Per il recupero del castello dei Guarini di Poggiardo

Castello_Guarini_[Poggiardo]

L’Associazione Culturale Orizzonte per il recupero del Castello dei Guarini di Poggiardo (Le)

 di Paolo Rausa

Il Castello di Poggiardo, caso forse unico nel panorama nazionale, è rimasto nelle mani dei privati che lo hanno posseduto, i duchi Guarini, normanni di stirpe, che da molti anni si sono trasferiti nel loro palazzo di Scorrano (Le).

L’Associazione Culturale Orizzonte rilancia la sfida di far sedere attorno ad un tavolo i diretti interessati (Proprietà, Comune e Regione) per fissare le modalità del suo recupero e del suo utilizzo attraverso un progetto condiviso.

Imponente maniero del tardo o basso medioevo, eretto nel passaggio verso la nuova epoca dell’umanesimo e del rinascimento, il castello si impone sullo spiazzo antistante, che doveva essere la piazza d’armi, a fianco della chiesa madre e sopra la chiesa basiliana di S. Maria degli Angeli dell’XI secolo.

Una struttura massiccia che si alleggerisce a est, verso il mare, con una torre rotonda. Diversi gli ingressi, accanto alla chiesa madre, laddove sorgeva il palazzo vescovile, poi sulla via di mezzo che corre in direzione est-ovest, fra i due mari, in seguito arricchita da uno spazioso loggiato, su cui la famiglia ducale dei Guarini organizzava le feste di rappresentanza e ascoltava poemi e il dolce suono della mandola. Un agrumeto alla base della torre cilindrica e lungo il fossato rende ancora più orientalizzante questa struttura poderosa, descritta nel 1800 da Cosimo de Giorgi nei Bozzetti di viaggio nei minimi dettagli, con riferimento ai preziosi arredi e alla pinacoteca.

Dai Messapi ai Normanni, la regina Maria d’Enghien nel 1446 lo dà in ricompensa con titolo baronale ad Agostino Guarini. Molte dominazioni si sono susseguite in queste terre: Normanni, Svevi (1195-1266), Angioini (1266-1435), Aragonesi (1442-1502), Spagnoli (1506-1734) e infine Borboni (1734-1861). I Guarini intrapresero vari lavori di fortificazione. Durante il regno di Giovanna II d’Angiò, regina di Napoli, dopo la distruzione di Castro, il vescovo Luca Antonio Resta trasferì a Poggiardo la residenza vescovile.

L’ultimo abitante del castello fu il duca Francesco Antonio, che vi alloggiò sino al 1879, data della sua morte. Il palazzo vescovile, edificio cinquecentesco, fu venduto ai Guarini e nei secoli successivi fu adattato a caserma e tabacchificio. Sull’architrave di una finestra si legge la frase latina che si riferisce al cane di Ulisse Argo: ‘Difficile est Argum fallere’ (E’ difficile ingannare la sorte o fuggirla, si è riconosciuti).

Il Castello, per le attuali condizioni rischia di essere compromesso senza un intervento e un progetto di recupero, che coinvolga la proprietà, il Comune, la Regione Puglia e i cittadini che vedono rappresentato in quella struttura il simbolo stesso della loro città. Un monumento che ha ancora molto da dire, se gli si lascia il tempo, prima che sia troppo tardi.

Info: Associazione Culturale Orizzonte, via Nazario Sauro 52, 73037 Poggiardo (Le)-via Ungaretti 2, 20098 San Giuliano Milanese, tel. 334 3774168.

 

Castro

di Armando Polito

(immagine tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Castro_(Puglia)#/media/File:Castro_Panorama.jpg)

 

Certe volte le regole grammaticali costituiscono un serio ostacolo per chi, conoscendole (pure nel mio caso si presume …), intenda rendere anche graficamente certi concetti. Oggi, per esempio, per salvare capra e cavoli, ho dovuto partorire un titolo costituito da una sola parola, da scrivere, naturalmente, con l’iniziale maiuscola ed affidando al resto del post la distinzione tra nome comune e nome proprio, quest’ultimo, quello della bellissima cittadina (nel senso di piccola città …) salentina. Non c’era scelta: Castro e castro non avrebbe escluso la possibilità che pure il primo fosse nome comune o forma verbale, mentre “Castro” e “castro” per via delle virgolette avrebbe limitato, forse, le possibilità del motore di ricerca e io sono uno che se ne fotte dei mi piace di Facebook ma non è insensibile (potenza, comunque, della vanità …) ai contatti, talora in numero non irrilevante, che qualche mio post su questo blog ha registrato, magari senza alcun merito da parte mia o quando meno me l’aspettavo…

Non faccio perdere altro tempo a chi mi ha fin qui seguito e integro quanto detto all’inizio riportando di seguito tutto ciò che so sulla parola del titolo.

Castro toponimo.

castro nome comune: 1) negli studi storici è usato per indicare un centro territoriale e giuridico raccolto intorno ad un castello: 2) negli studi archeologici è usato per indicare un impianto quadrangolare fortificato, che è alla base di molte antiche città italiane; 3) accampamento militare romano (in quest’ultimo significato, però, la voce è obsoleta).

castro prima persona singolare dell’indicativo presente attivo di castrare; nel dialetto neretino è, per metatesi di –r-, crastu.

Sui primi due mi soffermo solo per ricordare, a quei pochi che ancora non lo sanno,  che Castro negli autori antichi è Castrum Minervae e che castro è dal latino castrum=fortezza, castello (sicché Castrum Minervae alla lettera significa fortezza di Minerva, cioè rocca con un tempio dedicato a Minerva).

Dopo queste due affermazioni che farebbero sussultare (perché sono troppo scontate) perfino un archeologo che si fosse comprato, dopo tutti gli esami, anche la stesura e la discussione della tesi …, mi chiedo che rapporti potrebbero esserci con castrare.

Può sembrare poco serio ma tutto potrebbe dipendere non da una ballerina chiamata r ma da una r ballerina.

Dal tema di castrum che è castr– è derivato in latino il diminutivo castellum, da cui l’italiano castello. La ricostruzione della trafila comporta questi passaggi: *castrellum (da castr-+il suffisso diminutivo)>castellum, Faccio notare che castrellum è preceduto dall’asterisco, ad indicare che si tratta di voce ricostruita, cioè non attestata nel latino scritto e che la sincope di –r– in castellum si direbbe dovuta a ragioni eufoniche (la pronunzia di –stre– è certamente meno agevole rispetto a –ste– e meno gradevole ne è anche l’ascolto). Ho l’impressione, però, che un indizio dell’esistenza, sia pure nel latino parlato, di *castrellum mi viene fornito per le osservazioni analogiche che offre il caso dell’italiano rastrello. Infatti tale attrezzo in latino è rastellum, diminutivo di raster/rastri (a sua volta dalla radice di rasus, participio passato di ràdere) del verbo ràdere). Dal tema di quest’ultimo (rastr-) mi sarei aspettato un rastrellum e non un rastellum.Proprio la voce italiana, però, mi fa capire che nel latino parlato doveva essere in uso rastrellum. I presunti motivi eufonici della caduta di –r– già in età antica, perciò, vanno in buona parte a farsi benedire. Una conferma parziale viene, nonostante le apparenze inizialmente contrarie, dal fatto che per il latino medioevale il glossario del Du Cange registra un “castrellum pro costrellum. Poculum vinarium. Gualt. Hemingford. de gest. Eduardi I reg. Angl. ad ann. 1294 pag. 56: Cumque haberent modicum vini, vix unius lagenae castrellum, quod pro rege salvare decreverunt. Vide costrelli”

(castrellum per costrellum. Coppa da vino …. Avendo poco vino, a stento una tazza di una sola coppa, che decisero di riservare al re. Vedi costrelli).

Non riporto quanto si legge al lemma costrelli ed a quelli circonvicini che confermano tutti il significato di contenitore per il vino e, quel che più importante,mostrano come castrellum non fosse un pur teoricamente probabile errore di lettura o di stampa.

Non è da escludersi, perciò, che nel latino scritto sia attestato castellum e non castrellum per evitare confusione e non per motivi esclusivamente eufonici che, invece, restano tutti interi nella trafila che ha portato al nostro coltello: culter>*cultrellus (dal tema cultr– del precedente+il suffisso diminutivo)>cultellus>coltello.

L’immagine del coltello con la sua sfera semantica, non etimologica, e la -r- ballerina di cui s’è detto  mi aiutano a giungere alla conclusione dicendo che anche castus (da cui l’italiano casto nel suo significato di esente da rapporti sessuali) potrebbe originare da un *castrus ed essere in rapporto con castrare), nonostante per qualcuno possa essere da carère=esser privo. E tra castità e castrazione sembra far capolino la radice caes– del supino (caesum) del verbo caedere che significa, appunto, tagliare. E semanticamente con l’idea di tagliare e formalmente con castrare potrebbe essere connesso pure castro e, per la proprietà transitiva, anche Castro (in fondo una fortezza che cos’è se non una fabbrica insistente su superficie isolata per la sua posizione generalmente elevata e tagliata, grazie alle mura, dal resto del territorio circostante?).
Com’è noto, il toponimo Castro in compagnia (intendo dire in unione ad altre parole, non fuso con loro come in Castrovillari in provincia di Cosenza e, proprio vicino alla nostra Castro, in Vignacastrisi) è molto diffuso in Italia [Arlena di Castro, Grotte di Castro, Ischia di Castro e Montalto di Castro in provincia di Viterbo, Castro dei Volsci in provincia di Frosinone, etc. etc.), ma gli unici due Castro solitari che io conosca sono Castro in provincia di Bergamo e la nostra cittadina. Mentre il toponimo lombardo contiene solo un’indicazione banale e un significato scontato (il nome comune di una fortezza è diventato nome proprio) il toponimo salentino, invece, è a tutti gli effetti un’antonomasia legittimata dal nome antico Castrum Minervae (come ho detto, negli autori antichi; Castra Minervae nella Tabula Peutingeriana, vedi immagine sottostante), in cui il sottintendimento di Minervae sembra parallelo al mi mostro, non mi mostro, forse sono io con cui la dea sembra giocare a rimpiattino con gli archeologi.

(immagine tratta ed adattata da http://www.hs-augsburg.de/~harsch/Chronologia/Lspost03/Tabula/tab_pe08.html)

Se, dopo averla conosciuta, amassimo di più la nostra storia, eviteremmo di aderire all’andazzo comune che per una pratica esigenza distintiva ha creato il nesso Castro di Lecce, propiziando la vendetta della dea che, magari, farà ritrovare proprio a Lecce qualche sua gigantesca statua in cui, questa volta, anche un archeologo cieco riconoscerà a tentoni le sue fattezze …

Mi pare doveroso dire in chiusura che, giunto a questo punto, se qualcuno dovesse dimostrarmi che gran parte di tutto ciò che fin qui ho detto è una … castroneria, per me sarebbe …  castrante.

Aradeo, ieri e oggi

di Alessio Palumbo

 

Colgo con piacere l’invito del prof. Armando Polito, per partecipare “attivamente” alla sua bella iniziativa.

Il mio contributo riguarda un piccolo paese, Aradeo, che non ha (né ha mai avuto) le bellezze artistiche ed architettoniche di città come Lecce o Nardò, ma che, per di più, quel poco che aveva del proprio passato lo ha quasi completamente distrutto una cinquantina di anni fa. In questa furia modernizzatrice sono sparite chiese, palazzi, complessi a corte ed edifici vari.

A parziale consolazione di chi ha meno di sessant’anni, alcuni aradeini si sono presi la briga di recuperare le testimonianze fotografiche del passato cittadino, conservandole nel sito www.arataion.it.

Solo per darvi un’idea del cambiamento subito dal centro storico di Aradeo, vi propongo due foto: la prima è tratta da http://www.arataion.it/nel-paese/le-piazze/124-la-vecchia-piazza-del-municipio e rappresenta l’antica piazza, con alle spalle la chiesa seicentesca. Una chiesa che ha rappresentato per secoli il cuore religioso e laico del paese visto che, fino ad inizio settecento, fu utilizzata anche come “parlamento cittadino” prima che gli aradeini costruissero un classico sedile fuori dalle mura (anche questo scomparso) per sfuggire al controllo dei monaci Olivetani, loro feudatari.

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Oggi di tutto ciò non resta alcuna traccia: un cuore verde (secondo l’interpretazione data dall’allora amministrazione comunale DC) ha sostituito gli antichi edifici, come si nota dall’immagine successiva tratta da google

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Tra la prima e la seconda foto, due anni di distruzioni sconsiderate ed ingiustificate.

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da http://www.arataion.it/nel-paese/le-chiese/177-la-demolizione-dell-antica-chiesa-madre

 

Maglie| In mostra le illustrazioni di Piero Schirinzi

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Il titolo di questa mostra è anche un augurio che vogliamo fare a tutti quanti: cercate di restare bambini per continuare a stupirvi, sognare, gioire, amare ed essere più felici!

Dal 1 al 7 agosto la galleria d’arte “F. Capece” di Maglie ospita Piero Schirinzi con le sue magnifiche illustrazioni realizzate con la tecnica della pittura digitale, uno stile contemporaneo che nasce dalla fusione della computer grafica, matite colorate, fogli ed acquerelli.

Le parole di Alfredo Ronzino descrivono perfettamente la personalità artistica dell’Autore: “Schirinzi realizza un percorso da consumarsi in un tempo passato: quello dell’infanzia. Vissuto con gli occhi di un’anima non contaminata, il cui contesto è puro, la cui aria è satura di colori; è il tempo dell’entusiasmo, della scoperta del mondo, tangibile e spirituale. Immagini fantastiche, a volte oniriche, dove nulla è turbamento per lo spirito; dove, anzi, questo si quieta nella mitezza dei contrasti cromatici, nell’armonia tra paesaggi e figure”.

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In occasione della mostra “The Kid Inside” la galleria ospiterà un evento del Mercatino del Gusto in collaborazione con YouKid (responsabile dell’evento Enrica Colavero), “Libri a tavola! Pagine appetitose per piccoli lettori”.
L’editoria per l’infanzia incontra il cibo in una mostra che raccoglie le più recenti pubblicazioni legate al tema dell’alimentazione, tra storie, giochi, ricettari, divulgazione e arte.
Ad accompagnare la mostra, tutte le sere ci sarà un appuntamento con letture animate e laboratori creativi a numero chiuso (dalle 20:30 alle 21:30) per bambini dai 6/10 anni a cura di Liseba Dongiovanni. Per prenotazioni 329/0062614.

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Piero Schirinzi nasce a Vervier (Belgio) il 10 settembre 1960, vive e lavora a Collepasso un paese della provincia di Lecce.
Dopo aver frequentato, gli studi d’arte ed aver maturato una lunga esperienza nelle arti figurative, ha “ripiegato” la sua formazione artistica nel campo della comunicazione visiva e dell’illustrazione.
Con questo sito egli intende presentare la sua ”Arte Diditale” come frammento del suo percorso creativo, uno dei tanti che quotidianamente esplora, quasi come un “giuoco” che lo stimola e lo incuriosisce attraverso la continua ricerca di nuovi percorsi espressivi.
Alcune delle sue illustrazioni sono state pubblicate su importanti riviste settoriali tra queste “ILLUSTRATI” logos edizioni, molti anche i riconoscimenti artistici in ultimo, vincitore del premio “Francobollo d’oro 2015 città di Ostuni” con l’opera “La città che ho in testa”
Negli ultimi anni a stretto collaborazioni con importanti FilmMakers professionisti, per la realizzazione di videoclip animati, video mapping 3D e cortometraggi.
Collabora come scenografo con la Compagnia Teatrale Calandra, realizzando scenografie multimediali sia per il teatro che per importanti eventi del panorama artistico culturale del nostro territorio.
Alcune di queste opere nascono, appunto, come tavole preparatorie per prodotti audiovisivi o illustrazioni per l’editoria, tali immagini, comunque, anche se scorporate dal loro contesto, possono essere considerare opere a se stanti e possono vivere di vita propria.
Contatti : http://pieroschirinzi.wix.com/pieroschirinzi

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Tricase, ieri e oggi

di Armando Polito

Tutti, anche gli astemi, sanno che il vino col tempo migliora, ma non bisogna esagerare perché anche il più robusto dopo un certo numero di anni si deteriora. Per questo quando mi capita tra le mani una bottiglia di annata notoriamente felice, ritenendo da criminale correre qualsiasi rischio, me la scolo senza perdere tempo, da solo o in compagnia. Certo, ci sono le bottiglie da collezionista, il cui valore, direttamente proporzionale alla data d’imbottigliamento, non è destinato ad essere apprezzato dalle papille gustative, ma dalla sensibilità di chi, magari senza potersi permettere di essere un collezionista, in una semplice, impolverata ma preziosa  bottiglia è in grado di leggere la storia, grande o piccola che sia. In fondo lo stesso avviene con una cartolina antica. Essa, a suo tempo non spedita, può essere stata a suo tempo riposta distrattamente in un cassetto e in questo caso corrisponde alla bottiglia non consumata messa da qualche parte, perché vederla in giro dava fastidio e poi dimenticata (rischio inesistente in casa mia …); in altri casi  la mancata spedizione della cartolina può essere stata causata anche dalla sua bellezza, per cui si è pensato di conservarla, senza, però, alcuna volontà collezionistica, senza, cioè, considerarla come un piccolo investimento sulla sua futura rarità (questo farebbe il paio con la bottiglia di vino la cui forma e/o la cui etichetta hanno esercitato la loro seduzione (io, se ancora non s’è capito, non mi lascio sedurre da vetro e carta …). Lascio alla fantasia del lettore immaginare altre situazioni che non siano quelle, pressoché infinite, legate al caso. Mi son lasciato ubriacare dal semplice concetto di bottiglia dimenticandomi di quelli del tempo e della storia che, pure, all’inizio, avevo sbandierato. Avrei pure potuto risparmiare al lettore questa introduzione e entrare subito in argomento, ma essa rappresenta un disperato, forse l’ultimo appello a partecipare, magari solo inviando alla redazione qualche vecchia foto della nostra terra, oppure una recentissima scattata nella stessa prospettiva di quelle antiche che ho già presentato. Oggi, oltretutto, il discorso sarà più articolato del solito, pur rendendomi conto che i ritmi del nostro tempo consentono al massimo di dare uno sguardo più o meno fugace ad un’immagine, non di dedicare qualche minuto alla lettura di riflessioni su di essa, non fosse altro che per la voglia di cogliere in castagna l’autore e, sacrosantamente, sputtanarlo.

L’immagine che segue, tratta, insieme con la successiva, da http://www.ebay.it/itm/TRICASE-Piazza-Vittorio-Emanuele-II-/170591611757?hash=item27b80d6b6d:m:mJnEWpGbjI2LLlq94bjj40Q,  è una cartolina raffigurante quella che all’epoca era piazza Vittorio Emanuele II e che oggi è piazza  Giuseppe Pisanelli1.

Il verso ci consente di dare una collocazione temporale alla rappresentazione del luogo e di fare altre riflessioni, nella speranza che qualche lettore integri quello che non son riuscito a leggere (l’ho indicato con il punto interrogativo).


La cartolina, indirizzata alla Gentilissima Signorina Sig.na ? Palese Trieste V. Macchiavelli (sic!) N° 16 I° p.,  reca il seguente messaggio: Tanti saluti da tuo zio ?

Il timbro, duplicato, reca la dicitura TRICASE (LECCE) nel margine e al centro, su tre linee, 17 LUG O7. La cartolina, dunque, risulta spedita il 17 luglio 1907. Il bollo d’arrivo è assente e ciò che appare nel’angolo superiore del retto è costituito dalle tracce d’inchiostro del bollo superiore del verso assorbite dalla carta, come dimostra l’immagine successiva, ove ho invertito orizzontalmente la prima (quella del retto) per mostrare la sua perfetta sovrapponibilità alla seconda.


Prima di passare ad altro voglio spendere qualche parola sul francobollo. Esso presenta l’effigie di Emanuele III (re d’Italia dal 1900 al 1946) con decorazione floreale e fa parte di una serie di undici, con valori da 1 centesimo a 5 lire. Nella serie, che ho riprodotto di seguito, il nostro è il primo della terza fila2.


Ciò che ora mi accingo a fare non è una violazione della privacy, al contrario è un omaggio alla memoria di chi ha mi ha reso possibile scrivere queste poche righe e mi sento un po’ come, immagino,  l’archeologo che ha appena aperto una tomba …).  Mi sono permesso, con l’immagine tratta da GoogleMaps, di tentare di individuare il domicilio della destinataria, sempre che la numerazione sia rimasta immutata. Il civico 16 attuale di via Niccolò Machiavelli a Trieste è quello che ho indicato con la freccia.

Termino la parte dedicata alla piazza di Tricase con la sua immagine attuale tratta ed adattata anch’essa da GoogleMaps e con un collage comparativo.

Ora dalla piazza ci spostiamo al porto con un’immagine tratta dal profilo Facebook di Salento come eravamo, ove compare datata al 1932.

È evidente che questa volta non abbiamo davanti agli occhi una cartolina ma una foto privata e la data potrebbe essere stata ricavata da qualche annotazione sul retro o essere frutto di una deduzione di chi l’ha inviata; ma su quali base oggettive? Va da sé che l’individuazione della marca (la getto lì: Atala o Bianchi?) e del modello (stavolta non ho niente da gettare …) della bicicletta da parte di qualche esperto non guasterebbe. Per questo il 1932 andrebbe, almeno per ora, accettato con beneficio d’inventario. Chiudo con la stessa sequenza di immagini prima adottata per la piazza.

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1 (Tricase, 1812-Napoli 1879). Deputato nel Parlamento napoletano nel 1848, per i suoi sentimenti antiborbonici fu costretto a fuggire prima a Civitavecchia, successivamente a Genova, Londra e Parigi. Tornato a Napoli nel 1860, fu nominato da Garibaldi ministro di Grazia e Giustizia ma durò in carica solo ventidue giorni;  deputato al parlamento (1860-67), fu ministro di Grazia e Giustizia e Culti nel ministero Farini e in quello Minghetti. Fu autore del primo codice di procedura civile del Regno d’Italia entrato in vigore nel 1865, opera rivalutata in tempi recenti perché ritenuta più liberale del codice del 1940 giudicato da alcuni eccessivamente autoritario se non ideologicamente vicino al fascismo.

2 Nuovo ha una valutazione, a seconda del livello di conservazione, tra i 61 ed i 150 euro; il valore dell’usato precipita ad 80 centesimi.

 

A Castro, con il cuore

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Sabato 2 agosto 2016, a Castro (LE), sarà presentato l’ultimo libro dello scrittore salentino Rocco Boccadamo “A Castro, con il cuore”, pubblicato, per i tipi di “Spagine” Edizioni Fondo Verri, nel maggio 2016.

Questa la prefazione al volume redatta da Giuliana Coppola:

Innamoramento… ecco, mentre mi accingo a scrivere ancora sui pensieri di Rocco Boccadamo, ecco, io penso che sia questo il termine giusto per i suoi scritti, per gli scritti di lui che ritorna a guidare il lettore nel suo personale “paradiso terrestre”, nella sua Castro.

Invita tutti ad essere suoi ospiti, a condividere con lui il senso profondo di quest’amore che dura da una vita – e benedetti siano i suoi genitori per averglielo inculcato nell’anima – e che egli vuol far provare in tutta la sua immediatezza, giorno dopo giorno, stagione dopo stagione, mentre le ore si rincorrono e trascorre il tempo.

Innamoramento, dunque, pudico, silenzioso, attento ai particolari, alle voci, ai sussurri, ai mormorii; alle sensazioni, alle emozioni, ai passi, agli sguardi e ancora ai rumori di mare, di terra, di cielo, ai colori di verde e d’azzurro e di buio e di luci di lampare, stelle nella notte, sospese all’orizzonte.

Castro avvolge l’anima e le pagine raccontano; “l’ideale nassa di pensieri” diventa quotidiana dichiarazione d’amore. “Per soppalco, un cielo azzurro senza ombra di nubi, strato calmo, tratteggiato da linee orizzontali a dividere zone di bianco perlato da altre di colore intenso blu, carezze scintillanti per opera dei raggi solari, aria cristallina e leggera, orizzonte nitido, temperatura dolce e tendente a lievitare verso l’alto con il progressivo innalzarsi del mattino”.

Castro, per Rocco Boccadamo, suo cantore, è “un immenso schermo in cinemascope intessuto di meraviglie, gioie, bozzetti incantevoli della natura” e sorridono “intorno le macchie di verde, le case, le antiche mura e le torri del borgo”. Le pagine scorrono e il film si dipana e secche di gennaio s’alternano a miti pomeriggi di febbraio e il vento, a tratti, è “solo un abbozzo, quasi il respiro d’un neonato” in questo mese di giugno e d’un tratto, siamo già in estate e si chiacchera un po’ con Nino, il pescatore, che vive di pesca e di mare. “Acini d’estate” e il ricordo è per Vincenzo e sono per lui i colori dell’immensa distesa d’acqua, colori che “raccontano rosari d’emozioni” ed è “sinfonia composta di suoni d’aria e di mare” mentre si cavalca mare e volano le vele “colorate d’amaranto”.

A volte è grigio il venerdì ma che importa? “Vi porto talmente dentro, mi siete talmente compagne…” che i colori rimangono nell’anima e si va, Rocco Boccadamo va e intorno “valanghe di immense distese di bianca schiuma, sferzate sul nero delle alte rocce”. Si va e s’affolla “nassa di pensieri” e s’affollano ricordi e scorrono sul palcoscenico dell’anima volti e persone. Si prega per chi non c’è più perché Castro, a tratti, “rievoca l’azzurro profondo delle volte di talune basiliche… quasi per un arcano e invisibile estro d’artista, tra profumi di mirto, carrubi, menta, gelsomino e basilico” ed è frinire di cicale, intorno.

Santa Dorotea e Minerva e Maria, la Madre del mare e Venere proteggono, ognuna a suo modo, uomini ed eroi; e così succede che Enea si salva e si salvano gli uomini, anche quando crolla il mondo sulla piazzetta ed è disastro, ma la vita resiste e piazzetta ritorna nel suo splendore, balcone sul mare e sul porticciolo da favola.

Si rincorrono i pensieri quando soffia vento di tramontana ed è brivido e non ci si accorge che arriva Natale e forse fa freddo ma dentro, nell’anima, c’è il sole. “Se ne sta in alto a vedersi la scena; contrariamente a quanto può succedere con la luna e le stelle… il sole non si presta a colloqui, limitandosi a sfolgorare, bruciare, riscaldare e semmai suscitare idee…”. Già le idee; anche questa che giunge a monito, inaspettata, mentre si gusta il film della bellezza.

Rocco Boccadamo riporta pensiero che può essere attribuito alle sue divinità, alle divinità del cielo, della terra, della natura “Ti ho messo a disposizione una messe di risorse, cielo, mare, aria pulita e non invasa dallo smog, acque incontaminate, e tu ne hai fatto scempio; ho riposto fiducia in te affidandoti tutti questi tesori e tu, non solo non mi hai ascoltato ma ti sei comportato in modo tale da danneggiarli”.

Par di sentirla la voce… richiamo e monito; chi è innamorato, ha paura d’un tratto che venga sciupato l’oggetto del suo amore; questo mondo che appartiene a Rocco e che, affidato alle sue pagine, ora è patrimonio di tutti coloro che le leggono, e che sono diventati, per suo desiderio, ospiti del suo paradiso terrestre, catturati nella nassa dei suoi pensieri.

Ora seguiamo la sua barca che solca le onde del suo mare; forse, siamo idealmente sulla sua barca, come succedeva un tempo quando il “vascelletto” diventava leggero, grazie alla scrittura che diventa monito e memoria; per non dimenticare chi siamo e dove siamo, in ogni momento della nostra esistenza.

 

Lecce, Porta Napoli ieri e oggi … dentro e fuori

di Armando Polito

Questa serie di viaggi nel tempo da tempo iniziati attraverso la comparazione tra l’aspetto attuale di un luogo e quello antico sta conoscendo una grande partecipazione passiva, nel senso che, mentre è veramente notevole il numero di lettori che volta per volta seguono ciascun post, nessuno ha pensato o avuto la voglia di contribuire attivamente inviando alla redazione qualche vecchia foto possibilmente mai vista prima, in quanto di natura privata, non consistente, cioè, in una una cartolina, anche se quest’ultima, laddove è presente (leggibile …) il timbro postale o la data (anch’essa leggibile) in testa o in calce al messaggio offre un riferimento cronologico più preciso. Nell’attesa, per quanto riguarda la parte documentaria, continuerò a cavarmela sfruttando la rete.

Debbo subito dire che innumerevoli sono le immagini datate di Porta Napoli con visuale, però, extra moenia. Più rara. invece, la visuale opposta (chiedo scusa a tal proposito per i caserecci dentro e fuori del titolo)  e l’unico documento che son riuscito a trovare è la foto che segue tratta da Salento com’eravamo, dove, per quanto riguarda la datazione, si legge  fine anni 30.

Ora è la volta dell’immagine comparativa (stato attuale), che ho tratto ed adattato, come al solito, da Google Maps.

L’imbarazzo della scelta, invece, si pone, come ho anticipato, per la vista opposta, per cui mi limiterò a riportare in ordine cronologico solo le testimonianze più significative

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Foto di Pietro Barbieri tratta da Gustavo Strafforello, La patria. Geografia dell’Italia. Provincie di Bari, Foggia, Lecce, Potenza, Unione Tipografico-editrice, Torino, 1899,  fig. 59, p. 196. Pietro Barbieri, di origini modenesi, insieme col fratello Augusto trasferì lo studio da Modena a Lecce, ove i due operarono dal 1878 al 1905.  Pietro fu anche pittore di ritratti, le cui foto serviranno di base ai pittori. A lui e al fratello fu commissionato un album fotografico sulla Terra d’Otranto da donare al sovrano insieme con l’Illustrazione dei principali monumenti di Terra d’Otranto, che raccoglieva i contributi monografici di Giacomo Arditi, Francesco Casetti, Luigi Maggiulli, Cosimo De Giorgi, Luigi De Simone e Sigismondo Castromediano. Questa sorta di catalogo venne pubblicato per i tipi di Campanella a Lecce nel 1889. La foto del Barbieri che lo Strafforello incluse nella sua pubblicazione, dunque, è sicuramente anteriore a tale data.

Immagine (stampa) di autore ignoto tratta da Le cento città. Supplemento mensile illustrato del Secolo, Sonzogno, Milano, n. 9420 del 28 giugno 1892.

Foto di  Federico Lazzaretti (1858-1937) tratta da Giuseppe Gigli,  Il tallone d’Italia, op. cit., Istituto italiano d’arti grafiche editore, Bergamo, 1911.

Porta Napoli prima del restauro di qualche anno fa; foto tratta da http://www.salogentis.it/2009/07/11/porta-napoli-accesso-al-centro-storico-di-lecce/

Porta Napoli, stato attuale. Foto tratta da http://www.vacanzelecce.net/scopri-il-territorio/itinerario-fuori-dalle-mura/

Nardò, Le quattro colonne, ieri (fine del XIX secolo?) e oggi

di Armando Polito

Continua l’operazione-nostalgia1, le cui motivazioni, modalità d’esecuzione, finalità ed aspettative (quest’ultime, debbo confessarlo amaramente, finora totalmente deluse) ho avuto occasione di ribadire recentemente in https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/07/19/nardo-santa-maria-al-bagno-via-dei-basiliani-ieri-1930-oggi/.

Il tema di oggi è costituito  non da una via ma da un manufatto a sè stante, rimasto, nonostante l’antropizzazione, fisicamente isolato, anche se meno rispetto al passato. Per questo, prima delle due consuete immagini comparative che costituiscono l’essenza di ogni post della serie, oggi presenterò i dettagli di alcune mappe del passato. Mi ha sorpreso non poco la constatazione che la nostra torre compare nelle carte (dedicate alla Terra d’Otranto ed aventi, più o meno, la stessa scala) solo a partire dalla Provincia di Terra d’Otranto già delineata dal Magini e nuovamente ampliata in ogni sua parte secondo lo stato presente, pubblicata da Domenico De Rossi a Roma nel 1714.

La carta di Giovanni Antonio Magini, cui il De Rossi fa riferimento, fa parte di Italia, opera pubblicata dal figlio Fabio a sue spese (non è indicato l’editore) a Bologna nel 1620. In essa (è la n. 56) il nostro toponimo è assente, come mostra in dettaglio l’immagine che segue.


Siccome la torre entrò in servizio nel 1605 e Giovanni Antonio mori nel 1617 bisogna ipotizzare che la tavola rimase così com’era stata realizzata prima del 1605.

Mi è parso normale, invece che essa fosse presente nell’Atlante geografico del  Regno di Napoli  di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni, uscito a Napoli per i tipi della Stamperia Reale dal 1789 al 1808. Di seguito il dettaglio tratto dal ventiduesimo foglio.

Al tempo non può sottrarsi nulla, nemmeno la toponomastica e lo attesta Torre del Fiume2, il nome che la torre aveva prima che il crollo della sua parte centrale propiziasse il passaggio a quello attuale di Le quattro colonne. Ciò che segue, invece, documenta la trasformazione del luogo.

Immagine tratta da Salento com’eravamo (https://www.facebook.com/Salentocomeeravamo/photos/a.546052458786370.1073741828.546048392120110/1101068953284715/?type=3&theater)

Immagine tratta ed adattata da Google Maps (https://www.google.it/maps/@40.1257841,17.9970579,3a,75y,180.44h,82.18t/data=!3m6!1e1!3m4!1stJEzXlJecYuzydwTlPAF2g!2e0!7i13312!8i6656!6m1!1e1)
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1 Per chi gradisse il tema generale spunti di un certo interesse potrebbero esserci in:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/25/nardo-operazione-nostalgia/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/13/rusineddha-una-giovane-bagnante-di-cento-anni-fa-a-santa-caterina/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/09/10/amarcord-salentino-1/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/28/due-variazioni-sul-tema-a-nardo-e-a-s-maria-al-bagno/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/08/04/unantica-peschiera-leccese-nei-pressi-di-frigole-22/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/06/30/nardo-piazza-osanna-ieri-oggi-domani/

Segnalo anche la serie in 14 puntate La Terra d’Otranto ieri e oggi (anche se lo strumento di confronto non sono foto ma stampe antiche):

PRESENTAZIONE: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/19/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-114-presentazione/

ALESSANO : https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/23/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-214-alessano/

BRINDISI: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/05/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-314-brindisi/

CARPIGNANO: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/09/la-terra-dotranto-ieri-414-carpignano/

CASTELLANETA: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/14/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-514-castellaneta/

CASTRO: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/20/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-614-castro/

LATERZA https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/05/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-714-laterza/

LECCE: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/17/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-814-lecce/

MOTTOLA: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/21/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-914-mottola/

ORIA: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/26/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-1014-oria/

OSTUNIhttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/03/04/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-1114-ostuni/

OTRANTO: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/03/14/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-1214-otranto/

TARANTO: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/03/31/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-1314-taranto/

UGENTO: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/04/03/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-1414-ugento/

2 Torre del fiume di Galatena [oggi Galatone] in Girolamo Marciano (1571-1628),  Descrizione, origini e successi della provincia d’Otranto, opera postuma uscita, con le aggiunte di Domenico Antonio Albanese (1638-1685) per i tipi della Stamperia dell’Iride a Napoli nel 1855, p. 142. Sorprende il fatto che la torre non compare tra quelle citate per il territorio di Nardò  in Cesare D’Engenio Caracciolo, Ottavio Beltrano ed altri, Descrittione del Regno di napoli diviso in dodeci provincie, Beltrano- De Bonis, Napoli, 1671, p. 217. Del fiume oggi resta solo il ricordo in una sorgente da tempo cementata (credo per motivi igienici causati dall’inquinamento) ma negli ultimi anni ripristinata da alcuni volontari: https://www.youtube.com/watch?v=Ws0s6g-gSGc (ignoro, tuttavia, lo stato attuale).

Sulla storia della torre:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/06/12/note-sulla-torre-del-fiume-di-s-maria-al-bagno-nota-come-quattro-colonne/

 

Il caldo, il freddo e la bolletta

di Armando Polito

 

Restare a galla? Dopo un anno …

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1 Probabilmente dalla locuzione greca classica οἴ μάμμα (leggi oi mamma)=ahimè, mamma,  con influsso del neogreco  μάνα (leggi mana).

2 Participio passato di scarfisciare, intensivo di scarfare, che è dal latino excalefacere=scaldare.

3 Il verbo riflessivo scirrare, come tutti i verbi riflessivi salentini, ha come ausiliare avere e deriva dal latino exerrare =deviare (quasi allontanarsi dalla memoria).

4 Rispetto all’italiano intirizzire (etimo incerto, probabilmente  da intero) sembra derivare dal diminutivo di un *intirizzo, come ‘nfrizzulare=gualcire deriva da frìzzulu, a sua volta diminutivo di frictum=fritto

Tra i pesci del Salento: la salpa (seconda parte)

La salpa (da www.cielomareterra.org)
La salpa (da www.cielomareterra.org)

 

Ricette con le salpe

Carpaccio di salpa

Una salpa di grosse dimensioni, 50 g di sale, 20 g di zucchero, un cucchiaino di pepe bianco macinato. Per la salsa: 3-4 filetti d’acciuga, un cucchiaio di capperi sott’aceto, un cucchiaio di prezzemolo tritato, uno spicchio d’aglio, il succo di un limone, olio di frantoio, sale e pepe nero macinato.

Eviscerate e sfilettate le salpe ricavate due baffe lasciando la pelle. Mescolate il sale con il pepe bianco e lo zucchero e cospargete le baffe sistemate in una terrina. Lasciate marinare in frigo e dopo 5-6 ore risciacquateli sotto acqua corrente, asciugateli e affettateli a fette sottilissime come si fa per il carpaccio. Adagiate le fettine in un vassoio e cospargeteli con la salsa ricava frullando insieme tutti gli ingredienti e serviteli come antipasto.

 

Salpa ai pomodorini  

Ingr. 2-3 salpe del peso complessivo di 1 Kg. e ½, 1 Kg. di pomodorini, 1 dl di olio extravergine d’oliva, prezzemolo, aglio, pepe nero, sale.

Squamate ed eviscerate le salpe che devono essere freschissime. Quindi ponete sul fuoco, un tegame con l’olio, due-tre spicchi d’aglio schiacciati, i pomodorini pugliesi (possibilmente tipo fiaschetto)tagliuzzati e una presina di pepe nero appena macinato. Fate cuocere il tutto per una decina di minuti, e quando saranno trascorsi aggiungete un paio di bicchieri di acqua; riportate a bollore, aggiustate di sale e aggiungete una generosa manciata di prezzemolo appena tritato e infine le salpe. Una ventina di minuti saranno sufficienti ad ottenere la loro perfetta cottura. Il sugo ottenuto si potrà utilizzare per condire dei tubettini cotti al dente che servirete spolverizzati a piacere con altro pepe nero e cosparsi di prezzemolo tritato fresco.

 

Salpe alla marinara

Farcite la salpa con aglio prezzemolo e fettina di limone, mettetela in un tegame largo, preferibilmente con olio e aglio e fatela colorire da ambo i lati, aggiungete un bicchiere metà vino metà aceto, entrambi bianchi. Salate e fate cuocere fino alla quasi completa riduzione dei liquidi, servitela irrorandola con il fondo di cottura residuo .

 

Salpa al limone

Ingr. : 2 salpe, 2 spicchi di aglio, 1 cucchiaino di pepe, sale grosso, un limone, olio di frantoio.

Eviscerate le salpe, lavatele ed asciugatele. Pulite l’aglio, mettetelo in un frullatore, assieme al pepe ed a un po’ di sale grosso. Frullate il tutto . Versate un filo d’olio in un tegame, mettete un po’ del frullato di spezie nel ventre delle salpe, e versate nel tegame il rimanente, aggiungete il succo di mezzo limone. Fate scaldare il tutto, mettete il pesce nel tegame, e fatelo cuocere 4-5 minuti per lato. Servite il pesce con il suo sugo stemperato con alcune gocce di limone.

 

Polpette di Salpa

  Sfilettate un chilo e mezzo di Salpe, di medie dimensioni (ne ricaverete circa 800 g di filetti), fateli rosolare in olio di frantoio aromatizzato con uno spicchio d’aglio sfumate con del vino bianco secco, unite   una presa di prezzemolo tritato, una di pepe nero e salate. Una volta che i filetti saranno cotti, passateli al frulllatore. Quindi, unite 100 grammi di pangrattato, 80 g di formaggio semipiccate grattugiato impastate il tutto unendo 2-3 uova. Formate quindi le polpette passatele nel pan grattato e friggetele. Servitele subito ancora ben calde oppure ripassatele in un sughetto di pomodori freschi.

 

Pizzarieddhri con salpa e pomodori

Ingr. : 250 g di pizzarieddhri integrali 400 g di filetti di salpa, 400 g di pomodori polposi, sodi e maturi, 1 dl di vino bianco, olio extravergine d’oliva, aglio, prezzemolo, origano, sale. Fate dorare leggermente uno spicchio di aglio in una padella con un filo d’olio di frantoio, rosolate i filetti ridotti a cubetti pesce a fuoco vivo per un paio di minuti e sfumate con mezzo bicchiere di vino bianco secco. Unite i pomodori tagliati a cubetti, il prezzemolo tritato, l’origano e salate. Cuocete la pasta, unirla al condimento e servite subito.

 

Salpe a “sarsa”

Sviscerate infarinate e friggete in un buon olio da frittura le salpe di piccola taglia, salatele e sistematele a strati in una terrina intervallando qualche rametto di menta e qualche spicchio d’aglio affettato. Coprite il tutto con ottimo aceto bianco di vino e lasciate riposare in ambiente fresco per una settimana prima di consumarle.

 

Quando, a Marittima, spira forte il maestrale

acquaviva-marittima-salento-spiaggia-caletta

di Rocco Boccadamo

Anche attraverso piccoli passi e cose semplici, si ha modo di accorgersi che la forza degli elementi naturali, di solito, finisce col rivelarsi vincente.

Nel basso Salento, ma non solo, questo tratto d’estate si sta caratterizzando con una serie di giorni e notti vivacizzati da venti del quadrante nord/nord ovest, ovvero, secondo la comune denominazione popolare, di tramontana/maestrale.

Soffi, non a livello d’assoluta eccezione e violenza, ossia a dire, riferendoci alla sommità del nostro mare Adriatico, del genere bora, e, tuttavia, di consistenza cospicua, persistente, insistente, con rare pause.

Il relativo rumore emerge sovrastando ogni altro, sarebbe riduttivo affermare che accompagna, giacché, in fondo, domina, in certo qual modo finisce col soggiogare o, perlomeno, condizionare.

Trattasi d’una spinta intrisa e ricca d’aria secca, che assorbe i già scarsi umori delle vie respiratorie, inducendo, di conseguenza, ad assumere più spesso sorsi ristoratori di sostanze liquide, bibite, succhi o semplicemente d’acqua.

Ma la prestanza di questo genere di vento non si ferma agli effetti anzi descritti, arriva a prenderti dentro, addirittura, sembra un paradosso, a scoraggiarti a fare e finanche a parlare.

Eppure, d’intorno, splendono le giornate, il mare non lontano dalla familiare “Pasturizza” dello scrivente, è, al solito, una distesa d’intenso azzurro e, perciò, vie più invitante, sebbene, al largo, presenti l’alea d’onde burrascose, a loro volta sospinte repentinamente e velocemente dai sibili.

Sia come sia, gli elementi naturali che così s’esibiscono non fanno altro che compiere il percorso della loro stessa essenza e, rispetto a ciò, non sono certo i peregrini pensieri, le volontà e i desiderata del comune osservatore a poterne modificare l’iter e a interromperne l’azione.

Io lascio fare, proseguire, questo vento; mi abbandono e mi rifugio dentro la natura, convinto che, alla fine, assecondandola e riprendendo in mano i suoi contorni, invariati da millenni, anzi da ere, mi riguadagnerò la possibilità di sentirmi vivo, di dire, raccontare, osservare, ricordare.

Cosicché, stamani, nel predisporre il foglietto delle incombenze quotidiane, moderne, ordinarie, decido di limitarmi a poco: un rapido passaggio dall’ufficio postale per il versamento del canone della lampada votiva che rischiara la notte ai miei cari nelle brumose e sciroccose stagioni invernali, quindi un salto all’edicola dei miei nipoti per ritirare l’immancabile copia del “Corriere” e basta.

Immediatamente dopo, mi determino a compiere un passo indietro nel tempo, nella memoria, a calarmi in abitudini ormai da decenni desuete ma che, per fortuna, resistono, tirandole fuori e rivitalizzandole.

La pur modesta spinta del mio scooter copre con facilità il breve itinerario dal centro abitato paesano sino alle vicine campagne in direzione sud, non senza sfiorare, quasi a passo d’uomo, le sagome delle ultime, basse case tipiche dei secoli scorsi, che seguitano ad ergersi integre nella loro essenzialità, a comprova e onore della paziente e seria opera dei provetti antichi fabbricatori.

All’abbrivio delle distese di terra rossa, scivolo sul fronte del fondo denominato “Aia”, già del mio zio materno Toto, che da poco, noto con piacere, è stato sottoposto ad apprezzabili lavori di ristrutturazione e riordino relativamente alla costruzione che vi insiste, una volta si o no all’altezza di mero fabbricato agricolo, adesso trasformata alla stregua d’aggraziata villetta. Un complimento particolare alla figlia giovane di mia cugina Elvira, la quale, insieme col suo compagno, impegnandosi personalmente nei lavori, ha spinto la madre a porre in atto l’abbellimento del manufatto.

Ci vuole poco e costeggio anche il minuscolo, vetusto boschetto, dove, da ragazzini, i marittimesi d’un tempo solevano addentrarsi, soprattutto la domenica mattina, per raccogliere sul terreno, oppure staccare dai rami e dalle foglie, le ghiande, risicati frutti che non esitavano ad abbrustolire su braci improvvisate su qualche tratto di terreno non ricoperto da sottobosco e, quindi, a mangiucchiare.

Ancora, più avanti, mentre fa capolino lo specchio sottostante del canale d’Otranto con sull’angolo di sinistra la rada e il colle di Castro, si guadagna il fondo un tempo appellato “Vigna delle canne”, dentro il quale, in una spartana casetta di pietra, erano soliti trascorrere l’intera bella stagione i proprietari Vitale e Palma, insieme con le loro due figlie.

Attualmente, tale terreno appartiene a un nipote dei due, un altro Vitale, e questi, oltre ad abitarvi e a coltivarlo, vi ha impiantato una piccola attività imprenditoriale sotto forma di allevamento d’api.

Bene ha fatto l’amico Vitale a porre all’ingresso, sul muro di pietre, il cartello  “Apiario didattico”, per ricordare ai passanti, locali o turisti, che, durante l’anno scolastico, egli è disponibile e si presta a tenere incontri collettivi con i ragazzi delle elementari e delle medie, su un tema di carattere agricolo o collaterale, invero non molto consueto, ma che offre tanti spunti per utili conoscenze, l’approfondimento e il riavvicinamento alla natura, intesa sia come mondo vegetale, sia come universo animale, anche se, in questo caso, si tratta di piccoli ma alacri e preziosi insetti.

Subito appresso, sulla sinistra, ecco il comprensorio una volta regno d’un altro concittadino, Vitale ‘u pisanelli, caratterizzato, in origine, da una bella costruzione, una delle prime in muratura, tinteggiata di color rosso dolcemente intenso e accattivante, insomma non sparato.

Quel Vitale si trova da lunga pezza a tutt’altra altitudine e però, ultimamente, il fondo ha ripreso corpo, anzi è stato valorizzato, sia in termini di aree coltivabili, sia come rete di muretti divisori, tutti rimessi a nuovo conservandone rigorosamente la struttura compositiva in pietra a secco.

E’ risorta pure la casa che, per via delle intemperie e dei decenni, aveva ceduto; si notano, inoltre, presi a pascolare tra un terrazzamento e l’altro, alcuni animali domestici, quali caprette e oche.

Nella circostanza, il merito, grande ed esclusivo, è di un giovane artigiano marittimese, Simone, il quale, rispetto alla sua vicina officina di lavorazione del ferro battuto, alterna indicative pause, attendendo al lavoro nella “Vija”, dopo aver, per alcuni anni, sorvegliato e assistito alle opere di ristrutturazione e di valorizzazione dell’insieme, per mano di squadre di tecnici ed operai esperti.

Non c’è che dire, un positivo esempio d’investimento, che, ancorché non consistente in cifre macroscopiche, se rapportato alle dimensioni e alle possibilità finanziarie del protagonista, è decisamente lodevole e, soprattutto, sarebbe da imitare da altri soggetti animati da buona volontà e dalla voglia e dal desiderio di costruire qualcosa di diverso e di nuovo, che abbia spazio anche per il futuro.

Proprio dirimpetto alla ”Vija” e  a breve distanza, solo un centinaio di metri, dai piccoli comprensori denominati “Munti” che, in parte, facevano capo alla mia famiglia materna con nonno Giacomo, sulle cui superfici i miei ricordi di fanciullo e di scolaro sono stati protagonisti e testimoni di tante parentesi in compagnia dei più grandi che si sottoponevano a pesanti lavori agricoli di vario genere, si succede un’altra tenuta, conosciuta col nome di “Pizzeddri”. Ivi, tuttora, ogni tanto, mi porto volentieri, giacché la stessa è riconducibile al mio carissimo amico Vitale, non contadino di nascita bensì egualmente appassionato delle attività lavorative tradizionali, in ciò incoraggiato dalla moglie, dal figlio e dal suocero, il quale ultimo, pur prossimo ai novanta, è ancora in piedi a coltivare la terra, ad accudire gli alberi secondo i calendari antichi, quasi che non fosse passato un abisso temporale tra i suoi primi apprendimenti e le usanze e i costumi attuali.

Un anziano, lo dico con benevolenza e con rispetto nei suoi confronti, sinceramente da ammirare e rispettare.

Anche in questa mattinata di maestrale, m’introduco col mio due ruote nei “Pizzeddri”, Vitale mi dà subito una voce, è seduto in un angolo appena dopo l’ingresso, all’ombra, intanto che, poco più avanti, si va svolgendo un’attività rumorosa e insieme importante, con l’ausilio d’un trattore che, grazie a un accessorio corredato all’interno di una ragnatela di catene rotanti, calpesta la superficie del campo, già rivestita di un vero e proprio sottobosco d’erbacce che fino a ieri ne deturpavano l’aspetto e che, al contrario,  dopo il passaggio del mezzo, appaiono ora nient’altro che una coltre color giallo e marrone chiaro sulla superficie rossa dell’humus.

Sullo sfondo del terrazzamento di terreno, si staglia, giustappunto, la figura di L., il suocero, coppola sul capo e un sottile bastone in mano, più per compagnia che alla stregua di mezzo di sostegno, intento a sorvegliare la scena e l’attività del trattorista.

Accanto ai sedili di pietra, mio e di Vitale, svetta una bella pianta di pero, carica di frutti in fase di maturazione, che, invero, non avevo mai scorto in precedenza e, perciò, mi lascia ammirato e stupefatto. D’istinto, guardo detto albero intensamente e Vitale, notandomi, m’invita, gentile, a raccogliere un po’ di frutti.

Ma non si volge a tal fine la mia volontà prioritaria, preferisco decisamente godermi e portarmi dentro lo spettacolo di quella pianta. In altri termini, mi limito a prendere solamente una pera, poi, dopo averla strofinata col palmo della mano, la mordo lentamente, con un piacevole gusto per il palato.

Quanto poco ci vuole, talora, per apprezzare!

Distanti alcuni metri, corrono filari di peperoni, pomodori e di melanzane e, anche rispetto a tali coltivazioni, si rinnovano la gentilezza e la premura dell’amico, anzi, lui stesso, preleva qualche ortaggio offrendomelo: il sapere e vedere che s’attinge direttamente alle piante mi entusiasma e faccio mia una manciata di peperoni di colore verde intenso, cornetti piccoli di dimensione ma promettenti sul piano del sapore.

Un breve indice di gesti, azioni, visioni, esperienze, nell’ambito d’una passeggiata in campagna, un concentrato d’emozioni che riportano all’infanzia, una parentesi che mi soddisfa in maniera speciale.

Mentre pure il lavoro del trattore nei paraggi è giunto ad esaurimento, non mi resta che congedarmi dall’amico vitale e dal suocero L. e ritornare a casa, deponendo di getto, e compiaciuto, sul tavolo del tinello, il minuscolo bottino.

Mia moglie desidera sapere quale provenienza abbiano gli ortaggi e, apprendendola, si propone di adoperarli per il pranzo, nella preparazione d’un contorno sotto forma di brodino di peperoni: risultato concreto, una gustosa, davvero gustosa, portata integrativa.

Ricollegandomi all’abbrivio delle presenti note, devo confessare, in conclusione, che almeno per un’ora e mezzo ho avuto l’impressione di non essere più assordato dal vento di maestrale, prodigiosamente sono riuscito a catturarne la forza e il sibilo o, per lo meno, a convincerlo a non soffocarmi.

Un ideale sottobraccio tra il ragazzo di ieri e un elemento della natura; natura che, a mio avviso, vale la pena di ricordarlo, unitamente al Creatore che governa da lassù, rimane alla base di tutto e di tutti, perennemente accanto e intorno a noi.

 

Tra i pesci del Salento: la salpa (prima parte)

La salpa (da www.cielomareterra.org)
La salpa (da www.cielomareterra.org)

 

di Massimo Vaglio

La salpa (Boops salpa), è un pesce che come i ben più pregiati e conosciuti, saraghi, orate e dentici appartiene alla famiglia degli Sparidi. Ha il corpo allungato, ovale, con dorso e ventre convessi, peduncolo caudale sottile, coda bilobata, e livrea argentata, attraversata da una decina di strisce orizzontali giallo oro, lunghe quanto tutto il corpo. Possiede una dentatura molto robusta atta a brucare le alghe dagli scogli, è infatti un pesce prevalentemente erbivoro.

La salpa può raggiungere una lunghezza massima di 45 centimetri ed un peso di circa 2 chili.

Come diverse specie di pesci, ha la caratteristica di essere ermafrodita proterandrica, ovvero nasce maschio per poi diventare femmina durante la crescita.

Viene ingiustamente annoverata fra i cosiddetti pesci poveri, definizione offensiva, che per questa, come per molte altre specie ittiche dovrebbe essere abolita o quantomeno, meglio specificata, in quanto ingiustificata e fuorviante per il consumatore. Infatti, di cosa sia povero un pesce come la salpa è tutto da verificare. Certamente, non lo è di principi nutritivi, ed anche valutandola gastronomicamente, si può considerare un pesce molto interessante, questa, possiede infatti carni bianche, delicate, magre, sufficientemente sode e particolarmente fragranti che le conferiscono quindi una grande versatilità culinaria.

Di povero, a questo punto rimane solo il prezzo, primaria causa di pregiudizio per coloro che si lasciano guidare dalle spesso strampalate logiche di mercato. In effetti, questi pesci, al pari delle congeneri boghe, hanno avuto sempre una quotazione di mercato piuttosto bassa, ma ciò non derivava dalla bassa qualità delle loro carni, bensì dalla facile deperibilità delle stesse, specialmente in epoche in cui non esistevano valide tecnologie per la refrigerazione, problema che oggi appare ampiamente superato.

Date le sue abitudini erbivore, nel Salento popola copiosamente le ampie scarpate rocciose colonizzate da profumatissime alghe, regno incontrastato dei ricci e di altri Echinodermi fitofagi e data la condivisione degli habitat, e le comuni abitudini erbivore, questi pesci appena pescati posseggono proprio un caratteristico, intenso buon profumo iodato, molto simile a quello emanato dai ricci appena pescati. Se consumata freschissima, può risultare davvero squisita. Il condizionale resta però d’obbligo poiché, anche se molto raramente, le sue carni possono avere un sapore poco gradevole. Questo fenomeno, che si manifesta nel periodo primaverile, è rarissimo in piena estate ed è quindi probabilmente dovuto alla proliferazione stagionale di qualche particolare specie di alga di cui questi pesci si pascono. Comunque, la sporadicità del fenomeno, ed il prezzo abbastanza modesto al quale vengono vendute, invogliano a correre il rischio. Secondo la tradizione salentina il mese migliore per ammannirle è agosto e a ricordarlo vi è questo antico adagio popolare:

La sarpa, d’ogne tiempu se pappa,

però d’ acustu, cce gustu, cce gustu!

E’ sicuramente il versante ionico del Salento, la zona dove le salpe sono maggiormente apprezzate, in quanto a detta degli esperti più sapide e profumate, sempre qui, in base alla grandezza sono classificate con diverse denominazioni: fitalòra, muscateddhra o ‘mbirdalora le piccole, cuzziòla o muscata le medie e infine sarpa. Sempre in questa subregione, vengono fatte oggetto di alcuni singolari sistemi di pesca amatoriale tra i quali quello con la canna fissa praticato in special modo di notte, dalle coste rocciose, utilizzando per esca la “malota” (Idothea ectica).

Questo è un piccolo crostaceo appartenente all’affollatissimo Ordine degli Isopodi che vive in stretta aderenza con le alghe e le piante marine alla deriva, in particolare fra i residui di posidonia in decomposizione nei quali si mimetizza perfettamente. Con questo sistema, vengono catturate soprattutto esemplari di media e grossa taglia. Anche le salpe di taglia piccola e medio piccola, vengono fatte oggetto di pesca, insidiate dagli ultimi nostalgici pescatori a piedi con il cosiddetto “rusacchiu”, termine derivante dalla deformazione lessicale dell’italiano rezzaglio.

Si tratta, di un’antica forma di pesca praticata appunto con il rezzaglio, una sorta di rete da lancio, che in origine veniva praticata dai cosiddetti “pitanti di mare”, poverissimi pescatori a piedi, che passavano la vita sulle allora desolate scogliere, e che spinti dal bisogno (la funzione sviluppa l’organo), sviluppavano una vista a dir poco aquilina, tanto che anche con il mare agitato e con il sole di fronte, riuscivano a scorgere qualunque presenza di vita marina esistente sotto il pelo dell’acqua, compresi i branchi di piccole salpe pascolanti sulle battigie rocciose e a scegliere il momento più proficuo per catturarle con dei lanci sorprendentemente precisi e fulminei.

Ormai definitivamente archiviata da qualche decennio la pesca di frodo con le bombe, sistema con cui venivano effettuate delle vere e proprie stragi, i sistemi di pesca professionale con cui vengono insidiate sono le reti da posta e le reti a circuizione, con o senza l’ausilio di fonti luminose. Anche le piccole salpe, sono ricercate per la bontà delle loro carni, infatti sempre se freschissime, risultano ottime in frittura e donano fragranza alle zuppette di pesci misti.

Nardò, Santa Maria al Bagno, via Giovan Battista Galvani, ieri (1930) e oggi

di Armando Polito

Immagine tratta da Salento come eravamo

 

Immagine tratta ed adattata da Google Maps

Si dice che la nostra epoca sia caratterizzata da un’informazione ridondante, cioè da un bombardamento continuo di suoni e, soprattutto, di immagini. Anche se, come pure io credo, fosse così, non sarebbe di per sé un male, a patto che venissero soddisfatte alcune condizioni che si possono sostanzialmente riassumere nel rispetto più grande possibile del certo (il vero, come ci ha insegnato Vico, è altra cosa e, probabilmente, non è di questo mondo …) e della libertà di opinione (purché più che di opinione non si tratti di una congerie di affermazioni senza capo né coda) di ognuno. Non fa male ricordare, a tal proposito, che il controllo dell’informazione è stato da sempre lo strumento primario dei detentori del potere per conservarlo, anche nei regimi cosiddetti democratici. Nell’età moderna prima la stampa, poi la stampa e la radio, successivamente la stampa, la radio e la televisione, ai nostri giorni la stampa, la radio, la televisione e la rete. Tra tutti gli strumenti la rete sembra teoricamente quella più refrattaria a lasciarsi manipolare, sembra, perché neppure essa può sfuggire all’oscuramento parziale o totale (ben venga con certi contenuti, non solo di natura politico-religiosa, inneggianti alla violenza fisica e psichica) e anche nel loro piccolo gli amministratori, tutti, non esclusi quelli a livello locale, dopo aver sfruttato il loro profilo su questo o quel social network per farsi pubblicità elettorale attaccando giornalmente la maggioranza, una volta diventati loro maggioranza, imitano il comportamento della ex pubblicizzando ogni loro scorreggia e bandendo (io dico così, anche se tutti dicono bannando …) ogni commento ostile, in ossequio alla loro malata idea di democrazia e all’altrettanto demenziale idea di libertà.

La rete, dicevo, offre opportunità impensate a tutti: al politico e al cittadino comune, all’onesto e al truffatore, al riservato e all’esibizionista,  all’intelligente e allo stupido, al credente e all’ateo. Però, come succede per tutti gli strumenti, le modalità d’uso sono fondamentali per evitare danni e il contenuto del libretto d’istruzioni della rete si può riassumere nel senso critico che si basa sulla cultura, quella che il potere politico odia (le menti che conservano autonomia di giudizio non sono facilmente manipolabili) e, in larghissima parte, mostra di non possedere, mentre si sciacqua la bocca con la digitalizzazione e la banda larga e, sul piano strettamente educativo, con la buona scuola

Bella la pappardella fin qui servita, ma, in concreto, come il lettore di questo post può manifestare il suo senso critico? Non accontentandosi, per esempio, del semplice esame comparativo consentito dalle due immagini, ma recandosi sul posto a verificare se ci sono stati ulteriori cambiamenti rispetto all’immagine tratta da Google Maps. Poi, magari sarà mosso dalla curiosità di rifare, con un soggetto diverso, la mia operazione-nostalgia utilizzando gli indirizzi riportati in calce alle immagini e, forse, percorrerà qualsiasi strada in modo meno frettoloso e meccanico. Così anche il selfie assumerà un significato più profondo e, magari, fra qualche decennio, se non sarà stato cancellato, rappresenterà esso stesso un valido elemento di confronto, proprio come una foto antica, tenendo conto dell’accelerazione negli ultimi tempi assunta dalla trasformazione antropica dei luoghi. Se, infine, decidesse di inviare il frutto della sua indagine alla redazione, credo che quest’ultima lo accoglierebbe a braccia aperte e io sarei felice di esserne stato, in qualche modo, l’ispiratore. Chi fosse mosso da questa … insana intenzione dovrebbe, però, fare in modo che il suo volto non sia tanto invadente da rendere invisibile lo sfondo …

Lo specchio convesso: viaggio nell’immaginario artistico di Marco De Mirto

DeMirto_Foto

di Marcella Negro

 

Le suggestive sale dell’ex Conservatorio Sant’Anna in via Libertini a Lecce ospitano “Lo specchio convesso”, personale di pittura di Marco De Mirto, giovane artista salentino di raro talento. Organizzata con il patrocinio del Comune di Lecce ‐ settore Cultura e Beni Culturali, l’esposizione, che si è avvalsa dell’intervento analitico di Lucio Galante (Università del Salento), rimarrà aperta sino al 30 luglio (h 11‐13; 18‐20.30). Ingresso libero.

Abbiamo incontrato Marco De Mirto per parlare di lui e della sua arte.

Da dove nasce la pittura di Marco De Mirto?

Il disegno, la figurazione fanno parte della mia vita da sempre. La facilità con cui davo lineamento alle mie fantasie di bambino mi ha accompagnato per tutta l’infanzia, in quel mix di gioco-creatività che è tipico di quell’età. Ma ricordo con precisione anche il fascino potente che esercitavano su di me i grandi maestri, del Rinascimento soprattutto, osservati attraverso le pagine dei libri.

Cosa, di un tuo dipinto, mette meglio a fuoco la tua personalità artistica?

Il simbolismo, che è parte integrante dei miei lavori. Il sottile significato sotteso alle immagini è il fil rouge che caratterizza tutte le mie opere. Un simbolismo da intendersi, naturalmente, non come quello di Moreau, Böcklin o dei divisionisti italiani – che pure fanno parte del mio background –  ma come un percorso di ricerca iconografica e poetica che si muove in un ambito assolutamente contemporaneo.

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Che cos’è per te l’ispirazione?

Ah, l’ispirazione! Ho l’impressione che con questa ‘misteriosa’ forza propulsiva si siano giustificate le peggiori nefandezze dell’arte contemporanea. La parola, ormai inflazionata, ha perso progressivamente di significato, soprattutto dalle Trans-Avanguardie in poi. Nel genere figurativo, a mio avviso, non ci si può permettere il lusso di usare il termine a sproposito: piuttosto è necessario che la visione stessa del soggetto da dipingere sia nitida, senza mascheramenti e inganni.   

Come nascono i tuoi quadri?  Come prendono forma i soggetti delle tue opere?

Mi guardo intorno: talvolta non c’è bisogno di andare troppo lontano. Spesso la verità è proprio di fronte ai nostri occhi.

C’è una poetica precisa nella tua opera? Quali messaggi è possibile leggervi?

Vi si può leggere l’attenzione verso un mondo scomparso, un mondo capace di contemplare. Un gesto, quello della contemplazione, tipico del misticismo cristiano ma anche del paganesimo con i suoi miti, raccontati attraverso liriche e poemi. Una sorta di atto di fede paradossale, calato in un contesto come quello contemporaneo che non ha più il tempo e lo spazio per soffermarsi.

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Che funzione ha il colore nelle tue opere? Ci puoi parlare delle tecniche di cui fai uso?

Il colore è fondamentale nella mia figurazione: ne faccio uso in funzione dell’immagine che devo dipingere. Le tavolozze rimandano al Seicento e al Barocco e per quanto riguarda le tecniche mi rifaccio ai materiali e alle prassi del passato.

Le tue opere sono parte di un percorso legato o intuizioni autonome?

Entrambe le opzioni. Alcuni soggetti sono ricorrenti e talvolta i dipinti stessi si configurano come una declinazione in più nuances della stessa tematica. Altri dipinti invece nascono già più autonomi, senza vincoli.

Quali sono i generi e i modi espressivi che preferisci?

Sono un purista: prediligo l’olio su tela o su tavola, per la profondità e la ricchezza espressiva che possono dare.

Quali sono gli artisti che maggiormente hanno influenzato il tuo lavoro?

Dire Caravaggio sarebbe scontato, ma io mi sono avvicinato a quel genere di pittura soprattutto attraverso uno dei suoi allievi preferiti, vale a dire Bartolomeo Manfredi. Sono rimasto folgorato dal suo Castigo di Cupido. Ancora Ribera, Salvator Rosa, Pontormo, Morbelli, Morelli, Mancini. Invece tra i contemporanei Antonio Lopez e Odd Nerdrum. Potrei andare avanti ad oltranza, la lista sarebbe lunghissima, ma mi fermo qui.

Parlaci dei tuoi imminenti impegni artistici.

Sto per inaugurare un’altra personale di pittura, dopo quella tenutasi lo scorso aprile presso la Fondazione Palmieri, con il patrocinio dell’Università del Salento. [La mostra è stata inaugurata il 13 luglio, ndr]. Si intitolerà Lo specchio convesso: un riferimento al mio modo ‘non epidermico’ di dipingere realisticamente. L’appuntamento si prolungherà sino al 30 luglio, all’ex Conservatorio Sant’Anna, con la collaborazione del Comune di Lecce. Per il resto, sto lavorando a una serie di dipinti molto grandi, dei veri e proprio teleri, ma questo per il prossimo anno.

Che significa essere pittore oggi?

Sicuramente è un lavoro inconsueto. Sì, parlo di lavoro perché di questo si tratta per me: di una professione totalizzante (come tutte le arti), con un cuore antico, fatto di manualità e pazienza. Due aspetti del ‘mestiere’ dell’artista (e non solo) per i quali al giorno d’oggi non si ha mai abbastanza tempo.

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Vitigliano e i suoi piselli secchi da tutelare e valorizzare

Il pisello secco di Vitigliano, fr. di S. Cesarea Terme (Le), la sua tutela e valorizzazione nel lavoro di giovani agricoltori

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Giuseppe Bene e i piselli sull’aia

 

di Paolo Rausa

A pochi chilometri dal mare Vitigliano, nell’entroterra di S. Cesarea Terme, come Ortelle, a poca distanza da Castro Marina, il Castrum Minervae di Virgilio, un territorio fertile, già richiamato nel nome, gli orti e le viti, una vocazione agricola che data al tempo dei Messapi e che recentemente ha trovato un paladino, da poco scomparso. Quel Giorgio Cretì, di Ortelle appunto, che ha imbastito storie popolari di pòppiti ed eroi antichi, e ha scandagliato non solo la sua terra d’origine ma tutti i posti dove è vissuto alla ricerca della sua Itaca per scoprire prodotti della terra, che spontaneamente dà – sempre parafrasando Virgilio delle Georgiche – al contadino lontano dalle armi.

Di Vitigliano ne aveva già ampiamente parlato Giorgio nei suoi ricettari, attenti alla terra e alla natura dei luoghi, rilevando un prodotto particolare, il pisello secco, ‘cucìulo’, cuocevole, riconosciuto come tipico grazie alla tenacia degli agricoltori antichi e alla volontà di uno sparuto gruppo di giovani agricoltori e agronomi che hanno preso le redini di questa terra ricca di specie vegetali.

Lo abbiamo ascoltato dalla relazione della direttrice dell’Orto botanico annesso all’Università del Salento di Lecce. Giuseppe Bene e Antonio De Santis sono i due pionieri, gli Ulissidi, non un nome altisonante, ma specifico per individuare la loro missione.

Varietà di legumi

Ieri sera in vico Piave a Vitigliano, uno spiazzo a pochi passi dalla chiesa madre e dietro il palazzo ducale, la parte popolare del paese, hanno simulato un’aia riempita di piante secche del pisello da cui viene separato il frutto, dopo fatiche inenarrabili, come ci ha dimostrato la famiglia Guida. Padre, madre e zia, tutti intenti a separare le ultime impurità. Il Presidente della Provincia Gabellone ha ricordato di aver sostenuto – con lungimiranza bisogna dire – questo progetto. Così come il Parco della Costiera Salentina. Nicola Panico, il presidente, ha riportato l’esempio delle 5 Terre dove i nuovi contadini hanno ripreso testardamente e follemente i terrazzamenti e a ripiantare i vitigni che forniscono il dolce nettare, lo schiacchetrà.

I Canali di Vignacastrisi della Porta d’Oriente, le attività dell’Orto botanico, i musei diffusi sono tutte esperienze del territorio che richiedono la saldatura, di essere messe in rete. Intanto il cantastorie P40 snocciola storie inverosimili accompagnate dai ritmi incalzanti delle fatiche dei campi. I legumi cuociono nelle ‘pignate’, ceci bianchi e neri, fagioli, piselli secchi cucìuli, un poker di bontà e sapori, che possiamo ancora degustare grazie all’impegno di chi crede nella terra e la rispetta come fattrice di benessere.

Tommasino Calora e le foto
Tommasino Calora e le foto
La famiglia Guida e Angelo Miggiano
La famiglia Guida e Angelo Miggiano

IL BREXIT o LA BREXIT: i risultati del nostro referendum

di Armando Polito

Sottotitolo: che l’Italexit, la nostra uscita dall’UE, se ci sarà, sia maschile nel nome e da maschi nei fatti …

* Tanto per cominciare: uno che difende l’italiano contro l’invadenza di altre lingue non usa chance ma opportunità. Poi: come fai a considerare nulla la mia scheda dopo che quella del Tarsi l’hai considerata valida? Infine: miaohohoh, tradotto dal felino in italiano, suona: I resti del tuo pranzo mangiateli tu!

 

Chiedo scusa per la parte finale, non per la lunghezza …, del sottotitolo, che a prima vista potrebbe sembrare degna di un retrogado, nostalgico e idiota simpatizzante della discriminazione sessuale. Non è così, ma lo si potrà scoprire solo leggendo.

Procedo, però, per ordine cominciando col comunicare l’esito del referendum indetto da me (in democrazia tutti, a loro modo, possono farlo anche se di cognome non fanno Renzi) una settimana fa su questo blog (https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/07/04/anchio-indetto-un-referendum/).

Purtroppo sono uno che evidentemente non sa parlare alla pancia delle persone, perché, se ne avessi indetto, per esempio, uno sulla frisella … (per capire l’allusione basta leggere nella  parte inferiore sinistra della home page I più letti oggi; arriverà l’anno 2050 e la frisella sarà ancora lì),  la partecipazione sarebbe stata ben diversa; prendo pure atto che non so parlare nemmeno al cervello, perché non credo che gli unici lettori intelligenti siano i cinque, dico cinque, che hanno aderito all’iniziativa.

Quattro hanno risposto sul blog della fondazione nei loro commenti che qui riporto ma che ognuno può controllare al link sopra segnalato:

Ecco la risposta del quinto lettore,  postata non sul blog della fondazione ma sul suo profilo Facebook:

A dire il vero sullo stesso profilo anche il signor Vincenzo Antonio Conte ha voluto dire (sarebbe più corretto non dire) la sua. Lascio, comunque, al lettore farsene un giudizio e per questo, nonché per completezza documentaria, ne riporto la relativa schermata:
brexit

Ringrazio il signor Vincenzo Antonio Conte solo per avermi dato l’opportunità di confermare a me stesso l’opinione che mi ero formato del giudizio  espresso tempo fa da Umberto Eco sui social network, opinione che chiunque potrà leggere al link https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/17/la-rete-i-social-e-il-tempo-perso-dietro-gli-idioti/ e nell’integrazione più recente  che troverà alla fine di questo post in nota 1.

Chiedo scusa per aver fatto perdere pure al lettore quel tempo che io stesso su Facebook non avevo voluto perdere , ma è pur sempre necessario togliersi un sassolino dalla scarpa per procedere più agevolmente e poi non volevo essere accusato di aver favorito il signor Tarsi (per quanto riguarda la valutazione più avanti fatta del suo voto) e danneggiato il signor Vincenzo Antonio Conte (agghiacciante … direbbe Crozza).

Sintetizzando numericamente, l’esito è questo:

Votanti: 6

Schede nulle: nessuna (quella del sig. Tarsi è stata equiparata ad una in cui fosse scritto: per me l’una  e l’altra  forma pari sono); d’altra parte, a voler applicare i criteri del referendum convenzionale, che può essere considerato inizialmente come come un quiz a risposta aperta, ma, una volta concluso, una sorta di quiz a risposta chiusa,  la cui “esattezza” (dovrei dire successo) alla fine coinciderà con la risposta vincente, sarei stato costretto a considerare valide solo le schede dei signori Greco e Nigro.

Schede di nullità: 1 (quella del sig. Vincenzo Antonio Conte)

Hanno riportato voti:

LA BREXIT (femminile, senza distinzione tra l’atto della consultazione e le conseguenze del suo risultato): 3 voti (Greco,  Nigro e Tarsi)

IL BREXIT (maschile, senza distinzione tra l’atto della consultazione e le conseguenze del suo risultato): 1 (Tarsi)

IL BREXIT (maschile, riferito al referendum): 2 (Notario e Traversa)

LA BREXIT  (femminile, riferito agli effetti del referendum): 2 (Notario e Traversa)

Le distinzioni che alcuni votanti hanno operato hanno felicemente sconvolto il principio del si o del no no di ogni referendum e pure la statistica, perchè è come se il totale di cinque votanti desse corpo non a cinque ma ad otto voti, è la controprova di una questione che per la sua soluzione ha visto scomodarsi perfino l’Accademia della Crusca, mentre in tv, sulla carta stampata e nelle normali conversazioni ognuno appioppava alla voce il sesso che al momento (non mi riferisco alla distinzione tra consultazione e conseguenze) gli stava più simpatico.  E la rete? Nel momento in cui scrivo (ore 10 dell’11 c. m.), digitando nel motore di ricerca “il Brexit” vengon fuori 334.000  ricorrenze, digitando “la Brexit” ne vengono fuori 880.000. Magari la maggioranza vince, il numero fa la forza, ma non è detto che abbia ragione, così come sono errati gli usi dominanti di affatto come sinonimo di per niente e, fresco fresco di piuttosto che come sinonimo di o, per non parlare di qual’è, per il quale rinvio a https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/07/05/quale-il-problema-e-che-sei-una-capra-direbbe-vittorio-sgarbi/. Talora anche in persone insospettabili anche per la professione che svolgono e per il prestigio di cui godono si manifestano incredibili crolli. Un solo esempio eclatante, la cui paternità non appartiene al senatore Razzi (se nel frattempo avesse conseguito cinque lauree non mi meraviglierei …), ma ad Ignazio Marino, l’illustre chirurgo ex sindaco di Roma al quale il PD probabilmente ha procurato danni pure a livello lessicale se in un’intervista televisiva si sente chiaramente una caria (vedi la nota n. 1 in https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/04/10/gossip-si-ma-solo-per-pretesto/).

Ma torniamo alla Crusca e alla soluzione proposta dalla prof.ssa Anna M. Thomton, le cui argomentazioni ognuno può leggere in http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/genere-brexit.

Io mi limito ad estrapolare (chi, facendo concorrenza ai politici, ha il sospetto che l’estrapolazione sia fatta a bella posta per portare furbescamente e scorrettamente acqua al mio mulino, può leggersi il tutto al link appena segnalato) di seguito qui per brevità, e solo per quello, il periodo conclusivo:

In conclusione, dovendo formulare una raccomandazione, mi sembra preferibile accordare Brexit al femminile, dato che la componente exit è etimologicamente un sostantivo corrispondente all’italiano ‘uscita’ (nonostante il fatto che sia analizzato come verbo da alcuni parlanti italiani, come Enrico Franceschini). Inoltre, mi sembra più normale usare la voce preceduta da articolo, come avviene per la maggior parte degli altri nomi di eventi (reali o ipotetici): ad esempio, la perestrojka, il global warming (altri due prestiti che indicano scenari complessi).

Facendo notare che termini come raccomandazione e locuzioni come mi sembra preferibile possono essere interpretati come nobile dichiarazione di umiltà ma anche, meno nobilmente,  come soluzione “politica” che non scontenta nessuno e che lascia ampia libertà all’arbitrio (generalmente non motivato) di ognuno, non posso fare a meno di contestare la validità scientifica della parte che ho evidenziato in rosso (non per nostalgica smania correttiva …, ma per non dover riscrivere le parole, anche, se ora mi accorgo di aver, paradossalmente, sprecato più spazio …).

Altro che “uscita“!: la voce italiana etimologicamente più vicina ad exit è esito, dal latino exitum, participio passato di exire, di cui exit è la terza persona singolare del presente indicativo. Uscita è participio passato sostantivato  da uscire, che è, per incrocio con uscio,  da un precedente escire (che oggi è solo forma toscana) dal citato latino exìre. Ricordo, oltretutto, che exit è voce tecnico-specialistica del teatro, cioè il nome della didascalia per indicare l’uscita di scena di un personaggio e che è di genere maschile, come tante altre terze persone singolari del presente indicativo di un verbo usate come se fossero sostantivi (deficit, fiat, incipit, explicit, habitat, imprimatur, licet, magnificat, placet, prosit, tacet). Dopo che tante parole latine sono passate nell’inglese, vogliamo, al loro ritorno, recuperare almeno il loro genere nativo?

Non sono un Accademico della Crusca che dovrebbe, se non difendere, almeno conoscere ciò che ci apparteneva e che sarebbe il caso di rivendicare a baluardo dall’invadente e a tratti ridicola anglofilia imperante; e io non raccomanderei  ma prescriverei (manco fosse medicina …) “il Brexit” e non “la Brexit” e auspicherei (sento puzza di politica …) che, se toccherà pure a noi dire addio a questa Europa, tanto il refendum quanto il suo effetto si chiamino l’Italexit (naturalmente l’ iniziale è da lo  e non da la… E, come Brexit è abbreviazione di Br(itish) exit (esito inglese), così Italexit sarà abbreviazione di Ital(o) exit (esito italo).

È questo il comportarsi da maschi cui mi riferivo nel titolo; e la locuzione, col trascorrere del tempo e l’evoluzione del costume, non ha nulla del maschilismo cui attingeva quando femminuccia era offensivo per l’uomo e, solo successivamente, maschiaccio per la donna; tanto meno può essere maschilista oggi in tempi in cui una donna, magari anche molto giovane e femmina al 99% (nessuno della nostra specie può dirsi maschio o femmina al 100%), non ha alcuna esitazione a dire, se è necessario, di essersi rotto le palle …

Il post da cui tutto è partito  si concludeva con l’ipotetica domanda del lettore:  – Ma che ci azzecca il brexit o la brexit con la cultura salentina? -.

Ci azzecca, perché mi consente di fare qualche riflessione per quanto riguarda il genere strano, rispetto all’italiano, di tre parole del nostro dialetto (tante ne conosxo, sarò grato a chi vorrà aggiungerne altre):

la diabete per lu diabete (il diabete)

la salame per lu salame (il salame)

la sapore per lu sapore (il sapore)

Le giustificazioni che seguono sono le uniche che sono in grado di addurre (anche qui qualsiasi altra osservazione, naturalmente pertinente …, sarà ben accetta)

La diabete è locuzione che compare nei testi di medicina del passato. Ecco una rapida carrellata nei secoli:

(La prattica dell’infermiero di F. Francesco dal Bosco, Merlo, Verona, 1664,  p. 218)

(Li bagni di Caldiero esaminati dal dottor Buonafede Vitali protomedico in Verona e patrizio busetano, Occhi, Venezia, 1746, p. 67)

(Lezioni sopra le malattie delle vie urinarie del Sig. Desault chirurgo primario dell’Hótel.Dieu di Parigi, Storti, Venezia, 1802, p. 8)

Opuscolo sul diabete del dottore Giuseppe Corneliani , Stamperia Fusi & C., Pavia, 1840, p. 5)

L’unica spiegazione plausibile è che sia prevalso il genere dell’articolo di un’apposizione sottintesa: La (malattia) diabete.  

La salame: non sono riuscito a trovare attestazioni “letterarie” e l’unica giustificazione che mi pare plausibile è quella formulata per il caso precedente: la (carne) salame.

La sapore: vale quanto detto per il precedente: nessuna attestazione trovata e probabilmente da la (sensazione) sapore.

____________

1  In Facebook non solo manca un motore di ricerca ma anche la possibilità che ad ogni post (o serie) corrisponda un link. Per questo sono stato costretto a riprodurre di seguito la relativa schermata, che non ho inserito, come le altre, nel testo perché non direttamente connessa col tema principale.

Il Risorgimento italiano. La sottomissione e l’umiliazione dei meridionali

Piccoli patrioti, di Gioacchino Toma
Piccoli patrioti, di Gioacchino Toma

 

di Rino Duma*

Il plebiscito-farsa

Dopo l’ingresso trionfale di Garibaldi a Napoli, l’annessione del Meridione al Regno di Sardegna fu legittimata istituendo un plebiscito-farsa per ottenere dagli stati europei il loro beneplacito, ammantando ogni cosa con una veste di legalità. Il 21 ottobre 1860,il popolo duo-siciliano fu chiamato ad esprimere il proprio parere sull’annessione al Regno di Sardegna. Come era nelle previsioni, gli elettori si dichiararono favorevoli a larghissima maggioranza, legalizzando in tal modo il passaggio della sovranità dai Borbone ai Savoia.Ad onor del vero, al plebiscito partecipò solo il 19% della popolazione attiva, rappresentato esclusivamente dalle classi sociali agiate, soprattutto borghesi, buona parte delle quali era di stampo liberale. Nonostante ciò gli elettori furono costretti ad esprimere il voto palesemente, deponendo la scheda in una delle due urne, contrassegnate dal “sì” e dal “no”. Solo poche migliaia di persone, fedeli alla loro terra e al sovrano deposto, ebbero il coraggio di dissentire, ma furono irrise, minacciate e, in alcuni casi, picchiate e uccise.C’èda aggiungere che furono in molti, garibaldini compresi, a votare più volte, specialmente nelle grandi città. La stragrande maggioranza della popolazione, però, quella che aveva un reddito molto basso, quella abituata a curvare la schiena per dodici ore al giornonei campi, nelle industrie, nei cantieri, nei porti,quella popolazione, cheaveva a cuore re Francesco, venneinopinatamente esclusa dal voto.

Il plebiscito, insomma, fu un volgare e meschino imbroglio, degno solo della peggiore “mafia”, quella dei “colletti bianchi”, della quale i piemontesidell’epoca furono i precursori, lasciando un solco ben profondo dentro cui i futuri governi si mossero non sempre nell’interesse del popolo e delle parti sociali più bisognevoli.

Con l’unificazione dell’Italia, i governanti di Torino pianificarono scientificamente il declassamento della società civile del Sud.

 

La destabilizzazione di uno stato-moderno

Impossessatisi proditoriamentedel potere, i piemontesi cambiarono di colpo i connotati all’ordinamento giuridico, fiscale, economico, istituzionale, sociale e, soprattutto, di vita del Meridione. Furono immediatamente rimossi i magistrati di ogni livellogiudiziario, tranne quelli di comprovata fede piemontese, i questori, gli intendenti e i sovraintendenti, i prefetti, i comandanti di importanti presidi militari, i direttori dei maggiori uffici statali. I principali personaggi della vita pubblica d’un tempo furono sostituiti da funzionari piemontesi o lombardi. I sindaci furono catechizzati ad adoperarsi pro bono pacis e a sedare in ogni modo e con ogni mezzo le varie contestazioni locali, pena l’esclusione da eventuali sussidi nazionali.

Il sistema fiscale borbonico esonerava dal pagamento dell’imposta sul reddito le classi sociali meno abbienti, mentre prevedeva per quelle più agiate il pagamento di un unico tributo per singolofuoco(nucleo familiare). Tale sistema fu sostituito da un focaticoche colpiva tutte fasce reddituali, anche quelle più basse, che erano tassate in base al numero dei componenti di ognifuoco e in proporzione al reddito prodotto.

Furono istituite le famose ed inique tasse sul macinato e sul sale, che non tutti i cittadini riuscivano a sopportare. Furono creati ex novo balzelli, gabelle, dazi e piccole imposte che tartassavano in continuazionela vita quotidianaad ogni livello.

L’aspetto, però, che, più d’ogni altro, determinò una protesta di grande e grave portata fu l’istituzione della leva militare obbligatoria di cinque anni. Vale la pena ricordare che con i Borbone il servizio militare non era obbligatorio, bensì volontario. Questa inaspettata imposizione comportò un improvviso calo della manodopera nelle campagne, nelle officine e nelle industrie, che, per buona parte, furono costrette a ridimensionare sensibilmente la produzione. Ciò determinò, nel giro di poco tempo, un calo consistente della florida economia agraria ed industriale del Mezzogiorno.

Pian piano andò aumentando tra i giovani la contestazione ed ilrifiuto di prestare l’iniquo servizio di leva. Molti di loro subirono gravi processi penali e l’incarcerazione nelle fredde prigioni di Fenestrelle, nell’alto Piemonte, nelle quali, in precedenza,erano finiti i soldati borbonici che si erano rifiutati di passare nei ranghi dell’esercito italiano. L’unica possibilità per i renitenti era rappresentata dalla latitanza nei boschi, dove in tanti impugnarono lo schioppo e diventarono “briganti”,non per derubare ma per difendere la loro terra dallo straniero, come più tardi fecero i “partigiani” contro i tedeschi a tutela del suolo patrio.

 

Il fenomeno del brigantaggio

Già mezz’anno dopo l’Unità d’Italia, in diverse zone del Meridione, iniziarono a costituirsi bande armate di giovani renitenti, contadini e manovali senza lavoro con l’unico intento di riportare sul trono re Francesco di Borbone. Le prime schermaglie videro quasi sempre prevalere le bande brigantesche, che attaccavano drappelli di carabinieri in perlustrazione,tendendo loro degli agguati, per poi ritirarsi repentinamente nei boschi. I militari italiani subirono pesanti perdite, tanto che il governo centrale fu costretto ad adottare nuove strategie, rafforzando i servizi di pattugliamento e richiamando nel Meridione un esercito di centomila soldati. Fu inoltre approvato in Parlamento il disegno di legge del deputato abruzzese, Giuseppe Pica, che prevedeva condanne capitali nei confronti dei renitenti alla leva, di coloro che fornivano armi, viveri ed ogni sorta di aiuto ai briganti. La lotta si inasprì a tal punto da culminare con la distruzione di interi paesi, dei quali ricordiamo Casalduni e Pontelandolfo. L’ordine impartito dal famigerato gen. Enrico Cialdini ai suoi soldati fu quello di “non lasciare pietra su pietra”. Furono compiuti atti di estrema e inaudita violenza: i maschi fucilati, i bambini e i vecchi sgozzati, alcune donne, quelle belle tanto per intenderci, violentate a più riprese e, a spregio, infilzate con la baionetta nella vagina. Si vantò dell’impresa il crudele generale, esaltando le gesta dei suoi soldati e definendo i meridionali con una frase che rappresenta il razzismo più becero ed umiliante che nessuna pacificazione futura potrà mai cancellare.

Questa è Affrica(sic), altro che Italia!… I beduini, a riscontro con questi cafoni, sono latte e miele!”.

 

L’aggressione al sistema monetario

Abbiamo avuto modo di ricordare in altre sedi che la grande ricchezza monetaria borbonica, secondo quanto dimostrato in Parlamento dal Presidente del Consiglio dei Ministri, Francesco Saverio Nitti, ammontava a 443,2 milioni di lire-oro (si badi che ogni lire-oro pesava ben 4,5 grammi di oro e che oggi il suo valore equivarrebbe a non meno di 170 €). Se si prova a moltiplicare i milioni di lire-oro per il valore dellasingola lira si ottiene il considerevole importo di oltre 75 miliardi di euro. Chi scrive è dell’avviso, però, che non si trattava di lire-oro, ma di ducati d’oro, ognuno dei quali pesava 19,109 grammi e valeva intorno a 700 euro. Se ora proviamo a rimoltiplicare per questo nuovo valore, ci troviamo di fronte all’iperbolico importo di oltre 300 miliardi di euro! Comunque sia il fiume di denaro servì a coprire una minima porzione dell’enorme debito pubblico piemontese. La rimanenteparte, che ammontava a ben 120 milioni di lire-oro, fu equamente distribuita a tutti i cittadini del neo stato unitario.

Nel Meridione d’Italia, al posto del ducato, fu introdotta la lira-oro, che rimase in circolazione solo per pochi anni; in seguito fu sostituita da quella cartacea, che subì ripetutamente una continua svalutazione.

 

L’aggressione al sistema economico

Anche il sistemaeconomico subì un violento attacco. Agli inizi del 1863, l’immenso stabilimento metallurgico di Pietrarsa fu concesso in affitto, per 30 anni, alla modica somma di 45.000 lire, all’imprenditore Iacopo Bozza, vendutosi anima e corpo al nuovo governo.Per incrementare i profitti, il nuovo padrone ridusse drasticamente i posti di lavoro e la paga oraria, mentre aumentò le ore lavorative giornaliere per ogni operaio. Tali iniqui provvedimenti determinarono, come logica conseguenza,l’indizione di scioperi, da cui sfociarono gravi disordini repressi nel sangue. Il 6 agosto 1863 una carica di bersaglieri provocòla morte di 7 operai e il ferimento di 20.In seguito l’industria si riprese, ma mantenne dimensioni ed ambiti alquanto modesti.

Anche i grandi stabilimenti siderurgici di Mongiana in Calabria conobbero la stessa sorte. L’acciaio calabrese era il migliore in Europa, tanto da far invidia agli stessi inglesi, che se ne approvvigionavano in continuazione. Subito dopo l’Unità d’Italia, il governo italiano preferì ridimensionare gli efficienti stabilimenti della “Ruhr calabrese”, per favorire lo sviluppo di altre industrie del settore sorte nel nord. Gli stabilimenti calabresi, insieme alle vicineminiere di limonite (minerale di ferro), furono svenduti all’imprenditore calabrese Achille Fazzari, che tentò in ogni modo di riattivarli, impegnando tutte le sue risorse finanziarie ed assumendo ben duemila operai. Dopo alcuni anni di sacrifici e in mancanza di aiuti governativi, fu costretto a ridimensionare di molto l’attività, sino a chiuderla definitivamente.

Un consistente ridimensionamento subirono i cantieri navali di Castellammare di Stabia, le grandi cartiere campane, il setificio di San Leucio e i numerosi opifici dell’indotto. Lo stesso porto di Napoli, un tempo affollato di bastimenti e piroscafi commerciali, in entrata e in uscita, conobbe una crisi lenta ed inesorabile.

Furono in tante le maestranze, insieme ai moderni macchinari, ad essere trasferiti nelle industrie del nord. Furono in tante le opere d’arte trafugate dai palazzi reali e nobiliari per arredare quelli del nord e, perfino, i loro musei.

Tra i tanti provvedimenti scellerati adottati dal nuovo governo sono da ricordare l’incentivazione riservata ad aziende settentrionali ad investire nelle industrie e nel commercio del Sud, la privatizzazione del settore industriale pubblico, l’eliminazione dei dazi borbonici sull’importazione, che comportò il crollo del commercio internazionale ed interno. Scelte inopportune che determinarono il drastico ridimensionamento della produzione, la chiusura di diverse fabbriche e il conseguente licenziamento di migliaia di lavoratori.

In pochi anni, insomma, la grande economia del Sud fu costretta ad inginocchiarsi e a conoscere l’onta dell’umiliazione e della povertà.

Allo smisurato e incolmabile danno, seguì un’atroce e meschina beffa. Uno strisciante ed ignobile terrorismo psicologico s’insinuò nella coscienza della gente del Sud, che arrivò perfino a gratificare i loro stessi persecutori, considerandoli ed acclamandoli alla stregua di salvatori e benefattori. Attraverso la sistematica falsificazione della verità storica fu esaltato il mito risorgimentale. I giornali, le riviste, i romanzi, le commedie, i racconti, le canzoni, le opere letterarie e musicali, e, soprattutto, i libri di storia rappresentarono gli strumenti che fecero, apparire “vero” il “falso” storico. E ci riuscirono.

 

L’emigrazione

Dal 1863 in poi iniziarono i “viaggi della speranza”. Molti meridionali, per far fronte alla povertà e ai seri problemi ad essa collegati, decisero di abbandonare il loro paese e partire “per terre assaje luntane”, nella speranza di trovare un lavoro e una vita più dignitosa. Con un carico di poche valigie, interi nuclei familiari s’imbarcarono su bastimenti, vecchi e fatiscenti, verso “la Mèrica”, tutti ammassati in coperta, alla stregua di animali, per giorni, per mesi, privi di un ben che minimo supporto igienico, con due pasti quotidiani poco energetici, con una latrina comune situata in una zona non molto riservata del ponte, con un paio di infermieri che facevano da medici, con gli occhi protesi sempre all’orizzonte alla ricerca spasmodica della terraferma, che forse li avrebbe riportate a nuova vita.

Alcuni piroscafi affondarono a seguito di violente tempeste, ad altri non fu concesso di attraccare in porto perché a bordo vi era un’epidemia di colera o di tifo, altri ebbero la fortuna di approdare e di scaricare il prezioso “oro umano”, comprato a basso prezzo da mercanti senza cuore. Furono in molte le famiglie a patire le stesse sofferenze italiche. La gente si arrabattava alla meglio, viveva in squallide stamberghe prive delle essenziali condizioni di vita, mangiava cibo di scarsa qualità e si copriva con luridi stracci. Solo in pochi ebbero la fortuna di affermarsi e di costruirsi una vita adeguata alle loro aspettative.

In cinquant’anni di emigrazione, ben 10 milioni di italiani abbandonarono la loro patria. Di questi, la maggior parte erano meridionali, veneti e friulani, una modesta parte di altre regioni, anche del Piemonte. Solo nel 1915 la partenza verso le Americhe s’arrestò come d’incanto. I giovani, però, partirono ugualmente verso un destino ancora più crudele del migrante, partirono per la “Grande Guerra” per essere utilizzati come “munizioni” da mitraglia e palle da cannone contro gli Austriaci, a difesa di interessi e privilegi dei “Savoia”, che portarono,in settant’anni di regno, miseria e lutti alla maggior parte degli italiani. Poi, terminata la guerra, l’emigrazione riprese intensa sino alla fine degli anni ’60… e furono in tutto 14 milioni di disperati, sparsi in tutto il mondo.

Conclusione

Gentili lettori, la storia che vi ho raccontato non è affatto una storia inventata, né tantomeno una storia di parte, bensì una storia realmente accaduta e che mai alcun libro di scuola ha inteso ricordare e tramandare alle giovani e fuorviate generazioni di oggi.

Ora che avete letto i miei brevi scritti, vi invito a soffermarvi per qualche minuto, a meditare e a trarre le dovute riflessioni. Fatelo senza dare ascolto all’ingannevole richiamo che viene dalla vostra diversa appartenenza territoriale, politica, religiosa, sociale. Se lo ritenete opportuno, andate a consultare un buon libro di storia, oppure fate delle ricerche approfondite su Wikipedia. Vi accorgerete che le mie affermazioni non sono dettate da ragioni faziose, ma sono sacrosante e rispondono al vero. Perciò, continuate a meditare e, se potete, calatevi per qualche attimo nei panni di quella poveragente del Meridione che all’improvviso si trovò a subire l’occupazione straniera e a vivere un dramma epocale.

Fatelo – vi prego – anche se vi costerà molta fatica e susciterà in alcuni di voi rammarico, rincrescimento e rabbia. Solo in questo modo potrete capire quanto ebbero a soffrire le genti del sud e quanto ancora si facciano sentire, a distanza di 150 anni di Unità,alcunediscriminazioni sociali tra le varie genti italiche. Dispiace dirlo, ma oggi siamo molto distanti dal considerarci “Fratelli d’Italia”. Ciò nonostante “W l’Italia!”.

*Pubblicato su  “Il filo di Aracne”

Gli affreschi della chiesa dell’Assunta in Botrugno

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Il recente restauro della chiesa dell’Assunta in Botrugno* ha restituito alla comunità del Salento l’ennesima testimonianza di una pregevole produzione artistica medievale dell’Italia Meridionale. In particolare, sono state riscoperte e disvelate sia l’intera abside sia grande parte della parete est di un’antica chiesa, dotata di notevoli affreschi bizantineggianti, databili al XIV secolo, ricchi d’iscrizioni in lingua greca.A completamento di quel recupero materiale, nasce il quarto volume della collana “de la da mar”, ideata e curata dallo storico dell’arte Sergio Ortese. L’opera, caratterizzata da un’alta qualità materiale e una splendida veste grafica, comprende, oltre al bellissimo corredo fotografico di Michele Onorato, cinque brevi ma dettagliati studi che ampliano le conoscenze sull’edificio, rischiarandone le vicende storiche e decorative.

Il saggio di apertura, a cura di Vito Papa, consente un’accurata revisione della documentazione storica e prova la dedicazione medievale della piccola chiesa a San Nicola di Mira.

Ristrutturata nel 1726 e mutata l’intitolazione in favore dell’Assunta, la fabbrica, nel corso della sua lunga storia, registra numerosi rimaneggiamenti, raccontati in un’utile appendice di Ada Toni.

Spetta al paleografo Francesco Giannachi il compito di analizzare tutte le iscrizioni greche presenti negli affreschi: semplici tituli identificatori, rotuli dipinti con preghiere liturgiche e testi biblici, spesso frammentari. Ciò consente il chiaro riconoscimento sia dell’elemento “etnico” sia del rito bizantino celebrato nella chiesa originaria.  Un piccolo scavo, di tre metri quadri, nella zona absidale, è stato curato, con accurata velocità, dall’archeologa Paola Tagliente. Il suo risultato più eclatante, oltre all’individuazione dell’antico templon, appare la posizione di una tomba, posta davanti all’abside, delineata con pietre squadrate e ancora corredata. Ne restano da catalogare, nonché studiare adeguatamente e in forma multidisciplinare, i reperti umani.

Il restauratore di beni culturali Giuseppe M. Costantini ci offre un’interessante osservazione sulla materia dell’intero edificio e un’ampia prospettiva degli studi e del restauro da fare. Lo studioso, soffermandosi sugli affreschi, oltre a rilevare alcuni caratteri del testo pittorico riconducibili ad alterazioni dei pigmenti adoperati, pone delle interessanti notazioni sull’impaginazione data al testo pittorico medievale nonché sul trattamento condotto sui “graffiti storici intenzionali” che interessano gli affreschi.

Il saggio di Costantini è corredato da un’appendice affidata a Damiana Cianci, la restauratrice che ha effettualo il recente restauro, in cui sono dettagliate le tappe e i materiali dell’intervento compiuto.

Il cuore del libro è nel pregevole studio di Sergio Ortese che, ripercorrendo la fortuna critica sull’argomento, presenta l’intero programma decorativo con dovizia di particolari.

Tra le figure di maggior interesse spicca la cosiddetta Madonna del segno nella conca dell’abside, unico esempio noto a oggi in Italia meridionale.

L’iconografia della Madonna del segno è strettamente correlata al frammentario affresco dell’Annunciazione “svelato” sulle murature che fiancheggiano l’abside: la missione di Gesù comincia nel grembo della madre.

Il programma absidale di Botrugno procede dal basso verso l’alto attraverso una concatenazione di immagini che si concludono, anche sul piano simbolico e teologico, nel registro superiore della chiesa, cioè nella superficie piana che corona l’abside. Quanto messo in luce dal restauro restituisce una visione teofanica sotto forma di visione dei profeti.

L’apice della visione teofanica di Botrugno culmina nella raffigurazione dell’Antico dei Giorni. Per i greci di Terra d’Otranto l’Antico dei Giorni prefigurava Cristo prima della sua incarnazione oltreché essere qualificazione del Verbo, considerato nella sua eternità, senza principio: “io sono l’Α e l’Ω”.

Una prima indagine dei soggetti e delle scene “svelate” con il restauro, fa pensare che quanto resta del ciclo pittorico intendesse tradurre con le immagini un complesso e articolato discorso sul significato dell’eucarestia e sulle forme in cui Cristo si è manifestato nel corso della sua storia eterna.

Prefazione di  S. E. Mons. Donato Negro, Arcivescovo di Otranto, Sac. Angelo Pede, Parrocchia dello Spirito Santo Botrugno

Introduzione di LindaSafran Pontifical Institute of Medieval Studies, Toronto

 

* Il restauro della chiesa, promosso dalla locale Parrocchia dello Spirito Santo e dalla Soprintendenza di Puglia, è stato progettato ed eseguito dallo Studio DEA XXI (Dania Cianci), con la direzione scientifica della dott.ssa Rosa Lorusso.

copertina web

Mercoledì 13 luglio dalle ore 20:30 alle ore 23:00

Botrugno, Chiesa dell’Assunta, Via Nazario Sauro

Botrugno, Chiesa dell’Assunta – la parete absidale dopo il disvelamento degli affreschi

(quarto volume della Collana DE LA DA MAR, ideata e curata da Sergio Ortese, edito da Mario Congedo Editore):
– Introduzione di Linda Safran
– Saggi di  Vito Papa, Sergio Ortese, Paola Tagliente,  Francesco G. Giannachi, Giuseppe M. Costantini
– Schede di  Ada Toni, Damiana Cianci
– Curatela di Sergio Ortese
– Anno: 2016
– Codice ISBN: 97888867661381. Brossura, cm 21 x 28, pp. 96, illustrato a colori.

NAUNA: sulla bontà dell’iscrizione ho qualche dubbio, su quella del vino nessuno

di Armando Polito

Nulla sapremmo dell’iscrizione, comunque andata perduta, se non ce ne avesse lasciato traccia Girolamo Marciano (Leverano, 1571-Leverano 1628) nella sua opera pubblicata postuma nel 1855.

Come si legge nel frontespizio, l’opera reca le aggiunte di Domenico Tommaso Albanese (Oria, 1638-Oria, 1685), ma credo, nonostante tali aggiunte formino un tutt’uno col testo originale e sia, perciò pressoché impossibile distinguere il contributo cronologicamente successivo, che tutto ciò che riguarda la nostra iscrizione sia da attribuire al Marciano anche per la maggiore vicinanza geografica di Leverano a Nardò rispetto ad Oria.

Di seguito il testo relativo tratto dalla parte dedicata a Nardò.

 

Il Marciano parla di due tavole di rame e dalla disposizione grafica del testo si direbbe che la prima ne contenesse uno enormemente più lungo. Per ora non procedo alla traduzione ed al commento, anche perché non posso passare sotto silenzio coloro che in varie epoche, dopo il Marciano, di questa iscrizione si sono occupati. Seguirò l’ordine cronologico.

il primo è una vecchia conoscenza di chi si occupa della storia di Nardò, vale a dire Pietro Pollidori (Fossacesia, 1687-Roma, 1748), al quale più di uno in tempi recenti ha rimproverato di aver prostituito il suo talento di storico nella confezione di documenti falsi allo scopo di dare prestigio alle memorie del luogo in cui volta per volta esercitava il suo servizio, in parole povere per assecondare, in modo certo non disinteressato, un deviato (e nefasto per la verità e per la storia) senso dell’orgoglio campanilistico. E tutto questo pure a Nardò, ai tempi di Giovanni Bernardino Tafuri (1695-1760) e del vescovo Antonio Sanfelice (1707-1736).

Suo è un ampio scritto pubblicato nel tomo VII della Raccolta di opuscoli filosofici e filologici a cura di Angelo Calogerà, Zane, Venezia, 1732, pp. 410-496, recante il titolo Expositio veteris tabellae aereae, qua M. Salvius Valerius vir splendidus emporii Naunani patronus decernitur (Saggio sull’antica tavola di rame nella quale si legge Marco Salvio Valerio uomo splendido patrono della piazza commerciale di Nauna). Il saggio è preceduto da una lettera dedicatoria indirizzata all’arcivescovo Carlo Majello recante la data del 13 marzo 1725, che si conclude con l’augurio di un riscontro critico, che, a quanto ne so, non seguì, nel senso  che non ci è rimasto nessun documento in cui il Majello sembri accettare in toto o parzialmente, oppure respingere le argomentazioni del Pollidori.

L’ideale sarebbe stato riportare l’intero saggio, mentre il taglio divulgativo di questo post avrebbe reso sufficiente riportare in sintesi il pensiero del Pollidori. Ho scelto, invece, una strada intermedia perché ritengo che anche i non addetti ai lavori abbiano il diritto di conoscere le fonti originali e non solo la loro interpretazione. Riporterò, perciò, i passi più salienti con la mia traduzione a fronte e qualche nota esplicativa in calce.

 

ll saggio del Pollidori, dunque, non è il frutto di un esame autoptico ma solo uno studio della trascrizione che, secondo lui, presenta prerogative di maggiore fedeltà. A proposito di questa iscrizione si legge che essa risultava già perduta ai tempi del Mommsen (1817-1903). A questo punto tale perdita va retrodatata con certezza al  1725 e, viste le superfetazioni di cui s’è detto a proposito della trascrizione del testo, non è da escludersi che la data della sua scomparsa sia da retrodatare ancora. Rimane plausibile che la trascrizione del Marciano sia autoptica (quando essa venne rinvenuta, nel 1595, l’umanista di Leverano aveva 24 anni),

Dopo l’introduzione che abbiamo visto il Pollidori esamina il testo dell’iscrizione linea per linea, commentandone ciascuna prima di passare alla successiva. Di specifico interesse è la nota alle locuzioni EMPURII NAUNAE  (dell’emporio di Nauna) e, più avanti EMPURII NAUNITANI (dell’emporiio naunitano) perché, essendo stata l’epigrafe rinvenuta a Nardò,  si è pensato che Nauna fosse il nome del porto di Nardò e nel tempo  la si è identificata, giocoforza, con questo o quel punto della lunga costa ricadente nel territorio di Nardò, tenendo conto della presenza o meno di reperti archeologici che giustificassero, oltretutto, la funzione commerciale, per la verità già quasi scontata, direi, a meno che non si tratti di una base militare, per qualsiasi porto. Così, a parte Giovanni Alessio (Problemi di toponomastica pugliese, Cressati, Taranto,1955) che considerò Nauna, connesso con la stessa radice del greco ναῦς (leggi vaus)=nave,  come il nome messapico di Anxa, l’antico nome di Gallipoli, l’identificazione proposta ha riguardato, volta per volta, con riproposizione in qualche caso dello stesso toponimo con motivazioni più o meno diverse, le località che qui indico così come si presentano al visitatore spostandosi da Nardò fino a Porto Cesareo (che ora è un comune autonomo): S. Maria al Bagno, Frascone, S. Isidoro, Scalo di Furno). Per gli autori dell’attribuzione vedi alla fine la bibliografia.

Sorprende non poco, però, che, a quanto ne so,  nessuno di coloro che si sono occupati dell’iscrizione e di Nauna (a parte il Mommsen, ma en passant, come vedremo) hanno avuto la delicatezza di citare il Pollidori (nonostante abbia anticipato, in modo filologicamente impeccabile, molte osservazioni successive; ma tant’è, basta qualche peccatuccio perché non ti si dia retta nemmeno quando hai ragione …) sul toponimo così scrive (pp. 428-438):

 

Com’è noto, nel 1847 a Berlino presso l’Accademia delle scienze veniva istituito un comitato, guidato da Theodor Mommsen, con il compito di creare una collezione organizzata di tutte le iscrizioni latine pubblicate in passato dagli eruditi in ordine sparso. Nasceva così il C. I. L. (Corpus Inscriptionum Latinarum). Il primo volume uscì nel 1863 e mentre il Mommsen era in vita altri quattordici. La nostra fu pubblicata nel volume IX nel 1883. Di seguito il frontespizio e la relativa scheda, con il testo nella lettura del Mommsen che ancora è quella ufficiale (e resterà tale, credo, in eterno, a meno che non salti fuori all’improvviso, magari da qualche museo straniero …, l’originale).

 

Mi soffermo solo, prima di passare, finalmente, alla traduzione del testo dell’epigrafe su un solo dettaglio descrittivo che la dice lunga sull’acribia che è destinata sempre a subire duri colpi quando manca l’esame autoptico o esso, come nel nostro caso, era ed è ormai impossibile.

Il Mommsen scrive: tabula fastigiata cum foraminibus quattuor pingitur apud Marcianum (scr.) [viene descritta come una tabella terminante a punta con quattro fori [mano] scritto. Sfido chiunque a trovare conferma nel testo, che ho riportato all’inizio, del Morciano.

(Sotto i consoli Antonio Marcellino e Petronio Probino il 6 maggio, mentre il popolo dell’emporio di Nauna chiedeva per acclamazione che dovesse essere offerta a dio una tavola di bronzo incisa del patronato a Marco Sal() Valerio uomo splendido cui già da tempo secondo la voce e la volontà del medesimo popolo è stato offerto l’onore del patronato. Ciò che avvenisse di questa cosa, così della stessa cosa decisero avendo già da tempo il popolo devoto offerto pubblicamente l’onore del patronato a quel Marco Sal()= Valerio i cui immensi benefici offrì non soltanto ai cittadini del municipio ma in verità anche a noi stessi avendo sempre amato anche il nostro emporio così che, dovunque esercitò il potere, ci garantì sicuri e difesi. Per questo è necessario ricompensarlo; e così piace a tutto il popolo dell’emporio di Nauna che sia opportuno dovergli offrire una tavola di bronzo incisa affinché accetti con animo ben disposto quel che gli è stato offerto degnamente in onore dal devotissimo popolo del nostro emporio. Su decreto di Caio Giulio Secondo, del pretore Caio Id() Memio, Caio Ge(= Afrodisio, Caio Pro() degli altri)

Non meno vanti di sorta, ma, a quanto ne so, questa mia è la prima traduzione integrale dell’iscrizione. Lo stesso commento del Pollidori, d’altra parte, riguarda solo i nessi più significativi di ciascuna linea. Probabilmente chi ha tentato l’impresa si è lasciato scoraggiare dalla lezione del Mommsen che, per quanto autorevole, pone più di un problema di ordine grammaticale, D’altra parte sarebbe bastato tener conto di alcune varianti registrate dallo stesso studioso tedesco in calce al testo. Tra l’altro non sono neppure molte, anzi sono soltanto due: onor per onorem e oblatus per oblatum.

Prima che il lettore resti ubriacato da schede, citazioni, immagini, traduzioni, varianti, congetture e simili, è tempo che io riservi la sua residua sobrietà alla bottiglia di vino NAUNA che all’inizio campeggia accanto alle tavole di bronzo (naturalmente, fittizie). A questo punto qualcuno mi rinfaccerà l’intento pubblicitario del post. Ebbene, sì, lo confesso. tra me e il titolare dalla cantina neretina che lo produce è stato stipulato appena l’altro ieri in località Masserei (praticamente in casa mia …), alla presenza del notaio Se fossi fesso, ti direi chi sono (non esiste cognome più lungo e, come se non bastasse, fornito pure di virgola) un contratto che prevede a mio favore la fornitura gratuita di tale vino vita natural durante nella quantità di una bottiglia al giorno (la penale per la mancata osservanza prevede un risarcimento di tre bottiglie per ognuna non consegnata o, in alternativa, una somma pari al decuplo del prezzo corrente (che non è certo, e, onestamente, non può essere, popolare).

Anche se per ogni giorno che mi resta, appena sveglio, sarò costretto a toccarmi, mi piace pensare che il titolare, invece, per qualche tempo non si toccherà, ma si morderà le mani con cui ha firmato quel contratto, pensando che gli sarebbe costato molto meno, indipendentemente dal rispetto dei patti, rivolgersi alla migliore agenzia pubblicitaria …

Un’ultima riflessione: Nauna si legge Naùna oppure Nàuna? – Ecco il solito maniaco erudito da strapazzo; questa questione dell’accento fa il paio con “il Brexit o la Brexit?” per il quale, addirittura è stato scomodato un referendum tra i lettori (https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/07/04/anchio-indetto-un-referendum/) – potrebbe osservare qualcuno dei pochi lettori, forse, arrivati fin qui. Nel fare presente che il referendum scade alle ore 24 di domenica 10 c. m., che non indirò un’altra consultazione, che respingo l’erudito (con i tempi che corrono è un’offesa) ma accetto, in un sussulto d’insolita umiltà il da strapazzo …), che nella ricostruzione della verità non solo storica ogni dettaglio formale (anche una virgola, un articolo, un accento) è prezioso, dico solo, a proposito di quest’ultimo dilemma, che la plausibilissima ipotesi dell’Alessio [dal greco ναῦς (leggi vàus)], ripresa poi dal Ribezzo, imporrebbe la lettura Nàuna (essendo au dittongo, come avviene per l’italiano causa), anche se l’esperienza mi dice che la pronuncia più corrente è, forse, Naùna, perché, non sapendo che au è dittongo, la parola è considerata trisillaba e nella scelta prevale una tendenza quasi istintiva legata alla maggiore musicalità di una  parola piana rispetto ad una sdrucciola.

 

BIBLIOGRAFIA  (alla fine di ogni volume citato riporto l’identificazione proposta, laddove compare, di Nauna).

Francesco Ribezzo, Nuove ricerche per il C. I. M., Roma, 1944, p.187, nota 1. (S. Maria al Bagno, identificazione ribadita nello studio successivo)

Francesco Ribezzo, L’arcaicissima iscrizione messapica scoperta a Nardò e il suo “Portus Nauna”, in Archivio storico pugliese, V, 1952, pp. 68-77. (S. Maria al Bagno)

Mario Bernardini, Panorama archeologico dell’estremo Salento, bARI, 1955, p. 60 (S. Maria al Bagno).

Giancarlo Susini, Fonti per la storia greca e romana del Salento, Accademia dell’istituto delle scienze, Bologna, 1962, p. 91 (Scalo di Furno).

Alfredo Sanasi, Ricerche archeologico-topografiche su Neretum inetà romana, in La Zagaglia, anno VI, N. 21, 1964, pp. 36-40 (S. Maria al Bagno)

Maria Teresa Giannotta, Bibliografia Topografica della Colonizzazione Greca in Italia e nelle Isole Tirreniche, XII, Pisa-Roma, 1993, alla voce Nauna, pp. 314-316.

Cesare Marangio, CIL IX, 10 e il porto di Neretum, in L’Africa romana. Lo spazio marittimo del mediterraneo occidentale: geografia storica ed economia. Atti del XIV convegno di studio Sassari, 7–10 dicembre 2000, a cura di Mustapha Khanoussi, Paola Ruggeri e Cinzia Vismara, Carocci, Roma,  2002 (S. Maria al Bagno, identificazione ribadita nello studio successivo)

Cesare Marangio, Porti e approdi della Puglia romana, in I porti del Mediterraneo in età classica, Atti del V Congresso di Topografia Antica, Roma 5-6 ottobre 2004, Rivista di topografia antica, XVI, 2006, pp. 101-128  (S. Maria al Bagno).

Rita Auriemma, Chiara Pirelli e Gabriella Rucco, Il paesaggio come museo. Archeologia della costa di Nardò, in Notiziario numismatico dello Stato. Serie “Medaglieri italiani”, n. 8, 2016, pp. 144-150  (Frascone).

 

Episodi del 1860 a Nardò

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EPISODI IGNORATI SUGLI AVVENIMENTI del 1860 A NARDÒ

SECONDO UN’INEDITA CRONACHETTA DEL TEMPO

 

di Giovanni Siciliano

Sul n. 7 del settembre 1960 di « Zagaglia » (pag. 66) Ag. Gabrieli ha dato notizia di una lettera a monsig. Luigi Vetta vescovo di Nardò.

Ciò merita un maggior corredo di notizie riflettenti quel periodo storico.

Da un manoscritto, ch’è una cronaca che si inizia il 1848 e termina al 1861 (redatta dal notaio Policarpo Castrignanò padre dell’altro notaio Gregorio; come si evince dalla nota del giugno 1850 in cui fa cenno del contratto da lui stipulato per la costruzione del palazzo vescovile, e successivamente il 10 gennaio 1860, quando annota che, per atto di suo figlio G.(regorio) Castrignanò, fu redatta la convenzione tra la Commissione di beneficenza; poi Congregazione di Carità ed ora Ente comunale d’assistenza; il Comune e le « sorelle della carità» perché reggessero l’ospedale e come per tale atto si pagarono 1000 ducati = L. 4250; perché venissero dalla Francia), si possono trarre le seguenti notizie.

Da tale manoscritto risulta che il 2 feb. 1848 si ebbe conoscenza come il 29 gennaio Ferdinando II aveva, di sua volontà, concessa la Costituzione. La cronaca così annota :

« La mattina de’ due Febraro coll’arrivo della posta si ebbe la certa notizia, che il 29 caduto Gennaro, S. M. Ferdinando volontariamente si determinò dare la costituzione italiana, essendo uscito Lui medesimo a promulgarla, e quindi sul momento s’inalberò la bandiera tricolore, ed allegrezza generale gridando viva Pio IX, il Re, e la Costituzione. Il Vespero con tutta sollennità, e folla di Popolo e banda si cantò il Tedeum con Sermoncino del Primicerio Leante, ed indi si girò tutto il Comune così gridando, e con spari ».

In quel periodo pare che il vescovo fosse assente perché sotto la data del 20 giugno 1849 sta scritto :

« Essendo andato a Napoli il nostro vescovo D. Ferdinando Girardi prima del 29 Gennaro 1848, che sua Maestà decretò la costituzione Italiana, e che più non ritornò e fu traslogato nel Comune di Sessa, prese possesso di questo Vescovato il Sac. D. Luigi Vetta nativo del piccolo comune di Acquaviva delle Croci (Collecroce) nel Contado del Molise, Capitale in Campobasso, consagrato con delegazione del Pontefice, che si trovava in Gaeta, in Napoli. Fu investito di provicario Genie l’Arcidiacono D. Gius. e Leante già Vicario Capitolare e Proc.re, che ne prese il possesso dopo la lettura delle bolle e procura. Si cantò il Tedeum, con banda e spari ».

Di poi la cronaca di seguito annota :

« A 20 settem.e: d.° anno c. a. le ore 22, giunse in Nardò il d.° nuovo Vescovo, portando seco un segretario dal titolo di Uditore presso d. Vescovo, D. Giuseppe can.co Teta di Avellino, e propriamente del Comune di Nusco, ed un Cameriere; venendo da Lecce rilevato da’ Proc.ri del Capitolo Penitenziere Rucco ed Abbate D. Gio. Ingusci; ed anche dai Procuratori del Ceto. Uscirono avanti 4 carozze, ed arrivato all’Osanna, fu vestito nella Chiesa della Carità, ed indi all’appiè sotto d. Palio girò da sotto S. Antonio, Conservatorio, passando da S. Chiara, Piazza, e Cattedrale con pompa, e folla di Popolo, e dopo la solita cerimonia, fece seduto sul Faldistorio un’omelia, e fu condotto al Seminario, luogo per il suo domicilio, per la mancanza del Palazzo Vescovile.

Giunto in sede il Vescovo Vetta alla data del 20 settembre 1849 non restò inoperoso e, con contratto del giugno 1850, provvide a mandare a termine la casa episcopale nella parte posteriore alla facciata. Il cronista, lo stesso notaio così scrive :

In giugno 1850 per nuovo contratto da me stipulato si ripigliò il Fabrico del Palazzo Vescovile dallo stesso M.ro Donato Cimino, che contrattò con l’attuale vescovo D. Luigi Vetta ben intenzionato,giacché simile contratto l’avevano potuto fare gli anteriori Vescovi dopo la morte di Monsignor Lettieri, e non lo fecero.

Infatti la facciata del palazzo porta lo stemma di monsignor Salvatore Lettieri, a memoria del quale, come annota lo stesso Castrignanò; il 10 nov. 1852; e cioè precisamente dopo tredici anni dalla morte; che sarebbe quindi avvenuta nel 1839; fu murata una lapide attualmente esistente e che, sempre a dire del cronista, giunse via mare a Gallipoli, e accorsero 24 facchini per il trasporto.

La facciata della cattedrale di Nardò, disegnata da Ferdinando Sanfelice
La facciata della cattedrale di Nardò, disegnata da Ferdinando Sanfelice

Né la cura edilizia del Vescovo Vetta fu posta solo per il palazzo perché l’attuale chiesa dell’Immacolata (già S. Francesco) nella volta ha lo stemma di detto vescovo : una torre in vetta ad un monte; il che sta a dire che fu fatta a sue spese in una al contrafforte sul lato della strada, forse perché in antecedenza, data l’altezza e la mole; invece della copertura in pietra vi era una tettoia.

Sotto la data del 23 maggio 1853 il cronista annota :

« …si demolì interamente l’arco vecchio del seminario e per tutto il giorno 25 si sbarazzò la strada dal Materiale, dovendo il 26 g.no del Corpus passare la processione. Ciò avvenne dopo che di già si era fatto l’arco nuovo di comunicazione tra il seminario ed il Palazzo nuovo Vescovile principialo o sia ripigliato il fabrico in giugno del 1850 come sopra e già compito, ed abitabile, ma il Vescovo Vetta non ancora ci dormiva per la tinta di olio alle porte ed altro, ma le spese continueranno per perfezionare parte dei sottani, basulati e tutt’altro, ec. ec. e col fatto si osservava la ferma intenzione del Vescovoa fronte degli antecessori.

Dalle successive annotazioni risulta che il palazzo episcopale fu abitato dal vescovo solo nel gennaio 1854.

Ma il 7 agosto 1855 scoppiò il « cholera morbus » ed il cronista annota che fu fatta una processione di penitenza con la statua del protettore S. Gregorio Armeno e guidata dal vescovo Vetta. Il bilancio del male fu triste perché sino al 21 sett. 1855 ci furono 288 decessi; 528 contagiati e 200 guariti e fu in tale occasione che si dovette ampliare il cimitero in quella zona detta ancora « il colera ».

Durante l’epidemia anche il vescovo si prodigò recandosi presso gli ammalati.

Segue poi questa notizia :

« Nel dì 22 maggio dell’anno 1859 Domenica alle ore 17 3/4 passò all’altra vita il nostro Sovrano Ferdinando secondo in Caserta, ove da più anni domiciliava, e dietro una malattia di c.a mesi cinque chiamata da Medici, ascesso alla goscia destra, dell’età di anni 49 e mesi 4, si ebbe notizia la mattina ben presto che 23 d.° per il ramo della Polizia col telegrafo elettrico, e questa comunicata con dall’Intendente a questo giudice, e Sindaco, coll’annuncio di essere salito al Trono il Principe Ereditario Francesco secondo unico figlio procreato colla prima moglie Maria Cristina di Sardegna decretando nel tempo stesso, che ad eccezione del solo titolo, tutt’altro restare nello stato attuale fino a nuove disposizioni. Ciò fu con firmato colla notizia ufficiale avuta colla posta de’ 27 d° Mag.

A 4 giugno dell’anno il nro Vescovo Luigi Vetta ne fece il funerale pomposamente ed il Primicerio Marinaci l’orazione funebre; ma io nulla vidi perché incomodato ed i tempi non mi permettevano uscir di casa.

E si arriva già al regno d’Italia. Il cronista annota :

  • Con decreto de’ 11 sett. 1860 da Vittorio Emanuele Re’ d’Italia, che di già reggeva il Regno di Napoli fumo abolite le sepolture e richiamata in vigore la Legge sulli Campi Santi.

Il cronista tace su altri avvenimenti di carattere politico svoltisi successivamente e nell’anno 1861 annota :

« A 4 giugno 1861 si restituì in questa sua sede il nostro vescovo D. Luigi Vetta venendo dalli Bobbò di Lecce da dove fu rilevato dall’Arcid° Marinaci dal Primicerio Perrone; e non ancora da due dignità, al par delle altre, preso possesso da D. Giuseppe de Michele, dal giudice D. Vito Lorè, da D. Emanuele de Pandi e da d. Fra.co de Pandi sotto capo urbano, appositamente andati il mattino de’ 4 sud. con due carozze.

Egli lasciò la sua residenza per timore; ed andiede primo per pochi giorni allo Brusca, indi passò in Parabita, dove stiede per qualche tempo, ed indi, perché minacciato, coree si disse, si andiede a concentrare in Lecce tra i monaci Bobbisti ».

 nardò piazza

ERRATA CORRIGE

Le carozze furono tre – nella prima ci andava Monsignore – Il Giudice – Marinaci sud.°, ed il sotto Capo D. Francesco de Pandi -nella seconda il detto Perrone, ed il canonico Aprile, e nella terza li Sacerdoti D. Dom.co Antonio Asciutti, e D. Giuseppe De Michele.

Giunsero circa le ore 22 – e fin dalla Porta Maggiore della Cattedrale, un’immensità di Popolo echeggiando di evviva, accompagnò le carozze.

Entrato in Chiesa nella quale in un momento non si poté più penetrare per il concorso della Popolazione, fu ricevuto dall’intiero Capitolo, Preti e Chierici. Si espose il SSmo, e prima della benedizione e Tedeum, Monsignore seduto al Faldistorio, e quasi piangendo, fece un fervorino, inculcando la pace, l’unione e l’amore fra tutti e la pena da Lui sofferta lo star lontano dalla sua sede, ed amata Nardò.

E qui ha termine la cronaca la quale si occupa anche della nomina del frate Pro-Lettore domenicano nativo di Nardò : Michele Caputi di anni 43 a vescovo di Oppido Mamertino.

La cronaca è stata trascritta integralmente con il florilegio grammaticale chiarendo soltanto che « Brusca» è il nome di una masseria di Nardò in prossimità del mare e « Bobbò » è l’attuale reclusorio di Lecce che si vede uscendo da porta Rudiae nei pressi di S. Maria dell’Idria.

Il fatto che « per timore » e « minacciato » il vescovo si fosse allontanato, deve attribuirsi alle correnti politiche del tempo e cioè tra i favorevoli al nuovo stato di cose e quelli ancora ancorati alla dinastia borbonica.

I tempi si succedono sempre allo stesso modo e nei rivolgimenti politici occorre la sedimentazione per il trapasso tra un ordine di cose e l’altro.

Dalla piccola cronaca in mio possesso si rileva ancora che alle ore 8 e 10 minuti del 12 ottobre 1856 ebbe luogo un terremoto di natura ondulatoria che lesionò molte case e che anche a Napóli era avvenuto lo stesso e successivamente si accertò che Castrovillari era stata distrutta e metà di Catania. In complesso la cronaca consta di 20 pagine e cioè 40 facciate di cm. 21 per cm. 15 ed è scritta su càrta bianca di straccio non rigata con in trasparenza: la parola Almasso in un rettangolo e poi sempre in trasparenza : « Gius Baccan ». Ed al centro uno stemma con un’aquila con i piedi su di una specie di sgabello che posa su tre cumuli convessi. E’ da ritenere quindi che il vescovo non fu allontanato, ma; come si direbbe oggi: « reazionario » avverso il nuovo stato di cose; si trasferisse in volontario esilio nella masseria; « recessit in solitudinem », « per evitare le occasioni». Certamente se si fosse trattato di imposizione non sarebbe rimasto nel territorio della propria città e diocesi; ma sarebbe andato assai più lontano.

Come ieri anche oggi i tempi si equivalgono: per comodità si chiama fascista chi non la pensa come i criminali mentre gli antifascisti (che poi sono i fascisti di ieri) con improntitudine ripudiano il passato che vissero. Anche nel 1860 fu così.

Un ricco signore di Nardò morto ultranovantenne molti anni or sono raccontava che egli aveva già oltre 20 anni nel 1860 quando in Italia avvennero i nuovi eventi.

Recatosi in prefettura per avere il permesso di caccia; gli fecero sottoscrivere la dichiarazione di ossequio alla nuova monarchia mentre egli ed i suoi erano fedeli al Borbone. Egli firmò ed ottenne il permesso : e nell’andar via, con presenza di spirito disse all’impiegato: « ed ora che ho firmato siete sicuro della mia sincerità? ».

L’impiegato gli rispose : « figlio mio, anch’io la penso come te: debbo vivere! ».

Stolti coloro che credono a certe improvvise conversioni. Il vescovo Vetta, era di quelli che non subiscono le prepotenze derivanti dal successo del momento. Era un uomo di carattere anche se ciò dispiaceva ai nuovi venuti.

Aldo Bello, giornalista e poeta galatinese

da www.galatina.it
da www.galatina.it

 

di Maurizio Nocera

Galatina, la città che gli aveva dato i natali il 7 settembre 1937, ha perduto (Roma, 2 dicembre 2011) uno dei suoi più grandi figli, non minore ad altri illustri personaggi che la Città ha sempre vantato di avere visto nascere.

Aldo Bello è stato giornalista, inviato speciale, economista, storico, meridionalista, saggista, direttore di testate televisive e di diversi altri giornali, poeta. Chi avesse l’interesse di conoscerlo meglio è sufficiente andare in internet e, cliccando sulla rivista «Apulia», con facilità si accorgerà di quanto ampio sia stato il suo contributo critico letterario alla varia umanità. Ma il suo massimo contributo di saggista economico e letterario l’ha dato al Salento attraverso la fondazione e la direzione per oltre tre decenni della rivista della Banca Popolare Pugliese, meglio conosciuta come «SudPuglia», poi «Apulia». Questa rivista nacque nel 1974 con la testata «Rassegna della Banca Agricola Popolare di Matino e Lecce»; successivamente (1983) la testata divenne «SudPuglia», infine, settembre 1994, «Apulia». La rivista oggi, con la morte del suo fondatore e direttore, ha chiuso definitivamente le sue pubblicazioni dopo quarant’anni di ininterrotta attività.

Aldo Bello, oltre che giornalista, ha scritto diversi libri. Ne cito qui qualcuno: Terzo Sud (1968), un saggio dedicato all’annosa questione meridionale; Poeti del Sud (1973), una raccolta importante delle più interessanti voci poetiche del Meridione d’Italia; La mattanza (finalista per la narrativa – opera prima – al Viareggio 1973); Le lune e Riobò (1978); L’idea armata (1983), una riflessione dall’interno dei gruppi eversivi dell’ultra sinistra; Amare contee, un viaggio in Puglia (premio Ciaia-Martina Franca, 1985), un ritratto della regione ricavato attraverso le voci dei più importanti personaggi; Economia e civiltà di Terra d’Otranto. Dal Consorsio Agrario di Matino alla Banca Popolare Sud Puglia (1988); Passo d’Oriente (1992), dove sono registrate le esperienze di viaggio e di guerre nel Medio Oriente; Il salice e l’imam. Califfi Oriente e Occidente del Ground Zero (2002), dove è possibile leggere la realtà contraddittoria interculturale Occidente/Oriente, del dopo Ground Zero. Sul fronte della narrativa, si è cimentato inizialmente con la forma del racconto breve (Il sole muore, del 1973, poi riedito con revisioni ed integrazioni come Le lune e riobò già ciato); in seguito, con il romanzo La Mattanza, anch’esso già citato.

Alcuni (quasi tutti) di questi libri, Aldo me li ha donati quando con dediche quando semplicemente brevi manu. E tra di essi ce ne sono due ai quali sono molto legato. Mi riferisco a Poeti del Sud, del 1973, e Amare contee, un viaggio in Puglia, del 1985.

Poeti del Sud è un ampia antologia che Aldo Bello curò con la passione letteraria di un poeta perché, per me, pur’egli è stato tale, anzi uno dei più fini. Tanto per citare i salentini che fanno parte del lungo elenco dei 73 antologizzati, cito: Salvatore Bello (Galatina), Vittorio Bodini (Lecce), Raffaele Carrieri (Taranto), Girolamo Comi (Lucugnano), Nicola G. De Donno (Maglie), Enzo Miglietta (Novoli), Donato Moro (Galatina), Enzo Panareo (Lecce), Vittorio Pagano (Lecce), Albino Pierro (Taranto), Lucio Romano (Galatina).

Nella sua lunga premessa, Bello, dopo avere analizzato le origini e le peculiarità della poesia di altre regioni meridionali, a proposito di quella pugliese, scrive: «Con la Puglia il discorso sulla poesia meridionale si può ampliare notevolmente: Di per sé, questa regione, appiattita su mari che furono campo d’azione di mercanti, colonizzatori, fuggiaschi, bucanieri e predatori, divenne dapprima terra di conquista, e successivamente ponte di passaggio di vari popoli./ Le civiltà e le culture, dunque, si sovrapposero fin dai tempi più antichi, lasciando inconfondibili testimonianze storiche, artistiche, linguistiche, condizionando pensieri, usi e costumi, strutture urbanistiche, concezioni di vita e di lavoro. Valga su tutti l’esempio del Salento, isola d’anima greca e di cultura varia (più greco-bizantina a sud, più spagnolesca al centro, con residui linguistici anche francesi. […] In questo quadro, la poesia pugliese si illumina variamente, si sente più aperta agli influssi europei, classici e moderni, ne assimila con immediatezza le poetiche, penetrandole e rivivendole autonomamente» (p. XI).

Del secondo libro a me caro, Amare Contee. Un viaggio in Puglia, del 1985, c’è da sottolineare il fatto che anche in questo caso si tratta di un viaggio del curatore attraverso una serie di interviste a personaggi che hanno fatto la storia della regione, alcuni dei quali sono: Giuseppe Giacovazzo, Ennio Bonea, Brizio Montinaro, Lionello Mandorino, Mino delle Site, Maria Corti, Mario Marti, Donato Valli, Oreste Macrì, Nicola G. De Donno, Ennio De Giorgi, Emilio Greco, Carmelo Bene, Renzo Arbore, Domenico Modugno.

Nella sua introduzione, Aldo Bello, a chiusura di una lunga riflessione sulle radici e le alterne vicende non di una regione ma almeno di tre Puglie, scrive: «Se mai un aggettivo si attagliò a tutte le Puglie, è amaro. Attribuito a contea (l’uno e l’altra di memoria bodiniana [ancora un poeta]) e volto al plurale, dà il titolo a questi incontri […] che cosa avrei risposto io, se per avventura fossi stato dall’altra parte dell’intervista. Avrei parlato di me e delle mie vicende e cose, come tutti gli spiriti attori, o degli altri e delle loro storie, come tutti gli spiriti osservatori? Un notevole sforzo di mimesi, di identificazione, intanto, ha richiesto questo stare di fronte, di volta in volta, a personaggi di cultura, sensibilità, vocazioni varie e anche in contrasto: sempre disponibili, spesso sorpresi, mai reticenti. Nessuna mediazione nei giudizi formali e di merito. […] Ma, infine, che cosa avrei risposto io? “Ora so che cosa mi portavo in giro per il mondo: questa luce”, mi diceva un amico pittore assente dalla Puglia da vent’anni, ritornato per poco e per caso. La stessa luce che aveva meravigliato Tecchi. Quella che “forma le forme”, secondo Calò. La luce che ispirò Pitagora e Archita. Ecco di chi avrei parlato: di coloro che vivono dentro questa luce che scolpisce da sé, e dà chiarezza di pensiero e lealtà di comportamento. Se non altro, per smentire – ancora una volta – la divina insolenza di Dante, il quale volle “bugiardo ciascun pugliese”. E non sapeva, il gran fuggiasco, che in una pianura schiacciata da (in) questa luce sono verità anche le più levantine bugie, il progetto più onirico, la vita più propositiva o più dissipata, le storie più vere o più fantastiche. Ulisse non conobbe queste Puglie. La sua odissea – che, come tutti i nostòi, meritò Itaca come castigo di chi non aveva scoperto l’ultima verità – manca di un capitolo. O di uno splendido intermezzo» (p. 39).

Aldo Bello è un grande Galatinese che sarà difficile dimenticare. Per questo, mi piace ricordarlo qui nel suo sodalizio con i poeti salentini, in particolare con Antonio L. Verri, del quale quest’anno cade il ventesimo anniversario della morte (9 maggio 1993). Aldo ebbe un sincero e profondo rapporto amicale col poeta di Caprarica di Lecce, rapporto che si evince dalla lettura di una sua lettera del 25 ottobre 1996, in risposta all’invio della bozza del mio poemetto Antonio! Antonio. O dell’amicizia che, per la prima volta, vide la luce nel 1998. Mi permetto di sottoporla alla rivista «Il Filo di Aracne» e a chi ha voglia di leggerla:

«Carissimo Maurizio,/ e tre! In ventiquattrore Antonio Verri è riemerso tre volte. Ieri sera ho trovato fra le mie carte il racconto di una sua visita al convento dei cistercensi di Martano, e subito dopo un saggio di Nicola Carducci sulla sua opera; stasera trovo la tua lettera con le bozze che ho letto e riletto, ti prego di credermi, con un nodo alla gola. Antonio c’è tutto: con la testa e col cuore. Con la voce. Col suo modo di essere e di fare. Bisogna essergli (stato) molto amico, profondamente e assolutamente amico, per scrivere quel che hai scritto tu; per svelare con tanta naturalezza di poesia e disperazione di sentimenti i segreti di un sodalizio totale, qual è stato il vostro. Trovo splendidi tanti tuoi “passaggi”, le invenzioni che vorrei definire (altrimenti, perché tante affinità e tanta contiguità?) “verriane”, la testimonianza composita in sé, e la memoria che si fa nostalgia tanto più dolorosa e lacerante quanto più dai virgolettati emergono versi e frasi che conoscemmo appena nati nei Belli-Luogni di Lecce, di Castro, di Galatina, di Matino, ora – devo confessare – un poco deserti, schivi: per la paura che assale di pensarsi ormai soli definitivamente defraudati./ “Impossibile dimenticare.| Meglio fuggire…” scrivi. Fuggire? Non facciamoci illusioni. Antonio non ci ha lasciato tracce, segni superficiali sulla pelle; ma solchi abissali. Ha spostato la nostra meridiana sulla sua ora, sul suo ritmo del tempo, sui suoi orizzonti inquieti. Prima di essere Assenza, ferita insanabile nella carne. Quale tu impudicamente (e per questo di più t’ammiro) esibisci al mondo bue. Che non capirà mai. Ti ringrazio per questi fogli, per gli scenari che vi ricrei, per i climi e le atmosfere che intensamente disegni, e dentro i quali mi ritrovo del tutto, fermo a quell’alba di maggio, quando Antonio Errico urlò più volte al telefono il nome di Antonio, senza riuscire a dirmi altro. Il nostro “Signore dalle ali spiegate” era “volato via”. Ora è lo stesso sgomento di allora. La stessa domanda senza risposta. La stessa ragione: la nave Castro è colata a picco nel cielo irto di vecchi stupidi ulivi addormentati. Mi spiace per quest’estate. Ti avrei visto molto volentieri…/ D’altra parte, come puoi immaginare, ho perso i contatti con molti amici, dopo quella notte-alba. Antonio aggregava, sollecitava, scopriva. Mi ha sorpreso non poco la tua descrizione della sua stanchezza. Era il moto perpetuo, il suo sistema neuronico era sempre vibrante, faceva fibrillare anche tutti noi. Una parentesi irripetibile…/ Intanto, ti abbraccio caramente./ Aldo».

Pubblicato su “Il filo di Aracne”

Archita da Taranto

di Armando Polito

 

Se non fosse che spesso a parlar male s’indovina (tradotto in dialetto neretino suonerebbe ci malanga sta ddice la verità e nno llu sape), non mi sarebbe difficile trovare una giustificazione al cartello stradale che compare nella foto di testa, che ho ripreso dal profilo Facebook di Alessandro Romano e la cui esistenza  tutti possono controllare a Lecce, che, come tutto il mondo sa, per un soffio ha perso non molto tempo fa un riconoscimento ufficiale che per la città sarebbe stato estremamente prestigioso, anche se meno di un ritorno in serie A della squadra di calcio …

Non contento di questo documento, sfruttando Google Maps , propongo l’integrazione che segue (la seconda foto corrisponde, con diversa inquadratura, a quella di Alessandro).

Bisogna dare atto alla commissione preposta alla toponomastica viaria di un’estrema coerenza perché i due cartelli all’inizio  e alla fine della via sono assolutamente gemelli. Forse sarebbe stato meglio, per quanto dirò, che almeno uno fosse stato diverso; per il momento dico che la commissione ha mostrato una stima grandissima non solo dei leccesi ma di chiunque si fosse imbattuto a leggere l’indicazione, stranieri inclusi, ad eccezione di americani, giapponesi e finanche cinesi, per i quali tale attestazione di stima sarebbe più che scontata,  anche perché, invitati a sciogliere quell’ a., non esiterebbero a dire Archita. Siamo sicuri, però, che di tale stima siano degni tutti i leccesi e tutti gli italiani? Quanti di loro, di fronte alla stessa domanda, risponderebbero Antonio (premettendoci un forse) e i più acculturati direbbero che si tratta di un frate?

Qualche addetto ai lavori particolarmente titolato ma offuscato dalla passione (?) politica potrebbe, a questo punto, dire che la scelta grafica è stata dettata da ciò che si legge in Diogene Laerzio (II-III secolo d. C.),Vite dei filosofi, VIII, 4: Ci sono stati quattro Archita: il primo è colui del quale stiamo parlando [il nostro, il tarantino], il secondo è un musico di Mitilene, il terzo ha scritto intorno all’agricoltura, il quarto è un autore di epigrammi. Alcuni autori ne contano un quinto, un architetto di cui si ha un’opera sulla meccanica che comincia con queste parole: “Io ho appreso questo da Teucro di Cartagine”.1

Sono stanco di cercare improbabili giustificazioni per gli altri e cesso di avere una stima di una commissione alla quale chiederei (ma nel frattempo, credo, da quando la segnaletica è stata piazzata o rinnovata, chissà quante commissioni si saranno succedute), abbandonando il sarcasmo, anzitutto ragione della scelta grafica delle minuscole, che finisce per coinvolgere, con effetti che sarebbero esilaranti se non fossero devastanti, Archita e Taranto. L’abbreviazione a. finisce, poi, per propiziare agli occhi di chi legge (a meno che non non sia, come ho detto, giapponese, americano o cinese), senza che se ne renda conto, la prevaricazione del nome della patria su quello del personaggio.

Supponendo che, com’è giusto e doveroso che sia,  per motivi di decoro tutta la segnaletica relativa alla tonomastica viaria debba corrispondere a criteri di omogeneità di forma e dimensione, sarebbe stato necessario riesumare la buonanima di Einstein per scegliere di scrivere semplicemente (su uno o due righi) via Archita ?

E poi, sul piano culturale ed educativo, col quale troppo spesso gli amministratori pubblici si sciacquano la bocca, ci possiamo permettere il lusso, combinati come siamo, di giocarci l’unico curioso che avrà pensato di usare il suo ultimo gioiello tecnologico non per un selfie ma per una ricerca in rete? Cosa mai incontrerà il poveretto, nonostante la peccaminosa (oggi è così …) volontà di soddisfare la sua altrettanto peccaminosa curiosità, digitando nel motore di ricerca “a. da Taranto” (la stringa intera perché, digitando volta per volta il singolo componente non arriverebbe a nulla nemmeno dopo un secolo) ? Se non ha dimestichezza con tale uso del telefonino o, una volta a casa, del tablet o del pc, resterà ubriacato dai link che usciranno e non terrà in alcun conto il quinto (mentre scrivo è questa la sua posizione, non se se fra pochi minuti sarà la stessa) che ha per titolo  Mappa di Lecce – Via Archita da Taranto – CAP 73100, stradario e …

A questo punto mi sembra di sentire un coro: – Ti sei sfogato? Perché, piuttosto, non ci dici qualcosa di questo Archita -? Lo farò non con un inutile e stupido copia-incolla da Wikipedia o dall’Enciclopedia Treccani on line; mi riposerò lasciando la parola a ciò che veramente conta, cioé alle fonti, anche se ogni tanto sarò costretto ad interrompere il mio sonnellino …  Ad evitare, comunque, che qualcuno pensi che il nostro personaggio sia un venditore di cozze del secolo scorso, riporto preliminarmente i dati anagrafici essenziali:

 

luogo di nascita: Taranto

data di nascita:  circa 430 a. C.

luogo di morte: Mattinata (forse)

data di morte: circa 360 a. C.

 

La prima notizia ci è giunta per tradizione indiretta e si tratta di una citazione di Aristosseno di Taranto  (IV-III secolo a. C.) fatta da Giamblico di Calcide  (III-IV secolo d. C.) nel De vita Pythagorae, 31, 197: Spintaro dunque a proposito del tarantino Archita diceva spesso che egli, tornato da poco al suo campo da una spedizione che la città (Taranto) aveva fatto contro i Messapi, come vide che il fattore e gli altri servi non si erano preso la dovuta cura della coltivazione del campo ma anzi si erano abbandonati ad una grande negligenza, adiratosi ed agitatosi com’era nella sua natura, disse, come sembra, ai servi che erano stati fortunati per il fatto che si era adirato con loro. Se infatti non fosse successo questo, non avrebbero evitato la punizione dopo aver commesso una mancanza così grave.2

Strabone (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Geographia, VI, 3, 4: Furono straordinariamente potenti un tempo i Tarantini democraticamente governati; e infatti avevano la più grande forza navale tra quelle del tempo e scchieravano trentamila fanti, tremila cavalieri e mille capitani di cavalleria. Accolsero la filosofia pitagorica, soprattutto Archita che resse la città per molto tempo. Poi prevalse la mollezza a causa del benessere sicché ogni anno da loro si celebravalo le feste pubbliche più numerose degli (altri giorni); per questo vennero pure governati peggio.3  

Dopo queste prima due testimonianze che sottolineano la prima  la magnanimità di Archita come uomo, la seconda la sua virtù politica, è il momento del ricordo dell’inventore, in particolare di due giocattoli, uno dei quali ancora familiare dalle nostre parti, anche se destinato, credo, pure lui, a cedere il passo alle diavolerie elettroniche.

Gellio (II secolo d. C.), Noctes Atticae, X, 12, 9-10: Ma ciò che si tramanda che abbia escogitato e realizzato Archita pitagorico non è meno ammirevole  né tuttavia allo stesso modo deve sembrare inutile.  Infatti molti dei nobili greci e il filosofo Favorino 4, studiosissimo delle antiche memorie, scrissero chiarissimamente che un modellino di colomba di legno, realizzato da Archita con un certo criterio e e secondo le conoscenze della meccanica, volò; così era evidentemente sospeso a dei pesi e mosso da un movimento d’aria chiusa e nascosta. Piace riportare, per  Ercole!, su una cosa tanto lontana da essere creduta riportare le parole dello stesso Favorino:  Il tarantino Archita, essendo fra l’altro anche esperto di meccanica, realizzò una colomba di legno che volava: ogni volta che si abbassava non si sollevava più oltre (rimaneva sempre alla stessa altezza).5

Dopo la colomba volante è la volta di un giocattolo che molto probabilmente è lo stesso un tempo comunissimo dalle nostre parti,  in italiano chiamato raganella di Pasqua e a Nardò trènula. Per quanto riguarda il testo originale,  il coinvolgimenti di Archita ed altre osservazioni in proposito rinvio per brevità a https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/09/tessere-del-tempo-che-fu/

Se l’umanità di Archita traspare chiaramente dal ricordo di Aristosseno, comprendiamo come l’amicizia e la condivisione fossero, di  quell’umanità, due elementi fondamentali dalle parole di Cicerone (II-I secolo a. C.) nel Laelius de amicitia, 86-88: Dunque è vero ciò che, secondo quanto ho sentito ricordare dai nostri vecchi,  udito a loro volta da altri vecchi, era solito esser detto, come credo, dal tarantino Archita: “Se qualcuno salisse al cielo e osservasse la natura del mondo e la bellezza degli astri si perderebbe in quella sublime ammirazione; ma essa sarebbe di grandissima gioia se avesse qualcuno a cui raccontarla”.6 

E lo stesso Cicerone nel De senectute, XII, 39-41: Imparate, ottimi giovani, la vecchia opinione del tarantino Archita, prima di tutto grande uomo e famosissimo. Essa mi venne fatta conoscere quando giovinetto mi trovavo a Taranto con Quinto Massimo. Egli diceva che nessuna malattia più mortale era sta inflitta dalla natura all’uomo della libidine, i cui desideri di avida voluttà incitano temerariamente e sfrenatamente al potere. Da qui il tradimento della patria, l’eversione dello stato, da qui la nascita di colloqui clandestini con i nemici; diceva che non c’era nessuna scelleratezza infine,  nessuna cattiva azione  ad intraprendere la quale  non spingesse il desiderio del piacere, che gli strupri, gli adulteri ed ogni infamia di tal fatta non eranostimolati da altri allettamenti se non da quelli del piacere e che, avendo dato all’uomo sia la natura sia qualche dio niente di più  vantaggioso della mente, per questo dono divino nulla è così nemico quanto il piacer e che quando domina il piacere non c’è posto per la temperanza e che la virtù non può assolutamente esistere nel regno del piacere.  Perché questo concetto potesse essere capito meglio consigliava di immagginarsi  uno preso da tanto piacere del corpo quanto più potesse essere percepito; riteneva che nessuno avrebbe dubitato che non tanto a lungo, mentre così godeva, potesse pensare qualcosa, qualcosa ottenere con la ragione, qualcosa con la riflessione. Diceva che di conseguenza che non c’era niente tanto detestabile e pestifero quanto il piacere, se esso, quand’era troppo grande e troppo prolungato, spegneva ogni luce dell’animo. Il tarantino Nearco, nostro  ospite, che era rimasto amico del popolo romano, diceva di aver appreso da anziani che questo aveva affermato il tarantino Archita parlando con il sannita Ponzio, padre di colui dal quale nella battaglia di Caudi  furono battuti i consoli Spurio Postumio e Tito Veturio, essendopresente a quel discorso l’ateniese Platone che trovo esser venuto a Taranto sotto i consoli Lucio Camillo e Appio Claudio.7  

Le ultime testimonianze riguardano il luogo dove Archita fu sepolto e, presumibilmente, era morto.  

Orazio (I secolo a. C.), Carmina, I, 28-1-4:  Te, o Archita, misuratore del mare e della terra e di arena senza numero, copre presso il litorale di Matino un piccolo tumulo di povera terra e a nulla ti giova l’aver esplorato le sedi dell’aria (il cielo) e l’aver percorso col tuo animo destinato a morire la rotonda volta celeste.8

Pseudo Acrone (nome di una raccolta, risalente al XV secolo, di materiali di epoca tardo-imperiale), In Horatii Carmina, I, 28, 3: Matino è un monte dell’Apulia, presso il quale fu sepolto Archita, oppure, come alcuni vogliono, una pianura della Calabria. 9

Prima di parlare di Matino riporto un altro brano tratto dalla stessa raccolta.

In Horatii Epodes, 16,28: Infatti le rupi mai possono nuotare, non potendo pure di certo il Po toccare le radici del monte Matino, dal momento che il Po è un fiume dell’Italia e il Matino un monte della Calabria.10    

Senza scomodare concetti foscoliani, è intuitivo che per qualsiasi luogo l’aver dato i natali o la sepoltura ad un uomo famoso rappresenta un dettaglio di cui andare fieri, da sfruttare, magari, a fini turistici …

E così, spingendo il mio gioco al limite estremo, non mi meraviglierei se nella nostra Matino, in provincia di Lecce, a qualcuno venisse in mente di erigere un tumulo e di spacciarlo per la tomba di Archita, sia pure ricostruita …

Il problema è che il Matino delle testimonianze  appena esibite difficilmente è identificabile con l’attuale Matino. Innanzitutto Orazio parla di litus Matinum, cioè di un litorale; e la Matino salentina non si può certamente definire una città costiera. Inoltre lo stesso Orazio in Epodi, 16, 25-28 (sono i versi cui fa riferimento lo scolio riportato nel secondo brano dallo Pseudo Acrone) così si esprime:  Ma giuriamo in questo modo: Non sia lecito ritornare finché le rupi sollevatesi dalle loro profonde sedi non galleggeranno e non rincresca spiegare le vele verso casa quando il Po abbia bagnato le vette del Matino 10

Siamo in presenza della figura retorica dell’adynaton (dal greco ἀδὑνατον=cosa impossibile), di cui fornisco un esempio attuale con riferimento al mondo della politica: Possa io non cambiare casacca prima di mancare alle promesse che ti ho fatto quando mi serviva il tuo voto

Ora è vero che Matino sorge a 75 metri sul livello del mare e dista 10 Km. da quest’ultimo; ma i dati appena riportati mal si conciliano coi  litus e cacumina oraziani. Essi, invece, sono assolutamente conciliabili con la Matinum garganica (toponimo che alla fine del terzo secolo a. C. sostituì il precedente Apeneste di origine greca), oggi Mattinata.      Insomma, se la sepoltura di Archita non è salentina, resta, comunque, pugliese …

E a me non resta che chiudere, prima che mi venga la tentazione di ridare stura all’iniziale sarcasmo, con cinque immagini riproducenti le sembianze (fittizie, naturalmente) del nostro Archita. Le prime quattro, probabilmente interconnesse, a parte l’ultima,  per quanto si dirà,  sono stampe custodite nella Biblioteca Nazionale di Francia; la quinta è tratta da Domenico Martuscelli (a cura di), Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, tomo I, Gervasi, Napoli, 1813.

A parte qualche dettaglio secondario, si direbbe simile alla precedente invertita orizzontalmente. La didascalia (Ex Nummo aereo apud Fulvium Ursinum) ci avverte che l’immagine è stata tratta da una moneta di rame (inclusa nella collezione che si trovava)  presso Fulvio Orsini (1529-1600).

Evidente la coincidenza quasi totale con la stampa precedente. Cambia leggermente solo la forma della didascalia (Apud Fulvium Ursinum in nomismate aereo) ma non il significato (Presso Fulvio Orsini in una moneta di rame). A differenza dei quella e delle precedenti che sono tavole sciolte,  questa fu inseria nella raccolta di immagini di uomini illustri tratte dalla collezione Orsini (Illustrium imagines ex antiquis marmoribus, nomismatibus et gemmis espresse, quae extant Romae, maior pars apud Fulvium Ursinum, Antuerpiae, Ex officina Plantiniana, 1606). Questo ci consente di affermare, tenendo conto anche delle affinità iconografiche che tutte le tavole fin qui viste risalgono, prudenzialmente, al primo decennio del XVII secolo. Per quanto riguarda, poi, la moneta di cui si parla bisognerebbe anzitutto individuarla (ho cercato negli appositi cataloghi, ma l’esito è stato negativo); poi, prima ancora di procedere alla datazione, di stabilire se è autentica e non un falso …

 

Rispetto alle precedenti denota una maggiore originalità. La didascalia In corniola farebbe intendere che si tratta del disegno di un cammeo (da realizzare o realizzato?  Nessuno può dirlo, finché non si trova …). Corniola è il nome tecnico del cammeo  su conchiglia, a fondo rosso con rilievo giallo chiaro.

Da notare in quest’ultima tavola rispetto alle precedenti il mutato gusto rappresentativo nella capigliatura e nell’abbigliamento.

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1 Γεγόνασι δ’ Ἀρχύται τέτταρες· πρῶτος αὐτὸς οὗτος, δεύτερος Μυτιληναῖος μουσικός, τρίτος Περὶ γεωργίας συγγεγραφώς, τέταρτος ἐπιγραμματοποιός. ἔνιοι καὶ πέμπτον ἀρχιτέκτονά φασιν, οὗ φέρεται βιβλίον Περὶ μηχανῆς, ἀρχὴν ἔχον ταύτην “Tάδε παρὰ Τεύκρου Καρχηδονίου διήκουσα

2 Σπίνθαρος γοῡν διηγεῖτο πολλἁκις πεπὶ Ἀρχύτου τοῡ Ταραντίνου ὅτι διὰ χρόνου τινὸς εἰς ἀγρὸν ἀφικόενος, ἐκ στρατιᾶς νεωστί παραγεγονώς, ἥν ἐστρατεύσατο ἠ πόλις εἰς Μεσσαπίους, ὡς εἷδε τόν τε ἐπίτροπον καὶ τοὺς ἅλλους οἰκέτας οὐκ εὗ τῶν περὶ τὴν γεωργίαν ἐπμελείας πεποιημένους, ἀλλὰ μεγάλῃ τινὶ κεχρημένους ὀλιγωρίας ὑπερβολῇ, ὀργισθεἱς τε καὶ ἀγανακτἠσας οὕτως ὡς ἄν ἐκεῑνος, εἷπεν, ὡς ἔοικε, πρὸς τοὺς οἰκέτας ὅτι εὐτυχοῦσι, ὅτι αὐτοῖς ὤργισται᾽ εἰ γὰρ μὴ τοῦτο συβεβηκὸς ἦν, οὐκ ἄν πότε αὐτοῦς ἀθῴους γενέσθαι τηλικαῦτα ἠμαρτηκότας.

3  Ἴσχυσαν δέ ποτε οἱ Ταραντῖνοι καθ᾽ ὑπερβολὴν πολιτευόμενοι δημοκρατικῶς· καὶ γὰρ ναυτικὸν ἐκέκτηντο μέγιστον τῶν ταύτῃ καὶ πεζοὺς ἔστελλον τρισμυρίους, ἱππέας δὲ τρισχιλίους, ἱππάρχους δὲ χιλίους. Ἀπεδέξαντο δὲ καὶ τὴν Πυθαγόρειον φιλοσοφίαν, διαφερόντως δ᾽ Ἀρχύτας, ὃς καὶ προέστη τῆς πόλεως πολὺν χρόνον. Ἐξίσχυσε δ᾽ ἡ ὕστερον τρυφὴ διὰ τὴν εὐδαιμονίαν, ὥστε τὰς πανδήμους ἑορτὰς πλείους ἄγεσθαι κατ᾽ ἔτος παρ᾽ αὐτοῖς ἢ τὰς ἡμέρας· ἐκ δὲ τούτου καὶ χεῖρον ἐπολιτεύοντο.

4 Vissuto tra il primo e il secondo secolo d. C., di lui ci restano solo frammenti, tra cui, appunto, quello su Archita che Gellio cita più avanti.

5 Sed id quod Archytam Pythagoricum commentum esse atque fecisse traditur, neque minus admirabile neque tamen vanum aeque videri debet. Nam et plerique nobilium Graecorum et Favorinus philosophus, memoriarum veterum exequentissimus, affirmatissime scripserunt simulacrum columbae e ligno ab Archyta ratione quadam disciplinaque mechanica factum volasse; ita erat scilicet libramentis suspensum et aura spiritus inclusa atque occulta concitum. Libet hercle super re tam abhorrenti a fide ipsius Favorini verba ponere:  Ἀρχύτας ταραντῖνος, τὰ ἄλλα καὶ μηχανικὸς ὤν, ἐποίησεν περιστερὰν ξυλίνην πετομένην῾ ὁπότε καθίσειεν, οὐκέτι ἀνίστατο.

6 Verum ergo illud est quod a Tarentino Archyta, ut opinor, dici solitum nostros senes commemorare audivi ab aliis senibus auditum: “Si quis in caelum ascendisset naturamque mundi et pulchritudinem siderum perspexisset, in suavem illam admirationem ei fore; quae iucundissima fuisset, si aliquem, cui narraret, habuisset.”

Accipite enim, optimi adulescentes, veterem orationem Archytae Tarentini, magni in primis et praeclari viri, quae mihi tradita est cum essem adulescens Tarenti cum Q. Maximo. Nullam capitaliorem pestem quam voluptatem corporis hominibus dicebat a natura datam, cuius voluptatis avidae libidines temere et ecfrenate ad potiendum incitarentur. Hinc patriae proditiones, hinc rerum publicarum eversiones, hinc cum hostibus clandestina colloquia nasci; nullum denique scelus, nullum malum facinus esse, ad quod suscipiendum non libido voluptatis impelleret; stupra vero et adulteria et omne tale flagitium nullis excitari aliis inlecebris nisi voluptatis; cumque homini sive natura sive quis deus nihil mente praestabilius dedisset, huic divino muneri ac dono nihil tam esse inimicum quam voluptatem; nec enim libidine dominante temperantiae locum esse, neque omnino in voluptatis regno virtutem posse consistere. Quod quo magis intellegi posset, fingere animo iubebat tanta incitatum aliquem voluptate corporis, quanta percipi posset maxima; nemini censebat fore dubium, quin tam diu, dum ita gauderet, nihil agitare mente, nihil ratione, nihil cogitatione consequi posset. Quocirca nihil esse tam detestabile tamque pestiferum quam voluptatem, siquidem ea, cum maior esset atque longinquior, omne animi lumen exstingueret. Haec cum C. Pontio Samnite, patre eius, a quo Caudino proelio Sp. Postumius, T. Veturius consules superati sunt, locutum Archytam Nearchus Tarentinus, hospes noster, qui in amicitia populi Romani permanserat, se a maioribus natu accepisse dicebat, cum quidem ei sermoni interfuisset Plato Atheniensis, quem Tarentum venisse L. Camillo Ap. Claudio consulibus reperio.

8 Te maris et terrae numeroque carentis harenae/mensorem cohibent, Archyta,/pulveris exigui prope litus parva Matinum/munera nec quicquam tibi prodest/aerias temptasse domos animoque rotundum/percurrisse polum morituro.

9 Matinus mons Apuliae est, iuxta quem Archita sepultus est, sive, ut quidam volunt, plana Calabriae.

10 Saxa etenIm numquam possunt natare, et cum radices quidem Matini montis Padus contingere non possit, quippe cum Padus Italiae fluvius, Matinus Calabriae mons sit.  

11 Sed iuremus in haec: “Simul imis saxa renarint/ vadis levata, ne redire sit nefas;/neu conversa domum pigeat dare lintea, quando/ Padus Matina laverit cacumina, parla di Matina cacumina.

Anch’io ho indetto un referendum …

di Armando Polito

Il post, questa volta, si compone di una sola, semplicissima domanda, alla quale i lettori che vorranno potranno dare la loro risposta, motivandola, se riterranno opportuno. L’unica differenza rispetto a qualsiasi altro referendum, a parte la possibilità appena enunciata, sta nel fatto che la consultazione durerà una settimana (non ci sono seggi né scrutatori da retribuire e noi neretini diciamo: quand’è ggratis ùngime tuttu!1) per consentire anche ai lettori meno fedeli ed a quelli dell’ultima ora di esprimere il proprio voto scrivendo nello spazio riservato ai commenti la forma ritenuta corretta. A consultazione conclusa, con un altro, apposito post, sarà reso pubblico il risultato e mi auguro che segua un ampio dibattito.

In quella circostanza, comunque, darò risposta anche alla legittima domanda che qualcuno si sarà posto: – Ma che ci azzecca il brexit o la brexit con la cultura salentina? -.

Nell’attesa è pregato di rispondere alla mia …

Nardò, piazza Osanna, ieri e oggi; e domani?

di Armando Polito

L’amore per la propria terra si manifesta anche mettendo a disposizione del maggior numero di persone le fonti, nel nostro caso di oggi una foto. E grande sensibilità ha mostrato l’amico Dino Martano , benemerito titolare del blog http://www.nardoartt.it/cartoline-datate-1890.html, che, dopo avermela fatta conoscere in privato,  mi ha concesso  il privilegio di renderla pubblica. Il mio intervento sostanzialmente si limita all’inserimento dell’immagine che segue, mostrante lo stato attuale dei luoghi, tratta ed adattata da Google Maps (che qui ringrazio pubblicamente, insieme con la rete in genere, perché mi ha consentito, come in altre occasioni, di ovviare alle mie difficoltà di deambulazione, senza le quali avrei senz’altro esibito una foto mia.

Comunque, la prospettiva pressoché identica consente a chiunque, anche non neretino, di fare ogni confronto e, ai più fantasiosi, d’immaginarsi quella che fra cento anni potrebbe essere la terza foto (magari allora anche gli ologrammi saranno superati …) che, come la famosa isola di Bennato (è il padre più famoso, ma quello originale, James Matthew Barrie, risale a cent’anni prima), qui non c’è …

 

L’editoria in Terra d’Otranto nel XVI secolo

di Armando Polito

 

Non potendo esibire nessuna immagine (che scoop sarebbe stato!) relativa alle officine tipografiche del Salento nel XVI secolo, rimedio, prima di entrare in argomento,  con l’immagine che segue, veramente eccezionale, se, come credo, è la più antica che contenga la rappresentazione di un’officina tipografica. Essa è tratta da La grant danse macabre, opera uscita a Lione nel 1499  per i tipi di Mathias Huss. Mi auguro che l’eccezionalità dell’immagine basti a compensare il sentimento che alcuni suoi dettagli possono suscitare, in linea, d’altra parte con il titolo del libro (La grande danza macabra), sul cui argomento chi è interessato troverà dettagli in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/23/le-origini-antiche-di-una-poesia-popolare-gallipolina/. Fatti i dovuti scongiuri, procedo.

Qualsiasi innovazione tecnologica ha sempre avuto bisogno di tempo per diffondersi, un tempo, direi, inversamente proporzionale alla sua stessa evoluzione. Effetto, certo, dell’economia di scala e in parte pure del bisogno, subliminalmente indotto dalla pubblicità, di non poter fare a meno  se non dell’ultimo modello, spesso dal costo proibitivo per l’utente medio, almeno del penultimo. Quarant’anni fa, per esempio, un tv color di 28” (il massimo che la tecnologia potesse consentire) costava non meno di 800.000 lire , cioè il triplo dello stipendio medio. Oggi con la cifra in euro corrispondente al triplo di uno stipendio, per chi ha la fortuna di averlo …,  medio (diciamo 1300 euro netti), di tv (smart e 4k) te ne puoi comprare due da 70”.

Lo stesso dicasi per la stampa, in cui l’avvento dei processi digitali ha favorito la rivoluzione della rivoluzione a suo tempo operata da Gutenberg, con esiti allora inimmaginabili, se si pensa ai moderni programmi di videoscrittura, alle stampanti in 3d e, perché no?, alla crisi del libro stampato.

Se dovessimo operare pure con il libro il calcolo fatto poco fa per i tv, lo scarto sarebbe infinitamente maggiore, nonostante il punto in comune, sostanzialmente identificabile con il costo costo che, unito alla scarsissima alfabetizzazione, rendeva il libro un oggetto riservato ad una ristrettissima élite (la locuzione è quasi il superlativo di un comparativo …).

C’è da meravigliarsi, perciò, se nel Salento furono solo due i tipografi attivi nel XVI secolo? Io lo reputo già un miracolo, vista la classifica, che ho compilato con i dati risultanti da una mia ricerca specifica, in cui i primi posti (ci si poteva attendere altro?) sono occupati dai centri  che allora  detenevano una specie di monopolio in questo campo, figlio diretto della loro egemonia culturale. Da notare, inoltre, che  più di un tipografo ebbe officine in sedi diverse. Ecco la classifica emersa:  Venezia (380), Roma (239), Milano (194), Firenze (136), Napoli (131), Torino (79), Padova (50), Siena (36), Palermo (35), Reggio Emilia (21), Pesaro (20), Genova (16), Urbino (13), Foligno (7), Città di Castello (6), Cosenza (6), Como (3), Fossombrone (3), Pisa (2), Bari (1), Copertino (1), Taranto (1).

Se non sorprendono i nomi delle città occupanti i primi cinque posti, se era scontato, dunque, che la Puglia non spiccasse, sorprende, invece, l’entità del contributo regionale (2/3 editori) dato dal Salento. C’è da aggiungere, oltretutto, che l’unico tipografo registrato per Bari non era neppure italiano, ma francese:  Gilbert Nehou (attivo anche a Venezia) che pubblicò il volume: Colantonio Carmignano, Operette del Parthenopeo Suavio in varij tempi & per diversi subietti composte, et da Silvan Flammineo insiemi raccolte, et alla amorosa & moral sua calamita intitulate, In le case de Santo Nicola1, 15 ottobre 1535 (Di seguito il frontespizio e il colophon).

È giunto il momento di presentare questi due imprenditori salentini. Comincio da Copertino, in cui esercitò l’attività di tipografo Bernardino Desa, che ivi era nato. Non so dire se ci siano rapporti di parentela con San Giuseppe da Copertino, al secolo Giuseppe Maria Desa (1603-1663). Se non fosse che, quando il santo nasceva, Bernardino aveva cessato la sua attività (o, addirittura era già passato a miglior vita, cosa più che certa quando il futuro santo fioriva e lapalissiana quando, dopo la morte, si cominciarono a scrivere le biografie), pensate che scoop editoriale sarebbe stato per il nostro tipografo pubblicare un libro sul santo dei voli. Probabilmente anche allora, parenti o non parenti, l’omonimia avrebbe quanto meno indotto ad una più cospicua tiratura …

Di seguito l’elenco dei volumi stampati da Bernardino; ho potuto corredare qualche titolo col relativo frontespizio, ma è facilmente intuibile quanto questi volumi siano rari, ragione per la quale bisogna ringraziare la rete che con le sue digitalizzazioni ci permette di farcene un’idea un po’ più rimarchevole di quella offerta dai semplici dati bibliografici.

Successi dell’armata turchesca nella citta d’Otranto nell’anno MCCCCLXXX. Progressi dell’essercito, et armata, condottavi da Alfonso duca di Calabria; scritti in lingua latina da Antonio Galate, in Cupertino : appresso Gio. Bernardino Desa, 1583.

Constitutiones editae in dioecesana synodo Andriensi, quam Lucas Antonius Resta episcopus Andriensis habuit, anno Domini MDLXXXII, Apud  Io.  Bernardinum Desam, Cupertini, 1584

Alla fine del volume, prima dell’indice, c’è l’attestazione del notaio circa la corrispondenza tra il testo dei documenti trascritti nel volume e gli originali; segue la ratifica della dichiarazione notarile e l’imprimatur del vescovo  di Nardò Fabio Fornari  (1583-1596).

(Traduzione: Io suddiacono Filippo Pipino notaio per volere dell’autorità apostolica e segretario di questo sinodo diocesano di Andria attesto di aver di aver fatto la presente copia in trentasei carte qual è al presente dal suo proprio originale esistente nell’archivio della curia vescovile di detta città; fatto il confronto si è trovata esatta corrispondenza, fatta salva etc. E in fede ho sottoscritto ed ho apposto, richiesto, il mio solito sigillo che uso in simili circostanze. Luogo del sigillo. Così sta la varità. Il medesimo di sopra,notaio Filippo Pipino di propria mano.

Si stampi insieme con le lettere dell’illustrissimo Signor Cardinale Carafa scritte in latino sulla stessa materia e dirette al Reverendissimo Signor Vescovo di Andria e con le osservazioni aggiunte dalla mano del medesimo illustrissimo Signor Cardinale, di cui si fa menzione nelle dette lettere. Fabio Vescovo di Nardò).

Riprendo l’elenco delle pubblicazioni momentaneamente interrotto.

Pythagorae Scarpii Salentini Philosophia acerrima de anima, eiusque immortalitate, nature capacissima elaboratione cum omnium antiquorum opinione comprehensa, eorumque dilucidatione celeberrima , Cupertini, apud Iohannem Bernardinum Desam, 1584

Minimi,  Haec sunt acta et decreta trium capitulorum generalium Ordinis minimorum Avinonensium Barchinonensium & Januensium  repurgata per r. p. f. Gasparem Passarellum, Cupertini, apud Johannem  Bernardinum Desam, 1585

Statuti provinciali di frati Minori osservanti della provincia di San Nicolò. Fatti su l’anno del Signore MDLXXXV da tutti frati di detta provincia et confirmati dal reverendissimo padre fra’ Fr., In Cupertino, appresso Gio. Bernardino Desa, 1585

 

Ordinationi per la chiesa, e diocesi di Nardò, appresso Gio. Bernardino Desa, in Cupertino, 1591

 

Se Bernardino fu un copertinese attivo a Copertino, a Taranto, invece, il tipografo attivo fu Quintiliano  Campo, delle cui origini nulla si sa e del quale ci resta solo una pubblicazione:

Girolamo da Dinami,  Divina predestinatione ristretta in cinque capitoli dal r.p. fra’ Girolamo Dinami calabrese cappuccino, predicando, e leggendo in Venetia, a Santo Apostolo ne l’anno 1565 e dal medesimo in molti luoghi ampliata, e con migliore deligentia ristampata in Taranto, in Taranto : per Quintiliano Campo, nel primo del mese di marzo 1567.

 

P. S. Riporto il prezioso commento del sig. Francesco Guadalupi, apparso il 19 settembre c. a. sul profilo in Facebook della fondazione:

Credo sia opportuno fare un riferimento anche al libro che nel 1627, fu stampato a Brindisi, nel palazzo dell’Episcopio pur se questa fu una tipografia d’occasione, installata soltanto per la stampa dell’opera di Falces e bisognerà aspettare il 1699 perchè Tommaso Mazzei impianti una stabile officina che fu chiamata Stamperia Arcivescovale. Dice N. Vacca su Brindisi Ignorata p. 276: “L’arcivescovo Falces, per stampare una sua opera invitò nel 1627 in Brindisi un colto tipografo romano, Lorenzo Valeri, che da alcuni anni lavorava in Trani. Egli allogò la sua officina nell’episcopio e soggiornò in Brindisi per tutto il tempo che occorse per comporre e stampare la “Practica brevis ac universalis” di cui due esemplari sono posseduti dalla biblioteca Prov. di Lecce e uno dall’Arcivescovile di Brindisi.” Questa è l’immagine del frontespizio con marca e note tipografiche.

 

Approfitto dell’occasione per rinnovare  una comunicazione di servizio: si  pregano i gentili lettori di replicare il loro commento anche sul blog della fondazione, al fine di evitare che contributi preziosi come questo vadano perduti. In questo caso il destino ha voluto che casualmente mi imbattessi in questo commento, peraltro non notificatomi,  su Facebook, ma non si può sempre sperare nella buona sorte.

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1 S. Nicola è il protettore di Bari, per cui In le case de Santo Nicola vale Bari.

2 Due erano state le edizioni precedenti: una era uscita a Venezia per i tipi di Domenico e Luigi Giglio nel 1566, la seconda nello stesso anno a Padova, senza indicazione del nome del tipografo.

 

Furti… di caramelle un tempo, oggi di miliardi

caramelle

di Martino Acquaviva

 

Nel 1950, in un paesino di duemila abitanti incastonato nel Sud Salento, fu costruita e inaugurata, per la prima volta, una sala cinematografica.

A quell’epoca, non esisteva ancora la televisione e, quindi, la possibilità di assistere alla proiezione di film sul grande schermo bianco rappresentava, per la popolazione, un fatto nuovo e di sicura presa, sicché, in particolare nel pomeriggio e alla sera della domenica, il locale del cinema “Excelsior” era sempre gremito, grazie anche all’afflusso di spettatori provenienti, a piedi o in sella alla bicicletta, dai centri limitrofi.

Di lì a poco, nella piccola località, si registrò un altro evento insolito ed eccezionale, e però in certo senso collegato a quello anzi riferito: arrivò a stabilirsi un nucleo familiare di cinque persone, fra genitori e figli, originario della “lontana” provincia di Bari (non a caso, dette persone ricevettero immediatamente e automaticamente l’appellativo di “baresi”).

Il gruppo di “immigrati” s’insediò in una modesta abitazione in affitto e, come fonte di reddito per il proprio sostentamento, intraprese l’attività di vendita al minuto, si pensi un po’, di caramelle, non confezionate bensì sfuse.

Il bacino di consumo principale s’identificava, giustappunto, con gli spettatori del cinematografo e, in aggiunta, si estendeva ai rari e poveri mercati settimanali della zona. Sta di fatto che la famiglia riusciva, in qualche modo ma onestamente, a sbarcare il lunario.

Correva una domenica mattina d’inizio primavera, quando, nel paese, si diffuse improvvisamente e a macchia d’olio, autentico fulmine a ciel sereno, la notizia che, nella casa dei “baresi”, era sparito il modesto magazzino di caramelle.

Non ci volle molto perché giungessero a circolare, anche, voci, convinte, in merito all’identità dell’autore del furto: un residente, sposato e con numerosa prole, ancora giovane, caratterizzato, da sempre, da poca voglia di lavorare, saltuariamente dedito ad arrangiarsi mediante la pesca di frodo. I carabinieri piombarono, lesti, dalla competente stazione di Spongano e, traendo spunto dalle voci, scoprirono la refurtiva, sotterrata dentro un grosso capasune (pitale), effettivamente nel giardino del sospettato.

Dopodiché, verso mezzogiorno, l’intera comunità, convenuta in piazza, ebbe conseguentemente agio d’assistere al passaggio del ladruncolo, in manette fra due militi, con destinazione carcere. Che colpo emotivo per tutti i presenti! Tale, che, ancora oggi, la scena si trova scolpita nelle menti e nelle coscienze dei sopravvissuti.

Saltando ai tempi attuali e volgendo lo sguardo intorno, non ci s’imbatte più in ladri di caramelle; si registrano, purtroppo, in ogni campo, posizione sociale e latitudine, sequenze di predatori d’alto bordo e senza scrupoli, artefici d’illeciti bottini per milioni e miliardi. Vicende gigantesche che, tuttavia, tranne l’impatto del primo momento, scivolano nel dimenticatoio, in un baleno, quasi che non si fossero mai verificate.

Domanda: almeno a livello di scrupolo morale, può definirsi davvero positivo il cosiddetto progresso della società civile fra secondo e terzo millennio?

(pubblicato su Il filo di Aracne)

Antonello Taurino e lo “Scherzo del Secolo”. A Gallipoli

Foto di scena 1

TROVATA UNA SEGA!

Racconto su Livorno, Modigliani e lo “Scherzo del Secolo” dell’estate 1984

di e con ANTONELLO TAURINO

Lunedì 4 Luglio, ore 21.00 CHIOSTRO di San Domenico, GALLIPOLI (LE), 

Riviera Nazario Sauro

Quando il caso incatena gli eventi meglio di uno sceneggiatore hollywoodiano. Trent’anni dopo, il racconto per “Attore e proiettore” sulla perfetta sequenza di eventi di quell’estate ’84. La leggenda la conoscevano tutti, a Livorno: nel 1909 Modigliani pare avesse gettato nel Fosso Reale alcune sue sculture, deluso per lo scherno di amici incompetenti che lo avevano deriso per quelle opere. Ma quando nel 1984, per celebrarne i cent’anni dalla nascita, il Comune (a latere di una mostra organizzata in suo onore) ne azzarda tra roventi polemiche il temerario recupero, avviene la pesca miracolosa di tre teste che porta davanti ai Fossi di Livorno le Tv di tutto il mondo. Subito i maggiori critici d’Arte non hanno dubbi a sancire: “Sono dei capolavori, sono di Modigliani!”. Ma dopo un mese venne fuori che.. non eran proprio di Modigliani…
L’invasamento collettivo nel cortocircuito vero-falso e il mistero di alcune morti mai chiarite. Tre studenti burloni e un pittore-portuale dalla vita maledetta. Uno spaccato sociologico sull’Italia d’allora e tantissima memorabile comicità involontaria: ecco gli ingredienti di quello che fu definito “lo scherzo del secolo”.

Foto di scena 7

Per info e prenotazioni (fortemente consigliata, disponibilità posti limitata)

Tel. 3404023903; https://www.facebook.com/sipari.dipietra?pnref=story

Ingresso Euro 8.
-SPETTACOLO SELEZIONATO PER IL FESTIVAL “KILOWATT 2014”

-SPETTACOLO VINCITORE DELLA SELEZIONE “FESTIVAL TRAMEDAUTORE – 2015”

http://www.outis.it/trovata-una-sega/

http://www.piccoloteatro.org/events/2014-2015/tramedautore-trovata-una-sega

 

“Non credo di esagerare nel dire che “Trovata una sega!”  è uno spettacolo geniale. Divertentissimo, preciso, ironico, inventivo: arrivi alla fine e vorresti che Antonello Taurino, unico attore/affabulatore in scena, continuasse a parlarci in quel modo così canzonatorio”  

(D. Daria, “CORRIERE DELLO SPETTACOLO”)

 

“Meticolosamente storico ma senza noia, Taurino avvolge il pubblico nelle spire della sua affabulazione. Dopo pochi minuti ti prende e non ti lascia più. Tutto diventa più avvincente di un giallo: ricostruzione magistrale ma a ritmo frenetico. (…)“Trovata una sega!” è uno spettacolo pirotecnico, grazie a questo cantastorie apparentemente stralunato che divaga per affondare il colpo, scherza per poi commuovere all’improvviso. Un modernissimo affabulatore, uno spettacolo che è una continua sorpresa, se vogliamo, anche struggente.”

(Paolo Leone, “CORRIERE DELLO SPETTACOLO”)

 

“Possibile che il racconto di un fatto di cronaca locale livornese dell’ 84, diventato l’evento mediatico mondiale dell’anno, faccia pendere dalle labbra di Antonello Taurino l’intera platea di un Teatro? Sì, se si tratta di un’esilarante e calibrata scrittura che porta sulla scena il fake più famoso della storia d’arte (…). La realtà può superare la fantasia sembrano dire i “Ma come?! No, non è possibile!” e le risate incredule del pubblico dinanzi alla concatenazione, drammaticamente casuale, di “TROVATA UNA SEGA!”

(Manuela Margagliotta, “PAPERSTREET”)

 

“La celebre storia delle finte teste di Modigliani viene restituita con ironia a dispetto di un pattern di informazioni, accadimenti e livelli mediatici molto complesso (…). Il “test” funziona, in platea, e nei passaggi più assurdi, ma reali, sono numerosi i bisbigli, gli scuotimenti di capo, i «non ci posso credere» (…). Taurino in scena solo con un tavolo, un leggio e un fondale con  foto d’epoca si muove con passo deciso tra contraddizioni e paradossi di una bolla mediatica d’altri tempi”

(Andrea Pocosgnic, “TEATRO&CRITICA.net”)

Clicca qui o copia il link qui in basso e ricopialo nella barra in alto per vedere  PROMO  (2’  min.) e INTERVISTA (5’ min.)

https://www.youtube.com/watch?v=QvgAzjJ7o8E

https://www.youtube.com/watch?v=DJkOMASYEOI

 

Locandina web

Libri| Francesca Caminoli, Perché non mi dai un bacio?

caminoli copertina bacio

di Gianni Ferraris

Los Quinchos sono loro, i ragazzi di strada di Zelinda Roccia, italiana di origine, artista di strada, donna del circo, da oltre 25 anni la mamita di 200 bimbi di strada nicaraguensi,  negli anni ne sono passati migliaia dalla sua organizzazione.

Lei che da un paese del cagliaritano inizia a girare per il mondo, Germania, Danimarca, poi oltre oceano, verso quell’America di cui da bambina, parlava con il sole che stava tramontando “io so che tu non vai a dormire, ma vai in America, un giorno ci andrò pure io”, ed in Nicaragua il viaggio si ferma, da oltre 25 anni lei è lì, ha trovato il suo mondo e la sua dimensione, con los Quinchos. Quincho barillete che era un ragazzo di Managua che durante la dittatura feroce di Somoza vendeva aquiloni per mantenere i suoi fratelli più piccoli e faceva la staffetta per i sandinisti. I bambini di Zelinda hanno deciso di chiamarsi come lui.

Fracesca Caminoli, con la leggerezza che la caratterizza, ci racconta la storia di Zelinda in un libro che è a mezza strada fra il reportage giornalistico, lei è giornalista, il romanzo, il racconto. Un lavoro che termina con un’intervista a Zelinda dopo le narrazioni dei suoi viaggi e delle miserie dei bambini di strada, la violenza da loro subita e fatta, le loro fughe dal mondo annusando colla (pega) che  sballa  e consente loro di rubare, riunirsi in bande, difendersi in qualche modo da un mondo degli adulti che li rifiutava e li cacciava di casa. Emarginati nella loro terra.

Zelinda riesce a penetrare nel loro mondo, “sfidata” dalla richiesta di uno di quei bimbi : “por què no me das un beso?” Perché non mi dai un bacio?

Un libro da leggere tutto d’un fiato, per meglio comprendere le disparità di un mondo globalizzato che è spaccato in più pezzi, ricchi e miseri, primo mondo e terzo mondo rigorosamente separati, divisi, nella terrificante mancanza di un mondo detto “secondo” per meglio significare differenze incolmabili.

Una terra che gira attorno al sole sempre nello stesso modo ma che si porta sopra tutto: la Ferrari da 250.000 euro che sfreccia veloce, Zelinda, i bimbi di strada e la “pelosa” carità di molte ONG (Organizzazioni non governative) che arrivano dove ci sono i dannati della terra, fanno un progetto in fretta, velocemente spendono montagne di quattrini e se ne vanno, progetti che hanno un tempo imposto per essere terminati per non perdere i finanziamenti, quindi troppo spesso vengono improvvisati. Così si acquista l’ambulanza senza creare una rete di assistenza per ripararla e quella dopo pochi anni arrugginisce in un campo, si fanno pozzi per l’acqua in villaggi sperduti senza addestrare alla manutenzione delle pompe, quando si rompono diventano mucchi di ferri vecchi inutilizzabili. I “progetti” tali non sono in realtà, sono improvvisazioni ed è un modo come un altro per mostrare i muscoli,  un’esibizione di potenza utile solo a creare PIL per i paesi ricchi che si ripuliscono la coscienza.

Zelinda non ci sta, lei crea pezzo dopo pezzo le sue comunità, accoglie con l’aiuto economico di italiani e non solo, migliaia di bambini. Lei fa un progetto vero, con fatica, rischio, amore, caparbietà, il  coraggio che qualcuno chiama “degli incoscienti”, quelli che abbandonano il crasso mondo europeo per ficcarsi nella miseria.

Un libro agile e snello, tuttavia pesante come un macigno.

Francesca Caminoli è al suo sesto libro, ricordiamo Il giorno di Bajram (1999), La neve di Ahmed (2003), Viaggio in Requiem (2010), La guerra di Boubacar (2011), C’erano anche i cani (2013), tutti editi da Jaca Book.

 

Francesca Caminoli, Perché non mi dai un bacio? Una donna accanto ai bambini di strada – Jaca Book – Pagg. 114 – € 12,00

Sul Teatro Apollo di Lecce

prospetto-del-teatro-apollo-col-colonnato-composito-1911
prospetto-del-teatro-apollo-col-colonnato-composito-1911

 

di Fabio Tolledi

La discussione sulla riapertura del Teatro Apollo ha visto, in questi giorni, susseguirsi
dichiarazioni e interventi che suscitano enorme interesse, quantomeno per chi, come
me, fa la professione di regista e di direttore artistico.
Vorrei sviluppare alcune riflessioni, proprio partendo da alcune delle ultime
dichiarazioni. La riapertura del Teatro Apollo è un evento importante non solo per i
soldi pubblici che sono stati spesi e che costringono tutti, sia amministratori che
cittadini, ad un’attenta ipotesi di utilizzo.
Per ogni grande contenitore di eventi culturali è tendenza ampiamente consolidata e
diffusa il tentativo, innanzitutto, di costruire un sistema articolato ed avanzato. Non
ha senso, e non ha molta prospettiva, considerare il Teatro Apollo come una entità
isolata che organizza un cartellone per la stagione di prosa con qualche spruzzatina di
eventi lirico-sinfonici. Il Teatro Apollo può avere un ruolo centrale nel momento in
cui riesce ad inserirsi in un contesto articolato di offerta culturale che preveda
l’interazione tra differenti spazi e strutture che devono accettare la sfida per 365
giorni all’anno.
In questo senso è fondamentale la capacità di tutti di rendere Lecce non una città
aggredita dal turismo mordi e fuggi, ma luogo di vivacità culturale reale. Per fare
questo ci si dovrebbe liberare dalla terribile scorciatoia dei grandi eventi che possono
dare – ovviamente – un’enorme risposta di pubblico in termini di numeri, ma non
sono nella maniera più assoluta sufficienti per costruire un reale profilo di offerta
culturale di un territorio che va ben aldilà della cittadina leccese. Da qui parte
l’importanza delle strategie da adottare e delle sinergie da promuovere. Perché in
gioco è che tipo di città pensiamo per i prossimi venti anni. Il grande evento, come
detto, funziona un poco come il grande nome. Un’idea provinciale che non consente
di dare risposte adeguate ad un contesto in forte trasformazione. Una scorciatoia che
nutre una grandeur ridicola e irreale. Una scorciatoia che consente di non
programmare e gestire, ma di navigare confusamente a vista.
La prima risposta per sfuggire a questa inutile prospettiva è considerare, dunque, il
contesto più ampio dell’offerta culturale a Lecce. Teatro Romano, Anfiteatro, Teatro
di Rudiae, Teatro Paisiello devono costituire un sistema integrato di offerta culturale
capace di attrarre pubblici differenziati tra loro. Questo sistema deve inoltre interagire
con altri spazi (pubblici e privati) capaci di offrire un ventaglio di proposte variegate
per differenti tipologie. Questo sistema, come è evidente, non può essere pensato
solo attraverso l’offerta del cartellone della stagione di prosa.
Dal 2010 Astragali Teatro svolge la propria residenza teatrale al Teatro Paisiello di
Lecce. Il Teatro Paisiello è divenuto senza ombra di dubbio il teatro della città, non
solo per il fatto che è il teatro municipale. Per fare ciò sono entrati in azione differenti
livelli sia istituzionali che artistici. Ma, innanzitutto, al centro c’è stata la chiara
necessità di aprire il Teatro della città alla città. Per fare ciò sono state attuate
differenti strategie di coinvolgimento e (oggi si direbbe con un anglismo) di coworking,
dove non ha operato solo Astragali, bensì vi è stato un affiancamento di
diversi soggetti capaci di offrire un prodotto variegato, che ha portato il Teatro
Paisiello dalle 45 giornate di apertura all’anno ad avere 300 giornate di apertura.
Questo esempio – piccolo rispetto alla ben più complessa sfida che si muove dalla
questione del Teatro Apollo – ha visto la presenza di Comune e Regione al fianco de
facto, dell’Università e dell’International Theatre Institute dell’UNESCO, di
compagnie professionali di teatro, ognuna con la propria autonomia artistica e di
proposta, del circuito regionale dello spettacolo e del mondo della scuola dalle
primarie alle superiori, di operatori del teatro e della danza, dell’improvvisazione
teatrale e dell’offerta a prezzi accessibilissimi (penso al teatro a 99 centesimi).
Differenti operatori e il tentativo di recepire le molteplici esigenze di una città in forte
trasformazione. In questo senso pensare ad un sistema complesso significa
raccogliere la sfida che vede il nostro territorio tra gli ultimi posti per numero di
lettori di libri.
Queste sfide si vincono dimostrandosi all’altezza della complessità, con una idea di
intervento capace di capire quali siano i reali protagonisti della vita culturale di un
territorio.
Chi opera nel teatro? Chi nella danza? Quali sono le agenzie formative? Come
mettere assieme realtà (inspiegabilmente) separate come Università, Conservatorio e
Accademia? E tutto il mondo della Scuola non è forse oggi chiamato ad assumere
una sfida più importante per il futuro occupazionale delle future generazioni? Non
può anche questo essere il terreno della formazione di concrete reti che facciano fare
un salto di qualità al nostro territorio?
Vorrei spendere due parole sul ruolo strategico delle residenze artistiche.
La residenza artistica, in tutta Europa, è una forma di Teatro che si innerva in una
Comunità. Ne diviene luogo di incontro umano e pensante, passionale e civico. La
forma delle residenze è un modello di intervento a 365 gradi che, partendo dalla
Puglia, ha coinvolto tutte le Regioni d’Italia. Ora questo modello è entrato nella
nuova legge sullo spettacolo e rappresenta, pur nelle mille difficoltà, uno dei pochi
elementi positivi di novità nel panorama delle attività connesse al teatro. Mentre
scrivo, mi trovo a Udine, dove si sta svolgendo il secondo incontro nazionale delle
Residenze teatrali, promosso dal MIBAC. La discussione su questo tema in questi
mesi è stata molto vivace e aperta, a testimonianza di una grande vitalità a dispetto
delle risicate risorse messe a disposizione. Perché è importante questo riferimento
alle residenze teatrali? Perché la risposta più efficace per quello che riguarda la
gestione del Teatro Apollo deve prima di tutto partire da una attenta osservazione di
quello che un territorio è realmente e di quelli che sono altri modelli operanti a livello
regionale, nazionale, europeo e internazionale. Sembrano delle banalità di base, ma è
necessario prima di tutto vedere come Bari (città che vede la presenza di teatri
pubblici di altissimo prestigio e costo di gestione come il Petruzzelli e il Piccinni,
affiancati a teatri ‘privati’, ma fondamentali nella storia degli ultimi trent’anni di Bari
come Abeliano e Kismet) e Brindisi (con il non meno costoso Teatro Verdi) hanno
pensato la propria gestione. Bisogna essere capaci di osservarne aspetti positivi e
limiti, e da lì trarne indicazioni importanti.
Così per il paino internazionale. Sappiamo come funziona il teatro in Albania o in
Grecia? Il Teatro Nazionale di Tirana o i Teatri municipali di Corfù e Ioannina che
esigenze hanno? Il Teatro Nazionale di Atene come elabora la propria strategia di
intervento, come si relaziona con la prestigiosa Fondazione Kakoiannis? Faccio solo
esempi di strutture dove Astragali ha lavorato in questi anni. Ma questi sono i
soggetti che un territorio che si pensa come attrattore deve essere capace di osservare,
deve essere capace di avere come proprio alleato in una visione molto più lunga e
strategicamente importante.
Le fondazioni sembrano rappresentare lo strumento adeguato per dare autonomia di
gestione e per non gravare sulle casse debilitate delle amministrazioni comunali.
Ma la capacità gestionale si deve, sempre, coniugare con una visione artistica
complessa ed adeguata ai tempi. Non è lo strumento Fondazione di per sé che
garantisce questo. Le precedenti gestioni del Petruzzelli, ad esempio, ci devono fare
riflettere molto sui rischi che possono rappresentare. Altre Fondazioni hanno
dimostrato di poter esistere solo attraverso un sostegno, non più possibile, di autorità
pubbliche.
Servono profili adeguati, figure che, se ci si mette a ben guardare, già esistono nel
nostro territorio, ne rappresentano l’eccellenza, costituiscono l’appeal più profondo e
qualificante. Certo, qualcuno continua a pensare questi luoghi come la costiera
romagnola del nuovo millennio. Ma ciò che chiama l’attenzione di platee sempre più
vaste è costituito da una proposta molto variegata e complessa che non è solo il
divertentismo o la movida.
Questo è anche un grido di allarme per promuovere – e proteggere – la nostra
bellezza. Anche Gallipoli e Otranto dovrebbero essere pensate in questa direzione.
Luoghi dove il turismo di massa rischia di impattare in maniera devastante se non
accompagnato con una attenzione straordinaria verso la salvaguardia del patrimonio
naturale e culturale.
Sempre più persone approdano in questo luogo, non più periferico sebbene ancora
molto provinciale, attratte da un’offerta che allude ad una profondità e ad una
bellezza non solo naturale.
Allora bisogna mettersi a guardare con attenzione. Abbiamo mote professionalità di
alto profilo presenti nel territorio. Perché non accettare la sfida che oggi abbiamo
davanti a noi? Perché non pensare questo territorio con una prospettiva rigorosa di
crescita complessiva? Perché non costruire un sistema integrato dell’industria
creativa che sia in dialogo con le politiche culturali del territorio, che ne sia
strumento di coesione con la variegata galassia dell’associazionismo?
Un’ultima cosa, un poco eccentrica e un poco erudita. Ad Apollo sono sacri i lupi, e
questo ha sicuramente a che fare con Lecce. Ma gli sono sacri anche i cigni e le
cicale, e forse anche questo da un certo versante può avere a che fare con questa città
bella ed effimera. Ma non possiamo dimenticare che altri animali sacri al figlio di
Giove e di Latona, siano i falchi, i corvi ed i serpenti. Non vorrei che, in questo
dibattito, prevalessero le qualità peggiori di questi sacri animali, perché il Teatro
Apollo è, innanzitutto, un teatro dove una comunità sogna se stessa.
 
* Direttore artistico di Astragali Teatro
Presidente dell’Italian Centre dell’International Theatre Institute- UNESCO
pubblicato su Quotidiano di Puglia il 22/6/2016

Silvana Bissoli. Quello che gli ulivi ci dicono dalle radici ai rami…

Il mio Mondo 1 APRILE 2014

La personale di SILVANA BISSOLI

“Quello CHE GLI ULIVI CI DICONO dalle radici ai rami… un cammino d’amore

La scrittura col fuoco per conoscere i suoi Passi tra gli ulivi pirografati

 

di Pompea Vergaro

Ancora una volta, come ogni anno, la pirografista Silvana Bissoli giunge nel Salento per tuffarsi tra i campi di antichi ulivi e… nella vita!

Si è inaugurata domenica 12 giugno scorso la personale della pirografista imolese Silvana Bissoli con “Quello CHE GLI ULIVI CI DICONO dalle radici ai rami… un cammino d’amore” nello storico spazio espositivo della Galleria Maccagnani di Lecce che resterà in esposizione fino al 30 giugno. Curatela e direzione del critico d’arte e giornalista Pompea Vergaro.

La pirografista Silvana Bissoli, la viandante messaggera, come ama definirsi, dalla città di Imola è tornata con suoi ulivi nel Salento. Sono circa 30 le opere pirografate   che sosteranno nel cuore di Lecce il cui filo conduttore è l’amore.

La personale è dedicata alla poetessa e scrittrice leccese CLAUDIA PETRACCA scomparsa prematuramente nei primi giorni di quest’anno.

La mostra è un cammino a più voci lungo “LE STRADE DEGLI AMORI  in cammini di arte musica poesia prosa teatro canto danza”.

Così i giorni della mostra assistiamo ai Concerti degli Studenti del Conservatorio Tito Schipa di Lecce e incontriamo scrittori, poeti, musicisti, cantanti, attrici e attori, ballerini.

Lo spettatore, entrando negli spazio della Maccagnani, potrà percorrere i Passi di Silvana Bissoli che ancora una volta l’hanno condotta lungo i viottoli e le campagne del Salento dove ha incontrato, colto i respiri e fotografato non solo accoglienti e frondosi, ma anche sofferenti ulivi, in questa antica ed esigente terra e che successivamente, abilmente, ha pirografato.

I passi del Tempo rit cm 60x45

L’ulivo, dunque, è eletto protagonista dei suoi lavori. Ella dedica il suo pensiero e conduce il pirografo verso la terra degli ulivi, li umanizza per parlare ai nostri CUORI e alle nostre MENTI. Tratta questo autentico monumento della natura con la tecnica particolarissima della pirografia. Ella incide il legno con sottili segni di fuoco. È la scrittura col fuoco, un’arte antica, una tecnica d’incisione di origine mediterranea le cui particolari caratteristiche, oggi, la rendono moderna: la sua mano guida il pirografo, traducendo il legno in opere d’arte simili ad acquerelli.

Si sa che nel mondo dell’arte vi sono milioni di storie. Questa di Silvana è una delle tante e ugualmente significativa e importante. Ma cosa narra l’artista con i suoi ulivi pirografati?

Gli ulivi instancabili e frementi narrano le vicende umane, tra speranze e dolori, illusioni e delusioni e smisurate passioni e amori. Tanti i viaggi, tante le soste. Una continua corsa nel mondo e non fuori di esso. Narra l’amore amicale e gioioso, l’amore doloroso, e materno, il tempo che, inesorabilmente, scorre, fermato dai ricordi, e la bellezza.

Dalle Radici al Sole cm 80x100

L’artista durante il suo percorso avverte l’esigenza di spazializzare i suoi ulivi ed ecco l’istallazione “QUELLO CHE GLI ULIVI CI DICONO” e la scultura “IL MIO MONDO”.

La prima è un’opera che acquista nuove spazialità, proponendosi in movimento. Un trittico, un parallelepipedo in verticale, composto da tavole collegate, poggiate su un basamento di pietra leccese su cui  è pirografato un unico Ulivo, visto da 3 angolazioni differenti attorno al quale lo spettatore può girarvi intorno. Incontrerà l’Amicizia, l’Abbraccio e il Calore, “perchè è necessario avere qualcuno su cui contare a piene mani”, come ci suggerisce la stessa artista.

Il mio Mondo 1 APRILE 2014

La seconda, è una scultura unica e irripetibile: una sfera in movimento, levigata, che designa morbidezza in un esplicito invito ad abbracciarla, nonostante palesi siano le incertezze che si traducono in solchi e crepe a testimoniare gli errori, la fatica del pirografo sul duro legno, e nel medesimo tempo, quello della nostra stessa esistenza!

I viaggi di Silvana Bissoli non hanno una meta finale, perché quel che conta sono i giorni del cammino e delle soste!

Con il suo messaggio, sorretto da questo amore smisurato, per l’arte, completamente viscerale, ci dice che come tutti gli amori, anche questo è vissuto tra gioie, attese, dolori e fatica, delusioni e, altre volte, abbandoni, per poi ritornare e ricominciare.

 

L’ incontro di Silvana Bissoli con l’Arte è apparentemente casuale.

Si laurea in Scienze Politiche. Poi, durante un viaggio, l’incontro con l’artista pugliese Giorgio Fersini che ne diviene suo maestro di pirografia, diventa determinante sia per l’incoraggiamento a intraprendere la via dell’arte sia per la sua crescita artistica personale.

Ed ecco per noi quadri, installazioni, sculture di ulivi che l’artista, dapprima ha cercato e fotografato nella terra del Salento, in lunghe passeggiate che ci riconducono fino agli anni della sua giovinezza, per restituirceli in arte”.

 

         “L’arte viene da lontano e va lontano!

Questo è il suo fascino e la ragione per la quale la gente le si affolla attorno,

la guarda come si guarda a un viaggiatore che torna da Paesi lontanissimi

e dal quale si aspettano racconti meravigliosi. . .”

Castellaneta non è solo Rodolfo Valentino (2/2)

di Armando Polito

Il terzo concorrente vittima, si fa per dire, del fascino di Rodolfo Valentino è Ignazio Della Croce (al secolo Ignazio Danisi). -Per forza!-  dirà impietosamente il lettore dopo aver visto il suo ritratto, che riproduco dal tomo XII della compilazione di Domenico Martuscelli Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, Gervasi, Napoli, 1827.

ignazio della croce

La didascalia sintetizza tanto perfettamente la sua figura (teologo, oratore e poeta) che lascio parlare i frontespizi.

 

 

Definire intensa la sua attività di oratore sarebbe dir poco, tenendo conto della serie di sue orazioni pubblicate.

 

Il fratello minore Giovanni Giuseppe fu vescovo di Gallipoli dal 1792 al 1820. Se le date non parlassero chiaro, il solito malpensante direbbe che il vescovo non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di dare lustro alla sua chiesa invitandolo. Invece, mi piace credere che accanto alle ragioni per così dire professionali ci furono quelle sentimentali, insomma la nostalgia di quel Salento da cui pure lui, come tanti, era stato costretto (bisogna aggiungere: potendolo fare …) ad evadere per realizzarsi.1

 

E, dopo il teologo e l’oratore, veniamo al poeta. Ignazio fu membro dell’Accademia dell’Arcadia con il nome arcadico di Dasmone Andriaco e fondatore, in seno all’Arcadia, della colonia Aletina2.

Traduco il titolo: Il ritorno in Roma  e la nostalgia di Napoli, ecloga di Dasmone Andriaco pastore arcade. Recitata nel bosco Parrasio sul Gianicolo il 10 agosto dell’anno di recuperata salvezza (d. C.) 1757.
Per il bosco Parrasio vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/23/gli-emblemata-di-gregorio-messere-1636-1708-di-torre-s-susanna-13/.

Anche qui traduco: Poemi di Dasmone Andriaco pastore arcade  uno dei dodici uomini del collegio dell’Arcadia e vice custode della colonia Aletina. Ora di nuovo stampati con una nuova aggiunta dopo l’edizione veneta. Per Aletina vedi la nota n. 2.                                                                                                                                                                       

Un fascicolo conservato nell’Archivio Muratori della  Biblioteca Universitaria Estense a Modena contiene alcune lettere inviate dal Della Croce a Ludovico Antonio Muratori. Di seguito il terzo foglio della prima lettera (da Napoli, 18 settembre 1741) e nel dettaglio l’ingrandimento della sua firma.

Sarebbe facile abbandonarmi ora ad amare riflessioni sul concetto di merito, sapendo benissimo che anche nella conservazione della memoria concorrono elementi imponderabili, nel doppio senso di imprevedibili ma anche in quello originario di non pesabili, non valutabili, perché, soprattutto in confronto con altri, il loro peso, cioè la loro importanza nella storia dell’umanità è quasi irrisoria. Anche oggi vuoi mettere il peso delle gesta di un attore a confronto con quello di una battaglia condotta, non solo teoricamente, da un intellettuale ? Ma, mi domando in chiusura, forse dipende dal fatto che di attori ce ne sono tanti, di intellettuali veri, anzi di uomini degni di questo nome, forse, nessuno?

E così Castellaneta è ricordata come la patria di Rodolfo Valentino e non di almeno uno dei GiovinazzI o di Ignazio della Croce. Tutto sommato le è andata bene, perché Firenze, per esempio, rischia di essere ricordata non come la patria di Dante, ma di Matteo Renzi …

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/06/22/castellaneta-non-solo-rodolfo-valentino-12/?preview_id=89783&preview_nonce=3640e2f39e&_thumbnail_id=89789&preview=true

 

____________

1 Fu Giovanni Giuseppe a comporre l’epigrafe sulla tomba di Ignazio nella Chiesa degli Agostiniani Scalzi alias della Verità a Napoli:

EGNATI A CRUCE/DISCALCEATORUM DIVI AUGUSTINI/SACERDOTIS PIETATE DOCTRINA MODESTIA/ADMIRANDI INTER SUOS ORNATISSIMI/ELOQUENTIA VERO ET SACRARUM LITERARUM/SCIENTIA CUM PAUCIS AETATIS SUAE/COMPARANDI EAQUE GRATIA INTER/SUMMOS CONCIONATORES ET REGI/NEAPOLIT(ANI) LICEI PRIMARIOS PROFESSORES/RELATI EHEU CINERES HEIC IOANNES/IOSEPH A CRUCE EIUSDEM ORDINIS/SACERDOS GERMANUS FRATER MINOR/INCONSOLABILIS CONDI VOLUIT/ANNO AERAE CHRISTIANAE/MDCCLXXXIIII (Le ceneri, ahimè,  di Ignazio Della Croce degli Scalzi di S. Agostino sacerdote ammirevole per religiosità,dottrina, modestia, tra quelli del suo tempo veramente più dotato dieloquenza e conoscenza degli argomenti sacri, paragonabile con pochi della sua età, anche per quella grazia tra i più grandi oratori  e i primari professori del liceo napoletano, io Giovanni Giuseppe Della Croce, sacerdote dello stesso ordine, fratello germano minore,inconsolabile volli che fossero qui riposte nell’anno dell’era cristiana 1784). Anche Giuseppe fu socio della colonia Aletina con il nome arcadico di Dossofilo. Per una sua orazione pubblicata nel 1771 vedi la nota successiva.

2 Della produzione dei soci della colonia Aletina dell’Arcadia ci restano parecchie pubblicazioni  (alcune successive alla morte di Ignazio avvenuta nel 1784). Ne riporto alcune interessanti anche nonin strettio rapporto con il tema di questo post. Tutti i frontespizi recano lo stemma della colonia. Nel cartiglio superiore si legge ARCADUM COLONIA ALETHINA (Colonia Aletina degli Arcadi), in quello inferiore il motto ET CANIT ET CANDIT ( (E canta e biancheggia; quasi un gioco di parole, con riferimento letterale al cigno e non al giglio (avete mai visto un giglio che canta?), come incredibilmente si legge nel Dizionario biografico Treccani nella scheda a firma di Serena Veneziani (http://www.treccani.it/enciclopedia/ignazio-della-croce_(Dizionario-Biografico)/), il che fa concorrenza ai monaci brasiliani dei quali ho avuto già occasione di parlare qualche anno fa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/26/lettera-aperta-a-massimo-bray-titolare-del-mibac1/).

Visto il cigno con la zampogna, simbolo della poesia pastorale? Bene, rimane ora da chiarire Alètina (così dovrebbe essere letto correttamente), e sarà lo stesso frontespizio a farlo nel senso che la voce è una forma aggettivale,  trascrizione (attraverso un latino *alètina) del greco ἀληθινή (leggi alethiné)=veritiera. Provate a sottintendere chiesa ed avrete chiesa veritiera, che corrisponde al S. Maria della Verità che si legge nella riga successiva e che, dunque, non è altro che la traduzione di Aletina. La colonia, perciò, prese il nome da quello della chiesa napoletana.

A p. 53 c’è un sonetto di argomento sacro di Giuseppe Parini milanese P. A. In un primo momento ho credouto che l’abbreviazione dovesse essere sciolta in Padre Agostiniano e non in Pastore Arcade perché nel suo caso, ma anche in quello di altri manca la precisa indicazione, che correda i rimanenti  dell’appartenenza alla colonia Aletina, nonché il nome arcadico.  Oltretutto il Parini entrò nell’Arcadia nel 1777 con il nome arcadico di Darisbo Elidonio. È interessante, mi sono detto, l’ospitalità qui offerta ad un “estraneo” e, poiché per motivi stilistici non credo che si tratti di un imitatore per quanto abile, il fatto che questo ha consentito la conservazione di una poesia giovanile sconosciuta, almeno a me. Poi, scorrendo le pagine del testo, ho notato che l’abbreviazione P. A. ricorreva pure per altri autori per i quali era stato già specificato che si trattava di Agostiniani. Così è tornato in campo il primo scioglimento che retrodaterebbe
l’appartenenza del Parini all’Arcadia di almeno vent’anni. E che P. A. vada sciolto in Pastore Arcade lo conferma la stessa abbreviazione che compare nel terzo e quarto frontespizio di Ignazio.

Le pagine 12-27 contengono un’orazione di Giovanni Giuseppe Della Croce.

 

 

 

Per la prima parte: 

Castellaneta non è solo Rodolfo Valentino (1/2)

Castellaneta non è solo Rodolfo Valentino (1/2)

di Armando Polito

 

Se è comprensibile e scontato che un luogo diventi famoso (cioè, sostanzialmente, per associazione di idee, se ne parli) per aver dato i natali ad uno o più personaggi illustri, non sempre è agevole capire, soprattutto quando i candidati sono più di uno, le ragioni della scelta. Cercherò di farlo con Castellaneta, la graziosa cittadina in provincia di Taranto, famosa, come tutti sanno, per aver dato i natali a Rodolfo Valentino (1895-1926), in arte Rudy, uno dei divi internazionali del cinema muto e sex (o bisex …?) symbol dell’epoca. Basti pensare che la locuzione latin lover fu coniata proprio per lui; tutto bene, come sempre succede con l’antonomasia, finché si è in vita o, tutt’al più, per poco tempo pure dopo la morte. E così quella locuzione passò genericamente ad indicare chiunque col suo fascino di maschio (non dimentichiamo, però, il bisex precedente) riusciva a sedurre una donna dietro l’altra. Chiedo scusa per la rozzezza della definizione, perché, oltretutto, piuttosto variegata era la tipologia di  censo di questi autentici fenomeni, comprendendo tanto il multimiliardario (è la sottocategoria del playboy), quanto il muscoloso bagnino della costa romagnola, oggetto degli appetiti di bionde nordiche insoddisfatte dall’algido amante settentrionale. Ragioni culturali, climatiche, ormonali, magari interagenti fra loro? Siccome si è registrato (non so se con strumenti più seri di una semplice intervista) in questi ultimi decenni un calo spaventoso del desiderio, non mi meraviglierei che qualche estroso ricercatore universitario fosse stimolato (e sponsorizzato …) a cercarne la causa, concentrandosi, soprattutto, sul fattore culturale ed ormonale, visto che, per quanto riguarda quello climatico, il surriscaldamento del pianeta avrebbe dovuto provocare, specialmente qui in Salento, una deflagrazione di desiderio …

– Sì, ma chi sarebbero, per quanto riguarda Castellaneta, i concorrenti di Rodolfo Valentino ? – sbotterebbe a questo punto il lettore che mira al sodo. Se appartiene alla categoria degli amanti del gossip e del fatuo, assidui lettori di giornali scandalistici e di trasmissioni televisive che definire demenziali sarebbe un complimento, ha sbagliato sito e, se non vuole perdere tempo, gli conviene tornare al motore di ricerca e digitare una di quelle parole-chiave che sono la sua vita (gossip, Grande Fratello, corna, etc. etc.).

Agli altri dico subito che i concorrenti sono (anzi, sarebbero stati) tre e tutti  letterati del XVIII secolo, i primi due, addirittura, cugini, cioè Domenico Antonio e Vito Maria Giovinazzi. Mi limiterò a riportare di entrambi solo quelle notizie, paradossalmente meno note,  che sembrano gli elementi più adatti per avanzare candidature di quel tipo che poi si aggiudicherà (almeno fino ad ora …) il bel Rudy.

Domenico aiutò Johann Caspar von Goethe (1710-1782) nella stesura, direttamente in italiano, del suo resoconto del viaggio da lui compiuto in Italia alla fine degli studi. L’opera è una delle testimonianze di quella che nei secoli XVIII-XIX era una tappa obbligata della formazione dei giovani stranieri, naturalmente  di famiglia benestante, dell’epoca e che diede vita a quella vasta produzione letteraria celebrante il cosiddetto Grand tour. Il Viaggio in Italia (1740), questo è il titolo, sarà pubblicato per la prima volta nel 1932 a cura di Arturo Farinelli dalla Reale Accademia d’Italia a Roma. Domenico in casa Goethe insegnò pure l’italiano al figlio di Johann Caspar, destinato a diventare uno dei più famosi letterati tedeschi, Johann Wolfang, autore anche lui di un Italienische Reise (Viaggio in Italia) uscito in due volumi, il primo nel 1816, il secondo l’anno successivo. Ecco come Wolfang ricorda il suo maestro: Un italiano avanti negli anni e simpatico, maestro di lingua, di nome  Giovinazzi, lo aiutava in questo lavoro [la stesura del Viaggio in Italia]. Inoltre il vecchio cantava discretamente e mia madre aveva preso l’abitudine di accompagnarsi ogni giorno con lui  al pianoforte, sicché ben presto io venni a conoscere l’esistenza  di Solitario bosco ombroso, e lo imparai a memoria  prima ancora di capirne il significato.1

Nel'incisione del 1775 di Michael Wachsmuth: in alto Johann Caspar Goethe e Katharina Elisabeth Textor; in basso Johann Wolfgang
Nell’incisione del 1775 di Michael Wachsmuth: in alto Johann Caspar Goethe e Katharina Elisabeth Textor; in basso Johann Wolfgang
La famiglia Goethe (padre, madre e i figli Wolfang e Cornelia in un olio su tela del 1762 di Johann Conrad Seekatz conservato nel Goethe-Nationalmuseum, Weimar
La famiglia Goethe (padre, madre e i figli Wolfang e Cornelia) in un olio su tela del 1762 di Johann Conrad Seekatz conservato nel Goethe-Nationalmuseum, Weimar

 

Se Domenico non pubblicò nulla (il che non esclude che abbia scritto qualcosa, magari andata perduta), folto è invece l’elenco dei titoli di Vito Maria. Lascio parlare i frontespizi.


L’opera, che ebbe nello stesso anno una seconda edizione e numerose altre negli anni successivi, se fosse stato per il suo autore, non avrebbe mai visto la luce. Il merito della stampa va al papa Clemente IV e .. ad una  diatriba (non tutto il male viene per nuocere …) , che all’epoca ebbe una risonanza vastissima, tra il Giovinazzi ed i più insigni filologi romani del tempo che contestavano l’attribuzione a Livio da parte del salentino di alcune righe in latino non perfettamente cancellate in un palinsesto ebraico  che P. J. Bruns, amico di Vito Maria, stava studiando e che aveva sottoposto alla sua attenzione. Il papa nominò un’apposita commissione che sconfessò l’attribuzione a Cicerone fatta dai dotti romani e confermò senz’ombra di dubbio quella di Vito Maria, autorizzandone la pubblicazione.

Sempre di natura filologica fu una delle pochissime opere stampate volontariamente (se, a parte l’intervento di Clemente IV, amici ed ammiratori non avessero insistito in altre occasioni, ben poco ci sarebbe rimasto di lui); di seguito il frontespizio, non senza prima aver sottolineato la ritrosia del letterato a mettersi in mostra, sia pure attraverso uno scritto (razza allora rarissima, oggi estinta).

Poteva un filologo del suo calibro evitare di comporre poesie in latino, sia pure di natura encomiastica, secondo l’aspetto dominante della cultura dell’epoca? Certamente no; e lo mostra il frontespizio sottostante. Il lettore non si faccia fuorviare da Iuvenati, che è la traduzione latina di Giovinazzi.


Mi piace chiudere questa prima parte con il giudizio che su Vito Maria, all’epoca trentenne, espresse Girolamo Lagomarsini, uno dei massimi eruditi e latinisti di quegli anni, nell’edizione da lui curata delle opere dell’umanista Giulio Pogiani, dal titolo Pogiani Sunensis Epistolae et Orationes, Salomonio, Roma, v. II, 1757, p. 34: Harum litterarum exemplum debeo singulari Viti M. Giovenazzi S. J. humanitati, in quo Homine, etiaimnum Adolescente, praeter humanitatem, uti dicebam, singularem, ita summum ingenium, ac potissimum memoriae vis incredibilis,cum mirifica discendi cupiditate, et acerrima studendi contentione certat; tantumque iam multiplicis doctrinae, atque eruditionis instrumentum apparet, ut nisi qua forte rex (quod omen Superi avertant) eius Studiorum institutos cursus retardarit, nihil in ullo praeclarae Litteraturae genere tantum sit, quod non cum brevi assequuturum putent, qui sunt ipsi praeclare, ac cumulate Litterati (Debbo un esempio di questi studi letterari alla singolare umanità di Vito Maria Giovenazzi della Società di Gesù, nel quale uomo ancora giovane, oltre all’umanità, come dicevo, singolare, l’ingegno così alto e soprattutto la forza incredibile della memoria gareggiano con uno straordinario desiderio di apprendere e con un eccezionale sforzo di applicazione; e appare già un possesso tanto grande di molteplice dottrina ed erudizione che a meno  che per caso qualche evento (gli dei tengano lontana questa possibilità) ritardasse il corso prefissato dei suoi studi, non c’è nessun risultato in nessun genere di illustrissima letteratura tanto difficile che in breve non possa conseguirlo secondo il parere di coloro che sono essi stessi chiarissimamente e pienamente letterati).

Per la seconda partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2016/06/23/castellaneta-non-solo-rodolfo-valentino-12-2/

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1 Dichtung und Wahrheit, parte I, cap. I: Zeit verwendete er auf seine italiänisch verfaßte Reisebeschreibung, deren Abschrift und Redaktion er eigenhändig, heftweise, langsam und genau ausfertigte. Ein alter heiterer italiänischer Sprachmeister, Giovinazzi genannt, war ihm daran behülflich. Auch sang der Alte nicht übel, und meine Mutter mußte sich bequemen, ihn und sich selbst mit dem Klaviere täglich zu akkompagnieren; da ich denn das Solitario bosco ombroso bald kennen lernte und auswendig wußte, ehe ich es verstand.

Solitario bosco ombroso è un’ode per musica del poeta e librettista Paolo Rolli (1687-1765).

 

Nicola De Donno: la poesia dalla mente al cuore

de donno nicola

di Giuseppe Magnolo

Nicola De Donno, una delle voci più importanti nel panorama della poesia salentina. Il poeta magliese è venuto a mancare il 7 marzo 2004 all’età di 84 anni. La circostanza ci sollecita a ricordarne la grande umanità, la vasta cultura, e soprattutto l’alto valore della sua produzione in versi, che si distingue per ampiezza di temi, qualità formale, profondità di sentire.

Laureato in filosofia alla Scuola Normale di Pisa, De Donno fu docente e preside nei licei. Sensibile alle tematiche sociali e assertore convinto del valore della cultura salentina, volle promuoverla rimanendo ancorato alle proprie origini anche in ambito professionale oltre che linguistico-culturale. Assai importanti i suoi contributi all’innovazione scolastica, che a partire dagli anni settanta del secolo scorso videro il liceo “Capece” protagonista di primo piano a livello nazionale nella sperimentazione di nuovi indirizzi di studi e metodologie didattiche. Importanti anche i suoi contributi connessi all’esperienza di Tempo d’Oggi e alla “Società di Storia Patria per la Puglia”.

La poesia di Nicola De Donno è fortemente caratterizzata dalla sua scelta di usare il dialetto salentino, anzi magliese, volendo egli con ciò mantenere salde le proprie radici non solo con il suo ambiente originario ma anche riguardo al codice linguistico, di esso ritenuto componente essenziale. Lungi dall’intendere l’espressione dialettale come una forma limitativa di provincialismo culturale, De Donno la riteneva una logica conseguenza del particolarismo regionale che sempre ha contraddistinto la storia italiana, attribuendole una funzione assolutamente positiva, che può consentire alla cultura nazionale di accogliere e rispecchiare una pluralità di lingue e culture diverse. Il dialetto è quindi da lui considerato come la lingua degli affetti autentici, della spontaneità sincera, rispetto alla lingua nazionale destinata ad esprimere contenuti puramente utilitaristici, istituzionali o di scambio, che sono agli antipodi della poesia.

Sul piano tematico i connotati fondamentali della ricerca poetica ed esistenziale di Nicola De Donno muovono inizialmente da un tormentato agnosticismo, in cui ragione e senso producono un impeto di ribellione contro le miserie e i mali del cosiddetto vivere civile, mentre l’impulso verso la trascendenza, costantemente avvertito con lacerante delusione, impatta contro gli usi strumentali a cui essa si presta attraverso le figure di ordini gerarchici primariamente rivolti a sancire privilegi e collusioni con l’establishment. Pertanto l’esperienza del mondo reale è progressivamente pervasa dall’ombra di una sofferenza individuale che sfocia in un pessimismo cosmico, tale da non lasciare alcuno spazio alla rassegnata accettazione dello status quo se non nel presupposto che la morte sia l’esito naturale di tutte le cose, l’unica certezza su cui la coscienza possa fondare la possibilità di apprezzare la vita per quello che essa veramente è, lungi da illusioni ingannevoli.

Questo senso di delusione e di risentimento nella produzione poetica di De Donno è contraddistinto nelle raccolte iniziali da spirito prevalentemente satirico, rivolto ad aspetti e a circostanze occasionali propri dell’ambiente salentino di appartenenza, come si può constatare nei componimenti di Crònache e Paràbbule (1972) e Paese (1979). Successivamente la riflessione si orienta verso una più ampia prospettiva storico-sociale, riferita a vicende sia di taglio personale, come l’esperienza della seconda guerra mondiale e la campagna di Russia (La guerra guerra, 1987), che di rievocazione storica, in particolare la presa di Otranto da parte dei Turchi nel 1480 (La guerra de Uṭrantu, 1988). Queste opere presentano un comune legame nella tendenza dell’autore a considerare la storia dal punto di vista degli umili, che sono sempre la parte perdente in ogni conflitto.

Nella fase poetica più avanzata l’ispirazione assume toni più intimi e personali, focalizzandosi soprattutto su temi esistenziali: lo scorrere del tempo, il mutare delle stagioni, la perdita degli affetti (Mumenti e ṭrumenti, 1986). Il confronto con l’idea della morte e ciò che può sopravviverle, la riflessione sul senso della vita, ed infine la ricerca di uno spiraglio verso la fede pervadono le ultime raccolte (Lu senzu de la vita, 1992; Palore, 1999; Filosufannu?Cu lle vite la vita, 2001).

Considerando le strutture poetiche adoperate da De Donno, è facile constatare come anche per questo versante egli intendesse muoversi nell’alveo della tradizione letteraria, che per lui rappresentava non solo un indispensabile legame con il passato, ma anche una forma di autoimposta disciplina che da un lato tutelasse l’estro creativo da impulsi troppo dirompenti, e dall’altro preservasse un senso di rispetto verso il lettore e le sue possibilità di comprensione del prodotto artistico. Queste ragioni sono alla base delle sue scelte per quanto attiene alle forme adottate, in particolare la sua marcata preferenza per una struttura poetica breve e pregnante come il sonetto.

È comunque significativo il fatto che nei componimenti delle ultime raccolte il senso della rinunzia verso le sollecitazioni dell’esistenza fisica si rispecchi spesso nell’abbandono della consueta compostezza metrica in favore di una estrema stringatezza di linguaggio, con una tecnica di marcato sfrondamento.

Nella convinzione che la formulazione di un giudizio generale sulla poesia di qualunque autore sia meno rilevante rispetto alla necessità di rendere chiaramente percepibile per il lettore le qualità peculiari da cui esso scaturisce, riteniamo opportuno far parlare i testi, seppur con l’essenzialità richiesta da un saggio breve. A tal fine riportiamo tre sonetti, che pur nella diversità tematica che li distingue, possono ben rendere sia l’intensità dei sentimenti dell’autore che la sua efficacia espressiva. Il primo componimento è classificabile come poesia visiva. Esordisce con immagini riferite alla realtà naturale, per poi creare delle corrispondenze di carattere concettuale con lo stato d’animo del poeta nell’approssimarsi della fine, e chiudere sulla metafora della luce destinata a spegnersi come la vita:

Duce sta primavera nuvembrina

       calleggia rari susu ll’onde chiare

       fiuri de scome càndite. Ṭraspare

       jundu allu fundu d’alica zzurrina.

E lluntanu me porta all’àuṭru mare

ca me mareggia an fundu, e mme nturcina

ṭrumenti su llu gnenti e lla scatina

de l’otaluri cucchi a llu nfucare.

       Puru, tardìa sta primavera è ssia

       ca m’àe lluciuta n’arba ggià sparuta

       -quannu? – a llu gnenti. E sse arba è dde bbuscìa

e ccasciu, nu m’è mmara sta catuta

fantasticannume luce. Poi, sia

se lampu sia de lampa ca se stuta.

(“Tardìa sta primavera”[1])

Il secondo sonetto rievoca il ricordo straziante del figlio Luigi, morto a metà del suo cammino di vita per un male inguaribile, che lo ha strappato ai suoi cari, impedendogli di realizzare il suo sogno di farsi frate francescano dopo aver abbracciato la fede in Cristo:

Cce auṭru nc’ete ca te pozzu dare

se nu nnu fiuru ca nu giova a gnenti

se nu nna tomba ca mancu la senti

e nnu ricordu ca s’à scancellare

   mpena jeu me scancellu? Né autrimenti

   tie urmài de mie tieni cosa a cercare.

   Tra la morte e la vita nc’è nnu mare

   ca màncane llu varchi bastimenti.

E però morti e vivi pari gnenti

suntu, e lu gnenti è tuttu: morti e vivi,

e celu e terra, e llegrità e ṭrumenti.

   Ma quasisìa nu nc’è, chiantu cultivi

   alla chiccara mea, minu simenti

   e spettu … cu tte rrivu e cu mme rrivi.

(“Spettu”[2])

Il terzo sonetto è dedicato dal poeta alla moglie Maria, la compagna di una vita cosparsa di molte asperità, ma sostenuta dall’affetto. Sicuramente è da considerare una delle più belle poesie d’amore che mai siano state scritte, un componimento in cui la forza di questo sentimento si riafferma a dispetto del tempo che passa:

Tu si’ la ggioventù ca se n’è sciuta

annu dopu annu senza mai nne lassa,

senza lla tocca lu tiempu ca mmassa

ràppuli e rrèume e llentu ne ṭramuta.

   Vita de osci duce comu pàssula

   de l’ua de jeri a ll’ànima. Sparuta

   ogne ddurezza de pena patuta,

   ogne nnùticu llenta e sse smatassa.

A ffiancu a ffiancu l’imu caminata

sta via ca sale e scinne de la vita,

e mmo nu mmanca mutu a lla fermata.

   Tènite pronta, vèstite de sita

   comusìa ntorna ca è lla prima fiata

   e cca è ll’amore, sempre, ca ne nvita.

(“Vestite de sita”[3])

L’amore vince la forza dissolutrice del tempo, che pure assiepa rughe e acciacchi senza sminuirne il vigore. L’amore nel tempo matura, come l’uva lasciata a seccare sul grappolo che diventa sempre più dolce, e attenua le pene patite sciogliendo con l’affetto ogni nodo di pianto. L’amore condiviso scandisce ogni tappa del lungo cammino della vita e permette di compiere serenamente anche il passo estremo della morte, che diventa un evento gioioso a cui presentarsi col vestito della festa. L’amore, soltanto l’amore, riunisce in un unico anelito l’umano e il divino, il tempo e l’eternità.

La parabola dell’evoluzione poetica di Nicola De Donno si sviluppa in sintonia con il suo percorso di vita, con una traiettoria in cui la mente e il cuore sono contrapposti ai due poli estremi. Partendo da premesse logico-sensoriali, egli ha dapprima posto la ragione a fondamento del suo giudizio sulla realtà e sugli obiettivi poeticamente perseguiti. Nella maturità gli impulsi contrastivi del poeta hanno ceduto, lasciando il campo al sentimento, che gli ha permesso di aggrapparsi alla religione degli affetti. Nella rassegnata accettazione della propria limitatezza egli ha infine trovato un approdo verso la fede ed una spontaneità di confessione intima che sostanzia la sua voce poetica, toccando le corde più profonde dell’umano sentire.

 

[1] NICOLA DE DONNO, Palore, Milano, Scheiwiller, 1999, p. 59. [Dolce questa primavera novembrina / tiene a galla sulle onde chiare radi / fiori di spume candide. Traspare / un ondeggiare sul fondo di alga azzurrina. // E lontano mi porta all’altro mare / che mi mareggia nel profondo, e mi attorciglia / rodimenti sul niente e lo scatenarsi / dei vortici prossimi all’affogare. // Pure, questa tardiva primavera è come / se mi abbia accesa un’alba già sparita / – quando? – nel niente. E se è alba bugiarda // e cado, non mi è amara questa caduta / fantasticandomi luce. Poi, non importa / se sia lampo di lampa che si spegne.]

[2] Ibid., p. 66. [Che altro c’è che ti posso dare / se non un fiore che non giova a niente, / se non una tomba che neanche la senti / e un ricordo che si ha da cancellare // appena io mi cancellerò? Né altrimenti / tu ormai hai qualcosa da cercare a me. / Tra la morte e la vita c’è un mare / che mancano bastimenti per varcarlo. // E però morti e vivi uguali niente / sono, e il niente è tutto: morti e vivi , / e cielo e terra, e allegria e tormenti. // Ma come se non ci fosse, pianto coltivazioni / nel mio orticello, getto semi / e aspetto… che io ti raggiunga e tu mi raggiunga.]

[3] NICOLA DE DONNO, Mumenti e ṭrumenti, Lecce, Manni ed., 1986, p. 60. [Tu sei la gioventù che se n’è andata / anno dopo anno senza mai lasciarci, / senza che la toccasse il tempo che accumula / rughe e reumatismi e lento ci trasforma. // Vita di oggi dolce come chicco seccato / dell’uva di ieri all’anima. Sparita / ogni durezza di pena patita, / ogni nodo si allenta e si scioglie. // A fianco a fianco l’abbiamo percorsa / questa via della vita che sale e scende, / e ora non manca molto alla fermata. // Tieniti pronta, vestiti di seta, / come se fosse di nuovo la prima volta / e fosse l’amore, sempre, che ci invita.]

 

Dal Salento: i chiaroscuri della vita e una lucciola di speranza

l'insenatura acquaviva di marittima, come era una volta
l’insenatura acquaviva di marittima, come era una volta

 

di Rocco Boccadamo

 T. e L. sono entrambi della classe 1928, ossia a dire hanno oltrepassato le ottantotto primavere; invero, niente d’eccezionale, giacché, com’è noto, la durata media della vita si è nettamente modificata, tanto a livello delle pile d’almanacchi riservate a noi umani, tanto e soprattutto riguardo alle sembianze fisiche che, dell’esistenza, rappresentano, in fondo, uno specchio indicativo.

Notazione sullo specifico argomento anagrafico e d’apparenza, ho recentemente rinvenuto sul web, una vecchia foto, risalente al 1946, di un gruppetto di pescatori intenti a riassettare gli attrezzi di lavoro sul loro gozzo di legno, fermo tra il bagnasciuga e il risicato scalo per le barche del porticciolo di Castro.

In primo piano e in risalto, due figure, una delle quali con giubbotto e coppola, che danno l’idea, rispettivamente, di un uomo anziano, intorno alla sessantina o giù di lì, e di un secondo di mezza età, ovvero intorno ai quaranta. In realtà, l’ho potuto apprendere successivamente da fonte sicura, i suddetti personaggi contavano, all’epoca, solamente trentatré e ventidue anni.

Ritornando ai marittimesi T. e L., essi sono contadini, si può affermare, dalla nascita e a tale mestiere si sono dedicati per l’intera vita, prodigandosi, appieno, ancora adesso.

Un mondo d’albe e tramonti, il loro, a contatto dei campi, delle zolle rosse, di una miriade di coltivazioni e di piante, compresi gli alberi simbolo del Salento, cioè a dire gli ulivi. Una lunghissima missione di lavoro espletata con impegno, sacrifici, dedizione e dignità, fonte e fulcro, ovviamente, delle risorse per la formazione e il sostegno, anche, dei rispettivi nuclei famigliari.

°   °   °

Giorni fa, al supermercato, mi trovavo in coda al reparto frutta per alcuni piccoli acquisti. L’impiegata addetta stava servendo un cliente, il quale, passando le ordinazioni con tutta calma e a singhiozzo, sembrava non esaurisse mai la sua lista, mentre insieme con me, arrivata qualche attimo avanti, attendeva una giovane donna, d’aspetto gradevole, occhi scuri, volto solare.

Alla mia domanda se aspettasse anche lei il suo turno e se fosse una compaesana, la signora mi precisava di esserlo per residenza a seguito del matrimonio, provenendo, invece, da una località vicina e, come si verifica quando tra persone di diversa generazione difficilmente ci si conosce, mi forniva anche riferimenti in merito alla famiglia del suo sposo.

Aggiungeva di essere casalinga, contrariamente a quanto avrebbe desiderato, a ciò costretta, purtroppo, da gravi e al momento insuperabili ragioni famigliari.

Tuttavia, durante il breve approccio e le confidenze nelle more dell’acquisto della frutta, la solarità di quel viso non usciva scalfita, prevalendo al contrario un composto equilibrio, forse sorretto dall’auspicio di tempi e sviluppi migliori per i propri cari.

°   °   °

A breve distanza di tempo, un’altra attesa, in questo caso davanti al bancomat del mio istituto di credito.

Fra gli altri astanti/utenti, una giovane bruna, dall’accento non salentino, in compagnia di un ragazzino biondissimo.

Probabilmente anche per ingannare l’attesa, mi chiede, la donna, se, almeno, v’è la certezza che all’interno dell’apparecchiatura non si esaurisca il contante, impedendo quindi di prelevare. Mi viene spontaneo, sulla base delle mie esperienze, di rassicurarla e approfitto dell’occasione per domandare se il ragazzo sia suo figlio o fratellino. Risposta, è bielorusso, ha undici anni, la sua famiglia, alcuni decenni addietro, è stata testimone, spettatrice ravvicinata e in qualche modo vittima del disastro nucleare di Chernobyl. Sicché, nel quadro di accordi di solidarietà fra associazioni italiane e bielorusse a ciò preposte, il bambino, ormai da sette anni, è ospite, in estate e anche durante le vacanze natalizie, di una famiglia italiana.

Salutando, apprendo, direttamente dal piccolo, che si chiama Illya.

°   °   °

Da una settimana circa, mi sono trasferito alla “Pasturizza”, la mia villetta del mare.

In questo angolo prediletto, ai piedi del muro di cinta lungo la strada per l’Acquaviva, ieri sera ho avuto la piacevole sorpresa, purtroppo non frequente, di scorgere una lucciola, con il suo magico lumicino fra l’azzurro e il verde.

Al che ho avvertito un sussulto di gioia dentro, con l’aggiunta che, in detta ultima circostanza, ispirato dai problemi famigliari della giovane signora incontrata al supermercato, ho voluto attribuire al simpatico insetto, sommessamente luminoso nello scuro notturno, il significato di un ideale faro di speranza.

Gran botto di vini del Salento a Radici del Sud

giuria radici del sud 2016

di Giuseppe Massari

 

Sono ottanta i vini premiati alla XI edizione del concorso internazionale di Radici che vede protagonista il Sud Italia. Una edizione da record quella del 2016: sono stati 432 i vini in concorso, 183 le aziende partecipanti (23 produttori siciliani, 18 produttori calabresi, 16 produttori lucani, 32 produttori campani e 94 produttori pugliesi). La giuria composta da giornalisti stranieri e da buyer provenienti da 13 Paesi (esteri (Svezia, Finlandia, Norvegia, Danimarca, Gran Bretagna, Olanda, USA, Canada, Giappone, Lituania, India, Polonia e Brasile) e da operatori e stampa nazionale, hanno decretato i migliori vini da vitigni autoctoni iscritti alla competizione. Nella rosa salita sul podio ci sono quest’anno anche i vini spumanti, nuova categoria inserita che completa il panorama enologico del Meridione. In tutta la kermesse, buon piazzamento dei vini salentini. In una tribuna d’onore non potevano mancare vini d’eccellenza.

Andiamo con ordine, iniziando dai primitivi. Secondo i buyer, i premiati sono stati quelli della Varvaglione Vigne e Vini di Manduria, con il loro consolidato Papale Linea oro 2013 e il Primitivo Manduria Dop dell’Antica Masseria Jorche.

Buon piazzamento per alcuni Negro amaro. Secondo i giornalisti, il primo posto è stato assegnato alla Cupertinum Antica Cantina del Salento 1935, con il suo Copertino Rosso Doc Riserva 2008; il secondo posto se lo è visto assegnato la Cantina Bonsegna con il Danze della Contessa 2014, Nardò Doc. Di tutt’altro tenore il giudizio dei buyer, che hanno concentrato la loro attenzione su: Vecchio Sogno 2014, Salento IGP, prodotto dalla Tenuta Giustini; Posta Piana 2014 Puglia IGP, Cantine Paradiso, ex aequo con 2 Nerio 2013, Nardò Doc, della Schola Sarmenti.

Nella categoria dei rosati del Sud, ancora il Salento protagonista. I giornalisti hanno decretato il terzo posto a Le Rotaie 2015, Valle d’Itria IGP, i Pastini. I componenti la giuria dei buyer hanno riservato due dei tre premi previsti a Cardone, con il suo Nausica 2015, Salento IGP e Trullo di Pezza con Speziale 2015, Salento IGP.   Per i Misto bianchi del Sud, i buyer hanno ritenuto premiare, tra l’altro, Palmento Costanzo con il Malvasia Bianca 2015, Salento IGP.

Per concludere e festeggiare il trionfo della Puglia e del Salento, considerato che tra i vini e vitigni premiati vi sono stati anche gli Spumanti rosati prodotti in Puglia, stappiamo alcune di queste bottiglie, come hanno consigliatogli esperti. Il Leggiadro Rosato del Consorzio Produttori Vini Manduria, che per i giornalisti ha meritato un secondo posto, per i buyer, invece, il primo.

Chiavatone e Trombino: un vecchio e un nuovo afrodisiaco?

di Armando Polito

La foto del chiavatone è tratta ed adattata da https://it.wikipedia.org/wiki/Arca_noae; quelle del Trombino sono di Gloria e Stefano Presicce
La foto del chiavatone è tratta ed adattata da https://it.wikipedia.org/wiki/Arca_noae; quelle del Trombino sono di Gloria e Stefano Presicce

 

Questa volta il titolo sembra non quello di un post ma di un film hard o di un racconto pornografico. L’apparenza inganna , Non è tutt’oro quel che luccica e L’abito non fa il monaco sono i tre proverbi che vorrei ricordare prima ancora di cominciare la trattazione (!), ma per capire che attinenza metaforica abbiano con l’argomento di oggi bisogna sorbirsi la lettura dell’intero post. Sconsiglio vivamente di farlo, perché resterà deluso, a chi si è già piazzato più comodamente ed attento del solito davanti al display, mosso solo da una curiosità motivata da immediato, quasi inconsciamente frettoloso approccio etimologico alle parole chiavatone e trombino, fatte derivare, rispettivamente, da chiavare e da trombare, sulla confortante e suadente onda emozionale di afrodisiaco.

Ma, in fondo, la stessa operazione avrà fatto anche chi è avvezzo a non lasciarsi condizionare dai peggiori (?) istinti, chi prima di procedere si sarà chiesto:  chiavatone l’ho sentito e so cos’è, ma questo trombino cosa sarà mai? E, magari, sarà giunto anche alla perversione (!) di consultare un buon vocabolario o, giacché il pc è acceso, di fare una rapida ricerca in rete. Avrà scoperto, così, che trombino esiste in italiano e che la sua gamma semantica è abbastanza vasta. Ecco la schermata che offre il Vocabolario Treccani (http://www.treccani.it/vocabolario/trombino/):


La gamma semantica offerta dal Treccani sarà pure ampia, ma di sesso non c’è neppure l’ombra. Ma all’ultimo posto, quasi  all’ombra delle precedenti definizioni, il sesso  l’incontriamo nel Dizionario De Mauro, anche se la voce è catalogata BU=basso uso:

A vantaggio di chi, magari, si starà ancora chiedendo quali siano i passaggi concettuali insiti nell’ultimo significato, aggiungo solo che trombino è diminutivo di tromba e che tromba, fra l’altro è pure sinonimo di pompa idraulica. Se le idee sono ancora confuse non mi resta che rivolgergli una domanda, adattandola ai tempi …: – Ma papà non ti ha detto nulla? –

Mentre lui tenta disperatamente di ricordare o si è già precipitato dal padre per farselo dire, noi continuiamo a tormentarci cercando di spremere questa parola pure, è il caso di dire, nelle sue parti basse.  Siamo veramente sicuri che il suffisso -ino abbia una funzione diminutiva? Non vi sembra offensivo per un grande amatore essere paragonato ad una piccola tromba? Veramente trombino ha quel significato per trasposizione dall’oggetto alla persona, cioè per quella figura retorica che si chiama metonimia, come è avvenuto, per esempio, con penna usato invece di scrittore?

Secondo me, invece, quel suffisso -ino ha la stessa funzione che assume in bagnino (da bagno), attacchino (da attacco), scopino (come sinonimo di spazzino, non nel significato di piccola scopa), vetturino (da vettura), etc., etc.; insomma, il suffisso non indica una diminuzione dimensionale ma l’attività.

Sistemato l’onore del maschio italiano, però, rimane l’afrodisiaco del titolo, che non può riferirsi certo alla persona, in questo caso al partner maschile (e ti pareva!) ed al suo effetto iniziale su quello femminile, e non viceversa (trombina, a conferma del maschilismo pure linguistico,  non è registrato da nessun vocabolario).

A questo punto debbo abbandonare tutto il rigore scientifico (!) fin qui mostrato e scivolare nel personale e nell’aneddotico. Se depositare un brevetto o registrare un nome non fosse costoso (poi, magari, lo dico con disprezzo solo per chi, a tutti i livelli, a partire da quello legislativo, consente tutto questo, arrivano i cinesi …) a quest’ora Trombino sarebbe il nome di un formaggio, degno compagno, per restare in casa,  della Mediterranea, per la quale vedi  https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/03/17/la-marzotica-della-masseria-bellimento-in-agro-di-nardo/ e https://www.youtube.com/watch?v=2FNhlD2u0V4, nonché della ricotta scante, per la quale vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/04/la-ricotta-scante-ci-ti-usca-no-tti-scantare-la-ricotta-forte-se-ti-senti-bruciare-non-spaventarti/.

Tutto, compreso questo post, nasce per colpa (o per merito, a seconda dell’effetto) di  un mio cugino-fratello, per la storia Ignazio Cacudi, che argutamente suggerì qualche anno fa a mio cognato Giuseppe il nome di Trombino per un nuovo formaggio che al primo assaggio aveva giudicato degno aiutino piccante per situazioni piccanti.

Non so se Ignazio fu anche l’autore della campagna promozionale che dovette seguire perché a distanza di qualche giorno il caseificio venne letteralmente invaso da rappresentanti del sesso non gentile (sembra l’inverso della pubblicità del Prostamol …) che richiedevano o prenotavano una fornitura di Trombino. Il caso  più esilarante, però, secondo il racconto di mio cognato, fu quello di una persona di una certa età che si presentò chiedendo una forma di Trombosi (c’è bisogno che spieghi perché l’ho scritto con l’iniziale maiuscola?). Si sarà trattato, come tutti sospetteranno, di una deformazione dovuta all’ignoranza oppure, voglio spezzare una lancia in favore del vecchietto, una forma di quella che i linguisti chiamano incrocio? Chi ci assicura che il vecchietto non fosse reduce dalla raccomandazione del suo medico di astenersi da certe velleità, data la traballante condizione del suo sistema circolatorio? Non è vero che chiodo  scaccia chiodo? – Allora – avrà pensato il vecchietto, inconsapevole seguace dell’omeopatia, – cosa c’è di meglio che attribuire a quel Trombino, del quale dicono meraviglie, anche proprietà farmacologiche che non siano solo  il famigerato aiutino, ma, pure, prima curative e poi preventive della pericolosissima situazione rilevata dal medico? Basta sostituire Trombino con Trombosi e non rimanerci secco è garantito! -.

Se con trombino/Trombino l’allusione al sesso  sembra evidente, sarà lo stesso per chiavatone?  Qualcuno magari sarebbe disposto a mettere sul fuoco non le mani ma tutto il suo orgoglio …, ma rischierebbe veramente di brutto, almeno secondo me.

Intanto a beneficio dei non salentini debbo dire che chiavatone è dalle nostre parti il nome di quel mollusco bivalve che in italiano è genericamente detto mussolo, voce di origine veneta, che ha il suo corrispondente nell’italiano muscolo, che è dal latino mùsculu(m). Ecco, dirà qualcuno, muscolo è da intendersi nel senso metaforico che tutti hanno capito, il che spiega chiavatone. Sarà, ma non nell’immediato, perché la voce latina è diminutivo di mus=topo.  -Vabbè! – (in dialetto salentino; in italiano – Va bene! –), dirà quel qualcuno disposto all’estremo (è ancora una volta il caso di dire …) sacrificio, non stiamo a sottilizzare con il genere dei nomi, ricordando che topa insieme con sorca in uso volgare è l’organo genitale femminile. Sarà, ma è illuminante, circa il rapporto tra   topo e muscolo la forma greca parallela a quella latina: μῦς (leggi miùs) che ha il duplice significato di topo e di muscolo, in quanto certi movimenti muscolari ricordano il guizzare del, per me, grazioso animaletto. E che quel certo muscolo che sapete guizzi sarà pure un bene, ma, siccome il troppo storpia, l’eccessivo guizzare potrebbe corrispondere ad un vigliacco e comodo  sottrarsi alle proprie responsabilità …

Cesso di mostrare i muscoli e ritorno a chiavatone per dire che il suo nome scientifico è Arca noae L., da cui l’altro nome italiano: Arca di Noè. Devo, però, rimproverare al buon vecchio (la sua nomenclatura nel caso in questione risale al 1758)  Linneo quel noae per Noe1 , anche se devo complimentarmi con lui per la similitudine che, trattandosi di un animale marino, è il massimo …   

Se il rapporto di mussolo con la sfera sessuale è, quanto meno nell’immediato,  come abbiamo visto, discutibile, in Arca di Noè, nonostante la mia fantasia, non riesco a coglierne nemmeno l’ombra.

Andrà meglio con chiavatone? A prima vista direi proprio di no, perché la parola appare come accrescitivo di chiavato che, come nessuno oserebbe contestare, è participio passato di chiavare. Come sarebbe, perciò, giustificabile questo concetto passivo tenendo conto che chiavare è una parola (non è la sola, naturalmente) che fin dalla sua prima attestazione (inizi del secolo XIV), assunse il significato originario del latino clavare=inchiodare e in più quello traslato di possedere sessualmente?

Operando una sorta di stratigrafia della parola in quanto derivata va detto che clavare è da clavis=chiave, a sua volta da clàudere=chiudere e che con loro (le parole italiane riportate come significato ne derivano direttamente) è connesso clavus=chiodo (anche qui la parola italiana riportata come significato deriva da quella latina, ma questa volta dopo essersi incrociata con chiudere). Quale sia il chiodo di cui si parla, perciò, sembrerebbe abbastanza chiaro; ma rimane il concetto di passività di cui, come s’è detto, il participio passato sarebbe il vergognoso, nella fattispecie, portatore.

Alle parole latine fin qui citate va aggiunta clava, dalla quale la identica voce italiana. Clava e i citati clavis e clavus (dunque la clava, la chiave e il chiodo) sono fratelli non solo etimologicamente ma anche semanticamente (la clava appare come un goffo chiodo e per quanto riguarda l’apertura di una serratura con un chiodo anziché con la sua chiave rivolgersi ad uno scassinatore col suo bravo spadino …). Chiavatone, così, continua a restare come accrescitivo di chiavato, ma questo da un clavatu(m) più vicino a clava che non a clavis, con un valore aggettivale e col significato non di inchiodato ma con quello, libero da ogni sfumatura passiva,  di a forma di clava. Per averne la conferma date uno sguardo alla foto di testa e, poi, a come il lemma è trattato nella Treccani:

E questo precisa la similitudine che sta alla base del nome scientifico, perché il profilo di una clava è sovrapponibile a quello di uno scafo.

Se, dunque, per il Trombino cacudiano  il riferimento ai poteri afrodisiaci, già assente in trombino, è durato quanto un battito d’ali farfallino a causa della sua mancata registrazione che, magari, avrebbe obbligato nei vocabolari ad aggiornare la voce con un’aggiunta nella sezione semantica, le cose sono andate diversamente per chiavatone, complice non ultima la credenza che in genere i frutti di mare siano afrodisiaci. Quando poi la  conferma avviene da un addetto ai lavori, la frittata (ostrica!, è il caso di dire con un eufemismo …) è fatta: https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/13/sant-isidoro-salento-niente-viagra-qui-si-mangiano-i-chiavatoni/.

Fino al momento in cui scrivo (ma ho la presunzione di ritenere che andrò avanti così finché vivrò) ho avuto bisogno più di bromuro che di afrodisiaci (smettetela con il coro di he! che avverto più come manifestazione di invidia che di incredulità … ) sono stato fortunato, perché, in caso contrario, sarei stato costretto a rinunciare proprio all’aiutino dei frutti di mare che (per più di uno è blasfemia, tanto più che il loro matrimonio con una fetta di formaggio piccante ed un bicchiere di vino, con questi sì, ho un rapporto ottimale, è destinato a non conoscere mai separazione o divorzio)  mi fanno letteralmente schifo; e così , per aderire alla moda del biologico (anche se in questo caso a costo e a chilometri tutt’altro che 0 …), ripudiando i prodotti di sintesi, Viagra in primis,  e contribuendo contemporaneamente alla rapida estinzione di specie già a rischio, sarei dovuto a ricorrere alla polvere del corno di un rinoceronte o della pinna essiccata di uno squalo …

Una ciurma di rossi  tiaulìcchi (diavoletti, peperoncini molto piccantI) mi sta fissando con i suoi compagni di vaso sul tavolo del giardino dove sto per concludere la scrittura. Tranquilli, amici miei, prima o poi sarà il vostro turno. E col dubbio di un prossimo post da sorbire o di salsiccia nostrana da (tra)vestire da calabrese, mi accomiato da coloro che fin qui mi hanno voluto privilegiare della loro attenzione (come dice qualsiasi presentatore televisivo degno di rispetto …).

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1 Noè in latino è Noe, nome indeclinabile, per cui avremmo dovuto avere Arca Noe.

Ricordi dei tempi di guerra. Gli sfollati del ‘43

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di Emilio Rubino

 

Col termine sfollati venivano indicati, durante la seconda guerra mondiale, i profughi, cioè tutti coloro che, per il verificarsi di eventi bellici, erano costretti ad abbandonare la propria casa o, addirittura, la propria patria per andare in luoghi lontani, risparmiati dalla furia della guerra. Si trattava di gente, di famiglie distrutte, senza ormai alcun bene, che, o volontariamente o d’autorità, erano costrette a trasferirsi altrove.

Dopo l’invasione anglo-americana del 1943, Nardò ospitò enormi masse di sfollati che furono collocate dalle autorità di occupazione nelle tantissime abitazioni requisite, sparse nel suo immenso feudo, in modo particolare ai Massarei, alle Cenate Vecchie e Nuove, a Mondonuovo, a Santa Maria al Bagno e a Santa Caterina. Si trattava prevalentemente di ebrei di varie nazionalità, come serbi, rumeni, polacchi, greci, ecc., sfuggiti alle persecuzioni dei nazifascisti. Rimasero nostri ospiti sino alla fine della guerra; dopodiché poterono tornare nei luoghi di origine o nella biblica terra promessa d’Israele, dove fu fondato il nuovo Stato. Furono decine di migliaia gli stranieri confinati nelle nostre terre, i quali si portarono dietro l’incubo e l’angoscia di aver perduto nella loro patria, oltre che i beni, anche molti dei loro congiunti.

I profughi erano assistiti dalle truppe inglesi, che si avvalevano anche di soldati di colore. Ovunque vi erano servizi comuni di vettovagliamento e di sussistenza. Per tale motivo abbondavano le cucine da campo, i carri-botte per la distribuzione di acqua potabile, i camion per il trasporto di pane, di indumenti e quanto altro necessario. Vi era un continuo via vai di mezzi motorizzati di ogni specie scortati dalle forze armate, che si incrociavano lungo le strade polverose delle nostre contrade. Insomma era stato costituito un immenso campo profughi.

Recarsi da Nardò verso la sua marina era tutto un susseguirsi di case, ville e villette situate in piccoli appezzamenti, quasi sempre circondate da parchi pieni di verde e, lungo le coste, agglomerati urbani e case sparse che si affacciano sull’azzurro dello Ionio. Contrade che ci sono state sempre care e che in quegli anni di guerra furono spesso rifugio di neritini per paura che Nardò fosse colpita dalle bombe o quant’altro.

Poi, con l’arrivo delle truppe di liberazione, dovemmo subire il peso delle decisioni del vincitore: evacuare ogni casa e metterla a disposizione degli stranieri travolti da quella guerra. Guerra che, in verità, anche noi italiani avevamo concorso a scatenare, andando a rompere le scatole (fosse stato solo quello!) proprio a quella gente che ora la faceva da padrone.

Per la verità dobbiamo pur dire che questa “invasione” fu molto salutare per tutti i neritini. La guerra ci aveva ridotti alla miseria e alla fame più nera, che neppure il contrabbando era capace di alleviare. Contrabbando che era alimentato, in particolare, da alcuni proprietari terrieri, i quali, in barba all’ammasso obbligatorio, nascondevano i sacchi di grano, di orzo, di avena, di legumi e i grossi recipienti di olio e di vino, addirittura murandoli in casa o in campagna, per poi venderne piccole quantità per volta a prezzi da strozzini al popolo affamato.

Mancava di tutto e quel poco che il mercato poteva offrire, come indumenti e generi di prima necessità, era sempre insufficiente. Il razionamento, poi, non garantiva neppure il minimo necessario. Ogni alimento o bene di prima necessità era razionato dalle autorità cittadine e, per poter usufruire della quota personale giornaliera di zucchero, olio, latte e pane si doveva esibire la tessera e disporsi in una fila interminabile sotto la pioggia o il sole cocente.

Di pane, ad esempio, ogni cittadino poteva avere 150 grammi al giorno. Era miseria vera, ancor di più acuita da un’insaziabile fame, una fame che cresceva maledettamente sempre di più e che era avvertita in particolar modo dai bambini e dagli anziani. Era una fame senza fine, alla quale non si poteva resistere. E noi, a piedi, come in una processione, andavamo a trovare gli sfollati, casa per casa, villa per villa, a chiedere di venderci del pane e tutto ciò che si poteva mangiare.

Quello che gli ebrei ci vendevano era il pane più buono e più profumato del mondo, un pane benedetto, che mangiavamo con gli occhi, prima ancora di addentarlo con la bocca; pezzi di pane grossi come ruote di traino, bianco come la neve, soffice come gommapiuma: era la manna che gli ebrei dopo millenni si erano portati dietro!

E poi scatolette di carne, legumi, riso, ecc., coperte per confezionare cappotti e stoffe per indumenti e vestiti. Ma tutto doveva esser fatto in poco tempo e con la massima attenzione, perché da un momento all’altro potevano piombare i Carabinieri, se non addirittura la Military Police inglese, per toglierti quello che era stato comprato, rischiando addirittura di finire in prigione, se si era recidivi.

In tali condizioni di estremo bisogno, guardavamo con ammirazione questi stranieri ed avevamo invidia del loro benessere, senza però comprendere il loro grande dramma.

Erano tempi d’oro per i contrabbandieri di ogni risma. C’erano non pochi neritini (quelli più furbi e senza alcuno scrupolo), che si erano messi al servizio degli inglesi o degli americani, accettando di ricoprire perfino lavori molto umili, come veri e propri sguatteri. In tal modo riuscivano, di riffa o di raffa, a ricavare un mucchio di soldi, a procacciarsi della cioccolata, scatolette di carne che distribuivano con parsimonia ad amici stretti e a parenti, ma che vendevano ad estranei a caro prezzo. Facevano anche essi gli stranieri: in pratica emulavano gli americani. E degli americani avevano i vestiti, copiavano il loro modo di fare, scimmiottandoli in tutto, anche nel linguaggio: “Okay… Come on… Tank you!”. Avrebbero potuto girare un film, alla stessa stregua di quello interpretato qualche anno dopo da Alberto Sordi, con una lieve differenza nel titolo “Americani a Nardò”.

Con le truppe di liberazione si fraternizzò immediatamente. D’altra parte il neritino è tutto cuore, assai fraterno ed amichevole, facile nelle relazioni umane.

Ed io, da ragazzino, ricordo che si stava bene anche con i soldati germanici, i primi stranieri che avevo conosciuto in vita mia. Insieme ai soldati tedeschi di sera cantavamo, seduti sul ponte di San Cosimo e nel buio più totale, la famosissima canzone Lily Marlen, al suono di una armonica.

Poi i tedeschi divennero nostri nemici e ci buttarono nelle camere a gas e nei forni crematori, mentre gli inglesi, che in precedenza ci avevano bombardato giorno e notte, diventarono nostri amici. Quanto sono buffi e strani gli uomini: prima si abbracciano e poi s’ammazzano!

Il comando generale degli inglesi era nella dimora più bella delle Cenate Nuove, la villa Lezzi, mentre come spiaggia frequentavano la baia di Porto Selvaggio. A Nardò-centro vi era un loro distaccamento nei pressi del Castello, ove ora c’è la sede “La Fondiaria”.

Ricordo un episodio molto caratteristico, che non dimenticherò mai. Un biondo e segaligno soldato inglese, che frequentava spesso il Cine-Teatro Comunale, era solito “familiarizzare” un po’ troppo con i ragazzi, verso i quali… allungava le mani, ricevendone ingiurie e improperi. Una sera, però, andarono oltre, rompendogli addosso una sedia.

Anche con gli sfollati, accomunati nella stessa grande tragedia della guerra, ci fu subito fraternizzazione, tant’è che alcuni giovani ebrei ebbero a frequentare le scuole pubbliche della nostra Città.

Poi, quando finalmente il conflitto bellico ebbe termine, i profughi tornarono nelle loro rispettive patrie.

Una cosa è certa. Ancor oggi noi ricordiamo il loro volto, anche se un po’ vago e sfumato. Anche essi, nonostante l’incedere dei tempi, non avranno sicuramente dimenticato quell’antica ospitalità, quella solidarietà ed amore, che concedemmo loro a piene mani.

Si sa che l’amore è presente soltanto nella casa dei poveri. Oggi forse avremmo senz’altro familiarizzato con loro, ma non più di tanto.

 

Pubblicato su Il filo di Aracne

Arte| Dal segno all’impegno: l’evoluzione artistica di Giovanni Russo

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Fig. 1 – Le mendicanti di Bucarest (olio su tela cm 140 x 90)

 

di Giuseppe Magnolo

Le qualità artistiche in qualunque individuo hanno sempre qualcosa di innato, che risponde ad esigenze vocazionali e al tempo stesso crea potenzialità particolari in ambiti corrispondenti alle diverse forme di espressione artistica (visiva, uditiva, cinetica, ecc.). Al tempo stesso l’arte è mestiere, sviluppo di osservazione, capacità di concettualizzare, affinamento di competenze, di abilità relazionali, di prospettive storico-culturali. Le spinte motivazionali verso l’arte possono risiedere tanto in esigenze pratiche (economiche, funzionali, migliorative dell’esistente), quanto teorico-concettuali (astrazione dalla realtà, evasione, rievocazione, idealizzazione). Nello sviluppo dell’itinerario di una personalità artistica i diversi aspetti sopra delineati sono poi soggetti a mutamenti, adattamenti, conversioni, trasformazioni più o meno radicali, che sono conseguenti all’esperienza vissuta, al contesto esistenziale, alle proiezioni fantastiche che ciascun artista riesce a mettere in atto.

Quanto detto vale anche a definire la personalità di Giovanni Russo[1], uomo di formazione tecnico-pratica, ma dotato anche di spiccata sensibilità umanistico-letteraria, coltivata secondo scelte personali attentamente mirate a corroborare le sue convinzioni sia etiche che estetiche. L’ambito dei suoi interessi va dallo studio e la valorizzazione del patrimonio naturalistico alla difesa dell’ambiente, dallo sviluppo urbanistico alla tutela di manufatti e reperti che documentano la storia passata, dalla produzione letteraria in versi e prosa narrativa alla ricerca storica. La sua produzione artistica copre un periodo più che trentennale, ed è stata realizzata prevalentemente in forma grafico-pittorica, con importanti esperienze nella scultura, nella ceramica, nella lavorazione del legno e dei metalli, spesso utilizzando vecchi utensili che vengono assemblati e artisticamente riportati a nuova vita.

Fig. 2 – Il giardino delle farfalle (tecnica mista su lino cm 140 x 90)
Fig. 2 – Il giardino delle farfalle (tecnica mista su lino cm 140 x 90)

 

L’espressione artistica per Giovanni Russo rappresenta, come avviene per molti artisti, un ambito di esperienza contraddistinto dal gusto personale di assaporare pienamente la libertà individuale senza vincoli o condizionamenti di alcun genere, presupposto indispensabile per creare, esprimere emozioni, esaltare le potenzialità e il valore della memoria, ma anche per discriminare, censurare, contrapporsi con veemenza. Sia che il supporto espressivo sia rappresentato da una tela (pittura), da un foglio di carta (poesia, narrativa), dalla terracotta da incidere o plasmare, oppure dall’impiego di vecchi utensili dismessi per ricomporli artisticamente, l’esperienza di per sé è sempre concepita come un agone in cui scendere con risolutezza per affermare la propria capacità di visione legata a principi e valori sia estetici che morali che meritano di essere esplicitati, divulgati, difesi a spada tratta.

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L’operaio ILVA (tecnica mista)

É evidente che il tentativo di dare una definizione sintetica del segno dell’arte che si ritiene distintivo di un autore non è affatto semplice, rammentando anche che esso è costituito tanto dai motivi ispiratori che lo connotano quanto dalla forma che esso viene ad assumere, dal linguaggio che lo distingue, dall’efficacia con cui viene ad essere proposto. La scienza semiotica studia il significato e le implicazioni dei segni, che non sono rappresentati soltanto dal linguaggio più o meno formalizzato, ma anche da tante altre forme espressive come quella figurativa, cromatica, simbolica, mimico-gestuale, sino alle forme totemiche o antropologico-comportamentali. Mutuando i criteri della semiologia per riferirli al caso in questione, è possibile affermare che il segno distintivo delle opere di Giovanni Russo, scaturito da una volontà impellente di palesarsi con spontaneità ed immediatezza, consiste essenzialmente nell’uso di un tratto formale marcato e prevalentemente geometrico (forse di matrice cubista), che si manifesta in modo netto e spesso spigoloso, sostenuto da un cromatismo acceso ed esuberante, tendente ad un forte impatto visivo. E’ in un secondo momento che i contenuti logico-narrativi delle diverse opere rivelano aspetti di un’umanità intensa, avvertita con sofferenza, volta a trasmettere un afflato solidaristico, o anche un aspro disappunto, senza veli o parvenze di accomodamento. La riflessione su questi aspetti di problematicità contenutistica e le ragioni che li sottendono finiscono quindi con lo spostare la reazione dell’osservatore dal piano formale a quello emotivo-concettuale. Ed è proprio su questo terreno che occorre operare un ulteriore approfondimento.

Si ritiene solitamente che uno dei crismi dell’arte risieda nella capacità dell’opera di fare breccia nella sensibilità percettiva dell’osservatore. Seguendo tale criterio si può constatare come sia difficile rimanere indifferenti di fronte al motivo tematico della maternità come espresso ne “Le mendicanti di Bucarest” (fig. 1), o quello della femminilità maliarda e allusivamente simbolica rappresentata nel “Giardino delle farfalle” (fig. 2). Altrettanto efficace risulta il tema ancestrale del capro espiatorio e l’appello alla pietà presente ne “La cacciata della pecora vecchia”, così come il senso di sfibrante sconfitta che traspare dalla composta mestizia dell’ “Operaio ILVA” (fig. 4), ormai ridotto a pura maschera priva di identità, oppure la stoica tenacia adombrata nell’arrancare solitario de “La vecchia e la capra” (fig. 5).

Fig. 5 – La vecchia e la capra (ulivo e acciaio cm 130)
Fig. 5 – La vecchia e la capra
(ulivo e acciaio cm 130)

 

La spinta emotiva così evidente in queste opere ci apre la strada per evidenziare l’altro elemento connotativo che a nostro avviso impronta le opere di Giovanni Russo, quello dell’artista impegnato che, partendo da presupposti di carattere culturale ed estetico, intende anche assolvere ad una funzione civile considerata inscindibile dalla fruizione artistica. Tale aspetto si è venuto progressivamente consolidando nel tempo sia sotto l’influsso di alcuni modelli eccellenti di riferimento elettivo (Picasso, Garcia Marquez, Dante), sia come effetto della riflessione conseguente alla ricerca storico-documentale sul recente passato, mediante la quale l’autore ha potuto constatare come sia stata messa a repentaglio la possibilità di sopravvivenza di individui o gruppi sociali (i minatori, gli emigranti, le operaie tabacchine), e persino di interi popoli (le vittime dell’olocausto).

Il passo successivo sul piano artistico è stata la decisione di mettere da parte qualunque abbandono contemplativo per addentrarsi risolutamente nei sentieri dell’impegno socio-umanitario, adempiendo a ciò che l’autore ritiene come una missione particolare affidata all’arte. Di fatto egli si è attribuito un compito di denuncia inderogabile rispetto a colpe e devianze storicamente acclarate, che per lui ancora costituiscono un umiliante e intollerabile fardello di prevaricazione e violenza esercitata dall’uomo su altri esseri umani considerati deboli o socialmente inferiori: gli svantaggiati, le donne, i bambini. É qui che l’arte viene a caricarsi di una responsabilità enorme, di un respiro collettivo ed epico, che nelle sue forme estreme arriva a postulare una sorta di anatema universale, che sembra provenire dalle cupe atmosfere dell’Inferno dantesco.

 

Volendo esemplificare quanto detto, soffermiamoci per un momento sul tema dell’olocausto come è configurato nell’opera “Altalene deserte” (fig. 6), in cui l’iscrizione superiore riproduce quella che sul cancello di ingresso al campo di sterminio di Auschwitz accoglieva gli ebrei al loro arrivo, e che ora funge da supporto a tre altalene vuote. Nella sua muta semplicità quest’opera coniuga il tema dell’olocausto, espresso dalla menzogna più grande della storia (“arbeit macht frei”), con quello ancora attuale della violenza sui minori, così efficacemente adombrato nella loro assenza (le altalene rimaste vuote). L’inevitabile effetto di angoscioso disagio prodotto sull’osservatore risponde pienamente alle intenzioni dell’artista, forse anche superandole.

Fig. 6 – Altalene deserte (ulivo e acciaio cm 80 x 45)
Fig. 6 – Altalene deserte (ulivo e acciaio cm 80 x 45)

 

La stessa intensità espressiva si può trovare in “ACAIT” (fig. 7), un dipinto fra i più recenti, che fa parte di una trilogia ispirata dal ricordo di un triste episodio verificatosi a Tricase verso la metà degli anni trenta del secolo scorso, una insurrezione di protesta da parte di operaie impiegate in una fabbrica locale per la lavorazione del tabacco, circostanza in cui si registrarono cinque vittime, tra cui un adolescente accidentalmente coinvolto nei tafferugli[2]. Indubbiamente la concezione strutturale di quest’opera richiama Guernica di Picasso, sia nell’intento di rappresentare il momento successivo all’esplosione di violenza, che nello stile esecutivo ed in alcune tonalità di colore. Ma occorre anche sottolineare alcune differenze importanti (oltre alle dimensioni) rispetto al maestro spagnolo. Innanzitutto il fatto che Picasso operasse nell’imminenza della forte impressione generata dall’effetto distruttivo prodotto dal bombardamento sulla città spagnola corrisponde alla sua finalità di rendere visivamente lo sconquasso raccapricciante della realtà rappresentata. Invece la visione storicamente prospettica di Giovanni Russo lo induce ad una reazione a posteriori, che propende maggiormente verso l’elaborazione di un’immagine concepita quasi come un monumento alla memoria. Ma il dato più significativo attiene alla presenza umana in quest’opera di Russo, e va individuato nell’evidenza esclusiva che egli conferisce alla figura femminile, sia come vittima designata di un ingranaggio sociale perverso, che come madre superstite destinata al pianto e alla sofferenza.

Fig. 7 – ACAIT (olio su tela cm 140 x 140)
Fig. 7 – ACAIT (olio su tela cm 140 x 140)

 

L’idea dell’artista come uomo votato all’impegno sociale non è affatto nuova. Sul piano culturale ha definito intere fasi storiche dal punto di vista sia artistico che letterario. É accaduto nel secondo Ottocento con il naturalismo e il verismo, ma anche nel periodo tra le due guerre mondiali, durante il quale molti intellettuali impegnati si sono schierati apertamente a difesa di questa o quella ideologia. Dobbiamo dunque dedurne un nostalgico desiderio di ritorno ad idee del passato, con cui l’arte pura, ossia scevra da finalità in qualche modo strumentali, ha poco a che fare? Ebbene può anche darsi che talvolta l’artista scada nel moralismo, e che la sua espressione assuma un connotato predicatorio privo del necessario distacco contemplativo. L’importante è non ridurre la concezione dell’arte ad una angusta funzione di tramite, a mero elemento di supporto per intenti rivendicativi, in quanto il suo ambito principale risiede nella sfera estetica ed emozionale. Se grazie a ciò essa riesce anche a conseguire degli effetti significativi sul piano etico, questo non può che accrescerne il valore. Ma Giovanni Russo è ben consapevole che, priva dei suoi requisiti fondamentali, l’arte non può essere più che opera di dignitoso artigianato.

 

[1] Giovanni Russo vive ed opera a Sogliano Cavour. Diplomato geometra, è responsabile dell’ufficio municipale di Sogliano per lo sviluppo urbanistico. Professionalmente si occupa di restauro e di progettazione nell’ambito dell’edilizia sia pubblica che privata. Oltre agli interessi artistico-letterari, importanti sono anche le sue iniziative a difesa dell’ambiente e del paesaggio urbano.

La sua produzione artistica più recente è stata esposta al pubblico nell’agosto 2013, in una mostra personale allestita a Corigliano d’Otranto nel castello De’ Monti, con la presentazione introduttiva di Giovanni Giangreco.

[2] La rivolta di Tricase avvenne il 15 maggio 1935. ACAIT era il nome dell’azienda di tabacchi che minacciava il trasferimento, con il rischio di perdita del lavoro per molti dipendenti, prevalentemente donne. Cinque persone, tra cui Pietro Panarese di 15 anni, furono uccise dalle forze dell’ordine durante la manifestazione di protesta.

Pubblicato su Il filo di Aracne

A Castro (Le), la caseddra delle “mie” Frasciule

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di Rocco Boccadamo

Nel centro abitato di Castro, la splendida e apprezzata “Perla del Salento”, esiste, adesso, un cartello di segnaletica stradale indicante Via Frasciule, nella omonima zona di espansione edilizia, fra civili case popolari e edifici di tipo residenziale.

L’area in questione si trova alla periferia della cittadina, esattamente accanto a un comprensorio di verde pubblico, ricco di lecci, macchia mediterranea e altre interessanti specie di flora, denominato Parco delle querce, e però, lungo l’arco di secoli, già conosciuto con un appellativo differente, ovvero Bosco Scarra o Bosco dello Scarra.

Nel 2013, ci troviamo, dunque, nell’ambito di un agglomerato abitativo, mentre, fino ad alcuni decenni addietro, si aveva di fronte semplicemente un fondo rurale, in mezzo ad altri terreni agricoli, adiacente al comprensorio del bosco sopra indicato, che, sebbene rimaneggiato, è tuttora presente.

Tuttavia, si ha l’espressa intenzione di dedicare queste righe non già alla situazione attuale, bensì alla mappa, consistenza e destinazione precedenti del sito in discorso; del resto, dell’habitat dei tempi lontani, ancorché risalente alla sua primissima fanciullezza, dai due ai quattro anni d’età, l’osservatore di strada che scrive serba un ricordo vivo e nitido.

Con riferimento a quel posto, l’immagine passata conteneva niente più che il fondo agricolo delle Frasciule, accatastato come seminativo, ricco di piante di fico, con l’aggiunta poi di qualche albero di carrubo e adibito anche alla coltivazione di ortaggi.

Ne era proprietario, un signore originario di Marittima, anche se, da adulto, aveva scelto di trasferirsi a Lecce, facente parte di una famiglia signorile del paesello, tale don Gustavo Russi. Per completezza di logistica, v’è da aggiungere che, durante la stagione dei bagni, il predetto benestante se ne veniva in villeggiatura a Castro, dove possedeva una villa in zona Grotta del Conte.

Negli anni quaranta, all’incirca intorno alla fine della seconda guerra mondiale, nonno Cosimo, capo di una famiglia numerosa con moglie e sei figli a carico, prese a mezzadria, da don Gustavo, l’anzidetto appezzamento delle Frasciule, conducendolo direttamente per svariate stagioni.

Sul terreno insisteva anche una casetta in pietra, che, fortunatamente, è sopravvissuta e si può scorgere tuttora, sia pure circondata, in parte, dalle palazzine recentemente realizzate lì intorno.

Una casetta (caseddra) spartana, tipica e simbolo della civiltà contadina, dotata di un’apertura d’accesso sul frontespizio, senza ovviamente alcun infisso o porta in legno o in altro materiale, sovrastata da una finestrella a forma triangolare, finalizzata, insieme con un altro finestrino quadrato situato al centro della parete posteriore, all’aerazione dell’ambiente interno. Caratteristica carina, una scaletta, parimenti in pietra, appoggiata a una parete esterna, per montare, dal terreno, sino alla copertura del manufatto.

Nel periodo estivo, in cui si concentravano diversi raccolti agricoli, ossia a dire patate, grano, orzo, legumi, lupini, fichi, carrube, fichi d’india ecc., nonno Cosimo, unitamente al suo nucleo familiare, si trasferiva stabilmente alle Frasciule, attendendo ai lavori, consumando i pasti e rimanendo, infine, a dormire: tutti insieme, nella ricordata casetta. Per letti, semplici stuoie aperte sul pavimento e, in ogni caso, vale la pena di rimarcarlo, dopo le lunghe ore di fatica, il riposo alle membra e il sonno ristoratore non tardavano a venire.

Le Frasciule rappresentavano, in certo qual modo, la base principale per lo svolgimento, da parte della famiglia di nonno Cosimo, dell’attività agricola nel suo complesso, nel senso che anche i raccolti di altri terreni, di proprietà o condotti a mezzadria, ad esempio i fichi maturati nel Bosco dell’Acquaviva e contenuti in capienti panieri di canne e vimini, erano trasportati sulle spalle, ovviamente a piedi, sino alle Frasciule, per essere ivi spaccati e essiccati al sole su appositi cannizzi.

Per la verità, i giovani di casa Boccadamo, talora, si lamentavano con il proprio genitore per tali lunghi tragitti con pesanti carichi addosso.

In quegli ormai lontani anni, dal 1943 al 1945, succedeva di tanto in tanto che lo scrivente, classe 1941, fosse temporaneamente affidato ai nonni paterni Cosimo e Consiglia e relativi zii, così che trascorreva con loro alcuni periodi nel fondo e nella casetta delle Frasciule.

Per coprire i quasi due chilometri di strada fra il rione natio dell’Ariacorte e, giustappunto, la provvisoria dimora, il bambino non ce la faceva o, perlomeno, dava ad intendere di non essere in grado di camminare a piedi e, di conseguenza, doveva intervenire la buona volontà e la pazienza del giovane zio Vitale, il quale si caricava Rocco sulle spalle.

Nonostante tale provvidenziale venuta in soccorso, rimaneva, per il piccolo, un altro problema: egli aveva un terrore matto della morte, dei defunti e di tutti i riferimenti e ambienti correlati, compreso il cimitero del paese, caratterizzato da alti cipressi. Purtroppo, per recarsi dall’Ariacorte alle Frasciule, era inevitabile percorrere la strada comunale sterrata Marittima – Castro, si doveva passare per forza accanto al camposanto, cosicché succedeva immancabilmente che Rocco, non appena intravedeva da lontano detti cipressi, serrasse gli occhi e si avvinghiasse al collo dello zio Vitale tenendo il capo abbassato, per ritornare poi ad aprirsi dall’isolamento e a guardarsi intorno solo quando si rendeva conto che il cimitero era stato superato e si trovava ormai lontano alle spalle.

Scorrevano serene e interessanti le giornate del piccolo ospite alle Frasciule: caccia alle lucertole o ai grilli, costruzione di rudimentali dischi con le pale di fico d’India, scalate sugli alberi da frutta per abbondanti assaggi, qualche puntata spericolata sino alla parte posteriore del fondo, dove si trovava una vasca di raccolta di acque piovane utilizzate a scopi irrigui.

Il “pilune” (grande pila), presentava all’interno, semi immerse nell’acqua, alcune grosse pietre ed era il regno incontrastato di famiglie di rane, oltre che, a volte, abitacolo di qualche biscia, in particolar modo di un rettile innocuo proprio di queste zone, il biacco, di colore nero intenso che solo ad apparire, faceva scappare a gambe levate il giovanissimo esploratore.

Alle Frasciule, si susseguivano e/o prendevano corpo una serie di abitudini rimaste impresse nella mente, come le levate all’alba di nonno Cosimo al fine di raccogliere le primizie di frutta e ortaggi che recava in dono e omaggio al proprietario del terreno don Gustavo, in villeggiatura nella vicina Castro: così si usava fare allora.

 

Ancora, per consumare i pasti preparati dalla nonna Consiglia nella quadara in rame rossa, non esistevano per niente le posate e per attingere il cibo dal grande piatto comune si faceva ricorso ai gambi di cipolla, opportunamente sagomati alla base in funzione di cucchiaio o di forchetta a seconda del tipo di minestra del giorno.

Bello e tonificante, come già accennato, era il dormire nella casetta delle Frasciule, adagiati alla meno peggio sul duro pavimento e, in qualche evenienza, con la compagnia di ospiti non proprio graditi, sotto forma di un topolino, una lucertola o una “sacara”, altra varietà di rettile presente da queste parti fra i vecchi muri o le pietraie, che, sebbene non velenoso, causa nei bambini forte apprensione e paura.

Durante la permanenza alle Frasciule, capitava anche che, a Castro, si celebrasse la festa della Madonna del Rosario, o Madonna mmenzu mmare, con la caratteristica processione di barche, rito a cui il piccolo Rocco non mancava di assistere accompagnato dai parenti.

Tempi lontani, abitudini tramontate e scomparse e tuttavia rimaste scolpite, giacché hanno segnato in maniera davvero profonda e incisiva la loro epoca. Ci penso, ogni volta che passo dalla zona delle Frasciule, ora centro abitato. Scendendo da Marittima, il terreno era preceduto da un fondo comprendente una piccola casa di villeggiatura, detta il Casino, su due piani, delimitata da colonne in pietra tinteggiate di rosa, al pari della costruzione. Ci sono ancora, pressoché intatte, le colonne, mentre l’edificio si presenta in gran parte crollato e stinto.

Nel Casino si recava ad abitare, in estate, una signora di buona famiglia di Castro, donna Chiarina, la quale, rammento, aveva una figlia, Cecilia, non vedente dalla nascita.

Con il trascorrere degli anni, venendo sempre maggiormente meno la sue capacità fisiche, soprattutto quelle visive e in mancanza dei figli che potessero aiutarlo, perché avevano messo su famiglia, il nonno Cosimo abbandonò la conduzione a mezzadria delle Frasciule e così cessò anche il trasporto delle panare di fichi dal Bosco dell’Acquaviva.

Nel ruolo di nonno Cosimo subentrò un suo nipote, il quale, in seguito diventò proprietario del fondo, acquistandolo da don Gustavo. Fattosi a sua volta anziano, le Frasciule andarono, quindi, al maggiore dei suoi figli. Quest’ultimo, agli inizi, non era molto soddisfatto del cespite pervenutogli in eredità, ma poi, inaspettatamente, è stato per così dire ripagato all’atto dell’esproprio dell’area delle Frasciule per opera del Comune di Castro, in vista della realizzazione del complesso abitativo.

Difatti, in tale sede, gli sono stati dati in permuta alcuni appartamenti che assicurano alla sua famiglia un’apprezzabile rendita.

Gli anni dei temporanei soggiorni del piccolo Rocco alle Frasciule, precedettero di poco una fase assai importante nell’ottica della modernizzazione e dello sviluppo di Castro, all’epoca facente parte, insieme all’altra frazione di Marittima, del comune di Diso.

Il richiamo va esattamente all’amministrazione, dal 1946 al 1951, con alla guida il sindaco Agostino Nuzzo, ancora adesso ricordato.

Il predetto primo cittadino si rese promotore d’importanti e primarie opere per il miglior sviluppo e la crescita di Castro, fra cui l’ampliamento di piazza Dante, la costruzione del ponte che collega il Canalone al Porto Vecchio, della rotonda belvedere, realizzazioni attuate con piglio attraverso Cantieri di lavoro, nonostante le proteste e le reazioni di alcuni signorotti, a Castro unicamente per la villeggiatura, titolari di benessere e privilegi esclusivi, contrapposti alla povertà della gente in genere, i quali, verosimilmente, vuoti Gattopardi del Basso Salento, miravano più che altro a conservare la propria posizione.

Provvidenziale, dunque, l’azione di quegli amministratori pubblici che puntarono esclusivamente al bene della comunità e a prospettive di crescita diffusa.

 

Pubblicato su Il filo di Aracne

Arte| Rotomatismi di Marcello Toma

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di Paolo Vincenti

 

“Rotomatismi”, con un curioso neologismo, chiama Marcello Toma queste sue opere, a metà tra futurismo e surrealismo. Gli ingranaggi ossessivamente riprodotti nelle tele vengono da un passato che è ormai storia, ci parlano del progresso della tecnica che ha portato al grande sviluppo industriale del Novecento, anzi le cupe atmosfere grigio fumo dei quadri richiamano proprio quelle del cielo di Londra, ossia di quella nazione, l’Inghilterra, in cui è scoppiata due secoli fa la rivoluzione industriale. Le macchine però sono calate in una ambientazione onirica, vagamente cupa, inquietante.  Il primo riferimento che balza alla mente dello spettatore è a quel capolavoro del cinema che fu “Metropolis” di Fritz Lang, così come a “Tempi moderni” di Charlie Chaplin, quindi alla condizione di straniamento del lavoratore delle grandi fabbriche e alla sua alienazione, robotizzazione.

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In questi “rotomatismi”, si muove lo spirito del capitalismo moderno. Attraverso i perversi meccanismi di un capitalismo senza volto e senz’anima, quello del “produci consuma e crepa”, la strada del progresso  intrapresa dalla odierna società del benessere non può che portare al baratro, alla catastrofe. Attraverso le macchine, l’uomo ha affermato il suo potere, il suo dominio sulla natura, ma poi da queste stesse macchine è stato soggiogato, schiacciato, come ne “Il grande ingranaggio”, una delle pitture più significative di Toma. L’homo tecnologicus  si affida agli automatismi che guidano con estrema regolarità la sua esistenza e infine egli stesso diventa una macchina e ci saltano agli occhi le scene di “Blade runner”. Gli ingranaggi dunque sono emblema dell’esistenza dell’uomo moderno, schiacciato fra impegni e responsabilità, orari e routine, la cui vita frenetica può essere iconizzata da quel “Concerto meccanico”, altra notevole rappresentazione del nostro autore.

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Toma predilige la tecnica dell’olio su tela. Si coglie un classicismo nelle sue opere, che è dovuto sicuramente alla formazione artistica dell’autore e ai suoi studi universitari. Laureato in architettura, è uno che ha confidenza con la geometricità, con l’essenzialità delle linee, che si riflettono in opere come “Rotomatismo”, “Labirinti”, “In blu”,“Il presente ha un cuore grigio”, con scoperti debiti verso il divisionismo e la pittura metafisica. Alla compattezza quasi materica dell’acciaio, di pistoni, bielle, dinamo, ruote, si contrappone l’atmosfera onirica, la consistenza lieve e aerea degli sfondi e di oggetti quotidiani decontestualizzati, come una candela, delle carte da gioco, le costruzioni dei bambini, una lumaca, una barchetta, una tazzina di caffè, che sembrano messi lì a caso.  Il colore è forte, pregnante, ma non sovraccarico, è funzionalizzato al tema dell’opera, nelle sue infinite variazioni. Toma infatti dipinge sempre lo stesso soggetto, declinato in diverse modulazioni. Che cosa vuole comunicarci con questi perni, bulloni e altri pezzi di archeologia industriale, attrezzi di una realtà ormai dismessa, superata, consunta? Sarebbe facile cogliere la connotazione metaforica di queste opere, la loro connessione con la psicologia, darne insomma una lettura esistenzialistica o introspettiva. Non nego che anche il mio primo approccio sia stato caratterizzato da un forte impatto psicologico, cioè che queste opere abbiano parlato alla mia anima prima ancora che al mio cuore, all’intelligenza razionale prima ancora che a quella emotiva, alla ragione prima che agli occhi. Come non farsi trascinare, infatti, da un turbine di suggestioni letterarie osservando l’opera “Macchina del tempo”, in cui il dipinto è diviso in due campi e al grigio plumbeo di un passato di lavoro e sfruttamento dell’uno, si contrappone, nell’altro, il presente (e il futuro) di un bimbo che gioca con le sue coloratissime lego? La valenza simbolica degli ingranaggi è forte, certo, e rischiamo noi stessi di rimanerne schiacciati, stritolati.  Ma poi mi sono volto all’aspetto formale dei quadri, alla loro dimensione estetica, e credo di poter affermare che queste opere possano vivere anche staccate da ogni interpretazione psicanalitica. Vivere nella loro fisica identità, come pura forma, come colore, senza guardare al messaggio. Del resto, dopo queste macchine, sono passate tutte le mutazioni del postmoderno e delle avanguardie artistiche e di ogni tipo di sperimentazione; porre un filtro cognitivo fra noi e queste opere, come si fa con l’arte concettuale, significherebbe ormai svalutarle, neutralizzarle, o al più ritenerle anacronistiche. Si dovrebbe dunque consegnare all’utopia questa sorta di back to the future, che Toma ci propone, ossia un ritorno al passato per correggere gli errori della storia, abbandonare l’interpretazione critica, affidarsi ai sensi, e scaricando di ogni valore etico questi soggetti, depotenziando il simbolo, si potenzierà il segno.

 

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