Sava (Taranto). L’antica chiesa di Pasano

L’ antica chiesa di Pasano posta alle spalle dell’attuale Santuario: il ritrovamento, e l’auspicato termine dei restauri

 

di Gianfranco Mele

disegno ricostruttivo dell'antica chiesa a cura di Angelo Campo
disegno ricostruttivo dell’antica chiesa a cura di Angelo Campo

 

L’antica chiesa basiliana e l’edificazione di un altro stabile intorno al 1712

Primaldo Coco, nella sua opera “Cenni Storici di Sava”, ci informa in più passaggi dell’esistenza di una antica cappella in Pasano, precedente la chiesa tutt’ora visibile e visitabile: quest’ultima, viene difatti edificata nel 1712 in sostituzione del più antico luogo di culto basiliano. Il Coco fornisce anche alcuni particolari in merito alla sua ubicazione, nonché la notizia del trasporto dell’icona bizantina, appartenente alla vecchia cappella, sull’altare della nuova chiesa (la “Madonna con Bambino” posta al centro dell’altare dell’odierno edificio):

“Dopo i tanti singolari prodigi operati ad intercessione della Vergine SS. di Pasano, i Savesi vollero, per singolare loro divozione, fabbricare una nuova chiesa più bella e più grande accanto alla vecchia. Fu questa portata a compimento nel 1712, nel quale anno al 23 marzo fu trasportata l’immagine dalla chiesa vecchia alla nuova e fu collocata in mezzo sull’altare maggiore: al 31 poi dello stesso mese, di giovedi fra l’ottava di Pasqua, fu benedetta. […] A differenza della prima piccola e bassa la nuova chiesa è lunga una ventina di metri, larga otto, ed è molto ariosa.”[1]

Questa descrizione del Coco coincide con quella, precedente, di un anonimo che nel 1897 scrive che il nuovo santuario fu costruito “dinanzi alla vecchia chiesa della Vergine che ora è a ridosso dell’ altare Maggiore e destinato a sacrestia”.[2]

In un passo successivo, il Coco riferisce in merito alla presenza di resti di dimore di basiliani all’interno della masseria di Pasano (situata nei pressi della chiesa, sulla strada che porta verso Lizzano) e della presenza di “ruderi di una antica chiesuola”:

“… in Pasano […] sino a poco tempo fa nella masseria omonima si notavano avanzi di antiche dimore di basiliani, oggi scomparsi per i restauri eseguiti dai diversi padroni. Sul muro dell’antico edificio, eretto a mo’ di castello medioevale, dalla parte della strada che mena a Lizzano, si vedevano alcuni affreschi in parte coperti di calce con alcune nicchie ed altri ruderi di una antica chiesuola oggi nascosti da una scala, che porta al piano superiore di recentissima costruzione. In un gran vano a pianterreno vi sono avanzi di cornici e capitelli parte rovinati e parte corrosi dal tempo con porta d’ingresso rivolta ad oriente, oggi murata e con una cupoletta di forma ovoide alquanto elevata; pare facesse parte dell’antica chiesetta.” [3]

Occorre osservare che il passo sopracitato appare in lieve contrasto con il primo dello stesso Coco, e con le indicazioni fornite dall’ anonimo del 1897: la vecchia chiesa è collocata accanto a quella nuova oppure è poco distante da essa, appunto, sulla strada “che mena verso Lizzano”, all’interno della Masseria?

La prima spiegazione, come si vedrà, coincide con il ritrovamento di un antico edificio posto, trasversalmente, alle spalle dell’altare della chiesa settecentesca, riadattato ad altri utilizzi e dunque “mascherato” rispetto al suo aspetto originario. Nella seconda spiegazione il Coco si riferisce, a quanto sembra, ad un’area poco distante (la vecchia masseria). Dello stesso tenore è un documento del Catasto Onciario: al foglio 105 sarebbe menzionata una chiesetta antica nella vicina masseria di Pasano, dopo aver descritto, al foglio 104, la cappella del 1712 (il documento risale al 1742).[4]

La chiesa fu dunque costruita più volte, nella stessa area ma a una certa distanza ? Se dobbiamo tener fede alle varie ricostruzioni storiche e ai vari documenti, e ricomporre in modo coerente tutto l’insieme delle informazioni, allora dobbiamo ipotizzare che in effetti la chiesa deve essere stata ricostruita almeno per la terza volta a partire dall’insediamento bizantino originale. Il Coco ritiene esistente un culto della Vergine a Pasano già ai tempi delle persecuzioni di Leone Isaurico (717-741)[5], e coincidente con il periodo della edificazione del Limes bizantino: ipotesi, questa, ripresa dal Pichierri il quale sottolinea che il santuario odierno è “l’ennesimo rifacimento della originaria chiesa dell’accampamento[6], riferendosi ad un luogo di culto inserito nell’ambito di un accampamento a ridosso del Limes. Il toponimo Camarda (una delle contrade adiacenti) sta ad indicare inoltre, sottolinea il Pichierri, appunto un accampamento bizantino.

 

Pasano luogo di culto nei pressi del cosiddetto Limes bizantino. La chiesa ritrovata

Più volte il Coco riferisce di Pasano come antico luogo di culto basiliano, citandolo insieme ai vari altri insediamenti nei dintorni di Sava, e descrivendo minuziosamente i luoghi che i monaci basiliani (o bizantini che dir si voglia) vanno a occupare nel territorio, e le chiese che edificarono (di alcune delle quali, come ad es. la chiesa di S. Elia e quella di S. Nicola situate nel cuore dell’abitato di Sava, restano solo tracce documentarie)[7].

A ridosso del cosiddetto (e discusso)[8] Limes bizantino, altrimenti detto Limitone dei greci o Paretone, sorgeva l’antica cappella di Pasano, santuario di frontiera[9] situato in una fascia confinaria che precedentemente era stata anche (secondo le ricostruzioni storiche) luogo di confine tra magnogreci e messapi: successivamente alla spartizione territoriale tra longobardi bizantini, lo fu tra il principato di Taranto e la foresta oritana.

Tornando al Coco, nonostante le sue indicazioni e quelle dell’anonimo ottocentesco, gli studiosi successivi hanno fatto fatica a rintracciare la presenza e i resti dell’antico santuario presso Pasano, tanto da lasciar perpetrare come problema insoluto, per decenni, quello dell’ubicazione della cappella originaria.

E’ solo alle soglie del nuovo millennio, in seguito ad alcuni lavori di restauro, che vengono rintracciati i resti di una costruzione antecedente: a quel punto, non c’è stata alcuna titubanza nell’identificare quei resti come appartenenti alla chiesa che l’anonimo ottocentesco indicò come la “vecchia chiesa della Vergine che ora è a ridosso dell’ altare Maggiore”.[10] 

La notizia è affidata per la prima volta ad una stringata descrizione apparsa nel 2006 in un lavoro di Giuseppe Rossetti, dedicato al Limes Bizantino e al santuario di Pasano[11]. In questo lavoro appaiono tre significative ed eloquenti foto che nella didascalia specificano il riferimento all’antica cappella, i cui resti sono identificabili con quelli descritti dall’anonimo scrittore ottocentesco, situati alle spalle dell’altare della “nuova” chiesa, e posti trasversalmente ad essa: l’antico edificio era stato ristrutturato, gli affreschi erano stati ricoperti ed era stato inglobato in una sala destinata agli usi di un convento-orfanotrofio.

Dell’argomento si è occupato recentemente anche Angelo Campo il quale fornisce diversi particolari descrittivi della antica struttura, una foto e un disegno ricostruttivo.[12]

A tutt’oggi, nonostante siano passati diversi anni dal ritrovamento, i restauri non sono terminati e l’accesso è interdetto ai visitatori.

L' abside dell'antica cappella durante i lavori di scavo, foto Angelo Campo
L’ abside dell’antica cappella durante i lavori di scavo, foto Angelo Campo

 

elementi architettonici dell'altare dell'antica cappella (foto arch. Aldo Caforio, tratta dal citato testo di Giuseppe Rossetti, pag. 33)
elementi architettonici dell’altare dell’antica cappella (foto arch. Aldo Caforio, tratta dal citato testo di Giuseppe Rossetti, pag. 33)

 

L’antica icona della Vergine Odigitria e la nuova chiesa

In un libello divulgativo intitolato “Il santuario di Santa Maria di Pasano”[13] si legge: “Sappiamo da un manoscritto antico che “dalla vecchia chiesa fu tagliato il muro, che aveva su sé dipinta l’immagine della Beata Vergine Maria di Pasano, fu trasportato e incassato sull’altare maggiore”. Non vien citata la data né l’autore del manoscritto, né vi sono altri riferimenti di sorta. Ad ogni modo, c’è anche il Coco che ci informa della medesima cosa, con un passo che abbiamo già citato per intero agli inizi di questo scritto: “Fu questa (la nuova chiesa, n.d.a.) portata a compimento nel 1712, nel quale anno al 23 marzo fu trasportata l’immagine dalla chiesa vecchia alla nuova e fu collocata in mezzo sull’altare maggiore.[14]

Il blocco in pietra raffigurante la Madonna di Pasano
Il blocco in pietra raffigurante la Madonna di Pasano

 

Di datazione incerta[15], l’icona della Madonna, riprodotta su una lastra litica, è senz’altro di scuola e manifattura bizantina. Si tratta di una  Odigitria dexiokratousa (ovvero una “Madonna che indica la via”[16] e che ha la particolarità di tenere il Bambino nella mano destra, la qual cosa la rende rara e distinta rispetto ad altre raffigurazioni di Odigitrie nelle quali invece il Bambino è retto sulla mano sinistra).

A tutt’oggi, è possibile ammirare il dipinto (frutto di numerosi e diversi restauri) che è posto ancora sull’ altare centrale della chiesa.

 

Riassunto e conclusioni

Relativamente recente è la riscoperta di una antica chiesa posta in Pasano alle spalle, e trasversalmente, rispetto alla chiesa edificata nel 1712. Questo edificio “nascosto” era stato modificato sino a renderlo irriconoscibile, e adattato ad altri utilizzi. Si tratta della chiesa indicata dallo storico Primaldo Coco come adiacente e precedente a quella costruita agli inizi del secolo XVIII. L’ubicazione corrisponde anche ad una più dettagliata descrizione fornita da un anonimo ottocentesco. La vecchia chiesa è anche quella dalla quale fu asportata una lastra tufacea su cui era affrescata una Madonna con Bambino di manifattura bizantina: tale lastra fu posizionata sull’altare della costruzione del 1700, dove è ancora esposta. Tuttavia il Coco, nella medesima opera (“Cenni storici di Sava”) aveva fornito ulteriori particolari in merito a quella che può essere considerata una terza costruzione.

Vi sono una serie di elementi che fanno pensare in effetti all’esistenza di un ulteriore edificio, e verosimilmente anche di una iniziale struttura ipogea.

Pasano è luogo di culto e insediamento basiliano posto lungo un asse insediativo (e anche confinario se prendiamo per buona l’ipotesi del maestoso “paretone” ivi ricadente, come residuo del “mitico” Limes Bizantino), che comprende l’antichissima cripta della SS. Trinità in agro di Torricella (c.da Tremola). Si adatta inoltre alle esigenze tipiche dei basiliani che ricavavano spazi nel sottosuolo, essendo provvisto di una serie di cavità e cunicoli[17]. Inoltre il Coco riferisce della presenza dei Basiliani in Pasano ponendo l’accento sia sul loro posizionamento nelle adiacenze del Limes, sia narrando del periodo delle persecuzioni iconoclaste (Leone Isaurico) che avrebbero toccato anche i basiliani presenti in Pasano[18]. A tal proposito riferisce anche dell’occultamento di una icona della Vergine di Pasano “in una cisterna[19] che non può essere l’icona su lastra tufacea asportata dalla chiesa riscoperta e posta sull’altare maggiore al posto di quella “nuova”, ma deve necessariamente essere – se mai è esistita – antecedente a questa.

Nell’attesa – e ancor prima – di chiarire, se mai sarà possibile, questi interrogativi, attendiamo il compimento dei lavori (per la verità piuttosto lenti) di restauro della chiesa ritrovata, che probabilmente apporteranno indizi e chiarimenti anche rispetto ad una serie di elementi qui considerati.

Pasano oggi: la facciata della costruzione terminata nel 1712
Pasano oggi: la facciata della costruzione terminata nel 1712

 

Particolare dell'Altare della chiesa di Pasano con al centro l'antico dipinto della Vergine
Particolare dell’Altare della chiesa di Pasano con al centro l’antico dipinto della Vergine
La chiesa di Pasano come si presentava ai primi del '900 (immagine tratta dal testo del Coco)
La chiesa di Pasano come si presentava ai primi del ‘900 (immagine tratta dal testo del Coco)

 

[1]Coco, Primaldo: Cenni Storici di Sava, Stab. Tipografico Giurdignano, Lecce, 1915, pag. 282

[2]Anonimo, Dei miracoli e dei prodigi operati dalla Vergine SS. Di Pasano (opuscolo dedicato a Monsignor M.T. Gargiulo Vescovo di Oria), Manduria, 1897, pag. 13. Ho ripreso questa citazione di seconda mano, dal testo di Annoscia Mario Il Santuario della Madonna di Pasano presso Sava, Del Grifo Ed., 1996, Lecce, pag. 19 e dal testo di Gaetano Pichierri Le origini del culto di Maria SS. Di Pasano, Italgrafica, Oria, 1985, pag. 129

[3]Coco, Primaldo, op. cit., pag. 29.

[4]Ricavo anche questa citazione dal testo di Annoscia M. (op. cit., pag. 31), che a sua volta cita il Catasto Onciario della Terra di Sava in Terra d’Otranto (Archivio di Stato di Napoli, foglio 105, 1742).

[5]Vedi Coco, Primaldo. op. cit. pp. 20-21: qui il Coco accenna anche ad una icona della Vergine nascosta in una cisterna (a causa delle persecuzioni iconoclaste) difficilmente riconducibile a quella trasportata dalla “antica chiesa” a quella attuale.

[6]Pichierri, Gaetano Le origini del culto di Maria SS. Di Pasano, Rivista Diocesana, Oria, 1985 pp. 127-128

[7] Mele, Gianfranco: Presenze bizantine nel territorio savese: il mistero dell’antica chiesa di San Nicola, i resti della chiesa di S. Elia, e altre note, in: Terre del Mesochorum, agosto 2016 https://terredelmesochorum.wordpress.com/2016/08/13/presenze-bizantine-nel-territorio-savese-il-mistero-dellantica-chiesa-di-san-nicola-i-resti-della-chiesa-di-s-elia-e-altre-note/

[8]Come noto, vi sono incertzze e ipotesi discordanti in merito alla costruzione del “Paretone” ad opera dei Bizantini, v. Stranieri, Giovanni: Un Limes Bizantino nel Salento? La frontiera bizantino-longobarda nella Puglia meridionale. Realtà e mito del Limitone dei greci

[9]In tale accezione, Pasano farebbe parte di una serie di luoghi di culto costruiti appunto sulla linea del Limes Bizantino: San Pietro di Crepacore presso Torre S. Susanna, San Miserino presso San Donaci, Madonna dell’Alto presso Campi Salentina, Madonna delle Grazie presso S. Marzano di S. Giuseppe, SS. Trinità in agro di Torricella. Cfr. Rossetti, Giuseppe: Due significativi monumenti in agro di Sava, Filo Ed., Manduria, 2006, pp. 11-12; Pichierri, Gaetano op. cit., pp. 127-128

[10]Anonimo, op. cit. Su questo argomento si sofferma anche Gaetano Pichierri nel suo lavoro del 1985 (Le origini del culto di Maria SS. Di Pasano, op. cit.) osservando che “oggi a ridosso dell’ Altare Maggiore vi è un lungo salone, rimaneggiato nell’ultimo dopoguerra” (nota 23 a pag. 29 ) ma senza altro aggiungere e dunque, probabilmente, senza immaginare che proprio quel “lungo salone” conservava e mascherava le spoglie della chiesetta, che forse il Pichierri riteneva completamente abbattuta.

[11]Rossetti, Giuseppe: Due significativi monumenti in agro di Sava, Filo Ed., Manduria, 2006

[12]Campo, Angelo: L’antica cappella ritrovata presso il santuario dedicato alla Madonna di Pasano – Sava in: Terre del Mesochorum, gennaio 2015 https://terredelmesochorum.wordpress.com/2015/01/19/lantica-cappella-ritrovata-presso-il-santuario-dedicato-alla-madonna-di-pasano-sava-_-di-angelo-campo/

[13]AA:VV:, Il Santuario di Santa Maria di Pasano, C.S.P. Centro Studi Pubblicitari, Tipografia Centrale, Manduria, senza data

[14]Coco, Primaldo, op. cit., pag. 284

[15] Nel testo di Giuseppe Rossetti (op. cit., pag. 24) viene definita “di tarda scuola bizantina, probabilmente dei primi del sec. XIV”, ma sono state proposte anche datazioni riferite al periodo tra il IX e il X sec. . Poichè l’icona è un affresco dipinto in origine su una lastra tufacea parte del muro della chiesa riscoperta, si potranno integrare, probabilmente, le ipotesi di datazione di questa lastra con gli studi sulla costruzione e sugli affreschi restanti in essa rinvenuti.

[16]Odigitria, dal greco bizantino Oδηγήτρια, colei che conduce, mostrando la direzione. Il termine dexiokratousa invce si riferisce, come già indicato, alla posizione del Bambino sul braccio destro della Vergine. Quest’ultima è una caratteristica piuttosto rara dell’antica iconografia mariana, e in Puglia la si ritrova soltanto, oltre che a Pasano, nell’icona della Madonna di Ripalta conservata nel Duomo di Cerignola.

[17]Questo aspetto è descritto in più passaggi nella citata opera del Coco. A tutt’oggi sono presenti in zona cavità e cunicoli percorribili come la Grotta Grava-Palombara e un inghiottitoio nel cuore della vicina macchia “Fallenza”. Il Caraccio conferma inoltre l’esistenza di cunicoli che si diramano da Pasano verso Sava e verso contrada “Monaci” (vedi Caraccio, Giglio Sava – Cronistoria della cittadina ionica, Schena Ed., BR, 1987, pag. 283) . Sulla rete dei camminamenti sotterranei esistenti in agro di sava v. anche Mele, Gianfranco, Sava-Castelli, la città sotterranea e la necropoli. Documenti, tracce e testimonianze di un antico centro abitato precedente la Sava del XV secolo, in: Terre del Mesochorum, luglio 2015 https://terredelmesochorum.wordpress.com/2015/07/19/sava-castelli-la-citta-sotterranea-e-la-necropoli-documenti-tracce-e-testimonianze-di-un-antico-centro-abitato-precedente-la-sava-del-xv-secolo/

[18]Coco, Primaldo op. cit. pag. 20

[19]Ibid., pag. 21

 

 

 

 

Dalla Sibilla ai “carmati” di San Paolo e all’Orto dei tu’rat …

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di Armando Polito

A scrivere queste poche righe sono stato felicemente provocato da Federico La Sala. assiduo e competente frequentatore di questo blog. Il professore ha colto al volo la confessione fattagli in un messaggio privato della mia tendenza a creare collegamenti, adducendo, naturalmente, una motivazione plausibile e ad attualizzare il passato, cioè ad esaminarlo comparativamente col presente e a vedere, fatta la dovuta tara storica, cosa non è sostanzialmente cambiato, spiccando, ogni tanto (?) qualche volo pindarico.

Così Federico, ispirato da alcuni post usciti di recente1 e dall’interesse2 per un lavoro mio e di Marcello Gaballo sulle Sibille che dovrebbe uscire prima della fine dell’anno (da questo sono tratte le poche righe relative all’etimo di Sibilla), mi scriveva qualche giorno fa:  Armando, oso sollecitarti (non per carmarti) a realizzare appena possibile un saggio sul sibillare, sibilare,  sobillare e sillabare (per fare “spelling…are” dalle risate anche chi non sa nulla del potere della Lingua e introdurli alla conoscenza del volo pindarico, e non!.

Cercherò di fare del mio meglio, anche se in partenza sarò costretto a rinunciare, o quasi, al gioco di parole, mio strumento espressivo preferito per la sua capacità immediata di coinvolgimento (ne sanno qualcosa i pubblicitari …) ma, se fatto bene,  di propiziare, passato l’effetto epidermico e momentaneo, riflessioni più profonde; non a caso prediletto dai comici, a cominciare dalla buonanima di Plauto …, gioco nel quale, però, Federico in un semplice invito si mostra, anzi si conferma, maestro (spelling…are, poi, anche per la sua carica ironica contro l’imperante anglofilia, è semplicemente geniale).

Comincio proprio dall’isola …, volevo dire parola, che non c’è ma che c’era, nel senso che nessun vocabolario recente registra sibillare, ma nei secoli scorsi la parola era usata come variante di sibilare. La voce è entrata in italiano tal quale dal latino sibilare=fischiare, a sua volta da sìbilus=fischio, probabilmente di origine onomatopeica. Ora, però, il sibillare proposto da Federico non è questa variante, obsoleta, di sibilare, ma è un felicissimo neologismo, sinonimo di vaticinare, formulare una profezia, quello che era il compito della Sibilla. Quanto all’etimo di Sibilla: dal latino Sibylla, a sua volta dal greco Σίβυλλα (leggi Sìbiulla), che era la profetessa di Apollo. Per quanto riguarda l’etimo della parola greca l’unica proposta è antichissima e risale a Varrone (I secolo a. C.), se dobbiamo credere a  Lattanzio (III secolo d. C.) che in Divinae institutiones, I, 6 così scrive: M. Varrone, del quale nessuno più dotto visse neppure presso i Greci e tanto meno presso i Latini, nei libri sulla divinità che scrisse per il pontefice massimo C. Cesare, parlando dei quindecemviri, dice che i libri sibillini non furono di una sola Sibilla ma che sono chiamati sibillini con un unico nome poiché tutte le donne profetesse furono chiamate Sibille dagli antichi o dal nome dell’unica di Delfi o dal fatto che annunziavano il volere degli dei; infatti chiamavano gli dei seùs, non theùs e il volere non bulèn ma sulèn secondo il dialetto eolico. E così diceva che Sibilla equivaleva a theobulèn3. In parole povere Sibilla significherebbe (colei che manifesta) la volontà del Dio. Se Varrone ha ragione (e, prima ancora, se Lattanzio dice la verità …) non c’è alcun rapporto con sibilare, anche se non mi è difficile immaginare che la profetessa, in buona o in mala fede …, modulasse ad effetto la voce, così come fa un attore che non sia un cane, e che in alcuni casi la pronuncia di qualche parola fosse tanto rapida da sembrare un sibilo (avete presente la lettura di un atto  qualche volta fatta da un notaio? …). E a proposito di cane oltre all’attore mi viene in mente anche il cantante e la tentazione di un volo (e il paracadute dov’è? …) verso il carmen (canto) messo in campo a proposito di carmare. Se, poi, pensiamo ai serpenti su cui i carmati esercitavano il loro potere ed al fatto che alcuni serpenti (particolarmente quando sono di buon umore …) fischiano, il volo verso sibilare è quasi obbligato …

Per non aggiungere altre fesserie passo a sobillare: probabilmente è da un latino *subillare, variante del precedente sibilare, quasi un fischiare all’orecchio.

E siamo a sillabare, che è da sillaba, a sua volta dal latino syllaba, che è dal greco συλλαβή, a sua volta da συλλαμβάνω=riunire, composto da σύν (leggi siùn)=insieme+λαμβάνω (leggi lambano)=prendere. Qualcuno penserà che la Sibilla per suggestionare meglio, dandosi contemporaneamente delle arie, qualche volta sillabasse le parole. Almeno stavolta la (probabile …) fesseria non l’avrei detta io.

Per chiudere, però, mi piace tornare a sibilare, perché la voce (è il caso di non affannarsi ad evitare la ripetizione dello stesso termine … ) evoca la voce del vento salentino tra i muri a secco dell’Orto dei tu’rat, le cui pietre, è bene ricordarlo, sono salentine, ma il modello costruttivo (come mostra tu’rat) è arabo. Barriere sì, ma la loro discontinuità (parola cara all’ipocrisia dei politici ..) e la dolcezza del loro andamento curvilineo appaiono come la metafora concreta (che ossimoro, mi complimento da solo! …) di un abbraccio, non di una separazione; altro che progetti di muri, con cui, pateticamente se non fosse criminale, si pensa di risolvere problemi, tutto sommato, creati da noi e destinati, prima o poi (siamo già al poi …)  ad esplodere! Ah, se la voce di quel vento fosse come il canto di nuova  Sibilla che annuncia quella svolta antropologica, integrale, integrante  e definitiva, basata sull’amore, auspicata da Federico alla fine del suo libro come l’unica possibilità di salvezza, aggiungo io, del corpo (intesa prima di tutto come diritto alla salute), prima ancora che dello spirito, beninteso a partire già da questa terra …!

E chiudo con un’amichevolissima tirata d’orecchi (me lo posso permettere solo perché sono più anziano di tre anni …) al caro Federico, che, per farla completa, avrebbe potuto aggiungere, alla serie. lui che è originario di Contursi Terme (la prossima volta vi rivelerò qual è il suo piatto preferito … prima debbo informarmi), anche zufolare, che è da *sufilare, variante osca del già visto sibilare. A questo punto mi aspetto da lui un ricambio della …  cortesia (siamo tutti qui per imparare) quando, prima o poi (più prima che poi …), incapperò in qualche disavventura  di carattere storico o filosofico. E di questo lo ringrazio anticipatamente.

 

P. S.

Federico la Sala a distanza di qualche giorno dalla pubblicazione mi segnalava:  Da ulteriore approfondimento, ho trovato che ‘sibillare’ non è solo e tanto la grafia antiquata di ‘sibilare’, ma in area fiorentina seicentesca (almeno dall’attestazione del GDLI del Battaglia), significava anche ‘ispirare’:

“O se Cecco sapesse ciarlar tanto / ch’e’ mi potesse costei sibillare / e la facesse venire allo ‘ncanto, / ch’a suo dispetto ella m’avesse a amare” (Buonarroti il Giovane); sibil(l)lare = “incantare una persona riuscendo a persuaderla” .

Credo, però, che qui sibillare stia nel senso attuale di sobillare e che, dunque, non abbia nulla a che fare con Sibilla. D’altra parte, anche secondo l’interpretazione del Battaglia, che significa “incantare una persona riuscendo a persuaderla se non “sobillarla“? Non dobbiamo, perciò, lasciarci fuorviare da quell’incantare.

Una conferma è data dalla Crusca (la quarta edizione in 6 volumi venne pubblicata tra il 1729 e il 1738):

http://www.lessicografia.it/Controller?lemma=SIBILARE_e_SIBILLARE&rewrite=1  

http://www.lessicografia.it/Controller?lemma=INSIPILLARE_e_INZIPILLARE&rewrite=1

Infinitamente grato, comunque, della segnalazione.

_____________

 

1 Consiglio al lettore che ha interesse a capire i riferimenti e le allusioni che farò a rileggerli ai seguenti collegamenti:

  1. a) per tu’rat:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/09/05/mezzelune-fertili-nellorto-dei-turat/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/09/11/quando-il-vento-si-fa-verso/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/08/05/orto-dei-turat-dal-tramonto-allalba/

  1. b) per carmare

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/09/06/carmare-e-craminare/

 

2 Non casuale perché, fra l’altro, oltre che aver insegnato storia e filosofia nei licei, può vantare sull’argomento, a parte altri studi, Della terra , il brillante colore uscito per i tipi di Edizioni Nuove Scritture, Milano, 2013.

3 M. Varro, quo nemo numquam doctior, ne apud Graecos quidem, nedum apud Latinos vixit, in libris rerum divinarum, quos ad C. Caesarem Pontificem maximum scripsit, cum de quindecemviris loqueretur, Sibyllinos libros ait non fuisse unius Sibyllae, sed appellari uno nomine Sibyllinos quod omnes foeminae vates, Sibylla sunt a veteribus nuncupatae, vel ab unius Delphidis nomine vel a consiliis Deorum denuntiandis; σεούς enim Deos, non θεούς, et consilium non boulήν sed  βυλήν appellabant Aeolico sermonis genere. Itaque Sibyllam dictam esse quasi σιοβολήν.

 

Libri| Gli stemmi civici di Ugento

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di Mario Cazzato*

Nell’analizzare storicamente la vicenda dello stemma di Ugento, dall’origine ai nostri giorni, Luciano Antonazzo, credo per la prima volta nell’ambito di questo tipo di studi che riguardano, in fondo, l’identità civica di una comunità, affronta l’irrisolto problema dell’origine storica, e non favolosa, degli stemmi civici. Prima di procedere oltre facciamo nostra l’osservazione, fondatissima, dello stesso Antonazzo, per il quale l’adozione di uno stemma per Ugento risale al periodo rinascimentale, anche se é solo dal primo decennio del ‘700 che possiamo verificarne le prime attestazioni.

Ulteriore merito di questo studio è l’aver individuato in un letterato rinascimentale del luogo, il poeta Antonino Lenio, il possibile autore dello stemma civico ugentino che, come documenta Antonazzo, era costituito da una figura (corpo) esprimente due basilischi affrontati e da un motto (anima), che recitava “Hoc signum dedit Hermes”.

L’humus culturale di siffatta costruzione che prende il nome di Impresa si inserisce pienamente nella riscoperta rinascimentale, come sottolinea l’Autore, dell’antico Egitto, che dal punto di vista simbolico ebbe vasta diffusione grazie agli agli “Hieroglyphica” di Valeriano che nella prima metà del ‘500 inaugurarono una vera e propria moda, costituendo un vero e proprio mito.

Che l’eco di queste raffinate ricostruzioni umanistiche abbia avuto un riflesso anche nell’estremo Salento è un fatto estremamente significativo. Ma non ci deve meravigliare tutto questo perché una delle opere più importanti, e tra le prime pubblicate, è “Il Rota overo dell’Imprese”, composta a Lecce dal leccese Scipione Ammirato e pubblicata a Napoli nel 1562.

Quella dello stemma ugentino non è una storia lineare perché l’antico stemma di Ugento non è rimasto immutato nel corso del tempo. Come potrete leggere, fu integrato nel XIX secolo con un fonte tra i due basilischi, così come rappresentato in uno stemma in pietra, facente parte della collezione Colosso, e ritenuto l’autentico stemma della città. Quest’arma venne a sua volta sostituita ai primi del ‘900 con quella raffigurante Ercole come era raffigurato sulle monete della zecca ugentina e lo stesso mitologico eroe è infine stato schematicamente raffigurato nell’attuale stemma cittadino.

Il lettore potrà seguire questo iter attreverso i secoli con le dotte osservazioni dell’Autore che, facendo finalmente chiarezza sul tema, travalicano il mero interesse localistico. Per questo dobbiamo esser grati ancora una volta a Luciano Antonazzo che da oltre un decennio ricostruisce alcuni tra gli aspetti più interessanti della civiltà ugentina.

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* Segretario della Società Storica di Terra d’Otranto

Quando il vento si fa verso

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di Daniela Liviello

Puoi ascoltare infinite narrazioni, danzare con le Muse tutte quante se provi a fermare l’affanno, interrompere la corsa, rallentare il passo.

Puoi udire il passo lento del tempo che piano accarezza le piante e le pietre nel giardino delle mezze lune, nell’Orto dei Tu’rat, dove il vento si adagia, s’incanta, s’inventa occhi per qualche lacrima da donare alla terra; questa terra, la nostra, che conosce la sete, le lunghe attese e il silenzio della solitudine.

Appena oltre l’ampio, agevole ingresso, il visitatore sente l’abbraccio, il dono di un largo sorriso, quello delle pietre disposte a ventaglio.

Qui è di casa la poesia.

Qui la poesia ha i piedi per terra e cerca l’orizzonte, annusa l’aria, si abbevera di luce, respira col geco e la farfalla, cresce col filo d’erba tra le pietre.

Qui già progettare nuovi, antichi metodi di coltura e rispetto della terra e dell’uomo, già il progetto è alta poesia. Non poteva essere diversamente tra gli ulivi e le gazze, il falco che si alza sui rovi e gli sterpi per fissare meglio la preda, il fiato delle lucertole che, attente, sbirciano tra le pietre prima di guizzare tra le fessure.

Qui la poesia ha i piedi per terra.

Le voci dei poeti ai Tu’rat sono vibrazioni del vento, onde di luce tra le pietre, spolverio della terra che si alza quando il vento gioca a inventarsi parole.

Le pietre ai Tu’rat dialogano con la luna, ti dicono che è giusto tornare perché qui abitano le Muse e le Muse amano i giardini, i campi aperti e la terra sincera. Qui si danno convegno e progettano canti, versi, danze.

Chi non ama l’ordine antico delle arti, l’ascolto attento delle voci armoniose della natura, la vibrazione della terra quando nasce la luna o quando il sole sorge impetuoso e si fa giorno, chi non ama se stesso e l’umano scorrere della vita intera, ha provato a mandar via le Muse, farle scappare, atterrirle con molteplici, furiosi, dannosi incendi. Più volte l’orto ha dovuto rinascere a nuova vita, più volte abbiamo sentito il grido delle Muse nostre madri, l’urlo disperato degli ulivi e delle piante, fiumi di fuoco hanno lacerato l’armonia.

Per poco. Poi le Muse hanno ripreso il loro canto e l’incanto, faticosamente, si, faticosamente, è tornato.

I poeti si ritrovano ancora nell’orto, ogni anno d’estate; distillano versi mentre i Tu’rat, sipari fantastici, si dispongono a ventaglio. E sono poeti che coprono l’intero stivale, arrivano nell’orto dal Friuli al profondo Salento, insieme a dare voce, canto, forza e sostegno al progetto e al sogno di un’umanità più solidale con se stessa e con la terra.

Anche quest’anno 2016, i versi dei poeti sono raccolti in antologia: PAROLE SANTE (versi per una metamorfosi) Kurumuni edizioni, perché ogni verso sia stilla d’acqua tra le pietre. Perché la poesia divenga respiro, sostanza, materia, nutrimento e pianta. Con tutte le sue spine.

Veglie e uno dei tanti esempi di un’idiota, come tutte, damnatio memoriae proximae? *

di Armando Polito
Sul fenomeno antico della damnatio memoriae chi vuol conoscere in modo più articolato il mio parere, già condensato nell’idiota del titolo,  può soddisfare la sua curiosità al link https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/08/19/taranto-facciamo-rimuoviamo-quella-ringhiera/. Non è la prima volta che rinvio ad uno o all’altro mio post precedente, ma odio ripetere, tal quale, lo stesso concetto. Non guasta, invece, aggiungere nuove prove ai propri assunti, soprattutto quando esse, quando non siano documenti ritoccati o, peggio, fotomontaggi, si riferiscono a qualcosa di concreto, come, nel nostro caso, ad un edificio, anzi ad un’intera piazza, per la precisione piazza Umberto I.

Così si presentava la piazza verso la metà del secolo scorso (la fiat 600 fu costruita a partire dal 1955) e quello che segue è il suo aspetto attuale (immagine tratta ed adattata da Google Maps).

A questo punto chiedo l’aiuto di qualche lettore vegliese perché ci dia notizie non solo cronologiche ma che, soprattutto, chiariscano le motivazioni della trasformazione di un gioiello in un cesso, in cui spicca al posto del palazzo comunale originario un immondo caseggiato a due piani terminante con un parallelepipedo evocante elementi della vecchia costruzione; ho detto evocante e non contenente perché l’orologio originario è stato sostituito con uno moderno su due delle quattro facce (se si è approfittato di un’offerta prendi due e paghi uno, bisogna dare atto che all’epoca si pensò veramente all’interesse della collettività …) e solo le due campane in cima sembrerebbero essere quelle originali.

In attesa di avere notizie più dettagliate, onoro fino in fondo il titolo con l’immagine che segue.

 

La domanda, direbbe il buon Lubrano, sorge spontanea: che bisogno c’era di demolire il vecchio, armonioso (rispetto al contesto) palazzo con una damnatio memoriae definitiva, cioé con la distruzione (demolizione è un concetto troppo leggero per l’occasione), dopo che ne era stata attuata, come mostra la prima foto, una più leggera (eliminazione di DUCE reiterato fino al ridicolo) e pienamente legittima sul piano estetico? E un’altra a cascata: se dovessimo applicare la stessa logica ai tanti edifici scolastici risalenti all’epoca fascista o, preesistenti, ma dal fascismo utilizzati, quanti ne rimarrebbero in piedi aventi un senso dal punto di vista estetico e impeccabili sotto quello della solidità strutturale?

Qualche nostalgico a questo punto  coglierà la palla al balzo per esaltare tragiche (per me) glorie (per lui) passate ed io a quel punto sarò costretto a ricordare la scuola di regime di allora, ma in coscienza non potrò tacere della buona scuola di oggi …

* Per onestà intellettuale debbo dire che il punto interrogativo finale e proximae sono stati aggiunti dopo le notizie date dal sig. Antonio De Benedittis e riportate nel secondo commento. Anche così il post può apparire a qualcuno come un processo alle intenzioni; ma, allora, il punto interrogativo quale funzione ha se  non quella di non escludere a priori un'”epurazione” indotta non dal palazzo in sé, non realizzato dal fascismo, ma da esso usato per funzioni pubbliche (sede del podestà)? Forse, per non perdere il senso della realtà, non sembra che anche oggi ogni amministrazione subentrante, si direbbe per puro dispetto e non per mantenere le promesse fatte, si dia da fare per riformare anche e soprattutto quel poco di buono che la precedente ha realizzato?  

Ai Corsari (Villaggio Resta, Nardò): la scuola, la via

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di Maria Grazia Presicce                        

M’accoccolo su un gradino sbilenco e lascio vagare lo sguardo nel non silenzio di una natura scomposta; friniscono le cicale, gli uccelli cinguettano tra le alte chiome degli eucalipti inondati di sole. Una lucertolina verde e lucente solleva il capino curioso, poi fugge tra i secchi fuscelli di una fantomatica aiuola.

Va il mio pensare, odo sussurri parole richiami… avverto effluvi di terra di piante, di sole che scalda: essenze d’amicizia scanzonata, di affetti sinceri. Si tinge il mio sguardo d’azzurro di verde di lilla di gioia che profuma d’infanzia, di semplici tenerezze.

Ritrovo tra pietre e sterpaglie il filo integro del mio essere e lo sguardo accarezza ogni cantuccio, ogni anfratto di questo paesaggio tanto amato e ora lasciato nell’incuria assoluta. Regna sovrano abbandono e tristezza eppure avverto ancora il suo cuore che batte all’unisono col mio e mi dona carezze, parole sincere, sussurri di bimba, dolci melodie che hanno fatto di me una donna sensibile schietta che continua a serbare un cuore di bimba.

E va oltre lo sguardo, racchiude le facciate delle case cogli alberi eterni che mi hanno visto bambina… un motivetto sovviene, un ritmo dolce tenero sgorga dal cuore e si spande come gocce di pioggia sul suolo assetato  “o Madonnina dall’azzurro manto/ ascolta questo piccolo mio canto/ bambino caro, / caro mio Gesù ascolta tutti i bimbi di quaggiù” e il canto va sommesso nell’aria cheta del mattino esce dalla finestra della scuola e va a rallegrare i cuori di grandi e piccini.

Non finiscono le emozioni, i ricordi m’attorniano, intime tracce, passato e presente s’intrecciano. Trame colorate di un vissuto integro e mai abbandonato nell’oblio dai sentimenti.

Mi vengono incontro a frotte le emozioni riposte.

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I cipressi che a Bolgheri alti e schietti, va da San Guido in duplice filar, come in corsa giganti giovinetti mi venivano incontro e mi guardar… “.

Ecco anche il viale della mia infanzia andava da Corsari alla mia masseria in “duplice filar” e va ancora solitario nell’abbraccio degli alti cipressi che lo proteggono.

M’avvio sul sentiero sterrato che dopo le ultime case del villaggio si raccorda col viale.

E’ il sentiero di sempre, terra rossa e sassi s’incastonano come gioielli preziosi ritagliando la carrareddha adornata da alberi di fichidindia e di fichi su un lato e sull’altro da un muretto a secco sberciato che delimita un canale di scolo.

E’ lento il mio andare, ogni passo carezza il suolo suscitando emozioni riposte,

godendo di stupori inattesi.

Va la strada coi suoi cipressi in fila indiana e dietro un cipresso c’è ancora il pilone dove sostavamo a pulire gli stivaletti prima di giungere a scuola. E’ ancora intatta la vasca, non contiene più acqua però e il campo intorno non ha più la vigna ma filari di angurie stendono rasoterra i tralci coi loro grossi frutti maturi.

Contemplo il paesaggio che m’invoglia ad andare su quella via che da scuola mi riportava alla mia casa nella masseria di mamma e papà.

Lenta m’avvio…mi sento accolta ancora persino dai sassi.

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All’inizio del viale gli alberi son radi, più maestosi e verdeggianti però ci sono ancora i pini che ci regalavano le pigne a Natale per il presepe.

Il silenzio ed il sole sovrastano e permeano ogni dove. Nei campi non anima viva, deserto anche il viale all’ombra dei cipressi. Sosto tranquilla…vaga lo sguardo, abbraccia uno ad uno ogni albero in fila, l’emozione accompagna i miei passi. Sono sempre magnifici questi cipressi, giganti benevoli che continuano a svettare nel cielo, pare che il tempo non li abbia sfiorati, ma solo accarezzati.

Andrea Peschiulli (1601-1691) da Corigliano d’Otranto: quattro ritratti e una traduzione galeotta …

di Armando Polito

Mi capita sempre più di frequente d’imbattermi in qualche esilarante trascrizione di un’epigrafe leggibilissima (magari il testo originale è una semplice, fedele citazione di un autore del passato, quindi facilmente reperibile e controllabile) e in sconvolgenti traduzioni, per non parlare, laddove ci sono, dell’interpretazione e del commento. Il fenomeno, prima limitato alla rete con il suo pullulare  di sedicenti esperti, ricercatori, divulgatori, opinionisti e critici letterari e non, di ogni risma, si è allargato da qualche anno a questa parte pure ai testi stampati. Non mi riferisco a quelli di natura divulgativa, nei quali sarebbe comunque richiesta una buona dose di rigore scientifico, ma ai veri e propri saggi, in cui per definizione l’acribia dovrebbe felicemente sposarsi con l’originalità. Cosa c’è, per esempio, di più originale di un saggio in cui l’autore corrobora, rispetto ad un tema o ad un singolo autore, un quadro già delineato oppure ne disegna uno totalmente nuovo sulla scorta di fonti da lui stesso rinvenute e puntualmente pubblicate?

È quel che avviene, rispetto al primo effetto, con il bel lavoro di Giuseppe Orlando D’Urso dal titolo 23 lettere inedite di Andrea Peschiulli ad Angelico Aprosio inserito in  Note di storia e cultura salentina, a cura di Fernando Cezzi, Società di storia patria per la Puglia, Sezione di Maglie-OtrantoTuglie “Nicola G. De Donno”, XIX, 2007. Il saggio è integralmente leggibile in http://www.academia.edu/16232474/23_lettere_inedite_di_Andrea_Peschiulli_ad_Angelico_Aprosio.

Prima di entrare nel vivo dell’argomento debbo confessare che al link appena segnalato sono giunto casualmente nel corso di una ricerca iconografica, limitata al ritratto, sull’arcade di Corigliano. Non mi sembra fuori luogo, a questo punto, riportarne, in ordine cronologico, i risultati. Comincio con l’immagine a corredo della biografia scritta da Domenico De Angelis  (1675-1718), anche lui membro dell’Arcadia, ed inserita nel suo Le vite dei letterati salentini, parte prima, s. n. Firenze, 1710.

In basso si legge Andreae Peschiullio Corilian(ensi) Dominicus De Angelis D(onum) D(edit) che, tradotto, suona: Ad Andrea Peschiulli di Corigliano Domenico De Angelis di Lecce diede in dono.

Il secondo ritratto è a corredo della coeva, rispetto a quella appena citata, pubblicazione Le vite degli Arcadi illustri, a cura di Giovan Mario Crescimbeni, parte seconda, De Rossi, Roma, 1710.

In alto ANDREAS PESCHIULLIUS. A differenza della precedente tavola, questa è firmata: In basso a sinistra P(etrus) L (eo) Ghezzius del(ineavit), cioè Pietro Leone Ghezzi disegnò e a destra  D(ominicus) Franceschini scul(psit), cioè Domenico Franceschini incise.

La restante parte della tavola reca: C(OETUS) U(NIVERSI) C(ONSULTO)/MOERI PHOLOETICO P(ASTORI) A(RCADI) PHILOLOGO/ALTISCUS ROPHEATICUS P(ASTOR) A(RCAS)/AMICO B(ENE) M(ERENTI) P(OSUIT) OLYMP(IADE) DCXXI AN(NO) IV/AB A(RCADIA) I(NSTAURATA OLYMP(IADE) V ANN(O) III

Tradotta, suona così: Per decisione dell’intera assemblea a Meri Foletico filologo. Altisco Rofeatico pastore arcade pose all’amico benemerente nella seicentoventunesima Olimpiade, quarto anno. Dalla fondazione dell’Arcadia quinta olimpiade terzo anno. 1

Da notare all’inizio della seconda linea la lettera greca Θ, il cosiddetto theta nigrum (theta nero), abbreviazione di θάνατος (=morte). Non a caso, rispetto alla precedente tavola, la base su cui poggia il ritratto vero e proprio ha l’aspetto tipico di una stele funeraria.

Se questo secondo ritratto, al di là di alcuni elementi ornamentali più o meno simili appare indipendente dal primo (il volto mi sembra esprimere una pensosità più sofferta), il terzo, a corredo di Biografia degli uomini illustri nati nel Regno di Napoli, Gervasi, Napoli, tomo VI, 1819, incisione di Carlo Biondi, si rifà chiaramente al primo.

Pure il quarto ed ultimo ritratto, custodito nella Biblioteca nazionale austriaca, appare derivato dal secondo, in ossequio al principio, abbastanza scontato, che le prime due testimonianze, probabilmente  fedeli perché più vicine cronologicamente alla persona ritratta, abbiano funto da modello per i ritratti successivi.

Torno ora all’assunto finale  del titolo ed al saggio di Giuseppe Orlando D’Urso. Una delle 23 lettere pubblicate, precisamente una del 19 novembre 1660, reca in calce a sinistra un componimento in distici elegiaci (non esametri, com’è detto nel saggio), evidentemente dedicato dal Peschiulli al destinatario, cioé Angelico Aprosio. Della lettera nel saggio c’è anche l’immagine originale e la trascrizione di gran parte del testo, non escluso il componimento. Ecco quest’ultimo.

Cur tantum exundat Tyberis Romamque sonorus/Invehitur, ripam ruptus utramque suam?/Flumina quae recipit, pelago non reddit hianti,/sic crepat et raptus undique spargit aquas./Hinc sua fata rapax instantia discat avarus;/effundet lacerus quas male cogit opes.

E subito dopo l’autore del saggio aggiunge. Si propone una traduzione letterale, ringraziando Rosy Rizzo per la preziosa collaborazione:

Perché tanto straripa il Tevere e rumoroso trascina la sua Roma, (avendo) rotto la sua riva da entrambe le parti? I torrenti che accoglie al mare aperto non restituisce così strepita e preso con impeto da ogni parte sparge le acque. Di qui l’ingordo avaro apprenda con applicazione costante le sue sorti lacero dissiperà quelle ricchezze che raccoglie con violenza.

A questo punto due tiratine d’orecchie sono d’obbligo ai danni di Rosy Rizzo, sorvolando sulle virgole assenti dopo restituisce e dopo sorti, pure presenti nell’originale.  La prima tiratina si riferisce a ripam ruptus utramque suus. La traduzione letterale, cioé rispettando i valori grammaticali della lingua d’origine, è rotto nell’uno e nell’altro argine. Ruptus è participio passato di rùmpere ed ha valore passivo, né può assumere il valore attivo non essendo un verbo deponente; utramque è aggettivo e non è necessario renderlo con un avverbio (dall’una e dall’altra parte) che in latino sarebbe stato utroque. Il non aver tenuto conto dei valori grammaticali originari ha tolto proprio a ripam utramque suam il valore di accusativo alla greca (costrutto particolarmente caro alla poesia classica, non solo latina e greca) retto da ruptus. La traduzione letterale,dunque, è rotto in entrambe le rive. Qualcuno mi obietterà che il senso di fondo non è compromesso. Ma il sentimento sì, purché si sia in grado di cogliere la differenza tra le due traduzioni: nella prima il fiume è l’elemento naturale  malvagio che rompe, soggetto attivo, nella mia un semplice corso d’acqua assume quasi sembianze umane e la sua immagine, passiva, rimane prevalente su quella delle rive (componenti essenziali della sua fisicità), così come in italiano sciolta le chiome  rispetto a con le chiome sciolte.

La seconda tiratina, molto più prolungata, riguarda instantia reso con un liberissimo (altro che traduzione letterale!) quanto errato con applicazione costante, come se instantia fosse un ablativo strumentale da instantia/instantiae. Detto che instantia/instantiae esiste e significa pure applicazione costante, aggiungo che quello della poesia non è ablativo del sostantivo appena detto ma nominativo plurale neutro (con valore di attributo di fata) del participio presente di instare, cioè instans/instantis. Sarebbe bastato dare uno sguardo  alla voce instans che in qualsiasi vocabolario latino precede immediatamente instantia, oltre che alla metrica per rendersi immediatamente conto che la  a finale lunga del presunto ablativo instantia renderebbe impossibile qualsiasi scansione, cosa che, invece non avviene con instantia participio plurale, in cui la –a è breve.

Ecco lo schema della corretta scansione:

Dimenticavo la traduzione, letterale e …  corretta, che è: di qui l’ingordo avaro apprenda il suo destino incombente.

L’autore dell’interessante lavoro fa seguire poi la traduzione poetica del suo amico avvocato Franco Melissano. Se la precedente letterale ha suscitato il mio disappunto, quella poetica mi spinge, invece, a congratularmi con l’avvocato non solo per la traduzione in sé ma anche per il commento al testo originale. Consiglio vivamente al lettore di leggere l’una e l’altro al link segnalato.

Riprendo la riflessione iniziale e concludo. La parcellizzazione del sapere oggi rende impossibile quella preparazione integrale nelle discipline più disparate che i grandi del passato, pur senza essere geni assoluti alla Leonardo,  hanno mostrato. Il che fa di ogni ricerca un lavoro di squadra e comporta l’utilizzo di competenze specifiche all’altezza. Diventa, perciò, fondamentale, volta per volta, la scelta accurata del collaboratore, per così dire, settoriale, per evitare ombre ad un lavoro, se non perfetto (sfido chiunque a trovarne o a realizzarne uno), almeno, come quello che ho citato oggi, molto pregevole.

Tutto questo non vale per la serie ormai sterminata di geni di nomina e consacrazione politica, una caterva di esperti e consulenti capaci di svolazzare disinvoltamente da un settore ad un altro con risultati catastrofici, senza correre alcun rischio grazie al paracadute, in alcuni casi anche direttamente malavitoso, che li protegge. E la morte decretata del liceo classico, vera e propria palestra neuronale, consegnerà, anzi, sta già consegnando, con la annunciata botta finale dell’eliminazione della traduzione dal latino e dal greco, a chi verrà dopo di noi una società di stupidi, sempre più diretta, con i risultati che è facile immaginare, da una massa di presuntuosi incompetenti e di furbastri  che, pur non riuscendo a far di conto senza usare una calcolatrice …, non smetteranno di considerare l’economia ed il profitto immediato come unico totem. E la furbizia è la forma più perversa d’intelligenza, della quale qualsiasi dio, per chi ci crede, anche quello indiano, avrebbe fatto meglio a non dotarci.

_______

1 Ogni arcade assumeva un nome evocante in qualche modo il mondo classico, soprattutto pastorale.  Meri Foletico fu quello assunto da Andrea Peschiulli (Moeris e Lycidas sono i due pastori che interloquiscono nella IX ecloga di Virgilio, Pholoeticus in latino significa del monte Foloe, in Tessaglia, abitato dai Centauri) e Altisco Rofeatico (Altiscus sembra trascrizione imperfetta, mi sarei aspettato Althiscus, del greco ἀλθίσκον, nome di una specie di malva, da ἀλθαίνω=guarire; Ropheaticus appare come formazione aggettivale latina sul tema ῤωπ- del sostantivo greco ῤώψ/ῤωπός=cespuglio, questa volta con aggiunta dell’aspirazione, che era stata eliminata in Altiscus) quello assunto da Michele Angelo Albrizio, estensore della dedica. Sulla struttura dell’Arcadia ed altri dettagli anche su un altro arcade salentino, non escluso il riferimento alle olimpiadi, vedi  https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/06/antonio-caraccio-nardo-1630-roma-1702-note-iconografiche/.

Carmare e craminare

di Armando Polito

Ogni lingua è un organismo vivente, proprio come chi la usa e, perciò, alcune sue cellule muoiono e si rigenerano in continuazione, perché la natura ha dotato l’organismo di tale capacità; per altre, come i neuroni, la perdita è irreversibile e si potrà sperare, forse, in una parzialissima compensazione da parte degli altri con il loro intervento solidale che comporterà, comunque, un abbandono, quanto parziale è difficile dire, della loro specializzazione. Qualsiasi cellula, poi, può impazzire, per ragioni endogene (patrimonio genetico) o esogene (ambiente) o per entrambe.

Anche il dialetto, che sempre lingua è,  non può sfuggire a questa condanna  e la conclusione cui giunge Pier Paolo Tarsi in  L’antropologia linguistica della memoria narrata: uno sguardo filosofico all’opera di Giulietta Livraghi Verdesca Zain e Nino Pensabene, saggio pubblicato recentissimamente nella rivista di questa fondazione  Il delfino e la mezzaluna, anno IV, nn. 4-5, agosto 2016, pp. 229-256, parrebbe  angosciante per i cultori di ogni dialetto e per chi si adopera a mantenerne e a rivalutarne  l’uso. Pier Paolo osserva come lo scollamento tra il significante (la parola) e il contesto culturale in cui quella parola è nata o al quale essa per lungo tempo si è riferita, magari pure in un’ampia gamma di significati tutti, però, legati al concreto del momento, implica inevitabilmente la sua morte. Tutto vero, anche quando l’autore si spinge ad estendere tale fenomeno dal microcosmo della singola parola al macrocosmo del vernacolo nel suo complesso, rinvenendone la causa sostanzialmente nella fine della civiltà contadina. Ineccepibile, anche se il fenomeno ha da sempre coinvolto ogni lingua, solo che oggi i processi di trasformazione (oggi come allora di natura economica …) sono vertiginosi e mi pare che la filosofia dell’usa e getta inevitabilmente ha finito per prevalere anche nel linguaggio in senso esteso. In passato il malinteso (per chi conosceva l’italiano …) senso d’inferiorità del dialetto si manifestava anche a livello ufficiale con improbabili italianizzazioni della voce dialettale che non aveva corrispondente formale in italiano (emblematico è il caso proposto nel suo saggio da Pier Paolo di Via degli Zoccatori a Copertino; esilarante, poi,a Nardò, il via Scapigliari. di cui ho avuto occasione di parlare in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/01/la-scapece-e-una-forse-indebita-illazione-toponomastica/), con equivoci propiziati dall’omofonia e da parziali congruenze semantiche; vedi nello stesso saggio per carmare l’indebito passaggio dal significato originario di incantare (carmare è  dal calabrese carmu=formula magica, dal latino carmen=formula magica, incantesimo, da cui l’italiano carme, con regolarizzazione della desinenza1 e il francese charme; carmen probabilmente è da un *canmen, da cànere=cantare2)  a quello di calmare, proprio per italianizzazione per influsso (in linguistica incrocio) della voce italiana. E proprio l’etimologia di calmare (da calma, a sua volta dal greco καῦμα=calura; riferimento, dunque, ad una calma climatica contraddistinta da atmosfera secca e cielo limpido) mostra il terremoto semantico che ha sconvolto  il primitivo carmare (che trova il suo corrispondente semantico e parzialmente formale nell’italiano carminare, del quale, a sorpresa, dirò alla fine, anche se la veste esteriore è assolutamente identica). Da quel malinteso senso di inferiorità del dialetto rispetto all’italiano si sta passando oggi ad un malinteso (questa volta lo dice uno che non parla l’inglese, ma lo traduce facilmente e fedelmente con l’aiuto di un semplice vocabolario grazie ad una conoscenza appena sufficiente  dell’italiano, del latino e del greco, di fronte ai quali l’inglese è … non voglio dire che cosa) complesso di inferiorità generalizzato dell’italiano rispetto all’inglese, con l’aggravante che, anche e soprattutto chi ci rappresenta, pur ignorando l’esatto significato di parecchi vocaboli della lingua nazionale (alcuni fino a qualche decennio  piuttosto elementari), esprime i suoi concetti in un italiano che, per quanto riguarda la semplice struttura, ha le sembianze di chi è appena uscito da un grave incidente; in più si presenta costellato con luminosità (?) crescente di vocaboli inglesi, anche quando (e per me questo è un dettaglio fondamentale) non è necessario. Se si pensa poi che in questo mondo lo spirito di emulazione sembra alimentato solo dai modelli negativi, o quanto meno discutibili, e in numerosi casi assolutamente idioti …

A riprova di come la lingua possa geneticamente produrre equivoci, fraintendimenti ed errori, ispirato proprio da carmare, mi accingo ad introdurre  craminare. Prima però debbo dire che il Rohlfs riporta nel suo vocabolario (datato 1976) due lemmi carmare distinti, l’uno col significato di calmare, l’altro di incantare, senza etimologia. Più avanti, però, è riportato il brindisino carmisciari col significato di incantare le serpi e con l’indicazione etimologica dal citato carmen. Debbo dedurre, anche se il Rohlfs non lo scrive esplicitamente, che a carmen si colleghi pure il secondo carmare. Direi, in conclusione di questa fase,  che l’antropologa copertinese abbia corroborato con i dati antropologici raccolti sul campo l’etimo del Rohlfs e non sapremo mai se è stato proprio il filologo tedesco o, come vedremo, qualcun altro a darle l’abbrivio (pardon, l’input …). Anzi, per dare completamente a Cesare quel che è di Cesare, va detto che:

1) il carmisciari rohlfsiano reca la sigla B4 che corrisponde a Francesco Ribezzo, Il dialetto apulo-salentino di Francavilla Fontana, in appendice alla rivista Apulia, v. II-IV, 1911-1912, p. 87. Carmisciari è dal tema carm– di carmare+il suffisso (con valore intensivo-iterativo) –isciare, che è dal latino –idiare (in italiano –eggiare, come in maneggiare), a sua volta dal greco –ίζω (-izo).

2) il carmare rohlfsiano, che è quello che ci interessa più da vicino reca come fonte la sigla L9 che corrisponde a Etimologie neritine nella rivista Giambattista Basile, anno II, 1884, pp. 85-87. In queste tre pagine del neretino Luigi Maria Personè compaiono 15 vocaboli di Nardò ed uno di questi è proprio carmatu, col significato di stregato. A scanso di equivoci mi preme dire che in stregato qui c’è stato un passaggio dal significato passivo tipico di qualsiasi participio passato di un verbo transitivo a quello attivo. Stregato, perciò, è da intendersi non come ammaliato ma come in grado di ammaliare, così come in italiano dotato  (concetto passivo) evolve verso un significato attivo: dotato di poteri  (particolari o meno)  è colui che ha ricevuto il potere (da Dio, per chi ci crede, dalla natura, dagli uomini, dalla credulità popolare …) ma poi  è in grado di espletare sugli altri (concetto attivo) il potere ricevuto.

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La stampa antica raffigura San Paolo; per comprendere la presenza dei serpenti e i rapporti con carmare, che pure possono essere intuiti, consiglio di leggere il saggio di Giulietta Livraghi Verdesca Zain (Tre santi e una campagna, Laterza, Roma, 1994; il lettore più pigro  troverà un estratto del pezzo che ci interessa in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/30/origine-e-discendenza-dei-carmati-ti-santu-paulu/) e quello di Pier Paolo.

Dopo aver detto  che le precedenti  precisazioni non intendono certamente sminuire la grandezza dell’antropologa(salicese di nascita, romana prima e copertinese infine di adozione)  e il metodo magistrale con cui Pier Paolo ha sfruttato il suo taglio antropologico  per dimostrare filosoficamente (con un linguaggio tanto chiaro ed essenziale che credo di aver capito tutto pure io), la sua tesi, dopo aver sottolineato che le stesse precisazioni non vogliono neppure esaltare, in un empito di umano, ma nell’occasione più che mai stupido, campanilismo, il mio concittadino Luigi Maria Personè, passo a craminare.

La voce corrisponde (con sola metatesi car->cra-) all’italiano carminare, sinonimo di cardare, cioè districare le fibre delle materie tessili. Oggi il mercato offre materassi di ogni tipo: a molle, ad aria, ad acqua, di lattice, etc. etc. Fino ad un sessantennio  fa il più sofisticato (e per questo non riservato a tutti) era quello ripieno di lana, che periodicamente, insieme con quella dei cuscini, veniva scompattata e liberata dalla polvere, cioè craminataCraminare è dal latino carmen, omofono del precedente, col significato di pettine per cardare, a sua volta da càrere=cardare.

 

immagine tratta da http://isolana.altervista.org/?page_id=331
immagine tratta da http://isolana.altervista.org/?page_id=331

 

A riprova di quanto affermato da Pier Paolo: c’è da meravigliarsi se ormai solo qualcuno prossimo a diventare centenario ricorda (arteriosclerosi permettendo …) la parola ed il suo significato?4

E, d’altra parte, è perfettamente normale che la parola non sia non dico usata ma neppure ricordata da chi non ha vissuto quell’esperienza femminile del tempo che fu, nemmeno evocata, in chi osserva una foto antica o una recente ad uso e consumo dei turisti o un presepe,  vivente o no.

immagine tratta da https://www.rivieraoggi.it/2005/01/03/9075/presepe-vivente-di-grottammare-le-foto/
immagine tratta da https://www.rivieraoggi.it/2005/01/03/9075/presepe-vivente-di-grottammare-le-foto/

 

Fra poco, con le fibre sintetiche e con l’utilizzo sempre più ridotto della lana destinata a prodotti di nicchia, perciò costosissimi (amara rivincita della civiltà contadina …), anche l’italiano carminare diventerà obsoleto. Resterà, invece, in vita [Tromba ti culu sanitate ti cuerpu (tromba di culo salute del corpo) recita la traduzione salentina di uno dei principi della scuola medica salernitana], favorito dalla sua natura tecnico-specialistica (e dalle multinazionali del farmaco …), carminare (da cui l’aggettivo carminativo) che significa  promuovere l’eliminazione di gas dall’intestino; ho detto omofono, perché esso non è dal secondo carmen (pettine per cardare) ma dal primo (canto) messo in campo per carmare, con riferimento alle formule magiche che in passato, direi di regola nella medicina popolare, accompagnavano i medicamenti.5

Più in bellezza di così non potevo chiudere …

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1 Nell’immaginario grammaticale contadino salentino –u ed –a sono, rispettivamente, le desinenze del singolare maschile e femminile (così è anche in italiano per la gran parte delle parole, le quali derivano dalla prima, seconda e, per i maschili, dalla quarta declinazione latina). Qui la regolarizzazione è stata estesa ad un sostantivo derivante dalla terza declinazione, con carmen>carme>carmu.

2 Per analogia di formazione con fulgère=brillare>*fulgmen>*fulmen (=fulmine); lucère>=splendere>*lucmen>lumen (luce) o flùere=scorrere>flumen (fiume) o sèrere (seminare)>*sermen>semen (seme), etc. etc.

3 Il valore dei suoi studi secondo la mia, pur modestissima, opinione non ha trovato fino ad ora,  anche da parte degli addetti ai lavori, il dovuto riconoscimento  e addolora il cuore prima ancora che la mente pensare al destino delle sue ricerche rimaste manoscritte ed amorevolmente custodite dal marito Nino Pensabene, scomparso anche lui, quasi tre anni fa. E su Nino mi piace sadicamente (per le osservazioni che farò, anche se a  qualcuno posso sembrare blasfemo; ma lo faccio anche, forse soprattutto, per questo …) riportare quanto si legge in Umberto Eco, Il costume di casa, evidenze e misteri dell’ideologia italiana degli anni sessanta, nel capitolo intitolato L’industria del genio italico, Bompiani, Milano, 1973, s. p. : Il piacere si fa ricco di informazioni quando si leggano poi in quotidiani o settimanali a diffusione non esattamente nazionale lunghe cronache, ad esempio, di sessioni dell’Associazione internazionale di poesia, dove alla presenza di note personalità del mondo letterario (cito da una cronaca: “Comm. dott. Armando De Santis e signora Velia, prof. Mario Rivosecchi, Donna Acsa Balella, dottor Nino Pensabene, eccetera”) l’attrice Maria Novella dà lettura delle ultime liriche di Lorena Berga fattori (Ad ogni ora che passa) definite dall’oratore ufficiale affini per certi versi alla lirica leopardiana e rispondenti al dettame del Croce secondo cui “la poesia è verità”.

Un quadro sarcastico in cui Nino (a meno che non si tratti di un omonimo) appare come una delle tante marionette che, loro sì, sembrano popolare certi cenacoli o, per scendere più in basso, certe manifestazioni editorial-pseudo  culturali di oggi,  in cui il recensore di turno si abbandona senza pudore a giudizi reboanti, sempre entusiastici,  e magari non ha letto nemmeno la metà della pubblicazione oggetto del suo intervento. Umberto Eco, prima di far esplodere il suo solito sarcasmo, che in più di una circostanza, non solo qui, sconfina nella pura supponenza, avrebbe fatto meglio a trarre qualche informazione sui personaggi nominati. Quello che segue, però, è, secondo me, più interessante e indicativo di quanto ho appena detto.

In queste occasioni, nelle pagine delle riviste citate, e nei volumi a cui le riviste rimandano, raro è trovare scrittrici che portino nomi brevi e banali come Elsa Morante, Anna Banti, Gianna Manzini. Le poetesse hanno sempre due cognomi, come le professoresse di matematica, e si chiamano Alda Mello Caligaris, Antonietta Damiani  Ceravolo, Maria Pellegrini Beber, E. Ghezzi Grillini (per citare i nomi più recenti del catalogo Gastaldi), oppure Giselda Cianciola Marciano (autrice delle liriche Polvere di stelle), Antonietta Bruno di Bari (Azzurro Corsiero), Carlotta Ettorè Tabò (Sinfonia di vita e di morte), Edvige Pusineri Chiesa (Mesti palpiti).   

– Capra! – avrebbe detto Vittorio Sgarbi – mi citi questo carnoso popò (non po’ po’ …) di nomi e dimentichi Giulietta Livraghi Verdesca Zain? -.

Qui, secondo me, la spocchiosità ha ceduto alla paura che la salentina, leggendo, gli rispondesse a tono, riscuotendo gli interessi anche per il marito …

4 Ancor meno probabile che una madre dica al figlio che si appresta ad uscire – ‘Ddo’ sta’ bbai tuttu  scramignatu? – (Dove stai andando tutto spettinato?), anche perché quella spettinatura, d’autore, è costata alla famiglia, orgogliosa del figlio alla moda, un occhio della testa … Scramignatu è, anzi è stato …, participio passato di scramignare, che è da *excramineare, composto da ex privativo+cramineare, per metatesi da *carmineare, a sua volta da carminare.

5 Tuttavia per Walther von Wartburg anche questo carminare si ricollega a carmen=pettine per cardare, quasi fosse un’operazione di districamento dell’intestino. E io aggiungo, senza per questo avanzare preferenze definitive, che carmen (pettine per cardare) da càrere (cardare) mostra una formazione più regolare e scorrevole (ma può non significare granché)  rispetto a quella indicata nella nota precedente, in cui solo flumen non presenta, come in questo caso càrere>carmen, il passaggio in più.

Mezzelune fertili nell’orto dei TU’RAT

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di Daniela Liviello

Il Salento è territorio ad alto rischio desertificazione ma è percorso da venti che, attraversando il Mediterraneo, si caricano di umidità preziosa per imbevere i terreni aridi.

I TU’RAT, costruzioni arcaiche in pietra a secco, dati orientamento e forma a mezza luna, catturano il vapore dei venti di libeccio e scirocco che, condensando, penetra la terra rendendola fertile e produttiva senza emungimento meccanico del sottosuolo che, oltre tutto, darebbe acqua ormai fortemente salmastra dato l’elevato sfruttamento agricolo.

Nell’orto dei Tu’rat, magico luogo risonante di antiche, benefiche vibrazioni, sono presenti dodici mezzelune in pietra a secco, cioè senza uso di malta o altri materiali collanti dette, appunto, Tu’rat e conosciute già in tempi remoti da abitanti di terre aride che così hanno potuto realizzare oasi, frutteti e giardini verdeggianti.

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Il Salento è quasi interamente percorso, nelle campagne, da muretti a secco che delimitano i poderi e segnano le vie campestri con le loro merlettate geometrie; notiamo alla base o fra le pietre crescere e verdeggiare infinite varietà di erbe e piante spontanee. Le mezzelune dei Tu’rat amplificano il potere assorbente data la particolare porosità della pietra di Alessano utilizzata per la costruzione, pietra che è la risulta dello scavo per la realizzazione, nel secolo scorso, dell’acquedotto pugliese quindi ancor più l’orto è un ecosistema altamente sostenibile.

Obiettivo dell’orto è il miglioramento dell’equilibrio ambientale attraverso la semina e la piantumazione di specie autoctone che non richiedono utilizzo eccessivo di acqua, difesa del territorio e riqualificazione dell’incolto.

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Il parco culturale-agricolo-ecologico è situato in agro del comune di Ugento ed accoglie il visitatore con la bellezza di uno scenario incantato dove le fate sembrano armonizzare silenzio e lentezza al riparo delle fantastiche dodici mezze lune in pietra che, sotto i cieli estivi, diventano sipario per le più svariate forme d’arte, dalla poesia alla musica al teatro alla danza.

 

Il terremoto della memoria

di Armando Polito

Ho pensato a lungo prima di scrivere queste poche righe e, soprattutto, di dare loro un titolo. in cui memoria non riguarda solo il patrimonio culturale perduto.  Poi, ripensando a quante volte ho contestato al buon Cicerone la massima historia magistra vitae (la storia è maestra di vita), tutto è diventato, anche se dolorosamente, più facile.

La guerra sembra essere una maledizione da sempre (credo ben prima dei tempi di Caino) alitante sul genere umano e, non vorrei sembrare blasfemo, siamo arrivati, noi umani, al punto di sviluppare a modo nostro, con la nostra miserabile intelligenza, la condanna della genesi a guadagnarci il pane col sudore della fronte. Infatti, accanto ai vecchi ed ai nuovi schiavi, c’è stata da millenni, e continua a proliferare e, purtroppo, a prolificare, una massa diparassiti, più immondi degli originali bestiali, che col sudore degli altri ruba il pane e tutto il resto …

Sarebbe ormai tempo  che Dio, per chi ci crede, essendo per definizione somma bontà,  non facesse nascere chi non è destinato a scontare, e su questa terra, la sua condanna, anche se, probabilmente, la mia stessa vita, per qualcuno, è prova della sua contraddizione (mi sento un privilegiato, prima per essere  nato e poi  per essere andato in pensione a 56 anni …).

Ma lo stesso Dio che, si dice, ci ha dotato di intelligenza (tuttavia, faccio presente che le cosiddette bestie lottano solo per la sopravvivenza, il cosiddetto istinto di conservazione, non per quello di rapina e di accumulo), non farebbe meglio, ogni tanto, a farla funzionare meglio?

Ritornando al titolo, come non pensare agli avvoltoi che anche di fronte alle tragedie non esitano a spiccare il loro osceno volo? Non mi riferisco tanto agli sciacalli di piccolo cabotaggio (non per questo rispettabili …)1, che, magari, entrano in azione prima  dei, pur tempestivi nei limiti dell’umano ed eroici soccorritori, bensì a quelle vere e proprie associazioni a delinquere (il singolo non può farcela da solo e, nel caso in cui fosse beccato, non potrebbe certo ricorrere al collaudato gioco del palleggio delle responsabilità …) che su queste tragedie hanno, anche in tempi recenti, agito, per lo più impunemente, a spese del buon cuore prima e del portafoglio poi del contribuente.

Non serve attribuire ogni colpa alla politica, perché lo stato, in termini poveri il governo di turno, siamo noi. Se, invece di ricorrere alle conoscenze, alle raccomandazioni, alle protezioni, al clientelismo e al favoritismo ognuno di noi si munisse, prima dell’incontro fatale, di un semplice registratore, forse la magistratura avrebbe un bel po’ di lavoro in più che ascoltare intercettazioni per le quali gli avvocati potrebbero trovare e trovano, grazie a leggi che, già nel testo appaiono  come un’invereconda miscela di furbizia e di ignoranza, le giustificazioni più esilaranti e, forse, qualcosa cambierebbe.

Ho ribadito spesso, anche in questo blog,  che minister in latino significa servitore e non a caso deriva da minus=meno+il suffisso -ter che indica la contrapposizione fra due, per cui il minister di fronte al magister (da magis=più+-ter) è poco più che nessuno (tanto più che il popolo è sovrano, concetto che implica, almeno in termini di potere, superiorità rispetto a maestro) e nulla cambia, se non in termini di responsabilità, per il presidente del Consiglio dei ministri, anche per quello mai tale per volere del popolo …

Programmi disattesi, parole roboanti, promesse non mantenute sono i puntelli, volta per volta, di un potere che mira solo al consenso, cioè a perpetuarsi, fottendosene del bene comune.

Così, le parole previsione e prevenzione sono state da tempo ormai immemorabile espunte da quel miserabile vocabolario che solo i politici conoscono, in cui la parola chiave è compromesso, ma solo a favore immediato, a breve o a lungo termine di una parte, mentre l’altra è all’oscuro di tutto (w la democrazia!), cosa che solo un demente potrebbe immaginare per un contratto tra privati …

Passi per la previsione che nella semplice stesura di una legge dovrebbe essere fondamentale per evitare successive contestazioni di inadeguatezza, ma io trovo semplicemente vergognoso che, in occasione del recente tragico evento, si stia ancora a discettare, da più pulpiti più o meno autorizzati, del concetto banale di prevenzione, quando, per restare in tema, basti pensare, nel campo della sanità, alle liste d’attesa per una semplice mammografia, naturalmente in struttura pubblica …), nonostante  le ritenute Irpef, le addizionali regionali, provinciali e comunali (fra poco mi aspetto quelle di quartiere) e, non ultimo, il ticket sulle prestazioni.

Eppure, per quanto riguarda i terremoti, basterebbe tener conto di quanto dicono gli esperti (non i consulenti …) ed evitare processi inutili che, in occasione del terremoto dell’Aquila, hanno coinvolto pure gli scienziati, rei di non aver dato l’allarme (ma, se l’avessero dato a vuoto …, sarebbero stati incriminati per falso allarme …).

I terremoti, hanno ribadito gli esperti, non sono predicibili (nemmeno le Sibille potevano tanto), ma prevedibili, nel senso che, ad intervalli nemmeno regolari  (comunque, non predicibili al decennio e nemmeno al secolo) certe zone sono particolarmente esposte a questo evento naturale.

Dalle pagine di questo blog ho più volte fatto riferimento a pubblicazioni antiche e Dio solo sa quanto in questa circostanza ne avrei fatto volentieri a meno. Anche i sismologi devono fare i conti con la storia e anche per i loro studi sono di primaria importanza la fonti. Per questo non ignorano certamente la relazione di Carlo Tiberij Romano risalente a più di 300 anni fa, della quale riproduco l’eloquente frontespizio.

La relazione è integralmente leggibile in https://books.google.it/books?id=RYNmAAAAcAAJ&pg=PP6&dq=del+terribile+e+spaventoso+terremoto&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwi547ve1dzOAhUF1xQKHTpJA8IQ6AEILzAD#v=onepage&q=del%20terribile%20e%20spaventoso%20terremoto&f=false.

Non possono non colpire, al di là del distretto interessato, le parole per memoria d’un Caso così miserando, e lagrimevole, tanto più che la tecnologia oggi offre strumenti, anche preventivi, ben più avanzati.

Almeno per quanto riguarda i nostri rapporti con gli eventi naturali (per quelli umani il mio scetticismo è totale …) facciamo sì, dipende anche e soprattutto da noi cittadini, che la massima ciceroniana non sia totalmente priva di significato concreto.

E non mi meraviglierei se qualche politico più imbecille della media, riprendendo l’antico concetto ribadito nella relazione citata, affermasse che quelle sventurate popolazioni se la sono cercata con i loro peccati …

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1 Un caso, da accettare con beneficio di inventario, di sciacallaggio travestito da devozione? Leggo in Angelo Maria De Rossi, Vita del venerabile servo di Dio Padre Giuseppe da Leonessa predicatore cappuccino, Scionico, Genova, 1695, p. 393-396: Correa l’anno del Signore 1639, el ventisettesimo della morte del P. Giuseppe, quando nel mese di Settembre fu l’Amatrice, e suo Contado travagliata da scosì frequenti, et orribili terremoti, che ognuno di quei popoli abbandonata la propria casa, per non restare in un punto medesimo morto, e sepellito sotto le sue rovine (giacchè molti edifici non resistendo alle scosse troppo violenti, diroccavano) si era ridotto ad abitare in campagna scoperta, ò al coperto semplicissimo de’ padiglioni, e rami d’alberi: e li frati Cappuccino della sopradetta  Terra dimoravano ancor essi pel medesimo timore notte, e giorno nel giardino del Convento; tutt’insieme applicati al solo pensiero di salvare la vita. Tutto questo arrivato all’orecchio di quelli di Leonessa, non trascurarono l’occasione di tentare l’effetto di quelle mire, c’havevano già per tanti anni nodrite; cioè di tirarsi nella loro patria il corpo del suo caro Concittadino P. Giuseppe: al qual fine adunarono in un segreto congresso alcuni de’ più principali del luogo, la discorsero insieme così … Tutta l’Amatrice co’ suoi contorni trabalzata da’ terremoti, sta in confusione; tutta stordita per la perdita, che va facendo delle case, e de’ mobili; tutta vive raminga nelle foreste; ed i cappuccini si sa, che non entrano più in Chiesa nè meno  per celebrarvi una Messa: tutti, e solamente applicati a placare l’ira divina con lagrime, orazioni, e flagelli; ritiratosi ognuno nelle parti più rimote dell’orto. Questo in somma è quel tempo, in cui possiamo ricuperare senza cimenti il Tesoro, che tutto il nostro popolo da più anni sospira. E se cadesse la Chiesa, e il Monastero di quei religisi, a che stato si ridurrebbero quelle Sacre Reliquie? Non sarebbe dal Tribunale Divino imputato a nostra empietà l’haverle noi lasciate stritolare sotto la mole di dirupate pareti; quando a noi più che ad ogni altro, s’apparteneva per ragione della stessa natura il zelarne la sua intera salvezza? Facciamo dunque così: mandiamo all’Amatrice huomini di buon coraggio, fedeli, ed atti all’impresa: vadano di notte, e fuor di strada, acciocchè non traspiri all’Amatrice il loro viaggio; e vadino ben armati, per difendersi in caso d’incontri; ma confidati sopra ogni cosa nella divina assistenza, da cui dovranno sperare felicissimo l’esito del nostro pietoso disegno; rapiscano, se vien loro fatta, e trasportino qui quel sacrato Cadavero, che noi intanto non mancheremo d’accompagnare con le divote orazioni di tutto il popolo l’opera loro ….

Chi ha interesse a sapere come andò a finire può soddisfare la sua curiosità al link già segnalato facendo scorrere il testo fino  a p. 396.

 

 

 

L’Inferno di Dante ed il mosaico di Otranto tra Federico II e Bianca Lancia

PREMIO SCÒLA FEDERICIANA 2016

al Teatro Romano di Lecce con uno spettacolo di

Pascal Pezzuto e Lara Carrozzo

 

Foto Pascal Pezzuto e Lara Carrozzo

Sarà l’originale performance “L’Inferno di Dante ed il Mosaico di Otranto tra Federico II e Bianca Lancia”, ideata ed interpretata da Pascal Pezzuto e Lara Carrozzo per la regia di Marianna Murolo, a caratterizzare la prima serata del “Premio Scòla Federiciana 2016”, che si terrà presso il Teatro Romano di Lecce venerdì 9 settembre p.v., con inizio alle 21,00.

Lo spettacolo, già presentato con successo di critica e di pubblico il 17 agosto scorso nel borgo medievale di Roca Nuova (Melendugno-Le), sintetizza e spettacolarizza i contenuti del Premio, alla sua quarta edizione, assegnato quest’anno all’unanimità al Dr. Prof. Salvatore Cosentino, Sostituto Procuratore della Repubblica di Locri, “per aver promosso, nelle sue eccellenti conferenze-spettacolo, la Lingua degli Italiani”.

Il comitato scientifico, presieduto dal Prof. Luigi Melica dell’Università del Salento, è composto anche dalla Dr.ssa Tiziana Grassi, giornalista e scrittrice, dall’Avv. Carlo Ciardo, dal pittore Prof. Vanni Rinaldi e dal Dr. Luigi Mazzei, esperto di comunicazione. La funzione del Premio, patrocinato e sostenuto economicamente dalla Regione Puglia e dalla Presidenza del Consiglio della Città di Lecce in persona del Dr. Alfredo Pagliaro, è di riportare presso la corte di Federico II, prima della nascita di Dante Alighieri, le origini della lingua italiana, nata in volgare siculo-calabro-salentino.

L’evento è a cura di Khàrisma Cineproduzioni, l’ingresso è libero.

brochure fronte 1

brochure retro 2

*Khàrisma Cineproduzioni

via Trieste 4 – 73018 Squinzano (Le)

cell. 339.3338061 cell. 340.0684414

email: kharismaproduction@libero.it

I 150 anni del faro: guardiano di Gallipoli

Isola_di_Sant'Andrea,_Gallipoli

di Giuseppe Massari

150esimo anniversario del faro di Gallipoli. Infatti, dalla sua prima accensione sono trascorsi ben 150 anni: e così la città, dal 24 agosto scorso e fino alla fine dell’ anno, dedicherà più di 4 mesi ai festeggiamenti in onore del suo faro.

Un pezzo di storia, tra passato e presente, che illumina la costa ionica regalando panorami suggestivi anche di notte. Il guardiano del litorale, riferimento che ha dato sicurezza a pescatori e non, con la sua “lampada” capace di illuminare sino a 20 miglia marine, da sempre musa ispiratrice di artisti e di scrittori, sarà inondato di ricordi e di celebrazioni. Per ricordare questo importante traguardo, anche noi non vogliamo essere da meno. Lo facciamo affidandoci alla storia, più precisamente alla penna di Enrica Simonetti, autrice di: “Lampi e splendori: Andar per fari lungo le coste del Sud”, Editori Laterza – Banca Carime Gruppo Intesa, Prima edizione, ottobre 2000”. (G.M)

FARO GALLIPOLI

“Gallipoli non è una città sul mare, ma nel mare. E il suo faro ha la stessa identità: poggia su un isolotto brullo e piatto che, visto dalla terraferma mettendosi di spalle alla chiesa della Madonna della Purità, sembra raggiungibile a nuoto, con poche bracciate. La lanterna accesa, di notte, è l’unica luce visibile di un orizzonte che scompare, quasi una seconda luna che si cala nell’acqua, una luna bizzarra che appare e scompare, secondo i ritmi del linguaggio del faro. Tutta l’Isola di S. Andrea, piede della torre bianca, di giorno sembra senza colori. O meglio, cambia la sua “pelle” rubando le tinte del sole, del tramonto e del cielo; apparendo prima gialla, poi rosa e infine, al calare della luce, bluastra. Anche la torre del faro sprofonda in questa sorta di non-colore, con la sua pietra cangiante e magica, pietra porosa salentina che assorbe ogni bagliore trasformando il bianco in oro e riflettendo il calore del sole. Al faro, edificato nel 1865, si arriva solo in barca, sicchè, quando soffia vento forte, le onde ricoperte di spuma rendono difficile l’approdo. La torre sormonta la casa spaziosa che un tempo era abitata dai faristi “isolani”, confinati in questo meraviglioso esilio diviso dalla terraferma di uno scoglio sul quale approdano solo gabbiani e forse per questo chiamato da qualcuno la “roccia dei piccioni”. La vita al faro S. Andrea non è mai stata facile, il mare circonda lo scoglio in ogni anfratto e – per quanto suggestivo – il giro attorno al faro dà subito l’impressione di una visita in un lungo surreale, separato dalla realtà e dalla frenesia della città posta di fronte, a poche remate dalla torre. Due e, a volte, anche tre famiglie di faristi hanno vissuto in questo isolotto durante il secolo scorso, riempiendo di voci e profumi la casa bianca ora disabitata; negli anni Sessanta, i bambini in età scolare presenti al faro erano sette e si pensò di risolvere il problema dei continui e vorticosi spostamenti sulla terraferma con la creazione di una scuola in loco. Nacque così (nei tempi in cui Internet e i possibili sistemi tele-scuola non erano nemmeno una fantasia) un’aula che poteva sembrare un fumetto, circondata solo dal mare, con le mura battute dai venti e risuonanti della buona volontà di una maestra, figlia di pescatori, che veniva accompagnata in barca per le lezioni quotidiane. In alcuni periodi, quando il tempo impediva i collegamenti, l’insegnante restava al faro, negli alloggi di servizio, e concludeva la sua giornata di lavoro tra quei bambini isolati ma felici, cresciuti tra i conigli, i granchi e gli scogli. Uno di questi alunni della scuola al faro ha scelto da anni la sua strada: fa il farista a S. Cataldo, la torre di Bari, dove vive con moglie e figlio. A proposito delle donne dei fari, a questo punto è doveroso aprire una parentesi. Tanto spesso si parla genericamente di famiglie di faristi, ma è importante sottolineare il sacrificio di tante madri e mogli, capaci di organizzare la vita sotto le torri, con le piccole e grandi cose di ogni giorno: dalle conserve preparate in casa per affrontare l’inverno, agli approvvigionamenti misurati e calcolati con precisione. Le donne dei fari sono stae (e sono) attente “comandanti” o provette cambusiere, quasi marinaie senza gradi. Qualcuna confessa di odiare la salsedine che incrosta continuamente i vetri delle case, altre raccontano di essere andate in città e di essersi perse nella terribile confusione della vita “degli altri”. L’Isola di S. Andrea racchiude in sé il fascino del mondo lontano dal resto, tanto che anche la bellezza di Gallipoli assume un’altra ottica, se vista da questo scoglio. Affascina il blocco della città che sprofonda nel mare, acceca lo sguardo – nelle giornate di sole – il giallo ocra della spiaggetta della Purità, con i resti dell’antico fortino, memoria del perenne tentativo di difesa del borgo antico. L’isola del faro, in questo senso, ha sempre fatto da sentinella, un avamposto aperto ai venti e ai tanti attacchi che venivano dal mare: questo scoglio è la prima striscia di terra che appare a chi si avvicini via mare a Gallipoli. Nell’antichità, sono stati in tanti ad abitare successivamente il borgo, la costa sabbiosa e dolce, che affascinò o Messapi, le legioni di Roma e poi fu attaccata da Vandali e Goti e, infine, presa da Saraceni e Normanni. In città le tracce lasciate dai popoli invasori sono in parte visibili, tanto che questo centro del sapore barocco, in cui si tocca il calore della pietra leccese, rivela in molti angoli le sue numerose identità. “Città dentro il mare, circondata dai suoi bastioni come un bambino nella carriola, ha scritto di Gallipoli Cesare Brandi.( Cesare Brandi, Pellegrino di Puglia, Editori Laterza, Bari 1960. N.d.r) E quel mare che si insinua tutto intorno è il liquido amniotico on cui è cresciuta parte importante della civiltà salentina. Proprio il nome del popolo, Sallentini, secondo Varrone, deriva dal mare: Salentini perché avevano fatto amicizia in mare, “in salo”, spiega. E gallipoli, terra di conquiste, conserva l’etimologia greca nel nome romatico di “Città bella” (volgarizzazione di kalè polis ) che, secondo una leggenda, si deve a un amore tragico: quello sbocciato in un principe greco, di ritorno in Salento dopo l’ennesima guerra, per una bellissima fanciulla, la quale si sottrasse a lui scomparendo nel nulla per volere di Venere e in segno di punizione per i tanti massacri compiuti. Il principe, assecondando il volere degli dei, volle alla fine seppellire la sua amata in una terra che prese il nome dalla beltà della ragazza, diventando appunto “città bella”. Un’altra donna, ricordata nel folklore e nelle leggende gallipoline, è la martire santa Cristina, quella che uscì ondenne anche dal supplizio dell’acqua bollente: la notte di ogni 24 luglio, per la sua festa, un corteo di barche – con la caratteristica arrampicata sul palo proteso sul mare – rompe la tranquillità dell’Isola di S. Andrea. Poi,a gara conclusa, le luci si spengono e sull’isolotto torna il silenzio, rotto solo dal fascio di luce del faro e dal saltellare di qualche pesce” (Enrica Simonetti).

Antonio Bruni (1593-1635) da Manduria e il suo campione di vendite.

di Armando Polito

Probabilmente, se invece di campione di vendite avessi scritto best-seller, mi sarei assicurato maggiore interesse da parte del lettore medio felicemente ingolfato nel mare magnum degli anglicismi ma nello stesso tempo qualche rimprovero da chi, medio o no, è costretto da quando ha cominciato a leggere i miei contributi, a sorbirsi prediche contro l’asservimento linguistico (il guaio, poi, è che subentrano asservimenti di altro tipo, in primis quello economico …) alla perfida Albione.

Se il successo di un autore si misura dal numero di copie vendute, credo che l’autore salentino nominato nel titolo detenga un record difficilmente superabile, di fronte al quale impallidiscono i milioni di copie vendute nei nostri tempi, a mio parere millantati (tant’è che nemmeno la Guardia di finanza ci casca operando qualche controllo …).

Oltretutto è da tener presente che nel periodo in cui si svolse la vita, piuttosto breve, del nostro, il libro non godeva certo degli innumerevoli canali di lancio di cui gode oggi e restava, tutto sommato, un prodotto di nicchia destinato a pochi eletti, anche dal punto di vista economico.

Il taglio particolare di questo post, che privilegia l’aspetto editoriale, non mi esime dal ricordare in linea generale che quelli considerati ed etichettati come  minori spesso superano il loro maestro in un particolare settore produttivo (il nesso è brutto, ma è così consono ai nostri tempi …). Ciò vale anche per il nostro in rapporto al genere letterario dell’epistola eroica che nel periodo barocco tirò (anche nel senso che la tiratura fu notevole …) alla grande. Nulla di nuovo , perché molti secoli prima già Ovidio aveva scritto le sue Heroides (alla lettera Eroine), cioè ventuno  lettere immaginarie, sedici delle quali scritte da eroine ai loro uomini e sei articolate nella lettera dell’eroine e nella relativa risposta dell’innamorato).  Mi piace ricordare che, prima dell’avvento dei moderni strumenti di comunicazione anche scritta, fino alla metà del secolo scorso ebbero grande successo le varie edizioni di lettere d’amore preconfezionate note sotto il nome di Segretario galante. Tra i tanti vantaggi dell’informatica non è da sottacere il fatto che per chi è alfabetizzato in tal senso non è difficile, grazie ai motori di ricerca, controllare l’originalità o meno di certe espressioni (e non mi riferisco solo alle frasi d’amore … visto che qualcuno per un copia-incolla non dichiarato ha dovuto rinunciare alla carica di ministro; naturalmente non in Italia dove per un ruba e intesta a un prestanome o  trasferisci in un paradiso fiscale tutt’al più, male che ti vada, vieni trasferito ad altro incarico con retribuzione maggiore.

Tornando al Bruni, va detto che non è casuale e da sottovalutare il giudizio lusinghiero del maestro della letteratura barocca, Giovan Battista Marino. Allora il merito era riconosciuto senza difficoltà anche dalla concorrenza, anche da un “barone”, anche quando si trattava di appoggiare la raccomandazione non diretta, ma di suo fratello. In una lettera indirizzata dal Marino al cardinale D’Este, cui Antonio aveva chiesto un incarico per il fratello Francesco così si legge:  … Il Sig. Antonio Bruni tratta in Napoli d’impetrar dall’Eccellentissimo Sig. Duca d’Alba un governo per il Sig. Francesco suo fratello; e perché sa quanto vagliano appresso  Sua Eccellenza l’intercessioni di V. S. Illustr. perciò non potendo egli stesso venir da lei, per trovarsi gravemente ammalato, m’ha fatto richiedere, ch’io le porga le mie più affettuose suppliche, accioche si degni scrivere à quel Vice Rè una lettera altrettanto calda, per il suddetto interesse, quanta è viva la fede che s’ha nell’ufficio di V. S, Illustriss. Ella sa i meriti del sig. Bruni, quando non meritasse per altro il patrocinio d’un Principe suo pari, nel renderebbe meritevolissimo l’esser un de’ primi ingegni, che oggi compongano, e riverente con singolar ossequio della sua Serenissima Casa in ogni età protettrice degli spiriti elevati … 1

Il riconoscimento del merito letterario del Bruni appare evidente in un’altra lettera:  … Io sempre dissi dopo il mio ritorno da Parigi a Roma, che le Poesie di Vostra Signoria erano tutte spirito, e che quanto ella s’allontanava dalla strada battuta de’ Poeti  non meno critici, che stitici, tanto più rendeva glorioso il suo nome. Mi stimola a farne questa nuova testimonianza per lettera, l’occasione, che me n’ha presentata Vostra Signoria con l’inviarmi la Canzone in morte del Serenissimo Principe Filiberto, il quale viverà vita immortale nella fama delle sue opere magnanime, e nella eternità delle rime Heroiche di Vostra Signoria …2

Eppure in una lettera precedente il Marino non era riuscito a nascondere il suo disappunto per essere stato bruciato sul tempo. Anche lui, infatti, aveva in progetto la pubblicazione di epistole eroiche e tuttavia non stronca, come pure avrebbe potuto fare, l’epistola di Venere ad Adone che il Bruni gli aveva inviato in visione: Honora troppo Vostra Signoria il mio Adone3, mentre ne cava argomento per una delle sue lettere Heroiche, et io pago poco il mio debito, mentre ne la ringratio con due belle parole. Ma s’io per la stima singolare, che fò de’ parti nobilissii del suo ingegno, e per l’obbligo, che professo all’amor, ch’ella mi porta son già divenuto tutto suo, non sò che possa di me prometterle  altro. Lodo il capriccio, e la sua rissolutione d’introdur Venere, che scriva ad Adone, dopo che questi si trova in poter di Falsirena. E certo, che la lettera hà più concetti, che caratteri, et è così in ogni sua parte vezzosa, e leggiadra, come tutto vezzo, e leggiadria è l’istessa Venere. Veggo i luoghi imitati da’ Greci, e da latini, in particolare da Claudiano, ch’è il favorito di Vostra Signoria; e mi piacciono oltre modo quei brilli di poesia viva. I Poeti, che dettano rime senza vivezze fabricano cadaveri non poesie, e sono degni più tosto del titolo di Beccamorti di Parnaso, che di Cigni d’Ippocrene. Ma passiamo ad altro … 4

E, a proposito di concorrenti leali, riporto tre sonetti ed un madrigale che al Bruni dedicò Alfonso Confidati di Assisi, membro dell’Accademia degli Umoristi e dei Fantastici di Roma (di quest’ultima faceva parte pure il nostro manduriano) nelle sue Poesie, Tinassi, Roma, 1681, s. p.

Torno ora alle Epistole Heroiche come fenomeno editoriale. Per lo più i moderni campioni d’incasso sono anche loro vittime della voracità con cui il pubblico accoglie certe novità e per imporsi sulla concorrenza anche i colpi bassi sono leciti. Non così per l’opera del Bruni che conobbe un’invidiabile longevità di mercato e sbaragliò la concorrenza, e non solo quella italiana, perché la moda delle epistole eroiche durò per lungo tempo in tutta Europa5, ma nessuno può vantare i suoi numeri.

Prima di addentrarmi in questo specifico  mi soffermo brevemente sui suoi due teorici antagonisti italiani più rappresentativi. Il primo è il veneziano Pietro Michiele (1603-1651) autore di Il dispaccio di Venere. Epistole heroiche, & amorose, Appresso li Gueriglii, Venezia, 1640, con venti incisioni, alcune firmate Io. Georgi (di seguito il frontespizio e l’antiporta). L’opera ebbe una ristampa presso lo stesso editore nel 1655.

Il secondo è il napoletano Lorenzo Crasso (1623-?), autore di Epistole eroiche, Baba, Venezia, 1655,  ristampato nel 1665. Edizioni successive uscirono per i tipi di Combi, & La Noù a Venezia nel 1667 e nel 1678 e per i tipi di Lovisa, sempre a Venezia, nel 1720. La prima edizione (di seguito l’antiporta) e solo alcune delle successive sono corredata di 15 tavole.

Prima s’è detto del giudizio lusinghiero del Marino nei confronti del Bruni. Com’è noto, il Marino morì nel 1625, quindi non ebbe il tempo di leggere le opere del Michiele e del Crasso e nemmeno le epistole del Bruni stampate , ma, se il destino glielo avesse concesso, molto probabilmente avrebbe esteso alle altre il giudizio positivo espresso, come abbiamo visto, per quella di Venere ad Adone e, quindi, tributato  al Bruni quella palma che unanimemente, rispetto a questo genere letterario,  la critica ha continuato ad attribuirgli.

Non sempre il successo di un’opera coincide col giudizio positivo della critica. Questo non vale per il poeta di Manduria . A testimoniarlo basta e avanza  l’elenco delle edizioni.

Facciotti, Roma, 1627

Malatesta, Milano, 1627 (ad istanza di Donato Fontana)(incisioni di Giovanni Paolo Bianchi)

Baba, Venezia, 1628 (le calcografie sono di  Paolo Guidotti detto il Cavalier  Borghese, Giuseppe Cesari d’Arpino, Cesare Baglioni, Giovanni Valesio, Domenichino, Guido Reni) (1 esemplare a Manduria nella Biblioteca comunale Marco Gatti)

Oddoni, Venezia, 1634

Mascardi, Roma, 1634 (ad istanza di Alessandro Lancia) (1 esemplare a Manduria nella Biblioteca comunale Marco Gatti)

Scaglia, Venezia, 1636

Turrini, Venezia, 1644

Turrini, Venezia, 1647 (ad istanza di Honofrio Rispoli libraro)

Mascardi, Roma, 1647 (a spese di Alessandro Lancia) (1 esemplare a Manduria nella Biblioteca comunale Marco Gatti)

Turrini, Venezia, 1663

Zenero, Bologna, 1663

Curti, Venezia, 1678

Milocho, Venezia, 1697 (1 esemplare a Manduria nella Biblioteca comunale Marco Gatti) (a Taranto una copia digitalizzata presso la Biblioteca civica Pietro Acclavio)

Palmiero, Venezia, 1720

Milocho, Venezia, 1720

 

Sarebbe troppo lungo riprodurre le tavole che corredano la maggior parte delle edizioni ma al lettore attento non saranno sfuggiti, credo, tra gli altri, i nomi di Domenichino (Domenico Zampieri) e di Guido Reni. Chi volesse prenderne visione può farlo sfruttando la rete, in cui sono digitalizzate integralmente quasi tutte le edizioni citate. Per dare un’idea, comunque, riporto il frontespizio, l’antiporta e la tavola a corredo dell’epistola di Amore a Psiche della prima edizione.


La tavola è  firmata da Il Coriolano F. (F. sta per Figlio). Si tratta di Bartolomeo Coriolano (1590 o 1599-1676), figlio di Cristoforo. Bartolomeo fu allievo di Guido Reni.

Chiudo con le uniche due immagini  del Bruni a me note. La prima è tratta da Le glorie degli incogniti o vero gli huomini illustri dell’Accademia de’ Signori Incogniti di Venetia, Valvasense, Venezia, 1647.

La didascalia è costituita da un distico elegiaco, che sfrutta un espediente caro al barocco: il gioco di parola, qui, per fortuna conservabile nella traduzione, che è: Non è giudicato abbastanza BRUNO per il nome che ha; infatti nessun altro risplende per un verso più luminoso. La maggior parte delle tavole a corredo del testo reca il nome dell’incisore e qualcuna perfino l’anno di esecuzione; purtroppo, nella nostra non vale tutto ciò.

La seconda immagine è un’incisione a corredo della biografia del nostro scritta da A. Mazzarella da Cerreto ed inserita nel tomo III di Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, a cura di Domenico Martuscelli, Gervasi, Napoli, 1816.6

Vi si legge G. Morghen inc(idit). La famiglia Morghen annovera un numero incredibile di incisori, il più famoso dei quali è Raffaello (1758-1833). Credo che l’autore dell’incisione sia suo fratello Guglielmo. Non è dato sapere a quale modello si ispirò il Morghen; posso solo notare che rispetto al precedente ritratto, cronologicamente più vicino al Bruni e, quindi, presumibilmente più fedele, il volto appare più sfilato.7

______________

1 Lettere del Cavalier Giovan Battista Marino gravi, argute, e familiari, facete, e piacevoli, dedicatorie, Eredi di Francesco Baba, Venezia, 1627, p. 99.

2 Lettere del Cavalier Marino …, op. cit., pp. 140-141.

3 Poema che, com’è noto, è l’opera più famosa del Marino. Era uscito per i tipi di Oliviero di Varano a Parigi nel 1623.

4 Lettere del Cavalier Marino …, op. cit., pp. 142-143.

5 Qualche dato fondamentale per la produzione non italiana: Mark Alexander Boyd, Epistulae et hymni, s.n., Londra,  1592; Michael Drayton, England’s Heroical Epistle, Smethwick, Londra, 1596; Jakob Balde, Urania victrix, Scel, Monaco1663; François Tristan l’Hermite, Lettres éroiques in Lettres mêslées, Courbé, Parigi, 1642, pp. 308-359.

6 Biografie precedenti sono quella inserita in Le glorie degli incogniti …, opera  che citerò nel finale, uscita nel 1647 e quella di Francesco Maria dell’Antoglietta pubblicata per i tipi di Abri a Napoli nel 1711 col titolo di Vita d’Antonio Bruni da Manduria, indirizzata all’Accademia della Crusca.

7 Può darsi che proprio al primo ritratto (al secondo è impossibile per motivi cronologici) alluda Francesco Maria dell’Antoglietta  nell’opera citata nella nota precedente: Era di costumi integri, franco, liberal, e magnanimo, fedele e rispettoso co’ Principi, sincero con gli Amici. Fu di mediocre statura, anzi alta, che no, di corporatura pieno, di carnaggione bianca, di capigliaia bionda, d’occhi vivaci, alquanto pregni, di complessione robusta, e di fronte alta, e spaziosa, sì come si scorge nel suo ritratto.  

 

Vini DOC Terre del Negroamaro. Salento che cresce, Salento che accoglie

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di Giuseppe Massari

Il Salento, concepito nella sua accezione geografica, storica e territoriale più ampia come Penisola salentina,  comprende l’intera provincia di Lecce, quasi tutta quella di Brindisi e parte di quella di Taranto. Sempre da un punto di vista geografico, rientrano nel territorio della Penisola salentina alcuni comuni della Valle d’Itria: Martina Franca (TA), Alberobello e Locorotondo (BA), Cisternino e Fasano (BR) ed alcuni comuni a Nord di Taranto: CrispianoMassafra.

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In questa vasta area, la produzione vitivinicola, da sempre, ha ricevuto forti impulsi economici e commerciali e anche riconoscimenti a livello internazionale, nazionale e regionale. Forse anche troppi se ci si riferisce alle denominazioni d’origine controllata riconosciute ai vini. Una pletora spalmata, quasi, su ogni paese, eludendo potenzialità territoriali o complessi produttivi più estesi, più storici, più importanti.

In Italia, forse, contravvenendo alle normative europee, le DOC o le DOP sono state elargite, non per motivi strettamente economici, ma elettorali, politici, di convenienza, di opportunità, per una sorta di egoismo o campanilismo così come si costruivano ospedali in ogni città. Di questo fenomeno sono stati interpreti e protagonisti la Puglia e il Salento in particolare.

Basta sfogliare il testo di Donato Antonacci: I vitigni dei vini di Puglia, edito da Adda il 2004, per rendersi conto quante sono state località e interi territori geografici, con i loro vitigni singoli e associati, che hanno chiesto ed ottenuto DOC e Indicazione geografica tipica (IGT). Vale la pena fare l’elenco in ordine alfabetico, sia per quanto riguarda la valorizzazione d’origine che per quella geografica tipica. DOC dei vini di “Alezio”, disciplinare di produzione pubblicato sulla G.U del 26 settembre 1983; DOC dei vini “Brindisi” con disciplinare di produzione del 23 aprile 1980; il 29 gennaio 1977, la G.U. pubblicava il disciplinare di produzione dei vini “Copertino”; ai vini DOC di “Galatina”, il disciplinare di produzione fu concesso con decreto del Ministero del Risorse Agricole, il 24 giugno 1997; sulla G.U del 28 marzo 1997 veniva pubblicato il disciplinare di produzione che riguardava i vini di “Leverano”; con decreto del presidente della Repubblica del 21 dicembre 1988, i vini di “Lizzano” entravano nella grande famiglia DOC; di DOC viene insignito il vino “Martina” o “Martina Franca”.

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Siamo nel luglio del 1990 quando la G.U., il 17 di quel mese pubblica il decreto del Presidente della Repubblica firmato il 9 febbraio dello stesso anno, in sostituzione del Dpr del 10 giugno 1969; per il vino “Matino”, il disciplinare di produzione viene emesso il 19 maggio 1971 e pubblicato il 24 luglio dello stesso anno sulla G.U.; DOC per il vino di “Nardò” riconosciuta con Dpr del 6 aprile 1987; la G.U. n. 83 del 28 marzo 1972 pubblica il disciplinare di produzione per i vini di “Ostuni”; al “Primitivo di Manduria” viene riconosciuto il disciplinare di produzione per la DOC, il 30 ottobre 1974; la DOC per il “Salice Salentino” viene assegnata il 6 dicembre 1990, data in cui il Presidente della Repubblica firma il decreto in sostituzione di quello precedente sottoscritto l’8 aprile 1976; ultimi, in ordine alfabetico, i vini “Squinzano”, la cui DOC è stata sancita con il decreto pubblicato sulla G.U. del 31 agosto 1976. Per quanto riguarda la Indicazione geografica tipica dei vini del “Salento”, il decreto sul disciplinare di produzione fu firmato dal ministro delle Risorse agricole il 20 luglio 1996.

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Tanti, troppi frammenti e molta dispersione di forze ed energie. Questo il quadro più o meno completo che delinea la vastità di vini a denominazione controllata, molti dei quali prodotti con le stesse qualità di vitigni , in misura percentuale diversa: maggiore o minore, a seconda della incidenza qualitativa e quantitativa del prodotto da vinificare. Da questo spaccato storico e geografico emerge un dato: la impossibilità di riconoscere la varietà e la bontà del prodotto. La qualità, forse, viene penalizzata o racchiusa nell’ambito dell’orticello campanilistico che non serve né a far crescere il territorio e né la stessa qualità del prodotto.

Nell’ottica di quella che deve essere la globalizzazione intelligente e non selvaggia dei movimentisti arcobaleno; nell’ottica di quella che deve essere la rete solida e solidale, fuori e lontana da certi egoismi, soprattutto nei rapporti commerciali, economici, politici e territoriali, si impone la ricerca di strumenti più idonei per vincere certe sfide, per essere al passo con i tempi, senza restare indietro o guardare come il progresso ci passi davanti senza fermarsi o senza che venga acchiappato. Una delle ipotesi progettuali, una pista su cui lavorare, potrebbe essere quella riferita all’iniziativa Premio Terre del Negroamaro.

Giunta, quest’anno, alla sua ottava edizione, la rassegna di Guagnano, organizzata e promossa unitamente al Gal Terra d’Arneo e destinata ad affermarsi come momento di riflessione e di vetrina per uno sviluppo compatibile con le esigenze del territorio, deve portare ad un solo e vincente risultato: una DOC unica per tutti i vitigni delle Terre del Negroamaro, DOC Terre del Negroamaro. Nel mentre, tra l’altro, ogni anno questa parte nord del Salento è capace di mobilitare attenzioni ed interessi culturali, racchiusi in quella parte di storia conservata nel Museo del Negroamaro.

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Soprattutto, perché questo vitigno ha una sua nobile storia, ripresa proprio da chi scrive e fatta oggetto di un precedente contributo su queste pagine del blog. Una storia secolare di tutto rispetto, di tutto pregio, di notevole interesse e spessore cultuale Perciò, anche per questo, è bene, è un bene per tutti coalizzarsi; unirsi nella rete di un sistema, per fare sistema, per essere forti e competitivi. Non sembri una proposta dirompente, una provocazione estemporanea.

Non suoni penalizzante per chi ritiene di aver acquisito certi privilegi e a questi non vuole rinunciare. Quelle conquiste identitarie, di etichetta, forse, sono state delle forzature. Magari, frutto di imbrogli e di inganni da parte di chi doveva dimostrare di essersi impegnato nell’ambito del proprio collegio elettorale. Per fortuna, il tempo cammina con le gambe di un medico che sana lacerazioni, ferite, divisioni, create, artatamente.

L’evoluzione, oggi, è tale che ci fa capire come il territorio cresce, deve crescere, viene valorizzato nella misura in cui viene identificato nella sua interezza e nella sua essenza e non nel conventicolo rapporto di una comunità costretta, poi, a confrontarsi con altre identità che, invece, galoppano, facendo passi irraggiungibili.

Uscire dalle secche del provincialismo paesano, per trasformare quel prodotto della terra in un vero prodotto nostrano e regionalizzato; nostrano e nazionalizzato. Questo ci insegna la storia e la nascita dei Gal; questo ci ha insegnato e ci insegna la straordinaria esperienza della Taranta. Non più o non solo patrimonio di Melpignano, ma di tutto il Salento, di tutta l’Italia; quella che potrebbe, addirittura, avanzare una formale richiesta per farla inserire e riconoscere quale patrimonio immateriale dell’umanità.

Libri| A Castro, con il cuore

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di Alessandra Peluso

La cultura – scrive Husserl – è il sedimento oggettivo del sapere della comunità.  Come allora non considerare Rocco Boccadamo depositario della cultura salentina?

Ne scrive da anni, dopo averla vissuta, amata, accettando anche gli aspetti più impervi. In “A Castro, con il cuore” si evidenzia l’amabile arte di destreggiarsi tra racconti che appartengono al piccolo, ma straordinario paese salentino, come Castro: una perla, bellezza dirompente del sud del Salento.

Boccadamo si nutre di cultura, di storia, di tradizioni appartenenti ad una Terra di persone che amano, accolgono, sono ospitali, generosi, inconsapevoli, spesso però, di essere attori e protagonisti di una storia. Ecco che Rocco Boccadamo sembra rappresentare una cartina tornasole, depositario di una cultura da salvaguardare. Egli utilizza la scrittura, a differenza dell’aedo o del bardo, l’oralità, per trasmettere e far conoscere a tutti, visitatori e non, la cultura salentina.

I numerosi racconti contenuti nel libro “A Castro, con il cuore”, come anche in molte altre sue pubblicazioni, rappresentano un legame tra presente e passato, necessario a creare un’identità. Senza identità non si è nessuno. Non soltanto, ma la popolazione che riesce ad aver meglio un rapporto con la propria origine, la propria identità e tradizione, è anche quella capace di confrontarsi con le altre, accettando e rispettando la diversità.

Pertanto, Rocco, oltre ad allietare i lettori con le sue ammalianti storie, funge anche da guida, affinché gli abitanti di Castro e i salentini tutti prendano coscienza di se stessi, riconoscano il valore della propria identità e la presentino agli altri, tutelando per questo anche il territorio nel quale vivono.

Tuttavia, l’autore del prezioso libello è anche il vessillo del sentimento. Il cuore per Boccadamo non è solo l’organo pulsante di vita, ma anche di amore, di quel sentire dolce o acre che scuote il profondo, libera l’istinto, la creatività, la miglior parte dell’individuo e anche la più vera; così come vero è il sole, e caldo che scalda le pietre inscalfibili di questa terra, il mare cristallino dai colori verde e blu cangiante, la luna rassicurante, i gabbiani che gracchiano, volteggiando, indisturbati.

Il Salento è anche questo. E anche Castro diventa il luogo dell’anima, luogo di innamoramento, come scrive Giuliana Coppola nella Prefazione.

E dunque, Rocco Boccadamo, alla stregua di Virgilio quando narra di Enea, prende per mano il lettore, il turista, o il viaggiatore, o il castrense, e lo conduce per mari e per monti, sino a raggiungere il Castello aragonese di Castro giustappunto, e trovarvi ristoro del corpo e dell’anima; mentre, intanto, questa si rinfranca dall’amore intenso per le proprie origini, la bellezza del territorio, come insegna – emblema incontrastato – il caro Rocco.

A CASTRO, CON IL CUORE, di Rocco Boccadamo, Spagine/Fondo Verri Edizioni

Il delfino e la mezzaluna. Numero doppio per i suoi estimatori

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E’ pronto il doppio numero de “Il delfino e la mezzaluna”, ovvero gli studi della Fondazione Terra d’Otranto, diretto da Pier Paolo Tarsi.

Giunto al quarto anno, questa edizione si sviluppa in 314 pagine, per recuperare l’anno di ritardo, sempre in formato A/4, copertina a colori, fotocomposto e impaginato dalla Tipografia Biesse – Nardò, stampa: Press UP, con tematiche di vario genere inerenti le provincie di Lecce, Brindisi e Taranto.

Tanti gli Autori che ancora una volta hanno voluto offrire propri contributi inediti, e meritano tutti di essere elencati secondo l’ordine con cui appaiono nel volume, con il relativo saggio proposto:

Pier Paolo Tarsi, Editoriale

Angelo Diofano, Il fantastico mondo degli ipogei nel centro storico di Taranto

Sabrina Landriscina, La chiesa di Santa Maria d’Aurìo nel territorio di Lecce

Domenico Salamino, Prima della Cattedrale normanna, la chiesa ritrovata la città di Taranto altomedievale

Vanni Greco, Il “debito” di Dante Alighieri verso il dialetto salentino

Francesco G. Giannachi, Un relitto semantico del verbo greco-salentino Ivò jènome (γίνομαι)

Antonietta Orrico, Il Canticum Beatae Mariae Virginis di Antonio De Ferrariis Galateo, una possibile traduzione

Giovanni Boraccesi, Il Christus passus della patena di Laterza e la sua derivazione

Marcello Semeraro, Propaganda politica per immagini. Il caso dello stemma carolino di Porta Napoli a Lecce

Marino Caringella – Stefano Tanisi, Una santa Teresa di Ippolito Borghese nella chiesa delle Carmelitane Scalze di Lecce

Ugo Di Furia, Francesco Giordano pittore fra Campania, Puglia e Basilicata

Domenico L. Giacovelli, Nel dì della sua festa sempre mundo durante et in perpetuum. Il patronato della Regina del Rosario in un lembo di Terra d’Otranto

Stefano Tanisi, Il dipinto della Madonna del Rosario e santi di Santolo Cirillo (1689-1755) nella chiesa matrice di Montesardo. Storia di una nobile committenza

Armando Polito, Ovidio, Piramo e Tisbe e i gelsi dell’Incoronata a Nardò

Alessio Palumbo, Aradeo, moti risorgimentali e lotte comunali: dal Quarantotto al Plebiscito

Marcello Gaballo – Armando Polito, Dizionarietto etimologico salentino sulle malattie e stati parafisiologici della pelle, con alcune indicazioni terapeutiche presso il popolo di Nardò

Marco Carratta, Il mutualismo classico in Terra d’Otranto attraverso gli statuti delle Società Operaie (1861-1904)

Gianni Ferraris, Il Salento e la Lotta di liberazione

Gianfranco Mele, Il Papaver somniferum e la Papagna: usi magici/medicamentosi e rituali correlati dall’antichità al 1900. Dal mito di Demetra alle guaritrici del mondo contadino pugliese

Bruno Vaglio, Alle rupi di San Mauro una nuova stazione “lazzaro” di spina pollice. Considerazioni di ecologia vegetale dal punto di vista di un giardiniere del paesaggio

Riccardo Carrozzini, Il mio Eco

Pier Paolo Tarsi, L’antropologia linguistica della memoria narrata: uno sguardo filosofico all’opera di Giulietta Livraghi Verdesca Zain e Nino Pensabene

Arianna Greco, Arianna Greco e la sua arte enoica. Quando è il vino a parlare

Gianluca Fedele, Gli ulivi, la musica e i volti: intervista a Paola Rizzo

Epigraphica in Terra d’Otranto. L’epigrafe agostiniana nella chiesa dell’Incoronata di Nardò (Massimo Cala). L’epigrafe di Morciano di Leuca in via Ippolitis al civico n.6 (Armando Polito)

Segnalazioni. Il fonte di Raimondo del Balzo ad Ugento (Luciano Antonazzo). La Madonna col Bambino e sant’Anna di Gian Domenico Catalano (1560 ca. – 1627 ca.) in Ugento (Stefano Tanisi). Il pittore Aniello Letizia e le sue prime opere di committenza confraternale nella Gallipoli del ‘700 (Luciano Antonazzo – Antonio Faita). Le origini dell’oratorio confraternale di santa Maria degli Angeli, già sotto il titolo di santa Maria di Carpignano (Antonio Faita).

La foto di copertina è di Ivan Lazzari, ma numerose anche le immagini proposte all’interno, gentilmente  offerte da Stefano Crety, Khalil Forssane,  Vincenzo Gaballo, Walter Macorano, Raffaele Puce.

 

Gli interessati potranno chiederlo previo contributo di Euro 20,00 da versarsi a Fondazione Terra d’Otranto tramite bollettino di Conto corrente postale n° 1003008339 o bonifico tramite Poste Italiane IBAN: IT30G0760116000001003008339 (indicare il recapito presso cui ricevere  la copia).

Per ulteriori informazioni scrivere a: fondazionetdo@gmail.com

Donno: solo un cognome?

di Armando Polito

Forse qualche lettrice avrebbe gradito che il titolo del oost fosse quello di un inno alla femminilità, anziché l’evocazione, a modo mio, di una antica e stupida contrapposizione. Forse ho  esagerato pure adesso con quell’inno e parecchie lettrici resteranno deluse quando i  loro  leggiadri occhi arriveranno alla fine del post senza essersi imbattuti in uno straccio non dico di inno, ma di una qualsiasi poesia , magari di tono molto dimesso.

Tuttavia spero che la loro delusione, quando avranno terminato la lettura, sia compensata  da un momento di riflessione che tenga in adeguato conto che, laddove è mancata la poesia, è venuta in soccorso la filologia.

Sulla superiorità fisica e psichica dell’uomo  rispetto alla donna, e viceversa, sono stati consumati oceani d’inchiostro. io so che solo questo è indiscutibile: chi detiene il potere di consentire alla vita di svilupparsi è certamente più forte di chi questo potere non ha. E lo stesso utero in affitto, anche se può essere considerato come un capannino industriale locato per un tempo determinato, lo dimostra.

Anche sul piano filologico donna si mostra più forte di uomo, nonostante l’imperante maschilismo abbia elevato quest’ultimo a sinonimo di umanità (inteso, naturalmente, come complesso di esseri viventi di qualsiasi sesso, non come manifestazione sentimentale). Uomo, però, è solo uomo, nel senso che non esiste uoma e questo per una sorta di limitatezza congenita. Uomo, infatti, è dal latino homine(m), sostantivo di genere maschile.  E qui donna si riprende la sua rivincita perché accanto a donna esisteva e in in certo senso, come vedremo, esiste ancora donno.

Pensiamo prima al passato:

Questi pareva a me maestro e donno (Dante, Inferno, XXXIII, 28)

L’altr’anno fu a Barletta un prete, chiamato  donno  Gianni di Barolo (Boccaccio, Decameron, novella decima della nona giornata)

Però vorrei saper, maestro e  donno (Feo Belcari, Sonetto XXXIII, 9)

 … poi che donno è fatto de’ suoi sensi, e che non dorme  (Ludovico Ariosto, Orlando Furioso,XXXV, 69, 5-6)

Poiché ‘l dolor, che de’ suoi sensi è  donno (Giovan Battista Marino, Adone, IV, 83, 1)

No: di pochi campi ei  donno ,/cui per diletto coltivar godea/colle robuste libere sue mani,/vivea felice, del suo aver contento,/colla consorte e i figli. (Vittorio Alfieri, Merope, atto II, scena III)

… Giudice e  donno/In lor suo sguardo mise (Giosuè Carducci, Juvenilia, IV, 60, 89-90)

Li può bollare nella faccia il  donno ,/legar li può sul cavalletto al sole (Giovanni Pascoli, Le canzoni di re Enzio, V, 61-62)

Da Dante a Pascoli (almeno fino ad ora) donno è voce letteraria, sinonimo di signore, padrone.  Infatti è figlia della trafila dominu(m), voce del latino classico>domnum (per sincope di -i- nella precedente; ritornerò a breve su questa forma del latino medioevale)>donno (assimilazione  –mn->-nn-). Stessa trafila per donna: domina(m)>domna(m)>donna. Solo che la forma femminile dal significato originario di signora, padrona è passato a significante del sesso. Il maschile donno, come si vede,è rimasto al palo, anche se in alcuni settori il maschilismo è tornato a farsi sentire per motivi,per così dire, tecnici: mi riferisco al don che accompagna il nome dei sacerdoti. Voglio proprio vedere se le femministe,  quando il sacerdozio sarà esteso anche alle donne, accetteranno di assumere questo titolo  oppure proporranno donna
Ora comincia per me la parte più difficile, perché debbo inventarmi qualcosa che riporti quanto fin qui detto nell’alveo territoriale di riferimento di questo blog. Sarei un ipocrita (altro che invenzione estemporanea …) se non confessassi che tutta la pappardella fin qui servita mi è stata ispirata da tre ritratti di un letterato di Manduria (ecco, siamo in Salento e in tema), Ferdinando Donno ((1591-1649).

Quella che segue è una tavola a corredo di una delle opere di Ferdinando, cioè L’allegro giorno veneto, overo lo sponsalitio del mare, Sarzina, Venezia, s. d, (ma probabilmente intorno al 1627).

Nella cornice MANDURINI EFFIGIES FERDINANDI DOMNI (Ritratto di Ferdinando Donno di Manduria). In basso il distico elegiaco Corporis hic Domni strictè consistit imago/at decus alti animi Pindus Amicus habet (Qui rigorosamente si presenta l’immagine del corpo di Donno, ma il Pindo1 amico ha il decoro dell’alto animo).  In basso a destra Henrici Clerici (di Enrico Clerico) indica La paternità del diistico2.

In basso al centro lo stemma di famiglia e a sinistra il monogramma  DF dell’incisore senese Domenico Falcini (1570-dopo il 1628).

Da notare come nei due Domni (genitivo di Domnus) è stata  recuperata la forma del latino medioevale prima ricordata, cioè, in parole povere è stato tradotto il cognome Donno ipotizzando una sua derivazione da questa forma latina.

Domnus si legge ancora nel ritratto che segue custodito a  Münster nel Museum für Kunst und Kultur.

In basso al centro si legge Pecini fecit Venetiis (G. Pecini fece a Venezia). L’incisore Giacomo Pecini visse dal 1617 circa al 1669. Interessante in questo ritratto è il fatto che la tendenza a leggere da destra a sinistra DOMNUS FERDINANDUS finisce per creare un gioco ambiguo, quasi a recuperare il valore di DOMNUS inteso come titolo di rispetto più che come cognome, da quello, comunque, derivante.  

Lo stesso è in un ritratto successivo che è a corredo della biografia del Donno in Domenico De Angelis, Le vite de’ letterati salentini, parte II, Raillard, Napoli, 1713. Mentre nel testo della biografia che segue immediatamente all’immagine si legge sempre Donno, la didascalia in calce al ritratto è: Ferdinando Domno Mandurino/Dominicus de Angelis Lycien(sis) D(onat) D(edicat) D(icat), la cui traduzione è: A Ferdinando Donno di Manduria Domenico De Angelis di Lecce dona, destina, dedica. 3

Siccome non ho motivo per dubitare, in un caso e nell’altro, della bontà dell’etimo , ecco confermato, vista la notevole diffusione del cognome Donno in tutta Italia (circa 497 famiglie, di cui ben 384 in Puglia e 345 in provincia di Lecce; è il dato riportato in http://www.cognomix.it/mappe-dei-cognomi-italiani ) ancora una volta il maschilismo: non a caso il cognome Donna conta (dato riportato dalla stessa fonte) circa 196 famiglie in Italia, di cui solo una in Puglia e proprio in provincia di Lecce, più precisamente a Martano.

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1 Monte della Tessaglia sacro alle Muse, dunque simbolo dell’ispirazione poetica.

2 Il De Angelis a p. 178 dell’opera citata così scrive: Fu quest’Opera  [L’allegro giorno …] ricevuta, e letta con lode da i Letterati di quel tempo, nè vi mancò chi celebrolla con eruditi componimenti, come fra glia latri fece Enrico Clerico nella maniera, che siegue …

3 Un quarto ritratto (nell’immagine che segue) a firma di Carlo Biondi (nato a Napoli nel 1789), ma la cui derivazione da quello del testo del De Angelis  è evidentissima, è in  Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, a cura di Domenico Martuscelli, tomo VI, Gervasi, Napoli, 1819.

 

Il dramma eternato: la tomba Bonifacio nella chiesa dei SS. Severino e Sossio a Napoli

Monumento Andrea Bonifaciodi Nicola Morrone

Di recente abbiamo avuto occasione di visitare una delle più belle chiese di Napoli, quella dei SS. Severino e Sossio, chiusa a lungo per lavori di restauro e da poco riaperta.

Grazie alla collaborazione dei volontari della locale sede del Touring Club, è stato possibile effettuare una visita guidata.

La chiesa conserva uno dei capolavori assoluti della scultura rinascimentale meridionale, cioè la tomba Bonifacio, collocata nei pressi della sagrestia. Si tratta di un notevole monumento sepolcrale in marmo, realizzato alla memoria di Andrea Bonifacio, figlio dei nobili Roberto Bonifacio e Lucrezia Cicara (con residenza a Portanova) morto all’età di appena sei anni, nel secondo decennio del’500[1].I genitori, affranti per la perdita prematura, vollero far erigere l’arca affidandone l’esecuzione agli artisti spagnoli Bartolomè Ordonez e Diego de Siloe.

Una lettura dei caratteri iconografici e formali permette di comprendere gli aspetti salienti dell’opera. Essa è costituita da un basamento, che reca gli stemmi della famiglia Bonifacio-Cicara e l’iscrizione funeraria, stesa dall’umanista Jacopo Sannazaro. Nella predella è raffigurata la scena della sepoltura del giovane Andrea, che è rappresentato come un eroe (ha la testa adorna di una ghirlanda) e colto nel momento della deposizione nell’urna sepolcrale. Ai lati, isolate eppure partecipi della vicenda, si notano due gruppi di piangenti, e ai due margini estremi del riquadro compaiono altre due figure in atteggiamento mesto, una di esse con un abito di evidente foggia cinquecentesca.

La zona centrale dell’arca, oltre a motivi decorativi ricorrenti nella scultura rinascimentale napoletana, ospita in posizione centrale la statua di Sant’Andrea, alla cui protezione evidentemente i genitori vollero affidare il figlioletto scomparso. Chiude il monumento un vero capolavoro di scultura, l’urna inghirlandata contenente le spoglie del giovanissimo defunto, il cui coperchio è retto da putti piangenti.

La tomba Bonifacio, esaltata già dal De Dominici come una tra le più bella opera plastiche di Napoli, è stata oggetto di studio anche in tempi recentissimi da parte di storici dell’arte qualificati, che hanno cercato di sciogliere i principali nodi problematici posti dall’opera. La quale, come affermato da una nota studiosa, racchiude ancora molti “segreti”.

Le fonti documentarie sono infatti incredibilmente avare di notizie sulla tomba Bonifacio, le cui coordinate storiche, stilistiche ed iconografiche, si sono finora potute ricostruire essenzialmente partendo dall’opera , che resta pur sempre “il primo documento di se stessa”.

Piuttosto vasta è la bibliografia relativa al monumento, che qui non richiamiamo: accenniamo soltanto al fatto che, se la questione attributiva pare pressochè risolta, restano ancora non completamente sciolti i nodi relativi all’iconografia (e all’iconologia). In questo senso proponiamo agli studiosi di approfondire la narrativa della movimentata predella, poiché non è ancora chiaro, al di là dell’evidente valore allegorico della scena rappresentata (che associa la morte del giovane Andrea Bonifacio a quella di Cristo), se essa contenga, come a noi pare, anche elementi di verismo. Essa potrebbe infatti contemplare la presenza dei genitori del giovanetto, Roberto e Lucrezia, ai margini estremi della raffigurazione. E’ un’ipotesi suffragata anche da altri studiosi, coi quali l’abbiamo recentemente discussa.

Molto resta comunque da dire su questo capolavoro plastico, oggetto di ammirazione anche dei viaggiatori stranieri , che periodicamente si recavano nella capitale del Regno, spesso illustrandone i monumenti sui loro taccuini.

 

[1]Roberto Bonifacio fu anche marchese d’Oria. Ebbe tre figli maschi: Andrea, Dragonetto e Giovanni Bernardino. Quest’ultimo fu grande umanista e appassionato bibliofilo. Nato a Oria nel 1517, precocemente convertitosi al protestantesimo, fu esule in Europa “religionis causa”, e morì a Danzica nel 1597.

 

Cacciare, calare, raschiare e alcune differenze di significato dei loro corrispondenti salentini

di Armando Polito

Preliminarmente c’è da osservare che cacciare e calare hanno identica forma nella lingua nazionale e nel salentino, mentre a raschiare corrisponde rrascare e volutamente me ne occuperò alla fine, non solo per rispettare l’ordine con cui le tre voci compaiono nel titolo ma soprattutto per non esordire con una nota hard, anche se mi rendo conto che quest’ultima scelta probabilmente avrebbe propiziato un numero più nutrito di lettori. Ma non è detto, se, come ha cantato Leopardi, dello stessa giorno di festa è più gratificante la sua attesa …

CACCIARE: in italiano può essere usato assolutamente nel senso di andare a caccia di; per esempio: cacciare il cinghiale. Il salentino ignora quest’uso assoluto ed usa solo la circollocuzione (che è l’esatta traduzione di quella italiana) scire a ccaccia ti. Nel significato di mandar via l’uso è comune: l’ha cacciato da casa/‘ndi l’ha ccacciatu ti casa. Comune è anche l’uso nel significato di germogliare (l’olivo ha cacciato un sacco di polloni/l’ulia ha ccacciatu nnu saccu ti sobbracaddhi); tuttavia il salentino usa il participio passato sostantivato cacciata nel senso di fioritura, con particolare riferimento all’olivo: stannu la cacciata è bbona (quest’anno la fioritura è abbondante). Comune anche nel senso di cavare: Io gli caccerei gli occhi!/Iò li cacciaa l’uecchi!); un uso tutto salentino è nella locuzione in voga nei tempi in cui le donne sferruzzavano; cacciare li maglie (ricavare la sequenza del tipo di maglie in un lavoro con i ferri). Invece di cacciare come sinonimo di infilare il salentino usa schiaffare (Dove ti sei cacciato?/A ddo’ t’ha schiaffatu?).

CALARE: in comune con l’italiano nel significato generico di diminuire (calare di peso/calare ti pisu) e nel participio passato sostantivato calata (riferito alla pesca, tanto con la lenza che con la rete); questa forma è usata pure nel salentino nel senso di invasione ma riferito prevalentemente, per non dire soltanto, ai volatili da cacciare. Da non dimenticare anche la forma riflessiva come sinonimo di farsi avanti tenendo nascosta la vera, furbesca, intenzione (Si ‘n’dè calatu).

RASCHIARE: rispetto all’italiano il salentino rrascare viene usato anche nel significato di coire; chiedo scusa se in chiusura rischio di urtare la sensibilità di qualcuno, ma non posso proprio fare a meno di notare la maggiore gentilezza della voce del nostro dialetto rispetto agli italiani chiavare, scopare e al meno pittoresco di tutti (perché inflazionato dal fatto che, ormai, è diventato (ma non in senso sessuale, che pure era quello originale1) lo sport nazionale, soprattutto della classe politica: fottere.

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1 Fottere, infatti, deriva dal latino futùere, che significa esclusivamente avere rapporti carnali. Difficile dire, poi, se futùere è legato da occasionale somiglianza fonetica o da un rapporto più stretto con il greco φοιτάω (leggi foitào), il cui significato di base è innocente, corrispondendo a visitare, frequentare, ma che da alcuni autori è usato in quello metaforico di avere rapporti sessuali; la stessa duplicità semantica si nota nel verbo latino coìre (da cui è fedelissimamente la forma italiana citata), composto da cum=insieme+ire=andare e il cui significato di base è adunarsi, associarsi, dal quale si passa a quello sesuale di accoppiarsi.   

Lecce “città del libro 2017”: non voglio fare il gufo …

di Armando Polito

… ma, visto il precedente, recente flop di Lecce capitale europea della cultura, essere prudenti  nel manifestare entusiasmo , almeno per me, è d’obbligo. Questa volta, però, non si tratta di concorrere per un titolo, perché quello di Città del Libro 2017 la città salentina l’ha in tasca dal 13 maggio u. s., quando il conferimento avvenne nell’ambito della XXIX edizione del Salone del libro a Torino.

Nell’occasione Il ministro Dario Franceschini annunciò l’abolizione dell’IMU per le librerie, aggiungendo, subito dopo, che la tassa sarà a carico del Governo, non dovrà essere sostenuta dai Comuni (riporto passo passo le parole in corsivo, che dovrebbe corrispondere al virgolettato, citandole da http://www.torinotoday.it/eventi/cultura/salone-libro-dario-franceschini-abolizione-imu-librerie.html).

Pur con beneficio d’inventario (non ho riportato io, dopo averle ascoltate, le parole dette), omettendo di dire la mia su titoli, premi, onorificenze, giornate e simili …,  mi permetto di fare delle osservazioni a distanza di qualche mese dall’annuncio ed a mente sufficientemente … raffreddata:

a) siccome a carico del Governo non significa certamente che i suoi componenti metteranno mano al portafogli personale, siamo al solito, disgustoso, anche per una persona di limitata intelligenza, giochetto del dare con una mano ad uno e sottrarre con l’altra ai restanti contribuenti. Abolire significa sopprimere (non trasferire obblighi) e qui l’annuncio mi sembra una sorta di rivisitazione del mito più caro ai politici, soprattutto quando si parla di tasse: quello dell’araba fenice.

b) il solito maligno, prevenuto e ostruzionista potrà affermare che si tratta di una delle tante uscite preelettoralistiche (il suffisso è voluto …) per mendicare una manciata di voti : ogni ppetra azza parete (ogni pietra eleva il muro) si dice dalle nostre parti. Per zittirlo sarebbe bastato annunciare solo l’abolizione; è il colmo che un ingenuo come me debba pure mettersi a suggerire queste finezze, peraltro ampiamente collaudate …

c) nonostante la mia inesistente cultura giuridica, il buon senso mi fa dubitare che il provvedimento sia costituzionalmente legittimo alla luce dell’articolo 3 e che possa trovare fondamento solo parziale nell’articolo 9 (almeno finché questi articoli resteranno in vigore …). Dato che, secondo un altro ministro, con la cultura non si mangia, prevedo una sollevazione di fornai e affini che chiederanno pure loro l’esenzione dall’IMU …, anche perché, se non mangi per un tempo nemmeno tanto  lungo un tozzo di pane, come fai a leggere e, quel che più importa, a capire cosa hai letto con la scarsa irrorazione cerebrale che ti ritrovi?

d) il provvedimento mi sembra la polemica risposta politica con strizzamento d’occhi “laico” all’intenzione manifestata da Virginia Raggi di far pagare l’IMU a chi, in sublime coerenza con lo spirito cristiano, ancora non ha manifestato, unilateralmente (e cce, so’ ffessa? [e che sono fesso?] si dice, sempre dalle nostre parti), la volontà di essere fiscalmente trattato, pur essendo per mestiere più vicino al divino …, come tutti gli altri poveri cristi.

e) trovo scandaloso che si sia preso un provvedimento a favore, tutto sommato e, aggiungerei, ancora una volta, del privato, sbandierando l’alibi (perché di questo, come al solito, si tratta) di riconoscimento e promozione della cultura, quando in un museo, un archivio, una biblioteca, tutti pubblici, per poter avere una semplice foto devi affrontare un iter burocratico stressante e … pagare.

Mi ha fatto, però,  piacere leggere tra le dichiarazioni piene di sbavante entusiasmo di politici ed editori le parole prudenti di due editori salentini. Le riporto citandole dall’articolo a firma di Dino Levante apparso su La gazzetta del Mezzogiorno del 15 maggio u. s. (http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/home/757333/-Lecce-citta-del-libro-2017.html):

Gli unici a non sapere che Lecce è, di fatto, “città del libro” sono evidentemente gli amministratori. Leggendo le loro dichiarazioni, mi pare di capire che si vada più alla ricerca di finanziamenti vari per il cosiddetto “mondo della cultura” che non invece a puntare su iniziative a sostegno della intera filiera del libro. Purché non sia fuoco di paglia, il riconoscimento ottenuto è un’ottima opportunità offerta ad una città che è ricca di libri e di librerie: ora, alle parole, bisogna far seguire i fatti con iniziative concrete (Lorenzo Capone).

Una buona opportunità. Speriamo che questa sia l’occasione giusta per mettere insieme sinergie tra pubblico e privato e che non sia solo una vetrina, strumento di propaganda elettorale o espediente per attrarre consenso politico (Paola Pignatelli della Grifo Edizioni).

Chi vivrà, vedrà …

M’hanno bannato, anzi bandito. E mo …?

di Armando Polito

Ogni tanto mi concedo la libertà di scrivere un post in cui nemmeno con un  microscopio di ultima generazione il lettore più attento sarebbe in grado di trovare un collegamento con la Terra d’Otranto, Spesso, però, mi sono occupato del nostro dialetto stigmatizzando il pregiudizio che ancora aleggia in genere su tutti i dialetti. Non mi rassegno, perciò, ad accettare l’idea che trionfi la convinzione dell’inferiorità del dialetto, qualsiasi, rispetto alla lingua nazionale, che pure dev’essere conosciuta, amata e difesa. Il post di oggi si muove in quest’ottica.

Capita prima o poi a tutti coloro che facciano parte di un social network di vivere uno scontro di opinioni che talora può degenerare nell’insulto gratuito da parte di un interlocutore che, non potendo reggere le tue argomentazioni, pensa di salvare la sua dignità di tuttologo agli occhi dei suoi ammiratori dal facile mi piace troncando più o meno per sempre il dialogo, magari con un ultimo insulto più gratuito e volgare dei precedenti. Con me la cosa non funziona e, se dovesse riverificarsi con attori diversi non funzionerebbe perché da tempo prendo le mie precauzioni e, appena la situazione diventa calda ed intuisco che il mio interlocutore sta per procedere con la scure ma vuole avere lui l’ultima parola, procedo ad una bella cattura dello schermata e conservo la crono-immagine di questa storia non propriamente d’amore in un apposito archivio aspettando il momento propizio per la vendetta, con lo sputtanamento totale e finale del mio permaloso “avversario” sullo stesso social o su un altro blog.

A scanso di ogni equivoco, però, debbo specificare che qui non mi sto riferendo a veri e propri casi di carattere persecutorio (stalking per chi sa parlare) per cui uno, se vuole, può rivolgersi alla polizia postale, o ad altri in cui il turpiloquio rappresenta il motivo principale cantato in tutte le salse. Sto parlando dei casi in cui uno viene bannato semplicemente perché le opinioni religiose, politiche, sessuali o di qualsiasi altra natura espresse trovano scarso o nullo gradimento in una controparte che, comunque, non è in grado di motivare le sue né con duemila né tantomeno con quattro parole.

L’atto del bannare, secondo me, è strettamente imparentato, pur essendo  molto meno grave nell’effetto,  con quello della censura e, spingendoci al vertice dell’intolleranza e dell’antidemocraticità, dell’epurazione; ma tutti e tre i fenomeni sono indotti dalla stessa causa: la paura di perdere il potere. Sostanzialmente colui che banna per i motivi specificati è un vigliacco, oltre che un idiota, perché crede che, aggiungendo un tassello al suo isolamento, la sua opinione coglierà meno rischi di essere contestata.

Come prima ho indirettamente proposto, nella mia inguaribile italofilia, persecuzione invece di stalking, cosa ho intenzione di fare con bannare, evidente italianizzazione di to ban, che significa bandire? Come si sa (o si dovrebbe sapere) bandire in italiano può significare rendere noto per mezzo di un annuncio (bando) oppure esiliare (in passato il provvedimento veniva annunciato e pubblicizzato con un apposito bando; il bando corrispondeva pure, in un certo senso, al nostro mandato di cattura, per cui il participio passato bandito assunse anche un valore sostantivato come sinonimo di rapinatore, delinquente e simili), dal quale il significato leggermente traslato di eliminare, che, poi, in sostanza, è quello dell’attuale bannare.

Insomma avevamo già pronto bandire  e abbiamo confezionato bannare. E pensare che le mie frecciate contro l’imperversante anglofilia questa volta me le sarei potute risparmiare a condizione che tanti anni fa si fosse verificato un fatto assolutamente normale.

Se vi propongo di individuare  l’incognita di questa sorta di proporzione linguistica, cioè contare:conto=bannare:x, cosa mi rispondete? Sento un coro di banno. Non posso certamente che darvi ragione, ma vi sorprenderete quando vi dirò che banno è voce italiana antica (da cui l’attuale bando) derivante dal latino medioevale bannum. Purtroppo nel latino medioevale il verbo derivato è bannire (da cui il nostro bandire) e non bannare. E così il destino ha voluto che ciò che secondo logica (locum, per esempio, già in latino ha dato, bravo bravo, locare e non locire) si sarebbe dovuto verificare non si è verificato, ma che il fantasma di questa voce morta ancor prima di nascere aleggiasse, nella beata inconsapevolezza del parlante, in bannare.

Che, dopo l’attribuzione, pur solo consigliata, del genere a brexit (https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/07/14/brexi-la-brexit-risultati-del-nostro-referendum/), sia il caso di chiedere il parere dei soloni della Crusca? Chi ne ha voglia si faccia avanti e poi ci comunichi la risposta.

Taranto, che facciamo: rimuoviamo quella ringhiera?

di Armando Polito

(immagine tratta da https://www.facebook.com/160644517282600/photos/a.574743302539384.145448.160644517282600/575052732508441/?type=3&theater)

Il fenomeno della damnatio memoriae (per chi non conosce il latino, alla lettera: condanna della memoria) è antico e, secondo me, rappresenta un esempio tra i più significativi dell’intolleranza, dell’ignoranza  e della stupidità umane.

Intolleranza perché non è corretto pretendere di avere il diritto di cancellare con la distruzione fisica una memoria che non corrisponde al nostro sentire e intorno alla quale sarebbe meglio, a mio avviso, discutere, analizzando il messaggio scaturente da un manufatto, sia esso un’epigrafe celebrativa che una fabbrica piccola o grande. Ignoranza perché solo un ignorante può credere di avere il diritto autolesionistico di privare le generazioni successive, lo si voglia capire o no,  di un pezzo di storia, che non vive solo di pagine scritte ma, direi soprattutto, di elementi concreti, fisici. Stupidità perché, per quanto si possa essere ignoranti, solo un imbecille può perorare simili operazioni.

Così ogni tanto qualcuno a corto di argomenti ma in cerca di pubblicità prevalentemente politica avanza la demenziale proposta di eliminare tutto ciò che richiama alla memoria e all’intelligenza, perché certi crimini non si ripetano, il regime fascista (ma, sia ben chiaro, il discorso per me vale per qualsiasi potere, qualsiasi colore esso abbia) . Certe volte la geniale proposta non viene nemmeno partorita, anche perché il potere da sempre vede prevalentemente le cose eclatanti (quelle che, secondo lui, tutti capiscono, tanto per intenderci …) ma non si accorge di ciò che è più discreto e, in fondo, più suggestivo per le sue fini allusioni piuttosto che per le sue rozze affermazioni sbattute in faccia, magari senza neppure un minimo di senso estetico.

Come molti sapranno, il lungomare a Taranto venne inaugurato l’11 agosto 1931. Bellissima realizzazione e bellissima anche la ringhiera di Corso due mari prospiciente il Castello Aragonese, dove al centro di ogni sezione si ripete la composizione della foto di testa (in quella che segue, tratta ed adattata da Google Maps, la freccia indica il primo dettaglio della serie).

Chissà quanti, passandoci innumerevoli volte, avranno colto quel dettaglio (come ha fatto l’autore della foto inserita nel profilo di  Facebook prima riportato) e quanti si saranno posto il problema del suo simbolismo. A beneficio di tutti (eccetto coloro che lo sapevano da tempo o l’hanno appreso da poco), me compreso, anche perché ignoravo l’esistenza del manufatto, ho pensato di stilare queste poche note, ripetendo, passo passo il cammino fatto prima di giungere alla loro stesura.

Il dettaglio mi ha immediatamente riportato alla memoria la marca tipografica di Aldo Manuzio (1449/1452-1515) adottata successivamente, tal quale, dal figlio Paolo.

L’elemento in comune, l’ancora, vede attorto sul suo fusto il delfino, quella di Taranto una gomena; nella prima rappresentazione, dunque, un oggetto ed un essere animato (per chi volesse sapere di più sul delfino  e sui suoi rapporti con la Terra d’Otranto: https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/11/il-delfino-e-la-mezzaluna-prima-parte/), nella seconda due oggetti.

Mentre nella marca di Manuzio gli ingredienti marinareschi finiscono qui, un altro si aggiunge nel dettaglio di Taranto: un pentacolo (una stella a cinque punte inscritta in un cerchio). La stella a cinque punte è un simbolo esoterico antichissimo, già noto a Sumeri ed Egizi. Una stella a cinque punte è pure la cosiddetta (perché, in realtà, la stella, astronomicamente, non esiste) stella di Venere,  giacché l’omonimo pianeta chiude la sua orbita  in otto anni compiendo un percorso che ricalca il contorno di una stella a cinque punte. Una stella bianca a cinque punte, la Stella d’Italia, popolarmente detta Stellone, sovrasta lo scudo dei Savoia nello stemma del Regno d’Italia dal 1870 al 1890 e, adottato ininterrottamente nel periodo successivo,  continua ad essere il simbolo dell’Italia repubblicana.

(immagini tratte da https://it.wikipedia.org/wiki/Stella_d%27Italia)

L’immagine allegorica dell’Italia più antica che io conosca è in un sesterzio (ma anche in un denario dello stesso anno) di Antonino Pio (138-161) recante al dritto la testa laureata dell’imperatore volta a destra con legenda  ANTONINUS AUG(USTUS) PI US P(ATER)P(ATRIAE) TR(IBUNICIA) P(OTESTATECO(N)S(UL) III (Antonino Augusto Pio,  padre della patria, con potere di tribuno console per la terza volta1), al verso l’Italia turrita, seduta su un globo, che regge la cornucopia con la destra e lo scettro con la sinistra, con legenda S(ENATUS) C(ONSULTU)2 e nell’esergo ITALIA.

(immagine tratta da http://www.wildwinds.com/coins/)

Tornando alla stella, appare curioso il fatto che  essa, associata all’Italia turrita,  presenta non cinque ma sei punte in  Cesare Ripa, Iconologia, Fary, Roma, 1603, p. 247.

Gli ingredienti indiscutibilmente marinareschi dell’ornamento tarantino si fermano qui , ma come tralasciare la vaga (mancano le impugnature) evocazione della ruota di un timone suggerita dalla coppia stella/cerchio? La sola stella, poi, fa prima andare il pensiero alla rosa dei venti o stella dei venti (anche se quest’ultima ha quattro punte nella forma più semplice, otto in quella più completa) e poi lo fa tornare alla stella di Venere ed alla leggenda inventata da Stesicoro (probabilmente VII-VI secolo a. C.) e lasciataci in un frammento della sua Presa di Troia in un papiro di recente ritrovamento, secondo la quale proprio Venere avrebbe guidato con l’astro che porta il suo nome il figlio Enea nel suo viaggio da Troia verso l’Italia. La stessa Venere non era  nata dalla spuma del mare? E, infine, è casuale il fatto che la coppia ancora/cerchio ricalchi, soltanto togliendo all’ancora la parte superiore del fusto, il simbolo di Venere che già presente nell’antichità greca e romana, continua ai nostri giorni  nel simbolo del sesso femminile?

C’è un sistema infallibile per impedire di porsi domande di questo tipo  e precludere per sempre una risposta, sia pur dubitativa: basta rispondere con un idiota e criminale sì alla domanda che nel titolo ho posto al popolo che è sovrano (o no?). Il fatto che l’attuale amministrazione è di sinistra (o no?) è assolutamente casuale e non è detto a priori che tra i militanti o simpatizzanti, come tra gli elettori,  di un qualsiasi partito ci siano solo imbecilli

Attenzione, però: dopo la rimozione è doveroso, in omaggio all’altrui ed alla propria acclarata idiozia, recuperare quel lucchetto liberandolo dall’intrusione di quella oscena gomena stupratrice e dargli onorevole sepoltura, volevo dire  sistemazione …

 

Ahi, ahi, in che grossolana contraddizione sono incappato! Prima esalto Venere dea dell’amore con i suoi annessi e connessi e poi me la prendo (che vigliacco!) con un inerme mocciano lucchetto …

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1 Era stato console la prima volta nel 120 ed in quell’occasione aveva rifiutato il titolo di Pater patriae (padre della patria), per accettarlo, invece, con il secondo consolato nel  139, col terzo nel 140 e col quarto nel 145. La moneta, dunque risale al 140.

2 SENATUS CONSULTU=(emesso) per decisione del senato.

 

Premio Terre del Negroamaro, a Guagnano

Premio Negroamaro

Premio Terre del Negroamaro, a Guagnano.

Musica, comunicazione e arte per valorizzare il Salento

 di Giuseppe Massari

Ai nastri di partenza, questa sera, l’ottava edizione dell’evento PREMIO TERRE DEL NEGROAMARO, organizzato dal Comune di Guagnano e il Comitato Tecnico Operativo del Progetto, in collaborazione con il GAL Terra d’Arneo e la Pro Loco “ Guagnano ‘93”, con il contributo dell’Unione dei Comuni del Nord Salento ed il patrocinio della Regione Puglia, della Provincia di Lecce, e  il responsabile degli artisti nel percorso enogastronomico Piero Rapanà.  Il premio quest’anno abbraccia la compagna di sensibilizzazione bene consapevole dell’Associazione alla Conquista della vita. L’appuntamento è alle ore 21,00, dalla piazza centrale Maria SS. Del Rosario di Guagnano. Quest’anno l’evento è ancora più ricco di sorprese, gusto e sapori. Sul palco saranno premiati personaggi illustri che hanno dato e danno risalto, soprattutto professionalmente, al nostro Salento o alla Puglia in generale.

PREMIO2

Quest’anno il “Premio Terre del Negroamaro” sarà assegnato ai “Negramaro”, il “Premio Speciale” sarà assegnato alla Guardia Costiera, nel nome del Comandante del Comandante Generale Vincenzo Melone, per aver onorato l’immagine di un popolo accogliente.

Il “Premio Ambasciatore delle Terre del Negroamaro” sarà assegnato alla famiglia Seracca Memmo, titolare dell’Azienda Vinicola Castello Monaci. Il “Premio Terre del Negroamaro allo sport” sarà assegnato al calciatore Ernesto Javier Chevantòn.

Il “Premio Terre del Negroamaro alla comunicazione” sarà assegnato al direttore de “Il Nuovo Quotidiano di Puglia” Claudio Scamardella.

Il “Premio Radici di Negroamaro” sarà conferito all’artista Arianna Greco per aver saputo risaltare l’arte con la maestria, usando i colori del vino, formando un’opera d’arte. Un ringraziamento a tutti i pittori locali per aver fatto conosce il nome di Guagnano nel campo dell’arte, donandoci dei capolavori apprezzati in tutto il mondo. Un ringraziamento speciale ad Amedeo Pasquino, che in qualità di VicePresidente Regionale e Delegato Provinciale dell’Associazione Italiana Sommellier, ha contribuire a valorizzare il nostro Negroamaro nel mondo.

Il “Premio alle Eccellenze per Enti e Istituzioni” sarà assegnato a Pietro Scrimieri, Direttore delle Risorse Umane dell’Acquedotto Pugliese. Poi altri riconoscimenti al GAL Terra d’Arneo.

la conferenza stampa

Ideato e promosso al fine di promuovere la conoscenza della Terra d’Arneo, il concorso vede ogni anno la partecipazione di giornalisti di stampa/web e radio/tv a livello nazionale e internazionale, la cui premiazione avverrà sul palco centrale. Per la categoria “Stampa”, sale sul palco la giornalista Agnese Pellegrini con il suo “Salento. Una Terra tra due mari”. Ad aggiudicarsi il primo premio per la categoria radio/TV è GiaNet Media di Claudio e Francesco Giannetta titolari della web TV InOnda (www.inonda.tv) con il servizio “Arneo…tra terra e mare”. Menzione speciale Giuseppe Massari, giornalista locale che sul web magazine Fondazione Terra d’Otranto, racconta l’intrigante storia dalle sue origini ai giorni nostri del Vino Negroamaro. Il “Premio Speciale Terra d’Arneo” sarà assegnato dal presidente Cosimo Durante.

La cornice musicale sul palco sarà affidata all’Ensemble Terre del Negroamaro diretto dal maestro Fulvio Palese.  Il “Premio speciale La Radio Sale” sarà assegnato al cantautore Mino De Santis. Novità assoluta di questa edizione sarà il “Premio Negroamaro Music Awards”, rivolto ad artisti emergenti, che selezionati attraverso un concorso si esibiranno sul palco durante la serata.

Lungo le strade saranno allestiti stand enogastronomici, dove degustare le prelibatezze della tradizione culinaria salentina abbinata ai grandi vini delle cantine che aderiscono alla manifestazione. A chiudere la serata sul palco è sempre la musica d’autore italiana con il concerto finale del grande artista Fabio Concato.

ottava edizione - premio terre del negroamaro

Xylella nel Salento. Facciamo il punto della situazione con l’agronomo Giancarlo Leuzzi

A colloquio con Giancarlo Leuzzi*

1 – Facciamo il punto della situazione Xylella nel feudo di Monteroni. Qual è la fotografia di quello che sta accadendo e secondo lei cosa si dovrebbe fare quanto prima.

Nel feudo di Monteroni il batterio Xylella fastidiosa ha fatto il suo ingresso da sud, attraverso il territorio di Copertino (dove si è manifestato come secondo grosso focolaio salentino, dopo “Li Sauli” a Gallipoli, già fin dal 2013, in un agro compreso tra i territori di Copertino, Lequile e Galatina).

monitoraggio Xylella fastidiosa Dicembre 2013 – Aprile 2014 – Delimitazione delle aree demarcate in provincia di Lecce
monitoraggio Xylella fastidiosa Dicembre 2013 – Aprile 2014 – Delimitazione delle aree demarcate in provincia di Lecce

 

Attualmente, su Monteroni, un grosso focolaio è presente nella zona ricompresa tra i territori di Copertino e Monteroni, lungo l’asse stradale Monteroni – Copertino, tra la rotonda a sud (svincolo Copertino, San Donato, San Pietro in Lama) ed il campo sportivo di Monteroni a nord. In particolare, campioni positivi sono stati rintracciati ed evidenziati fino al gennaio 2015 sul sito www.emergenzaxylella.it ma, dalla sintomatologia da me riscontrata, oggi la quantità di piante attualmente colpite è enormemente più alta. Piante con chiari sintomi sono visibili verso la ferrovia, anche nel territorio di Arnesano e più a nord, verso Carmiano.

La situazione, sempre più drammatica intorno a noi, si può osservarla direttamente percorrendo la San Donato – Copertino, dalla superstrada Lecce – Gallipoli, fino ad entrare a Monteroni da Copertino.

focolaio Xylella su Monteroni
focolaio Xylella su Monteroni

 

Per la seconda parte della domanda non c’è una risposta in quanto non esiste rimedio fitosanitario per curare le piante dal batterio. Le soluzioni proposte dalle Decisioni di esecuzione della Ue dovevano essere adottate subito, per circostrivere l’area infetta nella zona del primo focolaio. Proprio pochi giorni fa, 4 agosto 2016, la Giunta Regionale ha approvato un disegno di legge sulla questione della Xylella fastidiosa. La norma, che martedì prossimo passerà all’esame del Consiglio, inquadra in un’unica cornice le iniziative per gestire l’infestazione da Xylella e per la salvaguardia degli ulivi pugliesi, attraverso tre cardini principali:

la prima stabilisce le misure fitosanitarie da adottare, la seconda è volta agli interventi di ripristino economico, ambientale e paesaggistico e la terza istituisce una agenzia unica (ARXIA) per l’attuazione del dispositivo normativo.

E’ evidente che Emiliano continua a non sapere cosa fare, passando dalla creazione di task-force di esperti alla creazione dell’ennesimo carrozzone politico-amministrativo.

Su tutto, pesa ormai anche l’avviso della seconda procedura di infrazione comminata dalla UE.

 

2 – Sono calzanti le motivazioni addotte dalla Procura della Repubblica di Lecce che ha così bloccato l’eradicazione o, quanto meno, è vero o non è vero che questo morbo dell’ulivo esisterebbe da 20 anni, alla luce dei rilevamenti tecnici e delle indagini condotte in ultima battuta dalla Procura?

Per rispondere a questa domanda bisogna fare un ripasso degli fatti che sono successi nel tempo, dal sequestro degli olivi ai giorni nostri. A mio modesto parere l’indagine della Procura di Lecce si basa sulle teorie stravaganti avanzate da associazioni ambientaliste estremiste. Nel dicembre 2015 la Procura di Lecce ha sequestrato gli ulivi e bloccato il piano di emergenza[1], sostenendo l’ipotesi di complotto internazionale: ricercatori, istituzioni e multinazionali avrebbero diffuso la malattia per distruggere il paesaggio e l’olivicoltura pugliese.

Nel tempo, l’impianto accusatorio della Procura ha rivelato la sua inconsistenza ed è stato smentito dalle principali indagini scientifiche sul batterio e il suo vettore.

Si veda ad esempio il fatto che, una ad una, sono state provate via via l’unicità del ceppo di Xylella, che ha sconfessato l’ipotesi della Procura che i ceppi fossero nove e presenti da venti anni, tanto che già a metà marzo si meditava il dissequestro. A fine marzo la Corte Europea ha rigettato il ricorso di 29 aziende bio della provincia di Lecce, condannandole al pagamento delle spese[2], mentre l’Efsa annuncia la prova della patogenicità di xylella su olivo. Inoltre, circa la validità e i dubbi sulla strategia di contenimento, su impulso della Commissione Europea, l’Efsa pubblica[3] un nuovo parere scientifico che riguarda Xylella fastidiosa in Salento. Nello specifico, viene richiesto di valutare la validità di 4 punti fondamentali legati alla strategia di contenimento che sono stati messi in discussione nel dibattito pubblico. Questi sono: 1) la correlazione tra il disseccamento rapido e vari fattori che si ritiene possano influenzare l’espressione dei sintomi e la diffusione di Xylella (salute dei suoli, agenti chimici ecc.); 2) il ruolo di Xylella fastidiosa come agente causale della malattia CoDiRO; 3) la validità e l’efficacia attesa della rimozione delle piante infette come strumento di contenimento della diffusione della malattia; 4) gli effetti secondari dei prodotti fitosanitari.

Sul secondo punto è stato così dimostrato il rapporto di causa-effetto tra la presenza del batterio e la morte delle piante ospiti (dimostrazione postulati di Koch).

A metà aprile scorso l’UE prende i primi provvedimenti contro l’inefficienza della regia politica pugliese e nazionale, allargando ulteriormente la zona infetta tra i territori di Avetrana e Ostuni, mentre l’Efsa pubblica uno studio secondo il quale i trattamenti in corso di sperimentazione sugli olivi in Puglia possono ridurre i sintomi della malattia causata dalla Xylella fastidiosa, ma non eliminano l’agente patogeno dalle piante infette[4].

Fuori dalla timeline si ricorda che su questo punto è nuovamente intervenuta la magistratura che, dopo il dissequestro, incredibilmente sostiene – va detto chiaramente – con ipotesi e consigli tecnico-scientifici non di sua competenza, ancora il contrario del suddetto studio.

Infine, a fine aprile anche i consulenti della Procura in una dichiarazione ammettono di non avere dati differenti da quelli pubblicati dai ricercatori indagati e che allo stato attuale delle conoscenze e di quello che si sa delle perizie, quindi, il ceppo di Xylella responsabile del CoDiRo è uno solo.

A maggio poi, in risposta al Tar del Lazio e in attesa del deposito della Sentenza, l’Avvocato generale della Corte di Giustizia Europea Yves Bot conclude che le misure UE per combattere la xylella sono valide. Nessuna violazione dei principi di precauzione, adeguatezza e proporzionalità delle misure di contenimento dimostrano la legittimità del Piano Silletti e, contemporaneamente, la Commissione UE vara la nuova Decisione di esecuzione (la 2016/764 che modifica la decisione di esecuzione (UE) 2015/789 relativa alle misure per impedire l’introduzione e la diffusione nell’Unione della Xylella fastidiosa) con l’aggiornamento cartografico di riferimento.

Delimitazione delle aree al 15 aprile 2016
Delimitazione delle aree al 15 aprile 2016

 

A giugno la Corte di Giustizia Europea rinforza il senso delle misure disposte dalla Decisione di esecuzione della Commissione UE e ribadisce che “può obbligare gli stati membri a rimuovere tutte le piante potenzialmente infettate” incluse quelle “non presentanti sintomi d’infezione, qualora esse si trovino in prossimità delle piante già infettate“. Questa misura, infatti, “è proporzionata all’obiettivo di protezione fitosanitaria” ed “è giustificata dal principio di precauzione“, in base alle prove scientifiche in possesso della Commissione. Subito dopo, un nuovo vertice in Procura conferma la volontà degli inquirenti valuta nuovamente il dissequestro.

Il 10 giugno entra il campo l’autorevolissima Accademia dei Lincei con un rapporto poi pubblicato il giorno 26. Nel rapporto i Lincei smontano l’inchiesta, sconfessando le ipotesi dei magistrati e sottolineandone le carenze scientifiche con una dura critica ai metodi della procura.

Abbiamo verificato che le certezze dei ricercatori hanno una solida base scientifica”. Al contrario “la costruzione logica descritta dalla procura non è sostenuta da dati sperimentali” e inoltre anche due dei periti scelti dai pm “sono fra gli autori di una pubblicazione che conferma la tesi dei ricercatori indagati”. I magistrati in pratica vengono smentiti dai loro stessi periti, ma mantengono il sequestro sugli olivi.

A parere dei Lincei, l’azione della Procura rischia di produrre danni enormi, facilitando indirettamente la diffusione del batterio in Italia e nel bacino mediterraneo, con il rischio che si ricombini geneticamente e attacchi oltre all’olivo altre piante come la vite. “E’ difficile comprendere le ragioni del permanere del sequestro conservativo che appare, piuttosto, distruttivo per la flora e l’agricoltura pugliesi. E’ poco plausibile che la procura sia all’oscuro degli sviluppi scientifici e agronomici sopravvenuti negli ultimi mesi.”

Infine, il 12 luglio, uno studio sperimentale pubblicato sull’importante rivista internazionale Journal of Pest Science[5] (Impact Factor 3.103), ha dimostrato il ruolo della sputacchina dei prati, Philaenus spumarius come principale vettore del ceppo Salentino di Xylella fastidiosa.

Lo studio comprova per la prima volta la trasmissione di X. fastidiosa da olivo ad olivo ad opera di Philaenus spumarius.

Qualche giorno dopo, il 18 luglio, da Bruxelles con una dichiarazione il ministro Martina anticipa verso la Regione Puglia “..chi ha le competenze, dobbiamo smetterla di fare i tuttologi e smettere di pensare anche noi in maniera superficiale di avere in tasca soluzioni che semplici non sono mai soprattutto in un caso molto complesso come questo”, il monito del commissario Ue alla salute Vytenis Andriukaitis, secondo il quale l’UE avanzerà una nuova procedura di infrazione se l’Italia non applicherà in pieno la decisione europea per fermare l’espansione della xylella.

Dieci giorni dopo, finalmente, la Procura di Lecce firma il dissequestro degli olivi, non tralasciando di riaffermare che, grazie al sequestro e alle buone pratiche gli alberi hanno ripreso a vegetare (vedi nota 11).

E’ dimostrato invece, sia empiricamente che scientificamente, che un albero di olivo malato, pur continuando a svolgere le proprie funzioni, resta sempre una pianta malata che tende a morire e soprattutto rappresenta una potenziale fonte di inoculo per altre piante, sane.

Ognuno può verificare, come col passare del tempo è ugualmente successo nelle campagne intorno a Monteroni, che a Trepuzzi erano circa 2000 le piante colpite prima del sequestro, mentre oggi manifestano quasi tutte i sintomi della malattia.

A cosa è servito tutto questo? Chi sono i veri responsabili dell’espansione dell’epidemia?

Foto confronto “li sauli” 2013 2016 (per gentile concessione redazione infoxylella.it)
Foto confronto “li sauli” 2013 2016 (per gentile concessione redazione infoxylella.it)

 

3 – Vi sono medicine indicate o trattamenti ad hoc per bloccare questo batterio killer? La metodologia è efficace? Sono stati fatti degli errori, a suo giudizio, anche da parte dei contadini che magari non hanno saputo ben salvaguardare e manutenere nella maniera più corretta possibile queste piante che sono un patrimonio per molte persone, nonché un vero e proprio “bene di famiglia”?

Purtroppo non vi sono fitofarmaci in grado di fermare il batterio e, come ho detto sopra, in uno studio dell’Efsa si sostiene principalmente che i trattamenti in corso di sperimentazione sugli olivi in Puglia possono ridurre i sintomi della malattia causata dalla Xylella fastidiosa, ma non eliminano l’agente patogeno dalle piante infette. I contadini non c’entrano nulla col patogeno e nessuna pratica ha predisposto alla malattia. Le piante, nel bene e nel male sono state conservate fino ad oggi finchè hanno prodotto reddito ma nemmeno l’abbandono ha a che fare con l’ingresso del patogeno.

 

4 – Secondo lei, da tecnico, quali sarebbero i metodi di coltivazione più idonei. Esiste un protocollo della corretta coltivazione? Oppure gli addetti ai lavori hanno intenzione di stilarne uno al più presto per evitare problemi in futuro.

Le buone pratiche agricole, oltre che un abusato ritornello, sono effettivamente il metodo di coltivazione più idoneo. Va detto però, che tali pratiche sono antieconomiche e non si prestano alla moderna olivicoltura. Da ciò, tutte le conseguenze che possiamo riscontrare nei campi, tra abbandoni, bizzarrie improduttive con drastiche potature che rimettono nel peso della legna i costi ordinari.

Fin dall’inizio dell’epidemia, per contrastarne l’avanzata, le buone pratiche sono state più volte consigliate, poi anche imposte e sono disponibili su internet, ma queste ultime ormai hanno poco a che fare con il miglioramento del prodotto.

Le classiche buone pratiche di coltivazione non sono in grado di proteggere gli olivi dall’infezione. Nessun lavoro  ha mai dimostrato che un buon livello di sostanza  organica nel suolo, potature annuali, concimazioni ed irrigazione evitano, in presenza di vettori infetti, l’infezione. Non resta che ridurre drasticamente in tutto il territorio, non solo negli oliveti, le popolazioni di vettori (lavorazioni tempestive con taglio delle malerbe e leggere erpicature e trattamenti per ridurre ulteriormente le popolazioni di vettori adulti) e le fonti di inoculo (eliminare le piante infette o isolare le piante prossime a quelle infette in modo da non consentire l’accesso dei vettori adulti e quindi bloccare la trasmissione del batterio). Attualmente, una valida sperimentazione per la convivenza col batterio è incentrata anche sull’utilizzo di cultivar tolleranti-resistenti, nella speranza che cada presto anche il divieto di reimpianto.

Altra questione è la sostenibilità economica delle “buone pratiche”. Sicuramente sono necessari contributi pubblici per sostenere una parte rilevante dei costi.

Giancarlo Leuzzi
Giancarlo Leuzzi

5 – Come mai questa malattia non esiste in altri Paesi produttori di olio come Spagna, Portogallo, Tunisia, Algeria, Africa Settentrionale, etc.  Queste nazioni usano metodologie corrette ed omologanti di controllo o c’è dell’altro… Perché proprio in Italia?

Il ritrovamento in Costa Rica, di un ceppo batterico identico al ceppo CoDiRO (ST53), nonché le numerose intercettazioni di piante ornalmentali di caffè importate dall’America Centrale (Costa Rica e Honduras in particolare), fa ritenere altamente probabile che il ceppo CoDiRO abbia origini da quell’area geografica.

Sino ad oggi, a seguito di caratterizzazione molecolare MLST (MultiLocus Sequence Typing) effettuata da diversi gruppi di ricercatori su siti diversi e da specie vegetali diverse della penisola salentina, si sono costituiti numerosi isolati di Xylella che risultano avere tutti la stessa sequenza ST53. Tali risultati fanno ipotizzare che l’epidemia sia originata da un unico evento di introduzione. Si pensa che la mancanza di controlli e misure di quarantena che non sono rispettate in tutta Europa e in particolare nel porto di Rotterdam, oltre alla forte attività vivaistica intorno al primo focolaio, abbia favorito l’ingresso del patogeno nel Salento.

 

Note

1 http://agronotizie.imagelinenetwork.com/agricoltura-economia-politica/2015/12/21/xylella-la-procura-di-lecce-blocca-il-pianosilletti/46949; http://www.quotidianodipuglia.it/lecce/xylella_ulivi_sequestro_preventivo_indagati-1436071.html;

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/12/19/xylella-procura-di-lecce-ue-tratta-in-errore-batterio-presente-in-salento-da-20-anniindagheremo-sui-finanziamenti/2319591/; http://www.ilfoglio.it/articoli/2015/12/25/xylella-italia___1-v-136416-rubriche_c284.htm

2 www.lescienze.it/news/2016/01/15/news/xylella_olivi_salento_cattaneo_mautino-2930681/

3 http://www.ilfoglio.it/cronache/2015/12/25/xylella-italia___1-v-136416-rubriche_c145.htm;

http://www.ilfoglio.it/scienza/2016/01/21/sulla-xylella-un-invito-al-procuratore-motta-escile-le-perizie___1-v-137304-rubriche_c930.htm

4 Il 2 marzo sulla rivista “European Journal of Plant Pathology” conferma che all’origine dell’epidemia di disseccamento degli olivi salentini c’è un unico ceppo di Xylella: è indicato con la sigla ST53 ed è sbarcato in Puglia con una pianta proveniente dal Costa Rica. Il risultato rafforza i dubbi sulla decisione della Procura di Lecce di bloccare l’abbattimento degli olivi malati in base a un’inesistente presenza di più ceppi di Xylella.

5 http://www.trnews.it/2016/03/17/xylella-la-procura-medita-il-dissequestro-degli-ulivi-e-chiede-i-pareri/123141338/

6 http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=Xylella&docid=175109&pageIndex=0&doclang=it&mode=req&dir&occ=first&part=1&cid=615631#ctx1

7 http://www.efsa.europa.eu/en/press/news/160329; http://www.infoxylella.it/2016/03/29/efsa-provata-la-patogenicita-xylella/

8 http://www.infoxylella.it/2016/03/31/parere-efsa-dubbi-commissione-europea/

9 https://www.efsa.europa.eu/it/press/news/160329

10 http://www.efsa.europa.eu/it/press/news/160420

11 http://tv.ilfattoquotidiano.it/2016/07/28/xylella-procuratore-capo-di-lecce-annuncia-dissequestro-ulivi-ma-ora-la-regione-puglia-sidia-una-mossa-per-salvare-gli-alberi/547830/

12 http://www.lescienze.it/news/2016/04/27/news/xylella_worshop_dettagli_perizia-3064864/ e

http://www.lescienze.it/news/2016/04/27/news/xylella_consulenti_procura_domande_risposte-3066936/

 

* Giancarlo Leuzzi, Agronomo, consulente di aziende olivicole, consulenze agronomico-ambientali. Vive e lavora a Monteroni. Dal 2013 al 2016 è stato consigliere regionale e poi responsabile settore agricoltura per Legambiente Puglia. Nella redazione del sito infoxylella.it.

Pubblicato su http://www.tgmonteroni.it/index.php/attualita-monteroni-di-lecce/item/552-xylella-l-agronomo-leuzzi-situazione-drammatica-serve-competenza

Lecce: l’obelisco di Porta Napoli, ieri oggi e … domani

di Armando Polito

Non è la prima volta che una testimonianza del passato, per quanto relativamente recente, subisce trasformazioni o, come nel nostro caso, mutilazioni. Se, poi, queste ultime alterano, comunque, l’aspetto originario di un monumento che in modo più esplicito degli altri evoca una importante memoria della storia, l’intervento, appare scellerato, anche se dovesse essere stato dettato da ragioni puramente estetiche, prima agli occhi, poi alla mente e, infine, al cuore. Dimostrazione palese di questo assunto mi pare lo smussamento dei gradini  dell’obelisco del titolo, che qui documento con una serie di foto d’epoca. L’ultima è del 1962; essa è la più antica da me trovata che mostri il discutibile (uso un eufemismo) intervento, dettato, probabilmente,  dalle esigenze del traffico veicolare  che ha amplificato la funzione di rotatoria che pure l’obelisco aveva avuto fin dal momento della sua realizzazione. Per farsi un’idea di questa sorta di prostituzione architettonica  rinvio a Marcello Gaballo-Armando Polito, L’obelisco di Porta Napoli a Lecce, in Il delfino e la mezzaluna (periodico della fondazione Terra d’Otranto), anno III, n. 1, Tipografia Biesse, Nardò, ottobre 2014. Ringrazio fin da ora chiunque vorrà documentare con maggior precisione la data dello stupro e il nome dell’autore. Siccome poi la stupidità umana non ha limiti, mi son voluto cimentare anch’io in questa dimensione e alla fine il lettore troverà una sorpresa …

                                                                             1909

                                                                                       1940

   1949

 

    1952

 1955

        1962

E siamo alla sorpresa promessa. Non mi meraviglierei se fra qualche anno l’obelisco avesse le sembianze che seguono, dico fra qualche anno e non decennio perché a quella data, molto probabilmente, sarà stato demolito integralmente ….

E non mi rallegra certamente il fatto che possa succedere che il carnefice di turno, in un empito di insolita onestà intellettuale, dichiari espressamente di essersi ispirato alla mia geniale proposta …

Premio Giornalistico Terre del Negroamaro al nostro sito e al nostro collaboratore Giuseppe Massari

Premio Negroamaro

Al nostro sito web magazine Fondazione Terra d’Otranto (www.fondazioneterradotranto.it) e al nostro collaboratore, Giuseppe Massari, la giuria del “Premio Giornalistico Terre del Negroamaro”, concorso ideato e promosso dal GAL Terra d’Arneo , giunto alla sua quarta edizione, ha ritenuto il servizio “Negroamaro, la parola alla storia”, pubblicato, in due parti, nel corso del mese di giugno scorso, “meritevole di menzione speciale per l’approfondimento sul tema del negroamaro; che racconta l’intrigante storia del vino negroamaro dando lustro ad un evento importante per il nostro territorio”.

Questo non può che essere motivo di sano e legittimo orgoglio. Pugliese e salentino. Gratificazione per il continuo e diuturno lavoro per affermare e confermare l’autenticità di una terra storica, antica, bella, verace, generosa e genuina. Ricca di prodotti legati alla intrinsecità del vasto territorio in cui messapi, greci e bizantini hanno saputo ridestare l’amore, l’interesse, costruendo, edificando ed innestando tradizioni, gusti e sapori. L’autenticità delle sponde dei due mari che si incrociano e si intersecano sul cammino verso quell’Oriente dal quale è stato tratto il respiro, l’anima e il cuore delle pitture murali bizantineggianti presenti nella cornice del Salento sacro, mistico e profetico.

La manifestazione di premiazione si svolgerà venerdì prossimo, 19 agosto, in piazza Maria SS. Del Rosario, nel centro storico di Guagnano , alle ore 21.00, nell’ambito dell’ottava edizione “Premio Terre del Negroamaro”, in quello che è diventato un appuntamento fisso e da non perdere nel mese di agosto; organizzata dall’amministrazione comunale guagnanese, guidata dal sindaco Fernando Leone, dal Comitato Tecnico Operativo del Progetto, in collaborazione con il GAL Terra d’Arneo e la Pro Loco ” Guagnano ’93”, con il contributo dell’Unione dei Comuni del Nord Salento, il patrocinio della Regione Puglia, della Provincia di Lecce, e dell’Università del Salento. A salire sul palco dei premiati anche la giornalista Agnese Pellegrini, vincitrice della categoria stampa con un redazionale dal titolo “Salento. Una Terra tra i due mari”, pubblicato sulla rivista BenEssere del Gruppo St Pauls International.

Una descrizione accurata che non esclude nessuno dei comuni del comprensorio ed accompagna il lettore alla scoperta di un territorio che ha molto da offrire in tutte le stagioni.

L’attenzione è ferma soprattutto sul turismo culturale e religioso, tema caro alla Pellegrini che già aveva approfondito in un altro redazionale, pubblicato anch’esso sulla stampa nazionale, e focalizzato soprattutto sulla figura di San Giuseppe da Copertino, il Santo dei voli ed altri santuari minori presenti in Terra d’Arneo.

Per la categoria radio/tv, ad aggiudicarsi il primo premio è GiaNet Media di Claudio e Francesco Giannetta, titolari della web tv InOnda (www.inonda.tv), con il servizio “Arneo… tra terra e mare”. Un occhio attento e curioso dietro la telecamera percorre tutta la Terra d’Arneo, dalla costa all’entroterra, regalando scorci inaspettati e paesaggi mozzafiato che esprimono la bellezza e la generosità del territorio.

Prevista anche la consegna del “Premio Speciale Terra d’Arneo” a due personaggi che, a vario titolo, si occupano della promozione e della crescita del nostro territorio. Si tratta del giornalista Michele Peragine, Presidente dell’Associazione Giornalisti Agroalimentare della Regione Puglia nonché giornalista RAI, e dell’ Ammiraglio Ispettore Vincenzo Melone, Comandante generale del corpo delle Capitanerie di porto: il primo per l’attenzione riservata al nostro territorio soprattutto per il comparto agricolo ed agroalimentare, il secondo per l’opera svolta a salvaguardia del patrimonio costiero e del mare e per la sensibilità sociale a favore dell’accoglienza.

I vincitori riceveranno un premio speciale offerto dalla gioielleria Tondo di Leverano e un paniere di prodotti locali come sintesi di tradizione, cultura e identità della Terra d’Arneo. “Soprattutto quest’anno la nostra partecipazione al Premio Terre del Negroamaro e l’impegno a portare avanti la nuova edizione del premio giornalistico rappresenta la volontà di dare continuità al lavoro intrapreso negli anni precedenti ed arricchirlo di contributi importanti in vista della nuova programmazione che è alle porte, spiega il Presidente del GAL Cosimo Durante.

Ancora una volta il nostro obiettivo sarà quello di promuovere il territorio con azioni in linea con l’identità dei luoghi e che diano particolare attenzione al comparto dell’agroalimentare e del turismo in collegamento con gli eventi e le iniziative che animano la Terra d’Arneo”.

ottava edizione - premio terre del negroamaro

Libri| Otranto forma urbis. Dal primo giorno

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Il volume racchiude una approfondita disamina della storia della città più ad oriente d’Italia. Utilizzando i dati archeologici – anche i più recenti – ed incrociandoli con quelli geomorfologici, l’autore ricostruisce le fasi più antiche del popolamento della città e dell’area circostante, per poi arrivare alla storia più recente attraverso lo studio di monumenti e dati d’archivio. Pagina dopo pagina, grazie anche al supporto di splendide immagini, cartografie e ricostruzioni, Cariddi “riscrive” la vita della sua Otranto a partire dai primi insediamenti preistorici e protostorici sparsi anche per la valle dell’Idro, passando poi alla città messapica prima e romana poi, fino ad arrivare al periodo medioevale con il celebre sacco e l’età post medievale, fino ai primi del ‘900.

L’Autore, con il presente lavoro, e con una precisa attenzione verso la ricostruzione geomorfologica del territorio otrantino nel corso dei secoli e l’attenta analisi dei dati archeologici noti, offre nuovi punti di vista e di ricerca storico-archeologica utili per una maggiore conoscenza di una Città, Otranto, da sempre Porta d’ingresso vocata al transito e all’accoglienza.

 

Pierpaolo Cariddi si è laureato negli anni novanta in Ingegneria civile, sezione edile-architettura, presso il politecnico di Bari. La passione per la storia e l’architettura antica hanno nel tempo alimentato i suoi studi su Otranto, città natale, dove risiede e lavora, interessandosi di beni monumentali.

L’attenzione verso l’esigenza dell’architettuta militare di dover coniugare forma e funzione, lo porta a pubblicare nel 2014 il volume dal titolo Otranto intra moenia dagli Aragonesi ad oggi (edizioni esperidi).

 

Genere: Saggistica

Autore: Pierpaolo Cariddi

Titolo: Otranto forma urbis. Dal primo giorno

Numero di pagine: 228 (circa 200 immagini)

Formato: 23,5 x 22

Ean: 978-88-97895-87-9

Prezzo: 25,00 euro

edizioni esperidi

 

Lecce, viale Otranto: armonie urbanistiche del passato

di Armando Polito

Che piaccia o no, la crisi economica in atto almeno un effetto positivo, secondo me, lo sta esercitando col ridimensionamento della smania di costruire (con linguaggio psichiatrico potrebbe essere definita come sindrome di ossessione edificatoria compulsiva  …) manifestatasi in tutta la sua invadenza soprattutto negli ultimi decenni del secolo scorso, preceduta, anche nel nostro territorio, dallo sciagurato sventramento di tanti centri storici e non solo (con la perdita irrimediabile di memorie architettoniche, alcune delle quali di indubbio pregio artistico) e dall’osceno deturpamento delle nostre coste. C’è solo da augurarsi che, quando questa famigerata luce in fondo al tunnel (mai similitudine rischiò di diventare più retorica, stupida e ridicola …) apparirà, non si ricominci ad imitare il passato, ma, piuttosto, si tenda alla tutela dell’esistente, pur nella sapiente ristrutturazione e nel rispettoso adeguamento  alle esigenze abitative di oggi.

Per renderci conto di quanto abbiamo perduto per sempre e quale schifo siamo riusciti a creare basta una semplice cartolina illustrata, in molti casi anche dei primi anni 50 ed un po’ di pazienza nello sfruttare adeguatamente Google Maps alla ricerca di una prospettiva attuale che coincida quanto più possibile con quella della cartolina. È quello che ho fatto, come altre volte, anche oggi e per dimostrare quanto detto genericamente all’inizio, nell’imbarazzo, purtroppo, della scelta, ho deciso questa volta di puntare sul capoluogo, proponendo  uno scorcio di viale Otranto qual era nel 1921, impietosamente messo a confronto con quello attuale.

Evito di esprimere ulteriori , dettagliati giudizi e chiudo, ancora una volta, con la solita comunicazione di servizio: sarà graditissima la collaborazione di tutti quei lettori locali che vorranno inviare alla redazione una foto attuale per prospettiva più  vicina all’antica di quanto non sia quella da me tratta ed adattata da Google Maps (anche per chiudere la bocca a chi eventualmente dovesse affermare, pur a denti stretti, che la maggiore gradevolezza dell’antico rispetto al moderno è solo una questione di inquadratura …). In tal caso provvederò quasi in tempo reale alla provvidenziale sostituzione, aggiungendo in didascalia il nome dell’autore dello scatto. Ringrazio anticipatamente quanti vorranno farlo.

Alfredo Mariano, tra gli ultimi costruttori di traini del Salento

foto Cantoro - Supersano
foto Cantoro – Supersano

Mesciu   Alfredu

di Maria Antonietta Bondanese

“Acqua alle rote!” L’espressione proverbiale che invita a fare in fretta, evoca l’atto delle “ferratura” delle ruote. Operazione di sveltezza e precisione. Alfredo Mariano, carpentiere da decenni per bravura e per passione, me ne spiega le fasi.

Tutto è foggiato a mano: il mozzo, i dodici raggi da inserire a due a due nelle “caviglie”, cioè i gavelli o parti della circonferenza uniti mediante la “ mmicciatura”.

Per dare compattezza e durata alla ruota, si prepara quindi il cerchio esterno in ferro. Non solo “mesciu d’ascia”, Alfredo è anche eccellente fabbro, perché « in questo mestiere se non sai lavorare ferro e legno, non puoi fare niente», dice con un sorriso, leggendomi in volto ammirazione e rispetto per un’arte che richiede competenze diverse, dall’uso sapiente di scalpello, pialla e sgorbia a quello di tornio, incudine, mazze e martelli.

Foto Cantoro - Supersano
Foto Cantoro – Supersano

 

Da una spessa spranga di ferro si ottiene, infatti, con pazienza un cerchio, saldato alle due estremità, dilatato poi a caldo, su un letto di brace, essendo il suo diametro più piccolo rispetto a quello della ruota cui è destinato. Con apposite tenaglie viene calato sulla ruota, battuto per un perfetto incastro e subito raffreddato, in modo che aderisca senza bruciare il legno.

Un canovaccio che è lo stesso da tempo immemorabile, cui però l’abilità e la personale esperienza aggiungono sempre piccoli o nuovi accorgimenti perché ogni “pezzo” che esce dalle mani del carpentiere – traino, biroccio, calesse o sciarabbà – sia un capolavoro, motivo di orgoglio e di prestigio per il suo artefice.

Patrimonio di perizia e conoscenze che potrebbe essere fatto salvo dalle nuove generazioni se considerato non come relitto di un passato perduto ma come vitale artigianato da reinterpretare nel presente. «Da ragazzo – ricorda Alfredo – guardavo lavorare ‘mesciu Giorgi’, vicino casa mia…allora il mestiere si imparava con gli occhi, senza chiedere niente». Scampato nel 1981 ad un grave incidente nel quale subisce la menomazione del braccio destro – momenti di dramma che ancora vibrano nella voce commossa della moglie Rita e di Alfredo la cui profonda devozione alla Madonna di Celimanna lo aveva spinto solo una settimana prima ad intervenire per spegnere un incendio da corto circuito al contatore del santuario -, dopo qualche anno Alfredo cessa la sua attività nell’azienda agricola Frascaro e inizia, con intraprendenza e coraggio, a lavorare il legno, riproducendo prima eleganti vascelli inglesi in miniatura, poi restaurando e costruendo gli antichi mezzi di locomozione, carrozze e traini, memore dell’arte di ‘mesciuGiorgi’.                                                                                                                  

foto Cantoro - Supersano
foto Cantoro – Supersano

 

Le suggestive sfilate di traini, sciarrette e sciarabbà che l’Associazione “Tradizioni Popolari” di Supersano propone nel maggio fiorito per le vie del nostro paese, già da qualche lustro, attestano curiosità ma anche interesse nei più giovani, emozionando gli anziani che, nei primi anni del secondo dopoguerra, vedevano interminabili file di carretti passare la notte del 14 agosto, diretti a Torrepaduli, a San Rocco, il santo taumaturgo tanto venerato.

Avanzavano lentamente, con le lanterne accese sistemate in basso, sotto il carretto, per rischiarare la strada, in un’atmosfera di sacrale attesa, di umile gioia, tra stornelli e suoni di tamburello. Un sentimento della festa che nessun mezzo di trasporto odierno potrebbe mai ricreare. Anni difficili, di miseria, ma proiettati verso una speranza di riscatto in un’ Italia che risorgeva dalle macerie della guerra. I fallimenti della riforma agraria, della Cassa per il Mezzogiorno, e poi ancora dell’ “aggancio del Sud all’Europa” hanno ucciso, uno dopo l’altro, quella speranza determinando oggi l’ennesima fuga a Nord di braccia e cervelli del Meridione.

Mola, trapano, troncatrice, calandra e “stringicantu”, sega e saldatrice: varie le macchine e gli attrezzi con cui Alfredo ha realizzato nel tempo straordinari manufatti che hanno lasciato Via Castagna per raggiungere committenti da ogni provincia di Puglia, tanto prezioso e ormai raro è il suo talento. Strumenti che raccontano un’altra storia, non di fallimenti ma di una battaglia vinta grazie a ingegnosità e inventiva.

Le stesse che leggiamo nelle geometrie di muretti a secco che delimitano confini e “cisure” nelle nostre campagne. Merletti di pietre, muta bellezza di una architettura senza architetti. Bellezza da custodire integra, per una rinascita dei nostri luoghi, un ritorno nei vecchi centri storici, a ripristinare case dalle volte a botte o a stella, a restituire l’anima a cose e mestieri dismessi.

Foto Cantoro - Supersano
Foto Cantoro – Supersano

 

Bellezza che riluce dal traino ben fatto, il quale va non solo bilanciato in modo da “nè mpicare annanzi, né mpicare arretu” ma va pure “stracallato” – sottolinea compiaciuto Alfredo -, reso gradevole agli occhi con decorazioni a colori vivaci, rosso, bianco, indaco, giallo e curato nei minimi dettagli: dalla “lettéra”, il piano di seduta, alle sponde laterali, dette “ncasciati”, al “valenzinu”, il bilancino con ‘tappone’ di ferro per attaccare il cavallo. Bordature e filettature conferiscono infine simmetria e nitore all’opera, eseguita a “regola d’arte” come vuole la tradizione di un mestiere dalla forte identità.

Emblema di un Sud che non si arrende agli schemi omologanti della globalizzazione e sa valorizzare la memoria collettiva, con le proprie forme di vita, le proprie forme di pensiero e di lavoro.

 

La cripta della Madonna di Loreto nella chiesa matrice di Manduria

Madonna di Loreto (Chiesa Matrice)

di Nicola Morrone

 

Tra i luoghi di culto manduriani meno conosciuti vi è la cripta della Madonna di Loreto, collocata sotto il presbiterio della Chiesa Matrice.

La sua storia, antichissima, è di grande fascino. In origine, pare che la cripta costituisse una primitiva chiesa bizantina, verosimilmente realizzata intorno al sec. IX, d.C., al tempo di Gorgolano, luogotenente del condottiero Niceforo Foca[1].

Alla chiesetta “greca” sarebbe stata successivamente affiancata una cappella “latina”, edificata su impulso dei Normanni, che alla fine del sec.XI avevano sostituito i Bizantini nel governo del Mezzogiorno.

La chiesetta normanna fu in seguito abbattuta per realizzare l’attuale Matrice, di dimensioni più ampie e conclusa nel 1532. La nuova chiesa finì per inglobare anche la cripta bizantina, Questa cappella, le cui origini sono dunque antichissime, assunse nel corso del tempo un aspetto molto diverso da quello primitivo, raggiungendo infine l’attuale configurazione[2].

La cripta, cui si accede attraverso due ingressi, posti in corrispondenza della scalinata che conduce al presbiterio, si presenta come un vano rettangolare, lungo m.14 e largo m.10[3]. La cappella è descritta in dettaglio dal Tarentini, il quale afferma che essa , provvista in origine di tre altari e di un soffitto dipinto, alla fine del sec. XIX risultava corredata di un solo altare, qualificato da una statua della Madonna col Bambino[4], che è quella tuttora visibile.

Completavano il corredo della chiesetta una Natività rinascimentale in pietra leccese, anch’essa ancora fruibile, e un dipinto raffigurante la Madonna della Nuvola, purtroppo perduto[5]. Il Tarentini sostiene che nella cripta erano allogate alcune tombe gentilizie (famiglie Micelli, Barci, Goffredo), e due sepolcri della Congregazione della Madonna di Loreto[6]. La presenza dei sepolcri comuni si giustifica con l’intitolazione della cripta, a partire dal sec. XVII, alla Vergine SS. di Loreto, cui fu annessa una Congregazione laicale che mantenne vivo il culto per tre secoli.

Il Tarentini ricostruisce l’origine della Congregazione, oggi non più esistente, con dovizia di particolari. L’iniziativa di introdurre a Casalnuovo il culto della Madonna di Loreto si deve (come confermato dai referti documentari) al sacerdote gesuita Gabriele Mastrilli, il quale, giunto a Casalnuovo come predicatore, suggerì ai fedeli convenuti nella Chiesa Matrice di avviare la devozione lauretana. L’invito fu accolto, e con il sostegno dell’Arciprete Dilorenzo e del Capitolo, la Confraternita fu canonicamente eretta, con sede temporanea appunto nella cripta[7].

I confratelli, riunitisi sotto la regola dettata da Padre Mastrilli, cercarono in seguito di provvedere alla costruzione di una propria cappella. L’operazione non riuscì, per cui si stabilì che la cappella pertinente al sodalizio fosse costituita proprio dalla cripta.[8]

Dopo l’assegnazione definitiva della sede, i confratelli si preoccuparono di abbellire il luogo di culto: fecero decorare la volta con stucchi, e la corredarono anche di tre dipinti di soggetto mariano. Nel 1720 essi si provvidero di una statua della Madonna di Loreto, da utilizzare per le processioni, sostituita nel 1879 da un altro simulacro[9], che è quello attualmente visibile[10].

Come già segnalato, il sodalizio confraternale, ancora attivo alla fine del sec. XIX e impegnato nel solennizzare la Vergine SS. di Loreto nella relativa ricorrenza, si sciolse in un’epoca imprecisata.

A testimonianza dell’esistenza di questa istituzione restano i documenti, e le altre evidenze materiali: le opere d’arte e la stessa cripta che, attualmente occupata dai materiali di scavo, si spera sia presto restituita alla piena fruibilità.

 

[1] Cfr.A.Lopiccoli, Compendio storico della città di Manduria (manoscritto del 1884), p.205 e 269.; Cfr.inoltre P.Brunetti, Manduria tra storia e leggenda (Manduria 2007),pp.171-172.Niceforo Foca fu generale alle dipendenze dell’imperatore bizantino Basilio I (867-886 d.C).Recenti scavi all’interno della cripta della Chiesa Matrice hanno restituito, tra le altre cose ,anche una moneta di Basilio I.Dei materiali di scavo si attende la pubblicazione.

[2] Uno spoglio degli atti delle Visite Pastorali dei vescovi di Oria potrebbe fornire indicazioni relative all’aspetto della cripta nei secc.XVII-XIX.

[3] Cfr.L.Tarentini, Manduria Sacra (n. ed., Manduria 2000), p.98.

[4] Cfr.L.Tarentini, op.cit.,p.98. La statua, datata al sec.XVI, è stata ricondotta dagli studiosi all’ambito del Maestro della Madonna di San Benedetto, seguace di Stefano da Putignano.

[5] Cfr.L.Tarentini, op.cit.,p.98.

[6] Cfr.L.Tarentini, op.cit.,p.99. In seguito ai recenti scavi archeologici , è stato individuato il sepolcro confraternale, con le relative inumazioni ed alcuni oggetti di corredo.Anche di questi materiali si attende la pubblicazione.

[7] Al sodalizio confraternale, in origine composto esclusivamente da contadini (“foretani”), presero parte successivamente anche gli artigiani.

[8] Cfr.L.Tarentini, op.cit.p.99..

[9] Cfr.L.Tarentini, op.cit.,p.100.

[10] Cfr.S.P.Polito, La cartapesta sacra a Manduria.Sec.XVIII-XX (Manduria 2002),pp.48-49.

Le lacrime di San Lorenzo

San Lorenzo, io lo so perché tanto

di stelle per l’aria tranquilla

arde e cade, perché sì gran pianto

nel concavo cielo sfavilla…”

Giovanni Pascoli

 notte san lorenzo

 

Anche quest’anno lo sciame meteorico delle Perseidi, andrà ad illuminare le nostri notti di Agosto. La tradizione indica il 10 Agosto, come notte migliore per l’osservazione dello sciame meteorico delle Perseidi, conosciute nella tradizione popolare come “lacrime di San Lorenzo”, ma la sua attività sarà massima tra le ore 10:00 e le 24:00 del 12 di Agosto, quando il radiante, situato nella costellazione di Perseo, sarà dunque ben alto nel cielo.

Tuttavia la suggestiva bellezza dello sciame più antico al mondo, potrebbe essere un po’ disturbata dalla presenza di un quarto di Luna crescente, e da un cielo sempre più illuminato dalle luci artificiali che rischiano di indebolire la visone dei piccoli detriti, residui della disintegrazione della cometa Swift-Tuttle, che “cadendo” ad altissime velocità contro la nostra atmosfera bruciano e la ionizzano mostrandoci nel cielo l’effimera scia di luce.

La tradizione cristiana, come noto, ha legato il concetto di pioggia di stelle cadenti al martirio del santo Lorenzo, dal III secolo sepolto nell’omonima basilica a Roma. Originario della Spagna e più precisamente di Osca, giovanissimo, fu inviato a Saragozza per completare gli studi umanistici e teologici, dove incontrò il futuro papa Sisto II. Questi insegnava in quello che era, all’epoca, uno dei più noti centri di studi della città e, tra quei maestri, il futuro papa era uno dei più conosciuti ed apprezzati. Tra maestro e allievo iniziarono quindi un’amicizia e una stima reciproche. In seguito entrambi, lasciarono la Spagna per trasferirsi a Roma.

Quando il 30 agosto 257 Sisto fu eletto vescovo di Roma affidò a Lorenzo il compito di arcidiacono cioè di responsabile delle attività caritative nella diocesi di Roma. Ma con l’editto di Valeriano che nell’agosto del 258 emanava, la messa a morte di vescovi e presbiteri, prima Papa Sisto il 6 di agosto e successivamente Lorenzo il 10 di agosto, furono arrestati e messi a morte.

Sarebbero proprio le lacrime versate dal santo durante il suo supplizio; a vagare eternamente nei cieli, discendendo sulla terra solo il giorno della sua ricorrenza, creando un’atmosfera magica e carica di speranza.

Secondo la tradizione popolare, le stelle del 10 agosto vengono dette anche fuochi di San Lorenzo, ricordando le scintille provenienti dalla graticola infuocata su cui venne ucciso il martire, poi volate in cielo. In realtà la storia sostiene che il santo non venne sottoposto al martirio della graticola, bensì venne decapitato.

Tra tradizioni, astronomia e storia, tutti allora con gli occhi rivolti al cielo, verso Nord-Est, dove ognuno di noi troverà la sua stella cadente in cui riporre i propri desideri, confidando nella magia dell’infinito che tutto può far avverare.

 

Pati Luceri al 5° giorno di sciopero della fame

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Pati Luceri al 5° giorno di sciopero della fame per denunciare le condizioni disumane dei migranti nel CIE di Restinco (Br) e la detenzione illegale dei detenuti politici in Turchia e Israele

di Paolo Rausa

In Salento è periodo di vacanze, di mare, feste, pizziche… ma la solidarietà internazionale non si ferma. Non per Pati Luceri da Martano (Le). Lo incontro al Castello di Corigliano d’Otranto durante la seconda tappa di una iniziativa culturale sul griko, promossa da una serie di organizzazioni locali, i cui esponenti dialogano nella lingua grecanica come sfida e continuità con le radici dei luoghi.

‘Tàlassa ti nonni tàlassa ti zechorìzi’ – ‘Mare che unisce, mare che divide’ è il titolo. I riferimenti sono molteplici, alla ‘madre patria’, quella Grecia da cui arrivarono i primi coloni, al mare che porta con sé anime in fuga dalla guerra e dalla devastazione. Quel clima si respira nell’iniziativa assunta da Pati Luceri.

Mi mette al corrente e ne nasce questo breve scritto. Ci rivediamo e mi racconta della sua scelta di denuncia utilizzando lo sciopero della fame. ‘Sono contro per principio – mi dice – ma ora sono costretto a richiamare l’attenzione sui fatti di casa nostra e sulla detenzione illegale di molti attivisti politici in Turchia, Ocalan e i curdi, e in Israele, dove centinaia di detenuti giacciono rinchiusi nelle carceri senza incriminazioni e senza processi’.

In particolare Pati ricorda il detenuto palestinese Bilal Kayed, in sciopero della fame a sua volta da 50 giorni. ‘A metà giugno avrebbe dovuto tornare a casa ad Asira al-Shamaliya, in Cisgiordania, dopo aver passato quasi 15 anni nelle prigioni israeliane, e quando le autorità di occupazione gli rifiutarono il rilascio e lo misero in detenzione amministrativa, diede inizio allo sciopero della fame.’ – racconta Pati. La sua azione è accompagnata dal contemporaneo sciopero di numerosi militanti di Hamas e del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina.

Ricorda l’attività instancabile della Rete Kurdistan di Lecce per la libertà e l’autodeterminazione del popolo kurdo e del suo leader Ocalan, tuttora detenuto e relegato nell’isola di Imrali. Ma la denuncia di Pati va oltre, non si ferma e si indirizza contro il CIE di Restinco (Br), una vera e propria prigione dove vengono ammassati in condizioni disumane i migranti, rei di scappare da condizioni di guerra nei paesi di origine. ‘Non sono così presuntuoso – ribatte Pati alle mie osservazioni – la mia battaglia è per mettere a fuoco l’attenzione e la tensione sul CIE di Restinco e contribuire al dibattito per allargare il confronto ed ampliare la solidarietà riguardo i fratelli e le sorelle migranti trattenuti nel CIE e dei prigionieri politici che lottano per l’autodeterminazione della loro terra!’

La sua determinazione è commovente ma è risoluto nel definirsi ‘uno che, pur con tante contraddizioni, cerca di dare il suo contributo all’abbattimento di ogni violenza contro il proprio simile e soprattutto a partire dai più deboli – sottolinea con enfasi – e di tutti i senza voce, a partire da quelli reclusi nel CIE di Restinco’.

Pati richiama le nostre coscienze e le istituzioni a porre fine alle discriminazioni politiche e sociali per affermare ‘un mondo più giusto e solidale’.

Copertino: una mancata veduta settecentesca

di Armando Polito

Chiunque sfogli, come ho fatto io, il testo (integralmente consultabile in https://books.google.it/books?id=DYil3DWkU2oC&printsec=frontcover&dq=editions:T30UfxWID0IC&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjB7syu8aTOAhWFVhoKHYZIBFYQ6AEIHDAA#v=onepage&q&f=false) del quale riproduco di seguito il frontespizio,

s’imbatterà proprio all’inizio (p. III) nell’unica immagine che lo correda e che di seguito riproduco.

Considerando il titolo dell’opera uno pensa immediatamente ad una rappresentazione, per quanto approssimata, di Copertino. Ma dopo la fabbrica fortificata in primo piano e sul suo lembo sinistro quella specie di minareto, che potrebbero pure starci, inevitabilmente l’occhio coglie nella restante parte un paesaggio che presenta connotati ben diversi dal nostro.

Come il lettore avrà notato, il frontespizio non reca né data né editore né luogo di edizione, ma alla fine di p. XCII il testo che in basso ho sottolineato in rosso consente di dare una datazione, se non all’edizione, almeno alla scrittura della difesa.

Giacinto Dragonetti (L’Aquila 1738-Napoli 1818) fu un famoso avvocato fiscalista. Entrato in magistratura negli anni 80 del XVIII secolo (quindi dopo la stesura di questa difesa), nel 1792 ricoprì la carica di magistrato della Monarchia di Sicilia, carica inferiore solo a quella di vicerè. Nel 1798, rientrato a Napoli, fu prima consigliere della Regia Camera della Sommaria e poi presidente della Gran Corte della Vicaria. Di seguito il suo ritratto tratto da Alfonso Dragonetti (suo nipote), Le vite degli illustri aquilani, Perchiazzi, L’Aquila, 1847.

A questo punto mi pare abbastanza probabile che l’immagine, se non è di pura fantasia, si riferisca a L’aquila, che cioè nella scelta (se pure fu lui a farla) Giacinto si sia lasciato trascinare dall’amore per la terra natia. Probabilmente nulla sarebbe cambiato, per un intersecarsi di genealogie, nemmeno se fosse vissuto dopo, quando, cioè, Laura de Torres (morta nel 1838) sposò il marchese Giulio Dragonetti e quando, in seguito al matrimonio fra Francesco de Torres (1808-1881) e Luisa Sanseverino (1707-1869) quest’ultima portò il titolo di duchessa di Seclì, che, com’è noto, dista 20 km. circa da Copertino. Credo che nemmeno questo, se per assurdo si fosse verificato, sarebbe stato sufficiente per evocare in Giacinto la Terra d’Otranto ed indurlo a scegliere un’immagine della città del patronato reale della cui chiesa, pure, aveva scritto la difesa …

Ancora ricette salentine col polpo

Immagine tratta da http://bari.repubblica.it/cronaca/2012/06/05/foto/puglia_da_amare-36424684/7/
Immagine tratta da http://bari.repubblica.it/cronaca/2012/06/05/foto/puglia_da_amare-36424684/7/

 

di Massimo Vaglio

Polpo al ragù

Per preparare un ragù di polpo ottenendo un risultato ottimale è necessario procurarsi un grosso polpo, diciamo del peso non inferiore al chilogrammo e mezzo. Pulite e battete il polpo, privatelo di tre-quattro tentacoli e riduceteli a tocchetti lasciando il resto intero. Fate imbiondire leggermente mezza cipolla in una casseruola con un filo di olio di frantoio sul fondo. Unite i tocchetti di polpo, rosolateli, bagnate con mezzo bicchiere di vino bianco, falelo evaporare, unite della passata di pomodoro, una presa di pepe nero macinato al momento e un mazzetto di prezzemolo. Portate a bollore e calate il resto del polpo. Lasciatelo cuocere coperto di sugo a fuoco basso sino a completa cottura, cosa di cui potete essere certi quando lo stesso si lascerà trafiggere facilmente dai rebbi di una forchetta. A questo punto spegnete, cacciate il polpo, fatelo raffreddare un poco e tramite un affilato coltello, riducete anche questo a tocchetti e rimettetelo nel ragù. Condite con il ragù ottenuto degli spaghetti cotti al dente o altro formato di pasta preferito e servite subito.

 

Polpo affogato

Fate rosolare abbondante cipolla e qualche spicchio d’aglio in ottimo olio di frantoio, unite il polpo precedentemente pulito, battuto e tagliato a pezzetti. Continuate la cottura a fiamma bassissima a casseruola coperta. Verso fine cottura regolate di sale.

 

Polpo in pignatta

Abbiamo sopra già fatto cenno alla straordinaria versatilità culinaria del polpo ed è quindi molto difficile scegliere quale sia la preparazione loro più congeniale. In linea di massima potrete fare le vostre scelte partendo dalle dimensioni dei polpi che avrete a disposizione, tenendo presente che sarà meglio preparare quelli di grossa mole lessi o in umido poiché sono metodi che vi consentiranno di avere ragione della durezza delle loro carni con delle prolungate cotture, e preparando quelli più piccoli negli altri modi. Quindi per questa preparazione andranno bene i polpi di grossa mole che comunque sarà sempre bene battere avendone la possibilità su di uno scoglio in riva al mare, strofinandoli sino quando non abbiano perso la loro naturale viscidità divenendo sodi al tatto. Dopo aver trattato il polpo nel modo descritto e fattolo a tocchetti, mettete in una pignatta di terracotta: olio di frantoio, pomodorini tagliuzzati, cipolla o cipollotti affettati molto finemente, prezzemolo, una presina pepe nero macinato di fresco e mezzo bicchiere d’acqua. Portate il tutto a calore ed unite il polpo e lasciate cuocere a fiamma moderata e coperto in modo che cuocia lentamente con “la sua stessa acqua”. Generalmente non è necessario aggiungere sale, ma eventualmente una leggera aggiustatine conviene farla all’ultimo momento. Quando il polpo avrà acquisito un bel colore rosso e si trafiggerà facilmente con la forchetta, sarà cotto al punto giusto e potrà essere servito ben caldo accompagnato da pane pugliese. In inverno si può abbinare un Rosso del Salento amabile, ed in estate un Leveranno rosato ben fresco.

 

Li ràppuli (le rughe)

di Armando Polito

* E io che pensavo che nell’armadietto avesse messo la riserva delle mie scatolette!

(per una più agevole lettura del testo che compare nell’immagine clicca sulla stessa e, dopo che sarà comparsa da sola, clicca una seconda volta per ingrandirla)

Qualche lettore potrebbe essere colto dal sospetto che il blog stia cominciando a strizzare l’occhio alla cura del viso dopo quella, per così dire, della pancia, visto l’enorme, inarrestabile successo  registrato dal post che l’amico Massimo Vaglio dedicò tempo fa alla frisella e che puntualmente è ogni giorno, male che vada, al terzo posto tra quelli più letti.

Niente di più sbagliato e, comunque,  destinato a deludere chi già si stava precipitando a prendere carta e penna convinto che grazie ai miei consigli sarebbe stato in grado, se non di fermare, almeno di rallentare gli effetti inesorabili dell’avanzare degli anni. Chi, invece, vuol fare insieme con me una breve passeggiata nel tempo mi prenda a braccetto (e se si tratta di un omone il cui braccio ha una circonferenza massima di quaranta centimetri? Non sarebbe meglio, perciò, dire a braccio?), perché si parte con un vecchio detto salentino.

Li tienti no sso’ nnienti, li capiddhi no sso’ iddhi, li ràppuli so’ quiddhi! (I denti non son niente, i capelli non sono essi, le rughe sono quelle [che tradiscono la vecchiaia].

Credo che l’incalzare del tempo e la connessa evoluzione (dal costume, alla scienza, dalla politica alla tecnologia) abbia, soprattutto negli ultimi decenni, messo in dubbio molte verità cui si riferivano ie massime del passato. Non c’è da meravigliarsi, perché pure la cultura non popolare ha conosciuto disfatte ben più gravi. Basti pensare al ciceroniano historia magistra vitae, che da quando è nato ha collezionato per due millenni miliardi di sconfessamenti nella molteplicità delle manifestazioni della vita privata e pubblica.

Mi pare opportuno, però, prima di esaminare la veridicità o meno del detto dialettale, farne una disamina, anche qui, alla luce della storia. Nei decenni passati, quando non esistevano cure odontoiatriche che non fossero, soprattutto per i meno abbienti, la semplice e sbrigativa estrazione del dente cariato, quando per la calvizie dei ricchi c’era la parrucca ma non ancora il trapianto e per i poveri c’era … la calvizie, quando per le donne (e, credo, anche per gli uomini …) abbienti era molto più difficile di quanto non sia ora rimodellare l’ovale (e non solo quello …) e il nesso chirurgia estetica non esisteva nemmeno nella fantasia di qualcuno, essendo la perdita dei denti e dei capelli in età relativamente giovane un fatto non eccezionale, erano le rughe l’indizio, anzi la prova, inconfondibile dell’età avanzata, sempre che non fossero, rubando la metafora a Il sognatore di Peppino di Capri (lui 76 anni, io 71: siamo in tema …), il tatuaggio di un dolore.

Ora, anche se nessuno dei lettori, giustamente, se ne frega, sono costretto ad aggiornarvi sulla mia condizione attuale per quanto riguarda denti, capelli e rughe. Comincio con i capelli, dicendo che, per  quanto riguarda queste formazioni cornee, continuo ad avere un rapporto conflittuale, non con loro ma con mia moglie, secondo la quale dovrei tagliarli al massimo ogni quaranta giorni. Ormai mi sono rassegnato a questa scadenza e ci ho fatto pure l’abitudine, anche perché il barbiere viene a domicilio, è pure simpatico, ma quella mezz’oretta per me resta una rottura di scatole, motivo per cui, dovendo prima o poi tagliare questi benedetti capelli,  mi chiedo come mai, pare, dico pare, che a Nardò non ci siano barbiere (non ho sbagliato la concordanza tra verbo e soggetto…).

Passiamo alle rughe: a detta degli altri il mio volto, quando è rasato, è liscio come il culetto di un bambino, di rughe nemmeno l’ombra. Ho il sospetto, però, che, anche se di rughe effettivamente non se ne vedono,  sia un modo elegante per dirmi che ho una faccia da culo … piccolo, ma sempre culo è. Credo che questo dettaglio sia il beneficio della quantità industriale di limoni che ho consumato, e continuo a farlo anche se in quantità … artigianale, da quando ero bambino.

Proprio i limoni mi portano dritto dritto all’ultima dolentissima nota: i denti, o, meglio, a ciò che di loro resta. Molto probabilmente saranno stati proprio questi agrumi dal sapore acre (questo fa il paio, vendoliano, con il formazioni cornee precedente) ad aver intaccato progressivamente lo smalto. Così, pur non essendoci carie, dei miei denti oggi restano solo monconi, e, quando anche loro saranno consumati, non mi resterà che masticare con le gengive.

Stando al detto, dunque, in assenza di ràppuli e con i capelli al loro posto, non sarei tanto vecchio …

Per non alimentare patetiche illusioni e ridicole velleità è meglio darsi … alla filologia (all’ippica no, perché il cavallo, anche se brocco1 …,  per la paura mi disarcionerebbe un secondo dopo aver visto la mia bocca aperta …).

Più che il maschile ràppuli mi sarei aspettato di leggere il femminile ràppule, in quanto diminutivo di rappa2, voce oggi obsoleta3, ma ancora viva in molti dialetti (compare in vocabolari dialettali del bergamasco, del genovese, del napoletano, del siciliano) sinonimo di grinza, ruga. Quanto all’etimo il Dizionario De Mauro (2000) reca “dal gotico rappa=rogna”.  Il cambiamento di genere è, per quanto possa sembrare strano in un detto popolare, per motivi metrici.

Basta disporre il testo nei seguenti versI:

Li tienti

no sso’ nnienti,

li capiddhi

no sso’ iddhi,

li ràppuli

so’ quiddhi!

Il lettore noterà per i primi quattro versi l’alternanza delle rime AABB. Se fosse continuata questa struttura avremmo dovuto avere per gli ultimi due versi CC; invece è CB, cioè l’ultimo verso si aggancia al terzultimo. Non è finita: tutti i versi terminano per -i, il che conferisce a tutto il detto una musicalità che ràppule non avrebbe consentito.

____________

1 Dal latino broccus=sporgente (detto dei denti).

2 Da cui, con aggiunta in testa della preposizione ad e successiva assimilazione, il verbo ‘rrappare==raggrinzire.

3 La più antica attestazione che son riuscito a trovare è in M. Francesco Sansovino, Ortografia delle voci della lingua nostra o vero dittionario volgare et latino, Sansovino, Venezia, 1568:

 

Due ricette salentine col polpo

Immagine tratta da http://bari.repubblica.it/cronaca/2012/06/05/foto/puglia_da_amare-36424684/7/
Immagine tratta da http://bari.repubblica.it/cronaca/2012/06/05/foto/puglia_da_amare-36424684/7/

 

di Massimo Vaglio

Polpo lesso e a insalata

Per questa semplice preparazione potrete utilizzare anche polpi di grossa mole che potrete anche omettere di battere. Ponete una capace pentola piena d’acqua sul fuoco, e quando questa arriverà a bollore, prendete il polpo preventivamente eviscerato e risciacquato, per la sacca e calatelo e cacciatelo ripetutamente dall’acqua sino a quando avrà assunto la tipica conformazione ad ancorotto; a questo punto lasciatelo adagiare sul fondo e continuate la cottura a fiamma allegra schiumandolo di tanto in tanto. Dopo una ventina di minuti eliminate l’acqua in eccesso lasciando giusto quella necessaria a ricoprirlo, aggiungete un cucchiaino raso di pepe nero macinato al momento e continuate la cottura a fuoco lento sino a quando il polpo si lascerà trafiggere facilmente dai rebbi di una forchetta. Potete servirlo sia caldo con il suo brodo di cottura sia freddo “in insalata” ovvero ridotto in minuti tocchetti e condito con ottimo olio di frantoio, succo di limone e prezzemolo.

 

Spaghetti cu la melana – Spaghetti al polpo

Per condire cinque-seicento grammi di spaghetti dovete procurarvi un polpo freschissimo di sette-ottocento grammi che dovete pulire e fare a tocchetti quanto più minuti possibile, serbando la sacca del nero, la melana. Tritate molto finemente mezza cipolla e ponetela a riscaldare in una casseruola con ottimo olio di frantoio. Appena la cipolla accenna a prendere colore, unite la sacca del nero ed i tocchetti di polpo; rimestate facendo in modo che la sacca si rompa, abbassate la fiamma e continuate la cottura aggiungendo prezzemolo tritato, mezzo peperoncino tagliato a rotelline oppure una spolveratina di pepe nero, allungando con acqua se necessario. Quando il polpo sarà cotto e la salsina ben ristretta ed amalgamata, versate nella casseruola gli spaghetti cotti al dente, rigirateli per bene e serviteli con un supplemento di prezzemolo tritato.

 

Nardò, il Pio Monte di San Biase e le tasse

di Armando Polito

Ogni tanto si leva una voce piuttosto isolata che pone il problema della necessità di sottoporre i beni immobili ecclesiastici posti al di fuori della Città del Vaticano alla variegata tassazione che angustia qualsiasi cittadino onesto contribuente, sia che possegga una stamberga, sia una villa hollywoodiana o possa disporre di un attico di 250 m2
I detrattori di papa Bergoglio lo accusano di dire solo banalità, contrapponendo la sua figura a quella del suo predecessore, quasi fosse un miserabile populista succeduto ad uno splendido leader. Quel che dice Bergoglio sarà pure un coacervo di cose banali, ma in questo mondo improntato alla superficialità ed all’abitudine vale forse la pena ribadire concetti ovvii riguardanti gli autentici valori persi di vista piuttosto che perdere tempo avventurandosi in sottili distinguo teologici che non coinvolgono certo il comune fedele (figurarsi chi tale non è …) e che ben pochi, comunque, capiscono o sono disposti a capire. Se poi alle parole seguissero i fatti, non è che io diventerei di colpo meno anticlericale di quanto non sia da tempo o altrettanto repentinamente rivedrei la mia posizione nei confronti delle religioni, tutte, nessuna esclusa: forse ingenue e pure solo nel momento della loro nascita, poi progressivamente strumento formidabile di potere che sfrutta la paura della morte, promettendo mirabilie paradisiache in una vita futura (forse non ci rimettono solo i gatti …) e facendo ben poco per lenire almeno una porzione di quella sofferenza infernale che coinvolge la maggior parte dell’umanità per colpa di una squallida minoranza di cui, con maggiore o minore responsabilità, faccio parte pure io.

E allora, se papa Francesco decidesse di fondere o di porre all’asta il Tesoro del Vaticano e di mettere il ricavato a disposizione dei Poveri della Terra, se con iniziativa propria si dichiarasse disponibile a trattare sull’esenzione fiscale di cui godono i beni ecclesiastici posti al di fuori dei confini della Città del Vaticano, mandando al diavolo, sia pur in parte, il Concordato a suo tempo stipulato con un tirannello, ma soprattutto la Convenzione finanziaria rimasta pressoché immutata nella revisione del 1984, se …
Indietro non si va (nonostante il fare un passo indietro sia diventato, sempre verbalmente, di moda) ma qualche volta sarebbe opportuno andare ancora più indietro. Per esempio: in esecuzione del Concordato del 1741 tra la S. Sede e la Corte di Napoli fu istituito il Tribunale misto, con componenti nominati da entrambe le corti, il quale aveva l’ufficio di ispezione su tutti i luoghi pii, laicali e misti. Aveva potere consultivo relativamente alle questioni che gli venivano sottoposte e potere amministrativo nella tutela degli interessi dei luoghi nominati. Le sue attribuzioni furono trasfuse dopo la sua abolizione nel Consiglio generale degli Ospizii. Durò fino al 1806.

Nel 1788 vennero pubblicati degli opuscoletti ognuno dei quali conteneva per ogni territorio un indice dei luoghi, cui seguiva una nota dettagliata del tributo dovuto da ciascuna istituzione ivi esistente. Di seguito il frontespizio dell’opuscolo che ci interessa da vicino (scaricabile integralmente da https://books.google.it/books?id=SVrYWJAfogYC&pg=PP1&lpg=PP1&dq=Nota+de%27+luoghi+pii+laicali&source=bl&ots=BLKisPxh1O&sig=WylhpBoQTjipjMe88nVlGiW6meA&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjw9Iu9z5_OAhUBFxQKHQ7EAHQQ6AEIMjAF#v=onepage&q=Nota%20de’%20luoghi%20pii%20laicali&f=false).1

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È interessante notare anzitutto la dicitura Provincia di Lecce in un opuscolo che include anche i centri della provincia di Brindisi e di quella di Taranto, per cui, a tutti gli effetti, qui (si tratta di un documento ufficiale) Provincia di Lecce sostituisce la vecchia dicitura Provincia di Terra d’Otranto. Manca in ciascun opuscolo della serie il nome dell’editore e quello del luogo di edizione e il fregio visibile in basso allude alla volontà del re ma non ci dà la certezza che gli opuscoli uscirono dalla Stamperia Reale di Napoli. Avrebbe richiesto troppo spazio riprodurre i dati relativi ad ogni luogo (sono 181), per cui riporterò solo quelli strettamente necessari.

Il tributo totale ammonta a 1216 ducati ed è così ripartito:provincia di Lecce ducati 811,50; provincia di Brindisi ducati 139,50; provincia di Taranto ducati 267.

Come si vede, la contribuzione dei centri della provincia di Lecce surclassa quella delle altre due (ed è certamente un sintomo di maggiore vivacità economica)  e nel suo ambito spiccano, dopo il capoluogo che deve versare 27 ducati, Nardò che ne deve versare 25. Ma, come in un gioco di scatole cinesi, qual è l’istituzione neretina che compare come il maggior contribuente? Vale la pena questa volta sfruttare più spazio e riporto, perciò, la scheda completa.

Su un totale di 25 ducati da corrispondere da parte di 8 istituzioni ben 15 sono a carico del Monte di San Biase. Quanto ad Opere di Misture credo che siano quelle che rientrano tanto nell’ambito laico quanto in quello religioso. Il lettore che lo vorrà troverà una breve ma documentata ed esauriente trattazione dell’amara storia connessa con questa istituzione in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/07/20/la-nobilissima-famiglia-sambiasi-e-lingente-lascito-perpetuo-a-favore-dei-cittadini-di-nardo/.
Comunque siano andate le cose, vi pare azzardato da parte di qualcuno che volesse scriverne una versione più romanzata di quanto non sia stata la rocambolesca realtà, adottare il titolo La triste fine di un istituto benefattore nonché contribuente?
Un’ultima nota: tutti i monti di pietà citati nell’opuscolo sono sottoposti ad un tributo di ducati 1,50, fatta eccezione per questo di Nardò e del Monte sotto il titolo della Pietà dei poveri di Taranto, assoggettato al pagamento di ducati 57.
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1 Per chi, salentino o no, fosse interessato agli altri territori:

Nota de’ luoghi pii laicali, e misti della provincia di Matera … (https://books.google.it/books?id=rm0y6dmU8UQC&pg=PP1&dq=Nota+de%27+luoghi+pii+laicali&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiAm8W94p_OAhVFaxQKHX2aDrMQ6AEIHjAA#v=onepage&q=Nota%20de’%20luoghi%20pii%20laicali&f=false)

Nota de’ luoghi pii laicali, e misti della provincia di Capitanata … (https://books.google.it/books?id=oWKx7lSubDQC&pg=PP1&dq=Nota+de%27+luoghi+pii+laicali&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiP6Piv3J_OAhWBPxQKHWzJCskQ6AEIJTAB#v=onepage&q=Nota%20de’%20luoghi%20pii%20laicali&f=false)
Nota de’ luoghi pii laicali, e misti della provincia di Principato citra …
(https://books.google.it/books?id=E-l-zyyrjJsC&pg=PA44&dq=Nota+de%27+luoghi+pii+laicali&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiP6Piv3J_OAhWBPxQKHWzJCskQ6AEIQTAH#v=onepage&q=Nota%20de’%20luoghi%20pii%20laicali&f=false)

Nota de’ luoghi pii laicali, e misti della provincia di Principato ultra … (https://books.google.it/books?id=wPjG9o_0yD0C&pg=PP1&dq=Nota+de%27+luoghi+pii+laicali&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiP6Piv3J_OAhWBPxQKHWzJCskQ6AEIKjAC#v=onepage&q=Nota%20de’%20luoghi%20pii%20laicali&f=false)

Nota de’ luoghi pii laicali, e misti della provincia dell’Aquila … (https://books.google.it/books?id=Dk58umAR3a4C&pg=PP1&dq=Nota+de%27+luoghi+pii+laicali&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiP6Piv3J_OAhWBPxQKHWzJCskQ6AEINDAE#v=onepage&q=Nota%20de’%20luoghi%20pii%20laicali&f=false)
Nota de’ luoghi pii laicali, e misti della provincia di Chieti … (https://books.google.it/books?id=4QNsMynqt0sC&pg=PA11&dq=Nota+de%27+luoghi+pii+laicali&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiP6Piv3J_OAhWBPxQKHWzJCskQ6AEIODAF#v=onepage&q=Nota%20de’%20luoghi%20pii%20laicali&f=false)

Nota de’ luoghi pii laicali, e misti della provincia di Napoli …
(https://books.google.it/books?id=ONK9K9Cqc-AC&pg=PA2&dq=Nota+de%27+luoghi+pii+laicali&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiP6Piv3J_OAhWBPxQKHWzJCskQ6AEIPTAG#v=onepage&q=Nota%20de’%20luoghi%20pii%20laicali&f=false)

Nota de’ luoghi pii laicali, e misti della provincia di Teramo… (https://books.google.it/books?id=UqnosfqChfwC&pg=PA7&dq=Nota+de%27+luoghi+pii+laicali&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiP6Piv3J_OAhWBPxQKHWzJCskQ6AEIRjAI#v=onepage&q=Nota%20de’%20luoghi%20pii%20laicali&f=false)

Nota de’ luoghi pii laicali, e misti della provincia di Cosenza …
(https://books.google.it/books?id=QSB_Vqw8ELEC&pg=PA16&dq=Nota+de%27+luoghi+pii+laicali&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiP6Piv3J_OAhWBPxQKHWzJCskQ6AEITDAJ#v=onepage&q=Nota%20de’%20luoghi%20pii%20laicali&f=false)

Nota de’ luoghi pii laicali, e misti della provincia di Contado di Molise … (https://books.google.it/books?id=KytEfkRmQZ4C&pg=PA2&dq=Nota+de%27+luoghi+pii+laicali&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiusqmi5Z_OAhWE8RQKHe4PAtg4ChDoAQgbMAA#v=onepage&q=Nota%20de’%20luoghi%20pii%20laicali&f=false)
Nota de’ luoghi pii laicali, e misti della provincia di Terra di lavoro …
(https://books.google.it/books?id=INbuAQlD2CkC&pg=PA9&dq=Nota+de%27+luoghi+pii+laicali&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiusqmi5Z_OAhWE8RQKHe4PAtg4ChDoAQggMAE#v=onepage&q=Nota%20de’%20luoghi%20pii%20laicali&f=false)

Tra i piatti più gettonati nel Salento: le melanzane ripiene

Non poteva mancare nel ricettario di Massimo Vaglio una guida per preparare le melanzane ripiene, uno dei piatti più tipici del Salento, immancabile nelle cene estive.

melanzane-sotto-olio

di Massimo Vaglio

Tagliate in peduncolo alle melanzane, dividetele in due nel senso della lunghezza, togliete un po’ di polpa scavando con un coltellino ben affilato e serbatela in un recipiente. Salate le melanzane, e lasciatele perdere l’acqua, nel frattempo tritate più o meno finemente la polpa, aggiungete pane grattugiato, formaggio pecorino piccante, pepe, origano, aglio e prezzemolo tritati, acciughe salate e olive piccole nere, capperi, qualche pomodoro pelato e triturato ed amalgamate il tutto aggiungendo un po’ d’olio. Con l’impasto ottenuto riempite le melanzane, ponetele ben serrate in una teglia unta d’olio, irroratele con un filo d’olio e ponetele in forno caldo per circa mezz’ora. Una prima variante, consiste nel ricoprirne la superficie con salsa di pomodoro fresco aromatizzata con aglio e basilico crudi e procedendo alla cottura nello stesso modo. Una seconda variante invece, nel riempire le stesse con carne di manzo tritata, tirata a cottura insieme alla polpa triturata delle melanzane con sale, pepe e prezzemolo; aggiungere formaggio fresco o scamorza a dadini, ricoprirle di sugo di pomodoro o ragù di carne, spolverizzarle di formaggio piccante e procedere alla cottura in forno.

Sulla melanzana e le ricette si vedano anche:

La difficile storia della melanzana. Dall’Arabia al Salento

La Parmigiana di melanzane alla Salentina

 

Totò Massaro, l’emozione delle immagini, il calore delle terrecotte

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Per la retrospettiva dell’artista Totò Massaro, di professione architetto, di mestiere pittore, come egli usava definirsi, sono rappresentate tutte le stagioni creative, con l’esposizione di 120 opere tra dipinti, disegni, oggetti di design, e di artigianato raffinato che rappresentano le sperimentazioni che l’artista, scomparso prematuramente nel febbraio del 2015, ha portato avanti nella sua vita.

Il percorso espositivo perciò si snoda attraverso dipinti ed oggetti, con alcuni dei quali il Massaro ha partecipato a diverse edizioni di Architetti in arte, che testimoniano la natura versatile dell’artista e propone ai visitatori una splendida e completa produzione di opere nelle quali sono presenti geometrie che si accostano a figure e ad immagini astratte con il risultato di un altissimo eclettismo artistico.

La mostra vede il patrocinio del Comune di Cutrofiano, del Comune di Sogliano Cavour e dell’Ordine degli Architetti Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Lecce.

 

Totò Massaro, l’emozione delle immagini, il calore delle terrecotte. Cutrofiano (Le), Laboratorio Urbano Sottomondo (ex Mercato Coperto). Dal 7 al 22 agosto. Orari apertura: dalle 19.00 alle 22.00. Inaugurazione: domenica 7 agosto ore 20.00.

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Catalogo a cura di: Cintya Concari, Roberto Marcatti

Mostra a cura di: Maria Alida Miccoli, Stefano Tanisi

Allestimento della mostra: Kubico, Lorenzo Gemma

Illuminazione della mostra: Antonio Mariano

Referenze fotografiche, inventario e catalogo: Stefano Tanisi

Cura editoriale, grafica e impaginazione del catalogo: Stefano Tanisi

Stampa del catalogo: Editrice Salentina – Galatina (Le)

 

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SALVATORE MASSARO (Sogliano Cavour 0l.04.1951 – Cutrofiano 07.02.2015) si laurea in Architettura (110/110/lode) presso l’Università di Firenze.

Ricercatore presso l’Istituto di disegno e rilievo della facoltà di Architettura di Firenze (1975/78).

Collaborazione professionale con importanti studi di architettura, a Firenze, dal 1977 al 1980.

Esperienze di lavoro all’estero: 1980 San Francisco (USA) 2001/2003 BONN (Germania).

Fondatore con altri artisti ed architetti, nel 1985 del “DEDALO STUDIO” che raccoglie e confronta le esperienze nel campo dell’architettura, del design e delle arti visive di architetti, artisti e designers in collaborazione con aziende artigiane del Salento, area in cui principalmente opera.

Architetto, paesaggista, pittore, artigiano della terracotta.

Progetta e realizza numerose opere di architettura e di arredamento per interni ed esterni:

1990 Supersano (LE), villa parco De Vitis;

2001/2003 Andernach (Germania), edificio ed arredi palazzo per uffici ed esposizioni “KBM”;

2006 Ugento (LE), struttura, arredi e parco dell’hotel Esperia Palace Lido Marini;

2007 Ugento (LE), parco giardino dell’hotel Parco dei Principi;

2010/2013 Santa Maria di Leuca (LE), arredi e servizi ricettivi dell’hotel Resort “Messapia”.

Si indica di seguito una selezione di mostre e concorsi di architettura ed arte cui ha partecipato:

1983 Bologna, concorso internazionale “La rinascita della Citta”;

1985 Matera, mostra di progetti ed opere “Uno spazio libero per Matera”;

1990 San Francisco (USA), mostra personale di grafica e design;

1996 Martano (LE), con Dedalo Studio, Mostra AGORÀ Design 1996;

1998 Grottaglie (TA), “Prima rassegna del sud di progetti e oggetti 1998”;

2001 Cursi (LE), concorso nazionale di progettazione dell’arredo di Piazza Pio XII;

2001 Otranto (LE), Castello Aragonese Mostra D’arte “Presenze Salentine”;

2003 Verona, partecipazione alla mostra di sperimentazione e ricerca “ABITARE IL TEMPO” installazione “finis Terrae” La casa di frontiera a cura di Francesco Spada;

2004 Lecce, DUPONT SPA e Comune di Lecce concorso di design “Dupont corian negli spazi pubblici”;

2005 Matino (LE), concorso nazionale di riqualificazione dello spazio urbano di Piazza G. Primiceri;

2009-2013 Lecce, partecipazione alle mostre “Architetti in Arte” Convento dei Teatini e Castello Carlo V;

2006-2008 Martano (LE), con Dedalo Studio, partecipazione alla rassegna AGORÀ;

2009 Cutrofiano (LE), concorso di idee per la riqualificazione di prospetti urbani rivenienti da demolizioni;

2010 Mesagne (BR), concorso nazionale di idee per la riqualificazione degli accessi alla città “Le porte urbane del terzo millennio”;

2012 Martano (LE), rassegna AGORÀ partecipazione con opera in ferro e ceramica;

2013 Saronno (VA), Museo “G. Gianetti” partecipazione al concorso “Coffeebreak.museum”;

2014 Partecipazione al progetto di cooperazione internazionale “Water Jar artisti per la pace” promosso dall’associazione no profit H2O di Milano.

Per il recupero del castello dei Guarini di Poggiardo

Castello_Guarini_[Poggiardo]

L’Associazione Culturale Orizzonte per il recupero del Castello dei Guarini di Poggiardo (Le)

 di Paolo Rausa

Il Castello di Poggiardo, caso forse unico nel panorama nazionale, è rimasto nelle mani dei privati che lo hanno posseduto, i duchi Guarini, normanni di stirpe, che da molti anni si sono trasferiti nel loro palazzo di Scorrano (Le).

L’Associazione Culturale Orizzonte rilancia la sfida di far sedere attorno ad un tavolo i diretti interessati (Proprietà, Comune e Regione) per fissare le modalità del suo recupero e del suo utilizzo attraverso un progetto condiviso.

Imponente maniero del tardo o basso medioevo, eretto nel passaggio verso la nuova epoca dell’umanesimo e del rinascimento, il castello si impone sullo spiazzo antistante, che doveva essere la piazza d’armi, a fianco della chiesa madre e sopra la chiesa basiliana di S. Maria degli Angeli dell’XI secolo.

Una struttura massiccia che si alleggerisce a est, verso il mare, con una torre rotonda. Diversi gli ingressi, accanto alla chiesa madre, laddove sorgeva il palazzo vescovile, poi sulla via di mezzo che corre in direzione est-ovest, fra i due mari, in seguito arricchita da uno spazioso loggiato, su cui la famiglia ducale dei Guarini organizzava le feste di rappresentanza e ascoltava poemi e il dolce suono della mandola. Un agrumeto alla base della torre cilindrica e lungo il fossato rende ancora più orientalizzante questa struttura poderosa, descritta nel 1800 da Cosimo de Giorgi nei Bozzetti di viaggio nei minimi dettagli, con riferimento ai preziosi arredi e alla pinacoteca.

Dai Messapi ai Normanni, la regina Maria d’Enghien nel 1446 lo dà in ricompensa con titolo baronale ad Agostino Guarini. Molte dominazioni si sono susseguite in queste terre: Normanni, Svevi (1195-1266), Angioini (1266-1435), Aragonesi (1442-1502), Spagnoli (1506-1734) e infine Borboni (1734-1861). I Guarini intrapresero vari lavori di fortificazione. Durante il regno di Giovanna II d’Angiò, regina di Napoli, dopo la distruzione di Castro, il vescovo Luca Antonio Resta trasferì a Poggiardo la residenza vescovile.

L’ultimo abitante del castello fu il duca Francesco Antonio, che vi alloggiò sino al 1879, data della sua morte. Il palazzo vescovile, edificio cinquecentesco, fu venduto ai Guarini e nei secoli successivi fu adattato a caserma e tabacchificio. Sull’architrave di una finestra si legge la frase latina che si riferisce al cane di Ulisse Argo: ‘Difficile est Argum fallere’ (E’ difficile ingannare la sorte o fuggirla, si è riconosciuti).

Il Castello, per le attuali condizioni rischia di essere compromesso senza un intervento e un progetto di recupero, che coinvolga la proprietà, il Comune, la Regione Puglia e i cittadini che vedono rappresentato in quella struttura il simbolo stesso della loro città. Un monumento che ha ancora molto da dire, se gli si lascia il tempo, prima che sia troppo tardi.

Info: Associazione Culturale Orizzonte, via Nazario Sauro 52, 73037 Poggiardo (Le)-via Ungaretti 2, 20098 San Giuliano Milanese, tel. 334 3774168.

 

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

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