Arte| Marco De Mirto: mistico pagano

de mirto
fig. 1, Casuario-trasportatore d’uovo, olio su tela, cm 90×90

 

di Raffaele De Giorgi

Schivo, essenziale, introverso, eccentrico (da intendersi qui letteralmente nell’accezione prima greca -ἔκκεντρος- e poi latina –eccentrus- di “fuori dal centro”) e pur contemporaneamente naturale, integro, adamantino, profondo: così è qui l’Artista e così è anche – spontaneamente – la sua opera (non solo quella pittorica). Autodidatta di raro talento, Marco De Mirto frequenta in gioventù l’Istituto d’Arte salentino scegliendo poi di avviarsi solingo per i sempiterni calli della recherche artistica, non a caso maturata ab initio – armonicamente e in parallelo – con la sue sperimentazioni musicali.

La sua è una figurazione iperrealista ma non troppo, a suo modo ‘magica’ perché profanamente mistica, che si allarga poi motu proprio dal particolare al generale: una riflessione obbligata sull’universo con tutte le sue “sfumature di grigio”, così come lo sono i suoi primi studi accademici, soprattutto bozzetti di nudi e di teste. Sottili variazioni tonali volte piuttosto all’apparenza del non-colore che all’impeto cromatico; il che richiama scientemente alla mente l’Ottocento di certa Académie française un po’ pompier e, nello specifico, i sentieri espressivi di artisti quali William-Adolphe Bouguereau.

de mirto1
Elmo (fig. 2, olio su tavola, 43×27 cm)

 

Da qui, nel corso del tempo, il Nostro si è poi lasciato gradualmente sedurre dallo studio di contenute e quasi rarefatte gamme cromatiche come se la ricerca del colore dovesse de facto essere necessariamente una riflessione austera e contenuta, cercando al contempo di ritrovare strenuamente una dimensione dell’animo umano ormai quasi svanita per sempre e, per questo, tragicamente impalpabile, languidamente evanescente. Ecco dunque che le infinite variazioni sul tema della Vanitas sono per l’Artista occasione connaturata per meditare costantemente e in profondità sul destino dell’intero creato e sull’ampia gamma delle conseguenti implicazioni etiche, teoretiche ed escatologiche.

de mirto2
fig. 3, Capra mistica, olio su tela, cm 50×40

 

Ebbene l’Artista è pure lucidamente cosciente del fatto che, ahimé, il mondo non è solo pax æterna atque harmonĭa dato che la Natura porta (sempre e comunque) con sé il suo pesante, inclito fardello; esso è però allo stesso tempo spontaneamente foriero di ciclica rinascita e di schietta rigenerazione proprio tramite il transfert demiurgico dell’arte: un miracolo profano che si rinnova ciclicamente e che si esplicita qui nella meta-serie di I trasportatori di uova (fig. 1, Casuario-trasportatore d’uovo, olio su tela, cm 90×90).

Ad ogni modo, a livello fattuale, l’essenza pittorica di De Mirto è maturata diacronicamente non prescindendo mai da un altro importante tassello espressivo, anch’esso maturato in primissima gioventù: la passione-ragione per l’illustrazione, cosicché la matrice fondante della sua arte – ora come allora – porta a una rappresentazione dettagliata dell’esistenza in tutte le sue espressioni-impressioni. Ma tale natura è per l’appunto ‘illustrata’ agli occhi di tutti noi con evidente intimità: un ossimoro figurativo che trova il giusto equilibrio proprio nel caratteristico stile dell’Artista. E in questo ambito, colpisce poi l’attenzione del Nostro per le trame delle tele, ora di lino ora di cotone o di iuta, ora a trama fitta ora più larghe; tutto ciò porta a una molteplicità di effetti pittorici e di esiti espressivi tanto che, laddove la tela è assai ‘fine’, la pittura si distende naturalmente quasi a rendere l’effetto mobile e levigato di una tavola. E, al contrario, le tavole producono spontaneamente effetti nient’affatto scontati dove la pellicola materica affranca i soggetti rappresentati che si ancorano saldamente alle superfici, caratterizzate da tessiture assai fitte e strutturate alla stregua di vere e proprie tele, come accade in Elmo (fig. 2, olio su tavola, 43×27 cm). Ma qui gli sfondi appaiono scarni, non lavorati; anzi l’Artista lavora per sottrazione, ispirandosi a ciò che avveniva nelle opere di alcuni artisti, quali ad esempio Rembrandt, dove lo sfondo non è trattato né dipinto, rimanendo quasi inerte per creare strumentalmente e per contrasto un effetto di profondità che tende sinergicamente a esaltare plasticamente il soggetto rappresentato.

de mirto3
Fig. 4, Cerere – olio su tela, cm 50×60

 

A ciò si aggiunge una tecnica essenzialmente “alla prima”, che esclude ‘teorie di velature’ ed effetti tres léchés a favore di una resa pittorica più naturale e solidamente materica. E non finisce qui poiché, altre volte, il work-in-progess si conclude addirittura con un’imprimitura fatta di paste che si addensano bruscamente, raggrumandosi randomly in alcuni punti della trama pittorica; ed ecco che, nella Capra mistica, la tela di lino appare oltretutto “imbrattata” da un alone di sottile ironia, il che però si impone qui quasi miracolosamente ma anche con assordante serietà. Così che il celebre Agnello mistico di Van Eyck è ora ‘una capra sopra la panca’, che fiera si bea di noi con la sua austera sagoma di profilo, fatta per essere rimirata… proprio lì, a un passo da noi, ma senza possibilità alcuna di poter interagire concretamente; perché, dopo tutto, Lei è vicina ma conserva pur sempre in sé qualcosa di mistico e quindi è di fatto intoccabile. E a dimostrazione di ciò, se pur sorniona, essa custodisce dignitosamente un illustre lascito del tempo, un attributo-feticcio ancora mirabilmente effigiato sul suo bianco capo: un’aureola dipinta con ostentata, ‘incongruente’ autenticità (fig. 3, Capra mistica, olio su tela, cm 50×40).

de mirto4
Fig. 5, Intonazione (olio su tela, cm 30×40 cm)

 

A tutto ciò si affianca poi la straordinaria ricchezza iconografica dei dipinti di De Mirto, ulteriormente amplificata dalle tante modalità rappresentative; il che trasfonde a sua volta le proprie radici in un’amplissima fucina di stimoli e di rimandi figurativi che includono, con pari fervore creativo, altrettanti temi tratti dalla natura, dal mito, dall’uomo e da una cospicua messe di profondi nessi archetipici (si vedano, ad esempio, opere come Il cavaliere armato, Cerere (fig. 4 – olio su tela, cm 50×60), Ganimede, Liberté égalité fraternité, Intonazione (fig.5 – olio su tela, cm 30×40 cm), Mors tua vita mea, Davide e Golia, alias “un uccello posato sul cranio di bufalo” o, ancora, recentissimi dipinti-studi come San Giorgio e il drago. E, ancora, risaltano all’occhio inebriato dell’osservatore alcune superbe associazioni iconografiche, a un tempo fantastiche e (talvolta) volutamente paradossali, contenenti però un simbolismo assai pregnante che, peraltro, non prescinde mai da un’altrettanto acuta significazione; cosicché una Gazza cova un uovo di pterodattilo, magari dopo averlo immaginificamente depredato nel tempo da una Natura ormai “trapassata”. Si arriva quindi alle ultime sperimentazioni-meditazioni linguistiche dell’Artista, vale a dire una serie di sketch compiuti di getto, dove un fanciullo dal volto assai familiare diviene un virgulto in metamorfosi (anche interiore): un testamento dell’anima da indirizzare lietamente al mondo. Un racconto in fieri, ancora tutto da scrivere e soprattutto da figurare che, tuttavia, affonda già saldamente le radici nella bellezza del mondo, trasmessa per imagines a noi osservatori attraverso la purezza dell’infanzia… Uno straordinario afflato di arte – e quindi di vita – che ancora una volta Marco De Mirto fa magnificamente ri-apparire grazie a matite e pennelli.

de mirto5
fig. 6, sketch dalla serie Anima Mundi, biro su carta, cm 48×33

Iapige, il fantomatico progenitore di noi Salentini

di Armando Polito

L’attributo che accompagna nel titolo progenitore  è giustificato dal fatto che non molte sono le fonti che ci hanno tramandato l’onomastico Iapige.  La prima, greca, ricorre in un frammento del poeta comico Antifane (IV secolo a. C.) giuntoci per tradizione indiretta, cioè grazie alla citazione di un altro autore, che nel nostro caso è Ateneo di Naucrati (II secolo d. C.), il quale nei sui Deipnosofisti (x, 423) così scrive: Ἀντιφάνης  … ἐν δὲ Λάμπωνι: ὁ δεῖν᾽ Ἰᾶπυξ, κέρασον εὐζωρέστερον (Antifane nel Lampone (Antifane ne Il lampone [dice]:   – Abile Iapige,  mesci vino più schietto! – ).

Non appare identificabile questo cameriere ante litteram con il personaggio del titolo, non per stupidi motivi di prestigio (chiunque, teoricamente, può assurgere ad un ruolo diverso da quello abituale) ma proprio per la sua natura fittizia.

La seconda testimonianza è ancora greca ed è contenuta in un frammento del secondo libro delle Metamorfosi di Nicandro di Colofone (II secolo a. C.), giuntoci anche questo per tradizione indiretta grazie ad Antonino Liberale nel libro XXXI della sua opera intitolata anch’essa Metamorfosi  così riporta alla voce relativa ai Messapi: Λικάονος τοῦ αὐτόχθονος ἐγένοντο παῖδες Ἰᾶπυξ καὶ Δαύνιος καὶ Πευκέτιος (Dall’autoctono Licaone nacquero i figli Iapige, Daunio e Peucezio)1.

Da Plinio poi apprendiamo che Iapige, figlio di Dedalo, avrebbe dato il nome ad un fiume2  ed al promontorio che oggi ha il nome di Capo di Santa Maria di Leuca nonché, superfluo dirlo, al popolo degli Iapigi; insomma, un eponimo. Non è una novità nel mondo antico e basta fare l’esempio, per restare nel Salento, del re Taras che avrebbe dato il nome al fiume ed a Taranto.

L’illustre discendenza di Iapige dal celebre costruttore del labirinto già rivendicata da Plinio  viene ripresa da Solino (III secolo d. C.), Collectanea rerum memorabilium, 2, 7: Iapygas ab Iapyge Daedali filio (Gli Iapigi [così chiamati] da iapige figlio di Dedalo). Due secoli dopo Solino Marziano Capella, De nuptiis philologiae et Mercurii (VI, 642): Iapygas Iapyx, Daedali filius, condidit (Iapige, figlio di Dedalo, dette origine agli Iapigi).-

Le scarne indicazioni di Plinio non soddisfano la curiosità di noi moderni, che, magari, vorremmo sapere qualcosa in più sulle caratteristiche fisiche di questo re e i Salentini, in particolare, forse gradirebbero pure qualche notizia sulle sue doti amatorie …

Questo desiderio può essere, parzialmente ma a caro prezzo …, soddisfatto da Virgilio (I secolo a. C.) che nell’Eneide (XII, 391-406) così scrive: Iamque aderat Phoebo ante alios dilectus Iapyx/Iasides , acri quondam cui captus amore/ipse suas artes, sua munera laetus Apollo/augurium citharamque dabat celeresque sagittas. /Ille ut depositi proferret fata parentis,/scire potestatem herbarum usumque medendi/maluit et mutas agitare inglorius artes./Stabat acerba fremens ingentem nixus in hastam/Aeneas magno iuvenum et maerentis Iuli/concursu, lacrimis immobilis. IIle retorto/Paeonium in morem senior succinctus amictu/multa manu medica Phoebique potentibus herbis/nequiquam trepidat, nequiquam spicula dextra/sollicitat prensatque tenaci forcipe ferrum./Nulla viam Fortuna regit, nihil auctor Apollo/subvenit … (E già si era fatto avanti Iapige, figlio di Iaso, prediletto più di ogni altro da Febo; a lui lo stesso Apollo,  preso da vivo amore, dava in dono le sue arti:  la capacità profetica, la cetra e le rapide frecce. Iapige per continuare la carriera del padre morto preferì conoscere le proprietà medicinali delle erbe ed il loro uso ed esrcitare senza gloria quest’umile arte.  Enea se ne stava appoggiato  ad una lunga lancia tutto fremente con attorno un gran numero di giovani ed il figlio Iulo, imperturbabile davanti alle sue lacrime. Il vecchio Iapige indossando secondo il costume dei medici una veste stretta e girata dietro invano s’affanna con la sua mano di medico e con le potenti erbe di Febo,invano cerca di smuovere  con al mano destra la punta [della freccia che ha ferito Enea] e di estrarre il ferro con la morsa di un forcipe. La fortuna non l’assiste, per nulla il maestro Apollo viene in soccorso … ).

Per farla breve: questa scena  che, se non appartenesse ad un poema epico potrebbe sembrare tragicomica …, verrà interrotta dal pronto intervento della madre stessa dell’infortunato Enea, cioè Venere, che in men che non si dica (grazie, è una dea …) rimetterà in sesto l’eroe.

Ora ditemi voi se a noi Salentini non convenga più stare con Plinio che con Virgilio, ammesso che lo Iapige di quest’ultimo per via della controversa paternità (ma anche questo nella mitografia è un fenomeno abbastanza ricorrente) sia lo stesso del primo.

Comunque siano andate effettivamente le cose, è certo solo un fatto: che la poesia (Virgilio e il suo Iapige figlio di Iaso) ha finito per prevalere sulla scienza (Plinio e il suo Iapige figlio di Dedalo; stesso destino per Nicandro e il suo Iapige figlio di Licaone). Così, per quanto riguarda l’iconografia, non possiamo neppure avere la soddisfazione di rivendicare con certezza la conoscenza delle fattezze, anche se artisticamente più o meno trasfigurate, del nostro progenitore, attraverso le foto ante litteram, le uniche da me conosciute, giunte fino a noi.

L’affresco pompeiano proveniente dalla casa di Sirico (VII 1. 25. 47) e custodito nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli è la rappresentazione pittorica dei versi virgiliani che prima ho riportato.

Molto più recente, invece, una delle tavole a corredo di Jean-Jacques Boissard, Deorum fatidicorum synopsis historica, Wächtler Franckfurtt, 1654.3

:

Titolo: Iapyx Iasii filius (Iapige figlio di Iaso); la didascalia è costituita da un distico elegiaco che sintetizza le note biografiche virgiliane: Venturos casus praescire et dicere causas/auguria et lauros noscere Apollo dedit (Apollo gli donò [la facoltà di] prevedere il futuro e dirne le cause, di conoscere i responsi e l’onore della corona d’alloro).

Lo stesso rame, per quanto riguarda la figura di Iapige (i caratteri della didascalia, invece, sono diversi),  fu utilizzato in seguito, come risulta dall’immagine che segue, pure da Pierre Mussard, Historia deorum fatidicorum, vatum Sybillarum, Phoebadum apud priscos illustrium, cum eorum iconibus, Chovet, Colonia, 1675.

Però nella seconda edizione di questo testo  del Mussard uscita per i tipi di Bourgeat a Francoforte nel 1680 la tavola, per non farla proprio sporca …, risulta invertita specularmente.

___________

1 Sul rapporto tra Messapi e Iapigi vedi Marcello Gaballo e Armando Polito, L’obelisco di Porta Napoli a Lecce, in Il delfino e la mezzaluna, Edizioni della Fondazione Terra d’Otranto, anno III, n. 1, ottobre 2014, pp. 171-189, con buona pace del signor Niceta Maggi, autore nel foglio Il Bardo, XXIV, 1, marzo 2015 di una recensione tanto velenosa quanto stupida e pure sgrammaticata.

Naturalis historia, III, 11: … amnes Iapyx aDaedali filio rege, a quo et Iapygia acra. Per completezza va detto che Iapige è anche il nome di un vento che le fonti antiche, che qui per brevità non riporto, rivelano segato legato senza alcun dubbio alla nostra terra:

Pseudo Aristotele, De mundo, 394b (l’opera sarebbe stata composta tra il I secolo a. C. e il I d. C.): Καὶ τῶν ἐναντίων ζεφύρων Ἀργέστης μὲν ὀ ἀπὸ τῆς θερινῆς δύσεως, ὄν τινες καλοῡσιν Ὀλυμπίον, οἱ δὲ Ἰάπυγα   (E tra gli zefiri che spirano in direzione opposta Argeste è quello che soffia dal punto in cui il sole tramonta in estate, e alcuni lo chiamano Olimpio, altri Iapige).

Seneca (I secolo d. C.), Naturales quaestiones, V, 17, 5: Quidam sunt quorundam locorum proprii, qui non transmittunt sed in proximum ferunt; non est illis a latere universi mundi impetus: Atabulus Apuliam infestat, Calabriam Iapyx … (Alcuni [venti] sono propri di certi luoghi e non li oltrepassano ma soffiano nelle vicinanze; la loro forza non nasce dai confini di tutto il mondo. L’Atabulo tormenta l’Apulia, Iapige la Calabria …).

Luciano (II secolo d. C.), Dialogi mortuorum, 21,2: … διαπλέοντες γὰρ ἀπὸ Σικυῶνος εἰς Κίρραν κατὰ μέσον τὸν πόρον πλαγίῳ περιπεσόντες τῷ Ἰάπυγι ἀνετράπεσαν (… infatti mentre navigavano da Sicione verso Cirra a metà del viaggio si capovolsero colpiti con una folata da Iapige).

E, per finire, Iapige è anche il nome di un cavallo : Virgilio, Eneide, XI, 677-678: … Procul ornitus armis/ignotis, et equo venator Iapyge fertur (Lontano il cacciatore Ornito con un’armatura mai vista è portato dal cavallo Iapige …). L’ablativo in –e (Iapyge) obbliga ad intenderlo come nome proprio e non come aggettivo (l’ablativo sarebbe stato Iapygi), ma come non cogliere un ambiguo riferimento alla razza del cavallo data la notoria abilità dei Messapi a domare quest’animale?

3 L’osservazione contenuta nel commento di Ferruccio D’Angelo  mi consente di affermare in questa nota, aggiunta al post originale, che l’immagine del nostro Iapige va retrodata al 1643, data a cui risale la prima edizione uscita, sempre a Francoforte, per i tipi di Schleich. Da questa (http://reader.digitale-sammlungen.de/de/fs1/object/display/bsb11298441_00055.html) riproduco  le due tavole  che seguono, in modo che al lettore sia facilitato il compito comparativo. Nel ringraziare il sig. Ferruccio esprimo l’auspicio che anche la signora citata nella nota 1 si faccia viva …

 

La petra ia (la pietra viva): breve racconto della sua lunghissima storia

di Armando Polito

Cominciamo dal secondo componente del nome, visto che il primo dialettale (petra) offre solo l’opportunità di far notare la conservazione dell’originaria forma latina (petra) rispetto alla corrispondente italiana (pietra). Per ia/viva, dopo aver notato che la forma dialettale ha comportato prima l’aferesi e poi la sincope di v (credo sia un record …) ci si chiede il perché di questa qualifica. La risposta più immediata nasce per contrasto, per cui tenderemmo a definire in prima battuta pietra viva una pietra che si contrappone per la sua notevole durezza (e la nostra ha questa caratteristica) ad un’altra che lo è molto meno e che per la sua friabilità potremmo virtualmente definire morta.

Se, però, cerchiamo il nesso in testi del passato questa certezza che appare, è il caso di dire …, granitica, incontra qualche dubbio. Per fare più presto e per evitare errori di trascrizione riporto i brani che ci interessano in formato immagine e lascio al lettore ogni conclusione.

Dizionario della lingua italiana, Fratelli Vignozzi e Nipote, Livorno, 1839; lemma VIVO:


Niccolò Tommaseo, Nuovo Dizionario dei sinonimi della lingua italiana, Reina, Milano, 1852:

Vittorio di Sant’Albino, Gran dizionario piemontese-italiano, Società l’unione Tipografico-Editrice, Torino, 1859:

Per poter rendere conto della serie di immagini proposta all’inizio debbo mettere in campo un sinonimo di pietra viva e questa volta, con buona pace dell’inglese spesso troppo frettolosamente privilegiato per una talora solo presunta maggiore sinteticità, si tratta di un’altra parola italiana: selce. A parte selciare e selciato, non sembrano esserci altri suoi figli, ma, se si pensa che selce è dal latino sìlice(m), appare come d’incanto una serie cospicua di parenti, che qui riporto in ordine alfabetico,cominciando dal capostipite (sìlice)

silice, siliceo, silicico, silicio, silicizzare, siliconare, silicone, siliconico, silicosi    

Lascio al lettore il compito di trovare, se lo vuole, il loro esatto significato su un vocabolario, e il loro nesso con le immagini proposte, tra le quali solo l’ultima ha bisogno di un’indicazione in più: è la prova radiografica di un caso di silicosi, mentre per la quartultima il marchio sul tubetto non compare per evitare qualsiasi forma di pubblicità occulta. A questo punto non mi meraviglierei di trovare prima o poi la mia email intasata di mirabolanti offerte di sigillanti e affini, non escludendo la possibilità che lo stesso marchio mi offra il sigillante per il bagno e la protesi per rifarmi il seno (che fa il pari con la proposta, pervenutami pochi giorni fa,  di conseguire privatamente  la laurea in lettere in tempi brevi e con un tutor a mia completa disposizione … ci mancava solo l’esame per teletrasporto).

Comunque, laddove il collegamento non dovesse risultare agevole, sono sempre ansiosamente pronto per ogni chiarimento: basta una semplice richiesta tramite lo spazio dedicato ai commenti.

Possiamo in conclusione ben dire che la pietra viva ci ha accompagnato costantemente nella nostra avventura storica sulla terra: dall’uomo della caverne ai pc, ai pannelli solari. Non vorrei però che qualcuno (questa volta il maschilismo grammaticale ancora imperante potrebbe far comodo e non schifo a qualche esponente del sesso cosiddetto gentile …) che non si rassegna al trascorrere inesorabile del tempo oppure è disposto a rinunciare alla propria, non sgradevole originalità fisica (per quella psichica, purtroppo per lui, non c’è niente da fare …) e nel contempo a correre il rischio abbastanza elevato  di risultati grotteschi, pensasse a questo punto che la protesi di silicone che gli hanno inserito nel seno o la stessa sostanza che gli hanno iniettato nelle labbra o in qualche altra parte del suo corpo sia, in fondo, viva, come la pietra che mi ha ispirato il post di oggi …

Per il resto rinvio a  https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/13/la-chianca/.

Gregorio Muci, medico di Nardò del XVI secolo, e il suo libro fantasma

di Armando Polito

 

Dal Dizionario Biografico degli uomini illustri di Terra d’Otranto, Lacaita, Manduria, 1999:

A beneficio di chi non lo sapesse dico che il dizionario citato è una compilazione di un’opera manoscritta in sei volumi conservata nell’Archivio di Stato di Lecce, frutto della fatica, terminata nel 1879, di Sigismondo Castromediano, Francesco Casotti, Luigi  Maggiulli  e Luigi De Simone.

Il primo dato di questo viaggio a ritroso nelle fonti risale, dunque, alla fine del XIX secolo.

Da Camillo Minieri Riccio, Memorie storiche degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Tipografia dell’Aquila di V. Buzziello, Napoli, 1844, p. 232:

Da Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli,  Mosca, Napoli, 1750, tomo III, parte I, pp. 378-379 (ho sottolineato in rosso le parti sulle quali mi soffermerò):

In riferimento alle parti evidenziate in rosso: nella prima il Tafuri usa  un’espressione ambigua che, se il noi è di maestà, comporta l’avvenuta visione personale del libro, se non lo è, allude solo al fatto che questa sarebbe l’unica opera rimastaci; nella seconda riporta in trascrizione fedele dal (o da un?) manoscritto contenente la Descrizione della città di Nardò di Scipione Puzzovivo la parte riguardante Gregorio Muci, che alla fine reca gli estremi bibliografici dell’opera.  Di questa, fino ad ora, non è stato rinvenuto nessun esemplare. Colpa del carattere scientifico e della connessa ridotta tiratura? Tutto è possibile, ma debbo segnalare quella che potrebbe non essere una semplice coincidenza.

Se il testo del Muci non si trova, se ne trova, però, un altro (l’OPAC registra la presenza di un solo esemplare nella Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli), del quale riporto gli estremi bibliografici:

Bozzavotra Giovanni Antonio, Opus practicis perutile de vene sectione in utero gerenti, aduersus negantes huiusmodi auxilium pro cautione ab abortu, Neapoli , par [!1] Ioannem Sultzbachium, Neapoli, 1544.

Il lettore noterà che il titolo,  l’editore, il luogo di edizione  e l’anno sono assolutamente identici.

Ma, chi è questo Giovanni Antonio Bozzavotra? Ecco la scheda dello stesso Tafuri tratta dalla seconda parte del terzo tomo, pp. 110-111 della citata Istoria degli scrittori …:

Sarebbe fin troppo facile da parte mia e di chiunque rimproverare al Tafuri la scarna indicazione bibliografica consistente, in pratica, in un solo testo, mentre oggi la rete mi consente di aggiungere al volume del 1544 già indicato i seguenti altri  (tra parentesi la loro consistenza in base ai dati OPAC):

1) Quesitum de calido nativo, Apud Mathium Cance, Neapoli, 1542 (2 esemplari: uno nella Biblioteca Nazionale  Vittorio Enmanuele III di Napoli, l’altro nella Biblioteca Universitaria di Sassari).

2) Apologia de sectione vene in gravida muliere, pro cautione abortus, in officina Mactium Cance, In edibus Nep. [!2], 1544 (un solo esemplare nella Biblioteca nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli).

3) Apologia de sectione venae in gravida muliere, pro cautione abortus, Apud Valerium Doricum & Ludovicum fratres, Brixianos,  Romae, 1545 (di questa edizione, paradossalmente non registrata dall’OPAC) riporto il frontespizio e il colophon:

4) Opus practicis perutile de venae sectione in vterum gerenti, aduersus negantes huius modi auxilium pro cautione abortus, apud Valerium Doricum & Ludouicum fratres, Romae, 1545.

5) Tractatus quatuordecim, methodi medendi, ex Galeno,  Apud Ioannem. Paulum Suganappum, Neapoli, 1549 (1 esemplare nella Biblioteca Comunale Augusta di Perugia).

Dall’elenco riportato si evince facilmente, considerando i nn. 2, 3 e 4, che il Bozzavotra (ma forse, tenendo conto del BOZAEVOTRAE del frontespizio prima riprodotto, bisognerebbe scrivere Bozza Votra) doveva essere un esperto della materia, anche se dovessimo considerare 3 edizione aggiornata di 2, e 4 edizione aggiornata di (o, comunque, successiva a) quella del 1544.

Siamo giunti, dopo questo viaggio a ritroso nelle fonti, al momento di trarre le conclusioni che io (ma che bravo!) condenserei in tre domande (per la serie Il trionfo del dubbio …). Lascio al lettore aderire a qualcuna o dissentire da tutte e la cortesia, se lo desidera, di comunicarci il suo parere, magari motivandolo, con un commento,  sempre graditissimo da parte mia.

1) La citazione bibliografica del Puzzovivo è errata?

2) Se la citazione bibliografica del Puzzovivo non è errata, siamo in presenza di una mossa di marketing basata sulla contrapposizione senza mezzi termini (anzi con tutti i termini …)  di due cavalli della stessa scuderia, roba che nemmeno il manager più geniale di oggi sarebbe in grado di partorire, neppure se gli raddoppiassero l’emolumento ufficialmente pattuito …?

2) É esistita veramente una, autografa o no a questo punto ha importanza quasi nulla,  Descrizione della città di Nardò  di Scipione Puzzovivo?

3) Il manoscritto del Puzzovivo  è una delle tante invenzioni destinate a tramandare la figura del Tafuri come emblematica del falsario del XVIII secolo, cosa spiacevole per Nardò che, sotto questo punto di vista, non aveva bisogno allora, come oggi, dell’invenzione da parte di un suo figlio di tasselli fasulli  di un passato già di per sé glorioso, nel tentativo più o meno abile (leggi furbesco e destinato in più di un caso ad ingannare culturalmente più di una generazione) di garantirle (forse anche garantirsi …) un futuro più vantaggioso sulle spoglie di un presente probabilmente vergognoso o considerato, comunque, insoddisfacente in termini più di potere che di autentico prestigio?

E pensare, se dovesse essere più plausibile quest’ultima ipotesi, che Gregorio Muci potrebbe essere appartenuto  alla schiera di quegli uomini che, pur non avendo pubblicato nulla, tanto hanno lasciato, almeno finché è durato il loro ricordo più genuino e fedele, quello, foscolianamente inteso,  di chi li ha conosciuti, stimati e amati, e, tutto sommato, rispettati, il che equivale a dire sempre la verità …

A proposito di verità mi chiedo quanta ce ne sia nella parte, che ho evidenziato con l’ellisse, della scheda che ho trovato all’indirizzo  http://www.worldcat.org/title/gregorii-muci-medici-neritini-opus-practicis-perutile-de-venae-sectione-in-utero-gerenti-aduersus-negantes-huiusmodi-auxilium-pro-cautione-ab-abotru/oclc/20017735 (i più pigri,  senza andare al link, potranno leggerla agevolmente cliccandoci sopra; apparirà la scheda e il cursore avrà l’aspetto della lente di ingrandimento; un secondo click e buona lettura!).

Quel dato geografico americano corrisponde veramente al possesso  del nostro testo da parte di qualche oltreoceanino  o è fratello, in un certo senso, delle indicazioni che, sulla scorta del Tafuri, si sono succedute; oppure, ad insaputa di chi ha inserito l’informazione, è il parto di un mitomane millantatore, oppure, e siamo alla criminalità, nasconde una trappola per qualche incauto bibliofilo?

_____________

1 invece di per.

2 Per In aedibus Neapolitanis (alla lettera: nelle case napoletane (>nella sede napoletana>a Napoli).

Negro amaro, la parola alla storia (II^ parte)

negroamaro

di Giuseppe Massari

Per continuare e completare l’analisi e la ricerca storica sul Negro amaro, si deve sempre partire e considerare quanto scritto dal professore Michele Vitagliano nel testo: “Storia del vino in Puglia”, Editori Laterza, Bari 1985. Scrive, infatti, l’illustre accademico: “Alla fine del secolo XIX la provincia di Lecce, detta anche Terra d’Otranto si estendeva su tutto il territorio che oggi comprende anche le province di Brindisi e di Taranto, occupava una superficie di 685.205 ettari di cui 659.688 destinati a produzione agraria e forestale. Questa provincia, producendosi in essa mediamente oltre 1.500.000 hl di vino, era la terza del regno per importanza vitivinicola essendo preceduta da quella di Alessandria e di Bari. Anche allora il vitigno maggiormente coltivato, fra le uve nere, era il Negrl amaro, seguito in ordine d’importanza, dal Cuccipannello, noto pure con i nomi corrotti di Cuccimanniello, Zuzumaniello, Sussumaniello nelle varie zone della Puglia, dalla Malvasia nera, dal Nero dolce, dal Primitivo, dall’Uva di Troia, dallo Zagarese, dall’Aleatico, ecc…”

Avendo precisato, in precedenza, quale era la zona interprovinciale, quella che, in sostanza, è stata e tutt’ora viene definita, denominata e riconosciuta con il nome di Penisola salentina, è su questa che deve concentrarsi l’attenzione per definire, nei dettagli, le zone di produzione del Negro amaro. Per continuare il viaggio nel tempo di ieri, confermato, per certi aspetti, anche nella contemporaneità dei tempi attuali, con alcune piccole varianti, considerando, soprattutto, le condizioni ambientali del Salento, iniziando da Brindisi, secondo Vitagliano, il territorio brindisino interessato al Negro amaro può essere suddiviso in 7 zone. “la prima zona, grosso modo, comprende il tenimento di Brindisi estendendosi a nord fino alla stazione di S. Vito dei Normanni, a ovest, includendo parte del tenimento di Mesagne, e a sud, parte del comune di Tuturano.

Museo del Negroamaro Guagnano
Museo del Negroamaro Guagnano

 

La seconda zona, a sud-ovest della precedente, comprende il rimanente territorio dei comuni di Mesagne e di Tuturano e si estende fino a nord di S. Pietro Vernotico.

La terza, la quarta e la quinta zona includono i comuni al confine con la provincia di Lecce; più precisamente la terza zona comprende il comune di Torchiarolo il più orientale verso il mare Adriatico, la quarta zona comprende gran parte del comune di S. Pietro Vernotico, la quinta Cellino S. Marco. S. Donaci e parte del comune di S. Pancrazio.

La sesta zona comprende il comune di Latiano. Infine la settima ed ultima zona comprende parte del comune di San Pancrazio e i tenimenti di Erchie, Torre S. Susanna, Oria e Francavilla Fontana; è la zona più occidentale del Brindisino e confina per gran parte con il Tarantino”.

Museo del Negro amaro Guagnano
Museo del Negroamaro Guagnano

 

Spostandosi più a sud, nel cuore del Leccese, dove il Negro amaro, in base alle sue caratteristiche organolettiche e chimiche, ha ricevuto maggiore investimento produttivo, sempre secondo lo studio, la ricerca e la pubblicazione del professore Vitagliano, le zone di incidenza sono 8. “la prima zona, immediatamente a sud del confine con il Brindisino, è la zona di Squinzano, il centro più importante, e interessa, oltre che la parte sud di questo comune, la part nord è investita ad oliveto, Campi Salentina, Villa Baldassarri e Guagnano.

La seconda zona, ad occidente della precedente, anch’essa confinante con il Brindisino, è quella di Salice Salentino che abbraccia i comuni di Salice, Novoli, Veglie, Carmiano, Arnesano e Monteroni.

copertino-aerea

La terza zona ha per capitale Copertino e comprende il comune di Leverano e parte del tenimento di Nardò.

La quarta zona è costituita dal territorio amministrativo di Nardò.

La quinta zona corrisponde a quella che ha per centro più importante Galatina e comprende anche i limitrofi comuni di Cutrofiano, Galatone Aradeo, Sogliano, Neviano e Seclì.

galatina

La sesta zona è quella di Gallipoli; comprende anche i comuni di Alezio, Tuglie e S. Nicola.

La settima zona è quella di Matino o del basso Leccese; comprende oltre il comune che le dà il nome, Collepasso, Parabita e Casarano.

Infine l’ottava ed ultima zona vitivinicola del Leccese è quella di Melissano; comprende i territori comunali, oltre che di Melissano. Di Taviano, Alliste, Racale ed Ugento”. Così, sommariamente, quanto riportato, oltre trent’anni da Vitagliano nel suo volume.

GRAPPOLO DI NEGRO AMARO

Forse, attualmente, alcune cose sono cambiate; alcune realtà sono state stravolte o connotate da altre peculiarità vitivinicole. Intento di questo scritto era fermare il tempo, se così è possibile esprimersi, per focalizzare, storicamente la vita di un prodotto, di questo prodotto derivante dall’uva, identità di una terra, intesa come territorio vasto. Giusto, però, per completare l’orizzonte di partenza e di arrivo su questo argomento, è bene fare riferimento ad un’altra pubblicazione, più recente rispetto a quella usata fin’ora.

Si tratta di: “I vitigni dei vini di Puglia”, di Donato Antonacci, Adda Editore, Bari 2004. Nella seconda parte del testo di Antonacci, quello relativo alle schede descrittive dei vitigni e dei vini di Puglia, a proposito del Negro amaro, l’autore lo riconosce e lo identifica sotto due specie: Negro amare precoce, Negro amaro cannellino, riportando quello che, già nel 1999, Antonio Calò aveva scritto, dopo analisi e attenti studi sulla viticoltura italiana.

“Nel 1994, nell’ambito del programma di miglioramento genetico della viticoltura del Salento condotto dall’Istituto Sperimentale per la viticoltura, è stato individuato. In un vigneto di Negro amaro, un ceppo che presentava un evidente anticipo dell’invaiatura e della maturazione rispetto agli altri ceppi del vigneto”.

negramaro

In conclusione, “possiede una precocità di maturazione talmente marcata (di almeno 20 giorni) da influenzare in modo decisamente positivo anche la componente chimica dell’uva al momento della raccolta” La cosa importante e da non sottovalutare è proprio la preminenza economica e distribuzione geografica. di questa variante di prodotto. Secondo l’Istituto per la Viticoltura in Puglia e precisamente nel Salento, questo vitigno” è iscritto fra i vitigni idonei alla coltivazione in tutte le province pugliesi ad eccezione di Foggia”.

 

La prima parte può leggersi qui:

Negro amaro, la parola alla storia

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/06/04/negro-amaro-la-parola-alla-storia/

Negro amaro, la parola alla storia

FOGLIE DI NEGRO AMARO

di Giuseppe Massari

 

L’amore sconfinato, intimo, sanguigno, quasi endemico; affettuoso, supportato da una fede razionale, convinta e sincera per il Salento mi porta sempre a rispolverare ricordi, memorie, documenti, testi, studi ed approfondimenti sulla sua vita, sugli sviluppi crescenti di interesse geografico, naturalistico, economico, agricolo, ambientale, storico e culturale. A questo patrimonio indiscusso appartiene un segno di vita e di benessere che è la viticoltura, proprio qui, dove il frutto prelibato degli dei è il Negro amaro. Un vitigno che, allevato nel Salento, produce vino conosciuto ed apprezzato da molti.

Purtroppo, però, come scrisse Michele Vitagliano, Ordinario di Industrie Agrarie, Università degli Studi di Bari, nel suo “Storia del vino in Puglia”, editore Laterza, Bari 1985, “non esistono elementi di sorta circa la sua origine ed epoca in cui inizia ad essere coltivato; tuttavia può affermarsi con buona sicurezza che la sua coltivazione ascende almeno all’epoca della colonizzazione greca, nell’VIII- VII secolo a .C. Ciò scaturisce dal suo nome che deriva dal greco mauros che, come è noto, significa “nero” e dal latino niger. Pertanto entrambi i termini del nome del vitigno stanno ad indicare, in due lingue diverse, un vitigno a frutto nero e non un vitigno ad uva nera e a sapore amaro, come potrebbe supporsi a prima vista”.

Fin qui la descrizione fatta da Vitagliano. Quello che, però, è interessante leggere, scorrendo il succitato volume, sono i vari giudizi espressi da persone di cultura, esperti nel settore vitivinicolo e di ampelografi, cioè coloro che studiano, identificano e classificano le varietà dei vitigni attraverso schede che descrivono le caratteristiche dei vari organi della pianta nel corso delle diverse fasi di crescita.

Uno fra questi fu Giuseppe De Rovasenda, che nel 1887, con la pubblicazione: “Saggio di una Ampelografia Universale”, Ermanno Loescher, Roma-Torino-Firenze 1887”, a proposito del nostro prodotto, così si esprimeva: “E’ vitigno pugliese; è anche chiamato Lacrima a Novoli. Un po’ troppo tardivo per l’Italia settentrionale ma fertile”.

apice di Negro amaro
apice di Negro amaro

 

Girolamo Molon, chiamato, nel 1890, a coprire la cattedra di Coltivazioni Speciali presso la R. Scuola Superiore di Agricoltura (poi Facoltà di Agraria) di Milano dove si era laureato appena otto anni prima, nel corso della sua pubblicazione: “Ampelografia. Descrizione Delle Migliori Varietà Di Viti Per Uve da Vino, Da Tavola, Porta-Innesti e Produttori Diretti”, Ulderico Hoepli, Editore Libraio della Real Casa, Milano, 1906, riferendosi alle province leccesi, tarantine, baresi e brindisine, dove sinonimi del Negro amaro erano Albese (Campi Salentina, Guagnano), Abruzzese (Valenzano, in provincia di Bari) e Lagrima (Squinzano, Montemesola, comune in provincia di Taranto, Terlizzi, nel barese, Torchiarolo e Latiano nel brindisino), così lo descrive: “E’ l’uva più diffusa in provincia di Lecce, ed ivi è pregiata assai, perché si crede non vi sia altra uva che, in ragione di peso e volume, dia tanto mosto.

GRAPPOLO DI NEGRO AMARO

Frojo ha notato che ottimi sono i vini nei quali entri in tutto o in massima parte; ed unita alla Malvasia nera, ne può dare ancora migliori. Glucosio 26,66%; acidità 0,41%. Frojo segna per le Puglie una maturità fra il 25 settembre ed il 10 ottobre, e buona resistenza alla siccità ed alle piogge. Si usa tenerla a ceppata bassa, senza sostegno, con potatura corta; preferisce terreni calcarei argillosi. Da noi, a Casignolo, questa vite vegeta bene ed è robusta e produttiva; ma l’uva matura assai male. Foglie piuttosto grandi, quinquelobate, con dentatura irregolare; seni superiori grandi e molto profondi, chiusi o semichiusi; seni inferiori meno pronunciati; seno peziolare aperto; pagina inferiore con tomento abbondante, lanoso, bianchiccio; picciuolo; pressocchè lungo come la nervatura mediana, con colorazione rossastra, che lo ricopre su tutta la lunghezza ed invade anche la prima porzione delle nervature nella pagina inferiore; bordo della foglia colorato d’autunno in rosso. Grappolo medio , o anche spesso sopra la media, di forma conica, a peduncolo un po’ corto, ma molto grosso, rossastro; peduncoletti di media lunghezza, un po’ sottili, a cercine piccolo; acini di media grandezza, ellissoidi, compatti, di colore nero-rossastro o anche solo rossastro, pruinosi, a buccia un po’ grossa e polpa acida. Da noi matura nella 4^ epoca. La Lagrima di Squinzano è uva nel leccese che dobbiamo credere eguale al Negro amaro”.

FRONTESPIZIO LIBRO DI MOLON

Solo qualche anno dopo, anche Pierre Viala e Victor Marmorel, nel tomo settimo di “Ampélographie”, Masson et C., Editeurs, Paris 1909, si limitano a scrivere: “è un vitigno italiano molto diffuso nella provincia di Lecce; fogli quinquelobate, con seni superiori molto profondi, molto tormentose sulla pagina inferiore; grappolo medio, conico; acini medi, ellissoidali, serrati di un nero matto”.

Giovanni Dalmasso, allievo di Girolamo Molon, molto più recentemente, in una tornata vicentina dell’Accademia Italiana della Vite e del Vino, in Atti Acc. Ital. Vite e Vino, 1934-35, VIII, 1956, dopo aver fatto riferimento all’esistenza, in provincia di Lecce, del suddetto vitigno e dopo aver elencato i sinonimi impiegati nelle varie zone di produzione (Albese, Abruzzese, Jonico, Mangiaverde e, impropriamente, Lagrima), così lo descrive: “Tralci robusti, di color cannella chiaro. Germogli tormentosi verdi. Foglie quinquelobate, piuttosto grandi, con seni superiori profondi, chiusi; inferiori meno pronunciati; seno peziolare aperto, pagina inferiore con tormento abbondante, bianchiccio, dentatura acuta, picciolo rossastro. E foglie d’autunno hanno i bordi rossastri. Grappoli medi o più, conici, compatti, con peduncolo corto e grosso, rossastro; acini medi, ellissoidi, di colore nero-rossastro, pruinosi, con buccia un po’ grossa, coriacea; polpa sugosa, dolce ma un po’ acidula. Maturazione di terza epoca. E’ un buon vitigno, molto produttivo, che resiste bene tanto alla siccità che alle piogge ed alle brinate; e bene anche nelle malattie crittogamiche. Vuole potatura corta e povera (tipicamente viene allevato ad alberello). Ha buona affinità d’innesto. Preferisce terreni calcarei-argillosi. Dà vino da taglio potenti, che, se ottenuti da terre rosse, sono di sapore quasi neutro, armonici, suscettibili anche di divenire, con l’invecchiamento, dei buoni vini superiori. Nei terreni alluvionali invece prendono facilmente sapore terroso. Possono anche migliorare se uniti a Malvasia nera”. Un viaggio, probabilmente, tra conferme, descrizioni omogenee e non discostanti e né difformi, ma pur sempre valide da riprendere, soprattutto, perché sottratte dalla polvere dell’oblio o, peggio ancora, della scarsa conoscenza ed esistenza; soprattutto, perché dimostrano una continuità storica di interesse e di valorizzazione del territorio salentino.

FOGLIA DI NEGRO AMARO
foglia di Negro amaro

Successivamente agli studi sinora riportati e ad integrazione di quelli fatti da Dalmasso, ve ne sono stati altri, intorno agli anni 60, per conto del Ministero dell’Agricoltura e Foreste, redatti dagli ampelografi Del Gaudio e Panzera. I due sostengono nella pubblicazione: “Negro amaro”, in Principali vitigni da vino coltivati in Italia – Volume I, Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, 1960 che: “il Negro amaro ha ottima vigoria, produzione abbondante e costante (65-70q/ha); posizione del 1°germoglio fruttifero al 2° nodo; numero medio di infiorescenze per germoglio 2-3; buona resistenza all’oidio, alla peronospora, alle brinate; scarsa alla muffa grigia. La sua uva sola o mescolata con Malvasia nera serve per la produzione di vini da taglio o da mezzo taglio. Da solo dà vino di intenso colore rosso granato, schiuma viva, gusto fine, pieno, gradevolmente amarognolo, rotondo a seconda dei terreni e località, in genere asciutto. Si ottiene un discreto vino da pasto dalle uve coltivate in collina non elevata, però, per la imperfetta maturazione, dà vini un po’ agri; meglio se mescolati in giusta proporzione con uve bianche; invecchiato, il vino anziché acquistare pregi diviene ordinario”.

Separatamente, solo Panzera, in una precedente pubblicazione: “Atti Accademia Italiana Vite e Vino, Siena 1959, XI, 62”, esprimendo un parere sul vino, scrive: “Ottimo vino da pasto, di colore rosso rubino intenso con riflessi violacei, di odore vinoso con profumo più o meno spiccato e gradevole, armonico, asciutto, giustamente tannico ed acido, a leggero retrogusto amarognolo, abbastanza di corpo, robusto; si presta egregiamente all’invecchiamento. Dalla fermentazione in bianco del mosto, ricavato per leggera torchiatura dell’uva pigiata, si ottiene il vino rosato, asciutto, alcolico, spesso frizzante, suscettibile di rapido invecchiamento” .

GRAPPOLO DI NEGRO AMARO 2

Il viaggio finisce qui. Forse, sono state riportate e scritte cose ovvie. Per imparare, approfondire e conoscere, nulla è ovvio. Nulla è scontato. Non si finisce mai di apprendere, anche se si torna spesso su cose lette e rilette, trite e ritrite. Ogni novità ed originalità sta nell’avvicinarsi a fruitori nuovi, diversi; sta nell’avvicinare una materia, un prodotto a gente sempre nuova, pronta ad arricchire il proprio armamentario culturale; a proiettarsi in quel mare di saggezza che è la terra con i suoi contadini; che è il Salento, terra generosa, terra madre, accogliente, aperta ma tutta da scoprire, da amare sempre, comunque e ovunque, sperando che la selvaggia malvagità umana non faccia la sua parte distruttrice, cancellando il suo passato, le sue migliori tradizioni e civiltà, senza aver costruito il suo futuro; senza aver trasmesso le radici per ogni futuro, per ogni speranza di crescita, di vivibilità, di visibilità, di identità e di appartenenza.

Tutto ciò che bisogna conoscere del carrubo (III ed ultima parte)

di Massimo Vaglio

carrube

Caramelle di carrube

Ingr.: carrube, miele, olio

Togliete i semi dalle carrube e fatele bollire in acqua per circa mezz’ora.Unite un uguale peso di miele e fate cuocere insieme al decotto. Quando il composto comincia a caramellare, rovesciatelo su un piano di marmo unto d’olio, livellatelo sino a 1-2 centimetro e fatelo raffreddare. Tagliatelo a piccoli quadratini.

 

Cotto di carrube

IL cotto di carrube è un prodotto della tradizione pugliese che veniva usato tradizionalmente per curare il mal di gola dei bambini, per preparare i dolci natalizi al posto dello zucchero e per bagnarci le pettole, dolce tipico del Natale dell’area del Gargano.

Il cotto di carruba ha il merito di conservarsi, inalterato, per diversi anni.

Per prepararlo spezzettate le carrube e ponetele a bagno per 48 ore. Fatele bollire per 10 minuti e spegnete il fuoco. Quando il liquido è tiepido versate una manciata di cenere di legna o di sarmenti, agitando il tutto dopo aver schiacciato le carrube. Lasciate riposare ancora per 24 ore. Prelevate dalla superficie solo la parte di liquido che appare limpida, filtratela e fatela bollire fino a ridurla a un terzo del volume iniziale, ponetela in vasi di vetro scuro aggiungendo scorze di arancia.

 

Decotti curativi

Preparazioni.

Decotto espettorante per le prime vie aeree: in un litro di acqua aggiungere 50 g di carruba in polvere, 50 g di fichi secchi e 50 g di semi di lino: una volta ottenuto il decotto filtrare, dolcificare con miele e berne 3-4 tazze al giorno.

Decotto antidiarroico: preparare un decotto usando 50 g di carruba in polvere in un litro d’acqua, non filtrare, dolcificare con miele e berne 3-4 tazzine al giorno.

Trattamento del colon spastico: per coloro che soffrono di colon irritabile (così detta colite spastica) e non riescono a prendere il latte, basterà aggiungere due cucchiai da the di carruba in polvere e il problema verrà regolarmente superato.

A Marittima, c’era un volta…

CAM02373

di Rocco Boccadamo

 

Tratta dal calendario 2016 della Pro Loco “Acquaviva” di Marittima, una fotografia storica del primi anni cinquanta del secolo scorso, a ricordo, come scritto nella didascalia, dell’inaugurazione della sede della Democrazia Cristiana nel mio paesello.

Alla mia vista e al mio sentire interiore, si pongono ancora vive e palpitanti le tre figure principali al centro dell’immagine, ossia a dire Agostino Nuzzo, all’epoca Sindaco del Comune di Diso (di cui Marittima è frazione), il senatore Francesco Ferrari e mio padre Silvio Celestino Boccadamo.

Sulla sinistra, con in mano l’asta d’una bandiera, mi sembra di riconoscere lo zio Vitale, mentre, immediatamente dietro, sono sicuramente distinguibili i volti di Olivio Nuzzo, Vitale e Saverio Carrozzo e Remo Minonne, tutti con coppola in testa.

Che belli, il ragazzino con berretto a visiera appoggiato a un muro e la bimba, con sciarpa di lana che le avvolge il capo, che sembra occhieggiare con interesse sulla cerimonia, standosene in piedi sul limitare d’un uscio vicino.

Piccola chicca sullo sfondo mediano della fotografia, la rudimentale insegna VINO, con accanto una targa metallica reclamizzante la Birra Peroni, ad indicazione della puteca, caratteristico locale di mescita di quei tempi lontani.

David D’Aprile e la sua break painting

david d'aprile

di Gianni Ferraris

E’ timido, David, si nasconde dietro un sorriso apparentemente sereno, in realtà inquieto, te ne accorgi solo parlando, facendo domande, aspettando risposte. David è uno degli innumerevoli artisti che costellano questo Salento guizzante fra parole scritte, dipinti, sculture, è un flusso continuo di creare cultura.

Così David esce dal quadro perchè vuole raggiungere lo spettatore. Ricordiamo Fontana e il suo taglio che andava oltre la tela, quasi a significare che tutto era stato detto e  che occorreva andare oltre i recinti, le cornici.

David D’Aprile invece di trapassare la tela si protende verso lo spettatore, lo tocca quasi, ammicca. E’ il caso dell’ultimo lavoro, una Marilyn che non è Marilyn ma l’icona che lei rappresenta, bionda, vistosa, bella, con il dito medio proteso verso l’alto che esce dal quadro e potrebbe indicare  il cielo ne senso più ampio del termine oppure, più prosaicamente, il luogo dove “ti ci mando”.

Marylin
Marylin

“Marilyn sono io, ero in un periodo di rabbia, molti hanno troppo e forse non lo meritano. Quel dito che indica il cielo in realtà vuol dire altro, è una provocazione. Certo, Marilyn era fragile, si suicidò, però era anche forte e rompeva gli schemi. Era bellezza e ansia. La mia bellezza, quella che definisco tale, la esprimo nel quadri ma anche nel lavoro al bar. Tento di sorridere sempre” mi racconta l’artista .

Lui che ha creato la “break painting” partendo dai manga di cui era appassionato divoratore nell’adolescenza, li ha riprodotti, ridisegnati, così ecco arrivare Goku di Dragon Ball, ed ecco altri cartoons riproposti.

Gigen
Gigen

“Ho iniziato da Dragon Ball quando ne guardavo i cartoni da ragazzino e mi coinvolgeva, così lo riproducevo, poi è cresciuto con me”.

E’ autodidatta, David, anche se, dice, “Ho fatto l’istituto d’arte,  oreficeria, mi ci sono iscritto per stare con gli amici che facevano quel corso. Però All’istituto d’arte il disegno era prettamente e giustamente tecnico, bracciali, anelli e gioielli, la mia natura era invece quella di creare, copiare e fare “miei” i personaggi che amavo”.

Solo dopo l’artista ha sentito il bisogno di toccare i personaggi, di renderli almeno in parte tridimensionali, è questa la novità. Così la pittura, rigorosamente in acrilico, si fonde con la scultura con tecnologia delle stampanti in 3D che permettono di ricostruire il braccio che esce dal quadro, l’aereo che si schianta contro due torri gemelle che sono diventate magicamente due matite in omaggio a Charlie Ebdò.

E dietro ogni quadro ci sono ore di lavoro, c’è tensione emotiva, soprattutto c’è un messaggio in ogni manga, ogni fumetto, ogni pennellata. L’abbiamo incontrato al tavolino del bar di famiglia dove lavora e dove stanno esposti alcune sue opere, dal “servire” caffè dietro al bancone assecondando richieste e gusti del cliente, alla libertà di esprimersi, dopo il lavoro, nel senso più intimo del termine, nel suo caso con la pittura. Fino ad agosto tutto funzionerà così, poi arriverà il primo figlio di David e della sua compagna, allora tutto cambierà, tutto ma non la verve creativa, immaginiamo.

 

Leggo sul tuo sito che sei daltonico. Un pittore daltonico non è un controsenso?

Mi aiuta la mia compagna, Quando sono in crisi con la scelta dei colori lei mi dà una mano, i fondamentali li distinguo, per gli altri mi lascio aiutare.

 

Cos’è la pittura per te?

Io sono barista  il locale è di famiglia, qui lavoro, il cliente decide e chiede. Quando dipingo sono io ed io solo, se un caffè è cattivo lo rifaccio, un quadro può piacere o meno, però rimane com’è perché io ho scelto di farlo così.

 

Parliamo dei tuoi periodi, vediamo ad esempio quello che chiami “Inizio senza fine”

Dopo l’attentato a Charlie Ebdo volli fare un omaggio alle vittime, così riproposi e ne rielaborai una copertina. In realtà fu un lavoro fatto d’impeto, in poche ore, il pathos era grande e temo che quello fosse solo l’inizio di una catastrofe della quale non vedo fine.

Esci dal buio
Esci dal buio

Un altro lavoro che trovo inquietante e forte è quello che chiami “esci dal buio”

Il fondo nero e le figure che si stagliano sono un urlo contro la violenza sulle donne. Il buio del quale sono a volte prigioniere è il loro silenzio e la paura di denunciare, comprensibile ma aggiunge violenza a violenza. Comprensibile perché questa società non le aiuta. Si, il buio è l’omertà, la paura, l’ansia. In fondo è un messaggio comune anche ad altre situazioni, penso all’usura, al pizzo.

panorama

Che mi dici di Equità Italiana?

Sono commerciante, pensavo al padre di famiglia che la fa finita, quanti suicidi di cui non conosciamo i motivi? Molti però, a parer mio, sono riconducibili a rapporti con Equitalia. Tutti abbiamo qualche problema più o meno grande con questa struttura.

 

Perché esci dal quadro?

Non è scelta solo estetica. A livello inconscio ho scoperto che avevo la necessità di uscire fuori. In famiglia siamo io e mio padre maschi, poi ho quattro sorelle e la mamma, io sono il “piccolo” di casa e mi sono trovato con l’esigenza di proiettarmi fuori.

L’arte è estrema libertà, fuga. Quando sentii l’esigenza di toccare dragon ball lo dipinsi, poi comprai una mano finta e ci studiai su, nacque così quella che chiami pittura/scultura.

 

Altro periodo tuo è “il bene e il male”

Vidi un Cristo crocifisso e lo riprodussi, dietro il cielo era plumbeo, nuvole nere. La mia compagna prima, poi le mie sorelle mi dissero che quello non era Cristo, ma era il mio autoritratto, qualcun altro vide il mostro disegnato dalle nuvole. Avevano tutti ragione, ero l’unico a non essermene accorto. Da lì il bene e il male.

 

Ma il male qual è?

La società, l’essere umano non è un bene in senso assoluto. Vedi come abbiamo ridotto l’ambiente, vedi le guerre, non credo che questo mondo abbia vita eterna.

 

Quindi la tua pittura è autobiografica

Certo che si, in ogni quadro c’è qualcosa di mio, ci sono io. Molte volte ho scoperto di essermi “riprodotto”, spesso a mia insaputa.

 

Le  vetrine  che hai fatto cosa sono?

Una persona amica, sapendo che dipingevo ma che non avevo la forza ed il coraggio di uscire fuori con i miei quadri, di farli vedere, mi disse “rompi il ghiaccio, hai un bar, dipingi qualcosa sulle vetrine, così ti esponi in modo neutro, l’opera è tua, le persone lo sanno e tu trovi il coraggio di far vedere quello che sai fare”. Lo feci e mi accorsi che le mie ansie erano infondate, i clienti guardavano con stupore. Il primo fu un Babbo Natale, ora c’è Lilli e il Vagabondo, in mezzo dipinsi i Simpson, la Sirenetta ed altro.

Torero, particolare
Torero, particolare

Nei tuoi dipinti ho visto un matador, però vince il toro.

Si, la vittima è il torero perché non ha il diritto di eliminare un altro essere vivente. Torna il discorso dell’uomo che distrugge. No, faccio vincere il toro.

 

Parlami del tuo lavoro sul bowling

Io mi sento il tiratore e forse voglio fare strike di chi mi vuole frenare.

 

Fra pochi mesi avrai un figlio, come sarà?

Ti posso dire che mi cambierà la vita. Ho un pò timore, non so cosa succederà, sono ansioso e curioso. Se volessi paragonarlo ad uno dei miei quadri mi piacerebbe che fosse una Marilyn, non troppo buono, con il coraggio di sollevare il dito al cielo. A ben pensare forse mi piacerebbe anche fosse un toro che incorna chi gli vuole male.

 

Il futuro?

E chi lo sa, ora c’è Marilyn

Marilyn, particolare
Marilyn, particolare

 

Per chi volesse contattarti?

C’è la pagina facebook Break painting, un sito www.breakpainting.it ed una mail davidaprile25@gmail.com

Gli animali nei proverbi salentini (5/x): gli uccelli

di Armando Polito

Tavola (incisione di Gustave Doré) fuori testo di Contes d'une vieille fille à ses neveux, di Émile de Girardin, uscito per i tipi di Michel Lévy Frères, a Parigi nel 1856
Tavola (incisione di Gustave Doré) fuori testo di Contes d’une vieille fille à ses neveux, di Émile de Girardin, uscito per i tipi di Michel Lévy Frères, a Parigi nel 1856

 

Ci vuei cu iabbi li ceddhi pizzulanti semina cranu ti tutti li santi (Se vuoi gabbare gli uccelli che beccano semina grano il giorno di Ognissanti)

Non riesco a cogliere il nesso tra il giorno (anche estendendo il concetto a quelli immediatamente vicini) e la scarsa attività degli uccelli. L’unica cosa che mi viene in mente è che per quel giorno la terra , in passato …, era sufficientemente morbida e, seminando anche a spaglio e non a solco, era garantita la copertura di uno strato più profondo.

Quandu lu ceddhu ‘mpenna spizzùtale l’ale (Quando l’uccello comincia a ricoprirsi di penne, spuntagli le ali)

Se l’esecuzione letterale del consiglio rimane facile, non altrettanto lo è quella metaforica. Sono e rimango convinto che ai giovani non bisogna mai tarpare le ali, restando, però, e facendoli restare, con i piedi ben piantati per terra. Resta difficile, dopo decenni di sfrenato lassismo, riadottare quella limitazione della libertà, anche fisica, che, pur in varia misura c’era nell’educazione di un tempo, alla quale il proverbio va riferito.

Ti santa Lucia llunghesce la tia quantu lu pete ti la iaddhina mia (Il giorno di Santa Lucia si allunga il giorno quanto il piede della gallina mia)

Ci ti iaddhina è nnatu sempre scalèscia (Chi è nato da gallina razzola sempre)

Solo un’accurata indagine statistica su genitori e discendenza potrebbe convalidare questo detto che, considerato superficialmente e trascurando l’aspetto educativo cui esso fa riferimento, potrebbe sembrare improntato al pregiudizio e, forse volendo esagerare, ad un pizzico di razzismo.

La iaddhina face l’ueu e allu iaddhu li usca lu culu (La gallina fa l’uovo e al gallo brucia il culo)

Questo dev’essere stato inventato da una femminista ante litteram …

A ddo’ ‘nci so’ to’ iaddhi no llucesce mai (Dove ci sono due galli non fa mai alba)

Tavola tratta da Historia naturelle des oiseaux, Imprimerie royale, Paris, 1770-1783
Tavola tratta da Historia naturelle des oiseaux, Imprimerie royale, Paris, 1770-1783

 

Insieme con il semanticamente gemello A ddo’ ìnci so’ moti sacristani la chiesa resta allu scuru (dove ci sono molti sagrestani la chiesa resta al buio) sembra calzare a pennello per chi crede alla teoria dell’uomo solo al comando … Ma come farà ad illuminare la chiesa se non è lui stesso illuminato? … E, a proposito di galli autentici, pensate che quelli del nostro tempo possano competere non solo con quello del XVIII secolo della tavola precedente ma anche con quello dell’affresco di quasi duemila anni fa, di seguito riprodotto?

Affresco da Pompei (III stile, fine del I secolo a. C.- metà del I d. C.), Casa dei casti amanti (IX, 12, 6)
Affresco da Pompei (III stile, fine del I secolo a. C.- metà del I d. C.), Casa dei casti amanti (IX, 12, 6)

 

Ogni cucciascia si anta li cuccuasceddhi sua (Ogni civetta vanta i suoi piccoli)

Tavola tratta da Historia naturelle des oiseaux, Imprimerie royale, Paris, 1770-1783
Tavola tratta da Historia naturelle des oiseaux, Imprimerie royale, Paris, 1770-1783
tratta da Historia naturelle des oiseaux, Imprimerie royale, Paris, 1770-1783
Tavola tratta da tratta da Historia naturelle des oiseaux, Imprimerie royale, Paris, 1770-1783

Ci tòrtura gghete all’acqua ha tturnare (Se è tortora all’acqua deve tornare)

Tavola tratta da Historia naturelle des oiseaux, Imprimerie royale, Paris, 1770-1783
Tavola tratta da Historia naturelle des oiseaux, Imprimerie royale, Paris, 1770-1783

 

Pàssaru ècchiu no ttrase a ccaggiola (Passero vecchio non entra in gabbia)

Pàssari: azza li manu e llàssali! (Passeri: alza le mani e lasciali!)

L’allusione, secondo me, potrebbe essere riferita allo scarso valore delle carni, per cui non vale la pena cacciarli, oppure alla difficoltà di impedire loro di  beccare la semente appena gettata, per cui non vale la pena intervenire.

Da Giovanni Pietro Olina, Uccelliera overo discorso della natura e proprietà di diversi uccelli, Andrea Fei, Roma, 1622
Tavola tratta da Giovanni Pietro Olina, Uccelliera overo discorso della natura e proprietà di diversi uccelli, Andrea Fei, Roma, 1622

 

Nna pica pizzichica pizzicoca campò centu piche pizzichiche pizzicoche, centu piche pizzichiche pizzicoche  no ccampara nna pica pizzichica pizzicoca (Una gazza pizzichica pizzicoca nutrì  cento gazze pizzichiche pizzicoche, cento  gazze pizzichiche pizzicoche non nutrirono nna pica pizzichica pizzicoca)

Tavola tratta da Historia naturelle des oiseaux, Imprimerie royale, Paris, 1770-1783
Tavola tratta da Historia naturelle des oiseaux, Imprimerie royale, Paris, 1770-1783

 

E dopo questa cantilena che, applicata all’uomo, può fare riferimento a quei figli che preferiscono tenere il proprio genitore in una casa di riposo piuttosto che, in turni più o meno lunghi, in casa loro, passo la palla ai lettori. Non vorrei però che, ad integrazione del proverbio relativo alla tortora ed al passero, il mio appello fosse  accolto solamente dai cacciatori …

(CONTINUA)

 

Per la prima parte (la gatta): https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/05/12/gli-animali-nei-proverbi-salentini-1x-la-gatta/

Per la seconda parte (la giumenta e la capra): https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/05/16/gli-animali-nei-proverbi-salentini-2x-la-giumenta-la-capra/

Per la terza parte (la pecora): https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/05/18/gli-animali-nei-proverbi-salentini-3x-la-pecora/

Per la quarta parte (l’asino): https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/05/23/gli-animali-nei-proverbi-salentini-4x-lasino/

 

Tutto ciò che bisogna conoscere del carrubo (II parte)

di Massimo Vaglio

carrube-a-pompei

La principale utilizzazione nel settore dell’industria alimentare è rappresentata dalla produzione di farine che trovano impiego nell’industria zootecnica per la realizzazione di ottimi mangimi per animali, ed in particolare per lo svezzamento e l’ingrasso dei suini, per prevenire casi di dissenteria dei soggetti giovani, nonché per migliorare l’appetibilità di foraggi e miscele di mangimi destinate a molte specie animali.

La carruba è diventata popolare nel settore dell’industria alimentare negli anni 80, la polpa è priva di caffeina e viene utilizzata per ricavare il “carcao”, che è un succedaneo del cacao a basso contenuto di grassi, mentre il “semolato”, è la farina di carrube ottenuta facendo essiccare la polpa e poi tritandola.

Grazie a un alto contenuto di proteine, vitamine, minerali come calcio, magnesio, potassio, la farina di carruba è un alimento nutriente a tutti gli effetti, povera di grassi, di sodio e di glutine quindi indicato anche nell’alimentazione dei celiaci.

carrube

Dai semi, si ricava una gomma addensante che viene utilizzata in pasticceria.

Le carrube sono molto ricche di zuccheri, tanto che, con la fermentazione, da un quintale di carrube si ottengono dai venti ai venticinque litri di alcool.

Sino ad un recente passato le carrube erano comunemente utilizzate direttamente per l’alimentazione umana, consuetudine che sopravvive su piccolissima scala, praticamente ormai a livello di mera curiosità.

Si narra che S. Giovanni Battista nel lungo periodo della sua ascesi nel deserto si nutrisse dei frutti di questa pianta (da allora anche denominata “pane di S. Giovanni”), che costituirono pure l’amaro pasto del figliol prodigo durante la dura esperienza di guardiano di porci.

carrubo3

In campo farmaceutico si utilizzano le carrube come prodotti naturali per la cura di malattie intestinali; sono lassative quando la polpa è ancora verde, astringenti e antidiarroiche da secche, grazie all’elevato contenuto di tannini, pectine, lignina, ecc.; tutte queste proprietà sono ben note e ampiamente sfruttate dall’industria chimica e farmaceutica.

La ricerca scientifica ultimamente sta concentrando i suoi studi su di una peculiarità del carrubo, che è quella di possedere uno strato di tessuto (cambio) costituito da cellule meristematiche, ossia in grado di far ricrescere qualsiasi organo della pianta che dovesse andare incontro a marciume o essere danneggiato. Si tratta, in parole povere, di cellule hanno le stesse caratteristiche di quelle che permettono al polpo la ricrescita di un tentacolo amputato o alla lucertola la ricrescita della coda, come si può intuire si tratta di un meccanismo che se, come si spera, si riuscisse a governare potrebbe trovare meravigliose applicazioni anche nella cura dei tessuti umani danneggiati.

Dai semi inoltre si produce una farina che per l’elevato potere addensante, legato al contenuto di carrubina (un polisaccaride), trova ampio impiego nell’industria alimentare e soprattutto dolciaria.

Dal legno rossiccio, che non è un ottimo combustibile, si possono ricavare sculture e può essere impiegato in lavori di ebanisteria; inoltre, si estraggono coloranti e polifenoli utilizzati nella concia delle pelli.

Per quanto riguarda il Salento, la còrnula, così vengono appellati tanto l’albero quanto il frutto di questo albero, si trova diffusa prevalentemente in esemplari isolati, alcuni dei quali di dimensioni davvero monumentali, ma la sua presenza per quanto attualmente numericamente limitata non sfugge certo alla vista, soprattutto in estate, quando questi alberi, risaltano lussureggianti nella loro verzura, incuranti dell’arsura circostante.

Li si ritrova spesso nelle adiacenze di antiche masserie, lungo i loro stradoni di accesso e in luoghi tanto pietrosi, aridi e scoscesi da essere stati considerati inidonei persino alla coltivazione dei pur parchi ulivi.

La densità di questi alberi aumenta man mano che ci si avvicina a Santa Maria di Leuca, ove insieme al fico d’India riesce a caratterizzare piacevolmente molti, altrimenti brulli, declivi rocciosi.

Anche nel passato, nel Salento, di rado la loro produzione è stata utilizzata per l’alimentazione bestiame, cui venivano destinati alimenti ben meno nobili, ma oltre che essere destinata in tempi di magra all’alimentazione umana, veniva ammassata alla stregua dei fichi secchi di scarto per essere avviata alla produzione dell’alcool.

Chiunque abbia visto un carrubo, non può che convenire sulla sua valenza estetica, cosa già sufficiente a privilegiarne il suo utilizzo nella costituzione di nuove aree verdi, se a questo poi si aggiungono le limitatissime, per non dire nulle esigenze colturali, la sua frugalità e la non peregrina circostanza di poter utilizzare la sua produzione anche a scopi alimentari, industriali ed energetici, si capisce come questo bellissimo albero debba essere rivalutato come essenza dal valore strategico.

A tal proposito, a nessuna persona dotata di un minimo di sensibilità ambientale e buon senso non possono non venire in mente le troppe estensioni di terreno abbandonato a ridosso degli agglomerati urbani; i tanti relitti stradali, non ultime le tantissime piazzole delle nuove rotatorie e le centinaia di chilometri di viali delle nostre zone squallide zone industriali, che con poca spesa, anzi usufruendo dei fondi attualmente messi a disposizione con un apposito bando dalla Regione Puglia, potrebbero essere riqualificati con buona pace del paesaggio e dell’ambiente, con questo nostro nobile, storico e generoso amico.

 

.

Da Melanton un “Buon viaggio nel villaggio” di Paolo Vincenti

paolo vincenti

di Antonio Mele “Melanton”

C’è sicuramente un mio piccolo ‘alter ego’, riconoscibile e forse neanche così piccolo, in Paolo Vincenti, scrittore ottimo, e congiuntamente poeta, per quel suo modo lieve e forte, e spesso anche lirico, d’osservare e raccontare il mondo e la vita: con cortesia e armonia, con acutezza, ma anche con ironico e sapido senso del gioco. Così come ho già fatto anch’io, e faccio ancora, forse più con la matita che con la penna, ma il concetto, infine, non cambia di molto.

Spero, e ne sono anzi certo, che l’accostamento gli sia gradito. D’altronde, l’avermi invitato a leggere/scrivere di lui lo comprova.

Più leggo Paolo, più egli evoca le mie mai perdute giovinezze e curiosità, con varie analoghe sperimentazioni letterarie di ieri come di oggi, sempre foriere di scoperte, conoscenze, sorrisi, conquiste e coscienza critica, proponendole intanto senza speciose accademie, per congenito e schietto piacere personale, e sempre congiunte al sanguigno desiderio di condividerle serenamente con il lettore, come in un incontro di festa.

Rabdomante di parole sorgive – quelle che servono per umettare appena la mente e il cuore, lasciando a chi legge ogni libero variabile completamento con le proprie modulazioni sentimentali – è Paolo Vincenti. Egli ha il pregio non comune di attrarre alla sua scrittura e alle sue folgoranti ispirazioni, chiunque vi si accosti, per volere o per caso, producendo un’istintuale commistione di emotività, curiosità e sapere, e rilasciando infine, tramite l’incanto delle parole, un senso quasi tattile di arricchimento e rigenerazione.

Una dovizia offerta a piene mani, generosa e sincera.

«La sperimentazione continua, forse un’ansia sempre insoddisfatta» – rivela Paolo – «mi portano a scrivere testi molto diversi fra loro, e rendono difficile riunire materiali eterogenei in una raccolta che abbia caratteri di organicità, unicità, completezza».

Mi permetto di dissentire. Proprio nella diversità ed eterogeneità io trovo, invece, una sorta di affascinante (e assai colto) fil rouge, che lega solidamente quei preziosi e pur dissimili appunti, osservazioni, riflessioni, arguzie o note di costume, elevandoli da misurati ‘frammenti’ a corposi ‘sentimenti’ di vita, in un’organica ed elevatissima testimonianza esistenziale-umanistica. Lo registra ampiamente questo libro perfetto (dal pregnante e caustico titolo L’osceno del villaggio), che a buon diritto si pone accanto alle opere migliori di altri autorevoli saggisti, scrittori e maestri di letteratura o di giornalismo moderno.

In più c’è la musica.

È l’altro fil rouge che collega e perfeziona le variegate proposizioni di Paolo Vincenti, sempre o quasi introdotte dai versi di un cantautore dei suoi preferiti (Dalla, Vasco Rossi, Paolo Conte, Venditti, Vecchioni, Jovanotti, Bennato…). Non un semplice vezzo, bensì una motivazione aggiuntiva – quando non perfino ispiratrice – per meglio e più consistentemente avviare e sviluppare le proprie tematiche, tanto da considerarla «…una compagna di viaggio preziosa per me da una vita, al pari della letteratura».

Ben oltre i contesti specifici (in qualcuno entreremo a curiosare volentieri più avanti), emerge decisa, e quasi prepotente, la sensibilità di Vincenti per fatti di cronaca non effimeri né banali; o per storie di vita agra che rilasciano tracce di amara dolcezza; ma anche per eventi che sommuovono la coscienza e partecipazione civile, in un’analisi energicamente espressa e utilmente partecipata, trasfondendo i propri umori, sentimenti, rabbie, speranze o ragioni al proprio lettore: il quale, come nel classico concetto espresso da Indro Montanelli, è per chi scrive il vero compagno e giudice ultimo.

Pur nella consapevolezza del proprio valore, fa altresì onore a Paolo Vincenti la sua umiltà di fondo. Confida: «Anche se a volte affronto temi di drammatica attualità, lo faccio con il sorriso sulla bocca, con la leggerezza di chi non si prende mai sul serio. Io intendo la letteratura come intrattenimento e divagazione… E sempre, anche quando affronto temi particolarmente importanti, mi ritengo un disimpegnato. Il mio approccio ai fatti di cronaca e di politica, ai mezzi di comunicazione, all’invasione tecnologica, alla barbarie linguistica e alla deriva di questi nostri tempi, non è quello dell’accademico che non sono, certamente non è quello del sociologo o del filosofo, ma semmai quello del letterato…».

Si può credere a tale confessione d’innocenza? Certamente, sì. Senza riserva alcuna.

Se le modalità espressive di Paolo Vincenti sono fra le più moderne ed esemplari di una letteratura d’avanguardia, priva di orpelli formali e densa invece di contenuti e sollecitazioni (utili e fors’anche indispensabili a ‘sentire’ il mondo pulsante intorno a noi, in rapida e spesso non convincente evoluzione), l’essere intimo di questo scrittore giovane e antico è – molto naturalmente – uno scrigno esuberante di sentimenti da condividere in purezza e semplicità.

Come quando si tira tardi con gli amici ad aspettare l’alba, parlando liberamente di tutto e di nulla, sentendosi infine più solidi e fortificati. E, soprattutto, più uomini.

Forse oggi non ce la farei – come in passato ho fatto più di mille volte – a riempire la notte di parole e di pensieri, con un amico o con cento, nelle piane di maggese o di tabacco di Torrepinta o sulle scogliere delle Quattro Colonne di fronte al mare e al faro di Gallipoli o a Bordighera e a Tolentino (e in vari luoghi extra moenia, ma non estranei), o infine da moccioso nelle piane metapontine di San Basilio a Pisticci, con mio padre, esule per lavoro, che m’insegnava a riconoscere fra milioni di stelle il Grande Carro, l’Orsa Maggiore.Un nulla, allora, ci divideva dal cielo. Ed è lo stesso pensiero che mi sovviene ora, pensando proprio a quello che scrive Paolo Vincenti, e a come lo scrive. Con lui, e radunando altri eletti, riproverei probabilmente a fare ancora mattino, andando e riandando, in nessun dove e dovunque.

Certo, il Salento può stargli adesso troppo stretto. Adesso, dico, perché immagino che il suo furore letterario e quell’ansia sempre insoddisfatta di cui si diceva all’inizio lo pressino ora da molto vicino, lusingandolo a cogliere nuovi orizzonti. «Oltremare è l’anelito, il desiderio per rotte che nessun comandante ha tracciato, per traguardi che nessun equipaggio sa indicare o soltanto immaginare», scrive Paolo ai Salentini, e comunque a se stesso.

Quien sabe? C’è probabilmente un Ulisse in ognuno di noi.  Anche questo anelito verso l’avventura e l’inconoscibile è un altro segno del mio ‘alter ego’ in Paolo. Ma non avrei consigli da dare. Ognuno è se stesso. Una è la scelta. Quello che sicuramente posso offrire, a lui come ai suoi fedeli e sempre ammirati lettori di cui mi sento parte, sono alcune mie illustrazioni e vignette (alcune, credo, molto conosciute, altre del tutto inedite e specificamente realizzate per questo libro), con il serio proposito – mi auguro confortato dal gradimento di chi legge – di offrire un ironico, e a suo modo anche filosofico, complemento di divagazione.

Buon viaggio nel villaggio, cari amici.

 

PAOLO VINCENTI L’OSCENO DEL VILLAGGIO (ARGOMENTI EDIZIONI 2016)

Tutto ciò che bisogna conoscere del carrubo (I parte)

di Massimo Vaglio

carrubo2

Il carrubo (Ceratonia siliqua L.) è una pianta sempreverde che raggiunge comunemente i 10-12 metri, di altezza, molto imponente, caratterizzata da una folta chioma espansa dal colore verde scuro, costituita da foglie composte arrotondate, glabre, lucenti e coriacee. Botanicamente, il carrubo appartiene alla famiglia delle Leguminoseae (sottofamiglia Ceasalpinaceae) e al genere Ceratonia, che comprende la sola specie Ceratonia siliqua. Il nome della specie deriva per metà dal greco keràtion (=piccolo corno) e per metà dal latino siliqua (=baccello).

I fiori sono poco appariscenti, riuniti in infiorescenze racemose di odore sgradevole e possono essere attaccati ai rami adulti o anche direttamente sul tronco. A questo proposito è opportuno ricordare che il carrubo è una specie dioica, ovvero che presenta fiori maschili e femminili su soggetti diversi, anche se talvolta nella forma selvatica i fiori maschili e femminili si possono ritrovare su di uno stesso individuo.

Nelle varietà coltivate si producono soltanto fiori femminili, ecco perché al momento dell’impianto è consigliabile mettere a dimora piante dei due sessi.

I fiori si trasformano in frutti dopo circa un anno, i frutti (legumi o baccelli detti lomenti) noti come carrube, nelle varietà coltivate sono lunghi fino ai 20 cm, larghi 3,5 cm e sono spessi circa 1 cm. Si sviluppano in primavera, di colore verde chiaro diventando bruni (color cioccolata) a maturazione completata a fine estate.

Contengono all’interno semi duri e lucenti chiamati carati dall’arabo (‘khirat’). Furono infatti proprio gli arabi ad individuare la particolare caratteristica che questi avevano sempre un peso costante (1/6 di grammo), per questo li utilizzavano come unità di misura delle pietre preziose.

carrubo3

Un albero di carrubo adulto, può produrre alcuni quintali di carrube, e in letteratura sono riportati casi di esemplari che hanno prodotto fino ad oltre una tonnellata di frutti maturi per stagione.

Le carrube, assumono a maturità una colorazione marrone scuro ed hanno un sapore dolce ed aromatico dovuto ad un contenuto in zuccheri che in alcune varietà può raggiungere circa il 60%.

Oltre il 70% circa della superficie nazionale coltivata a carrubo si trova in Sicilia, la restante parte è ripartita tra la Puglia, la Sardegna ed alcune zone della Campania, anche se è presente con alberi sparsi o piccoli nuclei anche in diverse altre regioni sino alle zone più riparate della Liguria che costituisce il limite settentrionale.

I maggiori paesi produttori attualmente sono la Spagna, tutti i paesi dell’Africa settentrionale, la Grecia, la Turchia, e la Siria. In Israele il carrubo è stato ampiamente utilizzato per il rimboschimento di zone montuose, rocciose ed aride.

Il Carrubo, che riesce a raggiungere comunemente dimensioni maestose. E’ una specie molto longeva che arriva a vegetare anche per 500 anni, anche se dalla crescita lenta, originaria dei paesi del Mediterraneo orientale (Siria, Asia Minore) e si è diffusa per coltivazione antichissima in tutto il bacino del Mediterraneo.

carrub

Fu introdotto in Italia dai greci, ma furono però gli arabi (che coltivavano e consumavano i suoi frutti dai tempi più remoti) che ne intensificarono la coltivazione diffondendolo poi in Spagna e Marocco. Insieme all’olivastro, al lentisco ed al terebinto già in epoca fenicia ricopriva con fitte foreste sempreverdi le zone costiere e collinari dei paesi mediterranei; è una specie amante della luce e del caldo e vive fino a 600 m. sopra al livello del mare in terreni rocciosi e calcarei. Di queste grandi foreste, allo stato attuale è rimasto ben poco, ma il carrubo, in areali circoscritti, è riuscito ad ambientarsi anche dove a causa della grande siccità e delle alte temperature estive, alcune specie della macchia mediterranea sono andate scomparendo.

 

La Palude del Capitano e la donna di malaffare

di Armando Polito

(tutte le foto, dell’autore, risalgono alla fine degli anni ’90)

Magari a poche ore dalla pubblicazione di questo post sarò subissato di critiche, ma come potevo io, piccolo uomo, resistere alla tentazione di un titolo che, magari, non sarà brutalmente sparato ma che, conformemente alla migliore prassi di scrittura giornalistica oggi più che mai in vigore, stimola la sacrosanta curiosità (che è, poi, la voglia di conoscere) del lettore, non certo col toponimo, noto probabilmente a livello planetario,  ma col nesso successivo che della curiosità sfrutta il suo aspetto morboso, correlato per eccellenza, poveri noi!, con la sfera sessuale?

Ho rinunciato volutamente, per non esagerare, ad aggiungere, sempre nel titolo, la parola record, per non fare un riferimento, per quanto redditizio sul piano dei contatti, allo sport che, insieme col sesso, costituisce l’altro campo umano in cui molte sono le parole e pochi i fatti , in cui, il paragone religioso non sembri blasfemo, tanti sono i credenti, pochi i praticanti …

Ed è proprio dal record che voglio cominciare. Come tutti sanno, la Palude del Capitano è il risultato del crollo di una cavità carsica, fenomeno etichettato nel dialetto locale con il termine spunnulata. In agro di Nardò è certamente la più estesa. Ma, da dove deriva spunnulata?

Sorprende non poco che questa voce sia assente nel vocabolario del Rohlfs, anche perché presumibilmente non sembra essere formazione recente. Me lo fa pensare la sua presenza nel Vocabolario delle parole del dialetto napoletano, che più si scostano dal dialetto toscano, Porcelli, Napoli, 1789, dal quale riporto in formato immagine i due lemmi che ci interessano.

 

Mentre il napoletano sfonnolara appare come forma deverbale inizialmente aggettivale, poi sostantivata (da uno *sfònnolo, diminutivo di sfonno) , il nostro spunnulata appare come participio passato di sfonnolare con semplice, normalissima  sostituzione di –f– con –p– (sfondare a Nardò è spundare, il che spiega, se ce ne fosse bisogno, il passaggio -o->-u-). Spunnulata, dunque, equivale a sfondata, con riferimento, però non al fondo ma alla volta della cavità carsica, che coincide con quello che prima del crollo era il livello di calpestio.

a3bis

A questo punto crolla, forse, qualcos’altro, cioè l’aspettativa del lettore più malizioso che si attendeva chissà quale rivelazione sulla vita sessuale del leggendario Capitano e, addirittura, era ansioso di conoscere il nome autentico di questa donna, e non solo il nome …

A me, invece, piace immaginare solo quest’uomo di mare che, secondo racconti locali, dato l’addio alla navigazione a causa dell’età, si rifugia in un luogo paradisiaco in cui con un pizzico di fantasia basta una semplice increspatura della superficie della palude per evocargli chissà quali tempeste.

La foto con cui mi piace chiudere, però, mi ricorda un’età relativamente verde, la mia, quando la Palude per motivi personali era la mia meta preferita; e la ricorda anche per quel dettaglio, evidenziato in bianco, che oggi non esito né mi vergogno di definire osceno (nel senso etimologico del termine: indegno di stare sulla scena): la staffa in cui veniva infilata una tavola sufficientemente lunga per fungere da trampolino per tuffarsi in quelle acque di cristallo, ma anche di ghiaccio per via della loro temperatura che, se non ci restavi secco, ti infondevano, loro sì, una carica di prorompente vitalità, come recitava uno spot pubblicitario di un bagnoschiuma in voga in quegli anni …

 

La brusca e lu Brusca (La brusca e il Brusca)

di Armando Polito

Quella che nel titolo di oggi può sembrare, soprattutto a chi non è neretino, ancora di più ad un non salentino, una strana coppia, probabilmente nemmeno lo è. Ma vale la pena fare un tentativo per ricostruire almeno virtualmente quel certificato di matrimonio che il tempo ha cancellato o che mai venne sottoscritto, tentativo il cui riassunto è anticipato nell’immagine di testa, poco trionfalmente per via di quel punto interrogativo.

La brusca (così tanto in italiano che nel dialetto neretino), è una spazzola molto dura utilizzata per strigliare i cavalli. La voce è per tutti concordemente dal latino tardo bruscu(m)=pungitopo. Anzitutto debbo osservare che bruscum è voce del latino medioevale, non tardo. In secondo luogo credo che brusca derivi dal plurale di bruscum, brusca appunto, che da neutro collettivo si è poi regolarizzato come femminile singolare, così com’è successo ad àcura (aguglia) che deriva da un latino volgare *àcora=aghi, dal classico acus (che è della quarta declinazione), probabilmente per analogia con i nomi neutri della terza uscenti al nominativo in –us, come tempus/tèmporis (al plurale tèmpora).

A parte questo dettaglio, debbo aggiungere che bruscum appare evidente derivazione, anzi variante posteriore,  del latino classico ruscum. Ma da dove nasce la prostesi di b-?. Potrebbe, originare da un incrocio con il latino, sempre medioevale, *bruscare=incendiare, dal quale si pensa che sia derivato l’italiano bruciare attraverso *brusicare, passato poi a *brusiare. Gli incroci quasi di regola suppongono una convergenza di fattori fonetici e semantici.    Per quanto riguarda il nostro caso i primi sono tanto evidenti che non è il caso di dire oltre, ma anche per i secondi non occorre fare voli concettuali stratosferici per capire che lo sfregamento di qualsiasi spazzola genera calore. A scanso di equivoci, però, va detto che il neretino bbruscare=irritare non si collega alla voce medioevale, peraltro ricostruita, ma è denominale da brusca.

È tempo di passare al Brusca, cioè al toponimo che a Nardò designa una villa-masseria. Chi volesse avere ragguagli storici, e non solo, troverà ampia soddisfazione nel post di Marcello Gaballo in questo stesso blog  all’indirizzo https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/22/note-storiche-e-architettoniche-sulla-masseria-brusca-in-agro-di-nardo-2/.

Qui, invece, ci chiediamo che rapporti possono esserci tra il toponimo e l’attrezzo. Intanto va detto che nel post appena segnalato è citato un atto del 1716 in cui compare Brùschia. Esso coincide con il nome comune con cui si indica l’attrezzo a Castrignano dei Greci e a Seclì. Dopo la b– di brusca rispetto a ruscum, è ora il momento della –i– di bruschia/Brusca rispetto a brusca/Brùschia. Anche qui potremmo invocare un incrocio con uschiare=bruciare (a Nardò è in uso la variante uscare) che è da un latino *ustulare (attraverso *ustlare>*usclare), intensivo da ustum, supino del classico ùrere che significa, appunto, bruciare. Ma non ce n’è bisogno perché bruschia potrebbe derivare direttamente da un *brùscula (diminutivo di bruscum) attraverso il passaggio intermedio *bruscla (come, ma gli esempi potrebbero essere innumerevoli, mas=maschio>màsculus> in italiano màschio, anche se la forma dialettale màsculu è tal quale quella latina).

Ma, se questo è plausibile sul piano fonetico, come può esserlo su quello semantico? Lo è, se si pensa che moltissimi toponimi, se non sono onomastici (cioè legati al nome del proprietario), contengono il riferimento all’abbondanza in loco di una specie vegetale. Non è difficile immaginare, perciò, che Brusca nasca da brusca, per l’abbondanza (un tempo, oggi non so) del pungitopo utilizzato per realizzare primitive ma efficacissime striglie. L’ipotesi potrebbe essere confermata proprio dall’articolo maschile che accompagna il toponimo e così, anche se il rapporto tra brusca e Brusca, non sarebbe coniugale ma di figliolanza, Brusca sarebbe in buona compagnia col suo dna vegetale pensando ai toponimi lu Scrasceta (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/07/21/tra-rovi-e-more-selvatiche/) e lu Sarmenta anche loro, difficile dire che si tratti di coincidenza, con il loro bravo articolo maschile davanti ad un originario neutro collettivo .

Per Scrasceta da scrascia vedi il link segnalato, per Sarmenta aggiungo che nel nostro dialetto la sarmenta corrisponde all’italiano il sarmento, ma, mentre quest’ultimo è dal singolare latino sarmentu(m), la voce dialettale è tal quale dal plurale (sarmenta), neutro collettivo,  regolarizzato poi con l’articolo come femminile singolare. Solo che nei nostri toponimi di oggi il passaggio al maschile, secondo me, suppone un sottinteso fondo chiamato; perciò lu Scrasceta=il (fondo chiamato) Scrasceta; lu Sarmenta= il (fondo chiamato) Sarmenta e lu Brusca=ii (fondo chiamato) Brusca.

Per qualcuno la conclusione sarà pure brusca, ma, dato il tema, non poteva essere diversa …

Tracce d’Arte, a Leverano

DSC09276

di Gianluca Fedele

Cala il sipario sulla quarta edizione della mostra collettiva “Tracce d’Arte” ideata e diretta da Anna D’Amanzo, inserita in questa occasione nell’ambito dell’evento “Pedalando tra colori e fiori”, nel borgo antico di Leverano (LE) e realizzata col patrocinio del Comune e di varie associazioni culturali.

Sabato 21 maggio e domenica 22, presso la suggestiva torre federiciana, è stato possibile apprezzare i lavori di dodici artisti, tra pittori e scultori, provenienti perlopiù da vari paesi del Salento ma naturalmente anche da altre parti d’Italia come nel caso dello scultore Alberto Alunni proveniente da Pietralunga (PG) il quale realizza col ferro, elettrodi e ossidi acetilenici delicatissimi paesaggi ispirati ai luoghi in cui vive.

Presente con un’opera in ferro anche Mario Converio di Schio (VI) riconosciuto e premiato nel mondo, è anche un apprezzato scultore del marmo e del ghiaccio.

Luciano Ravaioli di Butrio (BO) invece, invaghito dai tutù della pittrice Polacca Ewa Bathelier, ne trae ispirazione per la sua collezione dedicata alla rappresentazione di t-shirt.

DSC09277

Cesare Cuppone di Neviano (LE) immortala con olio a spatolate decise le bucoliche vedute salentine e i suggestivi ormeggi gallipolini.

Salvatore Silvan Dell’Anna di Copertino (LE) ha esposto la sua celebre “Donna dell’Est”, un blocco monolitico in marmo Star Galaxy dalle forme stilizzate.

Sempre da Copertino Giovanni Strafella, in arte Gix, presenta opere polimateriche che riconvocano culture tribali con le quali ama incoraggiare il fruitore instillando considerazioni introspettive e filosofia.

Luigi Latino di Galatina (LE) contrappone alla sua nota collezione dal titolo “Il gioco preferito dell’uomo” le recenti tele astratte “Il mondo che vorrei” per lanciare un forte messaggio di speranza.

DSC09284

Anche Nico Preste viene da Galatina e realizza delle piccole e delicate sculture in ceramica raffiguranti personaggi romantici e inverosimili, avvalendosi anche di oggetti desueti e tradizionali in ferro o legno.

Enza Mastria di Lecce esorcizza paure e solitudini raccontandole con un linguaggio metafisico e apparentemente onirico. Nelle raffigurazione si lascia inevitabilmente contaminare dalle architetture e dagli elementi mediterranei.

Albino Mello di Monteroni (LE) è presente a Tracce d’Arte con due opere composte da trame di rete metallica e fibra di fico d’india con le quali l’autore parrebbe voler evidenziare l’infinita ricerca dell’uomo inseguendo l’ineguagliabile capacità della natura.

Luigi Martina, pittore e scultore di Monteroni, attratto dalla figura della serial killer statunitense Aileen Wuornos le dedica una rielaborazione fotografica giocando coi pixel dell’ingrandimento, trasformandoli idealmente in squame di serpente.

Infine, ma non certo per importanza, Anna D’Amanzo che, reduce da numerose premiazioni, espone la sua “Bellezza barocca” in omaggio al Salento che sboccia in questi anni come una primavera di colori.

 

Tanti gli intervenuti che hanno potuto così ammirare oltre alle incantevoli creazioni degli artisti anche l’interno della torre d’avvistamento voluta da Federico II di Svevia nel 1220.

L’auspicio è sempre lo stesso: che l’arte torni protagonista nelle città e che la gente torni a invadere i luoghi dell’arte.

Gli animali nei proverbi salentini (4/x): l’asino

di Armando Polito

https://www.brandeis.edu/now/2010/july/nomansland.html
rielab. tratta da https://www.brandeis.edu/now/2010/july/nomansland.html

 

Siamo all’animale che per antica tradizione deteneva come pochi altri di specie diversa il primato di simbolo dell’ignoranza, prima di essere soppiantato dalle credenziali televisive della sgarbiana capra. In più al concetto di ignoranza si è aggiunto, pur sfumato, quello di stupidità ed il processo è avvenuto per sommaria via induttiva che non ha un fondamento oggettivo dal momento che chi è stupido è certamente pure ignorante, ma non tutti gli ignoranti sono stupidi. Per quanto riguarda la stupidità, poi, asino è in buona compagnia, a parte i sinonimi ciuco e somaro, con rappresentanti del mondo vegetale (rapa e il connesso broccolo e, per il toscano, baccello) e di altri di quello animale (cernia, allocco, bue, pecorone e, per il toscano, chiurlo e tinca).

La carriera metaforica dell’asino parte da molto lontano e ciò che sto per riportare probabilmente non rappresenta il primo rilascio di una poco invidiabile patente da rinnovare, a differenza di quelle umane, senza perdita di tempo e, soprattutto, senza raccomandazioni e senza spese …

Quelli della mia generazione probabilmente ricorderanno la mitica figura del re Mida, soprattutto per il dono avuto da Dioniso, con lui riconoscente per aver ospitato e poi riaccompagnato il satiro Sileno che ubriaco si era smarrito, di trasformare in oro tutto ciò che toccava. Accortosi che così sarebbe morto di fame pregò Dioniso di privarlo di tale potere . Il dio venne incontro al suo desiderio ma poco dopo il re incorse in un altro inconvenient che del mito è, forse, la parte meno nota. In qualità di giudice in una gara musicale tra Apollo e Marsia aveva dichirato vincitore quest’ultimo suscitando le ire di Apollo che lo punì trasformando le sue orecchie in quelle di asino. Solo il barbiere, per motivi facilmente intuibili, ne venne a conoscenza e il re gli intimò di conservare il segreto, pena la morte. Il povero barbiere non resistette alla tentazione di liberarsi di quel segreto e lo fece confidandolo ad una buca nei pressi di uno stagno. Ma Apollo fece nascere in prossimità delle canne che sussurrarono al vento il vergognoso segreto del re che, così,venne pubblicamente svergognato.  Non so dire con certezza se la favola di Mida abbia ispirato il Collodi in occasione della trasformazione in asinine delle orecchie del suo Pinocchio e se, a sua volta, Pinocchio così conciato abbia a che fare o meno con il provvedimento disciplinare adottato in passato nelle scuole nei confronti degli allievi difficili (non ne esistono, esistono solo insegnanti  non in grado di affrontare la presunta difficoltà … sono stato insegnate pure io e, quindi, lo dico con cognizione di causa, anche se chissà quante volte avrò sbagliato nell’affrontare una reazione imprevista!) e consistente nel far loro indossare un cappello provvisto di due belle orecchie asinine.  Posso però, affermare,certo di non poter essere smentito o tacciato di lassismo o, peggio ancora, di esaltazione retorica, quanto miserabile degrado contiene il passaggio successivo, quello che, con un inquietante aumento nella frequenza, si identifica nei sistemi correttivi di cui ogni tanto le cronache si occupano. Ma lasciamo perdere gli idioti umani e torniamo all’asino.

Meno male che alla povera bestia una parziale rivincita era stata assicurata dalla sua promozione a simbolo della lussuria in quanto possessore di un organo genitale di dimensioni ragguarevoli, come quello di Priapo, il dio della fertilità, di cui era l’animale, come, per esempio, la civetta lo era di Atena.

Ci llai la capu allu ciucciu nci pierdi la lissìa e llu sapone (Se lavi la testa all’asino ci perdi la liscivia e il sapone).

La presunzione umana che ha fatto assurgere l’asino a simbolo della stupidità trasforma in tempo e risorse sprecate il lavare la testa, anche nel caso in cui il nesso assuma il significato metaforico di rimproverare.

Ttacca lu ciucciu a ddo’ ole lu patrunu (Lega l’asino dove vuole il padrone).

Per il motivo principale addotto nel commento precedente, se non fosse per il senso di pietà nei confronti dell’asino, direi che andrebbe sempre rispettata la volontà del padrone quando quest’ultimo dice di legare l’asino con una corda molto lunga sul ciglio di un burrone … 

Li ciucci si àttinu e lli bbarili si scàscianu (Gli asini fanno a botte e i barili si rompono).

Il significato letterale è reso obsoleto dall’avvento dei nuovi mezzi di trasporto ma quello metaforico potrebbe essere applicato, per esempio, al rapporto conflittuale tra i componenti di una squadra sportiva in cui la mancanza di collaborazione rappresenta l’anticamera della sconfitta certa o quasi.

Lu ciucciu porta la pagghia e lu ciucciu si la spàgghia (L’asino porta la paglia e l’asino se la mangia)

Classico riferimento al caso di un invitato a pranzo che, per esempio, porta una bottiglia di vino e se ne scola due terzi …

Ci lu ciucciu no mbole cu bbeve, ti ndi bbienchi  cu ffischi! (Se il ciuco non vuole bere, puoi fischiare a saziètà [è inutile chiamarlo con un fischio].

Il rapporto conflittuale tra l’asino e l’acqua trova la sua menzione in tempi molto antichi: Plinio (I secolo d. C.) nella Naturalis historia, VIII, 73, così scrive a proposito delle asine (ma credo valga pure per i maschi): Partus caritas summa, sed aquarum taedium maius: per ignes ad fetus tendunt, eaedem, si rivus minimus intersit, horrent etiam pedes omnino tinguere. Nec nisi adsuetos potant fontes quae sunt in pecuariis, atque ita ut sicco tramite ad potum eant. Nec pontes transeunt per raritatem eorum tralucentibus fluviis, mirumque dictu, sitiunt et si mutentur aquae; ut bibant cogendae exorandaeve sunt. (Hanno grandissima cura dei figli, ma è più grande la loro paura dell’acqua: vanno verso i figli attraverso le fiamme ma se in mezzo c’è un corso d’acqua per quanto piccolo hanno paura pure a bagnarsi le zampe. Non bevono a nessun’altra fonte che non sia quella abituale nell’allevamento, in modo da andare a bere attraverso un percorso asciutto. Non attraversano i ponti a causa delle acque luccicanti attraverso le loro fessure. Strano a dirsi, hanno sete, ma, se le acque non sono quelle abituali, affinché bevano devono essere costrette ed esortate)

Lu oe chiama lu ciucciu curnutu (Il bue chiama cornuto l’asino)

Appartiene alla lunga serie di quei proverbi che possono collegarsi alla metafora evangelica della pagliuzza nell’occhio altrui e della trave nel proprio.

 

Chiudo con due proverbi il cui significato metaforico, purtroppo, non diventerà mai obsoleto. Basta che il lettore che ha avuto la pazienza di seguirni fin qui pensi all’imminente tornata elettorale …

Spetta, ciucciu mia, ca mo rria la pagghia noa (Aspetta, asino mio, che ora arriva la paglia nuova).

Lu ciucciu ti nanti vae cacandu e tu ti tretu lu vai lliccandu (L’asino davanti va cacando e tu gli vai dietro leccandolo).

 

 

(CONTINUA)

Per la prima parte (la gatta): https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/05/12/gli-animali-nei-proverbi-salentini-1x-la-gatta/

Per la seconda parte (la giumenta e la capra): https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/05/16/gli-animali-nei-proverbi-salentini-2x-la-giumenta-la-capra/

Per la terza parte (la pecora): https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/05/18/gli-animali-nei-proverbi-salentini-3x-la-pecora/

Osce vo ti pressa (Oggi vado di fretta)

di Armando Polito

Però, mentre inizio a scrivere, non garantisco che il post avrà quella durata che, pure, il titolo potrebbe far presagire e che avrà fatto esclamare a qualche lettore salentino al quale sto antipatico: – Ringrazziamu Ddiu, era ora! – Tuttavia, come l’appetito vien mangiando (ma quando il piatto iniziale fa schifo dubito che si possa continuare …), così le idee vengono scrivendo . E poi, io sono uno che si mette nei guai da solo e, di fronte ad un problema comparso inaspettatamente, non mi comporto come il politico-macchietta inventato da Antonio Albanese che, di fronte alle domande stringenti alle quali non sapeva o gli era scomodo rispondere, se ne usciva immancabilmente con un S’è fatto tardi ...

Anzitutto osservo che il nesso in questione con la semplice sostituzione della preposizione ti con di non è estraneo all’italiano dei secoli passati: Io già l’avea capita; or vo di pressa, via (dalla commedia di Giuseppe Colomba, Lo Scavamento, s. n., Napoli, 1810, p. 43). E, se la rete mi ha dato solo questa ricorrenza dell’intero nesso, vale la pena ricordare che vo (per vado) e pressa nel senso di fretta (na anche di calca) sono ancora oggi (per il passato il numero di citazioni sarebbe sterminato) considerate forme letterarie sì, ma non obsolete.

Se, dunque, l’espressione dialettale ha, per quanto ho appena finito di dire, una sua nobiltà, pressa mi permette di fare alcune digressioni che in un’epoca di dilagante anglofilia hanno per le mie metaforiche papille gustative un sapore particolarmente amaro. Oggi in italiano pressa è comunemente usato nel significato (riporto la definizione dal De Mauro, edizione 2000) di macchina atta a esercitare una forte pressione per comprimere, deformare, spianare, ecc. un materiale cedevole o plastico posto tra due elementi di cui almeno uno mobile e in quelli specialistici di torchio usato in tipografia per spianare i fogli dei libri, imprimere fregi, ecc. ed in quello di dispositivo usato in cinematografia per congiungere le pellicole. A distanza di 16 anni, però, queste due ultime definizioni si riferiscono a tecnologie ampiamente superate nella nostra era digitale dall’avvento del laser e degli strumenti informatici. Fa, perciò, quasi tenerezza e, probabilmente, in qualcuno suscita anche stupore la dicitura Da’ torchi ricorrente in testi del passato, come nel frontespizio in basso riprodotto.

L’immagine che segue (tratta da Symphorien Champier, Cribratio, lima et annotamenta in Galeni, Avicennae et Consiliatoris operaè, Bade, Paris, 1516, è emblematica della strada percorsa fino ai nostri giorni dalla stampa a partire dal torchio, mediato dalla sua primitiva applicazione, quella della spremitura.

Da notare Prelum Ascensianum, che, scritto come appare su una targhetta, parrebbe una sorta di marchio di fabbrica ante litteram, naturalmente in latino.. Prelum i Romani chiamavano proprio il torchio utilizzato per la spremitura delle uve e delle olive, mentre Ascensianum è forma aggettivale da Jodocus Badius Ascensius (1462-1535), un pioniere dell’arte tipografica, il cui monogramma  è visibile in basso al centro. Perciò quello che inizialmente poteva sembrare un marchio di fabbrica è, in realtà, una marca editoriale.

Quello di pressione è il concetto che sta alla base della nostra vita fisica (se non ci fosse quella atmosferica galleggeremmo in continuazione a mezza altezza come gli astronauti in assenza di gravità e quando quella sanguigna non è nei giusti valori rischiamo un collasso o un colpo apoplettico). Della spremitura di uve ed olive ho già detto, ma come faccio, ora che l’estate si avvicina, a non ricordare le spremute di frutta, anche se in quelle commerciali già la percentuale di succo  dichiarata in etichetta è irrisoria?  E, giacché ci sono, un’altra domanda altrettanto, se non più angosciante:  con l’olio e col vino comprato possiamo stare sicuri come lo saremmo se fosse una nostra produzione (nostra manco nel senso di italiana, ma di nostra nostra …)?

Ma la pressione è alla base anche della nostra vita spirituale se pensiamo al significato già ricordato di pressa (coincidente con quello di torchio da stampa) e a quello di tante parole o nessi che a quel concetto si collegano, anche etimologicamente: premura (non tanto nel senso di fretta per il quale coincide con pressa del titolo, quanto come sinonimo di cura, sollecitudine verso qualcuno)  e la forma riflessiva mi preme fare, dire, etc. etc. , senza contare i composti esprimere, comprimere, deprimere, imprimere, opprimerereprimere e sopprimere (se me ne sono scordato qualcuno chi vuole può darci l’integrazione in un suo, sempre graditissimo, commento).

Non farà piacere ora a chi ha fatto dell’anglofilia linguistica la bandiera del suo modernismo e della sua cultura quanto sto per dire. Il verbo premere in latino ha il seguente paradigma: premo/premis/pressi/pressum /prèmere; per chi non conosce il latino: sono, nell’ordine, la prima e seconda persona singolare dell’indicativo presente, la prima dell’indicativo perfetto, il supino e l’infinito presente. Anche un bambino riconoscerebbe le forme in comune con l’italiano (premo e premere). C’è in latino un fenomeno per cui dal tema del supino di un verbo delle terza coniugazione (e prèmere lo è) si forma spesso un verbo della prima che rispetto all’originale assume una leggera sfumatura o conativa o iterativa. Così dal supino captum del verbo capio/capis/cepi/captum /càpere, che significa prendere, afferrare,  è nato capto/captas/captavi/captatum/captare, che significa  tentare di prendere (anche qui un bambino riconoscerebbe facilmente l’origine delle voci italiane capto e captare). Prèmere non poteva essere da meno ; e così dal supino pressum è nato presso/pressas/pressare. A questo punto il bambino di prima,diventato nel frattempo ancora più sveglio, dopo aver individuato le voci in comune con l’italiano mi chiederebbe senz’altro perché quest’ultimo paradigma presenta due voci in meno, cioé il perfetto ed il supino. Coglierei, allora, l’occasione per chiedergli come si aspettato le forme mancanti  e molto probabilmente sentirei pronunziare pressavi e pressatum. A questo punto, dopo essermi complimentato con lui per la corretta applicazione del principio analogico, gli spiegargli le differenze tra il latino letterario (quello del quale ci sono rimaste testimonianze scritte) e quello parlato, di cui sopravvive qualche forma concreta e diretta (cioé immediatamente visibile, se qualcuno non vi sovrappone la firma della sua idiozia …) nei graffiti pompeiani  e indiretta nell’italiano di oggi. Nella fattispecie il nostro pressai non esisterebbe se non fosse esistito un latino volgare *pressavi, il perfetto mancante nell’ultimo paradigma. Non è finita: non esisterebbe nemmeno la voce soppressata (lo so che per i vegani è una bestemmia …), composta dal segmento so– che è dal latino sub=sotto+pressare.

L’ormai famigerato bambino, a questo punto sarebbe in grado di individuare facilmente l’etimo di parole inglesi come press e composte come press agent (per fortuna addetto stampa sembra ancora difendersi, nonostante la locuzione inglese sia più vicino al latino: press è inutile che dica da dove deriva, agent  ha lo stesso etimo del nostro agente [dal latino agente(m), a sua volta da àgere=fare, agire, condurre]; invece in addetto stampa, mentre addetto è dal latino addictu(m), da addìcere=assegnare, stampa è deverbale da stampare, a sua volta dal germanico *stampjan o dal francone *stampon, entrambi col significato di pestare. Alla radice di queste due ultime voci,sec ondo me, si collegano tampone e tappo, ma l’ascendente più antico potrebbe essere, nonostante il differente vocalismo, ancora il greco e, in particolare, la serie di voci messe in campo a suo tempo per il salentino stumpare. Per chi ancora ne avesse voglia segnalo il link https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/01/28/stumpisciare-calpestare/.

A questo punto non dovrebbe essere difficile individuare l’etimo, ancora, degli inglesi print (verbo e sostantivo), sapendo che originano dal participio passato del francese medioevale preindre=pressare, alterazione da prembre, a sua volta dal latino prèmere.

E voglio chiudere con una sorta di pubblicità poi non tanto occulta, anche se attualmente non sta imperversando (non credo, però, che dipenda dal fatto che si è abbassato il costo delle cartucce originali per stampanti a getto d’inchiostro …): PRINK, nato dal matrimonio tra PRINT e INK.

Insomma, tutto questo per dire, alla fine, che pressa è deverbale di pressare. E menu male ca scia ti pressa (e meno male che andavo di fretta) …

A Marittima, Boccadamo presenta “Anita”

boccada1

Sabato 21 maggio 2016, alle ore 9.30, presso l’Istituto Comprensivo Statale, in via Roma, 69 a Marittima di Diso (Lecce) sarà presentato il libro di Rocco Boccadamo, “Anita detta Nnita – Lettere ai giornali e appunti viaggi” edito da Spagine – Fondo Verri nel dicembre 2015.

Interverranno e dialogheranno con gli alunni e il pubblico presente, l’autore e il prefatore Ermanno Inguscio. Nell’occasione, Rocco Boccadamo, portando avanti l’ormai decennale iniziativa “Un libro in dono”, consegnerà una copia del volume a ciascuno degli studenti di terza media.

Scrive Ermanno Inguscio: “Il viaggio è sete di conoscenza, è desiderio di allacciare nuove relazioni, è bisogno di comunicazione”; e un viaggio propone l’autore con i quarantasei brani che compongono il volume.

Nella prima parte del libro, Rocco Boccadamo riferisce di fatti e personaggi incontrati in terra veneta, ad Abano Terme, al consumarsi della stagione autunnale 2013; nella seconda, campeggia, tra i ventotto scritti, il racconto salentino di “Anita, detta ‘Nnita”, che dà il nome alla raccolta.

‘Nnita, personaggio tra le tante figure che popolano le narrazioni di capitolo in capitolo: un vecchio parroco, le belle deputate presenti nel Parlamento nazionale, “lu cumpare signurinu”, la Nunziata di Castro”, “Zi’ Miliu” e Vitale…

Storie e memorie che con la scrittura sfidano il Tempo.

A chiudere il volume, il terribile naufragio del traghetto “Norman Atlantic” nel Canale d’Otranto.

Ma su tutto a farla da padrone, sono i molti angoli della terra tra due mari, con Castro Marina, Serrano, Marittima, non senza puntate nella memoria delle esperienze lavorative del giovane autore, bancario, alle pendici dei Peloritani, delle Prealpi Venete e in Brianza.

Gli animali nei proverbi salentini (3/x): la pecora

di Armando Polito

fotogramma tratto da La Pecora Leccese nel Parco Regionale Naturale delle Dune Costiere (https://www.youtube.com/watch?v=sy_2Ma3JJTo)
fotogramma tratto da La Pecora Leccese nel Parco Regionale Naturale delle Dune Costiere (https://www.youtube.com/watch?v=sy_2Ma3JJTo)

 

La pecura ca scama perde l’uccone (La pecora che bela perde il boccone)

Quandu la pecura face mbe perde l’uccone (Quando la pecora bela perde il boccone)

È del tutto evidente come i due appena riportati possono essere considerati più che come due proverbi distinti come un unico proverbio in due varianti. Il face mbe del secondo è il corrispondente scama del primo. Il verbo scamare (dal latino exclamare, con esito –cla>-ca- invece del più frequente –cla->-chia-) riferito agli umani è sinonimo di strillare. Rimane il dubbio se il boccone perduto è quello che cade aprendo la bocca o quello non brucato dall’animale intento a belare. La prima interpretazione riporta alla memoria l’aneddoto (può essere definita una sorta di barzelletta animale) che vede come protagonisti un cane barese ed uno leccese: il primo recain bocca un bell’osso che, però, gli cade di bocca per rispondere alla domanda del suo simile corregionale che gli aveva chiesto di dove fosse: – Di Bberiii (di Bari). Nella speranza di recuperare il suo osso il barese rivolge al leccese la stessa domanda che gli era costata la dolorosa perdita, ma il – Te Lecce – (di Lecce), la cui pronunzia non comporta alcun terremoto mascellare, avuto come risposta legittimò il cane leccese come proprietario definitivo dell’osso.

Quandu la pecura face la mberda crossa si spetta mal’annata (Quando la pecora fa i cacherelli grossi ci si attende una cattiva annata)

Mi riesce difficile cogliere il collegamento, che pure ci dev’essere, tra la “qualità” dimensionale delle feci e quella climatica e pure, forse soprattutto, economica dell’annata. Più facile sarebbe stato individuare il rapporto inverso, cioé tra l’alimentazione assuna nel corso di un’annata sfavorevole e la qualità della defecazione. Se qualcuno, meglio se dell’arte,può darci il suo aiuto, non si lasci condizionare dall’argomento …

Lu tiàulu no ttene pecure e bbende lana (Il diavolo non ha pecore e vende lana)

Qualcuno si chiederà perché mai doveva essere messa in campo la lana (e indirettamente la pecora) con tanti altri prodotti che il diavolo poteva vendere. Infatti un altro proverbio recita Lu tiàulu no ttene crape e bbende latte (Il diavolo non ha capre e vende latte) ma esso ci fa capire che per il mondo contadino di un tempo la lana e il latte costituivano i prodotti in cui i loro valore emblematico in campo economico non poteva trovare altri interpreti.

(CONTINUA)

Per la prima parte (la gatta): https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/05/12/gli-animali-nei-proverbi-salentini-1x-la-gatta/

Per la seconda parte (la giumenta e la capra): https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/05/16/gli-animali-nei-proverbi-salentini-2x-la-giumenta-la-capra/

Per la quarta parte (l’asino): https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/05/23/gli-animali-nei-proverbi-salentini-4x-lasino/

Gli animali nei proverbi salentini (2/x): la giumenta e la capra

di Armando Polito

Le immagini che seguono, con cui mi piace iniziare, sono tratte dal profilo di SALENTO COME ERAVAMO su Facebook.

I proverbi di oggi si riferiscono a due animali diversi, ma, come per quello presentato nella prima puntata e quelli che lo saranno nelle prossime, è evidente l’incorporato significato metaforico, cioè la loro traslazione dalla sfera bestiale a quella umana. Senza scomodare per questo Esopo, Fedro e tanti loro epigoni basta pensare al disinvolto e ormai quasi meccanico uso dei nomi di animali in cui detta traslazione è stata consacrata nella stragrande maggioranza dei casi con connotazione simbolica negativa e pure qualche voce di origine dialettale (sottolineata nella serie che segue) in questa accezione ha visto facilitato il suo trasferimento nella lingua nazionale:  porco, troia, talpa, zoccola, oltre allo sgarbiano capra, l’unico, forse,  che senza la tv oggi non sarebbe comparso in questo, pur parziale, elenco; meno male che un residuo senso di sportività da parte nostra (ma sempre ammantato di maschilismo …) è forse ravvisabile nelle due voci che definiscono colui che ha un’attività sessuale molto intensa, nonostante potesse essere messo in campo Ercole che, secondo la versione della sua tredicesima fatica riportata nell’Antologia Palatina (compilazione risalente al X secolo di raccolte antologiche precedenti) XVI, 92, 13-14), avrebbe avuto in una sola notte un rapporto con le cinquanta figlie di Tespio, ingravidandole, fra l’altro, tutte: le due voci in questione sono satiro (anch’esso di ascendenza mitologica) e mandrillo, che ormai nell’uso, con l’ignoranza dilagante, e non solo dei miti, ha soppiantato il primo. Non mi meraviglierei se, poi, sulla scia della riproposizione della commedia sexy all’italiana degli anni ’70 e del metaforico trapano di Renzo Montagnani immancabile protagonista della serie, complici l’ignoranza e la pigrizia (leggi superficialità, mancanza di quella sana curiosità che è lo spirito critico), pure il povero mandrillo si vedesse trasformato nel meccanico mandrino

Chiedo scusa per la divagazione e passo ai proverbi, non senza aver prima detto che, per i due animali e la loro figliolanza,  primitive cognizioni genetiche finiscono per sfociare, soprattutto nel secondo, in un teorico e qualunquista pregiudizio, anche se rimane fermo il principio che in campo educativo il buon esempio, se non garantisce il successo, ne costituisce, comunque, la più valida e promettente condizione, credo anche sotto il profilo meramente statistico.

Ti na sciumenta ccàmbara no ppigghiare mai la figghia, ca puru ca no ggh’è ttotta ccambara alla mamma si ssimègghia (Di una giumenta sbilenca non comprare mai la figlia, perché anche se non è tutta sbilenca  somiglia alla mamma).

Pecura è ssciumenta ti occa mangia e ddi culu spenta(Pecora e giumenta con la bocca mangia e col culo sventa). Non so se il fenomeno è più frequente in questi animali (ad ogni modo, come vedremo in un’altra puntata, la pecora sarà protagonista di altri proverbi), né se è indotto da qualche particolare alimento, come succede tra noi umani con i fagioli e con i lampascioni. Chi ne abbia voglia faccia sentire nei commenti la sua voce; a scanso di equivoci: quella  superiore, che lo è in tutti i sensi …

Ti ddo’ zzumpa la crapa zzumpa la crapetta (Dove salta la capra salta la capretta). Corrisponde all’italiano Tale madre tale figlia e il salto di cui si parla non è certamente quello in alto o in lungo, tutt’al più quello con l’asta .

 

(CONTINUA)

Per la prima parte (la gatta): https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/05/12/gli-animali-nei-proverbi-salentini-1x-la-gatta/

Per la terza parte (la pecora): https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/05/18/gli-animali-nei-proverbi-salentini-3x-la-pecora/

Per la quarta parte (l’asino): https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/05/23/gli-animali-nei-proverbi-salentini-4x-lasino/

_____

1 Spenta è la forma con cui il proverbio mi è stato comunicato da mio cognato e confermato da altri. Credo, tuttavia, data l’età relativamente giovane dei miei referenti e la comune natura fonetica di p e di b (entrambe labiali), che la forma originale fosse sbenta (da sbintare, che nel dialetto neretino è usato per indicare il dissolversi di una puzza ed anche dei fumi dell’alcol).

Bandiere Blu 2016. Il mare del Salento è sempre più blu

 

Torre dell'Orso, Melendugno
Torre dell’Orso, Melendugno

 

di Giuseppe Massari

Castro, Otranto, Melendugno e Salve hanno ricevuto per il 2016 l’ambito riconoscimento assegnato dalla Fondazione Europea per l’Educazione Ambientale. Il Programma Bandiera Blu, comunque, premia tutte quelle località marine che si sono impegnate nella promozione del territorio a salvaguardia dell’ambiente, secondo criteri di assegnazione che vanno dalla qualità delle acque di balneazione, alla depurazione di quelle reflue, passando per la facile accessibilità alle marine fino alla gestione dei rifiuti.

Veterana della classifica da oltre un decennio, Otranto si riconferma come uno dei borghi marini più attrattivi del Salento, un riconoscimento che il sindaco Luciano Cariddi commenta così: È la conferma di un lavoro portato avanti da tutta la città. Posso dire però che non ci sentiamo appagati: c’è ancora molto da fare nel settore dei rifiuti, ad esempio. Un ambito in cui l’amministrazione può agire fino a un certo punto, poi tocca ad altri enti .

BAIA DI PUNTA DELLA SUINA, GALLIPOLI, PUGLIA

Stessa soddisfazione aleggia intorno alle parole del sindaco di Melendugno Marco Potì, che è gonfio di orgoglio per il premio ottenuto dalle marine di Torre dell’Orso, Roca e San Foca, le quali possono vantare di aver conquistato, contemporaneamente, la Bandiera Blu, le Cinque Vele e la Bandiera Verde.

Anche Castro non nasconde la sua soddisfazione per la gratificazione alla propria qualità nei servizi.

Ma il Salento nel suo insieme, inteso come penisola salentina, comprensiva delle province di Brindisi e Taranto, può vantare analoghi riconoscimenti per le spiagge e le marine di Fasano, Ostuni e Carovigno e per Ginosa e Castellaneta.

Nove comuni in tutto, su gli 11 pugliesi, tra i quali Polignano a Mare (nona bandiera consecutiva), l’unico in provincia di Bari, e Margherita di Savoia, comune solitario nella Barletta-Andria-Trani.

Grotta della Zinzulusa, Castro
Grotta della Zinzulusa, Castro

In definitiva, la Puglia alza le sue 11 bandiere conquistate l’anno scorso. Con una sola eccezione e un avvicendamento: esce Monopoli ed entra Carovigno. L’auspicio, per il prossimo anno, è che i vessilli aumentino e che la Puglia si confermi nel suo primato di qualità balneare e balneabile.

Le pozzelle di Zollino

Pozzelle, foto di Enrico Floriddia e Silvia Cesari
Pozzelle, foto di Enrico Floriddia e Silvia Cesari

 

Il progetto di innovazione sociale In-Culture, in collaborazione con l’amministrazione comunale di Zollino, ha presentato ieri 13 maggio, nella Sala Consiliare del Comune di Zollino (Le), il volume “Conservare l’acqua. Le pozzelle di Zollino tra memoria storica e indagini scientifiche“, realizzato nell’ambito delle attività di ricerca del progetto In-Cul.Tu.Re.

La pubblicazione raccoglie i risultati degli studi condotti sui sistemi di raccolta di acqua piovana presenti a Zollino, elementi caratteristici dell’architettura rurale locale dal notevole valore identitario e simbolico: le Pozzelle di Pirro, le Pozzelle di Apigliano, le Cisterne di Masseria Gloria.

Pozzelle, foto di Marco Rizzo
Pozzelle, foto di Marco Rizzo

 

Il libro, che al termine della presentazione è  stato consegnato gratuitamente alla comunità di Zollino e ai partecipanti, offre un punto di partenza per futuri interventi di recupero, manutenzione e valorizzazione dell’area oggetto di studio.

I risultati delle attività di ricerca condotte sulle aree delle pozzelle sono il frutto di un lavoro multidisciplinare condotto da In-Culture, vincitore del bando Smart Cities and Communities and Social Innovation e finanziato dal Miur, in collaborazione con il Comune di Zollino e l’Ibam-Cnr di Lecce.

All’incontro hanno preso parte: Antonio Chiga (Sindaco di Zollino), Ivan Stomeo (Presidente Unione dei Comuni della Grecìa Salentina), Paola Durante e Sofia Giammaruco (Progetto In-Cul.Tu.Re.), Giovanni Quarta (IBAM-CNR di Lecce), Ivan Ferrari e Francesco Giuri (IBAM-CNR di Lecce), Giovanni Leucci (IBAM-CNR di Lecce), l’archeologa Barbara Vetrugno. Modera: Gabriele Miceli (Progetto In-Cul.Tu.Re.)

Le aree delle pozzelle rientrano tra i 12 casi studio individuati da In-Culture (Innovazione nella cultura, nel turismo e nel restauro) sul territorio della Grecìa Salentina.

Il volume “Conservare l’acqua. Le pozzelle di Zollino tra memoria storica e indagini scientifiche” contiene al suo interno i contributi del dott. Gianni Carluccio con informazioni sul contesto storico, la diffusione sul territorio delle pozzelle e una raccolta dei principali studi sinora condotti sul tema; il complesso programma diagnostico messo in atto da In-Cul.Tu.Re. in collaborazione con l’IBAM-CNR di Lecce a partire dalla mappatura dello stato di fatto dei luoghi, al rilievo interno di una pozzella con successiva modellazione 3d, fino alla ricostruzione dei modelli geologici e idrogeologici delle tre aree.

Il volume si arricchisce inoltre di un contributo sulle recenti ricerche archeologiche, curato da Francesco Esposito e Barbara Vetrugno, che hanno avuto luogo presso le pozzelle di Apigliano, in occasione dei lavori per la realizzazione di un nuovo percorso di visita.

Al termine dell’incontro è stato proiettato “Acqua tra le pietre”, il documentario realizzato da Meditfilm nell’ambito del progetto In-Culture, diretto da Fabrizio Lecce, che raccoglie le testimonianze inedite sulle pozzelle di Zollino. La cultura, la sapienza e i ricordi affiorano dai racconti delle persone che hanno vissuto tali luoghi e continuano a viverli.

clicca qui per scaricare il volume

www.inculture.eu/conservarelacqua-lepozzelledizollino

 

 

 

CONTATTI

www.inculture.eu

progettoinculture@gmail.com

www.facebook.com/futuripossibili

INFO

Gabriele Miceli

335.5772274

 

Pillole d’arte| Tommaso Chiffi: La caduta degli dei

La caduta degli dei - Tommaso Chiffi 

di Gianluca Fedele

 

Chi conosce già le opere liberty di Tommaso Chiffi faticherà a riconoscere lo stesso tratto attraverso l’opera “La caduta degli dei” (2015), lavoro cardine del contemporaneo momento creativo dell’artista, quello che, come vedremo, possiamo definire a giusta ragione decadentista.

Il pittore, che attraverso il percorso di studi di decorazione presso l’Accademia delle Belle Arti ha acquisito tecnica e fedeltà pittorica, pare ora discostarsi, seppur temporaneamente, dalla propria indole positivista e quindi anche dalla produzione precedente che comprendeva persino paesaggi metafisici, per dedicarsi a questo inedito filone stilistico.

Il lavoro che stiamo osservando ritrae due figure nelle quali possiamo riconoscere i personaggi biblici Adamo ed Eva inabissarsi nei meandri dei loro fragili limiti, costituiti dalla incapacità di dominarsi prima che dominare su tutte le altre forme di vita che convivono con essi nell’Eden.

Il pannello di supporto, che misura complessivamente 130 cm nella parte alta e 115 cm in larghezza, è in legno mesticato (mestica polimaterica) in rilievo. Lungo questo perimetro informale le tinte predominanti sono il rosso porpora e l’oro, scientemente adoperate al fine di simboleggiare uno sfarzo esagerato e palesemente inadeguato. L’autore infatti, ponendo il busto maschile con le spalle rivolte verso il basso, è conscio di raffigurare la figura dell’uomo – e della donna –, creati a immagine e somiglianza divina, in caduta precipitosa a causa del proprio egoismo e dell’insoddisfazione costante che pare caratterizzare l’epoca attuale e i suoi protagonisti.

Il pannello monolitico centrale, in vetro da 10 mm, è realizzato attraverso l’ausilio dell’aerografo e una particolare tecnica di vetrofusione. Il bordo interno è stato frastagliato e smerigliato in maniera irregolare; anche attraverso questa scelta si vuol evidenziare che nulla è lasciato al caso poiché Chiffi individua in esso un senso di fragilità continuo e circostante, una sorta di disagio interiore causato dalla coscienza della propria disarmante impotenza.

Gli animali nei proverbi salentini (1/x): la gatta

di Armando Polito

Gatti gallipolini in attesa del rientro dei pescatori

Di ogni proverbio mi limiterò a fornire la traduzione italiana e un breve commento risparmiando al lettore qualsiasi annotazione etimologica, per me la più interessante, per lui, invece, e me ne sono accorto da tempo …, la più noiosa. Confido, comunque, nell’aiuto di chi vorrà integrare volta per volta, la sezione animalesca per la quale qualche proverbio mi sarà sfuggito. Questo giustifica anche l’1/x del titolo, in cui la x certamente sarà destinata a restare a lungo, tanto più a lungo quanto più numerosi saranno i contributi, relativi ad animali non trattati, di cui i lettori vorranno far dono.

Scarda lu pesce e quarda la mùscia! (Squama il pesce e sorveglia la gatta!). Va detto, però, a cominciare dalle mie, che con le gatte di oggi (per colpa di alcuni padroni, me, che ne ho due, in primis) è meno rischioso lasciare incustodito un sarago che una confezione di croccantini o di bocconcini. Sarò maschilista, ma a tal proposito, anche per compensare il gatta e non gatto del titolo, nonché del testo dei due proverbi proposti, debbo dire che il terzo rappresentante felino della mia famiglia, maschio, di nome Nerino, non resta impassibile alla vista di un pesce abbandonato ma si accontenta anche delle briciole di pane quando gliele presento raccolte nel palmo delle mia (solamente la mia …) mano.  Più stupido delle signorine Molly e Tigre, che mai si abbasserebbero all’attesa dei loro colleghi gallipolini immortalati nella foto di testa? Non direi, visto che è in grado di aprire qualsiasi porta, purché abbia una maniglia e non sia chiusa a chiave. Tutto questo per ora; infatti gli ho rinviato provvisoriamente la prosecuzione dell’apprendimento del latino (è così veloce che a breve i ruoli si invertiranno) con la scusa che mi pare più promettente il suo osservare attentamente, in questi ultimi tempi, il cilindretto della serratura; sono convinto che prima o poi sarà in grado di ruotare opportunamente la chiave lasciata inserita o, in sua mancanza, di utilizzare quel suo surrogato chiamato spadino  nelle vesti di un pezzo di ferro appositamente scelto da lui tra i tanti che conservo in garage …).

Quandu la mùscia non c’è li sùrici ballanu (Quando la gatta non c’è i sorci ballano). E il pensiero corre ai tanti dirigenti del settore pubblico assenti mentre alcuni loro dipendenti prima di farlo debbono sobbarcarsi al fastidioso rito della timbratura del cartellino o assoggettarsi al collega compiacente, al quale prima o poi bisognerà restituire la cortesia. Ma qualcuno non ci aveva detto che questi signori (si fa per dire …), dirigenti e impiegati,  non dovevano essere licenziati (secondo me prima i dirigenti, subito dopo gli impiegati) entro 60 giorni? Oppure stiamo aspettando che venga indetto un referendum propositivo che introduca il nuovo istituto dello sciopero indetto personalmente, senza preavviso ma con retribuzione non decurtata nemmeno di un euro?

(CONTINUA)

Per la seconda parte (la giumenta e la capra):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/05/16/gli-animali-nei-proverbi-salentini-2x-la-giumenta-la-capra/

Per la terza parte (la pecora): https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/05/18/gli-animali-nei-proverbi-salentini-3x-la-pecora/

Per la quarta parte (l’asino): https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/05/23/gli-animali-nei-proverbi-salentini-4x-lasino/

Grottaglie. A 300 anni dalla morte di S. Francesco de Geronimo

TERZO CENTENARIO DELLA MORTE

DI S. FRANCESCO DE GERONIMO S. J.

(Grottaglie 17 dicembre 1642 – Napoli 11 maggio 1716)

s. francesco de geronimo 7

di Rosario Quaranta

Riscoprire la figura e l’opera di S. Francesco De Geronimo S. J

il missionario più grande di Napoli e gloria fulgida di Grottaglie[1]

 

Esattamente 300 anni fa (11 maggio 1716), nella casa professa del “Gesù Nuovo” di Napoli, pieno di meriti e dopo una vita consacrata esclusivamente al Signore e al bene del prossimo, volava al cielo il padre Francesco de Geronimo, sacerdote professo della Compagnia di Gesù.

Per questo motivo Grottaglie è in festa e lo sarà a lungo (11 maggio 2016 – 11 maggio 2017) appunto per riscoprire, onorare e amare il suo figlio più illustre e importante, grazie a una serie di eventi e celebrazioni atte ad approfondirne la figura e il messaggio che, a distanza di tanti anni, rimangono vivi e attuali.

Personaggio importante e noto nella storia della Chiesa per il ruolo di evangelizzazione svolto per quasi tutta la vita nella Napoli tra Sei e Settecento, Francesco De Geronimo consacrò ogni momento della sua esistenza, confortato e animato dall’inseparabile suo protettore San Ciro, alla sacra predicazione e all’aiuto concreto in particolare dei poveri, degli ammalati, degli uomini e donne di malaffare, portando a tutti sollievo ed elevazione con la parola e con le opere. Un’azione umana e sociale che trovava conclusione in quella religiosa e spirituale col ritorno a una vita più degna di essere vissuta all’insegna del messaggio evangelico sintetizzato nel motto: “Tornate a Cristo!”

La sua fu una ricostruzione sociale, morale e spirituale del popolo sostenuta anche da un impulso verso pratiche devozionali (specie verso la Madonna e verso San Ciro) e da una predicazione caratterizzata da semplicità, immediatezza, compenetrazione negli ascoltatori, anche i più umili e emarginati, per ottenerne non tanto il plauso, quanto il raggiungimento dello scopo religioso e morale.

s. francesco de geronimo

Francesco De Geronimo nacque a Grottaglie il 17 dicembre 1642 da Giovanni Leonardo e da Gentilesca Gravina, primo di undici figli. Educato dai genitori e da una Comunità di sacerdoti, detta di S. Gaetano, costituitasi presso la chiesa di S. Mattia, il 25 maggio 1659 venne aggregato al Capitolo e Clero grottagliese e inviato al seminario di Taranto per continuare gli studi di retorica, scienze e filosofia presso il Collegio dei Gesuiti. Nel 1665 passò a Napoli per addottorarsi in teologia e in utroque jure. Ordinato sacerdote a Pozzuoli (1666), fu istitutore per qualche anno nel convitto dei Nobili diretto dai Gesuiti a Napoli. Nel 1670 cominciò il noviziato nella Compagnia di Gesù e svolse fino al 1674 un intenso apostolato missionario nel Regno di Napoli e particolarmente nella diocesi di Lecce, rivelando doti straordinarie di predicatore zelante ed efficace.

Tornato nella Capitale, vi rimase per tutto il resto della vita, circa quarant’anni, dedicandosi alle missioni popolari che prevedevano tre momenti significativi: le “Missioni al popolo”, in piazza o per le strade; la “Comunione generale” ogni terza domenica del mese; la “Conversione delle donne di cattiva fama”. La sua infaticabile azione che si irradiava dalla chiesa del “Gesù Nuovo”, si rivolse anche agli addetti alle navi, ai galeotti, ai carcerati, agli artigiani, agli ammalati. Grande rilievo diede agli “Esercizi Spirituali” a varie classi di persone e specie alle religiose. Morì l’11 maggio 1716. Fu beatificato da Pio VII il 2 maggio 1806 e canonizzato da Gregorio XVI il 26 maggio 1839.

Il suo corpo venne riposto in una magnifica cappella a lui intitolata nel “Gesù Nuovo di” Napoli, abbellita da una scultura di Francesco Jerace rappresentante il Santo in atto di predicare.

Dopo la II Guerra Mondiale le sue reliquie, in artistica urna, vennero traslate nel magnifico santuario precedentemente eretto in suo onore nel paese natale, dove nel frattempo si era stabilita una comunità di Padri Gesuiti che sulla scia del De Geronimo ha svolto e continua a svolgere una preziosa azione umana, sociale e spirituale.

s. francesco de geronimo 1

Una descrizione di P. Francesco De Geronimo

Ecco come descrive il nostro Santo il biografo contemporaneo Carlo Stradiotti che con lui viveva nel “Gesù Nuovo” di Napoli:

“Fu il Padre Francesco di statura più tosto alta che bassa; di vita smunta e scarnata; e benché ossuto non era di complessione da reggere a tante e sì continuate fatiche. Fu di testa piccola e alquanto acuta, di fronte larga, cui stringevano le tempia incavate verso il capo un poco calvo; di capellatura negra, ma sparsa di bianchi; le ciglia folte; gli occhi negri, e rientrati, che sempre teneva sommessi a terra; e quando li sollevava devotamente al Cielo, spiravano pietà: che se talora gli fissava verso alcuno, si vedevano vivaci e spiritosi e penetravano i cuori; le guancie smunte; il naso alquanto rilevato e che si slargava nelle narici; il colore abbronzito, e come cotto dal Sole; la barba negra ma sul mento bianca; il collo sottile e macilento. La voce era sonora, quando predicava; ma nel discorso familiare tutta sommessa, e umile. La bocca larga, nel che mancano i Pittori con fargliela chiusa, poiché gli dava grazia, e non difetto la dentatura mancante e scarsa di denti. Le braccia nelle strade portavale coperte sorto il mantello; e in casa incrocicchiate nel seno, con tenere spesso in mano la berretta, e il capo scoperto: cortese, anzi umile con tutti”.

Una descrizione che corrisponde perfettamente al ritratto, probabilmente il più antico, ritrovato nel Museo dei Gerolamini di Napoli, studiato e restaurato di recente da Carmine D’Anna. Un prototipo iconografico, basato sulla maschera di cera del Santo fatta subito dopo la morte, che condizionerà in maniera quasi esclusiva la raffigurazione di Francesco De Geronimo fino ai giorni nostri.

s. francesco de geronimo 5

La “morte preziosa” del P. Francesco De Geronimo nella narrazione di un testimone oculare

Considerata la fausta ricorrenza del terzo centenario della morte, proponiamo al cortese Lettore alcuni passi della testimonianza data nel processo canonico per la beatificazione dal confratello padre Francesco Fernandez che ebbe modo assistere personalmente al pio transito del De Geronimo.

“Io so molto bene – racconta egli – che il Venerabile Servo di Dio Padre Francesco de Geronimo morì in Napoli in questa Casa Professa agli 11 di Maggio dell’anno 1716 nel giorno di lunedì verso mezzogiorno, di mal di petto; e mi ricordo che poco prima di morire, detto Venerabile Servo di Dio fece molti atti di virtù in eroico grado, come benedire Iddio e ringraziarlo dei patimenti che gli aveva mandato in quella sua dolorosissima infermità. E quantunque i dolori che soffriva fossero acerbissimi, dimostrava grande ed ardente desiderio di soffrirne maggiori e dolcemente si esercitava parlando della Passione di Nostro Signor Gesù Cristo dicendo: “Io mi merito di patire; e questo è poco male in cambio di quello che dovrei avere. Cristo solamente patì senza ragione alcuna; a noi tutti si deve il patire”. E poi, riprendendo se stesso, mi ricordo che disse: “Somarello mio, abbi pazienza, patisci pure perché è poco per i tuoi peccati e ti meriti peggio”. Queste parole le ho conservate a memoria per mia consolazione e per mio esempio (…). Ricordo che si esercitava negli atti di confidenza nella bontà di Dio e di amore verso l’infinita sua amabilità, e sfogava l’amore che gli bolliva nel cuore con sospiri e lagrime, frammischiando bellissime e dolcissime giaculatorie, ed alcune volte si tratteneva a recitare Salmi interi. Le più frequenti giaculatorie che egli diceva, mi ricordo che sono le seguenti: “Mi chiamerai ed io ti risponderò. Benedetto Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, Padre di misericordia e Dio di ogni consolazione che ci consola in ogni nostra tribolazione”. Come pure: “Benediciamo il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Ecco le porte di Sion: i giusti entreranno per essa”. Quest’ultima giaculatoria era la più frequente nella sua bocca in quegli ultimi giorni prossimi alla morte (…). Prima di morire Padre Francesco ricevé tutti i Sacramenti della Chiesa con somma devozione, in quanto, se mal non mi ricordo, il santissimo Viatico lo ricevé tre volte (…). Prima di riceverlo fece dolcissimi e tenerissimi colloqui col Signore Sacramentato, con volto acceso da Serafino, dicendo: “E donde a me, mio Redentore, che tu venga a ritrovarmi”? E rivolto ai Padri disse: “E voi Padri miei che avete avuto tanta pazienza e bontà nel sopportare questo ignorantone, perdonatemi le mie male creanze, rozzezze, ed inciviltà. Io non posso usarvi altra gratitudine se non che quella di pregare sempre” (…).

Quando poi ricevette il Sacramento dell’estrema Unzione proferì anche parole dolcissime e di sommo affetto verso il Signore e supplicò che gli facessero guadagnare tutte le Indulgenze che gode la nostra Compagnia e la Congregazione della Missione della quale era egli Direttore; e voltandosi con le lagrime agli occhi al Superiore nostro, Padre Preposito Antonio de Angelis, disse: “Non mi riconosco degno che il mio corpo sia mandato a quella sepoltura dove stanno depositati tanti corpi di così insigni Servi di Dio; per tanto prego Vostra Riverenza a volermi fare una fossa in mezzo a questo giardino e seppellirmi con i gatti e con i cani”. E queste parole, come le altre da me riferite nell’antecedente mio esame, dette dal Servo di Dio Padre Francesco de Geronimo le ho bene tenute in memoria, poiché quando disse quelle in mia presenza e degli altri nostri Padri, volli annotarmele nel miglior modo che mi sovvennero (…).

Il Venerabile Servo di Dio Padre Francesco de Geronimo in tutto il tempo della sua infermità, fino agli ultimi momenti della sua vita, sempre stette in retti sensi ed operò e discorse come fosse sano e mostrò così con gli atti, come con le parole, di morire di buona voglia e volentieri dicendo spesse volte: “Signore, volentieri vengo a te”. E mi ricordo che nel ricevere il santissimo Viatico disse: “Signore tu mi hai dato settantaquattro anni di vita; ora mi togli da questo Mondo; vengo volentieri a te. Solo ti prego che mi voglia far partecipare del tuo bellissimo volto ed a concedermi quel Paradiso che mi hai comprato col sborso del vostro preziosissimo Sangue. Né fate, Dio mio, che i miei peccati, negligenze e tepidezze mi impediscano il possesso di un tanto Bene.

Negli ultimi giorni della sua vita 1’osservai sempre con volto ilare, pio e placido, eccetto che una mattina essendo andato nella sua camera lo trovai affannato; ed avendogli io domandato che aveva e come si sentiva, mi rispose: “Figlio, battaglia, battaglia! così piace al Signore”; e dopo qualche tempo si rasserenò secondo il suo consueto… Ma essendosi avveduto il nostro Fratello Pietro Maglietta, infermiere della Casa Professa, che già era giunto al termine della sua vita, diede il segno col campanello solito darsi quando qualche nostro Padre o Fratello sta nell’ultima agonia; e sentitosi il suono di detto campanello, così io, come gli altri Padri, accorremmo e lo ritrovammo boccheggiando, posto in atto come di chi riposa, con la destra sotto il suo volto che teneva rivolto al Cielo. E quantunque il colore naturale del suo volto fosse bruno, in quella circostanza lo vedemmo bianco come il latte e bello; e incominciata da me la recita del “Proficiscere”, tranquillamente nella pace del Signore spirò la sua anima senza dar segno alcuno di perturbazione o di moto sregolato. E tutto ciò lo so per averlo veduto”.

 s. francesco de geronimo 2

La rapida diffusione della fama di santità e le suppliche per la sua beatificazione e canonizzazione

Un segno tangibile dell’immensa considerazione che Francesco godeva in vita e subito dopo la morte si può facilmente evincere dalle lettere o suppliche rivolte al Papa (furono ben 81, delle quali solo 30 furono pubblicate negli Atti del processo) per chiedere l’attivazione del processo canonico e l’introduzione della causa della sua Beatificazione e canonizzazione. Inviate al termine del processo diocesano svoltosi a Napoli tra il 1718 e il 1725 dalla Germania e da varie parti d’Italia, chiedevano con insistenza al Sommo Pontefice la rapida introduzione di detta causa nella Sacra Congregazione dei Riti.

Molte pervennero, ovviamente, dalla Puglia. Dal paese natale spedirono suppliche: il feudatario del tempo Giovanni Andrea Cicinelli, il Capitolo e Clero, l’Università o amministrazione civica, i frati minimi di S. Francesco di Paola, i frati carmelitani e le monache del monastero di Santa Chiara.

Giunsero suppliche anche da Carosino, Monteiasi, Martina, Taranto, Massafra, Avetrana, Fasano, Oria, Casalnuovo (Manduria), Francavilla, Conversano, Molfetta e Andria. Sono suppliche e lettere che, come si può immaginare, rivestono grande importanza; una trentina di queste vennero riportate interamente a cura della stessa Congregazione negli Atti del Processo canonico del 1729.

La più altisonante che chiudeva la lunga sequela è certamente la supplica di Carlo VI d’Asburgo imperatore del Sacro Romano Impero, spedita da Gratz il 27 giugno 1728. Ma tutte indistintamente costituivano la voce insistente di moltissime persone che non desideravano altro che di vedere elevato agli onori degli altari il grande Missionario di Napoli.

Ecco l’elenco riordinato cronologicamente di quelle inserite negli Atti: Giovanni Andrea Cicinelli Duca delle Grottaglie (10 gennaio 1726); Il Duca di Carosino (10 gennaio 1726); Angela Spinelli Principessa di Tarsia. Napoli (10 gennaio 1726); Principe di Cuccoli. San Vito (Chietino) 15 gennaio 1726; Carlo Ungaro Barone della Terra di Monteiasi (20 gennaio 1726); Capitolo e Clero di Martina (10 febbraio 1726); Regio Monastero di S. Chiara di Napoli (10 febbraio 1726); Ettore Carafa Duca d’Andria (16 febbraio 1726); Canonici ed Eletti della Città dell’Aquila (15 marzo 1726); Il Capitolo e Clero della Terra delle Grottaglie ( 28 marzo 1726); Università ed Uomini della Terra delle Grottaglie (30 marzo 1726); Domenico Invitti arcivescovo di Sardi (Napoli 1 giugno 1726); Francesco Cardinal Pignatelli (Napoli 8 agosto 1726); Filippo Vescovo di Conversano (29 agosto 1726); Nicolò Cardinal Caracciolo Arcivescovo di Capua (31 agosto 1726); M. Marchese d’Oria (francavilla 19 Ottobre 1726); Gli Eletti di Napoli (16 novembre 1726); Capitolo, e Clero della Chiesa Metropolitana di Taranto (27 luglio 1726); Fra Filippo Arcivescovo di Chieti (4 gennaio 1727); Compagnia della SS. Trinità dei Pellegrini, di Napoli (2 febbraio 1727); Congregazione dei Cavalieri del Gesù di Napoli (9 febbraio 1727); Città di Lecce (17. gennaio 1727); Cardinal Innico Caracciolo, Aversa (1 aprile 1727); Sindaco ed eletti di Cosenza (26 aprile 1727); Antonio Farnese, Parma (21 agosto 1727): Dorotea Sofia Duchessa di Parma, (6 agosto 1727); Clemente Augusto Arcivescovo di Colonia (Bonn 6 giugno 1728); Michele Federico Cardinale d’Althann (vicerè), Napoli 13 gennaio 1728); Carlo Alberto, Elettore di Baviera, Monaco (2 aprile 1728); D. Carlos por la Gracia de Dios Emperador, Gratz (27 giugno 1728).

È alquanto curioso il fatto che il duca di Grottaglie, che la leggenda ha dipinto sempre come empio ostacolatore della costruzione del Cappellone di San Ciro della chiesa madre grottagliese, sia stato il primo patrocinatore del processo canonico di beatificazione. Questo fatto (ma ricordiamo pure che il feudatario fu anche uno dei primi a imporre il nome di Ciro a un suo figliolo nel 1707) e il tenore stesso della supplica pongono evidentemente qualche interrogativo sulla reale verità storica di alcuni episodi tramandati dalla voce popolare.

Ecco il testo di questo importante documento:

BEATISSIMO PADRE.

Sento, che le Università e Persone grandi ed illustri di questo Regno, per adempire ai Decreti di Papa Urbano Ottavo di felice memoria, degnissimo Predecessore della Santità Vostra, concorrono unitamente a darle umilissime le lor suppliche, acciò si degni segnar la grazia per la commissione della Causa e Processi Apostolici da compilarsi sulla santa vita, virtù eroiche e miracoli del Servo di Dio Francesco di Geronimo Missionario Apostolico della Compagnia di Gesù. S’egli è così, Beatissimo Padre, non debbo io tralasciare, avendone maggior l’obbligo, di unirmi con gli altri, a darne alla Santità Vostra fervorosissime le mie, come umilmente già fò per mezzo di questa riverente, pregandola vivamente ed in fatti degnarsi commetter detta Causa ed Apostolici Processi, affinché si veda dalla Santa Sede, formati i medesimi, quanto il Signore siasi compiaciuto d’operare per i meriti ed intercessione del detto suo Servo Francesco di Geronimo che veramente visse sempre d’Apostolo, e tale facendolo vedere al mondo dopo sua morte, per le strepitose grazie e stupendi miracoli che in diverse parti e della nostra Italia e della Germania, si è degnato a sua intercessione prodigiosamente fare. Né oggidì cessa dal Cielo benignamente consolare i Devoti che al patrocinio del medesimo Servo di Dio ricorrono. La fama delle cose suddette essendo chiara, non occorre che nella medesima maggiormente mi diffonda, anche per non recare a Vostra Santità soverchiamente tedio; mi restringo solamente ad attestarle la profonda umiltà, che in grado eroico risplendeva fra le altre virtù nel detto Servo di Dio, mentre viveva e riflettendo che per la virtù suddetta il Signore sia stato compiaciuto dopo sua morte di glorificarlo. Priego adunque umilmente di nuovo la Santità Vostra a degnarsi segnare la bramata grazia e nel mentre resto certo d’ottenerla, con profondissimi inchini resto prostrato innanzi al suo Trono, baciando devotamente i suoi santi piedi. Grottaglie 10 Gennaro 1726.

Di Vostra Santità, Umilissimo, Divotissimo, ed Obligatissimo Servitor vero Giovanni Andrea Cicinelli Duca delle Grottaglie.

s. francesco de geronimo 3

Altrettanto importante è la supplica che la Communità o Università delle Grottaglie (oggi diremmo l’Amministrazione comunale) scrisse al Papa e che qui volentieri riportiamo, anche per le diverse notizie ricordate sulle due missioni che il Santo tenne nella sua città natale nel 1707 e nel 1709, compresi alcuni miracoli compiuti a favore di una coppia di popolani, di un bambino e del proprio genitore morente.

Eccola:

BEATISSIMO PADRE Alle suppliche delle altre Università insigni e personaggi illustri di questo Regno, unisce per obbligo le sue umilissime l’Università della Terra delle Grottaglie Patria del gran Servo di Dio Francesco di Geronimo Missionario veramente Apostolico della Compagnia di Gesù, instantemente pregando la Santità Vostra a volersi per ora compiacere segnar la grazia per la compilazione degli Apostolici Processi da fabricarsi sulla santa vita, eroiche virtù e santa morte del detto Servo di Dio, per poi dichiararlo Ella stessa Beato, giacche ha la facoltà di dispensare alle leggi. Le strepitose grazie, Beatissimo Padre, ed i stupendi miracoli che sua Divina Maestà, ad intercessione del medesimo suo Servo si è compiaciuta benignamente operare, e giornalmente non cessa glorificarlo in diversi luoghi di questo Regno ed in altre parti fuori di esso, specialmente in quelle della Germania, hanno maggiormente svegliato nel nostro animo, e di tutto questo Pubblico, un ardentissimo desiderio di già vederlo dalla Santità Vostra dichiarato Beato, tanto più che le Genti di questa Terra se le confessano in modo particolare obbligate per le due Missioni fatte in essa nel 1707 e 1709 con tanto spirito e profitto delle anime, oltre dei Miracoli praticati a benefizio di essi Cittadini, e precise ad una donna chiamata Rosa Quaranta, consorte di Giuseppe la Pace, la quale era così disavventurosa nei suoi Parti che prima di darli alla luce si vedevano nell’utero materno morti: onde la detta Rosa in passando un giorno il detto Servo di Dio dalla contrada ove abitava, supplicò il Padre che l’avesse toccata con lembo della sua veste, giacché faceva le creature che si morivano senza Battesimo; alle quali preghiere il Padre, tratta dal petto una cartolina delle polveri di S Ciro, la diede alla detta Rosa, ordinandole, che per tre mattine ne prendesse con recitare tre Pater & in onore della Santissima Triade, e tre altre al Santo, e lo stesso facesse in approssimarsi al parto, mentre così le Creature avrebbero il Battesimo, e non morrebbero; il che quella facendo si verificò la predizione del Servo di Dio, mentre dopo di questo avendo dato alla luce più figli, hanno tutti ricevuto il Battesimo, e ve ne sono oggidì due viventi. Altro portento il Servo di Dio praticò nel tempo della prima Missione fatta in questa Terra nel 1707 in persona del proprio suo Padre, il quale essendo di anni 88 decrepito e con grave infermità giacente in letto, che l’aveva costituito presso à morire, e ritrovandosi giunto il detto Servo di Dio per venire alle Grottaglie a far la Missione nella Città di Taranto, determinò D. Tomaso di Geronimo Arciprete Fratello di detto Servo di Dio di scrivergli che avesse dovuto differire in altro tempo la Missione per l’accidente suddetto; quando la mattina giunse in questa Terra il Servo di Dio, ed arrivato nella propria casa, ed informato dall’Arciprete suo Fratello del mal stato del lor comune Padre, si portò nella camera ov’era il di lui Genitore, il quale per incontrare il suo caro Figlio a grande stento si era levato da letto, ed inginocchiatoseli d’avanti baciandoli i piedi, li disse: “Signor Padre, voglio che domani mattina veniate agli Esercizi Spirituali”; onde fu di maraviglia a tutti un tal detto, con tutto ciò il vecchio Padre la seguente mattina riavutosi da ogni malore, stando bene, andò a sentire gli esercizi, continuando per tutto il corso di essi. Di vantaggio, dopo seguita la morte di detto Servo di Dio, ritrovandosi l’unico figlio di Giuseppe de Carolis d’età d’un anno e tre mesi già disperato da Medici, ricorse il Genitore abbandonato dalle speranze umane al favore del Servo di Dio Padre Francesco, e con le lagrime accompagnando le preghiere, le venne ispirato dal Santo di riconciliarsi con la Madre e Fratelli con li quali passava alcuni disgusti, e perché non fece conto della medesima ispirazione, s’ingagliardì il male, onde il Figlio stava per spirare; però avanzando la santa ispirazione nell’animo del detto Giuseppe, chiedendo nuovamente la vita al figlio, promise al Servo di Dio Padre Francesco di riconciliarsi con i suoi la mattina seguente; e con tal promessa mandò a pigliare la Berretta che usò il detto Padre Francesco, quando fece la Missione in questa Terra, che si conserva in casa del Fratello, e toccata con essa la testa del Bambino, ch’era quasi incadaverito, come se da morte a vita resuscitasse, rinvenne con chiamare il Padre e prender latte, e dall’ora in poi non ha patito alcun vestigio di male; tralasciando li molti altri Miracoli e grazie che Nostro Signore ad intercessione del medesimo suo Servo alla giornata per mezzo di detta Berretta si compiace dispensare. Ad ella, Beatissimo Padre, più d’ogni altro, è cognito il merito di questo Servo del Signore, e perciò alla medesima ricorriamo profondamente inchinati, supplicandola per la di lui Beatificazione, potendo dispensare, se vuole, come vivamente speriamo che voglia, alle leggi, anche per secondare la volontà del Signore, mentre a quest’oggetto si è impegnato di tanto glorificare per il passato il suo Servo, ed ogni dì seguita a farlo. Sicuri adunque delle grazie della Santità Vostra, restiamo umilissimamente baciando i suoi Santi Piedi.

Grottaglie 30 Marzo 1726. Di Vostra Santità Umilissimi, ed Obbligatissimi Servi L’Università, ed Uomini della Terra delle Grottaglie.

Il processo di canonizzazione di P. Francesco De Geronimo, dopo alcune difficoltà incontrate per via della temporanea soppressione della Compagnia di Gesù, venne ripreso e concluso, come già ricordato, con la beatificazione decretata da Pio VII il 2 maggio 1806 e con l’iscrizione nel catalogo dei santi fatta Gregorio XVI il 26 maggio 1839.

s. francesco de geronimo 4

[1] Sintesi delle relazioni tenute all’Università dell’Età Libera (UDEL) presso la Scuola Media “Sturzo” di Grottaglie, nel mese di maggio 2016.

 

Uno stemma dei Del Balzo D’Orange in San Pietro in Bevagna

MINIMA ICONOGRAPHICA

di Nicola Morrone

Come avemmo modo di osservare qualche tempo fa, per ricostruire il contesto storico in cui un dato bene culturale è stato prodotto, si può partire anche da alcuni dati minimi, come gli elementi araldici che, eventualmente, lo contrassegnano.

Nel santuario di San Pietro in Bevagna vi è uno stemma gentilizio, più volte segnalato dagli studiosi, che, se correttamente interpretato, può fornire importanti indicazioni di carattere storico-cronologico circa la dinamica costruttiva della chiesa stessa. L’emblema, collocato sopra l’arco ogivale che qualifica la parete est dell’attuale presbiterio, è stato scoperto nel 1991, in seguito ad una campagna di saggi condotti dalla Soprintendenza ai Monumenti di Taranto, miranti a fare chiarezza sulle fasi storiche del complesso chiesa-torre[1].

Stemma Del Balzo d'Orange nel santuario di San Pietro in Bevagna
Stemma Del Balzo d’Orange nel santuario di San Pietro in Bevagna

 

L’emblema in oggetto, di cui forniamo un’immagine[2], è dipinto a tempera. Esso è sormontato da una corona reale e circondato da un nastro nero, ed è qualificato nella parte superiore dalla presenza di una stella a sedici raggi su campo chiaro e un corno azzurro legato su campo rosso, che si invertono nella parte inferiore[3].

Dello stemma si era già occupato lo storico locale L.Tarentini, che ne aveva dato una descrizione, tra l’altro imprecisa[4]. Un altro storico locale, il Lopiccoli, aveva riprodotto l’emblema nel suo compendio storico su Manduria, fornendone anch’egli una breve descrizione. Da ultimo , F.Musardo Talò ha dedicato allo stemma un’attenta disamina, finalizzata ad una contestualizzazione dello stesso nell’ambito della bimillenaria storia del santuario petrino[5]. La studiosa, sulla base di alcuni confronti , riferisce lo stemma alla famiglia gentilizia degli Orsini Del Balzo, che governò il Principato di Taranto a partire dal sec.XV.

Secondo la studiosa , la presenza dello stemma nella cappella di Bevagna potrebbe giustificarsi sulla base di un intervento di restauro operato per volontà di G.A. Orsini, principe di Taranto (+ 1463), che avrebbe voluto così lasciare un ricordo perenne della sua munificenza nei confronti del santuario petrino.

Tale stemma , operando come una sorta di “marcatore territoriale”, potrebbe inoltre rimandare alla definitiva inclusione del santuario nelle terre del Principato di Taranto. Tale ricostruzione, puntigliosa ed in parte accettabile, si fonda però su un’errata interpretazione dello stemma in oggetto. Infatti,in corrispondenza dell’arco ogivale dell’area presbiteriale della chiesa di San Pietro in Bevagna non è dipinto lo stemma degli Orsini Del Balzo, ma quello dei Del Balzo D’Orange, nobile casata di origine francese, che solo più tardi si imparenterà con quella degli Orsini[6].

Nell’emblema di Bevagna mancano, di fatto, le insegne della famiglia Orsini, cosicchè la cronologia della vicenda va ricostruita in modo differente.

Blasone Orsini del Balzo, tratto da commons.wikimedia.org
Blasone del Balzo Orsini, tratto da commons.wikimedia.org

I Del Balzo d’Orange governarono il Principato di Taranto nella seconda metà del sec.XIV: titolare del grande feudo fu Giacomo Del Balzo, che lo tenne dal 1374 al 1383[7]. Fu Giacomo del Balzo , dunque, e non G. A. Orsini , a voler legare la memoria della sua famiglia a quella del santuario bevagnino. Quest’ultimo, evidentemente, ricadde nei territori del Principato ben prima della metà del sec.XV, epoca della nota controversia tra Taranto ed Oria circa il controllo della piccola fiera (il “paniere”) che si svolgeva da tempo immemorabile nei pressi della piccola cappella, di cui riferisce il Coco[8].

Precisata l’attribuzione dello stemma, restano da chiarire le motivazioni della presenza di quest’ultimo nella cappella di Bevagna. In questo senso , concordiamo sostanzialmente con le ipotesi formulate dalla Talò: lo stemma dei Del Balzo d’Orange dovette fungere da “marcatore territoriale”, ribadendo visivamente che la cappella petrina , oggetto di una devozione secolare, era collocata nei domini del Principato. Verosimilmente, il feudo di Bevagna, pur in capite ai Benedettini d’Aversa , dovette ricadere nei territori del Principato già a partire dal 1381-82, cioè dagli anni in cui Giacomo Del Balzo si impossessò con la forza del Principato, pretendendo dagli abitanti delle terre occupate il giuramento di fedeltà e l’omaggio [9]. Lo stemma principesco fu quindi dipinto al tempo del “restauro” della zona absidale della cappella medievale di Bevagna, corrispondente all’area presbiteriale della chiesa attuale.

L’abside originaria fu parzialmente tompagnata con un arco ogivale (di cultura, cioè, gotica) probabilmente per ragioni statiche. Si distinguono tuttora i differenti profili delle nicchie: a tutto sesto quella primitiva (secc. X-XI), a sesto acuto quella posticcia (sec. XIV).

Partendo dall’ interpretazione di un indizio “minimo”, quale può essere uno stemma, abbiamo voluto ricostruire il contesto storico e politico in cui esso trova la sua ragion d’essere. La vicenda proposta ci pare confermi quanto asserisce lo studioso B. Vetere , il quale magistralmente sostiene che “attraverso la serie di figure e segni di cui si serve l’araldica è possibile leggere parti di un libro che narra, con la storia di famiglie importanti per i ruoli di natura pubblica di cui furono investite, le vicende di ben più ampie realtà che non quelle semplicemente familiari. Nel linguaggio simbolico di quelle figure e di quei segni, accostati nei quarti in cui si divide uno scudo nobiliare, viene fissata la memoria di potenziamenti di natura politica, di ampliamenti territoriali, di nuovi equilibri ed alleanze tramite i meccanismi di strategie matrimoniali rispondenti molto spesso a concreti progetti di natura politica”[10].

 

[1]Cfr. A.Ressa, Torre-Santuario di San Pietro in Bevagna. Problematiche di restauro, in “Quaderni Archeo”, 1 (1996), pp.13-15.

[2] La foto è tratta da V.M.Talò, San Pietro in Bevagna, un bene culturale da salvare (Manduria 2011), p.102.

[3] La descrizione dello stemma è in V.M.Talò, op.cit., p117.

[4] Cfr.L.Tarentini, Manduria Sacra (Manduria 1899), p.36.

[5] Cfr V.Musardo Talò, op.cit., pp.117-120.

[6] Lo stemma dei Del Balzo d’Orange è presente, tra l’altro, in Santa Caterina a Galatina (riferibile a R.Del Balzo, conte di Soleto e Galatina)e in Santa Maria del Casale a Brindisi (riferibile a Giacomo del Balzo). Sul rapporto tra i Del Balzo d’Orange e gli Orsini, cfr. A.Cassiano-B.Vetere, Dal Giglio all’Orso (Galatina 2006), p.XIII. La lapide sepolcrale di Giacomo Del Balzo è ancora collocata nel Duomo di Taranto. L’arme del principe è inquartata con quella della moglie, Agnese D’Angiò Durazzo, che egli sposò nel 1382.

[7] Sul personaggio cfr. G.Antonucci, Giacomo del Balzo principe di Taranto, in “Rinascenza Salentina”, II, (1934),pp.184-188. Cfr.anche S. Fodale, Giacomo del Balzo, in DBI, vol.36 (1988).

[8] Cfr. A.P. Coco, Il santuario di San Pietro in Bevagna (Taranto 1915), pp.122-130.Ci ripromettiamo di approfondire la vicenda della fiera di Bevagna in un prossimo contributo.

[9] Cfr. G.Antonucci, op.cit., p.184.

[10] Cfr. A.Cassiano-B.Vetere, op.cit., pp.IX-X.

Un lavoro agricolo del tempo che fu: la salentina scatena

di Armando Polito

Immagine tratta da Salento come eravamo (https://www.facebook.com/Salento-Come-Eravamo-546048392120110/?fref=ts)
Immagine tratta da Salento come eravamo (https://www.facebook.com/Salento-Come-Eravamo-546048392120110/?fref=ts)

 

Si è scatenato il finimondo.

Al mio segnale scatenate l’inferno.

Le due frasi sono emblematiche del destino di alcune parole. Nel nostro caso il verbo scatenare nella prima vive l’anonima atmosfera che circonda le parole di uso comune, nella seconda si è cinto dell’aureola particolare che la notorietà cinematografica le ha conferito, messo in bocca a Russel Crowe ne il Gladiatore, ma che ha, come fenomeno, dei precedenti illustri, tra i quali spicca il Dopotutto domani è un altro giorno pronunziato da Vivien Leigh in Via col vento.

Scatena del titolo, poi, mi ricorda il detto Se ne vanno sempre i migliori; e non solo, come vedremo, per la scarsa probabilità che hanno le parole dialettali di entrare nella lingua nazionale (con qualche sparuta eccezione: per il salentino ricordo lampascione, salvo poi che ancora oggi per una sorta di ipercorrettismo , che io considero sempre frutto d’ignoranza, lo sento chiamare lampone dal solito ridicolo sedicente raffinato) o di morire per obsolescenza, però più rapidamente di quanto pure succede per tante parole della lingua nazionale. Ancora permane, infatti, rispetto a questa, l’idiota pregiudizio della presunta inferiorità del  dialetto, E la cosa paradossale è che la funzione catartica che l’alfabetizzazione, secondo un suo concetto contraddittorio, ascientifico e astorico, si proponeva come obiettivo ha finito, con l’imbastardimento scelleratamente programmato della scuola, per raggiungere lo splendido risultato che moltissimi giovani (non condannati per natura ad essere imbecilli) non solo non comprendono la ricchezza della lingua parlata dai loro nonni (e in qualche caso anche padri ,,,) analfabeti, ma spesso mostrano di ignorare il significato o i significati dei vocaboli più comuni della lingua nazionale. L’invito, poi, ad andare a controllare su un vocabolario cadrebbe nel vuoto, ma anche di questo non hanno colpa: come si fa a consultare un vocabolario se non si conosce l’alfabeto? …

Qualcuno a questo punto dirà che son rimasto, sotto questo aspetto, all’età della pietra e che oggi basta la rete per fare qualsiasi ricerca e, dunque un pc o, la praticità anzitutto!, un telefonino al quale impartire un comando vocale. Sì, ma bisogna pronunziare con dizione quasi perfetta e correttamente (per farlo, però, bisogna saper leggere …) e  per il pc bisogna digitare anche qui  correttamente nel motore di ricerca, anche perché, in caso di errore, la correzione automatica ti può dirottare verso traguardi esilaranti …

Insomma, se un telefonino ti può salvare la vita, non può certo colmarti le lacune culturali, così come un pc non farà di uno stupido una persona intelligente e, comunque, non innalzerà mai quasi automaticamente, come qualche ingenuo potrebbe credere, il livello intellettivo  di qualsiasi utente.

È tempo, però, di pensare a scatena. Se un qualche aggeggio elettronico riuscirà mai a captare i suoni rimasti incapsulati nelle pareti probabilmente chi avrà la fortuna di fruire della loro registrazione passerà decenni o secoli a tentare di decodificare quelli, per fare un esempio salentino, quelli della Grotta dei Cervi. Lo stesso apparecchio potrebbe captare in una vecchia abitazione neretina del secolo XXI questa serie di suoni: Osce m’aggiu straccatu bellu bellu. Mancu ci era statu alla scatena …

La traduzione in italiano,  soprattutto se nemmeno questo sarà sopravvissuto della nostra cultura, potrà fornire, ammesso pure che questo post sopravviverà per lunghissimo tempo a chi l’ha  scritto, qualche aiuto al filologo decodificatore: Oggi mi sono stancato ben bene. (Non sarebbe successo) nemmeno se fossi stato alla scatena.

Chiedo scusa al lettore per lo scatena della traduzione che può sembrare, proprio esso che è il più importante, un dettaglio tautologico. L’ho fatto non perché sarei stato costretto ad usare una perifrasi ma per restituire alla voce dialettale ciò che contro ogni logica le è stato negato.  In campo linguistico, purtroppo, anche per una serie di fattori imprevedibili e apparentemente ingiustificabili,  spesso succede anche questo. Infatti in italiano da un lato da  montare è nato monta, da contare è nato conta e dall’altro non è stato consentito a scatenare di veder riconosciuto scatena. Credo che ciò sia successo non tanto perché scatena, essendo dialettale, era un figlio illegittimo, dunque una vergogna da non esibire ma, probabilmente, per il concetto stesso, anch’esso quasi marchio infamante caratterizzante la gente del sud,  che il vocabolo evocava.  La scatena era il lavoro agricolo più faticoso e consisteva nello zappare profondamente il terreno, non con una zappetta o con la binetta di cui mi sono occupato recentemente in un altro post, ma col modello più pesante e più grande di zappa in circolazione, in modo da spezzare le catene della terra e, rompendone la compattezza, prepararla ai successivi lavori. Solo che tale lavoro spezzava sì le catene della terra ma stringeva vieppiù quelle metaforiche del contadino poco più che servo della gleba e nel contempo , purtroppo, ne spezzava  quella che può essere considerata, senza neppure troppa fantasia, la catena delle spalle, cioè le vertebre.

Oggi le catene sono esclusivamente di carattere economico e finanziario, ma nulla è cambiato nella sostanza del lavoro: c’è chi esegue e chi dirige, chi usa mani e cervello, chi solo il cervello (con esiti spesso disastrosi , direttamente proporzionali al suo emolumento e alla sua buonuscita …), chi, da una parte e dall’altra, si sentirebbe male a fare il furbo o l’ipocrita, chi della furbizia e dell’ipocrisia ha fatto la sua bandiera, da trasmettere, inevitabilmente, ai figli. chi, pur essendone ministro (pure lui senza diretta elezione …), rinnega nei fatti l’insegnamento di Cristo, chi, per converso, si è reso protagonista di azioni sublimi di generosità, altruismo e, magari, di sacrificio della vita restando nel più buio degli anonimati.

E se il mondo è andato e, temo, andrà così fino alla fine, io dovrei scandalizzarmi per un semplice  scatena  che non ha avuto il destino che meritava? Infatti non mi sono scandalizzato più di tanto ma per me sarebbe stato certamente scandaloso non tentare di andare alle radici del presunto scandalo. E se qualcuno trova scandalosamente fasulle le mie conclusioni, si faccia avanti fornendomi, però, controprove incontrovertibilmente convincenti. In caso contrario scoppierà veramente uno scandalo epocale …

Dio mio, come mi hanno ridotto (spero solo in rapporto all’arguzia formale delle ultime proposizioni) quei pochi secondi (perché subito cambio canale) in cui sono costretto a sorbirmi all’ora del tg questa e pure quella pappardella renziana!

Uno dei massimi protagonisti della cucina salentina, il polpo

Immagine tratta da http://bari.repubblica.it/cronaca/2012/06/05/foto/puglia_da_amare-36424684/7/
Immagine tratta da http://bari.repubblica.it/cronaca/2012/06/05/foto/puglia_da_amare-36424684/7/

 

di Massimo Vaglio

 

Uno dei massimi protagonisti della cucina salentina è certamente il polpo (Octopus vulgaris), il suo gradimento, invero, non conosce riserve in nessuna località della Puglia ed è a Bari e nel suo interland che questo gradimento raggiunge l’assoluto parossismo con il consumo di questo cefalopode addirittura a crudo spesso senza alcun condimento. Comunque, anche nel nostro Salento, il polpo costituisce il piatto marinaro d’elezione, predilezione antica, ricordata da tanti adagi popolari adoperati anche in senso metaforico e confermata negli scritti di tanti storici locali fra cui il Galateo che nella sua opera “De Situ Japigie” ci parla di uomini che nelle fredde sere invernali senza luna, ignudi e muniti di grosse fiaccole, costituite da sarmenti di edera secchi e da rudimentali arpioni si dedicavano lungo i bassi fondali del Salento alla pesca di questi già allora apprezzati cefalopodi.

Quella descritta dal Galateo sarebbe la cosiddetta fiacca o Jacca, una forma di pesca che con piccole innovazioni tecnologiche sopravvive ancora ai nostri giorni. Per molti anni, i polpi hanno costituito la fonte principale di sostentamento per numerose piccole comunità di pescatori che vi si dedicavano con sistemi rudimentali praticati dai loro caratteristici gozzi. Originariamente, il sistema più adottato era quello della cosiddetta pesca a vista.

Questa, era una forma di pesca che necessitava di notevole abilità da parte delle due o tre persone che costituivano l’equipaggio del gozzo. Il fondale, veniva perlustrato attraverso lo specchio (barilotto con il fondo di vetro) da un pescatore mentre gli altri remavano seguendo i suoi comandi. Una volta avvistato il polpo, in genere affacciato ad una tana rocciosa, il pescatore doveva in primo luogo stanarlo, cosa che faceva ricorrendo a vari ingegnosi stratagemmi, infine lo trafiggeva prontamente con la fiocina e lo salpava. Per raggiungere la preda, a seconda della profondità del fondale, si arrivava ad innestare sino a tre aste di quattro metri ognuna e talvolta anche una prolunga detta cannulu in una sequenza rapidissima, operazione che impegnava tutti i sensi e necessitava di un coordinamento straordinario e di notevole forza fisica. In seguito, questo tipo di pesca fu soppiantato dalla più pratica pesca con la polpara, (lenza zavorrata innescata con dei pesci argentei) sistema che sopravvive tuttora e che ha il vantaggio di poter essere praticata anche da un solo pescatore. Oggi, grossi quantitativi di polpi, sono pescati soprattutto con delle apposite piccole nasse innescate con pesci e granchi vivi che vengono calate, in file lunghe spesso chilometri, al largo, da grosse imbarcazioni. Versatilissimo in cucina, il polpo viene preparato in una grande varietà di modi, naturalmente previa battitura, operazione indispensabile per ottenere un risultato ottimale, come ricorda un antico adagio salentino:

 Polpo male battuto

                                                             quello che fai

                                                               è perduto

I pugliesi, sono indubbiamente i più grandi divoratori di prodotti del mare crudi di tutto il Mediterraneo. In questa usanza, riflettendo, ritroviamo la sintesi della filosofia gastronomica pugliese che, come è noto, è estremamente parca nell’uso delle spezie e non conosce preparazioni molto elaborate.

Ciò probabilmente per rispettare i sapori degli splendidi prodotti che la sua terra e i suoi mari sanno offrire.

Questo integralismo gastronomico, raggiunge l’apice proprio in terra di Bari ove oltre ai fatidici, consueti molluschi bivalvi quali: cozze, ostriche, fasolari, ecc…, vengono consumati crudi tutti i molluschi cefalopodi, polpi in primis, nonché: totani, calamari, seppie, ecc… che, soprattutto se di piccola taglia, vengono chiamati genericamente allievi e vengono consumati rigorosamente crudi, spesso, senza neppure la canonica spruzzatina di limone che, secondo i buongustai, coprirebbe il “sapore del mare”.

Stessa sorte seguono persino diverse specie di pesci: i latterini, il novellame di pesce azzurro, le alici e persino le zanchette o suacie (Arnoglossus laterna) che sarebbero dei poco attraenti pesci piatti della famiglia dei Botidi.

I polpi, che si suole destinare al consumo a crudo, è preferibile che non superino il mezzo chilo di peso, vengono privati delle interiora, mediante rivoltamento del mantello, battuti ripetutamente su di uno scoglio nelle immediate vicinanze del mare, in modo da poterli frequentemente agevolmente risciacquare, quindi vengono posti in un tradizionale apposito cesto di canne intrecciate e cullati con sapienti movimenti alternativi, e rotatori sino a quando gli stessi non avranno perso la naturale viscidità, rilasciata sotto forma di copiosa schiuma biancastra, presentandosi sodi al tatto, con i tentacoli caratteristicamente ritorti a cavaturacciolo e soprattutto tenerissimi. Tradizionalmente vengono consumati a piccoli morsi, senza alcun condimento. La descrizione delle operazioni di arricciatura, sopra operata, può dare solo minimamente l’idea della pazienza e dell’esperienza occorrenti per una perfetta esecuzione.

Quindi, invito i lettori che volessero impadronirsi di questa tecnica, a recarsi personalmente a ”nderra la lanze, che sarebbe il porticciolo della piccola pesca di Bari, o comunque in uno dei tanti pittoreschi approdi ricadenti fra Mola di Bari e Molfetta ove, potranno osservare dal vivo i massimi artefici di questa tecnica che, resistendo stoicamente ad ogni regolamento sanitario, continuano a soddisfare en plein aire, le voglie degli impenitenti buongustai locali.

 

Sull’argomenti vedi pure:

Il polpo arricciato

Polpo o polipo? risolto l’arcano!

Sei proprio cotto, Octo!*

 

Quell’attrezzo agricolo dal nome francese e Nardò …

di Armando Polito, con la collaborazione-consulenza di Giuseppe Presicce e Rosanna Fantastico

Capita spesso in occasioni di cene con mio cognato Giuseppe, discendente da una famiglia contadina e imprenditore agricolo lui stesso, di ragionare sull’etimo di parole dialettali attinenti a quel mondo. Così’ qualche sera fa mi confessava di sentirsi la spalla a pezzi perché si era dannato l’anima con la binetta. Lì per lì gli ho detto che alla sua età era pericoloso darsi da fare con le donne, ma era evidente che era solo una battuta, non solo perché avevo intuito che la binetta doveva essere un attrezzo ma anche perché sua moglie era presente e volevo vivacizzare la serata che fin lì si presentava, contrariamente al solito, piuttosto moscia, soprattutto perché io e mio cognato contemplavamo desolati l’unica bottiglia di vino messa sulla tavola da mia moglie (è bene fare sempre il nome del colpevole, anche perché qui il cognome, se proprio vi interessa, potete ricavarvelo da soli: Annarita) e che doveva bastare, pensate alla nostra disperazione, a quattro commensali.  Imperturbabile, mio cognato si è subito vendicato dello sfottò fulminandomi con un – Non sai che cos’è la binetta?-. Ho dovuto confessare la mia ignoranza e sorbirmi la descrizione dell’attrezzo che compare nell’immagine di testa e col quale anche io, finché il fisico me l’ha consentito, ho avuto molteplici, intensi rapporti … stagionali, perché non ho mai disdegnato l’attività fisica, in particolare quella che pur sempre comporta la gestione di un semplice orticello.

Confesso di aver usato quell’attrezzo senza conoscerne il nome, nè italiano, né, tanto meno, dialettale (quando non la trovavo ero costretto ad usare una lunga perifrasi del tipo – Avete visto quella specie di zappa rettangolare con cui raso l’erba? -; e pensare che amo la sintesi e le parole lapidarie!) e l’imbarazzo è salito alle stelle quando anche la moglie di Giuseppe ha confermato che anche suo padre l’aveva usata abitualmente. Siccome sono uno che si mette da solo nei guai mi son posto ad alta voce:

-Quale sarà mai l’etimo?- e lì, per lì (la classe, 1945 …,  ma più che di classe in questo caso si è trattato, come vedremo,  di culosa intuizione …) ho buttato un – Probabilmente da bi– (due volte) e nettare – (l’attrezzo, quando è ben affilato elimina superficialmente l’erba già nel primo passaggio). Siccome accanto a sé Giuseppe aveva un cellulare di ultima generazione e non mi andava di interrompere la cena per accendere il pc e, giacché c’ero, controllare pure sul vocabolario del Rohlfs, gli ho chiesto di cercare in rete l’esistenza o meno di binetta in italiano.

Risultato: di binetta nemmeno l’ombraa parte qualche nome proprio da tenere in considerazione solo se l’attrezzo avesse preso il nome dal suo inventore o costruttore, com’è avvenuto per esempio (non sarà questo il residuo di qualche pulsione inconscia a cancellare col suicidio la vergogna che stavo rimediando?) per beretta.

Non era ancora svanito il rossore derivante dalla constatazione ed ammissione della mia ignoranza  che una nuova ondata di vergogna (ma che è, una tragedia greca?) si abbatteva sulla mia testa. Rosanna, così si chiama la moglie di Giuseppe, mi gelava con – La parola dev’essere di origine francese -. Al che ho subito replicato (ero sincero, ma, benedetto presunto esperto, potevo pensarci prima) ammettendo di essere stato un cretino a non averlo ipotizzato prima e a quel punto nello stupido tentativo di rifarmi ho snocciolato parole del tipo di cocotte (prostituta) e buvette (bar, per antonomasia quello del Parlamento). Probabilmente l’ho fatto anche per associazione di idee perché poco prima era terminato il telegiornale che, nonostante sia un megafono del regime, non riesce a scalfire minimamente ma, al contrario, corrobora la convinzione che nutro da tempo: con la politica attuale l’italia (l’iniziale minuscola non è un refuso …) andrà sempre più a finire a puttane …

Ma torniamo alla nostra voce. Una frenetica digitazione di binette sulla tastiera del telefonino e mio cognato mi sbatteva in faccia una caterva di immagini dell’attrezzo in una sorta di esposizione che non credo si sia vista nemmeno nel padiglione di qualche fiera  internazionale dedicata agli attrezzi agricoli.

Mentre Rosanna celebrava, con indicibile soddisfazione di mia moglie, il suo trionfo e Giuseppe si mostrava infastidito quanto me, ecco la mia geniale osservazione per recuperare almeno in parte il prestigio perduto: – Tutto è chiaro: binetta è italianizzazione dialettale del francese  binette -. Già, ma binette da dove derivava? Il problema poteva o non poteva essere risolto all’istante ricorrendo per la seconda volta al mostro tecnologico di mio cognato? Gli ho detto, perciò, di digitare Lexylogos (conduce ad una serie di vocabolari francesi che pongono solo l’imbarazzo della scelta). Deve aver digitato secondo me Sexylogos perché sul display sono comparse immagini che nulla avevano a che fare con l’attrezzo (almeno con quello di cui stiamo parlando …) e nemmeno un link conduceva ad argomenti ad esso attinenti. L’ho pregato di ridigitare la parola magica ma a quel punto il mostro con un  ammiccante ultimo lampeggiamento ci ha fatto sapere che con noi, almeno per quella sera, si era rotto … la batteria. Nemmeno questa volta era il caso di interrompere la cena per operare con la mia attrezzatura (essa sì, degna di menzione anche se in quest’ultima parola il solito invidioso potrebbe sostiture la prima e con una i)  quel controllo che prima non avevo voluto fare. La cena è proseguita con l’assicurazione da parte mia che l’indomani avrei fatto conoscere l’esito delle mie ricerche. Faccio ora pubblicamente ciò che mi ero ripromesso di fare privatamente, non tanto perché qualche lettore confermi l’esistenza di binetta nel dialetto neretino (anche se, fidarsi di un cognato e di sua moglie è bene, ma, come si sa, non fidarsi è meglio …), ma perché può interessare quel processo faticoso che sta dietro la storia di una parola.

Dopo aver premesso che nel vocabolario del Rohlfs, in quello di Antonio Garrisi ed a quello in rete di Giuseppe Presicce (omonimo, guarda caso, di mio cognato) la parola è assente, riassumo subito l’esito delle mie ricerche. Essendomi venuto il sospetto che binette potesse avere un’origine deverbale, ho controllato il suo significato  in http://dizionario.reverso.net/francese-italiano/binette. Ecco quanto si leggeva e si legge: zappa (per sarchiare). Il mio sospetto era confermato e digitando, questa volta, la forma verbale immediatamente presumibile (biner) ho avuto la seguente risposta: sarchiare. Essendo biner un verbo della prima coniugazione, ho pensato che potesse derivare dal latino, come amer da amare. Chi, però, andasse a cercare binare sui vocabolari latini correnti (che registrano le voci del latino classico e, al massimo di quello tardo) resterebbe deluso, perché binare è voce del latino medioevale, tant’è che è presente nel lessico del Du Cange, dal quale riporto, con la mia traduzione corredata di qualche nota, il dettaglio del lemma.

BINARE Arare il campo per la seconda volta, sarchiare di nuovo la vite. Francese biner, Ugo Vittorino, Sermone XV; Fratelli, abbiamo un campo, il nostro cuore, la vigna del Signore, la buona volontà, i tralci, i buoni pensieri: scaviamola, sarchiamola, ariamola per la terza volta1, come è scritto, per triplice compunzione. E Sermone XVI: Dobbiamo arare per compunzione … sarchiare per compunzione … interzare per compunzione. Archivio della chiesa di Autissiodorus [attuale Auxerre] foglio 108, anno 1270: Scaveranno attorno2 questa vigna, la poteranno, le metteranno i paletti, la scaveranno e la sarchieranno [Papias: Si dice bini come se si dicesse biuni; bino, as, avi deriva da lì].

Per il non addetti ai lavori l’ultimo pezzo potrebbe risultare meno comprensibile dell’ostrogoto. Una delucidazione, per quanto  sintetica, è d’obbligo, anche perché darà conferma, sia pure parziale, all’ipotesi etimologica lì per lì’ da me formulata quella sera. Qui Papia (lessicografo dell’XI secolo, autore del dizionario monolingue, cioè solo latino Elementarium doctrinae rudimentum) fa derivare (nulla da eccepire) il verbo binare da bini, numerale distributivo che significa due per volta oppure due per ciascuno. Egli poi considera bini come derivato da *biuni, composto, anche se non lo dice espressamente, dall’avverbio numerale bis (che significa due volte) e da unus che significa uno solo. Tale ricostruzione è anch’essa accettabile in toto e trasferibile a tutti gli altri aggettivi numerali distributivi latini: trini (che significa tre per volta oppure tre per ciascuno; quaterni che significa quattro per volta oppure quattro per ciascuno, etc. etc.).

Appare ora evidente come il latino medioevale binare deriva da bin-, radice di bini, il cui primo componente è propiro quel bis da me messo inizialmente in campo;).  Ecco dov’è la conferma parziale di cui dicevo; solo che per il resto mi son lasciato suggestionare da un nettare che, se è semanticamente pertinente alla funzione del nostro attrezzo, non lo è per nulla filologicamente.

Conclusione: binetta è adattamento italiano del francese binette, con progressiva liberazione dal concetto iniziale di seconda lavorazione (sarchiatura) della terra (la prima è stata l’aratura, un tempo anche la zappatura)  e utilizzo dello strumento non più e non solo per la fenditura superficiale del terreno (per cui è più adatta il sarchiello, sirchialora in dialetto) ma come semplice rasaerba.

A questo punto il nostro binetta meriterebbe di essere registrato nel vocabolario italiano, ma forse è troppo tardi: le parole acquistano vitalità e l’onore di entrare nella lingua nazionale grazie alla frequenza e alla diffusione del loro uso e, per converso, tendono a diventare inesorabilmente obsolete quando esse si riferiscono a realtà non più esistenti. Pensate veramente, tra job acts e stepchild adoption, tra aratri intelligenti e semi transgenici, che la nostra binetta, relegata a strumento poco più che hobbistico, faccia in tempo, prima di non essere più nemmeno fabbricata, ad essere registrata nell’anagrafe delle parole italiane?

Comunque, ho pregato Giuseppe che nei nostri prossimi incontri conviviali metta in campo solo parole come trattore, aratro, zappa, filare, potatura, innesto e simili, anche perché, nonostante la mia fame di conoscenza, una beretta, magari come semplice idea ispiratrice, è sempre in agguato. Per ora ho perso l’occasione (più perdente di così …) di lasciare su qualche giornale un titolo come: Suicida per una banale binette.

__________

1 Il tertiemus dell’originale è la prima persona plurale del congiuntivo presente attivo, con valore esortativo, di tertiare che, con lo stesso significato tecnico ricorre già in Columella (I secolo d. C.), autore di un trattato sull’agricoltura , e, con quello, più generico, di ripetere per la terza volta, nelle Metamorfosi di Apuleio (II secolo d. C.). ‘Nterzare è usato ad Alessano e Spongano proprio col significato di arare per la terza volta  e corrisponde all’italiano interzare che, con la stessa specializzazione semantica di carattere agricolo, usa pure la forma composta reinterzare costituita dalla particella ripetitiva re– e interzare. Ne approfitto per ricordare che ‘ntirzare a Nardò è usato come sinonimo di allicciare (molto probabilmente perché l’operazione comporta una piegatura, pur modesta, dei denti della sega, rispetto al  loro asse perpendicolare). I miei informatori mi attestano, altresì che a Nardò si usa trairsare (corrispondente all’italiano traversare) ma per indicare una seconda aratura fatta in senso opposto. E questo vocabolo non poteva non slittare dal mondo contadino nel proverbio Arata e trairsata ole la terra. Amata e ggimintata ole la tonna (per chi ha interesse ad approfondire: https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/12/17/ggimentu-e-ggimintare-dalla-speculazione-edilizia-alle-molestie/).

2 Allude alla pratica di coltivazione che prevede di scavare il terreno alla base del ceppo (scuncare in dialetto neretino, corrispondente all’italiano sconcare) non solo per liberarlo dalle erbacce ma per formare una specie di conca dove l’acqua possa raccogliersi.

Galatone e le sue tradizioni, tra antropologia e fede

Vernet

di Giuseppe Resta

Conoscere è importante per ricordare.

Ricordare è necessario per essere comunità.

Certi fenomeni sociali e di pietà popolare, legati alla storia e all’antropologia, oggi, dimenticate ma non perdute le ragioni dell’origine, sembrano svuotati dai significati originari. Questo porta chi non conosce la genesi di questi fenomeni a giudizi non sempre obiettivi, a volte affrettati.

Purtroppo tante delle nostre tradizioni (dal latino traditiònem, da tràdere = consegnare, trasmettere) hanno perso il messaggio significante, confondendo il percettore sul significato. E chiunque legga la tradizione con i paradigmi dell’oggi e non quelli del passato può incappare in giudizi superficiali, nati su presupposti errati.

A mio modestissimo parere la tradizione non dovrebbe essere bruscamente cancellata o violentemente modificata solo perché oggi c’è chi si dimostra incapace di leggerla, ma piuttosto bisognerebbe indagare e riscoprire i veri profondi significati che la hanno generata e trasmetterli ancora per divulgare la comprensione e rinsaldare il legame con la comunità per fortificare la socialità e la civicità.

E’ pertanto difficile, per un appartenente alla Comunità Galatea, assistere a spostamenti di significati di antiche tradizioni consolidate, senza provare, seppur nell’obbedienza, un moto di disagio.

« Le storie antiche sono, o sembrano, arbitrarie, prive di senso, assurde, eppure a quanto pare si ritrovano in tutto il mondo. Una creazione “fantastica” nata dalla mente in determinato luogo sarebbe unica, non la ritroveremmo identica in un luogo del tutto diverso » (Claude Levi Strauss)

In antropologia la tradizione è l’insieme degli usi e costumi – e dei valori collegati – che ogni generazione, dopo aver appreso, conservato, modificato dalla precedente, trasmette alle generazioni successive. La tradizione è particolarmente sentita dalle comunità minoritarie che, attraverso di essa, tendono a conservare la propria identità.

Nella teologia cattolica, la tradizione cristiana è quella approvata dal concilio di Trento, ricca anche di tutti gli eventi non provabili, ma che sono ritenuti reali dai fedeli e/o dalle gerarchie ecclesiastiche. Nella teologia cattolica la tradizione è la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, nell’atto in cui perpetua e trasmette a tutte le generazioni “tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede” (Concilio Vat II, Dei Verbum 8).

2 maggio 2011 004

Nel Catechismo della Chiesa Cattolica, al n° 1679 <<Oltre che della liturgia, la vita cristiana si nutre di varie forme di pietà popolare, radicate nelle diverse culture. Pur vigilando per illuminarle con la luce della fede, la Chiesa favorisce le forme di religiosità popolare, che esprimono un istinto evangelico e una saggezza umana e arricchiscono la vita cristiana.>>

Un rito (o rituale) è ogni atto, o insieme di atti, che viene eseguito secondo norme codificate.

Secondo Ernesto de Martino, lo studioso italiano che tanto ha legato il suo lavoro alle fenomenologie antropologiche di questo nostro Salento, il rito aiuta l’uomo a sopportare una sorta di “crisi della presenza” che esso avverte di fronte alla natura, sentendo minacciata la propria stessa vita. I comportamenti stereotipati dei riti offrono rassicuranti modelli da seguire, costruendo quella che viene in seguito definita come “tradizione”.

Il sociologo Emile Durkheim ha invece fatto notare come la componente iniziale religiosa del rito porti a una funzione sociale, che permette di fondare o di rinsaldare i legami interni alla comunità. Sulla stessa linea anche l’antropologo funzionalista Bronislaw Malinowski.

Diversamente gli antropologi Arnold Van Gennep e Meyer Fortes considerano primaria la funzione sociale e culturale del rito che può estendersi poi in ambito religioso.

Pertanto la sfera della “tradizione”, così come quella del “rito”, così interconnesse, rappresentano un patrimonio culturale connotante una comunità, identificandola.

<<Tutto ciò che tentiamo di pensare e in qualunque modo tentiamo di pensarlo, lo pensiamo nell’ambito della tradizione. Essa si impone quando ci libera da un pensiero che segue le cose per portarci verso un pensiero che le anticipi senza essere più un pianificare. Solo se ci rivolgiamo pensando verso ciò che è già stato pensato, ci troviamo ad esser volti al servizio di ciò che ancora è da pensare.>> (M. Heidegger- Identità e differenza-).

Nel Catechismo della Chiesa Cattolica, alla voce “La religiosità popolare”, n°1674: <<Oltre che della liturgia dei sacramenti e dei sacramentali, la catechesi deve tener conto delle forme della pietà dei fedeli e della religiosità popolare. Il senso religioso del popolo cristiano, in ogni tempo, ha trovato la sua espressione nelle varie forme di pietà che accompagnano la vita sacramentale della Chiesa, quali la venerazione delle reliquie, le visite ai santuari, i pellegrinaggi, le processioni, la «via crucis», le danze religiose, il Rosario, le medaglie, ecc.>>. 1679: <<Oltre che della liturgia, la vita cristiana si nutre di varie forme di pietà popolare, radicate nelle diverse culture. Pur vigilando per illuminarle con la luce della fede, la Chiesa favorisce le forme di religiosità popolare, che esprimono un istinto evangelico e una saggezza umana e arricchiscono la vita cristiana>>.

231022_1664034046372_1402866712_31319023_1678026_n

Lo spaesamento (letteralmente!) che potrebbe derivare da una perdita di queste connotazioni sarebbe gravissimo, portando alla spersonalizzazione di una comunità, nel baratro della globalizzazione amorfa e senza elementi identificativi, verso l’incultura dei “nonluoghi”, come li definisce l’etnoantropologo Marc Augé, in contrapposizione ai luoghi antropologici. Cioè tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici; prodotti della società della surmodernità (o supermodernismo), incapace di integrare in sé i luoghi storici confinandoli e banalizzandoli in posizioni limitate e circoscritte; privilegiano l’immagine e la quantità sull’essenza e la qualità.

5 maggio 2011 2 037 (2)

Due tradizioni storiche centenarie, come l’Asta, per aggiudicarsi il privilegio devozionale e sacrificale del portare in processione la statua del SS. Crocifisso, o addirittura tricentenarie, come il “carro di San’Elena”, rappresentano una connotazione identitaria forte per tutto la comunità galatea. Perderle sarebbe veramente “un peccato”.

Secondo i sociologi sono questi rituali con i quali gli abitanti del posto ripetono una tradizione che li contraddistingue da tutti gli altri paesi vicini. Dunque il tema è quello del loro valore socializzante: la festa diventa il simbolo principale della propria storia, cultura, tradizione, della propria personalità collettiva. Il riferimento alla tradizione rappresenta in tal modo il patrimonio culturale, ambientale e familiare, rivelando un popolo, la sua cultura e la sua fede.

Comprenderne la genesi aiuterebbe a preservarne lo spirito originario, sempre molto legato al culto e alla devozione sincera e, quindi, forte e “pulita”.

“Se il cielo si svuota di Dio, la terra si popola di idoli” (Karl Barth, fondatore della “teologia dialettica”)

 

L’Asta di Galatone

2 maggio 2011 004

di Giuseppe Resta

Nel 1892, a seguito di una guarigione da una polmonite (allora di polmonite si moriva), Vito Lucio De Benedetto, il guarito, insieme ai fratelli Marino, Sebastiano e Luigi, fecero realizzare la statua del SS. Crocefisso che tutti conosciamo, commissionandola a Lecce (probabilmente al cartapestaio Antonio Malecore, discepolo di Giuseppe Manzo, ma si dice anche al cavaliere Luigi Guacci. La statua non è firmata e si sono persi i documenti). Il 1° maggio del 1892 i fratelli De Benedetto andarono a Lecce con un carro, di buon’ora, per ritirarla accompagnati da 12 loro uomini di fiducia, in parte comandati, in altra parte offertisi volontari.

Tanta fu l’impressione suscitata dalla bellezza della statua, dalla sua espressione dolce e sofferente, dalla pietà e dal dolore intimo che trasmetteva, che decisero di non caricarla sul carro, ma di portarla a spalle per i circa 26 chilometri che intercorrono tra il centro di Lecce e quello di Galatone. Probabilmente, con le strade sterrate e il carro senza sospensioni, avranno pensato che tanta bellezza si sarebbe potuta sciupare o danneggiare.

Giunti a destinazione non entrarono in paese, ma si fermarono poco fuori, presso il convento della Madonna della Grazia. Qui la custodirono fino al giorno successivo, 2 di maggio, finché il vescovo Giuseppe Ricciardi la benedisse solennemente. E dal convento la statua fu portata nel centro del paese con una solenne processione, dove le si affiancarono anche le altre statue presenti a Galatone.

Da allora ogni anno, insieme alla reliquia del Sacro Legno come sempre si era fatto, si porta in processione la statua. E, siccome portarla a spalle, come “gli uomini dei De Benedetto”, è stato sempre considerato un privilegio, una devozione, un sacrificio per espiare colpe o per ringraziare di grazie ricevute o per suffragare intercessioni richieste, si decise che, per evitare discussioni – che potevano anche degenerare – si procedesse all’Asta fra squadre di portatori. Procedura diffusa, per altro, in tutto il meridione italiano.

Così si definì il rito: sei uomini del comitato dei festeggiamenti spostavano la statua dal sacello e la munivano delle tre assi (operazione complicata che prevede maestria e mestiere; cultura, insomma). Una volta guarnita del necessario per poterla portare a spalla, la presentavano alla folla sul sacrato, fermandosi sopra al primo dei tre scalini che separano il piano del Santuario dalla strada. Qui un membro anziano ed esperto del Comitato (l’ultimo a fare l’Asta in questa maniera è stato Mesciu Totu Parisi) dava inizio all’Asta secondo la formula consolidata della “candela di cera vergine” (quindi ai sensi degli artt. 73, lett. a), e 74 del R.D. 23/5/1924 n 827). Come spesso succede ed è comunemente accettato, le candele sono state sostituite da tre fiammiferi – li pospari – . Avvertiti gli astanti sulle modalità dell’Asta il banditore passava solennemente all’accensione del primo fiammifero. Partivano le prime offerte. Spento il primo fiammifero, la prima fila dei portatori della statua faceva un passo avanti scendendo il primo gradino. Si accendeva il secondo fiammifero. Stesso rito. Così fino al terzo scalino e al terzo fiammifero. Spento questo si riteneva inderogabilmente valida l’ultima offerta. Così, fra gli applausi, si poteva consegnare la statua alla prima sestina di portatori che si erano aggiudicati l’onore. E la processione poteva partire.

L’Asta così è diventata in e per più di cent’anni un segno antropologico identificativo della nostra comunità. Un segno connotante e distintivo.

asta1

Bisogna pensare che la pratica dell’Asta per l’aggiudicazione di un qualsiasi bene è antichissima. Presso gli antichi Romani una vendita pubblica era annunciata da un’ hasta, una lancia, simbolo di proprietà, che si piantava sul luogo del pubblico incanto come segno della pubblica autorità. È proprio attraverso le aste che gli antichi romani ripartivano il tesoro conquistato in guerra. In latino esistevano le seguenti espressioni:

– sub hastā venděre, o hastae subicěre  (vendere all’incanto);

– hastam poněre (“piantare l’asta”, cioè “annunciare una pubblica vendita”) ;

– ab hastā (acquisto all’incanto);

– ius hastae (diritto di vendita all’incanto).

Nella cultura galatonese, invece rimangono di questo rito le frasi “simu rriati all’ultimo scalone” (siamo giunti all’ultimo gradino), “stae prossimu all’urtimu scalone” (è prossimo all’ultimo gradino) o “s’è stutatu l’urtimo posparu” (si è spento l’ultimo fiammifero). Tutte frasi entrate nei modi di dire popolari per definire un momento di non ritorno, la fine di un’impresa, di un’avventura, la fine infausta di una malattia, un fallimento economico, l’avvenuta o incipiente morte. Frasi che fanno capire come la ritualità dell’asta sia entrata prepotentemente e stabilmente nella tradizione di questo popolo. Ne ha rappresentato “cultura” tanto da essere assorbita dal lessico popolare.

Le aste sono la modalità di scambio sicuramente più conosciuta. Diversi tipi di merci, ma anche di titoli (come i Titoli di Stato), di contratti e diritti vengono scambiati tramite aste. La sostanza dell’asta resta sempre identica: mettere in concorrenza più agenti per l’acquisizione di una o più risorse limitate, così da realizzare una attribuzione efficace.

Di sicuro l’Asta che si è tenuta per la processione non ha messo in vendita né la statua, che rimane sempre donata al santuario, né tantomeno il Crocifisso, ma si è disputato solo il privilegio devozionale, e molto sentito, di potersi sacrificare a portare la statua per la processione. In palio è solo quel privilegio. Nient’altro.

Bisogna aggiungere che per formare le varie squadre si cominciavano a tessere relazioni già subito dopo le feste di Natale, si contattavano i partecipanti degli anni precedenti, si integravano con nuovi, molti si proponevano ai capi squadra perché avevano ringraziamenti da fare o grazie da chiedere al Crocifisso. Si stabiliva il tetto massimo di ogni quota, chi poteva “coprire” eventuali splafonature. Si accettavano anche quelli che non avevano da versare l’intera quota ma erano devoti e non potevano rinunciare a quel rito. Composta la squadra (almeno 36 persone valide, escludendo dal computo chi partecipa finanziariamente ma per acciacchi non può reggere il peso) ci si ritrovava presso un bar o uno spiazzo almeno un’ora prima dell’inizio dell’asta. Si verificano le presenze, si componevano le squadre per parità di altezza. Si sorteggiavano l’ordine di alternanza delle squadre. Si riteneva fortunata la prima squadra che iniziava per prima la processione, così come l’ultima che è quella che la chiudeva. Gli anziani o esperti del gruppo mettevano subito a conoscenza i neofiti del sistema per portare la statua senza molti danni, di come bilanciarne il peso, di come incedere sempre con lo stesso passo, come non farla ballonzolare troppo, con danni alla statua e alle spalle dei portatori. Si trasmettevano informazioni, facendo cultura. Solo dopo tutta questa preparazione di recitava una preghiera tutti insieme e si raggiungeva compatti la piazza dell’Asta. Avrebbero potuto parlare solo i caposquadra precedentemente designati. Il caposquadra principale si sarebbe messo sotto il banditore per gli ultimi rilanci e per controllare la piazza e tenere d’occhio le altre squadre.

Tutto un complesso di procedure e di sapienze che si tramandava.

Il ricavato dell’Asta, pubblico e quindi trasparentissimo e sotto gli occhi ed il controllo di tutti, è sempre andato a pagare le spese della Festa.

Tutto questo rito, vissuto con partecipazione e solennità ha avuto un grave colpo quando, negli anni novanta, in ottemperanza a decisioni prese nella conferenza episcopale pugliese, si impose – senza ascoltare e comprendere – di spostare il luogo dell’asta, svolgendola senza la statua dietro le spalle. Scelta che non solo ha ammantato di ipocrisia una centenaria tradizione (l’asta rimane, in denaro gira, si sposta solo di una piazza il luogo: occhio non vede, cuore non duole.) ma ha creato una spettacolarizzazione senza significato. Senza la presenza della statua e senza il rito dei fiammiferi e degli scalini si è svuotato il pathos della celebrazione, creando una cesura tra il significato ed il significante. Tra il sacro ritualizzato ed il profano esposto in piazza. Così in una piazza si faceva l’asta sotto le luci, consentendo a chiunque di salire sulla cassarmonica, persino a far passerelle politiche, a pronunciare discorsi, a fare comizi, a pavoneggiarsi, e nell’altra i fedeli si assembravano in attesa della partenza della processione. L’Asta ha perduto la ritualità e trasformandosi in una sorta di televendita televisiva con tanto di banditore, effetti speciali, musiche, esibizioni.

E’ chiaro che in questo ambiente liberato dalla ritualità ci sia stato chi non la letto più l’origine di questa antica usanza. Rimaneva intatto lo spirito di chi partecipava, di chi aveva conservato cultura e significante, ma chi guardava dall’esterno coglieva solo – anche giustamente – l’aspetto profano ed esibizionistico. Aspetto esibizionistico che, chiaramente, ci poteva anche essere. Ma dove non è? Però bisogna dire anche che i tentativi di alcuni personaggi politici di entrare nelle squadre per farsi vedere non ha avuto molto seguito: non è da tutti portare sulla spalla una cinquantina di chili per qualcosa in più di mezzo chilometro. La mattina seguente la spalla e la schiena facevano male. Certi personaggi per farsi pubblicità usano mezzi meno faticosi e anche a minor costo.

asta

Ci si è preoccupati – anche questo giustamente! – come non far avvenire che queste manifestazioni, come in altri posti succede ed è successo, fossero finite in mano a mafie e delinquenza. A Galatone tutto questo non è mai successo. (É successo invece anni fa che i fuochi di una festa parrocchiale siano stati pagati, con tanto di nome in grassetto sui manifesti, da affiliati alla Sacra Corona, qualcuno persino già tradotto in carcere. Ma di questo pare nessuno provò scandalo).

Si sarebbe potuto ovviare a questi problemi chiedendo quindici giorni prima l’elenco dei partecipanti alle squadre con una autodichiarazione (da consegnare alle autorità competenti) di verginità da procedimenti penali trascorsi o in corso. Fatto salvo che sarebbe dovuta rimanere una dichiarazione volontaria, considerato che una eventuale richiesta obbligatoria dell’elenco dei portatori delle statue da parte delle autorità civili, pur nello spirito di una opportuna e saggia collaborazione di massima, non troverebbe fondamento nel vigente sistema normativo dello Stato italiano. L’esercizio pubblico del culto, infatti, nel cui ambito ricadono anche le processioni religiose, è garantito pienamente dagli artt. 17 e 19 della Costituzione italiana. Per la Chiesa cattolica tale garanzia è stata ribadita anche nell’Accordo del 18 febbraio 1984 tra la Repubblica italiana e la Santa Sede (L. 25 marzo 1985, n. 121) che nell’art. 2 afferma che “…è assicurata alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica”. L’esercizio pubblico del culto tocca, pertanto, sia l’ambito proprio del diritto di libertà religiosa e del diritto di riunione, sia l’ambito dei rapporti tra Repubblica italiana e Santa Sede (art.7 Cost.).

D’altronde escamotages come l’asta in busta chiusa o l’estrazione dei partecipanti non cambierebbero o risolverebbero il problema. Anzi! Nella busta chiusa ci sarebbero comunque denari di ancora più ignota provenienza. Col sorteggio non sarebbe esclusa comunque la presenza o di mandanti di infiltrazioni malavitose.

A mio parere, pertanto, tutto considerato, forse sarebbe bene, almeno in questo specifico caso, tornare all’antico, facendo l’asta come si è fatta per più di cent’anni, con la statua e con i fiammiferi, ridando il giusto peso alla cultura ed alla storia e lasciando intatto il legame tra la sacralità e la sentita e partecipata manifestazione di pietà popolare.

D’altronde, a ben guardare, in altre realtà pugliesi le aste si fanno ancora, anche più sontuose e più spettacolari, senza che nessuno abbia pensato di toglierle. E questa discrepanza di trattamento indispone non poco i fedeli. Se il denaro è “lo sterco del Diavolo” è anche vero che, in altri casi, è buon concime, e non tanto disprezzato. Da nessuno.

Si è anche più volte notato come succeda che dei riti siano soggetti a improvvisi accessi di modernismo e/o episodi di pauperismo. Come quando in alcuni Capitoli si abolirono le vesti tradizionali delle congreghe, trasformando i confratelli in anonimi maggiordomi, mentre, dove si sono conservate, la sacralità, l’anonimato, l’effetto scenico, e quindi turistico ed identificativo, rimane sempre fortissimo.

“Se il cielo si svuota di Dio, la terra si popola di idoli” (Karl Barth, fondatore della “teologia dialettica”)

Come succede a tanti sedicenti atei che poi frequentano sette, santoni, fattucchiere, ciarlatani, o abbracciano religioni e credenze orientali o alimentari estremizzate e programmano la loro vita in base all’oroscopo.

Negli anni 50, letture a buon mercato per Rocco da Marittima

settimana-incom-illustrata-anno-xiii-novembre-12db49f8-79db-4572-b4af-26d32354e611 due

di Rocco Boccadamo

Di almanacchi, accanto a me, ne sono già scivolati ben settantacinque e, tuttavia, in determinati momenti di pausa, abbandono e silenzio, ho l’impressione di toccare ancora con mano e di rivisitare con occhi lucidi di freschezza una serie di antichi, piccoli episodi che mi hanno visto protagonista, o più semplicemente spettatore, nella stagione della fanciullezza e/della prima adolescenza, tra le Elementari e le Medie.

In aggiunta ad altri due modesti esercizi commerciali per la vendita al dettaglio di prodotti alimentari, c’era allora, a Marittima, in piazza, il tabacchino o privativa di generi di monopolio, di Dante e Assunta, gestito prevalentemente dalla donna.

Per la verità, lì, non soltanto si praticava la vendita di sale, sigarette, sigari e cartine, ma si trovava un po’ di tutto: giornali, aspirina, caramelle, farina, pasta, pane, spagnolette di cotone, aghi, bottoni, cerniere e, finanche, petrolio e alcool denaturato, prodotto, quest’ ultimo, che le famiglie adoperavano spesso per alimentare piccole lampade, in dialetto si diceva non a caso a spirito, quando in casa veniva a mancare, succedeva purtroppo frequentemente, l’energia elettrica.

I titolari del tabacchino tenevano sempre una discreta scorta di dette sostanze liquide, in damigiane di vetro stipate in un corridoio attiguo al negozio, da cui si travasavano nelle bottiglie dei singoli acquirenti le quantità di petrolio o d’alcool da loro richieste.

Però, a parte queste operazioni, diciamo così più frequenti e canoniche, ogni tanto, in particolar modo quando faceva freddo, intorno alla damigiana dell’alcool si snodava un rito diverso. Nel tabacchino, si affacciava Mesciu Miliu, portalettere del paese e sacrestano del convento della Madonna di Costantinopoli, il quale amava bere, tanto da essere spesso ebbro; con la motivazione di sentirsi intirizzito, nel mezzo dei suoi giri per la distribuzione della posta e col permesso dell’Assunta, egli si accostava al contenitore, traendone di volta in volta un mezzo bicchiere che tracannava in un baleno.

A proposito di Mesciu Miliu, persona intelligente che sapeva ben rapportarsi con tutti, circolava una storiella particolare.

Il Venerdì Santo, com’è noto, si svolgeva, e tuttora ha luogo, la processione con i simulacri di Cristo Morto e della Madonna Addolorata.

Riguardo alla Madonna Addolorata, mette conto di precisare che la relativa statua in carta pesta, con un volto bianchissimo, ceruleo e un abito di color nero lucido, durante l’arco dell’anno non era conservata nella chiesa matrice, bensì nel convento o Santuario collocato alla periferia estrema di Marittima, sulla via per Castro. Sicché, all’inizio di ogni Settimana Santa, occorreva trasferirla, dal suo abituale alloggiamento, alla sacrestia della parrocchia.

Un compito cui, per molti decenni, provvide giustappunto il sacrestano mesciu Miliu. Per lo spostamento della statua, egli si serviva di un piccolo traino di legno (trainella), da sospingersi a mano afferrando le stanghe, adoperato, di norma, dai compaesani per caricarvi e trasportare al forno pubblico la “mattra” e i “limmi” (contenitori, rispettivamente, di legno e di terracotta) ricolmi di pasta di farina di frumento, con cui si provvedeva alla periodica panificazione per il fabbisogno famigliare.

Mesciu Miliu, come già ricordato, non sapeva stare a lungo senza un bicchiere; per questo motivo, in un’occasione, nel tragitto dal santuario alla parrocchia, con la trainella e, sopra, la statua della Madonna Addolorata, egli pensò di fermarsi davanti a una bettola (puteca) per bagnarsi le labbra, parcheggiando il mezzo di trasporto e il relativo contenuto di fronte all’ingresso.

All’uscita, evidentemente brillo e allegro, si profuse in un’eccezionale quanto indimenticata esclamazione: “ Madonna via bella, ti eri mai vista in trainella?”.

 

 

 

Si diceva che il tabacchino fungeva pure da edicola, precisamente vi si poteva acquistare il quotidiano La Gazzetta del Mezzogiorno e qualche settimanale, rammento La Settimana Incom illustrata, Epoca e Tempo. Detti giornali giungevano all’esercizio via posta, giacché in quei tempi non esistevano corrieri dedicati, esattamente al pari della corrispondenza ordinaria o raccomandata per le famiglie.

Piace, all’odierno narrastorie dai capelli bianchi, ricordare che, riguardo ai servizi postali, a collaborare con l’ufficio del paesello, interveniva una figura terza, una brava persona abitante a Castro, C. C., il quale espletava la funzione di “procaccia postale”. Utilizzando la propria moto Ape, egli aveva il compito di prelevare dagli uffici postali di Castro, Marittima e Diso i sacchi della corrispondenza in partenza, chiusi con la ceralacca, e consegnarli ai treni delle Sud Est per Maglie e Lecce che transitavano dalla vicina stazione ferroviaria di Spongano; così come, di rilevare dai medesimi treni i sacchi postali della corrispondenza in arrivo, per recapitarli ai competenti uffici delle tre località.

Sul rimorchietto della moto Ape, C. C. aveva sistemato un paio di panchette e, in funzione di rudimentale navetta, faceva talvolta accomodare qualche paesano in arrivo o in partenza col treno.

In tal guisa, il “procaccia” riusciva ad arrotondare, ovviamente a livello di poche lire, le sue entrate.

Bisogna annotare che, all’epoca, a Marittima non c’era in pratica anima viva che acquistasse i giornali, tranne, per opera d’isolati tifosi, l’edizione del lunedì della Gazzetta del Mezzogiorno, dove ripassare le cronache sportive inerenti alle squadre di calcio di Maglie e Lecce militanti in serie C.

Di conseguenza, trascorsi alcuni giorni dalle date d’uscita, Assunta riprendeva in mano i giornali ormai vecchi e ne ritagliava una sezione rettangolare della copertina o della prima pagina che restituiva per posta agli editori, quale prova dell’invenduto.

Al giovanissimo Rocco, dopo essersi trovato tante volte ad assistere a detta operazione,  venne a un certo punto l’idea di chiedere ad Assunta che cosa avrebbe dovuto pagarle per un settimanale, diciamo così, tagliato (i prezzi di copertina erano di 80 o 100 lire); la risposta della signora fu “devi darmi 5 lire” e scattò subito il patto.

In tal modo iniziò, e si protrasse per alcuni anni, circa dal 1950 al 1954, la parentesi del ragazzo lettore di settimanali scaduti e però egualmente ricchi e fonte unica (nel paese, tranne che in una famiglia, non esistevano le radio) di una miriade di fatti, corredati, per di più, da illustrazioni in bianco e nero e a colori.

Rocco divorava pagina per pagina, riga per riga, i rotocalchi, acquisendo cognizione e diventando testimone di avvenimenti, episodi e fatti, anche clamorosi e drammatici, sia italiani sia internazionali.

Eccone una sintetica carrellata.

1950: si celebra l’Anno Santo, scoppia la guerra in Corea, l’ONU affida all’Italia la Somalia in amministrazione fiduciaria.

1951; la Libia diventa indipendente dall’Italia; nel mese di novembre, una spaventosa alluvione finisce col distruggere il Polesine.

1952: Elisabetta II succede al padre Giorgio VI come sovrano del Regno Unito (sarà incoronata nel giugno 1953).

1953: la Rai inizia le trasmissioni televisive in bianco e nero, muore il dittatore sovietico Stalin, scoppia a Roma il caso Montesi, con una bella ragazza trovata cadavere sulla spiaggia di Torvaianica e con implicazione, all’inizio, del figlio di un famoso uomo politico, poi risultato estraneo.

1954: muore Alcide De Gasperi.

Un percorso di conoscenza molto importante, a integrazione delle nozioni che erano inculcate a scuola, ma anche un forte stimolo a curiosare, informarsi, interessarsi e guardarsi intorno, sino ad acquisire la percezione consapevole di essere, in fondo, un granello, minuscolo e se si vuole millesimale, ma pur sempre vivo e palpitante, della collettività.

tempo_rivista_1951_copertina due

Quale segno ideale ma tangibile di ritorno a un’esperienza che serberò per sempre, con emozione e un filo di nostalgia negli occhi e nel cuore, ho in questi giorni cercato, trovato e ripassato le copertine di Epoca, Tempo e Settimana Incom illustrata di tanti lustri fa.

Le fortezze dell’isola di Sant’Andrea nel porto di Brindisi

Banner_Castello

Maggio, 2, Lunedì. Inizio ore 17.30. Accoglienza ore 17.15.

 XLV Colloquio di studi e ricerca storica

Ruolo e funzione di forte a mare e del

castello alfonsino nel porto di Brindisi

Presentazione del volume Le fortezze dell’isola di Sant’Andrea nel porto di Brindisi, a cura di Giuseppe Marella e Giacomo Carito, Brindisi: Pubblidea Edizioni, 2014

Brindisi. Palazzo Granafei-Nervegna (g.c.)

 

“Non vi è un fanciullo, non un uomo forse, che non abbia in fondo sognato di essere un Robinson, e, se non di vivere solitario in un’isola deserta, almeno di rifare lui stesso, ripartendo dalla fonte, i propri alimenti e i propri abiti”.

Maxence Van der Meersch, Perché non sanno quello che fanno, 1933

 

Un’isola proteggeva i due imbocchi, l’uno delle Pedagne, l’altro di Bocche di Puglia, per i quali si accedeva alla grande rada portuale di Brindisi; interessata secondo le fonti latine da un precoce popolamento, nella prima età normanna avrebbe ospitato un monastero maschile benedettino sotto il titolo di Sant’Andrea.

Nel tardo XV secolo, concretizzatasi la minaccia turca con la presa di Otranto, si volle la costruzione di un castello che poi sarebbe stato denominato rosso o alfonsino. Nel XVI secolo al castello si aggiunse il forte; fu opera costosissima e ideata per ottenere effetto dissuasivo su chiunque avesse pensato di forza l’ingresso nel porto adriatico.

Di fatto solo i veneziani tentarono, inutilmente, tale impresa; vi rinunciò invece la flotta ottomana che pure poteva far riferimento alla munita base di Valona. Quando ci si riferisce a un “castello”, in genere si evoca un universo popolato di dame e cavalieri, assedi e duelli, antiche guerre e amori appassionati. Nelle pietre dei castelli sono incisi secoli di storia e in questo le fortezze di Sant’Andrea certamente non differiscono; immerse nella quiete di un’isola da tempo abbandonata, offrono ai loro visitatori l’immagine di avamposti su un mare allora vissuto come fossato tra due mondi. Mantennero la loro funzione durante le due guerre mondiali nel corso delle quali fu ampliato il sistema difensivo con la costruzione di due grandi batterie costiere: la Pisacane e la Sant’Andrea.

Oggi tutto riposa nella quiete dell’abbandono e le antiche stanze sono dimora solo di spettri del passato.

 

Organizzazione

Società di Storia Patria per la Puglia –Sezione di Brindisi

The International Propeller Club Port of Brindisi

 

Patrocinio

Comune di Brindisi

 

Interventi

Damiano Mevoli

Università del Salento

 

Conclusioni

Giacomo Carito

Vicepresidente della Società di Storia Patria per la Puglia

 

Coordina e introduce i lavori

Donato Caiulo

Presidente del The International Propeller Club Port of Brindisi

Il Carro di Sant’Elena a Galatone

5 maggio 2011 2 037 (2)

di Giuseppe Resta

Il Carro di Sant’Elena a Galatone
(Origini, storia, ritualità, cultura, evoluzione, spettacolarizzazione e tentativi di corruzione di un rito di pietà popolare)

Tanto è stato detto sul Carro – per ogni galatonese “Lu Carru” tout court – perché tanta è la connotazione identitaria che questo evento riveste nella galatonesità e tanto antica è la sua origine.
Ma proprio questa “popolarizzazione” ha permesso che le radici originali del Carro, i motivi che hanno portato alla sua realizzazione, si perdessero tra leggende, credenze, imprecisioni, inutili polemiche prive di fondamento o basate non su di un insieme di fattori – come sempre succede nelle cose umane – ma cercando di isolare questi da quelli, secondo l’impostazione del polemista di turno.
Forse è il caso di mettere finalmente ordine.
A partire molto da lontano, non possiamo dimenticare che i primi giorni di maggio erano i giorni nei quali in tutta l’Europa si celebrava il trionfo della primavera e la ripresa della piena attività agricola fin da epoche arcaiche. Dalle lotte rituali tra Inverno e Primavera nacquero persino le giostre dei tornei medievali.
Fin dal 238 avanti cristo, tra il 28 aprile e il 3 di maggio a Roma si celebrava una festa in onore di Flora, protettrice degli alberi durante la fioritura, Dai classici sappiamo che queste feste si chiamavano Floralia.

Protagoniste di queste feste erano le prostitute scelte come simbolo di sessualità primigenia ed energia fecondatrice. Da questi riti nasce il Calendimaggio, festa corale non meno importante del Carnevale.

Nicola Cusano, capace di conciliare paganesimo e cristianesimo, nel suo trattato “La Dotta Ignoranza” afferma : << Questa è stata dunque la differenze tra tutte le genti, che tutte avevano una fede nell’unico Dio massimo… però alcuni, come i Giudei e gli Esseni, lo adoravano nella sua unità semplicissima, quale complicazione di tutte le cose, altri invece lo veneravano in quelle cose ove trovavano un’esplicazione della divinità, accogliendo quanto ci è noto ai sensi come uno strumento per ricondursi alla causa ed al principio>>.
Tralasciando tutta una nutrita serie di eventi folkloristici legati a queste feste arcaiche di maggio, nel caso specifico ci si deve meglio riferire alla “Croci di Maggio”.

Nel vecchio calendario romano al 3 di Maggio si celebrava l’Inventio Sanctae Crucis, il ritrovamento della Croce di Gesù, scoperta da Elena, madre di Costantino il 14 settembre del 326 e poi trafugata nel 614 dal re persiano Cosroe Parviz dopo la conquista di Gerusalemme e restituita nel 628 all’imperatore Bizantino Eraclio (Esaltazione della Croce). ( Vedi le Storie della Vera Croce, ciclo di episodi affrescato da Piero della Francesca nella cappella maggiore della basilica di San Francesco ad Arezzo, databile al 1458-1466).
Secondo l’Enciclopedia Cattolica la data del 14 settembre assunse il nome ufficiale di Trionfo della Croce nel 1963, commemorando la conquista della Croce tolta ai Persiani, e la data del 3 di maggio fu mantenuta come Ritrovamento della Santa Croce, comunemente detta Invenzione della Croce.
La croce alla quale venne crocifisso Gesù sarebbe stata trovata insieme a quelle dei due ladroni scavando il terreno del Golgota. Si racconta che venne riconosciuta miracolosamente: accostando le tre croci a una malata, questa sarebbe stata guarita all’esposizione della terza. La “Vera Croce” rimase esposta a Gerusalemme; sottratta dai Persiani nel VII secolo, venne recuperata dall’imperatore bizantino Eraclio I. Nel 1187 venne portata dai Crociati sul campo di battaglia di Hattin, perché assicurasse loro la vittoria contro il Saladino; la battaglia invece fu perduta e della croce si persero le tracce per sempre.

Tuttavia nei secoli precedenti ne erano stati prelevati numerosi frammenti che sono tuttora conservati in molte chiese. Erasmo da Rotterdam ironicamente affermava che ne circolavano così tanti che con quel legno si sarebbe potuta costruire una nave.

Una recente ricerca stima invece che i frammenti oggi esistenti, messi insieme, costituiscano solo circa un decimo del volume della croce di Elena. Tuttavia la sproporzionata quantità di reliquie della Croce che vi era nei tempi passati era tanto esagerata che si trovarono diverse spiegazioni. San Paolino ne propose una miracolosa, ovvero il fenomeno “della reintegrazione della Croce”: se ne potevano staccare tutti i frammenti che si voleva, ma, a fronte di qualunque prelievo di legno, la croce restava sempre integra [The Catholic Encyclopaedia, Vol. 4, p. 524].

Nel centro-sud dell’Italia la festa delle Croci era particolarmente sentita perché cadeva quando stava per maturare il grano. Per questo si facevano grandi processioni portando una grande croce. Altre croci costruite di canne o ramoscelli venivano piantate nel mezzo di campi di frumento.
Ad Accettura, in provincia di Matera, la sagra del Maggio è una festa popolare che si tiene ogni anno in occasione dei festeggiamenti per il patrono San Giuliano. Si tratta di un antico rito nuziale e propiziatorio in cui il Maggio, un albero di alto fusto, viene unito ad un agrifoglio, la Cima, rappresentando i tradizionali culti arborei molto diffusi soprattutto nelle aree interne della Basilicata e della Calabria.

Secondo gli antropologi, queste celebrazioni sono fedeli ad uno schema presente negli antichissimi riti pagani agrari ed arborei tipici delle popolazioni contadine di molti Paesi europei e mirano a portare nel proprio paese e nella propria casa lo spirito fecondatore della natura, risvegliatosi con la primavera; rappresentano pertanto l’idea di rigenerazione della collettività umana mediante una sua partecipazione attiva alla resurrezione della vegetazione.
Un retaggio dell’importanza rituale e stagionale delle due feste cattoliche riferite all’Inventio e all’Esaltazione della Croce è racchiusa nel detto galateo “ Da Croce a Croce”, cioè dal 3 di maggio al 14 di Settembre, quindi dalla festa del Crocifisso a quella di Cristo di Tabelle (cappella sita nel comune di Galatina in confine con quello di Galatone, molto frequentata dai galatonesi.). Con questa limitazione temporale determinata si scandiva il periodo dell’affitto dei fondi rustici, o della villeggiatura, o, più comunemente, del riposo pomeridiano.
La conservazione di usi, costumi, riti, credenze che risalgono a parecchi secoli, alcuni di millenni (i cosiddetti “Rottami di antichità” di Giambattista Vico), riveste grande importanza, dal momento che l’attuale perdurare di antiche forme di vita e cultura, testimonianze di un passato assai remoto, riveste il fenomeno di un significato e di un valore veramente notevoli.
È infatti acquisizione ormai certa e incontrovertibile il fatto che diversi culti cristiani si siano innestati nel corso dei secoli su culti pagani che risultano perduranti tuttora nel mezzogiorno d’Italia.
Il paganesimo è stato una religione politeista prevalentemente a carattere misterico e soteriologico, basato sul rapporto tra singolo e il dio. Il termine “pagano” designa colui che non ha aderito al cristianesimo ed è rimasto fedele all’antica religione. L’origine del vocabolo è stata spiegata in vari modi. Per la maggior parte degli studiosi, “paganus” equivale a “rustico”: i pagi (villaggi), infatti, sarebbero stati l’ultima roccaforte e baluardo del paganesimo. I culti popolari sono sopravvissuti per millenni, passando dalle religioni antiche a quelle moderne. Tale continuità è da identificarsi nel mantenimento della struttura sociale caratteristica delle società contadine, nonostante alcuni mutamenti, i quali non hanno intaccato tuttora il tipo di rapporto tra la comunità e le sue divinità. Le permanenze cultuali del passato sono particolarmente evidenti nei culti popolari (processioni, feste, manifestazioni carnevalesche, ecc.), nei quali spesso i motivi cristiani si sono sovrapposti a motivi di religioni preesistenti a carattere popolare.
In molte delle manifestazioni di religiosità popolare è, difatti, spesso riconoscibile un sottofondo pagano che la Chiesa, quando non è riuscita a estirpare, ha saputo trasformare e adottare, dando ad esso un nuovo significato. Con un reciproco effetto: alcuni riti pagani si sono cristianizzati ma al contempo il cristianesimo si è anche paganizzato.
A prescindere da queste considerazioni bisogna entrare nel quadro culturale e cultuale del periodo di nascita del Carro. É probabile e non escludibile che nei primi anni del 1700 a Galatone ci fossero ancora in uso riti agrari propiziatori del tipo suesposto.

Ma di certo il primo Carro di Sant’Elena di cui si ha certa notizia si riscontra negli anni tra il 1718 ed il 1719 nel libro degli Esiti del Santuario del Santissimo Crocifisso  – terminato nel 1696 e poi consacrato nel 1711. E’ anche lecito pensare, ma non abbiamo nessuna prova, che il carro di Sant’Elena sia una delle tante cristianizzazioni di culti pagani. È però certo che di carri barocchi come il nostro in quel periodo se ne facevano tanti. Vedi quello per la Madonna della Bruna che ancora si fa a Matera.

Siamo nei primi anni del 1700, appena fuori dallo sforzo normalizzatore post tridentino, così difficile da far attecchire nell’estremo sud della penisola. Si edifica il nuovo santuario come un reliquiario di pietra del Crocefisso, quindi della Croce. Tutto il santuario, consacrato nel 1711, è concepito come una teologia di pietra per esaltare la Croce, dall’ Invenzione all’Esaltazione.

Lo stesso altare maggiore, che poggia sulle quattro Virtù Cardinali, effigiate secondo la canonizzata iconologia di Cesare Ripa, è un continuo rimando al mistero ed alla teologia della Croce. Al centro è custodita l’icona del SS. Crocifisso della Pietà affiancata dalle statue di san Francesco Saverio e san Francesco di Sales, difensori della fede e custodi della Croce. In alto una teoria di quattro angeli con gli attrezzi della passione e al centro la Madonna Addolorata, fra le pie donne e gli angeli del Giudizio, in alto la Veronica. A destra e sinistra del finto tendaggio che sormonta la Veronica, due pitture del Letizia che raffigurano rispettivamente una il ritrovamento da parte di Elena, madre di Costantino, della Croce sul luogo della crocifissione e l’altra la restituzione ad Eraclio I della Croce sottratta a Gerusalemme dai Persiani.
Negli stessi anni, precisamente nel 1716, ma commissionati l’anno precedente, arrivano da Napoli l’ostensorio d’argento con la figura a tutto tondo di San’Elena che regge la Croce e il reliquiario d’argento del frammento della S. Croce, con l’immagine a bassorilievo della Veronica.
In quegli anni (1716) nasceva lo stesso O. Amorosi, che a quanto risulta fu lo sviluppatore del carro, (e non l’inventore, ameno ché a due o tre anni non fosse già prodigiosamente attivo) che scrisse una grande Sacra Rappresentazione “L’Invenzione delle Croce”, musicata da Don Domenico Lillo. Lo Stesso Amorosi teneva delle adunanze nello stesso santuario del Crocifisso disquisendo di Verità cattoliche e sulla stessa devozione locale per il Crocifisso.
In questo clima non è difficile immaginare che sia nato coscientemente il Carro, per celebrare degnamente l’invenzione della Croce, se mai incanalando anche precedenti manifestazioni, ma sicuramente con una connotazione cattolica controriformista e legata alle mode dell’epoca.
La manifestazione non rappresentava certo il passaggio da Galatone di Sant’Elena con la Croce (Croce che dopo la scoperta era peraltro rimasta a Gerusalemme, e questa è storia!) da queste lande (in ogni caso, anche sbarcando a Otranto, avrebbe percorso la Traiana salentina Orientale – o via Calabra, valorizzata proprio in epoca costantiniana – fino alla via Appia, e non certamente la Traiana occidentale).
Né vale nemmeno la pena discutere su presunte origini messapiche, legate a culti di fecondità per niente presenti in questa zona del mediterraneo. Così non vale nemmeno la pena di sprecare del tempo per confutare presunti legami di toponomastica di vecchie vie rurali. La Storia è fatta di documenti certi, parallelismi inequivocabili. Le supposizioni, le intuizioni, le strane combinazioni, le coincidenza, gli indizi, insomma, senza prove non fanno parte della Storia, ma servono a creare storie, leggende, favole, letteratura. Tutte cose belle e valide, ma diverse dalla Storia. Almeno questo è il metodo scientifico di approccio alla materia valido, quello che insegnano nelle università di tutto il mondo. D’altronde le ipotesi sono un buon stimolo di ricerca, ma se poi non si arriva a dimostrarle rimangono ipotesi. Senza contare che spesso si dimentica che la storia del Salento ha una cesura di circa duecento anni tra la fine disastrosa delle guerre gotiche che portò allo spopolamento quasi totale del Salento romanizzato e i primi ripopolamenti bizantini. In questi casi spariscono intere città, si inselvatichiscono intere regioni, pensare che possano rimanere toponimi senza popoli che li tramandino è fantasia.
Perciò la rappresentazione era e dovrebbe essere nient’altro che la riproposizione della rappresentazione del Trionfo di Elena, di ritorno da Gerusalemme dopo aver ritrovato la vera Croce, che riportava i Tre Chiodi Sacri a Roma. (Per approfondire si consiglia una lettura della Legenda Aurea di Jacopo da Varagine.)
I Tre Sacri Chiodi (due per le mani e uno per i piedi inchiodati insieme), trovati ancora attaccati alla Sacra Croce, sarebbero stati portati da Elena negli anni tra il secondo e terzo decennio del IV° secolo al figlio Costantino.

Secondo la leggenda uno di essi venne montato sul suo elmo da battaglia, da un altro invece fu ricavato un morso per il suo cavallo. Il terzo chiodo, secondo la tradizione, è conservato nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme a Roma. Il “Sacro Morso” invece, si trova nel Duomo di Milano, dove due volte l’anno viene mostrato ai fedeli.

Del chiodo montato sull’elmo si sono perse le tracce; secondo una tradizione si trova oggi nella Corona Ferrea, conservata nel Duomo di Monza (che, secondo alcuni storici, è proprio il diadema dell’elmo di Costantino), ma anche altre città e santuari ne hanno rivendicato il possesso. Ma tutto si perde nella leggenda, tanto più che il ferro della Corona Ferrea si è dimostrato, in anni recenti, essere invece d’argento.

Il Trionfo era un’Istituzione prettamente romana. Costituiva il più alto onore riconosciuto a un comandante che, in possesso dell’”imperium maius”, avesse riportato un’importante vittoria su un nemico. L’aspetto originario del Trionfo era religioso: il suo scopo consisteva nel recarsi al tempio di Giove Capitolino per sciogliere i voti fatti all’inizio della spedizione. Con il tempo il prevalere dell’aspetto politico-militare rese il trionfo uno sfarzoso spettacolo propagandistico.
Il corteo si formava fuori del pomerio, dove i militari si accampavano nel Campo Marzio, entrava in città attraverso la Porta Triumphalis, passava per il Circo Massimo e, presa la Via Sacra, ascendeva per il Clivo Capitolino giungendo al tempio di Giove. E’ chiaro che nei secoli il percorso della Via Sacra ha subito diverse modifiche ed il punto di arrivo nel tempo è stato spostato più volte mseguendo le trasformazioni urbane ed edilizie. In testa al corteo erano i senatori e i magistrati, seguiti dagli animali sacrificali votati al dio, dall’apparato sacerdotale e dalle spoglie dei vinti: il bottino trainato su carri, i prigionieri di alto rango e infine la massa dei prigionieri più umili. Al centro del corteo era il gruppo del trionfatore: preceduto da littori e musici, il vincitore della campagna, abbigliato come Giove Capitolino e con il viso dipinto dal sacrale colore rosso, avanzava su un carro trionfale trainato da quattro cavalli bianchi, accompagnato da figli e parenti. Dietro il trionfatore, la coda del corteo era dedicata ai combattenti: preceduti dagli ufficiali superiori dei vari reparti (legati e tribuni) sfilavano gli ufficiali inferiori e le truppe, in ordine militare e con le loro decorazioni. A Giove Capitolino il trionfatore offriva il lauro e quindi compiva il sacrificio.

Quindi è questo il solo vero significato del Carro di Sant’Elena.
Dobbiamo ricordare che i Trionfi romani avevano avuto una grande fortuna artistica iconografica sia in epoca medievale che rinascimentale, quando gli artisti copiavano i bassorilievi dei ruderi romani o gli encausti che si andavano scoprendo. In letteratura sono notissimi I Trionfi scritti da Francesco Petrarca. Un poemetto allegorico in volgare italiano; opera iniziata nel 1351 e terminata nel 1374, che grande fortuna ebbe durante il rinascimento ed il manierismo, ritrovando interesse nel periodo barocco.
Il Trionfo Allegorico di Giovanni Granai Castriota che sormonta il portale cinquecentesco della chiesa di San Sebastiano a Galatone, che allegoricamente si ripropone come comandante vittorioso al ritorno delle guerre contro gli infedeli nei Balcani, è copiato da originali romani, copiati e ricopiati fin nel periodo Barocco e poi Neoclassico. Tant’è che Claude-Joseph Vernet, nel 1789, con il “ trionfo di Emilio Paolo” del 1789 ancora ripropone fedelmente lo stesso schema iconografico di quello galateo. (Spero che a nessuno venga in mente di dire che Vernet lo copiò da Galatone!!! Ma potrebbe anche essere che qualche storico-creativo lo possa anche dire. Ormai…).

Da notare proprio come il bassorilievo di San Sebastiano riporti in bassorilievo la Porta Trionfale da una parte e il Circo Massimo dall’altra.
I Galatei quindi, nel bassorilievo di foggia romana della facciata di San Sebastiano avevano fin dal 1500 un modello. Modello che è stato di supporto anche negli anni settanta del secolo scorso quando, con il professore De Mitri e Don Gino Leante, si è cercato di sfrondare il carro da improbabili incrostazioni pacchiane per ridare una certa plausibilità storica e spendibilità turistica all’evento.
Date queste premesse cultuali, teologiche, artistiche e storiche è assolutamente impensabile spostare la manifestazione dalla sua propria collocazione temporale a ridosso della festa del’Invenzione della Croce. Né appaiono fondate e giustificabili le istanze volte a portare la manifestazione nel giorno dedicato a Sant’Elena – 18 agosto – solo per cercare di trasformare una manifestazione che ha precise origini sacre in un semplice richiamo turistico di massa. Sarebbe un vero scippo prosaico ad una manifestazione religiosa connotante. Sempre che non si voglia artatamente trasformare anche questa tradizione cattolica e popolare in un trionfale e sfarzoso spettacolo propagandistico. Proprio come il trionfo ai tempi di Roma imperiale.
Così non è condivisibile che si tenti di laicizzare una manifestazione che invece nasce nel Santuario del Crocifisso, ispirata da questo, legata a questo e che ha sempre rappresentato un momento spettacolare di evangelizzazione sui valori della Croce per tutti i fedeli.
Pertanto mi auguro rimanga il rientro della Sant’Elena in chiesa al grido di –Ave Augusta, Ave Crux, Milites Vos Salutant!-. l’accoglimento del cappellano e la benedizione della Croce e della folla.
Anche se siamo tutti debitori agli organizzatori dell’ultima rappresentazione – la migliore, certamente, di sempre – plaudendo doverosamente per l’encomiabile entusiasmo, lo sforzo sovrumano, la incrollabile dedizione, il tanto sacrificio, sarebbe meglio esimerci dal commentare, poi, l’inopportuna messinscena con l’”assalto al Carro”.

Detto “assalto” sembrerebbe perpetrato da presunti “saraceni” col turbante, che sarebbero già musulmani nientepopodimenoche quasi duecentocinquanta anni prima della nascita di Maometto (se è vero come è vero che il ritrovamento della Croce risale agli anni intorno al 320 d.C. e che Maometto è nato alla Mecca tra il 570 e il 580 d. C. ); e che questi non ben identificati predoni in turbante non romanizzati avrebbero dovuto poi assaltare il Carro Trionfale nel suo rituale percorso sulla Via Sacra in pieno centro di Roma imperiale per depredarlo di una reliquia (che non c’era) di una religione ancora non pienamente diffusa.
Anche a leggere una sceneggiatura teatrale metaforica, allegorica, riproponendo un’angoscia per l’attuale attacco del Sultanato all’Occidente cattolico, rimane a mio personale parere, stante quanto sin qua detto e argomentato, un malriuscito tentativo di spettacolarizzazione lontano da verità storiche e dalla tradizione consolidata; uno straniante cortocircuito spazio temporale, poco plausibile. Personalmente mi auguro che più non si ripeta.
Le fonti bibliografiche che si sono consultate per redigere questo scritto sono a disposizione di tutti. Se si vuol fare e fare bene, alla storia, alla tradizione, al culto, alla verità si dovrebbe leggere e studiare – o di chiedere a chi ha già approfondito – prima di decidere e fare.
Non penso che sia proficuo volgere tutto in spettacolo, in fanta e meta storia per ottenere solo uno sfarzoso spettacolo propagandistico.
In questo caso dovrebbe essere l’identità comunitaria dei galatonesi, se vogliono e sanno, e se soprattutto c’è, opporsi ai primi segnali di stravolgimento di una tradizione consolidata antica di trecento anni per riportarla nei giusti canoni, farla progredire, rifinirla bene, organizzarla meglio e renderla sempre di più elemento corale connotante e qualificante della nostra comunità. Si dovrebbe riuscire a lavorare tutti d’accordo e concordemente su rispettose basi storiche per la buona riuscita e la conservazione di una così preziosa e rara tradizione connotante. La spendibilità turistica si può avere solo portandola a livelli qualitativi alti, in linea con la concorrenza di tanti altri cortei storici.
Ognuno faccia il suo, secondo le proprie competenze e vocazioni. Solo insieme si può riuscire a fare cose buone.

Porto Selvaggio, perla del Salento, gradito e consigliato da The Telegraph

nardo_porto_sevaggio

di Giuseppe Massari

I consigli di viaggio proposti dall’autorevole quotidiano inglese The Telegraph, che indica 21 destinazioni italiane, tra le quali il parco di Porto Selvaggio-Palude del Capitano di Nardò, che mantiene alta la bandiera della Puglia, insieme al Gargano, non sono da sottovalutare, considerato che, questo territorio, fortunatamente e coraggiosamente, è stato preservato da scempi urbanistici, dalle colate di cementificazioni che ne avrebbero deturpato la bellezza, lo splendore, l’originalità e la ricchezza paesaggistica, storica, culturale ed ambientale.

Oggi, possiamo dire che è una perla del Salento.

uluzzo2

Portoselvaggio, altrimenti definita “l’oasi più bella del Salento”, negli ultimi anni è stata già al centro di attenzioni, di considerazioni; in vetta alle classifiche più prestigiose. Sia a livello giornalistico che di tour operators, nazionali ed internazionali, tanto da diventare affollata meta estiva per le sue acque cristalline e fresche ma, anche come luogo d’attrazione culturale per la presenza di siti archeologici tra i quali la Grotta del Cavallo, “santuario della preistoria” e Serra Cicora.

La grotta del Cavallo ha restituito numerosi reperti legati all’Uomo di Neanderthal (resti macellati di animali, da cui il nome della grotta, manufatti di pietra, ecc.); nella grotta sono state rinvenute le testimonianze di una cultura, l’Uluzziano.

portoselvaggio (ph Marcello Gaballo)

L’importanza archeologica di Serra Cicora, invece, consiste nella presenza di una frequentazione del primo neolitico a ceramica impressa, seguita da uno stanziamento di neolitico recente – finale a ceramica Serra d’Alto e Diana. A quest’ultimo (V millennio a.C.) si deve l’impianto di una vera e propria necropoli che ha restituito finora circa venti individui, alcuni dei quali in strutture megalitiche che anticipano una tipologia ritenuta fino a ieri molto più recente.

Il Parco, possiamo dire che la fa da padrone. Esteso per oltre 1.000 ettari, riunifica in un’unica area il parco naturale attrezzato già istituito nel 1980 e l’area naturale protetta della Palude del Capitano, già classificata dalla L.R. 19/97. Con la Legge Regionale n. 21/1980, nella zona compresa fra la Torre dell’Alto e quella di Uluzzo, è stato istituito il Parco Naturale attrezzato di Porto Selvaggio, che ha evitato la cementificazione, prospettata dai numerosi progetti di lottizzazione già presentati e contro cui la popolazione locale si è coraggiosamente battuta.

Italy, Apulia, Salento, Porto Selvaggio natural reserve, the bay
Italy, Apulia, Salento, Porto Selvaggio natural reserve, the bay

 

La zona sottoposta a tutela copre una superficie di 424 ettari e ospita ambienti costieri tipici dell’area mediterranea. Dagli anni ‘50 si è aggiunta, poi, per effetto del rimboschimento operato dal Corpo Forestale dello Stato, una cospicua colonia di pini d’Aleppo, pianta pioniera che attecchisce perfettamente su questi terreni aridi e rocciosi. La pineta scende fino al mare e regala un’ombra profumata di resina a chi cerca un riparo alla calura estiva. La piccola insenatura di Porto Selvaggio è costituita da ciottoli e scogli bassi, che spesso tendono a formare piccole cavità che sembrano delle grotte. L’acqua cristallina permette di vedere, anche ad occhio nudo, gli splendidi fondali popolati da pesci e alghe multicolore.

Meraviglia, stupore e consenso, per la scelta dell’organo d’informazione inglese, sono stati espressi dal presidente del Gal Terre d’Arneo, Cosimo Durante. “Siamo tutti orgogliosi di questa nomina, come cittadini pugliesi oltre che salentini e di Terra d’arneo. Evidentemente si tratta di un risultato frutto dell’attuazione di principi di tutela che hanno permesso di preservare un luogo di così forte bellezza e, parallelamente, un lavoro congiunto che mette assieme attività di promozione a cura dell’ente parco competente, della civica amministrazione e della nostra agenzia di sviluppo locale, GAL Terra d’Arneo. Nella presentazione del comprensorio di Terra d’Arneo, difatti, il parco di Porto Selvaggio è uno dei nostri punti di forza per presentare il complesso sistema ambientale e culturale del comprensorio”.

Fig5_TorreUluzzo

torre-uluzzo-nardc3b2

Liborio Salomi, un illustre salentino quasi sconosciuto

liborio salomi

Riccardo Carrozzini, “LIBORIO SALOMI, un illustre salentino quasi sconosciuto”, Ed. Milella – Lecce Spazio Vivo, Lecce 2015

 

di Riccardo Carrozzini

Conoscevo la famiglia Caputo, da Carpignano, fin dagli anni ’80, per essere stato Luigi mio alunno, per alcuni mesi, durante una delle mie sup­plenze di Tecnologia delle Costruzioni presso l’Istituto tecnico per Geome­tri “G. Galilei” di Lecce, poi tirocinante presso il mio studio ed infine mio collaboratore (lo è ancora oggi). Conobbi perciò la sua famiglia: il padre Umberto, la sorella maggiore Margherita e la madre, Cettina Salomi, dalla quale appresi della sua parentela col naturalista Liborio, a me noto, all’e­poca, solo perché a Lecce gli era stata intitolata una traversa di viale Don Minzoni, alle spalle dell’Istituto Marcelline, e una scuola privata, sempre a Lecce. Appresi anche della parentela tra le nostre due famiglie, entrambe provenienti da Soleto, risalente all’epoca del mio bisnonno, Tommaso, che sposò Rosa Salomi, zia del naturalista (figlia di un fratello del nonno, anche questi di nome Liborio).

Tutto sarebbe finito lì, se… il 16 marzo 2006 non fossi stato in pericolo di vita per un brutto infarto che mi consentì, dopo un lungo periodo di con­valescenza, di poter lasciare Ostuni, dove insegnavo da 10 anni, e di poter scegliere, perché utilizzato in altri compiti per motivi di salute, un’altra scuola, anche nella nostra provincia. Ed allora, parlandone con un amico, dirigente scolastico, nel periodo degli esami di stato 2007, gli manifestai il mio desiderio di venire utilizzato nella mia scuola (da studente), il Liceo scientifico “Cosimo De Giorgi” di Lecce. Mi occorreva, però, la richiesta del suo Dirigente, che all’epoca era il prof. Salvatore Dota, che per puro caso, in quei giorni, era presidente, come il mio amico, di una commissione d’esame presso il Liceo “Capece” di Maglie. Perciò: appuntamento, pre­sentazione e, dopo le ferie estive, di nuovo in servizio, ma presso il “mio” Liceo De Giorgi.

Poco tempo dopo fui incaricato dal Preside, insieme al collega Pino Sambati, oggi in pensione, di sistemare, in 4 nuove vetrine fatte apposi­tamente realizzare, una collezione di minerali e, in piccola parte, di fossili che erano stati per lungo tempo depositati più o meno alla rinfusa nello scantinato della scuola e da poco riordinati, in gran parte almeno, con l’a­iuto di un esperto. Stampammo le etichette da incollare sulle basi in legno fatte appositamente predisporre e ci recammo a sistemarli nelle vetrine. Trovammo i minerali e i fossili nelle loro cassettine originali, di cartone, che conservammo, molte delle quali portavano l’etichetta del prof. Liborio Salomi. Eccolo di nuovo. Cercai perciò in rete notizie sul personaggio, per la redazione di una breve scheda informativa da esporre in una delle vetrine, e trovai che vi erano solo poche e frammentarie notizie (niente su Wikipedia!), che però, in qualche modo, furono sufficienti allo scopo, ma anche ad accrescere da un lato la mia curiosità e dall’altro le mie cono­scenze sulla levatura dello studioso il quale, appresi, succedette a Cosimo De Giorgi nella cattedra di Storia naturale presso l’Istituto tecnico “O. G. Costa” di Lecce.

In tempi immediatamente successivi, recandomi per ragioni del mio uf­ficio nella succursale di via Massaglia, vidi, in 4 grandi vetrine, di non recente fattura, una collezione di animali imbalsamati, scheletri e prepa­rati osteologici vari, molti dei quali portavano ancora le etichette origina­li, anche queste del prof. Liborio Salomi. Rieccolo. Chissà perché, però, non ricordavo (e non ricordo ancora) dov’era collocato tutto quel materiale dall’ottobre 1962 al luglio 1967, periodo della mia permanenza, da studen­te, al Liceo “De Giorgi”, nell’allora unica sede di viale Brindisi (oggi De Pietro). Il Preside mi chiese di cercare un bravo tassidermista che potesse occuparsi del restauro della collezione, che versava in non buone condizio­ni di conservazione. Il restauro, però, non poté essere eseguito, probabil­mente per mancanza di fondi, almeno fino al pensionamento del prof. Dota. La nuova Dirigente, prof. Giovanna Caretto, biologa e già insegnante di scienze naturali, per alcuni anni anche nel nostro Liceo, ha portato a compi­mento il recupero della collezione nell’estate del 2012, facendo restaurare anche le vetrine originali e dando al tutto degna collocazione nel grande atrio/disimpegno a piano terra della sede di via Pozzuolo.

Nel frattempo, a maggio dello stesso anno, contattava il Liceo “De Gior­gi” il dott. Nicola Maio[1] per avere notizie su un cranio di delfino, anche questo preparato dal Salomi, facente parte della collezione. Il dott. Maio, che stava preparando una pubblicazione sui Cetacei delle raccolte minori di Puglia, mi informò dell’esistenza di un volume, curato da Arcangelo Rossi e Livio Ruggiero[2], reperibile anche in rete, nel quale vi era anche una foto di quel cranio. Gli inviai le notizie richieste insieme ad alcune foto. La pubblicazione, che ha il titolo prima citato, ha visto la luce di recente[3].

Le numerose coincidenze (?) che portavano tutte a Liborio Salomi han­no progressivamente incrementato il mio desiderio di conoscenza del per­sonaggio, ed avendo la mia scuola in preparazione un nuovo numero dei “Quaderni”, da pubblicare nel 2013, novantesimo anno dalla sua fondazio­ne, volli approfondire le ricerche con l’intento di produrre un articolo da inserire in quella pubblicazione.

Ma ecco quello che non t’aspetti: chiacchierando del più e del meno, Luigi Caputo mi dice che era ancora vivente una figlia di Liborio Salomi, che aveva casa a Roma, ma che più volte all’anno veniva a Lecce. Ed ecco saltar fuori la prof. Teresa, oggi più che ottantenne, con qualche piccolo acciacco, ma decisamente molto vitale e decisa a conservare e tramandare la memoria e l’opera del padre, come ha fatto in tutte le occasioni in cui è stato richiesto un suo contributo, ad esempio nel volume per i 100 anni dell’Istituto “O. G. Costa”, del 1985, e in un convegno su Liborio Salomi tenutosi a Carpignano salentino (suo paese natale) nel 2004. E come ha fatto anche di recente con una ricerca – di tipo genealogico e non – sulla fa­miglia Salomi, durata alcuni anni e pubblicata nel 2013[4]. Con lei si è subito stabilito un ottimo feeling e, con la sua vitalità, ha fatto scattare quell’inter­ruttore che mi ha dato tutta l’energia e gli stimoli necessari per desiderare di mettere insieme tutto ciò che si può trovare su suo padre, ponendo inoltre a mia disposizione tutto il materiale in suo possesso ed i suoi ricordi diretti.

Presto mi sono reso conto che il materiale a disposizione era tanto, e non avrebbe potuto costituire una piccola sezione di un libro dedicato anche a molte altre tematiche, come i Quaderni 2013 che la mia scuola aveva in preparazione, ma doveva diventare un volume interamente a lui dedicato, nel quale trovasse posto tutto il materiale, edito e/o inedito, per illustrare la sua vita, la figura e la sua attività di naturalista, studioso, educatore. Un articolo per i “Quaderni 2013”, necessariamente breve, è stato dato alle stampe ed è stato perciò utile per ricordare la figura di Liborio Salomi e per anticipare il contenuto di questo libro.

Il mio ruolo è stato quello di svolgere alcune ricerche necessarie (che hanno dato in più di un caso esito positivo) e sistemare in un certo ordi­ne tutto il materiale disponibile. Ho cercato di limitare al massimo la mia “presenza”, sia perché ho preferito, dovunque possibile, lasciar parlare i documenti, sia perché le mie conoscenze/competenze non mi avrebbero permesso di approfondire molte cose. Ho consultato tutte le (poche) pub­blicazioni che sono riuscito a reperire e che contengono articoli sul Salomi; ho effettuato indagini presso diversi archivi e biblioteche: l’Archivio di Stato (III Deposito della Provincia, comprendente anche materiale dell’I­stituto “Costa”), gli archivi del Liceo “De Giorgi”, della fondazione “Cape­ce” di Maglie e dell’Istituto “Costa”, la biblioteca provinciale, la biblioteca “Caracciolo” dei frati minori di Lecce. Ho contattato anche l’Università di Pisa, in possesso di un importante scheletro di un cetaceo preparato dal Salomi a soli 19 anni, e ne ho ricostruito tutta la vicenda, inclusa la relazio­ne di accompagnamento scritta da Salomi, che mostra il livello dell’uomo e dello scienziato già a soli 20 anni; ho preso contatti con molte scuole e diversi Istituti universitari ai quali aveva venduto le sue collezioni.

Per gli aspetti che non ero in grado di affrontare (la tesi di laurea, gli appunti di anatomia comparata ed embriologia) ho chiesto ed ottenuto col­laborazione da parte di Stefano Margiotta[5], geologo, di Piero Medagli[6], bo­tanico, e di Elena Valsecchi[7], biologa nonché pronipote di Liborio Salomi. Il mio lavoro è stato perciò quello di approfondire quanto è stato già scritto su Liborio Salomi, attingendo a piene mani da ciò che è stato scritto da Teresa, mettendolo insieme con un ordine prestabilito ed arricchendolo, dove è stato possibile, con ricerche originali, notizie, documenti inediti e contributi di validi specialisti.

Ho pensato anche a lungo al carattere da dare a questo scritto, forse il primo, di una certa consistenza, sulla vita e l’opera di Liborio Salomi. Alla fine, dopo tante chiacchierate con Teresa, si è deciso che dovesse essere solo un mezzo per far conoscere questo figlio del Salento, fino ad oggi decisamente poco noto ai più. Una ricerca sul web, fatta ancora oggi, dà risultati deludenti, fatta eccezione per il sito “Il Salento e la scienza”, creato nell’ambito del progetto finalizzato CNR intitolato “Beni culturali”, in cui al link http://scienzasalento.unile.it/biografie/liborio_salomi.htm si posso­no leggere notizie biografiche di Liborio Salomi. Perciò il contenuto di questo libro è organizzato per rivolgersi ad un pubblico più vasto possibile, con inserimento di numerose note esplicative, rivolte soprattutto ai giovani e agli studenti (ma non solo).

Ed ecco, finalmente, quanto ho potuto mettere insieme. Molto materiale mi è stato dato da Teresa, la cui sola esistenza mi è sembrata un miracolo (quando nacque Teresa il padre aveva 51 anni), quel miracolo che ha co­stituito il volano per questo mio lavoro. Teresa mi ha fornito anche notizie su cose da trovare e persone da contattare. Il resto lo ha fatto la mia pazien­za, la mia curiosità, il mio entusiasmo e la mia disponibilità di tempo. In futuro mi auguro che possa esservi chi avrà ancora più pazienza di me e chi, perciò, possa continuare ed approfondire, ad esempio, le ricerche delle collezioni prodotte da Salomi ancora esistenti in tante Scuole e Università italiane, dalle quali non ho avuto un riscontro proporzionale al mio impe­gno di ricerca.

Anche un’approfondita ricerca diretta presso l’Università di Napoli po­trebbe dare buoni risultati, rintracciando, ad esempio, il fascicolo personale dello studente Liborio Salomi e la sua tesi (originale) presentata e discussa. Poche speranze, in merito, mi ha però dato il dott. Nicola Maio, dell’Uni­versità di Napoli, più sopra citato, che mi ha fornito alcune notizie utili e mi ha informato sul pessimo stato di conservazione del materiale e sulle enormi lacune dell’archivio storico di quella Università. Poche speranze mi ha dato anche il prof. Francesco Zaccaria, fisico della stessa Università, in pensione da diversi anni, da me conosciuto in occasione delle ricerche sulla Cassa scolastica del Liceo “De Giorgi”, che ha attivato le sue conoscenze, non avendo, purtroppo, alcun riscontro.

Decisamente diversa la situazione dell’archivio dell’Università di Fi­renze, dove sono state trovate le (poche) tracce lasciate dal Salomi nel suo breve soggiorno toscano. Mi ha dato una mano per queste ricerche Alberto Bernardini, leccese, architetto e mio compagno di studi universitari, che vive presso quella città.

Il contenuto della tesi di laurea (sempre che la copia pubblicata in questo libro, in possesso di Teresa, sia conforme a quella presentata e discussa), da me trascritta, viene analizzato nello scritto di Stefano Margiotta. Insieme alla bibliografia, in originale, ne viene pubblicata una parte con trascrizione a fronte, quella cioè sui giacimenti della pietra leccese, e la conclusione, ma non quella sui fossili, certamente più da specialisti e che esula dagli scopi di questo scritto. Gli appunti di biologia ed embriologia sono stati invece esaminati da Piero Medagli e da Elena Valsecchi, dei quali riporto le valutazioni, unitamente ad alcuni dei numerosi disegni di Salomi contenuti negli stessi.

I pochi, ma significativi, documenti sulla sua carriera scolastica utili ai fini di questa pubblicazione sono contenuti nel fascicolo personale in pos­sesso dell’Istituto “O. G. Costa”, da me visionato in compagnia di Teresa. Ringrazio la Preside prof. Adas Mazzotta per la sua disponibilità.

Quanto resta degli appunti del Salomi tassidermista, qui pubblicati in fedele trascrizione, può servire anche da utile supporto agli attuali prepa­ratori di animali e/o restauratori delle numerose vecchie collezioni didat­tico-scientifiche nel campo naturalistico ancora esistenti, anche se oggi alcune delle sostanze più pericolose, all’epoca largamente utilizzate, sono state certamente abbandonate. Alcuni disegni superstiti dei suoi preparati osteologici, qui riprodotti, ci mostrano la profondità dei suoi studi e l’accu­ratezza delle preparazioni.

La riproduzione di numerosissime foto (d’epoca e non) e dei documenti più significativi contribuiscono validamente, a mio giudizio, ad inquadrare e valutare la personalità dell’uomo e il valore dello scienziato.

Spero soltanto che queste pagine abbiano diffusione anche tra i non ad­detti ai lavori, in modo che Liborio Salomi possa conquistarsi il posto che gli spetta nella storia del Salento del XX secolo.

Ovviamente Teresa Salomi è stata la mia più importante collaboratrice (io direi quasi coautrice) per questi scritti. Oltre che a lei e a Livio Ruggie­ro (per i consigli, sempre utili, la supervisione di tutto il lavoro e le foto di alcuni preparati), i miei ringraziamenti vanno a tutte le persone, Enti e istituzioni che hanno collaborato, in qualsiasi modo e a qualsiasi titolo, alla riuscita di questa iniziativa. Alcuni sono stati citati in questa prefazione, altri lo saranno nel corpo del testo, come tutti coloro che hanno contribu­ito a darmi notizie sulla produzione tassidermica. Mi scuso davvero se ho dimenticato qualcuno. L’ultimo e il più sentito grazie va alla persona, che ha voluto mantenere l’anonimato, che ha voluto finanziare la stampa del volume, senza il cui contributo il mio lavoro sarebbe stato destinato, pro­babilmente, ad essere pubblicato solo su qualche sito web.

Il volume si articola come segue:

– note biografiche;

– intervista a Teresa Salomi, di Franco Martina;

– approfondimento di singoli aspetti e/o episodi della vita di Liborio Salomi:

  • il percorso scolastico e universitario (Maglie – il Liceo; Firenze e Napoli – l’Università; il capodoglio; Gli appunti di embriologia e di anatomia comparata, di Elena Valsecchi e Piero Medagli; La tesi di laurea: Età ed ambiente di sedimentazione della pietra leccese: gli studi del Salomi e le recenti ricerche, di Stefano Margiotta; la tesi di laurea, prima parte e conclusioni, con trascrizione a fronte);
  • il tassidermista e il preparatore (di scheletri e reperti osteologici, esemplari di minerali, di fossili, di conchiglie; all’interno: breve storia del­la tassidermia, la tassidermia oggi, la tassidermia secondo Salomi, appunti di tassidermia, Liborio Salomi ed Umberto Eco, curiosità);
  • la produzione tassidermica (le collezioni didattico-scientifiche, con documentazione fotografica; foto d’epoca dei preparati tassidermici; i disegni dei sistemi di assemblaggio dei preparati osteologici);
  • la maturità (la carriera scolastica all’Istituto “Costa”; il discorso in occasione della festa degli alberi del 1928; la cava di bauxite; il Gruppo Speleologico Salentino);
  • la morte, i funerali, la tomba di famiglia;
  • personaggi che conobbe o con cui fu in contatto (Pasquale De Lorentiis, Salvatore Panareo, Augusto Stefanelli, Geremia D’Erasmo, Giulio Cotronei, Francesco Bassani, Paolo Emilio Stasi, Gian Alberto Blanc, Ulderigo Botti) ;
  • foto di Liborio Salomi a diverse età, ritratti e schizzi.

Non finirò mai di ringraziare Teresa sia per questa sia per un’altra op­portunità, altrettanto importante, che mi ha offerto, ossia il dono, che ha voluto fare proprio a me, di un diario manoscritto di Cosimo De Giorgi del 1866 (va dall’1 gennaio al 22 agosto), conservato gelosamente per oltre 30 anni da suo padre Liborio e per oltre 60 da lei. De Giorgi aveva, allora, 24 anni, e si trovava a Firenze, capitale d’Italia, per specializzarsi in Chirurgia. Ho appena finito di trascriverlo in vista del suo studio sistematico e della sua pubblicazione. È una vera e propria miniera[8], con un pezzo di storia d’Italia; vi si riconosce integralmente il De Giorgi maturo e si comprende da dove vengano tante conoscenze e tanti interessi dell’illustre salentino.

Ma questa è un’altra storia.

(dalla prefazione del libro)

 

[1] Del Dipartimento di Biologia, Complesso Universitario di Monte S. Angelo, Università degli Studi di Napoli Federico II. Edificio 7, via Cinthia, 21 – 80126 Napoli. I suoi contri­buti sono stati di recente pubblicati nel volume numero 12, settembre 2014, della “Rivista Museologia scientifica – Memorie”, dal titolo Le collezioni di cetacei dei musei italiani, parte prima, cetacei attuali, di L. Cagnolaro, N. Maio e V. Vomero, a cura dell’Associa­zione Nazionale Musei Scientifici

[2] A. Rossi, L. Ruggiero (a cura di), Collezioni Didattiche Scientifico-Tecnologiche in Pro­vincia di Lecce. Un patrimonio da conoscere e valorizzare. Edizioni del Grifo, Lecce 2003, pp. 136.

[3] Fa parte del volume “Le collezioni di cetacei dei musei italiani. Parte prima (cetacei attua­li)”, a cura di L. Cagnolaro, N. Maio, V. Vomero, cit.

[4] T. Salomi, I Salomi, antica famiglia della Grecìa salentina, Lecce 2013.

 

[5] Docente Geologia stratigrafica e sedimentologica – Università del Salento.

[6] Botanico, in servizio presso il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche ed Am­bientali dell’Università del Salento.

[7] Docente a contratto presso l’Università di Milano Bicocca, Dipartimento di Bioscienze e Biotecnologie.

[8] Nei 234 giorni del diario, scritto a caratteri minutissimi su una piccola agenda (due giorni per pagina, normalmente da 11 a 15 righi per gli avvenimenti di ciascuna giornata), sono citati oltre 650 nomi ed oltre 400 tra località e luoghi geografici. Nello stesso periodo De Giorgi assistette ad oltre 50 tra opere teatrali, opere liriche e balletti.

 

Ho scritto un libro, ma non trovo il prefatore …

di Armando Polito

Ci ho messo settantuno anni (ho cominciato a scrivere un’ora dopo la nascita) ma finalmente ho portato a termine la stesura del mio primo libro. La presunzione mi portava a pensare che il più fosse stato fatto, ma, come l’uomo che non usava Danacol, mi sbagliavo. Ho sottoposto il parto del mio ingegno a diversi editori ma nessuno si è mostrato disposto a scommettere su di me. Da ingenuo che ero e che sono rimasto non ritenevo ancora indispensabile che a tal uopo (accidenti, eppure so usare vocaboli difficili …) fosse indispensabile ormai essere un pluriomicida o godere già di una certa notorietà televisiva che aiuta tanto nel lancio della propria creatura. Per chi si illude di uscire dall’anonimato con la pubblicazione di un libro, in parecchi casi, compreso il mio, c’è sempre, comunque, la possibilità di coronare il suo sogno, solo che quello autentico, come dice il proverbio, non costa nulla; questo, invece, obbliga ad anticipare il costo della stampa di un certo numero di copie e, in qualche caso, a cedere contestualmente i diritti all’editore. A me è stata fatta solo la prima proposta, segno evidente della grande considerazione per la mia fatica in vista di un eventuale sfruttamento futuro …

In compenso, però, mi è stato detto che sarebbe stato meglio che nelle pagine iniziali comparisse una prefazione che non fosse la mia. Su questo sono d’accordo, perché è meglio che le solite fesserie incensatorie siano dette da un estraneo che, bene che vada, del libro ha letto solo il titolo, piuttosto che da colui che l’ha scritto per intero …

Fino ad ora non ho trovato nessuno disposto a scrivere questa benedetta prefazione e, probabilmente, o sono un imbecille o uno sfigato, perché non esiste prefatore che non gongoli all’idea di leggere una volta in più il suo nome da qualche parte. Probabilmente non ho saputo scegliere persone adeguatamente poco intelligenti e molto vanitose …

Ma chi penso di essere? Forse penso di essere un duca? Quale duca, fra tanti, reali o sedicenti che siano? Le cose bisogna farle bene, perciò il duca al quale sto pensando è Belisario Acquaviva, primo duca di Nardò dal 1516 al 1528. Non so se fosse un bene o un male né sto a disquisire sulla disparità di condizioni ambientali che a distanza di secoli permangono (con un nepotismo oggi diventato di bassissima lega), ma, secondo me, la cultura non fa mai male e a quei tempi, per lo più, chi esercitava il potere era anche un uomo di grande cultura. E così, oltre che duca, Belisario fu anche letterato. Qualcuno si starà già chiedendo se non sia in atto in me un deragliamento mentale che mi ha portato dalla prefazione al duca. Un po’ di pazienza e alla fine si scoprirà che l’una è un pretesto per parlare dell’altro, e viceversa nel prosieguo.

Il nostro Belisario è ricordato per un volume di pedagogia, per così dire, aristocratica, uscito per i tipi di Bibliotheca Ioan. Pasquet de Sallo il 5 giugno 1519, come si legge nel colophon, che di seguito riproduco.

Il volume si apre con una lettera che funge da prefazione e il mittente non è uno qualunque, ma Antonio Summonte (1538 circa- 1602), autore di Dell’historia della città e regno di Napoli, Carlino, Napoli, 1601. Di seguito il testo in formato immagine e la mia traduzione.

Il Summonte saluta Belisario Acquaviva duca di Nardò. Certamente è vecchia discussione, e volesse il cielo che non fosse troppo giusta, o generoso Duca, che gli studi letterari ed artistici, al di là di quelli praticati dagli antenati, siano stati abbandonati da re e principi a tal punto che quelle arti in passato chiamate liberali ora sono scivolate ormai da quella senatoria sublimità tra il popolo e la plebe e lì sembrano essere tenute in poco conto come se fossero nella melma e nella merda. E, cosa di gran lunga peggiore, soprattutto dove la loro pratica era opportuna e necessaria, lì esse sono state lasciate senza protezione e cacciate lontano. Infatti quasi tutti ignorano quali guide del popolo Platone voleva. Per farla breve, egli, come tu sai, ritiene felici i popoli ai quali tocchi un sistema di governo originato soprattutto dalla filosofia. Quando questo avviene, è difficile a dirsi quanto completamente debba a te e quanto ad Andrea Matteo duca di Atri tuo fratello il nostro tempo in cui vediamo voi come  illustrissimi esempi, tanto nel campo militare che in quello delle lettere, che possono stimolare i nobili e gli ottimati e spingerli a così onorevole imitazione. E, per tacere di tuo fratello, che è nato prima di te, e più assiduamente ha coltivato con assiduità più le lettere nelle quali, per non parlare della gloria militare che già da tempo è ritenuta peculiare della famiglia Acquaviva, quanto abbia giovato lo sanno non solo i nostri uomini ma anche i paesi stranieri. Tu stesso certamente, dopo che attraverso vari assalti del destino e la sua lunga offesa è stato possibile, ti sei così dato di recente agli studi letterari ai quali un tempo fanciullo ti eri accostato senza dare troppa importanza, e ti sei dedicato ad essi con  tanta voglia di conoscere e tanto ingegno che a stento si può credere che in così poco tempo tu abbia potuto apprendere e scrivere tanto. E questo in nessuna parte ha il sapore dell’apprendista ma del veterano al quale, come dice quello,[i] è stato già donato il bastone. Molto acutamente si accosta alla dottrina la tua indagine che io loderei in primo luogo soprattutto per il fatto che hai scelto nello scrivere quella materia che fosse degna di te e che si addicesse ai nobili ed ai nati in famiglia elevatissima. Grazie a te essi hanno già di che leggere con attenzione. Infatti scrivendo anzitutto dell’educazione dei loro figli nulla hai tralasciato di ciò che riguarda la loro dignità, mentre discuti assolutamente in modo così dotto ed esauriente di arte militare, di una gara singolare, di materia economica, di caccia e uccellagione, che (questo voleva Platone) che è possibile vedere nei tuoi scritti o il filosofo che guida il popolo o il principe che parla o agisce da filosofo. Tuttavia se grazie a te ho letto volentieri di questi argomenti poiché mi sembra che tanto in materia civile che militare te ne derivi meritata gloria, l’ho fatto più volentieri per il fatto che posso a buon diritto dire grazie ai nostri tempi che comincerebbero a tornare all’antico costume e vedo pure la nostra professione essere riscattata da un luogo umile e sporco all’antica dignità ed all’abituale decoro. Sta bene. 

Le pagine II-XIIIv. contengono il De instituendis liberis principum (L’educazione dei figli dei principi); segue (la numerazione riprende da capo) alle pagine I-XVIIIv  la Prefatio paraphrasis in economica Aristotelis (Prefazione-parafrasi all’Economia di Aristotele) e, dopo una  non numerata con gli errori di stampa, in chiusura, una vera e propria postfazione, una lettera di Pietro Gravina, altro pezzo da novanta della cultura di quei tempi.

Pietro Gravina augura felicità all’illustre Belisario Acquaviva duca di Nardò eccellente e in patria e fuori.

Hai dato alla luce gemelli economici di felicissima fattura, oriundi della famiglia peripatetica e li hai donati agli occhi e alle orecchie romane. Certamente essi già sebbene adolescenti hanno un aspetto così bello che, se non fossero distinti per ordine di nascita e di stesura, non senza difficoltà si riconoscerebbe la loro prima origine. Per entrambi la stessa statura, la stessa forma, pari soavità di linguaggio, pari passo, il medesimo aspetto, il medesimo tono di voce, pari, infine, la cura e la  raffinatezza. Quando per la prima volta li ho visti ed osservati li ho baciati teneramente come quelli che capivo essere allievi di una stirpe generosa e che mostravano in fronte e in petto non solo molto della nativa bellezza ma anche molto delle gemme e li guardavo senza mai chiudere gli occhi per la gioia e l’ammirazione a tal punto che non potevo saziarmi mai del piacere della loro presenza. Si aggiungeva a questo l’eleganza dei costumi, e una maturità per così dire senile che mi manteneva, purché mi parlassero, sempre avido e in attesa di qualcosa di nuovo. Li ho visti  educati da quei precetti e strutturati da quegli esempi che brevemente e lucidamente esprimono i sentimenti dell’animo e che senza indugio portano a compimento ciò che hanno proposto. Quanta dolcezza di eloquio, quanto equilibrio d’espressione, che bene ed onorevolmente sentono dei genitori, che generosamente ma non meno prudentemente s’incontrano con i servi così che non solo non sembrino da correggere, come tu nelle tue elegantissime lettere mi chiedesti se fosse da farsi, ma sapere  affinché possano provvedere agli anziani. Tu veramente, illustre duca, quando segui ed emuli tuo fratello non solo nelle lodi dell’arte militare ma anche nella gloria delle lettere, non cessare, poiché la natura ti ha generato così fecondo, di accrescere il vivaio dell’una e dell’altra. E come per volere del destino ti abituasti a seguire valrosamente lo stesso Marte così non ti rincresca di abbracciare e venerare con tutto il cuore  pure Minerva, che pure lei dotata di elmo vibra l’asta e scuote l’egida. Sta bene, onore dei nobili! 

Il nostro Belisario, però ebbe la fortuna di avere post mortem un altro prefatore, sia pure indiretto, che ne fece, addirittura, il contraltare di colui che è considerato come il fondatore della scienza politica moderna, il Machiavelli.

Mi accingo a prendere in considerazione, infatti, un’edizione del 1576 (la data si deduce dalla lettera dedicatoria, che esamineremo tra poco, con cui si apre il volume) uscita a Basilea per i tipi di Perna  e contenente, oltre al  De principum liberis educandis (con una piccola differenza nel titolo rispetto al già visto De instituendis liberis principum), il De aucupio (L’uccellagione), il De venatione (La caccia) e il De singulari certamine (La lotta singolare).

Comincio dal frontespizio.

Il volume si apre, come avevo appena accenato, con una dedica a firma del Leonclavio, latinizzazione di Hans Lewenklaw (1541-1594), storico, orientalista ed umanista tedesco. La riporto nel consueto formato con l’aggiunta, di mio, della traduzione e di qualche nota.

 

 

 

Subito dopo la lettera del Leonclavio c’è un componimento in esametri (forse dello stesso Leonclavio) per il lettore.

– A chi tanto, a chi niente! – mi verrebbe da dire riconducendo, era ora!, me e voi dal duca alla prefazione mancata, se non fosse per due piccoli dettagli: io non sono un duca e con i tempi che corrono è sì facile trovare dei leccaculo, quali a tratti a qualcuno possono sembrare il Summonte, il Gravina e il Leonclavio (va detto, però, che l’opera in questione non detiene certamente il record specifico: fino al XIX secolo s’incontrano talora volumi con i quali, prima di arrivare al testo vero e proprio, il lettore deve sorbirsi un notevole numero di pagine contenenti prefazioni, dediche, attestati di stima e simili) ma è difficile che nello stesso tempo abbiano la loro cultura. Come ho già detto, per me niente prefazione e niente pubblicazione, ma sicuramente è meglio così  che fare la fine di quel politico del tempo che fu appena eletto che fu gelato dalla madre, lei sì intelligente (ma a quei tempi, tutte le madri, e non solo, erano intelligenti …), che così accolse la lieta notizia: – Figlio mio, che disgrazia! Prima a sapere quanto sei fesso erano solo i parenti e gli amici più stretti, ora lo sapranno in tanti -.

Spero solo che questo post non sia, però, sulla mia pelle il tatuaggio di questa barzelletta …

L’età normanna in Puglia. Il cammino dei pellegrini nelle terre del sole

società

Società di Storia Patria per la Puglia

Sezione di Brindisi

Brigata Amatori Storia e Arte

Aprile, 28 – Inizio ore 17.30. Accoglienza ore 17.15.

IV Incontro di studi

Brindisi. Hotel Palazzo Virgilio

 

“Quando si va verso un obiettivo, è molto importante prestare attenzione al cammino. E’ il cammino che ci insegna sempre la maniera migliore di arrivare, ci arricchisce mentre lo percorriamo, bisogna saper trarre da quello che siamo abituati a guardare tutti i giorni i segreti, che a causa della routine, non riusciamo a vedere”.

Paulo Coelho, Il cammino di Santiago

 Banner età normanna 1

La lunga via dei pellegrini aveva uno snodo di eccezionale importanza nello scalo portuale di Brindisi, il principale per quanti si dirigessero verso oriente. “Caput terrarum maritimarum Apuliae” è definita la città da Federico II e  nel mappamondo di Hyggeden del 1360 si afferma: “Apulia, cujus metropolis est Brundision, per istam navigatur in terram sanctam”.  Il viaggio, nella sua dimensione spirituale evoca, come ha scritto Monica D’Atti ,   “Passi nella polvere, impronte di un cammino, traccia di un pensiero, di un sogno, di una meta da raggiungere. La nostra vita, il nostro pellegrinaggio su questa terra, lo splendido gioco del cercare l’orizzonte lontano che nasconde la luce dell’alba e del tramonto, del Dio che è venuto e che verrà.  Cosa cerchiamo al momento della nostra partenza, quale forza muove i nostri passi, quali spalle sostengono il nostro zaino? Infinite strade ci portano sulla strada, infinite immagini e il desiderio di trovare, finalmente. Il desiderio di trovare, la curiosità della strada, la tensione verso qualcosa che si può trovare lungo il cammino è insita in ogni viaggio”. Come nell’esperienza del labirinto, che nella simbologia cristiana rappresenta l’iter sacro, il pellegrino si trova in una dimensione difficile, faticosa, pericolosa ma circoscritta e con un centro a quale tendere. Il suo andare, comunque costellato di errori e passi falsi, lo porta a cercare e conquistare quel centro che lui sa esistere; quello stesso centro che nelle spire del labirinto sembra a volte essere vicino e prossimo al raggiungimento e poi scompare dietro un’altra piega. Ma il pellegrino sa che alla fine arriverà. L’esperienza non sta in quello su cui ha camminato, ma in quello che ha imparato. La sua strada, se ha come meta Gerusalemme, lo condurrà a Brindisi ove nella chiesa del Santo Sepolcro ha già una viva immagine dei luoghi santi;aandare in Terra Santa significa cercare l’incontro col Cristo lì dove le pietre parlano della sua storia. Un iter peregrinorum ha bisogno di una struttura ospitaliera di sostegno. Il pellegrino aveva bisogno di appoggiarsi a un sistema assistenziale; nasce, lungo quelle che andiamo delineando come vie di pellegrinaggio, una rete articolata di strutture che accoglievano, curavano e orientavano il viandante. Questi luoghi di assistenza si trovano lungo le principali strade medievali e costituiscono il fattore più sicuro per determinare l’uso peregrinatorio di una strada. Si infittiscono, non casualmente, nell’area di Brindisi ove erano tutti i grandi ordini monastico-cavallereschi. Basterà qui ricordare quelli di San Giovanni, del Tempio, di San Lazzaro, dei Teutonici, del Santo Sepolcro ciascuno con le proprie case, chiese, ospedali, naviglio.

 

Indirizzi di saluto

Marco Benvenuto

Presidente Rotary Club Brindisi Appia Antica

Giacomo Carito

Vicepresidente della Società di Storia Patria per la Puglia

 

Prolusione

Cristian Guzzo

Società di Storia Patria per la Puglia

Reminiscenze vichinghe nell’Italia meridionale agli albori del secolo XI

 

Interventi

Lorenza Vantaggiato

Società di Storia Patria per la Puglia

Pellegrinaggi giudiziari dalla Fiandra alla Puglia. 

 

Marco Leo Imperiale, Patricia Caprino

Università del Salento

Ceramiche d’importazione in Brindisi e nella Puglia meridionale normanno-sveva

 

Luigi Oliva

Dottore di ricerca – Università del Salento

L’ospitalità a Taranto in età normanna. Il caso di Santa Maria della Giustizia

 

 

Conclusioni

Dario Stomati

Rotary Club Brindisi Appia Antica

 

Coordina e introduce i lavori

Giuseppe Maddalena Capiferro

Società di Storia Patria per la Puglia

 

Organizzazione

Società di Storia Patria per la Puglia – Sezione di Brindisi

Rotary Club Brindisi Appia Antica

 

Patrocinio

Amministrazione Provinciale di Brindisi

Ai tempi delle lumachine di terra

lumachine

di Mimmo Ciccarese

 

Nel passato, durante le giornate di primavera, gli abitanti di una ridente località di Terra D’Otranto, si alzavano di buonora, per raggiungere in bicicletta i territori dell’Arneo, in località Monteruga, per raccogliere l’origano e le cuzzeddhe (euparypha pisana).

Al loro rientro, con il cesto colmo di cuzzeddhe, il passaggio obbligato dalla piazza del paese confinante, gli sfiniti raccoglitori che non avevano il tono da collezionisti, erano costretti ad accelerare il passo della ruota, solo per non sentire le parole degli schernitori seduti accanto alle osterie.

Si ribatteva in tono giocoso e non offensivo, alludendo alle estremità retrattili delle malcapitate chiocciole, che nel frattempo cercavano un’improbabile via di fuga dal cestello prima di finire bollite in padella.

Sembrava lo aspettassero al crocicchio: “Curnuti alle cozze! curnuti alle cozze!”, cui seguiva la secca replica del raccoglitore: “Tie ‘uardate la razza, se nu bbuei cacci le corne come ‘sta cozza!”.

Altri tempi perduti, altri costumi ormai in disuso, da quando la raccolta spontanea dei prodotti della terra si è inflazionata a causa anche dell’inquinamento. Gli habitat dove la raccolta spontanea si può fare sono davvero rari. Non c’è più la certezza che prodotti come funghi, cicorie selvatiche o appunto le lumachine, siano esenti dall’assorbire i metalli pesanti dello smog o da substrati tossici.

Toni burleschi a parte, le lumache sono state simbolo di movimenti lenti e antichi, ricchi di significati e profonde e serie metafore.

Anche le lumachine come le api dovrebbero essere protette dall’abuso dei pesticidi. Sono sgradite dall’agricoltura convenzionale perché ghiotte di lattughe e cavoli. Chi vuoi che se ne accorga del loro sterminio? Bisogna far sapere che esistono possibilità naturali per allontanarle senza ucciderle e senza ricorrere ad altri metodi.

Intanto godiamoci l’incredibile equilibrio di queste tre lumachine su un esile capolino di margherita, ricordando che la loro presenza/assenza è indice dello stato ambientale, di quei delicati equilibri in cui vive anche l’uomo.

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!