La Parmigiana di melanzane alla Salentina

di Massimo Vaglio

melanzane-sotto-olio

Parmigiana campagnola

La parmigiana si può definire il grande piatto unico della cucina salentina, dalle cento e forse più versioni che si differenziano l’una dall’altra per piccoli ma salienti particolari. Tra tanta varietà è da segnalare per la sua arcaicità questa ricetta, molto simile alla mussaka greca. Affettate le melanzane, meglio quelle lunghe tipiche del Salento, nel senso della lunghezza, friggetele senza alcuna infarinatura o impastellatura in abbondante olio di oliva sino a quando acquistano un bel colore oro bruciato e spolverizzatele con sale fino. Quando si saranno raffreddate, acconciate un primo strato in un tegame sul fondo della quale avrete versato del sugo di pomodoro fresco alla cipolla di consistenza piuttosto blanda, quindi alternate strati di melanzane e sugo, aggiungendo qualche fogliolina di menta e una spolverata di formaggio pecorino piccante. Cospargete infine lo strato finale sempre di sugo e infine con un uovo sbattuto insieme ad un pugnetto di formaggio, infine ponete in forno, otterrete un risultato ancora migliore se utilizzerete il tradizionale forno di campagna a braci vive. In ogni caso occorrerà circa una mezzora di cottura. Lasciatela intiepidire un po’ in modo che si possa porzionare più facilmente e servitela. Una volta posta nei piatti questa parmigiana rilascia un gustoso intingoletto, per la libidine degli amanti della scarpetta. Comunque la consigliamo a tutti per la sua semplicità e soprattutto per la sua freschezza.

 

Parmigiana di melanzane alla Salentina

Nettate e affettate le melanzane e passatele nella pastella o se preferite, passatele prima nell’uovo sbattuto e poi nella farina, friggetele in abbondante olio bollente, non dimenticate di salare la pastella o l’uovo sbattuto a seconda del metodo che adottate.

Sgocciolatele ben dorate e, disponetele a strati in una teglia sul cui fondo avrete versato della salsa di pomodoro fresco di consistenza piuttosto blanda, alternate fette di melanzane con sugo di pomodoro fresco al basilico, pecorino grattugiato e capperini sott’aceto, terminate con sugo di pomodoro e formaggio, passate in forno molto caldo e servite subito. Potete cuocerla alla brace utilizzando il tradizionale forno di campagna che non è altro che un grande coperchio di lamiera sul quale si dispone la brace rovente. La parmigiana sopra descritta è quella tipica salentina ed ha un gusto semplice e antico che vale la pena di provare, però per i palati più difficili, specialmente dei giovani, conviene arricchirla utilizzando al posto dei capperi fettine di uova sode, fette di mozzarella o caciocavallo e fettine di salame o mortadella al pistacchio e per chi volesse proprio sfiziarsi polpettine di manzo al ragù. Questa versione di parmigiana può costituire anche un piatto unico ideale nelle scampagnate all’aperto. È il pasto tradizionale, insieme al galletto al ragù, che viene preparato in occasione della ricorrenza della festa di Sant’Oronzo a Lecce.

 

 

Li ‘mburde o li mburde? (il pantano)

nardò veduta

di Armando Polito

Sono abituato a ragionare sulla scorta di documenti che chiunque può controllare (anche questo è trasparenza …) e per questo chiedo scusa al lettore se esordisco con una sorta di ministoria (piccolo è bello non sempre  … lo abbiamo visto con le banche, anche se non è che le grandi …).

L’8 aprile u. s. Livio Romano mi poneva sulla mia bacheca di Facebook (https://www.facebook.com/armando.polito.3?fref=ts) il seguente quesito: Non so se è un modo di dire solo neretino. Un tempo (non credo qualcuno lo usi ancora) si diceva qualcosa tipo “Ha vissuto tanto tempo in mezzo alle MBURDE, e ora si dà tante arie”. Bene, ha a che fare con le feci, c’è qualche attinenza con la suburbia, o cosa?

Ecco la mia risposta quasi immediata: A Nardò “Li mburde” era pure il nome popolare di un quartiere. Non credo che la parola abbia a che fare col suburbio (tra l’altro ci sono difficoltà di natura fonetica) e nemmeno con la merda (stesse difficoltà). Per il momento le segnalo https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/10/la-manta/ ma non appena avrò un po’ di tempo mi riprometto di affrontare, sempre sul blog della fondazione, in modo più approfondito il problema. Se dovessi tardare troppo, non si faccia scrupoli a ricordarmelo.

Livio non ancora aveva finito di ringraziarmi che già Marcello Gaballo scriveva: Prende il nome dalla famiglia nobile Burdi, che abitava in questo quartiere. Le ultime discendenti furono delle donne, per cui “Burde”. Molto popoloso, da sempre, e assai centrale rispetto all’esteso centro storico. Magari dopo la famiglia citata divenne malfamato o poco lindo, per cui…

Iniziava così  uno di quei fuochi incrociati che per me sono vita e così, dopo averlo fatto con Livio, rispondevo a Marcello:

Mai intromissione fu più gradita e felice! Tuttavia, secondo me, potrebbe non esserci nessuna connessione tra “Burde”, “Burdi”, “Mburde” (per dissimilazione da “Bburde” (nome proprio) e “mburde” (nome comune), che sembra avere orizzonti più vasti di quelli neretini: il Rohlfs segnala, col significato di sporcare, per Alessano “mmurdare” e per Galatone “mburdare” (se è facile immaginare in quest’ultimo caso un’importazione neretina, non lo è altrettanto per Ruffano). Così quello che mi ripromettevo di dire ad integrazione della prima risposta a Livio Romano, che ringrazio per aver risvegliato il problema, l’ho detto, ma non è detto che, fra qualche tempo non abbia a dire di aver qualcosa in più da dire. A questo punto, però, è bene, non avendo altro da dire, che non continui a dire …

Pochi minuti dopo Marcello mostrava di condividere la mia osservazione: Continuo a riflettere che la zona in questione non poteva essere soggetta a ristagno di acque o fanghi, essendo posta in alto rispetto al circostante territorio. Le acque meteoriche o altro si riversavano naturalmente poco più in là, verso la “Maddalena”, dove oggi vi è la Ditta Bianco, alla fine di via Bernardini per intenderci. Acclarata la residenza della famiglia Burdi, sarei dell’opinione che il toponimo derivi da quella. Il termine mburde comunque veniva adoperato anche a Nardò, inteso come “pantano, zona di ristagno”. Ma occorre rifletterci ancora, come mi pare stiamo facendo.

Da quanto fin qui riportato, comunque, sembrerebbe che la famiglia abbia dato vita al toponimo (fenomeno ricorrentissimo da epoca remota: basterebbe pensare ai prediali risalenti alla centuriazione romana). Tutto, poi, è possibile, pure che la maliziosa illazione di Marcello sulla pulizia materiale del luogo o su quella fisico-morale delle rappresentanti femminili (e ti pareva …) della famiglia sia fondata.  Il suo secondo intervento, comunque, rende meno fondata l’ipotesi della sporcizia del luogo, specialmente dopo la sua osservazione su quella caratteristica che a Nardò sembra trascurata proprio da chi progetta interventi sul territorio: le pendenze, naturali o indotte che siano …

Quanto alla pulizia fisico-morale è vero che, come diceva Giulio (non Cesare, ma la differenza non è poi tanta …),  a pensare male si fa peccato ma spesso ci s’indovina (frase attualissima, ma andrebbe cambiata con l’aggiunta di di un politico e di quelli della sua greppia dopo male, di un non prima di si e con la sostituzione di spesso con sempre …); però, se la tanto sbandierata (soprattutto dai colpevoli …) presunzione d’innocenza ha un senso (anche in presenza di indizi o, addirittura, prove) prima della condanna definitiva (prescrizione, per alcuni …, permettendo), essa vale nel caso delle Burde, in cui nessun fascicolo fu all’epoca aperto e non credo che sia più possibile (ma in Italia non si sa mai …) che a qualcuno venga l’idea di aprirne uno a distanza di qualche secolo dai presunti misfatti …

centro storico di Nardò
centro storico di Nardò

Avrei fatto più presto a dire, come su Facebook avevo premesso, che secondo me quasi certamente il toponimo è legato alla famiglia e che il nome comune mburde ha tutt’altra origine. Già, ma quale?

Della questione mi ero occupato en passant e non ripeto qui quanto chiunque, volendolo, potrà leggere nel link segnalato nella mia risposta a Livio.

Seguendo l’ultimo invito di Marcello (non proprio l’ultimo, come dirò alla fine …) ho riflettuto e credo di potere avanzare un’ipotesi alternativa. La parola potrebbe derivare dal latino medioevale borda, per il quale il lessico del Du Cange reca, come definizione domus, aedes, tugurium. Le tre parole, che significano, rispettivamente casa, piccola casa, capanna costituiscono un climax ascendente (via via verso valori sempre più negativi) e non a caso proprio dal significato più basso nella graduatoria di valori (quello di tugurium=capanna) borda ha dato vita al francese borde, il cui diminutivo (bordel) ha dato a sua volta vita al nostro bordello. E il passaggio dal bordello al fango non è poi tanto arduo …

Ammesso che le cose stiano così, c’è, poi, ma questo sarebbe un dettaglio secondario, da porsi la domanda, se mburde è entrato dal francese (borde>*bborde>*mborde>mburde), se, cioé, ha la stessa origine di pòscia (=tasca, dal francese poche) o deriva direttamente (ma sempre attraverso la stessa trafila fonetica) dal latino medioevale. Altro dettaglio secondario, ma non troppo, sarebbe che la parola dovrebbe essere scritta ‘mburde se deriva (secondo l’ipotesi segnalata nel link iniziale) per aferesi da *imbordare o mburde se vale la nuova proposta.

Quanto al non proprio l’ultimo con cui ho prima corretto l’ultimo invito di Marcello mi riferivo all’altro quesito posto, prima ancora che il primo fosse stato sviscerato, in tre messaggi consecutivi che in un primo momento mi erano sfuggiti: Il termine mi pare simile a “lòtanu”, ancora adoperato il primo, a parte l’etimologia, quale la differenza tra i due termini?  il secondo, Forse lòtanu è più circoscritto di mburde? se ricordo bene il modo con cui venivano utilizzati, direi di si il terzo.

Comincio dall’etimologia riportando in sintesi  quanto si legge nel vocabolario del Rohlfs. Al lemma lòtani compaiono le varianti lòtane col significato di petulanza, lòtunu con quello di fossa per le immondizie, lòtani e lòtini con quello di piccoli arnesi, attrezzi, oggetti che ingombrano, utensili di poco valore. Nessuna variante è attribuita a Nardò, nessuna ipotesi etimologica viene formulata, nessun rinvio ad altro lemma viene indicato. Eppure io ho sentito lòtanu e lòtane usato dai miei suoceri per indicare una depressione appena appena accentuata del terreno, che si riempie d’acqua in seguito alla pioggia. Questo confermerebbe l’uso della voce pure a Nardò, secondo quanto detto da Marcello. Ma torniamo all’etimo.

Il merito più grande dei veramente grandi, secondo me, non consiste tanto in quello che palesemente ci hanno lasciato in termini di conoscenza; molto di più per me vale quello che chiamo il loro involontario sottinteso o una sublime dimenticanza. Se, infatti, andiamo al lemma òtunu (riportato per Manduria) leggiamo la definizione di pozzanghera, guazzo fangoso, come indicazione etimologica il greco βόθυνος (leggi bòthiunos)=fossa e il rinvio a vòtunu, dove si legge la definizione di pozzanghera, conca nel terreno, guazzo fangoso e la notizia che nel territorio di Martina Franca esiste una località Vòtene una volta fangosa; la trattazione del lemma si conclude con il rinvio a òtunu.

A beneficio del comune lettore va solo aggiunto a quanto riportato dal Rohlfs che vòtunu ha comportato rispetto al greco la trasposizione della consonante iniziale da b- a v-, fenomeno fonetico normalissimo nel dialetto salentino  (basti pensare ad erba>erva), che òtanu deriva da vòtunu per normalissima aferesi di v- (basti pensare a basso>vàsciu>àsciu o a voltare>utàre), che, infine, lòtanu deriva da òtanu per un fenomeno banale quanto frequente, quello dell’errata agglutinazione dell’articolo (l’otanu>lòtanu>lu lòtanu).

Per concludere dico che non sarei sincero se, dopo aver evitato, grazie al Rohlfs,  le insidie del lòtanu,dichiarassi di sentirmi completamente al riparo da quelle delle mburde, o ‘mburde che siano …

Bernardino Amico di Gallipoli, disegnatore del XVI-XVII secolo

di Marcello Gaballo e Armando Polito

Tavola tratta da Biografie degli uomini illustri del Regno di Napoli, a cura di Domenico Martuscelli, Gervasi, Napoli, tomo VIII, 1822, s. p. (https://books.google.it/books?id=GCuUVvUDn_4C&printsec=frontcover&dq=editions:nyGnSFQfGQMC&hl=it&sa=X&ved=0CB8Q6AEwADgKahUKEwjz4Py0ttbHAhUGcRQKHfb7CDI#v=onepage&q&f=false).
Tavola tratta da Biografie degli uomini illustri del Regno di Napoli, a cura di Domenico Martuscelli, Gervasi, Napoli, tomo VIII, 1822, s. p.

 

Da notare nella tavola l’errore, sul quale torneremo in seguito, Minimi per Minori.

Se una canzone può avere spesso come autore della musica e delle parole e, giacché ci siamo (per la serie ce la scriviamo, musichiamo e cantiamo da soli), come interprete la stessa persona, la stessa cosa molto più difficilmente poteva valere, prima dell’avvento delle tecnologie digitali, per un libro con illustrazioni, il quale, pure, se aspira a raggiungere un certo livello, deve avvalersi del contributo di più competenze.

Questa premessa fa capire meglio il giudizio che  sull’unica opera  dello scrittore gallipolino espresse Eustachio D’Afflitto (1742-1787) nella scheda relativa che riproduciamo integralmente1.

Il giudizio del D’Afflitto appare negativo per quanto riguarda il testo vero e proprio, a causa di alcuni dettagli descrittivi ritenuti inventati o, comunque, non documentati; al contrario, l’apparato delle illustrazioni rappresenterebbe il segreto del successo della prima edizione e della sua rarità, mentre la seconda sarebbe di livello inferiore, nonostante le incisioni che il Nicodemi2 attribuisce a Jacques Callot (non Caillot), come si può controllare nella scheda che segue.

Ecco ora, uno di seguito all’altro, i frontespizi delle due edizioni, la prima del 1609 e la seconda del 16203.

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bernardino amico

bernardino amico

Torniamo ora al giudizio sulla seconda edizione: il lettore avrà notato come quello del Nicodemi è esattamente l’opposto di quello del D’Afflitto; quest’ultimo è rimasto ubriacato, secondo noi,  da un uso troppo disinvolto e non controllato di questa, cede e alla prima.

Come poteva, d’altra parte, essere inferiore alla prima, soprattutto per quanto concerneva le illustrazioni, la seconda edizione le cui tavole erano state incise, compreso il frontespizio, (su disegno dell’Amico, come per la prima edizione) da un luminare nel suo campo, qual era Jacque Callot?

La comparazione tra lo stesso soggetto nella tavola a corredo della prima edizione (a sinistra) e in quella inserita nella seconda (a destra) lo mostra inequivocabilmente.

L’attribuzione al Callot delle tavole della seconda edizione avanzata dal Nicodemi [le incisioni della prima, come si legge nel frontespizio, erano state di Antonio Tempesti 1555-1630)], forse solo in base a motivazioni stilistiche peraltro non espresse, trova un indizio nella dedica dell’edizione al granduca di Toscana Cosimo II (la prima era stata dedicata al re Filippo III), ritratto nella stampa di seguito riprodotta (l’incisore è proprio il Callot)

Ma un indizio non è una prova e non lo sarebbe stato nemmeno se tale ritratto fosse stato inserito nel libro. Fortunatamente è successo il contrario, cioè sono state inserite come tavole proprio le stampe tratte dai rami del Callot.

Di seguito riproduco la stampa del Callot relativa al soggetto già presentato, per completarne l’esame comparativo.

bernardino amico

Estendendo la comparazione alle altre tavole (molte di loro ben più complesse di quella esaminata) è facile giungere alla conclusione, riprendendo la similitudine iniziale: come in una canzone forse (e ribadiamo forse) più importante è la musica rispetto alle parole, nella stampa del passato l’incisore era, anche qui forse, più importante rispetto al disegnatore, specialmente quando quest’ultimo era un fuoriclasse. Basta vedere come il Callot ha reso il disegno dell’Amico rispetto al Tempesti della prima edizione.

Il fatto che il Tempesti prima e il Callot poi ritennero i disegni dell’Amico degni di incisione significa, comunque, dal momento che i due non avevano certo bisogno di una commissione in più o in meno per sbarcare il lunario, che il gallipolino era un bravo disegnatore; e questo fa sorgere il presumibile rimpianto per qualche disegno relativo a Gallipoli o al Salento, che mai vide la luce o che, almeno fino ad ora, risulta perduto per sempre.

Un’ultima osservazione: il lettore avrà notato il Bernardino d’Amico dell’immagine di testa contro il Bernardino Amico dei due frontespizi. Diremmo che Bernardino Amico è più attendibile, non solo perché replicato nella formula finale della dedica pressoché identica per le due edizioni (Humilissimo, et devotiss. Servitore Fr. Bernardino Amico da Gallipoli per la prima e Humilissimo, e devotissimo servitore Fra Bernardino Amico da Gallipoli Min. Osservante per la seconda), ma soprattutto perché sicuramente anteriore di due secoli, nonostante nel testo curato dal Martuscelli la biografia di Bernardino rechi la firma di Gianbatista de Tomasi di Gallipoli4, dunque, un conterraneo per il quale, almeno teoricamente, sarebbe stato più facile fare indagini di ogni tipo, compreso l’anagrafico.

Una soluzione di compromesso tra le due grafie (il che non solo non risolve il problema ma, addirittura, lo complica) pare adottata nella dedica della stampa di seguito riprodotta.

Nel cortile del palazzo reale con un pubblico composto da signori e popolani, sfila a sinistra la processione del SS. Sacramento, accompagnata dalla regina Anna d’ Austria e dal giovane re Luigi XIV suo figlio. Arazzi addobbano l’altare maggiore e il palazzo è sovrastato da un’enorme corona sorretta da angeli.

Ciò che a noi interessa, però, è la didascalia che è una dedica:  A MONSEIG.r TUBEUF CONS.ER DU ROY EN SES CONSEILS INTENDANT DE SES FINANCES PRESIDENT EN LA CHAMBRE DES COMPTES, SUVRINTENDANT DE LA MAISON DE LA REYNE, BARON DE VERT./Monsegneur: L’amour che vous ave pour le choses illustres féstant joint a la devotion  tres-particuliere que vous portez au S.t Sacrement pour luy faire  dresser des autels, dont la structure, et les enrichissemens soient/aussi extraordinaires comme ces deux qualites vous font particulieres; iay pris l’asseurance de vous presenter le desing du dernier, pour vous faire connoistre combien je tien a honneur quil vous ait pleu de men donner la conduite, en laquelle puis que iay/eu le bonheur de meriter vostre approbation, jespere aussi. Moinsegneur que vous me permettrés d’en donner ce temoignage au public, et de me dire a jamais. Moinseg. Vostre treshumble, et tres obeissant serviteur B. D. Amico. (AL SIGNOR TUBEUF CONSIGLIERE DEL RE NELLE SUE DECISIONI, INTENDENTE DELLE SUE FINANZE, PRESIDENTE NELLA CAMERA DEI CONTI, SOVRINTENDENTE DELLA CASA DELLA REGINA, BARONE DI VERT. Signore, l’amore che voi avete per le cose illustri unitamente alla devozione particolarissima che voi portate al Santissimo Sacramento per fargli ergere altari la cui struttura e le cui decorazioni sarebbero così straordinari come queste due qualità vi fanno particolare; io ho preso l’ardire di presentarvi confidenzialmente il disegno, per farvi conoscere come io tenga in onore il fatto che  vi è piaciuto di donarmi la condotta nella quale, dopo aver avuto la felicità  di meritare la vostra approvazione, spero anche, signore, che voi mi permettiate di donarvi questa testimonianza e di dichiararmi in eterno, signore, vostro umilissimo e devotissimo servitore. B. D. Amico).

Ecco il dettaglio del nome del dedicatario

 

e di quello che si legge nel margine in basso a sinistra.

S(tefano) Della Bella f(ecit). Il fecit (=fece) fa supporre che il Della Bella sia stato tanto il disegnatore (nelle stampe antiche  con d., abbreviazione di delineavit=disegnò) quanto l’incisore (nelle stampe antiche con  s., abbreviazione di sculpsit=incise) e che B. D. Amico sia stato un semplice committente.

Stefano Della Bella (1610-1664) fu un incisore fiorentino di grande prestigio, successivo di una generazione al francese Jacques  Callot (1592-1635). La cronologia non impedisce di ritenere che il B. D. Amico della stampa sia proprio il nostro,  tanto più che il Della Bella fu alla corte dei Medici; ci si chiede, però, che tipo di rapporti ci fossero tra il nostro (se si tratta del dedicante della stampa) e Jacques Tubeuf (1606-1660), un dignitario (e che dignitario!) della corte francese, tenendo soprattutto conto del fatto che le dediche, di un libro come di una stampa, avevano una funzione di ringraziamento per un beneficio ricevuto, come nel caso di questa stampa, oppure quella, condizionante, che equivaleva  ad una richiesta di sponsorizzazione; oggi, per lo più, invece …). Di seguito, giacché ci siamo, il ritratto del Tubeuf, incisione di Nicolas Poilly (1627-1696).

Il fatto che la parte finale della dedica dell’incisione donata al Tubeuf (Vostre treshumble, et tres obeissant serviteur B. D. Amico) sembra essere la letterale, anche se parziale, traduzione in francese delle due, più o meno identiche, che abbiamo già visto per le due edizioni del libro (Humilissimo, et devotiss. Servitore Fr. Bernardino Amico da Gallipoli e Humilissimo, e devotissimo servitore Fra Bernardino Amico da Gallipoli Min. Osservante) è dovuto unicamente alla stereotipicità della formula? Non poteva il nostro, se di lui si tratta, aggiungere anche alla dedica della stampa il “titolo” insieme col luogo d’origine, dati che, invece, compaiono in quelle del libro, nonostante mai ci è capitato finora d’incontrare tale dettaglio nella dedica delle stampe antiche? Del tutto casuale, poi, il nesso che pure esiste tra il tema della stampa (processione del SS. Sacramento) e il fatto che il gallipolino dal 1596 al 1601 a Gerusalemme espletò l’incarico come presidente in rappresentanza dell’ordine in quella terra? E, infine, le desing (il disegno) che si legge nella dedica vuole rivendicare e sottolineare una paternità ben distinta da quella dell’incisore? Lo scioglimento di questi dubbi non sarebbe cosa di poco conto, perché la stampa, qualora B. D. Amico corrispondesse a Bernardino Amico, ci consentirebbe di affermare che il nostro, del quale si ignorano le date di nascita e di morte, era vivo almeno al 1643, data in cui Luigi XIV salì al trono a meno di cinque anni d’età.

Estratto da: Marcello Gaballo e Armando Polito, Bernardino Amico da Gallipoli. Il trattato delle Piante & Immagini de Sacri Edifizi di Terra Santa (1629), Fondazione Terra d’Otranto, Nardò, aprile 2016 (il volume contiene anche la copia anastatica integrale di un esemplare dell’edizione del 1620, molto rara, custodita nella Biblioteca diocesana “Antonio Sanfelice” di Nardò).

  

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1 Memorie degli scrittori del Regno di Napoli, Stamperia Simoniana, Napoli, 1782, tomo I, pp.  296-297

2 Leonardo Nicodemi (morto nel 1699), nelle Aggiunte alla Biblioteca napoletana di Nicolò Toppi, Bulifon, Napoli, 1678, p. 50.

3 Non conosciamo altre edizioni immediatamente successive. Segnaliamo, però,  un’ edizione in inglese dal titolo Plans of the Sacred Edifices of the Holy Land uscita nel 1953 per i tipi dello Studio Biblico Francescano e per gli stessi tipi, con integrazioni, nel 1997 e L’eglise de la Matarea en 1597, estratto dal libro dell’Amico (seconda edizione, pp. 18-20) ed inserito nella traduzione dall’italiano di Carla Burri e Nadine Sauneron con note di Serge Sauneron in Voyages en Egypte des années 1597-1601, Institut Français d’Archéologie Orientale du Caire, 1974.

4 È da considerare suo l’errore di Minimi per Minori già segnalato nella didascalia dell’immagine di testa, non solo perché compare anche nel testo della biografia ma anche nella citazione dell’opera di Lucas Wadding, il cui titolo da Scriptores Ordinis Minorum è diventato Scriptores Ordinis Minimorum.

 

 

 

Scarufànde ‘sti scarciòppule alla sciutèa … (Divoriamoci questi carciofi alla giudea …)

di Armando Polito

Lascio all’amico Massimo Vaglio il compito di proporci qualche variante sfiziosa di questo piatto prima che la stagione dell’ortaggio finisca e che l’esperimento debba essere rimandato al prossimo anno. Io, insieme, forse, a pochi altri, se Massimo si sbriga, potrò togliermi lo sfizio potendo fruire dei carciofi che la mia ventina di piante potranno ancora fornirmi essendo di una razza autoctona (scura, che più scura non si può) tardiva, quest’anno più tardiva che mai.

In attesa della sicura  soddisfazione delle esigenze di carattere culinario, non rimane che da dire qualcosa sulle curiosità filologiche che il nesso dialettale del titolo mi auguro abbia suscitato in più di un lettore.

Scarufànde è forma sincopata da scarufàmunde, composto da scarufamu e da ‘nde che è ciò che rimane del latino inde=di lì (dallo stesso avverbio latino è derivato, con un dimagrimento di gran lunga più spinto, l’italiano ne). Scarufamu è prima persona plurale dell’imperativo presente di scarufare (col significato di mangiare avidamente) che per me è costituito da s– intensivo e da un inusitato *carufare che, sempre secondo me,  ha l’equivalente italiano (con epentesi di –a-) in grufare che, insieme con la forma intensiva grufolare designa l’atto del maiale o del cinghiale che raspa il terreno col muso cercando cibo e grugnendo. Grufare, poi, è dal latino tardo grypus=nasone, a sua volta dal greco γρυπός=aquilino (detto di naso). Trafila: grufare>*sgrufare>sgarufare (epentesi di –a– come in cancarena<cancrena). Qualcuno mi dirà che la traslazione concettuale dalla bestia all’uomo è poco elegante, ma tant’è.

Debbo aggiungere che la mia proposta etimologica non trova nessun conforto nel Rohlfs che non ne offre alcuna e un accordo solo parziale (l’s- intensivo) con quella avanzata in rete (http://www.dialettosalentino.it/scarufare.html) da Giuseppe Presicce  (omonimo di mio cognato, informazione di servizio per chi ci conosce …) che fa derivare carufare dal verbo greco ἐκροφέω  (ekrofèo): sorbire, inghiottire (il prefisso ek- ha valore intensivo, indicando la completezza dell’azione). Come si spiega, però, in un prefisso-preposizione la metatesi  ek->ke che sta alla base della trafila *ekrofare>*ekrufare>*kerufare>*skerufare>scarufare? Solo fornendo almeno un’altra ricorrenza del fenomeno, che non lasci adito a discussioni.

L’accordo è parziale pure con Antonio Garrisi che nel suo vocabolario (in rete: http://www.antoniogarrisiopere.it/31_000_DizioLecceItali_FrameSet.html) considera il termine  intensico di rufare; in questo caso bisognerebbe dimostrare l’esistenza (anche qui con con l’esibizione di almeno un’altra voce incuicompaia, indiscutibilmente, tale fenomeno) di un presunto prefisso rafforzativo sca-. Debbo dire, per completezza, che il greco ροφέω (leggi rofeo) ha dato sì vita ad una voce del nostro dialetto, ma essa non è non scarufare, bensì rrufare (aspirare e inghiottire il muco nasale; altra immagine sublime ma, pure questa volta, tant’è).

E siamo a scarciòppule, plurale di scarciòppula che è formato dal prefisso intensivo (con fimalità di pura espressività fonetica) s– già visto nella voce precedente e da *carciòppula, diminutivo di *carcioppa corrispondente, con cambio di genere, all’italiano carciofo che, com’è noto, è dall’arabo kharshūf. Quanto a *carciòppula va precisato che l’originario valore diminutivo è andato via via scemando fino a scomparire, così come in italiano per spìgola (da spiga), còstola (da costa), dònnola (da donna), etc. etc.

Chiudo con alla sciutèa dicendo che dalla rete apprendo (e, questa volta, per mancanza di tempo, accolgo, contrariamente al mio solito, con beneficio d’inventario) che  il nesso si riferisce al fatto che questo piatto  fu importato in Italia dalla comunità ebraica di Roma; e pure in rete chi non l’ha mai provato potrà trovare la ricetta tradizionale.

A Massimo con simpatia e stima lascio, come ho detto all’inizio, l’onere di onorare il suo nome e anche il cognome …

Presenza scolopica a Manduria (1688-1817)

sigillo degli Scolopi
sigillo degli Scolopi

 

di Nicola Morrone

 

LE FONTI

Le principali fasi dello sviluppo storico della comunità scolopica di Manduria devono ancora essere delineate con chiarezza. Ciò potrà avvenire solo attraverso la consultazione delle fonti archivistiche, ad integrazione dei dati provenienti dalla letteratura specifica, già ampiamente noti agli studiosi.

Le fonti d’archivio relative alla casa scolopica manduriana sono collocate fondamentalmente a Roma (A.G.O.S.) e ad Oria (A.V.O.). Ci è stato finora possibile procedere esclusivamente ad un sondaggio dei documenti conservati nell’Archivio Vescovile di Oria; ci ripromettiamo di integrare le nostre note, in un successivo contributo, con i dati provenienti dalle carte romane, peraltro già compulsate in buona parte da altri studiosi.

La documentazione dell’A.V.O. riguardante la casa scolopica di Manduria è collocata nella busta n.75, che contiene documenti dal 1681 al 1831. Essa copre , di fatto, tutto l’arco cronologico in cui è racchiusa la vicenda della fondazione manduriana. I documenti sono di varia natura: si tratta principalmente di permute, enfiteusi, vendite, censi, cause. Il faldone si compone in totale di 32 cartelle. Il materiale conservato nell’A.V.O., oltre ad offrire un ragguaglio sulla vicenda fondativa, ci permette soprattutto di fare luce su alcuni aspetti della gestione patrimoniale del convento manduriano.

Purtroppo, la documentazione non risulta nel complesso particolarmente utile a ricostruire fenomeni essenziali della vita della comunità , quali l’attività religiosa, educativa ed assistenziale. E’ auspicabile che , in tal senso, alcune importanti indicazioni possano venire da uno spoglio dei documenti romani.

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LA VICENDA FONDATIVA

Sulla base dei più recenti studi (Tanturri, Gaudiuso) e con il conforto di alcuni inediti documenti d’archivio, siamo oggi in grado di stabilire con maggiore certezza l’epoca della fondazione del collegio scolopico di Manduria, e di precisare al contempo le reali motivazioni che portarono all’istituzione di questa periferica “casa” di Terra d’Otranto.

A Manduria gli Scolopi giungono nell’ultimo ventennio del sec. XVII: quali le ragioni e le modalità di tale scelta insediativa? I riferimenti principali per la ricostruzione della vicenda provengono dalla storiografia, locale ed accademica, non meno che dall’evidenza documentaria. A. Tanturri , in un monumentale saggio [ cfr.“Gli Scolopi nel Mezzogiorno d’Italia in età moderna”, in “Archivum Scholarum Piarum”, 50 (2001)] ha modo di soffermarsi nel dettaglio proprio sulle circostanze della fondazione della casa scolopica manduriana.

Lo studioso inquadra la vicenda nell’ambito delle logiche insediative generali dell’Ordine, evidenziando le resistenze del locale clero regolare rispetto a ciò che stava per configurarsi. Le linee generali della vicenda, confermate dai documenti e segnalate piuttosto rapidamente anche dagli storici municipali, si possono così riassumere:

  1. Il sacerdote manduriano Giacomo Antonio Carrozzo, dopo una serie di colloqui con il provinciale di Napoli Tommaso Simone, decide di donare tutti i sui beni all’Ordine degli Scolopi, con la condizione per quest’ultimo di aprire un collegio di istruzione. I beni donati dal Carrozzo ammontano, tra mobili e stabili, a 10000 ducati. Il sito scelto per l’abitazione dei Padri è “il meglio della terra”, e non manca di un ampio giardino”abondante di acque perfettissime”.
  2. La trattativa è agevole. Unico ostacolo all’istituzione della nuova casa scolopica è l’opposizione del clero regolare manduriano, costituito da Cappuccini, Serviti, Domenicani e Agostiniani. Gli ordini adducono a motivo della loro opposizione la forte concentrazione urbana dei conventi e la povertà del luogo, che dunque non sarebbe stato capace di ospitare una nuova presenza regolare.
  3. Il Vescovo di Oria Mons. Cuzzolino e la Marchesa Brigida Grimaldi Imperiale mostrano un atteggiamento favorevole nei confronti dell’operazione avviata dal Carrozzo. Anche grazie al sostegno di questi ultimi, l’opposizione dei regolari manduriani viene superata.
  4. Il 12 Novembre 1681, il notaio G. B. Nasuti roga in Manduria l’atto formale di donazione. Il Carrozzo dona all’Ordine degli Scolopi i sui averi, finalizzati all’apertura della nuova casa, della chiesa e del collegio, con la clausola che, qualora i Padri non fossero riusciti a concretizzare l’operazione, i beni sarebbero andati a beneficio del Capitolo manduriano.
  5. La predetta clausola dà avvio ad un contenzioso tra gli Scolopi e il Capitolo, che ritiene di essere titolare degli averi del Carrozzo. La causa dura 5 anni.La spuntano gli Scolopi,che finalmente, nel 1688, nominano il primo rettore (Dionisio Cesario) ed avviano l’attività scolastica.

L’evidenza documentaria fornisce altre interessanti notizie circa le motivazioni che inducono il sacerdote G. A. Carrozzo a fondare la nuova casa scolopica. L’atto di Notar Nasuti, da noi recentemente rintracciato, illustra la vicenda con esemplare chiarezza:

[…] come sono più anni che esso Don Giacomo Antonio [Carrozzo] have deliberato nella sua mente di veder fondato in questa terra di Casalnuovo un monastero di dette Scole Pie, riflettendo sempre, che dalla virtù depende la maggior cognizione di Dio,e che però, quando detto Monastero fusse in detta terra li cittadini haverebbero commodità d’imparar virtù a maggior honor di Dio benedetto e della sua Santissima Madre Maria, siendo l’Instituzione di detti Padri insegnar li figlioli prima nella vita cristiana, e secondariamente nell’humanità, dal che anche ne nasce l’utilità dell’anima, per tanto ha deliberato donare a detti Reverendissimi Padri irrevocabiliter inter vivos tutto il suo havere di stabili, casamenti, vigne, oliveti, e tutto il mobile, bestiame di qualsivoglia sorte che si trovarà dopo la sua morte, come anche tutti li crediti, che si trovaranno dopo la detta sua morte, attioni, raggioni e successioni , con l’infrascritti patti, conditioni e vincoli che si metteranno più a basso, quali s’intendono posti tanto nel principio, quanto nel mezzo, e fine della presente donatione , di modo tale che si habbino per sustanziali di essa […]

Don Giacomo Antonio Carrozzo, dunque, resta il motore di tutta l’operazione, che, come sottolineato da A. Tanturri, ha caratteri piuttosto insoliti: nella maggior parte dei casi, infatti, le fondazioni scolopiche prendevano avvio dall’iniziativa (e dal sostegno finanziario) di vari soggetti, solitamente membri della nobiltà, o, più raramente, dal vescovo e dall’Università. Ciò produceva alcuni inconvenienti: le trattative con molteplici soggetti, o con l’Università, si presentavano certamente più laboriose rispetto a quelle con un solo interlocutore. E, come si è visto, il caso di Manduria rientra in questa seconda tipologia. Qui, gli Scolopi avevano a che fare “con un prete solo, che non sa replicare a quel che vogliamo noi”.In definitiva, le maggiori difficoltà che i Piaristi incontrarono nell’istituire la nuova casa sono da ricondurre all’atteggiamento del locale Capitolo e all’iniziale opposizione dei regolari. La controversia con il Capitolo, generata dalle infondate pretese di quest’ultimo e durata un lustro, è documentata dagli atti collocati in un corposo fascicolo dell’A.V.O. D’altro canto, l’opposizione del clero regolare manduriano ad un’eventuale ingresso degli Scolopi in città, di cui rimane traccia documentaria,era palesemente “interessata”. L’atteggiamento dei regolari locali rappresentò sempre una delle incognite principali delle trattative per la nascita di una nuova casa piarista: l’episodio di Manduria lo documenta in modo esemplare. Fatta salva infatti l’esistenza delle condizioni basilari per la creazione di una nuova casa scolopica,indicate dal fondatore dell’Ordine, per concludere positivamente l’operazione-fondazione occorrevano il consenso dell’ordinario diocesano e quello dei superiori dei conventi di regolari eventualmente presenti. Ciò fino al 1731, quando una bolla di Clemente XII esentò i Piaristi da quest’ultimo vincolo. L’opposizione dei regolari ad una nuova fondazione scolopica si fondava soprattutto sul timore di perdere le elemosine, le donazioni e i contributi finanziari provenienti dai lasciti testamentari. Vi erano talora anche motivazioni che esulavano dall’ambito strettamente economico: i Domenicani e i Gesuiti, in particolare, temevano la concorrenza degli Scolopi sul versante dell’istruzione e della pratica educativa, da effettuare a vantaggio dei ceti sociali più poveri. Si prenda, a titolo di esempio, il caso di Lecce: gli Scolopi non poterono insediarvisi proprio a causa della tenace opposizione dei Gesuiti. Tornando alla fondazione manduriana, s’è detto che i regolari (Cappuccini, Serviti, Domenicani e Agostiniani), fatta eccezione per i Riformati, in origine si espressero negativamente rispetto alla nuova fondazione piarista. Ciò è testimoniato da un interessante documento del 1682, ratificato dell’università, che evidenzia come l’eventuale fondazione di un nuovo convento avrebbe ulteriormente appesantito la già eccessiva concentrazione urbana dei fabbricati monastici. Si trattava, evidentemente, di una osservazione pretestuosa: le preoccupazioni dei regolari , come sottolineato in precedenza, dovevano essere di ben altra natura.In seguito,comunque, le frizioni si smorzarono, anche per l’intervento dell’ordinario, come testimoniato dalla residua documentazione.

stemma dei Carrozzo
stemma dei Carrozzo

 

L’ATTIVITA’ EDUCATIVA

Il carisma fondamentale degli Scolopi fu, fin dalla istituzione dell’Ordine, quello dell’insegnamento. Per usare l’espressione di A. Tanturri, esso rappresentò il quarto ”voto” espresso dai Piaristi, oltre ai tre tradizionali (castità, povertà, obbedienza) comuni a tutti i religiosi. L’ordine calasanziano si inserì a pieno titolo nell’ambito dell’attività educativa, fino ad allora prerogativa dei Gesuiti, e, in misura minore, dei Barnabiti e dei Somaschi. Nel Mezzogiorno, in particolare, gli Scolopi si mostrarono in grado di fornire una risposta qualificata alle richieste di istruzione che la società nel suo complesso esprimeva da tempo, con le specificità ed i limiti tipici del contesto meridionale.I collegi meridionali strutturarono per tempo la loro offerta didattica, sulla base delle indicazioni fornite dal fondatore, San Giuseppe Calasanzio, nella sua Breve relatione del 1604-1605, anche se, come sottolineano gli studiosi,lo schema teorico dell’insegnamento fu qui applicato in maniera semplificata, fatta eccezione per l’importante collegio napoletano della Duchesca.Nel merito, la didattica scolopica si presentava, per l’epoca, con caratteri innovativi, per almeno tre ragioni:poiché estendeva la sua influenza educativa al di là dell’aula;perché aveva una chiara proiezione verso il futuro dell’educando, preoccupandosi delle sue possibilità di inserirsi nel mondo del lavoro; perché, istruendo i figli delle classi più povere,provocava di fatto una trasformazione della realtà sociale, favorendo la crescita di una società più democratica. I doveri dei Padri Scolopi in fatto di didattica erano d’altronde stati fissati dal pontefice stesso, Papa Paolo V, che nella Bolla Ad ea per quae (1617) ratificò le indicazioni fornite in materia dallo stesso Calasanzio.Il fondatore aveva raccomandato di insegnare ai fanciulli “gratis, senza alcuno stipendio, mercede, salario o onorario,i primi rudimenti di Grammatica, Calcolo, e soprattutto i principi della Fede Cattolica , fondandoli nei buoni costumi ed educandoli cristianamente”. Questa pedagogia, evidentemente innovatrice, incontrò largo favore presso le popolazioni; l’assistenza scolastica liberava dall’ignoranza le classi povere, e il Collegio scolopico diveniva potente elemento di progresso all’interno del tessuto cittadino. Anche la casa scolopica manduriana dovette predisporre per tempo l’attività didattica.Sulla base della rarissima documentazione disponibile presso l’AVO, siamo in grado di affermare con certezza che anche a Manduria si insegnarono Grammatica e Retorica, e che, verosimilmente , risultarono attivi sempre due soli docenti.L’insegnamento della Retorica ebbe comunque una certa fortuna, cosicchè a Manduria si fondò uno studentato finalizzato all’apprendimento di questa particolare disciplina.Le fonti locali sono piuttosto avare di dati relativi al funzionamento della scuola manduriana.E’certo che al 1779, vale a dire nel periodo del massimo sviluppo, la comunità annoverava 16 membri (6 sacerdoti, 4 chierici professi, 5 laici professi, 1 terziario); i docenti, come detto , erano due.Nel collegio manduriano si formò, tra gli altri, una gloria dell’ordine scolopico, Serafino Gatti (1771-1834).

Entrato nello studentato all’età di 15 anni, fu presto trasferito nel collegio di Campi Salentina, per effettuarvi il noviziato.Ventenne,fu inviato a completare gli studi nel collegio di Napoli, dove seguì i corsi di eloquenza, scienze filosofiche e matematiche.Dopo l’ordinazione sacerdotale, il Padre Gatti fu trasferito nel collegio beneventano, ad insegnarvi teologia, filosofia e matematica, e fu in seguito in Francavilla Fontana, città in cui lasciò un buon ricordo di sé.Seguì un’esperienza foggiana, e, poi, la definitiva consacrazione a rettore del collegio napoletano; qui, si distinse soprattutto per le innovazioni apportate alla didattica, e per le sue indiscutibili doti di oratore. Tra le sue molteplici pubblicazioni a stampa si ricordano saggi riguardanti la psicologia, la teologia, il calcolo, la geometria, oltre che i vari saggi di eloquenza redatti per le occasioni più varie.

 

LA SOPPRESSIONE

Dopo più di un secolo di attività,il collegio scolopico manduriano, al pari di tante altre realtà consimili, fu soppresso nel 1817 in seguito all’emanazione delle leggi murattiane, che abolivano tutti gli ordini religiosi possidenti.

Una petizione del Decurionato cittadino ottenne dal Re il ripristino della casa manduriana, che continuò ad essere attiva sul piano religioso, educativo ed assistenziale per buona parte dell’800. Ancora nel 1824, infatti, gli Scolopi gestivano due scuole, di Umanità e di Retorica, frequentate rispettivamente da 8 e 20 alunni. I calasanziani dovettero poi abbandonare definitivamente Manduria dopo l’Unità d’Italia, in conseguenza delle leggi soppressive emanate dallo stato sabaudo.

E’ opportuno che oggi si rinnovi il ricordo della loro presenza , che, caratterizzata soprattutto da un’ intensa attività didattica, ha costituito un indiscutibile momento di crescita per tutta la comunità.

 

[Si ringrazia Don Daniele Conte, Direttore dell’Archivio Vescovile Oritano, per aver concesso la consultazione e la riproduzione dei documenti]

Nostalgie salentine: li chiamavamo curumusciuli

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di Rocco Boccadamo

Dopo le impreviste e non propriamente piacevoli traversie famigliari marzoline, nei giorni scorsi, al fine di cercare di rinfrancarmi lo spirito su lunghezze d’onda, diciamo così, più leggere, mi sono determinato a fare su e giù da Marittima, precisamente dalla mia Pasturizza e dalla Marina ‘u tinente.

Da solo, con l’ausilio di zappetta, forbice e decespugliatore, oppure in supporto a un paio di compaesani contadini/giardinieri, ho così dato un’aggiustatina alle aiuole della villetta, in vista del rituale rinnovo delle piante da fiori, e ai terrazzamenti scoscesi della citata Marina ‘u tinente, situati nei pressi della scogliera demaniale e popolati da centoquattro giovani ulivi.

Ma, grazie all’eccezionalità vegetativa del corrente periodo stagionale, ho specialmente avuto agio di vivere un’autentica immersione nella rigogliosa coperta di verde, fiorito e non, che, adesso, arriva a sormontare gli affioramenti rocciosi: pressappoco, una sorta di variopinto scendiletto rispetto alla distesa d’onde, a portata di mano, del tratto di costa segnante il connubio tra Adriatico e Ionio.

Immersione, abbinata a uno stato di silente apnea, fra stupore e stordimento per via delle astanti, prodigiose e meravigliose, manifestazioni della natura.

In siffatto clima visivo e, insieme, di suggestione interiore, senza accorgermene, ho compiuto con la mente un viaggio a ritroso verso i sentieri dell’infanzia e della fanciullezza, quando le campagne e le marine, in aprile, di per sé, si presentavano sostanzialmente come oggigiorno, mentre, parallelamente e in senso metaforico, correvano ben altre levate e declinazioni della luna; in altre parole, restando con i piedi per terra, in giro si respirava un’aria completamente differente.

Ad ogni modo, è stato come rivedermi scolaro o agli inizi delle medie, intento alle frequenti scampagnate nelle marine, in genere la domenica o durante i pomeriggi feriali, in un’atmosfera mite e colorata dal sole già quasi caldo.

Quant’era diverso, a quei tempi, il porsi e il comportamento del ragazzo di ieri, come pure, ovviamente, degli amici che lo accompagnavano, nei confronti degli elementi naturali! Si badi, a disposizione di dette creature, in termini di svaghi e giochi preconfezionati, non esisteva quasi niente e, per ciò, era normale che dovessero aguzzare il cervello sino a escogitare di loro iniziativa qualche moto, o azione, piacevole, avvincente, dilettevole e, magari, pure utile.

Sia come sia, alle marine, si passavano parentesi in allegria, giocando con naturalezza e semplicità: o cercando qua e là piccole e leggerissime palline rosse di bauxite (uddhrìe),   oppure tentando di sorprendere nell’erba innocenti grilletti, per quindi «catturarli» e divertirsi assistendo ai loro improvvisi e un tantino goffi saltelli. Inoltre, poiché, all’epoca non c’erano, nemmeno nella fantasia, biscottini o caramelle o gomme da masticare, si era soliti andare alla ricerca di piante di curumusciuli e dopo di che piluccarne i piccoli baccelli, poi mangiati a volo senza dischiuderli.

Ma cosa sono i curumusciuli, oggi, invero, quasi scomparsi? Danno l’idea dei piselli freschi, però di più ridotte dimensioni. In botanica (da Wikipedia), trattasi del ginestrino (Lotus corniculatus), una pianta appartenente alla famiglia delle Fabacee (o Leguminose). È comune dappertutto nei luoghi erbosi ed è buona foraggera.

È un’erba perenne a fusto pieno e ricurvo alla base, alta da 10 a 30 cm. Le foglie, composte, sono divise in tre foglioline romboidali. I fiori, gialli, sono riuniti in ombrellette di 2-6 elementi (maggio-agosto). I legumi, sottili e cilindrici, sono di colorito brunastro.

E se, fra un’attività e l’altra, veniva sete, manco l’ombra, va da sé, della bottiglietta d’acqua minerale che oggi si porta in borsa o in mano o in tasca e, tuttavia, il problema era risolto brillantemente, anzi di più.

Le basse rocce affioranti dai terrazzamenti recavano, così è anche tuttora, diffuse buchette di varie dimensioni, in dialetto conche, che, in determinati periodi raccoglievano e conservavano residui delle piogge.

Bastava attingere con il palmo della mano a tali provvidenziali contenitori e, quindi, portare direttamente in bocca il dissetante liquido.

Quell’acqua caduta dall’alto e ritenuta pura e sicura (siamo a sogni lontanissimi), aveva il pregio non solamente di riuscire a eliminare la sete e l’arsura in gola, ma anche d’emanare un singolare miracolo a livello degli occhi, della mente e degli stimoli interiori.

Noi piccoli, socchiudendo le palpebre, registravamo per incanto come delle visioni, immaginavamo segni d’antiche civiltà, sul mare vicino ci pareva di scorgere la sequenza dei legni capitanati dall’eroe troiano Enea che, com’è noto, a conclusione della sua fuga da Ilio distrutta, si suppone possa essere sbarcato e approdato in Italia giusto sulla costa orientale del Sud Salento.

O le galee degli ottomani che, a più riprese, nel quindicesimo e sedicesimo secolo, hanno attaccato e saccheggiato le nostre terre, con distruzioni ed eccidi, in primis il sacrificio degli ottocento martiri otrantini recentemente proclamati santi.

O, su orizzonti più prossimi, le nostre anziane nonne e/o compaesane in genere, le quali si dedicavano alla “cura” e alla produzione, di contrabbando, del sale marino, mediante frequenti integrazioni, con otri d’acqua piovana e dolce raccolta nelle cisterne, del liquido salato presente nelle conche sulla scogliera demaniale.

Non c’è che dire, in conclusione, talvolta può rivelarsi benefico, rilassante e appagante, a me personalmente accade, lasciarsi avvolgere in un ideale canovaccio fra le esperienze e i ricordi di ieri e la realtà del presente.

A proposito dei libri del conte di Ugento Angilberto del Balzo

di Luciano Antonazzo

Alcune considerazioni su un sonetto del quale il prof. Polito ha scritto in due suoi articoli, postati su questo sito nel gennaio 2014, col titolo “Su alcuni libri del primo duca di Nardò e una misteriosa poesia ”:

Su alcuni libri del primo duca di Nardò e una misteriosa poesia (1/2)

Su alcuni libri del primo duca di Nardò e una misteriosa poesia (2/2)

Tale poesia, come egli ci riferisce, si trova scritta su una pagina bianca dei Trionfi del Petrarca, libro posseduto da Angilberto del Balzo, conte di Ugento e primo duca di Nardò, e custodito assieme ad altri appartenuti allo stesso del Balzo, nella Bibiloteca Nazionale di Parigi. Tali volumi, assieme ad altre carte, compreso un inventario, riferiscono gli studiosi che furono confiscati dagli Aragonesi al conte dopo la sua condanna per la partecipazione alla congiura dei baroni del 1484 -6.

Il suo testo originale, con a fianco la trascrizione del professore (mutuati dal suo post) è il seguente:

duca

Egli ne fa una colta disamina concludendo che è pressoché impossibile risalire al suo autore ed al contesto in cui venne scritta. Alla nota 12 della seconda parte avanza anche l’ipotesi che la poesia, qualora per alcuni versi facesse rimando al Tasso (1544 – 95) potrebbe essere stata scritta qualche decennio dopo la morte del duca, ed è questo passaggio che mi ha portato a riflettere ed a cercare di risalire a chi potrebbe esserne stato l’autore ed al motivo che lo portò a scriverla.

Per quanto sia obiettivamente ardua l’impresa provo senza preunzione a sciogliere il dilemma, comiciando col dire che a mio avviso la sesta parola del primo verso della terza strofa, anziché firmi, come ritiene il professore, debba leggersi fiumi, così come imineo del penultimo verso non stia ad indicare il canto nuziale, ma corrisponda al nome proprio del dio delle nozze, Imeneo.

Per venire al possibile autore ho congetturato che il manoscritto potesse esser passato per le mani del poeta Antonino Lenio che visse alla corte del conte di Ugento Francesco del Balzo e del quale ho parlato in un articolo postato in questa sede nel settembre del 2015 dal titolo “Un’intrigante ipotesi sul poeta Antonino Lenio alla corte del conte di Ugento

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/09/29/unintrigante-ipotesi-sul-poeta-antonino-lenio-alla-corte-del-duca-di-ugento/.

Mi rendo conto che l’ipotesi avanzata è anacronistica in quanto la biblioteca di Angilberto del Balzo (almeno in parte), stando a quanto asseriscono gli studiosi, risulta essere stata portata in Francia verso il 1495, mentre il Lenio risulta essere giunto alla corte di Ugento attorno ai primi anni del ‘500; tuttavia ritengo valga la pena prospettarla.

Come ho già detto nella precedente occasione, il poeta per allietare le giornate della sua padrona, Antonia del Balzo, figlia del conte e della sua prima moglie, Brigida Carafa, scrisse un poema epico-cavalleresco, di ben 1.900 ottave, pubblicato a venezia nel 1531 col titolo “ORONTE GIGANTE[1], pubblicato quasi integralmente a cura del compianto Mario Marti con una dottissima esegesi e un chiarissimo commento[2].

Ed è proprio in quest’opera che ho provato a cercare eventuali corrispondenze coi versi della poesia.

Non ho trovato granché ma solo alcuni rimandi, che comunque potrebbero forse avere una valenza probatoria significativa.

Il “primo motore” del primo verso della poesia trova una corrispondenza nel “Gran Motore” che ritroviamo in Oronte III, I, 391 e III, II, 688 (Gran Motor).

La qualifica di “lucido” attribuita ad Apollo nel secondo verso la si rinviene nel lib. I, canto XVI, v. 354 (Apollo lucido e nitente).

Il pronome “Collei”, incipit della terza strofa, lo si ritrova all’inizio del verso 418 del sesto canto del primo libro (“collei per chi mai simil passione”), mentre l’intera strofa ha un’eco nella descrizione di Virginia Carafa, seconda moglie del conte (I,VI, 500-512) e di Antonia del Balzo (vv. 580 -84).

A Nettuno che gli chiede conto del ritardo il fiume Sebeto risponde:

Inclito Sire,

io son tardato, e contra el mio pensiero,

né per mia colpa, anzi de dui bei lumi,

ch’hanno in sé la forza de fermar i fiumi.

 

Sebetide virginea, andando a spasso

Per le mie rive, a canto la marina,

per saper ch’era, fermai alquant’el passo;

ma lei, che gl’occhi verso me declina,

al primo sguardo me conver’in sasso;

ma udendo la parola sua divina,

mirando el fronte e quel eburneo dente,

me versò un’altra volta in rio corrente.

E proseguendo Sebeto aggiunge che si era attardato anche perché sulla riva del mare, “nel lito ogentino” (v. 536) aveva visto passeggiare Antonia che così descrive:

Questè quel bel lume

qual io, signor, per sort’ebbi a vedere

in mezzo de sue ninfe, quale Teti,

ch’al mirar sol,  fa i venti mansüeti”.

Per quanto concerne lo spagnolismo “y” dello stesso nell’intero poema non se ne trova traccia, mentre in tutta l’opera al posto dell’articolo “il” si trova immancabilmente lo spagnolo “el”.

Per quanto attiene invece la parola “ponti” del primo verso della quarta strofa, la stessa potrebbe giustificarsi in quanto fa rima col “monti” del secondo verso della strofa precedente; seppur col significato di “punte” in Oronte (II, II, 167 -178) troviamo “ e fur sì mutue l’amorose ponte / che generaro me su questo monte”.

Infine “imineo” nel poema si rinviene quattro volte: III, IV, 132 – III, V, 250 (Imeneo);

I, II, 236 – I, VI, 373 (Imeno).

Prima di passare all’analisi della poesia occorre precisare che dedicataria del poema Oronte fu la stessa Antonia, che ne fu anche l’ispiratrice. Il poeta in verità come sua musa invoca una metafisica Gesia ma questa non è altro che l’ipostasi di Antonia della quale decanta innumerevoli volte la bellezza e la progenie. Ma quello che qui più interessa è che il poeta in numerosi passi dell’opera, ed in almeno sei dei quarantacinque epigrammi in latino che chiudono il volume, dichiara il suo amore (non corrisposto) per la sua padrona[3].Valga ad esempio l’incipit del quarto epigramma:

O Gesia, perché, sottraendoti, fai disperare il tuo infelice innamorato?”.

Per venire al contesto della poesia, l’astro splendente più di Apollo mandato da Dio sulla terra potrebbe essere identificato in Antonia della quale nel poema (I, III, 25-28) il Lenio dice:

ma che novel sol è quel ch’appare

che gli occhi abbaglia per soperchia luce?

certo Gesia serà, che non ha pare;

altro lume del ciel tanto non luce”.

La seconda parte della prima strofa, in particolare l’espressione “gran disastro di lume”, potrebbe invece alludere alla condizione di Roma e della Chiesa dopo il saccheggio da parte dei Lanzichenecchi (1527)? Quel tragico evento il poeta nell’Oronte (I, VI, 125-28) così descrive:

Portò [Roma] corona et or porta la benda,

come propria cagion del proprio male;

giace ferita de le sue sagette,

talch’a sacco le dier Lanzechenette”.

Aggiungendo (II, IV, 1-8):

De Giov’è il tempio, e non tocco da foco,

quando dà Greci Troia fu brusata,

ché se rispetta ogni sacro loco;

Né fu sì mal, com’ora Roma, trattata,

che violar li tempi è stato un gioco

e li clerici andar per fil de spata,

commetter tutti esorbitanti mali,

tener prigioni e papa e cardinali”.

E concludendo (III, IV, 15-16):

burdell’e beccaria fatto han de Roma,

talché squarciato n’ha el petto e la chioma”.

Passando alla parte finale della poesia ritengo che questa debba intedersi: Ma giusto è che s’adonti [Antonia] –perché quell’ingrato e rigido Imeneo – per sposa a un fauno (la dia) prego Deo.

Mi rendo conto che questa lettura appare un controsenso, ma tale non è perché il fauno è da identificarsi con lo stesso Lenio. Che egli non fosse un Adone ma alquanto sgraziato nella figura lo testimonia un “amabile e sorridente epigramma per lui composto ed a lui dedicato dall’amico Giano Anisio, una sapida puntasecca: «Si quis te aspiciat, Leni, nil torvius, at si / inspiciat nil te lenius putet»”[4].

E deve essere stata questa sua figura sgraziata che, costituendo per lui un ostacolo per convolare a nozze, lo porta a definire Imeneo “ingiusto e rigido”.

E la sua preghiera non è rivolta a Dio, ma a Deo, vale a dire Cerere[5], la cui bellissima figlia Proserpina fu rapita da Plutone per farne la sua sposa; e Plutone, come dio degli inferi, sappiamo che non era certo un modello di bellezza.

Le preghiere del Lenio non furono ascoltate e la bella Antonia, per interessamento di Ferrante Gonzaga, duca di Mantova, andò in sposa ad Ambrogio Branciforte, marchese di Licodia e (dal 1563) Principe di Butera, nel messinese. E forse a questo matrimoni, con conseguente partenza di Antonia per la Sicilia, fa riferimento il XIII epigramma:

Tu te ne parti, e io muoio; né è strano: di questo petto – tu sola sei l’anima, o Gesia, senza la quale il corpo è un cadavere”.

Concludento: se l’ipotizzata identificazione tra l’autore della poesia ed Antonino Lenio trovasse conferma, ne conseguirebbe che la confisca della biblioteca di Angilberto del Balzo ( o di una sua residuale parte) potrebbe essere avvenuta in seguito al “tradimento” del conte Francesco del Balzo che nel 1527 si schierò col Lautrec.

 

[1] Col sottotitolo:“ DE LEXIMIO POETA ANTONINO LENIO SALENTINO continente le Battaglie del Re de Persia et del Re de Scythia fatte per Amor de la figliola del Re di Troia. Capitani de Perse Rinaldo, et de Scythe Orlando cose belle et nove. Con additione de le battaglie per Amor de la Figlia del Re Pancreto in Nabatea. Et certe epigramme Amorose”.

[2] M. Marti, “ Oronte gigante (e Bradamante gelosa di S. Tarentino)”, Ed. Milella, Lecce 1985.

[3] Il poeta, stando alla ricostruzioe del prof. Marti (Oronte …, cit., p. 15) dovrebbe esser nato tra il 1470 ed il 1475, mentre Antonia dovrebbe esser nata poco dopo il matrimonio dei genitori avvenuto verso il 1501.

[4] M. Marti, Oronte …, cit. P. 35. (Trad: Se qualcuno ti guardas esteriormente, o Lenio, niente di più torvo (di terribile aspetto), ma se ti guarda introspettivamente, niente stima più mite (gentile) di te”.

[5] Detta in greco Demetra ma anche “Deo“ dal verbo Dèo (io trovo) in riferimento ai viaggi da lei fatti in cerca della figlia Proserpina.

Il dipinto delle sante Maria Maddalena e Francesca Romana del pittore Donato Antonio D’Orlando

 

di Stefano Tanisi

Donato Antonio d'Orlando

Soggetto: Sante Maria Maddalena e Francesca Romana

Epoca: 1618

Autore: Donato Antonio D’Orlando (1560 ca. – 1636)

Tecnica: olio su tela

Misure: cm. 263,5 x 166

Stato di conservazione: recente restauro

Provenienza: Ugento, Museo Diocesano (già nella chiesa delle Benedettine di Ugento)

Iscrizioni: DONATO ANTONIO D’ORL.DO PICTORE DI NARDÒ 1618/ S. M. MADALENA / S. FRANCESCA ROMANA / scene lato sinistro: Christum adit cum Simone leproso mense acumbentem / Domum reversa aurea catena corpus suum asperrime castigat / Ad concionem cum Marta se confert ubi amore Dei vehementer accenditur / Romam adeunt a S. Petro inteletum cum Matalena vera pr[A]edicaret / Madalena indeserium locum abit ubi sacta vitam extremo die claudit / scene lato destro: Moltiplica il pane in refettorio / Esce odore soavissimo del suo corpo / Spesso dopuo la Comunione era rapita in estasi / Sana un putto del mal caduco / […]

 

La tela, proveniente dalla chiesa delle Benedettine di Ugento, raffigura le due Sante Maria Maddalena e Francesca Romana. È un’opera autografa del pittore Donato Antonio D’Orlando di Nardò, da come si può leggere dalla firma “DONATO ANTONIO D’ORL.DO PICTORE DI NARDÒ 1618”. Datata dunque 1618, allo stato attuale è l’ultima opera che si conosce con certezza del pittore neretino.

Il dipinto, come spesso si riscontra nelle opere del pittore, ha un carattere devozionale e didattico, grazie all’utilizzo di scenette che ritraggono gli episodi salienti della vita delle due sante accompagnate dalle relative didascalie che permettono ai fedeli una più facile lettura della rappresentazione sacra. Come in altre opere, il pittore utilizza delle bordature in foglia oro per delimitare le scene.

In passato la Chiesa latina accomunava nel culto di santa Maria Maddalena tre donne diverse: 1) la peccatrice perdonata a casa di Simone il lebbroso; 2) Maria di Betania, la sorella di Marta e Lazzaro; 3) l’indemoniata Maria Maddalena (da Magdala, città da dove proveniva) liberata da Gesù che diverrà la sua devota discepola. Essa fu tra le donne che assistette alla crocifissione e divenne la testimone diretta della resurrezione di Cristo. Ed è quest’ultima che va correttamente indicata come la nostra santa.

Nel dipinto ugentino la Maddalena è raffigurata a sinistra in ginocchio con le mani congiunte in segno di preghiera; il suo sguardo è diretto verso il cielo. Alle spalle è un vaso di vetro trasparente contenente il profumo con il quale avrebbe dovuto ungere la salma di Cristo la Domenica di Pasqua. Il lato sinistro è ripartito da cinque scenette con gli episodi della vita della santa, accompagnate da sintetiche didascalie in latino stentato, dove troviamo a partire dall’alto: Gesù mentre è a cena a casa di Simone guarito dalla lebbra, la peccatrice s’inginocchia ai suoi piedi (Christum adit cum Simone leproso mense acumbentem); a casa la santa fa penitenza in ginocchio frustandosi il petto con una catena d’oro di fronte a un tavolo dove è poggiato un crocefisso, il vaso dei profumi e il teschio simbolo della vanitas (Domum reversa aurea catena corpus suum asperrime castigat); Maria con la sorella Marta insieme a un gruppo di donne ascoltano la predica di Cristo posto su di un pulpito (Ad concionem cum Marta se confert ubi amore Dei vehementer accenditur); lo sbarco della Maddalena a Marsiglia, anche se la didascalia allude a una predica con san Pietro a Roma (Romam adeunt a S. Petro inteletum cum Matalena vera pr[A]edicaret); la morte della Maddalena e la gloria tra gli angeli (Madalena indeserium locum abit ubi sacta vitam extremo die claudit).

Donato Antonio d'Orlando

La Maddalena ugentina, pur nella rigidità della posa, ricorda la stessa santa raffigurata nella Crocifissione della chiesa matrice di Galatone. Entrambe, anche se dipinte specularmente, si dimostrano simili nella fisionomia del volto, nell’attacco della testa al lungo tozzo collo, nel modo di trattare la fluente capigliatura, nell’anatomia delle mani.

Donato Antonio d'Orlando

Queste due opere si rivelano assai decisive nell’attribuzione al D’Orlando di un noto dipinto raffigurante la Pietà, conservato nella chiesa dei Carmelitani di Nardò, attribuito nel 1964 da Michele D’Elia e Nicola Vacca al pittore Gian Serio Strafella (documentato dal 1546 al 1573) di Copertino: nonostante il recente restauro che ha evidenziato i colori e le forme, nel 2013, nel catalogo della mostra leccese dedicato ai pittori manieristi (Cassiano-Vona, 2013), gli studiosi hanno confermato tale dipinto al pittore copertinese. È chiaro che la qualità pittorica e coloristica dei tre dipinti menzionati è certamente differente (cosa assai palese nella produzione del pittore), ma mettendo a confronto i tre volti della Maddalena sorprendentemente si richiamano tra loro nella configurazione del naso e delle palpebre dell’occhio, particolari fisiognomici – riscontrabili anche in altri dipinti autografi – che sono peculiari della produzione del D’Orlando. Conferma si ha quando si raffronta anche l’anatomia del corpo esanime del Cristo nel compianto di Nardò con quella del Crocifisso di Galatone (confronta anche con il corpo di Cristo della tela della Madonna della Misericordia della chiesa omonima di Nardò o con quello dell’Allegoria del Sangue di Cristo della chiesa di Santa Maria delle Grazie di Seclì).

Simmetricamente a destra troviamo raffigurata, sempre in ginocchio, santa Francesca Romana. La santa, vissuta tra il XIV e il XV secolo, fu sposa, madre, vedova e fondatrice a Roma dell’ordine religioso delle Oblate Benedettine di Monte Oliveto. Ha dedicato la sua vita all’unità della Chiesa, ai poveri, malati e morenti. Nel dipinto ugentino l’oblata è raffigurata nella sua consueta iconografia: vestita con abito nero e lungo velo, mentre nelle mani regge il libro delle regole. È affiancata dall’angelo custode – abbigliato con una vistosa dalmatica rossa e tiene in mano una palma con i datteri – che la difese dal demonio. Anche il lato destro è occupato da cinque scene dei miracoli della santa, con le relative didascalie scritte invece in italiano, dove troviamo: santa Francesca che moltiplica il pane nel refettorio di fronte alle consorelle (Moltiplica il pane in refettorio); la salma della santa distesa su un catafalco, dal cui corpo esce un odore soave, mentre le consorelle assistono sorprese e un monaco gli si è inginocchiato ai piedi (Esce odore soavissimo del suo corpo); la santa raffigurata in ginocchio davanti il tabernacolo mentre è rapita in estati dopo la Comunione (Spesso dopuo la Comunione era rapita in estasi); la santa guarisce dall’epilessia un giovane trattenuto da un anziano (Sana un putto del mal caduco); la santa visita un’ammalata distesa nel letto (didascalia consunta).

Lo sfondo, dalle contrastate tonalità fredde grigio-verde, è occupato in alto dal cielo plumbeo che va gradualmente a rischiarirsi sulle vette delle montagne alle cui pendici compaiono dei piccoli nuclei abitativi.

Il recente restauro ha restituito i colori e i dettagli del dipinto, oscurati da numerose ridipinture e strati di sporco. Nella rimozione delle parti ridipinte è emerso che le labbra delle due sante sono state in passato volutamente sfregiate.

 

Bibliografia:

– D’Elia M. (a cura di), Mostra dell’Arte in Puglia dal tardo antico al rococo, catalogo, Istituto Grafico Tiberino, Roma, 1964, p. 136;

– Vacca 1964 = Vacca N., Nuove ricerche su Gian Serio Strafella da Copertino, in Archivio Storico Pugliese, XVII, 1964, p. 33;

– Corvaglia F., Ugento e il suo territorio, ristampa, Tipografia F. Marra, Ugento, 1987, p. 110;

– Palese S., Monasteri e società in Terra d’Otranto. Le monache benedettine di Ugento, in «Archivio Storico Pugliese», Bari, Società di Storia Patria per la Puglia, a. XXXIII, 1980, pp. 271-272;

– Cazzato M., Sulle vie delle capitali del Barocco, Antonio Donato D’Orlando (XVI-XVII Sec.), Aradeo 1986, p. 22

– Cassiano A., Il Museo Diocesano di Ugento, in Antonazzo L., Guida di Ugento. Storia e arte di una città millenaria, Galatina, Congedo Editore, 2005, p. 90;

– Cassiano A. – Vona F. (a cura di), La Puglia il manierismo e la controriforma, catalogo della mostra, Congedo Editore, Galatina 2013, pp. 56-57, 224-225.

 

(Tratto da: Tanisi S., Scheda 6. Sante Maria Maddalena e Francesca Romana, in S. Cortese (a cura di), La fede e l’arte esposta. Catalogo del Museo Diocesano di Ugento, Domus Dei, Ugento 2015, pp. 51-53)

Fabio Chigi, Facebook e il motore di ricerca, ovvero quando l’ironia rende più simpatiche le persone …

di Armando Polito

Ormai più che di una serie di contributi si potrebbe parlare di una vera e propria telenovela, ma solo in rapporto al numero di puntate, non di documenti esibiti. Perché se ne renda conto al lettore basterà digitare nell’apposita casella di ricerca il nome di colui che non certo in tono benevolo ho definito il vescovo-fantasma di Nardò. Questa volta, però, spunterò una lancia in suo favore ma prima intendo muovere un affettuoso rimprovero a chi mi ha consentito di farlo, il signor Eraldo Bonaria, rimprovero (si fa per dire …) estensibile a tutti coloro che postano il loro commento sul profilo della fondazione (o su quello del suo fondatore) in Facebook e non sul blog stesso della fondazione alla quale, pure, conduce il link facebookiano. E così, in occasione della recentissima uscita del mio post sullo stemma di Fabio Chigi, il signor Eraldo così commentava:  ma anche bravo poeta in latino, come si può vedere in questi ironici e divertenti versi che si riferiscono a vecchi cardinali: Ille una reboans hora quater oscitat; ille/emungit nares et bombis insonat; alter/exerit humentes cerebro, dum sternuit, auras./Alter ventriculum turgentem crudus aperto/eructat labro. Caput ille, pedes dolet iste./Hunc renes vexant, illum stranguria. Siquis/sanus, continua non cessat stertere nocte./Et tamen hic valeo et placidum conclavia somnum/haec mihi conciliant, animo deducta sereno/ut possim subita depromere carmina vena.

Non poteva partire da me una richiesta diversa da quella che gli ho inviato: Esametri, all’epoca, persone del suo rango potevano scriverne, e ne scrivevano. a tonnellate. Siccome, però, m’intriga l’ironia, le sarei grato se volesse trasmettermi il testo completo (e citazione della fonte) o in commento al post sul sito della fondazione o, se preferisce, all’indirizzo polito.armando@libero.it

In attesa di un riscontro mi son messo a cercare il testo ed oggi, essendo trascorso più di un giorno senza che il signor Eraldo si sia fatto vivo, partecipo l’esito della mia ricerca.

Come certamente saprà chi ha dimestichezza con cose di questo tipo, Google (opzione libri)  offre per alcuni testi, quelli più datati e, dunque, non più soggetti al diritto d’autore, una digitalizzazione totale, per quelli più recenti parziale (anteprima) o molto parziale (snippet). Quest’ultima consiste nella digitalizzazione parziale di pochi righi di una o più pagine. Dando in pasto a Google due o tre parole-chiave consecutive sono riuscito ad arrivare a due testi, entrambi in visualizzazione snippet: 1) Humanistica Lovaniensia, volumi 17-19, University Press, Lovanio, 1968.

2) Eranos: acta philologica suecana, v. 91–93, s. n., s. l., 1993.

Sfruttando il motore interno di ricerca a ciascuno dei due con altre parole-chiave sono riuscito a recuperare dal primo due frammenti che mi hanno ragguagliato sulla natura del testo che cercavo:

Una lettera di Fabio Chigi (Alessandro VII) a Ferdinando di Fuestenberg

Fürstenberg. Gli descrive con un umorismo innegabile gli aspetti, diciamo umani, dell’augusto consiglio [il conclave] che di lì a poco avrebbe convogliato sul suo nome un numero sufficiente di voti. Diamo qui il testo di questo pezzo curioso, una copia del quale ci è stata amabilmente fornita dall’archivista.

Da entrambi, poi, sempre con lo stesso sistema, son riuscito a recuperare i vari frammenti  del testo (sono tutti esametri) che presento di seguito dopo il lavoro di ricucitura, con l’aggiunta solita della traduzione.

Ut valeam quaeris; placidum ut conclavia somnum

concilient, paucis, Fernande, his conjice dictis.

Stringimur angusto complures sub lare Patres

cum famulis; sua cuique culina est eadem,

atque eadem aula, teges quam juncea fulcris1.

Unaque praecingit distenta et lanea vestis.

Hic genere et genio, hic annis et corpore discors

Turba sumus, ludens variis concentibus una.

Excreat hic et plenis projicit Ostrea buccis;

Hic raucam siccis tussim pulmonibus urget;

Huic tumidi crepitus emittunt tympana ventris,

ille una reboans hora quater oscitat; ille

emungit nares et bombis insonat; alter

exerit humentes cerebro, dum sternuit, auras.

Alter ventriculum turgentem crudus aperto

eructat labro. Caput ille, pedes dolet iste.

Hunc renes vexant, illum stranguria. Siquis

sanus, continua non cessat stertere nocte.

Et tamen hic valeo et placidum conclavia somnum

haec mihi conciliant, animo deducta sereno

ut possim subita depromere carmina vena.

(Mi chiedi come sto. Come il conclave concili un placido sonno deducilo, Fernando, da queste poche parole. Noi Padri in parecchi ci stringiamo con gli inservienti sotto un unico focolare,  per ciascuno la medesima cucina, in un unico ambiente che una stuoia di giunco arreda. Cinge una sola veste morbida e rigonfia. Qui siamo una turba diversa per razza ed indole, per anni e corpo, che gioca insieme in vari accordi. Uno sputa e getta fuori ostriche dalla bocca piena; un altro tenta di reprimere la roca tosse con i secchi polmoni; a questi il tamburo del ventre rigonfio emette crepiti; quello  rumoreggiando in una sola ora sbadiglia quattro volte; quello si pulisce il naso ed emette ronzii, un altro espelle, mentre starnutisce, aria umida dal cervello. Un altro rozzo erutta dalle labbra aperte lo stomaco rigonfio. Ad uno fa male la testa, ad un altro fanno male i piedi. I reni tormentano uno, la difficoltà di orinare un altro. Se qualcuno è sano non cessa di russare tutta la notte. E tuttavia qui sto bene e questo conclave mi concilia un placido sonno, perchè possa esprimere con ispirazione improvvisa poesie indotte dall’animo sereno).

Certo, non bastano questi ventuno versi per rivedere la mia opinione su questo vescovo-fantasma di Nardò, una sorta di Antonio Mastropasqua ante litteram. Non gli rimprovero, però, gli alti incarichi ricoperti contemporaneamente ma solo il fatto che avrebbe fatto meglio a rinunciare alla carica di vescovo o, quanto meno, vigilare sul comportamento del suo vicario, Giovanni Granafei, in occasione della rivolta neretina del 1647. Non fece né una cosa né l’altra, ma scrisse questi versi che me lo rendono appena appena meno antipatico …

___________

1 Se si conserva fulcris il verso risulta incomprensibile. Credo che si tratti di un errore di trascrizione o di stampa, da emendare con fulcit; la traduzione ha tenuto conto di questo intervento, necessario finché qualcuno non mi dimostra il contrario. A proposito di questo verso va pure detto che la pubblicazione del 1968  reca la lezione visibile nell’ultima riga del dettaglio, vale a dire un esametro mostruoso, che toglie il fiato nel leggerlo e il senno nel tentare di scandirlo …

 

Dall’arte di Efesto ai giorni nostri: intervista a Daniele Dell’Angelo Custode

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di Gianluca Fedele

Mi capita di rado di chiacchierare con artisti scultori perché la scultura è un’attività complessa ma soprattutto impegnativa. A mio avviso Daniele Dell’Angelo Custode si colloca egregiamente nel panorama degli artisti locali affermando il proprio estro tramite il metallo, l’acciaio per essere più precisi. Attraverso esso ha intrapreso da tempo un percorso di ricerca materica e personale dopo una lunga, soddisfacente e ininterrotta carriera da artigiano.

Le singolari opere, apprezzate ormai da un pubblico internazionale variegato, beneficiano di un’attenzione sempre crescente perché Daniele è soprattutto un instancabile promotore delle sue idee che ha la capacità di coinvolgere, nelle proprie attività e mostre, esperti e critici che sanno leggere con competenza l’arte e descriverla ancor meglio.

Per la realizzazione di questa intervista mi ha naturalmente invitato nel suo laboratorio che è anche atelier a Nardò (LE),una struttura dalle forme moderne sita in via Galatone, e ci ha tenuto a farmi visitare le stanze nelle quali maneggia, forgia e culla la materia oppure, come ama ripetere, dove “matura un’opera d’arte”.

Artista all'opera
Artista all’opera

 

D.:

Devo dire che sono affascinato e colpito da quello che vedo in questo laboratorio e dagli odori che rimandano ad arti antichissime; da quanto tempo hai a che fare con la lavorazione dei metalli?

R.:

Posso definirmi a giusta ragione figlio d’arte in quanto sono cresciuto, sin da bambino, nel laboratorio di mio padre, Mimino, il quale prima di me lavorava egregiamente il ferro. Inoltre lui fu tra i primi a introdurre qui da noi la lavorazione dei serramenti in alluminio e presso la sua officina hanno appreso le loro conoscenze tecniche e pratiche moltissimi giovani che ora sono affermati professionisti del settore.

Io già a una decina d’anni facevo conoscenza con gli arnesi da lavoro di papà costruendo piccoli giocattoli e modellini di automobili o aeroplanini.

Successivamente, dopo gli studi svolti presso l’Istituto Statale d’Arte di Nardò, l’ho affiancato aggiungendo alla sua esperienza l’innovazione di una lavorazione più moderna e tecnologica. Possiamo dire perciò che mi sono formato respirando tutte quelle essenze che si rilasciano durante la manipolazione dei metalli e quindi credo di aver sviluppato particolari sensibilità nei loro confronti, non solo tattili.

Antiche sonorità (part)
Antiche sonorità (part)

 

D.:

Oltre a tuo padre, quali sono le persone che ti hanno instradato verso questa carriera?

R.:

Lungo questo percorso ci sono state due o tre persone che mi hanno sostenuto più di altre. Sicuramente potrei citare il professore Oronzo Troso di Copertino, Nicola Nenna di Lecce e ultimamente anche Paolo Marzano; tre amici ai quali devo molto di quello che so e che mi hanno fatto comprendere l’importanza del bello, della precisione, della semplicità, dell’essenziale. Perché, come diceva Mies van der Rohe, “Less is more”.

 

D.:

E tra gli artisti locali, qualche personaggio al quale ti senti più vicino?

R.:

Ho letto nella tua recente intervista al caro Antonio Calabrese parole molto affettuose e di stima nei miei riguardi e non vorrei che questo ora apparisse come uno scambio di cortesie: apprezzo realmente l’arte onirica di Calabrese e il modo col quale rappresenta il mondo tramite quei suoi personaggi fiabeschi.

Credo che la forza di un artista si riconosca, oltre che dall’originalità del proprio linguaggio, anche da come riesce a rimanere produttivo e versatile; ecco, Antonio nonostante l’età non si ferma mai ed è sempre pronto a raccogliere nuove sfide, restando sempre attuale, mai scontato.

Sono orgoglioso di averlo come amico e gli auguro una carriera piena di meritati successi.

 

D.:

Com’è avvenuto il passaggio tra la lavorazione artigiana e il bisogno di intervenire artisticamente sul metallo?

R.:

Come si è capito la mia formazione professionale è stata determinante in questo senso, poi è ovvio che una certa sensibilità individuale e le reminiscenze scolastiche mi abbiano indotto a guardare il mio lavoro da un lato meno meccanico e più artistico fino a quando il richiamo verso la sperimentazione ha preso il sopravvento. Inoltre tengo a precisare quanto importante sia stata per me la collaborazione con tecnici, architetti e designer. Beneficiando della loro intraprendenza ho affinato la mia inventiva e messo in discussione le mie capacità attraverso sempre nuove sfide per giungere a forme davvero originali.

 

Da sx verso dx - Percorso (part.), Antiche sonorità, Stilla (part.)
Da sx verso dx – Percorso (part.), Antiche sonorità, Stilla (part.)

 

D.:

Cosa significa per te avere a che fare con una materia così poco docile?

R.:

Capita, a tal proposito, che qualcuno mi definisca fabbro – e ne sono lusingato – ma non è un aggettivo che sento calzarmi perfettamente addosso poiché io non modello la materia a mio piacimento, bensì la stimolo e la assecondo verso i suoi peculiari indirizzi. Quello che faccio nel mio laboratorio è sollecitare il metallo per cercare in esso delle reazioni spontanee; tali reazioni sono le sue risposte e allo stesso tempo le mie opere. Per cui è sempre il ferro che mi indirizza; gli ulteriori miei interventi sono superficiali; essi si limitato al contenimento dell’ossidazione e della ruggine al fine di preservarne al meglio la conservazione.

Fluorescenze 90 x 130
Fluorescenze 90 x 130

D.:

In che modo concili l’artigianato e l’arte?

R.:

Anche i miei galleristi spesso se lo domandano. È evidente che il mio primo mezzo di sostentamento sia la produzione di complementi d’arredo, scale e serramenti, anche perché tramite questa attività in parte foraggio ciò che ruota attorno alla creazione delle mie sculture. Per cui, ancora una volta, un aspetto è complementare e imprescindibile dall’altro.

 

D.:

Ti immagino nel momento in cui crei, intimamente concentrato sulla materia: che emozioni provoca scolpire l’acciaio e vederlo reagire in maniera sempre differente?

R.:

Innanzitutto diciamo che non parto aggredendo immediatamente le lastre metalliche ma, come per ogni altra forma di scultura, mi avvalgo di schizzi preparatori. Poi, come ho spiegato, una volta a contatto con fuoco, vuoi per via dello spessore disomogeneo o per la temperatura differente, è la materia che mi indica la direzione da seguire e detta le regole imponendosi sui miei progetti iniziali. In quegli attimi io mi debbo velocemente adeguare a quelle che sono le volontà del metallo e con l’esperienza sto cercando di dominare entrambi noi due. Col tempo la mia ambizione più grande è quella di riuscire ad anticiparlo.

Feticcio futurista – particolare

 

D.:

Ho una domanda che non ho mai fatto a nessun altro artista e scelgo te proprio perché le tue sculture sono perlopiù monocromatiche: qual è il tuo colore preferito? 

R.:

Non si può esattamente parlare di monocromia perché su queste superfici ci sono tutte le scale dei grigi e l’arancio per via della ruggine. Tutto ciò che di colorato vedi sulle mie opere non sono altro che ossidi, acidi, terre e agenti atmosferici. E sono esattamente questi i colori che mi piacciono.

 

Foto dalla mostra personale a Galatone (LE)
Foto dalla mostra personale a Galatone (LE)

 

D.:

Che funzione hanno queste opere per te?

R.:

Le opere d’arte, a differenza di un oggetto di design, sono fine a sé stesse e non hanno un valore di utilità ma un valore individuale e intimo.

 

D.:

Ci sono artisti ai quali ti ispiri?

R.:

Devo ammettere che molti grandi maestri gli ho conosciuti solo dopo aver prodotto ed esposto in pubblico le miei prime opere. I fruitori delle mostre mi paragonavano all’albanese Helidon Xhixha o a Pietro Consagra, ma anche ad Alberto Burri per via della tecnica di combustione della materia con la quale io agisco sull’acciaio. In quelle occasioni prendevo ovviamente appunti e dopo di ché c’è stato da parte mia un approfondimento, uno studio personale; inoltre ho incominciato a guardarmi attorno facendo delle ricerche mirate, documentandomi su quelli che sono gli autori contemporanei al fine di rintracciare il mio indirizzo. Oltre che per differenziarmi.

Immagini dalla mostra personale a Londra

D.:

Essendo le tue delle opere dalle raffigurazioni prettamente informali, quale canone cognitivo deve adottare il fruitore per coglierne il significato?

R.:

Secondo me quando ci si pone al cospetto di un’opera d’arte, che sia essa figurativa o meno, quasi mai ci si dovrebbe far sovrastare dalle intenzioni dell’autore ma cercare di instaurare un legame intimo tra ciò che si vede e ciò che si percepisce, lasciandosi coinvolgere dalle emozioni personali più che da quelle indotte dalla volontà dell’artista. L’arte informale, secondo me, enfatizza questo aspetto offrendo al recettore la totale libertà di interpretazione. Il significato quindi delle mie opere non si racchiude in un pensiero univoco ma tutto il contrario; e per rifarmi alla domanda credo che bisogna porsi di fronte all’opera con tutti i sensi, spogliandosi completamente di ogni preconcetto.

Senza voler apparire presuntuoso posso dirti che nessun ospite delle mie mostre è rimasto indifferente o privo di emozioni, confermandomi così quanta poesia ci possa essere all’interno di una lastra di acciaio.

La foresta d'acciaio - trittico
La foresta d’acciaio – trittico

 

D.:

Ti pongo allora una domanda più provocatoria: in un mercato come il nostro, perlopiù amante dei ritratti e dei paesaggi, le tue opere sono anacronistiche o d’avanguardia? 

R.:

Ti dirò che non mi hai sorpreso affatto con questa domanda, me l’aspettavo. Per farti sorridere ti racconterò che inizialmente la gente era titubante e preoccupata quasi di portarsi della “ruggine” in casa propria; ora per fortuna questo modo di pensare sta andando scemando.

Avendo viaggiato un po’ consentimi di affermare che il problema, se così possiamo definirlo, è tutto meridionale. Solo da Roma in giù l’opera d’arte acquistata per arredare il salotto deve essere necessariamente abbinata al divano e alle tende. Inoltre consenti a me di essere provocatorio: a mio modesto parere nel mondo contemporaneo fatto di fotocamere ad altissima definizione, stampanti 3D e pantografi a controllo numerico il ruolo dell’arte figurativa si è defilato precipitosamente. Se c’è qualcosa di anacronistico, quindi, non sono certo le mie sculture.

Lampione durante il restauro
Lampione durante il restauro

 

Lampione dopo il restauro
Lampione dopo il reastauro

 

D.:

Esiste una corrente artistica per inserire il tuo lavoro?

R.:

No. Non credo ci sia un filone che mi rappresenti e inoltre io mi sento in continua evoluzione, sempre alla ricerca di nuove sperimentazioni.

 

D.:

La ricerca nell’arte quanto conta?

 

R.:

Conta tantissimo, due attività quasi indissolubili. La ricerca è anche curiosità ed entusiasmo perciò se non esistesse questa variabile fondamentale tutta la produzione si fossilizzerebbe riducendosi ai soliti stereotipi di canoni estetici ed espressivi classici.

 

D.:

Poco fa accennavi al rapporto coi galleristi e comunque so che hai dei buoni contatti: è importante avere il supporto di una galleria?

 

R.:

Per quella che è la mia personale esperienza le gallerie continuano a rappresentare un importante supporto, soprattutto per emergere a livello internazionale, senza il contributo delle quali sarebbe quasi impossibile. Al contrario di molti colleghi artisti io ho prima cercato un confronto europeo e solo successivamente mi sono confrontato con la piazza locale in cui mi sto pian piano affermando. Per farti un esempio immediato, mentre parliamo le mie opere sono esposte presso il 30 St Mary Axe di Londra, meglio conosciuto come “The Gherkin”, ma ho anche esposto a Dubai, Bruxelles e in molte altre grandi città del mondo.

 

D.:

Le esperienze di confronto che accumuli all’estero tornano utili nella realtà locale?

R.:

Che il confronto con altre culture ci migliori anche dal punto di vista umano è un dato di fatto, e inoltre ci conduce verso una crescita che può sicuramente essere persino collettiva. Non dovremmo mai peccare di quella presunzione che ci fa credere di essere migliori rispetto a tutti – né come artisti né come popolo – e chiuderci nel nostro piccolo guscio. In questo senso abbiamo ancora tanto da imparare.

 

D.:

Mi è parso di scorgere alcuni tuoi lavori artistici nel centro storico di Nardò, me lo confermi?

R.:

Ovviamente non sbagli. Ho realizzato per l’anniversario dei 150 anni della Società Operaia una targa commemorativa e un’altra targa celebrativa mi è stata commissionata dal Comune di Nardò per i cento anni dalla fine della Grande Guerra. Sono piccoli tasselli che si incastrano nella mia storia personale e professionale ed è superfluo aggiungere che mi inorgoglisce non poco sapere di aver posato un mio lavoro in una delle piazze più belle d’Italia, al fianco di grandi scultori come Borgia e Gaballo.

Ruga - 140 x 125
Ruga – 140 x 125

 

D.:

Quali sono attualmente i tuoi progetti più importanti?

R.:

Voglio rivelare ai lettori di Fondazione Terra d’Otranto che ho appena provveduto al restauro di uno dei magnifici lampioni che adornano Piazza Salandra a Nardò, disegnati sul finire degli anni ‘50 dal Sindaco Salvatore De Benedittis e realizzati dal Maestro d’Arte Luigi Cappelli. Per ora col Comune siamo in una fase di preventivo e valutazione ma tuttavia devo ammettere che è stata un’esperienza inebriante che mi ha caricato di nuova energia. Mi auguro di poter dare ancora una volta sfoggio delle mie capacità attraverso questo importante lavoro.

Spazio ex post Nardò - mostra personale
Spazio ex post Nardò – mostra personale

 

D.:

Questa è una notizia che ci riempie di gioia e speriamo di vedere presto quei lampioni risplendere. Per quanto concerne le mostre invece quali sono i prossimi appuntamenti?

R.:

Per fortuna sto attraversando un periodo nel quale continuo a produrre senza sosta e molte opere sono solo in attesa di essere spedite. Sono infatti in fase di definizione alcune date a Matera ma anche in Germania.

 

D.:

Pensi che l’arte possa aiutarci a superare l’attuale momento di crisi?

R.:

Io penso proprio di si! È nei momenti di crisi personale che ho realizzato le opere alle quali tengo di più.

Locandina personale Londra

Lo stemma di Fabio Chigi, vescovo-fantasma di Nardò e poi papa, celebrato in versi

di Armando Polito

A chi volesse saperne di più sulla doppia apposizione che nel titolo accompagna il nome proprio e soddisfare la sua legittima quanto sana curiosità segnalo: 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/02/06/iacopo-pignatelli-1625-1698-di-grottaglie-e-papa-alessandro-vii-gia-vescovo-di-nardo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/03/02/alessandro-vii-un-papa-gia-vescovo-fantasma-di-nardo-e-il-suo-vice/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/03/12/gli-orologi-del-vescovo-e-la-donna-del-mistero/

Ad integrazione aggiungo questa sua immagine (tratta da http://dp.la/item/9a0b75032e5f05f8fc354875a6902f26) perché la didascalia sintetizza eloquentemente l’importanza del personaggio ed in un climax ascendente riporta le cariche da lui ricoperte (nulla, in confronto a quelle collezionate da parecchi politici dei nostri giorni …) ed assumono un significato sarcastico (certamente involontario agli occhi dell’incisore, ma per me molto significativo) le lettere maiuscole che fanno risaltare proprio il titolo più insignificante ai fini del risultato (né poteva essere altrimenti, a meno che il titolare non avesse il dono dell’ubiquità …).

Essa recita:

FABIUS CHISIUS/EPISCOPUS NERITONENSIS SEDIS/Apost(olicae) ad tract(um) Rheni et infer(iorioris) Germa(niae) part(em) Nunci(us) Ord(inarius)/una et ad tracta(ta) Pacis extraordina(rius) mediator

FABIO CHIGI VESCOVO DI NARDÒ Nunzio Ordinario della sede Apostolica  alla riva del Reno  (Colonia) e alla parte della Germania inferiore nonché straordinario mediatore ai trattati di pace

E passo ora al frontespizio dello Speculum imaginum occultae del gesuita tedesco Jacob Masen, uscito per i tipi di Kinch a Colonia nel 1650 e dedicato proprio al vescovo neretino (https://books.google.it/books?id=uNaj1k56G8QC&printsec=frontcover&dq=speculum+imaginum+veritatis&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjP65v_8efLAhVIuRQKHdpAAMMQ6AEILDAC#v=onepage&q=speculum%20imaginum%20veritatis&f=false).

Il volume fa parte di quella produzione che sinteticamente definirei emblematica, che tanto successo ebbe fino alla fine del XVII secolo e della quale in questo blog mi sono occupato a più riprese1. L’immagine presente non ha nulla a che fare con il nostro vescovo, essendo la marca tipografica dell’editore. Sul frontespizio torneremo più avanti, ora è sull’antiporta che fisseremo la nostra attenzione.

Spero che i dettagli più significativi in vista esplosa ne chiariscano sufficientemente la struttura e la lettura.

È giunto (finalmente!) il momento di parlare dello stemma vescovile che campeggia al centro, prima che qualche lettore infastidito pensi che mi sia dimenticato del titolo che io stesso ho dato al post.

Di quello che docrebbe essere il motto ho già detto. Per il resto lo scudo è, naturalmente, quello della famiglia Chigi (inquartato nel I e nel IV d’azzurro alla rovere sradicata d’oro; nel II e nel III di rosso ai monti a sei colli d’oro sormontato da una stella a sei punte dello stesso.

Altrettanto naturalmente il Chigi conserverà lo stesso stemma di base anche quando diventerà papa con il nome di Alessandro VII. L’immagine che segue è tratta da Ferdinando Ughelli, Italia Sacra, Coleti, Venezia, 1717, tomo I, colonna 1058, nella parte dedicata alla serie dei vescovi di Nardò.

È difficile dire se l’Ughelli riportò del nostro lo stemma papale e non quello vescovile per non averne trovato nessun esemplare da riprodurre, oppure, e sembra più plausibile, per il fatto che il Chigi era stato, com’è tuttora,  l’unico vescovo di Nardò diventato papa. Per completezza va detto, però, che non mancano esempi, come lo stemma, di seguito riprodotto, sul monumento opera del Bernini in Piazza  della Minerva a Roma, in cui le stelle sono ad otto e non a sei punte.

Lo Speculum imaginum veritatis occultae ebbe parecchie edizioni, tra le quali la più interessante è senza dubbio quella del 1681 uscita sempre a Colonia, stampata dagli eredi dello stesso tipografio che aveva stampato l’edizione del 1650. L’antiporta si differenzia solo nella parte centrale, dove non compare il nome del Chigi che era morto nel 1667.

Pure il frontespizio presenta la la stessa composizione tipografica del 1650, a parte l’inevitabile cambiamento di qualche dettaglio.

Perché, allora, questa edizione sarebbe interessante? Perché essa contiene un componimento in latino che celebra la figura del Chigi con un occhio incollato allo stemma di famiglia. Segue la riproduzione del testo in questione, cui ho aggiunto, di mio, la trascrizione a fronte e in calce  la traduzione e qualche nota.

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/23/gli-emblemata-di-gregorio-messere-1636-1708-di-torre-s-susanna-13/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/17/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-18/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/02/11/una-nota-su-alberico-longo-di-nardo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/03/14/guardando-unantica-immagine-di-gallipoli/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/11/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-26/

Sputacchina e piano di contrasto alla Xylella

di Valentino Traversa*

 

Pochi giorni fa mi è capitato di vedere, vicino ad un oliveto regolarmente arato, anche una larga fascia di erba gialla su parte di un pendio acclive, effetto di un diserbante ad ampio spettro.

Chiaramente un’applicazione del piano di contrasto alla Xylella, salvo il fatto che tale pedissequa applicazione non teneva conto di altri fattori presenti sull’area: la zona diserbata era infatti un ciglio di scarpata naturale che digradava verso una vora, il punto in cui le acque superficiali entrano nel sottosuolo, tipico di tante zona del Salento.

Infatti, buona parte del Salento ha un regime idrologico del tutto particolare, trattandosi di bacini endoreici, ovvero di aree in cui le acque piovane non sono convogliate verso il mare, bensì, a causa dello sbarramento dovuto alle creste delle Serre salentine, che corrono parallele alla linea di costa [le colline locali], vengono assorbite in fratture carsiche ed inghiottitoi, localmente chiamate “vore”.

Dunque, come prima peculiarità, è chiaro che qualsiasi pesticida applicato in vicinanza delle vore abbia un’altissima probabilità, alle prime piogge, di finire direttamente nel sottosuolo, il ché è equivalente a finire direttamente in falda; nel sottosuolo anche i processi di degradazione di tali composti chimici sono assai rallentati, in assenza di fotolisi e degradazione batterica, per cui è facile presumente un accumulo progressivo degli stessi composti.

Il secondo effetto riguarda invece la biodiversità: queste aree residuali che non possono essere arate, per via della morfologia del terreno, per la sua eccessiva pietrosità o perché aree umide allagate per parte dell’anno, sono uno dei principali punti della biodiversità animale e vegetale nella zona: applicarvi pesticidi di varia natura implica la perdita di un’infinità di specie vegetali ed animali, la cui perdita, oltre ad essere un insulto alla creazione [cit. “Laudato sii”], implica effetti a catena difficilmente prevedibili in anticipo.

Mentre così rimurginavo, pensando a richieste di ordinanze sindacali che, quanto meno, vietassero l’uso di pesticidi in prossimità delle vore, d’un tratto il mio sguardo si è posato su qualcosa che non mi aspettavo, gli essudati del Philaenus spumarius, la “sputacchina”.

La sputacchina, il "nemico" da debellare, in quanto potenziale vettore della Xylella
La sputacchina, il “nemico” da debellare, in quanto potenziale vettore della Xylella

 

La ragione della mia sorpresa era il fatto che, mentre sulla parte rimasta integra della vegetazione intorno alla vora, di sputacchina praticamente non ce n’era [uno sputo ogni tre-quattro metri quadri], nell’oliveto arato una decina di giorni fa, con le terofite, ossia le piante annuali, in ricrescita dopo le piogge primaverili, la sputacchina era particolarmente abbondante, nell’ordine di una trentina di “sputate” per metro quadro, nonostante la vegetazione, dopo l’aratura, fosse assolutamente rada e sporadica, pochi fili d’erba, in pratica.

Come già osservano anche i bambini, in Puglia la sputacchina ha una forte preferenza per il Sonchus – il comune “zangone” o “sivone” a seconda della zona della Puglia, erba molto ricercata per via del suo sapore dolce. A seguire, come preferenza, l’umile Avena selvatica ed alcune basse leguminose, probabilmente vicine al meliloto, come specie.

Al ché subito mi è sovvenuto un ricordo, quello del dott. Carlo Scoccianti, uno dei maggiori esperti nella progettazione di aree umide, che raccontava di come le larve di zanzara, negli stagni naturali, fossero assolutamente assenti, essendo una delle prede favorite di gran parte delle altre specie.

Questa – trasposta al caso della sputacchina – potrebbe essere una spiegazione, ossia che le misure prese per ridurre la presenza della sputacchina possano incidere in modo ancor più pesante sui predatori della sputacchina stessa, portando ad un suo involontario aumento numerico.

La seconda spiegazione potrebbe essere che la sputacchina presenti una preferenza per le piante annue e non troppo lignificate, per cui le frequenti arature potrebbero portare ad una più elevata presenza proprio di questo tipo di piante.

Bisogna dire che non ricordo il nome alcun entomologo, nella “Task Force” coinvolta per definire il piano di contrasto alla Xylella [anzi, a dire il vero non ricordo nessun elenco pubblico di studiosi , coinvolti nella redazione del piano], questo potrebbe essere conseguenza del fatto che ci si concentri sullo studio del batterio e delle reazioni delle piante ospiti, più che cercare di capire l’ecologia del suo vettore, la sputacchina, per l’appunto.

Fatto sta che, per cercare conferme, ho iniziato ad osservare altre aree incolte; la scarsità della sputacchina nelle aree di macchia e bosco mi era già ben nota, ma ho potuto osservare che anche lungo il ciglio delle strade, in presenza di compagini vegetali diversificate, la sputacchina sia effettivamente molto poco diffusa – il numero di specie vegetali è in correlazione il disturbo antropico, più ci sono stati interventi umani, minore è il numero delle specie vegetali e viceversa.

Dal ché ho iniziato a studiare un po’ di letteratura sulla sputacchina: bisogna dire che in ambito internazionale il Philaenus spumarius è stato molto studiato, sia per alcune sue peculiarità genetiche, sia perché, nonostante la scarsa dannosità nei nostri ambienti, in altri ambiti, come in Nord-America e nell’Asia del sud, il suo controllo appare molto difficile – per capire l’ordine di grandezza di infestazione, nei campi di erba medica in nord America si arriva a contare 1280 ninfe/mq, ossia 1280 “sputate” al mq (YURTSEVER 1999).

Tale differenza di densità e dannosità è stata essa stessa oggetto di studio, in particolare nel lavoro di J. B. WHITTAKER – “DENSITY REGULATION IN A POPULATION OF PHILAENUS SPUMARIUS (L.),” del 1973, in cui lo studioso arriva a chiarire che la causa di questa differente densità sia da attribuire alla mancanza, in nord America, di uno specifico parassitoide, il dittero Verrallia aucta (Fallen), che il Whittaker invece asserisce di aver costantemente trovato, come larva, all’interno degli adulti di Philaenus in tutta Europa.

Allo stesso modo, sempre il Whittaker, indica anche l’esistenza di una specie di fungo, Entomophthora aphrophorae, che attacca specificatamente solo il Philaenus spumarius, mentre nel database sulle specie invasive curate dal CABI (Centre for Agriculture and Biosciences International), sono elencati anche altri predatori, tra cui i coleotteri Carabidi.

Ma i parassitoidi come la Verrallia aucta o i predatori come i carabidi, necessitano di una buona biodiversità per esprimere popolamenti vitali [dato che, in assenza del Philaneus, necessitano di altre prede] e sono più sensibili all’effetto dei pesticidi, rispetto alla sputacchina, che presenta un ciclo vitale più rapido.

 

Tutto ciò per dire che al 90% di probabilità, il trattamento, sia con diserbanti che con pesticidi delle aree incolte e delle aree naturali, oltre a porre gravi problemi per la salute umana in prossimità delle vore, ha sicuramente un effetto negativo sul contenimento della sputacchina, diversamente da quanto viene asserito nel piano di controllo della Xylella.

Inoltre, è del tutto discutibile quale possa essere il vantaggio dell’aratura negli oliveti rispetto alla trinciatura delle erbe spontanee, in quanto la prima viene ad incidere più pesantemente sullo spettro floristico degli oliveti, favorendo le piante annue che sono quelle preferite dalle ninfe di sputacchina, nonché provocando la morte di predatori, come i carabidi, che vivono a livello del suolo.

Infine, vista l’esistenza di patogeni fungini specifici, non sarebbe il caso di studiare, in breve tempo, la possibilità di coltura degli stessi, per arrivare ad una lotta biologica della sputacchina, specie-specifica e priva di controindicazioni per l’ambiente e per la salute umana?

Invito tutti, dai tecnici ai ricercatori, alle associazioni per la tutela dell’ambiente, ai semplici cittadini ad osservare la diversa presenza delle ninfe di sputacchina, facilmente identificabili proprio grazie alle secrezioni che le avvolgono, negli oliveti arati ed in quelli non arati, nonché nei bordi delle strade e negli ambienti più o meno naturali – la cosa che ci serve più di ogni altra è avere gli occhi aperti, senza dare nulla per scontato, per renderci conto dell’utilità e dell’impatto delle azioni proposte.

 

* Dottore forestale, Consulente dell’Osservatorio Europeo del Paesaggio, Membro della Commissione Locale per il Paesaggio nei Comuni di Acquarica di Lecce, Copertino, Leverano, Porto Cesareo, Presicce, Taurisano, Ugento, Veglie.

 

Bibliografia:

http://www.cabi.org/isc/datasheet/40235

Selçuk Yurtsever, ” On the Polymorphic Meadow Spittlebug, Philaenus spumarius (L.)”, 1999 http://journals.tubitak.gov.tr/zoology/issues/zoo-00-24-4/zoo-24-4-13-9904-6.pdf

Roland Achtziger, “Conservation of Grassland Leafhoppers: A Brief Review”, 2005, https://www.academia.edu/20676491/Conservation_of_Grassland_Leafhoppers_A_Brief_Review

B. WHITTAKER, “”DENSITY REGULATION IN A POPULATION OF PHILAENUS SPUMARIUS (L.),”, 1973 https://docs.google.com/viewerng/viewer?url=ftxt.eurekamag.com/000/000057024.pdf

La difficile storia della melanzana. Dall’Arabia al Salento

 melanzane-sotto-olio

di Massimo Vaglio

Chi volesse conoscere il parere sulle melanzane del grande Artusi, quasi certamente rimarrebbe deluso, poiché, andando alla ricerca delle ricette sulle melanzane, nel suo La scienza in cucina e l’arte del mangiar bene, all’indice delle ricette non ne troverebbe, né tantomeno in quello analitico delle materie, alla voce erbaggi, come il maestro chiamava gli ortaggi. La cosa, devo dire, mi ha intrigato, e non poco. Fino a quando, rileggendo accuratamente tutta l’opera, mi sono imbattuto nella voce petonciani, che così descrive: “Il petonciano, o melanzana, è un ortaggio da non disprezzare per la ragione che non è né ventoso, né indigesto. Si presta molto bene ai contorni ed anche mangiato solo come piatti d’erbaggi è tutt’altro che sgradevole… Petonciani e finocchi, quarant’anni or sono, si vedevano appena sul mercato di Firenze; vi erano tenuti a vile come cibo da ebrei…”. Da tale descrizione e facendo i dovuti conti si evince come appena un secolo fa la melanzana fosse un ortaggio nuovo, marginale e relegato quasi a livello di curiosità gastronomica, almeno in tutta l’Italia centro-settentrionale. Nel resto d’Italia, ad esclusione della Sicilia dove gli arabi l’avevano diffusa già secoli prima, la situazione non era molto dissimile; fatta eccezione per qualche isola gastronomica, tra cui come vedremo appunto il nostro Salento. Infatti la saporita melanzana non si può dire che abbia avuto vita facile nella storia della cucina.

Già il nome che le è stato affibbiato è tutto un programma: melanzana viene infatti dal latino mala insana, ossia mele malsane, che provocano ogni sorta di mali alla mente ed al corpo.

Ma la storia della melanzana comincia in India, suo paese d’origine, dove anticamente cresceva allo stato selvatico e dove da millenni è coltivata ed apprezzata sia in cucina che come pianta medicinale.

Per moltissimo tempo quindi la melanzana non si è spostata dal suo paese d’origine: furono gli arabi a scoprirla e diffonderla in tutto il Medio Oriente e nelle colonie europee dove presto divenne un ingrediente apprezzatissimo in molte cucine.

Nel resto dell’Occidente la melanzana giunse abbastanza tardi, sembra alla fine del XV secolo e, visto il nome che le venne attribuito, non ebbe certo accoglienza calorosa. Tra i suoi più grandi detrattori ci fu il grande medico arabo Abu Alì el Hosein, meglio noto come Avicenna, che lasciò una grandiosa opera scientifica il Canon in cinque ponderosi volumi, in cui compendia tutte le conoscenze mediche ed i farmaci del tempo.

E proprio in questa opera, a proposito della melanzana, scrive di come essa potesse indurre gravi malattie della pelle e persino attacchi epilettici. Non meno implacabile nel XVI secolo fu il verdetto del grande botanico Fucsio: “Il solo nome deve spaventare coloro che hanno cura della loro salute”.

Con tali biglietti da visita la povera melanzana si vide praticamente vietato l’ingresso in cucina. Il suo uso era relegato in farmacia, per uso esterno in impacchi lenitivi delle infiammazioni cutanee, delle emorroidi, dei foruncoli e delle scottature.

Ma finalmente dopo tanti maltrattamenti ecco giungere un po’ di fortuna anche per la tanto demonizzata melanzana: ad un certo punto, non si sa come, si vide attribuiti grandi poteri afrodisiaci e dove a poco erano valsi la sua bontà e il suo sapore, riuscì la forza dell’amore. La sua fama afrodisiaca si diffuse a tal punto da divenire richiestissima, soprattutto dagli uomini, e il Daléchamp, illustre botanico francese, avallò con grande veemenza tali proprietà. Ed ecco come nel Settecento in Francia, a quelle che erano state fino ad allora chiamate mele insane, viene attribuito il poetico nome di pomi d’amore. Dall’ostracismo al trionfo, perché una volta assaggiata ecco che i grandi cuochi francesi cominciarono a sfiziarsi nelle più ardite preparazioni sperimentali ed è così che nacquero piatti ancora famosi quali le melanzane all’Avignonese e le celebri cotolette alla Provenzale, di cui era ghiotto Alessandro Dumas padre, abile cuoco, raffinato buongustaio e autore tra l’altro del ponderoso Dictionnaire de Cuisine di ben 2000 pagine.

Ma torniamo al Salento.

Già in altre circostanze abbiamo riferito del Salento come isola culturale, con affinità più con la Grecia e la Sicilia che con il resto della Puglia, non si sa se derivanti da percorsi storici paralleli o da influssi diretti con questi popoli.

La predilezione dei salentini per le melanzane non ha paragoni nel resto della Puglia; il Salento è poi la patria della parmigiana Merangianata te Santu Ronzu e preparazioni similari con qualche piccola variante da paese a paese.

Pare quindi che i salentini anche nei periodi più bui, ne abbiano comunemente e largamente fatto uso. Spesso al posto di queste, soprattutto nella preparazione della parmigiana, nel Salento si è utilizzata anche la zucchetta africana (Sechium edule), comunemente localmente ritenuta una varietà spinosa di melanzana, i cui frutti maturano nel tardo autunno e resistono inalterati per tutto l’inverno, e appunto denominata melanzana spinosa. Invero, questo strano ortaggio, non è nemmeno parente della melanzana, non è infatti una Solanacea, bensì appartiene, come le zucche e i cocomeri alla famiglia delle Cucurbitacee.

Specialità salentine. La ricotta e la ricotta forte

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di Massimo Vaglio

Lo storico Girolamo Marciano (1571-1628) nel suo, Descrizioni, origini e successi della Provincia d’Otranto, annovera la ricotta forte: …detta volgarmente uschiante, per il sapore alquanto mordace, che contrae nella confettura, che non si fa in altro luogo d’Italia…. ne riporta con precisione il metodo di preparazione e gli utilizzi gastronomici, e le riconosce persino ampie proprietà terapeutiche: …giova molto allo stomaco, ed è gratissima al gusto, provoca l’appetito, reprime il vomito, e stringe il flusso del ventre, uccide grandemente i vermini, e posta sulle piaghe verminose, ne fa subito cader i vermi, genera sangue e nutrisce molto. La menzioneranno nei loro testi anche V. Corrado (1738- 1836) e G.B. Gagliardo (1758-1826) che nel suo Catechismo Agrario (1793) da anche alcune dritte sull’uso della ricotta fresca e nel modo di ricavarne da questa “la manteca”, ossia il burro di ricotta..

La ricotta è un latticino che si ricava dal siero in seguito alla ricottura dello stesso, da cui il nome. Dalla ricotta, sottoponendola ad una sorta di fermentazione controllata, si ottiene la ricotta forte.

La ricotta può essere prodotta sia con siero proveniente dalla lavorazione dei formaggi ovi-caprini, che dei formaggi vaccini e a pasta filata, addizionando il 5-10 % di latte. Il siero, viene filtrato e riscaldato in caldaie di rame stagnato; la massa, sotto lenta agitazione, realizzata con il “ruotolo”, è portata a 70 °C circa. Si addiziona il latte, si sala, e con successivo riscaldamento si porta alla temperatura di 83-95 °C.

Così avviene l’affioramento dei fiocchi di ricotta che vengono prelevati con la schiumarola, e posti direttamente nelle fiscelle, se indirizzata al consumo fresco, la ricotta, va mantenuta in frigorifero e consumata entro 1-2 giorni.

La ricotta forte, nota pure come ricotta ‘scante, schianta o uschiante, ha consistenza morbida, cremosa e spalmabile, colorazione, generalmente dal bianco candido al giallo ambrato.

Sapore particolarissimo, molto piccante e sapido. Si ricava dalla ricotta che viene lasciata spurgare nelle fiscelle per qualche giorno, quindi trasferita nei tradizionali recipienti in terracotta smaltata dalla forma svasata, “limbi”, salata e diligentemente amalgamata, manualmente o con l’uso di spatole e lasciata riposare coperta con un telo.

L’operazione viene ripetuta con frequenza per 2-3 mesi. Durante queste fasi, il peso iniziale si riduce di circa un terzo. I particolarissimi, sapore e profumo, avvisano il casaro della perfetta maturazione. Viene adoperata come condimento, al posto del comune formaggio come farcitura di focacce e spalmata sul pane, in accoppiamento con sarde o alici, in quello che può essere considerato lo spuntino più tipico del Salento.

Fra le tante ricette che la vedono protagonista, abbiamo scelto la seguente perché, nonostante l’inserimento di un prodotto non proprio soft come la ricotta forte, rimane comunque un piatto sorprendentemente fresco e piacevolissimo.

 

Cocule, ovvero, polpette di patate

Lessate le patate rigorosamente di varietà pasta gialla. Sono particolarmente indicate le Sieglinde: pelatele e schiacciatele, aggiungete uova fresche intere in ragione di tre per ogni chilo di patate, abbondante pecorino piccante, pepe nero, prezzemolo o menta; impastate per bene e, facendo rotolare l’impasto fra le palme delle mani, formate delle polpette piuttosto grandi. Allineatele in un tegame dove avrete già rosolato della cipolla tritata e portato a cottura della passata fresca di pomodoro con qualche foglia di basilico. Con il dito, ricavate un incavo in ogni “cocula”, farcitele con un cucchiaino di ricotta forte e richiudetele.

Per dare al piatto un aspetto più invitante cospargetele ancora con un po’ di pecorino e passatele in forno per farle dorare in superficie. Queste polpette vengono normalmente servite come primo piatto, ma non infrequentemente anche come secondo.

Pasquetta 2016: perché un ritorno al passato non guasterebbe

di Armando Polito

Le immagini in bianco e nero che seguono riproducono altrettante stampe antiche custodite nella Biblioteca Nazionale di Francia, dal cui sito le ho estratte. Esse rappresentano  l’incontro, continuato poi a tavola,  tra Cristo risorto e due discepoli ad Emmaus, poco distante da Gerusalemme  (Luca 24, 13-35). Da esso, secondo un’interpretazione, deriverebbe l’usanza della scampagnata (non per quelli per i quali la campagna coincide con le Seychelles …) che rappresenta il momento cruciale (mai aggettivo fu più indicato …) della Pasquetta.

1)

Jacques Callot (1592-1635), Les disciples d’ Emmaüs (I discepoli di Emmaus)

2)

Rembrandt (1634), Les disciples d’Emmaüs

3)

Rembrandt (1654), Les disciples d’Emmaüs

4)

Les disciples d’Emmaüs (1729), incisione di Claude De Fos (riproduzione di un dipinto di Paolo Veronese) che (l’incisione …) si trovava nella camera da letto del duca di Orleans). Segue l’originale del Veronese custodito nel Museo Boijmans Van Beuningen a Rotterdam.

5)

Les disciples d’Emaus, incisione del 1729 di Simon Thomassins (riproduzione, con inversione orizzontale, di un dipinto di Paolo Veronese), che (sempre l’incisione …) si trovava nella camera da letto del re. Segue l’originale del Veronese custodito nel Museo del Louvre a Parigi.

Il lettore avrà notato il rapporto direttamente proporzionale tra l’avanzamento cronologico e il progressivo passaggio della rappresentazione dalla semplicità dell’episodio biblico alla fastosità degna di una corte o quasi. Ai tre personaggi ed al cane della prima e della seconda stampa si aggiunge nella terza un quarto personaggio da interpretare probabilmente come l’oste. L’arricchimento dell’ambientazione e dei personaggi (già in atto nel Rembrandt del 1654 rispetto a quello di venti anni prima) prosegue nella quarta, dove anche il cane in braccio alla bimba non è quello piuttosto macilento e spelacchiato delle tavole precedenti. Questo crescendo celebra il suo trionfo nell’ultima tavola, nella quale, a parte i bambini diventati, come i cani, tre, una sorta di zoomata all’indietro rispetto alla precedente opera una ripresa, per usare il linguaggio fotografico, grandangolare, in cui la posizione centrale dei tre protagonisti dell’episodio biblico non riesce a prevalere sull’impressione di grandeur (per dirla alla francese, vista la collocazione originale dell’incisione) che emana la vista degli astanti, che hanno un atteggiamento non dissimile da quello di moderni spettatori che, per quanto rispettosi del loro idolo (da notare come l’aureola di Cristo, non a caso, si presenta progressivamente ridotta, in contraddizione con l’aumentato, dopo la resurrezione,  status divino) non vedono l’ora di farsi una foto di gruppo con lui …

Come non pensare, allora, e magari fosse questa  la tappa finale …, all’edonismo più o meno sfrenato, anche oltre le proprie possibilità e, sempre più spesso a danno degli altri (cioé, in ultima analisi, a danno della nostra credibilità di uomini prima ancora che di cristiani), che continua  a caratterizzare ancora oggi tante ricorrenze che, anziché propiziare una riflessione cui far seguire l’azione, fosse solo di protesta, sono solo occasioni per celebrare la nostra vanità che è pari solo alla nostra fatuità.

Certamente sarebbe utopistico, anzi da sognatore scemo, augurarsi un ritorno all’ingenuità, alla sincerità ed all’accorata partecipazione che contraddistinguono ogni nostro sentimento nel momento della sua nascita, se è vero che il tempo cura le ferite nonostante, in alcuni casi,non riesca a guarirle. Paradossalmente dovremmo, forse, dimenticare il meno possibile (il che non significa piangersi addosso) il nostro passato e quello dell’umanità e dare un senso concreto al nostro presente (nonostante da duemila anni Cicerone e il suo historia magistra vitae vengano puntualmente smentiti) e preparare un futuro veramente migliore, che, intendo dire, non sia, in ciò che veramente vale, l’immagine sbiadita  del nostro passato e quella squallida del nostro presente.

In tal senso auguro a tutti una Pasquetta felice, chiedendo scusa per quella che può sembrare una predica fatta, per giunta, da uno che non guarda certamente con simpatia a nessuna religione istituzionalizzata (lì sta l’inghippo …), che tenta di avere come punto di riferimento solo Cristo-uomo e che privilegia, per parecchi, forse, un po’ troppo, la ragione rispetto alla fede, quanto meno nel dubbio che inferno, purgatorio e paradiso siano proprio tra noi,  quaggiù …

La resurrezione di Cristo in sei stampe antiche

di Armando Polito

Le immagini che seguono sono state tratte dal sito della Biblioteca Nazionale di Francia.

Autore ignoto (1450-1460)

Martin Schongauer (XV secolo)

A. Düre (1516)

Autore ignoto (1537)

J. Callot (1622-1629)

J. Callot (dalla prima tavola di Les images des saincts uscito postumo nel 1636)

Lecce: briciole di note, alle soglie della Pasqua

 ACAM02240[1]

 

di Rocco Boccadamo

 

E’, invero, fatuo e irreale, credere o immaginare o sperare che sul proprio capo possano aleggiare, perennemente, cieli azzurri.

Purtroppo, per i corsi della natura, oltre al sereno, talora vengono a susseguirsi anche volte grigie, ammantate di nuvolaglia scura e cupa. E, però, non è il caso di lasciarsi deprimere, bisogna porsi in attesa e avere fiducia nel ritorno del bel tempo.

°   °   °

A livello di cronaca e correlato comune sentire globale, giusto adesso, si stanno vivendo giornate buie, tristi e drammatiche, scandite da vicende che preoccupano pure a distanza.

L’auspicio più ragionevole, se non d’obbligo, è che si arrivi, finalmente, con la buona volontà e, soprattutto, attraverso propositi univoci e disinteressati, a spazzar via nella maniera migliore le schegge impazzite autrici di stragi e distruzioni, o, perlomeno, a isolarle e disarmarle.

°   °   °

Nel recinto del complesso ospedaliero “Vito Fazzi” di Lecce, il più importante del Salento, è in corso d’avanzata edificazione una nuova grandiosa ala, ferve l’attività di un cantiere, vasto, per superficie e volumetria, quasi quanto la struttura edilizia già esistente e operativa. Ieri pomeriggio, recandomi al “Fazzi” per visitare un parente, nell’atto di parcheggiare l’auto nelle apposite aree di sosta esistenti nelle immediate adiacenze del complesso sanitario, ho notato un gruppo d’operai, tali mi sono subito sembrati, intenti a prendere posto all’interno d’un pulmino, verosimilmente per ritornare alle proprie abitazioni dopo la giornata lavorativa.

Uno di loro si tratteneva a fianco del mezzo, quasi ad attendere e aiutare gli altri a montare a bordo. Con lui, mi sono innanzitutto complimentato per la scelta del viaggio in comitiva, un’assoluta atipicità rispetto agli eserciti d’automobilisti che viaggiano sistematicamente da soli.

Poi, gli ho chiesto se fosse di Lecce o di qualche località, al che l’uomo mi ha fatto presente d’essere originario dell’Egitto, di aver raggiunto l’Italia e Lecce tre mesi fa, trovando subito lavoro, al pari dei nove suoi connazionali lì presenti, nel prima richiamato cantiere di ampliamento del “Vito Fazzi”.

°   °   °

La Pasqua di Resurrezione 2016 è praticamente alle porte. Ogni volta, la ricorrenza in questione vivifica, dentro di me, una serie di legami inerenti ad antiche tradizioni, risalenti addirittura ai tempi della mia infanzia, cui non intendo rinunciare. Così che, anche quest’anno, ho puntualmente partecipato, nella parrocchia del mio quartiere, alla Messa della Cena del Signore, durante la quale il parroco pro tempore e l’anziano parroco emerito hanno lavato i piedi a tredici uomini e ragazzi immigrati.

Il celebrante anziano s’è diretto verso la panca su cui sedevano, insieme, i più giovani, i quali, però, con ingenuità o insipienza o semplice naturalezza, erano rimasti con le estremità inferiori calzate di tutto punto. S’ingenerava, quindi, un momento di contenuta ilarità, chiusosi con l’esortazione del religioso, agli apostoli del terzo millennio, a fargli svolgere il suo compito.

Nota coreografica, all’esterno della chiesa in parola, svettano alcune piante d’ulivo e di palma, entrambe, si sa, simboleggianti la pace.

Nella successiva serata di venerdì, preceduta da un crepuscolo di sogno, ho invece preso parte, nel centro storico di Lecce, alla processione di Gesù Cristo morto e della Madonna Addolorata. Un breve ma indicativo percorso, accompagnato da musiche di circostanza, intonate da un complesso bandistico dotato di strumenti a fiato.

Numerosi i fedeli presenti e ancora più nutrite le ali di folla al passaggio dei due simulacri religiosi.

Il rito s’è concluso nella Piazza del Duomo, sfoggiante i suoi preziosi monumenti artistici, fra cui il superbo campanile, proteso verso l’alto nel semibuio notturno.

La luna, dal faccione quasi pieno, sembrava stendere la mano per accarezzarne la cupola.

“La malapianta”, il romanzo di Rina Durante

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di Paolo Vincenti

“La malapianta” è un romanzo di Rina Durante (1928-2004), pubblicato nel 1964 nella collana “Zodiaco” della Rizzoli. La Durante aveva esordito giovanissima con una raccolta di poesie, “Il tempo non trascorre invano” (Misura 1951), ed era stata collaboratrice del periodico letterario “Il Critone”, importante rivista giuridico-culturale, guidata per la parte letteraria da Vittorio Pagano.

La Durante fu segretaria di redazione della rivista dal 1961 fino al 1966. E proprio sulle pagine del “Critone” pubblicò nel 1963 il racconto “Tramontana”, da cui Adriano Barbano trasse il film omonimo del 1965.  Rina Durante, che viveva a Melendugno, si trasferì per motivi di lavoro a Roma e collaborò con Giovanna Marini nell’ambito degli studi demo etno antropologici che divennero poi una costante del suo impegno di intellettuale militante.

Dopo “Da verga a Balestrini. Antologia della condizione meridionale” (Saedi 1975), pubblicò “Tutto il teatro a Malandrino” (Bulzoni 1977), poi “Il sacco di Otranto” (Adda 1977), “Lecce e la sua provincia” (Adda 1981), e soprattutto “Gli amorosi sensi” (Manni 1996), con Prefazione di Maria Corti. “La malapianta” rimane dunque un unicum nella sua lunga carriera ed è ormai un classico della pubblicistica salentina. Oggi questo libro viene ripubblicato da Zane Editrice per le cure di Antonio Lucio Giannone, che ne scrive una puntuale Introduzione.

Un unicum, dicevamo, perché la Durante, autrice versatile,  profuse i suoi interessi su tante e diverse tematiche, tutte comunque accomunate dal fil rosso della sua passione civile e del suo impegno militante. Si occupò di teatro, di musica e tradizioni popolari, riprendendo gli studi di Ernesto De Martino e fondando il “Canzoniere Greganico Salentino”, e collaborò con la Rai tv e con la radio alla produzione di documentari di carattere antropologico. Proprio dal suo “Il sacco di Otranto”, la Rai trasse uno sceneggiato per la radio trasmesso nel 1977. Pubblicò racconti e saggi, su volumi e riviste. Prestigiosa la sua collaborazione con la Guida dell’Espresso e importanti le sue pubblicazioni sulla cultura enogastronomica del nostro territorio; significativa anche la sua lunga collaborazione con la rivista leccese “Qui Salento”. Nel 2005 venne pubblicato, postumo, “L’oro del Salento. Per una storia sociale dell’olio d’oliva in Terra D’Otranto”, a cura di Massimo Melillo (Besa).

“La malapianta”, come spiega A.L. Giannone nell’ Introduzione, è un romanzo che, pur nato in un periodo storico caratterizzato dal punto di vista letterario dalla corrente del neorealismo, se ne distacca in realtà, sebbene i personaggi e gli ambienti descritti portino a pensare a quell’epopea di miserabili e a quelle atmosfere di arretratezza e di emarginazione in cui viveva il Sud in quegli anni. Si tratta invece di un romanzo dalle forti connotazioni psicologiche e il malessere che accomuna tutti i personaggi della storia conferisce al libro una connotazione esistenzialistica. “Solitudine, incomunicabilità, inettitudine, alienazione, aridità interiore, nessuno di essi sembra sfuggire a questo ‘male oscuro’”, scrive Giannone facendo riferimento all’opera di Giuseppe Berto, appunto “Il male oscuro”, coeva a quella della Durante.

Il romanzo narra la storia della famiglia Ardito ed è ambientato a Melendugno negli anni della Seconda guerra mondiale. A proposito della genesi del libro della Durante, apprendiamo che, nella sua prima versione, esso non incontrò il favore di Elio Vittorini, al quale la scrittrice lo propose in lettura. Purtroppo  non si dispone della prima versione, sicché non si può operare un raffronto. Tuttavia appare interessante leggere quanto Vittorini scriveva alla Durante e capire poi come l’autrice abbia fatto tesoro dei consigli del grande scrittore e abbia, non sappiamo se parzialmente o radicalmente, modificato la struttura del libro.

“La malapianta” venne insignito nel 1964  del prestigioso Premio Salento, la cui motivazione è riportata in Appendice insieme ad una bella foto che ritrae la giovanissima autrice mentre riceve le congratulazioni di Maria Bellonci , che della giuria faceva parte insieme a Mario Sansone, Bonaventura Tecchi e Sandro De Feo. Nella presente ripubblicazione compare anche una scheda bio-bibliografica della Durante, curata da Simone Giorgino. Inoltre, nell’Appendice, vengono riproposti uno scritto di Massimo Melillo, “In memoriam”, e uno di Francesco Guadalupi, “Un mondo magico e disperato”. La foto dell’autrice che compare sull’aletta di retrocopertina la ritrae col cappello da marinaio in testa e rimanda all’altra grande passione della Durante, quella per il mare e la navigazione, e su questi aspetti intimi ma non meno importanti della vita privata della scrittrice e critica letteraria si sofferma proprio Melillo nel suo commosso ritratto dell’amica e collaboratrice.

“La malapianta” proiettò la Durante su una ribalta ben più ampia di quella provinciale e segnò la sua affermazione come scrittrice di vaglia e intellettuale attenta alle problematiche del territorio.

Il libro dunque si allontana dagli schemi collaudati del neorealismo per avvicinarsi al romanzo moderno del Novecento. Soprattutto l’analisi psicologica dei personaggi, le problematiche affrontate, della solitudine e dell’incomunicabilità, di una aridità dei sentimenti che si riflette nel paesaggio stesso teatro della narrazione, e poi il linguaggio usato, che,  soprattutto nelle parti descrittive, è abbastanza lirico, sul modello della prosa d’arte novecentesca, come ben chiarito da Giannone; tutti questi elementi insomma, ne fanno un esperimento originale, una scrittura di mezzo, fra la prosa neorealista del dopoguerra e l’avanguardia letteraria della seconda metà del Novecento. Ciò detto, il libro è tutto da leggere, non solo per il suo valore documentario, perché è doveroso conoscere un classico come questo, ma anche perché la fabula è ben congegnata, l’intreccio narrativo avvince e convince.

La divinità, il diavolo e la donna in alcuni proverbi salentini*

di Armando Polito

* Le immagini sono tutte antiche stampe tratte dal sito della Biblioteca Nazionale di Francia (http://gallica.bnf.fr/)

Se tutti i proverbi  hanno in generale una valenza moraleggiante, non fa meraviglia che religiosa sia la cifra di moltissimi tra loro e che parecchi con poche varianti ricorrano in territori sovente molto lontani tra loro, in dialetti diversi, come, in forma consolidata, nella lingua nazionale. Basti pensare ad alcune espressione salentine ed alle corrispondenti italiane di uso comune ogni mmorte ti Papa (ogni morte di Papa) e Ddiu ete e pruete (Dio vede e provvede).

Qui, perciò, passerò in rassegna quelli, relativi ai protagonisti del titolo,  di più pittoresca e spiccata territorialità e che consentono, a differenza del semplice modo di dire, qualche riflessione un po’ più profonda. Per comodità e per conferire al tutto una certa omogeneità espositiva ho collocato in testa ad ogni gruppo una parola chiave, anche quando più di un proverbio coinvolgeva settori diversi.

DIVINITÀ

Ddiu cu tti quarda ti tramuntana e ientu, ti omu e ffemmina ca parlanu lientu

(Che Dio ti guardi da tramontana e vento, da uomo e donna che parlano lentamente).

Condivisibile per la parte climatica, fino ad un certo punto per quella umana: non è detto che chi parla lentamente nasconda intenti truffaldini; basta, a tal proposito, pensare a tanti politici ed ai loro torrenti di parole … Mi sorprende, piuttosto, quell’omu nel generale contesto maschilista che emerge, come si vedrà più avanti, in queste espressioni di saggezza, più o meno presunta …, popolare e che nelle situazioni negative risparmia puntualmente il cosiddetto sesso forte.  

Gesù Cristu, pruiti li pruituti, ca li spruituti sontu ‘bbituati

(Gesù Cristo, provvedi tu ai provveduti perché gli sprovveduti sono abituati)

Più che paradossale il proverbio mi sembra molto pericoloso e tristemente attuale sostituendo alla Provvidenza il sedicente (quando si candida per essere eletto, negli ultimi tempi nemmeno quello …) uomo della Provvidenza di turno che, connivente buona parte del Parlamento, minoranze incluse,  nulla fa per ridurre il rischio di sperperi, intrallazzi ed eliminare privilegi indegni di una democrazia).

Lu Patreternu tae li friseddhe a ccinca no lli rrosica

(Il Padreterno dà le frise a chi non è in grado di rosicchiarle)

Il proverbio ha un duplice significato legato all’importanza della frisa nella nostra tradizione alimentare e nello stesso tempo al fatto che solo chi ha denti sani può mangiarla senza prima averla bagnata per ammorbidirla. Nel primo caso l’allusione è al fatto che spesso la sorte si mostra benevola con chi non è in grado di apprezzare il suo dono; nel secondo, esattamente di segno opposto, alla sorte malevola con chi non è in grado di affrontare la difficoltà).

Signore ti li signuri, quante cose sapisti fare: alli femmine la cunocchia e alli masculi lu margiale1

Signore dei signori, quante cose sapesti fare: alle donne la conocchia, ai maschi il manico della zappa).

Certamente è il detto più obsoleto, femministe permettendo, alle quali contesto solo di aver accettato due fatti, l’uno datato, l’altro più vicino nel tempo, il primo legge dello stato italiano, il secondo non ancora: le quote rosa (che mi ricorda tanto la riserva di posti per i portatori di handicap) e l’utero in affitto (almeno la donna-oggetto lo era integralmente …).

Lu Patreternu prima li face e ppoi li ccocchia

(Il Padreterno prima li crea, poi li accoppia)

Il detto, poco realistico già in tempi in cui i matrimoni erano per lo più combinati, è improntato, secondo me,  ad un fatalismo di origine religiosa in cui il libero arbitrio, che nel matrimonio combinato non era certo prerogativa del diretto interessato, va direttamente a gambe all’aria, senza le tante sottigliezze teologico-filosofiche che nel tempo si sono susseguite e che, scusate la sincerità, a me sembrano atti di masturbazione mentale).

Li fumuli2 li ccocchia lu ientu, li cristiani li ccocchia Ddiu

(I rami di iperico li accoppia il vento, le persone le accoppia Dio).

La prima mugghiere ti la tae Ddiu, la seconda la ggente e la terza lu tiaulu

(La prima moglie te la dà Dio, la seconda la gente, la terza il diavolo)

A differenza del proverbio precedente in cui il concetto di coppia (a differenza di oggi esso era basato esclusivamente sull’eterosessualità) integra quello di donna, in questo, nonostante mugghiere, è grondante il maschilismo, non esistendo analogo proverbio per il mondo femminile. Da notare il climax nascosto nei numeri ordinali, cui corrispondono, nell’ordine, altrettanti valori del matrimonio in rapporto alla loro origine: divina, laica, diabolica. Non mi pare proprio un inno al matrimonio, ma piuttosto un avvertimento per evitare danni dopo le gioie della prima unione (se sono stati dolori bisogna comunque accettarli perché dati da Dio). Insomma, tradotto in latino (saltando il primo matrimonio …): Errare humanum est, perseverare diabolicum.

DIAVOLO

Acqua ti sciugnu pisciu ti tiaulu

(Pioggia di giugno, orina di diavolo)

Non così di aprile: Ale cchiù n’acqua ti bbrile/cca nnu carru cu totte li tire (Vale più una pioggia d’aprile che un carro con redini ed animale da tiro)

Quandu lu tiaulu ti ‘ncarizza ‘ndi ole l’anima

(Quando il diavolo ti accarezza ne vuole l’anima)

Bisogna diffidare dei complimenti perché potrebbero essere non disinteressati.

Le diable amoreux (Il diavolo amoroso), 1840
Le diable amoreux (Il diavolo amoroso), 1840

 

Lu tiaulu ggh’è ssuttile e si ‘mbatte puru intr’allu ‘mbile

(Il diavolo è sottile e s’infila anche nello ‘mbile3

)

La metafora è giocata sul doppio significato, fisico e morale, di sottile.

Le diable dans la marmite (Il diavolo nella pentola), 1904
Le diable dans la marmite (Il diavolo nella pentola), 1904

Lu tiaulu iuta li sua

(Il diavolo aiuta i suoi)

Direi piuttosto scontato, anche perché, al di là del riferimento religioso, è difficile immaginare un cattivo che non agisca a favore di uno come lui.

L'école du diable (La scuola del diavolo), XVIII-XIX secolo
L’école du diable (La scuola del diavolo), XVIII-XIX secolo

 

Lu tiaulu no ttene capre e bbende latte

(Il diavolo non ha capre e vende latte)

Se è per questo oggi pure semplici individui con cervello piuttosto scadente o non allenato millantano fantasmagoriche competenze; purtroppo incontrano sempre qualcuno che sta peggio di loro …

 

Lu tiaulu no ttene pecure e bbende lana

(Il diavolo non ha pecore e vende lana)

Vale quanto detto per il precedente.

Indigestion du diable (Indigestione del diavolo), 1793
Indigestion du diable (Indigestione del diavolo), 1793

 

DONNA

Camascia4 e cannarutaDdiu l’aiuta

(Dio aiuta la donna Indolente e golosa)

Ancora un detto al femminile, ma maschilista e, stranamente rispetto alla morale cristiana, abbastanza dissacrante, in pieno contrasto col destino prefigurato da Dante per accidiosi e golosi.

La femmina ‘ndi sape cchiù ti lu tiaulu piccé ggh’è nnata prima

(La donna ne sa più del diavolo perché è nata prima)

Quando potrò visionare i certificati di nascita di Eva e del diavolo vi farò sapere;  per il momento mi limito a dire che il proverbio, anch’esso, tanto per cambiare, maschilista, va ben oltre la visione cristiana della donna-tentatrice fonte diretta del peccato o strumento del demonio; qui lei è la maestra e il demonio lo scolaretto.

Locandina di Madame le diable (La signora diavolo), 1882
Locandina di Madame le diable (La signora diavolo), 1882
Locandina di Le diable au convent (Il diavolo al convento), XIX secolo
Locandina di Le diable au convent (Il diavolo al convento), XIX secolo

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1 Per l’etimo di margiale vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/20/dopo-il-saccufae-e-il-cazzamendule-e-la-volta-del-cacamargiale/.

2 Per il Rohlfs è un diminutivo di fumo perché quando queste erbe sono secche vengono portate via dal vento come il fumo (Vocabolario dei dialetti salentini, v. III, p. 970). L’idea del fumo e del vento, aggiungo io,  si collega anche al fatto che in alcune zone del Salento fùmulu è il tarassaco, alias soffione (basta un soffio per disperdere la sua caratteristica infruttescenza). Per questo motivo e per assoluta congruenza fonetica mi appare più plausibile quest’ipotesi etimologica che Giuseppe Presicce (http://www.dialettosalentino.it/fmulu.html) contesta per parziale incompatibilità semantica proponendo, invece, che il termine  vada messo in relazione con il latino “fomes” (di cui potrebbe rappresentare una forma diminutiva), il cui significato primo è “materia secca atta ad alimentare il fuoco, esca”.

3 Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/15/quella-bizzarra-terracotta-dal-collo-stretto/

4 Forse forma aggettivale dal greco κάματος (leggi càmatos)=spossatezza.

5 Forma aggettivale da canna=gola.

 

Come t’illustro il proverbio

di Armando Polito

 

Il verbo del titolo non è figlio della mia presunzione di insegnare nulla a chicchessia e pure l’intento divulgativo a favore dei non salentini che seguono questo blog tenterà di esplicarsi nella traduzione letterale in italiano e in qualche nota etimologica o di commento. Quell’illustro, dunque, ha il significato di rendere illustre, onorare e chi compie questa meritoria azione ancora una volta non è chi scrive ma chi a suo tempo realizzò le tavole del cui aiuto ho deciso  di servirmi e del cui uso maldestro, improprio o, addirittura, fuorviante mi assumo ogni responsabilità. A tal proposito dico subito che tra i sei proverbi dialettali  messi in campo e il testo in latino (motto iniziale e didascalia) che si legge nelle tavole la corrispondenza in alcuni casi è solo parziale.  Tutte le tavole sono tratte da un testo del quale ho avuto già occasione di parlare piuttosto recentemente in https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/03/14/guardando-unantica-immagine-di-gallipoli/, dove il lettore potrà trovare o, eventualmente,  ritrovare notizie sull’opera e sul genere letterario nel quale si colloca. Qui basterà citare gli estremi bibliografici:  Thesaurus philo-politicus di Daniel Meissner (1585-1625) uscito a Francoforte in più volumi per i tipi di Eberhard Kiersen a partire dal 1623.

Prima di entrare nel vivo intendo ringraziare Roberto Panarese per aver esaudito come meglio non era possibile la preghiera-invito con cui chiudevo il post su Gallipoli appena segnalato , come ognuno che ne abbia interesse può leggere nel relativo suo commento.

 

1) AMORE E TTOSSE , ZZUPPICATURA TI PETE/SCUNDIRE NO SSI PÒ CA SI ‘ETE

(Amore e tosse, zoppicatura di piede non si possono nascondere, perché si vedono)

QUAE OCCULTARI NEQUEUNT (Le cose che non possono essere nascoste)

 

Caelari nequeunt haec quattuor: aestus amoris,/tussis, edax ignis cordivorusque dolor (Non possono essere celate queste quattro cose: il fuoco d’amore, la tosse, il fuoco che consuma e il dolore che divora il cuore).

La didascalia appena esaminata è un distico elegiaco. Di seguito la scansione:

CaelāIrī něquĕIūnt II haec I quāttŭŏr:I aestŭs ăImōrĭs

tūssĭs, ěIdāx īIgnīs II cōrdĭvŏIrūsquĕ dŏIlŏr

 

2) CI BBUSCA1 E DDAE AN PARATISU VAE (Chi guadagna e dà va in Paradiso)

 

QUI DAT PAUPERI FOENERATUR DEO (Chi dà al povero presta a frutto a Dio)

Qui viduas et pupillos solatur egentes,/a Summo hic referet pro parvo praemia lauta (Chi aiuta le vedove e gli orfani bisognosi avrà dal Sommo lauti premi in cambio di poco)

La didascalia questa volta + costituita da due esametri:

Quī vĭdŭIās II ēt I pūpīlIlōs IIIlātŭr ĕIgēntēs

ā SūmImo hīc rĕfĕIrēt II prō I pārvō I praemĭă I laută

 

3) QUIDDHU CA PUÈ FFARE OSCE NO LLU FARE CRAI2 (Quello che puoi fare oggi non lo fare domani)

 

CRAS · CRAS · SEMPER CRAS · OMNIS DILABITUR AETAS (Domani, domani, sempre domani. Tutto il tempo scivola via)

CRAS semper clama CRAS sic dilabitur aetas. Fac hodie quod sis facturus, CRAS hodie adstat  (- Domani – dì sempre – domani -.  Così scivolerà via il tempo. Fai oggi quello che hai intenzione di fare, domani è vicino ad oggi)

In questa tavola il motto è un esametro:

Crās crās I sēmpēr I crās II ōmInīs dīIlābĭtŭr I aetăs

e la didascalia un distico elegiaco:

Crās sēmIpēr clāIII crās I sīc dīIlābĭtŭr I aetăs.

Fāc hŏdĭIē quōd I sīs II fācItūrūs, I crās hŏdĭIe ādstăt

 

4) PRIMA PENSA E PPOI PARLA!  (Prima pensa e poi parla!)

NE LINGUA PRAECURRAT MENTEM (La lingua non anticipi la mente)

Ut non praecurrat mentem tua lingua caveto: et primus, quod tu vis tacuisse, sile (Fai attenzione perché la tua lingua non anticipi la mente. E per primo non dire ciò che vorresti aver taciuto)

La didascalia è un distico elegiaco:

Ut nōn I praecūrIrāt  II mēnItēm tŭă I līnguă căIvētŏ:

ēt prīImūs, quōd III vīs tăcŭIīssĕ, sĭI

 

5) A CCI FATIA NNA SARDA, A CCI NO FFATIA UNA E MMENZA (A chi lavora una sarda, a chi non lavora una e mezza)

ALIUS LABORAT, ALIUS MERCEDE FRUITUR (Uno lavora, un altro si gode la ricompensa)

Fucus iners ut dulci apium se nectare nutrit,/absque labore piger sic homo saepe vorat (Come il fuco inetto si nutre del dolce nettare delle api, così pigro lontano dal lavoro l’uomo spesso divora)

La didascalia è un distico elegiaco:

Fūcŭs ĭInērs II ūt I dūlci ăpĭIūm III nēctărĕ I nūtrĭt,

ābsquĕ lăIbōrě pĭIgēr  II sīc hŏmŏ I saepě vŏIrăt

 

E chiudo con la bellezza di due tavole per un solo proverbio; ho detto con la bellezza di due tavole, non in bellezza con due tavole, per evitare che, almeno momentaneamente, il proverbio stesso mi coinvolga …

6) CINCA SI ‘ANTA SULU NO BBALE NNU PASULU3 (Chi si vanta solo non vale un fagiolo)

PROPRIA LAUS SORDET (La lode di se stessi è spregevole)

Plena voce suo cuculus de nomine tantum/cantat sed vana est propria gloriola (A piena voce il cuculo canta solo sul suo nome ma vana è la piccola sua gloria)

La didascalia è un distico elegiaco:

Plēnā I vōcĕ sŭIō  II cŭcŭIlūs dē I nōmĭnĕ I tāntūm

cāntāt I sēd vāna I ēst II prōprĭă I glōrĭŏI

INDIGNUS MAGNOS SAEPE GERIT TITULOS (L’indegno spesso vanta grandi titoli)

Vesperemus4 volitans non re, sed nomine tantum/avis, indignus saepe gerit titulos (Il topo che svolazza di sera [è] un uccello non di fatto ma soltanto di nome. L’indegno spesso vanta titoli)

La didascalia è un distico elegiaco:

Vēspĕrě I mūs vŏlĭItāns II nōn I rē, sēd I nōmĭnĕ I tāntūm

āvīs, I īndīIgnūs II saepĕ gĕIrīt tĭtŭIlōs

 ___________

1 Dallo spagnolo buscar, di origine celtica.

2 Dal latino cras, proprio quello che compare nel testo della tavola.

3 Pasuli nel dialetto neretino non sono solo i fagioli ma metaforicamente anche i testicoli del pollo. Non escluderei che nel proverbio ci sia un riferimento proprio a quest’ultimo significato, poiché non mi pare credibile che la cultura popolare potesse attribuire poco valore proprio al legume che aveva un ruolo fondamentale nella sua alimentazione.

4 Errore di stampa per vespere mus; il topo che svolazza di sera è il pipistrello, nella tavola raffigurato in alto a sinistra.

 

Anch’io ho una foto del cavaliere Antonio Mazzarella …

di Armando Polito

Se mi avessero detto – Ti portiamo al macello – forse mi sarei agitato di meno, ma sono sempre stato e, nonostante le apparenze, sono rimasto un timido, troppo legato alle mie abitudini e piuttosto restio e diffidente nell’affrontare un nuovo rapporto umano, da qualsiasi circostanza esso sia suggerito o imposto. A distanza di tanti decenni mi pare, perciò, strano che appena adolescente non mi sia ribellato, come ero solito fare e ancora faccio, ad una situazione che mio malgrado mi poneva al centro dell’altrui attenzione. Probabilmente nella circostanza fui oggetto di un odioso e tenero ricatto e dovetti seguire forse più o meno docilmente (in realtà chissà quante volte lungo il tragitto sarò scoppiato in lacrime, avrò fermato i miei passi o, addirittura, tentato di tornare indietro …) mia madre  Rosa  e mia zia Maria fino allo studio fotografico dove sarebbe stato immortalato il loro lavoro preparatorio (altra tortura!) sui miei capelli e sulla vestizione adeguata all’evento, nonché il loro orgoglio parentale. Poco poteva importarmi il fatto che a ritrarmi sarebbe stato il più famoso fotografo neretino dell’epoca.

Bisogna riconoscere che come modello non ero proprio da buttar via (magari avessi continuato, fisicamente parlando, su quella strada …), ma è innegabile che l’abilità non solo tecnica del fotografo ha un ruolo determinante in qualsiasi ritratto. L’immagine che segue non vuole essere una manifestazione di nostalgica vanità, ma solo una prova concreta, in linea col mio modo di pensare e di agire, di quanto ho appena affermato. Sarei, però, un ipocrita se non ammettessi che per qualche anno mi hanno fatto piacere i complimenti puntuali fatti al mio indirizzo da chiunque vedesse quella foto, incorniciata e collocata bene in vista da mia madre e mia zia, senza rendermi conto che l’espressione –  Tale e quale! – che di solito concludeva e sintetizzava la visione era dettata soprattutto dal riconoscimento dell’abilità e della sensibilità dell’autore dello scatto. Poi gli anni passarono, passarono pure a miglior vita mia zia prima e mia madre dopo, la foto incorniciata non fu più in vista (sono sicuro che non è stata buttata, però non saprei dire dov’è stata riposta) ma l’altro giorno ne ho ritrovata casualmente una copia passando in rassegna vecchie carte contenute in un altrettanto vecchio cassetto.

A riprova della sua autenticità l’inconfondibile sigla dell’autore.

Ho pensato, allora, di scrivere questo post per riportare alla memoria di coloro che hanno la mia stessa età la figura del cavaliere Mazzarella. Del suo fisico ho un ricordo molto vago ma molto impresso mi rimase all’epoca l’appellativo cavaliere con cui sua moglie in laboratorio si rivolse a lui in occasione dell’esecuzione della foto e poi del suo ritiro (questa volta la curiosità di vedere cosa era venuto fuori vinse la mia ritrosia).

Ancora oggi la semplice pronunzia di un titolo (figurarsi quello di presidente con cui i giornalisti sono soliti rivolgersi a chi presidente non è più da tempo; capisco che dottore, ingegnere, finanche professore  è per sempre, ma presidente lo si è solo pro tempore) mi procura un senso di disagio, ma il trascorrere del tempo mi ha fatto capire che probabilmente quel cavaliere non aveva una valenza esibizionistica di prestigio agli occhi degli altri, aveva piuttosto la stessa valenza affettuosa, oserei dire amabilmente ironica, del professore con cui consento di chiamarmi, e non sempre, solo agli amici più intimi.

Sarebbe bello, nell’epoca di diabolici aggeggi elettronici e di Photoshop, se altri lettori che hanno vissuto la mia stessa esperienza inviassero il loro ritratto eseguito da un figlio di Nardò che meriterebbe di essere ricordato più profondamente, con testimonianze e documenti,  di quanto, per esempio, non sia avvenuto, pur meritoriamente a suo tempo, nel necrologio apparso sul foglio locale La voce di Nardò (http://www.lavocedinardo.it/Voce12006/VOCE12006PDFBW.pdf), da cui ho tratto la foto di testa.

Spigolature semplici e genuine intorno agli iniziali spazi di vita

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I quindici lustri di un narrastorie salentino: spigolature semplici e genuine intorno agli iniziali spazi di vita

 

di Rocco Boccadamo 

Duemila sedici meno mille novecento quarantuno, fanno settantacinque.

A Marittima, Basso Salento, nel rione popolare dell’Ariacorte, erano circa le 3:00 del mattino di una lontana, lontanissima domenica intorno a metà marzo, quando, nella modesta abitazione a piano terra di proprietà dei coniugi Immacolata e Silvio, s’accingeva a venire al mondo il loro secondogenito, ossia a dire s’andavano schiudendo alla vita gli occhi dell’autore delle presenti righe.

A quei tempi, è diffusamente noto, i bambini non nascevano in ospedale oppure in clinica come accade adesso, bensì nella casa dei genitori, sul letto grande, con la puerpera, sorretta assistita ed aiutata dalle mani abili della levatrice e dall’esperienza delle altre donne di famiglia già sposate e mamme.

Nel ruolo di ostetrica condotta comunale si trovava Donna Elvira Vainò, originaria, se ben ricordo, della zona di Galatina, la quale abitava nella frazione capoluogo di Diso insieme con il marito Don Consalvo e, ironia del fato, senza figli. Ella espletava il suo prezioso servizio, con copertura, anche, ovviamente, delle altre frazioni di Marittima e Castro, muovendosi in sella a una bicicletta da donna e portando con sé, appesa al manubrio, una capiente borsa contenente quanto necessario all’atto degl’interventi assistenziali.

Pur essendo, la protagonista del lieto evento che stava per maturare,  una donna mite e soprattutto paziente, i suoi naturali e comprensibili lamenti durante il travaglio arrivavano a raggiungere l’udito dei vicini e di qualche compaesano che si trovava a transitare lì, all’angolo tra la breve via Nizza (così era denominata l’attuale via Piave) e la strada che ancora oggi si diparte in direzione di un vasto comprensorio agricolo, fino alla scogliera demaniale, per sfociare in corrispondenza dell’ amenissima, anzi, in un certo qual modo magica, insenatura “Acquaviva”.

Sì, un comune effetto, in questo caso beneaugurante, delle doglie, percepibile anche all’esterno delle mura domestiche strettamente interessate, che suscitava sentimenti di tenerezza all’indirizzo di una giovane mamma, a distanza di alcuni giorni avrebbe compiuto ventiquattro anni, da tutti conosciuta e stimata, in seno alla minuscola località, per le spiccate doti di semplice e intensa bontà, dolcezza e cordialità.

Ancora oggi, capita spesso, sotto la spinta di reminiscenze ormai così distanti e tuttavia sempre vive, che siffatta spinta emotiva s’ingeneri dentro di me, nel ricordo materno. Pensare, che, dopo averne fatti, in totale, ben sei di figli, la donna se n’è andata esattamente mezzo secolo addietro, col nascituro di quella metà marzo 1941 arrivato, intanto, a venticinque primavere, in sostanza pressappoco alla stessa età della sua mamma intenta, sul lettone di casa, a dischiudere generosamente il proprio grembo per lui.

Due giorni più avanti, il 18 di marzo, alle ore 19:00, la dichiarazione della nascita di Rocco all’anagrafe comunale, resa da Boccadamo Silvio Celestino dinnanzi al Commissario prefettizio Salvatore Miggiani, alla presenza dei testimoni Giuseppe Ciriolo e Saverio Urso.

Oggetto testuale dell’atto: il giorno 16 marzo 1941, alle ore 3:00, nella casa di abitazione in Marittima alla via Nizza numero civico 3, da Minonne Immacolata di anni 23, cittadina italiana, di razza ariana, imballatrice, è nato un bambino di sesso maschile, cui viene dato il nome di Rocco.

Piccola notazione statistica, quell’anno, in soli due mesi e sedici giorni, s’erano registrati cinquantotto lieti eventi: quanta differenza e distanza, che stravolgimento dei costumi sociali, emergono rispetto alle due sole nascite verificatesi nell’eguale corrente scorcio del 2016, pur tenendo conto che il Comune di Diso è attualmente composto da due e non più da tre frazioni!

Immediatamente dopo, ecco il battesimo nella parrocchiale di San Vitale, con me pargolo recato in chiesa in braccio dalla nonna paterna Consiglia e accompagnato da uno stuolo di altri famigliari, tra cui gli zii Donato e Maria, rispettivamente padrino e madrina (da parte dei predetti, fino a quando sono stati in vita, ho sempre ricevuto un occhio di riguardo per essere stato, giustappunto, loro figlioccio, sciuscettu in dialetto salentino).

Cerimonia, officiata dall’anziano arciprete del paese don Francesco N., della famiglia benestante dei Scianni, abitante in un bel palazzotto al largo Campurra, insieme con una nipote, donna Nunziatina, già andata in sposa ma poi rimasta, quasi subito, vedova.

Al battesimo, assisteva anche Nena (diminutivo di Filomena) M., una marittimese della medesima classe anagrafica di mio padre, nubile, conosciuta per il suo mestiere di maestra pasticcera, svolto insieme con la madre Costantina.

Nena, però, anche donna particolarmente pia, di chiesa si diceva una volta, teneva i corsi di catechismo agli scolari e formava a tale compito le giovani, preparava e vestiva le fanciulle e ragazze del paese per la parte di ancileddre (piccoli angeli al femminile), con vestiti bianchi e coroncine sul capo, nel corteo in chiesa, alla mezzanotte di Natale, col Bambinello benedicente presentato dal parroco ai fedeli presenti.

Per via dello stacco generazionale, come pure a causa della mia prolungata assenza da Marittima, conoscenza a parte, non ho avuto molto agio di frequentare l’anzidetta Nena. Però, proprio lei, a distanza più o meno di un quarantennio dall’episodio, mi ha ricordato un minuscolo ma indicativo particolare del mio battesimo, esattamente la seguente breve considerazione uscita in quell’occasione dalla bocca di don Francesco N.:”Che cosa te ne pare, Nena, a me questo bambino sembra “nna rrobba bbona”.

Qualche altro ricordo relativo alla figura del parroco in questione, il quale, in aggiunta al pluridecennale servizio, avrebbe avuto la ventura di trascorrere anche una cospicua vecchiaia, giungendo a sfiorare i cento anni.

Aveva il vezzo di assumere tabacco da fiuto, a furia di piluccare polverina dall’apposita scatoletta e di tirare, le dita delle mani erano divenute giallastre e così s’era fatta pure la cute immediatamente sotto le narici.  Persona, ad ogni modo, assai colta, riverita e rispettata pure per il censo della sua famiglia, egli era intestatario di numerosi fondi agricoli, alla periferia e, in genere, in tutto l’agro del paese, fra cui il terreno denominato Arciana sulla via vecchia per Andrano, caratterizzato dalla presenza di un palummaru (torre colombaia) e, per lo meno nei tempi passati, di numerosi alberi da frutto, in special modo mandorli, oggetto di scorribande serali e notturne per opera di noi ragazzi, che, tuttavia, non mancavamo di riferire a don Francesco di tali furtarelli attraverso la grata del confessionale, così guadagnando la rituale assoluzione, nonché, talvolta qualche benevolo schiaffetto da parte, diciamo, del derubato.

Rammento anche, quale occasione finale di contatto con don Francesco, la mia richiesta di notizie e particolari sul rinvenimento, un po’ di secoli prima, nelle campagne marittimesi, per opera di un suo collega curato, dell’icona della Madonna di Costantinopoli, o Odegitria, custodita sopra l’altare dell’ex Convento dei Cappuccini eretto e dedicato in onore della Vergine.

Ebbero a rivelarsi particolarmente preziose le indicazioni dell’ormai vecchio ma lucido arciprete, al punto da consentirmi di ben figurare, in classe, col mio componimento.

Riprendendo e proseguendo riguardo al mio iter scolastico, mi viene spontaneo annotare che ho avuto la fortuna di frequentare l’intero ciclo delle elementari e inoltre, da privatista, la prima e la seconda media, con un giovane, severo e, soprattutto, bravo e preparato insegnante, Alfredo Q,

Mitica, in seconda elementare, la circostanza del primo tema, da lui assegnato come compito a casa, dal titolo “Chi sono io”, con me, unico scolaro della classe, l’età era di sette/otto anni, arrivato a svolgerlo e per questo gratificato con un bel 10 e lode.

Ancora, s’affaccia nella mente il trambusto, tra pianti e strilli, creato, fra le pareti dell’aula, dal diligente ma discoletto Rocco, all’arrivo a scuola del medico condotto per la vaccinazione antivaiolosa, praticata con una piccola incisione sul braccio.

E, poi, come non ricordare il mio prolungato handicap di non sapermi soffiare correttamente il naso, con l’esito di ritrovarmi spesso col moccio e le conseguenti derisioni dei coetanei in uno ai rimbrotti dei genitori e degli altri famigliari e parenti.

Di fronte al che, sempre il maestro Alfredo a cercare di tirarmi fuori con determinazione e pazienza; chiave di volta, una mattina, nel cortile scoperto dell’edificio scolastico, l’utilizzo di alcuni zolfanelli da lui accesi sotto il mio naso, con la contestuale perentoria intimazione di tener serrata la bocca e provare a spegnere le fiammelle con il fiato emesso dalle narici.

Fino a che il problema, autentico prodigio, non uscì definitivamente risolto.

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Nell’estate immediatamente successiva alla quarta elementare, il maestro Alfredo convolò a nozze con la sua fidanzata Uccia ed io fui scelto, al pari di altri due compagni, per la recita, nel corso del ricevimento serale in casa degli sposi, di una poesia.

Perciò, dritto in piedi sul davanzale d’una finestra, passai a declamare, all’indirizzo della coppia e dei numerosi invitati, una composizione dal titolo “La pianta di glicine”, scelta e imparata a memoria con l’ausilio di comare Meris, prima cugina di mia madre e, all’epoca, laureanda in lettere.

Da lunga pezza, comare Meris non c’è più, ma ricordo il suo faccione sorridente e la sua figura grazie all’episodio anzi richiamato e, anche, alla denominazione “Villa Meris” figurante sulla piastrella posta all’esterno di una bella residenza sul mare, a Castro, a suo tempo costruita dalla parante/preparatrice e attualmente di proprietà di una sua figliola.

Accanto al maestro Alfredo, dunque, per ben sette anni, giacché, in aggiunta al ciclo scolastico delle Elementari, sono stato da lui preparato, da privatista, anche in prima e seconda media, a causa degli ingloriosi esiti di due brevissimi tentativi di farmi seguire detti ultimi corsi e i correlati studi in un convitto, ad Anagni (Fr), facente capo all’Inadel, istituto di assistenza e previdenza per i dipendenti degli enti locali, cui era associato mio padre, impiegato comunale.

A parte gli amministratori, nel Municipio di Diso, prestava servizio, come capo operativo e coordinatore, il segretario comunale don Salvatore Volpe, una bravissima e competente persona originaria di Martignano, contrassegnato, purtroppo per lui, da una statura fisica particolarmente bassa e da un’evidente dermatosi con la conseguenza di una pelle biancastra e irregolare sul volto.

Ma, don Salvatore si distingueva soprattutto per la sua umanità, il suo cuore grande.

Conosceva bene l’intero nostro nucleo famigliare, ancor di più conosceva me, giacché, durante le vacanze estive, al mattino ero costretto da mio padre a recarmi in Comune per aiutarlo nel rilascio di documenti allo sportello e ai fini della compilazione a mano, in contemporanea, sulla coppia degli appositi registri di Stato civile, degli atti di nascita, matrimonio e morte.

Don Salvatore era edotto, quindi, disapprovandole e dispiacendosene, anche delle mie disavventure collegate ai repentini ritorni a casa dal convitto, goffamente motivati con lo spiccato attaccamento alla mamma; analogamente, però, era informato del buon profitto finale nei miei studi.

In occasione della promozione dalla seconda alla terza media, tramite mio padre, mi fece avere un piccolo regalo sotto forma d’una penna a sfera (era da poco uscito tal genere di strumento di scrittura), regalo accompagnato da un biglietto con la seguente frase:” Altro non ho che questo e prendi questo è mi si valga”.

Ora, per allora e più sentitamente di allora, un affettuoso grazie, don Salvatore.

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Tramontata definitivamente l’opzione convitto, frequentai normalmente l’anno finale delle Medie presso la scuola statale “Capece” di Maglie, terza D; degli insegnanti, serbo memoria del docente di lettere Francesco E. e del professore di francese Giuseppe M.

Il primo, giovane magliese, molto preparato pur con l’abitudine, durante le spiegazioni, dell’intercalare “è vero”, “è vero”, “è vero” ad ogni piè sospinto, aveva una bella fidanzata di Spongano, sua collega insegnante di matematica, unitamente alla quale la sera, talvolta se veniva al cinema Excelsior di Marittima.

Intorno alla fine dell’anno scolastico, i due si sposarono. Villeggiando, la fresca coppia, a Castro, i miei genitori, a titolo di piccolo segno d’omaggio e di rispetto, un giorno mi mandarono a portar loro un galletto ruspante, ancora vivo ovviamente, ancorché con le zampe legate a mezzo di una cordicella.

L’altro docente che più ricordo è Giuseppe M., bravissimo insegnante di francese, però segnato da modi di fare e di trattare davvero particolari e unici.

Guai a presentarsi da lui con gli esercizi svolti a casa su un quaderno di piccolo spessore, senza neppure guardare i compiti, lo faceva letteralmente volare verso la parete dell’aula con la frase “cos’è, questo, il quaderno della serva?”, intimando all’alunno reprobo di procurarsene uno più grosso e, se il malcapitato provava a giustificarsi con le risicate risorse finanziarie famigliari, gli urlava “allora, fatti dare un sussidio dal sindaco del tuo paese o dal parroco”.

A Giuseppe Circhetta da Vaste, seduto da solo in un banco nei pressi della cattedra, il quale, approfittando della vicinanza, quando il professore M. portava i compiti corretti, gli chiedeva in anteprima il voto da lui riportato, replicava subito immancabilmente “ti ho messo uno meno, che vuoi di più, pezzo di fesso”.

E, a Oronzo Ruggeri da Giuggianello, il quale raggiungeva, ogni giorno, Maglie con la sua bici, però preferendo, talora, non venire a scuola, bensì andarsene in camporella (nnargiare o salare, in dialetto), Macrì, al suo ritorno in classe dopo l’assenza, chiedeva, accennando un sorrisino “Rugeri (con una sola g alla francese), che hai fatto ieri, sei andato a caccia?”.

Quanto ai rapporti diretti con me, il professor M., durante le interrogazioni e in presenza di qualche incertezza nelle risposte, aveva l’abitudine di tirarmi verso la lavagna e sbattere, sia pure dolcemente ma ripetutamente, la mia fronte sulla dura superficie scura, ripetendo “se non te lo imparo io il francese, non te lo impara nemmeno Domineddio”.

Come inizio, tre lustri di vita, penso di poter dire, tutti all’insegna dell’attivismo e della voglia di conoscere; del resto, pressoché analogamente si sono susseguite le stagioni successive e ancora adesso non mi sento mai completamente pago.

Nondimeno, in conclusione, mi ritengo fortunato: non ho accumulato né tesori, né palazzi, né dovizie e, però, ho avuto il privilegio di portare e accumulare dentro di me un notevole patrimonio immateriale, fatto di persone, conoscenze, esperienze, luoghi.

In cima e primo punto di riferimento e valoriale rispetto ai risultati raggiunti, la mia famiglia, con mia moglie, i tre figli e i cinque cari nipotini.

Per tutto quello che ho cercato, voluto, raggiunto e conseguito, da credente e riconoscente, esprimo un grande grazie a Colui che è posto al di sopra di tutto e di tutti e, naturalmente, ai miei genitori Immacolata e Silvio.

 

Aldo Moro, una tragedia italiana

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di Francesco Greco
 
Un secolo fa, il 23 settembre 1916, nasceva a Maglie (Lecce) lo statista Aldo Moro. Questo è dunque un anno di celebrazioni: incombe il recupero della complessa figura politica, la fervida azione dispiegata a tutto campo, delle sue “visioni” perseguite con tenacia tutta magno-greca, nel difficile transito storico del dopoguerra, la ricostruzione materiale e morale del Paese, il Novecento delle ideologie contrapposte, i blocchi e la Guerra Fredda, gli armamenti che svuotavano i granai, l’incubo nucleare.
Mentre si parla di una prossima beatificazione, si potrà rendere giustizia a un politico con la “p” maiuscola, un “gigante” della Storia se rapportato a quelli di seconda e terza Repubblica oggi sulla scena con performance al limite del tragicomico, enfatizzate da media embedded.
Moro è stato docente di Diritto all’Università di Bari. Nel 1948, a 32 anni, fu sottosegretario agli Esteri del quinto governo De Gasperi. Segretario nazionale della Dc (1959-1964), premier (1963-1968) e ministro degli Esteri (1969-1974, ma con brevi interruzioni).
Nel “secolo breve” e tragico segnato dagli “ismi” e “la fine della Storia”, tuttavia, ha avuto due disgrazie: ha vissuto in un momento storico marcato dalla supremazia della sinistra sull’establishment culturale: atenei, case editrici, mass media ne hanno derubricato la grandezza leggendolo come statista figlio di un dio minore.
E non annusò l’aria fetida del complotto attorno a lui quando – seconda metà anni ’70 – le convergenze parallele stavano sfociando nel compromesso storico. I due partiti di massa uniti nel combattere il salto nel buio dell’opzione terrorista. Com’era possibile che il rapimento (16 marzo 1978, via Fani, 38 anni fa) non fosse predisposto da tempo, se avvenne in tempi così rapidi, senza connivenze nel suo stesso partito e nello Stato? I processi lo hanno adombrato, le responsabilità restano vaghe e sfuggenti, anche se qualche sentore c’era stato: Moro era preoccupato, ma non ci aveva dato importanza.
Forse le Br furono solo la manu militari, uno dei soggetti in campo (ora è spuntata anche la camorra), ognuno ansioso, con le sue connivenze, di realizzare interessi politici, storici, personali.
A illuminare un politico che col martirio, quasi un eroe da tragedia greca, pagò con la vita la coerenza, il senso “sacro” dello Stato e delle istituzioni, due saggi pregnanti del giovane storico pugliese Federico Imperato, “Aldo Moro e la pace nella sicurezza” (La politica estera del centro-sinistra, 1963-1968), Progedit, Bari 2011, pp. 236, euro 25,00 (Collana Storia e Memoria diretta da Ennio Corvaglia, Vito Antonio Leuzzi e Luigi Masella) e “Aldo Moro, l’Italia e la diplomazia multilaterale. Momenti e problemi”, Besa, Nardò 2013, pp. 247, euro 17,00 (Collana Entropie).
Dottore di ricerca in Storia delle relazioni e delle organizzazioni internazionali, collabora con la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bari, Imperato ricostruisce con rigore analitico la parabola, i passaggi di un protagonismo dispiegato sul fronte interno ed estero, nella Dc, il centro-sinistra, sino all’unità nazionale stroncata in embrione, mentre lo Stato stava per essere abbattuto dal maglio delle Br.
Moro visse dunque di “visioni” dettate da una concezione “universalista” della politica e della Storia, in un mondo dove lo scontro ideologico era violento. Su questa trincea si rivelò un fine diplomatico nell’Italia “ventre molle della Nato”, al crocevia di paesi, etnie, interessi, conflitti. Italia ombelico del mondo: snodo fra est e ovest, porta sul sud del mondo, cuore antico dell’Europa continentale.
Cosciente di una mission complessa, ispida, la visse con grande coinvolgimento e anche stile, si caratterizzò per la rapidità analitica, l’autorevolezza dell’azione, l’eloquio barocco che aveva nel dna. Il suo pensiero è di straordinaria modernità, oggi che l’Italia ha perduto carisma e rispetto. Politico che elabora e che poi si muove, annusa i tempi e agisce di riflesso. Nel 1964 inventa il centro-sinistra aprendo al Psi (dopo il rude Tambroni e i fatti di Genova), ma l’anima conservatrice della Dc, i dorotei, lo ostacola, mentre Nenni spinge verso le riforme necessarie per ammodernare il Paese. Nel 1978 l’Italia è allo sbando, le Br fanno scorrere il sangue. Moro teorizza il compromesso storico anche per salvare lo Stato di diritto.
Imperato spiega con dovizia di documenti (consultati in giro per gli archivi) il protagonismo sulla scena interna e mondiale. Moro capisce, per esempio, che la Cina sta cambiando, evolvendo dal sistema comunista verso un liberismo originale, e non può essere lasciata fuori dal gioco. Così l’Italia si fa parte diligente di un suo seggio all’Onu, anche per scoraggiarne le “attività aggressive”. Siamo alla fine dei ’60 (Mao morirà nel 1975). Altro contesto in cui lo statista spende il suo acume politico: il Medio Oriente, dove l’Italia recita un ruolo di incessante mediazione fra i conflitti dell’area.
Per tre lustri l’Italia assume dunque un ruolo centrale. E se, 38 anni fa, non fosse intervenuta la barbarie terrorista, che finì col surrogare un groviglio di interessi di cui quello dello Stato che non riconosce le Br è solo quello più evidente e ne nasconde altri inconfessati e forse illegittimi, oggi la sua figura sarebbe ancora più “alta”.
Il martirio, l’assassinio (9 maggio 1978, via Caetani, a due passi da Botteghe Oscure e Piazza del Gesù) finisce così col riconoscerne oggettivamente la grandezza e col dichiararlo un “gigante” della Storia. Rievocarne la parabola (mentre l’ateneo barese si appresta a commemorarlo), la lucidità analitica, come ha fatto con grande nitidezza e passione Imperato, ridimensiona i nani che oggi intorbidano le acque con slogan vuoti che chiamano comunicazione. Chissà come sarebbe cambiata la Storia patria e del mondo se Moro fosse riuscito a portare a termine il suo disegno politico? I carnefici fuori e dentro le istituzioni, e nel suo stesso partito, hanno sulla coscienza anche questa virata della storia pregna di sangue e di tragedie.

Guardando un’antica immagine di Gallipoli …

di Armando Polito

Succede quasi a tutti di subire il fascino di un documento del passato, soprattutto quando le sue dimensioni consentono una fruizione integrale ed immediata, in pratica un solo colpo d’occhio, tutt’al più da ripetere se si vuole andare al di là delle sensazioni, tutto sommato epidermiche, che qualsiasi immagine offre al primo impatto ed avviare un approccio sentimentale illuminato da una rigorosa razionalità, l’unica magica mistura che può metterci in grado di conoscere ed amare la storia, come le persone.

Il documento che oggi tenterò di leggere è tratto dal Thesaurus philo-politicus1 di Daniel Meissner (1585-1625) uscito a Francoforte in più volumi per i tipi di Eberhard Kiersen a partire dal 1623. Di seguito il frontespizio del volume del 16292.

L’opera appartiene ad un genere all’epoca molto in voga, del quale ho avuto occasione di parlare in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/02/11/una-nota-su-alberico-longo-di-nardo/. Essa è particolarmente interessante perché le tavole, da cui è sostanzialmente costituita, in alcuni volumi contengono le vedute di alcune città europee e non sono delle semplici vignette esplicative del motto in latino, di natura moraleggiante, che le accompagna e, per questo, pur con le dovute cautele, sono una fonte non trascurabile per chi si interessa di geografia storica. Non mi pare trascurabile, poi, il fatto che anche alcune tavole, riprodotte in varie epoche nel formato originale, abbiano dato vita asd un fiorente mercato antiquario con quotazioni che al profano potranno anche sembrare esagerate3. Costituisce, poi, un motivo di orgoglio il fatto che tra le numerose vedute di città italiane quella di Gallipoli è l’unica non solo salentina ma pugliese. Di seguito la tavola 36 tratta dal volume prima citato.

Di alcune mappe antiche di Gallipoli mi ero già occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/14/gallipoli-in-nove-mappe-antiche/ e quella di oggi era già apparsa in https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/01/29/cinque-poesie-dedicate-a-gallipoli-dal-magliese-oronzo-pasquale-macri-unoccasione-per-rispolverare-distici-esametri-e-pentametri, dove, però, era stata inserita successivamente dalla redazione, a mia inconsapevolmente graditissima insaputa. Il caso ha voluto qualche giorno fa che mi imbattessi in quel post così aggiornato e ho subito sentito il bisogno di tentare di capire qualcosa in più dell’immagine.

Comincio da quello che può essere definito il motto: Opes si affluunt ne apponito cor (Se le ricchezze affluiscono, non metterci sopra il cuore). In questo tipo di produzione letteraria i motti di solito non sono citazioni fedeli, cioè letterali, di autori classici ma rielaborazioni e adattamenti del loro contenuto, pur conservando elementi più o meno isolati del loro lessico. Nel nostro caso è evidentissima l’eco del Salmo LXI, 11:

Nolite sperare in violentia et in rapina nolite decipi; divitiae si affluant, nolite cor apponere (Non sperate nella violenza e non lasciatevi sedurre dalla rapina; se le ricchezze affluiscono, non metteteci sopra il cuore).

Al di sotto del motto si legge GALLIPOLI in Fran.; problematico, almeno per me, è lo scioglimento dell’abbreviazione e l’unica cosa che mi viene in mente è che Fran. stia per Frankfurt (Francoforte) e questa sorta di unione tra il nome della città salentina e quello del luogo di edizione (dicitura che non compare in nessun’altra tavola) costituirebbe un secondo motivo di orgoglio.

Il tema della ricchezza e della necessità di non dedicarsi ad essa con il cuore, dopo, probabilmente, averlo fatto con il corpo …, viene ribadito nei due esametri in basso:

Sint tibi divitiae Midae, sit regia Croesi/cor salvum teneas, salvus sic tendis ad astra (Abbia tu le ricchezze di Mida4, abbia la reggia di Creso5, mantieni salvo il cuore: salvo così tendi alle stelle). I versi sono costruiti entrambi simmetricamente: il primo col gruppo verbo, nominativo e genitivo (sint divitiae Midae/sit regia Croesi), il secondo col gruppo aggettivo e verbo (salvum teneas/salvus tendis). In più la ripetizione, in ciascun verso, della stessa parola, sia pure in forme diverse di coniugazione (sint/sit) e declinazione (salvum/salvus).

Mida e Creso come esempi di uomini ricchi costituiscono quasi un luogo comune della letteratura di ogni tempo. Basti citare per tutti Plauto (III-II secolo a. C.), Aulularia, atto V, scena I: Nullae illi satis divitiae sunt; non Midae,/non Croesi … (Nessuna ricchezza per lui è sufficiente, non quella di Mida, non quella di Creso …).

Sul piano lessicale il sic tendis ad astra riecheggia Virgilio, Eneide, IX, 641: … sic itur ad astra … ( … così si va alle stelle …).

Sul piano iconografico la mappa presenta due stemmi, come quelle del Crispo del 1591, quella dell’Hogenberg del 1598, quella dell’Hondius del 1627 e quella del Bertelli del 1629; a tal proposito potrebbe non essere casuale che pure il volume che contiene la nostra tavola uscì nel 1629 e per lo sfondo quest’ultima potrebbe essersi ispirata proprio alla mappa del Bertelli. Chi ha interesse potrà farsi la sua idea osservando le mappe citate al link segnalato all’inizio.

Per quanto riguarda i due personaggi posti al centro: la donna con in mano una sorta di corto badile (rappresentazione allegramente metaforica della morte e, dunque, della nostra caducità materiale?) addita all’uomo (dall’abbigliamento si direbbe un nobile) l’arco d’ingresso di una fabbrica in cui spiccano a sinistra per chi guarda quello che sembra l’accesso ad un giardino (l’Eden?) ed un tavolo con vasi di pregio,   a destra  una figura maschile, che ricorda un crocifisso , a sua volta proteso col braccio destro verso  il cuore più elevato legato ad un filo, come gli altri due che si vedono a metà altezza. Ai piedi del presunto crocifisso due cani accovacciati (simbolo di fedeltà?).

Credo, per concludere, dato per scontato che il connubio tra il testo e l’immagine non è casuale, che la tavola contenga un riferimento al prestigio commerciale, soprattutto per l’olio, del quale in quel tempo (ma la situazione si sarebbe protratta fino al secolo XIX6) godeva Gallipoli. Se è così la città salentina assurge ad emblema della ricchezza materiale e pretesto per ricordare la sua caducità ed inferiorità rispetto a quella spirituale. E sarebbe un terzo motivo di orgoglio, anche se il nostro tempo appare poco incline al rispetto di tale principio e, forse, attrezzato solo a subire passivamente il fascino delle allegorie pubblicitarie che quotidianamente ci bombardano …

N. B. Non ho tradotto i quattro versi in tedesco perché non conosco questa lingua e, a differenza dell’inglese, un semplice vocabolario non mi basta. Oltretutto bisogna fare i conti con parole che nel XVI secolo avevano una forma diversa dall’attuale (per esempio, l’hertz del primo verso corrisponde al’attuale herz=cuore, anche perché Hertz, il fisico che ha dato il nome all’unità di misura della frequenza, non era ancora nato …). Io e, credo, pure gli altri lettori che sono nelle mie condizioni a questo punto chiedono l’aiuto di qualche conoscitore del tedesco, anche se la traduzione sarà sicuramente una parafrasi della contrapposizione già vista tra materia e spirito, E non è una scusa per stimolare ad una partecipazione maggiore di quella fin qui registrata, fosse solo attraverso un lapidario commento o, come in questo caso, con una semplice traduzione.

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1 L’opera ebbe innumerevoli edizioni con varianti e nel 1637 venne stampata a Norimberga da Paul Fürst nel 1637 (di seguito il frontespizio) col titolo di Sciographia cosmica. Sciographia è trascrizione latina del greco σκιογραφία (leggi schiografìa), variante posteriore di σκιαγραφία (leggi schiagrafìa)=pittura in chiaroscuro con effetto di prospettiva, voce composta da σκιά (leggi schià=ombra)+γράφω (leggi grafo)=scrivere.

La variante σκιαγραφία spiega lo sciagraphia che si legge nell’edizione Fürst del 1678 (di seguito il frontespizio).

Va detto che in rete ed in alcune opere a stampa in cui si parla del Meissner e viene citata la sua opera circola il titolo Sciographia curiosa di edizioni del 1642 e del 1678. Si tratta di un madornale errore di lettura tramandatosi per citazione passiva, perché un controllo effettuato sulle edizioni degli anni in oggetto ha confermato il nome degli editori riportati correttamente ma non quello dell’opera, che rimane immutato: Sciografia cosmica, appunto.

2 https://books.google.it/books?id=SFJeAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:XgxPU2Sk6WgC&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwja8enAw67LAhXGXQ8KHXPDDlMQ6AEIdjAJ#v=onepage&q&f=false

3 Per le tavole del Meissner in particolare segnalo http://www.vintage-maps.com/en/meissner-daniel-96.

4 Mitico re della Frigia che aveva avuto da Dioniso il potere di trasformare in oro tutto ciò che toccava. Accortosi che così sarebbe morto di fame chiese ed ottenne dal dio l’annullamento di tale potere. Io personalmente credo che le cose non andarono così, perché, con tanti schiavi al suo servizio, poteva farsi imboccare da loro. Probabilmente la prima volta che, subito dopo l’assunzione di questi poteri, andò al bagno ad espletare un elementare bisogno fisiologico, si ritrovò un membre (proprio quello per antonomasia…) inutilizzabile e probabilmente Dioniso dovette pure dare un effetto retroattivo all’annullamento del suo dono.

5 Re di Lidia del VI secolo a. C. che, grazie alla sua politica imperialista, accumulò ingenti ricchezze.

6 In particolare per il secolo XVIII vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/27/giovanni-presta-ovvero-quando-eravamo-noi-a-chiedere-alleuropa/

Nel profondo silenzio. L’incontro con padre Giovanni Lunardi osb

 lunardi
di Nicola Morrone

Nell’ambito delle nostre ricerche sugli aspetti salienti della storia di Manduria, ci siamo occupati, negli ultimi tempi, delle vicende relative agli ordini religiosi, maschili e femminili. Il clero regolare, presente nel nostro territorio dall’XI sec. ed attualmente ancora vivo e operante insieme a quello secolare, ha segnato in modo indelebile la storia della nostra comunità, costituendo per secoli un sostegno sicuro per i concittadini, in riferimento sia ai bisogni pratici che a quelli spirituali.

In questo senso, particolarmente significativa è stata l’incidenza dell’ordine benedettino (il primo ordine monastico della cristianità occidentale) nella sua duplice presenza, quella maschile (comunità di San Pietro in Bevagna) e quella femminile (comunità di San Giovanni Battista).

I benedettini, giunti a Manduria alla fine del sec. XI, hanno dovuto abbandonare il territorio all’epoca delle soppressioni di età murattiana (inizi sec. XIX), mentre le benedettine, insediatesi nel sec. XVII, sono tuttora operanti. La storia della comunità maschile è stata ricostruita da G. Lunardi (Cfr. “San Pietro in Bevagna nella storia e nella tradizione”, Manduria 1993) mentre delle vicende della comunità femminile si è occupato  E. Dimitri (Cfr. “Il monastero delle Benedettine di Manduria: ricerca storico-archeologica, Manduria 2005).

La ricerca futura si occuperà di mettere in luce altri aspetti, finora poco noti, della presenza benedettina a Manduria, anche al fine di meglio valutare, nei vari aspetti, l’incidenza delle due comunità religiose sul territorio in cui esse si sono trovate ad operare, per un non breve arco di tempo. Al fine di approfondire alcuni tratti del “carisma” benedettino, abbiamo recentemente incontrato proprio padre Giovanni Lunardi, insigne storico benedettino, nell’eremo della Madonna della Scala, a 6 km. di distanza da Noci (BA).

Siamo giunti alla Scala con non poche difficoltà: non esistono navette di collegamento tra Noci e l’abbazia, che pure è la più importante realtà benedettina di Puglia, conosciuta per il sua laboratorio di restauro del libro e del manoscritto, unico nell’Italia Meridionale. Abbazia e chiesa abbaziale sono in stile neoromanico.

Attaccata al complesso di nuova costruzione c’è la cappella del sec. XI-XII, unica testimonianza della primitiva comunità benedettina qui insediatasi, in una posizione da cui si domina tutto il paesaggio circostante. Poco discosti, un roseto, e la cappella cimiteriale, in cui riposano i padri defunti.

Abbiamo appuntamento con Padre Lunardi nel primo pomeriggio: dopo una breve sosta in chiesa, lo aspettiamo nell’ampio cortile esterno, nel profondo silenzio dell’eremo, ripassando le domande da fare. Dopo un po’, i quesiti sono dimenticati e prevale abbondantemente il silenzio. All’orario concordato, il monaco ci accoglie in una saletta e la chiacchierata ha inizio. Apre lui, con una citazione da un monaco del medioevo: ”Gli angeli, in Paradiso, esclusivamente amano. I demoni, nell’Inferno, esclusivamente temono. L’uomo, sulla terra, è chiamato a dar spazio all’amore e a sottrarlo al timore, in uno sforzo incessante”.

Pensiamo subito ai drammi che il timore di amare (cioè, in sostanza, di coinvolgersi) ancora produce: come per ogni altro limite creaturale, se ne viene fuori solo con la preghiera. Siamo di fronte ad uno dei più grandi conoscitori viventi del monachesimo benedettino, e si impone la necessità di focalizzare le questioni essenziali.  Con Padre Lunardi si discute essenzialmente di tre argomenti: 1) La differenza che c’è tra la preghiera benedettina di ieri e quella di oggi; 2) Il significato attuale della “fuga dal mondo” che caratterizza la vocazione benedettina; 3) L’importanza dell’affettività nella vita del monaco.

Rispetto al primo punto, l’insigne storico del monachesimo è piuttosto perentorio: i benedettini del Medioevo, che praticavano assiduamente la “lectio divina” (cioè la lettura e la meditazione della Parola, in un costante clima di preghiera) lo facevano senza gli intellettualismi che spesso caratterizzano la stessa pratica nella versione contemporanea. La “lectio” aveva allora molto più spazio nella vita del monaco e si praticava con criteri meno “scientifici” di oggi, cioè con meno attenzione all’analisi dettagliata delle parole, e un invito a focalizzare piuttosto la sostanza del messaggio

Scherzando (ma non troppo) padre Lunardi afferma che bisognerebbe ritornare ”medievali”, cioè capaci di avere una visione globale della realtà, per potervi operare serenamente, ma in questo senso non abbiamo dubbi:  l’universo che ci aspetta fuori dall’Abbazia non predispone ad un tale compito. Si arriva dunque, su questa scia, al tema caro ad ogni benedettino, e che, anzi, sostiene la scelta stessa del monaco, cioè quello della “fuga mundi”.

Come è noto, le comunità benedettine, fin dalla loro nascita, e per espressa indicazione del fondatore, si sono sistemate sempre in posizione appartata rispetto alla comunità cittadina, pur condividendone, nel bene e nel male, la vicenda storica. Questa scelta di separazione rispetto all’ambito più propriamente urbano ha permesso alle comunità monastiche soprattutto di garantirsi il clima giusto per la preghiera, presupposto per affrontare serenamente i non semplici impegni quotidiani. Padre Lunardi sottolinea che, al di là della specifica scelta benedettina, ogni cristiano è di fatto chiamato alla “fuga mundi”, cioè al rifiuto delle logiche mondane che pervadono la nostra quotidianità. Tra le altre, la bulimia consumistica, che avrebbe la pretesa di colmare i nostri vuoti interiori. Infine, padre Lunardi, profondo conoscitore del pensiero dei grandi scrittori cristiani di ogni tempo, ha voluto concludere l’incontro con alcune osservazioni sull’importanza dell’elemento affettivo nella vita del monaco, ed in quella di ogni uomo. Egli sostiene che per conoscere nel profondo gli uomini non si può prescindere dall’attivazione delle facoltà affettive. Al monaco benedettino non deve mancare l’”humanitas”, cioè la capacità di relazionarsi in modo equilibrato con gli altri, e cioè è possibile solo se si riconosce il giusto spazio all’affettività. La stessa attivazione di facoltà “empatiche” è indispensabile anche a chi studia il passato. Essa è quindi richiesta allo storico, come suggerì, prima di morire, il massimo studioso del monachesimo benedettino italiano, don Gregorio Penco (cfr. L’Osservatore Romano, 14/12/2013).

La vera conoscenza, in conclusione, non si esaurisce mai, in nessun ambito, in un puro sforzo intellettuale. Padre Giovanni Lunardi, anziano ma lucidissimo, continua ad avere una produzione saggistica invidiabile. Abbiamo apprezzato, durante l’incontro, la sua intelligente ironia, nonchè il suo senso dell’umorismo, che non sempre gli studiosi, e gli storici in particolare, possiedono.

Lasciamo l’Abbazia, nel silenzio, a malincuore: quello che ci aspetta fuori, lo conosciamo già.

Il Salento e le sue masserie

masseria-la-torre

 

di Felicita Cordella

La storia delle masserie è legata a quella travagliata dell’Italia Meridionale, storia di miseria, di sopraffazione, d’ignoranza.

Il nome masseria deriva da “massa” ( in latino blocco, unità), con cui si denominarono, tra il XIV e il XV sec, vasti complessi fondiari formati da consistenti aggregati rustici di proprietà di Signori o della Chiesa. Sono estensioni costituite da terreni a seminativo, cereali e leguminose, da terreni a pascolo, da vigneti e oliveti. Come tipologia edilizia, presentano uno o due edifici principali per abitazione del massaro, le case dei coloni fissi, quelle dei pastori, la chiesa; talvolta anche il mulino, il trappeto e il palmento.

Altri ambienti che caratterizzano la masseria sono: i magazzini per gli attrezzi,le stalle per i buoi, i recinti per le pecore, l’aia per la trebbiatura, il forno, la “merce” per la trasformazione del latte. Per l’approvigionamento e la distribuzione dell’acqua importante era il pozzo, oltre alle cisterne e alle pile per abbeverare gli animali.

Il giardino consisteva in uno spazio murato riservato alla frutticoltura, era in genere di dimensioni ridotte perché ad uso del massaro-amministratore. Gli spazi per l’allevamento di animali da cortile erano “lu palummaru” e “lu puddraru”.

La masseria fortificata, soprattutto nella fascia adriatica tra San Cataldo e Vernole-Melendugno, è legata alla forte presenza della grande proprietà ecclesiastica e inserita nell’organico progetto di difesa costiera voluto da Carlo V a metà del XVI sec. Tale piano di difesa si basava sulle fortezze di Lecce, Acaja, Strudà e Vanze e sulla “Via del Carro”, che congiungeva Brindisi a Otranto. La zona era caratterizzata da un paesaggio agrario che alternava campi di cereali ad ampie distese macchiose, boschi (Rauccio) , che divennero spesso nascondigli per incursori turchi , e terre paludose dedicate a pascolo ovino e bovino.

Cambiamenti notevoli giunsero tra il XVI e il XVII sec. con l’arrivo dei Borboni.

I Borboni espropriarono i feudi ecclesiastici passandoli alla borghesia rurale, che organizzò il latifondo in masserie. La figura dell’amministratore-massaro divenne prestigiosa.Egli faceva le veci del padrone, ne faceva rispettare le volontà e al padrone conferiva periodicamente le quantità patuttite di quanto nella masseria si produceva.

Nel XIX sec., con l’applicazione in Italia del Codice Napoleonico, furono assegnate ai contadini terre demaniali per uso semina, pascolo o legna. Ma si trattava di quote piccole, che non garantivano la sopravvivenza e i contadini si vedevano costretti a venderle.

Il latifondo borghese si consolidò , anzi spesso i signori proprietari scelsero le masserie come residenze, le masserie-palazzo.

Nel XX sec., dopo le guerre mondiali, col motto “la terra a chi la lavora”, si emanò la Riforma Agraria che espropriò e lottizzò i latifondi. Fu la decadenza delle masserie, molte delle quali furono abbandonate.

Andarono perdute tante realtà-testimonianze di uno spaccato di vita salentina prezioso, al fine della conoscenza del passato, della storia di questo nostro territorio.

Per me personalmente, è doloroso vedere ridotta a pochi ruderi una delle più gloriose masserie del territorio copertinese, la Masseria Mollone, uno dei Casali che diedero origine alla “Conventio populorum”, divenuta poi Copertino.

L’esperienza della vita in masseria ebbe un profondo significato dal punto di vista umano, delle relazioni. La masseria era un microcosmo, una piccola polis.

Questi centri di aggregazione di lavoratori e delle loro famiglie divennero luoghi d’incontri, di scambi di esperienze, di solidarietà, di amori, di condivisione di ritmi di vita rispettosi dell’uomo e della natura. Tali stili di vita hanno caratterizzato buona parte delle popolazioni del Salento fino a non molti decenni or sono. Di fronte a tanti ruderi di masserie diroccate, dovremmo chiederci quanta ricchezza di storia abbiamo consegnato all’incuria.

Dovremmo pensare a quante memorie, a quanta parte d’identità salentina abbiamo lasciato perdere.

Gli orologi del vescovo e la donna del mistero…

di Armando Polito
Al lettore più avanti negli anni il titolo forse farà venire in mente La stanza del vescovo, il romanzo di Piero Chiara, da cui nel 1977 fu tratto l’omonimo film diretto da Dino Risi, con Ugo Tognazzi ed Ornella Muti interpreti principali. Lo stesso ambiente, poi, sarà più o meno protagonista ne La stanza del figlio del 2001 diretto da Nanni Moretti con lo stesso regista e Laura Morante interpreti principali.
Interrompo questa catena di associazione di idee e ritorno al vescovo che nella fattispecie è Fabio Chigi, personaggio del quale mi sono già occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/03/02/alessandro-vii-un-papa-gia-vescovo-fantasma-di-nardo-e-il-suo-vice/.
Lì chi ne ha voglia avrà sufficienti ragguagli storici, qui ripeterò solo che Fabio Chigi (1599-1667) fu vescovo di Nardò dal 1635 al 1652 e che nel 1655 fu papa con il nome di Alessandro VII. Spero che questa scarna informazione sia sufficiente ad evitarmi l’accusa che anch’io sono stato preso dalla frenesia della salentinità ad ogni costo (manco per titolo avessi scritto Quando nel Papato ci fu un pizzico di Nardò …), fenomeno che più volte (ometto il link perché non voglio esagerare …) su questo blog ho stigmatizzato quando ad essere toccato maldestramente o in modo mistificatorio (ora in buona fede, cioé per ignoranza, ora in malafede, cioé per un interesse editorial-turistico) è stato il passato; nello stesso tempo spero che il lapidario riferimento a Nardò basti ad evitare che qualcuno dica, com’è successo di recente in Facebook a proposito di un mio post (anche qui ometto il link perché non voglio esagerare …), che il mio contributo poteva stare su una bacheca personale di Facebook ma non sul profilo, sempre in Facebook, della Fondazione. Alla mia risposta (ve la lascio immaginare …) non è seguita replica, ma, ad ogni modo, ne approfitto per pregare chiunque mi leggerà e vorrà apporre il suo commento a farlo direttamente sul blog della fondazione. In fondo bisognerà accollarsi solo il fastidio di riempire l’apposito form con le proprie generalità e l’indirizzo di posta elettronica. Ne vale veramente la pena, lo assicuro a tutti, perché sarà come passare dalle chiacchere da bar (con tutto il rispetto per Facebook …) ad un ambiente attrezzato (Fondazione, non montarti la testa …) dove ognuno potrà dare, come tanti già da tempo fanno, il meglio di sé, culturalmente parlando, anche attraverso un semplice commento.
È tempo di tornare nell’alveo della trattazione dell’argomento del titolo.

Dato per scontato che nella cultura di un uomo del XVII secolo (fosse destinato o no all’esercizio di un qualsiasi potere) la conoscenza del latino e del greco era il patrimonio fondamentale, non c’è da meravigliarsi che nell’esercizio letterario l’uso di queste lingue fosse (un po’ ostentatamente, questo lo ammetto …) obbligato. A ciò non poteva certo sfuggire Fabio Chigi, le cui esercitazioni letterarie giovanili furono pubblicate col titolo di Philomati Musae Iuvenilesper la prima volta a Colonia nel 1645 per i tipi di Calcovio & c,, edizione integralmente fruibile da https://books.google.it/books?id=17s93n60RXAC&printsec=frontcover&hl=it#v=onepage&q&f=falselink dal quale riproduco di seguito il frontespizio:


La seconda edizione uscì ad Anversa nel 1654 (di seguito il frontespizio tratto da https://books.google.it/books?id=TAW7chhAcxEC&pg=PA86&lpg=PA86&dq=Philomathi+musae+iuveniles&source=bl&ots=4LVhoWE1vI&sig=ApH75PN3JumOCBYVSMpwvdKxhdk&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwi4tYC-3abLAhXH7xQKHVQFBZ04ChDoAQgzMAM#v=onepage&q=Philomathi%20musae%20iuveniles&f=false).

La terza a Parigi nel 1656 (di seguito il frontespizio tratto da https://books.google.it/books?id=Q3leAAAAcAAJ&pg=PA253&lpg=PA253&dq=Philomathi+musae+iuveniles&source=bl&ots=1AkKgo6fEy&sig=3awgaJzHskt-R7gpuzwkL85L-Vw&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwj206rj2abLAhWFQBQKHfShC9cQ6AEIVzAJ#v=onepage&q=Philomathi%20musae%20iuveniles&f=false).

La quarta ad Amsterdam nel 1660 (di seguito il frontespizio tratto da https://books.google.it/books?id=U0255W4t2IwC&printsec=frontcover&dq=Philomathi+musae+iuveniles&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwifj9SJ4qbLAhVFTBQKHf78Bi8Q6AEIOzAE#v=onepage&q=Philomathi%20musae%20iuveniles&f=false)

 

Dalla prima edizione riproduco ora in formato immagine i testi che ci interessano con, di mio, la traduzione a fronte e in calce le note di commento.

Sul tema nell’edizione del 1660 risulta aggiunto quanto segue.

Tutti i componimenti fin qui passati in rassegna sono in distici elegiaci di buona fattura. Se sul piano formale nulla può essere rimproverato, lo stesso dev’essere fatto su quello poetico in genere, trattandosi di mere esercitazioni letterarie, senza pretesa di originalità nemmeno nella scelta del tema (l’orologio) come pretesto per parlare del trascorrere inesorabile del tempo e della vita, all’epoca quasi un luogo comune. Basta dare un rapido sguardo a due componimenti di Girolamo Aleandro il giovane(1574-1629 inseriti in Trium Fratrum Arnaltheorum Hieronimi, loannis Baptistae, Cornelii Carmina. Accessere Hieronymi Aleandri Iunioris Amaltheorum cognati Poematia, Venetiis, 1627. Riproduco, anche qui con la consueta procedura,  dalla  p. 50 del testo integralmente scaricabile da https://books.google.it/books?id=gxcJhz-YW08C&pg=PA90&lpg=PA90&dq=Trium+Fratrum+Amaltheorum+Hieronimi,+lo.+Baptistae,+Cornelii+Carmina&source=bl&ots=v2jQHxkm-e&sig=hRdKA-G9rOzLbPlflcsRbUJk3Ps&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwi1vcaatqfLAhVB_g4KHViYBZcQ6AEIMTAD#v=onepage&q=Trium%20Fratrum%20Amaltheorum%20Hieronimi%2C%20lo.%20Baptistae%2C%20Cornelii%20Carmina&f=false.

Ove non bastasse la testimonianza appena esibita, aggiungo quella di Giovanni Battista Bargiocchi, Epigrammata sacra, moralia et demonstrativa, Robletto, Roma, 1644.

E l’orologio come simbolo ricorre fin dal titolo in parecchi trattati scritti ad edificazione di questo o quel principe. Basti citare il Libro aureo de Marco Aurelio di Antonio De Guevara uscito per la prima volta a Siviglia nel 1529, che ebbe grandissima diffusione fino a tutto il XVII secolo e numerose edizioni anche in traduzione dallo spagnolo (di seguito il frontespizio di un’edizione veneziana del 1560 tratto da http://www.philobiblon.org/lotto/aureo-libro-di-marco-aurelio-con-l-horologio-de-principi-in-tre-volumi-1 https://books.google.it/books?id=-LsKZIKm-tkC&printsec=frontcover&dq=DE+HOROLOGIO&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjc_dbbz7XLAhXH7xQKHdaTBdAQ6AEIUzAG#v=onepage&q=DE%20HOROLOGIO&f=false)

e l’Horologio spirituale de Prencipi di Giovanni de Guevara Mascardi, Roma, 1624 (di seguito il frontespizio tratto da http://www.philobiblon.org/lotto/aureo-libro-di-marco-aurelio-con-l-horologio-de-principi-in-tre-volumi-1).

Se la presenza di ben quattro poesie dedicate all’orologio dal nostro buon Fabio (chi segue Striscia la notizia non si illuda che a breve parlerò pure di Mingo …) potrebbe spingere qualche critico piuttosto fantasioso ad immaginare interessi di natura collezionistica  (non fuori luogo per il personaggio e per l’epoca, ma tutti da dimostrare), quella che segue conferma la natura di pura esercitazione, quasi una moda, di tanta produzione di quel tempo e chiarirà i connotati de la donna del mistero del titolo che, sempre nel lettore di una certa età, avrà evocato l’ omonima telenovela argentina andata in onda in Italia dal 1990 e, con un pizzico (ora …) di nostalgia, quell’incomprensibile frenesia che prendeva le donne della sua famiglia non appena si approssimava l’ora della messa in onda …

Ciò che leggeremo, pur risalendo alla giovinezza del Chigi, non è incluso in Philomati Musae iuveniles, ma ci è stato tramandato come modello della sua poesia da Giovanni Mario Crescimbeni nella sua Istoria della volgar poesia uscita a Roma per i tipi di Chracas nel 1698. Riproduco in formato immagine  il testo che ci interessa, datato a margine al 1625, con l’aggiunta del mio solito corredo, dalla pagina 218 del libro in questione integralmente scaricabile da https://books.google.it/books?id=77NU9udZy8kC&pg=PA409&dq=fabio+chigi+sonetto&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjKhJ-_nqTLAhVBXBQKHXsCCEk4ChDoAQgyMAQ#v=onepage&q=fabio%20chigi%20sonetto&f=false.

A merito del Chigi va sottolineato il carattere moderatamente barocco della composizione, in cui la contrapposizione tempesta meteorologica/tempesta d’amore è giocata senza l’introduzione di ulteriori espedienti retorici , senza allusioni mitologiche, con un lessico che non evoca echi oscuri e complicati, meno ancora teso a procurare ammirazione o, meglio, in conformità con la poetica di quel tempo, meraviglia2. Solo Donna assume il significato etimologico di signora, dominatrice, assurgendo ad innocente ma tragica personificazione dl quello che è l’oggetto del canto: il male di vivere, per dirla alla Montale.

________

1 Poesie giovanili di Filomato (pseudonimo, adattamento latino del greco φιλομαθής (leggi filomathès)=avido di conoscenza.

2  È del poeta il fin la meraviglia:/parlo dell’eccellente e non del goffo; / chi non sa far stupir, vada alla striglia! (Giambattista Marino, Murtoleide, XXXIII fischiata, vv. 9-11).

Inchiostri galleggianti nella meccanica dei fluidi: intervista ad Antonio Massari

Gianluca fedele 

di Gianluca Fedele

Dopo aver avuto il privilegio di chiacchierare con Ercole Pignatelli e Tonino Caputo, finalmente ho un appuntamento anche con Antonio Massari, artista inimitabile, che assieme a Ugo Tapparini ed Edoardo De Candia hanno fatto la storia dell’arte di oltre mezzo secolo nel capoluogo salentino. La sua tecnica informale ha rappresentato un’avanguardia stilistica che in pochi hanno realmente colto ma che tuttavia continua a suggestionare. Ancora una volta è Sandro Tramacere l’artefice dell’incontro il quale, con una telefonata, riesce a mettermi subito in contatto col il pittore. Massari mi invita a raggiungerlo già il giorno dopo nella sua abitazione a pochi passi da Porta Rudiae.

Quando citofono una signora mi risponde che il professore non c’è e Aldo Lisi, che arriverà poco dopo con Massari, mi dirà: “ti ha fatto aspettare poco, di solito non arriva prima di un’ora più tardi rispetto all’orario dell’appuntamento!”.

L’attesa non mi è grave perché la casa è un museo fatto di opere d’arte bellissime, mobili antichi e fotografie d’epoca. Sul tavolo una cartolina commemorativa dedicata a Tapparini recentemente scomparso; mi omaggerà più tardi donandomene una.

Finalmente Massari mi raggiunge fumando il suo immancabile Toscano. È un uomo riservato e di poche parole, anche per questo lo ringrazio del tempo che mi ha voluto concedere.

 

Casa di Riposo Aresi di Brignano - Tempera su tela, 200 x 150, 1998
Casa di Riposo Aresi di Brignano – Tempera su tela, 200 x 150, 1998

 

D.:

Ritengo opportuno incominciare questa intervista con un ricordo su tuo padre, dal quale hai certamente raccolto una poderosa eredità artistica e morale. Chi era per te Michele Massari?

R.:

Michele Massari era un grande artista che poteva realizzare tutto ciò che pensava e ogni nuova sfida era da lui intrapresa con grande rigore: ingegneria, meccanica, architettura, scultura. Naturalmente anche pittura ma in realtà non ha dipinto moltissimo. Ricordo che quando mostrai a Pietro Cascella il libro su mio padre egli esclamò: “Ma questo è un pittore Pittore!” ripetendo la definizione e rafforzando il concetto. A me non restò che annuire con immensa soddisfazione.

Durante la dittatura però le sue posizioni politiche gli costarono dei sacrifici legati al fatto che si era rifiutato di prendere la tessera del partito fascista e di conseguenza perdette il posto di insegnante presso l’Istituto d’Arte. Io ero bambino quando fu costretto a vendere la villa che aveva in località Mater Domini e subito dopo siamo andati in affitto al civico nove di via di Vaste dove abitava anche Edoardo De Candia.

 

D.:

Con De Candia eravate quindi amici di giochi?

R.:

Non solo con Edoardo che era appena un anno più piccolo di me, e col quale perciò siamo diventati automaticamente amici, ma anche con tutti gli altri.

Mio padre era amico di Vittorio Pagano, celebre poeta e zio di Ugo Tapparini, così io e Ugo abbiamo stretto amicizia già all’età di dieci anni. Quando ci incontravamo, spesso io portavo con me Edoardo e Ugo ci raggiungeva insieme a Tonino Caputo. È iniziato così il nostro sodalizio, poi con l’età ognuno ha intrapreso rotte differenti: Tonino si trasferì a Roma insieme a Carmelo Bene, io a Milano mentre insegnavo a Bergamo; Edoardo addirittura visse da nomade e arrivò sino a Londra dalla quale ritornò a piedi dopo aver pernottato, nel tragitto, presso le abitazioni di vari amici.

Con Edoardo De Candia presso la Galleria Osanna di Nardò
Con Edoardo De Candia presso la Galleria Osanna di Nardò

 

D.:

Quando eravate insieme, cosa sognavate di fare da grandi?

R.:

Avevamo già scoperto la propensione per l’arte che assecondavamo in maniera differente, chi con gli studi e chi, come Edoardo naturalmente dotato, in maniera autonoma. Ma la nostra ingenua ambizione allora era quella di realizzare i cartoni animati, dai quali eravamo tutti molto attratti. Ricordo che un bel giorno Ugo si prese persino la briga di scrivere al direttore di una rivista per ragazzi al fine di conoscere le tecniche e le difficoltà dei disegni d’animazione e cercare magari di essere assunto in una redazione. Come risposta ricevemmo una frase indimenticabile: “I cartoni sono l’ottava fatica di Ercole”. Fummo così tristemente dissuasi da quei propositi fanciulli e ci dedicammo ad altro.

 

D.:

Ci sono altre persone alle quali sei legato?

R.:

Ce ne sono molte in effetti ma sicuramente una in particolare è la mia adorata sorella Anna Maria, che era un’artista brillante, oserei dire la più dotata tra tutti noi cresciuti in via di Vaste. Ella primeggiava in tutte le declinazioni della creatività, sia che dipingesse oppure che scolpisse.

Inoltre conservo dentro anche tanti ricordi della straordinaria Rina Durante con la quale ho condiviso anni indimenticabili e tanta gente pensava addirittura che fossimo fidanzati.

Costruzione e cattura delle onde
Costruzione e cattura delle onde

 

D.:

Citavi poco fa Carmelo Bene tra i membri del vostro gruppo, dipingeva anche lui?

R.:

Si, anche Carmelo fu nostro compagno di gioventù e, com’è noto, già da ragazzino riscuoteva enorme successo. Quando si trasferì a Roma inizialmente recitava nelle cantine e ad ascoltarlo tra il pubblico spesso c’erano personaggi del calibro di Pasolini, Sandro Penna e il nostro Vittorio Bodini col quale strinse una forte amicizia.

Per tornare alla domanda ti dirò quanto so, e cioè che Carmelo era andato presso la rinomata galleria leccese “Belle Arti” di Caiulo dove aveva speso circa un milione di lire in pennelli, tele, colori e tutto l’occorrente per dipingere. C’è chi sostiene anche che con tutto quell’occorrente avesse prodotto diverse opere. Che cosa rappresentassero i suoi quadri e dove siano ora conservati purtroppo non mi è dato di saperlo ma mi piacerebbe scoprirlo per il solo scopo di allestire una mostra collettiva dei quattro più uno.

 

D.:

Chi guarda distrattamente le tue “Carte assorbenti” probabilmente crede che siano il prodotto di un astrattista ma in realtà c’è molto di più. Come è nata l’idea di realizzarle?

R.:

Io sono un pittore figurativo ma la mia epoca, invece, è stata caratterizzata dall’astrattismo; ragion per cui, come ho avuto modo di scrivere, o ero fuori dalla mia epoca o ero fuori da me stesso.

Ho iniziato a sperimentare le carte assorbenti perché ricordavo una immagine che mi affascinava quando ero piccolo, e cioè le iridescenze della benzina sulle pozzanghere; da lì la necessità di trovare un sistema per catturarle e riprodurle. Dal 1963 ho trascorso trentacinque anni d’avanti alla vasca da bagno piena d’acqua facendo scorrere sulla superficie le “zatterine” galleggianti su cui vi era il colore. Dapprima ho tentato attraverso l’impiego delle tinte a olio verificando che esse galleggiano solo per il quaranta percento, il restante sessanta affonda nell’acqua. Quel poco che resta è inerte. Così sono passato alla tempera che galleggia al cento percento ma comunque inutile al mio scopo poiché le immagini restano quasi totalmente inattive. Infine ho sperimentato gli inchiostri di china che hanno un grande dinamismo: sono nate in questo modo le Carte assorbenti, un filone del quale, in campo artistico, vanto la primogenitura assoluta. Le reazioni che ne scaturivano erano frutto della meccanica dei fluidi, la versione più affascinante degli inchiostri galleggianti. A me non restava che immortalarle per ribadire come anche gli elementi sappiano disegnare.

Purtroppo oggi sarebbe impossibile ripetere le stesse operazioni in quanto la composizione chimica degli inchiostri non è più la stessa.

Le carte di Mozart (schermate prima del contatto con il colore)
Le carte di Mozart (schermate prima del contatto con il colore)

D.:

Oltre che per il colore deduco che ci sia stata una fase di studio persino per quanto ha riguardato i supporti cartacei e ogni altro mezzo adoperato allo scopo, è così?

R.:

Certamente. Ho cominciato con le carte assorbenti per essere sicuro della presa ma quando queste venivano sollevate dall’acqua il più delle volte si laceravano. Sulla carta normale invece la resa era perfetta. In seguito mi sono spinto oltre utilizzando finanche la pellicola Domo Pack.

Durante quel lungo periodo ho prodotto circa cinquanta generi grafici differenti adoperando per esempio sfere di polistirolo espanso per provocare reazioni elettrostatiche nelle particelle di china e realizzare così Le carte elettriche; oppure mi sono servito di ciuffi di capelli per la serie I capelli di Milvia. Con l’ausilio di schermi in carta velina invece ho realizzato I Frattili, Le carte di Mozart, Le traslazioni, ecc..

E poi spago, nastro, borotalco e tante altre materie hanno interagito e reso uniche le mie opere.

Luigi Piccolo Principe - ritratto, pastelli ad olio, 2000
Luigi Piccolo Principe – ritratto, pastelli ad olio, 2000

D.:

Osservando alcune opere della serie Le carte di Mozart, dalla sbalorditiva precisione geometrica, mi sorge spontaneo riflettere su come oggi questo genere di rappresentazioni sia perlopiù frutto di elaborazioni informatizzate. Nell’era dei personal computer l’arte rischia di perdere il contatto con la manualità?

R.:

Per me, che insegnavo Storia dell’Arte, il contatto con la materia è sempre stato fondamentale. Non c’è evoluzione nell’arte senza un approfondito studio dei meccanismi che determinano le trasformazioni. Tutto deve partire da qui, intervenendo fisicamente e in prima persona nell’opera, diventando compartecipante più che autore. Credo perciò che sia inadeguato, specie per un artista, delegare i propri pensieri a una macchina che li simula.

 

Edoardo De Candia (il presentimento della morte) - Ritratto. grafite. 1991
Edoardo De Candia (il presentimento della morte) – Ritratto. grafite. 1991

D.:

È stato utile, per l’artista, emigrare a Milano?

R.:

Nel 1970 da Bergamo mi sono trasferito a Milano e ho fatto ritorno nella mia Lecce solo da pochi mesi, posso dire quindi di aver trascorso nel capoluogo lombardo gran parte della mia esistenza. Lì, ho avuto l’occasione di conoscere grandi personaggi internazionali come il critico d’arte francese Pierre Restany e il direttore della Rivista D’Ars, Oscar Signorini. Grazie alla loro esperienza e all’impareggiabile supporto ho esposto in tutto il mondo: Stati Uniti, California, Giappone, Cina, Emirati Arabi Uniti, Israele, Russia, Europa del Nord, Inghilterra, Europa Centrale e naturalmente in tutta Italia.

 

D.:

Le Gallerie e il mercato dell’arte come hanno accolto la novità delle Carte assorbenti?

R.:

Purtroppo devo ammettere che in pochissimi hanno realmente creduto in quel filone della mia produzione. Eccezione fatta per amici come Giorgio Randone e la famiglia di Anna Maria Castelli che hanno collezionato molte delle mie opere, o per Marcello Ferrari dell’omonima Galleria, per il resto non posso raccontare di particolari successi o di proficue collaborazioni con le pinacoteche. Spesso addirittura mi ha pervaso la sensazione che vi fosse una sorta di preconcetto in questo ambito nei miei confronti perché meridionale.

Foglio immerso pendolarmente
Foglio immerso pendolarmente

D.:

Scorrendo le pagine dell’importante monografia edita da D’Ars nel 2010 mi sono ritrovato di fronte a decine e decine di ritratti e autoritratti, così mi sono chiesto da dove fosse scaturita, d’un tratto, la necessità di quel genere di rappresentazione figurativa che talvolta è anche natura morta.

R.:

Molto semplicemente i ritratti nascono da un bisogno di immortalare la realtà, o anche i ricordi, come istantanee quasi. Infatti credo di aver tentato così di colmare in parte la lacuna dovuta al non essere stato mai troppo avvezzo all’arte della fotografia. Inoltre ci sono opere di quello stesso periodo che ritraggono grandi autori della letteratura, della poesia, della politica come Hemingway, James Joyce, Neruda, Salvador Allende e tanti altri che mi attraevano più per le loro biografie che per la produzione letteraria.

 

D.:

A proposito di letteratura, c’è un libro o meglio, il suo protagonista che in particolare ritorna spesso e in varie forme nelle tue raffigurazioni; mi sto riferendo naturalmente al Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry. Perché è così presente?

R.:

Il Piccolo Principe per me è quello che si definirebbe il libro del cuore. Ne ho amato ogni singola pagina, frasi, illustrazioni e copertina comprese. Il Piccolo Principe è certamente una favola per adulti e tutti dovrebbero leggerlo. L’ho fatto mio e l’ho portato alla conoscenza dei miei alunni anche se talvolta, a causa della loro giovane esuberanza, non nascondevano la noia nel doverlo studiare. Salvo poi contattarmi per ringraziarmi dopo anni come ad esempio una mia ex alunna, ora diventata dottoressa, che incontrandomi mi disse: «Professore, quando lei ci leggeva il Piccolo Principe… ma che rottura di palle! L’ho riletto adesso e… grazie Massari!» Tutto accompagnato da manate sulla schiena.

Hemingway - grafite, inchiostri galleggianti e carte olografiche. Colorato con a tecnica degli schrermi. 1999
Hemingway – grafite, inchiostri galleggianti e carte olografiche. Colorato con a tecnica degli schrermi. 1999

D.:

Ora che ti sei stabilito definitivamente a Lecce quali sono i programmi imminenti? 

R.:

Francamente da quando sono rientrato ho badato poco alla mia produzione artistica però conto di riprendere presto a dipingere. Le idee non mancano. Attualmente sto organizzando una mostra a Nardò (LE) presso la Galleria Osanna dell’Avvocato Riccardo Leuzzi.

I capelli di Milvia - La lettera esse (tutte le lettere devono essere costruite sull'acqua ribaltate)
I capelli di Milvia – La lettera esse (tutte le lettere devono essere costruite sull’acqua ribaltate)

 

Senza titolo
Senza titolo

 

Studio da Donatello (grafite) 1992
Studio da Donatello (grafite) 1992

Quando le mosche venivano più o meno gentilmente invitate ad accomodarsi fuori …

di Armando Polito

Ci sono immagini dell’infanzia o della prima giovinezza difficilmente cancellabili e spesso il velo più o meno leggero che il trascorrere del tempo stende su di esse viene squarciato dal confronto che ogni tanto le circostanze ci spingono a fare tra il passato e il presente.

Prendiamo, per esempio, le mosche. – Che schifo! – dirà chi ha inteso quel prendiamo nel significato letterale. – Che schifo lo stesso! – continuerà a dire anche dopo che gli avrò spiegato che la parola che tanto lo ha turbato è sinonimo di consideriamo.

Nessuno lo obbliga a seguirmi e vuol dire che percorrerò con altri, almeno me lo auguro, questo viaggio sul filo della memoria.

Prendendo le mosche, chi più o meno vicino ai settant’anni, non ricorda, soprattutto nel periodo estivo e non necessariamente in campagna, la casa invasa da questi insetti e unirsi, al senso di schifo che da sempre accompagna la loro vista, il fastidio di dover subire il loro contatto con la nostra pelle, insistente, petulante, testardo, peggio di un innamorato che, nonostante sia ripetutamente respinto, tenta e ritenta nel suo intento?

Quando la loro presenza, per via del numero sempre crescente o insopportabile diventava troppo invadente si adottava un rimedio incruento, non inquinante e a costo zero, insomma rispettoso della vita di tutti, mosche comprese. Per liberare una stanza dalla loro fastidiosa presenza bastavano due persone: la prima procedeva ad aprire ed a chiudere ritmicamente un’anta della porta o della finestra (l’altra doveva restare chiusa), la seconda, cominciando dal capo opposto, percorreva tutta la stanza agitando un panno bianco. L’operazione aveva lo scopo di scumagnare1 le mosche (cioè allontanarle dal punto su cui erano posate in gran numero) convogliandole verso la porta la cui apertura ritmica con l’alternanza buio/luce e viceversa esercitava su di loro un potere attrattivo irresistibile. Spettava al pilota della porta, poi, quando una buona quantità di mosche si era addensata nelle vicinanze, tenere aperta l’anta per il poco tempo necessario a che il compagno desse l’ultimo colpo di panno per accompagnarle fuori. In genere era sufficiente ripetere l’operazione tre volte per ripulire una stanza di grandi o medie dimensioni.

Poi giunsero gli insetticidi, il cui capostipite fu il DDT che, se debellò la malaria, si aggiunse al lungo elenco di sostanze cancerogene e, a dimostrazione delle conseguenze del suo impiego massiccio, tracce ne sono state rinvenute nel grasso di orsi bianchi e foche nell’Artide e di pinguini nell’Antartide. Anche allora, e mi limito a riferirmi alle parole,  il fattore commerciale prevaleva su quello scientifico; così anche dalle nostre parti ddiddittì, pronuncia (con raddoppiamenti consonantici tipicamente nostri, ma che nella fattispecie possono essere stati ispirati anche dalla rabbia contro le mosche o dall’efficacia del prodotto …) di DDT, a sua volta sigla di diclorodifeniltricloroetano, venne soppiantato da flitti, pronuncia di flit, nome commerciale e abbreviazione di fly-tox (veleno per mosche). E ben presto flitti si chiamò per metonimia pure l’attrezzo (una pompa con serbatoio) utilizzato per spruzzarlo.

immagine tratta dahttp://www.astigiani.it/home/storia-storie/28-trovarobe/79-nel-dopoguerra-arriva-il-flit-lo-stermina-insetti
immagine tratta dahttp://www.astigiani.it/home/storia-storie/28-trovarobe/79-nel-dopoguerra-arriva-il-flit-lo-stermina-insetti

 

In fondo, a proposito di metonimia (figura retorica che non è solo del poeta che, per esempio, dice pino o legno per nave)  negli stessi anni esordiva la registrazione magnetica e il nome commerciale dei primi nastri (Ampex) sarebbe diventato di lì a poco nome comune (registrazione in ampex, trasmissione in ampex), destinato a durare fino a ieri, cioé fino all’avvento della tecnologia digitale

Messo al bando il DDT, sono subentrati altri insetticidi, sicuramente efficaci, ma la domanda che mi pongo è sempre la stessa: lo studio sui rapporto benefici-rischi è stato approfondito, cioé è durato un certo numero di anni per valutare, sia pure nel medio termine, gli effetti del prodotto sulla vita (animale, vegetale e … pure minerale) e sull’ambiente nel suo complesso? D’altra parte solo un idiota come me non si è ancora rassegnato all’idea che il progresso, per come comunemente è inteso, non è scindibile dal profitto.

Sotto questo punto di vista,  ben pensarci, rimane più ecologica, anche se poco igienica, la paletta di plastica.

http://www.ebay.it/itm/Racchetta-Paletta-Schiacciamosche-Insetti-Compatta-Ma-Estensibile-64cm-/371123615612
immagine tratta da http://www.ebay.it/itm/Racchetta-Paletta-Schiacciamosche-Insetti-Compatta-Ma-Estensibile-64cm-/371123615612

 

Ma essa è un’arma certamente non adeguata quando le mosche da eliminare non sono tre o quattro ma uno stormo. E poi, dove mettiamo la comodità delle bombolette (non aggiungo spray, non solo perché non è necessario, ma perché da un po’ di tempo a questa parte l’inglese non mi sta simpatico …) ?

 

– Spray no e polish si? – dirà qualcuno. Nessuno è perfetto e senza polish non avrei venduto nemmeno una bomboletta. A proposito: si accettano prenotazioni … e, per tornare alle mosche, nessuno vieta agli scettici, ai retrogradi e agli ambientalisti fanatici, in attesa  che l’ingegneria genetica introduca nell’insetto il gene dell’antipatia per l’uomo e per il suo ambiente, di ritornare al passato e di giocare, almeno in casa,  con le ante e col panno bianco, ma costoro si ricordino, ad operazione avvenuta, di chiudere la porta o la finestra …

____________

1 Gerard Rohlfs nel suo Vocabolario  dei dialetti salentini registra la voce ma non avanza nessuna proposta etimologica; Antonio Garrisi nel suo dizionario Leccese-ìtaliano esagera con la sua propensione agli incroci, per cui la nostra voce sembrerebbe frutto di un’ammucchiata “tra i latini excombinare, excommentari ed exglomerare“. Se excombinare ed exglomerare sono semanticamente plausibili, non lo è certamente excommentari (che in latino non esiste) nemmeno considerando il semplice commentari che vuol dire riflettere; ma, forse, il Garrisi invece che a commentari intendeva riferirsi a comitari=accompagnare che, accoppiato ad ex iniziale avrebbe dato un excomitari col significato di scompagnare. Anche in questo caso, però, l’ipotesi d’incrocio del Garrisi sacrificala fonetica, anzi, appare come un comodo pretesto per bypassarla. Il segmento –agna– di scumagnare suppone un iniziale –anea-, come stamegna è da staminea; ora non si vede traccia di tale segmento in nessuna delle tre parole in presunto incrocio e, per quanto pericoloso esso sia, sarebbe dovuta restare qualche traccia, per quanto minima, dell’incidente. Per non tirarla per le lunghe. La voce da cui partire è il latino commanere (composto da cum+manere)=restare insieme che nel latino medioevale ha dato commanes=coabitanti; da una forma aggettivale *commaneus/a/um si è sviluppato il verbo *commaneare=restare insieme che, con aggiunta in testa di ex– privativo e passaggio,  passaggio al valore fattitivo e scempiamento di m come in comune da commune(m), ha dato vita a scumagnare col significato di privare della possibilità di stare insieme, dividere e, per traslato, quello riflessivo di agitarsi che trova la sua celebrazione poetica in una poesia popolare registrata a Morciano da Antonio Cassetti e Vittorio Imbriani in Canti popolari delle provincie meridionali, Loescher, Roma, Torino, Firenze, 1871, p. 179, dove al v. 5 così descrive l’avversione di una madre per il corteggiatore della figlia:  quandu me vide tutta sse scumagna (quando mi vede si agita tutta).

 

Il dialetto galatinese nell’ultimo libro di Rino Duma

Antidotum Tarantulae. Dal Magnes sive de magnetica arte (1644) del P. Atanasio Kircher
Antidotum Tarantulae. Dal Magnes sive de magnetica arte (1644) del P. Atanasio Kircher

 

di Paolo Vincenti

“La Taranta. Il dialetto galatinese (ovvero la lingua del popolo)”, è l’ultima proposta editoriale di Rino Duma, scrittore e attivo operatore culturale galatinese.

L’opera, dalla mole consistente, 569 pagine con elegante copertina cartonata bianca, pubblicata dall’Editrice Salentina (2016), è una raccolta di commedie, poesie, proverbi, modi di dire, soprannomi, filastrocche, indovinelli, ed altro, in dialetto galatinese.

Un viaggio letterario, un excursus filologico nella saggezza popolare, nella lingua madre dell’autore e nelle tradizioni ormai in via d’estinzione di una micro realtà municipale, Galatina, tanto ricca di storia ed arte. Alla confluenza con l’era digitale informatica, Duma, facendosi aedo di un tempo perduto, compartecipe cantore della cultura primitiva e spontanea del popolo salentino, ha voluto regalare ai suoi lettori ed estimatori questo scrigno di perle di saggezza, divertimento e leggerezza.

La taranta riportata in copertina è un’opera del maestro Antonio Mele Melanton: una libera interpretazione di uno spaccato sociale che ha caratterizzato in maniera indelebile il passato di questa città, il tarantismo, col suo portato di sofferenza, folklore, cultura popolare. Ancora oggi il nome di Galatina è legato al culto di San Paolo e alle tarante, sebbene il fenomeno si sia ormai concluso.

Ma Rino Duma, Presidente del Circolo culturale Athena e direttore della rivista “Il filo di Aracne”, da studioso e appassionato ricercatore di memorie patrie, ha voluto riportare all’attenzione dei suoi concittadini, degli anziani ma soprattutto dei giovani, il recupero delle cose di un tempo, nel vecchio “scascione de dialettu”, cioè “trabiccolo di dialetto”, come scrive nella sua Prefazione, perché questo “è l’antica e inalienabile carta d’identità della nostra anima cittadina”.

E lo ha fatto con questo corposo volume, una miscellanea, un florilegio di brani diversi raccolti insieme e accomunati dalla lingua usata; lingua che diventa un formidabile strumento di diffusione del sapere, se solo la si considera non museificata, imbalsamata, cioè immobile, inerte nel suo stanco perpetuarsi o sopravvivere a sé stessa, come un certo atteggiamento intellettual snobistico potrebbe suggerire, ma come materia viva, cultura fermentante di un popolo, sua riappropriazione identitaria. Si tratta insomma non di stereotipi anacronistici, superati, bensì di letteratura, disimpegnata, ma di sicuro interesse.

Il presente repertorio linguistico espressivo assume così una doppia valenza: quella di recupero memoriale per i più agée e quella di riscoperta, riproposizione delle radici, per i più giovani sol che questi ditteri, modi di dire, aneddoti e tranches de vie siano guardati come strumenti in grado di attivare processi collettivi.

Nel libro sono proposte quattro commedie, ovverosia farse in dialetto galatinese in tre atti: si comincia con “Reparto Ortopedia”, poi si passa a “Befana miliardaria a Corte Vinella”, poi a “La telefunata” (in quattro atti), e quindi “Natale tra vecchie comari” (in due atti), tutte scritte interamente dall’autore. Le poesie sono: “Poveru mmie”, “L’urtima taranta” che è un vero poemetto in dialetto al centro del quale è il mitico animale, “Pizzaca, Taranta beddhra!”, “Vulia cu èggiu”.

A interpuntare i testi, numerose fotografie in bianco e nero davvero pregevoli e molto vecchie che provengono dal patrimonio comune galatinese. Nella seconda parte del libro, viene pubblicata una sezione dedicata ai Modi di dire galatinesi, una ai Proverbi, una alle Filastrocche, Ninnananne, scioglilingua e Indovinelli, e un’altra, gustosissima, ai Soprannomi galatinesi, divisi in ordine alfabetico. A questo punto del libro, Duma propone la coniugazione di alcuni verbi in dialetto galatinese e qui la trattazione si fa ancora più interessante e divertente, per sfociare poi nella goliardia e nella risata crassa con “Frizzuli dialettali”, e con l’esilarante “Ma cce cazzu!”.

Nell’ultima parte del libro, trovano posto una foto dell’indimenticato pasticcere galatinese Andrea Ascalone, scomparso l’anno passato, ed una scheda bio-bibliografica dell’autore. Questo patrimonio di fiabe e proverbi acquista un enorme significato non solo storiografico ma anche valoriale e riallaccia i fili consunti di una comunità che vi si ritrova, che si specchia in questo “come eravamo”, con il sorriso nostalgico e bonario dell’uomo della strada ma anche con la riflessione del ricercatore , dello studioso.

Così il libro è in grado di suscitare sentimenti che credevamo relegati nel passato perché riesce ad accendere “la miccia esplosiva riposta nel già stato”, per citare Walter Benjamin . E tali sentimenti sono profonde scaturigini dell’immaginario collettivo e della enorme ricchezza che è il deposito culturale di un territorio.

Sul Parlangeli

immagine tratta da: http://www.oldsite.unile.it/ateneo/ateneo/sedi/
immagine tratta da: http://www.oldsite.unile.it/ateneo/ateneo/sedi/

 

di Pier Paolo Tarsi

Distinzioni minime: spazio e luogo

Come un uomo non è riducibile al suo corpo, così un luogo non è riducibile a uno spazio fisico. Perché questo sia un luogo occorre anzitutto almeno una motivazione che lo abiti e lo organizzi, ci vuole almeno un significato complessivo che lo animi dotandolo di una identità funzionale minimale. Questo è un luogo per lo studio, quello un luogo di culto, quell’altro un luogo per lo svago, ogni luogo è tale per almeno un fine che gli attribuiamo, ossia per un significato totale, identitario, connotante, sulla base del quale lo spazio è palesemente organizzato nei suoi elementi tangibili. Il luogo è dunque la forma che organizza lo spazio fisico, la sua entelechia. È nel luogo che si accomodano e si incontrano propriamente le persone, è ai luoghi che ci affezioniamo, è questo, e non lo spazio, lo sfondo sul quale si stagliano le nostre esperienze vissute. Tali esperienze si sedimentano nel tempo in memorie che, nel persistere identico per tutti dello spazio, ampliano invece continuamente i confini dell’altro, lo diversificano e lo pluralizzano in tanti micro-luoghi quante sono le persone e i loro incontri, apportandovi inoltre motivazioni ulteriori non ricomprese nel fine originario. Si da allora il caso che vi siano, persino nel recinto circoscritto delle nostre case, porzioni di spazio che non sono mai diventate porzioni di un luogo per noi o qualcuno. Ci sono intere sale o angoli che non si sono mai prestati ad un nostro sguardo interessato, ad un significato qualunque, ad un frammento di memoria; ci sono vedute su questo spazio tracciato dai geometri e dai documenti che possiamo scoprire con stupore e possiamo abitare solo dopo questo nuovo ingresso. Il nostro luogo-casa è ritagliato entro lo spazio-casa complessivo, ma non coincide mai con esso. Ciò di cui possiamo veramente dire “è il posto in cui viviamo” è il nostro luogo personale, un ritaglio entro uno spazio oggettivo di cui sanno qualcosa solo gli atti notarili o i contratti d’affitto ma che noi di fatto non viviamo, non abbiamo conosciuto né testimoniato, non abbiamo mai investito di vissuti e significati, uno spazio che non ci è mai appartenuto, nel quale non vi abbiamo mai preso dimora. Ciò di cui possiamo testimoniare è solo il nostro luogo in quello spazio. La sedia che è lì, la porta che le è accanto sono elementi nello spazio a tutti accessibile. Ma il filo di ricordi che dipana da quella sedia, il suo significare per me, la connessione che mi riporta a chi me l’ha donata, mi appartengono personalmente come una parte del luogo in cui soggiorno solo io. Posso cedere, vendere o affittare il mio spazio-casa ma non il mio luogo-casa, perché questo emana da tutta la mia personalità e dalla mia storia di singolo e dalla storia di chi mi è intorno: è più di un semplice bene immobile il cui possesso mi è riconosciuto dalle leggi o dai costumi, è un bene personale, è mio in un senso più inalienabile della proprietà, non posso che portarlo necessariamente con me come fosse il mio corpo, mi appartiene come un’estensione personale, è un habitus su misura.

Parlangeli: lo spazio

Il Parlangeli è un posto raccapricciante. Ogni volta che ne varco la soglia, qualunque sia il mio stato d’animo, percepisco come fosse la prima volta chiaramente lo scandalo di questo orrore spigoloso, di questo nido grigio e monotono di cemento, di questo incubo ordinato e immobile. Il palazzo è una coazione a ripetere di poche figure squadrate con una sola concessione alla rotondità: una rampa di scale a chiocciola posta a intervalli regolari, una spirale psichedelica che sfocia in una cupola nera. Ogni scala è una voragine, una pausa posta tra le geometrie quadrate prima che riprenda lo spartito, il ritornello ossessivo di rettangoli e quadrati riproposti in identiche proporzioni ed esibiti nelle medesime, costanti combinazioni. Qui un ingresso vale l’altro, un piano vale l’altro, un ascensore vale l’altro (a meno che uno non funzioni per davvero!), una rampa di scale vale l’altra, un’aula vale l’altra, uno studio vale l’altro, una finestra vale l’altra: ogni cosa è perfettamente indistinguibile dalla corrispondente, ognuna è perfettamente equivalente all’altra per forma, dimensione, incolore e pallore. Ovunque si diriga lo sguardo la scena che si offre è quella di uno spettacolo di un fiume amorfo e ipnotico di regolarità tra cui non ha alcun senso preferire qualcosa a un’altra, non ha senso scegliere nulla. Tutto è predisposto alla luce di una maniacale uguaglianza, ogni elemento sembra cospirare contro il principio logico dell’identità degli indiscernibili, come se tutto volesse tendere al tentativo di una sua falsificazione fisica: il risultato è un’empirica congiura architettonica a Leibniz, una smentita del suo sistema. Se non vi fossero quelle targhette incise ad indicare con un numero decimale il piano, con una unità la successione e, infine, con una lettera il settore, nessun essere umano potrebbe minimamente orientarsi nel mezzo di un universo così privo di segni distintivi o differenze a cui ancorarsi per collocarsi, nessuno potrebbe capire in qualche altro modo da dove viene e dove va: mi domando se non sia proprio per queste ragioni e per una cinica allusione che sia stato scelto quel dannato palazzo per insediare proprio il corso di laurea in filosofia.

Parlangeli: il luogo

Che ci si creda o no, ed è una prova ulteriore della distinzione iniziale, anche in uno spazio così terrificante possono sorgere luoghi importanti, significativi, piacevoli e irrinunciabili per chi vi soggiorni. Per descrivere questi luoghi dovrei certo restituire al lettore ragnatele di memorie di molti anni della mia esistenza, da studente prima e, dopo anni trascorsi altrove, da dottorando poi; dovrei così far nomi e cognomi di amici e compagni preziosi, narrare aneddoti e fatti più o meno improbabili. Ma è preferibile credo limitarmi a qualche fotografia, a qualche istantanea che lascia supporre, suggerisce, testimoniando per frammenti qualcosa che è stato, come fanno le immagini fisse estrapolate da una storia più vasta e vivida di una generazione di studenti, una delle tante che appartengono irrimediabilmente al luogo. Ed allora ciò che prima restava indistinto, anonimo, impersonale e ripetitivo nella resa dello spazio, immediatamente si colora di decise distinzioni se coi ricordi mi addentro nello stesso palazzo sub specie loci. Ora ogni cosa è davvero unica e irripetibile, ha un colore netto ed una personalità definita e conosciuta, familiare, racchiude una memoria chiara. Il quarto piano ad esempio, non era affatto un piano come gli altri, era il “nostro” piano, quello cioè della tribù degli studenti in filosofia. Anche il secondo ci apparteneva molto, soprattutto fino a quando c’era lì il bar di R., un tipo bravino nel fare il caffè ma straordinario nel rullarsi perfettamente la sigaretta con una sola mano. L’altra gli mancava. Mi chiedo ancora oggi come diavolo ci riuscisse. Il secondo piano era dunque un avamposto, una frontiera tra studenti di filosofia e iscritti ad altri corsi di laurea e pertanto indegni della minima considerazione da parte di menti impegnate nella ricerca della verità come noi, intellettualmente disprezzati, ma solo intellettualmente trattandosi spesso di graziose studentesse di pedagogia o simili. Il primo e il terzo piano non erano invece affar nostro. Per quanto mi riguardava sentivo talmente estranei quei piani che, per dirne una, se dovevo correre in bagno e si dava il caso che al quarto o al secondo fossero tutti occupati, mi era difficile persino rendermi conto che c’erano altre possibilità. Si dice che i filosofi vivano nei cieli: ma come si fa ad essere piantati per terra quando ci si è formati al secondo piano di un palazzo senza un primo piano a reggerlo, e con un quarto piano edificato senza un terzo? Nemmeno nell’Iperuranio si starebbe talmente sospesi!

Il piano terra era invece territorio di tutti, era soprattutto quello delle biblioteche e di qualche aula più capiente. Nelle biblioteche non esistevano badge elettronici e tesserini magnetici: al loro posto c’era essenzialmente lui, S., il bibliotecario dalla memoria infallibile o “lulliana”. S. ti trattava come un vecchio zio brusco ma infinitamente buono, ti dava pazientemente i libri, e senza segnarsi nemmeno il tuo nome un giorno ti beccava nel bar e ti guardava male al punto che il caffè che stavi sorseggiando ti andava storto: quello era il segnale che il prestito era scaduto da molto, troppo tempo. Non era necessario che un software inviasse email automatiche alla tua casella elettronica come avviene oggi. La tecnologia era tutta lì, nella memoria e negli sguardi di S. Non occorrevano nemmeno parole spesso. Forse però è ora di finirla, prima che queste istantanee diventino un album di ricordi o peggio prendano a rincorrersi in un flusso nostalgico. Menzionerò soltanto l’ironia che il Parlangeli sa riservare. Tornandoci anni dopo per il dottorato, ad esempio, mi trovai a frequentare quasi esclusivamente il terzo piano. Chi l’avrebbe mai detto?

Al mio ritorno incontrai S. all’ingresso, seduto su un parcheggio in ferro per biciclette. La cosa mi colpì per la sua stranezza e così mi fermai, scoprendo che il mio primo giorno da dottorando coincideva col suo primo da pensionato. Per la prima volta in quella circostanza scambiammo due parole non riguardanti prestiti librari in sospeso. Non seppe resistere quel giorno alla forza di un’abitudine scavata una vita. Come non comprenderlo? Lo salutai con un affetto sentito ma non manifestato, proprio come si fa con uno zio burbero che non si vede da anni, anche se credo che lui non sapesse il mio nome. Ma su questo non ci scommetterei, con una memoria del luogo come la sua non si sa mai. Un’ultima cosa resta da dire, in merito alla provvisorietà eterna del Parlangeli, ormai proverbiale. Anche all’inizio di quest’anno, come negli ultimi diciotto, ossia sin dal tempo in cui ero una matricola, è stato puntualmente annunciato l’imminente sgombero delle attività universitarie dal palazzo. Non passo da lì da molti mesi ormai, sono però sicuro che anche l’anno prossimo leggerò lo stesso annuncio: su questo ci scommetterei, puntando tutto stavolta.

Il Salento e le sue architetture a secco

Complesso di pajare con forno (foto nicola febbraro)
Complesso di pajare con forno (foto Nicola Febbraro)

 

di Felicita Cordella

Sono significative e affascinanti testimonianze della storia poverissima di uomini ricchi di forza interiore e di solidi valori, avvezzi alla fatica, nonché storia di una terra di prodotti genuini e sapori veraci. Muretti a secco, canali, “chisure”, “curti”, “paiare”, sono opere dei contadini salentini che, dissodando la brulla terra rossa, estraevano pietre e le accumulavano.

Poi queste divenivano muretti di confine ed anche costruzioni, come depositi per attrezzi come ripari per gli uomini o, come dicono gli specialisti, primitiva opera di antropizzazione degli spazi rurali. I muretti erano praticamente una frontiera fortificata per delimitare o per proteggere proprietà e attraversano millenni di stortia. Già in era messapica se ne faceva uso, sebbene avessero una struttura a blocchi poggiati orizzontalmente.

Durante la dominazione bizantina segnavano i confini tra Salento e i restanti territori.

I muretti hanno altresì funzione di sostegno per terrazzamenti, rallentano le sferzate del vento sulle colture, sfruttano il calore del sole, frenano lo scorrere delle acque piovane, mantenendo umido il terreno. In Salento dunque si sviluppò un’arte che, da padre in figlio, si tramanda da secoli e oggi rischia di scomparire: “lu paritaru”. Il muro a secco è costituito da due file parallele di grosse pietre, su cui si costruisce il vero e proprio muro, incastrando le pietre in modo da lasciare tra loro il minor spazio possibile; gli interstizi vengono poi riempiti con materiali fini.

Non si usa malta, né cemento, né calce. Alla fine si posa un cordolo con grosse pietre piatte, “li cappeddhi”. Ogni zona di una masseria o di un podere veniva recintata con muretti, per es. l’allevamento del bestiame era custodito da “lu ncurtaturu” o “lu curtale”.

I “furnieddhi” o “truddhi” o “caseddhe” o “pagghiare sono costruzioni circolari o quadrate (troncoconiche o troncopiramidali) che, ancora negli anni sessanta, costituivano l’abitazione dei contadini, soprattutto in estate. Furnieddhu deriva dalla prima funzione di forni per i fichi, abbondanti nelle campagne circostanti. Fichi che si erano essiccati sulle “littere”o sulle “lliame”, terrazze dove si lasciavano al sole anche ortaggi e legumi. Quando il sole brucia “li cuti”, gli ortaggi, il pomodoro in primis, divenivano concentrati di gusto per l’inverno. E su quelle pietre grige si cuoceva l’eccezionale pane contadino, anch’esso grigio perché a base d’orzo e cereali integrali, che condito col pomodoro, magari di “pendula”, era cibo adatto agli dei. La bruschetta salentina di pane, olio e pomodoro, dice Vasquez de Montalban, è un meraviglioso “paesaggio”, fondamentale nell’alimentazione umana.

Una “Malafemmena”, forse tarantina, ante litteram

di Armando Polito

Chi non conosce la celeberrima canzone di Totò citata nel titolo? Il tema, come può essere quello dell’amore non corrisposto o, come nel nostro caso, tradito,  è antico quanto l’umanità e, per non scomodare i lirici greci, basterà ricordare l’immortale distico di Catullo: Odi et amo. Quare id faciam fortasse requiris./Nescio, se fieri sentio et excrucior (Odio ed amo. Forse tu mi chiedi perché lo faccia. Non lo so, ma sento che succede e me ne tormento).

Se in Catullo il risentimento non assume le forme violente e spesso esiziali con cui il torto subito,  reale o presunto, oggi trova spesso lo sfogo che la cronaca quotidianamente registra, e la sua è, tutto sommato, una pacifica resa ad uno dei tanti tormenti della vita, nella canzone di Totò la rabbia della vendetta viene edulcorata nel periodo ipotetico (lo chiamerei dell’impossibilità consolatoria …) iniziale: Si avisse fatto a n’ato/chello ch’e fatto a mme,/st’ommo t’avesse acciso … Questa è già una confessione di debolezza per certi machi dei nostri tempi che ancora scontano (forse geneticamente, ma con questo avverbio non intendo giustificare alcunché …,) un tipo di educazione in cui il potere, compreso quello sessuale, era loro appannaggio esclusivo. Rinunziare al potere non è facile per nessuno (tanto meno per i politici che rischierebbero serie lesioni al deretano che hanno provveduto, ad elezione avvenuta, a splalmare di adesivo per restare attaccati alla poltrona; corre voce che qualcuno per occuparne più di una si sia fatto montare uno o più paia di chiappe supplementari) e così il binomio eros e thanatos (amore e morte) trova la sua rappresentazione, insieme con altre manifestazioni di violenza, nelle strade come tra le mura domestiche. Ma la sublime debolezza dell’umanità e del genio di Totò (qui non è un ossimoro …) continuano con l’eco dell’odi et amo catulliano (te voglio bene e t’odio) e del suo excrucior (nun te pozzo scurdà).

La bellezza del testo di questa canzone è tutta nella sua semplicità, che la rende universale, cioè attuale, fuori dal tempo, capace di coinvolgere, almeno finchè l’uomo avrà il coraggio di vivere da uomo, cioè amando e soffrendo ed elaborando da uomo la sua sofferenza.

Ogni poesia, comunque, è figlia del suo tempo, ma riesce ad appianare, quand’è veramente poesia, le cicatrici dei condizionamenti contingenti. Non sempre è stato così. Basti pensare, senza scomodare tanti autori contemporanei  ammiccanti più o meno spudoratamente al gusto del momento e troppo condizionati dalla temperie culturale della loro epoca, alla poesia stilnovista (peggio ancora a quella stilnovistica …). Sarebbe bello, per esempio, chiedere alla compagna (quella di turno, altrimenti si scoprono gli altarini …) di Guido Guinizelli, di Guido Cavalcanti (qualcuno dopo aver letto quanto sto per dire dirà che il cognome era tutto un programma …all’incontrario), di Lapo Gianni  (stesso rischio di prima) e di Gianni Alfani (il rischio si ripeterebbe, forse, con un occhio al presente, se il cognome fosse al singolare, ma, in fondo, neppure quello del secondo Guido lo era …), nonché del primo Dante, se veramente, intendo dire nella vita reale, era gratificante per loro essere considerate più madonne che donne, portatrici di quella contraddizione, tutta religiosa, che ancora oggi non si è completamente sanata, di una creatura (ricordo che la parola etimologicamente nasce in latino come participio futuro, tutto femminile, del verbo creare e che alla lettera significa destinata a creare) che dà la vita ma nello stesso tempo è considerata fonte di tentazione e strumento del demonio.

Lo stesso dico, e per non farla troppo lunga, ne metto in campo uno solo, di colui che era considerato il bastian contrario della corrente stilnovista: Cecco Angiolieri. Altro che donna-angelo! Sentite cosa dice della sua Becchina  nel sonetto che seguirà,  – Per forza – dirà il solito fissato con i nomi  e che crede nel detto latino omina nomina (i nomi sono presagi) pensando ad una versione femminile di quello che è da tutti considerato un ingrato mestiere o, forse peggio ancora, alla versione, sempre femminile, del cornuto, per quanto modesto, dato il diminutivo . in realtà sull’identità di questa donna , della quale si sa solo, secondo l’informazione dataci dallo stesso Cecco in un suo sonetto, che era figlia di un cuoiaio, sono stati versati fiumi d’inchiostro. Cito solo le opinioni più accreditate, una volta tanto senza riferimenti bibliografici per non appesantire ulteriormente il tutto: 1) forma ipocoristica, cioè vezzeggiativa di Domenica; 2) con allusione al mestiere paterno essa sarebbe  dura pelle di becco, metafora della sua presunta durezza a concedersi; 3) scomodando sempre il becco, ma di più la beccheria, sarebbe metafora della donna che concede o, peggio, vende ad altri la sua carne; 4) sulla scorta di alcuni passi romanzi in cui becco è sinonimo di bocca qualcuno è giunto perfino ad alludere, ma senza dirlo chiaramente, ad una particolare abilità nella fellatio.

A nessuno, però, dico a nessuno, è venuto in mente che Becchina potrebbe essere nativamente diminutivo di Rebecca e che solo casualmente, ma successivamente, poteva prestarsi a qualsiasi adattamento metaforico, non escluso quello di porsi come contraltare rispetto alla Beatrice dantesca, con la quale divide i due fonemi iniziali.

È tempo ora di passare al nostro poeta tarantino (o presunto tale) ma questa lunga premessa era necessaria per anticipare che egli si colloca tra i due modelli (Stilnovisti e Cecco Angiolieri), anticipando il Petrarca, purtroppo solo nella trattazione del tema, non certo nella scioltezza, raffinatezza e  e scorrevolezza, sicché l’esito poetico ne è lontano anni luce. Seguirò lo stesso schema adottato di recente per Gugliemotto di Otranto (https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/02/23/quel-verso-un-tantino-galeottodellotrantino-forse-guglielmotto/)

Come per quest’ultimo, il sonetto che ora esamineremo  è l’unico che ci resta e l’unico manoscritto che, fino ad ora, ce lo ha tramandato è quello più antico tra quelli citati per l’otrantino, cioè il Vaticano Barberiniano latino 3953. Seguirò la stessa procedura.

Ecco cosa si legge nella rubrica all’inizio del manoscritto:

                                   Guezolo Avocato da Taranto. 176

Come ho gia fatto per Guglielmotto, prima di passare alla poesia, riporto gli autori nei quali compare qualche notizia; il lettore noterà che sono gli stessi  che pochissimo ci hanno tramandato sull’otrantino e, lo anticipo, meno ancora sul nostro.

Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Mosca, Napoli, 1748, pp. 458-459:

Leone Allacci, Poeti antichi raccolti da codici manoscritti della Biblioteca vaticana, e Barberina, Sebastiano D’Alecci, Napoli, 1661, p. 372:

Nicolò Toppi, Biblioteca napoletana, Bulifon, Napoli, 1678, p. 191:

Giovanni Mario Crescimbeni, Comentari intorno all’istoria della volgar poesia, De’ Rossi, Roma, 1702, v. I, p. 92:

Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, Agnelli, Milano, 1741, v. II, pp. 166-167:

Ecco, dalla carta 176, il sonetto con la mia lettura e a fronte le discordanze con quella dell’Allcci (A) e del Crescimbeni (C):

Su vendeta non in rima con setta tornerò alla fine. Per ora ecco la mia trascrizione in italiano più o meno corrente:

Lascio al lettore giudicare quanto sia fedele la lettura dell’Allacci rispetto all’originale e quella del Crescimbeni rispetto a quella dell’Allacci, anche se bisogna tener conto di probabili errori di composizione di stampa. Entrambi, però, secondo me, avrebbero fatto bene a riprodurre fedelmente ciò che il manoscritto offre (insomma quella che si dice edizione diplomatica), anche perché il testo ai loro tempo (e questo vale pure per il nostro) non presentava di fficoltà alcuna di traslitterazione nel linguaggio corrente, come ho dimostrato perfino io nella trascrizione che avete appena finito di leggere. Eppure a p. 70 del volume nelle avvertenze al lettore l’editore pubblicò questo stralcio di una lettera inviatagli dall’Allacci il 30 luglio 1660: Chi l’ha copiati, l’ha copiati con l’istesso tenore del parlare, l’istessa ortografia, l’istessa articolazione e per non moltiplicar parole le ha disegnati, non scritti.

Se dubbi erano rimasti circa la salentinità di Guglielmotto da alcuni sbandierata con troppa sicurezza come s’è detto nel post a lui dedicato, Guezolo mi offre l’occasione di rilevare le conclusioni cui giunse circa la sua identità ed origine Gino Lega in Il canzoniere Vaticano Barberino latino 3953, Bologna, Romagnoli-Dell’Acqua, 1905. Di seguito, da p. 206 la sua lettura del sonetto:

A p. XLII, n. 4 scrive:

Oggetto del contendere è lo scioglimento dell’abbreviazione 

che l’Allacci sciolse in Taranto, condizionato forse anche dal Guezolo Avocato da Taranto della rubrica. Io non metto in dubbio che Tar. (o Ter.) sia abbreviazione notarile di Tarvisium o Tervisium, ma questo non spiega la presenza del trattino orizzontale, che per me è una n sovrascritta, sulla r.

Che l’autore sia pugliese o veneto, interessante è la struttura del sonetto che presenta la variante (quasi anticipazione in questo del sonetto caudato del secolo XIV) del distico finale a rima baciata, mentre le quartine presentano schema AB AB AB AB e le terzine CDD DCC. Da notare vendeta non in rima con fetta, già prima notato; questo sì può essere dovuto  all’entourage veneto cui appartennero, attribuzione da tutti ora condivisa, gli amanuensi che compilarono il manoscritto e che furono almeno tre.

E se non mi è possibile congedarmi con prove inoppugnabili (ma non potevo certo esibirle io) della salentinità di Guezolo, voglio chiudere, comunque, con la stessa nota leggera con cui ho aperto sottolinendo che, in fondo, i due, Totò nei primi tre versi (Si avisse fatto a n’ato/chello ch’e fatto a mme/st’ommo t’avesse acciso), Guezolo negli ultimi due (di plu d’un milion faria vendeta/che tu ay morti per tua mala setta), affidano, rispettivamente, ad un si e ad un cum, la loro sostanziale mitezza e rendono protagonisti della loro rabbia, in una sorta di comodo esorcismo o di furbesca rimozione con successiva proiezione, un  st’ommo t’avesse acciso (ma il soggetto è un finto singolare, come il tu generico) Totò,  un di plu d’un milion faria vendeta Guezolo. Totò, tutto sommato, perdona, Guerzolo, se potesse e volesse, sarebbe il vendicatore di sè stesso  e degli altri cornuti. Ma Totò era un principe (non alludo solo al titolo …)e un poeta, Guezolo, con tutto il rispetto per la categoria, un avvocato, anche se come poeta, con tutto il rispetto per Francesco Saverio Quadrio manon per la sua opinione, non mi sento di considerarlo incolto e barbaro rimatore. E l’avrei fatto anche se ci fosse stata la certezza che Guezolo non era salentino …

 

Nuove ipotesi sul sacello di San Pietro in Bevagna

Statuetta San Pietro

di Nicola Morrone

Uno dei monumenti manduriani più carichi di fascino e di mistero è senza dubbio la chiesa di San Pietro in Bevagna, alla quale ormai da anni dedichiamo la nostra attenzione.

Se le varie fasi costruttive che interessano il santuario sono già state da tempo precisate, anche con l’ausilio dei documenti, resta una parte del complesso architettonico sulla cui datazione gli studiosi non sono ancora concordi. Si tratta della struttura più antica, cioè del cosiddetto “sacello”, dai manduriani identificato con il termine dialettale “nnicchju”, cioè “nicchia”.

Si tratta di una costruzione dalle dimensioni ridotte, orientata in senso liturgico (E-W) ,e che ha un notevole valore sacrale e devozionale, poiché vi sono allogati gli oggetti del culto petrino: il quadro, il fonte battesimale, la pietra d’altare.

Tra gli interrogativi che il sacello bevagnino pone c’è, come detto, quello di una sua corretta datazione, che risulta problematica anche data la vetustà della struttura. Un elemento che può agevolare gli studiosi è , tra le altre cose, la struttura del paramento murario, che riprende, anche se in maniera più rudimentale, la tecnica romana dell’ “opus Quadratum”.

I conci, squadrati e di varie dimensioni, non sono disposti a file regolari: tutta la nicchia absidale ha una tessitura irregolare, che ci fa ipotizzare l’intervento di maestranze “di tradizione”. Ulteriori interrogativi pone la natura del materiale utilizzato per la costruzione: ci pare si tratti di calcare sabbioso compatto (carparo), ben distinto dal tufo: per esplicita scelta dei committenti e dei costruttori, l’opera, destinata ad ospitare le reliquie del passaggio di San Pietro per la contrada, doveva durare nel tempo.

Tutto il paramento murario dell’abside e del vano corridoio antistante andrebbe comunque attentamente studiato, anche per chiarire se il materiale utilizzato per la costruzione sia stato cavato in loco. Di fatto, comunque, a proteggere l’absidiola, il vano ogivale antistante e la cappella del sec. X-XI, tutti ancora pienamente fruibili, è intervenuta la costruzione della torre di difesa anticorsara (sec.XVI), cui in seguito è stato addossato un avancorpo (sec.XX).

Per ciò che riguarda la committenza, gli studiosi (Jurlaro, Lepore) ipotizzano che l’iniziativa della costruzione dell’absidiola sia stata presa intorno al sec. IX dall’allora vescovo di Oria Teodosio, che volle sistemare in modo più dignitoso il luogo che ospitava le reliquie petrine. D’altro canto, pur essendo stato costruito in età bizantina, il nucleo primitivo del santuario ha sempre destato l’interesse della diocesi latina di Oria, come risulta dall’epigrafe collocata nella adiacente chiesa del sec. X-XI, che attribuisce la costruzione dell’edificio al vescovo di Oria Giovanni (996-1033).

Per ricavare ulteriori elementi di riflessione, proponiamo in questa sede di confrontare l’aspetto dell’abside di Bevagna con quello della chiesa superiore di San Pietro Mandurino.

La struttura absidale della chiesa superiore di San Pietro Mandurino (sec. XI-XII), anch’essa realizzata in “opus quadratum”, presenta un paramento murario più regolare rispetto all’absidiola di Bevagna: qui i conci sono disposti appunto su file regolari, quasi isodome (si contano 12 ricorsi) anche nelle campate. Questa differenza può essere attribuita a due fattori: la minore antichità della cappella di San Pietro Mandurino rispetto a quella di Bevagna , oppure la maggiore perizia dei costruttori.

Può anche darsi che la spiegazione possa attribuirsi ad entrambi i fattori, anche in considerazione del fatto che la cappella di Bevagna è verosimilmente più antica di due secoli rispetto a quella di San Pietro Mandurino, ed è probabile che, nel corso del tempo, il bagaglio tecnico dei costruttori possa essersi perfezionato.

Molti problemi , dunque, rimangono ancora aperti riguardo alla “nicchia” del santuario di San Pietro in Bevagna: per chiarire i punti oscuri occorreranno indagini archeologiche organiche, estese anche all’area immediatamente adiacente alla torre.

 

Galugnano, Acaya e la Madonna te li pampasciuni

lampascione2

Il primo venerdì di marzo Galugnano ed Acaya festeggiano la Madonna Addolorata,  Matonna ‘Ndururata te Calignanu e Madonna de li pampasciuni.  “Straordinariamente – afferma lo studioso Massimo Vaglio – il pampasciune nel Salento integra anche un probabile interessante caso di sincretismo religioso, che si concretizza nella venerazione della Madonna de li pampasciuni. La Madonna Addolorata, venerata a Galugnano ed Acaya, cambia addirittura nome divenendo appunto Madonna de li pampasciuni”.

La diffusione del culto può essere legata al feudatario, Gervasio dell’Acaya, che sin dal 1294 ebbe contemporaneamente in concessione da Carlo I d’Angiò i due castelli di Acaya, frazione di Vernole e Galugnano, frazione di San Donato. Sono inoltre note storie di sofferenze, atti di pirateria e malattie, subite dalle genti del luogo, che per disperazione si è messa sotto la protezione della Madonna, offrendo in dono l’elegante cipollaccio col fiocco.” (Nunzio Pacella, casapacella.it)

 

VI CONVIVIUM “Madonna te li Pampasciuni”

4-5 MARZO 2016 ___________________________________________________

 

Venerdì 4 Marzo 2016

IL VENERDI’ DEL PAMPASCIONE

Ore 15,30

Incontro in Largo Vittorio Emanuele II a Galugnano, caratteristica frazione del comune di San Donato di Lecce, dove si festeggia la Madonna Addolorata, tradizionalmente nota come la “Madonna Te li Pampasciuni”.

La confraternita parteciperà ai festeggiamenti religiosi che prevedono una processione con la statua della Madonna, portata a spalla dalle donne del paese, dalla Chiesa Matrice verso quella del Cimitero, dove viene officiata la Santa Messa con successivo rientro del simulacro verso Galugnano.

La tradizione popolare prevede che nel giorno di Festa in tutte le famiglie galugnanesi preparino e degustino i pregiati lampascioni che crescono, abbondanti nelle campagne del paese. Per tenere viva la tradizione nel comune si organizza una Gara Gastronomica con piatti rigorosamente a base di “pampasciuni”.

Nel corso del pomeriggio possibilità di partecipare ad una conferenza sul tema “Il Lampascione: aspetti tradizionali, nutraceutica e prospettive colturali” tenuta dal Dott. Agronomo Giancarlo Leuzzi; seguirà la presentazione del volume “Piccolo codice del Lampascione” di Massimo Vaglio, accompagnato da uno chef che illustrerà i mille modi per trasformare il “Muscari Comosum” in piatti succulenti.

Al termine della conferenza passeggiata libera tra gli stand della festa.

 

Cena Conviviale del Pampascione

Ore 20,30

Cena conviviale presso il ristorante dell’ agriturismo “Il Rifugio” di Galugnano..

 

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Sabato 5 Marzo 2016

Un sabato da Pampascione

Ore 08,00

Sveglia e prima colazione in hotel.

Ore 09,00

Partenza per Alezio (Le) con mezzi propri per una passeggiata “insolita” alla scoperta di un itinerario che porterà dalla cripta di Santa Lucia del convento delle Suore Compassioniste alla vicina azienda olearia “Stajano” dove ci sarà la possibilità di degustare i prestigiosi olii prodotti dall’azienda. Proseguiremo con un tuffo nella gastronomia salentina, presso la masseria didattica “Mulino Stracca”, partecipando ad una breve lezione di lavorazione delle farine di grano “le mani in pasta” tenuta dalla sig.ra Simona Schirosi, che con i prodotti preparati durante il laboratorio ci preparerà sul posto un pranzo leggero ( ma non tanto ). La passeggiata continuerà con la visita all’azienda “Villa Antica” produttrice di liquori artigianali con essenze mediterranee. Nel corso della quale, ci sarà la degustazione guidata dei liquori con illustrazione dei processi produttivi.

Nel pomeriggio ci muoveremo nelle Serre Salentine: visita all’azienda agricola “I Contadini” a Felline, che coltiva direttamente, con la tecnica della produzione integrata, oltre venti ettari di ortaggi a campo aperto. Al termine ci trasferiremo a Racale per visitare il museo dell’ Emigrazione, ubicato all’ interno dello storico palazzo “D’ Ippolito”, luogo di recupero della memoria storico-culturale dell’emigrazione della popolazione appartenente ai comuni del Gal “Serre Salentine”.

A seguire ci immergeremo nella storia con la visita guidata di Casarano, uno dei contesti più belli del Salento, impreziosito dalla suggestiva chiesetta di “Santa Maria della Croce” o di Casaranello, dove sono ancora presenti resti dell’arte bizantina tra cui i preziosi mosaici paleocristiani del V secolo. In corso di visita, tempo permettendo, passeggiata nel centro storico.

Rientro in hotel per un breve riposo.

 

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Sabato 5 Marzo 2016

La Magnifica cena del Pampascione

Ore 20,30

Cena preparata e curata direttamente dai Confratelli presso la sala panoramica dell’Hotel Bellavista di Gallipoli.

 

Info e Prenotazioni: Massimo Primiceri tel. 360907820 – mail: c.pampascione@gmail.com

Gli stemmi dell’antico palazzo Rondachi di Otranto

 Presentazione

di Marcello Semeraro e Antonella Candido

 

L’identificazione di stemmi anonimi presenti su edifici, affreschi e manufatti è un esercizio molto importante non solo per l’araldista, ma anche per lo storico dell’arte. Le insegne araldiche, infatti, sono tra pochi elementi in grado di fornire uno “stato civile” (una datazione, una provenienza, una committenza) e un “contesto” all’opera su cui sono riprodotte. Questo più ampio e proficuo approccio nell’interpretazione dei segni araldici manifesta tutta la sua validità scientifica nel caso degli stemmi scolpiti sui resti dei parapetti di due balconi monumentali conservati all’interno del castello aragonese di Otranto.

Come vedremo, l’analisi storico-araldica delle insegne ha consentito di gettare una nuova luce sulle origini e le vicissitudini edilizie dello storico palazzo idruntino di via Rondachi sul quale un tempo erano collocati i balconi.

Per comodità di esposizione, preferiamo iniziare la disamina partendo dal parapetto quasi integro che fa bella mostra di sé nella sala rettangolare del castello (fig. 1).

Fig. 1. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, particolare del parapetto monumentale
Fig. 1. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, particolare del parapetto monumentale

 

Il manufatto è formato da nove lastre rettangolari in pietra locale, scomposte e allineate su una pedana. Sulle sette lastre centrali si ammirano decorazioni in bassorilievo recanti sette busti maschili e femminili in maestà, ognuno dei quali è racchiuso da un serto di alloro, tipico corollario dell’iconografia celebrativa. Sulle due lastre laterali, decorate a traforo, campeggiano due scudi sagomati con contorni mistilinei, di foggia diversa, databili al XVI secolo. Purtroppo, come spesso avviene, e contrariamente a quanto doveva essere in origine, questi manufatti si presentano oggi privi di smalti. Il primo esemplare mostra una colonna con base e capitello, sostenente un putto che impugna con la mano destra una croce latina (fig. 2); il secondo reca nel primo quarto lo stesso stemma, benché stilisticamente diverso, partito con un altro raffigurante un albero nodrito1 su un ristretto di terreno2, movente dalla punta dello scudo (fig. 3).

Fig. 2
Fig. 2. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, particolare dello stemma
Fig. 3
Fig. 3. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, particolare dello stemma di alleanza matrimoniale

 

Quest’ultimo esemplare partecipa evidentemente delle caratteristiche dell’arme di alleanza matrimoniale: a destra (sinistra per chi guarda) le insegne del marito, a sinistra (destra per chi guarda) quelle della moglie. Il balcone appare nella sua interezza in una riproduzione fotografica realizzata nel primo decennio del Novecento (1910 ca.) dai fratelli Alinari, dalla quale si evince che esso dominava il prospetto di casa Carrozzini e che gli stemmi erano posizionati ai lati del parapetto (fig. 4).

Fig. 4
Fig. 4 – Balcone di casa Carrozzini, Otranto ca. 1910, stabilimento tipografico dei fratelli Alinari (Archivi Alinari, Firenze)

 

Altre foto d’epoca con altri particolari del suddetto edificio sono contenute fra le illustrazioni del secondo volume del Tallone d’Italia di Giuseppe Gigli3, pubblicato nel 1912 (fig. 5).

Fig. 5
Fig. 5. Balcone di casa Carrozzini (dal Tallone d’Italia di Giuseppe Gigli, foto Perazzo).

 

Tuttavia, nessuno dei due stemmi poc’anzi descritti corrisponde all’arme portata dalla famiglia Carrozzini, la quale sia nella versione blasonata dal Montefusco (“un cervo che tira un carro su cui è inginocchiato un uomo nudo con le mani giunte; il tutto sulla pianura erbosa”4), sia in altre varianti lapidee attestate a Soleto, differisce per la presenza di un emblema parlante5 costituito da una carrozza o da una sua parte (la ruota). Ciò significa che la committenza del balcone deve essere ricercata necessariamente altrove. Va premesso che l’identificazione dei titolari si è rivelata un’operazione particolarmente difficile, sia per la scarsità di fonti storiche su questo edificio, sia perché il contenuto blasonico degli stemmi non è facilmente ascrivibile a famiglie note. In casi di questo genere, le ricerche mediante collazione sulle fonti più specificamente araldiche (gli stemmari) possono rivelarsi fruttuose. E così è stato per il primo stemma e per il primo quarto del secondo, mentre si possono formulare solo delle ipotesi a proposito del secondo quarto del partito. Nel celebre Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, lo storico e araldista Amilcare Foscarini descrive un’arme identica, attribuendola ai Rondachi: “una colonna con base e capitello su cui sta un puttino ignudo che impugna colla destra una croce”6. Lo stesso blasone viene riportato nello Stemmario di Terra d’Otranto di Luigiantonio Montefusco7. In entrambi i casi non si hanno indicazioni sulla cromia delle figure e del campo.

I Rondachi furono una nobile famiglia idruntina di origini greche, annoverata fra le più illustri della città dallo storico Luigi Maggiulli8 ed estinta nella seconda metà del Seicento9. Fra il XVI e il XVII secolo la casata possedette vari feudi in Terra d’Otranto, tra i quali vanno ricordati Casamassella, Castiglione d’Otranto, Giurdignano, una quota dei laghi Alimini, Serrano e Tafagnano10. Un Domenico, vissuto nel XVII secolo, fu canonico della cattedrale di Otranto oltre che dotto nelle scienze e nelle lettere11.

Fra le famiglie nobili di Otranto, i Rondachi non furono comunque i soli a vantare un’origine ellenica giacché essa è attestata anche per altre schiatte come i Leondari, i Morisco e i Calofati12. Resta da capire, dopo aver identificato la famiglia di provenienza dello stemma in esame, a quale singolo personaggio detta arma apparteneva. Sfortunatamente non è stato possibile raggiungere questo obiettivo a causa soprattutto della difficoltà di stabilire, sulla base delle fonti a nostra disposizione, dei precisi riferimenti storico-genealogici sui vari membri di Casa Rondachi.

Ancora più problematica risulta essere l’identificazione dello stemma muliebre rappresentato nel secondo quarto dell’arma di alleanza matrimoniale, allusivo, come abbiamo visto, alla consorte di un Rondachi. Ciò dipende da una serie di limiti oggettivi a cui lo studioso va incontro nella lettura dell’arme, legati sia alla composizione araldica in sé, che si presenta acroma e generica nella sua figura principale – il termine “albero” è stato non a caso usato perché non se ne conosce la specie – sia alla lacunosità delle fonti con cui poter fare un raffronto. Va osservato, a tal proposito, che fra tutte le famiglie nobili e notabili idruntine riportate dal Maggiulli e dal Foscarini, solo di alcune di esse si conosce il blasone13.

Fra queste ultime, soltanto i Cerasoli (“d’argento, al ciliegio di verde”14), i Pipini (“d’azzurro, alla quercia al naturale, sostenuta da due leoni controrampanti d’oro”15) e i Dattili (“d’azzurro, alla palma di dattero d’oro, accostata da due stelle dello stesso”16 ) innalzavano un albero come figura principale, ma nessuno dei tre blasoni, nel suo complesso, sembra corrispondere a quello in argomento. Il quadro risulta ulteriormente complicato dal fatto che, come abbiamo poc’anzi ricordato, non disponiamo di solide fonti storico-genealogiche sui vari esponenti di Casa Rondachi, dalle quali avremmo potuto ricavare dati utili per la conoscenza delle insegne araldiche delle rispettive consorti.

Nel corso delle nostre indagini, tuttavia, siamo riusciti a rintracciare una fonte che si è rivelata di notevole importanza. Si tratta di una lettera del 15 ottobre 1893, scritta dal barone Filippo Bacile di Castiglione e pubblicata nel 1935 dalla rivista Rinascenza Salentina17. Storico nonché studioso di araldica, il Bacile apparteneva ad una nobile famiglia di origini marchigiane che possedette in Terra d’Otranto i feudi di San Nicola in Pettorano e di Castiglione d’Otranto, lo stesso, quest’ultimo, che qualche secolo prima era appartenuto ai Rondachi18.

La lettera, indirizzata a Luigi Maggiulli, descrive un viaggio ad Otranto durante il quale il Bacile poté visionare di persona uno storico palazzo di cui all’epoca era proprietario tale Don Peppino Bienna. In quell’occasione egli vide sulla facciata non uno, ma due parapetti che costituivano “la parte più notevole19 dell’edificio. “Quei parapetti hanno in tre lati corti e su fondi a trafori geometrici che indicano il passaggio dal XV al XVI secolo […] tre armi: una sola con una figura; le altre con due, perchè partite, ripetendo però a destra sempre questa figura; e a sinistra un’altra. La prima, dunque, è una colonna, su piedistallo, sormontata da un puttino tenente nella destra una croce. Nelle armi partite vi è 1°: la descritta; 2°: un albero su breve terrazza direi quasi accorciata20.

Il secondo parapetto, posto “in linea quanto divergente dal primo ma, tripartito e con bassorilievi21, conteneva dunque un terzo scudo che replicava la stessa combinazione d’armi per alleanza coniugale che abbiamo osservato nell’esemplare riprodotto nella figura 3. Ammirato dalle fattezze dell’edificio, il Bacile volle cercarne i proprietari originari e seppe era appartenuto alla famiglia Rondachi “che si era imparentata con la Scupoli, a cui dovrebbe appartenere la 2° partizione delle due armi22.

Si tratta di un documento importante perché oltre a confermare la committenza Rondachi, offre anche un indizio per l’identificazione dello stemma muliebre. Di origini ignote e non annoverata dal Maggiulli fra le più illustri di Otranto, la famiglia Scupoli divenne celebre per aver dato i natali a Lorenzo (*1530 †1610), chierico teatino nonché autore del celebre Combattimento spirituale23, e probabilmente anche a Giovanni Maria Scupola, pittore otrantino contemporaneo dei fratelli Bizamano24. Purtroppo non si conoscono altre attestazioni dell’arma portata da questa famiglia.

Allo stato attuale delle nostre ricerche non possiamo pertanto né confermare né confutare l’ipotesi di attribuzione del quarto muliebre suggerita al Bacile che, tuttavia, va tenuta in considerazione in vista di ulteriori, auspicabili approfondimenti. Nella lettera summenzionata si parla anche di un secondo parapetto presente sulla facciata, che dovette essere di dimensioni minori rispetto al primo. Fino a qualche settimana fa i resti di questo manufatto giacevano isolati e decontestualizzati nella sala triangolare del castello.

Tuttavia, grazie al nostro interessamento, si è provveduto a spostarli nell’adiacente sala rettangolare, dove sono attualmente ammirabili. Essi corrispondono perfettamente a quanto descritto dal barone di Castiglione. Si riconoscono tre lastre rettangolari decorate con pregevoli bassorilievi che riproducono diverse figure, comprese tre colonne che sembrano avere una relazione allusiva con l’arma Rondachi (fig. 6).

Fig. 6
Fig. 6. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, particolare delle lastre del parapetto del secondo balcone di palazzo Rondachi

Una quarta lastra, che si presenta in uno stato frammentario, reca scolpito su un fondo a traforo uno blasone partito Rondachi – (Scupoli?) del tutto simile a quello raffigurato sul parapetto maggiore, sebbene la composizione risulti stilisticamente differente (fig. 7).

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Fig. 7. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, frammenti della lastra del parapetto del secondo balcone di palazzo Rondachi, con stemma partito Rondachi – (Scupoli?).

 

L’analisi dell’araldista salentino presenta, invece, alcuni aspetti problematici per quanto riguarda il numero originario delle lastre del parapetto più grande. Egli, infatti, descrive “cinque scompartimenti racchiusi in elettissimi pilastrini” recanti “cinque medaglioni con teste che sporgono da serti circolari25, mentre se ne contano due in più nelle foto novecentesche di casa Carrozzini e nel manufatto visibile nella sala rettangolare del castello. Riteniamo che questa divergenza si possa spiegare ipotizzando un errore di conteggio da parte dello studioso. Tale supposizione si basa sul fatto che la sequenza dei sette busti raffigurata su ogni pannello difficilmente troverebbe una spiegazione se non venisse considerata come parte integrante dell’intero corredo decorativo della parte frontale del parapetto maggiore, lo stesso manufatto, peraltro, che qualche anno dopo apparirà nella sua interezza nelle riproduzioni novecentesche del balcone di casa Carrozzini.

E’ probabile che ogni busto racchiuso dalla corona d’alloro sia da intendersi come allusivo ad un personaggio di Casa Rondachi e che, di conseguenza, l’insieme costituito dai bassorilievi figurati e dalle insegne araldiche agnatizie e matrimoniali (che all’epoca erano sicuramente radicate nell’esperienza visiva degli osservanti) sia stato ideato per celebrare la famiglia proprietaria del palazzo nonché per ostentarne il rango. E’ bene precisare, però, che allo stato attuale delle nostre indagini queste considerazioni sono e restano delle mere ipotesi, da prendere con le dovute cautele.

Da un punto vista cronologico e stilistico, entrambi i parapetti presentano fattezze ascrivili al XVI secolo, probabilmente opera raffinatissima di Gabriele Riccardi26. Nel primo decennio del Novecento lo storico palazzo sito in via Rondachi dovette subire dei rimaneggiamenti che andarono a modificare in parte la struttura della facciata, tanto è vero che il prospetto dell’edificio, nel frattempo divenuto casa Carrozzini, era costituito da un solo balcone.

Le vicende che interessarono questa dimora nel lasso di tempo successivo a quello documentato dalle foto presentano, invece, non pochi lati oscuri. Stando a quanto si ricava dall’introduzione alla lettera del Bacile – pubblicata, come abbiamo visto, dalla rivista Rinascenza salentina agli inizi del 1935 – a quella data l’edificio non esisteva più perché fu abbattuto a causa delle sue precarie condizioni27. Si apprende che grazie all’interessamento del Maggiulli e della Soprintendenza ai Monumenti della Puglia e alla munificenza della famiglia Bienna, i pezzi del balcone furono smontati, affidati all’amministrazione comunale e conservati “in apposito luogo28.

Di parere diverso è lo studioso Paolo Ricciardi, secondo il quale casa Carrozzini fu acquistata dall’arcivescovo Cornelio Sebastiano Cuccarollo (1930-1952) e abbattuta dal suo successore Mons. Raffaele Calabria (1952-1960) per far posto ad una palazzina attualmente utilizzata come archivio diocesano (piano terra) e uffici pastorali (primo piano)29.

Comunque sia, delle lastre lapidee dei due parapetti si perse ogni traccia fino agli inizi degli anni ’90, quanto esse furono rinvenute all’interno del materiale di riempimento del fossato del castello aragonese e collocate nelle sale interne della fortezza idruntina. Ulteriori e più puntuali indagini, basate soprattutto su fonti archivistiche, potranno chiarire meglio le fasi e le vicissitudini edilizie a cui andò incontro quella che un tempo era l’antica dimora di una nobile famiglia otrantina della quale oggi non restano che i frammenti degli antichi balconi e un’intitolazione toponomastica a perpetuarne la memoria.

 

* Desidero esprimere il mio più profondo ringraziamento alla dottoressa Patricia Caprino (Laboratorio di Archeologia Classica dell’Università del Salento), alla quale va il merito di avermi segnalato il caso, suscitando il mio interesse e la mia curiosità. Un ringraziamaneto particolare va anche a Mons. Paolo Ricciardi, noto cultore di storia otrantina, per la sua generosa disponibilità. (Marcello Semeraro)

  1. Si dice di vegetali che nascono o escono da una figura o partizione.
  2. Terreno che è molto ridotto o isolato da entrambi i lati.
  3. Cfr. G. Gigli, Il tallone d’Italia: II (Gallipoli, Otranto e dintorni), Bergamo 1912, pp. 86-87.
  4. Cfr. L. Montefusco, Stemmario di Terra d’Otranto, Lecce 1997, p. 35.
  5. Le armi o le figura parlanti sono quelle che recano raffigurazioni allusive al nome del titolare.
  6. A. Foscarini, Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Lecce 1903, rist. anast. Bologna 1978, vol. 1, p. 181.
  7. Cfr. L. Montefusco, op. cit., p. 106.
  8. Cfr. L. Maggiulli, Otranto: ricordi, Lecce 1893, p. 97.
  9. Cfr. A. Foscarini, op. cit., p. 181.
  10. Cfr. ibidem; cfr. inoltre L. Montefusco, Le successioni feudali in Terra d’Otranto: la provincia di Lecce, Lecce 1994, ad voces.
  11. A. Corchia, Otranto toponomastica, in Note di storia e cultura salentina (a cura di F. Cezzi), Galatina 1991, p. 133.
  12. Cfr. A. Foscarini, op. cit., pp. 32, 118, 146. Quello delle famiglie nobili di origine ellenica giunte in Terra d’Otranto e, più in generale, nel Sud Italia per sfuggire alla dominazione ottomana, resta un fenomeno tutto sommato poco esplorato dagli studiosi. L’araldica, da questo punto di vista, potrebbe fornire un interessante terreno di ricerca.
  13. Cfr. L. Maggiulli, op. cit., pp. 93-104; A. Foscarini, op. cit., ad voces.
  14. Cfr. A. Foscarini, op. cit., pp. 46-47.
  15. Cfr. ivi, pp. 169-170.
  16. Cfr. ivi, p. 59.
  17. Cfr. F. Bacile, Il palazzo dei Rondachi in Otranto, in Rinascenza salentina, 1 (gen-feb 1935), pp. 42-45.
  18. Cfr. A. Foscarini, op. cit. p. 16.
  19. Cfr. F. Bacile, op. cit., p. 43.
  20. Cfr. ivi, p. 44.
  21. Cfr. ibidem.
  22. Cfr. ivi, p. 45.
  23. Cfr. P. Ricciardi, Lorenzo Scupoli e il presbitero Pantaleone. Due maestri idruntini intramontabili e universali, Galatina 2010, pp. 9-10.
  24. Cfr. ivi, p. 307.
  25. Cfr. F. Bacile, op. cit., p. 44.
  26. Cfr. M. Cazzato, V. Cazzato (a cura di), Lecce e il Salento. Vol. 1: i centri urbani, le architetture e il cantiere barocco, Roma 2015, pp. 320-321.
  27. Cfr. F. Bacile, op. cit, p. 42.
  28. Cfr. ibidem.
  29. Cfr. P. Ricciardi, Otranto devota, Galatina 2015, p. 255.

 

Salento, con i suoi miti e leggende

Ulisse e le Sirene di Herbert James
Ulisse e le Sirene di Herbert James

 

di Felicita Cordella

Mille storie salentine narrano di delfini, di sirene, di dei e semidei, di ninfe e satiri.

Una sirena a due code di nome Leucades o Leucasia insieme con due amiche sirene, Partenope e Ligia, cantava e suonava divinamente. Perseguitate e sconfitte da Ulisse, che non cede alle loro seduzioni, le tre sirene si inabissano alla volta di altri mari. Leucasia, nuotando, giunge al Capo di Leuca dove vede un pastore che suona il flauto e se ne innamora. Leucasia inizia il suo canto irresistibile, ma il pastore, Mèliso, ama Aristula. Quando Leucasia sorprende i due amanti, pazza di gelosia, scatena una tempesta. I due giovani, scagliati sulla scogliera, muoiono.

Ma la dea Athena, impietosita, li trasforma nelle due punte che chiudono la baia di Leuca: Meliso e Ristola.

Leucasia è, nel mito, la fondatrice di Leuca, proprio come Partenope lo è di Napoli. Quante leggende sull’origine delle nostre bellezze naturalistiche! Non è inconsueto incontrare lungo la costa pescatori che, mentre riparano le nasse, hanno voglia di raccontarci qualcuno di questi antichi “cunti”.

Citata perfino da Erodoto, la leggenda di un certo Arione al servizio del tiranno di Corinto, Periandro, che si guadagnava da vivere cantando. Imbarcatosi a Taranto su una nave di Corinzi, fu minacciato di essere gettato in mare dai marinai che volevano derubarlo. Egli espresse un ultimo desiderio, chiese di poter cantare accompagnandosi con la sua cetra, poi si sarebbe buttato in mare. Cantò in onore di Apollo e un delfino, incantato dalla sua voce, lo prese sul dorso e lo trasse in salvo. Molte le storie di delfini che comprendono il linguaggio degli uomini.

Pausania parla di un navigatore che, durante il nafragio della sua nave ,viene messo in salvo da un delfino , che lo porta sul dorso fino alla terraferma. E’ Taras, il mitico fondatore della città di Taranto. Nella mitologia spesso il dio Apollo prende le forme di un delfino e a Creta viene adorato come Apollo Delfinio.

Anche il dio Poseidone prende talvolta le fattezze di un delfino e Afrodite, la dea della bellezza nata dal mare, è spesso raffigurata in mezzo a delfini.

Le storie di delfini e di sirene ci riportano alla civiltà cretese, alla Grecia, all’Oriente. Nella civiltà minoica i delfini erano adorati come dei, perché trasportavano i morti nelle isole dei Beati, ai confini dell’universo. In ciò credettero anche gli Etruschi, mentre i Cristiani raffiguravano come un delfino l’anima che raggiunge la salvezza. E talvolta il delfino rappresenta Cristo.

Un cenno merita il mito di Ercole. In una delle sue mitiche fatiche, il semidio scaraventò dall’Olimpo i giganti Luterni e li uccise nella terra dei Messapi.

Dal loro corpo in dissoluzione nacquero le acque sulfuree di Ugento, Leuca e Santa Cesarea. Anche su olivo e olivastro abbiamo interessanti narrazioni mitologiche. L’olivo era per i Greci pianta sacra ad Athena, dea della sapienza.

Ma la bellicosa dea venne a contesa col dio Poseidone, che voleva la pianta sotto la sua protezione. Athena ne uscì vincitrice e da allora l’olivo, oltre ad essere simbolo di prosperità e pace, divenne simbolo della città di Atene e di tutta l’Attica. Dell’olivastro di Messapia, invece, abbiamo notizia da Ovidio, il quale nelle “ Metamorfosi “ narra il mito di un pastore malvagio che maltrattava uomini, animali e piante. Il dio Pan, che vagava nei campi, decise di punirlo trasformandolo in un albero che non dà frutto commestibile, ma amaro: l’olivastro.

Infiniti e affascinanti racconti, dunque ,descrivono e ornano con merletti di memorie le ricchezze di questa nostra terra. Magia di intrecci tra storie e credenze, accadimenti e atavici riti; meraviglia di un immaginario collettivo che si sbriciola in diamanti da mille sfaccettature, in caleidoscopio da sfumature infinite.

Il Salento dei tumori e la “decarbonizzazione”: un nodo sempre più intricato per Emiliano

Ulivi vita millenaria da salvare - ''l'Ulivo urlatore'' - Salento, entroterra otrantino, ARCHIVIO FORUM AMBIENTE E SALUTE
ARCHIVIO FORUM AMBIENTE E SALUTE

 

di Pier Paolo Tarsi

 

C’è del marcio nel Salento, c’è da molto tempo ad esser proprio pignoli, il fatto nuovo è che adesso… c’è del marcio nel Salento! Confusi? Tranquilli, si tratta solo di una normalissima esperienza di déjà-vu oppure, peggio, il preludio di un eterno ritorno. È la stessa sensazione alla quale i salentini si stanno già abituando, ad esempio leggendo dei risultati del clamoroso Report Ambiente Salute, recentemente reso pubblico alla presenza di Emiliano in persona. Questo Report infatti non svela ma al più aggiorna, conferma e precisa uno scenario cupo di cui il territorio è ben consapevole da anni: come a dire, repetita iuvant. Del resto, tutto ciò non dovrebbe sorprendere nemmeno i lettori del nostro sito: basta loro una ripassata di questo nostro articolo comparso meno di tre anni fa per accedere al déjà-vu (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/11/05/vieni-a-ballare-in-puglia-se-ne-hai-il-coraggio/). Tuttavia, l’aspetto forse innovativo in questo Report rispetto al passato sembra essere la sua più esplicita indicazione e la modellizzazione di relazioni tra il triste primato salentino per tumori polmonari, la specificità geografica del territorio e il contestuale inquinamento dell’aria. Emerge (eureka!) da tale quadro la necessità di una rapida “decarbonizzazione” pugliese per ridurre i contaminanti: per Emiliano è ormai una parola d’ordine, un imperativo. Sorgono qui per noi almeno due piste di interrogativi e riflessioni.

La prima pista è quella che guarda d’obbligo all’epoca appena conclusasi in Puglia, il decennio di Vendola. Un nodo centrale della sterminata ragnatela di narrazioni delle quali dava prova l’ex-governatore SEL di Puglia era sicuramente l’ecologia, tanto da fregiarsene nel nome stesso del suo partito. Viene il dubbio però che si trattasse soprattutto di ecologia oratoria o nominale. Come mai infatti durante questa lunga stagione non si è avviato alcun profondo processo di “decarbonizzazione” della Puglia? Non se ne ravvedeva l’urgenza? Eppure, già nel 2006, quando Vendola ancora rodava il suo primo governo, in un rapporto INES disponibile sul sito dell’ARPA Puglia (Si veda “LE EMISSIONI INDUSTRIALI IN PUGLIA – Rapporto sulle emissioni in atmosfera dei complessi IPPC”, Cap. 3”) erano riportati dati che, ci pare, avrebbero suggerito il palese bisogno di un energico processo di riconversione a chiunque, figuriamoci ad un ecologista!

Vediamone alcuni: la Puglia da sola produceva il 91,96% di tutte diossine prodotte in Italia, mentre una regione come Lombardia raggiungeva il 4,32%. Il primato assoluto italiano della Puglia valeva anche per emissione di anidride carbonica (il 21,23 %, una regione come la Lombardia si fermava al 13,24%, il Lazio al 6,07%), emissioni di Monossido di Carbonio (81,11%, seconda la Lombardia con il 3,69%), emissioni di Particulate Matter (Puglia 62,23%, seconda classificata la Sardegna, con il 7,91%), ancora, emissioni di Benzene col 46,13% (seguiva la Sicilia col 26,16%, terza la Lombardia col 9,87 %), ossidi di azoto (prima la Puglia, col 19,63%, seguita da Sicilia, con l’11,65%), ossidi di zolfo (prima classificata ovviamente la Puglia con il 23,27%).

La seconda pista di riflessioni tende a guardare all’oggi e all’immediato futuro, un orizzonte le cui variabili iniziali sono le più audaci conclusioni nelle penne di chi stende i report e un anti-renziano al governo della Puglia al posto di Vendola, divenuto quest’ultimo nel frattempo un baby privilegiato interessato a X-Factor e alla farneticazione cosmopolitica. Chi si dedica a questioni più importanti e urgenti per il destino dei pugliesi, tipo la vicenda TAP, sa che Emiliano ha avanzato formalmente una controproposta in modifica del progetto avallato dal governo centrale.

Il piano di Emiliano – preannunciato in campagna elettorale, presentato a dicembre e da allora in attesa di un una risposta di Renzi – prevede uno spostamento dell’approdo del gasdotto da San Foca (Lecce) a Brindisi, una mossa questa che spianerebbe la via della decarbonizzazione e della riconversione al metano dei siti più inquinanti presenti proprio a Brindisi (Cerano e Petrolchimico) e a Taranto (Ilva, convertibile in parte). Oltre a placare le forti proteste degli ambientalisti salentini, preoccupati dell’impatto ambientale devastante di TAP a San Foca (tanto sulle coste quanto sulle distese di uliveti dell’entroterra già assediati peraltro per la questione Xylella), questo piano ridimensiona anche i margini di argomentazione polemica degli oppositori come i pentastellati, i quali guardano sostanzialmente a una “decarbonizzazione” senza gas. In questo contesto preciso si inserisce il già menzionato Report di alcuni giorni fa. Prima della sua declamazione ufficiale il quadro era il seguente per Emiliano: da una parte c’era l’attesa di una risposta di un Renzi per nulla propenso a darla vinta all’inviso interno, l’ideatore di un probabilmente felice compromesso dei bisogni del governo e del territorio; dall’altra vi era un fronte di protesta in parte sopito e in parte circoscritto dal compromesso proposto dal governatore di Puglia. Il clamore e le varie reazioni a catena innescate dal Report giungono dunque come un rullo compressore che preme sia sul silenzio di Renzi, sempre più imbarazzante di fronte alle cifre da eccidio salentino per tumore, sia come un ulteriore colpo ai già risicati margini argomentativi dei pentastellati. L’urgenza della “decarbonizzazione”, rimarcata e amplificata dal Report, si ripercuote immediatamente sulla questione TAP, anello centrale nella visione di Emiliano e chiave di volta per chiudere molti conti. Questi ne è talmente consapevole che, negli stessi giorni in cui forte risuona l’eco e l’impressione di questo Report, da una parte propone la via di un decreto speciale per recepire le sue proposte di modifiche (http://www.ansa.it/puglia/notizie/2016/02/18/emilianosi-dl-per-approdo-tap-brindisi_134a5971-17a8-431f-acb1-41b2b3ee0eba.html), dall’altra tratta di TAP anche in Commissione parlamentare antimafia (http://www.regione.puglia.it/index.php?page=pressregione&opz=display&id=20000), inanellando il collegamento da un discorso all’altro come fosse alle prese con il più tipico percorso di una tesina da esaminando: in succo, la realizzazione di un approdo della TAP a San Foca favorirebbe secondo Emiliano gli interessi mafiosi nel territorio, dunque la soluzione auspicabile è ancora una volta la sua, Brindisi! Consegnando questo Report all’opinione pubblica alla sua stessa presenza, il governatore preme insomma con un solo colpo su Renzi affinché non ignori ulteriormente la controproposta, smorza il potere polemico che potrebbe crescere intorno agli scetticismi dell’opposizione pentastellata e segna il primo vero punto agli occhi di molti pugliesi sul suo predecessore, battendolo su una battaglia dalle tinte ecologiche, un attributo quest’ultimo che da nominale diverrebbe forse più ontologicamente fondato nell’azione di Emiliano. Tutto fin qua lascia presagire uno scacco matto con una sola mossa sui tavoli da gioco di tutti gli avversari, esterni e interni, passati e futuri. Sembra vicina la luce per Emiliano finché non arriva, proprio in queste ore, il colpo di scena, l’imprevisto capace di rimettere tutto o almeno molto in discussione, complicando enormemente la partita in gioco.

Cosa? È presto detto: la firma in data 24 febbraio 2016 dell’intesa per un nuovo gasdotto con approdo previsto nell’incantevole Otranto, nei pressi di San Foca! Ancora un déjà-vu? L’inizio di un ennesimo eterno ritorno? Giudichino i lettori. Di certo gli argomenti di Emiliano sugli interessi mafiosi sono già vanificati, colpiti a distanza di poche ore dalla capitale. Di certo nel Salento ambientalisti e i sostenitori di una via alla decarbonizzazione senza gas avranno nuove importanti ragioni dalla loro, e non poche, ci pare. Renzi può forse riprendere fiato, ma i salentini? Ciò che Renzi prospetta loro è un futuro terribile, da incubo: un Salento che respirerà la stessa aria di oggi e in più terra d’approdo di gasdotti (almeno due al momento) che avranno un impatto negativo sull’attrattività locale e sul paesaggio. E mentre i pentastellati rifiutano l’uno e l’altro (“decarbonizzazione” senza metano), Emiliano si colloca in mezzo: TAP si, ma a Brindisi, primo passo di un (non sappiamo quanto fattibile ma comunque annunciato) percorso di “decarbonizzazione” dei poli maggiormente inquinanti.

Un compromesso finora ragionevole e vincente agli occhi di chi scrive (non proprio un simpatizzante di Emiliano) in quanto accoglie il gasdotto come vuole il governo centrale, smorza le proteste che si addensano intorno a San Foca per il territorio, e appare più concreto e meno utopico della visione pentastallata, soprattutto dopo l’impressione suscitata dal nuovo Report Ambiente Salute (non a caso, crediamo, reso pubblico alla presenza di Emiliano) che evidenzia l’urgenza di una decarbonizzazione in riferimento ai tassi di tumori polmonari nel Salento.

Il fatto nuovo è questa intesa appena firmata a Roma per un nuovo gasdotto che interessa Otranto. Questo crea una crepa nella soluzione del governatore, il quale portando TAP a Brindisi non risolverebbe comunque il problema dell’impatto di un approdo nel basso adriatico salentino. Una crepa che, se da una parte fa sorridere forse Renzi, dall’altra potrebbe ridonare vigore all’idea più radicale di una “decarbonizzazione” senza gas, una proposta magari meno immediatamente traducibile in azione ma unicamente in grado di salvaguardare al contempo la salute e il paesaggio salentino.

A Lecce| Iside e la Wunderkammer della fertilità

ISIDE E LA WUNDERKAMMER DELLA FERTILITA’

Progetto di arti visive, sonore e performative contemporanee

a cura di Dores Sacquegna

PALAZZO VERNAZZA, Vico Vernazza 8, Lecce

Aperto tutti i giorni: 17:30-20:30h      TEL: 349 37 20 659-

OPENING 2 MARZO ORE 18,00

 

Palazzo Vernazza, dimora signorile del’500 a Lecce, fornisce lo spunto per un progetto interdisciplinare diversificato tra mito e contemporaneità e che omaggia la storia di una città e del suo territorio circostante. Dopo un lungo restauro della location, gli archeologi hanno portato alla luce i resti del Tempio di Iside e del Purgatorium, un battistero pagano dedicato alle abluzioni di culto e alle purificazioni dei seguaci prima di accedere al tempio. “Iside e la Wunderkammer della fertilità”, è un evento unico nel suo genere e che offre alla città di Lecce nuove modalità di apprendimento delle pratiche ed esperienze artistiche contemporanee, attraverso un colloquio inscindibile tra arte visiva, sonora e performativa, curato da Dores Sacquegna, curatrice e Art Director di Primo Piano LivinGallery di Lecce. L’evento realizzato per Itinerario Rosa 2016 (percorso al femminile giunto alla 18a edizione) e patrocinato dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Lecce, propone un dialogo tra spazio istituzionale e pubblico, tra artisti e curatore, nell’intenzione di creare valide connessioni ed una rete di turismo culturale privilegiata.

NIKOS KORNILIOS_Matriarchy_2014
NIKOS KORNILIOS_Matriarchy_2014

 

Su Iside dea egiziana – venerata in tutto il bacino del Mediterraneo come dea della fertilità, dell’abbondanza, della natura e protettrice dei naviganti – si innesta questo progetto visionario che scandaglia enigmi e concetti filosofici del pensiero greco, latino ed egizio per restituire al visitatore un percorso sensoriale in un sito rituale e labirintico, in un luogo senza tempo dove regna ancora il mito di Iside, e dove suoni e voci echeggiano da una sala all’altra, e dove colori e luci ancestrali riportano nel grembo materno alla ricerca di se stessi. Facendo tesoro di questa storia antica e sotto la regia della curatrice, gli artisti invitati alla rassegna si interfacciano con il mito di Iside, divenendo essi stessi custodi e guerrieri di un affascinante tableaux. Palazzo Vernazza diventa così, un centro di benessere per la mente ed il corpo, dove ciascuno liberamente accede e si alimenta di stimoli sensoriali e percettivi.

Il percorso iniziale è l’”Apodyterium” incentrato sul concetto visuale, rituale e misterico della Dea quale simbolo della fertilità, natura, abbondanza, agricoltura con le opere-doni degli artisti della sezione “Atlante della Fertilità”. Seguono canti e danze quale rito di Purificazione con il Coro A.M.Family diretto da Elisabetta Guido, cantante ed autrice jazz, la quale presenterà in anteprima nazionale un brano tratto dal suo ultimo cd “The good storyteller” in uscita a breve per Dodicilune Records. Dal “Podyterium” all’”Anti-Tepidarium”, attraverso un percorso luminoso ed effervescente dove ci si libera da ogni cosa che possa richiamare la realtà quotidiana per incontrare gli enigmi celati nelle maglie della memoria e che si riconoscono come frammenti nelle opere degli artisti in mostra.

CATERINA ARCURI_terreno incorporeo,sublime infinito_2016
CATERINA ARCURI_terreno incorporeo,sublime infinito_2016

 

Passaggi segreti e cunicoli, tappeti umani che plasmano lo spazio, installazioni luminose che abitano l’aria, video-story sui concetti di società, sessualità, politica, maternità, uguaglianza e non-violenza, portano il visitatore verso il “Tepidarium” che rievoca il concetto di acqua come rinascita e trasformazione, come viaggio e oblio sino ad arrivare all’”Hammam”, il luogo dove Massimiliano Manieri e Michaela Stifani attendono immobili in un contenitore che li contiene nella performance “Human Box” con la partecipazione sonora del musicista salentino Giorgio Distante.

Il percorso continua con oggetti simbolici, tavoli imbanditi e cinema per immergersi totalmente nelle abluzioni di culto visionarie in mostra per poi tornare ciascuno sui propri passi nel “Motus Floris” di Richard Ashrowan e assistere alle performance sonore dei SalentAutori che comprende gli artisti “Alea”, il duo “Blumia”, il duo “The Bravo“, il duo “The light time” e “Cecilia Ramone”.

 

AUTORI IN MOSTRA

VISUAL ART & CINEMA: Giovanni Alfonsetti|Italia; Laetitia Ambroselli|Francia; Caterina Arcuri|Italia;Richard Ashrowan|Scozia; Lara Bobbio|Italia; Loredana Campa|Italia; D&S|Italia; Pina Della Rossa|Italia; Giulio De Mitri|Italia; Angioletta De Nitto|Italia; Cor Fafiani|Olanda;Fosca|Italia; Chiara Fersini|Italia; Silvia Maria Guarnieri|Italia; Marcello Gobbi|Italia; Irma Hinghofer-Szalkay|Austria; Milena Jovicevic|Montenegro; Nikos Kornilios|Grecia; Giovanni Lamorgese & Davide Curci|Italia; Margherita Levo Rosenberg|Italia; Concetta Masciullo|Francia; Katarina Norling|Svezia; Eva Orszagh|Polonia; Adriano Radeglia|Italia; Lucia Rotundo|Italia; Lorella Salvagni|Italia; Andria Santarelli|Francia; Rosemarie Sansonetti|Italia; Vito Sardano|Italia; Delia Sforza|Italia; Tarshito|Italia; Antonella Zito|Italia.

PERFORMANCE & MUSICA: Massimiliano Manieri & Michaela Stifani|Italia; Giorgio Distante|Italia; SalentAutori|Italia; Elisabetta Guido & Coro A.M. FAMILY|Italia; Cecilia Ramone|Italia.

Catalogo Edizioni Primo Piano (presto anche online, info:primopianogallery@gmail.com)

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L’umile ma utile canna domestica

 canne

di Mimmo Ciccarese

“Siamo proprio come le canne al vento,  Ester mia. 

Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento” 

(da “Canne al vento” di Grazia Deledda)

 

Pianta antichissima, certamente utilizzata dagli antichi messapici, che pare utilizzassero i suoi culmi come unità di misura (2,50 cm), oltre che per scrivere e disegnare.

Nel ventoso territorio salentino le canne non mancano mai, anche perché perenni,  ritrovandosi assai frequenti in luoghi prevalentemente umidi o acquitrinosi dolci o salmastri, sebbene non sia una pianta acquatica.

Oggi considerate infestanti, un tempo erano assai utilizzate per svariati scopi, ma soprattutto per realizzare con i suoi fusti gli insostituibili cannizzi, sui quali si collocavano principalmente fichi e pomodori da essiccare nei mesi estivi, ma anche per procurarsi ombra nelle ore più calde, per proteggersi durante la falciatura del grano, per la fabbricazione di còfane e panari. I fumatori sapevano ben scegliere quelle dal giusto calibro, visto che da una parte del fusto ricavavano parti della pipa, come celebra il proverbio dell’alto Salento: “ci uei fumi tuttu l’annu pippa te crita e cannuccia ti canna”.

Con quelle più lunghe ed elastiche, i cosidetti masculini, si poteva andare a pesca o le si utilizzava come supporto per fissare i pennelli con cui tinteggiare i muri. Con quelle più tozze si costruivano le matassareddhe, per incanalare i legnetti del telaio sul tessuto, ma anche come sagome per fare la pasta casareccia ed alcune tipologie di dolci da riempire con crema. E ad esse si ricorreva anche per realizzare i giochi dei bambini, tra i quali senz’altro gli aquiloni (prumete o cumete), dei quali ne costituivano lo scheletro su cui poi si attaccavano i fogli di carta velina. Frequente anche l’utilizzo per i terribili fucili a molla, o per ricavarne cerbottane a fiocchetto, fischietti, girandole, trottole (curruli) ed archi da tiro. Non ci risultano altre piante dall’utilizzo così svariato.

Forse particolarmente abbondanti dovevano essere in quel di Cannole, un piccolo centro vicino ad Otranto, che la volle riprodurre nel suo stemma municipale. La tradizione vuole che le distese di queste piante sarebbero state utili ai residenti per nascondersi in occasione delle tanti invasioni turche.

Appartenente alla Classe delle Monocotyledones, Ordine delle Cyperaceae, la Famiglia è quella delle graminacee. Il suo nome scientifico è Arundo donax L.

Le canne hanno molto bisogno di acqua per crescere, anche fino a 5 cm giornalieri di lunghezza durante i mesi primaverili, fino a raggiungere, in condizioni ideali, i cinque metri in altezza, con un diametro di tre centimetri. Sarebbero ottime se assunte come robuste siepi frangivento.

Le foglie lanceolate, rastremate in punta, presentano un ciuffo peloso alla base. I semi sono raramente fertili e la loro riproduzione avviene attraverso rizomi sotterranei, tipicamente legnosi e nodosi, che penetrano fino ad spannare anche un metro di profondità, insinuandosi tra gli interstizi del terreno e diffondersi come una colonia di radichette tra gli strati superficiali più compatti e paludosi.

La consistenza legnosa del fusto o culmo è eccellente per realizzare ance per flauti, clarinetti e cornamuse; è fonte di cellulosa per l’industria cartiera e grande serbatoio di stoccaggio di carbonio nel suolo agrario, fino a venti volte in più di una coltura annuale.

L’infiorescenza della pianta è una pannocchia fusiforme, di colore marrone, lunga circa 40-50 cm; la sua fugacità viene celebrata dai salentini con uno stornello che ancora si ricorda: “Fiorin di canna, nu crìtere alla tonna ca lusinga, prima tice t’amu e poi te inganna, fiorin di tutti i fiori, fiorin di canna”.

Al di là delle note di folklore rispetto alle altre piante ha un alto coefficiente fotosintetico che le conferisce un alto pregio ecologico. Uno degli aspetti importanti è la sua capacità di bonificare e decontaminare gli ambienti molto inquinati da metalli pesanti o reflui organici urbani e zootecnici. È infatti una pianta fitodepuratrice, che iperaccumula tratti di terreni senza peraltro dimostrare alcuna sofferenza.

 

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

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