Li mort…ars uèsci! (I mort…ai vostri!)

di Armando Polito

L’anglofilia da tempo in atto ha assunto negli ultimi tempi dimensioni ipertrofiche anche tenendo conto della naturale evoluzione di qualsiasi lingua, oggi esponenzialmente accelerata dalla globalizzazione. Gli effetti devastanti per il nostro idioma non si riducono, però, solo all’aspetto formale, incidono profondamente, purtroppo, sul nostro patrimonio culturale esponendolo al ludibrio del ridicolo (e fosse solo per la pronuncia … casereccia). C’è da meravigliarsi, perciò, se il luogo che teoricamente dovrebbe fedelmente rappresentarci , il parlamento (l’iniziale maiuscola la trovo incongruente …), lo fa in modo impeccabile? Che senso ha, allora, di fronte al profluvio di singole parole o locuzioni inglesi che le nostre orecchie sono costrette giornalmente ad ascoltare, uscirsene nell’espressione che in neretino suonerebbe ancora  parla comu t’ha ffattu màmmata! (parla come ti ha fatto tua madre!). Suonerebbe, perché il lessico delle madri, e non solo loro, moderne (esperte di fashion, beauty cases e simili1)  è costituito prevalentemente da parole inglesi in cui annegano, bene che vada, isolate parole italiane di cui, fra l’altro, ignorano per lo più l’esatto significato. E tutte mi scambierebbero per un vile truffatore se solo mi azzardassi ad accennare all’origine latina delle voci articolate dal loro grazioso e raffinato apparato fonatorio. Per non essere accusato di bieco maschilismo: ho messo in campo solo le madri perché loro erano le protagoniste del proverbio in tempi in cui anche l’educazione al linguaggio (eccetto la sua sezione scurrile …) era compito quasi esclusivamente loro; oggi i padri, per quanto riguarda il fenomeno in esame, sono come le madri, scurrilità non esclusa.

Non potendo più, dunque, stigmatizzare il fenomeno con un proverbio ormai obsoleto, l’ho fatto nel titolo con un gioco di parole in cui la voce inglese mortar assume la funzione di un eufemismo in sostituzione della ben nota parola romanesca. – Bella coerenza ! – dirà qualcuno – Hai fatto rientrare dalla finestra l’inglese che prima volevi cacciare dalla porta -.  Mi difenderò dicendo che pure mortar (alla lettera mortaio, ma in senso traslato malta, intonaco) è dal latino mortarium=mortaio (ma anche droga preparata col mortaio) e che la voce inglese (attestata dalla fine del XIII secolo) molto probabilmente è meno antica del neretino murtieri (usato solo nella locuzione fare a murtieri=ridurre ad impasto), che è dal francese mortier attestato dalla metà del XII secolo. E uèsci è solo un aggettivo possessivo di seconda persona plurale (parente stretto del tu generico); perciò non è riferito a nessuno dei miei affezionati, per quanto pochi, lettori, dai quali mi congedo con questa esilarante intervista che, tenendo conto delle imitazioni di Crozza, potrebbe a buon diritto far parte della serie Quando la realtà supera la fantasia o, meglio, Quando l’imbecillità, accoppiata all’ignoranza, supera la genialità della satira …

io trovo inquietante che ancora non sia stato nominato, magari solo ad honorem, membro dell’Accademia della crusca (in testa); anzi, visto che non si tratta di forfora, dell’Accademia della crusca (nella testa); e così ho pure dimostrato quanto un semplice articolo determinativo può essere enormemente più determinante di qualsiasi articolo (di legge) scritto da questa torma di cialtroni che da troppo tempo ci governa.

Vuoi vedere che il paladino della nostra lingua prima o poi, esperto com’è del salto della quaglia,  proporrà il brevetto del neonato significato metaforico di canguro e costringerà, lui sì, pure gli inglesi ad adottare la nostra parola? Anche perché (è proprio il caso di dire …) con kangaroo pronunziato da lui lascio immaginare cosa verrebbe fuori …

________

1 Per chi, come quelle madri, non lo sapesse: fashion è dal latino factione(m)=modo d’agire, associazione, partito, congiura, frode, inganno (dai due ultimi significati negativi, insomma, nasce, anche se per qualcuno può essere duro ammetterlo,  il concetto di moda, parola  con cui potrebbe essere resa in italiano la voce inglese);  beauty è dal provenzale beltat, a sua volta da un latino *bellita(tem), dal classico bellus=grazioso; case è dal latino capsa=cassetta, a sua volta da càpere=prendere, contenere.

Masseria San Lasi… a Salve

foto 1

di Melissa Calo’

 

Ci sono luoghi che ti accolgono con una carezza, con la gentilezza morbida dei petali dei mandorli. Ci sono luoghi che sembra tu abbia abitato da sempre, dove ritrovi il tempo vissuto da altri attraverso le pietre dei muri, la costolonatura di una trave; dove gli oggetti, per una sorta di commilitanza con i loro proprietari o di chi li ha toccati ed usati, sentano poi il dovere di raccontarne le vite, oppure lo fanno spontaneamente, per una sorta di proprietà transitiva.

Sullo specchio accanto al comò di noce, un riflesso, come un bagliore immaginato o già vissuto, svela un occhio nero di donna, l’onda garbata di capelli raccolti, mani che lisciano i vestiti seguendo le forme di un corpo che oggi è cenere o ricordo. Per il secondo anno consecutivo, ho la fortuna di riconnettermi a queste emozioni e lasciarmi attraversare da sensazioni difficili da spiegare alla festa di San Biagio, il 3 febbraio, alla Masseria di Santu Lasi.

foto 2

La Masseria non è, a differenza di tante altre costruzioni rurali delle campagne salentine, imponente o pomposa. È una “masseria delle piccole cose”, sorella dei furnieddhi – o come mi correggono qui, pajare” – degli spazi che si possono raccogliere quanto si può nei limiti di due ciglia. Ho sempre pensato, da salentina, che le nostre campagne, intendo quelle condotte a seminativo, abbiano una dimensione “familiare”; ma nel Capo di Leuca, dove le ossa e i denti della terra affiorano con più abbondanza e permettono di serrare ancora di più i vuoti, le campagne raggiungono una dimensione intima, quasi interiore. Persino la torre che si trova all’interno della masseria sembra chiedere scusa del suo statuto e adegua le forme e l’imponenza a questo sentire.

foto 3

Febbraio duemilasedici si è presentato all’appello tiepido come l’alito di un bue e ha fatto germinare semi ed erbe a profusione, prima del tempo lecito. Così, un tappeto morbido verdebambino ricopre il vialetto, corto in lunghezza e largo quanto basta, che porta ad un cancelletto spalancato verso un mondo tutto proprio. Hortus conclusus. Questo termine mi è sempre piaciuto, nella sua sonorità, nel suo significato. La masseria delle piccole cose è una masseria conclusa. Masseria degli spazi grandi-il-necessario. Costruzione che non può fare a meno della campagna, della chiesetta, ma contemporaneamente se ne separa. Masseria riccio di mare, che senza il mare non può vivere eppure difende da esso le sue preziose uova con gli aculei. Masseria semplicità e stupore, che ti chiedi perché tutto il Salento non respiri così, nel rispetto del vegetare e nella semplice funzionalità del vivere. C’è lo stupore di trovare fiorite le lavande, il bacio rosso di una rosa d’inverno stampato sulla parete alba di calce, “la regina arsa e concreta” di Vittorio. Il bianco. Qui è dappertutto. Bianco, ma meno llamativo, quasi rosato, è lo sposo che se ne sta all’ingresso della festa. Il grande mandorlo, con le dita inanellate di fiori, profuma appena appena di un’essenza leggermente amara, mentre lo scirocco di tanto in tanto lo pettina facendone cadere qualche petalo per simulare una neve, o forse i coriandoli, ché qui davvero per scherzo si è nel tempo dell’inverno.

fot 5

All’interno della piccola corte centrale, ci sono i convenuti alla festa. Uno strano miscuglio. Esattamente come ad una cerimonia di matrimonio, si ritrovano i parenti più prossimi, i curiosi, le facce conosciute, quelle che non vedi mai per sbaglio in strada ma che vedi sempre a proposito di queste occasioni; gli zii anziani, ma quelli proprio anziani anziani che sembrano i più titolati a stare lì, che da quei posti non sono mai partiti. Le cugine trendy e i cognati grassissimi. Sulla soglia di una porta, assisa in vimini, trovo una signora con le rughe che sembrano scassi per i filari dei vigneti. Assomiglia molto alla zia di papà, zia Rosa, che era veramente la moglie di un colono di Don Costa, ricco proprietario terriero. La masseria che custodiva, però, era più mastodontica, aveva pretese di salti di categoria, ambiva al rango di palazzo cittadino con la sua scala di ghisa e i marmi cipollini pretenziosi. Grandeur gallipolina alla quale la zia faceva abbassare la cresta coltivando piante di ciciri e tria accanto alle rose viola che profumavano di limone. Osservando le persone non posso fare a meno di pensare che la masseria di Santu Lasi sia oggi un campione rappresentativo dello spaccato socioculturale che si trova là fuori. Le campagne qui intorno sono pullulate da padovani, svizzeri e svizzerotti, ché certi giorni ascolti un fiorire di scìscì che nemmeno nel trevigiano. Innamorati sulla via di Damasco, loro comprano di tutto e ristrutturano di ogni. Pensionati pensionanti in queste terre, passano a svernare “nel bel suol d’amore” metà anno. Devo dire la verità, conosco della gente interessante. Meno male che ci sono. Sono contenta di questo meltin’pot, anche se spesso i locali si lamentano che “tuttu iddhi càttane”, tutto loro comprano, punta di invidia rabbiosa contadina per il contingente o diffidenza maturata da secoli di invasioni, chissà.

foto 6

Da questa mescolanza credo che nascerà un’eugenetica culturale, è sempre nato qualcosa di buono in questa terra dall’incrocio di razze e popoli. I grandi assenti invece sono i ragazzi, quella fascia di popolazione che va dai 18 ai 30 anni, ma del resto non ce ne sono nemmeno in paese, sono fuori, a cercarsi vite e fortune in qualsiasi posto sempre lontanissimo. Qualcuno è tornato, qualcuno resiste, come il gruppo di ragazzi e ragazze che hanno preparato il pranzo oggi. L’odore delle pittule, il sapore delle foje creste sapeva uguale oggi come in un giorno qualsiasi di un febbraio di fine ‘500. La banda attacca. Un momento epico, che commuove me e Milena. Ecco, sono sicura che l’”Uva fogarina”, nel 1577 o giù di lì, ancora non era stata composta.

foto 7

Aldo De Bernart e la foresta di Supersano

supersano-celimann
Cripta di Coelimanna a Supersano

di Maria A. Bondanese

 

Un dì

per queste balze  

salmodiando salian

di buon mattino

barbuti monaci di S. Basilio.

Li accompagnava

un timido raggio di sole  

tra le rame del Bosco Belvedere

e il cinguettio gioioso degli uccelli      

saltellanti nella guazza.

 

Sembra di vederli quei monaci pensosi, evocati dal verso gentile¹ di Aldo de Bernart che alla profonda cultura, alla perizia di storico, al rigore di studioso univa la dedizione per i nostri luoghi, la cui identità ha insegnato ad amare e riscoprire. Luoghi in cui specchie, dolmen e pietrefitte rinviano ad epoche remote, a un tempo immobile, circolare ed arcano, laddove chiese, torri e castelli, densi di memoria, raccontano come dalla periferia vengano i fili alla trama della grande storia.                                                                                   Il tratto armonioso, l’eloquio dotto e persuasivo, Aldo de Bernart era solito sbalzare fatti e personaggi della realtà municipale con dovizia di particolari e vivida precisione, così da significarne il ruolo nella storia di questo territorio, segnato da lenti ma inarrestabili mutamenti nel suo patrimonio architettonico, viario e paesaggistico. Casali e masserie costellano la campagna salentina offrendosi testimoni silenti di un sistema insediativo antico ma residuale, come tratturi e sentieri, stretti tra filiere di muretti a secco, appaiono relitti di suggestive ma ormai desuete percorrenze.

La via misteriosa, via della ‘perdonanza’, serba però ancor oggi intatto l’incanto che l’esatta e suasiva descrizione fattane da Aldo de Bernart² riesce a trasmettere al lettore. In età medievale, quando viandanti e pellegrini si muovevano «per mulattiere insicure e per sentieri alpestri»³, la via misteriosa o «via degli eremiti»⁴ incardinando, tra le ombre della boscaglia, le chiese rupestri della Madonna di Coelimanna (Supersano) e della Madonna della Serra (Ruffano), costituiva quel percorso di crinale che dai dintorni di Supersano si snodava lungo il Salento delle Serre fino a S. Maria di Leuca.

«Legato alla primitiva antropizzazione di questo territorio quando, presumibilmente, solo dalla sommità delle Serre si poteva avere un quadro territoriale significativo, mentre le valli erano coperte fittamente di boschi e di paludi»⁵, il percorso di crinale lambiva la ‘foresta’⁶ plurimillenaria di Belvedere sulla quale amabilmente, in più di un’occasione⁷, Aldo de Bernart ha voluto soffermarsi, catturato dal fascino dell’immenso latifondo di querce, pressochè scomparso.

Pochi esemplari ne attestano ancora la superba bellezza ma la sua storia è narrata nel “Museo del Bosco”(MuBo) di Supersano, nato dall’esigenza di far conoscere questo particolare ecosistema del territorio salentino, attestato storicamente almeno dall’età romana fino agli inizi del secolo scorso.

quercia spinosa
quercia spinosa

L’eccezionale polmone verde ricadeva nel feudo di sedici Comuni : Supersano, Scorrano, Spongano, Muro, Ortelle, Castiglione, Miggiano, Poggiardo, Vaste, Torrepaduli, Montesano, Surano, Sanarica, Botrugno, San Cassiano e Nociglia, che vi esercitavano gli usi civici, ossia i diritti minimi riservati alle popolazioni a fini di sussistenza. Il Bosco era dunque «fonte di ricchezza e per questo oggetto di desiderio e di contesa tra le popolazioni confinanti»⁸ come attesta, tra l’altro, il conflitto che nel XVI secolo oppose contro il feudatario di Supersano gli abitanti di Scorrano, «che lamentavano la soppressione d’alcuni diritti che essi vantavano da tempo immemorabile sullo splendido Bosco del Belvedere» , come quelli di «acquare, pascolare e legnare senz’alcuna servitù»⁹.

La caccia, la pesca, la raccolta di frutti e legna, di giunchi e canne palustri, la coltura di lino e canapa, l’allevamento di pecore e suini erano le attività più praticate all’interno del Bosco, assieme alla produzione di carbone. Tali le risorse del magnifico Belvedere, da conferire ai casali che di esso disponevano un valore di stima superiore a quelli che ne erano privi. Aldo de Bernart ricorda come «Fabio Granai Castriota, barone di Parabita, quando nel 1641 vende a Stefano Gallone, barone di Tricase, la Terra di Supersano con il bosco Belvedere e con il feudo di Torricella e della sua foresta, con i relativi diritti feudali, realizza il prezzo di 40.000 ducati»¹⁰. Cifra ragguardevole per i tempi e addirittura doppia rispetto all’ “apprezzo” che, nel 1531, ne aveva fornito Messer Troyano Carrafa nella compilazione dei feudi confiscati in Terra d’Otranto ai baroni schieratisi contro la Spagna.

La relazione¹¹, contenuta nell’ Archivio General de Simancas, rientrava nei lavori della commissione incaricata, nel 1530, dall’imperatore Carlo V di redigere l’elenco e la stima dei beni sottratti ai nobili ribelli, durante l’annoso conflitto tra francesi e spagnoli in Italia, che aveva travolto anche l’assetto feudale di Terra d’Otranto e giungerà a conclusione solo nel 1559. Al di là delle umane traversie, il Bosco continuava a prosperare lungo una superficie di oltre 32 kmq., delimitata da una linea quasi elissoidale di circa 40 km. di giro, ricca di acque alluvionali che sboccavano, come ricordava il ruffanese Raffaele Marti, «in ramificati canaloni, spesso fiancheggiati dal rovo, dal frassino, dalla vitalba, dalla marruca, dalla brionia» che, intricandosi, ombreggiavano stagni «albergo di scodati e caudati batraci, di luscegnole, d’orbettini, e spesso di bisce d’enormi proporzioni»¹².

Nel fitto bosco di querce, tra cui il maestoso farnetto, la roverella e la virgiliana, si ergevano anche olmi, lecci, castagni, persino il frassino maggiore e il carpino bianco, cui facevano corona piante e fiori del sottobosco e della macchia mediterranea quali alloro, corbezzolo, lentisco, mirto, viburno, pungitopo, rosmarino, gelso, rose di San Giovanni e senza che vi mancassero mele, pere, sorbe, nespole, uva allo stato selvatico. “Delizie” definisce perciò Aldo de Bernart l’incanto e le rigogliose varietà del Belvedere¹³, in cui trovavano asilo cervi, volpi, lontre, caprioli, scoiattoli, lepri, conigli, tassi, martore e puzzole accanto ai voraci lupi e ai possenti cinghiali, di cui l’ultimo sarà abbattuto nel 1864. Paradiso dei cacciatori per l’abbondanza di fagiani, tordi, beccacce e pernici, il Belvedere ospitava anche trampolieri che svernavano presso la palude di Sombrino, formata dalle acque piovane abbondanti in autunno ma che, stagnanti in estate, emanavano «miasmi deleteri, che spandevano la loro influenza pestifera fino a Supersano »¹⁴, propagando l’azione malarica in tutta la zona mediana della provincia. Motivo per cui il Giustiniani, descrivendo “Suplessano” ai primi dell’800, aveva annotato che è «in luogo di aria non sana»¹⁵ .

Nel 1858, uno scavatore di pozzi di Soleto, Giuseppe Manni, riesce a bonificare l’area facendo confluire le acque del Sombrino entro una voragine da lui creata: «e come d’incanto/scomparvero l’acque,/non senza rimpianto./Ne sorsero i campi/fiorenti di Bacco/ma tu Supersano,/per fato divino/perdesti il tuo lago/il lago Sombrino»¹⁶. Supersano, tra l’altro, acquista d’allora fama di località salubre tanto che l’Arditi, rispetto al più antico etimo – Supralzanum – di origine prediale, avanzerà l’ipotesi che il suo nome potesse essere «una pretta ed accorciata traduzione del latino Super sanum, più che sano»¹⁷, con chiara allusione alla bontà del clima.

Ma il Bosco, il cui legname pregiato nel 1464 era stato richiesto per riparare le porte del Castello Carlo V di Lecce¹⁸, subisce un progressivo e drastico impoverimento al punto che lo stesso Arditi nel 1879, scriveva :«Era questo forse nella Provincia il bosco più vasto e vario per essenze arboree, ma oramai non rimangono più di arbustato e di ceduo se non poche moggia a Nord-Ovest verso Supersano; tutto il resto è ridotto a macchia cavalcante od a terreni coltivati a fichi, vigne e cereali»¹⁹. Non estranea comunque alla fine del Bosco la sua suddivisione in quote, seguita alle leggi eversive della feudalità del decennio riformatore francese.

Dopo lunga contesa con i Principi Gallone, in possesso del Bosco di Belvedere che assicurava loro «la pingue rendita di L.42.500»²⁰, nel 1851 venne eseguita l’ordinanza di divisione del patrimonio boschivo fra i comuni che vi esercitavano gli usi civici.

«Le complesse vicende storico-giudiziarie associate alla Questione demaniale del Bosco Belvedere, dal punto di vista territoriale innescarono profonde conseguenze geografiche nel paesaggio così investito da rapidi mutamenti che, nel volgere di pochi lustri, a far data dalle operazioni di divisione in massa dell’ex-feudo Belvedere e della Foresta, ebbe ad assumere un connotato non più silvano ma decisamente caratterizzato dalle colture agrarie, viepiù affermantisi nella seconda metà del XIX secolo»²¹. Mutato il contesto paesistico, solo il Casino della Varna, stupendo ritrovo di caccia d’impianto seicentesco tuttora esistente nell’agro di Torrepaduli, la cui «mole si staglia in una brughiera odorosa di timo, solcata da un’antica carrareccia scavata nella macchia pietrosa», non più luogo d’incontro di nobili per lieti conviti, «rimane oggi l’unico testimone muto dei fasti e della bellezza selvaggia del Bosco Belvedere»²². La cui memoria però, intesa non come semplice conservazione e inerte deposito di dati ma piuttosto azione creativa e trasfigurazione del passato, è custodita nel Museo del Bosco di Supersano.

Nella memoria, infatti, tutto ci è coevo²³: il monaco filosofo Giorgio Laurezios di Ruffano, insegnante di filosofia morale per i novizi che “salmodiando salian” alla chiesa-cripta della Coelimanna, in una Supersano fantasma del XIII secolo con appena 120 abitanti terrazzani sparsi per le campagne, come ci ha spiegato Aldo de Bernart, maestro di vita, arte, letteratura, la cui missione educatrice e culturale resta operante nella mente e nell’animo di quanti hanno avuto il privilegio di conoscerlo.

 

pubblicato nel volume antologico Luoghi delle cultura Cultura dei luoghi, a cura di Francesco De Paola e Giuseppe Caramuscio, Grifo Editore

 

Note

¹ A. De Bernart, Notizia su Giorgio Laurezios di Ruffano e la sua scuola di filosofia nella Supersano medievale, «Memorabilia» 28, Ruffano, aprile 2011, riportato anche da «Il nostro Giornale», a. XXXV- n.75, Supersano, 25 dicembre 2011, p. 20

² Cfr. A. De Bernart-M. Cazzato, S. Maria della Serra a Ruffano, Galatina 1994. Di Mario Cazzato è doveroso sottolineare la lunga e fruttuosa collaborazione con Aldo de Bernart nella valorizzazione del patrimonio architettonico e paesaggistico salentino.

³ Ivi, p. 23

⁴ Cfr. C. Sigliuzzo, Leuca e i suoi collegamenti nel Basso Salento, in Nuovo Annuario di Terra d’Otranto, Vol. I, Galatina 1957,               pp.73-76

⁵ A. De Bernart-M. Cazzato, S. Maria della Serra a Ruffano, cit., p.15

⁶ Così la chiama il Conte Carlo Ulisse de Salis Marschlins che, percorrendo le contrade del Salento nel 1789, annota come «nella foresta di Supersano sono allevate due razze equine appartenenti al Marchese di Martina e al Duca di Cutrofiano, le quali forniscono buonissimi cavalli da sella e da tiro. Vi sono anche degli armenti, ed assaggiai qui una nuova qualità di formaggio fatto di latte di capra, che è davvero eccellente» (C. U. de Salis Marschlins, Viaggio nel Regno di Napoli, a cura di G.Donno, Lecce 1999, p. 140-141).

⁷ Cfr. A. De Bernart, La foresta di Supersano, «Il nostro Giornale», a. IV-n. unico, Supersano, 8 maggio 1980; A. de Bernart, Torrepaduli Belvedere in A. de Bernart-M. Cazzato-E. Inguscio, Nelle Terre di Maria d’Enghien, Galatina 1995, pp. 29-34

⁸ F. De Paola, L’effimero volo delle aquile dei Gonzaga sulle terre salentine (1549-1589) in M. Spedicato, I Gonzaga in Terra d’Otranto, Galatina 2010, n. p. 85

Ivi, pp. 84-86. In merito alla controversia, l’Autore cita la “provvisione regia” del 1582 con cui la Gran Corte della Vicaria di Napoli si espresse a favore dei cittadini di Scorrano contro Scipione Filomarino, allora barone di Supersano

¹⁰ A. de Bernart, Torrepaduli Belvedere, cit., p.31

¹¹ Cfr. F. De Paola, “O con Franza o con Spagna…” Note sulla geografia feudale di terra d’Otranto nel primo Cinquecento , in               M. Spedicato (a cura di) Segni del tempo. Studi di storia e cultura salentina in onore di Antonio Caloro,Galatina , 2008,                       pp. 85-87

¹² R. Marti, L’estremo Salento, Lecce 1931, pp. 21-23

¹³ A. de Bernart, Torrepaduli Belvedere, cit., ivi

¹⁴ C. De Giorgi, La Provincia di Lecce- Bozzetti di Viaggio, 1882, rist. Galatina 1975, Vol. I, p.148

¹⁵ L. Giustiniani, Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli, 1797-1805, rist. an. Bologna 1984, tomo IX, p. 120.

¹⁶ R. De Vitis, Le “Vore”e il Lago Sombrino in Soste lungo il cammino, Taviano 1990, p. 116.                                                                                                             Per le bonifiche delle zone paludose in Terra d’Otranto, fra cui quella di Sombrino, a ridosso dell’Unità d’Italia,                                              cfr. M.A. Visceglia, Territorio feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età moderna, Napoli 1988, p. 25

¹⁷ G. Arditi, Corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto, rist. an. Lecce 1994, p.577

¹⁸ Cfr. G. Fiorentino, Il Bosco di Belvedere a Supersano: un esempio di archeologia forestale, tra archeologia del paesaggio ed archologia ambientale in P. Arthur-V. Melissano (a cura di), Supersano Un paesaggio antico del Basso Salento, Galatina 2004, pp. 23-24

¹⁹ G. Arditi, op. cit., p. 65. L’Arditi aveva conosciuto nelle sua varietà e bellezza il Bosco di Belvedere perchè, nel 1851, aveva ricevuto l’incarico di tracciarne la mappa e stabilire la divisione in quote tra le parti interessate.

²⁰ A. De Bernart, La foresta di Supersano, cit.

²¹ M. Mainardi, Il Bosco di Belvedere, «Lu Lampiune», a. V, n. 3, 1989, p. 108

²² A. De Bernart, La foresta di Supersano, cit.

²³ Cfr. Maria A. Bondanese, Sul tempo ed altro, «Il nostro Giornale», a. XXXV- n.75, Supersano, 25 dicembre 2011, p. 21

A Sannicola| Corso di cinema

corso

L’associazione Ionia organizza il Corso di Cinema. Il corso si svilupperà in 20 lezioni di 2 ore ciascuna per 40 ore totali, cui si aggiungeranno le lectiones magistrales. Proporrà una combinazione di teoria e pratica, per consentire agli allievi di realizzare i propri progetti anche con pochi mezzi. Sarà tenuto dal regista, saggista e videomaker Jonathan Imperiale. E’ patrocinato dal Comune di Sannicola e sono partner di progetto “Cinema Italia”di Gallipoli, all’interno delle cui sale saranno proiettati i video e i cortometraggi realizzati durante il corso in un evento finale e La Maestà con le lectiones magistrales di Nello Marti, produttore televisivo indipendente e Patrizia Bulgari, capoprogetto produzioni tv.

Patrizia Bulgari terrà la conferenza – dibattito “la figura strategica del produttore televisivo indipendente”. Jonathan Imperiale è autore di saggi sul mondo del cinema e di due monografie: “Far ridere non è uno scherzo. I meccanismi del comico e delle comiche in cento film”, testo adottato dalla cattedra di Psicologia generale del professor Godino a Lecce ed il più recente “Figure bibliche nel cinema”. Ha recentemente collaborato ad una versione multimediale della Bibbia per la CEI (Conferenza Episcopale Italiana). Ha scritto e diretto videoclip musicali come “Tutto è cultura” di Mino de Santis e “Vado Via” di Alessandra Caputo e cortometraggi tra cui “Piovono Caschi”, finalista al concorso Rai e INAIL per la sicurezza del lavoro e “La Rivoluzione” in concorso alla XIV edizione del Festival del cinema Europeo.

Il corso sarà avviato al raggiungimento minimo di 15 allievi
info e costi: 347 8552157

Quel verso un tantino galeotto/dell’otrantino, forse, Guglielmotto …

di Armando Polito

x2

 

Qualcuno riterrà poco serio affrontare, come ho fatto io nel titolo e, peggio ancora col sonetto che lo segue, un qualsiasi problema, non fosse altro che per proporlo in modo divulgativo piuttosto che (ecco  pure per me il tanto inflazionato piuttosto che, ma qui è usato correttamente …) per risolverlo. Io, al contrario, sono convinto che la vera conoscenza non possa mai rinunziare, fin dalla sua fase iniziale, alla fantasia e ad un pizzico di sana spensieratezza, purché queste non prevarichino in modo inequivocabile l’acribia e le corrette, nei limiti dell’umano, assunzione ed elaborazione dei dati. Cos’è la cosiddetta ipotesi di lavoro se non frutto del lavoro della fantasia disposta, comunque, a piegarsi alle esigenze della ragione quando quell’ipotesi si rivela non più praticabile? Il pericolo maggiore in questo caso è quello di affezionarsi troppo ad una teoria, fino a credere testardamente di aver attinto il certo (non parlo, figuriamoci, del vero …) e di perseverare in questa cecità intellettuale anche quando l’ ipotesi risulta, bene che vada, traballante rispetto ad altre fondatamente più convincenti.

La criptica leggerezza del mio titolo, però,  non prelude alla rivelazione (!) di una o più scoperte originali (cioè mie …), ma è solo, se si vuole, uno strumento con cui il divulgatore tenta di far conoscere, magari maldestramente, ad una platea più vasta di quella costituita dai cosiddetti addetti (la bruttezza fonetica del nesso non nasconde nessun intento satirico …) ai lavori la figura di un salentino (forse …) di un passato molto lontano.

Di lui ignoreremmo oggi l’esistenza se Leone Allacci (1586 circa-1669) non avesse rinvenuto nel manoscritto  Vaticano Barberiniano latino 3953, che è datato alla prima metà del XIV secolo (versione digitalizzata http://digi.vatlib.it/view/MSS_Barb.lat.3953/0001/thumbs?sid=8e85529d717726927ac4233aa08486f3#current_page) alla carta 127 un sonetto con in testa il nome dell’autore, un certo Guilielmotus de Oltranto

ribadito, in traduzione italiana, nella rubrica all’inizio  dello stesso manoscritto, un certo Guilelmoto da Otranto:

Il certo che ho usato per ben due volte non ha alcuna valenza dispregiativa, ma vuole solo sottolineare, quasi sarcasticamente, l’indeterminatezza che finora ha accompagnato e, forse, accompagnerà per sempre il personaggio.

Passo ora ad una sorta di esame autoptico dello scritto, non solo perché il lettore si renda conto del lavoro del filologo (in questo caso dilettante, come, bene che mi vada, posso essere definito) ma perché possa più agevolmente seguirne le tappe ed eventualmente appassionarsi, cominciando, magari, a nutrire qualche rimpianto …; in più l’operazione mi consente di inserire delle note immediatamente fruibili.

                                                                       Guilielmotus de oltranto a

a Oltranto per Otranto s’incontra pure in testi a stampa anche relativamente recenti. Un esempio, in formato immagine (l’unico che preserva dai rischi di errata trascrizione, come vedremo …) per tutti:

(da Notizie per l’anno MDCCCLV, Tipografia della Rev. Cam. Apostolica, Roma, 1855, p. 159)

Oltranto nasce secondo me per dissimilazione dovuta ad ipercorrettismo (per influsso di oltre?) da un precedente Ottranto (finora non l’ho mai incontrato in manoscritti, ma sicuramente ci sarà da qualche parte). Anche qui un solo esempio per tutti:

(da Leandro Alberti, Descrittione di tutta Italia, Pietro del Nicolini da Sabbio, Venezia, 1551, s. p. e  p. 419)

L’Allacci pubblicò questo sonetto che, ancora una volta fino ad ora, è tutto ciò che ci rimane di Guglielmotto, in Poeti antichi raccolti da codici manoscritti della Biblioteca vaticana, e Barberina, Sebastiano D’Alecci, Napoli, 1661. Lo riproduco da p. 373:

Prima di accennare a ciò che è che emerso in epoca più o meno recente, conviene passare in rassegna cronologica ciò che si legge in testi più datati, ma successivi a quello dell’Allacci. Per ora lo proporrò ancora in formato immagine, sottolineando, volta per volta a fronte le differenze testuali ed aggiungendo qualche nota di commento.

Niccolò Toppi, Biblioteca Napolitana, Bulifon, Napoli, 1678, p. 180:

Giovanni Mario Crescimbeni  (1663-1728), L’istoria della volgar poesia, Chracas, Roma, 1698, pp. 395-396:

Comentari intorno all’istoria della volgar poesia, De’ Rossi, Roma, 1710, p.29:

Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Mosca, Napoli, 1748, p. 397-399:

 

È ora il momento di ritornare al testo dell’Allacci e di analizzarlo. Alcuni espedienti grafici adottati serviranno a rendere più immediati e precisi i riscontri.

Il sonetto presenta le quartine con rima ABAB ABAB. Passando alle terzine si nota che nel verso 9 venciono infrange la regolare sequenza che altrimenti sarebbe stata CDE CDE. Di ciò sicuramente si accorse il Crescimbeni che emendò in vincimo il venciomo dell’Allacci (anzi di chi curò la composizione tipografica, dato che il suo indiscusso valore di diplomatista rende impossibile l’errata lettura di vencimo, che nel codice è chiarissimo), ripristinando non solo la rima con vedimo ma anche la rimalmezzo con primo.

Nel 1905 Gino Lega pubblicava a Bologna per i tipi di Romagnoli-Dall’Acqua Il canzoniere Vaticano Barberino latino 3953 (integralmente consultabile in https://archive.org/stream/ilcanzonierevati00bibluoft#page/n7/mode/2up in formato immagine ed in http://www.forgottenbooks.com/readbook_text/IL_Canzoniere_Vaticano_Barberino_Latino_3953_GiYA_Barb_XL_1300003122/0 in formato testo), ricordando nell’introduzione a p. XII che l’Allacci “di poesie tratte dal codice e pubblicate senza mutamento alcuno d’ortografia o di lezione, quasi precorrendo le moderne edizioni diplomatiche, arricchì per circa un buon terzo il suo volume dei Poeti Antichi, apparso in Napoli per i tipi di Sebastiano d’Alecci nel 1661″.

L’affermazione è assolutamente priva di fondamento: nel codice al verso 6 si legge misa, l’Allacci legge missa; al verso 2 il codice inmaculato, l’Allacci immaculato; al verso 7 il codice suma (coerentemente con il suma del verso 2, l’Allacci summa; nel famigerato verso 9 vencimo, l’Allacci il venciono di cui s’è detto; al verso 10 anticho, l’Allacci antico; al verso 13 certi simo, l’Allacci certisimo (altro probabilissimo errore di composizione tipografica); al verso 14 omnipotente, l’Allacci onnipotente.

Di seguito il testo, tratto in formato immagine da p. 131, secondo la lezione del Lega:

Anche così, però, in questo verso n. 9 c’è qualcosa che non va ed è il numero di sillabe (12 invece di 11). Difficile credere alla presenza di un endecasillabo ipermetro , cioè di un’imperfezione che non troverebbe qui nessuna giustificazione tecnica e poetica e che sembrerebbe trovare riscontro in quel molto rozze e malamente stese con cui il Gualtieri aveva liquidato le poesie del nostro che aveva avuto occasione di leggere. È difficile crederlo per la sottile e fitta rete di rime al mezzo che lo costellano (le ho evidenziate con i diversi colori) e che, lungi dall’essere una pura esibizione di bravura tecnica (non nuova, tra l’altro, all’italiano dei primi secoli) sono strumentali agli esiti poetici e sotto questo punto di vista non mi pare condivisibile il giudizio del Crescimbeni, citato  dal Tafuri e sopra integralmente riprodotto, che, pur riconoscendo al nostro la capacità di trattare esaurientemente il tema nel breve volgere di un sonetto, parla di stle rozzissimo; giudizio tanto più sorprendente se si pensa alla solfa noiosa, per restare allo stesso tipo di produzione letteraria, di un Leonardo Giustiniani che più di un secolo dopo mostrerà nelle sue laudi una citazione più o meno passiva di certi nessi già utilizzati dal nostro, anche se in senso lato possono essere considerati formulari:

(da Laude del excellentissimo misier Lunardo Iustiniano patricio venetian; l’incunabolo reca nel colophon la data 1475)

(da Incominciano le devotissime et sanctissime laude composte per el nobile et magnifico misser Leonardo Iustiniano; l’incunabolo reca nel colophon la data 1490)

E sul verso 9 ritorna sempre il Crescimbeni (a p. 12 de L’istoria …, op. cit.) nella sua polemica con Sebastiano Fausto  al quale rimprovera di non aver citato proprio il verso in questione come ipermetro e di aver attribuito, invece, tale qualità non propriamente esaltante ad alcuni versi del Petrarca  per i quali il buon Giovanni Mario rivendica, invece, la perfezione adducendo fondate giustificazioni alla presenza di una sillaba in più. I motivi fonetici, però, addotti nella circostanza (a chi voglia conoscerli segnalo il link dove L’istoria è integralmente consultabile: https://books.google.it/books?id=Vt56gMLGV2cC&printsec=frontcover&dq=crescimbeni+istoria+della+volgar+poesia&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiYuozV2vfKAhXBLHIKHV9yBosQ6AEIJDAB#v=onepage&q=crescimbeni%20istoria%20della%20volgar%20poesia&f=false) non possono essere applicati al nostro v. 9, a meno che, cosa che il Crescimbeni nega, non si voglia considerare armatura come se metricamente valesse armatur (il che conserverebbe, ma solo nella scrittura, la rimalmezzo con altura.

Al  manoscritto di cui si servì l’Allacci vanno aggiunti i tre segnalati in epoca a lui successiva:

Catalogo  dei manoscritti italiani che sotto la denominazione di codici canoniciani italiani si conservano nella Biblioteca Bodleiana a Oxford, E Typographeo  Clarendoniano, Oxonii, 1864, colonne 60, 125 e 239. Anche qui riproduco in formato immagine i luoghi che ci interessano (tratti da https://books.google.it/books?id=FsI220q9050C&pg=RA1-PA148&dq=guglielmotto+da+otranto&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiqz6DrqffKAhXLuhoKHbVhA9sQuwUIITAA#v=onepage&q&f=false) :

………….

…………..

……………..—

Il lettore avrà notato che nelle segnalazioni del Mortara, e non poteva essere altrimenti, è riportato il solo incipit. Per l’iniziale collazione tra il codice utilizzato dall’Allacci e gli oxfordiani  50 e 263 (ma non 111) bisognerà attendere Oronzo Parlangeli in Brevi cenni di storia linguistica del Salento in Nuovo annuario di Terra d’Otranto, Galatina, 1957, pp. 37-63 e 57-58. Particolare rilievo acquista, in rapporto al verso 9, la variante arme (invece di armatura) dell’oxfordiano 50, che il Parlangeli mostra di privilegiare. Si tratta di una soluzione più drastica dell’armatur da me proposta e, anche se con arme la rimalmezzo va a farsi benedire, la carta, anzi il codice, canta, almeno fino a quando non ne comparirà qualcun altro (meglio se del XIII secolo …) che rechi armatur.

E siamo agli ultimi sviluppi. Il pregevole saggio di Chiara Coluccia e Delia Corchia Il sonetto eucaristico di Guglielmotto d’Otranto rimatore del secolo XIII, in La parola del testo, Zauli, Roma, anno XI, 1907, fascicolo 2,  pp. 277-297, non solo contiene un lucido e documentato excursus sulla vicenda editoriale del nostro sonetto aggiungendo alle fonti testuali altri manoscritti ed un incubabolo, ma tenta anche di ricostruire la temperie culturale dell’autore, senza incorrere (e le autrici lo fanno egregiamente dopo aver stigmatizzato la tentazione, in cui più di uno è incorso, di rivendicare a tutti i costi la salentinità di Guglielmotto) in avventate affermazioni campanilistiche. E sotto tale luce va vista pure l’ipotesi, avanzata nel lavoro, d’identificazione del  nostro autore con un Guglielmo da Otranto monaco cistercense, la cui attività nel monastero di S. Angelo de Frigilo è documentata dal 1217 al 1219. Non posso fare a meno, prima della chiusura scherzosa (ma non tanto …) di riportare il sonetto secondo la ricostruzione delle due studiose:

 

 

Un patrimonio da riscoprire: le cinquecentine della Biblioteca Comunale “Marco Gatti”

 Cinquecentina 1

Alla memoria di Elio Dimitri

 

di Nicola Morrone

Tra le istituzioni culturali più significative della nostra città è da annoverare la civica biblioteca ”Marco Gatti”, tra le più cospicue del Salento in quanto a dotazione libraria (oltre 50.000 volumi).

Il suo primitivo nucleo fu costituito, come è noto, grazie all’impegno dei concittadini Nicola Schiavoni e Gregorio Sergi. L’uno fu patriota e poi senatore del Regno d’Italia, l’altro era sacerdote: di idee politiche opposte, si trovarono uniti dall’amore per la cultura, e, mettendo ordine tra mucchi di volumi di vario argomento e provenienza, finirono per fondare, di fatto, la Biblioteca Comunale, ufficialmente riconosciuta come tale nel 1897. Tuttora, i volumi in essa conservati, fondamentalmente di argomento umanistico, rappresentano uno strumento insostituibile per chi voglia cimentarsi con questioni di storia locale (cittadina, regionale e del Mezzogiorno). E tra i volumi più antichi, anche se meno noti, della nostra biblioteca civica sono da annoverare gli “incunaboli”, cioè le edizioni a stampa realizzate entro il 1520, e le “cinquecentine”, cioè i volumi stampati nel successivo ottantennio.

Si tratta di rarità bibliografiche: ogni biblioteca storica che si rispetti ne possiede un fondo, più o meno consistente, e la “Gattiana” ne annovera una collezione di 180, già catalogata sapientemente dal dott. Michele Greco diversi decenni fa [cfr. il “Catalogo alfabetico degli incunaboli e delle edizioni cinquecentine , coll.MS-D-XII] e di recente sottoposta ad un ulteriore controllo. Il fondo pone una serie di questioni relative alla provenienza del materiale e alla natura delle opere presenti.

Per ciò che riguarda il primo punto, riteniamo più che probabile che tanto gli incunaboli quanto le cinquecentine provengano dal patrimonio degli Ordini religiosi soppressi dopo l’Unità d’Italia (1861), come sostenuto tempo fa da uno studioso [Cfr. R. Fiorillo, Incunaboli posseduti da alcune biblioteche del Salento, in “Rinascenza Salentina”, pp.264-266] e come del resto confermato da un verbale del Decurionato di Manduria del 22 Settembre 1809, in cui è scritto che “ si crede necessario che dalle librerie dei Padri Agostiniani e Padri Domenicani si dovesse formare una pubblica Biblioteca di cui si è privo [il Comune] acchè li non pochi talenti degli individui studiosi di detta città non stessero privi di leggere i Santi Padri, li critici sagri, la storia sagra e profana, li Teologi, li predicabili e tutt’altro in dette librerie si trova” [Cfr.Biblioteca Comunale, Ms A-XVIII-5].

Per ciò che concerne il secondo punto, una recente ricognizione di massima del fondo delle cinquecentine ci ha permesso di ricavare alcuni dati interessanti, che, forse, potranno essere utili a chi vorrà avviare uno studio scientifico di questo notevole patrimonio librario. Quali autori, innanzitutto, compaiono nelle opere a stampa del sec. XVI? Vi è un pò di tutto: dagli antichi (Aristotele, Aristofane, Platone,Plinio il Vecchio, Agrippa, Diogene Laerzio, Ovidio, Senofonte, Aulo Gellio, Ippocrate, Giuseppe Flavio, Luciano, Cicerone, Livio, Sallustio, Quintiliano, Virgilio, Cesare e Plutarco) ai medievali (San Bernardo di Chiaravalle, San Tommaso D’Aquino, Severino Boezio, Cassiodoro, Giustiniano, Avicenna) ai moderni (Pietro Bembo). Si segnalano, tra l’altro, un volume di memorie sul Concilio Tridentino, e una copia dell’Indice dei Libri Proibiti.

Cinquecentina 2

Ci siamo impegnati in una schedatura personale degli stampatori, facendo uso della fondamentale catalogazione di Michele Greco. Tra le 180 cinquecentine, vi sono 113 edizioni stampate a Venezia, 15 a Lione, 5 a Parigi, e altrettante a Roma e a Basilea, 4 a Napoli, 3 a Francoforte, Firenze e Padova, 1 ad Anversa, Bergamo, Bologna, Fano, Mantova, Torino, Strasburgo, Palermo, mentre 14 edizioni non presentano marca tipografica, e andranno identificate attraverso criteri specifici. Confrontando il fondo della “Gattiana” con quello di altre biblioteche salentine, vi si ritrova, in percentuale,la presenza dei medesimi stampatori: la parte del leone la fa sempre Venezia, seguita, soprattutto nella seconda metà del Cinquecento, dalle città del centro e del settentrione d’Europa. La stampa, inventata nel 1454 da Johann Gutenberg, nel sec.XVI, supera ad opera dello stampatore veneziano Aldo Manuzio i criteri che improntavano la realizzazione degli incunaboli, ancora legati al manoscritto medievale, dando vita al “libro, completo, vivo e vario nei suoi elementi, con illustrazioni quasi tutte in taglio dolce e su tavole fuori testo […]

Il Cinquecento fu il secolo del maggior splendore della tipografia in Italia; i libri stampati nelle tre lingue allora universali (italiana, latina e greca) portarono in tutta Europa la tecnica perfetta e la bellezza delle nostre pagine che, molto imitate, non furono superate da altri” [Cfr. G.D.E.Utet, vol.XVII, p.690,voce “Stampa”]. Tutti i principali stampatori italiani e vari altri europei, sempre di prim’ordine, sono presenti con le loro edizioni nel fondo delle “cinquecentine” della biblioteca comunale “M.Gatti”: i veneti Manuzio (Aldo, Andrea e Paolo), le cui edizioni sono contrassegnate dalla nota marca tipografica (l’ancora), Arrivabene, Degli Avanzi, Giunti,Giolito, Farri, Percaccini, Muschio, Scoto, Sessa, Senese, Valgrisio, Varisco, Zenario, ecc.; i napoletani Cancer, Carlino et Pace, Suganappo, Fabro, ecc.

Tra gli stranieri, si segnalano Birckmann (Colonia), Barbous (Lione), Wechel (Francoforte), Hulderico Fuggerio (Anversa) e infine il gruppo degli stampatori di Basilea, su cui ci soffermiamo brevemente. La nostra biblioteca comunale possiede 5 edizioni a stampa del sec. XVI realizzate da tipografi di Basilea,vale a dire Andrea Cratandro, Giovanni Bebelio, Henricus Petrus (Officina Henricpetrina), Frobenius (Officina Frobeniana).

Si tratta di tipografi svizzeri di prim’ordine, che, come accadeva a molti colleghi italiani, esercitavano il mestiere da generazioni. Ancora oggi, a Basilea, è possibile visitare i luoghi in cui, cinque secoli fa, sorgevano le loro officine.

I volumi da essi stampati, come del resto quelli di ogni tipografia storica, possono essere agevolmente identificati anche attraverso le marche tipografiche, meritevoli, per la loro varietà e fantasia, nonchè per il significato che sottendono, di uno studio specifico, sia iconografico che iconologico. Spesso ad esse si accompagna il “motto” della tipografia, che riassume la “filosofia” dello stampatore. Diversi tipografi italiani nel sec.XVI si recarono a Basilea per lavorare, poichè in Svizzera la chiesa Cattolica non esercitava il controllo sulla stampa, e gli artigiani di fede protestante (il caso più noto è quello del lucchese Pietro Perna) poterono stampare liberamente le opere della chiesa riformata senza temere alcunchè. La ragione della minor presenza nelle biblioteche d’Italia di opere a stampa provenienti dalle tipografie svizzere e delle nazioni protestanti si deve probabilmente proprio all’ostracismo della Chiesa, divenuto maggiore soprattutto dopo il Concilio di Trento (1545-1563), e naturalmente perdurato ben oltre il sec.XVI.

 

[Si ringrazia vivamente la Direzione della Biblioteca Comunale “M.Gatti” per aver concesso la consultazione di alcune cinquecentine e la riproduzione fotografica dei relativi frontespizi]

Tra palloncini multicolori e, purtroppo, vuoti palloni gonfiati, specchiarsi nell’umanità vera

botero06

di Rocco Boccadamo

 

Da ragazzino, me li divoravo con gli occhi, specie quando mi rendevo conto di non poterli acquistare, cinque o dieci lire era il prezzo per cadauno a seconda della dimensione, ma anche adesso che sono un ragazzo di ieri, continuano ad attrarmi e li guardo con simpatia abbinata a un pizzico d’emozione.

I semplici palloncini multicolori di sottile materia elastica e con minuscolo terminale a boccaglio per gonfiarli e dilatarli, tondi o giù di lì, eventualmente da legare a un filo per poi lasciarli volteggiare e librarsi leggeri, con lo sbocco, talvolta, d’abbandonarli completamente per ascese in alto, molto in alto e lontano, sino a scomparire nel misterioso immaginario.

Invece, non mi piacciono affatto, anzi li disdegno, i cosiddetti palloni gonfiati in senso figurato, di cui, anche se non si direbbe, se ne scorgono e incontrano in giro moltissimi, al punto d’appalesarsi vie più numerosi, in barba a qualsivoglia crisi.

Palloni gonfiati, purtroppo, ad ogni livello del contesto sociale, addirittura anche ai vertici delle istituzioni; con i loro atteggiamenti, danno sovente l’idea di dover letteralmente scoppiare da un momento all’altro, sullo schema della mitica rana della favola di Esopo.

Palloni gonfiati, dunque, senza controllo, senza ritegno e prudenza.

Qualche settimana fa, m’è capitato d’imbattermi in un esemplare del genere, in seno alle sequenze d’un talk show televisivo. Un bravo giornalista, composto, educato, insomma neppure minimamente d’assalto, cercava d’intervistare, strappandogli qualche parola, un uomo di mezz’età delle parti dell’Arno, colbacco sul capo e sigaro modaiolo in bocca, una figura, in fondo, comune, ove si escluda l’eccentricità dell’abbigliamento e salvo, soprattutto, d’essere padre di cotanto figlio.

Sta di fatto che il bravo operatore dell’informazione, nonostante il suo garbo, falliva completamente l’obiettivo, con l’aggiunta di finire vittima di derisioni e sberleffi spavaldi da parte del personaggio.

Chissà, il suddetto, forse, si considera il più inavvicinabile, inaccessibile e irraggiungibile Santo dei Santi. E dire che, come si è letto e sentito, a suo nome e suo carico non mancherebbero alcuni peccatucci.

Dovendo fare compagnia e stare vicino a una mia famigliare, poco tempo fa ho trascorso mezza giornata nell’astanteria d’un ambiente o sito speciale.

Luogo, purtroppo, non di confluenza o attracco per eventi ameni e felici, bensì di sbocco per guai seri, di quelli che cambiano la vita a chiunque ne diventi destinatario.

Ivi, presenze di tutte l’età, uomini, donne, giovani, anziani, vecchietti e vecchiette, indistintamente d’ogni ceto sociale, dunque un autentico spaccato, agevole accorgersene, d’umanità reale, convenuta per confrontarsi con pesanti problemi di salute.

E, tuttavia, in quell’universo di gente, traspariva una connotazione straordinaria, sotto forma di serenità, compostezza e determinazione nell’atto d’affrontare i drammi manifestatisi.

E vero, qua e là, segni esteriori delle tegole piovute addosso, cioè a dire copricapo o berretti o cappelli o coppole o turbanti, a coprire un determinato effetto delle terapie.

Ma a parte ciò, relativamente  a tutti gli ospiti, compresi coloro che, a turno, andavano a sedere e sostare a lungo nelle stanze delle cure, dal volto e dagli occhi s’affacciavano, prevalenti, emozioni e tensioni orientate al positivo, segnali di spinta a credere in un risultato, un rimedio, risoluta determinazione a percorrere interamente la strada, ponendosi il traguardo del superamento o quantomeno del contenimento dei problemi.

Ammirevoli, quasi un simbolo, le immagini sfilatemi davanti, ove si tenga presente che si fa riferimento a questioni di salute non di poco conto, bensì estremamente delicate e, in certi casi, senza via certe per superarle e risolverle.

Ad ogni modo, negli animi di quelle sfortunate figure, prevale la fiducia e la voglia di recuperare. Una piccola grande realtà che consola e lascia sperare, al pari, se non maggiormente, delle stesse cure specifiche: adesso, sono anche i medici ad affermarlo apertamente.

Ho vissuto una mattinata particolare che mi ha lasciato il segno e fatto bene dentro. Cosi che, mi viene di suggerire d’imitare la mia esperienza.

Sono questi gli scenari di vita e d’umanità che alimentano e tonificano, altro che le esibizioni e i teatrini dei vuoti palloni gonfiati in senso figurato.

 

W li paparine

di Carlo Mazzotta

Quotidianamente sono attratto da storie che mi piacerebbe riassumere nei miei quaderni audiovisivi. Cose “semplici” come il raccolto e la preparazione delle “paparine”. 

La storia è semplicissima: mio padre raccoglie, mia madre cucina e in un paio di minuti le immagini devono saper raccontare una ricetta ricca di conoscenza, ricordo, passione e dedizione di due giovani 82enni. Si può dare per scontato ma non è semplice riconoscere le piante se non ci si affianca e non è semplice cucinare un piatto tipico se non lo si vede prepare. E allora siccome siamo nell’era in cui siamo abituati a dimenticare in fretta perchè travolti da una quantità assurda di informazioni, cerco di difendermi azionando quel pulsante di registrazione.

Poi se il video funzionasse anche per l’appello finale sarebbe il colmo, occorrono delle immagini per far capire che il diserbo chimico è una pratica insensata e dannosa? (vorrei aggiungere anche criminale).

Quindi: NO al diserbo chimico, mangia sanu, W li paparine!

Videomaker copertinese, ha fatto del suo lavoro una passione e viceversa, pubblica i suoi lavori su internet ed è molto contento quando la gente si iscrive al suo canale di youtube https://www.youtube.com/user/lacromatz

Carlo Mazzotta
videomaker freelance
+39 339 3563201
https://www.youtube.com/user/lacromatz
http://carlomazzotta.blogspot.it/

Roberto Ferri, il nuovo Caravaggio

10 ferri21

Joven artista causa furor en Europa; es el nuevo “Caravaggio”

El pintor italiano Roberto Ferri (Tarento, 1978) tiene 35 años, pero su pincel no es de este siglo. Sus obras, herederas de las pulcras y magistrales técnicas del claroscuro barroco, parecen haber nacido en aquella Roma de finales del Renacimiento, pero irrumpen en pleno siglo XXI con un poder que inquieta, aturde y seduce…… A propósito de esta serie, el historiador de arte Maurizio Calvesi escribió: “Ahora el ‘anacronismo’ en la pintura de Roberto Ferri emerge en toda su literalidad de recuperación de la pintura después de Miguel Ángel, concediendo sólo a un instrumento de la modernidad: el surrealismo, el cual envuelve con sus formas abstractas de intranquilidad visceral, con innegable sabiduría, pasión y empatía, las paredes de los museos, entre la gracia y la morbosidad sadomasoquista. Aquí es un surrealismo que tiene la capacidad metamórfica de un Dalí, excepto que en Dalí es viscosa, en cambio, en Ferri es carnal”…


 

http://www.orbiarte.com/articulos/635-joven-artista-causa-furor-en-europa-es-el-nuevo-caravaggio

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/15/intervista-a-roberto-ferri-lartista-e-luomo/

Roberto Ferri, pictor Apuliae

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/25/roberto-ferri-pictor-apuliae/

Libri/ Roberto Ferri. Oltre i sensi. Beyond the Senses

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/11/libri-roberto-ferri-oltre-i-sensi-beyond-the-senses/

Roberto Ferri sulla Treccani!

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/04/08/roberto-ferri-sulla-treccani/

Roberto Ferri, pittore della magia, filosofo della seduzione

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/12/roberto-ferri-pittore-della-magia-filosofo-della-seduzione/

Achille Starace: il lato tragicomico del fascismo

da: http://www.larchivio.org/xoom/starace.htm
da: http://www.larchivio.org/xoom/starace.htm

 

di Alessio Palumbo 

La storia degli esordi (e non solo) del fascismo italiano si lega all’operato di alcuni leader fortemente radicati sul territorio, i cosiddetti ras. Balbo fece di Ferrara la propria roccaforte, il proprio staterello feudale, Farinacci poté sempre contare sugli squadristi di Cremona, Caradonna su quelli di Bari e così via per i vari Ciano (padre), Grandi, ecc. Il Salento non ebbe un ras vero e proprio, nonostante Gallipoli avesse dato i natali ad una delle figure più influenti dell’intero regime: Achille Starace.

Nato a Sannicola (allora non ancora separata da Gallipoli) nel 1889, trascorse l’infanzia più in strada che nel ricco palazzo del padre o tra i banchi di scuola. Per come viene descritto nella principale biografia a lui dedicata, (A. Spinosa, Starace. L’uomo che inventò lo stile fascista, Milano, Mondadori, 2002), sin da ragazzino si distinse per forza, spirito atletico e la sfrenata voglia di menar le mani. Scoppiata la Grande Guerra vi partecipò con entusiasmo, ricevendo numerose decorazioni. Dopo il conflitto aderì al fascismo, non tanto per motivi ideologici, quanto perché affascinato dalla personalità di Mussolini: una vera e propria idolatria, che non verrà meno neanche quando lo stesso capo del fascismo lo farà arrestare e rinchiudere in un campo di concentramento.

Come detto, a differenza di altri ras, non ebbe mai una vera e propria base territoriale. Nel Salento non fu particolarmente amato e non rare furono le manifestazioni di ostilità nei suoi confronti, anche in pieno regime. Tra i vari aneddoti, motti ed episodi che gli si attribuiscono, c’è ad esempio quello relativo ad una frase fattagli ritrovare dai leccesi di fronte alle finestre di un albergo cittadino durante una sua visita all’indomani della scissione di Taranto dal vecchio capoluogo: “Respira Roma quando Starace parte, esulta Taranto quando Starace arriva. Lecce città dell’arte se ne frega quando arriva e quando parte” (A. SPINOSA, cit., p. 42)

Il gerarca di Sannicola non sembrò, tuttavia, risentire della mancanza di questa base territoriale. La sua carriera si basò esclusivamente sulla fedeltà e dedizione al duce, che lo ripagò nominandolo nel 1926 luogotenente generale della Milizia, oltre che vicesegretario del partito. Sin da subito palesò un carattere da “mastino”: cercò di imporre agli uomini della Milizia lo “stile fascista” fatto di vigoria fisica, pratica sportiva, sprezzo del pericolo, virilità, ecc. A tale stile vanno ricondotte dichiarazioni del tipo: “Mi piace cavalcare. Per questo amo i cavalli e le donne” (A. SPINOSA, cit., p. 139) oppure “Tutti gli organi del partito funzionano: devono perciò funzionare anche gli organi genitali” (A. SPINOSA, cit., p. 277).

Sul piano più strettamente politico non smise mai di tramare contro i gerarchi a lui invisi. Nel corso delle non rare crisi interne al partito, queste doti gli valsero la nomina a segretario del PNF nel 1931, carica che mantenne fino al 1939. In tale posizione scatenò il suo “genio creativo”, dando vita a quello che Spinosa definisce lo stile fascista. Inventò il “saluto al duce”, grido che introduceva ogni apparizione pubblica di Mussolini, organizzò nei dettagli il sabato fascista, estese un controllo capillare sulla gioventù, stabilì le modalità del saluto romano vietando la stretta di mano, impose l’uso del “voi”, definì nei minimi dettagli l’abbigliamento fascista, ecc. Per circa dieci anni i gerarchi a lui ostili cercarono di scalzarlo dalla segreteria del partito sfruttando i ripetuti scandali che lo videro coinvolto, soprattutto a causa delle sue relazioni con donne, attricette e soubrette, che protesse e frequentò, mentre la moglie Ines rimaneva segregata a Sannicola. Tuttavia Starace non cadde, nonostante i tanti grattacapi e seccature creati a Mussolini e al partito.

Non cadde perché, per quanto buffonesche potessero essere le sue trovate, per quanto risultassero ridicole certe manifestazioni imposte agli stessi gerarchi, come il salto nel cerchio di fuoco o sopra una siepe di baionette, dietro questo “stile fascista” in realtà c’era lo stesso Mussolini. Starace era il perfetto esecutore delle volontà di Palazzo Venezia e per questo fu a lungo amato dal capo che non lo stimava, ma lo riteneva “un cretino ubbidiente”. Il gerarca di Gallipoli fu dunque il megafono di Mussolini e, nel caso di critiche, il suo parafulmine.

Nel paese fu uno dei gerarchi più odiati e derisi perché, come ben intuì Galeazzo Ciano, gli italiani “mentre sono disposti a perdonare persino chi ha loro fatto del male, non perdonano chi li ha scocciati”. Partecipò alla guerra d’Etiopia, riuscì a far attribuire al duce ed al re il titolo di Primo Maresciallo, che di fatto li equiparava. Sotto la sua ala nacquero le leggi razziali (e del resto non perse mai occasione per palesare il suo arrogante antisemitismo, come quando commentò il suicidio dell’editore Formiggini dicendo “E’ morto proprio come un ebreo: si è buttato da una torre per risparmiare un colpo di pistola” (A. SPINOSA, cit., p. 201))

Qualcosa però, alla fine degli anni ’30, si incrinò. Donna Rachele non lo sopportava, molti gerarchi continuavano a manovrare contro di lui e, nell’ottobre 1939, lo stesso Mussolini lo escluse dalla segreteria del PNF, indirizzandolo nuovamente al comando della Milizia. Durante la guerra i rapporti tra i due peggiorarono. Fu vittima di nuovi complotti, mentre si cercò di demolirne anche la famiglia: i fratelli rimasti nel Salento furono accusati di affarismo, come del resto il figlio Luigi, avvocato a Milano.

Dal maggio 1941, escluso da qualsiasi carica, iniziò il periodo più nero della sua vita. Disoccupato, visse con i pochi risparmi e con i prodotti della campagna salentina che la figlia Fanny gli inviava periodicamente. Fino alla fine non rinunciò però a correre, a cavalcare e a dedicarsi a svariate pratiche sportive. Continuò a scrivere al duce che ancora venerava, ma Mussolini non gli rispose mai e anzi lo fece arrestare, prima nel carcere di Verona (novembre 1943 – aprile 1944) e poi addirittura nel campo di concentramento di Lumezzane. Uscitone, visse gli ultimi mesi di guerra a Milano, povero ed errabondo. Il 28 aprile 1945 venne catturato dai partigiani, durante la solita corsetta quotidiana. Processato presso il Politecnico, fu fucilato in piazzale Loreto, dove morì inneggiando al duce.

Fedele fino alla fine, come un mastino, non gli erano bastati i calci ricevuti (la defenestrazione, gli arresti, le inchieste, le umiliazioni) per potere odiare il proprio padrone. Moriva in quel modo uno tra i gerarchi più detestati dell’intero regime. Lo avevano disprezzato gli italiani, gli antifascisti e gli stessi fascisti. Neanche Lecce lo aveva mai amato. La famiglia, a parte la figlia Fanny, lo aveva abbandonato.

Il figlio Luigi tornò a vivere nel paese natio, mentre i nipoti Achille e Luisa rinnegarono persino il cognome Starace. Un’ultima nota di colore, in questo scarno profilo, la si può associare a suo nipote, il celebre omosessuale Giò Stajano, il quale in un’intervista rilasciata in età avanzata al giornalista Francesco Caridi, alla domanda “Chissà che direbbe tuo nonno Achille Starace se ti vedesse, lui che voleva tutti gli italiani maschi e forti…” senza scomporsi rispose: “Direbbe che dopo tanta virilità in famiglia, un po’ di relax ci vuole”.

19 febbraio 2016 – Venerdì

Ulivi vita millenaria da salvare - ''l'Ulivo urlatore'' - Salento, entroterra otrantino, ARCHIVIO FORUM AMBIENTE E SALUTE
Ulivi vita millenaria da salvare – ”l’Ulivo urlatore” – Salento, entroterra otrantino, ARCHIVIO FORUM AMBIENTE E SALUTE

 

di Pino de Luca
Le notizie di oggi sono due e riguardano entrambe la Puglia. Sembra che in Salento crescano i tumori e che in Puglia ci siano le mafie. Così dicono autorevoli Istituzioni. Inoltre, udite udite, a Brindisi si istituisce il Registro Tumori.
Credo che la colpa delle brutte malattie sia da ricercare nelle cozze o avrà ragione il mio amico Giorgio Gargasole? Lui sostiene che i forni di Torchiarolo che fanno il pane troppo cotto e bruciano la pizza.
Rimane il mistero di Sogliano dove ci si ammala di più in media dicono gli esperti. Deve essere colpa delle scie chimiche o della quadratura di Saturno. Ma adesso lo risolveremo senza dubbio il problema, con i filtri ai camini di Torchiarolo e le discariche di immondizie le copriamo di terra e ci piantiamo sopra grano biologico.
Sulle mafie in Puglia credo che sia esagerato, quando mai si è sentito che in Puglia ci sono i caporali, la prostituzione e ci sono amministrazioni corrotte? Qui tutto fila liscio come un tiro di coca, qualche buontempone fa qualche ammazzatina e qualcuno più nervoso mette bombe, incendia macchine, smonta bancomat e, magari, minaccia o compra e corrompe sindaci, giudici, secondini, commissari e poliziotti. Ma così, per riempire qualche pagina di cronaca …
Abbiamo tutto coperto da telecamere per poter trasmettere i video su Youtube e divertrci un pochino.
Spero che qualcuno si occupi dei veri problemi della Puglia: il traffico e gli storni.
Le belle notizie vengono da Wine Spectator, secondo loro tra i migliori 101 vini d’Italia ben 4 sono Pugliesi e di questi 3 sono nel Grande Salento. Es 2012 di Gianfranco Fino e Simona Natale, l’aleatico passito 2008 di Masseria Li Veli e il Nerio Riserva 2012 di Schola Sarmenti. Acompagna il Bocca di Lupo 2011 di Tormaresca. Non abbiamo le guide in grandissima considerazione ma per almeno due di questi giudizi siamo in perfetto accordo. Ovvio che non dirò quali nemmeno sotto tortura.
Si va in questo venerdi di febbraio con la tristezza nel cuore per la pervasività che ha assunto l’ignoranza degli adulti e la gioia di poter avere dei ragazzi che, magari, imparano qualcosa.
E si canta, a squarciagola si canta:
Che Faber avrebbe festeggiato i 76 anni!!!
P.S.
C’è chi costruisce muri e chi costruisce ponti e c’è chi cammina nel vento per arrivare a Durango.

I soprannomi di Galatina

galatina-stemmi-041

di Paolo Vincenti

Dedicato “ad Andrea Ascalone, uomo onesto e maestro di vita”, esce, per i tipi della Editrice Salentina “Ditteri e ‘ngiurie di Galatina”, di Rossano Marra e Francesco Papadia (2015) con le illustrazioni di Melanton.

Non si tratta certo di operazione originale, come gli stessi autori affermano nella loro Presentazione, poiché altri esempi vi sono stati in passato non solo con riferimento al Salento ma anche alla stessa città di Galatina.

Il libro però risulta godibile, fresco, e come non ha pretese di esclusività, non ne ha di esaustività né di organicità. Si presenta al lettore per quello che è: uno strumento di immediata consultazione, di facile divulgazione, un divertissement insomma, dove per l’appunto l’elemento ludico gioca una parte fondamentale. L’opera è comunque supportata da una Prefazione di tutto rispetto, perché firmata dal professor Rosario Coluccia.

Le vignette di Antonio Mele “Melanton” costituiscono il valore aggiunto. Forse può sembrare anacronistico oggi, nell’era di Internet e della comunicazione globale, pubblicare un libro del genere, che offre uno scavo nelle radici del nostro popolo salentino, e in effetti lo è, anacronistico, ma per questo forse a suo modo poetico, romantico, della bellezza del demodé, del vintage, di tutto ciò che è passato. Non si tratta, beninteso, di un reliquario, di una collezione di antichità, ma di una riproposizione in chiave identitaria di quel patrimonio antropologico che sono i soprannomi, i modi di dire, i proverbi, le favole e i cunti, di una comunità. Nella prima parte del libro, vengono proposti i proverbi o “saggezza dei popoli”, molti dei quali già noti o semplicemente volti in dialetto galatinese dall’italiano.

Questi ditteri sono attinti dalla viva voce della gente, come specificano gli autori che ringraziano anche alcuni collaboratori che li hanno aiutati nel lavoro di ricerca. La seconda parte, certamente più interessante, riguarda le ‘ngiurie, cioè i soprannomi o nomignoli galatinesi. E in questo lungo e colorato elenco, si trovano dei soprannomi davvero curiosi, ridicoli, altri esilaranti, insomma si ride di gusto quando si incontrano alcuni di questi epiteti.

Fra gli illustri precedenti del libro di Marra e Papadia, occorre citare certamente il Rohlfs che nel suo “Dizionario storico dei soprannomi salentini” catalogò molti di essi. Gli agnomi potevano prendere spunto dal nome del padre dell’ “ingiuriato”, e in questo caso si dicono patronimici, oppure dal nome della madre, matronimici. Oppure potevano essere legati a qualche episodio particolare, a qualche evento eccezionale nella vita di coloro che ne erano marchiati. Ancora, potevano scaturire da qualche difetto fisico o mania, abitudine reiterata. Oppure potevano derivare dai mestieri o dal luogo di provenienza, toponimici.

Spesso erano causa di ilarità, sarcasmo, a scapito di coloro a cui venivano affibbiati i soprannomi, i quali ne venivano sbeffeggiati. Quello che gli autori vogliono salvare con questa “operazione simpatia”, come potremmo definire il libro in parola, è il patrimonio non solo linguistico ma soprattutto socio antropologico della città galatinese, messo a rischio oggi dal crescente processo di omologazione culturale in corso, nel senso che la globalizzazione, con la sua forza parimenti centrifuga e centripeta, tende ad azzerare le specificità, le peculiarità dei luoghi, le loro tradizioni, per fondere tutto in un una sorta di meltin pot linguistico che è un coacervo, un ibrido senza storia, senza anima; perché ciò che è senza passato è anche senza futuro. Questi modi di dire, racconti, filastrocche, proverbi erano trasmessi oralmente dalla gente prima di venire codificati e raccolti in volume dagli studiosi. Nei secoli scorsi, quando l’alfabetizzazione era ancora scarsa, ci si tramandava a viva voce soprannomi e aneddoti, i cosiddetti “culacchi”, e possiamo ben renderci conto di come gli sforzi di memorizzazione fossero notevoli pure da parte di illetterati contadini.

Con l’avvento di Internet poi, molte di queste ricerche sono state informatizzate, e oggi gli archivi sono consultabili on line. Occorre però che ci sia un interesse da parte dei giovani, altrimenti questo materiale resta inerte e non più consultato, dimenticato. Lode al merito dunque di chi rimette mano a queste pinzillacchere, carabattole, magari con nostalgia del tempo che fu, e così facendo, desta curiosità, crea interesse intorno a qualcosa che si sarebbe irrimediabilmente perduto e cioè la memoria di una terra, di una città, un patrimonio di cultura e di identità. Come per dire “ecco, così eravamo”. Lo scenario dei soprannomi è ampio.

Come per tutti i nostri paesi e paesini, si tratta di una parte considerevole della storia locale che ha coinvolto nel vivo il popolo minuto, le classi più basse, meno agiate, ma di cui anche quelle più alte serbano memoria. Un libro da leggere insieme, genitori, figli e nonni.

Luoghi della Cultura e Cultura dei Luoghi, per Aldo de Bernart

ruffano-116

Luoghi della Cultura e Cultura dei Luoghi”    

Note a margine del volume in memoria di Aldo de Bernart

 

di Maria Antonietta Bondanese

Sol chi non lascia eredità d’affetti/poca gioia ha dell’urna”. Spontaneo torna alla mente il verso foscoliano dei Sepolcri , scorrendo le pagine dello splendido volume Luoghi della cultura e cultura dei luoghi, dedicato alla memoria di Aldo de Bernart. Testimonianze e saggi compongono questo florilegio, denso di Sud e di Salento, la cui storia è indagata con metodo rigoroso e appassionata ricerca. Caratteri, questi, distintivi di Aldo de Bernart alla cui infaticabile attività di studioso, pubblicista, educatore e promotore di cultura non si poteva rendere più significativo omaggio.L’operosità poliedrica di de Bernart risalta appieno dalla pluralità di scritti e punti di vista che ne delineano il ritratto morale e professionale, di profondo conoscitore della storia locale, di fine cultore di arte e letteratura, di straordinario uomo di scuola per la quale tanta parte della vita aveva speso.

Il volume, edito nella Collana “Quaderni de l’Idomeneo” della Società di Storia Patria di Lecce¹, è stato presentato la sera del 20 giugno scorso a Ruffano, presso il Teatro Paisiello.

Agli indirizzi di saluto del Sindaco, dott. Carlo Russo e della prof.ssa Madrilena Papalato, Dirigente Scolastica, hanno fatto seguito gli articolati interventi dei relatori, i professori Vincenzo Vetruccio, Alessandro Laporta, Luigi Montonato, Hervè A. Cavallera. Infine, il prof. Mario Spedicato, direttore dei “Quaderni” oltre che di “Cultura e Storia”, altra prestigiosa Collana della Società di Storia Patria di Lecce, ha osservato che il libro, includendo gli apporti di vari studiosi tra cui gli amici e i collaboratori di de Bernart riuniti in “ideale cenacolo”, di lui riesce a restituirci

“ il suo mondo, le sue piste di ricerca, i suoi contributi alla valorizzazione anche degli aspetti meno noti del territorio, la sua partecipazione ad intraprese culturali collettanee”.

Quale la pubblicazione nel 1980 di Paesi e figure del vecchio Salento, due preziosi volumi a cura di de Bernart che, assieme al terzo dell’89, restano “testo base per ogni tipo di indagine storiografica sui paesi del territorio della nostra provincia” come annotato dal nipote Alessandro Laporta, partecipe di tale iniziativa, eminente per la qualità degli intellettuali coinvolti e per il fascino di “romantico sogno salentino”² che da quelle pagine promana. Di fatti, non solo l’accuratezza e serietà scientifica ma il sentimento e un amore sconfinato per il Salento hanno contraddistinto de Bernart, nel cui animo albergava un lirismo gentile per cui intenso avvertiva il richiamo della bellezza e della poesia.

Di lui, “cantore delle mille figure, aspetti, storie e leggende, aneddoti e tradizioni, costumi e luoghi che, quali tessere di un mosaico pur concorrono a delineare il grande affresco della millenaria terra salentina”³, non si può sottacere dunque il culto dell’arte ed il mecenatismo sagace per cui ha tenuto a battesimo tanti ingegni , “da Mandorino a Greco, da Sparaventi a De Salve, per fare solo qualche nome e fermarsi alla pittura”⁴. Artisti del passato come Saverio Lillo (1734-1796) e Antonio Bortone (1844-1938), pittore l’uno e scultore di fama europea l’altro, entrambi figli illustri di Ruffano, hanno ricevuto una illuminata e completa rivisitazione storica grazie ad Aldo de Bernart. “Parabitano per nascita, ruffanese per adozione, gallipolino per discendenza”⁵, a questi “tre centri gravitazionali della sua vita”⁶ egli ha dedicato molto della sua missione di studioso, come sottolinea Paolo Vincenti tracciandone l’esauriente profilo biografico e intellettuale, a complemento del quale passa in rassegna la collana intitolata “Memorabilia”, una serie di raffinate plaquettes stilate nell’ultimo quindicennio, in tiratura limitata di copie, che restano impareggiabile documento dell’attenzione per il territorio, per i suoi aspetti inediti, da parte del Maestro.

Gino De Vitis ne ricorda, inoltre, il “sentito trasporto” per Supersano dove era di frequente invitato “per celebrazioni di vario genere, quando la figura del prof. de Bernart era vista come la necessaria presenza dell’uomo colto e vero conoscitore della nostra storia”⁷. Nel 1980 il “Nostro Giornale” ospitava una ‘perla’ di de Bernart, “La foresta di Supersano”, prezioso contributo sul Bosco di Belvedere, l’immenso latifondo di querce ormai scomparso, del quale solo pochi esemplari testimoniano oggi la superba bellezza ma la cui “storia è narrata nel ‘Museo del Bosco’ (MuBo) di Supersano, nato dall’esigenza di far conoscere questo particolare ecosistema del territorio salentino, attestato storicamente almeno dall’età romana fino agli inizi del secolo scorso”⁸. L’incanto del Belvedere tornava nelle parole di de Bernart che catturava l’ascolto e seduceva con la sua voce “dolce e suadente, sicura e melodiosa”⁹, come ha scritto Gigino Bardoscia con amicale devozione.

Note di affetto e stima risuonano nel commiato alla “guida sapiente e sicura”¹⁰ che Vincenzo Vetruccio pronunciava nel giugno 1990 per il Dirigente de Bernart che lasciava il servizio scolastico attivo. Discorso riportato nella prima sezione del volume, incentrata su “L’uomo e l’intellettuale”, mentre la seconda tratta “L’eredità della ricerca” e la terza è riservata ad “Arte, storia, cultura del Mezzogiorno” per lumeggiare il rapporto di imprescindibile osmosi tra de Bernart ed il contesto in cui egli si è formato ed ha operato.

Il 19 settembre scorso, durante la presentazione del libro a Vigna Castrisi, il prof. Francesco De Paola ha svolto una magistrale disamina dei contenuti del volume, avendone seguito l’intera gestazione perchè incaricato, assieme al prof. Giuseppe Caramuscio, della cura dell’opera.

Da parte dell’Amministrazione Comunale di Ortelle si è voluto onorare, infatti, Aldo de Bernart con un consesso di studiosi presieduto dal prof. Mario Spedicato e la presenza dei figli Ida e Mario, amorosi custodi della sua memoria.

Coltivare il ricordo, proseguire gli itinerari di ricerca di Maestri come de Bernart è quanto mai necessario oggi, per vincere ansietà e paure, opporre alla ferocia dei tempi la difesa che viene dai valori della conoscenza, della comprensione del passato, dell’intelligente visione del futuro.

Ida e Mario de Bernart , la sera del 20 giugno a Ruffano, Teatro Paisiello
Ida e Mario de Bernart , la sera del 20 giugno a Ruffano, Teatro Paisiello

Note:

¹ F.De Paola-G.Caramuscio (a cura di), Luoghi della cultura e cultura dei luoghi, Lecce, Edizioni Grifo 2015

² A. Laporta, Ritratto di Aldo de Bernart, “Anxa News”, 5-6 Maggio Giugno 2013, pp. 6-9

³ F. De Paola, nota a Caro Aldo, ti scrivo…in Luoghi della cultura e cultura dei luoghi, cit. p.77

⁴ A. Laporta, Ritratto di Aldo de Bernart,  cit.

⁵ L.C. Fontana, Bibliografia degli scritti di Aldo de Bernart, in AA.VV., Studi in onore di Aldo de Bernart, Galatina, Congedo Editore 1998, p. 1

⁶P. Vincenti, Aldo de Bernart:profilo biografico e intellettuale, in Luoghi della cultura e cultura dei luoghi, cit., p.13

⁷ G. De Vitis, Aldo de Bernart, la necessaria presenzadi un uomo colto, ivi , p.71

⁸ M.A. Bondanese, Il plurimillenario Bosco del Belvedere negli scritti di de Bernart, ivi, p. 100.

Per un’agile guida al Museo del Bosco, si veda M.A. Bondanese, Supersano Arte e Tradizione, Scoperta e Conoscenza, CentroStampa, Taurisano 2014

⁹ G. Bardoscia, Per il professore Aldo de Bernart, in Luoghi della cultura e cultura dei luoghi, cit.,            p. 58

¹⁰ V. Vetruccio, Aldo de Bernart: il cursus honorum di un Maestro, ivi, p. 90

Un segno (d)istintivo per narrare un mondo: intervista a Giuseppe Lisi

 Incontro giuseppe Lisi

di Gianluca Fedele

 

 

Io credo che i nostri paesi siano fatti anche di figure le quali, pur essendo a noi poco note, contribuiscono con il loro quotidiano, minuzioso e per certi versi invisibile lavoro, a seminare quella cultura che si trasforma poi nella nostra identità e per molti aspetti anche orgoglio di appartenenza.

Giuseppe Lisi, che mi è stato segnalato da Marcello Gaballo prima e Sandro Tramacere poi, è il prototipo di quel soggetto appena descritto. Personaggio eclettico, artista spontaneo e docente presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce; vanta una mole di informazioni invidiabile, alla quale io naturalmente qui posso solo accennare.

Ospitale. Una volta concordata telefonicamente la data per l’incontro mi invita nella sua nuova abitazione e tiene a precisare che ciò che vedrò è solo un frammento del suo patrimonio fatto di opere e pubblicazioni, poiché la restante parte non è ancora stata oggetto di trasloco. In realtà la casa è letteralmente tappezzata di libri, tele, sculture e persino le lampade a sospensione sono frutto di esecuzione artistica.

Siamo stati insieme per quasi cinque ore ma il tempo è volato. Quella che leggerete è solo una minima parte del denso colloquio.

Il profumo del tempo
Il profumo del tempo

D.:

Mi piacerebbe cominciare questa conversazione con gli esordi artistici: in quali ambienti hanno avuto inizio le tue primissime esperienze?

R.:

Potrei iniziare parlando dell’A.C.R., che certamente mi ha formato sotto l’aspetto umano, ma devo dire che in realtà tutto ciò che riguarda il mio interesse per l’illustrazione e l’arte che mi caratterizza trova origine nella mia età più fanciulla: da bambino, piccolissimo, in campagna con mio padre. Ho anche lavorato come falegname nella bottega di “mesciu” Totò Formoso, un artigiano dell’epoca molto noto a quelli della mia generazione; insegnava disegno presso la sede della Società Operaia di Nardò. Devo quindi a questo personaggio le prime nozioni di disegno dal vero. Annovero inoltre, tra le mie importanti esperienze formative, anche l’apprendistato presso il laboratorio fotografico di mio cugino, il fotografo Gerry Bottazzo; vale a dire che già a dieci anni ero in camera oscura apprendendo, tra le varie nozioni, anche la tecnica del ritocco direttamente su pellicola o lastra.

 

D.:

Così piccolo e così tanti aneddoti. E lo studio?

R.:

La mia passione per lo studio la dimostrai sin da subito quando, coi sandaletti ai piedi nel freddo inverno, mi indirizzavo con una gran voglia di imparare verso la scuola elementare di via Pilanuova, all’epoca circondata solo da case diroccate. Vinsi un concorso di disegno raffigurando il “tempio della Fortuna Virile”. Conservo di quel periodo un bel ricordo del maestro Salvatore De Benedittis, il quale mi volle molto bene.

Come si è detto la mia non era una famiglia agiata e in ambito scolastico questo aspetto fu per me motivo di grande sofferenza poiché, alle medie, vi erano ancora distinzioni sociali tramite le file dei ricchi e quelle dei poveri. Mi resi conto che per essere accettato o, meglio, per ricevere maggiori attenzioni dai docenti il disegno poteva avvantaggiarmi; quindi in quel tipo di linguaggio cercai di eccellere: vinsi un altro concorso il cui premio consisteva, guarda caso, in un pacco di pastelli. Bisogna immaginare che a quei tempi, per noi bimbi, l’unico momento dell’anno in cui si ricevevano regali era l’Epifania; per me fu quindi, oltre che una grande gioia, un importante input che segnò la strada delle future aspirazioni.

Durante le vacanze estive, invece, andavo ricopiando le sculture che adornavano i viali delle ville di campagna.

Gli umori delle baccanti salentine
Gli umori delle baccanti salentine

D.:

Da alcune raffigurazioni mi sembra che traspaia una certa sensibilità per iconografie legate al misticismo religioso. Qual è il motivo di questa particolare attenzione?

R.:

Nell’epoca della mia giovinezza si poteva scegliere se trascorrere il tempo libero in un partito o in un oratorio. Io optai per la seconda ipotesi un po’ per una questione culturale ma anche perché avevo bisogno di risposte a certe domande esistenziali che presto o tardi tutti ci poniamo.

In quell’ambito ebbi anche la possibilità di dare sfogo alla mia creatività sia in campo teatrale, dove espressi con carattere il mio pensiero già critico, ché in quello grafico firmando, ad esempio, i manifesti per l’inaugurazione della chiesa di Santa Maria degli Angeli a Nardò.

 

D.:

Quali sono state le persone che ti hanno indirizzato lungo il percorso artistico e professionale?

R.:

Tra i primi nomi che mi vengono in mente, in ordine cronologico, ricordo il professore Giovanni Dell’Anna che, dopo aver visitato la biennale di Venezia, mi spinse a intraprendere la Pop Art come esercizio stilistico.

Devo molto, e in maniera diversa, anche a Giorgio Chierici, titolare della prestigiosa galleria “La Scaletta”, il quale lo conobbi all’Expo Arte e che mi presentò all’illustre critico Enrico Crispolti.

Queste sono solo alcune delle persone che notandomi hanno contribuito al mio successo ma l’elenco è davvero lungo.

Profumo di macchia mediterranea
Profumo di macchia mediterranea

D.:

È un caso che ti sia ritrovato a incontrare sempre le persone giuste al momento giusto?

R.:

Le cose accadono, ma bisogna prima di tutto volerle e perseguirle con costanza e abnegazione perché poi la bravura, specie nell’arte, la si riconosce subito, e lo dico da insegnante che è stato prima alunno. Inoltre non nascondo anche una buona dose di fortuna storica se a visitare la mostra dove io esponevo si sia trovato il gallerista o il critico giusto col quale intavolare un serio discorso.

 

D.:

Esiste ancora il rapporto tra Galleria e artista?

R.:

Le Gallerie, fino agli anni ’60 e ’70 avevano motivo di esistere perché vi erano ancora molti committenti in un circuito di frequentatori abituali e compratori assidui, oltre che esperti conoscitori del prodotto. Oggi quella fetta di mercato si è estinta quasi completamente e la maggior parte delle pinacoteche sopravvissute si sono convertite in associazioni culturali.

Eppure sarebbe bene che ci fossero ancora “mecenati” del calibro di Leo Castelli o Carlo Cardazzo, quelli che finanziavano le arti e facevano emergere i giovani talenti.

 

D.:

Credi che insegnare arte possa essere utile a uno sviluppo positivo della società?

R.:

L’arte educa, di questo ne sono convito. E, se praticata con passione, nelle scuole elementari e medie ha una valenza ancora più incisiva per il sano sviluppo dell’individuo. Ho insegnato in città degradate, con un altissimo livello di criminalità, tanto da vedermi puntare pistole contro, ma ho creduto nel potere del disegno sino in fondo. Riuscivo a comprendere la soggettività e i turbamenti dei miei alunni anche solo analizzando il loro segno calligrafico. Con l’ausilio dei mezzi più disparati, dalla videoproiezione alla fotografia, ho sottoposto l’arte a ragazzi disabili con risultati che personalmente ritengo molto appaganti. Per affrontare i casi più gravi mi sono documentato riguardo patologie complesse come la schizofrenia, al fine di essere all’altezza di un confronto con qualsiasi tipo di personalità; nel loro insieme ritengo tutte queste esperienze la mia più importante formazione.

Il profumo della pioggia
Il profumo della pioggia

D.:

In un mondo che pare sempre più indirizzato verso la digitalizzazione e la grafica informatizzata, che ruolo ricoprono le tecniche artistiche classiche?

R.:

Mi rendo conto che l’era digitale ha una sua funzione all’interno dell’epoca che stiamo attraversando ma bisogna capire cosa vogliamo farci. Renato Barilli una volta mi disse: “Gli artisti dovrebbero essere prima di tutto dei decoratori”. E la decorazione si esprime differentemente a seconda del luogo geografico nel quale viene realizzata: in Oriente, ad esempio, è solo modulo mentre da noi è rappresentazione visiva. Continuo citando anche Giulio Carlo Argan che osservava: “Quando si produce un’opera d’arte, per forza di cose, bisogna utilizzare degli strumenti”. Oggi ogni individuo – dotato di una certa sensibilità – può espletare la funzione espressiva con svariati mezzi ma ognuno di essi, a seconda di come viene utilizzato, modifica il senso dell’opera. Il computer può sembrarci una novità assoluta, una scorciatoia nel campo della manipolazione visiva, ma proviamo a immaginare Leonardo oppure Canaletto che già oltre cinquecento anni addietro, con le loro scarse possibilità, utilizzavano la camera ottica per imprigionare un’immagine e mantenerla ferma su un supporto, ciascuno di essi per i propri scopi scientifici o artistici.

Sto pensando naturalmente anche alla macchina fotografica analogica, la quale ha assolto la stessa funzione per decenni, lasciando all’artista la padronanza del poter definire i parametri con cui impressionare la pellicola. Per me la fotografia deve essere la sintesi di un fenomeno di istanti.

L’assenza di conoscenza ci sta inducendo a credere che tutte queste facilitazioni tecnologiche contemporanee siano anche delle novità scientifiche, ma ricordiamo che i neo-impressionisti avevano compreso, sul finire dell’ottocento, il senso del condizionamento del colore tramite il puntinismo. Quel fenomeno oggi, forse con superficialità, lo chiamiamo pixel e altro non è che una sintesi matematica di quel concetto.

 

D.:

Cosa rappresenta per te l’incisione?

R.:

L’incisione è la più antica forma d’arte conosciuta e i cavernicoli, in questo caso, sono i responsabili di un’operazione importantissima: hanno eternizzato la loro memoria. Molti artisti sono costretti ad affidarsi agli incisori mentre io, che conosco la tecnica, concepisco il segno in funzione dell’incisione. È un grande privilegio.

La presenza dell'angelo
La presenza dell’angelo

D.:

Possiamo includere le tue opere in uno stile surrealista?

R.:

Non esattamente. Come sappiamo c’è un surrealismo poetico e un surrealismo onirico, però, secondo me, visto che io guardo un insieme di cose, dalla Poesia Visiva alla natura, attraversando il disegno puro, passando per la fotografia e non ultima la criptoscrittura, direi con cognizione di causa che il mio stile è un insieme di linguaggi in cui il surrealismo occupa solo una parte. Forse, in qualche modo, anche le mie origini ma comunque diametralmente opposto al surrealismo di Dalì. Il surrealismo che accetto di buon grado è quello di Mirò o meglio ancora quello di Chagall perché ha preso alcuni aspetti del Cubismo e del Surrealismo e ne ha ricavato una fiaba. Ecco, la fiaba la vedo più consona al mio modo di comunicare. Per questo motivo io amo ripetere la formula de “Il profumo del tempo” e il profumo in fondo cos’è? Lo avverti, lo tieni dentro, non lo puoi toccare e lo esprimi con un esempio naturale citando un fiore, la brina, la terra ma resta comunque solo tuo.

 

D.:

Cosa rispondi a chi sostiene che ci siano delle influenze di Chagall nelle tue opere?

R.:

Quella è una storia divertente perché quando mi dissero per la prima volta che i miei lavori ricordavano i suoi quadri, io nemmeno sapevo chi fosse Marc Chagall e mi offesi quando Antonio Passa, Direttore dell’Accademia di Belle Arti di Roma, mi suggerì di fare da assistente al pittore ebreo. Allora, forse per reazione, mi misi in testa che avrei dovuto preparare la tesi di laura proprio su di lui e da quel momento mi imbarcai in una ricerca estenuante fatta persino su testi russi e inglesi, in lingua originale, tradotti da amici. Oggi è certamente uno dei miei artisti preferiti.

Suonatrice di mandolino
Suonatrice di mandolino

D.:

In che cosa consiste la tua Poesia Visiva?

R.:

Quando io parlo di Poesia Visiva intendo un prodotto dalle origini antichissime, nel quale si integrano e avvicendano sinergicamente la scrittura e l’immagine, concepito per raccontare delle storie che fanno parte della cultura di un popolo, sia religiosa ché contadina. Nell’affrontare questo filone traggo molto dalla superstizione arcaica che si mescola col mistico: penso al mito della Taranta e al cosiddetto “Munaceddhu” che sono simboli del Diavolo, e persino agli angeli. Queste ultime sono figure che sento presenti, anche per vicende intime che appartengono alla mia famiglia, ma la cui effettiva esistenza viene messa in discussione finanche all’interno della Chiesa stessa. Pure per questo sono fortemente legato alla figura di Giotto e in particolare al suo ciclo pittorico delle Storie di san Francesco, per quella trasposizione di eventi che la grafica rende eterni.

Io, non a caso, appartengo alla generazione che ha trascorso la propria infanzia ascoltando le leggende che venivano tramandate dai nonni ai nipoti, tutti seduti intorno al fuoco.

 

D.:

Pensi che l’uomo tragga vantaggio dalla storia?

R.:

Purtroppo l’uomo cerca di percorrere sempre le strade più semplici, anche e soprattutto per la propria sussistenza. Ma io credo che le cose facili ti distruggono.

Pubblicazione nel catalogo DeAgostini 1998-99
Pubblicazione nel catalogo DeAgostini 1998-99

Il Salento e… la polvere nascosta sotto il tappeto

marine leccesi

di Pier Paolo Tarsi

Ai pugliesi, e in particolare ai salentini (li osservo da anni, fidatevi di quello che dico), piace vivere nel meraviglioso mondo di Amelie. Gli addetti ai lavori lo sanno bene, li hanno compresi bene e fanno di tutto per tenerli in quel recinto incantato e carezzevole come fruitori e amplificatori di una immagine che compiace i locali mentre trascina turisti e muove in parte l’economia. Non bisogna negare infatti che tutto ciò ha i suoi lati positivi: chi scrive ha fatto il commesso abbastanza a lungo per non sapere che il venditore più convincente è quello intimamente convinto del valore di quanto propone. Pubblicate un video che celebra le bellezze nostrane o le ricchezze enogastronomiche di questo lembo e vi ritroverete un esercito di gente sinceramente convinta che con quello appesta i social o gli smartphone degli amici lontani, persino quelli degli zii emigrati che torneranno in estate. Ora, questa orda di fondamentalisti convinti in buona fede della propria rappresentazione porta benefici indiscutibili, e porterebbe sostanzialmente quelli se fosse minimamente consapevole del suo carattere riduttivo, parziale, soprattutto strumentale e immaginifico.

800px-collage_lecce

Gli stessi salentini che spediscono e condividono tera-giga di video in cui si celebra tanta bellezza (indiscutibile seppur patinata) detestano infatti che si ricordi loro che quell’idea somiglia alla sala con la polvere nascosta sotto il tappeto in occasione delle visite degli ospiti: una polvere che va sicuramente tenuta nascosta all’invitato, ma che prima o poi bisogna adoperarsi a spazzare via! Niente, non vogliono saperne della polvere, di vivere nella regione con l’aria più inquinata d’Italia secondo tutti i dati ufficiali, non vogliono sentirsi dire che calpestano una terra di fuoco, deturpata dall’abusivismo, consumata da modelli di sviluppo anacronistici, asfissiata dai fumi dell’Ilva, dal carbone di Cerano, violentata dai pesticidi, insomma, una terra ferita che ha le stesse prospettive di un malato terminale. Niente, a loro basta la prospettiva in cui li pone il video del giorno, detestano anzi chiunque li riporti ad una immagine più realistica e comprensiva sulla quale dovrebbe innestarsi una qualunque possibilità di un futuro. Questo esercito, apparentemente innocuo nella sua buona fede e persino utile a smuovere l’economia, finisce dunque per fare il gioco di una certa politica che della rimozione ha fatto il suo atteggiamento premiante e vincente: la macchia, il lato oscuro, il problema sono tratti da rimuovere e affibbiare ai perdenti che ne parlano, oscuri sentimenti e presagi non contemplati e non compatibili con un intaccabile e ottuso ottimismo in cui pascere elettori al motto renziano de “al bando i gufi”. A proposito, oggi è questo il video da gustare, la Puglia di oggi è quella del Bit, siamo salvi anche oggi da quella reale:

Artis Puglia: nuovo modello di sviluppo turistico

portoselvaggio (ph Marcello Gaballo)

In Puglia si fa strada un nuovo modello di sviluppo turistico per far crescere il Salento. Artis Puglia ha unito pubblico e privato. Per promuovere il territorio su scala internazionale creato l’asse Salento-Turchia.

di Giuseppe Massari

Artis Puglia unisce e rappresenta una condivisione d’intenti ben precisa: far crescere il Salento. Per questo si sono messi insieme per fare rete differenti soggetti impegnati nella filiera turistica: più di cento società, associazioni economiche, Università, enti di ricerca, enti pubblici. Artis Puglia svilupperà nuovi progetti per promuovere il territorio su scala internazionale. Il primo è stato avviato con la Turchia. Parte così la nuova stagione delle progettualità del GAL Terra d’Arneo nell’ambito del Piano di Sviluppo Regionale Puglia 2014/2020 di recente approvazione. Con le forze del lavoro, della produzione, dell’economia, lunedì 8 febbraio si è svolto l’incontro a Veglie, per sottoscrivere accordi di collaborazione reciproca con i responsabili del Governo Turco in visita, oltre che in Italia, anche in altri Paesi Europei tra cui Germania e Olanda, per avviare rapporti di cooperazione e individuare misure, progetti e iniziative, soprattutto, nel settore turistico. La firma dell’accordoè avvenuto alla presenza dei membri del T.C. Ministry of National Education General Directorate of Vocational and Technical Education nelle persone di Mrs.  Sennur Cetin, Mr. Levent Tolay, Mr. Tuncay Yelboga, Mr. Ozgür Nurdogan, Mr. Abdulnasır Bulak, Mr. Onder Bulut.

Artis Puglia cripta della favana
Cripta della Favana in provincia di Lecce

La scelta effettuata dall’Agenzia Nazionale Turca Erasmus e dal Governo Centrale Turco per la Formazione ricade sul Salento in virtù dei rapporti già consolidati con Associazione IRIS, ente di formazione accreditato alla Regione Puglia, e per suo tramite con il GAL Terra d’Arneo. “I temi alla base dell’accordo riguardano il settore della cooperazione internazionale e della formazione professionale ad indirizzo turistico, Cosimo Durante, Presidente del GAL Terra d’Arneo. L’idea è quella di definire una rete di professionalità turistiche a vantaggio dei territori aderenti che parta dal Mediterraneo e che arrivi fino al Nord Europa.
Negli anni passati il Gal Terra d’Arneo si è impegnato a valorizzazione e far crescere il proprio territorio dal punto di vista turistico ed enogastronomico. Sono state create e rimesse a nuovo molte strutture ricettive nel Salento e potenziato la rete di aziende operanti sul proprio territorio che comprende nove comuni: Campi Salentina, Carmiano, Copertino, Guagnano, Leverano, Nardò, Porto Cesareo, Salice Salentino, Veglie. Importante il sostegno ad attività e produzioni riguardanti i settori agroalimentare, artigianale, turistico-ricettivo e dei servizi culturali, ambientali e di utilità sociale, nell’interesse del territorio salentino e del turismo. “Un turismo capace di attrarre, intelligente, all’avanguardia”, ha aggiunto Cosimo Durante. “Un turismo di arte e di partecipazione, di condivisione e di forza. Un turismo capace di rinnovarsi nel solco della tradizione, del rispetto e del recupero dei beni materiali ed immateriali”.

 

Valorizzare il turismo della storia e delle tradizioni

Artis Puglia Torre Sant'Isidoro

Nardò, Torre Sant’Isidoro

Il turismo della storia pugliese e salentina è anche quella fatta di briganti che vissero queste terre; del recupero identitario delle proprie radici professionali come la valorizzazione dei calcinari e della calce per la pulizia bianca delle abitazioni. Ora, con Artis Puglia e l’accordo sottoscritto si è fatto un ulteriore passo decisivo per migliorare la propria vocazione turistica di questo territorio. Un accordo di respiro internazionale per rilanciare in scenari più ampi il Salento e le sue peculiarità.
La ragione di questo nuovo impegno, possiamo dire, affonda le sue radici storiche in quella parte di territorio in cui, un tempo, i turchi, venivano temuti, combattuti; le popolazioni cercavano di difendersi da quelli che erano ritenuti assalitori, predatori, pronti solo ad attaccare, portando morte e distruzione. Non a caso, come è facile leggere nelle guide turistiche prodotte, pubblicate e diffuse in si legge che: “la zona è ricca di Torri costiere, edificate per l’avvistamento delle navi turche in avvicinamento nel periodo dall’800 al 1400 d.C. Le torri più piccole sono di origine federiciana, mentre le più grandi furono fatte edificare da Carlo V. Le torri sono progettate e costruite per essere una in vista dell’altra e per garantire il massimo controllo del territorio. Ma come funzionava il sistema d’allarme contro i Turchi? Nelle torri vivevano dalle 2 alle 3 persone con compiti diversi, i cavallari e le vedette. Le vedette controllavano l’orizzonte dal punto più alto delle costruzioni. Appena scorgevano delle navi nemiche mandavano segnali d’allarme alle altre torri e alle Masserie fortificate nell’entroterra attraverso la luce delle torce o il suono di campanelle. Dalle torri, quindi, partivano i cavallari che, al grido “Mamma li Turchi”, avvisavano i paesi interni e i presidi di soldati presenti nei castelli di Gallipoli, Copertino, Otranto, Lecce, ecc”…

Oggi, la storia, si capovolge e si ripete, per certi aspetti. Torna ma in maniera positiva. La Turchia diventa alleata. I nemici di un tempo, diventano i migliori alleati.

 

Melanton: misteri, prodigi e fantasie

Vignetta Melanton

di Paolo Vincenti

 

Antonio Mele, in arte Melanton, uno dei più importanti vignettisti italiani, che mi onora della sua amicizia, mi regala un libro bello denso, il suo ultimo, “Misteri prodigi e fantasie in Terra di Puglia, Racconti e Leggende”. Capone Editore, Lecce, uscito nel 2015.

È lungo l’elenco dei premi e riconoscimenti ricevuti durante la sua carriera, mi basterà citare la Targa conferita nel 1997del Presidente della Repubblica Italiana per meriti culturali nella promozione e diffusione dell’arte satirica e umoristica. Le sue vignette sono note, i libri forse di meno, ma è importante sottolineare come Melanton abbia portato avanti entrambe le carriere, coltivato entrambe le passioni, quella di disegnatore e quella di scrittore, la matita e la penna che, in alcuni casi, si danno la mano.

Ha pubblicato nel 1994 “Caro Federico, omaggio a Fellini umorista”, nel 1999 “20th Century Humour” (progetto storico-artistico per la XX Biennale di Tolentino), nel 2000 “Smile in style” (antologia per la mostra a New York del Museo della Caricatura di Tolentino), nel 2001 “La civiltà del sorriso”, nel 2002 “Scalarini: la vita e le caricature politiche”, nel 2003 “Sorridendo nei secoli “ (antologia curata per conto dell’Arma dei Carabinieri), nel 2006 “La tentazione comica” (con Fabio Santilli), nel 2008 “Melanton, sorrido ergo sum” (catalogo monografico della mostra antologica al Museo di Maglie, Lecce).

Questo asciutto elenco per dire che la sua carriera di scrittore, iniziata molti anni fa, non è affatto velleitaria, è notevole, ragionata, corposa, ed oggi si arricchisce di questo titolo che non tarderà a diventare un piccolo classico nella pubblicistica salentina. Melanton è anche poeta. Ha pubblicato, fra gli altri,  “Aspetta, luna…” (Leonforte, 1996), “Poesie di terra” ( Arezzo, 2000), “Da un altro cielo” (Treviso, 2002), “Il tempo contadino” (Leonforte,2003). “A mio padre scrivo”, Pieraldo Editore, Roma,2004.

Col libro in parola, Melanton ha raccolto una serie di cunti, fiabe e leggende attingendo dall’enorme patrimonio popolare di cui è depositaria la nostra terra. Lo ha fatto con l’amore filiale del salentino, con la passione dell’affabulatore, del cantastorie, e con l’acribia del ricercatore serio. Ne è venuta fuori una miscellanea di favole e una galleria di personaggi e maschere, dall’inafferrabile e dispettoso Piripicchiu al mago di Soleto Matteo Tafuri, fra sciacuddhi, manceddhi, carcagnuli e altri folletti e lu Titoru di Gallipoli, fra la pietra miracolosa di San Vito a Calimera e lu Toniceddhu e la rondine, davvero notevole e assai gustosa.

Il libro è impreziosito da due firme prestigiose che curano la prefazione e la postfazione, rispettivamente Antonio Errico, “ Le storie, la memoria”, e Maurizio Nocera, con “Melanton o di un nuovo umanesimo nel riso e nel sorriso”. Quest’ultimo è amico di vecchia data del maestro Melanton ed è del pari esperto di leggende e cunti di Terra d’Otranto, in quanto ricercatore preparato e attento di antropologia culturale. Antonio Errico è uno dei più importanti scrittori e critici letterari salentini. Voglio dire, per Melanton si muove il ghota delle lettere e della cultura.

Anche Melanton scrive una presentazione del libro, “E cammina, e cammina…”, nella quale si legge “…Appariva come un mago nella piazzetta e nei vicoli dove giocavamo, e quand’eravamo stanchi e ci sedevamo per terra, allora ci chiamava tutti per nome, e sussurrava: «Mo’ vu cuntu nu cuntu…». E cominciava a raccontarci storie incredibili: le più belle e fantasiose che si possano immaginare. E si faceva sera, e nel cielo tornava la luna imperiale, mentre noi restavamo incantati, perdendoci tutte le volte nel Paese dei misteri e della fantasia, affollato di orchi, di draghi, di spiriti folletti, e d’introvabili tesori nascosti. E cammina e cammina, superando gli incantesimi di orchi e di streghe, in lande sperdute dove non canta gallo e non luce luna, giungevano infine gl’invincibili eroi per liberare la figlia del Re! Quarantasette storie e leggende – fantasiose e sentimentali – riprese dal tempo, dalla memoria e dal sogno, per riassaporare il gusto di quel magico gioco, che da bambini ci consentiva di abbracciare la vita e il mondo con un sorriso.”  

Antonio Mele non è nuovo alla ricerca demoetnoantropologica, tanto vero che sulla rivista “Il filo di Aracne”, di Galatina, da anni cura una rubrica dal titolo “Il Salento delle leggende” corredata da sue vignette, e di cui questo libro si può considerare una estensione, una più diffusa trattazione.

Ho citato Galatina: occorrerà dire che questa è infatti la città natale del Nostro, la patria amata, dove dalla sua residenza romana, ritorna negli ultimi anni sempre più spesso, inseguendo quel nostos di classica memoria che gli procura algos, sofferenza, struggimento, che è una affezione dell’anima prima ancora che amore per le radici, riappropriazione identitaria, prima ancora che ritorno a casa, saudade, come dicono in altre latitudini di sud, un regressus ad uterum per trovare quella linfa vitale che solo la terra madre può dare. Ha collaborato e collabora con importanti giornali e riviste fra cui il Corriere canadese”, “Quotidiano”,“Il Carabiniere”, “la Repubblica”, il settimanale satirico “Marc’Aurelio”,  “IlTravaso”, altro celebre periodico umoristico romano, e poi “Il Galatino” e “Il filo di Aracne”.

Melanton mi riceve nella sua bella casa gallipolina dove parliamo di tanti progetti che ci accomunano. Il suo eloquio è colto, fluido, torrenziale. I suoi modi umili, nonostante il noblesse obblige dovuto ad una carriera sfolgorante. Ogni racconto del libro di cui sto trattando è associato a una località pugliese diversa, sicché diventa un viaggio, non solo nella memoria e nella fantasia, ma anche in lungo e in largo nella nostra regione.

«Per fare questo libro”, dice Melanton ad Ilaria Marinaci in un’intervista pubblicata su Quotidiano di Puglia, “ho cercato di spaziare in tutta la regione e, quindi, ho giocato qualche volta un po’ di fantasia. Ad esempio, c’è un racconto che io ambiento nella Selva di Fasano, perché ben si sposava quella collocazione con la storia, ma la maggior parte delle leggende sono proprio originarie del luogo che ho indicato. In qualche caso, per dare un’ambientazione a storie che sono generiche, ho scelto città a cui sono affettivamente legato, come nel caso di Cutrofiano e Acquaviva Delle Fonti».

Melanton rivela da tanto, nei suoi scritti, l’amore per il mistero, per l’esplorazione dell’insondabile, dell’anomalo, dell’inspiegabile e ciò è confacente con la sua natura di creativo: la fervida immaginazione corre verso i terreni subliminali dell’inconscio e il suo è un viaggio al tempo stesso magico e inquietante nel regno dell’arcano, della follia, impastati alla tradizione popolare.

Melanton ha l’esperienza dell’uomo navigato e gli stupori del fanciullo coniugati insieme. Non si può non amare la sua opera.

Soirée parisienne nella biblioteca Roberto Caracciolo in Lecce

1_Farinelli_BelfioriDoro

a cura dell’Ufficio Pubbliche Relazioni  del Conservatorio di Lecce

 

Proseguono con grande successo di pubblico gli appuntamenti musicali promossi dal Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce. Domenica 21 febbraio 2016, nel salone rinascimentale della Biblioteca Roberto Caracciolo in Lecce (ore 19:30), si terrà una raffinata “soirée parisienne”, un concerto di musica vocale da camera dal repertorio di Massenet, Milhaud, Poulenc, Satie e Rosenthal, a cura del contraltista GIANLUCA BELFIORI DORO e di FILIPPO FARINELLI al pianoforte.

La serata si aprirà con la mesta e lenta melodia di Élégie, per voce e pianoforte o violoncello, tratta dalle Vingt Mélodies (1872) di Jules Massenet, su versi di Louis Gallet.

Seguiranno Trois chansons de négresse (1935-36) per voce e orchestra da camera o pianoforte di Darius Milhaud, su versi di Jules Supervielle, nei quali una schiava africana canta del suo popolo deportato in Venezuela. In Mon histoire (la mia storia) la donna narra la miseria e l’umiliazione della sua condizione. In Abandonnée (abbandonata) la schiava vedova esprime la disperazione del suo lutto e racconta del meditato suicidio frenato dal dover allattare il proprio bambino. In Sans feu ni lieu (senza focolare né luogo), il sentimento è esteso a tutti i bambini che la lotta per la liberazione ha lasciato senza casa. Eseguite per la prima volta nel 1937 dal soprano Madeleine Grey, spesso scelta dai compositori francesi per le anteprime dei loro lavori, queste tre canzoni sono un esempio di semplicità, di efficace uso delle brevi frasi ripetitive dei canti popolari ascoltati in Brasile dal compositore.

Il programma proseguirà con Le bestiaire ou “Cortège d’Orphée” (1919) di Francis Poulenc, su poesie di Guillaume Apollinaire: Le dromedaire (il dromedario) – La chèvre du Thibet (la capra del Tibet) – La sauterelle (la cavalletta) – Le dauphin (il delfino) – L’ecrevisse (il gambero) – La carpe (la carpa). Questo ciclo di canzoni in miniatura, scritto da Poulenc all’inizio della carriera, non ha nulla di accademico, né sul piano del trattamento del testo né sul piano ritmico, melodico o armonico. Il poeta e il compositore giocano con l’apparente semplicità del bestiario, privo di gioia infantile, ma piuttosto venato di una sottile malinconia.

Le chemins de l’amour (le vie dell’amore) è un valzer per voce e pianoforte composto da Poulenc nel 1940, su testo di Jean Anouilh, tratto dalle musiche di scena della pièce Léocadia, con dedica all’attrice e cantante Yvonne Printemps.

Un’indolenza rigogliosa pervade Hôtel, affascinante e modernissimo brano di Poulenc, su versi di Guillaume Apollinaire, tratto da Banalités (1940): un testo spettacolare, fatto di piccole banalità, di stupidità assolute che fanno il nonsense della vita, in una camera d’albergo.

Je te veux (voglio che tu) è un valzer sentimentale, scritto nel 1897 da Erik Satie, su testo di Henry Pacory, in più versioni: per voce e pianoforte, per orchestra di ottoni e per grande orchestra.

Il concerto proseguirà con Daphénéo, n. 2 delle Trois mélodies (1916) di Erik Satie. Scritto dalla diciassettenne Mimi Godebska, già dedicataria del raveliano Ma mère l’oye, il testo è un breve dialogo, d’atmosfera lieve, giocato su un equivoco fonico che sembra provenire da un luogo e un tempo lontani e misteriosi: Chrysaline domanda a Daphénéo quale sia quell’albero i cui frutti sono uccelli piangenti. Questo immaginario onirico e bambinesco suggerisce a Satie sonorità spoglie e figurazioni ripetitive e cantilenanti che ricordano un carillon.

Chiudono la serata tre canzoni di Manuel Rosenthal, Grammaire (grammatica) – La souris d’Angleterre (il topo d’Inghilterra) – Le bengali (il bengalese), tratte dal ciclo di canzoni Chansons du Monsieur Bleu (1932), psichedelica mini-opera che si muove tra facezie e colore, stravaganze e poesia, per bambini, giovani e meno giovani.

 

 

INGRESSO LIBERO

 

Prossimo Appuntamento:

Domenica 6 marzo 2016

Biblioteca Roberto Caracciolo – Lecce

“LE PIACE BRAHMS?”

PIERLUIGI CAMICIA – VINCENZO RANA

(pianoforte)

Il Carnevale in 7 stampe antiche

di Armando Polito

– Felice il paese che non ha bisogno di eroi! -, faceva esclamare Bertold Brecht al suo Galileo. Mi permetto di adattare quello che è ormai un aforisma esclamando nel mio piccolo: – Felice quel paese che non ha bisogno di feste e di giornate !-.

Tra quelle dedicate alla famiglia, ai cani randagi, al vino, alla cotoletta, alla parrucca, al lampascione, a … chi più ne ha ne metta, fra poco sarà necessario, a meno di non stravolgere il calendario astronomico dilatando la durata dell’anno oltre i 365 giorni, inglobare la celebrazione di due o tre eventi prima distinti in un unico spazio temporale; insomma, due o tre giornate in un solo giorno.

La cosa più paradossale, almeno per me, è che questo bisogno di celebrazione nasconde una scarsa condivisione, se non una perdita di valori da un lato e, dall’altro, la pericolosissima, esiziale illusione di essersi messo in pace la coscienza. Insomma, sempre secondo me, quanto più celebriamo tanto più la nostra umanità va a rotoli.

Eppure basterebbe dopo la celebrazione ufficiale, istituzionalizzata, alla cui cronologia non puoi sottrarti, prolungare ciascun ricordo, possibilmente più di uno per volta, vivendolo o vivendoli intensamente, oltre il breve spazio di 24 ore. Naturalmente tale privilegio andrebbe riservato ai valori autentici tra i quali inserisco senza dubbio la famiglia, i cani randagi e lasciando da parte (nessuno può immaginare quanto mi costa …) il vino, la cotoletta e simili.

Spero con questa premessa di ridimensionare il legittimo primo commento alla lettura del titolo, condensabile in queste battute: – E questo che vuole, ci viene a parlare in ritardo del Carnevale; è proprio un ritardato! -.

Ritardatario o ritardato che sia, chi vuole mi segua in questa presentazione di stampe tutte custodite nella Biblioteca Nazionale di Francia, che qui riproduco per esigenze tecniche in formato ridotto, ma che l’appassionato può contemplare in alta definizione sfruttando il link che troverà in calce a ciascuna di loro. Appartenevano tutte alla collezione di Michel Hennin (1728-1807).

 

http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b6944967g.r=carnaval

http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b84063518.r=carnaval

http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8412939x.r=carnaval

http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b84136255.r=carnaval

http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8410615v.r=carnaval

http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8408830f.r=carnaval

http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b84101421.r=carnaval

Costruzioni a secco che caratterizzano fortemente il nostro territorio

furnieddhu-cranne1

di Pier Paolo Tarsi

Avere un tesoro…e non saperlo!
Le pagghiare o pajare o furnieddhi sono delle costruzioni a secco che caratterizzano fortemente il nostro territorio tanto quanto i sacri ulivi, dai quali sono spesso circondati, anche nel nostro immaginario. Costituiscono un patrimonio storico, culturale e paesaggistico di cui non siamo spesso consapevoli noi stessi.

I furnieddhi sono stati i rifugi per i contadini che hanno edificato la nostra civiltà con fatica ed oggi sono testimoni importanti del nostro sentire più intimo e del nostro passato. Anche se non è noto a tutti, queste dimore si differenziano fortemente per dimensioni, caratteristiche strutturali e soluzioni architettoniche adottate da zona in zona, pertanto una pagghiara presente nel territorio di Copertino non sarà affatto uguale ad una del territorio di un altro Comune (ci sono ottime pubblicazioni per chi fosse interessato ad approfondire). In quanto copertinesi, abbiamo allora il dovere di difendere e valorizzare questo patrimonio di cui siamo gli unici eredi e custodi, preservandolo dalla sua scomparsa dovuta al tempo, all’incuria o peggio alla volontà folle di chi abbatte i furnieddhi o addirittura li sostituisce furbescamente con costruzioni moderne camuffate da antiche dimore a secco per raggirare le leggi.

Un’azione saggia e intelligente di tutela e valorizzazione collettiva non solo è un atto dovuto, nel rispetto dei nostri avi e del nostro paesaggio, ma è un’azione che avrebbe ricadute ottime per ogni copertinese in quanto: 1) incrementerebbe il valore delle campagne; 2) si incentiverebbe il flusso di visitatori e turisti nelle nostre zone; 3) si instaurerebbe un circolo virtuoso che permetterebbe il ritorno di antichi mestieri che vanno del tutto scomparendo (i costruttori di muretti a secco e furnieddhi) e che invece potrebbero occupare nuove giovani leve, a vantaggio dell’economia di tutti e di un benessere sostenibile, rispettoso della natura e della storia.

Se non ci credete, provate a comprare una pagghiara a pochi passi da casa, ossia nelle zone di Leuca o in altri posti del Basso Salento dove la coscienza del valore di questo tesoro è stata acquisita, scoprirete che costano talvolta più di una villa di lusso con piscina!

San Valentino, ma non per tutti …

di Armando Polito

San Valentino in un codice miniato custodito nella Biblioteca municipale di Lione

San Valentino in  un messale miniato di Attavante degli Attavanti (1483) custodito nella Biblioteca municipale di Lione

E dopo che ti sei dannato l’anima per fare bella figura …

Che rottura di c…anali!

di Armando Polito

*Certo che pagare il canone con un televisore così è proprio da idioti …

Com’è noto il governo ha deciso di stanare chi evade il pagamento del canone televisivo in base al principio di presunzione del possesso di un televisore qualora la stessa casa fruisca del servizio di distribuzione dell’energia elettrica. Faccio notare al lettore come la tanto decantata flessibilità sia stata applicata anche a questo principio che in campo giuridico prevede lo status dell’innocenza fino alla condanna definitiva, anche quando le prove sono tanto schiaccianti da togliere ogni dubbio di piena colpevolezza. Sotto questo punto di vista non fa meraviglia che tale principio sia sbandierato ogni momento dall’attuale partito (questo sì trasversale al massimo …) degli inquisiti e dei loro difensori con un impegno, da parte di questi ultimi, dettato più che altro dal non si sa mai o domani potrebbe capitare pure a me…

Ora un semplice contratto di fornitura di energia elettrica diventa un indizio di potenziale colpevolezza e spetta al titolare l’onere della prova che in quella casa non c’è ombra di apparecchio tv. A quanto pare tale prova bisogna fornirla con autocertificazione all’Agenzia delle entrate che, non riuscendo a svolgere efficacemente il suo compito, un po’ per deficit di organico, un po’ per leggi farraginose e contraddittorie, gioia dei grandi evasori che possono permettersi fiori di commercialisti, ora dovrà pure controllare la sincerità di tale autocertificazione. Già m’immagino una caterva di interventi di controllori, muniti di una sorta di certificato di perquisizione, in giro per le case e gli stessi abbandonarsi ad ululati di soddisfazione alla vista del portatile  da 10 pollici che l’incauto proprietario, evasore del canone, ha dimenticato sul comodino nella foga di nascondere nella camera segreta i cinque  maxischermi da 120 pollici presenti negli altri ambienti della casa, bagni compresi  …

E, forse, se vorrà togliersi lo sfizio, potrà pure contestare il reato, penale, di falsa dichiarazione del quale dovrebbe essere, seduta stante, accusato; gli basterà trovare un buon avvocato che sappia stiracchiare qualche piega che è sempre nascosta, non so quanto involontariamente …, in ogni legge e che nei casi estremi potrà sempre invocare, e corroborare con l’esibizione di adeguate testimonianze,  l’incapacità d’intendere e di volere del suo cliente al momento della stesura (e pure dell’invio …) dell’autocertificazione.

Questo è il nero futuro che attende tutti i biechi presunti evasori. Nel frattempo tutti, dico tutti, già da più giorni ci sorbiamo, in forma di demenziale cantilena replicata con la petulanza del più finto degli accattoni (quelli autentici, conservando un minimo di dignità, chiedono una sola volta alla stessa persona), la lieta notizia che quest’anno i non evasori del passato non riceveranno il bollettino per il pagamento del canone, che lo stesso importo, per grazia non di Dio ma del governo  è diminuito e che sarà rateizzato, appunto, nella bolletta della luce. Insomma, uno spot di propaganda preelettorale, o, se preferite, di regime …

Molti, per non dire tutti, che di quel governo volta  per volta fanno parte, credono che governo e Dio siano la stessa entità e moltissimi di coloro che votando (negli ultimi tempi neppure quello …) li hanno eretti agli onori degli altari (ma gli altarini sono sempre in agguato …), non saprei se più leccaculo che opportunisti o idioti, sono convinti pure che la divina provvidenza è stata soppiantata da quella governativa …

Non so quanti mi stiano leggendo, ma io sto già profondamente rimpiangendo l’annuale tortura del vecchio messaggio relativo alla scadenza del 31 gennaio e della  piccola sovrattassa prevista per i ritardatari. L’elemosinante ricordo quotidiano durava, però, fino alla fine di febbraio.

Già il nuovo messaggio, più elemosinante del vecchio, resterebbe, almeno per me, vomitevole anche se fosse letto con fare sensualmente, anzi sessualmente, ammiccante da un’esplosiva/un esplosivo annunciatrice/annunciatore (sempre per me vale il primo protagonista di ogni coppia)..

Ogni estate ha il suo tormentone musicale e non è da escludere che qualche geniale autore, naturalmente a titolo gratuito, partorisca qualche motivetto da utilizzare come sottofondo musicale per qualche spot relativo, sempre, al nostro argomento, il cui spessore culturale è, lo dico perché può darsi che qualcuno non se ne sia accorto …, elevatissimo, come, del resto,  quasi tutta la programmazione nazionale,1

E che rottura di c…anali sia, per tutta l’estate, al ritmo, più o meno (ar)rapante che accompagna un testo più o meno sublimemente poetico come questo:

Ma dove vai

se il televisore

non ce l’hai? 

Hai però il contatore

che non si ferma mai,

tu sei di certo un evasore

e per te saranno guai.

Ora attendi il controllore

e, se non lo sai,

venire può tutte le ore.

Tu dirai che sei un masai,

con grande suo stupore,

che il tuo tv è un bonsai,

non ha nessun valore 

e spento lo terrai.

Urrà! pel percettore;

tu invece piangerai

e con gran dolore

contrito esclamerai,

smunto il bel colore:

“Ahi, ahi, stramaledetta RAI!”.

______

1 Chi mi obietterà che nessuno mi obbliga a seguire questa o quella trasmissione sarà il mio ispiratore per la continuazione di questo post; ma poi, non si lamenti se…

 

 

Dalle Ceneri a Pasqua. Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

ceneri20per20quaresima

Il Salento delle leggende

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

 

di Antonio Mele ‘Melanton’

 

 

Quando muoiono le leggende finiscono i sogni.

Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.

 

Un uomo con i piedi per terra e la testa fra le nuvole.

Questo, forse, potrebbe essere l’ideale dell’uomo moderno. Col suo impegno quotidiano, la fatica e la gioia di costruire, ma anche il librarsi verso il desiderio e l’immaginazione: un volo irresistibile oltre le case e il tempo,cogliendo l’esistente e il fantastico, il passato e il futuribile.

Una coperta di stelle. I giochi bambini. I volti amati. E di nuovo viaggiare. Percorrendo solchi di terra rossa. O passando dentro spighe alte di grano. Tra profumi di vendemmia e dolci di festa. Tra amori forse dimenticati o mai perduti. Amori solidi, eterni come ulivi. Favole con Orchi e Fate che sorridono e rilasciano dolci paure. Strade infinite che portano a giorni nuovi o a orizzonti irraggiungibili. Sortilegi. Poesie.

Tutta la vita del mondo, infine, si compone di realtà e incantamenti, di sogno e di mistero, di cronache possibili e improbabili, di storie che non sono storia, e pure destinate a durare oltre la storia.

Ma bisogna essere forti, per questo fatale cammino. Ma ci vuole anche amore: l’intenzione-invenzione sentimentale pura e assoluta, il nudo saper sentire, partecipare, condividere emozioni. Pensando, sognando, lasciandosi portare via…

Siamo noi.

Il mito esiste perché esistono gli uomini. Angeli caduti e risorti. Forse figli prediletti della natura. Specie complessa e indefinibile, alla quale ben si addice il concetto d’infinito, sapendo tenere sempreviva, nonostante le proprie ferine contraddizioni, la scintilla della bellezza della vita.

 

«È scurutu lu Carniàle / cu purpette e maccarruni, / mo’ me tocca l’acqua e sale / e nu crottu de pampasciùni».

Dal mercoledì delle Ceneri, subito dopo Carnevale, e fino alla domenica di Pasqua, per antica tradizione, iniziata nel II secolo d.C., corre il periodo di Quaresima: quaranta giorni (quadragesima) che in tempi non lontani, e molto più sentitamente rispetto ad oggi, erano caratterizzati da una serie di rituali – tra il religioso e il pagano – che si tramandavano rigorosamente di generazione in generazione.

L’astinenza alimentare, per esempio. Che non era soltanto dalle carni. Oltre ad esse, per tutto il periodo, non si doveva consumare neanche un uovo, né latte, né i suoi derivati. Altrimenti, se ccambarava(cioè si cadeva in peccato, mangiando di grasso).

Sicché, nel periodo quaresimale, pranzo e cena erano costituiti da patate, legumi,e verdure di ogni genere (mùgnuli, zzanguni, cicore creste, raccolte di solito direttamente nelle campagne), compresi gli immancabili e sempre gustosi pampasciuni in agrodolce. Abbondanza, si direbbe. Invece le varietà del menu quaresimale venivano consumate in pasti assai frugali. «Pocu, masapuritu», era il motto.

Ai pampasciuni si lega una curiosa leggenda, che narra di un naviglio carico di pellegrini, proveniente dalle coste a nord dell’Adriatico e diretto a Otranto, che per un improvviso fortunale ai primi giorni di marzo rovinò sul litorale solitario delle Cesine.

Feriti e affamati, i naufraghi supplicarono la Madonna Addolorata, per un intervento miracoloso, che non si fece attendere. Dilì a poco, infatti, sul posto giunse una capretta con una campanellina al collo che, facendosi seguire, accompagnò il gruppo dei malcapitati fino al villaggio di Acaya, nei pressi di Vernole, dove furono accolti erifocillati dai paesani con i gustosi lampascioni di cui quel territorio era, ed è, ricchissimo.

Tanto che ancora oggi, il primo venerdì di marzo, Acaya dedica ai suoi preziosi cipollotti una sagra molto importante, con fantasiosi e geniali cimenti gastronomici, che nel tempo hanno portato a raccogliere più di cento ricette sul modo di preparare questo prodotto tipicamente salentino. E la stessa Madonna Addolorata, per quel giorno, diventa la Madonna te li Pampasciuni. Onore al merito.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne

Unioni civili e identità di genere. Giò Stajano, un precursore del Salento

Gio Stajano

di Ermanno Inguscio

Il tema delle Unioni Civili in Italia, tra i pochi Paesi ancora senza una legge, additato anche dall’Europa come una riforma indifferibile, rimanda alle problematiche poste in ambito sociale sia dalla identità di genere sia dai diritti dei bambini ad avere due genitori. Dopo il divorzio e l’aborto in Italia, la mutata società moderna chiede ancora nuove modificazioni al diritto di famiglia. La questione odierna, specie per l’adozione dei minori da attribuire anche a coppie omosessuali, è abbastanza controversa, Questa, infatti, è una settimana cruciale per i nostri parlamentari. E tra “family day”, “dies familiae” e scontri in Parlamento, il mio pensiero corre a personaggi, come Giò Stajano, antesignano della diversità, transessuale e icona gay degli anni Cinquanta e anch’egli studente sessantottino nell’Ateneo di Lecce. Sono riandato così al mio Sessantotto leccese, al furore di quei giorni, proprio con la lettura di un libro di Giò Stajano, Pubblici scandali e private virtù. Dalla Dolce vita al convento, edito da Manni nel 2007.

Pubblici scandali e private virtù: quasi una parafrasi, nel titolo del volume, di quanto avvenuto nella prima e nella seconda repubblica del Belpaese. Il giornalista, stravagante personaggio, nipote di Achille Starace, noto omosessuale nella Roma felliniana della Dolce Vita, esperto di fotografia scandalistica e giornalista per il settimanale “Big” (1964-1967) e, dal 1969, per “Men” si era rifiondato a Lecce, dopo una ennesima delusione amorosa, con la sua fiammante 500, costretto dal papà ad iscriversi ai corsi della facoltà di Lettere e Filosofia. Fu così che tra l’entusiasmo di non pochi studenti, la baraonda dell’incipiente Sessantotto e le prime occupazioni studentesche, l’arrivo di Giò Stajano a Lecce coincise per le matricole di Lettere con la frequenza al corso superaffollato sul Leopardi minore, tenuto da Mario Marti nell’Ateneo salentino. Ma quella di Stajano si rivelò quasi una meteora di presenza a Lecce. Tra serate (molte) e lezioni e libri (molto pochi) e le sue puntate a Sannicola, ogni tanto, ma proprio dio rado, si rifugiava nel suo appartamentino di venticinque metri quadri, tra servizi giornalistici, foto e irriverenti comparizioni in pubblico. Quasi un’anteprima dei moderni gay pride, come quello di Helsinki, nell’estate del 2011, nel quale capitai tra schiamazzi, sberleffi e osceni richiami. Quanto al contesto rivoluzionario del Sessantotto, circa gli obiettivi della contestazione giovanile propria di ogni ateneo di tutta Europa, le aule e le lezioni venivano occupate ed interrotte vuoi di giorno vuoi di notte sull’onda delle incursioni in ateneo sia di destra sia di sinistra.

Tra i personaggi importati da mezza Italia, da Pisa, da Milano, da Bologna e da Roma, a scaldare la passione degli studenti salentini tra i banchi e le biblioteche e le molte lezioni da saltare, faceva la sua bella figura, Stajano. Lui, salentino doc, nativo di Sannicola, col il suo palmares di anticonformismo, di trasgressioni, di disordini, di arresti, di gossip nazionali e di giornalismo noto nell’intera Penisola. Un’infanzia, la sua, trascorsa tra i ricordi a Roma con il nonno Achille, la villeggiatura al mare, nel mese di luglio, al Lido San Giovanni a Gallipoli; in agosto in montagna all’Abetone o in uno chalet a San Martino di Castrozza, vicino a quello di Costanzo Ciano e di Edda Mussolini con i figli. Nel primo dopoguerra in luglio, sempre al mare, ma al Lido Conchiglie.

Presto Giò scoprì di essere diverso e già nel 1951, a Firenze, poté parlare con Giorgio, per la prima volta della sua omosessualità ed essere così introdotto, con una catena di amicizie e frequentazioni romane negli ambienti dei “diversi”, set cinematografici e night club. Ebbe modo , tra eccessi e prostituzione, di occuparsi soprattutto di editoria pornografica, frequentando il mondo della politica, della cultura e dello spettacolo. A Roma, sempre foraggiato dallo stipendio puntuale del papà, con la frequenza della café-society di Via Veneto, Trinità dei Monti e del mondo artistico-cinematografico e dei night, divenne uno dei personaggi della Dolce Vita.

Ebbe contatti con artisti ( Walter Chiari, Maurizio Arena) attori (Ava Gardner, Linda Christian, Soraya) cantanti (Carosone, Peppino di Capri, Fred Buongusto). Un suo pediluvio, una sera, nella Barcaccia di Piazza di Spagna, fatto in compagnia della modella somala Marilù, rimbalzato sui giornali della Capitale, diede a Federico Fellini lo spunto per la scena più famosa del suo film La Dolce Vita. S’innescò, complice l’attività di giornalista apprezzato in ambito scandalistico, una vita dissoluta di amori da omossessuale. Poi nel 1982, la metamorfosi di Giò Stajano: lifting facciale, seni e l’intervento definitivo di passaggio al genere femminile. A Casablanca, con un costoso intervento chirurgico ad opera del dottor Burou, era nata una foemina tripudians, pronta a scatenare la sua rivincita su tutti i maschi dell’universo.

Al ritorno in Italia, a Sabaudia, fu ben accolta nella famiglia d’origine, ma fu odiata dalle donne, perché vista come pericolosa rivale. Frequentò il Centro Sperimentale di Cinematografia e chiamata da Novella Parigini a scritture con una parte nel film di Caccia all’uomo di R. Freda, con la “consacrazione” come attore omosessuale della Dolce Vita di F. Fellini, la partecipazione al film di A. Sordi Il comune senso del pudore e Nerone di P. F. Pingitore.

Giò Stajano, dunque, autentico pioniere di dichiarata diversità, vissuto nel mondo dello spettacolo, della cultura, dell’arte, della politica e della moda. Dal 1984 signora anagrafata in tutti i pubblici registri come Gioacchina Stajano, dopo il cambiamento di sesso avvenuto a Casablanca nel 1982. Negli anni Novanta, improvvisamente, finì persino, per scelta, col calcare l’acciottolato di un convento. Oggi avrebbe certamente potuto dire la sua nell’odierno dibattito sul riconoscimento dei diritti civili in Italia. Molte associazioni di oggi, infatti, si rifanno alla sua significativa, e scandalosa, esperienza. Quanto a scandali pubblici, del resto, sotto ogni cielo, non ne mancano. Le private virtù, per fortuna, continuano ad esserci. Forse non hanno adeguata visibilità.

Un personaggio singolare Giò Stajano. Non mancò neanche di fascino letterario con qualche sua pubblicazione. Il primo Roma capovolta (1959), il secondo Meglio un uovo oggi (1959), fatti oggetto di puntuale censura. Pubblicò poi Le signore sirene (1961) e Roma erotica (1968) e Il tetto stretto (1973). Nel 1963, durante un soggiorno a Lecce in casa della madre, aveva dato alle stampe Gli uni e gli altri. Nel 1979, con La terra dei nonni, una raccolta di versi, testimoniava il suo affetto per persone e luoghi che non c’erano più, il padre Riccardo, la madre Fanny Starace,i fratelli Francesca, Achille e Candida Maria, il nonno Achille Starace, il vecchio collegio Argento, la sua villa a Sannicola, ma anche il duo Flon-Flons, i suoi quadri acquistati da Fellini, i suoi amici canoisti, paracadutisti e i piloti della Scuola Aeronautica di Galatina. Un mondo di affetti e di trasgressioni, testimone del suo tempo e della sua terra, il Salento.

Francavilla Fontana. Le mandorle ricce di Carnevale

di Massimo Vaglio

Le mandorle ricce, dette anche confetti ricci, costituivano prima dell’universale diffusione delle chiacchiere, uno dei prodotti gastronomici tradizionalmente più legati al Carnevale. La predilezione per questi semplici dolciumi, un tempo accomunava diversi paesi della Puglia e larga parte del Salento.

Oggi non tutti li conoscono, specie tra le nuove generazioni, infatti, se sino a qualche decennio addietro, nel periodo carnevalesco, grandi vasi di vetro ricolmi di confetti colorati farciti di rosolio e soprattutto di mandorle ricce affollavano le vetrine delle drogherie e i banconi di tutti i bar di paese, attualmente, la loro presenza è limitata a pochi caffè pasticceria di più antica tradizione.

Un dolciume povero e soprattutto genuino, composto da mandorle, acqua zucchero e pochi aromi naturali, che in origine molte pasticcerie preparavano nel proprio laboratorio.

Da ormai qualche decennio la gran parte della produzione proviene da laboratori industriali che alla bisogna, con delle sorta di betoniere a gas, riescono a sfornare quintali di confetti l’ora, ma resiste stoicamente anche qualche artigiano tradizionalista che ancora applica fedelmente l’originaria tecnica manuale.

Uno degli ultimi custodi dell’ antica tecnica della loro preparazione è Cosimo Passiante, maestro copetaro, ossia produttore di croccante, che

Fra chiacchiere e sanguinaccio, I dolci tipici del Carnevale tarantino

chiacchiere carnevale

 

di Angelo Diofano

Carnevale è nel pieno dei festeggiamenti, anche se, in verità, non è che sia rimasta tanta voglia di “pazziare”. Una festa più per i bambini, occasione per sfoggiare un bel costumino nei veglioni loro dedicati oppure nei vicini corsi mascherati di Massafra o Putignano. Con il rimpianto, per i più grandi, rivolto ai grandi appuntamenti che un tempo, ormai lontano, si tenevano nei saloni de “La Sem” (il popolare Gran Caffè di via D’Aquino angolo via Giovinazzi, dove ora malinconicamente agisce una banca), al Circolo Ufficiali o al “Gambero”.

Resistono nella tradizione i dolci tipici di questo periodo. Fra questi non si può non citare il sanguinaccio, nella cui preparazione la pasticceria “Principe”, al Borgo, sfoggiava (e lo fa ancora) il meglio di sé. Che ghiottoneria quella bella crema densa, dolcissima, talvolta impreziosita da canditi, venduta in bicchierini di plastica. Un tempo il cioccolato, ingrediente base del dolce, veniva mescolato a sangue di maiale fresco di macellazione, che conferiva un inconfondibile gusto acidulo e che rendeva particolare la specialità. Ora se ne fa a meno, a causa di provvedimenti in materia di igiene emanati negli anni Novanta. Peccato, infatti non risulta che in passato quell’ingrediente abbia fatto male a qualcuno. E del sanguinaccio tipico, così, è rimasto soltanto il nome.

Un po’ in disuso i confetti ricci, che nelle feste in maschera venivano distribuiti a manciate fra i bambini. Continuano ad andare bene le chiacchiere, in altre regioni dette cenci, straccetti, frappe o frappe. Si tratta di dolci molto friabili, a base di impasto di farina, con i bordi frastagliati. La cottura avviene tradizionalmente mediante frittura; alcuni le preferiscono al forno: saranno più leggere ma non è la stessa cosa. Ah, si dimenticava la spruzzatina con lo zucchero vanigliato, ma senza esagerare onde evitare imbiancature alle “mise”. In ogni caso il danno è lieve: un colpo di mano e tutto si rimette a posto.

C’è, ancora, chi si misura con la preparazione del calzone alla tarantina, nel cui ripieno il gusto del ragù s’incontro con quello dolce della ricotta. Una prelibatezza che, in versione maxi (e anche midi, se vogliamo), basta per un intero pranzo. E poi, fra un ballo e l’altro, per concludere il cenone di martedì grasso, come dice Claudio De Cuia nella poesia “L’ùlteme spijùle de carnevale”: …”p’u dolce, a scelta vostre/ cumbijtte ricce cu bbabbà e amarètte/ e cu nò sia culostre,/ ‘nu bicchierine ràse d’anesètte”,/ miènze cafèje e ‘nguarche bucchenotte/ cu tire ‘nnande ‘nzigne a menzanotte,/ ca ‘a Senza-Nase fra ‘nu pare d’ore/ da o’ Cambanòne me sòne ‘a Foròre”.

L’indomani, Mercoledì delle Ceneri, inizierà la Quaresima, con tutte le sue privazioni. E la carne dovrà essere sostituita dalla verdura, come d’altronde dice un popolare proverbio tarantino “Carnevale mije cu le dogghie, osce maccarrùne e crèje fogghie”.

Mesagne e la memoria della Shoah

ebrei

L’Amministrazione Comunale dedica diverse giornate per celebrare la memoria della Shoah.

Dal 25 al 30 gennaio sarà un susseguirsi di iniziative, denominato “Fili di memorie”, organizzate in stretta collaborazione con le Scuole cittadine di ogni ordine e grado e curate dall’Archivio Storico e dalla Biblioteca Comunali. In particolare si è pensato di coinvolgere gli studenti, partendo dalla Scuola Primaria, ai quali è stata offerta la possibilità di confrontarsi con autori e, soprattutto, con alcuni testimoni; inoltre, l’Archivio Storico Comunale ha messo a disposizione degli studenti la visione di alcuni documenti relativi agli anni immediatamente precedenti e seguenti all’emanazione del Manifesto della Razza, mentre la Biblioteca Comunale ha selezionato alcuni saggi e testi di narrativa sul tema della Shoah e rinvenuto alcuni dei testi proibiti dal regime nazifascista. Una selezione di documenti e libri troverà spazio nella raccolta aperta al pubblico presso il primo piano del Castello Comunale.  

Da segnalare, pure, l’iniziativa promossa dall’Associazione “G. Di Vittorio” incentrata sulla figura di Antonio Somma, partigiano e prigioniero a Mathausen.

Nella giornata conclusiva delle Celebrazioni, prevista per il 30 gennaio, oltre alla presenza di importanti testimoni, come Marika Kaufman e Nando Tagliacozzo si segnala il concerto di Shanah Tovah con la voce di Nadia Martina.

Di seguito il programma dettagliato.

 

25 E 28 GENNAIO

 

 

SOFIA SCHITO AUTRICE   DE “LA B CAPOVOLTA” (Lupo Editore) INCONTRA GLI ALUNNI DELLE CLASSI   IV E V DELLA SCUOLA PRIMARIA DEL 1° E 2° CIRCOLO DIDATTICO (EVENTO A CURA DELLA BIBLIOTECA COMUNALE “U.GRANAFEI”)

 

27 GENNAIO

 

 

 

APERTURA AL PUBBLICO della RACCOLTA DI DOCUMENTI E LIBRI –

1° PIANO CASTELLO COMUNALE – DALLE ORE 10.00 ALLE ORE 12.00 E DALLE ORE 17.00 ALLE ORE 20.00 (EVENTO AD INGRESSO LIBERO A CURA DELL’ARCHIVIO STORICO E BIBLIOTECA COMUNALI IN COLLABORAZIONE CON GLI GLI STUDENTI DELL’I.I.S.S. “E.FERDINANDO” – SEZ. SCIENTIFICO )

L’esposizione sarà visitabile, secondo gli orari del Castello, sino al 7 febbraio

 

 

 

 

INCONTRO SULLA FIGURA DI ANTONIO SOMMA (PARTIGIANO PRIGIONIERO A MATHAUSEN)

EVENTO ORGANIZZATO DALL’ASSOCIAZIONE DI VITTORIO

VIA CASTELLO – ORE 17.30

 

28 GENNAIO

 

 

FRANCO BRUNO VITOLO AUTORE DI “CIOCCOLATO AD AUSCHWITZ” (SIMONE PER LA SCUOLA ED.) INCONTRA GLI ALUNNI DELLA SCUOLA MEDIA “M.MATERDONA-A.MORO

 

GLI STUDENTI DELL’I.I.S.S “E. FERDINANDO” -SEZ. COMMERCIALE DIALOGANO SULLA SHOAH DOPO LA VISIONE DI ALCUNE FONTI DOCUMENTARIE

 

30 GENNAIO

 

 

 

GLI STUDENTI ED I DOCENTI DELL’I.I.S.S. “E.FERDINANDO” – SEZ. SCIENTIFICO e del II° CIRCOLO DIDATTICO INCONTRANO I TESTIMONI:

– MARIKA KAUFMAN – MOGLIE DI SHLOMO VENEZIA, AUTORE DEL LIBRO “SONDERKOMMANDO”

– NANDO TAGLIACOZZO AUTORE DEL LIBRO “DALLE LEGGI RAZZIALI ALLA SHOA’ 1938-45”

INCONTRO PUBBLICO CON I TESTIMONI MARIKA KAUFMAN E NANDO TAGLIACOZZO

INTRODUCE IL CORO DI VOCI BIANCHE DEL 2° CIRCOLO DIDATTICO

A SEGUIRE LA SHOAH IN MUSICA CON SHANAH TOVAH (VOCE DI NADIA MARTINA)

Salone Affreschi – Castello Comunale -ORE 17.30

Santa Maria al Bagno e gli ebrei, tra 1944 e 1945

di Paolo Pisacane

Santa Maria al Bagno, frazione di Nardò, non è un grosso centro: d’inverno vi sono soltanto poche famiglie, ma d’estate è un rinomato luogo di villeggiatura.

Nauna al tempo dei Messapi; Portus Nauna per i Romani; abbazia di Sancta Maria de Balneo per i Basiliani, i Benedettini ed i Cavalieri Teutonici. E’ rinata nella seconda metà del 1800.

La spiaggia, anche se piccola, è ben riparata dai venti, specialmente dalla tramontana, mentre caldo è il clima dall’inizio della primavera ad autunno inoltrato. Non a caso i Romani circa duemila anni fa l’avevano scelta per costruirci le loro terme.

automezzi fermi nella piazza di Santa Maria al Bagno all’epoca dei fatti narrati

Il mare, di una trasparenza particolare, visto dalla collinetta denominata Croce, è di una bellezza quasi irreale con tutti i suoi colori che, a seconda del tempo o dei fondali, abbracciano tutte le sfumature dell’azzurro dal più scuro al più chiaro, per non parlare, poi, del colore purpureo che acquista, quando il sole è basso all’orizzonte.

Non è però solo la parte del mare visibile dall’esterno che è così meravigliosamente bello da guardare, ma, per chi ha la fortuna di poterne esplorare i fondali, resta abbagliato dai fantastici colori e dalle moltissime specie di pesci dalle forme più varie e più cromatiche. In questo scorcio meraviglioso la vita scorreva molto tranquilla, soprattutto a partire dagli inizi del ‘900… poi una notte, subito dopo le festività natalizie del 1943, arrivarono i profughi slavi e, dalla mattina dopo, tutto cambiò.

veduta d’epoca di Santa Maria

Tale territorio era stato scelto per ospitare un campo di accoglienza, in quanto vi erano molte abitazioni di villeggiatura e, quindi, non indispensabili per il domicilio dei proprietari. Moltissimi Slavi furono portati nella notte non solo a Santa Maria al Bagno, ma anche a Santa Caterina e alle Cenate, altre due amene località nel territorio di Nardò, mentre si andava definendo l’iter delle requisizioni delle abitazioni.

Scendevano dai camion ed occupavano le abitazioni, molte volte sfondando le porte e trovandovi, in qualche occasione, gli stessi proprietari. Il rumore dei camion, che andavano e venivano, e il vociare della gente non fecero dormire nessuno quella notte rimasta indelebile nella mente di chi la visse.

gruppi di Ebrei all’ospedale alle Cenate

La vita per la gente di Santa Maria al Bagno cambiò subito: si stava meno in giro e i ragazzi non giocavano più in strada. Per la verità, non tutti erano ostili e alcuni di loro, specialmente chi conosceva un po’ di italiano, cercavano di socializzare con i residenti.

Di solito mangiavano cibi in scatola, che venivano loro dati dall’UNRRA, ma qualche volta mangiavano alla mensa che era stata ubicata nella villa Leuzzi, in piazza, dove dagli addetti alle cucine, quasi tutti di Santa Maria al Bagno, venivano preparati i pasti.

gruppo di ebrei in gita a Gallipoli

Poi, pian piano, dopo qualche mese incominciarono ad andare via; ne rimasero solo poche centinaia, quasi tutti Ebrei. Con loro rimasero tutti i soldati. Dopo pochi giorni, riprese il via vai di camion e automezzi vari, che trasportavano profughi, questa volta tutti ebrei. Il campo era aperto, cioè non aveva alcuna delimitazione e si estendeva da Santa Maria al Bagno a Santa Caterina e da queste, nell’entroterra, fino alle Cenate lungo l’asse della strada tarantina.

Era stato organizzato bene, ed i profughi, appena arrivati, venivano presi in consegna dai soldati inglesi, comandati da mister Herman, che era l’assistente di mister J.Bond comandante del Campo. Messi in fila, erano accompagnati da Paolino Pisacane, abitante del luogo, nominato “mayor” dal comando alleato, alle case messe loro a disposizione.

I nuovi arrivati sembravano molto diversi dai precedenti: nella maggior parte erano molto taciturni e tristi e spesso pensierosi e soli camminavano con gli occhi bassi. E non si riusciva ad immaginare il perché. Lo si sarebbe scoperto solo successivamente attraverso i loro racconti. Altra cosa che meraviglia molto era lo scarso numero di bambini e la quasi totale mancanza di vecchi e di famiglie complete. A Santa Maria al Bagno, ormai, c’era tanta gente come in estate.

C’erano molti soldati inglesi e americani, ma anche di altre nazionalità. Tutto funzionava come in una città e molti artigiani, anche dei paesi vicini, specialmente da Nardò, lavoravano nel Campo, come meccanici, falegnami, elettricisti, sarte, calzolai e muratori.

Ai profughi non mancava certo da mangiare. Gli inglesi, deputati alla gestione del campo, tramite gli aiuti americani, non facevano mancare loro la carne in scatola, il pane bianco, il cioccolato, il  formaggio, il latte in polvere, e tutte le altre cose che la gente del luogo, qualche mese prima, poteva solo sognare. Anche i residenti beneficiarono di tanto bene di Dio, che veniva barattato con arance e limoni, di cui gli ebrei andavano alla ricerca.

Già alla fine del 1944, passato il periodo di diffidenza verso i nuovi venuti, tutti si erano resi conto che gli ebrei erano brave persone, tanto che dalla diffidenza si passò all’amicizia, specialmente tra i giovani, vincendo anche la difficoltà delle diverse lingue.

Continuamente sopraggiungevano profughi in un frequente avvicendarsi in base alle scelte di trasferimenti che gli stessi decidevano, in gran parte soddisfatte.

Nel Campo tutto scorreva tranquillo, quando, il 14 dicembre del 1944, si verificò un fatto grave. Qualche notte prima erano state rubate da un deposito dell’UNRRA alcune centinaia di coperte. Il responsabile del magazzino addossò la colpa agli abitanti di Santa Maria al Bagno per cui si pervenne alla decisione di far abbandonare il Campo a tutti gli italiani, compresi i residenti.

Questi ultimi fra sconforto e sgomento cominciarono a protestare finchè non intervennero il sindaco Roberto Vallone e il vescovo Gennaro Fenizia presso il comandante affinché non si desse attuazione alla determinazione.

Intanto era stato predisposto l’elenco delle famiglie che dovevano sloggiare dal Campo: erano 146 per un totale di 733 persone. Era un brutto Natale quello che stava per arrivare!

I capifamiglia si incontrarono di nascosto e decisero di non accettare l’ordine di abbandonare le proprie abitazioni. Infatti scesero in piazza e davanti alla sede del comando alleato protestarono. Il comandante, anche dopo aver sentito le ragioni dei dimostranti, non mutò la sua decisione, anzi fece schierare i soldati con le armi puntate. Ci furono pure degli spari in aria per disperdere la gente. Tuttavia la protesta non cessò.

Finalmente il 29 dicembre, quando ormai si disperava di trovare una soluzione, dopo un incontro tenutosi in Santa Maria al Bagno tra il comandantela Sub-Section N° 1 dell’A.C. Lt. Col. Oldfield, il capitano Fox ed il prefetto, sentito anche il vescovo che intanto aveva informato della situazionela Santa Sede, si comunicò al sindaco di Nardò che le famiglie stabilmente residenti potevano restare. Le altre, che occupavano le case solo per non farle requisire, dovevano andar via, anche perché continuamente giungevano profughi, soprattutto a partire dalla primavera del1945 a seguito della liberazione dai campi di sterminio e, in genere, della fine della guerra. Sul piano umano fu importante non allontanare i residenti, non solo perché non si impose loro la rinunzia alla propria abitazione, ma soprattutto perché questi poterono offrire concretamente solidarietà, tolleranza e collaborazione, facendo scoprire agli ebrei, da anni perseguitati e resi al disotto degli animali da braccare e uccidere, il senso della vita, il rispetto della dignità, la serenità della tolleranza e il gusto della libertà.

I nuovi venuti erano tutti Ebrei di nazionalità polacca, in prevalenza, ma anche greca, albanese, austriaca, macedone, rumena, russa, tedesca, slava e ungherese. Questi avevano anche un proprio corpo di polizia, composto da una quindicina di persone e comandato da un certo Elia, un ebreo di origine greca, molto bravo ed in ottimi rapporti con i residenti.

Nel Campo, la cui punta massima di ospiti fu di oltre 4 mila unità, vi era quanto necessario per   ricordare ai profughi la propria religione e le proprie tradizioni, tra cui la sinagoga, allocata in un locale dell’attuale piazza Nardò, la mensa,  il centro di preghiera per bambini e orfani, il kibbutz “Elia” nella vecchia masseria in località Mondonuovo e, infine, il municipio nella villa Personè (ora villa De Benedittis).

Erano assicurati tutti i complessi servizi necessari alla vita di una comunità  di tali dimensioni, tra i quali l’ospedale e il servizio postale. I ragazzi più piccoli frequentavano la scuola in Santa Maria al Bagno, mentre i più grandi il ginnasio e il liceo a Nardò.

I ragazzi italiani familiarizzavano sempre più con i ragazzi e le ragazze ebree. Erano sempre presenti in tutte le feste, specialmente quando si ballava o c’era la possibilità di assaggiare i saporitissimi ed abbondanti dolci che venivano preparati.

La loro cucina, molto diversa da quella dei locali, incuriosiva non poco quest’ultimi che si meravigliavamo nel veder preparare le polpette con la polpa di pesce cotta nel brodo zuccherato, sempre di pesce; oppure bagnare il pane nel latte preparato con il latte in polvere per essere passato nella farina e, dopo averlo zuccherato, essere usato per colazione con il thè. I dolci erano la loro specialità! Ne facevano di tutti i tipi, forme e sapori.

Durante la loro permanenza si celebrarono, e non solo all’interno della loro comunità, circa 400 matrimoni, uno dei quali tra una ragazza del luogo Giulia My e Zivi Miller, autore dei tre murales, che era scampato, con una fuga rocambolesca durante un trasferimento, dal campo di  concentramento dove aveva perduto la moglie e il figlio.

Nelle ville delle Cenate alloggiarono gli ufficiali inglesi, delegati a gestire il Campo. Nella villa “Ave Mare”, sulla strada per Santa Caterina aveva sede l’alloggio e la mensa delle Crocerossine, e a Villa Tafuri, nelle vicinanze del parco di Portoselvaggio, il club Ufficiali della RAF. In questa villa venivano spesso organizzate feste da ballo, dove si poteva anche mangiare e bere a volontà.

Anche i giovani italiani frequentavano le feste con le loro amiche ed amici ebrei. Non mancarono gli spazi per il divertimento: campo di calcio presso l’Aspide (tra Santa Maria al Bagno e Santa Caterina), spettacoli e feste da ballo presso il circolo delle “Due Marine” a S. Maria al Bagno.

Durante una festa presso Villa Tafuri giovani ebrei dimostrarono tutta la loro amicizia ai coetanei italiani. I soldati inglesi, forse ingelositi perché le ragazze preferivano stare con i giovani italiani, decisero di mandarli via, ma dovettero recedere subito dalla loro decisione non appena si accorsero che anche le ragazze e i ragazzi ebrei in segno di solidarietà stavano  abbandonando la festa.

Gli Ebrei si trovavano bene, ma sapevano anche che un giorno sarebbero andati via: chi in America, chi sarebbe rimasto in Europa e forse in Italia, chi in Australia e chi ancora in Sud America. La meta preferita era però la loro “Terra Promessa”, dove era nato ed era vissuto per millenni il loro popolo. Sapevano, però, che questo non era facile per l’ostruzionismo degli inglesi, filoarabi, sui cui territori avevano il  protettorato.

Contro la posizione inglese, in campo internazionale, era molto attiva la società segreta Betar (B: Brit, patto + Trumpeldor, eroe ebreo), nazionalista, cui aderivano molti giovani, così come alcuni presenti nel Campo.

Pertanto non mancarono aspetti politici né giovani che poi sarebbero stati personaggi importanti per lo stato d’Israele, come Dov Shilanski, deputato al Parlamento d’Israele (Knesset) dal 1977 al 1996, di cui fu Presidente dal 1988 al 1992.

Stando ai ricordi dei residenti del posto, ma per adesso non ancora supportati da alcun documento, furono presenti anche personaggi di rilievo per il futuro Stato d’Israele, come David Ben Gurion,  all’epoca P r e s i d e n t e del l ‘Organizzazione ebraica mondiale e nel 1948 guida politica per la proclamazione dello stato d’Israele, di cui sarà il primo presidente, e Golda Meir, che sarà per molti anni Primo Ministro ed importante punto di riferimento per il suo paese.

Testimonianza dell’attività politica è rappresentata da tre murales, realizzati in altrettanti muri in una casetta, al tempo adibita a deposito. Nel 1947 il campo fu chiuso. Molti ebrei lasciarono con dispiacere i loro amici italiani. Si scambiarono gli indirizzi e si promisero a vicenda che si sarebbero tenuti sempre in contatto.

Successe per un po’ di anni, ma poi i contatti finirono anche se nel cuore rimase sempre il ricordo del tempo passato assieme.

E poi erano e sono lì i murales, anche se anch’essi, lentamente si stanno consumando.

Il murales centrale racconta la storia degli Ebrei, liberati dai campi di concentramento, raffigurati nel disegno dal filo spinato al centro dell’Europa, fino all’arrivo a Santa Maria al Bagno, nel Sud dell’Italia, dove l’identico teorema lunghissimo di persone riprende gioiosamente il cammino versola Terra Promessa, raffigurata dalla stella di David e dalle palme del deserto (le scritte: diaspora, sx, e Terra d’Israele, dx).

Il murales di sinistra evidenzia la religiosità del popolo ebraico, raffigurando il candelabro a sette braccia, posato su un altare con due soldati ebrei ai lati (le scritte: In guardia, sotto, e, ai lati della stella, Tel-Hai, dove fu ucciso il patriota Trumpeldor.

Il murales di destra presenta una madre con due bambini, che, al di qua di un posto di blocco, chiede ad un soldato inglese di poter entrare in Gerusalemme, ma invano: gli Inglesi osteggiavano la costituzione dello Stato di Israele (le scritte: Aprite le porte, tra la donna e il soldato, e Tel-Hai sulle bandiere).

Il carrubo, quel nostro nobile, storico e generoso amico (I parte)

carrub

di Massimo Vaglio

Il carrubo (Ceratonia siliqua L.) è una pianta sempreverde, che raggiunge comunemente i 10-12 metri, di altezza, molto imponente, è caratterizzata da una folta chioma espansa dal colore verde scuro costituita da foglie composte arrotondate, glabre, lucenti e coriacee.

Botanicamente, il carrubo appartiene alla famiglia delle Leguminoseae (sottofamiglia Ceasalpinaceae) e al genere Ceratonia che comprende la sola specie Ceratonia siliqua. Il nome della specie deriva per metà dal greco keràtion (=piccolo corno) e per metà dal latino siliqua (=baccello).

carrube

I fiori sono poco appariscenti, riuniti in infiorescenze racemose di odore sgradevole e possono essere attaccati ai rami adulti o anche direttamente sul tronco. A questo proposito è opportuno ricordare che il carrubo è una specie dioica, ovvero che presenta fiori maschili e femminili su soggetti diversi anche se talvolta nella forma selvatica i fiori maschili e femminili si possono ritrovare su di uno stesso individuo. Nelle varietà coltivate si producono soltanto fiori femminili, ecco perché al momento dell’impianto è consigliabile mettere a dimora piante dei due sessi.

I fiori si trasformano in frutti dopo circa un anno,  i frutti (legumi o baccelli detti lomenti) noti come carrube, nelle varietà coltivate sono lunghi fino ai 20 cm, larghi 3,5 cm e sono spessi circa 1 cm. Si sviluppano in primavera, di colore verde chiaro diventando bruni (color cioccolata) a maturazione completata a fine estate. Contengono all’interno semi duri e lucenti chiamati carati dall’arabo (‘khirat’); furono infatti proprio gli arabi ad individuare la particolare caratteristica che questi  avevano sempre un peso costante (1/6 di grammo), per questo li utilizzavano come unità di misura delle pietre preziose.

Un albero di carrubo adulto, può produrre alcuni quintali di carrube, e in letteratura sono riportati casi di esemplari che hanno prodotto fino ad oltre una tonnellata di frutti maturi per stagione.

Le carrube assumono a maturità una colorazione marrone scuro ed hanno un sapore dolce ed aromatico dovuto ad un contenuto in zuccheri che in alcune varietà può raggiungere circa il 60%.

Oltre il 70% circa della superficie nazionale coltivata a carrubo si trova in Sicilia, la restante parte è ripartita tra la Puglia, la Sardegna ed alcune zone della Campania anche se è presente con alberi sparsi o piccoli nuclei anche in diverse altre regioni sino alle zone più riparate della Liguria che costituisce il limite settentrionale. I maggiori paesi produttori attualmente sono la Spagna, tutti i paesi dell’Africa settentrionale, la Grecia, la Turchia, e la Siria, in Israele il carrubo è stato ampiamente utilizzato per il rimboschimento di zone montuose, rocciose ed aride. Il Carrubo, che riesce a raggiungere comunemente dimensioni maestose, è una specie molto longeva che arriva a vegetare anche per 500 anni, anche se dalla crescita lenta, originaria dei paesi del Mediterraneo orientale (Siria, Asia Minore) e si è diffusa per coltivazione antichissima in tutto il bacino del Mediterraneo.

Fu introdotto in Italia dai greci, ma furono però gli arabi (che coltivavano e consumavano i suoi frutti dai tempi più remoti) che ne intensificarono la coltivazione diffondendolo poi in Spagna e Marocco. Insieme all’olivastro, al lentisco ed al terebinto già in epoca fenicia ricopriva con fitte foreste sempreverdi le zone costiere e collinari dei paesi mediterranei; è una specie amante della luce e del caldo e vive fino a 600 m. sopra al livello del mare in terreni rocciosi e calcarei. Di queste grandi foreste, allo stato attuale è rimasto ben poco, ma il carrubo, in areali circoscritti, è riuscito ad ambientarsi anche dove a causa della grande siccità e delle alte temperature estive, alcune specie della macchia mediterranea sono andate scomparendo.

La principale utilizzazione nel settore dell’industria alimentare è rappresentata dalla produzione di farine che trovano impiego nell’industria zootecnica per la realizzazione di ottimi mangimi per animali, ed in particolare per lo svezzamento e l’ingrasso dei suini, per prevenire casi di dissenteria dei soggetti giovani, nonché per migliorare l’appetibilità di foraggi e miscele di mangimi destinate a molte specie animali.

La carruba è diventata popolare nel settore dell’industria alimentare negli anni 80, la polpa è priva di caffeina e viene utilizzata per ricavare il “carcao”, che è un succedaneo del cacao a basso contenuto di grassi, mentre il “semolato”, è la farina di carrube ottenuta facendo essiccare la polpa e poi tritandola.

Grazie a un alto contenuto di proteine, vitamine, minerali come calcio, magnesio, potassio, la farina di carruba è un alimento nutriente a tutti gli effetti, povera di grassi, di sodio e di glutine quindi indicato anche nell’alimentazione dei celiaci.

Dai semi, si ricava una gomma addensante che viene utilizzata in pasticceria. Le carrube sono molto ricche di zuccheri, tanto che, con la fermentazione, da un quintale di carrube si ottengono dai venti ai venticinque litri di alcool,

Sino ad un recente passato le carrube erano comunemente utilizzate direttamente per l’alimentazione umana consuetudine che sopravvive su piccolissima scala, praticamente ormai a livello di mera curiosità. Si narra che S. Giovanni Battista nel lungo periodo della sua ascesi nel deserto si nutrisse dei frutti di questa pianta (da allora anche denominata “pane di S. Giovanni”), che costituirono pure l’amaro pasto del figliol prodigo durante la dura esperienza di guardiano di porci.

In campo farmaceutico si utilizzano le carrube come prodotti naturali per la cura di malattie intestinali; sono lassative quando la polpa è ancora verde, astringenti e antidiarroiche da secche, grazie all’elevato contenuto di tannini, pectine, lignina, ecc., tutte queste proprietà sono ben note e ampiamente sfruttate dall’industria chimica e farmaceutica.

La ricerca scientifica ultimamente sta concentrando i suoi studi su di una peculiarità del carrubo, che è quella di possedere uno strato di tessuto (cambio) costituito da cellule meristematiche, ossia in grado di far ricrescere qualsiasi organo della pianta che dovesse andare incontro a marciume o essere danneggiato. Si tratta, in parole povere, di cellule hanno le stesse caratteristiche di quelle che permettono al polpo la ricrescita di un tentacolo amputato o alla lucertola la ricrescita della coda, come si può intuire  si tratta di un meccanismo che se, come si spera, si riuscisse a governare potrebbe trovare meravigliose applicazioni anche nella cura dei tessuti umani danneggiati.

Dai semi inoltre si produce una farina che per l’elevato potere addensante, legato al contenuto di carrubina (un polisaccaride), trova ampio impiego nell’industria alimentare e soprattutto dolciaria.

Dal legno rossiccio, che non è un ottimo combustibile, si possono ricavare sculture e può essere impiegato in lavori di ebanisteria, inoltre, si estraggono coloranti e polifenoli utilizzati nella concia delle pelli.

Storia e leggenda: un emblematico caso salentino, anzi due …

di Armando Polito

Tra storia e legenda i rapporti sono sovente stretti, nel senso che si può ragionevolmente affermare che, al pari del romanzo storico, la leggenda è, molto probabilmente sempre, trasfigurazione poetica di un fatto realmente accaduto. Quando poi autore di questo processo, che inevitabilmente comporta rispetto ai fatti realmente accaduti superfetazioni di ogni genere, è l’immaginario più o meno collettivo, è arduo, direi quasi impossibile ricostruire il punto di cesura e per certi versi, anche se può sembrare contraddittorio, di incollaggio o reciproco travaso tra la realtà e la finzione.

Uno dei tanti casi riguardanti la nostra terra è costituto dalla fine di Anton Giulio Acquaviva nel corso dei tragici eventi otrantini del 1480-1481. Sulla fine del duca della famiglia Acquaviva sono apparsi su questo blog due contributi. Il primo (https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/12/27/gedik-ahmet-pascia-e-giulio-antonio-i-acquaviva-breve-profilo-storico-di-due-uomini-lun-contro-laltro-armati/) privilegia la storia, il secondo (https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/01/18/leggende-salentine-giulio-antonio-acquaviva-e-leccidio-di-otranto/ ) la leggenda.

Qui tenterò l’impresa disperata di tracciare un confine tra l’una e l’altra. Comincerò dalla storia che da sempre si basa sulle fonti e queste, più che mai nel nostro caso che non riguarda un’epoca, nemmeno relativamente, recente, sono costituite da testi manoscritti, dal momento che la stampa era stata inventata solo pochissimi decenni prima.

Con i manoscritti, si sa, bisogna andare cauti perché la falsificazione è sempre in agguato, soprattutto quando del documento a noi è pervenuto non l’esemplare originale e, magari, coevo, ma solo una copia dell’originale, reale o presunto che sia.

Per quanto riguarda le vicende otrantine, le cronache più o meno coeve giunte fino a noi e mai concordemente considerate autentiche dagli studiosi,  non contengono nessuna descrizione dettagliata ma solo un sintetico cenno alla morte eroica del duca in combattimento.1

L’unica eccezione che io conosco sarebbe  costituita dai Diarii di Lucio Cardamo di Gallipoli. Ho detto sarebbe perché ci sono molti fondati dubbi che si tratti di uno dei falsi settecenteschi di Giovanni Bernardino Tafuri, il che vanifica quasi del tutto la testimonianza del cronista che, stando alle sue memorie, avrebbe partecipato in prima persona alla guerra di Otranto: … A dì 7 dixto [7 febbraio 1481] lo Conte Julio Antonio noctis tempore scendio co so genti vecino ad Otranto pe fare na scaramozzata co quelli Turchi, che usciano la nocte dalla Cettate, ma li trovao usciti, et nascosi detro li pariti; quando foi vecino lo Conte Julio ad issi, usciro dalli Pariti, et cominzara ad cumbattere; et la zuffa durau bono tempo; et sempre lo Conte Julio facia prodizzi grandi mettendose lo primo nnanzi, ma no Turco le tagliao la capo rasa rasa dallo collo, et se la pilliao, et lo Conte Iulio remase ad cavallo come se era vivo, et lo cavallo lo portao pe sino Sternatia, et li Turchi ne portara la Capo ad Otranto. 

Il dettaglio del corpo mutilato del duca rimasto ritto dopo la decapitazione sul cavallo e da questo portato fino a Sternatia risulta notevolmente ridimensionato in un’antica Istoria manoscritta di Michele Laggetto, composta da lui nel 1537, a relazione di suo padre, che si trovò presente alla caduta di Otranto, e fu portato schiavo in Costantinopoli in età allora di 16 anni, e di molti altri vecchi Otrantini2.

La Biblioteca Arcivescovile “Annibale De Leo” di Brindisi ne custodisce una copia manoscritta settecentesca, della quale riproduco la parte che ci interessa. Di seguito il “frontespizio”.

1

e le carte 35v-36r, con a fronte la mia trascrizione e le relative note.

Nell’immaginario collettivo un cavaliere che, pur decapitato, torna in sella ritto sul suo cavallo è certamente più suggestivo, più eroicizzato, se non quasi deificato, di uno che cade a terra lasciando al cavallo la missione di far intuire la sua, per quanto eroica, fine. Direi che l’immagine ha una funzione consolatoria, quasi di posticipazione, pur fittizia, del momento della morte.

A questo punto non posso, però, non ricordare un episodio del quale sono stato diretto protagonista. Un gallo, particolarmente aggressivo, venne decapitato da mio cognato con un colpo di falce e la povera bestia, prima di stramazzare, ebbe il tempo di continuare a procedere con passo minaccioso per una buona decina di secondi. Il fenomeno non pone certo problemi di spiegazione scientifica (diverso sarebbe stato se il tempo di sopravvivenza acefala fosse durato più di dieci secondi) e il duca potrebbe pure essere rimasto ritto sul cavallo per qualche secondo ma mi riesce difficile immaginare che quel che rimaneva del suo corpo, pur rimasto impigliato nelle redini, fosse giunto, senza cascare dal cavallo (che, presumibilmente, almeno nel primo tratto non andava certo al passo …), fino a Sternatia.

E poi, per chiudere, aggiungo che il fenomeno in Cardamo è quasi un topos. Basta leggere ciò che avrebbe scritto, sempre nei suoi Diarii, a proposito della fine di uno dei martiri: A dì 13 Augusti ordinao, che omne Vomo se vulia non essere ammazzato se avesse facto Turco, et lasciare la Fede di Jesu Cristo, et pilliare quilla di Maometto, et cusì portati innanzi allo Bascià li disse: vui aveti ammazzato tanti Turchi pe no averivi vuluti arrendere subito, ora sete tutti miei schiavi, io ve prometto di lasciarevi vivi, et darevi la libertate se renegate Jesu Cristo, et credite a Maometto; ma Mastro Antonio Grimaldo Cusitore respondio in nome de omne uno, che vuliano stare presuni, schiavi, et murire pe no renegare la Fede de Jesù Cristo; pe quisto parlare se sdegnao multo lo dicto Bascià, et ordinao che se le avesse tagliata la testa, come fece no Turco co na Scimitarra; ma lo Segnore Dio pe fare vedere la sua potencia a quilli cani rimase lo corpo di Mastro Antonio diritto senza cadere ad Terra, come se fosse vivo, e pe quanto fera que Cani pe ordine dello Bascià di menarrelo ad Terra no foi possibile, et cadio quando si finio la occisione de tutti, che fora ottocento.

___________

1 Antonello Coniger (XV-XVI secolo), Cronache (manoscritto, mai ritrovato,  pubblicato per la prima volta da Giuseppe Palma per i tipi della Stamperia arcivescovale a Brindisi nel 1700; ripubblicato da Giovanni Bernardino Tafuri in Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici a cura di Angelo Calogerà, tomo VIII, Cristoforo Zane, Venezia, 1733, pp. 109-262; cito da questa edizione: 1481 Die primo Februaro foi ammazzato lo Conte Suli in una scaramboccia, che fero culli Turchi, et la sua Testa ne portaro in Otranto, et presuni pilliava infiniti Cristiani, dove per quanto pilliava tanto d’ardire, che due volte vennero a currere fino a le Porte di Lecce, essendoci tutto lo esercito del signore Re. 

Giuliano Passaro (XV-XVI secolo): cito da Historie, Orsino, Napoli, 1785: … Ali 6 di febraro 1481, è stato ammazzato lo conte Julio de casa Acquaviva vicino a Monorbino dalli turchi, & l’hanno tagliato lo capo, & portato dentro Otranto; & dopoi l’hanno portato in Turchia.

Cronica di Notar Giacomo (XV-XVI secolo); cito dall’edizione dello scopritore del manoscritto, Carlo Garzilli, uscita per i tipi della Stamperia reale a Napoli nel 1845: … adi sey defebraro 1481 vicino monorvino per mano deturchi fu mozata la testa allo Signore Conte Iulio et prisi Ioan pizinino da prata, messere francisco de montibus decapua et multi homini foro prisi et assay fantaria calabrese morta da valentehomini.

2 Francesco Antonio Primaldo Ciatara, Relazione di fatti che interessano la fedelissima città di Otranto, Stamperia Simoniana, Napoli, 1772, p. 21. Qualche perplessità suscita la scarsa convenienza da parte dei Turchi di portarsi a Costantinopoli come schiavi dei vecchi, ma forse qui l’autore vuole solo sottolineare la differenza d’età rispetto al prigioniero sedicenne. È un vero peccato, poi, che il Ciatara non citi la fonte da cui ha tratto la notizia relativa alla partecipazione diretta agli eventi anche del padre di Michele, sicché, tanto per cambiare, anche in questo caso  qualche dubbio rimane, nonostante, come si legge nel frontespizio,  il Ciatara fosse Canonico della Cattedrale di Otranto ed uno de’ cappellani della Regia cappella de’ santi martiri otrantini e la relazione scritta in occasione della di loro Canonizzazione seguita a’ 7 dicembre 1771.

 

Lu maccarrone (il maccherone): il suo etimo è duro, come il grano di cui dovrebbe esser fatto … (2/2)

di Armando Polito

"Curti e gruessi" in un'immagine tratta da http://www.kalimerami.it/joomla/hikashop-menu-for-categories-listing/product/214-pizzarieddhi
“Curti e gruessi” in un’immagine tratta da http://www.kalimerami.it/joomla/hikashop-menu-for-categories-listing/product/214-pizzarieddhi

Non pone dubbi di sorta (o quasi … 3) la seconda attestazione, contenuta nel testamento del soldato Ponzio Bastone redatto a Genova nel 1279 dal notaio  Ugolino Scarpa3 in cui tra i beni inventariati compare anche una bariscella plena de macaronis (cesta piena di maccheroni).

La terza attestazione è nel Boccaccio (XIV secolo), Decameron, terza novella dell’ottava giornata; : … niuna altra cosa facevano che far maccheroni e raviuoli  … pur per veder fare il tomo a quei maccheroni …

Tralascio le numerose successive non mancando, però, di riportare quella, in latino, in cui il nostro è protagonista di un miracolo sulla falsariga, in un solo colpo, della moltiplicazione del pane e dei pesci e nella trasformazione dell’acqua (nel nostro caso dell’aria) in vino, il nostro maccherone è in una testimonianza che valse il titolo di beato conferito il 9 aprile 1537 da Papa Paolo III a Guglielmo Buccheri, detto Guglielmo Cuffitedda, anche noto come Guglielmo da Noto, Guglielmo eremita o Guglielmo di Scicli (1309-1404). Negli atti del processo di beatificazione4 (che, dunque, risalgono alla prima metà del XVI secolo) si legge: Super X Capitulo Testis XI asseruit, de pluribus miraculis ab eo factis se audivisse ex patre et matre, sed nullorum in particulari meminisse: ceteri fere omnes ex auditu narravere miraculum de pastillis in domo Guiccionii. Ex his Testis I hoc modo rem narrat publice auditam. Invitaverat Guillelmum aliquando compater suus Guiccionius ad prandium, eique apposuerat maccarones seu lagana cum pastillis: quorum aliqui de industria impleti furfure, positi fuerunt ante dictum Guillelmum. Hos cum ei praescindere vellet, quae eosdem paraverat Guiccionii uxor, coepit ille dicere commatri suae, quare hos ipsi praescinderet; et formans super lancem signum Crucis, accepit aliquos ex dictis pastillis plenis furfure, eosque aperiens reperit plenos recocto lacte: ac mox mulieri monstravit dicens – Huc aspice, commater, numquid delicati sunt? -. Postea volens bibere, requisivit eamdem an haberet vinum, respondit illa a pluribus diebus nullum habuisse domi. Institit nihilominus Guillelmus ut apponeret, designando digito vas vinarium, pridem vacuum. Surrexit ergo mulier cum cantharo, movensque spinulam vasis supremam, ut iusserat Guillelmus, mox ut eam extraxit, mirata est vinum copiosum effluere (Sul X capitolo il testimone XI affermò che di parecchi miracoli da lui fatti ne aveva sentito parlare dal padre e dalla madre, ma che in particolare non ne ricordava nessuno. Quasi tutti gli altri raccontarono per averne sentito parlare del miracolo delle focaccine in casa di Guiccionio. Tra questi il testimone I narra in questo modo il fatto che aveva sentito in pubblico. Un giorno Guglielmo era stato invitato a pranzo dal suo compare Guiccionio che gli aveva messo in tavola maccheroni o frittelle con focaccine: alcune appositamente ripiene di crusca erano state poste davanti al detto Guglielmo. Volendo la moglie di Guiccionio, che le aveva preparate, tagliargliele, cominciò egli a dire alla sua comare perché volesse tagliargliele; e facendo sul piatto il segno di croce prese alcune delle dette focaccine piene di crusca e aprendole le trovò piene di ricotta; e subito le mostrò alla donna dicendo: – Guarda qua, comare, non sono delicati? -. Poi volendo bere le chiese se avesse del vino e lei rispose che da molti giorni non ne aveva in casa. Nondimeno Guglielmo insistette  perché lo servisse, indicando il contenitore del vino da tempo vuoto. Si levò dunque la donna con la brocca e muovendo la spina superioredel contenitore, come aveva ordinato Guglielmo, non appena la estrasse vide meravigliata sgorgare il vino).

A questo punto non mi rimane che passare in rassegna le proposte etimologiche. Nel tempo se ne sono accumulate veramente tante. Eccole in ordine cronologico inverso, a partire da quella attualmente più accreditata, sia pure in forma dubitativa, alcune di loro legate da un sottile filo conduttore.

1) Dal greco μακαρία (leggi macarìa) che nel greco classico può significare felicità, beatitudine, sciocchezza, insulsaggine (torna in campo il salentino maccarrone sinonimo di sempliciotto …); Esichio di Alessandria (V secolo d. C.), però, nel suo lessico di μακαρία dà questa definizione: βρῶμα ἐκ ζωμοῦ καὶ ἀλφίτων=pasto di brodo e di farine. Il piatto veniva offerto in occasione dei funerali; ancora oggi in greco μακαριά significa funerale e il classico μακαρία è derivato da μάκαρ (leggi màcar)=beato, appellativo riservato ai morti. =beato, epiteto che si dava ai morti. L’aggancio tra tale piatto e il maccherone mi sembra piuttosto labile, ma, datolo per corretto, mi chiedo se il significato traslato della voce salentina si colleghi ai poveri di spirito destinati nel vangelo ad essere beati, che qualcuno interpreta estensivamente non come semplici, ingenui, puri ma come idioti, oppure alla semplicità del piatto, come è avvenuto nell’aggettivo maccheronico usato ironicamente dagli umanisti per definire il latino (quasi da cucina …) dei cuochi di convento.

2) Dal greco μακρόν (leggi macròn)=lungo, grande. Come faccio, ritornando sul significato metaforico di maccarrone a non pensare al proverbio, sempre salentino, tantu luengu tantu fessa? Qualcuno direbbe che è tutta invidia, ma non sa che, prima di incurvarmi a causa dell’età, mi venne rilevata, in occasione di una foto segnaletica …, una statura di due m. 2,20-0,53 …

3) Dal greco μάχαιρα (leggi màchaira)=coltellaccio; maccherone, perciò, alla lettera significherebbe tagliato col coltello.

4) Dalla radice μαγ– (leggi mag-) del verbo μἀσσω=impastare.

5) Da (am)maccare, con riferimento alla specie di pestatura che l’impasto originario subisce; per *maccare le proposte etimologiche sono tutte dubitative: da *macca (a sua volta derivato dal latino màcula=macchia; il pensiero va all’ecchimosi …) oppure dalla radice mag– di cui ho detto al punto precedente, oppure sarebbe voce onomatopeica.

Eppure ci sarebbe un personaggio, che sintetizzerebbe in modo forse solo apparentemente casuale, quanto fin qui detto. Era uno dei quattro fissi dell’atellana, cioé dell’antica farsa di origine osca diffusasi a Roma come rappresentazione non itinerante a partire dal II secolo a. C; essi  erano: Bucco (il fanfarone che parlava sempre a vanvera), Dossennus (il gobbo e furbo), Pappus (il vecchio rimbambito) e, dulcis in fundo, Maccus, che era stupido, ghiottone e le prendeva sempre. Chi può escludere che da una forma aggettivale di Maccus (*màccarus) non sia derivato maccherone?

E, dopo questo volo che probabilmente è solo di pura fantasia, è tempo di pensare al concreto. Mi attende un piatto fumante di curti e gruessi (confezionati da mia moglie; ogni tanto pure lei ne fa una buona …) cu lla ricotta scante6 (prodotta da mio cognato), che, inevitabilmente sarà accompagnato da un bicchiere (quasi certamente più di uno …) del nostro primitivo (purtroppo questo non è prodotto in famiglia e, perciò, il piatto non può essere definito, con locuzione oggi usata un po’ a vanvera, a costo zero …)  in grado di risvegliare istinti altrettanto primitivi, che, poi, sono i più sani …

Non fornisco documentazione fotografica delle delizie che mi attendono  per non suscitare nel lettore l’istinto non della sana ma dell’insana invidia;e, fra l’altro, per questo la foto di testa non è mia.

E così mi metto parzialmente al sicuro se ai suoi occhi avrò fatto fin qui la ficura ti maccarrone

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/01/16/lu-maccarrone-il-maccherone-il-suo-etimo-e-duro-come-il-grano-di-cui-dovrebbe-esser-fatto-12/

__________

3 Purtroppo in tutti i testi in cui questo documento è citato manca qualsiasi riferimento di natura archivistica e mi spiace, questa volta, di non poter colmare questa lacuna.

4 Acta sanctorum, tomo I (1-10 aprile). Palmè. Parigi e Roma, 1866, p. 375. Parte del brano riportato è pure nel Glossarium mediae et infimae latinitatis del Du Cange al lemma MACCARONES con la definizione di Genus edulii delicati (Tipo di companatico delicato), ma ho preferito riportarlo integralmente dall’originale, anche perché la voce del glossario non contiene nessuna indicazione utile a collocarla nel tempo.

5 https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/04/la-ricotta-scante-ci-ti-usca-no-tti-scantare-la-ricotta-forte-se-ti-senti-bruciare-non-spaventarti/

Leggende salentine. Giulio Antonio Acquaviva e l’eccidio di Otranto

acquaviva-1
stemma degli Acquaviva

di Melanton*

Ricordate questo nome: Giulio Antonio Acquaviva, conte di Conversano, luogotenente del re di Napoli Alfonso d’Aragona, nobile di lignaggio e di cuore, cavaliere senza macchia e senza paura, abile spadaccino, gentiluomo degno dei più elevati onori, intrepido fino ed oltre la morte.Egli visse in tempi di avventura ed eroismo rimasti insuperabili, quando l’onore e il coraggio erano esemplari. Tempi di uomini ardimentosi, che hanno scritto pagine di storia, e con le loro eroiche imprese, anche di leggenda.

Nato nel 1428 ad Atri, in Abruzzo, Giulio Antonio divenne duca di Conversano sposando nel 1456 Caterina Orsini del Balzo, figlia naturale di Giovanni Antonio, principe di Taranto. Accorse volontariamente sotto i bastioni di Otranto in quella fatidica tragica estate del 1480, quando i Turchi, comandati dal feroce Gedik Ahmet Pascià, invasero la nobile città dalle cento torri, caposaldo orientale della Cristianità, con il conseguente eccidio degli Ottocento Martiri, e fu ancora protagonista l’anno dopo, nelle varie battaglie per la sua liberazione.

In uno di questi scontri (anche se la storia parla di un’imboscata), il conte Acquaviva difese la vita e l’onore di tanti cristiani inermi, battendosi come cento soldati tra i boati e i fumi delle artiglierie turchesche, nel disordinato clamore di donne, bambini e vecchi terrorizzati, e orrendi cumuli di caduti e macerie.

Improvvisamente, un colpo netto di scimitarra gli mozzò il capo.

Ma Giulio Antonio Acquaviva non cadde per terra. Pur senza testa, molti lo videro combattere ancora contro gli invasori. Finché il suo fido destriero, dileguandosi nella campagna, lo condusse in un’ultima corsa, fermandosi nel cortile del Castello di Sternatia, quartier generale delle truppe aragonesi.

Qui l’eroico conte stramazzò al suolo per sempre. O forse no.

In certi suggestivi momenti della notte agostana, lungo il profilo delle mura di Otranto, chi ha buona vista e cuore romantico, ancora oggi, infatti, dopo più di cinque secoli, può intravedere,quasi come un’ombra, un cavaliere senza testa che percorre rapido il cielo, galoppando in silenzio verso il mistero.

 

* Pubblicato su Il Filo di Aracne

Lu maccarrone (il maccherone): il suo etimo è duro, come il grano di cui dovrebbe esser fatto … (1/2)

di Armando Polito

Miniatura dal Theatrum sanitatis, manoscritto (n. 4182) del XIV secolo custodito nella Biblioteca Casanatense a Roma (immagine tratta da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/e/e8/6-alimenti%2C_pasta%2CTaccuino_Sanitatis%2C_Casanatense_4182..jpg)
Miniatura dal Theatrum sanitatis, manoscritto (n. 4182) del XIV secolo custodito nella Biblioteca Casanatense a Roma (immagine tratta da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/e/e8/6-alimenti%2C_pasta%2CTaccuino_Sanitatis%2C_Casanatense_4182..jpg)

 

Sulla seconda parte del titolo non mi attardo; dico solo che non mi meraviglierei se prima o poi la cronaca dovesse registrare la notizia secondo la quale uno o più produttori di maccheroni sono stati incriminati perchè si è scoperto che tra gli ingredienti c’era anche una buona percentuale di cemento (bianco in alcuni tipi, grigio in altri) e che, attenzione!, l’incriminazione sarebbe dovuta non alla presenza, peraltro reale e provata, del cemento ma al fatto della sua assenza (anche questa reale e provata) tra gli ingredienti la cui indicazione  l’UE prevede tassativamente in etichetta …

L’attestazione più antica finora conosciuta della parola sarebbe (spiegherò dopo il condizionale) contenuta  In un atto di vendita dell’aprile del 1041 pubblicato nel Codex diplomaticus Cavensis, a cura di Mauro Schiani, Michele Morcaldi e Silvano De Stefano, Hoepli, Milano,  tomo VI, pp.  155-156, documento n. CMLXXIV. Ecco il brano che ci interessa (tratto da http://atena.beic.it/view/action/nmets.do?DOCCHOICE=1089355.xml&dvs=1452447044821~863&locale=it_IT&search_terms=&adjacency=&VIEWER_URL=/view/action/nmets.do?&DELIVERY_RULE_ID=7&divType=&usePid1=true&usePid2=true) e che corrisponde proprio alla parte iniziale del documento: + In nomine domini vicesimo tertio anno principatus domni nostri guaimari eius salerni, et tertio anno eius capue, et secundo anno eius ducatus amalfi et sorrento, glorioso principe, mense aprelis, nona indictione. Ideoque ego nardus filius quondam mari, qui dicitur mackarone … (+ In nome del Signore nel ventitreesimo anno del principato di Salerno del nostro signore Guaimario, nel terzo di quello di Capua e nel secondo del ducato di Amalfi e Sorrento, principe glorioso, nel mese di aprile nella nona indizione. E perciò io Nardo Figlio del fu Maro soprannominato mackarone …).

Come non ricordare che dalle nostre parti maccarrone è un appellativo non proprio gratificante, perché sinonimo di stupido? Gli amici napoletani, poi, rincarano la dose con maccarone senza pertuso (maccherone senza il buco). Ma perché, con tante altre cose naturali e artificiali al mondo, proprio il maccherone doveva essere il protagonista di questa metafora? La fantasia di ognuno può dare la sua risposta. Io, per esempio, lasciandomi forse suggestionare troppo da quel suo reale o presunto suffisso accrescitivo –one, metterei in campo l’idea della grossezza e, spiccando un volo troppo ardito, penserei al crassa (o pinguis) Minerva (crasso ingegno; Minerva era, fra l’altro, la dea dell’intelligenza) degli autori latini2, usato in tutti i contesti: da quello rurale, al filosofico, al sessuale.

La lettura di mackarone nell’atto è fuor di dubbio; secondo me, invece (sto spiegando, come mi ero ripromesso di fare, il condizionale di l’attestazione più antica finora conosciuta della parola sarebbe contenuta), non solo è difficile dire se il significato metaforico del nomignolo è legato ad una caratteristica fisico-psichica di Maro o alla sua professione (pastaio?) ma io non sarei nemmeno sicuro che esso sia effettivamente legato all’alimento, perché potrebbe essere portatore di una pura coincidenza fonetica e legato, perciò, ad altro concetto.

Siccome questo maccherone mi sta uscendo troppo lungo ho deciso di spezzarlo in due parti, ragion per cui le altre attestazioni e il resto troveranno spazio nella prossima puntata.

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/01/19/lu-maccarrone-il-maccherone-il-suo-etimo-e-duro-come-il-grano-di-cui-dovrebbe-esser-fatto-22/

____________

1 Guaimario IV fu principe di Salerno dal 1027 al  1052 e di Capua dal 1038al 1047), nonché duca di Amalfi dal 1039 al 1043), di Gaeta dal 1040 al 1041) e di Sorrento (dal 1040 fino alla morte). Questi dati coincidono con quelli dell’atto (indizione compresa) e consentono di datarlo con assoluta precisione al 1041.

 

2 Orazio (I secolo a. C.), Sermones, II, 2, 3: Ofellus/ rusticus, abnormis sapiens crassaque Minerva/ …(… il contadino Ofello, filosofo fuori dalle regole, di crasso ingegno …).

Columella (I secolo d. C.), De agricultura, Proemio: Potest enim nec subtilissima nec rursus, quod aiunt, pingui Minerva res agrestis administrari (L”impresa agricola può essere amministrata né con sottilissimo né d’altra parte, come dicono, con crasso ingegno); XI, 1: … in hac autem ruris disciplina non desideratur eiusdem scrupolositas; sed, quod dicitur, pingui Minerva quantum vis utile contiget villico tempestatis futurae praesagium … ( … in questa disciplina agraria, poi, non si richiede una simile sottigliezza, ma, come si dice, pur con crasso ingegno, tornerà utile al fattore la previsione del tempo …).

Carmina Priapea (I secolo d. C.), 3: Obscure poteram tibi dicere: – Da mihi, quod tu/des licet asidue, nil tamen inde perit./Da mihi, quod cupies frustra dare forsitan olim,/cum tenet obsessas invida barba genas;/quodque Iovi dederat, qui raptus ab alite sacra/miscet amatori pocula grata suo;/quod virgo prima cupido dat nocte marito, dum timet alterius vulnus inepta loci -./Simplicius multo est – Da pedicare – Latine/Dicere. Quid faciam? Crassa Minerva mea est (Potrei dirti con un giro di parole: – Dammi ciò che tu potresti dare di continuo senza che per questo si consumi. Dammi ciò che forse un tempo desidererai invano di dare, quando una barba invidiosa ti ricoprirà le guance; e ciò che aveva dato a Giove colui che rapito dal sacro uccello riempie al suo amante gradite coppe [allusione a Ganimede, il giovinetto di cui Giove si era invaghito e che,rapito dall’aquila, uccello sacro al re degli dei, di questi ultimi divenne il coppiere]; ciò che la vergine dona la prima notte al marito voglioso, mentre l’inesperta teme la ferita dell’altro posto -. È molto più semplice (dire) alla latina: – Fatti sodomizzare! -. Che vuoi che faccia? La mia intelligenza è crassa.

 

Plinio e l’aglio: non vi sarà richiesto alcun account

di Armando Polito

Immagine tratta da Ioannes Sambucus, Icones veterum aliquot ac recentium medicorum Philosophorumque di Ioannes Sambucus, Ex officina Christophori Plantini, Antuerpiae, 1574
Immagine tratta da Ioannes Sambucus, Icones veterum aliquot ac recentium medicorum Philosophorumque di Ioannes Sambucus, Ex officina Christophori Plantini, Antuerpiae, 1574

Per metà della giornata dell’11 u. s. su questo blog in seconda posizione tra i titoli pubblicati ce n’è stato uno che prometteva di conoscere le ultime scoperte sulle sorprendenti proprietà dell’aglio. Essendo un fanatico ammiratore e consumatore di questo bulbo, di buon mattino per una gradita colazione virtuale ho cliccato sul link dove, dopo poche righe di presentazione dell’argomento, c’era un altro link che mi ha reso indigesto il bulbo senza nemmeno averlo assaggiato. Il lettore che fino a questo punto avrà fatto come me sarà probabilmente andato avanti ed avrà aderito alla richiesta di aprire un account con i soliti dati, tra i quali spiccava l’indirizzo della propria (o altrui …, tanto è l’indirizzo in sè che conta) posta elettronica. Io, però, ho soffocato senza pietà e esitazione la mia maledetta voglia di saperne un po’ di più e mi sono dedicato ad altro (non è la prima volta che lo faccio navigando). Chi, invece, avrà continuato, probabilmente, se è riuscito ad accedere alle preziose informazioni …, starà maledicendo quel momento dal quale dipende un bombardamento ora serrato di messaggi sull’aglio  che è costretto a sorbirsi ogni volta che accede alla posta. L’account, cioè, nasconde un intento pubblicitario e, tutto sommato, economico, non è certo uno strumento per veicolare in modo selettivo e mirato cultura ma solo un moderno espediente per informare, per esempio, che al tale indirizzo si potrà ordinare la tale crema di bellezza realizzata, secondo gli ultimi dettami della cosmetologia, con pasta di aglio …

Siccome sono un rompiscatole che non si fa i fatti suoi specialmente quando gli interessi di pochi tendono a prevaricare quelli di molti (senza che parecchi di loro nemmeno lo sappiano …) verso mezzogiorno, per evitare a qualcuno come me, invece della colazione, un pranzo virtuale nefasto, ho segnalato l’inconveniente a chi di dovere, anche perché nel frattempo mi ero accorto che il post, pubblicato pure su facebook nel profilo del titolare del sito e su quello della fondazione, aveva collezionato parecchi “mi piace” e pure qualche condivisione che in breve ne avrebbe assicurato la virale proliferazione.

A mezzogiorno ed un minuto il post era già stato rimosso e di questo ringrazio il chi di dovere di prima per essersi immediatamente reso conto che quell’account in qualche modo imbrattava la purezza del blog e la stessa filosofia della fondazione.

Tutto è bene quel che finisce bene e tutto il male non viene per nuocere. Infatti … ora chi vorrà si sorbirà quel che segue, senza, però, nessun account e, soprattutto, con la garanzia delle parole di uno scienziato, non un semplice divulgatore bene che vada, di duemila anni fa: Plinio. Non è la prima volta che la scienza moderna scopre l’acqua calda e mi chiedo cosa sarebbe venuto fuori se il naturalista latino avesse potuto fruire degli strumenti moderni di indagine e di analisi, così come, in tempi a noi più vicini, cosa sarebbe stato in grado di fare, per esempio, il Rholfs con l’informatica applicata alla linguistica.

Seguono i brani pliniani relativi all’aglio nella mia consueta traduzione e con l’aggiunta di qualche nota esplicativa. Buona lettura con il bulbo capace (secondo Plinio) di tutto (tra l’altro, come vedrete può fungere da sonnifero o da succedaneo del viagra, senza contraddizione, perché il segreto sta nelle modalità di assunzione …) e che l’account non sia con voi!

 

L’Egitto ha la cipolla e l’aglio come dei nel giuramento1.

Si crede che l’aglio sia utile soprattutto per molti rimedi della medicina contadina. È tutto rivestito di membrane sottilissime e separate, poi è composto da parecchi spicchi anch’essi separatamente rivestiti; quanto più sono gli spicchi più l’aglio è aspro. Come per le cipolle anche per lui c’è il fastidio relativo all’alito, cosa che non si verifica quando è cotto. Le differenze tra le varietà consistono nel tempo (la precoce matura in sassanta giorni), poi nella grandezza. E per quanto riguarda quest’ultima i Greci chiamarono ulpico2 l’aglio di Cipro, altri antiscorodo3, apprezzato soprattutto quello d’Africa tra le pietanze contadine, più grande dell’aglio. Tritato nell’olio e nell’aceto è singolare la quantità di schiuma che produce. Alcuni sconsigliano di seminare l’ulpico e l’aglio in pianura e di collocarli a mucchi distanti fra loro tre piedi. Fra i granelli dev’esserci la distanza di quattro dita e debbono essere sdarchiati appena escono tre foglie. S’ingrossano quanto più spesso sono sarchiati. I gambi di quelli che hanno cominciato a maturare spinti verso  il basso vengono sotterrasti; così si evita che crescaqno in fronda. Conviene che nei luoghi freddi siano seminati in primavera piuttosto che in autunno. Per il resto affinché perdano il cattivo odore si consiglia che tutte queste specie siano seminate quando la luna è in congiunzione con la terra, raccolte raccolte quando lo è. In alternativa Menandro tra i greci scrive che per coloro che hanno  mangiato aglio l’odore può essere eliminato se subito dopo mangeranno radice di bietola tostata isulla brace. Vi è chi crede che ulpico e aglio siano seminati molto opportunamente tra i Compitali4 e i Saturnali5. Anche l’aglio proviene da un seme, ma lentamente. Nel primo anno, infatti, raggiunge nella testa la grandezza di un porro, nel secondo si divide, nel terzo sui completa e certi considerano questo più gradevole. Non deve essere lasciato a produrre il seme ma il gambo va attorcigliato per la produttivà della piantagione affinché la testa ingrossi. Se si vuole conservare più a lungo l’aglio e la cipolla le teste devono essere bagnate con acqua salata tiepida; così dureranno di più, saranno migliori per l’uso e non germoglieranno. Altri si accontentano di porli anzitutto sulla brace e credono che questo basti per evitasre che germoglino, cosa che certamente fanno l’aglio e la cipolla anche fuori dalla terra riducendosi man mano che il fusto cresce. Altri credono che pure l’aglio si conservi ottimamente nella paglia. C’è un aglio e nasce spontaneamente nei campi, lo chiamano alo, che, cotto perché non possa rinascere viene gettato contro l’avidità degli uccelli che si cibano si semi e subito quegli uccelli che se ne sono nutriti vengono catturati con le mani intontiti o, se hanno indugiati un po’, addormentati. C’è anche il selvatico, che chiamano ursino, simile nell’odoreodore, dalla testa molto piccola, con grandi foglie6; L’aglio ha una gran forza e grande utilità contro i cambiamenti delle acque e dei luoghi. Con lodore tiene lontani serpenti e scorpioni e, come dicono alcuni, cura anche i morsi di tutte le bestie, come bevanda, cibo o cataplasma; in particolare giova contro le emorroidi con il vino rigettato col vomito. E, affinché non ci meravigliamo che è valido contro il morso velenoso del toporagno, ha efficacia anche contro l’aconito7 che con altro nome è chiamato pardalianche8, è efficace pure contro il giusquiamo9  e i morsi dei cani, nel qual caso si applica con il miele; contro il morso dei serpenti è efficacissimo bevuto, applicato con le sue reste e con olio come cataplasma sulle parti corpo  contuse o sulle quali si sono formate vesciche. Ippocrate ritiene che dal suo profumo sia favorita l’espulsione delle secondine nel parto e che la sua cenere con olio guarisca le ulcere purulente del capo. È stato somministrato cotto agli asmatici, da altri pestato crudo. Diocle lo somministra agli idropici con la centaurea, o in fico doppio per purga, ma è più efficace bevuto nel vino col coriandolo verde. Alcuni lo hanno sommistrato anche pestato nel latte agli asmatici. Prassagora lo prescrive mescolato col vino contro il morbo regio10 e con olio e farina contro le occlusioni intestinali e contro la scrofolosi  contro la scrofolosi in olio e farina. Gli antichi lo somministravano crudo ai pazzi furiosi, Diocle lesso ai farneticanti. Giova applicarlo pesto contro le angine o facendone gargarismi. Dà sollievo in caso di odontalgia con tre teste pestate nell’aceto o se si lavano i denti con l’acqua del decotto o ponendolo nelle cavità dei denti. Gocce del succo con grasso di oca  vengono pure instillate nelle orecchie; bevuto oppure pestato con aceto e nitro contiene la ftiriasi e la tigna; con latte o pestato o misto a formaggio molle il raffreddore e preparato allo stesso modo combatte la raucedine o bevuto con la fava la tisi. Poi cotto completamente è più utile del crudo e lesso più del tostato e così giova anche alla voce. Respinge le tenie e gli altri animali degli intestini cotto in aceto e miele. Con la farina guarisce il tenesmo, lesso e applicato come cataplasma i dolori delle tempie e citto col miele e poi pestato l’erisipela; cotto con grasso vecchio o con latte la tosse o in caso di espettorato sanguigno o purulento cotto sulla brace e assunto allo stesso modo con miele; con sale e olio in caso di convulsioni e fratture. Con grasso sana i gonfiori sospetti, con zolfo e resina estrae la materia dalle piaghe, con la pece anche i pezzi di canna. Esaspera la lebbra, l’impetigine, le lentiggini e le sana con l’origano; anche la sua cenere applicata come cataplasmo con olio e garo. Così anche il fuoco sacro11. Bruciato col miele riporta al loro colore naturale le contusioni e i lividi. Credono che guarisca pure l’epilessia usato come cibo o bevanda e che una testa  bevutacon un obolo di laserpizio in vino di sapore aspro porti via anche la febbre quartana e anche in altro modo la tosse e qualsiasi catarro delle vie respiratorie cotta in fava infranta e così assunta come cibo fino a guarigione avvenuta.Concilia pure il sonno e i corpi più rubicondi nell’insieme. Pestato col coriandolo verde e bevuto col vino eccita pure il desiderio12. Ha qualche controindicazione, perché indebolisce la vista, produce flatulenza, fa male allo stomaco se preso in quantità accessiva. Per il resto mescolato col farro nel mangime giova ai gallinacei contro la pituita13  Dicono che nei giumenti favorisce la diuresi e che non sentano dolore se i loro genitali sono toccati con l’aglio pesto.14

______

1 Naturalis historia, XIX, 35: Alium cepasque inter deos in iureiurando habet Aegyptus.

2 Così rendo l’originale ulpicum [la più antica attestazione negli autori latini risale a Marco Porcio Catone (III-II secolo a. C.), De agricultura, 70 e 71]  , che nei dizionari latini è tradotto con upiglio. Tuttavia è inutile cercare quest’ultimo nei moderni dizionari, perché è voce che nasce nel XIII secolo ad opera di un volgarizzatore del De re rustica di Rutilio Tauro Emiliano Palladio (IV secolo d. C.) per continuare fino a tutto il XIX. Credo proprio che da questa bizzarra trascrizione/traduzione dell’ ulpicum pliniano nasca l’etimo proposto per ulpicum nel Vocabolario universale italiano, Tramater, Napoli, 1840: Credesi voce fatta per contrazione di allium punicum, aglio di Cartagine.

3 Così rendo l’originale ἀντισκόροδον (leggi antiscòrodon), composto da ἀντί (leggi antì= invece di + σκόροδον (leggi scòrodon)=aglio. Da un punto di vista filologico è interessante notare come questa voce non è attestata da nessun autore greco, il che fa presumere che Plinio ci ha lasciato la memoria di una voce popolare.

4 Festa del Lari Compitali, che presiedono ai crocicchi. L’originale Compitalia è aggettivo neutro plurale soastantivato da compitalis/e=relativo ai crocicchi, a sua volta da compètere=incontrarsi in un punto. La festa, mobile, si svolgeva tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio.

5 Feste in onore di Saturno, che iniziavano il il 17 dicembre.

6 Naturalis historia, XIX, 37: Alium ad multa ruris praecipue medicamenta prodesse creditur. Tenuissimis et quae spernantur universum velatur membranis, mox pluribus coagmentatur nucleis, et his separatim vestitis, asperi saporis; quo plures nuclei fuere, hoc est asperius. Taedium huic quoque halitu, ut cepis, nullum tamen coctis. generum differentia in tempore – praecox maturescit LX diebus – , tum in magnitudine. ulpicum quoque in hoc genere Graeci appellavere alium cyprium, alii ἀντισκόροδον, praecipue africae celebratum inter pulmentaria ruris, grandius alio. Tritum in oleo et aceto mirum quantum increscit spuma. Quidam ulpicum et alium in plano seri vetant, castellatimque grumulis inponi distantibus inter se pedes ternos. Inter grana digiti IV interesse debent, simul atque tria folia eruperunt, sariri. Grandescunt, quo saepius sariuntur. Maturescentium caules depressi in terram obruuntur; ita cavetur, ne in frondem luxurient. In frigidis utilius vere seri quam autumno. Cetero ut odore careant, omnia haec iubentur seri, cum luna sub terra sit, colligi, cum in coitu. Sine his Menander e Graecis auctor est alium edentibus, si radicem betae in pruna tostam superederint, odorem extingui. Sunt qui et alium et ulpicum inter Compitalia ac Saturnalia seri aptissime putent. Alium et semine provenit, sed tarde. Primo enim anno porri crassitudinem capite efficit, sequenti dividitur, tertio consummatur, pulchriusque tale existimant quidam. In semen exire non debet, sed intorqueri caulis satus gratia, ut caput validius fiat. Quod si diutius alium cepamque inveterare libeat, aqua salsa tepida capita unguenda sunt; ita diuturniora fient melioraque usui et in satu sterilia. Alii contenti sunt primo super prunas suspendisse abundeque ita profici arbitrantur, ne germinent, quod facere alium cepamque extra terram quoque certum est et cauliculo acto evanescere. Aliqui et alium palea servari optime putant. Alium est et in arvis sponte nascens – alum vocant – , quod adversus improbitatem alitum depascentium semina coctum, ne renasci possit, abicitur, statimque quae devoravere aves stupentes manu capiuntur et, si paulum commorere, sopitae. Est et silvestre, quod ursinum vocant, odore simili, capite praetenui, foliis grandibus.

7 Erba velenosa; il nome è dal greco ἀκόνιτον (leggi acòniton), di origine incerta.

8 Erba velenosa; il nome è dal greco παρδαλιαγχές (leggi pardalianchès), da πάρδαλις (leggi pàrdalis)=leopardo+ἄγχω (leggi ancho)=soffocare.

9 Erba velenosa; il nome è dal greco ὑοσκύαμος (leggi iuoschiùamos), composto da ὗς (leggi iùs)=porco+κύαμος (leggi chiùamos)=fava; in passato si riteneva che i porci potessero cibarsene senza pericolo.

10 Perché richiedeva cure costose, che solo i re potevano permettersi. È l’Ittero, cioè il travaso di bile. In latino, oltre che morbus regius era detto anche  morbus arquatus (il sintomo ricordava i colori dell’arcobaleno) o aurigo (e non auriga come si legge in wikipedia all’indirizzo https://it.wikiquote.org/wiki/Ittero) perché il sintomo ricordava il colore dell’oro.

11 È l’herpes zoster, volgarmente detto fuoco di sant’Antonio (contro la malattia s’invocavano i poteri taumaturgici del santo di Padova). La locuzione latina sacer ignis (sacro fuoco) è, invece, verosimilmente legata al fatto che la malattia era considerata una punizione degli dei.

12 Inspessimento dell’epitelio della lingua causato dal disseccamento quando l’animale respira a becco aperto.

13 A proposito della scoperta dell’acqua calda, questa volta nell’acqua calda, vedi in http://www.ilmattino.it/napoli/cronaca/aglio_impotenza_de_toma-518465.html la dichiarazione che sarebbe stata rilasciata da Antonio De Toma.

14 Naturalis historia, XX, 24:Alio magna vis, magnae utilitates contra aquarum et locorum mutationes. Serpentes abigit et scorpiones odore atque, ut aliqui tradidere, bestias omnes. Ictibus medetur potu vel cibo vel inlitu, privatim contra haemorrhoidas cum vino redditum vomitu. Ac, ne contra araneos mures venenati morsus valere miremur, aconitum, quod alio nomine pardalianches vocatur, debellat, item hyoscyamum, canum morsus, in quae vulnera cum melle inponitur. Ad serpentium quidem ictus tostum cum restibus suis efficacissime ex oleo inlinitur, adtritisque corporum partibus, vel si in vesicas intumuerint. Quin et suffito eo evocari secundas partus existimat hippocrates, cinere eius cum oleo capitis ulcera manantia sanitati restituens. Suspiriosis coctum, aliqui crudum id dedere; Diocles hydropicis cum centaurio aut in fico duplici ad evacuandam alvum, quod efficacius praestat viride cum coriandro in mero potum; suspiriosis aliqui et tritum in lacte dederunt. praxagoras et contra morbum regium vino miscuit et contra ileum in oleo et pulte, sic inlinens strumis quoque. Antiqui et insanientibus dabant crudum, Diocles phreneticis elixum. Contra anginas tritum in posca gargarizari prodest. Dentium dolorem tribus capitibus in aceto tritis inminuit, vel si decocti aqua conluantur addaturque ipsum in cava dentium. Auribus etiam instillatur sucus cum adipe anserino. Phthiriases et porrigines potum, item infusum cum aceto et nitro conpescit, destillationes cum lacte coctum vel tritum permixtumve caseo molli, quo genere et raucitatem extenuat vel in pisi aut fabae sorbitione. In totum autem coctum utilius est crudo elixumque tosto; sic et voci plus confert. Taenias et reliqua animalia interaneorum pellit in aceto mulso coctum; tenesmo in pulte medetur; temporum doloribus inlinitur elixum et pusulis coctum, dein cum melle tritum; tussi cum adipe vetusto decoctum vel cum lacte aut, si sanguis etiam excreetur vel pura, sub pruna tostum et cum mellis pari modo sumptum; convulsis, ruptis cum sale et oleo. Item cum adipe tumores suspectos sanat. Extrahit fistulis vitia cum sulpure et resina, etiam harundines cum pice; lepras, lichenas, lentigines exulcerat sanatque cum origano, vel cinis eius ex oleo et garo inlitus; sic et sacros ignes; suggillata aut liventia ad colorem reducit combustum ex melle. Credunt et comitialem morbum sanari, si quis eo in cibis utatur ac potione; quartanas quoque excutere potum caput unum cum laserpici obolo in vino austero, – (tussim et alio modo ac pectorum suppurationes quantaslibet sanat fractae incoctum fabae atque ita in cibo sumptum, donec sanitatem restituat. Facit et somnos, atque in totum rubicundiora corpora) – venerem quoque stimulare cum coriandro viridi tritum potumque e mero. Vitia eius sunt quod oculos hebetat, inflationes facit, stomachum laedit copiosius sumptum, sitim gignit. Cetero contra pituitam et gallinaceis prodest mixtum farre in cibo. Iumenta urinam reddere atque non torqueri tradunt, si trito natura tangatur.

 

Il Museo Archeologico di Vaste rinasce a nuova vita nel Palazzo Baronale restaurato

Vaste, Palazzo baronale
Vaste, Palazzo baronale

di Paolo Rausa

 

Piazza Dante a Vaste. Si capisce subito che la piazza attuale e l’agorà messapica corrispondono. Lo si intuisce. Lì nel corso dei secoli, almeno fin dall’età del ferro, si sono succedute popolazioni pacifiche, dedite alla pastorizia e all’agricoltura, sdegnose delle armi se non per difendersi dall’odiato vicino, la città spartana di Taras. La Messapia, la terra di mezzo fra i due mari, qui conobbe una fioritura notevole a ben guardare i resti delle tombe del cavaliere e dell’atleta, il monumento ipogeo delle cariatidi, la ricchezza dei vasi apuli a figure rosse con scene tratte dalla mitologia e dall’iconografia tradizionale, i monili e il consistente tesoro, un’acchiatura, così definita dagli anziani quando improvvisamente la fortuna bussava alla porta di qualcuno e sovvertiva le condizioni precedenti. Vaste, la messapica Baxta, con la sua cinta muraria del IV-III sec. a.C., con i suoi ricchi arredi funerari testimonia il grado di benessere delle classi colte e commerciali locali. Gli insediamenti messapici occupavano il vasto territorio della penisola salentina dal Capo di Leuca, la bianca, fino a Brundisium, il cui nome ricorda le corna dell’alce, e Manduryon sul confine occidentale, insediamenti di una popolazione che veniva dal mare, da Creta secondo Erodoto, più probabilmente da genti sbarcate dalla contrapposta costa adriatica.

Cratere apulo a figure rosse, scena di ratto
Cratere apulo a figure rosse, scena di ratto

‘Con la sistemazione del Palazzo Baronale di Vaste, di epoca rinascimentale, gli oltre 400 reperti che vanno dall’età del bronzo al periodo medioevale – dichiara soddisfatto e orgoglioso il sindaco Giuseppe Colafati – hanno trovato degna sistemazione al piano terra e al piano primo, secondo una disposizione cronologica che parte dall’età del ferro, l’epoca ellenistica con il ritrovamento del tesoretto di 150 stateri d’argento delle zecche di Tarentum, Heraclea e Thurium del IV sec. a.c., insieme all’ipogeo delle cariatidi, un complesso funerario monumentale sorretto da quattro fanciulle con panneggio che ricorda la Nike, menadi del corteo dionisiaco qui impegnate a sostenere la trabeazione del complesso’. Una sistemazione che allarga la visione a tutto il territorio di Poggiardo e della sua frazione Vaste in un Sistema Museale unico inclusivo delle chiese rupestri bizantine di Santa Maria degli Angeli e dei Santi Stefani, il Parco dei Guerrieri a cui si accede attraverso un portale monumentale, che riprende gli elementi delle tecniche costruttive messapiche, e l’Alboreto Didattico. Dopo oltre trent’anni di campagne archeologiche condotte dall’Università del Salento sotto la guida del prof. Francesco D’andria e grazie alle intuizioni dell’ing. Gianni Carluccio si è giunti alla attuale riorganizzazione che espone attraverso le sue emergenze architettoniche ed i ricchi reperti il senso e la vita della comunità insediata su questo territorio. Info: Sistema Museale Vaste|Poggiardo (Le), piazza Dante, – www.sistemamusealevastepoggiardo.it, info@sistemamusealevastepoggiardo.it, tel. 800551155, ingresso libero fino al 10 gennaio.

 

Befana, ma per chi?

di Armando Polito

Forse sto invecchiando male, perché, pur restando sostanzialmente un sognatore, da qualche anno a questa parte in occasione delle solite feste, ricorrenze, anniversari non riesco a scrivere qualcosa di convenzionale. Non è per la ricerca di un’originalità a tutti i costi, ma perché trovo irresponsabilmente ed ingannevolmente consolatorio per sè e per chi legge stendere quattro righe (magari fossero sempre quattro!) melense e lacrimevoli. Dico, mettendo al bando la falsa modestia, che, se volessi, forse potrei farlo e probabilmente, sia pur solo per un attimo, la mia vanità celebrerebbe il suo trionfo in un bagno di applausi virtuali, per rendersi conto nell’attimo successivo che quel consenso (mica solo il cacciatore di gufi è in grado di giocare con le parole e, purtroppo, non solo con quelle …) è senza senso.

Contrariamente al solito non annoierò il lettore con riflessioni etimologiche e rinuncerò alla ghiotta occasione di parlare della sequenza di incongruenze che scandiscono pure il passaggio da Epifania a Befana. Non scomoderò il greco e il latino volgare e non, ma il francese, lingua nella quale la Befana è la fête des Rois (la festa dei Re), con evidente riferimento ai re Magi ed ai loro doni.

L’immagine appena proposta [prima pagina de Le petit journal del 12 gennaio 1908; la didascalia recita: UNE TOUCHANTE TRADITION DE LA FÊTE DES ROIS La part des pauvres (Una toccante tradizione dell’Epifania. La parte dei poveri)] non è in contraddizione con l’intenzione all’inizio espressa di voler evitare ogni espediente strappalacrime. Al contrario essa, nel rendere omaggio a quanti, soprattutto attraverso il volontariato, si sono prodigati anche in quest’occasione per lenire il disagio dei meno fortunati, intende per contrasto (contraddizione, contrario, contrasto, sono proprio un tipo contro) stigmatizzare l’abominevole comportamento di chi avrebbe dovuto impedire quello che è successo recentissimamente ad alcuni istituti di credito per i quali andrebbe a pennello la definizione di associazione a delinquere più o meno legalizzata, estensibile a brevissimo termine a tutti gli altri se il legislatore non vi pone cervello (non mano …). E così i novelli re sono loschi individui che celebrano la loro festa facendola ai risparmiatori. Loschi individui: non starò esagerando? Penso proprio di sì perché i truffati dovrebbero avere un po’ di ritegno nel manifestare la loro rabbia, anzi dovrebbero essere grati ai loro carnefici perché hanno anticipato lo scoperchiamento della loro pentola piena di merda per non turbare (chi ha perso i risparmi di una vita può dimenticarlo, al massimo, nel giro di una settimana …)  con la loro proterva malafede, rivoltante ipocrisia e millantata competenza la befana di tante persone oneste e veramente rispettabili.

Altro che Befana, questo è il paese della Beffa! E non mi meraviglierei se ad essere incriminato fossi io per essermi fottuto la sillaba finale di Befana e per aver tentato truffaldinamente di compensare il furto con l’aggiunta di una f, che ha il valore di un doppione …

Dall’osservazione al racconto: ecco le “tracce” di Rocco Boccadamo

di Eliana Forcignanò

CAM02103

Edito per i tipi di Spagine “Anita, detta Nnita”, narrazioni e note dal Salento

 

Può nascere dalla fantasia o dall’osservare il racconto, talvolta da entrambi: uno scrittore non è soltanto l’artefice di un’architettura narrativa ben riuscita, bensì è anche e soprattutto colui che esercita lo sguardo fuori e dentro di sé, perché fuori e dentro – come già sosteneva Spinoza – sono l’eco l’uno dell’altro e la realtà è fitta di rimandi al mondo interiore, così come l’interiorità è sempre influenzata da ciò che accade sotto i nostri occhi. L’occhio. E la penna o, per i postmoderni, la tastiera di un computer, il foglio digitale che, tuttavia, suscita lo stesso panico da cominciamento di quello cartaceo. Perché l’esordio della scrittura non è mai impresa facile, soprattutto se questa scrittura parla di noi.

Il nuovo lavoro di Rocco Boccadamo, Anita, detta Nnita. Lettere ai giornali e appunti di viaggi (Spagine Edizioni, 2015), parla di noi. Già Compare, mi vendi una scarpa? rappresenta un approdo significativo per questo narratore di un Salento a tratti manzoniano in cui gli umili, con le loro vicissitudini e con gli stenti quotidiani, esprimono un’umanità fiera e – può sembrare un ossimoro – persino ludica nella dimensione di creatività e dignità che Quintiliano attribuiva al gioco. Ora, con questo volume, Boccadamo torna nei suoi luoghi fisici e mnestici recando con sé una denuncia velata di sottile ironia. Vi torna con sincera partecipazione emotiva nei confronti di chi ha subìto le vessazioni di un progresso sovente cieco e sordo alle esigenze dell’individuo e della collettività. Tuttavia, il progresso non si governa da solo: a guida della potente macchina ci sono uomini che fagocitano altri uomini: lo ha espresso bene Steinbeck in quel bellissimo romanzo che è Furore in cui si racconta l’esodo di una famiglia di agricoltori del Midwest verso la California. A questi poveri agricoltori il progresso aveva espropriato la terra; beneamato progresso che, dalle nostre parti, anni dopo, avrebbe portato la centrale di Cerano riducendo in ginocchio le colture tradizionali e seminando povertà fra i contadini. La Storia – come osservava Vico e come Boccadamo non manca di annotare – è fatta di corsi e ricorsi. Che cosa accomuna la famiglia rurale di Steinbeck agli agricoltori delle nostre parti? Probabilmente, quel caparbio spirito contadino, quel legame con la terra che mandò a morte anche i kulaki nell’epoca staliniana e che si può riassumere nel motto “Mai chinare la testa!”. Le terre limitrofe a Cerano, ove crescevano succose angurie, hanno sofferto l’inquinamento senza che la questione toccasse le alte sfere, eppure i contadini non si arrendevano e continuavano imperterriti nel loro lavoro sospeso fra bisogno e desiderio, pur sapendo che tanta ostinazione avrebbe potuto ridurli alla fame. L’immagine di questi uomini piegati sui campi è traslata da Boccadamo nella splendida metafora dei due cavalli da tiro che, maestosi, trainano l’aratro nella consapevolezza esiodea che le stagioni si succederanno sempre e tale regolarità – la regolarità del clima anch’essa purtroppo in via d’essere irrimediabilmente alterata – infonde negli esseri una certa speranza. O, almeno, la infondeva.

Il ricordo di Boccadamo corre da Cerano alla sua Marittima: anche qui, la terra ha mutato il suo aspetto e la sua produttività, ma c’è ancora chi raccoglie le olive, chi ne sa aspettare pazientemente la maturazione e crede che quell’olio – sacro alle antiche divinità e oggi, ancora una volta, posto in discussione – costituisca un inarrivabile punto di forza per il Salento. Così i “minuscoli frutti ovali tra il verde e il viola” si alleano con quelli “rossi e dolcissimi” per dipingere di colori e sapori (il sapere – tutto il sapere e non solo quello contadino – non è forse un sapore?) un racconto che, prendendo le mosse dal singolo personaggio, giunge a diventare resoconto corale.

Si potrebbe affermare senza timore di cadere in errore che, quando Boccadamo scrive, non ha in mente una visione meramente maschile del Salento: contadini erano uomini e donne e, se non bastasse questa evidenza, il titolo del libro chiude definitivamente le porte all’idea che il Salento sia esistito e sia oggi narrato soprattutto quale “terra di maschi”. Senza dubbio, vi sono molti modi di raccontare la femminilità e Boccadamo, lungi dal vestire i panni di uno stilnovista che angelica la creatura femminile o di un misogino che la relega alla mera funzione riproduttiva, delinea con delicata giovialità il ritratto di Anita, ragazza dai “prorompenti seni” che non aveva voluto saperne di andare a scuola e aveva suscitato amori folli in paese non solo per la sua avvenenza, bensì anche per l’acume e la sagacia. Anita – oggi, simpatica nonna ultraottantenne – nelle ore di scuola forava i lobi delle orecchie alle compagne per far posto agli orecchini e, appena adolescente, non aveva esitato a dimostrare un temperamento risoluto, rifiutando il suo primo fidanzatino che già la corteggiava ufficialmente. Anita, operaia in un tabacchificio; Anita che aveva ricevuto il suo primo bacio a diciassette anni in una casa invasa dal tufo e ne era rimasta spiacevolmente sorpresa, perché non era quello il modo in cui lei lo aveva immaginato. Colpisce, nella narrazione di Boccadamo, la capacità di affrescare i suoi personaggi di là da sterili retoriche e luoghi comuni. È evidente che, in quanto donna, la libertà di Anita fosse limitata ed è evidente che, in paese, non corressero su di lei voci particolarmente benevole, soprattutto dopo il bacio furtivo, eppure non è questo che interessa all’autore. Il fine da raggiungere sembra, invece, quello di tratteggiare un’individualità che agisce in un contesto determinato. Perché solo dal racconto dell’individualità può nascere il corale: non si è mai vista una tragedia in cui vi sia soltanto il coro né il Verga o Silone si sarebbero mai sognati di scrivere i loro capolavori senza ‘Ntoni e Berardo Viola. È la differenza che pone in luce il contesto. Si tratta di una differenza intrinseca non solo nei soggetti, ma anche negli oggetti, nelle cose che ci circondano e nei confronti delle quali Boccadamo lamenta la discuria: è il caso di quell’edificio di Castro che ospitava gli orfanelli e che viene ridipinto con un giallo “sparato” che ne deturpa l’intero prospetto. Per quale ragione – si potrebbe obiettare – scrivere di un edificio pubblico che è uno dei tanti? In fondo, sono numerosi gli esempi di cattivo gusto – o semplice noncuranza – da parte delle amministrazioni locali, tuttavia è proprio dello scrittore – più in generale dell’artista – quel senso estetico che Boccadamo definisce “senso dell’armonia” cui non mancano sollecitazioni positive e, più spesso, negative. Se tutti tacessero – sembra dire tra le righe Boccadamo – il brutto diverrebbe ordinario. A questo proposito, è opportuno precisare che questo libro non è una raccolta di racconti: accanto agli spaccati di vita che, in breve, si è tentato di delineare, compaiono lettere e articoli cui, però, non si trascura mai di conferire una dimensione vissuta e passionale, la medesima dimensione che percorre l’intero volume e lo rende non solo godibile, ma anche commovente, se per “commozione” intendiamo non la romanticheggiante lacrimuccia, ma un vero moto alla riflessione e, possibilmente, all’acquisizione di consapevolezza.

“Buon capodanno!”? Preferisco “Buon capo d’anno!”. E vi spiego perché …

 

di Armando Polito

Mi sto ancora congratulando con me stesso  per essere riuscito a porre in sequenza dopo la seconda parola del titolo un punto esclamativo, le virgolette ed uno interrogativo, ma tremo all’idea che qualcuno mi sfidi a tentare la sequenza inversa ..

Ciò che sto per dire riguarda una delle tante incongruenze che caratterizzano l’uso della lingua, la quale, più che alle regole della grammatica e dell’analogia obbedisce a quelle dell’uso e dell’arbitrarietà, ma riguarda anche l’ignoranza della nostra classe politica, certamente immensa, alla quale, però, per precauzione, non è mai il caso di concedere la presunzione della  buonafede. Ricordate qualche mese fa l’inciampo del cacciatore di gufi su cultura umanista anziché cultura umanistica?

Per chi, magari studente di liceo classico, avesse ancora dei dubbi ho approntato il seguente albero (è meno simmetrico di quello di Natale, ma, a parte il fatto che non si può avere tutto, quello sviluppo abnorme a destra è in linea con certe tendenze politiche in atto, nonostante si voglia far ritenere il contrario).

Per farla completa e per fugare ogni dubbio residuo credo sia opportuno aggiungere qualcosa ad ogni parola dell’albero.

UOMO (sostantivo)

UMANO (aggettivo, anche in uso sostantivato (i limiti dell’umano).

UMANESIMO (sostantivo) periodo storico tra la fine del secolo XIV e il XVI caratterizzato dall’interesse dei testi antichi latini e greci.

UMANISMO (sostantivo) insieme di correnti filosofiche alla base delle quali c’è la ricerca della verità attraverso la razionalità, il che non esclude la compatibilità con alcune religioni.

UMANISTA (aggettivo sostantivato): geografo che si occupa in modo specialistico di geografia umana o storica/rappresentante dell’Umanesimo, cioè ognuno che nei secoli XIV-XVI studiò i classici latini e greci/ studioso o semplice appassionato delle lettere classiche: medico umanista;  (aggettivo): che segue le teorie dell’umanismo.

UMANITARIO (aggettivo): qualifica di tutto ciò che mira a migliorare moralmente e materialmente e, per quanto è possibile, disinteressatamente …, la vita umana

UMANISTICO (aggettivo): qualifica tutto ciò che riguarda l’interesse per l’Umanesimo ed i suoi rappresentanti; ovvio che la cultura umanistica suppone quella umanista, ma non coincide con essa, bensì con il suo studio o con la sua rivisitazione.

Occhio al suffisso: SCIENTIFICO è dal latino tardo scientificu(m), composto da scientia=conoscenza e la radice del verbo fàcere, per cui scientifico è tutto ciò che produce conoscenza.

UMANISTICO deriva da umanista+il suffisso –ico indicante appartenenza.

Detto così si potrebbe semplicisticamente concludere che scientifico è tutto ciò che è proiettato verso il futuro e umanistico tutto ciò che è rannicchiato sul passato e che, dunque, ha ragion d’essere la vexata quaestio della contrapposizione delle due culture. Certo il concetto dominante del tutto e subito, del progresso ad ogni costo sembra legittimare il concetto di superiorità della cultura scientifica su quella umanistica, se non l’inutilità di quest’ultima. Se il ciceroniano historia magistra vitae sembra essere sconfessato da millenni di storia, se cioè a poco è servito conoscere gli errori del passato per non ricommetterli, pensate un po’ a cosa in breve tempo l’ignoranza del passato, e, dunque, anche dei suoi errori, potrà portare l’Umanità e l’umanità …

Se la confusione tra umanista e umanistica a proposito di cultura probabilmente, sottolineo probabilmente, era in buona fede, in questo periodo un pericolo ben più grave incombe sulle nostre teste e questa volta la colpa potrebbe essere di capo.

Capo è primo componente di parecchie voci. Esso può accoppiarsi con un altro sostantivo del quale funge da apposizione: capomastro; in altri casi lo fa sottintendendo la preposizione della, del o di; tra i tanti esempi ne fornisco uno per ogni caso capolinea, capogruppo, capofficina. Non mancano i casi in cui la preposizione, non sottintesa, è rimasta a far parte del composto: capodopera (ma è anche ammessa la grafia capo d’opera), capodoglio (scrittura ormai stabilizzata, anche se è da capo d’oglio) e, siamo arrivati finalmente al punto, capodanno (ma è ammessa anche la grafia capo d’anno).

Per evitare il solito nesso sono stato frainteso o posso spiegare tutto oppure la parola mi è uscita di bocca a mia insaputa, sarebbe opportuno che ognuno di noi quando qualcuno, soprattutto un cosiddetto uomo di potere (un capo, appunto), laico o religioso non fa differenza, gli augura un buon inizio dell’anno con la parola composta che sapete, rubasse, adattandola, la domanda al Pierino cinematografico interpretato da Alvaro Vitali. E così, sostituendo fischio con apostrofo, la domanda sarebbe: – Con l’apostrofo o senza? -.

La richiesta è legittimata dal fatto che capodanno, come capogruppo, potrebbe essere sciolto in capo del danno e purtroppo la differenza di composizione e di significato non è percepibile dalla pronuncia, a meno che tra capo e d’anno non si interponga una pausa celentaniana.

La mia proposta è questa: tra persone comuni adottiamo la scrittura capo d’anno e, una volta tanto, giovani e meno, a parziale compensazione di tanti x invece di per, adottiamola anche nei  nostri messaggi. facebookiani e cellulareschi.

Tra poco chi ne ha voglia si sorbirà (nel senso di gustare lentamente; esiste o non esiste il masochismo?) con compiacimento i rituali messaggi di fine d’anno a reti unificate e, non potendo interagire e porre in tempo reale la pierinesca domanda, non saprà mai se capodanno è da intendersi come inizio dell’anno o come danno principale o, peggio ancora, come capo del danno (in quest’ultimo caso sarebbe un’ulteriore presa per il culo mascherata da ammissione di colpevolezza).

Quando è possibile, perciò, soprattutto quando si ha a che fare con un detentore, grande o piccolo, del potere, non abbiamo paura di porre quella domanda, sempre sperando che l’interlocutore sappia cos’è l’apostrofo …

Buon capo d’anno a tutti!

 

Grazie a voi tutti non sono semplici diagrammi

di Marcello Gaballo

Al balletto delle cifre e delle statistiche siamo abituati ormai da tempo; tra sondaggi e interviste c’è pure chi ci sguazza giornalmente strumentalizzando anche le sconfitte e i più svegli tra noi non si meraviglieranno se alla prossima tornata elettorale i rappresentanti del partito batostato ammetteranno con la faccia della peggiore delle prostitute la sconfitta aggiungendo, però, subito dopo, che rispetto alle elezioni del 1950 il numero dei voti è aumentato dello 0,0005% …

Anche noi, nel nostro piccolo, esibiamo di seguito con viva e vibrante soddisfazione ciò che ci sembra inequivocabilmente la prova di una crescita, aggiungendo che anche un semplice diagramma a volte può nascondere, nel nostro caso nemmeno tanto, sentimenti autentici di condivisione, partecipazione, simpatia e affetto.

Per tutto questo la fondazione e il suo blog ringraziano, perciò, i veri artefici di questo successo, cioè i tanti lettori, datati e non, che ci hanno fin qui seguito. Con loro e con quelli che verranno ci impegniamo a rispettare i motivi ispiratori che ci hanno fin qui guidato e che, sostanzialmente, si identificano nell’amore per la nostra terra e per la sua cultura, nel rispetto di qualsiasi opinione, purché fondata e motivata, e, soprattutto, nella totale libertà e indipendenza da qualsiasi potere, debole o forte che sia.

 

 

report3

 

 

Antonio Malecore (Lecce 1922-vivente), un padre del Presepe Salentino

Antonio Malecore
Antonio Malecore

di Enzo Pagliara

Ero giù di morale da alcuni mesi, nel 1986/7, perché in famiglia aveva fatto irruzione la malattia grave e poi si era presentata anche la morte e mi avevano colto impreparato – non si è mai preparati a simili eventi! – ad affrontare tale grande tristezza.
Tra il preoccupato e l’irritato, mia moglie, emotivamente meno coinvolta, mi suggerì una possibile via d’uscita, da percorrere gradualmente e compatibilmente con il mio lavoro professionale: quella di frequentare, possibilmente a Lecce, la bottega di un cartapestaio di buona fama e livello artistico.
Bussai alla porta del laboratorio di Antonio Malecore, quello che tutti mi avevano accreditato come il Maestro per eccellenza, ormai da decenni.
Era ubicato in Piazzetta Panzera/via degli Alami, nel cuore della vecchia Lecce, a ridosso di Santa Irene. Attraverso un archetto secentesco, si accedeva ad un piccolo atrio scoperto, e da qui ad una “infilata” di stanzoni, il primo adibito a veloce vetrina delle opere appena completate, il secondo alquanto buio a inquietante sala d’attesa per le statue in procinto di restauro, il terzo, impregnato di odore di abbrustolito, era il laboratorio vero e proprio, perché più illuminato direttamente dalla luce naturale. E poi una serie di sgabuzzini e di bugigattoli dove c’era di tutto: calchi, bozzetti, vecchie teste di santi, arti “mozzati”, un vero bric à brac di oggetti antichissimi o moderni, tutti aventi a che fare con la gloriosa arte che in quell’officina diventava oggetto concreto da ammirare.
Il Maestro, allora nella maturità dei suoi sessant’anni, così come aveva sempre fatto con decine e decine di “aspiranti” cartapestai, mi accolse e alla prima occasione mi disse: “mi chiamo Antonio”, io gli risposi “grazie, ma ti chiamerò sempre maestro”; mi sembrava irriverente non farlo. In quella sua battuta si chiariva la persona di Antonio Malecore: si sentiva maestro, con un pizzico di orgoglio, per le cose che faceva e per come le faceva, ma sollecitava rapporti paritari con coloro che frequentavano la sua bottega per ammirare e per apprendere. Non era geloso di alcun segreto professionale, “tantu, finchè ‘rrevati allu livellu meu, jeu aggiu muertu…”, non temeva alcuna concorrenza, anzi oggi, lui felicemente vivo ed ancora in opera, ne ha riconosciuto l’eredità artistica al bravo Antonio Papa di Surano.
Frequentai la sua bottega per un paio d’anni: appresi, guardando, tanto, ma evidentemente non tutto, del necessario per avviare la propria esperienza, il resto doveva compiersi sporcandosi le mani con la creta, la pònnola, la carta intrisa, lo stucco, ecc. ecc… Paola Malecore, la nipote, esperta, umile e garbata sua collaboratrice, mi insegnò a “informare” e sformare dai calchi e mi diede suggerimenti e consigli senza tediare il maestro che, quando era all’opera, era come trasportato in un intimo colloquio con la creatura che usciva dalle sue mani.
La fase di più profonda “immersione” era per lui soprattutto la vestizione, ma anche la coloritura della statua: dopo un canovaccio di colore, vi ritornava più volte e sugli incarnati stendeva decine di impercettibili velature cromatiche per giungere all’effetto veristico delle sembianze umane.
Le sue Madonne e le Sante, diceva, “devono essere dolcissime, ma non bambole sdolcinate”; i suoi Cristi e i Santi “sereni, rassicuranti ma maschi”. Quello era il periodo in cui, innamorato della semplicità della statuaria lignea di Ortisei, ne traeva spunto nella postura e nella coloritura delle sue statue; negli ultimi decenni, invece, è tornato a strutture e decori più tradizionali nella cartapesta leccese. E’ anche vero, però, che i Malecore, nelle loro tre generazioni artistiche, hanno sempre manifestato uno stile essenziale nei panneggi e sobrio nei decori, al contrario di altre botteghe loro contemporanee che hanno ricalcato esempi barocchi o baroccheggianti.
Molto ancora si potrebbe dire ma la saggezza latina insegna: “ multa parvis, pauca magnis…”
(tratto da “Novalba”, periodico edito in Parabita, 2012)

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!