italia, che abbraccia la nostra Provincia, e le stringe la mano, conducendola su di una strada ferrata, che va a perdersi nell’orizzonte della scena, in cui si vedono locomotive correnti in varie direzioni. La nostra Provincia pone il piede su di una delle due rotaie, e sull’altra ha posto il corno della prosperità e dell’abbondanza. Sul capo delle due donne splende la Stella d’Italia, e su di essa s’inarca la leggenda: ALTERIUS ALTERA POSCIT OPEM [Una sostiene all’altra].

Le due rotaie, passanti dinanzi ad una colonnetta miliaria, di forma moderna, presentano i loro estremi ricurvi in su, come si vedono al termine delle strade ferrate, per indicare con ciò in quale della Penisola stia la Provincia salentina. Sulla colonnetta si legge il numero di chilometri della distanza di Lecce dal mare.

 

PERGAMENA

INDIRIZZO

All’idea, così rappresentata nella Medaglia, mi pare che possa servire di sviluppo la prosa dell’Indirizzo, come alle parole dell’Indirizzo servono d’illustrazione i simboli, i motti e le iscrizioni del suo contorno. Ecco le sue parole:

AD AGOSTINO MAGLIANI

Senatore del Regno d’Italia e Ministro delle Finanze

L’Italia, già fatta nazione, si affretta, colle altre sorelle, alla grande opera della civiltà universale. Quindi è per noi sacro dovere il tramandare ai nostri figliuoli, come ammaestramenti di famiglia, i nomi degli illustri contemporanei, e specialmente di quelli che, con sapienza civile, seppero dare norma al nostro riordinamento, serbandosi intemerati in questa epoca, che per l’Italia è transito alla sua vita nuova.

Fra i nomi di questi sta scritto il vostro, o Signore; lo richiede la storia della Economia e delle Finanze; e la nostra Provincia vuole imprimerlo in una Medaglia, affinché resti come stampato in una pagina d’oro.

Voi sapeste riordinare secondo la giustizia sociale i tributi, e promuoveste i progressi della Nazionale Economia. Voi manteneste il credito Italiano in questa epoca fortunosa. Voi liberaste il Popolo dalla odiosa imposta sui cereali. Voi deste opera all’abolizione del Corso Forzoso. Voi, guardando sempre alla prosperità della nostra gran patria comune, faceste sì che la provincia idruntina avesse più presto, e con facile dispendio, le strade ferrate che saranno ravvivatrici di quella prosperità civile che da lunga età languiva, malgrado i doni che ne fece Iddio.

Se Taranto gioverà meglio all’Italia pei bisogni della guerra; se Lecce e Gallipoli feconderanno meglio di prima studii e i commerci della pace; se brindisi ed Otranto stenderanno più agevolmente di prima le nostre braccia all’Oriente ed all’Occidente coi paralleli delle strade ferrate e col mare; e se questi beni della Provincia messapica torneranno a vantaggio della nostra intera nazione, tocca a Voi, o Signore, il vanto di avervi efficacemente operato. E quando sorgerà il tardo, ma giusto giudizio della Storia, i nostri nepoti sapranno che mentre il Ministro della Istruzione Pubblica era intento a cavare dalla loro tomba le eloquenti reliquie della nostra antica cultura tarentina, il Ministro delle Fnanze, l’Illustre Economista AGOSTINO MAGLIANI, si adoperava a facilitare i mezzi, affinché potessimo renderci di quella degni eredi e continuatori.

Di tanta importanza è il fatto che Voi sì generosamente compiste, o Signore, e la nostra Provincia vuol tramandarlo ai posteri come un’altra fra le corone del merito civile vi tributa l’Italia.

Lecce 1882

 

Il Presidente del Consiglio Provinciale

GAETANO BRUNETTI

del fu Francesco

 

 

In queste parole vedesi chiaro che l’odierno stato d’Italia è il fondo, su cui si accennano i fatti principali del Ministro per la prosperità della nazione risorta. Fra quelli si annovera la sua cooperazione per le già dette strade ferrate, ch’è la giusta orazione di queste onoranze. Ecco la decorazione allusiva che lo contorna.

Nei quattro angoli della cornice, di gusto barocco, i quattro capoluoghi della Provincia di Terra d’Otranto sono indicati dai loro rispettivi stemmi, tenuti da genietti a gruppo, tra quali alcuni fanno svolazzare cartelle con leggende esprimenti i pregi caratteristici di ciascun luogo, sì morali come storici e geografici, ed anche la loro destinazione secondo il nuovo ordinamento della nostra nazione.

Lecce ha sulla sua targa il lupo passante da destra a sinistra sotto l’albero di leccio, e la sua leggenda Artes Ingenuae et Iura rammenta i suoi studii antichi e fiorenti tuttora.

Gallipoli ha il gallo che tiene colle zampe la storica divisa Fideliter excubat; e i suoi pregi geografici e morali sono compresi nell’ampio significato della scritta Terrae marisque dives.

Brindisi ha sulla sua impresa il massacro sormontato da due colonne coronate all’antica. La sua leggenda definisce il suo sito, dalla natura e dalla nazione fatto porto di molta importanza pei commerci fra l’Oriente e l’Occidente; Statio tutissima nautis.

La gloriosa ed antica Taranto ha in capo allo scudo la conchiglia intercalata col nome Taras, e il il corpo dell’impresa è il Taras sul delfino. La scritta Armamentarium Italicun accenna il suo nuovo destino, che ci desta le sue memorie di guerra nel mondo romano.

Gli spazi della cornice, che si avvicinano a questi gruppi, sono adorne di cose allusive alle rispettive leggende.

Pensando che i due stati supremi a cui si riduce la vita dei popoli sono la Pace e la Guerra (domi belliqua) collocai ne’ due centri dei lati verticali di questa cornice i due simulacri della Pace e della Guerra: la prima fra le parole di Silio Italico:

Pax optima rerum

Quas homini novisse datum…

… Pax custodire salutem

Et cives acquare potest

 

la seconda fra quelle di Epaminonda riferite da Plutarco:

Pax Bello paratur, nec tam eam tueri licet nisi cives… ad Bellum instructi.

 

Nel lato superiore è fissata da due borchette la pergamena coll’Indirizzo contornato da meandri d’oro, e adorno del piccolo mezzobusto dell’Italia miniato nell’iniziale.

Questa pagina è alquanto accartocciata nei due angoli del lato inferiore, sicché scuopre due paesi lontani in basso del quadro sul quale scende. In uno, le piramidi e le pagode indicano l’Oriente; nell’altro il Campidoglio e il Vaticano rappresentano l’Italia nelle due grandi epoche della sua storia. Fra queste due scene intercedono campagne, ponti e mare, e corrono locomotive e battelli.

Nel centro di questo lato siedono due putti tenendo lo stemma della città di Otranto, che dà il nome a tutta la Provincia; la quale cole nuove strade ferrate avvicinerà più comodamente di prima Alessandria d’Egitto a Roma. La leggenda di questa parte è:

Distantia jungunt.

Finalmente il quarto lato superiore, che chiude il quadro, ha nel centro un piccolo monumento, in cui vedesi in bassorilievo il ritratto del rinomato Ministro, ed intorno tre genietti che mostrano i fatti principali della sua vita pubblica, scritti in cartelle: la Quistione della Moneta, l’Abolizione della tassa sui cereali, l’Abolizione del Corso Forzoso. Sul piccolo imbasamento vi è questa epigrafe in lettere di oro:

AUGUSTINUS . MAGLIANIUS

Aerarii . Italici

Serbator . et . Auctor

MDCCCLXXXII

 

La composizione di questo gruppo è tratta dalle parole dell’Indirizzo, che sono queste:

«Di tanta importanza è il fatto che voi sì generosamente compiste, o Signore, e la nostra Provincia vuole tramandarlo ai posteri, come un’altra fra le corone del merito civile che vi tributa l’Italia.»

 

Quindi vedesi la Provincia di Terra d’Otranto, che pone una ghirlanda d’alloro sul ritratto del Ministro, il quale, secondo l’epigrafe, rammenterà nella storia un’era prosperevole delle finanze del Regno d’Italia.

Su questo lato della cornice, ch’è il principale, vi è la scritta dedicatoria:

Sunt heic suae praemia laudi.

 

Mi pare conveniente che la cornice di legno, che racchiude il quadro, non fosse un ornamento senza significato, e per gli angoli mi giovai del delfino che morde la mezzaluna, e che, posto sui pali di rosso e d’oro, è lo stemma della Provincia.

 

ESECUZIONE

Posciacché ebbi determinata l’idea e la forma, pensai che le opere d’arte, quando giungono ai nepoti, manifestano la mente degli avi non solo, ma anche il grado della loro cultura; imperciocché parlano (a chi sappia bene intendere) direttamente per mezzo della rappresentazione, e con vivacità maggiore nel loro linguaggio estetico, ed anche coi mezzi tecnici, senza bisogno di alcuna parola, absque ulla literarum nota. Quindi cercai, per quanto mi fu possibile, che l’esecuzione fosse tutta lavoro del paese che l’offriva; affinché come pianta indigena mostrasse quale fosse la nostra natural disposizione, e quale lo stato di cultura quando si fecero queste memorie. E però, giovandomi dell’assoluta libertà, che cortesemente mi era data per compiere l’incarico, mi parve giusto e bello scegliere giovani leccesi; tanto più che ben sapeva come dell’opera loro mi sarei giovato con felice affetto.

È vero che quanto io richiedeva era ben poco a mostrare tutto il loro valore; ma tanto bastava al mio intento: varcare i limiti sarebbe stato per lo meno inopportuna abbondanza.

 

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Eugenio Maccagnani, già conosciuto in Italia per opere premiate e di grandi proporzioni, modellò la Medaglia colla grandiosità scultoria, che anche in piccolo ti fa vedere il colossale; ciò ch’è mirabile pregio della glittica e della cultura.

Questo valente giovine, per lunghi e severi studii fra i tesori antichi di Roma, sa giovarsi della forma greca, sicché ne veste l’idea senza sforzo e senza pedanteria. Lo Spartaco, il Mirmillone, l’Aspasia, il Primo Bagno sono opere sue che ciò provano abbastanza.

Nella Medaglia al Ministro MAGLIANI egli ci fa vedere come la stessa mano, che tratta il mazzuolo e la gradina nei monumenti colossali, sappia pure maneggiare la stecca delicata per modellare le piccole forme di una medaglia e di una gemma.

Egli ha ritratto il MAGLIANI colla massima somiglianza, ricercando con sommo giudizio tutti quei minuti e vivaci particolari, di cui si compiace il naturalismo; ma conservando sempre la larghezza della forma scultoria: e ciò non riesce facile a chi non sia nato col sentimento della scultura.

 

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Egli è facile intendere che quando l’opera dello scultore vien trasportata nelle piccole proporzioni del conio dall’incisore, deve subire tutti i pericoli di un testo che passi alla traduzione. Se l’incisore non è artista capace, d’interpretare bene il modello può avvenire che, malgrado la somma diligenza del suo lavoro, faccia sì che lo scultore non vi riconosca più l’opera sua.

Il calco del Maccagnani fu inciso da Giovanni Vagnetti artista degno della sua Firenze. Se fosse mestieri rilevare un ignoto, mi basterebbe apporre qui il catalogo delle medaglie da lui eseguite per celebrare uomini e fatti memorandi della nostra storia: ma il Vagnetti è omai noto abbastanza. A noi occorre dire che il tipi del Ministro MAGLIANI è stato inciso da lui con giusta lode per altre simili onoranze. Ecco perché egli ha saputo capire ogni piano ed ogni piccola modellatura del bassorilievo dello scultore, sicché l’opera sua ha tutto quel pregio che noi qui accenniamo di volo, perché senza la Medaglia non può gustarsi cola sola fotografia.

Sono lieto di avere avuto fra i miei concittadini un distinto valentuomo della mia direttissima Firenze; ma mi duole che l’arte d’incidere le medaglie non si trovi fra noi; e vorrei che sorgesse alcuno ben disposto a coltivare questo ramo dell’arte scultoria severo e difficile quanto necessario ai lumi della storia; cosicché queste mie parole restassero a provare che, quando la nostra Provincia coniava la prima medaglia commemorativa, cominciava allora a coltivarsi quest’arte da tanta età spenta fa noi, dopo i conii bellissimi delle antiche medaglie Tarentine.

 

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L’ornamento della pergamena cercai che avesse un carattere ricco ma serio, e lo volli monocromo, eccetto nei festoncini dei fiori, procurando l’effetto nel giuoco dei piani e della luce. A questo si porge benissimo il barocco elegante della decorazione della nostra architettura del secolo XVII; ed io mi attenni a quel gusto, anche per dare con ciò il tipo dell’arte nostrana.

Questa parte fu da me affidata al signor Pietro De Simone, giovine anch’esso, e leccese come il Maccagnani.

Il De Simone pittore, miniatore e calligrafo ha molto lavorato in Roma per distinte ed onorevoli commissioni. Egli condusse questa pergamena con quel grado di esecuzione che si richiedeva, secondo quel ch’egli ha appreso da pregevoli modelli, lasciando, cioè, quel tormentoso meccanismo che talora raffredda e distrugge l’effetto per la noiosa lisciatura. Che il De Simone abbia ciò fatto con lodevole accorgimento, si vede bene, osservando che, dove l’arte lo richiedeva, egli è stato minuto e diligente miniatore.

Merita lode anche la sua fermezza di mano, e la nitidezza del carattere; che io scelsi di forma latina, come è nei codici del buon secolo, perché la leggiera eleganza, e le bizzarrie e la destrezza di mano nei ghirigori della calligrafia moderna male si addirebbero alla serietà dell’Indirizzo ed alla severa maestà della lingua latina delle epigrafi che accompagnano le figure.

 

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L’intaglio della cornice è lavoro del signor Giuseppe De Cupertinis, anch’esso leccese, giovine distinto con premii riportati per opere d’intaglio in legno. Egli è il primo che fa risorgere fra noi quest’arte decorativa, già spenta coi nostri arcavoli, che ci hanno lasciato pregevoli lavori qua e là in alcune chiese ed in qualche antica mobilia. Quel poco che finora ha fatto qui il De Cupertinis ne assicura ch’egli impianta la sua scuola con prosperi auspicii. Così possano i ricchi persuadersi del sapiente consiglio del Venosino:

Nullus argento color est avaris

Abdito terris, inimice lamnae

… nisi temperato

Splendeat usu;

 

e intendano una volta che l’uso più bello, e più nobile dell’argento è quello che giova ad incoraggiare le arti e le industrie del proprio paese.

 

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Queste mie schiette e libere parole ai valenti giovani, che condussero con tanto amore questo lavoro, valgano ad argomento dell’affetto con cui la loro patria corrisponde a quelli che seppero attuare gloriosamente le speranze che le fecero concepire nei loro primo anni.

Intanto io vorrei che ciò fosse grato anche a tutti gli altri loro confratelli d’animo e d’ingegno eletto, dai quali si spera che sieno ravvivate, a seconda dei nostri tempi, non solo le Arti del Bello, ma altresì tutti i rami delle arti fabbrili, che solo da quelle possono ricevere grazia, bellezza, e quindi aumento di valore.

Così la cura e il dispendio della nostra Provincia, adoperati a facilitare colle strade ferrate il commercio dei nostri lavori, non saranno sprecati per un popolo infingardo, che non sappia offrire altro che i prodotti del suo terreno, fecondo non tanto per opera dell’uomo quanto per sua natura.

Grave danno e somma vergogna sarebbe certamente se i mezzi commerciali che andiamo procurando, invece di servire ad un florido scambio delle nostre opere industriale cin quelle de’ nostri vicini, non servissero ad altro che a renderci più facile il viaggio per pagare, quale tributo della nostra ignoranza, il prezzo dei prodotti dell’altrui cultura, restando noi sempreppiù oppressi dalla ignavia e dalla sonnolenza.

Pensiamo che se noi Italiani fummo forti e longanimi nel cospirare; se fummo coraggiosi e fieri nel combattere, e riconquistammo l’indipendenza politica, non però abbiamo fin  qui riguadagnato la nostra antica indipendenza dalle arti, e dalle industrie dello straniero. Pur troppo siamo ancor scoperti da questo lato agli assalti di quelle: assalti assai più funesti delle armi, perché non uccidono di un colpo solo, ma fanno morire nella fame, dopo averci fatto lungamente agonizzare nella corruzione.

Intanto gli è certo che oggigiorno il progredire ci costa assai meno di quel che ci costava prima; imperciocché la nostra attività non è più rannicchiata e costretta entro la cerchia di una città o di una provincia, come quando ci univa la comune sventura.

In quello stato miserando divisi, spogliati, collo straniero sul collo, e costretti a diuturne umiliazioni, eravamo quasi per perdere ogni speranza di far bene e perfino la coscienza del nostro ingegno. Ma ora lo sviluppo delle nostre forze morali non ha nessuno impedimento. Al regno che premiava gl’ingegni coll’esilio, col carcere, colla ghigliottina, è succeduta la Patria che si adopera sollecita con ogni studio a favorirli.

Quindi è che per non vi ha più scusa, e siamo responsabili in faccia all’Italia, come l’Italia alla presenza delle altre nazioni.

Ed a me pare che la responsabilità di noi Italiani moderni abbia questo di proprio: ch’essa è tanto più grande in confronto di quella degli altri popoli, quanto sono più gloriose in confronto delle altrui le nostre antiche tradizioni. Se gli altri rivolgono lo sguardo al loor passato possono sempre vantarsi di avere progredito riguardo ai primi passi del loro incivilimento; ma noi non potremo mai vantarci di camminare avanti se prima non saremo tornati quelli che fummo quando gli altri si affaticavano a raggiungere la nostra cultura.

Ma speriamo ed operiamo fermamente. Egli è certo che non è spento in noi «il fondamento che natura pone». Egli è certo che vi è la libertà della stampa, e che si vanno sempreppiù stendendo ed incrociandosi per tutto il Bel Paese le fila de’ telegrafi e le rotaie delle strade ferrate.

 

* pubblicato su Il Filo di Aracne

Non c’è nulla di umano che non sia stato già creato da Madre Natura

di Armando Polito

(Foto di Andrea Gravante scattata il 15 aprile 2015 a Ruffano, tratta da  http://leccesette.it/dettaglio.asp?id_dett=26500&id_rub=248

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E, volendo esagerare, siccome l’arte, secondo una dette tante nostre definizioni, è interpretazione o deformazione della realtà, la Natura anche in questo si mostra a noi superiore, obbligandoci a ruotare a destra di 90° la sua immagine (la prima) per capire meglio la povertà delle nostre …

Una tragedia immane: gli italiani, popolo di giocatori d’azzardo

giocatori-di-carte

di Rocco Boccadamo

 Lontanissima, la pur minima idea dispregiativa e, beninteso, esclusione dei singoli, giacché si pone in riferimento un dato di fatto correlato alla globalità della popolazione.

Ad ogni modo, a mio avviso, si deve considerare tramontata è ormai anacronistica l’antica e nota raffigurazione di noi abitanti del Belpaese nelle vesti di “santi, poeti e navigatori”.

Ciò, se, come ho sentito e letto, corrisponde a verità che in Italia, nel 2014, si sono investiti (sarebbe meglio dire dilapidati) ben 84,4 miliardi d’euro in giochi d’azzardo legali.

Un’autentica follia, un impazzimento collettivo, non vi possono essere alibi che obiettivamente tengano di fronte a tale e tanto spreco di denaro.

Se è vero che, da soli, noi fatturiamo addirittura il 21,15%, più di un quinto, del volume d’affari mondiale in tale sciagurato comparto o burrone.

Se è vero che, considerando i 60,8 milioni di residenti, dai neonati ai centenari, ciascun abitante spende nei giochi in questione, in media, 1388 euro.

Di questo passo, dove si andrà a parare? Per avere davanti agli occhi e nella mente un metro di misura, si pensi, ad esempio, che la produzione italiana annua di calzature, secondo l’ultima cifra disponibile, ascende a 8 milioni circa e che il controvalore delle vendite di auto nuove è, a sua volta, pari a 23,7 miliardi.

Animato unicamente da sincero senso civico, avrei una provocazione da lanciare all’indirizzo del Presidente del Consiglio Renzi: perché, nell’ambito dei suoi quotidiani annunci, proclami e tweet, non invita e diffida i concittadini a rivedere drasticamente la malefica abitudine di esercitare così intensamente il gioco d’azzardo e le scommesse, a prescindere dalla copertura della cosiddetta legalità?

Ove fosse realmente, come vuole apparire e fa credere di essere, un buon e illuminato Capo di Governo, il mio pensiero è che egli non dovrebbe esitare un giorno in più, infischiandosene delle pur consistenti entrate fiscali derivanti, giustappunto, dai giochi e dalle scommesse.

Aspetto con fiducia che qualcosa si muova.

Echi della battaglia di Lepanto (1571) a Galatina e a Soleto

turchi a otranto

MAMMA LI TURCHI

Echi della battaglia di Lepanto (1571) a Galatina e a Soleto*

di Luigi Manni

 

Nel 1480, il turco Gedik Achmet, pascià di Valona, con la sua armata prese e saccheggiò Otranto, decapitando gran parte della popolazione e uccidendo in cattedrale, vestito dei paramenti vescovili, l’arcivescovo, il galatinese Stefano Agricoli, “vero” martire di Otranto[1]. Nel 1571, esattamente novant’anni dopo, il grido “mamma li turchi” – presago di nuovi lutti e nuove carneficine – lacerò le contrade di Terra d’Otranto.

Com’è noto, l’afflitta Christianità, da molti giorni prima dello scontro tra la santa Unione (la Lega cristiana) e l’inimico comune (i Turchi), avvenuto il 7 ottobre nelle vicinanze del porto fortificato turco di Lepanto, su invito del papa Pio V e dei vescovi delle varie diocesi, s’era raccolta in preghiera ad invocare la protezione della Vergine (e naturalmente un esito vittorioso) con il cosiddetto Officiolo della Madonna[2]. Questo l’editto del vescovo di Castro Luca Antonio Resta, vicario di Otranto, e la dichiarazione dell’arciprete di Galatina Giovan Pietro Marciano: Il di 14 d’ottob(re) 1571 il p(rese)nte Editto del R(everendissi)mo Mons(ign)or di Castro Vic(ari)o G(e)n(e)rale d’Otranto (assente l’arcivescovo Pietro Antonio de Capua) fu p(rese)ntato a me D. Giovan Pietro Marciano Arciprete di Sampietro Galatina, al q(ua)l io havendo in me ubidito da molti giorni et mesi, et conformatomi agli ordini di Sua Santità, al p(rese)nte m’offero di farlo osservare nella chiesa et clerici nostri, et q(ua)nto all’Officiolo della Madonna dai laici et da coloro che non sono obbligatj alla recitazione di detto officio[3]. Lo stesso giorno, il protopapas di Soleto Nicola Viva rilascia identica dichiarazione, ma aggiunge che nella terra de Solito no(n) ce siano pre(i)ti latini, no(n) monasterij et la matrice eccl(esi)a n(os)t(r)a con suj sacerdoti son tutti greci[4]. A Soleto, quindi, l’Officiolo della Madonna era recitato in greco.

Molto importante risulta, poi, la cronaca cinquecentesca del galatinese Pietro Antonio Foniati[5], che, pur necessitando di qualche emendamento, ci fa sapere che i galatinesi avevano la possibilità di seguire, passo dopo passo, tutta l’impresa di Lepanto: Don Giovanni d’Austria, fratello bastardo del Re (figlio naturale di CarloV e fratello di Filippo II), intrò in Napoli a 9 d’agusto 1571 a nezza ora de notte, con assai cavalieri, con gran pompa, et onore. Poi viene segnalato il passaggio della flotta cristiana nel mare Adriatico: L’armata de tutta la Cristianità, cioè del re Filippo, del papa e dei Venetiani, passò a 25 di settembre 1571 per Levanta da circa 232 galere. Lo generale era Don Giovanni d’Austria. Era nella galera de Don Giovanni uno stendardo datogl ida papa Pio V, il quale nella battaglia stette arborato (issato) et non ebbe una botta. Erano nelle galere nove galiazze, et venticinque navi portavano tutto lo fiore della cristianità.

Il giorno della vittoria della flotta cristiana contro i Turchi, non fu un giorno fausto per la chiesa collegiata di Galatina: Adì 7 ottobro fu domenica 1571, avendo ditto vespro li latini (cioè recitata l’ora canonica verso il tramonto), essendo li preiti alli pezzoli (seduti su dei sedili di pietra) della chiesa madre, cascò uno trono et gettò lo gallo; et ammazzato l’archipreite (notizia inesatta, perché Giovan Pietro Marciano avrà vita lunga) et entrò perfì mezzo alla chiesa.

Ricordiamo che il 14 ottore 1571, giorno delle dichiarazioni rese dagli arcipreti Marciano e Viva, non si sapeva ancora nulla sull’esito della battaglia, che sarà noto a Galatina il 20 ottobre 1571: Adì venti del ditto, fu sabbato, arrivò una galea che portava [nova de] una moltitudine de galere de l’inimico turco; portava nova (portava la notizia) come con la battaglia fatta a capo Ducato, l’altezza di Don Giovanni (d’Austria), con tutta l’armata Cristiana, prese 170 galere di nemici, con mortalità de trenta millia turchi, et prese assai vivi. L’Occiali (Occhiali Kilig Alì, ammiraglio dell’armata turca) fuggette con trenta galere. Delli nostri morsero (morirono) tre millia, et cinque millia vivi feriti. La guerra fu di matina, durò sei ore, furono presi due figlioli di Alì, generali de li Turchi, il quale fu ammazzato. Vivi furo liberati 12 millia schiavi cristiani. Questo successe adì 7 d’ottobre 1571. Dopo la vittoria della flotta cristiana, molti pittori rappresentarono la Vergine , dapprima chiamata Nostra Signora della Vittoria, festeggiata appunto il 7 ottobre, giorno della battaglia di Lepanto, poi come Madonna del Rosario, nella festa trasferita da Gregorio XIII alla prima domenica di ottobre.

Esemplare, in questo senso, per i richiami alla sconfitta inflitta ai Turchi dall’Europa cristiana, appare la bellissima cinquecentesca tela della Madonna del Rosario, custodita nella matrice di Soleto, che merita un esame dettagliato. La tela, la cui impostazione è ripresa da una stampa dell’incisore lorenese Nicolas Beatrizet, è stata realizzata a mio avviso, tenendo conto anche delle biografie dei personaggi rappresentati, tra il 1572 e il 1576 e si pone, nella storia dell’iconografia rosariana, tra le prime manifestazioni dell’arte pugliese, collocabile “nell’ambito del tardo manierismo meridionale di fine secolo”[6]. Attribuita al noto pittore galatinese Lavinio Zappa, e non Zoppo[7], tra la sequela dei quindici Misteri che affianca i margini superiori, presenta in alto, circondata da angeli che offrono rose e altri musicanti con viole e liuti, una Vergine coronata e il Bambino mentre distribuiscono i rosari a S. Domenico e a S. Caterina da Siena. In basso a sinistra sono raffigurati i protagonisti e i personaggi legati alla vittoria di Lepanto: in primo piano il re di Spagna Filippo II, affiancato dal papa Pio V, con alle spalle il cardinale Borromeo; verso l’alto l’arciprete NicolaViva; l’arcivescovo di Otranto Pietro Antonio de Capua e, con il berretto rosso di doctorparisiensis, il filosofo, matematico, medico e astrologo soletano Matteo Tafuri, forse committente dell’opera. A destra, sotto l’immagine di S. Caterina, figura probabilmente Eleonora, sorella di Carlo V e, affiancata, sicuramente la regina Anna d’Austria, che indossano la caratteristica gorgiera rigida “a lattuga”. In basso, una giovane schiava turca mostra il rosario e il Vangelo. La schiava, iconologicamente inserita in un contesto di trionfo della cristianità, rappresenta in maniera emblematica l’immagine dell’infedele sottratta ab infami sectamaumethana e recuperata ad fidemnostramsacrosantamcatholicamromanam[8]. Insomma una schiava liberata e convertita.

Filippo II, tre volte vedovo, poco prima della rappresentazione della tela del Rosario, aveva sposato la nipote Anna d’Austria, segnando così l’inizio dei matrimoni endogamici, che portarono alla fine della casa d’Austria, per via dell’eccessiva consanguineità; Eleonora fu regina due volte, di Portogallo e di Francia; Pio V (Michele Ghislieri) e Carlo Borromeo diventeranno santi; Nicola Viva, penultimo arciprete di rito greco di Soleto, oscuro delatore del concittadino Matteo Tafuri, in punto di morte raccomanderà l’anima sua alla maestà de Iddio, lo quale abbia misericordia de quella; l’arcivescovo di Otranto Pietro Antonio de Capua era stato inquisito dal Tribunale dell’Inquisizione e stessa sorte aveva subito l’eretico Matteo Tafuri, che fu “carcerato et confinato in Roma et tormentato per herisia mesi quindecimortalemente”. Tanti personaggi così diversi, inconciliabili tra loro, ma tutti inginocchiati ad implorare la Vergine. Sic transit gloria mundi.

 

[1] G. VALLONE, Mito e verità di Stefano Agricoli arcivescovo e martire di Otranto (1480), in “ArchivumHistoriae”, 29, Romae 1991, app. III, p. 308.

[2] ADO (Archivio Diocesano di Otranto), Fondo atti visita di Pietro Antonio de Capua, 1567, c. 18 r.

[3]Ibidem.Per l’arciprete di Galatina, cfr. V. LIGORI, Famiglie e parentele nei registri parrocchiali galatinesi delCinquecento, in “BSTO” (Bollettino Storico di Terra d’Otranto), 7-1997, p. 68 e nt. 22, 113.

[4] Ibidem. Per l’arciprete di rito greco di Soleto, cfr. L. MANNI, Tracce testamentarie e biografiche di Nicola Viva eAntonio Arcudi, ultimi arcipreti greci di Soleto, in “BSTO”, 14-2005. Pp. 52-61.

[5]   F. GIOVANNI VACCA, Un’inedita cronaca galatinese del Cinquecento, in “Urbs Galatina”, n. u., (a cura dell’Amministrazione Comunale di Galatina), Galatina 1992, pp. 22-4.

[6]Per tela, cfr. L. MANNI, La chiesa Maria SS. Assunta di Soleto, in (a cura di P. ROSSETTI), Maria SS.ma Assunta Soleto, Galatina 2011, pp. 81-3; sulla stampa del Beatrizet, cfr. (a cura di C. GELAO), Confraternite arte e devozione in Pugliadal Quattrocento al Settecento, Napoli 1994, pp.222-4, 239-40.

[7]   Cfr., sull’argomento, L. MANNI, Lavinio Zappa, Matteo Tafuri e la tela del Rosario, in (dello stesso autore), Dallaguglia di Raimondello alla magia di messer Matteo, Galatina 1997, pp. 120-2.

[8]   La citazione è tratta da APS (Archivio Parrocchiale di Soleto), Liber mortuorum, atto del 13 ottobre 1725, in cui risulta sepolto nella matrice il corpo di un tal Sthephanus, uno schiavo ottomano catturato e poi venduto a Soleto tra il 1670 e il 1680, per il quale cfr. L. MANNI, Sthephanus(1650-1725): uno schiavo turco ottomano etc., in “Lu Cutrubbu”, 1990, pp. 61-2.

 

* pubblicato su Il filo di Aracne

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il reset del pc? Noi salentini da secoli lo pratichiamo con noi stessi

di Armando Polito

* Non ce la faccio più. Fammi riposare un poco!

** Adesso ci penso io a farti riposare per sempre!

 

Quando un dispositivo elettronico mostra comportamenti strani l’ultima spiaggia prima di ricorrere al tecnico è il reset, che qualche volta, quando tutto appare bloccato, coincide con una brutale interruzione dell’alimentazione. Dopo qualche secondo di attesa riaccendiamo il pc nella speranza che il forzato spegnimento non abbia danneggiato qualche file e quando tutto sembra funzionare a meraviglia guardiamo pure con tenerezza a quella macchina che poco prima ci ha costretti, per fare più presto e non trascurare nessun  nello sfogare la rabbia, a prendere in mano il calendario, non proprio per contare i giorni …

La tenerezza, accompagnata dalla gioia per lo scampato pericolo (il pc, ormai, è o non è una specie di protesi della quale non si può fare a meno?), ci fa compatire i capricci di quel concentrato di plastica e silicio, al quale finiamo per attribuire caratteristiche umane, giustificando con lo stress qualche episodio di defaillance.

E diciamo che il pc ha bisogno di allentare pure lui la tensione (direi solo quella elettrica …) e l’impegno grazie al reset, così come un salentino, di fronte ad una pressante richiesta d’impegno fisico o mentale è solito esclamare, e non dalla comparsa del primo pc, Famme rrisittare nnu picca! (Fammi riposare un poco!).

Rrisittare ha preceduto di secoli l’italiano resettare nato come voce dell’informatica dall’inglese reset, a sua volta nato nel 1966 ed oggi usabile metaforicamente per gli umani proprio nel significato nativo della voce dialettale che certamente è anteriore, e di molto, al 1966 . E il padre di tutto questo è, ancora una volta il latino, nella fattispecie *reseditàre, forma frequentativa di residère=fermarsi, composto dalla particella ripetiriva re– e da sedère=sedere, calare.

Il 21 novembre di 232 anni fa accadde qualcosa e un salentino ci mise del suo …

di Armando Polito

Qualcuno dirà che il 21 novembre di quest’anno è già passato da un pezzo e che avrei fatto meglio a preparare questo post perché uscisse proprio quel giorno. Il post era già pronto da tempo e l’ho inviato volontariamente in ritardo perché nessuno fosse sfiorato dal sospetto che la data del titolo (solo la data …) servisse per propiziare un numero maggiore di contatti. Ora, però, mi rendo conto che, forse, la curiosità suscitata in chi ha letto questa premessa farà aggiungere ai due o tre soliti noti che seguono le mie scorribande anche qualcun altro. Non era questo, come ho detto, l’effetto che volevo raggiungere, ma ormai è fatta …

Pensando solo agli sviluppi tecnologici legati all’informatica ed ai suoi fenomeni (digitalizzazione di dati di ogni tipo, internet, telecomunicazioni, telemedicina, robotica, etc. etc.) spesso mi chiedo quale sarebbe stata la reazione, per esempio di fronte ad un tablet mostratogli all’improvviso, non di mio nonno ma di mio padre, che pure aveva intuito il carattere rivoluzionario di questa nuova frontiera della conoscenza.

La travolgente evoluzione tecnologica degli ultimi decenni, catalizzata anche dal consumismo spesso legato a bisogni non reali ma abilmente indotti, ci ha reso meno sensibili ai cambiamenti, a meno che essi non siano particolarmente eclatanti, così come un semplice omicidio non fa quasi più notizia mentre un efferato omicidio, magari ispirato da motivi insolitamente morbosi, tiene banco sui media, anche per parecchi anni, catalizzato, questa volta, dalla lentezza della giustizia dovuta molto spesso ad indagini non fatte o fatte male.

Tuttavia, tale assuefazione è un fenomeno che si riscontra anche per le epoche passate. Per l’epoca moderna basta pensare all’eco che ebbe il primo volo ufficiale della mongolfiera con equipaggio umano il 21 novembre del 1783.

Nelle due stampe coeve che seguono, custodite nella Biblioteca Nazionale di Francia (da dove le ho tratte; rispettivamente: http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b6942181c.r=montgolfier e http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b550015468.r=Pil%C3%A2tre%20de%20Rozier) il momento della partenza e quello del rientro della mongolfiera.

La poesia, tra gli altri meriti, ha pure quello di immortalare anche le emozioni collettive profonde suscitate da un evento nuovo e strabiliante; e il volo con la mongolfiera fu tra questi. Lo stesso successe con il primo volo aereo dei fratelli Wright il 17 dicembre del 1903 e, a tanto breve distanza temporale da poter essere considerato quasi come il suo omologo terrestre, con l’automobile (e ogni macchina in generale) che col Futurismo conobbe i suoi fasti poetici.

A quanto ne so solo qualche isolata poesia, invece, per il primo allunaggio (nonostante il retaggio poetico del nostro satellite …) , evidentemente atteso da tempo dopo i voli umani al di fuori dell’atmosfera terrestre, che, a loro volta, non erano stati fonte di ispirazione letteraria. Molto probabilmente fra qualche decennio l’ammartaggio (ho depositato la voce e sto già riscuotendo i relativi diritti …) non spingerà nessun poeta a celebrare il pianeta rosso, anche perché nel frattempo, forse, su tutto il nostro pianeta non ci sarà un solo poeta, tanto meno comunista …

Torno ora alla mongolfiera per dire che innumerevoli furono i componimenti scritti per l’occasione e, per restare tra gli autori italiani e famosi, è d’obbligo citare il nome di Francesco Astore di Casarano, dov’era nato nel 1742.

Nell’immagine che segue il suo ritratto in un’incisione di Carlo Biondi, tratto da Biografie degli uomini illustri del regno di Napoli, tomo IX, Gervasi, Napoli, 1822 (https://books.google.it/books?id=VpqRqzZ4v88C&printsec=frontcover&dq=editions:nyGnSFQfGQMC&hl=it&sa=X&ei=r_TdVJfnBM6WarvvgqAH&ved=0CFEQ6AEwBw#v=onepage&q&f=false).

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Per Montgolfier l’Astore scrisse un’elegia in latino, che riporto in formato immagine, con l’aggiunta della mia traduzione a fronte e delle note in calce, da Antologia romana, tomo X, Settari, Roma, 1784, pp. 331-332 e p. 415 (https://books.google.it/books?id=v6hQAAAAcAAJ&pg=PA331&dq=francesco+antonio+astore&hl=it&sa=X&ved=0CCcQ6AEwAjgUahUKEwjEiJ7yi67IAhVL1xoKHU4NApM#v=onepage&q=francesco%20antonio%20astore&f=false).

L’elegia di Francesco Antonio, per quanto favorita dal tema trattato,  ebbe un riscontro notevole come dimostra la sua pubblicazione in L’esprit des journaux, françois et étrangers, par une société de gens-de-lettres, maggio 1784, tomo V, anno III, Valade, Parigi, pp. 243-245.

Paolo Andreani (1763-1823) fu il primo a ripetere in Italia il 13 marzo del 1784 il volo con un mezzo simile dopo l’esperienza dei fratelli Montgolfier fatta l’anno precedente.

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Il volo di Paolo Andreani in una stampa custodita a Parigi nella Biblioteca Nazionale di Francia; immagine tratta da http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8509354p.r=andreani

 

A lui il casaranese dedicò l’elegia che segue (da Antologia romana, op. cit., p. 425).

 

All’entusiasmo trionfalistico dell’Astore che sembra anticipare il Futurismo si contrappongono i dubbi, le inquietudini e le paure del Parini che allo stesso evento dedicò un sonetto (fa parte delle Odi)  che sembra quasi una cronaca in diretta da pallone (non mi riferisco ad una partita di calcio …). Lo riproduco da Antologia romana, op. cit., p. 333.

Passò poco più di un anno e il 15 giugno 1785 il triste mito di Icaro divenne realtà con il protagonista del primo incidente aereo della storia, il francese Jean-François Pilâtre de Rozier morto col compagno Pierre Romain durante un tentativo di traversata della Manica.

Immagine tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Jean-Fran%C3%A7ois_Pil%C3%A2tre_de_Rozier#/media/File:Aviation_fatality_-_Pilatre_de_Rozier_and_Romain.jpg
Immagine tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Jean-Fran%C3%A7ois_Pil%C3%A2tre_de_Rozier#/media/File:Aviation_fatality_-_Pilatre_de_Rozier_and_Romain.jpg

 

L’Astore, che pure aveva esaltato un precedente felice volo del francese, scrisse per l’occasione un’ode ed un’elegia pubblicate per la prima volta nel numero di ottobre 1785 del Giornale enciclopedico del Regno di Napoli e poi da Benedetto Croce in Due carmi latini in compianto del primo eroe dell’aeronautica caduto nella sua impresa, Laterza, Bari 1936. Dei due componimenti, che rientrano in quel genere letterario che potremmo definire necrologio poetico, ho potuto recuperare in rete solo l’ode, che riproduco in formato immagine, con le mie solite aggiunte, da Novelle letterarie, n. 41, 14 ottobre 1785, Francesco Moücke, Firenze, colonne 647-651 (https://books.google.it/books?id=xblSM85uyaIC&pg=PT316&lpg=PT316&dq=Astore+Pil%C3%A2tre+de+Rozier&source=bl&ots=UEVyZ0vC8F&sig=oTZB8ke9jONKbCzMLVq8a1x5fEI&hl=it&sa=X&ved=0CE0Q6AEwCGoVChMIpavPzZWQyQIVwtUUCh0bBgxS#v=onepage&q=Astore%20Pil%C3%A2tre%20de%20Rozier&f=false Moücke,Firenze, colonne 647-652).

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Galatina. “Il peso dei rimorsi”. Ernesto De Martino, 50 anni dopo

tarantismo1

Martedì 1 dicembre 2015

Palazzo della Cultura (Galatina, Le)

CONVEGNO

“IL PESO DEI RIMORSI” – ERNESTO DE MARTINO, 50 ANNI DOPO

La città di Galatina rende omaggio a Ernesto De Martino con la rassegna “Il peso dei rimorsi”, dedicata al grande antropologo italiano nel cinquantesimo anniversario della sua scomparsa. L’appuntamento ricade all’interno di una serie di incontri e dibattiti organizzati in numerose città italiane, curati dall’Istituto dell’Enciclopedia italiana Treccani, l’Associazione internazionale Ernesto De Martino, la Fondazione Premio Napoli, l’Università di Ginevra, la Scuola di specializzazione in Beni demoetnoantropologici dell’Università di Perugia, la Fondazione Istituto Gramsci e la Fondazione Angelo Celli.

Dopo Lecce, Bari, Salerno, Perugia, Napoli e Matera, le celebrazioni fanno tappa a Galatina, città in cui De Martino dedicò le sue ricerche per studiare a fondo, per la prima volta in maniera organica e multidisciplinare, il fenomeno del tarantismo. Era il 1959 e da quella spedizione scaturì il celebre saggio “La terra del rimorso”, oggi tradotto, conosciuto e studiato in tutto il mondo.

L’incontro galatinese offre l’occasione di conoscere il pensiero dello storico ed etnografo De Martino, nato a Napoli nel 1908 e scomparso nel ’65 a Roma, tracciando il suo pensiero in un quadro letterario più ampio, sempre più attuale, non ridotto al solo fenomeno del tarantismo.

L’iniziativa, promossa dall’Assessorato alla cultura del Comune di Galatina e organizzata in collaborazione con Meditfilm nell’ambito del progetto “Luoghi e Visioni – Frammenti di antropologia visuale”, nasce per restituire il giusto lustro alla figura di De Martino, allo studioso che seppe fondere saperi diversi nella ricerca etnografica sulle culture popolari del Sud d’Italia, fino a essere riconosciuto a livello mondiale come il padre della nuova antropologia italiana.

L’appuntamento di Galatina celebra un De Martino meno conosciuto al grande pubblico, aprendo a una riflessione sul percorso ideologico e politico che lo hanno reso protagonista, dagli anni ’40 agli anni ’60, del panorama intellettuale italiano, insieme ad altri personaggi che ne hanno segnato la formazione; con alcuni dei quali, come Antonio Gramsci, Cesare Pavese, Benedetto Croce, intrattenne un’intensa dialettica intellettuale.

“Il peso dei rimorsi” è inserito nelle celebrazioni nazionali che si concluderanno a Roma, nel maggio 2016, per il cinquantenario della morte di De Martino, attraverso una serie di incontri itineranti per ricordare, riflettere e valorizzare le ricerche, il pensiero e l’eredità di una delle figure centrali della cultura italiana del dopoguerra.

Il convegno vedrà la partecipazione dei professori: Pietro Clemente (Università di 2 Firenze), Riccardo Di Donato (Università di Pisa), Carlo Alberto Augeri, Eugenio Imbriani (Università del Salento). A moderare il dibattito sarà il professore Mario Lombardo (Università del Salento).

Tra gli eventi in programma, la mostra fotografica “Il Cattivo Passato”, un suggestivo percorso tra storia, religione, antropologia e società nel pensiero politico-intellettuale di De Martino, e dalla “Breve rassegna Luoghi e Visioni” a cura di Meditfilm, con la proiezione di alcuni importanti documentari etnografici (“Il male di San Donato” di Luigi Di Gianni, “La passione del grano” e “L’inceppata” di Lino Del Fra). Aprirà il convegno la professoressa Daniela Vantaggiato, assessore alla Cultura del Comune di Galatina.

Per l’occasione, sarà presentato in anteprima il corto “Equilibri nel tempo”, scritto e diretto da Fabrizio Lecce, prodotto da Meditfilm nell’ambito del percorso di antropologia visuale “Luoghi e Visioni”. Il film, interpretato da Simone Franco, esplora i megaliti del Salento, dolmen e menhir che, con la loro essenza sacra, rappresentano l’anello di congiunzione tra il terreno e l’ultraterreno, tra la natura e la cultura, facendo emergere un paesaggio rurale arcaico ormai lontano dagli immaginari contemporanei. Il racconto è affidato alle parole di De Martino, estratte dal libro “La fine del mondo, contributo all’analisi delle apocalissi culturali”.

L’intera manifestazione si svolgerà martedì 1 dicembre a Galatina, presso il Palazzo della Cultura, con il seguente programma: alle 16:00 apertura mostra fotografica “Il cattivo passato”, alle 17:00 inizio del convegno “Il peso dei rimorsi”, alle 19:00 proiezione dei film in rassegna con l’anteprima del corto “Equilibri nel tempo”.

 

Link di approfondimento: www.luoghievisioni.it; www.meditfilm.com

Info e Contatti: MEDITFILM  –  info@meditfilm.com  +39 3277305829

UFFICIO STAMPA: Gabriele Miceli

 

 

Manduria. Il San Lorenzo conteso

Manduria. Statua San Lorenzo (sec.XVIII)
Manduria. Statua San Lorenzo (sec.XVIII)

di Nicola Morrone
Tra i primi e più importanti martiri della cristianità occidentale c’è senza dubbio San Lorenzo, nato a Huesca (Spagna) nel 225 e morto a Roma, il 10 agosto 258, nell’ambito della persecuzione dell’imperatore Valeriano.

Trasferitosi in gioventù dalla Spagna a Roma, una volta giunto nell’Urbe divenne arcidiacono, cioè responsabile delle attività caritative della Diocesi. In seguito ad un editto emanato dall’imperatore, all’età di 33 anni Lorenzo fu messo a morte perchè presbitero, cioè sacerdote. Molto probabilmente (anche se, in questo senso, mancano testimonianze storiche inequivocabili) venne bruciato vivo su una graticola ardente. La graticola, perciò, diventò in seguito il suo attributo iconografico.

Piuttosto tardivamente, il culto per il martire giunse anche a Manduria. La devozione locale non nacque per impulso della Diocesi, ma, come talora accade, su iniziativa privata. Intorno al 1547, con un lascito del notaio Giovanni De Basiliis, su un terreno di sua proprietà, fu edificata una cappella dedicata al santo, che risulta già crollata nel 167O [Cfr. L.Tarentini, Manduria Sacra (1899), p.17].

Nell’iconografia pittorica e plastica manduriana, San Lorenzo è presente, in maniera particolare, in due distinti luoghi di culto: la chiesa della Madonna del Carmelo (Scuole Pie) e la cappella della Natività di Maria Vergine (in Sant’Antonio).

Alle Scuole Pie, il santo è abbondantemente riprodotto: a lui è dedicato il secondo altare a sinistra della navata, qualificato da una grande tela centrale che raffigura il suo martirio e da quattro telette laterali con scene della sua vita (ambito dei pittori Bianchi, sec. XVIII). Nella chiesa è inoltre presente una statua in cartapesta che rappresenta il santo, opera di R. Caretta (sec. XX).

Nella cappella della Natività di Maria Vergine (in Sant’Antonio) si può invece ammirare un bel dipinto con il santo in atteggiamento estatico (sec. XVII, scuola pugliese) e una statua in cartapesta di artista locale (sec. XVIII). La statua, come tutto il corredo artistico della cappella, è stata realizzata su iniziativa dei Frati Cappuccini (uno dei tre ordini mendicanti della famiglia francescana, sorto nel 1520) che officiavano il culto nella chiesetta già dalla seconda metà del sec. XVII. Giunti a Manduria intorno al 1660, essi, anche con il sostegno dell’aristocrazia locale, avevano realizzato la cappella e il convento annesso, e tra gli altri, solennizzavano il culto per San Lorenzo Martire con una festicciola nei pressi della contrada [cfr. L.Tarentini, Manduria Sacra (1899), pp.56-65].

Ma la comunità cappuccina, dopo appena due secoli di presenza in città, dovette abbandonare Manduria in seguito alle soppressioni monastiche postunitarie (1866). All’allontanamento della comunità monastica seguì un periodo di abbandono della cappella e del convento, in cui si verificarono, tra le altre cose, anche spoliazioni del patrimonio artistico.

Nell’ambito di quel convulso frangente storico, che ha interessato molte fondazioni monastiche italiane, la statua manduriana di San Lorenzo è stata al centro di una vicenda molto particolare, che abbiamo recentemente ricostruito con l’ausilio di documenti rintracciati nell’Archivio Centrale dello Stato di Roma, sulla scorta delle indicazioni fornite in un saggio scientifico [cfr. A.Gioli, ”Monumenti e oggetti d’arte nel Regno d’Italia. Il patrimonio artistico degli Enti religiosi soppressi tra riuso, tutela e dispersione” (Roma 1997)].

Presso L’ACS (fondo Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale delle Antichita’ e Belle Arti, Affari per Province, busta 16, fascicolo 41) esiste infatti un incartamento, della consistenza di cc. 8, riguardante i Cappuccini di Manduria, contenente documenti risalenti all’anno 1872. Sei anni prima, il Regio Decreto n.3036 del 7 Luglio 1866 aveva stabilito la soppressione degli Ordini religiosi possidenti. La legge non prevedeva forme particolari di tutela dei beni artistici presenti nelle chiese e nei fabbricati monastici. E mancando appunto un sostegno giuridico alla salvaguardia dell’immenso patrimonio artistico degli Ordini religiosi ebbe luogo, nell’immediato periodo postunitario, la grande dispersione delle opere d’arte di proprietà claustrale, la cui sorte, nella gran parte dei casi, non è più possibile ricostruire.

Dopo l’allontanamento dei Cappuccini dalla casa manduriana, lo stesso destino sarebbe toccato, tra gli altri, anche alla statua in cartapesta di San Lorenzo Martire, ma stavolta le cose, per una curiosa circostanza, andarono diversamente. Infatti, tra i documenti da noi ritrovati a Roma ce n’e’uno, datato 1872, da cui si evince che la Congrega del Carmine di Manduria (Scuole Pie) aveva fatto istanza ad un particolare ufficio del neonato Regno d’Italia (l’Amministrazione del Fondo per il culto) per ottenere la statua di San Lorenzo Martire, già appartenuta ai Cappuccini, al fine di istituire nella propria chiesa il culto del santo e solennizzarlo con una festa annuale (10 agosto).

Per permettere lo spostamento della statua dalla chiesa dei Cappuccini a quella delle Scuole Pie occorreva però, secondo le leggi del tempo, che essa fosse riconosciuta “di nessun valore artistico”. In caso contrario, essa sarebbe rimasta di proprietà dello Stato, come patrimonio acquisito in seguito alla soppressione della comunità cappuccina di Manduria. Gli ufficiali del Regno d’Italia incaricarono dunque la Regia commissione Conservatrice di Monumenti storici e delle Belle Arti di stimare il valore artistico della statua, e, anzichè mettere tutto nelle mani di tecnici forestieri, si affidarono al personale del Museo provinciale di Terra d’Otranto (Lecce), che avrebbe inquadrato l’opera nel giusto contesto storico ed artistico, e ne avrebbe poi fornito, in base a questi parametri, una stima anche economica. E così fu.

Nel fascicolo da noi consultato a Roma, c’è infatti una bellissima relazione, senza data, sottoscritta dal Direttore del Museo Provinciale di Lecce (il patriota Sigismondo Castromediano). Dalla sua lettura si evince che una commissione del Museo, composta da Luigi De Simone, Cosimo De Giorgi, Pietro De Simone e lo stesso Castromediano, si recò a Manduria la sera del 13 settembre 1872 e, dopo essersi accordata col sindaco, col ricevitore del demanio e con i RR. Carabinieri, il giorno successivo prese visione della statua.

Questa era già stata collocata nella chiesa del Carmine. Dopo essere stato riconosciuto sotto l’aspetto formale come opera di gusto barocco, il manufatto fu giudicato dalla commissione come opera di “artista poco perito”. Alla fine della meticolosa relazione si sottolinea che “se v’ha alcun pregio in questa statua non è certo estrinseco od estetico; la è una brutta copia, è una pessima caricatura di tante statue consimili di San Lorenzo che si trovano in diversi paesi della provincia, le quali potranno avere soltanto un valore archeologico tra un milione di anni, se la materia prima con la quale sono state modellate potrà resistere alla corruzione del tempo, del tarlo, e della tignola. Per tutti questi motivi la Commissione giudica la statua di nessun valore artistico, e crede che il prezzo dell’opera quale attualmente si trova sia di 80 a 100 lire italiane”.

Sulla base di questa valutazione, l’Amministrazione per il Fondo del Culto accordò alla Congregazione del Carmine di Manduria l’utilizzo della statua, anche se i confratelli, come detto, avevano già provveduto a spostare l’opera dalla sua sede originaria, con processione solenne.

La statua di San Lorenzo Martire, dunque, è rimasta a Manduria proprio per esser stata considerata “di nessun valore artistico”. Questa valutazione, effettuata nel 1872 dagli esperti leccesi, è stata dunque provvidenziale, poichè ha permesso all’opera, a differenza di tante altre disperse, di rimanere nella sua città. La valutazione della commissione, però, pur provvidenziale, non fu criticamente equilibrata. Il Tarentini afferma che, all’epoca, la statua “riscosse erroneamente fama di grande lavoro artistico”, senza però motivare questo suo giudizio negativo.

Lo studioso S. P. Polito, tra i massimi conoscitori della cartapesta salentina, si esprime invece sul San Lorenzo manduriano in termini decisamente positivi, descrivendolo come un manufatto “pregevole”, che “denota nei tratti e nel gesto una tenuta qualitativa non eccellente, ma, ad ogni modo, piuttosto alta [….] non troppo lontana dagli esiti raggiunti dal Manieri” [Cfr.S.P.Polito, La cartapesta Sacra a Manduria (Manduria 2002), pp. 20 e 136].

Nella fattispecie, si tratta, tra l’altro, di un vero e proprio incunabolo della cartapesta salentina, dal momento che i primi manufatti di plastica cartacea documentati nel Salento risalgono appunto al sec. XVIII. Il verdetto dei tecnici leccesi pare anche a noi eccessivamente severo: osservando direttamente la statua, che fu realizzata più di due secoli e mezzo fa, si nota uno sviluppo solido ed equilibrato della massa plastica, una sufficiente attenzione al dettaglio decorativo, e, non ultima, una buona capacità di caratterizzazione psicologica.

In ogni caso, a quella lontana valutazione “al ribasso” dobbiamo comunque, lo ribadiamo, il salvataggio dell’opera dalla sua sicura dispersione. La statua di San Lorenzo, dopo essere stata acquisita dai Confratelli del Carmine per le loro esigenze cultuali (tra l’altro legittimate da una devozione che, nata su impulso privato, era presente alle Scuole Pie già dal primo ‘700) ritornò poi, giustamente, nella sua sede originaria, cioè nella cappella della Natività di Maria (ora in Sant’Antonio).

Nelle Scuole Pie fu, al suo posto, collocata un’altra statua in cartapesta del Santo, quella realizzata ai primi del ‘900 dal leccese Raffaele Caretta.

In conclusione, da una superficiale valutazione tecnica dell’importanza di un’opera d’arte è venuto alla comunità manduriana un vantaggio, di cui i concittadini possono tuttora beneficiare. Purtroppo, di tante altre opere, di cui si fece a suo tempo “corretta” valutazione artistica, si è perso finanche il ricordo.

 

Nicola Morrone

 

Gianni De Santis, musicista di Sternatia, uno degli ultimi cantori in griko

de santis

Parole per te

di Diego Rizzo

 

Forse è giusto che il griko venga lasciato morire in pace, a questo punto”.

Così mi disse, una delle ultime volte che andai a fargli visita.

“Perché dici così?”  – Replicai. Era amareggiato, non più arrabbiato come di solito quando si toccava questo tema.

Perché questa lingua era un gigante che affondava i piedi nella terra e che si reggeva in piedi grazie al rapporto tra i parlanti e quella stessa terra che oggi hanno abbandonato”.

“Vabbè, ma ci sono tante cose che si possono ancora fare no? A livello culturale intendo”.

E cosa? Il griko è stato abbandonato, usato solo per reperire finanziamenti e al massimo trattato come un vecchio pezzo morto da museo. Però nessuno ha il coraggio di ammettere certe cose. Nessuno viene a confrontarsi con me, perché sanno che non la spunterebbero e che sarei duro. Poi fanno avere i fondi a chi di griko non ne capisce nulla e alla fine vengono da me per salvare capra e cavoli. Poi naturalmente riconoscimenti e palchi non sono mai per me. Ma lo sai che a me non interessa, mi dispiace solo che maltrattino così questa lingua che sento mia e che mio padre mi ha donato con tanto amore”.

a sinistra Gianni de Santis, a destra suo fratello Rocco. Musicisti di Sternatia,  gli ultimi cantori in griko
a sinistra Gianni de Santis, a destra suo fratello Rocco. Musicisti di Sternatia, gli ultimi cantori in griko

Era così, il mio amico Gianni. Una persona piena di passione per ciò che amava, ma al tempo stesso fiero, orgoglioso, acuto nelle analisi e capace di essere molto duro e diretto.

Con una tristezza infinita devo usare l’imperfetto, era. Era, perché oggi Gianni non c’è più. Ha smesso di soffrire dopo una lunga lotta, senza arrendersi mai, com’era nel suo stile.

E, come tutti i generosi, non è andato via senza prima lasciarci alcuni importanti doni.

“Lòja ja sena”, parole per te, è il titolo di un suo testo in cui utilizzò parole grike che rischiavano di estinguersi.

Mi piace pensare alla sua vita come ad un’immensa canzone in cui ha lasciato tante cose. Testi di una bellezza poetica profonda e rara, quasi visionaria, come Mu fani e Ìtela; parole che sgorgano direttamente dall’anima e dall’amore per il padre, come Echi; opere che hanno fatto ridere a crepapelle e al tempo stesso riflettere come la sua Genesi in dialetto; un romanzo epistolare, Maravà, in cui la storia di un’amicizia senza confini attraversa un mondo che sta scomparendo, che ci ricorda chi eravamo e disegna quei cerchi imprevedibili che la vita a volte è capace di fare.

Chiunque lo abbia conosciuto almeno un po’ sa bene che la lista delle opere artistiche sarebbe assolutamente insufficiente per descrivere la sua eredità. Sì, perché Gianni De Santis, oltre alle opere, ha lasciato un testamento assai più importante: la voglia di sorridere e far sorridere, sempre e comunque; il coraggio di dimostrare il proprio affetto; il dovere morale di dire la verità anche se questo non porta vantaggi personali; la capacità di superare qualsiasi ostacolo grazie all’amore che si porta dentro.

Gianni non era abituato a chiedere, non gli piaceva e in questo l’ho sempre compreso, ma oggi, per amor suo, farò diversamente: chiedo a tutti i salentini di non lasciar morire quella lingua a cui ha dedicato la sua vita e la sua arte.

Vi chiedo di ascoltare, leggere e capire. Vi chiedo di seguire il suo esempio.

Chi può e vuole, faccia tutto questo.

Chi può e non vuole, perché mai ha voluto, abbia almeno la compiacenza di tacere.

 

“Árimo isù pu stei                                        Chissà tu dove sei

Linnàci p’en astrèi                                        Lumino che non luccica

Ce s’an lumèra anàtti to pensièri”               Ma come fuoco accendi i miei pensieri

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Francesco e Temistocle De Vitis, due generazioni di artisti a Carpignano Salentino

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Il 27, 28 e 29 novembre Carpignano Salentino ricorda due dei suoi celebri figli, Francesco e Temistocle De Vitis, con una mostra che si terrà  in piazza Duca D’Aosta, presso la cappella dell’ Immacolata.
Sabato 28 novembre alle ore 18.00, il prof. Emilio Bandiera interverrà con un excursus biografico degli artisti, mentre la dott.ssa Brizia Minerva del Museo Provinciale “S. Castromediano” di Lecce tratterà delle tematiche contenute nelle opere in esposizione.
Dalla scultura alla pittura. Francesco e Temistocle De Vitis due generazioni di artisti a Carpignano Salentino“.
La mostra sarà aperta dalle ore 10.00 alle ore 13.00 e dalle 16.00 alle 18.00 di venerdì 27 e sabato 28; dalle ore 09.00 alle ore 13.00 di domenica 29.

Fernando Baglivo, mentore fra le contrade e i recessi, le coste aspre e il mare del Salento

alba salentina (ph Fernando Baglivo)
alba salentina (ph Fernando Baglivo)

 

di Paolo Vincenti

 

Fernando Baglivo è un salentino della più nobile e autentica schiatta, un salentino del Capo di Leuca, di quella Finibusterrae che è luogo di partenze e di ritorni, di aeree nostalgie e azzurri approdi, di cielo e di mare, di terra rossa e di verde sfolgorante. Porta su di sé i segni della mappa genetica di un popolo, li porta sul proprio volto, nelle mani, nella sua parlata dalla cadenza  simpaticamente tricasina.

Fernando Baglivo è un salentino giramondo e nei suoi viaggi  reca con sé questo patrimonio indissolubile di sapere e sapori, odori e tradizioni, colori e folklore di casa.

Fotografo dilettante ma appassionato, ora pubblica sul nostro sito le sue splendide istantanee. Fernando inizia come antiquario e oggi si occupa di ristrutturazioni di antiche dimore.  In estrema sintesi, potrei dire che Baglivo è un uomo con i piedi per terra, il cuore vagabondo e la testa fra le nuvole. I suoi piedi infatti sono ben piantati in questa nostra terra salentina, essendo egli per temperamento uomo concreto e aduso ad un realismo del fare, che gli viene dagli insegnamenti ricevuti dalla nostra gente contadina in mezzo alla quale  è cresciuto; ma il suo cuore  va sempre ramengo dietro nuovi progetti, e anche quando è qua a Tricase, Fernando viaggia con la fantasia, sognando di tornare in uno dei posti meravigliosi ai confini del mondo che ha visitato, soprattutto l’India che esercita su di lui un fascino particolare ; e la sua testa è sempre immersa fra le nuvole, fisiche e metafisiche: quelle vere che vede trascorrere dal finestrino dell’aereo durante i suoi viaggi,  e quelle metaforiche che alimentano la sua creatività di uomo cartoon,  che sembra a volte appena uscito da un fumetto.

alba salentina (ph Fernando Baglivo)
alba salentina (ph Fernando Baglivo)

 

Ha visitato mezzo mondo e vive ogni giorno come se dovesse partire il giorno dopo. “Sono un viaggiatore e un navigatore, e ogni giorno scopro qualche nuova regione dentro la mia anima”, sembra dire Fernando, con Gibran. Ma i viaggi, cui è abituato fin da quando era un ragazzino, hanno rappresentato anche la sua personale “Bildungsroman” ossia, proprio come nei romanzi di formazione della narrativa tedesca (penso, su tutti, a quel capolavoro che è Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister, di Goethe), il suo personale cammino di formazione verso l’età adulta e la piena maturazione e consapevolezza.

Vive in uno splendido eremo nella campagna tricasina, sempre aperto ad amici, sodali, intellettuali. Nella sua magione, un’antica casa di pastori sapientemente ristrutturata, sono passati tanti visitatori non solo salentini. Baglivo infatti ha ospitato tanti  artisti, celebri attori, registi e scrittori, anche star holliwoodiane,  tutti irrimediabilmente innamorati di questo estremo lembo di terra madre padre Salento, e Fernando a far loro da mentore fra le contrade e i recessi, le coste aspre e il  mare, i castelli e i palazzi e tutte le bellezze culturali della penisola salentina.

alba salentina (ph Fernando Baglivo)
alba salentina (ph Fernando Baglivo)

Alcune di queste celebrità hanno acquistato casa qui in provincia di Lecce,che hanno eletto a proprio buen retiro, anche per il tramite di Fernando. Il quale però,  fedele al suo dovere di ospitalità,  non ama fare i nomi dei propri amici internazionali per non violarne la privacy, venendo così meno al tacito vincolo di amicale discrezione. I suoi ospiti hanno potuto apprezzare le delizie della nostra cucina, i colori del nostro paesaggio e la bellezza della nostra architettura rurale. Fernando è molto attento alla salvaguardia dei luoghi e più volte si è rivolto anche con toni polemici a ingegneri, architetti, maestranze, amministratori locali, quando si è corso il rischio che questi deturpassero con i loro interventi invasivi la peculiarità degli edifici storici dei nostri centri.

alba salentina (ph Fernando Baglivo)
alba salentina (ph Fernando Baglivo)

 

Egli ha sollecitato gli addetti ai lavori ad accostarsi con rispetto e con religioso scrupolo a queste antiche dimore, ponendosi in sacro ascolto, cercando di intervenire in maniera semplice e conservativa, nel rispetto dei luoghi che è anche rispetto di se  stessi. “E’ sufficiente tutelare quello che abbiamo”,  ha scritto Fernando, “nella nostra meravigliosa e ricca terra e costruire case di qualità con un atteggiamento d’amore e di umile ascolto dello spirito dei luoghi.

In questo modo si instaura una dialogo con la natura circostante, dando vita a presenze architettoniche che non cessano di essere parte integrante del corpo del mondo, nella consapevolezza che l’identità degli individui si costruisce nell’interazione fra interiorità e mondo esterno e che l’inospitalità e la disumanità dei luoghi finisce per lasciare segni preoccupanti sull’identità umana, innescando una spirale di reciproca insensibilità fra essere umano e mondo, con conseguenze preoccupanti quanto devastanti”.

alba salentina (ph Fernando Baglivo)
alba salentina (ph Fernando Baglivo)

 

Quante volte egli ha girato in lungo e in  largo il Salento in compagnia del suo caro amico Florio Santini (un altro grande viaggiatore) potendo approfondire e mettere in pratica queste sue riflessioni. Fernando ha sposato in tempi non sospetti quello che oggi è il concetto di “glocal”, ossia di locale e globale fusi insieme, secondo la nota sentenza “parla del tuo paese e sii universale”.

La sua casa è stata recentemente censita nella pubblicazione “Abitare in Salento” di Patrizia Piccioli e Cristina Fiorentini ( Idea books editrice). Ma la prima grande pubblicazione è stata fatta oltre 10 anni fa sulla rivista “Petra”, che ora si chiama “Casa antica” (Trentini editore-Ferrara). Per la prima volta veniva pubblicata  una masseria ristrutturata salentina. Da allora è scoppiato tutto un interesse per il recupero di queste antiche dimore.  Ed è nato anche tanto lavoro. “La Regione Puglia dovrebbe darmi un premio per questo” dice scherzando Fernando.

alba salentina (ph Fernando Baglivo)
alba salentina (ph Fernando Baglivo)

 

Ogni mattina immancabilmente, estate ed inverno, autunno e primavera, si immerge nelle acque di Marina Serra per un bagno rilassante e rigeneratore. Ci vuole preparazione certo per poter affrontare un’esperienza del genere, soprattutto d’inverno, vincendo i rigori del freddo durante le giornate della merla. Ma una volta che il fisico si è abituato, Fernando garantisce che non si riesca più a farne a meno, e infatti ormai un nutrito drappello di suoi fedelissimi si immerge con lui ogni mattina e del fenomeno hanno iniziato ad interessarsi i media locali. Fernando ama immergersi all’alba e nelle risposte date ci spiega il perché.

alba salentina (ph Fernando Baglivo)
alba salentina (ph Fernando Baglivo)

La profonda curiosità che lo anima, lo ha portato a fare ogni tipo di esperienza, anche quelle più estreme di meditazione e pratiche orientali, ad incontrare tante persone da un capo all’altro del mondo.

Baglivo vive di relazioni, incontri, scambi proficui e arricchenti, e, nella sua sete di conoscenza, sembra che egli vada incontro alla gente rovesciando la nota lezione filosofica  gnosce te ipsum, a vantaggio dell’insegnamento di Gibran “Mi dicono ‘se tu conoscessi te stesso conosceresti tutti gli uomini’. E io dico ‘solo quando avrò cercato tutti gli uomini conoscerò me stesso’”.

alba salentina (ph Fernando Baglivo)
alba salentina (ph Fernando Baglivo)

 

Baglivo è un uomo libero, un uomo certo non pacificato ma rasserenato, se così posso dire, consapevole di essere in marcia, che la sua ricerca deve sempre continuare, ma certo affrancato da qualsiasi tipo di repressione, condizionamento, interesse materiale, calcolo. La sua, una libertà piena, ma che oggi vuole vivere e godere pur sapendo che bastano pochi sonagli aggiunti al suo berretto della libertà per farne il berretto della follia. Questo è un rischio che è disposto a correre, posto che già pazzo, nella gretta mentalità dei superficiali, è sempre colui che è diverso, che fuoriesce dalla media, che si distingue e si distacca dal luogo comune.

Una intensa parabola umana la sua, nella quale una parte importante hanno avuto pure le donne, quelle che ha amato, dalle quali è stato amato, e quelle che ama ancora. Mi confessa di scrivere anche poesie d’amore che però non pubblicherà mai. Trovo tutto dentro di me!” mi dice Fernando, “ i viaggi in India, i viaggi nell’ Altrove aiutano ad andare dentro di Noi, a trovare quello che già c’è, perché dentro  c’è già tutto!”!

E così lo lascio sul far della sera. Quando esco da casa sua, so che a breve egli si siederà di fronte al suo grande camino con il suo maestro sufi   Mevlana Jelaluddin Rumi e insieme discetteranno intorno al “Fuoco dell’amore divino”. E con questo, che è forse l’autore più amato dal mio amico, mi piace concludere il nostro incontro:

Ho bisogno d’un amante che,
ogni qual volta si levi, 
produca finimondi di fuoco 
da ogni parte del mondo! 
Voglio un cuore come inferno 
che soffochi il fuoco dell’inferno 
sconvolga duecento mari 
e non rifugga dall’onde! 
Un Amante che avvolga i cieli 
come lini attorno alla mano 
e appenda,come lampadario, 
il Cero dell’Eternità,entri in 
lotta come un leone, 
valente come Leviathan, 
non lasci nulla che se stesso, 
e con se stesso anche combatta, 
e, strappati con la sua luce i 
settecento veli del cuore, 
dal suo trono eccelso scenda 
il grido di richiamo sul mondo; 
e,quando,dal settimo mare si volgerà 
ai monti misteriosi da 
quell’oceano lontano spanda 
perle in seno alla polvere!

 

alba salentina (ph Fernando Baglivo)
alba salentina (ph Fernando Baglivo)

Il Salento in ventiquattro immagini di Abraham Louis Rodolphe Ducros (3/6): LECCE

di Armando Polito

Zuil op het plein van Lecce (Colonna nella piazza di Lecce)

È l’unica tavola dedicata a Lecce e, se la rappresentazione della colonna è fedele (come si vede nelle tavole di epoca successiva di cui ho avuto occasione di occuparmi in https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/08/04/lecce-plagiata/), lo stesso non può dirsi del Sedile con i suoi cinque  archetti superiori invece di tre (come si vede nelle tavole appena indicate e come potrà agevolmente vedere il lettore non leccese nell’immagine che segue, mostrante lo stato attuale del luogo).

immagine tratta da http://nessunapretesa.com/tag/lecce/#jp-carousel-28882
immagine tratta da http://nessunapretesa.com/tag/lecce/#jp-carousel-28882

 

Per la prima parte (BRINDISI): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/30/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-16-brindisi/

Per la seconda parte (GALLIPOLI): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/12/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-26-gallipoli/

Per la quarta parte (MANDURIA): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/07/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-46-manduria/

Per la quinta parte (NARDÒ): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/11/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-56-nardo/

Per la sesta parte (TARANTO): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/24/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-66-taranto/

 

22 novembre. Santa Cecilia e le pèttule a Taranto

 

Piccoli e semplici gesti… grandi  e genuini ricordi… ed è festa!

Le pèttuli, il sapore della mia terra

 

di Daniela Lucaselli

Il 22 novembre ricorre, nell’anno liturgico, una delle feste più popolari della tradizione, santa Cecilia. Per Taranto e i tarantini è un giorno speciale in quanto questa ricorrenza segna l’inizio dell’Avvento, l’alba dei festeggiamenti natalizi, in netto anticipo rispetto a tutti gli altri paesi in cui si respira aria di festa solo dall’Immacolata o da Santa Lucia.

Il perpetuarsi di antiche usanze rende vivo il legame col passato e, nel caso specifico,  le festività natalizie si arricchiscono di un profondo significato, che supera le barriere dello sfrenato consumismo di una società che sembra non credere più negli antichi valori.

Una magica atmosfera avvolge, in una suggestiva sinergia musicale, le tradizioni sia religiose che pagane. Non è ancora l’alba quando, per le strada di Taranto, si ode, da tempi ormai remoti, la Pastorale natalizia. Ed è così che nasce questa tradizione. Le bande musicali locali, in particolare il Complesso Bandistico Lemma, città di Taranto, svegliano gli abitanti dei quartieri della città,  diffondendo, nella nebbia mattutina, la soave melodia, per onorare Santa Cecilia, protettrice dei musicisti. I primi ad alzarsi sono i bambini che, incuriositi, corrono vicino ai vetri della finestra che affaccia sulla strada e, con la mano, frettolosamente, puliscono i vetri appannati. Dinanzi ai loro occhi, i musicanti infreddoliti, orgogliosi protagonisti di questo momento, augurano un buon Natale. Si vanno a rinfilare sotto le coperte, al dolce tepore del letto, chiudono gli occhi e continuano ad ascoltare, in un indimenticabile dormiveglia, le note della banda. Rimangono in attesa del momento in cui sentiranno l’odore di olio fritto…

Secondo la tradizione, infatti,  le mamme preparano, al passaggio dei suonatori, le pettole. Le famose “pastorali” sono state composte da maestri musicisti tarantini, come Carlo Carducci, Domenico Colucci, Giovanni Ippolito, Giacomo Lacerenza, , che si sono  ispirati ad antiche tradizioni, che affondano le loro radici nelle melodie suonate dai pastori d’Abruzzo che, durante la transumanza, scendevano nella nostra terra, con il loro gregge.

Muniti di zampogne, ciaramelle e cornamuse  percorrevano i vicoli della città, regalando le loro dolci melodie in cambio di cibo. I tarantini donavano ai pastori delle frittelle di pasta di pane, un prodotto povero e  semplice, ma,

Castellino ieri, oggi e domani

di Armando Polito

Un primo gruppo di testimonianze del toponimo risale al 1460. Cito da Visite pastorali in diocesi di Nardò (1452-1501) di C. G. Centonze, a. De Lorenzis e N. Caputo, Congedo editore, Galatina, 1988, pg. 163: Item habet in loco nominato Castellino, in feudo Pampigliani, terrarum ortos tres parum plus vel minus… (Parimenti possiede in località chiamata Castellino, nel feudo di Pompiliano, più o meno tre orti di terra…); pg. 168: Item habet dicta ecclesia in feudo Pampiliani, in loco nominato de Castellina, ortum vinearum unum desertarum… (Parimenti la chiesa citata possiede nel feudo di Pompiliano, in località chiamata Castellino, un orto di vigne abbandonate)].

 

Un secondo gruppo è del 1500. Cito dallo stesso volume di prima, p. 195: Item in feudo Pampiglani, in loco de Castellino, terrarum ortos tres et medium… (Parimenti nel feudo di Pompiliano, in località Castellino, tre orti e mezzo di terra…); pg. 196: Item in Castellino de terra orte quactro… (Parimenti   in   Castellino   4  orti  di   terra); pg. 241: Item in feudo Pampligani in loco de Castillino de terra orto uno et per quanto è servitutis decime, iuxta le terre et vigne di Angelo Pollichella et iuxta le olive dotali de Paduano Druci de Sancto Petro et altri confini… (Parimenti nel feudo di Pompiliano in località Castellino un orto di terra completamente soggetto a decima, presso le terre e le vigne di Angelo Pollichella e l’oliveto dotale di Padovano Druci di San Pietro e altri confini …).

 

La testimonianza che segue è citata da Le pergamene del monastero di S. Chiara di Nardò (1292-1508) di Michela Pastore, Società di storia patria per la Puglia, Bari, 1981, p. 31: l’abate Angelo Antonio Nociglia, procuratore del Capitolo di Nardò, fa redigere in forma pubblica l’istrumento (del 1621, febbraio 20, Nardò) della  vendita che Giulio Cesare Cardami, di Nardò, fa agli abati Fabrizio Costa e Giovanni Tommaso Bove, procuratore del Capitolo, di 11 ducati annui sui primi frutti di un oliveto in feudo di Pompigliano, in località Castellino, per soddisfare un legato di 125 ducati che suo fratello Francesco Maria aveva fatto pro anima allo stesso Capitolo.

Castellino in tempi più vicini a noi è salito alla ribalta della cronaca per la presenza (poco gradita) di una discarica definitivamente (almeno, così pare) chiusa nel 2006 e che ancora attende, dopo gli improcrastinabili accertamenti innanzitutto delle responsabilità, di essere messa in sicurezza.

fotogramma tratto da un servizio di una tv locale datato 1991
fotogramma tratto da un servizio di una tv locale datato 1991
immagine tratta da http://www.leccesette.it/dettaglio.asp?id_dett=12598&id_rub=71
immagine tratta da http://www.leccesette.it/dettaglio.asp?id_dett=12598&id_rub=71

Solo un imbecille come me si può augurare che non venga praticato l’inverecondo giochetto del palleggio delle responsabilità, volgarmente detto dello scaricabarile, tanto più che si tratta di una discarica …

Ancora più imbecille a non rassegnarmi e ad augurarmi che non avvenga (anzi, che non continui a verificarsi) ciò che Nostrarmandus (probabilmente concorrente di un altro quasi omofono più famoso e del quale non dico chiaramente il nome per non fargli pubblicità …) già aveva profetizzato in quattro esametri che, contrariamente al solito, non hanno bisogno di interpretazione (c’è il toponimo e pure il demonimo: più chiaro di così il veggente non poteva essere). Per la gioia dei miei concittadini li riporto con la relativa traduzione.

Ecce viator se patefacit vinea felix

in loco vulgo quem Castellinum appellant.

Tempore purgamen superabit omnia damno

Neretinorum et fatum vincet crudele.

Ecco, viandante, una vigna felice si mostra nel luogo che comunemente chiamano Castellino. Col tempo la spazzatura prevarrà su tutto con danno dei Neretini e un destino crudele vincerà.

Pietro Marti e Manduria

Marti frontespizio1

MANDURIA, PIETRO MARTI E L’ISTRUZIONE PUBBLICA

                                  IN UN LIBRO DI ERMANNO INGUSCIO

 

Un “filo rosso” lega la cultura cittadina di Manduria all’alfiere del Salento Pietro Marti, intellettuale, giornalista e cultore di storia patria del primo Novecento. Il prof. Marti, infatti,noto in tutt’ Italia in campo critico e culturale anche per aver pubblicato Origine e fortuna della Coltura salentina (1893), era giunto a Manduria l’11 ottobre 1921, chiamato dal sindaco dell’epoca, Giovanni Errico, a dirigere l’istituenda Scuola Tecnica Superiore, divenuto presto un vero gioiello di efficienza scolastica in tutta la Terra d’Otranto.

L’odierna Amministrazione Comunale, guidata da Roberto Massafra, con il supporto della Civica Biblioteca “Gatti”, ha voluto riscoprire la figura di Pietro Marti, giovedì 19 novembre 2015 (Sala Consiliare del Comune, h. 17,00), presentando al pubblico una monografia di Ermanno Inguscio dal titolo Pietro Marti (1863-1933) Cultura e Giornalismo in Terra d’Otranto (2013).

L’evento ha innescato un grande fermento culturale nel centro ionico, anche per merito della Società di Storia Patria per la Puglia, sezione di Oria, dell’Archeoclub d’Italia (Presidente Sergio De Cillis, sezione di Manduria), dell’Associazione Pernix Apulia di Eugenio Selvaggi, della UNITRE cittadina e della Biblioteca “Gatti” (diretta da Carmela Greco). Il folto uditorio ha apprezzato la dotta relazione sulla pubblicazione di Inguscio, affidata alle considerazioni di merito dello studioso Cosimo Pio Bentivoglio.

Quattro le parti del libro ampiamente illustrate ai tanti uditori presenti: Pietro Marti, uomo di cultura; lo storico-erudito e il biografo; il direttore del giornale La Voce del Salento; il cultore d’Arte e di Archeologia. L’Istituzione Comunale di Manduria, dunque, ieri come oggi, ha saputo affidare le sorti della pubblica istruzione dei giovani a intellettuali di tutto prestigio e di eccellente professionalità e ne conserva fedele ricordo.

Sottoposto ben presto alla veemenza del furore fascista cittadino, il preside (oggi dirigente) Pietro Marti, seppe tenere alta la finalità della Istituzione scolastica, difendendo con l’operosità e l’esempio personale la stessa mission della scuola, che dichiarava, sul foglio a stampa Per la verità, dev’essere sacra e superiore a tutte le passioni, personali e politiche. Non è stata certo una meteora, dunque, la permanenza di Pietro Marti a Manduria, durata solo dal 1921 al 1924.

Una sua figlia, Emma, docente all’epoca a San Pancrazio Salentino, era poi andata in sposa a Paolo Dimitri, anch’egli uomo di scuola. Oggi, l’ottuagenario Elio, che ha chiuso da par suo la serata culturale a Manduria, ancora è felice testimone, nell’affetto che lo legava al nonno, della passione storico-culturale che lo contraddistingueva. Quanti opuscoli venivano dati puntualmente in regalo al nipotino ad ogni loro incontro. Regali e cultura permeati da affetti. Ma Elio Dimitri, oggi Presidente onorario della Biblioteca Civica “Gatti”, è lo studioso autore della Bibliografia di Terra d’Otranto dal 1550 al 2003, strumento storiografico fondamentale per ogni ricerca storica sul Salento.

Se a Pietro Marti, suo nonno per parte di madre, con la produzione delle quaranta monografie e la dozzina di giornali (per gran parte fondati e diretti), spetta parte di quell’immortalità che, a dirla con il filosofo francese Jacques Derrida, solo la scrittura può assicurare, all’impegno di  studioso di Dimitri spetta il primato di quel “filo rosso” che lega la città di Manduria all’amore per la cultura delle arti e del bello, che Pietro Marti aveva insegnato nella Penisola e per tutte le contrade del Salento. Manduria e Pietro Marti, uno storico binomio di elevazione civico-sociale, ancora oggi valido per chi sa apprezzare l’insegnamento della storia, maestra di vita.

E’un po’ ciò che lo storico Ermanno Inguscio, nella sua monografia sull’illustre giornalista leccese, presentata a Manduria,  ha per un verso  “costruito un piedistallo su cui ora posa tranquilla la statua ideale di Pietro Marti”, come annotato da Alessandro Laporta, e dall’altro ha inteso tramandare un messaggio di civica passione alle generazioni del mondo globalizzato.

Da Marittima: Vicenzu e il suo asinello

asino

di Rocco Boccadamo

 

Era conosciuto e indicato da tutti come Vicenzu ‘u cuzzune. E ciò, verosimilmente, per via delle sue caratteristiche fisiche: bassissima statura, grassottello, schiena curva, quasi ripiegato su se stesso, mantello scuro indosso pressoché in tutte le stagioni, cappellaccio di analoga tonalità cromatica sul capo e schiacciato sulla fronte, immancabile mezzo sigaro toscano in bocca.

Il buon uomo conferiva, insomma, l’idea –  la raffigurazione in tal senso era assolutamente benevola e priva di pensieri e intenzioni dispregiativi – di una grossa lumaca a striature alternate tra il marrone e il beige, giustappunto di un cuzzune, come, da queste parti, è comunemente chiamato il mite, lento e anche gustoso, se preparato, cucinato e cotto a puntino, animaletto in discorso.

Di poche parole, semplice e umile nei rapporti con i compaesani.

Per i suoi spostamenti, finalizzati all’attività lavorativa come anche a carattere generale, Vicenzu aveva e utilizzava un unico “mezzo” che gli rimase accanto, ininterrottamente, per lunghi decenni, cioè a dire un asinello. Bestia, oltre che estremamente docile, anch’essa di modesta stazza: con un pizzico di fantasia, proiettando la strana, stravagante e improbabile sequenza dell’animale e del suo padrone sovrapposti l’uno all’altro, si sarebbe ottenuto un perfetto combacio.

Ritornando alle azioni concrete, il ciuchino faceva fronte ai servigi richiestigli dal proprietario – utente con efficienza e puntualità, nonostante, talvolta, i fastidi e le interferenze frapposti alla coppia cavalcatura/cavaliere da noi ragazzi discoletti, servendoci di sottili bastoni, ricavati da rami o spuntoni d’ulivo, che impugnavamo, seguendo da vicino la lenta andatura del “mezzo”, per accarezzare (si fa per dire), a intervalli, un particolare punto delle terga del mansueto, utile e innocente quadrupede.

Però, a siffatte sollecitazioni o intrusioni, la povera bestia non poteva non maturare una reazione, quanto meno passava a scalciare, la qual cosa minava il già incerto equilibrio di Vicenzu sulla groppa dell’asino.

Vacillava l’uomo, un po’ impacciato dal particolare di non poter girarsi verso l’indietro e così affrontare, con uno sguardo diretto e severo e abbinate parole di rimprovero, i gruppuscoli di molestatori.

Finché, noi non ci stancavamo, o meglio annoiavamo, delle deprecabili “torture” e lasciavamo l’asino e il trasportato a proseguire in santa pace il loro percorso. Purtroppo, le “attenzioni” all’indirizzo di Vicenzu –  opera di ragazzini, è vero, e però, ugualmente, simil teppistiche – non si esaurivano lì, ma erano, al contrario, replicate alla prima occasione che veniva a profilarsi successivamente.

Non conosco con precisione i termini della stagione esistenziale dell’animale di cui narro, giacché, dopo un po’ di anni dalle prodezze cui contribuivo, partii dal paesello per ragioni di lavoro.

Invece, so perfettamente che il compaesano Vicenzu ‘u cuzzune ebbe vita lunga e, quindi, agio di trascorrere una discreta vecchiaia in semplicità, anche dopo la rinuncia a recarsi al lavoro e a sbrigare altre varie incombenze a cavallo del proprio quadrupede.

°    °   °

E oggi, noi tutti, da giovani o nella media età o da anziani, come siamo combinati a proposito di mezzi di trasporto?

Non si riscontra più, ovviamente, la minima traccia dell’esercizio e/o di pratiche di spostamenti del genere dell’antico personaggio marittimese.

Come pure, si deve registrare che ciascuno, per le esigenze personali o famigliari, si determina a cambiare, nel corso degli anni, assai più di un solo mezzo di trasporto, indifferentemente, vuoi che si tratti di bicicletta, o moto o autovettura.

Fra nuovi acquisti e sostituzioni di veicoli vecchi con altrettanti nuovi, si anima un mercato settoriale ampio, interessante, vivace, con fatturati ingenti; e di riflesso, si dà vita e voce a un battage pubblicitario quasi da primato, con annunci, profferte e sollecitazioni in ogni ora del giorno e della notte.

Siamo incalzati fino alla noia e al fastidio, con carrellate di prospettazioni di miracoli e opportunità assolutamente da non perdere. Appena per citare qualche chicca, utilitarie mirabolanti a soli 8.950 euro o “salotti” di media cilindrata ad appena 19.800 euro o, montando più su come classe, capolavori al corrispettivo di 23.500 euro.

Cifre, chiaramente, di tutto riguardo se non ingenti, ma, nel contesto in riferimento, propinate a guisa di “leggeri” sacchi di noccioline.

 

Le pasquinate di Nardò

di Armando Polito

Non si tratta di manifestazioni minori che avvenivano al tempo della Pasqua o, visto l’apparente diminutivo, della Pasquetta …

Forse non tutti sanno che a Roma la statua di Pasquino fu dal XVI al XIX secolo il supporto sul quale i cittadini puntualmente appendevano durante la notte foglietti di satira contro i potenti.

tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Pasquino#/media/File:Pasquino.jpg
tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Pasquino#/media/File:Pasquino.jpg

Il 1° novembre del 1632 un fenomeno simile avvenne a Nardò e in un colpo solo l’intero governo della città venne messo alla berlina e per l’occasione vennero scomodate, addirittura, le sacre scritture (in alcuni casi vere e proprie citazioni adattate, in altri, a mio avviso, ne è ravvisabile l’eco), il che fa pensare che gli autori fossero persone di un certo livello culturale, direi gli intellettuali non allineati dell’epoca. Non mi spingo a pensare che la scelta di quel giorno sia stata motivata dall’intento di celebrare all’incontrario quelli che, se non si sentono santi, poco ci manca, anche perché dovrei immaginare a quale tentazione di issare il cartello il giorno dopo, con un sentimento facilmente immaginabile, i Neretini  abbiano dovuto resistere …

lo sfondo è un dettaglio della carta del Blaeu
lo sfondo è un dettaglio della carta del Blaeu

I brani che mi accingo a presentare separatamente  in formato immagine con la mia traduzione della parte in latino evidenziata in rosso nell’originale e, quando è il caso, con le mie osservazioni che non si limitano solo al reperimento, quando ci son riuscito, delle fonti, sono tratti dal Libro d’annali de successi accatuti nella città di Nardò notati da D. Gio. Battista Biscozzo di detta Città, una cronaca che copre gli anni dal 1632 al 1656. Il manoscritto autografo è andato perduto ma ne restano parecchie copie. Di una di esse curò nel 1936  la pubblicazione Nicola Vacca in Rinascenza salentina, anno IV, n. 4 e di questa mi sono servito (http://www.emerotecadigitalesalentina.it/-annali-de-successi-citta-Nardo).

1)

.

A nulla vale oltre, se non ad essere sbattuto fuori; ma ha buoi e pecore, si dedichi a loro.

Matteo, V, 13: Si sal evanuerit ad nihil valet ultra, nisi ut mittatur foras, et conculcetur ab hominibus (Se il sale di è disperso a nulla vale oltre se non che sia buttato fuori e disprezzato dagli uomini).

Da notare sul piano linguistico nichilum (per nihilum, variante di nihil) con l’esito ihi>-ichi- delle voci italiane annichilire e nichilismo, nichilità e nichilista.

Il Patrone dovrebbe essere il duca Giulio II Antonio Acquaviva, marito di Caterina, 6a duchessa di Nardò (la Domina citata più avanti nel brano n. 10).

2) 

ì

Il vino e le donne donne mi fecero traviare.

Ecclesiaste, XIX, 2: Vinum et mulieres apostatare faciunt sensatos (Il vino e le donne traviano i saggi).

3)

 

Non ricordare, o Signore, i peccati della mia gioventù e le mie ignoranze.

Salmi, XXV,7: Peccata iuventutis meae et delicta mea ne memineris; secundum misericordiam tuam memento mei tu, propter bonitatem tuam, Domine (Non ricordarti dei peccati della mia gioventù e dei miei delitti; Signore, secondo la tua misericordia, per la tua bontà ricordati di me)

Il ne memine vis che si legge (memine in latino non esiste e, oltretutto, l’intera locuzione non significherebbe nulla) è un errore per ne memineris. A questo punto, tenendo conto della dichiarazione che il Vacca fa nella prefazione  (Inutile dire che ho conservato fedelmente il dettato della copia in mio possesso, senza aggiungere né togliere) non vedo altra spiegazione se non una delle tre che seguono: 1) lettura errata da parte del copista del manoscritto originale o della sua copia da cui ha trascritto; 2) errore del Biscozzi nel leggere e trascrivere il testo del cartello 3) errore nel testo originale apposto sul cartello. L’ideale sarebbe fare la collazione delle copie per quanto riguarda il punto incriminato, ma la prima ipotesi mi pare la più attendibile perché l’errore non sarebbe stato ammissibile, soprattutto in quei tempi, in un abate e sarebbe strano che fosse quasi l’unico a comparire nel cartello.

4)

Guardatevi dai segnati da me e fate attenzione pure agli altri inganni.

Il testo pone seri problemi e la traduzione che ho fornito suppone l’emendamento di et alinque dolosa erve me in et aliqua dolosa cavete. La prima parte (cavete a signatis meis) è, al pari di effuge quem, signo turpi natura notavit (evita colui che la natura ha contraddistinto con un segno vergognoso),  un proverbio popolare di probabile origine medioevale che pretende di sintetizzare un passo della Bibbia abbastanza strano perché contrastante con lo spirito cristiano e fautore di una concezione emarginante del “diverso”, in linea col principio classico, altrettanto discutibile, per me idiota, della καλοκἀγαθία (la perfezione del corpo si accompagnerebbe a quella dell’animo e viceversa) e che nei nostri tempi ha trovato la sua applicazione più perversa nel famigerato concetto di razza pura e nell’attuale, dominante civiltà dell’immagine. Ecco il passo del Levitico (XXI, 16) da cui nasce questa vergognosa concezione: “Loquere ad Aaron: “Homo de semine tuo in generationibus suis, qui habuerit maculam, non accedet, ut offerat panem Dei sui; quia quicumque habuerit maculam, non accedet: si caecus fuerit vel claudus, si mutilo naso vel deformis, si fracto pede vel manu, si gibbus, si pusillus, si albuginem habens in oculo, si iugem scabiem, si impetiginem in corpore vel contritos testiculos. Omnis, qui habuerit maculam de semine Aaron sacerdotis, non accedet offerre incensa Domini nec panem Dei sui. Vescetur tamen pane Dei sui de sanctissimis et de sanctis. Sed ad velum non ingrediatur nec accedat ad altare, quia maculam habet et contaminare non debet sanctuaria mea, quia ego Dominus, qui sanctifico ea”” (“Dì ad Aronne: “L’uomo della tua stirpe nei suoi discendenti, che sbbia una macchia non si accosterà ad offrire il pane del suo Dio, poiché chiunque abbia una macchia non si accosterà: se sarà cieco o zoppo, se col naso mutilo o deforme, se col piede o la mano rotti, se gobbo,se piccolino, se ha gli occhi col leucoma, nel corpo la scabbia diffusa, l’impetigine o i testicoli schiacciati. Chiunque della stirpe del sacerdote Aronne che abbia un difetto non si accosterà ad offrire l’incenso dl Signore né il pane del suo Dio. Tuttavia si nutrirà del pane del suo Dio, delle cose santissime e delle sante. Ma non si accosti al velo né acceda all’altare, poiché ha una macchia e non deve contaminare i miei luoghi santi poiché io sono il Signore che li santifico””).

5)

Mi hanno circondato molti cani.

Salmi, XXII, 17: Quoniam circumdederunt me canes multi, concilium malignantium obsedit me (Poiché mi hanno circondato molti cani, l’assemblea dei calunniatori mi assedia).

6)

 

Il ricco e i poveri parlarono e dissero come qui si …

Anche qui quasi sicuramente, c’è un’eco biblica che, tuttavia, non sono riuscito ad individuare.

 

7)

La mia virtù venne a mancare nella vecchiaia.

Salmi, LXXI, 9: Ne proicias me in tempore senectutis; cum defecerit virtus mea, ne derelinquas me (Non farmi giungere alla vecchiaia: e quando sarà venuta meno la mia virtù non abbandonarmi).

 

8) 

Destinato ad essere un arretra, Satana, e non tenterai il Signore Dio tuo.

Marco, VIII, 33: Qui conversus et videns discipulos suos comminatus est Petro et dicit: “ Vade retro me, Satana, quoniam non sapis, quae Dei sunt, sed quae sunt hominum” (Egli giratosi e vedendo i suoi discepoli minacciò Pietro e dice: “Vai dietro me, Satana, poiché non sai quelle cose che sono di Dio ma quelle che sono degli uomini”).

Matteo, IV, 7: Ait illi Iesus: “ Rursum scriptum est: “Non tentabis Dominum Deum tuum” ” (Ma a lui Gesù: “Di nuovo fu scritto: “Non tenterai il Signore Dio tuo””).

Per Patrone vedi il brano n. 1.

9)

Vidi un empio esaltato a dismisura ed elevato al di sopra di tutto, come un cedro del Libano, e passai ed ecco non c’era, lo cercai e non fu trovato il suo posto.

Da notare: tranxivit errore per transivi e quaesivit per quaesivi; tutto il testo è, con qualche variante, da Salmi, XXXV, 35-36: Vidi impium superexaltatum et elevatum sicut cedrum virentem; et transivi, et ecce non erat, et quaesivi eum, et non est inventus (Vidi un empio esaltato a dismisura ed elevato al di sopra di tutto come un cedro rigoglioso; e passai ed ecco, non c’era, e lo cercai e non è stato trovato)].

Per Patrone vedi il brano n. 1.

10) 

Mi divora l’amore della mia padrona.

Da notare Domine per Dominae, mentre il dittongo si conserva in meae.

Anche qui ho il sospetto che si tratti di un adattamento biblico con concedit errore per comedit e sostituzione dI domus con Domine: Salmi, LXIX, 10: Quoniam zelus domus tuae comedit me (Poiché mi divora l’amore della tua casa]. Non sapremo mai se lo zelus è una forma di rispetto del potere della duchessa o un’illazione su qualcosa di più intimo …  

Per Patrone e per Domine vedi il brano n. 1.

11) 

Credo che l’errata lettura del copista (Gioculus potrebbe pure essere inteso per ioculus=scherzetto ma scandaliza è errore per scandalizat, mentre et ne eum non significa nulla) debba essere corretta sulla scorta del vangelo di Matteo XVIII, 9: et si oculus tuus scandalizat te erue eum … (e, se il tuo occhio è per te motivo di scandalo, strappalo …).

12)

Abbi cura di te stesso, in quanto ti hanno lasciato solo.

Luca,IV, 23: Et ait illis: “ Utique dicetis mihi hanc similitudinem: “Medice, cura te ipsum …”” (E disse loro: ” Senz’altro mi direte questa similitudine: “Medico, cura te stesso …””.

Marco, XV, 33-37: Et hora nona exclamavit Iesus voce magna: “ Heloi, Heloi, lema sabacthani? ”, quod est interpretatum: “ Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquisti me? ” (E a mezzogiorno Gesù ad alta voce esclamò: ““ Heloi, Heloi, lema sabacthani? ”, chwe significa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”).

Da notare relinquerunt (che s’incontra pure in testi a stampa dei secoli scorsi) per il classico reliquerunt.

13) 

Conosci te stesso, come, Lucifero, cadesti quando al mattino sorgevi.

La prima parte (nosce te ipsum) è la traduzione latina del greco Γνῶθι σεαυτόν (conosci te stesso); Porfirio (III-IV secolo) nel suo Sul conosci te stesso (di cui ci restano solo tre frammenti) ci ha tramandato che nell’opera di Aristotele Sulla filosofia (anche di questa ci restano solo frammenti), si dice che tale iscrizione campeggiava sul tempio di Apollo a Delfi quando esso venne ricostruito in pietra.

Da quomodo ad oriebaris è adattamento da Isaia, XIV, 12-14: Quomodo cecidisti de caelo, Lucifer, fili aurorae? (Come. Lucifero, figlio dell’aurora, sei caduto dal cielo?)].

14)

Mi venne meno la lingua in gola.

Sembra un adattamento parziale (è la parte evidenziata in rosso) di Salmi, XXI: Aruit tamquam testa palatus meus, lingua mea adhaesit faucibus meis et in pulverem mortis deduxisti me (Arse come una pentola il mio palato, la mia lingua si è incollata al palato e mi hai ridotto nella polvere della morte).

15)

Un uomo essendo in onore non lo comprese, fu paragonato alle stupide bestie da soma e divenne simile a loro.

È, con sostituzione, certamente più offensiva, di insipientibus (stupide) con quae pereunt (che muoiono), da Salmi, XLIX, 21 Homo, cum in honore esset, non intellexit; comparatus est iumentis, quae pereunt, et similis factus est illis (L’uomo, essendo in onore, non lo comprese; fu paragonato alle bestie da soma, che muoiono e divenne simile a loro).

 

 

 

 

 

 

Le innumerevoli virtù della patata americana

Le innumerevoli virtù della patata americana

I benefici della patata americana, o batata, sono ormai riconosciuti dalla scienza e dalla medicina. Viene usata per prevenire il diabete e altre patologie, essendo ricca di vitamine A, C e B6

 

“Una patata al giorno toglie il medico di torno”. Non sarà proprio così, ma la batata, o più comunemente detta ‘patata americana’, è sicuramente un alimento sul quale il mondo scientifico è concorde nell’affermare che aiuti a prevenire diverse patologie, tra tutti il diabete, se integrata nell’alimentazione quotidiana. In Italia esiste una lunga tradizione legata a questo alimento: nel cuore della bassa padovana, ad Anguillara Veneta, la batata viene coltivata da oltre 100 anni e negli ultimi tempi si è addirittura fregiata del marchio di qualità De.Co.

Scoperta da Colombo già nei primi viaggi nelle Indie, la patata americana rimane per molto tempo…

 

 

Leggi qui l’articolo:

http://www.teatronaturale.it/tracce/salute/22097-le-innumerevoli-virtu-della-patata-americana.htm

Nuovi documenti sul rapporto tra Giovanni Bernardino Bonifacio e l’Università di Casalnuovo

IL MARCHESE E LA CITTA’

 Nuovi documenti sul rapporto tra Giovanni Bernardino Bonifacio e l’Università di Casalnuovo

di Nicola Morrone

Nello scorso mese di luglio ci siamo recati presso l’Archivio di Stato di Napoli, allo scopo di reperire nuove fonti documentarie relative alla storia di Manduria. Oltre ad una serie di sondaggi in alcuni fondi archivistici già noti agli studiosi di storia locale, abbiamo effettuato una ricognizione in alcuni faldoni che costituiscono il cosiddetto “Archivio imperiali”.

Preliminarmente al nostro sondaggio archivistico, necessariamente selettivo, abbiamo consultato i regesti dell’Archivio Imperiali, compilati dalla dott.ssa V. Minniti e cortesemente messi a nostra disposizione dal personale della Biblioteca civica di Francavilla Fontana. Lo spulcio dell’ingente materiale documentario, al di là delle carte più direttamente collegate alla famiglia genovese, non ha mancato di riservare alcune sorprese.

Nel fascio n. 98 del fondo “Giunta degli Allodiali, I serie” è infatti collocato un documento di estremo interesse, utilissimo a chi voglia ricostruire su basi più certe la storia della nostra comunità, e che trova tra l’altro termini di confronto in una serie di documenti consimili, redatti nello stesso periodo.

Il documento in questione è un fascicoletto cartaceo, manoscritto, costituito di 9 fogli numerati, compilati sul “recto” e sul “verso” (per un totale di 17 facciate di testo) e di varie altre carte bianche. In queste pagine sono contenuti i “capitoli”(o grazie, o privilegi) concessi negli anni 1538-1540 alla città di Casalnuovo dal Marchese d’Oria Giovanni Bernardino Bonifacio (1517-1597). Il documento da noi consultato non costituisce l’originale, ma una copia tarda, estratta in un’epoca imprecisata dal XXXII quinternione della Regia Camera della Sommaria e  autenticata dal notaio casalnovetano Giovanni Tommaso Pasanisi nel 1634. I capitoli originali, redatti su carta pergamena, muniti di sottoscrizione del feudatario e provvisti di sigillo pendente, sono probabilmente andati perduti.

morrone

Il documento, finora ignoto agli studiosi [cfr. M.Welti, Dall’Umanesimo alla Riforma.Giovanni Bernardino Bonifacio Marchese d’Oria (Brindisi 1986), p.27] è tanto più importante, in quanto getta una luce significativa sui rapporti intercorrenti, di diritto e di fatto, tra i principali attori politici del tempo: la Corona reale, il feudatario, il Comune (o “universitas”). Nel 1538 Giovanni Bernardino Bonifacio aveva concesso vantaggiosi capitoli alla città di Oria [cfr.M.Welti, ibidem, p.26], e nello stesso periodo anche Francavilla Fontana era stata beneficiata degli stessi provvedimenti [Cfr.P.Palumbo, Storia di Francavilla Fontana (Lecce 1870), pp.437-447].

Siamo ora in grado di dimostrare concretamente, dopo la nostra scoperta nell’Archivio di Stato di Napoli, che anche Casalnuovo ottenne importanti privilegi dal Marchese d’Oria, peraltro nello stesso torno di tempo (1538-40). I capitoli concessi alla nostra città furono redatti parte in latino e parte in volgare. Le parti in latino, se si eccettuano alcune importanti  indicazioni di carattere storico e cronologico, sono comunque piuttosto ripetitive, impostate sulle formule tipiche degli atti ufficiali redatti nel sec.XVI. Decisamente più interessanti sono le parti redatte in volgare, che costituiscono, nella sostanza, il corpo delle 20 “grazie” richieste (ed ottenute) dall’Università di Casalnuovo.

Come è ricordato nello stesso documento, la comunità di Casalnuovo, al pari di tante altre di Terra d’Otranto, godeva fin dal tempo di Re Ferdinando I d’Aragona di particolari privilegi, che il Re aveva concesso tra la fine del 1463 e i primi del 1464 [Cfr. G. Papuli, Documenti editi ed inediti sui rapporti tra le Università di Puglia e Ferdinando I….(Galatina 1971), pp.375 e segg.]. Dai tempi di Re Ferrante erano comunque passati molti anni e la comunità, more solito, decise di farsi confermare i privilegi fino ad allora posseduti, ed impetrò le grazie al feudatario, che, da parte sua, gliele concesse.

Alcuni studiosi hanno giudicato la concessione dei capitoli alle “universitates” di Oria, Francavilla e Casalnuovo un atto di debolezza politica del nuovo feudatario: non sempre, infatti, i capitoli erano concessi con facilità. In ogni caso, in quell’occasione le comunità la spuntarono e il documento che di seguito esamineremo ne costituisce la prova.

Come già detto, i privilegi concessi alla comunità casalnovetana, che allora contava 700 fuochi, cioè circa tremila abitanti [Cfr. G. Jacovelli, Manduria nel ‘500 (Galatina 1974), p. 22] sono 20 e sono scrupolosamente elencati ai ff. 2-6 del fascicolo, con un richiamo numerico sul margine sinistro del foglio, che ne favorisce l’identificazione. Si tratta di provvedimenti che riguardano vari aspetti della vita cittadina (amministrativi, economici, giuridici): ne forniamo brevemente l’elenco, con una sintesi del contenuto, lasciando ad altri il compito di esaminarli nello specifico, e di confrontarli con quelli concessi da Giovanni Bernardino Bonifacio alle città di Oria e Francavilla Fontana.

manduria

CAPITOLI CONCESSI DAL MARCHESE D’ORIA ALL’UNIVERSITA’ DI CASALNUOVO (1538-40)

Capitolo 1: Si chiede al feudatario che i cittadini di Casalnuovo vengano giudicati, sia per le cause civili che per quelle penali, esclusivamente entro la loro città, e da ufficiali in essa presenti.

Cap.2: Si chiede che i delinquenti di Casalnuovo e qualsiasi individuo ristretto nel carcere cittadino, non possa essere trasferito in altro carcere fuori dalla città.

Cap.3: Si chiede che il capitano (cioè il rappresentante del feudatario) sia sostituito ogni anno, come prevede la prammatica del Regno di Napoli.

Cap.4: Si chiede che il Marchese d’Oria provveda la comunità di persona idonea ed atta all’esercizio della amministrazione della giustizia, e che eserciti l’ufficio personalmente e non attraverso sostituti, e che, in caso la giustizia sia amministrata da un sostituto, la comunità non debba pagargli lo stipendio.

Cap.5: Si chiede che l’università resti, secondo l’antica consuetudine, nel possesso dei proventi delle pene pecuniarie rivenienti da tutte le condanne impartite dai tribunali cittadini, con la facoltà di deputare due o tre cittadini, che intervengano allo scopo di evitare che si commettano frodi sui proventi a danno dell’Università.

Cap.6: Si chiede che i cittadini di Casalnuovo non siano costretti ad alloggiare nelle loro case gli ufficiali del Marchese, ne’ a consegnare loro panni, letti e qualsivoglia altra masserizia, ne’ gratuitamente, ne’ a pagamento, ma che, all’opposto, i cittadini abbiano facoltà di decidere se ospitarli o meno.

Cap.7: Si chiede che l’erario cittadino debba dar conto al Marchese esclusivamente delle entrate feudali e baronali.

Cap.8: Si chiede che, come è antica consuetudine, la decima dello zafferano si debba pesare in frutto, e non in fiore, e che le stesse piante possano entrare nella città attraverso tutte le porte, e non solo dalla porta grande.

Cap.9: Si chiede che i cittadini di Casalnuovo possano vendere liberamente frutti, frumenti, vini, olii, legumi senza licenza del Marchese o del suo ufficiale, e che non siano obbligati ad attendere che prima vengano venduti i generi alimentari di proprietà della corte baronale, come anche a vendere nelle loro botteghe gli stessi, ne’ a pagare la decima delle cipolle.

Cap.10: Si chiede che il castellano di Casalnuovo, che alloggia nel castello con la sua famiglia e che, oltre ad affittare il castello a persone di sua conoscenza, pretende di essere esente dal pagamento dei dazi, debba all’opposto, come è vecchia consuetudine, pagare anch’egli dazi e gabelle, poichè è anch’egli un cittadino come tutti gli altri.

Cap.11: Si chiede che ogni cittadino di Casalnuovo porti il peso del pagamento da effettuare presso la Regia Corte, per impedire che i poveri sopportino il peso fiscale di coloro che, per essere esenti dal pagamento delle tasse, presentano al Marchese lettere di raccomandazione.

Cap.12: Si chiede che il Marchese non si intrometta nei fatti relativi al governo dell’Università, nè nelle cause che sono di competenza di quest’ultima.

Cap.13: Si chiede, come è antica consuetudine, di poter creare liberamente il sindaco, gli auditori, gli ordinati e i camerlenghi, e gli altri ufficiali del governo cittadino, sulla base del consenso popolare, evitando altre modalità di elezione, per impedire che vengano elette persone non idonee, o che uno stesso cittadino si ritrovi più volte eletto.

Cap.14: Si chiede che il Marchese permetta che il sindaco, e gli ufficiali di Casalnuovo possano conservare i libri e le scritture redatte in passato dagli ufficiali dell’università, come è antica consuetudine, e che nè il Marchese nè i suoi ufficiali possano sottrarle, e che, infine, le medesime restino depositate esclusivamente presso gli ufficiali cittadini.

Cap.15: Si chiede che, come è antica consuetudine, la decima del mosto si paghi davanti alla porta della città, quando il vino viene introdotto in essa, e non quando lo stesso si trova già nel palmento.

Cap.16: Si chiede che il Marchese non ordini a nessun cittadino, nè a pagamento, nè gratuitamente, di effettuare prestazioni di lavoro personale, nè attraverso il proprio bestiame, se non a coloro che di diritto possono essere comandati dal Marchese ad effettuarle.

Cap.17: Si chiede che i capitani, e gli ufficiali del Marchese, nell’ingresso del loro ufficio in Casalnuovo giurino di osservare i privilegi e le consuetudini della città.

Cap.18: Si chiede che il Marchese ratifichi tutti i privilegi, le grazie, le consuetudini, i costumi che sono stati concessi alla città da re Ferdinando I d’Aragona. Si chiede che lo stesso li confermi, e non li  impedisca, ne’ contraddica in alcun momento, ne’ direttamente, ne’ indirettamente.

Cap.19: Si chiede che, come è antica consuetudine, si possa proibire la vendita del vino al taverniere della corte baronale, prima che i cittadini di Casalnuovo non abbiano venduto tutto il loro.

Cap.20: Si chiede che, come è antica consuetudine, l’università possa eleggere ogni anno un cittadino con l’incarico di mastro d’atti.

Il Marchese d’Oria Giovanni Bernardino Bonifacio, dopo aver accordato il suo “placet” a tutte le richieste dei casalnovetani, promette solennemente, giurando con la mano posta sul Vangelo, di osservare, e di fare osservare dai propri eredi, e successori, e dai suoi ufficiali e ministri, tutto ciò che è contenuto nei capitoli, sottoscritti ad Oria, e che il Marchese spedisce poi a Napoli per ottenere il “regio assenso”, cioè la ratifica dei capitoli stessi da parte del Re. Infine, il Marchese stabilisce in mille ducati la pena pecuniaria da somministrare a quegli ufficiali che non osserveranno, ne’ faranno osservare i provvedimenti contenuti nei capitoli.

Con la sottoscrizione del Marchese, del suo segretario Antonio Vinciguerra e di un auditore si conclude il lungo documento, ricopiato da mano anonima in un’epoca imprecisata, e da noi recentemente riportato alla luce. Come già detto, esso costituisce uno dei pochi testi sulla base dei quali lo studioso può tentare di ricostruire alcuni aspetti del funzionamento dell’università (o comune) di Casalnuovo nel sec. XVI, e della sua modalità di relazionarsi con la Corona e il feudatario.

Si auspica che, in futuro, anche con l’apertura alla consultazione degli archivi privati, possano essere prodotte altre testimonianze documentarie sulla vita di questa importante istituzione, che, in fondo, ha rappresentato e rappresenta tutti noi.

Frammenti di vita salentina: dal (non) maestro d’oggi, ai mesci e alle mescie d’una volta

maestri

di Rocco Boccadamo

 

Non so se succeda anche a voi, a me capita, talora, di essere interpellato da qualche sconosciuto, magari un automobilista che s’accosta lentamente col suo mezzo a finestrino dischiuso, con la frase: “Maestro, sa dirmi a che numero civico si trova….?” Oppure: “Maestro, è da queste parti la Direzione Provinciale….?”

Ora, il semplice risuonare dell’accezione “maestro”, è più forte di me, mi fa restare sistematicamente impietrito e la prima puntuale reazione che ho è di fiondare intensamente lo sguardo sulle sembianze dell’interlocutore, come a volerle dissolvere, replicando secco con parole che sono sempre le stesse: “Guardi, non mi dica maestro, giacché non so neppure avvitare una lampadina”.

Segue, naturalmente, un piccolo ma percettibile sussulto sul volto dell’altro/altra, anche se, poi, l’informazione, almeno quando è nota, è fornita senza problemi e la scena, diciamo così, si ricompone.

Queste, invero non frequenti, circostanze, mi danno, di riflesso, l’estro per richiamare alla mente, con emozione e un po’ di nostalgia, una serie di persone/personaggi del paesello natio d’un tempo, i cui nomi di battesimo erano immancabilmente preceduti, quasi da formare un tutt’uno, dal titolo o qualifica, giustappunto, di maestro (nell’idioma dialettale, mesciu o mescia a seconda del sesso), titolo che, a loro, sì che competeva davvero.

Lunga, la rassegna di tali protagonisti in una comunità di circa duemila anime, soggetti tanto bravi quanto umili e, perciò, apprezzati e stimati.

Dai calzolai o ciabattini o scarpari, mesciu Tore, mesciu Roccu, mesciu Leriu e mesciu Narducciu, l’ultimo, per la precisione, subentrato allo zio Rocco, dopo esserne stato “discepolo” e aver appreso il mestiere.

Pochi i ricordi inerenti al primo artigiano, già vecchissimo all’epoca della mia infanzia, relativamente a lui, rivedo, più che altro, una figura femminile, sorella o moglie non so più bene, affetta da sonnambulismo, vagante, anche fuori dall’uscio di casa, avvolta in una lunga camicia da notte bianca, alla stregua di fantasma, un fantasma, però, dall’animo buono, secondo la suggestione del giovanissimo testimone.

Quanto a mesciu Roccu, invece, a distanza di ben oltre mezzo secolo, sono tuttora nitidi due tristi eventi che l’uomo ebbe a dovere affrontare e patire: la tragica morte del figlioletto Antonio, non ancora scolaro, perito sotto le ruote di un camion militare, per la precisione del drappello di soldati polacchi che, in quel periodo, si trovava di stanza a Marittima, e, poco tempo dopo, anche la prematura dipartita della moglie.

Il terzo calzolaio, mesciu Leriu, da parte sua, si distingueva, oltre che per la maestria nel lavoro, per la circostanza d’intrattenere e gestire, in seno alla propria bottega, intorno al desco, sia all’interno che, durante la bella stagione, fuori dal locale, una sorta di salotto o agorà: su sgabelli e vecchie sedie impagliate, intorno al tavolo, s’accomodavano, ogni giorno, tre – quattro compaesani, di varie età.

E s’inanellavano discorsi, commenti, confidenze, notizie, informazioni, una semplice e sana formula di comunione civica.

Passando ad una differente categoria artigianale, ecco mesciu Primaldu, sarto, originario di Castro.

E’, poi, la volta dei muratori: mesciu Vitali, mesciu Adolfu, mesciu Carlucciu e mescio Pippinu.     

Della lista, il primo, vero e proprio capomastro, figura minuta ed esile, aveva per moglie una cugina di mio padre con la quale aveva procreato ben nove figli. Un paio dei maschi più grandi, per qualche tempo, gli diedero una mano, affiancando altre unità di compaesani collaboratori, alcuni addetti alla squadratura dei tufi o conci, i restanti, denominati manipoli, adibiti al carico, sulle spalle, dei materiali e al relativo trasporto, con l’uso, al caso, di scale, sino alla sommità dei muri perimetrali e delle volte, man mano che le costruzioni avanzavano.

Di mesciu Carlucciu, piace ricordare che era un autentico artista, più che artigiano, nel lavoro di cesellatura dei particolari degli edifici, specie delle cornici e dei decori in pietra leccese.

Si arriva, a questo punto, ai falegnami mesciu ‘Mmbertu e mesciu Pippi, operatori dotati, anch’essi, di elevata professionalità, giacché, secondo le abitudini paesane della metà del secolo scorso, erano chiamati a realizzare non soltanto infissi esterni e interni, bensì pure arredamenti completi, sia per ambienti giorno, sia per cucine, sia per i vani notte.

Ultima figura d’artigiano, sfocata per via della vetustà, quella di mesciu Biasi, che, rammento, aveva una piccola bottega nell’androne del palazzotto Spagnolo, adiacente al Largo Campurra; di lui, tuttavia, sembrerà strano, non ricordo più quale fosse esattamente il lavoro, la specializzazione.

°   °   °

In omaggio alla parità di sesso, sebbene, allora, approssimativa, resta da dire che la comunità marittimese di ieri con includeva unicamente figure di mesci, ma alcuni casi omologhi di sesso femminile, ossia di mescie.

Tra esse, mescia Nina e mescia Clementina, le quali attendevano a lavori di cucito e di maglieria.

E, ultime ma, di certo, non meno speciali, le quattro mescie degli altrettanti magazzini (o manifatture) per la lavorazione del tabacco, che, una volta, operavano nella minuscola località: Valeria, Anna, Margherita e Teresina.

Personaggi utili, quasi preziosi, sia nel ruolo di fiduciarie dei proprietari degli opifici, sia per il loro compito di coordinare, guidare e seguire l’attività, ciascheduna, di cinquanta/sessanta lavoratrici e, soprattutto, essendo loro chiamate a insegnare il mestiere alle ragazze e giovani ammesse per la prima volta nei magazzini.

Piccolo dettaglio, che, ad ogni modo, non sminuisce le figure delle citate quattro donne, Valeria, Anna, Margherita e Teresina si chiamavano semplicemente con i rispettivi nomi di battesimo, nomi, quindi, non anticipati, come si verificava riguardo agli altri artigiani/mesci, dal prefisso mescia.

Insomma, anche se non definite verbalmente, erano mescie, e come!, nella realtà concreta.

Lu pìnnulu (la pillola)

di Armando Polito

Pigliate ‘na pastiglia, sient’a mme … cantava Renato Carosone nel 1958. Per chi volesse ascoltare la canzone segnalo il link https://www.youtube.com/watch?v=LBbADbxlJCs, da dove è tratta l’immagine che segue.

Se questa colonna della musica leggera napoletana e italiana fosse stata salentina il titolo della canzone probabilmente (uso questo avverbio perché anche i titoli spesso sono il frutto estemporaneo di un’ispirazione fulminante) sarebbe stato: pìgghiate nnu pìnnulu, sienti me. La metrica sarebbe stata traballante anche in questo caso perché il non rispetto degli accenti principali dell’endecasillabo, compromesso già all’inizio del verso in napoletano con lo sdrucciolo pìgliate, si sarebbe aggravato in quello salentino con l’aggiunta di pìnnulu, pure esso sdrucciolo.

Se, dunque, pìgliate e pìnnulu sono due imperfezioni sulle quali  per un orecchio allenato è difficile sorvolare, pìnnulu in particolare non è qualcosa da mandar giù facilmente …

Il suo etimo, infatti, al contrario di quello di pastìglia1,  pone qualche problema, anche perché quelle che in altri casi possono costituire un aiuto determinante, cioè le varianti, qui sembrano creare solo confusione e suscitare quanto meno dubbi. Procedo con ordine citandole così come le trovo registrate nel vocabolario del Rohlfs.

pìnnulu (Vernole) pillola vedi pìnulu.

pìnulu (Lecce) pillola [confronta il calabrese pìnula napoletano pìnnolo; vedi pìgnulo.

pìgnulo pillola vedi pìnulu.

Non è la prima volta che col gioco dei rinvii il Rohlfs sembra non volersi assumere responsabilità; qui, poi, la questione è complicata dal fatto che pìgnulo è riportato preceduto da un segno convenzionale che equivale a parola non attestata (congetturale), anche se il lemma è seguito dalla sigla L15 che corrisponde a “Leon Lacaita, La Tarantata. Commedia in dialetto manduriano. Manduria 1944 [Trascrizione abbastanza diligente. Senza glossario, senza note]”.

Pìgnulo, dunque, troverebbe solo attestazione letteraria (sarebbe assente nella lingua parlata) e direi che il congetturale del Rholfs è una sorta di ambiguità incrociata,nel senso che potrebbe alludere ad un’invenzione del commediografo e, nello stesso tempo, ad una supposizione del filologo. Non è mia intenzione fare il processo alle intenzioni altrui, ma dico la mia basandomi sul fatto che la lettura ormai pluridecennale dell’imponente lavoro del filologo tedesco mi ha consentito di considerare in parecchi casi come suggerimento occulto, in ultima analisi criptica dichiarazione di dubbio, ciò che ad una lettura superficiale può essere considerato reticenza o, peggio ancora, espediente strategico per non formulare nessuna ipotesi , per non assumersi responsabilità di sorta, salvando, comunque la faccia.

Nel nostro caso credo che il Rohlfs con il congetturale pìgnulo abbia voluto dirci che secondo lui probabilmente tutto è collegato con pigna, non essendo praticabile l’ipotesi che pìnnulu possa essere considerato deformazione di pìllola (avrei detto pillolo, se quest’ultimo non fosse di nascita recentissima …), che è dal latino pìlula(m)=pallottolina, pillola, diminutivo di pila=palla.

Spiego il tutto partendo proprio da pìnulu. Se esistesse, il corrispondente italiano sarebbe pìnolo, diminutivo di pino. L’intervento dell’albero sembrerà meno strano pensando che pina in toscano indica il frutto, quello che nella lingua nazionale è pigna, che deriva dal latino pìnea(m)=del pino, forma aggettivale di pinus=pino. Non è finita: se pinea(m) sottintende un sostantivo femminile  sinonimo di frutto, c’è da aggiungere che lo stesso succede nel dialetto neretino dove l’albero, il pino appunto, è pignu. A pignu ormai considerato assolutamente come un sostantivo si collega pìgnulu, forma diminutiva come, per esempio, in bambo>bàmbolo, banda>bàndolo (qui con cambio di genere), brocco>bròccolo, etc. etc.

Insomma, da pigna, deriverebbe solo con cambio di genere (come in banda>bàndolo) pignòlu (corrispondente all’italiano pinòlo che, però, è dal ricordato toscano pina) e, oltre che con cambio di genere anche con spostamento di accento probabilmente in funzione distintiva, il congetturale pìgnulo e da questo, per banalissima e regolare assimilazione -gn->-nn-, pìnnulu.2

Chiedo scusa a chi, tra coloro che mi hanno fin qui seguito, fosse costretto a questo punto ad inghiottirne uno contro il mal di testa;  e, se è giovane, non fraintenda l’invito del vecchio modo di dire neretino sùcate ‘stu pìnnulu (alla lettera succhiati questa pillola, metaforicamente consuma lentamente questa amarezza) per sperimentare una nuova modalità di assunzione …

_______________

1 Come l’italiano pastiglia, è dal latino pastillu(m), attraverso lo spagnolo pastilla. La voce spagnola nel neretino ha dato pastìddha che designa la castagna secca (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/05/04/la-pastiddha/).

2 Da pigna, sempre con cambio di genere, deriva nel dialetto neretino l’accrescitivo pignòne (totalmente diverso per etimo e significato dall’omofono italiano) che designa la bica di covoni o di paglia in forma di tronco di cono o, se si preferisce, di pigna.

Gallipoli in nove mappe antiche

di Armando Polito

Questa volta di mio non c’è assolutamente niente, se non la decisione di trasmettere agli amici che ne abbiano interesse gli indirizzi in cui potranno visionare le mappe, certamente ben note a tutti coloro che si occupano di queste cose ma tutte riprodotte lì in alta definizione, il che consente, quindi, di vedere o rivedere distintamente i dettagli, cosa impossibile nelle riproduzioni che seguono in formato ridotto.

Giovan Battista Crispo, 1591
Giovan Battista Crispo, 1591

https://www.raremaps.com/gallery/enlarge/23679

Braun-Hogenberg, 1598
Braun-Hogenberg, 1598

http://historic-cities.huji.ac.il/italy/gallipoli/maps/braun_hogenberg_V_66_b.jpg

 

Jodocus Hondius, 1627
Jodocus Hondius, 1627

http://www.ideararemaps.com/article.aspx?articleID=432

 

Francesco Bertelli, 1629
Francesco Bertelli, 1629

http://www.ideararemaps.com/article.aspx?articleID=266

 

Mattheus Merian, 1688
Mattheus Merian, 1688

http://www.ideararemaps.com/article.aspx?articleID=592

 

Giambattista Albrizzi, 1761
Giambattista Albrizzi, 1761

http://historic-cities.huji.ac.il/italy/gallipoli/maps/storia_XXIII_54_gallipoli_b.jpg

 

Joseph Roux, 1764
Joseph Roux, 1764

http://historic-cities.huji.ac.il/italy/gallipoli/maps/roux_1764_pl_58_b.jpg

 

John Luffman, 1802
John Luffman, 1802

http://historic-cities.huji.ac.il/italy/gallipoli/maps/luffman_1802_gallipoli_b.jpg

 

William Heather, 1810
William Heather, 1810

http://historic-cities.huji.ac.il/italy/gallipoli/maps/heather_1810_gallipoli_b.jpg

 

 

 

Identikit di un’oliva


di Mimmo Ciccarese

 

Indovinello salentino: “Autu, autu e lu miu palazzu, erde suntu e niura me fazzu, casciu anterra e nnu me scrafazzu, au alla chesa e luce fazzu”.

Asciula, cafareddhra, mureddrha, saracina, cilina nchiastra, licitima, fimmina e masculara, cillina te Lecce, te Nardò o te Scurranu sono solo alcuni dei sinonimi utilizzati per indicare o meglio identificare la tipica oliva coltivata nel Salento.

Di essa non si sa con esattezza per opera di quale popolo sia iniziata la sua diffusione; sarà sicuramente un affascinante racconto dissolto tra secoli di memoria e segrete leggende. Di certo c’è invece, che il valore attribuito alla coltivazione di questa varietà che oggi classifichiamo come Cellina di Nardò, è equivalente all’empatico desiderio di proteggerla. Si accendono i riflettori su questo albero.

In un modo o nell’altro il principio dell’estrazione del suo olio (uegghiu) pare sia quasi simile a quella di un tempo ma le caratteristiche fisiologiche del suo frutto non sono affatto cambiate.

Le sue drupe (ulie) riunite fitte sui rami vigorosi e assurgenti (inchi e calaturi) sono piccole ellissi, come visi bruni, in pietosa attesa di ruzzolare per essere poi raccolte e frantumate (rispicu e macinatura). L’operosità della sua raccolta scandisce due stagioni di tradizionale raccolta su quasi 60.000 ettari di meridione pugliese dove si aggira. Ogni visitatore che abbia varcato la soglia messapica ha ammirato la sua imponente meraviglia e qualcuno poi, ha chiesto addirittura di promuoverlo come patrimonio dell’umanità.

Da sempre, questa varietà, è presente nella storia dei salentini, nei loro riti, nella vita di ogni giorno e a volte ci si può meravigliare come dai suoi tronchi curvi e corrucciati (rape sturtigghiate) riescano a ricavarne un essenza così morbida e armonica al palato. L’intensità di retrogusti piacevoli di amaro e un po’piccante (pizzica alli cannaliri) con evidenti percezioni di mandorla, di pomodoro o di erba fresca sarebbero i suoi migliori requisiti.

Qualità inaspettate dall’olivo trasmesse da millenni, incantano le nostre abitudini, specialmente quando si parla di chimica che non troviamo solo nel suo olio, non di quella sintetica per intenderci, ma di quella che riguarda le sostanze naturalmente contenute nelle sue cellule.

Cellule ricche di oleuropeina, droga amara, contenuta nelle sue cellule, e di un cospicuo elenco di acidi, chinoni, flavoni, glucosidi, enzimi, tannini, zuccheri, oli essenziali e antiossidanti di natura non identificata.

Ma come ogni alimento, senza fare discriminazioni farmacologiche, il suo olio extravergine di oliva è conosciuto da sempre per le sue proprietà, per la sua composizione in acidi grassi come l’acido oleico, linoleico, linolenico e di quella benamate antiossidante e protettive vitamina.

Chi l’avrebbe mai detto che da una piccola drupa dall’insolito nome orientale potessero scaturire tante ricerche? Se ne parla da anni! Pare che l’olio estratto (10-17%) contenuto nel suo frutto aiutasse quindi a vivere meglio.

Ma come identificare la vera qualità di un olio d’oliva? Non è il caso di quantificare un valore nutrizionale di un olio mal conservato o immoralmente prodotto.

L’albero d’olivo è sacro come il suo olio, il suo produttore e la sua terra. Allora perché questa pianta così decantata diventa spesso un indistinto oggetto alla mercé di un agricoltura intensiva?

Alberi come schiavi, forzati a vegetare e produrre in fretta, drupe avvelenate da insetticidi, radici bruciate da diserbanti per semplificare la raccolta. Dovremmo chiederci spesso che fine fanno le volpi e gli uccelli che si rintanano tra i sui vetusti tronchi “benedetti”.

Può questo atteggiamento essere un incivile trasgressione per sciagurati o insani principi? Soprattutto, può questo alimento pregiato diventare mezzo di sostanze sicuramente dannose per la nostra salute? L’agricoltura salentina non sa più che olio vendere; su di essa si riabbassa la scure dei prezzi, il lavoro non si ripaga e l’albero s’abbandona. Allora, solo favorendo il consumo dell’olio da Cellina di Nardò con un scelta sana e consapevole che il Salento può ritrovare la ruralità del suo volto e a maggior ragione, prima di ogni sciagurata decisione, il diritto di ammirarne la sua bellezza.

 

Il brigante Giuseppe Cotturelli

bersaglieri fucilano un brigante
bersaglieri fucilano un brigante

Sabato 14 novembre 2015, nella Sala consiliare del Comune di Villa Castelli (Brindisi), dalle ore 9,30 alle ore 12,30, si terrà il “Processo di revisione della sentenza di condanna a morte del brigante Giuseppe Cotturelli emessa dal Tribunale di Guerra di Foggia il 10 dicembre 1863“.

L’ideazione e la drammatizzazione è dell’Avv. Augusto Conte.

 

L’evento è organizzato dall’Associazione “Settimana dei Briganti – l’altra storia” di Villa Castelli (Brindisi), dalla Fondazione dell’Avvocatura di Brindisi, dall’Ordine degli Avvocati di Brindisi, con il patrocinio del Comune di Villa Castelli e del Comune di Francavilla Fontana.

 

Introduce l’avvocato Vito Nigro; coordina il professor Rocco Biondi, presidente dell’Associazione “Settimana dei Briganti – l’altra storia”; la voce narrante sarà l’avvocato Carlo Panzuti, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Brindisi.

Per il giudizio di revisione presidente del dibattimento sarà il magistrato dottor Massimo Brandimarte; difensore l’avvocato Augusto Conte, direttore della Fondazione dell’Avvocatura di Brindisi; Pubblico Ministero l’avvocato Antonio Caiulo, del Foro di Brindisi; consulenti di parte saranno per l’accusa il professor Gerardo Trisolino, vicesindaco di Francavilla Fontana, e per la difesa il professor Mario Spagnoletti, dell’Università di Bari.

La Giuria Popolare verrà indicata all’inizio del processo.

 

   Un periodo storico che ha notevoli riflessi di natura giuridico-forense è quello caratterizzato dal fenomeno del brigantaggio postunitario, che dal 1861 si protrasse fino al 1865, ma che nella Società meridionale ha dispiegato conseguenze e problematiche non ancora sopite e dalle quali conseguì la “questione meridionale”.

   La sentenza di condanna a morte di Giuseppe Cotturelli si accomuna alle altre sul brigantaggio per diverse ragioni: è ispirata da questioni di natura “politica”, è motivata in maniera sintetica, è pronunciata a conclusione di un processo sommario, applica la pena capitale, è pronunciata da un giudice “speciale”.

Il fenomeno del brigantaggio postunitario determinò una forte repressione. Non furono adottati solo processi sommari: paesi interi furono messi a fuoco; briganti, o presunti tali, e in loro assenza i famigliari, furono impiccati o fucilati all’istante.

 

Agli Avvocati e Praticanti abilitati, che partecipano, verranno attribuiti 3 crediti formativi.

 

Prof. Rocco Biondi, Presidente Associazione “Settimana dei Briganti – l’altra storia”

Avv. Carlo Panzuti, Presidente Ordine degli Avvocati di Brindisi

Comprate l’olio solo da chi ci mette la faccia sul suo olio

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di Pino de Luca

In molti hanno chiesto come si riconosce un buon Olio Extra Vergine di Oliva. Ed in molti hanno elargito utili consigli che, per diventare efficaci, dovrebbero essere accompagnati da un laboratorio ambulante e un paio di specializzazioni.
1 – Tocca allo STATO tutelare il consumatore;
2 – Tocca alle aziende serie pretendere i controlli e sollecitarli;
3 – Tocca a Stato e Produttori concordare delle procedure di controllo che siano efficaci senza essere asfissianti, magari a campione sullo scaffale.
4 – E se invece volete proprio essere sicuri comprate l’olio solo da chi ci mette la faccia sul suo olio, dal produttore che cura le sue piante e segue il ciclo fino al confezionamento. Costa di più? Non lo so, io son qui per insegnare a fare i conti.
In queste occasioni bisognerebbe cogliere il momento per avere meno protagonismi e un po’ più di protagonisti!!!
Ma sono perle che scivoleranno via come l’olio, quante procure in Italia sono attrezzate come quella di Torino? E quando Guariniello andrà in pensione chi si occuperà di “avvelenatori” e truffatori che uccidono lentamente e silenziosamente centinaia di esseri umani per far soldi e si prendono pure gli applausi da claque di giornalisti a pagamento?
Sarà sempre più conveniente dare ragione al ricco piuttosto che ai pezzenti che devono “risparmiare” sull’olio per i figli per acquistare il migliore per l’automobile, e ai poveri che non si possono permettere né l’uno né l’altro.
Caro San Martino, se fossi nato di questi tempi non ti avrebbero fatto santo, ti avrebbero chiamato fesso. Ma noi fessi ci siamo ancora e tra poco, in tuo onore, condivideremo quello che abbiamo. Chi poco, chi molto non importa.
Buon vino nuovo e buon olio novello a tutti.

 

Il Salento in ventiquattro immagini di Abraham Louis Rodolphe Ducros (2/6): GALLIPOLI

di Armando Polito

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Gezicht op een rots bij de Golf van Tarente in de buurt van Gallipoli (Vista di una roccia del golfo di Taranto nel distretto di Gallipoli). Su questa immagine vedi: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/05/14/nardo-la-montagna-spaccata-comera-nel-1778-oggi/

Vergezicht met de stad Gallipoli (Vista sulla città di Gallipoli)

Gezicht op Gallipoli (Vista di Gallipoli)

Fontein in de haven van Gallipoli (Fontana nel porto di Gallipoli)

Exterieur van de antieke tempel ten oosten van Gallipoli (Esterno di un antico tempio ad est di Gallipoli)

Interieur van antieke tempel gelegen ten oosten van Gallipoli (Interno di un antico tempio situato ad est di Gallipoli)

 

Per la prima parte (BRINDISI): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/30/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-16-brindisi/

Per la terza parte (LECCE): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/23/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-36-lecce/

Per la quarta parte (MANDURIA): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/07/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-46-manduria/

Per la quinta parte (NARDÒ): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/11/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-56-nardo/

Per la sesta parte (TARANTO): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/24/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-66-taranto/

 

 

Leverano. Quegli artisti figli della nostra terra

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di Gianluca Fedele

Si è appena conclusa “Tracce d’Arte 3”, collettiva durata tre giorni e allestita all’interno della regale Torre Federiciana, nel cuore del borgo antico di Leverano (LE). Questa terza edizione, organizzata contestualmente alla “Festa del Vino Novello”, è stata fortemente voluta dall’assessore alla Cultura Enzo Mega e magistralmente curata da Anna D’Amanzo, che è anche l’ideatrice dell’evento. “Tracce d’Arte” offre da sempre la possibilità di ammirare interessanti selezioni di opere pittoriche e scultoree prodotte da artisti emergenti e nomi più noti.

Opere e artisti del Salento che si differenziano per stile, gusto e tecniche ma che conservano un saldo e ben distinguibile attaccamento al territorio. Un legame forse perverso, manifestato non tanto dai temi trattati quanto dai colori passionali e veraci che riflettono un masochistico legame al luogo di appartenenza, come un amore non ricambiato.

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Tra le opere che maggiormente hanno colpito gli avventori di questa edizione troviamo due importanti busti in cartapesta raffiguranti i “Mori Veneziani”, statue realizzate da Mario Di Donfrancesco, la cui bottega ha ospitato una recente puntata del celebre programma televisivo “Ulisse” di Alberto Angela.

Sculture anche per la leccese Carolina Sperti che esponeva le sue deliziose e ormai celebri “Cummari”, figure femminili in terracotta abbigliate con indumenti che riportano a una dimensione antica. Donne dagli sguardi trasognati e dalle braccia infinite.

Ancora scultura per Massimo Miglietta di Trepuzzi, ma questa volta in pietra leccese, materia con la quale l’artista si cimenta nella realizzazione di intrecci geometrici oltre che concettuali.

Da Monteroni i fratelli Luigi e Maurizio Martina erano presenti con singolari opere figurative, sicuramente differenti tra loro ma unite da un comune ingegno e dalla necessaria ed evolutiva ricerca stilistica. Luigi ha aggiunto a questa collettiva l’elemento scultoreo proponendo al fruitore “prigioniero 2” che è alla base del proprio studio contemporaneo.

Presentava le sue opere anche Anna D’Amanzo che, con una apprezzabile raccolta di incisioni e quadri carichi di passione, esprime i suoi personali stati d’animo attraverso fattezze umane e colori brillanti.

Scene che oscillano tra la metafisica e il fiabesco quelle dipinte ed esposte in questa collettiva da Nadia Esposito, promettente e prolifica artista di Calimera.

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Immediatamente riconoscibile il tratto di Fabrizia Persano in certe inquadrature di primissimo piano, come se per realizzarle l’artista avesse adoperato lo zoom di una macchina fotografica.

Daniele Bianco di Nardò lo abbiamo ritrovato tra le opere pittoriche, quelle maggiormente influenzate dal Salento, dai simbolismi e dalle architetture più autoctone, finanche dai paesaggi ma che si guarda bene dal raffigurare in modo impressionista.

Infine, ma non certo per importanza, Albino Mello che, reduce dall’esperienza dell’Expo di Milano, ha esposto complementi d’arredo unici. Queste opere polimateriche e luminose, realizzate perlopiù in ferro battuto, sono un simpatico compromesso di artigianato moderno creativo.

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Occasioni di questo genere rappresentano un esempio da emulare in ogni città poiché permettono innanzitutto di visitare beni architettonici spesso inspiegabilmente inaccessibili e, ancora, creano l’occasione per conoscere e dialogare con artisti notevoli, figli della nostra terra, per aprire un varco ideale tra le loro opere e il modo di percepire il mondo.

C‘è Brindisi e brindisi …

di Armando Polito

I diari di viaggio (in linguaggio tecnico letteratura odeporica) ebbero particolare fortuna  tra il XVIII e il XIX secolo. Il più delle volte lavori di questo tipo erano corredati di tavole realizzate da un disegnatore che il viaggiatore si portava al seguito. È il caso, per esempio, del viaggio nel Regno delle due Sicilie fatto dal 10 aprile al 12 agosto 1778 dagli olandesi  Willem Carel Dierkens, Willem Hendrik van Nieuwerkerke, Nathaniel Thornbury, Nicolaas Ten Hove, con al seguito il pittore svizzero Abraham Louis Rodolphe Ducros (per Brindisi vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/30/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-16-brindisi/). Più raramente autore del testo e delle tavole era la stessa persona. È questo il caso di Antoine Laurent Castellan (1772-1838), letterato e pittore francese e del suo Lettres sur l’Italie, Nepveu, Parigi, 1819, diario del suo viaggio in Italia redatto in forma epistolare. A Brindisi, che è l’argomento di questo post,  fu dedicato un numero notevole di pagine e di tavole. Questa attenzione fu dovuta, però, unicamente ad una quarantena nel porto della città salentina, il che, probabilmente, gli permise di programmare meglio quelle che furono le mete di osservazione alla fine del periodo di relativo isolamento ridotto, comunque, a ventotto giorni, per giunta calcolati da quello della partenza da Corfù. Chi ha interesse a conoscerle può leggere il volume al link https://archive.org/stream/lettressurlitali01cast#page/n0/mode/2up.

Dal primo tomo ho tratto le tavole relative a questa città salentina, di seguito riprodotte; non ho potuto rinunciare, laddove le risorse della rete me lo hanno consentito, ad una comparazione cronologica ed in tal senso l’invito alla collaborazione per colmare almeno in parte le lacune  è aperto a tutti …

La fontana di Tancredi agli inizi del XX secolo (immagine tratta da https://www.google.it/search?q=brindisi+fontana+di+tancredi&espv=2&biw=1280&bih=597&source=lnms&tbm=isch&sa=X&ved=0CAgQ_AUoA2oVChMI35K8_MTnyAIVQeQmCh2QZQug&dpr=1.5#imgrc=LHIBhbbv5ix8NM%3A)
La fontana di Tancredi agli inizi del XX secolo (immagine tratta da https://www.google.it/search?q=brindisi+fontana+di+tancredi&espv=2&biw=1280&bih=597&source=lnms&tbm=isch&sa=X&ved=0CAgQ_AUoA2oVChMI35K8_MTnyAIVQeQmCh2QZQug&dpr=1.5#imgrc=LHIBhbbv5ix8NM%3A)
La fontana di Tancredi oggi (immagine tratta da http://www.brindisireport.it/cronaca/la-costruzione-di-un-palazzo-a-ridosso-della-antichissima-Fontana-di-Tancredi-a-Brindisi.html)
La fontana di Tancredi oggi (immagine tratta da http://www.brindisireport.it/cronaca/la-costruzione-di-un-palazzo-a-ridosso-della-antichissima-Fontana-di-Tancredi-a-Brindisi.html)

 

Il primo disegno sembra una libera elaborazione, troppo libera soprattutto nel piano superiore, della facciata della Chiesa del Cristo (di seguito nell’immagine tratta da  http://www.malvasiabrindisi.com/it/cosa-vedere-a-brindisi/) a Brindisi contaminata  con quella di San Lorenzo da Brindisi a Roma (immagine tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Chiesa_di_San_Lorenzo_da_Brindisi#/media/File:Ludovisi_-_S._Lorenzo_da_Brindisi.JPG).

Buio pesto per l’identificazione del dettaglio del secondo disegno.

 

Immagine tratta da http://www.brindisilibera.it/wp-content/uploads/2014/10/porto-di-brindisi2.jpg
Immagine tratta da http://www.brindisilibera.it/wp-content/uploads/2014/10/porto-di-brindisi2.jpg

Com’è noto, della seconda colonna crollata nel 1528 rimane solo la base (il resto, recuperato, fu assemblato e adattato nel 1660 a Lecce su una nuova base ed è la colonna che si vede in piazza S. Oronzo).  Di quella superstite ecco la descrizione fattane da Andrea Pigonati in Memoria del riaprimento del porto di Brindisi sotto il regno di Ferdinando IV, Morelli, Napoli, 1781, p. 14: È questa colonna d’ordine composito, il fusto di marmo bigio orientale, ed il piedestallo, e capitello di marmo bianco. Il capitello è adorno di dodeci figure a mezzo busto, quattro situate in mezzo delle quattro faccie rappresentano Giove, Nettuno, Pallade e Marte, gli altri otto sono Tritoni, che colle bucine rivolte formano li caulicoli del capitello. Sopra di questo vi è un architrave, e fregio circolare, forse rappresentava il modio o base di qualche statua, o altro segno. Si sono da taluni credute ad uso di faro; ma io credo dinotavano li termini delle vie Romane (a).

(a) Nella faccia d’un piedistallo, sul quale esiste in piedi la colonna, vi è incisa in caratteri Gotici un pezzo d’iscrizione, come sotto si trascrive, il resto, che manca, non fu mai inciso.

Illustris Pius actibus atque refulgens

Protospata Lupus Urbem hanc struxit ab imo.

Quam Imperatores Pontificesque benigni

 

[mia traduzione: Lupo Protospata, illustre, pio e splendente nelle (sue) gesta, costruì questa città dalle fondamenta. Quella che imperatori e pontefici benigni. Non escluderei che l’iscrizione continuasse sul basamento dell’altra colonna e che il tempo nonché, a suo tempo, il danno provocato dalla caduta ne abbiano completamente obliterato le lettere].

Vi è stato un Lupo Protospata nativo di Puglia, questi, così forse chiamato per la carica di primo Capitano delle Guardie, visse nel principio del XI. Secolo, e compose una Cronica di tutto ciò che era passato di più memorabile nel Regno di Napoli dopo l’anno 860. Fino al 1102., e siccome in questa Cronaca nulla si legge della riedificazione di Brindisi, come dice l’Iscrizione, facilmente dee credersi, che sia stato altro Lupo Protospataro il riedificatore di detta Città, mentre il nome Protospata fu nome di carica Militare sotto gl’Imperatori Greci ne’ templi bassi.             

 

Dopo questo ampio excursus iconografico è il momento  di passare ad un brano dell’ottava lettera (pp. 66-67) datata  20 agosto 1797, in cui il Castellan scrive (il testo originale è tratto dal link riportato all’inizio, la traduzione a fronte e le note sono mie).

.

Per concludere tornando al titolo: brindisi è per tutti gli etimologi di origine germanica (lode all’anonimo traduttore di Johann Hermann von Riedesel!) e per Brindisi, per non allungare la brodaglia, rinvio a https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/09/brindisi-e-il-suo-porto-cornuto/.

Leggende salentine. Virgilio, un mago?

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di Melanton

È noto che il Salento – e particolarmente Brindisi (dove giunse da un viaggio in Grecia, e si fermò fino alla morte, avvenuta il 21 settembre del 19 a.C.) – ha ospitato per un periodo più o meno lungo il grande poeta latino Publio Virgilio Marone. Non tutti, però, sanno che l’autore dell’Eneide, delle Bucoliche e delle Georgiche, aveva fama d’essere un mago.  A lui, infatti, furono attribuite varie imprese prodigiose, tanto che la nomea del “Mago Virgilio” si diffuse ben presto in tutta la Puglia, e nell’intero Regno di Napoli. E per secoli, fin quasi ai nostri tempi, allorché un’opera destava meraviglia e stupore per la sua grandiosità, si diceva: «L’have fatta lu Macu Virgiliu!».

Così avvenne appunto a Taranto con la famosa fontana di Piazza Mercato, alimentata da un colossale acquedotto che passava sopra il ponte di pietra di Porta Napoli: tutto il popolo era convinto che fosse opera de lu Macu Virgiliu, che con tale impresa (compiuta, peraltro, in una sola notte!), aveva finalmente vinto la sfida con le Streghe per il dominio sulla città.

Di questo preciso evento, e delle magiche capacità di Virgilio, dà precisa testimonianza in un suo saggio anche il filologo romano Domenico Comparetti (1835-1927), citando peraltro il seguente “sincero e grazioso canto d’amore, udito dalla bocca di una contadina, in un picciol villaggio presso Lecce”: «Diu, ci tanissi l’arte de Vargillu: / nnanti le porte toi nducìa lu mare / ca de li pisci me facìa pupillu, / mmienzu le reti toi enìa ‘ncappare ; / ca di l’acelli me facìa cardillu, / mmienzu lu piettu tou lu nitu a fare; / e sutta l’umbra de li to’ capilli /enìa de menzugiurnu a rrepusare». Ah, l’amore, l’amore…

 

Pubblicato su Il filo di Aracne

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